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Title: La vita comincia domani
Author: Verona, Guido da, 1881-1939
Language: Italian
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Internet Archive.



                            GUIDO DA VERONA


                        LA VITA COMINCIA DOMANI

                                ROMANZO


             _Ottava Edizione — Dal 106º al 155º Migliaio_



                R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE
                                   —
                                 MCMXX

                                  ————

                          PROPRIETÀ LETTERARIA
  I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
                                 paesi


  Stab. Tipo Lit. FED. SACCHETTI & C. — MILANO — Via Zecca Vecchia, 7

                                  ————



I


Nella grande loggia vetrata che si apriva a pianterreno della villa
verso il giardino fiorito Maria Dora entrò, più fresca e più gioconda
che la primavera, portando sopra un vassoio d’argento le chicchere del
caffè mattutino. Da un braccio le pendeva ripiegata una lunga tovaglia
di colore; coi denti umidi mordeva il gambo d’una rosa, vermiglia come
la sua bocca.

Era mattina di primavera, limpida e gaia, con profumi d’oleandri che si
mettevano in fiore. Stormi di rondini, balenanti nell’azzurrità come
turbini di api nere, assalivan la grondaia sovraccarica di nidi e sì
l’accerchiavano coi loro spessi voli, che l’aria, tra quel saettamento,
pareva tingersi d’un color di nuvolato nella fiamma del mattino.

Maria Dora trascinò verso il mezzo del colonnato una piccola tavola in
vermena di vinco, e, spiegata la tovaglia, cantarellando cominciò ad
apparecchiare. Suo padre, Stefano, in giacca di frustagno, ritto sul
margine d’un’aiuola discuteva gesticolando con il fattore Mattia.

Una doppia scalinata di cinque gradini scendeva da un lato e dall’altro
della veranda pianamente nel giardino; su la duplice balaustrata e lungo
il davanzale invetriato correva una spalliera di geranio rampicante,
che, salito per lo zoccolo del muro, lanciava in alto come un’ondata la
straordinaria sua fioritura, poi, curvandosi, buttava sino a terra un
magnifico mantello di broccato, colmo nelle sue pieghe d’innumerevoli
fiori; leggeri alcuni e tenui come arabeschi di filigrana, che li moveva
il più sommesso vento, altri così grevi e soffici che ricadevano per il
soverchio peso, come fiori tramati in una stoffa o ritagliati a forbici
nella foltezza di un meraviglioso velluto.

Questa grande spalliera di gerani era l’amore e l’orgoglio di papà
Stefano, che vi prodigava tutte le sue cure.

Dallo sterrato innanzi alla casa il viale, sparso di ghiaia, si cacciava
senza nascondersi entro un piccolo bosco di bambù; snodava le sue curve
tortuose per il pendìo dei giardino, poi, rompendo fuori da una macchia
d’alberi e fiancheggiandosi d’un pergolato, scendeva diritto al cancello
verso la strada campestre.

Rapidamente, con le sue mani svelte, la fanciulla ordinò le chicchere
sul tavolino. Da poco erasi levata in quel mattino ilare; aveva indosso
un buon odore d’acqua di lavanda e di cipria fina; i capelli dorati le
splendevano della recente acconciatura; portava una gonnella corta con
sopra un bel grembiule merlettato.

Seduto in un angolo della loggia, il suo fratello più che ventenne,
Marcuccio lo scemo, scriveva a matita velocemente, con una specie di
frenesia, tenendo il quaderno su le ginocchia sollevate e standovi sopra
curvo, in attitudine di gran fatica. Un passo lontano da lui, sovra una
seggiola di paglia, era il suo logoro violino e v’erano i suoi grossi
gomitoli di lana, coi ferri da calza, poichè scrivendo, sonando e
facendo la calza egli occupava la monotonia delle sue lunghe giornate.

— Uh!... Marcuccio, come lavori!... — fece Maria Dora, guardandolo. Ma
lo scemo, lunatico, scrollò le spalle e non rispose.

Ora nel giardino papà Stefano redarguiva con voce burbera il fattore;
questi l’ascoltava pieno di rispetto, ma insieme con quella cert’aria
cocciuta e ironica che sanno avere i contadini.

— Insomma, vi dico, Mattia, che se Giannozzo ha rotto l’aratro, è lui
che se lo deve pagare. Il contratto colonico parla chiaro: danni di
cascinali e d’attrezzi a carico dell’affittuario. Io non so nulla! Ha
firmato... non doveva firmare.

Maria Dora, che l’ascoltava dal loggiato, ruppe in un trillo di riso.
Stefano si volse:

— Che hai tu, farfallina?

La fanciulla battè insieme le mani, quasi per dileggiarlo, e scappò via.
Stefano concluse:

— Dunque non voglio saper nulla! Ditelo chiaro e tondo a Giannozzo da
parte mia.

— Va bene, signor Stefano, lo dirò... solamente...

— Solamente cosa? Che altro c’è ancora?

— C’è questo: Giannozzo dice che, se lei rifiuta, vorrebbe allora
parlarne con suo genero, con il signor Giorgio direttamente...

— Ah, sì? — l’interruppe Stefano gonfiandosi di sdegno. — Cosa vuol dire
questo «direttamente?»

Nell’agitarsi diede un calcio all’annaffiatoio, che aveva presso e lo
capovolse. Poi alzò la voce:

— Chi comanda qui sono io! Lo sappia Giannozzo e sappiatelo anche voi:
chi comanda sono io!

— Benissimo, signor Stefano, — costui rispose con molta umiltà.

Dunque andate alla cascina e dite a Giannozzo che se l’aratro è rotto...
in qualche modo si provvederà. Non faccio alcuna promessa,
intendiamoci!... Ma dico soltanto che bene o male si provvederà.

Stefano gli volse le spalle, scese alla vasca, riempì l’annaffiatoio, e
tornato verso la spalliera di gerani, cantarellando ne mondava i fiori.

— Uh, la la... dormono ancora tutti come talpe stamattina! In questa
casa si dorme come talpe... la... la... come talpe... uh, la la... E
Giorgio sempre peggio! Voglia il cielo ch’io m’inganni, ma vedo che se
ne va... uh, la la...

Maria Dora saltò fuori dai loggiato:

— Che avevi, papà, da gridar tanto?

— Ah, sei qui fanfaluca? — Poi le mostrò l’orologio: — Sai che ore sono?

— Quasi le otto, papà.

— Appunto, — egli rispose, contraffacendo la sua vocina: — Quasi le
otto! le otto meno cinque minuti, e non c’è nulla di pronto ancora!

Poi salì verso il loggiato:

— Ogni giorno ci si leva più tardi, eh? Si prendono tutti i vizi, quando
si esce dal convento!

Maria Dora gli si avvicinò, smorfiosa come una piccola bimba, la quale
non temesse tuttavia quel suo padre accigliato.

— Benissimo!... vediamo un po’: grembiuli di pizzo, ricciolini...
cipria!... scommetto che ti dai anche la cipria!

Maria Dora gli tese la guancia, ma tenendosi un po’ discosta per non
lasciarsi toccare:

— No, papà; guarda: è naturale...

Ed egli minaccioso:

— Bada che se ti scopro, sai!... La cipria è la farina del diavolo. E
poi si diventa curiose anche! Si vuol mettere il nasino dappertutto! Si
vuol sapere perchè gridavo con Mattia... Fra poco la padrona della casa
sarai tu.

— Oh, io lo so perchè gridavi! Per l’aratro di Giannozzo... Io l’ho
veduto: è tutto guasto. Compragli un altro aratro, papà, al povero
Giannozzo!

— Tu mischiati de’ tuoi libri e delle tue matasse! Queste cose non sono
per te. Ora chiama Novella e vedi se la mamma s’è levata.

— La mamma è in cucina che sorveglia il caffè, se no la Berta,
scioccona, lo lascia versare. Novella prendeva il bagno poco fa. Ma c’è
uno che dormirebbe, e come dormirebbe! se non l’avessi svegliato io.

Ella si prese fra le dita i due lembi del grembiulino e fece una piccola
riverenza:

— Voglio dire Andrea... il professor Andrea!... il signor Andrea, l’uomo
celebre!

— Ah, e tu l’hai svegliato?

— Almeno suppongo; perchè sono passata cinque o sei volte nel corridoio,
davanti alla sua camera, cantando a squarciagola. Poi ho anche
picchiato, poi ho anche messo la testa dentro... — soggiunse con un atto
di pudore.

— Oh, pettegola e svergognata! — esclamò il padre, nascondendo nella
minaccia un sorriso. — Pettegola e svergognata! Dunque tu metti la testa
nelle camere dei giovinotti?

— Bah... i giovinotti! — ella interruppe, con una specie di
commiserazione. — Avrà quarant’anni!

— Trentasei o trentasette, signorina; non più.

— Ma è brutto!... non ti sembra, papà, che sia molto brutto? — interrogò
Maria Dora, con l’aria di non crederlo affatto. Poi, sogguardando con
civetteria dal volto chinato:

— È vero — domandò con una voce piena d’insidie, — è vero che tu e la
mamma vorreste darmelo per marito?

Il padre, con uno scatto, si guardò intorno esclamando:

— Silenzio! Cosa dici mai!

Seduto in un angolo del loggiato, il suo fratello Marcuccio scriveva,
scriveva.

— Cosa dici mai? Fa che Andrea ti senta! Non è vero, signorina; non è
affatto vero! Chi può pensare che un uomo come Andrea, un uomo serio,
uno scienziato di così gran nome, voglia sposare una pettegola come te?
Non farti nemmeno sentire a dir queste sciocchezze!

Maria Dora piano piano si carezzava il grembiulino, il bel grembiule
merlettato che le stava così bene.

— Oh, io, per esser chiari, gliel’ho già detto: sa, signor Andrea?
vogliono che lei mi sposi... Le piaccio?

— Guarda mo’! — fece il padre inorridito. E lui?

— Lui ha riso... con quegli occhiacci di gatto notturno che mi fanno
paura.

— Ha riso? Bene ti sta!

— Ha riso, ma non ha detto nè sì, nè no... Del resto chi può vantarsi di
conoscere quell’uomo? Quando mi guarda ho voglia di scappare. Ma non
posso. Anche Mattia dice che ha gli occhi magnetici.

— Mattia è uno scemo.

— Poi, — riprese Maria Dora, senza badargli, — questo grande scienziato
è anche un asino, mi pare. Séguita a curar Giorgio, e Giorgio deperisce
a vista d’occhio. Novella è rimasta in piedi l’intera notte... povera
Novella!

— E ti ricordi che uomo era quando sposò tua sorella?

— Ha sempre tossito, papà; questo me lo ricordo.

— Basta! — fece con un sospiro il padre; — se Dio vuole così...

Poi si volse a guardar lo scemo:

— E tu, Marcuccio, che fai?

— Mio fratello è molto occupato! Non lo disturbare.

— Vespa!... — le gridò il padre, con un gesto come per iscacciarla.

— Ora Marcuccio ne ha trovata una fresca, — riprese Maria Dora. Ogni
volta che vede Novella, si mette a ridere e le canticchia sottovoce: Ti
ricordi? ti ricordi, sorelluccia, com’erano belle le margherite? — Cosa
voglia poi dire, Dio lo sa!

Papà Stefano scosse il capo con maggiore tristezza e volse uno sguardo
compassionevole sopra il suo figlio scemo.

Era giovinetto, nel pieno vigore dell’adolescenza, ricco di mirabile
ingegno, dedito a studî profondi, appassionato cultore di lettere,
musicista oltremodo virtuoso, quando una malattia cerebrale, repentina e
violenta, lo ridusse in fin di vita. Guaritone, quasi per un triste
prodigio, dell’antico intelletto non gli restò che un barlume fioco, fra
le tenebre dell’idiozia.

Or camminava solitario, di camera in camera, nella casa paterna, sempre
operoso ed inquieto, come se non potesse rubare un attimo alle urgenti
sue fatiche. Era d’alta statura, un po’ sbilenco, e gli pesava sopra le
spalle cadenti un enorme cranio rotondo, coperto d’una specie di vello
rossastro, qua folto e là rado, che lasciava intorno ai padiglioni
dell’orecchie un cerchio di calvizie lucente. Atona e d’un color terreo
la faccia imberbe, con occhi rotondi, senza ciglia, un po’ gonfi, un po’
malvagi, aveva la bocca larga, tumida, che per lo più rideva, d’un riso
privo di giocondità, discorde come la nota falsa d’uno strumento
logorato.

Gli era nella sua demenza rimasto quel desiderio di gloria che accende
alle grandi opere gli intelletti sani, e si reputava per uomo illustre,
invaso com’era da una mania di celebrità.

Filosofo pensatore, poeta, affastellava senza requie l’una su l’altra
grandi pagine cariche di stramberie: aveva nel suo stato demente
conservata la mania del capolavoro. Poi, quando il suo cervello era
stanco di questa operosa fatica, trattosi da una tasca del suo giubbone
il gomitolo di lana, cominciava con una pazienza da monaca ad
intrecciare il punto a calza. E ne faceva di lunghe striscie,
interminabili, disuguali, come se in quella ruvida lana tessuta
raccontasse una storia di sè, una lunga storia tormentosa ed inutile,
senza principio e senza fine, per gli ebeti come lui...

Talvolta, nell’ore di maggior lucentezza, quando una fiamma di lirismo
traversava il suo povero spirito rabbuiato, o quando più forte pulsavan
nella sua carne d’adolescente l’arterie della vita, quando
inconsciamente vedeva succedere intorno a sè qualcosa d’insolito, e gli
altri o goderne o soffrirne, allora una memoria lontana delle sue
musiche dimenticate gli si ridestava nell’attonito cuore, nel vacuo
cervello, come se la sola voce che potesse ancor metterlo in comunione
con le cose fuggenti, con l’enigma dell’anime altrui, fosse la parola
musicata, il trillo della corda sonora, la nota limpida che gli sgorgava
sotto l’archetto, che si rompeva bruscamente in una sciocca risata...

E incominciava, sul logoro violino, standovi sopra quasi convulso, ad
eseguire una Canzone; la sola che rammentasse fra le musiche un tempo a
lui familiari, unica melodia sopravvissuta nella sua morte interiore.


Così pareva che dicesse la sua tetra Canzone:

    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di
    malinconia;

    «non c’è nessuno che dica un requiem per l’anima mia...

    «Non c’è nessuno che mi tessa — una ghirlanda con le sue mani...

    «Ahimè!... la campana del Tempo — non dice che «ieri» e
    «domani».


    «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?

    «Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà...


    «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di
    morti, portando il mio scheletro su la schiena;

    «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le
    mani:

    «Cammina!... — mi dice ridendo, — la vita comincia domani.»


    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di
    nevrastenia;

    «non c’è nessuno che mi pianga: neanche l’anima mia...

    «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?

    «Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l’inutilità.»


    «Io sono il fiume senza sorgente, che scorro solo per
    confondermi nel mare, nel mare, inutilmente...


    «Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina...

    «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!


    «— Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che
    ballava

    «leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo...

    «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto ballare nel
    mondo?


    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di
    misantropia...


    «— Sei stato in un letto, odoroso, — con lei che giaceva supina,

    «tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo...

    «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel
    mondo?


    «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di
    morti, — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli
    lontani...

                       «Cammina: la vita comincia
                       domani, domani, domani...

Così diceva, o pareva dicesse, la Canzone Disperata sul violino
singhiozzante dello scemo.


— E tu, Marcuccio, che fai? — domandò il padre, dopo averlo guardato
lungamente. Marcuccio, infastidito levò il capo dal quaderno con un riso
attonito.

— Ah!... ah!... buon giorno babbo; che vuoi da me?

Parlava con una voce opaca, lenta, come se facesse uno sforzo mentale
per trovare le frasi necessarie; nel parlare non variava mai tono,
cuciva insieme le sillabe senza inflettere la voce, senza mutare lo
sguardo vitreo.

— Che vuoi da me? Non si può mai aver pace in questa casa! Mi si
disturba. Ed io non posso perder tempo. Il professore Andrea Ferento mi
ha domandato i miei manoscritti per farli pubblicare in città.

Il padre gli battè amichevolmente una mano su la spalla:

— Da bravo, Marcuccio, vieni a goderti un po’ di sole.

— Non ho tempo, ti dico; debbo terminare un capitolo.

— Mettiti almeno più presso alla vetrata; lì, nel tuo cantuccio non v’è
aria. Al mattino fa bene respirare. E tu, — disse a Maria Dora, —
aiùtalo, zucconcella! Prendi quella sedia senza far cadere nulla.

Non appena la sorella fece per ubbidire, e pose la mano sul violino, lo
scemo si levò di scatto, iracondo:

— Non toccare, sorellastra! Faccio da me.

— Càspita!... — esclamò la fanciulla, per celiare di quella bizza. E si
stropicciò le dita nel grembiulino come se avesse toccato qualcosa di
rovente.

Poi disse al fratello, per divertirsi:

— Marcuccio, come ti chiami tu?

Egli la fissò un momento, stando ritto su la persona dinoccolata:

— Io? Mi chiamo il professor Marcuccio; Marcuccio Landi, per bacco!
professore d’Università.

E la sorella:

— Bravo, Marcuccio; siedi e lavora. To’, lasci cadere il tuo gomitolo...
E perchè fai la calza se sei un professore?

— Eh!... certo! quando penso... certo! quando medito faccio la calza...
eh!... eh!... Tutti i grandi uomini hanno le proprie fissazioni.

— Maria Dora, lascialo stare, — disse il padre, rattristato.

Ed ecco si udì per la sala terrena il passo ancor veloce di mamma
Francesca, la quale apparve sul loggiato, e riparandosi gli occhi dal
sole disse: — Buon giorno, bambina!

— Buon dì! — rispose Maria Dora. Poi le corse in braccio, le saltò al
collo: — Buon dì!

— Birichina, — comandò il padre, — vammi a prendere la pipa, ora.

Ella corse via con un bel ridere, saltellando.

— Quella piccina è come una coditremola: non sta ferma un momento! —
esclamò Stefano.

— Beata lei! Ci mette addosso un poco d’allegria... Che sarebbe la
nostra casa ormai, se non udissimo lei cantare?

— E Giorgio come sta?

— Male stamane.

— Si leva?

— Ha detto di volersi levare, ma tuttavia sta male.

Allora Stefano s’avvicinò alla moglie con un certo impaccio, e fattosi
grave le domandò sottovoce:

— Dimmi un po’, Francesca... è una domanda bizzarra che ti faccio, ma
rispondimi con sincerità... Non hai notato nulla, proprio nulla, da
qualche tempo?

— Di cosa? di Giorgio?

— No di Novella.

Mamma Francesca s’impaurì di quella domanda, e chinato il viso pallido
sotto la corona dei suoi lisci capelli bianchi, mormorò con un fil di
voce:

— Che vuoi dire?

— Non hai notato nulla in questi ultimi tempi... in lei, ne’ suoi modi,
nel suo umore? Un cambiamento? qualcosa di buio, di nascosto... nulla?

— Ah, vuoi dire... ma, certo, è preoccupata del marito.

— No, appunto no!... cioè, sì, è preoccupata... certo è preoccupata di
lui anche, ma non solo di lui...

— E allora?... — domandò con timidezza la madre.

— Rifletti bene, Francesca... e specialmente quando viene Andrea... nei
giorni ch’egli abita qui...

— Stefano! per l’amor di Dio!

— Non ti spaventare; faccio una domanda; posso bene ingannarmi. Noi
vecchi si osserva molto, e volevo sapere se non hai proprio notato
nulla, anche tu...

— Ma sì, qualcosa...

— Sst!.!.. c’è Dora.

— Ecco la pipa! — ella esclamò entrando. — La tua preziosa pipa! È nera
e puzza come concime... Brrh!... adesso vado a sciacquarmi le mani.

E di nuovo scappò via farfalleggiando, vivida come uno zampillo di
fontana. In quel mentre apparve sul loggiato la sua dissimile sorella,
ravvolta nel chiarore del mattino che l’adornava come un bel manto.
Ferma sul limitare, si compresse le due mani al petto esclamando: — Che
notte! Mio Dio, che notte!

La sua bellezza era turbata e turbava, quasichè nel guardarla, od anche
nel passarle vicino, accadesse per una colpa involontaria di pensare
alla sua nudità. Non era bella soltanto, ma polverosa di lussuria come
di pòlline un fiore, immersa e vivente nel cerchio d’una atmosfera
sensuale, percorsa dalla propria bellezza come da un brivido di piacere
che lentamente le invadesse ogni vena.

Il suo corpo sembrava tendersi naturalmente all’atto voluttuoso
dell’amore; ogni movimento la denudava un poco, il gesto più lieve delle
sue mani pareva incominciasse una carezza: negli occhi aveva quel colore
indefinibile che nasce dal godimento, nella voce soave alcune di quelle
inflessioni torbide che sono il respiro più profondo e più sommesso
della voluttà.

La capigliatura soverchia, d’un colore tra il fulvo ed il castano, le
oscurava e raggiava la fronte, ravvolgendosi poi senz’artificio in un
viluppo voluminoso, che talvolta la costringeva, quasi l’affaticasse, a
piegare indietro la testa, con un moto soavissimo, nel quale appariva
scoperta come una limpida nudità la gola bianca. I suoi capelli eran
pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due luci, come
le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada mattutina,
brillano, d’autunno, al sole.

Ella disse ancora: — Che notte! Giorgio è stato male. Fino alle quattro
non ha chiuso occhio; poi, nel sonno, delirava. Non sapendo più che
fare, ho chiamato Andrea... Mamma mia, che notte!

Era vestita con eleganza, di tutte cose finissime, che forse, in quella
semplicità campestre, parevano assai ricercate.

— Figlia mia, — disse la madre, — ti stanchi troppo... Finirai con
ammalarti anche tu. Prendiamo dunque una infermiera.

— No; Giorgio non la vuole. Non vuole altri che me, poi si dispera se mi
vede affaticata. Dice che debbo vivere, perchè son giovine ancora,
mentre a lui non resta che morire... Oh, le cose che dice la notte,
quando siamo soli... — Fece una pausa, e con un atto quasi religioso
incrociò le mani aperte al sommo del petto, presso la gola, che un
respiro turgido sollevava. — Ora, — soggiunse, — discenderà. Ma non
ditegli nulla, vi prego, perchè non vuole si sappia quando sta male.

Poi camminò verso l’invetriata e si sporse, guardando nel mattino
chiaro, verso le cose libere, che vivevan splendenti nella beatitudine
del sole; tese le braccia con un atto fervido, esclamando: — Che bel
sole! che bella primavera! Non vai a caccia, papà?

— Aspetto Maurizio. Stamattina è in ritardo.

Allora ella si volse a Marcuccio:

— E tu, Marcuccio, lavori?

— Certo, scrivo. Non sono uno sfaccendato come voi. Lavoro e scrivo
tutto il giorno, come il professore Andrea Ferento.

— Bravo, Marcuccio, — disse Novella mansuetamente; — allora non ti
disturberò.

Lo scemo riprese la pagina interrotta. Ma poi, di sùbito, volse il capo
verso la sorella con un riso ebete:

— Sorelluccia... — esclamò.

— Che vuoi?

— Ti ricordi?

— Di che?

Allora egli mise nella voce un’inflessione ambigua:

— Sorelluccia, ti ricordi... com’erano belle, belle... sorelluccia... le
margherite!

Novella, con un piccolo fremito, guardò rapidamente il padre, la madre,
silenziosi, mentre lo scemo rideva, rideva.

— Non so cosa vuoi dire con queste tue margherite! — rispose, un po’
aspra, riaffacciandosi alla vetrata. Poi d’un tratto esclamò:

— Ecco Maurizio!

— Le margherite... le margherite... — cantilenava lo scemo.

Frattanto Maurizio aveva rinchiuso il cancello e saliva per un vialetto,
in giubba da cacciatore, con schioppo e cartuccera, tenendo due bracchi
al guinzaglio. Era un giovine di men che trent’anni, d’alta corporatura,
nodoso, erto, con la faccia riarsa dal sole, bello e ruvido nella sua
forza. Quando giunse a’ piè della scalinata, si tolse il cappello di
feltro:

— Buon giorno a tutti! Se avete una tazza di caffè la prendo con
piacere.

— Per voi sempre, — gli rispose mamma Francesca. — Ma lasciate fuori i
cani, perchè Marcuccio non li vuol vedere.

— I cani?... i cani!... dove sono i cani?... — gridò lo scemo, balzando
in piedi spaventato, poi raccogliendo in fretta quaderni e gomitoli. —
Via i cani!... — urlava battendo i piedi. — Non voglio cani! Puzzano,
mordono... Eccoli là... Via i cani! Puzzano, mordono... — Scappò
timoroso verso la sala: — Via i cani!

Allora Maurizio, tirando i bracchi per il guinzaglio, mentre abbaiavano,
girò dietro la casa per legarli ad un’inferriata.

— Ecco, son via, — disse mamma Francesca. — Vieni, Marcuccio; càlmati;
non ci sono più: vieni.

Lo scemo si affacciò timoroso al limitare della sala e guatò in giro:

— Non si può lavorare! Anche i cani!... Son come le iene... Vogliono il
cadavere, i cani... Via i cani!

E scalciava nel vuoto come se lo assalissero per intorno, feroci,
abbaianti; finchè, piano, piano, strisciando a ritroso, di nuovo si
rifugiò nel suo cantuccio.

— Badate, Maurizio... — ammonì Francesca, vedendogli posar lo schioppo
in un angolo del loggiato.

— Non abbiate paura: ho tutte le cariche nella cartuccera, — egli
rispose, battendosi la mano su l’ampia cintola. — E Giorgio come va?

— Lo stesso, o peggio, — Stefano rispose.

— Malinconie! — disse il giovinotto crollando il capo. — Malinconie! —
Poi si fece animo e riprese il tono gioviale: — Sono in giro dalle
cinque senza sparare un buon colpo. Ho tirato ad una lepre, ma i cani
l’hanno mancata.

— Tanto meglio; vuol dire che rimarrà per me.

Entrò Maria Dora come un soffio di vento:

— Oh, l’indiano!

Lo chiamava così per il suo colorito scuro e per quell’aria di brigante
che gli davan l’uose, la cartuccera, la giubba di frustagno.

— Servitor suo, signorina, — mormorò il giovinotto, un po’ confuso.

— La Berta dice che il caffè bolle, ma non si vedono ancora nè Andrea nè
Giorgio, — ella disse, facendo una smorfia con il musetto a quel
ragazzone saldo e ruvido come un montanaro, che si era levato in piedi.

— Non dovevate aspettarmi, — rispose Giorgio, entrando nel loggiato a
passi un poco barcollanti e con le spalle ravvolte in uno scialle di
lana. — Ordinate pure il caffè, mia bella cognatina; sono in ritardo e
vi domando scusa.

— Che scuse! neanche per sogno! — esclamò Stefano gaiamente. — Vedo che
l’umore è buono, la cera discreta, e questo è l’essenziale.

Il buon vecchio mentiva pietosamente per infondere in quel triste malato
un poco d’allegria. Giorgio rispose con un gesto vago, e sedette nella
poltrona di vimini foderata di cuscini, che Novella in quel mentre aveva
sospinta verso di lui. Ora, senza farne le viste, ognuno guardava
curiosamente l’infermo. Egli s’accorse di quell’esame dissimulato, ed un
senso di molestia, quasi di pudore, gli alterò i lineamenti. Quel suo
viso era emaciato, ma pieno di chiarore, quasi lo rendesse vivido la
continua febbre. Una rada barba biondiccia gl’incorniciava il mento;
aveva gli occhi dolci e smarriti, una bella capigliatura, dove l’umido
solco della spazzola aveva lasciata una traccia brillante. Il colletto
era troppo largo per il suo collo esile, ridotto a mostrare la sua
tramatura di tendini come un cànapo consunto, e nello sforzo continuo
del reprimere la tosse le vene flaccide si gonfiavano con un livido
colore d’apoplessia.

— Vuoi un altro scialle? — disse amorevolmente Francesca.

— Grazie, sono coperto abbastanza; non ho freddo; grazie.

Gli dava noia che si occupassero di lui, che avessero tante cure della
sua salute; per il che cercava in mille guise di sviare il discorso.

— Ecco l’ultimo!... — esclamò, vedendo entrare il Ferento. — Speriamo
che la Berta non abbia lasciato versare il caffè. Quella Berta è tanto
sciocca!

E rideva, ma d’un riso così artificiale, ch’era pietà udirlo. Andrea gli
battè una mano su la spalla:

— Come ti senti?

— Bene; quasi bene.

— È primavera, — disse Andrea per dargli animo; — torna la gioventù!

— Poeta!... — esclamò lievemente Maria Dora, con un ironico sospiro.

— Se lei me lo permette, signorina... — egli disse ridendo.

Andrea Ferento era tale a vedersi, che il suo primo aspetto muoveva in
chi lo guardasse una subitanea curiosità, un involontario timore. Egli
era d’alta statura, un po’ rigido e ben complesso nelle membra dotate di
virile giustezza: il mento segnato con forza, la bocca aspra, i baffi
corti, precisa la maschera del volto, fermi gli occhi ed accesi d’una
insostenibile fiamma, la bella fronte piena di sovranità. Questa
imperiosa fronte, come soltanto hanno i ribelli e i dominatori, stupendo
segno di forza, pareva che facesse nascere, che spingesse indietro
l’onda maschia della capigliatura, già venata nel mezzo e su le tempie
di qualche filo bianco. Un’eleganza sobria, una singolare nobiltà,
trasparivan da ogni suo gesto; e come se la natura nel foggiare il suo
calco avesse voluto con un segno d’imperiosità predestinarlo al comando,
l’intera sua persona raggiava magnificenza. Nell’espressione del volto,
in tutte le sue membra così pienamente virili, dominava il segno d’una
volontà inflessibile come l’acciaio. Diritta, piombante fra i
sopraccigli, aveva incisa nella fronte una profonda ruga.

Tosto che lo vide, Marcuccio si levò e gli mosse incontro:

— Vi aspettavo, professore, — disse con tono declamatorio. — Sono giunto
alla fine del nono capitolo. Ho scoperto la teoria dell’equilibrio fra
gli uomini e le piante, fra la pietra e l’uomo. Volete che vi legga?

— Non ora, Marcuccio, — egli rispose benevolmente; — mi leggerai più
tardi.

Nel frattempo la Berta entrava, recando sopra un vassoio il caffè
bollente, che spargeva in nuvole di vapore il suo delizioso aroma. Non
appena Marcuccio ebbe veduta la rubiconda fantesca, (poich’egli l’amava
d’un amor voglioso e tutto ne ardeva nel fuoco d’una tardiva pubertà),
scioccamente le si mise intorno a vezzeggiarla e provocarla con insulse
risate. In quel rinascere del tempo di primavera lo scemo sentiva le sue
vene gonfiarsi d’una sensuale gioventù; la florida carne della ragazza
ventenne come una droga selvatica lo riscaldava di bramosie. Nel giorno
l’assaliva per gli angoli della casa, la notte passava lunghe ore dietro
l’uscio della sua camera, guardando per la serratura e picchiando
affinchè gli aprisse; per lei verseggiava con incoerenza e scriveva
lunghe pagine d’amore.

Ed ecco, lo scemo si mise a dondolarle intorno, canticchiando queste
parole che aveva cucite insieme chissà con quale intendimento:

    «Quando la Berta scende al villaggio
    non ha il coraggio
    di guardare in faccia
    nè Pippo dritto, nè Pippo storto,
    nè il macellaro, nè il beccamorto.

Maria Dora, nel mescere il caffè, ripeteva insieme con Marcuccio:

    nè Pippo dritto, nè Pippo storto,
    nè il macellaro, nè il beccamorto.

Poi disse a Marcuccio:

— Non vedi che la fai scappare? La Berta non vuol saperne di te.

— Sorellastra, non parlare di quello che non sai! Vérsami il caffè.

Maria Dora gli riempì la tazza, ed egli si prese con ingordigia un
grosso pezzo di focaccia.

— Maria Dora, — disse Giorgio, mentr’ella se ne andava dall’uno
all’altro mescendo il caffè, — v’ho intesa cantare tutta la mattinata:
avete una bella voce.

— Sicuro, e farò la cantante! Perchè io, — disse con intenzione,
guardando Andrea, — non son nata per il matrimonio... Affatto! Ecco il
vostro caffè, signor Andrea. E farò la cantante, con dietro uno
strascico di seta lungo due metri...

Così dicendo ne faceva il gesto.

— Bada che versi il caffè! — l’interruppe sua madre.

— ... e una bella parrucca di color stoppa, le labbra dipinte, la faccia
imbellettata, una scollatura fin qui... E voi, signor Andrea, mi
manderete un bel cesto di fiori per la mia serata d’onore... Già, ma
frattanto la mattina russate così forte che vi si ode fin nel corridoio.

— Vorrei sapere dove hai imparato a discorrere in questa maniera
sconveniente! — esclamò padre Stefano.

— In convento, papà... dalle piccole suore! Si parlava così da mattino a
sera, poi si pregava... quanto si pregava dalle piccole suore!

— Che impertinente!

— Volete un po’ di crema, signor Andrea? È fresca.

— Volentieri, — egli rispose. Intanto le osservò le mani. — Veh!... che
manine ben curate avete ora! C’è dunque una manicure nel villaggio?

Ella prestamente nascose la mano libera dietro il dosso:

— Vi burlate sempre di me, signor Andrea...

Ancora un poco discorsero insieme, poi ciascuno se ne andò per le
proprie faccende; mamma Francesca nella guardaroba per curare i bucati,
Maurizio con Stefano a battere la collina in cerca di lepri, Giorgio a
intiepidirsi le spalle freddolose nel bel sole che allietava il
giardino. Novella scese con lui, sorreggendolo mentre poneva il piede su
la scalinata, e, quando furono in mezzo al viale, si volse per
domandare:

— Voi non venite, Andrea?

— Finisco la mia sigaretta quassù, discorrendo con Maria Dora, — egli
rispose, rimanendo ritto su l’ultimo gradino e fissando la bella figura
di lei, che s’allontanava. Lo scemo erasi di nuovo rannicchiato nel suo
cantuccio e rileggeva gravemente le pagine interrotte.

— A discorrere con me? — fece Maria Dora. — Come possono interessarvi le
mie chiacchiere?

— Molto, forse... Ma, se avete altro a fare, posso anche rimaner solo.

— Non avrei altro a fare che finire di vestirmi... — ella disse con
civetteria. — Sono ancora tutta in disordine.

— Forse di donne e d’abiti m’intendo assai poco, ma mi sembra, Maria
Dora, che così vestita stiate deliziosamente bene.

— Ora, — disse Marcuccio avanzandosi fra i due, — ora, professore,
mandate via Dora, che vi leggerò qualcosa.

— Veramente, Marcuccio, — egli rispose con indulgenza, — queste letture
si ascoltano meglio la sera. Di giorno c’è troppo svago e troppo rumore.
Attendi fin stasera: verrai nella mia camera e leggeremo. Intanto
lavora.

— Come volete... — rispose lo scemo, con malumore. Ma sùbito si arrese a
quel ragionamento: — Certo la sera è meglio; si è più raccolti. Solo non
posso trovare il titolo per il mio libro: me lo dovreste suggerire voi.

— Ci penserò, Marcuccio, e stasera lo avrai.

Allora lo scemo si ritrasse, parlando fra sè, con ampi gesti: — Voglio
divenir celebre, celebre, celebre!... — Poi, forte: — Spiegàtemi: come
si fa per diventar professori?

— Io vi dicevo, Maria Dora... — E rispose a Marcuccio: — Si studia e si
lavora.

— Aouff!... — esclamò Dora stizzosa.

Ma lo scemo, senza badarle:

— E quando avrò pubblicato il libro, mi chiameranno professore?

— Certo, certo!

Marcuccio si allontanò mormorando: — Celebre! celebre... professore!

— Dunque vi dicevo, Maria Dora, che nell’abito di questa mattina voi
state deliziosamente bene. Poi vi curate ora con somma attenzione; ogni
volta che torno dalla città, e vi rivedo, mi serbate una sorpresa.

— Ma sapete, signor Andrea, che non riesco bene a comprendere se
parliate sul serio o per burla! — esclamò la fanciulla, un po’ confusa.
— In ogni modo so che vi divertite spesso alle mie spalle... e fate
male!

— Perchè?

— Perchè questo, in fondo, mi potrebbe anche dispiacere...

— Ma io dico sul serio, — egli fece con pentimento.

Ella sùbito si rasserenò: — Allora continuate! Fàtemi un po’ la corte...

— Ecco, dicevo che siete ora una signorina, del tutto signorina, e molto
graziosa, e molto... desiderabile!

— No... — ella si schermì con civetteria.

— Ma sì... molto desiderabile! Vedo anche, per esempio, che avete
cambiato pettinatura; non è forse vero?

— Sì. Vi piace questa?

— Molto mi piace; vi sta molto bene: v’invecchia. Ora non sembrate più
la piccola educanda ch’eravate all’uscir dal convento. Vi ricordate? Son
venuto una volta con Giorgio e con Novella a trovarvi nel parlatorio.
Cosa fanno le piccole suore?

— Vado a visitarle di tempo in tempo e canto ancora nei cori.

— Infatti, voi avete sempre quella freschissima voce... Anche stamane,
vestendomi, v’ho intesa cantare.

— Ed anche prima... dormendo! — lo punse Maria Dora.

— Già, russando, come voi dite... Ma questo non conta. V’ho intesa, in
ogni modo, e voi eravate, credo, nel giardino.

— E nel giardino, e nella sala, ed in cucina, in granaio, nel
corridoio... dappertutto!

— Ma io dico nel giardino perchè è più poetico, vi pare?... Dunque la
vostra voce veniva su limpida e quasi primaverile, come se la portasser
dentro i raggi del sole... È sentimentale questo? Vi piace?

— Così, così...

— Allora, non so perchè, ho pensato ch’eravate una signorina, una bella
signorina, e ho deciso di farvi un poco la corte. Ecco, e vi faccio la
corte ora, come desiderate voi...

— Per ridere? — ella domandò perplessa.

— Ma... già! la corte si fa sempre per ridere.

— Allora siete molto maleducato! — ella esclamò con dispetto.

— Davvero?!

— E non so perchè vi divertiate a farmi del male...

— Che male vi faccio?

— Ma... naturalmente! Se io, per esempio, prendessi le vostre parole sul
serio? Mi avete detto che sono una signorina, ben vestita, ben curata,
con le unghie lucide... vedete... — e gliele mostra; — che vi piace la
mia pettinatura... — se la tocca; — che canto bene... che la mia voce
era come una primavera, mentre vi destavate appena... e tutto questo può
turbare una ragazza, può farle un certo male, può darle quasi una
profonda voglia di piangere... ecco!

— Oh, no!... Allora vi domando scusa e vi prometto di non farvi mai più,
mai più la corte... Va bene?

— Chissà se va bene?... chissà... Anzi non va bene affatto!

— E perchè?

— Il perchè non ve lo dico. Ma voi siete un uomo crudele: lo si vede dai
vostri occhi!

— Ohibò! Ditemi una cosa: quanti anni avete ora, Maria Dora?

— Diciannove anni e mezzo, signor Andrea!... — ella rispose con un
sospiro.

— Oh!... e lo dite come se fosser molti!

— Per me sono molti... — Poi fece una pausa, una lunga pausa: — Del
resto lo so bene che non posso interessarvi per nulla... io!

Quante cose in quell’«io», così breve, così profondo!

— Perchè, Maria Dora? — egli fece, un po’ confuso.

— Voi domandate troppi perchè, mio caro!... I quali sono difficili a
dirsi, e non si debbono dire. Credete forse che a diciannove anni e
mezzo non si veda nulla? Invece si vede tutto. E si sa tacere anche...
certo: si sa tacere.

Egli la guardò con un senso timoroso di maraviglia, per quel sùbito
mutamento avvenuto in lei, nella frivola bimba, piena d’allegrezza e di
civetteria. Ora ella parlava gravemente, come se dal volto le fosse
caduta una maschera d’infantilità, e lo sguardo intenso de’ suoi occhi,
l’attitudine amara della bocca, la facevan singolarmente rassomigliare
alla sua triste sorella.

— Non vi comprendo più, Maria Dora... Quello che voi dite mi sembra
strano.

— Strano?... Forse. Ma, vedete, non bisogna burlarsi di me; non bisogna
prendermi come un piccolo gioco, perchè io so anche pungere, se voglio.
Solo, non voglio pungere voi, ed il perchè... — Fece di nuovo una pausa,
nella quale tornò ridente: — ... il perchè lo so io sola! Non ve lo dirò
mai. E per non dirvelo me ne vado. A rivederci!

S’alzò e corse via come un leggera farfalla, ridendo, e lasciando
nell’aria il suo limpido riso.



II


Egli era nella sua camera, insonne, affacciato al davanzale, quando già
nella casa dormente più non udivasi alcun rumore. Aveva spento il lume,
per abbandonarsi al torpore delle proprie meditazioni; ma la stanza era
piena d’una luce quasi fantastica, per il chiarore che vi tramandavano
le infinite stelle. Splendeva il suo letto, splendeva il grande armadio
vetrato, carico d’orciuoli, di fiale, di vasi, d’ampolle medicinali.

Ondeggiante, sfioccata, lontana, una striscia di nebbia navigava sopra
il mare delle foreste, ogni tanto mutando colore, come un naviglio
veliero, nell’incantesimo della notte. E quella striscia di nebbia era
una immagine dell’anima sua, sospesa fra i più grandi abissi, incerta e
pur navigante.

A stordirlo salivano dall’inebbriante giardino vampe di profumi e
d’aromi, come se la primavera dormente fosse un’ara infinita e vi
bruciassero incensi; ma, chiudendo appena gli occhi, vedeva un immenso
lenzuolo nero scendere su quel mondo stellato e gli pareva che fantasmi
orrendi si aggirassero nella tenebra disperata.

Egli pensava ancora una volta all’amore e al delitto: — le eterne fiabe
degli uomini: il delitto, e l’amore.

Poi gli parve udire quel lievissimo fruscìo noto, dietro l’uscio, quel
respiro di lei che sentiva quand’era impercettibile, quel profumo di lei
che lo snervava quand’era pur lontana, e si volse.

La vide infatti, che socchiudeva la porta con precauzione, appena tanto
da potervi passare; la vide che tremava per un lieve scricchiolìo dei
cardini, tutta raccolta nelle spalle, quasi volesse annullare anche il
proprio respiro... e fu nella camera. Girò la chiave con cautela, perchè
la serratura non stridesse, poi gli scivolò accanto, lieve, con un
brivido, nel quadrato azzurro della finestra.

Egli non si mosse, non la baciò. La guardava. La guardava con una specie
di stupefazione, tanto il timore e l’amore facevanla bella. Ma
poich’erano vestiti entrambi di nero, ad entrambi sembrò che vi fosse
qualcosa di funereo in quella veglia che facevano davanti alle stelle.

— Che hai? — diss’ella.

Il respiro della sua bocca, poichè aveva il sapore medesimo della sua
carne, parvegli che fosse un bacio. Sotto quel bacio egli s’irrigidì,
chiuse gli occhi, volendone quasi godere una tentazione più prolungata.
Ella nervosamente gli posò le mani su le spalle:

— Che hai? Perchè mi sfuggi?

Allora, d’improvviso, l’attrasse nelle sue braccia, se la strinse al
cuore con una specie d’amor convulso, affondando la bocca nel tepore del
suo collo, nel principio della sua nudità. Ella era piena d’istinti
lascivi, come nella più matura estate un favo è gonfio di miele. Tanto
pallore le scorreva nel viso, che di quel solo bacio pareva godesse un
estremo piacere.

— Perchè mi sfuggi? — domandò ancora, ma contro la sua bocca. — Durante
il giorno, appena mi guardi; quando arrivi, quando parti, cerchi sempre
di non parlare con me.

Egli non rispose; ma sostenendo sul braccio il peso della sua nuca
rovesciata, le carezzava gli occhi dalle ciglia quasi d’oro, a lungo e
piano, come si fa talvolta per addormentare un bimbo.

— Non mi ami più?... — ella disse, mentre invece sentiva la passione
dell’amante invaderle ogni vena come una immateriale carezza.

— Sì!... sì!... — egli proruppe; — ma sono un vilissimo uomo, Novella, e
fra noi ci sono troppe ombre.

Allora ella si strinse nelle braccia dell’amante come in forte rifugio.

— E adesso, dorme? — domandò Andrea.

— Sì, dorme.

— Ne sei certa?

— Sì.

— Ti ha parlato di... noi?

— Non ancora, ma ogni momento pare che sia per farlo.

Tre stelle filanti, lontane, veloci, caddero insieme. La notte si
accendeva di chiarori fantastici, di vampe fatue, per ogni dove, come un
rogo. Egli, tenendola nelle sue braccia, le fissava la fronte
illuminata, quasi fissasse un punto magnetico, seguendo le bufere de’
suoi propri fantasmi. E vedeva su quella fronte le radici dei capelli
scintillare minutamente, quasi fossero cosparse d’una invisibile polvere
d’oro.

— Novella, — esclamò, — che faremo?

Egli disse queste parole con un’esausta voce desolata, e le disse, lui
così forte, come un bimbo.

— Non importa, — ella fece, scuotendo il capo. — Se tu mi ami, non
importa! Quello che vuoi... anche uccídimi!

Parlava come in un’ebbrezza, piena di lui, sotto il potere del suo fermo
sguardo. E rovesciando la gola turgida esclamò di nuovo: — Poichè fra
poco saremo scoperti, e poichè il nostro bimbo non può, non deve
nascere... poichè non possiamo avere la nostra felicità... uccìdimi, se
vuoi, ma con le tue mani... con le tue sole mani, che amo... non mi
farai male.

Ora la sua passione la transfigurava in una bellezza più che umana, e
questa offerta di martirio pareva, su la sua bocca, semplice.

Egli s’irrigidì; un lampo sinistro gli splendette negli occhi: tutta la
volontà parve gli balzasse d’improvviso al sommo dell’anima,
inflessibile.

— Era il mio amico e non lo è più, — disse con una tetra lentezza; — era
il mio fratello, e non lo è più. Ho creduto ad altre cose false nella
vita, e le rinnego; una sola cosa è vera, necessaria, inevitabile: te.

Fece una pausa dura e guardò nella notte che brillava; brillava come un
incendio di fosforo, su tutte le cime, vertiginosa. Poi affermò, piano
con le labbra, ma forte nel cuore: — Sì, è possibile!

— Che dici?

— Nulla; non voler sapere. Questo solo posso dirti: non ti perderò. Se
ho potuto per questo amore giungere alla frode in cui viviamo entrambi,
se ho potuto annullare la mia coscienza fino a tradirlo nella sua casa,
vicino all’ora forse della sua morte... questo solo posso dirti,
Novella: non ti perderò.

Ella ebbe un sorriso estatico, che le rideva fin su le ciglia, che le
sperdeva gli occhi in una immensa felicità.

— Così mi ami?

— Così, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «più forte».

Fiumane, fiumane, quasi d’un sole notturno, invadevano lo spazio,
ravvolgendo come di gloria il loro colpevole ma stupendo amore.

Sul tetto della casa, forse, o forse nei rami dell’antichissima quercia,
un usignuolo cominciò a cantare. Le ghiaie frammiste con frantumi di
vetro mandavano sprazzi, simili a quelli che davan i suoi denti nel riso
d’ogni bacio, fra i due fili rossi delle labbra. Ella fu sua con tanta
disperazione, con tanto delirio, che le sembrò veramente di sentirsi
dare la morte, fra vena e vena, per tutto il sangue, fino al cervello,
senza patirne, come aveva detto, alcun male.

Nello stesso tempo, e solo qualche passo più in là, diviso appena da
leggere pareti, un uomo afferrato già dalla morte vera, da quella bieca
e putrida che porta indosso un lenzuolo per coprirsi le costole nude,
sussultava in un sonno angoscioso, respirando a fatica il lezzo del suo
proprio respiro, con la fronte che si bagnava di uno stillar gelido,
l’anima che si rompeva in un tormento senza pace: carcame d’uomo
incominciato a marcire.

Ancora una volta era necessaria quella vicinanza, che non è fortuita ma
universale, della voluttà con la disperazione, del nascere con il
morire: inestricabile nodo che s’aggroviglia nell’ironia continua della
vita. Una casa d’uomini dormiva insensibile nella notte bianca, e da due
finestre vicine usciva unitamente a sperdersi nell’aria stellata un
respiro voluttuoso d’amanti che s’inebbriavano ed un fioco rantolo
d’addormentato, ch’era già quasi un rantolo d’agonia. Sopra questi aliti
vicini e dissimili, che sono tuttavia la parola di tanti silenzi
notturni, sul tetto della casa, forse, o forse nei rami
dell’antichissima quercia, un usignuolo, come per ischerno, s’era messo
a fischiare.

E forse in quel sopore affannoso, come traverso un velo di lontana
irrealità, il malato sognava...

Si rivedeva nella piena giovinezza, povero ma risoluto a far molto
cammino, senz’altra ricchezza nella vita che il suo forte ingegno ed un
amico più forte. Questi era medico ed egli ingegnere di ponti e miniere,
sbalzato dalla sorte in ricche terre inospitali, a tutte le temerità
risoluto pur di conquistarsi la vita. E si vedeva nei pozzi profondi,
ne’ corridoi angusti, malsani di miasmi e di gas asfissianti, con le
squadre di operai destinati alle galere sotterranee, armati di maschere
e di lanterne cieche, non più simiglianti ad uomini ma quasi a rettili
tenaci contro i forzieri della terra; si rammentava le tragedie, gli
eroismi laggiù, dove il sole non è mai giunto, e riudiva quel sordo
rombo della macchina calata nelle viscere della terra, per rovistarla e
ferirla come una sonda nell’utero materno, e rammentava le catastrofi
repentine, con gli urli delle vedove e dei figli intorno ai cadaveri
carbonizzati...

Poi le ore di vittoria, quando si era messo con i cercatori d’oro, con
gli impavidi pionieri che l’umanità spinge come vessilli a’ suoi limiti
sconosciuti, e quando, per aprire altri valichi alla potenza temeraria
dell’uomo, aveva trionfalmente forato il grembo calcareo delle montagne,
gettato ponti leggeri come ghirlande di ferro sopra fiumi turbolenti, e
condotta l’acqua ove le terre ardevano di siccità, e deviata la piena
delle valli di straripamento...

Non amori inutili, non sciocche ambizioni, ma la voglia di vincere, sola
e terribile nella sua bellezza, e quest’unico amico del cuore splendente
come l’acciaio, che a sua volta vinceva nei dominî liberi della scienza,
che scopriva bacilli nefasti, che inventava sieri prodigiosi: questo
rinnovatore che le Università si contendevano, questo violento
sollevatore d’uomini che lanciava traverso il mondo possa di volumi
clamorosi... Certo l’avevano contesa palmo a palmo, fraternamente, la
lor terra di conquista, e ciò che aveva spronato l’uno a superare sè
stesso era la vittoria del compagno; ciò che li aveva sorretti entrambi
nelle ore più tragiche, era soltanto la loro scambievole fraternità. Non
mai fra loro un’ombra d’invidia, che non fosse la più generosa
emulazione; mai secreto nè diffidenza fra loro, tanto eran certi e fermi
nel voler compiere insieme, fra qualsiasi evento, l’intero cammino della
vita.

Sì, forse il malato sognava...

Sognava di lei, quando la vide per la prima volta e la guardò per la
prima volta con un pensiero d’amore, così bella che gli parve una cosa
inaspettata, nuova nel mondo, benchè sembrasse allora un po’ malata, e
non d’altro forse che della sua faticosa verginità. Si ricordava d’aver
comprato per lei forse il primo, l’unico mazzo di fiori ch’egli mai
desse ad una donna, e ricordava la prima volta che ardì stringerle una
mano, con paura profondamente soave, per dirle infatti ch’era bella,
bella, bella, e che l’amava con un cuore ignoto, con un’anima nuova,
nata in quel momento...

Si ricordava quella voce di lei, così grave, così lenta, quando chinò la
faccia e gli rispose:

— Sì, Giorgio, vi sposerei volentieri, se lo voleste...

Allora gli si aperse negli occhi un infinito paradiso, e queste parole
gli parvero piene d’un immenso amore, perch’egli fino a quel tempo non
era stato amato mai.

L’aveva poi svestita, una notte, religiosamente, quando ancora fra i
suoi capelli sciolti fluttuava l’odor nuziale della corona d’arancio; e
nel vederla sua, per sè, per sempre, si sentì naufragare in una gioia
troppo grande, che gli soverchiava l’anima, onde gli parve che ogni cosa
di quel momento si disperdesse fuori dalla vita, in un colore
d’impossibilità. Erano stati felici insieme — o così gli parve — qualche
anno, poi... Poi, già nello svestirla quella prima notte, si era sentito
ruggire dentro un male sordo, crescente...

E infine accadde che una volta fu sorpreso di attonita maraviglia
nell’ascoltare la voce di sua moglie che parlava con Andrea...

Era un sogno, poteva non essere che un sogno... e l’usignolo,
nell’azzurra notte, spietatamente cantava.

                          .  .  .  .  .  .  .

Ella s’avvinghiò al suo collo, seminuda, sobbalzando sul letto, e
mormorava con voce soffocata:

— Ascolta...

Tesero l’orecchio, ambedue mortalmente paurosi, verso la parete, verso
l’uscio, verso la camera lontana.

— No, t’inganni, — egli disse. — Non sento alcun rumore.

— Sst... taci!

Ascoltava, protesa innanzi nello splendore del raggio lunare, che
vestiva d’innocenza la sua lussuriosa nudità; teneva un braccio intorno
al collo dell’amante, l’altro puntato su la sponda del letto, con le
dita aggrappate nella coltre come bellissimi artigli, tra l’ansia del
pericolo, atterrita ma pronta. Il respiro contenuto le gonfiava la gola,
palpitante ancora di voluttà; i capelli semisciolti le ingombravano il
collo bianchissimo; tra i pizzi della camicia un seno erto le sbocciava
come una splendida melagrana.

Ma non udiron altro che l’usignuolo infatuato lanciare i suoi fischi
melodici nell’odorosa notte, sopra una orchestra lieve che
l’accompagnava in sordina, con brividi appena di foglie nei respiri del
vento.

Racquetata, ella si compresse il cuore con una mano e s’allentò nelle
sue braccia.

— Se mi chiamasse di nuovo, come la notte scorsa? — mormorò.

— Sì, hai ragione. Làsciami.

— Ancora un momento... Guarda quante stelle!

Ubbriacato, egli le passava le dita fra i capelli, posava la bocca su la
sua pura fronte.

— Dimmi... — ella fece; — una cosa orribile che finora non ti ho mai
domandata... Andrea, tu che sei medico...

Per osare una tale domanda ella nascose la faccia contro di lui,
affinchè non la vedesse. — Tu che sei medico, dimmi: È grave?... è molto
grave il suo male?

Egli rispose bruscamente, con una scossa che lo percorse da capo a
piedi:

— Non so! non so!

Ed ella, con un filo di voce appena percettibile:

— Può guarire?...

— Ah... taci!

Ma la strinse così forte a sè, che tuttavia non si sentì odiata. Allora
ella cominciò a parlare sommessamente, con una voce cauta, pressochè
insidiosa, mettendo lunghe pause fra parola e parola.

— Vedi, questa notte, quando ti ho chiamato, ed eravamo curvi, tu da un
lato, io dall’altro del suo letto, soli, nel chiarore di quel lume così
funereo, io, come in un lampo, involontariamente, ho pensato: Se... se
domani...

— Se non ci fosse più! — egli disse con una voce tetra.

Ed ella non li vide, ma gli occhi di lui splendettero d’una luce quasi
micidiale.

— Anch’io, — diss’egli lentamente, con uno sguardo atono, — anch’io ho
pensato questo. Era quasi un incubo, ed avevo la visione precisa del
cadavere, come se dalle sue membra immobili soffiasse già quel freddo
che mandano i morti.

Rabbrividita, ella si agitò nel letto e si ristrinse contro il tepore
dell’amante. Ma egli, senza un tremito, e quasi provando una gioia
malvagia nel torturare sè e lei con queste parole, ricominciò:

— Era veramente un incubo, e chinandomi sopra il suo cuore fioco, io,
medico, io suo amico, sentivo solo dall’altro lato del letto il profumo
che veniva dalla tua persona bella e viva, l’odore di te che mi
sopraffaceva, quell’odore de’ tuoi capelli un po’ disfatti, che
portavano ancora il segno del guanciale... e l’orrore di sentirmi così
colpevole davanti a quella specie d’agonia, accresceva smisuratamente il
desiderio, il desiderio fisico, intendi? che avevo di te.

Ora fu ella, smarritamente, che supplicò:

— Taci!...

Ma egli s’inebbriava della sua propria nefandità, si esaltava della sua
propria tortura.

— Lo sai che ho dato finora tutte le mie forze umane alla difesa della
vita? Lo sai che sono un medico? un salvatore? Lo sai che ho fatto
rinascere centinaia di uomini, e tanto amore mettevo in quest’opera, che
per salvare la più inutile vita serenamente avrei data la mia?...
M’intendi? Ebbene, ora per la prima volta concepisco la possibilità
astratta di rinnegare la mia missione; e questa morte, questa ingorda
morte, che ho combattuto accerrimamente, con il cervello e con le
braccia, nelle corsìe degli ospedali, fra i crogiuoli de’ miei
laboratori, questa morte che fu la mia nemica dappertutto, che odiai
fino all’eroismo, la vedo per la prima volta come un’alleata, quasi come
una benefattrice... e mentre le mie mani avvezze lottano ancora contro
di lei, macchinalmente, su questo corpo che ci divide, il mio cuore, il
mio spirito, il mio nascosto essere che vuole te, la chiama, la chiama,
e le dice con un’oscura voglia di tradimento: — Sì, che tu sii la più
forte... e ch’io non ti sappia vincere mai più!

Ella gli pose una mano su la bocca, una sua mano fredda, che aveva il
profumo della colpa, e quella buia fossa che andavano scavando al
morituro, ancora una volta colmarono di voluttà.



III


— Un’imprudenza? Ebbene, sì, mi è piaciuto commettere un’imprudenza! —
disse Giorgio a Novella ed al Ferento. — Se sapeste con quale delizia un
malato, come un bimbo, cerca di fare le cose proibite! Povero me!... non
poter muovere un passo, non poter respirare senz’essere ascoltati!...
Dio buono, diventa una vera persecuzione!

— Sei oggi d’umore a veder tutto in nero, — gli disse Andrea. — Senza
volerlo noi finiamo con irritarti.

— Fors’anche sono ingiusto, — egli convenne con un sorriso amaro. — Ma
dovete avere un poco di pazienza... ancora un poco! Vedi: mi reggo a
stento: il fianco mi duole per le punture che mi fai... È doloroso quel
tuo siero! Quante ne occorrono ancora?

— Circa una decina, — rispose Andrea, rapidamente.

— Oh, se poteste lasciarmi un poco di pace! Voi non sapete cosa valga la
pace. No!... via questi scialli! — disse a Novella, che intanto lo
ricopriva; — basta, basta con tutte le cure inutili, con le inutili
medicine! Vedete: io non sono un timido; la morte, se ha da venire, non
mi spaventa affatto; ma quello che m’annoia è d’essere trattato già come
un moribondo.

— Sei di cattivo umore, ti ripeto! — esclamò Andrea con una voce
scherzosa. — L’ho già detto a Novella ed agli altri: voi, con l’eccesso
delle vostre premure, non fate che esasperarlo; curatevi meno di lui.

— Ecco: non datevi di me alcuna pena, e vi prego, vi prego, non
sacrificatevi per me! Con questo bel sole, immagino che avrete certo
voglia di fare una lunga passeggiata. Stefano e Maria Dora son scesi
alla fattoria: se li andaste a raggiungere? Tu, Novella, hai bisogno di
aria: impallidisci ogni giorno più. Quanto a me, sto benissimo solo. E
se poi mi venisse la voglia di conversare, c’è di là Marcuccio che
lavora: l’andrò a disturbare. Con Marcuccio vado sempre d’accordo,
perchè in tutta la casa è il solo che se ne infischi della mia salute!

— Io ti ubbidisco, — rispose Andrea. — Non vado alla fattoria, ma scendo
in paese.

— Benissimo. E tu, Novella?

— Io rimango, — ella rispose, levando il capo da un libro che sfogliava.
— Se qui t’annoio, salirò nella mia stanza; oggi non ho voglia di
camminare.

— Ti farà male, Novella. Sono tre giorni che non esci di casa, — disse
il malato, mutando singolarmente lo sguardo e la voce nel parlare a lei.

— Tuttavia permettimi di rimanere, — pregò Novella con un sorriso.

— Come vuoi.

Udirono il passo di Andrea lontanarsi per il giardino, e rimasero soli
nella sala terrena, egli seduto presso la finestra, ella presso il
cembalo, con una lunga striscia di sole, piena di pulviscolo, tra loro.

— Cosa leggi? — egli domandò.

— Nulla: guardo un tuo libro. È «_Il Riso Rosso_» di Andrejeff. L’hai
letto?

— Non ancora.

Entrambi fissarono gli occhi su quella striscia polverosa di sole, dove
s’agitava un microcosmo infuriato, una specie di convulsione continua
che non faceva rumore, come le tempeste dell’anima. Avevan quasi paura
entrambi di guardarsi nel viso; il silenzio li avvolgeva come uno
strepito assordante.

— Vuoi suonarmi qualcosa, oppure sei stanca? — egli domandò.

— Volentieri.

Si alzò, sedette macchinalmente su lo sgabello del pianoforte, con una
compostezza d’automa, evitando quasi di far rumore, o forse timorosa di
sbagliare in checchessia. Aperse il cembalo, scoverse la tastiera, e
leggermente, con le dita veloci, cominciò a suonare una fuga di Bach.

Un bel rubino, rosso come una goccia di sangue, le macchiava la mano
pallida.

Ora, non veduto da lei, dietro quel velo di sole, Giorgio abbandonò il
capo su la spalliera della poltrona e rimase immoto a contemplarla. La
cassa d’ebano, ferita in un fianco da quella polvere accesa, mandava dal
legno curvo un gran mazzo di scintille. L’opposta parete rifletteva
mutevolmente l’ombra della suonatrice. Le sue spalle trasalivano,
accompagnando la nervosa celerità delle dita; il suo busto si curvava un
poco in avanti con un oscillamento leggero, e messo in evidenza da
quella positura su l’alto scanno appariva di una mirabile plasticità; la
curva del seno, calma e forte, si delineava di scorcio, sotto le braccia
irrequiete. Traverso quel raggio la sua capigliatura prendeva
tutt’intorno la chiarità stessa del sole, mentre nel mezzo era fosca e
folta, con riflessi color del mogano, come un caldo velluto. E nella
faccia dell’infermo, non sorvegliata più dalla vigilanza interiore,
s’incavava una squallida miseria, quasi un furore taciturno, una
visibile distruzione. I suoi occhi erano spenti, la bocca s’appesantiva;
ne’ suoi radi capelli, traendone un luccicore quasi umido, penetrava il
sole.

Sì, l’amava, l’amava! e morendo l’amava... il che è più disperato che
tutto, più irremediabile che tutto!...

Due volte, dietro l’uscio, una vocina di bimba fece:

— Si può?

Ella s’interruppe, e sùbito rispose:

— Avanti.

Era Natalissa, la bambina del giardiniere, con un grande fascio di rose
tra le braccia. Teneva i lunghi steli ravvolti nel grembiulino per non
pungersi le dita; il visetto gaio le sbocciava sopra quei fiori con un
sorriso di donnicciuola grande.

— Il papà mi manda con i fiori da mettere nei vasi. Dice che se li deve
accomodare lui, verrà più tardi, perchè adesso è occupato nell’ortaglia
e sùbito non può salire.

Parlava con un cinguettìo di passera, tenendo in braccio quel gran mazzo
di rose, che per la lunghezza degli steli parevano maggiori di lei.

— No, piccina, — ella rispose, lieta che alcuno fosse venuto a
interrompere la loro solitudine. — Dalle a me; le accomoderò io.

— Eccole, signora. Guardi che belle rose!

E alzando le braccia quanto poteva, diede a Novella il mazzo fragrante.

— Il papà mi ha detto che queste rose gialle sono le prime delle
margotte, e di farle vedere al signor Stefano. Non c’è il signor
Stefano?

— No, è fuori; ma presto ritorna.

— Allora glielo dica, sa...

— Certo, piccina. Hai detto queste gialle, non è vero?

— Sì, le gialle, signora; che si chiamano «Maréchal Niel».

— Guarda un po’ come se n’intende la piccola Natalissa!

— Eh, già!... — ella fece con un modesto orgoglio.

Stava tutto il giorno appresso al padre, ond’era divenuta pratica di
giardinaggio. Novella prese qualche confetto in una scatola di
porcellana e li offerse alla bimba.

— Grazie, signora, non s’incomodi.

E attorcigliava con vergogna le mani dentro il grembiulino; poi accettò
i confetti e se li mise in tasca.

— E lei sta meglio, signor Giorgio?

— Sì, piccina, sto abbastanza bene.

— Bravo, signor Giorgio! Se viene in giardino, mi chiami, che io le
mostrerò tutte le pianticelle nuove. A rivederla e grazie.

Se ne andò seria seria, con quelle sue maniere di piccola massaia.

— Com’è graziosa e brava quella bambinetta, — disse Novella, che si
affacendava nello sciogliere il grande mazzo di rose. Egli frappose un
lungo silenzio, guardò la moglie, poi disse:

— Alle volte penso che anche tu, Novella, forse hai desiderato di averne
una.

Ella odorò le rose fragranti, accarezzandole, dividendole ad una ad una,
con attenzione soverchia, per disporle nei vasi.

— Di avere una bimba?... — fece. — Sì, vagamente, qualche volta... come
forse tutte le donne lo hanno desiderato.

— E invece io t’ho impedito anche questa gioia legittima, che poteva
darti un altr’uomo qualsiasi, perchè la nostra casa è rimasta senza
figli.

Ella trasalì nell’intimo, e temendo che una vampa le salisse al viso,
per nascondersi, affondò la bocca in una gonfia rosa, cárica di pólline
giallo.

— Di questo non ti ho mai mostrato alcun rammarico, — rispose.

— Infatti; ma il silenzio è talvolta assai peggiore di un rimprovero. Mi
ammalai poco tempo dopo averti sposata, e fu bene che tu non avessi un
figlio mio. Da me, Novella, non ti vennero che tristezze; talora penso
che veramente mi devi odiare.

— Ma Giorgio! — ella esclamò nervosamente, — odio solo questi discorsi
che mi fai! Non ho alcun bisogno d’avere bimbi e mi tormenti per nulla.

— Non sai forse che i malati sono crudeli? Soffrono ed amano far
soffrire. Ma in me, vedi, è la coscienza che talora mi rimorde. Penso
che ho legato senza volerlo una gioventù bella e forte come la tua alla
decrepitezza d’un infermo, e penso a quello che deve necessariamente
agitarsi nel tuo cuore... a tutti i desiderii che vi reprimi, perchè io
non li veda.

Egli parlava con un tono ambiguo, che voleva sembrar pieno di dolcezza,
mentre suonava come una indulgente ironia.

— Non ti nascondo nulla, Giorgio, — ella rispose, molestata. — Sono più
semplice che tu non creda.

— Semplice, hai detto? Così mi pareva una volta, ma ora non più. Ora,
studiandoti meglio, con quella divinazione dei malati che hanno tanto
tempo per riflettere, ho scoperto in te un viluppo di cose
inestricabili, di passioni oscure... Ed anzi non sei semplice affatto,
ma un nodo mi sembri, serrato e forte.

Ella rise, accarezzando con frivolità le rose gialle disposte in un bel
vaso.

— Perchè? ma perchè tante ubbìe?... Lasciamo stare, Giorgio! Senti
piuttosto queste rose delle margotte, che odore inebbriante!...
stordiscono... senti!...

Gli si avvicinò, portandogli le rose da odorare. Ma Giorgio bruscamente
le afferrò una mano:

— Vorresti non lasciarmi parlare, è vero?

— Io? perchè?... — rispose la moglie, turbata.

— Vorresti che fra noi, sino all’ultimo, perdurasse l’equivoco dietro il
quale ti nascondi? Sì?

— Ma Giorgio...

— Però io, poichè sono crudele... — via, non t’imbiancare così!... —
poichè ho taciuto così a lungo... troppo a lungo!... vorrei parlare una
volta con te. Ma, vedi, quel vaso non è sicuro nelle tue mani... Perchè
tremi? Pósalo giù, siéditi e dimmi...

— Ah, ma non è vero!

— Sì, che tremi: lo vedo. Siéditi qui vicino e ascóltami.

— Che vuoi? che vuoi, Giorgio? Non ti affannare così; dopo starai
male... — balbettava ella smarritamente, guardandosi attorno, quasi
cercasse nelle cose circostanti una via di salvazione.

— Anzi, — egli rispose, — parlarti mi fa bene, un bene infinito,
Novella, se tu puoi essere sincera con me. E lo dovresti essere, perchè
nessuno... intendi? nessuno potrà mai amarti con l’amore mio, l’amore
senza confini d’un uomo che se ne va...

— Non dire così!... non devi dire così!

— Ma cosa temi? ch’io t’accusi forse? o ti minacci? o sia così pazzo da
domandarti altra cosa che un poco di buona e di vera sincerità?
Ascóltami, Novella. Se un giorno avrai nella tua vita lontana, — e Dio
te lo risparmi! — uno di quei dolori così grandi che non si sa come
un’anima li possa contenere, soltanto allora comprenderai perchè voleva
oggi parlarti quel Giorgio che sarà uno scomparso, un punto nero nella
tua memoria, un’ombra... Làsciami dire; làsciami dire!... Anzi tutto
sappi una cosa: non ho rancore contro di te, non il più lieve rancore,
Novella, perchè ti comprendo, anzi ti difendo io stesso.

— Ma da cosa?...

Egli scosse il capo, e seguitò:

— L’amore non è tale se non quando giunge ad essere un’infinita bontà.
Il resto è unicamente una rabida passione, la quale non può nè perdonare
nè beneficare. Più tardi ricorderai quello che ora ti dico, e più tardi,
poichè l’anima dell’uomo ha bisogno di generare fantasmi, più tardi,
quand’io non ci fossi più, potrebbe darsi che anche nell’anima tua
nascesse quella paura insoffocabile che si chiama «il rimorso». Ora io
ti parlo appunto, perchè non voglio che tu lo conosca mai. Ho invece un
altro sogno: quello d’aiutarti ad essere felice, se lo posso ancora, e
dirti che non mi devi temere affatto, nè ora nè dopo, e lasciarti la
sicurezza che tu non mi hai fatto alcun male, anzi sei stata nel mondo
la mia sola felicità...

Ella smarrita lo guardava, senza bene intendere le sue parole, ma
sopraffatta dal suono tormentoso di quella voce, attonita, nel vedere
quel viso trasfigurarsi e risplendere per un’altezza di sentimento più
che umana.

— Quando, — egli riprese, — quando il tuo cuore ti dirà con un morso:
«Lo hai fatto soffrire...» — tu rispondi serenamente: «No; sono stata
invece il suo pensiero più dolce, il sorriso ch’egli vide fino
all’ultimo nel colore della vita». — Quando il tuo cuore ti dirà: «Egli
purtroppo conosceva il tuo amore, l’altro amore, il solo che avesti...»
— e tu rispondi serenamente: «Che importa? Egli non mi amava perchè
l’amassi... Poi sapeva che nessuno può comandarsi di non amare». — E se
il cuore infine ti dicesse: «Ma è stato geloso... orribilmente geloso di
te...» — allora non rispondere nulla, perchè gelosa può essere soltanto
la carne... quella si distrugge, finisce, e per lei non vale che si
pianga.

Egli fece una pausa e la guardò fissamente, con una tetra luce negli
occhi:

— Saprai non ripetere nulla delle parole che ti dico?

E parve che la maschera umana, la febbre umana del suo dolore gli
ricadesse d’un tratto sul viso.

Poich’ella taceva, egli disse parlando a sè medesimo:

— Forse no; ma non importa.

Allora ella ebbe uno schianto, e dalla seggiola dov’era scivolò a
ginocchi, nascondendosi fra le mani la faccia impaurita, poichè sentiva,
così genuflessa, d’esser meglio rifugiata sotto l’ala della sua grande
anima.

Insieme, tuttavia, poich’era invincibilmente donna, o forse per quel
pensiero carnale ch’egli aveva mesciuto nella sua misericordia, le
risaliva struggente nelle vene la memoria della notte trascorsa, e quasi
per acuire il suo rimorso fisico riviveva in una specie di prostrazione
l’ebbrezza di quei loro baci avidi e soffocati, sicchè non sapeva
dividere dal terrore della sua colpa l’immagine stessa del peccato, e
dall’immensa paura di quel momento in lei nasceva una più grande
voluttà.

Allora, così armata della propria gioia, così piena di quell’assente che
la teneva in potere, quasi per una ribellione de’ suoi nervi crudeli,
sentì, nel luogo della pietà, insorgere un sordo rancore contro colui
che si faceva troppo umile per atterrirla, e sentì ruggire in sè, tra
vena e vena, tra fibra e fibra, una specie di avversione incoercibile,
quasi un odio, contro quel nemico disarmato, il quale, non altro
potendo, cercava d’incatenarla con la propria bontà.

Ed allora, senza più mercede, si levò di ginocchi diritta, con una
rapida mossa piena d’orgoglio, e crudamente lo fissò. In quell’atto
apparve da lui così lontana, ch’egli ebbe immediata la percezione di
quella inesorabile distanza.

— Cosa vuoi dirmi? Cosa vuoi sapere da me? — diss’ella, rattenendo a
stento l’impeto della voce. — Di cosa dunque mi rimproveri?

— Di nulla, — egli ripetè, chiudendo gli occhi per nascondere la
sofferenza che vi saliva. — Di nulla, come ti ho detto.

Ma ella pareva non l’ascoltasse, nè averlo ascoltato fino allora, e
sentisse invece imperioso il bisogno d’una discolpa.

— Da che sei malato, qual’è la mia vita? Ho pensato forse a me stessa?
ho trascurato forse il più piccolo de’ miei doveri? ho passato un
giorno, un solo giorno fuori di casa?

Egli voleva interromperla, ma ella parlava concitata, con rapidità.

— Non mi sono forse negletta come una donna vecchia? Ho riso forse? Hai
veduta una sola volta la mia bocca ridere, dacchè tu soffri? Dillo, se
mento.

— Non questo, — egli fece sconsolatamente.

— Ti ho mai mostrato, per caso, un rancore anche ingiusto, un rammarico
pur lieve, che un’altra donna forse non avrebbe saputo nascondere in una
vita così dolorosa?

— Non questo, non questo!

— E che allora? — ella esclamò con veemenza. — E le mie lacrime, le sai
tu? Lo sai quello che ho soffocato nel cuore perchè tu fossi meno
triste?... Se tu soffri, non soffro anch’io? Se tu perdoni, sii giusto,
non perdono forse anch’io?

— Ma perchè ti difendi? — egli gridò con tutto lo sforzo della sua voce
fioca. — Perchè ti difendi?!

— Non mi difendo, — ella rispose duramente. — Mi ribello! Insorgo tutta
contro l’accusa che mi fai continuamente, anche tacendo, anche solo
guardandomi, e che mascheri male dietro la finzione d’una bontà che non
senti. Allora, poichè hai voluto rompere quel silenzio che ci proteggeva
entrambi, allora preferisco un’accusa diritta e precisa... Dimmi: di
cosa m’incolpi? Sono qui per risponderti, e non mentirò.

— Oh, questo è impossibile!... — egli disse, mettendo nella lentezza
della voce un sottilissimo scherno.

Ella si sentì pungere come da una staffilata in pieno viso, ed ebbe
voglia di gridargli su la faccia l’intera sua colpa, la splendida
verità, per mostrargli che infatti non mentiva.

Ma il suo senso femminile di prudenza e di pazienza fu ancora più forte.

— Prova, — disse, — e vedrai!

Arretrátasi di qualche passo, entrò nella striscia di sole, che le si
avvolse intorno alla gonna e parve stringere le sue ginocchia in
un’armatura splendente.

Egli la guardò fiso, per qualche attimo, con odio e con stupore, poi
esclamò:

— Come gli rassomigli!

— A chi? — ella chiese, più rigida, sentendosi correre dalla nuca ai
talloni un lungo brivido di paura e di fierezza.

— Oh... a chi!... È vano che lo nómini, — egli rispose con sarcasmo. —
Tuttavia, se proprio ci tieni, lo dirò: — Al mio fratello Andrea... al
mio medico!

— E poi? — ella fece, senza batter ciglio.

— Nulla... dicevo questo perchè i tuoi occhi mi guardano come i suoi, e
la sua bocca mi parla come la tua. Una volta ti movevi lenta, calma, con
una specie di pigrizia; ora, nelle tue mosse, talvolta sorprendo un poco
della sua rapidità.

Egli tacque un momento, poi soggiunse:

— Hai ragione d’amarlo, è un uomo che merita di essere amato.

Ma ella taceva, ravviluppata nel suo silenzio come in un freddo e
crudelissimo rancore. Giorgio riprese:

— È l’uomo più virile ed è l’anima più vasta che incontrai su la terra.
Bada che non símulo; egli forse mi odia, io no.

— Non ti odia, — ella disse con fermezza. — Andrea non ti odia.

— Lo sai tu?

— Sì, certamente. Ma voglio anche dirti una cosa, una cosa che tu
dimentichi, Giorgio... Quando una donna riesce, con affetto, con
serenità, vorrei dire, con passione a compiere il suo dovere nella vita,
nessuno avrebbe il diritto di frugare come tu fai dentro l’anima sua,
per rubarle un secreto ch’ella cerca di seppellire nella sua intimità
più profonda, e non certo per risparmiare sè... L’anima, credo, è un
possesso che si può negare inesorabilmente alle violenze altrui.

— Sì, l’anima, ed anche il corpo, Novella.

— Oh, il corpo no! — ella disse con audacia. ben sapendo che l’uomo,
comunque creda di amare, qualsiasi nome purissimo voglia dare all’amor
suo, non è mai altro nel fondo che un accanito e geloso pretensore, il
quale perdonerà tutte le dedizioni, tranne quella, o bestiale o divina,
che avviluppa due corpi amorosi. Ella intuì che il malato, frammezzo a
tante parole, voleva sopra tutto conoscere una cosa: fino a qual punto
ella non fosse più sua.

— Il corpo no, — disse un’altra volta, armandosi di quella
inflessibilità che faceva splendere la sua bellezza come un freddo
metallo.

— Perchè cerchi d’ingannarmi?... Una pietà inutile!

— No, Giorgio; la mia carne si è dimenticata e si è spenta nella lunga
solitudine. Se qualcosa di lui mi turba, non così mi turba. Se può
chiamarsi amore quel senso timoroso che ho di lui, non è l’amore d’una
donna; ma invece un’ammirazione senza desiderio, e tuttavia così
femminile, che forse un uomo non potrebbe giungere ad intenderla mai.

Ella mentiva con una facilità sorprendente, convincendosi di far opera
buona, e dicendolo a sè stessa per darsi cuore; ma in fondo per
difendere sè dalla sua colpa, sè e lui che s’amavano, dalla potenza del
padrone. Mentiva, pur sentendo nel suo grembo agitarsi una vita oscura,
la quale sotto gli occhi dell’infermo non poteva nascere, nè poteva, in
quella casa vigilata, secretamente morire.

— Tuttavia, Giorgio, — diss’ella, pronunziando le parole con una
dolcezza proditoria, — se tu sospetti vi sia fra noi qualcos’altro che
una dimestichezza necessaria, perchè nata appunto nel curarti insieme,
allontánalo dunque da questa casa, chiama un altro medico... vuoi?

Ella tremava dentro di sè per la paura ch’egli accettasse quell’offerta,
e ne tremava così forte, che non ebbe alcun rossore della sua duplicità.

— Ma tu diméntichi, — disse pensierosamente il malato, — che siamo stati
veri fratelli durante l’intera vita. Forse a lui debbo quello che fui, e
nulla basterà per distruggere la mia riconoscenza. Vorrei solo poter
credere che tu non menti.

Ella intravvide la speranza di riuscire ad illuderlo ancora.

— Come potrei farti credere, Giorgio, se la tua diffidenza è così
grande? Sì, è vero: io sento il potere della sua forza; sono un po’
schiava di quel dominio ch’egli esercita su tutti. Ma la mia vita,
Giorgio, è ben altra; ed è così lontana dalla sua, come potrebbe esserlo
da quella immaginaria d’un uomo conosciuto in un libro. La mia vita vera
è di camminare in silenzio vicino al tuo letto, di portarti uno scialle
perchè tu non abbia freddo, e di sentirmi lieta come non mai se un
giorno ti desti più riposato, e mi guardi sorridendo, con un poco di
riconoscenza nel viso...

Egli l’interruppe, tendendo una mano per incontrare la sua:

— Oh, se sapessi quanta ne ho! E che rimorso anche! Senza di te, mi
sarei già liberato di questa mia vita inutile... Se rimango, è solo per
vederti un giorno di più; e so bene d’altronde che il tuo sacrificio non
sarà lungo.

— Giorgio, Giorgio, per carità!...

— Ne sono certo. Però, vedi come lo dico tranquillamente. Ciò che si
chiama la morte è una cosa viva ed enorme, che avvicinandosi fa rumore.
Fa, dentro le vene, un rumore sordo e confuso, che somiglia un poco al
rombo d’una cavalcata lontana. Si avverte un freddo impercettibile, che
agghiada tutti i sensi, ed allora l’anima fa come il sole nel tramonto:
lancia, con una specie di delirio, i suoi raggi più luminosi verso ciò
che possedeva nel mondo...

Parlava con una voce quasi meccanica, in cui certi suoni, certe sillabe,
spiccavano stranamente, come fossero schianti di riso secchi e malvagi
in un racconto monotono. Ella pure gli prestava un’attenzione puramente
meccanica, e soltanto l’eco di quelle frasi le batteva sui timpani,
facendole male.

— Perchè mi tormenti? perchè mi tormenti? — voleva dirgli quasi con
rabbia, sopraffatta da un malessere fisico, che le rendeva
insopportabile anche la voce, anche la presenza di lui. E lo guardava
trasognata, vedendo insieme l’obliqua lama di sole fendere la stanza,
piena di pulviscolo, di vita e di tempeste, come il suo cervello
sovreccitato. Lo guardava senza pietà, e per la prima volta con un
desiderio singolare di vendetta. Le pareva che dicendole: «Io so», —
dicendole: «Io ti perdono» egli avesse rotto quel prestigio che gli
conferiva il dolore taciturno, ed apparisse ora nudamente, come il solo
divieto al suo bene, come l’ombra inseparabile dal suo nascosto sole.
Anzi, quanto più le parlava egli di morte, tanto più si sentiva ella
trascinata nell’orbita necessaria di un tale pensiero, e quell’immagine
di funerali ch’ell’aveva respinta con tutte le forze dell’anima, d’un
tratto egli stesso la faceva balenare davanti a’ suoi occhi, non più
come una remota ombra, ma come una imminente possibilità.

— Sì, è una cosa viva ed enorme, che avvicinandosi fa rumore, — egli
ripetè lentamente, come per imprimere queste parole nella sua profonda
memoria. — Ed è allora che assale, non un rammarico solo della partenza,
ma il rimpianto irremediabile di tutto quello che la vita poteva essere
per noi. Ed allora nasce verso gli uomini, anche verso quelli, sopra
tutto verso quelli che ci hanno fatto male, un’affettuosità grande e
stanca, una voglia quasi di render loro tutto il bene possibile, tutto
l’amore possibile, perchè un solco di buona memoria continui dopo di
noi. Non si pensa che anch’essi a lor volta finiranno, e la vita che
prosegue ha qualcosa di stupefacente, come se fosse una forza radiosa e
mostruosa che urla e splende mentre soffoca noi...

E tacque, attendendo forse una risposta, una sillaba qualsiasi, un
cenno. Ma quelle sue labbra sigillate non si mossero, nè le sue ciglia
batterono.

— Mi ascolti? — egli domandò allora.

Comprimendosi una mano sul petto, ella trasse un lungo respiro:

— Non ti ascolto, no! non ti ascolto...

Egli bruscamente sorse in piedi e s’avvicinò a lei. Teneva la fronte
bassa, era mutato, pareva dibattersi fra un pauroso dubbio ed una grande
speranza.

— Non ti ho mai domandata una cosa, — disse.

Ella trasalì, ed i suoi splendenti occhi nascosero fra le ciglia uno
sguardo pieno di sospetto.

— Quale cosa? — domandò.

Ma egli esitava, come se avesse una profonda vergogna della domanda che
stavale per fare; poi disse:

— Bada: non è una sciocca domanda che ti faccio. Vorrei sapere se,
infuori da tutto quello che si chiama una religione od una fede
nell’inconoscibile del mondo, senti con certezza di appartenere a
qualcosa che non finisce, a un Dio insomma... o se invece ti senti sola.

Egli fece una pausa, e la guardò come per indovinare la sua risposta. Ma
ella, senza forse aver preso il tempo di lasciar parlare la propria
coscienza, rispose con una voce opaca:

— Sì, credo in Dio.

E così dicendo pensava a quello ch’egli le avrebbe domandato poi.

— Bada, — egli l’ammonì, — non rispondere con le labbra soltanto.

— No, no...

Egli le aveva presa una mano e la teneva serrata, quasi per comunicare
con le vene del suo polso, con i battiti del suo cuore.

— O Andrea ti ha pure insegnato il suo gelido ateismo? — egli mormorò,
curvandosi.

Ma ella scosse il capo, il braccio, con ira.

— Basta! — gli comandò; — basta!

— Allora, se un poco di fede non ti manca, — egli disse, tutto acceso
dalla febbre della sua religiosità, — se veramente hai nell’anima Dio,
non mi potrai mentire... bada!

— Che vuoi?...

— Sapere! sapere! — gridò il malato con forza convulsa. — Io, che
finisco la strada, io, che non ti ho mai fatto alcun male, io ti
domando: «Sei stata sua? In verità, in verità, sei stata sua?»

Ella scosse il capo con rabbia, come per prepararsi allo sforzo di
rispondere: No! — poi si fece bianca d’un pallore quasi livido, e,
scandendo le sillabe, disse con una voce che pur lenta sibilava:

— Non sono stata sua; non lo sarò mai!

Ma sentendo irrompere dall’anima in ribellione, più forte che il suo
medesimo cuore il bisogno di gridare la verità, si tese tutta
interiormente in una acerrima ira, e per costringersi alla menzogna
disse ancora più volte: — Mai! Mai!

Esausto, egli si lasciò ricadere nella poltrona, premendosi le due mani
sul petto, e la guardò perdutamente, con un senso d’inanità, di
vergogna, stremato come un fanciullo che avesse voluto scagliarsi contro
una porta di bronzo. E nelle sue membra malate sentì quasi una paura
fisica di quella forte creatura, che aveva diritto a vivere, a ridere, a
godere, a mentire, a far tutto ciò che fanno i vivi, mentr’egli non era
più che un morto ancora barcollante, un travolto su cui la vita degli
altri passava come un torrente infrenabile...

Perchè la voleva contendere ad un altro amore, se questo amore nasceva
in lei, necessario e spontaneo come il suo profumato respiro? Perchè
voleva dilungare la sua squallida ombra nel loro invisibile sole?

A queste riflessioni, un riso amaro di sarcasmo gli echeggiò dentro
l’anima, senza salirgli fino alle labbra, mentre i suoi occhi smorti
fissavano con una specie d’incantamento la bella creatura femminile,
avviluppata in quel manto di sole che la ingloriava, che pareva
splendere da lei, essere il colore della sua bellezza, il raggio della
sua tutta ingemmata carne.

Gli sembrò che un rumore lontano, come di sonagliere su la strada, come
di campanelli infuriati nell’alte camere della casa, gli stormisse
dentro l’orecchie ronzanti, gli scrosciasse nel cervello vuoto, fra vena
e vena, doloroso, incessante. Quel sole!... che macchia faceva quel
sole! che barbaglio insostenibile, che incendio giallo su tutte le cose
circostanti!...

Ella era là, così vicina e pure inaccessibile, avvampata di quella
fiamma come un gioiello d’oro. E quel rumore continuo, come di
sonagliere su la strada, come di campanelli infuriati, gli cresceva
dentro senza posa, lo stordiva, lo accasciava, suscitando nelle sue
pupille dilatate una continuità velocissima di bagliori e di vampe.
Cos’erano? Forse quelle grandi rose gialle, cáriche di profumo e di
pólline, che parevano d’un tratto roteare nella striscia di sole,
incendiarsi, ardere? Le rose, o i suoi capelli scintillanti, o il
braccialetto d’oro che le balenava al polso, o tutta la sua materia
giovine e viva, cárica di profumo anch’essa, di pólline e di voluttà?...
Vampe, vampe, sonagliere, in una ridda confusa, in una specie di
vertigine gialla...

Accecato, chiuse le palpebre e sognò.

Sognò di lei, paurosamente, voluttuosamente, quasi per un bacio ch’ella
gli desse, non più su la fronte, come soleva, ma con le calde labbra su
le sue labbra ardenti, — un bacio snervante, lungo, lento, che gli
assorbiva dalla gola turgida il respiro, che gli scorreva sui nervi non
placati come una molteplice carezza. Un bacio carnale di amante,
com’ella saprebbe dare se volesse, un bacio lascivo come la nudità,
voluttuoso come la colpa... E in quella specie di torpore, mentre vedeva
dietro il velo delle palpebre quel polverìo luminoso del sole, risentì,
quasi per una evocazione fisica, sotto le narici un poco ansanti
fluttuare l’odor femineo di lei, quell’odore soave che l’accerchiava
come un malefizio, che intorbidava un poco l’aria come la fragranza
eccessiva d’un fiore, che l’ubbriacava talvolta, nella sua debolezza di
malato, come una droga troppo forte.

Ora egli la vedeva, non più nel mezzo della stanza, ma come l’aveva
sorpresa una volta, all’uscir dal bagno, tutta nuda e gocciolante,
cosparsa di oscurità furtive il suo corpo voluttuoso. Quella volta
ell’aveva gridato, per il pudore subitaneo, con un piccolo grido acuto e
quasi ridente; poi s’era in fretta raggomitolata nell’accappatoio
tepido, schermendosi dall’esser veduta e chiudendo gli occhi quasi per
timore. Così la rivedeva ora, nell’abbaglio, e risentiva sotto le narici
ansanti quell’odor fresco di carne bagnata, di cipria e di lavanda,
quell’odore buono e colpevole del suo corpo che incitava all’amore.

...ed egli era sopra di lei, curvo, e la baciava; metteva le dita un po’
tremanti nel gran volume de’ suoi capelli raccolti su la nuca, aspersi
qua e là di gocciole iridate; le strofinava il dorso pianamente, le
spalle pianamente, per rasciugarla; sentiva traverso la stoffa spugnosa
il tepore umido della sua pelle, s’inginocchiava dinanzi a lei,
l’avvolgeva con le braccia, la serrava contro di sè, più forte, più
forte... Ella si rannicchiava, freddolosa e vogliosa, dentro
l’accappatoio caldo: le uscivano dal basso i piedi rosati, le sue
ginocchia tonde gli urtavano contro il petto, stando ella tutta raccolta
in sè, tutta piegata come per ischermirsi...

Ma non si schermiva interamente; forse non era che un’arte leggiadra, un
amabile gioco; ed egli, tenendola per la cintura come una preda non
riottosa, piano piano addentrava una mano cauta nella scollatura
dell’accappatoio, prolungando la sua carezza per la gola turgida, e giù,
più giù, lentamente, con soste, come un ladro, nella dovizia calda,
rigogliosa del seno...

Vampe, vampe, sonagliere... Cos’erano? le rose gialle? i suoi
capelli?... Vampe.

Oh, come suonavano! che urlìo! che scampanìo forte, lacerante!... Che
male! che male! Barbagli, guizzi, come di grandi rose gialle, infuriate,
che roteassero... Una ridda... il sole... troppo sole... Ah, che
male!... Sonagliere, vampe.

Cos’era? Una specie di schianto nel cuore fioco; una specie di rimbombo
fragoroso entro le arterie stanche; una pietra infitta nel cervello,
così greve, così greve... Rose, vampe, sonagliere.

Cos’era? Una lussuria di moribondo, che non di rado lo tormentava, la
notte, nelle lunghe insonnie, mentr’ella se ne stava presso di lui, a
piè del letto, assonnata sopra una pagina interrotta.

Talvolta egli chiudeva gli occhi, fingeva d’essere addormentato, per
poterla desiderare senza tradirsi; gli entrava nel sangue un’accensione
dolorosa; la sua tenebra interiore s’illuminava di rosso, ed in quella
specie di febbre, come se le giacesse accanto, l’avvolgeva in più modi
nella sua lussuria inane.

Quand’era sano ancora, non l’aveva mai desiderata così; quando le
dormiva ogni notte accanto, non le aveva mai conosciuto questo irritante
calore di femmina e di posseditrice, che ora tentava sino allo spasimo
il suo desiderio spossato. Quando per la prima volta l’aveva baciata nel
talamo nuziale, gli era solamente sembrata una inquieta e sperduta
fanciulla, stanca forse della sua verginità, e per lungo tempo non aveva
nemmeno sospettato in lei quella tentatrice ch’ella era, così turgida e
sparsa di peccato in ogni piega del suo corpo, dalla fronte al piede.

Sì, forse aveva sin d’allora, nel cavo degli occhi, negli angoli della
bocca, nella forma de’ suoi labbri, quand’era in silenzio e pensava, o
forse nella medesima sua voce, che talvolta si velava di risonanze
opache, forse nelle spalle affaticate per il peso del suo petto
fiorente, forse nelle braccia pieghevoli, nelle ginocchia pigre, un non
so che di stanco, di lascivo, anzi una specie d’indefinito languore, che
pareva, come un fumo d’oppio, addormentare le sue dolci membra in un
letargo pieno d’insensibilità. Ma nel suo letto maritale non era, — e
Giorgio se ne rammentava — che un’amante quasi inerte, una pigra onesta
sposa che sopportava l’amore.

Più tardi, — ma solo più tardi — ella era fiorita così; più tardi,
quando già per lui non era divenuta che una infermiera assidua ed una
buona sorella, quando le loro bocche non s’erano più congiunte in altri
baci che non fossero di consolazione o di dolore.

E chi dunque l’aveva così occultamente ridestata? Chi aveva ritolto da’
suoi sensi violenti quella fascia di torpore? Chi aveva diffuso per il
suo corpo soave quella virtù malefica di tentazione?

Oh, sì! egli le aveva ben detto, guardandola: — Come gli rassomigli!

Ed ella s’era drizzata senza rispondere, con un moto nelle vertebre del
collo che le rovesciava un poco la fronte all’indietro: un moto abituale
in lui, che scolpiva la sua dura fierezza e rendeva imperiosa la sua
fredda volontà. Aveva imparato a dire: Sì! No! — rapidamente, con una
voce ferma, che pareva inginocchiasse di colpo le resistenze altrui, — a
dire: Voglio! — a dire: Devi! con quella decisione immediata e serrata
che pareva in lui quasi l’urto d’un impeto fisico, il guizzo subitaneo
d’una lama che si pianta e sta.

Ell’aveva detto: «Mai! Mai!...» — dopo la sua domanda... Ma quali parole
potevan distruggere il valore delle osservazioni accumulate giorno per
giorno dall’istinto che non falla, e sotto la vigilanza di una indagine
involontaria? Ella diceva di no con la bocca, ma era invece visibilmente
più che la sua amante: un oggetto suo, una sua possessione irredimibile,
una vita congiunta con la sua vita, un sangue frammisto nel suo medesimo
cuore.

Egli l’aveva presa, forse dolcemente, ma come si afferra una preda,
quasi con artigli, bollandola d’un suggello di possesso che non si
cancellerebbe mai più.

Ed allora perchè volersi adergere fra loro come un miserando padrone,
goffo della sua gelosia? Perchè averle parlato, averle messo a nudo
sotto gli occhi la sua lunga e vana disperazione? Perchè interrompere
quel silenzio, che certo li proteggeva da una più grande calamità?

Come la riguarderebbe ora? Come fisserebbe i suoi occhi negli occhi di
Andrea?

E diceva a sè stesso: — «Due creature umane, due vivi, hanno intessuta
insieme la loro felicità. Si amano. Questo non è soltanto una parola; è
vivere! Per spaventoso che a me paia, il lor diritto è più forte, più
necessario di ogni altro vincolo.

Se urlo, dove arriverà il mio grido? Io sono l’immobilità, sono qualcosa
d’inerte e di spento, che deve tacere.

Sì, di fatti: erano il mio amico e la mia donna...

Parole! tutto questo non è che un telaio fragile di parole! Vivere!
questa è la sola verità; con tutte le sue rapine indispensabili, con
tutte le sue crudeltà fatali. Dunque, se grido, che può fra loro, il mio
grido? Nulla. Sarà una cosa tutt’al più ridicola, come la trattan nelle
loro commedie gli uomini di buon umore... Od è invece un dramma? Sì,
forse; un piccolo dramma futile, come ne succedon tanti, ogni giorno, su
la faccia della terra impassibile... Povero cuore stanco, bisognava
tacere! La tua bellezza ultima era il silenzio; poichè si può fino
all’ultimo possedere una bellezza che sopravviva come un ricordo non
distruttibile nel pensiero altrui. Perchè l’hai sciupata miseramente?
Povero cuore, perchè sei stato così barbaro contro te stesso? Perchè hai
voluto «sapere?» anzi «essere certo?...» Bisogna che chi muore abbia il
coraggio di abbandonare ai vivi la loro felicità.»

Così ragionava seco stesso, in una specie d’assopimento fisico che gli
toglieva la percezione immediata delle cose circostanti. Non vedeva più
lei, nè la striscia di sole che ora inondava la stanza d’una sfrenata
luce, nè il gran mazzo di rose gialle ch’ell’aveva ordinate nei vasi,
lentamente, ad una ad una. Quasi non ricordava più le parole acerrime
dette fra loro; o per lo meno tutto questo gli pareva già lontano, in un
tempo quasi remoto, come al di là da un lungo svenimento, e solo a
sbalzi, nel turbinìo del suo cervello, nella vuota concavità de’ suoi
timpani, ricominciavano a stormir sonagliere, ma più fievoli, come se
andassero per una strada più lontana, e campanelli a ronzare, ma più
confusi, come se infuriassero in alto, lassù, per camere più distanti...

Aperse gli occhi, rinvenne da quel torpore come da un sogno che fosse
durato senza limiti, e la cercò. Dov’era? Non súbito la vide:
quell’irruenza del sole pomeridiano faceva della stanza una prigione
infiammata, traeva da tutte le cose un fulgore insostenibile, simile
quasi ad un frastuono assordante.

Poi la vide: stava seduta dinanzi al cembalo, con la testa china, il
mento piegato sul petto, una mano su la tastiera, l’altra posata sul
grembo, quasi affondata nella gonna scura; ed ella medesima era coperta
d’ombra fino alle ginocchia, ma con il busto avvolto dal sole come dalle
spirali d’una fiamma che divampandole intorno al capo, quasi alla
sommità d’una torcia, le sprigionava dagli accesi capelli un volo di
pulviscoli d’oro.

— Novella... — chiamò con le sue fredde labbra.

Ella trasalì, si eresse; nell’atto brusco della mano tre tasti diedero
tre note veloci.

— Non dormivi?...

Ma, invece di rispondere, Giorgio la chiamò a sè, tendendo le mani verso
di lei con un gesto supplichevole. Ella si levò, confusa, temendo
perfino il rumore che faceva nel muoversi, e con il cuore gonfio di
commozione s’avvicinò all’infermo.

— Che vuoi? Stai male? Ecco, vedi!... — gli andava dicendo con una voce
piena di umile fedeltà.

— No, no, ascóltami...

Ella prese le sue mani, con dolcezza; le strinse. Ardevano entrambi, nei
palmi, nei polsi, d’una diversa febbre; si guardavan come fossero
entrambi colpevoli, con timore, con esitazione.

Allora ella vide su le ciglia dell’infermo, su quelle ciglia bionde,
così buone, sotto le quali non s’era mai fermata alcuna ombra iniqua,
vide brillare due lacrime grandi e limpide, che caddero insieme,
scavando ancor più la sua faccia devastata. Ed ella pure sentì un
singhiozzo rompere il nodo che aveva nella gola, irrefrenabile...

Senza parlare, senza mentire, si chinò su lui, su la sua bocca
addolorata, — e piansero.



IV


— Vedete, Giorgio, — disse Maria Dora, — mi sono lavata i capelli
stamane.

— Lo so, mia bella cognatina. Mentre alla finestra li asciugavate, ho
veduto i vostri capelli sciolti, ed accecato da quello splendore, stavo
quasi per mandarvi ad alta voce un complimento.

— Ah, sì? Un complimento non è mai di troppo! Ditelo dunque ora, se non
è una bugia.

Ella cinguettava con il cognato per distrarlo, per farlo sorridere nella
sua tristezza.

— Ci tenete, proprio?

— Ma, certo!

— Ebbene, volevo dirvi: — Cognatina, è il sole che splende, o siete voi,
con i vostri capelli, che mettete tanto oro nel mattino? — Questo è il
complimento; vi piace?

— Per bacco! — ella fece con arguzia; — davvero è fino: fino come un
madrigale. Pare impossibile che sia vostro! Dove l’avete letto, Giorgio?

— Oh, Maria Dora! — egli esclamò sorridendo; — non mi credete nemmeno
capace di una cortesia così facile?

— Non è poi tanto facile, via!... Sopra tutto per un ingegnere! Se mi
aveste detto, che so io... per esempio: — Cognatina, i vostri capelli
splendono stamane come le rotaie della strada ferrata... — ecco, lo
capirei! Ma così, come l’avete detto, così bene, così pulito... no,
francamente, puzza di letteratura! Oh, intendiamoci, non è per
offendervi, chè anzi ve ne ringrazio.

— Ebbene, sia come volete; non ci bisticceremo per così poco.
L’essenziale è che vi siete lavata i capelli, e che i vostri capelli
sono d’un’abbondanza davvero straordinaria.

— Novella ne ha più di me.

— Forse; ma di un altro colore. Dov’è Novella?

— Non so, — ella fece con esitazione.

— E Andrea?

— Andrea sarà forse rintanato in camera sua. Da qualche giorno è
divenuto ancora più inavvicinabile di prima. Che bizzarro uomo! Non pare
anche a voi, cognato? Io, quando lo vedo, ho sempre voglia di gettargli
un pezzetto di zucchero come si fa con i cani da guardia per entrare
nelle loro grazie.

Egli fece con la mano un gesto vago, ma sorrise tuttavia di quella
irriverente opinione.

— Andrea è un uomo d’ingegno, — disse con lentezza il malato. — Le
nature come la sua peccano sempre di qualche singolarità.

— Ma egli è singolare in tutti i sensi, e più lo si conosce, più lo si
trova bizzarro! Sapete, — ella seguitò con il suo parlar volubile, —
sapete che mi faceva la corte?

— Ah, sì?

— A modo suo, beninteso; con certe sue maniere un po’ ironiche... ma è
fuor di dubbio che mi facesse la corte. Bene, ora invece, da cinque o
sei giorni, non mi parla nemmeno più: se ne è dimenticato. È seccante,
vi pare?

— Questo non saprei, cognatina. Vi auguro in ogni modo che ricominci, —
egli disse in tono di celia.

— Bah... lasciamo stare!

Seduta vicino a lui, ella ricamava in fretta, però con una sbadataggine
estrema. Ogni tanto guardava il malato, ch’era disteso nella seggiola a
sdraio, coperto di scialli; e lo guardava nel mezzo del parlare, o
facendo altra cosa, perchè l’infermo non si avvedesse de’ suoi pensieri.

Lo trovava miserrimo, ogni giorno più stremato, più povero di vita.
Nella faccia angusta gli si erano dilatati gli occhi e sporgevan
dall’órbite come fossero gonfi, in un cerchio di lividore. Le pupille
dilatate, scialbe, acquose, nuotavan in un siero azzurrastro; talvolta
si appannavano visibilmente, come una lama al calor del fiato. Quando
sorrideva, i denti parevan cresciuti: la gengiva superiore gli si
scopriva, congestionata sotto l’orlo del labbro, e quasi livida. Su la
pelle arida gli si formavan certe macchie di color scuro e spesso due
strisce rosse gli accendevan la fronte, equidistanti, fra le tempie
concave. La sua mano divenuta nivea, spesso, nel cercare un oggetto,
brancolava un poco.

— Non vi sentireste, — gli domandò la fanciulla, — di uscire nel
giardino? Fa così tepido fuori.

— Oh, no, Maria Dora! Non mi sento proprio di alzarmi. Se sapeste che
fatica mi costa muovere un passo!

E si rannicchiava negli scialli, poveramente, come un intirizzito. In
quel mentre papà Stefano tornava dalla fattoria, col suo cappellaccio di
paglia ficcato di traverso, la sua giubba da cacciatore. Era un bel
vecchio, aitante ancora, solido e bronzeo sotto i suoi capelli
d’argento; serrava tra i denti la pipa stracarica, ingoiando enormi
boccate di fumo con una specie di golosità. All’odor del tabacco,
Giorgio si mise a tossire.

— Ahi!... me ne dimenticavo, — esclamò Stefano con premura.

E soffocato il fornello col póllice, si cacciò la pipa dentro una tasca.

— Fuma, fuma, — lo esortò Giorgio.

— C’è tempo! Veh, che brava Maria Dora! gli tieni compagnia.

— Si discorre di tante cose, godendo il bel sole. Frattanto ricamo,
ricamo. A furia di ricamare mi sarò preparato un corredo bellissimo. Non
manca più che il marito. — Fece una pausa: — Il marito... parola
eroicomica!

E si mise a ridere di quel suo riso trillante, che le gonfiava la gola.

— Oh, eroicomica!... — esclamò il padre. — Tu non sai quello che dici.

Ella non volle insistere, anzi mutò discorso:

— Papà, ora te ne racconto una bellina. La Berta se ne va!

— La Berta?

— Sicuro, e adesso verrà lei a dirtelo. Va via perchè... oh, debbo
ridere!...

— Insomma lo vuoi dire o no?

— Ora te lo racconterà lei stessa, perchè io... — e rideva, — io... — e
rideva più forte.

La Berta, che lo aveva inteso entrare, giusto era venuta su l’uscio.

— Ehi, tu, fatti pure avanti! — comandò il burbero padrone. — Sentiamo:
cosa c’è?

La fantesca si avanzò di qualche passo, impacciata, con gli occhi bassi,
slacciandosi il grembiule. Stefano si tolse il cappellaccio di paglia e
lo buttò sopra un divano. Siccome cadde a terra, la fantesca, per far
qualcosa, andò a raccoglierlo. Con quel cappellaccio in mano, e per il
fulvo della sua chioma e per il vermiglio delle sue gote, pareva più
buffa che mai.

— Dunque la sciogli o no quella tua maledetta linguaccia?

— Dica lei, signorina... — ella balbettò vergognosa.

Maria Dora se la godeva un mondo e non aperse bocca.

— Che signorina d’Egitto! — borbottò Stefano, con quell’aria terribile
che sapeva darsi nell’amministrare la giustizia fra i suoi dipendenti. —
Spìffera tu!

La fantesca si fece cuore:

— Signor padrone, ho deciso di andarmene via...

— Buon viaggio!

Ma egli non si mosse; ella neppure.

Dopo un breve silenzio papà Stefano disse:

— Oh, e perchè poi?

— Lo domandi alla signorina.

— La signorina non c’entra.

— E allora lo domandi al signorino...

— A chi?

— A quello lì... — ella fece, scostandosi impaurita e segnando col dito
Marcuccio, ch’era venuto su la soglia nell’udir quelle voci.

— Sì, a lui, proprio a lui... — ripeteva cocciuta la fantesca,
segnandolo a dito. Si era fatta rossa, quasi paonazza come una
melagrana, ed aveva le lacrime agli occhi. Papà Stefano abbandonò quel
tono di accigliata canzonatura, si fece grave:

— Sentiamo: cosa c’è stato?

— Certe cose, certe cose, padrone... — piagnucolava la Berta.

Lo scemo cominciò a sghignazzare ed a contorcersi contro lo stípite;
allora ella, fattasi ardita, sciolse lo scilinguagnolo.

— S’immàgini che non mi lascia stare un momento. Mi tocca, mi provoca,
mi salta addosso... Poco fa mi ha fatto bruciare il lardo! Ne ho
abbastanza! Guardi un po’ che pizzico!

E si fece avanti, squadrando con occhi nemici lo scemo, che sempre
sghignazzava; si rimboccò una manica fin sopra il gomito e mise in
mostra un bel lividore.

— Dio! come fai la schizzinosa... per un pizzico! — esclamò Maria Dora
con perversità. Ma la Berta non s’interruppe nemmeno.

— Poi sentisse cosa dice, padrone!

— Andiamo, andiamo... — borbottò Stefano, conciliante.

— Insomma pensi che la notte mi devo chiudere in camera a chiave!...

— Ohibò!... — fece Maria Dora con la sua vocetta maliziosa.

Allora lo scemo si fece avanti, serio serio, con una grande aria di
cerimoniale; drizzò su le gambe lunghissime la sua persona sbilenca e
disse in tono declamatorio:

— Infatti, caro padre, ho deciso di prender moglie. Quello che ti
racconta costei, non importa. È venuto il tempo che mi debba maritare:
ventitre anni ho, padre.

La ragazzotta, paurosa, corse in un angolo e scioccamente incominciò a
piangere.

— Costei, — riprese lo scemo, — costei non intende. Piange? Perchè
piange? Le ho detto: — «Sei grassa e rotonda; mi piace l’odore del tuo
collo, dove nascono i tuoi capelli rossi. E quando scopi mi piaci,
perchè la tua sottana dondola e sta bene. Sposiámoci, Berta; voglio
vedere se sei fatta come una donna.»

Allora il padre s’avvicinò a lui, posandogli una mano su la spalla; e
cercava di persuaderlo amorosamente:

— Questo che dici non è bene, Marcuccio. Lascia stare la Berta; va e
scrivi.

— Non ora, padre. Debbo raccontarti ogni cosa prima delle mie nozze.

Frattanto rideva, ma di quel suo riso atono, che gli afferrava soltanto
la bocca e la obliquava in una smorfia sinistra; un riso metallico,
breve, aspro, che gli stringeva la gola come una mano ruvida e ne traeva
un corto singhiozzo.

In certi momenti non si poteva impedirgli di parlare, affinchè non desse
in ismanie.

— Sì, padre. La sposo per aver fatto un sogno. Un sogno che faccio quasi
ogni notte, in questa primavera. Mentre dormo, la porta si apre; lei
entra; è veramente lei, quasi nuda, con i capelli arruffati, e ride.
Ride; poi si dondola nella camicia da notte come una cosa molle... Mi
dice: — Hai chiamato, Marcuccio? — Sono qui. — S’avvicina, mi tocca; io
soffoco. Butto via la coltre, le dico: — Entra nel letto. — Non vuole,
ma ride. Ride e si china... Sento che ha un odore forte, come una donna
nuda. — Guarda, — mi dice: — sono bella? — Sì, Berta, sei bella. — Poi,
se la voglio, fugge. E si dondola nella camicia da notte come una cosa
molle...

Si mise a ridere sguaiatamente:

— Vedi? anche ora fugge.

— Marcuccio, — lo implorò il padre, — vieni con me; discorreremo noi due
soli.

E cercò di trascinarlo via per un braccio. Ma egli resisteva, caparbio.

— Padre, tu forse non comprendi che sono innamorato.

Allora Maria Dora scoppiò a ridere, esclamando:

— Uh! uh... Marcuccio innamorato!

— Perchè ridi, sorellastra?

— Certo che rido, — ella rispose. — Perchè tu puoi sposare una ragazza
bella e pulita, mentre la Berta puzza di cazzeruole... È unta!

— Sorellastra, ti dico: tutto puzza e tutto non puzza, secondo che un
odore piace o non piace. Siccome sei maligna, alle mie nozze tu non
verrai. La Berta sarà vestita di bianco, io di nero, e tutti gli
invitati porteranno un cero come nelle processioni. Farò suonare le
campane, a stormo. Sorellastra, se mi regalerai un anello d’oro, con
cinque brillanti, allora ti perdonerò.

Andrea sopravvenne in quel momento e si fermò all’udire que’ discorsi.
Ma súbito interruppe lo scemo con una voce piena di potere:

— Marcuccio, che stramberie vai dicendo?

— E voi, Andrea, — seguitava lo scemo senza dargli retta, — voi, Andrea,
nel giorno delle mie nozze, direte a tutti: — Quest’uomo che si sposa è
Marcuccio Landi, poeta, filosofo e musicista. Mettetevi a ginocchi e
riveritelo: egli è grande!

— Io dirò a tutti, — esclamò Andrea: — Quest’uomo che si sposa non è
affatto grande, perchè invece di dedicarsi al suo lavoro perde il tempo
dietro le sottane. Così non avrà nessuna gloria.

Egli diceva queste parole fermamente, come le avrebbe rivolte ad un uomo
sano d’intelletto, ed affrontava lo scemo con tutta la violenza del suo
sguardo insostenibile.

Una bianca ed umile paura si dipinse tosto nel viso di costui ed il suo
sguardo si fece errante sotto la dominazione di quell’occhio più forte.

— Non direte questo... — balbettò, con una specie di terrore.

— Lo dirò certamente, se non abbandoni questo pensiero assurdo.

— Maestro... — fece smarritamente lo scemo, — maestro... e in tal caso,
l’amore?

— L’amore? — esclamò Andrea nervosamente, con una rapidità quasi
iraconda. — L’amore non è che un perditempo! Cerca di saper farne a
meno, anzi di persuaderti che l’amore non c’è!

Lo scemo dovette meditare su queste parole; poi gli parve d’aver
compreso.

— E voi, — domandò lentamente, — voi non amate?

Quasi urtato in pieno petto dalla domanda inattesa, che aveva, o gli
parve, un non so che di proditorio, Andrea Ferento ebbe un sussulto
impercettibile, rovesciò la fronte all’indietro con quell’atto imperioso
ch’era in lui abituale quando voleva resistere o comandare.

— Io, — disse con asprezza, come se la domanda non gli venisse dallo
scemo e non a lui dovesse rispondere, — io non ho amato che una sola
cosa nel mondo: la mia opera; e ciò basta.

Poi traversò quasi con impeto la stanza, e preso lo scemo per un polso,
fortemente lo accompagnò verso l’uscio. Da lui Marcuccio si lasciava
condurre con una docilità quasi pecorile, senza osare mai di
contraddirlo, perchè nel suo sperso intelletto non dominava che una sola
fissazione: quella di potergli assomigliare.

Aveva con ardenti sogni amato la gloria nella sua giovinezza dedita alle
fatiche più nobili dell’ingegno, e questa gloria ch’era stata la sua
lontana amante, il suo fantastico sole, continuava ora a perseguitarlo
con tentazioni assurde, a riaccendere di eroiche imprese la sua demenza
mansueta.

Papà Stefano si era seduto sopra una seggiola, e raccoltasi la fronte
nella mano, meditava dolorosamente su la pietà che gl’ispirava il suo
figlio. Ogni tanto scoteva il capo e si ricacciava la commozione in
gola, mordendo la pipa spenta, che lo impolverava di cenere. Di
sventure, nella sua lunga vita, ne aveva sopportate assai, con quel
coraggio paziente che l’anima dei semplici sa radunare contro la
sciagura; ma questa, che gli aveva distrutto nel fiore dell’età il suo
figlio adolescente, questa non la poteva tollerare per quanta
rassegnazione avesse nel suo cuor di cristiano.

Finchè Marcuccio se ne stava zitto, faceva la calza, scriveva o
camminava per la casa come un automa, traendo dal suo violino, sempre,
sempre, quella medesima canzone, ch’era divenuta per tutti quasi un
incubo superstizioso, il padre non malediva la sorte, si contentava di
guardarlo con occhi tristi e scuotere silenziosamente il capo. Ma quando
l’udiva imbastire insieme, con una voce monocorde, que’ suoi lunghi
discorsi incoerenti, che tradivano il cervello senza governo, e poi
finivan per lo più in una risata stridula, che faceva male come un colpo
di frusta, il padre talvolta non sapeva più contenere la piena del suo
dolore taciturno.

Dopo una lunga pausa, il vecchio disse alla figlia:

— Maria Dora, va piano piano a vedere cosa fa.

La fanciulla si levò in silenzio dalla poltrona dov’era seduta a
ricamare, e camminando con lievi passi uscì per andarlo a spiare. Poco
dopo fu di ritorno, con la medesima cautela, e rispose, facendone
l’atto:

— Scrive.

Poi, senza guardare Andrea, sedette di nuovo nella poltrona, presso
l’infermo, ed abbassò il capo sul ricamo che aveva incominciato.

Ora non parlavano più; tutti e quattro, in quel silenzio parvero stare
in ascolto, forse d’una lor intima voce che ad ognuno lasciasse cadere,
come pietre sul cuore, un peso di sillabe lente. Ascoltavano, ed ognuno,
tacendo, in quella sera piena d’ambiguità, ricamava sul proprio telaio
una trama invisibile di pensieri. Per l’uscio aperto si udiva giungere
quel rumore familiare che fanno le stoviglie, le argenterie, quando
s’apparecchia la tavola.

E il giorno, fuori, diminuiva. Il sole, come un largo tappeto, si
ritraeva dalla terra umida, strisciava sul fogliame degli alberi, sui
tetti più alti, sui vertici delle colline. Veramente a guisa di un
tappeto che il crepuscolo andasse arrotolando, sollevava nell’atmosfera
limpida qualche soffio di polvere voluminosa, che lentamente scendeva,
cadeva, prima impalpabile, poi folta, sopra i contorni delle cose.

Gli alberi si vestivan di buio, come se il vento li avvolgesse d’un
torbido fumo. Non era puranco l’ora delle campane: un grande silenzio
veniva dalla terra circostante, un silenzio quasi religioso, che
affaticava la loro sensibilità.



V


Quando furono in fondo al giardino, ella si strinse a lui con tutta la
persona e gli cercò la bocca.

— Bada... — egli disse impaurito; — non qui!

La sera già folta li nascondeva; ma erano più che mai timorosi, più che
mai sperduti d’amore e di terrore, mentre il destino si compiva in ogni
attimo, con una irremediabile celerità. Egli si tese in ascolto, poi
l’attrasse dietro un alto cespuglio che faceva quasi una nicchia, dove
nessuno li avrebbe scorti.

Che buon odore di menta selvatica veniva dall’umida erba in quella sera
scintillante! La terra satura esalava il suo respiro profumato,
quasichè, nella propizia ombra, godesse la carezza d’un amante e quel
soverchio profumo fosse l’effluvio della sua nascosta voluttà.

Là dietro, per l’intrico dei rami, si vedeva la casa biancheggiare con
tutte le finestre chiuse, tranne una, che splendeva, ma d’un lume
vacillante, quasi già vi ardesse il chiarore d’una lampada funeraria e
l’anima dell’abitatore addormentato stesse di là per evadere nella notte
grande. Non osavan guardare lassù, a quella sola finestra rischiarata,
poichè, dietro la trasparenza dei vetri, vedevano la vasta camera
taciturna, greve di morbo, densa di ombre fluttuanti, la camera ond’eran
usciti poco prima, a breve distanza l’un dall’altro, cauti, su la punta
dei piedi, per non interrompere quel sonno troppo lieve.

Oh, come sono diverse le finestre che splendono di notte nella facciata
d’una casa buia! Sonvene, per chi cammina e le vede passando, alcune che
fanno invidia, che dànno quasi uno scoramento indicibile, una specie di
triste gelosia verso la gioia che rischiarano. Sole, nell’alta notte,
nell’alto silenzio, brillano d’una luce impudica, irruenta, ilare, che
somiglia quasi ad uno scoppio di riso, che somiglia quasi alla
bianchezza d’una nudità, — e sono le finestre dell’amore; ma dell’amore
giovine, che non rifugia nell’ombra le sue colpe, che non ha paura della
propria felicità.

E sonvene di più velate, dalle quali pertugia insidiosamente un chiaror
soffocato, che paiono dire a chi passa: — «Férmati e ascolta; non senti
venire per l’aria un ánsito di voluttà? Siamo due soli e nascosti, e
siamo accesi d’una febbre taciturna, che istilla quasi un veleno sottile
nel sapore d’ogni bacio...» — E sono le finestre dell’amore; ma
dell’amore già perverso, che si ubbriaca di filtri e sóffoca il suo
grido nella coltre contaminata. Poi talune che vegliano solitarie, con
una lampada immota, e sembrano rischiarare l’insonnia d’un’attesa, —
d’un’attesa lunga ed inutile, o il mormorio d’una preghiera, — d’una
preghiera fatta per l’assente, che forse non tornerà — o la stanchezza
d’una mano che scrive, che scrive senza mai fermarsi, che scrive senza
mai rileggere, al suo sogno lontano, al suo lontano amore...

Poi talune, che sembrano illuminarsi d’un tratto, per una paura
subitanea, per un dramma notturno, con ombre che s’avvicendano
repentine, come se vi fosse nella camera un tramestìo di gente, che va,
che viene, che parla concitata... Poi altre, le quali sembrano tenebrose
della lor luce, come sono quelle fiammelle ad olio che bruciano davanti
ai tabernacoli, in certe abbazìe di campagna, le sere d’autunno, dopo il
vespero, quando le chiese dei poveri si émpiono di preghiera e di
malinconia...

Sono finestre semispente, che hanno un colore; nessuna ombra si muove
nel loro fondo opaco; nessun romore viene dalla lor immobilità; ma solo
una specie di brivido che si prolunga nella notte, che si propaga nel
buio, con disperata tristezza. — E sono le finestre segnate, su le
quali, perchè si spengano del tutto, soffierà la morte...

Assaliti così da quel brivido, e pur indugiando nel bacio che li colmava
d’oblìo, essi rividero la faccia supina dell’infermo, affondata nel
guanciale, che apriva gli occhi senza muoversi ed in quel bacio li
guardava. Sebbene avesse le fattezze del cadavere già scolpite sotto la
pelle trasparente, li guardava cupo e fiso, per infondere uno spavento
inesorabile nel loro inesorabile amore.

Egli disse a lei, che s’annidava nelle sue braccia, e lo disse come per
esprimere quella imprecisa paura:

— Non odi?

— Che?

— Un rumore...

Ascoltarono.

Tutto il giardino dormiva. Solo, tra ramo e ramo, tra foglia e foglia,
qualche rapido crepitìo, qualche sussulto fugace interrompeva l’odorato
silenzio, metteva nell’ombra effusa di chiaror lunare un risveglio pieno
d’ambiguità. Su la terra, nell’impenetrabile intrico dell’erbe, si
agitavano vite furtive; in alto, fra i tacenti nidi, sotto le volte
sonore dei padiglioni arborei, gli sciami notturni come orchestre in
sordina aliavano senza tregua producendo un indefesso ronzìo. Laggiù,
nella vasca, lo zampillo tenuto basso pullulava piano piano, scorrendo
in un rivolo quieto che non sciacquava, ed ogni tanto interrompendosi
come per riprender lena. Ad intervalli vi si udiva uno schianto: era
forse una ranocchia, od un rospo, che dal margine vi saltava dentro, sul
ventre piatto. Dai piccoli sentieri, fra i cespugli, sbucava un odore
intenso di fioriture nascoste; poi d’improvviso, nell’inclinar del
vento, la fragranza del maggengo non mietuto, che arruffandosi ad ogni
folata prolungava per i campi una sonorità non dissimile dal tintinnìo
d’un metallo, e in vicinanza, in lontananza diminuiva, come uno strepito
di verghe d’argento.

Senza parlarle, quasi con ira, egli appoggiò contro la sua fronte una
mano fredda, e piegatole il capo all’indietro si curvò su lei, come se
lo struggesse la tentazione di dirle una parola terribile, di confidarle
un segreto immane, ma volesse prima leggere ne’ suoi femminili occhi se
aveva una così forte anima da poterne contenere in sè la tragica
violenza.

— Ascóltami, — egli disse, con voce sorda, che pareva il rombo d’una
soverchia fatica interiore, — ascóltami, Novella, e médita bene prima di
rispondere.

Poi fece una pausa ed accrebbe la lentezza delle sue parole. Domandò: —
Fino a che punto puoi amare un uomo?

— Non un uomo — ella fece, con perdizione, — te solo, te solo...

— Non mi rispondere così, a fior di labbro. Interroga bene te stessa.
Troppe volte si confonde l’amore con l’esasperazione dei sensi, e troppe
volte l’amore ha paura di sè stesso, quando lo risveglia un pericolo
ch’esso non prevedeva.

— No, — ella disse, — non c’è risveglio, non c’è limite...

— Ma vi può essere, — egli rispose, premendo col palmo su le radici de’
suoi capelli scintillanti, — vi può essere un’altra cosa che tu non
sai... — E sordamente, senza un tremito nei diritti occhi, soggiunse: —
La disperazione.

Ella stava un po’ curva all’indietro, piegata su le reni, ed oscillò. Ma
il braccio dell’amante la reggeva per la cintura, onde non fu che un
peso più greve contro la sua forza. Ismemorata, come se non potesse bene
afferrare il senso di quelle sue parole, ma tuttavia ne rabbrividisse:

— La disperazione?... — balbettò. — Che dici?

E gli andava serrando le braccia con le mani trepide, come se cercasse
in lui contro lui stesso un aiuto. — Che vuoi dire? Perchè mi parli a
questo modo? Io non so nulla, non so nulla... ma ti amo...

Diceva questo con una semplicità, con una sincerità che soverchiava ogni
ragionamento; pareva che gli volesse rispondere: — Perchè m’interroghi?
perchè mi tormenti? perchè cerchi di esagitare in me fantasmi che non
conosco? Ti amo... Non c’è forse tutto in questa parola? A che scopo
vuoi saper oltre?... La disperazione?... ma è una sola: Non essere tua.
Ecco, ti rispondo: Essere tua fin dove tu voglia, e come e fin quando a
te piaccia. Divenire un oggetto minuscolo, inerte, nel dominio della tua
forza: null’altro. Ed è questo, non ti sembra? l’amore...

Così ella pareva dirgli con quelle parole semplici, ed egli se ne rese
ben conto. Anzi misurò per un attimo lo sfondo senza limiti dell’anima
femminile, anima che sfugge alla comprensione dell’uomo nè sopporta
l’altrui e meno ancora la sua propria vigilanza. Ond’egli pensò ch’era
oltremodo vano tormentare con tante ricerche il suo docile cuore.

A sè stesso, più che a lei, mormorò due parole rapide, vicino alla sua
bocca: — «Non ancora».

«Non ancora. Tu hai diritto alla mia mercede, povera creatura, perchè
sei meno forte, e perchè mi ami. Io solo soffrirò per entrambi: — io
solo».

Subitamente, quell’odore della sua bocca lo sconvolse. Più forte che
l’aroma della notte primaverile, più forte che l’olezzo del giardino
ebbro, vaporante come un incensiere, su lui potè l’odore femineo di
quella sua bocca soavissima, di quelle sue labbra socchiuse, appena
umide, che avevano sete, che avevano involontariamente la forma ed il
sapore d’un bacio, ch’erano più lascive di una forma ignuda, più nude
che la nudità. Allora vide, intorno a’ suoi occhi abbassati, le ciglia
luminose tessere due piccoli semicerchi d’oro, e vide la sua pelle, su
le gote, sul collo imbiondire per una vellutatura ch’eravi cosparsa,
limpida, scintillante come l’oro.

E vide nella sua gola riversa accumularsi un’ombra che tutta la vestiva,
come un manto sotto il quale fosse nuda, e sentì che il suo petto gonfio
colmava lo spazio fra loro, trasalendo ad ogni respiro, come fa un
ventre femineo quando assorbe la voluttà...

Brillava una finestra, una sola, ma fosca, nella casa buia; e fra i
meandri del giardino addormentato egli la portò a giacere su l’erbe che
fiorivano, come sopra una coltre viva, in un letto fragrante.

Il vento, delle praterie sonore, portava lo strepito del maggengo non
mietuto, che in vicinanza, in lontananza diminuiva, come un clamore di
verghe d’argento.



VI


— Natalissa! Natalissa, vieni su!

Era la voce di Maria Dora che chiamava dall’alto del giardino,
affacciandosi al terrazzo, fra le spalliere dei gerani rampicanti, che
fiorivano a mazzi d’ogni colore, nascondendo sotto un magnifico tappeto
vivo tutto il muro della scalinata.

— Corri, Natalissa, corri!

La bambinetta era in fondo al giardino, aveva nel grembiule un fascio di
ramoscelli, che suo padre mondava dall’aiuole troppo folte.

— Lascia giù quella roba, e corri, Natalissa!

Con una certa cura la bambinetta vuotò il grembiule sul margine del
prato, fece in modo che il suo fascio non si disperdesse, poi cominciò a
correre. Aveva in testa un cappello di paglia che la copriva come un
ombrellone, ma il sole tuttavia l’aveva morata come una bacca selvatica.

— Signorina Maria, che vuole? — diss’ella con quel suo modo garbato di
donnicciuola grande, la quale sappia il fatto suo.

— Bisogna che tu corra sùbito in paese a cercare il dottor Paolieri, e
dovunque si trovi, che venga su di filato, ma sùbito, e venga pure se
fosse occupato, perchè il signor Giorgio sta male... sai, piccina: molto
male.

— Oh, poveretto! — esclamò la bimba senza riflettere. — Ma, e se non lo
trovo?

— Cércalo, cércalo dappertutto; dillo al farmacista, dillo a tutti
quelli che incontri, e manda persone in giro finchè l’abbiano trovato.

Poi non rimase a discuter oltre; tornò dentro frettolosa, gridando
ancora una volta:

— Corri, Natalissa!

Ma questa, nella sua testolina ragionevole, non poteva persuadersi di
quella necessità.

— Come mai? Hanno un dottore in casa... che bisogno c’è del Paolieri,
quello che cura i poveri?

Tuttavia si mise a correre, come le avevan detto, poichè era ubbidiente.

Intanto, sul primo pianerottolo della scala, Maria Dora vide qualcosa
che la percosse d’un grande stupore. Novella era nel corridoio, diritta
contro la parete, a pochi passi dalla camera di Giorgio; pareva in croce
contro il muro, con le spalle oppresse come dal peso di una fatica
interiore, le braccia un po’ discoste dai fianchi, le mani aperte, quasi
aderenti all’intónaco, e tutta bianca nel viso d’un pallore che alterava
le sue fattezze. Non solo, ma nel medesimo tempo aveva intravveduto
Andrea sparire di lì, entrar per una porta, uscirne, tornare, quasichè
non avesse potuto nascondersi a tempo. Era passato davanti a lei che
saliva, senza guardarla, senza forse vederla, con gli occhi stranamente
esagitati, i capelli che parevan irti. Ed in entrambe quelle facce un
non so che di malvagio, di folle, una specie di tragica simiglianza.

Ella vide questo, e si fermò davanti alla sorella, senza trovare il
coraggio di parlarle. Ma questa non fece il più piccolo movimento, e
rimase con gli occhi sbarrati, le mani aperte, quasi crocifissa contro
il muro.

— È strano, — pensò Maria Dora; — ogni volta che Andrea torna dalla
città, Giorgio si aggrava...

Tutta la casa era sossopra; nella camera del malato i familiari si
affacendavano; la Berta ne usciva ogni tanto, in punta di piedi,
strisciando su le pantofole di feltro, facendo tutto quello che le si
ordinava. Ora passava con una bottiglietta, or con una pentola d’acqua
bollente; poi venne fuori papà Stefano e si mise a chiamare con voce
soffocata:

— Andrea...

Maria Dora prese una mano della sorella e dolcemente le domandò: — Che
hai?

Novella strinse la sua mano, forte, forte, senza rispondere; gli occhi
le brillavano, accesi d’una febbre che ne consumava il pianto. Allora,
levando il capo verso l’altro pianerottolo, Maria Dora vide il suo
fratello Marcuccio, seduto su l’ultimo scalino, fermo come un cane
accucciato, e che guardava in aria, con le pupille fisse, ascoltando.
Aveva il suo violino su le ginocchia, l’archetto nel pugno, e senza
batter ciglio, con ferma intensità, pareva tutto assorto nell’ascoltare
un lontano rumore di avvenimenti, una confusa voce che parlasse con lui
solo.

Vedendo la casa in tumulto, guidato forse dall’istinto, era venuto egli
pure su quella scala, presso la camera dell’infermo, dove non entrava
mai.

— Andrea, Andrea... — ripeteva la voce del padre.

— Ebbene? — disse questi, apparendo su l’angolo del corridoio.

C’era in lui una specie di convulsione ferma, che la tensione de’ suoi
nervi dominava a stento.

— Non posso fargli più nulla, — disse con voce rapida.

Aveva tra i sopraccigli una ruga profonda.

— Ma... ràntola... — balbettò Stefano.

Andrea rovesciò indietro il capo, con una specie d’urto che scosse tutta
la sua persona:

— Lasciàtelo stare. O la crisi passa, o questa volta è finita.

Ripetè ancora, con una voce più sorda: — È finita.

E cominciò a camminare velocemente, in sù, in giù, davanti all’uscio
dell’infermo. I suoi passi facevano romore; il pianerottolo ne
traballava; la ringhiera scossa mandava una specie di ronzìo.

Poi si fermò di scatto:

— Viene questo medico?

— Sì, — rispose Maria Dora timidamente.

— Che viene a fare?

— Mi avete detto voi di chiamarlo... voi stesso, poco fa...

— Sì, è vero: l’ho detto io. — Fece una pausa: — Bene, venga!

Di nuovo si mise a camminare, più rapido, con maggiore concitazione.

Gli occhi di Novella inseguivano ogni suo gesto, ogni sua mossa, quasi
fossero ammaliati; ed egli non la guardava mai; non guardava nessuno.

Dalla stanza dell’infermo uscì mamma Francesca, e piangeva. Mormorò:

— Bisogna salvarlo...

Poi carezzava la fronte della figlia maggiore, dicendole:

— Ti senti male, è vero, povero cuore?...

— Sì, mamma, così male!...

Ma la Berta, ch’era per un momento rimasta sola con il malato, scappò
fuori quasi correndo, bianca di paura.

— Oh, la sciocca! — fece Stefano, vedendo la sua pavidità.

Ora, quel giorno, Marcuccio la odiava. Per non guardarla, o forse per
dispregio, col dosso della mano in cui teneva l’archetto si coverse gli
occhi, fin quando fu passata.

Macchinalmente Andrea guardò l’ora. Disse:

— Le tre. Non piangete, Novella! vi prego, vi prego non piangete!...

E risolutamente varcò la soglia, dietro la quale stava il moribondo; la
soglia buia che segnava quasi un limite.

Allora, in quella penombra, da solo, Andrea s’avvicinò al letto nel
quale stava disteso il malato inconoscibile; si curvò leggermente per
ascoltarlo, e rimase immoto. In quella breve distanza, dal limitare al
letto, nello sforzo enorme che aveva dovuto compiere sopra sè stesso,
l’incubo del suo spirito si era dissipato come per incanto; una gran
pace gli entrava nel cuore: piuttosto che pace era una lucida
insensibilità.

Lo guardava, lo poteva guardare senza tremarne. Non era più che la
squallida ombra d’un uomo, in cui persisteva tenacemente una fievole
vita.

E il medico pensò: — «Una crisi. Non sarà l’ultima. Ora è già quasi
domata. Passa.»

Avrebbe voluto anche toccarlo, tastargli le tempie, i polsi, il cuore, —
ma le sue proprie mani, involontariamente, si rifiutarono. Allora tese
l’orecchio: il respiro fluiva più uguale nonostante il fiochissimo
rántolo, nonostante la viscida saliva che gli schiumava tra le labbra.

E il medico pensò: — «Fra poco gli si potrebbe fare un’altra iniezione
di caffeina; il cuore ha già ripreso un po’ di forza.»

E vedeva con l’occhio esperto riaccendersi la vita nell’esausto cuore.
Lo vedeva, senz’averne alcun segno, per una specie di sensazione fisica,
la quale gli proveniva dall’aver molto spiati gli indizi della morte, il
calore impercettibile della vita.

Non si moveva; era come affondato nel materasso; la coltre si alzava sui
piedi congiunti, su le ginocchia un po’ salienti: un braccio pendeva dal
lenzuolo con la mano torta, come se nell’affanno avesse cercato di
ghermire, di stringere; soltanto nella gola denudata era il gonfiore di
uno sforzo continuo; nelle palpebre qualche battito.

Gli pareva d’essere accanto ad un altro malato, ad uno dei tanti che
aveva ritolti alla morte o vegliati nelle agonie; gli sembrava quasi
d’essere l’artefice davanti all’opera, e di doverla compiere con quella
tranquillità di spirito che pareva separarsi dal suo cuore d’uomo; gli
sembrava di non esser altro che una macchina, attenta e paziente. Se una
vita era in pericolo, a lui toccava salvare quella vita: questa era la
sua missione nel mondo, questo gli appariva semplice, come al timoniere
il mettere su la barra la sua mano forte, come allo spegnitore d’incendi
l’avventarsi dentro il fuoco.

Macchinalmente mescè dentro un cálice alcune gocce d’una pozione con un
sorso d’acqua, e gliela fece colare traverso le labbra bavose,
tenendogli sollevato il capo con una mano passata dietro la nuca. Senza
volerlo aveva pur vinta la repulsione del toccarlo, e poichè il liquido
non trangugiato gli colava per il mento, lo rasciugò con un panno.
Dolcemente gli ripose il capo nel cavo del guanciale, gli compose la
mano torta sotto la coltre, lo coverse fino alla gola, e stette a
guardarlo.

Allora l’uomo — non più il medico — pensò ad un tempo lontano della lor
giovinezza, quando quella creatura sfinita era un maschio avventuriero
della buona strada, e si erano data la mano, da uomini, da galantuomini,
per affrontarla insieme, la vita. E lo rivide nelle sue sembianze
d’allora, vestito di panni semplici, come si conviene a chi vive tra lo
scoppio delle mine ed il rimbombo delle macchine generatrici, con la sua
bella fronte illuminata di volontà, l’anima che gli brillava negli
occhi, limpida come il suo sguardo sincero. Egli era forse un po’
selvatico a quel tempo, e si trovava dappertutto a disagio fuorchè tra
le squadre d’operai, che capitanava come un condottiero, che lo amavan
come un fratello più forte, ma uguale ad essi nelle fatiche, primo nei
pericoli, integerrimo nella sua splendida povertà.

Rivide un giovine alto della persona, nervato di ferrei muscoli nella
carne arida, sebbene dal colorito un po’ esangue, dalle fattezze quasi
di adolescente, forse per quegli occhi azzurri che gli schiaravano la
faccia e la biondezza dei capelli non folti, che davan quasi una
trasparenza alla sua dolce fisionomia. Non aveva più famiglia, era solo
nel mondo, e in luogo d’ogni altro amore aveva l’ambizione inflessibile
di avanzarsi contro la vita per una via di conquiste, sacrificando tutti
gli agi allo splendore della sua meta lontana.

Ma aveva un fratello nel mondo, un fratello come lui combattente, come
lui persuaso che ogni giorno si debba fare un passo più innanzi; e
quand’ebbero denaro, divisero il denaro, quand’ebbero sciagure, divisero
le pene, quand’uno si coronò di gloria, e l’altro si sentì pure
innalzato nella sua medesima elevazione. Da presso, da lontano, separati
e mai disgiunti nelle dure imprese che affrontavano, traverso l’età e le
molte insidie che la vita ordisce contro gli affetti umani, salvarono
quest’amicizia sacra, questo patto fraterno che li rendeva più forti, e
delle cose o dei principii che la vita aveva loro insegnato a
considerare in guise opposte non discutevano mai, per non gettare
un’ombra pur lieve su questa concordia assoluta.

Quanta vita nella memoria! quante vicende coraggiose! quante belle
pagine di due storie umane, vissute per cammini opposti, con un solo
cuore!

— «Ti ricordi?...» — voleva quasi dirgli, mentre stava curvo sopra il
suo letto, sopra le sue logore membra, in quella camera semibuia. — «Ti
ricordi?...»

E con quella celerità istantanea che solo il pensiero possiede, tutta
rievocava in un baleno la storia di tanti anni, le vestige di tante
memorie che infuriavano, là indietro, come foglie ammulinate, in quel
turbine che si chiama il passato. E ogni tanto domandava a sè stesso,
quasi con un senso di reale incertezza: — «È lui? proprio lui,
quest’uomo che ora giace? quest’uomo ch’io faccio morire? È lui?
Giorgio?...»

Anche il suono mentale di questo nome gli pareva una cosa lontana.

Poi subitamente si ricordò di una sera, — una sera non tanto remota in
quella corsa a ritroso degli anni — quando Giorgio era venuto a trovarlo
nel suo laboratorio e s’era seduto in un angolo, taciturno, ma con
l’aspetto di volergli dir qualcosa, di volergli fare una confessione
grave. Perchè mai di quella sera egli si rammentava così bene ogni più
piccolo episodio? — Che strana cosa! In quella sera egli provò per la
prima volta una specie di presentimento, oppure una di quelle sensazioni
inspiegabili che paiono più tardi presentimenti quando il fatto accade.

Era verso l’ora del pranzo, d’inverno, e pioveva. La pioggia produceva
di continuo su la gran vetrata del laboratorio quel rumore scrosciante
che un secchio d’acqua produce vuotandosi di colpo sovra un lastricato.

Giorgio lo guardava; ed egli era seduto sotto la luce del riflettore, in
mezzo a fiale, a storte, a gelatine dense di bacilli. C’era su la tavola
un coniglio morto; in una gabbia tre topolini che giravan come trottole.

— Sai, Andrea...

— Ebbene?

— Son persuaso che tu ne riderai, ma devo nondimeno confessarti una
cosa...

— Ti ascolto.

— Ecco: mi sono finalmente annoiato di viver solo; ho un’idea fissa,
nella testa, o nel cuore, non so... Insomma c’è una ragazza alla quale
voglio bene... ed avrei pensato di prender moglie.

— Oh, strano, strano... strano.

E si ricordò di aver sollevato per le orecchie quel coniglio morto,
ch’era freddo agghiacciato, e che ricadde come piombo. Certi particolari
di nessun rilievo hanno talvolta più valore, più senso, nella memoria,
che altri avvenimenti gravi.

Gli sembrò allora, per la prima volta in tutta la vita, che da quelle
parole, da quell’attimo, fosse per insorgere un ostacolo fra loro. Ma
egli era un incredulo, un negatore: non vi badò.

In quei giorni doveva riferire all’Accademia di Scienze su la scoperta
di un nuovo bacillo e sopra un metodo di cura ch’egli proponeva,
presentando un siero, che, dapprima combattuto, invalse poi nella
medicina come un rimedio indiscusso, lasciando gli stessi medici
stupefatti per la rapidità e la potenza de’ suoi risultati. Era in quei
giorni assorto pienamente dal lavoro, nervoso, irritabile, pervaso da
quella febbre che accende l’uomo il quale sappia di possedere in sua
mano una forza prodigiosa e debba farla riconoscere dalla ottusa
diffidenza di coloro che paventano la novità; non viveva che tra la
Clinica ed il laboratorio, trascurando il cibo, accordandosi poche ore
di sonno, sostenuto solo da quella incurvabile volontà che gli stava
confitta nel cuore come una lama, fino all’elsa, in un legno duro.

E però si rammentava anche la voce di Giorgio, quando gli disse quelle
parole; una voce che non gli aveva udita mai, vergognosa o timida, come
la voce dell’uomo che debba farsi perdonare una colpa.

Gli aveva risposto, quasi con negligenza:

— Allora ti sei finalmente innamorato... ami... anche tu!... — in
quell’«anche» c’era quasi un piccolo disprezzo. Giorgio rispose:

— Anch’io.

E un’altra cosa rammentava, più nitidamente ancora, con una precisione
singolare.

Qualche settimana dopo gli venne curiosità di conoscere questa fidanzata
di Giorgio e andò con lui a visitarla nella sua casa.

L’aveva trovata bella... sì, molto bella — e null’altro. Era stato al
loro matrimonio, li aveva condotti fino alla stazione quand’erano
partiti per il loro viaggio di nozze. Se ne tornò indietro solo, un po’
triste, mentre gli pareva che qualcosa dell’antica lor fratellanza fosse
andato in fumo, poichè per tutti i sentimenti, per l’amicizia come per
l’amore, non bisogna essere che in due.

Ma una volta, forse un anno, un anno e mezzo più tardi, Giorgio lo aveva
invitato a pranzo, come soleva di tempo in tempo, e quella sera Giorgio
si sentiva male.

Ella era sempre un poco taciturna quand’egli veniva nella lor casa;
Andrea lo aveva osservato infatti, senza domandarsene il perchè. Inoltre
certi suoi movimenti, certe inflessioni particolari della sua voce, gli
parevan un po’ ambigue.

Si era chiesto sovente se Giorgio fosse felice con lei, ma non osava
parlarne con l’amico; era sceso tra loro un insensibile velo.

Quella sera lo ricevette lei sola, in un salotto che dava sul giardino
ed aveva un terrazzuolo fiorito di caprifoglio; sì, di caprifoglio o
forse di glicine: un’alberatura nodosa che saliva dal giardino
sottostante arrampicandosi nella ringhiera, e che mandava un odor forte.
Non c’eran lumi nel salotto, poichè si andava incontro all’estate; il
crepuscolo, rosso come un gran braciere, bastava da sè ad illuminare con
il riverbero delle sue vampe.

Ed ella disse che Giorgio era sul letto a riposarsi prima del pranzo
«perchè Giorgio stava un po’ male...»

Poi discorsero d’altre cose. Eran seduti vicino alla finestra, a due
passi l’un dall’altra, lei con un abito di color viola, scollato,
percorso intorno alla cintura da una grande fascia nera. Teneva i piedi
sovrapposti, poggiati sovra un cuscino: quello ch’era sotto si piegava
come avesse la caviglia rotta, con una straordinaria elasticità; l’altro
non istava mai fermo. Le calze tenui trasparivan di bianco; aveva su
ciascuna scarpina una bella fibbia di antichi diamanti, rotonda, che
luccicava.

Il rumore della sua gonna di seta ogni tanto le saliva intorno alla
persona come il rumore di una cosa viva; ella parlava distrattamente, di
cose futili, con una voce lenta, facendo lunghe pause.

Allora egli sentì per la prima volta, con precisione, ch’ella lo
guardava come una donna guarda un uomo, attentamente, minutamente, senza
lasciarlo intravvedere, e questo gli dette un senso di molestia, un
senso anche di stupefazione. Si accorse d’un tratto ch’era singolarmente
bella, d’una bellezza tentante, d’una bellezza non casta: il che aveva
quasi dimenticato dal primo giorno che la vide.

Sollevò gli occhi per guardarla negli occhi, e tutt’e due si sentirono
un po’ confusi... Di che? Di nulla; d’un pensiero, d’un’ombra, d’una di
quelle indefinibili sensazioni che sono il principio di tutti i desideri
colpevoli.

Egli cominciò ad osservarla, e subitamente gli parve di aver già
custodita nel suo pensiero l’immagine di una donna fatta come lei. Sono
vibrazioni veloci, contro le quali non si ha tempo di reagire; ciò che
le provoca è forse la loro impossibilità apparente, ciò che le alimenta
è forse il terrore che incutono.

Cominciò a guardarla egli pure, minutamente, attentamente, come un uomo
guarda una donna, e la trovò più bella che mai. Gli piacque non solo il
suo corpo, ma il vestito che portava, e quel suo nastro nero alla
cintura, ed il rubino che le brillava sul dito come una goccia di
sangue, ed il profumo del quale si era cosparsa, e la mano e la bocca ed
i capelli, e sopra tutto la sua voce un po’ velata, e sopra tutto la sua
femminilità così piena di seduzione involontaria.

Turbato, per interrompere quell’incanto, si levò e disse:

— Ma, e Giorgio? Non potrei andarlo a vedere?

Ella con gli occhi lo seguiva, e rispose lentamente:

— Sì, se volete...

Oh, se ne ricordava come fosse trascorso un solo giorno! E da allora,
proprio da quell’attimo, un gran dramma aveva pervasa la sua vita, gli
era entrato come una paurosa novità, non nell’anima soltanto, ma nel
cervello e nei sensi, fino a sconvolgere tutto quello ch’era stata fino
allora la sua concezione delle cose, fino ad afferrarlo in una specie di
possessione, contro la quale non c’era in lui nè fuori di lui rimedio
alcuno. Egli sapeva talvolta escludere una passione, ma limitarla mai.
La sua natura non gli consentiva di rimanere a mezzo di alcuna strada: o
non percorrerla, o andar oltre, contro tutto, inesorabilmente, come su
l’ala di un destino.

Fra questi pensieri egli non si rammentava più d’essere in quella
camera, presso il guanciale d’un sofferente, sotto la salvaguardia del
tetto che l’ospitava, nell’intimo d’una famiglia costituita. Ma invece
gli pareva d’essere davanti ad un giudice invisibile, contro il quale
gli fosse mestieri giustificare la sua colpa.

D’improvviso lo interruppe nelle sue divagazioni un rumore di gente
sopravvenuta; si volse.

Papà Stefano e mamma Francesca facevano entrare il medico Paolieri,
ch’era venuto su di corsa e trafelato ansava.

Andrea lo squadrò velocemente, con uno sguardo nemico; l’altro, al solo
vederlo, si fece ritroso ed umile, quasi avesse una fredda vergogna di
compiere il proprio officio davanti a quel grande salvatore d’uomini.
Pareva, più che medico, un buon diavolo di sensale, con i suoi scarponi
impolverati, i calzoni stretti che gli facevan due borse alle ginocchia
ed un suo certo soprabito, d’un giallo stinto, che portava sempre
sbottonato, fino ai mesi del solleone. Aveva la faccia adusta, la mano
del vangatore, una grigia capigliatura spettinata che gli metteva
qualche ricciolo su la fronte intarsiata di rughe; aveva gli occhi
vivaci, il naso forte, un paio di baffi tagliati a spazzola, duri come
setole.

— Professore... — articolò, con una specie d’inchino.

Per lui il malato era una cosa del tutto secondaria in quel momento; ciò
che lo stordiva era di trovarsi davanti al grande clinico, al medico
illustre, all’uomo di battaglia e di scienza che l’intero mondo ammirava
come un prodigioso rinnovatore della medicina moderna.

— Professore... — mormorò un’altra volta, — è lei che mi ha fatto
chiamare?...

Sudava, pover’uomo, a grosse gocciole, ma non osava rasciugarsi la
fronte.

— Ella è il medico del paese? — domandò Andrea Ferento, senza
indietreggiare dal letto dell’infermo, come se vi stesse a guardia.

— Sì, signor Professore, io sono il medico condotto... — rispose il
Paolieri, con un altro inchino più goffo.

Ci si vedeva poco nella camera: Andrea fece segno a papà Stefano di
aprire a metà un’imposta, e fu Maria Dora che, scivolando dietro il
padre, andò alla finestra. Andrea aveva ritrovata la piena padronanza di
sè. Tenendosi ritto parlava con gesti sobrii, guardando ora il malato,
ora il medico, dando ragguagli esatti su quanto era accaduto.

C’era più luce ora, ma il letto rimaneva nella penombra, con quell’uomo
supino e fermo, che pareva non desse alcun segno di vita.

— Ci fu un momento difficile, — spiegava Andrea, — e temendo il peggio,
ho desiderato fosse presente anche lei. In due si vede assai meglio e si
provvede con maggiore tranquillità.

— Oh, Professore... io debbo ringraziarla, ma non potevo essere che
inutile... certamente inutile...

Fino allora, mentre il Ferento esponeva con lucidità la crisi patita
dall’infermo ed i rimedi usati, l’ottimo Paolieri non aveva rivolto che
qualche sguardo distratto al giacente, standosene assorto nelle parole
del narratore come se volesse mostrargli di non perderne una. E di
continuo faceva con la testa un segno d’assenso, anche dove questo
appariva superfluo.

Ogni tanto intercalava, come una litania:

— Vedo, vedo, vedo... — Forse non vedeva nulla, tanta era la sua
confusione.

— Per fortuna, — seguitava il Ferento, — in capo d’un certo tempo,
mediante l’iniezione, ho potuto rianimare il cuore, e da vari indizi ho
notato che la crisi ancora una volta sarebbe stata vinta senza gravi
conseguenze. Ora, più che altro, si tratta di un grande prostramento
nervoso, che tende a scomparire. Il respiro è difficile, ma assai meno
di prima: il polso debole, ma riprende, — e si potrebbe, se lei crede,
fargli un’altra iniezione di caffeina. La dose che gli ho somministrata
finora è piccola: una seconda può giovare.

— Ma senza dubbio! — disse il Paolieri. Poi soggiunse: — Oh, scusi... —
E in fretta si cavò il soprabito.

Fino allora non s’era nemmeno accorto di portarlo indosso, tanta era
l’abitudine che ne aveva; e l’essersi tolto senza necessità quella sua
specie di casacca o di giubbone, era il più grande segno di rispetto
ch’egli potesse dare ad un uomo.

— Se vuole, — disse Andrea Ferento, quasi a termine del suo parlare, —
se vuole, dottore, lo esamini.

Era un invito, sì, ma detto nel modo con cui si propone ad alcuno di
fare una cosa del tutto inutile.

Il Paolieri s’appressò al letto; prese macchinalmente il polso del
malato, gli toccò la fronte, gli rovesciò un labbro per guardargli le
gengive. E questo fece due volte. Poi gli scoverse il petto ed ascoltò
il cuore; gli mise una mano sul fianco per esaminare il fegato e gli
premette l’intestino.

Nel fare quel che faceva da anni, tante volte al giorno, come nel
compiere le pratiche d’un mestiere assiduo, dimenticava perfino la sua
soggezione e la presenza stessa di quel gran medico. Faceva tutto ciò
con coscienza, assumendo nella sua faccia ruvida un non so che di grave,
quasi d’intelligente.

Poi lo ricoverse con delicatezza: ancora una volta gli guardò le
gengive, le membrane interne degli occhi, a lungo, e di tutto
quell’esame non fece che dire:

— Già... già...

— Le pare? — disse Andrea, attentissimo.

— Già... come lei diceva, Professore... non si tratta che di un grande
prostramento... l’iniezione gioverà.

— Sì, facciamola.

Fu allora che il malato aperse gli occhi e stupitamente li guardò. Due,
tre volte li aperse, non potendoli tener fermi; e li guardava l’un dopo
l’altro, attonito, cercando.

Mosse le labbra, forse per dire un nome... Quale nome?

Certo quello solo che amava, quello inestinguibile, che per lui non
moriva nella morte: Novella...

Appunto era venuta su la soglia ed aspettava, tutta bianca.



VII


Il malato si levò ancora dal letto e parve per alcun tempo godere di un
benessere nuovo. Siccome i giorni si facevan caldi, sua moglie lo
accompagnava durante il pomeriggio sotto un pergolato a riparo dal
vento, e là sedevano, rimanendo per lunghe ore insieme. Ogni tanto li
venivan a trovare o Maria Dora o gli altri della casa, e la giornata
passava quasi rapida, nonostante l’inerzia di quella calda primavera.
Talvolta capitava su Maurizio, a parlar della sua caccia o dei
campicelli di suo padre, che li aveva laggiù, verso valle, con una
piccola cascina. Ed erano allora lunghi discorsi, che il malato
ascoltava con un sorriso benevolo, mettendovi qualche parola ogni tanto,
sempre con dolcezza.

Il Ferento andava, tornava, dalla città in villa, sin tre o quattro
volte per settimana. Il malato gli diceva continuamente, con un sorriso
calmo: — Perchè mi curi? Tanto è inutile...

Ma si sentiva più felice quand’egli era lontano, quando poteva restar
solo con lei, senza che nessun estraneo interrompesse con la sua
presenza quella specie d’intimità nuova ch’era nata fra loro. Dopo la
crisi terribile, pareva che il male volesse dargli una tregua, una di
quelle tregue ingannevoli che talvolta precorrono l’agonia.

Egli rimaneva lungamente a guardarla, con un sorriso pallido su le
labbra, gli occhi un po’ velati, come se non fosse mai sazio del suo bel
viso e volesse portar seco nella morte la più compiuta immagine di lei.
L’anima sua traboccava di dolcezza, e, quasi per comunicarle questo
senso d’amore, ogni tanto allungava la mano a carezzar la sua mano; le
diceva una timida parola d’affetto, con l’esitazione d’un innamorato che
parlasse per la prima volta. Ella era triste, accasciata, stanca; tutti
i sintomi della maternità travagliavano il suo corpo; la opprimeva una
disperazione taciturna davanti a quel pericolo che ogni giorno si faceva
più prossimo. Che sarebbe stato di lei, di loro, se non avesse potuto
più nascondere, prima della sua morte, quella vita inconfessabile?

La sua morte? Ma chi le aveva mai detto ch’egli dovesse morire?

Infatti, per una specie di graduale suggestione, s’era già quasi avvezza
a questo pensiero come all’attesa d’un fatto inevitabile, d’un’ora
imminente, e per vari giorni, senza volerlo, senza ben sapere
cos’attendesse, era vissuta nell’aspettativa da un attimo all’altro di
quel grido che la chiamerebbe lassù, nella camera semibuia, presso il
letto dov’egli rimarrebbe disteso...

Il giorno anzi dell’ultima crisi, udendo il suo rantolo, aveva creduto,
senza volerlo, provandone anzi un orrore immenso, che il momento
inevitabile fosse venuto, e rimanendo come in croce, là, nel corridoio,
attendeva che alcuno, forse Andrea, nell’uscire da quella camera le
dicesse con uno sguardo: — Sai...

Ma ora lo vedeva sorridere, camminare, parlare... lo spettro funerario
s’era di sùbito arretrato, e mentre in addietro quell’avvenimento le
pareva lì lì per succedere, ora non lo immaginava neanche più; non
aspettava più quel grido. E nell’esame interiore che ognuno suol
compiere di sè medesimo, s’accorgeva con terrore di averlo desiderato.

La sua morte? Ma chi le aveva mai detto che dovesse morire?

«Forse fra poco, forse fra qualche anno...» Vagamente le pareva di aver
intese una volta queste parole su la bocca di Andrea.

E allora qual’altra possibilità rimaneva per lei — e non per lei sola —
davanti a questo nodo inestricabile che nulla poteva troncare? Qual
dramma scoppierebbe nella casa il giorno in cui la sua maternità
divenisse manifesta? Non era forse uccidere, ma d’una morte più barbara,
quell’uomo dolce che l’amava? Ed il suo padre che farebbe? e la sua
mamma, e la sua fresca sorella che direbbero di lei? Ecco: la casa, il
nome sottomesso allo scorno della gente. Una creatura nata nella
tragedia, senza padre, senza diritto a vivere... E Andrea? e il loro
amore?...

In quelle ore d’ozio, stando seduta presso il marito che non moveva gli
occhi da lei, senza tregua ella si rivolgeva nella mente queste domande
affannose, lasciandosi cullare da un’inerzia totale delle membra e dello
spirito, come una povera creatura che, perduta ogni speranza di
salvezza, si lasci travolgere senz’alcuna resistenza verso l’urto che la
dissolverà.

E tuttavia, nascosto nell’anima, impreciso, indefinibile, aveva quasi un
filo di speranza... di speranza in quell’uomo così risoluto e così
certo, che le pareva capace di soverchiare tutte le impossibilità; in
quell’uomo che le aveva detto una notte, una notte d’amore: — Così ti
amo, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «Più forte».

Ella non ne aveva compreso il senso, non aveva nemmeno cercato di
comprenderne il senso; ma era come una sensazione di forza che
aleggiasse intorno a lei, una potenza incontrastabile che avesse radici
profonde in quel suo petto virile.

Non si parlavano più che a rari intervalli, di sfuggita. Egli era più
che mai taciturno; quando non doveva tornare in città, passava le
giornate chiuso nella sua camera, trasformata in una specie di
laboratorio, fra i libri di scienza e le ampolle delle sue misteriose
medicine. Soltanto a lunghe distanze di giorni, talvolta, nel cuore
della notte, quando la casa era tutta spenta, ella scivolava giù dal
letto per andare a lui, per temprare in quell’animo forte il suo stanco
dolore.

Tutto gli raccontava, tranne, per un pudore involontario, le parole di
quel pomeriggio, quand’ella era seduta presso il cembalo ed una striscia
di sole feriva obliquamente la stanza, piena di polvere viva. Ma nelle
sue reticenze tuttavia si era tradita più di una volta. Finchè, un
giorno, egli non fece che prendere le sue mani, poi, senza farle
violenza, ma con quella voce che aveva ogni potere su lei e che pareva
rimproverarle il silenzio come un disamore, le domandò:

— Perchè mi nascondi qualcosa? perchè non mi dici tutto quello che sai?

Ella non tacque oltre. A faccia china, gli ridisse tutte le parole, una
per una, tutte.

Egli notò solo che l’infermo l’amava tuttora d’una passione d’amante, e
che dal suo dolore traspariva una orrenda gelosia.

— Dimmi, ed hai sentito che ti amava? che ti desiderava... proprio così?
Dimmi!

Elle ebbe, nel ricordo, una specie d’ira.

— Perchè vuoi che lo dica? Sì, ho sentito il suo desiderio caldo come
una febbre avvinghiarmi, soffocarmi... ed ho avuta per un attimo la
tentazione di gridargli in faccia: «No! làsciami... làsciami... perchè
infatti, è vero, lo amo!... sì, lo amo con tutta la gioventù delle mie
vene!... lui amo: Andrea. Non farmi più mentire!» — E per un momento,
con una specie di crudeltà voluttuosa, tutto quello che vi è d’immondo
in me, nel mio cuore pieno di tormento, nella mia carne piena di vizio,
mi ha fatto sentire l’odio, un vero odio, contro questa creatura malata
che m’incatena al suo letto come un’infermiera, che si trangugia la mia
gioventù come una medicina, mentre là, fuori appena dalla finestra, c’è
il sole, c’è l’aria, c’è il vento... ed io vorrei lanciarmi a quella
finestra e gridarti: Sì, vieni, vieni!... préndimi! pórtami via!...

Egli ascoltava senza dir motto, chiuso in una rigida impenetrabilità,
come se ascoltasse piuttosto la voce del suo proprio cuore che non la
voce di lei. Vedendolo pensare così profondamente, lo chiamò per nome,
indi lo scosse, poichè le parve che una sofferenza fisica gli alterasse
la fisionomia.

— Guárdami, Andrea... Che hai?

Con un gesto vago della mano egli scacciò la torma dei pensieri che
l’assediavano, e disse:

— Idee!... null’altro che vuoti fantasmi!

Su la sua fronte, divisa dalla ruga profonda come una ferita, ella
passò, per diradarne l’ombre, la sua mano lieve.

— E non li puoi disperdere, tu che sei così forte?

— Disperdere? Anzi, no! Bisogna invece discutere con essi, poichè veri e
temibili fantasmi sono quelle ombre che la nostra coscienza non osa
prendere di fronte, alle quali non osa dire: «Tu ti chiami, per esempio,
rimorso; per esempio, delitto; per esempio, morte.» Poichè, vedi, la
nostra coscienza è talora un senso involontario di giustizia, ma più
spesso è una paura dell’anima davanti alla felicità. Molte volte un atto
infinitesimale di coraggio basterebbe all’uomo per risolvere tutto il
problema della sua vita... e non l’ha! Pensa che schiavi siamo, noi che
poniamo quasi sempre i nostri desideri là, dove questa paurosa coscienza
ci impedisce di giungere.

Poi fece una pausa, e guardò negli occhi la donna che amava, colei che
portava nel grembo il lor figlio concepito, e quasi tremando le domandò:

— Novella, se un giorno tu sapessi che nel lontano passato io commisi
una colpa orrenda... se tu sapessi d’un tratto che sono macchiato, che
porto nel mio cuore un suggello d’infamia incancellabile... cosa diresti
allora di me? cosa faresti per punirmi, Novella?

— Che importa? — ella rispose: — questo non è vero...

— Ma, se fosse vero?... — incalzò l’amante: — Rifletti bene: «Se è
vero?»

Ella sorrise, lo abbracciò, divenne scherzevole, quasi volesse
allontanare quel pensiero molesto.

— Ne avresti orrore, — egli concluse. — Anzi, non mi ameresti più.

— Oh, — ella fece, — come sei pazzo!

Gli fece passare le dita fra i capelli, ravviandoli, quasi adoperasse un
pettine fino. I capelli spartiti risorgevan ondosi, con una specie di
ribellione, dietro il solco delle sue dita.

— Cosa può importare a me quello che avresti fatto? Io non ti giudico:
ti amo.

— Sì?... e la sapresti perdonare, dimenticare, la mia colpa? anche se
fosse la più grande?...

Ella s’avvinghiò a lui, forte, per comunicargli traverso le vene quella
verità che stava per dirle, e con un filo di voce, poichè vi son cose
che van dette piano anche quando si è soli:

— Senti... — bisbigliò, — qualsiasi cosa tu faccia, ora, e nel passato,
e sempre, penserò che quella cosa è giusta, e che fai bene... perchè ti
amo fino a trasformarmi nella tua propria volontà e sono in te più
fortemente che il tuo stesso cuore...

Egli premette le labbra contro la sua gola calda, e rise, d’un riso
convulso che lo faceva trasalire, illuminandolo di gioia come un
repentino sole.

— Ora, — disse perdutamente, ora ti possiedo per la prima volta come
volevo, e più nulla — ricórdati! — più nulla ci saprebbe dividere.

Senza busto, con i capelli raccolti da un pettine solo, ravvolta in una
vestaglia di seta che la fasciava senza nasconderla, con i piedi scalzi
nelle pianelle di raso orlate d’ermellino, il pizzo della camicia che si
arruffava nell’incrociatura, ella raccolse contro di lui tutto il calore
del suo corpo innamorato, sentendosi a poco a poco disperdere in un
oblìo voluttuoso, come se al di là da tutte le angoscie, da tutte le
servitù cui la vita incatena, ella non volesse più rimanere altro che
l’amante, l’innamorata, la femmina perdutamente sua, nè volesse ormai
conoscere altra disperazione oltre quella de’ suoi baci ubbriacanti
nella complicità e nell’ebbrezza d’una notte d’amore...

Allora, con la mano che brancolava in cerca del suo tepido grembo, egli
sentì nel ventre non piano trasalire — o così gli parve — la forma della
creatura.



VIII


— Il diritto a dare la morte... — profferì a sè stesso Andrea Ferento,
con una voce che pareva misurare ogni sillaba di quel dilemma
inesorabile, mentre teneva sospesa contro il lume una fialetta colma
d’un liquido senza colore, trasparente come l’acqua, che però tramandava
dalla sua purezza un non so che di poderoso e di sinistro. Non
sprigionava intorno a sè un colore nè un odore che bastassero a
definirlo, ma una specie di possibilità nefasta: la virtù del poter
uccidere; come l’acqua invece tramanda l’innocenza ed esprime
l’innocuità. La luce della lampadina accendeva una piccola raggiera sul
vetro dell’ampolla; questa rifrazione bruciava le sue dita, pareva
investire d’un riverbero tutta la tragica persona dell’esaminatore.

Egli era solo, nella sua camera chiusa, tra gli alti scaffali carichi di
libri e l’armadio vetrato, che lasciava intravvedere, un sopra l’altro,
parecchi ordini di vasi medicinali. La tavola da lavoro, ingombra di
scartafacci, di provini, di siringhe, di storte, di bottiglie tappate,
era d’ácero nudo, e per la sua larghezza ingombrava quasi un terzo della
stanza. Dentro una specie di nicchia, fatta come un’arcata, ch’entrava
per mezzo metro nello spessor del muro, il letto era disposto nel senso
della parete; una tenda vi cadeva sopra a baldacchino, senza coprirlo
interamente.

Egli portava sopra l’abito una tunica di tela greggia che gli scendeva
sino alle caviglie, stretta ai polsi e serrata in vita da un cordone
come un saio da monaco; l’alta sua persona prendeva in quella veste una
apparenza ieratica.

Tutto era silenzio intorno; pareva che la casa dormisse nel suo primo
sonno, sebbene forse, dentro le occulte camere, non dormissero gli
abitatori. Dal giardino sottostante salivano a tratti le vampe odorose
dei gelsomini.

— Il diritto a dare la morte... — profferì una seconda volta, con
maggiore lentezza, Andrea Ferento. — Uccidere! La parola bella e
terribile che nessuno ha mai osato far assurgere ad una legge umana. «Tu
non puoi uccidere perchè non puoi creare,» — predicarono i remoti
Evangelisti. «Ma il senso eterno del mondo, la legge implacábile della
natività, non è forse chiusa in questa parola fra tutte più necessaria:
«uccidere?»

Dalle origini stesse della vita l’uomo non fece che stabilire limiti. È
inteso: c’è un male, c’è un bene. Ma come si tracciarono i confini? Come
e da chi?

Ah, ecco, intendo! All’estremo, all’ultima pietra milliare della
comprensione, dove tutto si confonde in un color di miracolo, avete
messo, — è incredibile! — questa parola che fa tornar da capo: «Dio».
Parola vuota come un baratro, perchè, per comprenderla, bisognerebbe non
esser uomini, mentre l’averla concepita come uomini vuol dire
semplicemente aver dato un nome, null’altro che un nome, ad una
sensazione d’impossibilità.

In voi non trovo la mia strada, Evangelisti.

Ora, vi dico, il nodo è serrato ma semplice: Se io debbo vivere, la mia
vita vuole una morte.

Ora vi dico: Non una, ma due vite insieme, anzi due vite inseparabili,
sono davanti a un’agonia. La donna che amo, il figlio che ho fatto
nascere, e la mia sorte che brilla: un gruppo formidabile di energie
rimane fermo, senza possibilità di andar oltre, davanti ad un rantolo
che si prolunga.

O Evangelisti, non credete voi che si possa talvolta sopprimere una vita
semispenta, per salvarne altre, pulsanti, gaudiose, di là da quel
sepolcro? Non ammettete l’uomo eretto a giudice solo ed eroico di sè
stesso, l’uomo anarchico, superiore alla legge pattuita, che usa d’una
sua forza spaventosa, ed in silenzio, nel buio, toglie di mezzo
l’ostacolo che lo divide dalla sua felicità?

Chi me lo impedisce?... Cristo? — Cristo era un uomo come me: io non gli
credo. La legge? — La legge è stata fatta da uomini come me; non
rappresenta che la necessaria catena; io sono più forte: la spezzo; più
scaltro: la évito. Forse la coscienza? — Essa è paura, è viltà, è un
terrore atavico dell’uomo: bisogna insegnarle a volere con
inflessibilità quello che davanti alla vita, e non davanti agli uomini,
è giusto. A che servirebbero questi veleni minutissimi, rari, lenti,
senza traccia, che crescono pure nella vegetazione della terra, se la
natura stessa non avesse riservato all’uomo la possibilità di propinare
una morte nascosta? Che sarebbe l’amore in sè medesimo, se per lui non
fossimo capaci di compiere qualche atto di eroismo crudele? Non contro
me posso infierire, poichè la mia morte non li salva, anzi li perde. Ho
amata una donna non mia e l’ho resa madre: mi trovo nell’impossibilità
di liberarla dalla sua concezione, il che sarebbe altrettanto delitto.
Lascerò ch’ella si uccida? O giudici, sarò così vile da non fare con
risolutezza tutto ciò che il mio coraggio può fare per lei?

Forse avrei dovuto, quando ne sentii nascere il primo palpito, soffocare
in me questo inevitabile amore. Ma tutto si può fare al mondo, fuorchè
non amare ciò che si ama.

Ora, contro il diritto a vivere di queste due creature, che sono ormai
la mia sola ragione di essere, sta un’agonia, sicura ma tenace, lenta ma
irremediabile... Due giovinezze davanti ad un sepolcro, due ricchezze
davanti ad una miserrima povertà. Fra queste cose, il coraggio della mia
mano, la stilla invisibile di un veleno, il martirio nascosto della mia
coscienza... Ebbene, in tale dilemma, è più onesto concepire la
coscienza come una schiavitù paurosa, che rifugge dal delitto per il
solo terrore de’ suoi fantasmi, o concepirla come un coraggio efferato,
che avvinghia quei fantasmi e li soffoca per la felicità di chi ama?

O voi, che invisibili e presenti squassate intorno alla mia coscienza i
vostri mantelli neri, ascoltate ancor questo dalla mia voce che non
trema: — Io feci olocausto di me stesso al mio amore d’uomo, al mio
dovere di padre, e se, per giudicare un colpevole, può esservi un altro
giudizio che non l’oscuro confessionale o la teatrale aula d’una Corte
d’Assisi, questo giudice libero mi dirà: — «Tu sei stato un anarchico ed
un santo. Se puoi, vivendo, sopportare il tuo delitto, la sua potenza
medesima ti assolve. Di fronte ai mediocri taci e nascondi, perchè i
mediocri mai ti comprenderanno.»


Allora, nell’alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel silenzio
dalla sonora muraglia, udì suonare la Canzone Disperata sul violino
singhiozzante dello scemo.

Questa canzone diceva:

    «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di
    morti, portando il mio scheletro su la schiena;

    «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le
    mani...

    «Cammina!... — mi dice ridendo — la vita comincia domani.


    «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? —
    Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome: l’Inutilità.

    «— Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina,

    «tremante, sperduta, tremante — nel solco del letto profondo...

    «Perchè, se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel
    mondo?


    «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di
    morti, e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli
    lontani...

                       «Cammina: la vita comincia
                       domani, domani, domani...

La Canzone approssimava, tragica, lugubre, nel silenzio della notte,
finchè, dietro l’uscio, si spense. Allora egli udì le nocche dello
scemo, che rideva, battere contro la porta, dicendo: — Aprimi.

Andrea, rapidamente chiuse nell’armadio le minuscole ampolle dei veleni
che stava esaminando; poi non rispose, non aprì.

— Apri dunque! — sollecitava lo scemo, girando la maniglia. Ma la porta
era serrata nell’interno a chiave.

— Che vuoi?

Sorda e cocciuta la voce ripeteva: — Aprimi!

Allora Andrea girò la chiave nella serratura e si ritrasse per lasciarlo
entrare. Marcuccio, col manico del violino stretto nel pugno, la bocca
torta da quel suo riso obliquo, s’avanzò fin nel mezzo della camera
guardandosi attorno, poi disse:

— Novella piange.

— Come lo sai?

— Piange, — ripetè l’altro con iracondia.

— Come lo sai, domando?

— L’ho veduta io, per la toppa. Sì, l’ho veduta. È nella sua camera,
seduta in un angolo, e singhiozza.

— Ebbene? — fece Andrea dopo una pausa.

— Volevo dire che piange, — ripetè costui, ingrossando la voce.

— Allora tu guardi per le serrature?

— Sempre.

— Perchè?

Accentuando il suo riso atono, egli fece con la mano un gesto vago:

— Per la serratura ho veduto la Berta in camicia, molte volte... La
Berta si lega le calze con due nastri rossi, quassù... — e segnava
l’alto della coscia.

Andrea lo fissò negli occhi, attentamente, con un senso di maraviglia e
di pietà.

— Non puoi dormire, Marcuccio?

— Sono le notti lunghe della primavera... gli uomini che han qualche
sogno nell’anima non possono dormire. — Poi fece schioccare le labbra e
soggiunse: — Mi piacerebbe dormire con la Berta. Senza che lei se
n’accorga io la vedo ogni sera per la toppa, quando si spoglia. È
grassa.

— Allora, — disse Andrea severamente, — hai guardato per la toppa anche
al padiglione di caccia, alla Boscaiola, una volta...

Marcuccio si mise a ridere con sguaiatezza e contorse la bocca.

— No: sono salito sulla tavola di pietra ch’è da un lato, e, stando in
piedi, ho potuto guardare in giù, verso l’interno della capanna. Sì, e
c’era Novella...

— Non è vero!

— Sì, che c’era! — incalzò lo scemo. E segnandolo a dito soggiunse: —
Con te.

— Bada, Marcuccio! guai se lo ripeti!... — esclamò Andrea, afferrandogli
ruvidamente le mani.

— Novella era quasi nuda, e tu... ahi! non mi far male!... tu la coprivi
con le margherite che avevate raccolte... ahi!.. sul petto... ahi!.. la
coprivi...

— Guai a te, se ripeti queste cose bugiarde! Hai visto male. Io non
c’ero. Lei neppure non c’era. Intendi?

E forte lo scuoteva per le braccia, mentr’egli, caparbio, insisteva
nell’affermare.

— Intendi?...

— No, no... tu eri! lei era! Ed erano belle... com’erano belle quel
giorno... le margherite... ahi! ahi! sorelluccia... le margherite!...

Allora Andrea lo afferrò per le spalle, in guisa da fissarlo ben negli
occhi e disse:

— Ascolta, Marcuccio. Tu, quel giorno, hai veduto un sogno; ed i sogni
non si devon mai ripetere ad alcuno, perchè il parlarne porta disgrazia,
m’intendi? E guai, guai a chi li racconta, i sogni!...

Parlava imitando il suo linguaggio, per essere meglio inteso; lo scemo
apriva la bocca attonitamente:

— Ah, sì?...

— Certo. E se tu narrerai queste cose bugiarde, io dirò a tutti che
bisogna bruciare i tuoi libri, perchè sono falsi. Così non avrai alcuna
gloria. Capisci, Marcuccio?... la gloria!...

Egli tremava, tremava, e balbettò:

— Sì, la gloria... Ma se non dico nulla?

— Di che?

— Dei sogni...

— Allora, Marcuccio, tu avrai... — Ma in quel mentre, udendo rumore,
Andrea si volse: — Chi è?

La voce di Stefano rispose:

— Sono io: Stefano. Si può?

— Entrate, entrate.

— È la Canzone di Marcuccio che mi ha fatto scendere. — Poi disse con un
sorriso indulgente: — Oh, conversate sempre di cose profonde, voialtri
pensatori!

— E tu sempre ci disturbi, padre Stefano! — affermò con sussiego lo
scemo.

— Ti credevo già coricato, Marcuccio, quando invece udii la tua canzone.

— Coricato? ah! ah!... È una notte d’Aprile; vorrei camminare,
camminare, in mezzo alla foresta e lungo il fiume, con il mio violino su
la spalla, improvvisando canzoni. Ma ho paura dei cani!... E tutte le
donne che non dormono, in queste notti di primavera, scenderebbero dal
letto con i capelli sciolti, per camminare a piedi scalzi dietro di
me... ma ho paura dei gufi. Vorrei camminare, camminare, per la foresta
e lungo il fiume, suonando sul mio violino la canzone più bella che so,
e trascinandomi dietro le donne seminude... Ma ho paura dei vampiri.
Uh!... i vampiri dalle ali di feltro, che succhiano sangue, sangue... La
sai, padre, la Canzone dei Vampiri? No?... Ascolta...

E ritraendosi lentamente, con un passo d’automa, urtò l’uscio con la
schiena e scomparve nel buio del corridoio, ricominciando a suonare sul
violino singhiozzante la sua Canzone Disperata, che a poco a poco, per
l’alte camere, in una lugubre risata si spense.

                          .  .  .  .  .  .  .

    «Se corri, — mi dice, — «si arriva stasera o domani mattina...

    «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!...»

                          .  .  .  .  .  .  .

— Povero me! — proruppe Stefano con un gesto di sconforto. — La sventura
s’è abbattuta su la mia casa.

— Non disperate, Stefano. Voi credete in Dio, non è vero?

— Sì, fervidamente.

— Pregatelo, voi che potete pregare! Io credo in me stesso più
fermamente che in Dio, e nella volontà umana più che nel miracolo.
Quindi penso che per resistere alla sventura abbiamo un solo rimedio: il
nostro proprio coraggio.

Ma Stefano scosse il capo, e cominciò a guardarlo come se volesse dirgli
qualcosa. Certo, per essere venuto a quell’ora nella camera di Andrea,
uno scopo lo guidava e quei perplessi discorsi parevano la ricerca d’un
esordio.

— A proposito di Giorgio, — disse infine, — cosa pensate voi? Che stia
proprio molto male?

Andrea, forse per nascondere il suo disagio, metteva in ordine una
quantità di cose, andando dagli scaffali alla scrivania, frugando nei
cassetti, rimovendo libri.

— L’eterna domanda! — esclamò nervosamente. — Se sapeste che poca cosa è
la scienza d’un medico davanti ad un problema così complesso come la
vita d’un uomo!

— Ma io vedo che muore! — interruppe Stefano soffocando la voce.

— È un’opinione, la vostra; null’altro che un’opinione, — rispose
freddamente Andrea, stringendosi nelle spalle.

— No, non ingannatemi, Andrea! Benchè vecchio, sono ancora un uomo e
voglio sapere la verità. Ditemi, ditemi la verità... Il suo caso è
disperato?

— Non ancora, ma è grave.

— Sapete? Giorni sono mi ha detto quasi allegramente: Bisognerà che un
momento o l’altro diamo un’occhiata ai nostri affari, papà Stefano,
perchè è sempre meglio essere previdenti.

— Questo non mi riguarda! — esclamò Andrea con asprezza. — Se è di
questo che dovete parlarmi, io non voglio saper nulla!

— Oh, Andrea!... non crederete, per l’amor del cielo, ch’io voglia fare
un calcolo qualsiasi... no, vi giuro! Ma ho due figlie, un figlio ed una
moglie vecchia; ora voi sapete bene che la casa, le campagne, tutto
quanto, appartiene a Giorgio.

— Questo non mi riguarda, ripeto. Giorgio è un uomo onesto, penserà da
sè stesso alla moglie.

— Ma Giorgio ha pure un fratellastro, un uomo dissoluto e rapace, che
gli ha dato già troppe noie cercando in mille guise di estorcergli
denaro.

— Insomma, Stefano, — egli lo interruppe, — se bene comprendo, voi
desiderate che in un modo qualsiasi m’interponga presso Giorgio per
fargli fare testamento, o per sapere se lo ha fatto e come lo ha
fatto... Non è vero?

Fece una pausa, guardando Stefano, che abbassò il capo senza rispondere.

— Ebbene, sentite: ho molto affetto, molta venerazione per voi, padre
Stefano; capisco anche la ragione, del tutto giustificabile, che
v’induce ad un tal passo. Ma di questo non parlatemi, vi prego. Fate
quel che volete, ma io non ci voglio entrare. Anzi vi dirò una cosa,
recisamente: vicino a Giorgio, nè preti nè notai, a meno che non li
chieda egli stesso. E non parliamone più.

— Perchè tanto calore? Non vi ho mai veduto eccitarvi così.

— Bisogna lasciare un’anima libera, padre Stefano, sopra tutto vicino
alla morte. Io non mi occuperò di queste cose, e credo che Novella sia
dello stesso parere.

— Lo è, infatti... Ma questo, in un certo senso, è anche sorprendente!

— Niente affatto, padre Stefano. L’ora della morte è quella della
riconoscenza o del rancore: bisogna che l’uomo si risolva da sè all’una
od all’altra cosa. E Giorgio ha la mente lucidissima. Infine, ancora una
volta, questo non mi riguarda! Solo una cosa vi dirò: Fin quando io
viva, nè voi nè i vostri figli avrete mai nulla da temere.

— Oh, siete migliore di me, Andrea! — esclamò con effusione il vecchio,
— ed ora mi vergogno...

— Di nulla! Voi pensate ai vostri figli; è più che umano. E lasciamo
questi discorsi. Risponderò invece alla vostra domanda con sincerità: —
Il caso di Giorgio è grave; molto grave. La mia opera può darsi che non
basti; è forse opportuno chiamare altri medici. L’ho detto a lui stesso,
ma egli rifiuta.

— E chi può salvarlo, se voi non potete? — esclamò Stefano alzando le
braccia. — Poi, che serve? Io vedo bene che muore, povero Giorgio... e
noi vecchi sappiamo riconoscere di lontano la morte. Bah!... buona
notte, Andrea! Se stesse male, chiamatemi; buona notte.

Andrea rimase lungo tempo fermo dietro l’uscio, ascoltando quel passo
tardo che saliva pesantemente i gradini; poi tornò a sedere presso la
tavola ingombra, si raccolse nei palmi la fronte, che gli doleva, e
mentre nell’immobile silenzio gli battevano forte le vene dei polsi,
lasciò che il suo cuore, come un nembo di polvere, si allontanasse nella
vertiginosa bufera.

Il riflettore elettrico, vôlto sul microscopio, traeva dal polito
metallo un barbaglio fermo, continuo, che si propagava su le piccole
siringhe di cristallo, su gli aghi affinatissimi, sui molti arnesi
lucenti che ingombravano la scrivania.

A poco a poco una stanchezza fisica maggiore del suo tormento lo
sopraffece; i gomiti gli scivolaron dall’orlo della tavola, piano piano;
la fronte si affondò nella piega dell’avambraccio; cadde in sopore. Da
lunghe notti rimaneva con gli occhi sbarrati, nel buio, insonne fino
all’alba, con il cervello assediato dall’assiduo pensiero; ma vi son
momenti nei quali il corpo affranto, che ha fame, che ha sonno, che ha
bisogno d’oblìo, soverchia lo spirito e lo salva da tutte le sue
calamità.

— Odimi, Andrea...

Era entrata Novella, senza far rumore, e si chinava su lui.

Egli sobbalzò atterrito, si eresse in piedi, con gli occhi pieni di
spavento, e fissandola ripeteva:

— Che c’è? Che è stato?!

— Nulla... parla piano... Perchè ti guardi attorno? Che fai? Sognavi?
Sì, eri stanco, ed io t’ho svegliato, povero amore...

Allora egli prese la sua mano, la strinse, la baciò quasi con
riconoscenza. Era felice che fosse stata lei a destarlo, non altri, e
che non venisse per portargli qualche notizia temuta.

— Ah, sei tu, sei tu... — la guardò, le sorrise; — ma ora, non
rimanere... sii buona. Forse potrebbe udirci. È imprudente, molto
imprudente quello che fai!

— Mi scacci sempre...

— Non ti scaccio, non dire questo. Ma, vedi, è pericoloso... Lavoravo e
mi sono assopito. Poi ho l’intuizione che stanotte Giorgio, non dorma e
sorvegli...

— Sì, ora me ne vado; ma prima... Come sei pallido, mio amore...

— Sono stanco.

— Prima dimmi perchè da qualche giorno mi lasci tanto sola, non mi
parli, non mi guardi, e si direbbe quasi che tu faccia il possibile per
allontanarmi da te.

Egli ricadde su la seggiola, si compresse contro le tempie i due pugni
che tremavano:

— Taci, taci.

— Cosa t’ho fatto, io? Non vedi come sono disperata?... non mi ami più?

Allora egli esclamò con un selvaggio impeto di passione:

— Da qualche giorno ti amo più che mai! più che mai! non lo senti?... Ma
sei tutta vestita d’ombra e non ti posso toccare.

Ella rispose, appassionata:

— Chiudi gli occhi un momento, per non vedermi, e báciami, báciami!...

Curvata su lui, la sua gonna gli avvolgeva le ginocchia, i suoi capelli
gli toccavano la fronte. In quel bacio ella mormorò:

— Che faremo?...

Egli le rispose, all’orecchio, con un bisbiglio ch’era solamente un
álito: — Aspettare.

Ella voleva interrogarlo, ma l’amante si ribellò:

— Silenzio!... E lasciami solo. Se io non ti chiamo, non tornare.

Ella ubbidì; si ritrasse. Ma nell’orecchio le suonava quella parola
grande, minima: — Aspettare.

— Vai nella sua camera? — egli chiese ancora.

— No; ho paura. Da me sola, ho paura. Non è stato mai così dolce... mi
prende le mani, le bacia... e le mie mani divengono fredde.

Così dicendo le nascose dentro le pieghe della gonna, quasi avesse
ancora su la pelle quella sensazione di ribrezzo che tutta la raggelava.

— Ogni tanto mi carezza i capelli come un bambino... non è stato mai
così dolce.

Egli, senza batter ciglio, l’ascoltava, la guardava.

— Sai? Un’ora fa si è assopito, tenendomi una mano fra le sue. Non c’era
lume nella stanza, però dalla finestra veniva luce abbastanza perch’io
vedessi la sua faccia. Che orrore!... Mi stringeva la mano con una forza
convulsa, il suo viso era fermo in una contrazione di dolore. Sognava, e
ogni tanto, dagli angoli della bocca, gli usciva un fiotto di saliva...
Che orrore! Poi ha rovesciato un occhio indietro, uno solo, senz’iride,
ed è rimasto così... Pensai che fosse morto, volli sciogliermi da quella
stretta e non ebbi forza, volli gridare e non potei... perchè
quell’occhio senz’iride mi fissava e la sua bocca morta sembrava ridere
del mio terrore...

— Basta, basta!

Poi entrambi sussultarono, avvertendo rumore da una camera vicina, che
poteva essere quella del malato. Novella cautamente si sporse fuori
dall’uscio in ascolto, e sparve nel corridoio scivolando lungo il muro.
Egli rimase nel mezzo della camera, diritto, pronto, perchè udiva un
passo avvicinarsi, un passo che gli era noto.

— È lui... — pensava. Ma non gli rimase tempo ad alcuna riflessione,
perchè Giorgio aperse l’uscio e si fermò su la soglia, cadaverico,
vacillante. Rimasero a guardarsi un attimo, poi Andrea disse:

— Ti senti male?

Giorgio scosse il capo.

Era interamente vestito, portava una giubba di lana rossiccia, intorno
al collo uno scialle avvoltolato. Si avanzò nella camera con un passo
malfermo, poi tese l’índice verso l’uscio e disse:

— Chiudi a chiave la porta, ti prego.

Attonito, Andrea non si mosse.

— Chiudi la porta; voglio rimanere solo con te.

Macchinalmente, quasi piegandosi ad una forza incontrastabile, Andrea
ubbidì.

Quando s’intese il rumore della chiave nella toppa, e furon soli, di
fronte, viso a viso, e fu passato qualche attimo d’un silenzio mortale,
Giorgio disse con voce spenta:

— Novella era qui.

— No.

— Era qui.

— Ossia, — corresse Andrea confusamente, — passava per il corridoio...
si è fermata un momento a parlarmi. — E soggiunse dopo una pausa: — A
parlarmi di te.

Poi avanzò verso Giorgio una vasta poltrona di cuoio, spingendola per la
spalliera; l’infermo vi si lasciò cadere, premendosi le due braccia sul
petto quasi per comprimere un dolore inesprimibile.

Ma d’improvviso, dopochè i suoi occhi febbricitanti si furon incontrati
con gli occhi aspri e fermi del suo fratello antico e per qualche tempo
l’ebbero vigilato in silenzio:

— Andrea!... — esclamò con accento d’indulgenza e di sconforto estremi,
— Andrea non mentire più! È inutile, poichè muoio... non mentire più!

L’altro si curvò, si radunò in sè stesso, come un aggredito che sta per
raccogliere tutte le sue forze in una disperata difesa, poi, dibattuto
fra la verità inconfessabile e la menzogna insostenibile, si ritrasse
meccanicamente nell’alta ombra che l’armadio propagava dal muro, e muto
vi stette, guardando fissamente terra, in attesa della parola che li
avrebbe separati per sempre.

— Hai paura di me, o mi odii? — Giorgio gli domandò, ergendosi a fatica
sui bracciuoli della poltrona.

E poichè l’altro taceva, lo incalzò: — Non puoi rispondermi? Non vuoi
che ci si guardi a viso aperto? I tuoi occhi, una volta, sapevano
fissare!

V’era nella sua voce un sarcasmo, anzi una sfida manifesta, contro la
quale, di colpo, l’avversario si raddrizzò. L’uomo che non s’era mai
piegato, che non aveva mai temuto, comprese di doversi avventare
contr’essa, come soleva, nel mezzo di tutti i pericoli, con spavalderia.

— Fra noi, — rispose, — mi pareva migliore il silenzio.

La sua voce non aveva alcun tremito: fu dura, fredda, lucida come una
lama ben affilata. Con più dolcezza, quasi con affetto, l’altro ripetè
la domanda:

— Hai paura o mi odii?

— Nè una cosa nè l’altra, Giorgio.

— E allora?

— Sento la distanza insormontabile che ci divide, sento che siamo
ridotti ad essere due semplici automi l’uno di fronte all’altro, e che
parole, fra noi, non ci devon più essere.

— No, Andrea. Per te, che prosegui nella vita, questo divenir automa è
un giuoco di qualche ora; per me, che la finisco, è un gioco assurdo. Ho
radunate le mie poche forze per venirti a parlare: non impedirlo, se ti
ricordi che abbiamo avuto sempre coraggio.

Una luce tetra splendette nella faccia dell’avversario.

— Ebbene, — disse, avanzandosi dall’ombra, — se così vuoi, sia!

— Non come due nemici, Andrea, — lo pregò l’infermo con un sorriso
triste. — Sì, è vero, il passato è in frantumi e le memorie son
ragnatele che val meglio spazzar via... Ma c’è qualcosa nel mondo che
può essere dolce ad un uomo, e questo è la certezza di aver amato un
altr’uomo con tanta purezza d’affetto, che per quanto egli ti faccia
male, per quanto il destino te lo avventi contro come un inconciliabile
nemico, tu non lo possa veramente nè interamente odiare mai. Questa è la
prima cosa che volevo dirti.

Andrea non battè ciglio, non si mosse, non rispose parola.

— Ti ricordi?.... — ricominciò il malato, con una voce quasi lontana. —
Abbiamo tutto diviso fraternamente nella vita, come dividevamo insieme —
ti ricordi? — nella nostra camera di studenti, su quel tavolino zoppo,
le nostre povere cene. Poi, quando bruciò la miniera di Connigan Gate
seppellendo trecento uomini, e la Compagnia mi cacciò come responsabile
del disastro, per un anno vissi nella tua casa, e devo a te solo, — sì,
lasciami dire: a te solo — se ho potuto per una seconda volta
ricominciare la strada.

— Visto che facciamo i conti, io ti devo altrettanto e più! — Andrea lo
interruppe con voce irritata.

— Ora ti rivedo! — esclamò Giorgio, scuotendo con un sorriso il capo. —
Riassomigli, contro di me, a quello ch’eri nel Comizio Romano, davanti a
coloro che ti accusavano di averli traditi, di aver venduta la causa
loro a chi ti prometteva il potere... E tu eri là, pallido ma
sorridente, con le braccia incrociate, contro il tumulto, contro gli
urli, contro gli insulti, finchè ne hai preso uno per la gola, uno che
inveiva più da presso. Questo atto di coraggio fece il silenzio intorno
a te. Allora ti lasciarono parlare. Mi ricordo. Pareva che tu foggiassi
le parole in un sonoro metallo e le piegassi con la forza de’ tuoi pugni
prima di scagliarle in pieno petto contro gli avversari, contro il
semicerchio muto che lentamente oscillava; e c’era in te qualcosa di
magnetico, d’elettrizzante che dominò la folla, che li vinse, ad uno ad
uno, e poi tutti, finchè ti vidi preso nel mezzo, come in un’immensa
mareggiata d’uomini, d’uomini clamorosi e deliranti che ti portarono in
trionfo... Dimmi, Andrea, non sei più quello di allora?

Un cerchio di rossore accese la fronte dell’avversario; ne’ suoi occhi
una vampa splendette.

— Il medesimo sono, e più forte! — disse con ira; — poichè le più
disperate battaglie sono certo quelle che dobbiamo soffocare in noi.

Camminava per la camera nervosamente, come un uomo da tutte le parti
accerchiato, il quale voglia fendere nella calca a fronte bassa per
aprirsi un varco. Poi disse con impeto:

— Senti: non mi giustificherò. Il nostro patto è rotto. Se vieni per
interrogarmi, rifiuto, — se vieni per accusarmi, rifiuto, — se anche
vieni per perdonarmi, rifiuto. È inutile tradurre in parole oziose
quello che l’anima di due uomini risoluti non può nè tollerare nè
mutare.

Giorgio volle interromperlo, ma egli con un gesto lo trattenne:

— Lasciami dire: nè tollerare nè mutare. Mi hai rammentata un’ora
temeraria della mia vita, quando, per ambizione o per ingenuità, credevo
si potesse far del bene alla folla trascinandosela dietro con la magìa
della parola, come un branco imbrigliato, ed avevo in me difatti questo
genio demagogico, questa potenza istrionica della quale ora mi rido. Più
tardi compresi che il bene si fa nell’ombra, da soli, piegando la fronte
sui libri, o con le braccia nude fino al gomito, medicando l’anima
dell’uomo e la sua carne piena di contaminazioni. Ho lasciato gli altri
urlare; ho camminato più in alto, per la mia strada. Ora, ti ho detto,
sono il medesimo e più forte. Ora sono riuscito a comprendere che nel
nostro vincolo, nel nostro patto d’amicizia umana mancava tuttavia una
possibilità: quella di sentir nascere in noi l’odio, l’odio fraterno, il
più terribile che vi sia.

Mi hai posta una domanda poco fa: se ho paura di te e se ti odio. Io fui
debole un momento e risposi: Nè una cosa nè l’altra. Ma ho mentito. E
poichè mi rammenti le ore di coraggio ch’ebbi nella mia vita, con quel
medesimo coraggio ti rispondo: — Sì, ti odio!

Ne’ suoi occhi metallici brillava una sinistra luce; la sua bocca rise,
paga d’aver esclamata la verità.

— Ora ti preferisco, ora che non menti più! — Giorgio rispose, con un
orgoglio pacato. — Vorrei essere ad un altro tempo della mia vita per
accettare le tue parole come una bella sfida.

Andrea scosse il capo:

— Forse non mi hai compreso.

— Sì, ti ho compreso. Volevi dire che tra uomo ed uomo tutto è caduco e
distruttibile, tutto può mutare improvvisamente, per un caso fortuito,
perchè appunto noi siamo esseri caduchi e mutevoli, schiavi anzi tutto
del senso che ci dómina con vera tirannia.

Ma l’altro non cessava dallo scuotere il capo duramente, finchè
l’interruppe:

— Volevo dire che il mio odio per te, Giorgio, è una specie di rimorso
taciturno, è una specie di lealtà ultima, che nascondo a me stesso, e
nella quale mi rifugio, dopo aver lottato inutilmente, con ogni mia
forza, contro il destino che ci separava. È un odio, sì; ma tale che se
potessi, dando la mia vita, redimermi dinanzi a te, o farti un bene
qualsiasi, anche minimo... senza esitare, senza riflettere, la darei!

— Allora perchè nasconderti fra queste parole? Smàscherati! Dà un nome a
tutto questo: il suo vero nome!

— No, no! — rispose Andrea con forza; — parliamo di noi, solo di noi.
Come ho rispettata sempre la tua fede, che non potevo dividere, tu
rispetta la mia volontà, perch’essa è la sola coscienza degli uomini
senza fede. E pensa che il confessarmi a te mi sarebbe forse dolce, come
per voi è dolce confessare le vostre colpe ad uno che vi assolverà. Io
non voglio il tuo perdono. Ma invece ti dirò apertamente: Sì, l’ho
amata!... Era nel mio destino d’uomo... l’ho amata.

Queste parole parvero gravi, come l’affermazione d’un reo che dicesse al
suo giudice: — «Sì, ho ucciso.» E Giorgio, sopraffatto, come se al di là
da quelle parole non vi fosse che l’immenso nulla, chinò la fronte in
silenzio. Una lunga pausa durò fra loro, nella quale permaneva un’eco
diuturna, ch’entrambi udivano risuonare nella loro vastità interiore.
Poi Andrea riprese:

— Vedi, e ho lottato! Con tutta la forza che ben mi conosci, ho lottato
per estirpare da me questa ubbriachezza. Ma non mi fu possibile. Tutto
si riesce a stritolare nella tanaglia della nostra volontà, non questo
amore che imbeve la carne, lo spirito, e ci vieta persino quell’atto
estremo di ribellione che tronca tutto: la morte.

— Lo so, — rispose Giorgio profondamente. Poi, levatosi con fatica dalla
poltrona, s’avanzò verso di lui, fin quasi a toccarlo:

— Lo so. Dal primo giorno che l’hai guardata con amore lo seppi. Era...
vuoi che te lo rammenti?

— A che serve, Giorgio? È lontano...

— Infatti. E già sarebbe stata una grande sciagura che l’amassi tu solo,
— proseguì Giorgio, scandendo lentamente le sillabe. — Ma lei pure ti
amava... e questo era l’irreparabile! Ti amava in silenzio ancor prima
che tu lo sapessi.

Andrea scosse il capo in segno d’incredulità.

— Prima, assai prima... perchè forse non è mai stata veramente mia. Ma
per me bastava che non fosse d’altri; e guai se avessi creduto, in un
modo qualsiasi, di poterla ricuperare! Perchè allora, vedi, il mio odio
sarebbe andato oltre il tuo, e per quell’istinto che ogni essere ha, di
voler difendere il proprio bene anche fino al delitto, io, credente, mi
sarei dannato, ma avrei messo il mio amore, poich’era grande, più in là
che Dio. Senonchè ti amava troppo... ed era inutile tentare.

— Tu avresti fatto questo?... anche questo? — mormorò Andrea.

— Sì! e puoi non dubitarne se ripensi alla mia vita. Eppure io credo in
Dio; anzi questa fede, che tu in fondo schernivi col tuo silenzio, mi ha
salvato dalla recita e dalla colpa inutile. Perchè, sai, vi può essere
altrettanta bellezza in un delitto grande come in un grande perdono. Io
vi ho perdonati; non con la bocca, non con le parole che tu alteramente
mi rifiutavi or ora, ma col mio spirito, con la mia fede, con tutta
quella estrema vita che si àgita in me. Bada: non cristianamente, ma
umanamente vi ho perdonato: non per misericordia, ma per riflessione,
non per comprarmi il paradiso dei preti ma per la vostra felicità.

— Per la nostra felicità?... — disse Andrea, con maraviglia, con
sospetto.

— Sì; e non mi credere un santo per questo: non lo sono. Uomo, avrei
voluto vivere, e per vivere mi sarebbe stato necessario difendermi da
te. Ma che sono ormai? Una macchina disfatta... neppure: un pugno di
materia logora che fra poco si dissolverà. Davanti a me finisce quella
striscia di sole che si chiama la vita, e se i deboli, se gli avari, se
i timidi, appunto verso la fine s’abbrancano con maggior disperazione ai
beni che lasciano quaggiù, io, poichè sono stato un forte come te, un
orgoglioso come te, ne faccio abbandono senza odiare quelli che possono
vivere ancora, ed umanamente, con pace, dico loro: Il diritto è
vostro... continuate.

Dopo aver velocemente riflettuto, Andrea esclamò:

— Le tue parole sono troppo grandi per un uomo: io non le credo.

— Le parole sono grandi forse, non la verità che nascondono, — gli
rispose con lentezza il suo fratello d’una volta. — Le più serene
filosofie, le rinunzie più sante, celano spesso nel fondo un acerbo
rancore contro la vita. Così di me. Allora sarò più piccino, mi
denuderò, guarda: È un corpo questo che mi rimane? Ho forse una speranza
di risanarmi, di ricominciare? No! Il mio martirio non può essere che
più lungo o più breve, ma non altro che un martirio; e la scienza non
inganna quel presentimento della morte che penetra tutte le vene,
quand’essa già si trascina carponi nella nostra ombra. Si levi e mi
prenda! Che serve il vivere in una poltrona, coperto di scialli, nutrito
di medicine, soffrendo torture fisiche e morali, facendo ribrezzo agli
altri ed a me? Poi, compréndimi bene, io amo una donna come tu l’ami,
sapendo invece che la spavento. E la desidero qualche volta, io sfinito,
come la desideri tu, vivo e forte. Ma tu la puoi baciare... io no! tu
puoi darle ancora un brivido... io no! — e tutto questo, lo riconosci
ora? è meno grande che non sembrassero le mie parole.

Parlava concitato, scuotendo i pugni, rosso nel viso d’una tragica
vampa; indi spense la voce, che divenne piena di sarcasmo contro sè
stesso:

— Allora, vedi, per una vanità d’uomo, preferisco nascondermi prima di
esasperare la sua pazienza e di farle odiare, nel suo disamore, anche la
memoria di me. Insomma, se tu hai ne’ suoi occhi la bellezza della tua
forza, voglio vestirmi d’una qualche bellezza pur io, voglio valermi
dell’ultimo potere che mi resta: la bontà, voglio che tu non vinca
interamente, intendi? perchè ti odio... sì, ti odio, e più forte,
anch’io!... Vedi come tutto questo è meno bello, meno grande che non
paresse a te.

Ma, con un atto brusco, Andrea respinse quelle sue parole:

— No: tutto questo non è vero! Tu vuoi «sapere», solamente «sapere»! Ti
fai debole per fasciare la mia forza. Ebbene, poichè lo vuoi,
affrontiamo ancora una volta, con vero coraggio, questo pericolo
estremo. Siamo sovra un ponte stretto, per dove non si passa in due.

Trasfigurato nel viso, Giorgio lo interruppe:

— Con vero coraggio, hai detto? Sì, Andrea! sì, Andrea!...

La commozione gli metteva un tremore all’ápice delle dita. — Sì, Andrea,
— ripetè. — Ascoltami bene: per tutte le cose umane c’è la parabola, e
in capo della parabola nient’altro che un circolo d’ombra. Tutto bisogna
che finisca in putrefazione. Anche la nostra amicizia, ch’è stata un bel
legame di due anime libere, non potè fare altrimenti. Ed io non te ne
incolpo, Andrea: era necessario, doveva essere così. Ma c’è qualcosa che
sopravvive a tutto questo, ed è la memoria di quello che siamo stati, tu
ed io, là indietro, nella giovinezza. C’è, nella macchina logora,
qualcosa, forse un peso inutile, che sopravvive: il cuore... Ed io, se
mi sono trascinato fin qui, non è per tenderti una insidia, non è per
sapere, perchè ormai più nulla mi è nascosto... ma perchè mi rincresceva
morire senza che fosse ancora suggellata con un patto finale la nostra
concordia d’uomini, ed è per dirti quel che ora ti dico: Strìngimi la
mano, Andrea, lasciamoci da veri amici.

— No! mai! — esclamò l’avversario. — Guarda: io mi metto a ginocchi
davanti a te, se lo chiedi, ma non mi tendere la mano... mai più! mai
più!

— A tal punto mi odii?

— Me odio! me stesso: non te.

— Tu ingrandisci un piccolo dramma!... una donna, dopo tutto, è una
donna... ci ha divisi, ci riunisce: dammi la mano.

L’avversario, l’antico suo fratello, in silenzio lo fissò, a lungo; poi
fece una domanda:

— E se non potessi?... se non potessi più?... Comprendi la forza che
racchiude questa parola: «potere»?

— Le parole son parole... e poi sono anche fantasmi: scàcciali!

Era sorridente, mite; una specie di augusta sovranità gli vestiva le
sembianze; v’era, nel suo sorriso, ne’ suoi occhi, un non so che
d’immateriale, che raggiava dal suo pallore come un sole nascosto. Ora
sentiva di essere il più forte, sentiva di poter comandare:

— Dammi la mano, — disse; — ho bisogno di te.

— Di me? Che vuoi?

— Aiuto, perchè non vedi come sono debole?... Ho bisogno d’aiuto, e tu
solo me lo puoi dare.

— Che vuoi?

— La tua mano, dammi la tua mano.

— Non posso.

— Puoi, puoi... se ancora ti senti capace di farmi un dono.

— Lei?... — balbettò l’avversario, esprimendo in quel solo monosillabo
tutto il terrore che gli pervase l’anima.

— Non lei... un altro dono più bello!... Dammi la tua mano.

Subitamente, con uno scatto, Andrea tese il palmo al suo fratello d’una
volta, all’uomo che gli era stato sacro e del quale «conosceva la
morte». Tremava, tremavano entrambi, ed entrambi ne impallidirono, quasi
avessero compiuto un rito infrangibile con quella stretta di mano che
per l’ultima volta li affratellava.

— Ed ora ascòltami, — disse Giorgio. — Il bene maggiore non è la vita, è
la pace. Guàrdami negli occhi: vedrai nel fondo l’anima che non mente.
Io ti ho perdonato, a te ed a lei; ho messo all’àpice de’ miei sogni la
vostra felicità, ho soppresso il mio bene per il vostro bene. Poichè vi
amate, e poichè la colpa è stata più forte che la vostra onestà, siate
felici, voi almeno, che avete nel mondo una felicità possibile. La vita
che diviene per sempre inutile a sè stessa deve continuare in un’altra.
Ma se l’anima è capace di queste cose grandi, c’è la carne che non
vuole, c’è la carne invida, che soffre, che si dispera... Ora ti dico:
Andrea, fratello mio, liberami dalla carne trista... dammi un veleno!

— Un veleno?... — mormorò esterrefatto l’avversario.

— Sì, perchè il bene maggiore non è la vita, è la pace. Io ti domando la
pace, e, se mi farai questo dono, avrai sciolto verso di me virilmente
quel patto che l’amicizia mi deve. Non voglio sconvolgere con una
tragedia volgare la tranquillità di questa casa, ma voglio tuttavia
morire; sapere che sarete felici... non vedervi più!

Parlava ormai senza che l’altro l’ascoltasse, con una voce opaca e
squallida che aveva il colore d’una giornata d’inverno; parlava da una
specie di lontananza, da una specie di solitudine, trascinando con
monotonia le sillabe, come il vento fa nei prati quando ammulina la
neve.

— Un veleno?... — disse ancora l’avversario, indugiando nel magnetico
stupore di cui lo percosse quella parola.

— Sì, Andrea... e non impallidirne a quel modo! Io ti parlo d’una cosa
semplice; la scomparsa d’un uomo è la più semplice di tutte le cose.

Ora sorrideva d’un sorriso distante; v’era nelle sue disperate parole
una tranquillità già divisa dal mondo.

— Vedi: gettarmi da una finestra sarebbe odioso, ed il mio corpo è così
affranto che forse mi mancherebbe il coraggio di farlo, sebbene vi abbia
già pensato. Armi non ne ho; quand’anche potessi procurarmene, questa
morte rumorosa e drammatica sciuperebbe, come l’altra, il mio disegno.
Invece voglio andarmene come se la morte fosse venuta a prendermi
qualche giorno prima... Ricòrdati quel che ti ho detto: è un dono che ti
domando, e tu solo me lo puoi fare. Me lo devi anzi fare, perchè sono
allo stremo e non posso più sopportare nemmeno un giorno di questa
tortura. L’amo! l’amo come te, disperatamente, con tutto il furore che
può essere nell’agonia d’un uomo... e la carne si ribella al pensiero
che sia tua!

Vedi, Andrea, ti parlo come si parla solamente con noi stessi. Il nostro
patto è assai più forte che le meschine convenzioni degli uomini: vi
sono casi nei quali è più santo dare la morte che salvare una vita. Tu,
che senza volerlo m’hai preso tutto, mi devi pure un dono: dammi un
veleno!

Ora l’avversario l’aveva ascoltato senza guardarlo, con gli occhi fissi
ad un punto magnetico nell’alta ombra, che vedeva egli solo. E quando
tacque, seguitò ad ascoltarlo, senza che una linea del suo viso
trasalisse, fermo dalla fronte al piede in una sinistra immobilità.

Poi gli si avvicinò lentamente, fissandolo con i suoi diritti occhi,
tersi e freddi come l’acciaio, pieni di vampe nere. Disse:

— La tua domanda è di quelle che raramente un uomo sereno ha il coraggio
di fare. Ma essa non mi atterrisce. Interroga bene il tuo spirito prima
di rispondermi: Sei ben certo di volere quello che vuoi?

Egli si pose una mano sul petto, aperta, con l’atto sacramentale di chi
giura sul libro dell’Evangelo.

E rispose:

— Io ti chiedo che tu mi dia da morire con la stessa serenità con la
quale un giovine impetuoso domanda la battaglia, sicuro di andarvi bene,
con la fronte alta, ridendo. E lo domando a te, perchè tu solo, fra gli
uomini che conosco, sei capace di farmi un simile dono, appunto senza
tremare.

— Lo credi?

— Lo so!

Nella pausa che si colmò con l’eco di queste parole, ambedue sentirono
il lor cuore accelerarsi fino allo schianto. Poi Andrea lo afferrò per
un polso e gli disse rapidamente:

— Giorgio!.. Io potrei di fatti non tremare anche nel risolvere con
semplicità il più grande problema che sia mai sorto nella coscienza d’un
uomo. Sono un medico, la mia missione è di salvare: non dovrei poter
uccidere. Tuttavia, più d’una volta, ebbi la tentazione di fare
spontaneamente quello che oggi mi chiedi, per liberare una vittima dalle
crudeltà oziose della morte. Se non lo feci, fu per seguire un
pregiudizio, per non saper vincere quella sensazione che odio: la paura.
Tempo fa, quando non ero colpevole, se tu mi avessi fatta la medesima
domanda, ebbene ti avrei risposto chiaramente: «Hai ragione: devi
decidere così. Ti aiuto.» Ma ora c’è qualcosa fra noi che me lo
impedisce. La vita di un altro, si può rubarla, prenderla a tradimento
forse... ma riceverla in dono come tu me l’offri, no!

— Andrea, non ragionare!... Noi siamo venuti a quell’ora dove il
ragionamento più non regge. Hai dinanzi a te un uomo che ti fu caro, al
quale fosti caro, e che soffre, soffre orribilmente... Quest’uomo, con
l’anima sua più viva, ti dice: «Senti: ho finita la strada, voglio
sparire.» Dunque non discutere. La mia decisione ormai è presa: mi
ucciderei da me, in ogni caso, perchè, se tu potessi anche salvarmi come
hai fatto per tante creature malate, non mi daresti che il mezzo di
soffrire più lungamente. Quello che si chiama l’irreparabile, nè tu nè
io potremmo sanare mai più. Invece, tu che sei stato il mio compagno nel
mondo, aiùtami!... aiùtami ancora una volta: ho bisogno di te. Voglio
andarmene senza insanguinare la casa dove non fui che un ospite,
andarmene senza mettere una corona di spine sotto il velo della vedova
che lascio... Rimanga fra me e te un segreto: noi fummo abbastanza forti
per portarlo sul cuore.

— Sai cos’hai fatto? — esclamò Andrea cupamente. — Mi hai messo davanti
agli occhi uno specchio e mi hai detto: «Guàrdati!» Ecco, mi vedo; e
sono orrendo!

— No, sei vivo e difendi la tua vita: questa è la sola differenza fra
noi.

— Ma perchè ti uccidi, tu che sei credente? — lo interruppe di nuovo
Andrea, quasi cercasse di opporre ostacoli al compimento di quell’atto
che si rendeva necessario.

— La mia fede è un’altra, — Giorgio rispose con serenità; — il mio Dio
non è crudele.

Guardava in alto, come già lontano, già libero da tutte le impurità che
insozzano il cuore degli uomini, e gli splendeva nelle iridi azzurre la
limpida visione della sua pace ultima, la tranquilla certezza in una
fede sua, più grande, più intima, che la predicazione di ogni chiesa.

Poi gli tese le due mani, come per un commiato:

— Addio... forse mi sei stato più caro che tutto nel mondo... e mi sarai
più fedele, se m’aiuti.

L’avversario illividì. Ora, nella sua carne innervata d’acciaio,
ripalpitava il cuore dell’uomo, il cuore fragile che s’impaura e che
trema, il cuore pieno di gemiti, che si commuove davanti alla bontà.

Su le labbra gli venne una confessione, l’ultima, la più disperata, e fu
per dirla:

— Senti... Giorgio...

Ma un istinto supremo contenne la sua voce, gli ricacciò nel cuore le
parole che ne traboccavano, e pensando all’amante, alla quale «doveva il
suo delitto», mormorò a fior di labbro, come per chiederlo a sè stesso:

— Chi l’avrà amata più forte?

Ella s’interpose fra loro, bella com’era, vestita del desiderio
d’entrambi, e sentiron ciascuno la sua presenza invisibile, soffersero
di lei come se li toccasse con il suo corpo discinto.

Poi Giorgio disse:

— Tu forse, poichè rimani, mentr’io fuggo. E sopra tutto perchè è tua.

Una memoria di lei trascorse nelle lor vene, sentiron che si apriva tra
loro un abisso perpetuo, vasto come la morte. Ancora tacquero, ed
attesero, come se nell’indugio fosse una speranza imprevedibile. I loro
pensieri correvano con isfrenata velocità per il più vasto campo che vi
sia da percorrere, cioè dalla vita alla morte, dal principio alla fine
d’una esistenza umana.

— Dunque? — disse Giorgio dopo un lungo silenzio.

L’altro attese innanzi di rispondere: cercava in sè un rifugio contro la
sua medesima volontà. Infine disse:

— Una sola domanda, Giorgio. Oseresti fare per me quello che ora mi
chiedi?

— Se ciò valesse meglio che offrirti la mia stessa vita, sì, lo farei.

— Ma per compiere un simile atto bisogna esserne degni! — Poi soggiunse
brevemente: — Potrei non esserlo più.

L’anima, ne’ suoi occhi, si accusava con una disperata sincerità.

— Se devi sorpassare un ostacolo di più, vuol dire che mi offri un dono
più grande.

— Ma, Giorgio... — egli balbettò con angoscia, — se Novella... se io...
se qualcosa che tu non sai... mi tiene alla vita, m’incatena,
m’impedisce di punirmi con la stessa mano che t’aiuta, se...

— Taci, taci... Vi sono silenzi che debbono continuare anche oltre la
morte. Una sola cosa mi devi: ubbidirmi, e poi vivere, perchè nessuno lo
sappia.

D’improvviso, come se gli balenasse nel cervello un tragico lampo,
l’avversario guardò in faccia la morte.

— Sì? lo vuoi?! — esclamò.

Colui che fu nella vita il suo fratello senza colpa gli posò una mano
sulla spalla, come avrebbe fatto nel posarla sulla pietra d’un
reconditorio, e disse:

— Tutta la mia vita mi sia testimone della risposta: «Sì, lo voglio!»

L’avversario lo prese ai polsi, lo serrò convulsamente:

— Sia!

Poi si volse: l’armadio carico di boccali traluceva nell’ombra; su la
tavola ingombra, il fascio del riflettore traeva barbagli dalle boccette
di cristallo, dagli aghi d’acciaio, rilucentissimi.

Il medico, muovendosi a scatti, veloce, attento, ruppe col pòllice la
chiusura ermetica di due boccette, ch’eran sottili come cannule di
vetro; ne mescolò alcune gocce in un piattello concavo, dove c’era un
dito d’acqua, e lentamente, serrando i labbri, ne riempì la siringa. Il
liquido, salendo nel tubo di vetro, diede uno sprazzo iridato, simile ad
un piccolo sole rosso e livido, che si spense quando fu al sommo.

Allora il medico scosse la siringa per mescerne il contenuto e l’esaminò
due volte contro il lume. L’ago minutissimo portava su la punta una
scintilla.

Poi la depose su l’orlo della tavola e la guardò.

La guardò come se fosse ormai solo, come se l’irremediabile fosse già
compiuto.

Il morituro s’avvicinò lentamente; senza paura, ma lentamente...

— È questo il veleno?

E sopra vi pose un dito, come per toccare la morte.

Parlava automaticamente, con un riso a fior di labbro.

Il medico assentì con un cenno del capo, mentre affascinati guardavano
entrambi la siringa lucente, colma di un liquido senza colore, innocuo,
limpido come l’acqua.

L’uomo che doveva morire snudò il braccio sinistro rimboccando la manica
lentamente: poi torse il viso, la bocca gli si fece obliqua, e prese la
siringa fra due dita.

— Che fai? che fai! — gridò l’altro per istinto, soffermandolo.

Egli rise, ma d’un riso gutturale, stranamente simile a quello di
Marcuccio quando finiva la sua Canzone.

— Guarda: e non trema... — disse.

Accennava al suo braccio arido, giallastro, proteso contro il lume, e
che tremava tuttavia.

Egli non vedeva quel tremore, l’altro sì.

— Senti, Giorgio... — balbettò l’avversario.

— Come si fa?... — domandava ridendo quegli ch’era presso a morire.

— Senti, Giorgio... Giorgio!...

— Come si fa?...

— Così!

Rapidamente gli tolse la siringa di mano, e con orgoglio, con la fronte
alta, come parlasse a’ suoi giudici invisibili:

— Io! — disse — io debbo finire di ucciderti, non tu! Non tu, con la tua
mano, ma con la mia — guarda! — e anch’essa non trema!

Gli teneva strettamente il polso, aveva l’ago pronto a pungere su la
pelle rabbrividita, irta del suo pelo, cupa, fra i tendini tesi.

Poi diede un colpo forte e schizzò dentro il veleno.

— Ahi!... come fa male... ahi!... dille...

E girò, in deliquio, sui calcagni, urtando contro la tavola, rovesciando
il riflettore, che si spense.

Colui ch’era stato il suo fratello ed il suo nemico nel mondo lo sollevò
di peso su le braccia e lo portò a giacere nella poltrona

Poi riaccese il lume.



IX


Riaccese il lume per guardare il suo delitto.

Come uno di que’ grandi fantocci meccanici che il burattinaio butta
sopra una scranna, flaccido e penzolante, quando ha finito di fargli
recitare la sua parte, così appariva l’uomo semisdraiato nella fonda
poltrona, con il capo recline da un lato, il mento sovra una spalla, le
braccia cadenti fuor dai bracciuoli, le gambe divaricate.

Respirava; il suo respiro era visibile, anzi forte.

Ogni tanto un tremito assaliva una di quelle mani ciondolanti, ne
scuoteva il polso convulsamente, poi quel tremito correva su per il
braccio, dando contro la spalla un urto secco. Parimenti i suoi piedi
ogni tanto si squassavano, facendo flettere le ginocchia in dentro come
fossero gambe di sciancato. Una ciocca di capelli gli era caduta su la
fronte, empiva un’orbita molestando la palpebra chiusa.

L’ombra della poltrona e di quel corpo informe ingombrava il pavimento
irraggiato, saliva obliqua per lo zoccolo del muro.

Quando Andrea Ferento ebbe raccolta la siringa, cadutagli a terra nella
fretta di sorreggere lo svenuto, quando l’ebbe lavata e rasciugata, ne
staccò l’ago sottile, prese un panno e si mise a strofinarlo. Ogni tanto
lo provava su l’unghia, quasi per accertarsi che la punta non si fosse
rotta. Poi lo esaminò da presso, contro il lume, strizzando l’occhio, e
lo mischiò in un mazzo di aghi simili, più grossi e più minuti, ch’erano
involti in una carta velina, e li racchiuse dentro una scatola. Riordinò
le boccette nell’armadio, avendole tappate con la maggior cautela, poi
si volse tranquillo, come se avesse condotto a termine un suo lavoro
consueto, e macchinalmente guardò l’ora.

Era di poco trascorsa la mezzanotte; ma egli forse non vide le sfere.

Allora fece automaticamente un giro intorno alla camera, quasi radendo
la parete: si fermò presso la finestra, affondò nei buio lo sguardo
vacuo, poi retrocesse verso il mezzo della stanza, dov’era coricato il
fantoccio tragico nella poltrona profonda, e, fermo in una specie
d’insensibilità, rimase a guardarlo.

Respirava: il suo respiro era visibile, tuttavia meno forte.

Guardò l’ora un’altra volta, quasi contasse i minuti che ritardavano la
morte.

Un rombo, lontano, vicino, gli saliva nel cervello impedendogli di
pensare. Allora poggiò l’orecchio sul cuore del fantoccio e pronunziò
queste due sillabe distintamente:

— Batte.

Gli raccolse le due mani che penzolavano; il contatto della sua pelle
gli dette una sensazione molesta, sicchè gli parve miglior cosa
lasciarlo stare. Le due mani ricaddero su le cosce, facendo un rumor
soffice come se fossero inguantate, e più non si mossero.

Nel suo cervello, qualcuno, forse una voce estranea, pronunziò questa
parola quietamente: «La bara.»

Egli da prima cominciò a pensarne il solo nome, poi vide la forma della
cassa di legno, infine si rese conto che c’era un morto, una lunga forma
stecchita, trasudante un lezzo nauseabondo, che bisognava stendere là
dentro, nella cassa di legno, nella bara.

Morti, egli ne aveva ormai veduti un gran numero; e cominciò a
ricordarsi dei tanti cadaveri che aveva toccati con la sua mano ferma,
sezionati con la sua mano veloce, e rivide certe fisionomie particolari,
delle quali si rammentava in quell’attimo con una precisione
sorprendente.

A lui, medico, il cadavere non faceva paura; negli ospedali e nelle
cliniche s’era avvezzo a parlar forte, a ridere qualche volta vicino ai
morti. Ma ora gli sembrò inconsueto, strano, fin questo nome di
cadavere; gli parve per la prima volta che morire volesse dire qualcosa
più che rimanere immobili e freddi.

Siccome l’uomo spento gli era quasi familiare, concepì mentalmente
l’orrore della carogna, poichè gli era occorso di vederne assai meno. E
per una di quelle astrazioni del pensiero che talvolta ci avvincono
quando siamo fortemente presi dal senso d’un’angoscia non ancor bene
determinata, gli passò negli occhi l’immagine di un povero cavalluccio
che aveva una volta veduto, quando era studente ancora, nel visitare una
scuola veterinaria.

Era un cavalluccio sardegnolo, decrepito, che d’animale vivente non
conservava più se non una parvenza macabra e grottesca. Era stato
venduto forse da un carrettiere per il valore della sua pelle, perchè,
nemmeno a forza di bastonate, non si poteva più mandarlo innanzi d’un
passo. La Scuola lo aveva destinato ad un ufficio non comune: quello di
servir da paziente in tutte le operazioni che convenisse mostrare
praticamente agli allievi veterinari. Su la sua povera pelle, scucita e
ricucita chissà mai quante volte, avevan provato e riprovato per ogni
verso tutte le operazioni che l’arte chirurgica insegna. Per quel po’ di
paglia e di fieno che gli davano di tempo in tempo, durante le sue
convalescenze, gli avevan aperto il ventre, fessa la gola, semiaccecati
gli occhi, recisi i tendini, sforacchiate le spalle, passandovi dentro
certi lunghi tubi che parevan aghi da calza infitti in un gomitolo di
stoppa. Ad operazione finita, lo ricucivan su alla bell’e meglio, poi lo
cacciavano a guarire davanti una mangiatoia semivuota.

Camminava come se avesse le quattro zampe di caucciù, e nell’andare
dalla sala operatoria fino alla stalla cadeva tre o quattro volte su le
ginocchia insensibili...

Proprio quel giorno ch’egli lo vide, nel mezzo d’un’operazione il
cavalluccio morì. E per tutta la sua vita egli non aveva potuto scordar
l’orrore di quella povera piccola carogna, su la quale i veterinari
armati di bisturi sanguinanti s’erano messi a ridere.

Ora lo rivide, in un lampo fugace, quel decrepito cavalluccio
sardegnolo, rappezzato come un mantello da mendicante, ch’era morto
legato, senza poter tirare un calcio, rovesciando appena le froge
violastre su la dentatura gialla.

Ascoltò.

Respirava; il suo respiro era visibile, ma fioco.

La pelle del viso mutava colore, schiarandosi; la bocca si faceva un po’
tumida, gli occhi si enfiavano, benchè serrati.

— Giorgio...

Egli si provò a profferire il suo nome; non lo disse, ma gli parve di
averlo detto: «Giorgio». Questo nome era stato una cosa enorme nella
vastità interiore del suo mondo; ma ora pareva un nome strano,
stridente, una parola quasi anormale, vuota come una caverna.

Gli sembrava che fosse decorso un tempo immemorabile dal principio di
quella sera.

«Che volete? che volete?... Sì, l’ho ucciso!» — gridava, urlava a’ suoi
giudici invisibili, ma con la sola voce del suo spirito, — mentre in
verità gli pareva di gridare. Nel suo dualismo interiore si ricordava di
averlo ammazzato, e non sapeva se fosse morto; provava uno strazio
spaventoso, ed era tranquillo come un ebete; aveva la sensazione
illusoria di essere davanti alla stessa persona, che fosse viva e morta
nel medesimo tempo.

«Sì, l’ho ucciso; io! Sì, vedete: con questa mano; io, con questa mano;
io!» Era immoto, e gli pareva di agitarsi, di urlare, scagliando il
pugno contro un’assemblea di avversari, contro un comizio di giudici che
l’accerchiassero da ogni parte.

«Fratello, rispondi per me! Lévati e rispondi: — Non era questo il mio
diritto?»

Intanto, nel suo dualismo interiore, l’altra parte di lui spiava
minutamente i segni della morte.

«Fratello, rispondi, rispondi!...»

Poi gli parve che la casa si destasse, e tutti accorressero, balzati
fuori dai letti sconvolti, le donne, gli uomini, scapigliati, e dietro
l’uscio gridassero: «Apri! apri! vogliamo vederlo innanzi che sia
morto... Apri!» E lo scemo, fra loro, in una camicia da notte che lo
faceva sembrare uno spettro, la guancia poggiata contro il violino,
suonava con furia, con strazio, finchè le corde saltassero, la Canzone
Disperata...

Erano fuori dalla porta in gruppo, accaniti; squassavano l’uscio,
gridando: «Apri!»

L’altr’uomo vigilò, in ascolto, e non intese rumore.

Su la poltrona il pupazzo tragico si torse, come se avesse dentro un
perno che gli permettesse di svitare il busto dal ventre, il collo da le
spalle, in un modo bizzarro. La bocca s’era messa a ridere, le gengive
congestionate schiumavano. Per tutta la lunghezza del collo s’incordava
una grossa vena tesa come un elastico: le mani convulse annaspavan
nell’aria, i piedi si urtavano, producendo con i tacchi uno scricchiolìo
sinistro. Gli colò su la giubba un filo di bava, e il medico lo deterse.

Fuori, dietro i vetri leggermente appannati, brillavano stelle fra gli
alberi, come lucciole in un cespuglio. Bella notte, odorata, ingemmata,
ch’era piena di lembi d’azzurrità.

«Quanti anni passeranno?...» — Anni voi dite?... — «Sì, anni.» — Prima
di che? — «Prima che tu ritorni a vivere.» — Ma non vivo io dunque? —
«No, è un incantesimo.» — Un incantesimo?...

E l’altr’uomo, il medico, si chinò sopra il cuore del pagliaccio.

Respirava, non più visibilmente, con un affanno lieve.

— «Ho fame! ho sete! ho sonno! ho voglia di camminare! di fumare, di
agitarmi, di ridere!»

Egli si disse queste parole con veemenza, osservò questi suoi propri
desiderii con chiarezza. Non poteva invece far nulla di tutto ciò; era
fermo, incatenato lì, vicino a quella sembianza d’uomo, sotto il potere
di una forza incombattibile, che li stringeva entrambi nella stessa
notte.

Fece sogni.

Camminare d’Aprile per la campagna, lungo una bella strada soleggiata,
respirando il buon profumo che mandano le siepi cariche di fiori...
Scendere giù per un fiume impetuoso, a forza di remi, sentendo l’acqua
insorgere gonfia e rapida sotto la chiglia... Addormentarsi in un bosco;
vedere i falciatori mietere una messe; balzare in groppa d’un cavallo
focoso per una prateria senza termine... Trovarsi preso nel tumulto di
una folla, per una strada cittadina piena di fragore e di transito...
volare con un treno velocissimo attraverso la doppia fila dei pali
telegrafici... essere nella platea d’un teatro, presso i forni
d’un’officina... dappertutto, dappertutto, dove ci si muove, ci
s’incalza, ci si agita, si vive!...

E gli pareva che mai più, mai più farebbe tutto questo, mai più godrebbe
di queste inebbrianti gioie, perchè in quella notte, nel carcere di
quelle quattro pareti, era accaduto qualcosa di enorme, qualcosa di
finale, che soverchiava tutte l’altre possibilità.

«Sei morto? No, non sei morto? — Allora non puoi rispondere?... Sì? mi
puoi rispondere? — Che dici? — Ah, che t’uccida? — Ma se già t’ho
ucciso? — No? non dici questo?... Allora che dici?... Parla più forte;
così non mi riesce d’intendere. Ah... sei tu?... Ma chi sei?...

E l’altr’uomo, il medico, toccava quella fronte già un po’ fredda. «No,
no... ucciderti non posso! Lo vedi bene che non posso. — Cos’hai detto?
Un veleno? Ripeti; non hai detto un veleno?... Ma che lingua parli?
Cos’è questo nome che dici continuamente?... — Ah, sì... Novella! — Ma
perchè parli a quel modo, come se avessi la bocca piena d’acqua?
Novella, hai detto?... Sì, sì...»

E vide la sua faccia bella, null’altro che l’immagine della sua faccia
bella, non direttamente, ma quasi rifranta in uno specchio, e lontana,
perchè lo specchio stava lontano, e nebulosa, perchè l’aria per dove si
mirava era un po’ fosca. La vide con i suoi capelli disfatti, così
lunghi e folti che la cornice dello specchio non tutti li conteneva, e
gli sembrò di volerla guardare negli occhi senza potervi riuscire. Tutte
le volte ch’egli cercava d’incontrare le sue pupille, quegli occhi
sfuggivano, lo specchio andava sempre più lontano, finiva in un’albore,
in una striscia, in un punto...

Rimase un nome, un solo nome, vuoto anch’esso come una caverna, pauroso
come un incubo: «Novella...»

E l’altr’uomo, il medico, gli toccava il polso quasi fermo, il polso
ch’era divenuto greve.

«Ma io non ho paura! nessunissima paura! Sono libero! Cammino, se
voglio; se voglio, rido! — È notte. — Ebbene, se è notte, che fa? — Sono
leggero, mi sento agile: posso andarmene dove mi piace! — Fa buio. — Che
importa? Domattina si leverà il sole; un bel disco rosso, arroventato
come la bocca d’un forno. — Questo è il sole: un bel disco rosso che mi
piace assai di vedere.»

Il fantoccio si svitò un’altra volta, e questa volta parve che avesse
una cerniera proprio nella schiena e che alcuno gli avesse dato un pugno
proprio su la nuca, un pugno che tutto lo percosse. Le braccia, con i
pugni serrati, si tesero verso le ginocchia, i due piedi s’allungarono
quasi per dare un calcio nel vuoto, il ventre si piegò sotto le costole
come un mantice vuoto, e trafitto nel fianco da una specie di pugnalata
ultima, tutto il corpo ciondolò da quella parte: il mento gli si
confisse obliquo contro la sommità del petto.

Pareva che il burattinaio avesse dato uno strappo così forte da rompere
tutti i fili, — e i fili, schiantando, fecer rumore. Un rumore diverso
da tutti quelli che l’orecchio distingue, corto e fioco, ma più
persistente che la vibrazione d’un metallo, un rumore atono, pieno di
tutti gli altri suoni che insieme producono il ronzìo della vita.

Allora nel fantoccio immobile tutto si trasformò visibilmente: il
colore, la forma, il peso, l’abito, l’atmosfera che gli stava intorno:
tutto.

L’altr’uomo, il medico, dopo avergli lungamente cercato nel polso un
battito che non c’era più, chinò l’orecchio sul cuore del fantoccio, ed
arretrando con un balzo pronunziò distintamente questa sillaba:

«No.»

Tutta la casa, fra muro e muro, da’ solai tenebrosi alle rombanti
cantine, gli parve di súbito invasa da una musica furibonda...

La canzone diceva:

                          .  .  .  .  .  .  .

    «...e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli
    lontani...

                       Cammina: la vita comincia
                       domani, domani, domani...»



X


Ora, svanito il sogno, si ritrovò solo davanti a quel morto. Non più
fantasmi assedianti, non più misteriose voci nè musiche immaginarie per
la gran casa muta, ma un uomo calmo e logico di fronte ad un cadavere
ingombrante.

Con uno di quegli sforzi estremi della volontà, che riuscivano ad
incurvare la sua forza come un duro metallo, giunse a ricacciare da sè
quella torma di paurose allucinazioni, per affacciarsi con tutta la sua
chiarezza mentale ad una sola necessità: quella di nascondere il delitto
compiuto e dare alla morte di quell’uomo l’apparenza più naturale.
Bisognava, con uno sforzo quasi eroico, annullare il proprio essere
sensorio, non vivere per qualche attimo che di cervello; bisognava
soffocare il rimorso, il ribrezzo, lo stordimento, la paura, distruggere
in sè la memoria, il nome stesso di quel morto, per inscenare il quadro
più verisimile intorno alla sua spoglia muta.

Anzi tutto rimuoverlo da quella stanza, sollevarlo su le proprie
braccia, e nel buio, senza rumore, traversando il corridoio, portarlo a
giacere nel suo letto. Egli vide tutto questo con precisione, come se un
altro lo dovesse fare in sua vece; poi sùbito, con quella rapidità
d’azione che in lui seguiva il pensiero, comandò a sè stesso: —
«Ubbidisci!»

«Ubbidisci!» In tante ore della vita gli era stato necessario darsi
questo comando breve. Ed era, non la sua stessa voce, ma la voce d’un
tiranno interiore che glielo gridava contro i timpani, che inchiodava
questa parola nella sua volontà a colpi di martello, facendolo tutto
vibrare. Avesselo condotto su l’orlo d’un abisso e detto: «Balza!» —
egli, senza retrocedere, avrebbe spiccato il salto. Avessegli detto: —
«Cammina contro mille, perchè necessario è camminare!» — e contro mille,
da solo, senza tremito, avrebbe camminato. Questa voce che in lui
dettava era veramente il suo Dio.

Il morto era nel mezzo della camera; la sua goffa ombra invadeva il
pavimento, la parete; egli stava in piedi entro quell’ombra, sapeva di
esservi, ed anzi gli sembrò d’averne i piedi avvinti, sì che fece uno
sforzo muscolare per divincolarsi da lei. Ma l’ombra lo teneva in sè
come una preda, l’avviluppava nel suo fermo tentacolo, nel suo mantello
d’immobilità.

Pensò allora che bisognava spegnere quell’ombra, anche perchè non si
vedesse dal giardino la sua finestra troppo a lungo illuminata; e
trattosi da lei con la fatica dell’uomo che vinca una melma tenace, andò
alla finestra, onde guardare se fossevi abbastanza lume di stelle per
compiere quel che doveva nel buio.

Una effusa chiarità lunare vestiva tra gli alberi una magnolia lucente,
ed egli vide in capo dei possenti rami cullarsi quei suoi grandi fiori
lascivi e candidi come un seno incipriato, che pareva dormissero su la
pigrizia d’un’acqua sonnolenta.

Dietro i vetri chiusi, egli non sentiva il profumo della notte
primaverile; ma la fragranza di quei fiori di magnolia, che dall’albero
antico e brillante incensavano l’aria come fontane di soavità, gli
eruppe in faccia con una larga ondata, salendogli fino al cervello, così
fortemente, che il profumo della notte lo stordì. Quella fragranza,
quella chiarità lunare su l’albero di magnolia, e tutta insieme quella
pace azzurra trascorrente nelle vive arterie della notte, eran ancora
immagini delle cose a lui vietate, eran sirene che parevano attrarlo
dentro un incantesimo di pace, visioni che lo persuadevano alla dolcezza
dell’oblìo.

— «Sì, puoi spegnere il lume,» — disse a lui, nell’intimo, la voce del
suo vigilante complice.

Retrocesse dalla finestra verso la tavola, spingendosi a forza di
scatti, come un animale restìo, e nel posare le dita su la chiavetta del
riflettore osservò che il suo polso non era fermo.

— «Tremi?»

Questa parola ch’egli aveva odiata conveniva ora dunque per lui?

— «No, non tremo!»

E rapidamente spense il lume.

Ora egli vide cadere dall’alto soffitto una molteplice cortina di
mantelli neri, che si srotolavan l’uno dopo l’altro, grevi, enormi,
funerei, come una tenebra che rapidamente aumentasse.

Non vedeva più nulla; era solo, sperso, nel silenzio assoluto,
nell’assoluto buio.

Con le dita fredde si stropicciò gli occhi, perchè si accorse che quel
tenebrore pioveva in lui, non intorno. Allora, in un lampeggiamento di
strappi rossi, cominciò a distinguere. A distinguere la finestra che
inazzurrava, l’alta parete imbiancata, i mobili fermi, l’ombra...
quell’ombra inamovibile. E vide una cosa orrenda: la faccia del
cadavere, torta su la spalliera, convulsa in un sogghigno che pareva di
riso.

Allora, per la prima volta nella vita, il cuore accelerando e sostando,
gli fece conoscere cos’era veramente la paura. S’agghiadò e retrocesse,
brancolando con la mano che ricercava il lume.

«Tremi! tremi! tremi!...» — gli urlava dentro sarcasticamente la voce
nemica.

— «No!»

E si aderse in tutte le sue membra, di scatto, come davanti ad una
provocazione. Si sentiva nei polsi, contro le tempie, battere il sangue
a fiotti; gli pareva che la camera desse un continuo traballamento.

Poi si provò a guardare un’altra volta verso quel riso che l’atterriva:
e lo sostenne.

Non era più riso, ma uno spasimo che aveva in sè, nello stesso tempo
qualcosa di selvaggio e d’inerte. Provò a ragionare per darsi animo:

— «È un morto, — si disse, — come ne ho veduti centinaia; il principio
della polvere... insensibilità, silenzio, fine.»

Ma non gli pareva che fosse un morto come l’altre centinaia, che non
fosse materia senza uomo, che non tacesse, che non fosse finito.

Avendo l’uso di separare il proprio cervello dagli errori della
sensibilità, si mosse un’accusa ponderata, osservando: — «È l’anima tua
che gli presti e sono i tuoi sensi alterati che propagano su lui una
parvenza di vita. Ma questa è materia che solo pesa; è cosa morta, cioè
senza possibilità, e non la devi temere.»

Per analogia gli riapparve, come in una visione distante, il cavalluccio
sardegnolo morto nella sala operatoria fra i veterinari che ridevano.

— «Bada, — lo avvertì la voce — che il tempo corre.»

Infatti ebbe la sensazione immateriale di qualcosa che continuamente
correndo fosse continuamente più in là del pensiero; questa cosa era il
Tempo. E smarrendosi nella sua fuga immensa, piccola e vana cosa gli
parve il suo delitto, che non poteva nemmeno sospendere d’un attimo quel
perpetuo volare.

Gli avvenne di supporre che gli uomini, quasi per dare un senso al
Tempo, avessero immaginato Dio.

Questa osservazione, sorta in una specie di pausa interiore, gli sembrò
logica; ma in essa v’era quel nome di tre lettere, che lo accese di
ribellione, quantunque insieme s’accorgesse ch’era semplicemente una
parola.

— «Dio: la gran fiaba del mondo!... Ma tu che fai? sogni?»

Possessore di sè, cauto, vigile, s’appressò all’uscio in ascolto; girò
la chiave nella serratura, lentamente, perchè non stridessero gli
ingegni; aperse uno spiraglio, v’appressò l’orecchio. Il filo d’aria gli
produceva sul timpano una specie di ronzìo. Non altro romore si udiva
per la casa dormente: appena quel rombo imprecisabile che nasce dalla
presenza d’esseri vivi entro i muri d’un edificio.

Uscì nel corridoio, giunse fino al pianerottolo, ed un senso di libertà
quasi gioconda entrò nelle sue fredde vene, come quando si riacquista il
respiro dopo un principio di soffocazione.

— «Bada... — egli suggerì a sè medesimo — le tue scarpe...»

Scricchiolavano. Un rumore minimo, che gli parve grande. Strisciò a
passi lenti fino all’uscio della camera di Giorgio; l’aperse con
cautela, ma interamente, per aver libero il passaggio allorchè
tornerebbe con il cadavere su le braccia. S’avvicinò al letto per
studiare in qual modo ve lo avrebbe disteso. Vedendo l’incavatura nei
guanciali sovrapposti ed il solco profondo che la persona dell’infermo
aveva lasciato nel lenzuolo, già gli pareva di recarlo su le braccia e
di sentirne il rigido peso, che gli faceva scorrere dentro l’arterie
pulsanti una vena di freddo sottile.

Perchè la deposizione gli riuscisse più facile, rimboccò la coltre fino
a mezzo il letto, poi cautamente rifece il cammino, strisciando lungo il
muro, trattenendo il respiro, vigile e pauroso come un ladro.

— «Se alcuno scendesse quand’io passerò col mio carico?...»

— «Fa presto! — gli comandò la voce. — Fa presto!»

Rientrò nella camera dov’era il morto, e s’attendeva quasi a trovarvi
una trasformazione, o suppose, per mo’ d’assurdo, la cosa più
inverosimile: che il morto non ci fosse più. Era invece nella medesima
positura, di sbieco traverso la poltrona, con il capo torto su la
spalliera, le braccia pendenti, i pugni chiusi, le gambe unite per le
ginocchia, simili a gambe di sciancato. Che orrore!... Come già era
lontano entro la morte quel miserando corpo! Ed ora bisognava
sollevarlo, avere il coraggio supremo di reggerne il peso contro il suo
petto... Che orrore!

Provò ad avvicinarsi; ma gravitò indietro, quasi resistendo ad una mano
che gli avesse dato un urto per spingerlo su di lui.

Allora, in quel punto, si ricordò che le sue scarpe scricchiolavano; e
cavatele in fretta, cercò a tastoni presso il letto le pantofole di
feltro. Si vide pronto, e gli parve d’un tratto che mai non avrebbe
saputo varcare quella breve distanza. Sbarrò gli occhi e su le iridi
provò una sensazione di freddo; si mise a considerare l’ipotesi che il
coraggio gli venisse meno, che le sue braccia mancassero di forza per
sollevare quel peso; un gran terrore s’aperse in lui, vuoto e freddo
come un’enorme voragine.

— «C’è dunque una cosa che tu non sappia osare? — No, impossibile! — Tu,
che non credi alla divinità della morte, vacilleresti ora come una
femminuccia? Chi mai t’impedisce di sollevarlo? Il Soprannaturale forse?
— Non c’è Soprannaturale!... Avanti!»

Alle sue ginocchia disse: «Avanti!» — al suo piede feltrato, e lo disse
più fortemente al cuore che batteva.

— «Ti perdi e la perdi... Chi?... Lei!»

Allora la vide, che dormiva nel suo letto, immersa nelle sue trecce
allentate, o forse che vegliava, sollevata sui guanciali, con il viso
fra i palmi, a sua volta pensierosa di doversi uccidere.

— «Avanti! È necessario!»

Si ribatteva questa parola dentro il cervello, senza tuttavia riceverne
alcun senso di necessità. Gli pareva di camminare, ed era sempre fermo,
gli pareva d’esser giunto presso il cadavere, di sollevarlo, ed un senso
d’orrore lo faceva retrocedere, senza che si fosse mosso. Mentre così
perplesso vacillava cercando di riafferrare la sua volontà impossente,
parvegli udir rumore.

Si risovvenne di quegli usci aperti e l’istinto fisico della propria
salvezza fu quello che lo sospinse.

In un baleno, si curvò sul morto... ma gli stridevano i denti; le
braccia gli si erano indurite nelle giunture, pesavano come fosser
piombo, e gli doleva d’un dolore acuto, fra vertebra e vertebra, la
spina dorsale.

Però s’era detto e si diceva:

— «O ch’io lo porti, o ch’io muoia!»

S’inginocchiò: fece, nel sollevarlo, uno sforzo maggiore del necessario,
ed il corpo scosso gli traballò contro il petto, quasi cercasse
d’avvinghiarlo in un abbraccio macabro. Aveva contro la bocca una spalla
del morto, ed uno di quei gomiti acuti gli premeva su le costole come
per resistere alla sua stretta brutale. Sentiva su l’avambraccio il peso
del capo riverso, e su lo stinco e sul polpaccio, mentre s’alzava, i
colpi di quei calcagni penzolanti.

— «Lo porto! lo porto!»

Chiudeva gli occhi per terrore; li apriva per veder la strada.

— «Così lieve? No, così greve. — Perchè ragiono? — Avanti! Passeremo per
l’uscio? — Sì, di sghembo. — E se cade?...»

Allora serrava le braccia. Gli sembrò che il morto lasciasse nella
poltrona qualcosa di sè. Pur tenendolo forte, si volse a guardare.
Duplice lo rivide: com’era innanzi e com’era, supino, sul catafalco
delle sue braccia.

In quel momento s’accorse di non tremare più; fece un passo, poi un
altro, poi molti, e pose un’attenzione estrema nel non urtare contro
l’uscio. Diceva continuamente, a fior di labbro, quasi per aiutarsi
nell’opera:

— «Sì, sì, sì...»

Sporse prima il capo del cadavere, indi passò con tutto il corpo. Nel
corridoio bisognava camminar obliquamente, ma la strada era facile.

«Sì, sì...»

E nell’andare gli venne in mente che Marcuccio era innamorato della
Berta...

Ogni tanto i calcagni duri battevano contro la sua coscia; quel gomito
confitto nel suo petto gli dava estremamente noia. Non poteva ben
comprendere se andasse in fretta o piano, ma la strada gli parve lunga,
e non trovava l’uscio. Tuttavia, dalla soglia di quella camera una
velata chiarità filtrava nel corridoio notturno, ed egli finalmente la
vide.

— «Sì, sì...»

Gli sporse dentro i piedi, quindi passò con tutto il corpo; l’adagiò
malamente sul letto e si volse rapido a rinchiuder l’uscio. Una specie
d’ilarità silenziosa gli eruppe dall’anima; quasi ebbe voglia di
beffarsi del suo terrore vinto; si toccò, una dopo l’altra, le braccia,
poi la fronte, ch’era un po’ sudata.

— «Salvo!»

— «Non ancora, — gli suggerì la voce: — svéstilo.»

Già, bisognava svestirlo. Doveva essere morto nel suo letto, senza urlo,
solo.

— «Svèstilo»

— «Sì, lo faccio, guarda: ora è facile!»

Il morto era coricato in obliquo su la larghezza del letto; le gambe
sovrapposte gli pendevano in fuori. Egli s’inginocchiò su lo scendiletto
e gli tolse le scarpe, adagio, come se avesse tempo da perdere; gli
tolse anche le calze, e con ordine le ripose dov’erano di consueto.

Una bella striscia di luna rischiarava meglio di un candelabro; in quel
chiarore azzurro si vedeva ogni cosa distinta, ma quasi ravvolta in un
contorno d ’irrealità.

Gli sbottonò i calzoni, glieli tolse, dopo averlo sollevato con fatica;
li piegò, li mise a cavalcioni d’una seggiola, dov’egli era solito porli
quando si ricoricava. Non s’era messo mutande: le due gambe giallastre,
aride come due lunghi batacchi, percorse da un rilievo di tendini che
parevan funi tese, erano fredde di quel freddo particolare che si
distingue da ogni altro, ed al quale non v’è parola che somigli tranne
la parola: «morte».

Le due ginocchia parevano intorneate da una chiazza d’ombra; le cosce
ischeletrite, simili a quelle d’un paralitico, mostravan più dell’altre
membra i segni della consumazione.

Ed egli, che lo svestiva ormai senza paura, s’indugiò per un attimo a
considerare quella virilità estinta, rievocando nel bagliore d’un lampo
l’immagine sensuale della donna che il morto aveva posseduta. Gli sembrò
ch’ella stesse con loro, muta, in un angolo, e si svestisse ignuda,
sbarrando i suoi chiari occhi pieni di voluttà per assistere in tutta la
sua bellezza all’epilogo della lor tragedia umana.

Egli traeva da questo pensiero un tale senso di ribrezzo e d’ansietà,
che ne aveva l’anima oppressa; e tuttavia perdendo la nozione del tempo,
gli pareva di poter compiere quella sua lugubre faccenda con la maggiore
lentezza. Si preparava oculatamente un alibi morale, badando a non
scordare la più piccola cosa, a non lasciare in quella camera dove
Giorgio doveva esser morto alcunchè d’inspiegabile o d’inconsueto.

Allora, sbottonatagli la giubba, sollevò il cadavere, prima sovra una
spalla, poi su l’altra, poi su entrambe insieme, per fargli uscire dalle
maniche le braccia che incominciavano ad essere, non solo inerti, ma
rigide.

Questa operazione gli prese tempo; ed anzi egli rischiò di lacerare la
stoffa. Ma quando l’ebbe finalmente liberato da quella casacca di lana,
ed il morto fu rimasto in camicia, egli provò novamente un senso di
liberazione, poichè gli pareva d’esser vicino al termine del suo crudele
officio. Ormai non gli rimaneva che da stenderlo sotto la coltre e
comporre il letto come se naturalmente vi fosse morto.

Ma una voce interiore gli consigliava senza tregua: — «Osserva, osserva
bene...» — quasi per evitargli una distrazione possibile, una di quelle
minime dimenticanze che son talvolta la chiave de’ più oscuri delitti.
Egli faceva, nel riflettere, una certa fatica, uno sforzo quasi
muscolare nel convergere tutta la propria attenzione su questo solo
intento, mentre per istinto il suo pensiero cercava di sbandarsi
altrove.

Allora egli andò verso la finestra, per esaminare nella maggior luce
quella casacca di lana, quasi ch’ella potesse conservare un segno
qualsiasi, un’impronta, una macchia di bava, uno strappo, un odore
indefinibile, una piega. L’esaminò per tutti i versi, più volte,
l’odorò: sprigionava un sottile odor di canfora, e null’altro, si
ch’egli si mise a riflettere dove l’infermo la tenesse di consueto.

— «Nell’armadio, mi pare... Sì, nell’armadio, piegata... non ti ricordi?
— Infatti.»

Allora la piegò di rovescio, con le maniche in dentro, poi nel mezzo,
indi, appianatala come si conviene, andò all’armadio, e la ripose ove si
ricordava benissimo di averla tante volte veduta.

Nel frattempo s’accorse di ansar forte; allora cominciò a fischiettare,
piano piano, fra i denti, come per accompagnare la sua faccenda e far
qualcosa che gli paresse naturale.

Rinchiuso lo sportello, si guardò in giro. Non rimaneva più nulla da
fare, tranne che occuparsi del letto e del cadavere buttatovi sopra di
traverso. Con la fronte raccolta in una mano, cercò d’immaginare come lo
avrebbe ritrovato il mattino, entrando, se davvero durante la notte,
senz’alcun testimonio, si fosse spento. Non gli riusciva di vederlo
bene, anzi lo vedeva in mille guise. Allora cercò di raffigurarsi nella
sua memoria di medico altre morti che fossero avvenute in congiunture
simili. Certe fisionomie di cadaveri, dimenticate da tempo, gli si
affacciarono alla mente, quasi fossero sembianze note.

— «Si muore in tanti modi...» — pensò. Poi gli parve inutile riflettere
e non volle frapporre altro indugio.

S’avvicinò al letto. Siccome le coltri erano già rimboccate, non durò
fatica nel farle scorrere sotto il corpo giacente, per poterlo
distendere fra i due lenzuoli. Diede una spiumacciata sui due cuscini,
e, preso il cadavere per le caviglie, sollevò le gambe su la proda, indi
sospinse tutto il corpo nel mezzo del letto e ve lo distese. Il capo
s’era insaccato fra i guanciali, ond’egli risollevò di peso tutto il
busto, lasciandolo poi ricadere, affinchè la testa prendesse nel cuscino
la sua positura naturale. Poi raccolse le due braccia, e non sapeva dove
metterle. Provò in diversi modi, fece varie ipotesi, ma nessuna lo
soddisfaceva.

Da ultimo pensò che la sinistra dovesse far l’atto di respingere le
coltri e la destra portarsi alla gola come per vincere una soffocazione.

Quando volle ricoprirlo, vide ch’era nudo fino alla cintola, e dopo
averlo inguainato nella camicia fin sotto le ginocchia, raccolse le
coltri, gliele buttò addosso. Quella ventata scompose i capelli ad
entrambi. Si ravviò i suoi, lentamente. Le coltri si posarono sul morto
con un disordine uguale, ond’egli cercò il suo braccio per portarlo
verso la gola; insieme gli sbottonò il collo della camicia, per
secondare quell’atto. Poi si allontanò di qualche passo ad osservare
l’effetto che faceva.

Non c’era in verità nulla che potesse far nascere un sospetto.

— «D’altronde, — disse con lucidezza, — la commozione di quelli che lo
vedranno domattina non lascerà campo a troppe indagini. E súbito sarà
smosso: bisogna solamente rincalzare la coltre sotto il materasso.»

Lo fece, da un lato e dall’altro, cominciando ai piedi, per quel tratto
che non doveva mostrare alcun segno di disordine; anzi lo fece con tanta
cautela quanta se ne usa nel comporre sotto le coltri una persona cara,
prima che le si dica: — Dormi.

A piè del letto la seggiola s’era obliquata, lo scendiletto era
scomposto: raddrizzò la sedia, tese il tappeto, s’avvicinò al capo del
morto, quasi volesse dirgli:

— Ho finito.

Notò allora sul tavolino da notte l’orologio e la catena d’oro che
splendevano; avvertì l’assiduo celere battito del meccanismo, che dianzi
non udiva. Nella caraffa di cristallo brillava l’acqua lucida. Vedendo
l’acqua ebbe sete.

— «Addio.»

Formulò questa parola: «Addio», senza sapere come gli venisse alle
labbra, senza quasi comprendere perchè la diceva. Questa parola, queste
due sillabe, gli apersero nel cuore uno squarcio di dolore enorme, e gli
parve di non poterlo abbandonare, perchè ora, quel morto, non lo temeva
più: lo amava.

Lo amava, ed era il suo fratello antico, e si chiamava Giorgio; non era
stato ucciso dalla sua mano: era morto, era lì, nel suo letto di morte.

Senza credere, senza saperne il perchè, gli pose una mano su la fredda
fronte, e non con lo spirito, ma con le labbra disse:

— «Pace.»

La luna, salita al suo culmine, versava per tutta la camera un
incantesimo azzurro, fasciava la coltre del morto in un velo
d’irrealità.



XI


Nel breve tratto che percorse dalla camera di Giorgio a quella dove
l’aveva ucciso, il suo delitto gli parve già remoto nel tempo, già
retrocesso in una di quelle lontananze mentali che l’anima ismemorata
varca in un baleno. Sicchè, nell’aprir l’uscio, quella poltrona rimasta
nel mezzo della camera l’urtò quasi nel petto, come una realtà
impreveduta, e fu sì forte il suo stupore, che da prima non osò
inoltrarsi.

— «Io sono Andrea Ferento: un uomo che sa di avere ucciso, — raccontò a
sè stesso. — Un uomo che dovrà vivere congiunto con la memoria di questo
atto incancellabile.»

— «Ebbene? — si rispose; — la vita prosegue nella sua necessaria
vicenda: il cadere d’una piuma d’ala non turberebbe altrimenti
l’equilibrio immutevole delle cose. La terra non fa che ingoiare una
bara di più. Ora la tua strada è sgombra: cammina!»

Gli avveniva molto spesso di dialogare fra sè medesimo come fra due
personaggi discordi, quasi per appurare da qual parte di sè fosse la
ragione.

La strada è sgombra?... Sì, gli pareva; sgombra e facile, certa e
radiosa. Bastava ormai rimuovere da’ suoi passi l’ostacolo più
immediato: quella poltrona che propagava intorno a sè una così pesante
ombra, quel mobile di legno e di cuoio che pareva contenere nelle vuote
braccia l’estremo fantasma del suo delitto. Bisognava insomma, dopo
tanto coraggio, non vacillare nella propria incoerenza, non attribuire a
quella «cosa», nè alle altre che son prive d’anima, un significato
umano.

E fattosi animo, afferrò l’inerte mobile per le due braccia vuote, lo
sospinse con una specie d’iracondia nell’angolo dove abitualmente stava,
robusto e quasi benevolo, in attesa di reggere una stanchezza. Poi,
sentendo il bisogno d’un felice respiro, aperse intera la finestra e
s’affacciò verso la notte imbrillantata, che adagiava su la terra calma
i suoi fantastici padiglioni di stelle.

Tante ve n’erano e così folte, da parere uno sterminio di mondi
luminosi, una polvere cosmica in ardore, una fosforescenza d’atomi
dispersi dentro una sfera di cristallo. Le bianche vie planetarie, le
immense fiumane del cielo straripavan di luce in praterie stupendamente
azzurre, tendevan dall’uno all’altro emisfero un miracoloso arco
siderale, che pareva navigar nell’infinito come una vela gonfia
d’immensità.

Cos’era la fine d’un uomo in quella eterna bellezza? Cos’era più, in
quel silenzio parlante, il piccolo silenzio d’una bocca suggellata?
Cos’era il senso d’una parola umana dentro quella trasformazione
perpetua, che andava dall’inconoscibile verso l’ignoto, travolgendo seco
infinite agonìe, facendo scoccare innumerevoli vite nel fulgore d’un
istante?

Fibrule, atomi, pulviscoli, o uomini, perchè urlate? Cosa scaglierete di
voi contro questo immenso andare? O fuscelli nella bufera, o piume nel
vortice, cosa importa mai all’Assoluto, che voi diciate: — Vivere... —
che voi diciate: — Morire?...

Stelle, stelle... vertici di splendore accesi al sommo del nostro
pensiero, faville irradiate da noi, parole che brillano!... distanze
forse immaginarie chiuse nella nostra pupilla, ombre forse di una luce
invisibile, cancelli d’oro invarcabili della umana prigionìa!...

O piume nel vortice, o fuscelli nella bufera, cosa può essere il vostro
lieve schianto nella ecatombe universale che il Tempo divora camminando,
come un affamato mai sazio?

L’oblìo, l’oblìo, l’oblìo!... più dolce fra tutte le cose, poichè vuol
dire non conoscere, non affaticarsi a conoscere, ma passare...

Gli parve che tutto il mondo in quell’attimo avesse un colore di
miracolo, e solo percepiva, con una specie di attenta gioia, il fluire
del Tempo. Egli lo sentiva trascorrere in sè come l’acqua traverso un
filtro; aveva chiara la sensazione che una parte del proprio essere,
forse la più immonda, si sperdesse così nell’infinito, e gioiva di
questa purificazione con una lunga e lenta voluttà.

Il Tempo era un nettare che l’uomo beveva per dimenticarsi dell’attimo
anteriore, per allontanarsi dalla sua spoglia vicina.

Poi, quando si fu ristorato in quell’aria balsamica e si fu cullato
quasi per ozio in questi erranti pensieri, d’un tratto gridò a sè
medesimo:

— «Non sei che un istrione! Cerchi di recitare la vita perchè hai paura
di viverla! No, la tua parola è un’altra, più bella che «Dimenticare...»
La tua parola è: «Potere!»

Aspirò un largo sorso di quell’aria vivida, così gran sorso quanto
spazio era ne’ suoi polmoni capaci, e ripetè a sè stesso con la forza di
una intimazione:

— «Sì, potere! Potere con gioia!»

Allora la faccia di colei che amava gli risalì nell’anima come la
ghirlanda del suo peccato, e gli parve che affiorasse nel suo pensiero
da una profondità quasi remota, per essere la sfera, il cardine, intorno
a cui roteava tutto lo splendore dell’universo.

Ella era veramente, nel suo spirito, sovrana ed unica: più in là che il
senso delle cose, più in là che la negazione. Di lei sola, di questo
solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. S’era preso
d’amore e l’amava, senza mai tentare una ribellione qualsiasi contro
l’ebbrezza che questo perdimento gli dava. Se tutta la sua vita
d’imperio, d’indagine, di lotta, era contro una dedizione così assoluta,
se la sua fredda mente poteva sorridere di questo piccolo nome:
«l’amore» — un altro spirito nel suo spirito, un altro cuore nel suo
cuore, s’eran lasciati stravincere da lei, e non insidiosamente, ma d’un
tratto, e non con il terrore di perdersi, ma con un senso di barbara
felicità.

L’amava!... era pieno il mondo di questo amore esultante!... le cose
tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo
cuore! Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e
nello spazio, nell’attimo e nell’eterno, era l’arteria della sua vita
molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed
infinita che il credente riassume in Dio.

L’amava! era immischiata ne’ suoi sensi come il profumo nella musica
della primavera... l’amava come si ama un assurdo, come si professa una
follìa.

Allora subitamente si sovvenne de’ suoi dolci capelli, della sua tepida
bocca lasciva, degli occhi suoi, non timidi e non forti, che parevano
continuamente mutar colore, soffrendo quasi la gioia di una contenuta
voluttà; si risovvenne delle sue bianche spalle, che tramandavan l’odore
d’una soavissima cipria e parevan simili a grandi ventagli sparsi di
rugiada scintillante. Cominciò a seppellirsi piano piano sotto la
memoria delle sue carezze, con l’oblìo di chi s’addormenta sotto una
pioggia insensibile di fiori. Ogni ombra, nella notte infinita,
conteneva per i suoi occhi una lontana sembianza di lei.

D’un tratto, nel pensiero, lucida, gli emerse una certezza:

— «È mia!»

Comincerebbe da quell’ora tragica un patto indistruttibile fra loro.
Egli poteva dirle, doveva dirle senza indugio, che nulla più li separava
dalla troppo attesa felicità. E bisognava inoltre chiamarla, per
vegliare insieme quella lunga vigilia, soli, serrati, muti, nell’ambigua
vicinanza della morte, nel chiarore delle stelle.

Era stato verso di lei così nemico in quell’ultimo giorno, ch’ella certo
non avrebbe osato avventurarsi fino alla sua camera come faceva nelle
trascorse notti, quando l’infermo s’addormentava, o talvolta nelle ore
vicine all’alba.

— «La chiamerò.»

E si mosse.

Ma lo turbava il pensiero di trovarla nel suo letto, spogliata, e gli
parve a tutta prima inverosimile di potersi ancora una volta ritrovare
con lei, parlarle, dirle sopra tutto quella parola ch’era necessario
dire. Tuttavia giunse fino alla sua porta, l’aperse, intese il rumore
del suo corpo, che al lieve cigolìo dell’uscio si volgeva nelle coltri.

— Dormi?... — egli domandò soffocatamente.

— Sei tu, Andrea?... Dormivo appena.

— Lévati.

Ella riconobbe nella sua voce un non so che d’insolito.

— Che fai su l’uscio? Entra.

Egli ubbidì; ma rimase immobile, un passo oltre la soglia. Sollevata sui
cuscini, ella invece lo chiamava a sè allungando un braccio.

— Cos’è accaduto?

Andrea rispose:

— Nulla.

— Sta male?

— Chi?

— Ma... Giorgio...

Egli fece una lunga pausa prima di rispondere, poi disse ancora:

— Lévati.

Ella respinse le coltri, e scivolando giù dalla proda cercava coi piedi
bianchissimi le pianelle sul tappeto.

— La mia vestaglia... dammi la mia vestaglia, — lo pregò, per non
mostrarsi ritta in camicia. E soggiunse: — Là, sull’attaccapanni.

Allora egli la vide, la prese e gliela portò. Ma invece di vestirla,
ebbe voglia di avvolgerla, così com’era, in un bacio iroso. Non lo fece.
Ella si fasciò nella vestaglia, e guardandolo dubitosa, interrogava:

— Che hai? Che c’è?

— Vieni, — egli disse volgendosi; — vieni.

Lieve, movendo un fruscìo di seta che nel silenzio pareva sonoro, lo
seguì, scivolandogli appresso, finchè furon entrati nella sua camera,
ove si chiusero.

Là v’era più luce, ed ella così alterato lo vide, così livido, con gli
occhi tanto sbarrati, che non pareva più lo stesso uomo. L’afferrò per
le braccia, impaurita:

— Che hai? Che hai?

Egli volle sorridere, ma la sua bocca si contorse in una smorfia, e
tacque.

Fino allora egli non s’era trovato che solo. Ma ora, come gli pareva
strano aver dinanzi un testimone! Come diversamente suonava la parola
«morte», nel passare come un’eco dentro il proprio silenzio interiore, o
nel doverla comunicare con la bocca, in forma d’annunzio irreparabile,
ad un orecchio che l’ascolti!

«Morte...» due veloci sillabe, cinque segni dell’alfabeto, che hanno il
più vasto senso di tutta la comprensione umana. Parola che nulla
distingue dalle altre quando la si pronunzia come un’immagine, ma che
diviene fredda, greve, assoluta, quando è detta in testimonianza del
cadavere, quando si abbatte come un’ala senza volo su la materia che
giace...

Allora ne misurò in sè stesso tutto lo spavento, e gli parve che, più
del fatto, fosse impossibile a dirsi la parola. Ma questa risonava
dentro il suo cervello, immensa e micidiale, come il rumore d’un grande
stormo di corvi che invadessero l’aria buia.

Sentiva nel medesimo tempo l’orrore della tragedia e il turbamento della
sua presenza feminea, della sua bellezza così poco nascosta, che gli
pareva oltremodo impudica, in quella camera, in quella cornice di morte.

Ancor prima di parlarle, capì che da quell’annunzio ella si sentirebbe
scaturire nell’anima involontariamente una paurosa gioia... Ma egli qual
gioia ne avrebbe, ora e mai più, egli che doveva da solo portare il peso
dell’orrendo segreto?

Le lunghe maniche della camicia da notte, apparendo fra quelle più ampie
della vestaglia, le scendevan sino ai polsi, li serravan in una frangia
di pizzi; anche sul petto, lungo la scollatura, una trina frivola
biancheggiava intorno alla seta; quell’odore del lino tenuissimo ed il
vestigio di non so qual profumo impregnatosi nella stoffa parevano
stringere la bella creatura in un cerchio d’impurità. Era troppo soave,
troppo feminea, per ascoltare la morte.

Chiuse gli occhi e la dimenticò. Ma insieme i lievi pizzi della sua
manica gli toccarono la fronte.

— Che hai? — gli domandava l’amante, carezzandolo. — Parla; mi fai
paura.

Ed anche nella sua voce continuava quel profumo, quel respiro
d’impurità. Egli ebbe un momento la tentazione di farla patire,
d’infliggerle un tormento che fosse uguale al suo; ma l’amava, l’amava,
era tutto il suo mondo, la vita era piena di lei... Che bel colore
avevano le sue guance, come d’un rosato avorio, d’una madreperla
venata!... Che dolce disegno, che rossa umidità per le sue labbra! E ne’
suoi capelli ed in tutta la persona, dalla fronte al piede, che
terribile fascino sensuale, che infinita voluttà!...

— «Ora, — egli pensava, — è mia.»

L’uomo brutale, che non conosce argini al suo desiderio di possesso, in
questo pensiero s’innebriò. Gli corse per le vene, quasi facendo rumore,
una potenza nuova, gli battè contro i timpani una musica violenta, piena
di vittoria; nelle sue pupille fulse un raggio di luce. Con forza, quasi
la ghermisse ad alcuno che fino allora gliel’avesse contesa, la strinse
nelle sue braccia e la serrò contro il suo petto virile, fortemente,
lungamente, senza dirle nulla, in una specie di convulsione, per
appalesare su lei questo pensiero: «È mia!»

Ell’amava la sua forza, e si rendeva piccola, si lasciava tutta
ravvolgere dalle sue braccia, sopraffare dalla sua violenza,
carezzandolo senza far mossa con il suo corpo di velluto. E sentiva con
gioia le mani dell’amante farle un nodo quasi doloroso fra le cedevoli
spalle, mentre, con la faccia rovesciata sotto il calore della sua
bocca, si sentiva percorrere dal suo respiro come da un maraviglioso
bacio.

Che piccola cosa era per lei, in quell’attimo, tutto il resto del mondo!
Com’era sua fino all’ultima vena, senza pensiero, senza lotta, senza
dubbio, sua con felicità!

— Mi ami?... — bisbigliò. Ella non poteva sospettare altra cosa che
l’amore, non cercava che di accrescere la sua gioia, parlandone,
costringendolo a parlarne. Ma egli stava muto; aveva un non so che di
crudele su gli orli della bocca, nel riso che gli scopriva i denti
lucentissimi.

L’attrasse, la portò con sè vicino alla finestra, perchè gli pareva di
allontanarla dalle cose circostanti affacciandola verso la notte libera.

— «Griderà, — pensava — se io le dico...»

E preparò la mano per soffocare quel suo grido. Voleva dirlo súbito, e
gli pareva tuttavia non possibile a dirsi.

Ma il suo viso parlò prima della bocca, le sue pupille arsero d’una luce
quasi nefasta.

— Odimi... e non gridare! Odimi!...

Le teneva ora le tempie, il viso, fra i due palmi, serrato; era curvo su
lei per afferrarla nella sua tragica volontà.

— Non gridare... bada! Una cosa terribile... bada!

E scandì queste parole inesorabili: — «Tuo marito è morto.»

Più veloce che nel dirlo, e prima di compiere l’intera frase, le attirò
la faccia contro il cavo della propria spalla e col braccio le avvolse
il capo come d’un manto, per soffocare il suo grido.

Non intese che una specie di rantolo nella sospensione totale del
respiro. Allora, sciogliendola da quella stretta, le si curvò presso
l’orecchio, e lentamente, con una specie di misura, disse un’altra
volta:

— È morto: l’ho trovato nel suo letto... morto.

Ella barcollò, sopraffatta. Un enorme stupore tenne per un istante
immobili tutte le linee del suo viso. Poi si sciolse da lui quasi per
istinto e retrocesse nel vano della finestra, urtando contro
l’invetriata aperta, senza dare il grido che si mozzò nella sospesa
vita.

Dietro lei, come un placido specchio, il vetro acceso dalle stelle
raccoglieva lo splendore della sua nuca, l’ombra confusa de’ suoi
capelli, che immersi nel pieno raggio divennero scintillanti. Fra loro,
in quella pausa, restò uno spazio vuoto, che parve il limite necessario
fra le lor anime distanti.

Poi ella fu presa da un tremito, e balbettava come nella febbre parole
incoerenti; cercava di ripetere a sè stessa quella frase indicibile,
quasi per esaminarne il senso, per radunare davanti all’anima spaventata
l’inafferrabile verità.

— Morto?... è morto?!...

Ed ancor prima che il dolore potesse scenderle fino al cuore, un velo di
lacrime le bagnò copiosamente la faccia. Lacrime che si staccavano dagli
occhi fermi, cadevan come grosse gocciole senza lasciare un solco; poi,
di súbito, cessarono. Allora si mise a ridere d’un riso convulso, e
torceva le braccia verso di lui, forse per afferrarlo, forse per
allontanarlo da sè, mentre la sua bocca ridente balbettava:

— No!... non è vero... no! Dimmi che non è vero!

Egli le prese i due polsi, forte, quasichè avesse una irosa gelosia del
dolore che vedeva in lei, e disse un’altra volta, scuotendola:

— Sì, sì, è morto.

In quella scossa, in quel disordine subitaneo, la vestaglia s’era
slacciata; si vedeva la camicia lieve scenderle fin su gli stinchi
politi; l’ombra del suo corpo ne traspariva, come da un velo tenue che
tradisse l’intera nudità; i seni spaziosi, contenenti nella lor distanza
la doppia increspatura delle trine, calmi e pur quasi violenti nella
loro ertezza, di qua, di là pungevano con l’oscuro vértice il finissimo
lino.

Egli n’ebbe, anzichè turbamento, una specie di dolore fisico al sommo
della fronte, alle radici dei capelli, e nei polsi, e nell’arterie del
collo, dove batteva più celere l’impetuosa vita. Gli pareva che sopra le
corde vigili de’ suoi nervi corressero due sensazioni diverse, che si
mescevano e s’uccidevano insieme: una era un brivido, ma di terrore, per
quel fantasma del morto; l’altra era un brivido, ma di gioia, che gli
veniva dalla bellezza di lei, dall’immagine del suo corpo seminudo — e
questa era senza dubbio la paura più forte.

Tutto aveva saputo vincere nella vita, e, fin dove può la comprensione
dell’uomo, tutto ridurre al piccolo senso effimero, al piccolo valore
transitorio d’un fenomeno umano; tutto, ma non la forma di quelle sue
membra femminili, ch’erano per lui quasi una tentazione soverchiante,
quasi un bene che andasse oltre la possibilità del suo medesimo
desiderio, e fosse una specie di potenza maravigliosa, calamitosa, alla
quale avrebbe tentato invano di sottrarre il suo spirito e la sua carne.

Quand’ella passava, o s’appressava, od un’eco portava la sua voce, o per
un filo d’aria si diffondeva il suo profumo, od il suo nome fosse detto
da alcuno, o per avventura gli accadesse di vedere inattesamente un
oggetto suo, ne riceveva nell’anima e per le vene un tremito che gli
faceva male, che gli dava una specie d’inquietudine oscura, di desiderio
affaticante; quand’eran soli, quando la baciava, e pur quando nella
brevità delle furtive notti ella era nelle sue braccia perduta d’amore,
invano cercava di bere dentro quel cálice un sorso che fosse pari alla
sua sete, o che potesse, per un poco almeno, placare l’ansia che lo
struggeva di lei, spegnere la febbre incontentabile che gli faceva dallo
stremo nascere un desiderio più forte.

L’amava, sì, ma più grande forse di questo sentimento era il terrore di
non poterla amare abbastanza, la paura ch’ella valesse più di quanto
poteva il suo desiderio da lei attingere. Breve gli pareva il tempo, la
gioia dell’uomo fugace, inane la forza dell’uomo, — e la sua bellezza
infinita. Onde l’amava con dolore, con disperazione, come un uomo che si
accorga del tempo veloce, e tema, in ogni attimo trascorso, di avere
dimenticata una felicità.

Ecco, ed egli s’accorse che davanti all’annunzio di quella morte il suo
primo impulso era stato un rifiuto, era stato — o gli pareva — un
immenso dolore. Ella dunque non voleva che fosse morto. Il suo cuore
d’amante non le aveva per prima cosa fatto splendere negli occhi un
lampo sinistro di gioia. No; ell’aveva detto per prima cosa: — «Non è
vero! Non è vero!...» Per prima cosa ell’aveva tentato quasi di farlo
rivivere, anzi aveva retrocesso da lui, da lui s’era sciolta, quasichè
sentisse per istinto l’orrore della sua mano micidiale.

Egli misurò velocemente le conseguenze più lontane di quello che
immaginava, e giunse a non avvedersi del cammino che quella rivelazione
faceva nella mente oppressa dell’amante, precisandosi a poco a poco,
divenendo per gradi una verità immediata e dandole agio di misurare a
sua volta il senso reale di quelle due parole così repentine: — «È
morto.»

Súbito ella non aveva compreso, od almeno era stata una sensazione così
forte, che l’aveva solo accerchiata senza trovar ádito in lei. Ma ora lo
vedeva: per comprendere, lo vedeva. Era fermo, steso, freddo, non
moverebbe mai più la mano per chiamarla, non direbbe mai più: —
Novella...

E guardando queste immagini, s’avvicinò di nuovo all’amante. Gli
afferrava ora un braccio, si premeva contro di lui, rifugiandosi nella
sua forza, nascondendo presso quel ruvido cuore di maschio la sua
tremante anima.

Poi cominciò a mormorare:

— Perchè è morto? Perchè?

Ella esprimeva male il suo pensiero; voleva domandargli: — Come? dove?
quando? in qual maniera, per qual ragione è morto? E dov’è? — Anzi lo
disse:

— Dov’è? Ma súbito si ristrinse a lui con più tremito, quasi temendo che
fosse lì vicino, lì per intorno, e che nel volgere gli occhi dovesse
vederlo d’improvviso.

Egli spiegò, senza batter ciglio:

— L’ho trovato immobile nel suo letto; l’ho chiamato: non s’è mosso:
l’ho toccato: era freddo.

Ella disse ancora, ma lo disse altrimenti:

— No...

Il buon odore del suo petto empiva di fragranza il respiro dell’amante.

Senza saperne il perchè, ella ebbe la sensazione che bisognasse non dir
nulla ad alcuno, tacere, non svegliare la casa e mantenere nascosto fra
loro, come una involontaria colpa, quell’orrendo secreto. Ma appunto
perchè aveva questa sensazione, fu tratta a pensare il contrario, a
credere che si dovesse gridare, far rumore, chiamarli tutti; balbettò:

— Il babbo...

Egli le prese forte una spalla:

— No, taci.

— Perchè?

Non sapeva rispondere; disse:

— Aspettiamo.

Ora ella non piangeva più; aveva solo un tremito nervoso dai calcagni
alla nuca, e nella gola gonfia un nodo che ogni tanto si scioglieva per
rinserrarsi più forte. Andrea s’accorse ch’ella potrebbe avere un
qualsiasi dubbio intorno a quel divieto, e cercò di spiegarle perchè
fosse conveniente aspettare.

— Più tardi li chiameremo, — disse. — Ma ora sono così stordito, che non
potrei parlare con altri se non con te. Anzi tu pure...

— Sì, sì, io pure... — ella si affrettò a dire, quasi contenta di
esaudirlo e di sentire infatti come lui.

Ma egli non trovò la spiegazione sufficiente e soggiunse:

— Ho voluto prima dirlo a te, perchè stamane, quando lo vedranno,
bisogna che noi siamo preparati; noi due che...

— Sì, sì, hai ragione.

Allora quel lampo ch’egli voleva subito vedere negli occhi dell’amante,
le traversò le pupille, facendole stringere più forte il braccio che gli
teneva e soffermando il suo tremito in un’altra sospensione, ma
vertiginosa, della vita. Ora soltanto aveva guardato, aveva potuto
guardare al di là da quella morte.

Si nascose ancor più contro la sua persona e disse all’amante, con una
specie d’insidia: — Ho paura...

Egli ebbe un atto d’amore, d’amore casto, e le posò su la fronte le
labbra che l’amavano. Ma quel bacio era per rassicurarla, per
proteggerla, ed egli cercava d’essere immemore, onde il suo bacio non
rasentasse la colpa.

Alte, nel miracolo della notte, le stelle, così numerose che parevan nel
deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di
splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo
frantumatosi nella sabbia, quando vi sfólgora il sole. Ciascuna era un
lampo ed era un mondo, ciascuna mesceva la sua fiamma, propagava il suo
rogo nella raggiera dei mondi vicini.

La notte bruciava ne’ suoi vertici, aveva, sopra il suo fosco edificio
invaso d’ombre una cupola incendiata; l’eternità era espressa in luce,
l’infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco.

Avvinti, si affacciarono verso la notte che roteava; e come se il moto
dei mondi li afferrasse in un fantastico volo, tutto quanto avevano in
sè di greve, d’umano, di turpe, si sciolse in una specie
d’annientamento. Entrambi si sentiron così lievi, da credere che la lor
materia purificata salisse come fumo, così lievi, da perdere fin la
memoria di sè, ma non la memoria d’essere in quel volo congiunti e non
la certezza dell’amore che li portava, come liberi spiriti,
nell’apoteosi del cielo roteante.

La capacità buia delle lor anime diveniva un cerchio di stelle: nei lor
sensi ricolmi d’oblìo una sorda felicità sgorgava come un canto...

Allora ella chiuse gli occhi ed incominciò a sognare. Un sogno era il
suo, dove la morte già era passata oltre; la morte non era più che una
parola remota, un volo d’ali nere lontananti senza rombo, nell’oblìo.
Qualcosa d’indefinito, e pur di grande, le fluiva nell’anima, già troppo
simile ad una paurosa felicità. Non sapeva d’essere precisamente una
donna liberata, padrona di offrirsi con pienezza, con veemenza
all’amore, ma le pareva che un’altra sua simile, una sua sorella
interiore, avesse già cominciato a vivere in un’atmosfera inebbriante, a
spaziare in una libertà senza confini, e di lei sentiva battere il cuore
gaudioso nel viluppo del suo cuore atterrito. Una bocca, non la sua
propria bocca, nascostamente in lei rideva, ma d’un riso involontario;
questa esultanza temuta invadeva l’emisfero notturno, percorreva la
materia come un’oscillazione lucida, fiammeggiava nell’ombra, cantava
nel silenzio, volava nell’infinito, fra le stelle, come un turbinìo di
polvere d’oro...

Ella era piena fino alla gola di felicità e di spavento: non sapeva
quale fosse più forte, non sapeva in cosa la gioia fosse dissimile dal
terrore.

E poichè nessuna commozione dello spirito può non avere le sue latenti
radici nella carne che portiamo, ella si sentì colmata in ogni vena
d’una felicità sensuale che l’affaticava come un godimento soverchio e
le stordiva il cervello, quasi avesse da poco soggiaciuto ai più
violenti baci. La stessa catena li stringeva; questa catena era fatta
dal lor medesimo silenzio, era tanto più serrata quanto più
s’impaurivano di doverla subire. Creature ultrasensibili, affratellate
dalla diuturna colpa, egli avvertiva ogni tremito nella sua compagna,
ella ogni tremito in lui.

Sapeva di far male stando così aggrappata contro la sua spalla, sentendo
l’aspra muscolatura dell’òmero e del fianco virile premere contro la sua
persona, entrarle quasi nella carne discinta: però da lui non si poteva
staccare, quasichè il contatto le fosse indispensabile per proteggersi
dalla paura. Egli a sua volta, pervaso da quella tepida morbidezza, non
sapeva respingerla nè interrompere con un moto qualsiasi quella troppo
soave corrispondenza, ed anzi gli pareva necessario di avvincersi a lei,
di mescersi con lei totalmente, per investirla del suo delitto,
imbeverla della sua colpa ed avvogerla quasi d’una inconsapevole
complicità, poichè sentiva che mai, mai più potrebbe farlo, se non
tosto, se non nell’ambiguo silenzio di quell’ora notturna, lì, nella
camera dov’egli aveva ucciso, a pochi passi dal morto.

Questa coscienza divenne così forte in lui, che ad un certo momento
premeditò d’assoggettarla ad un amplesso, perchè una comunione anche
fisica fosse tra loro in quell’attimo di spasimo e di terrore,
quand’egli, tenendola fra le braccia, palpitante, come nella stessa
prigione del suo delitto, le direbbe su l’orlo della bocca, nell’umido
bacio più ansante, le direbbe nel fuoco del piacere, così da insozzarla
per sempre, le direbbe in guisa ch’ella dovesse o morirne o riderne,
«ch’egli stesso, proprio da sè, con la sua mano, volontariamente, lo
aveva ucciso...»

Non era questo un legame di complicità che l’avrebbe con lui serrata,
per sempre, nel nodo micidiale? Non era questa una profanazione
ch’equivaleva all’aver veduta con i suoi propri occhi l’opera criminosa,
ed esservi stata consenziente, anzi all’aver data la morte con una più
sottile crudeltà? Non avrebbe in tal modo portato anch’ella il cadavere
su le braccia? ora e per sempre, il cadavere su le braccia?...

Gli pareva che fosse tra loro una disparità incolmabile: quel morto
appunto, che a lui solo doveva la morte, che per sempre giacerebbe nel
suo solo cuore. Insieme la incolpava d’essere così bella, per lui così
bella, da rimaner femmina ed amante anche in quell’ora nefanda, così
bella da far sì che il profumo della sua carne viva soverchiasse l’odore
nauseabondo del cadavere, l’odore immaginario, che ad intervalli credeva
di sentir effondersi nell’aria contaminata. Anzi egli non sapeva
scindere una cosa dall’altra: il nudo corpo di lei si vestiva d’un
lenzuolo funebre, come, ne’ suoi occhi allucinati, la visione macabra
del morto non poteva in alcun modo separarsi dalla profana immagine
della sua nudità.

— «Se tu mi ami, — le diceva senza dirlo, — e se vuoi che t’ami, devi
entrare nel mio delitto, farti orrida come io sono, mescolarti con me
nel suo feretro, sapere quel che so. Bisogna che tu veda presenti,
com’io li vidi, i suoi occhi quando si spensero, e che tu senta nei
timpani, inscindibile fra tutti i rumori delle cose, quel rantolo che
gli strozzò la gola quando il veleno gli giunse al cuore. Perchè, se io
non t’avvinco al mio delitto, forse tu mi odierai...»

E la notte passava immemore, nell’alto cielo, con fulgori che parevano
tralucere da un continuo dissolvimento. Era quasi una canicola notturna;
l’oceano mondiale pareva una sola onda frantumata in milioni di
brillanti. Ma ella era per lui più vasta che l’immenso infinito, e gli
affluiva per ogni senso nello spirito, colmandolo di un totale oblìo.
Per poter ragionare, chiudeva gli occhi davanti al pericolo della sua
bellezza, tentava di sottrarsi a lei, come al potere d’una droga
meravigliosa, che lentamente l’ubbriacasse. Non vederla, non udirla,
recidere i sensi bisognava, per non cadere in lei come in un vortice
senza fondo, per non amare al di là d’ogni cosa la sua dolce bocca
umida, i suoi labbri cosparsi di peccato.

Allora, per quella particolare incoerenza la quale talvolta ci sospinge
a fare il contrario di ciò che pensiamo, si volse e la guardò. La guardò
con sospetto, come s’ell’avesse potuto sorprendere i suoi pensieri,
tanta era l’affinità che li stringeva. Ne’ suoi limpidi occhi non vide
alcuna lacrima, e solo vide il riflesso della notte stellata che dentro
vi splendeva come in un puro cristallo. Ella guardò lui medesimamente,
con quel sospetto femminile che traluce dagli occhi della donna turbata;
e rattennero entrambi il respiro, quasi temessero che la sensazione del
loro fiato li spingesse ad un bacio. Ella fece un atto, come se avesse
freddo, e si fasciò la vestaglia intorno alla gola, dove il disegno
delle vene, tra la pelle bianchissima, tesseva una illuminata ombra. In
quella luce obliqua egli vide brillare come fosse d’oro la vellutatura
bionda che le nasceva sul principio del collo, intorno alle radici dei
capelli. Il suo profilo si disegnava nella vetrata in una macchia di
fulgore.

Non mai, non mai come allora comprese la sua bellezza, comprese che la
sua bellezza era una cosa malata e lasciva, tutta commisturata di vizio,
d’odore, di tepore, e, mentre la guardava, immaginò il pericolo che un
altr’uomo la possedesse.

Da che l’amava non aveva mai conosciuta gelosia nè creduto ch’ella
potesse da lui dividersi; — ma ora che aveva ucciso, per una strana
successione d’idee comprendeva che questo fatto poteva strapparla dal
suo possesso, far sorgere un’avversità imprevedibile, anche s’ella
dovesse non conoscere mai la sua colpa, ma per il solo fatto che ciò
era; — e vedendo l’uomo che la toccherebbe, di furore, di spavento
rabbrividì.

Nell’assedio d’un tal pensiero, subitamente l’attrasse, quasi per
custodirla; e furon così vicini ad un bacio ch’egli sentì su le labbra
il calore della sua bocca. Il suo dolce seno gli tormentava il petto con
insidia; l’ampiezza del suo bacino l’accoglieva in sè, quasi che ritta
non fosse, ma supina, e le braccia, le sue lente braccia, facevano quel
nodo stanco e forte che contiene l’amore.

— Tu... — egli disse, quasi cercando fra le parole una via di
salvamento, — hai compreso tu quello ch’è accaduto?

Ella solamente rispose: — Taci... — abbassando le palpebre, come quando
non si osa, per una specie di superstizione, dare un nome preciso ad una
troppo grande felicità. Ma insieme si pentì del suo silenzio.

— Ora l’ho compreso, non prima: ora che tu mi baci.

— Lo amavi? — egli chiese repentinamente, quasi godesse della propria
crudeltà.

— Sì, come un povero amico, ed anzi come una schiava rassegnata... — Poi
riflettè e soggiunse: — Forse non lo sai?

Egli tacque; la sua fronte s’incise di una ruga profonda.

— E tu? — ella fece dopo una pausa.

— Io? che?

— Lo amavi?

Egli si raddrizzò, come faceva quando gli era necessario chiudere la sua
volontà riottosa in un’armatura di metallo, e disse recisamente, con
impeto:

— No! l’odiavo!

Ella n’ebbe un brivido, un brivido che la curvò, come per un bacio
datole su la nuca.

— Avrà sofferto, credi?

— Nulla o poco; era composto.

Allora l’immagine del morto le assediò il pensiero, e lo vide, steso ma
calmo: appena appena un po’ di saliva agli angoli della bocca, un po’ di
gonfiore nelle palpebre chiuse... La morte non le parve che una totale
stanchezza, e, per la prima volta dopo quell’annunzio, vide nei propri
occhi la spenta fisionomia di lui.

Questa visione le fece comprendere ch’ella pure non lo amava, poichè,
nel guardarlo, più che il dolore poteva in lei un senso di raccapriccio
fisico, nel quale involontariamente si rammentava d’essere stata baciata
da quella bocca. Onde fece un movimento, uno sforzo, per respingere da
sè tutto questo; — ma la visione tornava.

Improvvisamente, un’altra volontà che la sua le fece dire: — Andiamo a
vederlo...

— Sì?... vuoi?... — mormorò egli, come côlto in fallo.

Ma intanto pensò ch’era opportuno accertarsi un’ultima volta di quanto
aveva compiuto e giudicare da lei, da lei ch’era la più fidata,
l’impressione che gli altri ne avrebbero.

— Andiamo, — fece risolutamente. E non si mosse,

— Sì... — ella rispose, restando immobile a guardarlo con gli occhi
sbarrati.

Egli si fece violenza, la prese per mano, e mutamente si avviarono.

— Fa piano, — egli diceva, — che nessuno si desti...

Non certo ella faceva rumore; ma scivolandogli appresso, nell’ombra,
quasi nascosta dietro la sua persona, compiva uno sforzo muscolare per
vincere la volontà restìa.

In lei rombava un grande frastuono; la notte parevale sonora. Curvi
entrambi, addossati l’uno all’altra, comunicandosi per la mano serrata
la paura ed i sussulti, scivolavan come ladri lungo la parete, sostando,
ascoltando, raggruppati in sè stessi, pavidi, con le ginocchia tremanti.

Il breve tratto parve loro una lunga distanza, e man mano che andavano,
avrebbero voluto ritornare. Vicino a lei, anch’egli si sentiva meno
forte che solo. Pure la trascinava, o gli sembrava di trascinarla,
sentendo il suo peso riluttante.

— Andrea...

— Che hai?

— Non andiamo...

Eran presso l’uscio e sostarono.

— Perchè?

Ella non rispose; in quel buio non osava stargli presso nè lontana.

— Tremi anche tu... — ella disse.

— Io?... No! — egli rispose, irrigidendosi, contraendo i muscoli, per
non tremare.

La luna mandava ora fin lì un albore tenuissimo, che prima era parso
tenebra.

— Non aprire...

— Sì, apro...

Girò la maniglia e sospinse l’uscio.

Non súbito videro il letto, ma il chiarore azzurro del fascio di luna
che imbiancava la camera funeraria d’una chiarezza livida, piena
d’irrealità.

Poi d’improvviso videro il letto, videro la faccia supina, che a loro
sembrò — tanto la temevano — si fosse mossa e li avesse guardati.

— Non andargli vicino... — ella balbettava, — non posso...

Ma egli, lì, di fronte all’opera che aveva compiuta, riacquistava il suo
coraggio; e s’avvicinò al letto trascinandola.

Il raggio di luna vestiva il cadavere dal piede alla fronte, poltrendo
su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca elettricità. Non solo
morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e freddo pareva di
quell’algida luce che somigliava stranamente al colore della sua carne,
al gelo della sua materia spenta.

— Vedi, — egli disse, — com’è tranquillo?

Ma ella non rispose, forse non l’udì, assorta com’era nel guardarlo, con
gli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso.

Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come
fosse piombo.

La luce azzurra gli metteva intorno alla fronte, lungo le radici dei
capelli, una specie di scintillamento; dal suo viso pareva trasudasse un
umor luccicante; un fiotto di saliva faceva due piccoli grumi agli
angoli della bocca; il labbro superiore avanzava su l’altro, dando alla
fisionomia del morto un non so che di camuso. Qualche macchia d’un tetro
color giallastro invadeva la scarnezza delle guance; gli occhi non
facevan ombra; le ciglia parevano ingrommarsi. Ogni tanto avevano
entrambi la sensazione ch’egli respirasse, poichè la morte non pare
immobile, finchè si muove negli occhi nostri l’incredula paura con la
quale noi la guardiamo.

Egli voleva parlarle, ma indarno cercava nella mente un pensiero da
comunicarle; si sentiva sperduto in una specie d’annientamento
cerebrale. Ebbe voglia di sedersi a piè del letto e di vegliarlo, in
attesa d’un fatto imprevedibile, o forse d’un suggerimento che salirebbe
a lui, nello spirito, stando presso quel morto. Allora si accorse
dell’estrema fatica fisica ond’era oppresso; gli parve d’aver sonno, ma
un infinito sonno ed oblioso, in quella notte così limpida.

Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto; si
stringeva le braccia contro il petto, incrociate per i polsi, con le
mani sotto la gola, il capo sovr’esse piegato, gli occhi attentissimi.
Poi allungò la mano, quasi volesse toccarlo; invece lambì la coltre,
lievemente, ritraendola con velocità.

— Giorgio... — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per riconoscere se
veramente fosse lui.

Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza
dell’altro, mandargli un ultimo saluto, comunicargli una dolce parola,
toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non
ricordava più... Adesso aveva rimorso, un orrendo rimorso ed una
infinita voglia di piangere per lui; adesso le pareva necessario di
fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pur non udisse: — «Povero,
povero amico mio, forse non mi perdonerai... no, certo non mi
perdonerai!...»

E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un
bacio, nè una confidenza, nè un secreto, senza una di quelle parole
conclusive che fanno meno buia la morte a chi vi sprofonda ed a chi
guarda morire. Si ricordava di lui, ch’era buono, ch’era malato, ch’era
un povero essere debole, triste, soave, che a lei voleva bene come forse
nessuno al mondo, e come forse nessuno al mondo per lei, per lei sola,
soffriva... Si ricordò la pazienza disperata, il disperato amore che
appariva nelle sue chiare pupille quando la guardavano, e la dolcezza
paurosa della sua voce quando parlava con lei, l’amore di cui l’aveva
circondata quell’essere morente, la beatitudine grande che lo
trasfigurava se appena, quand’eran soli, ella gli avesse detto una
parola buona...

In quel momento il suo proprio amore non esisteva più; non si
considerava più come la schiava di quell’infermo inguaribile; provava
solo un rimorso angoscioso di non essere stata con lui nell’ultima ora,
quando il suo pensiero fuggente l’aveva cercata ed il suo cuore cessante
l’aveva con sè trascinata nel silenzio della morte...

«Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi, e non c’ero! hai
voluto forse confidare, a me sola, un ultimo desiderio, e non t’ho
potuto ascoltare... Anzi tu sei morto «sapendo!» Oh, come devi aver
sofferto, povero cuore! Sì, eri buono, mi tutelavi, mi carezzavi con la
tua anima dolce; da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore... Ed
io non t’ho fatto che male! io non ho fatto che ucciderti giorno per
giorno, senza volerlo... Sì, sono stata infame, povero amore, e non mi
perdonerai!...»

Si curvò, protese di nuovo la mano per accarezzarlo, e tuttavia non
osando, gli passò con la mano sopra il volto in un rapido gesto, che
pauroso era solenne.

Poi, di schianto, cadde presso il letto, a ginocchi, e pianse.

Quand’egli vide la donna genuflessa ed il cadavere supino, gli parve che
un legame li unisse, che una simiglianza fosse tuttavia tra le lor
dissimili positure, ed offeso da quella concordia che gli era nemica si
aderse contro di loro con una ferma violenza, levando tanto più la
fronte, quanto più l’amante sua la curvava nella vergogna nel rimorso e
nelle lacrime per il morto.

Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo; su l’altro teneva un
gomito e nei palmi la fronte.

Ora, dal lenzuolo inazzurrato, il manto lunare cadeva su lei
stupendamente; la bellissima sua nuca scoperta era densa di capelli
quasi fulvi, che brillando si arruffavano. Pur così accasciata, il suo
dorso conservava una mirabile elasticità; la gamba su cui stava
inginocchiata, uscendo fuor dalla balza della vestaglia scopriva il
bianco malleolo ed il tendine teso, che s’allentava nella rotondità del
polpaccio.

Quasi tutto il piede era fuori della pianella, e si vedeva il tallone
roseo svanire in un incavo profondo verso le dita flesse, che tenevan
ritta la calzatura piegandosi contro l’orlo d’ermellino.

Nel medesimo tempo egli guardò il morto e gli parve straordinario che
vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana ed avesse,
nell’atto che compiva, una qualsiasi comunanza con lui.

Voleva parlarle, chiamarla; ma un senso di rispetto più forte non gli
consentiva di muover labbro. Ascoltò con una specie di rancore
taciturno, ed intese che pregava.

Sì, dall’atto delle sue labbra e dalla ferma sua genuflessione indovinò
che l’amante pregava. Dunque non sarebbe mai la sua complice, non
crederebbe mai che all’uomo sia lecito far morire. Anzi, poichè pregava,
qualcosa v’era di non distrutto fra la sua bella gioventù e quella morte
infinita, qualcosa v’era in quel silenzio, di più sacro e di più forte
che l’amore, poich’entrambi avevano creduto nella parola inverosimile:
«Dio».

Allora si trasse indietro, e pensò ch’ell’avrebbe trasalito per la paura
di rimaner sola in vicinanza del morto. Ma ella non si mosse, non
s’accorse, non ebbe un solo tremito nella persona. Investita così dal
raggio lunare, prosternata com’era davanti al letto funerario, pareva
una monaca seminuda, che, in una notte piena di stelle, si fosse
trascinata con delirio verso il marmo dell’altare, affinchè la pietra
del sacrario purificasse la sua carne disperata. Ed egli non udiva più
nemmeno il bisbiglio della sua preghiera, nè più vedeva il suo petto
muoversi, la nuca trasalire, il tallone roseo staccarsi od avvicinarsi
al tacco della pianella: ma due sole immobilità perfette occupavano la
stanza, un solo raggio le ammantava nel suo fermo splendore.

— Novella... — egli chiamò sommessamente.

La sua propria voce lo ferì come la voce d’un estraneo, senza che le due
creature si movessero. Le andò vicino, ed invece di chinarsi, attese.

Era tramortita; ma da presso egli vedeva le sue spalle trasalire
insensibilmente. Stando così piegata in avanti, con la fronte che quasi
toccava il lenzuolo, la prima vertebra spinale formava tra le piane
scapole un forte rilievo; il fascio lunare non impediva che presso
l’attaccatura del collo le sue bianche spalle fossero piene d’ombra.

Poi d’un tratto la vide roteare sul ginocchio piegato, allentar le
braccia ed accasciarsi a terra come un peso inerte, senza quasi far
rumore. La pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto,
si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni formavano,
sollevando la camicia, una profonda incavatura.

Dopo di lei fissò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si
fosse chinata fuor dalla proda, per guardare in giù.

«Vedi? — mormorò in lui una voce estranea. E gli parve di ridere nel
cuore sarcastico, ma d’un riso che non gli saliva fino alla bocca.

«Vedi?»

Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio. Senza maraviglia si volse e
guardò.

Su l’uscio batteva tagliente l’ombra d’uno stipite; null’altro che
l’ombra d’uno stipite. La maniglia luccicava.

Un usignuolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante
sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo
stordiva. Gli parve che stesse a cantare, lì, sul davanzale. Si volse e
guardò. Ma la pietra del davanzale frammista di selce non mandava che
lampi ed il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante
nell’immensità.

«Uuh!... Fi! Perchè canti? Vattene.»

L’usignuolaccio saltava.

Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore
contro le foglie sonore.

«Vedi?»

Un filo d’aria notturna passò su di lui, percorse la lunghezza del
letto, soffiò tra i capelli radi del morto, li scompose. Poco dopo una
vasta nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel
fascio d’elettricità, e, fattasi buia la stanza, egli si sentì serrare
nella caligine come fra due pareti che si chiudessero.

«Vedi?»

E la nuvolaglia se n’andava piano piano; il raggio tornava, più mite,
poi più forte, parendo invadere la stanza e colmarla, come un fiume...

Allora si chinò su l’amante, la prese per un braccio, la scosse. Ella
sbarrò gli occhi, guardò intorno, si risovvenne, lo prese ai polsi e con
tutta la forza delle due mani congiunte s’aggrappò a lui per sollevarsi.

— Via... via... — balbettò quando fu ritta. E lo sospingeva indietro col
peso della sua persona, chiudendo gli occhi, come se non volesse
volgersi per riguardare il morto. — Via... portami via!

Egli vide lo scendiletto sconvolto e l’accomodò con la punta del piede,
resistendo per un poco all’urto dell’amante; poi si lasciò respingere.

Uscirono.

Camminando senza cautela rifecero il breve cammino, tenendosi avvinti,
quasi tornassero dalla consumazione d’un delitto e andassero impuni,
lievi, a goderne la preda. Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra
camera, che a lor parve gioconda, involontariamente si baciarono.
Ell’aveva nella gola un riso singhiozzante, negli occhi una febbre
luminosa, nelle vene un battito celere che le soverchiava il cuore. A
lui pareva di averla rubata quasi dalle mani d’un avversario più forte,
o trascinata via da un incubo, via dal talamo di un altro che
gliel’avesse rapita.

Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio
dell’alto suo ramo il cantore solitario snodava, buttava i suoi
gorgheggi con impetuosa magnificenza, come, nell’aria, brillando, lancia
i suoi gettiti una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa
metteva nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le
vellicassero il ventre viscido per farla ridere o si fosse ubbriacata
fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini.

— Dammi a bere... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato: —
brucio di sete!

— Acqua? egli disse. — Non ho che acqua.

— Sì.

Prese la caraffa, il bicchiere, lo riempì fino all’orlo, poi, stillante,
lo porse alla sua bocca. Ella ne ingoiò un sorso avidamente, facendo
gorgogliare l’acqua nel deglutirla; poi guardò l’amante:

— E tu non hai sete?

— Sì; dopo.

— No, bevi, — ella fece, prendendogli la mano che teneva il bicchiere e
spingendola verso la sua bocca. Egli ubbidì. Bevve con ingordigia, con
ira, due volte, poi guardò il bicchiere vuoto.

— Ancora ne vuoi? — diss’ella.

— Non più. — Respirò forte, soggiunse: — Lo sai ch’eri svenuta?

Ma ella si coverse gli occhi, piegò il mento sul petto, e, come chi si
ritrae da una visione paurosa:

— Non parlarne... — pregò. — Che orrore! che orrore! Ho bisogno per un
momento di scordarlo... Non parlarne più!

Egli rimise a posto la caraffa, si andò a sedere sull’orlo del letto,
curvo, stanco, tenendo le mani allacciate, fra le ginocchia, la fronte
china.

Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò vicino alla finestra,
guardando fuori, curiosa, nella notte stellata.

Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore;
incominciava un dondolìo sonnolento per le alte cime degli alberi;
dentro, nelle frasconaie, qua e là, un fruscìo prolungato, uno strepito
scorrevole, come se vi rimbalzasse in mezzo, tra foglia e foglia, una
lentissima pioggia di sabbia.

Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un
grande fiore di magnolia sfasciarsi repentinamente, cadere giù, lembo a
lembo, ciascun petalo roteando come una spola, finchè si posava disfatto
su la ghiaia luccicante. Quel fiore, lo sfacelo di quel grande fiore,
l’assorbiva interamente, e, senza ben comprenderne il perchè, non poteva
ritrarsi dal guardare l’opulento ramo, che per quella caduta seguitava a
dondolarsi oscillando, e quel fiore sparso, rotto in frantumi, che
giaceva sotto il vasto albero, come una bianchissima porcellana
spezzata.

E vide un piccolo rospo che vi saltellava nel mezzo, traversando la
ghiaia.

Senza volgere il capo ella chiamò per nome l’amante; ma egli non si
mosse.

Allora, affacciandosi ancor più, si mise a guardare, nella facciata
bianca della casa, quella finestra poco lontana, dietro la quale, ma in
fondo, contro l’opposta parete, c’era un uomo che dormiva per sempre nel
letto illuminato, nel sudario del raggio lunare, di fronte alla
magnificenza delle stelle.

Vide, o le sembrò, che ne uscisse un fumo azzurro, torbido, il quale
navigava per la notte, sperdendosi; e intimorita si ritrasse, onde non
respirare nel vento neppure un átomo di quel fumo.

Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli. Egli non levò il
capo, non disse parola. Ed ella, tacendo, prolungava la sua carezza con
una specie di voluttà, indugiando nei caldi capelli, un po’ chinata su
la sua pallida fronte. Infine disse:

— Che ora è? tardi?

Egli guardò l’orologio, distrattamente:

— Le tre passate.

— Hai sonno?

— Non ho sonno; e tu?

— Nemmeno. Guàrdami!...

Andrea levò gli occhi. Entrambi, nel fissarsi, parvero maravigliati.

— Che faremo? — ella disse, tremando fin nell’anima.

— Non so.

Stava ritta fra le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le spalle;
egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e, senza
toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle fresca e
giovine, sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore
stesso di lei.

— Tu l’amavi! — gli esclamò d’un tratto, con iracondia, senza levare il
capo.

— No... taci...

— Sì, lo amavi! ora l’ho visto! lo so... — egli disse caparbio.

Novella si chinò presso l’orecchio dell’amante, quasi baciandolo, e
bisbigliava di continuo:

— Taci... taci...

Subitamente egli serrò le braccia intorno alle sue reni e l’attrasse,
alzando la bocca verso la bocca di lei, che lo cercava.

— Sei mia, ora?

Ella rise, non colle labbra soltanto, ma con tutta la persona, con tutta
l’anima rise.

— Rispóndimi!

— Sì... sì!

— Ma per poco... — egli fece, tetro.

— Come?

— Ho detto: per poco. Adesso non c’è più divieto, e allora...

— E allora? — ella interrogava con la medesima voce.

Poi gli prese la faccia tra i palmi, e, quasi per soffocare ogni parola,
su la bocca, affannosamente, lo baciò.

E rimasero avvinti in quel bacio, disperati, sitibondi, colmi fino alla
gola di orrore e di amore, sentendo che in quella voluttà esecrata una
coscienza invisibile, quasi, un Dio, li malediva...

                          .  .  .  .  .  .  .

... poi, lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che
imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti,
quasi una colonna di fumo, che soffiasse non da un incendio ma da un
gelido remoto mare, e videro per l’universo effondersi quella specie di
scolorimento, quel brivido, quella bianca tenebra che precede il salire
del giorno.

Un grande velario, di mussola o di tulle, passava su le migliaia di
stelle per diminuirne lo splendore; una chiarità nasceva nell’oriente
concavo; la notte a poco a poco s’incanalava in quella zona pallida,
lasciando portare dal vento le sue gonfie spirali di fumo.

Piccole stelle morte, randagie, vi cadevano dentro, scomparivano,
lasciavan un solco impercettibile nello spazio dov’erano a migliaia; le
grandi costellazioni, luminose come navigli notturni, affondavan
nell’oceanica immensità; la luna colava a picco imbiancandosi nella
voragine d’una nuvolaglia simile ad un cratere.

Lontano, all’alba sopravveniente, un gallo cantò.

Ilare, mandava in alto la sua chiacchierata pretensiosa, lisciandosi
forse il bel pennaggio lustro, come una donna mattiniera, che alla
finestra péttini cantando la sua liscia capigliatura.

Entrava, con l’odor fluviale dei narcisi, con l’abbrividire delle foglie
che si destavano, un’ondata d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il
giro della stanza, come un vortice...

Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la
fasciò sino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli
occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava:

— Dormi?...



SECONDA PARTE



I


Tancredo Salvi arrivò il giorno appresso in villa, non appena gli ebbero
telegrafato ch’era morto il suo fratellastro. Giunse in tempo
esattamente per i funerali, ma sopra tutto per aver notizia del
testamento: il che gli stava molto a cuore.

Dalla prima giovinezza, dal tempo lontano in cui Giorgio Fiesco era
partito dalla casa del patrigno in cerca di fortuna per il mondo, non
s’erano quasi mai riveduti, nè alcuna fratellanza era tra loro, bensì
per costumi e per indole una invincibile avversione. Venuta a morte la
madre comune, Tancredo aveva brigato in mille guise per contendere a
Giorgio la meschina eredità, e dopo aver dato fondo a quel denaro,
d’ogni espediente viveva tranne che del suo proprio lavoro. Lo si era
veduto alla Borsa e nei mercati, farsi mezzadro d’affari equivoci o
pericolosi; lo si vedeva nelle bische, nelle bottiglierie, su
gl’ippodromi, un po’ male in arnese, ma tuttavia giocondo.

Più tardi s’era messo in un certo giornalismo di pettegolezzi e di
raggiri, che sfioravano il ricatto; aveva inoltre aperta un’agenzia
d’informazioni secrete, una di quelle tante che pullulano per i sinistri
vicoli delle grandi città.

Non ancor quarantenne, alto, forte, un po’ calvo, con la faccia quadrata
e sbarbata, il colorito plumbeo, gli occhi profondi, una fronte
malvagia, la tempia destra fiaccata come da un pugno dato in una creta
molle, quest’uomo esprimeva nella sua rozzezza un non so che
d’intelligente e di maestoso, un non so che d’amaro e di buffo, che
prima insospettiva la gente, poi talvolta faceva sorridere chi avesse a
trattare con lui.

Giuntagli ora la notizia della morte di Giorgio Fiesco, Tancredo non
aveva indugiato in lunghi dubbi, e cacciate alla rinfusa le sue poche
robe in una sacca sfiancata, empitosi di mezzi toscani il portasigari
sdruscito, contate nel voluminoso portafogli le poche centinaia di lire
ch’erano pressochè tutto il suo bene, aveva chiamato con robusta voce la
serva-consorte che gli faceva da massaia, e le aveva dato l’ordine di
far scendere la sua borsa in portineria.


Nel treno che lo portava dolcemente, per una sera ventilata, traverso le
campagne fragranti, egli cominciò a sentirsi ravvolgere da un senso di
vera beatitudine, quasi avesse l’intima coscienza di volare leggermente
incontro alla fortuna.

Pensava: — «Se mi capitasse di azzeccarne una finalmente! — Centomila
lire!... Cosa sono centomila lire per il mio povero fratello? Dopo tutto
siamo nati dallo stesso grembo! Lo so: c’è la moglie; ma non hanno
figli. Centomila. Poi sono curioso anche di conoscere l’amico intimo, il
gran professore... Centomila.»

E questa parola numerosa, interminabile, con uno strascico di zeri tondi
e roteanti che parevano intessere nell’infinito la chioma d’una
straordinaria cometa, gli turbinava intorno, moltiplicandosi nel cielo,
finchè lontano si disperdeva in una striscia ondeggiante, o forse nel
pennacchio di fumo che la vaporiera si lasciava dietro camminando.

Adesso il treno correva diritto per la rasa campagna, disegnando nella
seguace ombra il traforo bianco dei finestrini. Veniva dalle pingui
zolle un odor fertile di semenza matura; su l’estremo válico
dell’orizzonte il disco paonazzo del sole affondava come un rotondo
vomero nella terra lampeggiante.

Allora Tancredo fece un sogno, che non era del tutto un sogno e che
appunto lo seduceva per la sua possibilità.

Un notaio, alto, allampanato, con gli occhiali a stanghetta, una
voluminosa cravatta nera, leggeva il testamento del morto in una grande
stanza dove c’erano molte persone attente. Lui, Tedo, se ne stava in un
angolo, dietro tutti, ma seduto in una poltrona molto comoda, e guardava
in alto, verso il lampadario, distrattamente... «Lascio mia moglie erede
universale de’ miei beni, con un legato di L. 100.000 ( — dico centomila
— ) a Tancredo Salvi, mio fratello di madre, e...»

Tutte quelle persone attente si voltavano a guardare lui, ch’era
tuttavia distratto, ma non poteva trattenere un certo risolino
involontario che gl’increspava gli angoli della bocca. E il notaio
seguitava a leggere con la sua voce fastidiosa come il ronzìo d’una
vespa:

«Legato A... — legato B... — legato C...»

La vedova se ne stava seduta poco lontano da lui, pallida, nelle recenti
gramaglie, e co’ suoi grandi occhi pieni di torbide ombre insidiosamente
lo guardava.

«Scritto di mio pugno, da me testatore, in piena coscienza di...»

Era il notaio che finiva di leggere il testamento, con la sua voce
nasale ma ronzante; poi si nettava gli occhiali a stanghetta dentro un
enorme fazzoletto blu...

Subitamente il quadro di quella grande stanza piena di persone attente
si cancellò dal suo cervello; ma vide bensì la vedova, di sera, che
saliva le scale con un candeliere in mano, forse per non trovar pace
nella coltre insonne ove si contorcerebbe la sua profumata e vedovile
solitudine...

                          .  .  .  .  .  .  .

Alla stazione, quando giunse, nessuno l’attendeva. Chiamò l’unico
vetturino che già stava per volgere il suo cavallo, e di galoppo
traversarono il borgo addormentato. A quell’ora le case degli artigiani
eran buie: solo mandavan lume un paio di taverne, la bottega del
farmacista, l’invetriata del caffè. Quando giunse a villa Fiesco, il
cancello era chiuso ed il vetturino cominciò a schioccar di frusta. Uscì
fuori dalla casa rustica la piccola Natalissa, e con la sua vocina di
capinera da lontano gridò:

— Vengo sùbito.

Nell’alta casa una finestra s’aperse; confuse ombre vi si affacciarono,
e s’udì sopra gli alberi del giardino la voce di Maria Dora che
domandava:

— Chi è venuto, Natalissa?

— Un forestiero, — gridò la bimba. E da brava donnina già grande prese
la sacca dell’ospite, lo accompagnò per il viale fino alla scalinata.

Maria Dora, Stefano, la Berta stavano sul limitare, in attesa. Nessuno
fra loro conosceva Tancredo, se non di fama, e vedendo quello
sconosciuto avanzarsi tranquillo dietro la bimba del giardiniere, a
tutta prima non seppero immaginare chi fosse.

Egli pensava tra sè: — «Questo è il momento grave. Occorre una certa
presenza di spirito...»

Giunto a mezzo della scalinata, si levò il cappello e disse, fermandosi:

— Io sono Tancredo Salvi.

Maria Dora, senza rispondere, scappò dentro a dare la notizia. Papà
Stefano alquanto impacciato, gli rispose:

— Non eravamo preparati alla sua visita, signor Salvi.

Tancredo salì con disinvoltura gli ultimi gradini.

— Mi scusino; arrivo in questo momento; non feci che balzare nel primo
treno; sono ancora sotto il colpo dell’orribile notizia... vengo per
rivedere il mio povero fratello. Grazie, grazie, d’avermi avvertito!...

E metteva nella sua voce robusta una specie di affannosa riconoscenza,
mentre col palmo della mano faceva l’atto di rasciugarsi una lacrima.
Stefano non sapeva che dire; se ne stava irresoluto, squadrandolo.

— Allora lei desidera pernottare qui? — mormorò infine, accennando alla
sacca da viaggio che Natalissa aveva posata sopra una seggiola.

— A meno che non rechi troppo disturbo... — disse Tancredo con umiltà. —
Volevo scendere all’albergo, ma non conosco il luogo, e, sopra tutto, il
desiderio di veder súbito il mio povero fratello m’ha spinto a venir
qui.

— Mi perdoni un momento, — fece Stefano; ed entrò nella casa. Mentre
stava per salire, incontrò Maria Dora con il Ferento che scendevano.

In quel mentre apparve Marcuccio sul limitare della sala.

— Chi arriva? Ospiti? Ma che c’è? Forse un ballo?

Nessuno gli rispose. Stefano tornò su la veranda e disse alla Berta
ch’eravi rimasta:

— Va sopra in fretta e prepara una camera al secondo piano, l’ultima. —
Poi disse a Tancredo: — Entri pure.

Egli avanzò con circospezione, guardandosi attorno, quasi temesse
d’andar incontro ad un agguato. Vide il Ferento, Maria Dora, Marcuccio,
e, non sapendo che fare, fece un inchino. Il Ferento lo squadrò da capo
a piedi, con uno de’ suoi sguardi rapidi che investivano come un urto;
il Salvi sogguardò lui con una delle sue occhiate oblique, che
accerchiavano come un laccio.

— Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? — disse il
Ferento. — E desidera vederlo?

— Appunto.

— Venga: la condurrò.

Bisognava traversar la sala e Marcuccio stava su l’uscio, attento. Si
trasse da parte per lasciar passare il Ferento, ma súbito si rimise
traverso la soglia, in guisa da sbarrarne l’adito. Allora Tancredo, per
non urtarlo, si fermò di botto, guardando in faccia quasi con timore
quel lungo giovinotto sbilenco, dai capelli corti, vestito con panni che
gli cascavan di dosso, il quale invece, nel fissarlo, rideva. Tancredo
non poteva comprendere perchè mai quel personaggio gl’impedisse di
passare. E lo scemo ad insistere:

— Chi sei? Dove vai? C’è un ballo forse?

Andrea tornò indietro, e preso lo scemo per un braccio lo costrinse a
togliersi di mezzo. Poi disse:

— Marcuccio, sono le dieci: va a dormire.

Costui tirò fuori un grosso orologio d’argento e si mise ad ascoltarlo,
poi ad osservarlo, contando le ore su le dita. Non gli tornava il conto.

— Eh!... — gridò appresso al Ferento, — non sono le dieci!... una di
più! C’è un ballo forse?

Allora Tancredo, nel salir le scale, si risovvenne che Giorgio Fiesco
aveva un cognato scemo.

«E adesso mi tocca pure di vedere un morto... — pensò. — Non è
piacevole. Con questa fame da lupo!»

Giunti sul pianerottolo, Andrea lo avvertì:

— È già nella cassa perchè si decomponeva, ma la cassa non è chiusa e lo
potrà vedere.

Tancredo avrebbe voluto rispondere a quel celebre scienziato in maniera
degna della propria eloquenza, ma non trovava parole adatte, perchè
l’idea di entrare così precipitosamente nella camera d’un morto gli
scompigliava tutte le facoltà.

Il corridoio era buio; da una porta nel fondo si diffondeva una striscia
di luce.

«Dev’essere là il morto... — pensava. — Purchè non mi lascino solo
davanti alla bara...»

— Venga, venga, — disse il Ferento, fermo su la soglia della camera
funeraria.

Tancredo si avanzò. Vide per prima cosa un letto vuoto, senza federe nè
lenzuoli, con un pannolano sopra la coltre, da capo a fondo cosparso di
fiori; poi vide una vecchia in una poltrona, che pregava, ed era mamma
Francesca; indi una contadina, un contadino, ed un ragazzone di
vent’anni, un bifolco nero come il carbone, seduti lato a lato, contro
il muro, e che pregavano anch’essi. Da ultimo vide, nel mezzo della
stanza, posata per terra fra quattro candelieri gocciolanti, la bara,
coperta da un lenzuolo. Il coperchio stava poggiato verticalmente contro
il cassone del letto.

Intorno alla bara il pavimento era cosparso di fiori; egli cercò di non
camminarvi sopra. Intorno alle quattro torciere si ravvolgevan spirale
da ramoscelli fioriti; le fiamme piegate dal vento si allungavan come
lingue vibrátili; ogni tanto se ne staccava una specie di vampa nera,
che pareva guizzar via nell’ombra, di qua, di là, velocissima.

«Ora, che faccio?»

Di levare il lenzuolo da sè, proprio con le sue mani, Tancredo non aveva
cuore; si chinò sopra il catafalco, restando immobile, come se recitasse
una preghiera. Il lenzuolo era teso; non lasciava trasparire affatto il
rilievo del cadavere.

«È lì sotto e non lo vedo... povero Giorgio! Era tuttavia un buon uomo;
quasi quasi potrei davvero piangere... Sebbene si fosse press’a poco
estranei, certe cose la natura le comanda. Siamo figli della stessa
madre: questo conta, per bacco! Poi, che male mi ha fatto? Qualche soldo
me l’ha sempre dato, anche molti, per dire la verità... Era un
brav’uomo. Certo non sentiva troppo i legami della fratellanza, ma
questo è un difetto che gli si può anche perdonare, adesso ch’è morto.
Io stesso, per dire la verità, non sono proprio uno stinco di santo...
Su, vediamolo, poveraccio!»

Ed allungava la mano per sollevare il lenzuolo; ma la mano titubante gli
si fermava a mezza strada.

«Diavolo!... E dire che non avrei paura di quattro malandrini!»

Si fece animo e si chinò. Quell’odore di cadavere e di naftalina lo
stomacava, serrandogli la gola. Tuttavia prese un lembo del lenzuolo e
cominciò a sollevarlo.

Allora si avvicinò la contadina, e inginocchiatasi all’altro lato della
bara:

— Volete vederlo, signore? — domandò. — Peccato che ora si guasta.

E piano piano sollevò il lenzuolo, come dal viso d’un bimbo che non si
voglia destare.

Tancredo per poco non dette un urlo, tanto al vedersi quella faccia era
spaventosa. Livida egli la vide, ma di una lividezza quasi nera, con
l’orecchie, i due zigomi, le mandibole chiazzate di macchie vinose, gli
occhi tumefatti, che parevan marci, la bocca enfiata, guasta, non
chiusa, che lasciava colare dagli angoli, tra i peli della barba, un
umore viscido e luccicante, il quale serpeggiava dentro il collo come
una tortuosa lumacatura. Aveva intriso il colletto e disamidava lo
sparato convesso, nel quale brillava la capocchia d’un bottone d’oro,
simile ad un chiodo mal confitto, che rattenesse a fatica lo sforzo del
torace gonfio. Pareva che l’abito nero lo infagottasse per una farsa
macabra, per un ultimo ballo sotterraneo, dove comincerebbero i vermi a
strisciare nella sua carne spenta, a propagarsi, a dondolarsi piano
piano, su la musica d’un valzer lento...

Ma la contadina lo tastava senza orrore, con le sue brune aride mani che
lo avevano rivestito da capo a fondo; poi lo ricoverse con il lenzuolo,
mentre si udiva la preghiera dei due uomini salir di tono, quasi per
vincere il sonno che li schiacciava, in quel silenzio soffice come il
feltro, nella greve lentezza della notte che passava. Entrò allora un
prete, che sedette vicino a mamma Francesca, parlandole piano, ma
continuamente.

Tancredo retrocesse contro il muro e strisciò fin presso la soglia.
Pensava: — «Povero Giorgio!... Non ho mai veduto nulla di più spaventoso
che la sua faccia! Come lo può toccare quella donna?»

E si mise a guardarla con ammirazione. Ella era tornata su la seggiola,
stava immota, con gli occhi fissi, le mani congiunte nel grembo. Il
giovane bifolco, cedendo al sonno, di tanto in tanto le piegava il capo
su la spalla, ed ella con un urto lo faceva sobbalzare. Il Ferento era
scomparso; Tancredo non sapeva che fare; cominciò a spaventarsi di dover
passare in quella camera l’intera notte. Quel cadavere gli aveva dato un
tal brivido, che ancora ne provava su l’epidermide una sensazione di
gelo, e guardava le fiammelle de’ cerei sventolar nell’aria come
bandieruole che si sfioccassero. Cominciò a scorgere nel vano della
finestra un gran disegno di alberi, che ogni tanto si piegavano
rumoreggiando, come larghe ondate.

«Ma cos’è questo? Un paese di morti? Non si ode la voce d’un cristiano.
Diavolo!... Quasi quasi era meglio che non venissi.»

Il prete ogni tanto si cavava di tasca la tabacchiera, e di nascosto ne
prendeva un pizzico, tirando su.

«Porco!» — disse fra sè Tancredo, che non amava i preti.

Maria Dora venne su l’uscio in punta di piedi, senza badare a lui.

— Don Domenico, vuol prendere una tazza di caffè?

Il calmo prete sorrise alla fanciulla, e con un cenno le rispose di sì.
Aveva un bel faccione, allegro lucido sostanzioso come un piatto ben
condito; era lì per fare il suo mestiere, per vegliare un morto, come in
altre occasioni gli toccava battezzare, maritare, assolvere, ossia far
credere all’uomo in qualche modo che la vita sia davvero una cosa santa.

— E tu mamma, vuoi nulla? — domandò Maria Dora, carezzandole il capo.

— Nulla: ripósati un poco. Dora.

La fanciulla tirò il prete per la sottana, si mise a parlargli piano, ed
uscirono. Tancredo li seguì.

La vista di una bella tavola sparsa di chicchere, con una grande
caffettiera fumante, una grossa torta inzuccherata, gli allargò il
cuore. Ma si tenne in disparte, perchè nella sala v’era molta gente
ch’egli non conosceva. Solo ravvisò lo scemo, e gli sorrise come ad un
amico. Finalmente Stefano ebbe la compiacenza di dirgli:

— Se vuol prendere un caffè, s’accomodi, signor Salvi.

Poi, ad uno ad uno gli ospiti se ne andarono, e per ultimo anche il
prete si levò, dopo avergli offerta una presa di tabacco. Stava per
alzarsi egli pure, quando lo scemo gli comparve dinanzi:

— Come ti chiami tu? — fece di punto in bianco, squadrandolo con una
severità inquisitoria.

«Càspita! che faccenda è questa? — pensava Tancredo; — il mentecatto mi
dà del tu?» Rispose:

— Mi chiamo Tancredo Salvi, per servirla. E lei?

— Io sono il professor Marcuccio Landi: celebre. Non lo sai?

«Càpperi!»

— Cosa dici?

«Ma guarda! ora mi lascian solo col matto!... Non vorrei che per caso
gli saltasse la mattana!»

Poi soggiunse, con un inchino:

— Tanto piacere di conoscerla, signor professore!...

Entrò la Berta per sparecchiare la tavola. Súbito lo scemo le si fece
intorno e cominciò a darle noia. La ragazza, posato il vassoio, fuggiva
intorno alla tavola rotonda; e lo scemo a saltellarle dietro, co’ suoi
lunghi passi barcollanti.

— Ma, dica, professore... cosa fa? — esclamò Tancredo. Marcuccio
ristette, e puntando l’indice contro la ragazza:

— Costei mi ama, — disse,

— Davvero? Ha buon gusto!

La Berta si mise a ridere e scappò via. Da quel sorriso Tancredo arguì
che una corrente di simpatia fosse nata fra loro. Lo scemo cominciò a
dondolarsi, e di nuovo a considerare l’estraneo con attenta curiosità.

— Cosa vieni a fare in casa nostra?

— Io?... Sono venuto per vedere mio fratello.

— Tuo fratello? Ah!... ah!... — E rideva tenendosi le due mani sul
ventre. — Ma chi è tuo fratello?

— Mio fratello Giorgio, che è morto... quello che è morto... — spiegava
Tedo con indulgenza. Ma lo scemo si rannuvolò, dubitando forse che il
forestiero si gabbasse di lui.

— Ora ti mando al manicomio perchè sei matto, — fece, seriamente.

— Già... già... — lo blandiva Tedo con dolcezza.

— E ti faccio legare perchè sei matto!

— Già... già... «Ma cominci anche a seccarmi!» — disse fra i denti,
guardandolo in malo modo. Per fortuna tornarono in quel mentre Maria
Dora, Stefano ed il fattore Mattia.

— Avete pronta una carrozza? — domandò lo scemo. — Bisogna portare al
manicomio quest’uomo ch’è diventato matto.

Il buon Tancredo sorrise con benevolenza, per mostrarsi alieno dal
ricevere scuse; poi disse:

— Oh, mi creda, signor Landi, è stato per me un vero strazio il ricevere
quel telegramma! Se non erro ne’ miei calcoli, quel povero Giorgio non
aveva che trentasette anni, è vero?

— Quasi trentanove, signor Salvi, — corresse Maria Dora, che lo guardava
con un semiriso.

— Appunto, appunto... Ed in che modo è morto?

— È morto di notte, solo, nel suo letto.

— Ha sofferto?

— Forse no; pareva tranquillo. Il professor Ferento crede sia morto nel
sonno.

— Quel professor Ferento era il suo amico intimo, non è vero?

Egli aveva posto a caso la domanda, e solo perchè gli avevano ricordato
il nome del Ferento. Ma s’accorse che la sua domanda non pareva loro
altrettanto naturale, anzi osservò che il padre e la figlia s’erano
guardati velocemente, con una certa perplessità.

— Erano amici sin dall’infanzia; erano quasi due fratelli, — Stefano
rispose.

«Perchè mai — pensò Tancredo — s’erano guardati a quel modo?»

E nella mente gli tornò la sembianza di Andrea: una bella testa
violenta, rigida, precisa, come un’arma d’acciaio bene affilata. — «Lei
è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? E desidera vederlo?
Venga, la condurrò.»

Così gli aveva detto nel riceverlo, senz’altre parole.

— Senta, e la moglie? — fece il Salvi dopo una pausa.

Di nuovo il padre e la figlia si guardaron in faccia rapidamente, quasi
cercasser di nasconder l’uno all’altro il lor medesimo pensiero. Maria
Dora, che stando seduta e ferma teneva i piedi allacciati l’uno
all’altro fuor dalla balza della gonna, macchinalmente li disciolse; poi
di nuovo li annodò; Stefano trasse di tasca la pipa e ne battè il
fornello sul tallone per farne uscire un po’ di cenere.

— Eh, capirà... — Poi disse, molto in fretta: — Desolata, desolata...
Neppur lei non è stata felice, povera figliuola!

«C’è qualcosa nell’aria che non mi sembra naturale... — rifletteva
Tancredo. — Non saprei cosa, ma certo il mio buon fiuto non m’inganna.»
E gli parve che questo senso d’innaturalezza divenisse più immediato,
più avvertibile, quando il Ferento appariva, o quando nei discorsi
altrui fosse pronunziato il suo nome. Con quell’istinto particolare
degli uomini che son usi a vivere di mezzi equivoci ed a speculare su le
debolezze altrui, Tancredo s’accorgeva di respirare in un’atmosfera non
limpida e gli pareva che un non so che d’ambiguo stringesse tutti gli
abitatori di quella casa funesta.

Andrea si era seduto presso la tavola, sotto la luce dell’alto
lampadario, e celermente leggeva un fascio di telegrammi, passandoli poi
a Stefano con un moto meccanico.

Tancredo guardava quell’aspra fisionomia, gli pareva di temerla, ma
insieme di sentirsene avvinto. Nel vederlo, comprese la fama che di lui
correva, sentì con esattezza d’essere di fronte ad un uomo insolito, uno
di quegli uomini destinati a produrre avvenimenti estremi e che raggiano
da sè un fascio di potenza, benefica o dannosa, che li ricinge di
solitudine come insieme li avvolge di splendore.

Molto spesso Tancredo aveva udito pronunziare il nome di Andrea Ferento.
Era un uomo che, da un lato, riempiva di sè la vita scientifica del
paese, dall’altro, con veementi libri, ne scuoteva le forze
intellettuali; e quantunque avesse da parecchi anni abbandonata la
battaglia politica, non ancor sopiti si eran gli odî acerrimi e gli
amori tenaci ch’egli aveva suscitato e suscitava intorno a sè, agitando
bandiere. In verità era piuttosto un pensatore che un tribuno, piuttosto
un banditore d’idee che un uomo di parte. Nato con un cervello
d’autócrate, amava per istinto la ribellione, amava la guerra del
pensiero nuovo contro il pensiero antico, del domani contro la vigilia,
dei rinnovatori contro i sofisti.

Dalla sua cattedra d’Università, nelle vibranti pagine de’ suoi libri,
egli cercava di rappresentare con immagini vive l’enorme fantasma del
suo pensiero; logico, freddo, preciso, libero da influssi mistici come
dalle pastoie di qualsivoglia sistema, non curava l’uomo soltanto per
guarire la materia, bensì per indovinarla, e vedeva il problema della
conoscenza umana ridursi grado per grado ad una catena di scoperte
scientifiche.

«_Uno scienziato sarà il Dio dell’umanità ventura..._»

Tancredo Salvi si ricordava confusamente di aver letta questa frase nel
«_Dio lontano_» — il libro del Ferento che, per la sua forma accessibile
anche ai profani e per il suo contenuto suggestivo, si era più
largamente divulgato nel pubblico; libro d’anarchismo e d’irreligione
dov’egli cantava la Divina Inutilità.

E Tancredo ripensava queste pagine, mentr’era intento ad osservare
quella fronte salda, maestosa, que’ fini e lunghi sopraccigli pressochè
non curvati, che stavan sopra gli occhi violenti come segni di volontà.
Guardava la bella capigliatura, leggermente striata di bianco,
l’orecchie di lui, piccole, ben raccolte contro il cranio, quasi prive
di lobi, effeminate quasi nella sua maschilità. Considerava il mento
saldo, la guancia ben contornata, la bocca dissimile dagli altri
lineamenti, anch’essa un po’ lieve, un po’ delicata, in quella maschera
così bene impressa di virile fermezza. Era vestito di scuro;
semplicemente, ma con uno studio di eleganze quasi dissimulato, e si
vedeva una camicia di lino, freschissima, con i polsini chiusi da
quattro cerchi di zaffiri, «che gli stavan — pensò Tancredo — molto
bene, molto bene...»

Gli tornò in mente la biondina, ch’era così leggiadra nel suo lieve
abito nero, e poi l’altra, ch’era di sopra, la sua cognata vedova,
l’erede...

Come costei fosse veramente, non ricordava più; gli parve solo che fosse
molto bella, null’altro; che fosse alta, con le trecce d’un bel colore
bruno dorato... null’altro. Le rade volte ch’era stato in casa di
Giorgio, questi l’aveva ricevuto frettolosamente, nel suo studio, ed
egli lo rivedeva sempre nell’atto di aprire con un certo mazzo di chiavi
che si toglieva dalla tasca dei calzoni lo sportello d’una cassaforte
massiccia e tenebrosa. Poi rinchiudeva meticolosamente la serratura...
tric, trac... una quantità di ordigni che scattavano, e Giorgio tornava
presso la scrivania, piano piano, senza guardarlo, senza dir nulla;
cercava una busta, vi metteva dentro alcuni biglietti di banca,
ingommava, bagnando il dito in una spugnetta, e gli posava la busta lì
vicino, su l’orlo della scrivania, perch’egli la prendesse. Tutto questo
in silenzio, molto piano, con una delicatezza tediata ma dolce. Poi si
rannicchiava nel suo seggiolone, senza guardarlo, sfogliando un libro o
qualche lettera, in attesa che se n’andasse.

«Addio, Giorgio... Grazie.»

«Addio.»

Suonava il campanello; un domestico, il quale forse aveva l’ordine di
star fuori dall’uscio, entrava sùbito, l’accompagnava. Una volta, su lo
scalone, incontrò la moglie. Tancredo si trasse da parte, le fece un
grande inchino; ella curvò leggermente il capo e gli passò davanti con
un fruscìo. Per lo scalone, dietro di lei, rimase un odore freschissimo
di violette...

— Signor Salvi, mi perdoni, — fece d’un tratto il Ferento; — lei non era
tempo fa nella redazione d’un giornale ebdomadario che si chiamava, mi
pare, «Il Bisbiglio»?

Tancredo sobbalzò come se l’avesser côlto in fallo, e, cosa non
frequente in lui, divenne leggermente rosso.

— Appunto, — rispose impacciato. Ma sembrandogli che il dire «appunto»
fosse poco, soggiunse: — Appunto, per servirla.

— Vedo.

E si mise a tamburellar con le dita su la tovaglia. Dopo aver
riflettuto, gli domandò ancora:

— Il giornale continua?

— No, è cessato.

Andrea trasse di tasca un bellissimo astuccio d’oro ed accese una
sigaretta.

— Fuma? — domandò, avanzando verso Tancredo l’astuccio aperto.

— Volentieri, grazie.

Parlarono ancora un poco, poi Stefano andò a chiamare la Berta, perchè
accompagnasse il signor Salvi nella sua camera.

Il poveraccio aveva fame; una fame dolorosa, iraconda. Nel suo cervello
non faceva che riddare una visione pantagruélica di buone cose
mangerecce; per di più, dalla prossima cucina filtrava, intorno alle sue
narici vellicate, un odor proditorio di roba masticàbile. Tutte le
rinunzie morali erano per lui più facili che quella di un pranzo, e
l’idea della notte insonne, con i crampi allo stomaco, gli incuteva un
terrore inesprimibile. Rimase un attimo in dubbio se confessare al
vecchio i suoi tormenti, poi non ebbe il coraggio e si rassegnò.
«Amen...» — concluse fra i denti, e mosse per le scale, dietro la
ragazza che ad ogni gradino si puntava la mano sul ginocchio,
dondolando. La sua nuca tonda e fulva, allacciata da un nastro di
velluto, s’increspava, nel salire, come il collo carnoso d’una cagnetta
mops.

Quando furon sopra, ell’aperse l’uscio di fondo nel corridoio e,
mentr’egli stava per entrare, lo guardò con il suo riso di contadina
furba e sciocca.

— Eccola servita. Questa è la sua camera.

Teneva una mano su la maniglia; con l’altra, paonazza, reggeva il lume.

— Come vi chiamate, ragazza?

— Berta, mi chiamo. Perchè?

— Tanto per saperlo, ragazza. E vi trovate bene in questa casa?

— Peuh... non c’è male.

— Ci siete da un pezzo?

— Due anni. Buona notte, signor Salvi.

— Avete fretta?

— Ho sonno, sa... Sono in piedi dalle sei; pare niente, ma è lunga.

— Avete pranzato voi? — fece Tancredo impulsivamente.

— Eh... certo!

— Io no.

— Lei no? — disse la Berta, senza soverchio stupore.

— Proprio no.

Fece due lunghi passi, le andò presso, le diede un leggero pìzzico su la
manica:

— Fammi un piacere, brava ragazza. Se mi còrico a stomaco vuoto, sarà un
inferno. Tu, in cucina, devi certo avere qualche avanzo. Vallo a
prendere; fa quest’opera buona e non ci perderai nulla.

— Ma io, signore, non ho ordini.

Tancredo comprese che bisognava ricorrere a mezzi estremi; si cercò nel
taschino del panciotto e ne trasse un gruzzolo di monete: argento e
rame. Scelse un bel pezzo da due lire e lo fece scivolar nel palmo della
domestica, dicendole:

— Questo è per te.

Bisognava che avesse una fame diabolica per dare quella mancia da
scialacquatore.

— Senta allora... — propose a bassa voce la Berta, — non dica nulla ed
io le porto quel che ho.

— D’accordo. E cosa mi porti?

— Quello che c’è: forse un’ala di pollo, forse qualche fettina d’arrosto
freddo, con un po’ di pane.

— Ottimamente! — rispose Tancredo. E in attesa della cena se ne andò
alla finestra per guardare il paesaggio. Ma nella inoltrata ora notturna
faceva buio in lontananza, il paesaggio non c’era. Si vedevan soltanto
alberi e stelle, prati e nuvole. Forse la luna era dietro il tetto, e
lentamente sormontava la casa. Nella facciata non vide che finestre
spente; una sola immergeva nei lucenti alberi del giardino il suo fascio
di luce rossastra, propagava nell’ombra un colore torbido, che si
diradava. E Tancredo rivide le quattro torciere agli angoli della bara,
le sottili vampe che si staccavano dalle fiammelle con un guizzo, la
testa nera del morto sopra un cuscino di seta, il bottone d’oro che
premeva la camicia scoppiante...

Finalmente udì la Berta bussare all’uscio.

— Ma s’accomodi, signorina! — egli esclamò giovialmente.

La Berta comparve con un vassoio carico d’ogni ben di Dio, tutto sovra
un sol piatto insieme: carne, ossa di pollo, frantumi di formaggio,
pere, patate fredde. A lato, un tozzo di pane, mezza bottiglia di vin
nero, posate, saliera e tovagliolo. Per la contentezza Tancredo non
seppe trattenersi dal farle una carezza su la guancia; ella si mise a
ridere col suo riso di scioccona, e rimase in piedi vicino alla tavola,
mentr’egli cominciava il suo festino.

— Sièditi e fammi compagnia.

— Vuole?

— Sì, sì.

Ella sedette presso il lavabo, sopra una seggiola di paglia.

— Che buonissima roba, mia bella ragazza! Sei tu che fai in cucina?

— Proprio io, per servirla.

— Allora tu fai tutto in questa casa?

— Eh, no! Mi aiutano. C’è un’altra donna che lava i piatti, una che
scopa, e due uomini che vengono la mattina per i mestieri grossi. Da
sola non potrei, le pare?

— E ti trattan bene?

— Non c’è male. Se non fosse quello scemo che mi pizzica...

— Bel tipo!

— Ma sa che la notte è capace di starsene magari un’ora davanti alla mia
porta? Per fortuna che chiudo a chiave! Ho paura, sa...

— Cosa vuole il babbeo?

— Eh... lei capirà bene cosa vuole! — spiegò la Berta facendosi rossa.

Tancredo ammiccò verso lei con il fare d’un uomo che se ne intende:

— Ah, sì?...

— Ma, già!

— Porco! — esclamò Tancredo con la bocca piena. Poi soggiunse:

— Tu probabilmente hai un altro innamorato...

— Ho uno che mi parla, si sa...

— Uno che ti sposa poi? — fece Tancredo paternamente.

La Berta assentì col capo, seria, seria.

— E quando?

— Quando avrà fatto il servizio militare.

— Ahi!...

— Perchè dice «Ahi»?

— Così per dire. Ma ti consiglio di non fidarti troppo in ogni modo;
perchè gli uomini che non hanno ancor fatto il servizio militare sono
tutte canaglie.

— Questo lo so.

— E quando l’hanno fatto sono peggio di prima.

La Berta si mise a ridere.

— Oh, allora!...

— Allora cerca di non farti infinocchiare, perchè sei una bella ragazza
e sarebbe un vero peccato.

— Eh, eh... — cantilenò la Berta, accompagnando la sua cantilena con un
largo gesto, — la so lunga io... non c’è pericolo!

Tancredo mangiava scrupolosamente, raccogliendo le briciole.

— Dimmi un po’: e la signorina Dora non ha nessuno che le parli?... —
fece, con un’aria furbesca, strizzando l’occhio.

— La signorina Dora?... oh, no! Ci sarebbe Maurizio, quello dei cani,
che certo la sposerebbe volentieri, ma lei non lo vuole. Anzi lei... — e
fece una pausa repentina.

— Lei?... cosa? Di’ su!

— Niente, niente; non son mica pettegola io...

— Lo so che non sei pettegola, — rispose Tancredo per lusingarla; — ma
io sono un uomo serio e con me puoi parlare liberamente.

Placata la fame, s’accorse che gli si offriva un mezzo facile per sapere
molte cose.

— Dunque la signorina vuol bene ad un altro...

La Berta strinse la bocca per non rispondere, ma gli angoli delle sue
carnose labbra parevano dire di sì.

— Povera signorina!... — sospirò la Berta. — È tanto una brava ragazza!
Allegra, buona, un vero angelo!

— Glielo si vede in faccia ch’è buona, — disse Tancredo, attento. — E
perchè non lo sposa quest’altro a cui vuol bene?

— Se si potesse avere tutto quello che si vuole al mondo!... — esclamò
la Berta, con sapienza.

— È uno qui del paese?

— Non è di qui, ma ora è qui da un pezzo... o per lo meno vien tutte le
settimane.

— Ho capito, — fece Tancredo. «Guarda, guarda...»

Sbucciava una pera, distrattamente, pensando a quel proverbio fiorentino
del cacio con le pere...

— Sicchè, al professore Ferento, la signorina Dora non piace? — domandò,
per accertarsi che fosse proprio lui. La Berta strinse di nuovo la
bocca, e questa volta gli angoli delle sue labbra dissero di no.

— Il professore... — mormorò la ragazza, con intendimento.

Tancredo non volle aver l’aria d’interessarsi troppo alla cosa, e
tacque. La Berta fece un nodo coi nastri del suo grembiule, poi lo
disfece; ma intanto rideva.

— Il professore...

— Già... già... — malignava Tancredo, benchè non sapesse ancor niente. —
Ah, sì, eh?...

Ammiccava, guardandola in faccia con gli occhi penetranti e studiandosi
d’indovinare quelle sue reticenze.

— Ah, sì eh?... — rifece ancora una volta, come se avesse ormai capito.

— Io non dico nulla, — premise la Berta, — perchè non sono pettegola, e
di quello che succede in casa non parlo mai per abitudine... Ma, tanto,
lo sanno tutti, dal portalettere al capostazione, e lo sapeva perfino
quel povero diavolo ch’è morto.

— Ah, sì eh?... — Un pezzo di formaggio gli rimase fra i denti,
masticato a metà. «Guarda, guarda, guarda... — mormorava tra sè. — Che
razza di faccenda è questa?»

— Guai se dovessi parlare!... — esclamò la Berta. — Sa, per i signori
c’è un’altra morale che per noi: fanno e disfanno quel che vogliono;
tutto va sempre bene.

— Dici davvero che il professore sia l’amante...

— Oh, io non dico niente, per sua buona regola! Ma, guardi, lo sanno
tutti: lo sa la signorina Dora, lo sanno i miei padroni, ossia il signor
Stefano e la signora Francesca, lo sa il fattore, il prestinaio, il
macellaio, il falegname, il curato, il sindaco... lo sanno tutti
insomma, e quasi quasi crederei che lo sappia perfino lo scemo!

— Diavolo! — esclamò Tancredo, rannuvolato. Poi emise una sentenza che
gli pareva insieme scaltra e doverosa:

— Molte volte si racconta quello che non è.

— Eh!... — scappò a dire la Berta, — se avessi tanti biglietti da cento
quante sono le volte che li ho veduti con i miei occhi!

— Tu?

Egli s’era fatto così buio che la ragazza se ne impaurì.

— Per l’amor di Dio! — supplicò, levandosi in piedi, — non mi
comprometta... Ho parlato senza volerlo, perchè mi pareva che lei
sapesse già... Mi raccomando, signore...

Tancredo si levò, e, venutole presso, le diede un’altra carezza su la
guancia, ma questa volta paterna.

— Sta tranquilla, ragazza. Sono un uomo serio, ti ho detto; e per conto
mio sarà come se non avessimo nemmeno discorso. Ti basta?

— Grazie, signore. — Poi soggiunse: — Posso portar via i piatti?

— Sì, ho finito.

Accese un mezzo toscano e cominciò a camminare, avanti, indietro. —
«Guarda, guarda, guarda...»

Nonostante la confusione dei suoi pensieri, s’accorse che bisognava
tenersi buona quella domestica, e gli parve che due lire fosser poche
per tutto quello che aveva saputo da lei. Si cercò nel taschino e prese
un’altro franco.

— Sei una ragazza a modo mio! Tieni.

Ella stava per caricarsi il vassoio su le braccia, e guardò attonita la
moneta che gli luccicava tra l’indice ed il póllice.

— Non si disturbi ancora...

— Oh!... — egli fece, con aria principesca, — bazzécole!

Ma non appena fu solo, Tancredo pensò che la fortuna d’un uomo consiste
alle volte nel trovare il bandolo d’una matassa molto arruffata, e
mentre si piegava sul davanzale per rinchiudere le persiane, lungamente
i suoi occhi affascinanti rimasero avvinti a quel fascio di luce
rossastra, a quel lento fiume di polvere che scaturiva dalla finestra
del morto.



II.


Alle nove precise il funerale mosse giù per il viale carrozzabile che
traversava il giardino.

Da un lato del féretro mamma Francesca e Maria Dora scendevano insieme;
dall’altro, papà Stefano, tenendo sottobraccio il figlio scemo.
Maurizio, Mattia, la piccola Natalissa, il giardiniere, seguivan per
primi il carro funebre, con gli occhi rossi di lacrime, accasciati da un
semplice ma spontaneo dolore.

Solo, pressochè isolato in capo del corteo, camminava Andrea Ferento, a
capo nudo, bianco ma impassibile. Aveva impartito gli ordini con una
voce breve; poi, quando il carro si mosse, guardò rapidamente in alto,
verso una finestra chiusa, dove la cortina ricadde; volse uno sguardo
rapidissimo su le persone che aveva intorno, e s’incamminò dietro il
carro.

Tutti, per un rispetto simultaneo, lo lasciaron solo.

Dietro lui si muoveva il corteo bisbigliante, numeroso d’un centinaio di
persone, che dal borgo eran salite a casa Landi, o v’eran giunte coi
treni del mattino, poichè la morte del Fiesco era stata annunziata in
città la sera innanzi dalle ultime gazzette con frettolose necrologie.

Tancredo Salvi scendeva tra il sindaco Berra ed il medico Paolieri;
studioso di ben recitare la sua parte in quella estrema cerimonia,
faceva pompa dell’alta persona e del suo maestoso dolore.

Fuor del cancello era una ressa di contadini, che al passaggio del
féretro cominciaron a biascicar preghiere; alcuni s’inginocchiavano su
la proda erbosa del fossatello, e, passato il carro, si raddrizzavan in
piedi senza ripulirsi le ginocchia dalla polvere.

Il cielo era limpido, l’aria ventilata, un ridere di pannocchie
sbocciava nella biondezza dei campi, scaturiva dalla terra umida una
fragranza di mietitura, e quel corteo funebre camminante per la strada
polverosa pareva in contrasto singolare con l’allegrezza del mondo.

Di là dalla svolta il borgo apparve, con i suoi tetti rossi e decrepiti,
che, accesi dal sole, ripercotevan nell’azzurrità un dondolìo balenante.

La strada maestra si lanciava diritta nel mezzo della borgata, piegando
a valle, di là dall’estreme case, per il declivio della collina. Su
l’ingresso del borgo due lunghe siepi di curiosi attendevano il
funerale.

E il carro camminava piano piano, con un rumor soffice di ruote nella
polvere, nereggiando nel soverchio splendore della mattinata, cullandosi
nella nenia dei salmi ecclesiastici e nel bisbiglio che faceva sotto il
gran sole quel corteo camminante.

Altri uomini frattanto s’aggruppavano intorno a Tancredo, al sindaco
Berra ed al medico Paolieri; fra gli altri un certo giornalista che
Tancredo conosceva benissimo, perchè appartenente come lui a quella
brigata clandestina di galantuomini matricolati, che vivon per così dire
di tutte le professioni altrui, grattando e scovando per ovunque l’aria
sappia di corrotto, e che stanno con gli orecchi tesi fra le quinte
della commedia cotidiana, pronti a balzar fuori come bracchi affamati
sul primo espediente che loro cápiti a portata di mano. La sua
professione confessabile era quella di giornalista, e faceva il
redattore estemporaneo di quei giornaletti effimeri nati per vendere il
lor silenzio, talvolta per fomentare uno scandalo, per farsi complici
d’una equivoca speculazione, talvolta per servire gli odii o per
lusingare le ambizioni d’un uomo potente.

La sua età poteva essere di quarant’anni, il suo nome: Saverio Metello.
Tancredo si maravigliò di non averlo prima veduto.

— Che diavolo, Metello? Cosa fai qui?

— Mi manda la «Voce», — rispose il Metello; — come vedi, sono costretto
ad occuparmi anche della necrologia... Che porco mestiere!

Tancredo sospirò e prese un’aria di cordoglio melodrammatico.

— Vedo che ti sei messo in lutto, — scherzò il Metello. — Che uomo
elegante!

Allora lo sdegno di Tancredo proruppe:

— Diavolo, non lo sai? Giorgio Fiesco era...

— Cos’era?

— Ma, per bacco, mio fratello! — Poi corresse: — mio fratellastro.

— Cáspita, è vero! E non ci avevo pensato! Ti giuro che non mi era
neanche passato per la mente! Scusami, veh... Condoglianze!

— Oh! figúrati... — fece il Salvi. E tuttavia prese un’aria leggermente
sostenuta.

Il corteo, giungendo nella piazza ingombra di folla, si fermò davanti
alla Chiesa; Tancredo, facendosi largo nella ressa, camminò dietro la
bara. Il Metello invece, dopo aver osservato con uno sguardo ironico il
suo camerata Salvi, trasse fuori di tasca un largo fazzoletto, e
piegatolo a sciarpa se lo mise intorno al collo, poichè sudava. Poi
volse uno sguardo circolare per la piazza, cercando un’osteria dove
potesse almeno bere una gassosa.

Tra l’insegna d’un ciabattino e quella d’un cordaio vide pendere la
frasca metallica d’un’osteria; essa teneva sul marciapiede tre tavolini
di ferro, con qualche scranna; v’era gente seduta; ma egli colse il
destro d’uno che s’alzava e si pose con placidità frammezzo a quegli
estranei. Volse lo sguardo in alto, aspettando che lo servissero.
L’orologio del campanile segnava le dieci e cinque; le sfere parevan
d’oro sul quadrante diviso dalla lor ombra; un vortice di rondini
roteava intorno alla guglia.

L’ostessa, panciuta, con un bel grembiule fiammeggiante, gli portò la
gassosa; egli ne bevve un bicchiere d’un fiato, e la trovò eccellente;
poi di nuovo riempì il bicchiere e stette a guardare le bollicine che vi
salivano scoppiettando. Cominciò ad imbastir mentalmente l’articolo
funebre.

«Giorgio Fiesco, nato nel... morto di... oh, di cosa è morto poi? Tisi?
Paralisi cardiaca? Mah? C’informeremo. Aveva dunque, — fece il conto, —
trentanove anni. Laureatosi ingegnere nel... questo non importa; diremo:
giovanissimo. Costrusse i ponti di... di... etc., capolavori
dell’ingegneria moderna, etc. etc. — Partì con i primissimi pionieri
della civiltà in regioni, etc. — famosi disastri minerarii, etc. —
costruì diecimila chilometri di strada ferrata... che il diavolo se lo
porti... etc.!»

Al suo medesimo tavolino eran seduti tre altri uomini, i quali si
credevan di parlar piano, accostandosi l’uno all’altro quanto più
potevano, con i gomiti poggiati sul tavolino di metallo; ma invece
parlavan in guisa da esser uditi e davano al tavolino certe scosse, che
il suo bicchiere di gassosa ne traboccava.

Uno d’essi ripeteva continuamente:

— Ti dico di sì, ti dico di sì!

E l’altro:

— Impossibile, impossibile!

Il terzo:

— Ma che impossibile d’Egitto!

Poi si guardavan intorno sospettosi. Saverio Metello, che per principio
soleva dare un grande peso ai discorsi enigmatici, prese un’aria
distratta e ricominciò a guardare in alto, verso le sfere luccicanti,
verso il balenante vortice di rondini che roteava intorno al campanile.
Onde sorprese questo bel discorso:

— Insomma, vediamo un po’: che il professore fosse l’amante.

— Va vene, va bene, questo lo so, — ammise l’incredulo.

— E che fosse incinta, lo sai o no?

— Si mormora... Ma non bisogna credere a tutto.

— Insomma, — esclamò l’interlocutore, che aveva l’aria d’un ricco
mercante, — lo ha detto a mia moglie una persona che bázzica per casa
loro; non voglio dire chi, per non compromettere nessuno; ma in una casa
è più facile batter falsa moneta che custodire un secreto. E posso
aggiungere anche questo: la gravidanza è di qualche mese.

— Del resto, — intervenne il terzo, che doveva essere un capomastro a
giudicare dal decimetro di legno giallo che gli usciva dal taschino, —
questo fra poco si vedrà.

— A meno che, — insinuò il denunziatore con aria sibillina, — ora che
lui, poveraccio, se n’è andato... a meno che, dico, non provvedano
altrimenti! Sai bene, i dottori fanno presto... E, dato che sarebbe
difficile, per non dire impossibile, attribuirne al marito la
paternità... capirai bene a cosa voglio alludere!

— Insomma, ditene quel che volete, ma io non credo! — esclamò quegli che
pareva un chierico d’avvocato, con la sua vecchia testa grigia e
ascetica.

— Allora sei testardo più d’un mulo! Méttiti bene in mente che, quando
una voce corre, qualcosa di vero c’è sempre, poichè dal niente non nasce
niente.

— Se così fosse, guai!

— Così è. Del resto, come spieghi tu il fatto che quel povero diavolo
non aveva chiuso ancora gli occhi e già tutto il paese mormorava la
stessa cosa: — L’hanno?...

— Sst!... Io non mi spiego niente, ma non credo, — fece l’altro,
caparbio.

— D’altronde, — venne a dire quegli che aveva l’apparenza d’un
capomastro, — il primo a lasciarselo scappar di bocca è stato il dottor
Paolieri, e l’ho inteso io, con queste orecchie. Eravamo in farmacia,
quando sono entrati a dare la notizia della morte. Il Paolieri è saltato
su di scatto e, senza riflettere, è venuto fuori con una frase che
lascio interpretare a voi: «È morto il Fiesco?... Me lo immaginavo! Se
l’avessero lasciato curare a me, che sono un asino, campava un pezzo
ancora!» Dopo se l’è rimangiata sùbito, anzi ha dato in escandescenze,
dicendo che l’avevan capito male... Ma l’ho inteso io, con queste
orecchie, dunque non serve che adesso egli neghi per paura.

— Insomma, — concluse l’incredulo, — volete un consiglio? Sarà quel che
sarà, ma state zitti; perchè in queste faccende v’è caso di buscarsi
qualche brutta seccatura, ed io, per me, come vi ripeto, non credo.

— Oh, tu, la sai lunga!... — fecero gli altri due, come se volessero
tacciarlo d’ipocrisia. Poi s’alzarono, ed insieme con altri sopraggiunti
entraron nell’osteria.

Saverio Metello aveva ascoltato flemmaticamente, ma senza perder sillaba
di quel grave discorso; aveva continuato a darsi l’aria più distratta
del mondo, a fissare i voli delle rondini, le sfere dorate che
camminavano sul quadrante acceso. La sua faccia restò impassibile, e,
quando i tre se ne andarono, altro non fece che sollevare lentamente il
bicchiere nel quale scoppiettavano le bollicine, poi tracannare sino
all’ultima goccia la fresca bevanda con una specie di lenta voluttà.

Era un uomo calmo, scettico, annoiato, che si risolveva difficilmente a
trovare alcunchè d’interessante nella vita, un uomo passato al di là da
tutte le sorprese, che odiava il mondo intero, ma con un odio
neghittoso. L’udire che un tale poteva essere stato ucciso, gli faceva
press’a poco lo stesso effetto che leggere nella quarta pagina d’un
giornale l’annunzio funebre d’una persona sconosciuta, od il rialzo od
il ribasso della rendita italiana, ch’egli, naturalmente, non era in
caso di possedere. Perchè una cosa giungesse ad interessarlo, bisognava
che toccasse da vicino la sua propria persona; ed allora quest’essere
apatico trovata in sè un’improvvisa e feroce gagliardìa per piombare su
tutto quello che poteva essergli utile, come sopra una legittima preda.
Il resto faceva meccanicamente, con una specie di disinganno anteriore,
con una incolmabile noia. Ora, davanti a tutto quello che aveva udito,
non trasse che una piccola riflessione.

— Adesso capisco meglio perchè Tancredo sia qui.

Supponeva naturalmente che l’ottimo Salvi ne fosse informato, e, con la
prontezza che gli era solita nell’intravvedere un affar losco, decise
d’avvertirlo in via confidenziale che nel disbrigo di quella faccenda
voleva mettere il suo zampino ancor lui.

«Pazienza! Non sarà stato un viaggio del tutto inutile.»

E trasse un enorme sbadiglio.

Adesso il funerale usciva di chiesa; la folla sgorgava dalle duplici
porte ingombrando la scalinata; una teoria di fanciulle, con il velo
della cresima, portavan i ceri funebri; quel brulichìo di smorte fiamme
pareva cancellarsi nel fulgore del sole. Ricollocaron la bara sul carro,
tra mucchi di corone, poi di nuovo il crocifero mosse in capo del
corteo.

A malincuore, anche il Metello s’incamminò. L’aver saputo eludere le
litanie dei preti non lo scampava da quelle de’ conferenzieri.

Intanto vedeva Tancredo discorrere con animazione, prodigarsi, fare un
grande sperpero d’inchini e di sorrisi. — «Ha tutte le fortune quel
birbante! Capace perfino di ereditare...» E davanti al pensiero che
Tancredo potesse ereditare, lo riprendeva un odio feroce contro tutta la
specie umana.

Presso il cancello del cimitero si trovaron lato a lato.

— Olà, bel giovine! — fece il Metello; — sono al corrente anch’io,
sai...

— Al corrente?... ma di cosa?

— Fa pur l’indiano... se ti garba!

— Uhm, non capisco... — grugnì Tancredo.

— In ogni modo, — concluse il Metello, — se vuoi che facciamo quattro
chiacchiere prima ch’io riprenda il treno...

— Volontieri.

La bara, portata a spalle, s’incamminò per il piccolo viale: i familiari
la seguivano e Tancredo s’affrettò con essi. Quando il feretro fu
deposto su l’orlo della fossa, Tancredo si trovò di faccia il Ferento.
Entrambi, quasi dimentichi d’ogni altro pensiero, per un lungo attimo si
fissarono. Poi Tancredo volse altrove lo sguardo, incapace di sostenere
più a lungo la sua bianca tranquillità.

Gli affossatori sollevaron la bara, mentre la folla erasi radunata in
cerchio presso il luogo del seppellimento. E qualcosa tuttavia di
solenne, di solenne anche per l’incredulo, si rinnovava nell’atto
semplice che nasconde per sempre sotto il lenzuolo di polvere una
spoglia supina e còrica l’uomo anchilosato, putrescente, nella divina
zolla piena di palpito che domani rifiorirà.

Ognuno intanto s’aspettava che parlasse Andrea Ferento, e nel succedersi
degli oratori ogni volta si lasciava un più lungo intervallo, mentre
tutti lo guardavano con attesa. Ma il Ferento se ne stava immobile, a
piè della tomba, con le due mani entro le tasche della giacchetta, gli
occhi fissi al coperchio della bara, e pareva che una grande solitudine
si estendesse intorno a lui.

Gli sguardi vigili del medico Paolieri non l’abbandonavan un momento,
così pure gli occhi d’altre persone disperse fra gli ascoltatori. Egli
sentiva con una specie di molestia la tenacità di quegli sguardi e
s’accorgeva di farsi continuamente più pallido come se una fredda febbre
gli consumasse la faccia. Si avvedeva di quell’attesa nella quale stavan
tutti, ch’egli parlasse, ma era ben risoluto a non dissuggellare la
bocca. Poi temette che il suo silenzio avesse a parer strano, e da
ultimo gli sembrò di parlare infatti, gli sembrò di esser ritto,
parlante, gesticolante, su l’orlo di quella fossa, ma di udire che
intorno si rideva sgangheratamente, beffando il parlatore, il morto, e
la vedova ch’era lontana, lassù, nella sua camera deserta...

I discorsi finirono, la gente non si moveva. Gli si avvicinò il sindaco
Berra:

— Professore, non crede lei pure...

— Grazie, no! — rispose il Ferento.

Ma la gente non si moveva; e lo guardavano; tutti guardavano lui. Gli si
avvicinò un giornalista ch’egli conosceva benissimo. Paolo Giordano, e
gli mormorò alcune parole a bassa voce.

Allora il Ferento comprese ch’era tuttavia «necessario» parlare; guardò
con odio la folla, eresse in un terribile sforzo la sua dura volontà, e
disse: — Va bene.

Fece qualche passo avanti, rialzò la fronte luminosa, e le sue labbra
obbedienti parlarono.


«Giorgio Fiesco...» — Limpida suonava la sua voce, senza tradire il
convulso che gli torceva l’anima, ed ancora due volte pronunziò questo
nome:

«Giorgio Fiesco... Giorgio Fiesco, ingegnere della miniera di Haswill,
costruttore del più alato ponte sopra la valle di Cimbra, io t’ho
salutato altre volte per morto, quando salpavi dal molo atlantico nel
meraviglioso pericolo della tua temerità. Senza lacrime allora, senza
lacrime ancor oggi, che non puoi tornare, ti saluto. Altro non facemmo
in vita che scambiarci nelle ore più forti una rapida stretta di mano ed
uno sguardo chiaro, che vedeva la strada fino all’ultima pietra
milliare, che non diceva mai: «Férmati» — ma diceva tranquillamente:
«Arriverai!» Poichè ti conobbi meglio di chicchessia, risponderò in tua
vece a coloro che oggi videro cadere su te la pietra del sepolcro. Le
tue parole sono queste: — «Non piangete. Un uomo sereno e stanco è sceso
nella morte che non temeva. Non fece che restituire la sua nascita, in
un’ora calma. Egli vorrebbe solamente insegnarvi a sciogliere questa
parola dal suo dolore, dal suo terrore, dall’inutile angoscia ch’essa
propaga in ogni giorno della vita; vorrebbe convincervi che la morte non
è una cosa triste, poichè il bene ultimo, l’ultima felicità degli uomini
è la pace...

«Sì, Giorgio: io che ti conobbi meglio di chicchessia, mi rammento che
pronunziavi queste parole poche ore prima di addormentarti. Ed ora che
non àbiti più nella spoglia coricata, il tuo fratello non ti deve che
uno sguardo chiaro, una stretta di mano, da compagno a compagno,
l’ultima, con semplicità.»


La sua voce solenne, il suo virile aspetto pieno di una tranquilla
magnificenza, parvero in quel momento ravvolgere l’uomo ed il sepolcro
nella significazione d’un rito. Un rito laico, ma profondamente umano,
che il simbolo del vivo compisse verso l’ombra dell’estinto, e che fosse
maggiore, più alto, più leale, di tutte le parodie con cui le religioni
accompagnano i morti a sepoltura.

Egli era scientificamente un ateo, sapeva i destini della polvere, aveva
escluso Dio. Molti, nell’ascoltarlo, si rammentavan le più note pagine
de’ suoi libri, ed anche se lontani da lui, anche se inadatti a
comprenderlo, sentivano raggiare da’ suoi occhi una potenza soggiogante,
sentivano quasi un’invidia della sua temeraria e mai genuflessa libertà.

Era un evangelista laico, un profeta che non vendeva dal pergamo le
formule dell’Assoluto, ma sui frantumi di tutti i Pantheon, delle
necropoli e delle chiese, innalzava la deità dell’uomo, dell’uomo
autocrate nel mondo, sterminatamente orgoglioso del suo nulla più grande
che Dio.

Era un profeta, non perchè avesse donato ancora una volta la
inconoscibile verità, ma perchè predicava la scienza come la sola
religione degna del tempo futuro, come quella che, svincolato il
pensiero da ogni teosofia, da ogni metafisica imbastita su ipotesi
arbitrarie o su telai di parole ingannevoli, guiderebbe ogni spirito ai
limiti della conoscenza ed al sereno amore della vita.



III


«La vedrò finalmente questa vedova!» pensava Tancredo, camminando in un
salotto attiguo alla sala da pranzo, mentre, per la porta socchiusa,
intravvedeva la Berta posare su la credenza un bel piatto fumoso.

Egli tornava dall’aver accompagnato alla stazione il suo compare Saverio
Metello, col quale aveva per l’appunto scambiate quelle quattro
chiacchiere che si erano promesse.

In quel momento entrò la signorina Dora, che, toltasi il cappello ed il
velo di crespo, ancor più frivola di giorno e più leggiadra gli parve
che di sera.

— Lei ha fame probabilmente, signor Salvi, — disse con la sua voce
fresca e maliziosa.

— Peuh... un tantino. Ma non ci pensavo neppure. In queste gravi
circostanze...

— Certo, — ammise Maria Dora con una boccuccia impertinente. — Ma ora si
va a tavola, non dubiti. — Poi soggiunse: — Cosa pensa del funerale? È
riuscito grandioso e commovente, non le pare?

— Quello che il povero Giorgio si meritava, — osservò Tancredo con aria
ispirata. — E sua sorella come sta?

— Eccola, — disse Maria Dora. Ella entrava con sua madre infatti;
Maurizio la seguiva con Stefano e con lo scemo. Poco dopo sopraggiunse
il Ferento, che lo presentò alla vedova:

— Il signor Tancredo Salvi, che forse non conoscete.

Ella fece un saluto con il capo, un saluto serio e dolce, al quale
Tancredo rispose con una specie di riverenza impacciata.

Quando furon tutti seduti, la Berta mise davanti alla vedova una tazza
di brodo; il Salvi non poteva ristare dall’ammirarla tanto, ch’ella
teneva costantemente la faccia china. Poi guardava con invidia il
Ferento, pensando: «Beato lui!»

Tranne alcune brevi parole di Maria Dora, la colazione passava
taciturna. Lo scemo aveva smesso l’abito nero, per indossar di nuovo il
suo giubbone quasi giallo, e si divertiva nel battere la stoviglia con
la forchetta, il bicchiere con il coltello; poi faceva le boccacce alla
Berta, ridendo e tirandola per la sottana ogni qualvolta costei gli
passava daccanto.

Verso la fine della colazione entrò Mattia, che aveva da parlar con
Stefano, il quale si levò, e uscirono. Marcuccio pure sorse di tavola
prima che gli altri finissero, e scomparve. Maurizio si puliva le unghie
con uno stuzzicadenti. Quando Maria Dora, che gli era seduta vicino, se
n’accorse, gli diede un colpetto con la mano; il giovinotto si mise a
ridere. La vedova non voleva neppure le frutte; sua madre le mise
tuttavia sul tondo una bella pesca, rossa come un caldo velluto, e che
mandava profumo.

— Mangiate almeno quella pesca, Novella, — disse il Ferento, che pur
tacendo si occupava continuamente di lei.

Ella volse gli occhi a guardarlo, sorrise ed obbedì.

Tancredo aguzzava tutte le sue facoltà d’osservazione, poichè la voce
del Ferento, nel parlare con la vedova, lo aveva infatti colpito: una
voce così diversa dalla sua consueta, blanda, persuadente, morbida, «una
voce — se la definì Tancredo — che pareva la carezza d’un innamorato.» E
per la seconda volta, ma quasi con rancore, si disse: — «Beato lui!»

Frattanto s’accorse che Maria Dora e Maurizio si parlavan piano e
ch’egli doveva essere appunto la causa de’ loro bisbigli. Allora domandò
al Ferento:

— Scusi, professore, quando riprende i suoi corsi all’Università?

— Fra una diecina di giorni, signor Salvi.

E basta. Non c’era proprio mezzo d’attaccar discorso. A lui pareva che
tutto dovesse avere un limite, anche il dolore per un morto, e trovò che
in fondo esageravano un poco.

— Prenderemo il caffè in sala, — disse Maria Dora. E si levarono.

Tancredo, nel salone semibuio, si sprofondò in una comoda poltrona; di
fianco gli misero un tavolino con la chicchera del suo caffè; Maria Dora
gli propose la scelta fra un bicchierino di «Chartreuse» ed uno di
«Cognac»; Tancredo preferì quest’ultimo per la veneranda polvere che ne
affumicava la bottiglia.

La sala — quella medesima sala ove poco tempo innanzi, durante un chiaro
pomeriggio di sole, Novella si era seduta al pianoforte per eseguire una
fuga di Bach, mentre il marito l’ascoltava e la guardava protendendo
verso lei con un disperato amore l’esausta persona febbricitante — la
sala medesima era come quel giorno fragrante di rose, e come quel giorno
il sole vi pertugiava dalle persiane, dissolvendosi traverso la penombra
in una striscia di polvere luminosa.

Tancredo si sentiva bene, deliziosamente bene, sicchè, abbandonandosi
alla sua natura fantastica, sognava che quella casa fosse la sua propria
casa, immaginava di potervi da quel giorno in poi trascinare una vita
opulenta e neghittosa, facendosi servire come un satrapo, satollandosi
di pasti luculliani, consumando una cantina di bottiglie decrepite, lui,
Tancredo Salvi, padrone d’una villa in campagna.

Il Ferento, in piedi su la soglia d’un altro salotto, stava leggendo un
giornale; mamma Francesca s’appisolava sul divano; Maria Dora ed il
giovinotto discorrevan sottovoce nel vano d’una finestra; la vedova era
seduta quasi di fronte a Tancredo, con le due mani poggiate sui
bracciuoli della poltrona di velluto scuro, il capo rovesciato sopra un
cuscinetto che guerniva la spalliera, sicchè la sua gola bianchissima
appariva scoverta come una procace nudità.

Allora Tancredo arrischiò una frase, timidamente:

— Si ricorda, signora? Io venivo a trovar Giorgio qualche volta in
città...

Ella n’ebbe un tremito, come s’egli l’avesse interrotta nel mezzo d’un
sogno.

— Sì, me ne ricordo, signor Salvi...

La sua voce le somigliava: era come la sua gola turgida, come la sua
gamba seminuda, come tutta la sua persona, viziata, appassionata, soave.

— Ma ultimamente era un pezzo che non rivedevo Giorgio.

— Forse da quando si ammalò?

— Appunto.

Gli occhi della vedova eran dolci, grandi, fermi: lo guardavano in
faccia, ed egli si sentiva vergognoso come un contadino sotto lo sguardo
di questa bella donna.

Maria Dora, udendoli parlare, s’avvicinò e mise una mano sul braccio
della sorella, poi s’appoggiò con i gomiti su la spalliera stessa
ov’ella teneva il capo.

— Ed ora, — domandò il Salvi — lei pensa di rimaner in villa, o forse di
fare un viaggio per distrarsi?

— Non so nulla per ora; non abbiamo ancora deciso nulla.

— Signor Salvi, — disse d’improvviso il Ferento, con una voce quasi
gaia, — vuole che facciamo insieme una passeggiata nel giardino?

Egli si levò in piedi con un atto di repentina obbedienza e rispose: —
Volentieri.

Scesero dalla scalinata e s’allontanarono fra gli alberi. Camminando, il
Ferento ripiegava con lentezza il giornale, che poi si mise in tasca. Ma
d’un tratto e senza preamboli disse:

— Lei desidera probabilmente saper qualcosa intorno al testamento di
Giorgio Fiesco, non è vero?

— Ecco, no... ossia... — spiegava Tancredo con impaccio.

— Dunque: il testamento fu trovato nella sua scrivania ed ora è nelle
mani del notaio Garlantini, qui del paese, presso il quale può prenderne
visione quando crede. È molto semplice: istituisce la moglie erede
universale, tranne un cospicuo legato in terre ai suoceri Landi, perchè
poi lo trasmettano alla lor figlia Maria Dora. Qualche ricordo agli
amici più stretti: lei non vi è nominato.

— Ah, benissimo... — rispose livido il Salvi, che per tutto quel
discorso aveva trattenuto il respiro.

— Ecco: volevo dirle questo, — concluse il Ferento.

«È un colpo forte, forte, forte...» — pensò Tancredo. Guardò in terra,
in cielo, fra gli alberi, poi soggiunse:

— Ma, scusi, lei trova giusto?... le pare una cosa giusta?...

— Sì, — rispose il Ferento con una voce pacata.

Il Salvi a tutta prima non seppe che dire; quella risposta recisa lo
sbalordì.

— Giusta fino ad un certo punto, — si permise di osservare. — Dopo tutto
ero il solo parente...

— Che vuole? Non è sempre la parentela quella che suggerisce gli
affetti, e le dico in verità, poichè mi ha domandato il mio parere, che
Giorgio Fiesco non avrebbe potuto accorgersi di avere un fratello, o sia
pure un fratellastro, se non dopo la sua morte.

— Ma non era colpa mia se...

— Via, non le pare che sian discorsi oziosi? Volevo dirle piuttosto una
cosa, signor Salvi. Lei è arrivato iersera ed ha creduto opportuno
alloggiare in villa, pur non conoscendovi nessuno...

— È vero, professore; ma era così tardi... poi desideravo...

— Mi lasci dire. Tutto questo può esser ancor naturale. Ma quello che
trovo assai meno lecito è il suo contegno in tale circostanza.

— Quale contegno, professore? Ho cercato solo di rendermi utile.

— Quel che trovo assai meno lecito, — continuò il Ferento senza badargli
— è per esempio la sua dimestichezza improvvisa con persone di servizio,
che vanno lasciate in cucina.

— Ah, lei vuol dire... — fece Tancredo mordendosi un labbro.

— Non volevo dirle altro che questo, signor Salvi, e mi perdoni la
libertà. Ma siccome la famiglia Landi è molto colpita in questo momento
ed io sono il loro amico più stretto, così ho creduto necessario di
parlarle chiaramente.

Si era fermato e gli esponeva queste cose con affabilità, con una
garbatezza calma e sicura, davanti alla quale Tancredo non seppe che
rispondere.

— Mi scusino... — mormorò.

— Nient’affatto, signor Salvi; lei non deve scusarsi affatto.

Poi gli parlò d’altre cose affatto prive d’importanza, tornando passo
passo verso la villa.



IV


Da questo colloquio Tancredo intese che le parole del Ferento
equivalevano ad un commiato e che perciò era necessario far presto.

— Non dubitare che mi vendico! — borbottava a denti stretti, ripreso da
un accesso di bile nel pensare alla sfumata eredità. E seduto nella
medesima poltrona, in quella profumata sala dove non c’era più nessuno,
immaginava con iracondia le sue vendette future. Ma poco dopo entrò lo
scemo, s’accocolò in un angolo e, preso l’archetto, incominciò ad
eseguire sul violino quell’unica dolorosa Canzone ch’egli sapeva.
Arrivato ad un certo punto, s’interrompeva sghignazzando, e ricominciava
da capo.

— «Di’, scemo? seguiterai per un pezzo a farmi questo bel concerto?» —
-mormorò Tancredo a mezza voce.

Ma lo scemo, che aveva un udito finissimo, lo intese, o intese almeno
l’epiteto, del quale si corrucciò. Scese dalla seggiola, e con il
violino in pugno gli venne davanti, minaccioso.

— Come ti chiami? Chi sei? Cosa fai qui? Vattene!

E con l’archetto gli segnava l’uscio, protendendo sul collo turgido la
faccia incollerita. Per prudenza Tancredo si levò in piedi e fece atto
di ubbidirgli, ma riparatosi dietro la poltrona cominciò a fissarlo.

— Dica, professore... non facciamo scherzi! Professor Marcuccio, per
carità... si calmi, professore!

Accortosi che quel nome produceva un buon effetto, glielo dispensò a
manate: Professore, professore...

— Non ti piace la musica, eh? — lo derise Marcuccio, battendo l’archetto
sul violino.

— Così così...

— Allora forse preferisci che ti legga una poesia?

— Ecco, — disse Tancredo con longanimità, — preferisco.

Lo scemo depose il violino, trasse di tasca un quaderno scarabocchiato
di righe storte, si pose nel mezzo della stanza, e imitando gli oratori
che aveva uditi quel mattino al camposanto, cominciò a leggere:

    «Sette matasse di lana
    di sette colori che sono:
    il bianco, il giallo, il verde, il rosso, il blu,
      — gli altri due non so più —
    hanno filato le monache
    per fare il lenzuolo di morte
    ai morti del paese.
        Sette matasse di lana,
    perchè si marita domani
    il maniscalco che batte,
    che picchia, che batte, che picchia,
    sui ferri, tutta la settimana.
    Sette matasse di lana.

— Ti piace?

— Sì, professore, è molto bella. Come dice?... «il rosso, il giallo, il
verde, il bianco, il blu, — gli altri due non so più...» Bello! molto
bello!

E Tancredo batteva le mani.

— Silenzio! — impose lo scemo. E ricominciò:

      «Sette rocchetti di refe,
    di refe bianco e di refe turchino,
    hanno filato le monache
    per fare una vesta da festa,
    tutta bianca e tutta rosa
    alla Berta che va sposa:
    alla Berta rossa, che ha la pancia grossa.

— Questa è migliore! — applaudì Tancredo. — «Alla Berta rossa, che ha la
pancia grossa...» — Un capolavoro!

E piano piano, mentre lo scemo stava per attaccare una terza strofa,
scivolò fuori dalla sala, scese nel giardino, e poichè l’avevan lasciato
solo risolse di fare una bella passeggiata. Lontanò in mezzo alle
campagne, ragionando fra sè medesimo su quello che gli convenisse fare.

Per fortuna il suo cervello era una miniera inesauribile d’idee, nè a
lungo indugiò prima di guidare le sue ricerche verso la persona che
precisamente gli occorreva.

«_Ecce homo!_» — esclamò d’un tratto, pronunziando a fior di labbro
questo nome: — Dandolo Zappetta.

Costui era un morto di fame, al quale Tancredo sapeva di aver pagato
cinque o sei pranzi, nonchè un numero infinito di mezzi toscani.

Era piccolo piccolo, magro magro, giallo giallo, con due piedini da
bamboletta, un giacchettuzzo nero, che pareva di raso, tanto s’era fatto
lucido, un testone maggiore del suo corpo, con una strana calvizie che
gli occupava soltanto la chierica e la sommità della fronte.

La sua bocca era sottile, diritta, come una di quelle righe segnate nei
libri al finire d’ogni capitolo, e vi teneva sempre infisso un cotal suo
bocchino d’un certo legno da lui vantatissimo, qualcosa di raro come
quei legni aromatici che i primi navigatori Egizi riportarono dal
favoloso regno di Punt.

Era povero come Giobbe, ma tuttavia possedeva un orologio di similoro,
più bello che l’oro, tre anellucci da giovine puerpera, due catene
d’argento, un portacerini cesellato, un portasigarette d’un altro legno
quasi leggendario, venuto forse da un mondo più lontano che il lontano
reame di Punt, e mille altre bazzecole d’un valor grande invero, che
formavano i beni della sua felicità. Quest’uomo singolare, non c’era
cosa che non avesse veduta, udita, saputa, o non sapesse fare: ma non
faceva niente. Viveva in due camerette al quinto piano, ingombre zeppe
di collezioni di farfalle, tra un lusso incredibile di vasetti e
scatolette, che racchiudevan lucido per le scarpe. Verso il tempo del
pagar la pigione assumeva qualche vago mestiere; nel resto dell’anno la
sua professione era quella di raccoglier farfalle, nonchè di rendere
servigi a’ suoi numerosi amici. Chiunque avesse bisogno di lui non
doveva che dirgli: Dandolo... E Zappetta lo faceva. Che poi lo
pagassero, trovava ottima cosa, come del restare a mani vuote non si
doleva gran che.

Aveva tuttavia un debole, un debole che gli era nato forse dal grande
consumo di romanzi polizieschi, ed era infatti la passione del bel
delitto, cosa della quale stava sempre in agguato, come il can da fermo
quando apposta la selvaggina.

A tal uopo serviva di quando in quando, e non per lucro ma solo per
amore, in una agenzia di poliziotti privati, nobil gente quant’altra mai
vide il tempo nostro fiorire, tra la quale Dandolo Zappetta godeva di
una piccola celebrità.

«_Ecce homo!_» — esclamò di nuovo Tancredo benedicendo in cuor suo la
natura per avergli dato un cervello così fecondo. E la mattina seguente,
licenziatosi dagli ospiti con solennità, verso le dieci risaliva in
treno.

Era una giornata calda, con minacce di temporale. Guardando fuori dal
finestrino Tancredo ripensava quante mai cose non eran accadute in que’
brevi due giorni, e gli avvenne di riflettere come talvolta si vada
incontro ad una fosca tragedia senz’averne il più lontano presagio.

Nonostante il suo cinismo apparente, quel buon Tancredo era debole di
sua natura, ed ora si sentiva tratto a veder sangue, veleno, assassinio
dappertutto.

Viaggiando per quella nubilosa giornata si perdeva in lunghe
fantasticherie sui delitti e sui veleni dei Borgia.

Quando arrivò a casa, Caterina, ch’era occupata nello stirare le sue
camìce, depose il ferro e gli fece un’accoglienza festosa.

— Ben tornato il mio bel signore! Che notizie mi porti?

— Incendio! — egli esclamò tetramente, buttando la valigia sopra una
seggiola, che si capovolse. A gambe levate scapparono Tresette e
Patcioulì, i due gatti soriani ch’essi tenevano per lor diletto a far le
fusa intorno al focolare.

— Fa piano, tesoro... — lo esortò Caterina. — Quando entri tu, entrano i
vandali. Ebbene, cosa vuol dire incendio? Non ti capisco; hai ereditato
almeno?

Tancredo si soffiò due volte nel palmo della mano: — Ecco l’eredità!

— Me lo immaginavo, — ella fece senza grande rammarico. — Figùrati se
quegli egoistoni pensano a te!

— Ma, ma, ma... — l’interruppe Tancredo. — non è detta l’ultima parola!

— Davvero? E come? Racconta.

— Ora non ho tempo; devo uscire sùbito.

— Almeno dammi un bacio, bellezza d’oro.

Tancredo, col dorso della mano, le vellicò la guancia grassa, e questo
fu il bacio. Poi si rimise il cappello, ed uscì. Trovato Saverio in un
certo caffè dove questi bazzicava ogni giorno, lo mise al corrente in
quattro parole di tutto quanto aveva potuto raccogliere intorno ai fatti
già saputi, nonchè del progetto che aveva di spedire colaggiù Dandolo
Zappetta.

Saverio trovò eccellente l’idea di mandarvi Dandolo, e, quanto alle
spese, risolsero di farle a metà.

— Non ti sei per caso lasciata sfuggire una parola di troppo?? — domandò
Saverio.

— Io? Mi conosci male. Neanche una sillaba!

Tosto s’avviarono verso la casa di Dandolo Zappetta, e saliti con fatica
i suoi cinque piani tirarono il cordone del campanello.

— Chi è? — fece dal di dentro la voce affabile dell’omino.

— Amici, — risposero i due tamburellando con le nocche su l’uscio.

Dandolo venne ad aprire in mutande, coi piedi che navigavano in due
vaste pantofole di paglia tonchinese, dalle punte volte all’in sù come
le prore di due gondolette.

— Oh, guarda... Saverio! Tancredo!!... Che piacere! Avanti, avanti!

Sui tavolini, sul divano, sul letto, su le seggiole, fin per terra,
v’eran cartoni di farfalle in preparazione; le pareti n’eran coverte,
sicchè pareva d’entrare nel ripostiglio d’un bizzarro museo. A terra,
dietro il capo del letto, v’era un mucchio di libri, coverti da uno
strato di polvere; sopra il canterano, in gran disordine, quantità di
boccette, scatolette, forbici, spilli, spazzolini, cose tutte che
dovevan esser utili alle sue scarpe od alle sue farfalle.

La camera prendeva luce da una finestrella poco più grande che una
gattaiuola e così alta nel muro che certo l’omino doveva salire sopra
una sedia per giungere ad aprirla: questo perchè dava sul letto. Un vano
senza porta metteva da quella stanza in un’altra più piccola,
rischiarata solo da una finestra a bótola.

— Ora vi libero il divano, — disse Dandolo. — Abbiate pazienza.

E con infinita cura operò il trasloco delle sue farfalle.

— Eccomi a voi, cari amici. Se mi dispensate dal mettere i calzoni, vi
ringrazio, così non s’impólverano.

— Figùrati! — rispose Tancredo. E cercò dove quell’omino tenesse i suoi
preziosi calzoni. Li vide, ben ripiegati, su la spalliera d’una
seggiola, protetti da un giornale; sotto la sedia v’era un paio di
scarpe, luccicanti come se fossero verniciate a coppale.

— Vuoi guadagnare cinque o sei giorni di mantenimento in campagna, un
anticipo all’andata ed una buona gratificazione al ritorno? — domandò
Tancredo, entrando filato nell’argomento.

— Se avete bisogno ch’io vada in campagna, — rispose Dandolo umilmente,
— ci vado senz’altro. E dove?

— È un paese ricchissimo di farfalle, — spiegò Saverio con un risolino.

E guardava su le pareti quel fermo svolazzare di alette gialle bianche
verdi turchine, chiazzate striate variegate, che formavano in verità una
tappezzeria fantastica.

— Dandolo Zappetta! — esclamò Tancredo, — qui vedremo veramente che uomo
sei, perchè veniamo da te per incaricarti d’una inchiesta siffatta, la
quale, se desse risultati positivi, basterebbe in fede mia per mettere a
soqquadro l’Italia!

— Davvero? — esclamò Dandolo, pizzicandosi le mutande, ma senza un
eccessivo stupore.

Poi Tancredo, nel modo più confuso che potè, omettendo nomi, luoghi,
particolari, fece al poliziotto un’arruffata e misteriosa narrazione.

Durante questo racconto lo Zappetta prese un’aria quanto mai distratta,
mordicchiando il suo corto bocchino e sollevando il sopracciglio destro
d’un buon dito sopra il livello del sinistro. Quando il narratore giunse
al termine, Dandolo non aperse bocca; ma, scordandosi d’essere in
mutande, faceva tratto tratto il movimento di chi voglia ficcarsi le
mani nelle tasche.

— Dunque? — l’interrogarono insieme Tancredo e Saverio, davanti a quel
silenzio.

Dalla scranna su cui stava, Dandolo affondò i piedi nelle due gondole
tonchinesi riprendendo contatto con la terra.

— Ecco, — spiegò loro con mansuetudine. — Voi mi fate l’effetto di due
malati che vadan per un consulto nella clinica di un dottore, ma poi
rifiutino di lasciarsi visitare, anzi facciano tutto il possibile per
nascondere al medico i sintomi della loro infermità. In questo modo,
cari amici, non verremo a capo di nulla.

— Non ha torto, — ammise Tancredo guardando il Metello.

— Statemi a sentire, — cominciò Dandolo in tono confidenziale. — Con
quello che m’avete già detto, poche ore mi basterebbero per colmare, se
volessi, le lacune del vostro racconto.

— Non ha torto, — ammise anche il Metello.

E ripigliando la narrazione da capo, gli scoversero interamente il loro
segreto.

— Ahimè!... — fece allora lo Zappetta. — Mi pare una cosa tanto grave,
ch’essa tocca l’inverisimile.

— Così è, — rispose Tancredo con modestia.

— Ebbene, — precisò Dandolo, dopo aver riflettuto, — supponiamo per un
momento che il fatto sia come voi dite. Andrea Ferento ha avvelenato, e
certo in un modo strettamente scientifico, il marito della sua amante,
il fratellastro di Tancredo, l’ingegnere Giorgio Fiesco. Se così stanno
le cose, io vi prometto di portarvi in meno di otto giorni i dati
necessari perchè Tancredo ne sporga denunzia al Procuratore del Re.

— Ottimamente! — applaudì Tancredo.

— Ma se invece si trattasse d’un abbaglio, d’uno di quei fenomeni che
sono talvolta l’ìndice della perversa fantasia popolare, i veri casi di
pazzia dell’Anonimo, e se ciò non ostante voi voleste, basandovi sui
rumori d’una borgata, macchinare contro quest’uomo, che ammiro
altamente, uno scandalo indecoroso a puro scopo di lucro, qualcosa
insomma che abbia l’aria d’un ricatto... allora vi consiglio, ragazzi,
di andar a picchiare altrove, perchè io di queste cose non mi occuperò
mai!

I due si guardaron in faccia con una certa qual titubanza, e sorrisero
fra loro di quella soave ingenuità. Pareva si dicessero: — Poverino! che
omino per bene! che anima semplicetta come le sue farfalle! — Poi
Tancredo rispose con voce burbera:

— Va bene, va bene!

Ed il Metello aggiunse:

— Non era nemmeno il caso di parlarne, tanto è naturale.

— Io amo gli accordi chiari, — precisò lo Zappetta. — Ed ora torniamo al
primo supposto: il delitto è veramente avvenuto, io l’ho ricostrutto,
Tancredo va per sporgere la sua denunzia al Procuratore del Re... Mi
seguite?

— A puntino.

— Ebbene, sapete voi quel che càpita nel nostro bel paese? No, non lo
sapete?... Ci prendono tutti e tre, delicatamente, con un pretesto
qualsiasi, e ci mandano intanto a meditare su le piaghe della società
negli ozî d’una patria galera.

— Càpperi! — saltò su Tancredo.

— Verissimo!... — dichiarò il Metello; — ha ragione lui. Non ci avevo
pensato.

— C’era una volta un asino il quale, avendo inteso dire che Caligola
aveva incoronato il suo cavallo, si era messo in mente di andare alla
conquista dell’Impero Romano... Sapete cosa gli capitò?

— Lasciamo gli scherzi, — fece Tancredo, — e spiégati.

— Ecco, mi spiego, — disse allora Dandolo, — Voi dimenticate una cosa.
Il Ferento, oltre la sua propria forza d’uomo politico, di agitatore, di
scienziato, è anche massone; anzi è, od era, uno fra i più potenti capi
della Massoneria.

— Stavo per dirlo: è massone! — confermò il Metello.

— Dunque a voi due pare — disse Tancredo — che non si possa far nulla
contro un uomo così potente?

— Non volevo dir questo, — riprese lo Zappetta col suo tono
dimostrativo, — ma certo sarebbe da pazzi mettersi al cimento senza la
certezza di riuscire. Voi due non potrete mai essere che i suoi
zimbelli, anche se aveste in mano la boccetta del veleno che gli servì.
Poichè sappiate che contro un uomo così forte potrebbe solo cimentarsi
un rivale della sua tempra, o l’avversaria che vince tutti: la folla.

— Sei eloquente! — esclamò Tancredo.

— Sono giusto, — corresse Dandolo, — giusto semplicemente. Oggi ancora,
dinanzi alla figura di Andrea Ferento, io, che vivo in una soffitta, mi
sento pieno di ammirazione; il giorno in cui avessi acquisita la
certezza del suo delitto, ma una certezza vera, una certezza mia
propria, diverrei feroce contro di lui, perchè il delitto è maggiore
dell’ingegno, anzi è la cosa più potente che generi la società; quindi
va smascherato.

— E concludendo? — fece il Metello, cui non importavan assolutamente
nulla questi aforismi.

— Concludendo io parto stasera stessa, od anche sùbito, se volete.

E rapidamente guardò i suoi calzoni, poi l’orologio di similoro che
teneva in una foderetta di lana.

— Benissimo, — acconsentirono i due compari.

— Lasciatemi solo riporre le mie farfalle e chiudere bene le finestre
perchè non entri vento.

L’omino, raccogliendo i suoi cartoni, ad uno ad uno e con infinita cura
li portava nell’altro bugigattolo, facendo su l’ammattonato con le sue
pantofole un rumore di paglia strofinata. Intanto i due si consultavano
su la somma che fosse opportuno dargli per il viaggio. Tancredo era
liberale, il Metello più avaro assai. Questi credeva che un centinaio di
lire fosser più che bastevoli, ma Tancredo, assistito dalla propria
esperienza, pensava che avrebbe avute molte spese, quindi non convenisse
parer taccagni e bisognasse darne duecento almeno. Così risolsero; e
mentre lo Zappetta rientrava gli consegnaron i due biglietti da cento
piegati in quattro.

— Eccoti i denari necessari, ma ti preghiamo di notare tutte le tue
spese.

— Va bene, — rispose Dandolo. E senza contare i biglietti, se li mise in
un taschino del panciotto.

Solo, nel trasportare l’ultimo cartone, domandò:

— Quanto mi avete dato?

E scomparve nel bugigattolo.

— Duecento lire! — gli gridò appresso il Metello con una voce
accrescitiva.

— Non bastano, — rispose Dandolo, tranquillo.

— Oh, diamine! — esclamarono tutt’e due. Dandolo riapparve:

— Non bastano, e mi spiego. Sappiate che io mi presento laggiù come
ingegnere agronomo, inviato da una Società di sfruttamento agricolo,
società che avrebbe in animo di acquistare nella contrada grandi aree di
terreno. In capo a due giorni mi riprometto di conoscere tutte le
persone più cospicue della località; mi useranno cortesie, bisogna che
possa rendere. Ho le mie valige pronte, nelle valige tutto un vestiario
che non porto mai quando non sono in funzioni. Verso il prossimo che si
vuol sfruttare bisogna anzi tutto e sopra tutto non puzzar di miseria.
Mi capite?

— Vedi come si fa? — disse Tancredo al Metello, con ammirazione. Ma
questi era seccatissimo e non spianava il suo volto arcigno.

— Poi, — riprese Dandolo, — avrò a che fare con giornalisti, e costoro,
anche in provincia, non lo dico per farvi un complimento, son persone
alle quali si deve ogni specie di riguardi.

Ora Dandolo s’infilava i calzoni.

— Quando poi una notizia ha preso la via delle stampe cammina da sè come
un sasso giù dalla montagna. Poichè il giornale ai tempi nostri è
diventato l’evangelo di una chiesa universale, che si chiama la Stampa,
e che detiene il Primo Potere. Il giornale vi serve a tutto, vi fa
tutto: è la balia ed il carabiniere dell’uomo. Annunzia la vostra
nascita, la vostra morte, che altrimenti nessuno saprebbe, vi crea la
fama o ve la stronca; vi procura da mangiare o vi taglia i viveri.
Osservate bene. Le istruttorie, le inchieste, i processi, vorrei dire
anche i delitti, è il giornale che li fa succedere; i verdetti, è il
giornale che li impone. Non solo. Ma chi fa la guerra? la pace? le
alleanze? la politica?... — Il giornale.

Forse tra poco i Gordon Bennett cominceranno una dinastia, mentre un
Concilio di Redazioni eleggerà il Papa. E non è tutto. Avete inventato
un prodotto? un meccanismo? una peregrina idea di qualsiasi genere? Il
giornale ve la bandisce tra il pubblico. Scrivete un libro? Ve lo
giudica. Vi capita un rovescio? Si affretta a farlo sapere. Vincete un
terno? Ve lo pubblica. Volete moglie? Ve la trova... Cosa potreste
chiedere di più ad un giornale, che dopo tutto vi costa un miserabile
soldo?...



V


Per una casa d’uomini era dunque passata, ed or già lontana pesava la
fredda ombra della morte. Un’altra notte saliva nei millenni, bruciava
le sue stelle vertiginose ai perduti confini del mondo.

Quanti anni eran trascorsi dal primo giorno che un uomo uccise? dal
primo giorno che un essere amò?

Nulla; non si sapeva nulla. Tutto continuava senza meta, nell’infinito
inutile andar del Tempo. Non si udiva che una sorda campana battere a
colpi disperati... Era la campana della Bufera, la campana della
Distruzione, la campana dell’Inutilità.

E diceva infinitamente nell’infinito:

    «Io sono il Tempo: — ieri e domani.

    Io sono il principio di tutte le cose, — la fine di tutte le
    cose — ieri e domani.

    Quando vedrete accendersi una stella, direte com’io dico: — ieri
    e domani.

    Quando sarete giunti all’ultima di tutte le parole che sembrano
    vere, — dubiterete che sia vero il Tempo: — ieri e domani.

    Quando sarete giunti a questo dubbio, comprenderete che sono
    fermo, — che sono fermo come voi, uomini, e non esisto: — ieri e
    domani.

    Allora non sarò più il Tempo; — non sarò nè il millennio nè
    l’istante: — ieri e domani; sarò la favola eterna del mondo: —
    ieri e domani.»

Lontana dall’amante, sola, nella sua coltre insonne, a lei pareva
tuttavia di commettere peccato. E più forte, fra quei brividi che han
nome di rimorso e di paura, la gioia del sentirsi libera le irrompeva
nell’anima come un’ondata barbara di felicità, le brillava come un fuoco
di stelle sui vertici della vita.

Egli stesso non aveva osato entrar nella sua camera, ma, chinando gli
occhi, le aveva detto sul limitare: — Non ancora, non ancora... È troppo
presto, amore mio...

Le aveva detto così, ed ella sentiva come lui che «troppo presto» era
infatti per cominciare l’oblìo. Bisognava che il morto scendesse più
profondo nella terra tenace, bisognava che anche l’ombra di lui si
cancellasse da quelle tragiche pareti.

Or si rammentava d’essere stata una sorella, una buona e devota sorella,
ma già le batteva nel cuore il felice cuore dell’amante.

V’è un giorno della vita il quale pare che raccolga in sè la conclusione
di tutto quel che si fece, il seme di tutto quello che si farà. Ella
pensava: — «Questo giorno è venuto».

E mandava l’amore a cercare di lui, nel suo letto lontano, come traverso
la notte manda il suo profumo un fiore.

«Vivrò — pensava — nella tutela della sua forza, nel calore del suo
coraggio; mi parrà, nelle sue braccia, di tornare ogni giorno a vivere
la prima ora di vertigine, il primo smarrimento che provai.»

E insonne si volgeva nella coltre molesta, evocando l’ombre del suo
rimorso per incutersi maggior paura, ma pensando invece all’amore con un
cuore involontario.

Egli le aveva detto: — «È opportuno ed è necessario che fra pochi giorni
ti lasci. Cerca di comprendere, Novella, ch’io debbo fare così...»

Diceva questo guardandola, tenendo le due mani posate su le sue spalle
con un atto di protezione e d’amore. Ella taceva; ma un grande
smarrimento le invadeva l’anima; continue lacrime le brillavano su le
ciglia ferme.

Perchè lasciarla sola in quella tetra casa, dove non troverebbe alcun
rifugio, quand’egli fosse lontano da lei? Perchè non portarla con sè
nella loro città febbrile, nella loro città violenta, ov’egli sarebbe un
uomo operoso ed ella un’amante nascosta? Perchè dissimulare, ed ormai
vanamente, quello che tutti sapevano?

Ma egli l’aveva serrata contro di sè per consolarla, ed aveva detto: —
«Non ancora. Devo, per un’ultima volta, partir solo. Bisogna che tu
cominci ad essere una mamma, Novella, ora che lo puoi. Ricòrdati che il
nostro bimbo dovrà, nascendo, chiamarsi con il suo nome. È triste, è
orribilmente triste... ma, che vuoi? l’uomo, anche il più forte, non può
sottrarsi a tutte le catene, a tutte le commedie che intessono la vita.
Più tardi certamente l’adotterò, farò in modo che il tempo me lo renda;
ma, se vogliamo che sia felice, deve nascere nel cammino giusto, cioè
nella menzogna. Tuo padre, tua madre, chiunque ci conosca deve _poter
credere così_. Perchè, solamente in questo modo, l’opinione della gente
saprà tollerare ch’io ti abbia amata. E sei tu che devi proteggere la
nostra creatura, Novella... mi capisci? Sei tu.

«Più tardi potrai venire in città, con Dora e con tua madre, se non vuoi
trovarti sola in quel tuo appartamenento che forse ti spaventerà un
poco. E attenderemo insieme che nasca il nostro bimbo, quello che noi
dovremo amare molto, molto, Novella, perchè gli abbiamo dato più che la
nostra vita...

Così parlando la guardava; una specie d’inerte fissità incatenava i suoi
occhi per solito così mobili; una specie di pesante oppressione
incurvava la sua maschia fermezza.

«Quando sarà nato, — egli riprese, — potremo finalmente pensare a noi;
potrò dire finalmente che ti amo, che ti amo, e lo dirò così forte,
Novella... con tanta gioia lo dirò, che forse ci perdoneranno. Perchè,
vedi, se è vero che tu dovevi essermi vietata come poche donne lo furono
ad un amore, certo nessun coraggio fu mai più grande nell’amore, del
coraggio che ho saputo avere per te...»

Nella veglia ella ricordava queste parole, ma senza cercare di
conoscerne il remoto senso; le ricordava come una musica d’amore che le
avesse inebbriati i sensi e quasi come la memoria d’una snervante
carezza, d’un lungo e lento bacio che le avesse affaticata l’anima.

Ed era felice di sentirsi ancor giovine, ancor bella, e così piena e
così persa d’amore, da potersi concedere senza paure all’uomo che amava,
da potergli rendere con pienezza quella gioia soverchiante ch’ella
traeva da lui.

Era stanca, le dolevano le spalle, i ginocchi, le braccia, le tempie;
non le riusciva d’addormentarsi, e quasi per scendere incontro al sonno,
si adagiava nel letto più supina, cercava ne’ propri capelli sciolti un
più morbido guanciale. Ma, ecco, le avveniva di pensare con qual
dolcezza si sarebbe addormentata nelle braccia dell’amante, reclinando
sotto il suo respiro la fronte ismemorata e sentendosi a poco a poco
disperdere in una immensa felicità, in un riposo che le parrebbe il
limite dell’amore umano, la pace dei sensi e dell’anima, il piacere che
non affatica più...

Ma poichè non poteva trovar sonno in quella ingrata coltre, si levò a
sedere sul letto e con le braccia ricinse le ginocchia sollevate.

Stando così, a mezzo fuori dalla coltre, il profumo del suo proprio
corpo l’avvolgeva come un odore inebbriante.

Una tristezza grave le assalse l’anima, poichè, lontana dall’amante, le
pareva che scendesse un velo su l’infinito mondo e naufragassero tutte
le cose in una vuota inutilità. Ella era donna, perciò non aveva
battaglie nella vita, non miraggi verso i quali avventarsi con eroismo
nè fatiche assidue che a lei riempissero le lunghe ore del giorno; era
solamente una donna, un voluttuoso cuore d’innamorata, fino allora
vissuta in ischiavitù, ed ormai, sopraggiunta la liberazione, dal più
profondo pensiero alla più tenue vena, la beata sua giovinezza non
sapeva che offrirsi all’amore.

— «Non mi addormenterò, — pensava — s’egli non viene a baciarmi, e sarò
triste nella mia solitudine, come se qualcosa del nostro amore fosse già
vicino a morire.»

Cominciò a riflettere: — «S’egli mi dimenticasse?» — Ripensò la storia
d’altre amanti, l’abbandono d’altre innamorate, che anch’esse avevano
amato come lei; sentì ch’era donna ella pure, onde aveva nell’ombra de’
suoi passi un nemico inesorabile: il Tempo... e invasa da una folle
paura tornò la sorella del morto, confuse il rimorso nella tristezza,
pianse dell’amor suo con lui.



VI


— Sì, Giovanni, — disse Ferento al suo domestico, — sono in ritardo
infatti. Ma da qualche giorno soffro d’insonnia e non mi riesce
d’addormentarmi sin verso l’alba.

Il domestico non rispose parola, ma fissò il padrone con uno sguardo
fedele. Aveva notato infatti la grande alterazione del suo viso dopo
l’ultimo ritorno dalla campagna, ma pensava che la perdita dell’amico
fosse causa per lui d’un soverchio dolore.

Come soleva ogni mattino, Andrea scese rapido per le scale, saltò
nell’automobile che l’attendeva sotto il porticato.

Per recarsi alla Clinica bisognava attraversare diagonalmente la città,
uscir fuori dal suburbio, verso l’estrema circonvallazione. Colà, sul
primo nascere della campagna collinosa, un edificio limpido sorgeva dal
mezzo d’un giardino, come una serena e grande abitazione ove il dolore
dell’uomo cercasse pace nel libero sole.

Il Ferento l’aveva da tempo fatto sorgere, contribuendovi largamente col
suo proprio danaro, per farne un grande Istituto di cura e di
preparazione scientifica, un’ara solenne della medicina moderna. Da
lunghi anni egli vi dedicava indefessamente ingegno, amore, volontà, con
tanto spirito d’abnegazione, con tanto lume d’intelletto, che già da
ogni parte il suo chiaro nome v’attraeva gli sguardi fiduciosi di tutta
la scienza europea, come ad una di quelle sacre officine ove un uomo di
genio, curvo ed investigante su la materia malata, cerca senza posa di
emancipare gli uomini dal patimento e rendere migliore la vita alle
generazioni future.

Questo era veramente, nel suo santo paganesimo, il Tempio Umano.

Così limpido era il mattino, che ridendo nelle invetriate bagnava di
splendore le contrade, traeva dalla pietra e dal metallo un tremolìo di
luce pieno d’ilarità. La città rumorosa e popolosa, consumando i suoi
traffici quotidiani, era desta, viva, celere, si affaticava con gioia.
In quella chiarezza, ogni singolo movimento assumeva una evidenza
particolare; l’insieme di tutte le cose pareva esprimere un senso di
forza gioconda.

E la Città era veramente un’arteria del mondo, anzichè un aggregamento
labile di case provvisorie, costrutte solo per contenere in sè il breve,
inutile decorrere di tante vite umane. Era un’arteria del mondo e
pulsava come una vela navigante; era un non so che di mostruoso che
sbocciava dalla terra, dissimile da tutte le forme della natura;
qualcosa d’immane che l’uomo aveva generato senza esempio, foggiando le
montagne, piegando le foreste, costringendo i fiumi ad ubbidirgli: era
un attendamento dell’uomo nella sua marcia verso l’infinito.

Assorto in profondi pensieri, non s’accorse che già, di lontano, su
l’altura della collina, appariva la grande villa bianca, dal tetto
d’ardesia, con le finestre protette da tendoni di tela quasi rossa. E
quando se n’avvide, una sensazione del tutto nuova la percosse, quasi di
stupore e d’angustia, una sensazione che per la prima volta gli accadeva
di provare, davanti a quella casa veduta nascere pietra su pietra.

Quando l’automobile ne varcò il cancello, egli ebbe quasi voglia di
tornare indietro, per sottrarsi alla noia di dover discorrere con tutta
quella gente: i medici, le infermiere, la Direttrice, i malati, sopra
tutto i malati.

Allora, in una sola evocazione, rivide le lunghe corsìe, le sale
operatorie, le piccole stanze, linde, uguali, con un letto in ferro,
anch’esso bianco, due seggiole, un armadietto, un tavolino.

Era la prima volta che gli accadeva di provare quel senso di stanchezza,
di noia... Perchè la prima volta?

Alcuni convalescenti passeggiavano per il giardino, e lo salutarono.
Egli guardò la quercia altissima che sorgeva dal mezzo dello sterrato,
l’albero calmo e tutelare intorno a cui le vetture compivano il giro per
ridiscendere verso la cancellata. Nell’alto fogliame, come in un immenso
alveare, le nidiate cantavano.

Com’egli era stanco!... Perchè mai così profondamente stanco?

La Direttrice gli scese incontro per la piccola scalinata, e con molta
esuberanza lo festeggiava. Un infermiere, due medici, uno studente
stavano su la porta. «Ben tornato! Ben tornato!...»

Egli s’accorse d’un lieve odore d’acido fenico e di cloroformio che
usciva dal corridoio; questo lo sorprese, come l’aveva sorpreso
l’aspetto della Clinica.

Tese la mano a tutti, scambiò alcune veloci parole coi più vicini,
mentre la Direttrice, un po’ chiacchierona, non ristava dall’esclamare:
— Com’è dimagrato, signor professore! Com’è pallido! Non sta bene?

— Un po’ d’insonnia, signora Maggià; nulla di grave.

S’avviò frettoloso verso lo studio, seguìto dal suo primo assistente, un
bel giovine biondo, con gli occhi luminosi ed intelligenti, che aveva
una così chiara voce da mandar in visibilio tutte le infermiere, quando,
nelle ore d’ozio, accompagnandosi con la chitarra, cantava. Una profonda
cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo
sotto la mandibola sinistra, ed era il segno d’un’infezione presa nel
curare un malato. Egli era così devoto al Ferento, e così ciecamente lo
ammirava, che gli avrebbe dato il suo corpo stesso per un esperimento
micidiale, s’egli lo avesse domandato. Più che venerazione, questo amore
per il suo maestro era una specie di totale soggiacimento, anzi una di
quelle fanatiche sottomissioni, che gli uomini di scienza riescono
spesso a determinare, per una superiore virtù del loro ingegno, sui
discepoli che hanno meglio educati.

— Ebbene, Rosales, come va?

Il giovine stava ritto davanti alla scrivania, guardandolo chiaramente
negli occhi.

— Io sto bene, professore. Ma lei ha veramente l’aspetto stanco.

— Sì, un po’ stanco, un po’ stanco... Ed i malati? Come vanno i nostri
malati? Nulla di nuovo?

Intanto sfogliava la numerosa corrispondenza, lacerando le buste con
l’unghia e scorrendo i fogli con nervosa rapidità. Nel medesimo tempo
l’assistente gli faceva il suo rapporto, con voce calma, precisa,
mettendo nelle sue frasi una brevità quasi soldatesca.

— Bene, — mormorava tratto tratto il Ferento; — bene. — Poi lo
interruppe: — Qui fa caldo, le pare? Apra la finestra, la prego.

Il giovine ubbidì. Lo studiolo terreno dava sul giardino; l’aiuola
correva lungo la muraglia; un grande albero d’olea fragrante nasceva
poco in là dalla finestra, tutto bianco della sua fioritura; i
ramoscelli poggiavano contro i vetri; nell’aprir questi, entravano.

— Professore, — disse da ultimo il Rosales, — in questi giorni, che
furono per lei così tristi, non ho creduto necessario scriverle parole
oziose; ma ora vorrei solo dirle...

Il Ferento, levatosi, gli battè leggermente una mano su la spalla: —
Grazie, grazie... — Poi soggiunse: — Lei pure in questi giorni avrà
avuto un orario faticoso per colpa della mia assenza.

— Oh, niente affatto! Desideravo che lei tornasse, ma non per questo, —
rispose il giovine con un accento pieno di tenerezza filiale.

La Direttrice picchiava discretamente all’uscio.

— Entri, signora Maggià.

Era una donna dal volto segaligno, dal corpo assai florido. Grigia, con
gli occhiali a stanghetta, portava un abito nero leggermente ricercato.

— Vorrei domandarle, professore, se comincerà con le visite o se prima
farà il giro delle sale?

— C’è molta gente?

— Otto o dieci persone.

— Allora prima salirò. Venga, Rosales.

Depose nel portacenere la sigaretta ed uscì nel corridoio. Assistenti,
chirurghi, medici, suore, infermieri, lo aspettavan su gli usci per
salutarlo; egli rispondeva, di qua di là, con un cenno del capo,
camminando veloce, seguìto a un passo di distanza dal suo primo
assistente. Si fermava per stringer la mano ad alcuni, con una rapida
cordialità. Mentre stava per salir le scale s’incontrò con un gruppo
d’infermieri che ne scendevano, portando sopra una barella un malato
verso la sala operatoria. Costoro si fermaron bruscamente per lasciargli
il passo.

— Avanti, avanti! — egli disse loro. E guardò quella faccia supina,
livida, scarna, che sbarrava attonitamente le pupille acquose, piene di
paura.

— Un tumore al fegato, — gli spiegò sottovoce l’assistente, quando la
barella fu passata.

Egli non intese, o non comprese; ma vedeva solamente la scala salire,
lucida, innanzi a sè, con un tappeto di sole... confusamente salire
verso l’invetriata fiammeggiante. Nel fondo de’ suoi propri occhi vedeva
una cosa futilissima: i gomitoli di lana con i ferri da calza, que’
grossi rotondi gomitoli di Marcuccio Landi, e gli pareva udir ronzare
dentro di sè il motivo di quella sua certa Canzone, che finiva in uno
scoppio di riso tragico sul violino singhiozzante...

Ora camminava lentamente per le corsìe piene di luce, da un letto
all’altro, visitando, interrogando. I malati gli sorridevano; le suore
componevano le coltri sotto i loro menti gialli: l’assistente, con un
libro in mano, prendeva nota delle sue prescrizioni. Scriveva
rapidamente con una penna stilografica, facendo stridere la carta. Un
malato aveva fame, l’altro voleva uscire, un terzo si lamentava, un
quarto era gonfio e paonazzo di febbre così da non poter parlare.

Tutto questo lo stupiva un poco, gli dava non so quale sensazione
d’irrealità, quasi non fosse più così utile come una volta curare i
malati, ascoltare quel che dicevano, saper esattamente di che male
soffrivano.

Anzi uno gli disse una cosa che lo stupì:

— Ma mi lasci morire, dottore... Cosa faccio al mondo io?

Egli, che prima non lo aveva quasi guardato, allora lo guardò. Era un
povero vecchio, asmático, piagato, canceroso, al quale avevan rasa
l’ispida barba a chiazze; una orrenda maschera contraffatta, con gli
occhi semichiusi, ove permaneva un barlume di vita, la bocca bavosa, tra
cui spuntava un po’ di lingua nerastra. Lo guardò ed ebbe voglia di
rispondergli: — «Hai ragione. Perchè cercherei di salvarti? Non v’è
senso comune, quando un uomo vuol morire...»

Mentre la suora lo scopriva, egli vide che aveva le mani allacciate da
un rosario. Siccome la suora voleva scioglierlo ed egli si rifiutava, le
disse di lasciarlo stare e gli fece sollevar le braccia sopra il capo.

Di letto in letto la sua sensazione d’inutilità cresceva; e gli sembrò
che fosse ozioso andar oltre, perchè i suoi assistenti eran tutti bravi
giovani ed il meccanismo della sua Clinica poteva ottimamente camminare
anche senza di lui. Egli era stato lontano alcun tempo, e tutto era in
ordine, tutto s’era compiuto e si compiva con la regolarità consueta.

— «I malati guariscono perchè la natura li fa guarire; muoiono quando la
natura li uccide. La nostra scienza non si riduce in fondo che ad una
serie di tentativi empirici... Ora, il tentativo d’un altro, che ho
pienamente ammaestrato, può valere il mio. Qui essi credono tutti,
medici ed infermi, ch’io possieda qualche maravigliosa virtù di
salvatore: ma è assurdo! Un giorno s’accorgeranno d’essere ad un
dipresso quel ch’io sono, e questo farà nascere uno stupore immenso...»

Passava da una camerata nell’altra, meccanicamente, domandando ogni
tratto il suo parere al Rosales con un’affabilità che non gli era
solita. Entrava ora in una corsìa di donne, più silenziosa, più intima,
ove nell’aria vagava un respiro di maternità e di sacrifizio, dove il
dolore pareva essere più profondo e tuttavia più contenuto.

Le tende abbassate mitigavano il chiarore del giorno; in quella luce
dorata i letti s’allineavano tranquilli. Una specie di riposo lo
avvolse, come se la sua missione di curatore tornasse a parergli buona e
come se un álito di riconoscenza muovesse a lui da ogni coltre su la
quale si curvava.

— Come?... — domandò improvvisamente al Rosales; — come ha detto? qual’è
il suo nome?...

L’assistente riaperse il libro che stava per rimettere sotto il braccio,
e rilesse:

— Novella Júdice, di Urbino; affezione...

Egli non ascoltò più oltre; qualcosa di dolce, di soverchiante, gli
commosse il cuore, come se da quel nome si partisse una infinita soavità
e la donna chiamata con tal nome fosse un’ombra lontana, imprecisabile,
di quell’amante che amava.

Prese un polso della malata e si curvò su lei pianamente. La faccia
pallida riposava nel guanciale, delineata in un contorno di capelli
biondi, così radi e lievi che parevano appena un velo fasciato intorno
alla sua fronte. Era una giovinetta forse di vent’anni e sorrideva
guardando il medico, la suora, comprimendosi la mano libera sul petto,
quasi per un senso invincibile di pudore. I suoi docili occhi azzurri
parevano domandar perdono d’essere tanto malata, e nel sorridere le
guance scarne le facevan agli angoli della bocca due graziose piccole
infossature.

Egli non contava affatto le pulsazioni dell’arteria, ma provava una
strana dolcezza nel toccare quel polso accelerato e fioco, nel guardare
quella miserrima fanciulla, che aveva il nome d’un’altra, il nome
ch’egli portava in sè.

— Vi sentite male? soffrite? — domandò egli, come non avrebbe domandato
un medico ma un affettuoso parente. Poi le passò una mano su la fronte
per consolarla e disse:

— Coraggio! Guarirete presto, molto presto... ve lo assicuro.

Il sole, dalla finestra di fronte, dorava i suoi capelli vaporosi, e
quel sorriso buono, come d’una bambinella ferita, continuava su la sua
bocca smorta...

Dopo aver compiuto il giro delle sale, andò a visitare i malati che
abitavan nelle camerette solitarie, simili a celle d’un monastero; poi,
sceso a pianterreno per un’altra scala, s’indugiò a discorrere con il
Rosales in quel breve ándito che da una parte sboccava nel giardino,
dall’altro sopra una corte.

In quella corte precisamente v’era un carro mortuario, fermo, attaccato
con un solo cavallo; il cocchiere, sceso di cassetto, s’era tolto il
cappello e facendosi vento discorreva con un cuoco.

— Cosa fa quel carro? — domandò il Ferento.

— Professore, le ho riferito dianzi ch’è morto il vecchio Celsi, del
riparto chirurgico; morto ieri, nove giorni dopo l’operazione.

— Ah, infatti... — egli mormorò. — E lo portan via ora?

— Credo.

— Voglio vederlo, — disse con rapidità. E scese per la scaletta
sotterranea che conduceva nella sala refrigerante, ove si deponevan i
cadaveri dopo averli sottoposti a necroscopìa. L’assistente lo seguiva.

— No, lei vada pure, — disse il Ferento.

Giunse in fondo; aperse l’uscio; fece qualche passo nella fredda stanza,
chiara d’elettricità. De’ sei tavolacci di zinco, cinque eran vuoti e
risplendevano; su l’altro era steso un grosso involto bianco, simile ad
una statua supina ravvolta nella sua tela.

L’odore acre dei disinfettanti mordeva l’aria, e gli sembrò di riceverne
un senso di stordimento.

Fece per avvicinarsi al cadavere, ma, poichè la porta erasi rinchiusa,
tornò indietro e l’aperse in bílico.

Di nuovo ne’ suoi confusi occhi, apparvero que’ gonfi e tondi gomitoli
dello scemo, con i ferri da calza; di nuovo gli cominciò a ronzare nelle
orecchie la nenia del violino singhiozzante.

S’accostò al cadavere, ed ebbe voglia di scoprirlo; ma gli parve che le
sue mani incontrassero una certa difficoltà nel compiere gli atti
necessari.

Le sue mani di fatti non si muovevano; ma egli provava un piacere
ansante nello star presso a quel cadavere, il piacere pauroso che si
prova stando su l’orlo d’un precipizio.

«Se chiamassi un guardiano per farlo scoprire?... No, è inutile.»

Le lampadine elettriche bruciavano dal soffitto basso in un cerchio di
luce immobile, mettendo a nudo il groviglio del lor filo incandescente,
il quale pareva complicarsi.

«Che idea di voler vedere questo morto? A che serve? No, me ne vado.»

E non poteva muoversi di lì; sentiva il bisogno, la tentazione, di
guardare quella faccia; tuttavia non sapeva risolversi a mettere la mano
su quel lenzuolo.

Gli tornò in mente il carro funebre che attendeva nella corte, il
cocchiere senza cappello che parlava con il cuoco.

«Ho capito: è già pronto per esser chiuso nella cassa; meglio non
toccarlo. Me ne vado.»

Ma nel medesimo tempo, come se le sue mani ubbidissero ad un’altra
volontà che la sua propria, sollevò il rovescio del lenzuolo che gli
doppiava sul volto e ne aperse i due lembi, scoprendolo fino a metà del
petto.

Era una faccia senile, glabra, gonfia, cinerea, che pareva sprofondata
nelle sue mascelle, rientrata nel collo quadrato, per insaccarsi entro
la convessità delle spalle. Il petto era sezionato da una lunga ferita
verticale, nera su gli orli di grumi sanguigni ed imbottita di bambagia.

Egli guardava senza ben comprendere, anzi gli pareva di dover
cominciare, davanti ad una classe di allievi invisibili, un corso di
anatomìa... Poi gli parve di trovarsi, come s’era già trovato un’altra
volta, nella necessità di sollevare quel corpo rigido su le sue braccia
restìe, per riportarlo a giacere in un letto, ma scivolando, senza far
rumore... Gli parve a poco a poco di riacquistare un suo stato d’animo
anteriore, di retrocedere in una forma di sè stesso già lontana, già
dispersa, e che le lampadine si spegnessero d’un colpo, — le quattro
lampadine appese alla volta sotto il riflettore di metallo bianco — e la
glabra faccia senile divenisse quella d’un altr’uomo, la faccia serena
che lo guardava dalla morte, senza rancore...

Rapidamente la ricoverse con il lenzuolo, si battè insieme i due polsi
per darsi vita, e risalì.

Volse un’occhiata nella corte: il cuoco se n’era andato; il cocchiere,
appoggiato al muro in un angolo d’ombra, fumava tranquillamente; il
vecchio cavallo nero dondolava la coda per scacciare le mosche.

Gli parve che il sole fosse una polvere in fiamme, una rossa nuvola
piena d’avvolgimento...

«Cosa devo ancor fare?... Ah, sì!...»

E rapido si volse; infilò il lunghissimo corridoio che traversava tutta
la profondità dell’edificio, rotto nel mezzo da un padiglione vetrato,
che imbiancava le stuoie d’una rotonda chiarità; lo percorse
velocemente, facendo co’ suoi passi un rumor forte sul linoleo
brillante; sentiva il bisogno di parlare, di agire, di ridere.

La Direttrice gli veniva incontro.

— Sì, éccomi, signora Maggià! Li faccia entrare.

— Senta, senta, — chiacchierava la Direttrice correndogli appresso; — il
professor Damiato e i due chirurghi primari son venuti varie volte per
salutarla. Vuole che li chiami?

— Sì, li chiami, grazie.

Ed entrato nello studiolo, accese una sigaretta, respirandone il fumo
con ingorda voluttà.

L’olea frascheggiava piano piano, con uno sciacquare di foglie rumorose,
facendo piovere le sue minute fioriture candide, sperdendo in larghe
ondate il suo voluttuoso buon odore; nel giardino si udiva un passo
lento e pesante camminar su la ghiaia; dalla città lontana saliva un
rumor confuso, interrotto spesso dal fischio d’una locomotiva, dagli
urli vorticosi, lamentosi, che nell’alto sole del mezzodì, con furia
lanciavano le sirene.



VII


Le adiacenze, la scalinata, la corte quadrangolare dell’Università ed il
suo vasto porticato a colonne di marmo, eran ingombri d’una studentesca
minacciosa.

L’agitazione, promossa dai corsi di medicina, i quali volevan si
sostituisse il professore d’anatomia, si estendeva per l’altre facoltà,
con fischi ed urli contro il Rettore, che non concedeva certe agevolezze
per una sessione d’esami.

La strada rigurgitava di studenti, che ne sbarravano il passaggio; altri
eran seduti in lunghe file su la scalinata, cantando; altri giravano in
drappelli, a passo militare, sotto il porticato, scandendo epigrammi
sopra un motivo d’operetta, ed assiepavano il cortile mareggiando con
gridi e gesti frenetici. Gli arringatori, saliti su gli zoccoli delle
colonne, rossi di collera e di fatica, parlavan gesticolando; una specie
d’assedio ingrossava davanti allo scalone della Segreteria.

Si gridava: — «Sciopero! Sciopero! Abbasso il Rettore Rolandi! Fuori il
professore Saraceno! Basta il Saraceno! Basta!... Viva la terza
sessione! Viva!...»

Un Commissario di Polizia, chiamato per telefono, sopraggiungeva co’
suoi agenti e li schierava in un vicolo vicino, pronti, nascosti. Ma li
videro; e si cominciò a gridare contro la forza pubblica. Il pennacchio
d’un carabiniere, che apparve davanti all’Università, fu accolto con un
subisso di fischi.

Da otto giorni il professore d’anatomia comparata, Enrico Saraceno,
impartiva la sua lezione a banchi semivuoti; ma quella mattina, dopo
averlo fischiato e vilipeso, eran entrati nell’aula dietro lui come una
masnada di vandali, mettendo i banchi a soqquadro, lanciando calamai
davanti alla cattedra, scaraventando i fascicoli al soffitto, in un
diavolìo che più non finiva.

— «Fuori! Basta! Non vogliamo il Saraceno! Fuori!...»

Questi era un meridionale allampanato, miope, con una cotenna spessa e
riccia come quella di un negro, la faccia olivastra, il naso leggermente
adunco, la bocca sottile, che portava sul labbro sporgente un sottile
paio di baffetti neri.

«Mannaggia! Mannaggia!» — bestemmiava, dando gran pugni su la cattedra e
con la voglia di scagliarsi, lui solo, contro quella scolaresca
dileggiante. Quando un calamaio spruzzò d’inchiostro l’assito polveroso
che innalzava la cattedra, divenne livido per la collera, si compresse i
pugni su le tempie, diede un calcio a quel calamaio spezzato, ed uscì.
La scolaresca lo accompagnava cantando a tempo di fanfara:

— «Non si vuol nè più nè meno, che scacciare il Saraceno!».

Man mano che finiva una classe gli studenti affluivan nella corte,
sicchè tutti i professori, dopo aver tentato invano d’imbrigliare quella
ribellione, s’eran adunati perplessi nella sala del Consiglio
Accademico.

Frattanto, sotto il porticato, s’improvvisavan cartelli a pitture
d’inchiostro e s’affiggevano alle colonne, o, inastate, si portavan come
insegne sopra il mareggiare delle teste.

— Vogliamo la terza sessione! Fuori il Saraceno! Abbasso il Rettore
Rolandi!»

Poi si torcevan dalle risa davanti ad una caricatura improvvisata, che,
nel contorno d’una enorme bottiglia d’Acqua di Janos, raffigurava il
Rolando e il Saraceno seduti a braccetto sopra due pitali. E sotto eravi
la scritta:

«Congedo per motivi di salute»

— Fuori! fuori! si chiude! — gridava a squarciagola il bidello, tentando
di persuaderli con le buone a scendere in istrada. Ma lo tiravan per la
giubba e gli davan lo sgambetto, chiamandolo il «Grand’Eunuco», per
esser egli senza pelo, alto e panciuto.

Dalla scala del Consiglio, stretta d’assedio, scese un piccolo vecchio
dalla bianca barba quadrata, il professore di fisiologìa, che gli
studenti amavano. Fu accolto da un’ovazione: — «Viva il professore
Sammarco! Ci ascolti, professore...»

Tutti gli si facevano intorno, volevano tutti parlare.

Egli alzò davanti a loro il palmo rugoso, come faceva dalla sua cattedra
per imporre silenzio.

— Sentite, figliuoli... Se non vi sciogliete súbito, il Rettore annunzia
che farà chiudere l’Università fino a tempo indeterminato. E riflettete
che siam presso agli esami. Ragazzi, mandate una commissione: le vostre
domande saranno discusse.

— È un pezzo che inoltriamo domande! Ci si beffa di noi! Revoca e
sessione! Viva il professor Sammarco!

— Figliuoli, ascoltate...

Ma la sua voce debole si perdeva nel frastuono, mentre la notizia della
minacciata chiusura si diffondeva per la corte sollevando urli; un
gesticolar di braccia furibonde si agitava contro le finestre del
Consiglio Accademico.

Il Commissario camminava nervosamente davanti all’Università, senza
badare ai dileggi velati che gli mandava la studentesca; una ressa di
popolo curioso ingombrava la strada, e su l’alto della scalinata il
bidello gesticolante cercava di persuadere quelli ch’eran seduti sui
gradini a levarsi e discendere nella strada.

Ma in fondo alla corte cominciavano a scoppiare grida sediziose: —
Barricate la porta! Non vogliamo poliziotti. Contro la forza useremo la
forza! Uh!... uh!...

L’orologio della torre sonò le undici, con lenti colpi metallici che
furono ascoltati; poi tutti si ammassarono sotto le finestre del
Consiglio, quasi avessero in animo di darvi la scalata.

Appunto alle undici doveva il Ferento impartire la sua lezione agli
studenti del quinto anno, ed ecco sopraggiungeva, camminando frettoloso,
allorchè di lontano vide quell’assembramento davanti all’entrata
dell’Università.

Quasi correndo percorse l’ultimo tratto, udì le grida, si cacciò nella
folla ed apparve in basso della gradinata.

Il Commissario, che per primo lo riconobbe, gli si avvicinò parlandogli
concitato:

— Questa indecenza dura da oltre un’ora! Hanno messo un’aula a soqquadro
ed asserragliano i Professori. Esito ad intervenire per timore di guai
serii, ma se fra dieci minuti non si sciolgono, chiamo rinforzi, entro e
li sgombero.

— Aspetti! — egli disse rapidamente. E saliti d’un balzo i tre gradini
esterni, si cacciò in mezzo ad un gruppo di studenti, che al vederlo
ammutolirono.

Egli girò su tutti loro uno sguardo freddo, quasi malvagio, ma nulla
disse: camminò avanti, a fronte alta, quasi fosse certo che la scalinata
ingombra dovesse aprire un varco davanti a lui.

D’improvviso, tutti coloro che barricavan la gradinata standovi seduti e
vociando, con un sol moto sorsero in piedi, si fendettero, ed egli salì
fra loro velocemente, con gli occhi accesi d’una collera muta.

Su l’alto della scalinata si volse con veemenza:

— E nessuno di voi — gridò ai più vicini, — ha osato imporre silenzio a
questa gazzarra da comizio pubblico? Nessuno? E perchè venite qui a
studiare l’uomo, se non avete compreso ancora che la più vile cosa per
un uomo è ubbidire alla folla?

Il bidello ansante gli corse incontro, congiungendo le mani, quasi che
in lui fosse l’estrema sua speranza. Egli non l’ascoltò nemmeno, ma
vôlti gli occhi beffardi sovra il cerchio di studenti che gli si formava
intorno:

— Dove sono e chi sono, — interrogò — i promotori d’una così bella
rivolta? Chi sono, domando? Non c’è fra voi uno solo che osi declinare
il proprio nome?

— Io, per esempio! — esclamò con tracotanza un giovine di membra
complesse, che, sebben lontano, cercava di estollere il suo massiccio
cranio chiomato, perch’egli lo riconoscesse.

— Ah, lei? Magentini, se non erro?

— Appunto, Magentini del quinto anno, — rispose il giovine facendosi
largo. E incominciò, con un tono arrogante: — Perchè, vede,
professore...

— Non si disturbi, la prego! Di lei mi ricordo bene, assai bene. Poichè,
avendola interrogata qualche tempo fa su certi problemi di embriologìa,
ella mi espose una teorìa siffatta, secondo la quale, come le osservai,
il colmo per la donna evoluta sarebbe quello di mettere al mondo un
neonato con la barba... Si accomodi pure!

Una risata clamorosa eruppe dagli ascoltatori, facendo giustizia del
malcapitato, che si rimpicciolì nella ressa, mentre invece, nel fondo
della corte, il gruppo de’ più facinorosi non cessava dalle grida
ostili.

— Taceranno! — egli affermò con la voce rauca d’ira. — Taceranno! — E si
cacciò davanti, pallido, nel tumulto che infieriva.

Due ne prese per le spalle, quattro ne urtò: sotto i porticati la
studentesca ondeggiava; un lungo solco di silenzio rimaneva dietro i
suoi passi. Chiamati per nome, alcuni studenti lo spalleggiavano; e
camminando a fronte alta, sicuro di non fermarsi, la sua pallida forza
impetuosamente li dominò. Un certo silenzio intorno a lui si fece, un
poco d’ordine fu ristabilito, e solo permaneva sotto le finestre del
Consiglio il gruppo de’ più accesi, che non volevano intender ragione.
Quando costoro s’accorsero che la maggioranza dei compagni stava per
arrendersi a consigli di moderatezza, con furore insorsero chiamandoli
disertori e pecore, facendo quanto baccano potevano, perchè nessuna
parola d’ordine fosse potuta udire.

— «Uh! vi lasciate tirare per le orecchie! Pecore! pecore! uuh!...»

Poi si cominciò a gridare: — «Abbasso il Ferento!» — prima da qualche
voce isolata, poi con gran clamore da tutto il gruppo ch’era lontano.

Egli si volse, come se l’avessero staffilato in pieno viso; balzò sul
muricciuolo che riuniva i colonnati, così da estollersi alto e solo
sopra l’assembramento, e simile a quello ch’era stato nei giorni di
battaglia, quando, amato e odiato, il suo nome batteva come una
bandiera, tese verso loro il braccio, e ridendo esclamò:

— È inutile che mi gridiate abbasso, perchè la natura mi ha posto in
alto!

E brillava, e la sua testa leonina era bella a vedersi come quella di un
tribuno imperioso che dómini un parlamento. Brillava ed era solo, e
raggiava da sè tanta forza, che i gridatori si tacquero, mentre da tutta
la studentesca infiammata un altissimo grido si partiva, una sol voce,
che obliosa d’ogni piccola discordia pareva inginocchiasse quei giovani
davanti all’uomo più forte.

— Spezzare qualche banco, assediare una scala, dipingere ad inchiostro
una piacevole caricatura, farvi suonare i tre squilli e sciogliere dalla
Polizia... sarebbe questo per caso lo spirito di ribellione che
imparaste nei suburbi, dall’eloquenza degli arringatori plebei?

O glorioso tempo di rivolte, ove uno scaricatore di fogne diventa
tribuno del Quartier Latino e Rettore Magnifico degli Atenei!...

Ma or che avete iniziata la rappresaglia con sufficiente rumore,
spaccato abbastanza legno, assediate abbastanza scale, ornato a
sufficienza di pupazzi la vostra Camera del Lavoro, delegate altresì una
Commissione di studenti, che renda noto al Consiglio Universitario la
natura ed i motivi delle vostre lamentele...»

— Già fatto! già fatto! Inutile! Nessuno ci ascolta! — s’interrompeva da
varie parti.

— ...a meno che non preferiate, — egli proseguì, — affidarmi la vostra
causa, fin dove io l’accetti e fin dove mi sembri giusta, perch’io mi
faccia interprete presso il Consiglio Accademico dei vostri desiderii,
e, con esso d’accordo, vegga di ottenervi una soluzione soddisfacente.

— Sì, sì! — acclamarono i più vicini, poi gli altri, poi l’intera
studentesca, prorompendo in applausi clamorosi, che soverchiarono il
tumulto.

Il suo nome volò da ogni bocca: — «Viva Andrea Ferento!» Lontano, alto,
per l’aria libera, il suo nome cantò: — «Viva Andrea Ferento!» E volando
e cantando inebbriava il cuore dei giovani, perch’era un nome di ribelle
anch’esso, e lo portava un uomo ch’era giovine ancora, che aveva sempre
insegnato a vivere combattendo, a cercare i pericoli delle più dure
battaglie, generoso alfiere d’una insegna di libertà.

— Ora scioglietevi, — egli disse, — Io sono il vostro parlamentare:
davanti al Consiglio Accademico sono garante per voi. Chè se invece
questo Ateneo, dove, nella più alta misura delle proprie forze, ciascun
professore dedica giornalmente a voi giovani la sua più bella e più
serena fatica, fosse per divenire un luogo sedizioso, dove si carpiscon
laure con scioperi di studentaglia e con fracasso di vetri spezzati, io
per il primo non vorrei più rimetter piede in queste aule, dove con
tutto amore, con tutta fede, credevo di educar familiarmente una libera
e franca gioventù, la quale sapesse fermamente che non bisogna mai, mai,
trovarsi dieci contr’uno per avere in dieci quel coraggio che uno solo
non ha. Io stesso, che non volli patire il giogo di nessuna obbedienza,
debbo anche dirvi che la vera libertà consiste nel non essere il
gregario di nessuna sopraffazione!

Allora centinaia di braccia si protesero a lui, quasi cercassero di
sollevarlo, mentre il suo nome squillava per l’aria, limpido e
risvegliante come una diana.

In un minuto di silenzio egli guardò la folla dominata, e si sentì
padrone senza contrasto di quei giovani cuori pieni di forza e d’impeto;
padrone di quei muscoli docili e forti, ch’egli poteva ben ghermire nel
suo pugno, e temprarli e fletterli come buone lame da combattimento;
poich’egli portava duramente inciso nella sua maschera d’uomo quel segno
di alta potestà che fa brillare nell’ombra delle moltitudini la faccia
dei ribelli e dei dominatori. E per un attimo riassaporò la gioia che
gli era una volta piaciuta, quella di moltiplicare la sua potenza
tirannica nella potenza passiva di migliaia d’uomini, poichè dalla
natura egli era sorto con un cervello d’autocrate e la sua strada era
segnata in capo delle turbe, ove s’innalzano gli stendardi, ove
camminano i Re.



TERZA PARTE



I


Senza mutamento ricominciò il suo vivere consueto. La Clinica,
l’Università, i molteplici consulti, le pratiche di laboratorio, lo
assorbivano da mattino a sera, ed anzi metteva nell’occuparsi una specie
d’iracondia, quasi che un’oscura ma imperiosa inquietudine lo
sospingesse a consumare con febbre tutte le ore della sua giornata.

Il mattino, al primo destarsi, lo stringeva un attimo di perplessità, e,
per una pigrizia del tutto morale, avrebbe voluto continuare quel sonno,
quel vuoto e opaco sonno che gli pareva quasi una immensa camera buia.

Ma, vinto con una tensione dei nervi quell’impreciso attimo di paura,
ecco egli era novamente l’uomo limpido e ferreo, il qual cercava
d’imprimere in ogni cosa che facesse un segno della propria volontà.
Soltanto gli pareva ormai che tutto questo fosse divenuto una vecchia
abitudine automatica e vana.

Curare gli uomini, insegnare ad uomini, comandare sopra uomini, cercare
indefessamente una verità, stabilire un principio, sentirsi alto,
potente, solo, — tutto questo gli era piaciuto un giorno, gli era
sembrato sommamente utile, sommamente necessario... Ma ora non ne vedeva
più con precisione lo scopo; non era più così certo che questa fosse la
sua strada, nè fosse in alcun modo una strada. Gli pareva che su
l’immenso caos organizzato gravasse quasi una pausa oscillante, una
lunga infinita vacuità, la qual pausa era stupore. Gli pareva di tornar
da capo con tutto il suo cervello pensante alla ricerca delle ragioni
d’ogni cosa. Questo piccolo fatto dell’aver ucciso, dell’aver ucciso
egli stesso, con la sua propria mano, con la sua nitida volontà, gli
scompigliava nel pensiero l’ordine immenso e la ragione intrinseca delle
cose. Non era uomo da conoscere ciò che si chiama volgarmente il
rimorso, poich’egli sapeva prima, e credeva di saper tuttora, che s’era
impadronito, nell’uccidere, d’un suo virile diritto. Ma nel medesimo
tempo sentiva che un fatto nuovo, un fatto di principio, era entrato con
ciò nel suo mondo cerebrale, anzi dominava come un improvviso equivoco
nella serrata logica del suo pensiero. Non rimorso era, e nemmeno era
una pavidità oscura de’ suoi sensi davanti all’ombra di colui che
giaceva. Non dunque una stolta paura della sua coscienza, e meno ancora
della vendetta umana, ch’egli sentiva di poter vincere quand’anche
s’apparecchiasse; — ma era invece un fatto quasi organico, un fenomeno
della sua stessa materia, la quale _sapeva_ di aver data la morte.
Questa parola «morte», che fino allora, pur vivendole in mezzo, pur
combattendola giorno per giorno, eragli parsa lieve, ora, inattesamente,
si vestiva d’un significato nuovo; non pauroso, non orrido, ma
stupefacente: — un significato che assaliva tutte le cose dell’universo,
non potendo ad altro somigliare che ad una specie di divinità.


Aveva da poco finito il pranzo, il suo pranzo veloce, che Giovanni gli
imbandiva e gli sparecchiava ubbidendo a’ suoi cenni. Era stanco d’una
giornata intensa; più che stanchezza, era un senso d’affaticante inerzia
che gli pesava nelle vene, mentre per l’aria ferma cominciavano a
fluttuare come invisibili sciarpe le calure della vicina estate.

— Giovanni, — diss’egli allora, — pòrtami, ti prego, un giornale.

Sorse di tavola, entrò in una sala che non era illuminata se non dal
riverbero della sera inazzurrata. Un lembo di cielo, con rosse nuvole,
chiudeva come uno scenario il quadrato calmo della finestra, e si udiva
salir dalla strada lo scalpiccìo della folla sui marciapiedi; si udivan
ruote correre, battere ferri di cavalli, freni soffiando stridere,
motori, con ánsiti e scoppi, lanciare per l’aria sonora un tremito
ronzante, una burrasca di velocità.

Lentamente s’affacciò al davanzale, guardando in giù, verso lo sbocco
della contrada e verso il quadrangolo della piazza colonnata, che
allargava la sua chiara vastità intorno ad una piccola fontana.

Allora subitamente si rammentò con maraviglia d’una cosa futile... d’una
sera, dell’anno antecedente, o forse d’un tempo ancor più lontano,
quand’egli appunto se ne stava così, fermo, a contemplare dalla finestra
la bella piazza illuminata, allorchè gli avvenne di riconoscere un uomo
che per il mezzo la traversava; un uomo alto, magro, leggermente curvo,
che veniva incontro alla sua casa, e camminando guardava se ci fosse
ancor lume nelle sue finestre, lassú...

Gli parve che il senso della moltitudine, del frastuono, il senso
attuale di quella piazza, consistesse appunto nell’uomo che certa sera
la traversava, nè ora la traverserebbe mai più, nei giorni tumultuosi
ch’eran per nascere su l’infinita vita... Rimase un momento con gli
occhi attoniti a fissare il pennacchio della fontana, poi trovò che
questo ricordo mancava d’ogni reale consistenza, si ritrasse, accese il
lume, sedette davanti alla scrivania.

Prese un foglio di carta, e, intinta la penna, tracciò distrattamente un
nome al sommo della pagina bianca: — Novella...

E dal chiarore invisibile che mandava questo piccolo nome, un sorriso
limpido come il sole tornò a brillare sul mondo. Una memoria di lei,
della sua bocca, lo tormentò così forte che il suo desiderio ne pianse,
così forte che gli sembrò di averla udita entrare, con un fruscìo dietro
la seggiola della sua lieve sottana, e gli sembrò che si curvasse, per
avanzargli sopra una spalla, d’un tratto, la bocca respirante, per
fargli con le calme sue braccia un nodo senza forza intorno alla gola
soffocata...

Si sentiva ridivenire con voluttà un illogico e docile uomo, libero da
tutte quelle complicazioni cerebrali che lo spingevano indefessamente
alla ricerca di «cause ulteriori»; s’accorse che pur una cosa v’era, la
quale sapeva sottrarsi alla sua concezione transitoria, inutilistica del
mondo: e questa era un’altra creatura come lui, fatta solo di carne
lábile, di bellezza fugace, che sarebbe morta e sparita, che avrebbe
dispersa in un pugno di polvere la sua ragione d’esser vissuta, ma che
bastava tuttavia per soverchiare i limiti della conoscenza, per lanciare
il sogno d’un uomo nella spaventosa eternità...

Di lei sola, di questo solo amore, il suo cervello analitico non cercava
ragione. L’amava; era pieno il mondo di questo amore esultante; le cose
tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo
cuore. Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e
nello spazio, nell’attimo e nell’eterno, era l’arteria della sua vita
molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed
immensa che il credente riassume in Dio.

Amandola, questo ribelle, questo anarchico, sentiva di ubbidire; di
ubbidire non a lei forse, nè al cieco dominio della sua propria
passione, ma quasi ad una legge di natività, immemorabile come la vita,
più necessaria e più semplice di tutte l’altre da lui contemplate, —
«una legge di dedizione e di generazione, ínsita in tutto ciò che vive,
radicata nell’elemento stesso del mondo, la legge per cui tutto
continua, la sola che tutto comprende, ciò che veramente è l’anima delle
cose, il Dio non creato dagli uomini...»

Queste parole aveva scritte ne’ suoi libri, ed ora le ripensava per
confrontarle con l’anima sua presente. La penna gli era caduta su la
pagina bianca; il tempo scorreva dolce nella sera ventilata. Le
ripensava, guardando distrattamente verso l’alta scansìa, cárica di
volumi rilegati d’un cuoio verde, con le diciture incise a caratteri
d’oro, i quali splendevano dietro l’invetriata luccicante.

E vedeva coloro che li avevan scritti, i suoi fratelli anteriori,
dispersi nell’epoche lontane, per le più lontane contrade della terra,
amici e nemici fra loro, ma raccolti da un solo nulla in una sola ed
uguale Inutilità. E ripensava più oltre quel che aveva scritto:

«O profeti degli errori più diuturni, o conquistatori terribili che
volgeste in cenere funeraria la bellezza dionisiaca della vita, non è
forse tempo ancora che un Dio più evoluto esca dalle nostre officine?
Non è forse tempo ancora che il crogiuolo d’un chimico rivelatore
imprigioni per sempre nella materia la favola dei vostri paradisi?

«La remota vostra leggenda metafisica servì a creare la morte quale noi
oggi la vediamo, ed in ogni cosa che l’uomo toccò, in ogni passo che
fece, in ogni respiro d’aria che bevve co’ suoi polmoni avidi, trovò
questo veleno mesciuto negli elisiri della vita.

«Perchè, o medici, o filosofi, o poeti, non guariremo noi l’uomo di
questo suo morbo millenario, che lo spinse a ricercare nella prigione
dei cinque sensi, con la sua logica d’apparenze, una ragione di sè?

«Possiate voi comprendere in un senso bello e sereno, in un senso
d’aurora e di lontananza, questa maravigliosa parola ch’io vi canto:
«_Il domani!_»

«_Ieri_», o uomini, è la parola buia. Significa essere stati, quindi non
essere più. «_Ieri_» è veramente la morte. Ma tuttociò che si chiama
luce, sole, amore, gioia, bellezza, possibilità... tutto questo ha nome:
«_Domani_». La vita non è che l’Oriente verso il quale si cammina, il
sole che nascerà domani. L’inutilità immensa e magnifica di tutte le
cose è in questo appunto, che la vita comincia davanti a noi, comincia
domani...»


Affaticato, egli si chiuse nel palmo la fronte calda; una gioia umana
gli navigò sopra il cuore, gli fece sorridere la bocca, dalla mente gli
bandì quella torma di pensieri estenuanti; perchè il suo «domani» era la
donna che amava di un amor quasi barbaro, ed era il gorgo di felicità
che gli si apriva nell’anima quando appena sovra lei si posasse una
carezza della sua mano, — della sua mano che aveva medicato la febbre,
le piaghe, i dolori degli uomini, ed aveva pure, con un sottile ago
d’acciaio, avvelenata una debole vena. Il suo «domani» era ciò che non
aveva conosciuto ancora nella veemente sua vita, se non fra distratte
avventure, ch’erangli parse lievi all’anima e fors’anche ai sensi come
quel rumore di seta scivolante che fa, nel cadere, una gonna slacciata.

Ma ora la sua bontà s’allontanava dagli uomini; la sua bontà non poteva
più guarire liberare o difendere che una sola creatura. La sua missione
gli pareva divenuta quasi puerile, al segno da sentirsene stanco e da
non saper comprendere più, nemmeno razionalmente, per qual ragione
proprio lui, che in fondo era un autocrate, un inutilista, un
distruttore, proprio lui che in fondo spregiava tanto gli uomini da
sentirsene padrone come d’un branco di pecore, avesse fino allora speso
tanti anni della sua vita, e sempre con indefesso amore, con
un’abnegazione talora confinante con l’eroismo, per guarire una folla
d’estranei, davanti ai quali non compiva che un atto malinconico e
faticoso di servitù. E spese tante ore nel suo laboratorio, alla ricerca
d’un farmaco, d’una scoperta che li guarisse meglio, e tante ore su
l’alto d’una cattedra per dividere con cervelli sbadati il pane della
conoscenza... Ora non capiva più come avesse potuto fare tutto questo;
anzi la memoria d’averlo pur compiuto lo lasciava leggermente sorpreso,
come se ciò fosse stata l’opera d’un altro. Insieme nasceva in lui,
contro il suo mestiere, un’avversione quasi fisica, perchè gli pareva
impossibile di dover toccare con la stessa mano il corpo d’un infermo e
la dolce soave carne di lei, ch’era una musica divenuta forma, un
profumo divenuto respiro...

Taluni pensieri futili, quasi feminei, lo assalivano. Certo non avrebbe
mai voluto che, nello starle accanto, la tormentasse un odor medicinale
d’etere o di cloroformio, il quale avesse impregnato la stoffa de’ suoi
abiti, o che, stando con lei, venisse chiamato altrove, o con lei
giacendo, avesse il mattino a sorgere dal letto per impartire la sua
lezione giornaliera nell’aula un po’ tetra dell’Ateneo...

Era pur nato nella famiglia vandalica dei dominatori: avevano battuto il
suo metallo su l’incudine che foggia la corona dei re; il suo cammino
era per l’alte nuvole, nell’infinita bufera. Ma questo bisogno d’esser
tale, di non potersi credere inutile come un piccolo uomo, era insieme
la sua spirituale schiavitù. E trovava necessario di appartenere ad una
missione, ad un amore, ad un’idea; sentiva, negando, il bisogno di
credere, comandando, la necessità di ubbidire.

Egli s’era provato ad uscire dal dominio suggestivo delle parole,
rompendo la catena dei sensi, ed era giunto a quel segno dove la
convenzione cessa, gli estremi si confondono, e tutte le parole che in
sè racchiudono un senso antagonistico — piacere o dolore, fede o
negazione, dovere o diritto, e più oltre, fino all’ultime: vita o morte
— non possono altro rappresentare che un suono di sillabe diverse.

Così egli pensava, ed aveva per lunghi anni pensato, finchè la sua mano
temeraria s’era persuasa di poter compiere ciò che la logica umana
chiama un delitto.

Ma inattesamente la sua materia si sentiva trasformata da quest’atto, e
gli pareva che un oscuro divieto ci fosse, fuori dalla coscienza, dalla
logica, dalla divinità, — un divieto fisico, radicato anch’esso nella
materia universa come un istinto fondamentale, profondo in essa come
quell’altra legge di dedizione e di generazione, che veramente è l’anima
delle cose, il Dio non creato dagli uomini...

Ed ora non sentiva nemmeno più il bisogno di difendere con una frode
complicata il suo semplice delitto; sentiva solo che un barbaro antico
era tornato a vivere nel suo cuore angusto d’uomo civile, ove la preda e
l’amplesso rimanevano ancora le più belle ragioni del vivere, dopo tante
metafisiche fallite, dopo tanti millenni di ascendente umanità.


Allora mosse la penna su la pagina bianca, e scrisse all’amante che
amava:

— «Sì! parti domani, come tu vuoi, come voglio anch’io... perchè ti amo,
ti amo, e non amo che te!»



II


Adesso di casa in casa, d’uscio in uscio, la voce correva. Era un
piccolo serpentello, nero viscido rapido, ch’entrava di soppiatto per le
fessure, faceva il giro delle camere, saltava inafferrabile, spariva.
Aveva cominciato a muoversi nell’ombra, con un tortuoso e lento camminar
di vermiciattolo, ed ora non aveva più paura nemmeno del sole; fischiava
con la sua lingua biforcuta, lasciando per dov’era passato una
lumacatura brillante. Non potevan trovarsi due persone a discorrere
insieme, che non capitasse loro fra piedi; non rispettava nè i focolari
nè i talami, nè il municipio nè la chiesa; ogni giorno cresceva
d’insolenza e fischiava con maggiore implacabilità.

La gente dapprima se n’era impaurita; ma ormai lo lasciavan entrare
liberamente per le lor case, e, stupefatti della sua straordinaria
vitalità, nessuno cercava nemmeno di schiacciargli il capo sotto il
piede, come si usa fare con le vipere.

Il serpentello fischiava e diceva: «L’hanno avvelenato... sì, sì, sì...»

Una curiosità malsana cominciò ad agitare quella calma popolazione;
tutto il giorno v’era gente che si aggirava nei pressi del cimitero,
discorrendo a bassa voce; taluni andavano a visitare la tomba recente,
quasi per interrogarla sopra il suo mistero; di notte i lumi si
spegnevano più tardi che per il consueto e certi orribili sogni
scendevano a turbare la fantasia di que’ semplici lavoratori.

Su, su, strisciando fuori dal borgo, la voce era salita fino alla villa;
era entrata per l’ortaglia e per la porta di servizio; s’era fermata
qualche giorno in cucina prima di arrischiarsi ad entrar nelle sale.

Ma quando Novella fu partita per la città, e nella casa restaron i due
vecchi, Maria Dora, lo scemo, a consumar tristemente le giornate
inoperose, una mattina capitò il padre di Maurizio e chiese di parlar
con Stefano da solo a solo. Certo egli non compiva due volte all’anno un
così lungo tragitto co’ suoi logori piedi: ma era venuto perchè ciò gli
pareva necessario, ed eran amici da troppo tempo, lui e Stefano, perchè
gli paresse lecito di tacer oltre.

— Senti... faccio bene? faccio male? Non so. Ma devo dirti una cosa
grave... molto grave.

Stefano aggrottò le ciglia.

— Poichè tu, naturalmente — continuava l’altro, — non sai nulla...

Stefano infatti nulla sapeva. Ma non era del tutto impreparato. Qualche
indizio lo aveva pur sorpreso; certe vaghe ombre nelle fisionomie della
gente, certi mormorii, qua e là, per i cascinali, non gli eran del tutto
sfuggiti.

— Si dice... — cominciò il vecchio.

Era un campagnolo del vecchio stampo, e si spiegò senza tergiversare,
con parole spedite.

Stefano dette un gran pugno su la tavola e non cercò nemmeno di
contenere la sua collera.

— Ecco due parole stupide: «Si dice!» Chi lo dice? Chi?...

— Tutti.

Allora la sua collera cadde; gli si aperse un enorme spavento nel cuore,
perchè, di colpo, non si sentiva più del tutto certo che dicessero il
falso. Lo mandò via trattandolo quasi male, bestemmiando ch’eran pazzi e
birbanti, con fiere minacce contro quelli che ne avessero parlato
ancora. Poi si giurò d’impedire che sua figlia e sua moglie avessero mai
notizia di questa orribile voce; ma non era trascorsa un’ora, che già
egli prendeva in disparte mamma Francesca e tremando le confidava
sottovoce: — Senti, vecchia...

Si curvarono paurosi e muti su questo enorme secreto. La notte non
dormivan più; volevan persuadersi a vicenda che la orrenda cosa non
poteva essere avvenuta in casa loro; ma una voce intima, nel cuore di
ciascuno, sibilava come il serpentello: «Sì, sì, sì...»

Ella non fu più la bianca solerte massaia; egli più non si occupava del
giardino, dell’ortaglia, nè di andare per i campi a sorvegliare i
bifolchi; ma camminava rannuvolato per le stanze; la pipa gli si
spegneva tra i denti.

Maria Dora li osservava con attenta curiosità. «Che mai poteva esserci
di nuovo ancora?»

Sapeva che Novella era andata a trovare il suo amante. Questo pensiero
le faceva un po’ dolere il cuore... Di giorno, per un nonnulla, era
stizzosa, e verso l’alba udiva spesso i galli cantare.

«Cos’era venuto a fare il padre di Maurizio fin lassù? Dopo la sua
visita, che mutamento in quella casa! Anche la Berta da un pezzo era
cambiata; ogni tanto parlava di andarsene e faceva quanto mai la
misteriosa...»

Una sartina del paese, una brunetta graziosa e pettegola, in quei giorni
le stava terminando gli abiti da lutto; qualche volta lavoravan insieme,
sedute a fianco, presso la macchina da cucire. Costei cicalava più in
fretta che non cucisse con l’ago veloce; Maria Dora le dava del tu e
cucivano insieme per lunghe ore. La sartina aveva un brutto nome:
Palmira; ma la chiamavan Miretta, e doveva sposare Lionello dai baffi a
punta — Lionello Garlanti, parrucchiere, da Rimini... Se appena stava
zitta, le usciva, nel cucire, una puntina di lingua rossa tra le labbra
sottili; ma questo non accadeva quasi mai, perchè parlava di continuo
come un mulino a vento, e di tutti e di tutto parlava con estrema
volubilità.

Finalmente un giorno Maria Dora prese Maurizio alla sprovvista e con
mille astuzie incominciò a farlo discorrere. Maurizio era timido, le
voleva bene; disse qualche parola di troppo, che non voleva dire... poi
si confuse.

Marcuccio scriveva un discorso funebre; ogni giorno scriveva un discorso
funebre...


Ma Dandolo Zappetta frattanto era già tornato in città. Il raccoglitore
di farfalle aveva compiuta l’opera sua con una precisione davvero
scientifica e rincasava portando nella valigia un meticoloso
incartamento, oltre ad alcuni esemplari preziosi di farfalle nostrane,
poichè i due compari non gli avevano mentito affatto e quella fiorita
regione abbondava di vaghissimi papilioni. Dandolo Zappetta sapeva
d’esser stato prodigioso; una soddisfazione legittima gli allargava lo
spazio del cuore, senza tradirsi per altro segno visibile che un allegro
fischiettar pertinace, il quale non gli si era staccato dalle labbra per
tutta la via del ritorno.

Quest’uomo piccolo e mansueto, il quale non ambiva altro regno che la
sua soffitta nè altri sudditi che lo stuolo delle sue morte farfalle,
amava tuttavia la vittoria come l’amano i predatori, e nella sua
piccolezza estrema gli piaceva solo di misurarsi coi più forti.

Allora, quando fu di ritorno, questo piccolo uomo salì agilmente i
cinque piani della sua soffitta, schiuse l’uscio e corse a riveder le
sue farfalle, con la medesima tenerezza d’una madre la quale andasse a
riguardare la cuna del proprio bimbo. Indi si mutò d’abiti, con grande
cura indossò di nuovo il suo logoro giubbino luccicante, si strofinò per
dieci minuti le scarpe senza macchia, scelse nella valigia, tra un
grosso fascicolo, certe carte che gli occorrevano, mise un vecchio
cappello duro di color marrone, che gli calzava fin quasi ai
sopraccigli, e col bocchino di legno fra i denti, tranquillamente uscì.


Tancredo, che gli avvenne d’incontrar per primo, cominciò a tempestarlo
di domande precipitose. In luogo di rispondere, Dandolo non faceva che
affrettare i suoi passettini da lucertola, con tanta rapidità che il
Salvi durava gran fatica nel camminargli di paro.

— Pazienza, mio buon Tancredo! Io son avvezzo a procedere con ordine in
tutte le mie cose. Fra cinque minuti saremo a casa del Metello e, quando
potete ascoltarmi entrambi, allora parlerò.

— Almeno tóglimi da questa orribile incertezza! — lo supplicava
Tancredo.

— Figúrati, — gli narrò sorridendo il raccoglitore di farfalle, —
figúrati che ho trovato perfino il solo esemplare di Vanesse ch’io non
possedessi: la _Vanessa Atalanta_ con le ali nere vellutate. Non solo,
ma una magnifica _Saturnia Pavonia_, grossa quasi come un pipistrello!

Tancredo grugnì una bestemmia, che fece sorridere l’omino. Allo
scampanellare che fecero, anzi tutto rispose il ringhio asmàtico di
Volapuk, un decrepito can barbone, fegatoso come una zitella ed irsuto
come un istrice; poi Saverio accorse, e ricevette gli ospiti con un
formidabile: Urrà!

— Dunque? dunque? — non cessava dal ripetere, facendoli entrare in un
salottino, dove ambedue cominciarono a carezzar l’omino accerchiandolo
d’infinite premure.

Saverio gli avanzò una poltrona, Tancredo ve lo fece sedere a viva
forza, esclamando:

— Siedi, e parla finalmente!

— Siamo soli? — premise Dandolo, quasichè si divertisse ad esasperare la
loro impazienza.

Il Metello andò a chiudere la porta.

— C’è mia madre; però è sorda; e credo anzi che dorma. Dunque?

— Ti prego, Tancredo, sièditi, — fece l’omuncolo. — Dall’altezza della
tua statura mi pericoli addosso come la Torre di Pisa.

Tancredo gli ubbidì; sedettero entrambi davanti a lui, vicini. Dandolo
introdusse una sigaretta fatta a mano in quel certo suo bocchino d’un
legno introvabile, trasse il portacerini d’argento, cesellato chissà mai
dove con un volo di grù, diede fuoco al fiammifero, accese
meticolosamente la sigaretta, spense, cercò invano con gli occhi un
portacenere ove deporre il cerino.

— Butta per terra, — disse nervosamente Saverio, davanti a
quell’indugio.

— Oh, non importa! — E alzatosi, lo andò a gettare nel camino.

Poi si volse, guardando quei due che pendevano dalla sua bocca, e, senza
mutar voce nè fisionomia, disse tranquillamente:

— Ha ucciso.

I due si batteron un pugno scambievolmente su le ginocchia e con impeto
sorsero in piedi.

— Vivaddio! Ci siamo!

— Non ci siamo... — corresse l’omino. — Anzi non ci siamo affatto.

Una bufera di domande l’avvolse, ond’egli per difendersi protese un
braccio.

— Piano, piano... Vi prego di lasciarmi parlare.

E si mise a camminar lentamente fra i mobili del salotto.

— Vi ho comunicata — riprese — la mia profondissima convinzione. Ha
ucciso. E lo ripeto: Sì, ha ucciso. A voi non importa conoscere quello
che feci, nè come nè in qual modo giunsi a chiudere affermativamente
un’istruttoria così greve di conseguenze; voi m’avete dato un incarico,
io l’ho assolto. Se poi v’interessa conoscerne i particolari, ve li
racconterò, ma più tardi.

— Insomma, — lo interruppe il Metello, — perchè hai detto che non ci
siamo?

— Piano, vi ripeto. Fino ad oggi ho lavorato per voi; ma ora, se non vi
dispiace, intenderei di aver lavorato anche per me.

— Come? come? — lo aggredirono.

— Ecco, mi spiego. Per voi, lavorare, è sinonimo di guadagnar denaro;
per me ha tutti i sensi che volete, infuori da questo. L’«affare», siamo
intesi, è vostro. Ma la responsabilità morale della faccenda è mia;
quindi mi preme di condurla bene a termine. Insomma: io vi metto una
condizione.

— Quale?

Egli disse con voce risoluta:

— Che non vi baleni mai per il capo l’idea di vendere al Ferento stesso
il delitto di Andrea Ferento.

— Oh, perchè? — esclamarono i due.

— Perchè, dato e non concesso che un uomo come il Ferento si pieghi fino
a pagare il vostro silenzio, questo vorrebbe dire nascondere un delitto
che va messo in luce, sopprimere un giorno di sbalordimento nella vita
pubblica italiana; anzi vorrebbe dire ormai altra cosa: far sì che un
tal giorno venga ugualmente, ma che non sia da voi nè da me lacerato il
suo velo.

Poichè tacevano perplessi, egli domandò:

— Mi capite?

Uno alla volta, e insieme, cominciaron minutamente a contraddirlo.

— Insomma, ragazzi, — li interruppe Dandolo bruscamente, — non perdiamo
tempo. Chi di voi si sente il coraggio di presentarsi ad Andrea Ferento
e dirgli su la faccia: — «Voi avete avvelenato Giorgio Fiesco. O mi date
una certa somma, oppure vi denunzio al Procuratore del Re»? No, è
inutile che vogliate rispondermi: di voi due nessuno lo saprà mai fare.
Il solo forse che ne avrebbe il coraggio, son io. Ma io non intendo
affatto prendere questa via, prima di tutto perchè non voglio denaro,
poi perchè venire a patti col Ferento sarebbe assurdo.

— Assurdo?

— È la parola esatta. Davanti al vostro dilemma, il Ferento corre al
telefono e vi fa arrestare per ricatto. Insieme provvede fulmineamente a
parare il colpo che la vostra imperizia gli avrebbe così male assestato.
Prove materiali non vi sono, per ora: è un potente, la giustizia è sua,
la legge è sua, gli basta prevedere l’attacco per poterlo debellare. Voi
fate questione dell’uomo che sia forte abbastanza per misurarsi con lui.
Non ne vedo che uno: Salvatore Donadei. Del resto — concluse, — o voi
m’ubbidite, o io me ne torno come son venuto e faccio a meno di voi.

— Non ti eccitare, — lo persuase il Metello, con voce lusinghevole.

— Io sono un uomo risoluto, — spiegò Dandolo. — Vi ho messa una
condizione dalla quale non recederò. La strada è una sola, e vi avverto
che, se farete altrimenti, penserò da me stesso ad informarne il
Donadei.

— Può darsi che tu abbia ragione, — ammise per primo il Metello, ch’era
uno spirito riflessivo. Ma Tancredo, nel cuor suo non intrepido e forse
remotamente buono, ancora non aveva guardato mai da presso il caso di
dovere abbattere con un colpo mortale quell’uomo che in fondo egli
conosceva, che in fondo non era stato nè orgoglioso nè ingiusto con lui,
quell’uomo inflessibile, che sapeva essere così dolce nel parlare con la
sua cognata, quel Ferento insomma, che forse aveva ucciso, ma chissà per
quale ragione incomprensibile o necessaria... Ed ora, nell’apparirgli di
questo inatteso evento, egli provava un senso non di sola paura, ma
quasi di rimorso e d’inibizione, come se quei fermi occhi lo guardassero
in faccia e quella voce calma gli ripetesse ancora una volta:

«Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, è vero? E desidera vederlo?
Venga, la condurrò.»

— «Estorcere denaro ad un milionario, è un conto; rovinare del tutto un
uomo, non mi sembra più la stessa cosa...» — rifletteva Tancredo fra sè.
Ma diede una scrollata di spalle, strinse la bocca e nulla disse.

— Anzi, — affermò il Metello, — più vi penso e più vedo che hai ragione.
Quando si tenta un’impresa di questo genere bisogna riuscire. Faremo
come tu vuoi. Dunque racconta.

Il raccoglitore di farfalle cominciò con un aforisma:

— Voi dovete innanzi tutto sapere che l’uomo è naturalmente nemico del
proprio secreto. Pensare una cosa vuol dire farla esistere; compierla
significa tradirsi.

— Sarà benissimo, — gli accordò il Metello, che amava i racconti
laconici.

Ma Dandolo proseguì:

— Dovete anche sapere che l’individuo, nella vita sociale, non è mai
veramente solo; c’è qualcosa che vede, spia, vigila, origlia, fotografa
i passi nel buio, indovina i movimenti traverso i muri, veglia sempre,
sempre, dentro e fuori le case degli uomini. È l’Invisibile, che monta
di fazione davanti alla nostra porta, che guarda per le serrature, sale
sul tetto, scivola come un ladro giù per la cappa del camino; è
l’Anonimo feroce, invidioso, pettegolo, astuto, proteiforme, che pare
non somigli a nessuno ed è invece l’onnipresente complice di tutti
quanti gli uomini.

— Dandolo, per carità!... — intercesse il Metello.

Costui non se ne dette per inteso.

— E vi sono due specie di delitti: veloci e lenti. Se i primi possono
talvolta contare su l’impunità, gli altri, nella diuturna loro
incubazione, finiscono con ravvolgere il colpevole d’un’atmosfera
sospetta, che inevitabilmente lo tradisce. Ma tutto questo non
v’interessa, mi pare...

— Questa non è per lo meno la parte essenziale, — disse il Metello con
urbanità.

— Invece, mio caro, questo è proprio l’essenziale. Io sono andato laggiù
solo per fare conoscenza con l’Anonimo, e sono stato così abile da
inspirare a costui la più assoluta fiducia. Quella denunzia che noi
porteremo contro Andrea Ferento non è opera mia nè vostra; è l’Anonimo
che ha lavorato per noi, è l’Anonimo che l’ha tessuta. Volessimo anche
offrire a quest’uomo il dono del nostro silenzio, è forse troppo tardi:
l’Anonimo l’accuserà. Ma sarebbe un’accusa vaga e disorganica, priva di
un ordinatore che ne abbia raccolte le fila: io stesso; di un
denunziatore che l’assuma: Tancredo; di un avvocato abile che ne
dimostri l’efficacia: il Metello; d’un uomo potente che la sostenga: il
Donadei.

— Bravo! — esclamò Saverio. — Per quello che mi concerne, io sono
pronto.

— Infatti, — concluse il raccoglitore di farfalle, — ora tocca a voi.
Per mio conto vi affermo che il giudice istruttore in persona, con tutti
i suoi sgherri, non potrà fare più di quello ch’io feci. Ho recitate
venti parti nella commedia, senza mai perdere il filo. Vi basti sapere
che il medico Paolieri mi ha promesso di venirmi a trovare in città ed
il vecchio Landi mi ha condotto ben due volte a visitare le sue
campagne. Non vi parlerò dei De Martino, che, per farmi cosa grata, si
sono messi a caccia di farfalle, nè di venti altre persone delle quali
ho notato come un fonografo tutte le parole importanti. Cominciamo
dunque, se volete, a sfogliare l’incartamento...

Trasse alcuni fogli da uno scartafaccio che teneva nella tasca interna
del suo giubbino, e sciolta la funicella che lo serrava, piegatala,
messala via, distese le pagine ch’eransi arricciate e, con la voce
metodica d’un cancelliere, dalla prima parola incominciò:

«Clemente Gaspare De Martino, di professione fittabile, nativo di...
d’anni quarantasei...»



III


Salvatore Donadei stava scorrendo un fascio di giornali, che
ingombravano la sua larga scrivania, quando l’usciere della redazione
entrò per la seconda volta ad annunziargli che due signori, dei quali
teneva in mano i biglietti da visita, chiedevan con insistenza d’esser
ricevuti per una comunicazione urgentissima. Salvatore Donadei sollevò
il capo selvoso, interruppe il segno azzurro che stava tracciando con
una matita sul margine d’un articolo e domandò nervosamente:

— Ma insomma, chi sono costoro? Cosa vogliono?

L’usciere s’avanzò verso la scrivania e vi depose i due biglietti da
visita, che il Donadei sbirciò in fretta: — «Saverio Metello,
giornalista» — «avv. Tancredo Salvi»

— Quest’ultimo, — illustrò l’usciere con un forte accento meridionale, —
si dice fratellastro del defunto ingegnere Giorgio Fiesco. Vennero ieri
e tornaron stamane; si dicono latori di una notizia che deve
interessarla molto e rifiutano di abboccarsi con un qualsiasi redattore.
Fanno anticamera dalle tre, ossia da un’ora e venti minuti. Mi sembran
due persone pulite... — aggiunse con sussiego l’usciere loquace, il
quale per tal modo si rivelava un profondo conoscitore d’uomini.

— Seccature! — mormorò il Donadei, carezzandosi la barba quadrata.

Rilesse attentamente i due biglietti da visita, indi soggiunse:

— Via, sbrighiámoci! Fáteli entrare.

E per non perder tempo riprese la lettura dell’articolo che andava
sottolineando. Salvatore Donadei non credeva molto alle cose importanti,
sopra tutto quando v’eran di mezzo un giornalista ed un avvocato; laonde
alzò appena lo sguardo sopra gli occhiali d’oro per osservare que’ due
sconosciuti che, varcando la soglia, si piegavan automaticamente in un
profondo inchino.

— Onorevole! Onorevole!... — dissero insieme.

Il Direttore della «Crociata», organo del partito cattolico, ch’egli
rappresentava al Parlamento, rispose con un cenno lieve del capo ed in
modo vago additò loro due seggiole. Saverio Metello si sentiva meno
impacciato che non il suo compare Tancredo, forse perch’era più piccolo
ed occupava meno spazio. Ma infine sedettero, il Metello a destra,
Tancredo a sinistra della scrivania, e precisamente Saverio alla
sinistra ed il Salvi alla destra dell’onorevole Salvatore Donadei, il
quale faceva scivolare dall’uno all’altro un lento sguardo lumacoso
dietro i suoi convessi occhiali d’oro.

Tancredo che, poverino, era di nervi ultrasensibili ed aveva il brutto
vizio d’analizzar le persone, anzi d’immaginarle a modo suo, non era
punto soddisfatto della prima impressione che gli diede quella faccia.
Il Metello invece se ne infischiava.

Siccome il silenzio durava oltre quell’attimo che prepara ogni esordio,
il Donadei raccolse i due biglietti da visita e li lesse ad alta voce
con aria interrogativa.

— L’avvocato Tancredo Salvi?

— Son io! — esclamò costui, dando un piccolo sobbalzo su la sedia.

— Saverio Metello? — fece il Donadei, volgendo il capo a sinistra.

— Per servirla.

Il direttore della «Crociata» li squadrò una seconda volta, serrandosi
nel pugno la quadrata barba castana, e li esortò nervosamente:

— Dicano, dicano pure.

La mano grassa e villosa dell’onorevole tamburellava su la scrivania,
facendo splendere un grosso brillante, che dava noia a Tancredo. La
catenella d’oro degli occhiali gli dondolava sul rovescio della
giacchetta nera. Infine Saverio trovò l’esordio.

— È una cosa delicata, — incominciò con somma cautela, — così delicata
che mi trovo impacciato nell’esporla, essendo questa la prima volta che
ho l’onore di parlare con lei.

— Per quanto delicata sia, loro han certo interesse a farmela sapere,
dal momento che han sollecitato un convegno per parlarmi, — osservò
l’onorevole, con l’urbana ironia d’un sorriso che gli scivolava giù dai
labbri tumidi nella barba liscia.

— Onorevole, — disse il Metello con un sottil riso, — mi permetta un
breve preambolo ancora, poichè la ragione che ci persuase a venire da
lei riuscirà certo ad interessarla più di quanto ella supponga.
Nell’alta sua posizione politica e come Direttore d’un grande giornale
cattolico, ella è forse troppo sovente assediato da importuni e da
sollecitatori d’ogni genere perchè due sconosciuti non muovano in lei un
senso di naturale diffidenza.

— Affatto, affatto, — credè opportuno inframmettere l’onorevole Donadei.

Ed il Metello con assoluta padronanza continuava:

— Ecco, mi spiegherò in due parole. È avvenuto un fatto assolutamente
imprevedibile, del quale siamo i primi ed i soli depositari. Fra tutte
le persone alle quali questa rivelazione potrebbe interessare — e sono a
un di presso tutti i più cospicui personaggi della politica e del
giornalismo italiano — abbiamo scelto, onorevole, di far capo a lei.

Tancredo ammirava senza limiti la disinvoltura del suo compagno e
l’ascoltava guardandolo a bocc’aperta, quasi ch’egli stesse per rivelare
un fatto a lui medesimo sconosciuto. Salvatore Donadei s’affondò
mollemente nella poltrona di cuoio, e sollevando gli occhiali per la
catenella d’oro se li riappinzò sul naso.

— Ma, ecco, veda, egregio signor... egregio signor... — cercò il
biglietto da visita e soggiunse: — Metello! Da quanto ella mi dice non
comprendo bene due cose: nè qual genere di fatto «assolutamente
imprevedibile» sia potuto accadere, nè per qual ragione loro abbiano
scelto di dirigersi proprio a me.

E con la sua bocca dolciastra fece un sorriso che non mancava d’arguzia.

— Vuol permettermi, onorevole, ch’io cominci col rispondere alla sua
seconda domanda?

— Scelga lei, — fece l’onorevole con l’aria di chi deve prepararsi ad
una lunga pazienza. Ed il Metello riprese:

— Capitanare un partito politico vuol dire necessariamente avere un’idea
da difendere, una da combattere; non solo, ma certi uomini da
spalleggiare, altri da colpire, e da colpire, poichè son nefasti, quanto
più si possa nel cuore.

— L’uomo, l’uomo... — interruppe quietamente il Donadei, — è una
faccenda secondaria. Non è mai contro gli uomini che si deve infierire.

— Sì, certo. Ma quando è appunto un uomo, con la sua forza, con la sua
potenza, con la sua dura volontà, quegli che rende inespugnabile tutto
un ordine d’idee contro le quali si combatte, allora diventa inevitabile
un duello del capo contro il capo, finchè il più forte vinca. Le
pare?...

Egli disse così dolcemente questo: — Le pare?... — che il Donadei lo
guardò tre volte consecutive con una specie di maraviglia. Poi si
risollevò alquanto su la poltrona dov’erasi affondato, la trasse un poco
avanti contro la scrivania, su la quale si appoggiò con un gomito.
Infine ammise, come per condiscendenza:

— Già, già...

Tancredo in quel mentre osservò che su l’anulare sinistro egli portava
l’anello nuziale; onde si mise ad immaginare come poteva essere la
moglie di quell’uomo capelluto e barbuto. Chissà per qual ragione, se la
figurò alta, ossuta, ferrea, vestita severamente, con la pelle un po’
giallastra, certe maniere brusche, una pettinatura stretta, la voce
quasi virile. Nel medesimo tempo invidiava la genialità di Saverio
Metello e si sentiva così lontano dal poter prender parte al discorso,
che avrebbe quasi preferito non trovarsi lì.

— Allora? — fece l’onorevole per spinger oltre quella conversazione che
non gli pareva del tutto oziosa. Il Metello abbassò la faccia, quasi per
dar prova di una rara modestia.

— Non vorrei presumere troppo delle mie forze, — disse con umiltà, — se
io credessi di poterla menomamente aiutare, dirò meglio secondare, in
quella magnifica lotta che da molti anni ella sostiene con una tenacità
coraggiosa ed infaticabile. Ho detto secondare, ma non è questa nemmeno
la parola: dovrei dire «servirla», dovrei dire «mettere nelle sue mani
quella terribile arma, di cui la sorte ci rese possessori e padroni.»

L’onorevole aggrottò le ciglia e si passò una mano sui lisci capelli,
d’un denso color castano, ch’eran divisi nel mezzo da una fina
scriminatura. Così barbuto e capelluto, con gli occhiali a cerchi d’oro
ed il compassato abito nero, aveva un aspetto indeciso fra il
bibliotecario ed il prete armeno, con qualcosa d’ispirato e di subdolo
nell’incerta fisionomia.

— Egregi signori, — disse in tono declamatorio, — se andassimo avanti un
pezzo con tali preamboli vedo che si rischierebbero due cose: la prima,
di perdere gran tempo, la seconda, di non comprenderci affatto.

— Ella infatti ha ragione, onorevole. Non abbiamo alcun interesse a
perder tempo, ed ancor meno a tardare oltre nel comprenderci.

Sorse in piedi, e puntando ambe le mani su la scrivania si protese un
poco innanzi, verso l’uomo che l’ascoltava, poi disse con una specie di
crudeltà sarcastica:

— Onorevole Donadei, mi permetta una immagine. Come alla figlia di
Erode, noi veniamo a portarle sopra un vassoio d’argento la testa recisa
del suo nemico. In altre parole, noi siamo in grado di produrre
istantaneamente la più clamorosa e più doverosa demolizione della quale
possa oggi divenir spettatrice l’Italia!

Poi si ritrasse con un moto repentino, e tornò a sedere, fissando co’
suoi lucidi occhi bigi Tancredo che impallidiva. Egli non lo aveva
seguito che parzialmente, ed era rimasto indietro a raccapezzarsi con la
figlia di Erode. Ma, durante quel grave discorso, la faccia
dell’onorevole si era fatta rossa e concitata, forse di maraviglia,
forse di sdegno, sicchè il Metello temette di aver precipitate le cose.
Infatti Salvatore Donadei durava uno sforzo, visibile in ogni muscolo
della sua faccia, o per dominare una repentina collera o per riaversi da
un eccessivo stupore. Come un uomo colto in fallo, cercò dapprima di
schermirsi.

— Non ho il bene di comprendere le sue similitudini, egregio signor
Metello! — esclamò con sussiego. — Ma per sua regola mi pregio
avvertirla che non son uso a barattare la testa di chicchessia sopra
vassoi d’argento nè di alcun altro metallo!

Saverio chinò la faccia e tacque. Solo, dopo una pausa, rispose:

— Certamente mi sono espresso male.

— Molto male! — asserì con intendimento l’onorevole Donadei. — Ed in
primo luogo mi piacerebbe sapere per qual verso ella supponga di
conoscere i miei giurati avversari, e mi presti l’idea di volerli
sbaragliare con ferro e con fuoco?

Saverio tacque ancora, ma un risolino beffardo increspò la sua bocca. La
voce dell’onorevole si fece più sardonica nel chiedere ambiguamente:

— E il nome? Quale mai sarebbe il nome di questo San Giovanni Decollato?

— Credevo, — spiegò il Metello con audacia, — che si trattasse di Andrea
Ferento.

— Ah, vedo... — fece l’onorevole con una voce bianca. E ripetè ancora
due volte: — Vedo, vedo...

Il Metello s’accorse che la sua temerità non era stata vana e pensò
d’incalzare.

— Ho preferito entrar in argomento con parole esplicite, anzichè
tergiversare. Comprendo che la mia sincerità possa parerle
un’indiscrezione, tuttavia...

— Tuttavia sono stupefatto ch’ella voglia insistere! — l’interruppe il
Donadei, senza un soverchio sdegno.

— Tuttavia, — insistè il Metello, — mi permetto di farle osservare, a
mia difesa, che, se mi sono ingannato nell’attribuirle un nemico
immaginario, dieci anni di attenzione indefessa alla sua opera valorosa
eran là per convincermi di questo errore, poichè la vita degli uomini
che governano i partiti cade necessariamente in dominio del pubblico e
sopra tutto dei loro partigiani. Le passioni, gli odî, gli amori, le
sconfitte o le vittorie d’un capo non appartengono a lui solo.

— Ma, scusi, — l’interruppe il Donadei con un vibrato risentimento, — io
non mi sono ancor presa licenza di chiederle chi ella sia veramente, nè
sotto qual veste si arroghi la libertà di parlarmi in tal modo!

— Io sono stato fino ad oggi un semplice spettatore, onorevole Donadei!
Ma uno spettatore che di punto in bianco s’alza dalla platea ed affronta
la scena per rappresentarvi una parte capitale.

Tancredo non aveva mai conosciuto al suo compare uno stile così
altisonante, e ne restava sbalordito, soggiogato, come di fronte ad una
rivelazione. Lo stesso Donadei parve sorpreso d’una così tranquilla
sicurezza, ed avrebbe voluto rivolgergli un gran numero di domande, che
ancora gli parvero inopportune.

Saverio Metello si stropicciò le mani, le sue mani aride, giallastre,
che parevan due nervosi artigli, quindi ricominciò:

— L’uomo che non è stato finora alla mercè di nessuno aveva, come il
Colosso di Rodi, i piedi d’argilla. Ora è nelle nostre mani, e possiamo
d’un colpo stenderlo a terra, per sempre.

La sua faccia splendeva d’un malvagio lume; le palpebre raggrinzite gli
battevano sui piccoli occhi bigi.

Salvatore Donadei si raccolse di nuovo nel palmo la fosca barba
quadrata, ed insaccando il collo nel largo solino ammiccava di qua, di
là, fuggevolmente, quasi per dissimulare la sua tentazione di scendere a
patti con que’ due sconosciuti.

— Ma tutto questo non è possibile! — esclamò, dopo una lunga pausa,
guardando con una specie di compassione que’ due meschini uomini che
pretendevano di aver catturata una così bella preda.

— Impossibile! assurdo! — esclamò ancora, scrollando le spalle, e con la
voce dell’uomo il quale rinunzi a nutrire un’illusione troppo diversa
dalla realtà.

Questo era il punto cui lo attendeva Saverio. Lo stesso Tancredo si
gonfiò d’un tal sorriso di sufficienza e di potenza che avrebbe da sè
solo debellata la più tenace incredulità.

— È quello che vedremo! — disse a fior di labbro, aggrottando la fronte.

— Tutto questo infatti, — ammise il Metello, — ha l’aria d’una favola, o
per lo meno d’una millanteria. Ma so che il suo tempo è prezioso,
onorevole, e non sarei certo venuto a farglielo sprecare inutilmente.
Inoltre so di trovarmi dinanzi ad un uomo il quale ha bisogno di prove,
non di sussurri, e non vuole daghe di cartapesta ma buone lame da
combattimento. Insomma, onorevole Donadei, se io le dessi la prova
tangibile di quel che ora le affermo?

— Sarebbe un altro conto, — si lasciò sfuggire il Direttore della
«Crociata». Ma si riprese tosto, ed aggiunse un: «Ossia...», cui dovette
cercare il sèguito. — Ossia, come Direttore d’un giornale cattolico, mi
presterei volentieri all’esame di questa faccenda.

— Esaminiamo, — disse il Metello pacatamente, con un respiro di
sollievo.

— Ma no, ma no, ella precipita!

— Non precipito affatto, onorevole: io comincio appena. E comincerò con
un’ipotesi... Vuole?

Salvatore Donadei, con il palmo della sua mano grassa e villosa
carezzava il bracciuolo della poltrona di cuoio; la barba gli nascondeva
il mento poggiato su l’ampia cravatta nera; la catenella d’oro degli
occhiali, passata dietro l’orecchio sinistro, gli dondolava su la spalla
mal costrutta e pesante.

Saverio, a sua volta, si abbandonò contro la spalliera della seggiola,
e, diméntico dell’ipotesi, fece quest’affermazione tranquillamente
recisa:

— Noi due, qui presenti, l’avvocato Tancredo Salvi ed io stesso in
persona, il giornalista Saverio Metello, abbiamo quel tanto che basta
per denunziare Andrea Ferento al Procuratore del Re.

Avessegli fatto scoppiare un petardo sotto la poltrona, l’onorevole non
avrebbe dato un simile sobbalzo.

— Cosa diavolo? cosa diavolo?... — cominciò a balbettare. Divenne rosso
apoplettico ed arrotolò la sua barba quadrata in una specie di lungo
pungiglione, che gli sfuggiva dalle dita sparpagliandosi a ciuffi. Poi
disse: — Zitti ... zitti! — E levatosi, andò ad accertarsi che le due
porte fossero ben serrate, quella sopra tutto che immetteva nel
corridoio ed era una porta vetrata. Il Metello profittò di quella pausa
per strizzare l’occhio a Tancredo.

— Anzi, è una cosa certa, — soggiunse. — Noi denunzieremo Andrea Ferento
al Procuratore del Re.

— Zitto, zitto... — suggeriva l’onorevole, tornando verso la scrivania.
Tancredo l’osservava nel frattempo con una specie d’avversione
invincibile.

Era piuttosto alto e tozzo, con il capo leggermente piegato su la spalla
sinistra, molto più larga e più bassa dell’altra, la quale invece gli si
raggruppava contro il collo dandogli così un’apparenza, non di gobbezza,
ma di estrema goffaggine. La marsina, sciupata nelle falde, gli faceva
molte grinze al sommo del dorso incurvato; il bavero gli entrava sotto
la folta capigliatura, che impolverava la schiena d’una forfora
biancastra. I polsi grassi occupavan interamente i polsini rotondi,
ch’erano chiusi da un largo bottone di corniola, mentre una doppia
catena d’oro, passando per un occhiello del panciotto, scendeva con due
curve abbondanti a nascondersi nei taschini opposti.

La faccia, tra capelli e barba, era quasi tutta occupata da un’alta
fronte convessa, che pareva gonfia di cervello ed esprimeva una certa
quale potenza bovina e quadrata, la quale metteva un non so che di
spazioso in quella ingrata fisionomia.

Egli tornò a sedere nella poltrona di cuoio, e chinatosi verso il
Metello, con un sorriso viscido si mise l’índice su la bocca.

— Non parliamo forte, mi raccomando...

Il Metello accennò di aver compreso e tacque. Allora il Donadei si
rivolse a Tancredo come per interrogarlo, poi di nuovo si piegò verso il
Metello, bisbigliando:

— Ma è poi vero quello che loro mi dicono? È mai possibile che la loro
denunzia contenga un fondamento serio?

— Dica una certezza, onorevole! O, volendo essere prudenti all’eccesso,
dica una presunzione di verità così forte, che ne’ suoi effetti equivale
ad una prova inconfutabile.

— Ah, ma queste prove... queste prove per ora mancano?...

— Ne abbiamo ad usura! Prove indiziarie e testimoniali, s’intende, ma
che basteranno allo scopo, non dubiti.

— Insomma ella si diverte a trascinarmi per un labirinto nel quale non
vedo che tenebra!

— Eppure, — disse il Metello con prontezza, — lei solo può tendermi quel
filo d’Arianna che ci condurrà verso la luce.

— Sarebbe?... — interrogò l’onorevole con una voce opaca.

Il Metello rispose con soavità:

— Quando si è nel buio, e si vuol entrambi andare verso una meta, è
qualche volta necessario tendersi la mano anche fra sconosciuti.

— Le sue metafore, signor Metello, sono abbastanza eloquenti!

— Non è colpa mia, onorevole! — si scusò il Metello col suo più modesto
sorriso. — Che vuole? Abbiamo condotta un’istruttoria lunga, laboriosa,
pericolosa; da un piccolo indizio, da un fatto quasi trascurabile, che
sarebbe sfuggito ad altri, noi ci siamo accinti ad una impresa che
poteva parere, non dico assurda, ma cento volte pazza e fantastica.
Siamo stati in un certo senso i Cavalieri dell’Ideale, abbiamo
incatenate le ali dei mulini a vento... Ed ora, éccoci qui a dirle che
la nostra opera è compiuta, l’istruttoria è chiusa, e noi siamo arbitri,
sia di abbattere quest’uomo che di accordargli l’impunità... Ed abbiamo
risolto di far scegliere a lei quale, fra le due cose, preferisca.

Da uomo astuto il Donadei certo comprese quel mercato che gli si
proponeva, ma finse di non avvedersene e disse in tono declamatorio:

— Io non ho, signor Metello, altra preferenza che quella di seguire in
tutte le mie azioni l’onestà e la giustizia.

— Per questo appunto siamo venuti ad importunarla, onorevole Donadei, —
rispose il Metello con tanta naturalezza, che la sottile ironia delle
sue parole parve inafferrabile.

— Sicchè? — fece il Donadei, grattandosi la fronte. — Concludiamo.

— Volontieri, — disse il Metello. — Si tratta...

— Si tratta innanzi tutto, — lo interruppe l’onorevole con una voce
sbrigativa, — di dimostrarmi che i fatti stanno come loro affermano,
cioè che non si siano per caso fatta un’illusione qualsiasi, nè
involontariamente, nè...

— Va bene, — rispose con semplicità il Metello davanti a quella pausa.

— Questa è sopra tutto la cosa che m’interessa, — incalzò nervosamente
il Donadei. — Perch’ella mi vorrà concedere che, davanti ad un fatto
così enorme, io debba sollevare i miei legittimi dubbi e creda
necessario di appurare in modo concreto le sue affermazioni.

Saverio Metello si guardò le unghie, simulando una specie di esitazione,
poi disse con aria pudica:

— Ella comprenderà bene, onorevole, che appunto perchè siamo depositari,
non di cose fantastiche, ma di assolute verità, lo scopo che ci condusse
qui non poteva essere uno scopo semplicemente, come direi?... platonico.

Di nuovo l’onorevole preferì non comprendere. Trasse dal taschino del
panciotto un cronometro d’oro voluminoso, ed appressátolo all’orecchio
l’ascoltò con attenzione.

— I documenti che sono in nostro possesso, — precisò il Metello, — e
l’azione che noi, anzi noi due soli, possiamo svolgere, assumendone
intera la responsabilità, rappresentan un valore altrettanto
ragguardevole, quanto è spaventoso l’effetto che sono destinati a
produrre.

— Ella vuol alludere, se non erro, ad un valore finanziario? — disse
deliberatamente l’onorevole Donadei.

— Voglio alludere, — spiegò il Metello senza turbarsi, e valendosi
d’un’amabile perifrasi, — alla certezza in cui siamo di poter scegliere
a nostro beneplacito fra l’accusa ed il silenzio. Ella sola è arbitra
fra le due soluzioni e può, come le aggrada, persuaderci a volere sia la
rovina come la salvezza di quell’uomo.

— Perdoni, perdoni... — l’interruppe ancor più nervoso l’onorevole
Donadei, — ma non è questo il luogo per parlare di simili cose, tanto
più che il tempo stringe.

Si passò le dita fra i capelli, con l’attitudine di una persona che stia
dibattendosi fra la diffidenza e la tentazione; poi disse con frasi
veloci:

— Certo, certo, quanto ella è qui venuto a riferire non manca
d’impensierirmi gravemente... Non ho luogo di sospettare ch’ella si
faccia illusioni, tanto più che uno di loro, se bene intesi, deve
appartenere alla famiglia d’un uomo che ho molto apprezzato e venerato:
Giorgio Fiesco.

— Io, per l’appunto. Eravamo fratelli, fratellastri... — precisò
Tancredo, con modestia e con malinconia.

— Ottimamente, ottimamente! E poi non vedo quale scopo li avrebbe
indotti a venire da me, se le cose non fossero quali mi affermano...
Però, ecco, vedano, a me preme anzi tutto far loro una dichiarazione. Ed
è questa: che nessun motivo d’animosità privata, nessuna ragione d’odio,
nè di rancore, nè di passione mia propria, mi spinge ad accanirmi contro
quest’uomo cui loro si propongono di muover guerra. In lui non vidi
finora che l’avversario del mio principio, il negatore della mia fede,
ma anzi un bello e nobile avversario. Non potrei dunque partecipare a
tutto ciò, se non nella mia veste di uomo politico e per quel dovere
imprescindibile che mi viene imposto dalla mia qualità di Direttore d’un
giornale cattolico.

— S’intende... — mormorò il Metello con un fil di voce.

— Insomma sentano, — concluse il Donadei; — sarebbe assai meglio se loro
potessero venire a casa mia, dove si discuterebbe con maggiore
tranquillità.

I suoi occhi profondi guizzavano dietro gli occhiali, con una rapidità
sinistra.

— A’ suoi ordini, onorevole, — rispose il Metello. — E quando?

— Per esempio, se loro son liberi, anche stasera...



IV


Ormai la denuncia era stata deposta in mani al Procuratore del Re; da
ventiquattr’ore i giornali divulgavano a grosse lettere la notizia
stupefacente; l’infamia stava per assalirlo impreparato e solo.

Una mattina, d’improvviso, lo si avvertì per telefono della denunzia.
Credette ancora d’essere in tempo a salvarsi, od almeno ad evitare lo
scandalo pubblico, allorchè, la sera del giorno stesso, nel tornare
verso la propria casa, dove ignara e nascosta l’amante lo attendeva, udì
gridare dagli strilloni l’accusa irremediabile, che trascinava nel rumor
della strada l’alto potere del suo nome.

«La Crociata» era uscita con un supplemento, poche ore dopo il mezzodì;
conteneva un articolo scaltro e feroce firmato «Ergo», ch’era il nome
giornalistico del Donadei. L’edizione andò a ruba; gli altri giornali,
usciti a breve distanza l’un dall’altro, furono saccheggiati; la vita
cittadina s’interruppe, la strada cominciò a guerreggiare di partigiani
e d’avversari.

Tutto ciò era come l’ondata che soverchia la diga ed ogni cosa travolge;
accadeva nella vita uniforme d’ogni giorno il tragico fatto clamoroso
che innamora e spaventa la folla.

Un giorno viene, in cui l’uomo destinato ad essere troppo solo deve dare
la sua battaglia. Era l’ora, ed egli lo sentì.

Lo sentì con una specie di riso convulso che gli torse l’anima, con una
specie di piacere selvaggio e d’implacabile crudeltà. S’apparecchiò alla
lotta in un momento, in un baleno fu pronto.

Allora s’accorse d’aver avuta infatti l’oscura intuizione che già da
tempo qualcosa pur s’andasse tramando nell’ombra contro di lui. Ma
quando s’avvide che ormai era tardi per ogni riflessione, più che
stupore e stordimento, n’ebbe un senso quasi febbrile di gioia. Gioia di
sentirsi affrontato, gioia di potersi difendere, gioia di vincere quello
stato d’animo, indeciso e pressochè aspettante, nel quale si era sentito
sperdere in que’ giorni pieni d’ambiguità che seguirono il suo delitto.
Ma ora, d’un tratto, si ritrovava come una volta l’uomo cui era
necessario aver molti nemici ed implacabili, avere davanti a sè una
forza infuriata e serrata, contro la quale misurarsi a viso aperto.

Bellissimo era, benchè orrido, questo giorno che lo toglieva dal suo
torpore! Adesso finalmente gli era necessario difendersi contro mille:
questo lo lavava dall’aver infierito, egli, così forte, contr’un uomo
solo.

V’eran ancora intorno a lui nemici attenti e gagliardi, persone che di
soppiatto avevano spiata la sua ombra, ed apertamente ora si radunavano
per abbatterlo dal suo piedestallo, poichè li molestava! Il morto,
quegli che la sua mano aveva ucciso, non era più un povero fratello
buono ed esausto, ma una moltitudine selvaggia, piena di muscolo e di
potenza che dalla violenta strada si avventerebbe contro lui per
sopraffarlo, per contendergli la vita, per esercitare contro l’uomo
incurvabile una vendetta soffocante.

Ma egli non avrebbe indietreggiato! Poichè gli pareva che tutto fosse
lecito nel mondo, tranne che indietreggiare.

Senza dubbio, davanti un’assemblea d’uomini avrebbe potuto arrogarsi di
giudicare l’opera sua? Qual’era la giustizia umana che chiamerebbe
Andrea Ferento a sottomettersi come un reo?

Orbene, ancora una volta questo si vedrebbe fra lui e loro, da uomo ad
uomo, i mille contr’uno! Ancora una volta egli griderebbe loro in faccia
la sua parola magnifica: «No!»

Senza dubbio, davanti un’assemblea d’uomini suoi pari, si sarebbe alzato
e avrebbe detto: — «Sì, ho ucciso.»

Ad uomini capaci di comprenderlo avrebbe fatta la storia breve, barbara,
del suo delitto:

«Ascoltate. Uccidere perchè si odia, è facile; uccidere perchè si teme,
più facile ancora. Ma spegnere la creatura che si ama, la creatura
fraterna, indifesa e debole, spegnere l’uomo al quale si darebbe la
propria vita serenamente se questo fosse necessario, non vi sembra, o
giudici, l’estremo più insuperabile della volontà umana? Uccidere perchè
il vostro cervello, nitido, sicuro, vi dice: — «Sì, lo puoi. Sì, lo
devi!» — mentre il cuore convulsamente si rifiuta e mentre sapete, o
giudici, che in quell’atto rinnegherete l’intera vostra vita, l’intera
opera vostra... non è forse una prova di volontà così possente che pare
non la contenga e non la possa compiere il cuore d’un uomo?

Eppure io lo feci, con questa mano che ancor oggi non trema.

Lo feci, perchè dovetti risolvere da me stesso un dilemma invero
terribile: — O affrettare appena l’agonia d’un fratello condannato, o
lasciare che finisse con un dramma la vita radiosa e fertile della donna
che amavo.

Qui è tutto il problema, o giudici sereni: — Abbiamo noi il diritto, noi
che studiammo la morte come una scienza precisa, noi che salvammo tante
creature, le quali non appartenevano al nostro cuore, noi che vediamo il
segno infallibile delinearsi nella materia moritura, abbiamo noi il
diritto, in certi casi, d’impadronirci della morte?

E chi me lo vieta, se io non credo nell’uomo divino, come non credo nel
miracolo che nessuno mai vide? Perchè dunque rimarrei spettatore
neghittoso d’un breve indugio davanti al sepolcro inevitabile,
quand’esso deve trascinare con sè, nel suo calamitoso cerchio, un’altra
vita gonfia di albore, la quale ambisce a splendere con libertà e con
gioia?

La natura non m’insegnò a rispettare ciò che vive; tanto meno ciò che
muore. Io, che studiai me stesso e le ragioni del mio essere con aperti
occhi, son nato dalla strage, son venuto al mondo in mezzo alla strage,
sarò afferrato nel dissolvimento perpetuo che sta nell’atomo e
nell’immenso come una bufera universale.

Nella distruzione di tutte le cose non ho fatto che accelerare d’un
lieve attimo il rumore fuggevole d’un’agonìa.

Per compiere questo atto infinitesimo di libertà ho dovuto lottare con
disperazione contro tutte le assurde paure che incatenano la coscienza
dell’uomo; ho vinto, perchè ho saputo esserne più forte.

O giudici sereni, rispondete per me a quella turba urlante, che soltanto
la mia coscienza è sopra l’opera mia, poichè appartengo alla dinastìa
che promulga le leggi ma non le soffre, che inventa il bene ed il male,
ma non può in alcun modo esserne disciplinata.

Se venuta è l’ora ch’io mi nomini, vi dirò che sento gravare su le mie
spalle il peso della porpora imperatoria.

Non camminai fuori dalla strada; naturalmente mio, per forza di cose,
doveva essere il privilegio del quale mi cinsi.

Dunque perchè condannereste l’uomo che solo accelerò di qualche istante
una inguaribile agonìa, quando quest’uomo, per i legami che l’uniscono
al suo stato, al suo tempo, alla sua razza, già si è reso complice di
mille uccisioni? Perchè mai sarebbe criminosa quella volontà singola
dell’uomo, che, divenuta una volontà collettiva, non lo sarebbe invece
più?

Infatti non comprendo perchè domani mi sia lecito, anzi mi sia doveroso,
abbattere con un colpo di fucile, anche proditorio, un essere umano il
quale non ebbe in mio confronto altra colpa se non quella di nascere due
palmi al di là dal mio confine, mentre sarà impedito, a me scienziato,
curvo sopra un morituro che vedo già cadavere, d’instillargli
nell’arteria quella goccia rapida che lo toglierà dal suo tormento,
quand’io, libero uomo, lo stimi necessario, quand’egli, libero uomo,
parimenti a me lo chieda, e quando — ascoltátemi bene, perchè in questo
è l’essenziale, — quando l’affrettare di così pochi attimi una sicura
morte, vuol dire schiudere ad altre creature la via della implacabile
vita e della umana felicità.

In verità non vi sono ideali: l’uomo è solamente un rapinatore.

E poi dirvi ancor questo: «Mi sono arrogato il mio naturale arbitrio di
ribelle che a nessuno ubbidisce. Ho ucciso, perchè fui certo anzi tutto
che questo privilegio fosse degno di me. Ho ucciso, perchè il saper dare
quella morte fu l’atto di coraggio più spaventoso ch’io potessi
compiere; ed il coraggio mi piace, perch’esso è veramente un istinto
della natura, la quale è tutta coraggiosa, da’ suoi oceani alle sue
tempeste.

Ed ho inoltre ucciso perchè, in un minuto secondo, ho sentito di amare
più una donna che la ragione totale di me stesso, più una donna che
l’infinito errore umano, più una donna che il mondo...

O giudici sereni, io sono medico e gli uomini ho curati con amore; molti
medici dopo di me insegneranno a vivere fisicamente felici; un profeta è
in cammino verso il domani, dal quale sarà cantato il dio che muore con
l’uomo, dal quale sarà benedetta la magnifica Inutilità della vita...

Questo dio, nel quale io credo, assolve, o giudici, il mio delitto»


Sì, certo: così avrebbe parlato Andrea Ferento, davanti un’assemblea
d’uomini suoi pari.

Ma chi lo chiamava per iscolparsi era l’ubbriaco volgo messo in tumulto
da un pugno d’aizzatori, era, una volta di più nell’immutabile storia,
la ciurma contro il capitano.

A costoro, a tutti costoro, poco importava di vendicare un morto. Ma che
davanti all’opaca uniformità dei loro istinti plebei un uomo
inflessibile osasse divenire il più solo ed il più alto ribelle; questo
non si voleva. Che davanti all’immensa titanica marea di servitù
baldanzosa, — la quale, dopo aver decretati a suo piacimento quelli
ch’essa ritiene i veri diritti dell’uomo, sotto le bandiere mendaci
della fratellanza e dell’uguaglianza, con forsennata rabbia, si scaglia
all’assalto del potere, — un tale osasse affermar loro che non erano in
verità nè liberi nè uguali, nè degni men che mai di esercitare sul mondo
la loro disgregata e povera tirannìa: questo non si voleva.

Ebbene, egli si sentiva pieghevole ancora come a’ suoi primi vent’anni!
Una sete di vivere e di vincere lo stringeva soffocantemente alla gola.

Bastava solo provocarlo: e questa era la provocazione. Chi fossero i
sobillatori, poco gl’importava conoscere, tanto li disprezzava. Erano
avversari, e bisognava combattere.

Confessare a questi giudici: — «Sì, ho ucciso,» — voleva dire
arrendersi.

Ma egli non s’arrenderebbe che morto.

Era un laido e piccolo episodio della sua guerra: nondimeno bisognava
passar oltre. Nasceva novamente l’equivoco singolare che già era sorto
all’inizio del suo cammino, quando coloro che avevan nel ribelle
intravveduta la figura del tribuno, e supposto ch’egli si facesse
l’alfiere delle lor piccole pretensioni, s’accorsero di scoprire in lui,
nel medesimo tempo, il repressore, il despota, l’uomo che adoperava le
folle anzichè portarne le bandiere, — e l’accusarono di tradimento.

Per contro egli sapeva di aver ubbidito a sè stesso in un modo magnifico
ed orrendo. Ma ora verrebbe una folla amorfa, che si radunava solo per
poter tiranneggiare, che solo coesisteva in forza del suo selvaggio
istinto micidiale, verrebbe una folla nemica d’ogni temerità solitaria,
per contestargli quell’atto supremo d’indipendenza, del quale s’era
creduto degno come d’un rosso mantello di porpora, come d’un privilegio
terribile inerente alla sua sovranità.

Davanti a questa folla ostile, che cercava solo un pretesto per
abbatterlo, sarebbe stato vano sostenere il diritto che a lui
sovranamente apparteneva.

A tali giudici egli direbbe: — «Non è vero: non ho ucciso.»

Poich’essi non potrebbero mai ammettere nè comprendere il suo delitto,
bisognava negarlo; poichè, di fronte alla legge da essi dettata, Andrea
Ferento non valeva più che l’ultimo ed il più briaco degli spazzaturai,
bisognava ch’egli riuscisse a debellare questa legge assurda, nel solo
modo che aveva in suo potere, cioè negando.

Era un tragico momento, nel quale non si poteva concedere il lusso di
affermare la verità; non poteva tendere inanemente i polsi, e dire: —
«Incatenátemi!» — poi camminare fra due sgherri in mezzo alla folla
sibilante.

Forse ancor lontano per essi era il giorno del trionfo, e per lui della
sua fine. Se costoro possedevan le lor plebi, e con parole capziose le
infocavano per avventarle nella piazza, egli a sua volta ritroverebbe la
sua schiera, minore forse di numero, ma temeraria e bene apparecchiata.
Guerra per guerra, egli si sentiva capace tuttavia di mietere nelle lor
stesse file, di farsi camminare dietro il popolo, solo perchè passava:
maravigliosa virtù che posseggono i capitani. Si sentiva capace ancora
d’affrontare il linciaggio e tramutarlo in ovazione, come al tempo de’
suoi primi vent’anni, quand’egli amava, più che la potenza, il potere.

Non puranco venuto era il giorno che Andrea Ferento si riducesse a
vivere nella tebaide, nè recisi aveva i legami tessuti fortemente in
altre ore di battaglia, quando si accinse a dare quella scalata che poi
gli parve inutile; non era del tutto un condottiero senza esercito, un
capitano senza bandiere.

Si voleva la testa di Andrea Ferento?

Egli non darebbe la sua testa. Era necessario mentire? E mentirebbe. Era
necessario far pesare il suo pugno di ferro su le amministrazioni
arrendevoli? E questo si farebbe.

Se un bando era gridato contro la testa del ribelle, per infiggerla
sopra un’asta e portarla in giro ad ammonimento dei servi riottosi, egli
non darebbe la sua testa! Ma, per un’ultima volta, nella iraconda gioia
del pericolo, griderebbe loro in faccia la sua parola magnifica: «No!»
La testa di Andrea Ferento valeva ben altra battaglia, e non la
porterebbe in trionfo, per trastullo dei chierici e di liberti, la
lancia di un Salvatore Donadei!


Tali furono le parole ch’egli si disse, con quella terribile volontà che
in lui sopraffaceva ogni altro spirito e che poteva ugualmente renderlo
capace così d’un eroismo come d’un delitto.

Udita la notizia volare di bocca in bocca per le strade in tumulto, egli
era tornato a piedi verso la propria casa ed aveva salite le scale,
pallido, ma senz’affrettarsi. Ella già lo attendeva da oltre mezz’ora;
lo attendeva sdraiata con pigrizia sopra un lungo divano, immersa nella
quiete azzurra del crepuscolo che addormentava la stanza. Da qualche
settimana ella ormai passava i giorni, talvolta le notti, nascosta nella
casa dell’amante; non era per nulla preparata, nulla sapeva del
repentino dramma.

Egli entrò, accese il lume, si guardarono, si baciarono, poi Andrea le
tese un giornale, dicendo: — Leggi.

Il suo dito, nel segnare il titolo a grossi caratteri, nemmeno tremava.
Ella, súbito, non comprese. Da prima credette forse ad una celia, poi si
mise a leggere affannosamente, sbarrando vieppiù gli occhi, senza
trovare in sè la voce per emettere un grido, finchè rimase soggiogata da
un enorme terrore.

Egli non disse parola; solamente la guardò a lungo, la guardò
intensamente, quasi per scendere nel suo più recondito pensiero. Ella
taceva; l’ostinazione di quel silenzio era per lui come un’oscura nube
che tutta l’avvolgesse. Ebbe d’un tratto la sensazione d’una distanza
enorme che s’andasse interponendo fra loro; anzi gli parve di misurare
per la prima volta il valore dell’accusa lanciata contro il suo nome.

Si ricordò in quell’attimo, con una lucidità singolare, di averla veduta
in ginocchio presso il letto del morto, e sopra tutto ricordava il suo
piede scalzo, con il tallone roseo, le dita flesse, nella pianella
dall’orlo d’ermellino...

La medesima paura di quel momento l’assalse, il medesimo bisogno di
trascinar lei pure nel delitto consumato, e farla consapevole in tal
guisa, che mai più non potesse disciogliersi da una tale complicità.

Si risovvenne di lei, seminuda, nella notte che vegliarono fino
all’alba, e s’accorse che, infatti, un non so che di mortale, da quella
notte in poi, si emanava dal suo corpo insieme con il profumo tormentoso
della sua nudità, nè poteva ormai baciarla senza sentire, frammisto nei
baci della sua bocca, un sapore nefasto ed ubbriacante, che gli
percorreva le vene, dandogli un senso inscindibile di paradiso e
d’agonìa.

La guardava senza dir parola; ne’ suoi grandi occhi fermi si condensava
una specie di vacuo terrore, d’immobile ombra, che alterava i suoi
lineamenti e rendeva più fredda, più sigillata, l’espressione del suo
volto. Egli non poteva comprendere se quel terrore fosse pietà di lui, o
fosse il dubbio invincibile della sua colpevolezza. Voleva domandarlo, e
non osava; un’ansietà grande nasceva tra i loro cuori distanti, sebbene
in tutto ciò, infuori, al di sopra d’ogni cosa, l’uno e l’altra non
vedessero, non temessero in fondo che il pericolo nuovo sovrastante al
loro amore.

Egli temeva di perderla, ella di perdere lui; il resto era quasi una
storia d’altre persone, un cupo avvenimento che tuttavia non li feriva
nel cuore.

Anch’ella, inconsapevolmente, amava nell’uomo il suo delitto. I suoi
vigili sensi d’amante avvertivano la straordinaria potenza ch’era
imprigionata nel fascio de’ suoi nervi, e quasi godeva nel sentirsi
amata d’un amore siffatto, che, non solo rendeva possibile quest’accusa
lanciatagli a viso aperto, ma gli dava pure la forza di sopportarla
tranquillamente, come se infatti anche d’uccidere fosse per lei capace.
Tutta la sua femminilità si genufletteva davanti a questa magnificenza.
Mentr’egli supponeva ch’ella stesse agitando in sè un dubbio, forse un
vero sospetto, ella non faceva che abbandonarsi femminilmente a non so
quale vertigine fatta d’orgoglio e di stupefazione, ov’eran commiste la
paura e la gioia di sentirsi con lui ravvolta nel pericolo.

Per un poco lottò co’ suoi pensieri, ma infine il suo cuore d’amante la
vinse. Fu come un’ondata soverchia d’amore che le salisse fino alla
gola, e non potè non sorridere, anzi gli sorrise, gli aperse le braccia,
lo guardò con gli occhi lucenti, mormorandogli una parola d’amore.

Che potevano altro dirsi? Che bisogno avevano ancora d’interrogarsi a
vicenda? Non era questa una parola di perdono, d’oblìo, di promessa? Non
era, su la bocca lieve dell’amante, una parola di complicità?

Ed a lui parve necessario inginocchiarsi, per baciare le sue mani
profumate. Le sue mani eran colpevoli di tutta la gioia che gli avevan
prodigata, e così la bocca, la gola, il seno, il grembo, la dolce
capigliatura di lei, che non soltanto gli apparivano come le forme belle
d’una creatura viva, non soltanto erano quel poco di polvere animata che
poi si disgrega e si disperde, ma per lui divenivan l’accesso all’eterna
felicità della vita, la sintesi nella quale possedere l’infinita
bellezza del mondo.

Questo egli pensava con chiaroveggenza, questo ella confusamente
sentiva. Il morto, l’accusa, le conseguenze, il domani, tutto era in
quel momento così lontano da loro... A dispetto d’ogni legge convenuta,
eran due giovinezze feconde, gioconde, che liberamente si amavano; erano
l’amore giovine che nasce dall’amore spento, e vuole per sè la vita, la
gioia crudele della vita, che sgorga nel domani con impeto, come il
fiume felice nel vivo mare...

Allora si ricordò, fino alle radici dei capelli, della sensazione che
gli dava il suo corpo nudo, e particolarmente si rammentò le fisionomie
che il suo volto assumeva nella sofferenza del piacere.

Ella, che si sentiva così amata, ne aveva nella gola gonfia qualche
tremito di gioia, e si lasciò sopraffare dalla sua forza, inertemente,
supinamente, senza chiedersi perchè, in quell’ora tragica, egli la
volesse, nè perchè l’uomo che un paese intero aggrediva dimenticasse
tanta battaglia per colmare d’una voluttà insensata la paura intima che
li stringeva nell’ombra del medesimo delitto.

Ma ella pure sentiva un uguale bisogno de’ suoi baci aspri ed il bisogno
d’incriminar quell’ora, fra tutte più pavida, con una memoria di orrendo
pericolo e d’inebbriata voluttà.

                          .  .  .  .  .  .  .

Poi la fece sedere su le sue ginocchia, ed incominciò a raccontare.

Ella era un poco ansante ancora, con la fronte leggermente sudata, le
labbra umide, una specie d’innamorato abbandono, quasi di addormentata
lascivia nelle sue calde spalle. Ora lo ascoltava senza rispondere, con
la faccia china, il collo ingombro di capelli, che scintillavano,
attenta e quasi distratta.

Egli aveva sempre ragione; qualsiasi cosa dicesse, aveva sempre ragione.
Non ammetteva ella nemmeno di poter esaminare le sue parole, tanto le
piaceva di somigliare a lui, di pensare come lui, d’essere fisicamente
in suo possesso anche quando parlava. Non era necessario affatto ch’egli
spendesse tante parole per dimostrare le ragioni di quest’accusa... Ella
sapeva bene di amare un uomo temuto e sapeva che i vili odiano a questo
modo; non era necessario ch’egli le spiegasse come si sarebbe difeso;
era certa che si sarebbe difeso con facilità, certa che avrebbe vinto.

Ma il vederla così lontana del sospetto, lo empiva insieme di dolcezza e
di spavento. Avrebbe preferito avere davanti a sè una donna risoluta,
che l’afferrasse per i polsi e gli dicesse, guardandolo dirittamente
negli occhi: — «No, tu hai ucciso! Tu, con la tua stessa mano, hai
veramente ucciso!»

Invece gli pareva di vederla ignara, lontana dal sospetto, aliena dal
macchiare di una simile complicità la sua perfetta innocenza; e mentre
s’accorgeva che per sempre avrebbe dovuto portare in sè l’orribile
silenzio di quella morte, pensava che l’amore d’una donna è cosa troppo
lieve per dividere una così grande colpa.

Egli anzi temeva che l’ombra del delitto giungesse a pervadere ogni
altro senso nel timido cuor femminile; e mentre un desiderio invincibile
di confessione gli saliva dall’anima sino al fiore dei labbri, egli, con
una strana duplicità, si perdeva ne’ più sottili ragionamenti per
distruggere in lei fin le radici del sospetto.

Così passarono la notte, vicini, avvinti. Mentre la città urlava il suo
nome per ogni quadrivio, e sin nella più tarda sera dappertutto
infierivano lo stupore ed il tumulto, essi erano insieme, sotto il
medesimo tetto, insieme avvolti nel dramma sovrastante, chiusi
nell’ignoto e nell’ombra che si levavan dal sepolcro di laggiù.



V


La mattina dopo, di buonissima ora egli fu desto. Come al solito
s’immerse nel bagno che lo ringagliardiva, scrisse alcune lettere che
fece portare a mano dal suo domestico, telefonò a parecchie persone che
gli urgeva di veder nella giornata.

Ella uscì da quella notte affannosa, dal breve sonno incominciato verso
l’alba, con l’anima piena di sperdimento e pervasa da una così grande
stanchezza, che sentiva il sangue fermo dolerle nelle vene. Ma col
mattino le tornava l’intuito preciso della rovina. Guardò, e vide con
occhi limpidi ciò che non aveva sin allora veduto, se non traverso la
nebbia della sua concitazione.

Non erano ancor le nove del mattino, quando cominciò ad aggrupparsi
folla davanti alla casa del Ferento. Giungevano a comitive, per strade
opposte, gridando, crescendo, sicchè in breve la strada ne fu assiepata,
la piazza ne brulicò.

Il portinaio, dopo aver chiuso il portone, venne sopra concitato a
supplicare che il Ferento gli concedesse di telefonare in Questura. Ma
questi rispose con asprezza che non se ne occupava, e lo lasciassero in
pace. Fermo, dietro le cortine d’una finestra, si mise a guardare la
folla.

Erano scherani del Donadei, mandati a provocarlo; plebaglia chiesaiuola,
politicanti delle leghe cattoliche, socialisti e milizie della Camera
del Lavoro. Non popolo insorto, ma un’accozzaglia sobillata e
prezzolata, che veniva per vilipendere l’uomo contro il quale si voleva,
non giustizia, ma vendetta.

Qua e là, forse con piccoli gruppi de’ suoi partigiani, accadevano
zuffe. Un bel sole mattutino dormiva su quella inane piccola gente.

Ella, mezzo discinta, stava presso di lui, serrata contro il suo
braccio, e paurosa lo guardava.

Gli alti vetri luccicavano d’azzurrità; si udiva dalla strada salire un
vociferìo crescente; si udiva quel rumore ondoso che la folla produce
quando s’aggruppa in tumulto.

Andrea fece qualche passo indietro, serrando i pugni convulsi,
reprimendo la sua fredda ira. Ella pure, d’un tratto, si staccò dalla
finestra, chiudendosi con i palmi gli orecchi, perchè quegli urli troppo
la ferivano, troppo la battevano, e le pareva d’essere assalita insieme
con lui dal furore della piazza.

S’annidò nelle sue forti braccia e lacrimosamente lo baciava.

— Andrea!... Andrea, che faremo?

Egli senza rispondere, appoggiò la bocca su la sua fronte; e sopra la
fronte di lei, curvata, i suoi occhi splendevano di tanta luce, di tanto
coraggio, ch’egli parve, nella sua bianca tranquillità, più forte che la
moltitudine.

Ora, per tutte le strade, sopravvenivan turbe di popolo minaccioso; la
piazza, tra il suo porticato quadrangolo, nereggiava di assembramenti; i
gridi e le contumelie battevano contro i vetri come sassi lanciati con
la fromba. Allora la sua bella fronte si cerchiò d’una rossa ira e gli
parve indegno starsene dietro una finestra chiusa mentre gli avversari
lo insultavano.

Che si voleva da lui? Vederlo?

Con impeto si sciolse dalle braccia dell’amante, s’avventò alla
finestra, volle aprire.

— No, no, Andrea! séntimi, ascóltami... — gridò la donna, avvincendosi a
lui. Forte gli teneva le mani, forte lo respingeva; poi s’interpose fra
lui e la vetrata quasi per fargli schermo, ed aperse le braccia.

Grosse lacrime le cadevano dagli occhi, il suo gonfio petto ansava; egli
rimase un istante a guardarla, muto, poi si ritrasse.

— Perchè piangi? Hai forse paura per me?

Si mise a ridere d’un riso beffardo e cominciò a camminare per la
stanza. Ella restava con le braccia aperte, la gola riversa, le spalle
contro l’invetriata; il sole mattutino mandava lampi nello splendore de’
suoi capelli spettinati; pareva in croce, davanti a quella finestra
piena d’azzurrità.

— Hai paura per me? — diss’egli con più forza. — Non io di loro!

Rovesciò indietro la fronte con quella mossa rapida che gli faceva
ondeggiare la capigliatura e splendere il volto:

— Cosa vuole da me questa masnada di chierici e di bruti? Vedermi?...
Vengo!

— Andrea!... — ella gridò sbigottita, — che vuoi fare?... Andrea!...

— Nulla di strano: essere alla mia Clinica per le nove e mezzo, come
faccio ogni giorno.

Con la sua poca forza ella s’avvinghiò a lui per trattenerlo, e
balbettando lo supplicava: — No, non andare...

— Io?!... — diss’egli con un riso. — Allora forse non mi conosci bene.

— Ma non vedi quanti sono, Andrea?... Non senti come urlano?...

— Appunto perchè urlano, e son molti, appunto per questo è necessario
andare.

Allora ella si mise a piangere, a piangere con disperazione; la qual
cosa era la sola ch’egli davvero temesse.

— No, non piangere... — le diceva con dolcezza. — Ascóltami, ascóltami,
Novella. Comincia per me in questo momento una di quelle tragiche
avventure nelle quali un uomo ha bisogno di tutte le sue forze per
affrontare la vigliaccheria degli altri e decidere se debba rimanere un
padrone od essere un vinto. Non mi disarmare, ti supplico, non aver
paura; poichè devi essere tu, anzi, la mia compagna. Saranno giorni
terribili, di guerra senza mercede, a colpi di coltello. Ma voglio
vincere, capisci?... voglio vincere, perchè ti amo. E non essere tu la
catena!

Dicendo quest’ultima frase, la respinse con un atto quasi violento, come
se per un attimo l’avesse odiata.

Ella comprese ch’era necessario ubbidirgli, e solamente lo fissò con gli
occhi pieni di terrore.

— Ma... ti faranno male...

— Che male! — Andrea gridò. — Al primo che osi toccarmi spiano la
rivoltella su la faccia; se non retrocede, sparo. E dove un uomo ha il
coraggio di ammazzare per primo, è la folla che ha paura di lui. Del
resto la folla non mi odia. Chi mi odia è altrove. Ma s’accorgeranno
bene che Andrea Ferento non è uomo da lasciarsi ammanettare!

Fece una pausa e guardò l’amante, la donna curva, disfatta, che
l’ascoltava. Il suo sorriso beffardo si spense in un sorriso di
tristezza, e piegando su lei con dolore il volto pallido, la baciò fra i
capelli, come se quell’atto gli fosse necessario, prima di scendere
nella strada e camminare a fronte alta contro la folla de’ suoi
bestemmiatori.

— Atténdimi qui, — le disse. — Per nessuna ragione al mondo non uscir di
casa. Dietro me s’allontaneranno. Sii tranquilla: dalla Clinica ti
telefonerò.

Prese da un cassetto la rivoltella, già carica, si chiuse la giacca,
rovesciò indietro la fronte con quell’atto leonino che gli scuoteva
tutta la capigliatura, baciò in silenzio le mani dell’amante, e uscì.

Ella non ebbe che la forza di chiamare fievolmente:

— Andrea... — ma quand’era già lontano. Poi si precipitò alla finestra.

Egli scendeva le scale con un passo misurato, allacciandosi i guanti.
Sui pianerottoli v’eran persone ferme, ch’egli non guardò; a
pianterreno, sotto il porticato, un gruppo di gente che si ritrasse
bisbigliando.

Il portinaio aveva sprangato il portone; stava dietro l’usciuolo con la
chiave in mano.

— Aprite, — gli disse il Ferento.

— Non è possibile...

— Aprite, vi dico...

— Professore, non faccia questa pazzia!...

Allora gli tolse la chiave di mano, aprì egli stesso, chinò il capo
sotto il portello, e, quando fu sul marciapiede, si volse
tranquillamente, lanciò dentro la chiave, dicendo al portinaio che
s’affacciava:

— Chiudete in fretta.

L’impassibilità del suo volto era così grande, che i più vicini
credettero d’ingannarsi nel riconoscere Andrea Ferento in quell’uomo che
usciva.

Egli non guardò nessuno; la strada formicolava di gente ferma, ed alcuni
tuttavia, per la meraviglia, si scostarono.

Alto, solo, con le mani entro le tasche della giacchetta, l’occhio
vigile davanti a sè, il passo veloce ma tranquillo, quasi che tutto ciò
non lo interessasse affatto, Andrea Ferento si diresse verso la piazza,
come un uomo che debba tuttavia fendere per mezzo ad una strada
ingombra.

In verità non pensava che una cosa:

«Novella s’è affacciata e mi guarda.»

Il pensiero di quegli occhi amati che dall’alto vigilavano la sua
persona lo ringagliardì come una spronata nei fianchi d’un animale
generoso, e gli piacque di sentir vibrare intorno a sè la potenza
elettrica della folla, gli piacque avventarsi nel pericolo immediato con
una spavalderia che lo inorgogliva.

Quel senso eroico della vita che dorme nel cuore di tutti gli uomini
audaci si ridestava in lui d’improvviso e cantava nel suo spirito come
una fanfara; gli pareva d’essere un soldato sopra il terreno di
combattimento, e, più che un soldato, l’alfiere della sua parte, il
portabandiera di sè stesso.

La bandiera lo copriva come un manto, lo rendeva intangibile. Il sangue
gli batteva nei polsi con quella velocità medesima, con quel tremito
stesso, che propaga nell’aria il rullo dei tamburi, e gli pareva libera
quant’altra mai quella strada preclusa da una barriera umana.

Involontariamente sentiva di raggiare da sè la magnificenza del tribuno;
l’atmosfera delle folle ammutinate, che impaurisce anche i più forti,
era ciò che gli permetteva di respirare con più vasta libertà. Nel
sentire quell’onda umana che gli rinserrava intorno, egli aveva
l’impressione gioiosa di sentirsi portare in alto, spingere avanti, e
rimaner solo in capo della moltitudine, come l’insorto che guida la sua
fazione, alfiere d’ideali e capitano di popolo, quando gli assalitori
delle regge, nei mattini di rivolta, per avventarsi al potere, sollevano
le città.

Cominciava la sua battaglia: era pronto, magnificamente pronto.

Lo vedrebbero andare a fronte alta contro l’accusa, muto in mezzo alle
contumelie, come se il clamore di una intera città non bastasse a
distoglierlo dalla sua via consueta nè ad impedirgli di compiere ancora
una volta l’opera sua giornaliera, della quale voleva mostrarsi più
degno e più innamorato che mai.

Aveva coscienza del suo prestigio fisico e ne godeva come d’un
privilegio sovrano, conferitogli dalla natura stessa, nell’impronta, nel
calco della sua persona. La folla, che ha per suo destino quello di
ubbidire ad uno solo, è veramente femmina davanti a chi la disprezza,
davanti a chi, senza riflettere, col suo coraggio la incatena. Egli
sapeva che nessuno avrebbe osato affrontarlo a viso aperto, nè si
occupava di guardarsi le spalle, perchè, a tutelargli le spalle, bastava
la sua medesima tranquillità. Inoltre, nemmeno fra gli avversari Andrea
Ferento era un uomo odiato: la sua vita pura come cristallo moveva un
senso di stupefazione in coloro stessi ch’erano schierati sotto altre
bandiere. Aveva combattuta la sua guerra con un magnifico sdegno, e,
davanti alla folla, troppo avvezza a patire le menzogne dei retori,
aveva il merito incomparabile di aver detta la verità. Di aver detta la
verità sempre, con un coraggio che poteva parere insensato, anche quando
le chiese, i governi, le clientele, i partiti, erano in lega solidale
contro lui, perchè tacesse.

Possedeva le due qualità che maggiormente innamorano le moltitudini: era
un ribelle ed era un munifico donatore. Chi mai lo toccherebbe? Non
certo quell’eterno ribelle che si chiama il popolo, non certo quella
rozza femmina eccitata che si chiama la folla.

Ed ecco, intorno a lui, dapprima, un silenzio grande si fece.

Camminava; ed alcuni, ammutolendo, gli mossero dietro, quasi per
meraviglia della sua temerità, e forse per vedere dove quell’uomo
andasse. Nessuno aveva certo supposto di trovarsi viso a viso con lui,
nè creduto ch’egli venisse a costituire la sua libertà frammezzo a loro
con un gesto così deliberato e così tranquillo.

Questa folla, che da un momento all’altro s’aspettava d’essere sgombrata
dai gendarmi, o d’azzuffarsi con i partigiani dell’avversario, si vedeva
improvvisamente fendere dall’uomo stesso ch’era venuta per provocare.

Questo potente camminava tra loro senza guardia nè partigiano, e passava
in mezzo ai clamori diretti contro il suo nome, senza corrugare la
fronte. Non solo, ma quest’uomo era Andrea Ferento, lo scienziato che
dalla cattedra inebbriava i giovani, co’ suoi libri commoveva l’opinione
del mondo, negli ospedali, come un buono ed umile operaio, curava i
malati; quest’uomo era stato tempo innanzi alle soglie del potere, e
solo per isdegno volontario ne aveva receduto.

Camminava dietro di lui, intorno alla sua ombra, tutta una storia di
cose belle, che ognuno rivedeva. Chi lo toccherebbe? Chi seguiterebbe a
gridargli sul volto: — Assassino! — se pur questo era l’ordine?

Adesso era preso nel mezzo, era in balìa di questa grande folla;
camminando la faceva ondeggiare. Il suo nome, più veloce di lui, lo
precedeva nel tumulto; una curiosità malsana invadeva l’ammutinamento;
era un accorrere da ogni parte verso l’uomo che si faceva strada. Si
faceva strada senza parlare, senz’ascoltare, guardando innanzi a sè,
diritto, come un uomo sicuro della sua meta; e lentamente la turba lo
ingoiava, stringendolo come un nòcciolo nelle sue pareti poderose.

Egli cercava di traversar obliquamente la piazza, per dirigersi
all’opposto lato, verso lo sbocco d’una contrada; la folla crescente lo
accompagnava, rallentando il passo, arenandosi man mano contro la folla
sopravveniente, che stringeva quel nucleo camminante in una specie di
morsa.

Per il vasto rettangolo della piazza crescevan lo strepito ed il
clamore; ma già il nome di Andrea Ferento era la più alta parola che
dominasse il tumulto. Lo spazio intorno gli divenne così angusto, che
dovette fermarsi; — ma egli non impallidì.

Era preso negli stessi tentacoli della folla, ed i più vicini facevano
sforzi di braccia, di spalle, per non serrarglisi addosso. I più vicini
tacevano, guardando l’uomo alto e fermo, con una specie di timore.

Si produsse in quella moltitudine un movimento oscillante, simile al
flusso ed al riflusso d’una marea, — poi le grida inveirono contro il
cielo, facendo risuonare il nome del Ferento, come se dalla turba
erompesse la gioia selvaggia e paurosa di tener quella preda.

La piazza tiranna lo aveva catturato: era tardi ormai per il soccorso,
gli potevan mettere la mano alla gola.

Ma nessuno invece lo toccava, e, per una specie di rispetto invincibile,
nel cerchio d’uomini più vicini a lui si taceva, come nell’attesa d’un
dramma. Stavano fermi, addossati gli uni agli altri, per resistere alle
spinte, quasi per difenderlo con una barriera di spalle dal potere
altrui.

— Signori, — egli disse tranquillamente, levandosi l’orologio di tasca:
— da nove anni, tutte le mattine, a quest’ora, esco di casa per recarmi
alla mia Clinica, dove so di essere necessario. Se un pazzo od un bruto
mi lancia un’accusa che mi rifiuto di discutere, non è questa una
ragione perchè i miei medici e i miei malati suppongano ch’io non possa
recarmi fra loro. Ho deciso di traversare la città a piedi, contro
chiunque mi fermi, e su la mia parola d’uomo vi giuro che passerò!

Andrea Ferento si mosse. Un piccolo varco, uno spiraglio tortuoso, tra
gente muta, allentò la folla, e con la mano chiusa nella tasca su l’arma
caricata, egli vi s’inoltrò.

Adesso era pallido estremamente, ma di coraggio e d’ira. I suoi occhi
magnetici, striati di ferro, pareva che lampeggiando esercitassero un
comando muto.

Lento, grave, restìo, come una carena che si disincaglia, il nucleo
della folla ricominciava a muoversi, resistendo col suo peso inerte alla
spinta esterna, e così lasciandosi portare.

Sopra la folla egli ergeva l’alta statura, per guardar oltre: un émpito
selvaggio d’orgoglio lo soverchiò, quando vide che la strettoia
s’allentava.

Si volse a quelli che tacevano, e con la forza di un’invettiva esclamò:

— Quanti di voi, che ora venite a sbarrarmi il passo, quanti di voi, o
delle vostre famiglie, non hanno benedetta questa mia mano, che ora
gridate sia quella d’un assassino? — Avanti! fátemi strada, che ho
fretta, e laggiù sono moltissimi vostri figli e fratelli che hanno
ancora bisogno di me!

Gli ubbidivano muti, senza sapere perchè gli ubbidissero, facendo forza
contro la parete umana che ostacolava il passo, penetrando a forza di
gomiti nella direzione ch’egli segnava. Per soggiogarli e per stordirli
parlava, con l’occhio attento al varco difficile, con un palpito nel
cuore di gioconda impazienza.

Li odiava in quel momento, ed avrebbe voluto frustarli fino al sangue;
si sentiva quasi nelle braccia la forza di poterli percuotere.

— Fate com’io faccio questa mattina! Camminate a fronte alta contro
chiunque voglia mettervi una mano alla gola! Un giorno forse
comprenderete che la bellezza vera del mondo è tutta nella forza di una
splendente volontà.

La strettoia si allentava; i più vicini, soggiogati, ammutolivano. Con
lentezza, il gruppo che lo teneva prigioniero s’incanalò nella strada
formicolante, per la quale scendeva di corsa un drappello di studenti,
spingendo innanzi a sè una doppia catena di poliziotti, che non
riuscivano a frenarli.

Ancor lontana, egli udì la voce nota, la fresca voce della gioventù che
lo amava, che irrompeva correndo nell’opaca moltitudine avversaria,
portando il suo nome come un vessillo e facendolo battere nel cielo con
una forza che lo inebbriava.

Irruppero quasi contro lui, senza riconoscerlo; accadde un urto, e per
un momento l’avvolsero nella zuffa, lo trascinaron indietro, nel
torrente impetuoso che li trascinava.

Ma quando fu riconosciuto, e si seppe ch’egli, da solo, era uscito
contro la piazza, s’era lanciato a fronte alta nella bufera, contro il
pericolo, contro la folle accusa, che non poteva macchiarlo, allora fu
come un delirio che lo circondò, che l’avvolse da ogni parte, fu la
vendetta più bella ch’egli potesse immaginare, perchè un’altra folla era
nata, sbucava, cresceva intorno a lui, come un esercito pronto a giurare
su la sua spada, a camminare dov’egli volesse, rovesciando il suo
patibolo per innalzargli trofei.

Un riso grande, sarcastico, gli empì l’anima; si guardò intorno, e gli
parve che il sole fosse un tappeto fulgido su cui trionfalmente poteva
ora camminare.

Aveva giurato di passar da solo entro la schiera nemica; era passato,
era illeso, la vittoria incominciava.

Dietro lui, nella piazza turbolenta, scherani contro scherani
s’azzuffavano da ogni parte; squilli di tromba echeggiavano ad
intervalli sopra l’urlare della mischia, ed ancora una volta, nella
storia di tutte le grandi e piccole discordie, ci si batteva per un
nome, tra partigiani e partigiani, poichè non muta nei tempi la sorte
delle umane moltitudini: l’odio è fra condottieri, ed esse debbono
insanguinarsi per la vittoria di uno solo.

Ora la strada lo accompagnava gridando; le finestre si gremivano; le
soglie delle botteghe si assiepavano di gente curiosa; la città
soffermava la sua vita per assistere a questo esempio di virtù civile.

Ma egli camminava nel mezzo della strada, senza nulla guardare, con la
fronte sollevata, il passo veloce, tra un corteo numeroso che gli faceva
intorno quasi una guardia d’onore, pronto a scontrarsi con chiunque gli
sbarrasse il cammino.

Ad ogni sbocco di strada la polizia tentava d’interrompere il corteo; ma
esso rinasceva da’ suoi frantumi, quasi fosse dotato d’una inseparabile
vita. Sotto le finestre d’un giornale avversario volaron sassi e vetri
si ruppero con fragore; la redazione stava per essere invasa, quando gli
squilli echeggiarono e la polizia, forte di numero, giunse in tempo a
disperdere l’assalto.

Fu allora che un Commissario s’avvicinò al Ferento, pregandolo di voler
salire in una vettura per sottrarsi alla folla che la sua presenza
eccitava.

Egli scosse il capo duramente, poi rispose:

— No! Se avete ordine d’arrestarmi, arrestatemi; altrimenti proseguirò a
piedi.

Egli certo non ignorava che l’imprecisione dell’accusa e le potenti
energie ch’erano già in moto per cooperare alla sua salvezza gli
avrebbero evitato allora e poi lo sfregio dell’arresto; ma rispondeva
così al Commissario, perchè sapeva nelle ore di battaglia esser anche un
abilissimo istrione.

Aveva giurato di andare a piedi: a piedi continuerebbe sino al termine.
C’era troppo sole in quell’aria mattutina perch’egli accettasse di
trafugarsi nell’ombra!

Ora la strada lo accompagnava cantando; era una strada facile, sgombra;
incominciava il suburbio. I funzionari erano riusciti a spezzare nel
mezzo il corteo, imprigionandone la parte più accesa nel viluppo delle
contrade. Lì nascevan alberi; di lontano la terra incollinava.

Egli affrettò il passo, e quando vide apparire l’edificio bianco, le
vaste placide finestre che dormivano dietro le stuoie, quando ripensò i
bianchi letti allineati e le facce stanche di coloro che vi giacevano,
un disprezzo immenso di sè medesimo lo assalse, quasi ch’egli avesse
rubata una vittoria e stesse per rubare altresì quel diritto che
s’attribuiva di medicatore.

Allora, giunto al cancello, si volse; guardò la schiera che lo seguiva e
tese il braccio per soffermarla. Ma poichè i più vicini lo circondavano:

— Qui — disse, — ritorno ad essere il medico, che deve dimenticare.

Con un sorriso, con un saluto, posò in silenzio le mani su le spalle
d’alcuni fra i giovani che gli eran presso; indi si volse lentamente,
varcò l’ingresso del giardino e rinchiuse il cancello. Lo videro
inoltrarsi per il viale, poi, tra gli alberi, sparire.

Là in alto, la Direttrice, i medici, gl’infermieri, tutti i custodi
familiari del sereno edificio ch’egli aveva eretto per amore dell’uomo,
gli si fecero incontro con un atto fraterno e solenne d’accoglienza, che
parve racchiudere in sè una grande assoluzione.

Ma questa volta, nel cuore, proprio in quella parte del cuore che non
pensava, ch’era semplicemente il rifugio della commozione, il rifugio
della bontà che l’uomo non riesce mai del tutto a spegnere in sè stesso,
qualcosa lo morse pungentemente, con un tal senso di dolore, che gli
parve, nonostante la sua volontà metallica, di sentirsi velare gli
occhi.

Sopra loro volse per un attimo uno sguardo di bestia diffidente e
ferita, poi si chiuse di nuovo nella sua maschera d’impassibilità,
strinse in fretta le mani che gli si tendevano, e scuotendo il capo,
come per impedire ogni discorso, non faceva che ripetere:

— Nulla, nulla... andiamo, è nulla!...

Fece a tutti un gesto frettoloso di commiato, e con voce ferma chiamò,
come soleva ogni giorno, il suo primo assistente:

— Rosales, mi faccia vedere i bollettini.

Il giovine, vestito del cámice bianco, gli si avvicinò scolorato come
una fanciulla, ed insieme, tra un silenzio rispettoso e commosso,
entrarono in quello studiolo a pianterreno che aveva contro la finestra
gli odorosi rami dell’ólea fiorita.

Rimasero in piedi, uno di fronte all’altro, senza dir nulla, poi, con un
moto nervoso, il Ferento cominciò a sfogliare i bollettini.

L’altro lo guardava con gli occhi lucenti, senza muover labbro, come un
figlio guarda il suo padre che abbian ferito a morte e che sia per
morire. Stava diritto, fermo come una sentinella, con le braccia lungo i
fianchi; ma i polsi tuttavia gli tremavano.

Pur nel leggere, il Ferento lo vedeva. Ed allora sollevò sopra il
giovine i suoi occhi superbi, spianò la fronte come un uomo sereno ed
incolpevole, che alla muta paura del discepolo volesse rispondere con
una muta tranquillità.

Ma questi non resse allo schianto, e con un dolore pieno di febbre,
quasi piegando le ginocchia, gli afferrò una mano, balbettando:

— Professore, qualsiasi cosa le abbisogni, o le accada, si ricordi, si
ricordi che io son qui...

E dai buoni occhi cilestri gli cadevan lacrime nella barba bionda.

Il Ferento strinse velocemente quella mano, si morse un labbro, e volse
altrove la faccia, per non fare quello che un uomo non può fare:
piangere.



VI


Cominciaron giorni d’una guerra disperata, piena d’insidie, a colpi di
coltello.

Intanto correva l’istruttoria. Il giudice si chiamava Leonardo Niscemi,
chiarissimo nome d’una famiglia catanese che aveva dato all’Italia buon
numero di valorosi giureconsulti.

Mai bufera più grande fu scatenata sopra il capo d’un povero giudice
istruttore, nè mai tanto gioco di pressioni e di partigianerie fu
esercitato con mezzi più illeciti su la incorruttibile giustizia.

Si guerreggiava da entrambe le parti con uguale accanimento; era uno
scoppio di furor civico da lunghi anni contenuto; il Parlamento, la
strada, la chiesa, la stampa, i sodalizi, la famiglia, l’individuo,
tutto si batteva.

Drappelli e cortei percorrevano le strade; ogni sera, nei comizi, gruppi
avversari si azzuffavano; i giornali delle due parti buttavan esca nel
fuoco. In segno di protesta l’Università si chiuse. Ma le contrade si
ridestavano al mattino con i muri pieni d’iscrizioni oltraggiose per il
Ferento.

Egli aveva subitamente ritrovato in sè, con un impeto selvaggio, l’odio
e l’amore dell’uomo di parte. Il suo delitto, anch’egli quasi lo
dimenticava: era necessario anzi tutto vincere, e vincere con
magnificenza, per la causa di quelli ch’erano con lui; vincere anzi con
crudeltà, spazzando il nemico, poich’egli portava una bandiera, e le
bandiere non debbono mai soffermarsi a mezza strada.

Aggredito, si difendeva; preso d’assalto, si cacciava con i suoi, a
fronte bassa, contro gli assalitori.

Intanto correva l’istruttoria. Il giudice, Leonardo Niscemi, sentiva in
quei giorni pulsare nella penombra del suo uffizio tutta l’anima della
città. Una folla oziosa e curiosa circondava in tutte le ore del giorno
il Palazzo di Giustizia, quasichè da un momento all’altro i muri stessi
dell’edificio potessero preannunziare al pubblico l’esito
dell’istruttoria che accendeva tanta passione. Tutti gli andirivieni
eran osservati, commentati a lungo; giornalisti ed informatori passavano
la giornata ne’ corridoi: cumuli di notizie contradditorie ingombravano
i supplementi dei giornali; un’atmosfera d’impazienza e di febbre
pervadeva la città.

Guardie a cavallo scortavan ogni mattina l’automobile del Ferento, dalla
sua casa fino alla Clinica, e nel ritorno; le adiacenze dell’una e
dell’altra eran continuamente vigilate dalla Polizia.

Quel che frattanto si conosceva di sicuro in mezzo alle mille dicerìe,
si era che il giudice Niscemi aveva due volte chiamato nel suo gabinetto
il denunziatore Tancredo Salvi, ch’era in quei giorni tronfio di
popolarità sino alle radici dei capelli, e si esibiva da mattino a sera,
ovunque potesse, alla curiosità pubblica, dondolando la sua quadrata
persona con un far magnifico da istrione applaudito.

In buona fede a lui pareva d’essere il «deus ex machina» di tutta questa
faccenda. Il vedere la città piena d’ammutinamento, rossa di furore, in
séguito alla sua denunzia, lo investiva d’un così grande orgoglio della
propria potenza, che non invidiava più nulla e nessuno, anzi dimenticava
quasi d’aver in tasca il prezzo del suo turpe mercato.

Il Metello, più prudente, più alieno da simili notorietà, si era tratto
in disparte, pieno di riserbo, dopo aver conclusa con il Donadei la
losca faccenda e con un sottile riso enigmatico su l’orlo delle sue
labbra perverse, lasciava che la vanagloria del suo complice ostentasse
per proprio conto i lauri di quelle giornate clamorose. A malincuore si
era veduto inscrivere nella lista dei testimoni, e con rara modestia
egli preferiva starsene quieto in un cantuccio, ad osservare con occhio
sospettoso la piega degli avvenimenti.

Il solo con il quale osasse talvolta scambiare qualche lieve
apprezzamento era quell’ottimo raccoglitore di farfalle che si chiamava
Dandolo Zappetta, al quale non era fino allora capitato in premio
nemmeno il becco d’un quattrino, mentre continuava nell’alta soffitta a
preservare dalla polvere il suo giubbino luccicante, le sue scarpe senza
macchia.

Il Metello aveva preso l’abitudine di andarlo a trovare quasi ogni
giorno, sebbene le lunghe scale fossero dolorose a’ suoi piedi che
s’inasprivano di trafitture. Là in alto, fra lo svolazzare fermo delle
farfalle appuntate, insieme discorrevano di quella lunga e lenta
istruttoria. Il Metello faceva previsioni, Dandolo si limitava ad
ascoltar le sue parole con un sorriso pieno di sarcasmo indifferente.
Sapeva ormai come funzionino i poteri dello Stato, e non aveva maggior
fiducia nella toga del giudice che nell’uniforme del poliziotto. Tutto
era un gioco di dadi entro un bossolo truccato, e la bacchetta magica
poteva per la maraviglia far spalancare le bocche degli spettatori.

Poi ridevano insieme di quel tronfio e ridicolo Tancredo, lo Zappetta
senza livore, il Metello con una voglia matta che capitasse un fracco di
legnate su la groppa di questo re da burattini.

Ma per quanto il buon Tancredo vestisse con pompa la toga
dell’accusatore, nessuno era così miope da non riconoscere in lui
solamente l’uomo di paglia. S’intravvedeva dietro le sue spalle quadrate
il profilo fuggente, la faccia insidiosa del vero denunziatore.
L’articolo firmato «_Ergo_» aveva dato fuoco alle polveri; l’uomo che si
firmava «_Ergo_» era, nell’opinione di tutti, l’insidiatore nascosto,
che aveva teso l’agguato all’antico avversario. La battaglia era
unicamente fra loro; l’odio che fomentava tanto insorgere portava il
suggello antagonistico dei loro due nomi.

Entrambi stavano in alto, saldi, agguerriti, tra falangi di partigiani,
con in pugno entrambi lo scettro che asservisce i poteri allo sfogo
dell’odio settario, con la voluttà entrambi di volersi misurare una
buona volta in campo chiuso, uomo contro uomo.

La battaglia pareva una sfida mortale; o l’uno o l’altro doveva tendere
il collo al capestro. Eran due cupi avversari, ma due disperate volontà.

Nell’intimo del suo convincimento, Leonardo Niscemi non era persuaso che
il Ferento avesse potuto uccidere. Quella simpatia che lega insieme
tutti gli uomini d’una certa elevatezza d’ingegno lo avvicinava
piuttosto al Ferento che non al palese od al nascosto accusatore.
D’altra parte lo allettava il fatto di poter frugare a suo beneplacito
nei recessi d’una così alta vita, e quella iconoclastìa che ferve
nell’animo di tutti gli ambiziosi lo spronava contro l’incolpato come un
perverso allettamento.

Leonardo Niscemi, eretto a giudice d’un uomo e ad arbitro d’una grande
contesa, pensava innanzi tutto a non giocar la propria carta sul
tavoliere perdente, poi a servire la Giustizia, questa bella parola
gonfia e luccicante come una bolla di sapone.

Tancredo Salvi era stato imbeccato a puntino. L’accusa pareva in sè
stessa un po’ vaga ed arbitraria, ma c’era, fra le molte voci raccolte,
un’affermazione particolarmente grave, quella del medico Paolieri,
ch’erasi recato a visitare il Fiesco pochi giorni prima della sua morte
ed aveva notato nell’infermo alcuni sintomi sospetti.

Dalle chiacchiere del Paolieri, per l’appunto, i primi bisbigli eran
nati nel villaggio, trovando conferma in tutti coloro che avevano veduto
il cadavere guasto. Ma ora queste mormorazioni avevan cessato di
ondeggiare in un sussurro anonimo, per divenir deposizioni vere e
proprie, di molte persone ch’eran pronte a ripeterle, a firmarle, a
costituire insomma quel che si chiama l’accusa dell’opinione pubblica.
Inoltre v’eran due gravi coincidenze che militavano contro il Ferento,
ossia la notorietà ormai innegabile del suo legame con la moglie del
Fiesco e la quasi compiuta sua gravidanza.

L’accusa, benchè basata sopra indizi, era dunque solidamente costrutta e
poteva impensierire chicchessia per il suo colore di verisimiglianza.
Tancredo Salvi narrò al giudice tutto quanto eragli occorso durante la
visita funeraria, ed il risultato di questi colloqui, fu che il giudice
ordinasse il disseppellimento del cadavere, onde sottoporlo a
necroscopìa.

I periti scelti furono tre medici che avevan uso di queste pratiche
giudiziarie.

Una mattina gli affossatori, entrati nel piccolo cimitero di campagna,
dove, sotto il marmo ancor nitido, si consumava la spoglia di Giorgio
Fiesco, ricominciarono a scavare la terra intricata di fresche radici.

Un giardino di fiori selvatici, con mazzi di grandi papaveri già curvi
su gli alti steli, sbocciava tra gli zoccoli delle sepolture; una
festività di grano maturo invadeva l’aria turchina sopra il tranquillo
cimitero di campagna, e una biondinetta, levátasi di buon mattino, con
qualche spolverìo di cipria su la camicetta nera, con le mani congiunte
dietro la schiena e la capigliatura scintillante nel sole, assisteva,
pochi passi lontano dal sepolcro, a questa lugubre faccenda.

La biondinetta si chiamava Maria Dora. Dal giorno ch’eran giunte al
villaggio le prime notizie dello scandalo aveva cessato di lasciar
garrire il suo scilinguagnolo impertinente, aveva inchinato sul petto il
mento rotondo, e guardava pensierosamente correre la vita, chiudendo in
un silenzio ostinato il suo cuore che le doleva un po’...

Ella non aveva mai veduto risalire dal grembo della terra una cassa da
morto, ed osservava quella triste opera con un senso curioso ed
affannoso di novità. Le pareva che ogni colpo di zappa la colpisse nella
sua medesima carne, ma insieme colpisse anche un altro essere, ch’era
lontano, e si trovava solo contro una immensa guerra, nella quale, per
quanto forte, _non le pareva_ che egli potesse trionfare.

Ella non rivedeva che lui, dietro il vapore biondo che nel sole
offuscava i suoi chinati occhi; non rivedeva che lui, senza ricordarsi
bene se ancora l’amasse o l’odiasse, tanto l’evidenza della colpa
ch’egli consumava con la sua sorella, e forse l’invidia della lor
colpevole felicità, le stringevano intorno al cuore una specie di nodo
soffocante.

Gli scavatori celiavano senza curarsi di lei: nella terra umida e
rovesciata entrava brillando il sole; ed ella se ne stava in disparte,
con il capo raccolto fra le spalle un po’ inquiete; quasi cullando in sè
stessa un’assurda speranza, e cioè che non si ritrovasse più nulla, che
già i vermi avessero divorato la spoglia, il feretro, e dispersa nel lor
viscido brulicame la prova di quella colpevolezza ch’ella sentiva
essere, ahimè, troppo certa!...

Ma invece, dalla profonda fossa, risollevaron il feretro pressochè
intatto e lo caricaron sopra un carro da buoi, che andò via cigolando.
Ella non si mosse, finchè disparve. Poi, rimasta sola, si affacciò
curiosamente sopra la fossa vuota.

E vide un ragno enorme che vi camminava nel fondo, incespicando fra il
terriccio umido con le sue molte zampe villose.


Il giorno dopo tutti partirono per la città. Nella casa di Giorgio
Fiesco, dove recaronsi ad abitare, trovaron Novella dimagrita,
febbricitante, che li guardò con i suoi grandi occhi pieni di spavento
e, buttatasi nelle loro braccia, ruppe in lacrime singhiozzanti. Era
sfinita di fatica, d’amore e di maternità; mancavano poche settimane
alla nascita della sua creatura.

Nessuno volle ancor più turbarla; non una domanda, non un rimprovero
ella udì mai su le lor labbra indulgenti; la madre, il padre, la sorella
non fecero che inchinarsi come anime tutelari sopra la sua maternità e
sopra il suo dolore.

Nulla eravi di mutato nella casa di Giorgio Fiesco da quando egli stesso
vi dimorava, poichè, negli ultimi tempi, obliosa d’ogni scrupolo e
d’ogni prudenza, ella era vissuta di continuo nella casa del Ferento.
Avrebbe continuato a vivere sperduta e inerte nella sua ombra, se
l’infierire della battaglia ed il termine della gravidanza non avessero
persuaso il Ferento a separarsi da lei, rendendola in grembo alla sua
famiglia. Era d’altronde necessario che tutti venissero in città per
coadiuvarlo nella sua difesa: e da poco erano arrivati, quand’egli
sopraggiunse nella casa del Fiesco. Entrò rapidamente, senza lasciare il
tempo d’essere annunziato.

Eran tutti raccolti nella grande sala, ove i divani e le seggiole,
custoditi sotto fodere di tela greggia, diffondevano in quella fredda
casa un senso di antica disabitazione. Nel vedere il Ferento, sorsero in
piedi con uno scatto involontario, come se ognuno avesse preferito in
quell’attimo non trovarsi viso a viso con lui.

Marcuccio, ch’era d’umor pessimo per la fatica e la novità del viaggio,
se ne stava seduto sul bracciuolo d’una poltrona, con un piede
accavallato su l’altro ginocchio, e oziosamente si strofinava le unghie
contro la suola polverosa. Non súbito lo riconobbe; ma, dopo averlo ben
fissato, incominciò a ridere, a ridere, chissà per qual ragione.

Andrea guardò Novella, ch’era lì, seduta; guardò il suo cappello da
vedova posato accanto a lei sopra un tavolino, guardò la sua giovine
sorella, che le stava presso, ritta in piedi, e quasi la vigilava
tenendo una mano appoggiata sul pizzo nero che ricopriva la sua
scollatura.

Dall’infocato tramonto veniva una luce soverchia, nella quale tutte le
fisionomie parevano colorarsi d’una vampa. Essi a lor volta lo
fissarono, e lo videro quale non era stato mai, con tutta la sua forza
raccolta nel viso, eppure stanco. Una ruga profonda, incisa fra i
sopraccigli, duramente spartiva la sua fronte; una specie di ostinato
sarcasmo gli armava la mascella dura.

Egli li guardò come nemici, tutti insieme, senza fissare i suoi occhi
negli occhi di nessuno; poi disse:

— Benvenuti; era tempo che foste qui.

Novella prese la mano di Maria Dora e se ne coverse le palpebre
affaticate, con una specie di affettuosa voluttà; insieme le carezzava
il dorso della piccola mano, lentamente, soavemente, facendo scorrere le
dita fin sopra il suo polso pieghevole. Ma la fanciulla, con il capo
incline all’indietro, nel cerchio di luce dorata, pareva insensibile a
quella carezza, insensibile a tutto quanto accadeva intorno a lei,
tranne a quella specie di suggestione dolorosa che le produceva
l’aspetto di Andrea Ferento; gli occhi le si empivano di maraviglia, una
specie di latente paura stringeva il suo cuore di fanciulla.

Andrea s’avvicinò al vecchio Stefano e con forza gli prese una mano, con
forza la tenne chiusa fra i suoi palmi, come per impadronirsi nel
medesimo tempo della sua docile volontà.

Il vecchio lo guardava perplessamente, senza trovar parole, con una
specie d’angustia, con un visibile impaccio, ch’egli stesso avrebbe
voluto poter nascondere.

— Voi sapete ogni cosa, è vero? — disse il Ferento, con una voce opaca e
piena tuttavia d’una concitazione mal dominata. Egli sentiva per istinto
che c’era in quegli animi una ostilità involontaria contro di lui;
quella medesima ostilità che ormai gli pareva d’incontrare dappertutto,
più sensibile ancora fra le persone che l’amavano. Talvolta gli era
sembrato perfino d’accorgersi che questo senso vago d’ambiguità
penetrasse, come un sottile brivido, negli abbandoni voluttuosi
dell’amante.

Ma egli non veniva per difendersi; era spaventosamente calmo,
spaventosamente risoluto ad ascendere, senza un attimo di pavidità, fino
all’ultima pietra del suo calvario. Adesso eran giorni di battaglia; si
trovava sul terreno di combattimento, non rimaneva per lui che una sola
necessità: vincere.

Egli abbandonò allora la mano di Stefano, ma intrecciò insieme le sue
proprie dita, e le torse con ira, sorridendo per il dolore che ne provò.
Poi disse:

— Vi ho pregato di venire in città perchè Novella non poteva più a lungo
rimaner sola, nè rimanere con me. Inoltre avevo qualcosa da comunicarvi,
ed è per questo che ora son venuto.

Parlava a scatti, con la voce un poco ansante, passandosi tratto tratto
una mano su la fronte.

— Fra pochi giorni tornerò ad essere l’uomo di prima. Se ne dubitate
anche voi... poco importa!

— No... — volle dire Stefano. Ma egli lo interruppe con sarcasmo:

— Poco importa! Sono avvezzo a difendermi e sono avvezzo anche a vincere
nella vita. Ma, davanti ad una simile accusa, ero del tutto impreparato.
Sono stati più abili di me, finora; ma i conti li faremo in ultimo.
Benchè ferito alle spalle, ho fiato ancora per combattere, come si
vedrà. Intanto, non per giustificare me stesso, ma per tranquillare voi,
sappiate che nessun perito al mondo potrà mai scoprire nel cadavere di
Giorgio Fiesco una traccia qualsiasi di veleni, se non tali e quanti
ogni medico adopera necessariamente nelle sue medicine.

Egli fece una dura pausa, e considerò sorridendo l’espressione dei lor
volti, che parevano rischiararsi davanti alla fermezza delle sue parole.

— Ma poichè non voglio difendermi, e poichè son pronto a mostrarvi che
non ho bisogno di difendermi, sappiate ancor questo: — la scienza, ve lo
dice un medico, può facilmente uccidere senza che un perito se n’avveda.
In altre parole, vi sono veleni che non lasciano traccia. Così, almeno
fra voi, chi mi vuol credere innocente avrà la compiacenza di farlo
senza che io gliene fornisca la prova.

Nella pausa che intervenne, ricominciò a singhiozzare la risata
gutturale dello scemo, che ora si batteva le unghie raggruppate contro
la suola delle scarpe.

Il Ferento lo guardò con attenzione, poi esclamò, con un’alzata di
spalle:

— Sì, Marcuccio... hai ben ragione di ridere! Poichè tutti quanti non
siamo che istrioni, costretti a fingere una grottesca parte nella
commedia della vita, ove tu solo forse riesci ad essere uno spettatore
veramente imparziale!...

Diceva queste parole quasi a sè stesso, mentre un moto nervoso contraeva
la ruga diritta ch’era incisa nel mezzo della sua fronte. Poi si volse,
parve d’improvviso vincere una titubanza estrema, si recò dietro la
spalliera della poltrona dove Novella era seduta, e con dolcezza, con
una dolcezza così grande che lo mutava in modo singolare, posò le due
mani aperte sovra le spalle dell’amante.

Ella si scosse, rovesciò leggermente il capo all’indietro, per guardarlo
negli occhi, mentre sorpresa ed impaurita la sorella si ritraeva. Egli
di lei non s’avvide; ma la sua fisionomia, che appariva distinta nel
fascio di luce crepuscolare, sembrò aggravarsi d’una passione che la
stancava, che scioglieva i suoi nervi contratti in una specie di
faticoso allentamento. Dal cuore gli saliva una ondata buona, e questo
era visibile, come se l’amore che aveva per lei fosse una luce d’anima
che gli splendesse all’intorno, per avvolgerli entrambi nella medesima
tristezza, nella medesima infinita voluttà, ove sentivano d’essere uniti
al di sopra di tutte le pene, al di sopra di tutti gli ostacoli che
vanamente la vita e la morte frapponevano al lor colpevole amore.

Allora egli guardò ad una ad una l’altre persone, poi disse lentamente:

— Volevo confessarvi una cosa... Novella è mia, mia da lungo tempo, mia
fin da prima ch’egli morisse... Questo è innegabilmente vero.

Ella restò con gli occhi spalancati, ferma, percorsa da un interiore
brivido; gli altri tacquero. Solamente la fanciulla si raccolse fra le
dita contratte la stoffa della camicetta, e fece qualche passo
all’indietro, barcollando, con un visibile tremito.

— Sì, questo è vero, — egli confessò un’altra volta. — Ma era necessario
che io ve lo dicessi, perchè a dividerci non basterà nemmeno questa
grande sciagura. Vegliate sopra di lei, fin quando io non torni e vi
dica: — Ora vengo a riprenderla, poichè sono libero ed ho vinto!

Ella s’aggrappò con le due mani al suo polso che le posava sopra una
spalla, e contro vi poggiò la bocca, per nascondere insieme un
singhiozzo ed un bacio.



VII


Egli uscì tranquillamente da quella casa, e nulla fece per sottrarsi
alla vigilanza delle spie che seguivano i suoi passi.

Cadeva una bella serata quasi glauca su la città rumorosa; le strade
piene di movimento cominciavano ad imbiancarsi di chiarori elettrici. A
piedi percorse la distanza che lo separava dalla sua casa, evitando le
strade frequentate, facendo un più lungo giro, affinchè nessuno lo
riconoscesse nella crepuscolare ombra dei vicoli.

Camminava con gioia, velocemente, immergendosi nella sera come in un
bagno voluttuoso, ed una ilarità quasi perversa gli accelerava i battiti
del cuore. Si sentiva padrone della sua vittoria, misurava la vendetta
con una precisa e fredda crudeltà.

Ormai la bufera gli era passata sopra senza schiantarlo; anzi ne usciva
più forte, acceso di tutti i suoi spiriti battaglieri, pieno fino alla
gola d’una viva ebbrezza di combattimento. Aveva d’un tratto riafferrato
il comando della sua schiera; gli ubbidivano ancora senza riflettere,
con quella dedizione assoluta che inebbria i condottieri. L’avere
ucciso, l’esserne accusato pubblicamente, non gli pareva cosa bastevole
perchè la legge avesse forza contro di lui. Era così tirannicamente
sicuro del suo diritto sovrano, che non avrebbe mai teso i polsi alle
catene dei poteri sociali; non riconosceva nel mondo alcuna forza che
bastasse a limitare in un modo qualsiasi la sua magnifica e terribile
volontà.

Ma, se mai un tal giorno venisse, Andrea Ferento rifiuterebbe di
ubbidire. Non lo vedrebbero mai, seduto fra due sgherri, sul banco degli
accusati; mai elargirebbe quest’ora di trionfo all’ambizione d’un
Salvatore Donadei.

Rifiuterebbe l’obbedienza come un ribelle, come un sollevatore di folle,
come un re. Prima di poterlo ammanettare, bisognava combattere qualche
giornata di guerra civile; — in ultimo, non lo avrebbero che morto.

La legge che basta per dominare le piccole anarchie, non bastava per
lui: era un capo, aveva la sua milizia, pronta fino all’eccidio, darebbe
il segnale: si combatterebbe. Un odio furente lo accaniva contro tutti
coloro che avevan osato trattarlo come un uomo. Nell’ardore della
contesa, in lui si riaccendevano tutti gli istinti feroci ed imperiosi
che facevano di questo apostolo d’idee un selvaggio dominatore di
uomini.

D’altronde, in quella sera, egli sentiva che la battaglia stava per
esser vinta. I medici preposti alla necroscopìa eran tre uomini dei
quali conosceva tutti gli errori professionali, tutte le ambizioni
private, come un padrone conosce le pecche de’ suoi domestici; nè per
coscienza propria nè per istigazione d’altri, mai avrebber osato
accertare a suo danno la prova, ch’era d’altronde inaccertabile.

Ognuno sentiva oscuramente che Andrea Ferento non verrebbe tradotto in
Corte d’Assise, e quelli stessi che si cullavano in tale speranza, eran
tuttavia trattenuti dallo smascherarsi per tema della sua vendetta. Lo
sapevano potente, e sapevano che i potenti non sono mai soli.

Eppure, quanto numero di acerbe invidie non sentiva egli strisciare
dietro il suo passo tranquillo, pronte a sibilare, a mordere, quando
appena lo vedessero inginocchiato! Invidie non solo politiche, ma
professionali e private; subdoli rancori di uomini mediocri, ai quali
era passato dinanzi, troppo fulgido, nel cammino della vita, e che ora
speravano con silenziosa viltà di vederlo per sempre abbattuto nella
polvere.

Ben lo sapeva, ed era con un senso d’orgoglio intimo ch’egli sentiva
battere contro la sua dura forza questo impossente furore. Forse nella
sua Clinica stessa, nell’Ateneo medesimo dove insegnava, tutta una
rivalità che non poteva sperare di sorpassarlo altrimenti, era in attesa
del colpo mortale che lo ferisse in pieno cuore. Quanti Salvatore
Donadei, grandi o piccoli, non vivevano intorno al suo cerchio di
splendore, camuffati e silenziosi, fino al giorno in cui potessero
togliersi via la maschera!

Ma uno solo aveva osato per tutti. Aveva osato con un coraggio
inconsulto e precipitoso, giocando a sua volta una posta ben grave, per
un uomo com’era il Donadei, pieno di accortezza, di cautela e
d’impostura. La passione lo aveva sopraffatto; si era sentito sicuro di
poter guidare un assalto irresistibile, e senza timore alcuno aveva
bruciato i ponti dietro di sè.

Nel muovere questa guerra, egli contava senza dubbio su vaste
complicità, su poderose alleanze; ma era ugualmente fuor di dubbio che
l’estensore degli articoli firmati «Ergo» non aveva quasi nemmeno tenuto
conto di quella prudenza elementare, che sempre ágita davanti agli occhi
degli accusatori e dei polemisti gli articoli del Codice Penale intorno
alla diffamazione. Gettando il dado, Salvatore Donadei dava il suo
nemico per morto.

In verità s’era troppo affidato alle testimonianze del medico Paolieri e
di alcuni fra quelli che avevano veduto il cadavere del Fiesco. Era
forse rimasto così stupefatto di questa possibilità inattesa, che
l’aveva súbito accettata, non senza discuterla, ma parteggiando per
essa, ben certo che un’accusa di tal genere, o vera nei fatti, o
soltanto verisimile, dovesse riuscir bastevole a pugnalare in pieno
petto un uomo come Andrea Ferento.

Non aveva dunque troppo indugiato nell’esaminare se questi fosse
colpevole davvero; gli bastava che a rigor di legge una simile
colpevolezza potesse venirgli imputata; gli bastava di poter finalmente
radunare contro lui tutta l’ira della sua parte, trascinarlo giù
dall’altare, mettere alla gogna la sua storia d’amore.

Quell’uomo era stato il fantasma nero della sua vita. Salvatore Donadei
credeva di combattere per un’idea sua propria, mentre in verità non
faceva che combattere contro le idee dell’altro; supponeva di avere
un’ambizione sua propria, la quale non era nata invece che dal desiderio
di misurarsi con la potenza dell’altro; e sopra tutto l’odiava, perchè
il Ferento, invece di raccogliere la sua sfida, non si era mai curato
d’altro che di squassarlo da sè come un piccolo avversario importuno.

Con l’andar degli anni quest’odio aveva preso in lui così profonde
radici, che avrebbe dato la sua fede, il suo giornale, il suo denaro, e
perfino i suoi figli, per il piacere di calpestarlo senza remissione con
la sua fredda ira, come si tenta spegnere coi piedi la fiamma di una
lampada rovesciata. Giunta l’ora in cui tutto ciò gli parve possibile,
questo uomo cauto e pieno d’insidie si lasciò quasi ubbriacare dalla sua
crudele speranza.

Dal giorno in cui Tancredo ed il Metello eran venuti a proporgli quel
terribile mercato, egli non si era più concesso un attimo di pace. Aveva
tramato, congiurato, subornati o fatti subornare testimoni, s’era
accaparrato a forza di denaro una parte della stampa ed aveva messa in
opera tutta la sua potenza d’uomo politico, di giornalista, di capo d’un
numeroso partito, finchè suonata gli parve l’ora di dar fuoco alle
polveri e scatenare nella piazza la congiura tessuta nell’ombra.

E, se Andrea Ferento non fosse stato che un platonico banditore d’idee
od un eroico cercatore di verità, esiliatosi fuor dal mondo, costoro,
senza dubbio, per il lor numero e la potenza grande che ancora il
pregiudizio esercita sopra la terra, costoro lo avrebber vinto con
facilità. Ma in Andrea Ferento v’era un uomo altresì che amava la
potenza per sè stessa, v’era il partigiano accanito che sapeva l’arte
imperatoria del guidar le fazioni, e sapeva che al di sopra di tutte le
forze radunate in mano dei poteri sociali, v’è sempre stata e sempre
dominerà la violenza d’un uomo solo.

Oh, quanto nel suo spirito beffardo egli derideva coloro che si
aspettavano di veder lui, Andrea Ferento, semiconfesso e pavido sui
banchi d’una Corte d’Assise! Credevano dunque che per tanti anni egli
avesse investigata la materia invano? che per tanti anni avesse dalla
sua cattedra bandita l’ultima parola delle scienze positive, per doversi
ridurre, quando gli fosse mestieri sopprimere, ad iniettare nelle vene
della sua vittima qualcosa che tre chimici dozzinali potessero poi
raccogliere nei loro suggellati specilli? Ma no! ma no!... egli aveva
disciplinato il suo delitto come si disciplina un esperimento
scientifico, e la natura è ben più vasta che non suppongano gli sbadati
farmacisti o gli avvelenatori da suburbio che solo confidano sopra il
silenzio delle tombe. Non lui, che si chiamava Andrea Ferento, ch’era il
più dotto e prodigioso fra gli scienziati d’Europa, non lui che aveva
per giorni e settimane fatto progredire il suo delitto, a grado a grado,
indisturbatamente, col pieno potere che gli veniva dalla sua coraggiosa
libertà.

Per un istante infatti egli aveva temuta, non la giustizia degli uomini,
ma l’onnipotenza dei partiti che si collegavano contro lui, capaci senza
dubbio di subornare un giudice, di dettare ai periti un responso
dubbioso e per tal modo trascinarlo in Corte d’Assise, od anche mandarlo
assolto per non provata reità. Era quello che tuttavia bastava per
distruggere in un sol giorno la sua magnifica vita.

Ma davanti al pericolo egli aveva ritrovato con una prontezza
meravigliosa il suo posto di battaglia e la memoria strategica dell’uomo
che in altri tempi aveva camminato alla conquista del potere.

Ormai, se da una parte operavan sul giudice istigazioni potenti, egli ne
faceva esercitare altre più incontrastabili; se poteva esservi nella
designazione dei periti un intento recondito, egli era giunto a far
cadere questa scelta su persone che avrebbero dovuto resistere a
qualsiasi adescamento; se una parte della stampa lo aveva nei primi
giorni assalito con furia, man mano egli era giunto a far piovere
dall’alto certi minacciosi avvertimenti, che persuadevano i Direttori ad
imbrigliare i più focosi retori; e frattanto egli allestiva con una
pazienza, con una minuzia da certosino, la querela di diffamazione che
avrebbe chiaramente dimostrato i pericoli del firmarsi «Ergo» alla dolce
pecorella cristiana che si chiamava Salvatore Donadei.

Egli sapeva bene che per le grandi cause occorrono grandi avvocati, e
giornalmente passava un paio d’ore nello studio del senatore Ippolito
Sandonato, l’oratore che piegava sotto il suo potere le Corti di
Giustizia, soggiogava l’alte Assemblee con la speciosa eloquenza del suo
discutere, il patrono che nonostante la tarda canizie rimaneva un uomo
di toga intrepido e focoso come un esordiente.

Incominciata la battaglia, non bisognava nè perdere nè vincere a metà;
nella tensione di nervi che il combattimento gli dava, la storia verace
del suo delitto aveva esulato lontano da lui, s’era quasi affondata
senza memoria nella buia tempesta del suo spirito.


Ora egli camminava leggermente, esagitando fra sè stesso le più remote
conseguenze di tutto quello che stava per accadere, ed anzi era
particolarmente gaio, per aver avuta in quel giorno un’idea felice, che
Ippolito Sandonato si accingeva per l’appunto a mettere in opera.

«Quel buon Tancredo Salvi... che aveva senza dubbio uno sviscerato amore
per la Giustizia, e doveva certo essere incorruttibile come un santo
monaco francescano...»

Camminava tra questi pensieri, e frattanto era giunto vicino alla sua
casa, quando, all’uscir dal vicolo nella diritta contrada, un clamore
confuso di voci, un accorrere di persone, subitamente lo fermarono.

Pochi passi lontano era la sua casa, l’ultima su l’angolo; più oltre, la
piazza con il porticato, che nereggiava di gente ferma, dalla quale
provenivano i clamori. Egli non poteva ben discernere nè udire, ma erano
i giornalai che gridavano a squarciagola una notizia inattesa e
vendevano a centinaia le copie de’ giornali, che la folla spiegava
concitatamente. Quasi nello stesso tempo, alle sue spalle, si levò un
simile clamore, e, vóltosi, vide accorrere cinque o sei strilloni,
rossi, rauchi, affannati, sotto il peso dei fasci che portavano,
inseguiti da una folla che li spogliava man mano del supplemento
stampato a grandi lettere. Gli passaron davanti come un’ondata, ed
allora udì.

Egli divenne orribilmente pallido, non volle credere a sè stesso, volse
in giro gli occhi ed aguzzò l’udito come per riafferrar quel grido.

— «L’assassinio di Salvatore Donadei!... Supplemento all’_Epoca_!...
Supplemento al _Nuovo Giornale_!... L’assassinio di Salvatore
Donadei!...»

Non vide, non udì più nulla; un cerchio rosso, che si partiva dalle sue
stesse pupille, occupò la vuota órbita che gli roteava tutto
all’intorno... E sentì che il cuore gli batteva nel petto fino allo
schianto, ma non seppe se di gioia, d’ansia o di terrore, tanto gli
pareva che nel vortice improvviso del mondo si disperdesse come polvere
il senso di tutte le cose.

Poi si calmò. D’un tratto gli parve che la gente lo guardasse, anzi
guardasse lui solo, quasi già sospettandolo di questo nuovo delitto. La
morte gli si allacciava intorno come una compagna necessaria; ebbe
istintivamente voglia di volgersi, di fuggire... poi di cacciarsi
avanti, frammezzo a quella moltitudine e di gridare con tutto il suo
fiato: — Non io! non io!...

Sopravvenivano altri giornalai; la strada fino al termine biancheggiava
di pagine spiegate. Macchinalmente anch’egli si cercò nelle tasche una
moneta, comprò il giornale, poi, quasi correndo, percorse la distanza
che lo separava dal suo portone, entrò difilato in mezzo alla gente che
l’ingombrava: si trovò nella corte. Un lampione ad acetilene rischiarava
il porticato facendo splendere la porta a vetri che chiudeva l’accesso
dello scalone.

Alcuni gli si fecero intorno; egli chiese distrattamente: — Che è stato?
che è stato? — e spiegò il giornale.

Allora, súbito, dette un urlo. Aveva letto in capo della colonna: —
«L’assassino è l’assistente di Andrea Ferento: Egidio Rosales.»

— Ma no! ma no! ma no!... — si mise a dir forte, mentre con gli occhi
leggeva, e mentre intorno a lui si andava stringendo un cerchio di
persone silenziose.

Ogni tanto egli le fissava con occhi esterrefatti, come per
interrogarle; poi di nuovo a leggere con avidità, con terrore.

La notizia era questa: poche ore innanzi, mentre Salvatore Donadei
scendeva dalla Redazione della _Crociata_ insieme col suo capo
redattore, un giovine lo aveva subitamente affrontato sul marciapiede,
scaricandogli addosso tre colpi di rivoltella a bruciapelo e gridandogli
ad ogni colpo: — Basta! basta! basta!

Ferito due volte nel petto, una volta nella fronte, il Donadei stramazzò
senza rispondere, morto.

L’aggressore gli gettò sopra l’arma fumante, si volse alla strada e
gridò:

— Voleva uccidere un santo! Io l’ho vendicato!

E scomparve. Tutto questo in un baleno.

Dieci minuti più tardi, presentatosi al Commissario di Polizia, ripeteva
le stesse parole con una calma ed una fissità da ipnotizzato, poi
rimaneva immobile davanti alla scrivania del Commissario, stringendosi
con una mano il polso tremante, che aveva ucciso.

— Il vostro nome?

— Egidio Rosales. Ho ventisei anni, mio padre è morto; mia madre anche.
Sono il primo assistente di Andrea Ferento: a quest’uomo debbo tutto, e
non feci che assolvere un debito liberandolo dal suo nemico.

— Conoscevate l’onorevole Donadei?

— No.

— Sapete che è morto?

— Lo so, e volevo che morisse.

Non un muscolo, non una linea trasaliva nella sua delicata faccia
pallida; solamente le pupille, che parevano aver perduta ogni virtù di
espressione, bruciavan d’un fuoco fermo e s’affondavano sempre più nelle
profonde órbite.


Allora il Ferento, con impeto, ruppe il cerchio delle persone ch’erano
intorno, uscì fuori, balzò in una vettura, corse al Commissariato di
Polizia.

— Voglio vederlo, súbito, súbito... vederlo!

Il Commissario lo fece chiamare nel suo gabinetto. Il Rosales entrò, in
mezzo a due questurini, pallido, con il bavero alzato. Nella sua chiara
fronte, ne’ suoi femminili occhi splendeva una estatica serenità.

Con un atto paterno e disperato il Ferento gli si buttò incontro, quasi
volesse tentare di strapparlo a’ suoi carcerieri, a quelle due guardie
impassibili, ferme, agghindate nell’uniforme dalle bottoniere
luccicanti.

— Rosales! figliuolo mio! che avete fatto? Che avete fatto, per
carità?!...

Ma questi non rispose; un tremito convulso gli agitò le spalle, gli fece
brillare intorno al mento la tenue barba bionda; poi si lasciò cadere a
piè del suo maestro, e singhiozzando avvinghiò le braccia intorno alle
sue ginocchia.

— Perdono! perdono... — balbettava; — ma non era più possibile che
Lei...

Andrea Ferento lo sollevò da terra quasi con violenza, e come padre e
figlio, come fratello e fratello, que’ due uomini, fra i quali stava la
morte, insieme piansero abbracciati.



VIII


L’istruttoria si trascinò ancora per qualche tempo, finchè i periti
risposero con un giudizio fermamente negativo. Allora il giudice Niscemi
chiuse l’istruttoria e sottopose gli atti alla Camera di Consiglio, la
quale, frustrando la denunzia, addusse in favore del Ferento
l’inesistenza del reato.

Il cadavere dissepolto ritornò a dormire l’interrotto sonno in quel
piccolo cimitero di campagna, ove ormai gli sfioriti mazzi de’ papaveri
si piegavano con una specie d’ubbriachezza, dondolando su gli esili
steli, mentre qualche foglia gialla si metteva a correre di tomba in
tomba nelle folate crepuscolari.

Così era passata la bufera sul grande omicida, su l’anima sua di tiranno
e su l’insorgere tempestoso delle fazioni. Era passata e già si
disperdeva, come tutto si disperde nel mondo, in una nube di polvere, in
un’eco lontana e fievole che man mano la distanza confonde.

Nell’ora più tragica del combattimento un fanatico s’era gettato a
fronte bassa nella mischia per salvare il suo tragico maestro, ed anche
se un tal eroismo per avventura fosse stato inutile, allora come sempre
il mondo non poteva impedirsi d’ammirare queste barbare magnificenze.

Come il Ferento aveva creduto e voluto, la battaglia era vinta; vinta
senza riserve, ampiamente, crudelmente. Ora, poichè la strada era
sgombra, poteva camminar oltre, verso il domani vertiginoso. Si era
fatto amare abbastanza per trovare intorno a sè una falange di
partigiani, serrata e forte, che ovunque lo avrebbe difeso a spada
tratta, vita per vita; ormai non gli restava che godere il premio della
sua temeraria impunità.

Colpita nel cuore, la fazione avversaria s’era lasciata debellare
facilmente: egli poteva ora scegliere vendette come rose profumate in un
largo paniere. La folla, quella medesima folla ch’era insorta contro il
suo nome, ora l’applaudiva; persuasa o meno, egli era stato il più
forte; e ciò bastava perchè, secondo la logica della vita, il più forte
avesse anche ragione.

Era stata immolata una vittima per placare il dio della civile
discordia; dopo molto contorcersi, la città aveva bevuta per gli
interstizi del suo lastricato una fresca vena di sangue; l’epilogo era
nella morte: bastava.

Domani, con altre bandiere, si ricomincerebbe a guerreggiare; ma la
battaglia di ieri diventava una fredda pagina di storia morta, un nero
turbine che si allontanava nella immensa caligine delle cose finite. Su
l’avvenire degli uomini urgeva e pulsava il domani, che appartiene
sempre al vincitore ed è implacabilmente la disperazione del vinto.

Questo era vero nella breve battaglia fra due fuggenti uomini, com’è
vero nella storia dei popoli, nelle leggi fondamentali della vita, in
tutte le distruzioni, in tutte le creazioni della possibilità umana.

Egli era stato adunque il padrone del suo diritto imperatorio: aveva
ucciso, aveva costretto altri ad uccidere, e la folla soggiogata
l’applaudiva. Sopra il suo delitto non aveva trovato altro giudice che
sè.

Questo anarchico e questo santo alzava la sua rilucente potestà sopra i
divieti che sono la catena dei mediocri: s’era involto, calmo ed
inesorabile, in quel magnifico diritto che gli uomini titubanti avevano
decretato agli Dei.

Ma non soltanto sopra la scena mutevole della commedia umana era passata
ormai come polvere l’improvvisa bufera; non soltanto fuori da lui, ma
nel suo spirito stesso, era passata e lontanava.

Non più l’irosa voglia del combattere, non più la gioia sopraffacente
che si origina dalla coscienza del proprio potere; non più nemici, non
più giornate sospese nel dubbio del domani, non più l’accanimento
febbrile che gli occupava la veglia ed il sonno; ma invece una
stanchezza quasi vuota, una specie d’annientamento, un gorgo aperto
nell’essere, un’ala che ha volato troppo alto, ed ora cade, cade...

Non era neanche giunto alla pienezza della maturità; aveva trentotto
anni, e davanti a sè la vita, come una limpida libera strada. Era sicuro
d’aver battuto il buon cammino, d’aver distinto il bene dal male con
alti sensi, d’aver professata la propria coscienza con assoluta
sincerità. Se aveva peccato, era d’orgoglio, nel non credere agli altri,
nel volere col suo proprio dio; un dio prigioniero nella materia, che
nasceva e moriva con l’uomo. Persuaso di poter imprimere un segno anche
minimo nella storia della conoscenza umana, aveva intesa la vita come un
sacerdozio, e, sebbene ciò fosse dissimile dalla sua natura, la spendeva
con tenacità in una intensa e buona fatica.

Aveva eretta la Scienza a sola divinità della vita: era persuaso che il
_Dio lontano_ fosse, fino ad un certo punto, il potere dell’uomo.

Per ciò bisognava, ed anzi era necessario, debellare con pugno fermo
l’ignoranza ed i pregiudizi millenari delle stirpi, vuotare dagl’idoli
marci le cloache del mondo.

La sua concezione della vita escludeva nel modo più scientifico tutto
quanto è miracolo, tutto quanto è rivelazione; escludeva il Dio perpetuo
ed immemorabile, che può non nascere nè morir con l’uomo.

Un giorno, in mezzo a tanto volo, gli era accaduto quello che accade
all’essere più comune: — s’era innamorato, innamorato fino ad uccidere,
— e non più d’un pensiero astratto, ma d’una creatura fugace, lieve,
bella, transitoria, d’una forma femminile che s’impadroniva del suo
mondo, che pareva radunare in sè le ragioni estreme della vita.

Il primo giorno che amò, la parola «uomo» gli parve d’improvviso
assumere un significato diverso; non peggiore, non migliore: diverso.
Gli parve che i confini della vita divenissero più angusti, ma più
definitivi, e si accorse di aver esclusi da ogni ammissibilità molti
principî dei quali non aveva dimostrata in alcun modo la inconsistenza.
L’immenso edificio spirituale, costrutto sul fragile telaio delle sue
verità positive, cigolava minacciando rovina per il semplice fatto d’una
uccisione e d’un amore. L’ultimo volo del suo pensiero temerario si
abbatteva esausto contro una parete insuperabile.

Un dubbio interamente soggettivo entrava così nel suo mondo spirituale,
poichè infatti, nell’ebbrezza della passione, il piccolo fenomeno della
sua propria vita ed il fenomeno parimenti fugace della creatura che
amava gli parvero d’un tratto essere divenuti la cosa più vasta, più
significante, nell’universo mondo. Non era più così necessario che la
materia opaca rivelasse all’indagatore il suo segreto essenziale, poichè
la materia possedeva in sè un mezzo per divinizzarsi, per soverchiare
con una specie di lirismo i suoi stessi confini, risvegliando nell’uomo
che passa tra i fugaci miracoli della terra un senso ulteriore del
mondo, il senso della universale divinità, «ciò che veramente è l’anima
delle cose, il Dio non creato dagli uomini...»

Poteva darsi perciò che il suo delitto medesimo, il suo cánone
anarchico, sostenuto con tanta dialettica sottile, non fosse in fondo
che un atto barbaro dell’amore, non fosse in lui che un ritorno
immemorabile dell’uomo alle sue rapine primitive. Era una mente serena:
doveva pur contemplare, senza impaurirsene, anche questa possibilità.

E lo fece.

Cominciò a ricercare nelle origini, laggiù, dov’era nato l’amore,
laggiù, dove per la prima volta, con una tristezza paurosa e crudele,
aveva in sogno posseduta la moglie del suo fratello infermo,
accorgendosi nel medesimo tempo ch’ella era già ne’ suoi sensi, quando
ancora con l’animo ne rifuggiva, e l’amicizia era già morta, e la donna
era già sua, e la vita subitamente lo assaliva da tutte le parti con un
furore incontrastábile...

Sì, v’erano parole grandi e sante che il respiro d’una bocca poteva
disperdere. Ciò che aveva una meta erano i sensi; erano i sensi cupi,
necessari, violenti, che inveivano in lui quasi con un urlo, ed era,
oltre i sensi, qualcosa d’indomito che si levava dalle oscure profondità
del suo essere per avventarlo con ira, ma pieno insieme d’una convulsa
felicità, verso la dedizione di sè stesso nell’amore per un’altra
creatura, verso la continuazione di sè stesso nelle vene d’un’altra
creatura, nella rigogliosa giovinezza d’un figlio che la perpetui verso
il domani, — ciò che rappresenta nel mondo la vera ed unica immortalità
dell’uomo.

Ecco: ed egli dubitò di aver ucciso per amare la sua donna, per far
nascere il suo figlio. Tutto questo che altri compendiano con ubbidienza
e con pace intorno ad un intimo focolare, a lui veniva traverso il
dramma, dopo ch’era salito in cima alla montagna del mondo, e aveva
gridato nel vuoto la sua parola magnifica: — «No!»



IX


Frattanto, nella casa di Giorgio Fiesco, Novella aveva messo al mondo il
figlio di Andrea.

Era nato serenamente, verso l’ora dello stellare, in una calma e
religiosa camera, dov’entravano a larghe ondate i profumi sfiorenti e
grevi del voluttuoso autunno.

Ella fu addormentata, perchè non soffrisse, e lo diede al mondo con
pace, come se lo avesse portato, non già nel grembo doloroso, ma su le
braccia forti.

Si svegliò e sorrise, cercando con gli occhi l’amante che dall’ombra la
guardava. Piano sollevò dal lenzuolo il braccio seminudo, per chiamarlo,
poi volse il capo sovra una guancia e richiuse gli occhi.

Davanti a lei, ne’ quadrati azzurri delle due finestre, il cielo
notturno accendeva migliaia di stelle; non veniva dal quartiere
sottostante alcun rumore pur fievole. Questa creatura battezzata con
tanta morte aveva cominciato a respirare nel mondo in un’ora di pace.

L’aveva raccolta su le fedeli sue braccia la bianca madre di Novella,
che non si dimenticava d’aver cullato i suoi tre figli, ad uno ad uno, e
che sentiva ella pure qualcosa della sua morta gioventù rivivere in quel
vagito indistinto, ch’era già una voce umana.

Come poteva ella, ch’era vecchia e stanca, non sorridere a questo verde
fiore? Sì, le ombre, le ombre!... Ma per lei, ch’era un’arida esausta
madre, la sola cosa che fosse ancor bella nel mondo era il palpito nuovo
di quella vena che proveniva da lei. Sebbene fosse stata una casta
consorte, s’accorgeva che il peccato della donna contro la fede nuziale
si riduce ad essere una ben ridevole cosa davanti alla santità della
creatura che nasce; onde le sue braccia senili palpitavan di gioia
recando verso la cuna quell’ineffabile peso.

La sua figlia peccatrice aveva portato nel grembo un cuore nuovo, e per
lei questo l’assolveva da ogni peccato, versava sopra la sua lussuria
d’amante la sacra e dolorosa purezza della maternità. Anch’ella
inconsciamente scordava l’ombra del morto, per difendere, per amare
quelli che facevano continuare la implacabile vita.

E Maria Dora, quella medesima biondinetta che aveva guardato in silenzio
il feretro risalire dalla profonda fossa, or si chinava sorridente, con
una curiosità quasi materna, su la piccola cuna gonfia di pizzi e di
cuscini soffici, ove una specie di gomitolo vivo tentava d’aprire le
fessure degli occhi, le labbruzze umide, per guardare, per respirare nel
mondo.

Lo scemo era nella stanza vicina, al buio; stava presso la finestra in
attesa di veder piovere le stelle filanti e sghignazzava, con la sua
risata stridula, quasi beffarda, ogniqualvolta gli riuscisse
d’acchiapparne una.

In quel mentre poetava come al solito.

      «Le stelle filanti filanti
    son fili di paglia che bruciano.
    Per prenderle mi metto i guanti...
    sicuro... ne ho prese già tre!»

Il Ferento rimaneva muto ed assorto nella camera di Novella. Guardava il
letto ricomposto, le sembianze di lei riassopita, pallida in volto, con
qualche ciocca di capelli rappresa intorno alla fronte. Aveva un braccio
nudo fuori dal lenzuolo, ed al polso un braccialetto, che nonostante il
lutto, ella non lasciava mai. Quel cerchio d’oro luccicava nitidamente
in mezzo alla penombra, quasi fosse il centro luminoso della camera e
d’una spirale di sciarpe nere che s’avvolgessero intorno alla donna
supina.

Il suo braccio prendeva un color dorato; la mano era tranquilla,
singolarmente pura, quasi diafana. Il respiro dell’addormentata
sollevava leggermente il lenzuolo; un bel copripiedi di pizzo, a punto
d’Irlanda, con un nastro di raso azzurro, largo un palmo, ch’entrava ed
usciva dai fori della merlettatura, facendo agli angoli quattro vaste
gale, confondeva la lunghezza del suo corpo in un leggero sollevamento.
I suoi capelli dormivano accanto a lei, raccolti a fascio dietro la nuca
scintillante; le sue narici, volte verso il lume, parevan tinte di
roseo, mentre la bocca era del tutto scolorata.

Una calma lampada, nascosta sotto il paralume, fasciata con un velo,
addormentava la stanza nel suo morbido chiarore; di lontano batteva una
pendola; sul tavolino da notte c’erano tre rose, in un bicchiere.

Come l’amava! come l’amava!... che struggimento, che intollerabile
tristezza, che voglia malata di piangere... che affettuoso dolore!

Adesso avevan un figlio, eran legati, avvinti l’uno all’altra per intera
vita... Eppure egli non sentiva di avere un figlio, non lo conosceva,
sebbene fosse già nato e l’avesse appena intravveduto con i suoi occhi
distratti. Sentiva solamente una cosa: l’amore per lei, l’amore, il
desiderio, la paura di lei... Ma anche questo in un modo già diverso,
già nuovo.

Un pensiero l’occupò improvvisamente: «Rimarrà bella?»

E s’accorse che la sua bellezza gli era necessaria.

Poi cominciò a guardare indietro, verso tutto quello che aveva compiuto
per giungere fino a quell’ora, e ne provò un senso quasi di vertigine,
come se avesse guardato smarritamente nell’immenso gorgo del proprio
amore.

Di nuovo il senso quasi erotico della loro complicità gli venne al sommo
del cuore. La rivide in lontane ore notturne, disperata e sorridente
nella gioia che mai non la saziava; ricordò il profumo della sua gola
turgida, che ora da molte settimane non baciava più.

Si udiva dall’altre stanze un’eco di rumori confusi; ma in quella camera
di natività, immersa nella penombra vaporosa, non si udiva che il rumore
della notte, simile a quello che fa, nell’aprirsi, un grande ventaglio
di piume.

Li avevano lasciati soli, mentre di là v’eran il medico, la levatrice,
le domestiche, l’intera famiglia radunata intorno alla culla, e già
tutti eran curvi su quella debole incominciante vita, come se il nascere
fosse ancora un miracolo che stupefacesse i vivi, e come se davanti al
vagito d’una creatura nascente fosser cosa di ben lieve importanza tutte
l’altre voci che provengono dal confuso agitarsi del mondo.

Ella dormiva in pace, stanca d’aver compiuta la sua fatica materna,
forse ondeggiante nel sonno in una sensazione d’allegrezza e di lievità.
Su la bocca un po’ tumida, leggermente contratta, le alitava un sorriso
che pareva somigliante allo stupore d’una ubbriachezza; egli, che la
guardava con l’occhio geloso e mai casto d’un amante, provava un senso
complesso d’ostilità e di compassione contro la donna che aveva dovuto
soggiacere così apertamente alle tiranniche leggi della natura, e che,
invece di esaudir l’amore come un divino sterile delirio, aveva dovuto
avvilire il suo grembo con il peso bestiale della fecondità.

Veduto così, l’amore non era più che un prestigioso inganno, traverso
cui l’uomo s’induceva necessariamente a creare. Una volta di più _il
divino esulava dalla materia_; l’uomo non era che il tramite aleatorio
traverso il quale passa la corrente inestinguibile della vita; il
figlio, appena concepito, impoveriva già la sua madre; nascendo,
incominciava ad ucciderla.

Davanti a quel primo vagito, a quel primo brancolare nella luce d’una
creatura da poco respirante, essi, che l’avevano generata, esaurivano
sostanzialmente la lor ragione d’essersi amati, finivano di ubbidire
alla volontà naturale della materia, trasmettevan nella forza d’un cuore
più celere il già morente fuoco delle lor vene, quasichè la lor concorde
ragione di vivere fosse trapassata in quel più giovine spirito, e la
vita camminasse oltre, immemore, sopra la loro subitanea vecchiezza.

Nel momento ch’ebbe un figlio, sentì la catena che lo avvinceva
inesorabilmente alla sua propria fine; sentì l’origine di quel buio
dolore che rivolge l’uomo decrepito verso la gioventù sempre fuggente,
poich’egli non può ringiovanire se non avventando la sua furente voglia
di vivere nel cuore più giovine d’un figlio, come d’un altro sè stesso,
che trascinerà la sua ombra verso il perpetuo domani.

L’onda, l’onda, l’onda... e più lontano ancora l’onda, e fin oltre i
limiti di tutte le lontananze, ancora e per sempre, inutilmente,
l’onda...

Egli chiuse gli occhi, sopraffatto, e gli parve di sentirsi uccidere con
una lentezza crudele dalla stessa chiaroveggenza del suo pensiero. Se
tale infatti è il mondo, qual’esso appare all’uomo che avvedutamente lo
guardi, come potremmo ancora senza tedio accingerci a pensare, a volere,
ad amare, ad irrompere insomma con tutta quella ingordigia ch’è nostra
nei dominii della vita? Se una tale inutilità sovrasta ogni meta, perchè
mai l’uomo si affaticherebbe ad essere qualcosa più che un rassegnato
gauditore di gioie distruttibili?

O forse la materia è così prodigiosa, ch’essa ci salva persino dal
nostro medesimo pensiero, e quanto più la nostra mente s’accanisce a
distruggere il senso del vivere, tanto più l’istinto illogico ed
imperioso della nostra vitalità ci sospinge ad amare con ebbrezza quello
che pur vediamo essere un nulla?...

Forse. Perchè l’uomo non ha nella creazione che un solo nemico: sè
stesso. Quando l’addormenta, è felice; quando lo fa pensare, disperato.
Nulla vi è che resista, che _sia qualcosa_, davanti al nostro pensiero:
nè la bellezza, nè il piacere, nè la verità, nè l’amore, nè il pensiero
medesimo... nulla, nulla! E tuttavia non siamo che gli innamorati
inguaribili dell’una o dell’altra di queste cose fallaci, non possiamo
far altro nel mondo che seguitare a credere l’assurdo, a fidare
nell’inganno, a volere l’inutilità...

      «Sorella, non eran fili
    di paglia, e nemmeno d’argento;
    non erano che un po’ di vento
    rosso... Ne ho prese più che cento;
    m’hanno bruciato i guanti.
    Le diamo al bambino piccino
    le stelle filanti filanti?...»

Erano soli, nella camera silenziosa; il mese d’autunno, con folate
calde, gonfiava le tende senza muoverle, senza far nascere il più
piccolo rumore. Nel guardare la notte, pareva che un velo di mussola
nera continuamente s’avvolgesse intorno ad un cerchio d’azzurrità; entro
infuriavano stelle, come lucciole prigioniere in una finissima rete.

Allora egli ricominciò a sognare che l’amava, che l’amava con voluttà e
con oblìo, come se gli dilagasse per le vene il fumo d’un oppio
ubbriacante; perchè al disopra d’ogni titanica impotenza del pensiero
cantava tuttavia l’amore, questo volo dell’essere ch’era il più lontano
dalla morte, ch’era stato e sarebbe in eterno la più bella favola del
mondo...



X


Ma egli aveva ucciso.

Allo stesso modo che il suo pensiero gli impediva di credere nel divino,
di costituire l’alta sua libertà sotto l’arbitrio dei pavidi
legislatori, così la sua logica imperatoria gli impediva di ritenere che
ciò fosse un delitto. L’aver soppresso non era, nella sua coscienza
incolpevole, che un atto barbaro ma necessario di dominazione. Certo non
lo mordeva il rimorso che tormenta il mediocre; anzi la sua volontà
micidiale continuava senza infrangersi dopo la consumazione del delitto.
Se talvolta, di sorpresa, un dubbio lo assaliva, gli era facile
impadronirsi velocemente di sè stesso, riflettere, annientare il suo
dubbio. Le piccole paure dell’uomo non erano fatte per lui. Ma quello
che invece lo torturava era la menzogna, ed era il silenzio, dai quali
non poteva disciogliere il suo virile coraggio.

Preso d’assalto, era stata buona guerra il mentire, poichè fra uomo ed
uomini tutto è lecito quel che fa essere il più forte. Ma ora, lontanata
la guerra, egli sentiva una ripugnanza invincibile della sua frode;
perchè, se l’uomo può mentire in un giorno di pericolo, non deve, non
può, tutta la sua vita vivere nella menzogna.

Sì, da un lato era in pace con sè stesso; almeno gli pareva. Ma
dall’altro egli si sentiva divenire crescentemente il nemico di sè
stesso, e talvolta sentiva di trascinare in sè una fatica morale man
mano più insopportabile.

Passavano i mesi, gli avvenimenti mutavano; l’epilogo d’una storia di
morte s’era chiuso intorno ad una cuna. Per riposare la sua fatica e per
lasciare che un poco di silenzio addormentasse quei giorni di furore,
aveva trascorse parecchie settimane in una recessa villeggiatura, con
Novella, e con la famiglia di Novella che vigilava il loro piccolo
bimbo.

Ormai nessuno di costoro, forse neanche Maria Dora serbava in apparenza
il più piccolo dubbio su la possibilità che il giudice avesse prosciolto
un colpevole, tanto è profonda nel cuore dei semplici la deferenza verso
la cosa giudicata. Inoltre, con la nascita di quel bimbo, egli s’era
impadronito quasi d’un diritto, ingiusto ma grande, al loro amore: fra
poco sarebbe il tempo delle nuove nozze; il lontano morto non aveva
lasciato superstiti, e la famiglia, ch’è un organismo incoscientemente
avido di dominio, si rinserrava intorno a quell’intruso che la faceva
continuare. Non era crudeltà nè indifferenza; questo accade ogni giorno
e dappertutto, poichè il diritto dei morti non può prolungarsi oltre un
certo limite nell’osservanza dei vivi.

Già tardo era l’autunno quando Andrea fece ritorno alla sua Clinica ed
essi alla lor casa di campagna. Ma in capo di qualche tempo Novella, che
non sapeva rimanergli lontana, lasciato il bimbo alle cure di sua madre,
tornò ad abitare per l’ultima volta nella casa di Giorgio Fiesco.

Dalla maternità era uscita quasi più giovine, più vogliosa di vivere, nè
ormai cercava di opporre alcun ritegno alla pienezza della sua felicità.
Verso la primavera si sarebbero sposati, ed ora veramente, senza ombra
di rimorso, vedeva la vita splendere davanti a sè come una striscia di
sole.

Egli a sua volta provava un desiderio insaziabile di starle più
strettamente vicino; di lei si stordiva, di lei si colmava il pensiero e
le vene, sino ad averne bisogno come d’un farmaco soave nel quale
s’addormentasse l’indefinibile suo tormento. Lontano da lei, la vita
mutava colore.

Ella era tornata gioconda come una fanciulla ed il suo spirito si era
liberato dal dramma con una facilità sorprendente. Non si ricordava
quasi più d’essere madre; in lei traboccava il riso dell’amante felice;
il suo corpo, le sue parole, i suoi gesti erano più voluttuosi che mai.
Gli abiti neri che ancora la vestivano eran quasi un velo necessario
alla soverchia sua impurità; sembrava che li portasse con una religione
profana e tentante, come una suora che visibilmente abbia voglia d’amore
sotto il cilicio della sua veste claustrale.

Era la sua prima, la sua vera giovinezza, quella che non aveva potuto
fiorire negli anni del matrimonio doloroso.

Più tardi, coi primi segni della vecchiezza, ella diverrebbe veramente
una madre; ma ora, finchè un tale rigoglio di sensualità le sbocciava
per la bella persona, finchè sentiva così forte, fra vena e vena, lo
spasimo della sua giovinezza, finchè, dietro il velo delle sue ciglia
quasi d’oro, il mondo ancora le mandava luce come una prateria piena di
sole... benchè vedova, benchè madre, benchè ravvolta in un dramma oscuro
e temibile, non sapeva che tendere le sue braccia piene di colpa verso
l’inebbriata esultanza dell’amore..

Egli era qualche volta buio; ma una sua carezza bastava per
rasserenarlo. Ed in tal modo, la coscienza del potere che aveva sopra di
lui le impediva perfino di vigilare con attenzione la crisi che andava
logorando il cuore dell’amante. La sua propria gioia era così obliosa
che nemmeno le concedeva di accorgersi del dolore; poichè gli uomini
riescono difficilmente ad essere così attenti o così distratti come può
essere una donna.

I giorni passavano, ad uno ad uno, come granelli di una lenta collana;
quella casa di Giorgio Fiesco era divenuta troppo vasta per lei sola e,
nell’abitarvi, ella provava un non so quale disagio, anzi una
intollerabile malinconìa. Vi rimaneva solo in quelle ore che Andrea
seguitava macchinalmente a dividere fra le cure della Clinica e
dell’Università. In quella casa egli non metteva mai piede; ambedue, per
un tacito consenso, usavano questo rispetto verso il morto.

Ma non appena s’avvicinasse l’ora verso la quale Andrea soleva
rincasare, a mezzodì e nel pomeriggio, ecco, ella si calava su la faccia
sorridente il velo di crespo e con un senso delizioso di peccato,
cercando in mille guise di sottrarsi all’anonima indiscrezione della
strada, rapidamente si faceva condurre alla sua casa.

Per lo più giungeva innanzi ch’egli tornasse: l’aspettava con il cuor
trepidante, quasi non lo vedesse da mill’anni, e vigilava ogni rumore
per sorprendere quello del suo passo noto.

Alle volte gl’impediva di uscire, o lo faceva tardare a bella posta,
godendo con una specie di crudeltà infantile quei pochi momenti rubati
a’ suoi severi offici. Da quando ella era con lui, così intima nella sua
vita, gli aveva insegnato ad amare i suoi piccoli capricci femminili, ai
quali egli s’arrendeva sorridendo. La sera pranzavano insieme, ad una
tavola imbandita con fiori, sopra una tovaglia leggiadra, con cibi
delicati, ch’ella si occupava di scegliere. Nessuno svago avrebbe
superato per loro la dolcezza di quel vivere intimo, e la sua maschia
ruvidità si lasciava ravvolgere con inerzia da quella soave atmosfera
femminile.

Ora l’appartamento era pieno di cose ch’ella vi portava: specchi, abiti,
biancherie, fiori a profusione, oggetti graziosi e inutili, ch’ella
raccoglieva intorno a sè come un adornamento inseparabile. Tutte queste
cose infatti cominciavano con divenire anche a lui quasi necessarie,
cominciavano con occupare un posto notevole nella sua vita severa.

Ogni notte stavano insieme fin tardi, alle volte fino al mattino; ed
egli amava di ritrovare le sue vestaglie appese nello spogliatoio, le
sue pianelle su lo scendiletto; amava di veder luccicare sui pavimenti
qualche forcella caduta e di trovare sui lavabi di marmo, su le
specchiere, su le pettiniere, tanti vasetti e bossoletti e ferri e lime
e piumini per la cipra e pettini e profumerie: tutta insomma quella
minuscola confusione luccicante che serve per l’ornamento della bellezza
femminile.

A poco a poco egli s’accorgeva d’aver preso tanto amore a queste inezie,
che il privarsene ormai gli sarebbe stato veramente impossibile; senza
di lei, senza la profusione per ogni stanza di cose che le
appartenessero, gli sarebbe divenuta odiosa e tetra la casa dove abitava
da tanti anni; senza quel profumo di lei che ondeggiava nell’aria, che
s’attorcigliava come una sciarpa intorno ad ogni cosa, gli sarebbe
sembrato che al suo respiro mancasse la parte più benefica e più
sostanziale.

Aveva presa l’abitudine di trovarla dietro l’uscio entrando, e di
sentirsi all’improvviso cingere dalle sue braccia; aveva imparato a
conoscere il rumore ch’ella faceva, camminando, con la sua liscia
gonnella nera, co’ suoi tacchi sottili che battevano sui pavimenti
lucidi; quel rumore, egli lo ascoltava talvolta anche quando ella non
v’era, e si sarebbe sentito infelice come il più misero uomo se gli
avessero detto per avventura che non l’udrebbe mai più.

Non era più soltanto amore, ma un affanno crescente, un bisogno
inguaribile della sua presenza, una specie di malattia sottile, che gli
entrava nel sangue, s’immischiava nel dolore, nel piacere delle sue
vene.

Talvolta uscivano insieme, la sera, nascosti nell’automobile chiusa, e
correvano per lunghi tratti nel silenzio della campagna circostante.
Faceva un inverno dolce, con qualche notte stellata; l’ombre della
strada, assalire dal fascio dei riflettori, si rompevano come
impalcature di tenebra che rovinassero con uno schianto. Il rumore del
congegno parlava come una voce umana. Pigra, ella si coricava nelle sue
braccia, lasciandosi urtare da tutte le scosse, con una inerzia che
accresceva il suo peso caldo e profumato. Era senza cappello,
spettinata; ogni tanto sollevava la faccia per farsi baciare su la
bocca.

Ella, nell’ombra, non vedeva i suoi occhi accesi e fissi, non poteva
nemmeno sospettare quanta furia di pensiero si agitasse dietro la sua
fronte pallida.

La strada camminava rapidamente, come un fiume in piena fra la tenebra
delle due rive.

Al ritorno, la città riappariva, dapprima obliqua, sollevata su la
pianura circostante; poi man mano si delineava più ferma sotto una
cupola di fumo rossastro, e cominciava lontanamente a tremolar di lumi,
come un accampamento immenso, dove le sentinelle camminassero, avanti,
indietro, in ogni verso, con lanterne cieche.

Irrompevan sui bianchi selciati con un fragore di velocità ripercosso
dai muri delle case: ella frettolosamente si rimetteva il cappello,
avvolgendosi nel velo di crespo.

Così vissero alcuni mesi. Già stava per sopraggiungere la primavera
anniversaria; le brine del mattino si tingevano di rosei colori.

Un giorno egli pensò: — «Sono stanco.»

Di cosa, non sapeva. — Era stanco. Gli era passata su l’anima una
immensa e logorante fatica. Si accorse di un mutamento essenziale che
gli aveva compenetrato e scompigliato lo spirito, senza ch’egli nemmeno
se ne fosse avveduto.

Era stanco, in un modo profondo, e forse dell’intera sua vita; stanco
della strada per la quale aveva camminato fino allora, — e, non sapeva
il perchè, ma stanco insieme del suo proprio cervello.

Da lungo tempo non era entrato più nel suo laboratorio; anzi; per non
dover rispondere ad interrogazioni, aveva licenziato da sè, occupandolo
nella farmacia della Clinica, il giovane batteriologo che da parecchi
anni lo assisteva in ogni esperienza. Nel pensare alle sue ricerche
interrotte provava un senso di tedio: nè gli esperimenti nè i libri di
scienza lo interessavano più. D’un tratto, era caduta giù da’ suoi occhi
una specie di maschera spirituale; gli pareva di riconoscere in sè
altr’uomo; la stanchezza totale del suo spirito gli impediva di
giudicarsi.

Ma, senza dubbio, anche l’amore indefesso che aveva portato alla
guarigione, alla salvezza dell’uomo, era in lui diminuito singolarmente:
la missione d’una volta ora gli appariva tutt’al più come un mestiere
necessario e vile.

Continuava macchinalmente a guidare l’Istituto Clinico, ad essere il
capitano d’una falange di salvatori, a chinarsi giorno per giorno su gli
enigmi continui della malattia e della morte; ma gli pareva nello stesso
tempo che una voce in lui nascosta lo beffasse continuamente, come da sè
medesimo si beffa un uomo il quale sappia di star compiendo alcunchè
d’inutile.

Andava molto spesso, con una curiosità quasi da neofita, a guardare i
morti. E poichè questa era la fine inevitabile d’ogni creatura, gli
pareva cosa veramente trascurabile che «_gli altri_» avessero a morire
qualche giorno prima, qualche giorno dopo...

«_Gli altri_...» — ecco quello ch’era divenuto assolutamente estraneo al
suo mondo; non capiva più come si potesse spendere la vita per «_gli
altri_». Il senso egoistico della sua persona s’aumentava in lui
grandemente, ma senza più comunicargli alcuna volontà di elevazione; la
sua febbre di conoscenza e d’indagine si rappacificava ogni giorno più
nella inerte pigrizia del non pensare, in quel senso d’impossibilità e
di rinunzia che fluttua su lo spirito dell’uomo, quand’è passato, con il
cuore esausto, al di là da un immenso dolore.

Quasi che un tarlo invisibile fosse entrato a corrodere l’architrave del
suo pensiero metafisico, gli parve di comprendere che tutto l’edificio,
d’un tratto, con le sue colonne ciclópiche, i suoi fastigi avvampanti,
stesse per minacciar rovina; ed egli era incapace di ritrovar la via
tortuosa di quel tarlo struggente, incapace di costrurre un arco più
solido sotto quello ch’era in pericolo di sprofondare.

Ancora una volta, nella storia dei sogni umani, l’uomo temerario ch’era
salito in cima alla montagna del mondo si sentiva riafferrare da una
mano invisibile, trascinare in giù, per il pendìo tenebroso, verso la
sua catena ed il suo covo. Il ponte gettato su l’infinito peccava come
sempre d’un millesimo nel calcolo della sua curva, e ciò bastava perchè
il peso microscopico d’uno uomo pericolasse di farlo rovinare.

Andrea Ferento aveva cantato il «Dio che muore con l’uomo», aveva
creduto nella passante Inutilità della vita; come tutti i sognatori,
come tutti gli apostoli, aveva rifiutato di piegare la sua dura fronte
sotto il peso delle inevitabili obbedienze umane.

Un giorno, a mezzo del cammino, gli era stato necessario di sopprimere,
di chiamare a sé, per anticiparle un dono, «la pallida alleata, Morte»;
— e, sicuro d’averne il diritto, reso incolpevole dalla sua temerità,
uomo contro uomo, vita contro vita, sereno, implacabile, aveva ucciso.

Ecco: a biasimarlo, in lui non s’era levata la voce oscura d’un Dio; a
incatenare il suo polso libero non era bastata la forza vindice dei
poteri sociali; sopra il suo delitto travolto la vita rifluiva, come
sopra la diga sommersa il fiume barbaro.

E tuttavia, da quel giorno, qualcosa d’inafferrabile era entrato a
disordinare la sua mente; la terra da quel giorno brulicava davanti agli
occhi suoi d’infinite agonìe; sopra tutte le speculazioni del pensiero
appariva, scaturiva chiaramente una verità essenziale, non facile ad
esprimersi con parole, per quanto essa brilli e traspaia da ogni cosa
viva: — e cioè, nell’immanenza perpetua dell’anima universale»,
insoffocábile divinità che tutto compénetra il senso della vita e della
morte.

Obbiettivamente poi, quel suo coraggioso atto di libertà aveva prodotto
un bene anzichè un male; aveva lasciato vivere due creature giovini e
fertili, rendendo appena più celere una insanabile agonìa. Egli era
medico: non credeva quindi nel miracolo; quell’agonìa poteva essere
tenace, diuturna forse, ma era infallibilmente un’agonìa. Il medico
dunque aveva solo armato il suo polso di quel virile coraggio, che in
talune circostanze verrà forse comandato ai medici di domani.

Davanti al suo cervello, egli non aveva peccato se non contro quella
«volontà negativa» insita nella materia e che pareva esserne la qualità
divina. Ma il piccolo tarlo era in ciò: ch’egli aveva lesa una legge
fondamentale, s’era impadronito della morte, s’era fatto complice di
quell’avversaria che l’uomo deve odiare. Per lui, medico, per lui,
apostolo della vita, quest’alleanza era tradimento. Ed ormai gli era
impossibile non sentirlo, anche sopprimendo il cuore, con il solo
cervello.

Aveva in verità vôlte le spalle sul campo di battaglia, disertato dalla
sua bandiera.

Se veramente, com’egli aveva concluso, la vita era un fatto aleatorio ed
inutile, si doveva poterla sopprimere senza udire nell’eco interiore
dell’essere quel grido universale che si eleva dalla materia lesa,
contro l’atto che uccide.

Ma se all’uomo più forte non era lecito far sì che questo grido tacesse,
c’era forse mai nell’Inconoscibile una potenza che non poteva in alcun
modo accedere al pensiero dell’uomo, che certo non era Dio, ma non era
neanche l’Inutilità?...

E il tarlo camminava, camminava, tra le screpolature del castello
ciclópico, senza dargli pace.

Fra tutte le colpe dell’uomo gli pareva che il tradimento fosse la più
spregevole, poichè anche il delitto può esser bello, se richiede un
grande coraggio. Ma il tradimento non ne richiede alcuno; ed egli
appunto sentiva di tradire, nel chinarsi ancora, con una pietà ormai
simulata, sul letto degli infermi, nel vestirsi da benefattore, da
salvatore, _egli che aveva ucciso_.

Gli altri medici della sua clinica forse ne sapevano meno di lui, ma
erano più degni; que’ chirurghi dalle braccia nude, sporche di sangue,
ferivano anch’essi, ma ferivano per salvare; que’ medici attenti, che
negli alti armadi sceglievano e mescevano con saggezza le dosi dei
veleni, troppo spesso lo inducevano a rammentarsi di quella composizione
chimica perfida e sottile che gli era servita per propinare a dosi lente
una introvabile morte. L’aspetto medesimo di quel sereno edificio, dove
la sofferenza era santificata come nelle chiese la preghiera, non gli
riusciva più familiare come una volta, e spesso provava la sensazione
d’esservi pressochè in esilio. Nel traversarne ogni mattina le diritte
corsìe non aveva più accanto la limpida figura di Egidio Rosales, e
questo, questo sopra tutto, gli stringeva il cuore come nella forza
d’una mano crudele.

Ogni tanto volgeva indietro gli occhi, e per abitudine credeva di
rivederlo. Alto, biondo, con il càmice che gli scendeva sino alle
caviglie, una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva
il principio del collo sotto la mandibola sinistra; teneva un libro
aperto su l’avambraccio e scriveva rapidamente, con una penna
stilografica, facendo stridere la carta...

Ora non più. Il Rosales era lontano, vestito di un’altra stoffa più
ruvida, la tela del reclusorio, e chissà mai, forse in quel momento
risognava con i suoi occhi allucinati la corsìa luminosa dell’ospedale
per dove il suo maestro passava...

Salvarlo interamente non gli era stato possibile; aveva ottenuto che una
perizia lo dichiarasse irresponsabile. In luogo dell’ergastolo fu
condannato al manicomio criminale, nè mai passava giorno senza che il
Ferento tentasse qualcosa per abbreviargli o per lenirgli la pena.

Fra i moribondi, fra i malati, fra i convalescenti, egli provava sempre
più un senso d’esilio; veder morire gli pareva ormai una cosa snervante
e laida; guarire, un fatto accidentale, che altri potevan operare meglio
di lui. La sua Clinica non gli pareva più un limpido e sereno tempio
elevato al dolore dell’uomo, bensì una triste casa, ove tutte le
putredini della carne eran manifeste, i gemiti confusi, la morte
accumulata.

Sentiva talvolta il bisogno subitaneo di uscirne, verso l’aria libera, o
di cercare nelle braccia dell’amante il rifugio e l’oblìo.

Non lo avevano condannato le leggi: si condannava da sè, in silenzio, da
vero giudice di sè stesso, con la condanna più alta e più crudele che
mai si potesse infliggere, ossia rifiutando a sè medesimo di vincere
ancora.

Non il suo delitto, ma il tradimento gli era di peso; in ogni attimo
aveva la tentazione di provocare i suoi nemici, affermando loro la
verità. Libero e solo, forse lo avrebbe fatto; ma due creature complici
della sua colpa gli comandavano il silenzio: — e tacque.

La sua lotta fu lunga, e dibattuta nel modo più crudele; ma un giorno
subitamente si risolse. Con una lettera concisa e ferma rassegnò al
Ministero le dimissioni dalla sua cattedra universitaria; nello stesso
tempo, radunata in una sala dell’Istituto l’assemblea dei medici, con
brevi parole comunicò loro di aver donata la sua Clinica al Comune e di
trapassarne in quel giorno stesso la direzione al suo collega più
anziano, l’illustre professor Damiato.

Questi era presente al convegno ed era per l’appunto quegli cui dava
insopportabile ombra la gloria di Andrea Ferento. Nel suo geloso cuore
d’uomo, aveva intimamente sperato che l’accusa lo rovesciasse.

Fra quei medici che, da molti anni, con il potere della sua grande
anima, nell’alta solitudine della sua virile gioventù, limpido e libero,
Andrea Ferento capitanava, la sorpresa ed il cordoglio per quella
notizia furon estremi. In un silenzio pieno di perplessità la voce
tranquilla del Ferento parlava: era in piedi fra loro, a qualche passo
dal semicerchio silenzioso che gli formavano intorno. Parlava ritto su
l’alta persona, ravvolto in una specie di assiderata e brillante
solitudine, come quando era dinanzi al feretro del suo fratello che
ponevano in sepoltura. Nella sua faccia non un muscolo trasaliva; ne’
suoi fermi occhi non brillava che una decisa tranquillità. Tra quel
silenzio, la sua voce scandiva le parole vibratamente, quasi volesse
inciderle a duri colpi nella memoria dei compagni e dei discepoli. Ogni
tratto, al termine delle frasi, rovesciava un poco all’indietro la
fronte pallida, con una mossa che faceva tutta rilucere la sua bella
capigliatura.

Essi lo guardavan muti, protesi verso di lui, senza osare interromperlo.

— «Sì, miei amici; voi continuerete, buoni e valorosi come foste finora,
la strada che vi ho tracciata. Per me, oggi, non ho bisogno che di
riposo. Anzi, questa non è la parola: ho bisogno di pace.»

Abbassò gli occhi d’improvviso luccicanti, e tacque, mentre le sue
parole vibravano ancora nell’alto silenzio della sala. Poi tese la mano
verso loro, con un gesto di commiato, come per salutarli tutti, e
risoluto si volse. Ma d’un tratto, con un disordine di clamori e di
proteste, il semicerchio si chiuse, l’assemblea sollevata in un concorde
impeto si strinse commossa e fedele intorno all’uomo che l’abbandonava.

Egli non aveva detta parola intorno al suo dramma, eppure tutti
supponevano di comprendere la verità: «non era nè malato nè stanco; ma
il suo rifiuto era sdegno; sdegno e tristezza per l’orribile assalto.
Messo alla gogna davanti al paese intero, ferito volgarmente ne’ suoi
amori più nascosti, costretto a scendere nella piazza, s’era difeso come
doveva; — ma ora il cuore non gli reggeva più, l’angoscia lo
soverchiava, con tal delusione da fargli preferire ad ogni cosa
l’esilio...»

Ed allora quel gruppo d’uomini, che nonostante le piccole gelosie,
nonostante le asprezze talvolta eccessive del suo carattere, lo avevano
pur veduto per tanti anni, con un amore indefesso, con una bellezza di
mente e di spirito non eguale ad alcuna, limpido, buono, instancabile,
governare quella casa benefica, essere veramente il genio della
sofferenza e dell’agonìa, dare tutto sè stesso a quel mondo che poi
l’aveva oltraggiato... e in verità, — poichè tutti, ad un momento dato,
sopra l’invidia e l’ira sentono il potere dell’uomo più forte — in
verità essere stato il lor maestro, il lor compagno, il lor fratello di
pazienza e di fatica, — tutti, e perfino lo stesso rivale, ch’egli
debellava con quell’atto di generosità, tutti, come obbedendo
all’impulso di un solo cuore, gli si fecero intorno, tumultuosi, e con
atti e con parole rifiutavano ch’egli si partisse da loro.

Sembrava che almeno per una volta, quel che c’è di buono, di leale nel
cuore dell’uomo venisse al fiore delle fisionomie, su l’orlo delle
bocche, all’ápice quasi delle mani che cercavano di fargli una fedele
violenza, e pareva che, pur non osando per il grande rispetto alludere
al suo dramma, ognuno volesse dirgli tuttavia:

— «Che importa? che importa? Non è laggiù la vostra casa, ma qui, fra
noi, dove siete in mezzo ad una famiglia numerosa, che ben vi conosce.
La forza che vi difende siamo noi. Vi abbiamo già difeso... lo sapete! —
vi difenderemo ancora. No, no! è impossibile quello che voi ci
annunziate!... A chi ubbidiremmo noi dunque il giorno che non ci foste
più?»

Egli ascoltò a fronte china quel tumulto di parole, abbandonò le sue
mani a coloro che parlando le stringevano — ma, invece di rispondere,
guardava interiormente in sè stesso, provava più che mai la tentazione
di sopraffare quel tumulto con un grido, e rispondere: «Ma non sapete,
non sapete, o pazzi, che l’ho veramente ucciso? Io, che mi chiamo Andrea
Ferento, con le mie proprie mani, l’ho veramente ucciso!»

La tentazione era così forte che già gli pareva d’aver gridato, nel suo
silenzio interiore; e levò gli occhi smarritamente.

No! non bisognava decretargli quella specie di trionfo, innalzarlo ancor
più, credere ancor più nella sua menzogna!... Li aveva traditi! traditi!
e non poteva nemmeno pretendere alla bellezza di accusarsi, all’orgoglio
di ricingersi d’una ben altra impunità!...

Fra gli uomini v’era chi lo incolpava e chi lo credeva innocente; non
v’era tuttavia nessuno al quale potesse dire: — «Sì, ho ucciso», — ed
affermarlo tranquillamente, come si dice: — «Ho fatto il mio dovere».

Ma in quell’ora, tra i suoi compagni che salutava per l’ultima volta,
egli provava di questo coraggio la tentazione più insensata; e fu
soltanto il pensiero di colei che amava, il pensiero che in lui
sopraffaceva tutte le immagini della vita, quello che gli comandò: —
Taci!... — che più volte gli comandò: — Taci!... — ed offrendole un
ultimo dono, poichè l’amava, poichè l’amava... obbedì.

Li guardò in faccia ad uno ad uno, poi tutti, come per imprimersi bene
dietro la fronte il calco delle loro sembianze, come per costringerli ad
ammutolire sotto l’ultimo imperio della sua volontà, — e disse
duramente, retrocedendo:

— No! mai!



XI


— Non vedo la ragione per la quale preferiresti ch’io vada senza di te,
— ella rispose con voce carezzevole, davanti al suo rifiuto. — Spiégami,
Andrea, perchè desideri ch’io mi ritrovi sola fra quelle orribili
memorie?... No, no, Andrea! bisogna che tu venga; è necessario che venga
tu pure.

— Necessario? E perchè?

— Cosa penserebbero papà e mammà, ed anche Maria Dora, e tutti laggiù,
se tu evitassi di compiere questo, che mi sembra un dovere? un triste ma
inevitabile dovere? Dopodomani — ricòrdati — è l’anniversario.

— Già, — egli fece distrattamente, senza guardarla, con gli occhi
sperduti nel fumo della sigaretta, che intorno gli formava una larga
nuvola.

Era già, sul cader del giorno, l’ora soave quando incominciano a suonar
le campane. Aveva piovuto nel pomeriggio ed ora il cielo rischiarato
rompeva tra le nuvole in fuga: una fragranza primaverile rinfrescava
l’aria luccicante.

Ancora ella portava gli abiti da lutto; ma, seduta presso la finestra,
teneva su le ginocchia una leggiadra camicetta di colore, tutta pizzi,
frange, nastri, merletti, e con le forbici nel grembo, e con l’ago
infilato di seta flessibile pianamente l’andava ricucendo. Intorno al
collo s’era già rimessa un filo di perle, al dito le brillava il suo
meraviglioso rubino, e già dalla veste nera le spuntava sopra le
caviglie la frivola balza d’una gonnella colorata. Ugualmente si
vedevano, sotto la trasparenza del tulle che le velava la scollatura,
correre intorno al petto e sopra le spalle malnascoste i nastrini rosei
d’una camicia delicata. Fili di seta le si attaccavano alla sottana;
portava sul dito medio della man destra un piccolo ditale d’oro.

— Poi, vedi, — ella disse, posando su le ginocchia la camicetta che
ricuciva, — non voglio andarvi sola... Credo che ne morrei di tristezza.
Or che sono divenuta con felicità una cosa tua, mi spaventa il lasciarti
anche per un sol giorno. Andrea, dimmi che verrai!

Egli era seduto a poca distanza da lei, sopra un divano basso; e protese
una mano per stringere la sua.

— Prométtimi! — ella insistette.

— Perchè mi vuoi costringere ad una cosa inutile? — rispose Andrea. — Mi
opprime l’idea di rivedere quella casa, quella tomba, e sopra tutto mi
sembra che il tornare insieme laggiù sarebbe quasi una ironia, quasi un
insulto... Non lo comprendi?

Ella riflettè un momento, poi disse, chinando il volto:

— Sarebbe assai più crudele non andarvi affatto.

Andrea non volle rispondere; gettò in un portacenere la sigaretta
finita, ne accese un’altra macchinalmente, facendo scintillare la brage
nella ingorda boccata che aspirò.

— Quanto fumi!

— Come sempre, Novella. — Poi contò le sigarette che gli rimanevan
nell’astuccio, e convenne: — Forse hai ragione: fumo troppo.

Ella si levò dalla finestra e venne a sedergli accanto sul divano. La
dorata penombra della sera entrava dalle finestre azzurre, portando nel
suo lieve álito un buon odore d’invisibili giardini; si udivano, sopra
il mormorìo della città, rispondersi le campane distanti. Una striscia
lontanissima del cielo ardeva come un braciere, nel tramonto.

Ella si appoggiò contro il suo braccio, facendogli su la spalla un nodo
con le mani congiunte; sopra vi posò la guancia, e disse:

— Raccòntami... cos’è accaduto ancora? Che hai?

Il respiro delle sue parole gli tormentava il collo.

— Non mi ami più?... — soggiunse, con una voce piena d’incredulità,
mentre tuttavia le sue labbra si orlavano di sorriso. — Non mi ami più?

Egli allora non fece che attirarla sopra di sè, chiuderla nelle sue
braccia forti e rovesciarsi con lei su la spalliera del divano, quasi
volesse godere interamente la fatica del suo morbido peso, la gioia del
suo vivo tepore. Invece di risponderle, circondò con un lungo bacio la
sua calma fronte, le radici fulve come l’oro de’ suoi capelli finissimi,
ch’eran pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due
luci, come le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada
mattutina, brillano, d’autunno al sole.

Questa era la sua pace. Solamente così la sua fronte si rasserenava;
solamente nel calore della sua bellezza egli dimenticava ogni cosa. Gli
avveniva talvolta di guardarla con un senso di novità, come se non
l’avesse ancor del tutto conosciuta; nell’accarezzarla provava una
specie di religiosa paura. Quando pensieri troppo forti gli martellavano
il cervello, prendeva le sue piccole mani per fasciarsene le tempie.
Quelle mani avevano il colore luminoso delle perle orientali, erano
calme, lente, impure, come se non sapessero far altro che prodigare con
insidia carezze troppo voluttuose; quelle mani lo addormentavano: egli
era totalmente beato.

Così bella non era stata mai: nè quando la vide per la prima volta, nè
quando per la prima volta la baciò. In quei giorni per lui così
drammatici ella s’era quasi riposata, e rinasceva dopo la maternità,
sana, felice, con le vene gonfie d’amore, l’anima d’oblìo. Non aveva più
che un sogno: infrangere con quel rito anniversario l’ultimo anello
della catena, poi, trascorso alcun tempo, essere finalmente sua, sua per
sempre, legata, vincolata con lui fino all’ultimo giorno della vita.

Ormai poco le importava ch’egli abbandonasse una strada gloriosa, e
volontariamente, per cause non ben definite, si ritraesse a vivere
d’inerzia e d’esilio, se per tal modo ella poteva più strettamente
ravvolgerlo nel suo geloso amore. Egli le aveva comunicata quella
decisione con parole semplici: — «Era stanco, si era fatto troppo rumore
intorno al suo nome; già da lungo tempo aveva desiderato di ritirarsi a
vivere per lei sola e con lei sola, fors’anche lontano di lì,
ricominciando la vita... L’occasione era propizia: l’afferrava.»

Ella credette, o finse di credere, a tutte quelle parole; ma nell’intimo
della sua bontà femminile pensò che bisognava medicargli a poco a poco
il cuore ferito. Essere in tal modo la sua compagna, e doverlo, non solo
amare, ma far scendere un velo d’oblìo sopra il suo dolore silenzioso, —
questo era per lei, per il suo amore, la più dolce cosa. Gli disse
tranquillamente: — Sì, Andrea, fai bene; hai ragione; anch’io pensavo
che avresti dovuto fare così.

E guardando con occhi di sorella nei profondi occhi dell’amante, spesso
gli mormorava con fedeltà:

— Diméntica l’ombra dalla quale veniamo; la strada è ora così piena di
sole... Andremo, se vuoi, lontano; tanto lontano che nessuno ci conosca
più...

Ma egli frattanto non guariva, ed anzi ogni giorno la sua fatica
interiore diventava più manifesta; le pareva talvolta di sorprendere,
nelle sue parole, ne’ suoi gesti, un’ambiguità indefinibile.

Ed allora, serrandosi contro l’amante, come per affacciarsi con occhi
ridenti sopra il suo dolore non espresso, gli mormorava sottovoce, con
un tremito:

— Raccòntami... cos’è accaduto ancora? che hai?

Egli non rispondeva che frasi vaghe, ma invece ubbidiva come un bimbo ad
ogni sua volontà, e poich’ella desiderava di condurlo verso quella
tomba, fu debole, si arrese, partì.


Il treno li portava con rapidità per quella medesima campagna che tanti
sogni aveva inutilmente fatti nascere, un anno addietro, nello spirito
immaginoso di Tancredo Salvi. Ancora si vedevano a perdita d’occhio
infrangersi, con burrasche di fiori, le ondate immense delle praterie,
curvarsi la ricchezza dei frumenti, e il biondo color dell’estate
nascere nei venti della primavera. Su l’estremo válico dell’orizzonte il
disco paonazzo del sole affondava come un rotondo vómero nella terra
lampeggiante.

L’uomo che aveva ucciso, nel tornare incontro al suo delitto sentiva
nascere in sè, proprio nel fatto intrinseco della sua vita, una
dissimiglianza, un antagonismo con quanto era principio e continuazione
di vita.

Anch’ella non era loquace; qualcosa d’imprecisabile, forse la sola
musica del treno corrente, li fasciava entrambi d’un vago malessere,
d’una sorda e pesante malinconìa.

Egli comprendeva quel silenzio, ed ella il suo; vicini l’uno all’altra,
con la paura entrambi d’aver fatto male a venire fin lì, guardavan per i
finestrini lo spazio fuggire indietro, verso il confine dell’orizzonte,
verso le imprecise lontananze, ov’era il mondo libero...


Erano entrambi così assorti nelle reminiscenze d’un passato non lontano,
che tanto Novella come Andrea non avevano quasi pensato alla gioia di
rivedere il loro bimbo. Sicchè furon quasi percossi di maraviglia
quando, nello scendere di vettura davanti alla scalinata, si videro
venire incontro, su le braccia d’una calma e robusta nutrice, un
bambinello in fasce, che stralunando gli occhi agitava le manine
paonazze.

Ambedue si guardaron fugacemente, non seppero se commossi o vergognosi,
e per nascondere la loro confusione si chinarono entrambi con un moto
concorde sopra le spalle ampie della nutrice, che sapeva di latte
odoroso. Ed ella, ridendo nella faccia adusta, sollevò su le braccia
rotonde, abili nel cullare, quel prospero infante, il qual parve
appartenesse a lei più che alla sua madre.

I cavalli andaron via facendo stridere la ghiaia; tra gli alberi
s’attenuava il rumore delle sonagliere. La serena casa era ferita nei
vetri dall’opposto sole; un’unica finestra rimaneva chiusa — ed entrambi
la guardarono.

Adesso mamma Francesca s’affaccendava intorno a Novella, narrandole
infinite storie del suo piccolo bimbo.

«Quel bocconcello di carne aveva uno spirito indiavolato... quel
bocciolo di tulipano, gonfio e lucido, era d’una intelligenza e d’una
forza che sbalordivano; certamente incomincerebbe a parlare prima degli
altri bimbi, e — secondo mamma Francesca — somigliava come due gocce
d’acqua a Marcuccio quand’era piccino...

Nella serena casa nulla era mutato. Entrandovi, quei due che s’amavano
si sentiron d’un tratto investire dall’ombra di lontani fantasmi, furono
ancora subitamente l’amico e la moglie del morto.

Ecco: avevan scoperto il luogo dov’egli abitava. Non già nella sua
tomba, ma lì, sotto la loggia vetrata, nella poltrona di cuoio, carico
di scialli, vicino a Marcuccio che scriveva o faceva la calza, con i
suoi gomitoli di lana... — lì, nella sala terrena, dov’era il cembalo,
il bellissimo cembalo a coda, in ebano luccicante, sul quale, un certo
pomeriggio ch’eran rimasti soli, ell’aveva suonato per distrarre
l’infermo una vertiginosa fuga di Bach, quand’era entrata la piccola
Natalissa con il suo fascio di rose gialle... Abitava lassù, nella
stanza chiusa, buia, morta.

Rabbrividirono.

E nel loro amore, che si era quasi dimenticato d’essere una cosa
nefanda, ritornò a vivere lo sgomento di allora, il tradimento che li
agghiadava e li ubbriacava, la febbre di tante lussurie che consumarono
vicino alla morte.

Quando la notte incominciò, nell’alte stanze della casa la nutrice
sonnolenta cullava il bimbo nella cuna, cantilenando con una nenia lenta
lunga lenta, che i muri antichi ripercotevano.

    «Fai la ninna, fai la nanna,
    fantolino della mamma...
    .  .  .  .  .  della mamma...»

Ed allora quando si coricarono, lontani, senza dirsi parola, stretti nel
peccato che li univa come in un gelido sudario, a poco a poco, nell’alta
camera dell’infante, anche la nutrice s’addormentò.

Il silenzio divenne profondo come la fuga di un fiume sotterraneo. Ma
udivan entrambi, nello spessore delle pareti, piovere, scendere, un non
so che d’inafferrabile, che non faceva rumore, come neve.

Eran presso e lontani, solo divisi da una fragile parete; facevan quasi
uno sforzo mentale per allontanarsi ancor più; ma provavano tuttavia la
sensazione che l’ombra li tenesse avvinti, bocca su bocca, mortalmente,
implacabilmente avvinti, in un amplesso che li stremava d’ebbrezza e di
terrore.

Ma d’improvviso ricominciò a passare, come per un miracolo della
memoria, quella notte che ormai erasi evaporata nella dispersione
continua del Tempo. E come allora, d’un tratto rividero nella chiara
camera funeraria il raggio di luna che vestiva il cadavere dal piede
alla fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca
elettricità...

                          .  .  .  .  .  .  .

«... non solo morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e
freddo pareva di quell’algida luce che somigliava stranamente al colore
della sua carne, al gelo della sua materia spenta.

— «Vedi, — egli disse — com’è tranquillo?»

Ma ella non rispose, forse non l’udì, assorta com’era nel guardarlo,
cogli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso.

Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come
fosse piombo.

Alte, nel miracolo della notte, le stelle così numerose che parevan nel
deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di
splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo
frantumato nella sabbia e balenante sotto lo sfarzo del sole. La notte
bruciava ne’ suoi vertici, aveva sopra il suo fosco edificio invaso
d’ombre una cupola incendiata; l’eternità era espressa in luce,
l’infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco.

— «Vedi, com’è tranquillo?»

La luce azzurra gli metteva intorno alle radici dei capelli una specie
di scintillamento.

Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto, e teneva
le braccia contro il petto, incrociate per i polsi.

— «Giorgio...» — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per accertarsi
che fosse ben lui.

Poi allungò la mano e lambì la coltre, lievemente, ritraendola con
velocità...

Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza
dell’altro, mandargli un timido saluto, profferire per lui una dolce
parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte
che non ricordava più... Adesso le pareva necessario di fargli conoscere
il suo dolore, e dirgli, se pure non udisse: — Povero, povero amico
mio...

E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un
bacio nè una confidenza nè un secreto, senz’una di quelle parole
conclusive che fanno men buia la morte a chi vi sprofonda e a chi guarda
morire...

— «Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi e non c’ero! Hai
voluto forse confidare a me sola un ultimo desiderio e non t’ho potuto
ascoltare... Da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore...»

— «Vedi, com’è tranquillo?...»

Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo, ma su l’altro teneva un
gomito e nei palmi la fronte.

Nel medesimo tempo egli guardò il morto, e gli parve straordinario che
vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana. Ma due sole
immobilità perfette occupavano la stanza ed un solo raggio le aumentava
nel suo fermo splendore.

Poi, d’un tratto, la vide roteare sul ginocchio piegato; la pianella
scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era
scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni facevano, sollevando la
camicia, una profonda incavatura.

Dopo di lei osservò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non
si fosse chinata fuor dalla proda per guardare in giù.

— «Vedi?» — gli disse mentalmente, con un riso che non saliva sino alla
bocca.

Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio...

— «Vedi?»

Un usignolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante,
sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo
stordiva... Il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante
nell’inmensità.

«Uuh!... Fi... Perchè canti? — Vattene!» L’usignolaccio saltava. Era
proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro
le foglie sonore.

— «Vedi?»

Un filo d’aria notturna soffiò fra i capelli radi del morto, e li
scompose; poco dopo una nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il
filo che portava quel fascio d’elettricità.

— «Vedi?» —

E la nuvolaglia se n’andava piano piano, il raggio tornava, più mite,
più forte, parendo invadere la stanza e colmarla come un fiume.

— «Via... via... — balbettò quando fu ritta; — pórtami via!»

Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra camera, involontariamente si
baciarono.

— «Dammi da bere!... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato, —
brucio di sete!»

— «Acqua? — egli disse. — Non ho che acqua.»

Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio
dell’alto suo ramo il cantatore solitario snodava, buttava i suoi
gorgheggi con impetuosa magnificenza, come nell’aria brillando lancia i
suoi vertici una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa metteva
nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le
vellicassero il ventre viscido per farla ridere, o si fosse ubbriacata
fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini.

Egli si andò a sedere su l’orlo del letto, curvo, stanco, tenendo i
gomiti su le due ginocchia, le mani allacciate, la fronte china.

Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò alla finestra,
guardando fuori, curiosa, nella notte stellata.

Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore.

Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un
grande fiore di magnolia sfasciarsi, cadere in frantumi sotto il lucente
albero, come una porcellana spezzata.

Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli e sottovoce disse:

— «Che ora è? Tardi?»

Egli guardò l’orologio distrattamente:

— «Le tre passate.»

Cominciava un dondolio sonnolento per le cime degli alberi; i prati
lontani mutavano colore.

— «Che faremo?...» — ella domandò con un tremore fin nell’anima.

— «Non so.»

Stava ritta contro le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le
spalle. Egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e,
senza toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle nuda,
sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore stesso di
lei.

— «Tu l’amavi!» — egli esclamò d’un tratto con iracondia, senza levare
il capo.

— «No... taci...»

E come per soffocare ogni parola, su la bocca, affannosamente, lo
baciò...


... poi lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che
imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti,
quasi una colonna di fumo che soffiasse, non da un incendio, ma da un
gelido remoto mare. Veniva per la finestra, con l’odor fluviale dei
narcisi, con l’abbrividire delle foglie che si destavano, un’ondata
d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il giro della stanza, come un
vortice...

Una chiarità nasceva nell’oriente concavo; i prati lontani mutavano
colore.

Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la
fasciò fino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli
occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava:

— «Dormi?...»

                          .  .  .  .  .  .  .

Fu la notte più lunga e più calamitosa che vissero mai nella vita. Li
divideva solamente una parete, una fragile parete, attraverso la quale
si vedevano, si udivano, — ed una porta non difficile ad aprirsi, che
ogni tratto pareva si spalancasse da sè.

Non s’erano mai amati con tanto brivido nè con un senso più inesorabile
della loro complicità. Ora si accorgevano che il delitto era veramente
l’essenza della loro passione, comprendevan che il senso della morte
aveva sempre alimentato come un’esca la lor tragica fiamma.

Perchè non gli avevano data la medesima stanza dell’altr’anno? Chi mai,
nella casa, aveva creduto necessario avere questo delicato e crudele
pensiero per lui? Perchè tacitamente l’avevan messo a dormire presso la
camera di Novella, con una sola porta fra loro, e che potesse aprirsi
con tanta facilità?...


La mattina dopo s’incontrarono, lividi, come se avesser ucciso ancora
una volta. E compirono il rito funerario con una specie di meccanica
obbedienza, di freddo rispetto, al senso di quel dovere ultimo. Ancora
una volta la famiglia dell’ucciso li aveva lasciati soli, vicino a
quella tomba.

Vi andaron per la via della campagna, veloci, senza guardarsi, con le
braccia cariche di fiori. Il sole raggiante li assiderava; l’orizzonte
si moveva davanti alle loro pupille, come, dalla prua d’un veliero, il
confine dell’oceano.

Ella camminava rapidamente, vicino a lui, talora toccando il suo
braccio, talora lontanandosi d’un passo; fili d’erba e fuscelli di
paglia s’attaccavano alla balza della sua gonna rumorosa; ogni tratto
egli vedeva luccicare le fibbie d’acciaio brunito che ornavano le gale
delle sue scarpine.

Aveva il torto, in quel mattino di primavera, d’essere più nuda e più
femminile che mai.

Senza che lo facesse apposta, l’abito nero e la compunzione del suo
volto non facevano che accrescere visibilmente i segni della sua
impurità. Era bella, bella, bella, e pareva scesa da un letto nel quale
avesse amato infinitamente, pareva che portasse per una offerta profana
quel fascio di fiori profumati.

— Andrea...

— Mio amore?

Egli disse queste parole senza volerlo, istintivamente, come le avrebbe
dato un bacio. Se ne pentì.

— Non camminare così presto; inciampo...

Egli rallentò il passo, e proseguirono a fianco a fianco, fra due siepi
di robinie cariche di grappoli che mandavano un profumo soverchiante.
Dietro le siepi vedevano qua e là i buoi camminare possentemente,
trascinando l’uomo e il solco.

Ella non s’era messo nè mantello nè cappello; solamente un velo di trina
su la capigliatura luminosa. In quella semplicità, la sua carne
trasparente brillava come un gioiello di straordinaria purezza.

— Andrea...

— Che vuoi?

— Non ho dormito.

— Io nemmeno.

Parlavano, ella sommessamente, egli forte.

Il cimitero biancheggiò d’un tratto. Ella disse:

— Férmati.

Egli ubbidì; rimase qualche attimo fermo; poi le prese una mano, quasi
di nascosto, e la condusse.

D’improvviso, davanti alla tomba, s’accorsero che non avevano più alcuna
paura. Fra i cimiteri, su l’orlo dei sepolcri, dove la polvere torna
polvere, l’uomo non può più credere neanche nella divinità della morte.
Invece li afferrò senza remissione la gioia d’ogni cosa viva, il senso
pagano della vita; s’accorsero che faceva un bel mattino di primavera;
la terra fertile si gonfiava di rugiade iridescenti; l’aria inondata di
sole tramandava ilarità; le tombe non erano che piccoli giardini; fra
gli alberi del cimitero le nidiate cantavano.

Ella disse, _come allora_, deponendo i fiori:

— Povero, povero amico mio...

Ed egli, con una specie di atono stupore, andava leggendo le parole
incise nella pietra funeraria:

                         GIORGIO AURELIO FIESCO
                   INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL
                    COSTRUTTORE DEL PONTE DI CIMBRA
                         NATO...      MORTO...
                                  PACE

«_Pace_» — Che mai significava questo voto funerario? C’era forse una
verità superumana in questo segno di quattro lettere? Quale senso aveva?
Era essa una parola di ammonimento?... Una sigla tombale?... Una fredda
ipotesi?...

Era una parola: — ossia niente.

«_Pace_»

Tuttavia, nell’irrealità universale della umana conoscenza, pareva che
questa parola avesse un significato maggiore di tutte le altre, più
profondo, più interminabile... «_Pace_»

Ed egli pensava:

«Qui dorme l’uomo che uccisi. Di sotto quel puro marmo la sua faccia
devastata mi guarda. Ride, ride... come allora... sì, me ne ricordo. — È
un fatto grave? — Non è grave: è nulla.»

Davanti alla opaca terra che nasconde il perpetuo marcire che si compone
di dissolvimento in ogni átomo della sua polvere, la morte non era più
una cosa grave, non era più che un’astratta immanenza del passato
nell’avvenire, in verità somigliante alla parola: «_Pace_», — una specie
di sorda memoria delle cose che furono, dentro quelle che saranno.

Egli rilesse, questa volta con maggiore attenzione, le parole incise:

                         GIORGIO AURELIO FIESCO
                 INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL...

D’un tratto, come se si squarciasse nel suo cervello una densa tenebra,
umanamente lo rivide, com’era nella sua gioventù, quando insieme avevano
intrapreso ad ascendere per il cammino della vita. E intanto rileggeva
macchinalmente la parola di quattro lettere, vuota come un cerchio
d’ombra che s’allargasse nel brillante etere, la parola che gli sembrava
beffarda come il sogghigno della morte... «_Pace_»

Sul marmo polito un’iride di sole picchiava nel triangolo della terra
«A»: la pietra balenante si purificava nel fuoco settemplice
dell’arcobaleno.

Da quando Giorgio era morto, ella non aveva pregato mai più; teneva ora
le mani congiunte, ma il cuore non le suggeriva alcuna parola, ed anzi
le pareva ormai che fosser morti anche il senso e l’ideale della
preghiera.

D’un tratto egli afferrò le sue mani, ch’erano intrecciate, le strinse
con una dura forza, e la condusse via.

Oh, come cantavano le nidiate in quel mattino di primavera!... Quanto
sole, quanto sole a perdita d’occhio, su la magnificenza della vita!...

Varcaron il cancello, e, fermi su la proda, guardaron abbacinati nel
chiarore della strada maestra.

Venivano in su due carri, al passo, levando poca polvere; i carrettieri
distesi sulla paglia, cantavano a voce spiegata.

Senz’abbandonare la sua mano, egli la trascinò lontano dalla strada,
rasente il muro del camposanto, per il viottolo che s’inoltrava nella
campagna; ed ella, sentendosi più lieve, si appese felicemente al suo
braccio.

— Dimmi, — egli domandò convulso: — vuoi ancora essere mia?...

Ella non comprese la sua domanda, oppure non volle interamente
comprenderla; ma gli si annodò contro la spalla, con un movimento
femineo, rovesciando il capo all’indietro per fargli vedere che la sua
bocca rideva.

— Dimmi, — egli ripetè con forza: — vuoi ancora non abbandonarmi, non
odiarmi anche tu?...

S’eran fermati nel folto; invece di rispondere gli tendeva la bocca
rossa, gli occhi innamorati, la sua turgida gola bianca di cipria,
stringendolo così forte nelle sue braccia ch’egli doveva da ogni fibra
udirsi rispondere: — Sì!

— Allora ódimi — egli disse, pallido in verità come la morte: — bisogna
che tu sappia una cosa, perchè non posso più conoscerla io solo.

— Raccóntami... — ella rispose, impaurita, lasciando cadere le braccia
che a lui si reggevano.

Con uno sguardo mortalmente vuoto egli fissò l’amante, la campagna, il
mondo... fu sul punto d’incominciare; poi tacque.

— Raccóntami... — ella cercava di persuaderlo, carezzandogli la faccia
pallida con le sue falangi odorose di fiori.

— No, — egli rispose, — non qui. È meglio che non sia qui. C’è troppo
sole...



XII


    «Fai la ninna, fai la nanna,
    fantolino della mamma...
    .  .  .  .  .  della mamma...»

A poco a poco, nell’alta camera dell’infante, anche la nutrice
s’addormentò.

Egli rimase ancora per qualche attimo, solo, nel buio. Per le connessure
dell’uscio filtrava luce dalla camera di Novella. Voleva sentirsi
pronto, come nelle ore di battaglia, davanti a questa ch’era l’ultima e
la più inattesa fra tutte. Ma invece la volontà non gli bastava per
chiudersi ancora una volta in quell’armatura inflessibile che lo rendeva
così padrone di sè.

Aveva lottato per uccidere — e di questo era stato capace; aveva lottato
per nascondere il suo delitto — e di questo era stato capace; aveva
lottato prima di distruggere la sua magnifica vita in un fiero esilio —
e di questo era stato capace... ma quello che non poteva comandarsi più,
era lo sforzo di suggellare nel perpetuo silenzio il grido che gli
prorompeva dall’anima. Bisognava dividere questo peso almeno con
un’altra creatura, bisognava consumare il delitto fino all’ultimo,
facendo sì che investisse lei pure.

Quella tentazione crudele che aveva sentita poche ore dopo l’uccisione,
lungi dallo spegnersi, era cresciuta continuamente, in ogni giorno di
quel tempestoso anno, ed or gli pareva che ogni ulteriore indugio non
fosse che una più lunga viltà. Quante volte la parola rivelatrice gli
era venuta su l’orlo della bocca!... e sempre, sempre, nei baci più
deliranti, quel desiderio s’infiltrava in lui come la tentazione di una
più forte voluttà. Qualche volta era perfino giunto al godimento
perverso di trascinare l’amante con parole ambigue su l’orlo del
sospetto, come su l’orlo d’un abisso, dove il peso dell’ultima
complicità li avrebbe fatti cadere, avvinghiati per sempre.

Cercava con tal mezzo d’investigare quale sarebbe stato l’animo suo
davanti alla rivelazione. Ma ella non mostrava che un’infinita
smemoratezza e il desiderio di non rivolgersi mai verso quell’ora
lontana.

Anche durante i giorni dell’accusa, ella di ciò non gli aveva parlato,
se non quel tanto che fosse indispensabile: ne aveva parlato con fretta,
sbadatamente, senza guardarlo negli occhi, attenuando con un sorriso
femminile ogni parola inavvertita che paresse nascondere un suo pensiero
profondo.

Egli aveva talvolta immaginato che, nella sua fragilità, ella fosse
tuttavia la più forte.

Infatti avviene talora che l’anima femminile ci sembri assai lieve in
paragone della nostra e non obbediente a quell’ordine logico dal quale
si muove il nostro pensare; ma forse quell’anima è solo diversa dalla
nostra, e noi spesso non riusciamo ad intravvederne il fondo.

Egli era dunque rimasto, fra le rovine d’ogni altra certezza, davanti al
suo grande amore; i culti positivi, che aveva liberalmente professati
nella vita, erano insorti con ribellione davanti a quel primo atto di
vera libertà; rimaneva una sola cosa che non era distrutta nel mondo:
l’amore.

Ma quando le avesse detto chiaramente: — «Guárdami negli occhi: sono io
che l’uccisi!» — qual mutamento avverrebbe in loro e nella passione che
li univa? L’amerebbe ancora? Sarebbe amato ancora da lei?

Due mortali domande che gli pesavano, da quella tragica notte, sul
cuore.

Adesso, nella casa dormente, il silenzio era profondo come la fuga d’un
fiume sotterraneo. Egli si provò ripetutamente a sospingere l’uscio che
lo divideva dalla camera di Novella, ma sentì che ogni volta il coraggio
gli veniva meno.

Ed allora, come già un’altra volta, quando il pagliaccio rimase inerte
nella poltrona di cuoio, e bisognò sollevarlo, diede a sè stesso il
comando che lo irrigidiva: — Ubbidisci!

Piegandosi alla propria volontà come al potere d’una forza non sua,
comprese di non aver più scampo, e si avvicinò a quella soglia.
Filtravano per le connessure spiragli di luce; a tastoni cercò la
maniglia, sospinse l’uscio, ed entrò.

Ella era seduta sull’orlo del letto, in vestaglia, coi tacchi delle sue
pianelle aggrappati al cassone di mogano, i gomiti sulle ginocchia, i
polsi congiunti, la faccia raccolta nella cavità dei palmi — e lo
aspettava.

— Non hai udito, — ella disse, — come piangeva poco fa il bimbo?

— Ma ora s’è addormentato, — egli rispose. Poi, dopo un silenzio, le
domandò: — Gli vuoi bene?

La madre aperse le braccia, si abbandonò all’indietro, sui cuscini, e
rispose: — Ora sì, ora per la prima volta lo amo.

Egli aveva la sua ruga profonda incisa fra i sopraccigli; era smagrito
in viso, e nel guardarlo pareva ch’ella se ne dolesse. Allungò il
braccio per chiamarlo a sè, indi soggiunse:

— Tanto bene gli voglio, Andrea... ma non come a te!

Il braccio nudo si dorava nel chiarore della lampada, il polso dolce si
muoveva con una specie di naturale insidia, facendo trasalire i tendini.

— Sièditi, — ella disse, battendo la mano su la coltre; — sièditi qui
sul letto... Pàrlami, bàciami... ti amo.

Come quando il loro bimbo era nato, sul tavolino da notte v’erano tre
rose, in un bicchiere.

Andrea si chinò su lei, cercando con le mani fredde il suo tepore più
vivo e più nascosto. Così la teneva, da sentirne contro la persona tutto
il corpo discinto; così la teneva, da immergere la bocca ne’ suoi caldi
e pesanti seni; così da stordirsi nel profumo del suo respiro.

Ella scivolò sotto di lui, si volse, come per adagiarsi nel letto
supina, e le venne al sommo della gola quel gonfiore contenuto che in
lei pareva quasi uno sforzo per resistere alla voluttà. Ma era uno
sforzo debole, tantochè subitamente gli occhi le smorivan di un sonno
palpitante; un poco di gengiva umida le appariva tra i labbri fermi.

— Dormiamo... — ella disse.

Andrea non rispose; la guardava, teso, attento, come per contare i
battiti d’ogni sua vena.

— Perchè non ti spogli?

Ella diceva queste parole con una voce assonnata, che trascinava le
sillabe con ambiguità, quasichè fosse molto stanca, troppo stanca, e non
volesse dormire altrove che nelle sue braccia.

Poich’egli non rispondeva, gli mise una mano tra i capelli:

— Non vuoi dormire vicino a me? No?... Perchè non vuoi?

Gli toccava la fronte, le tempie, gli occhi, le guancie, la gola.

— Non sai com’è tardi, amore?... Perchè non hai sonno? Perchè ti
stanchi?

Le forcine, che le davan noia nella capigliatura, se le tolse ad una ad
una, posandole sul marmo del tavolino. Producevan cadendo un rumore
sottile, come di spilli sul vetro. Nel muovere la mano faceva brillare
contro il lume il suo rubino meraviglioso. Con le dita, come con un
pettine, si ravviava i capelli disciolti.

— Se tu non ti córichi vicino a me, sai che non dormo... Spógliati...

Allora gli disfece la cravatta, e col braccio nudo gli ricinse il collo,
attraendolo in modo che la bocca dell’amante s’immerse nella sua gola.

Egli cominciò a baciarla piano piano, ed ella con le dita irrequiete si
snudava il petto. Irritata, s’aggrappò alle sue spalle, si torse,
affondando il capo nel cuscino, sollevando il grembo, tendendo alla sua
bocca l’àpice dei seni erti.

— No, no... spógliati!... — ripeteva.

La sua voce era quasi gemente; con le dita irrequiete lo molestava come
se volesse batterlo; era tutta inarcata; il suo grembo si offriva; le
pianelle caddero.

Ma con ira egli divelse da quel bacio la sua bocca ansante, sollevò il
corpo su le due braccia tese: gli occhi suoi bruciavano di febbre, il
suo viso era terribilmente contraffatto, i suoi polsi tremavano.

— Vuoi, — disse repentinamente, — vuoi che facciamo una cosa?...

Ella si rovesciò indietro, abbandonata, con un semiriso d’affanno e di
piacere su la bocca; lo guardava traverso il vapore de’ suoi occhi
sperduti, senza ben comprendere quel che l’amante le diceva.

— Quale cosa? — mormorò.

— Che andiamo insieme a rivedere la camera di Giorgio?

Ella trattenne un grido, rivolse la faccia nel cuscino, gli puntò con
forza una mano contro la gola, per respingerlo da sè, quasi volesse
punirlo di quella orribile celia.

— Sei pazzo, Andrea?... Andrea!

Ma egli rideva malvagiamente, e lasciatosi cader sui gomiti raccolse il
capo di lei fra le sue mani, con tutta la capigliatura.

— Non sono pazzo, no! Guárdami!

Ella fissò gli occhi, troppo grandi, ne’ suoi: con gli occhi lo
ascoltava.

— Ti amo, Novella! ti amo più che mai!... più che mai!... — le diceva
scuotendole il capo; affondando le falangi nel tepore della sua nuca
morbida. — Eppure, chissà, fra un’ora, fra un momento... non sarai più
mia!

Balbettava queste parole, curvo sulla bocca di lei, quasi piangendo, e
le serrava il collo con i polsi, nei quali sentiva battere la veemenza
del dolore che pativa.

— Andrea, cosa dici?... non so cosa dici? Ma no! ma no!...

Egli scuoteva il capo, e scuoteva lei pure, duramente, facendole male.

— Ascóltami bene... cerca di bene comprendere questa orribile cosa...
Mentre ti amo come un pazzo, bisogna che mi provi a perderti! Mentre ti
amerò ancora, e sempre, fino alla disperazione... tu, forse, mi odierai!
Amore, amore mio, puoi comprendere? Mi ascolti?...

Le abbandonò il capo, la sollevò intera fra le braccia, la strinse
convulsamente, gli si empiron gli occhi di lagrime: poi rise. Anch’ella
piangeva, lentamente, senza saperne il perchè.

— Non importa se dopo mi odierai... Ma devi sapere una cosa che non
posso più tacerti. È venuta l’ora nella quale ci dobbiamo conoscere
interamente. Non importa se griderai... Solamente lasciami parlare!
parlare! perchè ti amo, e sono pazzo... e tu devi essere al pari di me,
pazza, pazza!...

Nel convulso, ella pure singhiozzava, stremata, soffocata, stringendosi
forte alla sua persona come in uno spasimo di voluttà.

Allora egli si tese, fece un arco di tutta la sua forza, dai calcagni
alla fronte, cercando quasi d’imprigionarla nel suo amore terribile; poi
le disse con ira:

— Solamente ricórdati questo: — se dopo mi odii, e mi abbandoni, e sei
d’un altro, e ti lasci baciare da un altro... io t’uccido! t’uccido!
t’uccido... _come ho già fatto un’altra volta!_

E ricaddero avviluppati nella profonda coltre.

Poi, nel dubbio che non avesse bene inteso, ripetè, scandendo le
sillabe:

— Come ho già fatto un’altra volta.

Ella era così stordita e soverchiata dalla sua violenza, che, invece di
rispondergli, cominciò nervosamente a ridere.

— M’hai bene inteso?... Perchè ridi?

Ma senz’attendere la risposta, egli, d’un balzo, fu in piedi, si curvò
su l’amante, le disse:

— Guarda: con queste mani ho ucciso!

Gli occhi di lei, stupefatti, si avvinsero alle sue mani, divenendo a
poco a poco enormi, vuoti, fermi.

— Chi?... — fecero le sue labbra, dopo un lungo silenzio.

— Giorgio!

Ella, ch’erasi un po’ sollevata, si rovesciò indietro, nel solco dei
guanciali, come se le avessero rotto il cuore. Le sue mani sperdute
brancolarono, quasi per respingere un’ombra; poi, atterrita, si strinse
i pugni contro la fronte.

— Allora... — mormorò senza fiato, — allora è proprio vero...

— Sì, è vero, — egli rispose, ben forte.

Ecco: aveva l’impressione d’essersi sparato nel cervello e d’aspettare
che la morte cominciasse nelle profonde sue vene. Invece una calma
subitanea, una lievità sorprendente gli pervase a poco a poco lo
spirito. La vita cominciava un’altra volta, dopo un’attimo
d’interruzione.

Allora tolse una rosa dal bicchiere, la odorò forte, ne morse il gambo
coi denti. Poi fece una riflessione veramente futile, e cioè che quello
stelo aveva un sapor brusco, dissimile dal profumo della rosa, e che
inacidiva la sua bocca leggermente, come il sapore d’un frutto acerbo.

Poi, guardando l’amante, s’accorse che sotto le sue braccia sollevate un
seno magnifico ed inverecondo le sbocciava dalla camicia di batista. Lo
guardò senza lussuria, come si guarda curiosamente la nudità di un
bimbo.

Insieme volle conoscere cosa ella sentisse per lui dopo quelle parole
irrevocabili, e paurosamente si provò a toccarla. Poichè rimase ferma,
una oscura tentazione lo spinse al desiderio di darle ancora un bacio.

Su la sua fronte, sopra i suoi pugni serrati, pose le labbra cautamente.

— Guárdami!

Ella infatti lasciò cadere le braccia, e, pallida come non era mai
stata, con tutta l’anima lo guardò. Allora fu egli stesso ad aver quasi
paura di quegli occhi; lento, muto, curvo, si ritrasse.

La rosa caduta si schiacciò sotto il suo piede.

— Andrea...

Ma, nel parlare, la mascella le tremava d’un irresistibile tremito; una
sensazione di freddo le traversò tutto il corpo; macchinalmente si
ricoverse.

— Andrea, sì, mi ricordo... Una volta mi hai detto: «Così e più
forte...» «Così e più forte...» Queste due parole: — «più forte» — mi
sono rimaste nella memoria come una promessa funesta e grande. Anche tu
forse te ne ricordi... Ma, guarda come tremo... Dammi, dammi uno
scialle!...

Egli cercò per intorno senza veder nulla; poi prese il piumino di seta
sul quale poltrivano i suoi piedi scalzi e le fasciò il corpo. Nello
stenderle sotto il mento la seta lucida e soffice, premeva un po’ le
dita per toccare la sua gola, e per farle sentire che la toccava, quasi
provasse una singolare gioia nell’accorgersi che gli era tuttavia lecito
carezzarla come un amante.

Ella chiuse gli occhi senza guardarlo, rannicchiò sotto la vestaglia i
piedi scalzi, e rimase in quella supinità, ferma, addormentata.

Andrea, ritto in piedi, assiderato in una specie di attesa immobile,
ascoltava dentro di sè, fuori di sè, il volo del tempo. Gli parve di
nuovo che la vita cominciasse in quell’ora, ma fosse di una lentezza
esasperante, cupa, monotona, quasi ferma. Sul tavolino da notte, fra la
lampada e il bicchiere, un piccolo orologio d’oro batteva i minuti
secondi; nell’indugio del suo tempo interiore quella velocità lo
irritava.

Si accorse d’un disegno di luce che la lampada formava su la
tappezzeria; si accorse d’un moscerino che ballonzolava intorno al
paralume, come se pendesse dal soffitto appeso ad un lungo ragnatelo.

Incominciò a ricordarsi di cose lontane, saltuarie, minime: d’una certa
satira piena di garbo e di malizia che uno studente aveva messo in voga
nella sua Clinica, per farsi beffe della signora Maggià; poi rivide
l’aspetto medesimo della Direttrice, e quel suo camminare impettito per
le corsìe dell’ospedale, con un’aria da sergente nel corpo di guardia;
poi si rammentò di certe canzonette che soleva cantare su la chitarra
Egidio Rosales, talvolta, nelle sere d’estate, quando i medici di turno
se ne uscivano a fumare una sigaretta sotto gli alberi del giardino...
poi d’un seppellimento a bordo, al quale aveva casualmente assistito,
molti anni addietro, nel corso d’una lunga navigazione.

A quel tempo egli era un oscuro e povero medico, laureatosi appena;
traversava sui transatlantici per vedere un po’ di mondo. Il morto, egli
se ne ricordava, era un cileno erculeo, proprietario di fattorie, forse
quarantenne, che aveva per moglie una piccola donna, gracile, miope,
senza età, senza ornamento alcuno, tale da non potersi comprendere per
qual modo gli fosse piaciuta. In alto mare lo avevano preso le febbri e
la dissenterìa; si ricordava ch’era morto bestemmiando, in un accesso di
furore che gli fermò l’aorta. Di notte lo portarono sulla tolda ravvolto
in un lenzuolo, e quattro marinai, prima di lanciarlo in acqua, lo
avevano fatto dondolare cinque o sei volte a forza di braccia, sovra il
parapetto lucido...

Era precisamente quel dondolìo bianco e lento che ora i suoi occhi
rivedevano.

— Andrea...

Egli udì, ma non rispose. Volontariamente si lasciava sperdere in una
ridda continua d’allucinazioni, che a poco a poco assumevano l’evidenza
della realtà.

Ora gli pareva d’esser lontano, frammezzo ad una notte stellata, per
mare, con il vento a prua. D’improvviso irrompeva nell’ombra un’aurora
violenta; il confine azzurro del cielo si popolava di città fantastiche;
sui moli percossi dal sole infuriava una folla gesticolante...

Od era invece una notte profonda, in una città senza lumi, con strade
ambigue, con porte sbarrate. Egli l’attraversava correndo, per giungere
alla sua casa, che saccheggiavano; ed era notte così folta, che più
correva e più smarriva la strada. Nel labirinto dei vicoli, dietro le
porte asserragliate si consumava l’orgia fino al sangue; la città era
piena di tumulto; per ogni angolo si assassinava.

D’un tratto non era più quella; con un guizzo abbacinante l’elettricità
scoppiava da migliaia di lampade: era una piazza enorme, con strade
senza fondo, e popolo vi accorreva in tumulto con un fragor di tempesta,
plebe irta e scatenata, che urlava, da ogni lato, nel travolgerlo:
«Ammazza! Ammazza!»

— Andrea...

Si ricordò che l’aveva già chiamato un’altra volta, forse pochi secondi
prima, e vinta quella specie di sonnambulismo che gli offuscava il
cervello, guardò l’amante, ancor supina in quel letto sconvolto, e le
sue trecce che ingombravano il guanciale, i suoi occhi fermi, il suo
volto senza espressione. Si curvò, e disse:

— Ora finalmente sono libero. — Poi le chiese: — Hai paura?

— No! — ella rispose, splendidamente, con una singolare forza. — No!

Nel dirlo, si era sollevata con impeto; e in quel momento ella pure si
ricordò che una volta Giorgio le aveva detto: — «Come gli rassomigli!»

La sua treccia disfatta le cadeva sopra una spalla; con le dita calme
lentamente la riannodò, poi disse:

— Quasi lo sapevo.

— Tu?

— Sì, io. Lo immaginai prima che nessuno lo dicesse, perchè ti amavo e
tu mi avevi qualche volta stretta nella tua volontà con tanta forza,
ch’io stessa me ne sentivo ardere come fosse mia. Fu negli ultimi
giorni, prima... prima che morisse. Ma dopo, ogni volta che questo
pensiero mi si affacciava, io lo respinsi, lo annegai nel mio cuore così
profondamente, che man mano ero giunta quasi a dimenticarmene. Ma ora,
hai fatto bene... sì, hai fatto bene: io lo dovevo sapere come te.

Qualcosa di virile, d’implacabile, ora le splendeva nella fisionomia
trasfigurata; la sua bocca d’amante, il suo cuore d’innamorata sapevano
dire improvvisamente queste limpide parole. Dal gorgo dormente sotto il
velo tenue della sua femminilità saliva in lei questo coraggio come un
segno barbaro di bellezza.

— Sì, hai fatto bene a dirmelo, perchè non era onesto che tu solo
dovessi portarne il rimorso.

— Non ho rimorso, — egli l’interruppe con una voce sorda.

— Chissà, chissà... — ella rispose. — Non bisogna troppo guardare in noi
quando l’anima sente il bisogno di vivere nascosta. Vieni, mio povero
amore; sièditi, ascòltami... non voler essere più forte di quello che
sei. Guarda: io, che sono semplicemente una donna, ho capita la tragedia
che si svolgeva in te, giorno per giorno, ed ho taciuto, solo perchè mi
parve che tu lo preferissi. Ma ora, perchè seguiteremmo a nasconderci
l’uno all’altra, se _nemmeno questo_ è bastato a distruggere il nostro
amore?

Tranquillamente gli tendeva la mano ferma, come per offrirgli un patto
che suggellasse la loro complicità.

Un’ondata di commozione gli traboccò dal cuore; con i due palmi afferrò
quella mano, ed inginocchiatosi, nascose nel suo grembo la faccia
scolorata.

— Allora, — le diceva, — tu non mi odii? Non mi respingi da te? Non hai
paura d’esser mia, dopo quello che sai?

— No, no... — ella rispondeva. — Tutto può accadere nel mondo, tranne
che io non ti ami.

Egli alzò la bocca verso la sua bocca, ed in un bacio mortale si
congiunsero, con la gola piena di riso, la faccia bagnata di pianto. Per
la prima volta nella sua vita egli provò riconoscenza verso una
creatura, e per la prima volta conobbe la gioia dello stare
inginocchiato. L’adorava, sentiva per lei quello che nell’estasi
religiosa un fanatico sente per il suo Dio; l’adorava come bellezza e
come forza, di là da tutte le paure, libero da tutte le catene.

Sì, questo era finalmente l’amore ch’egli voleva; non cercherebbe mai
più d’andar oltre, poichè aveva toccato il limite. Sopra tutte le bufere
di sogni che gli uomini avevano scatenate per giungere ad ingannare con
speciose credenze la fondamentale paura dell’anima, c’era _una verità_
che divinizzava quest’anima nel suo volo davanti alla morte; l’eternità
era il delirio di un lungo istante, la possessione totale del proprio
mondo, il senso d’apogeo, — l’amore infinito.

Ecco, avevan ucciso e trionfavano: erano il vero simbolo della vita;
ubbidivano ad una eterna e spietata logica; riconoscevano il solo dogma
che sia davvero padrone del mondo.

La terra non vuol essere che un letto d’amanti, ove urge in ogni cosa
viva il senso della eternale continuità, la folle speranza d’ogni anima
di rinascere nel perpetuo domani...

    «Fai la ninna, fai la nanna,
    fantolino della mamma...
    .  .  .  .  .  della mamma...»

Nell’alta camera il bambinello, forse per fame, si era messo a vagire;
la nutrice paziente, dopo avergli tesa la poppa, cantilenava per
riaddormentarlo dondolando la cuna.

Allora ella disse all’amante:

— Se dev’esserci un’espiazione, la consumeremo con uguale fedeltà. Se tu
hai avuto il coraggio allora, io l’avrò adesso, che ti sono per la prima
volta veramente vicina.

— Ma tu credi, Novella, che si debba e si possa dimenticare? — egli le
domandò, quasi affidandosi ad una remota speranza.

— Non si dimentica, forse, ma cade sopra la memoria un velo
d’insensibilità. È il tempo ed è l’amore che lo tessono; bisogna cercare
d’aiutarli. Molte volte, in questo lento anno, sono già stata così
felice, così pienamente felice, che non mi ricordavo più di nulla...
Vedi, è quasi facile...

— Forse tu dici questo per ingannarmi.

— Invece lo dico perchè sono sicura che ti guarirò. Siamo giovani
ancora, e forse potremo avere il coraggio di non riguardare mai più
indietro, verso la nostra vita che finì. Non ti sembra che davanti a noi
ci sia tanta luce ancora, da permetterci di continuare la strada?

Una limpidità s’accese, come un raggio di sole negli occhi di Andrea.

— Sì, anima... — disse con ebbrezza, — lo credo, lo credo!

— Solamente chi avesse paura, — ella riprese, — non potrebbe far questo.
Nè io nè te sappiamo aver paura.

Ella brillava, in queste parole, di una luce orgogliosa; veramente gli
assomigliava: era nitida, inflessibile come lui.

— Ricórdati, — ella disse: — la distanza è quella che meglio seppellisce
il passato. Potremo andare assai lontano, e, se ti piace, rimanervi per
sempre. Tu non sei fra quegli uomini che davvero possono rinunziare alla
vita; fra poco avrai nuovamente bisogno d’esser forte com’eri, buono ed
operoso com’eri. Quando mi dicesti che abbandonavi l’Università, la
Clinica, i tuoi libri, nulla feci per impedirtelo, ma pensai: — «Tutto
questo ricomincerà in una vita nuova, ed io stessa gli dirò: «Andiamo.»

Un colore di vita brillò su la fronte dell’uomo che non poteva essere un
vinto.

— Come sei buona! come sei buona! — esclamò con ardore. — Sì, Novella,
hai ragione: voglio vivere ancora! Ho bisogno ancora d’essere, come hai
detto, buono e forte.

Si serrò nel palmo la fronte accesa, gonfiò il petto in un largo respiro
e soggiunse:

— Poichè, vedi, anche nell’uccidere fui tale. Se avessi avuta l’anima di
un piccolo uomo, avrei potuto sottrarmi alla responsabilità del mio
delitto, volgere la schiena mentre lo compivo. Ma non volli. Ora che mi
sono accusato apertamente, senza diminuire in alcun modo la mia colpa,
posso dirti ancora una cosa, che tu non sai. Ed è questa: — Giorgio mi
ha domandato volontariamente di morire, mi ha supplicato, con parole
indimenticabili, perchè lo facessi morire.

Ella dette un’esclamazione di maraviglia e si levò trepidante, con gli
occhi pieni di luce.

— No, attendi!... — egli l’interruppe. — _Già era tardi_. Lo avevo già
condannato a spegnersi, avevo già cominciato ad impadronirmi della sua
vita. Ma una sera, — quella sera, ti ricordi? che tu fuggisti
nell’udirlo venire. — Giorgio entrò nella mia camera e mi disse: —
«Novella era qui.» Nel sangue gli camminava già il veleno, era esausto;
mi parlò come forse nessun uomo ha mai parlato ad un altro. Mi disse: —
«Poichè vi amate e siete due creature vive, io, che sono un morto, debbo
scomparire. Aiútami! Tu, che sei stato il mio fratello ed il mio nemico
nel mondo, aiútami! Non ho la forza di colpirmi da me stesso: tu solo
puoi avere per me questo grande coraggio. Aiútami, Andrea, dammi un
veleno!»

Ecco quello che avvenne. Te lo racconterò, se vuoi, parola per parola;
me ne ricordo con lucidità, come se fosse accaduto ieri. Vedi, è ancora
più barbaro che se l’avessi ucciso in un momento solo, mettendogli una
mano alla gola. Poichè, sebbene fosse un morto e io sapessi che la
natura lo aveva ormai condannato senza scampo, tuttavia sarebbe certo
vissuto fino a veder nascere il nostro bimbo, o vedere te, travolta da
un atto di disperazione... Era questo, mi capisci, era questo che io non
volevo!

Egli si fermò concitato. Bianchissima, l’amante lo ascoltava, seduta
sull’orlo del letto, un poco protesa verso di lui, con le mani
aggrappate alle coltri, i polsi, le braccia, le spalle che parevano
irrigidirsi.

— Allora? — ella fece ansante, quasi non tollerasse quella pausa.

— Egli ti amava e mi amava, Novella, ed aveva compreso quello che un
uomo non comprende mai: l’inutilità del proprio amore. In lui tutte le
passioni erano giunte al parossismo: la gelosia, l’amore, l’odio, la
viltà, la bontà. Voleva chiudere gli occhi per non vedere oltre il
nostro peccato. Mi ha detto: — «Non posso più soffrire! abbi compassione
di me! fa ch’io muoia...»

— E allora?...

— Allora, dopo avergli quasi confessato: — Ma, bada _ch’io non posso
più_ arrogarmi questo inesorabile coraggio... — dopo aver avuta la
tentazione di salvarlo ancora, di lasciare che l’uccidesse la morte, ho
compreso mentalmente ch’egli aveva ragione, che lui ed io avevamo
ragione, che la sua pace era fuori dal mondo... e gli ho preparata
l’ultima dose di veleno.

Ecco, lo rivedo. Si avvicinò lentamente; senza paura, ma lentamente. «È
questo il veleno?» — balbettò. E sopra vi pose un dito, come per toccare
la morte.

Parlava automaticamente, con un riso a fior di labbro; guardava quasi
affascinato la siringa lucente, colma di un liquido senza colore,
innocuo, limpido come l’acqua. Poi snudò il braccio sinistro,
rimboccando la manica piano piano; torse un poco il viso, la bocca gli
si fece obliqua, e prese la siringa fra due dita. — «Come si fa?...» —
domandava ridendo.

«Così!» — Gli strappai la siringa di mano, e mentre tenevo strettamente
il suo polso, con l’ago pronto a pungere su la sua pelle rabbrividita: —
«_Io_ — gli dissi, — _io debbo finire di ucciderti_, non tu!» — E per
punirmi, per non volgere la schiena, l’ho avvelenato, io, forte, in un
colpo, con la mia propria mano!

Ella strinse gli occhi; le sue dita contorsero la coltre; il suo busto
barcollò indietro; ma si contenne ancora e soggiunse:

— Dopo?...

— Dopo l’ho dovuto sollevare, portare nella sua camera, svestirlo,
piegare gli abiti, comporlo naturalmente nel letto; poi sono venuto a
chiamarti, là, nella tua stanza...

Ella rimase immobile, con gli occhi fissi, e rivide forse nella chiara
camera funeraria il raggio lunare che vestiva il cadavere dal piede alla
fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca
elettricità.

— Báciami! Báciami! — d’improvviso ella gridò, scuotendosi tutta, come
se volesse ubbriacare di voluttà la coscienza terribile. — Báciami
forte!...

Egli si chinò su quel grido, e furiosamente la possedette.

                          .  .  .  .  .  .  .

    «Fai la ninna, fai la nanna,
    fantolino della mamma...
    .  .  .  .  .  della mamma...»

Era l’alba; l’alba vaporosa, tenue, come un velo di caligine bianca. Il
bambinello, forse per fame, s’era messo a vagire.

— Senti?... — mormorò Novella; — ora piange...

— Fra poco si riaddormenterà. Mi ami?

Un bacio ed ascoltarono.

Ma la vocina passava il silenzio, lunga, insistente dannosa. La mamma
era inquieta; per la prima volta s’accorgeva d’amarlo, sentiva quella
voce risuonare nell’eco della sua propria carne.

Improvvisamente una profonda volontà materna le fece dire: — Andiamo a
vederlo.

— Sì?... vuoi?...

E furono _le stesse parole_, quasi _la stessa voce_ della notte
quand’erano andati a vedere il morto.

Si levarono; egli la ravvolse nella vestaglia, si mise addosso qualche
abito in fretta, e, presala per mano, aperse l’uscio verso il corridoio.

— Fa piano, — le diceva come allora, — che nessuno si desti.

Addossati l’uno all’altra, scivolando lungo la parete, giunsero fin sul
pianerottolo, dove già l’albore pertugiava con qualche striscia di
pallido fumo. Cauti salirono le scale.

Si udiva il vagito del bimbo tra la cantilena della nutrice affievolire,
affievolire... Batterono all’uscio, chiamando la donna per nome affinchè
non s’impaurisse:

— Lena, Lena...

Ed entrarono. Un lumino a olio bruciava tra il letto e la cuna spargendo
per la camera un chiarore da presepio; ma la balia erasi levata e
camminava in camicia, coi piedi scalzi, ninnando il pargolo su le sue
braccia dai gomiti rotondi, e sempre cantilenava con una pazienza
infinita:

    «Fai la ninna, fai la nanna...»

— Che c’è? — disse con arroganza, quasi considerasse come due intrusi
quei due signori. E tranquilla si fermò nel mezzo della camera, gravando
il corpo discinto sui calcagni piatti.

— Nulla, — essi risposero con una certa confusione. — Siamo venuti a
vedere perchè piange il bimbo.

— Voleva il latte. Ora dorme: guárdino.

Benchè sorpresa, non mostrava alcun pudore; traverso la camicia ruvida
si delineavan controluce le sue forme tozze; dalla sua persona raggiava
un certo splendore di robustezza e di maternità.

Ogni tanto lo stoppino scricchiolava nell’olio, poi la fiammella mandava
intorno un guizzo tremolante, lasciava scappare in su qualche piccola
vampa, simile a fiocchi di seta nera.

— Dámmelo in braccio, — disse paurosamente la madre.

Siccome le imposte non erano chiuse, dietro i vetri stava per nascere un
po’ di luce azzurra.

La nutrice affidò il pargolo malvolentieri alle braccia di Novella, ed
anzi teneva le mani sotto i suoi gomiti, quasi per paura che lo
lasciasse cadere. La madre lo baciò senza toccarlo, poi disse
all’amante: — Guarda!

Egli chinò sovra il suo bimbo dormente la persona tragica, ed infatti
sentì una sensazione del proprio sangue trascorrere in quella fragile
vena.

Era ciò che di più bello aveva creato l’uomo: sè stesso; era finalmente
la ragione magnifica della vita, _la guisa di non morire_.

Con gli occhi pieni di luce guardò il bimbo addormentato su le braccia
della donna che amava; un’ondata barbara di felicità gli travolse
l’anima, e come se avesse guardato per la prima volta nella verità,
nella bellezza del mondo, l’uomo che cercava il Dio nella materia
comprese di averlo infine trovato.

Ora, dal cálice della notte, l’alba nasceva come un bianco profumo; nuda
usciva dalle braccia d’un amante morto, nuda immergeva la sua bellezza
in un colore d’aria e d’infinito. L’alba diceva come il Gran Nomade: —
_Ieri e domani_. Era il momento in cui, dalle case degli uomini, si
vedeva il Tempo camminare.

Allora, quasi volesse offrirlo ad un battesimo di luce, la madre sollevò
il suo bimbo in quella trasparenza che gli somigliava, poi disse
all’amante con un sorriso:

— Bácialo: è nostro!

Ed insieme, attenti, sorridenti, lo deposero nella cuna.


Ma d’un tratto, per l’alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel
silenzio dalla sonora muraglia, scoppiò la Canzone Disperata sul violino
singhiozzante dello scemo.

La Canzone diceva:

    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di malinconìa;

    «non c’è nessuno che dica un pater nè un requiem per l’anima
    mia.

    «Non c’è nessuno che mi tessa una ghirlanda con le sue mani...

    «Ahimè!... la campana del Tempo non dice che: — Ieri e domani.»


    «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?

    «Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà...

    «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti
    portando il mio scheletro su la schiena;

    «coi piedi mi batte i ginocchi, mi stringe il collo con le
    mani...

    «Cammina!... — mi dice ridendo; — la vita comincia domani.


    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di
    nevrastenìa;

    «non c’è nessuno che mi pianga; neanche l’anima mia...


    «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?

    «Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l’Inutilità.

    «Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina...

    «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!...


    «Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che
    ballava.

    «leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo...

    «Perchè — se non vuoi che ti picchi — mi hai fatto ballare nel
    mondo?


    «Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di
    misantropìa...


    «Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina,

    «tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo...

    «Perchè, — se non vuoi che ti picchi — mi hai fatto tremare nel
    mondo?


    «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti
    — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli lontani...

                       «Cammina: la vita comincia
                      domani, domani, domani... »


                                 _Fine_


*Cominciato a scrivere quattro volte nella vita nomade; compiuto in
Milano, la notte di Natale dell’anno millenovecentododici.*

                                  ————



                         _DELLO STESSO AUTORE:_

    L’amore che torna — 1908
      _Ottava edizione — dal 101º al 150º migliaio — Romanzo_
    Colei che non si deve amare — 1910
      _Nona ediz. — dal 131º al 180º migliaio — Romanzo_
    La vita comincia domani — 1912
      _Ottava ediz. — dal 106º al 155º migliaio — Romanzo_
    Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914
      _Quinta ediz. — dal 41º al 70º migliaio  Storia di una
      giornata_
    La donna che inventò l’amore
      _Ottava ediz. — dal 96º al 145º migliaio — Romanzo_
    Mimi Bluette fiore del mio giardino — 1916
      _Settima ediz. — dall’ 111º al 160º migliaio — Romanzo_
    Il libro del mio sogno errante — 1919
      _Terza ediz. — dal 51º all’ 80º migliaio_
    Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920
      _Terza ediz. — dal 101º al 150º migliaio — Romanzo_

    _Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta
    la ristampa._

                                                    _Nota degli Editori_

                                  ————



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