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Title: Questioni internazionali
Author: Crispi, Francesco, 1818-1901
Language: Italian
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Internet Archive.



                           FRANCESCO CRISPI:


                        Questioni Internazionali


                           DIARIO E DOCUMENTI


        _Il Cancelliere Caprivi e Crispi. — La Tripolitania e la
        Francia. — Le fortificazioni di Biserta. — Le relazioni
           italo-austriache e l’irredentismo. — Le relazioni
    franco-italiane dal 1890 al 1896. — La Francia contro il credito
       italiano. — Un incidente italo-portoghese. — La questione
    balcanica. — Le stragi d’Armenia e il concerto europeo. — 1896.
               La crisi delle alleanze e degli accordi._


                                 MILANO
                      __Fratelli Treves, Editori__
                                  1913
                                   —
                          *SECONDO MIGLIAIO.*

                                  ――――

_Proprietà letteraria. Vietate anche le riproduzioni parziali. Riservati
                    tutti i diritti di traduzione._


                  Copyright by Fratelli Treves, 1913.


  Ciascun esemplare di quest’opera deve portare impresso, per incarico
  avuto dalla famiglia Crispi, il timbro della Società Italiana degli
                                Autori.


                         Tip. Fratelli Treves.

                                  ――――



                                 INDICE


    AVVERTENZA.
    GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.
    _Capitolo Primo._ — Il cancelliere Caprivi e Crispi.
    _Capitolo Secondo._ — La Tripolitania e la Francia.
    _Capitolo Terzo._ — Le fortificazioni di Biserta.
    ITALIA E AUSTRIA.
    _Capitolo Quarto._ — Le relazioni italo-austriache e l’irredentismo.
    ITALIA E FRANCIA.
    _Capitolo Quinto._ — Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.
    _Capitolo Sesto._ — La Francia contro il credito italiano.
    L’ITALIA E IL VATICANO.
    _Capitolo Settimo._ — Un incidente italo-portoghese.
    L’EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.
    _Capitolo Ottavo._ — La questione balcanica.
    _Capitolo Nono._ — Le stragi d’Armenia e il concerto europeo.
    LA TRIPLICE ALLEANZA E L’INGHILTERRA.
    _Capitolo Decimo._ — La crisi delle alleanze e degli accordi.
    INDICE ALFABETICO _dei nomi citati nel volume._



                              AVVERTENZA.


Questo volume, che fa seguito all’altro pubblicato or fa un anno sotto
il titolo di _Politica Estera_, non esaurisce la documentazione
dell’opera compiuta da Crispi nell’ufficio di Ministro degli Affari
esteri.

Su di una parte dell’attività prodigiosa di Lui ho creduto opportuno
sorvolare, su quella che spiegò a vantaggio degli italiani dimoranti
all’estero, sia proteggendoli dalle sopraffazioni, sia moltiplicandone
le scuole, sia sottraendo le missioni cattoliche nazionali al
protettorato di altra potenza. Non ho potuto raccogliere una messe
adeguata di documenti, ed anzichè esporre incompiutamente questioni così
importanti, ho preferito, per ora, tacerne.

Sono belle pagine di energia fattiva, di alto sentimento di dignità, di
amore alla stirpe che mancano a questo libro.

Dall’elevato concetto che Crispi aveva della solidarietà patria
rampollava gagliarda la coscienza del dovere di tutela per ogni italiano
che si trovasse al di là dei confini d’Italia. E gl’italiani lontani
sentirono durante il governo di Lui di non essere abbandonati al
destino, e più vivo l’attaccamento alla loro terra.

Le scuole nei paesi esteri, strumenti di cultura e di nazionalità,
ebbero da Crispi le maggiori cure. Le poche esistenti quand’egli salì al
potere erano affidate a Corporazioni religiose, le quali non impartivano
un insegnamento che potesse soddisfarci e non permettevano ai nostri
Consoli alcuna efficace vigilanza; in qualche luogo, come in Tunisia,
specialmente durante la primazia del cardinale Lavigerie, erano esclusi
da scuole, che si dicevano italiane, anche i maestri italiani. Crispi le
tolse alle Corporazioni religiose che insegnavano a beneficio di una
influenza che non era la nostra, trasformandole in scuole laiche, con
metodi didattici moderni e con mezzi sufficienti affinchè in Levante
riconquistassero alla nostra lingua il primato che vi ebbe una volta. E
molte altre ne istituì _ex novo_, vincendo ostilità d’ogni genere.

Nè trascurò nell’Oriente vicino ed estremo un altro organo di propaganda
italiana, i missionari di nostra nazione, i quali, protetti dalla
Francia quando l’Italia era divisa, dovevano poter contare sulla loro
patria unita e grande potenza. Crispi considerando tutti i connazionali
alla stessa stregua, accordò protezione in Turchia a tutte le missioni
italiane che la richiesero, ed in Cina ottenne che non fossero ammessi i
missionari del nostro paese sprovvisti di passaporto italiano.

Ma sebbene in questo volume manchino così belle pagine, altre ve ne sono
straordinariamente interessanti nelle quali troverà solido fondamento il
giudizio definitivo sulla concezione che Crispi ebbe della politica
estera necessaria al nostro paese e sugli accorgimenti coi quali applicò
le sue idee.

Allontanato dal potere nel 1891 e nel 1896, due volte alla vigilia della
scadenza della Triplice Alleanza, Francesco Crispi ebbe il dolore di
vedere isterilire il terreno che aveva lavorato con saldo aratro e con
lena infaticata.

Ma se i frutti dell’opera di Lui non furono raccolti, se l’influenza
acquistata all’Italia fu perduta, rimarrà ad onor suo e ad insegnamento
altrui il solco profondo, nè andrà dispersa pei silenzi della storia la
voce di questo Italiano per eccellenza che agli italiani a venire, fusi
nel bronzo dell’unità e capaci d’intendere, griderà parole di fede, di
ardire, di gloria.

    Roma, gennaio 1913.

                                                 _T. Palamenghi-Crispi_.



                      GERMANIA, ITALIA E FRANCIA.



          _Capitolo Primo._ — Il cancelliere Caprivi e Crispi.


Leone di Caprivi annunzia a Crispi di avere assunto la direzione degli
affari politici della Germania. — Scambio di saluti e proteste di
fedeltà. — Caprivi viene in Italia per conferire con Crispi. — Colloquii
del 7 e dell’ 8 novembre 1890.


Il 20 marzo 1890 Guglielmo II di Germania nominava Cancelliere
dell’Impero e Presidente del Ministero prussiano il generale conte Leone
di Caprivi, in sostituzione del principe Ottone di Bismarck. Assumendo
gli altissimi uffici il di Caprivi dirigeva a Francesco Crispi, il quale
dall’agosto 1887 reggeva il Ministero degli Affari esteri d’Italia, la
seguente lettera:

    [_Confidentielle_]

                                           «Berlin, le 3 avril 1890.

        _Monsieur le Président et cher collègue,_

    La volonté de mon Souverain m’a imposé la tâche de prendre la
    direction des affaires politiques de l’Allemagne après le plus
    grand ministre que ce pays ait jamais vu.

    Amené depuis longtemps par la logique des choses comme par mes
    inclinations à un sentiment de ferme sympathie pour le
    groupement actuel des amitiés politiques, je m’étais familiarisé
    avec l’idée d’avoir peut-être à defendre ce principe en soldat,
    le jour où la défense en serait devenue nécessaire.

    Mais mon Auguste Maître en a décide autrement. Il m’a appelé à
    collaborer avec les hommes d’état, qui ont à coeur de défendre
    essentiellement par des moyens pacifiques l’état des choses
    existant.

    Puisqu’il en est ainsi, je Vous prie, Monsieur le Président, de
    croire que, tant que je resterai dans ma position actuelle,
    l’Empire d’Allemagne continuera sa politique sincère et
    pacifique, sans s’écarter jamais du principe de rester en toute
    circonstance l’ami de ses amis. C’est là la tâche qui m’est
    prescrite par mon Souverain comme par ma conscience. A ce titre
    je viens réclamer, pour le travail en commun qui est devant
    nous, la confiance de Votre Excellence. La mienne est acquise de
    longue date au ministre éminent que ma patrie est heureuse
    d’appeler son ami.

    Je Vous prie, Monsieur le Président et cher collègue, d’agréer
    l’expression franche et cordiale des sentiments de haute estime
    de

                                                   Votre tout dévoué
                                                     von _Caprivi_.»

A questo saluto rispondeva Crispi:

    [_Confidentielle_]

                                                «Rome, 7 avril 1890.

        _Monsieur le Chancelier et cher Collègue_,

    J’ai reçu la lettre, que vous avez bien voulu m’adresser en date
    du 3 courant pour m’apprendre dans quel esprit vous avez accepté
    l’héritage du grand homme d’Etat, dont la volonté de l’Empereur,
    votre auguste maître, vous a donné la succession.

    Je vous remercie de la franchise cordiale avec laquelle vous
    m’avez ouvert votre pensée.

    Je connaissais en vous le vaillant soldat, le Général habile,
    l’administrateur expérimenté; je suis heureux de connaître
    l’homme politique, et de constater en lui des sentiments
    conformes à ceux qui m’animent moi-même.

    Les principes de politique générale qui vous inspirent, sont
    tels que vous pouvez compter sur mon concours loyal pour les
    faire triompher. De même qu’avec le prince de Bismarck, je
    travaillerai consciencieusement avec vous au maintien de la
    paix. Mais si, par malheur, le jour devait venir où l’Italie et
    l’Allemagne, attaquées, se trouvassent dans la pénible nécessité
    de se défendre, vous me verriez aussi, à l’exemple du Roi, mon
    souverain, et d’accord avec la Nation italienne toute entière,
    prêt à remplir dignement et jusqu’au bout le devoir qui nous
    serait imposé.

    C’est dans cet ordre d’idées que je me déclare heureux d’entrer
    en collaboration avec vous pour assurer, autant qu’il est en
    nous de le faire, le bonheur et la prospérité des deux Dynasties
    et des deux peuples que nous servons.

    Veuillez agréer, monsieur le Chancelier et cher Collègue,
    l’expression sincère et cordiale des sentiments de haute estime
    de

                                                   Votre tout dévoué
                                                       _F. Crispi_.»

Questa lettera, presentata personalmente al nuovo Cancelliere
dall’ambasciatore d’Italia, conte De Launay, fece la migliore
impressione. «Egli l’ha letta in mia presenza — scriveva il De Launay —
ed ha manifestato vivissima soddisfazione pel suo contenuto che si
accorda perfettamente col suo modo di vedere e con gl’interessi
reciproci degli Stati che formano la Triplice Alleanza, il cui programma
è diretto essenzialmente al mantenimento della pace. Egli si è
compiaciuto di osservare che ad un _novizio_ come lui in materia di
politica estera era prezioso il concorso di un uomo di Stato così
illustre e sperimentato come il primo Ministro d’Italia.»

Il generale di Caprivi era un uomo grandemente stimato in tutta la
Germania. Nella guerra franco-prussiana aveva dimostrato scienza
militare e doti eccezionali di carattere che erano state riconosciute e
premiate con la _Croce di ferro di prima classe_ e con l’Ordine _Pour le
mérite_. Nella direzione dell’Ammiragliato, assunta nel 1883, aveva reso
servizi preziosi migliorando con mezzi esigui il materiale e con tenacia
prussiana l’organizzazione della Marina da guerra.

Però, in politica il nuovo Cancelliere era una incognita. Egli aveva
certamente le sue idee, ma non le aveva mai manifestate pubblicamente, e
nei cinque anni ch’era intervenuto alle sedute del Reichstag sua cura
costante era stata quella di rimanere fuori dalle lotte dei partiti e di
tenersi sul terreno tecnico.

Si può avere alta intelligenza e vasta cultura, possedere anche facoltà
d’iniziativa in taluni campi d’azione, ed essere inadatto al governo
politico. L’Imperatore, scegliendo, tra i molti candidati alla
successione di Ottone di Bismarck, il generale di Caprivi, giuocò
d’azzardo, non avendo alcun dato per presumere che quest’ultimo sarebbe
riuscito nell’ardua missione.

In luglio, il conte di Caprivi fece manifestare a Crispi il desiderio di
fargli visita in Italia. All’ambasciatore a Berlino, De Launay, Crispi
telegrafava l’11 di quel mese:

    «Il conte di Solms al suo ritorno da Berlino, portandomi i
    saluti di S. E. il conte Caprivi, mi espresse il di lui
    desiderio di venire in Italia per abboccarsi con me. Risposi
    all’ambasciatore germanico, che io era lietissimo del gentile
    pensiero del Gran Cancelliere, ch’egli sarebbe il benvenuto tra
    noi, e che io sarei fortunato di averlo ospite in casa mia, o
    qui od a Napoli, dove a S. E. sarebbe più comodo od opportuno.»

Si trattava di stabilire l’epoca di cotesta visita. I primi mesi di
cancellierato erano per il generale di Caprivi singolarmente operosi, e
l’allontanarsi da Berlino gli era difficile. In una lettera del 1.º
ottobre il conte De Launay riferiva a Crispi di aver avuto un colloquio
col Cancelliere, nel quale questi gli aveva confermato

    «il suo vivo desiderio e la sua ferma intenzione d’incontrarsi
    in Italia con Vostra Eccellenza. Il ritardo è dovuto a
    circostanze estranee alla sua volontà. Sinora si è allontanato
    da Berlino soltanto per accompagnare l’imperatore a Narva e alle
    grandi manovre nella Slesia. Ma è tale la quantità degli affari
    che deve esaminare per adempiere nel miglior modo possibile alle
    sue nuove funzioni, che per il momento non può realizzare il suo
    progetto di un viaggio al di là delle Alpi. Egli, tra l’altro,
    non ha ancora potuto restituire le visite, fattegli quando
    assunse il potere, dai ministri della Baviera e del Würtemberg.
    Il generale di Caprivi aggiungeva che il ritardo involontario
    aveva il vantaggio di lasciargli il tempo per mettersi al
    corrente delle questioni che interessano i due Stati e per
    potere quindi meglio discorrerne con Vostra Eccellenza.»

Crispi ritornava il 20 ottobre sull’argomento di questa visita dopo
avere ricevuto, da parte dell’Ambasciata germanica a Roma, un’altra
comunicazione analoga alla precedente:

    «Sento — scriveva al conte De Launay — che S. E. ha dovuto
    ritardare l’esecuzione del suo progetto per ragioni di pubblico
    servizio. Se le condizioni politiche dell’Italia e le prossime
    elezioni generali non esigessero la mia permanenza nel Regno, mi
    sarei avvicinato io stesso alla Germania ed avrei risparmiato a
    S. E. un incomodo viaggio. Il governo della cosa pubblica mi
    inceppa, e se S. E. potesse nello scorcio di questo mese o nei
    principii del novembre recarsi a Milano dove io sarei pronto a
    raggiungerla, potremmo nell’interesse delle due monarchie, le
    quali ambidue con onore serviamo, avere uno scambio di idee
    utili e prendere delle deliberazioni giovevoli alle due
    nazioni.»

Il Cancelliere germanico avendo risposto che tra il 1.º e il 10 novembre
era a disposizione del suo collega italiano, questi telegrafò il 22
ottobre al De Launay:

    «Dica al signor Cancelliere che sarò felice di riceverlo in
    Milano il 7 novembre.»¹

    ¹ Il viaggio del Cancelliere germanico in Italia era un attestato di
      considerazione verso il nostro paese, che ufficialmente
      s’identificava all’estero con la persona di Crispi; e, comunque si
      pensasse circa l’utilità per noi della Triplice Alleanza, il
      sentimento della solidarietà nazionale verso lo straniero
      imponeva, come un dovere elementare, anche ai partiti di
      opposizione, un’accoglienza almeno deferente. La passione politica
      però fece velo a taluni radicali, i quali manifestarono
      l’intenzione di organizzare una dimostrazione ostile. Il prefetto
      di Milano telegrafava a Crispi in data 1.º novembre:

      «Iersera alla Società Democratica, Cavallotti propose banchetto di
      protesta per la venuta di Caprivi. Discussione fu violentissima.
      Proposta fu combattuta da Mussi e da Porro e fu respinta malgrado
      la minaccia di Cavallotti di ritirare la sua candidatura da
      deputato.»

      Il giorno seguente lo stesso prefetto telegrafava:

      «Ulteriori sicurissime notizie mi pongono in grado di informare V.
      E. che idea banchetto protesta contro venuta Cancelliere germanico
      venne di Francia e per mezzo del S. fu affidato a Cavallotti di
      propagarla. Respinta da tutti...., Cavallotti, irritato, disse
      ritirare candidatura politica Collegio Milano ed è partito per
      Meina.»

      Appena ricevuto il primo telegramma, Crispi, addolorato, pensò di
      sottrarre l’ospite ad ogni impressione sgradevole e telegrafò al
      Comm. Rattazzi, ministro della R. Casa, che esprimesse al Re il
      suo desiderio che s’invitasse il Caprivi a soggiornare nella Villa
      Reale di Monza. Il Re consentì immediatamente, come si rileva dal
      seguente telegramma del Rattazzi, 2 novembre:

      «Ho tosto rassegnato di Lei telegramma a Sua Maestà che mi
      incarica dire che Ella ha piena facoltà di rivolgere nell’augusto
      suo nome invito al Cancelliere per offrire la ospitalità nella
      Villa di Monza.

      «È dispiacente S. M. delle di Lei immeritate inquietudini,
      soggiungendo però che ritiene debba riuscire assolutamente vano il
      tentativo villano del Cavallotti, che non sarà seguito dalla
      popolazione milanese.»

      E infatti la disapprovazione di gran parte della stessa democrazia
      milanese fece abortire ogni idea di manifestazione scortese, e il
      Conte di Caprivi, il quale naturalmente nulla seppe delle
      fuggevoli preoccupazioni che la sua venuta aveva sollevate, fu
      alloggiato in Milano, nell’Albergo Cavour.

Il Cancelliere germanico giunse a Milano nel giorno fissato. Fu ricevuto
cordialmente da Crispi, dalle autorità e dalla popolazione della grande
città che visitò con la guida del Sindaco; l’indomani, 8 novembre, fu
invitato a Monza dal Re Umberto, il quale dette un pranzo in suo onore e
gli conferì l’ordine supremo della Ss. Annunziata. Il Caprivi ispirò
subito in Crispi simpatia e fiducia. Aveva statura e forme gigantesche,
fisionomia severa, ma aperta, sguardo sereno sotto sopracciglia
foltissime che ricordavano quelle di Bismarck. Dei due colloqui segreti
che ebbe con Crispi, questi conservò memoria, siccome soleva, nelle
seguenti note del suo _Diario_:

    «Dopo la colazione (una pom.) Caprivi ed io siamo entrati nel
    suo salotto per uno scambio d’idee.

    Ricordai che il 30 maggio 1892, cioè da qui a 18 mesi scade il
    trattato di alleanza delle tre Monarchie. Soggiunsi,....
    Necessario rivedere.... se vi ha altro da aggiungere. Dovrò
    credere che il governo tedesco vorrà rinnovare il trattato per
    un altro periodo di anni.

    La triplice alleanza giova ai governi che la firmarono ed
    assicura la pace d’Europa. Ora, noi essendo interessati alla
    garanzia territoriale dei tre paesi ed alla pace d’Europa,
    dobbiamo volere la continuazione dell’alleanza.

    Il conte Caprivi dichiarò che era pienamente d’accordo con me,
    e, quasi a conferma, mi strinse la mano. Era lieto poter essere
    d’accordo con me, e promise di occuparsi del trattato.

    Allora ricordai che al 1887, con uno scambio di note, avevamo
    associato la Spagna. Il duca di Vega de Armijo non curò le prese
    intelligenze, nè curò di alimentarle. Oggi essendo ritornato al
    potere il duca di Tetuan, amico nostro, bisogna ripigliare le
    pratiche e rendere più stretti i vincoli con la Spagna.

    Le tre grandi potenze alleate si devono interessare delle altre
    minori Monarchie e difenderne le istituzioni. Per lo che sarebbe
    pure necessario di trovar modo di comporre la vertenza tra
    l’Inghilterra ed il Portogallo.

    La Spagna ed il Portogallo sono minati dagli emissarii
    repubblicani, e non sono abbastanza forti per resistervi.
    Bisogna che la Spagna riordini la sua marina militare, e possa
    esserci di aiuto nel Mediterraneo e fare, quando ne fosse il
    caso, un colpo sull’Algerìa. Così il Corpo di esercito francese
    che siede colà si troverebbe impegnato. Inoltre un esercito
    spagnuolo al di là dei Pirenei e pronto a varcarli,
    immobilizzerebbe un corpo di truppe francesi.

    La propaganda repubblicana in quei paesi è attiva. I francesi
    fanno altrettanto in Italia.

    — Non l’avrei creduto.

    — La fanno anche in Italia, ma il nostro paese vi resiste. La
    grandissima maggioranza della nostra popolazione è
    conservatrice. Il paese è monarchico. La propaganda repubblicana
    pei francesi è una necessità. Pel governo di Parigi è una
    quistione di vita. Avvenne lo stesso sotto la prima repubblica.
    Ma allora lo stato dell’Europa era diverso. Non vi erano i due
    grandi Stati al di qua delle Alpi e al di là del Reno, l’Italia
    e la Germania. Bisogna dunque tenerci stretti, e difendere le
    istituzioni che ci siamo date.

    — Sono pienamente d’accordo con V. E. e lavorerò insieme per la
    difesa dei principii monarchici.

    — Bismarck fece delle grandi cose, e il vostro paese deve
    essergliene grato. Ma commise un gravissimo errore; quello di
    non aver favorito la restaurazione della Monarchia in Francia.
    Egli credeva che la Repubblica sarebbe stata rôsa dai partiti e
    non sarebbe stata forte abbastanza. Avvenne tutto il contrario;
    giammai la Francia fu forte come oggi.

    — La stessa osservazione me la fece l’imperatore di Russia.

    — Bisogna opporre alla propaganda repubblicana tutti i mezzi dei
    quali possono disporre le Monarchie. La Francia avrà fra breve
    una nuova tariffa doganale. Questa offenderà grandemente noi,
    perchè con essa potranno esser chiusi i mercati francesi ai
    nostri prodotti agricoli. Ne sarete colpiti anche voi. Pel
    trattato di Francoforte voi godete i beneficii della nazione
    favorita. Esiste cotesta condizione, quando esistono tariffe
    convenzionali; cessa, quando mancano i trattati. Ora la Francia
    va a denunziare tutti i trattati, e va ad applicare a tutte le
    nazioni una tariffa autonoma. È una minaccia di guerra, guerra
    economica, non meno terribile della guerra coi fucili e le
    artiglierie. Giova prepararsi a rispondere, ed io credo che lo
    si potrà. Non dico di fare una lega doganale fra le tre potenze
    alleate: questa non sarebbe di facile attuazione. Puossi però
    studiare un sistema di tariffe di favore mercè cui si rendessero
    più facili i commerci, più strette le relazioni. Sarebbe
    necessario che alla lega militare e politica si aggiungesse
    questa lega economica, la quale, senza offendere l’autonomia dei
    tre Stati, li rendesse talmente forti da resistere alla Francia.
    Io proporrei che i tre governi dessero a studiare la grave
    quistione ad uomini tecnici. Compiuti gli studii, ognuno di noi
    nominerebbe due delegati ciascuno, i quali, riuniti,
    concreterebbero le proposte che converrà tradurre in un
    trattato.

    — Trovo savie le considerazioni di V. E. e farò studiare il
    grave argomento, e avvertirò V. E. dei risultati.

    La conversazione continuò su cose di minore importanza, e ci
    siamo congedati con espressioni sincere di cordiale amicizia.

    _8 novembre._ — Alle 11 ant. il conte Caprivi viene a
    restituirmi la visita. Siamo ritornati sugli argomenti toccati
    nel colloquio di ieri.

    Biserta. Muta lo stato del Mediterraneo. Pericoli in caso di
    guerra.

    Caprivi ne comprende l’importanza. Obietta che il reclamo
    potendo condurre ad una rottura con la Francia, è necessario
    attendere. In aprile, compiendosi la trasformazione dei fucili,
    si potrà iniziare il reclamo.»

Il Cancelliere partì da Milano il 9 novembre, soddisfatto delle
accoglienze ricevute e dei risultati della sua visita. L’ambasciatore
d’Italia a Berlino, tre giorni dopo, il 12 novembre, inviava a Crispi il
seguente rapporto:

    «Il Cancelliere dell’Impero è venuto a vedermi in questo
    momento. Confermandomi ciò che avevo già appreso ieri al
    Dipartimento Imp.le degli Affari Esteri, egli era profondamente
    commosso e riconoscente per le bontà del Nostro Augusto Sovrano
    e per l’alta distinzione che gli fu conferita da Sua Maestà.
    Egli era pure assai soddisfatto dei colloquii avuti con V. E.
    dichiarandosi completamente d’accordo in massima sopra gli
    argomenti circa i quali vi fu scambio d’idee, tanto sotto
    l’aspetto politico, quanto sotto l’aspetto commerciale. S. E. si
    era affrettata di far rapporto all’Imperatore della missione
    compiuta. Sua Maestà Imperiale manifestò viva soddisfazione di
    constatare una volta di più. che le relazioni fra l’Italia e la
    Germania sono e resteranno sul miglior piede a tutto vantaggio
    della triplice alleanza e del principio monarchico. Il
    Cancelliere mi pregò di rendermi interprete dell’eccellente
    impressione riportata da questo suo viaggio e di ringraziare per
    tutte le cortesie di cui fu colmato alla nostra Corte e da V. E.
    Egli ha solo rammarico che le esigenze di servizio l’abbiano
    costretto ad abbreviare il suo soggiorno in Italia. Il
    Cancelliere si dimostrò pure assai grato dell’accoglienza che
    gli fu fatta dalla popolazione di Milano e dalle Autorità
    municipali.»

Naturalmente, della sostanza dei colloqui di Milano fu informato il
Cancelliere austro-ungarico conte Kálnoky, per mezzo dell’ambasciatore
imperiale a Roma barone de Bruck, e dell’ambasciatore reale a Vienna,
conte Nigra. Quest’ultimo telegrafava in data 1.º dicembre:

    «Kálnoky mi ha pregato di ringraziare V. E. per la comunicazione
    da lei fatta a Bruck, i cui particolari gli furono confermati da
    Reuss e Caprivi. I due argomenti saranno studiati ed esaminati a
    suo tempo. Oggi cominciano le conferenze commerciali fra
    Austria-Ungheria e Germania. Da esse si vedrà se, e sino a che
    punto, i due imperi possano procedere sempre meglio d’accordo
    fra loro e preparare via a una intesa fra i tre Stati alleati
    sul terreno economico.»

Tra lo stesso Conte Nigra e Crispi seguiva la seguente corrispondenza:

                                                   «4 dicembre 1890.

        _Mio caro Sig. Conte,_

    Adempio con ritardo — ed ella ne comprenderà il motivo — alla
    promessa fattale con mio telegramma del 18 novembre da Torino.

    Nei colloquii, tenuti il 7 e l’8 novembre, Caprivi ed io ci
    siamo occupati della Triplice, tanto dal lato politico, quanto
    dal lato economico e commerciale. Siamo riusciti d’accordo in
    tutto; e parmi che basti, senza ricordare qui i nostri
    ragionamenti, scrivere per lei sulle varie tesi il concluso.

    Nissun dubbio che l’alleanza delle tre monarchie debba essere
    prorogata. Nissuno di noi può credere che nel maggio 1892 le
    condizioni politiche dell’Europa possano essere mutate. Le
    ragioni, per le quali il trattato fu stipulato al 1882 e
    rinnovato al 1887, è a prevedersi che saranno le medesime.

    Giova apportarvi qualche modificazione, e qualche aggiunta? È
    quello che si deciderà dai tre governi, i quali han tempo ancora
    a meditarvi. Una cosa intanto appare evidente..... Il conte di
    Caprivi su questo fu meco d’accordo.

    Fummo anco d’accordo sulla necessità di migliorare le condizioni
    commerciali dei tre Stati, stipulando dei favori speciali che ne
    rendano più facili le relazioni, e talmente intimi i vincoli da
    resistere alla guerra che potrebbe venirci dalla Francia,
    qualora la nuova legge doganale uscisse così aspra da quel
    Parlamento da non permetterci di venire a patti. Non una lega
    doganale si vorrebbe fra i tre Stati, ma una maggiore mitezza
    nei dazii d’importazione.

    Ciò posto, siam rimasti intesi che i tre governi metterebbero
    allo studio le varie questioni, che il grave argomento
    comprende. Quando gli studii saran terminati, affideremo a
    delegati speciali, che potrebbero esser due per ciascuno Stato,
    l’esame del problema e le proposte per la sua soluzione.

    Finchè la Francia è in repubblica — ed ormai questa forma di
    governo colà sembra consolidata — essa sarà sempre una minaccia
    per le monarchie in Europa. La Russia deve capirlo, essendo
    ormai Parigi l’asilo dei nihilisti — e le due penisole,
    l’Italiana e l’Iberica, lo sanno per la propaganda morale e gli
    aiuti finanziari dati ai partiti sovversivi dal governo del
    finitimo territorio.

    Noi in Italia siamo abbastanza forti: il sentimento monarchico
    nelle nostre popolazioni è profondo, e resiste all’apostolato
    rivoluzionario. Ci battiamo e non ci faremo vincere. Non bisogna
    però nascondere a noi stessi che il Vaticano accenna a valersi
    dei radicali, e si è visto nelle ultime elezioni. Il cardinale
    Lavigerie, nella sua nuova fase, lavora d’accordo col Papa. I
    cardinali in parte dissentono, ed anche il clero francese non è
    compatto; ma ignoriamo quello che ne potrà avvenire più tardi.

    Le monarchie pericolanti sono la portoghese e la spagnuola, e la
    prima più della seconda. Ove esse cadessero, e a Lisbona e
    Madrid la repubblica fosse proclamata, nissun dubbio che codesto
    sarebbe il principio di una trasformazione politica, che la
    Francia è interessata ad apportare in Europa. I tre governi
    alleati dovrebbero meditare sul possibile avvenimento,
    comunicarsi le loro idee, ed agire, ove d’uopo, nelle vie
    diplomatiche.

    Il conte di Caprivi si disse convinto di ciò, e promise di
    procedere d’accordo.

    Stabiliti gli argomenti che importa meditare e determinati i
    criterii secondo i quali i governi delle tre monarchie alleate
    dovrebbero condursi, resta a Lei, signor conte, di ragionarne
    con codesto ministro degli affari esteri, prendere con lui gli
    accordi necessarii, e manifestarmi le sue intenzioni. La lunga
    esperienza dell’E. V. supplirà alle lacune che può presentare
    questa mia lettera, affinchè si possano raggiungere gli scopi
    che io mi son prefisso, e nei quali è consenziente il
    Cancelliere germanico.

    E dopo ciò accolga i miei più cordiali saluti.

                                                         Devotissimo
                                                       _F. Crispi._»

                                          «Vienna, 10 dicembre 1890.

    Le confermo mio precedente telegramma. Esposi a Kálnoky il
    contenuto della lettera. Egli d’accordo in massima con V. E. e
    Caprivi,....

    Quanto alle questioni commerciali prevede un intoppo
    nell’articolo XI del Trattato di Francoforte.² Chiede tempo per
    studiare le due questioni. Intanto si vedrà fra non molto su
    quali basi si potranno fare concessioni commerciali fra
    l’Austria-Ungheria e la Germania, il che faciliterebbe la
    soluzione anche per l’Italia. Nell’esame delle due questioni
    Kálnoky apporterà vivo desiderio d’accordo completo. Divide poi
    l’opinione di V. E. sulla convenienza di una direzione
    diplomatica uniforme per la difesa delle istituzioni
    monarchiche.

                                                           _Nigra._»

    ² _Art. XI del trattato definitivo di pace concluso a Francoforte
      sul Meno il 10 maggio 1871 tra l’Impero di Germania e la
      Repubblica francese (Scambio delle ratifiche. Francoforte, 20
      maggio):_

      «Les traités de commerce avec les différents États de l’Allemagne
      ayant été annulés par la guerre, le gouvernement français et le
      gouvernement allemand prendront pour base de leurs relations
      commerciales le régime du traitement réciproque sur le pied de la
      nation la plus favorisée.

      Sont compris dans cette règle les droits d’entrée et de sortie, le
      transit, les formalités douanières, l’admission et le traitement
      des sujets des deux Nations, ainsi que de leurs agents.

      Toutefois, seront exceptées de la règle susdite les faveurs qu’une
      des parties contractantes, par des traités de commerce, a
      accordées ou accorderà à des États autres que ceux qui suivent:
      l’Angleterre, la Belgique, les Pays-Bas, la Suisse, l’Autriche, la
      Russie.

      Les traités de navigation, ainsi que la Convention relative au
      service International des chemins de fer dans ses rapports avec la
      douane, et la Convention pour la garantie réciproque de la
      propriété des oeuvres d’esprit et d’art seront remis en vigueur.

      Néanmoins, le gouvernement français se réserve la faculté
      d’établir sur les navires allemands et leurs cargaisons des droits
      de tonnage et de pavillon, sous la réserve que ces droits ne
      soient pas plus élevés que ceux qui grèveront les bâtiments et les
      cargaisons des nations susmentionnées.»

    [_Telegramma_]

                                            «Roma, 15 dicembre 1890.

    Il barone de Bruck mi ha letto una nota del conte Kálnoky con la
    quale dichiara che il ministro austriaco è meco d’accordo in
    tutte le quistioni le quali furono oggetto del colloquio col
    conte Caprivi e che riassunsi a Lei con mia particolare del 4
    corrente. Chiede intanto che io concreti le mie idee sulle
    modificazioni alla convenzione del 1887, il che sarà fatto.

    Discorrendo col Bruck intorno al miglioramento delle relazioni
    commerciali ed economiche, si cadde d’accordo sulla necessità
    della proroga, di un anno almeno, del diritto alla denunzia del
    trattato 7 dicembre 1887, affinchè le due parti avesser agio a
    studiare la grave quistione. Bruck scrive oggi stesso a cotesto
    scopo a Kálnoky affinchè fosse autorizzato ad uno scambio di
    note. Voglia parlargliene e fare le debite sollecitazioni,
    stringendo il tempo e dovendo io rispondere ad interpellanze
    parlamentari sull’argomento.

                                                          _Crispi_.»

    [_Telegramma_]

                                          «Vienna, 16 dicembre 1890.

    Ho vivamente impegnato Kálnoky allo scambio di note per proroga
    di un anno del diritto di denunzia del trattato di commercio.
    Kálnoky consente pienamente con V. E.; ha subito telegrafato a
    Pest ed ha fatto la proposta al Ministero austriaco
    d’agricoltura e commercio. Egli crede che non vi sarà ostacolo,
    ma forse bisognerà sottomettere scambio di note alla sanzione
    del Parlamento, che secondo Kálnoky potrebbe essere data anche
    dopo il dicembre.

    Kálnoky mi ha promesso che non porrà indugio alla soluzione ed
    io lo solleciterò più che posso.

                                                           _Nigra_.»



          _Capitolo Secondo._ — La Tripolitania e la Francia.


La Triplice Alleanza e gl’interessi italiani nel Nord-Africa. — La
Francia sulla frontiera tripolo-tunisina sino al 1890. — Una memoria del
generale Dal Verme sul confine storico tra la Tunisia e la Tripolitania.
— L’accordo anglo-francese del 5 agosto 1890. — Rimostranze di Crispi
presso il governo inglese. — Nota di Said pascià su l’_hinterland_
tripolitano. — Come si potevano impedire le ulteriori usurpazioni della
Francia. — Crispi e il governo francese; questo nega di aver delle mire
sulla Tripolitania. — Una nuova carta francese dell’Africa. —
Dichiarazioni del ministro Ribot alla Camera. — Protesta di Crispi. —
Stato della questione al 1894. — La convenzione franco-germanica. — La
Francia tenta avanzarsi nel Sudan egiziano. — Fascioda. — Nuovi accordi
anglo-francesi a danno dell’_hinterland_ tripolitano. — L’Italia
rinunzia senza compensi ai suoi diritti in Tunisia. — L’accordo
franco-italiano del 1902. — L’opera di Crispi nel Marocco. —
L’occupazione italiana della Tripolitania e un cattivo presagio.


Dai documenti che precedono — i quali, per quanto si riferisce alle
precise stipulazioni della alleanza dell’Italia con la Germania e con
l’Austria, sono necessariamente reticenti, un dovere elementare
vietandoci di rivelare segreti di Stato — si deduce tuttavia quali
fossero, alla fine del 1890, gli obiettivi della politica estera di
Crispi. Il trattato d’alleanza non era lontano a scadere; l’esperienza
aveva dimostrato che se esso garentiva la pace, l’Italia era esposta per
questo beneficio comune alle tre potenze, a sopportare da sola i danni
della guerra accanita che la Francia le faceva nel campo economico e,
fuori d’Europa, anche nel campo politico. La teoria che i rapporti
economici e i rapporti politici non debbano influirsi scambievolmente,
non poteva convenirci perchè era innegabile che a cagione dell’alleanza
noi subivamo danni ingenti dalla ostilità francese, con la rottura delle
relazioni commerciali e coi colpi incessanti al nostro credito
internazionale.

Crispi aveva dimostrato al Cancelliere germanico che le grandi alleanze
politiche non possono essere limitate a categorie d’interessi e che il
trattato della Triplice per arrecare tutti i suoi benefici doveva
comprendere, oltre la garenzia territoriale, la difesa d’ogni interesse
essenziale di ciascuno degli alleati nelle complesse relazioni della
vita internazionale. E il generale Caprivi aveva aderito a tali vedute e
domandato che il ministro italiano concretasse le sue proposte.

Ma l’argomento sul quale Crispi richiamò più vivamente l’attenzione del
suo collega, come quello che racchiudeva un pericolo imminente e grave
per l’Italia, fu la condotta della Francia nel Nord-Africa.

Crispi aveva nei mesi precedenti denunciato ai gabinetti di Londra,
Berlino e Vienna il progetto francese di convertire nell’annessione il
protettorato sulla Tunisia, ed era riuscito a promuovere le rimostranze
delle tre Potenze a Parigi contro quel progetto.³ Ma egli non s’illudeva
sulla efficacia duratura di una pressione diplomatica e cercò di
giovarsi senza indugio di questa per ottenere dalla Francia una maggiore
considerazione degli interessi italiani. Posto che prima o poi la
Francia si sarebbe resa padrona della Tunisia, Crispi pensò di trarre
vantaggio da un evento ineluttabile, transigendo sui diritti garentiti
dai trattati che l’Italia vantava nell’antica Reggenza. Il compenso non
poteva essere che il dominio italiano sulla Tripolitania.

    ³ Cfr. Francesco Crispi: _Politica Estera_, Cap. XII.

Le difficoltà però non erano lievi. I francesi aspiravano essi a
estendersi ad oriente. Come avevano occupato la Tunisia col pretesto di
assicurarsi il pacifico possesso dell’Algeria, l’occupazione della
Tripolitania avrebbe dovuto assicurare il possesso della Tunisia, e
l’impero francese nel Mediterraneo sarebbe stato un fatto compiuto. Le
prove che queste aspirazioni imperialistiche erano entrate nel programma
positivo del governo, non mancavano.

L’accordo anglo-francese, che porta la data del 5 agosto 1890, per la
delimitazione delle sfere d’influenza della Francia e dell’Inghilterra
in Africa, dimostrò chiaramente il piano della Francia d’insignorirsi
dell’_hinterland_ della Tripolitania. Quell’accordo rappresentò il
corrispettivo che l’Inghilterra dava alla Francia pel riconoscimento che
questa faceva del protettorato inglese sullo Zanzibar — e fu ventura che
lord Salisbury resistesse alle pretese francesi di concessioni a Tunisi.
Probabilmente il Primo ministro della Regina avrebbe ceduto se Crispi,
appoggiato dalle Cancellerie di Berlino e di Vienna, non avesse fatto a
Londra vive rimostranze. Egli fece dire al Salisbury

    «che il governo del Re, nelle varie occasioni presentatesi per
    discorrere delle cose di Tunisi fra Roma e Londra, credeva
    essersi accorto che nel gabinetto inglese esistesse una tendenza
    a fare delle concessioni alla Francia a scapito d’interessi
    italiani che l’Italia riteneva comuni coll’Inghilterra e sui
    quali nè il governo italiano intendeva transigere, nè l’opinione
    pubblica lo avrebbe permesso; che, in conseguenza di ciò, era
    nell’interesse del mantenimento e sviluppo delle intime
    relazioni fra i due paesi, sul quale riposava principalmente la
    pace europea, che l’Italia doveva far conoscere al governo
    inglese che non sarebbe disposta a seguirlo in una via che
    conducesse a modificare politicamente o materialmente lo
    _statu-quo_ nella Tunisia a favore della Francia.»

Allorquando la Francia occupò la Tunisia, nel 1881, la linea frontiera
fra la Tripolitania e la Reggenza di Tunisi passava ad ovest della baia
di El Biban, sul mare. Se ne ha facilmente la prova consultando le carte
francesi più autorizzate, quella dei Signori Prax e Renou, e quella del
«dépôt de la guerre» con le osservazioni del capitano di vascello Falbe.
L’occupazione francese non era ancora un fatto compiuto che l’attenzione
dell’esercito d’occupazione si volgeva verso la frontiera tripolitana.

Durante i mesi di agosto e settembre 1881, tre spedizioni militari si
diressero simultaneamente verso il sud-est tunisino. I generali Logerot,
Philibert, Jamais comandavano i tre corpi di spedizione. Il primo aveva
ai suoi ordini circa 13000 uomini. La sua marcia non fu scevra di
difficoltà; fu ostacolata presso Fum-el-Bab dalla tribù degli Slass, ma
dopo un combattimento vittorioso il generale Logerot arrivò a Gafsa e la
occupò. Da Gafsa cotesto generale si diresse verso Gabes, dove ebbe
luogo la riunione dei tre corpi di spedizione. Egli percorse tutto il
sud della Tunisia, senza tuttavia — cosa importante a rilevarsi —
oltrepassare lo Uadi-Fessi.

In seguito a questa spedizione, le tre grandi tribù tunisine degli
Slass, Hamamma, Beni-Zid con altre dissidenti delle vicinanze di Sfax,
complessivamente circa 260000 persone, passarono sul territorio
tripolitano sotto il comando supremo di Ben Khalifa, il capo che aveva
organizzato la difesa di Sfax. Cotesti ribelli costituivano, presso la
frontiera tunisina, un focolare permanente di rivolte e di torbidi.

Il governo francese si preoccupò di questo pericolo e tutti i suoi
sforzi furono da allora diretti a favorire la pacificazione dei ribelli
e il loro ritorno in Tunisia. Il Console Generale di Francia a Tripoli,
Féraud, e il generale Allegro, soprannominato Jusef Negro — che i
francesi avevano fatto nominare dal Bey governatore della provincia di
Arad in ricompensa dei servizi resi nel tempo dell’occupazione — si
adoperarono a raggiungere tale risultato, e a poco a poco vi riuscirono.

Nel mese di aprile 1885, il Féraud era sostituito a Tripoli dal
Destrées, il quale continuò a seguire la linea di condotta del suo
predecessore e facilitò il ritorno in Tunisia degli ultimi dissidenti.

In grazia di questo felice risultato la Francia poteva oramai avanzare
verso l’Est.

Nel mese di maggio del 1885 il Ministro residente di Francia a Tunisi,
Cambon, visitò il sud della Tunisia. Oltrepassando la frontiera egli si
avanzò sino all’Oglad Djemilia. Più tardi, nel mese di luglio del 1887,
egli dichiarò al nostro ministro a Madrid, marchese Maffei, che
quell’escursione gli aveva permesso di convincersi che la vera frontiera
della Tunisia è l’Uadi-Mochta. Il nome del largo torrente al quale il
Cambon dava il nome di Uadi-Mochta era stato sino allora quello di
Uadi-Sigsao, mentre in arabo «mochta» significa «frontiera».

Nel mese di ottobre 1886 tre navi francesi si presentavano sulla costa
tripolina fermandosi presso il capo Macbes, donde cominciarono a fare i
rilievi delle coste vicine. Il governatore generale di Tripoli,
avvertito, inviò sui luoghi una corvetta turca sotto gli ordini del
comandante la stazione marittima di Tripoli. Cotesto ufficiale superiore
chiese al comandante francese con qual diritto e con quali intenzioni
procedesse ai rilievi di una costa appartenente alla Turchia. Il
comandante francese eccepì la propria ignoranza: egli credeva di
rilevare una costa tunisina, della quale doveva fare la carta
idrografica. Il turco avendo insistito nell’affermazione che la costa
era tripolitana, le navi francesi si ritirarono, lasciando tuttavia
eretta, a Ras Tadjer o Adjir, una colonna in muratura. Il Console
Generale di Francia, signor Destrées, poco dopo si presentò al
Governatore Generale di Tripoli e gli chiese per quali motivi il
Comandante turco avesse imposto al Comandante francese di allontanarsi
dal capo Macbes. Il Governatore Generale dette le spiegazioni
richiestegli, alle quali il Console di Francia oppose che la proprietà
del punto del quale si trattava era dubbia.

Nel mese di dicembre 1887, il Bollettino della Società di Geografia di
Parigi annunciava che un accordo era stato concluso tra la Turchia e la
Francia per la delimitazione della frontiera tripolo-tunisina, e che la
nuova frontiera era portata a Ras Tadjer, a 32 chilometri al di là
dell’antica demarcazione. Il Governo del Re comunicò immediatamente
questa notizia all’ambasciatore d’Italia a Costantinopoli, Blanc, il
quale si recò tosto dal Gran Visir. Il Gran Visir smentì perentoriamente
l’esistenza della pretesa convenzione e dichiarò inammissibile che la
Turchia, la quale non riconosceva il protettorato francese sulla
Tunisia, potesse entrare in _pourparlers_ colla Francia circa una
delimitazione della frontiera tunisina. L’indomani il Sultano faceva al
barone Blanc una dichiarazione non meno categorica: Sua Maestà
assicurava che non avrebbe tollerato nè lo spostamento della frontiera,
di cui parlava il Bollettino della Società francese di Geografia, nè
alcun accordo che potesse implicare il riconoscimento del protettorato
francese a Tunisi. Secondo il Sultano, gl’intrighi e le informazioni
francesi non avevano altro scopo che quello di spingere l’Italia a
impegnarsi in una «questione tripolitana».

Le medesime notizie continuavano a stamparsi sui giornali e
l’ambasciatore italiano a Costantinopoli insistè di nuovo presso la
Sublime Porta e ottenne da Said pascià, allora Gran Visir, che
l’ambasciatore del Sultano a Parigi, Essad pascià, fosse incaricato di
chiedere al governo della repubblica il richiamo del generale Allegro e
la smentita categorica di qualsiasi modificazione di frontiera.

Verso la stessa epoca il Governo ottomano aveva deciso di cacciare dalla
Tripolitania la frazione degli Uargamma, che erasi stabilita nella
regione situata tra le antiche frontiere della Tunisia, regione
denominata Giufara el Garbia e che è tra le più fertili e le più ricche
di pascoli della Tripolitania. La presenza di cotesti tunisini nel
territorio tripolitano poteva fornire alla Francia un pretesto per
pretendere che cotesto territorio appartenesse alla Reggenza di Tunisi,
dacchè una tribù tunisina vi si era pacificamente stabilita e vi faceva
atto di proprietà.

Una spedizione partì da Tripoli sotto gli ordini del generale di brigata
Mustafà pascià. Il corpo di spedizione si componeva di 1400 uomini, dei
quali 800 di fanteria, 320 cavalieri, il resto di artiglieria. Ma si
arrestò a Zuara e non andò oltre. Il generale, a mezzo d’intermediarii,
fece intimare ai capi degli Uargamma l’abbandono del territorio
abusivamente occupato, concedendo loro di stabilirsi, se lo volessero,
nelle grandi Sirti. Gli Uargamma, poco curandosi della intimazione
ricevuta, si stabilirono in parte a Gibel Nalut, in parte a Djemilia,
restando così sul territorio tripolitano.

Il Console di Francia a Tripoli, avvertito ufficialmente della
spedizione dal valì, si affrettò a informarne il Residente francese a
Tunisi. Una commissione composta del segretario generale della Residenza
e del segretario francese per gli affari indigeni, partì tosto su di una
nave da guerra per raggiungere a Zarzis il generale Allegro che l’aveva
preceduta. Costui, sulla fede di informazioni inesatte, ovvero con lo
scopo di prevenire un fatto possibile, aveva avvertito il Destrées di
una pretesa marcia di Mustafà pascià sopra Djemilia. Il Console si
presentò al valì e non senza emozione, vera o finta, gli domandò se la
notizia fosse esatta. Aggiunse che Djemilia apparteneva alla Tunisia e
dichiarò che qualsiasi altro tentativo da parte della Turchia sarebbe
stato considerato dalla Francia come un _casus belli_. Il valì,
intimidito, si affrettò a rassicurare il signor Destrées circa la
falsità della notizia, affermando tuttavia nuovamente i diritti
incontestabili della Turchia su Djemilia, come appartenente alla tribù
tripolitana degli Huail.

Il 31 dicembre 1887 l’ambasciatore d’Italia a Costantinopoli interrogò
di nuovo il gran visir per conoscere con precisione le intenzioni della
Turchia. In un promemoria mandato a Photiadès pascià, ambasciatore del
Sultano a Roma, la Sublime Porta spiegò le sue vedute. L’ambasciatore
italiano aveva fatto osservazioni su quattro punti:

1. La Porta, malgrado le macchinazioni francesi, non aveva occupato
l’antica linea di confine della Tripolitania, nè aveva inviato colà
degli ufficiali commissari;

2. La Porta non aveva domandato la sconfessione ufficiale e pubblica
delle carte dello Stato maggiore francese;

3. La Porta non aveva dichiarato pubblicamente che il territorio ad est
di El-Biban era e resterebbe tripolitano;

4. La Porta non aveva domandato l’allontanamento del generale Allegro,
sebbene suggerito dal valì.

Il governo ottomano rispose che non sapeva spiegarsi la prima
osservazione, giacchè le autorità imperiali della provincia non avevano
giammai abbandonato un solo dei punti posti sotto la loro
amministrazione, la qual cosa rendeva inutile l’invio sui luoghi di
commissari speciali.

In secondo luogo il governo ottomano aveva creduto superfluo domandare
la sconfessione ufficiale e pubblica della carta dello Stato maggiore
francese, dopochè il Ministero degli Affari Esteri di Francia,
precedentemente interpellato, aveva dichiarato di ignorarne l’esistenza
(!) e aveva soggiunto che, se anche tale carta fosse esistita, essa non
avrebbe avuto valore che dal momento in cui i due governi ne avessero
approvato il tracciato, dichiarazione questa della quale la Porta aveva
preso atto.

Sul terzo punto la Porta rispose di aver fatto smentire dai giornali di
Costantinopoli l’esistenza della convenzione di delimitazione menzionata
in uno dei bollettini della Società geografica di Parigi, e che i
giornali francesi stessi avevano pubblicato un comunicato di smentita di
tutte le voci lanciate circa negoziazioni che su quell’argomento
avrebbero avuto luogo tra la Francia e la Sublime Porta. Vi era stata
altresì una promessa che il bollettino successivo della Società avrebbe
contenuto una rettifica.

Finalmente per l’allontanamento del generale Allegro, la Porta
assicurava di averlo domandato, senza tuttavia dare un carattere
ufficiale alle comunicazioni fatte a Parigi, non potendo riconoscere lo
stato di cose creato in Tunisia dall’occupazione francese.

In conclusione, la Turchia rivendicava come tripolitano il territorio ad
est di El Biban, ossia manteneva l’antico confine.

Nel 1888, dopo la spedizione turca, il resto dei rifugiati tunisini in
Tripolitania ritornava in Tunisia.

La Francia si mise allora a fortificare il Sud della Tunisia, ossia
Zarzis, Matamma, Tatauin, Duirat, dopo aver portato l’effettivo di Gabes
a 2650 uomini e inscritto nel bilancio tunisino una somma di circa
900 000 franchi per le fortificazioni delle prime tre località
suindicate.

Verso la fine del 1887 il giornale officioso della Residenza, _La
Tunisie_, pubblicava un comunicato ufficiale circa le frontiere della
Tunisia. In esso era detto che l’Italia «aveva sollevata una questione
di rettificazione della frontiera tripolitana e parlato di negoziati
aperti con la Porta, sotto pretesto di non lasciar distruggere
l’equilibrio del Mediterraneo, ma in realtà perchè l’Italia,
precocemente forse, considerava la Tripolitania come sua propria». Era
necessario, dunque, descrivere esattamente la frontiera tripolitana; la
quale, secondo _La Tunisie_, partendo dal mare, era nettamente stabilita
col Mochta e lo Chareb Saonanda, sino all’Oglat-ben-Aisar, da una linea
che parte da questo punto, passa per ben-Ali-Marghi e quindi al nord di
Uessan, e in fine dall’Ued Djenain, che si perde nel Sahara.

Il comunicato continuava così:

«È noto quanto i turchi siano gelosi della difesa del territorio
tripolitano; ora, i loro forti sono tutti al sud di questa linea che i
soldati turchi non oltrepassano mai e sulla quale essi consegnano alle
autorità tunisine i dissidenti che rientrano. Tale frontiera, del resto,
conquistata or sono quattro secoli dagli Uargamma sugli Uled-Debbar, è
stata consacrata verso il 1815 da un trattato intervenuto tra la
Reggenza di Tunisi e la Porta. Salem Ben Odjila, capo degli Uderna,
possiede altresì un atto recante i sigilli dei magistrati tunisini e
tripolitani, nel quale è descritta dettagliatamente la frontiera da noi
indicata. Quest’atto rimonta alla fine del secolo scorso. Il viaggiatore
Barth nel 1849 dà ugualmente il Mochta come limite della Tunisia e della
Tripolitania.

«Ricorderemo il viaggio fatto nel 1886 dal signor Cambon in compagnia
del signor Fernand Faure, deputato, e del comandante Coyne. L’esercito
stesso il quale, ingannato al momento dell’occupazione, si era arrestato
all’Ued-Fessi, non tardò a sapere dagli stessi indigeni che la vera
frontiera doveva essere riportata ad una trentina di chilometri più al
sud.

«La Turchia non avendo giammai contestato cotesta frontiera alla
Reggenza, ha fatto smentire l’accordo franco-turco del quale si è
parlato alla Camera italiana. Non vi era materia a negoziati, nè ad
accordo su di una questione che non è contestata e che soltanto
gl’italiani han cercato di far nascere.

«E affinchè l’opinione pubblica non sia traviata terminiamo dicendo che
si lavora all’organizzazione militare e amministrativa della suddetta
regione-frontiera. Lo stabilimento di posti militari su cotesto
territorio, garentendone la sicurezza, avrà altresì il vantaggio di
porre i possedimenti francesi al riparo da ogni cupidigia nel caso in
cui una potenza Europea si stabilisse in Tripolitania.»

È facile rilevare gli errori di questo comunicato. In esso è affermato
che la Turchia non aveva mai contestato alla Reggenza la frontiera del
Mochta, e qui sopra abbiamo riferito il linguaggio tenuto dal Sultano e
dal suo Gran Visir all’ambasciatore d’Italia. Vi si parla di un trattato
del 1815, che non è mai esistito e che non era neppur possibile, poichè
la Porta non occupava allora la Tripolitania, dove regnò la dinastia dei
Karamanli sino al 1835; e l’atto recante i sigilli degli Sceicchi degli
Uderna non esiste, o se esiste non può essere che falso. Quanto al
Mochta, che il viaggiatore Barth vide nel 1849, non può trattarsi dello
_chott_ al quale i francesi hanno attribuito quel nome, mentre esso è
stato sempre precedentemente chiamato Uadi-Sigsao; era (e il Barth lo
dice chiaramente) un pendìo leggero ch’egli vide a due ore dalle rovine
di El Medeina, e quindi molto avanti l’Uadi-Sigsao. Dal punto dove
arrivò gli sarebbe stato difficile scorgere lo _chott_ ora chiamato
Mochta dai francesi, poichè si tratta di un bassofondo situato a circa
trentacinque chilometri dalle suddette rovine.

Al principio del 1887, dopo il ritiro di Mustafà pascià, la Turchia
cominciò a ritirare le sue guarnigioni dalla frontiera ovest. Richiamò
da Remada, punto importante incluso nella nuova demarcazione tunisina, i
venticinque uomini che vi teneva. Fece lo stesso per la guarnigione di
Kasr-Fazua, presso il capo Tadjer, la quale si ritirò nel forte di
Bu-Kammech. Anche la guarnigione di Zuara fu diminuita di 400 uomini.
Cosicchè la Turchia non solamente s’indebolì sulla frontiera minacciata,
ma cedette volontariamente e di fatto i territori che poco prima
rivendicava in diritto.

Il rimanente del 1887 e il 1888 passarono senza fatti notevoli; non vi
furono che delle razzie fra tribù tripolitane e tunisine. Nulla faceva
presagire altri cambiamenti, quando nel mese di febbraio del 1890 il
Console italiano a Tripoli venne a sapere che alcune tribù del
caimacanato di Nalut, dette Oglad Dahieba, avevano inviato dei
commissari al valì per reclamare protezione contro nuove invasioni dei
francesi. Alcuni _spahis_ francesi erano comparsi sul loro territorio e
l’avevano dichiarato appartenente alla Tunisia; quindi, avevano voluto
obbligarli a pagare le decime al Bey, cessando di pagarle alla Turchia.
Secondo le stesse informazioni il governatore generale aveva dichiarato
ai capi di coteste tribù che si trattava di una questione da discutere
tra Francia e Turchia e che essi non avevano a preoccuparsene. E aveva
finito con l’invitarli a ritornare nel loro territorio senza comunicare
ad alcuno il reclamo che avevano fatto.

Tali prime informazioni furono in parte confermate, in parte modificate
in seguito. Realmente, nel mese di maggio di quell’anno il valì, alle
interrogazioni del console generale d’Italia, aveva risposto che due o
tre mesi prima nella parte del territorio tripolitano che era in
contestazione (il valì ammetteva l’esistenza di una contestazione) i
francesi avevano obbligato un arabo tripolino il quale aveva seminato un
campo, a esibire il suo titolo di proprietà (_hoget_). Essi avevano
affermato che, conformemente alle loro carte geografiche, quel
territorio apparteneva alla Tunisia. L’arabo avendo ottemperato alla
loro domanda e presentato il suo _hoget_, i francesi se n’erano
impadroniti e non avevano voluto renderglielo. Venuto a conoscenza del
fatto, il governatore, per evitare che si rinnovasse, aveva chiamato i
capi della tribù cui apparteneva il coltivatore tripolino, e li aveva
invitati a recargli i documenti attestanti i loro diritti di proprietà.
Venuto in possesso di quei documenti, il valì ne aveva fatto fare delle
copie che aveva rimesse ai proprietari, e aveva trattenuto gli
originali. Il governatore dichiarò altresì che una tribù tripolitana,
stabilita da circa 60 anni in Tunisia, l’aveva fatto pregare per il
rilascio di una dichiarazione dalla quale apparisse che essa era
originaria di Tripoli e, in conseguenza, non obbligata a pagare le
decime al Bey. Aveva risposto di non poter consentire a tale domanda e
invitato la tribù a ristabilirsi sul territorio tripolitano.

Contemporaneamente il valì aveva informato il console generale d’Italia
che i francesi avevano anche tentato di guadagnare alla loro causa i
Tuaregs, di averli incitati ad avvicinarsi a Gadames, e ad annettersi il
territorio che, per effetto della nuova frontiera, si estende
dall’Algeria da una parte, e la Tripolitania dall’altra, sino alla
Tunisia. Nei loro intrighi i francesi erano aiutati dalla tribù algerina
degli Sciamba.

Questi furono i fatti riferiti dal valì, dai quali si desume che la
Turchia, o almeno il suo rappresentante a Tripoli, ammetteva che vi
fosse contestazione su di un territorio dalla Sublime Porta e dal
Sultano dichiarato appartenente alla Turchia, e che il valì riconosceva
che potessero esistere dei diritti della Tunisia su territorii situati
all’ovest dell’Uadi-Sigsao, che i francesi volevano chiamare Mochta.

Un altro fatto non deve passarsi sotto silenzio. Nel mese di novembre
del 1888, la Francia fece in modo che la tribù tunisina degli Akkara si
stabilisse a Djemilia. Circa cento tende di cotesta tribù rimasero
durante un mese in quella località. Evidentemente si voleva creare uno
stato di fatto per potere, a momento favorevole, rivendicare la
proprietà di quel territorio e occuparlo facilmente. La Turchia non
protestò, nè sollevò obbiezioni.

Mentre la questione della frontiera tripolo-tunisina era allo stato
acuto e l’Italia ne informava le potenze interessate, una rivoluzione
scoppiò nel territorio di Ghat. Essa venne suscitata da un preteso
sceriffo che si disse francese, non avendo punto il tipo arabo, e che il
pascià di Tripoli ritenne per un emissario del governo della Repubblica.
Lo sceriffo predicava la guerra contro i turchi e contro i francesi. I
Tuaregs si ribellarono contro i turchi, occuparono Ghat, uccisero il
caimacan, imprigionarono il cadì. Quaranta soldati della guarnigione
perirono combattendo; gli altri furono passati per le armi. Il governo
dei Tuaregs a Ghat si sostenne per poco, ossia sino a quando il
governatore di Tripoli inviò in quella città, come governatore del
Fezzan, un arabo di Tripoli che godeva di una grande influenza e che
riuscì a ristabilire l’autorità della Turchia. È da notarsi che cotesta
rivoluzione fu eccitata dalla fazione del capo Knuken, amico fedele
della Francia, quello stesso che stabilì l’accordo tra i Tuaregs e il
maresciallo Mac-Mahon nel 1870 col trattato che fu detto di Gadames. È
evidente che la Francia, stabilita allora da sessant’anni in Algeria e
da nove anni in Tunisia, possedeva mezzi d’azione i più diversi ed
efficaci per esercitare sulla Tripolitania, sul Fezzan, sulle
popolazioni del deserto l’influenza più funesta.

Nè vanno passati sotto silenzio altri fatti, come le frequenti
incursioni dei francesi in Tripolitania. Nel 1886 il generale Allegro
percorse le vie di Tripoli accompagnato da due sceicchi tunisini, senza
far visita al valì, ma intrattenendosi lungamente col console di
Francia. Fatti analoghi si ripeterono più volte sotto gli occhi delle
autorità turche. Anche in luglio 1890, il valì informava il Console
Generale d’Italia di nuovi intrighi francesi nella regione di Gadames.
Testimonianze sicure non lasciavano dubbio circa l’esattezza delle
informazioni ricevute. Agenti francesi, partiti dal sud dell’Algeria, si
recarono a Tamassinin, capitale dei Tuaregs Ajasser, e trattarono coi
capi per la cessione di quella città alla Francia, o quanto meno per la
sua occupazione temporanea. Tamassinin è punto d’importanza capitale per
le carovane che vanno da Gadames al Tuat e di là al Sokoto. I Tuaregs
ricevettero il prezzo della cessione, ma, come accade di frequente con
quella gente, disparvero senza mantenere la loro parola. Degli _spahis_
furono inviati dal governo francese a Gadames alla ricerca dei Tuaregs
fuggitivi. Essi portavano altresì lettere per i notabili di Gadames e
tra gli altri per uno dei più ricchi commercianti di quel centro, il
quale aveva pure domicilio a Tripoli, tal Toher Bassiri, antico agente
segreto del console Féraud. Il caimacan di Gadames sorprese cotesta
corrispondenza e la spedì al governatore generale. Bassiri fu arrestato
e condotto a Tripoli, dove però fu rimesso in libertà. La sera stessa
dell’arrivo di Bassiri a Tripoli, il valì si recava secondo l’abitudine
dal console di Francia per passarvi la serata e vi restò sino a notte
tarda. È noto, del resto, che i rapporti tra il valì e il signor
Destrées erano intimi.

In conclusione alla metà del 1890 la situazione era questa: la frontiera
tunisina si era, di fatto se non di diritto, estesa al sud-est di
qualche migliaio di chilometri quadrati; e i punti principali del
sud-est tunisino erano stati fortificati, mentre la Turchia aveva
diminuito i suoi effettivi sulla frontiera. Tutto era pronto in Tunisia
per una rapida concentrazione di truppe sulla frontiera tripolitana.
Grazie alla ferrovia Bona-Guelma, aperta all’esercizio il 1.º maggio
1887, forti contingenti di truppe potevano essere trasportati
dall’Algeria sino a Tebessa, e da qui una strada militare conduceva per
Feriana e Gafsa a Gabes. Dinanzi ad un movimento offensivo in tal modo
preparato, il valì di Tripoli non avrebbe potuto opporre una resistenza
seria.

A meglio chiarire lo stato della questione quale si presentava al
governo italiano alla fine del 1890 giova riferire la seguente memoria
che per incarico di Crispi fu redatta dal compianto generale Luchino Dal
Verme:


«I) prescindendo da qualsiasi argomentazione desunta da documenti
diplomatici, il solo esame delle carte della regione dimostra che il
confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania non è quello preteso
dalla Francia, ma un altro 30 chilometri all’incirca più a ponente; e
così pure che la Tripolitania ha un deserto proprio a mezzodì del Suf
algerino;

II) l’usurpazione del territorio interposto fra l’antica e la nuova
frontiera danneggia la situazione strategica della potenza che sta in
Tripolitania, sia pel fatto dell’avvenuta occupazione come per
l’usurpazione ulteriore a cui quella ha additata ed aperta la via;

III) l’accordo anglo-francese del 5 agosto 1890, pur avendo l’apparenza
del rispetto all’_hinterland_ tripolino, lascia alla Francia, all’atto
pratico, libertà d’azione verso levante, con grave danno della potenza
che è padrona della Tripolitania.

                                   I.

Della contrada in contestazione si sono prese in esame nove diverse
carte, la più parte francesi, tutte ufficiali meno una, due inglesi ed
una tedesca, nessuna italiana. Di tutte si espongono qui, per ordine
cronologico, le risultanze in ordine alla vertenza.

1.º _Chart of the gulf of Kabes, 1838._ È questa la carta idrografica
dell’ammiragliato inglese (n. 249) sulla quale appare distinta la linea
di confine di cui è questione, colla leggenda _Boundary between Tunis
and Tripoli_. Il _Mediterranean Pilot_ (_official_) la illustra colle
seguenti parole: «Within ras el Zarzis is a fort of the same name. A
short distance west of the fort is the boundary between the States of
Tunis and Tripoli».

2.º _Carte de la Régence de Tripoli, dressée par M. M. Prax et Renou_,
Paris, 1850 (scala 1 a 2 000 000), la più antica ed una delle più
attendibili, perchè redatta dietro osservazioni fatte ed informazioni
raccolte sul luogo, e perchè costruita in un’epoca in cui non eravi
alcun interesse a spostare sulle carte le frontiere naturali a scopo
politico; reca il confine sud-orientale della reggenza di Tunisi dal
forte El Biban sul mare direttamente al Gebel Nekerif. Da questo,
continuando per poco nella stessa direzione, volge poi a nord-ovest,
quindi a ovest e poscia a sud-ovest, lasciando a settentrione la
contrada algerina del Suf. Viene così a comprendere nella Tripolitania
un territorio che, per quanto deserto, si estende a nord-ovest verso il
Suf per circa 180 chilometri da Ghadames, e va verso ponente ben oltre
il 3.º meridiano orientale di Parigi.

3.º _Carte de la régence de Tunis, dressée au dépôt de la guerre d’après
les observations et les reconnaissances de M. Falbe, capitaine de
vaisseau danois et de M. Pricot de St. Marie, chef d’escadron d’état
major français, étant directeur le colonel Blondel_ — Paris, 1857 (scala
da 1 a 400 000). Questa, che è la prima carta di fonte governativa
francese della Tunisia, non porta nessun confine politico nè a sud nè ad
est; ma termina a sud-est col uadi Fissi (altrove scritto Fessi), oltre
il quale, a mezzodì del lago Biban, e precisamente in quella plaga che
le carte odierne dello stesso stabilimento del governo comprendono nella
reggenza di Tunisi, sta scritto a grandi caratteri _Ouled Houeil_, e fra
parentesi, immediatamente sotto: _Tribu de Tripoli_.

4.º _Côte septentrionale d’Afrique entre Zarzis et Tripoli; levée en
1871 par le capitaine de vaisseau E. Mouchez, membre de l’Institut;
publiée au dépôt des cartes et plans de la marine en 1878; corrigée en
novembre 1880._ In questa, che è la carta ufficiale idrografica della
marina francese, pubblicata un ventennio più tardi della precedente, si
scorge l’identica ubicazione degli Ouled Houeil e la loro qualificazione
di _Tribu de Tripoli_.

5.º _Karte des Mittelländischen meeres_, Dr. Petermann; edita da J.
Perthes, Gotha nel 1880 e 1884 (scala da 1 a 3 000 000). Il confine in
discorso vi si vede tracciato dalla estremità occidentale del lago Biban
alla catena montana del Duirat, in un punto che dista da Nalut da 70 a
75 chilometri. Il uadi, che scorre a una trentina di chilometri più a
levante dell’accennata frontiera, è denominato _uadi Segsao_ in tutto il
suo corso.

6.º _Wyld’s Map of Tunis_, senza data, ma anteriore al 1886 (scala da 1
a 1 107 532). Porta il confine tra la Tunisia e la Tripolitania ben
definito con una retta che dal forte El Biban attraversando il lago
omonimo, va alla catena del Duirat ad un punto presso a poco alla stessa
distanza da Nalut indicata sulla carta precedente. Pure come in questa
(colla sola sostituzione della _z_ alla _s_), è nella carta del Wyld
detto _Zegzao_ il uadi che scorre più a levante.

7.º _Carte des itinéraires de la Tunisie, dressée et publiée par le
service géographique de l’armée_; due edizioni, 1885-87 (scala da 1 a
800 000). Sull’edizione del 1885 si ritrova per la prima volta la
denominazione di Mokta data al uadi, che per lo addietro tutte le carte
chiamavano _Zegsao_, _Sigsao_, _Segzao_. _Makatà_ in arabo significa
linea, trincea, fossato, ed implica il concetto della frontiera.
_Moktà_, riferisce l’illustre Barth, vale _grenzgebiete_, ossia «paese
di frontiera». Lungo cotesto uadi, altra volta _Segsao_, oggi _Mokta_, è
tracciato il confine politico.

8.º _Carte d’Afrique (F.lle n. 6) publiée par le service géographique de
l’armée, 1887_ (scala di 1 a 2 000 000). In questa sono naturalmente
riportate tutte le novità introdotte nella precedente, uscita dal
medesimo istituto governativo. Come però si estende maggiormente in ogni
direzione, lascia scorgere tutto l’andamento del nuovo confine; il
quale, passando in prossimità di Oezzan, rimasto alla Tripolitania, si
dirige al deserto che contorna sino all’oasi di Ghadames, a nord della
quale s’arresta, a 24 chilometri dalla città.

9.º _Carte de la Tunisie, par le service géographique de l’armée;
édition provisoire_, 1890 (scala di 1 a 200 000). È questa la carta più
recente della Tunisia edita dal _Service géographique de l’armée_. In
essa è ben particolareggiato il nuovo confine partente dal mare a Ras
Adjir, seguendo il uadi detto Mokta fino al confluente del Khaoai Smeida
e che corre poi verso ponente e quindi verso sud-ovest in modo da
lasciare Oezzan alla Turchia, sulla frontiera. Non si può vedere come
sia definito il confine più al sud, non essendo ancora pubblicati i due
fogli meridionali. In sostanza, conferma il confine dato dalle
precedenti due carte pubblicate dallo stesso stabilimento governativo.
Soltanto è da notarsi che la distanza lungo il littorale, fra l’antico
confine al forte El Biban e il nuovo a Kas Adijr, appare in questa carta
ridotta a 25 chilometri.

Riepilogando, dall’esame di tutte queste carte evidentemente risulta:

_a_) Che in nessuna di esse, nè francese (ufficiale o privata) nè
tedesca nè inglese, anteriori al 1885, si trova segnato l’attuale
confine e neppure altro che vi abbia qualche punto di contatto, dal mare
alla catena del Duirat. Così pure in nessuna si trova il nome di _Mokta_
applicato al uadi Segsao o Zegzao.

_b_) Che il territorio considerato nelle carte del _service géographique
de l’armée_ 1885-87 siccome appartenente alla Tunisia e perciò soggetto
al protettorato francese, è l’identico che nel 1857 dallo stesso
stabilimento governativo e nel 1878 dall’analogo istituto della marina,
veniva esplicitamente dichiarato «territorio di Tripoli».

_c_) Che la denominazione di _Mokta_ data dalla carta del _service
géographique de l’armée_ (1885-87) all’uadi Segsao, presumibilmente fu
intesa a giustificare il tracciamento della frontiera lungo il medesimo.
A tale proposito giova rammentare come l’esploratore Barth si sia
servito del vocabolo arabo _mokta_ per indicare il paese di frontiera
(_grenzgebiete_) dove egli si trovava, a ponente del forte El Biban. Con
ciò, anzichè designare la frontiera fra la Tunisia e la Tripolitania
lungo l’attuale El Mokta, come si pretese in Francia, egli l’indicava là
dove tutte le carte anteriori al 1885 la portavano, a El Biban.

Come se tutto ciò non bastasse, si può ancora aggiungere l’avviso del
più autorevole geografo vivente, Eliseo Réclus, il quale nel suo volume
XI pubblicato alla fine del 1886, quando cioè da un anno era apparsa la
_carte des itinéraires de la Tunisie_, anzichè riconoscere la nuova
frontiera del Mokta, scriveva a pag. 174: «L’îlot du cordon litoral
situé entre les deux passages est occupé par le fortin des Biban ou _des
portes_, ainsi nommé des ouvertures marines qu’il defend; en outre il
est aussi _la porte de la Tunisie, sur la frontière tripolitaine_».

Che più? Lo stesso governo della repubblica, quando si sollevarono
obiezioni in Italia e a Costantinopoli contro il nuovo confine segnato
sulla carta del _service géographique de l’armée_ ebbe a sconfessare
quella carta e quel confine⁴ affermando che non aveva carattere
ufficiale. Una tale sconfessione era del resto assurda, perchè non si
saprebbe davvero immaginare quale altra carta possa avere quel
carattere, se non lo si riconosce in una «dressée, gravée et publiée par
le service géographique de l’armée, étant chef du service géographique
le général Perrier».⁵

    ⁴ L’ambasciatore francese a Costantinopoli dichiarò al ministro
      degli esteri che non esisteva alcuna carta ufficiale sulla quale
      la frontiera in questione fosse segnata (dicembre 1887).

    ⁵ Così sta scritto nel margine inferiore dei fogli.

La Turchia, com’è facile immaginare, non ha riconosciuta la nuova
frontiera. Se ne ha una prova nella dichiarazione fatta il 27 novembre
1890 dal governatore generale di Tripoli al reggente il consolato
d’Italia. «La Francia — così egli si espresse — oggi tratta per
conoscere la nostra linea di confine verso la Tunisia. Ma noi non
possiamo aderire a simili trattative, perchè sarebbe riconoscere il
governo del protettorato. Anzi ho già protestato contro una carta di
confine tracciata dal genio francese e che mi fu presentata per la
debita ratificazione».

                                  II.

Da quanto si è precedentemente esposto, si avrebbero elementi per
provare come il confine storico fra la Tunisia e la Tripolitania fosse,
sul mare, in vicinanza al forte Zarzis, e nell’interno seguisse, in
parte almeno, il corso dell’uadi Fessi. In ogni modo volendo considerare
come antico confine quello dato dalla carta francese di Prax e Renou e
confermato dal Wyld, dal Petermann e dal Réclus, il confine cioè che dal
forte El Biban va alla catena del Duirat ad un punto distante da 70 a 75
chilometri da Nalut, la superficie usurpata misurerebbe all’incirca 3000
chilometri quadrati; senza tener conto, si noti bene, di quanto è
avvenuto a libeccio della catena stessa, di cui si dirà in seguito.

Ma questo non è il peggior male, poichè si potrebbe dire che una tale
distesa di territorio è improduttiva e pressochè deserta. Il danno che
sotto il punto di vista strategico deriva alla potenza che è padrona
della Tripolitania sta in ciò, che anzitutto il confine tunisino,
s’accosta alla capitale di 30 chilometri circa, cioè una tappa; inoltre,
che il confine attuale si trova dove è maggiore la distanza
dall’altipiano al mare, in modo che la difesa ne riesce più difficile.
Fra le altre difficoltà poi a cui l’andamento della nuova frontiera dà
luogo, vi è questa principalissima, che la piazza di Oezzan sulla catena
di Nafusa, anzichè difendere la frontiera stessa, siccome sarebbe suo
ufficio, viene col trasporto della medesima a ritrovarsi in posizione
eccentrica rispetto a Tripoli, cosicchè riuscirebbe agevole a truppe
francesi stabilite sin dal tempo di pace sul Mokta, d’impossessarsi
appena rotte le ostilità di Nalut o d’altre posizioni sul ciglio
dell’altipiano, in quella plaga, tagliando fuori per tal modo Oezzan e
tutta la frontiera che si stende a ponente sino al deserto.

Senonchè, per quanto sotto il rispetto militare gli accennati
inconvenienti sieno gravi, perchè non è cosa di poco momento l’accostare
alla frontiera la capitale di uno Stato di un milione di chilometri
quadrati che si trova già tanto spostata da quella parte, ed altresì
perchè padrone di Nalut e del ciglio dell’altipiano, il nemico può
agevolmente piombare su Tripoli, pure v’ha un altro inconveniente ancora
più grave.

L’oasi di Ghadames per effetto della nuova frontiera, che contornando il
margine orientale del deserto fu condotta a passare appena a 24
chilometri dalla città, si trova ora all’estremo angolo sud-ovest del
possedimento turco, mentre altra volta questo si estendeva, come già s’è
veduto, a mezzodì del Suf algerino fin oltre il 3.º meridiano orientale
di Parigi. Ora, per questa sua posizione e per effetto dell’accordo
anglo-francese (come si vedrà in appresso) l’oasi di Ghadames è divenuta
un’appendice della Tripolitania, unita alla stessa soltanto a nord-est e
ad est.

Il trasporto della frontiera verso levante, che lascia esposte le
posizioni militari di Oezzan e l’altre sul ciglio dell’altipiano,
minaccia pure nella sua esistenza Ghadames. Difatti, quando il nemico
sia padrone di Nalut, le comunicazioni della capitale con Ghadames sono
in mano sua, e riesce pertanto senza colpo ferire in suo potere Ghadames
stesso, accerchiato da ogni altra parte com’è dal deserto francese. Ora,
come il possesso di quella importantissima oasi, l’antica Cydamus dei
Romani che vi dominarono per 250 anni, punto di partenza necessario
delle carovane provenienti da Gabes e da Tripoli e dirette al lago
Tciad, al Bornu e al Niger, e quindi centro ed emporio commerciale, è da
tempo vivamente ambito dai francesi, si deve scorgere in quell’avanzata
di frontiera verso levante, il fine ultimo, essenziale, di disgregare
l’unità del possedimento, accostarsi alla capitale, minacciarne le
comunicazioni colla sua più importante oasi e ridurla a tale isolamento
che un dì abbia a finire per cadere nelle loro mani. La sospensione del
tracciato della frontiera⁶ a 24 chilometri a nord di Ghadames, quale si
vede sulla carta del _service géographique de l’armée_ (1887), è un
evidente indizio che dai Francesi non si vuol riconoscere il dominio
turco appena ad ovest e neppure appena a sud dell’oasi. Gli è questa,
nel concetto francese, come una sentinella turca perduta nel deserto,
che si molesta, si accerchia, si minaccia, tanto da giungere ad
obbligarla a ritirarsi per lasciare ad altri il suo posto.

    ⁶ «Ghadames située à 25 kil. à peine de la frontière idéale qui
      sépare les possessions de la France et celles de la Turquie.»
      (_Réclus_, tome XI, p. 114.)

È superfluo il dire che la perdita di Ghadames sarebbe per la potenza
che sta a Tripoli un gravissimo colpo, oltrechè sotto il punto di vista
commerciale anche sotto quello strategico; innanzitutto perchè è nodo di
comunicazioni allaccianti nientemeno che due mari, il Mediterraneo e il
golfo di Guinea, e il bacino interno del Tciad; e poi perchè la sua
perdita trarrebbe seco quella di tutto il territorio fino alle oasi di
Dergi e di Sinaun, alle quali sarebbe in progresso di tempo riservata la
stessa sorte. Al quale proposito giova ricordare come nelle sterminate
regioni dei deserti africani, le oasi ritraggono dall’acqua che le creò
una capitale importanza, giacchè fuori di esse non vi è vita; di guisa
che a buon dritto possono dirsi i punti strategici del deserto.

                                  III.

Fu accennato or ora come l’accordo anglo-francese del 5 agosto sia una
minaccia per l’oasi di Ghadames. E difatti quell’accordo riconosce la
zona d’influenza francese a sud dei possedimenti mediterranei fino ad
una linea determinata da Say sul Niger a Borruva sul lago Tciad, senza
che vi sia in nessuna guisa indicato il limite orientale di questa
immensa contrada. Soltanto si può dedurlo col riunire il punto estremo
orientale del confine dei possedimenti mediterranei con Borruva, sul
lago Tciad, avendo cura di lasciare intatti a levante i diritti
spettanti alla Porta in forza della dichiarazione di Waddington in
risposta alla richiesta (5 agosto) di lord Salisbury.

E così la linea verrebbe a riuscire il prolungamento di quella che
rasenta l’oasi di Ghadames e che passando a ponente di quella di Ghat o
Rath, anche appartenente alla Tripolitania, dovrebbe andare direttamente
a Borruva.

Or quando si consideri che siamo in pieno Sahara, con distanze enormi,
rarissime vie di comunicazione, ancor più radi centri abitati, cioè le
oasi; che quindi le notizie dell’interno impiegano mesi a giungere alla
costa, quando giungono; che i francesi hanno il diritto, in forza
dell’accordo, di stabilirsi sulla sponda occidentale del lago Tciad; che
essi hanno proclamato il confine sud-orientale dei loro possessi
mediterranei scorrente a soli 24 chilometri dalla città di Ghadames; che
la Turchia non ha trovato la vigoria di contestarlo, la Turchia che ne
riceve il danno immediato e che si prepara a sottostare alla perdita di
Ghadames od almeno, quasi preludio alla perdita, alla deviazione dei
commerci tendenti a Tripoli, ai porti francesi; che infine l’oasi di
Rhat così lontana ha una dipendenza non certo diretta dal valì di
Tripoli; quando si sia considerato tutto ciò, si può chiedere: che v’ha
di più facile pei francesi di divenire di fatto poco a poco gli arbitri,
se non i diretti padroni e di Ghadames e di Rhat e quindi di tutto
l’_hinterland_ tripolitano? Poichè occorre rammentare che in regioni di
deserto come queste di cui è questione, il padrone effettivo è chi si
trova sul luogo in forze e con denari in modo da disporre dei commerci e
delle vie di comunicazione; ed inoltre che la dichiarazione
supplementare all’accordo del 5 agosto, non garantisce che i diritti del
Sultano, e riesce assai dubbio lo stabilire se siasi voluto comprendere
fra questi anche i diritti sorti dalla recentissima teoria
dell’_hinterland_. V’ha anzi molta ragione per ritenere che si sia
inteso di salvaguardare soltanto i diritti sui territori riconosciuti
parte integrante della Tripolitania, di guisa che pur volendo ammettere
il rispetto di quelli per parte della Francia, cioè di Ghadames e di
Rhat, nessuna esplicita garanzia si ritrova nè nell’accordo, nè nella
dichiarazione supplementare, che valga ad arrestare i francesi nella
loro lenta, pacifica ma costante marcia verso levante, dove oggi possono
procedere a sud della Tripolitania, senza incontrare nessuna linea di
delimitazione.

                             _Conclusione._

Si è veduto che la Francia ha addirittura abolito l’antica frontiera fra
l’Algeria e la Tripolitania (v. Carta di Prax e Renou) dichiarando
francese tutto il deserto che si stende a ponente di Ghadames, a mezzodì
del Suf algerino, assai prima ancora che intervenisse l’accordo del 5
agosto 1890. Si è pure veduto che ha arbitrariamente avanzato la
frontiera della reggenza di Tunisi verso levante ai danni della
Tripolitania, col fine di avvicinarsi alla capitale, girare le difese
verso nord-ovest sull’altipiano e tagliar fuori Ghadames.

Quest’opera di lenta demolizione la Francia l’ha iniziata non appena
posto il piede in Tunisia, e la continua. Oggi è la volta di Ghadames.
Per ora semplicemente attratto nell’orbita del commercio francese, cadrà
necessariamente di poi nelle mani della Francia, e con esso cadranno le
dipendenti oasi di Dergi (Derdj) e Sinnaun e la lontana di Rhat. E
quando la Francia sarà l’arbitra di tutto l’_hinterland_ tripolino e
padrona delle vie carovaniere dal Tciad a Tripoli, e quindi del
commercio di tutto quel vasto bacino centrale africano, che ne sarà
dell’equilibrio del Mediterraneo?

Il potere ottomano ridotto alla regione costiera, diverrà poco a poco
una larva di potere anche in Tripoli stesso, finchè, alla prima
circostanza propizia, non cadrà definitivamente in mano alla potenza
che, stringendola da ponente e da sud, ne avrà già l’effettivo dominio.
E allora la Francia estenderà il suo non interrotto dominio
dall’Atlantico e dal Mediterraneo al lago Tciad su di una sterminata
distesa di territorio, quasi un terzo del continente africano. Padrona
del littorale dal Marocco all’Egitto, avrà rotto l’equilibrio del
Mediterraneo; arbitra del vastissimo paese fra i due mari e il bacino
interno del Tciad, giungerà al Uadai, al Darfur, alla valle del Nilo.

    Roma, 2 dicembre 1890

                                               Generale _L. Dal Verme_.»

                                  ――――

Dati i precedenti, è naturale che alla Consulta si desse importanza ad
ogni notizia che veniva dal confine tripolo-tunisino. Il ricordo del
modo col quale la Francia aveva iniziato la occupazione della Reggenza
di Tunisi, faceva pensare che ogni incidente di frontiera potesse
offrire un pretesto ad una invasione del territorio tripolitano. Il 31
luglio Crispi aveva telegrafato alle ambasciate di Londra, Berlino e
Vienna:

    «Il nostro console a Tunisi mi telegrafa la notizia di un serio
    combattimento alla frontiera della Tripolitania fra tribù
    tunisine e tripoline.

    Non vorrei fosse una ripetizione della favola dei Krumiri che
    diede pretesto al 1881 alla occupazione della Tunisia. Ora è la
    volta della Tripolitania.»

In quei giorni avevano termine tra i gabinetti di Parigi e di Londra i
negoziati per la delimitazione delle zone d’influenza della Francia e
dell’Inghilterra nel Sudan e veniva firmato l’accordo anglo-francese più
volte innanzi citato e che porta la data del 5 agosto 1890.

Tanto il Ministro francese Ribot, che il ministro inglese lord Salisbury
dichiaravano che in quell’accordo erano stati rispettati i diritti della
Turchia, ma in realtà l’_hinterland_ della Tripolitania era abbandonato
alla invadenza francese, siccome dimostrava il Dal Verme nella memoria
che precede.

Crispi prima della firma del detto accordo, cioè il 2 agosto,
telegrafava a Londra:

    «Ho più volte avvertito cotesta ambasciata degli sconfinamenti
    che si fanno o si tentano dalla Francia dalla Tunisia nella
    Tripolitania.

    Or sento il dovere d’informarla, che in un colloquio su cotesto
    argomento tenuto il 31 luglio dal generale Menabrea col ministro
    Ribot, questi dichiarò che, nello _hinterland_ preteso dalla
    Francia, essa intende comprendere la grande strada delle
    carovane che unisce il Sudan alla Tripolitania. Ove ciò fosse,
    la Francia verrebbe a prendere quasi tutto l’_hinterland_
    tripolino, togliendo qualunque avvenire a quella provincia.

    Ne prevenga il _Foreign Office_.»

E il conte Tornielli rispondeva l’indomani, 3, col seguente telegramma:

    «Ogni volta che codesto Ministero ha avvisato questa ambasciata
    di sconfinamenti francesi a danno della Tripolitania o di atti
    tendenti a preparare ingrandimento a pregiudizio di quella
    provincia ottomana, non ho mancato di parlarne al _Foreign
    Office_ ed anche lasciare memoria dei nomi delle località
    segnalate. Ho reso conto a V. E. di quelle comunicazioni e
    dell’accoglienza fatta alle medesime. Non era forse ancora
    pervenuto a V. E. il mio telegramma d’ieri 8 pom. allorchè Ella
    ha telegrafato circa pretesa confessata da Ribot a Menabrea in
    abboccamento del 31 luglio. Dalle cose dettemi da Salisbury
    circa l’_hinterland_ tripolitano risulta che accordo stabilito
    lascia che Francia arrivi toccare soltanto riva occidentale lago
    Tciad. Sua Signoria mi ha detto espressamente che tutti i
    diritti del Sultano erano stati salvaguardati. La trattativa non
    essendo ancora stata chiusa ieri nel pomeriggio e Salisbury
    essendosi trasferito in campagna per tre giorni, gli scrivo oggi
    stesso un privato biglietto per avvisarlo che pretese Ribot
    tendono mettere in mano della Francia strade carovane del Sudan,
    che, in circostanze date, possono essere importantissime e utili
    allo Stato che possiede l’Algeria e la Tunisia, anche per
    operare nascostamente sovra altre parti di Africa. Sua Signoria
    comprenderà certo l’allusione all’alto Egitto e se un impegno
    positivo non è già stato preso, sono persuaso che porterà la sua
    attenzione più scrupolosa ad evitare che le strade suddette
    passino alla Francia.»

Naturalmente, le nuove preoccupazioni del governo italiano erano
partecipate a Costantinopoli, come le precedenti. In ottobre la Sublime
Porta finalmente si decise a intervenire nella questione e diresse la
seguente Nota ai suoi ambasciatori a Parigi e a Londra:

                                                      «Octobre 1890.

        _Sublime Porte à ses réprésentants_
        _à Paris et à Londres._

    Votre Excellence sait qu’en signant le 5 Août dernier les
    arrangements intervenus entre eux au sujet de l’Afrique, le
    Gouvernement Britannique et le Gouvernement Français ont échangé
    des notes pour constater leur parfait accord de respecter
    scrupuleusement les droits appartenant à S. M. I. le Sultan au
    sud des provinces de ses possessions Tripolitaines.

    Cependant, afin de prévenir toute équivoque le Gouvernement
    Imperial croit devoir déclarer que dans la partie méridionale de
    la Tripolitaine du côté du Grand Sahara en dehors des districts
    de Gadames, de Gah (Rhah) d’Argar (Asdser), Touareg, de Mourzouk
    (chef lieu du Tsezzan), de Ghatroun, de Tidjerri et de leurs
    dépendances qui sont tous administrés par les Autorités
    Impériales, les droits de l’Empire doivent d’après les anciens
    titres et la doctrine même du _Hinterland_ s’étendre sous les
    territoires compris dans la zone determinée ci-après. La ligne
    de cette zone partant des environs de la frontière méridionale
    de la Tunisie du point connu sous le nom de Bin Turki au N. E.
    de Berresok, descend vers Bornou en passant à l’O. de Gadames et
    d’Argar, Touareg et en comprenant les oasis de Djebado et
    d’Agram. Elle passe ensuite entre les limites de Sokoto et de
    Bornou pour aboutir à la frontière septentrionale de Cameroun,
    et suit de là vers l’Est la ligne du partage des eaux entre le
    bassin du Congo et celui de Tchad de façon à englober le
    territoire de Bornou, Baghirmi, Ouadaï, Kanem, Ouanianga, Borkou
    et Tibesti, laissant ainsi en notre possession la grande route
    des caravanes qui va de Morzouk à Kouka par les oasis du Yat de
    Kaouar et d’Agadem.

    V. E. verrà par le tracé de la ligne décrite ci-dessus que la
    localité de Barrowa sur le lac Tchad reste dans la sphère
    d’action du Gouvernement Imperial.

    Les raisons qui militent en faveur de notre point de vue
    consistent dans le fait que la route des caravanes de Mourzouk à
    Kouka devant nécessairement rester à l’Empire, on ne peut
    laisser en d’autres mains la susdite localité de Barrowa qui se
    trouve précisément sur la même route des caravanes et non loin
    de Kouka.

    Il est vrai que l’art. 2 de la déclaration franco-anglaise du 5
    août semble comprendre Barrowa (sur le lac Tchad) dans la zone
    d’influence de la France, mais outre la double considération que
    cette localité n’a pas, que nous sachions, appartenu jusqu’ici à
    une puissance quelconque et que géographiquement même, ainsi que
    d’après la doctrine du _Hinterland_, au lieu de faire partie de
    la zone française elle revient à celle de l’Empire pour les
    raisons plus haut exposées; il y a lieu de ne pas perdre de vue
    que le texte même de l’article sus visé porte dans son second
    alinéa que la ligne doit être tracée de façon à comprendre dans
    la zone d’action de la Cie du Niger tout ce qui appartient
    équitablement au royaume de Sokoto. Or comme le tracé contourne
    Sokoto sans y toucher et englobe seulement Bornou, et comme
    d’autre part Bornou est bien en deçà de Sokoto, nous sommes en
    droit de croire que le tracé ne pourra pas donner lieu à une
    objection fondée.

    Je prie V. E. de vouloir bien notifier par écrit ce qui précède
    au gouvernement près duquel Elle est accréditée afin que lors de
    la délimitation de la ligne à determiner suivant l’art. 2
    susmentionné, il ne soit point empiété sur notre zone
    d’influence et tenir mon département au courant des phases
    futures de cette question et du résultat de ses démarches.

                                                            _Said_.»

Lo zelo dell’Italia nella difesa dell’integrità della Tripolitania era
appreso a Costantinopoli con diffidenza, e a tener viva questa
diffidenza contribuivano gli agenti e i giornali francesi, i quali per
stornare l’attenzione del governo turco dall’azione costante della
Francia, parlavano continuamente delle mire italiane. Il 14 agosto il
Sultano faceva telegrafare a Zia bey, ambasciatore turco a Roma:

    «Un dispaccio privato annunzia che l’Italia preparerebbe una
    spedizione militare. Benchè questa notizia ci sembri
    inverosimile prego informarci.»

Zia bey rispondeva subito non esservi in Italia indizio alcuno di una
spedizione militare in preparazione.

In novembre, i giornali francesi stamparono che nei colloqui tenuti a
Milano tra Crispi e Caprivi, si erano presi accordi in vista di
un’occupazione italiana di Tripoli. Ma l’ambasciatore turco a Berlino,
invitato ad assumere informazioni in proposito, telegrafava:

    «J’ai eu une entrevue avec le baron Marschall. S. E. m’a dit que
    le Chancelier avait rapporté la meilleure impression de son
    entrevue avec Monsieur Crispi. Il a ajouté à ce propos que la
    Sublime Porte était eclairée pour n’attacher aucune importance
    aux versions mensongères relatives à la Tripolitaine. Le nom
    même de cette province de l’empire ottoman n’ayant pas été
    prononcé dans l’entrevue.»

Ma il sospetto era sempre vigilante. Il 15 dicembre Zia bey telegrafava
al proprio governo:

    «Osman bey addetto militare ha saputo da fonte sicura che il
    colonnello Ponza di San Martino è partito per la Tunisia e per
    Tripoli allo scopo di constatare segretamente il preteso
    incontro delle truppe imperiali colle truppe francesi e di
    indagare quali siano i mezzi di difesa di cui la Turchia dispone
    nella Tripolitania. Avendo io smentito la voce sparsa su
    quest’incontro tanto nella stampa, quanto nelle mie
    conversazioni con S. E. Crispi, credo piuttosto che si tratti di
    constatare se abbia fondamento la notizia delle usurpazioni
    della Francia avanzate da S. E. Crispi in base al rapporto del
    Console di Italia che avrebbe particolarmente studiato
    l’_hinterland_ della Tunisia.»

Constatato il pericolo della usurpazione francese dell’_hinterland_
tripolitano per la situazione creata dall’accordo 5 agosto 1890, si
pensò dal governo italiano al modo di portarvi rimedio. E il modo si era
trovato, come appare dalla memoria che trascriviamo e che porta la data
del 19 gennaio 1891. Ma pochi giorni dopo, il 31 gennaio, avveniva la
crisi ministeriale che allontanava Crispi dal potere, e i suoi
successori abbandonarono la questione:

    «A ricercare il modo col quale portare rimedio alla situazione,
    occorre prendere in esame l’accordo anglo-francese del 5 agosto
    1890, che solo ha dato origine alla stessa, sia con quanto ha
    stabilito, sia, e più ancora, con ciò che ha ommesso di
    stabilire.

    Infatti, con quell’accordo fu concesso alla Francia di arrivare
    sino a Borruva sul lago Tciad, e quindi assai più a levante di
    quanto un’imparziale applicazione della teoria dello
    _hinterland_ le avrebbe assegnato. D’altra parte, nel medesimo
    accordo venne ommesso di determinare il limite orientale della
    zona d’influenza francese, lasciando così aperto il campo ad
    arbitrarie interpretazioni ed alle conseguenti usurpazioni
    nell’avvenire.

    Che l’estensione della zona d’influenza francese sino al Tciad
    oltrepassi la misura che l’equa applicazione della novella
    teoria indicherebbe, riesce evidente a chiunque esamini una
    carta del continente africano colle recenti frontiere politiche.
    Salvo il caso della presenza di fiumi, il cui corso possa venire
    di preferenza seguito, per regola la delimitazione dello
    _hinterland_ fra due potenze vicine si fa per mezzo di una linea
    normale all’andamento generale della costa.

    Se pertanto si prolunghi l’attuale confine fra la Tunisia e la
    Tripolitania (sia pure quello voluto dalla Francia) e che è
    appunto nel suo generale andamento normale alla costa, si vedrà
    come la nuova linea dovrebbe correre in direzione di sud-ovest o
    quanto meno di sud-sud-ovest, in guisa da lasciare allo
    _hinterland_ della Tripolitania un’immensa distesa di Sahara
    oggi assegnata alla Francia.

    Senonchè, una tale spartizione, quantunque fatta in base alla
    regola generale rispettivamente alla costa da Tripoli a Gabes,
    non sarebbe equa per riguardo al littorale algerino; e neppure
    lo sarebbe sotto un punto di vista più complesso, imperocchè
    trattandosi d’una sterminata regione nella quale pochissimi sono
    gli obbiettivi, questi più che la superficie del territorio
    debbono essere equamente divisi fra i contendenti. Giustizia
    pertanto avrebbe richiesto che la linea di divisione si fosse
    fatta scendere _direttamente a sud_, per meridiano, in guisa da
    consentire alla Francia di raggiungere la frontiera del Sokoto
    dal Niger insino all’incontro del Bornu, e alla Tripolitania
    quella del Bornu e il lago Tciad.

    Invece, l’accordo del 5 agosto ha fatto avanzare la Francia
    assai di più verso levante, per modo da confinare essa sola col
    Bornu, escludendone la Tripolitania che vi aveva diritto e per
    ragioni geografiche in base alla nuova giurisprudenza dello
    _hinterland_, siccome fu testè dimostrato, e per ragioni di
    dominio commerciale, dappoichè è da Ghadames e da Tripoli che si
    esercita da secoli il traffico col Bornu, così da poter dire che
    la Tripolitania ne ha di fatto il monopolio. Inoltre, l’accordo
    del 5 agosto ha portato la Francia a quel lago Tciad che si
    trovava intero nello _hinterland_ del possedimento turco. Nè è
    da passare sotto silenzio che l’avere acconsentito alla Francia
    di giungere al lago, significò l’aggiudicazione alla stessa di
    un triangolo della superficie di 200 000 miglia geografiche
    quadrate a levante del meridiano che avrebbe dovuto segnare il
    limite; tutto territorio che non è quindi situato _au sud des
    possessions méditerranéennes_, come dice la lettera
    dell’accordo, ma bensì _au sud-est_.

    Oggi poi, come se la porzione toccata alla Francia nel modo così
    poco equo ora veduto, non bastasse, si va per mezzo di carte, di
    articoli, di conferenze, infiltrando nel pubblico la convinzione
    che la zona d’influenza francese s’estende a mezzodì della
    Tripolitania, tanto da comprendere gran parte della carovaniera
    che da Tripoli per Murzuk va al Tciad, l’oasi di Bilma e gran
    parte della sponda settentrionale del lago. Le carte del _Temps_
    e del _Petit Journal_ del dicembre scorso lo dicono chiaro, alla
    breve distanza di cinque mesi dalla data dell’accordo. E lo
    possono dire, e il pubblico può crederlo, dacchè nell’accordo
    non venne determinato il limite orientale della zona d’influenza
    francese se non nei due punti estremi, uno dei quali non
    esplicitamente indicato, lasciando, come s’è detto sin dal
    principio, aperto il campo vastissimo a svariate
    interpretazioni, che non possono non condurre ad ulteriori
    arbitrarie occupazioni.

    Nè vale il dire che la dichiarazione del signor Waddington a
    lord Salisbury in data 6 agosto precisi l’incerto confine col
    garantire i diritti del Sultano, dappoichè il ministro degli
    affari esteri semplicemente dichiara salvaguardati «les droits
    qui peuvent appartenir à S. M. I. le Sultan dans les régions
    situées _sur la frontière sud_ de ses provinces tripolitaines»;
    il che non implica affatto che sieno guarentiti quei diritti
    sulle regioni che costituiscono l’_hinterland_ del possedimento
    turco, le quali avrebbero dovuto in tal caso venire indicate con
    frase ben diversa nella sostanza, quantunque poco dissimile
    nella forma, e cioè «les régions situées _au sud de la
    frontière_ méridionale de ses provinces tripolitaines».

    Con una siffatta dizione si sarebbe esclusa la Francia da
    qualsiasi usurpazione al sud della Tripolitania, incominciando
    da Ghadames, mentre colla dizione contenuta nel documento
    diplomatico citato, nulla si garantisce, salvo ciò che sta sulla
    _frontiera tripolina_; il che può anche limitarsi a significare
    quanto sta _entro il territorio turco_ lungo la frontiera.

    Non sarà egli possibile trovare oggi un rimedio alla situazione
    creata dall’incompleto accordo del 5 agosto, situazione esiziale
    (siccome venne dimostrato nella precedente Memoria I)
    all’Italia, all’Inghilterra ed alle potenze centrali cui
    interessa il mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo?

    Il rimedio si presenta facile, poichè non si tratta di rinvenire
    sul già fatto, ma soltanto di chiarirlo e delinearlo; d’altra
    parte non si chiede alla Francia se non la sanzione precisata di
    ciò che essa per bocca del suo ministro degli affari esteri
    reiteratamente dichiarò d’intendere quale lo s’intende da noi.
    Null’altro pertanto si vuole all’infuori di una dichiarazione
    supplementare del ministro francese, nella quale venga
    specificata quella del 6 agosto, col designare nettamente quel
    limite orientale della zona d’influenza francese che fu ommesso
    nell’accordo del 5.

    Basterebbe a tale effetto che si dichiarasse come il limite
    orientale di quella zona, indicato soltanto ed anche
    imperfettamente nei suoi punti estremi, sia determinato secondo
    una linea che partendo dal confine tripolo-tunisino a ponente
    dell’oasi di Ghadames, corra direttamente a rasentare, pure a
    ponente, l’oasi di Ghat, donde con altra linea retta raggiunga
    Borruva sul lago Tciad.

    Non si saprebbe invero come impugnare l’equità di una tale
    delimitazione, dacchè nell’accordo 5 agosto sta scritto: «la
    zone d’influence de la France au sud de ses possessions
    méditerranéennes». Ora, come il punto estremo orientale di tali
    possessi entro terra si ritrova (pure ammettendo il confine
    delle carte del «service géographique de l’armée») sul lembo
    occidentale dell’oasi di Ghadames, così gli è da quel punto che
    devesi condurre la linea a Borruva, designato esplicitamente
    nell’accordo; la quale linea dovrà essere retta se nel suo
    andamento non risultasse intaccare l’oasi di Ghat, possedimento
    turco; sarà invece spezzata, se al giungere a quest’oasi la
    posizione geografica della medesima lo richiedesse.

    Con una tale precisa delimitazione s’impedirebbe qualsiasi
    arbitraria interpretazione sin d’oggi; si garantirebbero
    effettivamente i diritti del Sultano a sud dei suoi
    possedimenti; s’arresterebbe qualunque velleità d’avanzata a
    levante per parte della Francia, la quale del resto non avrebbe
    a lagnarsi di questo assetto definitivo che è in massima quello
    acconsentito coll’accordo del 5 agosto, col quale, è d’uopo
    ripeterlo, il governo della repubblica ha ottenuto ai danni
    della Tripolitania assai di più di quanto l’equa applicazione
    della novella teoria dell’hinterland le avrebbe assegnato.»

In quali termini la questione fosse trattata a Parigi, risulta da due
telegrammi del generale Menabrea:

                                            «Parigi, 3 gennaio 1891,

        _Signor Ministro,_

    Il colloquio che io ebbi col Sig. Ribot in occasione del suo
    ultimo ricevimento ebdomadario del 30 dicembre prossimo passato,
    fu alquanto animato per non dire vivissimo. Al primo momento
    egli con parole concitate mi accennò la polemica aperta sulla
    questione Tripolitana ed in cui si attribuisce alla Francia
    l’intenzione d’occupare quella Reggenza, accusa questa sostenuta
    dai nostri giornali qualificati di ufficiali e supposti ispirati
    da codesto Ministero. Secondo il suo dire l’Eccellenza Vostra
    avrebbe denunziato quelle intenzioni della Francia ad altre
    potenze e fra queste all’Inghilterra, come risulterebbe da
    rapporti che gli pervengono. Il signor Ribot chiudeva la sua
    arringa col pregare Vostra Eccellenza di smettere la
    continuazione di una tale accusa che potrebbe suscitare
    interpellanze in Parlamento e dare luogo a spiacevoli incidenti.

    Ascoltai con molta calma il discorso appassionato del signor
    Ribot, il quale protestava contro le mire che si supponevano
    alla Francia di assorbire anche la Tripolitania, mentre essa non
    pensava che a valersi delle vie aperte colla recente convenzione
    Anglo-francese relativa all’Hinterland nel Soudan per volgere
    una parte del commercio di quella regione verso la Tunisia dove
    le si stanno creando nuove facilitazioni.

    Prendendo a mia volta la parola, dissi al signor Ribot che
    potremmo con ben maggiore ragione rivolgere a lui o per meglio
    dire al suo Ministero i rimproveri che egli mi esprimeva sul
    nostro contegno verso la Francia riguardo alla questione
    Tripolitana, poichè non v’è giorno in cui l’Italia ed il suo
    primo Ministro non siano svillaneggiati dai giornali francesi
    che hanno note aderenze col Ministero degli Affari Esteri e ci
    attribuiscono in modo persistente l’intenzione di occupare
    Tripoli, benchè si debba sapere che ciò non è vero: eppure siamo
    informati che un ammiraglio francese, il Duperré, recatosi non
    ha guari a Costantinopoli, ebbe dal Sultano una udienza in cui
    cercò di mettere quel Sovrano in grave sospetto contro di noi, a
    proposito di Tripoli. Soggiunsi che io ignoravo quali
    comunicazioni Vostra Eccellenza potesse aver fatte ad altre
    Potenze riguardo a quella Reggenza, ma che se ciò per avventura
    ebbe luogo eravamo nel nostro diritto di portare la loro
    attenzione sopra una tale questione che non ci può essere
    indifferente, come non lo deve essere a qualsiasi Potenza che
    abbia interessi nel Mediterraneo ed alla quale importi che
    l’equilibrio in quel mare non sia turbato a benefizio di qualche
    potenza invadente. All’Italia poi più che ad ogni altro importa
    quella questione, e la Francia deve assuefarsi a riconoscere che
    l’Italia costituisce oramai una nazione di trentadue milioni di
    abitanti, con duecentomila _veri marinai_ inscritti, con uno
    sviluppo di seimila e più chilometri di litorale Mediterraneo.
    Percui, benchè non aspiri alla Tripolitania, è però naturale che
    essa possa inquietarsi di una Potenza vicina solita a chiamare
    il Mediterraneo _lago francese_, e che sotto un futile pretesto
    s’impossessò se non di nome, almeno di fatto della Tunisia, la
    quale ogni giorno è maggiormente assorbita dalla Francia, al
    punto che, sotto pretesto di protettorato, il Bey ha perduto
    ogni libertà d’azione sino a quella di scrivere e spedire una
    lettera senza l’autorizzazione del Residente Francese.

    Bisogna adunque aspettarsi a che se alcuno tentasse di
    attribuirsi la Tripolitania, incontrerebbe un serio ostacolo
    nella resistenza delle alte Potenze interessate. Io dichiaravo
    che con ciò non intendevo giustificare il linguaggio dei
    giornali, ma nello stesso modo che non abbiamo mai pensato a
    fare il signor Ribot mallevadore di tutte le sciocchezze e di
    tutte le falsità di cui sono ripieni i giornali francesi che si
    pretendono organi ufficiosi del suo Ministero, fra i quali
    primeggia il _Siècle_ diretto da un antico funzionario di questo
    Ministero degli Affari Esteri, che figura tuttora nell’annuario
    diplomatico di Francia, riteniamo che sia cosa ingiusta lo
    attribuire alle ispirazioni di Vostra Eccellenza le
    elucubrazioni dei nostri giornali sulla Francia.

    Soggiunsi poi che in Francia si ha una falsa idea della
    posizione politica di Vostra Eccellenza. La si considera come il
    rappresentante di una _fazione_, mentre il risultato delle
    elezioni dimostra che Ella è l’espressione del pensiero
    dell’opinione generale del Paese. Infatti Ella, nata in Sicilia,
    nell’estrema Italia del mezzodì, trovò il suo più serio trionfo
    nell’estremo nord, in Torino, capitale di quel Piemonte che
    rinunziava volontariamente alla sua preponderanza in favore
    della unità d’Italia. Vostra Eccellenza dopo di aver combattuto
    con Garibaldi e sofferto l’esiglio, si associava al gran
    Condottiero nel salutare la Monarchia di Casa Savoia come quella
    che doveva sancire e mantenere l’indipendenza e l’unità
    d’Italia. Il coraggio politico e civile dimostrato da Vostra
    Eccellenza provano ch’Ella ebbe sempre quel doppio scopo di mira
    tanto col mantenere le nostre alleanze, che col ricondurre ad un
    sistema uniforme le varie amministrazioni, avanzo di quelle
    degli antichi Stati in cui la Nazione era divisa, e col fare
    sparire i molti abusi che deturpavano alcune di esse.

    Conchiusi questa digressione col dire che conveniva lasciare ai
    giornalisti la responsabilità del loro dire senza farlo risalire
    ai capi del Governo, che talvolta sono vittime delle
    indiscrezioni dei proprii dipendenti.

    Sul finire della conversazione il signor Ribot mi parlò della
    delimitazione dei nostri territori rispettivi presso Assab e
    Obock; io risposi che dipendeva da lui di riprendere i negoziati
    accettando le basi stabilite dall’Eccellenza Vostra e dalle
    quali Ella non poteva recedere. Soggiunsi che questo suo
    Ministero coll’opporre a quelle condizioni trattati antiquati e
    colpiti da prescrizione e contratti più recenti passati con
    _Sultanetti_ vassalli del Negus, sembrava volere ripetere le
    _gherminelle ideate per Massaua_.

    Ciò bastava per una volta specialmente ora che in quelle regioni
    un Sovrano effettivo costituito aveva accettato la nostra
    alleanza protettrice; e conchiusi che con un poco di
    arrendevolezza per parte della Francia quella quistione sarebbe
    stata sciolta.

    In questa lunga discussione parlai con molta fermezza e
    precisione, senza però mai uscire dai limiti di una somma
    cortesia. Percui il colloquio ebbe fine con pacatezza e con una
    reciproca stretta di mano.

                                                  Il R. Ambasciatore
                                                        _Menabrea_.»

                                           «Parigi, 13 Gennaio 1891.

        _Signor Ministro,_

    In seguito al mio colloquio col signor Ribot del quale resi
    conto a codesto Ministero col mio rapporto del 3 corrente N.
    24-7 portai particolarmente la mia attenzione sulla carta
    d’Africa testè pubblicata dal giornale il _Temps_ la quale fa
    oggetto del pregiato dispaccio di V. E, in margine citato.
    Osservai come la delimitazione dell’_Interland_ tra l’influenza
    rispettiva di Francia e d’Inghilterra sulle regioni costituenti
    il _Sudan_ al nord dell’Algeria e della Tunisia da una parte e
    della Tripolitania dall’altra, non corrisponde esattamente a
    quella fissata dall’accordo anglo-francese del 5 agosto u. s.
    Infatti la linea di delimitazione toccava un punto solo del
    littorale occidentale del lago _Tchad_ a _Borruva_ dove la
    sponda tende a volgere a settentrione, mentre la carta estende a
    tutto il littorale settentrionale del lago la tinta rossiccia
    alquanto allargata, che sembra volere indicare l’estensione
    della influenza francese. Quella medesima tinta rossiccia si
    estende anche sulle oasi _Rath_ e _Chadames_ le quali posizioni
    appartengono alla regione Tripolitana. Questa incertezza di
    delimitazione è fatta per eccitare o per lo meno per segnare una
    direzione agli appetiti di protettorato che invadono facilmente
    l’opinione francese la quale, non contenta dei varii territorii
    sui quali la Francia estende la sua autorità più o meno solida e
    incontestata, ambisce ad ampliare il dominio nel nord
    dell’Africa e si prepara ad allestire imprese per volgere il
    commercio assai importante del _Sudan_ verso la Tunisia. Così
    alcuni portano già le loro mire sul lago _Tchad_ che considerano
    come il gran porto interno di quella regione. Queste tendenze mi
    spiegano il linguaggio tenutomi dal signor Ribot in occasione
    del suo ricevimento ebdomadario del 30 Dicembre u. s. (vedi mio
    rapporto suaccennato). Respingendo l’accusa fatta dalla stampa
    alla Francia di voler invadere la Tripolitania, egli confessava
    però che mentre negava tale proponimento, la Francia tuttavia
    intendeva trarre il miglior partito possibile dalla regione
    lasciata nel Sudan all’influenza francese per condurre il
    commercio Sudanese verso l’Algeria e la Tunisia.

    Ciò essendo, le due oasi precitate di Rath e Chadames sono i
    punti principali di sosta delle carovane: _Chadames_ sopratutto
    si può considerare come il punto _strategico commerciale_ che
    domina le due vie principali dirette l’una verso Tunisi e
    l’altra verso Tripoli. Se si vuole evitare che questa ultima
    Reggenza non cada tosto sotto il protettorato francese e che, in
    seguito, Tunisi non sia definitivamente annesso all’Algeria, è
    necessario che le due anzidette oasi e specialmente _Chadames_
    non vengano in mano dei Francesi. I pretesti per occupare
    Chadames non mancherebbero certamente: tutti i Krumiri non sono
    ancora spariti; per evitare che risorgano e porgano un’occasione
    alla Francia di impossessarsi delle sovradette oasi occorrerebbe
    che fossero custodite con truppe mandatevi dal Sultano; una
    piccola guarnigione sarebbe sufficiente; la vista della bandiera
    ottomana basterebbe a frenare le velleità che si suppongono nei
    francesi. La forza turca però dovrebbe essere sufficiente per
    resistere a qualche attacco dei mahdisti.

    L’Inghilterra più d’ogni altra, poscia l’Italia, hanno interesse
    grandissimo a che il commercio sudanese non diventi il monopolio
    di una Potenza che già possiede una parte estesissima del
    littorale africano del Mediterraneo; epperciò mi pare che
    l’Inghilterra specialmente ed anche l’Italia dovrebbero
    concorrere in qualche modo alla occupazione sovraccennata delle
    truppe turche, sussidiando, ove d’uopo, il Governo ottomano per
    il loro mantenimento. Il concorso così prestato dall’Italia
    avrebbe per risultato di dissipare i sospetti che si cercò di
    suscitare presso il Sultano circa le nostre aspirazioni
    Tripolitane, e di acquistare maggior influenza nell’Asia minore
    per contrastare la guerra che vi è fatta alla nostra lingua, ai
    nostri stabilimenti, al nostro commercio dalla ostile
    concorrenza francese.

    Se al contrario si lascia che le oasi di _Rath_ e principalmente
    di _Chadames_ rimangano esposte in balia della Francia, dovremmo
    fin d’ora pensare a non lasciarci cogliere all’improvviso come
    avvenne per la Tunisia e prepararci ad opporci con tutti i mezzi
    a che la Francia estenda il suo dominio anche sulla
    Tripolitania, il che sarebbe forse _Finis Italiae_, almeno come
    Potenza marittima di primo ordine.

    Dò fine a questo rapporto col conchiudere che mi pare esser
    necessario che il R. Governo si concerti coll’Inghilterra circa
    le eventualità sovraccennate e nel caso che questa vi si voglia
    disinteressare, l’Italia potrebbe passare oltre ed intrattenersi
    direttamente della quistione col Governo turco.

                                                  Il R. Ambasciatore
                                                   _L. F. Menabrea._

    P.S. La soluzione precedentemente indicata rispetto alla oasi di
    _Chadames_ si può dire soluzione pacifica; però si potrebbe
    pensare ad un’altra più radicale come sarebbe quella
    dell’occupazione della Tripolitania per parte dell’Italia che, a
    difetto della Turchia, è la potenza più indicata per prendere
    quella Reggenza sotto il suo protettorato. Ma una tale soluzione
    potrebbe dare luogo a conflitti armati, sull’opportunità e le
    conseguenze dei quali io non sono chiamato a pronunciarmi.

                                                           L. F. M.»

Il gabinetto di Berlino, tenuto al corrente delle mene francesi,
appoggiava a Parigi e a Londra l’azione italiana. Il seguente telegramma
è del 21 gennaio:

                                          «Berlino, 21 gennaio 1891.

    In questi ultimi giorni, al suo passaggio per Berlino, vennero
    confermate al Conte di Münster istruzioni d’intrattenersi col
    Ministro degli affari esteri francese sopra la Tripolitania e
    sue frontiere verso la Tunisia. Ambasciatore di Germania
    telegrafò iersera che il Ribot avevagli categoricamente
    dichiarato che le apprensioni italiane su Tripoli sono affatto
    senza fondamento e che le notizie sparse in proposito sono
    false. Francia non mosse neppure un soldato in quella direzione
    e non pensa tagliare strada delle carovane traverso Sahara.
    Ministro aggiunse esser vero che le frontiere tra Tunisia e la
    Tripolitania sono mal tracciate; ma a scopo di evitare ogni
    contestazione non volere che le frontiere fossero meglio
    fissate. Egli non intende in nessun modo creare difficoltà
    all’Italia; se lo volesse, ben lungi sceglierebbe come oggetto
    di litigio, nè Tripoli, nè attinente deserto, ma troverebbe
    terreno più propizio in Abissinia. Egli stesso, allo scopo di
    calmare certe preoccupazioni in Italia, aveva provocato alla
    Camera una interpellanza alla quale risponderà domani.
    Quantunque Conte di Münster avesse ordine di parlare anche di
    Biserta, suo telegramma non ne fa cenno: forse egli avrà stimato
    migliore partito tacere in presenza delle dichiarazioni
    ricevute, qualunque possa esserne il valore, o di rinviare ad
    altro colloquio questione di Biserta. Intanto Segretario di
    Stato stima che ha importanza il fatto solo che il governo della
    repubblica deve dedurre dalle spiegazioni chieste dalla
    diplomazia tedesca come Germania invigila politica francese
    verso il Mediterraneo; d’altronde schiarimenti che Ribot darà
    domani alla Camera dei Deputati nel senso qui sopra indicato,
    costituiranno sino ad un certo punto impegno della Francia. Al
    Conte Hatzfeld furono pur confermate istruzioni di conversare
    sull’argomento con Lord Salisbury che segue con vivo interesse
    mosse della Francia in quelle regioni, ma non crede giunto il
    momento di accentuare il suo contegno.

    Per ciò occorrerebbe appoggio opinione pubblica, che si
    commuoverebbe soltanto se si producessero fatti più palesi sulle
    intenzioni francesi.

                                                          _Launay_.»

Il 22 gennaio alla Camera francese si parlò della Tripolitania.
Interrogante era il signor Pichon — divenuto dipoi ministro degli affari
esteri — «Sulle voci sparse da giornali italiani, anche ufficiosi,
relative a mire della Francia sulla Tripolitania». Il Pichon — avvertiva
in un primo telegramma il Menabrea — «esprimendosi in termini assai
simpatici verso l’Italia, _sorriso della civiltà latina_,⁷ disse
desiderare che i sentimenti della Francia verso l’Italia siano palesi,
dissipandosi le insinuazioni ostili il cui solo movente era, a suo
avviso, di rendere popolare in Italia la triplice alleanza». Rispose il
Ribot «brevemente riferendosi alle precedenti sue dichiarazioni sulla
cordialità dei rapporti tra la Francia e la Turchia, ed aggiunse che il
governo non doveva preoccuparsi della campagna mossa dalla stampa
italiana, tantoppiù dopo le esplicite assicurazioni fatte dall’E. V. nel
suo discorso di Firenze. L’atteggiamento della Camera durante la
discussione fu piuttosto favorevole».

    ⁷ L’on. Crispi, nel discorso di Firenze (8 ottobre 1890),
      riferendosi alla Francia aveva detto: «.... nessuno pensa e mai
      potrebbe pensare ad una Europa priva della missione di quella
      Francia ch’è _il più geniale sorriso della moderna civiltà_.... »
      L’intenzione ironica della frase «sorriso della civiltà latina»,
      pronunziata dal Pichon, era evidente.

Ma il generale Menabrea, che forse non aveva assistito alla seduta,
leggendo il testo ufficiale delle parole pronunziate dai due oratori, le
giudicò diversamente in successivi telegrammi:

                                           «Parigi, 23 gennaio 1891.

    Si vede chiaramente che la scena parlamentare di ieri tra Ribot
    e Pichon venne concertata, perchè quest’ultimo non fece che
    ripetere i discorsi più volte fattimi da Ribot.

    Il _Journal des Débats_ di questa mattina consacra a quella
    discussione un lungo articolo la cui origine ministeriale è
    manifesta.

    Siccome queste aspirazioni della Francia su Tripoli hanno
    incontrato una marcata opposizione presso le grandi potenze, si
    cerca, mediante una risposta ironica, di dare il cambio
    all’opinione pubblica sulle intenzioni di questo Governo per ora
    paralizzate. Ma la gente di buon senso non si lascierà cogliere
    da tali discorsi. Basti rammentare il modo di procedere della
    Francia colla Tunisia. Finora non ha ancora trovato i Krumiri
    per la Tripolitania e così questo Governo vuole dissimulare la
    sua delusione scherzando contro l’Italia.

    Non conosco ancora telegramma Stefani cui allude V. E.»

                                           «Parigi, 23 gennaio 1891.

    (_Riservato_). Ecco secondo il testo ufficiale il solo periodo
    mordace del brevissimo discorso di Ribot: «Quant à cette
    campagne, dont vous a parlé tout à l’heure monsieur Pichon,
    quant à tous ces articles de journaux dont la fréquence et la
    similitude peuvent en effet attirer l’attention, c’est peut-être
    leur faire beaucoup d’honneur que de s’en occuper ici. Ce n’est
    pas le Gouvernement français qui doit se plaindre de ces
    articles; c’est, il me semble, le Gouvernement italien, car,
    dans un discours, que vous n’avez pas oublié, l’honorable
    monsieur Crispi a déclaré qu’il tenait à l’amitié de la France».

    L’ironia era più spiegata nel discorso Pichon che perfino in una
    frase di calde proteste di amicizia, chiamando l’Italia il più
    simpatico sorriso della civiltà latina, sembrò rinviare a V. E.
    il complimento di Firenze.»

L’on. Crispi il 22 stesso, ricevendo dall’Agenzia _Stefani_ il resoconto
telegrafico della interpellanza Pichon e della risposta del ministro
Ribot, aveva notato l’ironia che contenevano e se ne era lagnato come di
una sconvenienza col Menabrea. Il 26 telegrafava a quest’ultimo:

    «(_Personale_). Ieri al ricevimento ebdomadario venne da me il
    Signor Billot. Dopo parlato di vari argomenti, egli cominciò
    insistere nel voler conoscere la mia opinione sulla
    interrogazione del signor Pichon. Avendolo io più volte pregato
    di non toccare quello increscevole tema ed egli seguitando a
    parlarne gli dissi: «Vous français vous aimez faire de l’esprit
    et monsieur Pichon en a fait parlant de l’Italie, comme monsieur
    Ribot en parlant de moi». Allora l’ambasciatore tentò scusare il
    suo Ministro osservando che forse non conoscevo testualmente le
    parole da lui pronunciate. Risposi e gli mostrai che ne avevo il
    testo ufficiale sotto gli occhi e lo pregai nuovamente di
    cambiar discorso. Non aderendo egli a questo mio desiderio
    dissi: «Eh bien, comme homme je me sens supérieur à votre
    monsieur Ribot, parce que j’ai fait pour la cause de la liberté,
    ce qu’il n’a fait jamais; comme ministre je suis son égal et par
    conséquent j’ai droit à son respect». E avendo il signor Billot
    esclamato: «c’est de la susceptibilité italienne» replicai:
    «non, c’est l’effet de l’attitude de vous français, d’autant
    plus que l’interpellation avait été combinée entre monsieur
    Pichon et monsieur Ribot. Or je comprends que dans une
    improvisation un ministre puisse sortir de la juste mesure. Je
    ne comprends pas que cela arrive lorsque le discours a été
    preparé d’avance».

    Il signor Billot non seppe che rispondere ed io allora per
    mutare argomento gli chiesi del signor Desmarest, e di altro;
    così la conversazione procedette e finì amichevolmente come al
    solito.

    Di quanto precede ho voluto informare Vostra Eccellenza per sua
    norma personale, non già perchè Ella prenda occasione
    d’intrattenerne il signor Ribot.

                                                          _Crispi_.»

Gl’incidenti di frontiera, come le esplorazioni militari
nell’_hinterland_ tripolitano, continuarono negli anni seguenti. Le
autorità turche o lasciavano indisturbati i francesi o fiaccamente
mostravano di ostacolarli. Al principio del 1894, quando Crispi
riassunse il governo, la Francia aveva allargato il suo già vastissimo
dominio africano a danno della Tripolitania, e continuava a sopraffare
le timide resistenze della Turchia, con silenziosa pertinacia, impedendo
ai viaggiatori di altre nazioni europee d’inoltrarsi verso il sud⁸
affinchè mancasse ogni accertamento delle voci, che pur correvano a
Tripoli, di nuove usurpazioni, in aprile di Kuka, in giugno delle oasi
di Gadames e di Ghat, più tardi di Zuara e della baia di El Biban, oltre
la quale avevano portato il confine sul litorale.

    ⁸ Al viaggiatore italiano Sebastiano Martini, che da Gabes in
      gennaio 1894 si proponeva partire pel Sud tripolitano, fu vietata
      la partenza dalle autorità francesi.

Rinnovando proteste ed esortazioni ad agire diplomaticamente per
impedire che l’equilibrio del Mediterraneo fosse ulteriormente turbato,
Crispi trovò indifferente l’Inghilterra e tepide la Germania e
l’Austria. Il 4 aprile, l’ambasciatore Tornielli telegrafava:

    «Lord Kimberley non ha ancora ricevuto avviso della occupazione
    di Kuka, ma non mette dubbio che i francesi sieno in cammino per
    raggiungere il Bar-el-Ghazal. Gli domandai se a suo avviso la
    Turchia non avesse nulla a dire in proposito, e rimase
    silenzioso. Credo che malgrado che qui si continui a credere che
    Francia non potrà tenere un paese così vasto, tuttavia la marcia
    verso il Sudan egiziano inquieta Governo.»

E da Costantinopoli avvertiva l’ambasciatore Collobiano:

    «La Sublime Porta sembra non dimostri interesse per la questione
    dell’_hinterland_ tripolino dopo insuccessi delle pratiche fatte
    nel 1890.»

L’attività e la fermezza della Francia nell’estendere i confini del suo
impero africano erano davvero sorprendenti. Grande era lo slancio dei
suoi ufficiali e funzionari coloniali, i quali avrebbero voluto
inalberare il vessillo francese su tutta l’Africa; ma anche il governo
di Parigi nel suo spirito d’intraprendenza non vedeva ostacoli. Il 4
febbraio 1894 fu stipulato un accordo tra la Francia e la Germania per
la delimitazione dei rispettivi territorii del Camerun e del Congo, la
quale partiva dalla intersezione del parallelo della foce del fiume
Campo col 15º meridiano Est Greenwich e seguiva una linea spezzata i cui
lati principali erano il 13º longit. E. Greenwich, il 10º lat. N. e il
_thalweg_ dello Sciarì, sino al lago Tciad.

La Francia riuscì con quell’accordo a congiungere i suoi possedimenti
del Congo coll’_hinterland_ riconosciutole dall’Inghilterra nel 1890 e
che s’estendeva dall’Algeria e dalla Tunisia al lago Tciad. Praticamente
le sponde di quel lago, dalla foce dello Sciarì girando a destra fino a
Barruva (limite anglo-francese), divennero francesi; e verso oriente la
Francia non aveva altri impedimenti alla sua espansione che quelli che
potessero esserle suscitati dall’Inghilterra il giorno in cui volesse
penetrare nel bacino del Nilo.⁹ Parve allora che tutto l’_hinterland_
tripolino cadesse in balìa della Francia, e sebbene nell’accordo del
1890 l’Inghilterra riservasse i diritti della Porta, si prevedeva che la
Turchia non avrebbe sollevato resistenze, e neppure l’Inghilterra,
allorquando la Francia, impadronitasi del Wadai e del Baghirmi, si fosse
avanzata verso la frontiera tripolina meridionale.

    ⁹ La Francia tentò di metter piede nella valle dell’Alto Nilo tra il
      1895 e il 1898. Impotente a far uscire l’Inghilterra dall’Egitto,
      volle con mosse caute e lente avvicinarsi al Sudan Egiziano. Il
      governo britannico avvertì subito i disegni francesi e non esitò
      ad ammonire per bocca di Sir Edward Grey (seduta della Camera dei
      Comuni del 28 marzo 1895) che avrebbe considerata una spedizione
      francese nella valle del Nilo come un «atto nemico
      (_unfriendly_)». Tuttavia, essendo ministro degli affari esteri in
      Francia l’Hanotaux, fu affidata segretamente al capitano Marchand
      la missione di raggiungere Fachoda, capoluogo del Bar-el-Ghazal, e
      di alzarvi la bandiera francese. Il Marchand raggiunse
      l’obbiettivo il 10 luglio 1898. Ma il 19 settembre giunsero
      dinanzi a Fachoda anche gl’inglesi e intimarono al Marchand lo
      sgombero della posizione. Il bravo ufficiale dovette rassegnarsi
      quando da Parigi gli giunse un ordine conforme.

      La Francia cedette, pur credendo che il suo diritto fosse leso,
      dinanzi alla forza, poichè l’Inghilterra era decisa a far valere
      la propria volontà.

      L’Hanotaux, il quale era stato sostituito al ministero degli
      affari esteri dal Delcassé quando l’incidente ebbe quella
      soluzione dolorosa per l’orgoglio francese, ha esposto nel suo
      volume «_Le partage de l’Afrique: Fachoda_» le ragioni che a
      proprio avviso giustificavano la condotta della Francia, dolendosi
      che l’opinione pubblica del suo paese non confortasse il governo a
      resistere:

      «.... l’impérialisme (britannico) faisait feu de toutes pièces....
      il prenait position en vue d’une rupture et agitait le spectre de
      la guerre. A ce degré d’exaltation, il ne trouvait plus de
      contre-partie dans l’opinion française:.... une véritable panique,
      emportait les esprits; cette panique, accrue par tant de moyens
      dont dispose l’Angleterre, s’exagérait par elle-même et donnait à
      cette puissance toujours admirablement renseignée, la mesure de ce
      qu’elle pouvait tenter. La France ne trouva pas à cette heure,
      dans son droit, dans sa bonne foi, dans ses intentions aussi
      raisonnables qu’honorables, une de ces impulsions unanimes et
      chaleureuses qui, en d’autres circonstances, ont réchauffé et
      animé les gouvernements» (pag. 147).

Per dare un’idea dell’attività usurpatrice della Francia riferiamo due
memorie che in giugno 1894 e in giugno 1895 l’Ufficio Coloniale del
Ministero degli Affari Esteri faceva a Crispi:

    «Con rapporto 2 corrente il regio console generale a Tripoli
    riferisce intorno ad una corrispondenza comparsa sul giornale
    francese _La Dépêche Tunisienne_ del 26 maggio, nella quale,
    sulle traccie di un articolo del _Journal des Débats_, si
    raccomanda la prossima occupazione delle oasi di Ghadames e di
    Ghat da parte della Francia. Con altro rapporto del 3 corrente
    il cav. Grande dice d’averne parlato al governatore di Tripoli,
    il quale non dubita punto che i francesi mirino ad impadronirsi
    di quei due villaggi e che presto o tardi vi riescano.

    Le oasi di Ghadames e di Ghat si trovano sulla carovaniera che
    parte da Tripoli, e biforcandosi a Ghat, conduce per Agades al
    Sokoto, oppure per Bilma al lago Tciad. La ricchezza della
    Tripolitania è esclusivamente commerciale, e privata delle
    carovaniere che mettono al Sokoto, al Bornù, ai Baghirmi e al
    Wadai, la Tripolitania potrebbe paragonarsi ad «uno scrigno
    vuoto». Ora, lo stabilimento della Francia a Barruva sul lago
    Tciad, permesso dalla delimitazione anglo-francese del 5 agosto
    1890, taglierà le comunicazioni fra Tripoli ed il Sokoto, e
    renderà difficili quelle col Bornù; la occupazione francese di
    Ghadames e di Ghat lascierebbe alla Tripolitania la sola strada
    Bengasi-Kufra, la quale però perderebbe ogni sbocco colla
    conquista, pur troppo non impossibile, del Wadai da parte della
    Francia.

    A Ghadames i turchi hanno una guarnigione d’oltre 500 soldati, e
    dominio effettivo; gli stranieri non possono risiedervi ed un
    algerino che intrigava apertamente a favore della Francia venne
    ultimamente espulso.

    L’incidente relativo provocò la destituzione del kaimacan di
    Ghadames, che la Turchia promise, _pro bono pacis_,
    all’ambasciatore Cambon.

    Adesso la Francia vuol ottenere a favore degli algerini la
    facoltà di risiedere a Ghadames, e ottenutala, ne approfitterà
    per mandarvi emissari i quali facciano deviare su Tunisi il
    commercio della regione del Tciad.

    A questo si aggiunga che una esplorazione francese
    semi-ufficiale, condotta dal giovane de Maistre, è partita in
    questi giorni dall’Algeria nella direzione di Ghat.

    Venne chiamata sulla questione l’attenzione dei governi di
    Berlino e di Londra, come interessati, al pari del nostro, a
    conservare l’equilibrio del Mediterraneo. Ma quelle pratiche,
    non formali, trovarono poco ascolto. La Germania non vuole
    contrastare alla Francia i suoi progressi africani, e
    l’Inghilterra, minacciata nel bacino del Nilo, cerca adesso un
    aggiustamento a Parigi, e tutto lascia credere che per ottenerlo
    sacrificherebbe di buon grado l’_hinterland_ tripolino.»

    «La _Carte générale des possessions françaises en Afrique au 1er
    janvier 1895_ edita in Parigi da Augustin Challamel (Librairie
    coloniale, 5 rue Jacob) a cura di quel Ministero delle Colonie,
    e destinata ai membri del Parlamento francese, è tale da
    richiamare la generale attenzione.

    Affinchè l’occhio di coloro ai quali è destinata non sia
    distratto dallo scopo cui si è mirato, sulla distesa in bianco
    del continente africano sono colorati con due diverse tinte
    rosee solo i paesi ed i territori considerati in Francia come
    possessi francesi, i quali (come si apprende dalla leggenda
    della carta stessa) vengono distinti in due categorie; cioè:

    1.ª Possessions et pays de protectorat proprement dits;

    2.ª Zone d’influence politique;

    quelli, segnati con fitte righe orizzontali continue; questi,
    con punteggiatura; segni che danno all’occhio l’impressione di
    un colore vivo per i primi, più attenuato per i secondi.

    La carta è stata costruita prendendo per meridiano di base
    quello di Parigi.

    Or, ciò che nell’esaminarla colpisce, a prima vista,
    l’osservatore, è oltre all’aver fatto della Tunisia una semplice
    continuazione, una cosa sola col diretto possesso dell’Algeria,
    la franchezza con la quale vi si accenna a costituire in un
    grande insieme, senza soluzione di continuità, tutta la
    sterminata distesa di territorii che va dal capo Bon a
    Brazzaville sul Congo, dal Capo Verde al Bahr-el-Ghazal, con
    tentativo di limitare alla costa, senza alcun _hinterland_, il
    Marocco ed i possessi europei di qualunque nazionalità
    scaglionati sull’Atlantico fin verso le foci del Congo.

    La gran macchia rosea s’avanza così con una larga curva, che va
    dal golfo di Gabes al 5º di latitudine nord, donde s’insinua nel
    territorio del Bar-el-Ghazal.

    Nè basta: altra macchia parte dalla baja di Tagiura con
    sfumatura che accenna all’intendimento di congiungersi alla
    precedente, in modo da avvolgere a sud la valle del Nilo,
    tagliandole tutte le comunicazioni con l’Africa australe.

    Quando si rifletta alla tenacia dei propositi con cui la Francia
    continua a rodere gli _hinterlands_ ancora rimasti al Marocco ed
    alla Tripolitania; al diritto di prelazione che si arroga sul
    territorio dello Stato indipendente del Congo, col quale, in
    questi ultimi tempi, ha stretto una convenzione in antitesi con
    la precedente stipulata dal Congo coll’Inghilterra circa la zona
    fiancheggiante l’Alberto-Nianza, disponendo così in favore del
    Congo di un territorio posto nella valle del Nilo; e si pensa,
    inoltre, all’opposizione non dissimulata contro l’azione inglese
    in Egitto, nonchè ai tentativi fatti in Etiopia a danno
    dell’influenza italiana sancita dai trattati; dinanzi a questa
    carta così recente ed ufficiale, risulta evidente che la Francia
    prosegue il disegno grandioso di ridurre al suo dominio ed alla
    sua influenza il continente nero, a partire da oltre il 10º
    parallelo di latitudine sud, per giungere fino alle rive del
    Mediterraneo.

    Quando poi da una osservazione sommaria si passa ad un esame
    minuto della carta, ciò è eloquentemente confermato da
    significanti particolari.

    Infatti, mentre per i paesi dell’Africa australe fin verso
    l’Equatore gli scompartimenti territoriali sono indicati,
    segnando e i rispettivi confini e la potenza che ne ha il
    possesso diretto od il protettorato, per quelli a settentrione
    non avviene altrettanto. In tutta l’Africa orientale non si
    trova nessun segno di confine e nessuna indicazione di possesso,
    tranne sulla costa dell’Oceano indiano, che va dal confine N. e
    N.-E. dei possedimenti tedeschi nell’Africa orientale, al capo
    Guardafui; costa divisa dalla foce del Giuba in due parti. Su di
    essa e ben prossime al mare si trovano le due leggende:
    «_Possessions anglaises de l’Est africain_» ad ovest del Giuba,
    e «_Possessions italiennes_» ad est di detto fiume.

    Ma più a nord non si trova nessuna traccia dei confini fissati
    dal protocollo anglo-italiano del maggio 1894 per le rispettive
    zone d’influenza nella penisola dei Somali. E peggio ancora
    avviene risalendo al golfo d’Aden ed al mar Rosso; che, mentre
    il confine di sud-est del possedimento francese di Obock viene
    spinto sin presso alla città di Harar, nessunissimo cenno reca
    la carta sui possedimenti italiani del mar Rosso, sull’Eritrea,
    sul nostro protettorato in Etiopia e sui protocolli
    anglo-italiani del marzo ed aprile 1891, che fissano i confini
    occidentali della nostra sfera di influenza.

    Solo confine segnato nella vasta zona d’influenza italiana ed
    inglese nell’Africa orientale è quello suaccennato, che fu
    stabilito con la nota convenzione anglo-francese del febbraio
    1888; ma, senza far altri nomi o dare altre indicazioni, che
    potevano riuscire incomode, il confine stesso viene — come s’è
    già rilevato — spinto vicino alla città di Harar, la quale è
    lambita a nord dal colore roseo sfumato indicante i paesi
    d’influenza francese, invece di fermarsi a nord-est di Gildezza,
    come è fissato nel detto protocollo.

    Ma non la sola Italia è trattata, in questa carta ufficiale, in
    modo fantastico.

    Sulle coste del mar Rosso, come lungo tutta la valle del Nilo, è
    vano ricercare qualsiasi punto che accenni ad un qualche
    interesse od influenza inglese o d’altra potenza; così pure
    lungo le spiaggie africane del Mediterraneo fino al golfo di
    Gabes, fin dove, cioè, incomincia il _roseo vivace_ del dominio
    francese.

    Nel Mediterraneo è degno di nota il fatto che, mentre alla
    indicazione «I. de Malte» fa seguito fra parentesi quella di (A)
    «anglaise», e così avviene pure per «Gibraltar», non avviene
    altrettanto per l’«Ile de Chypre».

    Mentre poi il compilatore della carta ha sentito vivo scrupolo
    di far conoscere che l’_Ile de Malte_ e _Gibraltar_ sono
    inglesi, dimentica invece di segnare che sullo stretto di
    Gibilterra, e precisamente sulla sponda africana, la Spagna ha
    da secoli dei possedimenti; e del pari dimentica d’indicare
    essere la costa dell’Atlantico che corre da capo Bojador al capo
    Bianco pure possesso spagnuolo, conosciuto col nome di governo
    del Rio dell’Oro, e riunito alla capitaneria delle isole
    Canarie.

    Nè minori sono le sorprese che riserva allo studioso l’ispezione
    degli altri paesi segnati in colore di rosa, e che a parere
    dell’autore della carta, formano le «Possessions françaises en
    Afrique».

    Con lo stesso metodo con cui si è fatta giungere l’influenza
    francese sino alla città di Harar, si fanno lambire dalle varie
    tonalità del delicato colore, Figuig, finora marocchino,
    Ghadames e Ghat (sulla carta Rhât) appartenenti senza
    contestazione all’_hinterland_ tripolino; e così Jat, donde la
    linea sfumata della influenza francese volge arditamente a
    sud-est, per terminare, come si disse, sul Bahr-el-Ghazal al 5º
    grado di latitudine nord. Ivi si congiunge al colore più denso,
    segnale di possesso effettivo, che dall’Ubangi e dal M’Bomu a
    sud, va a nord ed a nord-ovest, abbracciando tutto il bacino
    dello Sciarì superiore fino al 10º di latitudine nord e da
    questo punto la destra soltanto, recingendo il lago Tciad dalla
    foce dello Sciarì ad est, nord ed ovest fino a Cuca, rasentata,
    al solito, dal colore di rosa.

    Dalla parte occidentale, una linea retta che parte dai possessi
    algerini, segnati come effettivi fino a sud di Figuig, taglia lo
    incrocio del 5º di longitudine occidentale da Parigi col 30º di
    latitudine boreale, e va a terminare al 21º 20’ pure di
    latitudine nord, sul prolungamento della linea di divisione fra
    il Senegal ed il governatorato di Rio dell’Oro, togliendo al
    medesimo ogni _hinterland_.

    Con queste due linee sono congiunti i possessi francesi del
    Mediterraneo a quelli del Senegal, della Guinea francese, della
    Costa dell’Avorio e del Congo francese; e la congiunzione si
    termina, dal Niger al lago Tciad, con altra linea, che,
    nonostante la convenzione anglo-francese dell’agosto 1890, va
    direttamente secondo il 12º 30’ di latitudine nord, lasciando
    Barruva e Sokoto alla Francia.

    Dal vasto aggregato rimarrebbe tagliato fuori il territorio del
    Dahomey poichè gli _hinterlands_ rispettivi della costa d’Oro
    inglese, del Togo tedesco, del Dahomey francese e del territorio
    del Niger anche inglese, non furono mai oggetto di convenzione
    fra le potenze interessate, i cui interessi potrebbero essere in
    antagonismo; ma l’ingegnoso autore della carta non si scoraggia
    per ciò. Prolunga alquanto verso nord i confini che separano il
    Dahomey ad ovest del Togo germanico, ad est del territorio del
    Niger britannico; quindi li fa volgere arditamente, il primo a
    nord-ovest fino poco sopra il 10º di latitudine nord, il secondo
    a nord-ovest fino alla riva destra del Niger, il quale fiume è
    preso da lui per confine effettivo a nord-est, poi con una larga
    fascia del solito color di rosa attenuato, limita l’hinterland
    del Togo tedesco e della Costa d’Oro inglese, mentre collega il
    Dahomey all’impero africano francese.

    Il quale impero viene così ad avere, per ora, tre basi
    d’espansione, senza pregiudizio dell’altra a cui si mira d’altro
    lato: la baia di Tadjura. Esse sono Tunisi ed Algeri a nord,
    quello che l’autore della carta chiama Sudan francese ad ovest,
    ed il Congo francese, aspettando che vi si aggiunga il Congo
    indipendente, a sud.

    Così senza parlare dell’oasi di Tuat, che verrebbe ad essere
    considerata come completamente avvolta dalla zona d’influenza
    francese ed in essa compresa, senza parlare del modo equivoco
    col quale figurano Figuig, Ghadames e Ghat, modo che può
    offendere gli interessati all’integrità marocchina e tripolina,
    l’_hinterland_ tripolino viene a subire un altro ben grave
    attentato.

    Le due grandi strade carovaniere, le quali da Ghadames e da
    Tripoli per l’oasi di Bilma conducono al Tciad, sarebbero,
    accettando questa nuovissima geografia politica dell’Africa, a
    discrezione della Francia, venendo ad essere in suo potere
    l’oasi di Bilma stessa, ove debbono necessariamente far capo. Nè
    basta: venendo con tale sistema anche il Vadai ed il Baghirmi ad
    essere inclusi nella sfera d’influenza francese, questa non
    troverebbe ormai più altri limiti alla sua espansione verso est
    che nel suo beneplacito stesso.

    Quando nella convenzione anglo-germanica del 20 novembre 1893
    sul lago Tciad, l’Inghilterra proponeva e la Germania accettava
    che quest’ultima non avrebbe estesa la sua influenza ad est
    dello Sciarì, e quando nell’accordo del 4 febbraio 1894 fra la
    Germania e la Francia si ripeteva ancora che lo Sciarì era il
    limite dell’espansione tedesca ad est, non poteva essere certo
    nell’intenzione di tutte le parti Contraenti che quello che non
    veniva consentito alla Germania dovesse senz’altro essere
    considerato come concesso alla Francia.

    Tutt’al più la questione potrà essere oggetto di ulteriori
    accordi fra le potenze interessate, anche per il fatto evidente
    che, in rapporto alla Francia, detti paesi sfuggono alla sua
    influenza secondo la teoria degli _hinterlands_, e che,
    rinunziandovi per parte loro e la Germania e l’Inghilterra per i
    possessi rispettivi sull’Atlantico (compagnia Niger e Cameron),
    la teoria stessa starebbe in favore della Tripolitania, anche
    senza tener conto dei diritti della Turchia.

    Nè va omesso che, a norma di quanto venne stabilito dall’Atto
    Generale della Conferenza di Berlino, le affermazioni di
    protettorato debbono essere notificate alle potenze firmatarie,
    alle quali fu riconosciuto il diritto di fare le proprie
    eccezioni.

    Ora nulla di simile è avvenuto per il Vadai e per il Baghirmi, e
    per tante altre delle regioni summenzionate.

    Riassumendo, la carta che abbiamo esaminato, mentre segna vere
    usurpazioni di territori per parte della Francia, sia perchè la
    presa di possesso non ne fu mai notificata alle potenze
    firmatarie dell’Atto Generale di Berlino, sia perchè essi
    formano parte integrante di legittimo dominio di altre potenze,
    non tiene alcun conto dei diritti acquistati dall’Italia in
    Africa in virtù di regolari trattati, non accenna neppure a
    quelli dell’Inghilterra lungo il corso del Nilo, e porta un
    fiero colpo all’equilibrio del Mediterraneo, con una arbitraria
    determinazione degli _hinterlands_ tripolino, tunisino, algerino
    e marocchino. Così anche i possedimenti spagnuoli del
    Mediterraneo, i possedimenti tedeschi e portoghesi
    dell’Atlantico e quelli dello stesso Stato libero del Congo
    sono, come si è visto, arbitrariamente delimitati.»

La marcia della Francia attraverso le vie carovaniere che congiungono
Tripoli al centro dell’Africa non si arrestò più. Una nuova convenzione
franco-britannica (14 giugno 1898), completata con una dichiarazione
addizionale del 21 marzo 1899 dopo l’urto di Fascioda, estendeva ancora
la zona d’influenza francese. La difesa che l’Italia tentò dei diritti
della Turchia fu fiacca e senza effetto. A Costantinopoli si dava più
importanza al sospetto che l’Italia meditasse l’occupazione di Tripoli,
anzichè alla realtà delle usurpazioni della Francia.

Questa non aveva più preoccupazioni per la sua conquista tunisina.
Finchè il governo italiano tenne fermo ai diritti e ai privilegi che
godeva in Tunisia in virtù di trattati che la Francia aveva nel 1881
dichiarato di volere rispettare, l’Italia era in grado di proteggere
gl’interessi italiani nell’antica Reggenza, e teneva una posizione che
imponeva alla Francia, e l’avrebbe costretta, desiderosa com’era di
consolidare la sua conquista, a scendere a patti. Ma il ministero
Rudinì-Visconti Venosta, al desiderio di disarmare i malumori francesi
sacrificò quella posizione senza compenso.

Già il 15 agosto 1895 il governo francese aveva denunciato il trattato
di amicizia, commercio e navigazione concluso l’8 settembre 1868 tra
l’Italia e la Tunisia, dichiarando di agire in nome del Bey e in virtù
del trattato di Kassar-Said (detto anche del Bardo) del 12 maggio 1881.
Il Ministero Crispi aveva risposto, per mezzo del conte Tornielli
ambasciatore a Parigi,

    «essere bensì vero che, con nota del 9 giugno 1881, il signor
    Rustan portava a notizia della R. Agenzia e Consolato Generale
    d’Italia in Tunisi il trattato di Kassar-Said; ma che di tale
    comunicazione non fu da noi preso atto e nemmeno segnata
    ricevuta. Epperò mentre fo le più ampie riserve in merito
    all’argomento cui si riferisce la nota del signor di Lavaur,
    prego Vostra Eccellenza di voler significare, verbalmente per
    ora, a codesto Governo, le eccezioni del Governo del Re al
    procedimento seguito.»

Il governo della Repubblica rispondeva come risulta dal seguente
telegramma del Tornielli:

    «Ministro degli Affari Esteri mi disse che la clausola di
    riconduzione tacita per 28 anni non gli lasciava per così dire
    libera scelta di condotta, e gli imponeva di denunziare il
    trattato italo-tunisino perchè nessuno presentemente acconsente
    a lasciare impegno per così lungo periodo. Fortunatamente, egli
    soggiunse, previdenza dei negoziatori di quel trattato ci lascia
    un anno di tempo, durante il quale avremo tempo scambiare
    insieme molte idee, e di vedere insieme il miglior assetto da
    dare alle cose. Il Ministro non suppone che in Italia il Governo
    abbia potuto attribuire alla denunzia del trattato un effetto
    diverso da quello che è nell’intenzione del Governo francese di
    darvi, cioè, di un atto reso necessario eventualità clausola di
    riconduzione anzidetta; ma egli tiene ad escludere che altri
    concetti abbiano guidato il Governo francese in questa
    occasione. Dissi che io non avevo ricevuto istruzioni a tale
    riguardo, e che avrei trasmesso a Vostra Eccellenza questa
    dichiarazione.»

Crispi non era disposto a rinunziare senza compenso ai benefici che le
capitolazioni e le convenzioni anteriori — richiamate nel trattato del
1868, non annullate — assicuravano all’Italia, e la Francia avrebbe
dovuto tenere conto degli interessi italiani. Vi era un anno di tempo
per discutere e negoziare; ma ai primi di marzo 1896 il ministero Crispi
si dimise, e il negoziato fu condotto dal Ministero Rudinì-Caetani, il
quale volle trattare contemporaneamente la questione tunisina e il
ristabilimento delle relazioni commerciali franco-italiane. In realtà le
due cose erano estranee l’una all’altra; in Tunisia avevamo una
posizione giuridica eccellente e diritti da far valere, mentre non era
sperabile che, cedendo su quelli, la Francia ci avrebbe accordato
tariffe di favore.

Infatti in Francia, dove la considerazione dei nostri diritti non
entrava in mente a nessuno, anche l’idea di tornare al regime
convenzionale nei commerci con l’Italia sembrò una concessione
eccessiva, cioè senza corrispettivo. Il governo francese sapeva
l’opinione pubblica così prevenuta contro di noi che scongiurò il
ministro italiano di non insistere. Passarono alcuni mesi; il ministero
Rudinì si ricompose, alla Consulta il duca Caetani fu sostituito dal
Visconti-Venosta. Quest’ultimo trovò la situazione peggiorata, poichè
mancata la vigilanza del governo italiano, l’Inghilterra — la quale in
agosto 1895 aveva assicurato che avrebbe proceduto d’accordo con
l’Italia — aveva consentito a negoziare con la Francia, rinunziando al
trattato perpetuo che aveva col Bey; e anche l’Austria-Ungheria, in
luglio 1896, aveva ceduto alle istanze francesi, riservandosi in Tunisia
il trattamento della nazione più favorita. Insistere nella via tracciata
da Crispi era, ormai, impossibile, poichè l’Italia non avrebbe trovato
nelle potenze amiche e alleate l’appoggio sul quale Crispi aveva fatto
assegnamento. L’on. Visconti-Venosta non insistette neppure per un
accordo commerciale; e il 28 settembre 1896 furono firmate le
convenzioni con le quali l’Italia riconosceva senza compensi, dopo
quindici anni, la conquista francese della Tunisia con tutte le sue
conseguenze. «Nous y gagnions — ha scritto recentemente¹⁰ l’ambasciatore
che la Francia aveva allora in Italia, il signor Billot — de libérer
notre protectorat des entraves qui en paralysaient l’exercice....
l’Italie renonçait à y demeurer avec nous sur un pied de complète
égalité et reconnaissait implicitement les consequences des événements
qui nous y avaient conféré une situation privilegiée.»

   ¹⁰ _A. Billot_: _La France et l’Italie. Histoire des années
      troubles_, vol. II, pag. 372.

Nel 1902 avvenne il noto accordo franco-italiano pel quale l’Italia si
disinteressò del Marocco a favore della Francia, e la Francia ci lasciò
mano libera in Tripolitania e in Cirenaica.

Il governo della Repubblica fece con cotesta combinazione un buon
affare, poichè mentre il valore commerciale di quei due _vilayets_ era
di molto ridotto per le erosioni fatte dagli stessi francesi nei loro
_hinterlands_, il ministro Delcassé — che concluse l’accordo col
ministro italiano Prinetti — abbandonava all’influenza italiana un
territorio dove la Francia non aveva interessi e che mai avrebbe potuto
far suo; l’Italia non avrebbe subìto quest’altro colpo, e non sarebbe
rimasta sola a pararlo.

L’abbandono del Marocco all’esclusiva influenza francese fu un notevole
sacrificio degli interessi italiani e pregiudicò irrimediabilmente
l’avvenire della nostra politica mediterranea. Una Francia troppo forte
nel mare che ci circonda è un pericolo permanente per noi. Crispi
intendeva che la Tripolitania divenisse italiana come compenso
all’ingrandimento già avvenuto della Francia con la occupazione della
Tunisia; il Marocco allora indipendente, non poteva formare oggetto di
accordi che avessero relazione col passato. Per questo egli lavorò a
creare interessi italiani e influenza italiana nell’impero sceriffiano e
prese intelligenze con la Spagna che, purtroppo, i suoi successori non
seppero mantenere.

Durante il suo primo ministero, Crispi colorì il suo disegno con
importanti successi. Il Sultano Mulei Hassan dette a italiani consenso e
denaro per l’impianto di una fabbrica d’armi a Fez e di una zecca, e
giunse nella sua deferenza ai consigli del nostro governo sino a
risolversi alla creazione di una marina da guerra e ad ordinare ad un
cantiere italiano, quello degli Orlando di Livorno, la costruzione della
sua prima nave.¹¹

   ¹¹ Questa nave, alla quale fu imposto il nome di _Bascir_, era già
      pronta da tempo (la commissione era stata data con contratto del
      19 giugno 1890) quando il Sultano Mulei Hassan, superando
      gl’intrighi francesi, si decise a farne prendere la consegna, come
      risulta dal seguente documento. Disgraziatamente Mulei Hassan morì
      quindici giorni dopo gli ordini dati al Vizir Garrit, e il
      successore Mulei Abd-el-Aziz mutò idea:

          «_Il Vizir Garrit al R. Ministro in Tangeri._
          (_Traduzione letterale_)

                                                          20 Caada 1311.
                                                       (25 maggio 1894).

      Lode a Dio. Non havvi forza e possanza se non in Dio Altissimo,
      Onnipotente.

      Abbiamo ricevuto la tua lettera con la quale ci informi che la
      nave da guerra costruita per Sua Maestà Sceriffiana nel vostro
      paese è pronta e che i costruttori che la costruirono desiderano
      farne la consegna, ed in questo senso rivolsero domanda al tuo
      eccelso Governo. Che il tuo Governo ti ha ordinato di interessarti
      a tale cosa e ci inviasti, entro la tua lettera, le note della
      spesa annua occorrente per la nave, siccome te ne aveva fatto
      richiesta Sua Maestà Sceriffiana — che Iddio esalti. Ci inviasti
      altresì entro la tua lettera la nota della spesa occorrente per
      l’acquisto delle munizioni per i cannoni che saranno collocati su
      questa nave, perchè ogni nave da guerra è provvista di tali
      munizioni e l’acquisto di esse è a carico del Makhzen (governo
      Marocchino). Ci hai infine domandato di farti conoscere l’epoca
      che S. M. Sceriffiana designerà per ricevere la nave suddetta e
      chi sarà incaricato da parte di S. M. di riceverla perchè tu ne
      renda informato il Governo del tuo augusto e potente Sovrano, e
      quando arriverà in Italia il delegato del nostro Signore — che
      Iddio renda vittorioso — il tuo Governo si occuperà con lui
      dell’affare della scelta degli ufficiali che dovranno andare sulla
      nave suddetta.

      Ho portato il contenuto della tua lettera e delle note annessevi a
      cognizione del nostro sceriffiano Padrone — che Iddio renda
      vittorioso. — Sua Maestà prese conoscenza di tutto ed emanò ordine
      sceriffiano ai Governatori dei porti di mare, menzionati in
      margine, di scegliere a mezzo del tuo rappresentante, che tu
      invierai presso di loro, trentaquattro marinai fra i marinai di
      quei porti e sedici artiglieri. Manda presso di loro (dei
      Governatori) il tuo rappresentante perchè li scelga egli stesso.
      S. M. ha altresì ordinato agli amministratori delle Dogane dei
      porti suddetti di provvederli (i marinai e gli artiglieri) del
      necessario e di imbarcarli per Tangeri. Ha ordinato al Governatore
      di Tangeri di alloggiarli convenientemente, e agli amministratori
      della Dogana di quest’ultima città di dar loro il vestiario d’uso
      e di somministrar loro la muna d’uso (un tanto al giorno per il
      vitto) fino a che partiranno per l’Italia. — Le lettere
      sceriffiane per i Governatori e gli amministratori dei suddetti
      porti e quelle per il Governatore, gli Amministratori di Tangeri
      ed il Naib (rappresentante) Sid Mohamed Torres arriveranno a tue
      mani dentro questa lettera. Il nostro Signore — lo esalti Iddio —
      ha designato El Agi El Arbi Briscia quale rappresentante della S.
      M. Sceriffiana per ricevere la consegna della nave suddetta,
      consegna formale siccome è detto nel relativo contratto. S. M. —
      la sua gloria sia duratura — ha eziandio designato
      l’Amministratore Sid Omar ben el Medhi Ben Gellun di Rabat quale
      amministratore sulla nave da guerra. Entrambi arriveranno presso
      di te con la risposta circa la spesa annua per la nave e circa la
      spesa per l’acquisto delle munizioni per i cannoni.

                                    _firmato:_ _Mohammed-el-Mufadde Ben_
                                                     _Mohammed Garrit_.»
                                                  (Dio siagli propizio).

La Spagna aveva nel Marocco una tradizione da continuare e ingenti
interessi, sia per i possessi effettivi tenuti in quell’impero, sia per
i diritti che vantava per il trattato di Wad Ras e per la stessa sua
posizione geografica. Era quindi sana politica quella seguita da alcuni
suoi statisti, come il duca di Tetuan, di procedere di conserva con
l’Italia per resistere alla invadenza francese. Crispi sinchè fu al
governo dette alla Spagna l’appoggio della sua autorità presso le grandi
potenze e dei suoi consigli, e le sorti dell’influenza spagnuola nel
Marocco sarebbero state più propizie se Spagna e Italia avessero
continuato quell’indirizzo.

L’accordo franco-italiano del 1902, sebbene oneroso per l’Italia, ebbe
contraria una gran parte dell’opinione pubblica francese. Non v’è
scrittore francese di questioni internazionali che non l’abbia
deplorato, considerandolo da un angolo visuale esclusivo come se la
Francia sola esistesse e gli altri popoli non avessero il diritto di
provvedere al loro avvenire. «Lo _statu-quo_ nella Tripolitania — hanno
scritto sino a ieri — non è la migliore garenzia della durata delle
buone relazioni tra la Francia e l’Italia nel Mediterraneo? Quando
l’Italia si sarà stabilita a Tripoli, le buone relazioni non potranno
durare!»¹²

   ¹² Cfr. _R. Pinon_: _L’Empire de la Méditerranée_.

E pochi mesi or sono, in febbraio 1912, quando l’Italia già guerreggiava
contro la Turchia, Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli affari esteri,
ha scritto che l’occupazione italiana della Tripolitania «apre un grande
conflitto tra l’Italia e la Francia!»¹³

   ¹³ Cfr. nel giornale _Figaro_: «Il pericolo punico».

Se il senso dell’equità non riuscirà a penetrare nelle menti dei nostri
vicini d’occidente, se il governo della Repubblica non saprà rendersi
superiore alla latente ostilità del popolo francese per ogni interesse
italiano, se la Francia non dimenticherà la storia del suo predominio e
della sua influenza al di qua delle Alpi, le parole di Gabriele Hanotaux
saranno un vaticinio. E sarà un triste giorno per i due popoli, i quali
anche nell’opera d’incivilimento dell’Africa potrebbero giovarsi di una
solidarietà che sarebbe gloriosa per entrambi.

Ma se l’avvenire ci riserba il «grande conflitto», siamo sicuri che non
sarà l’Italia ad accenderlo.

La Porta accettò soltanto nel 1910 di trattare una delimitazione di
frontiera, ma chiese ed ottenne, affinchè non fosse implicito, per tale
suo atto, il riconoscimento del trattato del Bardo, che i commissarii
tunisini fossero nominati dal Bey e non dal Residente francese.

La Commissione si riunì a Tripoli in aprile 1910. Dapprima i commissarii
ottomani sostenevano una linea che da El-Biban, sul mare, va all’oasi di
Remada, rivendicando alla Tripolitania le usurpazioni compiute dai
francesi. Poi, chissà per quali influenze, ripiegarono, e il 10 maggio
venne firmato un atto che indicava sulla carta il tracciato della
frontiera. Cotesto tracciato si sviluppa dal Mediterraneo a Gadames su
di una lunghezza di 480 chilometri; parte da Ras Adjedir (o Adijr),
tocca Dehibat, passa tra Dehibat e Uezzen, volge verso i due pozzi di
Zar, dei quali uno rimane alla Tripolitania e l’altro alla Tunisia,
quindi si dirige verso il pozzo di Mechiguig (o Imchiguig) che rimase in
Tripolitania. A partire da questo pozzo, la frontiera resta equidistante
tra le carovaniere Djeneien-Gadames e Nalut-Gadames, gira la
Sebkhat-el-Melah e va a finire a 15 chilometri al sud di Gadames, che
rimane alla Tripolitania. (Cfr. _Leon Pervinquière_: _La Tripolitaine
interdite — Ghadamès_.)

La commissione franco-turca doveva poi proseguire i suoi lavori per la
delimitazione delle zone d’influenza oltre Gadames, rimaste incerte
anche negli accordi anglo-francesi che, del resto, la Turchia non
riconobbe. La guerra italo-turca impedì quella riunione; così che la
questione è aperta e dovrà trattarsi tra l’Italia e la Francia, se il
governo italiano non ha già commesso la debolezza di cedere alle pretese
francesi, senza vagliarle, cominciando dal riconoscere legittima
l’occupazione di Gianet, compiuta dalla Francia durante quest’ultima
guerra, in ispregio alla dichiarazione di neutralità.



           _Capitolo Terzo._ — Le fortificazioni di Biserta.


Biserta, la «maggiore posizione strategica del Mediterraneo». — Crispi
impedisce alla Francia di fortificarla. — Gl’impegni del 1881,
confermati da vari ministri francesi, sono da Ribot dichiarati senza
valore. — Sorpresa della Germania per la teoria di Ribot. — Lord
Salisbury presta fede alle dichiarazioni della Francia che non
fortificherebbe Biserta. — Pro-memoria di Crispi a Salisbury. — Il
cancelliere Caprivi e il reclamo italiano. — Possibilità di guerra. — Il
ritiro di Crispi dal Governo lascia libera la Francia. — Lo Stato
Maggiore germanico e Biserta. — Una lettera angosciosa di Crispi al Re
Umberto. — Biserta fortificata è l’orgoglio della Francia e una minaccia
per l’Italia.


La questione di Biserta, accesa, si può dire, fin dal 1881, si fece viva
e ardente più che mai, sotto il primo ministero Crispi (1887-91).

L’on. Crispi, nella qualità di ministro per gli affari esteri, tenne
costantemente rivolta la propria attenzione a siffatta vertenza, e non
si stancò mai:

_a_) di far tener dietro, con vigilante cura, sul posto, al progresso e
alla natura de’ lavori che si venivano compiendo a Biserta:

_b_) di denunziare alle potenze amiche, alleate, o interessate, siffatti
progressi ed ogni lieve fatto che meritasse di essere rilevato;

_c_) di chiedere schiarimenti e ottenere assicurazioni dal governo
francese;

_d_) e sopratutto, di interessare l’Inghilterra a prendere l’iniziativa
e ad associarsi a noi e ai nostri alleati in una azione diretta ad
impedire il proseguimento di que’ lavori. che si rivelavano contrari
agl’impegni presi dalla Francia all’epoca dell’imposizione del suo
protettorato in Tunisia, e che minacciavano di turbare l’equilibrio e lo
_statu quo_ nel Mediterraneo.

Il gabinetto britannico, dietro nostre replicate sollecitazioni, con
memorandum 10 gennaio 1889 ammise e dichiarò al nostro governo di
riconoscere che Biserta era la _maggiore posizione strategica nel
Mediterraneo_, e fermamente ammonì, in conseguenza, il governo della
Repubblica francese rammentando gl’impegni da esso presi nel 1881. La
Germania fece altrettanto a Parigi per mezzo del proprio ambasciatore. E
risulta così che la Francia non dette esecuzione ai suoi progetti perchè
l’Europa teneva gli occhi rivolti a Biserta. La Repubblica francese,
infatti, — (essendo ministro degli esteri il Goblet) — si affrettò a
rassicurare Londra e Roma che non aveva intenzione nè di ampliare nè di
fortificare il porto di Biserta, e che trattavasi soltanto di scavi
necessarii e periodici.

A nuove insistenze del ministro Crispi in data 29 gennaio 1889,
Salisbury risponde confermando che la questione di Biserta interessa non
meno la Gran Brettagna che l’Italia, e avvertendo che fa esercitare sul
luogo continua vigilanza e manda ogni tanto una nave della flotta a
constatare il vero stato delle cose.

Incessante dopo d’allora fu lo scambio di comunicazioni in proposito con
Londra, con Parigi, Vienna e Berlino. Ancora il 5 novembre 1889 lord
Salisbury trova giustificate le apprensioni nostre rispetto al porto e
ai lavori che cautamente si eseguono a Biserta.

Il 25 giugno 1890 l’ambasciatore Tornielli telegrafa a Roma:

    «Salisbury mi ha detto che il signor Waddington [ambasciatore
    francese a Londra] nega che i lavori di Biserta abbiano
    carattere militare.»

Ma in ottobre il ministro degli affari esteri della Francia, Ribot,
mentre assicura che non sono in corso studi per l’erezione a Biserta di
opere militari, afferma che la Francia ha facoltà di erigervene, e alla
obiezione mossagli dall’ambasciatore italiano che per bocca dei ministri
suoi predecessori la Francia ha assunto impegno di non fortificare quel
porto, risponde che qualunque dichiarazione precedente non lega il
governo francese, e che il Bey, in ogni caso, ha piena libertà di
premunirsi.

Questa arditissima teoria del ministro Ribot, comunicata alle
Cancellerie amiche col rapporto del generale Menabrea che la riferiva,
parve ed era una sfida. La Cancelleria germanica l’accolse severamente,
secondo si legge nella lettera che segue dell’ambasciatore di Launay:

                                          «Berlino, 5 Novembre 1890.

        _Signor Ministro,_

    Nel ricevimento ebdomadario di ieri ho dato lettura al
    Segretario di Stato del dispaccio di V. E. del 30 ottobre scorso
    num.... Mi sono giovato dell’allegato per redigere un promemoria
    confidenziale che rimetterò in copia, omettendo le due ultime
    frasi che concernono l’attuale attitudine dell’Inghilterra. Ma
    nel senso di esse mi sono espresso verbalmente.

    Il barone de Marschall criticò vivamente la dottrina enunziata
    dal signor Ribot sul non valore delle dichiarazioni scritte e
    verbali fatte dai suoi due predecessori circa il porto di
    Biserta. Una dottrina simile sarebbe contraria a tutte le regole
    adottate nelle relazioni internazionali ed in opposizione con la
    buona fede, dalla quale nessuno saprebbe fare astrazione.
    Sarebbe altresì un atto cinico ed una vera mistificazione il
    porsi dietro la sovranità del Bey di Tunisi, ridotto a
    rappresentare una parte da marionetta, per mascherare i progetti
    della Francia. È questa una nuova goffaggine da aggiungere alle
    altre commesse dal ministro degli affari Esteri della
    Repubblica. Egli avrebbe fatto meglio dal suo punto di vista
    limitandosi a sostenere che la natura dei lavori progettati o in
    corso di esecuzione a Biserta, e il loro scopo, non hanno e non
    avranno che un carattere commerciale.

    Il Segretario di Stato m’ha promesso di scrivere
    all’ambasciatore di Germania a Londra affinchè parli al _Foreign
    Office_ nel senso del promemoria predetto e ne richiami
    l’attenzione sul contenuto del medesimo. Se lord Salisbury —
    forse perchè l’opinione pubblica del suo paese non si appassiona
    ancora a tale questione — non crede che sia venuto il momento
    per ricordare al gabinetto francese i suoi impegni formali,
    questo ministro è però animato da buone intenzioni verso di noi
    e sorveglia da vicino le mene francesi. Nondimeno è utile dare
    al marchese di Salisbury una spinta.

    Il Cancelliere dell’Impero, che ho accompagnato ieri alla
    stazione per prendere congedo da lui nel momento che partiva per
    l’Italia, mi ha confermato in termini generali quello che mi ha
    detto il Segretario di Stato.

                                                          _Launay_.»

Lord Salisbury, in verità, si dimostrava proclive a prestar fede alle
assicurazioni francesi, e all’Incaricato d’affari della Germania
esprimeva il parere

    «non essere opportuno risolvere la questione a Parigi finchè non
    si produca qualche fatto palese sulle intenzioni del governo
    francese, mentre il Waddington l’aveva assicurato in modo
    positivo che il suo governo non mirava a fare di Biserta un
    porto fortificato.»

Dovette Crispi dimostrare a Londra l’irrefutabile carattere militare dei
lavori, la gravità della questione e le irreparabili conseguenze che
sarebbero per derivarne.

Il _pro-memoria_ che fece presentare a lord Salisbury è questo:

    «Bizerte ou Benzert, l’ancienne Hippo-Zarytos des Phéniciens,
    située sur la côte de la Tunisie, là où le continent africain
    s’allonge vers la Sicile, est à cheval sur le bras de mer qui
    mène au lac du même nom. Ce lac a une étendue et une profondeur
    suffisantes pour offrir aux plus gros navires, à l’achèvement
    des travaux, cinquante milles carrées de mouillage. Ainsi placée
    sur la Mediterranée, favorisée par la nature qui lui a donné un
    port très vaste et parfaitement à l’abri des colères de la mer
    et des attaques des flottes ennemies, et se trouvant aujourd’hui
    aux mains d’une puissance maritime de premier ordre, Bizerte est
    un élément de grande valeur dans le calcul des ressources
    défensives et offensives actuellement à la position des
    différentes puissances européennes.

    Cette nouvelle situation, créée par les événements de 1881,
    attira immédiatement l’attention des cabinets intéressés au
    maintien de l’équilibre dans la Mediterranée, et il en vint cet
    échange de notes, de remontrances d’un côté et de vagues
    assurances de l’autre, qui, commencé dès la descente des
    Français en Tunisie, n’a pas encore pris fin.

    Il appert de cet échange de notes qu’au commencement de 1889 le
    premier ministre de S. M. Britannique paraissait avoir pris un
    grand intérêt à cette affaire, à cause de laquelle de pressantes
    démarches avaient été faites auprès de lui, même de Berlin; mais
    que, plus tard, des explications fournies à Paris l’avaient
    persuadé que «les travaux projetés n’avaient point de grande
    importance». Une année après, le 3 juin dernier, toujours
    convaincu que ce qu’on était en train de faire ou de projeter
    pour Bizerte n’offrait qu’une mediocre importance, il disait à
    l’ambassadeur du Roi que «si, comme il le désirait et
    l’espérait, l’Angleterre et l’Italie restaient unies, leurs
    forces navales suffisaient à leur donner la supériorité sur
    toute autre puissance, et n’avaient rien à redouter des
    _fortins_ de Bizerte». Plus tard, en septembre, le
    sous-secrétaire d’Etat aux affaires étrangères déclarait que
    «les travaux en voie d’execution ne paraissaient pas encore
    avoir un but militaire».

    Les considérations suivantes pourront démontrer que l’avis
    exprimé par le _Foreign Office_ n’est guère conforme à l’état
    réel des choses.

    En creusant de quelques mètres le port actuel de Bizerte et en
    élargissant le canal d’entrée moyennant la démolition de la
    Kasba, on répondrait suffisamment aux exigences du commerce qui
    est à peu près nul, comme il est démontré à l’evidence par les
    récettes de la douane qui n’atteignent jamais 50 000 fr. par an.
    Or, comme il n’est guère admissible qu’on songe à faire de
    Bizerte le port commercial de la Tunisie, de grands travaux
    étant en même temps en cours d’exécution dans le port de
    Tunis,¹⁴ à 32 milles de Bizerte, il est facile d’en conclure que
    tout ouvrage visant non pas à améliorer le port actuel, mais à
    en créer un nouveau de grands proportions, a un but
    essentiellement militaire. Et les travaux qu’on est en train
    d’executer à Bizerte ont précisément en vue un port immense,
    l’un des plus grands du monde, pour lequel on creuse un canal
    d’entrée de 200 mètres de largeur et de 12 de profondeur.

   ¹⁴ M. Ribot, ministre des affaires étrangères dans un rapport
      presenté le 15 octobre 1890 au président de la République, expose
      qu’il y a en voie de construction: 1º un avant-port à la Goulette;
      2º un canal de 8 kilomètres de longueur et 6 m. 50 de profondeur
      de la Goulette à Tunis à travers le lac de ce nom; 3º un _bassin_
      à Tunis. Le tout devant étre achevé en juillet 1894. La dépense
      prévue est de 13 millions.

    Il est à remarquer que quand même le mouillage serait de
    beaucoup plus limité, la profondeur que l’on veut donner à ce
    canal suffit à prouver qu’il est destiné aux grands navires de
    guerre. En effet, il n’y a pas aujourd’hui de navire marchand
    ayant un tirant d’eau de 8 ou 9 mètres, qu’atteignent seulement
    les navires de combat de 1re classe, jaugeant de 12 à 14 000
    tonnes. Le canal de Suez qui interesse tous les pays, qui a été
    creusé exclusivement pour le commerce et donne passage aux plus
    grands steamers de toutes les marines marchandes du monde, n’a
    qu’une profondeur de 8 mètres.

    Il existe d’ailleurs des preuves directes que dans ce que l’on
    fait ou qu’on compte faire a Bizerte, on s’est proposé pour but
    non le commerce mais la guerre. On trouve ces preuves dans la
    construction d’une grande caserne pour laquelle on a publié dès
    le mois de mai dernier le décret d’expropriation du terrain
    nécessaire; dans la construction déjà achevée de baraques pour
    le génie militaire; dans l’augmentation de l’effectif de la
    garnison qui a eu lieu ces derniers jours; dans la construction
    imminente d’ouvrages de fortification en vue desquelles le
    gouvernement tunisien vient de publier (le 3 de ce mois) un
    décret du Bey portant constitution de servitudes militaires.¹⁵
    En dernier lieu la fondation d’une grande compagnie appelée du
    _Port de Bizerte_¹⁶ avec un capital de neuf millions, prouve
    qu’il ne s’agit point de travaux de petite importance, mais bien
    de travaux grandioses dans lesquels, d’après ce qu’on vient
    d’exposer et malgré le caractère privé qu’on leur a
    artificiellement donné, on peut, selon toute raison, reconnaître
    l’intention de faire de Bizerte un port militaire.

   ¹⁵ L’art. 1 du décret, vue par le ministre résident général de la
      République, fixe la zone de servitudes au «polygone exceptionnel
      du village des Andalous» qui est un faubourg au bord de la mer,
      immédiatement au nord de Bizerte.

   ¹⁶ Dans son rapport précité M. Ribot dit que «la Compagnie est
      fondée, ses statuts sont publiés et les travaux sont en cours
      d’exécution».

    Il est inutile d’objecter qu’il faudra de plus grandes sommes et
    beaucoup d’années pour que cette transformation s’accomplisse;
    on ne sait que trop que lorsqu’il s’agit de pareils travaux, qui
    intéressent la défense nationale, les crédits sont toujours
    accordés aussitôt qu’ils deviennent nécessaires. Il faut au
    contraire remarquer, ce qui n’est pas aussi universellement
    connu, qu’il ne faut point de travaux de grandes proportions
    pour faire de Bizerte un port de guerre, mais qu’il suffit
    relativement de peu de chose, de façon que le temps et les
    dépenses nécessaires ne seraient rien moins que proportionnés
    aux résultats que l’on obtiendrait.¹⁷ Il ne faut d’ailleurs pas
    oublier que quand même la place ne serait point fournie de tout
    le nécessaire dès le commencement des hostilités, elle n’en
    serait pas moins une grande ressource pour la France et une
    menace sérieuse pour ses ennemis, si seulement le canal en était
    rendu praticable aux grands navires sous la protection de
    quelques puissantes batteries côtières, et si la place contenait
    les approvisionnements indispensables de charbon, vivres et
    munitions de guerre et les moyens nécessaires pour radouber des
    navires.

   ¹⁷ Le canal aurait un kilomètre et demi de longueur dont un tiers
      seulement à creuser dans toute sa profondeur, dans la langue de
      terre qui sépare le lac de la mer.

    Il n’y a par conséquent rien que de vraisemblable dans la
    supposition que la France si elle veut (et tout nous prouve
    qu’elle le veut) possédera à Bizerte, dans un peu plus de cinq
    ans, un port militaire vaste et sûr qui lui servira de base pour
    des expéditions maritimes dans la Mediterranée meridionale, et
    de port de refuge en cas d’insuccès. Et quand même cela
    n’arriverait que dans dix ans, y a-t-il moyen de ne pas voir que
    sa puissance sur mer en serait énormément augmentée?

    La France ne possède actuellement sur la Méditerranée qu’un seul
    port militaire, celui de Toulon, qui occupe par rapport à
    l’Italie méridionale et à la mer Jonienne, une position
    tellement excentrique qu’un gros convoi de troupes de
    débarquement ne pourrait mettre à la voile de ce port pour le
    sud de la péninsule ni pour la Sicile, sans courir de graves
    dangers, soit à cause de la distance à franchir, soit à cause de
    la flotte italienne qui, de la Madeleine, surveillerait ce
    mouvement. Mais lorsque Bizerte sera devenue accessible aux
    grands navires et ceux-ci pourront y trouver du charbon, des
    vivres, des munitions de guerre et des moyens pour réparer leurs
    avaries; lorsque cette place sera munie de fortifications
    maritimes et terrestres, les Français seront alors en mesure de
    menacer, de la côte tunisienne, les escadres ennemies
    manoeuvrant dans le bassin méridional de la Méditerranée, et
    pourront se porter en 20 heures sur Naples, en évitant les eaux
    surveillées de la Madeleine par la flotte italienne, et se jeter
    en 8 heures sur Cagliari et sur la Sicile.

    Il n’y a rien d’exagéré dans l’importance que nous attribuons
    plus haut aux difficultés provenant de la distance à la quelle
    Toulon se trouve des côtes de l’Italie méridionale. Il ne
    s’agit, en effet, ni d’une escadre ni d’une flotte qui peuvent
    naturellement parcourir la Méditerranée quel que soit l’état de
    la mer; il s’agit d’un convoi de navires de transport (plus de
    cent) qui doivent naviguer de conserve sous la protection d’une
    escadre et par conséquent marcher lentement.

    Ce convoi, au surplus, ne serait pas en mesure d’opérer le
    débarquement par un mauvais temps et devrait, dans ce cas,
    chercher un abri, ou rebrousser chemin, jusqu’à Toulon, en
    s’exposant, dans le deux hypothèses, au danger d’une attaque de
    la part de la flotte italienne s’appuyant sur la Madeleine. Ces
    difficultés ne proviennent donc pas de la distance, mais des
    dangers que le convoi doit courir pendant cette longue
    traversée, et qui peuvent venir de deux differents côtés, — de
    la mer, l’état de laquelle peut rendre impossible d’atteindre à
    temps le point d’atterrissage, ou empêcher l’opération même du
    débarquement, — et de la flotte ennemie, à laquelle on offre de
    cette manière une occasion favorable pour attaquer en route le
    convoi.

    Bizerte, étant donnée comme point de départ, tous ces dangers
    disparaissent. On y concentre le corps de débarquement (la
    France n’est pas obligée de faire venir, à cet effet, des
    troupes d’Europe attendu qu’elle a en Algérie un corps d’armée
    permanent et pourvu de tout ce qu’il faut), on y rassemble et on
    y tient prêts les transports, on attend ensuite que les
    conditions générales de la guerre soient favorables à
    l’opération, et par un soir de calme le convoi met à la voile,
    se présente le lendemain au point du jour, sans avoir été
    signalé, sur la côte de Sicile, et opère le débarquement bien
    avant que le forces destinées à la défense de l’île aient eu le
    temps d’accourir.

    Il est inutile d’ajouter que la descente en Sicile d’un gros
    corps d’armée (35 à 40 000 hommes) aurait une grave influence
    sur le sort de la guerre. Un pareil évènement serait un désastre
    matériel et moral et pourrait même entraîner une défaite
    définitive. Il faut plutôt faire remarquer que si la France
    voulait renforcer, dès le début des hostilités, ses garnisons
    d’Algérie, ses ressources maritimes et le nouveau port de
    Bizerte lui permettraient, la traversée étant très courte et la
    Madeleine bien éloignée, de porter en Sicile jusqu’à deux corps
    d’armée, c’est-à-dire 60 000 hommes, en s’assurant par là la
    supériorité numérique sur les troupes chargées de la défense de
    l’île.¹⁸

   ¹⁸ Les études pour la défense de la Sicile en cas de guerre avec la
      France, sont fondées sur l’hypothèse d’un débarquement de deux
      corps d’armée. Le transport d’une pareille force sur les côtes
      occidentales de la Sicile pourrait s’effectuer de Bizerte en
      plusieurs fois, grâce au voisinage de ce port, et sans qu’il soit
      par conséquent nécessaire de rassembler un nombre immense de
      transports ainsi qu’il le faudrait s’il s’agissait d’amener ces
      mêmes troupes de Toulon, en un seul convoi.

    Cependant l’accroissement énorme de force que la France
    tirerait, le cas échéant, de la possession d’une nouvelle base
    d’opérations maritimes dans la Méditerranée, n’est pas fait pour
    préoccuper seulement l’Italie et ses alliées, les puissances
    centrales; cela regarderait aussi de très près l’Angleterre,
    quand même l’alliance de cette puissance avec l’Italie serait un
    fait accompli. Ce ne sont pas en effet, les «fortins de Bizerte»
    qu’on aurait à craindre, mais la nouvelle situation qui serait
    créée par l’existence, sur la côte d’Afrique, d’un port
    militaire français, d’où la France pourrait aisément attaquer
    l’Italie du sud et la Sicile sans avoir à redouter les
    mouvements de la flotte italienne opérant de la Madeleine. Ce
    nouveau port militaire paralyserait l’action de la Madeleine
    dans la Méditerranée méridionale, rendrait nécessaire le
    maintien d’un gros corps d’observation en Sicile et d’autres
    forces considérables dans les villes maritimes de l’Italie du
    sud. Il deviendrait par conséquent nécessaire de diminuer
    d’autant les troupes à porter au delà des Alpes, et cela même si
    l’Angleterre et l’Italie étaient alliées.

    Telles sont les conséquences de la création, à Bizerte, d’un
    nouveau Toulon; tels sont les dangers que l’Italie doit redouter
    bien plus que les attaques directs sur ses navires pouvant
    partir des fortifications du nouveau port. Ces fortifications ne
    seraient que le complément nécessaire de toute place maritime,
    et doivent être considérées comme telles, et non comme des
    ouvrages placées sur un bras de mer par où il serait
    indispensable de passer.

    Mais ceci n’est pas tout. Si la création du nouveau port
    militaire nuit directement à l’Italie et indirectement à ses
    alliées à cause de la diminution de la puissance offensive du
    royaume et du danger que courrait la Sicile, l’Angleterre aussi,
    bien qu’elle soit, ou plutôt parce qu’elle est la première
    puissance maritime du monde, en ressentirait un préjudice
    sérieux, même si elle était l’alliée de l’Italie et
    indépendamment du dommage indirect auquel elle serait exposée en
    cette dernière qualité.

    Il suffit, en effet, de se rappeler quelle est la situation
    respective de Gibraltar, Bizerte, Malte e Port-Saïd pour voir
    que le jour où Bizerte sera un port militaire, elle occupera une
    formidable position offensive sur le flanc de tous les navires
    se rendant de l’orient à l’occident et viceversa. Elle sera
    parfaitement en mesure de harceler et même d’arrêter
    complètement le commerce de Gibraltar à Malte et à la mer Rouge,
    c’est-à-dire le commerce de l’Angleterre avec les Indes, et
    d’empêcher la jonction des flottes anglaises ou anglo-italiennes
    dans la Méditerranée méridionale. Ce qui forcerait l’Angleterre,
    si elle était l’alliée de l’Italie aussi bien que si elle
    demeurait neutre, a augmenter ses forces navales dans la
    Méditerranée, en restant néammoins menacée dans son commerce,
    qui est pour elle la vie, et en dégarnissant nécessairement la
    Manche où, en cas de conflagration européenne, il lui faut
    absolument être maîtresse de la mer.»

Nel colloquio di Milano dell’8 novembre 1890 Crispi aveva detto al Conte
di Caprivi non poter permettere che Biserta divenisse un porto militare,
e al Cancelliere germanico non era sfuggita tutta l’importanza che la
questione aveva per l’Italia. In gennaio 1891, essendo evidente che la
Francia non si curava delle proteste italiane e tirava diritto
nell’attuazione di un piano prestabilito, Crispi reclamò l’appoggio
delle potenze alleate e dell’Inghilterra per una comune azione a Parigi
la quale imponesse l’abbandono dei lavori iniziati a Biserta e li
vietasse per l’avvenire. L’_ultima ratio_ di questo passo poteva essere
la guerra, e Caprivi ne ammise l’eventualità. Egli infatti diceva al
nostro ambasciatore che, pur sperando si raggiungesse lo scopo senza
conflitti,

    «nondimeno bisogna tenersi preparati ad ogni peggiore
    eventualità e, questa presentandosi, avere in mano tutti i
    possibili elementi politici e militari di successo. Ora,
    l’armamento della fanteria germanica col fucile a piccolo
    calibro sarà compiuto soltanto nella primavera ventura e la
    formazione dei due nuovi corpi d’esercito soltanto nel prossimo
    inverno. Tutto, dunque, consiglia di camminare adesso con
    prudenza e sicuramente.»

Pochi giorni dopo il ministero Crispi cadeva, e l’energica sua azione
veniva abbandonata. L’Inghilterra e la Germania avvertirono subito
ch’era mutata la mano al timone della politica italiana, e ne
profittarono. Lord Salisbury sentiva in tutta la questione tunisina la
prevalenza degl’interessi italiani su quelli inglesi, e aveva opposto
alle premure di Crispi un contegno di cortese passività, senza tuttavia
osare di opporsi alla logica stringente del ministro italiano e
sconfessare le sue proprie precedenti dichiarazioni. Alla Cancelleria
germanica la scomparsa della pressione esercitata da Crispi in base ad
argomenti validissimi, sembrò una liberazione.

D’altronde, il successore di Crispi, on. Di Rudinì, recando al governo
scarsa coscienza degl’interessi d’Italia, prevenzioni mal fondate e
minore autorità personale, si adattò alle risposte evasive del _Foreign
Office_, il quale facendo propria la teoria dell’Ammiragliato Britannico
finì con l’affermare che dalle fortificazioni di Biserta l’Italia e
l’Inghilterra nulla avevano a temere, e altresì che Biserta, operando
una diversione delle forze navali francesi, sarebbe stata una debolezza
e un danno per la Francia.¹⁹

   ¹⁹ Strana teoria questa dell’Ammiragliato britannico! Lo Stato
      Maggiore germanico giudicava ben altrimenti l’importanza di
      Biserta, come risulta dai seguenti brani di una sua relazione:

      «La costa d’Algeria non offre propriamente alcun porto naturale.
      Veramente alcuni luoghi importanti vennero ridotti ad uso di
      porto; astrazione fatta, però, che questi luoghi non possono
      sempre prestare soddisfacente appoggio, sono in tale posizione da
      poter permettere dal mare di bombardare la città, gli stabilimenti
      e le navi. Tale circostanza rende la situazione di un porto di
      guerra molto critica. Presso a Biserta non vi sono difficoltà di
      tal sorta. I cantieri, i doks, i depositi, ecc., ecc., si possono
      collocare talmente entro terra da rendere impossibile un
      bombardamento, quando si proibisca però l’ingresso nel porto al
      naviglio nemico. Ottenere questo è un po’ difficile mediante i
      mezzi stazionari di difesa. Le fortificazioni esistenti intorno a
      Biserta sono senza dubbio di nessun valore, e quelle verso mare e
      verso terra non sembra siano ancora state incominciate. La
      costruzione di opere utili non incontrerebbe difficoltà, e la
      configurazione della costa favorisce la difesa del porto in modo
      eminente, poichè le alture circostanti permettono di dare alle
      opere una posizione dominante, e il curvamento della costa
      permette un fuoco concentrico sul nemico. Tutti questi pregi di
      Biserta, principalmente la facilità con cui si può ottenere un
      buon porto, sono noti ed apprezzati sia dai francesi, sia dagli
      inglesi. Per scopo di guerra il porto però si può solamente
      rendere utile, quando le navi in esso ricoverate siano esse pure
      appoggiate, quando cioè la città sia sufficientemente fortificata.

      Biserta acquista speciale importanza dalla sua posizione avanzata
      nella parte nordica dell’Africa. Sicilia e Sardegna da qui possono
      essere raggiunte in 8 ore, Napoli in 20 ore, e da qui a Malta vi
      sono 16 ore. Biserta ha una azione fiancheggiante su tutte le navi
      dirette in oriente ed occidente, che navigano tra il nord
      dell’Africa e le isole italiane. Biserta ha quindi una grandissima
      importanza strategica. Nel caso di complicazioni di guerra nel
      Mediterraneo da parte della Francia, una volta che Biserta fosse
      convertita in un porto di guerra permanente, verrebbe questa ad
      avere una parte importantissima, creando sovratutto all’Italia
      gravi svantaggi. Sino a che Tolone sarà il solo porto di guerra
      del Mediterraneo di cui la Francia possa disporre, e sino a che i
      porti dell’Algeria della parte orientale non possano servire che
      per soli punti d’appoggio, l’Italia, colla Spezia e colla
      Maddalena, è coperta da qualsiasi mossa offensiva. Gl’italiani
      sarebbero pure nella condizione di turbare dalla Maddalena le
      coste dell’Algeria e molestare il collegamento tra la colonia
      francese e la sua madre patria. Altrimenti avverrà quando Biserta
      diventi stazione della flotta e possa essere un saldo appoggio per
      una ritirata.

      Da qui saranno minacciate le coste del mare Tirreno, le isole e le
      Calabrie, e l’Italia a sua difesa non avrà alcun punto capace nel
      sud della Sardegna, ovvero nella parte occidentale della Sicilia.
      Quanto guadagnò l’Italia colle fortificazioni della Maddalena,
      creando una forza armata vicino alle coste francesi, altrettanto
      guadagnerà la Francia fortificandosi ed armandosi vicino alle
      coste italiane con Biserta.

      Anche la posizione marittima dell’Inghilterra nel Mediterraneo ne
      risentirebbe grandemente. Il passaggio sinora libero tra il Capo
      Bon e la Sicilia può essere sorvegliato comodamente da Biserta,
      divenuta base d’operazione dei francesi; ed in caso di guerra
      coll’Inghilterra il commercio tra Gibilterra e Malta, e per
      relazione con Suez, potrebbe essere grandemente danneggiato. Anche
      piccole navi che non avrebbero potuto opporsi ad una flotta
      inglese nel Mediterraneo, sarebbero nella condizione di poter
      chiudere alle navi inglesi mercantili, di passaggio pel
      Mediterraneo, la via da o per le Indie; ed una forte flotta
      potrebbe benissimo impedire la unione di due squadre inglesi,
      ovvero di una squadra inglese ed una italiana. Per le operazioni
      verso l’oriente, la Francia acquisterebbe una solida tappa, che
      non potrebbe essere senza conseguenze per Taranto e per Malta.

      Da ciò appare come le fortificazioni di Biserta e la posizione di
      un porto di guerra sposti grandemente la potenza militare della
      Francia a suo vantaggio, e per conseguenza a danno della potenza
      dell’Inghilterra e dell’Italia. Se la Francia aduna una flotta a
      Biserta, l’Italia deve attendersi dal sud o dall’occidente
      dell’Africa e da Tolone un colpo di mano od uno sbarco sulle sue
      coste; sarà da necessità costretta a fare stazionare nelle acque
      di Sicilia e di Napoli parte della sua flotta, e a formare un
      forte corpo d’osservazione sulle coste meridionali e centrali.
      L’esercito d’operazione e gli altri mezzi di guerra verranno
      quindi ad essere indeboliti assai più che se l’attacco si fosse
      fatto da una sola parte. L’Inghilterra viene ad essere minacciata
      nelle relazioni tra le Indie orientali ed il mare Mediterraneo, e
      dovrebbe rinforzare grandemente la sua flotta nel Mediterraneo
      quando essa coll’offensiva deve essere forte abbastanza per
      sorvegliare Biserta. Mentre un accordo tra l’Inghilterra e
      l’Italia assicurerebbe all’istante un predominio sul mare agli
      alleati, più tardi potrebbe essere dubbioso se sia possibile una
      completa difesa delle coste.»

Cosicchè la Francia preso coraggio dalla remissività del nuovo ministero
italiano che si preoccupava di fare una politica estera diversa da
quella di Crispi — caduto dal potere con grande e non dissimulata gioia
della Francia — dopo avere raccolto a poco a poco i materiali
necessarii, iniziò nel 1892 le fortificazioni sull’estremo punto nord
dell’Africa, dissimulandone con la lentezza dei lavori il valore bellico
per poter negare l’opera che andava compiendo in dispregio degl’impegni
presi dinanzi alle potenze, quando nel 1881 impose il suo protettorato
al Bey di Tunisi.

L’on. Crispi, ritornato privato cittadino aveva continuato a seguire la
questione con cuore di patriotta. Qualche amico lo informava di quanto
avveniva nella Reggenza in fatto di armamenti.

Ecco un saggio delle notizie che gli pervenivano:

«_29 maggio._ — Arrivarono col postale francese _Ville de Naples_ 80
casse polveri.

_31 maggio._ — Arrivarono col postale francese via Algeri casse 50
cartucce.

_3 luglio._ — Arrivarono col postale francese _Ville de Bône_ 750 barili
polveri.

_6 luglio._ — Arrivarono col postale francese _Ville de Rome_ 27 casse
cartucce.

_10 luglio._ — Arrivarono col postale francese 350 barili polvere; peso
di ogni barile cg. 5».

In settembre 1891, in seguito a informazioni allarmanti pubblicate da
qualche giornale intorno a una intensa preparazione militare dei
francesi in Tunisia, il ministro Rudinì ordinò al Console generale
Macchiavelli di recarsi a Biserta per verificare quali lavori si
facessero in quel forte. Il Macchiavelli fu respinto dal Comando
militare perchè non aveva un permesso da Parigi! Parecchi giornali
osservarono che quella mortificazione poteva esserci risparmiata,
giacchè non occorreva mandare a Biserta il rappresentante ufficiale
d’Italia per apprendere ciò che in Tunisia era noto a tutti. Un giornale
ispirato da Crispi, la _Riforma_, scriveva il 1.º dicembre:

«Non sa il Governo italiano che le fortificazioni di Biserta sono in
opposizione con gl’impegni assunti formalmente dalla Francia?

E non pensa a richiamare quegli impegni alla memoria del Governo di
Parigi?

Non potendo far altro, il 14 febbrajo 1892 Crispi espresse al Re la sua
angoscia con la seguente lettera:

        «_Sire!_

    Qual’è la miglior politica, lasciar fortificare Biserta o
    impedire che sia fortificata? Delle due vie l’Italia, sotto il
    mio ministero, scelse la seconda.

    La questione fu trattata a Londra e a Berlino.

    Lord Salisbury in conseguenza dei nostri reclami interpellò due
    volte Waddington su cotesto argomento: e l’ambasciatore francese
    assicurò Sua Signoria in modo positivo che il suo governo non
    mirava a fare di Biserta un porto militare. Ciò risulta da un
    telegramma giuntoci da Berlino il 28 gennaio 1891.

    Da due dispacci del 5 e del 13 agosto 1890 fummo informati che
    circa la questione tunisina Caprivi aveva detto al nostro
    Incaricato d’affari che «la Germania non trascurerebbe
    gl’interessi italiani e saprebbe _all’occasione_ fare onore agli
    impegni contratti verso di noi».

    Alla sua volta il conte di Kálnoky il 5 agosto 1890 faceva al
    conte Nigra, sullo stesso argomento, la seguente dichiarazione:
    «Il governo Austro-Ungarico è disposto associarsi a qualunque
    azione diplomatica, insieme alle altre potenze amiche, in favore
    dell’Italia».

    Io devo credere che nulla fu fatto negli ultimi dodici mesi che
    il mio successore ha tenuto il Ministero degli affari esteri.
    Dovrò anche supporre che sia rimasto senza risposta un dispaccio
    giunto da Londra alla Consulta dopo il 31 gennaio 1891. Intanto
    è constatato che a Biserta son cominciate le opere di
    fortificazione!

    Con Biserta e Tolone i Francesi diverrebbero gli assoluti
    padroni del Mediterraneo.²⁰ A lord Salisbury io scrissi un
    giorno che, ciò avverandosi, l’Inghilterra non sarebbe più
    sicura in Malta e che potrebbe essere cacciata dall’Egitto.

   ²⁰ Sulla questione, vedi il discorso pronunziato alla Camera dei
      deputati, nella tornata del 6 febbraio 1893, dal generale Dal
      Verme.

    Sarebbero maggiori i pericoli per noi, e ci si renderebbe
    necessario munire potentemente la Sicilia e la Sardegna, le
    quali, in caso di guerra, sarebbero le prime ad essere
    minacciate. Nè basta: dovremmo tenere forti eserciti nelle due
    grandi isole del Regno, ed occupata la nostra flotta nelle acque
    africane.

    Per munire potentemente la Sardegna e la Sicilia vuolsi una
    enorme spesa, per la quale al Tesoro italiano mancano i mezzi.
    Comunque, in un momento in cui il governo di V. M. è obbligato a
    fare dolorose economie, è strano che per una falsa politica il
    governo medesimo debba esser causa di una nuova spesa.

    Quello che importerebbe Biserta fortificata fu fatto palese a
    Berlino, e fu aggiunto che qualora scoppiasse la guerra, e la
    Germania fosse attaccata, noi non potremmo disporre di tutte le
    nostre forze, imperocchè saremmo costretti a localizzare la
    maggior parte delle truppe per prevenire gli attacchi che
    sicuramente verrebbero dal mare, ed in conseguenza per
    difenderci.

    Quando la Francia occupò Tunisi promise che non ne avrebbe fatto
    una piazza di guerra. Oggi, fortificando Biserta, il governo
    della Repubblica non solamente manca alla promessa, ma muta lo
    _statu-quo_ nel Mediterraneo. Con gli accordi del 12 febbraio e
    del 24 marzo 1887, la Gran Brettagna, l’Italia e
    l’Austria-Ungheria s’impegnarono a non permettere che questo
    mutamento avvenisse e, in ogni caso, si obbligarono a procedere
    d’accordo.

    Io non porto la questione alla Camera perchè una pubblica
    discussione su così grave argomento nuocerebbe agl’interessi
    nazionali. Io poi personalmente ne raccoglierei nuovi odii dai
    Francesi senz’alcun beneficio pel nostro paese: e mi taccio.

    Il silenzio del Parlamento e l’inerzia dei Ministri, mi
    permetta, Sire, di dirlo schiettamente e lealmente, non salvano
    il Re dalla sua responsabilità verso la Patria comune.

    Costituzionalmente V. M. non è responsabile di quello che
    avviene, ma lo è moralmente dinanzi alla Nazione della quale è
    il Capo e il tutore. Or l’avvenire della Nazione può essere
    compromesso dalla politica attuale.

    Questa lettera da parte mia non sarà comunicata ad anima viva;
    rimarrà segreta. È scritta per V. M. e per V. M. soltanto.

    Ho creduto un dovere di coscienza di scriverla. Ho voluto anche
    questa volta testimoniare la mia piena fede nel Re, nel quale è
    personificata l’unità nazionale.

    Al Re dunque doveva rivolgere la franca parola.

    Ho l’onore di ripetermi di V. M.

                                       L’umil. Dev. Servit. e Cugino
                                                _Francesco Crispi_.»

Non risulta che il governo italiano facesse opera diplomatica efficace.
I lavori furono incessantemente proseguiti, e quando Crispi ritornò al
potere, nel dicembre 1893, essi erano giunti a tal progresso che ogni
contrasto sarebbe giunto tardivo. Il 7 marzo 1894 l’ambasciatore
Ressman, in seguito ad una pubblicazione che annunziava l’inizio dei
lavori ch’erano, invece, molto innanzi, interpellò il Presidente del
Consiglio, Casimir-Périer; il quale, abbandonato il sistema di
denegazioni seguito in passato dai ministri francesi, dichiarò la
realtà, giustificando però la decisione di fortificare Biserta col
concentramento di truppe italiane in Sicilia, come se questo, invece che
determinato dalle condizioni allora allarmanti dell’ordine pubblico in
quell’isola, nascondesse il proposito di un colpo di mano sulla Tunisia!

Ma ecco la lettera del Ressman:

        «_Signor Ministro_,

    Sotto il titolo «Bizerte et la Spezia» il Figaro pubblica
    stamane in prima pagina un articolo che principia colle parole:

    «Ci si assicura che sono stati testè dati ordini per cominciare
    i lavori militari di Biserta: felicito il Governo di questa
    patriottica risoluzione».

    Riferendomi a quest’asserzione del _Figaro_, ho nell’odierna
    udienza domandato al signor Casimir-Périer se vi fosse alcun che
    di vero, non senza premettere che più volte i suoi predecessori,
    interpellati sui lavori che il Governo francese faceva eseguire
    nel porto di Biserta, avevano dichiarato che quei lavori avevano
    per solo scopo di facilitare alle navi mercantili l’accesso del
    lago interno e che erano intrapresi esclusivamente per ragioni e
    scopi di commercio.

    Il Ministro degli Affari Esteri mi rispose che egli diede
    difatti gli ordini di proteggere l’entrata del canale di
    Biserta, dietro ripetuta richiesta del Bey di Tunisi e del
    signor Rouvier, circa sei settimane addietro. Egli ebbe la
    franchezza d’aggiungere che a tale risoluzione lo avevano
    determinato le apprensioni che allora qui si manifestarono per
    il sì considerevole accentramento di truppe italiane in Sicilia.
    Mi disse poi che i lavori militari a Biserta si limitavano
    all’armamento di due batterie, una sulla destra e l’altra sulla
    sinistra della entrata del canale, per le quali già da tempo
    erano state costruite le spianate e tracciati gli accessi, e che
    l’ammontare della spesa incontrata, che fu di soli 600 000
    franchi, prova non essersi fatto nulla di eccessivo. Gli pareva
    d’altronde che non vi fosse ragione di giudicare questi lavori
    diversamente dai lavori di fortificazione di Tunisi pei quali si
    erano spesi 300 000 franchi.»

A poco a poco la verità non fu più negata; anzi il lavorìo dissimulato
divenne aperto e le opere di fortificazione e di armamento furono
accelerate.

La _Dépêche Tunisienne_ dell’11 giugno 1895 pubblicava:

    «Paroles significatives:

    En réponse aux souhaits de bienvenue que lui adressaient à
    Bizerte le vice-consul de France et les députations du conseil
    municipal, du syndicat de Bizerte et de la compagnie du port, M.
    le vice-amiral de la Jaille, commandant l’escadre active de la
    Méditerranée, a exprimé, nous apprend le _Courrier de Bizerte_,
    toute sa satisfaction de voir arriver à bonne fin, et en un si
    court laps de temps, ces travaux qui font de Bizert un port si
    précieux pour la France.

    Jusqu’ici, a-t-il ajouté, retenue par de vains prétextes, la
    flotte française avait évité d’y jeter l’ancre. Mais le charme
    est maintenant rompu, car dédaignant certaines susceptibilités
    ménagées jusqu’ici, la marine française vient de prendre
    définitivement possession de Bizerte. Comme le croiseur
    _Suchet_, dit-il, les cuirassés de mon escadre auraient pu
    entrer dans le canal et le lac, n’eût été ce banc de rocher qui
    reste à enlever sur une cinquantaine de mètres et qui rétrécit à
    37 mètres le chenal navigable; mais ce n’est que partie remise,
    puisque ce travail n’est plus qu’une affaire de semaines. A sa
    prochaine tournée l’escadre de la Méditerranée commandée alors
    par l’amiral Gervais, ne manquera certainement pas de venir y
    jeter l’ancre et de séjourner dans le lac.»

Quanto fossero fondate le ansie di Crispi e colpevole l’indifferenza dei
suoi successori dinanzi al pericolo che sorgeva con la creazione del
porto militare di Biserta, lo desumiamo dall’orgoglio col quale
autorevoli uomini politici e scrittori francesi hanno esaltato dipoi
l’accrescimento di potenza che n’è derivato alla Francia.

Un ministro della marina francese, il signor Pelletan, con poca
diplomazia, ma con grande sincerità, affermò nel 1902 che Biserta
assicurava al suo paese il dominio del Mediterraneo.

E Gabriele Hanotaux, ex-ministro degli Affari Esteri, in un libro
intitolato _La Paix latine_ si compiacque nell’enumerare le difficoltà
superate e magnificare la conquista compiuta. Giova riprodurre e
meditare alcune pagine di quel libro:

«.... Du côté de l’Italie, enfin, sous le ministère de M. Crispi les
relations étaient telles que l’on pouvait tout craindre.

Cette situation générale, qui résultait d’une accumulation de
circonstances, pour la plus part indépendantes de la volonté des hommes,
était franchement mauvaise. Je n’avais qu’à suivre les exemples qui
m’étaient laissés par mes prédécesseurs, pour m’efforcer d’y porter
remède. J’eus le bonheur d’y réussir, L’incident franco-congolais fut
promptement réglé.......... Enfin, entre la France et l’Italie, après
une période difficile qui eût son point de tension extrême au moment du
rappel de l’ambassadeur Ressman, les dispositions se modifièrent. Une
grave difficulté était en perspective: l’échéance des conventions qui
engageaient la Tunisie à l’égard des puissances européennes. Le sort de
la Régence et celui de la Méditerranée étaient en suspens. Mais, par une
volonté réciproque, l’orage menaçant se dissipa. Un esprit de
conciliation et de concessions dû surtout à l’influence de M. le marquis
de Rudinì et de M. le marquis Visconti-Venosta, inspira les pourparlers
qui eurent finalement pour résultat les divers arrangements qui
confirmèrent le protectorat de la France sur la Tunisie, qui laissèrent
à celle-ci la disposition pleine et entière de la puissante position
maritime de Bizerte....²¹

   ²¹ Gabriel Hanotaux, _La Paix latine_, Intr., pag. IV.

Le vaste établissement militaire qui s’achève à Bizerte intéresse à la
fois l’Europe et l’Afrique. Il commande un des grands chemins du monde.
Il est place dans une région où l’antiquité a toujours connu de grands
ports, Utique, Hippone, et surtout Carthage. Plus d’une fois, les
destinées du monde ont basculé sur cette pointe de terre où la nature a
creusé — comme un abri et comme une menace — ce double lac dont les
dimensions et la profondeur sont faites pour l’armada des léviathans
modernes.

La mer Méditerranée est divisée en deux parties nettement définies:
l’une forme la tête du lion, l’autre le corps; l’une, à l’Occident,
baigne l’Espagne et le Maroc, la Provence et l’Algérie; l’autre, dans la
partie orientale, réunit les trois continents: Europe, Asie, Afrique;
elle caresse, de son flot bleu, la Grèce et ses îles, l’Asie-Mineure et
l’Égypte: elle se prolonge par les détroits, jusque dans la mer Noire;
elle débouche sur le reste du monde par le canal de Suez.

Or, ces deux parties, se rejoignent en un point qui forme comme le col
de la bête; c’est à l’étranglement qui se produit entre la Sicile et la
terre d’Afrique. L’île de Malte, un peu en arrière de ce détroit, en
surveille la sortie; mais Bizerte est mieux située encore, car elle le
domine. Bizerte prend la Méditerranée à la gorge.

En ce point décisif, une volonté de la nature a creusé ce lac offrant
une surface de 15.000 hectares sur lesquels 1.300 sont assez profonds
pour recevoir les plus grands bâtiments. Un des plus beaux ports du
monde se trouve donc dans un des points les plus importants du monde.
_Il fallait avoir le point et il fallait avoir le port._

Telle est l’entreprise à laquelle la France s’est consacrée depuis vingt
ans et qu’elle a réalisée avec une ténacité et un esprit de suite qui
peut-être, un jour, seront comptés à notre pays, si méconnu par les
autres et si souvent calomnié par lui-même.

Pour avoir Bizerte, il fallait avoir la Tunisie: ce fut la première
partie de l’entreprise. Au début, il ne fut guère question de Bizerte:
on était tout aux Khroumirs. Seules, les puissances européennes,
connaissant à merveille l’importance de la partie qui se jouait,
prétendirent mettre un veto sur l’entreprise éventuelle d’un grand port
à Bizerte, et M. Barthélemy Saint-Hilaire, alors ministre des affaires
étrangères, agit sagement, en remettant à l’avenir le dessein d’un
établissement militaire au sujet duquel on l’interrogeait.

Contre vents et marée Jules Ferry en vint à ses fins; l’occupation
française imposa notre protectorat à la Régence. La question de la
défense militaire fut posée du même jour. Elle se combinait
naturellement avec celle de l’Algérie. La Tunisie, faisant l’effet d’un
bastion avancé vers la mer et vers l’Orient, attira donc toute
l’attention.

En quel point établirait-on la citadelle et l’arx de la nouvelle
conquête? Quelques-uns, songeant à l’esprit turbulent des populations
indigènes et aux difficultés que rencontrerait éventuellement une
expédition venue du dehors, si elle était obligée de pénétrer dans les
terres, désignaient comme nœud de la défense, cette antique ville de
Tébessa qui avait été longtemps le refuge de la domination romaine en
péril. D’autres, prévoyant le développement africain de l’Empire
colonial français vers les régions centrales et vers le lac Tchad,
insistaient pour qu’on utilisât l’angle et le port naturel que fait, au
coude de la Syrte, derrière l’île de Djerba, la baie de Bougrara.

Mais Bizerte s’imposa: Bizerte, point propice, à la fois, à la défensive
et à l’offensive, également bien situé si on envisage la terre et si on
envisage la mer, dominant la capitale, Tunis, sans être entravé par
elle, aboutissant presque immédiat du plus grand fleuve de la Tunisie,
la Medjerda, et de la plus importante voie ferrée du Nord de l’Afrique,
celle qui réunit Alger à Tunis.

Quant aux avantages militaires de ce port, véritablement unique, ils
sont exposés, avec la plus grande précision, dans une étude du
lieutenant-colonel Espitalier: «Le rayon tactique d’action, d’un
cuirassé filant 18 nœuds, autour d’un point d’appui, est de 180 milles
environ, si l’on veut qu’il puisse revenir à son port d’attache. Dans
ces conditions, le cercle tactique de Bizerte coupe le rivage de la
Sicile et couvre tout le passage entre ce rivage et la côte africaine.
Il coupe aussi le cercle d’action des navires anglais de Malte. Si l’on
combine le cercle d’action de Bizerte avec ceux de Mers-el-Kébir,
d’Alger, d’Ajaccio et des ports métropolitains, il est facile de voir
que tout le bassin occidental de la Méditerranée est sous notre
dépendance tactique et que Bizerte est la clef de notre action du côté
de l’Est».

Ces raisons confirmèrent les impressions favorables que la situation
géographique et la convenance du site avaient fait naître dans les
esprits. Mais comment rompre les engagements, comment déjouer la
surveillance étroite des diplomaties rivales qui tenaient en suspens
l’avenir de Bizerte? L’histoire éclairera un jour, ces points. [?]

On n’eut, d’abord, d’autre dessein patent que de transformer la vieille
station à demi abandonnée de «Benzert» et qui remontait à la conquête
espagnole, en un port de pêche et un port commercial à tout le moins
abordable. Ce fut ainsi que, le plus simplement du monde, on mit, pour
la première fois, la pioche en terre et qu’on commença à élargir et à
régulariser le chenal.

Même, pour ces premiers travaux, si insignifiants qu’ils parussent, il
fallait de l’argent; une combinaison ingénieuse le procura. C’est
Bizerte lui-même qui subventionna l’avenir de Bizerte.

Dans ces lacs ouverts sur la Méditerranée comme des viviers immenses, le
poisson, à des époques et à des heures régulières, monte et descend.
L’armée innombrable des dorades, des loups, des rougets, des bars, entre
et sort par un mouvement régulier et se précipite comme un torrent
alternatif et vivant par l’étroit passage du goulet.

Le monopole de la pêche maritime à Bizerte fut un des avantages
principaux de la concession qui fut consentie à la maison Hersent et
Couvreux, à charge de commencer les premiers travaux du port commercial.

Ainsi, l’inépuisable richesse que le flot emporte et ramène a redressé
le chenal, aligné les premiers quais, poussés au loin, dans la mer, les
rocs des premières jetées. La chair s’est faite pierre, et c’est sur
cette fondation animée que Bizerte s’élève maintenant.

La conception initiale se transformait progressivement, ou plutôt,
poursuivie longuement dans le silence, elle put, sans inconvénient, se
manifester au grand jour.

En 1897, l’Europe était, comme elle l’est aujourd’hui, attentive au
problème oriental qui paraissait sur le point de se poser. Parmi les
difficultés et les lenteurs du concert européen, l’affaire crétoise
évoluait péniblement vers une solution pacifique. Cette heure parut
opportune pour régler définitivement la question tunisienne et pour
délivrer Bizerte.

Ainsi, de ce conflit redoutable de sentiments et d’intérêts, la France
tirait du moins un avantage positif. Son autorité navale dans le
Méditerranée se multipliait, en quelque sorte, par ce «doublet» de
Toulon. Selon le mot de l’amiral Gervais, «près de Tunis la Blanche on
aurait désormais Bizerte la Forte».

Depuis lors, une immense activité règne sur les lacs. Le chenal se
trouve porté de 100 mètres de large à la surface, à 200 mètres. Les
jetées sont prolongées en mer, couvertes par un môle construit par 17 à
20 mètres de profondeur; elles font un immense avant-port et
permettront, en tout temps, l’entrée et la sortie aux bâtiments
français, interdisant, par contre, à une flotte étrangère de forcer le
passage comme à Santiago et «de mettre en bouteille» la flotte
française, abritée sans être enfermée.

Dans le port, de vastes bassins de radoub sont achevés; plus loin
encore, l’arsenal maritime s’élève, plus loin encore les fortifications
construites partout sur la ceinture des collines, défendent la terre,
menacent la mer. Il faudrait un siège en règle, soutenu par une flotte
et une armée formidables pour venir à bout de la résistance
qu’offrirait, dès maintenant, Bizerte. Je ne connais pas de spectacle
plus imposant et, si j’ose dire, plus merveilleux, que celui que
présente à la tombée du jour, sous les lueurs du soleil couchant, cette
immense nappe plane et glauque que dominent, au loin, les défenses
formidables du Djebel-Kébir, et du Djebel-Rouma.²²»

   ²² G. Hanotaux: _La Paix latine_. Bizerte. Pag. 275 e seguenti.



                           ITALIA E AUSTRIA.



  _Capitolo Quarto._ — Le relazioni italo-austriache e l’irredentismo.


Come nacque l’irredentismo anti-austriaco. — La campagna del 1866. — Il
punto di vista di Andrássy e il compito della diplomazia. — Il movimento
irredentista nel 1889. — Dichiarazioni parlamentari e parallela azione
diplomatica di Crispi. — Scioglimento del «Comitato per Trento e
Trieste». — Un giudizio di Francesco Giuseppe su Crispi. — L’imperatore
deplora di non poter venire a Roma. — Il processo Ulmann; come fu
abbandonato dal governo austriaco. — Lo scioglimento della Società _Pro
Patria_ e la _Dante Alighieri_. — Protesta di Crispi. — Corrispondenza
Crispi-Nigra. — Agitazioni irredentiste. — Scioglimento dei Circoli
_Oberdank_ e _Barsanti_. — La Società _Pro Patria_ può ricostituirsi
sotto il nome di _Lega Nazionale_. — Le dimissioni di Crispi nel 1891 e
l’Austria. — L’agitazione dell’Istria nel 1894. — Crispi domanda
l’intervento dell’imperatore Guglielmo e l’ottiene. — L’ambasciatore
Lanza. — Il ritiro di Kálnoky.


L’irredentismo anti-austriaco nacque all’indomani della disgraziata
campagna del 1866. Ognuno sa che il 25 luglio di quell’anno Garibaldi fu
fermato sulle balze del Trentino e obbligato a ripassare la frontiera da
un telegramma del Capo dello Stato Maggiore, e ministro presso il Re,
generale Lamarmora, nel quale era detto che «considerazioni politiche
esigevano imperiosamente la conclusione dell’armistizio» e il ritiro dal
Tirolo delle schiere garibaldine. Garibaldi obbedì a malincuore e nel
paese rimase l’impressione che si sarebbero allora ottenuti i confini
naturali d’Italia alle Alpi Giulie se la guerra non fosse stata condotta
con incoerenza inesplicabile e se la pace non fosse stata conclusa
affrettatamente.

    «Una sera — ha lasciato scritto Crispi — il discorso cadde sulla
    guerra del 1866. Io gli chiesi [al principe di Bismarck] perchè
    non levò la sua voce per fare avere all’Italia il Trentino. Egli
    mi rispose: la questione della cessione dei territorii fu
    trattata e definita tra i due imperatori, Napoleone e Francesco
    Giuseppe, prima della conchiusione della pace, senza il nostro
    intervento.

    Appare chiarissimo — soggiunge Crispi — che l’intervento di
    Napoleone nelle cose nostre fu anche nel 1866 funesto all’opera
    della unificazione italiana. Nè noi, nè la Prussia potemmo
    spiegare la nostra volontà. Fu dato il Veneto entro i limiti
    delle frontiere amministrative impedendoci di ottenere le Alpi
    orientali.»

Altrove abbiamo narrato le vicende del movimento irredentista, che ebbe
dapprima (1868) a suo centro il comune di Palmanova presso la frontiera
austriaca, e un giornale, _Il Confine orientale d’Italia_, che cominciò
le sue pubblicazioni a Udine in gennaio 1870; abbiamo altresì accennato
incidentalmente all’azione esercitata da Crispi in favore dei sudditi
austriaci di nazionalità italiana. Qui vogliamo documentare con dati
precisi l’accorgimento col quale l’on. Crispi regolò durante il suo
governo le relazioni italo-austriache, difficili e delicate tra le
agitazioni irredentiste e le esorbitanze della polizia politica
dell’Austria.

Non si deve tacere che Crispi non pensò mai che gl’italiani potessero
rinunziare ad ottenere la loro frontiera naturale coll’impero austriaco.
Egli pensava che è debole uno Stato le cui frontiere sieno aperte e
deplorò più volte che i ministeri italiani non avessero saputo cogliere
le occasioni favorevoli per definire la questione rimasta insoluta nel
1866. Una lettera privata del 1.º luglio 1891 ci rivela che Crispi
contava di affrontare quella questione in occasione del rinnovamento del
trattato della Triplice Alleanza. Dopo avere risollevato il prestigio
dell’Italia e acquistato personalmente autorità e fiducia presso il
governo austriaco, Crispi sperava di riuscire. Ma, come è noto, egli
lasciò il governo (31 gennaio 1891) circa un anno e mezzo prima che il
trattato scadesse (30 maggio 1892). Nella citata lettera Crispi
scriveva:

    «Al 1882 non ci volevano nella lega perchè non avevamo un
    esercito importante; perchè si diffidava di noi, e per gli
    elementi irredentisti nel gabinetto e pei ricordi del 1866.

    Oggi ci vogliono, e l’alleanza con l’Italia è festeggiata a
    Berlino e Vienna. Perchè? Pel milione dugentomila soldati che
    possiamo mettere in campo, e per la sicurezza che faremo il
    nostro dovere.

    Nel rinnovamento del trattato potevamo far sentire il peso delle
    nostre forze. Lo si poteva e si doveva, chiedendo per compenso
    almeno una rettificazione delle frontiere. E l’avremmo potuto
    ottenere, sapendo agire. A Vienna se l’aspettavano; e Berlino
    avrebbe pesato sopra Vienna.»

È certo che l’Austria non rinunzierà al Tirolo italiano se non sotto la
pressione di circostanze eccezionali. Ma al 1891 quando Crispi cedette
all’on. di Rudinì la direzione della politica estera si era già lontani
nelle sfere ufficiali austriache da quello stato d’animo che ispirava al
Cancelliere dell’Impero, conte Andrássy, la lettera del 24 marzo 1874
all’ambasciatore imperiale a Roma, conte Wimpffen.

In essa l’Andrássy scriveva:

    «Rapporti provenienti da fonti diverse ci hanno segnalato il
    partito preso col quale certi giornali italiani incoraggiano le
    speranze di alcuni malcontenti a Trieste e nel paese di Trento.
    Il colloquio che recentemente avete avuto col signor
    Visconti-Venosta sull’argomento e del quale m’informate nella
    vostra lettera particolare del 18 aprile offrendomene
    l’occasione, ne profitto per indicarvi le mie vedute.

    Io sono convintissimo della riprovazione che incontra e
    incontrerà in avvenire, tanto presso il Re che presso i
    ministri, ogni velleità d’annessione, e noi non possiamo che
    essere riconoscenti al Governo italiano della premura messa
    nello sconfessare qualsiasi agitazione in tal senso. Non mi
    sembrerebbe meno conforme al nostro comune interesse
    d’intenderci per impedire un movimento sostenuto da una parte
    della stampa italiana, del quale uno dei più grandi
    inconvenienti è di fornire le armi al partito che non vede di
    buon occhio il consolidamento dei rapporti d’amicizia tra
    l’Austria-Ungheria e l’Italia.

    Trattando di tale argomento con gli uomini di Stato italiani, mi
    sembra opportuno che noi ci poniamo non al nostro punto di
    vista, ma a quello dell’Italia. È questo lato della questione
    che tengo a chiarire con le osservazioni che seguono.

    Il partito esaltato in Italia, sperando di ottenere un
    rimaneggiamento territoriale a spese nostre, sembra che confonda
    la situazione esistente quando fu compiuta l’unificazione
    dell’Italia, con quella oggi esistente.

    Dal tempo in cui l’imperatore Napoleone era sul trono e dava la
    mano alle aspirazioni nazionali, allorchè l’Austria, trovandosi
    isolata, senza alleanze, di fronte ad una Prussia mal disposta e
    ad una Russia ancora irritata per la nostra attitudine durante
    la guerra di Crimea, era obbligata a difendere contro il
    sentimento nazionale le Provincie che possedeva in Italia, non
    era difficile provocare una crociata contro l’occupazione
    straniera, la quale, si diceva, calpestava il suolo della
    patria, e la parola d’ordine dell’Italia libera sino al mare
    poteva infiammare gli spiriti anche oltre i confini della
    Penisola.

    Di tutti i motori che alimentavano allora tale movimento, non ne
    esiste più alcuno. Non occorre entrare in spiegazioni minute per
    mostrare che la situazione è cambiata da cima a fondo.

    L’Austria-Ungheria, da parte sua, non pensa a rivendicare i suoi
    antichi possessi italiani.

    Oggi le relazioni fra i due paesi riposano sul mutuo
    riconoscimento delle circoscrizioni territoriali quali sono
    state stabilite dai trattati. Bene o male che siano stati
    tracciati, i confini esistenti sono la base invariabile della
    conservazione dei buoni rapporti fra i due paesi. Se un partito
    qualsiasi, col pretesto della comunanza di lingua, volesse
    domandare la cessione del Tirolo meridionale o d’una parte del
    nostro litorale, non sarebbe l’Austria anch’essa in diritto di
    reclamare il quadrilatero come indispensabile alla buona difesa
    del suo territorio? Ritornare su tale questione significherebbe
    dare _a priori_ ragione al diritto del più forte.

    Dinanzi ad una situazione così pienamente mutata, la persistenza
    d’una agitazione simile a quella che il Governo imperiale e
    reale dovette combattere in altri tempi, non è più motivata nè
    dai bisogni, nè dagli interessi dell’Italia.

    Ciononostante, non è ancora raro veder sorgere delle opinioni
    che denotano una tendenza a disconoscere l’inviolabilità del
    nuovo stato territoriale. Taluni giornali, specialmente, sembra
    che si propongano lo scopo d’incoraggiare le velleità di coloro
    che guardano con occhio di cupidigia una contrada situata al di
    qua delle nostre frontiere.

    Taluno di questi giornali, è vero, fa appello non già ad una
    soluzione con la forza, ma ad un accomodamento amichevole. Ma
    anche per questa via, è necessario ch’io dica che non potremmo
    consentire a modificare l’ordine di cose consacrato dai
    trattati? Ce lo impedirebbe, innanzi tutto, il principio stesso
    che sarebbe messo in questione. Il giorno che ammettessimo un
    mutamento siffatto sulla base di una delimitazione etnografica,
    analoghe pretese sorgerebbero e sarebbe quasi impossibile
    respingerle. Non potremmo infatti cedere all’Italia popolazioni
    affini per lingua senza provocare artificialmente, presso le
    nazionalità poste sulle frontiere dell’Impero, un movimento
    centrifugo verso le nazionalità sorelle prossime ai nostri
    Stati. Cotesto movimento ci porrebbe nell’alternativa di
    rassegnarci alla perdita di quelle provincie, ovvero, sempre
    conformemente al sistema delle nazionalità, d’incorporare nella
    monarchia le contrade limitrofe. Consentire ad un principio
    siffatto sarebbe lo stesso che sacrificare l’integrità della
    monarchia o essere trascinati a deviare dalla politica di
    conservazione della pace e dello _statu-quo_ che seguiamo
    nell’interesse nostro e dell’Europa in generale.

    Si consideri, d’altronde, dove condurrebbe l’idea delle
    frontiere etnografiche se potesse generalizzarsi. Se una
    questione di tale natura si volesse sollevarla tra
    l’Austria-Ungheria e la Germania, dove si troverebbe il _punto
    d’arresto_, e non sarebbe una sorgente dei più gravi conflitti?
    Che cosa avverrebbe se delle rivendicazioni analoghe nascessero
    tra la Germania e la Russia, tra le razze slave incuneate nello
    stesso territorio tedesco, tra le popolazioni di diversa origine
    che abitano nell’Impero ottomano, le quali, _frazionate_ e
    commiste come sono, formano le configurazioni territoriali più
    bizzarre e più ribelli a qualsiasi tracciato di una razionale
    frontiera? Evidentemente la guerra di tutti contro tutti sarebbe
    la conseguenza di simili discussioni.

    Un lavoro di decomposizione e di ricostituzione, quale lo
    sognano taluni utopisti non farebbe altro adunque che dar campo
    a innumerevoli competizioni e comprometterebbe, così, il riposo
    e la sicurezza generale.

    Certamente, la corrente da cui sono derivate le grandi
    agglomerazioni nazionali, ha avuto la sua ragion d’essere; ma se
    oggi ch’esse sono costituite si pretendesse riprendere questo
    lavoro _en sous œuvre_ e proseguire, sino nei minimi dettagli,
    l’applicazione dell’etnologia alla politica, si metterebbe
    imprudentemente in questione l’ordine europeo formatosi
    attraverso tanti dolori e si evocherebbe il caos.

    Gli uomini di Stato che trovansi ora al potere in Italia sono
    troppo illuminati perchè occorra entrare con essi in ampie
    spiegazioni su tale argomento.

    Oggi che non esiste in Austria-Ungheria nessun partito
    importante che aspiri a rivendicare le antiche possessioni
    italiane dell’Impero; oggi che tutti nel nostro paese, obliando
    i dissensi del passato, riconoscono l’Italia unita quale esiste
    attualmente, come una garanzia essenziale della pace e
    dell’equilibrio europeo; oggi quello di cui l’Italia potesse
    voler appropriarsi a nostre spese, non potrebbe avere per essa
    un valore comparabile ai vantaggi assicuratile dalle buone
    intelligenze con la Monarchia austro-ungarica. Io ho la
    convinzione che S. M. il Re, al pari de’ suoi consiglieri, si
    trovino in quest’ordine d’idee. E quindi non v’è ombra di
    rimprovero al loro indirizzo nelle osservazioni che precedono.
    Vi ho insistito unicamente per impegnarli a unirsi a noi nello
    scopo di combattere d’accordo i pericoli derivanti dalle
    agitazioni annessioniste per il mantenimento dei buoni rapporti
    tra i due paesi.

    Noi siamo lontani dal chiedere garanzie contro siffatte
    agitazioni al Governo italiano: la nostra Monarchia trova nelle
    sue proprie forze il rimedio contro il male ch’esse potrebbero
    cagionare. E neppure pensiamo a imputare al Governo del Re il
    linguaggio della stampa indipendente: sappiamo per esperienza
    che sarebbe irragionevole prendersela con le autorità di un
    paese per tutte le aberrazioni dei giornali che vi si
    pubblicano.

    Tutto quello che noi desideriamo è, che i ministri italiani,
    nella misura dell’influenza che sono in grado di esercitare su
    taluni organi, vogliano adoperarsi a far cessare le agitazioni
    di cui si tratta. Io penso che basterà di richiamare la loro
    attenzione sulle considerazioni che ho segnalate, perchè
    provvedano ai mezzi d’imprimere allo spirito pubblico una
    direzione conforme alla nuova situazione.»

L’argomentazione del conte Andrássy non era senza valore dinanzi alle
rivendicazioni più larghe dell’irredentismo, a quelle cioè che si
estendono a tutti i paesi di lingua italiana dell’Impero; era, invece,
poco efficace dinanzi al reclamo del confine che la natura stessa ha
segnato all’Italia.²³ E Crispi riteneva che su questa base più limitata
l’intransigenza di un tempo non esistesse più, e che fosse possibile
alla diplomazia italiana di condurre l’Austria a una considerazione più
equa del problema, gli eventi aiutando.

   ²³ Giova osservare, circa la _unità_ geografico-storica del paese
      oggidì denominato «Tirolo», che questa unità non ha mai esistito.
      Ben altra è l’_unità politica_, la quale data appena dal 1802,
      quando si fece la grande razzia dei principati ecclesiastici e fu
      interrotta dal 1808 al 1815, durante gli anni nei quali il
      Trentino fu annesso al napoleonico regno d’Italia, sotto la
      denominazione di «Dipartimento dell’Alto Adige». Nel 1180 la casa
      bavarese dei Wittelsbach teneva il Tirolo tedesco, cioè il Tirolo
      propriamente detto, ed esercitava l’_avvocatura_, quindi non la
      sovranità, pei principi vescovi di Trento e di Bressanone. Nel
      1363 il Tirolo tedesco passava ad Alberto III d’Absburgo e suoi
      fratelli per successione di Margherita Maultache; nel 1395 al duca
      Federico IV del ramo di Stiria; nel 1496 all’imperatore
      Massimiliano I, finchè chiamata all’impero la linea Stiria-Tirolo
      (1619), nel 1665 restò definitivamente all’imperatore Leopoldo I.
      In tutti questi passaggi di dominazione non havvi mai parola del
      Trentino, nè come parte integrante, nè come dipendenza del Tirolo,
      al quale paese fu annesso, come s’è detto, appena nel 1802 nella
      ricordata soppressione dei principati ecclesiastici. È opportuno
      avvertire che nel medesimo incontro l’Austria acquistava anche il
      principato arcivescovile di Salisburgo, ma invece di incorporarlo
      al finitimo arciducato d’Austria, ne conservò il territorio, a
      differenza dei principati vescovili di Trento e Bressanone, come
      dominio o provincia autonoma, quale è tuttodì, con Dieta propria e
      propria amministrazione. Infine, a sempre più dimostrare che il
      Trentino non fu mai prima del 1802 considerato, nè
      geograficamente, nè politicamente, siccome parte integrante del
      Tirolo, è da aggiungersi che nell’art. 93 del Trattato finale di
      Vienna del 1815, enumerandosi le provincie e territori, dei quali
      si riconosceva la sovranità nell’imperatore d’Austria, suoi eredi
      e successori, sono citati separatamente e singolarmente, non già
      come un corpo solo, «i principati di Bressanone e Trento e la
      Contea del Tirolo».

Ma se egli assegnava alla diplomazia cotesto compito, era ben convinto
che le agitazioni popolari allontanavano la soluzione desiderata,
compromettendo interessi superiori. E combattè l’irredentismo
irresponsabile, non soltanto nelle sue rumorose manifestazioni e nei
suoi disegni segreti, ma anche negli eccitamenti che spesso, per
reazione, venivano dall’Austria stessa, da una polizia politica
irritante e poco accorta. Ispirando fiducia nella fermezza e nella
lealtà del governo italiano, Crispi lavorava a realizzare l’obbiettivo
di un illuminato patriottismo.

Nel 1889 il movimento irredentista, traendo pretesto da ogni incidente e
impulso dagli atti di rigore o di arbitrio delle autorità austriache,
dilagò in buona parte d’Italia. Centri dell’attiva propaganda erano Roma
e Milano, e ad essa partecipavano i più noti del partito radicale; ma,
taluni per amore all’idea di nazionalità, altri, francofili a tutti i
costi, per la speranza di creare tra l’Italia e l’Austria tali antipatie
e dissensi che imponessero lo scioglimento della Triplice Alleanza.

In maggio e in giugno i deputati Imbriani e Cavallotti trovarono modo di
fare per alcuni giorni dell’irredentismo dalla tribuna parlamentare a
proposito della condotta tenuta dal Console generale a Trieste, Durando,
verso un notaio italiano. Avendo l’on. Crispi ordinata un’inchiesta,
sulla relazione di essa si discusse lungamente alla Camera nella tornata
del 10 giugno, e poichè gli oratori d’opposizione avevano toccato
abilmente la corda patriottica e l’assemblea ne era impressionata,
Crispi credette opportuno che la discussione terminasse con un voto
chiaro ed esplicito, il quale ebbe luogo su di una mozione di fiducia
nella politica del governo, presentata dal venerando deputato
Cavalletto. La prudenza dell’uomo di Stato e l’intimo sentimento di
Crispi risaltano nei brani seguenti del discorso ch’egli pronunziò in
quella occasione:²⁴

   ²⁴ Cfr. Atti parlamentari.

    «... Gli onorevoli autori della mozione comprenderanno dalla
    lettura di questa risposta del Piccoli, come cada interamente
    l’accusa che si faceva al Durando.

    Essi sono dolenti dei risultati negativi. Avrebbero voluto, e
    non so con qual beneficio, che il Durando fosse apparso
    delatore, e che il Piccoli fosse appunto un irredentista.

    La questione tra il Durando e il Piccoli non è questione di
    fiscalità; e benissimo disse il Piccoli che neppure il Durando,
    in quel dissidio, era animato da venalità.

    La questione, o signori, è questione giurisdizionale. Trattavasi
    di vedere se, rispetto ai nostri cittadini morti all’estero,
    debba reggere la legge italiana o la legge del luogo. Questa è
    la tesi e la vera tesi. (_Commenti._)

    Con la Convenzione del 15 maggio 1874, che i predecessori del
    Durando fecero male a non applicare, era stabilito ed è
    stabilito (del resto, uguali convenzioni consolari abbiamo con
    tutte le potenze del mondo) che quando un cittadino muore
    nell’Impero austro-ungarico, agli atti di apertura della
    successione e agli atti consecutivi debba essere presente il
    console, o chi lo sostituisca, e gli atti debbano farsi in
    concorrenza con lui, il quale ha la suprema tutela dei nostri
    concittadini.

    Che cosa si voleva dalla parte opposta? Che la legge austriaca
    (e questo per fine di uguaglianza) debba imperare anche sui
    cittadini italiani. Bel sistema d’irredentismo, o signori, e
    proprio mi congratulo con coloro che difendono questa tesi! Ma
    per i principii generali di diritto, per il principio della
    dignità nazionale, in tutte le questioni in cui è impegnato lo
    stato personale, è la legge del paese di origine quella che
    impera. _Civis romanus sum_ in qualunque parte del mondo che io
    sia, è la legge nazionale che deve essere rispettata, e il
    console Durando, in questo caso, difendeva l’Italia e le leggi
    sue. (_Bene!_)

    .... Il corpo consolare ha, in parte, abitudini che non posso
    tutte lodare. Vi sono in esso dei valorosi, degli intelligenti,
    degli uomini i quali sentono la dignità nazionale e
    s’interessano, come ogni altro italiano, alle cose nostre. Ve ne
    sono di quelli che hanno abitudini antiche e antichi pregiudizi.

    Il nostro corpo consolare, signori, nelle sue varie persone,
    discende in parte dagli antichi corpi consolari delle distrutte
    amministrazioni italiane, nelle quali ebbe un’educazione che non
    è la nostra. Quindi non v’è nulla di strano che vi sia in esso
    chi possa commettere, credendo di essere zelante, e di fare
    opera utile nei paesi dove sia accreditato, atti che offrano il
    fianco a qualche censura. (_Commenti._)

    Quante di queste false abitudini non ho trovato, che io ho fatto
    di tutto per distruggere!

    Al Ministero degli Esteri non si parlava che francese prima che
    io vi arrivassi. Era francese il cifrario, francesi le
    corrispondenze. Cominciai per distruggere tutto ciò: il cifrario
    è ora italiano, le corrispondenze sono italiane: ed in questo io
    non faccio che seguire quello che fanno le altre potenze:
    gl’inglesi, i tedeschi, gli spagnuoli, tutti scrivono nella loro
    lingua; è giusto che noi scriviamo nella nostra.

    I cifrari della Germania e delle altre potenze, sono nelle loro
    lingue rispettive, è regolare che anche il nostro sia nella
    lingua che possediamo.

    Questo riguarda la forma, ma è una forma la quale tiene alla
    sostanza. La lingua nazionale è il gran fattore della
    nazionalità. L’obbligo di scriverla ricorda anche ai nostri
    rappresentanti la loro patria nella sua forma più nobile e più
    grande, che è quella della lingua. (_Benissimo!_) Vado un poco
    più in là, o signori.

    In alcuni luoghi i nostri consoli, i nostri rappresentanti,
    danno educazione non italiana ai loro figli, li mandano in
    collegi stranieri, e capirete benissimo come, dopo ciò,
    difficilmente possano avere sentimenti italiani.

    .... La pace dell’Europa ha base nei trattati. Noi, da uomini
    onesti, rispetteremo questi trattati, e, se avvenga che qualcuno
    li violi, sapremo fare il nostro dovere.

    L’illustre Marco Minghetti, sedendo su questi banchi, in una
    discussione politica alla quale ei fu chiamato e nella quale
    seppe rispondere con fulgore di parola e con quella chiarezza
    d’idee che gli erano particolari, disse che per la questione
    della nazionalità bisogna scegliere tempi ed anche momenti
    opportuni, ma che, se mai questa questione risorgesse, se mai le
    guerre portassero a modificare la carta geografica di Europa,
    non sarebbe l’Italia quella che dovrebbe temere, perchè noi
    nulla abbiamo a dare, molto potremmo avere a raccogliere.
    (_Bene! Bravo!_)

    Ma, se questi sono i principii che devono animare ogni patriota,
    segga a quei banchi [accenna ai banchi dei deputati] od a questi
    [accenna a quelli dei ministri], la virtù principale, e degli
    Stati, e degli uomini politici, è la prudenza. (_Bene! Bravo! a
    Destra e al Centro._)

    _Marselli_: — E la fede.

    _Crispi_, _presidente del Consiglio_: — La virtù della prudenza
    è quella che ci condusse a Roma; (_Bene! Bravo! a Destra e al
    Centro_) la virtù della prudenza è quella che valse a costituire
    questa grande unità che tutti invidiano, e non tutti oggi ancora
    rispettano. Noi abbiamo molti nemici che insidiano la nostra
    posizione; e ne abbiamo uno più operoso di tutti, che è nel seno
    stesso della patria nostra, e che sarebbe lieto se, con le arti
    sue, potesse giungere a rompere quel fascio delle tre potenze
    che mantiene la pace del mondo. È un lavoro continuo, è una
    insidia implacabile che ci viene da quel lato; e,
    sventuratamente, talora, ha le lusinghe, e talora gli aiuti di
    qualche potenza. (_Commenti, interruzioni_).

    Aspettiamo dunque gli eventi, e, aspettandoli, rispettiamo i
    trattati, che sono la base della pace del mondo. Questo è il
    nostro primo dovere: lo abbiamo adempiuto e lo adempiremo.
    (_Bravo! Bene! Vive approvazioni._)»²⁵

   ²⁵ La mozione dell’on. Cavalletto era del seguente tenore:

      «La Camera confida che il Governo, seguendo l’impulso già dato,
      provvederà a che i nostri rappresentanti ed agenti consolari
      all’estero, coltivando l’amicizia degli Stati presso i quali sono
      accreditati, esercitino incessantemente sui nostri connazionali
      quella efficace tutela e quella benefica e giusta influenza che li
      mantengano sempre fiduciosi e affezionati alla madre-patria.»

Altra discussione fu fatta alla Camera nella tornata dell’8 luglio, su
interpellanza del Cavallotti. Questi si occupò specialmente di due
fatti: del divieto posto dalle autorità austriache di Riva di Trento
allo sbarco di una comitiva di gitanti italiani, e dell’arresto
prolungato di un giornalista, certo Ulmann. Al discorso violento del
Cavallotti il presidente del Consiglio rispose calmo, conciso. Non aveva
notizie esatte sull’Ulmann, che affermò essere suddito austriaco, mentre
aveva ottenuto la cittadinanza italiana; giustificò il divieto opposto
allo sbarco dei gitanti perchè, secondo un telegramma dell’ambasciatore
Nigra, una comitiva di essi, sbarcata a Riva il 23 giugno, non aveva
rispettato le leggi del luogo gridando per le vie della città «Viva la
repubblica. Viva Trento e Trieste irredente». Ma mentre pubblicamente
scagionava la condotta del governo austriaco dalle accuse, comunque
esagerate, che gli si muovevano, e affermava il dovere della dignità e
della prudenza ricordando che l’on. Cavallotti aveva «cantato in versi e
in prosa, prima e dopo il 1875 l’alleanza con la Germania, e nel 9
aprile 1878 aveva consigliato al conte Corti un’alleanza con l’Austria»,
l’on. Crispi non rinunziava a compiere il suo dovere patriottico presso
il governo austriaco:

                                                    «2 luglio 1889.»

        _Ambasciata Italiana_
          Vienna.

    (_Riservato_). I giornali pubblicano essere stato proibito lo
    sbarco a Riva di Trento ad una comitiva di regnicoli,
    organizzata a scopo di gita di piacere. Questo fatto essendo
    contemporaneo a quello della sospensione delle corse dei vapori
    tra Venezia e Trieste preoccupa sfavorevolmente la pubblica
    opinione in Italia e non è certo l’Austria che ci guadagna;
    mette inoltre il Governo del Re in una difficile posizione,
    tanto più se verrà portato innanzi alla Camera. Voglia dunque
    chiedere schiarimenti intorno al medesimo, e qualora i relativi
    ordini sieno stati dati da Vienna, voglia fare i passi opportuni
    perchè la proibizione sia revocata. Sono atti di polizia che
    ricordano tempi che io credeva per sempre tramontati. Il Governo
    del Re ha lasciato correre atti ben altrimenti importanti, come
    le manifestazioni a favore del papa-re.

    Gradirò una pronta risposta.

                                                          _Crispi_.»

                                           «Vienna, 13 luglio 1889.»

    (_Personale_). Ho chiesto a Kálnoky di procurare informazioni
    sull’andamento del processo Ulmann. Egli mi ha promesso
    domandarle al Ministero di Grazia e Giustizia e di
    comunicarmele, ma mi ha fatto osservare che i consoli,
    all’infuori del levante, non hanno diritto di chiedere alle
    autorità giudiziarie comunicazioni di processi criminali
    pendenti. Quanto alle ragioni svolte nel telegramma di V. E., io
    le esposi amichevolmente al conte Kálnoky, il quale si rende
    perfettamente conto della situazione e apprezza gli sforzi da
    Lei fatti per fare cessare agitazioni irredentistiche, ma
    d’altra parte egli mi disse che sarebbe ingiusto e di pessimo
    esempio risparmiare i rei unicamente perchè protetti dal partito
    ostile all’alleanza.

                                                           _Nigra_».

Il 17 luglio il Comitato irredentista radicale per Trento e Trieste
diramò il seguente manifesto firmato da Giovanni Bovio, Matteo Imbriani,
Antonio Fratti e da altri:

        «_Italiani!_

    Quando governi e parlamenti — obbliano i diritti ed i doveri
    della Nazione — dalla grande anima del popolo sorge una voce,
    che i diritti ed i doveri tutti del presente raccoglie e
    compendia in un motto: _Trieste e Trento_.

    È l’istinto dell’ente collettivo, è la coscienza nazionale, che
    proclama alto questi nomi, nel momento storico necessario.

    E il pericolo è grave, immediato.

    Patti che non conosciamo ci vincolano. Sappiamo solamente che
    una odiosa alleanza ci lega ai nemici nostri.

    L’Italia è minacciata da una guerra che dovrebbe sostenere per
    interessi di altri — contro i proprî — e dalla quale, vinta o
    vincitrice, uscirebbe mancipio dello straniero.

    E frattanto mancipii viviamo, quasi fossimo condannati a servire
    sempre.

    Ma dei fatti nostri noi soli siamo arbitri.

    Avvaliamoci di tutti i mezzi che ci vengono consentiti;
    l’opinione pubblica può impedire grandi sciagure — la volontà
    determinata del popolo s’imporrà a tutti.

    Scongiuriamo i pericoli sovrastanti; stringiamoci in un patto
    nei sacri nomi di Trieste e Trento. — Questo motto e grido che
    scuote — è squillo che unisce — è monito che avverte.

        _Roma, 17 luglio 1889._

                             _Avvertenze._

    Le associazioni operaie, patriottiche e politiche, le Società
    dei Veterani e reduci dalle patrie battaglie, Circoli popolari e
    quanti fra i patrioti curanti la causa nazionale aderiscono al
    presente appello, sono vivamente pregati d’inviare sollecita
    dichiarazione e di costituire immediatamente nelle rispettive
    località Comitati e nuclei con identico programma, mettendosi
    tutti in diretta comunicazione con questo Comitato di Roma, per
    le opportuna intelligenze sul lavoro da compiersi in comune.

    Tutte le comunicazioni dovranno essere inviate al seguente
    esclusivo indirizzo:

    Comitato per Trieste e Trento — _Roma_.»

L’on. Crispi ordinò che s’impedisse l’affissione di questo manifesto e
sciolse il Comitato, con grande sdegno del partito democratico che
moltiplicò le proteste e votò anche una querela contro l’autorità di
pubblica sicurezza, la cui redazione fu affidata ai 24 avvocati del
Circolo radicale, tra i quali erano Barzilai, Gallini, Vendemini,
Pellegrini.

Con circolare del 19 luglio Crispi proibì i Comizii che la Commissione
esecutiva segreta del Comitato irredentista aveva predisposti dovunque.
L’agitazione, tuttavia, promossa dai Comitati «pro Trento e Trieste»
sorti dai fianchi delle Associazioni radicali, era vivace, e i tentativi
di dimostrazioni contro l’Austria continui. Crispi era risoluto a
prevenirle e a reprimerle. Al prefetto di Ravenna telegrafava il 22
luglio dolendosi che a Conselice non fossero state deferite all’autorità
giudiziaria grida sediziose emesse in una dimostrazione irredentista,
perchè «questo nuoceva al prestigio del governo e accresceva l’audacia
dei perturbatori dell’ordine pubblico».

Dopo quest’atto di rigore, l’on. Crispi telegrafava a Berlino:

                                                     «Roma, 29-7-89.

        _Ambasciata Italiana_
          Berlino.

    (_Riservato_). Nel suo telegramma del 25 luglio V. E. accenna
    che costì fece buona impressione il decreto di scioglimento del
    Comitato per Trento e Trieste. Ho fatto quello che era mio
    dovere. Ma non posso celare il mio pensiero, che nel regolarsi
    cogli italiani dell’Impero le autorità austriache non sono nè
    sapienti nè prudenti. Sevizie e processi a nulla giovano, ed
    inaspriscono gli animi. Desidero quindi che V. E. preghi il
    Principe Cancelliere a nome mio di far giungere a Vienna
    consigli di prudenza e di temperanza. Il Governo austriaco
    comportandosi paternamente verso gli italiani della Monarchia
    renderebbe più facile il mio compito verso gli irredentisti.

                                                          _Crispi.»_

Il principe di Bismarck non ricusò il suo intervento:

                                            «Berlino, 7 agosto 1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Riservato_). Cancelliere, cui venne riferito sul messaggio
    contenuto nel telegramma di V. E. 29 luglio, volendo per quanto
    è possibile tener conto del desiderio da Lei espresso fece
    trasmettere al Principe Reuss istruzioni confidenziali di
    parlare in tempo opportuno ed in via privata al conte Kálnoky
    sull’argomento delicato riguardo contegno prudente e moderato da
    osservare dalle Autorità austriache verso Italiani dell’Impero.
    Quell’Ambasciatore dovrà dunque nei suoi colloquii evitare
    perfino apparenza d’intervento ufficiale come dal dare appiglio
    a sospetto qualunque che il Gabinetto di Berlino miri ad
    esercitare anche indirettamente una pressione sul Governo
    Austro-Ungarico, e ciò appunto per non correre rischio di
    ottenere risultati contrarii al compito di V. E. verso gli
    irredentisti.

                                                          _Launay_.»

Frattanto la causa dell’irredentismo, sostenuta dal partito radicale,
continuava ad agitare il paese. Quale rapporto vi fosse tra cotesto
movimento e l’ingerenza che segretamente il governo francese non ha mai
cessato di esercitare in Italia, è difficile stabilire. Le autorità
politiche delle maggiori città ritenevano che gl’irredentisti avessero
accordi in Francia e probabilmente anche pecunia.

Il 9 e 12 agosto il prefetto di Napoli, senatore Codronchi, telegrafava
al ministro dell’interno:

    «Imbriani — d’accordo con Cavallotti — lavora per arruolare un
    numero di giovani, e tentare un’invasione nel territorio
    austriaco al solo scopo di turbare le relazioni fra lo Stato e
    l’Impero Austro-Ungarico. Si raccolgono armi.»

    «In aggiunta miei precedenti telegrammi comunico che deputato
    Imbriani fu recentemente in Francia per prendere accordi sugli
    arruolamenti clandestini che dovrebbero servire a gettare alcune
    bande sulla Dalmazia.... Tra Parigi e Milano è vivissimo lo
    scambio di corrispondenze e di visite.»

L’on. Crispi fece quanto era possibile per mandare a monte gli insensati
progetti, dispose buona guardia al confine e convinse i capi del
movimento della vanità dei loro sforzi.

Il 13 settembre un certo Enrico Caporali attentò alla vita di Crispi,
colpendolo al viso con un grosso selce. Si disse che dall’istruttoria
penale fosse risultato che il Caporali aveva frequentato le riunioni
segrete tenute dall’Imbriani. Comunque, simili atti di violenza sono
ordinariamente il frutto delle intense agitazioni politiche, e la
campagna che da mesi si faceva contro Crispi a cagione del suo fermo
governo verso gl’irredentisti, non fu di certo estranea all’attentato.

L’8 di ottobre in un banchetto offertogli a Firenze, Crispi fece
dichiarazioni recise sull’irredentismo:

    «Da qualche tempo, con parole seduttrici, una pericolosa
    tendenza cerca adescare l’animo delle popolazioni: quella che
    grida la rivendicazione delle terre italiane non unite al Regno.
    I nostri avversari vi cercan materia di agitazioni, ed è materia
    che può appassionare le menti, sia pur generose, ma deboli ed
    irriflessive.

    Circondato, però, in apparenza, dalla calda poesia della Patria,
    l’_Irredentismo_ non è meno oggi il più dannoso degli errori in
    Italia.»

E svolse questo tema dimostrando che il principio di nazionalità non
poteva essere la norma esclusiva della politica italiana, — che disarmo
e guerra, cui miravano gl’irredentisti, erano termini antitetici che
avrebbero condotta l’Italia a perdere unità e libertà, — che l’alleanza
con l’Austria, togliendoci dall’isolamento, ci garentì nel 1882
dall’Austria stessa e ci garentiva la pace; e invocando, infine, la fede
ai trattati, accennò altresì alla «virtù del silenzio» imposta dalla
politica che ci conveniva.

In Austria, mentre si apprezzava la politica ferma e leale di Crispi,
non s’ignorava ch’egli, venuto dalla rivoluzione, era uomo d’idee
tenaci, e che non avrebbe subordinato gl’interessi del suo paese al
tornaconto austriaco. E lo stimavano e l’onoravano per la sua abilità,
come pel suo patriottismo. In un telegramma del 14 agosto,
l’ambasciatore de Launay facendo una relazione del soggiorno
dell’imperatore Francesco Giuseppe a Berlino, riferiva di un colloquio
col Segretario di Stato:

    «Imperatore d’Austria dichiarò quanto sia soddisfatto che il
    nostro augusto Sovrano abbia un primo ministro di tanta vaglia.
    S. M. imperiale è convinta di tutta l’importanza dei vincoli con
    l’Italia pure pel mantenimento della pace. Il conte Kálnoky farà
    tutto il possibile riguardo al contegno da osservarsi verso
    gl’Italiani dell’Impero.»

Il _Fremdenblatt_, giornale officioso della Cancelleria austriaca,
scriveva il 18 settembre in occasione dell’attentato Caporali:

«Il criminoso attentato alla persona del ministro presidente italiano,
del quale per fortuna le conseguenze non sono gravi, diede occasione ad
un numero straordinariamente grande di dimostrazioni di simpatia per
l’illustre uomo di Stato. Sovrani e ministri attestarono al mondo colle
parole di loro condoglianza quanta stima egli possegga all’estero.
Nell’Italia stessa le principali rappresentanze civiche, le società, e
persone private diedero a conoscere con telegrammi e con indirizzi di
saper apprezzare condegnamente l’alto valore d’un Crispi, seguendo in
ciò l’esempio dello stesso Re, le cui affettuose e ripetute domande
sulla salute del ministro, onorano in egual misura il monarca ed il
ministro stesso. Il giovane che lanciò il sasso contro del Crispi per
ucciderlo, siccome egli medesimo confessa, ha con ciò provocato una
corrente di simpatia, tale da mettere appunto in piena luce l’importanza
del personaggio, ch’egli erasi prescelto a vittima. L’importanza di
Crispi non è già riposta nelle sue eminenti doti politiche, o nella sua
intelligenza, o nella presenza di spirito, o nella sua risolutezza ed
infaticabile attività; no: essa è riposta in ciò, che egli tutte queste
qualità le mise al servizio di una grande causa, che egli (e ciò
appartiene senz’altro in prima linea al talento politico) è l’ardita
guida su quella via, che egli stesso, uno fra i primi, riconobbe per la
retta....

_È questa l’epoca d’un’Italia veramente indipendente, vincolata a nessun
patronato, che da vera grande potenza_ entra libera di se in una lega di
grandi potenze. Il nome di Crispi è strettamente congiunto a questa
evoluzione; più strettamente che quello d’alcun altro. Egli è il
rappresentante dell’Italia novissima, e la sua posizione fra i
personaggi politici d’Europa segna qual posto tenga l’Italia in Europa.»

Dal _Diario_ di Crispi:

                                                 «1890 — 13 ottobre.

    Verso le 11 ant. è venuto il barone de Bruck di ritorno in Roma
    dopo la villeggiatura.

    Dichiarò aver visto due volte l’Imperatore Francesco Giuseppe,
    in luglio ed in questo mese prima della sua partenza per
    l’Italia.

    L’Imperatore gli manifestò il desiderio di poter vedere spesso
    il nostro Re. Se il nostro Re lo invitasse alle manovre
    militari, l’Imperatore vi andrebbe volentieri. Queste visite
    potrebbero essere annuali, e ricambiarsi anche, andando il
    nostro Re alle manovre militari in Austria.

    I Sovrani dovendo essere accompagnati dai rispettivi ministri,
    ne verrebbe che tra questi si renderebbero facili le
    comunicazioni e lo scambio delle idee. Grande sarebbe il
    beneficio che si otterrebbe da ciò e per le relazioni che
    diverrebbero cordiali fra i due monarchi e per la intimità che
    si costituirebbe fra i due ministri.

    Venendo l’Imperatore alle manovre non intenderebbe aver
    soddisfatto all’obbligo della restituzione della visita al Re,
    dovuta dopo il viaggio di S. M. a Vienna nel 1881.

    La restituzione della visita, lo comprende l’Imperatore,
    dovrebbe farsi a Roma. Egli non può farla nella posizione in cui
    si trova col Vaticano. S. M. I. e Reale se venisse in Roma non
    sarebbe ricevuto dal Papa; e il Monarca austriaco non potrebbe
    subire questo affronto: dovrebbe rompere col capo della Chiesa
    ed egli deve evitare un avvenimento di tanta importanza.

    Francesco Giuseppe parlò di me al de Bruck con parole
    lusinghiere. Disse che il mio contegno, tenendo saldi i vincoli
    di alleanza fra i due Stati, assicura la pace e garantisce il
    benessere dei due popoli. L’Imperatore incaricò il de Bruck di
    portarmi i suoi saluti e le sue speciali felicitazioni.

    Alle 7 di sera il de Bruck ritornò da me per darmi lettura di un
    dispaccio di Kálnoky, ricevuto nel pomeriggio. Il ministro si
    felicita del mio discorso di Firenze, dandone il più lusinghiero
    giudizio.»

Il testo del telegramma del conte Kálnoky è questo:

    «Io prego Vostra Eccellenza di esprimere al signor Crispi le mie
    più fervide congratulazioni per il suo discorso di Firenze e di
    dirgli che egli, colla sua geniale e logicamente inconfutabile
    esposizione degli interessi politici d’Italia, ha dimostrato al
    suo Paese non solo, ma a tutta Europa la rettitudine [_die
    Richtigkeit_] della sua politica. La qual cosa giova all’Italia
    e alla sua situazione internazionale.

    Il suo linguaggio coraggioso e da vero uomo di Stato può, dagli
    alleati d’Italia che hanno iscritto sulle loro bandiere il
    rispetto ai trattati ed ai principii monarchici, essere
    considerato come una nuova prova che la Triplice alleanza così
    necessaria alla pace d’Europa, poggia sopra una solida base e
    possiede nella prudente ed energica personalità del Crispi un
    custode fedele preparato ad ogni eventualità.»

La corrispondenza che segue dimostra l’interessamento che Crispi metteva
nell’eliminare le cause di dissenso tra l’Italia e l’Austria, e il buon
volere del conte Kálnoky, e anche della Cancelleria germanica, nel
secondarlo:

                                                     «Roma 3-9-1889.

        _Ambasciata Italiana_
          Vienna.

    (_Riservato_). Prego Vostra Eccellenza far pratiche, adoperando
    tutta sua influenza personale, perchè il Governo Imperiale
    solleciti per quanto sta in lui l’azione della giustizia
    nell’affare Ulmann. Comunque debba essere la sentenza, è
    interesse politico dei due paesi che si termini presto un
    processo che rimane causa permanente di disagio, e che ad un
    dato momento potrebbe provocare nuovi serii imbarazzi. Vorrei
    Ella ottenesse prima di partire un impegno formale. Pregola
    telegrafarmi.

                                                          _Crispi_.»

                                                  «Vienna, 3-9-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Riservato_). Appena ricevuto il telegramma di V. E. mi recai
    da Kálnoky e gli rinnovai l’istanza anche a nome di V. E. perchè
    facesse tutto ciò che dipendeva da lui per sollecitare esito del
    processo Ulmann. Feci notare a S. E. esser di grande interesse
    politico per i due Stati il tôr di mezzo questa causa permanente
    d’imbarazzo per ambedue. Kálnoky mi promise di fare passi
    solleciti presso il Ministero della Giustizia nel senso
    desiderato e di farmi conoscere l’esito che non mancherò di
    telegrafare.

                                                           _Nigra_.»

                                                 «Vienna, 10-9-1859.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Riservato_). Kálnoky mi ha detto che la istruzione relativa ad
    Ulmann è finita, e che il giudizio è ora deferito alla
    Magistratura ed al Giurì d’Innsbruck. Egli crede che il processo
    sarà terminato prima della riunione del nostro Parlamento e mi
    ha promesso che farà tutto ciò che dipende da lui per
    accelerarlo attivamente. Ho preso atto della sua promessa.

                                                           _Nigra_.»

                                                   «Vienna, 2-10-89,

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Segreto_). Attenendomi istruzioni impartitemi dall’E. V. col
    telegramma di ieri, ho toccato oggi al conte Kálnoky colla
    dovuta prudenza e nel modo che ho creduto più confacente allo
    scopo, la questione dei recenti provvedimenti presi contro
    sudditi italiani a Trieste. Ricordando poscia a S. E. le
    promesse da esso fatte all’ambasciatore di S. M. l’ho pregato
    caldamente di volersi adoperare perchè il processo Ulmann fosse
    terminato al più presto possibile.

    Il conte Kálnoky mi ha risposto che ignorava i particolari dei
    fatti a cui io avevo fatto allusione, e che avrebbe assunto
    presso il conte Taaffe le necessarie informazioni, ma mi ha
    soggiunto che da quanto aveva potuto apprendere dai giornali,
    quei provvedimenti riguardavano sudditi italiani che avrebbero
    preso parte al getto di petardi di cui si avrebbero le prove, e
    che tali provvedimenti non avevano certamente nulla di rigoroso.
    Osservai al conte Kálnoky che nell’interesse di tutti e due i
    paesi sarebbe però necessario di evitare ogni misura che potesse
    servire di pretesto a qualsiasi agitazione, ma S. E. mi replicò
    che detti provvedimenti non avevano un carattere vessatorio e
    che non costituivano altro che una semplice misura di sicurezza
    pubblica che incombe ad ogni Stato di prendere. In quanto al
    processo Ulmann il conte Kálnoky mi ripetè quanto aveva già
    fatto conoscere all’ambasciatore di S. M. e disse che esso aveva
    fatto tutto il possibile per accelerarne la soluzione e che era
    a tale proposito in trattative con il conte Taaffe. Avendo io
    accennato alla urgenza che tale processo fosse terminato prima
    di novembre, cioè prima della riunione del Parlamento italiano,
    S. E. mi rispose che non dubitava che esso sarebbe già terminato
    per quella data e che il ritardo attuale proveniva dalla solita
    procedura giudiziaria indispensabile.

                                                          _Avarna_.»

                                                  «Berlino, 3-10-89.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Riservato_). Il Sottosegretario di Stato scrisse ieri al
    principe Reuss di parlare al conte Kálnoky nel senso del
    telegramma di V. E. del 1º ottobre riguardo al contegno delle
    autorità austro-ungariche a Trieste. Non occorre notare che
    condizione essenziale di riuscita di tale entratura sia di
    osservare segreto il più assoluto sull’istruzione trasmessa dal
    Governo imperiale al suo rappresentante a Vienna.

                                                          _Launay_.»

                                                «Vienna, 22-10-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    Nel ricevimento ebdomadario di oggi ho fatto presso S. E. il
    conte Kálnoky nuove insistenze nel senso delle istruzioni
    impartitemi dall’E. V. con telegramma del 12 relativamente
    processo Ulmann. Egli ha detto che s’era anche recentemente
    occupato di questo affare, che ne aveva parlato col Ministro
    della Giustizia, perchè si adoperasse per sollecitare al più
    presto la soluzione del medesimo, e che sperava sempre che
    avrebbe potuto essere terminato prima della fine del mese. Nel
    caso contrario, egli ha aggiunto che si sarebbe provveduto
    perchè si riunisse per questo processo una sessione
    straordinaria.

                                                          _Avarna_.»

                                                «Vienna, 27-10-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    Kálnoky mi ha pregato oggi di recarmi da lui per parlarmi del
    telegramma di V. E. da me comunicato ieri a Szögyeny relativo al
    processo Ulmann. Egli ha detto che, malgrado desiderio che qui
    si ha di corrispondere ai desideri di Lei, non era possibile
    accordare al R. Console la facoltà di assistere, nella sua
    qualità ufficiale, a quel processo, giacchè la concessione di
    tale facoltà, che non venne mai data ad alcun console estero,
    era contraria alla legislazione austriaca. Se questa fosse ora
    accordata al R. Console, il Governo sarebbe costretto concederla
    pure ai consoli degli altri Stati, ciò che non potrebbe
    ammettere. Feci nuovamente osservare a Kálnoky, che simile
    facoltà era però accordata ai consoli esteri in Italia e che
    sarebbe stato opportuno per i legami d’amicizia esistenti fra i
    due governi, essa fosse concessa ai RR. Consoli in
    Austria-Ungheria; ma il Ministro rispose che ignorava essa fosse
    stata accordata ai consoli austro-ungarici in Italia e da quanto
    a lui risultava essi non ne avevano almeno fatto mai uso. Del
    resto, egli aggiunse che il Ministro di Grazia e Giustizia
    austriaco erasi già pronunziato contrariamente a questa
    concessione nel progetto di dichiarazione (di cui mi diede
    lettura e che verrà in seguito comunicato alla R. Ambasciata) da
    esso preparato in contrapposto a quello del R. Governo
    relativamente all’interpretazione dell’articolo 16 della
    Convenzione consolare del 1874. Kálnoky mi pregò infine
    d’esprimere a V. E. suo rammarico che la legislazione austriaca
    impedisse al Governo Imperiale di soddisfare in questa occasione
    la di Lei domanda.

                                                          _Avarna_.»

                                                «Berlino, 7-11-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Riservato_). Prima di ricevere telegramma di V. E. del 5 corr.
    avevo domandato per ben due volte a questa Cancelleria imperiale
    quale fosse il risultato delle istruzioni trasmesse al principe
    di Reuss in conseguenza del desiderio espresso nel telegramma di
    V. E. del 1.º ottobre. Mi fu risposto che era in corso a Trieste
    una inchiesta la quale avrebbe già messo in rilievo seri gravami
    contro Ulmann ed altri imputati politici di quella città: mi fu
    d’altronde assicurato che verso l’epoca della gita
    dell’Imperatore Guglielmo a Monza, furono da noi esposti gli
    inconvenienti che il giudizio non avesse luogo prima della
    riunione del nostro Parlamento. Supponeva che di ciò fosse stata
    fatta menzione nei colloqui di V. E. col conte di Bismarck. Mi
    feci premura di parlare colla voluta prudenza al
    sotto-segretario di Stato e d’insistere nel senso del telegramma
    giuntomi ieri sera; egli ne riferirà a Friedrichsruhe, il
    Principe Cancelliere non essendo aspettato a Berlino che verso
    metà di questo mese. Intanto il S. S. di Stato non taceva quanto
    riuscirebbe malagevole di tornare con Kálnoky sopra argomento
    così delicato e che sta fuori della sua competenza. Il Gabinetto
    di Berlino per quanto gli spetta evita di sporgere querela sia
    in Austria-Ungheria che in Russia per certe amministrazioni che
    sicuramente non procedono coi dovuti riguardi per gli interessi
    dei tedeschi nei due Imperi.

                                                          _Launay_.»

                                                 «Vienna, 7-11-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    Kálnoky non dovendo tornare a Vienna che domani, ho comunicato
    stamane a Szögyeny telegramma di V. E. in data di ieri, relativo
    processo Ulmann. Ho insistito presso lui sugli inconvenienti
    risultanti dal ritardo frapposto nel terminare quel processo,
    specialmente in vista della prossima riunione del Parlamento
    italiano. Egli mi ha risposto che avrebbe riferito a Kálnoky,
    appena fosse tornato, la mia comunicazione, e che oggi stesso
    avrebbe parlato a Taaffe perchè si adoperasse altrimenti per
    fare dare un pronto compimento al giudizio, che egli disse non
    essere infatti ancora cominciato, malgrado le promesse state
    fatte al Ministero Imperiale e Reale. Szögyeny ha aggiunto che
    si rendeva perfettamente conto degli inconvenienti da me
    accennati, e che per ciò qui si metteva ogni impegno per
    accelerare la soluzione del processo, che sperava avrebbe potuto
    essere terminato prima della riunione del nostro Parlamento.

    Appena avrò potuto vedere Kálnoky, non mancherò di far nuove
    insistenze nel senso delle istruzioni di Lei.

                                                          _Avarna_.»

                                                «Vienna, 10-11-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    Ho profittato dell’udienza datami oggi da Kálnoky per insistere
    nuovamente presso di lui perchè il processo Ulmann fosse
    terminato prima della riunione del Parlamento italiano. Egli mi
    ha risposto che, subito dopo il suo ritorno da Friedrichsruhe,
    aveva in questo senso adoperato tutta la sua influenza personale
    presso il Ministro di Giustizia, il quale però avevagli
    rappresentato le difficoltà che tuttora si opponevano a che il
    processo potesse essere terminato nel termine desiderato,
    giacchè era necessario procedere alla traduzione dall’italiano
    al tedesco di tutti gli atti voluminosi del processo. In tale
    stato di cose Kálnoky mi ha pregato di annunziare all’E. V. che
    egli per far cosa gradita e per togliere di mezzo questa causa
    d’imbarazzi tra i due Governi aveva proposto che non si desse
    più seguito al processo Ulmann e che questi fosse rinviato in
    Italia. Egli sperava che l’Imperatore avrebbe acconsentito a
    tale sua proposta.

                                                          _Avarna_.»

                                                «Vienna, 16-11-1889.

        _S. E. Crispi_
          Roma.

    (_Personale_). Kálnoky mi annunziò oggi che fedele alla promessa
    fattami e tenendo conto speciale delle istanze di V. E. di
    abbandonare il processo contro Ulmann e di espellerlo in Italia,
    S. M. diede il suo consenso e l’ordine relativo è stato
    impartito. Ho ringraziato in di Lei nome il Conte Kálnoky di
    questo provvedimento che fa testimonianza di moderazione governo
    imperiale e di deferenza verso il governo del Re.

                                                           _Nigra_.»

    «Come fulmine a ciel sereno — annunziava il 19 luglio 1890 il
    giornale slavo _Narodni List_ di Zara — è scoppiata la notizia
    che il governo ha sciolto la Società _Pro Patria_ la quale aveva
    la sua sede a Trento e diramazioni in tutte le terre «irredente»
    della nazione italiana in Austria.... Si racconta che
    nell’ultimo Congresso tenuto a Trento, _inter-pocula_ se ne
    intesero tante e tante che obbligarono il governo allo
    scioglimento della Società. Benedetto vino che compromise
    Noè....»

La notizia che con gioia non dissimulata dava l’organo dei croati, era
vera. I motivi del decreto di scioglimento erano questi che trascriviamo
testualmente:

    «La Società non politica _Pro Patria_ la quale, a mezzo di
    gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al Litorale ed
    alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29 giugno 1890
    in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dr. Dordi e fra vivi
    applausi ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via
    telegrafica alla Società _Dante Alighieri_ in Roma, nonchè al
    presidente della stessa, Bonghi, la piena adesione e le più
    sincere felicitazioni;

    Essendo notorio che la Società _Dante Alighieri_ in Roma osserva
    un contegno ostile alla monarchia austro-ungarica ed emergendo
    da ripetute comunicazioni pubbliche, portate a generale
    conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le
    aspirazioni di quella Società sono rivolte direttamente contro
    l’interesse dello Stato austriaco, la Società _Pro Patria_, col
    summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre
    agli scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima
    linea, mira anche ad altri scopi e precisamente a scopi
    politici, i quali secondo le circostanze potrebbero cozzare con
    le disposizioni del codice penale;

    Questa tendenza sleale ed anti-patriottica della Società _Pro
    Patria_ si è palesata anche in modo indiretto col fatto, che il
    comitato, costituito per l’organizzazione di festività in
    occasione del Congresso generale della Società _Pro Patria_ in
    Trento, a capo del quale era il presidente del gruppo locale di
    Trento, l’avvocato Carlo Dr. Dordi, tralasciò di imbandierare la
    città, come era progettato ed anche notificato all’Autorità, in
    seguito al decreto di quell’i. r. Commissario di polizia, a
    tenore del quale l’imbandieramento non venne concesso che a
    condizione che contemporaneamente venisse pure inalberata in
    posizione distinta una bandiera dai colori dell’impero
    austriaco....»

Lo scioglimento della _Pro Patria_ di una associazione cioè che si
proponeva fini non politici, ma di cultura, era stato da parecchi mesi
deciso, da quando, in aprile, l’idea di un monumento a Dante in Trento
veniva accolta e suffragata in Italia da numerose sottoscrizioni come
affermazione d’italianità. La pubblica sottoscrizione per l’erezione
della statua era stata permessa in Austria dall’Imperatore; in Italia,
quando ad essa vollero partecipare Consigli Comunali e provinciali con
esplicite deliberazioni politiche, fu vietata da Crispi. Ma ciò non
bastò al governo austriaco, il quale credette opportuno di colpire il
sentimento italiano, come se questo potesse mortificarsi o distruggersi
con una misura di polizia. Il pretesto non era neppure ben scelto,
poichè non era vero che nell’incriminato e non trasmesso telegramma alla
società _Dante Alighieri_, allora costituitasi, il congresso della _Pro
Patria_ avesse fatto «piena adesione», mentre invece aveva soltanto
espresso «la propria soddisfazione per la costituzione» di quella
Società. Ed era anche infondato che la _Dante Alighieri_ «osservasse un
contegno ostile alla monarchia austro-ungarica» e che le aspirazioni di
essa fossero «rivolte direttamente contro lo Stato austriaco». Il
secondo motivo del decreto era anch’esso insussistente, perchè a Trento,
in occasione del congresso, non era stata esclusa la bandiera
dell’impero essendosi dal Comitato locale — che nulla poi aveva da fare
con la presidenza della Società _Pro Patria_ — rinunziato
all’imbandieramento della città.

La _Dante Alighieri_, chiamata in causa nel decreto dell’i. r. Ministero
dell’interno, protestò con la seguente lettera diretta a Crispi, quale
Presidente del Consiglio e ministro degli affari esteri:

        «_Eccellenza_,

    Nel decreto di scioglimento della Società _Pro Patria_, dal
    Governo austriaco è dato a prova della condotta sleale e
    antipatriottica di essa — così dice — il seguente principale
    motivo:

    «La Società non politica _Pro Patria_, la quale, a mezzo di
    gruppi locali, estende la sua attività al Tirolo, al litorale ed
    alla Dalmazia, nel Congresso generale tenutosi il 29 giugno 1890
    in Trento, dietro proposta del socio Carlo Dott. Dordi e fra
    vivi applausi, ha deliberato a voti unanimi di comunicare in via
    telegrafica alla Società Dante Alighieri in Roma, nonchè al
    presidente della stessa. Bonghi, la piena adesione e le più
    sincere felicitazioni;

    «Essendo notorio che la Società Dante Alighieri in Roma osserva
    un contegno ostile alla monarchia austro-ungarica, ed emergendo
    da ripetute comunicazioni pubbliche portate a generale
    conoscenza mediante la stampa periodica italiana, che le
    aspirazioni di quella Società sono rivolte direttamente contro
    l’interesse dello Stato austriaco, la Società _Pro Patria_ col
    summenzionato deliberato ha dato a conoscere che essa, oltre
    agli scopi scolastici, messi dallo statuto sociale in prima
    linea, mira anche ad altri scopi, e precisamente a scopi
    politici, i quali, secondo le circostanze, potrebbero cozzare
    con le disposizioni del codice penale».

    Il Consiglio centrale della Società Dante Alighieri non può
    scegliere migliore testimone della erroneità patente di tali
    asserzioni che il Presidente dei ministri del Regno d’Italia.

    La Società Dante Alighieri non si è tenuta segreta; ha operato e
    discorso alla luce del giorno; ha comunicati i suoi intendimenti
    al Governo e dal Governo ha ricevuto conforto e aiuto.

    Ciò basta a provare che nessuno dei fini che le attribuisce il
    decreto austriaco le si può legittimamente attribuire; ed è
    obbligo, non diciamo soltanto nostro, ma del nostro stesso
    Governo, di protestare contro asserzioni che impugnano la lealtà
    nostra e la sua.

    La Società Dante Alighieri non si è proposta di esercitare altre
    influenze in ogni paese dove vivano italiani, se non quelle che
    Società della stessa natura esercitano dappertutto, senza nessun
    sospetto di adoperarsi ad altro che a mantenere vivaci e fecondi
    alcuni vincoli intellettuali, morali e storici.

    In Austria stessa i Tedeschi e gli Slavi fuori dei suoi confini
    le esercitano rispetto a’ Tedeschi e agli Slavi dentro i suoi
    confini. Perchè solo agli Italiani, che non sono retti dal
    Governo austriaco, dovrebbe esser vietato di esercitarle
    rispetto a quelli che sono retti da esso? Gioverebbe al Governo
    austriaco stesso mostrare al mondo che solo gli Italiani
    considera come nemici, e dove per gli altri popoli il Governo
    austro-ungarico è monarchia, solo per essi non schiva di parere
    tirannide?

    Noi non entriamo a giudicare l’atto altamente rincrescevole per
    il quale è stata sciolta la Società _Pro Patria_, che aveva
    comuni i fini con noi, fini supremamente civili, razionali e
    degni di osservanza e rispetto. Noi sappiamo che non potremmo
    dirigerci al nostro Governo se intendessimo chiedergli che esso
    comunicasse all’austriaco un nostro giudizio e suo. La libertà e
    l’autonomia dei governi, o bene o male usate, sono un principio
    supremo di condotta per tutti.

    Questo soltanto ci preme di accertare: che cotesto atto di
    scioglimento di una Società tanto benemerita, fin dove presume
    di avere avuto motivo dalle sue relazioni colla nostra, da
    telegrammi supposti che non abbiamo mai ricevuti, da giornali
    italiani dei quali nessuno è organo nostro, e da simili altre
    accuse in tutto fantastiche, non ha in realtà motivo di sorta o
    almeno nessun motivo che si confessi apertamente.

    Sicuri che Ella vorrà tener conto di questa nostra protesta e
    usarne nei modi che Ella creda meglio opportuni, le attestiamo
    il nostro ossequio.

    Dell’Eccellenza Vostra

    Dev.mi

        _I Membri presenti in Roma del Consiglio_ _Centrale
        della Società Dante Alighieri_: _Ruggero Bonghi_,
        deputato al Parlamento, presidente — _G. Solimbergo_,
        deputato al Parlamento, vicepresidente — _Giulio_
        _Bianchi_, deputato al Parlamento — _Ferdinando_
        _Martini_, deputato al Parlamento — Avvocato _Pietro_
        _Pietri_ — Dottor _Gaetano Vitali_, segretario.»

L’azione diplomatica che in quella circostanza spiegò l’onorevole Crispi
risulta dai seguenti documenti:

    «[_Telegramma_]

        _Conte Nigra ambasciatore d’Italia_
          Vienna.

                                               Roma, 22 luglio 1890.

    (_Riservato-personale_). Che il conte Taaffe abbia sciolto il
    _Pro Patria_, nulla ho da obbiettare, perchè trattasi di un atto
    interno di governo. Quello che dovrò osservare a V. E. è che il
    ministro austriaco ha commesso due gravissimi errori nella sua
    ordinanza: il primo nell’aver asserito esser stato spedito dal
    presidente del Congresso un telegramma alla Società _Dante
    Alighieri_, il che non fu; il secondo, nell’aver detto che
    questa abbia scopi politici ed irredentisti.

    La _Dante Alighieri_ è un’associazione meramente letteraria, e
    basta conoscere i nomi del suo Presidente e dei suoi socii per
    convincersi come essi sian di opinioni temperate e come nulla
    farebbero che potesse suscitare al Governo italiano imbarazzi
    internazionali.

    Non posso intanto nasconderle che l’ordinanza austriaca ha
    prodotto una dolorosa impressione negli elementi più moderati
    del nostro paese, i quali si domandano se questo sia il modo col
    quale si possa mantenere tra l’Italia e l’impero vicino
    quell’alleanza che tanto ci è necessaria.

    Qui tutti sospettano che il Taaffe, devoto al partito cattolico,
    sia contrario alla triplice alleanza e che vedrebbe di buon
    occhio lo scioglimento della medesima.

    Voglia tener per sè queste informazioni e se ne serva col conte
    Kálnoky qualora lo crederà opportuno.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Conte Nigra_
          Vienna.

                                               Roma, 24 luglio 1890.

        _Signor Ambasciatore,_

    La Luogotenenza di Trento ha sciolto la Società _Pro Patria_. Il
    Governo del Re nulla ha da dire circa un atto di amministrazione
    interna che in sè stesso sfugge al suo giudizio, ciascuno Stato
    essendo padrone di governarsi con i criteri che gli sembrano più
    opportuni.

    Debbo però affermare nell’interesse dei rapporti internazionali,
    che la notizia del fatto ha prodotto nel Regno la più penosa
    impressione, sovratutto per i motivi che dicesi abbiano ispirato
    il decreto di scioglimento.

    In questo, difatti, si dichiara che due sarebbero le ragioni
    dell’atto luogotenenziale. La prima è che il Presidente del
    Congresso tenutosi a Trento il 29 giugno avrebbe inviato alla
    Società italiana _Dante Alighieri_, per mezzo del telegrafo, la
    sua piena adesione e le più sincere felicitazioni per l’opera
    della Società medesima. La seconda sarebbe, che la Società
    _Dante Alighieri_ osserverebbe un contegno ostile alla Monarchia
    Austro-Ungarica e che le aspirazioni di detta società sarebbero
    rivolte direttamente contro gli interessi dell’Impero.

    Or mi permetto di osservare, Signor Ambasciatore. che codeste
    considerazioni sono prive di fondamento. Anzitutto la Società
    _Dante Alighieri_ presieduta dall’Onorevole Ruggero Bonghi, non
    ricevette alcun telegramma dal Congresso Trentino e per
    conseguenza la Luogotenenza imperiale e reale è stata male
    informata. È deplorevole che per un atto di tanta importanza
    s’invochino a motivo due notizie false.

    Passo a ciò che più giova conoscere e che interessa
    un’associazione nazionale, quale è la Società _Dante Alighieri_.

    La Società _Dante Alighieri_ non ha scopi politici. I soci che
    la compongono appartengono al partito moderato e non vanno
    confusi — sarebbero i primi a sdegnarsene — con coloro i quali
    fanno professione d’irredentismo. La Società _Dante Alighieri_
    si propone il culto della lingua italiana in tutte le regioni in
    cui questa è parlata e non oserebbe far cosa che potesse
    influire sulla politica internazionale del Governo o
    pregiudicare l’azione di questo all’estero. Le relazioni della
    Società _Dante Alighieri_ col Governo sono tali e così notorie
    che ritengo come un’offesa fatta a noi ogni imputazione che le
    si possa fare di tendenze faziose, o di atti che in qualunque
    modo o misura potessero ledere le buone relazioni che l’Italia
    mantiene coll’Impero vicino.

    Voglio sperare che il Conte Taaffe, presa notizia delle cose
    come realmente sono avvenute, saprà correggere l’opera della
    imperiale e reale Luogotenenza di Trento. Non intendiamo con ciò
    influire sugli atti amministrativi del governo austriaco, ma
    solamente osservare che a nessuno è dato, ancorchè pubblico
    funzionario, offendere gratuitamente con ingiustificate
    imputazioni un governo amico. Il contegno del Luogotenente non è
    certamente di tal natura da mantenere quell’accordo che noi
    cerchiamo e ci sforziamo di tener saldo, a costo anche della
    nostra popolarità.

    Allorchè io seppi che a Trento volevasi innalzare una statua a
    Dante e che il Governo austriaco aveva permesso non solo questo
    omaggio all’altissimo poeta, ma anche l’istituzione di una
    Società che tende a favorire il culto della lingua italiana, me
    ne compiacqui e rallegrai, vedendo in quell’atto di buona
    politica un fatto reale che alla nazionalità italiana guarentiva
    nel poliglotta Impero gli stessi diritti che sono guarentiti ai
    Tedeschi, agli Slavi, agli Ungheresi, ai Boemi, ai Rumeni ed a
    tutti gli altri popoli che fanno parte dell’Impero.

    Ora sono dolentissimo di dover constatare le condizioni
    difficili che vengono fatte al Ministero Italiano in questa
    occasione. Finchè la fiaccola dell’Irredentismo si trovava
    accesa dai radicali, io non li temevo. Ma l’atto ultimo, il
    quale ravviva la memoria di altri atti non pochi che ogni tanto
    rivelano l’intolleranza di codesto governo, basterà, temo assai,
    a turbare o per lo meno a raffreddare la gente moderata e
    tranquilla, sul cui appoggio il governo sapeva di potere sino ad
    ora contare.

    Non so se Ella riuscirà a far comprendere tutto ciò al Governo
    austro-ungarico e se il Conte Kálnoky dispone di sufficiente
    autorità per richiamare il suo Collega dell’Interno a migliori
    consigli. Dirò soltanto a Vostra Eccellenza come l’alleanza con
    l’Austria, che solo io potevo difendere, avrebbe contro di sè un
    maggior numero di nemici, e che non so se al 1892 o il mio
    successore od io avremmo la forza necessaria a rinnovarla.

    Comprendo che il Conte Taaffe, che è cattolico convinto,
    potrebbe venire dalle ispirazioni del Vaticano indotto ad atti
    che lo obbligassero a combattere l’alleanza delle potenze
    centrali. Però al di sopra di lui sta S. M. l’Imperatore e Re,
    che si distingue per tanto buon senso e per tanta esperienza di
    governo, ed all’Augusto Sovrano non può sfuggire la
    considerazione che l’opera nostra, la quale è utile alla
    Monarchia, è resa oltremodo difficile se il suo Ministro non
    agisce d’accordo con noi per raggiungere lo scopo cui tutti
    miriamo.

    Con ciò fo seguito al mio telegramma dei 22 sera. Le accludo
    copia della protesta direttami il 21 luglio dalla Società _Dante
    Alighieri_, e desidero che Ella si ispiri alle considerazioni
    che sono contenute in questa lettera per discorrere del delicato
    argomento con quelle riserve ed in quei modi che crederà più
    opportuni, avvertendo sempre che è mio intendimento evitare ogni
    causa di dissapori col Governo Imperiale e Reale.

    Gradisca, signor Conte, gli atti della mia alta considerazione.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_
          Roma.

                                             Vienna, 27 luglio 1890,

        _Signor Presidente,_

    Mi pregio di segnar ricevimento della lettera che V. E. mi fece
    l’onore di dirigermi il 24 corr. relativamente allo scioglimento
    della Società _Pro Patria_ la quale fa seguito al telegramma
    ch’Ella mi diresse il 22 corrente, ricevuto il 23, e redatto nel
    medesimo senso; nonchè della copia di lettera annessa, diretta a
    V. E. dal Consiglio Centrale della Società _Dante Alighieri_.

    Al suo telegramma ebbi l’onore di rispondere col mio telegramma
    del 25 corrente che mi pregio di confermare e di qui
    trascrivere:

    (_Riservato_). «Ringrazio V. E. della informazione che mi dà
    rispetto alla Soc. _Dante Alighieri_. Essa sa che il Governo
    Austro-Ungarico non ammette alcuna ingerenza estera per ciò che
    riguarda i sudditi italiani dell’Austria. Io non posso perciò
    parlare della soluzione della Società _Pro Patria_ a Kálnoky,
    tanto meno dopo che un telegramma da Roma inserito nella _Neue
    Freie Presse_ annunzia che io fui incaricato di far passi in
    proposito. Ora mi permetta di rilevare un’espressione del suo
    telegramma. Ella sembra credere che la dissoluzione sia stata
    fatta per sentimenti clericali del Ministero. La quistione non è
    clericale, giacchè nella società disciolta vi erano parecchi
    preti e d’altra parte fra quelli che applaudirono alla
    dissoluzione vi è la stampa liberale tedesca dell’Austria. Il
    fatto è che la dissoluzione è dovuta a certe imprudenze della
    detta società, a proposito delle quali il Governo
    Austro-Ungarico non ammette che noi siamo meglio informati di
    lui, trattandosi di società esistente in Austria».

    V. E. mi rispondeva col telegramma seguente:

                                              «Roma, 26 luglio 1890.

    (_Riservato_). Non ebbi mai in mente ch’Ella reclamasse presso
    codesto Governo contro il Decreto _Pro Patria_ ed i giornali che
    lo scrissero fantasticarono. Nella mia lettera del 24 che non
    tarderà a ricevere, le ho dichiarato che ogni Governo entro i
    confini dello Stato ha pienissimo diritto e nessuno può
    ingerirsi negli atti della sua interna amministrazione. Lo scopo
    per il quale a V. E. mi diressi col telegramma e con la lettera
    fu d’informarla delle impressioni sentite in Italia dal decreto
    per lo scioglimento del _Pro Patria_ e del contegno e degli
    scopi dell’associazione italiana _Dante Alighieri_, che non mira
    alle provincie italiane dell’Austria, ma estende la sua azione
    in tutti i paesi nei quali sono italiani, questa istituzione
    completa l’opera iniziata dal Governo coll’istituzione delle
    scuole italiane all’Estero».

    Confermandole che io non posso fare dello scioglimento della
    Società _Pro Patria_ e delle circostanze in cui si produsse,
    l’oggetto di una conversazione col conte Kálnoky, mi riservo
    però la prima volta che avrò occasione di vedere il conte
    Taaffe, senza entrare nel merito della questione, di fargli
    notare l’errore di fatto in cui cadde nelle considerazioni che
    precedono il decreto relativamente alle comunicazioni della
    Società _Pro Patria_ con quella della _Dante Alighieri_ di Roma,
    e intorno agli scopi di quest’ultima. Ma quest’errore è già
    stato rilevato da una parte della stampa, ed il miglior modo di
    metterlo in rilievo è quello di dare la maggior pubblicità
    possibile alla lettera che in proposito fu diretta all’E. V. dal
    Consiglio Centrale della Società _Dante Alighieri_ in Roma.

    Per quanto mi risulta da ogni fonte il Vaticano ha potuto bensì
    compiacersi dell’accaduto come di cosa che possa nuocere alle
    buone relazioni tra i due paesi, ma non ebbe nessuna parte nella
    determinazione di cui si tratta. La questione, ripeto, non è
    clericale, ma essenzialmente politica ed irredentista. L’E. V.
    tocca, nella sua lettera, una questione assai grave, quella
    della continuazione dell’alleanza dell’Italia
    all’Austria-Ungheria, che sarebbe, a di lei giudizio, resa più
    difficile dalla cattiva impressione che l’atto di cui si tratta
    fece in Italia e si può aggiungere dall’impressione non meno
    cattiva che produssero in Austria-Ungheria alcuni atti della
    Società _Pro Patria_. Non è certo intenzione di V. E. come non è
    la mia, di trattare una simile questione per incidenza. Mi
    limito soltanto a ricordare qui ciò che a Lei è ben noto, cioè,
    che tale alleanza, la quale del resto non fu fatta da Lei nè da
    me, fu consigliata all’Italia da circostanze imperiose che
    ignoro se siano modificate, che fu chiesta dall’Italia, non
    dall’Austria-Ungheria; che fu mantenuta con lealtà da ambe le
    parti, e suppongo con reciproco vantaggio. Spetterà alla
    saviezza dei Governi che presiederanno più tardi alla direzione
    politica dei due Stati lo esaminare se convenga rinnovarla nel
    1892.

    Gradisca, signor presidente, i sensi della mia alta
    considerazione.

                                                           _Nigra_.»

        «_S. E. Conte Nigra_
          Vienna.

                                               Roma, 31 luglio 1890.

        _Signor Conte,_

    (_Personale_). Ho la sua del 27.

    Nulla ho da aggiungere alla mia lettera del 24 ed ai telegrammi
    del 22 e del 26. Sento quanto ella mi scrive nella sua del 27, e
    sul decreto per lo scioglimento del _Pro Patria_ ritengo inutile
    per ora ogni ulteriore discussione.

    Mi permetta, però, che io spenda poche parole sovra un argomento
    che scivolò quasi per incidente nella nostra corrispondenza e
    che è della massima importanza.

    Io non voglio riandare le origini del trattato d’alleanza.
    Ammetto che se ne deve all’Italia l’iniziativa. Posso però
    giudicare la situazione quale essa è, ed in questo giova alle
    due parti parlarne senza preconcetti e con vero disinteresse.

    Io sono di parere che l’alleanza sia utile all’Italia ed
    all’Austria.

    L’Italia deve aver sicure le sue frontiere. Non potendo pel
    momento aver amica la Francia, ed è una sventura, deve ad ogni
    costo tenersi stretta all’Austria, e non comprometterne
    l’amicizia.

    Se l’Austria ci sfuggisse, si alleerebbe subito alla Francia in
    difesa del Papa. Le conseguenze sarebbero incalcolabili.

    L’Austria alla sua volta ha bisogno dell’Italia, la quale, in
    certe occasioni, potrebbe renderle segnalati servizii.
    L’Austria, sicura alle Alpi e nell’Adriatico, avrebbe piena
    libertà d’azione verso l’Oriente, dove sono i suoi veri
    interessi e donde può essere assalita dai suoi veri nemici.

    L’Austria è quella che è, e se volesse modificarsi correrebbe il
    rischio di andare in rovina. Per vivere però è obbligata a
    rispettare tutte le nazionalità racchiuse entro i confini
    dell’Impero.

    Dalla parte nostra dirò che l’Italia è interessata perchè
    l’Austria non si sfasci. Per noi essa è una grande barricata di
    fronte ad eventuali e più pericolosi avversarli, che giova tener
    lontani dalle nostre frontiere.

    Posto ciò, tra l’Italia e l’Austria non ci dovrebbero essere
    quistioni. Quella dei confini sarà, un giorno o l’altro,
    risoluta amichevolmente.

    Vuolsi intanto osservare che in Italia l’alleanza coll’Austria
    non è simpatica, essendo pur troppo recenti i ricordi delle
    lotte nazionali e del mal governo imperiale.

    Necessario, quindi, che l’Austria faccia dimenticare il suo
    passato, e che negli atti di governo eviti di ferire il
    sentimento di nazionalità, che è ancora vivo negli italiani.

    Queste considerazioni, signor Conte, le proveranno che le mie
    opinioni sono abbastanza concilianti, e che quando io chiedo
    qualche cosa da cotesto Governo, lo fo sempre nell’interesse dei
    due paesi.

                                                          Dev.mo suo
                                                       _F. Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_
          Roma.

                                              Vienna, 7 agosto 1890.

        _Signor Presidente,_

    (_Personale_). Ho il suo autografo del 31 luglio e ne La
    ringrazio. Il suo linguaggio è da uomo di Stato, e la sua
    lettera dalla prima all’ultima sillaba è oro di coppella. Ella
    stima l’alleanza utile all’Italia e all’Austria. Posso
    assicurarla che tale è pure l’opinione di Kálnoky e di tutto il
    Ministero austriaco. Questi Ministri si rendono perfettamente
    ragione della cattiva impressione che produce in Italia la
    dissoluzione della Società _Pro Patria_. Ma fra i due mali essi
    preferiscono quello che credono il minore per loro.
    Preferiscono, cioè, che la cattiva impressione si produca in
    Italia, anzichè in Austria. Vogliono l’alleanza e sono pronti a
    eseguirne fedelmente gli obblighi, ma a condizione che non si
    voglia imporre l’irredentismo in casa loro. La situazione è
    tale; e nessun Ambasciatore o Ministro può cambiarla.

    Certo, sarebbe desiderabile che ai sudditi Italiani dell’Austria
    fosse concessa una posizione eguale nel fatto a quella accordata
    alle altre nazionalità dell’Impero. Ma per ottener ciò
    converrebbe che gl’Italiani sudditi dell’Austria si mettessero
    dal loro canto nella situazione delle altre nazionalità, ciò che
    non fanno. Bisognerebbe, cioè, che rinunciassero
    all’irredentismo.

    Invece non lasciano passare occasione senza affermarlo; e la
    Società _Pro Patria_ spinse il suo zelo fino ad una
    dimostrazione contro la bandiera austriaca. Io non mi arbitro di
    giudicarli. Accenno il fatto. E constato, una volta di più, che
    ogni indizio d’un’immistione da parte del Governo italiano in
    questi affari, peggiora, invece di migliorarla, la situazione
    degl’Italiani sudditi dell’Austria. E viceversa, ogni atto di
    questi che miri all’Italia, rende più difficile la situazione
    del Governo italiano verso l’Austria-Ungheria.

    E qui potrei terminare la mia lettera, attesochè in sostanza
    Ella comprende perfettamente la situazione, e sa che non c’è da
    insisterci.

    Ma non posso dispensarmi dal ripeterle qualche altra
    considerazione, già toccata in precedente corrispondenza. Ella
    sembra credere che le disposizioni contro il _Pro Patria_ si
    debbano in parte al clericalismo del Conte Taaffe. Ora mi preme
    il levarla da questo errore. Anzitutto in questo paese sono
    tutti, più o meno, clericali. Ma nel caso presente il
    clericalismo non ha nulla che fare. Se invece del Conte Taaffe,
    il Ministro dell’Interno fosse il più liberale degli Ebrei di
    Vienna, la situazione non cambierebbe d’un punto solo intorno a
    questo affare. Ella ha visto gli applausi con cui la
    dissoluzione fu accolta dalla stampa liberale viennese. Non è
    dunque questione di clericalismo. Ma bensì questione politica
    irredentista. Per carità. La supplico di non vedere i Gesuiti là
    dove proprio non ci sono.

    Mi preme inoltre di ben constatare un altro punto. Io non vorrei
    ch’Ella credesse che io rifugga dal fare a Kálnoky o agli altri
    Ministri imperiali comunicazioni sgradevoli. Abbia la bontà di
    persuadersi che io da questi signori non ho nulla, ma proprio
    nulla, da sperare, nè da chiedere, nè da temere; e che non tengo
    punto a restar qui. Nella posizione mia posso dire molto
    liberamente a loro, come a Lei, come ad ognuno, quello che
    penso, anche quando ciò che penso possa tornar sgradevole. Ma
    non amo dar colpi di spada nell’acqua e far passi non solo
    inutili, ma dannosi, tali, cioè, da raffreddare senza profitto
    le relazioni fra i due Stati.

    Ancora una parola sull’alleanza coll’Austria, ch’Ella mi scrive
    non esser popolare in Italia. Anzitutto io penso ch’Ella renderà
    a Kálnoky la debita giustizia. In ogni questione che finora si
    presentò, il concorso dell’Austria-Ungheria non ci fece mai
    difetto, e fu talora più pronto e più largo di quello della
    Germania.

    Deploro che quest’alleanza non sia popolare presso di noi, e che
    non se ne comprenda la necessità. Le mie simpatie per la Francia
    datano da un pezzo e non le ho mai celate; e, certo, se avessi
    visto la possibilità di un’alleanza tra la Francia e l’Italia,
    io non sarei ora qui. Ma anche quando la direzione delle
    relazioni fra l’Italia e la Francia era in mano d’uomini
    notoriamente amici alla Francia, come Cairoli e Cialdini, non
    solo non fu possibile un’intesa fra i due Governi, ma ci fu lo
    schiaffo di Tunisi.

    Se, ciò non ostante, non vi è simpatia fra noi per l’alleanza
    Austro-Italica, questo prova che il nostro povero paese non è
    ancora stato abbastanza miserabile, e che ha bisogno di altre
    lezioni più disastrose e più umilianti. Si scosti dall’alleanza
    attuale, e le avrà. All’Italia nella situazione presente
    dell’Europa si presentano tre alternative:

    O l’alleanza attuale, con tutti i suoi pesi, ma con la sicurtà;
    o in ginocchio dinanzi alla Francia; o diventare un grande
    Belgio, senza l’industria. E ancora, non è ben certo che il
    grande Belgio, mercè le divisioni e le amputazioni, non
    diventasse piccolo.

    Mi creda, signor Presidente

                                                     Suo devotissimo
                                                           _Nigra_.»

        «_Il R. Console Generale d’Italia a Trieste a Crispi_

                                                               Roma.

                                             Trieste, 3 agosto 1890.

        _Signor Ministro_,

    Anzichè riferire e necessariamente ripetere le notizie già
    pubblicate e diffuse dalla stampa, mi sembra di dover piuttosto
    riassumere e considerare i fatti di maggior rilievo e
    d’interesse per il R. Governo.

    L’ordinanza ministeriale che pronunciò la dissoluzione del _Pro
    Patria_ è stata dappertutto e con estremo rigore applicata ed
    eseguita.

    Chiuse le scuole e gli asili d’infanzia dipendenti dalla
    Società, il Governo con una lunga serie di provvedimenti che i
    più giudicano errori, se ne appropriò i documenti ed i fondi:
    vietò le collette, proibì ogni pubblica adunanza e
    manifestazione e tutti quasi sequestrò i giornali del Regno.

    Ma queste severe misure non fecero che accrescere i malumori
    nazionali ed inasprire una situazione già per se stessa
    difficile, nè scevra di pericoli: offesero ma non sgominarono
    gli italiani; dispiacquero ai tedeschi, inquieti della parte
    d’influenza che lo Stato concede agli Slavi; nè i Croati e
    Sloveni contentarono, perchè parvero miti troppo e
    insufficienti.

    Impensierisce per vero il loro contegno e l’aggressivo
    linguaggio della stampa slava la quale fin d’ora proclama il
    proprio trionfo e la rovina di nostra nazionalità.

    Rassicura invece il calmo e dignitoso atteggiamento degli
    italiani regnicoli e non regnicoli.

    I cittadini del Regno, infatti, provano tuttodì d’intendere non
    solo le esigenze della politica internazionale, ma di sentire
    quanto importi, nell’interesse dei connazionali soggetti
    all’Austria, di starsene assolutamente da parte; i non regnicoli
    hanno saputo resistere al partito che tentò trascinarli più in
    là del dovere, e non colle dimostrazioni nè con clamorose
    proteste, ma servendosi dei mezzi legali forniti dalla
    costituzione, seriamente rivendicano l’uso dei diritti, che la
    stessa costituzione loro consente.

    A Trieste frattanto di giorno in giorno si aspettano le
    decisioni del supremo Tribunale dell’Impero, e tali si sperano
    da permettere che il soppresso sodalizio su altre basi risorga.

    Nell’Istria, dove sono più numerose che altrove le scuole
    italiane, l’agitazione è maggiore: e le fiere parole pronunciate
    dal Podestà di Rovigno nell’ultimo recente Congresso della
    Società Politica Istriana (V. E. potrà leggerne il testo
    nell’accluso foglio) tutta ne rilevano la gravità e
    l’importanza.

    In Dalmazia, e secondo risulta dal pur qui compiegato rapporto,
    gli Slavi danno quasi per finita la lotta, e dettano a dirittura
    patti e condizioni.

                                                         _Malmusi_.»

L’atto del governo del conte Taaffe suscitò in Italia un vivo malumore,
del quale naturalmente profittarono i radicali. L’agitazione
irredentista divampò, e l’on. Crispi dovette adoperare tutta la sua
autorità ed energia per frenarla.

Ecco un saggio delle istruzioni ch’egli dava ai prefetti:

        «_Commendator Basile Prefetto_
          Milano.

                                                               26-7.

    (_Riservato_). Ripeto a lei quel che telegrafai al suo collega
    di Bari:

    Il decreto per lo scioglimento del _Pro Patria_ è un atto di
    politica interna di un governo straniero, contro il quale non
    abbiamo il diritto di agire.

    Rispettiamo l’indipendenza degli altri Stati, se vogliamo
    rispettata la nostra.

    La dimostrazione popolare che si minaccia di fare costà sarebbe
    un reato ai termini dell’articolo 113 del codice penale, il
    quale punisce con la detenzione da tre a trenta mesi ogni atto
    che possa turbare le relazioni amichevoli del Governo italiano
    con un Governo straniero.

    Faccia modo di persuadere i promotori della dimostrazione a
    starsi tranquilli. Qualora i consigli non giovino, esegua la
    legge.

                                                          _Crispi_.»

        «_Commendatore Basile Prefetto_
          Milano.

                                                     31 luglio 1890.

    (_Personale_). I comizi e le dimostrazioni contro il decreto di
    scioglimento del _Pro Patria_ sarebbero atti antipatriotici che
    darebbero ragione al Governo austriaco del preso provvedimento.

    I soci del _Pro Patria_ affermavano che il loro era un sodalizio
    che aveva solo per iscopo la cultura nazionale e la diffusione
    della lingua patria nelle provincie nelle quali si parla
    l’italiano.

    Le dimostrazioni ed i comizi indicherebbero che il _Pro Patria_
    era realmente un’associazione irredentista, siccome la disse la
    luogotenenza di Trento. Ne verrebbe danno ai soci, ai quali
    sarebbe tolta anche la possibilità di ricostituirsi sotto altro
    nome.

    Veda Missori, Antongini ed altri patrioti e tenti di valersi
    dell’opera loro per dare sani consigli a coloro che con un
    preteso patriottismo turberebbero l’ordine in Italia e
    nuocerebbero a quelle popolazioni che dicono di voler redimere.

    Invoco da tutti che sentano i doveri di patria e li adoperino.

                                                          _Crispi_.»

Nella seconda metà di agosto Crispi fu costretto ad adottare un
provvedimento che diremo dimostrativo della sua ferma volontà di
troncare l’agitazione irredentista: sciolse (decreto 22 agosto) le
Associazioni, i Comitati, i Circoli e i Nuclei (denominazioni diverse di
enti che si proponevano scopi identici) intitolati a Guglielmo Oberdank
e a Pietro Barsanti.

Non vi furono contumelie che i radicali non lanciassero a Crispi, pel
suo «servilismo austriaco». Ma egli, in verità, compiva un dovere
penoso, e dei suoi sentimenti fanno testimonianza i telegrammi scambiati
col Re Umberto, il quale era in grado di apprezzare il patriottismo del
suo primo ministro:

        «_A S. M. il Re_
          Montechiari.

                                                     25 agosto 1890.

    Oggi contemporaneamente in tutte le città nelle quali
    esistevano, furono sciolti i sodalizii intitolati _Barsanti_ ed
    _Oberdank_.

    I funzionari della pubblica sicurezza fecero il loro dovere e
    però le operazioni riuscirono.

    In Roma furon trovate delle bombe.

    Gli atti furono mandati all’autorità giudiziaria.

    Sempre agli ordini di V. M.

                                                Il devotissimo servo
                                                       _F. Crispi_.»

        «_S. E. Cav. Crispi Pres. Cons. Ministri_

                                        Montechiari, 28 agosto 1890.

    Ho ricevuto il suo telegramma di avant’ieri sera.

    I provvedimenti presi per lo scioglimento dei Circoli _Oberdank_
    e _Barsanti_ sono ottimi, essendo tali da far cessare una
    equivoca tolleranza indegna di paese reputato civile e liberale.
    La schietta energia di lei varrà a persuadere i facinorosi che
    hanno da fare con un Governo deciso a farsi rispettare e lo
    rispetteranno. Spero che d’altra parte un Governo alleato non
    renderà più difficile il patriottico compito di lei con atti
    eccessivi ed inutili.

    Ad ogni modo di tutto la ringrazio di cuore.

    Qui procede ogni cosa bene. Sono molto soddisfatto dello spirito
    delle truppe, come pure dell’accoglienza che dovunque ricevo
    dalle popolazioni.

    Con sentimenti di viva amicizia

                                                              aff.mo
                                                         _Umberto_.»

        «_A S. M. il Re_
          Montechiari.

                                                     28 agosto 1890.

    L’Austria faccia la sua via. La deploro, ma non devo
    inquietarmene.

    Facendo il nostro dovere e governando fortemente l’Italia,
    potremo a suo tempo aver ragione di dichiarare che non fu nostra
    la colpa se le sorti dell’impero vicino precipiteranno.

    Sempre agli ordini di V. M.

                                                Il devotissimo servo
                                                       _F. Crispi_.»

Nel settembre un incidente del quale un suo collega del Ministero fu
piuttosto vittima che responsabile, contrariò vivamente Crispi e rese
inevitabile un provvedimento che lo addolorò molto.

In un banchetto offerto in Udine all’on. Seismit-Doda, ministro delle
Finanze, uno dei commensali, l’avv. Feder, brindando al Doda e
ricordando che nel 1848

    «udita la rivoluzione di Vienna che fece scappare S. M.
    Cattolica Apostolica Romana» da Trieste si recò a Venezia per
    «partecipare a quell’Assemblea gloriosa che votò la resistenza
    ad ogni costo», augurò che «Sua Eccellenza chiudesse la sua
    laboriosa carriera.... con il viaggio inverso, su nave italiana,
    col tricolore italico spiegato vittoriosamente al vento.»

L’on. Seismit-Doda sentì l’augurio e tacque; ma la stampa s’impossessò
dell’avvenimento e gli attribuì il valore che aveva, quello cioè di una
manifestazione irredentista, presente e presunto consenziente un
ministro del Re.

Crispi telegrafò subito al Doda meravigliandosi del suo contegno, e
rimproverandolo perchè lui e il prefetto non avevano abbandonato la sala
del banchetto.

    «Rimanendo indifferenti — soggiungeva — avete implicitamente
    aderito agli oratori e agli applausi. Capo del Governo, non devo
    permettere che si dubiti della lealtà con la quale vengono
    eseguiti i patti internazionali, nè far sospettare che uno solo
    dei miei colleghi sia contrario alla mia politica.»

L’on. Seismit-Doda non poteva più rimanere ministro. Ma invece di
persuadersene s’irritò, fece comunicazioni ai giornali d’opposizione e
non si arrese all’invito amichevole di dar le dimissioni; cosicchè
Crispi fu costretto a proporre al Re un decreto di esonerazione
dall’ufficio.

La questione fu portata alla Camera e discussa nella tornata del 19
dicembre. Crispi reclamò un voto e la Camera, su di una mozione
presentata dall’on. Angelo Muratori, approvò la condotta di Crispi con
271 _sì_, contro 10 _no_ e 16 astenuti.

La sentenza della Corte suprema dell’Impero sullo scioglimento del _Pro
Patria_ fu pronunziata il 28 ottobre. Essa dette un colpo al cerchio e
l’altro alla botte: approvò l’ordinanza governativa, ma permise che la
Società disciolta si ricostituisse sotto la denominazione di _Lega
Nazionale_. In conclusione al decreto del 16 luglio si volle dare il
valore di un monito: che la Società italiana non si occupasse di
politica.

L’ultima fase dell’azione diplomatica di Crispi è rappresentata dai
seguenti telegrammi:

        «_Ambasciata Italiana_,
          Vienna.

                                              Roma, 26 ottobre 1890.

    (_Riservato_). Le parole dell’avvocato del governo imperiale
    regio riferentisi società _Dante Alighieri_ innanzi al supremo
    tribunale dell’Impero ed il giudizio dato sul signor Bonghi non
    avrebbero grande importanza se fossero stati pronunciati da chi
    non avesse avuto l’obbligo di conoscere le cose italiane. Dette
    a Vienna producono fra noi impressione così strana da
    costringerci a chiedere che almeno non ne resti traccia nella
    sentenza che emanerà il 28 corrente il Tribunale contro il _Pro
    Patria_. Il nostro onesto desiderio dovrebbe essere assecondato
    poichè, altrimenti, il falso concetto ove si ripetesse in un
    atto officiale, farebbe pessimo senso in Italia, specialmente in
    questo momento. Del resto, lo stesso conte Kálnoky, parlando al
    conte Nigra, avrebbe già riconosciuto l’errore di avere nella
    questione del _Pro Patria_ citato la _Dante Alighieri_.
    Nell’intrattenere d’urgenza su quanto precede il signor
    Szögyeny, Ella vorrà inoltre adoperarsi perchè il _Fremdenblatt_
    non continui co’ suoi comunicati intorno la corrispondenza
    vaticana col Nunzio Galimberti, poichè diversamente ci
    troveremmo obbligati a pubblicare i documenti pontifici nella
    loro integrità, il che nuocerebbe a tutti, salvochè a noi.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_,
          Roma.

                                            Vienna, 26 ottobre 1890.

    (_Riservato_). Ho comunicato a Szögyeny telegramma di V. E. di
    iersera relativo nota _Fremdenblatt_. Szögyeny mi ha detto che
    detta Nota era stata pubblicata soltanto per rispondere alle
    domande che da varie parti erano state dirette al Ministero a
    tale riguardo, e che essa non aveva altro scopo che di
    constatare che qui non si aveva notizia alcuna della
    corrispondenza scambiata tra il Vaticano e Monsignore
    Galimberti. Szögyeny aggiunse che sarebbe stato dolentissimo se
    si attribuisse un’intenzione qualsiasi sfavorevole verso
    l’Italia al governo austro-ungarico, il quale non desiderava
    punto ingerirsi in questione siffatta. Szögyeny mi pregò di
    assicurare l’E. V. che, per quanto era in suo potere, avrebbe
    provveduto a che pubblicazioni ufficiose in tal senso non
    avessero luogo in avvenire.

                                                          _Avarna_.»

        «_S. E. Crispi._

                                            Vienna, 27 ottobre 1890.

    (_Confidenziale_). Szögyeny è partito stamane di buon mattino
    per la caccia e non sarà di ritorno che sul tardi nella sera.

    La comunicazione, di cui Ella m’incarica, non potrà quindi
    essergli fatta che domani.

    Profitto occasione per sottometterle alcune considerazioni.

    Il principale capo di accusa contro il _Pro Patria_ è.....(?) di
    essa con la _Dante Alighieri_.

    Questa accusa fu ribattuta dall’avvocato Lovisoni che difese
    vittoriosamente la _Dante Alighieri_ e l’on. Bonghi, dimostrando
    i loro scopi leali. Contro ciò il rappresentante del Governo
    mantenne l’accusa con parole ch’Ella desidera non ne resti
    traccia nella sentenza.

    I passi di cui Ella m’incarica, ove fossero bene accolti,
    metterebbero questo Governo in contradizione e
    giustificherebbero la domanda sporta dal _Pro Patria_ di essere
    riabilitato, ciò che il Governo austro-ungarico non sembra
    disposto a fare.

    Qualora l’E. V. giudicasse che, malgrado ciò, io faccia a
    Szögyeny la comunicazione in discorso, io non mancherò di
    eseguire col maggior impegno e premura le di Lei istruzioni. In
    tal caso io la pregherei di telegrafarmi di urgenza i suoi
    ordini.

                                                          _Avarna_.»

        «_Ambasciata Italiana_,
          Vienna.

                                              Roma, 27 ottobre 1890.

    (_Urgente_). Il fatto d’avere noi lasciato sussistere la _Dante
    Alighieri_, dovrebbe bastare di prova a codesto Governo che
    quella società non ha scopi politici, ma solamente letterari.
    Altrimenti sarebbe stata sciolta come sciogliemmo altri
    sodalizi. Voglia quindi dar corso alle mie istruzioni facendo
    conoscere anche quanto precede al signor Szögyeny.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_,
          Roma.

                                            Vienna, 28 ottobre 1890.

    Ho comunicato a Szögyeny i due telegrammi di V. E. relativi alla
    _Dante Alighieri_, esponendogli le varie considerazioni in essi
    svolte. Szögyeny mi ha detto che Kálnoky non aveva mancato di
    far conoscere a Taaffe il colloquio da esso avuto col R.
    Ambasciatore relativamente ai falsi apprezzamenti qui portati
    sopra la _Dante Alighieri_ e sopra l’onorevole Bonghi. Szögyeny
    ha aggiunto che, siccome il Ministero degli Affari Esteri non
    aveva alcuna azione diretta sul Presidente della Corte Suprema,
    egli si sarebbe oggi stesso recato d’urgenza dal Conte Taaffe
    per parlargli nel senso dei due telegrammi di V. E. da me
    comunicatigli, manifestandogli il desiderio di lei. Szögyeny mi
    ha detto che, a parer suo, la sentenza non conterrebbe alcuna
    cosa che potesse essere spiacevole al governo del Re e alla E.
    V.

                                                          _Avarna_.»

Le elezioni generali del dicembre 1890 venendo dopo un lungo periodo di
agitazioni promosse dal partito radicale, furono per questo una grande
sconfitta. Tra le felicitazioni giunte d’ogni parte a Crispi non
mancarono quelle austriache. Il conte Nigra in un telegramma dell’11
gennaio 1891, interessante anche perchè toccava altro argomento spinoso,
si faceva eco delle felicitazioni di Francesco Giuseppe:

    «Ieri essendo a pranzo dall’Imperatore, S. M. si congratulò con
    me delle ultime elezioni in Italia e rese in termini calorosi
    testimonianza della fermezza e abilità con cui è condotta la
    politica interna ed esterna dell’Italia. Le ripeto le stesse
    frasi perchè l’Imperatore è in generale molto sobrio di
    apprezzamenti. Aggiunse che la Triplice alleanza costava
    sacrifici, ma che era riuscita ad ottenere il fine di preservare
    la pace in Europa. Passato il discorso alla questione economica
    spiegai a S. M. la vera ragione della prorogata facoltà di
    denunciare il Trattato vigente, che è di dare ai due Governi la
    possibilità di esaminare la nuova situazione quale uscirà dai
    negoziati in corso fra l’Austria-Ungheria e la Germania allo
    scopo di migliorare possibilmente il Trattato per ambo le parti.

    L’Imperatore s’informò poi con interesse del Re e della Regina.
    L’Imperatrice mi disse che era dolente di non avere avuto
    occasione nel suo viaggio in Italia di far visita alla Regina,
    della quale parlò nei termini i più lusinghieri e mi domandò se
    le sarebbe possibile visitarla altrove che a Roma.

    Io risposi che credevo che la Regina sarebbe stata per parte sua
    sempre felice d’incontrarsi coll’Imperatrice in qualunque luogo,
    ma che vi era qualche cosa più potente che la volontà dei Re e
    delle Regine, e questa era la pubblica opinione del paese, la
    quale non avrebbe approvato la visita altrove che a Roma.»

E quando pel voto di dispetto del 31 gennaio 1891 Crispi fu lasciato
andar via da chi avrebbe avuto dovere e interesse di mantenerlo al
governo, il Cancelliere d’Austria-Ungheria telegrafava al suo
ambasciatore a Roma, barone de Bruck, come segue:

                                                   «5 febbraio 1891.

    Je prie V. E. de chercher sans tarder une occasion pour exprimer
    à Mr. de Crispi mes plus vifs regrets sur sa decision de se
    retirer et de lui dire que pendant tout le temps qu’il était au
    pouvoir, la manière loyale et caracteristique d’un homme d’état
    superieur avec laquelle il a su conduire d’une main énergique
    les affaires politiques, était d’un avantage inappreciable pour
    la cause de la paix européenne et pour les rapports entre nous
    et l’Italie.

    Je doute que l’Italie possède un autre homme d’état qui sache
    juger et mener les affaires intérieures et extérieures de son
    pays d’une façon aussi éminente que Mr. de Crispi, ce qui me
    porte à admettre qu’il ne se retirera pas de la scène politique
    sur laquelle il occupe un rôle aussi prépondérant.

                                                         _Kálnoky_.»

E l’organo della Cancelleria, il _Fremdenblatt_, dedicava
all’avvenimento un articolo di fondo (4 febbraio) di cui riferiamo
solamente le prime righe:

«Con Francesco Crispi è caduto un grande ministro. Crispi è uno dei più
eminenti fra i personaggi che nell’odierna Europa rappresentano una
parte politica; è una figura sorprendente, caratteristica, superiore.
Egli portò seco nella vita pubblica il temperamento del siciliano; uno
spirito vivace e bollente, ma insieme avveduto, calcolatore, che in lui
si accoppia a sommi talenti e ad una indomabile energia. È in questi
ultimi anni che il mondo imparò a conoscere in quest’uomo, che
fin’allora aveva sostenuta una parte soltanto nel ristretto cerchio
della politica interna italiana, un personaggio singolare ed
importante.»

In dicembre 1893 Crispi riassunse il governo del paese nelle note gravi
condizioni, e il barone de Bruck, tuttavia ambasciatore a Roma, fu tra i
primi a recargli, coi suoi, i saluti del Cancelliere Kálnoky e i
migliori augurii «pour la grande tâche» che si era addossata. E il conte
Nigra, ancora da Vienna con le «sincere congratulazioni per il suo
ritorno al potere» gli telegrafava:

    «Vostra Eccellenza avrà visto che la di Lei presenza al Governo
    è salutata con fiducia dall’opinione pubblica di questo paese,
    conforme a quello del Governo imperiale.»

L’opera di Crispi per ristabilire l’ordine pubblico, turbato
specialmente in Sicilia e in Lunigiana, era seguìta con simpatia anche
in Austria; e quando in giugno 1894 l’energico ministro fu oggetto di un
secondo attentato, quello di Paolo Lega che gli sparò contro a
bruciapelo, fortunatamente senza colpirlo, il conte Nigra scrivendo al
Ministro degli affari esteri attestava che il fatto aveva suscitato
«l’indignazione contro l’assassino e la calorosa simpatia verso
l’illustre patriotta italiano».

Ma in ottobre di quell’anno, Crispi ebbe motivo di forte lagnanza contro
il governo imperiale per un’ordinanza che imponeva agl’italiani
dell’Istria l’uso delle iscrizioni e diciture anche in lingua croata,
facendo nascere una grande agitazione in tutti i paesi austriaci di
lingua italiana, la quale si ripercuoteva in Italia. Le difficoltà
contro le quali Crispi lottava allora strenuamente erano così gravi, che
la nuova vessazione austriaca l’irritò. Al conte Nigra egli scriveva in
lettera privata:

    «Procediamo con difficoltà nel governo del paese, ma
    procediamo.... Giunge intanto inopportuno il movimento
    dell’Istria. Esso è argomento di agitazione per gli avversari
    del Governo.... L’Austria intanto avrebbe potuto essere più
    prudente. Impero poliglotta, la sua potenza verrebbe dal
    rispetto di tutte le nazionalità, delle quali si compone lo
    Stato. E poi parmi che mal cotesto Governo si fidi degli Slavi,
    i quali tengon fissi gli sguardi a Pietroburgo. Aggiungasi, che
    l’opera di annullare la lingua italiana nelle opposte sponde
    adriatiche è difficile, e con la violenza diviene impossibile. È
    più facile italianizzare gli Slavi, che slavizzare gl’Italiani.

    Cotesta politica, praticata prima del 1848, aveva la sua ragione
    d’essere. Oggi manca di scopo, perchè il Governo italiano
    mantiene lealmente l’amicizia col vicino Impero.

    Io non oso far proposte, ma se Ella potesse dire una buona
    parola a Kálnoky, farebbe opera saggia. Accordino agl’Italiani
    gli stessi diritti accordati alle altre nazionalità e
    conserveranno la pace all’Impero, e l’eco dei disordini non si
    ripercuoterà nella penisola nostra.»

Come in passato, dopo aver fatto direttamente al governo austriaco le
sue rimostranze, sul successo delle quali non poteva avere una fiducia
assoluta per lo spirito tenacemente sospettoso di quell’ambiente
governativo, Crispi chiese l’intervento a Vienna della potenza ch’era
interessata alle buone relazioni italo-austriache, e si rivolse
all’imperatore Guglielmo:

        «_Conte Lanza Ambasciatore d’Italia_,
          Berlino.

                                              Roma, 5 novembre 1894.

    La condotta del Governo austriaco nella Istria manca di ogni
    buon senso.

    L’Impero essendo poliglotta, è necessità di vita per esso
    rispettare tutte le nazionalità e specialmente l’italiana e la
    tedesca che sono le sole civili.

    La preferenza per gli slavi è a danno suo e a danno di tutti.
    Non devo nascondere che quella agitazione mette il Governo
    italiano in una difficile situazione e rende nel popolo sempre
    più antipatica la nostra alleanza con l’Austria, che non è punto
    amata nel paese.

    Io farò il mio dovere, ma non mi si ponga in condizione da
    essere obbligato a dimettermi.

    Vegga subito l’Imperatore e lo scongiuri ad interporsi perchè
    cessi cotesta questione delle lingue e si rispetti l’italiana
    come la slava.

                                                          _Crispi_.»

L’ambasciatore forse non indovinò l’animo di Crispi e gli parve che
l’incarico che gli veniva dato non potesse eseguirsi con la rapidità
richiestagli; certo, rispose in maniera che a Crispi parve accusasse
tepidezza:

    «Non posso, naturalmente, vedere Imperatore quando voglio, ma
    devo aspettare propizia occasione, oppure chiedere udienza, cosa
    troppo insolita e lunga non essendo S. M. mai ferma.

    In tutti i modi, se non direttamente almeno per mezzo
    Cancelliere farò oggi pervenire orecchio S. M. Imperiale
    condizioni in cui politica Austria-Ungheria in Istria mette
    Italia.

    Non dubito S. M. Imperiale farà, come meglio potrà, pervenire
    consigli a Vienna.»

Crispi replicò:

    «Dopo ventisette mesi che ella, generale del nostro esercito e
    ambasciatore, è di residenza a Berlino, mi stupisce che non
    abbia ottenuto il benefizio di vedere l’Imperatore tutte le
    volte che l’esigenza della politica internazionale possa
    richiederlo.

    Non posso nasconderle che il di lei telegramma è molto
    sconsolante.»

A questo brusco rimprovero l’ambasciatore inviò telegraficamente le sue
dimissioni. Crispi non le accettò: «Faccia il dover suo innanzi tutto e
poscia vedrò come convenga provvedere». Ma nel mentre si svolgeva questa
concitata corrispondenza, l’imperatore, informato, ordinava al conte
Eulenburg, ambasciatore germanico a Vienna che si trovava in quei giorni
a Berlino, di raggiungere subito la propria residenza e di dar consigli
nel senso desiderato da Crispi e nell’interesse della saldezza
dell’alleanza.

Il 7 novembre l’ambasciatore di Germania a Roma, de Bülow, si recava a
visitare Crispi per assicurarlo che l’imperatore aveva esaudito il di
lui desiderio. Lo pregava altresì a nome del suo Sovrano di non
accettare le dimissioni del Lanza. Il generale Lanza era molto stimato a
Berlino e l’imperatore ne apprezzava il tatto e le qualità di perfetto
gentiluomo. L’incidente fu risoluto come risulta dai seguenti
telegrammi:

        «_S. E. Lanza_,
          Berlino.

    Stassera è venuto il signor De Bülow e mi ha pregato di non
    accettare le di lei dimissioni. Ha soggiunto che lasciando lei a
    Berlino avrei fatto un favore all’Imperatore. Ho risposto che
    giammai ebbi in mente di fare cosa sgradita all’augusto sovrano
    della Germania ed or dichiaro a lei che ciò mi è tanto più grato
    inquantochè il fatto mi assicura ch’ella potrà essere utile al
    nostro paese presso S. M. I. R.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_,
          Roma.

                                           Berlino, 8 novembre 1894.

    Ringrazio l’E. V. telegramma di questa notte, in seguito al
    quale metto naturalmente ogni decisione nelle sue mani.

    Segue lettera particolare.

                                                           _Lanza_.»

        «_Generale Lanza Ambasciatore Italiano_,
          Berlino.

                                              Roma, 8 novembre 1894.

    Quello che a me preme è soltanto questo, ch’ella mi faccia
    conoscere i risultati delle sue pratiche di cui la incaricai col
    mio telegramma del giorno 5.

                                                          _Crispi_.»

        «_S. E. Crispi_,
          Roma.

                                          Berlino, 11 novembre 1894.

    (_Riservato_). Avendo fatto esprimere a S. M. l’Imperatore mio
    desiderio di parlargli, Egli, che oggi era a Potsdam, mi mandò
    invito recarmi colà, e, cosa insolita, in giornata di festa. Mi
    trattenne varie ore nel circolo di famiglia. Gli ripetei le cose
    fattegli esporre dal Cancelliere. S. M. mi ha tenuto presso a
    poco seguente discorso:

    «Dite a Crispi che ammiro energia che spiega in servizio del Re
    e della Patria rispetto patti internazionali. Deploro vivamente
    difficoltà che gli suscita condotta Governo austro-ungarico in
    Istria, come ne suscitò a me nelle provincie polacche. Vi ho
    fatto già comunicare ordine che ho personalmente dato mio
    ambasciatore a Vienna. Insisterò in quel senso, dolente non
    potere, come vorrei, agire direttamente verso l’Imperatore
    Austria, dal quale non soffrirei menomo accenno a mie cose
    interne e al quale, quindi, non posso toccare argomento sua
    politica interna. Continuerò, però, a fare quanto sta in me per
    mettere Governo austro-ungarico in guardia contro pericoli che
    la sua condotta verso nazionali italiani può fare correre
    saldezza alleanza.

                                                            _Lanza_»

        «_Conte Lanza Ambasciata Italiana_,
          Berlino.

                                             Roma, 12 novembre 1894.

    La ringrazio del telegramma di stanotte, il quale mi prova che
    io non avevo torto quando la spinsi a vedere l’Imperatore. Ella,
    soldato e patriotta, mi comprende e spero che sempre andremo di
    accordo.

    Faccia arrivare allo Imperatore l’espressione dei miei
    sentimenti di gratitudine e vedendolo o scrivendogli manifesti a
    S. M. I. R. che la tranquillità delle provincie italiane dello
    Impero austriaco è necessaria alla sicurezza dell’alleanza.

                                                          _Crispi_.»

È fuori di dubbio che facendo una politica interna severa e leale,
Crispi potè ottenere dall’Austria tutto quello che era possibile,
costringendo la stessa Cancelleria dell’Impero a temperare prevenzioni e
sistemi di polizia inveterati del governo austriaco. Quando il conte
Kálnoky giunse alla fine della sua carriera, abbandonando l’eminente
posizione tenuta durante i due periodi del governo di Crispi, espresse
al conte Nigra il giudizio ch’è riferito qui appresso:

        «_S. E. Crispi_,
          Roma.

                                             Vienna, 18 maggio 1895.

        _Caro signor Presidente_,

    Il conte Kálnoky, nel prendere oggi congedo da me, mi incaricò
    espressamente di farle sapere come esso porti il migliore
    ricordo delle relazioni ufficiali e personali che ebbe con Lei.
    Egli rese in termini commossi testimonianza della lealtà di
    procedere del Governo da Lei diretto verso Austria-Ungheria, e
    degli eminenti servizii che Ella rese e rende alla causa della
    Triplice Alleanza, e a quella, che ne dipende, della
    pacificazione europea, mediante la sua autorevole e ferma azione
    all’interno e all’estero. «L’Imperatore, mi disse egli, divide
    con me questo modo di vedere e posso assicurarvi che il mio
    successore, interprete della volontà del suo sovrano, seguirà
    verso l’Italia le tradizioni di amicizia sincera e di fiducia
    reciproca, che formano uno dei principali legati della mia
    successione».

    Compio l’incarico affidatomi scrivendole queste proprie parole
    del conte Kálnoky, e aggiungendo soltanto che esse hanno tanto
    maggior valore, quanto più grande è, per indole, la riserva in
    chi le pronunziò nell’abbondare in dimostrazioni di tal natura.

    Voglia credermi, come le sono di cuore,

                                                        Dev.mo amico
                                                           _Nigra_.»



                           ITALIA E FRANCIA.



  _Capitolo Quinto._ — Le relazioni franco-italiane dal 1890 al 1896.


L’ambiente e gli statisti in Francia. — Gli ambasciatori De Moüy e
Mariani e il ministro Spuller. — Come fu ricevuto il signor Billot. — La
sua _azione conciliante_. — Il varo della _Sardegna_ e la mancata visita
della squadra francese alla Spezia. — Illusioni francesi su l’on. di
Rudinì. — La Triplice alleanza rinnovata. — Secondo Ministero Crispi. —
Strascico dei fatti di Aigues-Mortes. — Politica di conciliazione. — Una
missione segreta di Maurizio Rouvier. — Corrispondenza dell’ambasciatore
Ressman. — Il richiamo di Ressman e le sue vere ragioni.


Sino al 1890 le relazioni franco-italiane erano state difficili.
L’ostilità della Francia per la nostra alleanza con la Germania si era
manifestata in tutti i modi e in tutti i campi, cagionando incidenti che
avevano sempre più rafforzato la posizione dell’Italia in Europa e
stretto i vincoli che la legavano ai due imperi centrali pel trattato
rinnovato il 20 maggio 1887.

Deve però riconoscersi che nella lotta accanita che il governo francese
aveva fatto ad ogni interesse italiano, gli uomini erano stati talvolta
sospinti agli eccessi dall’ambiente, esagitato da una stampa che non
ignorava alcuna intemperanza. L’ambasciatore conte de Moüy, ponendo fine
alla sua missione a Roma, scriveva privatamente a Crispi, da Parigi, il
6 aprile 1889:

    «J’avais à Rome la conviction d’avoir obtenu votre sympathie et
    votre estime: vous avez toujours compris, au cours des affaires
    que j’ai été chargé de suivre, _combien souvent ma tâche m’était
    pénible, et combien aussi je m’efforçais d’y apporter de
    conciliation et cordialité_.... Je n’oublierai jamais nos
    derniers entretiens qui m’ont si vivement ému; mon eloignement
    de Rome a été la grande douleur de ma vie diplomatique.»

Il de Moüy era stato il rappresentante di una politica irritante che nel
1888 s’impersonò nel ministro Goblet, del quale lo stesso de Moüy
scrisse in un suo libro²⁶ ch’era «mal preparé, par son caractère raide
et irascible, au maniement des choses diplomatiques qu’il traitait pour
la première fois; on lui reprochait ses opinions anguleuses et son style
peu engageant».

   ²⁶ Cfr. _Souvenirs et causeries d’un diplomate_. Paris, Plon, 1909,
      pag. 257-258.

E. Spuller, che succedette al Goblet come ministro degli affari esteri
(febbraio 1889) e il Mariani che venne a Roma dopo il richiamo del de
Moüy, non riuscirono ad agire contro la corrente ostile che in Francia
travolgeva tutti,²⁷ ma non si astennero da dichiarazioni ch’erano la
condanna di quell’ostilità senza misura.

   ²⁷ Per la storia della interruzione delle relazioni commerciali
      franco-italiane è interessante conoscere anche il seguente
      telegramma 7 marzo 1889 dell’ambasciatore Menabrea:

      «(_Riservato_). A mente del telegramma quattro corrente informai
      ieri il sig. Spuller delle favorevoli disposizioni di V. E. per
      aprire nuove trattative, se non per un trattato di commercio,
      almeno per un accordo circa un «modus vivendi» proprio a
      migliorare i rapporti di commercio dei due paesi conformemente a
      quanto si era fatto con la convenzione del 15 gennaio 1879.
      Spuller si mostrò disposto a secondare le mire di V. E. nei limiti
      del possibile senza dover ricorrere al Parlamento che diventa ogni
      giorno più protezionista, se non per convinzione, per ragioni
      elettorali. Spuller mette però per condizione ai nuovi accordi per
      il commercio che questi siano subordinati alla regolarizzazione
      della questione tunisina. Al che io risposi che le due questioni
      erano del tutto distinte e che io non aveva mandato per trattare
      quella riflettente Tunisi; che tuttavia avrei informato V. E. di
      questa esigenza. Spuller tosto mi rispose non intendere che l’una
      fosse subordinata all’altra, ma che fossero trattate
      simultaneamente. Non credetti dover insistere su quell’argomento;
      mi limitai a ricordare al sig. Spuller i precedenti della nostra
      posizione in Tunisia di fronte al protettorato che vi si è
      attribuito la Francia. Da quell’inaspettata esigenza del sig.
      Spuller io vedo comparire di nuovo la medesima influenza che ci
      prometteva un aiuto per occupare definitivamente Tripoli in cambio
      di alcune nostre concessioni a Tunisi. Quel sistema rimonta al
      sig. Ferry quando, per ben due volte, ci offriva l’aiuto della
      Francia per occupare la Tripolitania alla condizione di rinunziare
      ai nostri diritti in Tunisia.

      Scriverò a V. E. risposta ufficiale sul colloquio, nel quale
      Spuller si mostrò assai benevolo, ma però obbediente ad una
      pressione.

                                                            _Menabrea._»

Nel diario dei ricevimenti diplomatici di Crispi, sotto la data del 5
gennaio 1890 è scritto:

    «Il signor Mariani mi legge una lettera dello Spuller. Il
    ministro scrive all’ambasciatore di dirmi ch’egli è rimasto
    sensibile alle parole da me pronunziate in Parlamento in
    occasione della legge che aboliva le tariffe differenziali.
    Incaricò quindi il Mariani di volermi ringraziare.

    Lo Spuller desidera che le relazioni fra i due paesi divengano
    cordiali, ed egli farà tutto il possibile perchè le cose
    migliorino nel campo economico.

    Il Mariani mi lesse una lettera fatta da lui a Spuller contro il
    corrispondente dell’_Havas_ in Roma. Egli ne rileva il contegno
    strano, e fa considerare al suo ministro come cotesto sia un
    metodo che non può riuscire a vantaggio dei due paesi.

    Il signor Lavallette, oltre essere qui per l’_Havas_, è qui pel
    _Matin_, di cui tutti riconoscono il contegno ostile all’Italia.
    Il Mariani vorrebbe che il detto individuo servendo un’agenzia
    semi-ufficiale, lasciasse di collaborare in un giornale a noi
    nemico.»

Lo stesso Spuller, ricevendo il 10 ottobre precedente l’ambasciatore
italiano a Parigi, aveva inveito «in termini violentissimi» contro il
giornalismo francese,²⁸ e il 4 dicembre seguente non aveva taciuto al
generale Menabrea i suoi sentimenti:

   ²⁸ Cfr. _Francesco Crispi_: _Politica Estera_, pag. 344.

                                     «Parigi, 5-12-1889, ore 2.10 s.

    Il telegramma del 1.º corr. che mi riferisce la conversazione di
    V. E. col Mariani, venne da questi confermato allo Spuller, il
    quale me ne espresse ieri la di lui viva soddisfazione. Egli mi
    disse essere vivamente contrastato da un partito che lo vorrebbe
    rovesciare coll’accusarlo di mostrare troppa condiscendenza
    verso l’Italia a detrimento della Francia stessa. Cionondimeno
    egli non tralascerà di lavorare attivamente per migliorare i
    rapporti fra i due paesi e stabilire fra loro un _modus
    vivendi_, proprio a soddisfare i rispettivi interessi. Un
    violento articolo del _Figaro_ di oggi si fa interprete dei
    sentimenti ostili che sono tuttora attizzati contro l’Italia;
    tuttavia, contro il gruppo opposizionista, che ci è il più
    contrario, sorge un nuovo gruppo assai più mite, capitanato da
    Léon Say, che propugna una politica economica più liberale!

                                                        _Menabrea_.»

Il signor A. Billot, nominato dallo Spuller ambasciatore a Roma alla
morte del Mariani, aveva ricevuto istruzioni di adoperarsi ad «appianare
ogni screzio». Egli ha narrato in un libro²⁹ non scevro di prevenzioni,
di errori e di reticenze, le vicende della vita politica italiana dal
1881 al 1899. Appena giunto fu informato che il giorno precedente erano
stati espulsi dall’Italia i corrispondenti dell’_Agenzia Havas_ e del
_Figaro_ (uno, il Lavallette, era appunto quello la cui condotta era
stata biasimata dal Mariani) e cotesto atto di rigore gli fece cattiva
impressione, sebbene contemporaneamente fosse stato espulso anche un
giornalista tedesco.³⁰ Il Billot manifesta ingenuamente con quale animo
mettesse il piede in Roma raccogliendo la malignità che non fosse
estraneo alla decisione di Crispi il fatto che quei giornalisti avevano
annunziato il fallimento «d’une banque particulière, à la prospérité de
laquelle Crispi, disait-on, avait des motifs de s’intéresser. C’en était
assez pour motiver leur expulsion!»³¹

   ²⁹ _La France et l’Italie. Histoire des années troubles._ Paris,
      Plon, 1905.

   ³⁰ Il Sindacato della Stampa parigina mandò una sua delegazione a
      reclamare presso il ministro degli affari esteri, Ribot, contro
      quella misura di rigore adottata dal governo italiano. Ribot
      dovette rispondere non esservi luogo ad azione diplomatica; ma
      ricevendo il Ressman, incaricato d’affari d’Italia, lo intrattenne
      sulle circostanze nelle quali avvenne l’espulsione del
      corrispondente dell’_Agenzia Havas_. Il Ressman rispose che da
      lungo tempo erano state segnalate al governo francese le tendenze
      ostili di quel corrispondente e che ogni avvertenza essendosi
      dimostrata inutile, la misura di rigore s’imponeva; soggiunse per
      parte sua esser più di quei calunniatori pagati degni di
      compatimento i numerosissimi italiani che giornalmente e d’un
      tratto, per condanne lievissime, si espellevano dalla Francia dopo
      lunghi anni di residenza, lasciando le loro famiglie nella
      miseria.

   ³¹ _Ibid._, pag. 177.

Il nuovo ambasciatore chiese udienza e fu ricevuto il giorno stesso del
suo arrivo. L’on. Crispi informava di cotesta visita l’ambasciata a
Parigi col seguente telegramma:

        «_Ambasciata Italiana_,
          Parigi.

                                               Roma, 13 aprile 1890.

    Il signor Billot è giunto questa mattina; mi ha subito domandato
    udienza e l’ho ricevuto alle cinque.

    Mi narrò le vicende della sua nomina, spiegando il ritardo della
    sua venuta a Roma. Disse aver esposto a Ribot ciò che si
    proponeva di dire a Spuller quanto alla sua linea di condotta
    verso l’Italia: circa la politica coloniale italiana, non
    intralciare la nostra espansione; circa la questione tunisina
    far sì che gli Italiani dovessero trovarsi nella Reggenza ed
    esservi trattati come a casa loro. Su tutte le altre questioni
    disse proporsi di procedere amichevolmente per appianare ogni
    screzio, nel quale compito la via gli era stata facilitata da
    Mariani, alla cui memoria era grato. Gli dissi, a mia volta, che
    ero animato da intenzioni identiche alle sue; che la stampa
    francese non ci era amica, il che non mi impedisce di amar la
    Francia, di amarla anzi come un francese, senza cessare di
    essere conscio dei doveri che mi impone la mia qualità di
    Ministro, ossia di difensore degli interessi italiani. Gli
    ricordai che ho trovata la Triplice Alleanza fatta e che da uomo
    onesto devo esservi fedele. Gli dissi che mi si imputavano colpe
    che non sono mie, come gli incidenti di Firenze e di Massaua,
    nei quali la ragione era nostra, come tutta Europa riconobbe.
    Gli narrai come nel 1877, essendo non ministro, ma presidente
    della Camera, fossi andato a Berlino ed a Gastein per vedervi il
    Principe di Bismarck, con cui avevo già rapporti; come, per
    andarvi, fossi passato per Parigi e là avessi veduto Gambetta;
    come Gambetta mi avesse pregato di far aperture a Bismarck in
    vista di un disarmo; come, tornando dalla Germania, fossi
    nuovamente passato da Parigi ed avessi riferito a Gambetta, a
    Emilio di Girardin e ad altri quanto avevo detto ed udito, e
    che, circa al disarmo, Bismarck lo avrebbe desiderato, ma non lo
    riteneva possibile. Soggiunsi che, venuto al potere, il mio
    desiderio e la mia speranza erano stati di poter servire di
    tratto d’unione tra la Francia e la Germania e di curare che la
    Triplice Alleanza non riuscisse alla Francia di pregiudizio; che
    queste erano tuttora le mie intenzioni e che egli mi troverebbe
    sempre disposto a far tutto il possibile per riavvicinare
    maggiormente l’Italia alla Francia, a cui sarebbe follìa voler
    muovere guerra e che, come ogni italiano, considero necessaria
    all’Europa ed al nostro paese, per la sua posizione geografica,
    per le sue tradizioni, per la sua affinità con noi, ecc. Ho
    trovato nel signor Billot una persona ammodo e simpatica, e
    credo non errare dicendo che ci lasciammo egualmente soddisfatti
    l’uno dell’altro.

                                                          _Crispi_.»

In realtà la politica francese verso l’Italia non accennò a mutare
sebbene Crispi non tralasciasse occasione di manifestare le sue
intenzioni amichevoli, e l’ambasciatore Billot non fece nulla per
eliminare gli screzi, non solo, ma s’impose il compito ch’egli stesso
confessa nel suo libro:

«Le discours de Florence³² laissait l’impression générale que Crispi
était plus que jamais convaincu de la nécessité de la Triple-Alliance et
décidé dès lors à en renouveler les engagements à l’échéance ou même
auparavant.... Tant que Crispi resterait aux affaires, notre diplomatie
n’aurait qu’à s’appliquer patiemment, par une _action conciliante, à
faciliter l’évolution_ que les intérêts réussiraient sans doute à
déterminer avec le temps.»³³

   ³² Dell’8 ottobre.

   ³³ _Ibid._, pag. 248.

_L’azione conciliante_ fu dimostrata dalla diplomazia francese in tutte
le questioni che si presentarono, a cominciare dalla conferenza
anti-schiavista di Bruxelles, dove non si prese la pena di dissimulare
il suo astio per la posizione che l’Italia aveva acquistato in Etiopia;
e quanto a _facilitare l’evoluzione_, il Billot non esitò a ricorrere a
mezzi poco corretti, dei quali Crispi si lagnava nel seguente telegramma
del 12 novembre 1890:

        «_General Menabrea Ambasciata Italiana_,
          Parigi.

    Il Governo francese, continuando le tradizioni della prima
    Repubblica, fa propaganda repubblicana in Italia, spendendo
    danari per la stampa ostile a noi. Al palazzo Farnese vanno
    continuamente a confabulare giornalisti nemici della Monarchia e
    da parecchi mesi vengono da Parigi emissarii a scopo di favorire
    coloro che combattono le istituzioni. Ultimamente è venuto anche
    il signor _M...._ della _P...._ il cui contegno fu assai
    biasimevole.

    La mia condotta corretta, irreprensibile verso i Bonaparte
    congiunti della nostra famiglia reale, quando le discordie
    politiche in Francia erano ardenti, prova che io non uso di armi
    insidiose contro il Governo della Repubblica.»

Il Billot, naturalmente, afferma che il governo italiano non secondasse
il desiderio del governo francese di rannodare relazioni di benevolenza
e di affari, e cita, a prova della sua asserzione, l’incidente del varo
della _Sardegna_.

Il varo di questa corazzata — egli racconta — doveva farsi a Spezia
nella seconda metà del settembre; i giornali italiani avevano annunziato
che probabilmente vi avrebbe assistito il Re. Il ministero francese
volendo ricambiare la visita a Tolone di una squadra italiana, fatta in
occasione della presenza colà del Presidente della Repubblica, «decise
prontamente» di mandare a Spezia, per ossequiare il Re Umberto, una
squadra francese; e il 28 agosto l’ambasciatore di Francia fece analoga
comunicazione alla Consulta, domandando quale fosse la data fissata pel
varo. Ma Crispi si affrettò a rispondere «qu’il ne croyait pas que sa
Majesté eût l’intention» di recarsi alla Spezia e tre giorni dopo faceva
pubblicare dall’Agenzia Stefani il seguente comunicato:

                                                 «Spezia, 31 agosto.

    Il varo della _Sardegna_ avrà luogo il 21 settembre.

    S. M. il Re, dovendosi trovare in quel tempo a Firenze per
    assistervi, come fu già annunziato, all’inaugurazione del
    monumento di Re Vittorio Emanuele, ha delegato a rappresentarlo
    al varo della _Sardegna_ S. A. R. il Duca di Genova.»

Il Billot nel trascrivere questo comunicato salta le parole «come fu già
annunziato». E registra tutte le ipotesi che furono fatte in Francia e
in Italia per spiegare «la decisione improvvisa di Crispi», mostrandosi
incerto se credere a quella che accennava al proposito di evitare un
avvenimento favorevole al ravvicinamento franco-italiano per non fare
dispiacere alla Germania, o all’altra che si riferiva a considerazioni
di politica interna. Comunque, egli conclude, «personne n’hésitait à en
rejeter sur Crispi la responsabilité exclusive».

La verità non è quella narrata dal Billot. Il governo italiano sarebbe
stato lieto dell’atto di cortesia della Francia, ed era assurdo credere
altrimenti, dopochè l’Italia aveva spontaneamente per la prima mandato
una squadra a Tolone. Quello che dispiacque al Re fu la discussione
fatta dalla stampa francese circa l’opportunità di quell’atto,
discussione nella quale l’idea della visita era stata aspramente
criticata, e, come allora soleva, le ingiurie all’Italia e al suo Re
erano state dispensate a piene mani.

Quando il governo francese annunziò la sua decisione, questa era passata
attraverso tali dissensi che aveva perduto il profumo della spontaneità;
non era la prima volta che i giornali rendevano un cattivo servizio alla
politica della Francia. E fu proprio il Re, senza alcun suggerimento di
Crispi, che decise di non recarsi al varo della _Sardegna_. Infatti è
del 27 agosto — e non del 28, come narra il Billot — la domanda che
questi fece alla Consulta, e porta la data del 27 il seguente
telegramma:

        «_S. E. generale Pallavicini, primo aiutante di campo di
                S. M._
          Montechiari.

    Ambasciatore di Francia mi ha fatto chiedere epoca nella quale
    S. M. il Re si troverebbe alla Spezia, accennando intenzione suo
    Governo di mandarvi parte squadra francese per ossequiare la
    Maestà Sua. Attendo gli ordini di S. M, per la risposta da dare
    al signor Billot.

                                                          _Crispi_.»

Questo telegramma era appena partito quando giunse a Crispi una lettera
del Rattazzi, ministro della real Casa, datata da Montechiari, 26
agosto, nella quale riferiva in questa guisa la volontà del Re:

    «I giornali francesi continuano a discorrere della visita della
    squadra francese alla Spezia in occasione del varo della
    _Sardegna_. Per norma di V. E., è intenzione di S. M. di
    astenersi dall’assistere al varo della _Sardegna_.»

Crispi approvò la decisione del Re di non recarsi alla Spezia, ne fece
avvertito il Billot e telegrafò a Parigi il 28:

        «_Ambasciata Italiana_,
          Parigi.

    Ringraziando il signor Ribot della cortese intenzione, Ella può
    prevenirlo — quando le occorra vederlo — che S. M. il Re non è
    per recarsi alla Spezia per il varo della _Sardegna_, nè che a
    tale gita potrebbero offrire occasione le manovre della nostra
    flotta, essendo queste terminate.

                                                          _Crispi_.»

Il ritiro dell’on. Crispi dal governo pel voto parlamentare del 21
gennaio 1891, se fu salutato unanimemente dalla stampa francese come un
fausto avvenimento, non migliorò punto la condotta della Francia verso
l’Italia. Non era da attendersi il ritorno immediato ai rapporti
commerciali convenzionali tra i due paesi, poichè sussisteva nel
protezionismo dominante in Francia l’ostacolo che aveva reso
impossibile, al principio del 1888, la stipulazione di un nuovo trattato
di commercio; ma una prova di migliori disposizioni e un incoraggiamento
alla presunta francofilia del Ministero Rudinì poteva esser data con la
rinunzia alle tariffe differenziali che Crispi aveva abolito, per parte
nostra, sin dal 1.º gennaio 1890. La Francia, in fondo, attraverso
Crispi, aveva combattuta l’Italia perchè alleata con la Germania, e non
era disposta a contentarsi delle dichiarazioni amichevoli del nuovo
gabinetto italiano, come non si era arresa alle ripetute dichiarazioni
amichevoli di Crispi; essa esigeva che l’Italia si ritirasse dalla
Triplice alleanza. E il suo ambasciatore a Roma aspettava fidente la
scadenza del trattato, cioè il 20 maggio 1892:

    «Si M. Rudinì s’abstenait, par une réserve bien explicable, de
    manifester ses intentions relativement à la prolongation de la
    _Triplice_, divers motifs permettaient de supposer qu’il était,
    au fond, d’accord avec ceux qui désiraient, à l’échéance, rendre
    à l’Italie sa complète liberté d’action.»³⁴

   ³⁴ _Ibid._, pag. 287.

Ma l’illusione non fu di lunga durata; l’on Rudinì, che aveva chiamato
alla Consulta come suo collaboratore il conte d’Arco, anti-triplicista
dichiarato, dopo qualche mese di ambiguità rinnovò (giugno 1891) il
trattato che aveva ancora quasi un anno di vita.

Rinnovato il trattato del 1887 senza portarvi alcuna modificazione.
l’on. Rudinì iniziò quella politica «in partita doppia» il cui primo
effetto fu di alienarci l’appoggio incondizionato degli alleati, senza
disarmare l’inimicizia della Francia. L’unico vantaggio raggiunto da
questa politica fu di mitigare il linguaggio della stampa francese; ma
lo spirito pubblico in Francia non mutò a nostro riguardo, e i
deplorevoli eccessi di Aigues-Mortes lo dimostrarono. Perchè i nostri
vicini d’oltre Alpi ci guardassero con occhio meno arcigno, l’Italia
dovette abbandonare senza compensi la difesa dei suoi diritti in
Tunisia, e fu l’on. Rudinì che si assunse questa responsabilità tra il
primo e il secondo suo ministero, con la rinunzia al nostro veto per le
fortificazioni di Biserta e con le convenzioni italo-tunisine del 28
settembre 1896.

Sembra che facesse dippiù. Il 13 ottobre 1891 il signor Giers,
Cancelliere russo, trovandosi di passaggio in Italia fu invitato dal Re
Umberto a recarsi a Monza. Presente al colloquio era il marchese di
Rudinì. Si discorse della situazione politica europea e della necessità
di adoperarsi al mantenimento della pace. Il Re avrebbe detto al barone
Blanc che si sarebbe convenuto in quell’incontro l’intervento della
Russia in nostro favore, ove mai avvenisse un _casus foederis_. Non si
comprende bene la possibilità di un tale intervento se non supponendo
che l’Italia, offesa dalla Francia, rinunziasse al _casus foederis_ in
vantaggio dei suoi alleati, o che questi facessero altrettanto nel caso
che il _casus foederis_ si verificasse nel loro interesse. Nell’un caso
o nell’altro la Russia interverrebbe come mediatrice e sarebbe l’arbitra
della pace in Europa. Ma è da osservarsi che si sarebbe fatta astrazione
dall’importanza del litigio, e la pacificazione sarebbe sempre a danno
del più debole.

                                  ――――

Crispi compose il suo secondo ministero in dicembre 1893, all’indomani
dei tristi fatti di Aigues-Mortes, dove molti operai italiani erano
stati uccisi o feriti determinando in Italia un vivo risentimento,
accresciutosi dipoi pel verdetto della Corte di Angoulême che assolse
gli uccisori. Si presentò subito una questione delicata per l’indennità
dovuta alle vittime o alle loro famiglie. Il governo francese si
dichiarò pronto a presentare alle Camere un progetto di legge pel
pagamento della somma di 420 000 franchi, ma esigeva che anche da parte
del governo italiano si riconoscesse dovuta una indennità di 30 000
franchi ai cittadini francesi residenti in Italia, i quali erano stati
danneggiati durante le dimostrazioni popolari provocate da quei fatti.
Cotesta esigenza era ingiustificata, e senza precedenti; tuttavia, per
troncare l’increscioso incidente, Crispi ordinò che i 30 000 franchi
fossero pagati, senza indagare circa l’esistenza degli asseriti danni.

L’emozione prodotta in Italia per le manifestazioni di odio che avevano
determinato e accompagnato le uccisioni di Aigues-Mortes, dette
occasione al governo francese ad apprestamenti militari alla frontiera
italiana. E quando Crispi fu obbligato, appena ripreso il potere, a
richiamare una classe sotto le armi e a rimandare in Sicilia navi della
R. Marina, che aveva dapprima richiamate, per ristabilire l’ordine
pubblico gravemente compromesso, la stampa francese volle vedere in
quelle misure nientemeno che i prodromi di una prossima dichiarazione di
guerra! L’ambasciata d’Italia a Parigi riferiva che la nuova campagna
giornalistica suscitava inquietudini anche nei circoli parlamentari
francesi, e Crispi dovette far dire direttamente e per mezzo delle
Cancellerie delle potenze amiche che quelle inquietudini erano davvero
assurde e quasi puerili.

Il 19 marzo 1894 il duca di Cambridge, il venerando capo dell’esercito
britannico, trovandosi di passaggio a Madrid, esprimeva all’ambasciatore
Maffei la profonda impressione che aveva ricevuto osservando sulla
frontiera franco-italiana alle Alpi marittime «uno straordinario aumento
di truppe in pieno assetto di guerra» come se quel paese, da Cannes a
Ventimiglia, «fosse attualmente oggetto di una occupazione militare».

Il portafoglio degli affari esteri era stato affidato al barone Blanc,
già ambasciatore a Costantinopoli e bene al corrente della situazione
internazionale. La Francia, come si è detto, stava tuttavia in armi,
mentre le relazioni con la Germania, l’Austria-Ungheria e l’Inghilterra,
da ottime che erano state sino al 1891, si erano fatte tepide durante i
tre anni seguenti. Pur cercando, per quanto era possibile, di rinnovare
la intimità che aveva dato eccellenti risultati governando in Germania
il principe di Bismarck, l’on. Blanc volle fare il tentativo di troncare
la politica di dispetti della Francia, mostrandole il sincero desiderio
nostro di amicizia.

Occorreva per ciò un ambasciatore di grande autorità a Parigi, e l’on.
Blanc ebbe l’idea che cotesto rappresentante potesse essere il conte
Nigra, il quale si trovava a Vienna, ed era stato ambasciatore in
Francia per lunghi anni, sotto l’Impero e anche con la Repubblica, sino
al 1876. La corrispondenza che segue fa testimonianza del proposito del
Blanc, cui non mancò l’appoggio di Crispi:

        «_Conte Nigra Ambasciata Italiana_,
          Vienna.

                                                    Roma, 18-3-1894.

    (_Personale_). D’accordo col Presidente del Consiglio, La prego
    rendere un grande servizio al Re e al Paese accettando di
    ritornare a Parigi. Conoscendo il Suo alto patriottismo sono
    convinto che nessuna considerazione secondaria la farà esitare,
    potendo Ella meglio di chicchessia assecondarci in una opera di
    pacificazione che richiede speciale autorevolezza. Pensi alle
    gravi circostanze del Paese che più che mai domandano
    l’incondizionata abnegazione già da Lei tante volte dimostrata
    per il bene pubblico.

                                                           _Blanc._»

        «_S. E. Blanc_,
          Roma.

                                                  Vienna, 18-3-1894.

    (_Personale_). Se fossi persuaso che la mia presenza a Parigi
    potesse giovare all’opera di pacificazione che è nelle
    intenzioni del R. Governo, non esiterei, malgrado ogni
    convenienza personale, ad accettare la proposta fattami in
    termini così lusinghieri; ma io sono convinto che i miei
    precedenti ben noti devono precludermi per sempre l’ambasciata a
    Parigi. Le ricorderò che questi stessi precedenti impegnarono il
    Ministero Depretis nel 1876 a richiamarmi da quel posto. In tale
    convinzione, debbo ricusare un incarico che io so positivamente
    di non potere disimpegnare. Ho poi qualche ragione di credere
    che il mio trasloco farebbe cattiva impressione qui dove la mia
    azione sembra essere apprezzata. Non insisto su quest’ultimo
    motivo non avendo io la presunzione di credere che altri non
    possa fare in questo posto quanto io fo. Insisto invece sulla
    mia incompatibilità a Parigi, circa la quale la mia convinzione
    è inconcussa.

                                                           _Nigra_.»

        «_Conte Nigra Ambasciata Italiana_,
          Vienna.

                                                            19-3-94.

    (_Personale_). Sua accettazione avrebbe alto valore di
    confermare programma suo e del Conte Kálnoky che alleanze
    pacifiche sono conciliabili con buone relazioni con Francia come
    con Russia. Suo rifiuto porrebbe in gran dubbio possibilità di
    tale programma.

    Il Governo, giudice delle necessità attuali, deve insistere nel
    fare appello al suo patriottismo ed alla sua deferenza ai
    desideri di Sua Maestà.

                                                          _Crispi_.»

        «_A S. E. Crispi_,
          Roma.

                                                  Vienna, 19-3-1894.

    (_Personale_). Il programma cui Ella accenna può e dev’essere
    tentato, ma appunto perchè l’esito è difficile e dubbio conviene
    scegliere per un tale tentativo la persona adatta. Io non sono
    questa persona e i miei precedenti mi rendono incompatibile col
    posto di Parigi. Voglia farmi l’onore di credermi perchè so
    positivamente ciò che le affermo. Sarei lieto se potessi
    impiegare le forze che mi restano nel modo desiderato dal Re e
    da Lei, ma il mio ritorno a Parigi è da me considerato come una
    impossibilità storica e morale e nuocerebbe anzichè giovare
    all’attuazione del programma che si ha in vista. Scrivo questo
    all’amico più che al ministro. La prego di non insistere e di
    non rendermi più dolorosa la necessità in cui Ella mi mette di
    negarle qualche cosa. Io la servo qui con fedeltà e devozione e
    amo credere con soddisfazione dei due Governi.

                                                           _Nigra_.»

Il proposito del ministero Crispi di migliorare le relazioni
franco-italiane era ben accetto a taluni uomini politici influenti della
Francia, quali Léon Say e Maurizio Rouvier, ex-ministri.

In aprile il Rouvier venne segretamente a Roma, ed ebbe due colloqui con
Crispi, il 14 e il 16 di quel mese, nei quali fu convenuta un’azione
simultanea a Parigi per indurre il governo francese e la stampa parigina
a cooperarsi per un riavvicinamento tra le due nazioni, il quale avrebbe
avuto per base la riattivazione dei rapporti commerciali mediante la
concessione reciproca della condizione della nazione più favorita, e la
cessione della ferrovia Tunisi-Goletta alla Francia. Naturalmente, il
primo ostacolo da superarsi era l’ostilità dell’opinione pubblica
francese, della quale era schiavo il governo, presieduto allora dal
signor Casimir-Perier. Questi, informato dal Rouvier dei colloqui avuti
con Crispi, si dichiarò favorevole in massima; disse anzi al suo
interlocutore: «la politica che noi seguiamo non ha altro risultato che
di _éterniser et aggraver la Triplice_, la quale non è causa, ma
conseguenza dei malintesi. «E aggiunse che se a stipulare un accordo
poteva rattenerlo prima la considerazione ch’esso avrebbe rafforzato la
posizione di un uomo considerato in Francia come gallofobo, doveva ora
convenire che tale prevenzione era vinta dal procedere leale di Crispi e
riconoscere che questi poteva fare in Italia ciò che altri non avrebbe
potuto, nè osato. Circa l’accordo commerciale il Casimir-Perier disse
che la corrente protezionista in Francia aveva ecceduto i limiti, e che
v’era qualcosa da fare per modificare un indirizzo anche politicamente
nocivo; ma che temeva l’opposizione dei meridionali per i vini. Concluse
che era necessario assicurarsi della Camera.

Il gabinetto Casimir-Perier rimase in minoranza alla Camera il 30
maggio; lo sostituì un gabinetto Dupuy, nel quale il signor Hanotaux
ebbe la direzione degli affari esteri. Il 24 giugno un anarchico
italiano, Caserio, uccise a Lione il presidente della Repubblica, Sadi
Carnot. Il governo e il popolo d’Italia, sinceramente commossi per quel
delitto, manifestarono il loro cordoglio con tale solennità che a molti
in Francia parve rivelare sentimenti non sospettati. Disgraziatamente,
il buon effetto di quella manifestazione fu in gran parte perduto per i
maltrattamenti usati in Francia a italiani colà residenti e per la
ripercussione che essi ebbero in Italia.

In luglio il Rouvier riprese l’opera sua presso il ministro Hanotaux,
dal quale ebbe la promessa che durante le prossime vacanze parlamentari
gli si sarebbe affidata la missione di venire in Italia per discutere
con Crispi le basi di un accordo. Ma quando venne a concretare i suoi
_desiderata_, l’Hanotaux chiese che l’Italia riconoscesse senza
restrizioni il protettorato francese in Tunisia e accettasse una
convenzione per la neutralizzazione dell’Harrar. Come corrispettivo
offriva di non sollevare questioni per l’occupazione italiana di
Kassala, che non interessava la Francia, e di non prendere partito in
Etiopia nè pro, nè contro l’Italia. Nulla circa le relazioni
commerciali; nulla circa la Tripolitania.

Il signor Rouvier pensò bene che non si voleva un accordo con l’Italia e
rinunziò alla propria iniziativa.

Sulla politica francese verso l’Italia gettano luce le lettere private
che a Crispi scriveva il Ressman, succeduto al generale Menabrea come
ambasciatore a Parigi. Ne riferiamo alcuni brani, avvertendo che il
Ressman, per la sua lunga permanenza in Francia e pel suo carattere
conciliante, era un ottimista:

    «Qui la situazione è molto chiara. La Francia non vuole per ora
    la guerra. In tutti i casi, non avendo un Trattato formale colla
    Russia, avendo soltanto o la fede, o la promessa d’essere
    assistita dalla Russia se fosse attaccata, non vuole attaccare
    ed evita possibilmente ogni provocazione. Profondamente turbata
    da un continuo lavorio sotterraneo, essa guarda da ogni parte, è
    facile ai sospetti e sospetta noi più di tutti. Su Lei in
    ispecie ha fermi gli occhi, diffidando ma non sapendo ancora se
    debba sperare o temere. Epperò le più strane interpretazioni di
    ogni suo atto sono ammesse, discusse e influiscono talvolta
    sullo stesso atteggiamento degli uomini del Governo» (_24
    gennaio 1894_).

        «_Illustre Presidente ed amico carissimo_,

    Non volli dopo il mio ritorno a Parigi attediarla con lettere
    vuote e non Le scrissi, ma agii indefessamente con anima, per
    secondare nel limite delle mie attribuzioni l’opera di
    pacificazione ch’Ella sì magistralmente va compiendo all’interno
    e che deve anche nei rapporti con questo paese produrre i
    risultati ai quali mira la Sua politica. Non v’è dubbio che
    l’orizzonte qui, verso il confine italiano, si rischiara a poco
    a poco, che v’è intransigenza molto minore e che si comincia a
    renderle giustizia, l’ingiustizia in fondo non essendo mai
    consistita che nei timori che in diverse circostanze il suo
    patriottismo ed il suo valore ispiravano. Fu un buon sintomo
    anche il modo con cui le due Camere votarono l’accordo
    monetario. In altri tempi sarebbe bastata l’idea che ciò potesse
    giovare all’Italia per suscitare proteste.

    Già un paio di volte, in conversazioni puramente confidenziali
    col signor Casimir-Perier, esprimendogli il voto che si potesse
    qui darci qualche prova di buon volere lo condussi a parlarmi
    per il primo dei rapporti commerciali. La sua personale
    influenza sulla Camera è grande, e le sue intenzioni sono buone.
    Ne ho la prova anche dal fatto che in un recente convegno coi
    Ministri delle Finanze, del Commercio e dell’Agricoltura, egli
    accampò la questione se fosse possibile di trovare una
    maggioranza in caso d’accordi con noi, almeno parziali, sulla
    base della tariffa minima. Senza parlarmi di questo convegno,
    egli ieri mi disse che non si fiderebbe di presentare alla
    Camera un accordo con noi, se non fosse preceduto un accordo più
    facilmente accettabile con altra Potenza (la Svizzera), e che
    rispetto a noi una insormontabile difficoltà verrebbe sempre dai
    vini, giacchè coll’eccesso della presente produzione nel
    mezzogiorno della Francia tutti i viticoltori si alzerebbero
    come un solo uomo contro il Ministro che proponesse di riaprire
    più larghe le porte della concorrenza italiana.

    Gli risposi che forse a questo punto, abbassando pure alquanto
    la tariffa massima, potrebbe esservi modo d’intendersi mediante
    altri compensi. A questo proposito Vostra Eccellenza stimerà
    senza dubbio utile, come lo chiesi costì al conte Antonelli, di
    far studiare in confronto della tariffa minima francese le
    concessioni da noi offribili nell’eventualità di una futura
    trattativa. A me, ora per allora, gioverebbe d’essere informato
    delle intenzioni del E. Governo e del limite delle possibili sue
    concessioni.

    Il signor Casimir-Perier, che ha agito in un senso conciliante
    verso di noi sopra una buona parte della stampa, mi disse
    d’avere visti personalmente otto Direttori a tal fine e
    m’espresse il suo compiacimento per il linguaggio che ora tien
    verso la Francia la stampa italiana. A ciò il Quai d’Orsay bada
    molto» (_22 marzo_).

    «Malgrado l’atteggiamento preso da questa miserabile stampa
    nella questione economica dopo il viaggio del Re a Venezia e
    dopo la delusa speranza di vederci ridurre l’esercito, malgrado
    le dichiarazioni mezze negative e mezze dilatorie fattemi da
    Casimir-Perier, io non rinuncio alla speranza di approdare ad un
    accordo commerciale quando le nostre più gravi questioni interne
    saranno regolate. Abbiamo nel Consiglio qualche ministro
    favorevolissimo, e più di tutti Burdeau. Egli già da tempo
    incaricò il Direttore generale della dogana di preparargli uno
    studio comparativo della nostra tariffa convenzionale colla
    tariffa _minimum_ francese. Il Direttore signor Pallain che lo
    fece e me ne informò confidenzialmente, mi disse che secondo i
    suoi calcoli la tariffa minima francese sarebbe notevolmente più
    vantaggiosa per noi, che la nostra convenzionale per la Francia.

    E mi espresse l’avviso che in previsione della possibilità di
    future trattative gioverebbe che un lavoro simile fosse
    preparato anche da noi. Ella vedrà se non convenga seguire il
    consiglio per essere pronti se mai.... matureranno le nespole.
    Ad ogni modo, si perde il tempo anche peggio negli uffici.
    Intanto spinge attivamente ad un’intesa anche Rouvier, che de’
    suoi convegni con Lei riportò qui la migliore e la più utile
    impressione. Oltre ai protezionisti arrabbiati ed agli
    _chauvins_, abbiamo da lottare anche contro ogni specie
    d’intrighi stranieri, d’ordine politico e d’ordine economico.
    Gli Svizzeri e gli Spagnuoli tengono l’orecchio alle porte.
    Bisognerà dunque, venuta l’ora, fare presto e segretamente e
    fino a tanto che venga mi augurerei che la nostra stampa, la
    quale già abbastanza accentuò il voto del nostro paese e le
    buone disposizioni del nostro Governo, serbasse un prudente e
    dignitoso silenzio. M’illudo forse persistendo a credere alla
    possibilità d’una non lontanissima intesa; ma so quanto
    facilmente qui si passa dal bianco al nero e l’ardente mio
    desiderio di mettere questa vittoria al Suo attivo mi mostra gli
    ostacoli meno insormontabili che taluno non creda.

    E quantunque in questo Gabinetto vi sia un paio di giannizzeri
    di Méline (i ministri del commercio e dell’agricoltura, questo
    secondo ferocissimo), a noi conviene desiderare che si mantenga
    il Presidente del Consiglio, essendo uomo di pronta risoluzione
    e in tali disposizioni che la parte a noi più favorevole potrà
    trascinarlo. Pur troppo, già battuto in breccia dai socialisti e
    dai radicali, egli ora deludendo nei clericali le speranze che
    la proclamazione dello «spirito nuovo» di Spuller aveva fatte
    risorgere, si espone anche alle congiure pretine.

    I nostri nemici vollero sfruttare contro di noi anche gli atti
    addebitati al Generale Goggia, l’arresto e l’espulsione del
    quale fecero qui non poca impressione. Ma fra otto giorni
    nessuno ne parlerà più ed il savio e giustissimo linguaggio di
    Lei nella nostra Camera fu un’opportuna prova che non cerchiamo
    discussioni irritanti....

    L’altr’ieri ho messo in vettura il nostro Verdi che si diportò
    qui come un uomo di quaranta anni e fu instancabile dalla prima
    ora all’ultima. Ogni pomeriggio, durante cinque ore, egli
    dirigeva le ripetizioni del suo _Falstaff_, e quando lo ebbe
    condotto in buon porto e ottenuto un vero trionfo, volle darsi
    anche un po’ di divertimento e salì fino alla lanterna della
    Torre Eiffel! È vero che nella lanterna il celebre ingegnere
    aveva fatto mettere fino dal 1889 un pianoforte in previsione di
    visite simili. Nell’aprile del prossimo 1895 il grande maestro
    farà dare qui il suo _Otello_ e spera di ritornare a metterlo in
    scena. Non si potè dargli, come pure si sarebbe voluto, il Gran
    Cordone della Legion d’Onore perchè non lo ebbe mai nessun
    maestro nazionale. E Rossini morì semplice «commendatore
    dell’ordine rosso» (_26 aprile_).

    «Ho ringraziato Iddio con tutta l’anima di averla anche questa
    volta preservata dal colpo d’un miserabile assassino e di non
    aver lasciato distruggere da una palla la rinascente speranza
    del nostro paese. Se potè esservi nell’istante dello scoppio un
    baleno di amarezza nel suo cuore, se Ella sentì, una volta di
    più, a quanta ingratitudine le imbecilli passioni possono far
    scendere la bestia umana, ho per certo che grande deve essere la
    Sua consolazione, immenso il Suo conforto vedendo come
    dall’insano attentato scaturisca un vero plebiscito europeo che
    proclama e consacra la sua altissima missione e trova rispetto
    anche nelle file degli avversari.

    Ho immediatamente ringraziato, nei termini stessi del Suo
    telegramma, il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli
    affari esteri della Repubblica.

    Il primo mi aveva espressamente detto che nel felicitarla lo
    faceva in nome di tutto il Governo francese. Vari altri Ministri
    che incontrai ieri alle corse di Longchamp, ov’era invitato da
    Carnot al pari degli altri membri del Corpo diplomatico, mi
    manifestarono anche individualmente sentimenti di simpatia per
    Vostra Eccellenza.

    Non contento di averle telegrafato, il Conte d’Aquila venne pure
    a pregarmi di felicitarla scrivendole. E così fece Lord Dufferin
    che serba il migliore ricordo dei rapporti avuti con Lei» (_18
    giugno_).

    «Jersera il Presidente della Repubblica³⁵ invitò a pranzo tutti
    i Rappresentanti esteri qui accreditati e gl’inviati speciali
    ch’erano stati incaricati dai loro Sovrani d’intervenire in nome
    loro ai funerali Carnot. Sedendo alla sinistra del Presidente,
    che continua a trattarmi da amico, parlai a lungo con lui
    cercando con ogni parola ad agire sull’animo suo nel senso dei
    voti da Lei espressi nel telegramma direttomi in data del 29
    giugno. Il signor Casimir-Perier è uomo di mente molto aperta,
    uomo di iniziativa e di risoluzione, e lo ha già provato. È
    sincero nel desiderio che i nostri due paesi si ravvicinino. È
    sensibile al favore col quale la sua nomina fu accolta in
    Italia. (E credo sarà buona politica quella d’inspirare alla
    nostra stampa note simpatiche per lui e gli elogi che merita il
    suo atteggiamento). Mi parlò con apprezzamenti giusti ed in
    termini eccellenti dell’opera già da Lei compita e ch’Ella
    andava continuando. Confessò che nello scorso dicembre non
    avrebbe osato credere ad una sì felice riuscita. Le rese ampia
    giustizia» (_4 luglio_).

   ³⁵ Casimir-Perier fu eletto presidente della Repubblica il 27 giugno
      1894.

    «L’occasione di discorrere delle cose nostre col Presidente
    della Repubblica s’è offerta naturalmente e l’ho afferrata a
    volo. Invitato da lui, andai ieri a Pont-sur-Seine (due ore e
    mezza di ferrovia da Parigi), ove passa le sue vacanze in una
    vasta e splendida proprietà di sua madre, per presentargli la
    risposta del Re alla lettera notificante la sua elezione e per
    riverirlo prima della mia partenza in congedo. Fu meco quant’era
    possibile gentile e cordiale, mi tenne a colazione e dall’ora
    del mio arrivo fino a quella della mia partenza, dalle 11 ½ fino
    alle 4 ½ non mi lasciò un momento, compiacendosi a farmi
    visitare da un’estremità all’altra l’esteso dominio (seicento
    ettari) di casa Perier.

    Le do in poche parole il sunto della parte politica de’ nostri
    lunghi colloqui. Il Presidente non vede nessun punto nero
    pericoloso all’orizzonte e confida nel mantenimento della pace.
    Egli constata con soddisfazione il procedere corretto e cortese
    della Germania verso la Francia e ne attribuisce il merito,
    oltrechè alla saviezza dell’Imperatore, alle concilianti
    disposizioni del mio vecchio collega ed amico Münster, sempre
    disposto ad evitare attriti. Non è ancora ufficialmente
    informato di chi succederà all’ambasciatore d’Austria-Ungheria,
    conte Hoyos, che per ragioni di famiglia decise di ritirarsi
    nella vita privata, ma crede anch’egli probabile la nomina di
    Wolkestein, ora ambasciatore austriaco a Pietroburgo.

    Di Vostra Eccellenza mi parlò rendendo omaggio all’opera da Lei
    compita, riconoscendo quali fossero le difficoltà di questa e
    notando come anche la stampa ostile, soggiogata dai fatti, poco
    a poco disarmava di fronte a Lei. Caddero pure tra noi alcune
    parole sulla visita fattagli da Bonghi, il quale non gli lasciò
    una.... grande impressione. Fece un’allusione, ma senza rancore,
    alla frase allora attribuitagli circa la triplice alleanza,
    mostrandosi contento che Bonghi stesso la avesse poi smentita.

    I due capitoli principali su cui mi premeva di conoscere il
    sentimento presente del signor Casimir-Perier erano, s’intende,
    la questione commerciale e quella della delimitazione africana.
    Come in conversazioni confidenziali recenti già me l’avevano
    detto il Ministro degli affari esteri e il Direttore generale
    delle Dogane, così anche il Presidente crede che sarà possibile,
    prima che finisca l’anno, di rifare un accordo commerciale colla
    Svizzera, una buona parte degli stessi meno arrabbiati
    protezionisti desiderandolo. Il Direttore delle Dogane, come
    altre volte lo scrissi all’Eccellenza Vostra, era stato
    personalmente d’avviso che intavolando prima trattative
    coll’Italia si avrebbe più facilmente ragione delle esigenze
    della Svizzera; ma il Governo segue la corrente dell’opinione
    parlamentare e non si fida di poterla dirigere o non osa
    tentarlo. «Quantunque sia più facile un accordo colla Svizzera,
    mi disse il Presidente, le condizioni politiche esistenti fra le
    due repubbliche consigliandolo anch’essa, non dovete credere che
    per motivo politico si indugi a trattare coll’Italia: le
    difficoltà sono veramente e puramente d’ordine economico e
    dipendenti da ragioni di concorrenza». E menzionò ad esempio il
    vino. Gli risposi che considerando da un lato quanto sia
    protezionista la stessa tariffa _minima_ francese e osservando
    d’altra parte che la Francia l’applica ormai a quasi tutti gli
    Stati, sarebbe tanto più difficile di vedere sole ragioni
    economiche nell’esclusione dell’Italia inquantochè il danno
    economico era reciproco. E gli citai, in quanto al vino, le
    continue rimostranze della Camera di commercio francese di
    Milano la quale in più articoli del suo bollettino diede la
    prova del vantaggio che vi sarebbe per la Francia di prendere in
    Italia, anzichè in Ispagna, quel vino di cui pur sempre
    abbisognava l’industria di Bordeaux.

    Quand’egli era Ministro degli affari esteri, io già tante volte
    aveva espresso di mia iniziativa al signor Casimir-Perier il
    desiderio che mediante una concordata delimitazione intorno ad
    Obock fosse eliminata la possibilità d’attriti fra noi in
    Africa, che un nuovo mio suggerimento a tal fine non poteva nè
    sorprenderlo, nè parergli inopportuno. Gli raccontai ciò che da
    ultimo era accaduto tra il signor Hanotaux e me e come la
    questione fosse rimasta in sospeso, non senza mostrargli i
    pericoli d’una situazione abbandonata al caso o alle conseguenze
    di fatti compiuti. Gli dissi che per il Ministro degli affari
    esteri di Francia le vacanze parlamentari mi sembravano
    specialmente favorevoli per iniziare una trattativa senza la
    pressione quotidiana della Commissione coloniale ed aggiunsi
    d’essere certo che le entrature non sarebbero respinte da Vostra
    Eccellenza. Il Presidente non si addentrò in una discussione, nè
    recriminò contro il protocollo anglo-italiano; mostrò invece
    buona volontà e prese l’impegno di parlarne con Hanotaux. Non
    dubito che lo farà e che lo farà con buona intenzione; ma
    Hanotaux già in precedenza m’aveva dichiarato che prima di
    trattare egli avrebbe voluto assicurarsi della possibilità di
    un’intesa. Allora egli non era preparato a formolare un
    programma e disse che avrebbe ripresa la questione in serio
    esame: ma se il risultato di quest’esame lo condusse a scoprire
    un diritto della Francia sulla _città_ di Harrar, come
    recentemente affermò a Lord Dufferin, prevedo che la buona
    volontà del Presidente della Repubblica lascierà il tempo che
    trova. Non è però meno vero che la persistente migliore
    intuonazione della stampa francese a nostro riguardo rende poco
    a poco il terreno più arabile, e se con ciò le tendenze generali
    si modificheranno, crescerà pure l’influenza più benefica degli
    amici nostri e degli uomini savii sui politicanti _chauvins_ e
    intransigenti.

    Per ora la grande preoccupazione del Governo francese sono gli
    anarchici. Si avvedono un po’ tardi d’aver lasciato fare al male
    progressi enormi. Le minacce piovono su tutti i membri del
    Governo e ciò che rivelano arresti, perquisizioni ed
    interrogatorii non diminuisce le apprensioni. La sua naturale
    arditezza e noncuranza del pericolo espone l’attuale Presidente
    molto più che non fosse esposto l’infelice suo predecessore»
    (_24 agosto_).

    «Profittai dell’occasione per invocare il suo intervento presso
    il Ministro degli affari esteri cui la dimane (come difatti ieri
    feci) io doveva parlare degli intrighi sempre continuati dei
    signori Chefneux e consorti in Etiopia. Gliene potei discorrere
    tanto meglio inquantochè già sovente, quand’era Ministro degli
    affari esteri, io mi era con lui querelato di quegli intrighi.
    Protestò, come sempre fece, che il Governo non c’entrava per
    nulla e non incoraggiava punto i maneggi di alcuni speculatori o
    negozianti, e mi promise di raccomandare al signor Hanotaux ogni
    possibile vigilanza.

    La gioia del vecchio amico di Verdi, del signor Ambroise Thomas,
    nel ricevere dalle mie mani il Gran Cordone Mauriziano che
    Vostra Eccellenza m’inviò per lui, non ebbe limiti. Egli mi creò
    perfino _barone_ nella lettera di ringraziamento che mi pregò e
    che ho l’onore di trasmetterle qui unita. Peccato che non sia
    più vegeto, e con ciò più capace di propaganda attiva, il caldo
    amico francese che Ella ha nell’illustre decano di questi
    compositori.

    Sapendo di fare cosa grata a Verdi, io suggerii a questo
    Ministro dell’Estero di dare la croce anche a Ricordi ed a
    Boito. La mia proposta fu immediatamente accolta, talchè sono in
    fatto compensate anche le decorazioni da Lei accordate ai
    Direttori ed al Capo d’orchestra dell’Opera» (_1 novembre_).

Molti francesi vennero in quell’anno 1894 a Roma e furono ricevuti da
Crispi: i deputati Deloncle, Mermeix, Pichon, Léon Bourgeois, Ferdinando
Brunetière, il senatore R. Waddington, Emilio Zola e altri. Tutti
promisero di adoperarsi presso i loro amici per una pacificazione tra la
Francia e l’Italia, ma tornati in patria o non tennero parola o
constatarono la loro impotenza. «Il Billot — scrisse Crispi nel suo
diario — invece di aiutare l’opera mia, ha cospirato e continua a
cospirare coi miei nemici. Egli fa al suo governo dei rapporti
velenosi.»

In gennaio 1895 sollevò grande scalpore il richiamo da Parigi
dell’ambasciatore italiano. Il Ressman era da lunghi anni devoto
personalmente a Crispi; maggiore fu quindi il rammarico di questi quando
dovette constatare che dinanzi alla condotta malevola e insidiosa
dell’Hanotaux, l’azione del Ressman era inefficace. Nel diario di
Crispi, sotto la data di _giovedì, 6 gennaio 1895_, si legge:

    «Del resto, sono otto mesi da che Ressman doveva essere
    allontanato da Parigi. Io l’ho impedito difendendolo presso il
    barone Blanc. Ora ho dovuto convincermi che Ressman non poteva
    rendere utili servigi all’Italia.... Egli non ha influenza
    presso il Governo francese.»

Il Billot, nel libro più volte citato³⁶, ha scritto a proposito del
richiamo del Ressman molte inesattezze. Lo ha attribuito a Crispi — «car
nul ne songeait à imputer au baron Blanc la responsabilité de la
décision prise» — e per motivi personali, cioè perchè il Ressman non
seppe ottenere dal governo francese soddisfazione per alcuni articoli
del _Temps_ ingiuriosi contro il presidente del ministero italiano. È
certo che Crispi fu irritato dell’ingerenza di quel giornale ufficioso
del governo francese nella campagna personale condotta allora contro di
lui dal Cavallotti e compagni, ingerenza la quale gli confermava che
quella campagna di denigrazione aveva ispiratori e collaboratori
francesi. Egli aveva rilevato in uno degli articoli del _Temps_ talune
dichiarazioni fatte imprudentemente in Roma, con parole quasi identiche,
dal Billot, il 13 dicembre precedente, a un collega del corpo
diplomatico che glie le aveva riferite. A conferma di cotesto legittimo
risentimento valga il seguente telegramma:

   ³⁶ _France et Italie_, vol. II, pag. 96 e seguenti.

        «_Ressman ambasciatore Italia_
          Parigi.

                                             Roma, 1.º gennaio 1895.

    Il _Temps_ del 30 dicembre conferma la mala volontà ed il
    contegno in questi ultimi tempi dell’ambasciatore di Francia in
    Roma. Il signor Billot è stato una eccezione nella diplomazia
    straniera presso il Quirinale, cospirando coi nostri avversarii
    e riferendo cose strane al suo Governo. Il suo linguaggio con
    alcuni suoi colleghi è stato sconveniente, e prova che nulla è
    possibile tra la Francia e l’Italia quando coloro che dovrebbero
    cooperarsi ad un accordo fra i due paesi lavorano a sempre più
    inimicarli.

    Vi scrivo ciò per vostra norma, convinto come io sono che anche
    voi sarete impotente nella missione conciliatrice che vi avevo
    affidata.

    Sbagliano però Billot ed il suo Governo nei loro giudizii e
    nelle opere loro; il Governo italiano resisterà alle congiure
    comunque favorite dallo straniero.

                                                          _Crispi_.»

Ma se in quella circostanza la debolezza del Ressman potè dispiacere a
Crispi, le ragioni del richiamo erano più lontane e furono
sostanzialmente quelle indicate nel brano di diario qui avanti riferito.

È poi insussistente, anzi è contrario al vero, ciò che il Billot ha
affermato circa la cattiva impressione che il provvedimento del governo
italiano avrebbe prodotto presso gli _alleati_ e circa i consigli di
prudenza che da essi sarebbero stati dati.

Nel _Diario_ di Crispi troviamo:

    «_6 gennaio ore 16 ½_ — Visita del barone de Bülow.
    Felicitazioni per richiamo di Ressman. Non godeva la fiducia nè
    dell’ambasciatore inglese, nè del germanico.»

Al posto del Ressman fu inviato a Parigi il conte Tornielli,
ambasciatore a Londra, il quale il 18 febbraio 1895 presentò le lettere
credenziali al Presidente della Repubblica, Félix Faure, succeduto a
Casimir-Perier, dimissionario il 15 gennaio di quello stesso anno. Il
Tornielli, ricevuto con freddezza, potè grazie al suo tatto vincere
dappoi le diffidenze e tenere degnamente la rappresentanza del suo
paese. Le relazioni italo-francesi non mutarono, sebbene si evitassero
nuovi incidenti. L’alleanza franco-russa, proclamata per la prima volta
il 10 giugno alla tribuna parlamentare dai ministri Hanotaux e Ribot,
non giovò davvero a ispirare idee pacifiche alla politica della Francia,
la quale divenne più che mai altezzosa e attivamente malefica in Etiopia
agl’interessi italiani.

Di quest’azione parleremo altrove.



       _Capitolo Sesto._ — La Francia contro il credito italiano.


Tutto il mondo finanziario francese ostile. — La guerra ai titoli
italiani. — Crispi chiede l’intervento della finanza germanica. —
Bismarck e gli accordi del 1888. — La campagna al ribasso del 1889. — La
stampa francese unanime consiglia l’espulsione dalla Francia dei titoli
italiani. — Nuove difese dei banchieri tedeschi che si uniscono in
Sindacato nel 1890. — Fondazione dell’_Istituto Italiano di Credito
Fondiario_. — Fondazione della _Banca Commerciale Italiana_ sotto gli
auspicii di Crispi.


Una delle armi, la maggiore forse, che l’ostilità francese adoperasse
per punire l’Italia di essersi alleata alla Germania, fu il discredito
col quale colpì il Consolidato e gli altri valori italiani quotati alla
Borsa di Parigi.

La cospirazione ai nostri danni si estendeva a tutto il mondo
finanziario francese, ed era popolarizzata da una letteratura
impressionista che descriveva sui giornali la miseria delle popolazioni
italiane, _costrette ad emigrare in massa quando erano stanche di
nutrirsi d’erba_, e contristate dal brigantaggio; denunziava la
precarietà delle condizioni del Tesoro italiano, che affermava prossimo
al fallimento; e attribuiva tale stato spaventevole alle spese militari,
imposte da una politica estera anti-francese.

La speranza di «prenderci per fame», come dicevano, di costringerci ad
abbandonare la Triplice Alleanza col ritiro dei capitali investiti in
valori italiani e di determinare la sfiducia internazionale verso
l’Italia, era sicuramente mal fondata. Ma il danno di questa guerra
senza quartiere raggiungeva proporzioni considerevoli, poichè, dagli
inizii del Regno, la finanza nostra era orientata verso Parigi, e in
mani francesi si trovavano miliardi di rendita italiana. Gli avversari
interni dell’alleanza italo-germanica si giovavano, naturalmente, del
malumore che ne derivava e che si aggiungeva all’altro provocato dalla
rottura del trattato di commercio e dall’applicazione di tariffe
differenziali quasi proibitive. Il Governo italiano aveva il dovere di
preoccuparsene e di esigere che il Governo germanico si adoperasse a
neutralizzare, nella misura del possibile, questo effetto doloroso per
l’Italia di una politica che alla Germania non arrecava che beneficii.

Il principe di Bismarck interessato dall’on. Crispi nei primi mesi del
1888, influì premurosamente a decidere l’alta banca germanica a
intervenire in favore dei valori italiani. In una lettera del 18
febbraio di quell’anno il ministro Magliani scriveva a Crispi:

    «Non ho risposto subito perchè desidero vedere la comunicazione
    fatta dai banchieri berlinesi alla nostra Banca Nazionale.
    Questa non è ancora giunta. Frattanto mi pare che possa
    rispondersi mostrando la soddisfazione del nostro Governo, e
    dichiarando che saranno prontamente spediti articoli, documenti
    e notizie perchè la stampa tedesca faccia una campagna a favore
    del credito italiano, e che si farà anche nota la forma che a
    noi sembra più conveniente per un’operazione finanziaria a
    Berlino.

    Indicheremo con precisione l’opinione nostra, dal punto di vista
    tecnico, su quello che meglio corrisponde allo scopo nelle
    condizioni attuali. Fin d’ora si può dire che mezzi efficaci
    sono:

    1.º Ricomprare sul mercato di Parigi quanto più sia possibile di
    rendita italiana;

    2.º Indurre le Banche tedesche a scontare gli effetti cambiarii
    del commercio italiano, mostrando di avere in noi la fiducia che
    la Francia ci nega nel momento attuale.

    Col più affettuoso ossequio etc.»

Il sindacato costituito da Bleichroeder, Disconto Gesellschafft e
Deutsche Bank, cui si associarono i banchieri inglesi Baring e Hambro e
le maggiori banche italiane, raggiunse lo scopo di arrestare la discesa
del nostro Consolidato alla Borsa di Parigi. Il Tesoro italiano compensò
tale servizio coll’impegnarsi ad affidare al Sindacato l’emissione di
obbligazioni ferroviarie.

                                  ――――

Nel 1889 la campagna al ribasso riprese a Parigi nuovo vigore. Il 28
luglio l’on. Crispi telegrafava all’Ambasciatore d’Italia a Berlino:

    «Da venti giorni a Parigi con manovre organizzate dal Governo
    della Repubblica si lavora a far ribassare il prezzo della
    nostra rendita tanto che da 96 siamo giunti a 92 e 90.

    Voglia pregare il Principe affinchè impegni il solito banchiere
    amico a comprare siccome fece al 1888, onde arrestare una
    discesa la quale moralmente influisce sul nostro paese e della
    quale nessuno sa darsi conto.»

Il 2 agosto giungeva la seguente risposta:

    «Iersera solamente il sottosegretario di Stato, dopo avere
    riferito a Varzin, mi comunicò che il Cancelliere accolse di
    buon grado la domanda di V. E. ed impartì istruzioni per reagire
    contro il ribasso del prezzo della nostra rendita verificatosi
    nel luglio. Alcuni giornali impegneranno l’azione, anzi uno di
    loro l’ha già iniziata sino dal 24 dello stesso mese, ma ciò
    avrà luogo nella misura richiesta dal fatto che da qualche
    giorno si manifesta un rialzo della rendita. Un’azione più
    determinata ed un eventuale concorso dei finanzieri di Berlino
    sarebbero meglio indicati allorchè non si mantenesse l’attuale
    rialzo.»

Queste assicurazioni erano confermate a Roma dall’Ambasciatore
germanico, come si rileva dal seguente telegramma diretto da Crispi al
conte de Launay a Berlino in data 6 agosto:

    «Il 4 corrente il conte di Solms è venuto ad assicurarmi che S.
    E. il Principe di Bismarck aveva fatto pratiche affinchè si
    arrestasse il movimento di ribasso provocato contro la rendita
    italiana alla Borsa di Parigi. Soggiunse che i banchieri ai
    quali S. E. si era diretta vorrebbero che ci valessimo di loro
    per le operazioni di credito alle quali l’Italia potrebbe
    ricorrere. Risposi che per il momento non abbiamo bisogno di
    prestiti, i servizi della Tesoreria essendo pienamente
    assicurati; ma che all’occorrenza ed in ogni occasione ci
    varremmo dei banchieri tedeschi. Voglia confermare questa mia
    assicurazione al Principe prevenendolo che il lavoro al ribasso
    ha ripreso nuovamente alla Borsa di Parigi e dicendo essere
    ormai necessario che da Berlino si provveda ad arrestare la
    manovra dei nostri avversari, come già fu fatto con successo lo
    scorso anno.»

Ma l’intervento dei banchieri berlinesi ritardava. Il 10 settembre
l’Ambasciata italiana a Parigi telegrafava ripetutamente:

    «Un malevolo articolo del _Matin_ dice imminente in Italia il
    decreto che ristabilisce il corso forzoso come fatale
    conseguenza dell’autorizzazione data al ministro del Tesoro
    d’emettere per 90 milioni di biglietti consorziali da 10 e da 5
    lire. I bollettini finanziari dello stesso e di altri giornali
    spingono con crescente accanimento alla vendita ed espulsione
    dei titoli italiani.

    Il fatto che la rendita italiana ribassò qui oggi fino a 91
    produce molta impressione nella nostra Colonia, taluni membri
    della quale vorrebbero che dal R. Governo in qualche modo si
    provvedesse per impedire un panico che potrebbe diventare
    dannosissimo al nostro credito.»

E Crispi incalzava a Berlino lo stesso giorno:

    «Dal Gabinetto germanico fummo assicurati che l’azione dell’alta
    Banca tedesca a favore della nostra rendita si spiegherebbe
    allorchè fosse discesa al disotto del corso di 93. Essa è
    attualmente a Parigi scesa a 91 ed a Berlino a 92 e frazioni. Il
    momento è dunque giunto. Desidero che V. E. riprenda
    immediatamente le pratiche presso cotesta Cancelleria acciocchè
    i signori Bleichroeder ed altri siano interessati ad entrare in
    campagna per il rialzo dei nostri fondi.

    In seguito mio telegramma odierno la prego far notare a codesta
    Cancelleria come la cospirazione alla Borsa di Parigi contro il
    nostro 5% sia evidente. I bollettini finanziari dei giornali
    francesi lo dimostrano tale, ed ormai bisogna esser ciechi per
    non vedere che la guerra che per il momento non ci si fa
    militarmente, ci vien fatta deprezzando il nostro credito. La
    rendita in pochi mesi è ribassata di sei punti e continua a
    ribassare per le false notizie diffuse dalla stampa.»

Contemporaneamente Crispi telegrafava all’on. Giolitti, succeduto al
Magliani nel Ministero del Tesoro:

    «La rendita continua a discendere a Parigi, e siccome il
    movimento di ribasso in quella Borsa colpisce solamente il
    nostro 5% e non gli altri titoli stranieri, bisogna provvedere
    senza ulteriore indugio. Al 1888 Magliani ed io abbiamo
    resistito alla guerra che ci si voleva fare.

    Parmi che si potrebbe oggi fare lo stesso. Ho telegrafato a
    Berlino. Chiamate Grillo ed Allievi, e ricostituite altra volta
    il Sindacato. Allora c’eravamo anche rivolti a Londra con buon
    successo, siccome potrete sapere dal Cantoni.»

L’on. Giolitti si affrettava a rispondere:

    «Dopo conferenza avuta con V. E. quindici giorni fa incaricai
    comm. Grillo scrivere Berlino al banchiere Bleichroeder. Questi
    gli rispose parergli cause ribasso attuale diverse da quelle del
    1888, perchè più generali. Mostrossi preoccupato disavanzo
    bilancio italiano che credeva maggiore di quanto è; inoltre
    temeva vendita rendita Cassa Pensioni; tuttavia dichiaravasi
    pronto intendersi con Banca Nazionale. Giorno stesso in cui si
    conchiuse accordo circa crisi, diedi al comm. Grillo elementi
    necessari per dimostrare a Berlino condizioni bilancio, e lo
    incaricai trattare con Bleichroeder 126 milioni obbligazioni
    ferroviarie d’accordo col gruppo che fece precedente emissione,
    con dichiarazione che trovando concludere a buoni patti tali
    operazioni, non venderei più rendita Cassa Pensioni, ma
    proporrei creare titolo netto da imposta, da collocare a Berlino
    e Londra. Così sarebbe tolta difficoltà principale creazione
    Sindacato, e assicurata azione efficace di questo.

    Aspetto risposta. Appena la riceva agirò subito e informerò
    Vostra Eccellenza.»

Il giorno 11 settembre l’on. Crispi ricevette a Napoli l’Incaricato
d’affari germanico, conte de Goltz, che gli fece la seguente
comunicazione:

    «Impegno del Governo Germanico di far intervenire le Banche
    tedesche quando il corso della rendita italiana fosse discesa al
    disotto di 93.

    Negli ultimi giorni tale corso essendo disceso a 92 e 91 e
    frazioni, il gruppo finanziario berlinese, composto della
    _Berliner Handelsgesellschaft_ e dalla _Deutsche Bank_, si è
    dichiarato pronto a formarsi un nuovo portafoglio di cinquanta
    milioni di lire di rendita italiana, nonchè a facilitare i
    «reports» e la «Lombardirung» (imprestiti su depositi).

    Considerando però che quelle operazioni non lasciano sperare
    profitto, mentre potrebbero esporre a qualche rischio, il gruppo
    suddetto desidera che, in compenso, il Governo Italiano nelle
    sue future eventuali operazioni all’estero s’indirizzi ad esso
    prima di far capo ad altri. Il gruppo in parola si appoggia su
    buone case inglesi e sul _Crédit Mobilier_ di Francia.

    Qualora S. E. il cav. Crispi si dichiari pronto ad accettare la
    condizione suespressa, il gruppo bancario tedesco si farà
    premura di negoziare i particolari dell’operazione direttamente
    con Roma.

    Quando occorra al Governo Italiano di fare, in avvenire, qualche
    emissione nuova, il gruppo accennato interesserebbe in essa,
    d’accordo col Governo Imperiale, le principali case bancarie
    tedesche.»

L’indomani, 12 settembre, l’onor. Crispi telegrafava all’onorevole
Giolitti:

    «Ieri sera è venuto espressamente da Roma l’Incaricato d’affari
    di Germania per dirmi che il gruppo dei banchieri tedeschi è
    pronto ad entrare in campagna contro i ribassisti francesi a
    condizione che il Governo Italiano in caso di un prestito si
    rivolga a preferenza ad esso gruppo. Ho accettato, e mi fu
    risposto che il Bleichroeder si sarebbe subito posto in
    relazione con la nostra Banca Nazionale per operare a siffatto
    scopo.

    Bisogna lavorare in guisa da emanciparci dalla tirannide del
    mercato francese, pericoloso tanto più per la mobilità di quella
    popolazione.

                                                          _Crispi_.»

Con l’intervento del Bleichroeder il nostro Consolidato ebbe qualche
sostegno a Berlino, sebbene non tutti i milioni promessi fossero stati
investiti in rendita italiana e alcuni membri del Sindacato non
trascurassero il giuoco di borsa per conto proprio, rivendendo, cioè, la
rendita comperata appena vi era un piccolo margine di utile. A Parigi la
campagna contro di essa era diretta da un Comitato di ribassisti, che la
chiamava nei suoi manifesti «la rente de M. Crispi». Si trattava senza
dubbio di una campagna politica, e Crispi non si stancò di metter ciò in
evidenza presso il Governo Germanico per reclamarne l’interessamento.

                                  ――――

Nel 1890 le principali banche tedesche si associarono per la difesa del
credito italiano.

In Francia persistevano le ostilità.

    «La campagna — scriveva il Menabrea — aperta in questa piazza
    contro il credito dell’Italia, che sembrava alquanto smessa, si
    è di nuovo ravvivata sotto diverse influenze. Anzitutto vi ha il
    nuovo prestito di 700 milioni che sta per aprirsi dal Governo
    Francese, per il quale si richiede che il danaro, anzichè
    portarsi sui valori esteri e specialmente sui nostri che avevano
    ripreso un poco di favore, si riservi al contrario per il
    sovradetto prestito. Indipendentemente da questa circostanza, vi
    ha sempre la dominante passione d’inceppare il Governo Italiano
    in tutti i modi, specialmente nelle cose economiche, colla
    speranza di ridurlo ad arrendersi in balìa della Francia.»

L’ambasciatore germanico, conte Solms, scriveva a Crispi il 3 aprile:

        «_Mon cher Président_,

    Comme je vous l’avais promis hier, j’ai télégraphié au Ministère
    des Affaires Étrangères à Berlin en lui communiquant votre désir
    au sujet de M. de Bleichroeder, à qui j’ai en même temps adressé
    une lettre particulière.

    J’ai aujourd’hui la satisfaction de vous informer qu’on m’a
    télégraphié de Berlin que dès qu’on a pris connaissance de
    l’intérêt que vous témoignez à cette affaire financière, on a
    exercé, avec le consentement de M. le Chancelier, une vive
    pression sur M. Bleichroeder pour créer avec son concours et
    celui de la «Disconto Gesellschaft» un puissant consortium
    allemand en faveur de l’entreprise financière italienne; que le
    succès, quoique pas encore assuré, était néanmoins
    vraisemblable.

    Je suis chargé de communiquer cette nouvelle très
    confidentiellement à Votre Excellence et je suis heureux que ma
    démarche promet un bon résultat.»

Lo stesso giorno il banchiere S. Bleichroeder, amico personale del
Principe di Bismarck, telegrafava a Crispi:

    «Je suis heureux de pouvoir annoncer à Votre Excellence entente
    établie entre moi et groupe des banques.»

Ancora nel 1890 l’on. Crispi appoggiò diplomaticamente la creazione
dell’_Istituto Italiano di Credito Fondiario_ col concorso di un
Sindacato finanziario germanico. Esso fu un fatto compiuto il 25 agosto
di quell’anno. Il comm. Giacomo Grillo, direttore generale della Banca
Nazionale, inviava in quel giorno da Lucerna il seguente telegramma a
Crispi:

    «Protocollo per creazione nuovo Credito fondiario italiano
    sottoscritto oggi Lucerna fra Sindacato Italo-tedesco, Banca
    Nazionale e Società Immobiliare. Nuovo Istituto che avrà cento
    milioni di capitale comincierà con trenta milioni versati,
    assunti metà Banca Nazionale e metà Sindacato e Immobiliare.

                                                          _Grillo_.»

Tornato alla fine del 1893 al Governo, l’on. Crispi trovò a Parigi le
stesse cattive disposizioni nel mondo finanziario e bancario. La visita
del Principe ereditario d’Italia a Metz, avvenuta sotto il Ministero
precedente, era stata considerata in Francia come un oltraggio, e la
Borsa di Parigi ne aveva profittato. Il programma dei ribassisti
francesi era in quei giorni di portare la rendita italiana a 75, cioè al
corso di quella spagnuola, e l’aggio al 20%, per mettere il Governo
della Repubblica in grado d’infliggere all’Italia un grosso scacco con
la denunzia della Convenzione monetaria. Il Sindacato Italo-Germanico fu
ricostituito, ma alla testa del governo di Germania non vi era più il
principe di Bismarck, e la sua efficacia fu scarsa.

                                  ――――

Alla metà del 1894 fu fondata in Italia la _Banca Commerciale Italiana_
con capitali germanici, austriaci, svizzeri e italiani, cinque milioni
in tutto, ed ecco in quali circostanze.

L’idea di fondare una banca italo-germanica fu una conseguenza
dell’interessamento dell’alta finanza della Germania al credito
italiano, reclamato da Crispi e incoraggiato dalla Cancelleria di
Berlino.

Sollecitati ad occuparsi degli affari italiani, i banchieri tedeschi
furono naturalmente portati a considerare la convenienza della creazione
in Italia di un istituto col quale potessero esercitare più facilmente
il controllo su quegli affari.

Ritornato appena al governo e informato del progetto, ancora vago,
manifestato dal capo della casa Bleichroeder, sig. Schwabach,
all’ambasciatore conte Lanza, il 21 dicembre 1893 Crispi fece mandare
parole d’incoraggiamento. Come l’idea divenisse realtà risulta dai
documenti che seguono:

                                            «Berlino, 3 giugno 1894.

        _Signor Ministro_,

    Esce da casa mia questo momento il signor Schwabach, Capo della
    Casa Bleichroeder, il quale più di noi forse desidera creare una
    Banca in Italia col concorso di capitali tedeschi ed austriaci,
    e che sempre fu trattenuto dai suoi soci in quest’affare, in
    attesa della soluzione delle nostre questioni finanziarie
    pendenti davanti al Parlamento. Egli vorrebbe, se ancora il R.
    Governo avrà un voto favorevole in questi giorni, tentare di
    nuovo trascinare i suoi compagni ad una sollecita decisione e
    crede farsi forte di ottenere lo scopo se solo potesse aver fra
    mani un documento che provi il R. Governo vedrebbe con piacere
    l’istituzione della Banca in discorso.

    Che questo sia il sentimento del R. Governo ebbi già a
    dichiararlo in tutti i modi, in conformità agli ordini ricevuti;
    il signor Schwabach però insistè nella sua domanda, dicendomi
    che gli basterebbe una parola del Presidente del Consiglio, la
    quale confermasse il discorso che S. E. avrebbe, pare, tenuto a
    certo signor Veil³⁷ venuto qui ultimamente, il quale rientrato
    in Italia avrebbe appunto parlato a Roma con Sua Eccellenza
    Crispi. Ignoro quanto siavi di vero in ciò che il Veil ha
    riferito qui dopo quel discorso; ad ogni modo non potendo la
    cosa impegnare a nulla, io sarei del remissivo parere volesse
    Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio spedirmi un
    telegramma che io possa far vedere allo Schwabach e concepito
    all’incirca così: «Ringraziola comunicazioni fatte: come Vostra
    Eccellenza sa, R. Governo vedrebbe con sommo piacere
    l’istituzione di una Banca tedesca in Italia e spera che i
    signori Banchieri tedeschi, i quali paiono disposti a concorrere
    coi loro capitali alla creazione della Banca, si persuaderanno
    che sia, anche nel loro interesse, giunto il momento di prendere
    una decisione.»

   ³⁷ Si allude al comm. Federico Weil che, presentato a Crispi dal
      banchiere A. Weill-Schott di Milano, potè portare a Berlino
      l’incoraggiamento del Presidente del Consiglio. Il quale messaggio
      costituì un titolo dippiù per l’ufficio di direttore generale del
      nuovo istituto, che gli fu affidato e che ancora tiene.

                                                           _Lanza_.»

        «_Ambasciata Italiana_,
          Berlino.

                                                Roma, 7 giugno 1894.

    [_Telegramma_]

    Ringraziola comunicazione fatta. Come V. E. sa, R. Governo
    vedrebbe con sommo piacere l’istituzione di una Banca tedesca in
    Italia e spera che i signori banchieri germanici, i quali paiono
    disposti a concorrere coi loro capitali alla sua creazione, si
    persuaderanno che anche nel loro interesse, sia giunto il
    momento di prendere una decisione.

                                                          _Crispi_.»

                                              «Berlino, il 9-6-1894.

    Capo della Casa Bleichroeder, con lettera di iersera, m’informa
    che 15 corrente saranno Milano delegati per costituzione nota
    Banca italo-germanica. Di là si porteranno a Roma. Aggiunge
    sperare Banca possa essere costituita fine corrente. Segue
    rapporto.

                                                           _Lanza_.»

                                           «Berlino, 10 giugno 1894.

        _Signor Ministro_,

    (_Riservato_). Facendo seguito al mio telegramma di ieri,
    pregiomi trasmettere qui unito a V. E. copia della lettera
    direttami dal signor Schwabach, capo della Casa Bleichroeder,
    per comunicarmi la decisione presa dal gruppo da lui
    rappresentato, di fare incontrare il 15 corrente a Milano i
    propri delegati con quelli dell’Austria-Ungheria e della
    Svizzera, per risolvere le questioni le più importanti di
    massima, e venire in seguito a Roma. Egli soggiunge sperare una
    prossima favorevole soluzione della questione.

                                                           _Lanza_.»

    [_Annesso_]

                                            «Berlin, le 9 juin 1894.

        _Excellence_,

    Mon intention était de vous faire personnellement la
    communication qui suit, mais la conférence a duré si longtemps
    que je n’ai plus pu arriver à temps pour me présenter à V. E.
    Comme d’un autre côté nous avons demain dimanche et que je
    voudrais bien pouvoir me reposer un jour sur ma propriété à la
    campagne, mes nouvelles ne vous parviendraient que Lundi très
    tard, de sorte que je me permets de choisir la voie épistolaire.

    Les amis ont pris note avec satisfaction des informations que V.
    E. a bien voulu nous faire, et ont décidé par suite d’envoyer
    des délégués en Italie. Délégués qui se rencontreront à Milan le
    15 juin a. c. avec leurs collègues Austro-Hongrois et Suisses
    pour résoudre en Italie même les questions les plus importantes,
    telles que: qui du côté Italien devra participer à l’affaire, et
    ce qui concerne la question du personnel.

    Aussitôt que l’on se sera entendu par rapport au Groupe à
    former, tous les Délégués ou quelques uns d’eux, se rendront à
    Rome pour les négociations avec monsieur le ministre, de sorte
    que j’ose espérer que la fondation de la Banque pourra se faire
    avant la fin du mois.

    Tout en laissant à V. E. le choix si elle veut porter cette
    information confidentielle à la connaissance de S. E. le
    président du Ministère Crispi, je prie V. E. d’agréer (ecc.)

                                            (_Signe_): _Schwabach_.»

                                        «Berlino, il 23 giugno 1894.

    Constami che Casa Bleichroeder ha versato Banca Imperiale nome
    fondatori _Banca Commerciale Italiana_ somma marchi quattro
    milioni ottocento sessantamila a disposizione Banco Sicilia in
    Milano.

                                                           _Lanza_.»

Con cinque milioni, adunque, fu fondata in Milano la _Banca Commerciale
Italiana_, che ha oggi centocinquanta milioni di capitale e un
larghissimo giro d’affari in tutto il Regno.

A questo Istituto è legato il nome di Crispi, che gli creò l’ambiente
propizio e gli dette l’impulso a nascere.



                        L’ITALIA E IL VATICANO.



          _Capitolo Settimo._ — Un incidente italo-portoghese.


Il Re Fedelissimo a Roma pel Re d’Italia. — L’annunzio ufficiale della
visita. — Il Vaticano mette il _veto_. — Imbarazzo e indecisione del Re
Carlo e del suo governo. — Re Carlo si raccomanda a Crispi. — Linguaggio
severo della stampa portoghese. — Re Carlo prega di essere ricevuto a
Monza; rifiuto di Re Umberto. — Rinunzia alla visita. — Crispi rompe le
relazioni diplomatiche col Portogallo. — Colloquio Crispi-Vasconcellos.
— Giudizii di diplomatici sulla condotta del Ministero portoghese. — Le
origini remote della caduta del regime monarchico nel Portogallo.


Il primo di ottobre 1895 il Sotto-segretario di Stato del Ministero
degli affari esteri, on. Adamoli, partecipava all’on. Crispi:

    «Il Ministro di Portogallo presso la Real Corte è stato oggi
    alla Consulta per annunciarmi ufficialmente che S. M. il Re di
    Portogallo verrà far visita in Roma al nostro Augusto Sovrano.

    Il signor di Carvalho e Vasconcellos ha soggiunto che l’arrivo
    di S. M. il Re di Portogallo in Roma avrà luogo tra il 15 ed il
    20 del corrente mese di ottobre. Egli si riserva di indicarlo
    con maggior precisione».

Per fare analoga comunicazione al Re, il Ministro Carvalho e
Vasconcellos partiva per Monza lo stesso giorno primo di ottobre.

Don Carlos, Re di Portogallo e figlio di Maria Pia, sorella del Re
Umberto, muoveva dal suo paese un giorno dopo per fare la prima visita
dacchè era salito al trono ai capi degli Stati amici. Da Lisbona, in una
corrispondenza in data 3 di ottobre, si annunziava:

    «Il Re è partito ieri a mezzogiorno. Oggi sarà a San Sebastiano,
    ospite della Reggente di Spagna e dopo dimani giungerà a Parigi.
    I giornali dicono che vi si tratterrà una diecina di giorni, ma
    ho motivo di credere che egli prolungherà oltre quel termine la
    durata della sua permanenza in Francia. Verrà in seguito la
    visita di Sua Maestà alla nostra Real Corte, d’onde proseguirà
    per Berlino terminando il suo giro con un breve soggiorno in
    Inghilterra. È commentata l’esclusione della Corte
    Austro-Ungarica dal programma di questo viaggio ufficiale, tanto
    più che la stampa ispirata dai circoli di Corte lo dichiara
    provocato dal solo desiderio di visitare i Sovrani e Capi degli
    Stati _amici_. In quanto alla Russia, la lontananza e le scarse
    relazioni che passano tra l’uno e l’altro Stato bastano a
    spiegare in modo più o meno soddisfacente, come non sia compresa
    nell’itinerario una visita alla Corte di Pietroburgo.»

Lo stesso giorno 3 di ottobre un telegramma dell’Incaricato d’affari
italiano a Lisbona, di Cariati, avvertiva:

    «Mi consta da fonte sicura ed in via strettamente confidenziale,
    che il Nunzio apostolico ritiene che la Santa Sede romperà
    probabilmente le sue relazioni diplomatiche col Portogallo in
    conseguenza della visita del Re a Roma, dove Sua Santità
    ricuserà, in ogni caso, di riceverlo.»

Un altro telegramma dello stesso Ministro, in data 5 ottobre, era così
concepito:

    «Ministro degli affari esteri, col quale ho avuto una
    conversazione mi ha confermato poc’anzi che la visita del Re di
    Portogallo a Roma sarebbe certamente seguita dal richiamo del
    Nunzio, il che avrà conseguenze gravissime per questo paese.
    Governo portoghese, egli ha detto, è pronto a tutto per
    compiacere al Re e al Governo italiano, ma non può considerare
    senza grave apprensione una simile eventualità che l’Italia non
    può desiderare, giacchè invece di creare un precedente
    favorevole, non farebbe che precludere definitivamente ogni
    ulteriore possibilità di visite di Sovrani e Capi di Stato a
    Roma. È nello interesse del Governo italiano di lasciare questa
    questione impregiudicata, tanto più nel caso presente essendo
    abbondantemente noti i sentimenti di profonda affezione che
    legano le due Corti e la simpatia tradizionale delle due
    Nazioni.»

Il viaggio a Roma del re Carlo, spontaneamente deciso e annunziato,
incontrava dunque un ostacolo che inconsideratamente non era stato
preveduto. Il signor Pinto de Soveral, ministro degli affari esteri del
Portogallo, si scusava rigettando la responsabilità della decisione
della visita a Roma sul defunto suo predecessore, ma egli era già in
carica il 1.º ottobre quando di quella visita ne fu dato l’annunzio
ufficiale. Crispi, informato esattamente di quanto avveniva in Vaticano,
il 7 telegrafava al Primo Aiutante di Campo del Re, generale Ponzio
Vaglia:

    «Il Papa si oppone al viaggio di Re Carlo a Roma. La Segreteria
    di Stato pontificia ha scritto a Lisbona protestando che ove le
    sue domande fossero respinte richiamerebbe il Nunzio accreditato
    presso la Corte portoghese.

    Pregola informare S. M. il Re.»

Contemporaneamente il re Carlo, ch’era giunto a Parigi, pregava il re
Umberto di toglierlo dall’imbarazzo ricevendolo in incognito a Monza. Ma
questa soluzione non era possibile dopo la partecipazione ufficiale
della visita a Roma e la pubblicità che se n’era fatta. Alla
comunicazione ricevuta della negativa fatta da Umberto al suo reale
nipote, Crispi rispondeva:

        «_S. E. Ponzio Vaglia_
          Monza.

                                               Roma, 9 ottobre 1895.

    Il contegno del nostro Augusto Sovrano non poteva essere che
    quello che dalla M. S. mi attendevo. Noi non abbiamo bisogno di
    questo minuscolo Re di Portogallo, il quale non ha importanza
    alcuna in Europa. Se egli non può venire in Roma, che resti a
    casa sua — e siccome il pentimento suo e del suo Governo indica
    una manifestazione di principii a noi contraria, ritireremo il
    nostro Ministro da Lisbona, come risposta alla sua condotta.

    La prego di voler rassegnare a S. M. i miei devoti omaggi.

                                                          _Crispi_.»

Il re Carlo, tra la negativa dello Zio di riceverlo altrove che a Roma e
l’annunzio da Lisbona che il Papa avrebbe considerato la sua andata a
Roma come «un insulto personale», da Sovrano «cattolico e fedelissimo»
quale era, prese la risoluzione di rinunziare al suo viaggio in Italia.
Ma poichè doveva preoccuparsi delle conseguenze di essa, fece giungere a
Crispi la preghiera di considerare benevolmente la sua posizione e per
mezzo dell’ambasciatore italiano a Parigi, gli fece pervenire
l’assicurazione che sarebbero state date dal suo governo «le più
amichevoli spiegazioni».

A questa comunicazione Crispi obbiettava:

        «_S. E. Tornielli_
          Parigi.

                                                    15 ottobre 1895.

    Le notizie ch’ella mi dà col suo telegramma di ieri non sono
    segrete: esse furono contemporaneamente mandate col telegrafo ai
    giornali di Roma.

    Ringrazio S. M. Fedelissima delle comunicazioni di cui l’ha
    incaricato. Ma non posso nascondere che ciò ch’è accaduto è
    abbastanza deplorevole, e non sarebbe avvenuto se il Governo
    portoghese avesse ben valutato il progetto del viaggio del Re in
    Italia, ed avesse saputo prevederne le conseguenze.

    La spiegazione che S. M. ha voluto dare del mancato viaggio, se
    testimonia della sua personale delicatezza e del suo desiderio
    di evitare penose impressioni in Italia, dopo le polemiche delle
    quali da dieci giorni sono pieni i giornali di tutta Europa non
    può contentare la pubblica opinione in Italia.

    E fatalmente ieri stesso, dal Gabinetto di S. M. il Re Carlo,
    usciva una conversazione, riferita dai giornali di qui, che la
    spiegazione sovrana mette un po’ in dubbio.

    Un complesso di circostanze, come si espresse S. M. di
    Portogallo, ma tutte all’infuori di noi, hanno reso la posizione
    assai difficile.

    Per quanto personalmente deferente alla persona di Re Carlo, io
    devo preoccuparmi della pubblica opinione del mio paese, la
    quale nello sgradevole incidente non può non vedere offeso il
    sentimento nazionale.

                                                          _Crispi_.»

L’intervista alla quale alludeva Crispi era stata accordata dal ministro
di Portogallo a Parigi e dal Segretario particolare del re Carlo al
corrispondente della _Tribuna_ di Roma, e in essa i due personaggi
avevano dichiarato che il re Carlo non faceva l’annunziata visita in
Italia perchè non poteva prolungare la sua assenza dal Portogallo.
D’altronde, il Nunzio pontificio a Lisbona aveva fatto sapere ai
giornali cattolici di quella capitale il vero motivo della decisione del
Sovrano portoghese.

Un grave fermento si notava frattanto in Portogallo che faceva temere
delle sorti della dinastia. Nella stampa, anche in quella più ligia alle
istituzioni monarchiche, e nei circoli politici della capitale
portoghese, il biasimo diveniva ogni giorno più acerbo. Il _Jornal do
Commercio_, autorevole e diffuso organo del partito
monarchico-progressista, pubblicava nei numeri del 15, 16 e 18 ottobre
articoli violenti, dei quali citiamo qualche brano:

    «.... Abbiamo posto in dubbio, fin da principio, la convenienza
    politica di tal viaggio, ma eravamo lungi dal poter prevedere
    gli incidenti, che si vanno manifestando e che non sono solo un
    disdoro pel Re, ma altresì un obbrobrio per la Nazione che egli
    rappresenta.

    Chi lasciò partire così alla ventura di quanto potesse
    succedere, il Re di Portogallo?

    Chi doveva essere, se non questo Governo senza scrupoli...?
    Giacchè consigliò il viaggio reale o lo consentì, gli incombeva
    di formularne il programma di completo accordo coi Governi delle
    Nazioni che il Re proponevasi di visitare.

    Non fece ciò, lo trascurò interamente, ed il risultato eccolo,
    senza parlare del rimanente: — un conflitto col proprio zio
    Umberto, o col Santo Padre, a scelta, il quale può tosto
    risolversi in una rottura di relazioni, o, nel migliore dei
    casi, in un _fiasco_ di più pel Portogallo; e, questa volta,
    ricadendo sulla stessa corona del suo Sovrano, al cospetto
    dell’intera Europa.»

    «.... Il Governo non ha neppure il decoro di tentare una difesa;
    e neppure ha l’alterezza di assumere le rispettive
    responsabilità.

    Aspettavamo oggi alcune spiegazioni alla vergognosa situazione
    in cui trovasi il real viaggio, tanto preconizzato, allorchè fu
    annunziato, come sommamente benefico pel paese.... Il Governo
    nega l’esistenza dell’incidente diplomatico nel quale si avvolse
    colla Curia e col Governo del Quirinale, non si difende della
    propria imprevidenza, non assume la minima particella di
    responsabilità, ed al contrario, la scarica sopra.... chi? Sul
    Re, sullo stesso Re.

    Dubitate?

    Aprite il _Diario de Noticias_ e leggete:

    «Nulla è ancora deciso circa l’andata di S. M. il Re a Roma,
    questo viaggio dipendendo dai piani che farà Sua Maestà....»

    Ciò che sembra incredibile, è scritto, e scritto col tono di una
    informazione ufficiale. E, infatti, è noto essere il _Diario de
    Noticias_ uno dei ricettacoli delle informazioni del signor
    Presidente del Consiglio.

    In detta piccola notizia, d’apparenza così innocente, contiensi
    tuttavia questa enormità: _di ciò che succede, la colpa non è
    del Governo, poichè i piani del viaggio non sono suoi, ma del
    Re_.

    Sono del Re?

    Lo saranno! Il _Diario de Noticias_ che lo afferma, lo saprà ed
    in tal caso è da deplorarsi che il Re non sia stato all’altezza
    da delinearli. Ma non è a lui che legalmente si possono far
    risalire responsabilità, poichè l’articolo della Carta che lo fa
    irresponsabile è tra quelli che la Dittatura non revocò....»

    «.... I sorrisi ironici cominciano già a spuntare nella stampa
    straniera, diretti specialmente contro i consiglieri
    responsabili del Re di Portogallo, i quali gli preparano
    quest’avventura, ma striscianti già sulla stessa persona del
    Capo della Nazione Portoghese, per modo che potrà benissimo
    avvenire quanto prima, che i cronisti parigini comincino a
    ingrandire la già troppo pesante leggenda della _gaité_ delle
    cose portoghesi.

    Ma il Governo più nulla sente di ciò...!

    Sconcertato dall’inatteso incidente, conscio del suo grave
    errore e delle sue enormi responsabilità, sta come se fosse
    stato spaventato da un fulmine; perdette la facoltà di sentire,
    di pensare, di deliberare e di procedere.

    È in stato di completa paralisi, di sincope; e per quanto si
    riuniscano a consiglio i dittatori, poco più conseguono, che di
    guardarsi gli uni gli altri, e di grattarsi automaticamente la
    testa, senza che ciò valga a dissipare la prostrazione in cui
    trovasi il suo contenuto.

    E mentre i ministri non risolvono, il Re Don Carlos, in attesa
    che risolvano, si mantiene in Parigi, nel non interrotto
    rinnovarsi di caccie, corse e teatri, come se estraneo agli
    avvenimenti, nei quali è implicata la sua personalità, ed in una
    evidenza, in faccia all’Europa, secondo noi poco propizia ai
    suoi interessi ed a quelli del Paese.

    È indispensabile dunque, che il Governo si svegli, e prenda una
    deliberazione, che tronchi prontamente l’incidente, il quale se
    non può ormai essere soppresso, conviene non ingrossi e non si
    protragga, poichè il Portogallo ed il suo Sovrano nulla hanno da
    guadagnare in ciò; al contrario.

    Il male è fatto, lo scandalo è dato e tutto ciò è ormai
    irrimediabile; il Re non può andare in Italia....»

Il governo portoghese, in realtà, rimase per parecchi giorni indeciso
sulla via da prendere; o meglio, deciso a non affrontare le ire del
Vaticano, non sapeva quali potessero essere le «spiegazioni amichevoli»
che il re Carlo avevagli ordinato di dare a Crispi. Il 17 ottobre,
l’Incaricato d’affari italiano a Lisbona si recò dal ministro degli
affari esteri per domandargli quanto vi fosse di vero nell’affermazione
di parecchi giornali che S. M. Fedelissima avesse deciso di astenersi
dalla sua visita a Roma. Il signor de Soveral rispose che «l’idea del
viaggio a Roma non era definitivamente abbandonata» e affermò che «il
Governo portoghese non si era impegnato con la S. Sede a rinunziarvi».
Ed esprimendo il profondo rammarico suo per le spiacevoli complicazioni
sorte dal viaggio del Re, aggiunse che quel viaggio aveva «una grande
importanza politica, specialmente nei rapporti con la Germania e
l’Inghilterra, date le pendenti questioni coloniali».

Poco tempo prima il de Soveral aveva assicurato il rappresentante di
un’altra grande potenza che il Re si era messo in viaggio «per
distrarsi»!

Due giorni dopo un giornale ufficioso del gabinetto portoghese, _La
Tarde_, pubblicava un comunicato del tenore seguente:

    «Ci consta che il Re non andrà per adesso in Italia, proseguendo
    invece il suo viaggio per la Germania e l’Inghilterra.»

Il _Diario de Noticias_, anch’esso governativo, riproduceva cotesto
comunicato facendolo seguire da un telegramma del suo corrispondente
parigino così redatto:

    «Parigi 19. — Essendo stato impossibile ottenere dal Governo
    italiano che il Re di Portogallo fosse ricevuto altrove che a
    Roma, e visto l’atteggiamento del Papa, Sua Maestà ha deciso di
    rinunziare alla sua visita in Italia, proseguendo da qui per la
    Germania. È giunto il signor Visconte de Pindella (Ministro di
    Portogallo a Berlino) il quale accompagnerà il Re a Berlino».

L’ispirazione ufficiale di questa notizia era indiscutibile, ma intanto
la Legazione italiana non riceveva alcuna comunicazione. Il ministro de
Soveral era così imbarazzato, che per qualche giorno rimase invisibile
al Ministero degli Affari esteri oltrecchè al di Cariati, anche ai
rappresentanti degli altri Stati. La partecipazione dell’abbandono del
viaggio a Roma fu fatta il 21 ottobre, contemporaneamente a Lisbona e
alla Consulta.

Il governo italiano non volle aggravare la situazione. Speciali riguardi
erano da esso dovuti alla Corte portoghese imparentata con la Casa reale
d’Italia, ma non poteva d’altronde rinunziare a precisare dinanzi
all’opinione pubblica italiana ed all’Europa come lo spiacevole
incidente fosse nato e si fosse svolto. Cosicchè quando il 21 ottobre il
ministro Carvalho diresse una nota al nostro Ministro degli Affari
esteri nella quale si partecipava che la visita del re Carlo era
aggiornata indefinitamente «per l’assenza da Roma del re Umberto e per
l’impegno del re Carlo di trovarsi a giorno fisso presso altra Corte»,
Crispi dovette, a salvaguardia della responsabilità e dignità del
governo italiano, esporre in un comunicato dell’_Agenzia Stefani_ la
verità e annunziare che all’Incaricato d’affari d’Italia a Lisbona era
stato dato l’ordine di interrompere le relazioni diplomatiche col
governo portoghese e di limitarsi alla trattazione degli affari
correnti. Una frase del comunicato fece impressione, quella che
«augurava cordialmente al Portogallo di recuperare la propria
indipendenza».³⁸

   ³⁸ Le relazioni diplomatiche tra Italia e Portogallo furono
      ristabilite in ottobre 1896 dal Ministero Rudinì, in occasione del
      matrimonio del Principe di Napoli. Nessuna soddisfazione dette il
      Portogallo per l’incidente dell’anno prima, nè forse poteva darne
      continuando il governo di quello Stato ad appoggiarsi sul partito
      clericale. La causa della rottura delle relazioni fu dimenticata
      dinanzi ad un avvenimento dinastico.

Nel _Diario_ di Crispi, sotto la data del _21 ottobre ore 21 ½_ si
legge:

    «Visita di Carvalho e Vasconcellos in casa mia. Il Vasconcellos
    è una mia vecchia conoscenza. Lo conobbi a Lisbona nell’ottobre
    1858. Dopo i saluti consueti, egli accennò all’incidente del
    viaggio del Re Carlo. Risposi:

    — Quello che è avvenuto è deplorevole. Amico vostro sin dal
    1858, vi ricevo quale amico e non quale ministro di S. M.
    Fedelissima presso il Re d’Italia.

    E quale amico vi dirò che il vostro Governo ha agito con molta
    leggerezza. Noi non avevamo chiesta la visita del vostro Re, e
    non ce n’era bisogno.

    — È vero, e sono io che il primo ottobre venni a comunicare
    l’avviso ufficiale al sottosegretario di Stato, Adamoli. Venni
    qui da voi, ma non vi trovai. Andai poscia a Monza per darne
    partecipazione a S. M. il Re Umberto.

    — Or bene, fatto ciò, il vostro Governo doveva andare sino al
    fondo, e non doveva cedere alle minaccie del Papa. Voi lo
    sapete, il Vaticano fa guerra alla monarchia italiana, non
    ostante il nostro contegno benevolo e corretto verso il
    medesimo. È una questione interna italiana, e voi vi avete dato
    carattere internazionale.

    Noi non ci adonteremo per questo. Ma innanzi al mondo, voi avete
    preferito il Papa al Re d’Italia, avete soddisfatto il nostro
    nemico, il quale ritiene l’azione negativa di Re Carlo quale
    vittoria della Santa Sede. Per ora ci limitiamo a non mandarvi
    alcun ministro. Vedremo dappoi quello che a noi converrà.

    — Fo appello alla vostra amicizia di comporre il dissidio. Non
    ve lo domando per me, ma pel mio povero paese.

    ―― Comprendo la vostra premura; ma nulla ho che fare per ora. Ve
    lo ripeto, quale ministro del Portogallo non avrei dovuto
    ricevervi. Vi ho ricevuto e parlato come amico e questo nostro
    colloquio non ha nulla di ufficiale.

    Dopo un breve silenzio, il Vasconcellos si è levato e ci siamo
    divisi cordialmente.»

La rottura delle relazioni diplomatiche con l’Italia ferì l’amor proprio
del popolo portoghese e fu un grave colpo al prestigio del Governo e
della Dinastia. Il _veto_ del Vaticano raggiunse lo scopo di turbare
ancor più un paese le cui condizioni interne erano già difficili. Il
Papato, il quale non si preoccupò del male che sapeva di fare, fornì la
prova della sua politica nefasta che ogni considerazione subordinava
alla cieca ostilità all’Italia. Ma nessun giornale portoghese potè
dolersi della decisione del governo italiano. I fogli liberali, al
contrario, giustificarono questo con un linguaggio che non era mai stato
adoperato. Il _Jornal do Commercio_ interpretava fedelmente il
sentimento della grande maggioranza del suo paese nel seguente articolo
del 26 ottobre:

    «Si è veduta mai maggiore incoscienza?

    Il Governo di S. M. il Re d’Italia, di un Sovrano che è nè più
    nè meno che fratello di S. M. la Regina Donna Maria Pia,
    interrompe le sue relazioni col nostro Governo.

    E qual è l’atteggiamento del Governo Portoghese?

    Si limita a far inserire nel giornale officioso _La Tarde_
    quanto segue:

    «Il _Diario de Noticias_ che accenna a questa nota la commenta
    nei termini seguenti:

    .... «Sembra pertanto dal modo in cui la stessa stampa italiana
    apprezza i fatti, che questo raffreddamento sarà di breve
    durata».


    «Concordano pienamente colle nostre le informazioni del nostro
    collega».

    Questo, in poche parole, vuol dire semplicemente quanto segue:

    «Il Governo italiano sta di cattivo umore? Non c’è da
    preoccuparsene: gli passerà!»

    Tali sono le soddisfazioni che il Governo crede di dare al Re
    Umberto, cioè al monarca più strettamente imparentato col Re Don
    Carlos, per la sconvenienza [semcerimonia] del procedimento che
    adoperò verso di Lui.

    Perchè la verità è questa: Il Governo portoghese — secondo le
    sue dichiarazioni — volle usare verso il Re d’Italia ogni
    cortesia ed amabilità, ma — in conclusione — ciò che si osserva
    è che l’effetto di tale cortesia e di tale amabilità fu
    semplicemente quello di lasciare il monarca italiano
    perfettamente paralizzato dinanzi al Papa e di far constare che
    Roma è appena la capitale d’Italia.... _in partibus_.

    Ciò fatto, il Governo portoghese poco si cura del giustissimo
    risentimento dell’Italia e telegrafa al Re di Portogallo che non
    se ne dia pensiero, che il risentimento dell’Augusto suo zio non
    è che un capriccio infantile perchè non fu fatta la sua volontà,
    che il capriccio gli passerà e che, frattanto, Sua Maestà può
    continuare a divertirsi per avere una distrazione dai mali che
    il paese sta soffrendo e per non preoccuparsi soverchiamente
    delle notizie che ci giungono dall’Affrica e dalle Indie.

    Lo diciamo in coscienza: tanta insensatezza, tanto sconoscimento
    dei proprii doveri, tanta inconsideratezza, verso il paese e pei
    sagrificii che esso fa, non possono che essere precursori di
    gravi avvenimenti perchè sono sintomi indubitabili di uno stato
    di dissoluzione dei poteri dirigenti che ne preannunziano già
    chiaramente l’ora estrema.

    No! Le cose non possono continuare così. Il paese può pagare col
    suo danaro e col suo sangue le aberrazioni dei suoi governanti,
    ma non può tollerare che in faccia all’Europa, la sua onestà, il
    suo decoro, la sua dignità, la sua fierezza siano resi solidali
    delle spregevoli manovre nelle quali si tenta involgerlo.

    No! l’opinione protesta ed è necessario che il Re intenda, ed
    intenda bene, che se acconsente a lasciarsi trascinare alla
    sconsiderazione universale alla quale lo conducono gli errori
    dei suoi Ministri ed i suoi propri errori, il paese — lo stesso
    paese monarchico — non vuol essere travolto in questa fiumana ed
    altamente protesta contro questi procedimenti di governo e di
    diplomazia, nei quali l’illegalità, la violenza, la leggerezza
    ed il solo desiderio di godere — al coperto della più pazza
    incoscienza — si dànno la mano per annichilirci e disonorarci.

    Noi non vogliamo mancare al rispetto dovuto al Re, ma è
    indispensabile convincerlo che questo stato di cose non può
    continuare. Non v’è una voce sola che non lo dichiari. Nobili e
    plebei, vecchi e giovani, ricchi e poveri, tutti sono unanimi
    nel riconoscere e nel lamentare che il Re ed il suo Governo non
    soddisfano le aspirazioni politiche e morali della nazione.

    Il tedio incomincia ad invadere tutte le classi, già spunta il
    disprezzo e se il Re non capisce l’urgenza di retrocedere sulla
    via che ha presa liberandosi dal nefasto suo governo ed
    ispirandosi a migliori e più serii esempi, male gliene avverrà,
    rovinerà nel dispregio pubblico e sè stesso e la Corona gloriosa
    di cui fu erede.

    Lunedì scorso partì per l’India la spedizione comandata dal
    proprio fratello del Re e le tristi notizie che ci giungono da
    Goa non sono tali che possiamo avere piena fiducia sull’esito
    finale della lotta e dei sacrificii cui vanno incontro i nostri
    soldati.

    Non sarebbe stata questa una propizia occasione perchè il Re
    tornasse direttamente in Portogallo, ponendo a tempo un termine
    dignitoso all’incidente italiano?

    Tutto lo indicava, ma tanto il Re quanto il suo Governo, ciechi
    l’uno al par dell’altro, non lo videro, e la vigilia di quella
    giornata grave e penosa Sua Maestà non trovò nulla di più
    opportuno che di andarsi a distrarre nel teatro della «Gaité»
    dagli alti suoi doveri di capo dello Stato, e di rammentare le
    pagine della nostra epopea indiana.... ascoltando i «couplets»
    dei «Vingt huit jours de Clairette».

    Che ufficiali e soldati abbandonino le loro famiglie, offrendo
    in sacrificio alla patria la miglior parte del loro sangue; che
    il contribuente sparga il suo sudore per soddisfare le esigenze
    della nazione....

    In cima a tutto ciò passa trionfante il Re di Portogallo,
    violando i suoi giuramenti, calpestando le leggi, senz’altro
    pensiero ostensibile se non quello di menar vita allegra e senza
    fastidi.

    Per quanto sia duro a dirsi, vi sono due cose che nessuno
    negherà: cioè la verità fotografica del quadro che abbiamo
    tracciato, l’opportunità di gridare ad alta e chiara voce ciò
    che tutti nell’intimità riconoscono.

    Siccome non chiediamo dalla Corona la soddisfazione di alcuna
    ambizione e poichè, al contrario, siamo mossi da un
    irresistibile impulso di civico dovere, assumiamo di buon grado
    questa ingrata missione di dire la verità al Re, e non la
    tradiremo perchè non siamo mossi da odii, nè da timore.

    Monarchici e conservatori liberali quali siamo, noi sappiamo che
    il nostro posto è questo!»

La soluzione data all’incidente dal Governo italiano fu giudicata
favorevolmente da quasi tutta Europa (fece eccezione, naturalmente, la
stampa clericale), e raffreddò le accoglienze che il re Carlo ebbe in
Germania e in Inghilterra.

Da Berlino, l’ambasciatore conte Lanza scriveva in data 20 e 31 ottobre:

    «.... Il barone Marschall si espresse, fin d’allora, meco in
    termini sdegnosi per l’incapacità, la debolezza, del resto ben
    note, del Gabinetto di Lisbona. S. M. Fedelissima arriverà qui
    il 1.º novembre. Essa aveva fatto chiedere di anticipare di una
    settimana il suo arrivo, ma S. M. l’Imperatore rispose che non
    poteva riceverlo prima di quell’epoca, già precedentemente
    fissata. Di feste a Corte non si parla finora e Sua Maestà non
    farà col re Carlos, che si tratterrà qui pochi giorni, molti
    complimenti, tanto più dopo l’incidente del viaggio a Roma....»

    «Segretario di Stato dipartimento Esteri quasi volendo scusare
    ricevimento Re del Portogallo, mi disse iersera
    confidenzialmente che, stante l’incidente viaggio Roma, feste
    sono state ridotte stretto limite convenienza, non vi sarà
    ricevimento ufficiale Berlino, ma solo al _Neuen Palais_ a
    Potsdam ove Re del Portogallo alloggia. Sabato pranzo a Potsdam
    senza invito Corpo diplomatico. Domenica Loro Maestà
    interverranno _Opera_ ove avrà luogo non la così detta
    rappresentazione di gala, ma soltanto teatro _paré_. Giornali
    parlano appena arrivo Re del Portogallo.»

Al teatro l’Imperatore fece rappresentare l’opera _Rienzi_, divertendosi
a far vedere al suo ospite Roma sulla scena.

In Inghilterra non fu meno avvertito il danno che l’incidente aveva
prodotto, e l’ambasciatore Ferrero riferiva:

    «Salisbury, mostrandosi vivamente preoccupato di quanto potrebbe
    avvenire in Portogallo, qualora nel Parlamento italiano qualche
    interrogazione intorno al noto incidente della visita suscitasse
    espressioni vivaci, mi ha chiesto caldamente di pregare il Regio
    Governo di evitare possibilmente ogni interpellanza al riguardo
    nella Camera. Egli giunge perfino a temere che il contraccolpo
    nel Parlamento portoghese potrebbe condurre alla caduta di
    quella dinastia.»

Alla caduta della monarchia portoghese, avvenuta dopo l’inaudita strage
della famiglia reale, non fu estranea la supina subordinazione dello
Stato all’influenza clericale, che determinò l’incidente del quale
abbiamo narrato le fasi. È giustizia ricordare che il malcontento
popolare aveva origini remote, ed era andato sempre crescendo. Quando
penetrò nell’esercito decise delle sorti del regime monarchico.

Sin dal dicembre 1889 si scriveva a Crispi da Berlino:

    «Fortunatamente non esiste alcun generale abbastanza in vista
    per mettersi, come al Brasile, alla testa di un pronunciamento
    simile a quello che ha rovesciato Don Pietro II con un colpo di
    mano che ha avuto quasi le proporzioni di un _escamotage_.
    Altrimenti, al primo tentativo di adoperare a Lisbona un tale
    procedimento, la Dinastia «crollerebbe come un castello di
    carta». Una rivoluzione popolare sembra in Portogallo tanto poco
    inverosimile come era a Rio de Janeiro; l’esercito, nel suo
    insieme, è senza dubbio animato da sentimenti di onore e di
    disciplina, ma a condizione che abbia un capo di sua fiducia.
    Del resto, la rivoluzione o evoluzione operatasi recentemente
    nel Brasile prova che i mestatori non hanno bisogno del concorso
    delle masse, purchè dispongano di generali come i capi del
    _pronunciamento_ brasiliano. Importa quindi che il Sovrano
    sappia guadagnare le simpatie dell’esercito, circondarsi di
    ufficiali di provata fedeltà, e sopratutto ch’egli possa fare
    assegnamento sul comandante militare di Lisbona....

    Se il movimento repubblicano avesse, come al Brasile, trionfo in
    Portogallo, e in seguito forse anche in Spagna, tale avvenimento
    sarebbe un danno grave per il principio monarchico in Europa e
    un vantaggio per le istituzioni della Francia, che vorrebbe
    trovare dappertutto alleati contro la Germania e l’Italia.»

Crispi non aveva mancato di dare consigli al governo portoghese, e si
era adoperato con successo presso l’Inghilterra per una soluzione
amichevole del conflitto sorto per le colonie anglo-portoghesi
nell’Africa occidentale. In una lettera — si noti — dell’11 gennaio
1891, il ministro d’Italia a Lisbona scriveva a Crispi:

    «Dopo il mio ritorno fui ricevuto in udienza particolare da S.
    M. il Re, il quale mi espresse il suo gradimento pei buoni
    uffici prestati da V. E. al Portogallo nella sua vertenza
    coll’Inghilterra.

    Il Ministro degli affari Esteri mi incaricò di ringraziare V. E.
    pel benevolo e costante concorso prestato dal R. Governo in
    questi difficili momenti al Governo Portoghese.

    Colsi l’occasione per eseguire le istruzioni datemi verbalmente
    da V. E. ed esposi al signor Du Bocage la penosa impressione che
    desta la soverchia indulgenza del Governo Portoghese verso il
    partito repubblicano per gli inconvenienti che ne possono
    risultare a danno delle istituzioni, e sovratutto per la
    rilassatezza della disciplina nell’esercito.

    Il Ministro mi assicurò che la condizione interna si era molto
    migliorata e che il Gabinetto si studiava di mantenere l’ordine
    e che il partito repubblicano non era da temersi che in caso di
    nuovi aggravii da parte dell’Inghilterra, che desterebbero
    grande irritazione nel paese, la quale sarebbe poi sfruttata a
    suo pro dal partito repubblicano. Le notizie poi circa allo
    spirito dell’esercito essere esagerate.

    Non devo celare a V. E. che il mio discorso non sortì molto
    effetto. Il signor Du Bocage accolse le mie parole come
    espressione della premura che dimostra il R. Governo verso il
    Portogallo, ma parmi che egli non si renda conto dei pericoli di
    una simile condizione di cose. Tale è la fiacchezza degli ordini
    di Governo e dei costumi politici in questo paese, che ben
    difficilmente si muteranno le cose ed il mio collega di Spagna,
    il quale, per incarico del suo Governo, tenne un simile
    linguaggio, ha la stessa opinione.

    Il Re mi parve maggiormente impressionato e mi disse, e forse
    con ragione, essere ora assai difficile di prendere
    provvedimenti contro ufficiali, ai quali finora si era lasciata
    la più sconfinata libertà di parola e di azione.

    Intanto, malgrado che gli spiriti siano ora più calmi e che i
    partiti apparentemente mettano a tacere i loro dissensi, il
    partito repubblicano continua la sua propaganda.

    Si tenne in questi giorni un Congresso del partito repubblicano
    a Lisbona, con piena libertà, e si addivenne alla nomina di un
    nuovo Direttorio, nel quale figurano due Maggiori Generali in
    servizio attivo, sebbene non provvisti di comando di truppe, i
    signori Latino Coelho e Souza Brandão.

    Altro sintomo poco rassicurante circa la disciplina
    dell’esercito si è l’adesione di molti ufficiali
    all’associazione della «Lega Liberale», fondata sotto parvenza
    di un’associazione patriottica dal signor Fuschini, deputato del
    gruppo parlamentare detto della Sinistra dinastica.
    L’associazione non ha carattere repubblicano, ma è certo cosa
    poco consentanea allo spirito di disciplina militare questa
    partecipazione di ufficiali a manifestazioni politiche.

    Nel riferire le condizioni attuali del Portogallo mi giova
    ripetere quanto ho già esposto nella mia corrispondenza in
    proposito, cioè che i costumi e l’indole di questo popolo
    attenuano la gravità della situazione e rendono forse più remoto
    lo svolgimento di avvenimenti che altrove sarebbero la
    conseguenza immediata delle cause di pericoli per le istituzioni
    da me enunciate.

    Il componimento della vertenza colla Gran Bretagna gioverà molto
    a rendere più sicuro il mantenimento dell’ordine vigente e
    toglierà al partito repubblicano l’arma più potente di cui
    dispone per agitare il paese.»

Date le cause molteplici del malcontento del paese contro la dinastia,
la propaganda repubblicana, facilitata dalla debolezza del governo,
doveva portare i frutti che ha portato.



                   L’EUROPA E LA QUESTIONE ORIENTALE.



              _Capitolo Ottavo._ — La questione balcanica.


Nel 1879 Crispi esprime la sua fede nel riordinamento della penisola
balcanica sulla base delle nazionalità. — Critica del Trattato di
Berlino nei riguardi della Balcania. — Tre colloqui inediti tra Crispi e
il principe di Bismarck. — La seconda fase della questione bulgara e la
Triplice italo-anglo-austriaca. — La Turchia dichiara al principe
Ferdinando l’illegalità del suo soggiorno in Bulgaria. — Insuccesso
della politica russa. — Stambuloff ringrazia Crispi in nome del popolo
bulgaro. — Riconciliazione russo-bulgara. — Due indirizzi a Crispi della
«Confederazione Orientale». — La questione di Creta e il malgoverno
turco. — Crispi e l’Albania. — Crispi trova nel Montenegro la sposa pel
futuro re d’Italia. — La Confederazione balcanica con Costantinopoli
capitale. — «Il Sultano se ne vada in Asia».


Le idee di Crispi intorno al complesso problema della sistemazione
dell’Oriente europeo non mutarono mai; che fossero conformi ai diritti
dei popoli balcanici e della civiltà, e politicamente rispondessero
agl’interessi essenziali di tutta l’Europa, è dimostrato dalla guerra di
liberazione mossa alla fine del 1912 dai quattro Stati alla Turchia, —
guerra fatale, preferibile anche a qualsiasi soluzione che avesse potuto
escogitarsi e imporsi dalle grandi Potenze. Soltanto le armi, infatti,
possono col loro taglio netto dipanare siffatte intricate matasse, e
operare le supreme rivendicazioni. Questa volta esse hanno altresì reso
un notevole servigio alla diplomazia, riscattandola dalla politica
ipocrita e umiliante che ha sostenuto per tanti decenni un regime
spregevole e spregiato.

Per rimanere nel tempo a noi più vicino, ricordiamo che in occasione
della discussione circa la politica estera fatta alla Camera nel
febbraio 1879, nella seduta del 3 l’on. Crispi, trattando della
questione orientale, disse:

    «Io, o signori, ho la convinzione che la penisola dei Balcani
    può essere ricostituita sulla base della nazionalità. Io ho fede
    profonda che fra quelle genti non vi sia che il soffio della
    libertà il quale possa vivificarle, incivilirle, metterle in
    quella grande via in cui sono da parecchi secoli le altre
    nazioni di Europa.

    La Bulgaria, signori! ma quanti atti di eroismo non furono fatti
    in quel paese? Avete dimenticato il libro di Gladstone,
    _Bulgarian orrors_, dove si ricordano gli alberi convertiti in
    forche per impiccarvi coloro che erano insorti in nome della
    patria e della religione?

    Come mai si può dire che quei popoli fossero contenti del
    dominio turco, mentre hanno lottato per tanti secoli contro il
    medesimo?

    Dimenticheremo l’eroismo di quella forte razza, la quale vive
    nel Montenegro, e la quale per lungo tempo, mentre altre
    popolazioni cedevano alla forza brutale, seppe resistere con
    miracoli di eroismo all’invasore straniero?

    Signori: Non vedete voi che questi atti di coraggio, tanta virtù
    e tanta potenza di volontà, provano indiscutibilmente quella
    vitalità che è l’indizio vero della esistenza dei popoli?

    Come volete che si affermi una nazione nei momenti della lotta
    di fronte ad una forza superiore che le sovrasta, e, dopo la
    lotta, dinanzi al carnefice? Non abbiamo forse uguali esempi nel
    nostro paese dal 1820 al 1860? E mettendo a paragone quello che
    fu fatto dall’Italia durante il lungo servaggio e che fu fatto
    nella penisola balcanica dalle soggiogate popolazioni dal
    principio del secolo in poi, avremo noi il coraggio, noi nazione
    costituita da ieri, di imprecare a tanto eroismo e a tanta
    virtù? (_Bravo! Bene, a Sinistra._).

    Dunque gli elementi pel riordinamento della penisola balcanica
    sulla base della nazionalità esistono, e bisogna fidare nel
    tempo perchè fruttino e si svolgano.»

Crispi non fu soddisfatto del trattato di Berlino del 1878 che

    «smembrò la Rumania, tradì la Grecia, ruppe il fascio delle
    forze rivoluzionarie le quali sin dal giugno 1875 si erano
    levate per la redenzione della razza slava. Al 1878, come al
    1875, fu disconosciuta la ragione dei popoli. Quello che si
    volle e si convenne nella capitale tedesca fu detto nel
    Parlamento inglese. Lord Beaconsfield, questa incarnazione del
    vecchio spirito britannico, dichiarò alla Camera dei Pari che i
    congregati sentirono la necessità di mantenere ancora il dominio
    degli Osmani. Ma neanco questo è definitivo, esso è piuttosto un
    componimento provvisorio e — siccome scriveva Lord Salisbury
    nella sua circolare la quale era unita al trattato — dipenderà
    dai ministri del Sultano se sapranno usare degli accordi
    conclusi, o se sprecheranno questa probabilmente ultima
    opportunità offerta alla Turchia.

    E tutti prevedono che la Turchia non farà senno, e che tosto o
    tardi verrà scossa da nuove convulsioni, ond’essa andrà
    irremissibilmente a rovina. Pertanto l’Inghilterra si è
    impossessata di Cipro, la Russia riprese la Bessarabia, e
    l’Austria occuperà l’Erzegovina e la Bosnia. Sono tre potenti
    stazioni militari, le quali mentre indicano la reciproca
    diffidenza dei gabinetti di Londra, Pietroburgo e Vienna, fanno
    presumere un forzato compromesso, cioè che nulla verrà stabilito
    nell’Oriente senza il loro consenso. È chiaro che sono nelle
    mani di coteste potenze i termini della grave questione, e che
    dipenderà dalla prudenza dei tre governi la fortuna delle
    popolazioni, le quali vivono nella penisola balcanica.»

In altra circostanza Crispi disse:

    «Al 1878 l’Europa ebbe una tregua e non la pace. In Oriente il
    problema nazionale è ancora insoluto. Si dice: o la Russia sino
    all’Adriatico, o l’Austria sino all’Egeo. Non accetto il
    dilemma. L’Italia deve essere amica dell’Austria e della Russia,
    ma non dobbiamo voler mai che l’una o l’altra escano dai loro
    confini. L’Austria ebbe a Berlino con la Bosnia e l’Erzegovina
    una invulnerabile frontiera all’Oriente³⁹ e dev’esserne
    contenta.»

   ³⁹ Questo giudizio sul valore delle due provincie fu dato anche dal
      giornale ufficioso della Cancelleria austro-ungarica, il
      _Fremdenblatt_:

      «Allorchè avremo reso la Bosnia e l’Erzegovina un baluardo ed un
      antemurale dell’Austria-Ungheria, la Serbia ed il Montenegro non
      ci potranno più dar noia».

A questo programma Crispi rimase fedele anche da Ministro. Ostacolò i
tentativi della Russia di esercitare un’influenza preponderante in
Bulgaria e in Rumania, temperando il russofilismo del principe di
Bismarck, e legò l’Austria all’impegno di garantire lo _statu-quo_ nei
Balcani. Tale politica ha mantenuto la pace ed ha dato tempo ai popoli
balcanici di prepararsi a risolvere la loro partita secolare con la
Turchia, con le proprie forze e nel proprio interesse. Oggi la Russia
non può più pensare ad alcuna supremazia sugli Stati balcanici, usciti
con quest’ultima guerra dalla minore età, nè a stabilirsi a
Costantinopoli; e neppure l’Austria può ragionevolmente coltivare ancora
la speranza d’inorientarsi. È finalmente avvenuto quello che Crispi
auspicava nel 1879: le genti balcaniche, postesi sulla grande via del
progresso civile, costituiscono oggi un baluardo insuperabile alle
ambizioni russe e austriache.

Quello che Crispi pensasse della politica russa in Oriente, e come
agisse per ostacolarla, risulta dai colloqui col principe di Bismarck e
dai documenti sulle questioni bulgara e rumena da noi pubblicati in un
precedente volume.⁴⁰

   ⁴⁰ Cfr. _Francesco Crispi_: _Politica Estera_.

Qui riproduciamo dal _Diario_ di Crispi tre dialoghi ancora inediti tra
il gran Cancelliere e Crispi del maggio 1889. In quel mese, come è noto,
il re Umberto, accompagnato dal suo primo ministro, si recò a Berlino a
restituire la visita ricevuta dall’imperatore Guglielmo l’anno innanzi:

    _22 maggio._ — Alle 4.45 pom. vo dal principe di Bismarck.

    Trovo nel salone il Re, il quale conversa con la principessa di
    Bismarck. Dopo 5 o 6 minuti il Re si congeda con queste parole:
    «Vi lascio col signor Crispi».

    Il principe ritorna al discorso fatto altre volte sulla Russia,
    e sui suoi progetti nella penisola balcanica.

    — Bisogna — egli dice — non impedire alla Russia di andare a
    Costantinopoli. Collocata quale è oggi, essa è inattacabile. Sul
    Bosforo diverrebbe debole e potrebbe facilmente esser battuta.

    — E la Rumania e la Bulgaria diverrebbero sua preda. Comprendo
    che, con un Sultano russofilo, l’impresa sarebbe facile; ma
    l’Europa ci perderebbe.

    — Lasciando la Russia libera, la Francia se ne distaccherebbe;
    ed avremmo anche evitato una grande guerra. Al contrario, se non
    si lasciasse alla Russia di avanzarsi, essa entrerebbe in
    Galizia, ed avremmo una crisi generale.

    — Quanta è la truppa russa sulle frontiere?

    — 200 mila uomini sono verso la nostra frontiera, 300 mila verso
    i possedimenti austriaci, nulla verso la Rumania. Siete stato
    mai alla caccia? Bisogna attendere gli animali al varco per
    ucciderli. Non abbiate fretta, e lasciate che le cose si
    svolgano da sè. La Russia vuol Costantinopoli, e bisogna lasciar
    che ci vada. Del resto, non vale la pena di occuparci del
    Sultano. Che si lasci al suo destino. Una volta i Russi a
    Costantinopoli, il Sultano si contenterà del loro protettorato;
    purchè gli lascino l’harem egli non domanderà altro.

    — Sarebbe un danno pei piccoli Stati danubiani, i quali
    sarebbero assorbiti.

    — No, la Russia non li toccherebbe. Il suo proponimento è quello
    soltanto di avere dei principi ortodossi.

    — Ed in Rumania pare che si avvii a ciò, la potenza del principe
    Carlo essendo scossa ed il partito russofilo manifestando
    l’antico desiderio di mettere sul trono uno degli antichi
    ospodari.

    — I rumeni vanno anche più in là; distruggerebbero l’unità, e
    rifarebbero i due piccoli Stati con Jassy e Bucarest capitali.

    Mentre il principe pronunziava le ultime parole, l’orologio
    segnava le 5.30 pomeridiane.

    Mi alzo, pregandolo a permettermi di riprender domani il
    discorso. Alle 6 essendovi il gran pranzo a Corte, ero costretto
    ad andarmene.

    _23 maggio._ — Alle 2 e mezzo giungo alla casa del principe di
    Bismarck. Egli era in un salone del pian terreno.

    Chiesi scusa di esser giunto mezz’ora dopo dell’ora stabilita.
    Il principe rispose che nulla vi era di male, egli dovendo
    restare tutta la giornata in casa.

    Entrai subito in argomento, e ripresi il discorso al punto in
    cui ieri era stato interrotto.

    — Orbene, Altezza, le cose dettemi ieri io le sapeva. Me ne
    avete parlato altre volte. Ora vi domando: le avete mai fatte
    conoscere a Lord Salisbury?

    — No; ma ne ho parlato all’Imperatore d’Austria.

    — E quale è stata la sua risposta?

    — L’Imperatore crede che non bisogna lasciar passare la Russia,
    ma impedirle di andare a Costantinopoli. L’Imperatore teme degli
    Ungheresi, i quali sono contrarii a che la Russia si stabilisca
    sul Bosforo. Ed han torto! La Russia sul Bosforo
    s’indebolirebbe, finirebbe come tutti gli altri che vi stettero
    altre volte.

    — Ma gl’Imperatori romani vi stettero per molti secoli, ed il
    Turco v’impera anche da secoli, e quantunque debole, nissuno ha
    potuto spodestarlo.

    — Non l’han voluto spodestare, perchè l’Europa si è sempre
    opposta alla marcia dei Russi. La Russia questa volta non andrà
    per terra a Costantinopoli. Essa farà una spedizione per mare.

    — Credete voi, che la flotta russa sia forte nel mar Nero?

    — Lo diviene; e fra un paio d’anni avrà raddoppiato il suo
    naviglio. Essa potrà riunire subito da 30 mila a 40 mila uomini
    e gettarli in Rumelia. Bisogna lasciarla fare, e porre
    l’Inghilterra in condizione da gettarsi nella lotta.

    — Ma voi non ignorate che ci siamo concordati con l’Inghilterra
    di non permettere alcun mutamento allo _statu-quo_ del
    Mediterraneo e dello Egeo.

    — Non basta. L’Inghilterra potrebbe trovar modo a sfuggire
    all’adempimento delle fatte promesse. Bisogna comprometterla, ed
    allora, essendo impegnata a far la guerra, saremo in quattro.

    — Credete voi, che la Francia farà presto la guerra?

    — Non lo credo. Non è pronta. La sua polvere non dura sei mesi.

    — Ma l’Inghilterra anch’essa ha bisogno di tempo. Avrà bisogno
    di 3 o 4 anni per compiere il naviglio.

    — Basterà un paio d’anni. Ma avendola anche oggi con noi, le
    nostre navi riunite alle inglesi potranno tener fronte alla
    squadra francese.

    — Conoscete un signor Tachard?

    — Lo conosco. Stette da me alcuni giorni. Le mie signore lo
    chiamavano sempre _Crachard_, perchè sputava sempre, anche sui
    tappeti.

    — Che ne dite del suo progetto, di fare dell’Alsazia e della
    Lorena uno Stato autonomo neutrale.

    — Per darlo a chi?

    — Anche ad uno dei vostri principi.

    — È finito il tempo degli Stati neutrali. Lo vedete con la
    Svizzera, la quale arresta i miei agenti. Bisogna che lo Stato,
    come l’uomo, sia responsabile degli atti suoi.

    — Si toglierebbe un motivo di guerra con l’Alsazia e la Lorena
    neutrali. Che ne dicono in Francia?

    — Il Governo francese l’accetterebbe; ma anche con questo, la
    guerra non sarebbe evitata. Sarebbe tolto a noi di attaccare la
    Francia per terra, mentre la Francia ci attaccherebbe per mare.

    — Avete fede nel Governo austriaco?

    — Ho fede nell’Imperatore. Ma non certamente nel Conte Taaffe.

    — Taaffe non è amico vostro, siccome non è amico mio.

    — Bisogna aggiungere che in Austria son molte le simpatie per la
    Francia, e si fa tutto il possibile per distaccarla dall’Italia
    e dalla Germania.

    — L’Austria vivrà finchè sarà con voi. L’Imperatore tiene alla
    nostra alleanza, perchè tiene all’esistenza dell’impero. Lo Czar
    sarebbe contento del distacco dell’Austria; egli non vorrebbe
    che la nostra neutralità, ed allora l’Austria sarebbe distrutta.
    La sua posizione non è come la vostra e la nostra. L’Italia e la
    Germania vivono delle forze proprie, perchè hanno il cemento
    della nazionalità.

    — Lo comprendo. Ma l’Austria com’essa è, è necessaria
    all’equilibrio europeo, e giova mantenerla.

    — Anch’io sono di questo avviso. Ed ho lavorato sempre a
    mantenerla. Al 1866 non volli annientarla. Oggi dobbiamo
    mantenerla.

    — Sta bene, ma è necessario che quel Governo non turbi la nostra
    esistenza.

    — L’Imperatore lo sa; e con lui nulla havvi da temere.

    — Taaffe è troppo cattolico, e per poco che s’intenda con la
    Francia, potrebbe suscitarci molestie. Globet negli ultimi
    giorni del suo governo tentò di risuscitare la Convenzione di
    settembre.

    — Globet non è un uomo abile; ma parmi inverosimile che abbia
    potuto usare un tal contegno. Il domandare il ristabilimento
    della Convenzione di settembre sarebbe lo stesso che far
    occupare una parte del territorio italiano con un esercito.
    Sarebbe la guerra; e la Francia non commetterebbe cotesto
    errore.

    _25 maggio._ — Alle 5 e mezzo pomeridiane il principe di
    Bismarck è venuto a trovarmi. Il discorso versò sull’argomento
    del giorno, cioè il ritorno del Re in Italia, e perciò sulla via
    da seguire.

    — Siccome saprete, disse il principe, tutto è accomodato.
    L’Imperatore, spontaneamente, ha rinunziato al viaggio a
    Strasburgo; solamente ha espresso il desiderio che restiate fino
    a domani, domenica, e credo che S. M. il Re avrà consentito.

    — Vi ringrazio della presa risoluzione. Io ho bisogno di
    ritornar presto a Roma; le Camere sono aperte, ed il lavoro, che
    ci resta ancora, è molto.

    — Domani, domenica, credete voi che il Re abbia bisogno di un
    prete?

    — È un affare che lo riguarda ed in materia di religione io non
    entro. Quando siamo a viaggiare in Italia nei palazzi reali è la
    cappella, e Re e Regina vanno a messa. A Roma, la domenica, vedo
    il Re dalle 10 alle 12 per la firma dei decreti e delle leggi; e
    non mi occupo d’altro.

    — Avete ancora questioni col Turco?

    — Quegli è una bestia; e non sa quello che fa.

    — Avete ragione; ma le bestie bisogna addomesticarle e non
    batterle.

    — E i suoi governatori bestie come lui....

    — No, più di lui; ma non bisogna tenerne conto. Quando avrete
    bastonato un cane, sarete per ciò più forte di prima?

    — Io credo che sono mal consigliati quei governatori, perchè li
    trovo sempre insolenti ad ogni occasione, e suscitano brighe
    senza motivo alcuno. Nell’affare di Hodeida mi tennero a bada
    per oltre due anni. Avevamo convenuto che per la ingiuria fatta
    al mio console, il governatore avrebbe dato soddisfazione. Un
    giorno ebbi da Costantinopoli la notizia che tutto era finito,
    che la soddisfazione era stata data. Io, per togliere nuovi
    contatti tra il governatore ed il console, richiamai
    quest’ultimo. Quale non fu la delusione! Ero stato ingannato;
    era una menzogna quello che mi era stato assicurato dalla Porta
    Ottomana. Più tardi nel gennaio di quest’anno, alcuni artiglieri
    turchi scompongono la tomba di un cittadino italiano e ne
    violano il cadavere. Reclamiamo e ci vien risposto che si
    aspettano ordini dal Governo centrale. Domandiamo che li
    sollecitino per telegrafo e ci vien detto che il telegrafo era
    rotto. Anche questa era una menzogna. Allora diedi l’ordine al
    general Baldissera che mandasse le navi. Nel mar Rosso non
    potevo permettere che l’Italia fosse trattata così male. La
    Turchia, con le sue follìe, può essere scusata altrove, ma non
    nel mar Rosso.

    — Andrete in Africa?

    — Sventuratamente vi siamo, Altezza. Soltanto bisogna trovar
    modo di starvi bene. All’Asmara, nel paese dei Bogos e altrove
    vi sono terreni da coltivare; e anche potremo avere una
    frontiera naturalmente strategica.

    — Gl’inglesi però, dopo aver conquistato l’Abissinia,
    l’abbandonarono. Se fosse stato possibile colonizzarla, vi
    sarebbero rimasti.

    — Agl’inglesi bastò di imporvi il segno della loro potenza, e
    non ebbero altro scopo con la loro spedizione. Noi, l’Italia e
    la Germania, siamo venuti tardi. Abbiamo trovate occupate
    nell’Asia, nell’Africa e nell’America le regioni coltivabili e
    ci resta poco a fare.

    — Volete comperarvi i possedimenti tedeschi dell’Africa?

    — Altezza, io sono pronto a vendervi i possedimenti italiani!»

Se la Bulgaria ha potuto ordinarsi e sviluppare le sue risorse sotto il
savio governo di Ferdinando di Coburgo, non piccolo merito spetta a
Crispi che, dal giorno dell’elezione di quel principe, sostenne con
successo nei consigli d’Europa il _non-intervento_, in omaggio al
principio di nazionalità. L’Inghilterra dapprima si era disinteressata
delle sorti dell’elezione fatta dall’assemblea bulgara di Tirnovo, e non
si opponeva alla pretesa russa che il Sultano rifiutasse di confermarla,
come, mancando il consenso unanime delle grandi potenze, gliene dava
diritto il trattato di Berlino. Mutò atteggiamento dipoi, associandosi
alla proposta italiana che si rispettasse il volere del popolo bulgaro.

Senza riprodurre qui documenti già da noi pubblicati, giova tuttavia, a
esporre esattamente il pensiero di Crispi, che ricordiamo poche frasi
contenute in telegrammi di quel tempo:

Crispi al Re (16 agosto 1887):

    .... Aggiungerò che l’Italia per essere fedele alle sue
    tradizioni, ai suoi principii, ai suoi interessi, deve mirare a
    che la Bulgaria, come tutti gli Stati balcanici, si avvii
    all’indipendenza.»

Crispi all’ambasciatore italiano a Costantinopoli (18 agosto):

    «Due fini essenzialmente ci proponiamo: l’uno immediato, cioè il
    mantenimento della pace; l’altro mediato ed a più lunga
    scadenza, che è l’assetto definitivo su basi salde e razionali,
    di popolazioni europee e cristiane non ancora costituite a
    nazioni, benchè aventi tutti gli elementi etnici e morali che
    valgono a determinare la nazionalità.»

Crispi all’ambasciatore italiano a Costantinopoli (31 agosto):

    «I bulgari, sotto un principe di loro scelta, il quale, malgrado
    gli errori che ha potuto commettere, dispone certamente di un
    partito non indifferente, sono in procinto di organizzare un
    governo. Il meglio è di non intralciare l’opera loro. Un
    tentativo d’ingerenza, o peggio d’intervento, esporrebbe
    l’Europa o a dover confessare la propria impotenza a dar
    soluzione alla crisi, oppure, se si ricorresse alla violenza, a
    provocare essa stessa il conflitto che si vuole appunto
    evitare.»

La questione non ebbe termine nel 1887; ma alla fine di quell’anno
l’_entente_ italo-anglo-austriaca era un fatto compiuto ed esercitava a
Costantinopoli una grande influenza. Quello che avvenne dipoi, tra la
Russia irritata e irremovibile nella sua avversione al principe
Ferdinando e le tre potenze concordi nel mandare a monte i suoi disegni,
fu un giuoco di abilità dal quale la Russia non trasse alcun vantaggio.

Il governo russo non volendo confessare il vero motivo del suo contegno,
si lagnava di pretese relazioni esistenti tra i capi del potere a Sofia
ed i nihilisti. Il signor Stambuloff stesso, presidente del gabinetto
bulgaro, era accusato di essere stato espulso dal seminario di Odessa a
cagione dei suoi principii ultra-socialisti; e si affermava altresì la
scoperta di una corrispondenza tra un membro del medesimo gabinetto e un
ufficiale di marina compromesso in un attentato contro la vita dello
Czar. Tali accuse venivano considerate come molto pericolose per la pace
europea, poichè lo spettro del nihilismo era agitato nello intento di
mantenere viva l’ansietà dello Czar e di spingerlo a risoluzioni
estreme.

Il terreno legale sul quale la Russia si era posta, era questo. La
Turchia, invitata ad agire, esitava per due ragioni: 1.ª perchè mancava
l’unanimità delle Potenze; 2.ª perchè si preoccupava di quello che
sarebbe avvenuto in Bulgaria tanto se il principe di Coburgo avesse
obbedito all’intimazione di ritirarsi, quanto se avesse disobbedito.

Il Cancelliere russo non ammetteva che potesse esservi divergenza tra le
potenze sul primo punto. Il trattato di Berlino era stato violato dal
Principe il quale aveva assunto la carica prima che la sua elezione
fosse confermata. Su ciò nessuna potenza dissentendo, a tutte
s’imponeva, all’infuori di ogni altra considerazione, l’obbligo di
ristabilire l’ordine giuridico e di manifestare la loro solidarietà a
Costantinopoli.

Sulla seconda ragione delle esitazioni del Sultano, il Cancelliere Giers
si limitava a protestare che le intenzioni della Russia erano pacifiche:
lo Czar non voleva spingere il Sultano a misure militari, nè ricorrervi
esso medesimo. La dichiarazione che si chiedeva al Sultano di fare a
Sofia avrebbe raggiunto pacificamente lo scopo di togliere alla
questione ciò che aveva di minaccioso per la penisola balcanica e per la
pace europea.

Appare evidentemente evasiva la risposta che la Cancelleria di
Pietroburgo dava al secondo quesito.

Il 17 e il 19 febbraio 1888 l’ambasciatore di Russia sig. Uxkull,
conferiva sul detto argomento con Crispi. Leggiamo nel _Diario_ di
questi:

    «Viene d’ordine del suo Governo a chiedere che l’ambasciatore
    italiano a Costantinopoli si associ all’ambasciatore russo di
    quella città allo scopo di ottenere dal Sultano che dichiari al
    principe Ferdinando illegale il suo soggiorno in Bulgaria.

    Rispondo che l’Italia ritenne sempre legale l’elezione del
    principe Ferdinando, illegale la sua presenza sul trono bulgaro.
    In quanto alla domanda russa soggiungo non comprenderne lo
    scopo. Chiedo tempo a rispondere. Stabiliamo d’accordo che ci
    saremmo riveduti domenica 19.»

    «Uxkull viene a chiedermi la risposta promessagli venerdì.

    Rispondo: vi ripeto che noi riteniamo legale l’elezione del
    principe Ferdinando, illegale la sua presenza in Bulgaria.
    Questa mia opinione l’ho manifestata alla Turchia, verbalmente
    dicendola a Photiadès-pascià, e per nota scrivendola sin dal 17
    agosto 1887 al barone Blanc, che la comunicò alla Porta. Mi par
    inutile, ozioso, ripeterla oggi e non so comprendere lo scopo
    cui mira la Russia.

    — La chiediamo perchè senza l’assentimento di tutte le potenze,
    la Porta non farebbe la dichiarazione.

    — Ma quando la Porta avrà fatto cotesta dichiarazione, quale
    conseguenza ne trarrete? Prima di decidermi, avrei bisogno di
    conoscere quali sarebbero gli ulteriori propositi della Russia.
    Voi lo sapete: noi siamo contrari a qualunque azione militare in
    Bulgaria.

    — Noi non intendiamo agire con la forza contro il principe
    Ferdinando.

    — Benissimo. E allora è inutile l’opera mia in Costantinopoli.
    Mi deciderò quando avrò conosciuto le vostre intenzioni. Ma
    perchè non convocate una conferenza? Sarebbe il solo modo di
    uscire dall’imbarazzo.

    — Le conferenze non riescono senza un accordo preventivo.

    — È vero. Ma io non vedo nulla di meglio.»

                                          «Londra, 18 febbraio 1888.

    L’ambasciatore di Russia ha fatto oggi a Salisbury una
    comunicazione verbale analoga a quella fatta a V. E. Salisbury
    ha risposto che prendeva in considerazione la domanda russa, ma
    che si riservava di rispondervi. Egli sin d’ora credeva che
    l’allontanamento del principe Ferdinando potrebbe avere le più
    gravi conseguenze e produrre dei disordini in Bulgaria.
    Occorrerebbe d’altronde sapere chi la Russia proporrebbe di
    mettere al posto del Principe.

                                                        _Catalani_.»

                                               «Londra, 19 febbraio.

    Ho comunicato a Salisbury il telegramma di V. E. di ier sera.
    Sua Signoria mi ha risposto come segue: «Aspetto di conoscere la
    maniera di vedere di Crispi e di Kálnoky, che ho consultati
    oggi, ma io son disposto a far sapere in sostanza alla Russia
    che il Governo inglese non può rispondere alla sua proposta
    senza conoscere che cosa il Gabinetto di Pietroburgo conti di
    proporre nel caso in cui, come risultato dell’azione delle
    potenze, il principe Ferdinando sia mandato via e la Bulgaria
    rimanga senza governo.»

                                                        _Catalani_.»

Il conte Kálnoky dette alla comunicazione russa, fattagli
dall’ambasciatore principe Lobanow, risposta preliminare analoga a
quella di Crispi e di Salisbury, che sviluppò dipoi in una nota. In essa
il gabinetto imperiale e reale, dopo essersi associato con sincera
soddisfazione e con spirito di conciliazione al desiderio espresso dal
Governo della Russia di ricercare una soluzione pacifica della questione
bulgara basata sull’autorità del diritto e sul corso naturale delle
cose, e con esclusione di qualsiasi impiego di forza, chiedeva che le
potenze s’intendessero su questi due punti:

    «1.º Dato il caso che il principe Ferdinando abbandonasse il
    paese, quale sarebbe il governo provvisorio e la reggenza che
    sarebbero riconosciuti e dichiarati legali sino all’elezione di
    un principe?

    2.º Dato il caso che il principe Ferdinando e il suo governo
    resistessero o minacciassero di proclamare l’indipendenza della
    Bulgaria, che cosa si dovrebbe fare per ovviare ai pericoli
    reali che ne risulterebbero per la Turchia e per la pace
    d’Oriente? Escluso l’impiego della forza militare, come
    potrebbero le potenze esporsi a una sfida della Bulgaria, senza
    far valere la loro autorità?»

La risposta del signor Giers alle obbiezioni austriache, comunicata a
Crispi dal barone Uxkull, fu la seguente:

    «Sulla prima, il Governo russo è convinto che la dichiarazione
    categorica della Porta, appoggiata dai rappresentanti delle
    potenze a Sofia, finirà con l’indurre il principe Ferdinando a
    ritirarsi. In caso contrario, la Russia riserverà la sua
    attitudine cercando, se occorresse, d’intendersi con le potenze
    circa i passi ulteriori.

    Sulla seconda: il Governo russo dichiara non avere alcuna
    intenzione d’imporre i suoi partigiani al governo provvisorio, e
    regolerà la propria attitudine in conformità delle disposizioni
    che tale governo gli dimostrerà.»

Crispi precisò la sua risposta con la nota seguente:

    «In conformità a ciò che il Ministro degli affari esteri ha di
    già avuto l’onore di far conoscere a S. E. l’ambasciatore di
    Russia in data 17 e 19 corrente, il Governo del Re ha
    dichiarato, sin dal mese di agosto decorso, per mezzo
    dell’ambasciatore d’Italia a Costantinopoli, che secondo la sua
    opinione, il principe Ferdinando prendendo possesso del trono
    bulgaro ha contravvenuto alle prescrizioni del trattato di
    Berlino, l’elezione di cotesto principe non avendo avuto
    preventivamente l’approvazione della Porta, nè il consenso delle
    Potenze.

    Ciò premesso, si tratta ora di esaminare se, pronunziata la
    dichiarazione d’illegalità, l’allontanamento del Principe potrà
    avvenire senza un’azione militare, sia della Porta, sia di altra
    potenza, e se potrà stabilirsi facilmente in Bulgaria un nuovo
    governo, secondo la volontà del popolo liberamente manifestata.

    Delle due previsioni, quella che la partenza moralmente o
    materialmente forzata del principe Ferdinando provocherebbe
    disordini in Bulgaria, è ai nostri occhi molto più fondata che
    l’altra di una soluzione pacifica della questione. In
    conseguenza, il Governo del Re, giustamente preoccupandosi di
    quel che può seguirne, non crede di dover prestare il suo
    concorso a un passo diretto contro uno stato di cose, il quale,
    sebbene difetti di legalità, ha garentito sin’ora al principato
    un’amministrazione relativamente organizzata.

    In ogni caso il Governo del Re prende atto con la più viva
    soddisfazione delle assicurazioni date dal Governo imperiale di
    astenersi dall’impiego di qualsiasi mezzo coercitivo contro i
    bulgari e che la volontà di S. M. l’Imperatore è di vedere la
    questione risolversi pacificamente.»

Dopo pochi giorni l’ambasciatore russo a Costantinopoli fece, d’ordine
del suo governo, la seguente comunicazione alla Porta Ottomana:

    «L’assentiment des Puissances prévu par le traité de Berlin n’a
    pas été obtenu pour la confirmation du Prince Ferdinand de
    Coburg comme Prince de Bulgarie. Dès lors, la présence à la tête
    de la Principauté vassale est illégale et contraire au traité de
    Berlin. Le Gouvernement Imperial de Russie demande en
    conséquence à la Sublime Porte de notifier officiellement ce qui
    précède au Gouvernement bulgare et de porter officiellement
    cette notification à la connaissance des grandes Puissances.»

Questa comunicazione fu appoggiata dagli ambasciatori di Germania e di
Francia, in omaggio al trattato di Berlino. Il principe di Bismarck non
negò la platonica assistenza chiestagli dalla Russia, alla quale aveva
interesse di dar prove di amicizia; ma è legittimo pensare ch’egli la
concedesse sapendo che non poteva nuocere alla politica seguita
dall’entente italo-anglo-austriaca, che aveva incoraggiato a formarsi.

Alla comunicazione russa, seguì una dichiarazione di Said-pascià, così
concepita:

        «_Son Altesse le Grand Vézir_
        _à Monsieur Stambouloff_,
          Sofia.

    Lors de l’arrivée en Bulgarie du Prince Ferdinand de Cobourg,
    j’ai déclaré a Son Altesse par un télégramme en date du 22
    Chewal 1887 que son élection par l’Assemblée Générale Bulgare
    n’ayant pas réuni l’assentiment de toutes les Puissances
    signataires du Traité de Berlin et que cette élection n’ayant
    pas été sanctionnée par la Sublime Porte, sa présence en
    Bulgarie était contraire au Traité de Berlin et n’était pas
    légale.

    Aujourd’hui, je viens déclarer au Gouvernement Bulgare, qu’aux
    yeux du Gouvernement Impérial, la situation est toujours la
    même, c’est-à-dire que la présence du Prince Ferdinand à la tête
    de la Principauté est illégale et contraire au Traité de Berlin.

    Je vous prie de porter ce télégramme à la connaissance du
    Gouvernement auprès duquel vous êtes accrédité.

                                                            _Said_.»

Photiadès-pascià portando a conoscenza di Crispi questa dichiarazione,
lo assicurò che la Porta non avrebbe fatto altri passi senza essersi
prima intesa con tutte le potenze.

Tutte le potenze presero atto puro e semplice della dichiarazione di
Said-pascià, la quale lasciò il tempo che trovò.

Il principe Ferdinando non si mosse; il suo governo, presieduto
dall’energico Stambuloff, si limitò a sorvegliare e colpire i numerosi
agitatori e rifugiati russi i quali lavoravano a fomentare sollevazioni,
sventando così l’accusa, la quale sarebbe stata portata dinanzi
all’Europa, che la Bulgaria fosse in preda all’anarchia.

Per qualche tempo dipoi la questione bulgara cessò dall’essere
preoccupante per le Cancelliere delle grandi potenze: il governo
principesco continuò a organizzare il paese; la Russia, pur non
dichiarandosi vinta, prese un’attitudine di attesa. Alla fine del 1889
qualche timore risorse. Il mancato riconoscimento del principe
Ferdinando indispettiva i patriotti bulgari e nuoceva al prestigio della
Bulgaria specialmente presso i popoli vicini, allora diffidenti e ostili
verso il nuovo Stato. Si attribuiva al governo del signor Stambuloff
l’intenzione di proclamare la legalità della costituzione e
l’indipendenza del suo paese, e questo atto era considerato come una
sfida alla Russia e ancora inopportuno. Crispi, sebbene ritenesse che la
situazione anormale della Bulgaria si dovesse regolare, non credeva ne
fosse giunto il momento, e dette a Sofia il consiglio di attendere. Egli
credeva preferibile il tentare di persuadere il governo russo a
desistere dalla sua opposizione. Infatti il 1.º novembre 1889
telegrafava:

        «_R. Ambasciata_,
          Pietroburgo.

    Nel colloquio col Barone Uxkull essendosi parlato della Bulgaria
    e del principe Ferdinando, espressi il convincimento del R.
    Governo che non si debba mutare lo _statu-quo_, ma non nascosi
    che l’esperimento fatto dal Principe ci sembra soddisfacente,
    avendo egli dimostrato contegno serio e saputo governare con
    lode il Principato in circostanze difficili.

                                                          _Crispi_.»

Del resto, nulla vi era nella situazione che consigliasse di affrettare
una soluzione che non avrebbe potuto mancare. Appunto al principio di
novembre i Cancellieri imperiali di Austria-Ungheria e di Germania
avevano avuto la consueta conferenza annuale e avevano fatto le
constatazioni che risultano dal seguente telegramma:

                                                «Vienna, 10-11-1889.

    Kálnoky non ha potuto ricevermi che oggi soltanto, dopo il suo
    ritorno da Friedrichsruhe. Egli mi ha detto che aveva trovato il
    principe di Bismarck in ottime condizioni di salute e che era
    molto soddisfatto dei colloqui con lui avuti, ed aggiunse che
    essi si trovavano in perfetto accordo in tutte le questioni
    pendenti. Il principe di Bismarck si era compiaciuto che gli
    sforzi delle potenze alleate avessero potuto assicurare la pace
    per un anno e sperava che avrebbero continuato ad assicurarla
    anche in seguito. Però Kálnoky aggiunse che Bismarck aveva
    riconosciuto con lui che la situazione non era cambiata e che,
    quantunque pacifica, poteva dar luogo da un momento all’altro a
    nuove inquietudini. In quanto alla Bulgaria, Bismarck aveva
    ammesso che bisognava conservare un piede nel Principato,
    cercare di mantenerlo dal nostro lato per impedire che la Russia
    vi sorgesse di nuovo. Per quanto riguarda la Grecia, la
    situazione sembrava tendere a divenire alquanto critica, perchè
    si cercava di fare risorgere la questione di Candia. Tricupis
    accennava ad agire e ad assumere un contegno ostile contro la
    Turchia, verso la quale dichiarava voler mettersi in istato di
    guerra. Kálnoky spera che egli verrà a migliori consigli. Sua
    Eccellenza aggiunse che lo stesso imperatore Guglielmo, nella
    sua recente dimora ad Atene, aveva dato a Tricupis dei consigli
    di moderazione e che i governi di Germania e di Austria-Ungheria
    avevano fatto altrettanto; ed egli non dubita che V. E. farà
    altresì parlare in questo senso ad Atene. In quanto alla Serbia
    e alla Rumania, Kálnoky disse che le questioni che potrebbero
    per avventura sorgervi non sembravano tali da far temere per la
    pace europea e che era da sperarsi che avrebbero potuto essere
    localizzate.

                                                          _Avarna_.»

In gennaio 1891 Crispi ebbe nuova occasione di dimostrare il suo
interessamento alla Bulgaria. Il governo russo si lagnava che la maggior
parte degli anarchici russi che riuscivano ad emigrare, trovassero buona
accoglienza in Bulgaria, ed anche degli impieghi. L’ambasciatore Uxkull
fu incaricato di un passo confidenziale e amichevole presso Crispi. «Noi
non dubitiamo — così scrivevano da Pietroburgo all’ambasciatore —
dell’effetto salutare che raccomandazioni energiche provenienti da Roma
eserciteranno a Sofia, per metter fine ad uno stato di cose che sarebbe
impossibile lasciar sussistere senza prevederne conseguenze funeste.»

Crispi non indugiò a secondare il desiderio del governo russo, e inviò
questa lettera al Ministro d’Italia a Sofia, Gerbaix de Sonnaz:

                                          «Roma, il 16 gennaio 1891.

        _Signor Conte_,

    Il barone Uxkull, nel ricevimento ebdomadario dell’11 corrente
    mi partecipò le lagnanze del suo Governo contro il Ministero
    bulgaro per la protezione usata da costui verso alcuni
    nichilisti russi. Il giorno 13, ritornando sullo stesso
    argomento, mi diede notizia officiosa di un dispaccio.

    Cotesti emigrati non solamente godrebbero i favori del Governo
    di Sofia, ma parecchi sarebbero stati impiegati nella
    amministrazione del Principato.

    Nelle condizioni politiche nelle quali è la Bulgaria, prudenza
    esige che si allontani una nuova causa di malumori tra il
    Principato ed il potente Impero, al quale cotesto paese deve la
    sua indipendenza. Veda il signor Stambuloff e veda anche il
    principe Ferdinando e li consigli a liberarsi di cotesti ospiti
    incomodi.

    La parola di un Governo amico e disinteressato, quale il nostro,
    dovrà giunger gradita a cotesti signori. Noi, sin dalla
    costituzione del Principato, abbiamo esercitato a Sofia con
    amicizia cordiale un’opera di pace; e tale sarà il nostro
    compito anche in avvenire.

    Le ho telegrafato nei medesimi sensi.

                                                          _Crispi_.»

Quando Crispi alla fine del 1893 tornò al potere, il riconoscimento del
principe Ferdinando da parte delle potenze non era ancora avvenuto.
Crispi ebbe occasione di accennare alla Bulgaria nella discussione del
bilancio degli affari esteri fattasi alla Camera in maggio 1894, e ne
parlò con simpatia. Le sue parole provocarono lo scambio dei seguenti
telegrammi:

          «_Mr. Crispi_
        _Président du Conseil des Ministres_,

                                                  Sofia, 6 mai 1894.

    Le discours prononcé par Votre Excellence dans la Chambre à
    l’occasion de la discussion du budget du Ministère des affaires
    étrangères a produit une grande joie parmi le peuple Bulgare qui
    a vu que dans les moments difficiles et critiques que notre
    patrie a traversé le gouvernement italien, ayant à sa tête un
    champion éprouvé dans les luttes pour l’indépendance et l’unité
    de l’Italie, a pris la défense des droits d’un Etat qui venait
    d’être appelé à une vie politique, en le sauvegardant de
    l’intervention étrangère dans ses affaires intérieures. Je
    remplis un agréable devoir en présentant en cette occasion à
    Votre Excellence les remerciements sincères et chaleureux du
    Gouvernement Bulgare et je prie le Gouvernement de Sa Majesté le
    Roi d’Italie de continuer à l’avenir son bienveillant soutien à
    un peuple qui lutte pour son existence dans l’unique but de son
    paisible développement.

                               Le Président du Conseil des Ministres
                                                      _Stambuloff_.»

          «_Son Excellence M.r Stambuloff_
        _Président du Conseil des Ministres_,
            Sophia.

                                                Rome, le 5 mai 1894.

    Je remercie Votre Excellence de son télégramme, heureux de
    savoir appréciés les sentiments que j’éprouve pour le peuple
    bulgare et les principes que j’ai invoqués en sa faveur.

                                                          _Crispi_.»

Stambuloff cadde dal governo poco dopo, si disse per influenza
dell’Austria alla quale dava ombra la politica attiva che quell’eminente
uomo di Stato faceva in Macedonia. Quello che fece traboccare il vaso
dell’indignazione austriaca sembra fosse la coincidenza tra lo scambio
di felicitazioni sopra riferito tra Stambuloff e Crispi — quest’ultimo
sospettato a Vienna di mene nei Balcani — e il vanto che lo Stambuloff
si faceva di avere con la nomina di vescovi bulgari in Macedonia,
ottenuta dalla Sublime Porta, assicurato l’avvenire della Macedonia
stessa alla Bulgaria.

Un anno dopo (luglio 1895) lo Stambuloff venne assassinato per vendetta
politica.

Lo stato provvisorio del principato bulgaro ebbe termine nel 1896, senza
ulteriori lotte. La Russia, siccome Crispi aveva sperato, disarmò per
stanchezza. Era impossibile negare che la Bulgaria sotto il governo del
principe Ferdinando fosse diventata un elemento d’ordine nella penisola
balcanica e che progredisse mirabilmente. Dovendo rinunziare al
proposito di dominarla, parve saggio consiglio al governo russo
adattarsi alle mutate circostanze e limitarsi a una politica più
modesta. La Bulgaria non voleva essere una provincia russa, ma era
disposta a dimostrare alla Russia tutta la deferenza dovutale,
specialmente per essere stata da essa sottratta al giogo turco.

Alla tranquillità e all’interesse dello Stato il principe Ferdinando
sacrificò la sua fede religiosa, aderendo alla conversione
all’ortodossia del suo primogenito, Boris. Venne a Roma il 27 gennaio
1896, fu ricevuto dal Papa e ottenne la licenza che invocava. L’8
febbraio lo Czar telegrafava al Principe per felicitarlo della
«patriottica risoluzione» comunicatagli e per dirgli che accettava di
essere padrino al battesimo di Boris. Lo stesso giorno l’organo
ufficiale russo dichiarava cessato il conflitto con la Bulgaria,
osservando che «la conversione del principe Boris alla ortodossia
dimostrava aver la nazione bulgara compreso la necessità di affermare la
sua fede religiosa come pegno dei legami spirituali che la univano alla
Russia emancipatrice».

Conseguenza naturale di questo mutamento della Russia, fu l’invito della
Sublime Porta alle Potenze di volere riconoscere il principe di Bulgaria
in conformità dell’articolo 3.º del Trattato di Berlino. Tutte le
Potenze aderirono: l’Italia potè rispondere che l’adesione dell’Italia a
cotesto riconoscimento da parte della Turchia era acquisita sin dal
1887, da quando cioè dichiarò di considerare valida la manifestazione
della volontà del popolo bulgaro.

                                  ――――

In tutto l’Oriente europeo il nome di Francesco Crispi si identificò per
lungo tempo con le aspirazioni all’indipendenza dei popoli oppressi dal
Turco. Egli difese tutte le nazionalità, una dopo l’altra; fu capo di
Comitati filelleni e parlò in ogni occasione, dalla tribuna parlamentare
e nei comizii, in favore di una più grande Grecia; propugnò l’autonomia
e l’indipendenza dell’Albania; cercò e trovò nell’eroico Montenegro la
sposa del principe ereditario d’Italia; fece, da ministro, quanto potè
per sottrarre Candia e l’Armenia ai periodici massacri turchi.

Merita in questo momento storico in cui l’idea della federazione
militare dei popoli balcanici si è concretata nel fatto, speciale
menzione l’ausilio chiesto a Crispi da un Sillogo ateniese per la
Confederazione Orientale, con le seguenti due lettere le quali portano
una firma illustre:

    CONFÉDÉRATION ORIENTALE.

                 «_All’Illustre Uomo di Stato Crispi._

                                             Atene, 24 ottobre 1885.

        _Illustre Maestro_,

    Il Comitato e la Direzione della _Confederazione Orientale_, i
    quali or è più che un anno avevano fondato in Atene un giornale
    di questo titolo, devoto all’idea di stabilire un’alleanza
    federale dei popoli della penisola balcanica, hanno l’onore di
    domandare la vostra alta e potente protezione allo scopo di
    riprendere l’opera sospesa per mancanza di aiuti efficaci.

    Noi abbiamo tutto sagrificato a quest’idea, convinti che la sua
    realizzazione condurrà alla liberazione di questi popoli per la
    sola via logica e pacifica desiderata dall’Europa. Ma dal
    momento della comparsa del nostro giornale la Turchia e
    l’Austria ci hanno combattuto senza quartiere: la prima perchè
    noi parliamo di libertà ai cristiani dell’Oriente; la seconda
    perchè domandiamo l’autonomia per i Macedoni, unico mezzo,
    secondo noi, di conciliare le pretese delle razze diverse
    abitanti questa provincia.

    Il nostro giornale, proibito e perseguitato negli Stati dei
    Balcani, la nostra opera era colpita a morte. Invano noi
    tentammo di lottare: ci è stato giocoforza soccombere.

    Questa situazione ispirerà forse qualche interessamento a voi,
    illustre Maestro, le cui idee liberali e l’alta intelligenza si
    volgono a tutti i problemi politici e sociali, e il cuore
    generoso si commuove dinanzi ad ogni ingiustizia e ad ogni
    disgrazia.

    D’altronde, l’opera nostra aveva prodotto qualche frutto in
    Oriente, e degli spiriti lungoveggenti, in comunione d’idee con
    noi, c’incoraggiavano a perseverare nella ferma credenza che la
    confederazione dei popoli orientali è la soluzione più equa del
    problema posto, da più di quattro secoli, alla giurisdizione
    dell’Europa.

    Non è forse anche di un interesse capitale per le potenze
    mediterranee che l’Oriente non diventi preda delle cupidigie
    austriache o russe? Questi grandi imperi, una volta stabiliti
    sulle rive del Bosforo e del Mar Egeo, minacceranno
    l’indipendenza degli Stati mediterranei. Ci sembra dunque utile
    reagire contro questi progetti e aprire gli occhi agli
    sventurati cristiani dell’Oriente.

    Questo è il programma seguito dal nostro giornale per il quale
    osiamo, pieni di confidenza nella vostra alta intelligenza,
    sollecitare il vostro prezioso e benevolo concorso.

    Abbiamo l’onore di essere, illustre e venerato Maestro, vostri
    rispettosi e riconoscenti servitori

                                                     per il Comitato
                            il Dir. della «Confederazione Orientale»
                                            _Leonidas A. Bulgaris_.»

          «_A S. E. Il signor Crispi_
        Roma.

                                          Atene, 8-20 novembre 1887.

        _Eccellenza_,

    L’idea della Confederazione Orientale di tutti i popoli della
    Penisola Balcanica che non è punto nuova, è il risultato di
    profonde meditazioni di uomini di Stato che l’accolgono come la
    sola soluzione possibile della questione d’Oriente senza
    scuotere l’equilibrio europeo. Durante lunghi secoli si sono
    fatte guerre terribili per risolvere questa questione con la
    violenza, ma è stato provato che questo metodo è inefficace
    poichè invece di avere fatto un passo verso la sua soluzione,
    questa questione si è ancor più complicata e i disgraziati
    popoli dei Balcani rimangono l’oggetto delle cupidigie delle
    potenze e dei loro antagonismi. Ne segue che la questione
    d’Oriente non può essere risoluta che con mezzi pacifici, cioè
    con una Confederazione di tutti gli Stati della Penisola
    Balcanica, poichè questa è la sola soluzione che non dia ombra
    ad alcuna delle grandi potenze.

    L’associazione greca della Confederazione Orientale, fondata tre
    anni or sono, proclamò altamente queste idee e le sostiene nel
    suo giornale; ma, come era da attendersi, essa fu combattuta da
    tutti coloro che hanno interesse che la discordia regni in
    Oriente.

    La stampa di Vienna si è distinta in modo speciale col suo
    accanimento nel combattere le idee sostenute nel nostro
    giornale, poichè esse inceppano la politica austriaca ponendo
    ostacoli ai suoi disegni di conquista nella penisola dell’Hemus,
    poichè lo scopo principale della nostra associazione è il
    protestare contro ogni conquista straniera della Turchia
    Europea.

    Ma per riuscire nell’opera che noi perseguiamo sono necessari
    sforzi costanti e pratici, e le circostanze attuali ce ne fanno
    un dovere, giacchè nessuno dei governi degli Stati dell’Hemus
    può prendere l’iniziativa di proporre la Confederazione agli
    altri Governi, prima che questa idea non sia maturata in
    Oriente. Però non si potrà arrivare a questo risultato che
    fondando in tutti gli Stati della Penisola Balcanica delle
    associazioni della Confederazione Orientale, le quali
    diffondendo tra i loro connazionali i grandi vantaggi di una
    Confederazione, si mettano d’accordo per trovare la maniera di
    condurre in porto quest’opera di grande interesse.

    E poichè, felicemente, negli Stati Balcanici cominciano a
    formarsi partiti potenti, i quali, prevedendo i pericoli dai
    quali questi Stati sono minacciati, mirano alla Confederazione
    come all’unico mezzo di salute, l’associazione greca che aveva
    interrotto i suoi lavori in seguito agli avvenimenti di
    Bulgaria, considerando che gli odii di razza si sono calmati e
    prevedendo che talune potenze sono pronte a irrompere in
    Oriente, riprende i suoi lavori con maggiore energia per la
    difesa della autonomia minacciata della Penisola.

    Prima d’impegnarsi più avanti la nostra associazione ha bisogno
    di domandare il patrocinio morale di coloro che dividono i loro
    principii e sopratutto di coloro che reggono i destini di uno
    Stato al quale l’Associazione greca della Confederazione
    Orientale si rivolge oggi facendo appello al suo potente
    appoggio.

    Voglia gradire, Eccellenza, l’espressione dell’alta nostra
    considerazione.

                                               _Leonida A. Bulgaris_
                   Membro delegato della «Confederazione Orientale».

Sin dal 1877, in un colloquio col principe di Bismarck, il concetto che
le grandi Potenze dovessero astenersi da ogni conquista sulle Provincie
balcaniche⁴¹ era stato difeso da Crispi; il quale essendo ministro nel
1889 propose altresì quella federazione militare balcanica che i popoli
hanno ora stretto di loro iniziativa.⁴²

   ⁴¹ Cfr. _Francesco Crispi_: _Politica Estera_, pag. 24.

   ⁴² _Ibid._, pag. 317 e seguenti.

Tale proposta sta ad attestare una convinzione salda della necessità,
una proba valutazione del diritto dei popoli e insieme degl’interessi
della pace europea. Ma i tempi non erano maturi; l’Austria, che non
voleva l’egemonia russa nei Balcani soltanto perchè le preferiva la
propria, si oppose alla proposta di Crispi, protestando di non volere
sollevare la suscettibilità della sua competitrice.

                                  ――――

La questione cretese, dall’indomani del Congresso di Berlino, ha
richiamato periodicamente l’attenzione dell’Europa. Se le Potenze
fossero state concordi nell’esigere buon governo dalla Turchia, questo
focolare di rivolte e di preoccupazioni sarebbe stato spento, perchè le
aspirazioni dei cretesi a congiungersi con la Grecia hanno trovato
sempre il maggiore incentivo nel malcontento contro la tirannide turca.
Ma le potenze, gelose l’una dell’altra, anche a proposito di Candia si
sono preoccupate soltanto del loro giuoco d’influenze a Costantinopoli,
astenendosi, per non dispiacere il Sultano, dall’unica azione che
sarebbe stata efficace. Valga un esempio. Nel 1889, Crispi telegrafò
alle ambasciate italiane di Londra, Berlino e Vienna:

                                                         «31 luglio.

    L’agitazione in Candia non sembra provocata dal di fuori, bensì
    causata dal malgoverno turco. Un accordo fra le potenze amiche
    ed alleate ci parrebbe necessario per consigliare alla Porta i
    mezzi migliori onde far fronte situazione. Crediamo che a
    pacificare popolazioni siano preferibili mezzi conciliativi
    anzichè violenti, questi ultimi lasciando germi di nuove
    insurrezioni. Esprimendosi in tal modo con cotesto ministro
    degli affari esteri voglia chiedere se e quali istruzioni siano
    state date al rappresentante di codesto Governo in
    Costantinopoli.

                                                          _Crispi_.»

Ed ecco i risultati di questa onesta iniziativa. Il principe di Bismarck
fu contrario ad ogni pressione sulla Sublime Porta.

    «Secondo il modo di vedere di Sua Altezza una simile pressione,
    anche semplicemente platonica, non farebbe che aumentare man
    mano le pretese dei cretesi. Una delle conseguenze più
    spiacevoli della ingerenza sarebbe quella di dare incremento
    alle malevoli insinuazioni franco-russe a Costantinopoli.»

Il conte Nigra da Vienna telegrafò che Kálnoky avrebbe desiderato
procedere d’accordo con le Potenze alleate e con l’Inghilterra, ma che
preferiva tenersi in seconda linea. «La Francia sembra essersi
pronunziata in favore della Turchia.» Il Nigra concludeva:

    «Io penso che V. E. non vorrà imitare Robilant e mettersi troppo
    ostensibilmente in prima linea. La prevengo per ogni ottimo fine
    che la di lei proposta del 30 luglio, secondo ciò che mi ha
    detto Kálnoky, venne a notizia del Sultano, il quale, sospettoso
    com’è, se ne mostrò inquieto.»

Da Londra: Risposta di Salisbury:

    «Simpatizzo completamente colle vedute, colle apprensioni di
    Crispi circa le cose di Candia. Sarei favorevole ad una azione
    comune delle potenze, ma non è facile scorgere la via da seguire
    praticamente. La occupazione militare fatta da qualsiasi delle
    grandi Potenze o dalla Grecia, getterebbe completamente la
    Turchia nelle braccia della Russia e produrrebbe nel momento
    eccitamento assai pericoloso nella penisola balcanica.»

In conclusione, Crispi non proponeva un intervento armato, ma un’azione
diplomatica, la quale, fatta collettivamente da quattro grandi potenze,
avrebbe raggiunto lo scopo. Si lasciò cadere la sua proposta perchè non
si volle dispiacere il Sultano richiamandolo all’adempimento dei suoi
doveri. E questa astensione interessata si è ripetuta sempre per le
riforme in Macedonia, in Armenia, in Albania, ed è la vera causa della
durata di un regime nefasto che, divenuto un male estremo, doveva finire
coll’essere distrutto coll’estremo rimedio della guerra degli oppressi
contro gli oppressori.

                                  ――――

Le simpatie di Crispi per l’Albania avevano fondamento anche nel ricordo
delle origini della sua famiglia, emigrata nel secolo XV dall’Albania
appunto e stabilitasi, dopo lunga peregrinazione, a Palazzo Adriano, in
Sicilia. Ma, devoto al principio delle autonomie nazionali, egli augurò
sempre alla nazionalità albanese di sottrarsi al dominio turco e di
formare uno stato indipendente; e quando alla vigilia del Congresso di
Berlino, il principe di Bismarck e il conte Derby gli accennarono
all’Albania come ad un possibile compenso per l’Italia dell’occupazione
austriaca della Bosnia e dell’Erzegovina, Crispi non si mostrò
soddisfatto dell’offerta. Non si può dire quello che egli avrebbe fatto
se fosse stato al governo quando il Congresso affidò all’Austria
«l’amministrazione a tempo indeterminato» di quelle due provincie
turche; ma il fatto è che nei successivi accordi che da ministro prese
con l’Austria-Ungheria e con l’Inghilterra, l’indipendenza dell’Albania
fu considerata come la definitiva sistemazione di questo paese
nell’eventualità di un suo distacco dall’Impero Ottomano.

Nel _Diario_ di Crispi troviamo un accenno all’Albania nelle note di un
colloquio da lui avuto il 26 ottobre 1896 con Domenico Farini,
presidente del Senato.

    «Al 1877 — tu lo saprai — noi eravamo contrarii a che l’Austria
    si prendesse la Bosnia e l’Erzegovina. Esposi cotesto pensiero,
    a nome del governo italiano, a Derby e a Bismarck, i quali con
    un accordo che a me parve meraviglioso, mi risposero: _Prenez
    l’Albania_.

    Naturalmente, io replicai: _Qu’est-ce que nous devons en faire?_

    E Derby allora: _C’est toujours un gage_.

    E Bismarck: _Si l’Albanie ne vous plaît pas, prenez une autre
    terre turque sur l’Adriatique_.

    Il senso delle parole dei due uomini di Stato era chiaro a me
    che avevo motivato il mio rifiuto di dare all’Austria la Bosnia
    e l’Erzegovina, dal punto di vista della difesa militare
    dell’Italia. Le frontiere orientali sono aperte all’invasione
    nemica, e rinforzando l’Austria con nuovi territorii il danno
    era tutto nostro.

Ma se realmente Crispi non ebbe nel suo programma positivo l’annessione
dell’Albania all’Italia, neppure ammetteva che quel territorio turco
potesse cadere nel dominio di un’altra potenza. In un suo scritto del
1.º maggio 1900, egli manifestò la sua mente su tale argomento colle
seguenti parole:

    «In questi ultimi tempi si è asserito, con molta leggerezza, che
    la diplomazia viennese meditava l’occupazione dell’Albania.
    L’asserzione è delle più singolari. L’Albania non è slava; è una
    nazione che ha una personalità propria, che ha lingua ed usi a
    sè, ricordanti le origini pelasgiche.

    Così essendo, si comprenderebbe che, accogliendo un lungo ed
    antico voto, si consentisse all’Albania di proclamare la sua
    indipendenza — ma sarebbe gravissimo errore pretendere di
    incorporarla con i paesi slavi d’Europa.

    L’Albania fu quella che, più d’ogni altra, resistette alle
    occupazioni turche. E se al secolo XV, dopo la morte di Giorgio
    Castriota, vinta, dovette subire il giogo ottomano, essa non fu
    mai doma; e in questo secolo fu la prima ad insorgere
    vigorosamente. Albanesi sono le più nobili figure degli eroi che
    illustrarono il risorgimento ellenico — e se la Grecia avesse
    avuto virtù di assimilazione, queste popolazioni, che tanti
    punti di contatto avevano con essa per aspirazioni politiche e
    per fede religiosa, oggi forse farebbero parte della Grecia.
    Invece, gran numero di Albanesi venne a prendere stanza
    nell’Italia meridionale e in Sicilia.

    Concedere oggi l’annessione dell’Albania all’Austria non sarebbe
    un vantaggio per questo impero e sarebbe, invece, un danno
    incalcolabile per l’Italia che vedrebbe così cancellata e per
    sempre ogni traccia di sua influenza sull’Adriatico. Tanta
    offesa alle nostre ragioni, ai nostri diritti che una gloriosa e
    secolare tradizione consacra, non sarà compiuta.

    L’Albania ha in sè tutti gli elementi per uno Stato autonomo,
    meglio che non li avessero Serbia e Bulgaria — e consentendole
    uguale autonomia di governo, l’Europa compirebbe opera civile.
    Le relazioni di intima e cordiale amicizia, coltivate per ben
    cinque secoli, la rendono assai più affine a noi che non
    all’Impero austriaco, dove l’annessione sua non farebbe che
    aumentare dissidii di razze e confusione di lingue.»

Tuttavia, in varie epoche, a Crispi sono dall’Albania pervenute
invocazioni senza che egli le incoraggiasse o anche mostrasse di
gradirle. Ne citiamo una sola registrata nella seguente lettera:

                                             «Jannina, 6 gennaio 96.

        _Signor Ambasciatore_,

    In questi giorni è ritornato da Argirocastro, dove si era recato
    per affari professionali, il Dr. Fanti, nativo di Argirocastro e
    regio suddito. Il Dr. Fanti, appena di ritorno dal suo viaggio,
    mi fece chiedere un colloquio, nel quale mi manifestò quanto
    segue:

    Egli mi disse che non appena giunto in Argirocastro venne tosto
    visitato dalla maggior parte dei bey albanesi, non solo
    mussulmani, ma bensì cristiani, i quali lo pregarono caldamente,
    appena ritornato in Jannina di recarsi tosto dal Cav. Millelire
    perchè egli volesse far giungere sino al Governo Italiano le
    loro idee.

    I bey albanesi dissero al Fanti che oramai non vi era più dubbio
    come le sorti della Turchia fossero per precipitare, e che in
    mezzo allo sfacelo imminente gli occhi di tutti i veri albanesi,
    sia mussulmani che cristiani, sono incessantemente rivolti al di
    là dello Adriatico, all’Italia. Essi hanno pure dichiarato che
    giammai si uniranno alla Grecia, che piuttosto bruceranno il
    paese ed uccideranno i loro figli; che tutte le loro
    aspettazioni, i loro desiderii sono concentrati nei fratelli
    italiani, a capo dei quali sta la degna persona di S. E. Crispi,
    di cui già conoscono la energia, l’abilità ed il cuore albanese.
    Aggiunsero ancora che il giorno in cui il vessillo italiano
    apparisse sulle sponde dell’Epiro, un grido di gioia all’unisono
    accoglierebbe lo stendardo di civiltà e che i fratelli italiani
    dovunque sarebbero accolti colle braccia aperte.

    Credo mio dovere di sottomettere a V. E. quanto mi fu trasmesso
    dai bey albanesi per mezzo del Dr. Fanti, per iscarico di ogni
    mia responsabilità. Io però non ho ad essi trasmesso in risposta
    che parole vaghe e generiche, onde non impegnare in modo
    qualsiasi nè la mia azione, nè quella del R. Governo.

                                                       Il R. Console
                                                       _Millelire_.»

Nell’ottobre del 1896 fu celebrato in Roma con solenni festeggiamenti il
matrimonio tra il principe di Napoli, erede della Corona d’Italia, e la
principessa Elena del Montenegro, ora felicemente regnanti.

Il primo pensiero di cotesto matrimonio era stato di Francesco Crispi;
rimontava al 1894 e fu forse l’unico legato della politica sua che il
successore, marchese di Rudinì, non abbia cercato di mandare in malora.
Al Rudinì, anzi, ne fu attribuito il merito, e nella circostanza delle
nozze gli fu conferita dal re Umberto la suprema onorificenza italiana,
cioè il Collare dell’Annunziata.

Perchè tra le possibili spose delle case reali d’Europa la scelta di
Crispi cadesse su Elena Petrovich, è scritto nel _Diario_ brevemente e
lucidamente.

Il 5 dicembre 1896 Crispi visitò il re Umberto.

    «Dopo pochi minuti di attesa entrai nel gabinetto del Re.

    Il Re mi baciò ed abbracciò, ed io presi a discorrere:

    — Ricevuto il libro sul Montenegro, che Vostra Maestà si è
    degnato mandarmi, ho sentito il bisogno di venirla a ringraziare
    del prezioso dono e nel tempo stesso a spiegarle i motivi pei
    quali io proposi il matrimonio della principessa Elena con
    l’augusto figlio di V. M., il principe di Napoli.

    I motivi erano tre:

    apparentarsi con una famiglia che non potrebbe avere influenza
    su noi;

    prendere una principessa di buon sangue;

    in caso di guerra in Oriente avere un punto di appoggio nella
    penisola balcanica.»

Sino agli ultimi giorni della sua vita, Crispi augurò che il popolo
turco fosse respinto in Asia e che i popoli balcanici, liberati dalla
secolare barbara dominazione e collegati, formassero un forte Stato.

Ecco come in febbraio 1897, in una consultazione del _Figaro_ di Parigi,
riassunse le idee sempre professate:

    «Il Turco in Europa è una permanente offesa al diritto delle
    genti. In quattro secoli e mezzo non ha saputo naturalizzarsi,
    nè fondere in unità di nazione le razze sulle quali ha
    esercitato ed esercita il suo crudele impero.

    La sua lingua non ha letteratura, e sul suolo maledetto le arti
    belle non sorgono ad allietare la vita. Colà non è possibile
    l’ordinamento del comune; il municipio è nella Chiesa o nella
    sinagoga e le genti si distinguono per la religione che
    professano e non per la civiltà che sola potrebbe essere il
    pungolo alle azioni benigne ed oneste.

    Sul luogo istesso, nella stessa città, — se tal nome potessero
    meritare quegli ammassi di case luride che l’incendio di tanto
    in tanto ripulisce e fa rinnovare — coabitano, non convivono, il
    greco, lo slavo, il rumeno, l’albanese, sospettosi e senza
    amore, e su tutti sovrasta il turco con la brutalità di un
    selvaggio, al quale l’islamismo ispira odii e vendette.

    Abdul Hamid Can, ricco di vizii e di paure, essendo il califfo,
    cioè re e supremo pontefice, capo dello Stato e capo della
    religione, è inetto ai civili miglioramenti nel governo dei
    popoli, perchè ad ogni riforma nello interesse dei cristiani si
    trova l’ostacolo di un versetto del Corano.

    Questo disordine morale si perpetua per l’antitesi che domina le
    esigenze politiche di ciascuna delle grandi potenze. Io non so
    quali siano i patti dell’alleanza franco-russa. Ricorderò
    soltanto che quando a Tilsit Napoleone ed Alessandro trattavano
    la ripartizione del vecchio continente, il grande imperatore era
    pronto a cedere le Provincie danubiane, ma si rifiutava di dare
    Costantinopoli allo Czar. Si parla di accordo europeo per la
    soluzione della questione d’Oriente. Illusione! Questo accordo è
    affatto negativo. Lo scopo costante delle potenze finora è stato
    d’impedire al russo il possesso di Costantinopoli.

    Al 1854 le potenze occidentali invasero la Crimea e lo czar
    Nicolò dovette sospendere la marcia delle sue truppe. Al 1878 lo
    czar Alessandro, minacciato dalle navi inglesi, dovette fermarsi
    a Santo Stefano. L’impero turco era salvo, l’ambizione moscovita
    veniva arrestata nel suo periodico svolgimento; ma la quistione
    d’Oriente non era risoluta.

    È un pericolo che bisogna rimuovere una volta per sempre, è un
    problema che dobbiamo avere il coraggio di sciogliere, e non
    rimandarlo di anno in anno alle future generazioni.

    Al 1856 a Parigi, salvo la proclamazione di alcuni principii di
    diritto internazionale per la libertà dei mari, tutti gli
    sforzi, tutte le cure delle potenze raccolte in Congresso,
    furono diretti a garantire la vita dell’impero ottomano. Sangue
    e danaro perduti, perchè la Conferenza di Londra del 1871
    restituì allo Czar quello che gli era stato tolto; premio dovuto
    dalla Germania alla Russia per la neutralità mantenuta nella
    guerra franco-prussiana.

    Oggi siamo da capo colla quistione d’Oriente. Le stragi degli
    Armeni, che da due anni si ripetono, sono seguite da quelle dei
    Cretesi. L’Europa si commuove, le grandi potenze mandano le loro
    navi nelle acque greche, il furore turco si rivela come prima,
    le genti balcaniche minacciano una insurrezione.

    Come finirà questa brutta tragedia? Le grandi potenze
    continueranno a curare con rimedii empirici questa piaga
    orientale, che ogni giorno più incancrenisce?

    Domando ai francesi: avete una soluzione? Avreste il coraggio di
    dare Costantinopoli al giovine Czar per ricostituirvi l’impero
    bizantino? Ciò sarebbe contrario alle vostre tradizioni, le
    quali v’impongono di difendere i popoli oppressi. Pel mio amico,
    il principe di Bismarck, che non sacrificherebbe un solo soldato
    della Pomerania pro o contro il Sultano, la risposta sarebbe
    facile. Egli crede che lo Czar, padrone di Costantinopoli,
    diverrebbe più debole di quello ch’è oggi, chiuso entro i suoi
    ghiacci, e che l’Europa potrebbe batterlo con sicuro successo.
    Io, in verità, non vorrei fare la prova, e la mia soluzione è
    diversa. Il partito nazionale italiano, del quale io sono stato
    un modesto soldato, vorrebbe una Confederazione balcanica con
    Costantinopoli sua capitale. Gli elementi di questo nuovo
    ordinamento politico esistono nei cinque Stati, la cui
    indipendenza è stata riconosciuta dall’Europa: la Rumania, la
    Bulgaria, la Serbia, la Grecia, il Montenegro. Costituite altri
    Stati, se volete; od aggiungete a quelli esistenti le
    popolazioni della stessa razza, della stessa lingua, della
    medesima religione e l’ordine sarà ristabilito per sempre in
    quelle regioni. I mussulmani potrebbero trovarvi posto, se lo
    volessero, ma da fratelli, non da signori. Ma lo Czar resti
    entro le attuali sue frontiere, ed il Sultano se ne vada in
    Asia. E la Grecia non pensi a disseppellire Bisanzio, che
    ricorda la decadenza e non la vita di un impero. E così la
    quistione d’Oriente sarebbe definitivamente risoluta e
    conservata la pace d’Europa.

    La Confederazione balcanica dovrebbe essere neutrale.»



     _Capitolo Nono._ — Le stragi d’Armenia e il concerto europeo.


Gladstone e le stragi d’Armenia. — Le Potenze esigono un’inchiesta
internazionale. — L’Italia e la Commissione d’inchiesta. — Il Sultano
scongiura che i delegati delle Potenze non interroghino i testimoni. —
Risultati dell’inchiesta e rifiuto del Sultano di concedere le riforme
propostegli. — La Russia si oppone alle misure coercitive contro il
Sultano. — Nuovi massacri. — Gli ambasciatori chiedono un secondo
stazionario a Costantinopoli. — Le squadre europee in Levante. —
L’Inghilterra vorrebbe spodestare il Sultano. — Le stragi rimangono
impunite; la Russia protegge il Sultano.


Le stragi d’Armenia del 1894-96 riempirono il mondo di orrore. Guglielmo
Gladstone — la cui voce potente tuonò contro ogni tirannide — scrisse
essere sue opinioni:

    «che l’Assassino (e non i suoi sudditi maomettani) è stato
    l’autore deliberato delle stragi armene dal principio alla fine:
    che queste atrocità non hanno confronto nella storia recente:
    che il concerto dell’Europa di fronte alla Turchia è stato una
    miserabile, una brutta irrisione; che il metodo delle
    rimostranze a cui si attengono le potenze di fronte all’evidenza
    estrema che non si può riuscire a nulla senza la forza, è stato
    una colpa morale ed uno sbaglio politico: che alcuni sovrani e
    governi hanno protetto apertamente e sostenuto l’Assassino e che
    la presenza delle ambasciate a Costantinopoli in sostanza si
    rivolvette in uno scherno ed appoggio dato a lui ed a’ suoi
    misfatti: che la coercizione da un pezzo si sarebbe dovuta
    adoperare e potrebbe anche oggi riescire ad evitare un’altra
    serie di eccidii peggiori ancora di quelli di cui già fummo
    spettatori.»

Di quelle stragi un chiaro pubblicista italiano, in una relazione
presentata a Crispi in dicembre 1895 sulla situazione della Turchia,
scriveva:

    «V. E. sa meglio di me che le stragi d’Armenia, come quelle di
    Bulgaria nel 1875, sono un natural portato della politica
    tradizionale turca, la quale ogni volta che ha visto gli
    elementi cristiani in qualche parte dell’impero prevalere su
    quelli turchi pel numero, per la ricchezza o per la cultura, ha
    ristabilito l’equilibrio col metodo primitivo della decimazione.
    Quando l’applicazione del regolamento di Midhat-pascià, che
    aveva fatto del vilayet di Bulgaria un paese amministrativamente
    quasi autonomo, portò i suoi frutti, e i bulgari cominciarono a
    fondare scuole, a mandare i loro figli a studiare in Europa, e
    accennarono per altre vie a svegliarsi e a riscuotersi dalla
    barbarie, venne da Costantinopoli la parola d’ordine; e
    cominciarono i massacri che condussero alla guerra turco-russa e
    alla liberazione della Bulgaria.

    Lo stesso è accaduto in Armenia. Appena per la trasformazione
    del Patriarcato in una istituzione elettiva e per la
    costituzione a Londra di un Comitato armeno che propugnava
    l’idea, se non della indipendenza politica, almeno
    dell’autonomia amministrativa, il Sultano ha incominciato a
    vedere che gli armeni, i quali avevano già nelle loro mani i tre
    quarti della ricchezza dell’impero, acquistavano la coscienza
    della loro superiorità morale sui turchi e dei loro diritti,
    l’idea del massacro si è presentata al suo spirito.»

Alla fine del 1894 l’opinione pubblica di Europa, esasperata per le
notizie d’immani eccidi di cristiani commessi dai Kurdi in Armenia —
notizie che trapelavano nonostante il terrore e gli sforzi delle
autorità ottomane — reclamò l’intervento delle potenze e una inchiesta
internazionale.

Il governo inglese era il più designato per presentare il reclamo; gli
armeni erano i protetti dell’Inghilterra, avendone questa, con la
convenzione anglo-turca seguita al Trattato di Berlino, assunto
ufficialmente la tutela. D’altronde il Comitato anglo-armeno di Londra,
del quale facevano parte parecchie notabilità britanniche, era riuscito
a creare un movimento del quale il Governo non poteva non tener conto.

La Sublime Porta, soltanto con lo scopo di gettare polvere negli occhi,
mandò in Armenia dei funzionari ottomani per fare un’inchiesta. Ma
poichè s’accorse subito che nessuno avrebbe prestato fede ai risultati
di essa, Said-pascià cominciò coll’offrire al ministro degli Stati Uniti
a Costantinopoli di aggregare un americano alla Commissione ottomana;
poi, si dichiarò pronto ad accettare anche un vice-console inglese.

Ma il Governo d’Inghilterra impose che la Commissione fosse
internazionale e consigliò alla Porta d’invitare la Francia e la Russia
a parteciparvi con loro delegati. L’invito fu fatto e i Governi di
Pietroburgo e di Parigi l’accettarono. Il Governo italiano, allora,
domandò che della Commissione facesse parte anche un suo console.

L’ambasciatore d’Italia, Catalani, telegrafava il 15 dicembre:

    «Nel nostro colloquio, Nelidow [ambasciatore russo] si è
    espresso nel modo più deciso contro la partecipazione Console
    d’Italia inchiesta. Ha detto che Italia non ha interessi in
    Armenia, che il nostro concorso darebbe carattere politico
    all’inchiesta, ed ecciterebbe popolazioni ad insorgere. Ho
    ribattuto inutilmente argomenti trattandosi di risoluzione già
    presa.»

Se l’Italia non aveva interessi diretti in Armenia, il suo concorso
all’inchiesta era, per questa considerazione, più indicato, poichè dava
maggior guarentigia alle popolazioni, alla Porta e all’Europa,
d’imparzialità e di giustizia. D’altronde il Catalani, sapendo che la
partecipazione dell’Italia era desiderata dall’Inghilterra, insistette
e, nonostante gli intrighi russi e francesi presso Said-pascià, riuscì
nell’intento di fare aggregare alla Commissione un proprio delegato.

Era stato convenuto tra gli ambasciatori d’Inghilterra, di Russia e di
Francia che i Consoli europei ad Erzerum avrebbero fatto accompagnare la
Commissione d’inchiesta turca da loro delegati; a questi era data
facoltà d’indicare alla Commissione i luoghi da visitare e le persone da
interrogare e, in casi speciali, d’interrogare essi stessi i testimoni.
Il 20 dicembre Catalani telegrafava:

    «Sublime Porta non ha sinora risposto alla nota identica dei tre
    ambasciatori e nulla è quindi concluso circa rapporti che
    dovranno avere i delegati colla Commissione turca. Jeri Sultano
    inviò un ex-Gran Visir dall’ambasciatore di Francia dichiarando
    essere pronto a destituire immediatamente tutte le autorità
    implicate nei recenti massacri, a condizione che i delegati non
    accompagnino Commissione turca od almeno che non abbiano facoltà
    d’interrogare in caso di bisogno i testimoni. Il fatto è che il
    Sultano teme che Zechi pascià, comandante in capo delle truppe,
    non produca firmano col quale ricevette da S. M. ordine dei
    massacri. Proposta del Sultano è stata respinta. Tre
    ambasciatori hanno invitato Sublime Porta ordinare Commissione
    turca fermarsi dovunque essa si trovi, dichiarando nulla e non
    avvenuta inchiesta fatta senza presenza delegati. Ambasciatore
    d’Inghilterra crede che saranno necessarie due settimane prima
    che delegati possano raggiungere Commissione.»

I tre ambasciatori non potevano infatti — neppure quelli di Russia e di
Francia più favorevoli al Governo ottomano — decentemente cedere; e il
Sultano, temendo che l’Inghilterra sarebbe rimasta sola e avrebbe fatto
una inchiesta per suo conto, non parlò oltre di limitazioni ai poteri
dei delegati europei.

In seguito all’inchiesta, che assodò responsabilità gravissime delle
autorità ottomane e del sistema, fu redatto dagli ambasciatori un
progetto di riforme e proposta una Commissione europea di controllo per
l’applicazione delle medesime. Il delegato italiano fece una inchiesta
indipendente pel suo Governo.

Che cosa fece il Governo ottomano? Si affrettò ad accogliere i saggi
consigli che gli si davano?

Il 4 giugno 1895 Catalani⁴³ telegrafava:

   ⁴³ L’ambasciatore Tommaso Catalani morì improvvisamente a Terapia il
      28 luglio. Era uomo accorto ed energico, profondo conoscitore così
      delle finalità palesi e dissimulate della politica delle grandi
      potenze, come di tutte le risorse del giuoco diplomatico; e la
      inaspettata sua scomparsa fu grave danno. Aveva percorso la
      carriera grado a grado, accaparrandosi dovunque esercitò il suo
      ufficio simpatia e fiducia. Il lungo soggiorno in Inghilterra
      (1869-1889) temprando il suo carattere e affinando le naturali sue
      qualità, aveva contribuito a far di lui uno dei migliori
      rappresentanti che l’Italia avesse all’estero. Crispi lo stimava e
      l’amava moltissimo.

    «Contrariamente ad ogni aspettazione, risposta Sultano ai tre
    ambasciatori fu un rifiuto. Sua Maestà dichiara che le riforme
    da lui promulgate anteriormente saranno applicate a tutta
    l’Armenia, ma senza alcun controllo estero. Tre ambasciatori
    decisero ieri sera riferire risposta ai loro governi ed
    aspettare istruzioni.»

Il 17 giugno la Porta assicurò che le riforme sarebbero state attuate in
base all’art. 61 del Trattato di Berlino, sotto la sorveglianza di un
Alto Commissario «degno di fiducia» — e che alle ambasciate sarebbero
state date informazioni circa l’esecuzione delle riforme medesime.

La Russia e la Francia, che avevano accettato di partecipare
all’inchiesta soltanto per sorvegliare l’Inghilterra, furono felici di
separarsi da questa nell’apprezzamento dell’affronto ricevuto. «Mentre
l’ambasciatore britannico è molto irritato — si telegrafava a Roma —
l’ambasciatore di Russia prende la cosa quasi con indifferenza». E a
lord Salisbury — ritornato allora al Governo — non rimase che
raccomandarsi a Berlino affinchè l’ambasciatore di Germania a
Costantinopoli suggerisse alla Sublime Porta l’accettazione del maggior
numero possibile delle riforme proposte «per non rendere difficile la
situazione del nuovo Gabinetto inglese di fronte all’opinione pubblica».

Nel dissenso delle Potenze è naturale che il Governo turco continuasse
nel suo sistema di mancare alle promesse. Il 1.º di ottobre una
moltitudine di armeni, riunitasi al Patriarcato armeno di
Costantinopoli, si diresse per varie vie alla Sublime Porta con lo scopo
di presentare un memoriale relativo alle riforme. In vari punti di
Stambul la gendarmeria assalì quella gente pacifica, ferendo e uccidendo
parecchi, e facendo numerosi arresti.

Dall’ambasciata d’Italia si mandavano a Roma queste informazioni:

    «Folla armeni continua stazionare presso Patriarcato protestando
    non volere disperdersi se non hanno garanzie per loro sicurezza.

    Nuovi particolari sui fatti di ieri confermano ferocia
    repressione, prigionieri trattati con crudeltà inaudita. Oggi
    altri fatti isolati si produssero in diversi punti della città.
    Anche in Galata situazione considerata assai grave.»

Le ambasciate delle grandi potenze furono di nuovo concordi nel
richiamare l’attenzione della Porta sulla eccezionale gravità di quel
che avveniva sotto i suoi occhi, affermando risultare loro da
informazioni sicure «che privati musulmani hanno percosso e ucciso dei
prigionieri armeni condotti da agenti di polizia, senzacchè questi vi si
opponessero, — che si sono prodotti attacchi di privati contro persone
assolutamente inoffensive, — che i prigionieri feriti furono uccisi a
sangue freddo nelle corti della polizia e nelle prigioni».

Il 4 ottobre il Patriarca armeno invocava la protezione degli
ambasciatori per i suoi connazionali terrorizzati; egli affermava di non
potere persuaderli ad uscire dalle chiese ove si erano rifugiati. In
seguito a questo appello, gli ambasciatori presentavano alla Porta una
nota collettiva nella quale, insistendo sulla gravità degli avvenimenti
passati, si chiedeva al Governo ottomano quali misure contasse di
prendere per calmare l’agitazione musulmana e armena, prevenire il
ripetersi dei deplorati incidenti e proteggere cristiani e stranieri.
Reclamavano inoltre una inchiesta immediata e severa; e frattanto
risolvevano di far avvicinare a Costantinopoli le navi stazionarie.

L’8 e il 10 ottobre da Trebisonda telegrafavano:

    «Terribile massacro Armeni; tutt’oggi città in balìa del popolo
    turco armato, truppa scarsissima impotente lasciò fare, anzi
    soldati presero parte massacro e saccheggio. Vittime molte.
    Consolato, chiesa, scuola protette, ma pericolo ancora immenso.
    Indispensabile immediato invio truppa da Costantinopoli.»

    «Massacro ieri l’altro durato dalle undici alle quattro, seguìto
    completo saccheggio case, negozi armeni. Morti sopra cinquecento
    (?). Notte seguente, lo stesso accadde villaggi armeni vicini.
    Ieri, calma relativa salvo nuovo panico rumore sparso arte;
    Consolati tuttora quantità rifugiati. Positivamente, massacri
    concertati connivenza autorità civili e militari. Valì, contro
    formale promessa, chiese truppa solo dopo massacro. Jersera,
    arrivò battaglione con maggior generale nominato presidente
    tribunale guerra. Stato d’assedio oggi proclamato. Aspettasi
    corazzata russa.»

Diminuita, ma non sedata l’agitazione, la Sublime Porta si persuase a
riprendere il programma, proposto dai tre ambasciatori, delle riforme
armene, le quali il 17 ottobre furono promulgate con un _iradè_ del
Sultano. Non erano tutte le riforme sulle quali l’Inghilterra
specialmente aveva insistito, ma lord Salisbury dovette pel momento
contentarsene, sebbene senza speranza che raggiungessero lo scopo della
pacificazione.

La comunicazione del testo delle riforme deliberate era stata fatta
ufficialmente soltanto ai tre ambasciatori. L’Italia, insieme alla
Germania e all’Austria-Ungheria, dovette reclamare in base al Trattato
di Berlino uguale trattamento, per trovarsi sullo stesso terreno delle
altre potenze nella sorveglianza dell’adempimento da parte della Porta
degl’impegni assunti dinanzi all’Europa.

La questione, in verità, era tutt’altro che chiusa: i massacri di
cristiani continuavano in Armenia; fu proposto un altro passo collettivo
delle Potenze presso la Porta per invitarla ad esercitare la sua
autorità pel mantenimento dell’ordine pubblico; ma gli ambasciatori
russo e francese dissentirono, giudicando quel passo inutile e
inopportuno. In realtà il Governo imperiale, dopo avere scatenati gli
odii e il fanatismo religioso, era impotente a trattenerli; e il peggio
era che l’anarchia si estendeva in altre provincie dell’Impero ottomano.
Le cose giunsero al punto che i sei ambasciatori non poterono, dinanzi
ai pericoli che sovrastavano, non accordarsi in un atto di protesta, che
fu una diffida. Il Sultano licenziò tutti i ministri, allontanò
Kiamil-pascià, di cui diffidava, relegandolo ad Aleppo; ma con la scelta
dei nuovi suoi consiglieri accrebbe le diffidenze sulle sue intenzioni.
Che cosa di Abdul-Hamid si pensasse in quel momento (novembre 1895)
nelle sfere diplomatiche di Costantinopoli, si legge in queste righe:

    «Ambasciatore di Germania a Costantinopoli opina che il Sultano
    si sostiene soltanto per rete inestricabile spionaggio,
    organizzato da tutte le parti, che rende tutti reciprocamente
    diffidenti, ed impedisce congiure. Marschall ritiene situazione
    sempre più grave. Russia ed Inghilterra assicurano non volere
    intervenire, ma avvenendo catastrofe, possono eventi essere
    superiori buon volere. Si prevede eventualità di dover
    spodestare Sultano attuale e mettere al posto successore
    naturale. Ad ogni modo Marschall confida nella stretta unione
    delle Potenze della triplice alleanza.»

Intanto, mentre il nuovo ambasciatore italiano in Turchia, Pansa,
telegrafava:

    «Kiamil partito oggi per Smirne, ove ottenne essere destinato,
    invece di Aleppo. Corre voce possibili nuovi cambiamenti
    ministeriali. Temesi ripetizione dimostrazione armena in Pera,
    il che creerebbe gravissimo pericolo. Sultano in preda morbosa
    esaltazione, che rende possibile qualunque sorpresa. Tutti gli
    ambasciatori si sono oggi riuniti per combinare misure eventuale
    protezione.»

Crispi ordinava l’invio della flotta italiana nelle acque turche.
Contemporaneamente il Governo francese decideva che una divisione della
sua squadra del Mediterraneo si recasse in Levante.

Le navi _Re Umberto_, _Doria_, _Stromboli_, _Etruria_, _Partenope_
partirono da Napoli il 16 novembre.

Frattanto gli ambasciatori presso il Sultano telegrafavano ai rispettivi
Governi che, in vista del crescente malcontento dei turchi e di qualche
possibile catastrofe a Palazzo, era opportuna la presenza nel Bosforo di
un secondo stazionario, con marinai da sbarco per la protezione delle
ambasciate. Avutane l’autorizzazione, gli ambasciatori richiesero il
_firmano_ per l’entrata negli Stretti della seconda nave; ma, nonostante
il parere del Consiglio dei Ministri, il Sultano, temendo che l’Europa
preparasse la sua deposizione, rifiutò di accordarlo. Riunitisi i
rappresentanti delle grandi potenze, quello d’Inghilterra, Currie,
propose che se il _firmano_ richiesto non fosse accordato, i secondi
stazionarii entrassero nei Dardanelli sotto la protezione delle squadre;
dissentirono gli ambasciatori di Russia e di Francia dichiarando di non
avere istruzioni dai loro Governi.

La proposta di Currie combinava col parere del Cancelliere
austro-ungarico, conte Goluchowski, comunicato ai Gabinetti delle
Potenze il 15 novembre. Il Goluchowski opinava che tutte le Potenze
tenessero in Levante squadre, dalle quali gli ambasciatori a
Costantinopoli potessero in breve tempo distaccare navi per la
protezione della vita e della proprietà dei connazionali. Non si sarebbe
dovuto, in caso di necessità, fermarsi dinanzi alle proteste della Porta
per l’entrata delle navi da guerra nei Dardanelli.

Vi fu allora un vivo scambio di comunicazioni tra i Gabinetti, il cui
risultato fu che la Russia, temendo che Inghilterra, Austria e Italia
avrebbero agito ugualmente, finì col dare ordine al proprio ambasciatore
di associarsi alla intimazione proposta. La Francia, che in tutta la
questione seguiva fedelmente la condotta della Russia, fece altrettanto.
E il 10 dicembre i firmani imperiali erano concessi a tutte le sei
grandi Potenze.

Ma il Governo russo non mancò di far sapere che non sarebbe andato più
oltre, e non si sarebbe associato ad altre misure di coercizione, come
quelle indicate da Goluchowski, sostenendo che bisognava sorreggere il
prestigio del Sultano e non indebolirlo, se si voleva che egli riuscisse
a ristabilire l’ordine nell’Impero.

Rotto così il concerto europeo, Crispi avrebbe voluto che in Oriente,
come nel Mediterraneo, la politica dell’Inghilterra, dell’Austria e
dell’Italia riprendesse il corso che aveva avuto durante il suo primo
Ministero, in base agli accordi del 1887.

Della decisione di Crispi a prender parte in prima linea ad un’azione
contro il malgoverno ottomano, che alla metà del novembre 1895 sembrò
inevitabile, abbiamo più di un documento.

L’Italia, cercando di procedere d’accordo con l’Inghilterra, si era
dichiarata pronta ad unire le proprie forze navali a quelle britanniche.
Quando la squadra italiana al comando del vice-ammiraglio Accinni ebbe
ordine di salpare per il Levante, l’on. Crispi ricevendo (16 novembre)
l’Accinni e l’on. Bettolo, allora capitano di vascello, fece loro
augurii di vittoria:

    «Facciamo il dover nostro — egli disse — e teniamo alta la
    bandiera d’Italia. Ho piena fede in voi. La bandiera nazionale è
    affidata in buone mani. Iddio vi benedica.»

Nello stesso _Diario_, dal quale trascriviamo queste parole, Crispi
prese le seguenti note:

    «_21 novembre._ — Alle 9.15 i Reali giungono a Roma provenienti
    da Monza. Avendomi il Re invitato a recarmi da lui al Quirinale,
    sono ricevuto alle 10.

    Espongo al Re lo stato delle cose in Oriente. Le potenze sono
    d’accordo nella loro azione verso la Porta Ottomana. Il passo
    dell’Austria fu inopportuno. Non era possibile che la Russia
    consentisse il passaggio degli Stretti alle flotte europee. Essa
    non poteva permettere un condominio, anche temporaneo, nel Mar
    Nero. Doveva quindi rifiutarsi. Il rifiuto però non ha rotto gli
    accordi. La posizione del Sultano è grave. Si trova tra due
    fuochi: il fanatismo musulmano e la volontà dell’Europa
    decisamente espressa. Sarà gran fortuna per lui e per le grandi
    potenze, se giungerà a ristabilire l’ordine nel suo impero.

    La nostra flotta è a Smirne. Il vice-ammiraglio Accinni ebbe
    ordine di essere cortesissimo coi Francesi. L’ammiraglio Seymour
    offrì alla nostra squadra un comodo ancoraggio a Salonicco. Non
    ne abbiamo ancora profittato. Lord Salisbury dichiarò di
    ritenere in vigore gli accordi del 1887. Dichiarò che vuol
    procedere d’accordo con noi e che in caso di occupazione dei
    Dardanelli toccherebbe all’Italia la espugnazione delle fortezze
    turche.

    Spero nella pace, ma ho preveduto il possibile caso della
    guerra.»

Delineatosi il dissenso tra le Potenze, lord Salisbury visse e fece
vivere giorni di grande indecisione. Mentre il 15 novembre egli
dichiarava all’ambasciatore d’Italia, generale Ferrero, di «voler
profittare, anche in prossime evenienze, della nostra collaborazione» —
mentre il barone Marschall assicurava risultargli da rapporti giuntigli
da Londra che il nobile lord era «deciso ormai a rientrare nella linea
della sua antica politica», e il 17 l’ammiraglio sir Seymour, comandante
della squadra inglese ancorata a Salonicco, faceva premure affinchè lo
raggiungesse colà la squadra italiana — quando, pel rifiuto russo di
associarsi ad una dimostrazione negli Stretti, sembrava che pel suo
precedente atteggiamento l’Inghilterra avrebbe dovuto passar oltre, —
lord Salisbury non solo non si risolvette a muoversi coi suoi alleati,
ma alla fine di novembre avanzò a Pietroburgo, isolatamente, senza
prevenirne i Gabinetti di Roma e di Vienna, una proposta formale per
stabilire una specie di tutela sull’Impero ottomano, che il Governo
russo declinò.

Data da quell’epoca la lenta conversione dell’Inghilterra verso la
duplice alleanza.



                 LA TRIPLICE ALLEANZA E L’INGHILTERRA.



     _Capitolo Decimo._ — La crisi delle alleanze e degli accordi.


La politica estera dei successori di Crispi dal 1891 al 1893. —
Conseguenze immediate dell’inerzia italiana negli affari d’Oriente
avvertite dal Blanc. — Germania e Austria desiderano il ritorno di
Crispi al governo. — Colloqui di Crispi con gli ambasciatori di Germania
e d’Austria-Ungheria. — I torbidi interni del 1893-94 deprimono il
credito dell’Italia all’estero. — Guglielmo II e Crispi. — Motivi del
ritiro di Caprivi dalla Cancelleria germanica. — Nomina di Hohenlohe. —
Favorevoli disposizioni di Guglielmo II verso l’Italia. — Crispi e il
dissidio anglo-germanico pel Transvaal. — L’Italia nella politica
internazionale al principio del 1896. — La crisi delle alleanze e degli
accordi. — I tentativi per ristabilire le antiche intelligenze con
l’Inghilterra falliscono. — Dal Diario di Crispi. — Necessità di
estendere i patti della Triplice alla protezione degl’interessi italiani
nel Mediterraneo e in Oriente. — Energiche rimostranze di Crispi. —
L’imperatore di Germania annunzia un suo viaggio in Italia per conferire
con Crispi, ma questi prima della venuta dell’imperatore deve
abbandonare il governo.


Abbiamo notato in questo stesso volume che quando riprese le redini del
Governo, Crispi trovò tutta mutata la posizione dell’Italia in Europa.
La Triplice era stata rinnovata, ma era tornata ad essere come nel primo
periodo, dal 1882 al 1887, un legame oneroso; e gli accordi speciali con
l’Inghilterra e con l’Austria-Ungheria, che formavano il complemento
della Triplice, erano caduti nel nulla.

Sia perchè mancasse ai successori di Francesco Crispi l’elemento
prezioso dell’autorità personale, sia perchè la loro azione fosse
pregiudicata da dichiarazioni pubbliche accennanti a preferenze per un
diverso orientamento della politica italiana, l’edificio innalzato con
tante fatiche crollò. Germania e Austria cominciarono a guardarci con
diffidenza; — la Francia, tra le proteste di amicizia a lei e il
mantenimento dell’alleanza con le Potenze centrali, non vide chiaro e
continuò le sue ostilità; — l’Inghilterra, convintasi della nostra
incostanza e debolezza, accentuò la sua tendenza a intendersi a tutti i
costi con la sua antica nemica, la Francia. Cosicchè si andò formando
questa situazione: le nostre alleanze ci garentivano l’integrità
territoriale, ma ci attiravano nello stesso tempo tutti i danni della
guerra tenace che i francesi, sapendoci indifesi, ci facevano dovunque;
e inoltre eravamo tenuti in disparte dalle combinazioni della grande
politica europea.

Uno dei nostri migliori diplomatici, il barone A. Blanc, che fu ministro
degli affari esteri nel secondo ministero Crispi, aveva veduto subito
nel 1891, dall’osservatorio importantissimo che era allora
Costantinopoli, i danni del nuovo indirizzo e li aveva segnalati:

                                           «Terapia, 30 giugno 1891.

    .... Non si può più dissimulare al pubblico, il quale qui
    incomincia a scandalizzarsi dell’impotenza della diplomazia
    anche per la protezione dei nazionali esteri, che, distruttosi
    il concerto europeo, del che le ambasciate di Russia e di
    Francia accusano le potenze alleate, non vi fu sostituita la
    preponderanza effettiva di queste ultime, onde anarchia in un
    governo che senza ingerenza europea non può compiere i suoi
    obblighi interni ed internazionali. Il Sultano non crede il
    gruppo anglo-austro-italiano capace d’una vera e seria azione
    solidale; è convinto non potersi più riunire gli ambasciatori in
    conferenze; li oppone, più che non potè far mai pel passato,
    l’uno all’altro, sfidandoli, finchè osa, tutti.

    I ministri ed il Palazzo in piena balìa di finanzieri, il
    Sultano che investe personalmente in Inghilterra ed in America
    quanti più capitali può, aspettano la preveduta fine; ed il
    Sovrano diceva testè ad un suo famigliare: «Che direste se
    accettassi la protezione russa?» Per ciò militarmente il Bosforo
    è aperto alla Russia e i Dardanelli sono chiusi a noi. Non vi
    sarebbe resistenza armata nè reazione di popolo contro la
    Russia, se questa sbarcasse una divisione a tre ore dalla
    capitale. Sarebbero allora in tempo le squadre inglesi o le
    squadre alleate a rinnovare la dimostrazione fatta nel 1878 a
    Santo Stefano? Non è probabile. O può dirsi che una volta a
    Costantinopoli la Russia sarebbe in una trappola, in condizioni
    insostenibili? Al punto di vista militare e navale, può darsi:
    al punto di vista politico, da nessuno, neppure dagli uomini di
    Stato bulgari si nega che intorno a Bisanzio, restituita alla
    ortodossia, tutti gli Slavi dei Balcani saranno trascinati da
    irresistibile impulso, come nel 1861 tutti gli Italiani si
    unirono al grido di Roma capitale. Che avverrà allora
    dell’ideale nostro delle autonomie, la cui unica guarentigia
    sarebbe stata la preponderanza politica e navale
    dell’Inghilterra e dell’Italia sui porti della Turchia europea?
    Che avverrà allora della teoria germanica dell’inorientazione
    dell’Austria-Ungheria? e della possibilità di soddisfazioni, a
    meno d’un’altra gran guerra, nell’interesse anglo-italiano
    d’equilibrio nel Mediterraneo? Non è forse abbastanza valutato
    dalla Germania e dall’Austria-Ungheria il fatto che in certi
    momenti la presenza d’un principe di loro fiducia a capo di tale
    o tal altro Stato balcanico non è punto sufficiente ad impedire
    rivolgimenti di volontà popolare? Basti ricordare come trionfò
    la causa della riunione della Rumelia orientale, tanto avversata
    e temuta a Vienna e a Berlino, per dimostrare che, anche in
    Oriente, si deve pur tener conto delle tendenze dei popoli.

    Questa regia ambasciata s’inspirò fin dal 1887 al convincimento
    che a tale situazione è pericoloso applicare la massima _inertia
    sapientia_; che la pace e lo _statu-quo_ legale non sospendono
    il corso della evoluzione delle nazioni; che in piena pace, in
    pieno regime d’alleanze, se l’Egitto diventò inglese e se il
    versante sud dei Balcani diventò bulgaro, più facilmente ancora
    possono stabilirsi nel Mediterraneo nuove condizioni propizie o
    contrarie agli essenziali interessi italiani; che il programma
    di pace essendo per sè negativo, non si doveva esporre l’Italia
    a non vedere più altri scopi positivi per l’alleanza se non
    quelli odiosi che le attribuiscono i nostri avversari, cioè un
    appoggio cercato all’estero per le istituzioni monarchiche, o un
    pegno preso sulla eredità d’una Francia minacciata di
    smembramento; e che in conclusione, perchè l’alleanza diventasse
    popolare e proficua, e fosse nella coscienza italiana non un
    espediente necessario alla sicurezza, ma una base di fruttuosa
    operosità, dovessimo, dopo aver rifiutato disgraziatamente quel
    primo premio dell’alleanza che era l’Egitto, rifarci almeno con
    una legittima influenza in Oriente, fondata sopra un liberale
    sviluppo di autonomie nella penisola balcanica e sopra la
    preponderanza navale e politica delle quattro potenze sugli
    scali del Levante.

    Perciò quest’ambasciata proponeva nel 1887 quelle intelligenze
    che furono adottate senz’altro a Vienna e a Londra. Queste, che
    i miei colleghi amici chiamarono il patto fondamentale della
    nuova politica europea in Oriente, e che sir W. White diceva
    segnare una data storica, colla quale si poneva termine al
    secolo di guerra caratterizzato dagli spartimenti della Polonia
    e della Turchia; questo punto di partenza d’una nuova êra
    d’influenza, consentitaci in Oriente, ove col fatto si decide la
    questione se una potenza sia grande o piccola, dall’Inghilterra
    o dall’Austria-Ungheria, ambedue allora per ragioni diverse
    disposte ad appoggiarci per ingerenze per noi più naturali e più
    facili, a favore delle autonomie e della libertà degli stretti;
    questo programma, infine, la cui pratica attuazione, studiata in
    ogni particolare, ci avrebbe costato assai meno oro e meno forza
    della nostra politica militare nel mar Rosso, è desso rimasto
    finalmente lettera morta! Fin dal 1888 i miei colleghi
    dichiaravano non spettar più all’iniziativa di essi e mia qui,
    bensì a diretti concerti tra i gabinetti, la pacifica ma
    efficace attuazione di quelle intelligenze. Havvi luogo ancora
    di sperare che intervengano simili concetti, estesi, cioè, ad
    altri interessi pacifici nel Mediterraneo, oltre a quelli della
    sicurezza delle nostre coste!

    Succede ora un fatto capitale, che fu appena avvertito in
    Italia, il riparto virtuale dell’Africa tra l’Inghilterra,
    Germania e Francia, le quali sole si inoltrano verso i decisivi
    punti centrali, ove fra le sorgenti dei grandi fiumi verrà
    decisa un giorno la preponderanza sul continente nero, — mentre
    la Tripolitania senza l’_hinterland_ non è più, per le relazioni
    che a noi premono tra il Mediterraneo e l’Africa, che quasi un
    _non valore_, secondo l’espressione del signor di Radovitz.
    Mentre durano la pace e l’apparente _statu quo_, sipario calato
    davanti agli spettatori, velo protettore dietro il quale altri
    opera mutamenti di scena d’importanza mondiale, vedremo noi
    troppo tardi verificarsi qui altre trasformazioni per noi non
    meno gravi, di cui forse oggidì i preludi passano dalla nostra
    diplomazia inosservati?»....

                                  «Costantinopoli, 2 settembre 1891.

    Il 26 luglio informavo Vostra Eccellenza che questo incaricato
    d’affari d’Inghilterra aveva, d’ordine del _Foreign Office_,
    avvisato la Porta che le condizioni dell’isola di Candia vanno
    peggiorando pei numerosi misfatti; al punto da far temere che ne
    approfitti a scopi politici chi è interessato a fomentare una
    nuova insurrezione nell’Isola.

    Il 20 agosto sir W. White, tornato da una breve escursione in
    Germania, aveva con me un colloquio particolare nel quale egli
    mi faceva prevedere che mi avrebbe diretto prossimamente una
    comunicazione sugli affari cretesi in seguito ad «uno scambio
    d’idee avvenuto tra i gabinetti di Londra e di Parigi». Egli era
    in possesso della relativa corrispondenza, piuttosto voluminosa,
    tra lord Salisbury ed il signor Ribot, non conosciuta dai nostri
    rappresentanti a Parigi e a Londra. Il 23 agosto sir W. White
    parlò pure al signor di Radovitz di una comunicazione che gli
    avrebbe fra breve fatta circa le cose di Candia, ma senza
    spiegarsi, che io sappia, altrimenti.

    Per altro Vostra Eccellenza mi segnalava il 22 agosto la
    coincidenza, che non le sembrava fortuita, tra l’annunzio a noi
    fatto dal signor de Giers con dimostrazioni di fiducia, che la
    Russia intende insistere presso la Porta per provvedimenti
    acconci alle condizioni aggravate di Candia, e una domanda fatta
    al regio Ministero da codesto Incaricato d’affari di Grecia, se
    cioè l’Italia sarebbe disposta ad associarsi alle rimostranze di
    alcune grandi potenze al Governo ottomano circa i casi di
    Candia, anche quando Austria e Germania non vi prendessero
    parte. Il rappresentante ellenico a Roma rinnovava l’invito il
    26 agosto, chiedendo più precisamente a Vostra Eccellenza se
    l’Italia avrebbe voluto associarsi non solo alla Russia, che ce
    n’aveva avvisati, ma alla Francia e all’Inghilterra, che verso
    di noi mantenevano il silenzio, per ottenere un migliore Governo
    per Candia.

    Vostra Eccellenza avendomi pregato il 28 agosto, in base a tali
    comunicazioni della Russia e della Grecia, di assumere
    informazioni circa la notizia pervenutale «da altra parte» che
    l’Inghilterra, d’accordo colla Francia e
    _coll’Austria-Ungheria_, aveva fatto passi presso la Porta a
    favore di Candia, Le risposi ricordando che già il 26 luglio
    precedente io aveva riferito a Vostra Eccellenza come
    l’Inghilterra avesse fatto presso la Porta il passo che ho
    accennato di nuovo più sopra, e non altro passo qualsiasi. Prima
    e dopo di quelle date, il mio collega d’Austria-Ungheria non ha
    comunicato alla Porta, mi dice egli, se non, come al solito, le
    informazioni dei consoli locali austro-ungarici sulle cose
    cretesi; anch’egli per altro aveva ricevuto l’annunzio da sir W.
    White d’una prossima comunicazione sulle cose di Candia, e dopo
    ciò sir W. White si era limitato, aggiungevami il barone di
    Calice, a colloqui confidenziali coi soli ambasciatori di
    Francia e di Germania. Così l’Austria-Ungheria dimostrava a noi
    essere rimasta estranea a tutto il negoziato, cosa degna di nota
    dopo le circostanze segnalate nel mio rapporto del 30 giugno
    scorso, indicanti una diminuzione di fiducia dei gabinetti di
    Londra e di Vienna verso la politica italiana.

    Trovandomi il 28 a sera all’ambasciata d’Inghilterra, sir W.
    White mi disse avere aspettato l’occasione d’incontrarmi per
    notificarmi il risultato delle sue conferenze col collega di
    Francia. Egli aveva avuto, in conformità d’istruzioni del suo
    Governo, un ultimo colloquio col conte di Montebello sulle
    presenti condizioni di Candia, la quale da recenti rapporti dei
    consoli inglesi e francesi risultava un poco più tranquilla. Nè
    egli, nè il conte di Montebello si erano trovati in grado di
    proporre alcun passo che non si riducesse ad ufficiose
    osservazioni alla Porta nel senso di conservare la pace e
    l’ordine dell’isola. Il conte di Montebello avevagli dichiarato
    non essere propenso ad alcuna ufficiale osservazione alla Porta,
    disposizione questa nella quale sir W. White conveniva
    pienamente. Quanto precede era stato portato a cognizione di
    lord Salisbury. Sir W. White mi disse inoltre che per conto suo
    non avrebbe fatto, salvo ordine del suo Governo, alcun passo
    formale dopo quello già fatto, come le avevo riferito il 26
    luglio, e aggiunse non poter prevedere se questi rappresentanti
    di Francia e Austria-Ungheria avranno istruzioni per analoghi
    passi più o meno confidenziali, ma ritenere che ad ogni modo
    risulteranno passi isolati; non esservi luogo a concerti tra i
    rappresentanti in Costantinopoli, ogni concerto al riguardo, non
    potendo e non dovendo stabilirsi se non direttamente tra i
    gabinetti stessi. Tutto ciò mi parve nuovo sintomo
    dell’isolamento, conseguenza di anteriori divergenze di
    indirizzo dell’Italia rispetto all’Inghilterra e
    all’Austria-Ungheria, isolamento del quale volta per volta, ed
    ultimamente col mio rapporto del 30 giugno, era stato mio dovere
    segnalare le origini.

    Il 29 agosto, ulteriori mie informazioni mi davano certezza che
    l’ambasciata d’Austria-Ungheria, anzichè rimanere inoperosa
    quando l’incaricato d’affari d’Inghilterra faceva il suaccennato
    passo, aveva, nelle sue comunicazioni al Gran Visir, dimostrato
    preoccupazioni perchè si fosse sguarnito Candia di truppe, e
    desiderii perchè venissero rimosse le cagioni di complicazioni
    provenienti da disordini nell’Isola; ed il signor di Radovitz mi
    confermò poi avere il barone di Calice tenuto un tale linguaggio
    «in espresso appoggio» al passo formale dato dall’incaricato
    d’affari d’Inghilterra. Ne emergono due conclusioni per noi: in
    primo luogo, la conferma delle notizie giunte all’Eccellenza
    Vostra di intelligenze dell’Inghilterra non solo colla Francia,
    ma coll’Austria-Ungheria per Candia, senza partecipazione al
    regio Governo; in secondo luogo, la conformità del linguaggio
    del barone di Calice con quello del signor de Giers, il quale,
    secondochè fu telegrafato a Vostra Eccellenza da Pietroburgo, si
    dimostrava preoccupato perchè il Governo ottomano continuava a
    sguarnire Candia di truppe per portarle allo Yemen ove la
    situazione si fa più critica, il Governo russo cercando di
    rimuovere ogni cagione di complicazione internazionale circa
    Candia.

    Così risultava ad evidenza che le due potenze alle quali ci
    eravamo legati con speciali intelligenze di massima per
    interessi comuni nel Mediterraneo, l’Inghilterra e
    l’Austria-Ungheria, si occupavano, insieme ai gabinetti di
    Russia e di Francia, e senza che Vostra Eccellenza ne avesse
    notizia se non da Pietroburgo e da Atene, delle cose di Candia.

    In questo corpo diplomatico si spiegava ciò col fatto che in
    seguito a conferenze avute dal signor Tricoupis a Sofia, il Re
    di Grecia avesse ottenuto dai gabinetti di Londra e di Parigi,
    notoriamente ravvicinatisi nei negoziati che precedettero la
    visita della squadra francese a Portsmouth, un qualche compenso
    in Candia ai progressi dei Bulgari in Macedonia; l’Inghilterra
    era supposta non aliena dal favorire la concessione ai Candioti
    d’un governatore cristiano personalmente grato alla Francia, la
    quale così avrebbe desistito dal premere per lo sgombro
    dell’Egitto; l’Austria-Ungheria poi era evidentemente desiderosa
    ad un tempo di evitare ogni passo collettivo che ponesse, come
    desideravano i Greci, la questione di Candia davanti all’Europa,
    e di apparire ciò nullameno per conto proprio facilitare ai
    Greci il vantaggio di un’influenza francese in Creta, vantaggio
    anche per gli interessi austro-ungarici, poichè diventava così
    meno esclusiva la preponderanza russa in Atene, aggiungendovisi
    la francese.

    Intanto mi giungeva inaspettatamente una lettera del signor di
    Radovitz dalla quale emerge che, secondo il mio collega di
    Germania, l’Italia potesse disinteressarsi insieme alla Germania
    dai negoziati iniziati dalle altre grandi potenze circa Candia.
    Vi era una tale coincidenza tra l’invito di lui a non unire
    l’Italia ai passi dell’Inghilterra e dell’Austria-Ungheria in
    una questione pur mediterranea, e le ripetute dichiarazioni di
    sir W. White a me e al barone di Calice non avere più pratico
    valore le intelligenze stabilite fra i tre gabinetti nel 1887,
    che non esitai ad alludere a tal punto delicato nella mia
    risposta al signor di Radovitz a proposito di lui evidente
    tentativo d’isolare l’Italia nella questione di Candia, della
    quale sole Russia e Grecia avevano fatto parola a Roma.

    Sir W. White passò nell’ambasciata di Germania la serata del 29,
    quando già il signor di Radovitz aveva in mano detta mia
    lettera; e venne da me l’indomani mattina, a dirmi che credeva
    non esservi nulla da fare per ora circa Candia. Io gli esternai
    il desiderio di tenermi in ogni caso in intima relazione come
    per il passato con lui e con il collega d’Austria-Ungheria, a
    scopi comuni. Egli mi rispose non esservi base a concerti in tre
    in tali questioni. Io m’ispirai allora al rapporto del conte
    Nigra del 4 agosto, e dissi a sir W. White che il conte Kálnoky,
    secondo le mie informazioni, continuava a credere che le
    intelligenze prese nel 1887 coll’Inghilterra non solo debbono
    essere considerate in pieno vigore, ma costituiscono una base
    preziosa ed importante dell’azione eventuale delle tre potenze
    alleate in Oriente. Sir W. White mi domandò se il conte Kálnoky
    avesse fatto qualche speciale allusione all’una o all’altra
    delle tante questioni che in Oriente sono criterio di una voluta
    e sincera comunanza d’interessi ed intenti, la quale, se
    manifestatasi nelle opere della pace, può tanto meglio poi
    esternarsi negli eventuali periodi d’azione. Replicai io non
    avere mai cessato dal segnalare non solo al mio governo, ma ai
    colleghi d’Austria-Ungheria e di Germania, le occasioni ed i
    mezzi di pacifica ed effettiva attuazione, per parte delle tre
    potenze mediterranee amiche, del convenuto scopo di benefica ed
    operosa preponderanza nostra comune; ma che delle tante
    questioni presentatesi, economiche, religiose, o puramente
    politiche, nelle quali antiche divergenze tra l’Italia e
    Austria-Ungheria erano da togliersi di mezzo, ignoravo se alcuna
    fosse stata trattata col conte Kálnoky, il quale menzionava
    soltanto l’interesse della consolidazione del principe
    Ferdinando, argomento sul quale in verità le tre potenze, come
    le tre ambasciate, non hanno per un momento mancato di
    dimostrare la più completa e favorevole comunanza
    d’apprezzamento. Ma ad ogni modo, osservai io a sir W. White, le
    anteriori asserzioni di lui stesso al barone di Calice e a me
    circa la caducità delle intelligenze tra l’Italia, Inghilterra
    ed Austria-Ungheria per le cose d’Oriente erano ritenute dal
    conte Kálnoky non conformi alla realtà delle cose. Sir W. White
    mi replicò dubitare che il conte Kálnoky avesse attualmente
    confermato le intelligenze del 1887 quali vigenti ed esecutorie;
    mi narrò aver egli, in una recente sua conversazione col conte
    Kálnoky, chiamatane l’attenzione sui pericoli per la
    conservazione dello _statu quo_ in Oriente del sistema di doppio
    governo vigente qui, ove la Porta impotente è incaricata
    d’intrattenere le volontarie illusioni delle potenze alleate,
    mentre il solo vero potere è nel Palazzo, ostile alle potenze
    stesse; nè avergli taciuto il suo pensiero, essere funesto il
    sistema della diplomazia austro-ungherese di assicurare
    l’impunità al Sultano e lusingarne l’arbitrario a scopi di
    apparente influenza, ed a detrimento dei più essenziali
    interessi comuni delle potenze amiche in Oriente.

    Tali gravi affermazioni dell’ambasciata d’Inghilterra, alle
    quali egli aggiungeva, all’indirizzo della politica italiana,
    altri rimproveri, sui quali la mia precedente corrispondenza mi
    dispensa dal ritornare, traevano per me chiaro significato da
    amichevoli sue confidenze relative a quella questione di
    Macedonia che, inseparabile per la Grecia dalla questione di
    Candia, è tuttora il nodo delle difficoltà balcaniche. Sir W.
    White deplorava che l’ambasciata d’Austria-Ungheria,
    approfittando degli intrighi turco-russi del Palazzo contro lo
    sviluppo degli interessi anche commerciali e ferroviari inglesi
    ed italiani nella penisola balcanica, continuasse in Turchia la
    politica di esclusivismo economico che le era mal riuscita in
    Rumenia ed in Serbia; che a Vienna si fosse osteggiata la
    riforma del Consiglio del debito ottomano e della banca
    ottomana, istrumenti di monopolio politico-finanziario avverso
    all’Inghilterra e all’Italia; favorito in Macedonia i Serbi
    quando Re Milano era sul trono, i Bulgari solo dopo che il
    principe Ferdinando venne a Sofia; sostenuto il principio
    francese e russo delle protezioni religiose a pro di protezioni
    austro-ungheresi sui cattolici dei Balcani, contrariamente al
    principio anglo-italo-tedesco delle protezioni di ciascuno sui
    propri nazionali; rifiutato di ammettere passi collettivi presso
    la Porta contro il brigantaggio sulle ferrovie ottomane
    sottoposte alla protezione austro-ungherese fino a
    Costantinopoli ed a Salonicco; dimostrato inquietudini ad ogni
    comparsa di squadre inglesi od italiane a Salonicco o a Smirne;
    ammesso la teoria russa per il passaggio di truppe russe nel
    Bosforo; evitato ogni adesione ai reclami inglesi e italiani
    contro la complicità del Palazzo col brigantaggio e contro la
    spoliazione sistematica dei rispettivi nazionali a beneficio
    della lista civile, abusi coperti dalla incondizionata
    protezione accordata dall’Austria-Ungheria al Sultano.

    Pure malgrado tanti gravami, osservai io, l’Inghilterra aveva
    negoziato coll’Austria-Ungheria per l’attuale situazione di
    Candia, e coll’Italia no. Eravamo dunque in presenza di qualche
    nuova combinazione a nostro danno, come nel Congresso di
    Berlino? Sir W. White non rispose.

    Anche il mio collega di Germania, come per dimostrarmi al pari
    di sir W. White non essere diminuita la nostra reciproca fiducia
    personale, si recò da me il 31 agosto ed intavolò francamente la
    conversazione sul grave argomento delle scosse intelligenze fra
    gli alleati in quanto all’Oriente. Sorvolando sulle divergenze
    verificatesi fra i gabinetti di Roma e di Berlino circa gli
    affari di Candia ed alludendo a disposizioni che negli ultimi
    tempi si erano, secondo il signor di Radovitz, dimostrate a Roma
    a favore della Russia, disse non potersi sperar nulla dal
    collega di Austria-Ungheria ormai per gli interessi politici ed
    i diritti privati compromessi dalla _curée finale_ che si fa in
    Palazzo degli ultimi elementi di vitalità dell’impero ottomano;
    il barone di Calice considerare successo bastante alla propria
    situazione l’aver fatto prevalere nel recente incidente di Uskub
    il principio di protezione religiosa non ammesso nè dalla
    Germania, nè dall’Italia, nè dall’Inghilterra; non potersi
    sperare il concorso del delegato austro-ungarico al disegno di
    eliminare dal debito ottomano il noto sindacato speculatore;
    perfino riguardo al brigantaggio, che assume nella Turchia la
    stessa indole politica che in Creta, avere egli, Radovitz, quale
    decano, in assenza del barone di Calice, chiesto al suo Governo
    l’autorizzazione di riunire i rappresentanti delle grandi
    potenze per deliberare circa i passi da farsi presso la Porta a
    beneficio anche dei sudditi di potenze minori, ma essersi il
    gabinetto di Vienna opposto a qualsiasi collettività anche
    ristretta in proposito. Passando alla quistione di Candia il
    signor di Radovitz mi confidò che le istruzioni di lord
    Salisbury a sir W. White ordinavano a quest’ultimo non solo di
    conferire col conte di Montebello ma «di trovar modo di porsi
    d’accordo con lui», lo che produsse in essi, Radovitz e White,
    profonda sorpresa e preoccupazione. Le mire delle rispettive
    potenze essere così apparse tanto oscure che il signor di
    Nelidow, sospettoso contro le tendenze francesi ad accordarsi
    coll’Inghilterra, aveva consigliato al suo collega di Francia a
    non spingere più oltre il negoziato. In conclusione il mio
    collega di Germania aggiunse che la questione di Candia sarebbe
    risorta fra breve, ma che per ora era meglio lasciarla cadere. E
    questa conclusione è concorde col telegramma di Berlino che
    Vostra Eccellenza mi comunicava iersera.

    In sostanza, un principio d’accordo franco-inglese avendo avuto
    luogo per gli affari di Candia quale compenso per l’occupazione
    dell’Egitto, il regio Ministero venne escluso per volontà dei
    nostri alleati da tutto il negoziato relativo. Tale fatto è
    sintomo assai chiaro del ritorno alla situazione del 1884, nella
    quale l’Italia, per aver sistematicamente agito negli affari
    d’Egitto in senso contrario allo spirito delle alleanze da essa
    concertate, vide sciogliersi di fatto il fascio delle alleanze
    stesse e rimase nell’isolamento. Vengono anche confermate da
    tale fatto le previsioni espresse nel mio rapporto del 30
    giugno, circa la situazione disastrosa per i nostri interessi
    mediterranei, che risulta per l’Italia dal tornare ad essere
    lettera morta le intelligenze di massima coll’Inghilterra,
    programma che io ho pur ordine, finora non revocato, di seguire
    in Costantinopoli e sul quale non ho cessato di essere in pieno
    accordo coi miei colleghi d’Inghilterra e di Germania....»

Alla fine del 1893 l’inerzia politica dell’Italia aveva già dato tutti i
suoi frutti, e non era facile cosa riprendere la posizione perduta e
rimuovere le altre potenze dalle nuove combinazioni nelle quali si erano
impegnate. Caprivi e Kálnoky, Cancellieri dei due imperi centrali quando
Crispi nel 1891 lasciò il governo d’Italia, erano tuttavia in carica e
si deve credere che desiderassero il ritorno di lui al potere, poichè
mentre Crispi ne sembrava ancora lontano, gli ambasciatori conte Solms e
barone De Brück gli recavano messaggi e voti.

Il Solms fece visita a Crispi il 13 ottobre 1893. Dal _Diario_ più volte
ricordato riferiamo qualche nota:

    «L’ambasciatore germanico, dopo qualche accenno sulla politica
    generale, mi racconta con visibile soddisfazione che
    l’Imperatore lo aveva invitato a pranzo a Potsdam, e che con lui
    ragionando delle sue relazioni col Papa, lo aveva incaricato di
    riferirmi, appena tornato in Roma, che non aveva dimenticato le
    osservazioni da me fattegli sulla politica pontificia e che non
    si lascerebbe prendere dal Vaticano.

    — Il Papa — dissi — è nemico della Triplice perchè questa è un
    ostacolo al ristabilimento del potere temporale ed assicura a
    noi il possesso di Roma.

    — L’Imperatore non lo ignora e sa quello che fa. Avete visto
    come l’Imperatore si è condotto col principe di Bismarck? In
    Germania ha fatto magnifica impressione l’offerta che il nostro
    Sovrano ha fatto al Principe di un Castello imperiale per
    ristabilirsi in salute. È una riconciliazione tra l’Imperatore e
    il suo antico Cancelliere che ha davvero consolato il popolo
    tedesco. E voi che cosa fate? Continuerete con l’attuale
    ministero? Quale sarà il vostro contegno?

    — Io? Sono fuori dalla politica militante....

    — Ma l’Italia non può continuare con un ministero come
    l’attuale.

    — Non ho alcun giudizio da emettere. Sto a guardare!»

Il De Brück si recò da Crispi il 25 ottobre. Leggiamo nel _Diario_:

    «Visita del barone De Brück alle 3.45 pom.

    Il barone è preoccupato delle condizioni d’Italia. Soggiunge che
    ne sono preoccupati anche a Vienna....

    — Bisogna che vi occupiate delle cose del vostro paese. Che
    volete? Questo linguaggio parrà singolare in bocca di un
    austriaco, ma tanto più dovete ascoltarlo. Noi abbiamo bisogno
    che l’Italia sia ben governata e tranquilla; e lo stato attuale
    c’inquieta.

    — Me ne duole; ma io non ho che farci. È la disgrazia d’Italia.
    È il nostro un paese cui manca la continuità nella politica; ed
    è la ragione per la quale all’estero non abbiamo la dovuta
    considerazione. Ai tempi di Mancini, non ostante il trattato
    della Triplice, il Principe di Bismarck non aveva fede in lui. A
    Berlino ed a Vienna si cominciò ad aver fede nel governo
    d’Italia con Robilant....

    — Dite piuttosto con voi. Con Robilant ci fu una fiducia
    relativa. Con voi a Berlino ed a Vienna non si dubitò mai. E
    bisogna che ritorniate al potere.

    — .... Io vengo dalla rivoluzione. Io ero repubblicano, ed
    accettai la monarchia perchè con essa potevamo acquistare
    l’unità. Sono stato fedele alla forma di governo che ho
    adottato, e deputato e ministro non ho mancato ai miei doveri.
    Il Re avrebbe dovuto comprendere tutto ciò, ed avrebbe dovuto
    sentire l’importanza della mia devozione.... Se non amassi il
    mio paese, mi sentirei legittimato a ritirarmi completamente
    dalla politica....

    — E fareste male. Voi bisogna che continuiate a servire il Re ed
    il vostro paese. Io non vedo un uomo che possa giovare
    all’Italia e servirla come voi; ed il Re lo sa, e più d’una
    volta me lo ha dichiarato....»

Affidando al barone Blanc il ministero degli Affari esteri, Crispi non
rinunziò ad avere una diretta ingerenza nella politica estera. Portare
nella trattazione delle maggiori questioni internazionali il suo
criterio e l’autorità del suo nome era un dovere ch’egli sentiva come
presidente del Consiglio, e non avrebbe saputo mancarvi anche perchè la
politica estera era stata sempre prediletto oggetto dei suoi studî.

Nei primi mesi del 1894 le condizioni interne d’Italia erano così gravi
che richiesero tutta la sua attenzione. In Parlamento non vi furono per
qualche tempo dissensi; le ambizioni tacevano; tutti i partiti, dominati
dal timore, seguivano ansiosamente l’azione di Crispi rapida, energica
contro un movimento anarchico che minacciava un caos sociale e politico.
Ristabilito l’ordine pubblico, risollevato il morale del paese e
restaurata la finanza, Crispi potè, nonostante che cominciassero ad
addentarlo le ire di parte, dedicarsi maggiormente alla situazione
internazionale.

La politica estera dell’Italia non poteva non risentirsi delle
difficoltà interne. Dovunque eravamo meno considerati. L’Ambasciatore a
Londra, conte Tornielli, scriveva l’8 gennaio 1894:

    «Le notizie tendenziose della stampa francese, ripercosse nella
    inglese, l’opera dei pochi corrispondenti speciali di
    quest’ultima residenti in Italia, cospiravano negli ultimi mesi
    ad accrescere le prevenzioni e le diffidenze alle quali il mio
    linguaggio ufficiale e privato non bastava certamente a porre
    argine. Poche volte Lord Rosebery mi parlò delle nostre
    difficoltà interne e sempre con quella misura che gli è propria,
    piuttosto, se ben io ne intesi l’intenzione, per dare a me
    l’occasione di spiegare o di smentire le altrui esagerazioni.
    Egli accolse sempre con benevolo interesse le spiegazioni e le
    smentite mie.»

In Germania la fiduciosa amicizia degli anni del primo ministero Crispi,
che aveva avuto una manifestazione solenne nel 1889 in occasione del
viaggio a Berlino del Re Umberto, era un ricordo del passato. Il ritorno
di Crispi ridestò la speranza che potessero tornare i giorni della
intimità italo-germanica. «L’imperatore Guglielmo — riferiva
l’Ambasciatore Lanza — non dubita che passeggere sieno le nubi che
passano sulla nostra povera Italia, e che il senno del Re e l’energia
del suo governo sapranno presto dissiparle». In data 5 marzo lo stesso
generale Lanza riferiva:

    «Ieri sera ad una rappresentazione di beneficenza ebbi l’onore
    di conferire con S. M. l’Imperatore, che sedeva in palco a me
    vicino.

    S. M. si degnò esprimermi le sue felicitazioni per la vittoria
    riportata dal Regio Governo nelle ultime discussioni
    parlamentari, per la splendida votazione avuta in suo favore, ed
    ebbe parole improntate, come sempre, a grande amicizia per la
    famiglia Reale, a stima e benevolenza grandissima per l’Italia,
    augurando che l’energia e l’autorità da lui molto apprezzate del
    Capo attuale del Gabinetto, l’alto senno del Re, riescano a
    superare tutte le difficoltà della crisi che attraversiamo.

    S. M. ebbe anche parole di grande lode per la condotta
    dell’esercito nelle luttuose circostanze in cui ebbe a trovarsi
    in Sicilia, e nella Provincia di Massa e Carrara; mi parlò con
    vivo compiacimento del valore dimostrato dai nostri nel
    combattimento di Agordat, del quale, mi disse, si era fatto
    spiegare tutti i particolari dal Capo del Grande Stato Maggiore,
    particolari che egli infatti conosceva meglio di me.»

Ai primi di aprile Guglielmo e Umberto s’incontrarono a Venezia. Il Re
si compiacque di telegrafare a Crispi:

          «_A S. E. Cav. Crispi_
        _Presidente del Cons. dei Ministri._

    S. M. l’Imperatore lascerà Venezia domattina portando seco la
    migliore impressione di questa Città che ha così degnamente
    rappresentato l’Italia nell’onorare l’augusto nostro alleato e
    amico. L’Imperatore nei varî colloquî avuti con me mi ha parlato
    di Lei e sempre con sentimenti di viva simpatia e di alta
    considerazione.

    Mi compiaccio di esprimerle la particolare e meritata
    benevolenza di S. M. l’Imperatore e di confermarle la mia
    cordiale amicizia.

                                                    Affezionatissimo
                                                         _Umberto_.»

In ottobre la Cancelleria germanica era in crisi. Il generale Caprivi,
il successore di Bismarck, col quale Crispi stava per riannodare i
rapporti che un’altra crisi, quella del 1891, aveva interrotti, si
dimise dall’altissimo ufficio. Le cause immediate che determinarono
quell’avvenimento furono narrate a Crispi nei seguenti termini:

    «L’accordo fra il Cancelliere e il Ministero prussiano nella
    questione delle misure da adottarsi per combattere i partiti
    sovversivi era fatto; le misure stesse erano state concretate
    (non se ne conoscono ancora i particolari), ed avevano ottenuto
    l’approvazione dei Governi confederati, il decreto d’apertura
    del Parlamento per il 15 novembre era già pubblicato; Sua Maestà
    l’Imperatore doveva ripartire ieri sera per le caccie di
    Blankenburg; quando nel pomeriggio egli riceveva successivamente
    a Potsdam il Conte Eulenburg, Presidente del Ministero
    Prussiano, e il Cancelliere Conte Caprivi, e dopo tali visite
    contromandava la sua partenza. Nella sera si spargeva la notizia
    che quei due alti funzionari avevano rassegnato le loro
    dimissioni e queste erano accettate!! Che cosa era avvenuto?

    Una breve conversazione avuta iersera col Conte Eulenburg che,
    come se nulla fosse avvenuto, incontrai in una _soirée_, mi pone
    in grado di desumere come siansi passate le cose.

    Quando il Conte Caprivi, a proposito della legge scolastica,
    lasciò la carica di Presidente del Ministero Prussiano, che fu
    assunta dal Conte Eulenburg per deferenza ai voleri sovrani,
    questi era già convinto che la separazione delle due cariche di
    Cancelliere e di Ministro Presidente Prussiano non poteva durare
    a lungo, come non durò ai tempi di Bismarck senza dar luogo ad
    inconvenienti, ad attriti gravi. Questi attriti giunsero al
    colmo, fra il Conte Caprivi e il Conte Eulenburg, a proposito
    delle misure sovraccennate e solo per intromissione
    dell’Imperatore un accordo fu possibile. Fu però un accordo, per
    così dire, forzato, concluso il quale e terminata la
    preparazione dei provvedimenti legislativi che ne erano la
    conseguenza, ambedue posero subito ieri i loro portafogli a
    disposizione di Sua Maestà. La quale dovette convincersi che
    realmente si doveva venire ad una soluzione radicale prima della
    convocazione del Parlamento. Non potendo naturalmente lasciar
    partire il Conte Eulenburg senza profondamente ferire il partito
    conservatore, già tanto ostile al Conte Caprivi, e d’altra parte
    non sentendosi questi, che sì frequenti volte dimostrò desiderio
    di ritirarsi, di assumere il peso delle due cariche, nè di
    difendere davanti il Reichstag delle misure cui in massima si
    era sempre mostrato ostile, Sua Maestà decise di dar corso alle
    dimissioni di ambedue e mandò ad effetto, colla sua solita
    rapidità di decisione, il provvedimento.

    Il posto di Cancelliere dell’Impero e Ministro Presidente
    Prussiano è stato offerto al principe Hohenlohe, attualmente
    Governatore dell’Alsazia-Lorena. Se accetterà sarà il regno dei
    _Segretari di Stato_, giacchè egli non ha più, a mio parere,
    l’energia, la vigoria necessaria per sì alta e grave carica. Il
    suo nome però, il suo passato, raccoglierà su di lui i voti dei
    partiti conservativi e specialmente della nobiltà prussiana che
    in Parlamento e fuori si mostrarono sì ostili al Conte Caprivi.»

Il 29 ottobre il principe di Hohenlohe fu nominato Cancelliere
dell’Impero e Presidente del ministero prussiano. Crispi inviò al Lanza
il seguente telegramma:

    «Il nome di Hohenlohe, già amato in Italia, viene oggi salutato
    con la più viva simpatia. Voglia far sentire al Gran Cancelliere
    che il nostro paese si felicita insieme al Governo di una nomina
    che siamo sicuri gioverà ai comuni interessi delle due nazioni.

                                                          _Crispi_.»

Hohenlohe mandò dapprima il barone Marschall, poi si recò lui stesso
dall’ambasciatore d’Italia a ricambiare il saluto:

    «Hohenlohe — telegrafava l’ambasciatore al ministro Blanc il 30
    ottobre — venuto in persona casa mia, vuole rinnovi a V. E. e al
    Presidente del Consiglio vivi ringraziamenti e ricambi loro i
    sentimenti espressigli, lieto poter cooperare interessi comuni
    due paesi. Più che sue parole, la sua visita fattami oggi fra
    tante altre cure e prima di aver potuto ricevere la mia e quella
    di altri ambasciatori, dimostra il conto nel quale egli tiene il
    capo del R. Governo che egli disse esser lieto già conoscere,
    nonchè V. E. e ciò mi è di buon augurio per l’avvenire.»

Le buone disposizioni dell’Imperatore Guglielmo verso l’Italia erano
confermate dal Lanza in un suo rapporto del 5 marzo 1895, del quale
riferiamo questo interessante brano:

    «Al suo ritorno da Vienna S. M. l’Imperatore mi onorò di una sua
    visita personale per esprimermi, come disse, la sua
    soddisfazione di aver potuto stringer la mano a S. A. R. il Duca
    d’Aosta in occasione dei funerali dell’Arciduca Alberto. La
    visita durò a lungo e S. M. parlò un po’ di tutto.... Fermandosi
    a discorrere specialmente dell’Austria, della sua impolitica
    condotta nell’Istria, ecc., S. M. mi disse aver trovato il conte
    Kálnoky meno inquieto per le nostre relazioni con la Francia, ma
    pur sempre alquanto preoccupato, che noi possiamo considerare la
    Triplice Alleanza non sufficientemente vantaggiosa per noi sol
    perchè non ci dà subito in piena pace il mezzo di giungere alla
    realizzazione dei nostri desiderii, delle nostre aspirazioni sui
    territori del Nord africano e altri. Sua Maestà avendo
    soggiunto: «Aspettate, lasciate che venga l’occasione e avrete
    tutto quel che volete», mi affrettai, non volendo per avventura
    che le parole del conte Kálnoky lasciassero cattiva impressione
    sull’animo del mio Augusto interlocutore, ad osservare che S. M.
    e il suo Governo conoscevano troppo bene la nostra politica,
    l’attitudine presa dall’attuale Gabinetto verso l’Inghilterra
    nelle cose d’Africa, il nostro desiderio di farci veramente il
    tratto d’unione fra l’Inghilterra e le Potenze della Triplice
    Alleanza, per dubitare che noi vogliamo con intempestivi conati
    suscitare complicazioni, che anzi facciamo sacrifizî per
    evitarle. Soggiunsi che siamo sempre stati e siamo consci dei
    nostri doveri e dei nostri diritti, che ci premeva anzitutto lo
    _statu quo_ nel Mediterraneo minacciato dalla Francia, e non
    sapevo spiegarmi la preoccupazione del conte Kálnoky. Se ci
    allarmiamo dei continui tentativi della Francia per estendersi
    in Africa, questi allarmi non sono infondati, chè quei
    tentativi, non mai ostacolati, potrebbero un giorno condurre ad
    uno stato di fatti compiuti — e citai il porto di Biserta — cui
    la guerra sola, che vogliamo tutti scongiurare, potrebbe
    riparare. S. M., che mi sembra persuasa di queste cose, apprezza
    la nostra politica verso l’Inghilterra, è sempre disposta ad
    appoggiarla, e fa voti perchè sotto i successori di Rosebery e
    di Kimberley, i quali non possono tardare molto a venire al
    potere, essa trovi quella favorevole accoglienza e quella
    cooperazione che finora abbiamo indarno cercato....»

Le buone relazioni tra l’Inghilterra e la Germania erano state per molti
anni un elemento importantissimo della nostra situazione internazionale.
È noto che gli accordi nostri con l’Inghilterra pel mantenimento dello
_statu quo_ e la difesa dei comuni interessi nel Mediterraneo e in
Oriente, completavano le stipulazioni del trattato della Triplice
alleanza. La tendenza della politica inglese a comporre i dissidi
anglo-francesi mediante compensi nel Mediterraneo e a modificare in
Oriente il suo atteggiamento intransigente verso la Russia, allontanando
ogni giorno dippiù l’Inghilterra dalla Triplice, giustamente allarmava
il governo italiano. Il 1.º marzo 1894 Gladstone si ritirava
definitivamente dal governo in seguito al voto contrario della Camera
dei lords al progetto sull’_Home Rule_. Il suo ministero però rimaneva
sotto la presidenza di lord Rosebery, che cedeva il ministero degli
affari esteri a lord Kimberley. Il ritiro di Gladstone fu accolto con
soddisfazione nelle sfere governative di Berlino, presso le quali fece
poi anche buona impressione la caduta di Rosebery, avvenuta il 22 giugno
1895. Col ritorno al potere dei conservatori la Cancelleria germanica
concepì qualche speranza nella ripresa, da parte dell’Inghilterra,
dell’antica politica. Il barone Marschall, segretario di Stato al
ministero germanico degli Affari esteri, divideva tale speranza:

    «Potremo — diceva egli — aver divergenze coll’Inghilterra, e ne
    prevedo ancor molte nelle questioni coloniali, ma queste sono
    cose secondarie che non impediranno mai l’accordo sui grandi
    problemi che possono sorgere nel Mediterraneo e che toccano gli
    interessi dei nostri alleati; quelle divergenze daranno ragione
    all’Imperatore che, di recente, parlando con me su questi
    argomenti diceva: _Bah! wer sich lieb hat, neckt sich_ (qui
    s’aime, se querelle).»

Ma sorse poco dopo a creare malumori la questione del Transvaal, venne
il telegramma dell’imperatore Guglielmo al presidente Krüger nel quale
felicitava questi «che senza ricorrere all’aiuto delle Potenze amiche
fosse riuscito a ristabilire la pace contro le bande armate che avevano
invaso il suo paese e a difenderne l’indipendenza», venne l’acre
polemica tra la stampa inglese e la germanica. Crispi, a dimostrazione
di sentimenti amichevoli verso i due Stati, appena dichiaratosi il
dissidio che fortunatamente fu subito composto, aveva accennato a una
mediazione dell’Italia con questo telegramma all’ambasciatore a Berlino:

    «Il dissidio anglo-tedesco è una sventura internazionale, e
    bisogna trovar modo di comporlo. Esso giova ai nemici della
    Triplice e nuoce a noi. Il nostro Augusto Sovrano se ne
    preoccupa, e mi ha espresso il desiderio d’intervenire con una
    parola amica fra le due parti, ove questa possa esser efficace.
    Ne parli al barone Holstein in mio nome, e qualora egli le dia
    speranza di successo, ne parli al Gran Cancelliere.

    Qualunque sia il risultato delle nostre pratiche, avremmo per lo
    meno dato prova della nostra buona volontà e della nostra
    amicizia.»

Nei primi due mesi del 1896 apparve chiara la crisi delle alleanze e
degli accordi ai quali l’Italia aveva affidato la sua sicurezza e la
garanzia dei suoi interessi.

In breve, la situazione era la seguente: col peggioramento delle
relazioni anglo-germaniche la Germania nostra alleata, facendo una
politica a sè, riguardosa verso la Turchia, aveva agevolato alla Russia
la preponderanza a Costantinopoli, e verso la Francia aveva iniziato una
politica di concessioni, della quale uno dei frutti era stato l’accordo
franco-germanico, risultante dal protocollo firmato il 4 febbraio 1894,
che aveva riconosciuto l’_hinterland_ della Tripolitania nella sfera
d’influenza francese.

La Francia, che nel 1891 aveva iniziato trattative per la delimitazione
dei possedimenti franco-italiani nell’Africa Orientale e per una
convenzione che avrebbe assicurato nella Tunisia un regime economico
soddisfacente ai cittadini e ai commerci italiani, ritirò le sue
proposte quando e perchè fu rinnovato il trattato della Triplice
Alleanza; e continuava ad osteggiarci anche in Africa, inviando
all’Harrar e allo Scioa denari e armi che dovevano essere rivolte contro
di noi.

L’Inghilterra, lasciata libera di trascurare gli accordi che aveva con
l’Italia per l’Oriente e pel Mediterraneo, si preoccupava soltanto della
contestata sua posizione in Egitto e tendeva a cedere in Africa alla
Francia, in tutte le questioni nelle quali era interessata l’Italia,
così per l’Harrar e Zeila, come per Tunisi.

La Russia, come si era fatta guardiana degli Stretti, per difendere,
insieme al suo dominio incontrastato nel Mar Nero, la propria influenza
sulla Turchia, e aveva, rompendo il concerto europeo, impedito che anche
l’Italia riprendesse, a fianco dell’Inghilterra, posizione in Oriente,
intrigava, insieme alla Francia, in Abissinia, avanzando altresì la
pretesa di un protettorato ortodosso con lo scopo di ostacolare
l’influenza italiana.

L’Austria-Ungheria, infine, nonostante l’alleanza con l’Italia, si era
sentita così libera da iniziare trattative commerciali col governo
francese per la Tunisia, senza prevenirne nè informarne il governo
italiano.

Da questa situazione risultava che l’Italia legata all’Inghilterra, alla
Germania e all’Austria-Ungheria da convenzioni di reciproca garenzia,
era, a causa di quelle convenzioni, combattuta dalla Francia in
questioni vitali e, nella lotta, lasciata sola dalle alleate. Cosicchè
la Francia, pur non conoscendo i patti della Triplice alleanza, era
giunta con un processo intuitivo di eliminazione, a conoscerne la
portata, e procedeva quindi brutalmente nella sua guerra coperta a tutti
gl’interessi italiani, avendo la sicurezza di non incontrare ostacoli da
parte della Germania e dell’Austria-Ungheria. Si può anche aggiungere
che a nostre spese essa si era indennizzata della perdita
dell’Alsazia-Lorena, acquistando preponderanza in tutto il Mediterraneo
occidentale e negli _hinterlands_ delle regioni del Nord-Africa,
dall’Atlantico sino all’Alto Nilo.

Esposta per tal modo l’Italia nello stato di pace a tutti i danni della
guerra, al governo italiano, per la salvaguardia degl’interessi
nazionali, si presentavano due vie: sciogliersi dalla Triplice alleanza
cedendo alle pressioni francesi, o denunziare il trattato per
sostituirlo con un altro che non prevedesse soltanto la guerra, ma fosse
una garanzia per l’Italia anche nello stato di pace.

La prima via era irta di pericoli: seguendola, l’Italia sarebbe
ritornata nelle condizioni d’isolamento nelle quali si era trovata sino
al 1882, cioè prima della sua accessione all’alleanza austro-germanica,
in balìa delle sopraffazioni francesi e della irritazione delle
ex-alleate. La seconda via era più conveniente, e Crispi la preferì.

D’altronde, egli che non aveva mai ammesso che l’alleanza dell’Italia
con le potenze centrali fosse una dedizione degl’interessi italiani,
doveva nei precedenti della sua azione diplomatica attingere la fede di
potere rompere il ghiaccio del particolarismo austro-germanico formatosi
nei tre anni della sua lontananza dal Governo.

I documenti che seguono hanno un altissimo interesse storico: essi
contengono i termini del problema che s’imponeva, l’ansietà patriottica
del governo di Crispi e i suoi propositi.

    _Diario — 20 gennaio 1896._

    Il barone Pasetti, ambasciatore d’Austria-Ungheria, giusta la
    fatta domanda, giunse alle ore 15.

    Egli cominciò a discorrere degli accordi del 1887, della
    insufficienza dei medesimi per lo scopo cui si riferiscono. Il
    barone si espresse con diffidenza del Ministero britannico, e si
    lagnò del medesimo per aver agito a Pietroburgo senza averne
    avvertito i due alleati. Soggiunse, che bisognerebbe render più
    precisi gli accordi, modificandoli od ampliandoli, per renderli
    più sicuri.

    Risposi, rifacendo la storia dei fatti che ci condussero ai
    suddetti accordi. Dissi che per me non hanno cessato di aver
    vigore le obbligazioni allora assunte. Ricordai che essendo
    stati trascurati tali accordi sotto Rosebery, all’avvento di
    Salisbury abbiamo interpellato questi, e ci fu risposto ch’egli
    riteneva ancora esistenti quegli accordi. Soggiunsi, che avevo
    fede nel ministro inglese, quantunque incerto talora ed
    esitante.

    Il barone Pasetti fu lieto della opinione mia favorevole a lord
    Salisbury. Ripetè che, nondimeno, era necessario dare alle note
    del 1887 maggiore precisione. Espose dei dubbi sul contegno del
    Governo tedesco.

    A questa osservazione dovetti rispondere, che gli accordi del
    1887 erano stati fatti coll’intesa di Berlino e conseguentemente
    con l’approvazione del Principe di Bismarck, il quale dichiarò
    che stava al di fuori degli accordi. Egli voleva che gli
    obblighi fossero limitati tra l’Austria, l’Inghilterra e
    l’Italia. La Germania, pel momento in disparte, entrerebbe
    quando la Francia avesse preso parte diretta nelle cose
    d’Oriente e del Mediterraneo.

    Certamente oggi in Berlino non potrebbe prevalere una politica
    diversa; e non bisogna diffidarne.

    Conclusi, che noi stiamo fermi agli accordi del 1887; se giova
    renderli più precisi, noi vi ci presteremo. In questo caso ne
    avverta Vienna affinchè l’ambasciatore italiano e quello
    dell’Austria-Ungheria a Londra facciano le pratiche necessarie
    presso lord Salisbury.

    Se lord Salisbury ha proceduto solo, ciò ha fatto per
    precauzione, e nel dubbio che i due alleati non lo seguissero.
    Non dobbiamo dimenticare la condotta nostra al 1878 ed al 1882.
    Tanto nella guerra contro la Russia, quanto per la insurrezione
    egiziana, l’Inghilterra fu lasciata sola. Aggiungete che in
    questi ultimi anni, dopo il mio ritiro al 1891, dei tre Governi
    ciascuno ha fatto a modo suo, e noi nelle quistioni del
    Mediterraneo, a Tunisi per esempio e nell’Eritrea, ci siamo
    trovati soli; la Francia ha fatto quello che ha voluto.

    E che si è fatto in Oriente? Le flotte presenziarono le
    carneficine turche, e nissuno se n’è impensierito. Anche
    l’Austria fece da sè.

    — Dica al suo Governo, che l’Italia procederà lealmente coi suoi
    alleati. Mettiamoci d’accordo, e il mio Governo non mancherà al
    dover suo.

    _Diario — 21 gennaio._

    Il conte Nigra ed il barone Blanc giungono a casa mia alle ore
    15 e 10 minuti.

    Il discorso si è aggirato su gli accordi del 1887. Dissi al
    nostro ambasciatore come in fatto quegli accordi siano rimasti
    inefficaci. Anche nella quistione orientale, tanto l’Inghilterra
    quanto l’Austria, ciascuna ha agito isolatamente senza averne
    prevenuto i due Governi alleati.

    Riferii al conte Nigra il mio colloquio di ieri col Pasetti.

    Il barone Pasetti manifestò che a Vienna diffidano di lord
    Salisbury, e chiedono che agli accordi del 1887 si dia
    precisione negli obblighi e negli scopi.

    Osservai che, se vi è potenza che debba lagnarsi del modo come
    si son condotte l’Inghilterra e l’Austria, è l’Italia. Il nostro
    Governo, da parecchi anni in quà non ebbe l’ausilio dei due
    alleati. Tanto dalla triplice continentale, quanto dalla
    orientale, siamo stati lasciati soli. Ciò non avvenne mai prima
    del 1891 e specialmente quando Bismarck era al potere. Accetto
    quindi che gli accordi del 1887 si rivedano e si rendano più
    precisi; ma chiedo innanzi tutto che i firmatarii eseguano
    quanto avran pattuito.

    Il conte Nigra affermò che non bisogna dubitare che l’Austria
    possa avvicinarsi alla Russia, e n’è garentia il fatto che a
    Vienna il ministro degli affari esteri è un polacco. Ciò posto,
    dobbiamo ritenere che l’Austria è interessata a rispettare la
    nostra alleanza.

    Il ministro Blanc espose alcune sue osservazioni sulla condotta
    dell’Austria verso di noi. Conchiuse anche lui che gioverebbe al
    mantenimento della alleanza il rivedere gli accordi del 1887.

    Partito Blanc verso le ore 15 e 45, siamo rimasti, Nigra ed io,
    un’altra buona mezz’ora insieme.

    Il conte perorò la buona fede dell’Austria verso di noi.

    Ci rivedremo.

    _Diario — 22 gennaio._

    Il barone de Bülow giunge alle ore 18.

    Il barone cominciò col chiedere notizie dell’Africa,
    felicitandosi della condotta dei nostri soldati. Venendo poi
    alle cose di Europa, affermò che la Germania sarebbe stata
    sempre con noi. Su questo feci qualche osservazione.

    Dissi che dei beneficii dell’alleanza, io mi accorsi ai tempi di
    Bismarck, non dopo coi successori. Prima del 1890 appena una
    questione sorgeva, ne avvertivo Bismarck, ed egli, tanto in
    Londra, quanto a Parigi faceva sentire la sua parola e tutto
    andava pel meglio.⁴⁴ Della Triplice Alleanza noi soli abbiamo
    sentito il peso. Alle frontiere della Francia, nostra accanita
    nemica, noi abbiamo quotidianamente a provare fastidi d’ogni
    genere.

   ⁴⁴ Il ricordo dell’aiuto efficace dal principe di Bismarck dato alla
      politica italiana era per Crispi un argomento del quale i
      successori del gran Cancelliere non potevano non tener conto. E
      come qui sopra si legge se ne valeva.

      Il Principe non trovò mai nè esagerate, nè fastidiose le domande
      di Crispi, e l’animo suo sinceramente amico continuò a manifestare
      anche quando ebbe lasciato la direzione politica della Germania.
      Eccone qualche prova.

      In una lettera del 26 dicembre 1891 (Crispi non era più ministro)
      Bismarck gli scriveva:

      «Je vous prie d’agréer mes voeux chaleureux, pour vous et pour
      tout ce qui vous est cher, au début de la nouvelle année. Je
      serais enchanté si l’année, dont nous allons franchir le seuil, me
      pouvait fournir l’occasion de vous serrer la main et de vous
      répéter de vive voix tous mes remerciments pour le cadeau que vous
      m’avez fait des meilleurs produits de votre patrie ensoleillée....
      Croyez toujours, cher ami, à mes sentiments les plus dévoués et
      affectionnés, qui résultent de nos sympathies personnelles et
      politiques.

                                                    Tout à vous de coeur
                                                         _v. Bismarck_.»

                                       «Friedrichsruh, 31 dicembre 1895.

      Agréez, cher et illustre ami, au jour de l’an, mes voeux les plus
      sincères pour votre santé et pour vos succès politiques.

                                                         _v. Bismarck_.»

                                       «Friedrichsruh, 22 febbraio 1896.

      Très touché, cher ami, de ce que vous ne m’oubliez pas au milieu
      de vos graves occupations, je vous remercie cordialement de
      l’aimable envoi de votre vin excellent et vous prie d’agréer mes
      meilleurs voeux pour le succès de votre politique et pour la
      gloire de l’armée italienne.

                                                         _v. Bismarck_.»

    Il barone non potè negarmi che ai tempi di Bismarck le cose
    procedevano in miglior modo per noi. Soggiungeva però che il suo
    Governo si interessa delle cose d’Italia, e che noi l’avremmo al
    nostro fianco tutte le volte che ne sorgesse il bisogno.

    Parlammo delle cose di Oriente, e non volli lasciar passare
    l’occasione per dichiarargli che l’Europa, con le sue navi
    tenute inerti nelle acque della Turchia, ha dato prova della sua
    impotenza.

    Ritornati alle cose di Francia, ripetei che gran danno noi
    proviamo per gli odii di quella nazione e per le insidie di quel
    Governo.

    _Diario — 9 febbraio, ore 17._

    Sono andato dal barone de Bülow alle 5 pomeridiane. Lo scopo era
    di parlargli delle relazioni tra l’Italia e la Francia.

    Dissi all’ambasciatore tedesco:

    — Più di una volta ci son venuti consigli da Berlino perchè
    trovassimo modo di accordarci con la Francia in tutte le
    speciali quistioni che interessano i due paesi.

    Non ci siamo riusciti! Sono pochi giorni ancora, avendo mandato
    a Parigi un nostro funzionario, ci servimmo di questa occasione
    per esplorare l’animo del signor Bourgeois, il quale, come
    sapete, è il presidente dell’attuale Ministero francese. Questo
    funzionario parlò delle varie quistioni pendenti tra noi e la
    Francia, e disse che giammai come oggi potrebbe trovarsi un
    accordo fra i due Governi, essendo Crispi al potere.

    Il Bourgeois rispose a un dipresso nei seguenti termini:

    «Un accordo tra i due paesi non è possibile, finchè l’Italia fa
    parte della Triplice. Il popolo francese vi si ribellerebbe.
    Tutti qui tengono gli occhi rivolti alle provincie perdute, e
    sanno che l’Italia alleata della Germania è di ostacolo al
    ritorno delle medesime alla madre patria. Assicuratevi che
    finchè voi farete parte della Triplice non è possibile
    intenderci».

    Siccome vedete, caro barone, il signor Bourgeois fu molto
    esplicito e noi vediamo in tutto il contegno di lui verso di noi
    una asprezza tale che non lascia speranza di venire ad un
    accordo.

    La Francia ci fa la guerra dappertutto. In Europa ed in Africa
    noi ci troviamo il Governo francese di fronte in ogni occasione
    e sempre malevolo. Dicesi che la Triplice fu stipulata per
    mantenere la pace. Per noi è il contrario. La Triplice per noi è
    la guerra. In Italia siamo insidiati per mezzo del Vaticano, e
    fuori con tutti i mezzi che può adoperare una diplomazia astiosa
    e sottile. I nostri commerci sono interrotti, e nessun trattato
    è possibile, nè in Tunisia, nè tra Francia ed Italia.
    Sventuratamente la Francia è alle nostre frontiere, e non
    possiamo fare a meno di avere rapporti con essa.

    Ai tempi di Bismarck le cose erano meno difficili, perchè la
    parola del principe spesso si faceva sentire a Parigi.

    E tutto ciò avviene perchè ci s’imputa a colpa di far parte
    della Triplice. Vi prego scriverne al principe di Hohenlohe, e
    far giungere queste mie dichiarazioni all’Imperatore. È una
    posizione intollerabile la nostra. Ve lo ripeto, per noi questo
    stato di cose è peggiore della guerra.

    Il barone de Bülow parve impressionato delle mie parole e mi
    promise che ne avrebbe scritto a Berlino.

Crispi all’ambasciatore d’Italia a Berlino:

                                             «Roma, 9 febbraio 1896.

        _Signor Ambasciatore,_

    Parmi utile che Vostra Eccellenza abbia notizia di una
    conversazione da me avuta oggi stesso con questo ambasciatore di
    Germania.

    Ho creduto conveniente che il rappresentante di S. M.
    l’Imperatore Guglielmo in Roma fosse, al pari del rappresentante
    di S. M. il Re in Berlino, a perfetta conoscenza del pensiero
    del Governo italiano sulla situazione che ci è creata dalla
    ostilità della Francia e insieme dalla triplice alleanza. A
    conforto quindi di quanto già il barone Blanc aveva avuto
    occasione di esporre al signor de Bülow, ho richiamato sopra
    tale situazione l’attenzione del signor de Bülow stesso.

    Gli dissi che, desiderosi anche noi, come sempre, di evitare
    complicazioni e di consolidare la pace, avevamo completamente
    diviso il modo di vedere, espressoci replicatamente dal Governo
    germanico, circa alla convenienza di venire tra Francia ed
    Italia ad accordi sopra le speciali questioni riguardanti i due
    paesi. Il regio ambasciatore a Parigi aveva quindi ricevuto
    istruzione di cogliere — ed aveva colto infatti — tutte le
    occasioni per rendere noti al Governo francese i nostri
    intendimenti più concilianti. Così è che, approfittando delle
    espressioni di simpatia e quasi di solidarietà civile contro la
    barbarie, dirette al regio ambasciatore dal presidente del
    Consiglio, dal ministro degli affari esteri e dal Presidente
    della Repubblica Francese a proposito della nostra guerra
    d’Africa, il Conte Tornielli era stato autorizzato a lasciar
    comprendere, ancora una volta, il nostro desiderio di venire ad
    accordi concreti per tutte le questioni ancora insolute tra
    Francia ed Italia, come la delimitazione nell’Africa orientale,
    il regime commerciale e personale in Tunisia, ecc.

    Ancora una volta il Governo francese aveva mostrato a tutta
    prima di comprendere e di apprezzare il valore delle
    importantissime concessioni che noi ci chiarivamo disposti a
    fare; ma, ancora una volta, al momento di venire a qualche
    conclusione positiva, il Governo francese ne declinava ogni
    possibilità.

    Aggiunsi al signor de Bülow che, mentre il Governo italiano
    aveva fatto così quanto gli era ufficialmente possibile, per
    venire agli accordi che la stessa Germania aveva mostrato di
    desiderare, io non aveva voluto darmi per vinto; e,
    approfittando della circostanza che un mio alto ed egregio
    funzionario, godente insieme di tutta la mia fiducia e
    dell’amicizia personale del signor Bourgeois, da lui stesso
    altra volta presentatomi, si recava a Parigi incaricato di una
    missione tecnica, gli avevo detto che, vedendo il Presidente del
    Consiglio francese, ne approfittasse per fargli presente che il
    momento non avrebbe potuto essere più favorevole per risolvere,
    d’accordo col Governo italiano, ogni questione irritante; che
    egli sapeva essere il Governo italiano in ottime disposizioni
    per ciò, mentre, d’altro lato, il paese avrebbe accettato, a
    questo proposito, da un Ministero da me presieduto, anche ciò
    che con altri Ministeri gli sarebbe sembrato costituire un atto
    di debolezza.

    Ora, la risposta del signor Bourgeois era stata questa:

    «Sentite, gli animi di tutti i Francesi sono sempre volti alle
    Provincie perdute, e nulla, checchè avvenga, varrà mai a
    distornerli; nessuno accetterà mai la separazione dell’Alsazia e
    Lorena dalla Francia come un fatto definitivo ed irrimediabile;
    a quella separazione tutti i Francesi riferiranno sempre le
    altre questioni; non vi potrà dunque essere mai accordo alcuno
    tra noi e l’Italia, finchè questa, essendo alleata della
    Germania, contribuirà a quella separazione».

    Il signor de Bülow parve molto impressionato da ciò che io gli
    esponeva. Gli feci allora considerare come tutti gli sforzi
    nostri per la consolidazione della pace s’infrangessero contro
    una volontà che è stata ed è in Francia comune a tutti i
    ministri e a tutti i gabinetti; che fatti e dichiarazioni
    l’hanno patentemente chiarito; e come quella volontà annullasse
    per noi quei benefici della pace che ci dovevano essere
    garantiti dalla triplice alleanza, poichè, per la triplice
    appunto, la Francia si credeva in diritto di considerarsi di
    fatto in guerra con noi e ce lo dimostrava in ogni questione,
    col maggiore nostro danno; quanto è avvenuto e quanto avviene
    ora in Abissinia non ne era che un esempio.

    Ricordai a questo proposito al signor de Bülow che, mentre era
    cancelliere dell’Impero il principe di Bismarck, quando i
    rapporti franco-italiani minacciavano di peggiorare vieppiù per
    le intolleranze, la indebita ingerenza e l’ostilità della
    Francia, il Governo germanico non esitava a far comprendere a
    Parigi che non si doveva passare il segno; e a Parigi lo si
    comprendeva. Così avevano potuto risolversi pacificamente,
    secondo il diritto e la convenienza internazionale, incidenti
    come quelli dei Greci di Massaua, del consolato francese di
    Firenze, della spedizione Atchinoff, delle istituzioni italiane
    in Tunisia, ecc. Il Governo francese aveva allora dovuto
    persuadersi che l’alleanza italo-germanica era un patto efficace
    non solo pel caso di guerra, ma per prevenire la guerra,
    garantendo anche in tempo di pace alle potenze alleate la difesa
    reciproca dei rispettivi interessi.

    Ora, aggiunsi, sembra che la Francia siasi formata della
    triplice e specialmente dell’alleanza italo-germanica un
    concetto tutto diverso: un concetto, cioè, per cui la Francia
    potrebbe offendere impunemente l’Italia, perchè alleata della
    Germania, sicura, d’altro lato, che la Germania non le
    opporrebbe ostacolo di sorta.

    Quindi, io conclusi, desideravo che il signor de Bülow facesse
    presente tutto questo a S. M. l’Imperatore e a S. A. il
    cancelliere, avendo io la fiducia che tutto ciò sarebbe tenuto
    da essi in amichevole considerazione.

    Queste mie dichiarazioni mi parvero tanto più opportune, visto
    che ci avviciniamo al mese di maggio, all’epoca, cioè, in cui si
    dovrà da una parte e dall’altra decidere sulla opportunità di
    confermare o meno, puramente e semplicemente, il trattato di
    alleanza.

    Del linguaggio da me tenuto al signor de Bülow Vostra Eccellenza
    potrà mostrarsi edotta presso codesto Governo.

                                                          _Crispi._»

I negoziati intavolati a Londra per stabilire un’intesa concreta negli
affari di Oriente e nel Mediterraneo tra l’Italia, l’Austria-Ungheria o
l’Inghilterra, erano paralleli alle rimostranze che Crispi faceva alla
Germania. Se i primi fossero riusciti, le seconde sarebbero divenute
meno urgenti e perentorie, poichè l’Italia avrebbe trovato nella
solidarietà inglese una garenzia degli interessi ai quali era estranea
la triplice alleanza. In verità, la Cancelleria germanica esercitò tutta
la sua abilità per indurre lord Salisbury a ritornare alla politica
anteriore al 1891; l’ambasciatore Hatzfeldt in quei giorni era
continuamente al _Foreign-Office_, ma v’incontrava sempre il signor de
Courcel, ambasciatore francese. L’esito del duello tra la triplice e la
duplice franco-russa fu favorevole a quest’ultima: lord Salisbury
confermò il mutamento della politica estera britannica. Il 10 febbraio,
infatti, il conte Nigra telegrafava:

    «Goluchowski mi ha detto essere stato informato da Deym che
    Salisbury gli ha dichiarato lealmente che non poteva assumere
    coll’Austria-Ungheria e coll’Italia nessun impegno più preciso
    di quello del 1887».

Il che voleva dire che non s’intendeva dare pratico seguito a
quell’impegno, dimostratosi inefficace quando sopraggiunse la cattiva
volontà, e solo per cortesia si esprimeva una platonica intenzione di
procedere d’accordo, la quale non escludeva ogni dissenso.

Non rimaneva al governo italiano che rivolgersi agli alleati. Ma in
Germania si era poco ben disposti a considerare la difficile posizione
dell’Italia; anzi il vecchio e stanco principe di Hohenlohe⁴⁵ si
mostrava allarmato delle esigenze di Crispi. Da Berlino si scriveva:

   ⁴⁵ A titolo d’onore per Crispi citiamo le seguenti parole del Diario
      del principe di Hohenlohe:

      «Le Ministère Crispi, inquiète aussi bien Caprivi que Marschall et
      Holstein, parce qu’on ne peut prévoir ce dont cet homme agité est
      capable; à cela s’ajoute qu’il a choisi une tête chaude comme
      Blanc pour ministre des Affaires étrangères. Pour le moment, il
      s’agit d’envoyer à Rome un ambassadeur habile, et Holstein me
      paraît très sensé en songeant a Bernard Bülow pour ce poste.»
      (Cfr. _Mémoires du prince Clovis de Hohenlohe_, volume III.)

    «Il timore che si ha qui che noi cerchiamo di forzar la mano
    alla Germania, contribuisce certo a rendere il Governo Imperiale
    più restìo a parlar alto a Parigi a tutela dei nostri interessi.
    Io mi sono astenuto dal parlar di _diritti_ nostri e di doveri
    della Germania nello stretto senso della parola, ma non ho
    tralasciato d’insistere sul fatto che tutte le difficoltà che
    incontriamo a Parigi, tutte quelle che ci vengono create in
    Abissinia, dipendono dall’essere noi membri della Triplice
    Alleanza e il solo fra quei membri sul quale i nemici di essa
    possano sfogare le loro ire. Il barone Marschall, che di ciò
    conviene meco pienamente, si dimostra anche disposto ad
    assisterci; ma come farlo efficacemente senza andar incontro a
    pericoli, a danni maggiori e d’ordine generale? A Pietroburgo
    gli ordini dati al Principe Radolin, le recenti dichiarazioni
    stesse del Principe Lobanoff circa il Leontieff, non lasciano
    dubbio che quel rappresentante germanico agisce, con prudenza ed
    energia, in nostro favore, d’accordo col conte Maffei. Ma più
    che a Pietroburgo noi vorremmo, noi avremmo bisogno che la
    parola autorevole della Germania si facesse sentire sulla Senna
    e qui cominciano le _dolenti note_. Ho avuto lunghe e ripetute
    conversazioni col barone Marschall e col barone Holstein in
    tutti questi ultimi giorni; essi hanno studiato, con amichevole
    premura devo dirlo, la questione sotto tutti i rapporti, ma la
    risposta che mi si fa è sempre la stessa: «A Parigi non si
    ignorano le simpatie della Germania per l’Italia, si sa
    benissimo che la Francia non potrebbe attaccar l’Italia senza
    che la Germania accorra in sua difesa; ma intervenire ora, _fare
    pressioni_ sulla Francia in questioni come quelle delle
    trattative per le delimitazioni in Africa, per le relazioni
    commerciali in Tunisi, senza la certezza che quell’intervento
    sorta immediato effetto favorevole, la Germania non può. In
    altri tempi, come quelli cui allude S. E. Crispi, in cui
    esisteva in Germania una forte corrente per la guerra, e la
    Francia non era forte come oggi, nè resa più baldanzosa dallo
    appoggio della Russia, poteva la Germania permettersi di _tenir
    le verbe haut_. Esporsi ora ad un rifiuto o ad una semplice _fin
    de non recevoir_ per parte della Francia, la Germania non può; e
    non deve, senza essere esposta a subirne le conseguenze e
    rompere _en visière_ col Governo della Repubblica. Il Presidente
    del Consiglio italiano e il barone Blanc, concludeva il barone
    Marschall, da veri uomini di Stato, devono comprendere quanto
    sia delicata la posizione della Germania verso la Francia e come
    un nulla possa turbare le nostre relazioni con essa e provocare
    complicazioni che è anche interesse dell’Italia di evitare.

Alle obiezioni, delle quali si faceva organo l’ambasciatore Lanza,
rispondeva Crispi:

    «Il barone Blanc mi comunica la di Lei lettera del 23 corr.
    nella quale è fatto cenno della mia del giorno 9....

    Noi possiamo comprendere la delicatezza della posizione che la
    Germania deve considerare di fronte alla Francia, nella attuale
    condizione di cose internazionali; il fatto che non esiste più
    in Germania una forte corrente per la guerra, che la Francia è
    oggi più forte di un tempo e resa più baldanzosa dall’appoggio
    della Russia, non ci pare dispensi la Germania dal dover
    considerare il danno che alla forza ed alla autorità della
    triplice alleanza deriva da tutto ciò che viene a colpire
    l’Italia, ad onta della triplice stessa, e può ben dirsi pel
    fatto della sua esistenza.

    Non ho d’uopo di ripeterle che, in realtà, le difficoltà contro
    cui dobbiamo ora combattere ci derivano in gran parte dai
    vincoli che ci uniscono alla Germania; e se non è pensier nostro
    pretendere dalla lettera e dallo spirito del trattato di
    alleanza conseguenze che a Berlino possano sembrare eccessive,
    non è men vero che noi dobbiamo chiederci ora più che mai se ed
    in qual grado e modo tuteli i nostri interessi un trattato che
    ha bensì lo scopo principale di prevenire ed impedire la guerra
    in Europa, ma che non si dovrebbe veramente poter considerare
    come estraneo a ciò che, in forma più o meno larvata, equivalga
    ad una guerra mossa fuori di Europa all’una o all’altra delle
    potenze alleate.

    A Parigi — le si è detto dal barone Marschall e dal barone
    Holstein — non si ignorano le simpatie della Germania per
    l’Italia, si sa benissimo che la Francia non potrebbe attaccare
    l’Italia senza che la Germania accorra in sua difesa. Ma il
    fatto certo è che questi attacchi della Francia non sono più una
    ipotesi da considerarsi per un incerto futuro, sono un fatto
    ormai esistente, che mira, non solo a combattere l’Italia in
    Africa, ma ad indebolirla in Europa.

    Non comprendo come possa ritenersi a Berlino che ciò sia in
    realtà destinato a rimanere senza influenza su quella situazione
    internazionale che ha la sua base principale per la Germania
    stessa nella potenza della triplice, poichè indirettamente i due
    imperi non possono non risentirsi di ciò che tocca la forza
    dell’Italia; come l’Italia si risentirebbe di ciò che in Europa
    o fuori d’Europa toccasse alla forza della Germania e
    dell’Austria-Ungheria. Comunque, se a Berlino si è risoluti a
    non escire assolutamente da quella riserva che induce la Francia
    a ritenere di poter considerare l’Italia come isolata, è ben
    naturale che da noi si consideri il trattato di alleanza nei
    suoi rapporti, non più soltanto di una conflagrazione generale,
    ma benanche della situazione speciale che esso produce fra
    Italia e Francia isolatamente.

    E poichè s’avvicina il momento in cui una decisione sul patto
    che le unisce può esser presa dalle tre potenze alleate, ho
    voluto richiamare sul grave argomento tutta l’attenzione di V.
    E. perchè Ella ne prendesse norma nel suo linguaggio presso
    codesto Governo e anche presso S. M. l’Imperatore.

    Ella mi si dichiara profondamente convinto dell’importanza e
    dell’utilità del trattato, anzi, della sua necessità, malgrado
    gl’inconvenienti che possa avere. Su ciò le ho espresso già in
    parte il mio pensiero, e mi riservo di scrivere ancora all’E. V.

    Un trattato di alleanza, sia pure concluso allo scopo d’impedire
    la guerra, perde gran parte del suo valore quando si dimostra
    nella pace inetto a tutelare gl’interessi dei contrattanti.
    Senza dire che nella mente dell’Italia e degli Italiani, oltre e
    più che di un patto scritto e limitato a certe date evenienze,
    si tratta di una solidarietà morale e politica, che, trovando la
    sua ragione nella storia, nella geografia, nella logica
    internazionale, ha fatto sì che quel patto non avesse quasi
    oppositori, mentre se tale solidarietà venisse a mancare per
    parte della Germania, il giudizio sulla convenienza di quel
    patto verrebbe certo a modificarsi in molta parte del popolo
    nostro.

    Ora, non può ignorarsi a Berlino la forza che oggi deriva ai
    patti diplomatici dal suffragio delle masse; tanto più quando
    quei patti implicano la reciproca fratellanza delle armi e del
    sangue. Le alleanze hanno infatti oggi tanto maggiore efficacia,
    quanto più sono popolari, e non possono essere popolari se non
    si dimostrano utili.

    Il popolo italiano non è ancora disilluso dell’alleanza con la
    Germania; ma chi può assicurare che non lo sarà domani, così
    seguitando le cose? E se il Governo italiano venisse dalle
    circostanze chiamato all’adempimento dei suoi impegni verso la
    Germania, quando l’alleanza fosse divenuta impopolare, certo
    esso non mancherebbe ai suoi doveri internazionali, qualunque
    fossero gli uomini al potere; ma esso si sentirebbe ben debole
    di fronte al suo stesso paese, e lo sarebbe per conseguenza
    anche di fronte al suo alleato.

    Non posso quindi a meno d’insistere sopra la gravità di uno
    stato di cose che si fa per noi sempre meno tollerabile, poichè
    facendoci subire in una pace formale i danni di una guerra a cui
    l’alleanza non provvede, senza gli eventuali vantaggi che in una
    guerra dichiarata l’alleanza dovrebbe assicurarci, rende incerta
    e mal sicura la base stessa della nostra posizione
    internazionale».

Il problema era posto in tali termini che l’Imperatore stesso sentì
l’opportunità di studiarlo per cercare una soluzione. E poichè aveva
grande stima di Crispi, decise di venire in Italia per conferire con
lui:

                                         «Berlino, 29 febbraio 1896.

    «S. M. l’Imperatore venne oggi casa mia per pregarmi far
    conoscere al Re suo vivo desiderio incontrarsi con lui
    profittando occasione per far prima un viaggio in mare coste
    italiane che i medici giudicano necessario per salute
    Imperatrice. S. M. l’Imperatore avrebbe quindi progettato
    giungere con S. M. l’Imperatrice a Genova nel più stretto
    incognito ed imbarcarsi subito colà nel suo _yacht_. Da Genova
    andrebbe a Napoli a visitare fratello, quindi coste Sicilia e di
    là a Venezia. A Venezia potrebbe essere non più incognito e aver
    luogo, se S. M. il Re consente, ricevimento e incontro
    ufficiale.

                                                           _Lanza_.»

Disgraziatamente, tre giorni dopo Francesco Crispi era obbligato ad
abbandonare il Governo.

Scomparso il ministero Crispi per una battaglia perduta in Africa, cadde
nel nulla anche il suo programma di politica estera. I patti della
Triplice alleanza non furono modificati secondo la nuova situazione
internazionale, e i ministeri italiani che seguirono si abbandonarono a
quella politica di concessioni e di compensazioni che fruttò soltanto
sospetti, danni e nessun vantaggio. Vennero le convenzioni
franco-italiane per la Tunisia del 28 settembre 1896, le quali non
garentirono i nostri interessi economici e morali, e la convenzione
marittima del 1.º ottobre, che giovò soltanto alla marina mercantile
della Francia; venne «la pace commerciale», del 21 novembre 1898, che fu
difesa con la «ragione politica» e che in realtà fece riprendere al
commercio francese parte del terreno perduto, e ben poco giovò al
commercio italiano. Poi, il primo viaggio all’estero del nuovo Re
d’Italia, dopo la tragedia di Monza, ebbe per méta Pietroburgo e non
Berlino. Poi, ancora, l’Italia accettò l’egemonia francese al Marocco,
in cambio di una ipotetica libertà d’azione in Libia, col conseguenziale
contegno ad Algesiras, favorevole alla Francia, nel conflitto sollevato
dalla Germania.

Il principe di Bülow parlò a proposito della condotta della nostra
diplomazia alla Conferenza di Algesiras, dei _tours de walzer_
dell’Italia. Ma la sua ironia non fu equa. I _tours de walzer_ erano
stati consigliati dalla Germania, siccome abbiamo documentato, per
sottrarsi al ballo essa medesima. E dettero quella garenzia che potevano
dare agl’interessi dell’Italia nel Mediterraneo.


                                 FINE.



            INDICE ALFABETICO _dei nomi citati nel volume._


Abdul-Hamid, sultano turco, 250.
Accinni, ammiraglio italiano, 252.
Adamoli Giulio, sotto segretario di Stato, 191.
Alberto, arciduca d’Austria, 274.
Allegro, generale tunisino, 19, 21, 22.
Andrássy conte Giulio, cancelliere dell’impero austro-ungarico, 97.
Antongini, 135.
Aosta (duca d’) Emanuele Filiberto, 274.
Atchinoff, ufficiale dei cosacchi, 285.
Avarna, duca, incaricato d’affari italiano a Vienna, 115, 228.

_Banca Commerciale Italiana_, 185, 188.
Barsanti Pietro, 135.
Barth, viaggiatore tedesco, 24.
Barzilai Salvatore, 108.
Bassiri, notabile di Gadames, 27.
Bettólo Giovanni, capitano di vascello, 253.
Bianchi Giulio, deputato italiano, 123.
Billot Alberto, ambasciatore di Francia a Roma, 54, 66, 154, 160, 174.
Bismarck (di) principe Ottone, cancelliere dell’impero germanico, 3, 9,
155, 178, 214, 219, 225, 235, 236, 237, 279, 281, 283.
Blanc barone Alberto, ambasciatore d’Italia e ministro degli affari
esteri, 20, 160, 162, 258, 268, 270, 280, 288.
Bleichroeder S., banchiere tedesco, 181, 183, 188.
Boito Arrigo, musicista, 173.
Bonghi Ruggero, deputato italiano, 123, 125, 171.
Boris, principe ereditario di Bulgaria, 231.
Bourgeois Leone, presidente del Consiglio dei ministri di Francia, 282,
285.
Bovio Giovanni, deputato italiano, 107.
Bruck (barone de), ambasciatore di Austria-Ungheria a Roma, 11, 14, 15,
112, 142, 268, 269.
Bulgaris Leonida A., 232, 234.
Bülow conte Bernardo, ambasciatore germanico a Roma, 145, 146, 175, 281,
286, 292.
Burdeau, ministro francese, 167.

Caetani Onorato duca di Sermoneta, ministro italiano degli affari
esteri, 65.
Calice, ambasciatore austro-ungarico a Costantinopoli, 263, 264, 267.
Cambon, residente francese a Tunisi, 19, 24, 58.
Cambridge (duca di), 162.
Cantoni C., direttore generale del Tesoro, 181.
Caprivi (di) conte Leone, cancelliere dell’impero germanico, 3, 15, 17,
81, 85, 268, 272.
Caporali Enrico, 110.
Cariati (di), incaricato d’affari, 192.
Carlo, re di Portogallo, 191, 194.
Carvalho e Vasconcellos, ministro del Portogallo, 191, 199.
Caserio, 165.
Casimir-Périer, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica
francese, 86, 164, 166.
Catalani Tommaso, ambasciatore italiano a Costantinopoli, 246, 247.
Cavalletto Alberto, deputato italiano, 102.
Cavallotti Felice, deputato, 7, 8, 102, 105, 109, 174.
Codronchi conte Giovanni, prefetto, 109.
Collobiano, ambasciatore d’Italia a Costantinopoli, 55.
Coyne, ufficiale francese, 24.
Courcel (de), ambasciatore francese a Londra, 286.
Currie, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 51, 252.

Dal Verme Luchino, generale, 28, 85.
_Dante Alighieri_, Società italiana, 120.
Delcassé, ministro francese degli affari esteri, 56.
Derby (lord), ministro britannico degli affari esteri, 237.
Desmarest, avvocato francese, 54.
Destrées, console francese a Tripoli, 19, 20, 21, 28.
Dordi dottor Carlo, 120.
Dufferin e Ava (lord), ambasciatore inglese, 170, 172.
Dupuy, presidente del Consiglio in Francia, 165.
Durando, console italiano, 102.

Elena Petrovich, principessa montenegrina, 240.
Elisabetta, imperatrice d’Austria-Ungheria, 141.
Essad-pascià, ambasciatore di Turchia a Parigi, 20.
Eulenburg (conte di), presidente del Ministero prussiano, 272.

Fanti, 239.
Faure Fernando, deputato francese, 24.
Feder, avvocato, 137.
Féraud, console francese a Tripoli, 19, 27.
Ferdinando di Coburgo, principe di Bulgaria, 219, 231.
Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 111, 112, 141, 216.
Fratti Antonio, 107.
_Fremdenblatt_, giornale austriaco, 111, 142.

Galimberti, nunzio del Papa, 139.
Gambetta Leone, 155.
Garibaldi Giuseppe, 95.
Garrit Mohammed, visir marocchino, 67.
Gervais, ammiraglio francese, 88.
Gladstone Guglielmo, 244, 275.
Giers, cancelliere dell’impero di Russia, 160, 221.
Giolitti Giovanni, ministro del tesoro, 181.
Girardin (de) Emilio, giornalista francese, 155.
Goggia, generale italiano, 168.
Goltz (de), incaricato d’affari di Germania, 182.
Goluchowski, cancelliere austro-ungarico, 252.
Grey sir Edward, ministro britannico degli affari esteri, 56.
Grillo Giacomo, direttore della Banca Nazionale, 181, 184.
Guglielmo II, imperatore di Germania, 146, 204, 271, 274, 276, 291.

Hanotaux Gabriele, ministro francese degli affari esteri, 56, 69, 88,
165, 172.
Hatzfeldt, conte, ambasciatore di Germania a Londra, 52, 286.
Hohenlohe (de) principe Clodoveo, cancelliere dell’impero germanico,
273, 287.
Holstein (barone de), funzionario superiore della Cancelleria germanica,
287, 288.

Kálnoky (conte di) cancelliere dell’impero austro-ungarico, 11, 14, 15,
85, 106, 111, 113, 142, 143, 147, 227, 236, 264, 268, 274.
Karamanli, principe di Tripoli, 24.
Kiamil-pascià, ministro turco, 250, 251.
Kimberley, lord, ministro britannico degli affari esteri, 55, 275.
Krüger, presidente della repubblica del Transvaal, 276.

Imbriani Matteo, 102, 107, 109, 110.

Jaille (de la), ammiraglio francese, 88.
Jamais, generale francese, 18.
_Jornal do Commercio_, 195, 200.

Lamarmora Alfonso, generale, 95.
Lanza, generale, ambasciatore italiano a Berlino, 144, 185, 274.
Launay (de) conte, ambasciatore d’Italia a Berlino, 5, 6, 51, 73, 115,
117, 179.
Lavallette, giornalista francese, 153.
_Lega Nazionale_, società italiana d’Austria, 138.
Lega Paolo, 143.
Lobanoff, ambasciatore russo a Berlino, 287.
Logerot, generale francese, 18.

Macchiavelli, console italiano, 84.
Mac-Mahon, maresciallo di Francia, 27.
Maffei, marchese, ministro e ambasciatore d’Italia, 19, 162, 287.
Magliani Agostino, ministro del tesoro, 178.
Maistre (de), viaggiatore francese, 58.
Malmusi, console italiano, 133.
Mancini P. S., ministro italiano, 269.
Marchand, capitano francese, 56.
Mariani, ambasciatore di Francia a Roma, 152, 153, 154.
Marschall di Biberstein, ministro germanico degli affari esteri, 41, 73,
203, 274, 276, 287, 288.
Martini Ferdinando, deputato italiano, 143.
Martini Sebastiano, viaggiatore italiano, 55.
Méline, deputato francese, 168.
Menabrea L. F., generale, ambasciatore d’Italia a Parigi, 38, 46, 52,
53, 73, 153, 183.
Millelire, console italiano, 239.
Missori Giuseppe, 135.
Montebello (conte di), ambasciatore francese a Costantinopoli, 262, 267.
Moüy (conte de) Carlo, ambasciatore di Francia a Roma, 151, 152.
Mulei Abd-el-Aziz, imperatore del Marocco, 67.
Mulei Hassan, imperatore del Marocco, 67.
Münster (conte di), ambasciatore di Germania a Parigi, 51, 52, 171.

_Narodni List_, giornale slavo, 119.
Nelidow, ambasciatore russo a Costantinopoli, 246, 267.
Nigra conte Costantino, ambasciatore d’Italia a Vienna, 11, 15, 85, 105,
106, 119, 128, 130, 141, 143, 148, 162, 164, 236, 280, 286.

Oberdan Guglielmo, 135.
Orlando (fratelli), proprietari del cantiere navale di Livorno, 67.

Pasetti, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 278, 280.
Pelletan Camillo, ministro francese della marina, 88.
Pervinquière Leone, scrittore francese, 70.
Philibert, generale francese, 18.
Piccoli, notaio, 102.
Pichon Stefano, deputato francese, 52, 53, 54.
Pinon R., scrittore francese, 69.
Pinto de Soveral, ministro portoghese degli affari esteri, 193, 197.
Ponza di S. Martino, colonnello, 42.
Ponzio-Vaglia generale, primo aiutante del Re, 193.
_Pro-Patria_, società italiana d’Austria, 119.

Radolin, principe, ambasciatore di Germania a Pietroburgo, 287.
Radowitz, ambasciatore germanico a Costantinopoli, 260, 261, 263, 267.
Rattazzi Urbano, ministro della R. Casa, 8, 159.
Ressman Costantino, ambasciatore d’Italia a Parigi, 86, 154, 166, 173,
175.
Reuss (principe di), ambasciatore di Germania a Vienna, 11.
Ribot, ministro degli affari esteri di Francia, 38, 39, 46, 49, 51, 52,
53, 54, 72, 73, 75, 154, 155, 159, 261.
Ricordi, editore di musica, 173.
Robilant (conte di) C., ministro degli affari esteri, 269.
Rosebery (lord), ministro britannico, 275.
Roustan, console francese, 64.
Rouvier Maurizio, deputato francese, 164, 168.
Rudinì marchese Antonio, presidente del Consiglio e ministro italiano
degli affari esteri, 64, 65, 81, 84, 89, 159, 160, 199.

Sadi-Carnot, presidente della Repubblica francese, 165.
Said-pascià, ministro degli affari esteri di Turchia, 20, 39, 72, 225,
246.
Salisbury (lord), primo ministro d’Inghilterra, 18, 35, 38, 39, 52, 74,
81, 84, 85, 204, 216, 222, 236, 248, 253, 261, 262, 279, 286.
Say Leone, deputato francese, 164.
Schwabach, 185.
Seismit-Doda Federico, ministro delle finanze, 137.
Seymour, ammiraglio britannico, 253.
Solimbergo Giuseppe, deputato italiano, 125.
Solms (di) conte, ambasciatore di Germania a Roma, 6, 179, 183, 268.
Spuller E., ministro francese degli affari esteri, 152, 153, 155.
Stambuloff, presidente dei ministri di Bulgaria, 221, 226, 229.

Taaffe, conte, ministro austriaco, 115, 123, 128, 131.
Tachard, 216.
Tetuan (duca di), ministro degli affari esteri di Spagna, 9, 68.
Thomas Ambrogio, musicista francese, 173.
Tornielli conte Giuseppe, ambasciatore d’Italia, 38, 55, 64, 72, 175,
271, 284.
Tricupis, uomo politico greco, 263.

Ulmann, giornalista italiano, 105, 119.
Umberto I, re d’Italia, 84, 136, 157, 158, 159, 160, 193, 214, 240, 253,
271.
Uxkull, ambasciatore russo a Roma, 221, 228.

Vega de Armijo, duca, ministro degli affari esteri di Spagna, 9.
Verdi Giuseppe, 169, 173.
Visconti-Venosta marchese Emilio, ministro italiano degli affari esteri,
64, 65, 66, 89, 97.
Vittorio Emanuele, principe ereditario d’Italia, 240.

Waddington, ambasciatore di Francia a Londra, 35, 44, 72, 74, 84.
Weil Federico, 186.
White, ambasciatore britannico a Costantinopoli, 260, 261, 262, 264,
266.
Wimpffen, ambasciatore austro-ungarico a Roma, 97.

Zechi-pascià, generale turco, 247.
Zia-bey, ambasciatore di Turchia a Roma, 41.


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