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Title: La vita comincia domani Author: Verona, Guido da, 1881-1939 Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La vita comincia domani" *** Internet Archive. GUIDO DA VERONA LA VITA COMINCIA DOMANI ROMANZO _Ottava Edizione — Dal 106º al 155º Migliaio_ R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE — MCMXX ———— PROPRIETÀ LETTERARIA I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi Stab. Tipo Lit. FED. SACCHETTI & C. — MILANO — Via Zecca Vecchia, 7 ———— I Nella grande loggia vetrata che si apriva a pianterreno della villa verso il giardino fiorito Maria Dora entrò, più fresca e più gioconda che la primavera, portando sopra un vassoio d’argento le chicchere del caffè mattutino. Da un braccio le pendeva ripiegata una lunga tovaglia di colore; coi denti umidi mordeva il gambo d’una rosa, vermiglia come la sua bocca. Era mattina di primavera, limpida e gaia, con profumi d’oleandri che si mettevano in fiore. Stormi di rondini, balenanti nell’azzurrità come turbini di api nere, assalivan la grondaia sovraccarica di nidi e sì l’accerchiavano coi loro spessi voli, che l’aria, tra quel saettamento, pareva tingersi d’un color di nuvolato nella fiamma del mattino. Maria Dora trascinò verso il mezzo del colonnato una piccola tavola in vermena di vinco, e, spiegata la tovaglia, cantarellando cominciò ad apparecchiare. Suo padre, Stefano, in giacca di frustagno, ritto sul margine d’un’aiuola discuteva gesticolando con il fattore Mattia. Una doppia scalinata di cinque gradini scendeva da un lato e dall’altro della veranda pianamente nel giardino; su la duplice balaustrata e lungo il davanzale invetriato correva una spalliera di geranio rampicante, che, salito per lo zoccolo del muro, lanciava in alto come un’ondata la straordinaria sua fioritura, poi, curvandosi, buttava sino a terra un magnifico mantello di broccato, colmo nelle sue pieghe d’innumerevoli fiori; leggeri alcuni e tenui come arabeschi di filigrana, che li moveva il più sommesso vento, altri così grevi e soffici che ricadevano per il soverchio peso, come fiori tramati in una stoffa o ritagliati a forbici nella foltezza di un meraviglioso velluto. Questa grande spalliera di gerani era l’amore e l’orgoglio di papà Stefano, che vi prodigava tutte le sue cure. Dallo sterrato innanzi alla casa il viale, sparso di ghiaia, si cacciava senza nascondersi entro un piccolo bosco di bambù; snodava le sue curve tortuose per il pendìo dei giardino, poi, rompendo fuori da una macchia d’alberi e fiancheggiandosi d’un pergolato, scendeva diritto al cancello verso la strada campestre. Rapidamente, con le sue mani svelte, la fanciulla ordinò le chicchere sul tavolino. Da poco erasi levata in quel mattino ilare; aveva indosso un buon odore d’acqua di lavanda e di cipria fina; i capelli dorati le splendevano della recente acconciatura; portava una gonnella corta con sopra un bel grembiule merlettato. Seduto in un angolo della loggia, il suo fratello più che ventenne, Marcuccio lo scemo, scriveva a matita velocemente, con una specie di frenesia, tenendo il quaderno su le ginocchia sollevate e standovi sopra curvo, in attitudine di gran fatica. Un passo lontano da lui, sovra una seggiola di paglia, era il suo logoro violino e v’erano i suoi grossi gomitoli di lana, coi ferri da calza, poichè scrivendo, sonando e facendo la calza egli occupava la monotonia delle sue lunghe giornate. — Uh!... Marcuccio, come lavori!... — fece Maria Dora, guardandolo. Ma lo scemo, lunatico, scrollò le spalle e non rispose. Ora nel giardino papà Stefano redarguiva con voce burbera il fattore; questi l’ascoltava pieno di rispetto, ma insieme con quella cert’aria cocciuta e ironica che sanno avere i contadini. — Insomma, vi dico, Mattia, che se Giannozzo ha rotto l’aratro, è lui che se lo deve pagare. Il contratto colonico parla chiaro: danni di cascinali e d’attrezzi a carico dell’affittuario. Io non so nulla! Ha firmato... non doveva firmare. Maria Dora, che l’ascoltava dal loggiato, ruppe in un trillo di riso. Stefano si volse: — Che hai tu, farfallina? La fanciulla battè insieme le mani, quasi per dileggiarlo, e scappò via. Stefano concluse: — Dunque non voglio saper nulla! Ditelo chiaro e tondo a Giannozzo da parte mia. — Va bene, signor Stefano, lo dirò... solamente... — Solamente cosa? Che altro c’è ancora? — C’è questo: Giannozzo dice che, se lei rifiuta, vorrebbe allora parlarne con suo genero, con il signor Giorgio direttamente... — Ah, sì? — l’interruppe Stefano gonfiandosi di sdegno. — Cosa vuol dire questo «direttamente?» Nell’agitarsi diede un calcio all’annaffiatoio, che aveva presso e lo capovolse. Poi alzò la voce: — Chi comanda qui sono io! Lo sappia Giannozzo e sappiatelo anche voi: chi comanda sono io! — Benissimo, signor Stefano, — costui rispose con molta umiltà. Dunque andate alla cascina e dite a Giannozzo che se l’aratro è rotto... in qualche modo si provvederà. Non faccio alcuna promessa, intendiamoci!... Ma dico soltanto che bene o male si provvederà. Stefano gli volse le spalle, scese alla vasca, riempì l’annaffiatoio, e tornato verso la spalliera di gerani, cantarellando ne mondava i fiori. — Uh, la la... dormono ancora tutti come talpe stamattina! In questa casa si dorme come talpe... la... la... come talpe... uh, la la... E Giorgio sempre peggio! Voglia il cielo ch’io m’inganni, ma vedo che se ne va... uh, la la... Maria Dora saltò fuori dai loggiato: — Che avevi, papà, da gridar tanto? — Ah, sei qui fanfaluca? — Poi le mostrò l’orologio: — Sai che ore sono? — Quasi le otto, papà. — Appunto, — egli rispose, contraffacendo la sua vocina: — Quasi le otto! le otto meno cinque minuti, e non c’è nulla di pronto ancora! Poi salì verso il loggiato: — Ogni giorno ci si leva più tardi, eh? Si prendono tutti i vizi, quando si esce dal convento! Maria Dora gli si avvicinò, smorfiosa come una piccola bimba, la quale non temesse tuttavia quel suo padre accigliato. — Benissimo!... vediamo un po’: grembiuli di pizzo, ricciolini... cipria!... scommetto che ti dai anche la cipria! Maria Dora gli tese la guancia, ma tenendosi un po’ discosta per non lasciarsi toccare: — No, papà; guarda: è naturale... Ed egli minaccioso: — Bada che se ti scopro, sai!... La cipria è la farina del diavolo. E poi si diventa curiose anche! Si vuol mettere il nasino dappertutto! Si vuol sapere perchè gridavo con Mattia... Fra poco la padrona della casa sarai tu. — Oh, io lo so perchè gridavi! Per l’aratro di Giannozzo... Io l’ho veduto: è tutto guasto. Compragli un altro aratro, papà, al povero Giannozzo! — Tu mischiati de’ tuoi libri e delle tue matasse! Queste cose non sono per te. Ora chiama Novella e vedi se la mamma s’è levata. — La mamma è in cucina che sorveglia il caffè, se no la Berta, scioccona, lo lascia versare. Novella prendeva il bagno poco fa. Ma c’è uno che dormirebbe, e come dormirebbe! se non l’avessi svegliato io. Ella si prese fra le dita i due lembi del grembiulino e fece una piccola riverenza: — Voglio dire Andrea... il professor Andrea!... il signor Andrea, l’uomo celebre! — Ah, e tu l’hai svegliato? — Almeno suppongo; perchè sono passata cinque o sei volte nel corridoio, davanti alla sua camera, cantando a squarciagola. Poi ho anche picchiato, poi ho anche messo la testa dentro... — soggiunse con un atto di pudore. — Oh, pettegola e svergognata! — esclamò il padre, nascondendo nella minaccia un sorriso. — Pettegola e svergognata! Dunque tu metti la testa nelle camere dei giovinotti? — Bah... i giovinotti! — ella interruppe, con una specie di commiserazione. — Avrà quarant’anni! — Trentasei o trentasette, signorina; non più. — Ma è brutto!... non ti sembra, papà, che sia molto brutto? — interrogò Maria Dora, con l’aria di non crederlo affatto. Poi, sogguardando con civetteria dal volto chinato: — È vero — domandò con una voce piena d’insidie, — è vero che tu e la mamma vorreste darmelo per marito? Il padre, con uno scatto, si guardò intorno esclamando: — Silenzio! Cosa dici mai! Seduto in un angolo del loggiato, il suo fratello Marcuccio scriveva, scriveva. — Cosa dici mai? Fa che Andrea ti senta! Non è vero, signorina; non è affatto vero! Chi può pensare che un uomo come Andrea, un uomo serio, uno scienziato di così gran nome, voglia sposare una pettegola come te? Non farti nemmeno sentire a dir queste sciocchezze! Maria Dora piano piano si carezzava il grembiulino, il bel grembiule merlettato che le stava così bene. — Oh, io, per esser chiari, gliel’ho già detto: sa, signor Andrea? vogliono che lei mi sposi... Le piaccio? — Guarda mo’! — fece il padre inorridito. E lui? — Lui ha riso... con quegli occhiacci di gatto notturno che mi fanno paura. — Ha riso? Bene ti sta! — Ha riso, ma non ha detto nè sì, nè no... Del resto chi può vantarsi di conoscere quell’uomo? Quando mi guarda ho voglia di scappare. Ma non posso. Anche Mattia dice che ha gli occhi magnetici. — Mattia è uno scemo. — Poi, — riprese Maria Dora, senza badargli, — questo grande scienziato è anche un asino, mi pare. Séguita a curar Giorgio, e Giorgio deperisce a vista d’occhio. Novella è rimasta in piedi l’intera notte... povera Novella! — E ti ricordi che uomo era quando sposò tua sorella? — Ha sempre tossito, papà; questo me lo ricordo. — Basta! — fece con un sospiro il padre; — se Dio vuole così... Poi si volse a guardar lo scemo: — E tu, Marcuccio, che fai? — Mio fratello è molto occupato! Non lo disturbare. — Vespa!... — le gridò il padre, con un gesto come per iscacciarla. — Ora Marcuccio ne ha trovata una fresca, — riprese Maria Dora. Ogni volta che vede Novella, si mette a ridere e le canticchia sottovoce: Ti ricordi? ti ricordi, sorelluccia, com’erano belle le margherite? — Cosa voglia poi dire, Dio lo sa! Papà Stefano scosse il capo con maggiore tristezza e volse uno sguardo compassionevole sopra il suo figlio scemo. Era giovinetto, nel pieno vigore dell’adolescenza, ricco di mirabile ingegno, dedito a studî profondi, appassionato cultore di lettere, musicista oltremodo virtuoso, quando una malattia cerebrale, repentina e violenta, lo ridusse in fin di vita. Guaritone, quasi per un triste prodigio, dell’antico intelletto non gli restò che un barlume fioco, fra le tenebre dell’idiozia. Or camminava solitario, di camera in camera, nella casa paterna, sempre operoso ed inquieto, come se non potesse rubare un attimo alle urgenti sue fatiche. Era d’alta statura, un po’ sbilenco, e gli pesava sopra le spalle cadenti un enorme cranio rotondo, coperto d’una specie di vello rossastro, qua folto e là rado, che lasciava intorno ai padiglioni dell’orecchie un cerchio di calvizie lucente. Atona e d’un color terreo la faccia imberbe, con occhi rotondi, senza ciglia, un po’ gonfi, un po’ malvagi, aveva la bocca larga, tumida, che per lo più rideva, d’un riso privo di giocondità, discorde come la nota falsa d’uno strumento logorato. Gli era nella sua demenza rimasto quel desiderio di gloria che accende alle grandi opere gli intelletti sani, e si reputava per uomo illustre, invaso com’era da una mania di celebrità. Filosofo pensatore, poeta, affastellava senza requie l’una su l’altra grandi pagine cariche di stramberie: aveva nel suo stato demente conservata la mania del capolavoro. Poi, quando il suo cervello era stanco di questa operosa fatica, trattosi da una tasca del suo giubbone il gomitolo di lana, cominciava con una pazienza da monaca ad intrecciare il punto a calza. E ne faceva di lunghe striscie, interminabili, disuguali, come se in quella ruvida lana tessuta raccontasse una storia di sè, una lunga storia tormentosa ed inutile, senza principio e senza fine, per gli ebeti come lui... Talvolta, nell’ore di maggior lucentezza, quando una fiamma di lirismo traversava il suo povero spirito rabbuiato, o quando più forte pulsavan nella sua carne d’adolescente l’arterie della vita, quando inconsciamente vedeva succedere intorno a sè qualcosa d’insolito, e gli altri o goderne o soffrirne, allora una memoria lontana delle sue musiche dimenticate gli si ridestava nell’attonito cuore, nel vacuo cervello, come se la sola voce che potesse ancor metterlo in comunione con le cose fuggenti, con l’enigma dell’anime altrui, fosse la parola musicata, il trillo della corda sonora, la nota limpida che gli sgorgava sotto l’archetto, che si rompeva bruscamente in una sciocca risata... E incominciava, sul logoro violino, standovi sopra quasi convulso, ad eseguire una Canzone; la sola che rammentasse fra le musiche un tempo a lui familiari, unica melodia sopravvissuta nella sua morte interiore. Così pareva che dicesse la sua tetra Canzone: «Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di malinconia; «non c’è nessuno che dica un requiem per l’anima mia... «Non c’è nessuno che mi tessa — una ghirlanda con le sue mani... «Ahimè!... la campana del Tempo — non dice che «ieri» e «domani». «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà... «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti, portando il mio scheletro su la schiena; «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le mani: «Cammina!... — mi dice ridendo, — la vita comincia domani.» «Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di nevrastenia; «non c’è nessuno che mi pianga: neanche l’anima mia... «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l’inutilità.» «Io sono il fiume senza sorgente, che scorro solo per confondermi nel mare, nel mare, inutilmente... «Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina... «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina! «— Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che ballava «leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo... «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto ballare nel mondo? «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di misantropia... «— Sei stato in un letto, odoroso, — con lei che giaceva supina, «tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo... «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel mondo? «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti, — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli lontani... «Cammina: la vita comincia domani, domani, domani... Così diceva, o pareva dicesse, la Canzone Disperata sul violino singhiozzante dello scemo. — E tu, Marcuccio, che fai? — domandò il padre, dopo averlo guardato lungamente. Marcuccio, infastidito levò il capo dal quaderno con un riso attonito. — Ah!... ah!... buon giorno babbo; che vuoi da me? Parlava con una voce opaca, lenta, come se facesse uno sforzo mentale per trovare le frasi necessarie; nel parlare non variava mai tono, cuciva insieme le sillabe senza inflettere la voce, senza mutare lo sguardo vitreo. — Che vuoi da me? Non si può mai aver pace in questa casa! Mi si disturba. Ed io non posso perder tempo. Il professore Andrea Ferento mi ha domandato i miei manoscritti per farli pubblicare in città. Il padre gli battè amichevolmente una mano su la spalla: — Da bravo, Marcuccio, vieni a goderti un po’ di sole. — Non ho tempo, ti dico; debbo terminare un capitolo. — Mettiti almeno più presso alla vetrata; lì, nel tuo cantuccio non v’è aria. Al mattino fa bene respirare. E tu, — disse a Maria Dora, — aiùtalo, zucconcella! Prendi quella sedia senza far cadere nulla. Non appena la sorella fece per ubbidire, e pose la mano sul violino, lo scemo si levò di scatto, iracondo: — Non toccare, sorellastra! Faccio da me. — Càspita!... — esclamò la fanciulla, per celiare di quella bizza. E si stropicciò le dita nel grembiulino come se avesse toccato qualcosa di rovente. Poi disse al fratello, per divertirsi: — Marcuccio, come ti chiami tu? Egli la fissò un momento, stando ritto su la persona dinoccolata: — Io? Mi chiamo il professor Marcuccio; Marcuccio Landi, per bacco! professore d’Università. E la sorella: — Bravo, Marcuccio; siedi e lavora. To’, lasci cadere il tuo gomitolo... E perchè fai la calza se sei un professore? — Eh!... certo! quando penso... certo! quando medito faccio la calza... eh!... eh!... Tutti i grandi uomini hanno le proprie fissazioni. — Maria Dora, lascialo stare, — disse il padre, rattristato. Ed ecco si udì per la sala terrena il passo ancor veloce di mamma Francesca, la quale apparve sul loggiato, e riparandosi gli occhi dal sole disse: — Buon giorno, bambina! — Buon dì! — rispose Maria Dora. Poi le corse in braccio, le saltò al collo: — Buon dì! — Birichina, — comandò il padre, — vammi a prendere la pipa, ora. Ella corse via con un bel ridere, saltellando. — Quella piccina è come una coditremola: non sta ferma un momento! — esclamò Stefano. — Beata lei! Ci mette addosso un poco d’allegria... Che sarebbe la nostra casa ormai, se non udissimo lei cantare? — E Giorgio come sta? — Male stamane. — Si leva? — Ha detto di volersi levare, ma tuttavia sta male. Allora Stefano s’avvicinò alla moglie con un certo impaccio, e fattosi grave le domandò sottovoce: — Dimmi un po’, Francesca... è una domanda bizzarra che ti faccio, ma rispondimi con sincerità... Non hai notato nulla, proprio nulla, da qualche tempo? — Di cosa? di Giorgio? — No di Novella. Mamma Francesca s’impaurì di quella domanda, e chinato il viso pallido sotto la corona dei suoi lisci capelli bianchi, mormorò con un fil di voce: — Che vuoi dire? — Non hai notato nulla in questi ultimi tempi... in lei, ne’ suoi modi, nel suo umore? Un cambiamento? qualcosa di buio, di nascosto... nulla? — Ah, vuoi dire... ma, certo, è preoccupata del marito. — No, appunto no!... cioè, sì, è preoccupata... certo è preoccupata di lui anche, ma non solo di lui... — E allora?... — domandò con timidezza la madre. — Rifletti bene, Francesca... e specialmente quando viene Andrea... nei giorni ch’egli abita qui... — Stefano! per l’amor di Dio! — Non ti spaventare; faccio una domanda; posso bene ingannarmi. Noi vecchi si osserva molto, e volevo sapere se non hai proprio notato nulla, anche tu... — Ma sì, qualcosa... — Sst!.!.. c’è Dora. — Ecco la pipa! — ella esclamò entrando. — La tua preziosa pipa! È nera e puzza come concime... Brrh!... adesso vado a sciacquarmi le mani. E di nuovo scappò via farfalleggiando, vivida come uno zampillo di fontana. In quel mentre apparve sul loggiato la sua dissimile sorella, ravvolta nel chiarore del mattino che l’adornava come un bel manto. Ferma sul limitare, si compresse le due mani al petto esclamando: — Che notte! Mio Dio, che notte! La sua bellezza era turbata e turbava, quasichè nel guardarla, od anche nel passarle vicino, accadesse per una colpa involontaria di pensare alla sua nudità. Non era bella soltanto, ma polverosa di lussuria come di pòlline un fiore, immersa e vivente nel cerchio d’una atmosfera sensuale, percorsa dalla propria bellezza come da un brivido di piacere che lentamente le invadesse ogni vena. Il suo corpo sembrava tendersi naturalmente all’atto voluttuoso dell’amore; ogni movimento la denudava un poco, il gesto più lieve delle sue mani pareva incominciasse una carezza: negli occhi aveva quel colore indefinibile che nasce dal godimento, nella voce soave alcune di quelle inflessioni torbide che sono il respiro più profondo e più sommesso della voluttà. La capigliatura soverchia, d’un colore tra il fulvo ed il castano, le oscurava e raggiava la fronte, ravvolgendosi poi senz’artificio in un viluppo voluminoso, che talvolta la costringeva, quasi l’affaticasse, a piegare indietro la testa, con un moto soavissimo, nel quale appariva scoperta come una limpida nudità la gola bianca. I suoi capelli eran pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due luci, come le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada mattutina, brillano, d’autunno, al sole. Ella disse ancora: — Che notte! Giorgio è stato male. Fino alle quattro non ha chiuso occhio; poi, nel sonno, delirava. Non sapendo più che fare, ho chiamato Andrea... Mamma mia, che notte! Era vestita con eleganza, di tutte cose finissime, che forse, in quella semplicità campestre, parevano assai ricercate. — Figlia mia, — disse la madre, — ti stanchi troppo... Finirai con ammalarti anche tu. Prendiamo dunque una infermiera. — No; Giorgio non la vuole. Non vuole altri che me, poi si dispera se mi vede affaticata. Dice che debbo vivere, perchè son giovine ancora, mentre a lui non resta che morire... Oh, le cose che dice la notte, quando siamo soli... — Fece una pausa, e con un atto quasi religioso incrociò le mani aperte al sommo del petto, presso la gola, che un respiro turgido sollevava. — Ora, — soggiunse, — discenderà. Ma non ditegli nulla, vi prego, perchè non vuole si sappia quando sta male. Poi camminò verso l’invetriata e si sporse, guardando nel mattino chiaro, verso le cose libere, che vivevan splendenti nella beatitudine del sole; tese le braccia con un atto fervido, esclamando: — Che bel sole! che bella primavera! Non vai a caccia, papà? — Aspetto Maurizio. Stamattina è in ritardo. Allora ella si volse a Marcuccio: — E tu, Marcuccio, lavori? — Certo, scrivo. Non sono uno sfaccendato come voi. Lavoro e scrivo tutto il giorno, come il professore Andrea Ferento. — Bravo, Marcuccio, — disse Novella mansuetamente; — allora non ti disturberò. Lo scemo riprese la pagina interrotta. Ma poi, di sùbito, volse il capo verso la sorella con un riso ebete: — Sorelluccia... — esclamò. — Che vuoi? — Ti ricordi? — Di che? Allora egli mise nella voce un’inflessione ambigua: — Sorelluccia, ti ricordi... com’erano belle, belle... sorelluccia... le margherite! Novella, con un piccolo fremito, guardò rapidamente il padre, la madre, silenziosi, mentre lo scemo rideva, rideva. — Non so cosa vuoi dire con queste tue margherite! — rispose, un po’ aspra, riaffacciandosi alla vetrata. Poi d’un tratto esclamò: — Ecco Maurizio! — Le margherite... le margherite... — cantilenava lo scemo. Frattanto Maurizio aveva rinchiuso il cancello e saliva per un vialetto, in giubba da cacciatore, con schioppo e cartuccera, tenendo due bracchi al guinzaglio. Era un giovine di men che trent’anni, d’alta corporatura, nodoso, erto, con la faccia riarsa dal sole, bello e ruvido nella sua forza. Quando giunse a’ piè della scalinata, si tolse il cappello di feltro: — Buon giorno a tutti! Se avete una tazza di caffè la prendo con piacere. — Per voi sempre, — gli rispose mamma Francesca. — Ma lasciate fuori i cani, perchè Marcuccio non li vuol vedere. — I cani?... i cani!... dove sono i cani?... — gridò lo scemo, balzando in piedi spaventato, poi raccogliendo in fretta quaderni e gomitoli. — Via i cani!... — urlava battendo i piedi. — Non voglio cani! Puzzano, mordono... Eccoli là... Via i cani! Puzzano, mordono... — Scappò timoroso verso la sala: — Via i cani! Allora Maurizio, tirando i bracchi per il guinzaglio, mentre abbaiavano, girò dietro la casa per legarli ad un’inferriata. — Ecco, son via, — disse mamma Francesca. — Vieni, Marcuccio; càlmati; non ci sono più: vieni. Lo scemo si affacciò timoroso al limitare della sala e guatò in giro: — Non si può lavorare! Anche i cani!... Son come le iene... Vogliono il cadavere, i cani... Via i cani! E scalciava nel vuoto come se lo assalissero per intorno, feroci, abbaianti; finchè, piano, piano, strisciando a ritroso, di nuovo si rifugiò nel suo cantuccio. — Badate, Maurizio... — ammonì Francesca, vedendogli posar lo schioppo in un angolo del loggiato. — Non abbiate paura: ho tutte le cariche nella cartuccera, — egli rispose, battendosi la mano su l’ampia cintola. — E Giorgio come va? — Lo stesso, o peggio, — Stefano rispose. — Malinconie! — disse il giovinotto crollando il capo. — Malinconie! — Poi si fece animo e riprese il tono gioviale: — Sono in giro dalle cinque senza sparare un buon colpo. Ho tirato ad una lepre, ma i cani l’hanno mancata. — Tanto meglio; vuol dire che rimarrà per me. Entrò Maria Dora come un soffio di vento: — Oh, l’indiano! Lo chiamava così per il suo colorito scuro e per quell’aria di brigante che gli davan l’uose, la cartuccera, la giubba di frustagno. — Servitor suo, signorina, — mormorò il giovinotto, un po’ confuso. — La Berta dice che il caffè bolle, ma non si vedono ancora nè Andrea nè Giorgio, — ella disse, facendo una smorfia con il musetto a quel ragazzone saldo e ruvido come un montanaro, che si era levato in piedi. — Non dovevate aspettarmi, — rispose Giorgio, entrando nel loggiato a passi un poco barcollanti e con le spalle ravvolte in uno scialle di lana. — Ordinate pure il caffè, mia bella cognatina; sono in ritardo e vi domando scusa. — Che scuse! neanche per sogno! — esclamò Stefano gaiamente. — Vedo che l’umore è buono, la cera discreta, e questo è l’essenziale. Il buon vecchio mentiva pietosamente per infondere in quel triste malato un poco d’allegria. Giorgio rispose con un gesto vago, e sedette nella poltrona di vimini foderata di cuscini, che Novella in quel mentre aveva sospinta verso di lui. Ora, senza farne le viste, ognuno guardava curiosamente l’infermo. Egli s’accorse di quell’esame dissimulato, ed un senso di molestia, quasi di pudore, gli alterò i lineamenti. Quel suo viso era emaciato, ma pieno di chiarore, quasi lo rendesse vivido la continua febbre. Una rada barba biondiccia gl’incorniciava il mento; aveva gli occhi dolci e smarriti, una bella capigliatura, dove l’umido solco della spazzola aveva lasciata una traccia brillante. Il colletto era troppo largo per il suo collo esile, ridotto a mostrare la sua tramatura di tendini come un cànapo consunto, e nello sforzo continuo del reprimere la tosse le vene flaccide si gonfiavano con un livido colore d’apoplessia. — Vuoi un altro scialle? — disse amorevolmente Francesca. — Grazie, sono coperto abbastanza; non ho freddo; grazie. Gli dava noia che si occupassero di lui, che avessero tante cure della sua salute; per il che cercava in mille guise di sviare il discorso. — Ecco l’ultimo!... — esclamò, vedendo entrare il Ferento. — Speriamo che la Berta non abbia lasciato versare il caffè. Quella Berta è tanto sciocca! E rideva, ma d’un riso così artificiale, ch’era pietà udirlo. Andrea gli battè una mano su la spalla: — Come ti senti? — Bene; quasi bene. — È primavera, — disse Andrea per dargli animo; — torna la gioventù! — Poeta!... — esclamò lievemente Maria Dora, con un ironico sospiro. — Se lei me lo permette, signorina... — egli disse ridendo. Andrea Ferento era tale a vedersi, che il suo primo aspetto muoveva in chi lo guardasse una subitanea curiosità, un involontario timore. Egli era d’alta statura, un po’ rigido e ben complesso nelle membra dotate di virile giustezza: il mento segnato con forza, la bocca aspra, i baffi corti, precisa la maschera del volto, fermi gli occhi ed accesi d’una insostenibile fiamma, la bella fronte piena di sovranità. Questa imperiosa fronte, come soltanto hanno i ribelli e i dominatori, stupendo segno di forza, pareva che facesse nascere, che spingesse indietro l’onda maschia della capigliatura, già venata nel mezzo e su le tempie di qualche filo bianco. Un’eleganza sobria, una singolare nobiltà, trasparivan da ogni suo gesto; e come se la natura nel foggiare il suo calco avesse voluto con un segno d’imperiosità predestinarlo al comando, l’intera sua persona raggiava magnificenza. Nell’espressione del volto, in tutte le sue membra così pienamente virili, dominava il segno d’una volontà inflessibile come l’acciaio. Diritta, piombante fra i sopraccigli, aveva incisa nella fronte una profonda ruga. Tosto che lo vide, Marcuccio si levò e gli mosse incontro: — Vi aspettavo, professore, — disse con tono declamatorio. — Sono giunto alla fine del nono capitolo. Ho scoperto la teoria dell’equilibrio fra gli uomini e le piante, fra la pietra e l’uomo. Volete che vi legga? — Non ora, Marcuccio, — egli rispose benevolmente; — mi leggerai più tardi. Nel frattempo la Berta entrava, recando sopra un vassoio il caffè bollente, che spargeva in nuvole di vapore il suo delizioso aroma. Non appena Marcuccio ebbe veduta la rubiconda fantesca, (poich’egli l’amava d’un amor voglioso e tutto ne ardeva nel fuoco d’una tardiva pubertà), scioccamente le si mise intorno a vezzeggiarla e provocarla con insulse risate. In quel rinascere del tempo di primavera lo scemo sentiva le sue vene gonfiarsi d’una sensuale gioventù; la florida carne della ragazza ventenne come una droga selvatica lo riscaldava di bramosie. Nel giorno l’assaliva per gli angoli della casa, la notte passava lunghe ore dietro l’uscio della sua camera, guardando per la serratura e picchiando affinchè gli aprisse; per lei verseggiava con incoerenza e scriveva lunghe pagine d’amore. Ed ecco, lo scemo si mise a dondolarle intorno, canticchiando queste parole che aveva cucite insieme chissà con quale intendimento: «Quando la Berta scende al villaggio non ha il coraggio di guardare in faccia nè Pippo dritto, nè Pippo storto, nè il macellaro, nè il beccamorto. Maria Dora, nel mescere il caffè, ripeteva insieme con Marcuccio: nè Pippo dritto, nè Pippo storto, nè il macellaro, nè il beccamorto. Poi disse a Marcuccio: — Non vedi che la fai scappare? La Berta non vuol saperne di te. — Sorellastra, non parlare di quello che non sai! Vérsami il caffè. Maria Dora gli riempì la tazza, ed egli si prese con ingordigia un grosso pezzo di focaccia. — Maria Dora, — disse Giorgio, mentr’ella se ne andava dall’uno all’altro mescendo il caffè, — v’ho intesa cantare tutta la mattinata: avete una bella voce. — Sicuro, e farò la cantante! Perchè io, — disse con intenzione, guardando Andrea, — non son nata per il matrimonio... Affatto! Ecco il vostro caffè, signor Andrea. E farò la cantante, con dietro uno strascico di seta lungo due metri... Così dicendo ne faceva il gesto. — Bada che versi il caffè! — l’interruppe sua madre. — ... e una bella parrucca di color stoppa, le labbra dipinte, la faccia imbellettata, una scollatura fin qui... E voi, signor Andrea, mi manderete un bel cesto di fiori per la mia serata d’onore... Già, ma frattanto la mattina russate così forte che vi si ode fin nel corridoio. — Vorrei sapere dove hai imparato a discorrere in questa maniera sconveniente! — esclamò padre Stefano. — In convento, papà... dalle piccole suore! Si parlava così da mattino a sera, poi si pregava... quanto si pregava dalle piccole suore! — Che impertinente! — Volete un po’ di crema, signor Andrea? È fresca. — Volentieri, — egli rispose. Intanto le osservò le mani. — Veh!... che manine ben curate avete ora! C’è dunque una manicure nel villaggio? Ella prestamente nascose la mano libera dietro il dosso: — Vi burlate sempre di me, signor Andrea... Ancora un poco discorsero insieme, poi ciascuno se ne andò per le proprie faccende; mamma Francesca nella guardaroba per curare i bucati, Maurizio con Stefano a battere la collina in cerca di lepri, Giorgio a intiepidirsi le spalle freddolose nel bel sole che allietava il giardino. Novella scese con lui, sorreggendolo mentre poneva il piede su la scalinata, e, quando furono in mezzo al viale, si volse per domandare: — Voi non venite, Andrea? — Finisco la mia sigaretta quassù, discorrendo con Maria Dora, — egli rispose, rimanendo ritto su l’ultimo gradino e fissando la bella figura di lei, che s’allontanava. Lo scemo erasi di nuovo rannicchiato nel suo cantuccio e rileggeva gravemente le pagine interrotte. — A discorrere con me? — fece Maria Dora. — Come possono interessarvi le mie chiacchiere? — Molto, forse... Ma, se avete altro a fare, posso anche rimaner solo. — Non avrei altro a fare che finire di vestirmi... — ella disse con civetteria. — Sono ancora tutta in disordine. — Forse di donne e d’abiti m’intendo assai poco, ma mi sembra, Maria Dora, che così vestita stiate deliziosamente bene. — Ora, — disse Marcuccio avanzandosi fra i due, — ora, professore, mandate via Dora, che vi leggerò qualcosa. — Veramente, Marcuccio, — egli rispose con indulgenza, — queste letture si ascoltano meglio la sera. Di giorno c’è troppo svago e troppo rumore. Attendi fin stasera: verrai nella mia camera e leggeremo. Intanto lavora. — Come volete... — rispose lo scemo, con malumore. Ma sùbito si arrese a quel ragionamento: — Certo la sera è meglio; si è più raccolti. Solo non posso trovare il titolo per il mio libro: me lo dovreste suggerire voi. — Ci penserò, Marcuccio, e stasera lo avrai. Allora lo scemo si ritrasse, parlando fra sè, con ampi gesti: — Voglio divenir celebre, celebre, celebre!... — Poi, forte: — Spiegàtemi: come si fa per diventar professori? — Io vi dicevo, Maria Dora... — E rispose a Marcuccio: — Si studia e si lavora. — Aouff!... — esclamò Dora stizzosa. Ma lo scemo, senza badarle: — E quando avrò pubblicato il libro, mi chiameranno professore? — Certo, certo! Marcuccio si allontanò mormorando: — Celebre! celebre... professore! — Dunque vi dicevo, Maria Dora, che nell’abito di questa mattina voi state deliziosamente bene. Poi vi curate ora con somma attenzione; ogni volta che torno dalla città, e vi rivedo, mi serbate una sorpresa. — Ma sapete, signor Andrea, che non riesco bene a comprendere se parliate sul serio o per burla! — esclamò la fanciulla, un po’ confusa. — In ogni modo so che vi divertite spesso alle mie spalle... e fate male! — Perchè? — Perchè questo, in fondo, mi potrebbe anche dispiacere... — Ma io dico sul serio, — egli fece con pentimento. Ella sùbito si rasserenò: — Allora continuate! Fàtemi un po’ la corte... — Ecco, dicevo che siete ora una signorina, del tutto signorina, e molto graziosa, e molto... desiderabile! — No... — ella si schermì con civetteria. — Ma sì... molto desiderabile! Vedo anche, per esempio, che avete cambiato pettinatura; non è forse vero? — Sì. Vi piace questa? — Molto mi piace; vi sta molto bene: v’invecchia. Ora non sembrate più la piccola educanda ch’eravate all’uscir dal convento. Vi ricordate? Son venuto una volta con Giorgio e con Novella a trovarvi nel parlatorio. Cosa fanno le piccole suore? — Vado a visitarle di tempo in tempo e canto ancora nei cori. — Infatti, voi avete sempre quella freschissima voce... Anche stamane, vestendomi, v’ho intesa cantare. — Ed anche prima... dormendo! — lo punse Maria Dora. — Già, russando, come voi dite... Ma questo non conta. V’ho intesa, in ogni modo, e voi eravate, credo, nel giardino. — E nel giardino, e nella sala, ed in cucina, in granaio, nel corridoio... dappertutto! — Ma io dico nel giardino perchè è più poetico, vi pare?... Dunque la vostra voce veniva su limpida e quasi primaverile, come se la portasser dentro i raggi del sole... È sentimentale questo? Vi piace? — Così, così... — Allora, non so perchè, ho pensato ch’eravate una signorina, una bella signorina, e ho deciso di farvi un poco la corte. Ecco, e vi faccio la corte ora, come desiderate voi... — Per ridere? — ella domandò perplessa. — Ma... già! la corte si fa sempre per ridere. — Allora siete molto maleducato! — ella esclamò con dispetto. — Davvero?! — E non so perchè vi divertiate a farmi del male... — Che male vi faccio? — Ma... naturalmente! Se io, per esempio, prendessi le vostre parole sul serio? Mi avete detto che sono una signorina, ben vestita, ben curata, con le unghie lucide... vedete... — e gliele mostra; — che vi piace la mia pettinatura... — se la tocca; — che canto bene... che la mia voce era come una primavera, mentre vi destavate appena... e tutto questo può turbare una ragazza, può farle un certo male, può darle quasi una profonda voglia di piangere... ecco! — Oh, no!... Allora vi domando scusa e vi prometto di non farvi mai più, mai più la corte... Va bene? — Chissà se va bene?... chissà... Anzi non va bene affatto! — E perchè? — Il perchè non ve lo dico. Ma voi siete un uomo crudele: lo si vede dai vostri occhi! — Ohibò! Ditemi una cosa: quanti anni avete ora, Maria Dora? — Diciannove anni e mezzo, signor Andrea!... — ella rispose con un sospiro. — Oh!... e lo dite come se fosser molti! — Per me sono molti... — Poi fece una pausa, una lunga pausa: — Del resto lo so bene che non posso interessarvi per nulla... io! Quante cose in quell’«io», così breve, così profondo! — Perchè, Maria Dora? — egli fece, un po’ confuso. — Voi domandate troppi perchè, mio caro!... I quali sono difficili a dirsi, e non si debbono dire. Credete forse che a diciannove anni e mezzo non si veda nulla? Invece si vede tutto. E si sa tacere anche... certo: si sa tacere. Egli la guardò con un senso timoroso di maraviglia, per quel sùbito mutamento avvenuto in lei, nella frivola bimba, piena d’allegrezza e di civetteria. Ora ella parlava gravemente, come se dal volto le fosse caduta una maschera d’infantilità, e lo sguardo intenso de’ suoi occhi, l’attitudine amara della bocca, la facevan singolarmente rassomigliare alla sua triste sorella. — Non vi comprendo più, Maria Dora... Quello che voi dite mi sembra strano. — Strano?... Forse. Ma, vedete, non bisogna burlarsi di me; non bisogna prendermi come un piccolo gioco, perchè io so anche pungere, se voglio. Solo, non voglio pungere voi, ed il perchè... — Fece di nuovo una pausa, nella quale tornò ridente: — ... il perchè lo so io sola! Non ve lo dirò mai. E per non dirvelo me ne vado. A rivederci! S’alzò e corse via come un leggera farfalla, ridendo, e lasciando nell’aria il suo limpido riso. II Egli era nella sua camera, insonne, affacciato al davanzale, quando già nella casa dormente più non udivasi alcun rumore. Aveva spento il lume, per abbandonarsi al torpore delle proprie meditazioni; ma la stanza era piena d’una luce quasi fantastica, per il chiarore che vi tramandavano le infinite stelle. Splendeva il suo letto, splendeva il grande armadio vetrato, carico d’orciuoli, di fiale, di vasi, d’ampolle medicinali. Ondeggiante, sfioccata, lontana, una striscia di nebbia navigava sopra il mare delle foreste, ogni tanto mutando colore, come un naviglio veliero, nell’incantesimo della notte. E quella striscia di nebbia era una immagine dell’anima sua, sospesa fra i più grandi abissi, incerta e pur navigante. A stordirlo salivano dall’inebbriante giardino vampe di profumi e d’aromi, come se la primavera dormente fosse un’ara infinita e vi bruciassero incensi; ma, chiudendo appena gli occhi, vedeva un immenso lenzuolo nero scendere su quel mondo stellato e gli pareva che fantasmi orrendi si aggirassero nella tenebra disperata. Egli pensava ancora una volta all’amore e al delitto: — le eterne fiabe degli uomini: il delitto, e l’amore. Poi gli parve udire quel lievissimo fruscìo noto, dietro l’uscio, quel respiro di lei che sentiva quand’era impercettibile, quel profumo di lei che lo snervava quand’era pur lontana, e si volse. La vide infatti, che socchiudeva la porta con precauzione, appena tanto da potervi passare; la vide che tremava per un lieve scricchiolìo dei cardini, tutta raccolta nelle spalle, quasi volesse annullare anche il proprio respiro... e fu nella camera. Girò la chiave con cautela, perchè la serratura non stridesse, poi gli scivolò accanto, lieve, con un brivido, nel quadrato azzurro della finestra. Egli non si mosse, non la baciò. La guardava. La guardava con una specie di stupefazione, tanto il timore e l’amore facevanla bella. Ma poich’erano vestiti entrambi di nero, ad entrambi sembrò che vi fosse qualcosa di funereo in quella veglia che facevano davanti alle stelle. — Che hai? — diss’ella. Il respiro della sua bocca, poichè aveva il sapore medesimo della sua carne, parvegli che fosse un bacio. Sotto quel bacio egli s’irrigidì, chiuse gli occhi, volendone quasi godere una tentazione più prolungata. Ella nervosamente gli posò le mani su le spalle: — Che hai? Perchè mi sfuggi? Allora, d’improvviso, l’attrasse nelle sue braccia, se la strinse al cuore con una specie d’amor convulso, affondando la bocca nel tepore del suo collo, nel principio della sua nudità. Ella era piena d’istinti lascivi, come nella più matura estate un favo è gonfio di miele. Tanto pallore le scorreva nel viso, che di quel solo bacio pareva godesse un estremo piacere. — Perchè mi sfuggi? — domandò ancora, ma contro la sua bocca. — Durante il giorno, appena mi guardi; quando arrivi, quando parti, cerchi sempre di non parlare con me. Egli non rispose; ma sostenendo sul braccio il peso della sua nuca rovesciata, le carezzava gli occhi dalle ciglia quasi d’oro, a lungo e piano, come si fa talvolta per addormentare un bimbo. — Non mi ami più?... — ella disse, mentre invece sentiva la passione dell’amante invaderle ogni vena come una immateriale carezza. — Sì!... sì!... — egli proruppe; — ma sono un vilissimo uomo, Novella, e fra noi ci sono troppe ombre. Allora ella si strinse nelle braccia dell’amante come in forte rifugio. — E adesso, dorme? — domandò Andrea. — Sì, dorme. — Ne sei certa? — Sì. — Ti ha parlato di... noi? — Non ancora, ma ogni momento pare che sia per farlo. Tre stelle filanti, lontane, veloci, caddero insieme. La notte si accendeva di chiarori fantastici, di vampe fatue, per ogni dove, come un rogo. Egli, tenendola nelle sue braccia, le fissava la fronte illuminata, quasi fissasse un punto magnetico, seguendo le bufere de’ suoi propri fantasmi. E vedeva su quella fronte le radici dei capelli scintillare minutamente, quasi fossero cosparse d’una invisibile polvere d’oro. — Novella, — esclamò, — che faremo? Egli disse queste parole con un’esausta voce desolata, e le disse, lui così forte, come un bimbo. — Non importa, — ella fece, scuotendo il capo. — Se tu mi ami, non importa! Quello che vuoi... anche uccídimi! Parlava come in un’ebbrezza, piena di lui, sotto il potere del suo fermo sguardo. E rovesciando la gola turgida esclamò di nuovo: — Poichè fra poco saremo scoperti, e poichè il nostro bimbo non può, non deve nascere... poichè non possiamo avere la nostra felicità... uccìdimi, se vuoi, ma con le tue mani... con le tue sole mani, che amo... non mi farai male. Ora la sua passione la transfigurava in una bellezza più che umana, e questa offerta di martirio pareva, su la sua bocca, semplice. Egli s’irrigidì; un lampo sinistro gli splendette negli occhi: tutta la volontà parve gli balzasse d’improvviso al sommo dell’anima, inflessibile. — Era il mio amico e non lo è più, — disse con una tetra lentezza; — era il mio fratello, e non lo è più. Ho creduto ad altre cose false nella vita, e le rinnego; una sola cosa è vera, necessaria, inevitabile: te. Fece una pausa dura e guardò nella notte che brillava; brillava come un incendio di fosforo, su tutte le cime, vertiginosa. Poi affermò, piano con le labbra, ma forte nel cuore: — Sì, è possibile! — Che dici? — Nulla; non voler sapere. Questo solo posso dirti: non ti perderò. Se ho potuto per questo amore giungere alla frode in cui viviamo entrambi, se ho potuto annullare la mia coscienza fino a tradirlo nella sua casa, vicino all’ora forse della sua morte... questo solo posso dirti, Novella: non ti perderò. Ella ebbe un sorriso estatico, che le rideva fin su le ciglia, che le sperdeva gli occhi in una immensa felicità. — Così mi ami? — Così, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «più forte». Fiumane, fiumane, quasi d’un sole notturno, invadevano lo spazio, ravvolgendo come di gloria il loro colpevole ma stupendo amore. Sul tetto della casa, forse, o forse nei rami dell’antichissima quercia, un usignuolo cominciò a cantare. Le ghiaie frammiste con frantumi di vetro mandavano sprazzi, simili a quelli che davan i suoi denti nel riso d’ogni bacio, fra i due fili rossi delle labbra. Ella fu sua con tanta disperazione, con tanto delirio, che le sembrò veramente di sentirsi dare la morte, fra vena e vena, per tutto il sangue, fino al cervello, senza patirne, come aveva detto, alcun male. Nello stesso tempo, e solo qualche passo più in là, diviso appena da leggere pareti, un uomo afferrato già dalla morte vera, da quella bieca e putrida che porta indosso un lenzuolo per coprirsi le costole nude, sussultava in un sonno angoscioso, respirando a fatica il lezzo del suo proprio respiro, con la fronte che si bagnava di uno stillar gelido, l’anima che si rompeva in un tormento senza pace: carcame d’uomo incominciato a marcire. Ancora una volta era necessaria quella vicinanza, che non è fortuita ma universale, della voluttà con la disperazione, del nascere con il morire: inestricabile nodo che s’aggroviglia nell’ironia continua della vita. Una casa d’uomini dormiva insensibile nella notte bianca, e da due finestre vicine usciva unitamente a sperdersi nell’aria stellata un respiro voluttuoso d’amanti che s’inebbriavano ed un fioco rantolo d’addormentato, ch’era già quasi un rantolo d’agonia. Sopra questi aliti vicini e dissimili, che sono tuttavia la parola di tanti silenzi notturni, sul tetto della casa, forse, o forse nei rami dell’antichissima quercia, un usignuolo, come per ischerno, s’era messo a fischiare. E forse in quel sopore affannoso, come traverso un velo di lontana irrealità, il malato sognava... Si rivedeva nella piena giovinezza, povero ma risoluto a far molto cammino, senz’altra ricchezza nella vita che il suo forte ingegno ed un amico più forte. Questi era medico ed egli ingegnere di ponti e miniere, sbalzato dalla sorte in ricche terre inospitali, a tutte le temerità risoluto pur di conquistarsi la vita. E si vedeva nei pozzi profondi, ne’ corridoi angusti, malsani di miasmi e di gas asfissianti, con le squadre di operai destinati alle galere sotterranee, armati di maschere e di lanterne cieche, non più simiglianti ad uomini ma quasi a rettili tenaci contro i forzieri della terra; si rammentava le tragedie, gli eroismi laggiù, dove il sole non è mai giunto, e riudiva quel sordo rombo della macchina calata nelle viscere della terra, per rovistarla e ferirla come una sonda nell’utero materno, e rammentava le catastrofi repentine, con gli urli delle vedove e dei figli intorno ai cadaveri carbonizzati... Poi le ore di vittoria, quando si era messo con i cercatori d’oro, con gli impavidi pionieri che l’umanità spinge come vessilli a’ suoi limiti sconosciuti, e quando, per aprire altri valichi alla potenza temeraria dell’uomo, aveva trionfalmente forato il grembo calcareo delle montagne, gettato ponti leggeri come ghirlande di ferro sopra fiumi turbolenti, e condotta l’acqua ove le terre ardevano di siccità, e deviata la piena delle valli di straripamento... Non amori inutili, non sciocche ambizioni, ma la voglia di vincere, sola e terribile nella sua bellezza, e quest’unico amico del cuore splendente come l’acciaio, che a sua volta vinceva nei dominî liberi della scienza, che scopriva bacilli nefasti, che inventava sieri prodigiosi: questo rinnovatore che le Università si contendevano, questo violento sollevatore d’uomini che lanciava traverso il mondo possa di volumi clamorosi... Certo l’avevano contesa palmo a palmo, fraternamente, la lor terra di conquista, e ciò che aveva spronato l’uno a superare sè stesso era la vittoria del compagno; ciò che li aveva sorretti entrambi nelle ore più tragiche, era soltanto la loro scambievole fraternità. Non mai fra loro un’ombra d’invidia, che non fosse la più generosa emulazione; mai secreto nè diffidenza fra loro, tanto eran certi e fermi nel voler compiere insieme, fra qualsiasi evento, l’intero cammino della vita. Sì, forse il malato sognava... Sognava di lei, quando la vide per la prima volta e la guardò per la prima volta con un pensiero d’amore, così bella che gli parve una cosa inaspettata, nuova nel mondo, benchè sembrasse allora un po’ malata, e non d’altro forse che della sua faticosa verginità. Si ricordava d’aver comprato per lei forse il primo, l’unico mazzo di fiori ch’egli mai desse ad una donna, e ricordava la prima volta che ardì stringerle una mano, con paura profondamente soave, per dirle infatti ch’era bella, bella, bella, e che l’amava con un cuore ignoto, con un’anima nuova, nata in quel momento... Si ricordava quella voce di lei, così grave, così lenta, quando chinò la faccia e gli rispose: — Sì, Giorgio, vi sposerei volentieri, se lo voleste... Allora gli si aperse negli occhi un infinito paradiso, e queste parole gli parvero piene d’un immenso amore, perch’egli fino a quel tempo non era stato amato mai. L’aveva poi svestita, una notte, religiosamente, quando ancora fra i suoi capelli sciolti fluttuava l’odor nuziale della corona d’arancio; e nel vederla sua, per sè, per sempre, si sentì naufragare in una gioia troppo grande, che gli soverchiava l’anima, onde gli parve che ogni cosa di quel momento si disperdesse fuori dalla vita, in un colore d’impossibilità. Erano stati felici insieme — o così gli parve — qualche anno, poi... Poi, già nello svestirla quella prima notte, si era sentito ruggire dentro un male sordo, crescente... E infine accadde che una volta fu sorpreso di attonita maraviglia nell’ascoltare la voce di sua moglie che parlava con Andrea... Era un sogno, poteva non essere che un sogno... e l’usignolo, nell’azzurra notte, spietatamente cantava. . . . . . . . Ella s’avvinghiò al suo collo, seminuda, sobbalzando sul letto, e mormorava con voce soffocata: — Ascolta... Tesero l’orecchio, ambedue mortalmente paurosi, verso la parete, verso l’uscio, verso la camera lontana. — No, t’inganni, — egli disse. — Non sento alcun rumore. — Sst... taci! Ascoltava, protesa innanzi nello splendore del raggio lunare, che vestiva d’innocenza la sua lussuriosa nudità; teneva un braccio intorno al collo dell’amante, l’altro puntato su la sponda del letto, con le dita aggrappate nella coltre come bellissimi artigli, tra l’ansia del pericolo, atterrita ma pronta. Il respiro contenuto le gonfiava la gola, palpitante ancora di voluttà; i capelli semisciolti le ingombravano il collo bianchissimo; tra i pizzi della camicia un seno erto le sbocciava come una splendida melagrana. Ma non udiron altro che l’usignuolo infatuato lanciare i suoi fischi melodici nell’odorosa notte, sopra una orchestra lieve che l’accompagnava in sordina, con brividi appena di foglie nei respiri del vento. Racquetata, ella si compresse il cuore con una mano e s’allentò nelle sue braccia. — Se mi chiamasse di nuovo, come la notte scorsa? — mormorò. — Sì, hai ragione. Làsciami. — Ancora un momento... Guarda quante stelle! Ubbriacato, egli le passava le dita fra i capelli, posava la bocca su la sua pura fronte. — Dimmi... — ella fece; — una cosa orribile che finora non ti ho mai domandata... Andrea, tu che sei medico... Per osare una tale domanda ella nascose la faccia contro di lui, affinchè non la vedesse. — Tu che sei medico, dimmi: È grave?... è molto grave il suo male? Egli rispose bruscamente, con una scossa che lo percorse da capo a piedi: — Non so! non so! Ed ella, con un filo di voce appena percettibile: — Può guarire?... — Ah... taci! Ma la strinse così forte a sè, che tuttavia non si sentì odiata. Allora ella cominciò a parlare sommessamente, con una voce cauta, pressochè insidiosa, mettendo lunghe pause fra parola e parola. — Vedi, questa notte, quando ti ho chiamato, ed eravamo curvi, tu da un lato, io dall’altro del suo letto, soli, nel chiarore di quel lume così funereo, io, come in un lampo, involontariamente, ho pensato: Se... se domani... — Se non ci fosse più! — egli disse con una voce tetra. Ed ella non li vide, ma gli occhi di lui splendettero d’una luce quasi micidiale. — Anch’io, — diss’egli lentamente, con uno sguardo atono, — anch’io ho pensato questo. Era quasi un incubo, ed avevo la visione precisa del cadavere, come se dalle sue membra immobili soffiasse già quel freddo che mandano i morti. Rabbrividita, ella si agitò nel letto e si ristrinse contro il tepore dell’amante. Ma egli, senza un tremito, e quasi provando una gioia malvagia nel torturare sè e lei con queste parole, ricominciò: — Era veramente un incubo, e chinandomi sopra il suo cuore fioco, io, medico, io suo amico, sentivo solo dall’altro lato del letto il profumo che veniva dalla tua persona bella e viva, l’odore di te che mi sopraffaceva, quell’odore de’ tuoi capelli un po’ disfatti, che portavano ancora il segno del guanciale... e l’orrore di sentirmi così colpevole davanti a quella specie d’agonia, accresceva smisuratamente il desiderio, il desiderio fisico, intendi? che avevo di te. Ora fu ella, smarritamente, che supplicò: — Taci!... Ma egli s’inebbriava della sua propria nefandità, si esaltava della sua propria tortura. — Lo sai che ho dato finora tutte le mie forze umane alla difesa della vita? Lo sai che sono un medico? un salvatore? Lo sai che ho fatto rinascere centinaia di uomini, e tanto amore mettevo in quest’opera, che per salvare la più inutile vita serenamente avrei data la mia?... M’intendi? Ebbene, ora per la prima volta concepisco la possibilità astratta di rinnegare la mia missione; e questa morte, questa ingorda morte, che ho combattuto accerrimamente, con il cervello e con le braccia, nelle corsìe degli ospedali, fra i crogiuoli de’ miei laboratori, questa morte che fu la mia nemica dappertutto, che odiai fino all’eroismo, la vedo per la prima volta come un’alleata, quasi come una benefattrice... e mentre le mie mani avvezze lottano ancora contro di lei, macchinalmente, su questo corpo che ci divide, il mio cuore, il mio spirito, il mio nascosto essere che vuole te, la chiama, la chiama, e le dice con un’oscura voglia di tradimento: — Sì, che tu sii la più forte... e ch’io non ti sappia vincere mai più! Ella gli pose una mano su la bocca, una sua mano fredda, che aveva il profumo della colpa, e quella buia fossa che andavano scavando al morituro, ancora una volta colmarono di voluttà. III — Un’imprudenza? Ebbene, sì, mi è piaciuto commettere un’imprudenza! — disse Giorgio a Novella ed al Ferento. — Se sapeste con quale delizia un malato, come un bimbo, cerca di fare le cose proibite! Povero me!... non poter muovere un passo, non poter respirare senz’essere ascoltati!... Dio buono, diventa una vera persecuzione! — Sei oggi d’umore a veder tutto in nero, — gli disse Andrea. — Senza volerlo noi finiamo con irritarti. — Fors’anche sono ingiusto, — egli convenne con un sorriso amaro. — Ma dovete avere un poco di pazienza... ancora un poco! Vedi: mi reggo a stento: il fianco mi duole per le punture che mi fai... È doloroso quel tuo siero! Quante ne occorrono ancora? — Circa una decina, — rispose Andrea, rapidamente. — Oh, se poteste lasciarmi un poco di pace! Voi non sapete cosa valga la pace. No!... via questi scialli! — disse a Novella, che intanto lo ricopriva; — basta, basta con tutte le cure inutili, con le inutili medicine! Vedete: io non sono un timido; la morte, se ha da venire, non mi spaventa affatto; ma quello che m’annoia è d’essere trattato già come un moribondo. — Sei di cattivo umore, ti ripeto! — esclamò Andrea con una voce scherzosa. — L’ho già detto a Novella ed agli altri: voi, con l’eccesso delle vostre premure, non fate che esasperarlo; curatevi meno di lui. — Ecco: non datevi di me alcuna pena, e vi prego, vi prego, non sacrificatevi per me! Con questo bel sole, immagino che avrete certo voglia di fare una lunga passeggiata. Stefano e Maria Dora son scesi alla fattoria: se li andaste a raggiungere? Tu, Novella, hai bisogno di aria: impallidisci ogni giorno più. Quanto a me, sto benissimo solo. E se poi mi venisse la voglia di conversare, c’è di là Marcuccio che lavora: l’andrò a disturbare. Con Marcuccio vado sempre d’accordo, perchè in tutta la casa è il solo che se ne infischi della mia salute! — Io ti ubbidisco, — rispose Andrea. — Non vado alla fattoria, ma scendo in paese. — Benissimo. E tu, Novella? — Io rimango, — ella rispose, levando il capo da un libro che sfogliava. — Se qui t’annoio, salirò nella mia stanza; oggi non ho voglia di camminare. — Ti farà male, Novella. Sono tre giorni che non esci di casa, — disse il malato, mutando singolarmente lo sguardo e la voce nel parlare a lei. — Tuttavia permettimi di rimanere, — pregò Novella con un sorriso. — Come vuoi. Udirono il passo di Andrea lontanarsi per il giardino, e rimasero soli nella sala terrena, egli seduto presso la finestra, ella presso il cembalo, con una lunga striscia di sole, piena di pulviscolo, tra loro. — Cosa leggi? — egli domandò. — Nulla: guardo un tuo libro. È «_Il Riso Rosso_» di Andrejeff. L’hai letto? — Non ancora. Entrambi fissarono gli occhi su quella striscia polverosa di sole, dove s’agitava un microcosmo infuriato, una specie di convulsione continua che non faceva rumore, come le tempeste dell’anima. Avevan quasi paura entrambi di guardarsi nel viso; il silenzio li avvolgeva come uno strepito assordante. — Vuoi suonarmi qualcosa, oppure sei stanca? — egli domandò. — Volentieri. Si alzò, sedette macchinalmente su lo sgabello del pianoforte, con una compostezza d’automa, evitando quasi di far rumore, o forse timorosa di sbagliare in checchessia. Aperse il cembalo, scoverse la tastiera, e leggermente, con le dita veloci, cominciò a suonare una fuga di Bach. Un bel rubino, rosso come una goccia di sangue, le macchiava la mano pallida. Ora, non veduto da lei, dietro quel velo di sole, Giorgio abbandonò il capo su la spalliera della poltrona e rimase immoto a contemplarla. La cassa d’ebano, ferita in un fianco da quella polvere accesa, mandava dal legno curvo un gran mazzo di scintille. L’opposta parete rifletteva mutevolmente l’ombra della suonatrice. Le sue spalle trasalivano, accompagnando la nervosa celerità delle dita; il suo busto si curvava un poco in avanti con un oscillamento leggero, e messo in evidenza da quella positura su l’alto scanno appariva di una mirabile plasticità; la curva del seno, calma e forte, si delineava di scorcio, sotto le braccia irrequiete. Traverso quel raggio la sua capigliatura prendeva tutt’intorno la chiarità stessa del sole, mentre nel mezzo era fosca e folta, con riflessi color del mogano, come un caldo velluto. E nella faccia dell’infermo, non sorvegliata più dalla vigilanza interiore, s’incavava una squallida miseria, quasi un furore taciturno, una visibile distruzione. I suoi occhi erano spenti, la bocca s’appesantiva; ne’ suoi radi capelli, traendone un luccicore quasi umido, penetrava il sole. Sì, l’amava, l’amava! e morendo l’amava... il che è più disperato che tutto, più irremediabile che tutto!... Due volte, dietro l’uscio, una vocina di bimba fece: — Si può? Ella s’interruppe, e sùbito rispose: — Avanti. Era Natalissa, la bambina del giardiniere, con un grande fascio di rose tra le braccia. Teneva i lunghi steli ravvolti nel grembiulino per non pungersi le dita; il visetto gaio le sbocciava sopra quei fiori con un sorriso di donnicciuola grande. — Il papà mi manda con i fiori da mettere nei vasi. Dice che se li deve accomodare lui, verrà più tardi, perchè adesso è occupato nell’ortaglia e sùbito non può salire. Parlava con un cinguettìo di passera, tenendo in braccio quel gran mazzo di rose, che per la lunghezza degli steli parevano maggiori di lei. — No, piccina, — ella rispose, lieta che alcuno fosse venuto a interrompere la loro solitudine. — Dalle a me; le accomoderò io. — Eccole, signora. Guardi che belle rose! E alzando le braccia quanto poteva, diede a Novella il mazzo fragrante. — Il papà mi ha detto che queste rose gialle sono le prime delle margotte, e di farle vedere al signor Stefano. Non c’è il signor Stefano? — No, è fuori; ma presto ritorna. — Allora glielo dica, sa... — Certo, piccina. Hai detto queste gialle, non è vero? — Sì, le gialle, signora; che si chiamano «Maréchal Niel». — Guarda un po’ come se n’intende la piccola Natalissa! — Eh, già!... — ella fece con un modesto orgoglio. Stava tutto il giorno appresso al padre, ond’era divenuta pratica di giardinaggio. Novella prese qualche confetto in una scatola di porcellana e li offerse alla bimba. — Grazie, signora, non s’incomodi. E attorcigliava con vergogna le mani dentro il grembiulino; poi accettò i confetti e se li mise in tasca. — E lei sta meglio, signor Giorgio? — Sì, piccina, sto abbastanza bene. — Bravo, signor Giorgio! Se viene in giardino, mi chiami, che io le mostrerò tutte le pianticelle nuove. A rivederla e grazie. Se ne andò seria seria, con quelle sue maniere di piccola massaia. — Com’è graziosa e brava quella bambinetta, — disse Novella, che si affacendava nello sciogliere il grande mazzo di rose. Egli frappose un lungo silenzio, guardò la moglie, poi disse: — Alle volte penso che anche tu, Novella, forse hai desiderato di averne una. Ella odorò le rose fragranti, accarezzandole, dividendole ad una ad una, con attenzione soverchia, per disporle nei vasi. — Di avere una bimba?... — fece. — Sì, vagamente, qualche volta... come forse tutte le donne lo hanno desiderato. — E invece io t’ho impedito anche questa gioia legittima, che poteva darti un altr’uomo qualsiasi, perchè la nostra casa è rimasta senza figli. Ella trasalì nell’intimo, e temendo che una vampa le salisse al viso, per nascondersi, affondò la bocca in una gonfia rosa, cárica di pólline giallo. — Di questo non ti ho mai mostrato alcun rammarico, — rispose. — Infatti; ma il silenzio è talvolta assai peggiore di un rimprovero. Mi ammalai poco tempo dopo averti sposata, e fu bene che tu non avessi un figlio mio. Da me, Novella, non ti vennero che tristezze; talora penso che veramente mi devi odiare. — Ma Giorgio! — ella esclamò nervosamente, — odio solo questi discorsi che mi fai! Non ho alcun bisogno d’avere bimbi e mi tormenti per nulla. — Non sai forse che i malati sono crudeli? Soffrono ed amano far soffrire. Ma in me, vedi, è la coscienza che talora mi rimorde. Penso che ho legato senza volerlo una gioventù bella e forte come la tua alla decrepitezza d’un infermo, e penso a quello che deve necessariamente agitarsi nel tuo cuore... a tutti i desiderii che vi reprimi, perchè io non li veda. Egli parlava con un tono ambiguo, che voleva sembrar pieno di dolcezza, mentre suonava come una indulgente ironia. — Non ti nascondo nulla, Giorgio, — ella rispose, molestata. — Sono più semplice che tu non creda. — Semplice, hai detto? Così mi pareva una volta, ma ora non più. Ora, studiandoti meglio, con quella divinazione dei malati che hanno tanto tempo per riflettere, ho scoperto in te un viluppo di cose inestricabili, di passioni oscure... Ed anzi non sei semplice affatto, ma un nodo mi sembri, serrato e forte. Ella rise, accarezzando con frivolità le rose gialle disposte in un bel vaso. — Perchè? ma perchè tante ubbìe?... Lasciamo stare, Giorgio! Senti piuttosto queste rose delle margotte, che odore inebbriante!... stordiscono... senti!... Gli si avvicinò, portandogli le rose da odorare. Ma Giorgio bruscamente le afferrò una mano: — Vorresti non lasciarmi parlare, è vero? — Io? perchè?... — rispose la moglie, turbata. — Vorresti che fra noi, sino all’ultimo, perdurasse l’equivoco dietro il quale ti nascondi? Sì? — Ma Giorgio... — Però io, poichè sono crudele... — via, non t’imbiancare così!... — poichè ho taciuto così a lungo... troppo a lungo!... vorrei parlare una volta con te. Ma, vedi, quel vaso non è sicuro nelle tue mani... Perchè tremi? Pósalo giù, siéditi e dimmi... — Ah, ma non è vero! — Sì, che tremi: lo vedo. Siéditi qui vicino e ascóltami. — Che vuoi? che vuoi, Giorgio? Non ti affannare così; dopo starai male... — balbettava ella smarritamente, guardandosi attorno, quasi cercasse nelle cose circostanti una via di salvazione. — Anzi, — egli rispose, — parlarti mi fa bene, un bene infinito, Novella, se tu puoi essere sincera con me. E lo dovresti essere, perchè nessuno... intendi? nessuno potrà mai amarti con l’amore mio, l’amore senza confini d’un uomo che se ne va... — Non dire così!... non devi dire così! — Ma cosa temi? ch’io t’accusi forse? o ti minacci? o sia così pazzo da domandarti altra cosa che un poco di buona e di vera sincerità? Ascóltami, Novella. Se un giorno avrai nella tua vita lontana, — e Dio te lo risparmi! — uno di quei dolori così grandi che non si sa come un’anima li possa contenere, soltanto allora comprenderai perchè voleva oggi parlarti quel Giorgio che sarà uno scomparso, un punto nero nella tua memoria, un’ombra... Làsciami dire; làsciami dire!... Anzi tutto sappi una cosa: non ho rancore contro di te, non il più lieve rancore, Novella, perchè ti comprendo, anzi ti difendo io stesso. — Ma da cosa?... Egli scosse il capo, e seguitò: — L’amore non è tale se non quando giunge ad essere un’infinita bontà. Il resto è unicamente una rabida passione, la quale non può nè perdonare nè beneficare. Più tardi ricorderai quello che ora ti dico, e più tardi, poichè l’anima dell’uomo ha bisogno di generare fantasmi, più tardi, quand’io non ci fossi più, potrebbe darsi che anche nell’anima tua nascesse quella paura insoffocabile che si chiama «il rimorso». Ora io ti parlo appunto, perchè non voglio che tu lo conosca mai. Ho invece un altro sogno: quello d’aiutarti ad essere felice, se lo posso ancora, e dirti che non mi devi temere affatto, nè ora nè dopo, e lasciarti la sicurezza che tu non mi hai fatto alcun male, anzi sei stata nel mondo la mia sola felicità... Ella smarrita lo guardava, senza bene intendere le sue parole, ma sopraffatta dal suono tormentoso di quella voce, attonita, nel vedere quel viso trasfigurarsi e risplendere per un’altezza di sentimento più che umana. — Quando, — egli riprese, — quando il tuo cuore ti dirà con un morso: «Lo hai fatto soffrire...» — tu rispondi serenamente: «No; sono stata invece il suo pensiero più dolce, il sorriso ch’egli vide fino all’ultimo nel colore della vita». — Quando il tuo cuore ti dirà: «Egli purtroppo conosceva il tuo amore, l’altro amore, il solo che avesti...» — e tu rispondi serenamente: «Che importa? Egli non mi amava perchè l’amassi... Poi sapeva che nessuno può comandarsi di non amare». — E se il cuore infine ti dicesse: «Ma è stato geloso... orribilmente geloso di te...» — allora non rispondere nulla, perchè gelosa può essere soltanto la carne... quella si distrugge, finisce, e per lei non vale che si pianga. Egli fece una pausa e la guardò fissamente, con una tetra luce negli occhi: — Saprai non ripetere nulla delle parole che ti dico? E parve che la maschera umana, la febbre umana del suo dolore gli ricadesse d’un tratto sul viso. Poich’ella taceva, egli disse parlando a sè medesimo: — Forse no; ma non importa. Allora ella ebbe uno schianto, e dalla seggiola dov’era scivolò a ginocchi, nascondendosi fra le mani la faccia impaurita, poichè sentiva, così genuflessa, d’esser meglio rifugiata sotto l’ala della sua grande anima. Insieme, tuttavia, poich’era invincibilmente donna, o forse per quel pensiero carnale ch’egli aveva mesciuto nella sua misericordia, le risaliva struggente nelle vene la memoria della notte trascorsa, e quasi per acuire il suo rimorso fisico riviveva in una specie di prostrazione l’ebbrezza di quei loro baci avidi e soffocati, sicchè non sapeva dividere dal terrore della sua colpa l’immagine stessa del peccato, e dall’immensa paura di quel momento in lei nasceva una più grande voluttà. Allora, così armata della propria gioia, così piena di quell’assente che la teneva in potere, quasi per una ribellione de’ suoi nervi crudeli, sentì, nel luogo della pietà, insorgere un sordo rancore contro colui che si faceva troppo umile per atterrirla, e sentì ruggire in sè, tra vena e vena, tra fibra e fibra, una specie di avversione incoercibile, quasi un odio, contro quel nemico disarmato, il quale, non altro potendo, cercava d’incatenarla con la propria bontà. Ed allora, senza più mercede, si levò di ginocchi diritta, con una rapida mossa piena d’orgoglio, e crudamente lo fissò. In quell’atto apparve da lui così lontana, ch’egli ebbe immediata la percezione di quella inesorabile distanza. — Cosa vuoi dirmi? Cosa vuoi sapere da me? — diss’ella, rattenendo a stento l’impeto della voce. — Di cosa dunque mi rimproveri? — Di nulla, — egli ripetè, chiudendo gli occhi per nascondere la sofferenza che vi saliva. — Di nulla, come ti ho detto. Ma ella pareva non l’ascoltasse, nè averlo ascoltato fino allora, e sentisse invece imperioso il bisogno d’una discolpa. — Da che sei malato, qual’è la mia vita? Ho pensato forse a me stessa? ho trascurato forse il più piccolo de’ miei doveri? ho passato un giorno, un solo giorno fuori di casa? Egli voleva interromperla, ma ella parlava concitata, con rapidità. — Non mi sono forse negletta come una donna vecchia? Ho riso forse? Hai veduta una sola volta la mia bocca ridere, dacchè tu soffri? Dillo, se mento. — Non questo, — egli fece sconsolatamente. — Ti ho mai mostrato, per caso, un rancore anche ingiusto, un rammarico pur lieve, che un’altra donna forse non avrebbe saputo nascondere in una vita così dolorosa? — Non questo, non questo! — E che allora? — ella esclamò con veemenza. — E le mie lacrime, le sai tu? Lo sai quello che ho soffocato nel cuore perchè tu fossi meno triste?... Se tu soffri, non soffro anch’io? Se tu perdoni, sii giusto, non perdono forse anch’io? — Ma perchè ti difendi? — egli gridò con tutto lo sforzo della sua voce fioca. — Perchè ti difendi?! — Non mi difendo, — ella rispose duramente. — Mi ribello! Insorgo tutta contro l’accusa che mi fai continuamente, anche tacendo, anche solo guardandomi, e che mascheri male dietro la finzione d’una bontà che non senti. Allora, poichè hai voluto rompere quel silenzio che ci proteggeva entrambi, allora preferisco un’accusa diritta e precisa... Dimmi: di cosa m’incolpi? Sono qui per risponderti, e non mentirò. — Oh, questo è impossibile!... — egli disse, mettendo nella lentezza della voce un sottilissimo scherno. Ella si sentì pungere come da una staffilata in pieno viso, ed ebbe voglia di gridargli su la faccia l’intera sua colpa, la splendida verità, per mostrargli che infatti non mentiva. Ma il suo senso femminile di prudenza e di pazienza fu ancora più forte. — Prova, — disse, — e vedrai! Arretrátasi di qualche passo, entrò nella striscia di sole, che le si avvolse intorno alla gonna e parve stringere le sue ginocchia in un’armatura splendente. Egli la guardò fiso, per qualche attimo, con odio e con stupore, poi esclamò: — Come gli rassomigli! — A chi? — ella chiese, più rigida, sentendosi correre dalla nuca ai talloni un lungo brivido di paura e di fierezza. — Oh... a chi!... È vano che lo nómini, — egli rispose con sarcasmo. — Tuttavia, se proprio ci tieni, lo dirò: — Al mio fratello Andrea... al mio medico! — E poi? — ella fece, senza batter ciglio. — Nulla... dicevo questo perchè i tuoi occhi mi guardano come i suoi, e la sua bocca mi parla come la tua. Una volta ti movevi lenta, calma, con una specie di pigrizia; ora, nelle tue mosse, talvolta sorprendo un poco della sua rapidità. Egli tacque un momento, poi soggiunse: — Hai ragione d’amarlo, è un uomo che merita di essere amato. Ma ella taceva, ravviluppata nel suo silenzio come in un freddo e crudelissimo rancore. Giorgio riprese: — È l’uomo più virile ed è l’anima più vasta che incontrai su la terra. Bada che non símulo; egli forse mi odia, io no. — Non ti odia, — ella disse con fermezza. — Andrea non ti odia. — Lo sai tu? — Sì, certamente. Ma voglio anche dirti una cosa, una cosa che tu dimentichi, Giorgio... Quando una donna riesce, con affetto, con serenità, vorrei dire, con passione a compiere il suo dovere nella vita, nessuno avrebbe il diritto di frugare come tu fai dentro l’anima sua, per rubarle un secreto ch’ella cerca di seppellire nella sua intimità più profonda, e non certo per risparmiare sè... L’anima, credo, è un possesso che si può negare inesorabilmente alle violenze altrui. — Sì, l’anima, ed anche il corpo, Novella. — Oh, il corpo no! — ella disse con audacia. ben sapendo che l’uomo, comunque creda di amare, qualsiasi nome purissimo voglia dare all’amor suo, non è mai altro nel fondo che un accanito e geloso pretensore, il quale perdonerà tutte le dedizioni, tranne quella, o bestiale o divina, che avviluppa due corpi amorosi. Ella intuì che il malato, frammezzo a tante parole, voleva sopra tutto conoscere una cosa: fino a qual punto ella non fosse più sua. — Il corpo no, — disse un’altra volta, armandosi di quella inflessibilità che faceva splendere la sua bellezza come un freddo metallo. — Perchè cerchi d’ingannarmi?... Una pietà inutile! — No, Giorgio; la mia carne si è dimenticata e si è spenta nella lunga solitudine. Se qualcosa di lui mi turba, non così mi turba. Se può chiamarsi amore quel senso timoroso che ho di lui, non è l’amore d’una donna; ma invece un’ammirazione senza desiderio, e tuttavia così femminile, che forse un uomo non potrebbe giungere ad intenderla mai. Ella mentiva con una facilità sorprendente, convincendosi di far opera buona, e dicendolo a sè stessa per darsi cuore; ma in fondo per difendere sè dalla sua colpa, sè e lui che s’amavano, dalla potenza del padrone. Mentiva, pur sentendo nel suo grembo agitarsi una vita oscura, la quale sotto gli occhi dell’infermo non poteva nascere, nè poteva, in quella casa vigilata, secretamente morire. — Tuttavia, Giorgio, — diss’ella, pronunziando le parole con una dolcezza proditoria, — se tu sospetti vi sia fra noi qualcos’altro che una dimestichezza necessaria, perchè nata appunto nel curarti insieme, allontánalo dunque da questa casa, chiama un altro medico... vuoi? Ella tremava dentro di sè per la paura ch’egli accettasse quell’offerta, e ne tremava così forte, che non ebbe alcun rossore della sua duplicità. — Ma tu diméntichi, — disse pensierosamente il malato, — che siamo stati veri fratelli durante l’intera vita. Forse a lui debbo quello che fui, e nulla basterà per distruggere la mia riconoscenza. Vorrei solo poter credere che tu non menti. Ella intravvide la speranza di riuscire ad illuderlo ancora. — Come potrei farti credere, Giorgio, se la tua diffidenza è così grande? Sì, è vero: io sento il potere della sua forza; sono un po’ schiava di quel dominio ch’egli esercita su tutti. Ma la mia vita, Giorgio, è ben altra; ed è così lontana dalla sua, come potrebbe esserlo da quella immaginaria d’un uomo conosciuto in un libro. La mia vita vera è di camminare in silenzio vicino al tuo letto, di portarti uno scialle perchè tu non abbia freddo, e di sentirmi lieta come non mai se un giorno ti desti più riposato, e mi guardi sorridendo, con un poco di riconoscenza nel viso... Egli l’interruppe, tendendo una mano per incontrare la sua: — Oh, se sapessi quanta ne ho! E che rimorso anche! Senza di te, mi sarei già liberato di questa mia vita inutile... Se rimango, è solo per vederti un giorno di più; e so bene d’altronde che il tuo sacrificio non sarà lungo. — Giorgio, Giorgio, per carità!... — Ne sono certo. Però, vedi come lo dico tranquillamente. Ciò che si chiama la morte è una cosa viva ed enorme, che avvicinandosi fa rumore. Fa, dentro le vene, un rumore sordo e confuso, che somiglia un poco al rombo d’una cavalcata lontana. Si avverte un freddo impercettibile, che agghiada tutti i sensi, ed allora l’anima fa come il sole nel tramonto: lancia, con una specie di delirio, i suoi raggi più luminosi verso ciò che possedeva nel mondo... Parlava con una voce quasi meccanica, in cui certi suoni, certe sillabe, spiccavano stranamente, come fossero schianti di riso secchi e malvagi in un racconto monotono. Ella pure gli prestava un’attenzione puramente meccanica, e soltanto l’eco di quelle frasi le batteva sui timpani, facendole male. — Perchè mi tormenti? perchè mi tormenti? — voleva dirgli quasi con rabbia, sopraffatta da un malessere fisico, che le rendeva insopportabile anche la voce, anche la presenza di lui. E lo guardava trasognata, vedendo insieme l’obliqua lama di sole fendere la stanza, piena di pulviscolo, di vita e di tempeste, come il suo cervello sovreccitato. Lo guardava senza pietà, e per la prima volta con un desiderio singolare di vendetta. Le pareva che dicendole: «Io so», — dicendole: «Io ti perdono» egli avesse rotto quel prestigio che gli conferiva il dolore taciturno, ed apparisse ora nudamente, come il solo divieto al suo bene, come l’ombra inseparabile dal suo nascosto sole. Anzi, quanto più le parlava egli di morte, tanto più si sentiva ella trascinata nell’orbita necessaria di un tale pensiero, e quell’immagine di funerali ch’ell’aveva respinta con tutte le forze dell’anima, d’un tratto egli stesso la faceva balenare davanti a’ suoi occhi, non più come una remota ombra, ma come una imminente possibilità. — Sì, è una cosa viva ed enorme, che avvicinandosi fa rumore, — egli ripetè lentamente, come per imprimere queste parole nella sua profonda memoria. — Ed è allora che assale, non un rammarico solo della partenza, ma il rimpianto irremediabile di tutto quello che la vita poteva essere per noi. Ed allora nasce verso gli uomini, anche verso quelli, sopra tutto verso quelli che ci hanno fatto male, un’affettuosità grande e stanca, una voglia quasi di render loro tutto il bene possibile, tutto l’amore possibile, perchè un solco di buona memoria continui dopo di noi. Non si pensa che anch’essi a lor volta finiranno, e la vita che prosegue ha qualcosa di stupefacente, come se fosse una forza radiosa e mostruosa che urla e splende mentre soffoca noi... E tacque, attendendo forse una risposta, una sillaba qualsiasi, un cenno. Ma quelle sue labbra sigillate non si mossero, nè le sue ciglia batterono. — Mi ascolti? — egli domandò allora. Comprimendosi una mano sul petto, ella trasse un lungo respiro: — Non ti ascolto, no! non ti ascolto... Egli bruscamente sorse in piedi e s’avvicinò a lei. Teneva la fronte bassa, era mutato, pareva dibattersi fra un pauroso dubbio ed una grande speranza. — Non ti ho mai domandata una cosa, — disse. Ella trasalì, ed i suoi splendenti occhi nascosero fra le ciglia uno sguardo pieno di sospetto. — Quale cosa? — domandò. Ma egli esitava, come se avesse una profonda vergogna della domanda che stavale per fare; poi disse: — Bada: non è una sciocca domanda che ti faccio. Vorrei sapere se, infuori da tutto quello che si chiama una religione od una fede nell’inconoscibile del mondo, senti con certezza di appartenere a qualcosa che non finisce, a un Dio insomma... o se invece ti senti sola. Egli fece una pausa, e la guardò come per indovinare la sua risposta. Ma ella, senza forse aver preso il tempo di lasciar parlare la propria coscienza, rispose con una voce opaca: — Sì, credo in Dio. E così dicendo pensava a quello ch’egli le avrebbe domandato poi. — Bada, — egli l’ammonì, — non rispondere con le labbra soltanto. — No, no... Egli le aveva presa una mano e la teneva serrata, quasi per comunicare con le vene del suo polso, con i battiti del suo cuore. — O Andrea ti ha pure insegnato il suo gelido ateismo? — egli mormorò, curvandosi. Ma ella scosse il capo, il braccio, con ira. — Basta! — gli comandò; — basta! — Allora, se un poco di fede non ti manca, — egli disse, tutto acceso dalla febbre della sua religiosità, — se veramente hai nell’anima Dio, non mi potrai mentire... bada! — Che vuoi?... — Sapere! sapere! — gridò il malato con forza convulsa. — Io, che finisco la strada, io, che non ti ho mai fatto alcun male, io ti domando: «Sei stata sua? In verità, in verità, sei stata sua?» Ella scosse il capo con rabbia, come per prepararsi allo sforzo di rispondere: No! — poi si fece bianca d’un pallore quasi livido, e, scandendo le sillabe, disse con una voce che pur lenta sibilava: — Non sono stata sua; non lo sarò mai! Ma sentendo irrompere dall’anima in ribellione, più forte che il suo medesimo cuore il bisogno di gridare la verità, si tese tutta interiormente in una acerrima ira, e per costringersi alla menzogna disse ancora più volte: — Mai! Mai! Esausto, egli si lasciò ricadere nella poltrona, premendosi le due mani sul petto, e la guardò perdutamente, con un senso d’inanità, di vergogna, stremato come un fanciullo che avesse voluto scagliarsi contro una porta di bronzo. E nelle sue membra malate sentì quasi una paura fisica di quella forte creatura, che aveva diritto a vivere, a ridere, a godere, a mentire, a far tutto ciò che fanno i vivi, mentr’egli non era più che un morto ancora barcollante, un travolto su cui la vita degli altri passava come un torrente infrenabile... Perchè la voleva contendere ad un altro amore, se questo amore nasceva in lei, necessario e spontaneo come il suo profumato respiro? Perchè voleva dilungare la sua squallida ombra nel loro invisibile sole? A queste riflessioni, un riso amaro di sarcasmo gli echeggiò dentro l’anima, senza salirgli fino alle labbra, mentre i suoi occhi smorti fissavano con una specie d’incantamento la bella creatura femminile, avviluppata in quel manto di sole che la ingloriava, che pareva splendere da lei, essere il colore della sua bellezza, il raggio della sua tutta ingemmata carne. Gli sembrò che un rumore lontano, come di sonagliere su la strada, come di campanelli infuriati nell’alte camere della casa, gli stormisse dentro l’orecchie ronzanti, gli scrosciasse nel cervello vuoto, fra vena e vena, doloroso, incessante. Quel sole!... che macchia faceva quel sole! che barbaglio insostenibile, che incendio giallo su tutte le cose circostanti!... Ella era là, così vicina e pure inaccessibile, avvampata di quella fiamma come un gioiello d’oro. E quel rumore continuo, come di sonagliere su la strada, come di campanelli infuriati, gli cresceva dentro senza posa, lo stordiva, lo accasciava, suscitando nelle sue pupille dilatate una continuità velocissima di bagliori e di vampe. Cos’erano? Forse quelle grandi rose gialle, cáriche di profumo e di pólline, che parevano d’un tratto roteare nella striscia di sole, incendiarsi, ardere? Le rose, o i suoi capelli scintillanti, o il braccialetto d’oro che le balenava al polso, o tutta la sua materia giovine e viva, cárica di profumo anch’essa, di pólline e di voluttà?... Vampe, vampe, sonagliere, in una ridda confusa, in una specie di vertigine gialla... Accecato, chiuse le palpebre e sognò. Sognò di lei, paurosamente, voluttuosamente, quasi per un bacio ch’ella gli desse, non più su la fronte, come soleva, ma con le calde labbra su le sue labbra ardenti, — un bacio snervante, lungo, lento, che gli assorbiva dalla gola turgida il respiro, che gli scorreva sui nervi non placati come una molteplice carezza. Un bacio carnale di amante, com’ella saprebbe dare se volesse, un bacio lascivo come la nudità, voluttuoso come la colpa... E in quella specie di torpore, mentre vedeva dietro il velo delle palpebre quel polverìo luminoso del sole, risentì, quasi per una evocazione fisica, sotto le narici un poco ansanti fluttuare l’odor femineo di lei, quell’odore soave che l’accerchiava come un malefizio, che intorbidava un poco l’aria come la fragranza eccessiva d’un fiore, che l’ubbriacava talvolta, nella sua debolezza di malato, come una droga troppo forte. Ora egli la vedeva, non più nel mezzo della stanza, ma come l’aveva sorpresa una volta, all’uscir dal bagno, tutta nuda e gocciolante, cosparsa di oscurità furtive il suo corpo voluttuoso. Quella volta ell’aveva gridato, per il pudore subitaneo, con un piccolo grido acuto e quasi ridente; poi s’era in fretta raggomitolata nell’accappatoio tepido, schermendosi dall’esser veduta e chiudendo gli occhi quasi per timore. Così la rivedeva ora, nell’abbaglio, e risentiva sotto le narici ansanti quell’odor fresco di carne bagnata, di cipria e di lavanda, quell’odore buono e colpevole del suo corpo che incitava all’amore. ...ed egli era sopra di lei, curvo, e la baciava; metteva le dita un po’ tremanti nel gran volume de’ suoi capelli raccolti su la nuca, aspersi qua e là di gocciole iridate; le strofinava il dorso pianamente, le spalle pianamente, per rasciugarla; sentiva traverso la stoffa spugnosa il tepore umido della sua pelle, s’inginocchiava dinanzi a lei, l’avvolgeva con le braccia, la serrava contro di sè, più forte, più forte... Ella si rannicchiava, freddolosa e vogliosa, dentro l’accappatoio caldo: le uscivano dal basso i piedi rosati, le sue ginocchia tonde gli urtavano contro il petto, stando ella tutta raccolta in sè, tutta piegata come per ischermirsi... Ma non si schermiva interamente; forse non era che un’arte leggiadra, un amabile gioco; ed egli, tenendola per la cintura come una preda non riottosa, piano piano addentrava una mano cauta nella scollatura dell’accappatoio, prolungando la sua carezza per la gola turgida, e giù, più giù, lentamente, con soste, come un ladro, nella dovizia calda, rigogliosa del seno... Vampe, vampe, sonagliere... Cos’erano? le rose gialle? i suoi capelli?... Vampe. Oh, come suonavano! che urlìo! che scampanìo forte, lacerante!... Che male! che male! Barbagli, guizzi, come di grandi rose gialle, infuriate, che roteassero... Una ridda... il sole... troppo sole... Ah, che male!... Sonagliere, vampe. Cos’era? Una specie di schianto nel cuore fioco; una specie di rimbombo fragoroso entro le arterie stanche; una pietra infitta nel cervello, così greve, così greve... Rose, vampe, sonagliere. Cos’era? Una lussuria di moribondo, che non di rado lo tormentava, la notte, nelle lunghe insonnie, mentr’ella se ne stava presso di lui, a piè del letto, assonnata sopra una pagina interrotta. Talvolta egli chiudeva gli occhi, fingeva d’essere addormentato, per poterla desiderare senza tradirsi; gli entrava nel sangue un’accensione dolorosa; la sua tenebra interiore s’illuminava di rosso, ed in quella specie di febbre, come se le giacesse accanto, l’avvolgeva in più modi nella sua lussuria inane. Quand’era sano ancora, non l’aveva mai desiderata così; quando le dormiva ogni notte accanto, non le aveva mai conosciuto questo irritante calore di femmina e di posseditrice, che ora tentava sino allo spasimo il suo desiderio spossato. Quando per la prima volta l’aveva baciata nel talamo nuziale, gli era solamente sembrata una inquieta e sperduta fanciulla, stanca forse della sua verginità, e per lungo tempo non aveva nemmeno sospettato in lei quella tentatrice ch’ella era, così turgida e sparsa di peccato in ogni piega del suo corpo, dalla fronte al piede. Sì, forse aveva sin d’allora, nel cavo degli occhi, negli angoli della bocca, nella forma de’ suoi labbri, quand’era in silenzio e pensava, o forse nella medesima sua voce, che talvolta si velava di risonanze opache, forse nelle spalle affaticate per il peso del suo petto fiorente, forse nelle braccia pieghevoli, nelle ginocchia pigre, un non so che di stanco, di lascivo, anzi una specie d’indefinito languore, che pareva, come un fumo d’oppio, addormentare le sue dolci membra in un letargo pieno d’insensibilità. Ma nel suo letto maritale non era, — e Giorgio se ne rammentava — che un’amante quasi inerte, una pigra onesta sposa che sopportava l’amore. Più tardi, — ma solo più tardi — ella era fiorita così; più tardi, quando già per lui non era divenuta che una infermiera assidua ed una buona sorella, quando le loro bocche non s’erano più congiunte in altri baci che non fossero di consolazione o di dolore. E chi dunque l’aveva così occultamente ridestata? Chi aveva ritolto da’ suoi sensi violenti quella fascia di torpore? Chi aveva diffuso per il suo corpo soave quella virtù malefica di tentazione? Oh, sì! egli le aveva ben detto, guardandola: — Come gli rassomigli! Ed ella s’era drizzata senza rispondere, con un moto nelle vertebre del collo che le rovesciava un poco la fronte all’indietro: un moto abituale in lui, che scolpiva la sua dura fierezza e rendeva imperiosa la sua fredda volontà. Aveva imparato a dire: Sì! No! — rapidamente, con una voce ferma, che pareva inginocchiasse di colpo le resistenze altrui, — a dire: Voglio! — a dire: Devi! con quella decisione immediata e serrata che pareva in lui quasi l’urto d’un impeto fisico, il guizzo subitaneo d’una lama che si pianta e sta. Ell’aveva detto: «Mai! Mai!...» — dopo la sua domanda... Ma quali parole potevan distruggere il valore delle osservazioni accumulate giorno per giorno dall’istinto che non falla, e sotto la vigilanza di una indagine involontaria? Ella diceva di no con la bocca, ma era invece visibilmente più che la sua amante: un oggetto suo, una sua possessione irredimibile, una vita congiunta con la sua vita, un sangue frammisto nel suo medesimo cuore. Egli l’aveva presa, forse dolcemente, ma come si afferra una preda, quasi con artigli, bollandola d’un suggello di possesso che non si cancellerebbe mai più. Ed allora perchè volersi adergere fra loro come un miserando padrone, goffo della sua gelosia? Perchè averle parlato, averle messo a nudo sotto gli occhi la sua lunga e vana disperazione? Perchè interrompere quel silenzio, che certo li proteggeva da una più grande calamità? Come la riguarderebbe ora? Come fisserebbe i suoi occhi negli occhi di Andrea? E diceva a sè stesso: — «Due creature umane, due vivi, hanno intessuta insieme la loro felicità. Si amano. Questo non è soltanto una parola; è vivere! Per spaventoso che a me paia, il lor diritto è più forte, più necessario di ogni altro vincolo. Se urlo, dove arriverà il mio grido? Io sono l’immobilità, sono qualcosa d’inerte e di spento, che deve tacere. Sì, di fatti: erano il mio amico e la mia donna... Parole! tutto questo non è che un telaio fragile di parole! Vivere! questa è la sola verità; con tutte le sue rapine indispensabili, con tutte le sue crudeltà fatali. Dunque, se grido, che può fra loro, il mio grido? Nulla. Sarà una cosa tutt’al più ridicola, come la trattan nelle loro commedie gli uomini di buon umore... Od è invece un dramma? Sì, forse; un piccolo dramma futile, come ne succedon tanti, ogni giorno, su la faccia della terra impassibile... Povero cuore stanco, bisognava tacere! La tua bellezza ultima era il silenzio; poichè si può fino all’ultimo possedere una bellezza che sopravviva come un ricordo non distruttibile nel pensiero altrui. Perchè l’hai sciupata miseramente? Povero cuore, perchè sei stato così barbaro contro te stesso? Perchè hai voluto «sapere?» anzi «essere certo?...» Bisogna che chi muore abbia il coraggio di abbandonare ai vivi la loro felicità.» Così ragionava seco stesso, in una specie d’assopimento fisico che gli toglieva la percezione immediata delle cose circostanti. Non vedeva più lei, nè la striscia di sole che ora inondava la stanza d’una sfrenata luce, nè il gran mazzo di rose gialle ch’ell’aveva ordinate nei vasi, lentamente, ad una ad una. Quasi non ricordava più le parole acerrime dette fra loro; o per lo meno tutto questo gli pareva già lontano, in un tempo quasi remoto, come al di là da un lungo svenimento, e solo a sbalzi, nel turbinìo del suo cervello, nella vuota concavità de’ suoi timpani, ricominciavano a stormir sonagliere, ma più fievoli, come se andassero per una strada più lontana, e campanelli a ronzare, ma più confusi, come se infuriassero in alto, lassù, per camere più distanti... Aperse gli occhi, rinvenne da quel torpore come da un sogno che fosse durato senza limiti, e la cercò. Dov’era? Non súbito la vide: quell’irruenza del sole pomeridiano faceva della stanza una prigione infiammata, traeva da tutte le cose un fulgore insostenibile, simile quasi ad un frastuono assordante. Poi la vide: stava seduta dinanzi al cembalo, con la testa china, il mento piegato sul petto, una mano su la tastiera, l’altra posata sul grembo, quasi affondata nella gonna scura; ed ella medesima era coperta d’ombra fino alle ginocchia, ma con il busto avvolto dal sole come dalle spirali d’una fiamma che divampandole intorno al capo, quasi alla sommità d’una torcia, le sprigionava dagli accesi capelli un volo di pulviscoli d’oro. — Novella... — chiamò con le sue fredde labbra. Ella trasalì, si eresse; nell’atto brusco della mano tre tasti diedero tre note veloci. — Non dormivi?... Ma, invece di rispondere, Giorgio la chiamò a sè, tendendo le mani verso di lei con un gesto supplichevole. Ella si levò, confusa, temendo perfino il rumore che faceva nel muoversi, e con il cuore gonfio di commozione s’avvicinò all’infermo. — Che vuoi? Stai male? Ecco, vedi!... — gli andava dicendo con una voce piena di umile fedeltà. — No, no, ascóltami... Ella prese le sue mani, con dolcezza; le strinse. Ardevano entrambi, nei palmi, nei polsi, d’una diversa febbre; si guardavan come fossero entrambi colpevoli, con timore, con esitazione. Allora ella vide su le ciglia dell’infermo, su quelle ciglia bionde, così buone, sotto le quali non s’era mai fermata alcuna ombra iniqua, vide brillare due lacrime grandi e limpide, che caddero insieme, scavando ancor più la sua faccia devastata. Ed ella pure sentì un singhiozzo rompere il nodo che aveva nella gola, irrefrenabile... Senza parlare, senza mentire, si chinò su lui, su la sua bocca addolorata, — e piansero. IV — Vedete, Giorgio, — disse Maria Dora, — mi sono lavata i capelli stamane. — Lo so, mia bella cognatina. Mentre alla finestra li asciugavate, ho veduto i vostri capelli sciolti, ed accecato da quello splendore, stavo quasi per mandarvi ad alta voce un complimento. — Ah, sì? Un complimento non è mai di troppo! Ditelo dunque ora, se non è una bugia. Ella cinguettava con il cognato per distrarlo, per farlo sorridere nella sua tristezza. — Ci tenete, proprio? — Ma, certo! — Ebbene, volevo dirvi: — Cognatina, è il sole che splende, o siete voi, con i vostri capelli, che mettete tanto oro nel mattino? — Questo è il complimento; vi piace? — Per bacco! — ella fece con arguzia; — davvero è fino: fino come un madrigale. Pare impossibile che sia vostro! Dove l’avete letto, Giorgio? — Oh, Maria Dora! — egli esclamò sorridendo; — non mi credete nemmeno capace di una cortesia così facile? — Non è poi tanto facile, via!... Sopra tutto per un ingegnere! Se mi aveste detto, che so io... per esempio: — Cognatina, i vostri capelli splendono stamane come le rotaie della strada ferrata... — ecco, lo capirei! Ma così, come l’avete detto, così bene, così pulito... no, francamente, puzza di letteratura! Oh, intendiamoci, non è per offendervi, chè anzi ve ne ringrazio. — Ebbene, sia come volete; non ci bisticceremo per così poco. L’essenziale è che vi siete lavata i capelli, e che i vostri capelli sono d’un’abbondanza davvero straordinaria. — Novella ne ha più di me. — Forse; ma di un altro colore. Dov’è Novella? — Non so, — ella fece con esitazione. — E Andrea? — Andrea sarà forse rintanato in camera sua. Da qualche giorno è divenuto ancora più inavvicinabile di prima. Che bizzarro uomo! Non pare anche a voi, cognato? Io, quando lo vedo, ho sempre voglia di gettargli un pezzetto di zucchero come si fa con i cani da guardia per entrare nelle loro grazie. Egli fece con la mano un gesto vago, ma sorrise tuttavia di quella irriverente opinione. — Andrea è un uomo d’ingegno, — disse con lentezza il malato. — Le nature come la sua peccano sempre di qualche singolarità. — Ma egli è singolare in tutti i sensi, e più lo si conosce, più lo si trova bizzarro! Sapete, — ella seguitò con il suo parlar volubile, — sapete che mi faceva la corte? — Ah, sì? — A modo suo, beninteso; con certe sue maniere un po’ ironiche... ma è fuor di dubbio che mi facesse la corte. Bene, ora invece, da cinque o sei giorni, non mi parla nemmeno più: se ne è dimenticato. È seccante, vi pare? — Questo non saprei, cognatina. Vi auguro in ogni modo che ricominci, — egli disse in tono di celia. — Bah... lasciamo stare! Seduta vicino a lui, ella ricamava in fretta, però con una sbadataggine estrema. Ogni tanto guardava il malato, ch’era disteso nella seggiola a sdraio, coperto di scialli; e lo guardava nel mezzo del parlare, o facendo altra cosa, perchè l’infermo non si avvedesse de’ suoi pensieri. Lo trovava miserrimo, ogni giorno più stremato, più povero di vita. Nella faccia angusta gli si erano dilatati gli occhi e sporgevan dall’órbite come fossero gonfi, in un cerchio di lividore. Le pupille dilatate, scialbe, acquose, nuotavan in un siero azzurrastro; talvolta si appannavano visibilmente, come una lama al calor del fiato. Quando sorrideva, i denti parevan cresciuti: la gengiva superiore gli si scopriva, congestionata sotto l’orlo del labbro, e quasi livida. Su la pelle arida gli si formavan certe macchie di color scuro e spesso due strisce rosse gli accendevan la fronte, equidistanti, fra le tempie concave. La sua mano divenuta nivea, spesso, nel cercare un oggetto, brancolava un poco. — Non vi sentireste, — gli domandò la fanciulla, — di uscire nel giardino? Fa così tepido fuori. — Oh, no, Maria Dora! Non mi sento proprio di alzarmi. Se sapeste che fatica mi costa muovere un passo! E si rannicchiava negli scialli, poveramente, come un intirizzito. In quel mentre papà Stefano tornava dalla fattoria, col suo cappellaccio di paglia ficcato di traverso, la sua giubba da cacciatore. Era un bel vecchio, aitante ancora, solido e bronzeo sotto i suoi capelli d’argento; serrava tra i denti la pipa stracarica, ingoiando enormi boccate di fumo con una specie di golosità. All’odor del tabacco, Giorgio si mise a tossire. — Ahi!... me ne dimenticavo, — esclamò Stefano con premura. E soffocato il fornello col póllice, si cacciò la pipa dentro una tasca. — Fuma, fuma, — lo esortò Giorgio. — C’è tempo! Veh, che brava Maria Dora! gli tieni compagnia. — Si discorre di tante cose, godendo il bel sole. Frattanto ricamo, ricamo. A furia di ricamare mi sarò preparato un corredo bellissimo. Non manca più che il marito. — Fece una pausa: — Il marito... parola eroicomica! E si mise a ridere di quel suo riso trillante, che le gonfiava la gola. — Oh, eroicomica!... — esclamò il padre. — Tu non sai quello che dici. Ella non volle insistere, anzi mutò discorso: — Papà, ora te ne racconto una bellina. La Berta se ne va! — La Berta? — Sicuro, e adesso verrà lei a dirtelo. Va via perchè... oh, debbo ridere!... — Insomma lo vuoi dire o no? — Ora te lo racconterà lei stessa, perchè io... — e rideva, — io... — e rideva più forte. La Berta, che lo aveva inteso entrare, giusto era venuta su l’uscio. — Ehi, tu, fatti pure avanti! — comandò il burbero padrone. — Sentiamo: cosa c’è? La fantesca si avanzò di qualche passo, impacciata, con gli occhi bassi, slacciandosi il grembiule. Stefano si tolse il cappellaccio di paglia e lo buttò sopra un divano. Siccome cadde a terra, la fantesca, per far qualcosa, andò a raccoglierlo. Con quel cappellaccio in mano, e per il fulvo della sua chioma e per il vermiglio delle sue gote, pareva più buffa che mai. — Dunque la sciogli o no quella tua maledetta linguaccia? — Dica lei, signorina... — ella balbettò vergognosa. Maria Dora se la godeva un mondo e non aperse bocca. — Che signorina d’Egitto! — borbottò Stefano, con quell’aria terribile che sapeva darsi nell’amministrare la giustizia fra i suoi dipendenti. — Spìffera tu! La fantesca si fece cuore: — Signor padrone, ho deciso di andarmene via... — Buon viaggio! Ma egli non si mosse; ella neppure. Dopo un breve silenzio papà Stefano disse: — Oh, e perchè poi? — Lo domandi alla signorina. — La signorina non c’entra. — E allora lo domandi al signorino... — A chi? — A quello lì... — ella fece, scostandosi impaurita e segnando col dito Marcuccio, ch’era venuto su la soglia nell’udir quelle voci. — Sì, a lui, proprio a lui... — ripeteva cocciuta la fantesca, segnandolo a dito. Si era fatta rossa, quasi paonazza come una melagrana, ed aveva le lacrime agli occhi. Papà Stefano abbandonò quel tono di accigliata canzonatura, si fece grave: — Sentiamo: cosa c’è stato? — Certe cose, certe cose, padrone... — piagnucolava la Berta. Lo scemo cominciò a sghignazzare ed a contorcersi contro lo stípite; allora ella, fattasi ardita, sciolse lo scilinguagnolo. — S’immàgini che non mi lascia stare un momento. Mi tocca, mi provoca, mi salta addosso... Poco fa mi ha fatto bruciare il lardo! Ne ho abbastanza! Guardi un po’ che pizzico! E si fece avanti, squadrando con occhi nemici lo scemo, che sempre sghignazzava; si rimboccò una manica fin sopra il gomito e mise in mostra un bel lividore. — Dio! come fai la schizzinosa... per un pizzico! — esclamò Maria Dora con perversità. Ma la Berta non s’interruppe nemmeno. — Poi sentisse cosa dice, padrone! — Andiamo, andiamo... — borbottò Stefano, conciliante. — Insomma pensi che la notte mi devo chiudere in camera a chiave!... — Ohibò!... — fece Maria Dora con la sua vocetta maliziosa. Allora lo scemo si fece avanti, serio serio, con una grande aria di cerimoniale; drizzò su le gambe lunghissime la sua persona sbilenca e disse in tono declamatorio: — Infatti, caro padre, ho deciso di prender moglie. Quello che ti racconta costei, non importa. È venuto il tempo che mi debba maritare: ventitre anni ho, padre. La ragazzotta, paurosa, corse in un angolo e scioccamente incominciò a piangere. — Costei, — riprese lo scemo, — costei non intende. Piange? Perchè piange? Le ho detto: — «Sei grassa e rotonda; mi piace l’odore del tuo collo, dove nascono i tuoi capelli rossi. E quando scopi mi piaci, perchè la tua sottana dondola e sta bene. Sposiámoci, Berta; voglio vedere se sei fatta come una donna.» Allora il padre s’avvicinò a lui, posandogli una mano su la spalla; e cercava di persuaderlo amorosamente: — Questo che dici non è bene, Marcuccio. Lascia stare la Berta; va e scrivi. — Non ora, padre. Debbo raccontarti ogni cosa prima delle mie nozze. Frattanto rideva, ma di quel suo riso atono, che gli afferrava soltanto la bocca e la obliquava in una smorfia sinistra; un riso metallico, breve, aspro, che gli stringeva la gola come una mano ruvida e ne traeva un corto singhiozzo. In certi momenti non si poteva impedirgli di parlare, affinchè non desse in ismanie. — Sì, padre. La sposo per aver fatto un sogno. Un sogno che faccio quasi ogni notte, in questa primavera. Mentre dormo, la porta si apre; lei entra; è veramente lei, quasi nuda, con i capelli arruffati, e ride. Ride; poi si dondola nella camicia da notte come una cosa molle... Mi dice: — Hai chiamato, Marcuccio? — Sono qui. — S’avvicina, mi tocca; io soffoco. Butto via la coltre, le dico: — Entra nel letto. — Non vuole, ma ride. Ride e si china... Sento che ha un odore forte, come una donna nuda. — Guarda, — mi dice: — sono bella? — Sì, Berta, sei bella. — Poi, se la voglio, fugge. E si dondola nella camicia da notte come una cosa molle... Si mise a ridere sguaiatamente: — Vedi? anche ora fugge. — Marcuccio, — lo implorò il padre, — vieni con me; discorreremo noi due soli. E cercò di trascinarlo via per un braccio. Ma egli resisteva, caparbio. — Padre, tu forse non comprendi che sono innamorato. Allora Maria Dora scoppiò a ridere, esclamando: — Uh! uh... Marcuccio innamorato! — Perchè ridi, sorellastra? — Certo che rido, — ella rispose. — Perchè tu puoi sposare una ragazza bella e pulita, mentre la Berta puzza di cazzeruole... È unta! — Sorellastra, ti dico: tutto puzza e tutto non puzza, secondo che un odore piace o non piace. Siccome sei maligna, alle mie nozze tu non verrai. La Berta sarà vestita di bianco, io di nero, e tutti gli invitati porteranno un cero come nelle processioni. Farò suonare le campane, a stormo. Sorellastra, se mi regalerai un anello d’oro, con cinque brillanti, allora ti perdonerò. Andrea sopravvenne in quel momento e si fermò all’udire que’ discorsi. Ma súbito interruppe lo scemo con una voce piena di potere: — Marcuccio, che stramberie vai dicendo? — E voi, Andrea, — seguitava lo scemo senza dargli retta, — voi, Andrea, nel giorno delle mie nozze, direte a tutti: — Quest’uomo che si sposa è Marcuccio Landi, poeta, filosofo e musicista. Mettetevi a ginocchi e riveritelo: egli è grande! — Io dirò a tutti, — esclamò Andrea: — Quest’uomo che si sposa non è affatto grande, perchè invece di dedicarsi al suo lavoro perde il tempo dietro le sottane. Così non avrà nessuna gloria. Egli diceva queste parole fermamente, come le avrebbe rivolte ad un uomo sano d’intelletto, ed affrontava lo scemo con tutta la violenza del suo sguardo insostenibile. Una bianca ed umile paura si dipinse tosto nel viso di costui ed il suo sguardo si fece errante sotto la dominazione di quell’occhio più forte. — Non direte questo... — balbettò, con una specie di terrore. — Lo dirò certamente, se non abbandoni questo pensiero assurdo. — Maestro... — fece smarritamente lo scemo, — maestro... e in tal caso, l’amore? — L’amore? — esclamò Andrea nervosamente, con una rapidità quasi iraconda. — L’amore non è che un perditempo! Cerca di saper farne a meno, anzi di persuaderti che l’amore non c’è! Lo scemo dovette meditare su queste parole; poi gli parve d’aver compreso. — E voi, — domandò lentamente, — voi non amate? Quasi urtato in pieno petto dalla domanda inattesa, che aveva, o gli parve, un non so che di proditorio, Andrea Ferento ebbe un sussulto impercettibile, rovesciò la fronte all’indietro con quell’atto imperioso ch’era in lui abituale quando voleva resistere o comandare. — Io, — disse con asprezza, come se la domanda non gli venisse dallo scemo e non a lui dovesse rispondere, — io non ho amato che una sola cosa nel mondo: la mia opera; e ciò basta. Poi traversò quasi con impeto la stanza, e preso lo scemo per un polso, fortemente lo accompagnò verso l’uscio. Da lui Marcuccio si lasciava condurre con una docilità quasi pecorile, senza osare mai di contraddirlo, perchè nel suo sperso intelletto non dominava che una sola fissazione: quella di potergli assomigliare. Aveva con ardenti sogni amato la gloria nella sua giovinezza dedita alle fatiche più nobili dell’ingegno, e questa gloria ch’era stata la sua lontana amante, il suo fantastico sole, continuava ora a perseguitarlo con tentazioni assurde, a riaccendere di eroiche imprese la sua demenza mansueta. Papà Stefano si era seduto sopra una seggiola, e raccoltasi la fronte nella mano, meditava dolorosamente su la pietà che gl’ispirava il suo figlio. Ogni tanto scoteva il capo e si ricacciava la commozione in gola, mordendo la pipa spenta, che lo impolverava di cenere. Di sventure, nella sua lunga vita, ne aveva sopportate assai, con quel coraggio paziente che l’anima dei semplici sa radunare contro la sciagura; ma questa, che gli aveva distrutto nel fiore dell’età il suo figlio adolescente, questa non la poteva tollerare per quanta rassegnazione avesse nel suo cuor di cristiano. Finchè Marcuccio se ne stava zitto, faceva la calza, scriveva o camminava per la casa come un automa, traendo dal suo violino, sempre, sempre, quella medesima canzone, ch’era divenuta per tutti quasi un incubo superstizioso, il padre non malediva la sorte, si contentava di guardarlo con occhi tristi e scuotere silenziosamente il capo. Ma quando l’udiva imbastire insieme, con una voce monocorde, que’ suoi lunghi discorsi incoerenti, che tradivano il cervello senza governo, e poi finivan per lo più in una risata stridula, che faceva male come un colpo di frusta, il padre talvolta non sapeva più contenere la piena del suo dolore taciturno. Dopo una lunga pausa, il vecchio disse alla figlia: — Maria Dora, va piano piano a vedere cosa fa. La fanciulla si levò in silenzio dalla poltrona dov’era seduta a ricamare, e camminando con lievi passi uscì per andarlo a spiare. Poco dopo fu di ritorno, con la medesima cautela, e rispose, facendone l’atto: — Scrive. Poi, senza guardare Andrea, sedette di nuovo nella poltrona, presso l’infermo, ed abbassò il capo sul ricamo che aveva incominciato. Ora non parlavano più; tutti e quattro, in quel silenzio parvero stare in ascolto, forse d’una lor intima voce che ad ognuno lasciasse cadere, come pietre sul cuore, un peso di sillabe lente. Ascoltavano, ed ognuno, tacendo, in quella sera piena d’ambiguità, ricamava sul proprio telaio una trama invisibile di pensieri. Per l’uscio aperto si udiva giungere quel rumore familiare che fanno le stoviglie, le argenterie, quando s’apparecchia la tavola. E il giorno, fuori, diminuiva. Il sole, come un largo tappeto, si ritraeva dalla terra umida, strisciava sul fogliame degli alberi, sui tetti più alti, sui vertici delle colline. Veramente a guisa di un tappeto che il crepuscolo andasse arrotolando, sollevava nell’atmosfera limpida qualche soffio di polvere voluminosa, che lentamente scendeva, cadeva, prima impalpabile, poi folta, sopra i contorni delle cose. Gli alberi si vestivan di buio, come se il vento li avvolgesse d’un torbido fumo. Non era puranco l’ora delle campane: un grande silenzio veniva dalla terra circostante, un silenzio quasi religioso, che affaticava la loro sensibilità. V Quando furono in fondo al giardino, ella si strinse a lui con tutta la persona e gli cercò la bocca. — Bada... — egli disse impaurito; — non qui! La sera già folta li nascondeva; ma erano più che mai timorosi, più che mai sperduti d’amore e di terrore, mentre il destino si compiva in ogni attimo, con una irremediabile celerità. Egli si tese in ascolto, poi l’attrasse dietro un alto cespuglio che faceva quasi una nicchia, dove nessuno li avrebbe scorti. Che buon odore di menta selvatica veniva dall’umida erba in quella sera scintillante! La terra satura esalava il suo respiro profumato, quasichè, nella propizia ombra, godesse la carezza d’un amante e quel soverchio profumo fosse l’effluvio della sua nascosta voluttà. Là dietro, per l’intrico dei rami, si vedeva la casa biancheggiare con tutte le finestre chiuse, tranne una, che splendeva, ma d’un lume vacillante, quasi già vi ardesse il chiarore d’una lampada funeraria e l’anima dell’abitatore addormentato stesse di là per evadere nella notte grande. Non osavan guardare lassù, a quella sola finestra rischiarata, poichè, dietro la trasparenza dei vetri, vedevano la vasta camera taciturna, greve di morbo, densa di ombre fluttuanti, la camera ond’eran usciti poco prima, a breve distanza l’un dall’altro, cauti, su la punta dei piedi, per non interrompere quel sonno troppo lieve. Oh, come sono diverse le finestre che splendono di notte nella facciata d’una casa buia! Sonvene, per chi cammina e le vede passando, alcune che fanno invidia, che dànno quasi uno scoramento indicibile, una specie di triste gelosia verso la gioia che rischiarano. Sole, nell’alta notte, nell’alto silenzio, brillano d’una luce impudica, irruenta, ilare, che somiglia quasi ad uno scoppio di riso, che somiglia quasi alla bianchezza d’una nudità, — e sono le finestre dell’amore; ma dell’amore giovine, che non rifugia nell’ombra le sue colpe, che non ha paura della propria felicità. E sonvene di più velate, dalle quali pertugia insidiosamente un chiaror soffocato, che paiono dire a chi passa: — «Férmati e ascolta; non senti venire per l’aria un ánsito di voluttà? Siamo due soli e nascosti, e siamo accesi d’una febbre taciturna, che istilla quasi un veleno sottile nel sapore d’ogni bacio...» — E sono le finestre dell’amore; ma dell’amore già perverso, che si ubbriaca di filtri e sóffoca il suo grido nella coltre contaminata. Poi talune che vegliano solitarie, con una lampada immota, e sembrano rischiarare l’insonnia d’un’attesa, — d’un’attesa lunga ed inutile, o il mormorio d’una preghiera, — d’una preghiera fatta per l’assente, che forse non tornerà — o la stanchezza d’una mano che scrive, che scrive senza mai fermarsi, che scrive senza mai rileggere, al suo sogno lontano, al suo lontano amore... Poi talune, che sembrano illuminarsi d’un tratto, per una paura subitanea, per un dramma notturno, con ombre che s’avvicendano repentine, come se vi fosse nella camera un tramestìo di gente, che va, che viene, che parla concitata... Poi altre, le quali sembrano tenebrose della lor luce, come sono quelle fiammelle ad olio che bruciano davanti ai tabernacoli, in certe abbazìe di campagna, le sere d’autunno, dopo il vespero, quando le chiese dei poveri si émpiono di preghiera e di malinconia... Sono finestre semispente, che hanno un colore; nessuna ombra si muove nel loro fondo opaco; nessun romore viene dalla lor immobilità; ma solo una specie di brivido che si prolunga nella notte, che si propaga nel buio, con disperata tristezza. — E sono le finestre segnate, su le quali, perchè si spengano del tutto, soffierà la morte... Assaliti così da quel brivido, e pur indugiando nel bacio che li colmava d’oblìo, essi rividero la faccia supina dell’infermo, affondata nel guanciale, che apriva gli occhi senza muoversi ed in quel bacio li guardava. Sebbene avesse le fattezze del cadavere già scolpite sotto la pelle trasparente, li guardava cupo e fiso, per infondere uno spavento inesorabile nel loro inesorabile amore. Egli disse a lei, che s’annidava nelle sue braccia, e lo disse come per esprimere quella imprecisa paura: — Non odi? — Che? — Un rumore... Ascoltarono. Tutto il giardino dormiva. Solo, tra ramo e ramo, tra foglia e foglia, qualche rapido crepitìo, qualche sussulto fugace interrompeva l’odorato silenzio, metteva nell’ombra effusa di chiaror lunare un risveglio pieno d’ambiguità. Su la terra, nell’impenetrabile intrico dell’erbe, si agitavano vite furtive; in alto, fra i tacenti nidi, sotto le volte sonore dei padiglioni arborei, gli sciami notturni come orchestre in sordina aliavano senza tregua producendo un indefesso ronzìo. Laggiù, nella vasca, lo zampillo tenuto basso pullulava piano piano, scorrendo in un rivolo quieto che non sciacquava, ed ogni tanto interrompendosi come per riprender lena. Ad intervalli vi si udiva uno schianto: era forse una ranocchia, od un rospo, che dal margine vi saltava dentro, sul ventre piatto. Dai piccoli sentieri, fra i cespugli, sbucava un odore intenso di fioriture nascoste; poi d’improvviso, nell’inclinar del vento, la fragranza del maggengo non mietuto, che arruffandosi ad ogni folata prolungava per i campi una sonorità non dissimile dal tintinnìo d’un metallo, e in vicinanza, in lontananza diminuiva, come uno strepito di verghe d’argento. Senza parlarle, quasi con ira, egli appoggiò contro la sua fronte una mano fredda, e piegatole il capo all’indietro si curvò su lei, come se lo struggesse la tentazione di dirle una parola terribile, di confidarle un segreto immane, ma volesse prima leggere ne’ suoi femminili occhi se aveva una così forte anima da poterne contenere in sè la tragica violenza. — Ascóltami, — egli disse, con voce sorda, che pareva il rombo d’una soverchia fatica interiore, — ascóltami, Novella, e médita bene prima di rispondere. Poi fece una pausa ed accrebbe la lentezza delle sue parole. Domandò: — Fino a che punto puoi amare un uomo? — Non un uomo — ella fece, con perdizione, — te solo, te solo... — Non mi rispondere così, a fior di labbro. Interroga bene te stessa. Troppe volte si confonde l’amore con l’esasperazione dei sensi, e troppe volte l’amore ha paura di sè stesso, quando lo risveglia un pericolo ch’esso non prevedeva. — No, — ella disse, — non c’è risveglio, non c’è limite... — Ma vi può essere, — egli rispose, premendo col palmo su le radici de’ suoi capelli scintillanti, — vi può essere un’altra cosa che tu non sai... — E sordamente, senza un tremito nei diritti occhi, soggiunse: — La disperazione. Ella stava un po’ curva all’indietro, piegata su le reni, ed oscillò. Ma il braccio dell’amante la reggeva per la cintura, onde non fu che un peso più greve contro la sua forza. Ismemorata, come se non potesse bene afferrare il senso di quelle sue parole, ma tuttavia ne rabbrividisse: — La disperazione?... — balbettò. — Che dici? E gli andava serrando le braccia con le mani trepide, come se cercasse in lui contro lui stesso un aiuto. — Che vuoi dire? Perchè mi parli a questo modo? Io non so nulla, non so nulla... ma ti amo... Diceva questo con una semplicità, con una sincerità che soverchiava ogni ragionamento; pareva che gli volesse rispondere: — Perchè m’interroghi? perchè mi tormenti? perchè cerchi di esagitare in me fantasmi che non conosco? Ti amo... Non c’è forse tutto in questa parola? A che scopo vuoi saper oltre?... La disperazione?... ma è una sola: Non essere tua. Ecco, ti rispondo: Essere tua fin dove tu voglia, e come e fin quando a te piaccia. Divenire un oggetto minuscolo, inerte, nel dominio della tua forza: null’altro. Ed è questo, non ti sembra? l’amore... Così ella pareva dirgli con quelle parole semplici, ed egli se ne rese ben conto. Anzi misurò per un attimo lo sfondo senza limiti dell’anima femminile, anima che sfugge alla comprensione dell’uomo nè sopporta l’altrui e meno ancora la sua propria vigilanza. Ond’egli pensò ch’era oltremodo vano tormentare con tante ricerche il suo docile cuore. A sè stesso, più che a lei, mormorò due parole rapide, vicino alla sua bocca: — «Non ancora». «Non ancora. Tu hai diritto alla mia mercede, povera creatura, perchè sei meno forte, e perchè mi ami. Io solo soffrirò per entrambi: — io solo». Subitamente, quell’odore della sua bocca lo sconvolse. Più forte che l’aroma della notte primaverile, più forte che l’olezzo del giardino ebbro, vaporante come un incensiere, su lui potè l’odore femineo di quella sua bocca soavissima, di quelle sue labbra socchiuse, appena umide, che avevano sete, che avevano involontariamente la forma ed il sapore d’un bacio, ch’erano più lascive di una forma ignuda, più nude che la nudità. Allora vide, intorno a’ suoi occhi abbassati, le ciglia luminose tessere due piccoli semicerchi d’oro, e vide la sua pelle, su le gote, sul collo imbiondire per una vellutatura ch’eravi cosparsa, limpida, scintillante come l’oro. E vide nella sua gola riversa accumularsi un’ombra che tutta la vestiva, come un manto sotto il quale fosse nuda, e sentì che il suo petto gonfio colmava lo spazio fra loro, trasalendo ad ogni respiro, come fa un ventre femineo quando assorbe la voluttà... Brillava una finestra, una sola, ma fosca, nella casa buia; e fra i meandri del giardino addormentato egli la portò a giacere su l’erbe che fiorivano, come sopra una coltre viva, in un letto fragrante. Il vento, delle praterie sonore, portava lo strepito del maggengo non mietuto, che in vicinanza, in lontananza diminuiva, come un clamore di verghe d’argento. VI — Natalissa! Natalissa, vieni su! Era la voce di Maria Dora che chiamava dall’alto del giardino, affacciandosi al terrazzo, fra le spalliere dei gerani rampicanti, che fiorivano a mazzi d’ogni colore, nascondendo sotto un magnifico tappeto vivo tutto il muro della scalinata. — Corri, Natalissa, corri! La bambinetta era in fondo al giardino, aveva nel grembiule un fascio di ramoscelli, che suo padre mondava dall’aiuole troppo folte. — Lascia giù quella roba, e corri, Natalissa! Con una certa cura la bambinetta vuotò il grembiule sul margine del prato, fece in modo che il suo fascio non si disperdesse, poi cominciò a correre. Aveva in testa un cappello di paglia che la copriva come un ombrellone, ma il sole tuttavia l’aveva morata come una bacca selvatica. — Signorina Maria, che vuole? — diss’ella con quel suo modo garbato di donnicciuola grande, la quale sappia il fatto suo. — Bisogna che tu corra sùbito in paese a cercare il dottor Paolieri, e dovunque si trovi, che venga su di filato, ma sùbito, e venga pure se fosse occupato, perchè il signor Giorgio sta male... sai, piccina: molto male. — Oh, poveretto! — esclamò la bimba senza riflettere. — Ma, e se non lo trovo? — Cércalo, cércalo dappertutto; dillo al farmacista, dillo a tutti quelli che incontri, e manda persone in giro finchè l’abbiano trovato. Poi non rimase a discuter oltre; tornò dentro frettolosa, gridando ancora una volta: — Corri, Natalissa! Ma questa, nella sua testolina ragionevole, non poteva persuadersi di quella necessità. — Come mai? Hanno un dottore in casa... che bisogno c’è del Paolieri, quello che cura i poveri? Tuttavia si mise a correre, come le avevan detto, poichè era ubbidiente. Intanto, sul primo pianerottolo della scala, Maria Dora vide qualcosa che la percosse d’un grande stupore. Novella era nel corridoio, diritta contro la parete, a pochi passi dalla camera di Giorgio; pareva in croce contro il muro, con le spalle oppresse come dal peso di una fatica interiore, le braccia un po’ discoste dai fianchi, le mani aperte, quasi aderenti all’intónaco, e tutta bianca nel viso d’un pallore che alterava le sue fattezze. Non solo, ma nel medesimo tempo aveva intravveduto Andrea sparire di lì, entrar per una porta, uscirne, tornare, quasichè non avesse potuto nascondersi a tempo. Era passato davanti a lei che saliva, senza guardarla, senza forse vederla, con gli occhi stranamente esagitati, i capelli che parevan irti. Ed in entrambe quelle facce un non so che di malvagio, di folle, una specie di tragica simiglianza. Ella vide questo, e si fermò davanti alla sorella, senza trovare il coraggio di parlarle. Ma questa non fece il più piccolo movimento, e rimase con gli occhi sbarrati, le mani aperte, quasi crocifissa contro il muro. — È strano, — pensò Maria Dora; — ogni volta che Andrea torna dalla città, Giorgio si aggrava... Tutta la casa era sossopra; nella camera del malato i familiari si affacendavano; la Berta ne usciva ogni tanto, in punta di piedi, strisciando su le pantofole di feltro, facendo tutto quello che le si ordinava. Ora passava con una bottiglietta, or con una pentola d’acqua bollente; poi venne fuori papà Stefano e si mise a chiamare con voce soffocata: — Andrea... Maria Dora prese una mano della sorella e dolcemente le domandò: — Che hai? Novella strinse la sua mano, forte, forte, senza rispondere; gli occhi le brillavano, accesi d’una febbre che ne consumava il pianto. Allora, levando il capo verso l’altro pianerottolo, Maria Dora vide il suo fratello Marcuccio, seduto su l’ultimo scalino, fermo come un cane accucciato, e che guardava in aria, con le pupille fisse, ascoltando. Aveva il suo violino su le ginocchia, l’archetto nel pugno, e senza batter ciglio, con ferma intensità, pareva tutto assorto nell’ascoltare un lontano rumore di avvenimenti, una confusa voce che parlasse con lui solo. Vedendo la casa in tumulto, guidato forse dall’istinto, era venuto egli pure su quella scala, presso la camera dell’infermo, dove non entrava mai. — Andrea, Andrea... — ripeteva la voce del padre. — Ebbene? — disse questi, apparendo su l’angolo del corridoio. C’era in lui una specie di convulsione ferma, che la tensione de’ suoi nervi dominava a stento. — Non posso fargli più nulla, — disse con voce rapida. Aveva tra i sopraccigli una ruga profonda. — Ma... ràntola... — balbettò Stefano. Andrea rovesciò indietro il capo, con una specie d’urto che scosse tutta la sua persona: — Lasciàtelo stare. O la crisi passa, o questa volta è finita. Ripetè ancora, con una voce più sorda: — È finita. E cominciò a camminare velocemente, in sù, in giù, davanti all’uscio dell’infermo. I suoi passi facevano romore; il pianerottolo ne traballava; la ringhiera scossa mandava una specie di ronzìo. Poi si fermò di scatto: — Viene questo medico? — Sì, — rispose Maria Dora timidamente. — Che viene a fare? — Mi avete detto voi di chiamarlo... voi stesso, poco fa... — Sì, è vero: l’ho detto io. — Fece una pausa: — Bene, venga! Di nuovo si mise a camminare, più rapido, con maggiore concitazione. Gli occhi di Novella inseguivano ogni suo gesto, ogni sua mossa, quasi fossero ammaliati; ed egli non la guardava mai; non guardava nessuno. Dalla stanza dell’infermo uscì mamma Francesca, e piangeva. Mormorò: — Bisogna salvarlo... Poi carezzava la fronte della figlia maggiore, dicendole: — Ti senti male, è vero, povero cuore?... — Sì, mamma, così male!... Ma la Berta, ch’era per un momento rimasta sola con il malato, scappò fuori quasi correndo, bianca di paura. — Oh, la sciocca! — fece Stefano, vedendo la sua pavidità. Ora, quel giorno, Marcuccio la odiava. Per non guardarla, o forse per dispregio, col dosso della mano in cui teneva l’archetto si coverse gli occhi, fin quando fu passata. Macchinalmente Andrea guardò l’ora. Disse: — Le tre. Non piangete, Novella! vi prego, vi prego non piangete!... E risolutamente varcò la soglia, dietro la quale stava il moribondo; la soglia buia che segnava quasi un limite. Allora, in quella penombra, da solo, Andrea s’avvicinò al letto nel quale stava disteso il malato inconoscibile; si curvò leggermente per ascoltarlo, e rimase immoto. In quella breve distanza, dal limitare al letto, nello sforzo enorme che aveva dovuto compiere sopra sè stesso, l’incubo del suo spirito si era dissipato come per incanto; una gran pace gli entrava nel cuore: piuttosto che pace era una lucida insensibilità. Lo guardava, lo poteva guardare senza tremarne. Non era più che la squallida ombra d’un uomo, in cui persisteva tenacemente una fievole vita. E il medico pensò: — «Una crisi. Non sarà l’ultima. Ora è già quasi domata. Passa.» Avrebbe voluto anche toccarlo, tastargli le tempie, i polsi, il cuore, — ma le sue proprie mani, involontariamente, si rifiutarono. Allora tese l’orecchio: il respiro fluiva più uguale nonostante il fiochissimo rántolo, nonostante la viscida saliva che gli schiumava tra le labbra. E il medico pensò: — «Fra poco gli si potrebbe fare un’altra iniezione di caffeina; il cuore ha già ripreso un po’ di forza.» E vedeva con l’occhio esperto riaccendersi la vita nell’esausto cuore. Lo vedeva, senz’averne alcun segno, per una specie di sensazione fisica, la quale gli proveniva dall’aver molto spiati gli indizi della morte, il calore impercettibile della vita. Non si moveva; era come affondato nel materasso; la coltre si alzava sui piedi congiunti, su le ginocchia un po’ salienti: un braccio pendeva dal lenzuolo con la mano torta, come se nell’affanno avesse cercato di ghermire, di stringere; soltanto nella gola denudata era il gonfiore di uno sforzo continuo; nelle palpebre qualche battito. Gli pareva d’essere accanto ad un altro malato, ad uno dei tanti che aveva ritolti alla morte o vegliati nelle agonie; gli sembrava quasi d’essere l’artefice davanti all’opera, e di doverla compiere con quella tranquillità di spirito che pareva separarsi dal suo cuore d’uomo; gli sembrava di non esser altro che una macchina, attenta e paziente. Se una vita era in pericolo, a lui toccava salvare quella vita: questa era la sua missione nel mondo, questo gli appariva semplice, come al timoniere il mettere su la barra la sua mano forte, come allo spegnitore d’incendi l’avventarsi dentro il fuoco. Macchinalmente mescè dentro un cálice alcune gocce d’una pozione con un sorso d’acqua, e gliela fece colare traverso le labbra bavose, tenendogli sollevato il capo con una mano passata dietro la nuca. Senza volerlo aveva pur vinta la repulsione del toccarlo, e poichè il liquido non trangugiato gli colava per il mento, lo rasciugò con un panno. Dolcemente gli ripose il capo nel cavo del guanciale, gli compose la mano torta sotto la coltre, lo coverse fino alla gola, e stette a guardarlo. Allora l’uomo — non più il medico — pensò ad un tempo lontano della lor giovinezza, quando quella creatura sfinita era un maschio avventuriero della buona strada, e si erano data la mano, da uomini, da galantuomini, per affrontarla insieme, la vita. E lo rivide nelle sue sembianze d’allora, vestito di panni semplici, come si conviene a chi vive tra lo scoppio delle mine ed il rimbombo delle macchine generatrici, con la sua bella fronte illuminata di volontà, l’anima che gli brillava negli occhi, limpida come il suo sguardo sincero. Egli era forse un po’ selvatico a quel tempo, e si trovava dappertutto a disagio fuorchè tra le squadre d’operai, che capitanava come un condottiero, che lo amavan come un fratello più forte, ma uguale ad essi nelle fatiche, primo nei pericoli, integerrimo nella sua splendida povertà. Rivide un giovine alto della persona, nervato di ferrei muscoli nella carne arida, sebbene dal colorito un po’ esangue, dalle fattezze quasi di adolescente, forse per quegli occhi azzurri che gli schiaravano la faccia e la biondezza dei capelli non folti, che davan quasi una trasparenza alla sua dolce fisionomia. Non aveva più famiglia, era solo nel mondo, e in luogo d’ogni altro amore aveva l’ambizione inflessibile di avanzarsi contro la vita per una via di conquiste, sacrificando tutti gli agi allo splendore della sua meta lontana. Ma aveva un fratello nel mondo, un fratello come lui combattente, come lui persuaso che ogni giorno si debba fare un passo più innanzi; e quand’ebbero denaro, divisero il denaro, quand’ebbero sciagure, divisero le pene, quand’uno si coronò di gloria, e l’altro si sentì pure innalzato nella sua medesima elevazione. Da presso, da lontano, separati e mai disgiunti nelle dure imprese che affrontavano, traverso l’età e le molte insidie che la vita ordisce contro gli affetti umani, salvarono quest’amicizia sacra, questo patto fraterno che li rendeva più forti, e delle cose o dei principii che la vita aveva loro insegnato a considerare in guise opposte non discutevano mai, per non gettare un’ombra pur lieve su questa concordia assoluta. Quanta vita nella memoria! quante vicende coraggiose! quante belle pagine di due storie umane, vissute per cammini opposti, con un solo cuore! — «Ti ricordi?...» — voleva quasi dirgli, mentre stava curvo sopra il suo letto, sopra le sue logore membra, in quella camera semibuia. — «Ti ricordi?...» E con quella celerità istantanea che solo il pensiero possiede, tutta rievocava in un baleno la storia di tanti anni, le vestige di tante memorie che infuriavano, là indietro, come foglie ammulinate, in quel turbine che si chiama il passato. E ogni tanto domandava a sè stesso, quasi con un senso di reale incertezza: — «È lui? proprio lui, quest’uomo che ora giace? quest’uomo ch’io faccio morire? È lui? Giorgio?...» Anche il suono mentale di questo nome gli pareva una cosa lontana. Poi subitamente si ricordò di una sera, — una sera non tanto remota in quella corsa a ritroso degli anni — quando Giorgio era venuto a trovarlo nel suo laboratorio e s’era seduto in un angolo, taciturno, ma con l’aspetto di volergli dir qualcosa, di volergli fare una confessione grave. Perchè mai di quella sera egli si rammentava così bene ogni più piccolo episodio? — Che strana cosa! In quella sera egli provò per la prima volta una specie di presentimento, oppure una di quelle sensazioni inspiegabili che paiono più tardi presentimenti quando il fatto accade. Era verso l’ora del pranzo, d’inverno, e pioveva. La pioggia produceva di continuo su la gran vetrata del laboratorio quel rumore scrosciante che un secchio d’acqua produce vuotandosi di colpo sovra un lastricato. Giorgio lo guardava; ed egli era seduto sotto la luce del riflettore, in mezzo a fiale, a storte, a gelatine dense di bacilli. C’era su la tavola un coniglio morto; in una gabbia tre topolini che giravan come trottole. — Sai, Andrea... — Ebbene? — Son persuaso che tu ne riderai, ma devo nondimeno confessarti una cosa... — Ti ascolto. — Ecco: mi sono finalmente annoiato di viver solo; ho un’idea fissa, nella testa, o nel cuore, non so... Insomma c’è una ragazza alla quale voglio bene... ed avrei pensato di prender moglie. — Oh, strano, strano... strano. E si ricordò di aver sollevato per le orecchie quel coniglio morto, ch’era freddo agghiacciato, e che ricadde come piombo. Certi particolari di nessun rilievo hanno talvolta più valore, più senso, nella memoria, che altri avvenimenti gravi. Gli sembrò allora, per la prima volta in tutta la vita, che da quelle parole, da quell’attimo, fosse per insorgere un ostacolo fra loro. Ma egli era un incredulo, un negatore: non vi badò. In quei giorni doveva riferire all’Accademia di Scienze su la scoperta di un nuovo bacillo e sopra un metodo di cura ch’egli proponeva, presentando un siero, che, dapprima combattuto, invalse poi nella medicina come un rimedio indiscusso, lasciando gli stessi medici stupefatti per la rapidità e la potenza de’ suoi risultati. Era in quei giorni assorto pienamente dal lavoro, nervoso, irritabile, pervaso da quella febbre che accende l’uomo il quale sappia di possedere in sua mano una forza prodigiosa e debba farla riconoscere dalla ottusa diffidenza di coloro che paventano la novità; non viveva che tra la Clinica ed il laboratorio, trascurando il cibo, accordandosi poche ore di sonno, sostenuto solo da quella incurvabile volontà che gli stava confitta nel cuore come una lama, fino all’elsa, in un legno duro. E però si rammentava anche la voce di Giorgio, quando gli disse quelle parole; una voce che non gli aveva udita mai, vergognosa o timida, come la voce dell’uomo che debba farsi perdonare una colpa. Gli aveva risposto, quasi con negligenza: — Allora ti sei finalmente innamorato... ami... anche tu!... — in quell’«anche» c’era quasi un piccolo disprezzo. Giorgio rispose: — Anch’io. E un’altra cosa rammentava, più nitidamente ancora, con una precisione singolare. Qualche settimana dopo gli venne curiosità di conoscere questa fidanzata di Giorgio e andò con lui a visitarla nella sua casa. L’aveva trovata bella... sì, molto bella — e null’altro. Era stato al loro matrimonio, li aveva condotti fino alla stazione quand’erano partiti per il loro viaggio di nozze. Se ne tornò indietro solo, un po’ triste, mentre gli pareva che qualcosa dell’antica lor fratellanza fosse andato in fumo, poichè per tutti i sentimenti, per l’amicizia come per l’amore, non bisogna essere che in due. Ma una volta, forse un anno, un anno e mezzo più tardi, Giorgio lo aveva invitato a pranzo, come soleva di tempo in tempo, e quella sera Giorgio si sentiva male. Ella era sempre un poco taciturna quand’egli veniva nella lor casa; Andrea lo aveva osservato infatti, senza domandarsene il perchè. Inoltre certi suoi movimenti, certe inflessioni particolari della sua voce, gli parevan un po’ ambigue. Si era chiesto sovente se Giorgio fosse felice con lei, ma non osava parlarne con l’amico; era sceso tra loro un insensibile velo. Quella sera lo ricevette lei sola, in un salotto che dava sul giardino ed aveva un terrazzuolo fiorito di caprifoglio; sì, di caprifoglio o forse di glicine: un’alberatura nodosa che saliva dal giardino sottostante arrampicandosi nella ringhiera, e che mandava un odor forte. Non c’eran lumi nel salotto, poichè si andava incontro all’estate; il crepuscolo, rosso come un gran braciere, bastava da sè ad illuminare con il riverbero delle sue vampe. Ed ella disse che Giorgio era sul letto a riposarsi prima del pranzo «perchè Giorgio stava un po’ male...» Poi discorsero d’altre cose. Eran seduti vicino alla finestra, a due passi l’un dall’altra, lei con un abito di color viola, scollato, percorso intorno alla cintura da una grande fascia nera. Teneva i piedi sovrapposti, poggiati sovra un cuscino: quello ch’era sotto si piegava come avesse la caviglia rotta, con una straordinaria elasticità; l’altro non istava mai fermo. Le calze tenui trasparivan di bianco; aveva su ciascuna scarpina una bella fibbia di antichi diamanti, rotonda, che luccicava. Il rumore della sua gonna di seta ogni tanto le saliva intorno alla persona come il rumore di una cosa viva; ella parlava distrattamente, di cose futili, con una voce lenta, facendo lunghe pause. Allora egli sentì per la prima volta, con precisione, ch’ella lo guardava come una donna guarda un uomo, attentamente, minutamente, senza lasciarlo intravvedere, e questo gli dette un senso di molestia, un senso anche di stupefazione. Si accorse d’un tratto ch’era singolarmente bella, d’una bellezza tentante, d’una bellezza non casta: il che aveva quasi dimenticato dal primo giorno che la vide. Sollevò gli occhi per guardarla negli occhi, e tutt’e due si sentirono un po’ confusi... Di che? Di nulla; d’un pensiero, d’un’ombra, d’una di quelle indefinibili sensazioni che sono il principio di tutti i desideri colpevoli. Egli cominciò ad osservarla, e subitamente gli parve di aver già custodita nel suo pensiero l’immagine di una donna fatta come lei. Sono vibrazioni veloci, contro le quali non si ha tempo di reagire; ciò che le provoca è forse la loro impossibilità apparente, ciò che le alimenta è forse il terrore che incutono. Cominciò a guardarla egli pure, minutamente, attentamente, come un uomo guarda una donna, e la trovò più bella che mai. Gli piacque non solo il suo corpo, ma il vestito che portava, e quel suo nastro nero alla cintura, ed il rubino che le brillava sul dito come una goccia di sangue, ed il profumo del quale si era cosparsa, e la mano e la bocca ed i capelli, e sopra tutto la sua voce un po’ velata, e sopra tutto la sua femminilità così piena di seduzione involontaria. Turbato, per interrompere quell’incanto, si levò e disse: — Ma, e Giorgio? Non potrei andarlo a vedere? Ella con gli occhi lo seguiva, e rispose lentamente: — Sì, se volete... Oh, se ne ricordava come fosse trascorso un solo giorno! E da allora, proprio da quell’attimo, un gran dramma aveva pervasa la sua vita, gli era entrato come una paurosa novità, non nell’anima soltanto, ma nel cervello e nei sensi, fino a sconvolgere tutto quello ch’era stata fino allora la sua concezione delle cose, fino ad afferrarlo in una specie di possessione, contro la quale non c’era in lui nè fuori di lui rimedio alcuno. Egli sapeva talvolta escludere una passione, ma limitarla mai. La sua natura non gli consentiva di rimanere a mezzo di alcuna strada: o non percorrerla, o andar oltre, contro tutto, inesorabilmente, come su l’ala di un destino. Fra questi pensieri egli non si rammentava più d’essere in quella camera, presso il guanciale d’un sofferente, sotto la salvaguardia del tetto che l’ospitava, nell’intimo d’una famiglia costituita. Ma invece gli pareva d’essere davanti ad un giudice invisibile, contro il quale gli fosse mestieri giustificare la sua colpa. D’improvviso lo interruppe nelle sue divagazioni un rumore di gente sopravvenuta; si volse. Papà Stefano e mamma Francesca facevano entrare il medico Paolieri, ch’era venuto su di corsa e trafelato ansava. Andrea lo squadrò velocemente, con uno sguardo nemico; l’altro, al solo vederlo, si fece ritroso ed umile, quasi avesse una fredda vergogna di compiere il proprio officio davanti a quel grande salvatore d’uomini. Pareva, più che medico, un buon diavolo di sensale, con i suoi scarponi impolverati, i calzoni stretti che gli facevan due borse alle ginocchia ed un suo certo soprabito, d’un giallo stinto, che portava sempre sbottonato, fino ai mesi del solleone. Aveva la faccia adusta, la mano del vangatore, una grigia capigliatura spettinata che gli metteva qualche ricciolo su la fronte intarsiata di rughe; aveva gli occhi vivaci, il naso forte, un paio di baffi tagliati a spazzola, duri come setole. — Professore... — articolò, con una specie d’inchino. Per lui il malato era una cosa del tutto secondaria in quel momento; ciò che lo stordiva era di trovarsi davanti al grande clinico, al medico illustre, all’uomo di battaglia e di scienza che l’intero mondo ammirava come un prodigioso rinnovatore della medicina moderna. — Professore... — mormorò un’altra volta, — è lei che mi ha fatto chiamare?... Sudava, pover’uomo, a grosse gocciole, ma non osava rasciugarsi la fronte. — Ella è il medico del paese? — domandò Andrea Ferento, senza indietreggiare dal letto dell’infermo, come se vi stesse a guardia. — Sì, signor Professore, io sono il medico condotto... — rispose il Paolieri, con un altro inchino più goffo. Ci si vedeva poco nella camera: Andrea fece segno a papà Stefano di aprire a metà un’imposta, e fu Maria Dora che, scivolando dietro il padre, andò alla finestra. Andrea aveva ritrovata la piena padronanza di sè. Tenendosi ritto parlava con gesti sobrii, guardando ora il malato, ora il medico, dando ragguagli esatti su quanto era accaduto. C’era più luce ora, ma il letto rimaneva nella penombra, con quell’uomo supino e fermo, che pareva non desse alcun segno di vita. — Ci fu un momento difficile, — spiegava Andrea, — e temendo il peggio, ho desiderato fosse presente anche lei. In due si vede assai meglio e si provvede con maggiore tranquillità. — Oh, Professore... io debbo ringraziarla, ma non potevo essere che inutile... certamente inutile... Fino allora, mentre il Ferento esponeva con lucidità la crisi patita dall’infermo ed i rimedi usati, l’ottimo Paolieri non aveva rivolto che qualche sguardo distratto al giacente, standosene assorto nelle parole del narratore come se volesse mostrargli di non perderne una. E di continuo faceva con la testa un segno d’assenso, anche dove questo appariva superfluo. Ogni tanto intercalava, come una litania: — Vedo, vedo, vedo... — Forse non vedeva nulla, tanta era la sua confusione. — Per fortuna, — seguitava il Ferento, — in capo d’un certo tempo, mediante l’iniezione, ho potuto rianimare il cuore, e da vari indizi ho notato che la crisi ancora una volta sarebbe stata vinta senza gravi conseguenze. Ora, più che altro, si tratta di un grande prostramento nervoso, che tende a scomparire. Il respiro è difficile, ma assai meno di prima: il polso debole, ma riprende, — e si potrebbe, se lei crede, fargli un’altra iniezione di caffeina. La dose che gli ho somministrata finora è piccola: una seconda può giovare. — Ma senza dubbio! — disse il Paolieri. Poi soggiunse: — Oh, scusi... — E in fretta si cavò il soprabito. Fino allora non s’era nemmeno accorto di portarlo indosso, tanta era l’abitudine che ne aveva; e l’essersi tolto senza necessità quella sua specie di casacca o di giubbone, era il più grande segno di rispetto ch’egli potesse dare ad un uomo. — Se vuole, — disse Andrea Ferento, quasi a termine del suo parlare, — se vuole, dottore, lo esamini. Era un invito, sì, ma detto nel modo con cui si propone ad alcuno di fare una cosa del tutto inutile. Il Paolieri s’appressò al letto; prese macchinalmente il polso del malato, gli toccò la fronte, gli rovesciò un labbro per guardargli le gengive. E questo fece due volte. Poi gli scoverse il petto ed ascoltò il cuore; gli mise una mano sul fianco per esaminare il fegato e gli premette l’intestino. Nel fare quel che faceva da anni, tante volte al giorno, come nel compiere le pratiche d’un mestiere assiduo, dimenticava perfino la sua soggezione e la presenza stessa di quel gran medico. Faceva tutto ciò con coscienza, assumendo nella sua faccia ruvida un non so che di grave, quasi d’intelligente. Poi lo ricoverse con delicatezza: ancora una volta gli guardò le gengive, le membrane interne degli occhi, a lungo, e di tutto quell’esame non fece che dire: — Già... già... — Le pare? — disse Andrea, attentissimo. — Già... come lei diceva, Professore... non si tratta che di un grande prostramento... l’iniezione gioverà. — Sì, facciamola. Fu allora che il malato aperse gli occhi e stupitamente li guardò. Due, tre volte li aperse, non potendoli tener fermi; e li guardava l’un dopo l’altro, attonito, cercando. Mosse le labbra, forse per dire un nome... Quale nome? Certo quello solo che amava, quello inestinguibile, che per lui non moriva nella morte: Novella... Appunto era venuta su la soglia ed aspettava, tutta bianca. VII Il malato si levò ancora dal letto e parve per alcun tempo godere di un benessere nuovo. Siccome i giorni si facevan caldi, sua moglie lo accompagnava durante il pomeriggio sotto un pergolato a riparo dal vento, e là sedevano, rimanendo per lunghe ore insieme. Ogni tanto li venivan a trovare o Maria Dora o gli altri della casa, e la giornata passava quasi rapida, nonostante l’inerzia di quella calda primavera. Talvolta capitava su Maurizio, a parlar della sua caccia o dei campicelli di suo padre, che li aveva laggiù, verso valle, con una piccola cascina. Ed erano allora lunghi discorsi, che il malato ascoltava con un sorriso benevolo, mettendovi qualche parola ogni tanto, sempre con dolcezza. Il Ferento andava, tornava, dalla città in villa, sin tre o quattro volte per settimana. Il malato gli diceva continuamente, con un sorriso calmo: — Perchè mi curi? Tanto è inutile... Ma si sentiva più felice quand’egli era lontano, quando poteva restar solo con lei, senza che nessun estraneo interrompesse con la sua presenza quella specie d’intimità nuova ch’era nata fra loro. Dopo la crisi terribile, pareva che il male volesse dargli una tregua, una di quelle tregue ingannevoli che talvolta precorrono l’agonia. Egli rimaneva lungamente a guardarla, con un sorriso pallido su le labbra, gli occhi un po’ velati, come se non fosse mai sazio del suo bel viso e volesse portar seco nella morte la più compiuta immagine di lei. L’anima sua traboccava di dolcezza, e, quasi per comunicarle questo senso d’amore, ogni tanto allungava la mano a carezzar la sua mano; le diceva una timida parola d’affetto, con l’esitazione d’un innamorato che parlasse per la prima volta. Ella era triste, accasciata, stanca; tutti i sintomi della maternità travagliavano il suo corpo; la opprimeva una disperazione taciturna davanti a quel pericolo che ogni giorno si faceva più prossimo. Che sarebbe stato di lei, di loro, se non avesse potuto più nascondere, prima della sua morte, quella vita inconfessabile? La sua morte? Ma chi le aveva mai detto ch’egli dovesse morire? Infatti, per una specie di graduale suggestione, s’era già quasi avvezza a questo pensiero come all’attesa d’un fatto inevitabile, d’un’ora imminente, e per vari giorni, senza volerlo, senza ben sapere cos’attendesse, era vissuta nell’aspettativa da un attimo all’altro di quel grido che la chiamerebbe lassù, nella camera semibuia, presso il letto dov’egli rimarrebbe disteso... Il giorno anzi dell’ultima crisi, udendo il suo rantolo, aveva creduto, senza volerlo, provandone anzi un orrore immenso, che il momento inevitabile fosse venuto, e rimanendo come in croce, là, nel corridoio, attendeva che alcuno, forse Andrea, nell’uscire da quella camera le dicesse con uno sguardo: — Sai... Ma ora lo vedeva sorridere, camminare, parlare... lo spettro funerario s’era di sùbito arretrato, e mentre in addietro quell’avvenimento le pareva lì lì per succedere, ora non lo immaginava neanche più; non aspettava più quel grido. E nell’esame interiore che ognuno suol compiere di sè medesimo, s’accorgeva con terrore di averlo desiderato. La sua morte? Ma chi le aveva mai detto che dovesse morire? «Forse fra poco, forse fra qualche anno...» Vagamente le pareva di aver intese una volta queste parole su la bocca di Andrea. E allora qual’altra possibilità rimaneva per lei — e non per lei sola — davanti a questo nodo inestricabile che nulla poteva troncare? Qual dramma scoppierebbe nella casa il giorno in cui la sua maternità divenisse manifesta? Non era forse uccidere, ma d’una morte più barbara, quell’uomo dolce che l’amava? Ed il suo padre che farebbe? e la sua mamma, e la sua fresca sorella che direbbero di lei? Ecco: la casa, il nome sottomesso allo scorno della gente. Una creatura nata nella tragedia, senza padre, senza diritto a vivere... E Andrea? e il loro amore?... In quelle ore d’ozio, stando seduta presso il marito che non moveva gli occhi da lei, senza tregua ella si rivolgeva nella mente queste domande affannose, lasciandosi cullare da un’inerzia totale delle membra e dello spirito, come una povera creatura che, perduta ogni speranza di salvezza, si lasci travolgere senz’alcuna resistenza verso l’urto che la dissolverà. E tuttavia, nascosto nell’anima, impreciso, indefinibile, aveva quasi un filo di speranza... di speranza in quell’uomo così risoluto e così certo, che le pareva capace di soverchiare tutte le impossibilità; in quell’uomo che le aveva detto una notte, una notte d’amore: — Così ti amo, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «Più forte». Ella non ne aveva compreso il senso, non aveva nemmeno cercato di comprenderne il senso; ma era come una sensazione di forza che aleggiasse intorno a lei, una potenza incontrastabile che avesse radici profonde in quel suo petto virile. Non si parlavano più che a rari intervalli, di sfuggita. Egli era più che mai taciturno; quando non doveva tornare in città, passava le giornate chiuso nella sua camera, trasformata in una specie di laboratorio, fra i libri di scienza e le ampolle delle sue misteriose medicine. Soltanto a lunghe distanze di giorni, talvolta, nel cuore della notte, quando la casa era tutta spenta, ella scivolava giù dal letto per andare a lui, per temprare in quell’animo forte il suo stanco dolore. Tutto gli raccontava, tranne, per un pudore involontario, le parole di quel pomeriggio, quand’ella era seduta presso il cembalo ed una striscia di sole feriva obliquamente la stanza, piena di polvere viva. Ma nelle sue reticenze tuttavia si era tradita più di una volta. Finchè, un giorno, egli non fece che prendere le sue mani, poi, senza farle violenza, ma con quella voce che aveva ogni potere su lei e che pareva rimproverarle il silenzio come un disamore, le domandò: — Perchè mi nascondi qualcosa? perchè non mi dici tutto quello che sai? Ella non tacque oltre. A faccia china, gli ridisse tutte le parole, una per una, tutte. Egli notò solo che l’infermo l’amava tuttora d’una passione d’amante, e che dal suo dolore traspariva una orrenda gelosia. — Dimmi, ed hai sentito che ti amava? che ti desiderava... proprio così? Dimmi! Elle ebbe, nel ricordo, una specie d’ira. — Perchè vuoi che lo dica? Sì, ho sentito il suo desiderio caldo come una febbre avvinghiarmi, soffocarmi... ed ho avuta per un attimo la tentazione di gridargli in faccia: «No! làsciami... làsciami... perchè infatti, è vero, lo amo!... sì, lo amo con tutta la gioventù delle mie vene!... lui amo: Andrea. Non farmi più mentire!» — E per un momento, con una specie di crudeltà voluttuosa, tutto quello che vi è d’immondo in me, nel mio cuore pieno di tormento, nella mia carne piena di vizio, mi ha fatto sentire l’odio, un vero odio, contro questa creatura malata che m’incatena al suo letto come un’infermiera, che si trangugia la mia gioventù come una medicina, mentre là, fuori appena dalla finestra, c’è il sole, c’è l’aria, c’è il vento... ed io vorrei lanciarmi a quella finestra e gridarti: Sì, vieni, vieni!... préndimi! pórtami via!... Egli ascoltava senza dir motto, chiuso in una rigida impenetrabilità, come se ascoltasse piuttosto la voce del suo proprio cuore che non la voce di lei. Vedendolo pensare così profondamente, lo chiamò per nome, indi lo scosse, poichè le parve che una sofferenza fisica gli alterasse la fisionomia. — Guárdami, Andrea... Che hai? Con un gesto vago della mano egli scacciò la torma dei pensieri che l’assediavano, e disse: — Idee!... null’altro che vuoti fantasmi! Su la sua fronte, divisa dalla ruga profonda come una ferita, ella passò, per diradarne l’ombre, la sua mano lieve. — E non li puoi disperdere, tu che sei così forte? — Disperdere? Anzi, no! Bisogna invece discutere con essi, poichè veri e temibili fantasmi sono quelle ombre che la nostra coscienza non osa prendere di fronte, alle quali non osa dire: «Tu ti chiami, per esempio, rimorso; per esempio, delitto; per esempio, morte.» Poichè, vedi, la nostra coscienza è talora un senso involontario di giustizia, ma più spesso è una paura dell’anima davanti alla felicità. Molte volte un atto infinitesimale di coraggio basterebbe all’uomo per risolvere tutto il problema della sua vita... e non l’ha! Pensa che schiavi siamo, noi che poniamo quasi sempre i nostri desideri là, dove questa paurosa coscienza ci impedisce di giungere. Poi fece una pausa, e guardò negli occhi la donna che amava, colei che portava nel grembo il lor figlio concepito, e quasi tremando le domandò: — Novella, se un giorno tu sapessi che nel lontano passato io commisi una colpa orrenda... se tu sapessi d’un tratto che sono macchiato, che porto nel mio cuore un suggello d’infamia incancellabile... cosa diresti allora di me? cosa faresti per punirmi, Novella? — Che importa? — ella rispose: — questo non è vero... — Ma, se fosse vero?... — incalzò l’amante: — Rifletti bene: «Se è vero?» Ella sorrise, lo abbracciò, divenne scherzevole, quasi volesse allontanare quel pensiero molesto. — Ne avresti orrore, — egli concluse. — Anzi, non mi ameresti più. — Oh, — ella fece, — come sei pazzo! Gli fece passare le dita fra i capelli, ravviandoli, quasi adoperasse un pettine fino. I capelli spartiti risorgevan ondosi, con una specie di ribellione, dietro il solco delle sue dita. — Cosa può importare a me quello che avresti fatto? Io non ti giudico: ti amo. — Sì?... e la sapresti perdonare, dimenticare, la mia colpa? anche se fosse la più grande?... Ella s’avvinghiò a lui, forte, per comunicargli traverso le vene quella verità che stava per dirle, e con un filo di voce, poichè vi son cose che van dette piano anche quando si è soli: — Senti... — bisbigliò, — qualsiasi cosa tu faccia, ora, e nel passato, e sempre, penserò che quella cosa è giusta, e che fai bene... perchè ti amo fino a trasformarmi nella tua propria volontà e sono in te più fortemente che il tuo stesso cuore... Egli premette le labbra contro la sua gola calda, e rise, d’un riso convulso che lo faceva trasalire, illuminandolo di gioia come un repentino sole. — Ora, — disse perdutamente, ora ti possiedo per la prima volta come volevo, e più nulla — ricórdati! — più nulla ci saprebbe dividere. Senza busto, con i capelli raccolti da un pettine solo, ravvolta in una vestaglia di seta che la fasciava senza nasconderla, con i piedi scalzi nelle pianelle di raso orlate d’ermellino, il pizzo della camicia che si arruffava nell’incrociatura, ella raccolse contro di lui tutto il calore del suo corpo innamorato, sentendosi a poco a poco disperdere in un oblìo voluttuoso, come se al di là da tutte le angoscie, da tutte le servitù cui la vita incatena, ella non volesse più rimanere altro che l’amante, l’innamorata, la femmina perdutamente sua, nè volesse ormai conoscere altra disperazione oltre quella de’ suoi baci ubbriacanti nella complicità e nell’ebbrezza d’una notte d’amore... Allora, con la mano che brancolava in cerca del suo tepido grembo, egli sentì nel ventre non piano trasalire — o così gli parve — la forma della creatura. VIII — Il diritto a dare la morte... — profferì a sè stesso Andrea Ferento, con una voce che pareva misurare ogni sillaba di quel dilemma inesorabile, mentre teneva sospesa contro il lume una fialetta colma d’un liquido senza colore, trasparente come l’acqua, che però tramandava dalla sua purezza un non so che di poderoso e di sinistro. Non sprigionava intorno a sè un colore nè un odore che bastassero a definirlo, ma una specie di possibilità nefasta: la virtù del poter uccidere; come l’acqua invece tramanda l’innocenza ed esprime l’innocuità. La luce della lampadina accendeva una piccola raggiera sul vetro dell’ampolla; questa rifrazione bruciava le sue dita, pareva investire d’un riverbero tutta la tragica persona dell’esaminatore. Egli era solo, nella sua camera chiusa, tra gli alti scaffali carichi di libri e l’armadio vetrato, che lasciava intravvedere, un sopra l’altro, parecchi ordini di vasi medicinali. La tavola da lavoro, ingombra di scartafacci, di provini, di siringhe, di storte, di bottiglie tappate, era d’ácero nudo, e per la sua larghezza ingombrava quasi un terzo della stanza. Dentro una specie di nicchia, fatta come un’arcata, ch’entrava per mezzo metro nello spessor del muro, il letto era disposto nel senso della parete; una tenda vi cadeva sopra a baldacchino, senza coprirlo interamente. Egli portava sopra l’abito una tunica di tela greggia che gli scendeva sino alle caviglie, stretta ai polsi e serrata in vita da un cordone come un saio da monaco; l’alta sua persona prendeva in quella veste una apparenza ieratica. Tutto era silenzio intorno; pareva che la casa dormisse nel suo primo sonno, sebbene forse, dentro le occulte camere, non dormissero gli abitatori. Dal giardino sottostante salivano a tratti le vampe odorose dei gelsomini. — Il diritto a dare la morte... — profferì una seconda volta, con maggiore lentezza, Andrea Ferento. — Uccidere! La parola bella e terribile che nessuno ha mai osato far assurgere ad una legge umana. «Tu non puoi uccidere perchè non puoi creare,» — predicarono i remoti Evangelisti. «Ma il senso eterno del mondo, la legge implacábile della natività, non è forse chiusa in questa parola fra tutte più necessaria: «uccidere?» Dalle origini stesse della vita l’uomo non fece che stabilire limiti. È inteso: c’è un male, c’è un bene. Ma come si tracciarono i confini? Come e da chi? Ah, ecco, intendo! All’estremo, all’ultima pietra milliare della comprensione, dove tutto si confonde in un color di miracolo, avete messo, — è incredibile! — questa parola che fa tornar da capo: «Dio». Parola vuota come un baratro, perchè, per comprenderla, bisognerebbe non esser uomini, mentre l’averla concepita come uomini vuol dire semplicemente aver dato un nome, null’altro che un nome, ad una sensazione d’impossibilità. In voi non trovo la mia strada, Evangelisti. Ora, vi dico, il nodo è serrato ma semplice: Se io debbo vivere, la mia vita vuole una morte. Ora vi dico: Non una, ma due vite insieme, anzi due vite inseparabili, sono davanti a un’agonia. La donna che amo, il figlio che ho fatto nascere, e la mia sorte che brilla: un gruppo formidabile di energie rimane fermo, senza possibilità di andar oltre, davanti ad un rantolo che si prolunga. O Evangelisti, non credete voi che si possa talvolta sopprimere una vita semispenta, per salvarne altre, pulsanti, gaudiose, di là da quel sepolcro? Non ammettete l’uomo eretto a giudice solo ed eroico di sè stesso, l’uomo anarchico, superiore alla legge pattuita, che usa d’una sua forza spaventosa, ed in silenzio, nel buio, toglie di mezzo l’ostacolo che lo divide dalla sua felicità? Chi me lo impedisce?... Cristo? — Cristo era un uomo come me: io non gli credo. La legge? — La legge è stata fatta da uomini come me; non rappresenta che la necessaria catena; io sono più forte: la spezzo; più scaltro: la évito. Forse la coscienza? — Essa è paura, è viltà, è un terrore atavico dell’uomo: bisogna insegnarle a volere con inflessibilità quello che davanti alla vita, e non davanti agli uomini, è giusto. A che servirebbero questi veleni minutissimi, rari, lenti, senza traccia, che crescono pure nella vegetazione della terra, se la natura stessa non avesse riservato all’uomo la possibilità di propinare una morte nascosta? Che sarebbe l’amore in sè medesimo, se per lui non fossimo capaci di compiere qualche atto di eroismo crudele? Non contro me posso infierire, poichè la mia morte non li salva, anzi li perde. Ho amata una donna non mia e l’ho resa madre: mi trovo nell’impossibilità di liberarla dalla sua concezione, il che sarebbe altrettanto delitto. Lascerò ch’ella si uccida? O giudici, sarò così vile da non fare con risolutezza tutto ciò che il mio coraggio può fare per lei? Forse avrei dovuto, quando ne sentii nascere il primo palpito, soffocare in me questo inevitabile amore. Ma tutto si può fare al mondo, fuorchè non amare ciò che si ama. Ora, contro il diritto a vivere di queste due creature, che sono ormai la mia sola ragione di essere, sta un’agonia, sicura ma tenace, lenta ma irremediabile... Due giovinezze davanti ad un sepolcro, due ricchezze davanti ad una miserrima povertà. Fra queste cose, il coraggio della mia mano, la stilla invisibile di un veleno, il martirio nascosto della mia coscienza... Ebbene, in tale dilemma, è più onesto concepire la coscienza come una schiavitù paurosa, che rifugge dal delitto per il solo terrore de’ suoi fantasmi, o concepirla come un coraggio efferato, che avvinghia quei fantasmi e li soffoca per la felicità di chi ama? O voi, che invisibili e presenti squassate intorno alla mia coscienza i vostri mantelli neri, ascoltate ancor questo dalla mia voce che non trema: — Io feci olocausto di me stesso al mio amore d’uomo, al mio dovere di padre, e se, per giudicare un colpevole, può esservi un altro giudizio che non l’oscuro confessionale o la teatrale aula d’una Corte d’Assisi, questo giudice libero mi dirà: — «Tu sei stato un anarchico ed un santo. Se puoi, vivendo, sopportare il tuo delitto, la sua potenza medesima ti assolve. Di fronte ai mediocri taci e nascondi, perchè i mediocri mai ti comprenderanno.» Allora, nell’alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel silenzio dalla sonora muraglia, udì suonare la Canzone Disperata sul violino singhiozzante dello scemo. Questa canzone diceva: «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti, portando il mio scheletro su la schiena; «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le mani... «Cammina!... — mi dice ridendo — la vita comincia domani. «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? — Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome: l’Inutilità. «— Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina, «tremante, sperduta, tremante — nel solco del letto profondo... «Perchè, se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel mondo? «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti, e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli lontani... «Cammina: la vita comincia domani, domani, domani... La Canzone approssimava, tragica, lugubre, nel silenzio della notte, finchè, dietro l’uscio, si spense. Allora egli udì le nocche dello scemo, che rideva, battere contro la porta, dicendo: — Aprimi. Andrea, rapidamente chiuse nell’armadio le minuscole ampolle dei veleni che stava esaminando; poi non rispose, non aprì. — Apri dunque! — sollecitava lo scemo, girando la maniglia. Ma la porta era serrata nell’interno a chiave. — Che vuoi? Sorda e cocciuta la voce ripeteva: — Aprimi! Allora Andrea girò la chiave nella serratura e si ritrasse per lasciarlo entrare. Marcuccio, col manico del violino stretto nel pugno, la bocca torta da quel suo riso obliquo, s’avanzò fin nel mezzo della camera guardandosi attorno, poi disse: — Novella piange. — Come lo sai? — Piange, — ripetè l’altro con iracondia. — Come lo sai, domando? — L’ho veduta io, per la toppa. Sì, l’ho veduta. È nella sua camera, seduta in un angolo, e singhiozza. — Ebbene? — fece Andrea dopo una pausa. — Volevo dire che piange, — ripetè costui, ingrossando la voce. — Allora tu guardi per le serrature? — Sempre. — Perchè? Accentuando il suo riso atono, egli fece con la mano un gesto vago: — Per la serratura ho veduto la Berta in camicia, molte volte... La Berta si lega le calze con due nastri rossi, quassù... — e segnava l’alto della coscia. Andrea lo fissò negli occhi, attentamente, con un senso di maraviglia e di pietà. — Non puoi dormire, Marcuccio? — Sono le notti lunghe della primavera... gli uomini che han qualche sogno nell’anima non possono dormire. — Poi fece schioccare le labbra e soggiunse: — Mi piacerebbe dormire con la Berta. Senza che lei se n’accorga io la vedo ogni sera per la toppa, quando si spoglia. È grassa. — Allora, — disse Andrea severamente, — hai guardato per la toppa anche al padiglione di caccia, alla Boscaiola, una volta... Marcuccio si mise a ridere con sguaiatezza e contorse la bocca. — No: sono salito sulla tavola di pietra ch’è da un lato, e, stando in piedi, ho potuto guardare in giù, verso l’interno della capanna. Sì, e c’era Novella... — Non è vero! — Sì, che c’era! — incalzò lo scemo. E segnandolo a dito soggiunse: — Con te. — Bada, Marcuccio! guai se lo ripeti!... — esclamò Andrea, afferrandogli ruvidamente le mani. — Novella era quasi nuda, e tu... ahi! non mi far male!... tu la coprivi con le margherite che avevate raccolte... ahi!.. sul petto... ahi!.. la coprivi... — Guai a te, se ripeti queste cose bugiarde! Hai visto male. Io non c’ero. Lei neppure non c’era. Intendi? E forte lo scuoteva per le braccia, mentr’egli, caparbio, insisteva nell’affermare. — Intendi?... — No, no... tu eri! lei era! Ed erano belle... com’erano belle quel giorno... le margherite... ahi! ahi! sorelluccia... le margherite!... Allora Andrea lo afferrò per le spalle, in guisa da fissarlo ben negli occhi e disse: — Ascolta, Marcuccio. Tu, quel giorno, hai veduto un sogno; ed i sogni non si devon mai ripetere ad alcuno, perchè il parlarne porta disgrazia, m’intendi? E guai, guai a chi li racconta, i sogni!... Parlava imitando il suo linguaggio, per essere meglio inteso; lo scemo apriva la bocca attonitamente: — Ah, sì?... — Certo. E se tu narrerai queste cose bugiarde, io dirò a tutti che bisogna bruciare i tuoi libri, perchè sono falsi. Così non avrai alcuna gloria. Capisci, Marcuccio?... la gloria!... Egli tremava, tremava, e balbettò: — Sì, la gloria... Ma se non dico nulla? — Di che? — Dei sogni... — Allora, Marcuccio, tu avrai... — Ma in quel mentre, udendo rumore, Andrea si volse: — Chi è? La voce di Stefano rispose: — Sono io: Stefano. Si può? — Entrate, entrate. — È la Canzone di Marcuccio che mi ha fatto scendere. — Poi disse con un sorriso indulgente: — Oh, conversate sempre di cose profonde, voialtri pensatori! — E tu sempre ci disturbi, padre Stefano! — affermò con sussiego lo scemo. — Ti credevo già coricato, Marcuccio, quando invece udii la tua canzone. — Coricato? ah! ah!... È una notte d’Aprile; vorrei camminare, camminare, in mezzo alla foresta e lungo il fiume, con il mio violino su la spalla, improvvisando canzoni. Ma ho paura dei cani!... E tutte le donne che non dormono, in queste notti di primavera, scenderebbero dal letto con i capelli sciolti, per camminare a piedi scalzi dietro di me... ma ho paura dei gufi. Vorrei camminare, camminare, per la foresta e lungo il fiume, suonando sul mio violino la canzone più bella che so, e trascinandomi dietro le donne seminude... Ma ho paura dei vampiri. Uh!... i vampiri dalle ali di feltro, che succhiano sangue, sangue... La sai, padre, la Canzone dei Vampiri? No?... Ascolta... E ritraendosi lentamente, con un passo d’automa, urtò l’uscio con la schiena e scomparve nel buio del corridoio, ricominciando a suonare sul violino singhiozzante la sua Canzone Disperata, che a poco a poco, per l’alte camere, in una lugubre risata si spense. . . . . . . . «Se corri, — mi dice, — «si arriva stasera o domani mattina... «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!...» . . . . . . . — Povero me! — proruppe Stefano con un gesto di sconforto. — La sventura s’è abbattuta su la mia casa. — Non disperate, Stefano. Voi credete in Dio, non è vero? — Sì, fervidamente. — Pregatelo, voi che potete pregare! Io credo in me stesso più fermamente che in Dio, e nella volontà umana più che nel miracolo. Quindi penso che per resistere alla sventura abbiamo un solo rimedio: il nostro proprio coraggio. Ma Stefano scosse il capo, e cominciò a guardarlo come se volesse dirgli qualcosa. Certo, per essere venuto a quell’ora nella camera di Andrea, uno scopo lo guidava e quei perplessi discorsi parevano la ricerca d’un esordio. — A proposito di Giorgio, — disse infine, — cosa pensate voi? Che stia proprio molto male? Andrea, forse per nascondere il suo disagio, metteva in ordine una quantità di cose, andando dagli scaffali alla scrivania, frugando nei cassetti, rimovendo libri. — L’eterna domanda! — esclamò nervosamente. — Se sapeste che poca cosa è la scienza d’un medico davanti ad un problema così complesso come la vita d’un uomo! — Ma io vedo che muore! — interruppe Stefano soffocando la voce. — È un’opinione, la vostra; null’altro che un’opinione, — rispose freddamente Andrea, stringendosi nelle spalle. — No, non ingannatemi, Andrea! Benchè vecchio, sono ancora un uomo e voglio sapere la verità. Ditemi, ditemi la verità... Il suo caso è disperato? — Non ancora, ma è grave. — Sapete? Giorni sono mi ha detto quasi allegramente: Bisognerà che un momento o l’altro diamo un’occhiata ai nostri affari, papà Stefano, perchè è sempre meglio essere previdenti. — Questo non mi riguarda! — esclamò Andrea con asprezza. — Se è di questo che dovete parlarmi, io non voglio saper nulla! — Oh, Andrea!... non crederete, per l’amor del cielo, ch’io voglia fare un calcolo qualsiasi... no, vi giuro! Ma ho due figlie, un figlio ed una moglie vecchia; ora voi sapete bene che la casa, le campagne, tutto quanto, appartiene a Giorgio. — Questo non mi riguarda, ripeto. Giorgio è un uomo onesto, penserà da sè stesso alla moglie. — Ma Giorgio ha pure un fratellastro, un uomo dissoluto e rapace, che gli ha dato già troppe noie cercando in mille guise di estorcergli denaro. — Insomma, Stefano, — egli lo interruppe, — se bene comprendo, voi desiderate che in un modo qualsiasi m’interponga presso Giorgio per fargli fare testamento, o per sapere se lo ha fatto e come lo ha fatto... Non è vero? Fece una pausa, guardando Stefano, che abbassò il capo senza rispondere. — Ebbene, sentite: ho molto affetto, molta venerazione per voi, padre Stefano; capisco anche la ragione, del tutto giustificabile, che v’induce ad un tal passo. Ma di questo non parlatemi, vi prego. Fate quel che volete, ma io non ci voglio entrare. Anzi vi dirò una cosa, recisamente: vicino a Giorgio, nè preti nè notai, a meno che non li chieda egli stesso. E non parliamone più. — Perchè tanto calore? Non vi ho mai veduto eccitarvi così. — Bisogna lasciare un’anima libera, padre Stefano, sopra tutto vicino alla morte. Io non mi occuperò di queste cose, e credo che Novella sia dello stesso parere. — Lo è, infatti... Ma questo, in un certo senso, è anche sorprendente! — Niente affatto, padre Stefano. L’ora della morte è quella della riconoscenza o del rancore: bisogna che l’uomo si risolva da sè all’una od all’altra cosa. E Giorgio ha la mente lucidissima. Infine, ancora una volta, questo non mi riguarda! Solo una cosa vi dirò: Fin quando io viva, nè voi nè i vostri figli avrete mai nulla da temere. — Oh, siete migliore di me, Andrea! — esclamò con effusione il vecchio, — ed ora mi vergogno... — Di nulla! Voi pensate ai vostri figli; è più che umano. E lasciamo questi discorsi. Risponderò invece alla vostra domanda con sincerità: — Il caso di Giorgio è grave; molto grave. La mia opera può darsi che non basti; è forse opportuno chiamare altri medici. L’ho detto a lui stesso, ma egli rifiuta. — E chi può salvarlo, se voi non potete? — esclamò Stefano alzando le braccia. — Poi, che serve? Io vedo bene che muore, povero Giorgio... e noi vecchi sappiamo riconoscere di lontano la morte. Bah!... buona notte, Andrea! Se stesse male, chiamatemi; buona notte. Andrea rimase lungo tempo fermo dietro l’uscio, ascoltando quel passo tardo che saliva pesantemente i gradini; poi tornò a sedere presso la tavola ingombra, si raccolse nei palmi la fronte, che gli doleva, e mentre nell’immobile silenzio gli battevano forte le vene dei polsi, lasciò che il suo cuore, come un nembo di polvere, si allontanasse nella vertiginosa bufera. Il riflettore elettrico, vôlto sul microscopio, traeva dal polito metallo un barbaglio fermo, continuo, che si propagava su le piccole siringhe di cristallo, su gli aghi affinatissimi, sui molti arnesi lucenti che ingombravano la scrivania. A poco a poco una stanchezza fisica maggiore del suo tormento lo sopraffece; i gomiti gli scivolaron dall’orlo della tavola, piano piano; la fronte si affondò nella piega dell’avambraccio; cadde in sopore. Da lunghe notti rimaneva con gli occhi sbarrati, nel buio, insonne fino all’alba, con il cervello assediato dall’assiduo pensiero; ma vi son momenti nei quali il corpo affranto, che ha fame, che ha sonno, che ha bisogno d’oblìo, soverchia lo spirito e lo salva da tutte le sue calamità. — Odimi, Andrea... Era entrata Novella, senza far rumore, e si chinava su lui. Egli sobbalzò atterrito, si eresse in piedi, con gli occhi pieni di spavento, e fissandola ripeteva: — Che c’è? Che è stato?! — Nulla... parla piano... Perchè ti guardi attorno? Che fai? Sognavi? Sì, eri stanco, ed io t’ho svegliato, povero amore... Allora egli prese la sua mano, la strinse, la baciò quasi con riconoscenza. Era felice che fosse stata lei a destarlo, non altri, e che non venisse per portargli qualche notizia temuta. — Ah, sei tu, sei tu... — la guardò, le sorrise; — ma ora, non rimanere... sii buona. Forse potrebbe udirci. È imprudente, molto imprudente quello che fai! — Mi scacci sempre... — Non ti scaccio, non dire questo. Ma, vedi, è pericoloso... Lavoravo e mi sono assopito. Poi ho l’intuizione che stanotte Giorgio, non dorma e sorvegli... — Sì, ora me ne vado; ma prima... Come sei pallido, mio amore... — Sono stanco. — Prima dimmi perchè da qualche giorno mi lasci tanto sola, non mi parli, non mi guardi, e si direbbe quasi che tu faccia il possibile per allontanarmi da te. Egli ricadde su la seggiola, si compresse contro le tempie i due pugni che tremavano: — Taci, taci. — Cosa t’ho fatto, io? Non vedi come sono disperata?... non mi ami più? Allora egli esclamò con un selvaggio impeto di passione: — Da qualche giorno ti amo più che mai! più che mai! non lo senti?... Ma sei tutta vestita d’ombra e non ti posso toccare. Ella rispose, appassionata: — Chiudi gli occhi un momento, per non vedermi, e báciami, báciami!... Curvata su lui, la sua gonna gli avvolgeva le ginocchia, i suoi capelli gli toccavano la fronte. In quel bacio ella mormorò: — Che faremo?... Egli le rispose, all’orecchio, con un bisbiglio ch’era solamente un álito: — Aspettare. Ella voleva interrogarlo, ma l’amante si ribellò: — Silenzio!... E lasciami solo. Se io non ti chiamo, non tornare. Ella ubbidì; si ritrasse. Ma nell’orecchio le suonava quella parola grande, minima: — Aspettare. — Vai nella sua camera? — egli chiese ancora. — No; ho paura. Da me sola, ho paura. Non è stato mai così dolce... mi prende le mani, le bacia... e le mie mani divengono fredde. Così dicendo le nascose dentro le pieghe della gonna, quasi avesse ancora su la pelle quella sensazione di ribrezzo che tutta la raggelava. — Ogni tanto mi carezza i capelli come un bambino... non è stato mai così dolce. Egli, senza batter ciglio, l’ascoltava, la guardava. — Sai? Un’ora fa si è assopito, tenendomi una mano fra le sue. Non c’era lume nella stanza, però dalla finestra veniva luce abbastanza perch’io vedessi la sua faccia. Che orrore!... Mi stringeva la mano con una forza convulsa, il suo viso era fermo in una contrazione di dolore. Sognava, e ogni tanto, dagli angoli della bocca, gli usciva un fiotto di saliva... Che orrore! Poi ha rovesciato un occhio indietro, uno solo, senz’iride, ed è rimasto così... Pensai che fosse morto, volli sciogliermi da quella stretta e non ebbi forza, volli gridare e non potei... perchè quell’occhio senz’iride mi fissava e la sua bocca morta sembrava ridere del mio terrore... — Basta, basta! Poi entrambi sussultarono, avvertendo rumore da una camera vicina, che poteva essere quella del malato. Novella cautamente si sporse fuori dall’uscio in ascolto, e sparve nel corridoio scivolando lungo il muro. Egli rimase nel mezzo della camera, diritto, pronto, perchè udiva un passo avvicinarsi, un passo che gli era noto. — È lui... — pensava. Ma non gli rimase tempo ad alcuna riflessione, perchè Giorgio aperse l’uscio e si fermò su la soglia, cadaverico, vacillante. Rimasero a guardarsi un attimo, poi Andrea disse: — Ti senti male? Giorgio scosse il capo. Era interamente vestito, portava una giubba di lana rossiccia, intorno al collo uno scialle avvoltolato. Si avanzò nella camera con un passo malfermo, poi tese l’índice verso l’uscio e disse: — Chiudi a chiave la porta, ti prego. Attonito, Andrea non si mosse. — Chiudi la porta; voglio rimanere solo con te. Macchinalmente, quasi piegandosi ad una forza incontrastabile, Andrea ubbidì. Quando s’intese il rumore della chiave nella toppa, e furon soli, di fronte, viso a viso, e fu passato qualche attimo d’un silenzio mortale, Giorgio disse con voce spenta: — Novella era qui. — No. — Era qui. — Ossia, — corresse Andrea confusamente, — passava per il corridoio... si è fermata un momento a parlarmi. — E soggiunse dopo una pausa: — A parlarmi di te. Poi avanzò verso Giorgio una vasta poltrona di cuoio, spingendola per la spalliera; l’infermo vi si lasciò cadere, premendosi le due braccia sul petto quasi per comprimere un dolore inesprimibile. Ma d’improvviso, dopochè i suoi occhi febbricitanti si furon incontrati con gli occhi aspri e fermi del suo fratello antico e per qualche tempo l’ebbero vigilato in silenzio: — Andrea!... — esclamò con accento d’indulgenza e di sconforto estremi, — Andrea non mentire più! È inutile, poichè muoio... non mentire più! L’altro si curvò, si radunò in sè stesso, come un aggredito che sta per raccogliere tutte le sue forze in una disperata difesa, poi, dibattuto fra la verità inconfessabile e la menzogna insostenibile, si ritrasse meccanicamente nell’alta ombra che l’armadio propagava dal muro, e muto vi stette, guardando fissamente terra, in attesa della parola che li avrebbe separati per sempre. — Hai paura di me, o mi odii? — Giorgio gli domandò, ergendosi a fatica sui bracciuoli della poltrona. E poichè l’altro taceva, lo incalzò: — Non puoi rispondermi? Non vuoi che ci si guardi a viso aperto? I tuoi occhi, una volta, sapevano fissare! V’era nella sua voce un sarcasmo, anzi una sfida manifesta, contro la quale, di colpo, l’avversario si raddrizzò. L’uomo che non s’era mai piegato, che non aveva mai temuto, comprese di doversi avventare contr’essa, come soleva, nel mezzo di tutti i pericoli, con spavalderia. — Fra noi, — rispose, — mi pareva migliore il silenzio. La sua voce non aveva alcun tremito: fu dura, fredda, lucida come una lama ben affilata. Con più dolcezza, quasi con affetto, l’altro ripetè la domanda: — Hai paura o mi odii? — Nè una cosa nè l’altra, Giorgio. — E allora? — Sento la distanza insormontabile che ci divide, sento che siamo ridotti ad essere due semplici automi l’uno di fronte all’altro, e che parole, fra noi, non ci devon più essere. — No, Andrea. Per te, che prosegui nella vita, questo divenir automa è un giuoco di qualche ora; per me, che la finisco, è un gioco assurdo. Ho radunate le mie poche forze per venirti a parlare: non impedirlo, se ti ricordi che abbiamo avuto sempre coraggio. Una luce tetra splendette nella faccia dell’avversario. — Ebbene, — disse, avanzandosi dall’ombra, — se così vuoi, sia! — Non come due nemici, Andrea, — lo pregò l’infermo con un sorriso triste. — Sì, è vero, il passato è in frantumi e le memorie son ragnatele che val meglio spazzar via... Ma c’è qualcosa nel mondo che può essere dolce ad un uomo, e questo è la certezza di aver amato un altr’uomo con tanta purezza d’affetto, che per quanto egli ti faccia male, per quanto il destino te lo avventi contro come un inconciliabile nemico, tu non lo possa veramente nè interamente odiare mai. Questa è la prima cosa che volevo dirti. Andrea non battè ciglio, non si mosse, non rispose parola. — Ti ricordi?.... — ricominciò il malato, con una voce quasi lontana. — Abbiamo tutto diviso fraternamente nella vita, come dividevamo insieme — ti ricordi? — nella nostra camera di studenti, su quel tavolino zoppo, le nostre povere cene. Poi, quando bruciò la miniera di Connigan Gate seppellendo trecento uomini, e la Compagnia mi cacciò come responsabile del disastro, per un anno vissi nella tua casa, e devo a te solo, — sì, lasciami dire: a te solo — se ho potuto per una seconda volta ricominciare la strada. — Visto che facciamo i conti, io ti devo altrettanto e più! — Andrea lo interruppe con voce irritata. — Ora ti rivedo! — esclamò Giorgio, scuotendo con un sorriso il capo. — Riassomigli, contro di me, a quello ch’eri nel Comizio Romano, davanti a coloro che ti accusavano di averli traditi, di aver venduta la causa loro a chi ti prometteva il potere... E tu eri là, pallido ma sorridente, con le braccia incrociate, contro il tumulto, contro gli urli, contro gli insulti, finchè ne hai preso uno per la gola, uno che inveiva più da presso. Questo atto di coraggio fece il silenzio intorno a te. Allora ti lasciarono parlare. Mi ricordo. Pareva che tu foggiassi le parole in un sonoro metallo e le piegassi con la forza de’ tuoi pugni prima di scagliarle in pieno petto contro gli avversari, contro il semicerchio muto che lentamente oscillava; e c’era in te qualcosa di magnetico, d’elettrizzante che dominò la folla, che li vinse, ad uno ad uno, e poi tutti, finchè ti vidi preso nel mezzo, come in un’immensa mareggiata d’uomini, d’uomini clamorosi e deliranti che ti portarono in trionfo... Dimmi, Andrea, non sei più quello di allora? Un cerchio di rossore accese la fronte dell’avversario; ne’ suoi occhi una vampa splendette. — Il medesimo sono, e più forte! — disse con ira; — poichè le più disperate battaglie sono certo quelle che dobbiamo soffocare in noi. Camminava per la camera nervosamente, come un uomo da tutte le parti accerchiato, il quale voglia fendere nella calca a fronte bassa per aprirsi un varco. Poi disse con impeto: — Senti: non mi giustificherò. Il nostro patto è rotto. Se vieni per interrogarmi, rifiuto, — se vieni per accusarmi, rifiuto, — se anche vieni per perdonarmi, rifiuto. È inutile tradurre in parole oziose quello che l’anima di due uomini risoluti non può nè tollerare nè mutare. Giorgio volle interromperlo, ma egli con un gesto lo trattenne: — Lasciami dire: nè tollerare nè mutare. Mi hai rammentata un’ora temeraria della mia vita, quando, per ambizione o per ingenuità, credevo si potesse far del bene alla folla trascinandosela dietro con la magìa della parola, come un branco imbrigliato, ed avevo in me difatti questo genio demagogico, questa potenza istrionica della quale ora mi rido. Più tardi compresi che il bene si fa nell’ombra, da soli, piegando la fronte sui libri, o con le braccia nude fino al gomito, medicando l’anima dell’uomo e la sua carne piena di contaminazioni. Ho lasciato gli altri urlare; ho camminato più in alto, per la mia strada. Ora, ti ho detto, sono il medesimo e più forte. Ora sono riuscito a comprendere che nel nostro vincolo, nel nostro patto d’amicizia umana mancava tuttavia una possibilità: quella di sentir nascere in noi l’odio, l’odio fraterno, il più terribile che vi sia. Mi hai posta una domanda poco fa: se ho paura di te e se ti odio. Io fui debole un momento e risposi: Nè una cosa nè l’altra. Ma ho mentito. E poichè mi rammenti le ore di coraggio ch’ebbi nella mia vita, con quel medesimo coraggio ti rispondo: — Sì, ti odio! Ne’ suoi occhi metallici brillava una sinistra luce; la sua bocca rise, paga d’aver esclamata la verità. — Ora ti preferisco, ora che non menti più! — Giorgio rispose, con un orgoglio pacato. — Vorrei essere ad un altro tempo della mia vita per accettare le tue parole come una bella sfida. Andrea scosse il capo: — Forse non mi hai compreso. — Sì, ti ho compreso. Volevi dire che tra uomo ed uomo tutto è caduco e distruttibile, tutto può mutare improvvisamente, per un caso fortuito, perchè appunto noi siamo esseri caduchi e mutevoli, schiavi anzi tutto del senso che ci dómina con vera tirannia. Ma l’altro non cessava dallo scuotere il capo duramente, finchè l’interruppe: — Volevo dire che il mio odio per te, Giorgio, è una specie di rimorso taciturno, è una specie di lealtà ultima, che nascondo a me stesso, e nella quale mi rifugio, dopo aver lottato inutilmente, con ogni mia forza, contro il destino che ci separava. È un odio, sì; ma tale che se potessi, dando la mia vita, redimermi dinanzi a te, o farti un bene qualsiasi, anche minimo... senza esitare, senza riflettere, la darei! — Allora perchè nasconderti fra queste parole? Smàscherati! Dà un nome a tutto questo: il suo vero nome! — No, no! — rispose Andrea con forza; — parliamo di noi, solo di noi. Come ho rispettata sempre la tua fede, che non potevo dividere, tu rispetta la mia volontà, perch’essa è la sola coscienza degli uomini senza fede. E pensa che il confessarmi a te mi sarebbe forse dolce, come per voi è dolce confessare le vostre colpe ad uno che vi assolverà. Io non voglio il tuo perdono. Ma invece ti dirò apertamente: Sì, l’ho amata!... Era nel mio destino d’uomo... l’ho amata. Queste parole parvero gravi, come l’affermazione d’un reo che dicesse al suo giudice: — «Sì, ho ucciso.» E Giorgio, sopraffatto, come se al di là da quelle parole non vi fosse che l’immenso nulla, chinò la fronte in silenzio. Una lunga pausa durò fra loro, nella quale permaneva un’eco diuturna, ch’entrambi udivano risuonare nella loro vastità interiore. Poi Andrea riprese: — Vedi, e ho lottato! Con tutta la forza che ben mi conosci, ho lottato per estirpare da me questa ubbriachezza. Ma non mi fu possibile. Tutto si riesce a stritolare nella tanaglia della nostra volontà, non questo amore che imbeve la carne, lo spirito, e ci vieta persino quell’atto estremo di ribellione che tronca tutto: la morte. — Lo so, — rispose Giorgio profondamente. Poi, levatosi con fatica dalla poltrona, s’avanzò verso di lui, fin quasi a toccarlo: — Lo so. Dal primo giorno che l’hai guardata con amore lo seppi. Era... vuoi che te lo rammenti? — A che serve, Giorgio? È lontano... — Infatti. E già sarebbe stata una grande sciagura che l’amassi tu solo, — proseguì Giorgio, scandendo lentamente le sillabe. — Ma lei pure ti amava... e questo era l’irreparabile! Ti amava in silenzio ancor prima che tu lo sapessi. Andrea scosse il capo in segno d’incredulità. — Prima, assai prima... perchè forse non è mai stata veramente mia. Ma per me bastava che non fosse d’altri; e guai se avessi creduto, in un modo qualsiasi, di poterla ricuperare! Perchè allora, vedi, il mio odio sarebbe andato oltre il tuo, e per quell’istinto che ogni essere ha, di voler difendere il proprio bene anche fino al delitto, io, credente, mi sarei dannato, ma avrei messo il mio amore, poich’era grande, più in là che Dio. Senonchè ti amava troppo... ed era inutile tentare. — Tu avresti fatto questo?... anche questo? — mormorò Andrea. — Sì! e puoi non dubitarne se ripensi alla mia vita. Eppure io credo in Dio; anzi questa fede, che tu in fondo schernivi col tuo silenzio, mi ha salvato dalla recita e dalla colpa inutile. Perchè, sai, vi può essere altrettanta bellezza in un delitto grande come in un grande perdono. Io vi ho perdonati; non con la bocca, non con le parole che tu alteramente mi rifiutavi or ora, ma col mio spirito, con la mia fede, con tutta quella estrema vita che si àgita in me. Bada: non cristianamente, ma umanamente vi ho perdonato: non per misericordia, ma per riflessione, non per comprarmi il paradiso dei preti ma per la vostra felicità. — Per la nostra felicità?... — disse Andrea, con maraviglia, con sospetto. — Sì; e non mi credere un santo per questo: non lo sono. Uomo, avrei voluto vivere, e per vivere mi sarebbe stato necessario difendermi da te. Ma che sono ormai? Una macchina disfatta... neppure: un pugno di materia logora che fra poco si dissolverà. Davanti a me finisce quella striscia di sole che si chiama la vita, e se i deboli, se gli avari, se i timidi, appunto verso la fine s’abbrancano con maggior disperazione ai beni che lasciano quaggiù, io, poichè sono stato un forte come te, un orgoglioso come te, ne faccio abbandono senza odiare quelli che possono vivere ancora, ed umanamente, con pace, dico loro: Il diritto è vostro... continuate. Dopo aver velocemente riflettuto, Andrea esclamò: — Le tue parole sono troppo grandi per un uomo: io non le credo. — Le parole sono grandi forse, non la verità che nascondono, — gli rispose con lentezza il suo fratello d’una volta. — Le più serene filosofie, le rinunzie più sante, celano spesso nel fondo un acerbo rancore contro la vita. Così di me. Allora sarò più piccino, mi denuderò, guarda: È un corpo questo che mi rimane? Ho forse una speranza di risanarmi, di ricominciare? No! Il mio martirio non può essere che più lungo o più breve, ma non altro che un martirio; e la scienza non inganna quel presentimento della morte che penetra tutte le vene, quand’essa già si trascina carponi nella nostra ombra. Si levi e mi prenda! Che serve il vivere in una poltrona, coperto di scialli, nutrito di medicine, soffrendo torture fisiche e morali, facendo ribrezzo agli altri ed a me? Poi, compréndimi bene, io amo una donna come tu l’ami, sapendo invece che la spavento. E la desidero qualche volta, io sfinito, come la desideri tu, vivo e forte. Ma tu la puoi baciare... io no! tu puoi darle ancora un brivido... io no! — e tutto questo, lo riconosci ora? è meno grande che non sembrassero le mie parole. Parlava concitato, scuotendo i pugni, rosso nel viso d’una tragica vampa; indi spense la voce, che divenne piena di sarcasmo contro sè stesso: — Allora, vedi, per una vanità d’uomo, preferisco nascondermi prima di esasperare la sua pazienza e di farle odiare, nel suo disamore, anche la memoria di me. Insomma, se tu hai ne’ suoi occhi la bellezza della tua forza, voglio vestirmi d’una qualche bellezza pur io, voglio valermi dell’ultimo potere che mi resta: la bontà, voglio che tu non vinca interamente, intendi? perchè ti odio... sì, ti odio, e più forte, anch’io!... Vedi come tutto questo è meno bello, meno grande che non paresse a te. Ma, con un atto brusco, Andrea respinse quelle sue parole: — No: tutto questo non è vero! Tu vuoi «sapere», solamente «sapere»! Ti fai debole per fasciare la mia forza. Ebbene, poichè lo vuoi, affrontiamo ancora una volta, con vero coraggio, questo pericolo estremo. Siamo sovra un ponte stretto, per dove non si passa in due. Trasfigurato nel viso, Giorgio lo interruppe: — Con vero coraggio, hai detto? Sì, Andrea! sì, Andrea!... La commozione gli metteva un tremore all’ápice delle dita. — Sì, Andrea, — ripetè. — Ascoltami bene: per tutte le cose umane c’è la parabola, e in capo della parabola nient’altro che un circolo d’ombra. Tutto bisogna che finisca in putrefazione. Anche la nostra amicizia, ch’è stata un bel legame di due anime libere, non potè fare altrimenti. Ed io non te ne incolpo, Andrea: era necessario, doveva essere così. Ma c’è qualcosa che sopravvive a tutto questo, ed è la memoria di quello che siamo stati, tu ed io, là indietro, nella giovinezza. C’è, nella macchina logora, qualcosa, forse un peso inutile, che sopravvive: il cuore... Ed io, se mi sono trascinato fin qui, non è per tenderti una insidia, non è per sapere, perchè ormai più nulla mi è nascosto... ma perchè mi rincresceva morire senza che fosse ancora suggellata con un patto finale la nostra concordia d’uomini, ed è per dirti quel che ora ti dico: Strìngimi la mano, Andrea, lasciamoci da veri amici. — No! mai! — esclamò l’avversario. — Guarda: io mi metto a ginocchi davanti a te, se lo chiedi, ma non mi tendere la mano... mai più! mai più! — A tal punto mi odii? — Me odio! me stesso: non te. — Tu ingrandisci un piccolo dramma!... una donna, dopo tutto, è una donna... ci ha divisi, ci riunisce: dammi la mano. L’avversario, l’antico suo fratello, in silenzio lo fissò, a lungo; poi fece una domanda: — E se non potessi?... se non potessi più?... Comprendi la forza che racchiude questa parola: «potere»? — Le parole son parole... e poi sono anche fantasmi: scàcciali! Era sorridente, mite; una specie di augusta sovranità gli vestiva le sembianze; v’era, nel suo sorriso, ne’ suoi occhi, un non so che d’immateriale, che raggiava dal suo pallore come un sole nascosto. Ora sentiva di essere il più forte, sentiva di poter comandare: — Dammi la mano, — disse; — ho bisogno di te. — Di me? Che vuoi? — Aiuto, perchè non vedi come sono debole?... Ho bisogno d’aiuto, e tu solo me lo puoi dare. — Che vuoi? — La tua mano, dammi la tua mano. — Non posso. — Puoi, puoi... se ancora ti senti capace di farmi un dono. — Lei?... — balbettò l’avversario, esprimendo in quel solo monosillabo tutto il terrore che gli pervase l’anima. — Non lei... un altro dono più bello!... Dammi la tua mano. Subitamente, con uno scatto, Andrea tese il palmo al suo fratello d’una volta, all’uomo che gli era stato sacro e del quale «conosceva la morte». Tremava, tremavano entrambi, ed entrambi ne impallidirono, quasi avessero compiuto un rito infrangibile con quella stretta di mano che per l’ultima volta li affratellava. — Ed ora ascòltami, — disse Giorgio. — Il bene maggiore non è la vita, è la pace. Guàrdami negli occhi: vedrai nel fondo l’anima che non mente. Io ti ho perdonato, a te ed a lei; ho messo all’àpice de’ miei sogni la vostra felicità, ho soppresso il mio bene per il vostro bene. Poichè vi amate, e poichè la colpa è stata più forte che la vostra onestà, siate felici, voi almeno, che avete nel mondo una felicità possibile. La vita che diviene per sempre inutile a sè stessa deve continuare in un’altra. Ma se l’anima è capace di queste cose grandi, c’è la carne che non vuole, c’è la carne invida, che soffre, che si dispera... Ora ti dico: Andrea, fratello mio, liberami dalla carne trista... dammi un veleno! — Un veleno?... — mormorò esterrefatto l’avversario. — Sì, perchè il bene maggiore non è la vita, è la pace. Io ti domando la pace, e, se mi farai questo dono, avrai sciolto verso di me virilmente quel patto che l’amicizia mi deve. Non voglio sconvolgere con una tragedia volgare la tranquillità di questa casa, ma voglio tuttavia morire; sapere che sarete felici... non vedervi più! Parlava ormai senza che l’altro l’ascoltasse, con una voce opaca e squallida che aveva il colore d’una giornata d’inverno; parlava da una specie di lontananza, da una specie di solitudine, trascinando con monotonia le sillabe, come il vento fa nei prati quando ammulina la neve. — Un veleno?... — disse ancora l’avversario, indugiando nel magnetico stupore di cui lo percosse quella parola. — Sì, Andrea... e non impallidirne a quel modo! Io ti parlo d’una cosa semplice; la scomparsa d’un uomo è la più semplice di tutte le cose. Ora sorrideva d’un sorriso distante; v’era nelle sue disperate parole una tranquillità già divisa dal mondo. — Vedi: gettarmi da una finestra sarebbe odioso, ed il mio corpo è così affranto che forse mi mancherebbe il coraggio di farlo, sebbene vi abbia già pensato. Armi non ne ho; quand’anche potessi procurarmene, questa morte rumorosa e drammatica sciuperebbe, come l’altra, il mio disegno. Invece voglio andarmene come se la morte fosse venuta a prendermi qualche giorno prima... Ricòrdati quel che ti ho detto: è un dono che ti domando, e tu solo me lo puoi fare. Me lo devi anzi fare, perchè sono allo stremo e non posso più sopportare nemmeno un giorno di questa tortura. L’amo! l’amo come te, disperatamente, con tutto il furore che può essere nell’agonia d’un uomo... e la carne si ribella al pensiero che sia tua! Vedi, Andrea, ti parlo come si parla solamente con noi stessi. Il nostro patto è assai più forte che le meschine convenzioni degli uomini: vi sono casi nei quali è più santo dare la morte che salvare una vita. Tu, che senza volerlo m’hai preso tutto, mi devi pure un dono: dammi un veleno! Ora l’avversario l’aveva ascoltato senza guardarlo, con gli occhi fissi ad un punto magnetico nell’alta ombra, che vedeva egli solo. E quando tacque, seguitò ad ascoltarlo, senza che una linea del suo viso trasalisse, fermo dalla fronte al piede in una sinistra immobilità. Poi gli si avvicinò lentamente, fissandolo con i suoi diritti occhi, tersi e freddi come l’acciaio, pieni di vampe nere. Disse: — La tua domanda è di quelle che raramente un uomo sereno ha il coraggio di fare. Ma essa non mi atterrisce. Interroga bene il tuo spirito prima di rispondermi: Sei ben certo di volere quello che vuoi? Egli si pose una mano sul petto, aperta, con l’atto sacramentale di chi giura sul libro dell’Evangelo. E rispose: — Io ti chiedo che tu mi dia da morire con la stessa serenità con la quale un giovine impetuoso domanda la battaglia, sicuro di andarvi bene, con la fronte alta, ridendo. E lo domando a te, perchè tu solo, fra gli uomini che conosco, sei capace di farmi un simile dono, appunto senza tremare. — Lo credi? — Lo so! Nella pausa che si colmò con l’eco di queste parole, ambedue sentirono il lor cuore accelerarsi fino allo schianto. Poi Andrea lo afferrò per un polso e gli disse rapidamente: — Giorgio!.. Io potrei di fatti non tremare anche nel risolvere con semplicità il più grande problema che sia mai sorto nella coscienza d’un uomo. Sono un medico, la mia missione è di salvare: non dovrei poter uccidere. Tuttavia, più d’una volta, ebbi la tentazione di fare spontaneamente quello che oggi mi chiedi, per liberare una vittima dalle crudeltà oziose della morte. Se non lo feci, fu per seguire un pregiudizio, per non saper vincere quella sensazione che odio: la paura. Tempo fa, quando non ero colpevole, se tu mi avessi fatta la medesima domanda, ebbene ti avrei risposto chiaramente: «Hai ragione: devi decidere così. Ti aiuto.» Ma ora c’è qualcosa fra noi che me lo impedisce. La vita di un altro, si può rubarla, prenderla a tradimento forse... ma riceverla in dono come tu me l’offri, no! — Andrea, non ragionare!... Noi siamo venuti a quell’ora dove il ragionamento più non regge. Hai dinanzi a te un uomo che ti fu caro, al quale fosti caro, e che soffre, soffre orribilmente... Quest’uomo, con l’anima sua più viva, ti dice: «Senti: ho finita la strada, voglio sparire.» Dunque non discutere. La mia decisione ormai è presa: mi ucciderei da me, in ogni caso, perchè, se tu potessi anche salvarmi come hai fatto per tante creature malate, non mi daresti che il mezzo di soffrire più lungamente. Quello che si chiama l’irreparabile, nè tu nè io potremmo sanare mai più. Invece, tu che sei stato il mio compagno nel mondo, aiùtami!... aiùtami ancora una volta: ho bisogno di te. Voglio andarmene senza insanguinare la casa dove non fui che un ospite, andarmene senza mettere una corona di spine sotto il velo della vedova che lascio... Rimanga fra me e te un segreto: noi fummo abbastanza forti per portarlo sul cuore. — Sai cos’hai fatto? — esclamò Andrea cupamente. — Mi hai messo davanti agli occhi uno specchio e mi hai detto: «Guàrdati!» Ecco, mi vedo; e sono orrendo! — No, sei vivo e difendi la tua vita: questa è la sola differenza fra noi. — Ma perchè ti uccidi, tu che sei credente? — lo interruppe di nuovo Andrea, quasi cercasse di opporre ostacoli al compimento di quell’atto che si rendeva necessario. — La mia fede è un’altra, — Giorgio rispose con serenità; — il mio Dio non è crudele. Guardava in alto, come già lontano, già libero da tutte le impurità che insozzano il cuore degli uomini, e gli splendeva nelle iridi azzurre la limpida visione della sua pace ultima, la tranquilla certezza in una fede sua, più grande, più intima, che la predicazione di ogni chiesa. Poi gli tese le due mani, come per un commiato: — Addio... forse mi sei stato più caro che tutto nel mondo... e mi sarai più fedele, se m’aiuti. L’avversario illividì. Ora, nella sua carne innervata d’acciaio, ripalpitava il cuore dell’uomo, il cuore fragile che s’impaura e che trema, il cuore pieno di gemiti, che si commuove davanti alla bontà. Su le labbra gli venne una confessione, l’ultima, la più disperata, e fu per dirla: — Senti... Giorgio... Ma un istinto supremo contenne la sua voce, gli ricacciò nel cuore le parole che ne traboccavano, e pensando all’amante, alla quale «doveva il suo delitto», mormorò a fior di labbro, come per chiederlo a sè stesso: — Chi l’avrà amata più forte? Ella s’interpose fra loro, bella com’era, vestita del desiderio d’entrambi, e sentiron ciascuno la sua presenza invisibile, soffersero di lei come se li toccasse con il suo corpo discinto. Poi Giorgio disse: — Tu forse, poichè rimani, mentr’io fuggo. E sopra tutto perchè è tua. Una memoria di lei trascorse nelle lor vene, sentiron che si apriva tra loro un abisso perpetuo, vasto come la morte. Ancora tacquero, ed attesero, come se nell’indugio fosse una speranza imprevedibile. I loro pensieri correvano con isfrenata velocità per il più vasto campo che vi sia da percorrere, cioè dalla vita alla morte, dal principio alla fine d’una esistenza umana. — Dunque? — disse Giorgio dopo un lungo silenzio. L’altro attese innanzi di rispondere: cercava in sè un rifugio contro la sua medesima volontà. Infine disse: — Una sola domanda, Giorgio. Oseresti fare per me quello che ora mi chiedi? — Se ciò valesse meglio che offrirti la mia stessa vita, sì, lo farei. — Ma per compiere un simile atto bisogna esserne degni! — Poi soggiunse brevemente: — Potrei non esserlo più. L’anima, ne’ suoi occhi, si accusava con una disperata sincerità. — Se devi sorpassare un ostacolo di più, vuol dire che mi offri un dono più grande. — Ma, Giorgio... — egli balbettò con angoscia, — se Novella... se io... se qualcosa che tu non sai... mi tiene alla vita, m’incatena, m’impedisce di punirmi con la stessa mano che t’aiuta, se... — Taci, taci... Vi sono silenzi che debbono continuare anche oltre la morte. Una sola cosa mi devi: ubbidirmi, e poi vivere, perchè nessuno lo sappia. D’improvviso, come se gli balenasse nel cervello un tragico lampo, l’avversario guardò in faccia la morte. — Sì? lo vuoi?! — esclamò. Colui che fu nella vita il suo fratello senza colpa gli posò una mano sulla spalla, come avrebbe fatto nel posarla sulla pietra d’un reconditorio, e disse: — Tutta la mia vita mi sia testimone della risposta: «Sì, lo voglio!» L’avversario lo prese ai polsi, lo serrò convulsamente: — Sia! Poi si volse: l’armadio carico di boccali traluceva nell’ombra; su la tavola ingombra, il fascio del riflettore traeva barbagli dalle boccette di cristallo, dagli aghi d’acciaio, rilucentissimi. Il medico, muovendosi a scatti, veloce, attento, ruppe col pòllice la chiusura ermetica di due boccette, ch’eran sottili come cannule di vetro; ne mescolò alcune gocce in un piattello concavo, dove c’era un dito d’acqua, e lentamente, serrando i labbri, ne riempì la siringa. Il liquido, salendo nel tubo di vetro, diede uno sprazzo iridato, simile ad un piccolo sole rosso e livido, che si spense quando fu al sommo. Allora il medico scosse la siringa per mescerne il contenuto e l’esaminò due volte contro il lume. L’ago minutissimo portava su la punta una scintilla. Poi la depose su l’orlo della tavola e la guardò. La guardò come se fosse ormai solo, come se l’irremediabile fosse già compiuto. Il morituro s’avvicinò lentamente; senza paura, ma lentamente... — È questo il veleno? E sopra vi pose un dito, come per toccare la morte. Parlava automaticamente, con un riso a fior di labbro. Il medico assentì con un cenno del capo, mentre affascinati guardavano entrambi la siringa lucente, colma di un liquido senza colore, innocuo, limpido come l’acqua. L’uomo che doveva morire snudò il braccio sinistro rimboccando la manica lentamente: poi torse il viso, la bocca gli si fece obliqua, e prese la siringa fra due dita. — Che fai? che fai! — gridò l’altro per istinto, soffermandolo. Egli rise, ma d’un riso gutturale, stranamente simile a quello di Marcuccio quando finiva la sua Canzone. — Guarda: e non trema... — disse. Accennava al suo braccio arido, giallastro, proteso contro il lume, e che tremava tuttavia. Egli non vedeva quel tremore, l’altro sì. — Senti, Giorgio... — balbettò l’avversario. — Come si fa?... — domandava ridendo quegli ch’era presso a morire. — Senti, Giorgio... Giorgio!... — Come si fa?... — Così! Rapidamente gli tolse la siringa di mano, e con orgoglio, con la fronte alta, come parlasse a’ suoi giudici invisibili: — Io! — disse — io debbo finire di ucciderti, non tu! Non tu, con la tua mano, ma con la mia — guarda! — e anch’essa non trema! Gli teneva strettamente il polso, aveva l’ago pronto a pungere su la pelle rabbrividita, irta del suo pelo, cupa, fra i tendini tesi. Poi diede un colpo forte e schizzò dentro il veleno. — Ahi!... come fa male... ahi!... dille... E girò, in deliquio, sui calcagni, urtando contro la tavola, rovesciando il riflettore, che si spense. Colui ch’era stato il suo fratello ed il suo nemico nel mondo lo sollevò di peso su le braccia e lo portò a giacere nella poltrona Poi riaccese il lume. IX Riaccese il lume per guardare il suo delitto. Come uno di que’ grandi fantocci meccanici che il burattinaio butta sopra una scranna, flaccido e penzolante, quando ha finito di fargli recitare la sua parte, così appariva l’uomo semisdraiato nella fonda poltrona, con il capo recline da un lato, il mento sovra una spalla, le braccia cadenti fuor dai bracciuoli, le gambe divaricate. Respirava; il suo respiro era visibile, anzi forte. Ogni tanto un tremito assaliva una di quelle mani ciondolanti, ne scuoteva il polso convulsamente, poi quel tremito correva su per il braccio, dando contro la spalla un urto secco. Parimenti i suoi piedi ogni tanto si squassavano, facendo flettere le ginocchia in dentro come fossero gambe di sciancato. Una ciocca di capelli gli era caduta su la fronte, empiva un’orbita molestando la palpebra chiusa. L’ombra della poltrona e di quel corpo informe ingombrava il pavimento irraggiato, saliva obliqua per lo zoccolo del muro. Quando Andrea Ferento ebbe raccolta la siringa, cadutagli a terra nella fretta di sorreggere lo svenuto, quando l’ebbe lavata e rasciugata, ne staccò l’ago sottile, prese un panno e si mise a strofinarlo. Ogni tanto lo provava su l’unghia, quasi per accertarsi che la punta non si fosse rotta. Poi lo esaminò da presso, contro il lume, strizzando l’occhio, e lo mischiò in un mazzo di aghi simili, più grossi e più minuti, ch’erano involti in una carta velina, e li racchiuse dentro una scatola. Riordinò le boccette nell’armadio, avendole tappate con la maggior cautela, poi si volse tranquillo, come se avesse condotto a termine un suo lavoro consueto, e macchinalmente guardò l’ora. Era di poco trascorsa la mezzanotte; ma egli forse non vide le sfere. Allora fece automaticamente un giro intorno alla camera, quasi radendo la parete: si fermò presso la finestra, affondò nei buio lo sguardo vacuo, poi retrocesse verso il mezzo della stanza, dov’era coricato il fantoccio tragico nella poltrona profonda, e, fermo in una specie d’insensibilità, rimase a guardarlo. Respirava: il suo respiro era visibile, tuttavia meno forte. Guardò l’ora un’altra volta, quasi contasse i minuti che ritardavano la morte. Un rombo, lontano, vicino, gli saliva nel cervello impedendogli di pensare. Allora poggiò l’orecchio sul cuore del fantoccio e pronunziò queste due sillabe distintamente: — Batte. Gli raccolse le due mani che penzolavano; il contatto della sua pelle gli dette una sensazione molesta, sicchè gli parve miglior cosa lasciarlo stare. Le due mani ricaddero su le cosce, facendo un rumor soffice come se fossero inguantate, e più non si mossero. Nel suo cervello, qualcuno, forse una voce estranea, pronunziò questa parola quietamente: «La bara.» Egli da prima cominciò a pensarne il solo nome, poi vide la forma della cassa di legno, infine si rese conto che c’era un morto, una lunga forma stecchita, trasudante un lezzo nauseabondo, che bisognava stendere là dentro, nella cassa di legno, nella bara. Morti, egli ne aveva ormai veduti un gran numero; e cominciò a ricordarsi dei tanti cadaveri che aveva toccati con la sua mano ferma, sezionati con la sua mano veloce, e rivide certe fisionomie particolari, delle quali si rammentava in quell’attimo con una precisione sorprendente. A lui, medico, il cadavere non faceva paura; negli ospedali e nelle cliniche s’era avvezzo a parlar forte, a ridere qualche volta vicino ai morti. Ma ora gli sembrò inconsueto, strano, fin questo nome di cadavere; gli parve per la prima volta che morire volesse dire qualcosa più che rimanere immobili e freddi. Siccome l’uomo spento gli era quasi familiare, concepì mentalmente l’orrore della carogna, poichè gli era occorso di vederne assai meno. E per una di quelle astrazioni del pensiero che talvolta ci avvincono quando siamo fortemente presi dal senso d’un’angoscia non ancor bene determinata, gli passò negli occhi l’immagine di un povero cavalluccio che aveva una volta veduto, quando era studente ancora, nel visitare una scuola veterinaria. Era un cavalluccio sardegnolo, decrepito, che d’animale vivente non conservava più se non una parvenza macabra e grottesca. Era stato venduto forse da un carrettiere per il valore della sua pelle, perchè, nemmeno a forza di bastonate, non si poteva più mandarlo innanzi d’un passo. La Scuola lo aveva destinato ad un ufficio non comune: quello di servir da paziente in tutte le operazioni che convenisse mostrare praticamente agli allievi veterinari. Su la sua povera pelle, scucita e ricucita chissà mai quante volte, avevan provato e riprovato per ogni verso tutte le operazioni che l’arte chirurgica insegna. Per quel po’ di paglia e di fieno che gli davano di tempo in tempo, durante le sue convalescenze, gli avevan aperto il ventre, fessa la gola, semiaccecati gli occhi, recisi i tendini, sforacchiate le spalle, passandovi dentro certi lunghi tubi che parevan aghi da calza infitti in un gomitolo di stoppa. Ad operazione finita, lo ricucivan su alla bell’e meglio, poi lo cacciavano a guarire davanti una mangiatoia semivuota. Camminava come se avesse le quattro zampe di caucciù, e nell’andare dalla sala operatoria fino alla stalla cadeva tre o quattro volte su le ginocchia insensibili... Proprio quel giorno ch’egli lo vide, nel mezzo d’un’operazione il cavalluccio morì. E per tutta la sua vita egli non aveva potuto scordar l’orrore di quella povera piccola carogna, su la quale i veterinari armati di bisturi sanguinanti s’erano messi a ridere. Ora lo rivide, in un lampo fugace, quel decrepito cavalluccio sardegnolo, rappezzato come un mantello da mendicante, ch’era morto legato, senza poter tirare un calcio, rovesciando appena le froge violastre su la dentatura gialla. Ascoltò. Respirava; il suo respiro era visibile, ma fioco. La pelle del viso mutava colore, schiarandosi; la bocca si faceva un po’ tumida, gli occhi si enfiavano, benchè serrati. — Giorgio... Egli si provò a profferire il suo nome; non lo disse, ma gli parve di averlo detto: «Giorgio». Questo nome era stato una cosa enorme nella vastità interiore del suo mondo; ma ora pareva un nome strano, stridente, una parola quasi anormale, vuota come una caverna. Gli sembrava che fosse decorso un tempo immemorabile dal principio di quella sera. «Che volete? che volete?... Sì, l’ho ucciso!» — gridava, urlava a’ suoi giudici invisibili, ma con la sola voce del suo spirito, — mentre in verità gli pareva di gridare. Nel suo dualismo interiore si ricordava di averlo ammazzato, e non sapeva se fosse morto; provava uno strazio spaventoso, ed era tranquillo come un ebete; aveva la sensazione illusoria di essere davanti alla stessa persona, che fosse viva e morta nel medesimo tempo. «Sì, l’ho ucciso; io! Sì, vedete: con questa mano; io, con questa mano; io!» Era immoto, e gli pareva di agitarsi, di urlare, scagliando il pugno contro un’assemblea di avversari, contro un comizio di giudici che l’accerchiassero da ogni parte. «Fratello, rispondi per me! Lévati e rispondi: — Non era questo il mio diritto?» Intanto, nel suo dualismo interiore, l’altra parte di lui spiava minutamente i segni della morte. «Fratello, rispondi, rispondi!...» Poi gli parve che la casa si destasse, e tutti accorressero, balzati fuori dai letti sconvolti, le donne, gli uomini, scapigliati, e dietro l’uscio gridassero: «Apri! apri! vogliamo vederlo innanzi che sia morto... Apri!» E lo scemo, fra loro, in una camicia da notte che lo faceva sembrare uno spettro, la guancia poggiata contro il violino, suonava con furia, con strazio, finchè le corde saltassero, la Canzone Disperata... Erano fuori dalla porta in gruppo, accaniti; squassavano l’uscio, gridando: «Apri!» L’altr’uomo vigilò, in ascolto, e non intese rumore. Su la poltrona il pupazzo tragico si torse, come se avesse dentro un perno che gli permettesse di svitare il busto dal ventre, il collo da le spalle, in un modo bizzarro. La bocca s’era messa a ridere, le gengive congestionate schiumavano. Per tutta la lunghezza del collo s’incordava una grossa vena tesa come un elastico: le mani convulse annaspavan nell’aria, i piedi si urtavano, producendo con i tacchi uno scricchiolìo sinistro. Gli colò su la giubba un filo di bava, e il medico lo deterse. Fuori, dietro i vetri leggermente appannati, brillavano stelle fra gli alberi, come lucciole in un cespuglio. Bella notte, odorata, ingemmata, ch’era piena di lembi d’azzurrità. «Quanti anni passeranno?...» — Anni voi dite?... — «Sì, anni.» — Prima di che? — «Prima che tu ritorni a vivere.» — Ma non vivo io dunque? — «No, è un incantesimo.» — Un incantesimo?... E l’altr’uomo, il medico, si chinò sopra il cuore del pagliaccio. Respirava, non più visibilmente, con un affanno lieve. — «Ho fame! ho sete! ho sonno! ho voglia di camminare! di fumare, di agitarmi, di ridere!» Egli si disse queste parole con veemenza, osservò questi suoi propri desiderii con chiarezza. Non poteva invece far nulla di tutto ciò; era fermo, incatenato lì, vicino a quella sembianza d’uomo, sotto il potere di una forza incombattibile, che li stringeva entrambi nella stessa notte. Fece sogni. Camminare d’Aprile per la campagna, lungo una bella strada soleggiata, respirando il buon profumo che mandano le siepi cariche di fiori... Scendere giù per un fiume impetuoso, a forza di remi, sentendo l’acqua insorgere gonfia e rapida sotto la chiglia... Addormentarsi in un bosco; vedere i falciatori mietere una messe; balzare in groppa d’un cavallo focoso per una prateria senza termine... Trovarsi preso nel tumulto di una folla, per una strada cittadina piena di fragore e di transito... volare con un treno velocissimo attraverso la doppia fila dei pali telegrafici... essere nella platea d’un teatro, presso i forni d’un’officina... dappertutto, dappertutto, dove ci si muove, ci s’incalza, ci si agita, si vive!... E gli pareva che mai più, mai più farebbe tutto questo, mai più godrebbe di queste inebbrianti gioie, perchè in quella notte, nel carcere di quelle quattro pareti, era accaduto qualcosa di enorme, qualcosa di finale, che soverchiava tutte l’altre possibilità. «Sei morto? No, non sei morto? — Allora non puoi rispondere?... Sì? mi puoi rispondere? — Che dici? — Ah, che t’uccida? — Ma se già t’ho ucciso? — No? non dici questo?... Allora che dici?... Parla più forte; così non mi riesce d’intendere. Ah... sei tu?... Ma chi sei?... E l’altr’uomo, il medico, toccava quella fronte già un po’ fredda. «No, no... ucciderti non posso! Lo vedi bene che non posso. — Cos’hai detto? Un veleno? Ripeti; non hai detto un veleno?... Ma che lingua parli? Cos’è questo nome che dici continuamente?... — Ah, sì... Novella! — Ma perchè parli a quel modo, come se avessi la bocca piena d’acqua? Novella, hai detto?... Sì, sì...» E vide la sua faccia bella, null’altro che l’immagine della sua faccia bella, non direttamente, ma quasi rifranta in uno specchio, e lontana, perchè lo specchio stava lontano, e nebulosa, perchè l’aria per dove si mirava era un po’ fosca. La vide con i suoi capelli disfatti, così lunghi e folti che la cornice dello specchio non tutti li conteneva, e gli sembrò di volerla guardare negli occhi senza potervi riuscire. Tutte le volte ch’egli cercava d’incontrare le sue pupille, quegli occhi sfuggivano, lo specchio andava sempre più lontano, finiva in un’albore, in una striscia, in un punto... Rimase un nome, un solo nome, vuoto anch’esso come una caverna, pauroso come un incubo: «Novella...» E l’altr’uomo, il medico, gli toccava il polso quasi fermo, il polso ch’era divenuto greve. «Ma io non ho paura! nessunissima paura! Sono libero! Cammino, se voglio; se voglio, rido! — È notte. — Ebbene, se è notte, che fa? — Sono leggero, mi sento agile: posso andarmene dove mi piace! — Fa buio. — Che importa? Domattina si leverà il sole; un bel disco rosso, arroventato come la bocca d’un forno. — Questo è il sole: un bel disco rosso che mi piace assai di vedere.» Il fantoccio si svitò un’altra volta, e questa volta parve che avesse una cerniera proprio nella schiena e che alcuno gli avesse dato un pugno proprio su la nuca, un pugno che tutto lo percosse. Le braccia, con i pugni serrati, si tesero verso le ginocchia, i due piedi s’allungarono quasi per dare un calcio nel vuoto, il ventre si piegò sotto le costole come un mantice vuoto, e trafitto nel fianco da una specie di pugnalata ultima, tutto il corpo ciondolò da quella parte: il mento gli si confisse obliquo contro la sommità del petto. Pareva che il burattinaio avesse dato uno strappo così forte da rompere tutti i fili, — e i fili, schiantando, fecer rumore. Un rumore diverso da tutti quelli che l’orecchio distingue, corto e fioco, ma più persistente che la vibrazione d’un metallo, un rumore atono, pieno di tutti gli altri suoni che insieme producono il ronzìo della vita. Allora nel fantoccio immobile tutto si trasformò visibilmente: il colore, la forma, il peso, l’abito, l’atmosfera che gli stava intorno: tutto. L’altr’uomo, il medico, dopo avergli lungamente cercato nel polso un battito che non c’era più, chinò l’orecchio sul cuore del fantoccio, ed arretrando con un balzo pronunziò distintamente questa sillaba: «No.» Tutta la casa, fra muro e muro, da’ solai tenebrosi alle rombanti cantine, gli parve di súbito invasa da una musica furibonda... La canzone diceva: . . . . . . . «...e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli lontani... Cammina: la vita comincia domani, domani, domani...» X Ora, svanito il sogno, si ritrovò solo davanti a quel morto. Non più fantasmi assedianti, non più misteriose voci nè musiche immaginarie per la gran casa muta, ma un uomo calmo e logico di fronte ad un cadavere ingombrante. Con uno di quegli sforzi estremi della volontà, che riuscivano ad incurvare la sua forza come un duro metallo, giunse a ricacciare da sè quella torma di paurose allucinazioni, per affacciarsi con tutta la sua chiarezza mentale ad una sola necessità: quella di nascondere il delitto compiuto e dare alla morte di quell’uomo l’apparenza più naturale. Bisognava, con uno sforzo quasi eroico, annullare il proprio essere sensorio, non vivere per qualche attimo che di cervello; bisognava soffocare il rimorso, il ribrezzo, lo stordimento, la paura, distruggere in sè la memoria, il nome stesso di quel morto, per inscenare il quadro più verisimile intorno alla sua spoglia muta. Anzi tutto rimuoverlo da quella stanza, sollevarlo su le proprie braccia, e nel buio, senza rumore, traversando il corridoio, portarlo a giacere nel suo letto. Egli vide tutto questo con precisione, come se un altro lo dovesse fare in sua vece; poi sùbito, con quella rapidità d’azione che in lui seguiva il pensiero, comandò a sè stesso: — «Ubbidisci!» «Ubbidisci!» In tante ore della vita gli era stato necessario darsi questo comando breve. Ed era, non la sua stessa voce, ma la voce d’un tiranno interiore che glielo gridava contro i timpani, che inchiodava questa parola nella sua volontà a colpi di martello, facendolo tutto vibrare. Avesselo condotto su l’orlo d’un abisso e detto: «Balza!» — egli, senza retrocedere, avrebbe spiccato il salto. Avessegli detto: — «Cammina contro mille, perchè necessario è camminare!» — e contro mille, da solo, senza tremito, avrebbe camminato. Questa voce che in lui dettava era veramente il suo Dio. Il morto era nel mezzo della camera; la sua goffa ombra invadeva il pavimento, la parete; egli stava in piedi entro quell’ombra, sapeva di esservi, ed anzi gli sembrò d’averne i piedi avvinti, sì che fece uno sforzo muscolare per divincolarsi da lei. Ma l’ombra lo teneva in sè come una preda, l’avviluppava nel suo fermo tentacolo, nel suo mantello d’immobilità. Pensò allora che bisognava spegnere quell’ombra, anche perchè non si vedesse dal giardino la sua finestra troppo a lungo illuminata; e trattosi da lei con la fatica dell’uomo che vinca una melma tenace, andò alla finestra, onde guardare se fossevi abbastanza lume di stelle per compiere quel che doveva nel buio. Una effusa chiarità lunare vestiva tra gli alberi una magnolia lucente, ed egli vide in capo dei possenti rami cullarsi quei suoi grandi fiori lascivi e candidi come un seno incipriato, che pareva dormissero su la pigrizia d’un’acqua sonnolenta. Dietro i vetri chiusi, egli non sentiva il profumo della notte primaverile; ma la fragranza di quei fiori di magnolia, che dall’albero antico e brillante incensavano l’aria come fontane di soavità, gli eruppe in faccia con una larga ondata, salendogli fino al cervello, così fortemente, che il profumo della notte lo stordì. Quella fragranza, quella chiarità lunare su l’albero di magnolia, e tutta insieme quella pace azzurra trascorrente nelle vive arterie della notte, eran ancora immagini delle cose a lui vietate, eran sirene che parevano attrarlo dentro un incantesimo di pace, visioni che lo persuadevano alla dolcezza dell’oblìo. — «Sì, puoi spegnere il lume,» — disse a lui, nell’intimo, la voce del suo vigilante complice. Retrocesse dalla finestra verso la tavola, spingendosi a forza di scatti, come un animale restìo, e nel posare le dita su la chiavetta del riflettore osservò che il suo polso non era fermo. — «Tremi?» Questa parola ch’egli aveva odiata conveniva ora dunque per lui? — «No, non tremo!» E rapidamente spense il lume. Ora egli vide cadere dall’alto soffitto una molteplice cortina di mantelli neri, che si srotolavan l’uno dopo l’altro, grevi, enormi, funerei, come una tenebra che rapidamente aumentasse. Non vedeva più nulla; era solo, sperso, nel silenzio assoluto, nell’assoluto buio. Con le dita fredde si stropicciò gli occhi, perchè si accorse che quel tenebrore pioveva in lui, non intorno. Allora, in un lampeggiamento di strappi rossi, cominciò a distinguere. A distinguere la finestra che inazzurrava, l’alta parete imbiancata, i mobili fermi, l’ombra... quell’ombra inamovibile. E vide una cosa orrenda: la faccia del cadavere, torta su la spalliera, convulsa in un sogghigno che pareva di riso. Allora, per la prima volta nella vita, il cuore accelerando e sostando, gli fece conoscere cos’era veramente la paura. S’agghiadò e retrocesse, brancolando con la mano che ricercava il lume. «Tremi! tremi! tremi!...» — gli urlava dentro sarcasticamente la voce nemica. — «No!» E si aderse in tutte le sue membra, di scatto, come davanti ad una provocazione. Si sentiva nei polsi, contro le tempie, battere il sangue a fiotti; gli pareva che la camera desse un continuo traballamento. Poi si provò a guardare un’altra volta verso quel riso che l’atterriva: e lo sostenne. Non era più riso, ma uno spasimo che aveva in sè, nello stesso tempo qualcosa di selvaggio e d’inerte. Provò a ragionare per darsi animo: — «È un morto, — si disse, — come ne ho veduti centinaia; il principio della polvere... insensibilità, silenzio, fine.» Ma non gli pareva che fosse un morto come l’altre centinaia, che non fosse materia senza uomo, che non tacesse, che non fosse finito. Avendo l’uso di separare il proprio cervello dagli errori della sensibilità, si mosse un’accusa ponderata, osservando: — «È l’anima tua che gli presti e sono i tuoi sensi alterati che propagano su lui una parvenza di vita. Ma questa è materia che solo pesa; è cosa morta, cioè senza possibilità, e non la devi temere.» Per analogia gli riapparve, come in una visione distante, il cavalluccio sardegnolo morto nella sala operatoria fra i veterinari che ridevano. — «Bada, — lo avvertì la voce — che il tempo corre.» Infatti ebbe la sensazione immateriale di qualcosa che continuamente correndo fosse continuamente più in là del pensiero; questa cosa era il Tempo. E smarrendosi nella sua fuga immensa, piccola e vana cosa gli parve il suo delitto, che non poteva nemmeno sospendere d’un attimo quel perpetuo volare. Gli avvenne di supporre che gli uomini, quasi per dare un senso al Tempo, avessero immaginato Dio. Questa osservazione, sorta in una specie di pausa interiore, gli sembrò logica; ma in essa v’era quel nome di tre lettere, che lo accese di ribellione, quantunque insieme s’accorgesse ch’era semplicemente una parola. — «Dio: la gran fiaba del mondo!... Ma tu che fai? sogni?» Possessore di sè, cauto, vigile, s’appressò all’uscio in ascolto; girò la chiave nella serratura, lentamente, perchè non stridessero gli ingegni; aperse uno spiraglio, v’appressò l’orecchio. Il filo d’aria gli produceva sul timpano una specie di ronzìo. Non altro romore si udiva per la casa dormente: appena quel rombo imprecisabile che nasce dalla presenza d’esseri vivi entro i muri d’un edificio. Uscì nel corridoio, giunse fino al pianerottolo, ed un senso di libertà quasi gioconda entrò nelle sue fredde vene, come quando si riacquista il respiro dopo un principio di soffocazione. — «Bada... — egli suggerì a sè medesimo — le tue scarpe...» Scricchiolavano. Un rumore minimo, che gli parve grande. Strisciò a passi lenti fino all’uscio della camera di Giorgio; l’aperse con cautela, ma interamente, per aver libero il passaggio allorchè tornerebbe con il cadavere su le braccia. S’avvicinò al letto per studiare in qual modo ve lo avrebbe disteso. Vedendo l’incavatura nei guanciali sovrapposti ed il solco profondo che la persona dell’infermo aveva lasciato nel lenzuolo, già gli pareva di recarlo su le braccia e di sentirne il rigido peso, che gli faceva scorrere dentro l’arterie pulsanti una vena di freddo sottile. Perchè la deposizione gli riuscisse più facile, rimboccò la coltre fino a mezzo il letto, poi cautamente rifece il cammino, strisciando lungo il muro, trattenendo il respiro, vigile e pauroso come un ladro. — «Se alcuno scendesse quand’io passerò col mio carico?...» — «Fa presto! — gli comandò la voce. — Fa presto!» Rientrò nella camera dov’era il morto, e s’attendeva quasi a trovarvi una trasformazione, o suppose, per mo’ d’assurdo, la cosa più inverosimile: che il morto non ci fosse più. Era invece nella medesima positura, di sbieco traverso la poltrona, con il capo torto su la spalliera, le braccia pendenti, i pugni chiusi, le gambe unite per le ginocchia, simili a gambe di sciancato. Che orrore!... Come già era lontano entro la morte quel miserando corpo! Ed ora bisognava sollevarlo, avere il coraggio supremo di reggerne il peso contro il suo petto... Che orrore! Provò ad avvicinarsi; ma gravitò indietro, quasi resistendo ad una mano che gli avesse dato un urto per spingerlo su di lui. Allora, in quel punto, si ricordò che le sue scarpe scricchiolavano; e cavatele in fretta, cercò a tastoni presso il letto le pantofole di feltro. Si vide pronto, e gli parve d’un tratto che mai non avrebbe saputo varcare quella breve distanza. Sbarrò gli occhi e su le iridi provò una sensazione di freddo; si mise a considerare l’ipotesi che il coraggio gli venisse meno, che le sue braccia mancassero di forza per sollevare quel peso; un gran terrore s’aperse in lui, vuoto e freddo come un’enorme voragine. — «C’è dunque una cosa che tu non sappia osare? — No, impossibile! — Tu, che non credi alla divinità della morte, vacilleresti ora come una femminuccia? Chi mai t’impedisce di sollevarlo? Il Soprannaturale forse? — Non c’è Soprannaturale!... Avanti!» Alle sue ginocchia disse: «Avanti!» — al suo piede feltrato, e lo disse più fortemente al cuore che batteva. — «Ti perdi e la perdi... Chi?... Lei!» Allora la vide, che dormiva nel suo letto, immersa nelle sue trecce allentate, o forse che vegliava, sollevata sui guanciali, con il viso fra i palmi, a sua volta pensierosa di doversi uccidere. — «Avanti! È necessario!» Si ribatteva questa parola dentro il cervello, senza tuttavia riceverne alcun senso di necessità. Gli pareva di camminare, ed era sempre fermo, gli pareva d’esser giunto presso il cadavere, di sollevarlo, ed un senso d’orrore lo faceva retrocedere, senza che si fosse mosso. Mentre così perplesso vacillava cercando di riafferrare la sua volontà impossente, parvegli udir rumore. Si risovvenne di quegli usci aperti e l’istinto fisico della propria salvezza fu quello che lo sospinse. In un baleno, si curvò sul morto... ma gli stridevano i denti; le braccia gli si erano indurite nelle giunture, pesavano come fosser piombo, e gli doleva d’un dolore acuto, fra vertebra e vertebra, la spina dorsale. Però s’era detto e si diceva: — «O ch’io lo porti, o ch’io muoia!» S’inginocchiò: fece, nel sollevarlo, uno sforzo maggiore del necessario, ed il corpo scosso gli traballò contro il petto, quasi cercasse d’avvinghiarlo in un abbraccio macabro. Aveva contro la bocca una spalla del morto, ed uno di quei gomiti acuti gli premeva su le costole come per resistere alla sua stretta brutale. Sentiva su l’avambraccio il peso del capo riverso, e su lo stinco e sul polpaccio, mentre s’alzava, i colpi di quei calcagni penzolanti. — «Lo porto! lo porto!» Chiudeva gli occhi per terrore; li apriva per veder la strada. — «Così lieve? No, così greve. — Perchè ragiono? — Avanti! Passeremo per l’uscio? — Sì, di sghembo. — E se cade?...» Allora serrava le braccia. Gli sembrò che il morto lasciasse nella poltrona qualcosa di sè. Pur tenendolo forte, si volse a guardare. Duplice lo rivide: com’era innanzi e com’era, supino, sul catafalco delle sue braccia. In quel momento s’accorse di non tremare più; fece un passo, poi un altro, poi molti, e pose un’attenzione estrema nel non urtare contro l’uscio. Diceva continuamente, a fior di labbro, quasi per aiutarsi nell’opera: — «Sì, sì, sì...» Sporse prima il capo del cadavere, indi passò con tutto il corpo. Nel corridoio bisognava camminar obliquamente, ma la strada era facile. «Sì, sì...» E nell’andare gli venne in mente che Marcuccio era innamorato della Berta... Ogni tanto i calcagni duri battevano contro la sua coscia; quel gomito confitto nel suo petto gli dava estremamente noia. Non poteva ben comprendere se andasse in fretta o piano, ma la strada gli parve lunga, e non trovava l’uscio. Tuttavia, dalla soglia di quella camera una velata chiarità filtrava nel corridoio notturno, ed egli finalmente la vide. — «Sì, sì...» Gli sporse dentro i piedi, quindi passò con tutto il corpo; l’adagiò malamente sul letto e si volse rapido a rinchiuder l’uscio. Una specie d’ilarità silenziosa gli eruppe dall’anima; quasi ebbe voglia di beffarsi del suo terrore vinto; si toccò, una dopo l’altra, le braccia, poi la fronte, ch’era un po’ sudata. — «Salvo!» — «Non ancora, — gli suggerì la voce: — svéstilo.» Già, bisognava svestirlo. Doveva essere morto nel suo letto, senza urlo, solo. — «Svèstilo» — «Sì, lo faccio, guarda: ora è facile!» Il morto era coricato in obliquo su la larghezza del letto; le gambe sovrapposte gli pendevano in fuori. Egli s’inginocchiò su lo scendiletto e gli tolse le scarpe, adagio, come se avesse tempo da perdere; gli tolse anche le calze, e con ordine le ripose dov’erano di consueto. Una bella striscia di luna rischiarava meglio di un candelabro; in quel chiarore azzurro si vedeva ogni cosa distinta, ma quasi ravvolta in un contorno d ’irrealità. Gli sbottonò i calzoni, glieli tolse, dopo averlo sollevato con fatica; li piegò, li mise a cavalcioni d’una seggiola, dov’egli era solito porli quando si ricoricava. Non s’era messo mutande: le due gambe giallastre, aride come due lunghi batacchi, percorse da un rilievo di tendini che parevan funi tese, erano fredde di quel freddo particolare che si distingue da ogni altro, ed al quale non v’è parola che somigli tranne la parola: «morte». Le due ginocchia parevano intorneate da una chiazza d’ombra; le cosce ischeletrite, simili a quelle d’un paralitico, mostravan più dell’altre membra i segni della consumazione. Ed egli, che lo svestiva ormai senza paura, s’indugiò per un attimo a considerare quella virilità estinta, rievocando nel bagliore d’un lampo l’immagine sensuale della donna che il morto aveva posseduta. Gli sembrò ch’ella stesse con loro, muta, in un angolo, e si svestisse ignuda, sbarrando i suoi chiari occhi pieni di voluttà per assistere in tutta la sua bellezza all’epilogo della lor tragedia umana. Egli traeva da questo pensiero un tale senso di ribrezzo e d’ansietà, che ne aveva l’anima oppressa; e tuttavia perdendo la nozione del tempo, gli pareva di poter compiere quella sua lugubre faccenda con la maggiore lentezza. Si preparava oculatamente un alibi morale, badando a non scordare la più piccola cosa, a non lasciare in quella camera dove Giorgio doveva esser morto alcunchè d’inspiegabile o d’inconsueto. Allora, sbottonatagli la giubba, sollevò il cadavere, prima sovra una spalla, poi su l’altra, poi su entrambe insieme, per fargli uscire dalle maniche le braccia che incominciavano ad essere, non solo inerti, ma rigide. Questa operazione gli prese tempo; ed anzi egli rischiò di lacerare la stoffa. Ma quando l’ebbe finalmente liberato da quella casacca di lana, ed il morto fu rimasto in camicia, egli provò novamente un senso di liberazione, poichè gli pareva d’esser vicino al termine del suo crudele officio. Ormai non gli rimaneva che da stenderlo sotto la coltre e comporre il letto come se naturalmente vi fosse morto. Ma una voce interiore gli consigliava senza tregua: — «Osserva, osserva bene...» — quasi per evitargli una distrazione possibile, una di quelle minime dimenticanze che son talvolta la chiave de’ più oscuri delitti. Egli faceva, nel riflettere, una certa fatica, uno sforzo quasi muscolare nel convergere tutta la propria attenzione su questo solo intento, mentre per istinto il suo pensiero cercava di sbandarsi altrove. Allora egli andò verso la finestra, per esaminare nella maggior luce quella casacca di lana, quasi ch’ella potesse conservare un segno qualsiasi, un’impronta, una macchia di bava, uno strappo, un odore indefinibile, una piega. L’esaminò per tutti i versi, più volte, l’odorò: sprigionava un sottile odor di canfora, e null’altro, si ch’egli si mise a riflettere dove l’infermo la tenesse di consueto. — «Nell’armadio, mi pare... Sì, nell’armadio, piegata... non ti ricordi? — Infatti.» Allora la piegò di rovescio, con le maniche in dentro, poi nel mezzo, indi, appianatala come si conviene, andò all’armadio, e la ripose ove si ricordava benissimo di averla tante volte veduta. Nel frattempo s’accorse di ansar forte; allora cominciò a fischiettare, piano piano, fra i denti, come per accompagnare la sua faccenda e far qualcosa che gli paresse naturale. Rinchiuso lo sportello, si guardò in giro. Non rimaneva più nulla da fare, tranne che occuparsi del letto e del cadavere buttatovi sopra di traverso. Con la fronte raccolta in una mano, cercò d’immaginare come lo avrebbe ritrovato il mattino, entrando, se davvero durante la notte, senz’alcun testimonio, si fosse spento. Non gli riusciva di vederlo bene, anzi lo vedeva in mille guise. Allora cercò di raffigurarsi nella sua memoria di medico altre morti che fossero avvenute in congiunture simili. Certe fisionomie di cadaveri, dimenticate da tempo, gli si affacciarono alla mente, quasi fossero sembianze note. — «Si muore in tanti modi...» — pensò. Poi gli parve inutile riflettere e non volle frapporre altro indugio. S’avvicinò al letto. Siccome le coltri erano già rimboccate, non durò fatica nel farle scorrere sotto il corpo giacente, per poterlo distendere fra i due lenzuoli. Diede una spiumacciata sui due cuscini, e, preso il cadavere per le caviglie, sollevò le gambe su la proda, indi sospinse tutto il corpo nel mezzo del letto e ve lo distese. Il capo s’era insaccato fra i guanciali, ond’egli risollevò di peso tutto il busto, lasciandolo poi ricadere, affinchè la testa prendesse nel cuscino la sua positura naturale. Poi raccolse le due braccia, e non sapeva dove metterle. Provò in diversi modi, fece varie ipotesi, ma nessuna lo soddisfaceva. Da ultimo pensò che la sinistra dovesse far l’atto di respingere le coltri e la destra portarsi alla gola come per vincere una soffocazione. Quando volle ricoprirlo, vide ch’era nudo fino alla cintola, e dopo averlo inguainato nella camicia fin sotto le ginocchia, raccolse le coltri, gliele buttò addosso. Quella ventata scompose i capelli ad entrambi. Si ravviò i suoi, lentamente. Le coltri si posarono sul morto con un disordine uguale, ond’egli cercò il suo braccio per portarlo verso la gola; insieme gli sbottonò il collo della camicia, per secondare quell’atto. Poi si allontanò di qualche passo ad osservare l’effetto che faceva. Non c’era in verità nulla che potesse far nascere un sospetto. — «D’altronde, — disse con lucidezza, — la commozione di quelli che lo vedranno domattina non lascerà campo a troppe indagini. E súbito sarà smosso: bisogna solamente rincalzare la coltre sotto il materasso.» Lo fece, da un lato e dall’altro, cominciando ai piedi, per quel tratto che non doveva mostrare alcun segno di disordine; anzi lo fece con tanta cautela quanta se ne usa nel comporre sotto le coltri una persona cara, prima che le si dica: — Dormi. A piè del letto la seggiola s’era obliquata, lo scendiletto era scomposto: raddrizzò la sedia, tese il tappeto, s’avvicinò al capo del morto, quasi volesse dirgli: — Ho finito. Notò allora sul tavolino da notte l’orologio e la catena d’oro che splendevano; avvertì l’assiduo celere battito del meccanismo, che dianzi non udiva. Nella caraffa di cristallo brillava l’acqua lucida. Vedendo l’acqua ebbe sete. — «Addio.» Formulò questa parola: «Addio», senza sapere come gli venisse alle labbra, senza quasi comprendere perchè la diceva. Questa parola, queste due sillabe, gli apersero nel cuore uno squarcio di dolore enorme, e gli parve di non poterlo abbandonare, perchè ora, quel morto, non lo temeva più: lo amava. Lo amava, ed era il suo fratello antico, e si chiamava Giorgio; non era stato ucciso dalla sua mano: era morto, era lì, nel suo letto di morte. Senza credere, senza saperne il perchè, gli pose una mano su la fredda fronte, e non con lo spirito, ma con le labbra disse: — «Pace.» La luna, salita al suo culmine, versava per tutta la camera un incantesimo azzurro, fasciava la coltre del morto in un velo d’irrealità. XI Nel breve tratto che percorse dalla camera di Giorgio a quella dove l’aveva ucciso, il suo delitto gli parve già remoto nel tempo, già retrocesso in una di quelle lontananze mentali che l’anima ismemorata varca in un baleno. Sicchè, nell’aprir l’uscio, quella poltrona rimasta nel mezzo della camera l’urtò quasi nel petto, come una realtà impreveduta, e fu sì forte il suo stupore, che da prima non osò inoltrarsi. — «Io sono Andrea Ferento: un uomo che sa di avere ucciso, — raccontò a sè stesso. — Un uomo che dovrà vivere congiunto con la memoria di questo atto incancellabile.» — «Ebbene? — si rispose; — la vita prosegue nella sua necessaria vicenda: il cadere d’una piuma d’ala non turberebbe altrimenti l’equilibrio immutevole delle cose. La terra non fa che ingoiare una bara di più. Ora la tua strada è sgombra: cammina!» Gli avveniva molto spesso di dialogare fra sè medesimo come fra due personaggi discordi, quasi per appurare da qual parte di sè fosse la ragione. La strada è sgombra?... Sì, gli pareva; sgombra e facile, certa e radiosa. Bastava ormai rimuovere da’ suoi passi l’ostacolo più immediato: quella poltrona che propagava intorno a sè una così pesante ombra, quel mobile di legno e di cuoio che pareva contenere nelle vuote braccia l’estremo fantasma del suo delitto. Bisognava insomma, dopo tanto coraggio, non vacillare nella propria incoerenza, non attribuire a quella «cosa», nè alle altre che son prive d’anima, un significato umano. E fattosi animo, afferrò l’inerte mobile per le due braccia vuote, lo sospinse con una specie d’iracondia nell’angolo dove abitualmente stava, robusto e quasi benevolo, in attesa di reggere una stanchezza. Poi, sentendo il bisogno d’un felice respiro, aperse intera la finestra e s’affacciò verso la notte imbrillantata, che adagiava su la terra calma i suoi fantastici padiglioni di stelle. Tante ve n’erano e così folte, da parere uno sterminio di mondi luminosi, una polvere cosmica in ardore, una fosforescenza d’atomi dispersi dentro una sfera di cristallo. Le bianche vie planetarie, le immense fiumane del cielo straripavan di luce in praterie stupendamente azzurre, tendevan dall’uno all’altro emisfero un miracoloso arco siderale, che pareva navigar nell’infinito come una vela gonfia d’immensità. Cos’era la fine d’un uomo in quella eterna bellezza? Cos’era più, in quel silenzio parlante, il piccolo silenzio d’una bocca suggellata? Cos’era il senso d’una parola umana dentro quella trasformazione perpetua, che andava dall’inconoscibile verso l’ignoto, travolgendo seco infinite agonìe, facendo scoccare innumerevoli vite nel fulgore d’un istante? Fibrule, atomi, pulviscoli, o uomini, perchè urlate? Cosa scaglierete di voi contro questo immenso andare? O fuscelli nella bufera, o piume nel vortice, cosa importa mai all’Assoluto, che voi diciate: — Vivere... — che voi diciate: — Morire?... Stelle, stelle... vertici di splendore accesi al sommo del nostro pensiero, faville irradiate da noi, parole che brillano!... distanze forse immaginarie chiuse nella nostra pupilla, ombre forse di una luce invisibile, cancelli d’oro invarcabili della umana prigionìa!... O piume nel vortice, o fuscelli nella bufera, cosa può essere il vostro lieve schianto nella ecatombe universale che il Tempo divora camminando, come un affamato mai sazio? L’oblìo, l’oblìo, l’oblìo!... più dolce fra tutte le cose, poichè vuol dire non conoscere, non affaticarsi a conoscere, ma passare... Gli parve che tutto il mondo in quell’attimo avesse un colore di miracolo, e solo percepiva, con una specie di attenta gioia, il fluire del Tempo. Egli lo sentiva trascorrere in sè come l’acqua traverso un filtro; aveva chiara la sensazione che una parte del proprio essere, forse la più immonda, si sperdesse così nell’infinito, e gioiva di questa purificazione con una lunga e lenta voluttà. Il Tempo era un nettare che l’uomo beveva per dimenticarsi dell’attimo anteriore, per allontanarsi dalla sua spoglia vicina. Poi, quando si fu ristorato in quell’aria balsamica e si fu cullato quasi per ozio in questi erranti pensieri, d’un tratto gridò a sè medesimo: — «Non sei che un istrione! Cerchi di recitare la vita perchè hai paura di viverla! No, la tua parola è un’altra, più bella che «Dimenticare...» La tua parola è: «Potere!» Aspirò un largo sorso di quell’aria vivida, così gran sorso quanto spazio era ne’ suoi polmoni capaci, e ripetè a sè stesso con la forza di una intimazione: — «Sì, potere! Potere con gioia!» Allora la faccia di colei che amava gli risalì nell’anima come la ghirlanda del suo peccato, e gli parve che affiorasse nel suo pensiero da una profondità quasi remota, per essere la sfera, il cardine, intorno a cui roteava tutto lo splendore dell’universo. Ella era veramente, nel suo spirito, sovrana ed unica: più in là che il senso delle cose, più in là che la negazione. Di lei sola, di questo solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. S’era preso d’amore e l’amava, senza mai tentare una ribellione qualsiasi contro l’ebbrezza che questo perdimento gli dava. Se tutta la sua vita d’imperio, d’indagine, di lotta, era contro una dedizione così assoluta, se la sua fredda mente poteva sorridere di questo piccolo nome: «l’amore» — un altro spirito nel suo spirito, un altro cuore nel suo cuore, s’eran lasciati stravincere da lei, e non insidiosamente, ma d’un tratto, e non con il terrore di perdersi, ma con un senso di barbara felicità. L’amava!... era pieno il mondo di questo amore esultante!... le cose tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo cuore! Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e nello spazio, nell’attimo e nell’eterno, era l’arteria della sua vita molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed infinita che il credente riassume in Dio. L’amava! era immischiata ne’ suoi sensi come il profumo nella musica della primavera... l’amava come si ama un assurdo, come si professa una follìa. Allora subitamente si sovvenne de’ suoi dolci capelli, della sua tepida bocca lasciva, degli occhi suoi, non timidi e non forti, che parevano continuamente mutar colore, soffrendo quasi la gioia di una contenuta voluttà; si risovvenne delle sue bianche spalle, che tramandavan l’odore d’una soavissima cipria e parevan simili a grandi ventagli sparsi di rugiada scintillante. Cominciò a seppellirsi piano piano sotto la memoria delle sue carezze, con l’oblìo di chi s’addormenta sotto una pioggia insensibile di fiori. Ogni ombra, nella notte infinita, conteneva per i suoi occhi una lontana sembianza di lei. D’un tratto, nel pensiero, lucida, gli emerse una certezza: — «È mia!» Comincerebbe da quell’ora tragica un patto indistruttibile fra loro. Egli poteva dirle, doveva dirle senza indugio, che nulla più li separava dalla troppo attesa felicità. E bisognava inoltre chiamarla, per vegliare insieme quella lunga vigilia, soli, serrati, muti, nell’ambigua vicinanza della morte, nel chiarore delle stelle. Era stato verso di lei così nemico in quell’ultimo giorno, ch’ella certo non avrebbe osato avventurarsi fino alla sua camera come faceva nelle trascorse notti, quando l’infermo s’addormentava, o talvolta nelle ore vicine all’alba. — «La chiamerò.» E si mosse. Ma lo turbava il pensiero di trovarla nel suo letto, spogliata, e gli parve a tutta prima inverosimile di potersi ancora una volta ritrovare con lei, parlarle, dirle sopra tutto quella parola ch’era necessario dire. Tuttavia giunse fino alla sua porta, l’aperse, intese il rumore del suo corpo, che al lieve cigolìo dell’uscio si volgeva nelle coltri. — Dormi?... — egli domandò soffocatamente. — Sei tu, Andrea?... Dormivo appena. — Lévati. Ella riconobbe nella sua voce un non so che d’insolito. — Che fai su l’uscio? Entra. Egli ubbidì; ma rimase immobile, un passo oltre la soglia. Sollevata sui cuscini, ella invece lo chiamava a sè allungando un braccio. — Cos’è accaduto? Andrea rispose: — Nulla. — Sta male? — Chi? — Ma... Giorgio... Egli fece una lunga pausa prima di rispondere, poi disse ancora: — Lévati. Ella respinse le coltri, e scivolando giù dalla proda cercava coi piedi bianchissimi le pianelle sul tappeto. — La mia vestaglia... dammi la mia vestaglia, — lo pregò, per non mostrarsi ritta in camicia. E soggiunse: — Là, sull’attaccapanni. Allora egli la vide, la prese e gliela portò. Ma invece di vestirla, ebbe voglia di avvolgerla, così com’era, in un bacio iroso. Non lo fece. Ella si fasciò nella vestaglia, e guardandolo dubitosa, interrogava: — Che hai? Che c’è? — Vieni, — egli disse volgendosi; — vieni. Lieve, movendo un fruscìo di seta che nel silenzio pareva sonoro, lo seguì, scivolandogli appresso, finchè furon entrati nella sua camera, ove si chiusero. Là v’era più luce, ed ella così alterato lo vide, così livido, con gli occhi tanto sbarrati, che non pareva più lo stesso uomo. L’afferrò per le braccia, impaurita: — Che hai? Che hai? Egli volle sorridere, ma la sua bocca si contorse in una smorfia, e tacque. Fino allora egli non s’era trovato che solo. Ma ora, come gli pareva strano aver dinanzi un testimone! Come diversamente suonava la parola «morte», nel passare come un’eco dentro il proprio silenzio interiore, o nel doverla comunicare con la bocca, in forma d’annunzio irreparabile, ad un orecchio che l’ascolti! «Morte...» due veloci sillabe, cinque segni dell’alfabeto, che hanno il più vasto senso di tutta la comprensione umana. Parola che nulla distingue dalle altre quando la si pronunzia come un’immagine, ma che diviene fredda, greve, assoluta, quando è detta in testimonianza del cadavere, quando si abbatte come un’ala senza volo su la materia che giace... Allora ne misurò in sè stesso tutto lo spavento, e gli parve che, più del fatto, fosse impossibile a dirsi la parola. Ma questa risonava dentro il suo cervello, immensa e micidiale, come il rumore d’un grande stormo di corvi che invadessero l’aria buia. Sentiva nel medesimo tempo l’orrore della tragedia e il turbamento della sua presenza feminea, della sua bellezza così poco nascosta, che gli pareva oltremodo impudica, in quella camera, in quella cornice di morte. Ancor prima di parlarle, capì che da quell’annunzio ella si sentirebbe scaturire nell’anima involontariamente una paurosa gioia... Ma egli qual gioia ne avrebbe, ora e mai più, egli che doveva da solo portare il peso dell’orrendo segreto? Le lunghe maniche della camicia da notte, apparendo fra quelle più ampie della vestaglia, le scendevan sino ai polsi, li serravan in una frangia di pizzi; anche sul petto, lungo la scollatura, una trina frivola biancheggiava intorno alla seta; quell’odore del lino tenuissimo ed il vestigio di non so qual profumo impregnatosi nella stoffa parevano stringere la bella creatura in un cerchio d’impurità. Era troppo soave, troppo feminea, per ascoltare la morte. Chiuse gli occhi e la dimenticò. Ma insieme i lievi pizzi della sua manica gli toccarono la fronte. — Che hai? — gli domandava l’amante, carezzandolo. — Parla; mi fai paura. Ed anche nella sua voce continuava quel profumo, quel respiro d’impurità. Egli ebbe un momento la tentazione di farla patire, d’infliggerle un tormento che fosse uguale al suo; ma l’amava, l’amava, era tutto il suo mondo, la vita era piena di lei... Che bel colore avevano le sue guance, come d’un rosato avorio, d’una madreperla venata!... Che dolce disegno, che rossa umidità per le sue labbra! E ne’ suoi capelli ed in tutta la persona, dalla fronte al piede, che terribile fascino sensuale, che infinita voluttà!... — «Ora, — egli pensava, — è mia.» L’uomo brutale, che non conosce argini al suo desiderio di possesso, in questo pensiero s’innebriò. Gli corse per le vene, quasi facendo rumore, una potenza nuova, gli battè contro i timpani una musica violenta, piena di vittoria; nelle sue pupille fulse un raggio di luce. Con forza, quasi la ghermisse ad alcuno che fino allora gliel’avesse contesa, la strinse nelle sue braccia e la serrò contro il suo petto virile, fortemente, lungamente, senza dirle nulla, in una specie di convulsione, per appalesare su lei questo pensiero: «È mia!» Ell’amava la sua forza, e si rendeva piccola, si lasciava tutta ravvolgere dalle sue braccia, sopraffare dalla sua violenza, carezzandolo senza far mossa con il suo corpo di velluto. E sentiva con gioia le mani dell’amante farle un nodo quasi doloroso fra le cedevoli spalle, mentre, con la faccia rovesciata sotto il calore della sua bocca, si sentiva percorrere dal suo respiro come da un maraviglioso bacio. Che piccola cosa era per lei, in quell’attimo, tutto il resto del mondo! Com’era sua fino all’ultima vena, senza pensiero, senza lotta, senza dubbio, sua con felicità! — Mi ami?... — bisbigliò. Ella non poteva sospettare altra cosa che l’amore, non cercava che di accrescere la sua gioia, parlandone, costringendolo a parlarne. Ma egli stava muto; aveva un non so che di crudele su gli orli della bocca, nel riso che gli scopriva i denti lucentissimi. L’attrasse, la portò con sè vicino alla finestra, perchè gli pareva di allontanarla dalle cose circostanti affacciandola verso la notte libera. — «Griderà, — pensava — se io le dico...» E preparò la mano per soffocare quel suo grido. Voleva dirlo súbito, e gli pareva tuttavia non possibile a dirsi. Ma il suo viso parlò prima della bocca, le sue pupille arsero d’una luce quasi nefasta. — Odimi... e non gridare! Odimi!... Le teneva ora le tempie, il viso, fra i due palmi, serrato; era curvo su lei per afferrarla nella sua tragica volontà. — Non gridare... bada! Una cosa terribile... bada! E scandì queste parole inesorabili: — «Tuo marito è morto.» Più veloce che nel dirlo, e prima di compiere l’intera frase, le attirò la faccia contro il cavo della propria spalla e col braccio le avvolse il capo come d’un manto, per soffocare il suo grido. Non intese che una specie di rantolo nella sospensione totale del respiro. Allora, sciogliendola da quella stretta, le si curvò presso l’orecchio, e lentamente, con una specie di misura, disse un’altra volta: — È morto: l’ho trovato nel suo letto... morto. Ella barcollò, sopraffatta. Un enorme stupore tenne per un istante immobili tutte le linee del suo viso. Poi si sciolse da lui quasi per istinto e retrocesse nel vano della finestra, urtando contro l’invetriata aperta, senza dare il grido che si mozzò nella sospesa vita. Dietro lei, come un placido specchio, il vetro acceso dalle stelle raccoglieva lo splendore della sua nuca, l’ombra confusa de’ suoi capelli, che immersi nel pieno raggio divennero scintillanti. Fra loro, in quella pausa, restò uno spazio vuoto, che parve il limite necessario fra le lor anime distanti. Poi ella fu presa da un tremito, e balbettava come nella febbre parole incoerenti; cercava di ripetere a sè stessa quella frase indicibile, quasi per esaminarne il senso, per radunare davanti all’anima spaventata l’inafferrabile verità. — Morto?... è morto?!... Ed ancor prima che il dolore potesse scenderle fino al cuore, un velo di lacrime le bagnò copiosamente la faccia. Lacrime che si staccavano dagli occhi fermi, cadevan come grosse gocciole senza lasciare un solco; poi, di súbito, cessarono. Allora si mise a ridere d’un riso convulso, e torceva le braccia verso di lui, forse per afferrarlo, forse per allontanarlo da sè, mentre la sua bocca ridente balbettava: — No!... non è vero... no! Dimmi che non è vero! Egli le prese i due polsi, forte, quasichè avesse una irosa gelosia del dolore che vedeva in lei, e disse un’altra volta, scuotendola: — Sì, sì, è morto. In quella scossa, in quel disordine subitaneo, la vestaglia s’era slacciata; si vedeva la camicia lieve scenderle fin su gli stinchi politi; l’ombra del suo corpo ne traspariva, come da un velo tenue che tradisse l’intera nudità; i seni spaziosi, contenenti nella lor distanza la doppia increspatura delle trine, calmi e pur quasi violenti nella loro ertezza, di qua, di là pungevano con l’oscuro vértice il finissimo lino. Egli n’ebbe, anzichè turbamento, una specie di dolore fisico al sommo della fronte, alle radici dei capelli, e nei polsi, e nell’arterie del collo, dove batteva più celere l’impetuosa vita. Gli pareva che sopra le corde vigili de’ suoi nervi corressero due sensazioni diverse, che si mescevano e s’uccidevano insieme: una era un brivido, ma di terrore, per quel fantasma del morto; l’altra era un brivido, ma di gioia, che gli veniva dalla bellezza di lei, dall’immagine del suo corpo seminudo — e questa era senza dubbio la paura più forte. Tutto aveva saputo vincere nella vita, e, fin dove può la comprensione dell’uomo, tutto ridurre al piccolo senso effimero, al piccolo valore transitorio d’un fenomeno umano; tutto, ma non la forma di quelle sue membra femminili, ch’erano per lui quasi una tentazione soverchiante, quasi un bene che andasse oltre la possibilità del suo medesimo desiderio, e fosse una specie di potenza maravigliosa, calamitosa, alla quale avrebbe tentato invano di sottrarre il suo spirito e la sua carne. Quand’ella passava, o s’appressava, od un’eco portava la sua voce, o per un filo d’aria si diffondeva il suo profumo, od il suo nome fosse detto da alcuno, o per avventura gli accadesse di vedere inattesamente un oggetto suo, ne riceveva nell’anima e per le vene un tremito che gli faceva male, che gli dava una specie d’inquietudine oscura, di desiderio affaticante; quand’eran soli, quando la baciava, e pur quando nella brevità delle furtive notti ella era nelle sue braccia perduta d’amore, invano cercava di bere dentro quel cálice un sorso che fosse pari alla sua sete, o che potesse, per un poco almeno, placare l’ansia che lo struggeva di lei, spegnere la febbre incontentabile che gli faceva dallo stremo nascere un desiderio più forte. L’amava, sì, ma più grande forse di questo sentimento era il terrore di non poterla amare abbastanza, la paura ch’ella valesse più di quanto poteva il suo desiderio da lei attingere. Breve gli pareva il tempo, la gioia dell’uomo fugace, inane la forza dell’uomo, — e la sua bellezza infinita. Onde l’amava con dolore, con disperazione, come un uomo che si accorga del tempo veloce, e tema, in ogni attimo trascorso, di avere dimenticata una felicità. Ecco, ed egli s’accorse che davanti all’annunzio di quella morte il suo primo impulso era stato un rifiuto, era stato — o gli pareva — un immenso dolore. Ella dunque non voleva che fosse morto. Il suo cuore d’amante non le aveva per prima cosa fatto splendere negli occhi un lampo sinistro di gioia. No; ell’aveva detto per prima cosa: — «Non è vero! Non è vero!...» Per prima cosa ell’aveva tentato quasi di farlo rivivere, anzi aveva retrocesso da lui, da lui s’era sciolta, quasichè sentisse per istinto l’orrore della sua mano micidiale. Egli misurò velocemente le conseguenze più lontane di quello che immaginava, e giunse a non avvedersi del cammino che quella rivelazione faceva nella mente oppressa dell’amante, precisandosi a poco a poco, divenendo per gradi una verità immediata e dandole agio di misurare a sua volta il senso reale di quelle due parole così repentine: — «È morto.» Súbito ella non aveva compreso, od almeno era stata una sensazione così forte, che l’aveva solo accerchiata senza trovar ádito in lei. Ma ora lo vedeva: per comprendere, lo vedeva. Era fermo, steso, freddo, non moverebbe mai più la mano per chiamarla, non direbbe mai più: — Novella... E guardando queste immagini, s’avvicinò di nuovo all’amante. Gli afferrava ora un braccio, si premeva contro di lui, rifugiandosi nella sua forza, nascondendo presso quel ruvido cuore di maschio la sua tremante anima. Poi cominciò a mormorare: — Perchè è morto? Perchè? Ella esprimeva male il suo pensiero; voleva domandargli: — Come? dove? quando? in qual maniera, per qual ragione è morto? E dov’è? — Anzi lo disse: — Dov’è? Ma súbito si ristrinse a lui con più tremito, quasi temendo che fosse lì vicino, lì per intorno, e che nel volgere gli occhi dovesse vederlo d’improvviso. Egli spiegò, senza batter ciglio: — L’ho trovato immobile nel suo letto; l’ho chiamato: non s’è mosso: l’ho toccato: era freddo. Ella disse ancora, ma lo disse altrimenti: — No... Il buon odore del suo petto empiva di fragranza il respiro dell’amante. Senza saperne il perchè, ella ebbe la sensazione che bisognasse non dir nulla ad alcuno, tacere, non svegliare la casa e mantenere nascosto fra loro, come una involontaria colpa, quell’orrendo secreto. Ma appunto perchè aveva questa sensazione, fu tratta a pensare il contrario, a credere che si dovesse gridare, far rumore, chiamarli tutti; balbettò: — Il babbo... Egli le prese forte una spalla: — No, taci. — Perchè? Non sapeva rispondere; disse: — Aspettiamo. Ora ella non piangeva più; aveva solo un tremito nervoso dai calcagni alla nuca, e nella gola gonfia un nodo che ogni tanto si scioglieva per rinserrarsi più forte. Andrea s’accorse ch’ella potrebbe avere un qualsiasi dubbio intorno a quel divieto, e cercò di spiegarle perchè fosse conveniente aspettare. — Più tardi li chiameremo, — disse. — Ma ora sono così stordito, che non potrei parlare con altri se non con te. Anzi tu pure... — Sì, sì, io pure... — ella si affrettò a dire, quasi contenta di esaudirlo e di sentire infatti come lui. Ma egli non trovò la spiegazione sufficiente e soggiunse: — Ho voluto prima dirlo a te, perchè stamane, quando lo vedranno, bisogna che noi siamo preparati; noi due che... — Sì, sì, hai ragione. Allora quel lampo ch’egli voleva subito vedere negli occhi dell’amante, le traversò le pupille, facendole stringere più forte il braccio che gli teneva e soffermando il suo tremito in un’altra sospensione, ma vertiginosa, della vita. Ora soltanto aveva guardato, aveva potuto guardare al di là da quella morte. Si nascose ancor più contro la sua persona e disse all’amante, con una specie d’insidia: — Ho paura... Egli ebbe un atto d’amore, d’amore casto, e le posò su la fronte le labbra che l’amavano. Ma quel bacio era per rassicurarla, per proteggerla, ed egli cercava d’essere immemore, onde il suo bacio non rasentasse la colpa. Alte, nel miracolo della notte, le stelle, così numerose che parevan nel deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo frantumatosi nella sabbia, quando vi sfólgora il sole. Ciascuna era un lampo ed era un mondo, ciascuna mesceva la sua fiamma, propagava il suo rogo nella raggiera dei mondi vicini. La notte bruciava ne’ suoi vertici, aveva, sopra il suo fosco edificio invaso d’ombre una cupola incendiata; l’eternità era espressa in luce, l’infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco. Avvinti, si affacciarono verso la notte che roteava; e come se il moto dei mondi li afferrasse in un fantastico volo, tutto quanto avevano in sè di greve, d’umano, di turpe, si sciolse in una specie d’annientamento. Entrambi si sentiron così lievi, da credere che la lor materia purificata salisse come fumo, così lievi, da perdere fin la memoria di sè, ma non la memoria d’essere in quel volo congiunti e non la certezza dell’amore che li portava, come liberi spiriti, nell’apoteosi del cielo roteante. La capacità buia delle lor anime diveniva un cerchio di stelle: nei lor sensi ricolmi d’oblìo una sorda felicità sgorgava come un canto... Allora ella chiuse gli occhi ed incominciò a sognare. Un sogno era il suo, dove la morte già era passata oltre; la morte non era più che una parola remota, un volo d’ali nere lontananti senza rombo, nell’oblìo. Qualcosa d’indefinito, e pur di grande, le fluiva nell’anima, già troppo simile ad una paurosa felicità. Non sapeva d’essere precisamente una donna liberata, padrona di offrirsi con pienezza, con veemenza all’amore, ma le pareva che un’altra sua simile, una sua sorella interiore, avesse già cominciato a vivere in un’atmosfera inebbriante, a spaziare in una libertà senza confini, e di lei sentiva battere il cuore gaudioso nel viluppo del suo cuore atterrito. Una bocca, non la sua propria bocca, nascostamente in lei rideva, ma d’un riso involontario; questa esultanza temuta invadeva l’emisfero notturno, percorreva la materia come un’oscillazione lucida, fiammeggiava nell’ombra, cantava nel silenzio, volava nell’infinito, fra le stelle, come un turbinìo di polvere d’oro... Ella era piena fino alla gola di felicità e di spavento: non sapeva quale fosse più forte, non sapeva in cosa la gioia fosse dissimile dal terrore. E poichè nessuna commozione dello spirito può non avere le sue latenti radici nella carne che portiamo, ella si sentì colmata in ogni vena d’una felicità sensuale che l’affaticava come un godimento soverchio e le stordiva il cervello, quasi avesse da poco soggiaciuto ai più violenti baci. La stessa catena li stringeva; questa catena era fatta dal lor medesimo silenzio, era tanto più serrata quanto più s’impaurivano di doverla subire. Creature ultrasensibili, affratellate dalla diuturna colpa, egli avvertiva ogni tremito nella sua compagna, ella ogni tremito in lui. Sapeva di far male stando così aggrappata contro la sua spalla, sentendo l’aspra muscolatura dell’òmero e del fianco virile premere contro la sua persona, entrarle quasi nella carne discinta: però da lui non si poteva staccare, quasichè il contatto le fosse indispensabile per proteggersi dalla paura. Egli a sua volta, pervaso da quella tepida morbidezza, non sapeva respingerla nè interrompere con un moto qualsiasi quella troppo soave corrispondenza, ed anzi gli pareva necessario di avvincersi a lei, di mescersi con lei totalmente, per investirla del suo delitto, imbeverla della sua colpa ed avvogerla quasi d’una inconsapevole complicità, poichè sentiva che mai, mai più potrebbe farlo, se non tosto, se non nell’ambiguo silenzio di quell’ora notturna, lì, nella camera dov’egli aveva ucciso, a pochi passi dal morto. Questa coscienza divenne così forte in lui, che ad un certo momento premeditò d’assoggettarla ad un amplesso, perchè una comunione anche fisica fosse tra loro in quell’attimo di spasimo e di terrore, quand’egli, tenendola fra le braccia, palpitante, come nella stessa prigione del suo delitto, le direbbe su l’orlo della bocca, nell’umido bacio più ansante, le direbbe nel fuoco del piacere, così da insozzarla per sempre, le direbbe in guisa ch’ella dovesse o morirne o riderne, «ch’egli stesso, proprio da sè, con la sua mano, volontariamente, lo aveva ucciso...» Non era questo un legame di complicità che l’avrebbe con lui serrata, per sempre, nel nodo micidiale? Non era questa una profanazione ch’equivaleva all’aver veduta con i suoi propri occhi l’opera criminosa, ed esservi stata consenziente, anzi all’aver data la morte con una più sottile crudeltà? Non avrebbe in tal modo portato anch’ella il cadavere su le braccia? ora e per sempre, il cadavere su le braccia?... Gli pareva che fosse tra loro una disparità incolmabile: quel morto appunto, che a lui solo doveva la morte, che per sempre giacerebbe nel suo solo cuore. Insieme la incolpava d’essere così bella, per lui così bella, da rimaner femmina ed amante anche in quell’ora nefanda, così bella da far sì che il profumo della sua carne viva soverchiasse l’odore nauseabondo del cadavere, l’odore immaginario, che ad intervalli credeva di sentir effondersi nell’aria contaminata. Anzi egli non sapeva scindere una cosa dall’altra: il nudo corpo di lei si vestiva d’un lenzuolo funebre, come, ne’ suoi occhi allucinati, la visione macabra del morto non poteva in alcun modo separarsi dalla profana immagine della sua nudità. — «Se tu mi ami, — le diceva senza dirlo, — e se vuoi che t’ami, devi entrare nel mio delitto, farti orrida come io sono, mescolarti con me nel suo feretro, sapere quel che so. Bisogna che tu veda presenti, com’io li vidi, i suoi occhi quando si spensero, e che tu senta nei timpani, inscindibile fra tutti i rumori delle cose, quel rantolo che gli strozzò la gola quando il veleno gli giunse al cuore. Perchè, se io non t’avvinco al mio delitto, forse tu mi odierai...» E la notte passava immemore, nell’alto cielo, con fulgori che parevano tralucere da un continuo dissolvimento. Era quasi una canicola notturna; l’oceano mondiale pareva una sola onda frantumata in milioni di brillanti. Ma ella era per lui più vasta che l’immenso infinito, e gli affluiva per ogni senso nello spirito, colmandolo di un totale oblìo. Per poter ragionare, chiudeva gli occhi davanti al pericolo della sua bellezza, tentava di sottrarsi a lei, come al potere d’una droga meravigliosa, che lentamente l’ubbriacasse. Non vederla, non udirla, recidere i sensi bisognava, per non cadere in lei come in un vortice senza fondo, per non amare al di là d’ogni cosa la sua dolce bocca umida, i suoi labbri cosparsi di peccato. Allora, per quella particolare incoerenza la quale talvolta ci sospinge a fare il contrario di ciò che pensiamo, si volse e la guardò. La guardò con sospetto, come s’ell’avesse potuto sorprendere i suoi pensieri, tanta era l’affinità che li stringeva. Ne’ suoi limpidi occhi non vide alcuna lacrima, e solo vide il riflesso della notte stellata che dentro vi splendeva come in un puro cristallo. Ella guardò lui medesimamente, con quel sospetto femminile che traluce dagli occhi della donna turbata; e rattennero entrambi il respiro, quasi temessero che la sensazione del loro fiato li spingesse ad un bacio. Ella fece un atto, come se avesse freddo, e si fasciò la vestaglia intorno alla gola, dove il disegno delle vene, tra la pelle bianchissima, tesseva una illuminata ombra. In quella luce obliqua egli vide brillare come fosse d’oro la vellutatura bionda che le nasceva sul principio del collo, intorno alle radici dei capelli. Il suo profilo si disegnava nella vetrata in una macchia di fulgore. Non mai, non mai come allora comprese la sua bellezza, comprese che la sua bellezza era una cosa malata e lasciva, tutta commisturata di vizio, d’odore, di tepore, e, mentre la guardava, immaginò il pericolo che un altr’uomo la possedesse. Da che l’amava non aveva mai conosciuta gelosia nè creduto ch’ella potesse da lui dividersi; — ma ora che aveva ucciso, per una strana successione d’idee comprendeva che questo fatto poteva strapparla dal suo possesso, far sorgere un’avversità imprevedibile, anche s’ella dovesse non conoscere mai la sua colpa, ma per il solo fatto che ciò era; — e vedendo l’uomo che la toccherebbe, di furore, di spavento rabbrividì. Nell’assedio d’un tal pensiero, subitamente l’attrasse, quasi per custodirla; e furon così vicini ad un bacio ch’egli sentì su le labbra il calore della sua bocca. Il suo dolce seno gli tormentava il petto con insidia; l’ampiezza del suo bacino l’accoglieva in sè, quasi che ritta non fosse, ma supina, e le braccia, le sue lente braccia, facevano quel nodo stanco e forte che contiene l’amore. — Tu... — egli disse, quasi cercando fra le parole una via di salvamento, — hai compreso tu quello ch’è accaduto? Ella solamente rispose: — Taci... — abbassando le palpebre, come quando non si osa, per una specie di superstizione, dare un nome preciso ad una troppo grande felicità. Ma insieme si pentì del suo silenzio. — Ora l’ho compreso, non prima: ora che tu mi baci. — Lo amavi? — egli chiese repentinamente, quasi godesse della propria crudeltà. — Sì, come un povero amico, ed anzi come una schiava rassegnata... — Poi riflettè e soggiunse: — Forse non lo sai? Egli tacque; la sua fronte s’incise di una ruga profonda. — E tu? — ella fece dopo una pausa. — Io? che? — Lo amavi? Egli si raddrizzò, come faceva quando gli era necessario chiudere la sua volontà riottosa in un’armatura di metallo, e disse recisamente, con impeto: — No! l’odiavo! Ella n’ebbe un brivido, un brivido che la curvò, come per un bacio datole su la nuca. — Avrà sofferto, credi? — Nulla o poco; era composto. Allora l’immagine del morto le assediò il pensiero, e lo vide, steso ma calmo: appena appena un po’ di saliva agli angoli della bocca, un po’ di gonfiore nelle palpebre chiuse... La morte non le parve che una totale stanchezza, e, per la prima volta dopo quell’annunzio, vide nei propri occhi la spenta fisionomia di lui. Questa visione le fece comprendere ch’ella pure non lo amava, poichè, nel guardarlo, più che il dolore poteva in lei un senso di raccapriccio fisico, nel quale involontariamente si rammentava d’essere stata baciata da quella bocca. Onde fece un movimento, uno sforzo, per respingere da sè tutto questo; — ma la visione tornava. Improvvisamente, un’altra volontà che la sua le fece dire: — Andiamo a vederlo... — Sì?... vuoi?... — mormorò egli, come côlto in fallo. Ma intanto pensò ch’era opportuno accertarsi un’ultima volta di quanto aveva compiuto e giudicare da lei, da lei ch’era la più fidata, l’impressione che gli altri ne avrebbero. — Andiamo, — fece risolutamente. E non si mosse, — Sì... — ella rispose, restando immobile a guardarlo con gli occhi sbarrati. Egli si fece violenza, la prese per mano, e mutamente si avviarono. — Fa piano, — egli diceva, — che nessuno si desti... Non certo ella faceva rumore; ma scivolandogli appresso, nell’ombra, quasi nascosta dietro la sua persona, compiva uno sforzo muscolare per vincere la volontà restìa. In lei rombava un grande frastuono; la notte parevale sonora. Curvi entrambi, addossati l’uno all’altra, comunicandosi per la mano serrata la paura ed i sussulti, scivolavan come ladri lungo la parete, sostando, ascoltando, raggruppati in sè stessi, pavidi, con le ginocchia tremanti. Il breve tratto parve loro una lunga distanza, e man mano che andavano, avrebbero voluto ritornare. Vicino a lei, anch’egli si sentiva meno forte che solo. Pure la trascinava, o gli sembrava di trascinarla, sentendo il suo peso riluttante. — Andrea... — Che hai? — Non andiamo... Eran presso l’uscio e sostarono. — Perchè? Ella non rispose; in quel buio non osava stargli presso nè lontana. — Tremi anche tu... — ella disse. — Io?... No! — egli rispose, irrigidendosi, contraendo i muscoli, per non tremare. La luna mandava ora fin lì un albore tenuissimo, che prima era parso tenebra. — Non aprire... — Sì, apro... Girò la maniglia e sospinse l’uscio. Non súbito videro il letto, ma il chiarore azzurro del fascio di luna che imbiancava la camera funeraria d’una chiarezza livida, piena d’irrealità. Poi d’improvviso videro il letto, videro la faccia supina, che a loro sembrò — tanto la temevano — si fosse mossa e li avesse guardati. — Non andargli vicino... — ella balbettava, — non posso... Ma egli, lì, di fronte all’opera che aveva compiuta, riacquistava il suo coraggio; e s’avvicinò al letto trascinandola. Il raggio di luna vestiva il cadavere dal piede alla fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca elettricità. Non solo morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e freddo pareva di quell’algida luce che somigliava stranamente al colore della sua carne, al gelo della sua materia spenta. — Vedi, — egli disse, — com’è tranquillo? Ma ella non rispose, forse non l’udì, assorta com’era nel guardarlo, con gli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso. Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come fosse piombo. La luce azzurra gli metteva intorno alla fronte, lungo le radici dei capelli, una specie di scintillamento; dal suo viso pareva trasudasse un umor luccicante; un fiotto di saliva faceva due piccoli grumi agli angoli della bocca; il labbro superiore avanzava su l’altro, dando alla fisionomia del morto un non so che di camuso. Qualche macchia d’un tetro color giallastro invadeva la scarnezza delle guance; gli occhi non facevan ombra; le ciglia parevano ingrommarsi. Ogni tanto avevano entrambi la sensazione ch’egli respirasse, poichè la morte non pare immobile, finchè si muove negli occhi nostri l’incredula paura con la quale noi la guardiamo. Egli voleva parlarle, ma indarno cercava nella mente un pensiero da comunicarle; si sentiva sperduto in una specie d’annientamento cerebrale. Ebbe voglia di sedersi a piè del letto e di vegliarlo, in attesa d’un fatto imprevedibile, o forse d’un suggerimento che salirebbe a lui, nello spirito, stando presso quel morto. Allora si accorse dell’estrema fatica fisica ond’era oppresso; gli parve d’aver sonno, ma un infinito sonno ed oblioso, in quella notte così limpida. Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto; si stringeva le braccia contro il petto, incrociate per i polsi, con le mani sotto la gola, il capo sovr’esse piegato, gli occhi attentissimi. Poi allungò la mano, quasi volesse toccarlo; invece lambì la coltre, lievemente, ritraendola con velocità. — Giorgio... — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per riconoscere se veramente fosse lui. Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza dell’altro, mandargli un ultimo saluto, comunicargli una dolce parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non ricordava più... Adesso aveva rimorso, un orrendo rimorso ed una infinita voglia di piangere per lui; adesso le pareva necessario di fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pur non udisse: — «Povero, povero amico mio, forse non mi perdonerai... no, certo non mi perdonerai!...» E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un bacio, nè una confidenza, nè un secreto, senza una di quelle parole conclusive che fanno meno buia la morte a chi vi sprofonda ed a chi guarda morire. Si ricordava di lui, ch’era buono, ch’era malato, ch’era un povero essere debole, triste, soave, che a lei voleva bene come forse nessuno al mondo, e come forse nessuno al mondo per lei, per lei sola, soffriva... Si ricordò la pazienza disperata, il disperato amore che appariva nelle sue chiare pupille quando la guardavano, e la dolcezza paurosa della sua voce quando parlava con lei, l’amore di cui l’aveva circondata quell’essere morente, la beatitudine grande che lo trasfigurava se appena, quand’eran soli, ella gli avesse detto una parola buona... In quel momento il suo proprio amore non esisteva più; non si considerava più come la schiava di quell’infermo inguaribile; provava solo un rimorso angoscioso di non essere stata con lui nell’ultima ora, quando il suo pensiero fuggente l’aveva cercata ed il suo cuore cessante l’aveva con sè trascinata nel silenzio della morte... «Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi, e non c’ero! hai voluto forse confidare, a me sola, un ultimo desiderio, e non t’ho potuto ascoltare... Anzi tu sei morto «sapendo!» Oh, come devi aver sofferto, povero cuore! Sì, eri buono, mi tutelavi, mi carezzavi con la tua anima dolce; da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore... Ed io non t’ho fatto che male! io non ho fatto che ucciderti giorno per giorno, senza volerlo... Sì, sono stata infame, povero amore, e non mi perdonerai!...» Si curvò, protese di nuovo la mano per accarezzarlo, e tuttavia non osando, gli passò con la mano sopra il volto in un rapido gesto, che pauroso era solenne. Poi, di schianto, cadde presso il letto, a ginocchi, e pianse. Quand’egli vide la donna genuflessa ed il cadavere supino, gli parve che un legame li unisse, che una simiglianza fosse tuttavia tra le lor dissimili positure, ed offeso da quella concordia che gli era nemica si aderse contro di loro con una ferma violenza, levando tanto più la fronte, quanto più l’amante sua la curvava nella vergogna nel rimorso e nelle lacrime per il morto. Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo; su l’altro teneva un gomito e nei palmi la fronte. Ora, dal lenzuolo inazzurrato, il manto lunare cadeva su lei stupendamente; la bellissima sua nuca scoperta era densa di capelli quasi fulvi, che brillando si arruffavano. Pur così accasciata, il suo dorso conservava una mirabile elasticità; la gamba su cui stava inginocchiata, uscendo fuor dalla balza della vestaglia scopriva il bianco malleolo ed il tendine teso, che s’allentava nella rotondità del polpaccio. Quasi tutto il piede era fuori della pianella, e si vedeva il tallone roseo svanire in un incavo profondo verso le dita flesse, che tenevan ritta la calzatura piegandosi contro l’orlo d’ermellino. Nel medesimo tempo egli guardò il morto e gli parve straordinario che vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana ed avesse, nell’atto che compiva, una qualsiasi comunanza con lui. Voleva parlarle, chiamarla; ma un senso di rispetto più forte non gli consentiva di muover labbro. Ascoltò con una specie di rancore taciturno, ed intese che pregava. Sì, dall’atto delle sue labbra e dalla ferma sua genuflessione indovinò che l’amante pregava. Dunque non sarebbe mai la sua complice, non crederebbe mai che all’uomo sia lecito far morire. Anzi, poichè pregava, qualcosa v’era di non distrutto fra la sua bella gioventù e quella morte infinita, qualcosa v’era in quel silenzio, di più sacro e di più forte che l’amore, poich’entrambi avevano creduto nella parola inverosimile: «Dio». Allora si trasse indietro, e pensò ch’ell’avrebbe trasalito per la paura di rimaner sola in vicinanza del morto. Ma ella non si mosse, non s’accorse, non ebbe un solo tremito nella persona. Investita così dal raggio lunare, prosternata com’era davanti al letto funerario, pareva una monaca seminuda, che, in una notte piena di stelle, si fosse trascinata con delirio verso il marmo dell’altare, affinchè la pietra del sacrario purificasse la sua carne disperata. Ed egli non udiva più nemmeno il bisbiglio della sua preghiera, nè più vedeva il suo petto muoversi, la nuca trasalire, il tallone roseo staccarsi od avvicinarsi al tacco della pianella: ma due sole immobilità perfette occupavano la stanza, un solo raggio le ammantava nel suo fermo splendore. — Novella... — egli chiamò sommessamente. La sua propria voce lo ferì come la voce d’un estraneo, senza che le due creature si movessero. Le andò vicino, ed invece di chinarsi, attese. Era tramortita; ma da presso egli vedeva le sue spalle trasalire insensibilmente. Stando così piegata in avanti, con la fronte che quasi toccava il lenzuolo, la prima vertebra spinale formava tra le piane scapole un forte rilievo; il fascio lunare non impediva che presso l’attaccatura del collo le sue bianche spalle fossero piene d’ombra. Poi d’un tratto la vide roteare sul ginocchio piegato, allentar le braccia ed accasciarsi a terra come un peso inerte, senza quasi far rumore. La pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni formavano, sollevando la camicia, una profonda incavatura. Dopo di lei fissò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si fosse chinata fuor dalla proda, per guardare in giù. «Vedi? — mormorò in lui una voce estranea. E gli parve di ridere nel cuore sarcastico, ma d’un riso che non gli saliva fino alla bocca. «Vedi?» Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio. Senza maraviglia si volse e guardò. Su l’uscio batteva tagliente l’ombra d’uno stipite; null’altro che l’ombra d’uno stipite. La maniglia luccicava. Un usignuolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo stordiva. Gli parve che stesse a cantare, lì, sul davanzale. Si volse e guardò. Ma la pietra del davanzale frammista di selce non mandava che lampi ed il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante nell’immensità. «Uuh!... Fi! Perchè canti? Vattene.» L’usignuolaccio saltava. Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro le foglie sonore. «Vedi?» Un filo d’aria notturna passò su di lui, percorse la lunghezza del letto, soffiò tra i capelli radi del morto, li scompose. Poco dopo una vasta nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel fascio d’elettricità, e, fattasi buia la stanza, egli si sentì serrare nella caligine come fra due pareti che si chiudessero. «Vedi?» E la nuvolaglia se n’andava piano piano; il raggio tornava, più mite, poi più forte, parendo invadere la stanza e colmarla, come un fiume... Allora si chinò su l’amante, la prese per un braccio, la scosse. Ella sbarrò gli occhi, guardò intorno, si risovvenne, lo prese ai polsi e con tutta la forza delle due mani congiunte s’aggrappò a lui per sollevarsi. — Via... via... — balbettò quando fu ritta. E lo sospingeva indietro col peso della sua persona, chiudendo gli occhi, come se non volesse volgersi per riguardare il morto. — Via... portami via! Egli vide lo scendiletto sconvolto e l’accomodò con la punta del piede, resistendo per un poco all’urto dell’amante; poi si lasciò respingere. Uscirono. Camminando senza cautela rifecero il breve cammino, tenendosi avvinti, quasi tornassero dalla consumazione d’un delitto e andassero impuni, lievi, a goderne la preda. Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra camera, che a lor parve gioconda, involontariamente si baciarono. Ell’aveva nella gola un riso singhiozzante, negli occhi una febbre luminosa, nelle vene un battito celere che le soverchiava il cuore. A lui pareva di averla rubata quasi dalle mani d’un avversario più forte, o trascinata via da un incubo, via dal talamo di un altro che gliel’avesse rapita. Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio dell’alto suo ramo il cantore solitario snodava, buttava i suoi gorgheggi con impetuosa magnificenza, come, nell’aria, brillando, lancia i suoi gettiti una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa metteva nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le vellicassero il ventre viscido per farla ridere o si fosse ubbriacata fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini. — Dammi a bere... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato: — brucio di sete! — Acqua? egli disse. — Non ho che acqua. — Sì. Prese la caraffa, il bicchiere, lo riempì fino all’orlo, poi, stillante, lo porse alla sua bocca. Ella ne ingoiò un sorso avidamente, facendo gorgogliare l’acqua nel deglutirla; poi guardò l’amante: — E tu non hai sete? — Sì; dopo. — No, bevi, — ella fece, prendendogli la mano che teneva il bicchiere e spingendola verso la sua bocca. Egli ubbidì. Bevve con ingordigia, con ira, due volte, poi guardò il bicchiere vuoto. — Ancora ne vuoi? — diss’ella. — Non più. — Respirò forte, soggiunse: — Lo sai ch’eri svenuta? Ma ella si coverse gli occhi, piegò il mento sul petto, e, come chi si ritrae da una visione paurosa: — Non parlarne... — pregò. — Che orrore! che orrore! Ho bisogno per un momento di scordarlo... Non parlarne più! Egli rimise a posto la caraffa, si andò a sedere sull’orlo del letto, curvo, stanco, tenendo le mani allacciate, fra le ginocchia, la fronte china. Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò vicino alla finestra, guardando fuori, curiosa, nella notte stellata. Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore; incominciava un dondolìo sonnolento per le alte cime degli alberi; dentro, nelle frasconaie, qua e là, un fruscìo prolungato, uno strepito scorrevole, come se vi rimbalzasse in mezzo, tra foglia e foglia, una lentissima pioggia di sabbia. Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un grande fiore di magnolia sfasciarsi repentinamente, cadere giù, lembo a lembo, ciascun petalo roteando come una spola, finchè si posava disfatto su la ghiaia luccicante. Quel fiore, lo sfacelo di quel grande fiore, l’assorbiva interamente, e, senza ben comprenderne il perchè, non poteva ritrarsi dal guardare l’opulento ramo, che per quella caduta seguitava a dondolarsi oscillando, e quel fiore sparso, rotto in frantumi, che giaceva sotto il vasto albero, come una bianchissima porcellana spezzata. E vide un piccolo rospo che vi saltellava nel mezzo, traversando la ghiaia. Senza volgere il capo ella chiamò per nome l’amante; ma egli non si mosse. Allora, affacciandosi ancor più, si mise a guardare, nella facciata bianca della casa, quella finestra poco lontana, dietro la quale, ma in fondo, contro l’opposta parete, c’era un uomo che dormiva per sempre nel letto illuminato, nel sudario del raggio lunare, di fronte alla magnificenza delle stelle. Vide, o le sembrò, che ne uscisse un fumo azzurro, torbido, il quale navigava per la notte, sperdendosi; e intimorita si ritrasse, onde non respirare nel vento neppure un átomo di quel fumo. Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli. Egli non levò il capo, non disse parola. Ed ella, tacendo, prolungava la sua carezza con una specie di voluttà, indugiando nei caldi capelli, un po’ chinata su la sua pallida fronte. Infine disse: — Che ora è? tardi? Egli guardò l’orologio, distrattamente: — Le tre passate. — Hai sonno? — Non ho sonno; e tu? — Nemmeno. Guàrdami!... Andrea levò gli occhi. Entrambi, nel fissarsi, parvero maravigliati. — Che faremo? — ella disse, tremando fin nell’anima. — Non so. Stava ritta fra le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le spalle; egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e, senza toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle fresca e giovine, sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore stesso di lei. — Tu l’amavi! — gli esclamò d’un tratto, con iracondia, senza levare il capo. — No... taci... — Sì, lo amavi! ora l’ho visto! lo so... — egli disse caparbio. Novella si chinò presso l’orecchio dell’amante, quasi baciandolo, e bisbigliava di continuo: — Taci... taci... Subitamente egli serrò le braccia intorno alle sue reni e l’attrasse, alzando la bocca verso la bocca di lei, che lo cercava. — Sei mia, ora? Ella rise, non colle labbra soltanto, ma con tutta la persona, con tutta l’anima rise. — Rispóndimi! — Sì... sì! — Ma per poco... — egli fece, tetro. — Come? — Ho detto: per poco. Adesso non c’è più divieto, e allora... — E allora? — ella interrogava con la medesima voce. Poi gli prese la faccia tra i palmi, e, quasi per soffocare ogni parola, su la bocca, affannosamente, lo baciò. E rimasero avvinti in quel bacio, disperati, sitibondi, colmi fino alla gola di orrore e di amore, sentendo che in quella voluttà esecrata una coscienza invisibile, quasi, un Dio, li malediva... . . . . . . . ... poi, lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti, quasi una colonna di fumo, che soffiasse non da un incendio ma da un gelido remoto mare, e videro per l’universo effondersi quella specie di scolorimento, quel brivido, quella bianca tenebra che precede il salire del giorno. Un grande velario, di mussola o di tulle, passava su le migliaia di stelle per diminuirne lo splendore; una chiarità nasceva nell’oriente concavo; la notte a poco a poco s’incanalava in quella zona pallida, lasciando portare dal vento le sue gonfie spirali di fumo. Piccole stelle morte, randagie, vi cadevano dentro, scomparivano, lasciavan un solco impercettibile nello spazio dov’erano a migliaia; le grandi costellazioni, luminose come navigli notturni, affondavan nell’oceanica immensità; la luna colava a picco imbiancandosi nella voragine d’una nuvolaglia simile ad un cratere. Lontano, all’alba sopravveniente, un gallo cantò. Ilare, mandava in alto la sua chiacchierata pretensiosa, lisciandosi forse il bel pennaggio lustro, come una donna mattiniera, che alla finestra péttini cantando la sua liscia capigliatura. Entrava, con l’odor fluviale dei narcisi, con l’abbrividire delle foglie che si destavano, un’ondata d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il giro della stanza, come un vortice... Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la fasciò sino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava: — Dormi?... SECONDA PARTE I Tancredo Salvi arrivò il giorno appresso in villa, non appena gli ebbero telegrafato ch’era morto il suo fratellastro. Giunse in tempo esattamente per i funerali, ma sopra tutto per aver notizia del testamento: il che gli stava molto a cuore. Dalla prima giovinezza, dal tempo lontano in cui Giorgio Fiesco era partito dalla casa del patrigno in cerca di fortuna per il mondo, non s’erano quasi mai riveduti, nè alcuna fratellanza era tra loro, bensì per costumi e per indole una invincibile avversione. Venuta a morte la madre comune, Tancredo aveva brigato in mille guise per contendere a Giorgio la meschina eredità, e dopo aver dato fondo a quel denaro, d’ogni espediente viveva tranne che del suo proprio lavoro. Lo si era veduto alla Borsa e nei mercati, farsi mezzadro d’affari equivoci o pericolosi; lo si vedeva nelle bische, nelle bottiglierie, su gl’ippodromi, un po’ male in arnese, ma tuttavia giocondo. Più tardi s’era messo in un certo giornalismo di pettegolezzi e di raggiri, che sfioravano il ricatto; aveva inoltre aperta un’agenzia d’informazioni secrete, una di quelle tante che pullulano per i sinistri vicoli delle grandi città. Non ancor quarantenne, alto, forte, un po’ calvo, con la faccia quadrata e sbarbata, il colorito plumbeo, gli occhi profondi, una fronte malvagia, la tempia destra fiaccata come da un pugno dato in una creta molle, quest’uomo esprimeva nella sua rozzezza un non so che d’intelligente e di maestoso, un non so che d’amaro e di buffo, che prima insospettiva la gente, poi talvolta faceva sorridere chi avesse a trattare con lui. Giuntagli ora la notizia della morte di Giorgio Fiesco, Tancredo non aveva indugiato in lunghi dubbi, e cacciate alla rinfusa le sue poche robe in una sacca sfiancata, empitosi di mezzi toscani il portasigari sdruscito, contate nel voluminoso portafogli le poche centinaia di lire ch’erano pressochè tutto il suo bene, aveva chiamato con robusta voce la serva-consorte che gli faceva da massaia, e le aveva dato l’ordine di far scendere la sua borsa in portineria. Nel treno che lo portava dolcemente, per una sera ventilata, traverso le campagne fragranti, egli cominciò a sentirsi ravvolgere da un senso di vera beatitudine, quasi avesse l’intima coscienza di volare leggermente incontro alla fortuna. Pensava: — «Se mi capitasse di azzeccarne una finalmente! — Centomila lire!... Cosa sono centomila lire per il mio povero fratello? Dopo tutto siamo nati dallo stesso grembo! Lo so: c’è la moglie; ma non hanno figli. Centomila. Poi sono curioso anche di conoscere l’amico intimo, il gran professore... Centomila.» E questa parola numerosa, interminabile, con uno strascico di zeri tondi e roteanti che parevano intessere nell’infinito la chioma d’una straordinaria cometa, gli turbinava intorno, moltiplicandosi nel cielo, finchè lontano si disperdeva in una striscia ondeggiante, o forse nel pennacchio di fumo che la vaporiera si lasciava dietro camminando. Adesso il treno correva diritto per la rasa campagna, disegnando nella seguace ombra il traforo bianco dei finestrini. Veniva dalle pingui zolle un odor fertile di semenza matura; su l’estremo válico dell’orizzonte il disco paonazzo del sole affondava come un rotondo vomero nella terra lampeggiante. Allora Tancredo fece un sogno, che non era del tutto un sogno e che appunto lo seduceva per la sua possibilità. Un notaio, alto, allampanato, con gli occhiali a stanghetta, una voluminosa cravatta nera, leggeva il testamento del morto in una grande stanza dove c’erano molte persone attente. Lui, Tedo, se ne stava in un angolo, dietro tutti, ma seduto in una poltrona molto comoda, e guardava in alto, verso il lampadario, distrattamente... «Lascio mia moglie erede universale de’ miei beni, con un legato di L. 100.000 ( — dico centomila — ) a Tancredo Salvi, mio fratello di madre, e...» Tutte quelle persone attente si voltavano a guardare lui, ch’era tuttavia distratto, ma non poteva trattenere un certo risolino involontario che gl’increspava gli angoli della bocca. E il notaio seguitava a leggere con la sua voce fastidiosa come il ronzìo d’una vespa: «Legato A... — legato B... — legato C...» La vedova se ne stava seduta poco lontano da lui, pallida, nelle recenti gramaglie, e co’ suoi grandi occhi pieni di torbide ombre insidiosamente lo guardava. «Scritto di mio pugno, da me testatore, in piena coscienza di...» Era il notaio che finiva di leggere il testamento, con la sua voce nasale ma ronzante; poi si nettava gli occhiali a stanghetta dentro un enorme fazzoletto blu... Subitamente il quadro di quella grande stanza piena di persone attente si cancellò dal suo cervello; ma vide bensì la vedova, di sera, che saliva le scale con un candeliere in mano, forse per non trovar pace nella coltre insonne ove si contorcerebbe la sua profumata e vedovile solitudine... . . . . . . . Alla stazione, quando giunse, nessuno l’attendeva. Chiamò l’unico vetturino che già stava per volgere il suo cavallo, e di galoppo traversarono il borgo addormentato. A quell’ora le case degli artigiani eran buie: solo mandavan lume un paio di taverne, la bottega del farmacista, l’invetriata del caffè. Quando giunse a villa Fiesco, il cancello era chiuso ed il vetturino cominciò a schioccar di frusta. Uscì fuori dalla casa rustica la piccola Natalissa, e con la sua vocina di capinera da lontano gridò: — Vengo sùbito. Nell’alta casa una finestra s’aperse; confuse ombre vi si affacciarono, e s’udì sopra gli alberi del giardino la voce di Maria Dora che domandava: — Chi è venuto, Natalissa? — Un forestiero, — gridò la bimba. E da brava donnina già grande prese la sacca dell’ospite, lo accompagnò per il viale fino alla scalinata. Maria Dora, Stefano, la Berta stavano sul limitare, in attesa. Nessuno fra loro conosceva Tancredo, se non di fama, e vedendo quello sconosciuto avanzarsi tranquillo dietro la bimba del giardiniere, a tutta prima non seppero immaginare chi fosse. Egli pensava tra sè: — «Questo è il momento grave. Occorre una certa presenza di spirito...» Giunto a mezzo della scalinata, si levò il cappello e disse, fermandosi: — Io sono Tancredo Salvi. Maria Dora, senza rispondere, scappò dentro a dare la notizia. Papà Stefano alquanto impacciato, gli rispose: — Non eravamo preparati alla sua visita, signor Salvi. Tancredo salì con disinvoltura gli ultimi gradini. — Mi scusino; arrivo in questo momento; non feci che balzare nel primo treno; sono ancora sotto il colpo dell’orribile notizia... vengo per rivedere il mio povero fratello. Grazie, grazie, d’avermi avvertito!... E metteva nella sua voce robusta una specie di affannosa riconoscenza, mentre col palmo della mano faceva l’atto di rasciugarsi una lacrima. Stefano non sapeva che dire; se ne stava irresoluto, squadrandolo. — Allora lei desidera pernottare qui? — mormorò infine, accennando alla sacca da viaggio che Natalissa aveva posata sopra una seggiola. — A meno che non rechi troppo disturbo... — disse Tancredo con umiltà. — Volevo scendere all’albergo, ma non conosco il luogo, e, sopra tutto, il desiderio di veder súbito il mio povero fratello m’ha spinto a venir qui. — Mi perdoni un momento, — fece Stefano; ed entrò nella casa. Mentre stava per salire, incontrò Maria Dora con il Ferento che scendevano. In quel mentre apparve Marcuccio sul limitare della sala. — Chi arriva? Ospiti? Ma che c’è? Forse un ballo? Nessuno gli rispose. Stefano tornò su la veranda e disse alla Berta ch’eravi rimasta: — Va sopra in fretta e prepara una camera al secondo piano, l’ultima. — Poi disse a Tancredo: — Entri pure. Egli avanzò con circospezione, guardandosi attorno, quasi temesse d’andar incontro ad un agguato. Vide il Ferento, Maria Dora, Marcuccio, e, non sapendo che fare, fece un inchino. Il Ferento lo squadrò da capo a piedi, con uno de’ suoi sguardi rapidi che investivano come un urto; il Salvi sogguardò lui con una delle sue occhiate oblique, che accerchiavano come un laccio. — Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? — disse il Ferento. — E desidera vederlo? — Appunto. — Venga: la condurrò. Bisognava traversar la sala e Marcuccio stava su l’uscio, attento. Si trasse da parte per lasciar passare il Ferento, ma súbito si rimise traverso la soglia, in guisa da sbarrarne l’adito. Allora Tancredo, per non urtarlo, si fermò di botto, guardando in faccia quasi con timore quel lungo giovinotto sbilenco, dai capelli corti, vestito con panni che gli cascavan di dosso, il quale invece, nel fissarlo, rideva. Tancredo non poteva comprendere perchè mai quel personaggio gl’impedisse di passare. E lo scemo ad insistere: — Chi sei? Dove vai? C’è un ballo forse? Andrea tornò indietro, e preso lo scemo per un braccio lo costrinse a togliersi di mezzo. Poi disse: — Marcuccio, sono le dieci: va a dormire. Costui tirò fuori un grosso orologio d’argento e si mise ad ascoltarlo, poi ad osservarlo, contando le ore su le dita. Non gli tornava il conto. — Eh!... — gridò appresso al Ferento, — non sono le dieci!... una di più! C’è un ballo forse? Allora Tancredo, nel salir le scale, si risovvenne che Giorgio Fiesco aveva un cognato scemo. «E adesso mi tocca pure di vedere un morto... — pensò. — Non è piacevole. Con questa fame da lupo!» Giunti sul pianerottolo, Andrea lo avvertì: — È già nella cassa perchè si decomponeva, ma la cassa non è chiusa e lo potrà vedere. Tancredo avrebbe voluto rispondere a quel celebre scienziato in maniera degna della propria eloquenza, ma non trovava parole adatte, perchè l’idea di entrare così precipitosamente nella camera d’un morto gli scompigliava tutte le facoltà. Il corridoio era buio; da una porta nel fondo si diffondeva una striscia di luce. «Dev’essere là il morto... — pensava. — Purchè non mi lascino solo davanti alla bara...» — Venga, venga, — disse il Ferento, fermo su la soglia della camera funeraria. Tancredo si avanzò. Vide per prima cosa un letto vuoto, senza federe nè lenzuoli, con un pannolano sopra la coltre, da capo a fondo cosparso di fiori; poi vide una vecchia in una poltrona, che pregava, ed era mamma Francesca; indi una contadina, un contadino, ed un ragazzone di vent’anni, un bifolco nero come il carbone, seduti lato a lato, contro il muro, e che pregavano anch’essi. Da ultimo vide, nel mezzo della stanza, posata per terra fra quattro candelieri gocciolanti, la bara, coperta da un lenzuolo. Il coperchio stava poggiato verticalmente contro il cassone del letto. Intorno alla bara il pavimento era cosparso di fiori; egli cercò di non camminarvi sopra. Intorno alle quattro torciere si ravvolgevan spirale da ramoscelli fioriti; le fiamme piegate dal vento si allungavan come lingue vibrátili; ogni tanto se ne staccava una specie di vampa nera, che pareva guizzar via nell’ombra, di qua, di là, velocissima. «Ora, che faccio?» Di levare il lenzuolo da sè, proprio con le sue mani, Tancredo non aveva cuore; si chinò sopra il catafalco, restando immobile, come se recitasse una preghiera. Il lenzuolo era teso; non lasciava trasparire affatto il rilievo del cadavere. «È lì sotto e non lo vedo... povero Giorgio! Era tuttavia un buon uomo; quasi quasi potrei davvero piangere... Sebbene si fosse press’a poco estranei, certe cose la natura le comanda. Siamo figli della stessa madre: questo conta, per bacco! Poi, che male mi ha fatto? Qualche soldo me l’ha sempre dato, anche molti, per dire la verità... Era un brav’uomo. Certo non sentiva troppo i legami della fratellanza, ma questo è un difetto che gli si può anche perdonare, adesso ch’è morto. Io stesso, per dire la verità, non sono proprio uno stinco di santo... Su, vediamolo, poveraccio!» Ed allungava la mano per sollevare il lenzuolo; ma la mano titubante gli si fermava a mezza strada. «Diavolo!... E dire che non avrei paura di quattro malandrini!» Si fece animo e si chinò. Quell’odore di cadavere e di naftalina lo stomacava, serrandogli la gola. Tuttavia prese un lembo del lenzuolo e cominciò a sollevarlo. Allora si avvicinò la contadina, e inginocchiatasi all’altro lato della bara: — Volete vederlo, signore? — domandò. — Peccato che ora si guasta. E piano piano sollevò il lenzuolo, come dal viso d’un bimbo che non si voglia destare. Tancredo per poco non dette un urlo, tanto al vedersi quella faccia era spaventosa. Livida egli la vide, ma di una lividezza quasi nera, con l’orecchie, i due zigomi, le mandibole chiazzate di macchie vinose, gli occhi tumefatti, che parevan marci, la bocca enfiata, guasta, non chiusa, che lasciava colare dagli angoli, tra i peli della barba, un umore viscido e luccicante, il quale serpeggiava dentro il collo come una tortuosa lumacatura. Aveva intriso il colletto e disamidava lo sparato convesso, nel quale brillava la capocchia d’un bottone d’oro, simile ad un chiodo mal confitto, che rattenesse a fatica lo sforzo del torace gonfio. Pareva che l’abito nero lo infagottasse per una farsa macabra, per un ultimo ballo sotterraneo, dove comincerebbero i vermi a strisciare nella sua carne spenta, a propagarsi, a dondolarsi piano piano, su la musica d’un valzer lento... Ma la contadina lo tastava senza orrore, con le sue brune aride mani che lo avevano rivestito da capo a fondo; poi lo ricoverse con il lenzuolo, mentre si udiva la preghiera dei due uomini salir di tono, quasi per vincere il sonno che li schiacciava, in quel silenzio soffice come il feltro, nella greve lentezza della notte che passava. Entrò allora un prete, che sedette vicino a mamma Francesca, parlandole piano, ma continuamente. Tancredo retrocesse contro il muro e strisciò fin presso la soglia. Pensava: — «Povero Giorgio!... Non ho mai veduto nulla di più spaventoso che la sua faccia! Come lo può toccare quella donna?» E si mise a guardarla con ammirazione. Ella era tornata su la seggiola, stava immota, con gli occhi fissi, le mani congiunte nel grembo. Il giovane bifolco, cedendo al sonno, di tanto in tanto le piegava il capo su la spalla, ed ella con un urto lo faceva sobbalzare. Il Ferento era scomparso; Tancredo non sapeva che fare; cominciò a spaventarsi di dover passare in quella camera l’intera notte. Quel cadavere gli aveva dato un tal brivido, che ancora ne provava su l’epidermide una sensazione di gelo, e guardava le fiammelle de’ cerei sventolar nell’aria come bandieruole che si sfioccassero. Cominciò a scorgere nel vano della finestra un gran disegno di alberi, che ogni tanto si piegavano rumoreggiando, come larghe ondate. «Ma cos’è questo? Un paese di morti? Non si ode la voce d’un cristiano. Diavolo!... Quasi quasi era meglio che non venissi.» Il prete ogni tanto si cavava di tasca la tabacchiera, e di nascosto ne prendeva un pizzico, tirando su. «Porco!» — disse fra sè Tancredo, che non amava i preti. Maria Dora venne su l’uscio in punta di piedi, senza badare a lui. — Don Domenico, vuol prendere una tazza di caffè? Il calmo prete sorrise alla fanciulla, e con un cenno le rispose di sì. Aveva un bel faccione, allegro lucido sostanzioso come un piatto ben condito; era lì per fare il suo mestiere, per vegliare un morto, come in altre occasioni gli toccava battezzare, maritare, assolvere, ossia far credere all’uomo in qualche modo che la vita sia davvero una cosa santa. — E tu mamma, vuoi nulla? — domandò Maria Dora, carezzandole il capo. — Nulla: ripósati un poco. Dora. La fanciulla tirò il prete per la sottana, si mise a parlargli piano, ed uscirono. Tancredo li seguì. La vista di una bella tavola sparsa di chicchere, con una grande caffettiera fumante, una grossa torta inzuccherata, gli allargò il cuore. Ma si tenne in disparte, perchè nella sala v’era molta gente ch’egli non conosceva. Solo ravvisò lo scemo, e gli sorrise come ad un amico. Finalmente Stefano ebbe la compiacenza di dirgli: — Se vuol prendere un caffè, s’accomodi, signor Salvi. Poi, ad uno ad uno gli ospiti se ne andarono, e per ultimo anche il prete si levò, dopo avergli offerta una presa di tabacco. Stava per alzarsi egli pure, quando lo scemo gli comparve dinanzi: — Come ti chiami tu? — fece di punto in bianco, squadrandolo con una severità inquisitoria. «Càspita! che faccenda è questa? — pensava Tancredo; — il mentecatto mi dà del tu?» Rispose: — Mi chiamo Tancredo Salvi, per servirla. E lei? — Io sono il professor Marcuccio Landi: celebre. Non lo sai? «Càpperi!» — Cosa dici? «Ma guarda! ora mi lascian solo col matto!... Non vorrei che per caso gli saltasse la mattana!» Poi soggiunse, con un inchino: — Tanto piacere di conoscerla, signor professore!... Entrò la Berta per sparecchiare la tavola. Súbito lo scemo le si fece intorno e cominciò a darle noia. La ragazza, posato il vassoio, fuggiva intorno alla tavola rotonda; e lo scemo a saltellarle dietro, co’ suoi lunghi passi barcollanti. — Ma, dica, professore... cosa fa? — esclamò Tancredo. Marcuccio ristette, e puntando l’indice contro la ragazza: — Costei mi ama, — disse, — Davvero? Ha buon gusto! La Berta si mise a ridere e scappò via. Da quel sorriso Tancredo arguì che una corrente di simpatia fosse nata fra loro. Lo scemo cominciò a dondolarsi, e di nuovo a considerare l’estraneo con attenta curiosità. — Cosa vieni a fare in casa nostra? — Io?... Sono venuto per vedere mio fratello. — Tuo fratello? Ah!... ah!... — E rideva tenendosi le due mani sul ventre. — Ma chi è tuo fratello? — Mio fratello Giorgio, che è morto... quello che è morto... — spiegava Tedo con indulgenza. Ma lo scemo si rannuvolò, dubitando forse che il forestiero si gabbasse di lui. — Ora ti mando al manicomio perchè sei matto, — fece, seriamente. — Già... già... — lo blandiva Tedo con dolcezza. — E ti faccio legare perchè sei matto! — Già... già... «Ma cominci anche a seccarmi!» — disse fra i denti, guardandolo in malo modo. Per fortuna tornarono in quel mentre Maria Dora, Stefano ed il fattore Mattia. — Avete pronta una carrozza? — domandò lo scemo. — Bisogna portare al manicomio quest’uomo ch’è diventato matto. Il buon Tancredo sorrise con benevolenza, per mostrarsi alieno dal ricevere scuse; poi disse: — Oh, mi creda, signor Landi, è stato per me un vero strazio il ricevere quel telegramma! Se non erro ne’ miei calcoli, quel povero Giorgio non aveva che trentasette anni, è vero? — Quasi trentanove, signor Salvi, — corresse Maria Dora, che lo guardava con un semiriso. — Appunto, appunto... Ed in che modo è morto? — È morto di notte, solo, nel suo letto. — Ha sofferto? — Forse no; pareva tranquillo. Il professor Ferento crede sia morto nel sonno. — Quel professor Ferento era il suo amico intimo, non è vero? Egli aveva posto a caso la domanda, e solo perchè gli avevano ricordato il nome del Ferento. Ma s’accorse che la sua domanda non pareva loro altrettanto naturale, anzi osservò che il padre e la figlia s’erano guardati velocemente, con una certa perplessità. — Erano amici sin dall’infanzia; erano quasi due fratelli, — Stefano rispose. «Perchè mai — pensò Tancredo — s’erano guardati a quel modo?» E nella mente gli tornò la sembianza di Andrea: una bella testa violenta, rigida, precisa, come un’arma d’acciaio bene affilata. — «Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? E desidera vederlo? Venga, la condurrò.» Così gli aveva detto nel riceverlo, senz’altre parole. — Senta, e la moglie? — fece il Salvi dopo una pausa. Di nuovo il padre e la figlia si guardaron in faccia rapidamente, quasi cercasser di nasconder l’uno all’altro il lor medesimo pensiero. Maria Dora, che stando seduta e ferma teneva i piedi allacciati l’uno all’altro fuor dalla balza della gonna, macchinalmente li disciolse; poi di nuovo li annodò; Stefano trasse di tasca la pipa e ne battè il fornello sul tallone per farne uscire un po’ di cenere. — Eh, capirà... — Poi disse, molto in fretta: — Desolata, desolata... Neppur lei non è stata felice, povera figliuola! «C’è qualcosa nell’aria che non mi sembra naturale... — rifletteva Tancredo. — Non saprei cosa, ma certo il mio buon fiuto non m’inganna.» E gli parve che questo senso d’innaturalezza divenisse più immediato, più avvertibile, quando il Ferento appariva, o quando nei discorsi altrui fosse pronunziato il suo nome. Con quell’istinto particolare degli uomini che son usi a vivere di mezzi equivoci ed a speculare su le debolezze altrui, Tancredo s’accorgeva di respirare in un’atmosfera non limpida e gli pareva che un non so che d’ambiguo stringesse tutti gli abitatori di quella casa funesta. Andrea si era seduto presso la tavola, sotto la luce dell’alto lampadario, e celermente leggeva un fascio di telegrammi, passandoli poi a Stefano con un moto meccanico. Tancredo guardava quell’aspra fisionomia, gli pareva di temerla, ma insieme di sentirsene avvinto. Nel vederlo, comprese la fama che di lui correva, sentì con esattezza d’essere di fronte ad un uomo insolito, uno di quegli uomini destinati a produrre avvenimenti estremi e che raggiano da sè un fascio di potenza, benefica o dannosa, che li ricinge di solitudine come insieme li avvolge di splendore. Molto spesso Tancredo aveva udito pronunziare il nome di Andrea Ferento. Era un uomo che, da un lato, riempiva di sè la vita scientifica del paese, dall’altro, con veementi libri, ne scuoteva le forze intellettuali; e quantunque avesse da parecchi anni abbandonata la battaglia politica, non ancor sopiti si eran gli odî acerrimi e gli amori tenaci ch’egli aveva suscitato e suscitava intorno a sè, agitando bandiere. In verità era piuttosto un pensatore che un tribuno, piuttosto un banditore d’idee che un uomo di parte. Nato con un cervello d’autócrate, amava per istinto la ribellione, amava la guerra del pensiero nuovo contro il pensiero antico, del domani contro la vigilia, dei rinnovatori contro i sofisti. Dalla sua cattedra d’Università, nelle vibranti pagine de’ suoi libri, egli cercava di rappresentare con immagini vive l’enorme fantasma del suo pensiero; logico, freddo, preciso, libero da influssi mistici come dalle pastoie di qualsivoglia sistema, non curava l’uomo soltanto per guarire la materia, bensì per indovinarla, e vedeva il problema della conoscenza umana ridursi grado per grado ad una catena di scoperte scientifiche. «_Uno scienziato sarà il Dio dell’umanità ventura..._» Tancredo Salvi si ricordava confusamente di aver letta questa frase nel «_Dio lontano_» — il libro del Ferento che, per la sua forma accessibile anche ai profani e per il suo contenuto suggestivo, si era più largamente divulgato nel pubblico; libro d’anarchismo e d’irreligione dov’egli cantava la Divina Inutilità. E Tancredo ripensava queste pagine, mentr’era intento ad osservare quella fronte salda, maestosa, que’ fini e lunghi sopraccigli pressochè non curvati, che stavan sopra gli occhi violenti come segni di volontà. Guardava la bella capigliatura, leggermente striata di bianco, l’orecchie di lui, piccole, ben raccolte contro il cranio, quasi prive di lobi, effeminate quasi nella sua maschilità. Considerava il mento saldo, la guancia ben contornata, la bocca dissimile dagli altri lineamenti, anch’essa un po’ lieve, un po’ delicata, in quella maschera così bene impressa di virile fermezza. Era vestito di scuro; semplicemente, ma con uno studio di eleganze quasi dissimulato, e si vedeva una camicia di lino, freschissima, con i polsini chiusi da quattro cerchi di zaffiri, «che gli stavan — pensò Tancredo — molto bene, molto bene...» Gli tornò in mente la biondina, ch’era così leggiadra nel suo lieve abito nero, e poi l’altra, ch’era di sopra, la sua cognata vedova, l’erede... Come costei fosse veramente, non ricordava più; gli parve solo che fosse molto bella, null’altro; che fosse alta, con le trecce d’un bel colore bruno dorato... null’altro. Le rade volte ch’era stato in casa di Giorgio, questi l’aveva ricevuto frettolosamente, nel suo studio, ed egli lo rivedeva sempre nell’atto di aprire con un certo mazzo di chiavi che si toglieva dalla tasca dei calzoni lo sportello d’una cassaforte massiccia e tenebrosa. Poi rinchiudeva meticolosamente la serratura... tric, trac... una quantità di ordigni che scattavano, e Giorgio tornava presso la scrivania, piano piano, senza guardarlo, senza dir nulla; cercava una busta, vi metteva dentro alcuni biglietti di banca, ingommava, bagnando il dito in una spugnetta, e gli posava la busta lì vicino, su l’orlo della scrivania, perch’egli la prendesse. Tutto questo in silenzio, molto piano, con una delicatezza tediata ma dolce. Poi si rannicchiava nel suo seggiolone, senza guardarlo, sfogliando un libro o qualche lettera, in attesa che se n’andasse. «Addio, Giorgio... Grazie.» «Addio.» Suonava il campanello; un domestico, il quale forse aveva l’ordine di star fuori dall’uscio, entrava sùbito, l’accompagnava. Una volta, su lo scalone, incontrò la moglie. Tancredo si trasse da parte, le fece un grande inchino; ella curvò leggermente il capo e gli passò davanti con un fruscìo. Per lo scalone, dietro di lei, rimase un odore freschissimo di violette... — Signor Salvi, mi perdoni, — fece d’un tratto il Ferento; — lei non era tempo fa nella redazione d’un giornale ebdomadario che si chiamava, mi pare, «Il Bisbiglio»? Tancredo sobbalzò come se l’avesser côlto in fallo, e, cosa non frequente in lui, divenne leggermente rosso. — Appunto, — rispose impacciato. Ma sembrandogli che il dire «appunto» fosse poco, soggiunse: — Appunto, per servirla. — Vedo. E si mise a tamburellar con le dita su la tovaglia. Dopo aver riflettuto, gli domandò ancora: — Il giornale continua? — No, è cessato. Andrea trasse di tasca un bellissimo astuccio d’oro ed accese una sigaretta. — Fuma? — domandò, avanzando verso Tancredo l’astuccio aperto. — Volentieri, grazie. Parlarono ancora un poco, poi Stefano andò a chiamare la Berta, perchè accompagnasse il signor Salvi nella sua camera. Il poveraccio aveva fame; una fame dolorosa, iraconda. Nel suo cervello non faceva che riddare una visione pantagruélica di buone cose mangerecce; per di più, dalla prossima cucina filtrava, intorno alle sue narici vellicate, un odor proditorio di roba masticàbile. Tutte le rinunzie morali erano per lui più facili che quella di un pranzo, e l’idea della notte insonne, con i crampi allo stomaco, gli incuteva un terrore inesprimibile. Rimase un attimo in dubbio se confessare al vecchio i suoi tormenti, poi non ebbe il coraggio e si rassegnò. «Amen...» — concluse fra i denti, e mosse per le scale, dietro la ragazza che ad ogni gradino si puntava la mano sul ginocchio, dondolando. La sua nuca tonda e fulva, allacciata da un nastro di velluto, s’increspava, nel salire, come il collo carnoso d’una cagnetta mops. Quando furon sopra, ell’aperse l’uscio di fondo nel corridoio e, mentr’egli stava per entrare, lo guardò con il suo riso di contadina furba e sciocca. — Eccola servita. Questa è la sua camera. Teneva una mano su la maniglia; con l’altra, paonazza, reggeva il lume. — Come vi chiamate, ragazza? — Berta, mi chiamo. Perchè? — Tanto per saperlo, ragazza. E vi trovate bene in questa casa? — Peuh... non c’è male. — Ci siete da un pezzo? — Due anni. Buona notte, signor Salvi. — Avete fretta? — Ho sonno, sa... Sono in piedi dalle sei; pare niente, ma è lunga. — Avete pranzato voi? — fece Tancredo impulsivamente. — Eh... certo! — Io no. — Lei no? — disse la Berta, senza soverchio stupore. — Proprio no. Fece due lunghi passi, le andò presso, le diede un leggero pìzzico su la manica: — Fammi un piacere, brava ragazza. Se mi còrico a stomaco vuoto, sarà un inferno. Tu, in cucina, devi certo avere qualche avanzo. Vallo a prendere; fa quest’opera buona e non ci perderai nulla. — Ma io, signore, non ho ordini. Tancredo comprese che bisognava ricorrere a mezzi estremi; si cercò nel taschino del panciotto e ne trasse un gruzzolo di monete: argento e rame. Scelse un bel pezzo da due lire e lo fece scivolar nel palmo della domestica, dicendole: — Questo è per te. Bisognava che avesse una fame diabolica per dare quella mancia da scialacquatore. — Senta allora... — propose a bassa voce la Berta, — non dica nulla ed io le porto quel che ho. — D’accordo. E cosa mi porti? — Quello che c’è: forse un’ala di pollo, forse qualche fettina d’arrosto freddo, con un po’ di pane. — Ottimamente! — rispose Tancredo. E in attesa della cena se ne andò alla finestra per guardare il paesaggio. Ma nella inoltrata ora notturna faceva buio in lontananza, il paesaggio non c’era. Si vedevan soltanto alberi e stelle, prati e nuvole. Forse la luna era dietro il tetto, e lentamente sormontava la casa. Nella facciata non vide che finestre spente; una sola immergeva nei lucenti alberi del giardino il suo fascio di luce rossastra, propagava nell’ombra un colore torbido, che si diradava. E Tancredo rivide le quattro torciere agli angoli della bara, le sottili vampe che si staccavano dalle fiammelle con un guizzo, la testa nera del morto sopra un cuscino di seta, il bottone d’oro che premeva la camicia scoppiante... Finalmente udì la Berta bussare all’uscio. — Ma s’accomodi, signorina! — egli esclamò giovialmente. La Berta comparve con un vassoio carico d’ogni ben di Dio, tutto sovra un sol piatto insieme: carne, ossa di pollo, frantumi di formaggio, pere, patate fredde. A lato, un tozzo di pane, mezza bottiglia di vin nero, posate, saliera e tovagliolo. Per la contentezza Tancredo non seppe trattenersi dal farle una carezza su la guancia; ella si mise a ridere col suo riso di scioccona, e rimase in piedi vicino alla tavola, mentr’egli cominciava il suo festino. — Sièditi e fammi compagnia. — Vuole? — Sì, sì. Ella sedette presso il lavabo, sopra una seggiola di paglia. — Che buonissima roba, mia bella ragazza! Sei tu che fai in cucina? — Proprio io, per servirla. — Allora tu fai tutto in questa casa? — Eh, no! Mi aiutano. C’è un’altra donna che lava i piatti, una che scopa, e due uomini che vengono la mattina per i mestieri grossi. Da sola non potrei, le pare? — E ti trattan bene? — Non c’è male. Se non fosse quello scemo che mi pizzica... — Bel tipo! — Ma sa che la notte è capace di starsene magari un’ora davanti alla mia porta? Per fortuna che chiudo a chiave! Ho paura, sa... — Cosa vuole il babbeo? — Eh... lei capirà bene cosa vuole! — spiegò la Berta facendosi rossa. Tancredo ammiccò verso lei con il fare d’un uomo che se ne intende: — Ah, sì?... — Ma, già! — Porco! — esclamò Tancredo con la bocca piena. Poi soggiunse: — Tu probabilmente hai un altro innamorato... — Ho uno che mi parla, si sa... — Uno che ti sposa poi? — fece Tancredo paternamente. La Berta assentì col capo, seria, seria. — E quando? — Quando avrà fatto il servizio militare. — Ahi!... — Perchè dice «Ahi»? — Così per dire. Ma ti consiglio di non fidarti troppo in ogni modo; perchè gli uomini che non hanno ancor fatto il servizio militare sono tutte canaglie. — Questo lo so. — E quando l’hanno fatto sono peggio di prima. La Berta si mise a ridere. — Oh, allora!... — Allora cerca di non farti infinocchiare, perchè sei una bella ragazza e sarebbe un vero peccato. — Eh, eh... — cantilenò la Berta, accompagnando la sua cantilena con un largo gesto, — la so lunga io... non c’è pericolo! Tancredo mangiava scrupolosamente, raccogliendo le briciole. — Dimmi un po’: e la signorina Dora non ha nessuno che le parli?... — fece, con un’aria furbesca, strizzando l’occhio. — La signorina Dora?... oh, no! Ci sarebbe Maurizio, quello dei cani, che certo la sposerebbe volentieri, ma lei non lo vuole. Anzi lei... — e fece una pausa repentina. — Lei?... cosa? Di’ su! — Niente, niente; non son mica pettegola io... — Lo so che non sei pettegola, — rispose Tancredo per lusingarla; — ma io sono un uomo serio e con me puoi parlare liberamente. Placata la fame, s’accorse che gli si offriva un mezzo facile per sapere molte cose. — Dunque la signorina vuol bene ad un altro... La Berta strinse la bocca per non rispondere, ma gli angoli delle sue carnose labbra parevano dire di sì. — Povera signorina!... — sospirò la Berta. — È tanto una brava ragazza! Allegra, buona, un vero angelo! — Glielo si vede in faccia ch’è buona, — disse Tancredo, attento. — E perchè non lo sposa quest’altro a cui vuol bene? — Se si potesse avere tutto quello che si vuole al mondo!... — esclamò la Berta, con sapienza. — È uno qui del paese? — Non è di qui, ma ora è qui da un pezzo... o per lo meno vien tutte le settimane. — Ho capito, — fece Tancredo. «Guarda, guarda...» Sbucciava una pera, distrattamente, pensando a quel proverbio fiorentino del cacio con le pere... — Sicchè, al professore Ferento, la signorina Dora non piace? — domandò, per accertarsi che fosse proprio lui. La Berta strinse di nuovo la bocca, e questa volta gli angoli delle sue labbra dissero di no. — Il professore... — mormorò la ragazza, con intendimento. Tancredo non volle aver l’aria d’interessarsi troppo alla cosa, e tacque. La Berta fece un nodo coi nastri del suo grembiule, poi lo disfece; ma intanto rideva. — Il professore... — Già... già... — malignava Tancredo, benchè non sapesse ancor niente. — Ah, sì, eh?... Ammiccava, guardandola in faccia con gli occhi penetranti e studiandosi d’indovinare quelle sue reticenze. — Ah, sì eh?... — rifece ancora una volta, come se avesse ormai capito. — Io non dico nulla, — premise la Berta, — perchè non sono pettegola, e di quello che succede in casa non parlo mai per abitudine... Ma, tanto, lo sanno tutti, dal portalettere al capostazione, e lo sapeva perfino quel povero diavolo ch’è morto. — Ah, sì eh?... — Un pezzo di formaggio gli rimase fra i denti, masticato a metà. «Guarda, guarda, guarda... — mormorava tra sè. — Che razza di faccenda è questa?» — Guai se dovessi parlare!... — esclamò la Berta. — Sa, per i signori c’è un’altra morale che per noi: fanno e disfanno quel che vogliono; tutto va sempre bene. — Dici davvero che il professore sia l’amante... — Oh, io non dico niente, per sua buona regola! Ma, guardi, lo sanno tutti: lo sa la signorina Dora, lo sanno i miei padroni, ossia il signor Stefano e la signora Francesca, lo sa il fattore, il prestinaio, il macellaio, il falegname, il curato, il sindaco... lo sanno tutti insomma, e quasi quasi crederei che lo sappia perfino lo scemo! — Diavolo! — esclamò Tancredo, rannuvolato. Poi emise una sentenza che gli pareva insieme scaltra e doverosa: — Molte volte si racconta quello che non è. — Eh!... — scappò a dire la Berta, — se avessi tanti biglietti da cento quante sono le volte che li ho veduti con i miei occhi! — Tu? Egli s’era fatto così buio che la ragazza se ne impaurì. — Per l’amor di Dio! — supplicò, levandosi in piedi, — non mi comprometta... Ho parlato senza volerlo, perchè mi pareva che lei sapesse già... Mi raccomando, signore... Tancredo si levò, e, venutole presso, le diede un’altra carezza su la guancia, ma questa volta paterna. — Sta tranquilla, ragazza. Sono un uomo serio, ti ho detto; e per conto mio sarà come se non avessimo nemmeno discorso. Ti basta? — Grazie, signore. — Poi soggiunse: — Posso portar via i piatti? — Sì, ho finito. Accese un mezzo toscano e cominciò a camminare, avanti, indietro. — «Guarda, guarda, guarda...» Nonostante la confusione dei suoi pensieri, s’accorse che bisognava tenersi buona quella domestica, e gli parve che due lire fosser poche per tutto quello che aveva saputo da lei. Si cercò nel taschino e prese un’altro franco. — Sei una ragazza a modo mio! Tieni. Ella stava per caricarsi il vassoio su le braccia, e guardò attonita la moneta che gli luccicava tra l’indice ed il póllice. — Non si disturbi ancora... — Oh!... — egli fece, con aria principesca, — bazzécole! Ma non appena fu solo, Tancredo pensò che la fortuna d’un uomo consiste alle volte nel trovare il bandolo d’una matassa molto arruffata, e mentre si piegava sul davanzale per rinchiudere le persiane, lungamente i suoi occhi affascinanti rimasero avvinti a quel fascio di luce rossastra, a quel lento fiume di polvere che scaturiva dalla finestra del morto. II. Alle nove precise il funerale mosse giù per il viale carrozzabile che traversava il giardino. Da un lato del féretro mamma Francesca e Maria Dora scendevano insieme; dall’altro, papà Stefano, tenendo sottobraccio il figlio scemo. Maurizio, Mattia, la piccola Natalissa, il giardiniere, seguivan per primi il carro funebre, con gli occhi rossi di lacrime, accasciati da un semplice ma spontaneo dolore. Solo, pressochè isolato in capo del corteo, camminava Andrea Ferento, a capo nudo, bianco ma impassibile. Aveva impartito gli ordini con una voce breve; poi, quando il carro si mosse, guardò rapidamente in alto, verso una finestra chiusa, dove la cortina ricadde; volse uno sguardo rapidissimo su le persone che aveva intorno, e s’incamminò dietro il carro. Tutti, per un rispetto simultaneo, lo lasciaron solo. Dietro lui si muoveva il corteo bisbigliante, numeroso d’un centinaio di persone, che dal borgo eran salite a casa Landi, o v’eran giunte coi treni del mattino, poichè la morte del Fiesco era stata annunziata in città la sera innanzi dalle ultime gazzette con frettolose necrologie. Tancredo Salvi scendeva tra il sindaco Berra ed il medico Paolieri; studioso di ben recitare la sua parte in quella estrema cerimonia, faceva pompa dell’alta persona e del suo maestoso dolore. Fuor del cancello era una ressa di contadini, che al passaggio del féretro cominciaron a biascicar preghiere; alcuni s’inginocchiavano su la proda erbosa del fossatello, e, passato il carro, si raddrizzavan in piedi senza ripulirsi le ginocchia dalla polvere. Il cielo era limpido, l’aria ventilata, un ridere di pannocchie sbocciava nella biondezza dei campi, scaturiva dalla terra umida una fragranza di mietitura, e quel corteo funebre camminante per la strada polverosa pareva in contrasto singolare con l’allegrezza del mondo. Di là dalla svolta il borgo apparve, con i suoi tetti rossi e decrepiti, che, accesi dal sole, ripercotevan nell’azzurrità un dondolìo balenante. La strada maestra si lanciava diritta nel mezzo della borgata, piegando a valle, di là dall’estreme case, per il declivio della collina. Su l’ingresso del borgo due lunghe siepi di curiosi attendevano il funerale. E il carro camminava piano piano, con un rumor soffice di ruote nella polvere, nereggiando nel soverchio splendore della mattinata, cullandosi nella nenia dei salmi ecclesiastici e nel bisbiglio che faceva sotto il gran sole quel corteo camminante. Altri uomini frattanto s’aggruppavano intorno a Tancredo, al sindaco Berra ed al medico Paolieri; fra gli altri un certo giornalista che Tancredo conosceva benissimo, perchè appartenente come lui a quella brigata clandestina di galantuomini matricolati, che vivon per così dire di tutte le professioni altrui, grattando e scovando per ovunque l’aria sappia di corrotto, e che stanno con gli orecchi tesi fra le quinte della commedia cotidiana, pronti a balzar fuori come bracchi affamati sul primo espediente che loro cápiti a portata di mano. La sua professione confessabile era quella di giornalista, e faceva il redattore estemporaneo di quei giornaletti effimeri nati per vendere il lor silenzio, talvolta per fomentare uno scandalo, per farsi complici d’una equivoca speculazione, talvolta per servire gli odii o per lusingare le ambizioni d’un uomo potente. La sua età poteva essere di quarant’anni, il suo nome: Saverio Metello. Tancredo si maravigliò di non averlo prima veduto. — Che diavolo, Metello? Cosa fai qui? — Mi manda la «Voce», — rispose il Metello; — come vedi, sono costretto ad occuparmi anche della necrologia... Che porco mestiere! Tancredo sospirò e prese un’aria di cordoglio melodrammatico. — Vedo che ti sei messo in lutto, — scherzò il Metello. — Che uomo elegante! Allora lo sdegno di Tancredo proruppe: — Diavolo, non lo sai? Giorgio Fiesco era... — Cos’era? — Ma, per bacco, mio fratello! — Poi corresse: — mio fratellastro. — Cáspita, è vero! E non ci avevo pensato! Ti giuro che non mi era neanche passato per la mente! Scusami, veh... Condoglianze! — Oh! figúrati... — fece il Salvi. E tuttavia prese un’aria leggermente sostenuta. Il corteo, giungendo nella piazza ingombra di folla, si fermò davanti alla Chiesa; Tancredo, facendosi largo nella ressa, camminò dietro la bara. Il Metello invece, dopo aver osservato con uno sguardo ironico il suo camerata Salvi, trasse fuori di tasca un largo fazzoletto, e piegatolo a sciarpa se lo mise intorno al collo, poichè sudava. Poi volse uno sguardo circolare per la piazza, cercando un’osteria dove potesse almeno bere una gassosa. Tra l’insegna d’un ciabattino e quella d’un cordaio vide pendere la frasca metallica d’un’osteria; essa teneva sul marciapiede tre tavolini di ferro, con qualche scranna; v’era gente seduta; ma egli colse il destro d’uno che s’alzava e si pose con placidità frammezzo a quegli estranei. Volse lo sguardo in alto, aspettando che lo servissero. L’orologio del campanile segnava le dieci e cinque; le sfere parevan d’oro sul quadrante diviso dalla lor ombra; un vortice di rondini roteava intorno alla guglia. L’ostessa, panciuta, con un bel grembiule fiammeggiante, gli portò la gassosa; egli ne bevve un bicchiere d’un fiato, e la trovò eccellente; poi di nuovo riempì il bicchiere e stette a guardare le bollicine che vi salivano scoppiettando. Cominciò ad imbastir mentalmente l’articolo funebre. «Giorgio Fiesco, nato nel... morto di... oh, di cosa è morto poi? Tisi? Paralisi cardiaca? Mah? C’informeremo. Aveva dunque, — fece il conto, — trentanove anni. Laureatosi ingegnere nel... questo non importa; diremo: giovanissimo. Costrusse i ponti di... di... etc., capolavori dell’ingegneria moderna, etc. etc. — Partì con i primissimi pionieri della civiltà in regioni, etc. — famosi disastri minerarii, etc. — costruì diecimila chilometri di strada ferrata... che il diavolo se lo porti... etc.!» Al suo medesimo tavolino eran seduti tre altri uomini, i quali si credevan di parlar piano, accostandosi l’uno all’altro quanto più potevano, con i gomiti poggiati sul tavolino di metallo; ma invece parlavan in guisa da esser uditi e davano al tavolino certe scosse, che il suo bicchiere di gassosa ne traboccava. Uno d’essi ripeteva continuamente: — Ti dico di sì, ti dico di sì! E l’altro: — Impossibile, impossibile! Il terzo: — Ma che impossibile d’Egitto! Poi si guardavan intorno sospettosi. Saverio Metello, che per principio soleva dare un grande peso ai discorsi enigmatici, prese un’aria distratta e ricominciò a guardare in alto, verso le sfere luccicanti, verso il balenante vortice di rondini che roteava intorno al campanile. Onde sorprese questo bel discorso: — Insomma, vediamo un po’: che il professore fosse l’amante. — Va vene, va bene, questo lo so, — ammise l’incredulo. — E che fosse incinta, lo sai o no? — Si mormora... Ma non bisogna credere a tutto. — Insomma, — esclamò l’interlocutore, che aveva l’aria d’un ricco mercante, — lo ha detto a mia moglie una persona che bázzica per casa loro; non voglio dire chi, per non compromettere nessuno; ma in una casa è più facile batter falsa moneta che custodire un secreto. E posso aggiungere anche questo: la gravidanza è di qualche mese. — Del resto, — intervenne il terzo, che doveva essere un capomastro a giudicare dal decimetro di legno giallo che gli usciva dal taschino, — questo fra poco si vedrà. — A meno che, — insinuò il denunziatore con aria sibillina, — ora che lui, poveraccio, se n’è andato... a meno che, dico, non provvedano altrimenti! Sai bene, i dottori fanno presto... E, dato che sarebbe difficile, per non dire impossibile, attribuirne al marito la paternità... capirai bene a cosa voglio alludere! — Insomma, ditene quel che volete, ma io non credo! — esclamò quegli che pareva un chierico d’avvocato, con la sua vecchia testa grigia e ascetica. — Allora sei testardo più d’un mulo! Méttiti bene in mente che, quando una voce corre, qualcosa di vero c’è sempre, poichè dal niente non nasce niente. — Se così fosse, guai! — Così è. Del resto, come spieghi tu il fatto che quel povero diavolo non aveva chiuso ancora gli occhi e già tutto il paese mormorava la stessa cosa: — L’hanno?... — Sst!... Io non mi spiego niente, ma non credo, — fece l’altro, caparbio. — D’altronde, — venne a dire quegli che aveva l’apparenza d’un capomastro, — il primo a lasciarselo scappar di bocca è stato il dottor Paolieri, e l’ho inteso io, con queste orecchie. Eravamo in farmacia, quando sono entrati a dare la notizia della morte. Il Paolieri è saltato su di scatto e, senza riflettere, è venuto fuori con una frase che lascio interpretare a voi: «È morto il Fiesco?... Me lo immaginavo! Se l’avessero lasciato curare a me, che sono un asino, campava un pezzo ancora!» Dopo se l’è rimangiata sùbito, anzi ha dato in escandescenze, dicendo che l’avevan capito male... Ma l’ho inteso io, con queste orecchie, dunque non serve che adesso egli neghi per paura. — Insomma, — concluse l’incredulo, — volete un consiglio? Sarà quel che sarà, ma state zitti; perchè in queste faccende v’è caso di buscarsi qualche brutta seccatura, ed io, per me, come vi ripeto, non credo. — Oh, tu, la sai lunga!... — fecero gli altri due, come se volessero tacciarlo d’ipocrisia. Poi s’alzarono, ed insieme con altri sopraggiunti entraron nell’osteria. Saverio Metello aveva ascoltato flemmaticamente, ma senza perder sillaba di quel grave discorso; aveva continuato a darsi l’aria più distratta del mondo, a fissare i voli delle rondini, le sfere dorate che camminavano sul quadrante acceso. La sua faccia restò impassibile, e, quando i tre se ne andarono, altro non fece che sollevare lentamente il bicchiere nel quale scoppiettavano le bollicine, poi tracannare sino all’ultima goccia la fresca bevanda con una specie di lenta voluttà. Era un uomo calmo, scettico, annoiato, che si risolveva difficilmente a trovare alcunchè d’interessante nella vita, un uomo passato al di là da tutte le sorprese, che odiava il mondo intero, ma con un odio neghittoso. L’udire che un tale poteva essere stato ucciso, gli faceva press’a poco lo stesso effetto che leggere nella quarta pagina d’un giornale l’annunzio funebre d’una persona sconosciuta, od il rialzo od il ribasso della rendita italiana, ch’egli, naturalmente, non era in caso di possedere. Perchè una cosa giungesse ad interessarlo, bisognava che toccasse da vicino la sua propria persona; ed allora quest’essere apatico trovata in sè un’improvvisa e feroce gagliardìa per piombare su tutto quello che poteva essergli utile, come sopra una legittima preda. Il resto faceva meccanicamente, con una specie di disinganno anteriore, con una incolmabile noia. Ora, davanti a tutto quello che aveva udito, non trasse che una piccola riflessione. — Adesso capisco meglio perchè Tancredo sia qui. Supponeva naturalmente che l’ottimo Salvi ne fosse informato, e, con la prontezza che gli era solita nell’intravvedere un affar losco, decise d’avvertirlo in via confidenziale che nel disbrigo di quella faccenda voleva mettere il suo zampino ancor lui. «Pazienza! Non sarà stato un viaggio del tutto inutile.» E trasse un enorme sbadiglio. Adesso il funerale usciva di chiesa; la folla sgorgava dalle duplici porte ingombrando la scalinata; una teoria di fanciulle, con il velo della cresima, portavan i ceri funebri; quel brulichìo di smorte fiamme pareva cancellarsi nel fulgore del sole. Ricollocaron la bara sul carro, tra mucchi di corone, poi di nuovo il crocifero mosse in capo del corteo. A malincuore, anche il Metello s’incamminò. L’aver saputo eludere le litanie dei preti non lo scampava da quelle de’ conferenzieri. Intanto vedeva Tancredo discorrere con animazione, prodigarsi, fare un grande sperpero d’inchini e di sorrisi. — «Ha tutte le fortune quel birbante! Capace perfino di ereditare...» E davanti al pensiero che Tancredo potesse ereditare, lo riprendeva un odio feroce contro tutta la specie umana. Presso il cancello del cimitero si trovaron lato a lato. — Olà, bel giovine! — fece il Metello; — sono al corrente anch’io, sai... — Al corrente?... ma di cosa? — Fa pur l’indiano... se ti garba! — Uhm, non capisco... — grugnì Tancredo. — In ogni modo, — concluse il Metello, — se vuoi che facciamo quattro chiacchiere prima ch’io riprenda il treno... — Volontieri. La bara, portata a spalle, s’incamminò per il piccolo viale: i familiari la seguivano e Tancredo s’affrettò con essi. Quando il feretro fu deposto su l’orlo della fossa, Tancredo si trovò di faccia il Ferento. Entrambi, quasi dimentichi d’ogni altro pensiero, per un lungo attimo si fissarono. Poi Tancredo volse altrove lo sguardo, incapace di sostenere più a lungo la sua bianca tranquillità. Gli affossatori sollevaron la bara, mentre la folla erasi radunata in cerchio presso il luogo del seppellimento. E qualcosa tuttavia di solenne, di solenne anche per l’incredulo, si rinnovava nell’atto semplice che nasconde per sempre sotto il lenzuolo di polvere una spoglia supina e còrica l’uomo anchilosato, putrescente, nella divina zolla piena di palpito che domani rifiorirà. Ognuno intanto s’aspettava che parlasse Andrea Ferento, e nel succedersi degli oratori ogni volta si lasciava un più lungo intervallo, mentre tutti lo guardavano con attesa. Ma il Ferento se ne stava immobile, a piè della tomba, con le due mani entro le tasche della giacchetta, gli occhi fissi al coperchio della bara, e pareva che una grande solitudine si estendesse intorno a lui. Gli sguardi vigili del medico Paolieri non l’abbandonavan un momento, così pure gli occhi d’altre persone disperse fra gli ascoltatori. Egli sentiva con una specie di molestia la tenacità di quegli sguardi e s’accorgeva di farsi continuamente più pallido come se una fredda febbre gli consumasse la faccia. Si avvedeva di quell’attesa nella quale stavan tutti, ch’egli parlasse, ma era ben risoluto a non dissuggellare la bocca. Poi temette che il suo silenzio avesse a parer strano, e da ultimo gli sembrò di parlare infatti, gli sembrò di esser ritto, parlante, gesticolante, su l’orlo di quella fossa, ma di udire che intorno si rideva sgangheratamente, beffando il parlatore, il morto, e la vedova ch’era lontana, lassù, nella sua camera deserta... I discorsi finirono, la gente non si moveva. Gli si avvicinò il sindaco Berra: — Professore, non crede lei pure... — Grazie, no! — rispose il Ferento. Ma la gente non si moveva; e lo guardavano; tutti guardavano lui. Gli si avvicinò un giornalista ch’egli conosceva benissimo. Paolo Giordano, e gli mormorò alcune parole a bassa voce. Allora il Ferento comprese ch’era tuttavia «necessario» parlare; guardò con odio la folla, eresse in un terribile sforzo la sua dura volontà, e disse: — Va bene. Fece qualche passo avanti, rialzò la fronte luminosa, e le sue labbra obbedienti parlarono. «Giorgio Fiesco...» — Limpida suonava la sua voce, senza tradire il convulso che gli torceva l’anima, ed ancora due volte pronunziò questo nome: «Giorgio Fiesco... Giorgio Fiesco, ingegnere della miniera di Haswill, costruttore del più alato ponte sopra la valle di Cimbra, io t’ho salutato altre volte per morto, quando salpavi dal molo atlantico nel meraviglioso pericolo della tua temerità. Senza lacrime allora, senza lacrime ancor oggi, che non puoi tornare, ti saluto. Altro non facemmo in vita che scambiarci nelle ore più forti una rapida stretta di mano ed uno sguardo chiaro, che vedeva la strada fino all’ultima pietra milliare, che non diceva mai: «Férmati» — ma diceva tranquillamente: «Arriverai!» Poichè ti conobbi meglio di chicchessia, risponderò in tua vece a coloro che oggi videro cadere su te la pietra del sepolcro. Le tue parole sono queste: — «Non piangete. Un uomo sereno e stanco è sceso nella morte che non temeva. Non fece che restituire la sua nascita, in un’ora calma. Egli vorrebbe solamente insegnarvi a sciogliere questa parola dal suo dolore, dal suo terrore, dall’inutile angoscia ch’essa propaga in ogni giorno della vita; vorrebbe convincervi che la morte non è una cosa triste, poichè il bene ultimo, l’ultima felicità degli uomini è la pace... «Sì, Giorgio: io che ti conobbi meglio di chicchessia, mi rammento che pronunziavi queste parole poche ore prima di addormentarti. Ed ora che non àbiti più nella spoglia coricata, il tuo fratello non ti deve che uno sguardo chiaro, una stretta di mano, da compagno a compagno, l’ultima, con semplicità.» La sua voce solenne, il suo virile aspetto pieno di una tranquilla magnificenza, parvero in quel momento ravvolgere l’uomo ed il sepolcro nella significazione d’un rito. Un rito laico, ma profondamente umano, che il simbolo del vivo compisse verso l’ombra dell’estinto, e che fosse maggiore, più alto, più leale, di tutte le parodie con cui le religioni accompagnano i morti a sepoltura. Egli era scientificamente un ateo, sapeva i destini della polvere, aveva escluso Dio. Molti, nell’ascoltarlo, si rammentavan le più note pagine de’ suoi libri, ed anche se lontani da lui, anche se inadatti a comprenderlo, sentivano raggiare da’ suoi occhi una potenza soggiogante, sentivano quasi un’invidia della sua temeraria e mai genuflessa libertà. Era un evangelista laico, un profeta che non vendeva dal pergamo le formule dell’Assoluto, ma sui frantumi di tutti i Pantheon, delle necropoli e delle chiese, innalzava la deità dell’uomo, dell’uomo autocrate nel mondo, sterminatamente orgoglioso del suo nulla più grande che Dio. Era un profeta, non perchè avesse donato ancora una volta la inconoscibile verità, ma perchè predicava la scienza come la sola religione degna del tempo futuro, come quella che, svincolato il pensiero da ogni teosofia, da ogni metafisica imbastita su ipotesi arbitrarie o su telai di parole ingannevoli, guiderebbe ogni spirito ai limiti della conoscenza ed al sereno amore della vita. III «La vedrò finalmente questa vedova!» pensava Tancredo, camminando in un salotto attiguo alla sala da pranzo, mentre, per la porta socchiusa, intravvedeva la Berta posare su la credenza un bel piatto fumoso. Egli tornava dall’aver accompagnato alla stazione il suo compare Saverio Metello, col quale aveva per l’appunto scambiate quelle quattro chiacchiere che si erano promesse. In quel momento entrò la signorina Dora, che, toltasi il cappello ed il velo di crespo, ancor più frivola di giorno e più leggiadra gli parve che di sera. — Lei ha fame probabilmente, signor Salvi, — disse con la sua voce fresca e maliziosa. — Peuh... un tantino. Ma non ci pensavo neppure. In queste gravi circostanze... — Certo, — ammise Maria Dora con una boccuccia impertinente. — Ma ora si va a tavola, non dubiti. — Poi soggiunse: — Cosa pensa del funerale? È riuscito grandioso e commovente, non le pare? — Quello che il povero Giorgio si meritava, — osservò Tancredo con aria ispirata. — E sua sorella come sta? — Eccola, — disse Maria Dora. Ella entrava con sua madre infatti; Maurizio la seguiva con Stefano e con lo scemo. Poco dopo sopraggiunse il Ferento, che lo presentò alla vedova: — Il signor Tancredo Salvi, che forse non conoscete. Ella fece un saluto con il capo, un saluto serio e dolce, al quale Tancredo rispose con una specie di riverenza impacciata. Quando furon tutti seduti, la Berta mise davanti alla vedova una tazza di brodo; il Salvi non poteva ristare dall’ammirarla tanto, ch’ella teneva costantemente la faccia china. Poi guardava con invidia il Ferento, pensando: «Beato lui!» Tranne alcune brevi parole di Maria Dora, la colazione passava taciturna. Lo scemo aveva smesso l’abito nero, per indossar di nuovo il suo giubbone quasi giallo, e si divertiva nel battere la stoviglia con la forchetta, il bicchiere con il coltello; poi faceva le boccacce alla Berta, ridendo e tirandola per la sottana ogni qualvolta costei gli passava daccanto. Verso la fine della colazione entrò Mattia, che aveva da parlar con Stefano, il quale si levò, e uscirono. Marcuccio pure sorse di tavola prima che gli altri finissero, e scomparve. Maurizio si puliva le unghie con uno stuzzicadenti. Quando Maria Dora, che gli era seduta vicino, se n’accorse, gli diede un colpetto con la mano; il giovinotto si mise a ridere. La vedova non voleva neppure le frutte; sua madre le mise tuttavia sul tondo una bella pesca, rossa come un caldo velluto, e che mandava profumo. — Mangiate almeno quella pesca, Novella, — disse il Ferento, che pur tacendo si occupava continuamente di lei. Ella volse gli occhi a guardarlo, sorrise ed obbedì. Tancredo aguzzava tutte le sue facoltà d’osservazione, poichè la voce del Ferento, nel parlare con la vedova, lo aveva infatti colpito: una voce così diversa dalla sua consueta, blanda, persuadente, morbida, «una voce — se la definì Tancredo — che pareva la carezza d’un innamorato.» E per la seconda volta, ma quasi con rancore, si disse: — «Beato lui!» Frattanto s’accorse che Maria Dora e Maurizio si parlavan piano e ch’egli doveva essere appunto la causa de’ loro bisbigli. Allora domandò al Ferento: — Scusi, professore, quando riprende i suoi corsi all’Università? — Fra una diecina di giorni, signor Salvi. E basta. Non c’era proprio mezzo d’attaccar discorso. A lui pareva che tutto dovesse avere un limite, anche il dolore per un morto, e trovò che in fondo esageravano un poco. — Prenderemo il caffè in sala, — disse Maria Dora. E si levarono. Tancredo, nel salone semibuio, si sprofondò in una comoda poltrona; di fianco gli misero un tavolino con la chicchera del suo caffè; Maria Dora gli propose la scelta fra un bicchierino di «Chartreuse» ed uno di «Cognac»; Tancredo preferì quest’ultimo per la veneranda polvere che ne affumicava la bottiglia. La sala — quella medesima sala ove poco tempo innanzi, durante un chiaro pomeriggio di sole, Novella si era seduta al pianoforte per eseguire una fuga di Bach, mentre il marito l’ascoltava e la guardava protendendo verso lei con un disperato amore l’esausta persona febbricitante — la sala medesima era come quel giorno fragrante di rose, e come quel giorno il sole vi pertugiava dalle persiane, dissolvendosi traverso la penombra in una striscia di polvere luminosa. Tancredo si sentiva bene, deliziosamente bene, sicchè, abbandonandosi alla sua natura fantastica, sognava che quella casa fosse la sua propria casa, immaginava di potervi da quel giorno in poi trascinare una vita opulenta e neghittosa, facendosi servire come un satrapo, satollandosi di pasti luculliani, consumando una cantina di bottiglie decrepite, lui, Tancredo Salvi, padrone d’una villa in campagna. Il Ferento, in piedi su la soglia d’un altro salotto, stava leggendo un giornale; mamma Francesca s’appisolava sul divano; Maria Dora ed il giovinotto discorrevan sottovoce nel vano d’una finestra; la vedova era seduta quasi di fronte a Tancredo, con le due mani poggiate sui bracciuoli della poltrona di velluto scuro, il capo rovesciato sopra un cuscinetto che guerniva la spalliera, sicchè la sua gola bianchissima appariva scoverta come una procace nudità. Allora Tancredo arrischiò una frase, timidamente: — Si ricorda, signora? Io venivo a trovar Giorgio qualche volta in città... Ella n’ebbe un tremito, come s’egli l’avesse interrotta nel mezzo d’un sogno. — Sì, me ne ricordo, signor Salvi... La sua voce le somigliava: era come la sua gola turgida, come la sua gamba seminuda, come tutta la sua persona, viziata, appassionata, soave. — Ma ultimamente era un pezzo che non rivedevo Giorgio. — Forse da quando si ammalò? — Appunto. Gli occhi della vedova eran dolci, grandi, fermi: lo guardavano in faccia, ed egli si sentiva vergognoso come un contadino sotto lo sguardo di questa bella donna. Maria Dora, udendoli parlare, s’avvicinò e mise una mano sul braccio della sorella, poi s’appoggiò con i gomiti su la spalliera stessa ov’ella teneva il capo. — Ed ora, — domandò il Salvi — lei pensa di rimaner in villa, o forse di fare un viaggio per distrarsi? — Non so nulla per ora; non abbiamo ancora deciso nulla. — Signor Salvi, — disse d’improvviso il Ferento, con una voce quasi gaia, — vuole che facciamo insieme una passeggiata nel giardino? Egli si levò in piedi con un atto di repentina obbedienza e rispose: — Volentieri. Scesero dalla scalinata e s’allontanarono fra gli alberi. Camminando, il Ferento ripiegava con lentezza il giornale, che poi si mise in tasca. Ma d’un tratto e senza preamboli disse: — Lei desidera probabilmente saper qualcosa intorno al testamento di Giorgio Fiesco, non è vero? — Ecco, no... ossia... — spiegava Tancredo con impaccio. — Dunque: il testamento fu trovato nella sua scrivania ed ora è nelle mani del notaio Garlantini, qui del paese, presso il quale può prenderne visione quando crede. È molto semplice: istituisce la moglie erede universale, tranne un cospicuo legato in terre ai suoceri Landi, perchè poi lo trasmettano alla lor figlia Maria Dora. Qualche ricordo agli amici più stretti: lei non vi è nominato. — Ah, benissimo... — rispose livido il Salvi, che per tutto quel discorso aveva trattenuto il respiro. — Ecco: volevo dirle questo, — concluse il Ferento. «È un colpo forte, forte, forte...» — pensò Tancredo. Guardò in terra, in cielo, fra gli alberi, poi soggiunse: — Ma, scusi, lei trova giusto?... le pare una cosa giusta?... — Sì, — rispose il Ferento con una voce pacata. Il Salvi a tutta prima non seppe che dire; quella risposta recisa lo sbalordì. — Giusta fino ad un certo punto, — si permise di osservare. — Dopo tutto ero il solo parente... — Che vuole? Non è sempre la parentela quella che suggerisce gli affetti, e le dico in verità, poichè mi ha domandato il mio parere, che Giorgio Fiesco non avrebbe potuto accorgersi di avere un fratello, o sia pure un fratellastro, se non dopo la sua morte. — Ma non era colpa mia se... — Via, non le pare che sian discorsi oziosi? Volevo dirle piuttosto una cosa, signor Salvi. Lei è arrivato iersera ed ha creduto opportuno alloggiare in villa, pur non conoscendovi nessuno... — È vero, professore; ma era così tardi... poi desideravo... — Mi lasci dire. Tutto questo può esser ancor naturale. Ma quello che trovo assai meno lecito è il suo contegno in tale circostanza. — Quale contegno, professore? Ho cercato solo di rendermi utile. — Quel che trovo assai meno lecito, — continuò il Ferento senza badargli — è per esempio la sua dimestichezza improvvisa con persone di servizio, che vanno lasciate in cucina. — Ah, lei vuol dire... — fece Tancredo mordendosi un labbro. — Non volevo dirle altro che questo, signor Salvi, e mi perdoni la libertà. Ma siccome la famiglia Landi è molto colpita in questo momento ed io sono il loro amico più stretto, così ho creduto necessario di parlarle chiaramente. Si era fermato e gli esponeva queste cose con affabilità, con una garbatezza calma e sicura, davanti alla quale Tancredo non seppe che rispondere. — Mi scusino... — mormorò. — Nient’affatto, signor Salvi; lei non deve scusarsi affatto. Poi gli parlò d’altre cose affatto prive d’importanza, tornando passo passo verso la villa. IV Da questo colloquio Tancredo intese che le parole del Ferento equivalevano ad un commiato e che perciò era necessario far presto. — Non dubitare che mi vendico! — borbottava a denti stretti, ripreso da un accesso di bile nel pensare alla sfumata eredità. E seduto nella medesima poltrona, in quella profumata sala dove non c’era più nessuno, immaginava con iracondia le sue vendette future. Ma poco dopo entrò lo scemo, s’accocolò in un angolo e, preso l’archetto, incominciò ad eseguire sul violino quell’unica dolorosa Canzone ch’egli sapeva. Arrivato ad un certo punto, s’interrompeva sghignazzando, e ricominciava da capo. — «Di’, scemo? seguiterai per un pezzo a farmi questo bel concerto?» — -mormorò Tancredo a mezza voce. Ma lo scemo, che aveva un udito finissimo, lo intese, o intese almeno l’epiteto, del quale si corrucciò. Scese dalla seggiola, e con il violino in pugno gli venne davanti, minaccioso. — Come ti chiami? Chi sei? Cosa fai qui? Vattene! E con l’archetto gli segnava l’uscio, protendendo sul collo turgido la faccia incollerita. Per prudenza Tancredo si levò in piedi e fece atto di ubbidirgli, ma riparatosi dietro la poltrona cominciò a fissarlo. — Dica, professore... non facciamo scherzi! Professor Marcuccio, per carità... si calmi, professore! Accortosi che quel nome produceva un buon effetto, glielo dispensò a manate: Professore, professore... — Non ti piace la musica, eh? — lo derise Marcuccio, battendo l’archetto sul violino. — Così così... — Allora forse preferisci che ti legga una poesia? — Ecco, — disse Tancredo con longanimità, — preferisco. Lo scemo depose il violino, trasse di tasca un quaderno scarabocchiato di righe storte, si pose nel mezzo della stanza, e imitando gli oratori che aveva uditi quel mattino al camposanto, cominciò a leggere: «Sette matasse di lana di sette colori che sono: il bianco, il giallo, il verde, il rosso, il blu, — gli altri due non so più — hanno filato le monache per fare il lenzuolo di morte ai morti del paese. Sette matasse di lana, perchè si marita domani il maniscalco che batte, che picchia, che batte, che picchia, sui ferri, tutta la settimana. Sette matasse di lana. — Ti piace? — Sì, professore, è molto bella. Come dice?... «il rosso, il giallo, il verde, il bianco, il blu, — gli altri due non so più...» Bello! molto bello! E Tancredo batteva le mani. — Silenzio! — impose lo scemo. E ricominciò: «Sette rocchetti di refe, di refe bianco e di refe turchino, hanno filato le monache per fare una vesta da festa, tutta bianca e tutta rosa alla Berta che va sposa: alla Berta rossa, che ha la pancia grossa. — Questa è migliore! — applaudì Tancredo. — «Alla Berta rossa, che ha la pancia grossa...» — Un capolavoro! E piano piano, mentre lo scemo stava per attaccare una terza strofa, scivolò fuori dalla sala, scese nel giardino, e poichè l’avevan lasciato solo risolse di fare una bella passeggiata. Lontanò in mezzo alle campagne, ragionando fra sè medesimo su quello che gli convenisse fare. Per fortuna il suo cervello era una miniera inesauribile d’idee, nè a lungo indugiò prima di guidare le sue ricerche verso la persona che precisamente gli occorreva. «_Ecce homo!_» — esclamò d’un tratto, pronunziando a fior di labbro questo nome: — Dandolo Zappetta. Costui era un morto di fame, al quale Tancredo sapeva di aver pagato cinque o sei pranzi, nonchè un numero infinito di mezzi toscani. Era piccolo piccolo, magro magro, giallo giallo, con due piedini da bamboletta, un giacchettuzzo nero, che pareva di raso, tanto s’era fatto lucido, un testone maggiore del suo corpo, con una strana calvizie che gli occupava soltanto la chierica e la sommità della fronte. La sua bocca era sottile, diritta, come una di quelle righe segnate nei libri al finire d’ogni capitolo, e vi teneva sempre infisso un cotal suo bocchino d’un certo legno da lui vantatissimo, qualcosa di raro come quei legni aromatici che i primi navigatori Egizi riportarono dal favoloso regno di Punt. Era povero come Giobbe, ma tuttavia possedeva un orologio di similoro, più bello che l’oro, tre anellucci da giovine puerpera, due catene d’argento, un portacerini cesellato, un portasigarette d’un altro legno quasi leggendario, venuto forse da un mondo più lontano che il lontano reame di Punt, e mille altre bazzecole d’un valor grande invero, che formavano i beni della sua felicità. Quest’uomo singolare, non c’era cosa che non avesse veduta, udita, saputa, o non sapesse fare: ma non faceva niente. Viveva in due camerette al quinto piano, ingombre zeppe di collezioni di farfalle, tra un lusso incredibile di vasetti e scatolette, che racchiudevan lucido per le scarpe. Verso il tempo del pagar la pigione assumeva qualche vago mestiere; nel resto dell’anno la sua professione era quella di raccoglier farfalle, nonchè di rendere servigi a’ suoi numerosi amici. Chiunque avesse bisogno di lui non doveva che dirgli: Dandolo... E Zappetta lo faceva. Che poi lo pagassero, trovava ottima cosa, come del restare a mani vuote non si doleva gran che. Aveva tuttavia un debole, un debole che gli era nato forse dal grande consumo di romanzi polizieschi, ed era infatti la passione del bel delitto, cosa della quale stava sempre in agguato, come il can da fermo quando apposta la selvaggina. A tal uopo serviva di quando in quando, e non per lucro ma solo per amore, in una agenzia di poliziotti privati, nobil gente quant’altra mai vide il tempo nostro fiorire, tra la quale Dandolo Zappetta godeva di una piccola celebrità. «_Ecce homo!_» — esclamò di nuovo Tancredo benedicendo in cuor suo la natura per avergli dato un cervello così fecondo. E la mattina seguente, licenziatosi dagli ospiti con solennità, verso le dieci risaliva in treno. Era una giornata calda, con minacce di temporale. Guardando fuori dal finestrino Tancredo ripensava quante mai cose non eran accadute in que’ brevi due giorni, e gli avvenne di riflettere come talvolta si vada incontro ad una fosca tragedia senz’averne il più lontano presagio. Nonostante il suo cinismo apparente, quel buon Tancredo era debole di sua natura, ed ora si sentiva tratto a veder sangue, veleno, assassinio dappertutto. Viaggiando per quella nubilosa giornata si perdeva in lunghe fantasticherie sui delitti e sui veleni dei Borgia. Quando arrivò a casa, Caterina, ch’era occupata nello stirare le sue camìce, depose il ferro e gli fece un’accoglienza festosa. — Ben tornato il mio bel signore! Che notizie mi porti? — Incendio! — egli esclamò tetramente, buttando la valigia sopra una seggiola, che si capovolse. A gambe levate scapparono Tresette e Patcioulì, i due gatti soriani ch’essi tenevano per lor diletto a far le fusa intorno al focolare. — Fa piano, tesoro... — lo esortò Caterina. — Quando entri tu, entrano i vandali. Ebbene, cosa vuol dire incendio? Non ti capisco; hai ereditato almeno? Tancredo si soffiò due volte nel palmo della mano: — Ecco l’eredità! — Me lo immaginavo, — ella fece senza grande rammarico. — Figùrati se quegli egoistoni pensano a te! — Ma, ma, ma... — l’interruppe Tancredo. — non è detta l’ultima parola! — Davvero? E come? Racconta. — Ora non ho tempo; devo uscire sùbito. — Almeno dammi un bacio, bellezza d’oro. Tancredo, col dorso della mano, le vellicò la guancia grassa, e questo fu il bacio. Poi si rimise il cappello, ed uscì. Trovato Saverio in un certo caffè dove questi bazzicava ogni giorno, lo mise al corrente in quattro parole di tutto quanto aveva potuto raccogliere intorno ai fatti già saputi, nonchè del progetto che aveva di spedire colaggiù Dandolo Zappetta. Saverio trovò eccellente l’idea di mandarvi Dandolo, e, quanto alle spese, risolsero di farle a metà. — Non ti sei per caso lasciata sfuggire una parola di troppo?? — domandò Saverio. — Io? Mi conosci male. Neanche una sillaba! Tosto s’avviarono verso la casa di Dandolo Zappetta, e saliti con fatica i suoi cinque piani tirarono il cordone del campanello. — Chi è? — fece dal di dentro la voce affabile dell’omino. — Amici, — risposero i due tamburellando con le nocche su l’uscio. Dandolo venne ad aprire in mutande, coi piedi che navigavano in due vaste pantofole di paglia tonchinese, dalle punte volte all’in sù come le prore di due gondolette. — Oh, guarda... Saverio! Tancredo!!... Che piacere! Avanti, avanti! Sui tavolini, sul divano, sul letto, su le seggiole, fin per terra, v’eran cartoni di farfalle in preparazione; le pareti n’eran coverte, sicchè pareva d’entrare nel ripostiglio d’un bizzarro museo. A terra, dietro il capo del letto, v’era un mucchio di libri, coverti da uno strato di polvere; sopra il canterano, in gran disordine, quantità di boccette, scatolette, forbici, spilli, spazzolini, cose tutte che dovevan esser utili alle sue scarpe od alle sue farfalle. La camera prendeva luce da una finestrella poco più grande che una gattaiuola e così alta nel muro che certo l’omino doveva salire sopra una sedia per giungere ad aprirla: questo perchè dava sul letto. Un vano senza porta metteva da quella stanza in un’altra più piccola, rischiarata solo da una finestra a bótola. — Ora vi libero il divano, — disse Dandolo. — Abbiate pazienza. E con infinita cura operò il trasloco delle sue farfalle. — Eccomi a voi, cari amici. Se mi dispensate dal mettere i calzoni, vi ringrazio, così non s’impólverano. — Figùrati! — rispose Tancredo. E cercò dove quell’omino tenesse i suoi preziosi calzoni. Li vide, ben ripiegati, su la spalliera d’una seggiola, protetti da un giornale; sotto la sedia v’era un paio di scarpe, luccicanti come se fossero verniciate a coppale. — Vuoi guadagnare cinque o sei giorni di mantenimento in campagna, un anticipo all’andata ed una buona gratificazione al ritorno? — domandò Tancredo, entrando filato nell’argomento. — Se avete bisogno ch’io vada in campagna, — rispose Dandolo umilmente, — ci vado senz’altro. E dove? — È un paese ricchissimo di farfalle, — spiegò Saverio con un risolino. E guardava su le pareti quel fermo svolazzare di alette gialle bianche verdi turchine, chiazzate striate variegate, che formavano in verità una tappezzeria fantastica. — Dandolo Zappetta! — esclamò Tancredo, — qui vedremo veramente che uomo sei, perchè veniamo da te per incaricarti d’una inchiesta siffatta, la quale, se desse risultati positivi, basterebbe in fede mia per mettere a soqquadro l’Italia! — Davvero? — esclamò Dandolo, pizzicandosi le mutande, ma senza un eccessivo stupore. Poi Tancredo, nel modo più confuso che potè, omettendo nomi, luoghi, particolari, fece al poliziotto un’arruffata e misteriosa narrazione. Durante questo racconto lo Zappetta prese un’aria quanto mai distratta, mordicchiando il suo corto bocchino e sollevando il sopracciglio destro d’un buon dito sopra il livello del sinistro. Quando il narratore giunse al termine, Dandolo non aperse bocca; ma, scordandosi d’essere in mutande, faceva tratto tratto il movimento di chi voglia ficcarsi le mani nelle tasche. — Dunque? — l’interrogarono insieme Tancredo e Saverio, davanti a quel silenzio. Dalla scranna su cui stava, Dandolo affondò i piedi nelle due gondole tonchinesi riprendendo contatto con la terra. — Ecco, — spiegò loro con mansuetudine. — Voi mi fate l’effetto di due malati che vadan per un consulto nella clinica di un dottore, ma poi rifiutino di lasciarsi visitare, anzi facciano tutto il possibile per nascondere al medico i sintomi della loro infermità. In questo modo, cari amici, non verremo a capo di nulla. — Non ha torto, — ammise Tancredo guardando il Metello. — Statemi a sentire, — cominciò Dandolo in tono confidenziale. — Con quello che m’avete già detto, poche ore mi basterebbero per colmare, se volessi, le lacune del vostro racconto. — Non ha torto, — ammise anche il Metello. E ripigliando la narrazione da capo, gli scoversero interamente il loro segreto. — Ahimè!... — fece allora lo Zappetta. — Mi pare una cosa tanto grave, ch’essa tocca l’inverisimile. — Così è, — rispose Tancredo con modestia. — Ebbene, — precisò Dandolo, dopo aver riflettuto, — supponiamo per un momento che il fatto sia come voi dite. Andrea Ferento ha avvelenato, e certo in un modo strettamente scientifico, il marito della sua amante, il fratellastro di Tancredo, l’ingegnere Giorgio Fiesco. Se così stanno le cose, io vi prometto di portarvi in meno di otto giorni i dati necessari perchè Tancredo ne sporga denunzia al Procuratore del Re. — Ottimamente! — applaudì Tancredo. — Ma se invece si trattasse d’un abbaglio, d’uno di quei fenomeni che sono talvolta l’ìndice della perversa fantasia popolare, i veri casi di pazzia dell’Anonimo, e se ciò non ostante voi voleste, basandovi sui rumori d’una borgata, macchinare contro quest’uomo, che ammiro altamente, uno scandalo indecoroso a puro scopo di lucro, qualcosa insomma che abbia l’aria d’un ricatto... allora vi consiglio, ragazzi, di andar a picchiare altrove, perchè io di queste cose non mi occuperò mai! I due si guardaron in faccia con una certa qual titubanza, e sorrisero fra loro di quella soave ingenuità. Pareva si dicessero: — Poverino! che omino per bene! che anima semplicetta come le sue farfalle! — Poi Tancredo rispose con voce burbera: — Va bene, va bene! Ed il Metello aggiunse: — Non era nemmeno il caso di parlarne, tanto è naturale. — Io amo gli accordi chiari, — precisò lo Zappetta. — Ed ora torniamo al primo supposto: il delitto è veramente avvenuto, io l’ho ricostrutto, Tancredo va per sporgere la sua denunzia al Procuratore del Re... Mi seguite? — A puntino. — Ebbene, sapete voi quel che càpita nel nostro bel paese? No, non lo sapete?... Ci prendono tutti e tre, delicatamente, con un pretesto qualsiasi, e ci mandano intanto a meditare su le piaghe della società negli ozî d’una patria galera. — Càpperi! — saltò su Tancredo. — Verissimo!... — dichiarò il Metello; — ha ragione lui. Non ci avevo pensato. — C’era una volta un asino il quale, avendo inteso dire che Caligola aveva incoronato il suo cavallo, si era messo in mente di andare alla conquista dell’Impero Romano... Sapete cosa gli capitò? — Lasciamo gli scherzi, — fece Tancredo, — e spiégati. — Ecco, mi spiego, — disse allora Dandolo, — Voi dimenticate una cosa. Il Ferento, oltre la sua propria forza d’uomo politico, di agitatore, di scienziato, è anche massone; anzi è, od era, uno fra i più potenti capi della Massoneria. — Stavo per dirlo: è massone! — confermò il Metello. — Dunque a voi due pare — disse Tancredo — che non si possa far nulla contro un uomo così potente? — Non volevo dir questo, — riprese lo Zappetta col suo tono dimostrativo, — ma certo sarebbe da pazzi mettersi al cimento senza la certezza di riuscire. Voi due non potrete mai essere che i suoi zimbelli, anche se aveste in mano la boccetta del veleno che gli servì. Poichè sappiate che contro un uomo così forte potrebbe solo cimentarsi un rivale della sua tempra, o l’avversaria che vince tutti: la folla. — Sei eloquente! — esclamò Tancredo. — Sono giusto, — corresse Dandolo, — giusto semplicemente. Oggi ancora, dinanzi alla figura di Andrea Ferento, io, che vivo in una soffitta, mi sento pieno di ammirazione; il giorno in cui avessi acquisita la certezza del suo delitto, ma una certezza vera, una certezza mia propria, diverrei feroce contro di lui, perchè il delitto è maggiore dell’ingegno, anzi è la cosa più potente che generi la società; quindi va smascherato. — E concludendo? — fece il Metello, cui non importavan assolutamente nulla questi aforismi. — Concludendo io parto stasera stessa, od anche sùbito, se volete. E rapidamente guardò i suoi calzoni, poi l’orologio di similoro che teneva in una foderetta di lana. — Benissimo, — acconsentirono i due compari. — Lasciatemi solo riporre le mie farfalle e chiudere bene le finestre perchè non entri vento. L’omino, raccogliendo i suoi cartoni, ad uno ad uno e con infinita cura li portava nell’altro bugigattolo, facendo su l’ammattonato con le sue pantofole un rumore di paglia strofinata. Intanto i due si consultavano su la somma che fosse opportuno dargli per il viaggio. Tancredo era liberale, il Metello più avaro assai. Questi credeva che un centinaio di lire fosser più che bastevoli, ma Tancredo, assistito dalla propria esperienza, pensava che avrebbe avute molte spese, quindi non convenisse parer taccagni e bisognasse darne duecento almeno. Così risolsero; e mentre lo Zappetta rientrava gli consegnaron i due biglietti da cento piegati in quattro. — Eccoti i denari necessari, ma ti preghiamo di notare tutte le tue spese. — Va bene, — rispose Dandolo. E senza contare i biglietti, se li mise in un taschino del panciotto. Solo, nel trasportare l’ultimo cartone, domandò: — Quanto mi avete dato? E scomparve nel bugigattolo. — Duecento lire! — gli gridò appresso il Metello con una voce accrescitiva. — Non bastano, — rispose Dandolo, tranquillo. — Oh, diamine! — esclamarono tutt’e due. Dandolo riapparve: — Non bastano, e mi spiego. Sappiate che io mi presento laggiù come ingegnere agronomo, inviato da una Società di sfruttamento agricolo, società che avrebbe in animo di acquistare nella contrada grandi aree di terreno. In capo a due giorni mi riprometto di conoscere tutte le persone più cospicue della località; mi useranno cortesie, bisogna che possa rendere. Ho le mie valige pronte, nelle valige tutto un vestiario che non porto mai quando non sono in funzioni. Verso il prossimo che si vuol sfruttare bisogna anzi tutto e sopra tutto non puzzar di miseria. Mi capite? — Vedi come si fa? — disse Tancredo al Metello, con ammirazione. Ma questi era seccatissimo e non spianava il suo volto arcigno. — Poi, — riprese Dandolo, — avrò a che fare con giornalisti, e costoro, anche in provincia, non lo dico per farvi un complimento, son persone alle quali si deve ogni specie di riguardi. Ora Dandolo s’infilava i calzoni. — Quando poi una notizia ha preso la via delle stampe cammina da sè come un sasso giù dalla montagna. Poichè il giornale ai tempi nostri è diventato l’evangelo di una chiesa universale, che si chiama la Stampa, e che detiene il Primo Potere. Il giornale vi serve a tutto, vi fa tutto: è la balia ed il carabiniere dell’uomo. Annunzia la vostra nascita, la vostra morte, che altrimenti nessuno saprebbe, vi crea la fama o ve la stronca; vi procura da mangiare o vi taglia i viveri. Osservate bene. Le istruttorie, le inchieste, i processi, vorrei dire anche i delitti, è il giornale che li fa succedere; i verdetti, è il giornale che li impone. Non solo. Ma chi fa la guerra? la pace? le alleanze? la politica?... — Il giornale. Forse tra poco i Gordon Bennett cominceranno una dinastia, mentre un Concilio di Redazioni eleggerà il Papa. E non è tutto. Avete inventato un prodotto? un meccanismo? una peregrina idea di qualsiasi genere? Il giornale ve la bandisce tra il pubblico. Scrivete un libro? Ve lo giudica. Vi capita un rovescio? Si affretta a farlo sapere. Vincete un terno? Ve lo pubblica. Volete moglie? Ve la trova... Cosa potreste chiedere di più ad un giornale, che dopo tutto vi costa un miserabile soldo?... V Per una casa d’uomini era dunque passata, ed or già lontana pesava la fredda ombra della morte. Un’altra notte saliva nei millenni, bruciava le sue stelle vertiginose ai perduti confini del mondo. Quanti anni eran trascorsi dal primo giorno che un uomo uccise? dal primo giorno che un essere amò? Nulla; non si sapeva nulla. Tutto continuava senza meta, nell’infinito inutile andar del Tempo. Non si udiva che una sorda campana battere a colpi disperati... Era la campana della Bufera, la campana della Distruzione, la campana dell’Inutilità. E diceva infinitamente nell’infinito: «Io sono il Tempo: — ieri e domani. Io sono il principio di tutte le cose, — la fine di tutte le cose — ieri e domani. Quando vedrete accendersi una stella, direte com’io dico: — ieri e domani. Quando sarete giunti all’ultima di tutte le parole che sembrano vere, — dubiterete che sia vero il Tempo: — ieri e domani. Quando sarete giunti a questo dubbio, comprenderete che sono fermo, — che sono fermo come voi, uomini, e non esisto: — ieri e domani. Allora non sarò più il Tempo; — non sarò nè il millennio nè l’istante: — ieri e domani; sarò la favola eterna del mondo: — ieri e domani.» Lontana dall’amante, sola, nella sua coltre insonne, a lei pareva tuttavia di commettere peccato. E più forte, fra quei brividi che han nome di rimorso e di paura, la gioia del sentirsi libera le irrompeva nell’anima come un’ondata barbara di felicità, le brillava come un fuoco di stelle sui vertici della vita. Egli stesso non aveva osato entrar nella sua camera, ma, chinando gli occhi, le aveva detto sul limitare: — Non ancora, non ancora... È troppo presto, amore mio... Le aveva detto così, ed ella sentiva come lui che «troppo presto» era infatti per cominciare l’oblìo. Bisognava che il morto scendesse più profondo nella terra tenace, bisognava che anche l’ombra di lui si cancellasse da quelle tragiche pareti. Or si rammentava d’essere stata una sorella, una buona e devota sorella, ma già le batteva nel cuore il felice cuore dell’amante. V’è un giorno della vita il quale pare che raccolga in sè la conclusione di tutto quel che si fece, il seme di tutto quello che si farà. Ella pensava: — «Questo giorno è venuto». E mandava l’amore a cercare di lui, nel suo letto lontano, come traverso la notte manda il suo profumo un fiore. «Vivrò — pensava — nella tutela della sua forza, nel calore del suo coraggio; mi parrà, nelle sue braccia, di tornare ogni giorno a vivere la prima ora di vertigine, il primo smarrimento che provai.» E insonne si volgeva nella coltre molesta, evocando l’ombre del suo rimorso per incutersi maggior paura, ma pensando invece all’amore con un cuore involontario. Egli le aveva detto: — «È opportuno ed è necessario che fra pochi giorni ti lasci. Cerca di comprendere, Novella, ch’io debbo fare così...» Diceva questo guardandola, tenendo le due mani posate su le sue spalle con un atto di protezione e d’amore. Ella taceva; ma un grande smarrimento le invadeva l’anima; continue lacrime le brillavano su le ciglia ferme. Perchè lasciarla sola in quella tetra casa, dove non troverebbe alcun rifugio, quand’egli fosse lontano da lei? Perchè non portarla con sè nella loro città febbrile, nella loro città violenta, ov’egli sarebbe un uomo operoso ed ella un’amante nascosta? Perchè dissimulare, ed ormai vanamente, quello che tutti sapevano? Ma egli l’aveva serrata contro di sè per consolarla, ed aveva detto: — «Non ancora. Devo, per un’ultima volta, partir solo. Bisogna che tu cominci ad essere una mamma, Novella, ora che lo puoi. Ricòrdati che il nostro bimbo dovrà, nascendo, chiamarsi con il suo nome. È triste, è orribilmente triste... ma, che vuoi? l’uomo, anche il più forte, non può sottrarsi a tutte le catene, a tutte le commedie che intessono la vita. Più tardi certamente l’adotterò, farò in modo che il tempo me lo renda; ma, se vogliamo che sia felice, deve nascere nel cammino giusto, cioè nella menzogna. Tuo padre, tua madre, chiunque ci conosca deve _poter credere così_. Perchè, solamente in questo modo, l’opinione della gente saprà tollerare ch’io ti abbia amata. E sei tu che devi proteggere la nostra creatura, Novella... mi capisci? Sei tu. «Più tardi potrai venire in città, con Dora e con tua madre, se non vuoi trovarti sola in quel tuo appartamenento che forse ti spaventerà un poco. E attenderemo insieme che nasca il nostro bimbo, quello che noi dovremo amare molto, molto, Novella, perchè gli abbiamo dato più che la nostra vita... Così parlando la guardava; una specie d’inerte fissità incatenava i suoi occhi per solito così mobili; una specie di pesante oppressione incurvava la sua maschia fermezza. «Quando sarà nato, — egli riprese, — potremo finalmente pensare a noi; potrò dire finalmente che ti amo, che ti amo, e lo dirò così forte, Novella... con tanta gioia lo dirò, che forse ci perdoneranno. Perchè, vedi, se è vero che tu dovevi essermi vietata come poche donne lo furono ad un amore, certo nessun coraggio fu mai più grande nell’amore, del coraggio che ho saputo avere per te...» Nella veglia ella ricordava queste parole, ma senza cercare di conoscerne il remoto senso; le ricordava come una musica d’amore che le avesse inebbriati i sensi e quasi come la memoria d’una snervante carezza, d’un lungo e lento bacio che le avesse affaticata l’anima. Ed era felice di sentirsi ancor giovine, ancor bella, e così piena e così persa d’amore, da potersi concedere senza paure all’uomo che amava, da potergli rendere con pienezza quella gioia soverchiante ch’ella traeva da lui. Era stanca, le dolevano le spalle, i ginocchi, le braccia, le tempie; non le riusciva d’addormentarsi, e quasi per scendere incontro al sonno, si adagiava nel letto più supina, cercava ne’ propri capelli sciolti un più morbido guanciale. Ma, ecco, le avveniva di pensare con qual dolcezza si sarebbe addormentata nelle braccia dell’amante, reclinando sotto il suo respiro la fronte ismemorata e sentendosi a poco a poco disperdere in una immensa felicità, in un riposo che le parrebbe il limite dell’amore umano, la pace dei sensi e dell’anima, il piacere che non affatica più... Ma poichè non poteva trovar sonno in quella ingrata coltre, si levò a sedere sul letto e con le braccia ricinse le ginocchia sollevate. Stando così, a mezzo fuori dalla coltre, il profumo del suo proprio corpo l’avvolgeva come un odore inebbriante. Una tristezza grave le assalse l’anima, poichè, lontana dall’amante, le pareva che scendesse un velo su l’infinito mondo e naufragassero tutte le cose in una vuota inutilità. Ella era donna, perciò non aveva battaglie nella vita, non miraggi verso i quali avventarsi con eroismo nè fatiche assidue che a lei riempissero le lunghe ore del giorno; era solamente una donna, un voluttuoso cuore d’innamorata, fino allora vissuta in ischiavitù, ed ormai, sopraggiunta la liberazione, dal più profondo pensiero alla più tenue vena, la beata sua giovinezza non sapeva che offrirsi all’amore. — «Non mi addormenterò, — pensava — s’egli non viene a baciarmi, e sarò triste nella mia solitudine, come se qualcosa del nostro amore fosse già vicino a morire.» Cominciò a riflettere: — «S’egli mi dimenticasse?» — Ripensò la storia d’altre amanti, l’abbandono d’altre innamorate, che anch’esse avevano amato come lei; sentì ch’era donna ella pure, onde aveva nell’ombra de’ suoi passi un nemico inesorabile: il Tempo... e invasa da una folle paura tornò la sorella del morto, confuse il rimorso nella tristezza, pianse dell’amor suo con lui. VI — Sì, Giovanni, — disse Ferento al suo domestico, — sono in ritardo infatti. Ma da qualche giorno soffro d’insonnia e non mi riesce d’addormentarmi sin verso l’alba. Il domestico non rispose parola, ma fissò il padrone con uno sguardo fedele. Aveva notato infatti la grande alterazione del suo viso dopo l’ultimo ritorno dalla campagna, ma pensava che la perdita dell’amico fosse causa per lui d’un soverchio dolore. Come soleva ogni mattino, Andrea scese rapido per le scale, saltò nell’automobile che l’attendeva sotto il porticato. Per recarsi alla Clinica bisognava attraversare diagonalmente la città, uscir fuori dal suburbio, verso l’estrema circonvallazione. Colà, sul primo nascere della campagna collinosa, un edificio limpido sorgeva dal mezzo d’un giardino, come una serena e grande abitazione ove il dolore dell’uomo cercasse pace nel libero sole. Il Ferento l’aveva da tempo fatto sorgere, contribuendovi largamente col suo proprio danaro, per farne un grande Istituto di cura e di preparazione scientifica, un’ara solenne della medicina moderna. Da lunghi anni egli vi dedicava indefessamente ingegno, amore, volontà, con tanto spirito d’abnegazione, con tanto lume d’intelletto, che già da ogni parte il suo chiaro nome v’attraeva gli sguardi fiduciosi di tutta la scienza europea, come ad una di quelle sacre officine ove un uomo di genio, curvo ed investigante su la materia malata, cerca senza posa di emancipare gli uomini dal patimento e rendere migliore la vita alle generazioni future. Questo era veramente, nel suo santo paganesimo, il Tempio Umano. Così limpido era il mattino, che ridendo nelle invetriate bagnava di splendore le contrade, traeva dalla pietra e dal metallo un tremolìo di luce pieno d’ilarità. La città rumorosa e popolosa, consumando i suoi traffici quotidiani, era desta, viva, celere, si affaticava con gioia. In quella chiarezza, ogni singolo movimento assumeva una evidenza particolare; l’insieme di tutte le cose pareva esprimere un senso di forza gioconda. E la Città era veramente un’arteria del mondo, anzichè un aggregamento labile di case provvisorie, costrutte solo per contenere in sè il breve, inutile decorrere di tante vite umane. Era un’arteria del mondo e pulsava come una vela navigante; era un non so che di mostruoso che sbocciava dalla terra, dissimile da tutte le forme della natura; qualcosa d’immane che l’uomo aveva generato senza esempio, foggiando le montagne, piegando le foreste, costringendo i fiumi ad ubbidirgli: era un attendamento dell’uomo nella sua marcia verso l’infinito. Assorto in profondi pensieri, non s’accorse che già, di lontano, su l’altura della collina, appariva la grande villa bianca, dal tetto d’ardesia, con le finestre protette da tendoni di tela quasi rossa. E quando se n’avvide, una sensazione del tutto nuova la percosse, quasi di stupore e d’angustia, una sensazione che per la prima volta gli accadeva di provare, davanti a quella casa veduta nascere pietra su pietra. Quando l’automobile ne varcò il cancello, egli ebbe quasi voglia di tornare indietro, per sottrarsi alla noia di dover discorrere con tutta quella gente: i medici, le infermiere, la Direttrice, i malati, sopra tutto i malati. Allora, in una sola evocazione, rivide le lunghe corsìe, le sale operatorie, le piccole stanze, linde, uguali, con un letto in ferro, anch’esso bianco, due seggiole, un armadietto, un tavolino. Era la prima volta che gli accadeva di provare quel senso di stanchezza, di noia... Perchè la prima volta? Alcuni convalescenti passeggiavano per il giardino, e lo salutarono. Egli guardò la quercia altissima che sorgeva dal mezzo dello sterrato, l’albero calmo e tutelare intorno a cui le vetture compivano il giro per ridiscendere verso la cancellata. Nell’alto fogliame, come in un immenso alveare, le nidiate cantavano. Com’egli era stanco!... Perchè mai così profondamente stanco? La Direttrice gli scese incontro per la piccola scalinata, e con molta esuberanza lo festeggiava. Un infermiere, due medici, uno studente stavano su la porta. «Ben tornato! Ben tornato!...» Egli s’accorse d’un lieve odore d’acido fenico e di cloroformio che usciva dal corridoio; questo lo sorprese, come l’aveva sorpreso l’aspetto della Clinica. Tese la mano a tutti, scambiò alcune veloci parole coi più vicini, mentre la Direttrice, un po’ chiacchierona, non ristava dall’esclamare: — Com’è dimagrato, signor professore! Com’è pallido! Non sta bene? — Un po’ d’insonnia, signora Maggià; nulla di grave. S’avviò frettoloso verso lo studio, seguìto dal suo primo assistente, un bel giovine biondo, con gli occhi luminosi ed intelligenti, che aveva una così chiara voce da mandar in visibilio tutte le infermiere, quando, nelle ore d’ozio, accompagnandosi con la chitarra, cantava. Una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo sotto la mandibola sinistra, ed era il segno d’un’infezione presa nel curare un malato. Egli era così devoto al Ferento, e così ciecamente lo ammirava, che gli avrebbe dato il suo corpo stesso per un esperimento micidiale, s’egli lo avesse domandato. Più che venerazione, questo amore per il suo maestro era una specie di totale soggiacimento, anzi una di quelle fanatiche sottomissioni, che gli uomini di scienza riescono spesso a determinare, per una superiore virtù del loro ingegno, sui discepoli che hanno meglio educati. — Ebbene, Rosales, come va? Il giovine stava ritto davanti alla scrivania, guardandolo chiaramente negli occhi. — Io sto bene, professore. Ma lei ha veramente l’aspetto stanco. — Sì, un po’ stanco, un po’ stanco... Ed i malati? Come vanno i nostri malati? Nulla di nuovo? Intanto sfogliava la numerosa corrispondenza, lacerando le buste con l’unghia e scorrendo i fogli con nervosa rapidità. Nel medesimo tempo l’assistente gli faceva il suo rapporto, con voce calma, precisa, mettendo nelle sue frasi una brevità quasi soldatesca. — Bene, — mormorava tratto tratto il Ferento; — bene. — Poi lo interruppe: — Qui fa caldo, le pare? Apra la finestra, la prego. Il giovine ubbidì. Lo studiolo terreno dava sul giardino; l’aiuola correva lungo la muraglia; un grande albero d’olea fragrante nasceva poco in là dalla finestra, tutto bianco della sua fioritura; i ramoscelli poggiavano contro i vetri; nell’aprir questi, entravano. — Professore, — disse da ultimo il Rosales, — in questi giorni, che furono per lei così tristi, non ho creduto necessario scriverle parole oziose; ma ora vorrei solo dirle... Il Ferento, levatosi, gli battè leggermente una mano su la spalla: — Grazie, grazie... — Poi soggiunse: — Lei pure in questi giorni avrà avuto un orario faticoso per colpa della mia assenza. — Oh, niente affatto! Desideravo che lei tornasse, ma non per questo, — rispose il giovine con un accento pieno di tenerezza filiale. La Direttrice picchiava discretamente all’uscio. — Entri, signora Maggià. Era una donna dal volto segaligno, dal corpo assai florido. Grigia, con gli occhiali a stanghetta, portava un abito nero leggermente ricercato. — Vorrei domandarle, professore, se comincerà con le visite o se prima farà il giro delle sale? — C’è molta gente? — Otto o dieci persone. — Allora prima salirò. Venga, Rosales. Depose nel portacenere la sigaretta ed uscì nel corridoio. Assistenti, chirurghi, medici, suore, infermieri, lo aspettavan su gli usci per salutarlo; egli rispondeva, di qua di là, con un cenno del capo, camminando veloce, seguìto a un passo di distanza dal suo primo assistente. Si fermava per stringer la mano ad alcuni, con una rapida cordialità. Mentre stava per salir le scale s’incontrò con un gruppo d’infermieri che ne scendevano, portando sopra una barella un malato verso la sala operatoria. Costoro si fermaron bruscamente per lasciargli il passo. — Avanti, avanti! — egli disse loro. E guardò quella faccia supina, livida, scarna, che sbarrava attonitamente le pupille acquose, piene di paura. — Un tumore al fegato, — gli spiegò sottovoce l’assistente, quando la barella fu passata. Egli non intese, o non comprese; ma vedeva solamente la scala salire, lucida, innanzi a sè, con un tappeto di sole... confusamente salire verso l’invetriata fiammeggiante. Nel fondo de’ suoi propri occhi vedeva una cosa futilissima: i gomitoli di lana con i ferri da calza, que’ grossi rotondi gomitoli di Marcuccio Landi, e gli pareva udir ronzare dentro di sè il motivo di quella sua certa Canzone, che finiva in uno scoppio di riso tragico sul violino singhiozzante... Ora camminava lentamente per le corsìe piene di luce, da un letto all’altro, visitando, interrogando. I malati gli sorridevano; le suore componevano le coltri sotto i loro menti gialli: l’assistente, con un libro in mano, prendeva nota delle sue prescrizioni. Scriveva rapidamente con una penna stilografica, facendo stridere la carta. Un malato aveva fame, l’altro voleva uscire, un terzo si lamentava, un quarto era gonfio e paonazzo di febbre così da non poter parlare. Tutto questo lo stupiva un poco, gli dava non so quale sensazione d’irrealità, quasi non fosse più così utile come una volta curare i malati, ascoltare quel che dicevano, saper esattamente di che male soffrivano. Anzi uno gli disse una cosa che lo stupì: — Ma mi lasci morire, dottore... Cosa faccio al mondo io? Egli, che prima non lo aveva quasi guardato, allora lo guardò. Era un povero vecchio, asmático, piagato, canceroso, al quale avevan rasa l’ispida barba a chiazze; una orrenda maschera contraffatta, con gli occhi semichiusi, ove permaneva un barlume di vita, la bocca bavosa, tra cui spuntava un po’ di lingua nerastra. Lo guardò ed ebbe voglia di rispondergli: — «Hai ragione. Perchè cercherei di salvarti? Non v’è senso comune, quando un uomo vuol morire...» Mentre la suora lo scopriva, egli vide che aveva le mani allacciate da un rosario. Siccome la suora voleva scioglierlo ed egli si rifiutava, le disse di lasciarlo stare e gli fece sollevar le braccia sopra il capo. Di letto in letto la sua sensazione d’inutilità cresceva; e gli sembrò che fosse ozioso andar oltre, perchè i suoi assistenti eran tutti bravi giovani ed il meccanismo della sua Clinica poteva ottimamente camminare anche senza di lui. Egli era stato lontano alcun tempo, e tutto era in ordine, tutto s’era compiuto e si compiva con la regolarità consueta. — «I malati guariscono perchè la natura li fa guarire; muoiono quando la natura li uccide. La nostra scienza non si riduce in fondo che ad una serie di tentativi empirici... Ora, il tentativo d’un altro, che ho pienamente ammaestrato, può valere il mio. Qui essi credono tutti, medici ed infermi, ch’io possieda qualche maravigliosa virtù di salvatore: ma è assurdo! Un giorno s’accorgeranno d’essere ad un dipresso quel ch’io sono, e questo farà nascere uno stupore immenso...» Passava da una camerata nell’altra, meccanicamente, domandando ogni tratto il suo parere al Rosales con un’affabilità che non gli era solita. Entrava ora in una corsìa di donne, più silenziosa, più intima, ove nell’aria vagava un respiro di maternità e di sacrifizio, dove il dolore pareva essere più profondo e tuttavia più contenuto. Le tende abbassate mitigavano il chiarore del giorno; in quella luce dorata i letti s’allineavano tranquilli. Una specie di riposo lo avvolse, come se la sua missione di curatore tornasse a parergli buona e come se un álito di riconoscenza muovesse a lui da ogni coltre su la quale si curvava. — Come?... — domandò improvvisamente al Rosales; — come ha detto? qual’è il suo nome?... L’assistente riaperse il libro che stava per rimettere sotto il braccio, e rilesse: — Novella Júdice, di Urbino; affezione... Egli non ascoltò più oltre; qualcosa di dolce, di soverchiante, gli commosse il cuore, come se da quel nome si partisse una infinita soavità e la donna chiamata con tal nome fosse un’ombra lontana, imprecisabile, di quell’amante che amava. Prese un polso della malata e si curvò su lei pianamente. La faccia pallida riposava nel guanciale, delineata in un contorno di capelli biondi, così radi e lievi che parevano appena un velo fasciato intorno alla sua fronte. Era una giovinetta forse di vent’anni e sorrideva guardando il medico, la suora, comprimendosi la mano libera sul petto, quasi per un senso invincibile di pudore. I suoi docili occhi azzurri parevano domandar perdono d’essere tanto malata, e nel sorridere le guance scarne le facevan agli angoli della bocca due graziose piccole infossature. Egli non contava affatto le pulsazioni dell’arteria, ma provava una strana dolcezza nel toccare quel polso accelerato e fioco, nel guardare quella miserrima fanciulla, che aveva il nome d’un’altra, il nome ch’egli portava in sè. — Vi sentite male? soffrite? — domandò egli, come non avrebbe domandato un medico ma un affettuoso parente. Poi le passò una mano su la fronte per consolarla e disse: — Coraggio! Guarirete presto, molto presto... ve lo assicuro. Il sole, dalla finestra di fronte, dorava i suoi capelli vaporosi, e quel sorriso buono, come d’una bambinella ferita, continuava su la sua bocca smorta... Dopo aver compiuto il giro delle sale, andò a visitare i malati che abitavan nelle camerette solitarie, simili a celle d’un monastero; poi, sceso a pianterreno per un’altra scala, s’indugiò a discorrere con il Rosales in quel breve ándito che da una parte sboccava nel giardino, dall’altro sopra una corte. In quella corte precisamente v’era un carro mortuario, fermo, attaccato con un solo cavallo; il cocchiere, sceso di cassetto, s’era tolto il cappello e facendosi vento discorreva con un cuoco. — Cosa fa quel carro? — domandò il Ferento. — Professore, le ho riferito dianzi ch’è morto il vecchio Celsi, del riparto chirurgico; morto ieri, nove giorni dopo l’operazione. — Ah, infatti... — egli mormorò. — E lo portan via ora? — Credo. — Voglio vederlo, — disse con rapidità. E scese per la scaletta sotterranea che conduceva nella sala refrigerante, ove si deponevan i cadaveri dopo averli sottoposti a necroscopìa. L’assistente lo seguiva. — No, lei vada pure, — disse il Ferento. Giunse in fondo; aperse l’uscio; fece qualche passo nella fredda stanza, chiara d’elettricità. De’ sei tavolacci di zinco, cinque eran vuoti e risplendevano; su l’altro era steso un grosso involto bianco, simile ad una statua supina ravvolta nella sua tela. L’odore acre dei disinfettanti mordeva l’aria, e gli sembrò di riceverne un senso di stordimento. Fece per avvicinarsi al cadavere, ma, poichè la porta erasi rinchiusa, tornò indietro e l’aperse in bílico. Di nuovo ne’ suoi confusi occhi, apparvero que’ gonfi e tondi gomitoli dello scemo, con i ferri da calza; di nuovo gli cominciò a ronzare nelle orecchie la nenia del violino singhiozzante. S’accostò al cadavere, ed ebbe voglia di scoprirlo; ma gli parve che le sue mani incontrassero una certa difficoltà nel compiere gli atti necessari. Le sue mani di fatti non si muovevano; ma egli provava un piacere ansante nello star presso a quel cadavere, il piacere pauroso che si prova stando su l’orlo d’un precipizio. «Se chiamassi un guardiano per farlo scoprire?... No, è inutile.» Le lampadine elettriche bruciavano dal soffitto basso in un cerchio di luce immobile, mettendo a nudo il groviglio del lor filo incandescente, il quale pareva complicarsi. «Che idea di voler vedere questo morto? A che serve? No, me ne vado.» E non poteva muoversi di lì; sentiva il bisogno, la tentazione, di guardare quella faccia; tuttavia non sapeva risolversi a mettere la mano su quel lenzuolo. Gli tornò in mente il carro funebre che attendeva nella corte, il cocchiere senza cappello che parlava con il cuoco. «Ho capito: è già pronto per esser chiuso nella cassa; meglio non toccarlo. Me ne vado.» Ma nel medesimo tempo, come se le sue mani ubbidissero ad un’altra volontà che la sua propria, sollevò il rovescio del lenzuolo che gli doppiava sul volto e ne aperse i due lembi, scoprendolo fino a metà del petto. Era una faccia senile, glabra, gonfia, cinerea, che pareva sprofondata nelle sue mascelle, rientrata nel collo quadrato, per insaccarsi entro la convessità delle spalle. Il petto era sezionato da una lunga ferita verticale, nera su gli orli di grumi sanguigni ed imbottita di bambagia. Egli guardava senza ben comprendere, anzi gli pareva di dover cominciare, davanti ad una classe di allievi invisibili, un corso di anatomìa... Poi gli parve di trovarsi, come s’era già trovato un’altra volta, nella necessità di sollevare quel corpo rigido su le sue braccia restìe, per riportarlo a giacere in un letto, ma scivolando, senza far rumore... Gli parve a poco a poco di riacquistare un suo stato d’animo anteriore, di retrocedere in una forma di sè stesso già lontana, già dispersa, e che le lampadine si spegnessero d’un colpo, — le quattro lampadine appese alla volta sotto il riflettore di metallo bianco — e la glabra faccia senile divenisse quella d’un altr’uomo, la faccia serena che lo guardava dalla morte, senza rancore... Rapidamente la ricoverse con il lenzuolo, si battè insieme i due polsi per darsi vita, e risalì. Volse un’occhiata nella corte: il cuoco se n’era andato; il cocchiere, appoggiato al muro in un angolo d’ombra, fumava tranquillamente; il vecchio cavallo nero dondolava la coda per scacciare le mosche. Gli parve che il sole fosse una polvere in fiamme, una rossa nuvola piena d’avvolgimento... «Cosa devo ancor fare?... Ah, sì!...» E rapido si volse; infilò il lunghissimo corridoio che traversava tutta la profondità dell’edificio, rotto nel mezzo da un padiglione vetrato, che imbiancava le stuoie d’una rotonda chiarità; lo percorse velocemente, facendo co’ suoi passi un rumor forte sul linoleo brillante; sentiva il bisogno di parlare, di agire, di ridere. La Direttrice gli veniva incontro. — Sì, éccomi, signora Maggià! Li faccia entrare. — Senta, senta, — chiacchierava la Direttrice correndogli appresso; — il professor Damiato e i due chirurghi primari son venuti varie volte per salutarla. Vuole che li chiami? — Sì, li chiami, grazie. Ed entrato nello studiolo, accese una sigaretta, respirandone il fumo con ingorda voluttà. L’olea frascheggiava piano piano, con uno sciacquare di foglie rumorose, facendo piovere le sue minute fioriture candide, sperdendo in larghe ondate il suo voluttuoso buon odore; nel giardino si udiva un passo lento e pesante camminar su la ghiaia; dalla città lontana saliva un rumor confuso, interrotto spesso dal fischio d’una locomotiva, dagli urli vorticosi, lamentosi, che nell’alto sole del mezzodì, con furia lanciavano le sirene. VII Le adiacenze, la scalinata, la corte quadrangolare dell’Università ed il suo vasto porticato a colonne di marmo, eran ingombri d’una studentesca minacciosa. L’agitazione, promossa dai corsi di medicina, i quali volevan si sostituisse il professore d’anatomia, si estendeva per l’altre facoltà, con fischi ed urli contro il Rettore, che non concedeva certe agevolezze per una sessione d’esami. La strada rigurgitava di studenti, che ne sbarravano il passaggio; altri eran seduti in lunghe file su la scalinata, cantando; altri giravano in drappelli, a passo militare, sotto il porticato, scandendo epigrammi sopra un motivo d’operetta, ed assiepavano il cortile mareggiando con gridi e gesti frenetici. Gli arringatori, saliti su gli zoccoli delle colonne, rossi di collera e di fatica, parlavan gesticolando; una specie d’assedio ingrossava davanti allo scalone della Segreteria. Si gridava: — «Sciopero! Sciopero! Abbasso il Rettore Rolandi! Fuori il professore Saraceno! Basta il Saraceno! Basta!... Viva la terza sessione! Viva!...» Un Commissario di Polizia, chiamato per telefono, sopraggiungeva co’ suoi agenti e li schierava in un vicolo vicino, pronti, nascosti. Ma li videro; e si cominciò a gridare contro la forza pubblica. Il pennacchio d’un carabiniere, che apparve davanti all’Università, fu accolto con un subisso di fischi. Da otto giorni il professore d’anatomia comparata, Enrico Saraceno, impartiva la sua lezione a banchi semivuoti; ma quella mattina, dopo averlo fischiato e vilipeso, eran entrati nell’aula dietro lui come una masnada di vandali, mettendo i banchi a soqquadro, lanciando calamai davanti alla cattedra, scaraventando i fascicoli al soffitto, in un diavolìo che più non finiva. — «Fuori! Basta! Non vogliamo il Saraceno! Fuori!...» Questi era un meridionale allampanato, miope, con una cotenna spessa e riccia come quella di un negro, la faccia olivastra, il naso leggermente adunco, la bocca sottile, che portava sul labbro sporgente un sottile paio di baffetti neri. «Mannaggia! Mannaggia!» — bestemmiava, dando gran pugni su la cattedra e con la voglia di scagliarsi, lui solo, contro quella scolaresca dileggiante. Quando un calamaio spruzzò d’inchiostro l’assito polveroso che innalzava la cattedra, divenne livido per la collera, si compresse i pugni su le tempie, diede un calcio a quel calamaio spezzato, ed uscì. La scolaresca lo accompagnava cantando a tempo di fanfara: — «Non si vuol nè più nè meno, che scacciare il Saraceno!». Man mano che finiva una classe gli studenti affluivan nella corte, sicchè tutti i professori, dopo aver tentato invano d’imbrigliare quella ribellione, s’eran adunati perplessi nella sala del Consiglio Accademico. Frattanto, sotto il porticato, s’improvvisavan cartelli a pitture d’inchiostro e s’affiggevano alle colonne, o, inastate, si portavan come insegne sopra il mareggiare delle teste. — Vogliamo la terza sessione! Fuori il Saraceno! Abbasso il Rettore Rolandi!» Poi si torcevan dalle risa davanti ad una caricatura improvvisata, che, nel contorno d’una enorme bottiglia d’Acqua di Janos, raffigurava il Rolando e il Saraceno seduti a braccetto sopra due pitali. E sotto eravi la scritta: «Congedo per motivi di salute» — Fuori! fuori! si chiude! — gridava a squarciagola il bidello, tentando di persuaderli con le buone a scendere in istrada. Ma lo tiravan per la giubba e gli davan lo sgambetto, chiamandolo il «Grand’Eunuco», per esser egli senza pelo, alto e panciuto. Dalla scala del Consiglio, stretta d’assedio, scese un piccolo vecchio dalla bianca barba quadrata, il professore di fisiologìa, che gli studenti amavano. Fu accolto da un’ovazione: — «Viva il professore Sammarco! Ci ascolti, professore...» Tutti gli si facevano intorno, volevano tutti parlare. Egli alzò davanti a loro il palmo rugoso, come faceva dalla sua cattedra per imporre silenzio. — Sentite, figliuoli... Se non vi sciogliete súbito, il Rettore annunzia che farà chiudere l’Università fino a tempo indeterminato. E riflettete che siam presso agli esami. Ragazzi, mandate una commissione: le vostre domande saranno discusse. — È un pezzo che inoltriamo domande! Ci si beffa di noi! Revoca e sessione! Viva il professor Sammarco! — Figliuoli, ascoltate... Ma la sua voce debole si perdeva nel frastuono, mentre la notizia della minacciata chiusura si diffondeva per la corte sollevando urli; un gesticolar di braccia furibonde si agitava contro le finestre del Consiglio Accademico. Il Commissario camminava nervosamente davanti all’Università, senza badare ai dileggi velati che gli mandava la studentesca; una ressa di popolo curioso ingombrava la strada, e su l’alto della scalinata il bidello gesticolante cercava di persuadere quelli ch’eran seduti sui gradini a levarsi e discendere nella strada. Ma in fondo alla corte cominciavano a scoppiare grida sediziose: — Barricate la porta! Non vogliamo poliziotti. Contro la forza useremo la forza! Uh!... uh!... L’orologio della torre sonò le undici, con lenti colpi metallici che furono ascoltati; poi tutti si ammassarono sotto le finestre del Consiglio, quasi avessero in animo di darvi la scalata. Appunto alle undici doveva il Ferento impartire la sua lezione agli studenti del quinto anno, ed ecco sopraggiungeva, camminando frettoloso, allorchè di lontano vide quell’assembramento davanti all’entrata dell’Università. Quasi correndo percorse l’ultimo tratto, udì le grida, si cacciò nella folla ed apparve in basso della gradinata. Il Commissario, che per primo lo riconobbe, gli si avvicinò parlandogli concitato: — Questa indecenza dura da oltre un’ora! Hanno messo un’aula a soqquadro ed asserragliano i Professori. Esito ad intervenire per timore di guai serii, ma se fra dieci minuti non si sciolgono, chiamo rinforzi, entro e li sgombero. — Aspetti! — egli disse rapidamente. E saliti d’un balzo i tre gradini esterni, si cacciò in mezzo ad un gruppo di studenti, che al vederlo ammutolirono. Egli girò su tutti loro uno sguardo freddo, quasi malvagio, ma nulla disse: camminò avanti, a fronte alta, quasi fosse certo che la scalinata ingombra dovesse aprire un varco davanti a lui. D’improvviso, tutti coloro che barricavan la gradinata standovi seduti e vociando, con un sol moto sorsero in piedi, si fendettero, ed egli salì fra loro velocemente, con gli occhi accesi d’una collera muta. Su l’alto della scalinata si volse con veemenza: — E nessuno di voi — gridò ai più vicini, — ha osato imporre silenzio a questa gazzarra da comizio pubblico? Nessuno? E perchè venite qui a studiare l’uomo, se non avete compreso ancora che la più vile cosa per un uomo è ubbidire alla folla? Il bidello ansante gli corse incontro, congiungendo le mani, quasi che in lui fosse l’estrema sua speranza. Egli non l’ascoltò nemmeno, ma vôlti gli occhi beffardi sovra il cerchio di studenti che gli si formava intorno: — Dove sono e chi sono, — interrogò — i promotori d’una così bella rivolta? Chi sono, domando? Non c’è fra voi uno solo che osi declinare il proprio nome? — Io, per esempio! — esclamò con tracotanza un giovine di membra complesse, che, sebben lontano, cercava di estollere il suo massiccio cranio chiomato, perch’egli lo riconoscesse. — Ah, lei? Magentini, se non erro? — Appunto, Magentini del quinto anno, — rispose il giovine facendosi largo. E incominciò, con un tono arrogante: — Perchè, vede, professore... — Non si disturbi, la prego! Di lei mi ricordo bene, assai bene. Poichè, avendola interrogata qualche tempo fa su certi problemi di embriologìa, ella mi espose una teorìa siffatta, secondo la quale, come le osservai, il colmo per la donna evoluta sarebbe quello di mettere al mondo un neonato con la barba... Si accomodi pure! Una risata clamorosa eruppe dagli ascoltatori, facendo giustizia del malcapitato, che si rimpicciolì nella ressa, mentre invece, nel fondo della corte, il gruppo de’ più facinorosi non cessava dalle grida ostili. — Taceranno! — egli affermò con la voce rauca d’ira. — Taceranno! — E si cacciò davanti, pallido, nel tumulto che infieriva. Due ne prese per le spalle, quattro ne urtò: sotto i porticati la studentesca ondeggiava; un lungo solco di silenzio rimaneva dietro i suoi passi. Chiamati per nome, alcuni studenti lo spalleggiavano; e camminando a fronte alta, sicuro di non fermarsi, la sua pallida forza impetuosamente li dominò. Un certo silenzio intorno a lui si fece, un poco d’ordine fu ristabilito, e solo permaneva sotto le finestre del Consiglio il gruppo de’ più accesi, che non volevano intender ragione. Quando costoro s’accorsero che la maggioranza dei compagni stava per arrendersi a consigli di moderatezza, con furore insorsero chiamandoli disertori e pecore, facendo quanto baccano potevano, perchè nessuna parola d’ordine fosse potuta udire. — «Uh! vi lasciate tirare per le orecchie! Pecore! pecore! uuh!...» Poi si cominciò a gridare: — «Abbasso il Ferento!» — prima da qualche voce isolata, poi con gran clamore da tutto il gruppo ch’era lontano. Egli si volse, come se l’avessero staffilato in pieno viso; balzò sul muricciuolo che riuniva i colonnati, così da estollersi alto e solo sopra l’assembramento, e simile a quello ch’era stato nei giorni di battaglia, quando, amato e odiato, il suo nome batteva come una bandiera, tese verso loro il braccio, e ridendo esclamò: — È inutile che mi gridiate abbasso, perchè la natura mi ha posto in alto! E brillava, e la sua testa leonina era bella a vedersi come quella di un tribuno imperioso che dómini un parlamento. Brillava ed era solo, e raggiava da sè tanta forza, che i gridatori si tacquero, mentre da tutta la studentesca infiammata un altissimo grido si partiva, una sol voce, che obliosa d’ogni piccola discordia pareva inginocchiasse quei giovani davanti all’uomo più forte. — Spezzare qualche banco, assediare una scala, dipingere ad inchiostro una piacevole caricatura, farvi suonare i tre squilli e sciogliere dalla Polizia... sarebbe questo per caso lo spirito di ribellione che imparaste nei suburbi, dall’eloquenza degli arringatori plebei? O glorioso tempo di rivolte, ove uno scaricatore di fogne diventa tribuno del Quartier Latino e Rettore Magnifico degli Atenei!... Ma or che avete iniziata la rappresaglia con sufficiente rumore, spaccato abbastanza legno, assediate abbastanza scale, ornato a sufficienza di pupazzi la vostra Camera del Lavoro, delegate altresì una Commissione di studenti, che renda noto al Consiglio Universitario la natura ed i motivi delle vostre lamentele...» — Già fatto! già fatto! Inutile! Nessuno ci ascolta! — s’interrompeva da varie parti. — ...a meno che non preferiate, — egli proseguì, — affidarmi la vostra causa, fin dove io l’accetti e fin dove mi sembri giusta, perch’io mi faccia interprete presso il Consiglio Accademico dei vostri desiderii, e, con esso d’accordo, vegga di ottenervi una soluzione soddisfacente. — Sì, sì! — acclamarono i più vicini, poi gli altri, poi l’intera studentesca, prorompendo in applausi clamorosi, che soverchiarono il tumulto. Il suo nome volò da ogni bocca: — «Viva Andrea Ferento!» Lontano, alto, per l’aria libera, il suo nome cantò: — «Viva Andrea Ferento!» E volando e cantando inebbriava il cuore dei giovani, perch’era un nome di ribelle anch’esso, e lo portava un uomo ch’era giovine ancora, che aveva sempre insegnato a vivere combattendo, a cercare i pericoli delle più dure battaglie, generoso alfiere d’una insegna di libertà. — Ora scioglietevi, — egli disse, — Io sono il vostro parlamentare: davanti al Consiglio Accademico sono garante per voi. Chè se invece questo Ateneo, dove, nella più alta misura delle proprie forze, ciascun professore dedica giornalmente a voi giovani la sua più bella e più serena fatica, fosse per divenire un luogo sedizioso, dove si carpiscon laure con scioperi di studentaglia e con fracasso di vetri spezzati, io per il primo non vorrei più rimetter piede in queste aule, dove con tutto amore, con tutta fede, credevo di educar familiarmente una libera e franca gioventù, la quale sapesse fermamente che non bisogna mai, mai, trovarsi dieci contr’uno per avere in dieci quel coraggio che uno solo non ha. Io stesso, che non volli patire il giogo di nessuna obbedienza, debbo anche dirvi che la vera libertà consiste nel non essere il gregario di nessuna sopraffazione! Allora centinaia di braccia si protesero a lui, quasi cercassero di sollevarlo, mentre il suo nome squillava per l’aria, limpido e risvegliante come una diana. In un minuto di silenzio egli guardò la folla dominata, e si sentì padrone senza contrasto di quei giovani cuori pieni di forza e d’impeto; padrone di quei muscoli docili e forti, ch’egli poteva ben ghermire nel suo pugno, e temprarli e fletterli come buone lame da combattimento; poich’egli portava duramente inciso nella sua maschera d’uomo quel segno di alta potestà che fa brillare nell’ombra delle moltitudini la faccia dei ribelli e dei dominatori. E per un attimo riassaporò la gioia che gli era una volta piaciuta, quella di moltiplicare la sua potenza tirannica nella potenza passiva di migliaia d’uomini, poichè dalla natura egli era sorto con un cervello d’autocrate e la sua strada era segnata in capo delle turbe, ove s’innalzano gli stendardi, ove camminano i Re. TERZA PARTE I Senza mutamento ricominciò il suo vivere consueto. La Clinica, l’Università, i molteplici consulti, le pratiche di laboratorio, lo assorbivano da mattino a sera, ed anzi metteva nell’occuparsi una specie d’iracondia, quasi che un’oscura ma imperiosa inquietudine lo sospingesse a consumare con febbre tutte le ore della sua giornata. Il mattino, al primo destarsi, lo stringeva un attimo di perplessità, e, per una pigrizia del tutto morale, avrebbe voluto continuare quel sonno, quel vuoto e opaco sonno che gli pareva quasi una immensa camera buia. Ma, vinto con una tensione dei nervi quell’impreciso attimo di paura, ecco egli era novamente l’uomo limpido e ferreo, il qual cercava d’imprimere in ogni cosa che facesse un segno della propria volontà. Soltanto gli pareva ormai che tutto questo fosse divenuto una vecchia abitudine automatica e vana. Curare gli uomini, insegnare ad uomini, comandare sopra uomini, cercare indefessamente una verità, stabilire un principio, sentirsi alto, potente, solo, — tutto questo gli era piaciuto un giorno, gli era sembrato sommamente utile, sommamente necessario... Ma ora non ne vedeva più con precisione lo scopo; non era più così certo che questa fosse la sua strada, nè fosse in alcun modo una strada. Gli pareva che su l’immenso caos organizzato gravasse quasi una pausa oscillante, una lunga infinita vacuità, la qual pausa era stupore. Gli pareva di tornar da capo con tutto il suo cervello pensante alla ricerca delle ragioni d’ogni cosa. Questo piccolo fatto dell’aver ucciso, dell’aver ucciso egli stesso, con la sua propria mano, con la sua nitida volontà, gli scompigliava nel pensiero l’ordine immenso e la ragione intrinseca delle cose. Non era uomo da conoscere ciò che si chiama volgarmente il rimorso, poich’egli sapeva prima, e credeva di saper tuttora, che s’era impadronito, nell’uccidere, d’un suo virile diritto. Ma nel medesimo tempo sentiva che un fatto nuovo, un fatto di principio, era entrato con ciò nel suo mondo cerebrale, anzi dominava come un improvviso equivoco nella serrata logica del suo pensiero. Non rimorso era, e nemmeno era una pavidità oscura de’ suoi sensi davanti all’ombra di colui che giaceva. Non dunque una stolta paura della sua coscienza, e meno ancora della vendetta umana, ch’egli sentiva di poter vincere quand’anche s’apparecchiasse; — ma era invece un fatto quasi organico, un fenomeno della sua stessa materia, la quale _sapeva_ di aver data la morte. Questa parola «morte», che fino allora, pur vivendole in mezzo, pur combattendola giorno per giorno, eragli parsa lieve, ora, inattesamente, si vestiva d’un significato nuovo; non pauroso, non orrido, ma stupefacente: — un significato che assaliva tutte le cose dell’universo, non potendo ad altro somigliare che ad una specie di divinità. Aveva da poco finito il pranzo, il suo pranzo veloce, che Giovanni gli imbandiva e gli sparecchiava ubbidendo a’ suoi cenni. Era stanco d’una giornata intensa; più che stanchezza, era un senso d’affaticante inerzia che gli pesava nelle vene, mentre per l’aria ferma cominciavano a fluttuare come invisibili sciarpe le calure della vicina estate. — Giovanni, — diss’egli allora, — pòrtami, ti prego, un giornale. Sorse di tavola, entrò in una sala che non era illuminata se non dal riverbero della sera inazzurrata. Un lembo di cielo, con rosse nuvole, chiudeva come uno scenario il quadrato calmo della finestra, e si udiva salir dalla strada lo scalpiccìo della folla sui marciapiedi; si udivan ruote correre, battere ferri di cavalli, freni soffiando stridere, motori, con ánsiti e scoppi, lanciare per l’aria sonora un tremito ronzante, una burrasca di velocità. Lentamente s’affacciò al davanzale, guardando in giù, verso lo sbocco della contrada e verso il quadrangolo della piazza colonnata, che allargava la sua chiara vastità intorno ad una piccola fontana. Allora subitamente si rammentò con maraviglia d’una cosa futile... d’una sera, dell’anno antecedente, o forse d’un tempo ancor più lontano, quand’egli appunto se ne stava così, fermo, a contemplare dalla finestra la bella piazza illuminata, allorchè gli avvenne di riconoscere un uomo che per il mezzo la traversava; un uomo alto, magro, leggermente curvo, che veniva incontro alla sua casa, e camminando guardava se ci fosse ancor lume nelle sue finestre, lassú... Gli parve che il senso della moltitudine, del frastuono, il senso attuale di quella piazza, consistesse appunto nell’uomo che certa sera la traversava, nè ora la traverserebbe mai più, nei giorni tumultuosi ch’eran per nascere su l’infinita vita... Rimase un momento con gli occhi attoniti a fissare il pennacchio della fontana, poi trovò che questo ricordo mancava d’ogni reale consistenza, si ritrasse, accese il lume, sedette davanti alla scrivania. Prese un foglio di carta, e, intinta la penna, tracciò distrattamente un nome al sommo della pagina bianca: — Novella... E dal chiarore invisibile che mandava questo piccolo nome, un sorriso limpido come il sole tornò a brillare sul mondo. Una memoria di lei, della sua bocca, lo tormentò così forte che il suo desiderio ne pianse, così forte che gli sembrò di averla udita entrare, con un fruscìo dietro la seggiola della sua lieve sottana, e gli sembrò che si curvasse, per avanzargli sopra una spalla, d’un tratto, la bocca respirante, per fargli con le calme sue braccia un nodo senza forza intorno alla gola soffocata... Si sentiva ridivenire con voluttà un illogico e docile uomo, libero da tutte quelle complicazioni cerebrali che lo spingevano indefessamente alla ricerca di «cause ulteriori»; s’accorse che pur una cosa v’era, la quale sapeva sottrarsi alla sua concezione transitoria, inutilistica del mondo: e questa era un’altra creatura come lui, fatta solo di carne lábile, di bellezza fugace, che sarebbe morta e sparita, che avrebbe dispersa in un pugno di polvere la sua ragione d’esser vissuta, ma che bastava tuttavia per soverchiare i limiti della conoscenza, per lanciare il sogno d’un uomo nella spaventosa eternità... Di lei sola, di questo solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. L’amava; era pieno il mondo di questo amore esultante; le cose tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo cuore. Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e nello spazio, nell’attimo e nell’eterno, era l’arteria della sua vita molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed immensa che il credente riassume in Dio. Amandola, questo ribelle, questo anarchico, sentiva di ubbidire; di ubbidire non a lei forse, nè al cieco dominio della sua propria passione, ma quasi ad una legge di natività, immemorabile come la vita, più necessaria e più semplice di tutte l’altre da lui contemplate, — «una legge di dedizione e di generazione, ínsita in tutto ciò che vive, radicata nell’elemento stesso del mondo, la legge per cui tutto continua, la sola che tutto comprende, ciò che veramente è l’anima delle cose, il Dio non creato dagli uomini...» Queste parole aveva scritte ne’ suoi libri, ed ora le ripensava per confrontarle con l’anima sua presente. La penna gli era caduta su la pagina bianca; il tempo scorreva dolce nella sera ventilata. Le ripensava, guardando distrattamente verso l’alta scansìa, cárica di volumi rilegati d’un cuoio verde, con le diciture incise a caratteri d’oro, i quali splendevano dietro l’invetriata luccicante. E vedeva coloro che li avevan scritti, i suoi fratelli anteriori, dispersi nell’epoche lontane, per le più lontane contrade della terra, amici e nemici fra loro, ma raccolti da un solo nulla in una sola ed uguale Inutilità. E ripensava più oltre quel che aveva scritto: «O profeti degli errori più diuturni, o conquistatori terribili che volgeste in cenere funeraria la bellezza dionisiaca della vita, non è forse tempo ancora che un Dio più evoluto esca dalle nostre officine? Non è forse tempo ancora che il crogiuolo d’un chimico rivelatore imprigioni per sempre nella materia la favola dei vostri paradisi? «La remota vostra leggenda metafisica servì a creare la morte quale noi oggi la vediamo, ed in ogni cosa che l’uomo toccò, in ogni passo che fece, in ogni respiro d’aria che bevve co’ suoi polmoni avidi, trovò questo veleno mesciuto negli elisiri della vita. «Perchè, o medici, o filosofi, o poeti, non guariremo noi l’uomo di questo suo morbo millenario, che lo spinse a ricercare nella prigione dei cinque sensi, con la sua logica d’apparenze, una ragione di sè? «Possiate voi comprendere in un senso bello e sereno, in un senso d’aurora e di lontananza, questa maravigliosa parola ch’io vi canto: «_Il domani!_» «_Ieri_», o uomini, è la parola buia. Significa essere stati, quindi non essere più. «_Ieri_» è veramente la morte. Ma tuttociò che si chiama luce, sole, amore, gioia, bellezza, possibilità... tutto questo ha nome: «_Domani_». La vita non è che l’Oriente verso il quale si cammina, il sole che nascerà domani. L’inutilità immensa e magnifica di tutte le cose è in questo appunto, che la vita comincia davanti a noi, comincia domani...» Affaticato, egli si chiuse nel palmo la fronte calda; una gioia umana gli navigò sopra il cuore, gli fece sorridere la bocca, dalla mente gli bandì quella torma di pensieri estenuanti; perchè il suo «domani» era la donna che amava di un amor quasi barbaro, ed era il gorgo di felicità che gli si apriva nell’anima quando appena sovra lei si posasse una carezza della sua mano, — della sua mano che aveva medicato la febbre, le piaghe, i dolori degli uomini, ed aveva pure, con un sottile ago d’acciaio, avvelenata una debole vena. Il suo «domani» era ciò che non aveva conosciuto ancora nella veemente sua vita, se non fra distratte avventure, ch’erangli parse lievi all’anima e fors’anche ai sensi come quel rumore di seta scivolante che fa, nel cadere, una gonna slacciata. Ma ora la sua bontà s’allontanava dagli uomini; la sua bontà non poteva più guarire liberare o difendere che una sola creatura. La sua missione gli pareva divenuta quasi puerile, al segno da sentirsene stanco e da non saper comprendere più, nemmeno razionalmente, per qual ragione proprio lui, che in fondo era un autocrate, un inutilista, un distruttore, proprio lui che in fondo spregiava tanto gli uomini da sentirsene padrone come d’un branco di pecore, avesse fino allora speso tanti anni della sua vita, e sempre con indefesso amore, con un’abnegazione talora confinante con l’eroismo, per guarire una folla d’estranei, davanti ai quali non compiva che un atto malinconico e faticoso di servitù. E spese tante ore nel suo laboratorio, alla ricerca d’un farmaco, d’una scoperta che li guarisse meglio, e tante ore su l’alto d’una cattedra per dividere con cervelli sbadati il pane della conoscenza... Ora non capiva più come avesse potuto fare tutto questo; anzi la memoria d’averlo pur compiuto lo lasciava leggermente sorpreso, come se ciò fosse stata l’opera d’un altro. Insieme nasceva in lui, contro il suo mestiere, un’avversione quasi fisica, perchè gli pareva impossibile di dover toccare con la stessa mano il corpo d’un infermo e la dolce soave carne di lei, ch’era una musica divenuta forma, un profumo divenuto respiro... Taluni pensieri futili, quasi feminei, lo assalivano. Certo non avrebbe mai voluto che, nello starle accanto, la tormentasse un odor medicinale d’etere o di cloroformio, il quale avesse impregnato la stoffa de’ suoi abiti, o che, stando con lei, venisse chiamato altrove, o con lei giacendo, avesse il mattino a sorgere dal letto per impartire la sua lezione giornaliera nell’aula un po’ tetra dell’Ateneo... Era pur nato nella famiglia vandalica dei dominatori: avevano battuto il suo metallo su l’incudine che foggia la corona dei re; il suo cammino era per l’alte nuvole, nell’infinita bufera. Ma questo bisogno d’esser tale, di non potersi credere inutile come un piccolo uomo, era insieme la sua spirituale schiavitù. E trovava necessario di appartenere ad una missione, ad un amore, ad un’idea; sentiva, negando, il bisogno di credere, comandando, la necessità di ubbidire. Egli s’era provato ad uscire dal dominio suggestivo delle parole, rompendo la catena dei sensi, ed era giunto a quel segno dove la convenzione cessa, gli estremi si confondono, e tutte le parole che in sè racchiudono un senso antagonistico — piacere o dolore, fede o negazione, dovere o diritto, e più oltre, fino all’ultime: vita o morte — non possono altro rappresentare che un suono di sillabe diverse. Così egli pensava, ed aveva per lunghi anni pensato, finchè la sua mano temeraria s’era persuasa di poter compiere ciò che la logica umana chiama un delitto. Ma inattesamente la sua materia si sentiva trasformata da quest’atto, e gli pareva che un oscuro divieto ci fosse, fuori dalla coscienza, dalla logica, dalla divinità, — un divieto fisico, radicato anch’esso nella materia universa come un istinto fondamentale, profondo in essa come quell’altra legge di dedizione e di generazione, che veramente è l’anima delle cose, il Dio non creato dagli uomini... Ed ora non sentiva nemmeno più il bisogno di difendere con una frode complicata il suo semplice delitto; sentiva solo che un barbaro antico era tornato a vivere nel suo cuore angusto d’uomo civile, ove la preda e l’amplesso rimanevano ancora le più belle ragioni del vivere, dopo tante metafisiche fallite, dopo tanti millenni di ascendente umanità. Allora mosse la penna su la pagina bianca, e scrisse all’amante che amava: — «Sì! parti domani, come tu vuoi, come voglio anch’io... perchè ti amo, ti amo, e non amo che te!» II Adesso di casa in casa, d’uscio in uscio, la voce correva. Era un piccolo serpentello, nero viscido rapido, ch’entrava di soppiatto per le fessure, faceva il giro delle camere, saltava inafferrabile, spariva. Aveva cominciato a muoversi nell’ombra, con un tortuoso e lento camminar di vermiciattolo, ed ora non aveva più paura nemmeno del sole; fischiava con la sua lingua biforcuta, lasciando per dov’era passato una lumacatura brillante. Non potevan trovarsi due persone a discorrere insieme, che non capitasse loro fra piedi; non rispettava nè i focolari nè i talami, nè il municipio nè la chiesa; ogni giorno cresceva d’insolenza e fischiava con maggiore implacabilità. La gente dapprima se n’era impaurita; ma ormai lo lasciavan entrare liberamente per le lor case, e, stupefatti della sua straordinaria vitalità, nessuno cercava nemmeno di schiacciargli il capo sotto il piede, come si usa fare con le vipere. Il serpentello fischiava e diceva: «L’hanno avvelenato... sì, sì, sì...» Una curiosità malsana cominciò ad agitare quella calma popolazione; tutto il giorno v’era gente che si aggirava nei pressi del cimitero, discorrendo a bassa voce; taluni andavano a visitare la tomba recente, quasi per interrogarla sopra il suo mistero; di notte i lumi si spegnevano più tardi che per il consueto e certi orribili sogni scendevano a turbare la fantasia di que’ semplici lavoratori. Su, su, strisciando fuori dal borgo, la voce era salita fino alla villa; era entrata per l’ortaglia e per la porta di servizio; s’era fermata qualche giorno in cucina prima di arrischiarsi ad entrar nelle sale. Ma quando Novella fu partita per la città, e nella casa restaron i due vecchi, Maria Dora, lo scemo, a consumar tristemente le giornate inoperose, una mattina capitò il padre di Maurizio e chiese di parlar con Stefano da solo a solo. Certo egli non compiva due volte all’anno un così lungo tragitto co’ suoi logori piedi: ma era venuto perchè ciò gli pareva necessario, ed eran amici da troppo tempo, lui e Stefano, perchè gli paresse lecito di tacer oltre. — Senti... faccio bene? faccio male? Non so. Ma devo dirti una cosa grave... molto grave. Stefano aggrottò le ciglia. — Poichè tu, naturalmente — continuava l’altro, — non sai nulla... Stefano infatti nulla sapeva. Ma non era del tutto impreparato. Qualche indizio lo aveva pur sorpreso; certe vaghe ombre nelle fisionomie della gente, certi mormorii, qua e là, per i cascinali, non gli eran del tutto sfuggiti. — Si dice... — cominciò il vecchio. Era un campagnolo del vecchio stampo, e si spiegò senza tergiversare, con parole spedite. Stefano dette un gran pugno su la tavola e non cercò nemmeno di contenere la sua collera. — Ecco due parole stupide: «Si dice!» Chi lo dice? Chi?... — Tutti. Allora la sua collera cadde; gli si aperse un enorme spavento nel cuore, perchè, di colpo, non si sentiva più del tutto certo che dicessero il falso. Lo mandò via trattandolo quasi male, bestemmiando ch’eran pazzi e birbanti, con fiere minacce contro quelli che ne avessero parlato ancora. Poi si giurò d’impedire che sua figlia e sua moglie avessero mai notizia di questa orribile voce; ma non era trascorsa un’ora, che già egli prendeva in disparte mamma Francesca e tremando le confidava sottovoce: — Senti, vecchia... Si curvarono paurosi e muti su questo enorme secreto. La notte non dormivan più; volevan persuadersi a vicenda che la orrenda cosa non poteva essere avvenuta in casa loro; ma una voce intima, nel cuore di ciascuno, sibilava come il serpentello: «Sì, sì, sì...» Ella non fu più la bianca solerte massaia; egli più non si occupava del giardino, dell’ortaglia, nè di andare per i campi a sorvegliare i bifolchi; ma camminava rannuvolato per le stanze; la pipa gli si spegneva tra i denti. Maria Dora li osservava con attenta curiosità. «Che mai poteva esserci di nuovo ancora?» Sapeva che Novella era andata a trovare il suo amante. Questo pensiero le faceva un po’ dolere il cuore... Di giorno, per un nonnulla, era stizzosa, e verso l’alba udiva spesso i galli cantare. «Cos’era venuto a fare il padre di Maurizio fin lassù? Dopo la sua visita, che mutamento in quella casa! Anche la Berta da un pezzo era cambiata; ogni tanto parlava di andarsene e faceva quanto mai la misteriosa...» Una sartina del paese, una brunetta graziosa e pettegola, in quei giorni le stava terminando gli abiti da lutto; qualche volta lavoravan insieme, sedute a fianco, presso la macchina da cucire. Costei cicalava più in fretta che non cucisse con l’ago veloce; Maria Dora le dava del tu e cucivano insieme per lunghe ore. La sartina aveva un brutto nome: Palmira; ma la chiamavan Miretta, e doveva sposare Lionello dai baffi a punta — Lionello Garlanti, parrucchiere, da Rimini... Se appena stava zitta, le usciva, nel cucire, una puntina di lingua rossa tra le labbra sottili; ma questo non accadeva quasi mai, perchè parlava di continuo come un mulino a vento, e di tutti e di tutto parlava con estrema volubilità. Finalmente un giorno Maria Dora prese Maurizio alla sprovvista e con mille astuzie incominciò a farlo discorrere. Maurizio era timido, le voleva bene; disse qualche parola di troppo, che non voleva dire... poi si confuse. Marcuccio scriveva un discorso funebre; ogni giorno scriveva un discorso funebre... Ma Dandolo Zappetta frattanto era già tornato in città. Il raccoglitore di farfalle aveva compiuta l’opera sua con una precisione davvero scientifica e rincasava portando nella valigia un meticoloso incartamento, oltre ad alcuni esemplari preziosi di farfalle nostrane, poichè i due compari non gli avevano mentito affatto e quella fiorita regione abbondava di vaghissimi papilioni. Dandolo Zappetta sapeva d’esser stato prodigioso; una soddisfazione legittima gli allargava lo spazio del cuore, senza tradirsi per altro segno visibile che un allegro fischiettar pertinace, il quale non gli si era staccato dalle labbra per tutta la via del ritorno. Quest’uomo piccolo e mansueto, il quale non ambiva altro regno che la sua soffitta nè altri sudditi che lo stuolo delle sue morte farfalle, amava tuttavia la vittoria come l’amano i predatori, e nella sua piccolezza estrema gli piaceva solo di misurarsi coi più forti. Allora, quando fu di ritorno, questo piccolo uomo salì agilmente i cinque piani della sua soffitta, schiuse l’uscio e corse a riveder le sue farfalle, con la medesima tenerezza d’una madre la quale andasse a riguardare la cuna del proprio bimbo. Indi si mutò d’abiti, con grande cura indossò di nuovo il suo logoro giubbino luccicante, si strofinò per dieci minuti le scarpe senza macchia, scelse nella valigia, tra un grosso fascicolo, certe carte che gli occorrevano, mise un vecchio cappello duro di color marrone, che gli calzava fin quasi ai sopraccigli, e col bocchino di legno fra i denti, tranquillamente uscì. Tancredo, che gli avvenne d’incontrar per primo, cominciò a tempestarlo di domande precipitose. In luogo di rispondere, Dandolo non faceva che affrettare i suoi passettini da lucertola, con tanta rapidità che il Salvi durava gran fatica nel camminargli di paro. — Pazienza, mio buon Tancredo! Io son avvezzo a procedere con ordine in tutte le mie cose. Fra cinque minuti saremo a casa del Metello e, quando potete ascoltarmi entrambi, allora parlerò. — Almeno tóglimi da questa orribile incertezza! — lo supplicava Tancredo. — Figúrati, — gli narrò sorridendo il raccoglitore di farfalle, — figúrati che ho trovato perfino il solo esemplare di Vanesse ch’io non possedessi: la _Vanessa Atalanta_ con le ali nere vellutate. Non solo, ma una magnifica _Saturnia Pavonia_, grossa quasi come un pipistrello! Tancredo grugnì una bestemmia, che fece sorridere l’omino. Allo scampanellare che fecero, anzi tutto rispose il ringhio asmàtico di Volapuk, un decrepito can barbone, fegatoso come una zitella ed irsuto come un istrice; poi Saverio accorse, e ricevette gli ospiti con un formidabile: Urrà! — Dunque? dunque? — non cessava dal ripetere, facendoli entrare in un salottino, dove ambedue cominciarono a carezzar l’omino accerchiandolo d’infinite premure. Saverio gli avanzò una poltrona, Tancredo ve lo fece sedere a viva forza, esclamando: — Siedi, e parla finalmente! — Siamo soli? — premise Dandolo, quasichè si divertisse ad esasperare la loro impazienza. Il Metello andò a chiudere la porta. — C’è mia madre; però è sorda; e credo anzi che dorma. Dunque? — Ti prego, Tancredo, sièditi, — fece l’omuncolo. — Dall’altezza della tua statura mi pericoli addosso come la Torre di Pisa. Tancredo gli ubbidì; sedettero entrambi davanti a lui, vicini. Dandolo introdusse una sigaretta fatta a mano in quel certo suo bocchino d’un legno introvabile, trasse il portacerini d’argento, cesellato chissà mai dove con un volo di grù, diede fuoco al fiammifero, accese meticolosamente la sigaretta, spense, cercò invano con gli occhi un portacenere ove deporre il cerino. — Butta per terra, — disse nervosamente Saverio, davanti a quell’indugio. — Oh, non importa! — E alzatosi, lo andò a gettare nel camino. Poi si volse, guardando quei due che pendevano dalla sua bocca, e, senza mutar voce nè fisionomia, disse tranquillamente: — Ha ucciso. I due si batteron un pugno scambievolmente su le ginocchia e con impeto sorsero in piedi. — Vivaddio! Ci siamo! — Non ci siamo... — corresse l’omino. — Anzi non ci siamo affatto. Una bufera di domande l’avvolse, ond’egli per difendersi protese un braccio. — Piano, piano... Vi prego di lasciarmi parlare. E si mise a camminar lentamente fra i mobili del salotto. — Vi ho comunicata — riprese — la mia profondissima convinzione. Ha ucciso. E lo ripeto: Sì, ha ucciso. A voi non importa conoscere quello che feci, nè come nè in qual modo giunsi a chiudere affermativamente un’istruttoria così greve di conseguenze; voi m’avete dato un incarico, io l’ho assolto. Se poi v’interessa conoscerne i particolari, ve li racconterò, ma più tardi. — Insomma, — lo interruppe il Metello, — perchè hai detto che non ci siamo? — Piano, vi ripeto. Fino ad oggi ho lavorato per voi; ma ora, se non vi dispiace, intenderei di aver lavorato anche per me. — Come? come? — lo aggredirono. — Ecco, mi spiego. Per voi, lavorare, è sinonimo di guadagnar denaro; per me ha tutti i sensi che volete, infuori da questo. L’«affare», siamo intesi, è vostro. Ma la responsabilità morale della faccenda è mia; quindi mi preme di condurla bene a termine. Insomma: io vi metto una condizione. — Quale? Egli disse con voce risoluta: — Che non vi baleni mai per il capo l’idea di vendere al Ferento stesso il delitto di Andrea Ferento. — Oh, perchè? — esclamarono i due. — Perchè, dato e non concesso che un uomo come il Ferento si pieghi fino a pagare il vostro silenzio, questo vorrebbe dire nascondere un delitto che va messo in luce, sopprimere un giorno di sbalordimento nella vita pubblica italiana; anzi vorrebbe dire ormai altra cosa: far sì che un tal giorno venga ugualmente, ma che non sia da voi nè da me lacerato il suo velo. Poichè tacevano perplessi, egli domandò: — Mi capite? Uno alla volta, e insieme, cominciaron minutamente a contraddirlo. — Insomma, ragazzi, — li interruppe Dandolo bruscamente, — non perdiamo tempo. Chi di voi si sente il coraggio di presentarsi ad Andrea Ferento e dirgli su la faccia: — «Voi avete avvelenato Giorgio Fiesco. O mi date una certa somma, oppure vi denunzio al Procuratore del Re»? No, è inutile che vogliate rispondermi: di voi due nessuno lo saprà mai fare. Il solo forse che ne avrebbe il coraggio, son io. Ma io non intendo affatto prendere questa via, prima di tutto perchè non voglio denaro, poi perchè venire a patti col Ferento sarebbe assurdo. — Assurdo? — È la parola esatta. Davanti al vostro dilemma, il Ferento corre al telefono e vi fa arrestare per ricatto. Insieme provvede fulmineamente a parare il colpo che la vostra imperizia gli avrebbe così male assestato. Prove materiali non vi sono, per ora: è un potente, la giustizia è sua, la legge è sua, gli basta prevedere l’attacco per poterlo debellare. Voi fate questione dell’uomo che sia forte abbastanza per misurarsi con lui. Non ne vedo che uno: Salvatore Donadei. Del resto — concluse, — o voi m’ubbidite, o io me ne torno come son venuto e faccio a meno di voi. — Non ti eccitare, — lo persuase il Metello, con voce lusinghevole. — Io sono un uomo risoluto, — spiegò Dandolo. — Vi ho messa una condizione dalla quale non recederò. La strada è una sola, e vi avverto che, se farete altrimenti, penserò da me stesso ad informarne il Donadei. — Può darsi che tu abbia ragione, — ammise per primo il Metello, ch’era uno spirito riflessivo. Ma Tancredo, nel cuor suo non intrepido e forse remotamente buono, ancora non aveva guardato mai da presso il caso di dovere abbattere con un colpo mortale quell’uomo che in fondo egli conosceva, che in fondo non era stato nè orgoglioso nè ingiusto con lui, quell’uomo inflessibile, che sapeva essere così dolce nel parlare con la sua cognata, quel Ferento insomma, che forse aveva ucciso, ma chissà per quale ragione incomprensibile o necessaria... Ed ora, nell’apparirgli di questo inatteso evento, egli provava un senso non di sola paura, ma quasi di rimorso e d’inibizione, come se quei fermi occhi lo guardassero in faccia e quella voce calma gli ripetesse ancora una volta: «Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, è vero? E desidera vederlo? Venga, la condurrò.» — «Estorcere denaro ad un milionario, è un conto; rovinare del tutto un uomo, non mi sembra più la stessa cosa...» — rifletteva Tancredo fra sè. Ma diede una scrollata di spalle, strinse la bocca e nulla disse. — Anzi, — affermò il Metello, — più vi penso e più vedo che hai ragione. Quando si tenta un’impresa di questo genere bisogna riuscire. Faremo come tu vuoi. Dunque racconta. Il raccoglitore di farfalle cominciò con un aforisma: — Voi dovete innanzi tutto sapere che l’uomo è naturalmente nemico del proprio secreto. Pensare una cosa vuol dire farla esistere; compierla significa tradirsi. — Sarà benissimo, — gli accordò il Metello, che amava i racconti laconici. Ma Dandolo proseguì: — Dovete anche sapere che l’individuo, nella vita sociale, non è mai veramente solo; c’è qualcosa che vede, spia, vigila, origlia, fotografa i passi nel buio, indovina i movimenti traverso i muri, veglia sempre, sempre, dentro e fuori le case degli uomini. È l’Invisibile, che monta di fazione davanti alla nostra porta, che guarda per le serrature, sale sul tetto, scivola come un ladro giù per la cappa del camino; è l’Anonimo feroce, invidioso, pettegolo, astuto, proteiforme, che pare non somigli a nessuno ed è invece l’onnipresente complice di tutti quanti gli uomini. — Dandolo, per carità!... — intercesse il Metello. Costui non se ne dette per inteso. — E vi sono due specie di delitti: veloci e lenti. Se i primi possono talvolta contare su l’impunità, gli altri, nella diuturna loro incubazione, finiscono con ravvolgere il colpevole d’un’atmosfera sospetta, che inevitabilmente lo tradisce. Ma tutto questo non v’interessa, mi pare... — Questa non è per lo meno la parte essenziale, — disse il Metello con urbanità. — Invece, mio caro, questo è proprio l’essenziale. Io sono andato laggiù solo per fare conoscenza con l’Anonimo, e sono stato così abile da inspirare a costui la più assoluta fiducia. Quella denunzia che noi porteremo contro Andrea Ferento non è opera mia nè vostra; è l’Anonimo che ha lavorato per noi, è l’Anonimo che l’ha tessuta. Volessimo anche offrire a quest’uomo il dono del nostro silenzio, è forse troppo tardi: l’Anonimo l’accuserà. Ma sarebbe un’accusa vaga e disorganica, priva di un ordinatore che ne abbia raccolte le fila: io stesso; di un denunziatore che l’assuma: Tancredo; di un avvocato abile che ne dimostri l’efficacia: il Metello; d’un uomo potente che la sostenga: il Donadei. — Bravo! — esclamò Saverio. — Per quello che mi concerne, io sono pronto. — Infatti, — concluse il raccoglitore di farfalle, — ora tocca a voi. Per mio conto vi affermo che il giudice istruttore in persona, con tutti i suoi sgherri, non potrà fare più di quello ch’io feci. Ho recitate venti parti nella commedia, senza mai perdere il filo. Vi basti sapere che il medico Paolieri mi ha promesso di venirmi a trovare in città ed il vecchio Landi mi ha condotto ben due volte a visitare le sue campagne. Non vi parlerò dei De Martino, che, per farmi cosa grata, si sono messi a caccia di farfalle, nè di venti altre persone delle quali ho notato come un fonografo tutte le parole importanti. Cominciamo dunque, se volete, a sfogliare l’incartamento... Trasse alcuni fogli da uno scartafaccio che teneva nella tasca interna del suo giubbino, e sciolta la funicella che lo serrava, piegatala, messala via, distese le pagine ch’eransi arricciate e, con la voce metodica d’un cancelliere, dalla prima parola incominciò: «Clemente Gaspare De Martino, di professione fittabile, nativo di... d’anni quarantasei...» III Salvatore Donadei stava scorrendo un fascio di giornali, che ingombravano la sua larga scrivania, quando l’usciere della redazione entrò per la seconda volta ad annunziargli che due signori, dei quali teneva in mano i biglietti da visita, chiedevan con insistenza d’esser ricevuti per una comunicazione urgentissima. Salvatore Donadei sollevò il capo selvoso, interruppe il segno azzurro che stava tracciando con una matita sul margine d’un articolo e domandò nervosamente: — Ma insomma, chi sono costoro? Cosa vogliono? L’usciere s’avanzò verso la scrivania e vi depose i due biglietti da visita, che il Donadei sbirciò in fretta: — «Saverio Metello, giornalista» — «avv. Tancredo Salvi» — Quest’ultimo, — illustrò l’usciere con un forte accento meridionale, — si dice fratellastro del defunto ingegnere Giorgio Fiesco. Vennero ieri e tornaron stamane; si dicono latori di una notizia che deve interessarla molto e rifiutano di abboccarsi con un qualsiasi redattore. Fanno anticamera dalle tre, ossia da un’ora e venti minuti. Mi sembran due persone pulite... — aggiunse con sussiego l’usciere loquace, il quale per tal modo si rivelava un profondo conoscitore d’uomini. — Seccature! — mormorò il Donadei, carezzandosi la barba quadrata. Rilesse attentamente i due biglietti da visita, indi soggiunse: — Via, sbrighiámoci! Fáteli entrare. E per non perder tempo riprese la lettura dell’articolo che andava sottolineando. Salvatore Donadei non credeva molto alle cose importanti, sopra tutto quando v’eran di mezzo un giornalista ed un avvocato; laonde alzò appena lo sguardo sopra gli occhiali d’oro per osservare que’ due sconosciuti che, varcando la soglia, si piegavan automaticamente in un profondo inchino. — Onorevole! Onorevole!... — dissero insieme. Il Direttore della «Crociata», organo del partito cattolico, ch’egli rappresentava al Parlamento, rispose con un cenno lieve del capo ed in modo vago additò loro due seggiole. Saverio Metello si sentiva meno impacciato che non il suo compare Tancredo, forse perch’era più piccolo ed occupava meno spazio. Ma infine sedettero, il Metello a destra, Tancredo a sinistra della scrivania, e precisamente Saverio alla sinistra ed il Salvi alla destra dell’onorevole Salvatore Donadei, il quale faceva scivolare dall’uno all’altro un lento sguardo lumacoso dietro i suoi convessi occhiali d’oro. Tancredo che, poverino, era di nervi ultrasensibili ed aveva il brutto vizio d’analizzar le persone, anzi d’immaginarle a modo suo, non era punto soddisfatto della prima impressione che gli diede quella faccia. Il Metello invece se ne infischiava. Siccome il silenzio durava oltre quell’attimo che prepara ogni esordio, il Donadei raccolse i due biglietti da visita e li lesse ad alta voce con aria interrogativa. — L’avvocato Tancredo Salvi? — Son io! — esclamò costui, dando un piccolo sobbalzo su la sedia. — Saverio Metello? — fece il Donadei, volgendo il capo a sinistra. — Per servirla. Il direttore della «Crociata» li squadrò una seconda volta, serrandosi nel pugno la quadrata barba castana, e li esortò nervosamente: — Dicano, dicano pure. La mano grassa e villosa dell’onorevole tamburellava su la scrivania, facendo splendere un grosso brillante, che dava noia a Tancredo. La catenella d’oro degli occhiali gli dondolava sul rovescio della giacchetta nera. Infine Saverio trovò l’esordio. — È una cosa delicata, — incominciò con somma cautela, — così delicata che mi trovo impacciato nell’esporla, essendo questa la prima volta che ho l’onore di parlare con lei. — Per quanto delicata sia, loro han certo interesse a farmela sapere, dal momento che han sollecitato un convegno per parlarmi, — osservò l’onorevole, con l’urbana ironia d’un sorriso che gli scivolava giù dai labbri tumidi nella barba liscia. — Onorevole, — disse il Metello con un sottil riso, — mi permetta un breve preambolo ancora, poichè la ragione che ci persuase a venire da lei riuscirà certo ad interessarla più di quanto ella supponga. Nell’alta sua posizione politica e come Direttore d’un grande giornale cattolico, ella è forse troppo sovente assediato da importuni e da sollecitatori d’ogni genere perchè due sconosciuti non muovano in lei un senso di naturale diffidenza. — Affatto, affatto, — credè opportuno inframmettere l’onorevole Donadei. Ed il Metello con assoluta padronanza continuava: — Ecco, mi spiegherò in due parole. È avvenuto un fatto assolutamente imprevedibile, del quale siamo i primi ed i soli depositari. Fra tutte le persone alle quali questa rivelazione potrebbe interessare — e sono a un di presso tutti i più cospicui personaggi della politica e del giornalismo italiano — abbiamo scelto, onorevole, di far capo a lei. Tancredo ammirava senza limiti la disinvoltura del suo compagno e l’ascoltava guardandolo a bocc’aperta, quasi ch’egli stesse per rivelare un fatto a lui medesimo sconosciuto. Salvatore Donadei s’affondò mollemente nella poltrona di cuoio, e sollevando gli occhiali per la catenella d’oro se li riappinzò sul naso. — Ma, ecco, veda, egregio signor... egregio signor... — cercò il biglietto da visita e soggiunse: — Metello! Da quanto ella mi dice non comprendo bene due cose: nè qual genere di fatto «assolutamente imprevedibile» sia potuto accadere, nè per qual ragione loro abbiano scelto di dirigersi proprio a me. E con la sua bocca dolciastra fece un sorriso che non mancava d’arguzia. — Vuol permettermi, onorevole, ch’io cominci col rispondere alla sua seconda domanda? — Scelga lei, — fece l’onorevole con l’aria di chi deve prepararsi ad una lunga pazienza. Ed il Metello riprese: — Capitanare un partito politico vuol dire necessariamente avere un’idea da difendere, una da combattere; non solo, ma certi uomini da spalleggiare, altri da colpire, e da colpire, poichè son nefasti, quanto più si possa nel cuore. — L’uomo, l’uomo... — interruppe quietamente il Donadei, — è una faccenda secondaria. Non è mai contro gli uomini che si deve infierire. — Sì, certo. Ma quando è appunto un uomo, con la sua forza, con la sua potenza, con la sua dura volontà, quegli che rende inespugnabile tutto un ordine d’idee contro le quali si combatte, allora diventa inevitabile un duello del capo contro il capo, finchè il più forte vinca. Le pare?... Egli disse così dolcemente questo: — Le pare?... — che il Donadei lo guardò tre volte consecutive con una specie di maraviglia. Poi si risollevò alquanto su la poltrona dov’erasi affondato, la trasse un poco avanti contro la scrivania, su la quale si appoggiò con un gomito. Infine ammise, come per condiscendenza: — Già, già... Tancredo in quel mentre osservò che su l’anulare sinistro egli portava l’anello nuziale; onde si mise ad immaginare come poteva essere la moglie di quell’uomo capelluto e barbuto. Chissà per qual ragione, se la figurò alta, ossuta, ferrea, vestita severamente, con la pelle un po’ giallastra, certe maniere brusche, una pettinatura stretta, la voce quasi virile. Nel medesimo tempo invidiava la genialità di Saverio Metello e si sentiva così lontano dal poter prender parte al discorso, che avrebbe quasi preferito non trovarsi lì. — Allora? — fece l’onorevole per spinger oltre quella conversazione che non gli pareva del tutto oziosa. Il Metello abbassò la faccia, quasi per dar prova di una rara modestia. — Non vorrei presumere troppo delle mie forze, — disse con umiltà, — se io credessi di poterla menomamente aiutare, dirò meglio secondare, in quella magnifica lotta che da molti anni ella sostiene con una tenacità coraggiosa ed infaticabile. Ho detto secondare, ma non è questa nemmeno la parola: dovrei dire «servirla», dovrei dire «mettere nelle sue mani quella terribile arma, di cui la sorte ci rese possessori e padroni.» L’onorevole aggrottò le ciglia e si passò una mano sui lisci capelli, d’un denso color castano, ch’eran divisi nel mezzo da una fina scriminatura. Così barbuto e capelluto, con gli occhiali a cerchi d’oro ed il compassato abito nero, aveva un aspetto indeciso fra il bibliotecario ed il prete armeno, con qualcosa d’ispirato e di subdolo nell’incerta fisionomia. — Egregi signori, — disse in tono declamatorio, — se andassimo avanti un pezzo con tali preamboli vedo che si rischierebbero due cose: la prima, di perdere gran tempo, la seconda, di non comprenderci affatto. — Ella infatti ha ragione, onorevole. Non abbiamo alcun interesse a perder tempo, ed ancor meno a tardare oltre nel comprenderci. Sorse in piedi, e puntando ambe le mani su la scrivania si protese un poco innanzi, verso l’uomo che l’ascoltava, poi disse con una specie di crudeltà sarcastica: — Onorevole Donadei, mi permetta una immagine. Come alla figlia di Erode, noi veniamo a portarle sopra un vassoio d’argento la testa recisa del suo nemico. In altre parole, noi siamo in grado di produrre istantaneamente la più clamorosa e più doverosa demolizione della quale possa oggi divenir spettatrice l’Italia! Poi si ritrasse con un moto repentino, e tornò a sedere, fissando co’ suoi lucidi occhi bigi Tancredo che impallidiva. Egli non lo aveva seguito che parzialmente, ed era rimasto indietro a raccapezzarsi con la figlia di Erode. Ma, durante quel grave discorso, la faccia dell’onorevole si era fatta rossa e concitata, forse di maraviglia, forse di sdegno, sicchè il Metello temette di aver precipitate le cose. Infatti Salvatore Donadei durava uno sforzo, visibile in ogni muscolo della sua faccia, o per dominare una repentina collera o per riaversi da un eccessivo stupore. Come un uomo colto in fallo, cercò dapprima di schermirsi. — Non ho il bene di comprendere le sue similitudini, egregio signor Metello! — esclamò con sussiego. — Ma per sua regola mi pregio avvertirla che non son uso a barattare la testa di chicchessia sopra vassoi d’argento nè di alcun altro metallo! Saverio chinò la faccia e tacque. Solo, dopo una pausa, rispose: — Certamente mi sono espresso male. — Molto male! — asserì con intendimento l’onorevole Donadei. — Ed in primo luogo mi piacerebbe sapere per qual verso ella supponga di conoscere i miei giurati avversari, e mi presti l’idea di volerli sbaragliare con ferro e con fuoco? Saverio tacque ancora, ma un risolino beffardo increspò la sua bocca. La voce dell’onorevole si fece più sardonica nel chiedere ambiguamente: — E il nome? Quale mai sarebbe il nome di questo San Giovanni Decollato? — Credevo, — spiegò il Metello con audacia, — che si trattasse di Andrea Ferento. — Ah, vedo... — fece l’onorevole con una voce bianca. E ripetè ancora due volte: — Vedo, vedo... Il Metello s’accorse che la sua temerità non era stata vana e pensò d’incalzare. — Ho preferito entrar in argomento con parole esplicite, anzichè tergiversare. Comprendo che la mia sincerità possa parerle un’indiscrezione, tuttavia... — Tuttavia sono stupefatto ch’ella voglia insistere! — l’interruppe il Donadei, senza un soverchio sdegno. — Tuttavia, — insistè il Metello, — mi permetto di farle osservare, a mia difesa, che, se mi sono ingannato nell’attribuirle un nemico immaginario, dieci anni di attenzione indefessa alla sua opera valorosa eran là per convincermi di questo errore, poichè la vita degli uomini che governano i partiti cade necessariamente in dominio del pubblico e sopra tutto dei loro partigiani. Le passioni, gli odî, gli amori, le sconfitte o le vittorie d’un capo non appartengono a lui solo. — Ma, scusi, — l’interruppe il Donadei con un vibrato risentimento, — io non mi sono ancor presa licenza di chiederle chi ella sia veramente, nè sotto qual veste si arroghi la libertà di parlarmi in tal modo! — Io sono stato fino ad oggi un semplice spettatore, onorevole Donadei! Ma uno spettatore che di punto in bianco s’alza dalla platea ed affronta la scena per rappresentarvi una parte capitale. Tancredo non aveva mai conosciuto al suo compare uno stile così altisonante, e ne restava sbalordito, soggiogato, come di fronte ad una rivelazione. Lo stesso Donadei parve sorpreso d’una così tranquilla sicurezza, ed avrebbe voluto rivolgergli un gran numero di domande, che ancora gli parvero inopportune. Saverio Metello si stropicciò le mani, le sue mani aride, giallastre, che parevan due nervosi artigli, quindi ricominciò: — L’uomo che non è stato finora alla mercè di nessuno aveva, come il Colosso di Rodi, i piedi d’argilla. Ora è nelle nostre mani, e possiamo d’un colpo stenderlo a terra, per sempre. La sua faccia splendeva d’un malvagio lume; le palpebre raggrinzite gli battevano sui piccoli occhi bigi. Salvatore Donadei si raccolse di nuovo nel palmo la fosca barba quadrata, ed insaccando il collo nel largo solino ammiccava di qua, di là, fuggevolmente, quasi per dissimulare la sua tentazione di scendere a patti con que’ due sconosciuti. — Ma tutto questo non è possibile! — esclamò, dopo una lunga pausa, guardando con una specie di compassione que’ due meschini uomini che pretendevano di aver catturata una così bella preda. — Impossibile! assurdo! — esclamò ancora, scrollando le spalle, e con la voce dell’uomo il quale rinunzi a nutrire un’illusione troppo diversa dalla realtà. Questo era il punto cui lo attendeva Saverio. Lo stesso Tancredo si gonfiò d’un tal sorriso di sufficienza e di potenza che avrebbe da sè solo debellata la più tenace incredulità. — È quello che vedremo! — disse a fior di labbro, aggrottando la fronte. — Tutto questo infatti, — ammise il Metello, — ha l’aria d’una favola, o per lo meno d’una millanteria. Ma so che il suo tempo è prezioso, onorevole, e non sarei certo venuto a farglielo sprecare inutilmente. Inoltre so di trovarmi dinanzi ad un uomo il quale ha bisogno di prove, non di sussurri, e non vuole daghe di cartapesta ma buone lame da combattimento. Insomma, onorevole Donadei, se io le dessi la prova tangibile di quel che ora le affermo? — Sarebbe un altro conto, — si lasciò sfuggire il Direttore della «Crociata». Ma si riprese tosto, ed aggiunse un: «Ossia...», cui dovette cercare il sèguito. — Ossia, come Direttore d’un giornale cattolico, mi presterei volentieri all’esame di questa faccenda. — Esaminiamo, — disse il Metello pacatamente, con un respiro di sollievo. — Ma no, ma no, ella precipita! — Non precipito affatto, onorevole: io comincio appena. E comincerò con un’ipotesi... Vuole? Salvatore Donadei, con il palmo della sua mano grassa e villosa carezzava il bracciuolo della poltrona di cuoio; la barba gli nascondeva il mento poggiato su l’ampia cravatta nera; la catenella d’oro degli occhiali, passata dietro l’orecchio sinistro, gli dondolava su la spalla mal costrutta e pesante. Saverio, a sua volta, si abbandonò contro la spalliera della seggiola, e, diméntico dell’ipotesi, fece quest’affermazione tranquillamente recisa: — Noi due, qui presenti, l’avvocato Tancredo Salvi ed io stesso in persona, il giornalista Saverio Metello, abbiamo quel tanto che basta per denunziare Andrea Ferento al Procuratore del Re. Avessegli fatto scoppiare un petardo sotto la poltrona, l’onorevole non avrebbe dato un simile sobbalzo. — Cosa diavolo? cosa diavolo?... — cominciò a balbettare. Divenne rosso apoplettico ed arrotolò la sua barba quadrata in una specie di lungo pungiglione, che gli sfuggiva dalle dita sparpagliandosi a ciuffi. Poi disse: — Zitti ... zitti! — E levatosi, andò ad accertarsi che le due porte fossero ben serrate, quella sopra tutto che immetteva nel corridoio ed era una porta vetrata. Il Metello profittò di quella pausa per strizzare l’occhio a Tancredo. — Anzi, è una cosa certa, — soggiunse. — Noi denunzieremo Andrea Ferento al Procuratore del Re. — Zitto, zitto... — suggeriva l’onorevole, tornando verso la scrivania. Tancredo l’osservava nel frattempo con una specie d’avversione invincibile. Era piuttosto alto e tozzo, con il capo leggermente piegato su la spalla sinistra, molto più larga e più bassa dell’altra, la quale invece gli si raggruppava contro il collo dandogli così un’apparenza, non di gobbezza, ma di estrema goffaggine. La marsina, sciupata nelle falde, gli faceva molte grinze al sommo del dorso incurvato; il bavero gli entrava sotto la folta capigliatura, che impolverava la schiena d’una forfora biancastra. I polsi grassi occupavan interamente i polsini rotondi, ch’erano chiusi da un largo bottone di corniola, mentre una doppia catena d’oro, passando per un occhiello del panciotto, scendeva con due curve abbondanti a nascondersi nei taschini opposti. La faccia, tra capelli e barba, era quasi tutta occupata da un’alta fronte convessa, che pareva gonfia di cervello ed esprimeva una certa quale potenza bovina e quadrata, la quale metteva un non so che di spazioso in quella ingrata fisionomia. Egli tornò a sedere nella poltrona di cuoio, e chinatosi verso il Metello, con un sorriso viscido si mise l’índice su la bocca. — Non parliamo forte, mi raccomando... Il Metello accennò di aver compreso e tacque. Allora il Donadei si rivolse a Tancredo come per interrogarlo, poi di nuovo si piegò verso il Metello, bisbigliando: — Ma è poi vero quello che loro mi dicono? È mai possibile che la loro denunzia contenga un fondamento serio? — Dica una certezza, onorevole! O, volendo essere prudenti all’eccesso, dica una presunzione di verità così forte, che ne’ suoi effetti equivale ad una prova inconfutabile. — Ah, ma queste prove... queste prove per ora mancano?... — Ne abbiamo ad usura! Prove indiziarie e testimoniali, s’intende, ma che basteranno allo scopo, non dubiti. — Insomma ella si diverte a trascinarmi per un labirinto nel quale non vedo che tenebra! — Eppure, — disse il Metello con prontezza, — lei solo può tendermi quel filo d’Arianna che ci condurrà verso la luce. — Sarebbe?... — interrogò l’onorevole con una voce opaca. Il Metello rispose con soavità: — Quando si è nel buio, e si vuol entrambi andare verso una meta, è qualche volta necessario tendersi la mano anche fra sconosciuti. — Le sue metafore, signor Metello, sono abbastanza eloquenti! — Non è colpa mia, onorevole! — si scusò il Metello col suo più modesto sorriso. — Che vuole? Abbiamo condotta un’istruttoria lunga, laboriosa, pericolosa; da un piccolo indizio, da un fatto quasi trascurabile, che sarebbe sfuggito ad altri, noi ci siamo accinti ad una impresa che poteva parere, non dico assurda, ma cento volte pazza e fantastica. Siamo stati in un certo senso i Cavalieri dell’Ideale, abbiamo incatenate le ali dei mulini a vento... Ed ora, éccoci qui a dirle che la nostra opera è compiuta, l’istruttoria è chiusa, e noi siamo arbitri, sia di abbattere quest’uomo che di accordargli l’impunità... Ed abbiamo risolto di far scegliere a lei quale, fra le due cose, preferisca. Da uomo astuto il Donadei certo comprese quel mercato che gli si proponeva, ma finse di non avvedersene e disse in tono declamatorio: — Io non ho, signor Metello, altra preferenza che quella di seguire in tutte le mie azioni l’onestà e la giustizia. — Per questo appunto siamo venuti ad importunarla, onorevole Donadei, — rispose il Metello con tanta naturalezza, che la sottile ironia delle sue parole parve inafferrabile. — Sicchè? — fece il Donadei, grattandosi la fronte. — Concludiamo. — Volontieri, — disse il Metello. — Si tratta... — Si tratta innanzi tutto, — lo interruppe l’onorevole con una voce sbrigativa, — di dimostrarmi che i fatti stanno come loro affermano, cioè che non si siano per caso fatta un’illusione qualsiasi, nè involontariamente, nè... — Va bene, — rispose con semplicità il Metello davanti a quella pausa. — Questa è sopra tutto la cosa che m’interessa, — incalzò nervosamente il Donadei. — Perch’ella mi vorrà concedere che, davanti ad un fatto così enorme, io debba sollevare i miei legittimi dubbi e creda necessario di appurare in modo concreto le sue affermazioni. Saverio Metello si guardò le unghie, simulando una specie di esitazione, poi disse con aria pudica: — Ella comprenderà bene, onorevole, che appunto perchè siamo depositari, non di cose fantastiche, ma di assolute verità, lo scopo che ci condusse qui non poteva essere uno scopo semplicemente, come direi?... platonico. Di nuovo l’onorevole preferì non comprendere. Trasse dal taschino del panciotto un cronometro d’oro voluminoso, ed appressátolo all’orecchio l’ascoltò con attenzione. — I documenti che sono in nostro possesso, — precisò il Metello, — e l’azione che noi, anzi noi due soli, possiamo svolgere, assumendone intera la responsabilità, rappresentan un valore altrettanto ragguardevole, quanto è spaventoso l’effetto che sono destinati a produrre. — Ella vuol alludere, se non erro, ad un valore finanziario? — disse deliberatamente l’onorevole Donadei. — Voglio alludere, — spiegò il Metello senza turbarsi, e valendosi d’un’amabile perifrasi, — alla certezza in cui siamo di poter scegliere a nostro beneplacito fra l’accusa ed il silenzio. Ella sola è arbitra fra le due soluzioni e può, come le aggrada, persuaderci a volere sia la rovina come la salvezza di quell’uomo. — Perdoni, perdoni... — l’interruppe ancor più nervoso l’onorevole Donadei, — ma non è questo il luogo per parlare di simili cose, tanto più che il tempo stringe. Si passò le dita fra i capelli, con l’attitudine di una persona che stia dibattendosi fra la diffidenza e la tentazione; poi disse con frasi veloci: — Certo, certo, quanto ella è qui venuto a riferire non manca d’impensierirmi gravemente... Non ho luogo di sospettare ch’ella si faccia illusioni, tanto più che uno di loro, se bene intesi, deve appartenere alla famiglia d’un uomo che ho molto apprezzato e venerato: Giorgio Fiesco. — Io, per l’appunto. Eravamo fratelli, fratellastri... — precisò Tancredo, con modestia e con malinconia. — Ottimamente, ottimamente! E poi non vedo quale scopo li avrebbe indotti a venire da me, se le cose non fossero quali mi affermano... Però, ecco, vedano, a me preme anzi tutto far loro una dichiarazione. Ed è questa: che nessun motivo d’animosità privata, nessuna ragione d’odio, nè di rancore, nè di passione mia propria, mi spinge ad accanirmi contro quest’uomo cui loro si propongono di muover guerra. In lui non vidi finora che l’avversario del mio principio, il negatore della mia fede, ma anzi un bello e nobile avversario. Non potrei dunque partecipare a tutto ciò, se non nella mia veste di uomo politico e per quel dovere imprescindibile che mi viene imposto dalla mia qualità di Direttore d’un giornale cattolico. — S’intende... — mormorò il Metello con un fil di voce. — Insomma sentano, — concluse il Donadei; — sarebbe assai meglio se loro potessero venire a casa mia, dove si discuterebbe con maggiore tranquillità. I suoi occhi profondi guizzavano dietro gli occhiali, con una rapidità sinistra. — A’ suoi ordini, onorevole, — rispose il Metello. — E quando? — Per esempio, se loro son liberi, anche stasera... IV Ormai la denuncia era stata deposta in mani al Procuratore del Re; da ventiquattr’ore i giornali divulgavano a grosse lettere la notizia stupefacente; l’infamia stava per assalirlo impreparato e solo. Una mattina, d’improvviso, lo si avvertì per telefono della denunzia. Credette ancora d’essere in tempo a salvarsi, od almeno ad evitare lo scandalo pubblico, allorchè, la sera del giorno stesso, nel tornare verso la propria casa, dove ignara e nascosta l’amante lo attendeva, udì gridare dagli strilloni l’accusa irremediabile, che trascinava nel rumor della strada l’alto potere del suo nome. «La Crociata» era uscita con un supplemento, poche ore dopo il mezzodì; conteneva un articolo scaltro e feroce firmato «Ergo», ch’era il nome giornalistico del Donadei. L’edizione andò a ruba; gli altri giornali, usciti a breve distanza l’un dall’altro, furono saccheggiati; la vita cittadina s’interruppe, la strada cominciò a guerreggiare di partigiani e d’avversari. Tutto ciò era come l’ondata che soverchia la diga ed ogni cosa travolge; accadeva nella vita uniforme d’ogni giorno il tragico fatto clamoroso che innamora e spaventa la folla. Un giorno viene, in cui l’uomo destinato ad essere troppo solo deve dare la sua battaglia. Era l’ora, ed egli lo sentì. Lo sentì con una specie di riso convulso che gli torse l’anima, con una specie di piacere selvaggio e d’implacabile crudeltà. S’apparecchiò alla lotta in un momento, in un baleno fu pronto. Allora s’accorse d’aver avuta infatti l’oscura intuizione che già da tempo qualcosa pur s’andasse tramando nell’ombra contro di lui. Ma quando s’avvide che ormai era tardi per ogni riflessione, più che stupore e stordimento, n’ebbe un senso quasi febbrile di gioia. Gioia di sentirsi affrontato, gioia di potersi difendere, gioia di vincere quello stato d’animo, indeciso e pressochè aspettante, nel quale si era sentito sperdere in que’ giorni pieni d’ambiguità che seguirono il suo delitto. Ma ora, d’un tratto, si ritrovava come una volta l’uomo cui era necessario aver molti nemici ed implacabili, avere davanti a sè una forza infuriata e serrata, contro la quale misurarsi a viso aperto. Bellissimo era, benchè orrido, questo giorno che lo toglieva dal suo torpore! Adesso finalmente gli era necessario difendersi contro mille: questo lo lavava dall’aver infierito, egli, così forte, contr’un uomo solo. V’eran ancora intorno a lui nemici attenti e gagliardi, persone che di soppiatto avevano spiata la sua ombra, ed apertamente ora si radunavano per abbatterlo dal suo piedestallo, poichè li molestava! Il morto, quegli che la sua mano aveva ucciso, non era più un povero fratello buono ed esausto, ma una moltitudine selvaggia, piena di muscolo e di potenza che dalla violenta strada si avventerebbe contro lui per sopraffarlo, per contendergli la vita, per esercitare contro l’uomo incurvabile una vendetta soffocante. Ma egli non avrebbe indietreggiato! Poichè gli pareva che tutto fosse lecito nel mondo, tranne che indietreggiare. Senza dubbio, davanti un’assemblea d’uomini avrebbe potuto arrogarsi di giudicare l’opera sua? Qual’era la giustizia umana che chiamerebbe Andrea Ferento a sottomettersi come un reo? Orbene, ancora una volta questo si vedrebbe fra lui e loro, da uomo ad uomo, i mille contr’uno! Ancora una volta egli griderebbe loro in faccia la sua parola magnifica: «No!» Senza dubbio, davanti un’assemblea d’uomini suoi pari, si sarebbe alzato e avrebbe detto: — «Sì, ho ucciso.» Ad uomini capaci di comprenderlo avrebbe fatta la storia breve, barbara, del suo delitto: «Ascoltate. Uccidere perchè si odia, è facile; uccidere perchè si teme, più facile ancora. Ma spegnere la creatura che si ama, la creatura fraterna, indifesa e debole, spegnere l’uomo al quale si darebbe la propria vita serenamente se questo fosse necessario, non vi sembra, o giudici, l’estremo più insuperabile della volontà umana? Uccidere perchè il vostro cervello, nitido, sicuro, vi dice: — «Sì, lo puoi. Sì, lo devi!» — mentre il cuore convulsamente si rifiuta e mentre sapete, o giudici, che in quell’atto rinnegherete l’intera vostra vita, l’intera opera vostra... non è forse una prova di volontà così possente che pare non la contenga e non la possa compiere il cuore d’un uomo? Eppure io lo feci, con questa mano che ancor oggi non trema. Lo feci, perchè dovetti risolvere da me stesso un dilemma invero terribile: — O affrettare appena l’agonia d’un fratello condannato, o lasciare che finisse con un dramma la vita radiosa e fertile della donna che amavo. Qui è tutto il problema, o giudici sereni: — Abbiamo noi il diritto, noi che studiammo la morte come una scienza precisa, noi che salvammo tante creature, le quali non appartenevano al nostro cuore, noi che vediamo il segno infallibile delinearsi nella materia moritura, abbiamo noi il diritto, in certi casi, d’impadronirci della morte? E chi me lo vieta, se io non credo nell’uomo divino, come non credo nel miracolo che nessuno mai vide? Perchè dunque rimarrei spettatore neghittoso d’un breve indugio davanti al sepolcro inevitabile, quand’esso deve trascinare con sè, nel suo calamitoso cerchio, un’altra vita gonfia di albore, la quale ambisce a splendere con libertà e con gioia? La natura non m’insegnò a rispettare ciò che vive; tanto meno ciò che muore. Io, che studiai me stesso e le ragioni del mio essere con aperti occhi, son nato dalla strage, son venuto al mondo in mezzo alla strage, sarò afferrato nel dissolvimento perpetuo che sta nell’atomo e nell’immenso come una bufera universale. Nella distruzione di tutte le cose non ho fatto che accelerare d’un lieve attimo il rumore fuggevole d’un’agonìa. Per compiere questo atto infinitesimo di libertà ho dovuto lottare con disperazione contro tutte le assurde paure che incatenano la coscienza dell’uomo; ho vinto, perchè ho saputo esserne più forte. O giudici sereni, rispondete per me a quella turba urlante, che soltanto la mia coscienza è sopra l’opera mia, poichè appartengo alla dinastìa che promulga le leggi ma non le soffre, che inventa il bene ed il male, ma non può in alcun modo esserne disciplinata. Se venuta è l’ora ch’io mi nomini, vi dirò che sento gravare su le mie spalle il peso della porpora imperatoria. Non camminai fuori dalla strada; naturalmente mio, per forza di cose, doveva essere il privilegio del quale mi cinsi. Dunque perchè condannereste l’uomo che solo accelerò di qualche istante una inguaribile agonìa, quando quest’uomo, per i legami che l’uniscono al suo stato, al suo tempo, alla sua razza, già si è reso complice di mille uccisioni? Perchè mai sarebbe criminosa quella volontà singola dell’uomo, che, divenuta una volontà collettiva, non lo sarebbe invece più? Infatti non comprendo perchè domani mi sia lecito, anzi mi sia doveroso, abbattere con un colpo di fucile, anche proditorio, un essere umano il quale non ebbe in mio confronto altra colpa se non quella di nascere due palmi al di là dal mio confine, mentre sarà impedito, a me scienziato, curvo sopra un morituro che vedo già cadavere, d’instillargli nell’arteria quella goccia rapida che lo toglierà dal suo tormento, quand’io, libero uomo, lo stimi necessario, quand’egli, libero uomo, parimenti a me lo chieda, e quando — ascoltátemi bene, perchè in questo è l’essenziale, — quando l’affrettare di così pochi attimi una sicura morte, vuol dire schiudere ad altre creature la via della implacabile vita e della umana felicità. In verità non vi sono ideali: l’uomo è solamente un rapinatore. E poi dirvi ancor questo: «Mi sono arrogato il mio naturale arbitrio di ribelle che a nessuno ubbidisce. Ho ucciso, perchè fui certo anzi tutto che questo privilegio fosse degno di me. Ho ucciso, perchè il saper dare quella morte fu l’atto di coraggio più spaventoso ch’io potessi compiere; ed il coraggio mi piace, perch’esso è veramente un istinto della natura, la quale è tutta coraggiosa, da’ suoi oceani alle sue tempeste. Ed ho inoltre ucciso perchè, in un minuto secondo, ho sentito di amare più una donna che la ragione totale di me stesso, più una donna che l’infinito errore umano, più una donna che il mondo... O giudici sereni, io sono medico e gli uomini ho curati con amore; molti medici dopo di me insegneranno a vivere fisicamente felici; un profeta è in cammino verso il domani, dal quale sarà cantato il dio che muore con l’uomo, dal quale sarà benedetta la magnifica Inutilità della vita... Questo dio, nel quale io credo, assolve, o giudici, il mio delitto» Sì, certo: così avrebbe parlato Andrea Ferento, davanti un’assemblea d’uomini suoi pari. Ma chi lo chiamava per iscolparsi era l’ubbriaco volgo messo in tumulto da un pugno d’aizzatori, era, una volta di più nell’immutabile storia, la ciurma contro il capitano. A costoro, a tutti costoro, poco importava di vendicare un morto. Ma che davanti all’opaca uniformità dei loro istinti plebei un uomo inflessibile osasse divenire il più solo ed il più alto ribelle; questo non si voleva. Che davanti all’immensa titanica marea di servitù baldanzosa, — la quale, dopo aver decretati a suo piacimento quelli ch’essa ritiene i veri diritti dell’uomo, sotto le bandiere mendaci della fratellanza e dell’uguaglianza, con forsennata rabbia, si scaglia all’assalto del potere, — un tale osasse affermar loro che non erano in verità nè liberi nè uguali, nè degni men che mai di esercitare sul mondo la loro disgregata e povera tirannìa: questo non si voleva. Ebbene, egli si sentiva pieghevole ancora come a’ suoi primi vent’anni! Una sete di vivere e di vincere lo stringeva soffocantemente alla gola. Bastava solo provocarlo: e questa era la provocazione. Chi fossero i sobillatori, poco gl’importava conoscere, tanto li disprezzava. Erano avversari, e bisognava combattere. Confessare a questi giudici: — «Sì, ho ucciso,» — voleva dire arrendersi. Ma egli non s’arrenderebbe che morto. Era un laido e piccolo episodio della sua guerra: nondimeno bisognava passar oltre. Nasceva novamente l’equivoco singolare che già era sorto all’inizio del suo cammino, quando coloro che avevan nel ribelle intravveduta la figura del tribuno, e supposto ch’egli si facesse l’alfiere delle lor piccole pretensioni, s’accorsero di scoprire in lui, nel medesimo tempo, il repressore, il despota, l’uomo che adoperava le folle anzichè portarne le bandiere, — e l’accusarono di tradimento. Per contro egli sapeva di aver ubbidito a sè stesso in un modo magnifico ed orrendo. Ma ora verrebbe una folla amorfa, che si radunava solo per poter tiranneggiare, che solo coesisteva in forza del suo selvaggio istinto micidiale, verrebbe una folla nemica d’ogni temerità solitaria, per contestargli quell’atto supremo d’indipendenza, del quale s’era creduto degno come d’un rosso mantello di porpora, come d’un privilegio terribile inerente alla sua sovranità. Davanti a questa folla ostile, che cercava solo un pretesto per abbatterlo, sarebbe stato vano sostenere il diritto che a lui sovranamente apparteneva. A tali giudici egli direbbe: — «Non è vero: non ho ucciso.» Poich’essi non potrebbero mai ammettere nè comprendere il suo delitto, bisognava negarlo; poichè, di fronte alla legge da essi dettata, Andrea Ferento non valeva più che l’ultimo ed il più briaco degli spazzaturai, bisognava ch’egli riuscisse a debellare questa legge assurda, nel solo modo che aveva in suo potere, cioè negando. Era un tragico momento, nel quale non si poteva concedere il lusso di affermare la verità; non poteva tendere inanemente i polsi, e dire: — «Incatenátemi!» — poi camminare fra due sgherri in mezzo alla folla sibilante. Forse ancor lontano per essi era il giorno del trionfo, e per lui della sua fine. Se costoro possedevan le lor plebi, e con parole capziose le infocavano per avventarle nella piazza, egli a sua volta ritroverebbe la sua schiera, minore forse di numero, ma temeraria e bene apparecchiata. Guerra per guerra, egli si sentiva capace tuttavia di mietere nelle lor stesse file, di farsi camminare dietro il popolo, solo perchè passava: maravigliosa virtù che posseggono i capitani. Si sentiva capace ancora d’affrontare il linciaggio e tramutarlo in ovazione, come al tempo de’ suoi primi vent’anni, quand’egli amava, più che la potenza, il potere. Non puranco venuto era il giorno che Andrea Ferento si riducesse a vivere nella tebaide, nè recisi aveva i legami tessuti fortemente in altre ore di battaglia, quando si accinse a dare quella scalata che poi gli parve inutile; non era del tutto un condottiero senza esercito, un capitano senza bandiere. Si voleva la testa di Andrea Ferento? Egli non darebbe la sua testa. Era necessario mentire? E mentirebbe. Era necessario far pesare il suo pugno di ferro su le amministrazioni arrendevoli? E questo si farebbe. Se un bando era gridato contro la testa del ribelle, per infiggerla sopra un’asta e portarla in giro ad ammonimento dei servi riottosi, egli non darebbe la sua testa! Ma, per un’ultima volta, nella iraconda gioia del pericolo, griderebbe loro in faccia la sua parola magnifica: «No!» La testa di Andrea Ferento valeva ben altra battaglia, e non la porterebbe in trionfo, per trastullo dei chierici e di liberti, la lancia di un Salvatore Donadei! Tali furono le parole ch’egli si disse, con quella terribile volontà che in lui sopraffaceva ogni altro spirito e che poteva ugualmente renderlo capace così d’un eroismo come d’un delitto. Udita la notizia volare di bocca in bocca per le strade in tumulto, egli era tornato a piedi verso la propria casa ed aveva salite le scale, pallido, ma senz’affrettarsi. Ella già lo attendeva da oltre mezz’ora; lo attendeva sdraiata con pigrizia sopra un lungo divano, immersa nella quiete azzurra del crepuscolo che addormentava la stanza. Da qualche settimana ella ormai passava i giorni, talvolta le notti, nascosta nella casa dell’amante; non era per nulla preparata, nulla sapeva del repentino dramma. Egli entrò, accese il lume, si guardarono, si baciarono, poi Andrea le tese un giornale, dicendo: — Leggi. Il suo dito, nel segnare il titolo a grossi caratteri, nemmeno tremava. Ella, súbito, non comprese. Da prima credette forse ad una celia, poi si mise a leggere affannosamente, sbarrando vieppiù gli occhi, senza trovare in sè la voce per emettere un grido, finchè rimase soggiogata da un enorme terrore. Egli non disse parola; solamente la guardò a lungo, la guardò intensamente, quasi per scendere nel suo più recondito pensiero. Ella taceva; l’ostinazione di quel silenzio era per lui come un’oscura nube che tutta l’avvolgesse. Ebbe d’un tratto la sensazione d’una distanza enorme che s’andasse interponendo fra loro; anzi gli parve di misurare per la prima volta il valore dell’accusa lanciata contro il suo nome. Si ricordò in quell’attimo, con una lucidità singolare, di averla veduta in ginocchio presso il letto del morto, e sopra tutto ricordava il suo piede scalzo, con il tallone roseo, le dita flesse, nella pianella dall’orlo d’ermellino... La medesima paura di quel momento l’assalse, il medesimo bisogno di trascinar lei pure nel delitto consumato, e farla consapevole in tal guisa, che mai più non potesse disciogliersi da una tale complicità. Si risovvenne di lei, seminuda, nella notte che vegliarono fino all’alba, e s’accorse che, infatti, un non so che di mortale, da quella notte in poi, si emanava dal suo corpo insieme con il profumo tormentoso della sua nudità, nè poteva ormai baciarla senza sentire, frammisto nei baci della sua bocca, un sapore nefasto ed ubbriacante, che gli percorreva le vene, dandogli un senso inscindibile di paradiso e d’agonìa. La guardava senza dir parola; ne’ suoi grandi occhi fermi si condensava una specie di vacuo terrore, d’immobile ombra, che alterava i suoi lineamenti e rendeva più fredda, più sigillata, l’espressione del suo volto. Egli non poteva comprendere se quel terrore fosse pietà di lui, o fosse il dubbio invincibile della sua colpevolezza. Voleva domandarlo, e non osava; un’ansietà grande nasceva tra i loro cuori distanti, sebbene in tutto ciò, infuori, al di sopra d’ogni cosa, l’uno e l’altra non vedessero, non temessero in fondo che il pericolo nuovo sovrastante al loro amore. Egli temeva di perderla, ella di perdere lui; il resto era quasi una storia d’altre persone, un cupo avvenimento che tuttavia non li feriva nel cuore. Anch’ella, inconsapevolmente, amava nell’uomo il suo delitto. I suoi vigili sensi d’amante avvertivano la straordinaria potenza ch’era imprigionata nel fascio de’ suoi nervi, e quasi godeva nel sentirsi amata d’un amore siffatto, che, non solo rendeva possibile quest’accusa lanciatagli a viso aperto, ma gli dava pure la forza di sopportarla tranquillamente, come se infatti anche d’uccidere fosse per lei capace. Tutta la sua femminilità si genufletteva davanti a questa magnificenza. Mentr’egli supponeva ch’ella stesse agitando in sè un dubbio, forse un vero sospetto, ella non faceva che abbandonarsi femminilmente a non so quale vertigine fatta d’orgoglio e di stupefazione, ov’eran commiste la paura e la gioia di sentirsi con lui ravvolta nel pericolo. Per un poco lottò co’ suoi pensieri, ma infine il suo cuore d’amante la vinse. Fu come un’ondata soverchia d’amore che le salisse fino alla gola, e non potè non sorridere, anzi gli sorrise, gli aperse le braccia, lo guardò con gli occhi lucenti, mormorandogli una parola d’amore. Che potevano altro dirsi? Che bisogno avevano ancora d’interrogarsi a vicenda? Non era questa una parola di perdono, d’oblìo, di promessa? Non era, su la bocca lieve dell’amante, una parola di complicità? Ed a lui parve necessario inginocchiarsi, per baciare le sue mani profumate. Le sue mani eran colpevoli di tutta la gioia che gli avevan prodigata, e così la bocca, la gola, il seno, il grembo, la dolce capigliatura di lei, che non soltanto gli apparivano come le forme belle d’una creatura viva, non soltanto erano quel poco di polvere animata che poi si disgrega e si disperde, ma per lui divenivan l’accesso all’eterna felicità della vita, la sintesi nella quale possedere l’infinita bellezza del mondo. Questo egli pensava con chiaroveggenza, questo ella confusamente sentiva. Il morto, l’accusa, le conseguenze, il domani, tutto era in quel momento così lontano da loro... A dispetto d’ogni legge convenuta, eran due giovinezze feconde, gioconde, che liberamente si amavano; erano l’amore giovine che nasce dall’amore spento, e vuole per sè la vita, la gioia crudele della vita, che sgorga nel domani con impeto, come il fiume felice nel vivo mare... Allora si ricordò, fino alle radici dei capelli, della sensazione che gli dava il suo corpo nudo, e particolarmente si rammentò le fisionomie che il suo volto assumeva nella sofferenza del piacere. Ella, che si sentiva così amata, ne aveva nella gola gonfia qualche tremito di gioia, e si lasciò sopraffare dalla sua forza, inertemente, supinamente, senza chiedersi perchè, in quell’ora tragica, egli la volesse, nè perchè l’uomo che un paese intero aggrediva dimenticasse tanta battaglia per colmare d’una voluttà insensata la paura intima che li stringeva nell’ombra del medesimo delitto. Ma ella pure sentiva un uguale bisogno de’ suoi baci aspri ed il bisogno d’incriminar quell’ora, fra tutte più pavida, con una memoria di orrendo pericolo e d’inebbriata voluttà. . . . . . . . Poi la fece sedere su le sue ginocchia, ed incominciò a raccontare. Ella era un poco ansante ancora, con la fronte leggermente sudata, le labbra umide, una specie d’innamorato abbandono, quasi di addormentata lascivia nelle sue calde spalle. Ora lo ascoltava senza rispondere, con la faccia china, il collo ingombro di capelli, che scintillavano, attenta e quasi distratta. Egli aveva sempre ragione; qualsiasi cosa dicesse, aveva sempre ragione. Non ammetteva ella nemmeno di poter esaminare le sue parole, tanto le piaceva di somigliare a lui, di pensare come lui, d’essere fisicamente in suo possesso anche quando parlava. Non era necessario affatto ch’egli spendesse tante parole per dimostrare le ragioni di quest’accusa... Ella sapeva bene di amare un uomo temuto e sapeva che i vili odiano a questo modo; non era necessario ch’egli le spiegasse come si sarebbe difeso; era certa che si sarebbe difeso con facilità, certa che avrebbe vinto. Ma il vederla così lontana del sospetto, lo empiva insieme di dolcezza e di spavento. Avrebbe preferito avere davanti a sè una donna risoluta, che l’afferrasse per i polsi e gli dicesse, guardandolo dirittamente negli occhi: — «No, tu hai ucciso! Tu, con la tua stessa mano, hai veramente ucciso!» Invece gli pareva di vederla ignara, lontana dal sospetto, aliena dal macchiare di una simile complicità la sua perfetta innocenza; e mentre s’accorgeva che per sempre avrebbe dovuto portare in sè l’orribile silenzio di quella morte, pensava che l’amore d’una donna è cosa troppo lieve per dividere una così grande colpa. Egli anzi temeva che l’ombra del delitto giungesse a pervadere ogni altro senso nel timido cuor femminile; e mentre un desiderio invincibile di confessione gli saliva dall’anima sino al fiore dei labbri, egli, con una strana duplicità, si perdeva ne’ più sottili ragionamenti per distruggere in lei fin le radici del sospetto. Così passarono la notte, vicini, avvinti. Mentre la città urlava il suo nome per ogni quadrivio, e sin nella più tarda sera dappertutto infierivano lo stupore ed il tumulto, essi erano insieme, sotto il medesimo tetto, insieme avvolti nel dramma sovrastante, chiusi nell’ignoto e nell’ombra che si levavan dal sepolcro di laggiù. V La mattina dopo, di buonissima ora egli fu desto. Come al solito s’immerse nel bagno che lo ringagliardiva, scrisse alcune lettere che fece portare a mano dal suo domestico, telefonò a parecchie persone che gli urgeva di veder nella giornata. Ella uscì da quella notte affannosa, dal breve sonno incominciato verso l’alba, con l’anima piena di sperdimento e pervasa da una così grande stanchezza, che sentiva il sangue fermo dolerle nelle vene. Ma col mattino le tornava l’intuito preciso della rovina. Guardò, e vide con occhi limpidi ciò che non aveva sin allora veduto, se non traverso la nebbia della sua concitazione. Non erano ancor le nove del mattino, quando cominciò ad aggrupparsi folla davanti alla casa del Ferento. Giungevano a comitive, per strade opposte, gridando, crescendo, sicchè in breve la strada ne fu assiepata, la piazza ne brulicò. Il portinaio, dopo aver chiuso il portone, venne sopra concitato a supplicare che il Ferento gli concedesse di telefonare in Questura. Ma questi rispose con asprezza che non se ne occupava, e lo lasciassero in pace. Fermo, dietro le cortine d’una finestra, si mise a guardare la folla. Erano scherani del Donadei, mandati a provocarlo; plebaglia chiesaiuola, politicanti delle leghe cattoliche, socialisti e milizie della Camera del Lavoro. Non popolo insorto, ma un’accozzaglia sobillata e prezzolata, che veniva per vilipendere l’uomo contro il quale si voleva, non giustizia, ma vendetta. Qua e là, forse con piccoli gruppi de’ suoi partigiani, accadevano zuffe. Un bel sole mattutino dormiva su quella inane piccola gente. Ella, mezzo discinta, stava presso di lui, serrata contro il suo braccio, e paurosa lo guardava. Gli alti vetri luccicavano d’azzurrità; si udiva dalla strada salire un vociferìo crescente; si udiva quel rumore ondoso che la folla produce quando s’aggruppa in tumulto. Andrea fece qualche passo indietro, serrando i pugni convulsi, reprimendo la sua fredda ira. Ella pure, d’un tratto, si staccò dalla finestra, chiudendosi con i palmi gli orecchi, perchè quegli urli troppo la ferivano, troppo la battevano, e le pareva d’essere assalita insieme con lui dal furore della piazza. S’annidò nelle sue forti braccia e lacrimosamente lo baciava. — Andrea!... Andrea, che faremo? Egli senza rispondere, appoggiò la bocca su la sua fronte; e sopra la fronte di lei, curvata, i suoi occhi splendevano di tanta luce, di tanto coraggio, ch’egli parve, nella sua bianca tranquillità, più forte che la moltitudine. Ora, per tutte le strade, sopravvenivan turbe di popolo minaccioso; la piazza, tra il suo porticato quadrangolo, nereggiava di assembramenti; i gridi e le contumelie battevano contro i vetri come sassi lanciati con la fromba. Allora la sua bella fronte si cerchiò d’una rossa ira e gli parve indegno starsene dietro una finestra chiusa mentre gli avversari lo insultavano. Che si voleva da lui? Vederlo? Con impeto si sciolse dalle braccia dell’amante, s’avventò alla finestra, volle aprire. — No, no, Andrea! séntimi, ascóltami... — gridò la donna, avvincendosi a lui. Forte gli teneva le mani, forte lo respingeva; poi s’interpose fra lui e la vetrata quasi per fargli schermo, ed aperse le braccia. Grosse lacrime le cadevano dagli occhi, il suo gonfio petto ansava; egli rimase un istante a guardarla, muto, poi si ritrasse. — Perchè piangi? Hai forse paura per me? Si mise a ridere d’un riso beffardo e cominciò a camminare per la stanza. Ella restava con le braccia aperte, la gola riversa, le spalle contro l’invetriata; il sole mattutino mandava lampi nello splendore de’ suoi capelli spettinati; pareva in croce, davanti a quella finestra piena d’azzurrità. — Hai paura per me? — diss’egli con più forza. — Non io di loro! Rovesciò indietro la fronte con quella mossa rapida che gli faceva ondeggiare la capigliatura e splendere il volto: — Cosa vuole da me questa masnada di chierici e di bruti? Vedermi?... Vengo! — Andrea!... — ella gridò sbigottita, — che vuoi fare?... Andrea!... — Nulla di strano: essere alla mia Clinica per le nove e mezzo, come faccio ogni giorno. Con la sua poca forza ella s’avvinghiò a lui per trattenerlo, e balbettando lo supplicava: — No, non andare... — Io?!... — diss’egli con un riso. — Allora forse non mi conosci bene. — Ma non vedi quanti sono, Andrea?... Non senti come urlano?... — Appunto perchè urlano, e son molti, appunto per questo è necessario andare. Allora ella si mise a piangere, a piangere con disperazione; la qual cosa era la sola ch’egli davvero temesse. — No, non piangere... — le diceva con dolcezza. — Ascóltami, ascóltami, Novella. Comincia per me in questo momento una di quelle tragiche avventure nelle quali un uomo ha bisogno di tutte le sue forze per affrontare la vigliaccheria degli altri e decidere se debba rimanere un padrone od essere un vinto. Non mi disarmare, ti supplico, non aver paura; poichè devi essere tu, anzi, la mia compagna. Saranno giorni terribili, di guerra senza mercede, a colpi di coltello. Ma voglio vincere, capisci?... voglio vincere, perchè ti amo. E non essere tu la catena! Dicendo quest’ultima frase, la respinse con un atto quasi violento, come se per un attimo l’avesse odiata. Ella comprese ch’era necessario ubbidirgli, e solamente lo fissò con gli occhi pieni di terrore. — Ma... ti faranno male... — Che male! — Andrea gridò. — Al primo che osi toccarmi spiano la rivoltella su la faccia; se non retrocede, sparo. E dove un uomo ha il coraggio di ammazzare per primo, è la folla che ha paura di lui. Del resto la folla non mi odia. Chi mi odia è altrove. Ma s’accorgeranno bene che Andrea Ferento non è uomo da lasciarsi ammanettare! Fece una pausa e guardò l’amante, la donna curva, disfatta, che l’ascoltava. Il suo sorriso beffardo si spense in un sorriso di tristezza, e piegando su lei con dolore il volto pallido, la baciò fra i capelli, come se quell’atto gli fosse necessario, prima di scendere nella strada e camminare a fronte alta contro la folla de’ suoi bestemmiatori. — Atténdimi qui, — le disse. — Per nessuna ragione al mondo non uscir di casa. Dietro me s’allontaneranno. Sii tranquilla: dalla Clinica ti telefonerò. Prese da un cassetto la rivoltella, già carica, si chiuse la giacca, rovesciò indietro la fronte con quell’atto leonino che gli scuoteva tutta la capigliatura, baciò in silenzio le mani dell’amante, e uscì. Ella non ebbe che la forza di chiamare fievolmente: — Andrea... — ma quand’era già lontano. Poi si precipitò alla finestra. Egli scendeva le scale con un passo misurato, allacciandosi i guanti. Sui pianerottoli v’eran persone ferme, ch’egli non guardò; a pianterreno, sotto il porticato, un gruppo di gente che si ritrasse bisbigliando. Il portinaio aveva sprangato il portone; stava dietro l’usciuolo con la chiave in mano. — Aprite, — gli disse il Ferento. — Non è possibile... — Aprite, vi dico... — Professore, non faccia questa pazzia!... Allora gli tolse la chiave di mano, aprì egli stesso, chinò il capo sotto il portello, e, quando fu sul marciapiede, si volse tranquillamente, lanciò dentro la chiave, dicendo al portinaio che s’affacciava: — Chiudete in fretta. L’impassibilità del suo volto era così grande, che i più vicini credettero d’ingannarsi nel riconoscere Andrea Ferento in quell’uomo che usciva. Egli non guardò nessuno; la strada formicolava di gente ferma, ed alcuni tuttavia, per la meraviglia, si scostarono. Alto, solo, con le mani entro le tasche della giacchetta, l’occhio vigile davanti a sè, il passo veloce ma tranquillo, quasi che tutto ciò non lo interessasse affatto, Andrea Ferento si diresse verso la piazza, come un uomo che debba tuttavia fendere per mezzo ad una strada ingombra. In verità non pensava che una cosa: «Novella s’è affacciata e mi guarda.» Il pensiero di quegli occhi amati che dall’alto vigilavano la sua persona lo ringagliardì come una spronata nei fianchi d’un animale generoso, e gli piacque di sentir vibrare intorno a sè la potenza elettrica della folla, gli piacque avventarsi nel pericolo immediato con una spavalderia che lo inorgogliva. Quel senso eroico della vita che dorme nel cuore di tutti gli uomini audaci si ridestava in lui d’improvviso e cantava nel suo spirito come una fanfara; gli pareva d’essere un soldato sopra il terreno di combattimento, e, più che un soldato, l’alfiere della sua parte, il portabandiera di sè stesso. La bandiera lo copriva come un manto, lo rendeva intangibile. Il sangue gli batteva nei polsi con quella velocità medesima, con quel tremito stesso, che propaga nell’aria il rullo dei tamburi, e gli pareva libera quant’altra mai quella strada preclusa da una barriera umana. Involontariamente sentiva di raggiare da sè la magnificenza del tribuno; l’atmosfera delle folle ammutinate, che impaurisce anche i più forti, era ciò che gli permetteva di respirare con più vasta libertà. Nel sentire quell’onda umana che gli rinserrava intorno, egli aveva l’impressione gioiosa di sentirsi portare in alto, spingere avanti, e rimaner solo in capo della moltitudine, come l’insorto che guida la sua fazione, alfiere d’ideali e capitano di popolo, quando gli assalitori delle regge, nei mattini di rivolta, per avventarsi al potere, sollevano le città. Cominciava la sua battaglia: era pronto, magnificamente pronto. Lo vedrebbero andare a fronte alta contro l’accusa, muto in mezzo alle contumelie, come se il clamore di una intera città non bastasse a distoglierlo dalla sua via consueta nè ad impedirgli di compiere ancora una volta l’opera sua giornaliera, della quale voleva mostrarsi più degno e più innamorato che mai. Aveva coscienza del suo prestigio fisico e ne godeva come d’un privilegio sovrano, conferitogli dalla natura stessa, nell’impronta, nel calco della sua persona. La folla, che ha per suo destino quello di ubbidire ad uno solo, è veramente femmina davanti a chi la disprezza, davanti a chi, senza riflettere, col suo coraggio la incatena. Egli sapeva che nessuno avrebbe osato affrontarlo a viso aperto, nè si occupava di guardarsi le spalle, perchè, a tutelargli le spalle, bastava la sua medesima tranquillità. Inoltre, nemmeno fra gli avversari Andrea Ferento era un uomo odiato: la sua vita pura come cristallo moveva un senso di stupefazione in coloro stessi ch’erano schierati sotto altre bandiere. Aveva combattuta la sua guerra con un magnifico sdegno, e, davanti alla folla, troppo avvezza a patire le menzogne dei retori, aveva il merito incomparabile di aver detta la verità. Di aver detta la verità sempre, con un coraggio che poteva parere insensato, anche quando le chiese, i governi, le clientele, i partiti, erano in lega solidale contro lui, perchè tacesse. Possedeva le due qualità che maggiormente innamorano le moltitudini: era un ribelle ed era un munifico donatore. Chi mai lo toccherebbe? Non certo quell’eterno ribelle che si chiama il popolo, non certo quella rozza femmina eccitata che si chiama la folla. Ed ecco, intorno a lui, dapprima, un silenzio grande si fece. Camminava; ed alcuni, ammutolendo, gli mossero dietro, quasi per meraviglia della sua temerità, e forse per vedere dove quell’uomo andasse. Nessuno aveva certo supposto di trovarsi viso a viso con lui, nè creduto ch’egli venisse a costituire la sua libertà frammezzo a loro con un gesto così deliberato e così tranquillo. Questa folla, che da un momento all’altro s’aspettava d’essere sgombrata dai gendarmi, o d’azzuffarsi con i partigiani dell’avversario, si vedeva improvvisamente fendere dall’uomo stesso ch’era venuta per provocare. Questo potente camminava tra loro senza guardia nè partigiano, e passava in mezzo ai clamori diretti contro il suo nome, senza corrugare la fronte. Non solo, ma quest’uomo era Andrea Ferento, lo scienziato che dalla cattedra inebbriava i giovani, co’ suoi libri commoveva l’opinione del mondo, negli ospedali, come un buono ed umile operaio, curava i malati; quest’uomo era stato tempo innanzi alle soglie del potere, e solo per isdegno volontario ne aveva receduto. Camminava dietro di lui, intorno alla sua ombra, tutta una storia di cose belle, che ognuno rivedeva. Chi lo toccherebbe? Chi seguiterebbe a gridargli sul volto: — Assassino! — se pur questo era l’ordine? Adesso era preso nel mezzo, era in balìa di questa grande folla; camminando la faceva ondeggiare. Il suo nome, più veloce di lui, lo precedeva nel tumulto; una curiosità malsana invadeva l’ammutinamento; era un accorrere da ogni parte verso l’uomo che si faceva strada. Si faceva strada senza parlare, senz’ascoltare, guardando innanzi a sè, diritto, come un uomo sicuro della sua meta; e lentamente la turba lo ingoiava, stringendolo come un nòcciolo nelle sue pareti poderose. Egli cercava di traversar obliquamente la piazza, per dirigersi all’opposto lato, verso lo sbocco d’una contrada; la folla crescente lo accompagnava, rallentando il passo, arenandosi man mano contro la folla sopravveniente, che stringeva quel nucleo camminante in una specie di morsa. Per il vasto rettangolo della piazza crescevan lo strepito ed il clamore; ma già il nome di Andrea Ferento era la più alta parola che dominasse il tumulto. Lo spazio intorno gli divenne così angusto, che dovette fermarsi; — ma egli non impallidì. Era preso negli stessi tentacoli della folla, ed i più vicini facevano sforzi di braccia, di spalle, per non serrarglisi addosso. I più vicini tacevano, guardando l’uomo alto e fermo, con una specie di timore. Si produsse in quella moltitudine un movimento oscillante, simile al flusso ed al riflusso d’una marea, — poi le grida inveirono contro il cielo, facendo risuonare il nome del Ferento, come se dalla turba erompesse la gioia selvaggia e paurosa di tener quella preda. La piazza tiranna lo aveva catturato: era tardi ormai per il soccorso, gli potevan mettere la mano alla gola. Ma nessuno invece lo toccava, e, per una specie di rispetto invincibile, nel cerchio d’uomini più vicini a lui si taceva, come nell’attesa d’un dramma. Stavano fermi, addossati gli uni agli altri, per resistere alle spinte, quasi per difenderlo con una barriera di spalle dal potere altrui. — Signori, — egli disse tranquillamente, levandosi l’orologio di tasca: — da nove anni, tutte le mattine, a quest’ora, esco di casa per recarmi alla mia Clinica, dove so di essere necessario. Se un pazzo od un bruto mi lancia un’accusa che mi rifiuto di discutere, non è questa una ragione perchè i miei medici e i miei malati suppongano ch’io non possa recarmi fra loro. Ho deciso di traversare la città a piedi, contro chiunque mi fermi, e su la mia parola d’uomo vi giuro che passerò! Andrea Ferento si mosse. Un piccolo varco, uno spiraglio tortuoso, tra gente muta, allentò la folla, e con la mano chiusa nella tasca su l’arma caricata, egli vi s’inoltrò. Adesso era pallido estremamente, ma di coraggio e d’ira. I suoi occhi magnetici, striati di ferro, pareva che lampeggiando esercitassero un comando muto. Lento, grave, restìo, come una carena che si disincaglia, il nucleo della folla ricominciava a muoversi, resistendo col suo peso inerte alla spinta esterna, e così lasciandosi portare. Sopra la folla egli ergeva l’alta statura, per guardar oltre: un émpito selvaggio d’orgoglio lo soverchiò, quando vide che la strettoia s’allentava. Si volse a quelli che tacevano, e con la forza di un’invettiva esclamò: — Quanti di voi, che ora venite a sbarrarmi il passo, quanti di voi, o delle vostre famiglie, non hanno benedetta questa mia mano, che ora gridate sia quella d’un assassino? — Avanti! fátemi strada, che ho fretta, e laggiù sono moltissimi vostri figli e fratelli che hanno ancora bisogno di me! Gli ubbidivano muti, senza sapere perchè gli ubbidissero, facendo forza contro la parete umana che ostacolava il passo, penetrando a forza di gomiti nella direzione ch’egli segnava. Per soggiogarli e per stordirli parlava, con l’occhio attento al varco difficile, con un palpito nel cuore di gioconda impazienza. Li odiava in quel momento, ed avrebbe voluto frustarli fino al sangue; si sentiva quasi nelle braccia la forza di poterli percuotere. — Fate com’io faccio questa mattina! Camminate a fronte alta contro chiunque voglia mettervi una mano alla gola! Un giorno forse comprenderete che la bellezza vera del mondo è tutta nella forza di una splendente volontà. La strettoia si allentava; i più vicini, soggiogati, ammutolivano. Con lentezza, il gruppo che lo teneva prigioniero s’incanalò nella strada formicolante, per la quale scendeva di corsa un drappello di studenti, spingendo innanzi a sè una doppia catena di poliziotti, che non riuscivano a frenarli. Ancor lontana, egli udì la voce nota, la fresca voce della gioventù che lo amava, che irrompeva correndo nell’opaca moltitudine avversaria, portando il suo nome come un vessillo e facendolo battere nel cielo con una forza che lo inebbriava. Irruppero quasi contro lui, senza riconoscerlo; accadde un urto, e per un momento l’avvolsero nella zuffa, lo trascinaron indietro, nel torrente impetuoso che li trascinava. Ma quando fu riconosciuto, e si seppe ch’egli, da solo, era uscito contro la piazza, s’era lanciato a fronte alta nella bufera, contro il pericolo, contro la folle accusa, che non poteva macchiarlo, allora fu come un delirio che lo circondò, che l’avvolse da ogni parte, fu la vendetta più bella ch’egli potesse immaginare, perchè un’altra folla era nata, sbucava, cresceva intorno a lui, come un esercito pronto a giurare su la sua spada, a camminare dov’egli volesse, rovesciando il suo patibolo per innalzargli trofei. Un riso grande, sarcastico, gli empì l’anima; si guardò intorno, e gli parve che il sole fosse un tappeto fulgido su cui trionfalmente poteva ora camminare. Aveva giurato di passar da solo entro la schiera nemica; era passato, era illeso, la vittoria incominciava. Dietro lui, nella piazza turbolenta, scherani contro scherani s’azzuffavano da ogni parte; squilli di tromba echeggiavano ad intervalli sopra l’urlare della mischia, ed ancora una volta, nella storia di tutte le grandi e piccole discordie, ci si batteva per un nome, tra partigiani e partigiani, poichè non muta nei tempi la sorte delle umane moltitudini: l’odio è fra condottieri, ed esse debbono insanguinarsi per la vittoria di uno solo. Ora la strada lo accompagnava gridando; le finestre si gremivano; le soglie delle botteghe si assiepavano di gente curiosa; la città soffermava la sua vita per assistere a questo esempio di virtù civile. Ma egli camminava nel mezzo della strada, senza nulla guardare, con la fronte sollevata, il passo veloce, tra un corteo numeroso che gli faceva intorno quasi una guardia d’onore, pronto a scontrarsi con chiunque gli sbarrasse il cammino. Ad ogni sbocco di strada la polizia tentava d’interrompere il corteo; ma esso rinasceva da’ suoi frantumi, quasi fosse dotato d’una inseparabile vita. Sotto le finestre d’un giornale avversario volaron sassi e vetri si ruppero con fragore; la redazione stava per essere invasa, quando gli squilli echeggiarono e la polizia, forte di numero, giunse in tempo a disperdere l’assalto. Fu allora che un Commissario s’avvicinò al Ferento, pregandolo di voler salire in una vettura per sottrarsi alla folla che la sua presenza eccitava. Egli scosse il capo duramente, poi rispose: — No! Se avete ordine d’arrestarmi, arrestatemi; altrimenti proseguirò a piedi. Egli certo non ignorava che l’imprecisione dell’accusa e le potenti energie ch’erano già in moto per cooperare alla sua salvezza gli avrebbero evitato allora e poi lo sfregio dell’arresto; ma rispondeva così al Commissario, perchè sapeva nelle ore di battaglia esser anche un abilissimo istrione. Aveva giurato di andare a piedi: a piedi continuerebbe sino al termine. C’era troppo sole in quell’aria mattutina perch’egli accettasse di trafugarsi nell’ombra! Ora la strada lo accompagnava cantando; era una strada facile, sgombra; incominciava il suburbio. I funzionari erano riusciti a spezzare nel mezzo il corteo, imprigionandone la parte più accesa nel viluppo delle contrade. Lì nascevan alberi; di lontano la terra incollinava. Egli affrettò il passo, e quando vide apparire l’edificio bianco, le vaste placide finestre che dormivano dietro le stuoie, quando ripensò i bianchi letti allineati e le facce stanche di coloro che vi giacevano, un disprezzo immenso di sè medesimo lo assalse, quasi ch’egli avesse rubata una vittoria e stesse per rubare altresì quel diritto che s’attribuiva di medicatore. Allora, giunto al cancello, si volse; guardò la schiera che lo seguiva e tese il braccio per soffermarla. Ma poichè i più vicini lo circondavano: — Qui — disse, — ritorno ad essere il medico, che deve dimenticare. Con un sorriso, con un saluto, posò in silenzio le mani su le spalle d’alcuni fra i giovani che gli eran presso; indi si volse lentamente, varcò l’ingresso del giardino e rinchiuse il cancello. Lo videro inoltrarsi per il viale, poi, tra gli alberi, sparire. Là in alto, la Direttrice, i medici, gl’infermieri, tutti i custodi familiari del sereno edificio ch’egli aveva eretto per amore dell’uomo, gli si fecero incontro con un atto fraterno e solenne d’accoglienza, che parve racchiudere in sè una grande assoluzione. Ma questa volta, nel cuore, proprio in quella parte del cuore che non pensava, ch’era semplicemente il rifugio della commozione, il rifugio della bontà che l’uomo non riesce mai del tutto a spegnere in sè stesso, qualcosa lo morse pungentemente, con un tal senso di dolore, che gli parve, nonostante la sua volontà metallica, di sentirsi velare gli occhi. Sopra loro volse per un attimo uno sguardo di bestia diffidente e ferita, poi si chiuse di nuovo nella sua maschera d’impassibilità, strinse in fretta le mani che gli si tendevano, e scuotendo il capo, come per impedire ogni discorso, non faceva che ripetere: — Nulla, nulla... andiamo, è nulla!... Fece a tutti un gesto frettoloso di commiato, e con voce ferma chiamò, come soleva ogni giorno, il suo primo assistente: — Rosales, mi faccia vedere i bollettini. Il giovine, vestito del cámice bianco, gli si avvicinò scolorato come una fanciulla, ed insieme, tra un silenzio rispettoso e commosso, entrarono in quello studiolo a pianterreno che aveva contro la finestra gli odorosi rami dell’ólea fiorita. Rimasero in piedi, uno di fronte all’altro, senza dir nulla, poi, con un moto nervoso, il Ferento cominciò a sfogliare i bollettini. L’altro lo guardava con gli occhi lucenti, senza muover labbro, come un figlio guarda il suo padre che abbian ferito a morte e che sia per morire. Stava diritto, fermo come una sentinella, con le braccia lungo i fianchi; ma i polsi tuttavia gli tremavano. Pur nel leggere, il Ferento lo vedeva. Ed allora sollevò sopra il giovine i suoi occhi superbi, spianò la fronte come un uomo sereno ed incolpevole, che alla muta paura del discepolo volesse rispondere con una muta tranquillità. Ma questi non resse allo schianto, e con un dolore pieno di febbre, quasi piegando le ginocchia, gli afferrò una mano, balbettando: — Professore, qualsiasi cosa le abbisogni, o le accada, si ricordi, si ricordi che io son qui... E dai buoni occhi cilestri gli cadevan lacrime nella barba bionda. Il Ferento strinse velocemente quella mano, si morse un labbro, e volse altrove la faccia, per non fare quello che un uomo non può fare: piangere. VI Cominciaron giorni d’una guerra disperata, piena d’insidie, a colpi di coltello. Intanto correva l’istruttoria. Il giudice si chiamava Leonardo Niscemi, chiarissimo nome d’una famiglia catanese che aveva dato all’Italia buon numero di valorosi giureconsulti. Mai bufera più grande fu scatenata sopra il capo d’un povero giudice istruttore, nè mai tanto gioco di pressioni e di partigianerie fu esercitato con mezzi più illeciti su la incorruttibile giustizia. Si guerreggiava da entrambe le parti con uguale accanimento; era uno scoppio di furor civico da lunghi anni contenuto; il Parlamento, la strada, la chiesa, la stampa, i sodalizi, la famiglia, l’individuo, tutto si batteva. Drappelli e cortei percorrevano le strade; ogni sera, nei comizi, gruppi avversari si azzuffavano; i giornali delle due parti buttavan esca nel fuoco. In segno di protesta l’Università si chiuse. Ma le contrade si ridestavano al mattino con i muri pieni d’iscrizioni oltraggiose per il Ferento. Egli aveva subitamente ritrovato in sè, con un impeto selvaggio, l’odio e l’amore dell’uomo di parte. Il suo delitto, anch’egli quasi lo dimenticava: era necessario anzi tutto vincere, e vincere con magnificenza, per la causa di quelli ch’erano con lui; vincere anzi con crudeltà, spazzando il nemico, poich’egli portava una bandiera, e le bandiere non debbono mai soffermarsi a mezza strada. Aggredito, si difendeva; preso d’assalto, si cacciava con i suoi, a fronte bassa, contro gli assalitori. Intanto correva l’istruttoria. Il giudice, Leonardo Niscemi, sentiva in quei giorni pulsare nella penombra del suo uffizio tutta l’anima della città. Una folla oziosa e curiosa circondava in tutte le ore del giorno il Palazzo di Giustizia, quasichè da un momento all’altro i muri stessi dell’edificio potessero preannunziare al pubblico l’esito dell’istruttoria che accendeva tanta passione. Tutti gli andirivieni eran osservati, commentati a lungo; giornalisti ed informatori passavano la giornata ne’ corridoi: cumuli di notizie contradditorie ingombravano i supplementi dei giornali; un’atmosfera d’impazienza e di febbre pervadeva la città. Guardie a cavallo scortavan ogni mattina l’automobile del Ferento, dalla sua casa fino alla Clinica, e nel ritorno; le adiacenze dell’una e dell’altra eran continuamente vigilate dalla Polizia. Quel che frattanto si conosceva di sicuro in mezzo alle mille dicerìe, si era che il giudice Niscemi aveva due volte chiamato nel suo gabinetto il denunziatore Tancredo Salvi, ch’era in quei giorni tronfio di popolarità sino alle radici dei capelli, e si esibiva da mattino a sera, ovunque potesse, alla curiosità pubblica, dondolando la sua quadrata persona con un far magnifico da istrione applaudito. In buona fede a lui pareva d’essere il «deus ex machina» di tutta questa faccenda. Il vedere la città piena d’ammutinamento, rossa di furore, in séguito alla sua denunzia, lo investiva d’un così grande orgoglio della propria potenza, che non invidiava più nulla e nessuno, anzi dimenticava quasi d’aver in tasca il prezzo del suo turpe mercato. Il Metello, più prudente, più alieno da simili notorietà, si era tratto in disparte, pieno di riserbo, dopo aver conclusa con il Donadei la losca faccenda e con un sottile riso enigmatico su l’orlo delle sue labbra perverse, lasciava che la vanagloria del suo complice ostentasse per proprio conto i lauri di quelle giornate clamorose. A malincuore si era veduto inscrivere nella lista dei testimoni, e con rara modestia egli preferiva starsene quieto in un cantuccio, ad osservare con occhio sospettoso la piega degli avvenimenti. Il solo con il quale osasse talvolta scambiare qualche lieve apprezzamento era quell’ottimo raccoglitore di farfalle che si chiamava Dandolo Zappetta, al quale non era fino allora capitato in premio nemmeno il becco d’un quattrino, mentre continuava nell’alta soffitta a preservare dalla polvere il suo giubbino luccicante, le sue scarpe senza macchia. Il Metello aveva preso l’abitudine di andarlo a trovare quasi ogni giorno, sebbene le lunghe scale fossero dolorose a’ suoi piedi che s’inasprivano di trafitture. Là in alto, fra lo svolazzare fermo delle farfalle appuntate, insieme discorrevano di quella lunga e lenta istruttoria. Il Metello faceva previsioni, Dandolo si limitava ad ascoltar le sue parole con un sorriso pieno di sarcasmo indifferente. Sapeva ormai come funzionino i poteri dello Stato, e non aveva maggior fiducia nella toga del giudice che nell’uniforme del poliziotto. Tutto era un gioco di dadi entro un bossolo truccato, e la bacchetta magica poteva per la maraviglia far spalancare le bocche degli spettatori. Poi ridevano insieme di quel tronfio e ridicolo Tancredo, lo Zappetta senza livore, il Metello con una voglia matta che capitasse un fracco di legnate su la groppa di questo re da burattini. Ma per quanto il buon Tancredo vestisse con pompa la toga dell’accusatore, nessuno era così miope da non riconoscere in lui solamente l’uomo di paglia. S’intravvedeva dietro le sue spalle quadrate il profilo fuggente, la faccia insidiosa del vero denunziatore. L’articolo firmato «_Ergo_» aveva dato fuoco alle polveri; l’uomo che si firmava «_Ergo_» era, nell’opinione di tutti, l’insidiatore nascosto, che aveva teso l’agguato all’antico avversario. La battaglia era unicamente fra loro; l’odio che fomentava tanto insorgere portava il suggello antagonistico dei loro due nomi. Entrambi stavano in alto, saldi, agguerriti, tra falangi di partigiani, con in pugno entrambi lo scettro che asservisce i poteri allo sfogo dell’odio settario, con la voluttà entrambi di volersi misurare una buona volta in campo chiuso, uomo contro uomo. La battaglia pareva una sfida mortale; o l’uno o l’altro doveva tendere il collo al capestro. Eran due cupi avversari, ma due disperate volontà. Nell’intimo del suo convincimento, Leonardo Niscemi non era persuaso che il Ferento avesse potuto uccidere. Quella simpatia che lega insieme tutti gli uomini d’una certa elevatezza d’ingegno lo avvicinava piuttosto al Ferento che non al palese od al nascosto accusatore. D’altra parte lo allettava il fatto di poter frugare a suo beneplacito nei recessi d’una così alta vita, e quella iconoclastìa che ferve nell’animo di tutti gli ambiziosi lo spronava contro l’incolpato come un perverso allettamento. Leonardo Niscemi, eretto a giudice d’un uomo e ad arbitro d’una grande contesa, pensava innanzi tutto a non giocar la propria carta sul tavoliere perdente, poi a servire la Giustizia, questa bella parola gonfia e luccicante come una bolla di sapone. Tancredo Salvi era stato imbeccato a puntino. L’accusa pareva in sè stessa un po’ vaga ed arbitraria, ma c’era, fra le molte voci raccolte, un’affermazione particolarmente grave, quella del medico Paolieri, ch’erasi recato a visitare il Fiesco pochi giorni prima della sua morte ed aveva notato nell’infermo alcuni sintomi sospetti. Dalle chiacchiere del Paolieri, per l’appunto, i primi bisbigli eran nati nel villaggio, trovando conferma in tutti coloro che avevano veduto il cadavere guasto. Ma ora queste mormorazioni avevan cessato di ondeggiare in un sussurro anonimo, per divenir deposizioni vere e proprie, di molte persone ch’eran pronte a ripeterle, a firmarle, a costituire insomma quel che si chiama l’accusa dell’opinione pubblica. Inoltre v’eran due gravi coincidenze che militavano contro il Ferento, ossia la notorietà ormai innegabile del suo legame con la moglie del Fiesco e la quasi compiuta sua gravidanza. L’accusa, benchè basata sopra indizi, era dunque solidamente costrutta e poteva impensierire chicchessia per il suo colore di verisimiglianza. Tancredo Salvi narrò al giudice tutto quanto eragli occorso durante la visita funeraria, ed il risultato di questi colloqui, fu che il giudice ordinasse il disseppellimento del cadavere, onde sottoporlo a necroscopìa. I periti scelti furono tre medici che avevan uso di queste pratiche giudiziarie. Una mattina gli affossatori, entrati nel piccolo cimitero di campagna, dove, sotto il marmo ancor nitido, si consumava la spoglia di Giorgio Fiesco, ricominciarono a scavare la terra intricata di fresche radici. Un giardino di fiori selvatici, con mazzi di grandi papaveri già curvi su gli alti steli, sbocciava tra gli zoccoli delle sepolture; una festività di grano maturo invadeva l’aria turchina sopra il tranquillo cimitero di campagna, e una biondinetta, levátasi di buon mattino, con qualche spolverìo di cipria su la camicetta nera, con le mani congiunte dietro la schiena e la capigliatura scintillante nel sole, assisteva, pochi passi lontano dal sepolcro, a questa lugubre faccenda. La biondinetta si chiamava Maria Dora. Dal giorno ch’eran giunte al villaggio le prime notizie dello scandalo aveva cessato di lasciar garrire il suo scilinguagnolo impertinente, aveva inchinato sul petto il mento rotondo, e guardava pensierosamente correre la vita, chiudendo in un silenzio ostinato il suo cuore che le doleva un po’... Ella non aveva mai veduto risalire dal grembo della terra una cassa da morto, ed osservava quella triste opera con un senso curioso ed affannoso di novità. Le pareva che ogni colpo di zappa la colpisse nella sua medesima carne, ma insieme colpisse anche un altro essere, ch’era lontano, e si trovava solo contro una immensa guerra, nella quale, per quanto forte, _non le pareva_ che egli potesse trionfare. Ella non rivedeva che lui, dietro il vapore biondo che nel sole offuscava i suoi chinati occhi; non rivedeva che lui, senza ricordarsi bene se ancora l’amasse o l’odiasse, tanto l’evidenza della colpa ch’egli consumava con la sua sorella, e forse l’invidia della lor colpevole felicità, le stringevano intorno al cuore una specie di nodo soffocante. Gli scavatori celiavano senza curarsi di lei: nella terra umida e rovesciata entrava brillando il sole; ed ella se ne stava in disparte, con il capo raccolto fra le spalle un po’ inquiete; quasi cullando in sè stessa un’assurda speranza, e cioè che non si ritrovasse più nulla, che già i vermi avessero divorato la spoglia, il feretro, e dispersa nel lor viscido brulicame la prova di quella colpevolezza ch’ella sentiva essere, ahimè, troppo certa!... Ma invece, dalla profonda fossa, risollevaron il feretro pressochè intatto e lo caricaron sopra un carro da buoi, che andò via cigolando. Ella non si mosse, finchè disparve. Poi, rimasta sola, si affacciò curiosamente sopra la fossa vuota. E vide un ragno enorme che vi camminava nel fondo, incespicando fra il terriccio umido con le sue molte zampe villose. Il giorno dopo tutti partirono per la città. Nella casa di Giorgio Fiesco, dove recaronsi ad abitare, trovaron Novella dimagrita, febbricitante, che li guardò con i suoi grandi occhi pieni di spavento e, buttatasi nelle loro braccia, ruppe in lacrime singhiozzanti. Era sfinita di fatica, d’amore e di maternità; mancavano poche settimane alla nascita della sua creatura. Nessuno volle ancor più turbarla; non una domanda, non un rimprovero ella udì mai su le lor labbra indulgenti; la madre, il padre, la sorella non fecero che inchinarsi come anime tutelari sopra la sua maternità e sopra il suo dolore. Nulla eravi di mutato nella casa di Giorgio Fiesco da quando egli stesso vi dimorava, poichè, negli ultimi tempi, obliosa d’ogni scrupolo e d’ogni prudenza, ella era vissuta di continuo nella casa del Ferento. Avrebbe continuato a vivere sperduta e inerte nella sua ombra, se l’infierire della battaglia ed il termine della gravidanza non avessero persuaso il Ferento a separarsi da lei, rendendola in grembo alla sua famiglia. Era d’altronde necessario che tutti venissero in città per coadiuvarlo nella sua difesa: e da poco erano arrivati, quand’egli sopraggiunse nella casa del Fiesco. Entrò rapidamente, senza lasciare il tempo d’essere annunziato. Eran tutti raccolti nella grande sala, ove i divani e le seggiole, custoditi sotto fodere di tela greggia, diffondevano in quella fredda casa un senso di antica disabitazione. Nel vedere il Ferento, sorsero in piedi con uno scatto involontario, come se ognuno avesse preferito in quell’attimo non trovarsi viso a viso con lui. Marcuccio, ch’era d’umor pessimo per la fatica e la novità del viaggio, se ne stava seduto sul bracciuolo d’una poltrona, con un piede accavallato su l’altro ginocchio, e oziosamente si strofinava le unghie contro la suola polverosa. Non súbito lo riconobbe; ma, dopo averlo ben fissato, incominciò a ridere, a ridere, chissà per qual ragione. Andrea guardò Novella, ch’era lì, seduta; guardò il suo cappello da vedova posato accanto a lei sopra un tavolino, guardò la sua giovine sorella, che le stava presso, ritta in piedi, e quasi la vigilava tenendo una mano appoggiata sul pizzo nero che ricopriva la sua scollatura. Dall’infocato tramonto veniva una luce soverchia, nella quale tutte le fisionomie parevano colorarsi d’una vampa. Essi a lor volta lo fissarono, e lo videro quale non era stato mai, con tutta la sua forza raccolta nel viso, eppure stanco. Una ruga profonda, incisa fra i sopraccigli, duramente spartiva la sua fronte; una specie di ostinato sarcasmo gli armava la mascella dura. Egli li guardò come nemici, tutti insieme, senza fissare i suoi occhi negli occhi di nessuno; poi disse: — Benvenuti; era tempo che foste qui. Novella prese la mano di Maria Dora e se ne coverse le palpebre affaticate, con una specie di affettuosa voluttà; insieme le carezzava il dorso della piccola mano, lentamente, soavemente, facendo scorrere le dita fin sopra il suo polso pieghevole. Ma la fanciulla, con il capo incline all’indietro, nel cerchio di luce dorata, pareva insensibile a quella carezza, insensibile a tutto quanto accadeva intorno a lei, tranne a quella specie di suggestione dolorosa che le produceva l’aspetto di Andrea Ferento; gli occhi le si empivano di maraviglia, una specie di latente paura stringeva il suo cuore di fanciulla. Andrea s’avvicinò al vecchio Stefano e con forza gli prese una mano, con forza la tenne chiusa fra i suoi palmi, come per impadronirsi nel medesimo tempo della sua docile volontà. Il vecchio lo guardava perplessamente, senza trovar parole, con una specie d’angustia, con un visibile impaccio, ch’egli stesso avrebbe voluto poter nascondere. — Voi sapete ogni cosa, è vero? — disse il Ferento, con una voce opaca e piena tuttavia d’una concitazione mal dominata. Egli sentiva per istinto che c’era in quegli animi una ostilità involontaria contro di lui; quella medesima ostilità che ormai gli pareva d’incontrare dappertutto, più sensibile ancora fra le persone che l’amavano. Talvolta gli era sembrato perfino d’accorgersi che questo senso vago d’ambiguità penetrasse, come un sottile brivido, negli abbandoni voluttuosi dell’amante. Ma egli non veniva per difendersi; era spaventosamente calmo, spaventosamente risoluto ad ascendere, senza un attimo di pavidità, fino all’ultima pietra del suo calvario. Adesso eran giorni di battaglia; si trovava sul terreno di combattimento, non rimaneva per lui che una sola necessità: vincere. Egli abbandonò allora la mano di Stefano, ma intrecciò insieme le sue proprie dita, e le torse con ira, sorridendo per il dolore che ne provò. Poi disse: — Vi ho pregato di venire in città perchè Novella non poteva più a lungo rimaner sola, nè rimanere con me. Inoltre avevo qualcosa da comunicarvi, ed è per questo che ora son venuto. Parlava a scatti, con la voce un poco ansante, passandosi tratto tratto una mano su la fronte. — Fra pochi giorni tornerò ad essere l’uomo di prima. Se ne dubitate anche voi... poco importa! — No... — volle dire Stefano. Ma egli lo interruppe con sarcasmo: — Poco importa! Sono avvezzo a difendermi e sono avvezzo anche a vincere nella vita. Ma, davanti ad una simile accusa, ero del tutto impreparato. Sono stati più abili di me, finora; ma i conti li faremo in ultimo. Benchè ferito alle spalle, ho fiato ancora per combattere, come si vedrà. Intanto, non per giustificare me stesso, ma per tranquillare voi, sappiate che nessun perito al mondo potrà mai scoprire nel cadavere di Giorgio Fiesco una traccia qualsiasi di veleni, se non tali e quanti ogni medico adopera necessariamente nelle sue medicine. Egli fece una dura pausa, e considerò sorridendo l’espressione dei lor volti, che parevano rischiararsi davanti alla fermezza delle sue parole. — Ma poichè non voglio difendermi, e poichè son pronto a mostrarvi che non ho bisogno di difendermi, sappiate ancor questo: — la scienza, ve lo dice un medico, può facilmente uccidere senza che un perito se n’avveda. In altre parole, vi sono veleni che non lasciano traccia. Così, almeno fra voi, chi mi vuol credere innocente avrà la compiacenza di farlo senza che io gliene fornisca la prova. Nella pausa che intervenne, ricominciò a singhiozzare la risata gutturale dello scemo, che ora si batteva le unghie raggruppate contro la suola delle scarpe. Il Ferento lo guardò con attenzione, poi esclamò, con un’alzata di spalle: — Sì, Marcuccio... hai ben ragione di ridere! Poichè tutti quanti non siamo che istrioni, costretti a fingere una grottesca parte nella commedia della vita, ove tu solo forse riesci ad essere uno spettatore veramente imparziale!... Diceva queste parole quasi a sè stesso, mentre un moto nervoso contraeva la ruga diritta ch’era incisa nel mezzo della sua fronte. Poi si volse, parve d’improvviso vincere una titubanza estrema, si recò dietro la spalliera della poltrona dove Novella era seduta, e con dolcezza, con una dolcezza così grande che lo mutava in modo singolare, posò le due mani aperte sovra le spalle dell’amante. Ella si scosse, rovesciò leggermente il capo all’indietro, per guardarlo negli occhi, mentre sorpresa ed impaurita la sorella si ritraeva. Egli di lei non s’avvide; ma la sua fisionomia, che appariva distinta nel fascio di luce crepuscolare, sembrò aggravarsi d’una passione che la stancava, che scioglieva i suoi nervi contratti in una specie di faticoso allentamento. Dal cuore gli saliva una ondata buona, e questo era visibile, come se l’amore che aveva per lei fosse una luce d’anima che gli splendesse all’intorno, per avvolgerli entrambi nella medesima tristezza, nella medesima infinita voluttà, ove sentivano d’essere uniti al di sopra di tutte le pene, al di sopra di tutti gli ostacoli che vanamente la vita e la morte frapponevano al lor colpevole amore. Allora egli guardò ad una ad una l’altre persone, poi disse lentamente: — Volevo confessarvi una cosa... Novella è mia, mia da lungo tempo, mia fin da prima ch’egli morisse... Questo è innegabilmente vero. Ella restò con gli occhi spalancati, ferma, percorsa da un interiore brivido; gli altri tacquero. Solamente la fanciulla si raccolse fra le dita contratte la stoffa della camicetta, e fece qualche passo all’indietro, barcollando, con un visibile tremito. — Sì, questo è vero, — egli confessò un’altra volta. — Ma era necessario che io ve lo dicessi, perchè a dividerci non basterà nemmeno questa grande sciagura. Vegliate sopra di lei, fin quando io non torni e vi dica: — Ora vengo a riprenderla, poichè sono libero ed ho vinto! Ella s’aggrappò con le due mani al suo polso che le posava sopra una spalla, e contro vi poggiò la bocca, per nascondere insieme un singhiozzo ed un bacio. VII Egli uscì tranquillamente da quella casa, e nulla fece per sottrarsi alla vigilanza delle spie che seguivano i suoi passi. Cadeva una bella serata quasi glauca su la città rumorosa; le strade piene di movimento cominciavano ad imbiancarsi di chiarori elettrici. A piedi percorse la distanza che lo separava dalla sua casa, evitando le strade frequentate, facendo un più lungo giro, affinchè nessuno lo riconoscesse nella crepuscolare ombra dei vicoli. Camminava con gioia, velocemente, immergendosi nella sera come in un bagno voluttuoso, ed una ilarità quasi perversa gli accelerava i battiti del cuore. Si sentiva padrone della sua vittoria, misurava la vendetta con una precisa e fredda crudeltà. Ormai la bufera gli era passata sopra senza schiantarlo; anzi ne usciva più forte, acceso di tutti i suoi spiriti battaglieri, pieno fino alla gola d’una viva ebbrezza di combattimento. Aveva d’un tratto riafferrato il comando della sua schiera; gli ubbidivano ancora senza riflettere, con quella dedizione assoluta che inebbria i condottieri. L’avere ucciso, l’esserne accusato pubblicamente, non gli pareva cosa bastevole perchè la legge avesse forza contro di lui. Era così tirannicamente sicuro del suo diritto sovrano, che non avrebbe mai teso i polsi alle catene dei poteri sociali; non riconosceva nel mondo alcuna forza che bastasse a limitare in un modo qualsiasi la sua magnifica e terribile volontà. Ma, se mai un tal giorno venisse, Andrea Ferento rifiuterebbe di ubbidire. Non lo vedrebbero mai, seduto fra due sgherri, sul banco degli accusati; mai elargirebbe quest’ora di trionfo all’ambizione d’un Salvatore Donadei. Rifiuterebbe l’obbedienza come un ribelle, come un sollevatore di folle, come un re. Prima di poterlo ammanettare, bisognava combattere qualche giornata di guerra civile; — in ultimo, non lo avrebbero che morto. La legge che basta per dominare le piccole anarchie, non bastava per lui: era un capo, aveva la sua milizia, pronta fino all’eccidio, darebbe il segnale: si combatterebbe. Un odio furente lo accaniva contro tutti coloro che avevan osato trattarlo come un uomo. Nell’ardore della contesa, in lui si riaccendevano tutti gli istinti feroci ed imperiosi che facevano di questo apostolo d’idee un selvaggio dominatore di uomini. D’altronde, in quella sera, egli sentiva che la battaglia stava per esser vinta. I medici preposti alla necroscopìa eran tre uomini dei quali conosceva tutti gli errori professionali, tutte le ambizioni private, come un padrone conosce le pecche de’ suoi domestici; nè per coscienza propria nè per istigazione d’altri, mai avrebber osato accertare a suo danno la prova, ch’era d’altronde inaccertabile. Ognuno sentiva oscuramente che Andrea Ferento non verrebbe tradotto in Corte d’Assise, e quelli stessi che si cullavano in tale speranza, eran tuttavia trattenuti dallo smascherarsi per tema della sua vendetta. Lo sapevano potente, e sapevano che i potenti non sono mai soli. Eppure, quanto numero di acerbe invidie non sentiva egli strisciare dietro il suo passo tranquillo, pronte a sibilare, a mordere, quando appena lo vedessero inginocchiato! Invidie non solo politiche, ma professionali e private; subdoli rancori di uomini mediocri, ai quali era passato dinanzi, troppo fulgido, nel cammino della vita, e che ora speravano con silenziosa viltà di vederlo per sempre abbattuto nella polvere. Ben lo sapeva, ed era con un senso d’orgoglio intimo ch’egli sentiva battere contro la sua dura forza questo impossente furore. Forse nella sua Clinica stessa, nell’Ateneo medesimo dove insegnava, tutta una rivalità che non poteva sperare di sorpassarlo altrimenti, era in attesa del colpo mortale che lo ferisse in pieno cuore. Quanti Salvatore Donadei, grandi o piccoli, non vivevano intorno al suo cerchio di splendore, camuffati e silenziosi, fino al giorno in cui potessero togliersi via la maschera! Ma uno solo aveva osato per tutti. Aveva osato con un coraggio inconsulto e precipitoso, giocando a sua volta una posta ben grave, per un uomo com’era il Donadei, pieno di accortezza, di cautela e d’impostura. La passione lo aveva sopraffatto; si era sentito sicuro di poter guidare un assalto irresistibile, e senza timore alcuno aveva bruciato i ponti dietro di sè. Nel muovere questa guerra, egli contava senza dubbio su vaste complicità, su poderose alleanze; ma era ugualmente fuor di dubbio che l’estensore degli articoli firmati «Ergo» non aveva quasi nemmeno tenuto conto di quella prudenza elementare, che sempre ágita davanti agli occhi degli accusatori e dei polemisti gli articoli del Codice Penale intorno alla diffamazione. Gettando il dado, Salvatore Donadei dava il suo nemico per morto. In verità s’era troppo affidato alle testimonianze del medico Paolieri e di alcuni fra quelli che avevano veduto il cadavere del Fiesco. Era forse rimasto così stupefatto di questa possibilità inattesa, che l’aveva súbito accettata, non senza discuterla, ma parteggiando per essa, ben certo che un’accusa di tal genere, o vera nei fatti, o soltanto verisimile, dovesse riuscir bastevole a pugnalare in pieno petto un uomo come Andrea Ferento. Non aveva dunque troppo indugiato nell’esaminare se questi fosse colpevole davvero; gli bastava che a rigor di legge una simile colpevolezza potesse venirgli imputata; gli bastava di poter finalmente radunare contro lui tutta l’ira della sua parte, trascinarlo giù dall’altare, mettere alla gogna la sua storia d’amore. Quell’uomo era stato il fantasma nero della sua vita. Salvatore Donadei credeva di combattere per un’idea sua propria, mentre in verità non faceva che combattere contro le idee dell’altro; supponeva di avere un’ambizione sua propria, la quale non era nata invece che dal desiderio di misurarsi con la potenza dell’altro; e sopra tutto l’odiava, perchè il Ferento, invece di raccogliere la sua sfida, non si era mai curato d’altro che di squassarlo da sè come un piccolo avversario importuno. Con l’andar degli anni quest’odio aveva preso in lui così profonde radici, che avrebbe dato la sua fede, il suo giornale, il suo denaro, e perfino i suoi figli, per il piacere di calpestarlo senza remissione con la sua fredda ira, come si tenta spegnere coi piedi la fiamma di una lampada rovesciata. Giunta l’ora in cui tutto ciò gli parve possibile, questo uomo cauto e pieno d’insidie si lasciò quasi ubbriacare dalla sua crudele speranza. Dal giorno in cui Tancredo ed il Metello eran venuti a proporgli quel terribile mercato, egli non si era più concesso un attimo di pace. Aveva tramato, congiurato, subornati o fatti subornare testimoni, s’era accaparrato a forza di denaro una parte della stampa ed aveva messa in opera tutta la sua potenza d’uomo politico, di giornalista, di capo d’un numeroso partito, finchè suonata gli parve l’ora di dar fuoco alle polveri e scatenare nella piazza la congiura tessuta nell’ombra. E, se Andrea Ferento non fosse stato che un platonico banditore d’idee od un eroico cercatore di verità, esiliatosi fuor dal mondo, costoro, senza dubbio, per il lor numero e la potenza grande che ancora il pregiudizio esercita sopra la terra, costoro lo avrebber vinto con facilità. Ma in Andrea Ferento v’era un uomo altresì che amava la potenza per sè stessa, v’era il partigiano accanito che sapeva l’arte imperatoria del guidar le fazioni, e sapeva che al di sopra di tutte le forze radunate in mano dei poteri sociali, v’è sempre stata e sempre dominerà la violenza d’un uomo solo. Oh, quanto nel suo spirito beffardo egli derideva coloro che si aspettavano di veder lui, Andrea Ferento, semiconfesso e pavido sui banchi d’una Corte d’Assise! Credevano dunque che per tanti anni egli avesse investigata la materia invano? che per tanti anni avesse dalla sua cattedra bandita l’ultima parola delle scienze positive, per doversi ridurre, quando gli fosse mestieri sopprimere, ad iniettare nelle vene della sua vittima qualcosa che tre chimici dozzinali potessero poi raccogliere nei loro suggellati specilli? Ma no! ma no!... egli aveva disciplinato il suo delitto come si disciplina un esperimento scientifico, e la natura è ben più vasta che non suppongano gli sbadati farmacisti o gli avvelenatori da suburbio che solo confidano sopra il silenzio delle tombe. Non lui, che si chiamava Andrea Ferento, ch’era il più dotto e prodigioso fra gli scienziati d’Europa, non lui che aveva per giorni e settimane fatto progredire il suo delitto, a grado a grado, indisturbatamente, col pieno potere che gli veniva dalla sua coraggiosa libertà. Per un istante infatti egli aveva temuta, non la giustizia degli uomini, ma l’onnipotenza dei partiti che si collegavano contro lui, capaci senza dubbio di subornare un giudice, di dettare ai periti un responso dubbioso e per tal modo trascinarlo in Corte d’Assise, od anche mandarlo assolto per non provata reità. Era quello che tuttavia bastava per distruggere in un sol giorno la sua magnifica vita. Ma davanti al pericolo egli aveva ritrovato con una prontezza meravigliosa il suo posto di battaglia e la memoria strategica dell’uomo che in altri tempi aveva camminato alla conquista del potere. Ormai, se da una parte operavan sul giudice istigazioni potenti, egli ne faceva esercitare altre più incontrastabili; se poteva esservi nella designazione dei periti un intento recondito, egli era giunto a far cadere questa scelta su persone che avrebbero dovuto resistere a qualsiasi adescamento; se una parte della stampa lo aveva nei primi giorni assalito con furia, man mano egli era giunto a far piovere dall’alto certi minacciosi avvertimenti, che persuadevano i Direttori ad imbrigliare i più focosi retori; e frattanto egli allestiva con una pazienza, con una minuzia da certosino, la querela di diffamazione che avrebbe chiaramente dimostrato i pericoli del firmarsi «Ergo» alla dolce pecorella cristiana che si chiamava Salvatore Donadei. Egli sapeva bene che per le grandi cause occorrono grandi avvocati, e giornalmente passava un paio d’ore nello studio del senatore Ippolito Sandonato, l’oratore che piegava sotto il suo potere le Corti di Giustizia, soggiogava l’alte Assemblee con la speciosa eloquenza del suo discutere, il patrono che nonostante la tarda canizie rimaneva un uomo di toga intrepido e focoso come un esordiente. Incominciata la battaglia, non bisognava nè perdere nè vincere a metà; nella tensione di nervi che il combattimento gli dava, la storia verace del suo delitto aveva esulato lontano da lui, s’era quasi affondata senza memoria nella buia tempesta del suo spirito. Ora egli camminava leggermente, esagitando fra sè stesso le più remote conseguenze di tutto quello che stava per accadere, ed anzi era particolarmente gaio, per aver avuta in quel giorno un’idea felice, che Ippolito Sandonato si accingeva per l’appunto a mettere in opera. «Quel buon Tancredo Salvi... che aveva senza dubbio uno sviscerato amore per la Giustizia, e doveva certo essere incorruttibile come un santo monaco francescano...» Camminava tra questi pensieri, e frattanto era giunto vicino alla sua casa, quando, all’uscir dal vicolo nella diritta contrada, un clamore confuso di voci, un accorrere di persone, subitamente lo fermarono. Pochi passi lontano era la sua casa, l’ultima su l’angolo; più oltre, la piazza con il porticato, che nereggiava di gente ferma, dalla quale provenivano i clamori. Egli non poteva ben discernere nè udire, ma erano i giornalai che gridavano a squarciagola una notizia inattesa e vendevano a centinaia le copie de’ giornali, che la folla spiegava concitatamente. Quasi nello stesso tempo, alle sue spalle, si levò un simile clamore, e, vóltosi, vide accorrere cinque o sei strilloni, rossi, rauchi, affannati, sotto il peso dei fasci che portavano, inseguiti da una folla che li spogliava man mano del supplemento stampato a grandi lettere. Gli passaron davanti come un’ondata, ed allora udì. Egli divenne orribilmente pallido, non volle credere a sè stesso, volse in giro gli occhi ed aguzzò l’udito come per riafferrar quel grido. — «L’assassinio di Salvatore Donadei!... Supplemento all’_Epoca_!... Supplemento al _Nuovo Giornale_!... L’assassinio di Salvatore Donadei!...» Non vide, non udì più nulla; un cerchio rosso, che si partiva dalle sue stesse pupille, occupò la vuota órbita che gli roteava tutto all’intorno... E sentì che il cuore gli batteva nel petto fino allo schianto, ma non seppe se di gioia, d’ansia o di terrore, tanto gli pareva che nel vortice improvviso del mondo si disperdesse come polvere il senso di tutte le cose. Poi si calmò. D’un tratto gli parve che la gente lo guardasse, anzi guardasse lui solo, quasi già sospettandolo di questo nuovo delitto. La morte gli si allacciava intorno come una compagna necessaria; ebbe istintivamente voglia di volgersi, di fuggire... poi di cacciarsi avanti, frammezzo a quella moltitudine e di gridare con tutto il suo fiato: — Non io! non io!... Sopravvenivano altri giornalai; la strada fino al termine biancheggiava di pagine spiegate. Macchinalmente anch’egli si cercò nelle tasche una moneta, comprò il giornale, poi, quasi correndo, percorse la distanza che lo separava dal suo portone, entrò difilato in mezzo alla gente che l’ingombrava: si trovò nella corte. Un lampione ad acetilene rischiarava il porticato facendo splendere la porta a vetri che chiudeva l’accesso dello scalone. Alcuni gli si fecero intorno; egli chiese distrattamente: — Che è stato? che è stato? — e spiegò il giornale. Allora, súbito, dette un urlo. Aveva letto in capo della colonna: — «L’assassino è l’assistente di Andrea Ferento: Egidio Rosales.» — Ma no! ma no! ma no!... — si mise a dir forte, mentre con gli occhi leggeva, e mentre intorno a lui si andava stringendo un cerchio di persone silenziose. Ogni tanto egli le fissava con occhi esterrefatti, come per interrogarle; poi di nuovo a leggere con avidità, con terrore. La notizia era questa: poche ore innanzi, mentre Salvatore Donadei scendeva dalla Redazione della _Crociata_ insieme col suo capo redattore, un giovine lo aveva subitamente affrontato sul marciapiede, scaricandogli addosso tre colpi di rivoltella a bruciapelo e gridandogli ad ogni colpo: — Basta! basta! basta! Ferito due volte nel petto, una volta nella fronte, il Donadei stramazzò senza rispondere, morto. L’aggressore gli gettò sopra l’arma fumante, si volse alla strada e gridò: — Voleva uccidere un santo! Io l’ho vendicato! E scomparve. Tutto questo in un baleno. Dieci minuti più tardi, presentatosi al Commissario di Polizia, ripeteva le stesse parole con una calma ed una fissità da ipnotizzato, poi rimaneva immobile davanti alla scrivania del Commissario, stringendosi con una mano il polso tremante, che aveva ucciso. — Il vostro nome? — Egidio Rosales. Ho ventisei anni, mio padre è morto; mia madre anche. Sono il primo assistente di Andrea Ferento: a quest’uomo debbo tutto, e non feci che assolvere un debito liberandolo dal suo nemico. — Conoscevate l’onorevole Donadei? — No. — Sapete che è morto? — Lo so, e volevo che morisse. Non un muscolo, non una linea trasaliva nella sua delicata faccia pallida; solamente le pupille, che parevano aver perduta ogni virtù di espressione, bruciavan d’un fuoco fermo e s’affondavano sempre più nelle profonde órbite. Allora il Ferento, con impeto, ruppe il cerchio delle persone ch’erano intorno, uscì fuori, balzò in una vettura, corse al Commissariato di Polizia. — Voglio vederlo, súbito, súbito... vederlo! Il Commissario lo fece chiamare nel suo gabinetto. Il Rosales entrò, in mezzo a due questurini, pallido, con il bavero alzato. Nella sua chiara fronte, ne’ suoi femminili occhi splendeva una estatica serenità. Con un atto paterno e disperato il Ferento gli si buttò incontro, quasi volesse tentare di strapparlo a’ suoi carcerieri, a quelle due guardie impassibili, ferme, agghindate nell’uniforme dalle bottoniere luccicanti. — Rosales! figliuolo mio! che avete fatto? Che avete fatto, per carità?!... Ma questi non rispose; un tremito convulso gli agitò le spalle, gli fece brillare intorno al mento la tenue barba bionda; poi si lasciò cadere a piè del suo maestro, e singhiozzando avvinghiò le braccia intorno alle sue ginocchia. — Perdono! perdono... — balbettava; — ma non era più possibile che Lei... Andrea Ferento lo sollevò da terra quasi con violenza, e come padre e figlio, come fratello e fratello, que’ due uomini, fra i quali stava la morte, insieme piansero abbracciati. VIII L’istruttoria si trascinò ancora per qualche tempo, finchè i periti risposero con un giudizio fermamente negativo. Allora il giudice Niscemi chiuse l’istruttoria e sottopose gli atti alla Camera di Consiglio, la quale, frustrando la denunzia, addusse in favore del Ferento l’inesistenza del reato. Il cadavere dissepolto ritornò a dormire l’interrotto sonno in quel piccolo cimitero di campagna, ove ormai gli sfioriti mazzi de’ papaveri si piegavano con una specie d’ubbriachezza, dondolando su gli esili steli, mentre qualche foglia gialla si metteva a correre di tomba in tomba nelle folate crepuscolari. Così era passata la bufera sul grande omicida, su l’anima sua di tiranno e su l’insorgere tempestoso delle fazioni. Era passata e già si disperdeva, come tutto si disperde nel mondo, in una nube di polvere, in un’eco lontana e fievole che man mano la distanza confonde. Nell’ora più tragica del combattimento un fanatico s’era gettato a fronte bassa nella mischia per salvare il suo tragico maestro, ed anche se un tal eroismo per avventura fosse stato inutile, allora come sempre il mondo non poteva impedirsi d’ammirare queste barbare magnificenze. Come il Ferento aveva creduto e voluto, la battaglia era vinta; vinta senza riserve, ampiamente, crudelmente. Ora, poichè la strada era sgombra, poteva camminar oltre, verso il domani vertiginoso. Si era fatto amare abbastanza per trovare intorno a sè una falange di partigiani, serrata e forte, che ovunque lo avrebbe difeso a spada tratta, vita per vita; ormai non gli restava che godere il premio della sua temeraria impunità. Colpita nel cuore, la fazione avversaria s’era lasciata debellare facilmente: egli poteva ora scegliere vendette come rose profumate in un largo paniere. La folla, quella medesima folla ch’era insorta contro il suo nome, ora l’applaudiva; persuasa o meno, egli era stato il più forte; e ciò bastava perchè, secondo la logica della vita, il più forte avesse anche ragione. Era stata immolata una vittima per placare il dio della civile discordia; dopo molto contorcersi, la città aveva bevuta per gli interstizi del suo lastricato una fresca vena di sangue; l’epilogo era nella morte: bastava. Domani, con altre bandiere, si ricomincerebbe a guerreggiare; ma la battaglia di ieri diventava una fredda pagina di storia morta, un nero turbine che si allontanava nella immensa caligine delle cose finite. Su l’avvenire degli uomini urgeva e pulsava il domani, che appartiene sempre al vincitore ed è implacabilmente la disperazione del vinto. Questo era vero nella breve battaglia fra due fuggenti uomini, com’è vero nella storia dei popoli, nelle leggi fondamentali della vita, in tutte le distruzioni, in tutte le creazioni della possibilità umana. Egli era stato adunque il padrone del suo diritto imperatorio: aveva ucciso, aveva costretto altri ad uccidere, e la folla soggiogata l’applaudiva. Sopra il suo delitto non aveva trovato altro giudice che sè. Questo anarchico e questo santo alzava la sua rilucente potestà sopra i divieti che sono la catena dei mediocri: s’era involto, calmo ed inesorabile, in quel magnifico diritto che gli uomini titubanti avevano decretato agli Dei. Ma non soltanto sopra la scena mutevole della commedia umana era passata ormai come polvere l’improvvisa bufera; non soltanto fuori da lui, ma nel suo spirito stesso, era passata e lontanava. Non più l’irosa voglia del combattere, non più la gioia sopraffacente che si origina dalla coscienza del proprio potere; non più nemici, non più giornate sospese nel dubbio del domani, non più l’accanimento febbrile che gli occupava la veglia ed il sonno; ma invece una stanchezza quasi vuota, una specie d’annientamento, un gorgo aperto nell’essere, un’ala che ha volato troppo alto, ed ora cade, cade... Non era neanche giunto alla pienezza della maturità; aveva trentotto anni, e davanti a sè la vita, come una limpida libera strada. Era sicuro d’aver battuto il buon cammino, d’aver distinto il bene dal male con alti sensi, d’aver professata la propria coscienza con assoluta sincerità. Se aveva peccato, era d’orgoglio, nel non credere agli altri, nel volere col suo proprio dio; un dio prigioniero nella materia, che nasceva e moriva con l’uomo. Persuaso di poter imprimere un segno anche minimo nella storia della conoscenza umana, aveva intesa la vita come un sacerdozio, e, sebbene ciò fosse dissimile dalla sua natura, la spendeva con tenacità in una intensa e buona fatica. Aveva eretta la Scienza a sola divinità della vita: era persuaso che il _Dio lontano_ fosse, fino ad un certo punto, il potere dell’uomo. Per ciò bisognava, ed anzi era necessario, debellare con pugno fermo l’ignoranza ed i pregiudizi millenari delle stirpi, vuotare dagl’idoli marci le cloache del mondo. La sua concezione della vita escludeva nel modo più scientifico tutto quanto è miracolo, tutto quanto è rivelazione; escludeva il Dio perpetuo ed immemorabile, che può non nascere nè morir con l’uomo. Un giorno, in mezzo a tanto volo, gli era accaduto quello che accade all’essere più comune: — s’era innamorato, innamorato fino ad uccidere, — e non più d’un pensiero astratto, ma d’una creatura fugace, lieve, bella, transitoria, d’una forma femminile che s’impadroniva del suo mondo, che pareva radunare in sè le ragioni estreme della vita. Il primo giorno che amò, la parola «uomo» gli parve d’improvviso assumere un significato diverso; non peggiore, non migliore: diverso. Gli parve che i confini della vita divenissero più angusti, ma più definitivi, e si accorse di aver esclusi da ogni ammissibilità molti principî dei quali non aveva dimostrata in alcun modo la inconsistenza. L’immenso edificio spirituale, costrutto sul fragile telaio delle sue verità positive, cigolava minacciando rovina per il semplice fatto d’una uccisione e d’un amore. L’ultimo volo del suo pensiero temerario si abbatteva esausto contro una parete insuperabile. Un dubbio interamente soggettivo entrava così nel suo mondo spirituale, poichè infatti, nell’ebbrezza della passione, il piccolo fenomeno della sua propria vita ed il fenomeno parimenti fugace della creatura che amava gli parvero d’un tratto essere divenuti la cosa più vasta, più significante, nell’universo mondo. Non era più così necessario che la materia opaca rivelasse all’indagatore il suo segreto essenziale, poichè la materia possedeva in sè un mezzo per divinizzarsi, per soverchiare con una specie di lirismo i suoi stessi confini, risvegliando nell’uomo che passa tra i fugaci miracoli della terra un senso ulteriore del mondo, il senso della universale divinità, «ciò che veramente è l’anima delle cose, il Dio non creato dagli uomini...» Poteva darsi perciò che il suo delitto medesimo, il suo cánone anarchico, sostenuto con tanta dialettica sottile, non fosse in fondo che un atto barbaro dell’amore, non fosse in lui che un ritorno immemorabile dell’uomo alle sue rapine primitive. Era una mente serena: doveva pur contemplare, senza impaurirsene, anche questa possibilità. E lo fece. Cominciò a ricercare nelle origini, laggiù, dov’era nato l’amore, laggiù, dove per la prima volta, con una tristezza paurosa e crudele, aveva in sogno posseduta la moglie del suo fratello infermo, accorgendosi nel medesimo tempo ch’ella era già ne’ suoi sensi, quando ancora con l’animo ne rifuggiva, e l’amicizia era già morta, e la donna era già sua, e la vita subitamente lo assaliva da tutte le parti con un furore incontrastábile... Sì, v’erano parole grandi e sante che il respiro d’una bocca poteva disperdere. Ciò che aveva una meta erano i sensi; erano i sensi cupi, necessari, violenti, che inveivano in lui quasi con un urlo, ed era, oltre i sensi, qualcosa d’indomito che si levava dalle oscure profondità del suo essere per avventarlo con ira, ma pieno insieme d’una convulsa felicità, verso la dedizione di sè stesso nell’amore per un’altra creatura, verso la continuazione di sè stesso nelle vene d’un’altra creatura, nella rigogliosa giovinezza d’un figlio che la perpetui verso il domani, — ciò che rappresenta nel mondo la vera ed unica immortalità dell’uomo. Ecco: ed egli dubitò di aver ucciso per amare la sua donna, per far nascere il suo figlio. Tutto questo che altri compendiano con ubbidienza e con pace intorno ad un intimo focolare, a lui veniva traverso il dramma, dopo ch’era salito in cima alla montagna del mondo, e aveva gridato nel vuoto la sua parola magnifica: — «No!» IX Frattanto, nella casa di Giorgio Fiesco, Novella aveva messo al mondo il figlio di Andrea. Era nato serenamente, verso l’ora dello stellare, in una calma e religiosa camera, dov’entravano a larghe ondate i profumi sfiorenti e grevi del voluttuoso autunno. Ella fu addormentata, perchè non soffrisse, e lo diede al mondo con pace, come se lo avesse portato, non già nel grembo doloroso, ma su le braccia forti. Si svegliò e sorrise, cercando con gli occhi l’amante che dall’ombra la guardava. Piano sollevò dal lenzuolo il braccio seminudo, per chiamarlo, poi volse il capo sovra una guancia e richiuse gli occhi. Davanti a lei, ne’ quadrati azzurri delle due finestre, il cielo notturno accendeva migliaia di stelle; non veniva dal quartiere sottostante alcun rumore pur fievole. Questa creatura battezzata con tanta morte aveva cominciato a respirare nel mondo in un’ora di pace. L’aveva raccolta su le fedeli sue braccia la bianca madre di Novella, che non si dimenticava d’aver cullato i suoi tre figli, ad uno ad uno, e che sentiva ella pure qualcosa della sua morta gioventù rivivere in quel vagito indistinto, ch’era già una voce umana. Come poteva ella, ch’era vecchia e stanca, non sorridere a questo verde fiore? Sì, le ombre, le ombre!... Ma per lei, ch’era un’arida esausta madre, la sola cosa che fosse ancor bella nel mondo era il palpito nuovo di quella vena che proveniva da lei. Sebbene fosse stata una casta consorte, s’accorgeva che il peccato della donna contro la fede nuziale si riduce ad essere una ben ridevole cosa davanti alla santità della creatura che nasce; onde le sue braccia senili palpitavan di gioia recando verso la cuna quell’ineffabile peso. La sua figlia peccatrice aveva portato nel grembo un cuore nuovo, e per lei questo l’assolveva da ogni peccato, versava sopra la sua lussuria d’amante la sacra e dolorosa purezza della maternità. Anch’ella inconsciamente scordava l’ombra del morto, per difendere, per amare quelli che facevano continuare la implacabile vita. E Maria Dora, quella medesima biondinetta che aveva guardato in silenzio il feretro risalire dalla profonda fossa, or si chinava sorridente, con una curiosità quasi materna, su la piccola cuna gonfia di pizzi e di cuscini soffici, ove una specie di gomitolo vivo tentava d’aprire le fessure degli occhi, le labbruzze umide, per guardare, per respirare nel mondo. Lo scemo era nella stanza vicina, al buio; stava presso la finestra in attesa di veder piovere le stelle filanti e sghignazzava, con la sua risata stridula, quasi beffarda, ogniqualvolta gli riuscisse d’acchiapparne una. In quel mentre poetava come al solito. «Le stelle filanti filanti son fili di paglia che bruciano. Per prenderle mi metto i guanti... sicuro... ne ho prese già tre!» Il Ferento rimaneva muto ed assorto nella camera di Novella. Guardava il letto ricomposto, le sembianze di lei riassopita, pallida in volto, con qualche ciocca di capelli rappresa intorno alla fronte. Aveva un braccio nudo fuori dal lenzuolo, ed al polso un braccialetto, che nonostante il lutto, ella non lasciava mai. Quel cerchio d’oro luccicava nitidamente in mezzo alla penombra, quasi fosse il centro luminoso della camera e d’una spirale di sciarpe nere che s’avvolgessero intorno alla donna supina. Il suo braccio prendeva un color dorato; la mano era tranquilla, singolarmente pura, quasi diafana. Il respiro dell’addormentata sollevava leggermente il lenzuolo; un bel copripiedi di pizzo, a punto d’Irlanda, con un nastro di raso azzurro, largo un palmo, ch’entrava ed usciva dai fori della merlettatura, facendo agli angoli quattro vaste gale, confondeva la lunghezza del suo corpo in un leggero sollevamento. I suoi capelli dormivano accanto a lei, raccolti a fascio dietro la nuca scintillante; le sue narici, volte verso il lume, parevan tinte di roseo, mentre la bocca era del tutto scolorata. Una calma lampada, nascosta sotto il paralume, fasciata con un velo, addormentava la stanza nel suo morbido chiarore; di lontano batteva una pendola; sul tavolino da notte c’erano tre rose, in un bicchiere. Come l’amava! come l’amava!... che struggimento, che intollerabile tristezza, che voglia malata di piangere... che affettuoso dolore! Adesso avevan un figlio, eran legati, avvinti l’uno all’altra per intera vita... Eppure egli non sentiva di avere un figlio, non lo conosceva, sebbene fosse già nato e l’avesse appena intravveduto con i suoi occhi distratti. Sentiva solamente una cosa: l’amore per lei, l’amore, il desiderio, la paura di lei... Ma anche questo in un modo già diverso, già nuovo. Un pensiero l’occupò improvvisamente: «Rimarrà bella?» E s’accorse che la sua bellezza gli era necessaria. Poi cominciò a guardare indietro, verso tutto quello che aveva compiuto per giungere fino a quell’ora, e ne provò un senso quasi di vertigine, come se avesse guardato smarritamente nell’immenso gorgo del proprio amore. Di nuovo il senso quasi erotico della loro complicità gli venne al sommo del cuore. La rivide in lontane ore notturne, disperata e sorridente nella gioia che mai non la saziava; ricordò il profumo della sua gola turgida, che ora da molte settimane non baciava più. Si udiva dall’altre stanze un’eco di rumori confusi; ma in quella camera di natività, immersa nella penombra vaporosa, non si udiva che il rumore della notte, simile a quello che fa, nell’aprirsi, un grande ventaglio di piume. Li avevano lasciati soli, mentre di là v’eran il medico, la levatrice, le domestiche, l’intera famiglia radunata intorno alla culla, e già tutti eran curvi su quella debole incominciante vita, come se il nascere fosse ancora un miracolo che stupefacesse i vivi, e come se davanti al vagito d’una creatura nascente fosser cosa di ben lieve importanza tutte l’altre voci che provengono dal confuso agitarsi del mondo. Ella dormiva in pace, stanca d’aver compiuta la sua fatica materna, forse ondeggiante nel sonno in una sensazione d’allegrezza e di lievità. Su la bocca un po’ tumida, leggermente contratta, le alitava un sorriso che pareva somigliante allo stupore d’una ubbriachezza; egli, che la guardava con l’occhio geloso e mai casto d’un amante, provava un senso complesso d’ostilità e di compassione contro la donna che aveva dovuto soggiacere così apertamente alle tiranniche leggi della natura, e che, invece di esaudir l’amore come un divino sterile delirio, aveva dovuto avvilire il suo grembo con il peso bestiale della fecondità. Veduto così, l’amore non era più che un prestigioso inganno, traverso cui l’uomo s’induceva necessariamente a creare. Una volta di più _il divino esulava dalla materia_; l’uomo non era che il tramite aleatorio traverso il quale passa la corrente inestinguibile della vita; il figlio, appena concepito, impoveriva già la sua madre; nascendo, incominciava ad ucciderla. Davanti a quel primo vagito, a quel primo brancolare nella luce d’una creatura da poco respirante, essi, che l’avevano generata, esaurivano sostanzialmente la lor ragione d’essersi amati, finivano di ubbidire alla volontà naturale della materia, trasmettevan nella forza d’un cuore più celere il già morente fuoco delle lor vene, quasichè la lor concorde ragione di vivere fosse trapassata in quel più giovine spirito, e la vita camminasse oltre, immemore, sopra la loro subitanea vecchiezza. Nel momento ch’ebbe un figlio, sentì la catena che lo avvinceva inesorabilmente alla sua propria fine; sentì l’origine di quel buio dolore che rivolge l’uomo decrepito verso la gioventù sempre fuggente, poich’egli non può ringiovanire se non avventando la sua furente voglia di vivere nel cuore più giovine d’un figlio, come d’un altro sè stesso, che trascinerà la sua ombra verso il perpetuo domani. L’onda, l’onda, l’onda... e più lontano ancora l’onda, e fin oltre i limiti di tutte le lontananze, ancora e per sempre, inutilmente, l’onda... Egli chiuse gli occhi, sopraffatto, e gli parve di sentirsi uccidere con una lentezza crudele dalla stessa chiaroveggenza del suo pensiero. Se tale infatti è il mondo, qual’esso appare all’uomo che avvedutamente lo guardi, come potremmo ancora senza tedio accingerci a pensare, a volere, ad amare, ad irrompere insomma con tutta quella ingordigia ch’è nostra nei dominii della vita? Se una tale inutilità sovrasta ogni meta, perchè mai l’uomo si affaticherebbe ad essere qualcosa più che un rassegnato gauditore di gioie distruttibili? O forse la materia è così prodigiosa, ch’essa ci salva persino dal nostro medesimo pensiero, e quanto più la nostra mente s’accanisce a distruggere il senso del vivere, tanto più l’istinto illogico ed imperioso della nostra vitalità ci sospinge ad amare con ebbrezza quello che pur vediamo essere un nulla?... Forse. Perchè l’uomo non ha nella creazione che un solo nemico: sè stesso. Quando l’addormenta, è felice; quando lo fa pensare, disperato. Nulla vi è che resista, che _sia qualcosa_, davanti al nostro pensiero: nè la bellezza, nè il piacere, nè la verità, nè l’amore, nè il pensiero medesimo... nulla, nulla! E tuttavia non siamo che gli innamorati inguaribili dell’una o dell’altra di queste cose fallaci, non possiamo far altro nel mondo che seguitare a credere l’assurdo, a fidare nell’inganno, a volere l’inutilità... «Sorella, non eran fili di paglia, e nemmeno d’argento; non erano che un po’ di vento rosso... Ne ho prese più che cento; m’hanno bruciato i guanti. Le diamo al bambino piccino le stelle filanti filanti?...» Erano soli, nella camera silenziosa; il mese d’autunno, con folate calde, gonfiava le tende senza muoverle, senza far nascere il più piccolo rumore. Nel guardare la notte, pareva che un velo di mussola nera continuamente s’avvolgesse intorno ad un cerchio d’azzurrità; entro infuriavano stelle, come lucciole prigioniere in una finissima rete. Allora egli ricominciò a sognare che l’amava, che l’amava con voluttà e con oblìo, come se gli dilagasse per le vene il fumo d’un oppio ubbriacante; perchè al disopra d’ogni titanica impotenza del pensiero cantava tuttavia l’amore, questo volo dell’essere ch’era il più lontano dalla morte, ch’era stato e sarebbe in eterno la più bella favola del mondo... X Ma egli aveva ucciso. Allo stesso modo che il suo pensiero gli impediva di credere nel divino, di costituire l’alta sua libertà sotto l’arbitrio dei pavidi legislatori, così la sua logica imperatoria gli impediva di ritenere che ciò fosse un delitto. L’aver soppresso non era, nella sua coscienza incolpevole, che un atto barbaro ma necessario di dominazione. Certo non lo mordeva il rimorso che tormenta il mediocre; anzi la sua volontà micidiale continuava senza infrangersi dopo la consumazione del delitto. Se talvolta, di sorpresa, un dubbio lo assaliva, gli era facile impadronirsi velocemente di sè stesso, riflettere, annientare il suo dubbio. Le piccole paure dell’uomo non erano fatte per lui. Ma quello che invece lo torturava era la menzogna, ed era il silenzio, dai quali non poteva disciogliere il suo virile coraggio. Preso d’assalto, era stata buona guerra il mentire, poichè fra uomo ed uomini tutto è lecito quel che fa essere il più forte. Ma ora, lontanata la guerra, egli sentiva una ripugnanza invincibile della sua frode; perchè, se l’uomo può mentire in un giorno di pericolo, non deve, non può, tutta la sua vita vivere nella menzogna. Sì, da un lato era in pace con sè stesso; almeno gli pareva. Ma dall’altro egli si sentiva divenire crescentemente il nemico di sè stesso, e talvolta sentiva di trascinare in sè una fatica morale man mano più insopportabile. Passavano i mesi, gli avvenimenti mutavano; l’epilogo d’una storia di morte s’era chiuso intorno ad una cuna. Per riposare la sua fatica e per lasciare che un poco di silenzio addormentasse quei giorni di furore, aveva trascorse parecchie settimane in una recessa villeggiatura, con Novella, e con la famiglia di Novella che vigilava il loro piccolo bimbo. Ormai nessuno di costoro, forse neanche Maria Dora serbava in apparenza il più piccolo dubbio su la possibilità che il giudice avesse prosciolto un colpevole, tanto è profonda nel cuore dei semplici la deferenza verso la cosa giudicata. Inoltre, con la nascita di quel bimbo, egli s’era impadronito quasi d’un diritto, ingiusto ma grande, al loro amore: fra poco sarebbe il tempo delle nuove nozze; il lontano morto non aveva lasciato superstiti, e la famiglia, ch’è un organismo incoscientemente avido di dominio, si rinserrava intorno a quell’intruso che la faceva continuare. Non era crudeltà nè indifferenza; questo accade ogni giorno e dappertutto, poichè il diritto dei morti non può prolungarsi oltre un certo limite nell’osservanza dei vivi. Già tardo era l’autunno quando Andrea fece ritorno alla sua Clinica ed essi alla lor casa di campagna. Ma in capo di qualche tempo Novella, che non sapeva rimanergli lontana, lasciato il bimbo alle cure di sua madre, tornò ad abitare per l’ultima volta nella casa di Giorgio Fiesco. Dalla maternità era uscita quasi più giovine, più vogliosa di vivere, nè ormai cercava di opporre alcun ritegno alla pienezza della sua felicità. Verso la primavera si sarebbero sposati, ed ora veramente, senza ombra di rimorso, vedeva la vita splendere davanti a sè come una striscia di sole. Egli a sua volta provava un desiderio insaziabile di starle più strettamente vicino; di lei si stordiva, di lei si colmava il pensiero e le vene, sino ad averne bisogno come d’un farmaco soave nel quale s’addormentasse l’indefinibile suo tormento. Lontano da lei, la vita mutava colore. Ella era tornata gioconda come una fanciulla ed il suo spirito si era liberato dal dramma con una facilità sorprendente. Non si ricordava quasi più d’essere madre; in lei traboccava il riso dell’amante felice; il suo corpo, le sue parole, i suoi gesti erano più voluttuosi che mai. Gli abiti neri che ancora la vestivano eran quasi un velo necessario alla soverchia sua impurità; sembrava che li portasse con una religione profana e tentante, come una suora che visibilmente abbia voglia d’amore sotto il cilicio della sua veste claustrale. Era la sua prima, la sua vera giovinezza, quella che non aveva potuto fiorire negli anni del matrimonio doloroso. Più tardi, coi primi segni della vecchiezza, ella diverrebbe veramente una madre; ma ora, finchè un tale rigoglio di sensualità le sbocciava per la bella persona, finchè sentiva così forte, fra vena e vena, lo spasimo della sua giovinezza, finchè, dietro il velo delle sue ciglia quasi d’oro, il mondo ancora le mandava luce come una prateria piena di sole... benchè vedova, benchè madre, benchè ravvolta in un dramma oscuro e temibile, non sapeva che tendere le sue braccia piene di colpa verso l’inebbriata esultanza dell’amore.. Egli era qualche volta buio; ma una sua carezza bastava per rasserenarlo. Ed in tal modo, la coscienza del potere che aveva sopra di lui le impediva perfino di vigilare con attenzione la crisi che andava logorando il cuore dell’amante. La sua propria gioia era così obliosa che nemmeno le concedeva di accorgersi del dolore; poichè gli uomini riescono difficilmente ad essere così attenti o così distratti come può essere una donna. I giorni passavano, ad uno ad uno, come granelli di una lenta collana; quella casa di Giorgio Fiesco era divenuta troppo vasta per lei sola e, nell’abitarvi, ella provava un non so quale disagio, anzi una intollerabile malinconìa. Vi rimaneva solo in quelle ore che Andrea seguitava macchinalmente a dividere fra le cure della Clinica e dell’Università. In quella casa egli non metteva mai piede; ambedue, per un tacito consenso, usavano questo rispetto verso il morto. Ma non appena s’avvicinasse l’ora verso la quale Andrea soleva rincasare, a mezzodì e nel pomeriggio, ecco, ella si calava su la faccia sorridente il velo di crespo e con un senso delizioso di peccato, cercando in mille guise di sottrarsi all’anonima indiscrezione della strada, rapidamente si faceva condurre alla sua casa. Per lo più giungeva innanzi ch’egli tornasse: l’aspettava con il cuor trepidante, quasi non lo vedesse da mill’anni, e vigilava ogni rumore per sorprendere quello del suo passo noto. Alle volte gl’impediva di uscire, o lo faceva tardare a bella posta, godendo con una specie di crudeltà infantile quei pochi momenti rubati a’ suoi severi offici. Da quando ella era con lui, così intima nella sua vita, gli aveva insegnato ad amare i suoi piccoli capricci femminili, ai quali egli s’arrendeva sorridendo. La sera pranzavano insieme, ad una tavola imbandita con fiori, sopra una tovaglia leggiadra, con cibi delicati, ch’ella si occupava di scegliere. Nessuno svago avrebbe superato per loro la dolcezza di quel vivere intimo, e la sua maschia ruvidità si lasciava ravvolgere con inerzia da quella soave atmosfera femminile. Ora l’appartamento era pieno di cose ch’ella vi portava: specchi, abiti, biancherie, fiori a profusione, oggetti graziosi e inutili, ch’ella raccoglieva intorno a sè come un adornamento inseparabile. Tutte queste cose infatti cominciavano con divenire anche a lui quasi necessarie, cominciavano con occupare un posto notevole nella sua vita severa. Ogni notte stavano insieme fin tardi, alle volte fino al mattino; ed egli amava di ritrovare le sue vestaglie appese nello spogliatoio, le sue pianelle su lo scendiletto; amava di veder luccicare sui pavimenti qualche forcella caduta e di trovare sui lavabi di marmo, su le specchiere, su le pettiniere, tanti vasetti e bossoletti e ferri e lime e piumini per la cipra e pettini e profumerie: tutta insomma quella minuscola confusione luccicante che serve per l’ornamento della bellezza femminile. A poco a poco egli s’accorgeva d’aver preso tanto amore a queste inezie, che il privarsene ormai gli sarebbe stato veramente impossibile; senza di lei, senza la profusione per ogni stanza di cose che le appartenessero, gli sarebbe divenuta odiosa e tetra la casa dove abitava da tanti anni; senza quel profumo di lei che ondeggiava nell’aria, che s’attorcigliava come una sciarpa intorno ad ogni cosa, gli sarebbe sembrato che al suo respiro mancasse la parte più benefica e più sostanziale. Aveva presa l’abitudine di trovarla dietro l’uscio entrando, e di sentirsi all’improvviso cingere dalle sue braccia; aveva imparato a conoscere il rumore ch’ella faceva, camminando, con la sua liscia gonnella nera, co’ suoi tacchi sottili che battevano sui pavimenti lucidi; quel rumore, egli lo ascoltava talvolta anche quando ella non v’era, e si sarebbe sentito infelice come il più misero uomo se gli avessero detto per avventura che non l’udrebbe mai più. Non era più soltanto amore, ma un affanno crescente, un bisogno inguaribile della sua presenza, una specie di malattia sottile, che gli entrava nel sangue, s’immischiava nel dolore, nel piacere delle sue vene. Talvolta uscivano insieme, la sera, nascosti nell’automobile chiusa, e correvano per lunghi tratti nel silenzio della campagna circostante. Faceva un inverno dolce, con qualche notte stellata; l’ombre della strada, assalire dal fascio dei riflettori, si rompevano come impalcature di tenebra che rovinassero con uno schianto. Il rumore del congegno parlava come una voce umana. Pigra, ella si coricava nelle sue braccia, lasciandosi urtare da tutte le scosse, con una inerzia che accresceva il suo peso caldo e profumato. Era senza cappello, spettinata; ogni tanto sollevava la faccia per farsi baciare su la bocca. Ella, nell’ombra, non vedeva i suoi occhi accesi e fissi, non poteva nemmeno sospettare quanta furia di pensiero si agitasse dietro la sua fronte pallida. La strada camminava rapidamente, come un fiume in piena fra la tenebra delle due rive. Al ritorno, la città riappariva, dapprima obliqua, sollevata su la pianura circostante; poi man mano si delineava più ferma sotto una cupola di fumo rossastro, e cominciava lontanamente a tremolar di lumi, come un accampamento immenso, dove le sentinelle camminassero, avanti, indietro, in ogni verso, con lanterne cieche. Irrompevan sui bianchi selciati con un fragore di velocità ripercosso dai muri delle case: ella frettolosamente si rimetteva il cappello, avvolgendosi nel velo di crespo. Così vissero alcuni mesi. Già stava per sopraggiungere la primavera anniversaria; le brine del mattino si tingevano di rosei colori. Un giorno egli pensò: — «Sono stanco.» Di cosa, non sapeva. — Era stanco. Gli era passata su l’anima una immensa e logorante fatica. Si accorse di un mutamento essenziale che gli aveva compenetrato e scompigliato lo spirito, senza ch’egli nemmeno se ne fosse avveduto. Era stanco, in un modo profondo, e forse dell’intera sua vita; stanco della strada per la quale aveva camminato fino allora, — e, non sapeva il perchè, ma stanco insieme del suo proprio cervello. Da lungo tempo non era entrato più nel suo laboratorio; anzi; per non dover rispondere ad interrogazioni, aveva licenziato da sè, occupandolo nella farmacia della Clinica, il giovane batteriologo che da parecchi anni lo assisteva in ogni esperienza. Nel pensare alle sue ricerche interrotte provava un senso di tedio: nè gli esperimenti nè i libri di scienza lo interessavano più. D’un tratto, era caduta giù da’ suoi occhi una specie di maschera spirituale; gli pareva di riconoscere in sè altr’uomo; la stanchezza totale del suo spirito gli impediva di giudicarsi. Ma, senza dubbio, anche l’amore indefesso che aveva portato alla guarigione, alla salvezza dell’uomo, era in lui diminuito singolarmente: la missione d’una volta ora gli appariva tutt’al più come un mestiere necessario e vile. Continuava macchinalmente a guidare l’Istituto Clinico, ad essere il capitano d’una falange di salvatori, a chinarsi giorno per giorno su gli enigmi continui della malattia e della morte; ma gli pareva nello stesso tempo che una voce in lui nascosta lo beffasse continuamente, come da sè medesimo si beffa un uomo il quale sappia di star compiendo alcunchè d’inutile. Andava molto spesso, con una curiosità quasi da neofita, a guardare i morti. E poichè questa era la fine inevitabile d’ogni creatura, gli pareva cosa veramente trascurabile che «_gli altri_» avessero a morire qualche giorno prima, qualche giorno dopo... «_Gli altri_...» — ecco quello ch’era divenuto assolutamente estraneo al suo mondo; non capiva più come si potesse spendere la vita per «_gli altri_». Il senso egoistico della sua persona s’aumentava in lui grandemente, ma senza più comunicargli alcuna volontà di elevazione; la sua febbre di conoscenza e d’indagine si rappacificava ogni giorno più nella inerte pigrizia del non pensare, in quel senso d’impossibilità e di rinunzia che fluttua su lo spirito dell’uomo, quand’è passato, con il cuore esausto, al di là da un immenso dolore. Quasi che un tarlo invisibile fosse entrato a corrodere l’architrave del suo pensiero metafisico, gli parve di comprendere che tutto l’edificio, d’un tratto, con le sue colonne ciclópiche, i suoi fastigi avvampanti, stesse per minacciar rovina; ed egli era incapace di ritrovar la via tortuosa di quel tarlo struggente, incapace di costrurre un arco più solido sotto quello ch’era in pericolo di sprofondare. Ancora una volta, nella storia dei sogni umani, l’uomo temerario ch’era salito in cima alla montagna del mondo si sentiva riafferrare da una mano invisibile, trascinare in giù, per il pendìo tenebroso, verso la sua catena ed il suo covo. Il ponte gettato su l’infinito peccava come sempre d’un millesimo nel calcolo della sua curva, e ciò bastava perchè il peso microscopico d’uno uomo pericolasse di farlo rovinare. Andrea Ferento aveva cantato il «Dio che muore con l’uomo», aveva creduto nella passante Inutilità della vita; come tutti i sognatori, come tutti gli apostoli, aveva rifiutato di piegare la sua dura fronte sotto il peso delle inevitabili obbedienze umane. Un giorno, a mezzo del cammino, gli era stato necessario di sopprimere, di chiamare a sé, per anticiparle un dono, «la pallida alleata, Morte»; — e, sicuro d’averne il diritto, reso incolpevole dalla sua temerità, uomo contro uomo, vita contro vita, sereno, implacabile, aveva ucciso. Ecco: a biasimarlo, in lui non s’era levata la voce oscura d’un Dio; a incatenare il suo polso libero non era bastata la forza vindice dei poteri sociali; sopra il suo delitto travolto la vita rifluiva, come sopra la diga sommersa il fiume barbaro. E tuttavia, da quel giorno, qualcosa d’inafferrabile era entrato a disordinare la sua mente; la terra da quel giorno brulicava davanti agli occhi suoi d’infinite agonìe; sopra tutte le speculazioni del pensiero appariva, scaturiva chiaramente una verità essenziale, non facile ad esprimersi con parole, per quanto essa brilli e traspaia da ogni cosa viva: — e cioè, nell’immanenza perpetua dell’anima universale», insoffocábile divinità che tutto compénetra il senso della vita e della morte. Obbiettivamente poi, quel suo coraggioso atto di libertà aveva prodotto un bene anzichè un male; aveva lasciato vivere due creature giovini e fertili, rendendo appena più celere una insanabile agonìa. Egli era medico: non credeva quindi nel miracolo; quell’agonìa poteva essere tenace, diuturna forse, ma era infallibilmente un’agonìa. Il medico dunque aveva solo armato il suo polso di quel virile coraggio, che in talune circostanze verrà forse comandato ai medici di domani. Davanti al suo cervello, egli non aveva peccato se non contro quella «volontà negativa» insita nella materia e che pareva esserne la qualità divina. Ma il piccolo tarlo era in ciò: ch’egli aveva lesa una legge fondamentale, s’era impadronito della morte, s’era fatto complice di quell’avversaria che l’uomo deve odiare. Per lui, medico, per lui, apostolo della vita, quest’alleanza era tradimento. Ed ormai gli era impossibile non sentirlo, anche sopprimendo il cuore, con il solo cervello. Aveva in verità vôlte le spalle sul campo di battaglia, disertato dalla sua bandiera. Se veramente, com’egli aveva concluso, la vita era un fatto aleatorio ed inutile, si doveva poterla sopprimere senza udire nell’eco interiore dell’essere quel grido universale che si eleva dalla materia lesa, contro l’atto che uccide. Ma se all’uomo più forte non era lecito far sì che questo grido tacesse, c’era forse mai nell’Inconoscibile una potenza che non poteva in alcun modo accedere al pensiero dell’uomo, che certo non era Dio, ma non era neanche l’Inutilità?... E il tarlo camminava, camminava, tra le screpolature del castello ciclópico, senza dargli pace. Fra tutte le colpe dell’uomo gli pareva che il tradimento fosse la più spregevole, poichè anche il delitto può esser bello, se richiede un grande coraggio. Ma il tradimento non ne richiede alcuno; ed egli appunto sentiva di tradire, nel chinarsi ancora, con una pietà ormai simulata, sul letto degli infermi, nel vestirsi da benefattore, da salvatore, _egli che aveva ucciso_. Gli altri medici della sua clinica forse ne sapevano meno di lui, ma erano più degni; que’ chirurghi dalle braccia nude, sporche di sangue, ferivano anch’essi, ma ferivano per salvare; que’ medici attenti, che negli alti armadi sceglievano e mescevano con saggezza le dosi dei veleni, troppo spesso lo inducevano a rammentarsi di quella composizione chimica perfida e sottile che gli era servita per propinare a dosi lente una introvabile morte. L’aspetto medesimo di quel sereno edificio, dove la sofferenza era santificata come nelle chiese la preghiera, non gli riusciva più familiare come una volta, e spesso provava la sensazione d’esservi pressochè in esilio. Nel traversarne ogni mattina le diritte corsìe non aveva più accanto la limpida figura di Egidio Rosales, e questo, questo sopra tutto, gli stringeva il cuore come nella forza d’una mano crudele. Ogni tanto volgeva indietro gli occhi, e per abitudine credeva di rivederlo. Alto, biondo, con il càmice che gli scendeva sino alle caviglie, una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo sotto la mandibola sinistra; teneva un libro aperto su l’avambraccio e scriveva rapidamente, con una penna stilografica, facendo stridere la carta... Ora non più. Il Rosales era lontano, vestito di un’altra stoffa più ruvida, la tela del reclusorio, e chissà mai, forse in quel momento risognava con i suoi occhi allucinati la corsìa luminosa dell’ospedale per dove il suo maestro passava... Salvarlo interamente non gli era stato possibile; aveva ottenuto che una perizia lo dichiarasse irresponsabile. In luogo dell’ergastolo fu condannato al manicomio criminale, nè mai passava giorno senza che il Ferento tentasse qualcosa per abbreviargli o per lenirgli la pena. Fra i moribondi, fra i malati, fra i convalescenti, egli provava sempre più un senso d’esilio; veder morire gli pareva ormai una cosa snervante e laida; guarire, un fatto accidentale, che altri potevan operare meglio di lui. La sua Clinica non gli pareva più un limpido e sereno tempio elevato al dolore dell’uomo, bensì una triste casa, ove tutte le putredini della carne eran manifeste, i gemiti confusi, la morte accumulata. Sentiva talvolta il bisogno subitaneo di uscirne, verso l’aria libera, o di cercare nelle braccia dell’amante il rifugio e l’oblìo. Non lo avevano condannato le leggi: si condannava da sè, in silenzio, da vero giudice di sè stesso, con la condanna più alta e più crudele che mai si potesse infliggere, ossia rifiutando a sè medesimo di vincere ancora. Non il suo delitto, ma il tradimento gli era di peso; in ogni attimo aveva la tentazione di provocare i suoi nemici, affermando loro la verità. Libero e solo, forse lo avrebbe fatto; ma due creature complici della sua colpa gli comandavano il silenzio: — e tacque. La sua lotta fu lunga, e dibattuta nel modo più crudele; ma un giorno subitamente si risolse. Con una lettera concisa e ferma rassegnò al Ministero le dimissioni dalla sua cattedra universitaria; nello stesso tempo, radunata in una sala dell’Istituto l’assemblea dei medici, con brevi parole comunicò loro di aver donata la sua Clinica al Comune e di trapassarne in quel giorno stesso la direzione al suo collega più anziano, l’illustre professor Damiato. Questi era presente al convegno ed era per l’appunto quegli cui dava insopportabile ombra la gloria di Andrea Ferento. Nel suo geloso cuore d’uomo, aveva intimamente sperato che l’accusa lo rovesciasse. Fra quei medici che, da molti anni, con il potere della sua grande anima, nell’alta solitudine della sua virile gioventù, limpido e libero, Andrea Ferento capitanava, la sorpresa ed il cordoglio per quella notizia furon estremi. In un silenzio pieno di perplessità la voce tranquilla del Ferento parlava: era in piedi fra loro, a qualche passo dal semicerchio silenzioso che gli formavano intorno. Parlava ritto su l’alta persona, ravvolto in una specie di assiderata e brillante solitudine, come quando era dinanzi al feretro del suo fratello che ponevano in sepoltura. Nella sua faccia non un muscolo trasaliva; ne’ suoi fermi occhi non brillava che una decisa tranquillità. Tra quel silenzio, la sua voce scandiva le parole vibratamente, quasi volesse inciderle a duri colpi nella memoria dei compagni e dei discepoli. Ogni tratto, al termine delle frasi, rovesciava un poco all’indietro la fronte pallida, con una mossa che faceva tutta rilucere la sua bella capigliatura. Essi lo guardavan muti, protesi verso di lui, senza osare interromperlo. — «Sì, miei amici; voi continuerete, buoni e valorosi come foste finora, la strada che vi ho tracciata. Per me, oggi, non ho bisogno che di riposo. Anzi, questa non è la parola: ho bisogno di pace.» Abbassò gli occhi d’improvviso luccicanti, e tacque, mentre le sue parole vibravano ancora nell’alto silenzio della sala. Poi tese la mano verso loro, con un gesto di commiato, come per salutarli tutti, e risoluto si volse. Ma d’un tratto, con un disordine di clamori e di proteste, il semicerchio si chiuse, l’assemblea sollevata in un concorde impeto si strinse commossa e fedele intorno all’uomo che l’abbandonava. Egli non aveva detta parola intorno al suo dramma, eppure tutti supponevano di comprendere la verità: «non era nè malato nè stanco; ma il suo rifiuto era sdegno; sdegno e tristezza per l’orribile assalto. Messo alla gogna davanti al paese intero, ferito volgarmente ne’ suoi amori più nascosti, costretto a scendere nella piazza, s’era difeso come doveva; — ma ora il cuore non gli reggeva più, l’angoscia lo soverchiava, con tal delusione da fargli preferire ad ogni cosa l’esilio...» Ed allora quel gruppo d’uomini, che nonostante le piccole gelosie, nonostante le asprezze talvolta eccessive del suo carattere, lo avevano pur veduto per tanti anni, con un amore indefesso, con una bellezza di mente e di spirito non eguale ad alcuna, limpido, buono, instancabile, governare quella casa benefica, essere veramente il genio della sofferenza e dell’agonìa, dare tutto sè stesso a quel mondo che poi l’aveva oltraggiato... e in verità, — poichè tutti, ad un momento dato, sopra l’invidia e l’ira sentono il potere dell’uomo più forte — in verità essere stato il lor maestro, il lor compagno, il lor fratello di pazienza e di fatica, — tutti, e perfino lo stesso rivale, ch’egli debellava con quell’atto di generosità, tutti, come obbedendo all’impulso di un solo cuore, gli si fecero intorno, tumultuosi, e con atti e con parole rifiutavano ch’egli si partisse da loro. Sembrava che almeno per una volta, quel che c’è di buono, di leale nel cuore dell’uomo venisse al fiore delle fisionomie, su l’orlo delle bocche, all’ápice quasi delle mani che cercavano di fargli una fedele violenza, e pareva che, pur non osando per il grande rispetto alludere al suo dramma, ognuno volesse dirgli tuttavia: — «Che importa? che importa? Non è laggiù la vostra casa, ma qui, fra noi, dove siete in mezzo ad una famiglia numerosa, che ben vi conosce. La forza che vi difende siamo noi. Vi abbiamo già difeso... lo sapete! — vi difenderemo ancora. No, no! è impossibile quello che voi ci annunziate!... A chi ubbidiremmo noi dunque il giorno che non ci foste più?» Egli ascoltò a fronte china quel tumulto di parole, abbandonò le sue mani a coloro che parlando le stringevano — ma, invece di rispondere, guardava interiormente in sè stesso, provava più che mai la tentazione di sopraffare quel tumulto con un grido, e rispondere: «Ma non sapete, non sapete, o pazzi, che l’ho veramente ucciso? Io, che mi chiamo Andrea Ferento, con le mie proprie mani, l’ho veramente ucciso!» La tentazione era così forte che già gli pareva d’aver gridato, nel suo silenzio interiore; e levò gli occhi smarritamente. No! non bisognava decretargli quella specie di trionfo, innalzarlo ancor più, credere ancor più nella sua menzogna!... Li aveva traditi! traditi! e non poteva nemmeno pretendere alla bellezza di accusarsi, all’orgoglio di ricingersi d’una ben altra impunità!... Fra gli uomini v’era chi lo incolpava e chi lo credeva innocente; non v’era tuttavia nessuno al quale potesse dire: — «Sì, ho ucciso», — ed affermarlo tranquillamente, come si dice: — «Ho fatto il mio dovere». Ma in quell’ora, tra i suoi compagni che salutava per l’ultima volta, egli provava di questo coraggio la tentazione più insensata; e fu soltanto il pensiero di colei che amava, il pensiero che in lui sopraffaceva tutte le immagini della vita, quello che gli comandò: — Taci!... — che più volte gli comandò: — Taci!... — ed offrendole un ultimo dono, poichè l’amava, poichè l’amava... obbedì. Li guardò in faccia ad uno ad uno, poi tutti, come per imprimersi bene dietro la fronte il calco delle loro sembianze, come per costringerli ad ammutolire sotto l’ultimo imperio della sua volontà, — e disse duramente, retrocedendo: — No! mai! XI — Non vedo la ragione per la quale preferiresti ch’io vada senza di te, — ella rispose con voce carezzevole, davanti al suo rifiuto. — Spiégami, Andrea, perchè desideri ch’io mi ritrovi sola fra quelle orribili memorie?... No, no, Andrea! bisogna che tu venga; è necessario che venga tu pure. — Necessario? E perchè? — Cosa penserebbero papà e mammà, ed anche Maria Dora, e tutti laggiù, se tu evitassi di compiere questo, che mi sembra un dovere? un triste ma inevitabile dovere? Dopodomani — ricòrdati — è l’anniversario. — Già, — egli fece distrattamente, senza guardarla, con gli occhi sperduti nel fumo della sigaretta, che intorno gli formava una larga nuvola. Era già, sul cader del giorno, l’ora soave quando incominciano a suonar le campane. Aveva piovuto nel pomeriggio ed ora il cielo rischiarato rompeva tra le nuvole in fuga: una fragranza primaverile rinfrescava l’aria luccicante. Ancora ella portava gli abiti da lutto; ma, seduta presso la finestra, teneva su le ginocchia una leggiadra camicetta di colore, tutta pizzi, frange, nastri, merletti, e con le forbici nel grembo, e con l’ago infilato di seta flessibile pianamente l’andava ricucendo. Intorno al collo s’era già rimessa un filo di perle, al dito le brillava il suo meraviglioso rubino, e già dalla veste nera le spuntava sopra le caviglie la frivola balza d’una gonnella colorata. Ugualmente si vedevano, sotto la trasparenza del tulle che le velava la scollatura, correre intorno al petto e sopra le spalle malnascoste i nastrini rosei d’una camicia delicata. Fili di seta le si attaccavano alla sottana; portava sul dito medio della man destra un piccolo ditale d’oro. — Poi, vedi, — ella disse, posando su le ginocchia la camicetta che ricuciva, — non voglio andarvi sola... Credo che ne morrei di tristezza. Or che sono divenuta con felicità una cosa tua, mi spaventa il lasciarti anche per un sol giorno. Andrea, dimmi che verrai! Egli era seduto a poca distanza da lei, sopra un divano basso; e protese una mano per stringere la sua. — Prométtimi! — ella insistette. — Perchè mi vuoi costringere ad una cosa inutile? — rispose Andrea. — Mi opprime l’idea di rivedere quella casa, quella tomba, e sopra tutto mi sembra che il tornare insieme laggiù sarebbe quasi una ironia, quasi un insulto... Non lo comprendi? Ella riflettè un momento, poi disse, chinando il volto: — Sarebbe assai più crudele non andarvi affatto. Andrea non volle rispondere; gettò in un portacenere la sigaretta finita, ne accese un’altra macchinalmente, facendo scintillare la brage nella ingorda boccata che aspirò. — Quanto fumi! — Come sempre, Novella. — Poi contò le sigarette che gli rimanevan nell’astuccio, e convenne: — Forse hai ragione: fumo troppo. Ella si levò dalla finestra e venne a sedergli accanto sul divano. La dorata penombra della sera entrava dalle finestre azzurre, portando nel suo lieve álito un buon odore d’invisibili giardini; si udivano, sopra il mormorìo della città, rispondersi le campane distanti. Una striscia lontanissima del cielo ardeva come un braciere, nel tramonto. Ella si appoggiò contro il suo braccio, facendogli su la spalla un nodo con le mani congiunte; sopra vi posò la guancia, e disse: — Raccòntami... cos’è accaduto ancora? Che hai? Il respiro delle sue parole gli tormentava il collo. — Non mi ami più?... — soggiunse, con una voce piena d’incredulità, mentre tuttavia le sue labbra si orlavano di sorriso. — Non mi ami più? Egli allora non fece che attirarla sopra di sè, chiuderla nelle sue braccia forti e rovesciarsi con lei su la spalliera del divano, quasi volesse godere interamente la fatica del suo morbido peso, la gioia del suo vivo tepore. Invece di risponderle, circondò con un lungo bacio la sua calma fronte, le radici fulve come l’oro de’ suoi capelli finissimi, ch’eran pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due luci, come le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada mattutina, brillano, d’autunno al sole. Questa era la sua pace. Solamente così la sua fronte si rasserenava; solamente nel calore della sua bellezza egli dimenticava ogni cosa. Gli avveniva talvolta di guardarla con un senso di novità, come se non l’avesse ancor del tutto conosciuta; nell’accarezzarla provava una specie di religiosa paura. Quando pensieri troppo forti gli martellavano il cervello, prendeva le sue piccole mani per fasciarsene le tempie. Quelle mani avevano il colore luminoso delle perle orientali, erano calme, lente, impure, come se non sapessero far altro che prodigare con insidia carezze troppo voluttuose; quelle mani lo addormentavano: egli era totalmente beato. Così bella non era stata mai: nè quando la vide per la prima volta, nè quando per la prima volta la baciò. In quei giorni per lui così drammatici ella s’era quasi riposata, e rinasceva dopo la maternità, sana, felice, con le vene gonfie d’amore, l’anima d’oblìo. Non aveva più che un sogno: infrangere con quel rito anniversario l’ultimo anello della catena, poi, trascorso alcun tempo, essere finalmente sua, sua per sempre, legata, vincolata con lui fino all’ultimo giorno della vita. Ormai poco le importava ch’egli abbandonasse una strada gloriosa, e volontariamente, per cause non ben definite, si ritraesse a vivere d’inerzia e d’esilio, se per tal modo ella poteva più strettamente ravvolgerlo nel suo geloso amore. Egli le aveva comunicata quella decisione con parole semplici: — «Era stanco, si era fatto troppo rumore intorno al suo nome; già da lungo tempo aveva desiderato di ritirarsi a vivere per lei sola e con lei sola, fors’anche lontano di lì, ricominciando la vita... L’occasione era propizia: l’afferrava.» Ella credette, o finse di credere, a tutte quelle parole; ma nell’intimo della sua bontà femminile pensò che bisognava medicargli a poco a poco il cuore ferito. Essere in tal modo la sua compagna, e doverlo, non solo amare, ma far scendere un velo d’oblìo sopra il suo dolore silenzioso, — questo era per lei, per il suo amore, la più dolce cosa. Gli disse tranquillamente: — Sì, Andrea, fai bene; hai ragione; anch’io pensavo che avresti dovuto fare così. E guardando con occhi di sorella nei profondi occhi dell’amante, spesso gli mormorava con fedeltà: — Diméntica l’ombra dalla quale veniamo; la strada è ora così piena di sole... Andremo, se vuoi, lontano; tanto lontano che nessuno ci conosca più... Ma egli frattanto non guariva, ed anzi ogni giorno la sua fatica interiore diventava più manifesta; le pareva talvolta di sorprendere, nelle sue parole, ne’ suoi gesti, un’ambiguità indefinibile. Ed allora, serrandosi contro l’amante, come per affacciarsi con occhi ridenti sopra il suo dolore non espresso, gli mormorava sottovoce, con un tremito: — Raccòntami... cos’è accaduto ancora? che hai? Egli non rispondeva che frasi vaghe, ma invece ubbidiva come un bimbo ad ogni sua volontà, e poich’ella desiderava di condurlo verso quella tomba, fu debole, si arrese, partì. Il treno li portava con rapidità per quella medesima campagna che tanti sogni aveva inutilmente fatti nascere, un anno addietro, nello spirito immaginoso di Tancredo Salvi. Ancora si vedevano a perdita d’occhio infrangersi, con burrasche di fiori, le ondate immense delle praterie, curvarsi la ricchezza dei frumenti, e il biondo color dell’estate nascere nei venti della primavera. Su l’estremo válico dell’orizzonte il disco paonazzo del sole affondava come un rotondo vómero nella terra lampeggiante. L’uomo che aveva ucciso, nel tornare incontro al suo delitto sentiva nascere in sè, proprio nel fatto intrinseco della sua vita, una dissimiglianza, un antagonismo con quanto era principio e continuazione di vita. Anch’ella non era loquace; qualcosa d’imprecisabile, forse la sola musica del treno corrente, li fasciava entrambi d’un vago malessere, d’una sorda e pesante malinconìa. Egli comprendeva quel silenzio, ed ella il suo; vicini l’uno all’altra, con la paura entrambi d’aver fatto male a venire fin lì, guardavan per i finestrini lo spazio fuggire indietro, verso il confine dell’orizzonte, verso le imprecise lontananze, ov’era il mondo libero... Erano entrambi così assorti nelle reminiscenze d’un passato non lontano, che tanto Novella come Andrea non avevano quasi pensato alla gioia di rivedere il loro bimbo. Sicchè furon quasi percossi di maraviglia quando, nello scendere di vettura davanti alla scalinata, si videro venire incontro, su le braccia d’una calma e robusta nutrice, un bambinello in fasce, che stralunando gli occhi agitava le manine paonazze. Ambedue si guardaron fugacemente, non seppero se commossi o vergognosi, e per nascondere la loro confusione si chinarono entrambi con un moto concorde sopra le spalle ampie della nutrice, che sapeva di latte odoroso. Ed ella, ridendo nella faccia adusta, sollevò su le braccia rotonde, abili nel cullare, quel prospero infante, il qual parve appartenesse a lei più che alla sua madre. I cavalli andaron via facendo stridere la ghiaia; tra gli alberi s’attenuava il rumore delle sonagliere. La serena casa era ferita nei vetri dall’opposto sole; un’unica finestra rimaneva chiusa — ed entrambi la guardarono. Adesso mamma Francesca s’affaccendava intorno a Novella, narrandole infinite storie del suo piccolo bimbo. «Quel bocconcello di carne aveva uno spirito indiavolato... quel bocciolo di tulipano, gonfio e lucido, era d’una intelligenza e d’una forza che sbalordivano; certamente incomincerebbe a parlare prima degli altri bimbi, e — secondo mamma Francesca — somigliava come due gocce d’acqua a Marcuccio quand’era piccino... Nella serena casa nulla era mutato. Entrandovi, quei due che s’amavano si sentiron d’un tratto investire dall’ombra di lontani fantasmi, furono ancora subitamente l’amico e la moglie del morto. Ecco: avevan scoperto il luogo dov’egli abitava. Non già nella sua tomba, ma lì, sotto la loggia vetrata, nella poltrona di cuoio, carico di scialli, vicino a Marcuccio che scriveva o faceva la calza, con i suoi gomitoli di lana... — lì, nella sala terrena, dov’era il cembalo, il bellissimo cembalo a coda, in ebano luccicante, sul quale, un certo pomeriggio ch’eran rimasti soli, ell’aveva suonato per distrarre l’infermo una vertiginosa fuga di Bach, quand’era entrata la piccola Natalissa con il suo fascio di rose gialle... Abitava lassù, nella stanza chiusa, buia, morta. Rabbrividirono. E nel loro amore, che si era quasi dimenticato d’essere una cosa nefanda, ritornò a vivere lo sgomento di allora, il tradimento che li agghiadava e li ubbriacava, la febbre di tante lussurie che consumarono vicino alla morte. Quando la notte incominciò, nell’alte stanze della casa la nutrice sonnolenta cullava il bimbo nella cuna, cantilenando con una nenia lenta lunga lenta, che i muri antichi ripercotevano. «Fai la ninna, fai la nanna, fantolino della mamma... . . . . . della mamma...» Ed allora quando si coricarono, lontani, senza dirsi parola, stretti nel peccato che li univa come in un gelido sudario, a poco a poco, nell’alta camera dell’infante, anche la nutrice s’addormentò. Il silenzio divenne profondo come la fuga di un fiume sotterraneo. Ma udivan entrambi, nello spessore delle pareti, piovere, scendere, un non so che d’inafferrabile, che non faceva rumore, come neve. Eran presso e lontani, solo divisi da una fragile parete; facevan quasi uno sforzo mentale per allontanarsi ancor più; ma provavano tuttavia la sensazione che l’ombra li tenesse avvinti, bocca su bocca, mortalmente, implacabilmente avvinti, in un amplesso che li stremava d’ebbrezza e di terrore. Ma d’improvviso ricominciò a passare, come per un miracolo della memoria, quella notte che ormai erasi evaporata nella dispersione continua del Tempo. E come allora, d’un tratto rividero nella chiara camera funeraria il raggio di luna che vestiva il cadavere dal piede alla fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca elettricità... . . . . . . . «... non solo morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e freddo pareva di quell’algida luce che somigliava stranamente al colore della sua carne, al gelo della sua materia spenta. — «Vedi, — egli disse — com’è tranquillo?» Ma ella non rispose, forse non l’udì, assorta com’era nel guardarlo, cogli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso. Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come fosse piombo. Alte, nel miracolo della notte, le stelle così numerose che parevan nel deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo frantumato nella sabbia e balenante sotto lo sfarzo del sole. La notte bruciava ne’ suoi vertici, aveva sopra il suo fosco edificio invaso d’ombre una cupola incendiata; l’eternità era espressa in luce, l’infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco. — «Vedi, com’è tranquillo?» La luce azzurra gli metteva intorno alle radici dei capelli una specie di scintillamento. Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto, e teneva le braccia contro il petto, incrociate per i polsi. — «Giorgio...» — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per accertarsi che fosse ben lui. Poi allungò la mano e lambì la coltre, lievemente, ritraendola con velocità... Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza dell’altro, mandargli un timido saluto, profferire per lui una dolce parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non ricordava più... Adesso le pareva necessario di fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pure non udisse: — Povero, povero amico mio... E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un bacio nè una confidenza nè un secreto, senz’una di quelle parole conclusive che fanno men buia la morte a chi vi sprofonda e a chi guarda morire... — «Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi e non c’ero! Hai voluto forse confidare a me sola un ultimo desiderio e non t’ho potuto ascoltare... Da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore...» — «Vedi, com’è tranquillo?...» Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo, ma su l’altro teneva un gomito e nei palmi la fronte. Nel medesimo tempo egli guardò il morto, e gli parve straordinario che vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana. Ma due sole immobilità perfette occupavano la stanza ed un solo raggio le aumentava nel suo fermo splendore. Poi, d’un tratto, la vide roteare sul ginocchio piegato; la pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni facevano, sollevando la camicia, una profonda incavatura. Dopo di lei osservò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si fosse chinata fuor dalla proda per guardare in giù. — «Vedi?» — gli disse mentalmente, con un riso che non saliva sino alla bocca. Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio... — «Vedi?» Un usignolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante, sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo stordiva... Il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante nell’inmensità. «Uuh!... Fi... Perchè canti? — Vattene!» L’usignolaccio saltava. Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro le foglie sonore. — «Vedi?» Un filo d’aria notturna soffiò fra i capelli radi del morto, e li scompose; poco dopo una nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel fascio d’elettricità. — «Vedi?» — E la nuvolaglia se n’andava piano piano, il raggio tornava, più mite, più forte, parendo invadere la stanza e colmarla come un fiume. — «Via... via... — balbettò quando fu ritta; — pórtami via!» Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra camera, involontariamente si baciarono. — «Dammi da bere!... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato, — brucio di sete!» — «Acqua? — egli disse. — Non ho che acqua.» Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio dell’alto suo ramo il cantatore solitario snodava, buttava i suoi gorgheggi con impetuosa magnificenza, come nell’aria brillando lancia i suoi vertici una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa metteva nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le vellicassero il ventre viscido per farla ridere, o si fosse ubbriacata fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini. Egli si andò a sedere su l’orlo del letto, curvo, stanco, tenendo i gomiti su le due ginocchia, le mani allacciate, la fronte china. Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò alla finestra, guardando fuori, curiosa, nella notte stellata. Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore. Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un grande fiore di magnolia sfasciarsi, cadere in frantumi sotto il lucente albero, come una porcellana spezzata. Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli e sottovoce disse: — «Che ora è? Tardi?» Egli guardò l’orologio distrattamente: — «Le tre passate.» Cominciava un dondolio sonnolento per le cime degli alberi; i prati lontani mutavano colore. — «Che faremo?...» — ella domandò con un tremore fin nell’anima. — «Non so.» Stava ritta contro le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le spalle. Egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e, senza toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle nuda, sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore stesso di lei. — «Tu l’amavi!» — egli esclamò d’un tratto con iracondia, senza levare il capo. — «No... taci...» E come per soffocare ogni parola, su la bocca, affannosamente, lo baciò... ... poi lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti, quasi una colonna di fumo che soffiasse, non da un incendio, ma da un gelido remoto mare. Veniva per la finestra, con l’odor fluviale dei narcisi, con l’abbrividire delle foglie che si destavano, un’ondata d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il giro della stanza, come un vortice... Una chiarità nasceva nell’oriente concavo; i prati lontani mutavano colore. Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la fasciò fino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava: — «Dormi?...» . . . . . . . Fu la notte più lunga e più calamitosa che vissero mai nella vita. Li divideva solamente una parete, una fragile parete, attraverso la quale si vedevano, si udivano, — ed una porta non difficile ad aprirsi, che ogni tratto pareva si spalancasse da sè. Non s’erano mai amati con tanto brivido nè con un senso più inesorabile della loro complicità. Ora si accorgevano che il delitto era veramente l’essenza della loro passione, comprendevan che il senso della morte aveva sempre alimentato come un’esca la lor tragica fiamma. Perchè non gli avevano data la medesima stanza dell’altr’anno? Chi mai, nella casa, aveva creduto necessario avere questo delicato e crudele pensiero per lui? Perchè tacitamente l’avevan messo a dormire presso la camera di Novella, con una sola porta fra loro, e che potesse aprirsi con tanta facilità?... La mattina dopo s’incontrarono, lividi, come se avesser ucciso ancora una volta. E compirono il rito funerario con una specie di meccanica obbedienza, di freddo rispetto, al senso di quel dovere ultimo. Ancora una volta la famiglia dell’ucciso li aveva lasciati soli, vicino a quella tomba. Vi andaron per la via della campagna, veloci, senza guardarsi, con le braccia cariche di fiori. Il sole raggiante li assiderava; l’orizzonte si moveva davanti alle loro pupille, come, dalla prua d’un veliero, il confine dell’oceano. Ella camminava rapidamente, vicino a lui, talora toccando il suo braccio, talora lontanandosi d’un passo; fili d’erba e fuscelli di paglia s’attaccavano alla balza della sua gonna rumorosa; ogni tratto egli vedeva luccicare le fibbie d’acciaio brunito che ornavano le gale delle sue scarpine. Aveva il torto, in quel mattino di primavera, d’essere più nuda e più femminile che mai. Senza che lo facesse apposta, l’abito nero e la compunzione del suo volto non facevano che accrescere visibilmente i segni della sua impurità. Era bella, bella, bella, e pareva scesa da un letto nel quale avesse amato infinitamente, pareva che portasse per una offerta profana quel fascio di fiori profumati. — Andrea... — Mio amore? Egli disse queste parole senza volerlo, istintivamente, come le avrebbe dato un bacio. Se ne pentì. — Non camminare così presto; inciampo... Egli rallentò il passo, e proseguirono a fianco a fianco, fra due siepi di robinie cariche di grappoli che mandavano un profumo soverchiante. Dietro le siepi vedevano qua e là i buoi camminare possentemente, trascinando l’uomo e il solco. Ella non s’era messo nè mantello nè cappello; solamente un velo di trina su la capigliatura luminosa. In quella semplicità, la sua carne trasparente brillava come un gioiello di straordinaria purezza. — Andrea... — Che vuoi? — Non ho dormito. — Io nemmeno. Parlavano, ella sommessamente, egli forte. Il cimitero biancheggiò d’un tratto. Ella disse: — Férmati. Egli ubbidì; rimase qualche attimo fermo; poi le prese una mano, quasi di nascosto, e la condusse. D’improvviso, davanti alla tomba, s’accorsero che non avevano più alcuna paura. Fra i cimiteri, su l’orlo dei sepolcri, dove la polvere torna polvere, l’uomo non può più credere neanche nella divinità della morte. Invece li afferrò senza remissione la gioia d’ogni cosa viva, il senso pagano della vita; s’accorsero che faceva un bel mattino di primavera; la terra fertile si gonfiava di rugiade iridescenti; l’aria inondata di sole tramandava ilarità; le tombe non erano che piccoli giardini; fra gli alberi del cimitero le nidiate cantavano. Ella disse, _come allora_, deponendo i fiori: — Povero, povero amico mio... Ed egli, con una specie di atono stupore, andava leggendo le parole incise nella pietra funeraria: GIORGIO AURELIO FIESCO INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL COSTRUTTORE DEL PONTE DI CIMBRA NATO... MORTO... PACE «_Pace_» — Che mai significava questo voto funerario? C’era forse una verità superumana in questo segno di quattro lettere? Quale senso aveva? Era essa una parola di ammonimento?... Una sigla tombale?... Una fredda ipotesi?... Era una parola: — ossia niente. «_Pace_» Tuttavia, nell’irrealità universale della umana conoscenza, pareva che questa parola avesse un significato maggiore di tutte le altre, più profondo, più interminabile... «_Pace_» Ed egli pensava: «Qui dorme l’uomo che uccisi. Di sotto quel puro marmo la sua faccia devastata mi guarda. Ride, ride... come allora... sì, me ne ricordo. — È un fatto grave? — Non è grave: è nulla.» Davanti alla opaca terra che nasconde il perpetuo marcire che si compone di dissolvimento in ogni átomo della sua polvere, la morte non era più una cosa grave, non era più che un’astratta immanenza del passato nell’avvenire, in verità somigliante alla parola: «_Pace_», — una specie di sorda memoria delle cose che furono, dentro quelle che saranno. Egli rilesse, questa volta con maggiore attenzione, le parole incise: GIORGIO AURELIO FIESCO INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL... D’un tratto, come se si squarciasse nel suo cervello una densa tenebra, umanamente lo rivide, com’era nella sua gioventù, quando insieme avevano intrapreso ad ascendere per il cammino della vita. E intanto rileggeva macchinalmente la parola di quattro lettere, vuota come un cerchio d’ombra che s’allargasse nel brillante etere, la parola che gli sembrava beffarda come il sogghigno della morte... «_Pace_» Sul marmo polito un’iride di sole picchiava nel triangolo della terra «A»: la pietra balenante si purificava nel fuoco settemplice dell’arcobaleno. Da quando Giorgio era morto, ella non aveva pregato mai più; teneva ora le mani congiunte, ma il cuore non le suggeriva alcuna parola, ed anzi le pareva ormai che fosser morti anche il senso e l’ideale della preghiera. D’un tratto egli afferrò le sue mani, ch’erano intrecciate, le strinse con una dura forza, e la condusse via. Oh, come cantavano le nidiate in quel mattino di primavera!... Quanto sole, quanto sole a perdita d’occhio, su la magnificenza della vita!... Varcaron il cancello, e, fermi su la proda, guardaron abbacinati nel chiarore della strada maestra. Venivano in su due carri, al passo, levando poca polvere; i carrettieri distesi sulla paglia, cantavano a voce spiegata. Senz’abbandonare la sua mano, egli la trascinò lontano dalla strada, rasente il muro del camposanto, per il viottolo che s’inoltrava nella campagna; ed ella, sentendosi più lieve, si appese felicemente al suo braccio. — Dimmi, — egli domandò convulso: — vuoi ancora essere mia?... Ella non comprese la sua domanda, oppure non volle interamente comprenderla; ma gli si annodò contro la spalla, con un movimento femineo, rovesciando il capo all’indietro per fargli vedere che la sua bocca rideva. — Dimmi, — egli ripetè con forza: — vuoi ancora non abbandonarmi, non odiarmi anche tu?... S’eran fermati nel folto; invece di rispondere gli tendeva la bocca rossa, gli occhi innamorati, la sua turgida gola bianca di cipria, stringendolo così forte nelle sue braccia ch’egli doveva da ogni fibra udirsi rispondere: — Sì! — Allora ódimi — egli disse, pallido in verità come la morte: — bisogna che tu sappia una cosa, perchè non posso più conoscerla io solo. — Raccóntami... — ella rispose, impaurita, lasciando cadere le braccia che a lui si reggevano. Con uno sguardo mortalmente vuoto egli fissò l’amante, la campagna, il mondo... fu sul punto d’incominciare; poi tacque. — Raccóntami... — ella cercava di persuaderlo, carezzandogli la faccia pallida con le sue falangi odorose di fiori. — No, — egli rispose, — non qui. È meglio che non sia qui. C’è troppo sole... XII «Fai la ninna, fai la nanna, fantolino della mamma... . . . . . della mamma...» A poco a poco, nell’alta camera dell’infante, anche la nutrice s’addormentò. Egli rimase ancora per qualche attimo, solo, nel buio. Per le connessure dell’uscio filtrava luce dalla camera di Novella. Voleva sentirsi pronto, come nelle ore di battaglia, davanti a questa ch’era l’ultima e la più inattesa fra tutte. Ma invece la volontà non gli bastava per chiudersi ancora una volta in quell’armatura inflessibile che lo rendeva così padrone di sè. Aveva lottato per uccidere — e di questo era stato capace; aveva lottato per nascondere il suo delitto — e di questo era stato capace; aveva lottato prima di distruggere la sua magnifica vita in un fiero esilio — e di questo era stato capace... ma quello che non poteva comandarsi più, era lo sforzo di suggellare nel perpetuo silenzio il grido che gli prorompeva dall’anima. Bisognava dividere questo peso almeno con un’altra creatura, bisognava consumare il delitto fino all’ultimo, facendo sì che investisse lei pure. Quella tentazione crudele che aveva sentita poche ore dopo l’uccisione, lungi dallo spegnersi, era cresciuta continuamente, in ogni giorno di quel tempestoso anno, ed or gli pareva che ogni ulteriore indugio non fosse che una più lunga viltà. Quante volte la parola rivelatrice gli era venuta su l’orlo della bocca!... e sempre, sempre, nei baci più deliranti, quel desiderio s’infiltrava in lui come la tentazione di una più forte voluttà. Qualche volta era perfino giunto al godimento perverso di trascinare l’amante con parole ambigue su l’orlo del sospetto, come su l’orlo d’un abisso, dove il peso dell’ultima complicità li avrebbe fatti cadere, avvinghiati per sempre. Cercava con tal mezzo d’investigare quale sarebbe stato l’animo suo davanti alla rivelazione. Ma ella non mostrava che un’infinita smemoratezza e il desiderio di non rivolgersi mai verso quell’ora lontana. Anche durante i giorni dell’accusa, ella di ciò non gli aveva parlato, se non quel tanto che fosse indispensabile: ne aveva parlato con fretta, sbadatamente, senza guardarlo negli occhi, attenuando con un sorriso femminile ogni parola inavvertita che paresse nascondere un suo pensiero profondo. Egli aveva talvolta immaginato che, nella sua fragilità, ella fosse tuttavia la più forte. Infatti avviene talora che l’anima femminile ci sembri assai lieve in paragone della nostra e non obbediente a quell’ordine logico dal quale si muove il nostro pensare; ma forse quell’anima è solo diversa dalla nostra, e noi spesso non riusciamo ad intravvederne il fondo. Egli era dunque rimasto, fra le rovine d’ogni altra certezza, davanti al suo grande amore; i culti positivi, che aveva liberalmente professati nella vita, erano insorti con ribellione davanti a quel primo atto di vera libertà; rimaneva una sola cosa che non era distrutta nel mondo: l’amore. Ma quando le avesse detto chiaramente: — «Guárdami negli occhi: sono io che l’uccisi!» — qual mutamento avverrebbe in loro e nella passione che li univa? L’amerebbe ancora? Sarebbe amato ancora da lei? Due mortali domande che gli pesavano, da quella tragica notte, sul cuore. Adesso, nella casa dormente, il silenzio era profondo come la fuga d’un fiume sotterraneo. Egli si provò ripetutamente a sospingere l’uscio che lo divideva dalla camera di Novella, ma sentì che ogni volta il coraggio gli veniva meno. Ed allora, come già un’altra volta, quando il pagliaccio rimase inerte nella poltrona di cuoio, e bisognò sollevarlo, diede a sè stesso il comando che lo irrigidiva: — Ubbidisci! Piegandosi alla propria volontà come al potere d’una forza non sua, comprese di non aver più scampo, e si avvicinò a quella soglia. Filtravano per le connessure spiragli di luce; a tastoni cercò la maniglia, sospinse l’uscio, ed entrò. Ella era seduta sull’orlo del letto, in vestaglia, coi tacchi delle sue pianelle aggrappati al cassone di mogano, i gomiti sulle ginocchia, i polsi congiunti, la faccia raccolta nella cavità dei palmi — e lo aspettava. — Non hai udito, — ella disse, — come piangeva poco fa il bimbo? — Ma ora s’è addormentato, — egli rispose. Poi, dopo un silenzio, le domandò: — Gli vuoi bene? La madre aperse le braccia, si abbandonò all’indietro, sui cuscini, e rispose: — Ora sì, ora per la prima volta lo amo. Egli aveva la sua ruga profonda incisa fra i sopraccigli; era smagrito in viso, e nel guardarlo pareva ch’ella se ne dolesse. Allungò il braccio per chiamarlo a sè, indi soggiunse: — Tanto bene gli voglio, Andrea... ma non come a te! Il braccio nudo si dorava nel chiarore della lampada, il polso dolce si muoveva con una specie di naturale insidia, facendo trasalire i tendini. — Sièditi, — ella disse, battendo la mano su la coltre; — sièditi qui sul letto... Pàrlami, bàciami... ti amo. Come quando il loro bimbo era nato, sul tavolino da notte v’erano tre rose, in un bicchiere. Andrea si chinò su lei, cercando con le mani fredde il suo tepore più vivo e più nascosto. Così la teneva, da sentirne contro la persona tutto il corpo discinto; così la teneva, da immergere la bocca ne’ suoi caldi e pesanti seni; così da stordirsi nel profumo del suo respiro. Ella scivolò sotto di lui, si volse, come per adagiarsi nel letto supina, e le venne al sommo della gola quel gonfiore contenuto che in lei pareva quasi uno sforzo per resistere alla voluttà. Ma era uno sforzo debole, tantochè subitamente gli occhi le smorivan di un sonno palpitante; un poco di gengiva umida le appariva tra i labbri fermi. — Dormiamo... — ella disse. Andrea non rispose; la guardava, teso, attento, come per contare i battiti d’ogni sua vena. — Perchè non ti spogli? Ella diceva queste parole con una voce assonnata, che trascinava le sillabe con ambiguità, quasichè fosse molto stanca, troppo stanca, e non volesse dormire altrove che nelle sue braccia. Poich’egli non rispondeva, gli mise una mano tra i capelli: — Non vuoi dormire vicino a me? No?... Perchè non vuoi? Gli toccava la fronte, le tempie, gli occhi, le guancie, la gola. — Non sai com’è tardi, amore?... Perchè non hai sonno? Perchè ti stanchi? Le forcine, che le davan noia nella capigliatura, se le tolse ad una ad una, posandole sul marmo del tavolino. Producevan cadendo un rumore sottile, come di spilli sul vetro. Nel muovere la mano faceva brillare contro il lume il suo rubino meraviglioso. Con le dita, come con un pettine, si ravviava i capelli disciolti. — Se tu non ti córichi vicino a me, sai che non dormo... Spógliati... Allora gli disfece la cravatta, e col braccio nudo gli ricinse il collo, attraendolo in modo che la bocca dell’amante s’immerse nella sua gola. Egli cominciò a baciarla piano piano, ed ella con le dita irrequiete si snudava il petto. Irritata, s’aggrappò alle sue spalle, si torse, affondando il capo nel cuscino, sollevando il grembo, tendendo alla sua bocca l’àpice dei seni erti. — No, no... spógliati!... — ripeteva. La sua voce era quasi gemente; con le dita irrequiete lo molestava come se volesse batterlo; era tutta inarcata; il suo grembo si offriva; le pianelle caddero. Ma con ira egli divelse da quel bacio la sua bocca ansante, sollevò il corpo su le due braccia tese: gli occhi suoi bruciavano di febbre, il suo viso era terribilmente contraffatto, i suoi polsi tremavano. — Vuoi, — disse repentinamente, — vuoi che facciamo una cosa?... Ella si rovesciò indietro, abbandonata, con un semiriso d’affanno e di piacere su la bocca; lo guardava traverso il vapore de’ suoi occhi sperduti, senza ben comprendere quel che l’amante le diceva. — Quale cosa? — mormorò. — Che andiamo insieme a rivedere la camera di Giorgio? Ella trattenne un grido, rivolse la faccia nel cuscino, gli puntò con forza una mano contro la gola, per respingerlo da sè, quasi volesse punirlo di quella orribile celia. — Sei pazzo, Andrea?... Andrea! Ma egli rideva malvagiamente, e lasciatosi cader sui gomiti raccolse il capo di lei fra le sue mani, con tutta la capigliatura. — Non sono pazzo, no! Guárdami! Ella fissò gli occhi, troppo grandi, ne’ suoi: con gli occhi lo ascoltava. — Ti amo, Novella! ti amo più che mai!... più che mai!... — le diceva scuotendole il capo; affondando le falangi nel tepore della sua nuca morbida. — Eppure, chissà, fra un’ora, fra un momento... non sarai più mia! Balbettava queste parole, curvo sulla bocca di lei, quasi piangendo, e le serrava il collo con i polsi, nei quali sentiva battere la veemenza del dolore che pativa. — Andrea, cosa dici?... non so cosa dici? Ma no! ma no!... Egli scuoteva il capo, e scuoteva lei pure, duramente, facendole male. — Ascóltami bene... cerca di bene comprendere questa orribile cosa... Mentre ti amo come un pazzo, bisogna che mi provi a perderti! Mentre ti amerò ancora, e sempre, fino alla disperazione... tu, forse, mi odierai! Amore, amore mio, puoi comprendere? Mi ascolti?... Le abbandonò il capo, la sollevò intera fra le braccia, la strinse convulsamente, gli si empiron gli occhi di lagrime: poi rise. Anch’ella piangeva, lentamente, senza saperne il perchè. — Non importa se dopo mi odierai... Ma devi sapere una cosa che non posso più tacerti. È venuta l’ora nella quale ci dobbiamo conoscere interamente. Non importa se griderai... Solamente lasciami parlare! parlare! perchè ti amo, e sono pazzo... e tu devi essere al pari di me, pazza, pazza!... Nel convulso, ella pure singhiozzava, stremata, soffocata, stringendosi forte alla sua persona come in uno spasimo di voluttà. Allora egli si tese, fece un arco di tutta la sua forza, dai calcagni alla fronte, cercando quasi d’imprigionarla nel suo amore terribile; poi le disse con ira: — Solamente ricórdati questo: — se dopo mi odii, e mi abbandoni, e sei d’un altro, e ti lasci baciare da un altro... io t’uccido! t’uccido! t’uccido... _come ho già fatto un’altra volta!_ E ricaddero avviluppati nella profonda coltre. Poi, nel dubbio che non avesse bene inteso, ripetè, scandendo le sillabe: — Come ho già fatto un’altra volta. Ella era così stordita e soverchiata dalla sua violenza, che, invece di rispondergli, cominciò nervosamente a ridere. — M’hai bene inteso?... Perchè ridi? Ma senz’attendere la risposta, egli, d’un balzo, fu in piedi, si curvò su l’amante, le disse: — Guarda: con queste mani ho ucciso! Gli occhi di lei, stupefatti, si avvinsero alle sue mani, divenendo a poco a poco enormi, vuoti, fermi. — Chi?... — fecero le sue labbra, dopo un lungo silenzio. — Giorgio! Ella, ch’erasi un po’ sollevata, si rovesciò indietro, nel solco dei guanciali, come se le avessero rotto il cuore. Le sue mani sperdute brancolarono, quasi per respingere un’ombra; poi, atterrita, si strinse i pugni contro la fronte. — Allora... — mormorò senza fiato, — allora è proprio vero... — Sì, è vero, — egli rispose, ben forte. Ecco: aveva l’impressione d’essersi sparato nel cervello e d’aspettare che la morte cominciasse nelle profonde sue vene. Invece una calma subitanea, una lievità sorprendente gli pervase a poco a poco lo spirito. La vita cominciava un’altra volta, dopo un’attimo d’interruzione. Allora tolse una rosa dal bicchiere, la odorò forte, ne morse il gambo coi denti. Poi fece una riflessione veramente futile, e cioè che quello stelo aveva un sapor brusco, dissimile dal profumo della rosa, e che inacidiva la sua bocca leggermente, come il sapore d’un frutto acerbo. Poi, guardando l’amante, s’accorse che sotto le sue braccia sollevate un seno magnifico ed inverecondo le sbocciava dalla camicia di batista. Lo guardò senza lussuria, come si guarda curiosamente la nudità di un bimbo. Insieme volle conoscere cosa ella sentisse per lui dopo quelle parole irrevocabili, e paurosamente si provò a toccarla. Poichè rimase ferma, una oscura tentazione lo spinse al desiderio di darle ancora un bacio. Su la sua fronte, sopra i suoi pugni serrati, pose le labbra cautamente. — Guárdami! Ella infatti lasciò cadere le braccia, e, pallida come non era mai stata, con tutta l’anima lo guardò. Allora fu egli stesso ad aver quasi paura di quegli occhi; lento, muto, curvo, si ritrasse. La rosa caduta si schiacciò sotto il suo piede. — Andrea... Ma, nel parlare, la mascella le tremava d’un irresistibile tremito; una sensazione di freddo le traversò tutto il corpo; macchinalmente si ricoverse. — Andrea, sì, mi ricordo... Una volta mi hai detto: «Così e più forte...» «Così e più forte...» Queste due parole: — «più forte» — mi sono rimaste nella memoria come una promessa funesta e grande. Anche tu forse te ne ricordi... Ma, guarda come tremo... Dammi, dammi uno scialle!... Egli cercò per intorno senza veder nulla; poi prese il piumino di seta sul quale poltrivano i suoi piedi scalzi e le fasciò il corpo. Nello stenderle sotto il mento la seta lucida e soffice, premeva un po’ le dita per toccare la sua gola, e per farle sentire che la toccava, quasi provasse una singolare gioia nell’accorgersi che gli era tuttavia lecito carezzarla come un amante. Ella chiuse gli occhi senza guardarlo, rannicchiò sotto la vestaglia i piedi scalzi, e rimase in quella supinità, ferma, addormentata. Andrea, ritto in piedi, assiderato in una specie di attesa immobile, ascoltava dentro di sè, fuori di sè, il volo del tempo. Gli parve di nuovo che la vita cominciasse in quell’ora, ma fosse di una lentezza esasperante, cupa, monotona, quasi ferma. Sul tavolino da notte, fra la lampada e il bicchiere, un piccolo orologio d’oro batteva i minuti secondi; nell’indugio del suo tempo interiore quella velocità lo irritava. Si accorse d’un disegno di luce che la lampada formava su la tappezzeria; si accorse d’un moscerino che ballonzolava intorno al paralume, come se pendesse dal soffitto appeso ad un lungo ragnatelo. Incominciò a ricordarsi di cose lontane, saltuarie, minime: d’una certa satira piena di garbo e di malizia che uno studente aveva messo in voga nella sua Clinica, per farsi beffe della signora Maggià; poi rivide l’aspetto medesimo della Direttrice, e quel suo camminare impettito per le corsìe dell’ospedale, con un’aria da sergente nel corpo di guardia; poi si rammentò di certe canzonette che soleva cantare su la chitarra Egidio Rosales, talvolta, nelle sere d’estate, quando i medici di turno se ne uscivano a fumare una sigaretta sotto gli alberi del giardino... poi d’un seppellimento a bordo, al quale aveva casualmente assistito, molti anni addietro, nel corso d’una lunga navigazione. A quel tempo egli era un oscuro e povero medico, laureatosi appena; traversava sui transatlantici per vedere un po’ di mondo. Il morto, egli se ne ricordava, era un cileno erculeo, proprietario di fattorie, forse quarantenne, che aveva per moglie una piccola donna, gracile, miope, senza età, senza ornamento alcuno, tale da non potersi comprendere per qual modo gli fosse piaciuta. In alto mare lo avevano preso le febbri e la dissenterìa; si ricordava ch’era morto bestemmiando, in un accesso di furore che gli fermò l’aorta. Di notte lo portarono sulla tolda ravvolto in un lenzuolo, e quattro marinai, prima di lanciarlo in acqua, lo avevano fatto dondolare cinque o sei volte a forza di braccia, sovra il parapetto lucido... Era precisamente quel dondolìo bianco e lento che ora i suoi occhi rivedevano. — Andrea... Egli udì, ma non rispose. Volontariamente si lasciava sperdere in una ridda continua d’allucinazioni, che a poco a poco assumevano l’evidenza della realtà. Ora gli pareva d’esser lontano, frammezzo ad una notte stellata, per mare, con il vento a prua. D’improvviso irrompeva nell’ombra un’aurora violenta; il confine azzurro del cielo si popolava di città fantastiche; sui moli percossi dal sole infuriava una folla gesticolante... Od era invece una notte profonda, in una città senza lumi, con strade ambigue, con porte sbarrate. Egli l’attraversava correndo, per giungere alla sua casa, che saccheggiavano; ed era notte così folta, che più correva e più smarriva la strada. Nel labirinto dei vicoli, dietro le porte asserragliate si consumava l’orgia fino al sangue; la città era piena di tumulto; per ogni angolo si assassinava. D’un tratto non era più quella; con un guizzo abbacinante l’elettricità scoppiava da migliaia di lampade: era una piazza enorme, con strade senza fondo, e popolo vi accorreva in tumulto con un fragor di tempesta, plebe irta e scatenata, che urlava, da ogni lato, nel travolgerlo: «Ammazza! Ammazza!» — Andrea... Si ricordò che l’aveva già chiamato un’altra volta, forse pochi secondi prima, e vinta quella specie di sonnambulismo che gli offuscava il cervello, guardò l’amante, ancor supina in quel letto sconvolto, e le sue trecce che ingombravano il guanciale, i suoi occhi fermi, il suo volto senza espressione. Si curvò, e disse: — Ora finalmente sono libero. — Poi le chiese: — Hai paura? — No! — ella rispose, splendidamente, con una singolare forza. — No! Nel dirlo, si era sollevata con impeto; e in quel momento ella pure si ricordò che una volta Giorgio le aveva detto: — «Come gli rassomigli!» La sua treccia disfatta le cadeva sopra una spalla; con le dita calme lentamente la riannodò, poi disse: — Quasi lo sapevo. — Tu? — Sì, io. Lo immaginai prima che nessuno lo dicesse, perchè ti amavo e tu mi avevi qualche volta stretta nella tua volontà con tanta forza, ch’io stessa me ne sentivo ardere come fosse mia. Fu negli ultimi giorni, prima... prima che morisse. Ma dopo, ogni volta che questo pensiero mi si affacciava, io lo respinsi, lo annegai nel mio cuore così profondamente, che man mano ero giunta quasi a dimenticarmene. Ma ora, hai fatto bene... sì, hai fatto bene: io lo dovevo sapere come te. Qualcosa di virile, d’implacabile, ora le splendeva nella fisionomia trasfigurata; la sua bocca d’amante, il suo cuore d’innamorata sapevano dire improvvisamente queste limpide parole. Dal gorgo dormente sotto il velo tenue della sua femminilità saliva in lei questo coraggio come un segno barbaro di bellezza. — Sì, hai fatto bene a dirmelo, perchè non era onesto che tu solo dovessi portarne il rimorso. — Non ho rimorso, — egli l’interruppe con una voce sorda. — Chissà, chissà... — ella rispose. — Non bisogna troppo guardare in noi quando l’anima sente il bisogno di vivere nascosta. Vieni, mio povero amore; sièditi, ascòltami... non voler essere più forte di quello che sei. Guarda: io, che sono semplicemente una donna, ho capita la tragedia che si svolgeva in te, giorno per giorno, ed ho taciuto, solo perchè mi parve che tu lo preferissi. Ma ora, perchè seguiteremmo a nasconderci l’uno all’altra, se _nemmeno questo_ è bastato a distruggere il nostro amore? Tranquillamente gli tendeva la mano ferma, come per offrirgli un patto che suggellasse la loro complicità. Un’ondata di commozione gli traboccò dal cuore; con i due palmi afferrò quella mano, ed inginocchiatosi, nascose nel suo grembo la faccia scolorata. — Allora, — le diceva, — tu non mi odii? Non mi respingi da te? Non hai paura d’esser mia, dopo quello che sai? — No, no... — ella rispondeva. — Tutto può accadere nel mondo, tranne che io non ti ami. Egli alzò la bocca verso la sua bocca, ed in un bacio mortale si congiunsero, con la gola piena di riso, la faccia bagnata di pianto. Per la prima volta nella sua vita egli provò riconoscenza verso una creatura, e per la prima volta conobbe la gioia dello stare inginocchiato. L’adorava, sentiva per lei quello che nell’estasi religiosa un fanatico sente per il suo Dio; l’adorava come bellezza e come forza, di là da tutte le paure, libero da tutte le catene. Sì, questo era finalmente l’amore ch’egli voleva; non cercherebbe mai più d’andar oltre, poichè aveva toccato il limite. Sopra tutte le bufere di sogni che gli uomini avevano scatenate per giungere ad ingannare con speciose credenze la fondamentale paura dell’anima, c’era _una verità_ che divinizzava quest’anima nel suo volo davanti alla morte; l’eternità era il delirio di un lungo istante, la possessione totale del proprio mondo, il senso d’apogeo, — l’amore infinito. Ecco, avevan ucciso e trionfavano: erano il vero simbolo della vita; ubbidivano ad una eterna e spietata logica; riconoscevano il solo dogma che sia davvero padrone del mondo. La terra non vuol essere che un letto d’amanti, ove urge in ogni cosa viva il senso della eternale continuità, la folle speranza d’ogni anima di rinascere nel perpetuo domani... «Fai la ninna, fai la nanna, fantolino della mamma... . . . . . della mamma...» Nell’alta camera il bambinello, forse per fame, si era messo a vagire; la nutrice paziente, dopo avergli tesa la poppa, cantilenava per riaddormentarlo dondolando la cuna. Allora ella disse all’amante: — Se dev’esserci un’espiazione, la consumeremo con uguale fedeltà. Se tu hai avuto il coraggio allora, io l’avrò adesso, che ti sono per la prima volta veramente vicina. — Ma tu credi, Novella, che si debba e si possa dimenticare? — egli le domandò, quasi affidandosi ad una remota speranza. — Non si dimentica, forse, ma cade sopra la memoria un velo d’insensibilità. È il tempo ed è l’amore che lo tessono; bisogna cercare d’aiutarli. Molte volte, in questo lento anno, sono già stata così felice, così pienamente felice, che non mi ricordavo più di nulla... Vedi, è quasi facile... — Forse tu dici questo per ingannarmi. — Invece lo dico perchè sono sicura che ti guarirò. Siamo giovani ancora, e forse potremo avere il coraggio di non riguardare mai più indietro, verso la nostra vita che finì. Non ti sembra che davanti a noi ci sia tanta luce ancora, da permetterci di continuare la strada? Una limpidità s’accese, come un raggio di sole negli occhi di Andrea. — Sì, anima... — disse con ebbrezza, — lo credo, lo credo! — Solamente chi avesse paura, — ella riprese, — non potrebbe far questo. Nè io nè te sappiamo aver paura. Ella brillava, in queste parole, di una luce orgogliosa; veramente gli assomigliava: era nitida, inflessibile come lui. — Ricórdati, — ella disse: — la distanza è quella che meglio seppellisce il passato. Potremo andare assai lontano, e, se ti piace, rimanervi per sempre. Tu non sei fra quegli uomini che davvero possono rinunziare alla vita; fra poco avrai nuovamente bisogno d’esser forte com’eri, buono ed operoso com’eri. Quando mi dicesti che abbandonavi l’Università, la Clinica, i tuoi libri, nulla feci per impedirtelo, ma pensai: — «Tutto questo ricomincerà in una vita nuova, ed io stessa gli dirò: «Andiamo.» Un colore di vita brillò su la fronte dell’uomo che non poteva essere un vinto. — Come sei buona! come sei buona! — esclamò con ardore. — Sì, Novella, hai ragione: voglio vivere ancora! Ho bisogno ancora d’essere, come hai detto, buono e forte. Si serrò nel palmo la fronte accesa, gonfiò il petto in un largo respiro e soggiunse: — Poichè, vedi, anche nell’uccidere fui tale. Se avessi avuta l’anima di un piccolo uomo, avrei potuto sottrarmi alla responsabilità del mio delitto, volgere la schiena mentre lo compivo. Ma non volli. Ora che mi sono accusato apertamente, senza diminuire in alcun modo la mia colpa, posso dirti ancora una cosa, che tu non sai. Ed è questa: — Giorgio mi ha domandato volontariamente di morire, mi ha supplicato, con parole indimenticabili, perchè lo facessi morire. Ella dette un’esclamazione di maraviglia e si levò trepidante, con gli occhi pieni di luce. — No, attendi!... — egli l’interruppe. — _Già era tardi_. Lo avevo già condannato a spegnersi, avevo già cominciato ad impadronirmi della sua vita. Ma una sera, — quella sera, ti ricordi? che tu fuggisti nell’udirlo venire. — Giorgio entrò nella mia camera e mi disse: — «Novella era qui.» Nel sangue gli camminava già il veleno, era esausto; mi parlò come forse nessun uomo ha mai parlato ad un altro. Mi disse: — «Poichè vi amate e siete due creature vive, io, che sono un morto, debbo scomparire. Aiútami! Tu, che sei stato il mio fratello ed il mio nemico nel mondo, aiútami! Non ho la forza di colpirmi da me stesso: tu solo puoi avere per me questo grande coraggio. Aiútami, Andrea, dammi un veleno!» Ecco quello che avvenne. Te lo racconterò, se vuoi, parola per parola; me ne ricordo con lucidità, come se fosse accaduto ieri. Vedi, è ancora più barbaro che se l’avessi ucciso in un momento solo, mettendogli una mano alla gola. Poichè, sebbene fosse un morto e io sapessi che la natura lo aveva ormai condannato senza scampo, tuttavia sarebbe certo vissuto fino a veder nascere il nostro bimbo, o vedere te, travolta da un atto di disperazione... Era questo, mi capisci, era questo che io non volevo! Egli si fermò concitato. Bianchissima, l’amante lo ascoltava, seduta sull’orlo del letto, un poco protesa verso di lui, con le mani aggrappate alle coltri, i polsi, le braccia, le spalle che parevano irrigidirsi. — Allora? — ella fece ansante, quasi non tollerasse quella pausa. — Egli ti amava e mi amava, Novella, ed aveva compreso quello che un uomo non comprende mai: l’inutilità del proprio amore. In lui tutte le passioni erano giunte al parossismo: la gelosia, l’amore, l’odio, la viltà, la bontà. Voleva chiudere gli occhi per non vedere oltre il nostro peccato. Mi ha detto: — «Non posso più soffrire! abbi compassione di me! fa ch’io muoia...» — E allora?... — Allora, dopo avergli quasi confessato: — Ma, bada _ch’io non posso più_ arrogarmi questo inesorabile coraggio... — dopo aver avuta la tentazione di salvarlo ancora, di lasciare che l’uccidesse la morte, ho compreso mentalmente ch’egli aveva ragione, che lui ed io avevamo ragione, che la sua pace era fuori dal mondo... e gli ho preparata l’ultima dose di veleno. Ecco, lo rivedo. Si avvicinò lentamente; senza paura, ma lentamente. «È questo il veleno?» — balbettò. E sopra vi pose un dito, come per toccare la morte. Parlava automaticamente, con un riso a fior di labbro; guardava quasi affascinato la siringa lucente, colma di un liquido senza colore, innocuo, limpido come l’acqua. Poi snudò il braccio sinistro, rimboccando la manica piano piano; torse un poco il viso, la bocca gli si fece obliqua, e prese la siringa fra due dita. — «Come si fa?...» — domandava ridendo. «Così!» — Gli strappai la siringa di mano, e mentre tenevo strettamente il suo polso, con l’ago pronto a pungere su la sua pelle rabbrividita: — «_Io_ — gli dissi, — _io debbo finire di ucciderti_, non tu!» — E per punirmi, per non volgere la schiena, l’ho avvelenato, io, forte, in un colpo, con la mia propria mano! Ella strinse gli occhi; le sue dita contorsero la coltre; il suo busto barcollò indietro; ma si contenne ancora e soggiunse: — Dopo?... — Dopo l’ho dovuto sollevare, portare nella sua camera, svestirlo, piegare gli abiti, comporlo naturalmente nel letto; poi sono venuto a chiamarti, là, nella tua stanza... Ella rimase immobile, con gli occhi fissi, e rivide forse nella chiara camera funeraria il raggio lunare che vestiva il cadavere dal piede alla fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca elettricità. — Báciami! Báciami! — d’improvviso ella gridò, scuotendosi tutta, come se volesse ubbriacare di voluttà la coscienza terribile. — Báciami forte!... Egli si chinò su quel grido, e furiosamente la possedette. . . . . . . . «Fai la ninna, fai la nanna, fantolino della mamma... . . . . . della mamma...» Era l’alba; l’alba vaporosa, tenue, come un velo di caligine bianca. Il bambinello, forse per fame, s’era messo a vagire. — Senti?... — mormorò Novella; — ora piange... — Fra poco si riaddormenterà. Mi ami? Un bacio ed ascoltarono. Ma la vocina passava il silenzio, lunga, insistente dannosa. La mamma era inquieta; per la prima volta s’accorgeva d’amarlo, sentiva quella voce risuonare nell’eco della sua propria carne. Improvvisamente una profonda volontà materna le fece dire: — Andiamo a vederlo. — Sì?... vuoi?... E furono _le stesse parole_, quasi _la stessa voce_ della notte quand’erano andati a vedere il morto. Si levarono; egli la ravvolse nella vestaglia, si mise addosso qualche abito in fretta, e, presala per mano, aperse l’uscio verso il corridoio. — Fa piano, — le diceva come allora, — che nessuno si desti. Addossati l’uno all’altra, scivolando lungo la parete, giunsero fin sul pianerottolo, dove già l’albore pertugiava con qualche striscia di pallido fumo. Cauti salirono le scale. Si udiva il vagito del bimbo tra la cantilena della nutrice affievolire, affievolire... Batterono all’uscio, chiamando la donna per nome affinchè non s’impaurisse: — Lena, Lena... Ed entrarono. Un lumino a olio bruciava tra il letto e la cuna spargendo per la camera un chiarore da presepio; ma la balia erasi levata e camminava in camicia, coi piedi scalzi, ninnando il pargolo su le sue braccia dai gomiti rotondi, e sempre cantilenava con una pazienza infinita: «Fai la ninna, fai la nanna...» — Che c’è? — disse con arroganza, quasi considerasse come due intrusi quei due signori. E tranquilla si fermò nel mezzo della camera, gravando il corpo discinto sui calcagni piatti. — Nulla, — essi risposero con una certa confusione. — Siamo venuti a vedere perchè piange il bimbo. — Voleva il latte. Ora dorme: guárdino. Benchè sorpresa, non mostrava alcun pudore; traverso la camicia ruvida si delineavan controluce le sue forme tozze; dalla sua persona raggiava un certo splendore di robustezza e di maternità. Ogni tanto lo stoppino scricchiolava nell’olio, poi la fiammella mandava intorno un guizzo tremolante, lasciava scappare in su qualche piccola vampa, simile a fiocchi di seta nera. — Dámmelo in braccio, — disse paurosamente la madre. Siccome le imposte non erano chiuse, dietro i vetri stava per nascere un po’ di luce azzurra. La nutrice affidò il pargolo malvolentieri alle braccia di Novella, ed anzi teneva le mani sotto i suoi gomiti, quasi per paura che lo lasciasse cadere. La madre lo baciò senza toccarlo, poi disse all’amante: — Guarda! Egli chinò sovra il suo bimbo dormente la persona tragica, ed infatti sentì una sensazione del proprio sangue trascorrere in quella fragile vena. Era ciò che di più bello aveva creato l’uomo: sè stesso; era finalmente la ragione magnifica della vita, _la guisa di non morire_. Con gli occhi pieni di luce guardò il bimbo addormentato su le braccia della donna che amava; un’ondata barbara di felicità gli travolse l’anima, e come se avesse guardato per la prima volta nella verità, nella bellezza del mondo, l’uomo che cercava il Dio nella materia comprese di averlo infine trovato. Ora, dal cálice della notte, l’alba nasceva come un bianco profumo; nuda usciva dalle braccia d’un amante morto, nuda immergeva la sua bellezza in un colore d’aria e d’infinito. L’alba diceva come il Gran Nomade: — _Ieri e domani_. Era il momento in cui, dalle case degli uomini, si vedeva il Tempo camminare. Allora, quasi volesse offrirlo ad un battesimo di luce, la madre sollevò il suo bimbo in quella trasparenza che gli somigliava, poi disse all’amante con un sorriso: — Bácialo: è nostro! Ed insieme, attenti, sorridenti, lo deposero nella cuna. Ma d’un tratto, per l’alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel silenzio dalla sonora muraglia, scoppiò la Canzone Disperata sul violino singhiozzante dello scemo. La Canzone diceva: «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di malinconìa; «non c’è nessuno che dica un pater nè un requiem per l’anima mia. «Non c’è nessuno che mi tessa una ghirlanda con le sue mani... «Ahimè!... la campana del Tempo non dice che: — Ieri e domani.» «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà... «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti portando il mio scheletro su la schiena; «coi piedi mi batte i ginocchi, mi stringe il collo con le mani... «Cammina!... — mi dice ridendo; — la vita comincia domani. «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di nevrastenìa; «non c’è nessuno che mi pianga; neanche l’anima mia... «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l’Inutilità. «Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina... «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!... «Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che ballava. «leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo... «Perchè — se non vuoi che ti picchi — mi hai fatto ballare nel mondo? «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di misantropìa... «Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina, «tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo... «Perchè, — se non vuoi che ti picchi — mi hai fatto tremare nel mondo? «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli lontani... «Cammina: la vita comincia domani, domani, domani... » _Fine_ *Cominciato a scrivere quattro volte nella vita nomade; compiuto in Milano, la notte di Natale dell’anno millenovecentododici.* ———— _DELLO STESSO AUTORE:_ L’amore che torna — 1908 _Ottava edizione — dal 101º al 150º migliaio — Romanzo_ Colei che non si deve amare — 1910 _Nona ediz. — dal 131º al 180º migliaio — Romanzo_ La vita comincia domani — 1912 _Ottava ediz. — dal 106º al 155º migliaio — Romanzo_ Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914 _Quinta ediz. — dal 41º al 70º migliaio Storia di una giornata_ La donna che inventò l’amore _Ottava ediz. — dal 96º al 145º migliaio — Romanzo_ Mimi Bluette fiore del mio giardino — 1916 _Settima ediz. — dall’ 111º al 160º migliaio — Romanzo_ Il libro del mio sogno errante — 1919 _Terza ediz. — dal 51º all’ 80º migliaio_ Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920 _Terza ediz. — dal 101º al 150º migliaio — Romanzo_ _Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta la ristampa._ _Nota degli Editori_ ———— *** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita comincia domani" *** Copyright 2023 LibraryBlog. 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