Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Villa Glori - Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867
Author: Ferrari, Pio Vittorio, Cairoli, Giovanni
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Villa Glori - Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867" ***


              BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
          pubblicata da T. CASINI e V. FIORINI — Serie II — N. 4


                        PIO VITTORIO FERRARI


                            VILLA GLORI

                        ricordi ed aneddoti
                         dell'autunno 1867

                   con prefazione di ETTORE SOCCI

                        SEGUONO IN APPENDICE

             “GIORNALETTO DI CAMPO„ ED ALTRE NOTE E RICORDI
                              SCRITTI
                NELL'OSPEDALE E NELLE CARCERI DI ROMA

                                DA

                          GIOVANNI CAIROLI


                                       . . . Oh come grato occorre
                                       . . . . . . . . . . . . . .
                                       Il rimembrar delle passate cose
                                       Ancor che tristi!

                                                         LEOPARDI.


                               ROMA
                  SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

                              1899.

                              ————

                       Proprietà letteraria
               della Società Editrice Dante Alighieri

                  Roma — Tipografia Elzeviriana.



                     ALLA MIA VENERATA MAMMA

                        CONFORTO E SVAGO

                      NELLA SUA TARDA ETÀ

                      QUESTA BREVE PAGINA

                         DELLA MIA VITA



PREFAZIONE.


Tra tutte le campagne di Garibaldi quella del 1867, nell'Agro Romano, è,
senza dubbio, la più bizzarra e la più singolare.

Chi ebbe la fortuna di far parte, in quel tempo, del microscopico
esercito condotto dal gran capitano, rammenta, anche oggi, a mente
fredda, come una delle più fantastiche e sorridenti visioni, quella
baraonda di gente, capitata da ogni parte d'Italia e trascinata da un
solo pensiero: Andare a Roma a ogni costo; rifarsi delle busse toccate,
l'anno prima, dall'Austria e farla finita col potere temporale.

Erano quasi tutti col vestito che portavano in città e quindi, in meno
di quello che si dice, riusciva più facile prenderli per straccioni che
per cavalieri di un ideale. I fucili poteano dirsi fratelli gemelli di
quelli della guardia civica del 1848, forse erano gli stessi, e, quando
si arrivava a poterli scaricare potea dirsi un vero prodigio. Le scarpe
ridevano da tutte le parti. Qualche camicia rossa la si vedeva, e si
vedeva anche qualche gallone dorato o inargentato, ma tutto insieme era
uno strano miscuglio di soprabiti e di giacchette, di giubbe e di
cacciatore, di pioppini, di papaline e di cappelli alla calabrese.
Stefano Canzio fece tutta la campagna in tuba, ed a Mentana, in mezzo
all'infuriare delle palle, appariva più bello del vero, sotto quella
copertura così aristocratica!

Un capo armonico comprò da un chierichetto spiantato il suo zimarrone e
si battè fino all'ultimo, con quell'indumento sacerdotale...

Oh, le belle serate di Terni che preludiarono le marcie faticose, i
forzati digiuni, i sacri entusiasmi delle battaglie, le serene
soddisfazioni dei sacrifizi, incontrati sorridendo... tanto era la fede
che fioriva nel cuore!

Nei gruppi sussurroni dei giovinotti che facevano della strategia a buon
mercato e trinciavano di politica a tutto pasto, incrociavansi tutti i
dialetti, confondevansi tutti i vernacoli, apparivano grandiose le
bestemmie di tutte le regioni italiche. La bestemmia è l'abituale
interpunzione del soldato, specie se è in faccia al nemico!

Gli arruolamenti si facevano sui tavolini dei caffè: qualche foreria era
in una bettola e qualche stato maggiore in una locanda.

Il governo chiudeva gli occhi: i ragazzi, la sera, alla ritirata
accompagnavano i soldati cantando a squarciagola:

    Anderemo a Roma santa
    A dispetto dei francesi.

Gli ufficiali ci guardavano con invidia. Poveri figlioli! Avrebbero
dovuto trattenerci e avevano una voglia matta di venir via insieme con
noi!

Menotti Garibaldi, dopo aver sconfinato alla Farfa, erasi misurato coi
papalini a Monte Libretti, dove, Achille Fazzari, pugnando come un
leone, ebbe morto, crivellato da 17 palle, il cavallo e riportò grave
ferita alla gamba. Acerbi avanzavasi nel viterbese: Nicotera aveva già
occupato Ceprano.

I fratelli Cairoli, doveano in Roma prestar mano a Francesco Cucchi,
designato capo dell'insurrezione. Le cose andavano per le lunghe: il
comitato nazionale tradiva; i cospiratori perdevansi in infeconde
organizzazioni e in preparativi sballati; i vecchi non avevano fede, i
giovani migliori, disdegnosi della tirannide papale aveano, da gran
tempo, presa la via dell'esilio e, in quell'ora, si trovavano già al
loro posto nelle file dei garibaldini. Quando la verità verrà a galla
sarà una gran brutta pagina per certi messeri quella dell'abortita
rivoluzione del 1867.

Enrico Cairoli, assetato d'azione, rifuggente da ogni indugio, molestato
dalla polizia e per breve tempo arrestato, stanco oramai dall'attendere
e smanioso di pericolo, un bel giorno lasciò l'eterna città e se ne
venne a Terni ove adunò intorno a sè il glorioso manipolo che ha reso
eterno nel cuore degli italiani il ricordo di Villa Glori.

I settanta hanno oggi l'onore di appartenere alla leggenda.

Pio Vittorio Ferrari fu del bel numero uno e, dopo trentadue anni,
pubblica oggi questo volumetto, nel quale narra minutamente gli episodi
giornalieri dell'eroica spedizione.

Anche Pio Ferrari trovavasi a Roma, quando vi era il Cairoli, quando, di
momento in momento, dovea scoppiare la rivoluzione e, disilluso anche
lui, piantò l'assonnata città per andare con Garibaldi.

La narrazione dell'imberbe giovinetto, scappato, si può dire, dalle
sottane della mamma che amava, riamato, dell'affetto più intenso e
sbalestrato in un mondo che ei non aveva mai potuto intravedere,
improvvisato soldato e cospiratore incosciente, è quanto di più semplice
possa mai immaginarsi.

Il pregio maggiore di queste memorie alla casalinga è proprio quello di
non contenere alcun artifizio e di esser prive addirittura di qualunque
fronzolo o ciarpame rettorico. Il vero vi si rispecchia in ogni
frase, in ogni periodo. L'autore non ha la pretesa di fare un'opera
d'arte: egli racconta alla buona le peripezie che, lungo le marcie,
durante il breve combattimento, nel quale egli fu tra i primi
ferito, e nel lungo soggiorno dell'ospedale — a San Spirito e poi a
Sant'Onofrio — accompagnarono un breve periodo della sua vita, del quale
può andare giustamente orgoglioso.

Uno dei difetti più facili a incontrarsi nelle pubblicazioni che
riferisconsi a imprese guerresche e sono narrate in prima persona è
quello di sgusciar, non volendo, nel _Miles gloriosus_ di Plauto. Il
Ferrari questo difetto non l'ha davvero: anzi, allorchè parla di azione,
di eroismi, di pugna ei si ritrae, come una sensitiva, e pare voglia
nascondersi...

Nulla però è più efficace della verità; e le scene dei cospiratori in
via dei Quattro Cantoni, e il via-vai dei monsignori che vogliono
convertire i garibaldini nell'ospedale sono bozzetti addirittura
geniali.

Della campagna del 1867 non è stata scritta finora una storia esatta;
importanti lavori ne furono pubblicati e non pochi. Basti il citare _Da
Terni a Mentana_ del Guerzoni e gli stupendi sonetti, in dialetto
romanesco, di Cesare Pascarella, così cari al Carducci, e così efficaci
nel ritrarre i particolari più salienti della spedizione dei settanta.
Tutti però si sono limitati a dettare memorie personali o ad illustrare
fatti isolati. Molti furono i canti, manca insomma il poema.

Sull'azione del glorioso manipolo che con Enrico Cairoli erasi
consacrato alla morte, sul fatto stesso di Villa Glori molti furono e
sono ancora i commenti, ma, per quanto possano essere disparati i
giudizi, per quanto diverse le accuse, per quanto severe le critiche,
rimarrà sempre il leggendario ardimento, il sacrifizio epico, la morte
radiosa preferita alla complicità della inerzia... Villa Glori fa oggi
parte della nostra Epopea nazionale e, finchè innanzi alla colonna
funerea, inalzata accanto al mandorlo alla cui ombra esalò l'anima
grande Enrico Cairoli, si raccoglieranno, nel glorioso anniversario, i
giovani nostri, non ci è da disperare dell'avvenire.

L'esempio di chi muore per un'idea è sempre proficuo.

Lumeggiare, in ogni suo particolare, l'azione grandiosa di un popolo che
tanto operò e tanto sofferse per avere una patria — insegnare ai giovani,
quanto sia facile farsi maggiore d'ogni privazione e affrontare
qualunque sacrifizio, quando si ha la fede nel cuore — dimostrare colla
semplice narrazione dei fatti che colla costanza si vincono tutte le
nobili cause, e far tutto questo alla spicciola, senza andare in cerca
di parole lambiccate, di frasi contorte, di citrullerie metafisiche, e
di mirabolanti astrazioni filosofiche, è la propaganda più efficace, la
più pratica delle lezioni.

Questo ha voluto fare, e ci è riuscito, il Ferrari, e voglio sperare che
il suo libro avrà tra i giovani molti lettori.

È deplorevole che quasi tutti coloro i quali frequentan le scole,
conoscano, almeno di nome, gli eroi dell'evo antico e sieno affatto
digiuni di ogni notizia su chi di quelli eroi seppe accettare il
retaggio.

Eppure gli ultimi non impallidiscono innanzi ai primi e talvolta ne
vincono il paragone.

Masina che muore, lanciando il proprio cavallo fino al primo
pianerottolo del casino dei Quattro Venti può stare alla pari di
qualunque paladino dell'Ariosto: Bronzetti che non si ritira e, morendo
a Castel Morone, assicura la vittoria del Volturno non ha nulla da
invidiare a Leonida: Enrico Cairoli che gitta l'anima grande
all'avvenire, e cade col revolver in pugno, proferendo il nome della
mamma, è la espressione più nobile del cavaliere dell'ideale.

Narriamo adunque questi fatti, profilando colla parola e collo scritto
le belle figure rispecchianti tutta la gentilezza del sangue latino, e
se ai nostri racconti, all'evocazione di tanta virtù, se al ricordo di
quanto sangue generoso è costata la patria, la gioventù non sentirà
fremente il dovere di mantenerla intatta questa nostra povera patria, di
migliorarne la sorte, di strapparla al disonore ed alla vergogna,
dovremo vergognarci di esser nati italiani!...

I libri, come quelli del Ferrari, sono un ricordo ed un monito.

Sieno i benvenuti, oggi più che in ogni altro tempo, dacchè da tutti è
sentita, purtroppo, la deficienza dei caratteri, ed è sui buoni libri
che si forma il carattere.

                                                 ETTORE SOCCI.



I.

Partenza.


Una sera del settembre 1867 mi trovavo al Casino o Circolo sociale di
Udine e si chiacchierava secondo il solito, di politica, trinciando il
mondo a diritto ed a rovescio con la giovialità e la spensieratezza dei
vent'anni.

La compagnia s'accresceva ad ogni istante di qualche amico: finalmente
ad un dato punto tutti si levarono come a segnale convenuto e passarono
nella sala attigua.

Volli seguirli, ma mi fu impedito: ciò che mi parve molto strano.

— O che, ci avete dei segreti? chiesi ad un amico.

— Abbiamo un affare nostro da sbrigare.

— Ed io non posso intervenire?

— No, abbi pazienza: a suo tempo saprai ogni cosa.

— Ma di che si tratta dunque?

— Parola d'onore, te lo dirò.

E mi chiuse la porta in faccia, lasciandomi solo. Per tutto quel giorno
almanaccai su quella conferenza a porte chiuse. — Che sarà mai?
pensavo. — Affari della società? oh no di certo, perchè io pure sono
socio e dovrei saperne qualche cosa!

All'indomani, appena uscito di casa, mi diressi all'ufficio della
_Sentinella friulana_. Era questo il titolo di un periodico settimanale,
che si stampava da noi giovani e che aveva per iscopo e programma di
educare ed istruire il popolo.

Non saprei dire quanto e come il nobile intento fosse effettivamente da
noi raggiunto, nè se i mezzi adoperati fossero i più adatti. Di due cose
mi ricordo, le quali per lo meno fan fede delle nostre buone intenzioni:
che tutti noi ci mettevamo una grandissima attività e che il periodico
era dispensato gratuitamente, come gratuita era l'opera nostra. Ne
pagava le spese una eletta schiera di patroni (chiamiamoli così), i
quali contribuivano con due lire al mese. Non ricordo quanti fossero: so
però che il giornale era letto e se ne distribuiva un migliaio di copie
circa.

Questa cuccagna durò, credo, tre o quattro mesi, poi si risolse in un
deficit, che troncò miseramente la vita alla filantropica pubblicazione.

Era di buon mattino ancora e però rimasi sorpreso allorchè, entrando
nell'ufficio ch'io credevo di essere primo ad aprire, lo trovai invece
occupato da alcune persone a me sconosciute, le quali conversavano
animatamente. Al mio entrare la conversazione s'interruppe d'un tratto,
poi fu ripresa a bassa voce. Io fingendo di non interessarmici, mi misi
a sfogliare alcune carte, ma in realtà tendevo l'orecchio. Morivo dalla
curiosità.

Poco dopo entrò un comune amico, il quale senza tanti misteri, forse
credendomi d'intesa con gli altri, depose sul tavolo alcuni biglietti di
banca.

— Ecco tutto quello che ho potuto cavare di tasca al signor X.... (il
nome non serve), esclamò.

— Basterebbe al più per due di noi, soggiunse uno degli interlocutori.

— Sta bene, ribattè un altro, ma quando saremo sul posto, come si farà?
ci toccherà viverci per chi sa quanti giorni!

— Ma io credo che là si provvederà.

— Chi ne sa nulla?

— Intanto potreste partire e quando sarete sul luogo, spediremo
dell'altro; frattanto ci adopereremo.

— Non lo credo prudente. Per ritirare denaro quando s'è fuori, fa d'uopo
declinare il proprio nome alla posta od alla banca, e noi abbiamo
bisogno di tenerci nascosti. Io, fra l'altro, non ho passaporto: quindi
non si sa mai quel che possa accadere.

Dal dialogo interrotto, dalla ricerca di quattrini e da altri indizi mi
parve comprendere di che si trattasse.

Uscii come se nulla fosse e la prima persona che incontrai fu l'amico
del giorno prima, quello che m'avea dato parola di palesarmi il segreto.

— Giurami che mi dirai la verità, gli dissi. Voi combinate qualche cosa
per Roma.

— Come lo sai? mi chiese sorridendo.

— L'ho potuto argomentare da un discorso ora udito all'ufficio del
giornale. E tu perchè non mi dicevi nulla?

— Sei troppo ragazzo, si temeva che parlassi; ma al momento di partire
figurati se non te lo avrei comunicato!

— Quando si parte?

— Ora lo vedremo. E rientrammo all'ufficio.

C'era anche un mio amico triestino, Giusto Muratti. Per partire si
attendeva un telegramma da Firenze.

Il telegramma venne finalmente.

— Io parto, dissi al Muratti. Vieni?.... e fu stabilito di lasciare, se
fosse possibile, la città quella notte stessa.

Due ostacoli però si frapponevano. Il Muratti non aveva passaporto. Io
invece l'avevo e in perfetta regola; ma in compenso non avevo quattrini
e se ne avessi chiesto in casa, avrei messo sospetto e certo mi sarebbe
stata impedita la partenza.

Al passaporto per il Muratti fu subito provveduto: un amico gli prestò
il suo. Più difficile fu risolvere l'affare dei quattrini per me. Un
signore me li aveva promessi per la sera: uscii a notte tarda con armi e
bagaglio e mi recai da lui, ma non era in casa. Il tempo stringeva e
solo un'ora mancava alla partenza del treno.

Inquieto per tale contrattempo, lasciai il mio piccolo bagaglio al
Muratti, pregandolo di attendermi, chè avrei fatto un altro tentativo.
Erano le nove di sera e certamente poche speranze potevo nutrire a
quell'ora per simili affari. Ma io conoscevo le abitudini casalinghe di
un amico. A quell'ora doveva essere a cena: ero quindi sicuro di
trovarlo in casa.

Andai da lui e lo trovai; gli chiesi trecento lire, me le diede senza
aprir bocca e ritornai trionfante dal Muratti che mi attendeva sulla
via.

Un'ora dopo il treno diretto della notte ci portava alla volta di
Firenze.

In mia casa per quella sera e fino al mezzogiorno del domani non se ne
seppe nulla.

S'era bensì vociferato alcuni giorni prima in città della misteriosa
partenza di alcuni giovinotti, ma nessuno aveva saputo dare spiegazioni.

Qualche cosa n'aveva inteso anche la mia buona mamma e però forse
divinava. In casa seguiva ogni mio passo e quando quella sera picchiò
alla mia stanza, dove m'ero rinchiuso per comporre un po' di biancheria
entro una piccola sacca, dovetti nascondere sacca e biancheria sotto il
letto per non darmi a conoscere.

Voleva che l'accompagnassi presso certi nostri parenti. Le dissi che non
potevo perchè dovevo fare una visita di dovere in casa X..... E così
dopo desinare io andai a vestirmi in abito nero da società con guanti e
gibus ed essa venne a vedere di persona se l'abbigliamento era
all'ordine e mi stava bene.

— Mi raccomando, sai? mostrati garbato e riverisci da parte mia.

— Sì, mamma. — Le diedi un bacio ed uscii in gran fretta. Mi veniva da
piangere.

Forse quel bacio potea essere l'ultimo ed ella non lo sapeva. In ogni
modo l'indomani avrebbe provato un grande dolore.

Ad alleviarlo, le diressi, poco prima di partire, un bigliettino e lo
impostai alla stazione.

Le chiedevo scusa d'averla in tal modo ingannata: partivo per un affare
di premura e la pregavo di non fare di me ricerca alcuna perchè a suo
tempo le avrei fatto avere mie nuove.



II.

In viaggio.


All'albergo della Luna a Firenze, dove prendemmo stanza, ci attendevano
parecchi amici partiti prima di noi. Primeggiava fra essi e fungeva da
capo Francesco Tolazzi, valoroso soldato, che poi, fino a pochi anni or
sono, fu modesto impiegato: ora pur troppo è morto. Nel 1864 era stato
intrepido capitano di una piccola banda di insorti friulani i quali,
battendosi a Monte Castello, avevano dalle alte vette delle Alpi
Carniche messo in iscompiglio ed in moto un intero corpo d'armata
austriaco che aveva alla testa il generalissimo Benedek, appositamente
chiamato a tal comando. L'intera provincia del Friuli era stata posta in
istato d'assedio. La mobilitazione di quel corpo costò all'Austria la
bellezza di quasi due milioni di lire, mentre la banda dei volontari non
raggiungeva forse i venti uomini!

Parte di costoro erano stati imprigionati, parte ne vidi io stesso
rimessi in libertà nel 1866, altri riuscirono a fuggire e ripararonsi
nel Regno.

Fra questi il Tolazzi, il Cella ed il venerando Andreuzzi. Quest'ultimo
stette ben 17 giorni sotto un crepaccio di montagna mantenendosi a
polenta e latte, che gli recava un pastore, e tenendosi la stricnina in
tasca, pronto al suicidio piuttosto che cadere in mano al nemico!

Belle memorie!

Quando io ed il Muratti arrivammo, gli amici che ci avevano preceduto si
preparavano a proseguire il loro viaggio. Avevano tutti portata seco una
rivoltella e fu non piccola difficoltà l'adattarsela in modo che non
fosse veduta; la scoperta di una compagnia di giovinotti armati a quel
modo avrebbe potuto procurarci seri guai anche colla polizia italiana.

Essi dovevan passare il confine per Orte e Corese; noi insieme a qualche
altro amico lo avremmo passato l'indomani dalla parte di Montalto e
Civitavecchia.

Partirono dunque assieme gli amici Marzuttini, Berghinz, Andreuzzi
juniore, Facci, Cella e Povoleri.

La giovialità serena ed esilarante di quest'ultimo teneva allegra la
compagnia. Chi l'avrebbe detto allora! Il Povoleri finì suicida in
Alicante pochi anni dopo, ed egual fine si ebbe pure più tardi il povero
Cella; egli che aveva sfidato tante volte la morte, che al ponte del
Caffaro aveva sostenuto con un capitano austriaco, un duello corpo a
corpo da non aver riscontro che nelle epopee antiche[1]; egli che fu il
primo ferito di quella guerra e meritò l'onore di essere chiamato da
Garibaldi: prode fra i prodi!

E morto è pure il povero Carletto Facci, anima gentile e dolcissima di
intelligente amico! Il Berghinz e l'Andreuzzi da parecchi anni portarono
nella libera America l'onesta loro attività e forse non li vedremo più:
tutti scomparsi!

L'indomani partimmo anche noi venuti dopo ed a noi si unì pure l'amico
Alberto Ceresa di Lodi.

Eravamo in quattro ed anche di noi quattro uno pur troppo or non vive
più che nella dolce memoria!

Il Comitato residente in Firenze ci aveva designati gli alberghi dove in
Roma dovevamo prendere alloggio. Così alcuni furono mandati all'Hôtel
Roma, altri all'Europa, altri all'albergo Cesari; il Muratti ed io fummo
destinati alla Minerva, noto sbarcatoio, allora come ora, di tutti i
_gros-bonnets_ del legittimismo.

Prima di partire dovemmo far legalizzare i nostri passaporti dal console
spagnolo che abitava fuori di Porta al Prato, ed anche questa pratica
ritardò la nostra partenza di qualche ora. Curiosa contraddizione! Pio
IX avea tanta fiducia nella Francia che si faceva difendere dalle sue
truppe, ma per i passaporti esigeva il timbro della Spagna!

Sostammo a Livorno la notte per riprendere di buon mattino il treno
maremmano. I carabinieri alla stazione non ci diedero noia. A noi però
sembrava ci tenessero d'occhio e non respirammo liberamente che quando
il treno si mosse.

A Montalto visita doganale. Un ricevitore sfogliò due o tre volte una
_Guida d'Italia_ che gli si affacciò nell'aprire la mia sacca, poi mi
diè una sbirciata di sottecchi. Forse volea scrutare nel mio volto un
possibile lettore di libri proibiti.

Da Follonica in giù eravamo rimasti in _coupé_ noi quattro con altri due
giovinotti che non conoscevamo. Costoro, forse indovinando o fidando
nella lealtà della gioventù che non tradisce, cavarono di tasca prima
d'arrivare a Montalto due rivoltelle e cominciarono a consultarsi fra
loro sul modo di poterle nascondere prima di arrivare al confine.

Vedendo quelle armi, immaginammo che il loro viaggio avesse l'identico
scopo del nostro. Lo chiedemmo e ce lo confermarono. Allora suggerimmo
loro di nascondere le rivoltelle nell'imbottitura dei sedili cavando un
poco di stoppa: così fu fatto; e poi che ebbero subìta la visita
doganale e ripresi i loro posti, ricuperarono senza inconvenienti le
loro armi.

Erano due bravi giovinotti: li lasciammo alla stazione di Roma e non li
rividi più. Ricordo però il nome di uno, Natale Capaccioli, nome che
rividi più tardi nella funebre lista dei morti a Mentana.

Apparteneva al glorioso battaglione livornese guidato dal Mayer[2].

Il sole era già calato in un ampio manto di nuvole d'oro: cominciava ad
imbrunire.

Il treno correva monotono attraversando le desolate ed interminabili
lande della campagna romana; la conversazione nostra era andata
gradatamente languendo: il crepuscolo stesso invitava al silenzio.

Un senso indistinto di brivido m'aveva preso.

La certezza di trovarmi in paese nemico; la possibilità di essere
pedinati dalla polizia, scoperti e gettati in un carcere senza nemmeno
il merito d'aver mosso una paglia; l'impresa non ben determinata che ci
attendeva in Roma; il ricordo della famiglia lasciata la quale forse in
quel momento era in tutte le angosce non sapendo dove e come fare di me
ricerca; ciò tutt'assieme dava ai miei pensieri una tristezza
meditabonda alla quale invitava anche la stessa ora tarda della sera ed
il paesaggio che ci si svolgeva innanzi agli occhi, malinconico e
desolante.

Si attraversavano immense praterie che andavano a confondersi a perdita
d'occhio col lontano orizzonte, colline e vallate alternantisi per
interminabili pendii, ma spoglie affatto d'ogni vegetazione e solo
popolate qua e là da mandrie di pecore, di bufali e di cavalli. Non un
arbusto, non un boschetto, non una casa! Il treno correva correva...
passata Civitavecchia, passato anche Palo, ultima fermata del diretto, e
via via Palidoro, Maccarese, Magliana e finalmente Roma!

Roma, termine dei nostri pensieri, meta delle nostre aspirazioni, delle
aspirazioni d'ogni italiano! l'avremo?... chi lo può dire? come
l'avremo?... chi lo sa? ci sono armi? è preparata la popolazione?
insorgeranno?.. e se ci lasciassero soli?... faremo le barricate; e se
ci agguantano?... ci fucileranno, ci impiccheranno come congiurati, come
_framassoni_!... e la mamma? Questo dolce ricordo che facea capolino fra
l'incertezza di sì tristi presentimenti, mi produsse il senso di
un'angoscia disperata. Guardai i miei compagni: alcuni dormivano, altri
meditavano pur essi, e mi pareva scorgere anche sui loro volti i segni
d'una preoccupazione profonda!

Ma io quando il treno, finalmente rallentando, sostò e udii proferire il
gran nome: _Roma!_ io asciugavo due grosse lagrime!

Alla stazione ci dividemmo senza saluti e commiati come fossimo affatto
sconosciuti l'uno all'altro.

Alla Minerva si convenne fra me e il mio compagno di parlare sempre in
dialetto per il caso che qualche spia origliasse alle porte. Ottima
precauzione, che però corse pericolo di venir guastata fin dalla prima
sera dal carattere impetuosamente istintivo del compagno mio.

Poco dopo aver preso possesso del nostro alloggio, ecco un cameriere
tutto giuggiole e tutto inchini a domandarci ossequiosamente i nostri
riveriti nomi, o meglio ancora, se non c'era d'incomodo, i rispettivi
passaporti. Consegnammo i nostri nomi scritti su di un polizzino, non
essendo il caso di porgere carte da visita; quanto ai passaporti,
rispondemmo che li avremmo consegnati l'indomani, perchè ci scomodava
levarli allora dal fondo dei bauli.

Il cameriere ricevette la carta, mormorò uno strascicato e gentile:
Benissimo! poi avendoci chiesto se desideravamo mangiare, scendemmo
senza altro con lui al restaurant.

Era un salone vastissimo decorato a marmi e stucchi con colonne di
marmo, nicchie e statue; qualche cosa di mezzo fra l'aula accademica e
la chiesa. Un unico candelabro illuminava il vasto ambiente, che
rimaneva quasi tutto in penombra o buio, e davanti al candelabro
sedevano a tavola un prete e un suo giovane allievo. Mangiammo di buon
appetito. Il prete e l'allievo sorbivano un the, e rammento ancora la
strana impressione che ci fece il veder l'allievo, prima di bere e dopo
aver bevuto, fare certi enormi segni di croce, come se avesse avuto da
esorcizzare la bevanda.

Cenando però mi venne un dubbio, che cioè il protrarre al domani la
presentazione dei passaporti potesse dare qualche sospetto; ne feci
motto al mio compagno ed egli pure fu del mio avviso. Perciò, finito
alla meglio il desinare, risalimmo nella stanza e chiamammo il
cameriere.

— Eccole i nostri passaporti, disse tosto il Muratti con un tono burbero
in lui abituale, e accentuando le parole sì che uscivano come
schioppettate.

— Oh si figuri! rispose l'altro cerimoniosissimo. Non occorreva che lor
signori si disturbassero per questo; facciano il loro comodo; se non è
questa sera, sarà domattina che daranno conto di sè alla polizia.

Questa parola, detta, io credo, affatto innocentemente da quel loiolino
ganimede, fece scattare il mio compagno come se l'avesse punto una
vipera, e affrontando minaccioso il cameriere

— Che polizia! gridò.

— Sì, riprese impaurito ed officioso il cameriere, la polizia, cioè
l'ufficio dei passaporti, perchè l'ordine è così; sa, noi non c'entriamo
per nulla!

— Che polizia, che polizia! per chi ci prende lei? Eccole i passaporti!
e li buttò al cameriere con tale una grazia, che questi pel suo meglio
sgattaiolò lesto come una gazzella e scese di corsa per il corridoio
probabilmente a raccontare al padrone le suscettività tempestose del
forestiere nuovo arrivato, mentre io strapazzavo di santa ragione
l'amico, dicendogli che con simili modi non si va a cospirare in paese
nemico e che se cominciavamo così, non sarebbe passato un giorno che ci
avrebbero legati, e l'avremmo finita male!



III.

Alla Minerva.


Se io dovessi qui ricordare quali criteri ci avevano diretti a Roma e
quali interessi avevamo, dovrei certamente lavorar di fantasia. Eravamo
a Roma, sapevamo di non essere soli, sapevamo che doveva trovarcisi pure
un capo, che noi eravamo a sua disposizione e dovevamo attenderne gli
ordini. Donde poi ci sarebbero venuti, con quali mezzi si sarebbe agito
e quando, ignoravamo affatto.

Intanto stabilimmo di visitare un pochino la città.

Programma nostro il fingerci stranieri: Muratti parlerebbe tedesco, io
francese. Io ero sempre vestito coll'abito da società e col gibus che
avevo all'atto della partenza. Giovinetto ancora imberbe,
quell'abbigliamento mi dava l'aria d'un chierico travestito o d'un
pastore evangelico. Per maggiore illusione presi meco quella guida
d'Italia rilegata in tela rossa ch'era stata perlustrata dal doganiere
al confine di Montalto, la quale, se poteva ingannare la polizia sul
conto nostro, disgraziatamente illudeva però anche i ciceroni di piazza.

Infatti questi, appena uscimmo dall'albergo, ci assediarono da ogni
parte. Un _bottaro_ ci si accostò, salimmo ed avendoci anch'egli chiesto
in francese dove si voleva andare, il mio compagno, affastellando
francese tedesco e italiano, diede una tal risposta ed in tale idioma,
che non so davvero che cosa il cocchiere riuscisse a comprendere.

Fortunatamente i _bottari_ di Roma erano in gran parte dei nostri, chè
se, Dio liberi, quello fosse stato una spia, ci avrebbe condotti
difilati a Montecitorio. Per chi nol sapesse, il palazzo di Montecitorio
allora era la sede della Direzione generale della polizia pontificia.

Visitammo S. Pietro e vi trovammo una guida o cicerone che possedeva un
permesso per visitare Castel Sant'Angelo. Ci tornò opportunissima e
l'accettammo.

Ridire le impressioni riportate dalla vista del maggior tempio della
cristianità non è qui luogo, nè, per verità, bene me le ricorderei;
perchè le nostre osservazioni, più ancora che ai quadri ed alle statue,
erano dirette a certi altri forestieri, la maggior parte giovani, che si
vedean qua e là girare per il tempio, anch'essi accompagnati dai
ciceroni, e che dal loro fare spigliato e dalle mosse ardite
s'argomentava agevolmente non esser nè inglesi nè tedeschi nè americani,
e meno che mai ammiratori appassionati di ecclesiastici monumenti[3].

In Castel Sant'Angelo ci accompagnò un veterano svizzero col quale il
mio compagno fece lunga conversazione in tedesco. Corridoi, scale,
scalette, terrazze, stambugi, prigioni, anditi, cortili, muraglioni,
feritoie, questo è il mio ricordo di Castel Sant'Angelo, di allora. Ci
passai due mesi dopo una notte, la notte avanti alla nostra liberazione
dalla prigionia; ma i pensieri di quei momenti, agevolmente lo si
indovina, eran volti a tutt'altro che a rilevare la topografia del
carcere; nè ora, dopo tanti anni, nelle poche visite fatte al Castello,
mi fu mai possibile di raccapezzare dove io passassi quella notte.

Chiedemmo però allo svizzero se quegli antri additati quali prigioni di
Benvenuto e della Cenci servissero tuttora di carcere a qualche
condannato. Ci rispose che le carceri erano in altra parte del Castello.

Forse, pensavo tra me, vi staranno i prigionieri politici. Li
libereremo?... oh qual maggior soddisfazione? aprire il carcere ad un
martire della patria!

Assistemmo allo sparo del cannone a mezzogiorno.

Dal ponte Sant'Angelo ci fu dato vedere degli zuavi che lavoravano di
carriola e di vanga allegramente lungo le sponde del Tevere, allora in
condizioni diverse da oggi. Forse eran tutti figli di famiglie civili,
persone istruite e dabbene, forse eran laureati, professori, conti,
duchi, baroni, e lasciavan la patria e gli agi di casa propria per venir
qui a fare il manovale, il bracciante! Bisogna proprio convenire che la
fede fa miracoli!

Rientrando nell'albergo ci si affacciò un frate zoccolante con una
cassetta per la questua e noi, come ogni altro inquilino dell'Hôtel
Minerva, pagammo senza batter becco il nostro tributo alle anime. Quel
frate stava da mattina a sera sulla porta dell'albergo e poichè era
albergo frequentato da persone ricche ed abbienti, fors'era questa una
speculazione di diritto per qualche convento. Al proprietario
dell'albergo, del resto, poteva far comodo come controllo della gente
che andava e veniva; fors'anche costui poteva essere un arnese della
polizia, ma per noi rappresentava soltanto un pedaggio assai noioso.

Sette od otto giorni si stette all'albergo della Minerva, ma soltanto a
dormire. Ci scottava il suolo sotto i piedi in quelle camere e in
quell'ambiente. Le pareti stesse potevano parlare. Oltre a ciò i prezzi
erano molto elevati e di quattrini per andar incontro all'ignoto non
avevamo certamente dovizia.

Avevamo perciò scoperto per i pasti un luogo abbastanza centrale, ma
molto democratico. Era la trattoria dei _Tre Ladroni_ in via
dell'Umiltà, vicino al Corso. Ora non esiste più. Non vi si mangiava
male, ma era un vero antro di Caco e l'insegna non poteva essere più
adatta per simile ambiente buio, umido e pur troppo anche sudicio. Ci
convenivano militari di bassa forza, borghesi di campagna e preti
scagnozzi.

Il posto ci parve ottimo per eludere la polizia.

Ma una sera, anche là, poco ci mancò che non cadessimo in trappola.

Di fronte al nostro tavolo bevevano una foglietta di vino due legionari
d'Antibo che, come guerrieri, non erano certo nè Ettori nè Ajaci e men
che meno Adoni.

— Guarda un po'! mi disse sottovoce in vernacolo il mio compagno. Se
costoro si possono chiamare soldati, io mi lascio volentieri tagliare la
testa (veramente altra era la frase)!

Io sorrisi e non risposi, ma uno dei due soldati cominciò a conversare
coll'altro alterato, volgendosi ogni tanto verso di noi con piglio e
gesto che sembravan di sfida.

— Oh vedi se può essere soverchia la prudenza! Costoro sembra che
intendano anche il dialetto ed abbiano compreso il nostro discorso,
diss'io sommessamente.

Intanto il militare continuava a parlar alterato, sempre col volto e
talvolta coi pugni a noi rivolti. Allora senz'altro noi chiedemmo al
cameriere:

— Che cos'hanno quei due soldati?

E uno dei militari senza lasciar tempo al cameriere di rispondere

— _Dites à ces messieurs là_, esclamò, _que je ne comprend pas la langue
italienne, mais cepandant j'ai assez compris pour lui dire qu'en France
il y a bien plus de politesse qu'ici._

— Perchè dunque non ritornate in Francia, gridò imbizzito il mio
compagno, se vi è tanta cortesia? Che ci venite a fare qui?

Una potente gomitata mia gli tolse il fiato e la parola per continuare.
Ma ci volle poi per me — aiutato dall'oste — del bello e del buono a
pacificare il focoso armigero francese, assicurandolo che nessuno al
mondo s'era burlato di lui e che, appunto perchè essi non comprendevano
la lingua italiana, avevano fraintese le nostre parole in dialetto.

Le aveva capite anche troppo bene, l'amico! Come campione militare però
bisogna confessare che era in molto difetto; è naturale quindi che fosse
anche sempre in sospetto!

Usciti di trattoria, feci una nuova e più solenne filippica all'amico
che ad ogni istante con simili imprudenze comprometteva la nostra
posizione.

Erano intanto già passati quattro o cinque giorni nè si vedeva alcuno nè
si sapeva nulla dei casi nostri.

Incominciavamo, per dir vero, a dubitare della serietà dell'impresa,
quando un giorno, camminando per il Corso, vedemmo gran folla di gente
sulla piazzetta di S. Marcello e di fronte alla chiesa la carrozza del
Papa cogli staffieri smontati e le guardie nobili che facevano ala. Ci
fermammo a guardare e di lì a poco vedemmo uscire di chiesa Pio IX in
persona, bianco vestito ed attorniato, assediato letteralmente da
donnicciuole, da bambini, da vecchi che volevano baciargli la mano e le
vesti. Egli benediva tutti e lentamente avanzandosi montò in carrozza;
le guardie si misero ai lati di essa e via per il Corso a gran trotto.

Era verso sera, proprio nell'ora in cui il Corso di Roma è più animato.
Lo spettacolo che ci si offeriva al passaggio della berlina papale era
quello di un'onda marina procedente maestosa. Tutta la gente sostava e
si prosternava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E via
via così fino a porta del Popolo.

Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo;
quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: Che siam venuti a fare
noi in Roma? la rivoluzione?...

Un giorno per il Corso adocchiai uno dei compagni nostri e ammiccatogli
feci cenno a lui di seguirmi. Lo trassi in disparte in un vicolo
nascosto e presi ad interrogarlo ansiosamente sui nostri disegni e sulle
speranze concepite; ma pur troppo compresi ch'ei ne sapeva quanto noi.
Uniche notizie che ebbi, furono queste, che essi erano sempre all'Hôtel
Roma, come noi al Minerva e che il capo e direttore della cospirazione
era Francesco Cucchi.

L'indomani di buon mattino andai all'Hôtel Roma sperando di aver nuove
notizie. Erano ancora a letto e faceva loro compagnia quel tipo
originalissimo ch'era l'amico Andreuzzi, il giovine. Egli era entusiasta
dell'impresa ed io, che n'ero scoraggiatissimo, cadevo proprio a
proposito. Mi lamentavo che non si sapeva nulla di nulla ed egli a
rispondermi che le rivoluzioni van fatte così, che noi non avevamo altro
dovere che di star pronti e quand'era il momento, scendere in piazza.

— E le armi dove sono?

— Le armi ci sono.

— Ma dove?

— Ci sono.

— E la gente?

— C'è.

— Ma dove?

— Ti dico che c'è.

— Ma dove? io non l'ho veduta.

— Non serve: lo devi credere.

— Allora piglieremo Roma colla fede.

— Insomma tu devi tacere.

— La piglieremo col silenzio allora.

— Meglio che colle tue chiacchiere, f..... d'un moderato! e giù una
grandine di epiteti e di cazzotti dati e scambiati.

Erano queste le nostre esercitazioni, le nostre manovre.

Altro originale per disinvolta sfrontatezza era Augusto Merluzzi, ora
morto, poveretto!

Passeggiava un dì per il Corso con uno de' suoi compagni: a un tratto
questi vedendo passare una _botte_ diè un grido di stupore, la carrozza
fu fermata e ne scese un prete, e lì esclamazioni di stupore e domande:

— Ma come mai ti trovi qui? Ed io che ti credevo a Firenze! Che ci sei
venuto a fare? — Il povero amico era impacciato e non sapeva che
rispondere e balbettava impaperandosi.

Pronto venne in suo aiuto il Merluzzi:

— Viaggiamo per conto della casa A e trattiamo pure qualche affare per
la casa B; siamo qui da parecchi giorni e ci tratterremo ancora
dell'altro, se la piazza ci offrirà da lavorare....

— O non mi secchi un po' colle sue chiacchiere! interruppe bruscamente
il prete. Questi è mio fratello.

Il merluzzo restò baccalà.

I giorni si seguivano l'uno all'altro e noi continuavamo a fare i
viaggiatori, gli inglesi, i touristi ma nell'animo nostro volgevano
pensieri tristissimi ed un lento scoraggiamento cominciava ad
impadronirsi di noi.

Venne finalmente il momento in cui ci fu annunziata imminente la
sommossa, ed anzi fummo avvertiti di tenerci pronti perchè alla sera il
Comitato ci avrebbe tolti dall'albergo e trasportati in una casa
privata.

Regolammo i nostri conti con l'Hôtel Minerva e alla sera attendevamo i
signori del Comitato.



IV.

Casa Giovanelli.


Il cosidetto Comitato nazionale romano fu, a dir vero, tutt'altro che
benemerito dell'impresa da noi tentata, anzi l'osteggiò a tutto potere,
perchè non si agiva d'accordo col governo di re Vittorio.

Chi aiutò realmente il Cucchi, il Castellazzo, il Guerzoni, l'Adamoli,
il Pavesi e gli altri capi convenuti qui in Roma, fu il Comitato o
Centro d'insurrezione; ed era esso appunto che in quella sera si
occupava di noi.

Alle 8 pomeridiane fu bussato alla porta della nostra camera
all'albergo.

— Chi è? Avanti!

Entrarono un signore alto e robusto dalla fisionomia franca ed aperta ed
un giovanotto bruno, dagli occhi nerissimi e dai lineamenti delicati e
simpatici.

Il primo era Napoleone Parboni, che della fisionomia e della figura
nulla ha per anco mutato. L'altro era un certo Augusto, il cui cognome
ora mi sfugge e del quale poscia non mi fu possibile aver più traccia.

Riconosciutici scambievolmente, fu convenuto che saremmo partiti con
Augusto, il quale ci avrebbe condotti in vettura fino a Santa Maria
Maggiore, donde, licenziato il cocchiere, saremmo andati a piedi alla
nostra destinazione.

E così fu fatto.

Nessun inconveniente, nessun contrattempo nella partenza. All'uscir
dall'albergo si pagò il solito pedaggio, e poi via. Per strada
incontrammo il carro dei morti ed io ne trassi cattivo augurio.

Poco discosto dalla piazza dell'Esquilino, in via Graziosa (ora via
Cavour), esisteva allora a mano diritta una gradinata che metteva ad un
terrapieno, donde poi si accedeva al vicolo dei Quattro Cantoni. Appena
imboccato questo, a mano diritta, c'era un vicolo cieco, una specie di
cortiletto. In una casa prospettante in questo vicolo ci condusse
l'amico Augusto e vi fummo ricevuti con molta cordialità.

I moderni lavori hanno mutato faccia del tutto a quella località, talchè
chi si trovi nella bella e maestosa via Cavour mal cercherebbe i meandri
e gli angiporti di via Graziosa.

Il vicolo Quattro Cantoni però esiste tuttora e vi si accede per una
comoda scalea, salita la quale, subito a mano diritta si imbocca il
vicolo cieco. Questo è tuttora immutato e la casa ove noi abitammo, per
chi la volesse conoscere, porta ora il num. 72-B ed è alloggio consueto
di ciociari e di erbivendoli.

Stranezza del caso! Vent'anni dopo i fatti che sto narrando, io venni a
stabilirmi colla famiglia in Roma. Gira e rigira per trovar quartiere,
dopo averne visitati parecchi, finalmente ne trovai uno di mio
gradimento in via Cavour; vi ci stabilimmo e solo dopo due e tre mesi
che vi abitavo, riconobbi che le mie finestre prospettavano proprio sul
vicolo Quattro Cantoni e che il vicolo cieco era quasi di fronte a casa
mia!

L'uomo che dovea ospitarci, era un certo Giovanelli calzolaio, o meglio
ciabattino, morto pur esso alcuni anni or sono. Pochi mesi prima di
morire venne a trovarmi. Di salute stava ottimamente, benchè avesse
ottant'anni, ma la vista l'avea quasi perduta.

Il suo nome per me e per i miei compagni di quei giorni assurse
all'onore di ricordo incancellabile. Aveva famiglia composta di una
donna, due ragazze ed un figlio. Una delle ragazze era sposa ed il
fidanzato veniva ogni sera a vederla. Era un altro Augusto, compositore
tipografo, buonissimo figliuolo e da cui nulla c'era a temere.

Licenziato l'Augusto primo (diremo così), rimanemmo soli a contemplare
l'abitazione in cui d'ordine del Comitato eravamo stati sbalestrati.

Era un secondo piano. L'uscio della scala metteva direttamente in uno
stanzone, il talamo coniugale del Giovanelli: dallo stanzone si passava
in una piccola cucina e dalla cucina in un'altra piccola stanza, che noi
destinammo per sala da pranzo.

Poco dopo arrivati noi due, ci vennero anche l'Andreuzzi con un altro
amico e l'indomani ci furono portati pure i due commessi viaggiatori di
casa A e di casa B. Totale sei ospiti e cinque padroni di casa, ossia
undici persone costrette a stiparsi in due stanze, ed ecco come.

Quattro si dormiva per turno nel gran talamo del Giovanelli. Si doveva
giacere di fianco e star immobili, pena il ruzzolare in terra... nè
giurerei che ciò non sia avvenuto. Si stava pigiati, ma via, meno male!
Da uno degli altri letti veniva levato un materasso che ogni sera si
stendeva per terra, e così era provveduto per altri due che ci dormivano
per turno. Letto un po' duro, ma senza pericolo di ruzzoloni. Il
Giovanelli ed il figlio dormivano pure con noi sovra un cassettone che
coperto da un materasso poteva anche figurare un divano. In totale
quindi otto persone in una camera che non credo misurasse sessanta metri
cubi.

Come spazio, stavano meglio certamente di noi la madre e le figlie, le
quali dormivano nell'altra stanzetta, ma non so in qual modo, perchè
quando noi al mattino si usciva, la camera era rifatta ed assettata, di
letti non si vedeva manco l'ombra ed il cubicolo era convertito in
triclinio.

Questo fu il nostro alloggio per circa una quindicina di giorni; giorni
memorabili, giorni il cui ricordo appare come pietra miliare nella vita
monotona ed affacendata della più tarda età, giorni di spensierata
allegria, d'incondizionata abnegazione, giorni sereni e giocondi in cui
l'ardore e la fantasia giovanile si sposavano in un comune e nobile
intento, si acquetavano in una solenne certezza, la coscienza cioè di
tentare il supremo compimento dei destini italiani, la realizzazione del
voto di patrioti, di eroi, di martiri!

Casa Giovanelli per noi doveva essere poco meno d'un carcere per quei
pochi giorni. Non si doveva uscire o quanto meno nelle ore di notte e
non mai per andare verso il centro della città. L'occhio vigile della
polizia ci avrebbe notati, pedinati ed il covo sarebbe ben presto stato
scoperto.

Costretto da questa invasione a sospendere il proprio lavoro e
danneggiato negli affari suoi, il buon Giovanelli dovette fare di
necessità virtù e di calzolaio fu tramutato _ipso facto_ in cuoco, nella
qual briga lo coadiuvavano pure la moglie e le figlie. Faceva le
provviste, ci portava i sigari, il tabacco e, più che tutto, ci portava
certi fiasconi giganti di vino bianco, coi quali confortavamo gli ozii
della prigionia forzata.

Gli amici passavano il loro tempo giuocando alle carte. Io, non
conoscendo giuochi, _faute de mieux_, facevo filacce per i futuri
feriti, lo stesso lavoro a cui erano condannati i prigionieri di
Spielberg e di Gradisca.

L'indomani del nostro arrivo il Giovanelli ci fece conoscere parecchi
suoi amici, tutti cospiratori, congiurati, liberali accaniti (diceva
presentandoceli) e ce n'era uno sciame. E fatta la nostra conoscenza,
venivano poi quotidianamente a tenerci compagnia e a fare conversazione.

Società piacevolissima! Ricordo un Serafino falegname, buon ragazzo, che
aveva fatta la campagna del 1866; un carrettiere in camiciotto di tela
greggia con una faccia che, Dio liberi, imbroccarla al buio (lo
chiamavano _frittata_, non so poi perchè); un vecchietto dai panni
logori ma accanito anche lui; una donna accanita nelle vesti, nelle
unghie e nei capelli arruffati; un cocchiere a spasso, proveniente da un
circo di cavallerizzi; un marmista, un carbonaio ed altri molti.

Ma erano strette di mano, toccate di bicchiere, abbracci, promesse,
giuramenti che ci si facevano! E perchè alla scelta società non mancasse
anche la buona musica, il figlio del Giovanelli, Pietruccio, di tratto
in tratto dava una cantatina con una terribile voce di tenore,
accompagnandosi con la chitarra.

Gran parte di questi amici io li rividi per mia somma consolazione nel
1870, dopo la breccia di Porta Pia e si rinnovarono allora gli
abbracciamenti, i baci e le carezze. E poichè il caso voleva che in quel
tempo io mi trovassi in condizione di potere, almeno moralmente, giovar
loro presso apposito Comitato istituito di quei giorni in Roma per
provvedere ai danneggiati politici, mi toccò la sorte di dovere,
cominciando dal Giovanelli, moltiplicare certificati sopra certificati e
prodigar patenti a diritta ed a manca di patriottismo e di danni
sofferti, come lo potrebbe fare un dittatore nel pieno esercizio delle
sue funzioni.

Eppure, a tutt'oggi che scrivo, l'effetto di parecchi fra quei
certificati sussiste ancora. Io stesso che li dettai, ne sono stupito;
perchè, lo dichiaro solennemente, i certificati, quantunque in ogni lor
parte veri, furon da me fatti per levarmi d'attorno una seccatura, non
mai perchè io ci annettessi importanza di conseguenze possibili
nell'avvenire, nè perchè io credessi che s'avesse del patriottismo a
fare un lucro e men che meno che della sincerità del medesimo in coloro
che lo professavano, avessi proprio io ad essere il giudice competente.

Comunque sia, l'abbondare non nuoce; e se la storia del nostro
risorgimento può segnalare numerosi ciarlatani, sfruttatori postumi di
patriottismo, giustizia vorrebbe però che si rimettessero le cose a
posto e si desse a ciascuno la parte sua.

Quanti patriotti morti poveri ed ignorati, quanti vivon tuttora
conducendo stentatamente una vita di sacrifici e di dolori, mentre al
Senato, alla Camera, nell'esercito, nella magistratura e perfino nelle
file più puritane della democrazia idealista mietono il fiore delle
onoranze ed assorbono anche lauti stipendi i postumi liberali, che
prestarono fino all'ultimo istante mente, braccio e cuore al nemico
contro l'Italia insorgente.

La ragione politica, lo spirito partigiano ed il tempo, grande
liquidatore di tutte le pendenze, fanno pur troppo obliare anche le
brutte pagine della storia di un uomo e detergono (cosa incredibile!)
macchie tali che nè la patria rivendicata nè la fermezza delle coscienze
oneste dovrebbero mai cancellare o dimenticare!

Di fronte a costoro, gli accaniti di casa Giovanelli, ardimentosi
allora, senza miraggio di promesse, dimenticati ora in gran parte,
senz'altro compenso che la coscienza d'un dovere adempiuto sono per me
tanti eroi di Plutarco.

Se all'albergo c'incresceva l'incertezza di notizie e di posizione, in
casa Giovanelli ciò era addirittura insopportabile. E quando smettevasi
il giuoco delle carte, era un continuo almanaccare sulle probabilità di
un movimento imminente, sui punti da attaccarsi, sulla gente in cui
fidare, sul numero degli insorgenti, sulle armi, sugli aiuti di fuori e
sulle probabilità di dentro.

Si parlava di Menotti Garibaldi, che allora stava organizzando le prime
sue bande, ma ancora non aveva sconfinato. Nelle nostre previsioni
eravamo però molto discordi. Alcuni si facevano illusioni, altri erano
pessimisti: io fra questi. L'Andreuzzi invece era il capo degli
ottimisti: per lui tutto era facile, tutto pronto, tutto indiscutibile.
Si ragionava, si quistionava, si altercava, ed un giorno in cui la
disputa si faceva più viva a proposito delle armi, che io asserivo in
Roma non esistere, egli la finì col turarmi la bocca gridando:

— Taci tu, f.... d'un moderato (era l'epiteto d'obbligo cogli
avversari), tu sei il più giovine di tutti e dovresti essere il più
ardente a dire che le armi ci sono!

Una risata solenne accolse quest'apostrofe. Oh se fosse bastato il
dirlo!

Se grande però era la fede dell'Andreuzzi nei mezzi posti a nostra
disposizione, altrettanto feroce era l'ira sua contro i Romani. Egli non
comprendeva perchè stessero inerti, attendendo che qualcuno importasse
loro in casa la rivolta, e non la facessero da sè per iniziativa
spontanea e per istinto erompente. Lo schiavo oppresso e generoso,
esclamava egli, spezza da sè la catena che l'avvince e non attende certo
chi gliela venga a sciogliere.

A voler essere imparziali, si deve convenire che non avea tutti i torti.

Il Governo, o dirò meglio la Polizia, che pur conosceva la esistenza di
segreti complotti e la presenza di parecchi forestieri sospetti in
città, pare fosse così sicura e tranquilla sul conto della popolazione
da non prendere veruna misura preventiva. E la prova più chiara sta in
ciò, che il papa stesso uscì a passeggio per la capitale un'ora prima
soltanto che saltasse la caserma Serristori a S. Pietro[4].

Si potrebbe ritenere fosse anche ignoranza di certi particolari della
cospirazione, ma non lo credo.

L'amico nostro però dimenticava nei suoi lagni una cosa, che cioè il
fiore dei patriotti romani e tutto l'elemento liberale ed adatto per
un'impresa come la nostra era tutto o nelle carceri o nell'esilio.

I più illustri fra i superstiti del memorando 1849 stavano tutti fuori
di Roma o in Italia od all'estero[5].


In Roma, dunque, non rimaneva che il patriziato, ligio in massima parte
alla Corte pontificia, colle innumerevoli sue aderenze ed il popolino
minuto. Il terzo stato, l'elemento attivo e intelligente, non esisteva.
Gli avvocati, gli ingegneri e i professionisti in genere presenti allora
in Roma erano tutti o addetti alla Curia, alla Rota, al Consiglio
fiscale, alla Consulta, alla Dateria, ai Ministeri, o medici di
cardinali, del papa e di vescovi, o architetti di basiliche, ispettori
di scavi, gente tutta che gramolava nella immensa greppia della
Reverenda Camera Apostolica versante allora in ottime condizioni.

Il popolino era quindi l'unico elemento sul quale poter contare per una
sommossa nell'interno di Roma, ed a questa classe appunto appartenevano
i falegnami, i cocchieri, gli abbacchiari, gli accaniti insomma che
venivano tra noi a cospirare.

Ma l'Andreuzzi queste ragioni non le inghiottiva. Un giorno in cui per
il pranzo avevamo in prospettiva una grande maccheronata al sugo ed i
compagni, come al solito, stavano giocando, d'un tratto entrò l'amico
Augusto con piglio misterioso.

— Che c'è di nuovo, Augusto?

Ed egli abbassando la voce ed in istile di telegramma incominciava:
Bande garibaldine scorazzano per campagna romana....

— Romani, proseguì imperterrito l'Andreuzzi continuando a giocare, con
c... in mano, casa Giovanelli maccheroni al sugo!....

Per il momento quella infatti era la situazione!



V.

Sempre in casa Giovanelli.


Il vicolo dei Quattro Cantoni era però un posto tutt'altro che sicuro
per noi, perchè guardato dalla polizia. Infatti allo stesso pianerottolo
dove noi abitavamo, anzi di fronte alla nostra porta, dimorava un
precettato o, come oggi direbbesi, un ammonito. La notte, all'avemaria,
doveva trovarsi in casa ed i gendarmi venivano ogni tanto a verificare.

Bisogna credere che il Comitato ignorasse affatto questa circostanza,
perchè altrimenti non avrebbe in alcun modo scusa per averci posti così
in bocca al lupo. Noi stessi l'ignorammo per più giorni. Il Giovanelli
non ce ne disse nulla ed anzi era fiero di poterci presentare
quell'accanito. Ci fece scoprire la cosa un altro fatto che ora narrerò.

Al piano terra della nostra casa abitava un tale di cui non ricordo nome
e condizione, ma che dal vestito che indossava, pantaloni larghi alla
francese ed una grande papalina rossa in testa, era dai vicini
denominato il Turco.

Come precisamente la pensasse costui non si sapeva; però dovea di certo
essere uomo gioviale, perchè una bella sera gli venne il ticchio di
voler dare una festa da ballo. Non saprei ricordare quali fossero gli
invitati; bensì ricordo che l'orchestra era costituita da un'armonica e
dalla chitarra di Pietruccio come accompagnamento.

Quando il Turco venne a fare _li patti_ con Pietruccio, ci si mise di
mezzo il Giovanelli e sembrandogli che una tal festa potesse tornar
pericolosa per noi, tentò di dissuaderlo. Fu come buttar olio sul fuoco.
Il Turco fu irremovibile non solo, ma anzi dichiarò che il motivo per
cui dava la festa era nè più nè meno perchè... eravamo alla vigilia di
grandi avvenimenti.

La festa ebbe luogo e per tutta quella notte non potemmo dormire. A
parte lo strepito ed il baccano indiavolato che facean ballando con
salti interpolati ad urli sì da sembrare una vera ridda infernale, noi
si stava in grandi angustie per timore che quello strepito attirasse la
polizia e che essa venisse, come difatti venne, a dare una capatina al
secondo piano dall'amico precettato che ci abitava di fronte. Infatti,
poco oltre la mezzanotte, si udirono dei passi sulle scale e si sentì
pure lo strisciar d'una sciabola contro la nostra porta. Noi balzammo
tutti di letto e ci buttammo nella camera delle donne, che erano scese
alla festa. Afferrate le lenzuola, cominciammo febbrilmente ad annodarle
fra loro per calare da una finestra e in pari tempo al Giovanelli si
diede consegna, se bussassero, d'aprire il più tardi possibile, fingendo
d'essere addormentato e di doversi vestire. Intanto chi radunava i
vestiti, chi ricomponeva i letti, altri nascondeva biancheria, altri
caricava una rivoltella.

Fortunatamente non ne fu nulla. Cinque minuti dopo il Giovanelli ci
avvisò che i gendarmi ridiscendevano le scale, com'eran venuti e noi
respirammo.

Di cotali scene ne accadevano spessissime fra i reclusi di quei giorni.
In casa di certa madama Petrarca, ove la polizia andò a fare una
perquisizione, alcuni amici che vi si trovavano, riuscirono a fuggire da
una finestra, dimenticando nella stanza tutti i cappelli.

L'on. Cucchi, capo della cospirazione d'allora, credo che di simili
episodi potrebbe narrarne un volume e riuscirebbe certo
interessantissimo.

I giorni scorrevano così fra una emozione ed una risata. I compagni e
gli amici che ci venivano a visitare, aumentavano di giorno in giorno. I
futuri rivoluzionari e i capisquadra facean capo a noi per sapere
notizie, e noi ne sapevamo assai meno di loro. Si inquietavano tutti per
questa incertezza, per questi ritardi, e noi si cercava di tenerli buoni
con bicchierate e con sigari. Questo sistema però, oltre ch'essere
pericoloso con simil gente, la quale facilmente trasmoda e trasmodando
chiacchiera[6], aveva finito anche col diventare rovinoso per le nostre
finanze. Ogni giorno si facevano i conti di cassa; ma se il mangiare fra
noi in comune poteva essere economia, non lo erano di certo il raddoppio
di spesa portato dalla famiglia dell'ospite nostro e la gazzarra in
permanenza a beneficio degli amici e dei patriotti nostri visitatori.

S'aggiunga che la speranza di prossimi movimenti si dileguava ogni
giorno più e che le discussioni sulla popolazione più o meno preparata,
sulle armi pronte facevansi ognor più vive.

Un giorno Augusto, quasi a riprova che di armi ce n'era in abbondanza,
ci raccontava come egli spessissimo passava il Tevere a Ripetta su d'una
barca, nella quale a prua stavano nascosti quattro fucili due sciabole e
tre pistole. E ci narrava la cosa con tale serietà che sembrava ne
volesse inferire che in ogni barca del Tevere vi fossero armi e che se
l'armi c'erano perfin nelle barche, immaginarsi nelle case!

Ma invece pur troppo la bisogna camminava ben altrimenti; e fu appunto
in quei giorni che il povero Enrico, trovandosi in seno al Comitato,
presenti il Cucchi e gli altri capi e discutendosi delle armi
disponibili, si sentì dire che c'era in pronto qualche centinaio di
picche!

— Che diamine! esclamò egli esasperato, volete prendere Roma a suon di
picche? perchè non la prenderemo allora colle vanghe o colle zappe? E fu
da quell'istante che nel Cairoli surse l'idea d'importare le armi dal di
fuori mediante apposita spedizione, che fu appunto la nostra.

A questa dolorosa realtà, che cioè in Roma non c'era nulla e che le armi
furono poi portate più tardi, ma pur troppo non arrivarono in tempo, non
posso trattenermi dal contrapporre le notizie che in proposito fornisce
la _Civiltà Cattolica_ nel suo lepido scritto intitolato _I crociati di
S. Pietro_ (anno 1867, Vol. 6, 7, 8, 9, serie VII): «D'armi, traendone
ragguaglio anche solo da quelle che vennero a mani del Governo
Pontificio, si aveva il sufficiente: pistole, rivoltelle, specialmente
della fabbrica di Brescia e ad uso della cavalleria (!), boccacci da
masnadieri, rompicapi da cannibali, lame, coltelli a serramanico,
stiletti, accette in gran numero e copia altresì di ordegni da scassinar
porte. Di bombe orsiniane si possedevano veri monti: solo quelle
destinate all'assalto del casino militare a detta d'un sicario erano
trecentosessantaquattro.

«L'arma prescelta per la pugna notturna era una scure in asta a due
fendenti con in capo un pernio e un dente a molla onde infiggervi una
lunga lama di pugnale. Ne furono rinvenute presso a un migliaio (forse
eran queste le famose picche)».

Più sotto soggiunge che tali armi si fabbricavano in Orvieto e
ricordarsi anche il nome dell'_infame artefice_. E più sotto ancora: «il
principal deposito di 600 scuri e 750 pugnali si rinvenne in via San
Giovanni de' fiorentini, ove credesi approdassero opportunamente pel
Tevere. Oltre a ciò sull'ultimo il Cucchi ottenne dal governo italiano
un bell'ottocento fucili militari con baionetta, che dalla Spezia
partirono sopra una tartana, ecc. ecc.»

Questo scritto mi fa sovvenire d'un progetto ventilatosi in quei dì tra
i capi dell'insurrezione e poscia scartato.

Nel palazzo Wedekind in Piazza Colonna, ove ora ha sede l'Associazione
della Stampa e un tempo c'erano gli uffici della Posta, avea allora
stanza il Casino militare frequentato, specialmente la sera, dall'alta
ufficialità dell'esercito pontificio. S'era progettato di tentare un
colpo di mano su quel posto, impadronirsi d'un tratto dei capi del
presidio, rizzare simultaneamente le barricate gettando lo scompiglio
nella truppa che, priva o decimata de' suoi capi, male avrebbe potuto
reprimere la rivolta.

Non ricordo il motivo per cui fu abbandonato un tal progetto.
Probabilmente sarà stata la mancanza di mezzi e più specialmente delle
armi e delle trecentosessantaquattro bombe sognate dalla _Civiltà
Cattolica_ e dal suo sicario. Certo che se lo si fosse tentato, non
poteva riuscire che ad una inutile carneficina.

Il numero dei cospiratori in città andava intanto ogni giorno
aumentando, ma pur troppo continuavano a difettare pur anco i mezzi.

Un giorno l'amico Cella, il valoroso e gentile eroe del Caffaro, venne a
trovarci e ci portò un altro suo amico e prode compagno d'armi della
gloriosa schiera dei Mille. Era certo Erter di Venezia, che aveva avuto
il suo battesimo di fuoco a Palermo lanciandosi all'assalto d'un pezzo
d'artiglieria che molestava i nostri.

Si trovava in Roma da parecchi giorni ed era rimasto senza quattrini.
Ricorse all'amico Cella e questi, trovandosi in condizioni poco
dissimili, lo condusse a noi perchè lo invitassimo a desinare. Fu
ricevuto a braccia aperte e così i nostri luculliani desinari furono
onorati della presenza d'un duodecimo commensale.

Questo nuovo amico suonava pur esso la chitarra e cantava; non era però
all'altezza di Pietruccio.

Ci si intratteneva pure assai volentieri colle due figlie del
Giovanelli, due buone ragazze (ora saranno matrone!) e tanto simpatiche.
Si chiamavano Ghitina e Ginevra.

La Ghitina, la sposa, ricordo che aveva un suo topolino bianco, cui
prodigava molte cure ed affetto. Quella bestiolina alla sera
specialmente formava il nostro spasso. Era domestica oltremodo, correva
a prendere il cibo in mano e saliva dalle braccia sul collo e sulla
testa della sua padroncina.

Un giorno essa lo mise in camera sotto un cuscinetto ch'era su d'una
sedia. Il topolino s'addormentò per davvero e la Chitina dimenticò
d'avercelo collocato. Un'ora dopo, distratta e senza avvedersene, si
mise a sedere su quel cuscino. Povera Ghitina! chi può ridire il suo
dolore quando lo rinvenne soffocato? i suoi occhioni ridenti si
sciolsero in grosse lagrime. L'aveva proprio ucciso lei, e con quale
arma!

Le distrette finanziarie crescendo ad ogni istante, fu stabilito di
comune accordo che qualcuno di noi si recasse dal Cucchi a
rappresentargli i nostri bisogni. Fu mandato infatti uno dei nostri
assieme ad alcuno degli amici dell'Hôtel di Roma, che trovavansi in
condizioni ancor peggiori delle nostre, avendo all'albergo un conto
arretrato di parecchi giorni da saldare.

Stava in quel momento il Cucchi discutendo con parecchi amici. Udito il
motivo della visita dei nostri, domandò qual somma occorrerebbe loro per
il tempo ancor probabile di permanenza in Roma e per saldare il debito
di tutti cotesti (come chiamarli altrimenti?) spiantati. Gli fu risposto
che occorrevano per lo meno mille e cinquecento lire.

Il Cucchi arretrò sbigottito, ed uno dei presenti uscì in questa
esclamazione:

— Mille e cinquecento lire! ma non sapete che se avessimo una tal somma
compreremmo tante armi?

Questa risposta fu per noi una rivelazione.

Io che nella nostra compagnia avrei dovuto essere il più ardente, giusta
l'opinione dell'Andreuzzi, se prima ero sfiduciato, a quest'uscita
rimasi addirittura avvilito. Come, esclamai fra me, non si hanno nemmeno
mille e cinquecento lire disponibili e si pretende di fare una
rivoluzione? una rivoluzione per la quale occorrono dei milioni e non
delle migliaia di lire?....

Invano l'Andreuzzi tentava persuadermi. Non ne volevo sapere. D'altro
canto si parlava giorno per giorno di Menotti Garibaldi che si avanzava
ed era già entrato nel confine pontificio; le sue bande ingrossavano ed
era imminente un fatto d'arme. Essendo discordi i pareri, fu deciso che
ognuno riprendesse la sua libertà d'azione. Vincoli non ne avevamo.
Eravamo partiti ad un unico scopo: la rivendicazione di Roma.

A me ed al compagno mio parve che questa, coi mezzi che s'avevano alla
mano, fosse addirittura un'ubbia. D'altro canto in campagna già i nostri
fratelli marciavano; era imminente il momento di menare un po' le mani,
e senz'altro decidemmo la nostra partenza.

Infatti la sera di quello stesso giorno prendemmo il diretto per Terni.

Gli altri amici rimasero in Roma; non ricordo di quali mezzi siano stati
soccorsi o se sieno riusciti ad averne da casa. Essi furono il nucleo
degli assalitori di Porta San Paolo e si trovarono poscia con gli altri
al loro posto a Mentana. Alcuni di loro vi rimasero anzi prigionieri.

All'atto del partire da Roma la polizia ritirava i passaporti dei
forestieri per restituirli poi a Passo Corese. Già accennai che il mio
compagno Muratti aveva il passaporto di un suo amico, il conte Giovanni
Colloredo di Udine. Quando fummo a Corese, un commissario fece la chiama
per la consegna dei passaporti; arrivato al nome di Colloredo, non gli
venne risposto da alcuno, perchè Muratti in quell'istante stava occupato
a rassettare il suo bagaglio e nella distrazione del momento aveva
dimenticato il suo nuovo casato.

— Colloredo! — chiamò di nuovo più ad alta voce il commissario, mentre io
schiacciavo il piede e davo del gomito all'amico per richiamarlo:

— Conte Giovanni Colloredo! — chiamò per la terza volta ed a chiara voce
il commissario.

— Eccolo! — rispose tosto rinfrancato il Muratti scrollando la testa con
lieve sorriso sardonico che pareva dicesse: Chiami le persone coi loro
dovuti titoli ed allora risponderanno.

Il commissario capì il latino, si fe' rosso un pochino, levò il berretto
ossequioso e consegnandogli il recapito mormorò:

— Scusi tanto!

Così partiamo trionfanti.



VI.

Terni.


Arrivammo a Terni a notte inoltrata.

Qui sapevamo che doveva trovarsi un nostro amico, Pietro Mosettig di
Trieste, già proprietario, fino a pochi mesi or sono, del giornale _Il
Secolo XIX_ di Genova.

Prendemmo stanza all'Hôtel della Regina d'Inghilterra. In questi ultimi
anni fui a Terni parecchie volte; vidi la casa, ma l'albergo non esiste
più. Proprietario ne era un giovane cortese, che per quei giorni e nel
suo mestiere fu veramente benemerito. Si chiamava Cesare Melchiorri. Chi
sa se vive ancora!

La mattina dopo, il primo che incontrammo, fu appunto il Mosettig, cui
narrammo le vicende della nostra dimora in Roma. Egli ci condusse tosto
dal maggiore Caldesi che abitava all'albergo delle Colonne. Lo
informammo per filo e per segno del poco che sapevamo, ma più
specialmente della carestia d'armi e di quattrini del Comitato.

Il buon Caldesi, da bravo romagnolo, non sapeva capacitarsi del perchè
non si agisse subito e sopratutto non sapea darsi pace dell'avere noi
abbandonato quel progetto d'assalire il Casino militare. Sembravagli che
quello sarebbe stato un colpo da maestri. Riflettendoci ora, dopo
trent'anni, si ha ragione di credere che sarebbe stato un colpo da
pazzi. Caduti nella trappola, saremmo rimasti tutti scannati!

Appena ora, che Terni è fatta centro di importantissime fabbriche
industriali, come l'acciaieria, le ferriere e la fabbrica d'armi,
potrebbesi in un giorno di festa immaginare l'animazione insolita e la
vita che brillava nella piccola e gentile città dell'Umbria nel mese di
ottobre del 1867. Ma ora le vie brulicano delle casacche e delle blouse
di lavoratori e d'operai, allora invece brillavano di camicie e di
berretti rossi e medaglie. Quanta varietà di tipi, d'età e di
condizione! Ma tutti uniti, tutti concordi verso una sola meta! Ogni
giorno ne arrivavano a frotte colla ferrovia, colle vetture, a piedi, a
cavallo[7]. Dal governo erano emanati ordini, contrordini, arresti,
rilasci, la confusione babelica![8]

Il Ministero Rattazzi, che voleva imitare la politica d'altro grand'uomo
in consimile occasione, fingeva di reprimere e d'impedire, ma viceversa
lasciava fare, quindi ire, battibecchi, dispetti.

All'albergo d'Inghilterra, ove di solito pranzavasi a tavola rotonda,
era un parlare chiaro ad alta voce dei propositi nostri, della doppiezza
e della simulazione del governo, delle bande garibaldine, dei fatti di
Menotti.

Si strinsero amicizie e si fecero conoscenze carissime, in parte
conservate, in parte dimenticate; fra tanti, ricordo i fratelli romani
Nino e Carlo Castellani (quest'ultimo poscia bibliotecario alla Vittorio
Emanuele e recentemente morto), Nino d'Andreis, romano pagano e Angelo
Perozzi, romano spartano, il venerando Fabrizi, il gentile Delvecchio
(quanti morti!) allora giovanissimo _attaché_ del generale Garibaldi e
poscia deputato intelligente, i garibaldini Pietrasanta, Nuvolari,
Tabacchi, già deputato pur esso e buon amico sempre. Poi vennero il
Valzania, il Sabatini, il Montefiore e da ultimo anche il Crispi. Quanta
parte di costoro pur troppo ora è scomparsa!

La somma delle cose e la direzione del movimento in Terni l'aveva il
Fabrizi, ma l'anima di tutto, i lavoratori indefessi furono sempre gli
indimenticabili amici Enrico e Giovanni Cairoli. Trovavansi in Roma da
parecchio tempo e n'uscirono due o tre giorni dopo la nostra partenza.
Noi li vedemmo arrivare una sera che ci trovavamo per caso alla
stazione. Ravvisatili, chiedemmo loro il motivo del ritorno. Ci
accennarono di tacere e quando fummo all'albergo, preso con loro il
Mosettig, gli raccontarono come fosse stato arrestato Giovanni, come si
fosse Enrico recato di persona alla polizia per reclamare la libertà del
fratello e come dopo un fiero battibecco fra lui e monsignor Randi
(allora direttore generale della polizia) fossero finalmente lasciati
liberi entrambi colla condizione di sfrattare immediatamente da Roma.
Questo fatto sconcertava alquanto i loro piani, però si misero all'opera
volonterosi anche in Terni.

I volontari andavano moltiplicandosi a vista d'occhio e si cominciava a
dividerli per battaglioni e per compagnie, assegnando a ciascun corpo
dei graduati fra quelli che già lo erano nelle passate campagne.

Non si può negare che nella campagna romana del 1867 non vi sia stato un
abuso enorme di autopromozioni, le quali non contribuirono che a creare
maggior confusione. Chi era tenente diventò _ipso facto_ capitano, chi
capitano si fece maggiore, i maggiori divennero colonnelli; e siccome di
camicie e distintivi chi n'aveva n'aveva e chi non ne aveva ne facea
senza, così la cosa finiva quasi in burletta e veniva a mancare quel
rispetto che tiene e dee tenere anche il volontario in soggezione al suo
superiore, riconosciuto appunto dall'esteriorità dei distintivi. Però vi
furono anche in ciò delle brave eccezioni.

Una mattina, scendendo dall'albergo vedemmo tutto il portico stipato di
gente. Erano in gran parte pezzenti.

— Che fate qui? chiesi ad uno di loro.

— Veniamo ad arruolarci con Garibaldi, mi rispose.

— E chi è che arruola?

— Quel signore là, e m'accennò infatti uno che scriveva dei nomi e
dispensava quattrini.

Immediatamente ne avvisammo Enrico. Scese e verificato il fatto,
n'avvertì il Caldesi ed insieme penetrati nell'ufficio riconobbero gli
arruolatori. Erano ex-ufficiali dell'esercito, il maggiore Ghirelli ed i
capitani Gigli e Gulmanelli.

Non comprendevasi però allora quale necessità vi fosse d'arruolamenti
speciali, mentre tutti ci calcolavamo arruolati, nè sapevasi spiegare la
dispensa di quei quattrini, mentre da parte nostra tanto se ne
difettava. Più tardi il mistero non fu più tale: il Ghirelli arruolava
coi danari del governo, ma voleva agire indipendentemente dai comandi
dei Fabrizi e di Menotti Garibaldi. Più d'uno fu preso alla pania,
credendo sempre d'arruolarsi con Garibaldi, ed io ricorderò fin che vivo
la contentezza del povero dottor Adamo Ferraris (morto a Digione)
quando, da noi avvertito del fatto, potè in qualche modo levarsi
dall'impegno che aveva preso colla legione romana.

Mentre in Terni c'era tanta libertà d'opinione, nelle altre città
d'Italia continuavano gli arresti e le vessazioni. Anche in Terni però
ci doveano essere degli spioni, ed il curioso si è che questi erano
sorvegliati da quelle stesse guardie e da quei carabinieri che
pedinavano i garibaldini.

Un giorno a pranzo, presente il solito circolo d'amici, avemmo una fiera
disputa con un signore sconosciuto, il quale osò apertamente biasimarci
perchè, penetrati in Roma, n'eravamo poi usciti. Noi gli chiedemmo come
avrebbe fatto a vivere senza mezzi e se per vivere colà intendeva che ci
dessimo a rubare. Ei ribattè che c'erano dentro ancora il Cucchi ed
altri molti, e quelli di certo non rubavano. Noi replicammo inviperiti;
la cosa minacciava di farsi seria. I signori Castellani, Perozzi,
D'Andreis ed altri si misero di mezzo e fecero tacere ed anche
vergognare quell'uggioso.

Levata la mensa, per quanto chiedessi all'albergatore e ad altri chi
egli fosse, non mi venne fatto di saperlo.

Ma quel medesimo giorno noi ci eravamo recati alla stazione ad
incontrare un amico che doveva arrivare: non trovando nessuno, eravamo
sul punto di ritornare, quando una guardia di pubblica sicurezza mi
chiese d'improvviso:

— D'onde viene il signore?

— Da Terni.

— Ma ella non è di Terni.

— E che fa questo?

— M'occorre vedere le sue carte.

— Che carte? gridai io.

— Ma sì certamente, replicò il questurino.

— Ella è un ignorante che non sa quello che dice, apostrofò uno de' miei
compagni.

— Un imbecille, aggiunsi io.

— Che non sa con chi tratta e come dee condursi con certe persone,
ribadì un altro.

Fosse l'effetto di quest'ultima frase che potea lasciare sospetto alla
guardia d'aver preso un grosso granchio chiedendo le carte Dio sa a chi,
o fosse l'effetto della violenza con cui l'investimmo e del trovarsi
solo contro tre o quattro, il fatto è certo e lo ricordo bene, che la
guardia si morse le labbra e tacque come se le avessero gettato un
secchio d'acqua in capo, mentre io m'aspettavo di vedermi legato!

Rientrati in Terni verso sera venimmo a sapere che quel signore col
quale a pranzo avevamo litigato, si diceva fosse una spia del governo
pontificio. Non ci volle altro. Ci mettemmo sulle sue traccie. Era ora
tarda. Però ci venne fatto di scoprire il suo luogo d'abitazione e
speravamo coglierlo nel covo. Ma il merlo aveva già preso il volo e la
padrona di casa ci disse che v'era stato pochi momenti prima un
brigadiere di pubblica sicurezza con una guardia a ricercarlo. Dai
connotati fornitici ravvisammo nella guardia quella stessa che alla
stazione aveva chiesto le carte a me.

Sarebbe stata graziosa davvero! Dopo essere sfuggiti alla polizia
pontificia in Roma, venire nel regno a farsi ingabbiare quale spia
papalina!

Le bande partivano una dopo l'altra da Terni e fra esse partì pure la
famigerata legione romana comandata dal Ghirelli, la quale, dopo la
eroica impresa del taglio della ferrovia ad Orte, si squagliò come la
neve, e parte dei militi raggiunsero Menotti, parte anche ritornarono
alle loro case.

Pochi più rimanevano a Terni. I capi in gran parte erano partiti e fra
loro anche Enrico. Dove fosse andato nol sapevamo. La sua assenza però
ci inquietava. Si era promesso di partire con lui, gli altri già tutti
erano in movimento, e noi soli si attendeva irrequieti.

In quei giorni avemmo notizia dell'arresto di Luigi Castellazzo da parte
della polizia pontificia, e la nuova ce la portò quel Serafino
falegname, frequentatore di casa Giovanelli, il quale pure, impaziente
di fare le fucilate, era uscito da Roma e, se ben ricordo, partì tosto
con la colonna Frigyesi[9].

Mentre si stava così penosamente attendendo, Giovannino ci fece un
giorno vedere le rivoltelle provvedute espressamente per noi e che fra
breve ci sarebbero state distribuite. Fu come mostrare a dei bimbi gli
zuccherini con la promessa di regalarli loro se fossero savi.

Infatti per quei due o tre giorni stemmo alquanto tranquilli. Intanto ci
furono distribuite delle coperte. Credo provenissero dal magazzino
militare. A proposito del Governo che non c'entrava!

Comprendevamo però che la nostra colonna era destinata ad una impresa
speciale di cui ancora non si conoscevano i dettagli, ma che si lasciava
travedere come un colpo di mano sulla capitale, addirittura un'entrata
in Roma.

Qui trovan posto opportuno due lettere scambiatesi in quegli ultimi
giorni febrili fra i due fratelli. La prima è d'Enrico, scritta da Orte,
ove era andato per concertare la spedizione; la seconda è di Giovannino
in risposta all'altra. Ambedue riassumono e dipingono la situazione[10].


Ne ebbi in mano gli originali, favoritimi da un amico, e baciai e
ribaciai più volte quei cari e preziosi documenti. Non era feticismo: in
quelle due carte sgualcite riviveva per me serena la memoria dei due
cari amici, delle vicende passate, delle trepidazioni incancellabili di
quei giorni.

Ecco le lettere:

                                   Stazione d'Orte, ore 12 meridiane.

    Caro Giovannino,

«Ti scrivo poche righe a precipizio.

«Alla stazione d'Orte, come sai, vi è Ghirelli, ebbene, il treno fu
fermato ed i viaggiatori saranno rimandati a Terni... Io credo prematura
l'operazione. Volevano rompere le rotaie, ma io l'impedii e Ghirelli mi
promise di riattivare le corse in quel giorno o durante quel tempo che
ne avremo bisogno.

«Vedrai il proclama che mandiamo a Fabrizi! Quel buffone d'un Mistrali,
ch'è qui vicino e che mi fa le scuse perchè mi era dietro mentre
scrivevo, dicendomi che fu storditaggine, mi colma di gentilezze, ma se
lo vedessi ti farebbe schifo (_sic_); sembra più di un dittatore! più
dello stesso Ghirelli che s'intitola Commissario Straordinario del
Governo Provvisorio.

«Mi fu messa a disposizione una macchina per proseguire fino a Passo
Corese; spero il governo italiano mi lascerà ritornare, se no verrò con
una vettura. Spero pure che a Borghetto non ci saranno più i papalini,
perchè diversamente mi accalappierebbero come un merlo.

«Comunica il fatto a Fabrizi. Sarei ritornato a Terni se, come sai, la
missione che ho non fosse urgente sbrigarla; temo però che il
precipitare non ci abbia guastate le uova nel paniere. Ghirelli del
resto mi fece le più ampie assicurazioni che starà in relazione con
Menotti a cui già mandò rapporto dell'operato. Occhi aperti però e
pronti a frenarlo!

«Ti scriverei ancora, ma la macchina è già lesta; procurerò di tornar
subito, ciò poi dipende interamente dalle circostanze.

«Saluta gli amici. Pei prossimi preparativi, se avremo chiusa questa
via, ne troveremo un'altra.

«Abbiti un bacionone

                                              dal tuo ENRICO».

Questa lettera porta la soprascritta: «_Egregio Signore — Il Sig.
Capitano Giovanni Cairoli — Albergo d'Inghilterra, alloggiato al N. 4 e
5 — S. P. M. — Terni._»

Ecco ora la risposta di Giovannino:

    «Mio Enrico,

                                             «Terni, 19 ottobre 1867.

«Scrivo in lapis per far presto. L'impazienza è febbrile; non dico la
mia, che ti lascio immaginare; parlo della generale, di quella comune a
tutti i bravi giovinotti destinati ad esserci compagni. È impazienza
però tenuta a bada dalla disciplina che l'abitudine d'altre campagne ha
loro infuso nelle vene e dalla molta confidenza in te. Devi ammettere
che certamente questa deve essere in buona dose perchè sì brava e
generosa gioventù subisca con rassegnazione, con quiete, la lanterna
magica delle colonne partenti di qui ogni giorno.

«Come poi devi imaginare, le notizie delle strette in cui si trova la
colonna di Menotti, aumentano l'agitazione. Ti ripeto, però, dovrò
attendere le notizie con mediocre rassegnazione. Tu ritieni che Checco
[_Cucchi_] debba aspettare qualche giorno specialmente per questo
incaglio avvenuto alla spedizione della roba dal _bel colpo_[11] di Orte
e, come puoi comprendere, sono perfettamente del tuo parere. Peccato non
lo sieno gli amici di Firenze, i quali solo per tre quarti si lasciarono
persuadere dalle nostre ragioni; tre quarti già molto vacillanti per le
incalzanti notizie diplomatiche. Ma ciò saprai perfettamente dal
deputato Crispi. Ti avviso solo che si ritiene sicura la spedizione
francese. Questa mi parrebbe ragione di più per non precipitare le cose,
chè un aborto di rivoluzione, una battuta dai papalini sarebbe ben
infelice principio d'una campagna _Gallica_. Di ciò, ti ripeto, parmi
non sien perfettamente persuasi gli amici di Firenze.

«Dessi incalzano Checco continuamente; onde temo che questi si decida ad
un colpo disperato. Ciò tu avrai subito mezzo di conoscere dalle
risposte _romane_ che attendi. Sul dubbio fortissimo di ciò, io credo
intanto di farti una proposta che serva ad agevolare o meglio ad
affrettare l'entrata in azione dei nostri sessantaquattro[12]. Giudica e
rispondi in tutta fretta; se puoi, col telegrafo. Sono tanto più spinto
ad esporti questa mia proposta, chè temo non possa arrivare stasera e
neppure di buon mattino domani, e, per Dio, si è sulle spine!

«Ma ecco la proposta. Partire noi tutti alla tua volta sotto gli ordini
di Tabacchi; arrivati a te, tu combinerai la spedizione ed organizzerai
una [_banda?_] a seconda della convenienza dipendente dalle risposte di
Roma.

«Io ritengo che accettando questa idea, vi sarebbe in ogni caso da
guadagnar tempo; con la formazione della banda è cosa evidente; per
quello della spedizione, son pure del parere, pensando si sia più
prossimi ad aver mezzi ed alla strada _convenuta_ (con Checco) costì
dove tu sei, anzichè qui in questa _fornace_. Tu pondera e risolvi. La
risoluzione raccomando caldamente siami comunicata a vapore. Certamente
sarai già in comunicazione col signor Carlo Ferri romano, proprietario
(credo) di campagne presso Roma e perciò pratico delle strade; tale,
cioè, da poter dare informazioni per noi preziose. Così mi disse il
signor De Andreis, solo romano che forse conosca.

«Addio. Ti ripeto: mi trovo, ci troviamo sui carboni accesi. Mille cose
a Menotti ed agli altri amici. Ti abbraccio caldamente.

                                               «GIOVANNINO».

«_P.S._ Arrivò in questo istante dispaccio di Ghirelli in cui annuncia
d'obbedire all'ordine del generale Fabrizi di portarsi verso Menotti,
d'obbedire protestando».

Questi due documenti rivelano chiaramente come fino all'ultimo istante
l'impresa nostra non fosse nè ben decisa nè ben definita e che non vi
era una piena armonia di idee tra il comitato di Firenze, quello di Roma
ed i capi spedizione di Terni.

Individualmente delinea in modo stupendo il carattere dei due giovani
eroi, l'uno ardito, fremente, che va dritto alla mèta colla sicurezza
dell'animo invitto, che chiama le cose col loro nome senza ambagi, che
qualifica persone e fatti con quello stesso colpo d'occhio sicuro con
cui la sua mano investiva il nemico; l'altro giovine, impaziente ed
ansioso di gloria, che però ama riflettere sulle circostanze per
volgerle al conseguimento migliore dell'alto ideale che lo sorregge:
l'uno già provato ai duri cimenti, l'altro ansiosissimo di tentarli;
ardito ed imperterrito l'uno, serio e gentile l'altro; eroi entrambi
indimenticabili al cuore di chi li conobbe e li amò nella troppo breve
loro vita.



VII.

In marcia.


A Terni ci erano stati mandati da casa i quattrini di cui abbisognavamo,
e così potemmo dare un po' d'assetto anche al nostro abbigliamento.

A me era indispensabile sopra tutto mutar copricapo, giacchè quel
maledetto gibus combinato collo stifelius nero m'aveva ormai reso la
tavola di tutta Terni. Combinai ogni cosa provvedendomi d'un caschettino
ungherese che mi venne dato come impermeabile all'acqua, perchè spalmato
d'una specie di catrame. Lo era infatti anche troppo, perchè durante la
marcia sotto gli acquazzoni raccoglieva entro l'ala rimboccata all'insù
l'acqua come entro una vaschetta, ed ogni tanto dovevo levarmelo per
vuotarlo. Mutai pure di calzatura sostituendo agli stivalini verniciati
un paio di scarponi. Io credetti far meglio prendendoli comodi e ne
portai poi la pena nei giorni seguenti, perchè marciando m'impiagarono
le piante dei piedi.

La mattina del 20 si seppe ch'era ritornato Enrico e che
probabilmente la sera si sarebbe partiti. Tutto quel giorno fu speso
nell'equipaggiarci alla meglio cercando colle coperte di supplire alla
mancanza di zaino ed adattandovi dentro quanto ci poteva occorrere per
viaggio. Vi fu chi si provvide dell'indispensabile borraccia, altri si
fabbricò il tascapane, ciascuno pensò per sè senz'aiuto nè di capi nè di
comitati.

La sera alle sette tutti dovevamo trovarci nella casa del sig. Frattini,
egregio patriota di Terni.

Non uno mancò. Amici ed avversari narrarono che cento erano stati i
designati per la spedizione, ma che poi si ritenne conveniente limitarne
il numero. Questo particolare non ricordo. Ma Giovannino Cairoli nel suo
libretto _La spedizione dei Monti Parioli_ dice invece che il numero dei
componenti la banda fu fissato a sessanta, corrispondente al numero dei
revolvers che si avevano a disposizione, e che in appresso la banda
s'aumentò d'una quindicina.

Benchè s'andasse incontro non solo all'ignoto, ma ad un ignoto di
probabilità ben terribile, pure tutti in quel giorno si era allegri e
contenti.

La sera al crepuscolo la musica suonava la ritirata sulla piazza di
Terni e ritornando alla caserma intonava la canzone: _Andremo a Roma
Santa!_ tutti facevan coro cantando con entusiasmo.

Poco dopo si era tutti pronti all'appuntamento: fu allora il momento in
cui ci si potè riconoscere e numerare, e divenimmo tutti amici
all'istante. Il nome di ognuno di noi rimase scolpito nella memoria e
nei cuori di tutti gli altri: le fisonomie, il tempo o la morte le hanno
in gran parte pur troppo cancellate.

Venne fatta la distribuzione delle rivoltelle e ciascuno s'adattò la
propria alla cintura. Poscia Enrico, intimato silenzio, disse:

— Prima di partire debbo dirvi due parole. Noi partiamo per una impresa,
più che arrischiata, disperata. Una volta entrati nel confine, tenetelo
bene a mente, non si torna più indietro. Ma ricordatevi pure che sulla
vostra vita non dovete contar più nulla. Perciò, se alcuno di voi fosse
indisposto o ritenesse opportuno cambiar pensiero, m'avverta; ciò non
sarà un disonore; egli potrà far parte d'altri corpi e lo saluteremo con
un arrivederci a Roma. C'è alcuno che vuol rimanere?

— No, si gridò tutti unanimi.

— Ebbene, vi avverto che ci toccheranno stenti, privazioni d'ogni sorta,
dovremo marciare continuamente, forse non avremo di che nutrirci: non fa
nulla, divideremo il tozzo assieme. Se io mi lamenterò, se mostrerò
d'aver paura, se mi vedrete indietreggiare, datemi una revolverata nella
testa; ma se alcuno di voi lo troverò vile, farò lo stesso con lui.

Un urrà di applausi accolse questa breve arringa, della quale volli
recare il testo nella sua soldatesca semplicità, quale io lo ricordo a
mente preciso da trent'anni ad ora e quale mi rimase e rimarrà scolpito
nella memoria finchè avrò fiato.

E la gentile anima di Giovannino mi perdoni se delle parole del valoroso
suo fratello io pubblico una lezione un po' diversa da quella ch'ei ci
lasciò e che figura pure scolpita sulla base del monumento al Pincio. Il
senso è perfettamente lo stesso, ma egli volle forse ingentilire la
forma; io voglio invece evocare un ricordo, quale mi sta in mente e nel
cuore da tanti anni e che non potrei mutare di una parola.

Se io avessi a dire da qual porta di Terni si uscì, direi bugia. Era
buio e si camminava con molta circospezione; fuori di Terni si trovò un
omnibus destinato, non saprei se quale ambulanza o qual riposo per turno
a chi si sentiva stanco[13]. Probabilmente siccome la nostra marcia, nel
timore che il nostro obbiettivo ci mancasse in causa della rottura della
ferrovia di Orte perpetrata dal Ghirelli, doveva essere di molto
accelerata, forse quell'omnibus fu cautela molto prudente perchè nessuno
rimanesse addietro. Ma l'uomo propone e Dio dispone. L'omnibus ci
precedette e noi marciammo dietro a due o a quattro, secondo che la
strada permetteva. Si procedette per alquante ore con passo cadenzato e
con sufficiente buon umore: dopo, il chiacchierìo cominciò a farsi più
rado ed il passo si fe' più lento ed irregolare.

Enrico camminava, anzi correva da un capo all'altro della colonna e
incoraggiava con dei: Bravi! bravi! così va bene! Ogni mezz'ora circa
l'omnibus si fermava per dare il cambio e sull'ultimo della marcia era
preso d'assalto con furore; a tal punto che finalmente una ruota si
fracassò, e così il primo a rimanere addietro fu il veicolo
dell'ambulanza; le prime marcie infatti sono terribili e ben pochi
resistono al dolore acuto delle piante ed al rodimento prodotto dalla
calzatura, specialmente se bagnata.

La prima tappa che si fece fu a Configni: era notte buia e non si
distingueva se fosse un paesetto od un semplice casolare.

La sosta fu brevissima. Rimessici in cammino all'alba, si cominciò a
distinguere la strada che si batteva. Ora si camminava lungo la costa
d'una collina, ora si scendeva in una vallata, sempre si aprivano nuovi
prospetti, nuove gole, nuove colline, ma l'aspetto del luogo
complessivamente era tetro e selvaggio. Rarissima qualche casa, la più
gran parte boschi e prati. Segni di coltivazione scarsissimi:
comprendevo allora il brigantaggio.

Un'acquerugiola fredda e sottile come nebbia ci penetrava fin all'ossa
l'alba del 21; finalmente dopo ore ed ore di cammino senza l'incontro
d'anima viva, ad una risvolta c'imbattemmo d'un tratto in un carrozza
tirata da due cavalli. La vettura sostò e sostammo noi pure per circa
un'ora. Enrico e Giovanni s'intrattennero a parlare col forastiero
ch'era in vettura, ed intanto noi ci sparpagliammo lungo un torrente e
sdraiatici sui sassi, cercammo un momento di sonno che fu molto breve,
troppo breve.

Pioveva, e per non bagnarci e star caldi ci sdraiammo a terra in gruppi
di cinque o sei, tutti colle teste in un punto e colle gambe all'infuori
come una stella. Sulle teste si buttò una coperta.

Nulla si seppe di quel che i capi si dissero. Quando la carrozza parti
io chiesi ad uno dei miei compagni:

— Chi è quel signore?

— È il principe di Piombino, mi rispose.

— Davvero?...

— Sì, mi confermò un altro, è un principe liberale, è dei nostri.

Ora soltanto dopo tanti anni apprendo dall'opuscolo di Giovannino che
egli era il sig. Luigi Cucchi ora deputato e fratello all'onorevole
senatore Francesco. Io non lo impugno certamente, ma per me quel signore
è e sarà sempre il principe di Piombino: il mio ricordo è tale; nè io mi
proposi di scrivere della storia ma solo di narrar ricordi ed
impressioni.

Tanto al principe che all'on. Cucchi chieggo scusa dello scambio. Al
postutto cospiratori e principi non è detto che siano sempre stati in
antitesi.

Verso il mezzogiorno circa s'arrivò a Cantalupo.

Era un paese di costruzione singolare: un perfetto rettangolo con una
piazza nel mezzo e due porte ai due lati minori. Sembrava il cortile
interno d'un palazzo o d'un convento. In tempo antico doveva essere una
sola proprietà, forse un castello[14].

Quivi si sostò e più ancora che a rifocillarci, si pensò a riposare. Fu
allora che un compagno mi giocò un tiro atroce. Mi ero con somma cura
composto un giaciglio di paglia nell'angolo d'una stanza e gustavo già
sovr'esso i primi momenti d'un sonno profondo e riparatore, allorchè
costui che tornava allora dal rapporto del comandante, invidiandomi
tanta felicità, mi chiamò ad alta voce scuotendomi.

— Che vuoi? gli chiesi tutto indolenzito e rabbioso.

— Il comandante ti vuole!

— Chi?

— Il comandante Enrico ti vuole.

— Me?

— Te, sì, e fai presto che t'aspetta.

Balzai in piedi e barcollando andai dal comandante che stava dalla parte
opposta del paese.

Enrico non si era mai sognato di domandare di me e quando ritornai
scornato per la burletta, trovai l'amico sdraiato sul mio giaciglio che
russava placidamente. L'avrei preso a pedate!

A Cantalupo era passata poco prima una colonna di garibaldini. La nostra
quindi al suo arrivo trovò, in fatto di cibarie, poco meno che _tabula
rasa_. Nondimeno approfittammo largamente di un bettolino di liquori e
parte al bettolino, parte nelle case, ognuno trovò di che ristorarsi.

L'amico Tabacchi, pochi anni or sono, mi ricordava il suo desinare di
Cantalupo in casa di uno di quei terrazzani e come l'appetito eccellente
gli fosse ottima salsa alle povere vivande. Parecchi anni di poi, il
collegio di Mirandola mandò, e meritamente, il Tabacchi a sedere a
Montecitorio. Chi primo si ricordò di lui e suppose d'avere un valido
appoggio presso il Governo, non furon già gli elettori, fu l'anfitrione
di Cantalupo, il quale gli diresse una lettera pregandolo perchè gli
ottenesse dal Governo un sussidio per restaurare la cadente sua casa,
quella casa che nel 1867 aveva avuto l'onore di ospitarlo.

Ecco un nuovo patriota che per il paese aveva sacrificato.... un
desinare; e in benemerenza domandava una casa! Almeno costui era ingenuo
nel chiedere! Quanti anfitrioni di Cantalupo non vi furono invece astuti
nell'ottenere, e forse con meriti ancor minori dell'olocausto d'un
desinare!

Alle tre pomeridiane fummo chiamati a raccolta in una chiesa, ove ci
venne distribuita una lira a testa. Fu quello l'unico danaro che io
percepii nella piccola campagna; e quando più tardi, nell'ospedale di
Santo Spirito a Roma, un prete mi compassionava dicendomi:

— Povero figliolo, che colpa ne avete voi? Vi han dato in mano un
fucile, vi han mostrato i baiocchi, e voi siete venuto avanti — gli
chiesi quanto percepiva egli dalla celebrazione di una messa.

— Due lire, mi rispose.

— Vede? gli replicai. Io fui ben più discreto di Lei. Per mezz'ora di
tempo impiegato in preghiere Ella prende due lire, io per giocarmi la
vita, non ne ebbi che una.

Schieratici alla meglio nella chiesa, Enrico diede ordine al signor De
Verneda di leggere il seguente ordine del giorno che, mentre ribadiva
nella stessa forma i concetti del discorso tenutoci il giorno innanzi,
provvedeva all'organizzazione del nostro piccolo esercito.

Eccolo:

    «Amici!

«È prossima l'ora nella quale ci bisognerà provare che noi sappiamo
_operare_. Per riuscire dobbiamo essere ordinati, cioè dobbiamo cercare
di essere in condizioni tali da permettere la maggior concentrazione e
la maggiore dilatazione delle nostre forze a seconda del terreno che
dovremo attraversare. Perciò ho stabilito che la nostra piccola banda si
ordini nel modo seguente:

«Un comandante, Enrico Cairoli; un aiutante, Ermenegildo De Verneda; un
furiere, Giusto Muratti; tre comandanti di sezione: sezione 1ª, Giovanni
Tabacchi; sezione 2ª, Cesare Isacchi; sezione 3ª, Giovanni Cairoli. Ogni
sezione comprenderà cinque squadre, ciascuna composta di quattro uomini
e di un capo.

«Amici, ancora una volta è mio dovere ricordarvi che l'impresa è
difficile, più che arrischiata, disperata. So il vostro valore. Non
parlerò a voi del pericolo, della stanchezza estrema che avremo a
patire. Ma se qualcuno di voi, per circostanze indipendenti dalla sua
volontà, non intende seguirci, lo dichiari francamente, tanto più
ch'egli avrebbe il rimorso di recar danno al nostro tentativo. Chiunque
è indisposto o avesse malati i piedi è obbligato a non celarsi, perchè
guai a lui se persistendo la sua indisposizione si aggravasse, quando
saremo sopra altro terreno. Bisogna che egli scelga un cammino diverso,
e noi lo saluteremo dicendogli: Arrivederci a Roma!

«Alle quattro si marcia. Il signor Stragliati è addetto ai carri».

Quest'ordine del giorno Enrico l'aveva concertato coi capi sezione e
scritto mentre noi si riposava.

Si riprese la marcia. I quattro uomini che col rispettivo caporale
costituivano ogni singola squadra erano numerati: dopo il capo squadra
veniva il numero uno, poi il numero due, il tre, il quattro, numeri che
costituivano, per così dire, l'anzianità nel comando. I capi squadra
avevano per unico distintivo un fischietto, che doveva servire ai
segnali. Non so quanto realmente in atto esso abbia servito.

La marcia fu rapidissima, benchè molestata dalla pioggia; fu aiutata
però da taluni veicoli ed anche da qualche cavalcatura. Il tutto assieme
era molto bizzarro: marcia rapida a passo di carica, parte a piedi,
parte in carretto, parte a cavallo, alcuni in giacca, altri in cappotto,
altri in pastrano, chi col bonnetto, chi col cappello!

A notte inoltrata si era a Ponte Sfondato, che credo fosse un cascinale
isolato. Lì trovammo dei militari nostri e poco mancò non li
attaccassimo, ritenendo che vi fossero per arrestarci. Ma poi si
riconobbe che si trattava di un distaccamento il quale non aveva alcun
ordine in proposito. Anzi l'ufficiale che lo comandava fu con noi
gentilissimo.

Il malanno più grave diventò allora per noi quello dei viveri.
Trovandovisi già accampata la truppa, ben poco vi si rinvenne da
ristorarci; ed al banco del misero botteghino che c'era, fu una ressa
indiavolata a chi arrivava primo. Ma con gli spintoni e le gomitate
sangue da un muro non si cava di certo, e il botteghino in poco più di
due ore fu letteralmente depredato, senza che perciò il nostro appetito
fosse sazio.

Ci minacciava davvero la sorte del Conte Ugolino a due passi dal
confine, quando un lampo di genio di uno di noi venne in soccorso a
tutti. In quella bettola ci restava ancora in un angolo un mezzo sacco
di riso. Rimboccate le maniche e fatto grembiale d'una tovaglia, il
compagno nostro si mise a far da cuoco e in men di mezz'ora l'intera
colonna faceva onore ad un risotto improvvisato che per la circostanza e
per l'appetito restò fra noi memorabile.

A Ponte Sfondato si potè riposare un po' meglio che a Cantalupo.

La mattina si marciò per Passo Corese.

In vicinanza del confine si fece _alt_, e si passò il ponte della
ferrovia alla spicciolata fino ad un casolare isolato che pareva
servisse ad uso di stalla. Ma prima d'attraversare il ponte Giovannino
schierò la sua sezione (alla quale io pure appartenevo) davanti a sè e
volle farle la sua parlatina, che riferisco pur essa nella sua
originalità:

«Amici, entriamo ora nel territorio nemico e speriamo che questa
giornata sia per essere a noi fortunata e gloriosa. Io desidero che noi
ci trattiamo tutti come fratelli, e però permettete che fin d'ora io dia
a voi del tu, e vi prego di fare anche voi lo stesso con me[15].

«A qualunque evento si vada incontro e qualunque cosa possa accadere,
voi sapete che delle disgrazie saranno inevitabili. Ma siccome il buon
ordine vuol essere sempre mantenuto in qualsiasi frangente, ricordatevi
che restando ammazzato (disse proprio così) o ferito alcuno dei capi,
prende il comando quello che immediatamente per numero gli vien dopo.
Quindi, se restassi ammazzato io, prenderà il comando della sezione il
capo della prima squadra e capo di questa resterà il numero due; se
resta ucciso il numero due, comanderà il numero tre e così via per ogni
squadra».

Sono le sue precise parole e furono dette da lui colla massima calma e
colla dolcezza di voce sua abituale, sicchè mi fecero forte impressione.
Questo parlare della propria morte e di quella dei compagni con tanta
serenità e calma, come se si trattasse di un ordine da darsi per una
partita di caccia, e il parlarne come di cosa imminente e che forse
poteva accadere in quel giorno stesso, mi mise in corpo un lieve tremito
che potea dirsi anche _paura_.

È inutile dissimularlo! Un uomo è uomo, e sono ben pochi che abbiano il
coraggio volgarmente detto del sangue freddo. Chi non fu mai esposto al
fuoco, se ha, lontano dal pericolo, il coraggio a parole, quando
s'avvicina al fatto e quando è al fatto stesso, prova nel primo momento
un senso istintivo di terrore che lo invade tutto. I primi colpi di
fuoco sono sempre terribili e sono quelli che provano i coraggiosi ed i
vigliacchi. Dopo, nel furore della mischia, anche un vile può avere il
suo pazzo coraggio; ma è nella resistenza alla prima impressione che sta
la vera prova. L'istinto non si distrugge, e però chi prova terrore al
fuoco e vi sta esposto inchiodatovi dal sentimento del dovere, quegli è
un eroe. Chi si ubbriaca d'esaltazione, gridando e smaniando, è come
colui che si alcoolizza per prender forza. Le battaglie si vincono più
con la resistenza passiva che col furore dello attacco.

Giunti che fummo allo stallaggio o casolare di Passo Corese, s'andò
tutti a finire nelle mangiatoie, cercando di rifarci là dentro degli
arretrati del sonno.

Ma anche qui io fui sfortunato più ancora che a Cantalupo.

D'improvviso il comandante chiamò il furiere e gli ordinò che prendesse
le sue disposizioni, perchè erano giunti trecento fucili, e si doveano
scaricare e portare, con le relative munizioni, in una barca. Non
ricordo quali disposizioni il furiere prendesse; ricordo bensì che una
delle prime sue vittime fui propriamente io.

Non me ne lagnai però. Avevo preso a fare religiosamente il mio dovere,
ed anzi rammento ancora con un po' d'orgoglio che di nessuno dei mezzi
di trasporto che avevamo a nostra disposizione lungo la marcia, io volli
mai approfittare! D'altronde ero il più giovane: era troppo giusto che
cedessi i comodi ai più anziani d'età.

Confesso però che la fatica di quel trasporto mi riuscì penosissima. I
fucili si portavano a fasci di quattro o cinque con la baionetta rivolta
all'in giù. Pioveva nuovamente, e l'acqua mi penetrava fin nelle midolla
attraverso il logorato mio stifelius d'estate. In terra c'era una mota
argillosa appiccicaticcia, che rendeva fastidiosamente faticoso il
camminare. La fretta, il peso dei fucili che male stavano uniti assieme
e sfasciandosi e cadendo colle baionette sfregiavano le mani, il cammino
malagevole oltremodo, formavano un insieme di tali difficoltà, che mi
facevano sudare goccioloni caldi, mentre la pioggia mi agghiacciava e mi
attaccava i panni alla pelle.

In vita mia non credo di aver sopportato mai fatica più ingrata.

Mentre si eseguiva tale operazione e la pioggia continuava a
flagellarci, m'avvidi nel rimettere i fucili al battelliere che
sull'opposta riva del fiume era accorsa gente la quale riparata da
ombrelli stava spiando quello che noi facevamo. Incontanente al mio
ritorno ne feci avvertito Enrico il quale accorse a vedere. Ma quando
egli arrivò sul posto, erano tutti spariti.

Che costoro abbiano contribuito a far abortire il nostro tentativo
avvisando il comandante del presidio di Roma?... chi lo può sapere? È
però certo che l'indomani il capitano Cialdi dell'esercito pontificio
ordinava di spazzar via tutte le barche del fiume a monte di Roma.

La barca nella quale collocammo i nostri fucili era un ampio barcone di
quelli che portano legna da fuoco in Roma. I fucili furono allogati
nella stiva stessa e in parte fra le cataste della legna.

Di sommo aiuto in quest'opera d'imbarco ci furono Angelo Perozzi, già
conosciuto a Terni e nostro compagno d'armi, e il ricevitore doganale
Buglielli, romano, che rividi tre anni di poi a Napoli. Allora mi
confessò che quando ci vide partire, egli, che conosceva i concerti e le
intelligenze prese con Roma, guardò trepidante l'orologio e battendosi
la fronte esclamò addolorato: «Dio faccia che arrivino in tempo, ma temo
che sia oramai troppo tardi!»

E s'apponeva al vero!



VIII.

Il Tevere.


Il fiume classico, il fiume della storia e della poesia ci accolse nel
suo seno. Il barcone che ci conteneva era seguito da altre due barchette
nelle quali furono collocate due squadre comandate dal Fabris e dallo
Stragliati.

Quest'ultimo ebbe l'ordine di sorprendere un posto di doganieri che
doveva esistere presso la foce dell'Aniene. I segnali dal barcone alle
barchette si dovevano fare con fanali a colori.

La corrente ci trasportava maestosa. Il cielo si era rasserenato, tirava
un vento rigido e secco.

Il comandante dispose una guardia speciale sopra coperta del barcone e
la mutava ogni mezz'ora. Il mio turno venne quando era già notte alta.
Il vento frigidissimo mi aveva asciugati tutti i panni inzuppati, nè io
me n'accorsi. Un senso indistinto di tristezza mi portava colla mente
lontano, lontano, ove di certo si palpitava sulla mia sorte. Benchè il
cielo fosse stellato, la notte era buia. Le due sponde del fiume si
distinguevano appena come due nere striscie serpeggianti. Di tratto in
tratto la pianura appariva ancor più cupa del resto: erano forre,
macchie, canneti, boscaglie. Non un lumicino che additasse un casolare,
che accennasse alla veglia, all'esistenza di qualche creatura. Tutto era
buio, tutto dormiva. Pensavo alla notte eterna, senza speranza di nuovo
sole, senza miraggio d'aurore più splendide delle nostre, e lo spirito
rifuggiva aborrente da cotesta vacuità del nulla. Per alcuni ha
l'attrazione dell'abisso, per me ha l'orrore del precipizio.

Alta la notte! Fra poche ore spunterà il sole: lo vedremo noi? lo vedrò
io? Un colpo di fucile aggiustato nell'ombra da una di queste sponde
potrebbe rompere la mia meditazione e con essa troncare il filo di mia
vita, le mie speranze, i miei sogni. Addio illusioni di gloria! addio
trionfi del Campidoglio! Morto nel buio! Colpito proditoriamente, non
ebbe tempo di battersi, non vide il nemico in faccia!

Un brivido mi scoteva dai tetri pensieri. Aguzzavo la pupilla innanzi a
me e dalle parti. Nulla! Le due barchette non si scorgevano affatto: a
stento potevansi distinguere le tortuose sponde del fiume ed i gomiti
repentini della corrente, che or ci portava presso a riva ed or ci
lanciava ad arenarci contro la sabbia della spiaggia opposta: gli urti
ed i sobbalzi improvvisi mi toglievano bruscamente alle mie tetre
meditazioni.

Quand'io smontai la guardia e fui sceso in stiva, Giovannino mi toccò i
panni, poi mi disse col suo dolce sorriso:

— Vedi un po', questo venticello è stato per te una manna. T'ha
asciugati i panni senza bisogno di fuoco: così non ti prenderai nessun
malanno.

Ed infatti non ebbi nemmeno il più piccolo raffreddore. Il morale
s'impone al fisico e ne vince e ne sublima la debolezza.

A notte inoltrata fu ordinato il trasbordo dal barcone sopra tre
barchette già predisposte a Passo Corese. Una di queste che s'era
smarrita ed era stata causa del ritardo nella partenza, si era più tardi
rinvenuta lungo il fiume. Ci trovammo per tal modo stipati sessanta
uomini (l'avanguardia Stragliati non compresa) in tre piccoli schifi. I
fucili li adagiammo sul fondo, dove per mala ventura c'era dell'acqua, e
noi alla meglio ci accomodammo sopra di essi. Come ci si potesse stare
ognuno può pensarlo! Si era accovacciati sugli acciarini, sui calci,
sulle baionette. Le barche affondavano a cagione del peso, l'acqua era a
quattro dita dalla sponda e guai al più leggero movimento!

Se un picchetto di gendarmi, o anche un solo gendarme si fosse divertito
dalla sponda a fare di noi bersaglio e avesse tirato al buio in quelle
tre masse nere che scorreano lente lungo il fiume, avrebbe fatto un
massacro terribile. Guai poi se avessimo reagito, saremmo tutti finiti
capovolti nell'acqua e affogati.

Ad onta della posizione incomoda, ad onta del freddo che penetrava nelle
ossa, il sonno la vinse e molta parte di noi non tardò ad addormentarsi
colle teste penzolanti. Non dormiva però l'infaticabile Enrico, il quale
ad un certo punto del fiume fe' sostare le barche.

— Hai veduto un fanale? chiese al fratello.

— No, e tu?

— Io sì, ma non ho distinto bene. Siamo giunti al posto, dove Stragliati
deve aver fatto il colpo. Ecco, ecco! rosso, sta bene! il colpo è
riuscito.

Di fatto lo Stragliati, come si seppe di poi, inavvertito alle
sentinelle, si era spinto fino al Posto di Finanza, aveva disarmato
agevolmente il piantone e destate le altre guardie che dormivano, le
aveva con sè imbarcate, impadronendosi delle loro armi. Vidi più tardi
quei poveri disgraziati, che avranno probabilmente ricordato a lungo la
brutta sorpresa di quella notte; più che spaventati mi sembravano
insonnoliti.

Arrivammo finalmente ad una località dove l'amico Perozzi pratico dei
luoghi, giudicò prudente di sostare in attesa di segnali che dovevano
venire da Roma, alla quale, ei diceva, ci trovavamo ormai vicini. Tutti
allora eravamo svegli.

— Vedete nulla? domandava ad ogni momento.

E ciascuno appuntava lo sguardo lontano quanto più poteva. Nulla!

Disgraziatamente una folta nebbia venne ad involgerci tutti e ci lasciò
per qualche tempo nel buio più profondo. Era un freddo umidiccio, sicchè
i panni cominciavano di nuovo ad aderire alla pelle.

Un barlume lontano lontano, quasi indistinto dapprima, cominciò a
mostrarsi e subito una delle nostre barche fu sciolta. Vi montò il
romano Candida per penetrare in Roma e ritornare poi immediatamente per
barca o per terra a darci notizie. Ma il Candida non si vide più: forse
lo arrestarono i gendarmi posti a guardia del fiume, forse gli fu
impedito di retrocedere per terra.

Sbarcammo. Eravamo tutti indolenziti, colle ossa peste, affrante.
Qualcuno di noi nel discendere, forse per naturale abitudine, cercava di
ricomporre il proprio abbigliamento (per mo' di dire!) riabbottonandosi
la giacca, scuotendo il fango dai calzoni, ponendosi un fazzoletto al
collo a riparo dall'umido o ravviandosi colle dita i capelli.

Quando Enrico se ne avvide, sorrise. Fu forse l'unica volta che io lo
vidi sorridere: non era suo naturale.

— Che cosa dovrei fare io allora! esclamò. Io che ho tanto girato in
questi giorni senza mai svestirmi, io che non muto da un mese
biancheria, e da otto giorni non mi sono nemmeno levata un momento la
calzatura!

Albeggiava. Il Perozzi fece osservare che in quella località sarebbe tra
breve cominciato il passaggio della gente, la quale veniva a bere
l'Acqua Acetosa, fontana medicinale poco discosta, e che quindi
conveniva che ci nascondessimo.

Poi che fummo sbarcati tutti, fatta una ricognizione del luogo, si
riparò in un canneto e vi si stette parecchio tempo accovacciati o
seduti sul fango. Fu allora che vidi distintamente i doganieri pontifici
fatti prigionieri. Erano uomini dai trenta ai quarant'anni e sembravano
rassegnati alla strana avventura loro toccata.

Neanche il canneto però fu ritenuto luogo opportuno per potervi rimanere
l'intiera giornata.

Poco discosto da esso sorgevano quasi a picco alcuni dirupi frastagliati
da alberi e cespugli: su di essi mise l'occhio Enrico e pensò che da
quelle alture avremmo potuto agevolmente difenderci in caso di un
attacco. Ordinò a Giovannino che colla sua sezione vi salisse per
osservare se convenisse occupare quella posizione.

Salimmo tenendo nascosti i fucili colle coperte, perchè il bagliore
delle canne non fosse veduto da lungi, precauzione inutile perchè i
fucili si erano per l'acqua e per l'umido tutti arrugginiti. Sulla
sommità ci trovammo in vicinanza di una villa, la quale aveva forma di
castello piuttosto che di palazzina. Ci si avanzò prudentemente
collocando sentinelle in parecchi punti e Giovannino si spinse per uno
stradello fino ad un'altra casa alquanto più discosta e prospettante
verso l'altra parte della collina.

Da là lo vidi ritornare con un uomo che recava seco delle chiavi. Era il
vignarolo. Lo accompagnava un ragazzino suo, che alla vista di noi e
specialmente dei fucili, si gettò in un piangere dirotto, come se lo
avessero picchiato. Il vignarolo ora lo sgridava, ora lo rincorava: poi
si fece animo, e quel ragazzetto, che aveva del resto molto spirito, ci
fu di grande giovamento: riuscì perfino a penetrare in città e a
riportarne un messaggio. Il vignarolo sembrava abbastanza disinvolto: lo
giudicai un galantuomo che non ci avrebbe di certo traditi, e se ne ebbe
infatti la prova il giorno dopo, quando egli diede ricetto ai feriti
nostri.

Quella vigna apparteneva al signor Glori romano, clericale della più
bell'acqua. Non era ancora passato l'anno, che già il vignarolo era
stato licenziato dal Glori.

Fui a trovarlo nel 1870. Aveva mutato padrone, ma non per questo era
accorato. Ricordo che bevemmo insieme un bicchiere e mi parlò con
passione e con vero dolore di Giovannino morto un anno prima.

Quanto al signor Glori, volesse o no, dovette sorbirsi ogni anno,
d'allora in poi, un pio pellegrinaggio, che per lui rappresentava una
invasione.

La prima volta nel 1870, appena entrate le nostre truppe, molti patrioti
si recarono con pio pensiero a visitare il posto dove era morto il
povero Enrico. Il signor Glori ci si adirò e chiuse a chiave l'ingresso,
talchè quando poco dopo ci andai io, mi fu forza corrompere il vignarolo
per passare.

Ma venuto il 23 ottobre dello stesso anno, anniversario del fatto
d'armi, fu organizzata una commemorazione solenne, alla quale
intervennero tutte le Società e tutti i patrioti liberali di Roma.

La dimostrazione essendo troppo imponente e il proprietario non potendo
opporvisi, dovette, a scanso di peggio, aderire. Però all'on, Pianciani
che gliene aveva fatto chiedere il permesso, il signor Glori fece
rispondere che egli lo accordava non al deputato Pianciani, bensì al
conte Pianciani, e non per farvi commemorazioni, ma per fare quanto la
sua discretezza, a cui si affidava, gli avrebbe consigliato.

La discretezza, ahimè! per quanto buon volere ci mettesse il Pianciani,
andò a rotoli.

La folla era tale e tanta e l'onda invadente così impetuosa, che i
sentieri della vigna, troppo angusti, non la contennero, onde la vigna e
i campi subirono una calamità non prevista di certo in nessun contratto
d'assicurazioni.



IX.

Villa Glori


Il fatto che prende il nome da Villa Glori, non fu, in sè stesso, che
una mischia accanita che durò un'ora o poco più. Preso isolato, non
avrebbe avuto una grande importanza: parecchie fucilate e un vivace
attacco alla bajonetta: ecco tutto. Ciò che valse a circondarlo, per
così dire, di un'aureola, fu l'ardimento del tentativo e, più che tutto,
il sacrificio dei due capi della spedizione, figli di una famiglia di
martiri.

Il nostro còmpito era di spingerci dentro Roma. L'esserci invece dovuti
fermare al di fuori, fu effetto di impreveduti accidenti e della
necessità di attendere nuove comunicazioni. Arrivati fino a quel punto
sarebbe stato viltà retrocedere prima di avere notizie da Roma, e venir
meno alla promesse di d'appoggio fatta ai nostri; ma scoperti anzitempo
ed attaccati, fu forza difenderci ed il campo rimase a noi; allora fu
prudenza dei nostri il ritirarsi come fecero, nè era possibile fare
altrimenti.

Sarebbe stata una pazzia rimanere sul posto. Come avrebbe potuto
sostenersi lungamente una banda di settantotto uomini che aveva perduti
i capi ed era decimata, con una posizione possibile forse a difendersi
dal lato del fiume, ma impossibile dal lato opposto? Settanta uomini non
sarebbero bastati nemmeno per le fazioni dal lato dello ingresso alla
vigna, tanto il pendio vi è dolce ed allargantesi gradatamente fino alla
base del colle. L'indomani mezzo il presidio di Roma sarebbe uscito ad
attaccare la piccola colonna.

Entrare in Roma la notte stessa con le barche non si poteva, perchè
queste erano sparite; entrarvi ordinati in colonna pigliando d'assalto
Porta del Popolo o un'altra porta, non era cosa cui si potesse neppur
pensare, perchè erano tutte difese da cannoni. In ogni caso sarebbe
occorsa l'opera simultanea di insorti che si muovessero dentro la città,
e in quell'ora sarebbe stato impossibile avvertineli. Unico mezzo
sbandarsi alla spicciolata, e così fu fatto. Perciò, lasciati due o tre
a cura dei feriti, alcuni entrarono in Roma, altri furono a tempo per
trovarsi a Monterotondo e Mentana; altri, pur troppo, furono sorpresi e
carcerati[16].

Non vi è impresa, per quanto lodevole, che non possa dare argomento a
critiche o ad osservazioni. Ai superstiti di Villa Glori qualche facile
censore mosse il rimprovero di avere abbandonati i loro morti e feriti,
pur tenendo il campo. Ho stimato per ciò doveroso per me scagionare i
miei compagni da tale ingiusta accusa, benchè io creda che le mie difese
siano affatto superflue.

Aperta la casa e visitata in ogni sua parte, poco ci volle a fissarvi
quartiere. Una stanza venne adibita per il comandante ed il suo stato
maggiore (diremo così), tutte le altre per la truppa.

Un po' alla volta tutta la compagnia fu sul colle portando seco i fucili
e le munizioni che avevamo trasportato con noi. In breve tutta la casa
fu occupata. Ci sbandammo tutti qua e là per le stanze, e frugando per
ogni buco, trovammo in una camera dei melograni e buon numero di
bottiglie. Ne sturammo parecchie a onore e gloria del signor Glori: così
ci avevan detto chiamarsi il proprietario. Ciò che, del resto, era per
noi di ottimo augurio.

Mancavano però i viveri ed il comandante pensò d'inviare all'uopo in
città il furiere Muratti per provvederne e in pari tempo per dare e
ricevere notizie.

Partì egli infatti e, per andar sicuro e senza molestie, credette bene,
per suggerimento dello stesso comandante, di barattare passaporto con
Mosettig che, come triestino, lo aveva austriaco. In tal modo il
Mosettig diventò il conte Giovanni Colloredo, perchè, come già avvertii,
il Muratti aveva il passaporto con questo nome. La precauzione fu
eccessiva e forse dannosa. Il Muratti fu arrestato egualmente a Porta
del Popolo e per quanto si spacciasse come austriaco e buon cattolico e
parlasse tedesco, non essendo creduto, fu condotto alla polizia e
soltanto più tardi lasciato libero.

Questo fatto dell'arresto del Muratti io non lo seppi che di poi,
all'ospedale, dal cappellano dei gendarmi, il quale mi disse che noi
avevamo mandato in città una spia tedesca!

In quel mattino noi avvertimmo parecchi oziosi e sospetti aggirarsi
intorno alla vigna, e per quanto ci fu possibile, li arrestammo tutti.
Tra costoro c'era un bifolco, un pezzo di giovinotto, che piangeva come
un fanciullo; ma la sua ingenuità era così grossolana, da far pensare
che fosse più furbo che santo. Ad ogni buon conto anch'egli fu requisito
ed incamerato come gli altri.

Verso mezzodì dall'amico Veroi che era di sentinella, fu segnalato
l'approssimarsi al colle di alcuni dragoni i quali sostarono al basso
fuori del cancello. Enrico ne fu tosto avvertito e tenne consiglio coi
capi sezione. Poco di poi intesi Giovannino che diceva ad uno dei nostri
capi squadra:

— Porteremo la nostra sezione alla cascina del vignarolo: si prevede un
attacco.

Riordinammo i fucili: un'occhiata alla rivoltella e una rassegna rapida
delle munizioni di cui ci riempimmo le saccoccie dei calzoni, della
giacca e del panciotto; poi ci recammo con cautela alla cascina del
vignarolo.

Di fianco ad essa sorgeva isolato un monte di paglia; c'era in cima la
nostra sentinella sdraiata, perchè potesse vedere senza essere veduta.
Nel casolare del vignarolo si stava allora appunto allestendo un po' di
cibo e più che tutto un buon brodo che ci andò in tanto sangue. Si
mangiava allegri, non preoccupati per nulla della imminenza di una
catastrofe: anzi si celiava lepidamente ricordando episodi ed aneddoti
d'altri giorni e d'altri amici.

Il più faceto e grazioso narratore in quell'istante era il povero
Mantovani. Parmi ancora vederlo seduto sopra una cassapanca con un pezzo
di pane in una mano ed un quarto di pollo nell'altra. Narrava e mangiava
a quattro palmenti. Infelice! Tre ore dopo era morto!

Infatti si stava ancora mangiando, quando entrò in gran fretta la
sentinella esclamando a bassa voce:

— I soldati! i soldati!

Immediatamente ognuno diè di piglio all'arme sua, e tutti si uscì alla
rinfusa dal casolare. Ci schierammo alla meglio lungo il ciglio del
colle riparati da una leggera siepe e attendendo, ginocchio a terra,
l'avanzarsi del nemico.

Lo si vedeva infatti venire innanzi con cautela disteso in colonna.

Evidentemente veniva ad una ricognizione. Non si distingueva di qual
corpo fossero i militi, ma il colore cupo delle monture ce li faceva
riconoscere per carabinieri esteri (svizzeri).

— Attenti! ci disse sottovoce Giovannino, non fate fuoco finchè non ve
lo ordino io!

Una prima scarica ci salutò ad una distanza, per verità, troppo
rispettabile e le palle passarono fischiando sul nostro capo.

— Non ancora, non ancora! lasciate che si accostino di più!

Infatti lentamente si avanzavano regalandoci una seconda, poi una terza
ed una quarta scarica.

Ci dovevano discernere benissimo: ed a misura che progredivano,
abbassavano la mira, talchè nelle ultime scariche le palle si piantavano
entro terra al disotto di noi e il terreno spruzzando ci sbatteva in
viso. Giovannino stimando per noi inutile imbarazzo quella siepe ci
ordinò d'atterrarla, e fu fatto in un attimo.

— Fuoco! ordinò egli allora, e la nostra prima scarica partì.

Dopo, lo scambio delle fucilate continuò senza interruzione: ma chi può
ridire la pena del caricar quei fucili e il disuguale combattimento! I
papalini avevano dei _remington_ buonissimi che tiravano fino a 800
metri; noi invece dei ferrivecchi, avanzi della Guardia nazionale. Per
caricarli occorreva star ritti in piedi sul ciglio della collina:
miglior bersaglio non si poteva loro offrire!

Qualcuno potè approfittare di qualche tronco d'albero e riuscire a
caricare al riparo, ma i fucili, quasi tutti guasti per l'umidità
sofferta, erano addirittura inservibili! Cinque capsule, mi ricordo,
dovetti applicare per fare il primo colpo: e nella condizione mia erano
tutti.

— I fucili non servono a nulla, cominciammo a gridare, ci vuol l'attacco
alla bajonetta!

E in quell'istante, colpito da una palla, cadeva il povero Moruzzi.
Accorsero Giovannino e il Campari e tentarono di sollevarlo da terra, ma
il soccorso portò danno maggiore, poichè una seconda palla lo colpì al
ventre.

D'altronde il nemico incalzava e non c'era da perdere tempo. Giovannino
ordinò di ritirarsi verso la casa per unirci agli altri. Le ultime
scariche ferirono anche il Castagnini.

— M'hanno ferito, gridò mostrando il braccio sanguinante.

Era quello il primo sangue che io vedevo e non potei trattenere un lieve
moto di ribrezzo: guardai compassionevole il povero amico, ma il suo
volto, tutt'altro che atterrito, mi rincorò.

Ci ritirammo ordinatamente.

Raggiunte le altre due sezioni, che al rumore delle fucilate e per
l'avviso mandatone da Giovanni, erano uscite dalla casina e si erano
schierate lungo la strada, ci fu un breve istante di ressa, di
parapiglia e di incertezza sulle disposizioni da darsi. Non si sapeva
effettivamente da qual parte potesse sbucare il nemico.

Ma quando furon visti spuntare i berretti in fondo alla stradicciuola,
il comandante ordinò sul'attacco alla bajonetta nella direzione della
strada stessa.

Vi si lanciò il Tabacchi colla sua sezione.

Senonchè si vide allora, dal lato sinistro della strada, apparire il
grosso della colonna disteso in ordine sparso sul prato fiancheggiante.

Ma Enrico fu pronto a mutare comando, e senz'altro con quanta voce aveva
gridò:

— Sulla sinistra! coraggio ragazzi! attacco alla baionetta! evviva
Garibaldi!

Un urlo di noi tutti fe' seguito alle sue parole, e superando la scarpa
della strada infossata, piombammo addosso ai pontifici.

Sorpresi anche dalle grida, costoro sostarono un momento esitanti;
credettero senza dubbio di avere di fronte un nemico ben più numeroso.

Sventuratamente, oltre che montare il piccolo ciglio del campo di
sinistra, dovevamo superare anche una siepe che costeggiava il ciglio
stesso e che imbarazzava un movimento simultaneo di tutta la colonna.
Enrico ch'era in testa a tutti, ne atterrò coi piedi quel tanto che
bastava a lui solo per passare, e senz'altro si slanciò precipitoso in
avanti.

— Fermati, Enrico, gli gridò Giovannino, che andiamo assieme!

Sono queste le ultime e le uniche impressioni che mi sono rimaste della
tragedia che allora appunto avea principio: le parole di Giovannino, la
corsa precipitosa di Enrico in mezzo al nemico colla rivoltella spianata
contro il capitano dei pontifici e due o tre soldati sul suo fianco
sinistro che lo prendean di mira. Poi non vidi altro, perchè nello
stesso istante una palla tirata quasi a bruciapelo mi spaccò il polso
del braccio sinistro.

Fu come un violento colpo di pietra: il braccio restò intorpidito, il
fucile mi cadde e mi trovai disarmato di fronte a due soldati che
m'investivano a bajonetta calata.

Trassi il revolver, ne scaricai due colpi nella lor direzione: la vista
dell'arma li fe' retrocedere.

Squillò allora una tromba. Eran nuovi nemici che si avanzavano? era un
segnale d'attacco alla villa per toglierci la difesa?.... Il Tabacchi lo
prevenne portandosi sulla destra del luogo d'azione, e noi altri tutti
accorremmo subito alla difesa della casa.

Appena entrato io caddi su di una seggiola ed ebbi qualche minuto di
deliquio.

Quando rinvenni, la casa era tutta in trambusto.

Imbruniva; la lotta era finita, i papalini pareva che si fossero
ritirati, ma c'era chi diceva che ci avrebbero assaliti per diversa
parte.

— Bisogna difenderci, — barricheremo la porta, le finestre, — daranno
fuoco alla casa, — è morto Enrico ed anche Giovannino, — meglio
arrenderci, — no, dobbiamo vincere o morire, — è caduto Mantovani,
— mancano pure Bassini e Papazzoni, — ci assaliranno da un momento
all'altro, — di notte è impossibile, — usciamo di nuovo, — è caduto
anche Mosettig, — non usciamo, ci prenderebbero, — difendiamoci qui.

Queste ed altre eran le frasi che rammento fra la trepidazione, la
confusione, l'ansia dell'istante, il trambusto e l'urgenza di una pronta
risoluzione.

Fui medicato alla meglio dall'amico Fabris (noi lo chiamavamo Febo ed
era allora studente di medicina a Bologna) con delle pezze strappate da
una camicia. Il projettile m'avea spezzato il capo articolare dell'ulna,
il dolore era acuto e ad ogni piccola mossa mi rincrudiva lo spasimo.
Temevo d'essere preso dal tetano.

Per darmi animo mi fecero bere del vino e poi mi adattarono al collo una
benda, sì che il braccio potesse star fermo e adagiato.

L'angoscia maggiore in tutti era però per la perdita dei fratelli
Cairoli: si parlava d'Enrico caduto, di Giovannino pure; degli altri non
si sapeva. Sarebbe stato necessario andarli a levare dal campo; ma e se
la casa fosse circondata?....

Era scorsa fra codesti dubii e contrasti una buona ora dal combattimento
e la notte era già avanzata, quando parve udire dal di fuori delle grida
continuate. Si tacque tutti e di lì a poco si sentì una voce chiara,
distinta, disperata gridare nel buio della notte:

— Aiutooo!

— Chiedono soccorso.

— Sono i nostri feriti. Bisogna andare.

— E se fosse una gherminella dei nemici per tirarci fuor di casa?

— Comunque sia, bisogna andare.

— Vado io, ci vieni tu?

Ma in quella nuovamente e più lungo e più desolato s'udì il grido:
Ajutooo!

Immantinente l'amico Febo, lo Stragliati ed altri, salite le scale,
aprirono una finestra e gridarono ad alta voce:

— Chi è?

— Mosettig! rispose la voce.

Non c'era più dubbio: erano i nostri che chiamavano soccorso. Subito
alcuni uscirono e rientrarono ben tosto reggendo a spalle il compagno
Mosettig ferito ad una gamba. Tra i caduti era stato il primo a riaversi
e si era trascinato a piccole tappe fin presso alla casa.

Senza più indugi un altro drappello uscì di nuovo fuori; poi un altro
ancora e in breve furon portati entro la casa il Papazzoni ferito ad un
piede, il povero Enrico morto ed agonizzante l'infelice Mantovani.

Enrico ed il Mantovani furono entrambi deposti a terra nella stanza dove
il mattino s'era tenuto consiglio tra i capi sezione. Il Mantovani
respirava appena, ma ebbe il tempo di dirci, fra i singulti della morte,
come essendo caduto per una ferita fosse poi bajonettato sul terreno.

Un grido d'orrore, lo rammento, accolse quella rivelazione di codarda
barbarie. Pochi momenti dopo, fra spasimi convulsivi terribili, spirò.

Il nostro dolore per la perdita di quei due amici fu vivissimo. Si
riandavano i momenti dell'attacco, della mischia, si deplorava di aver
agito precipitosamente, di aver fatto un attacco alla bajonetta in quel
posto; meglio era difenderci in casa, meglio ritirarci al mattino; già
si dovea prevedere che quella non era posizione sostenibile!...

Sul campo non si poterono ritrovare nè Giovannino, nè il Bassini. C'era
chi assicurava che erano morti entrambi, forse caduti lungo la strada,
dopo aver tentato di guadagnar la casa, forse trasportati via dagli
stessi pontifici.

Intanto lo spasimo al mio braccio andava aumentando. Sdraiato com'ero,
mi riusciva insoffribile; mi alzai e salii dall'amico Mosettig.

La sua ferita era grave. Mi strinse con affetto la mano, mi baciò:

— Ah, poveri noi, sclamò poscia, quanto fummo sfortunati!

— Pur troppo, gli risposi, e me ne duole nell'anima! Ora ci terranno
prigionieri chi sa quanto tempo!... E pensare che fra pochi giorni io
avrei dovuto iscrivermi all'Università, e forse mi toccherà perdere
l'anno!

L'amico mi guardò stupito con cera interrogativa, come per accertarsi se
avevo dato di volta al cervello. Ma vedendo che io insistevo nel
discorso:

— Ma ti par questo il momento di pensare all'Università? mi gridò. Chi
sa domani cosa faranno di noi!

Per verità non aveva torto. Da parte mia, però, lo confesso
ingenuamente, non fu nè millanteria nè sprezzo del pericolo. Io vado
soggetto a distrazioni incredibili e anche in quella circostanza si vede
che la regola non volle avere eccezione.

Durante la notte i nostri compagni si sbandarono tutti, chi da una
parte, chi dall'altra. Rimasero a guardia dei feriti il Colombi, il
Campari e il Fiorini, nonchè i doganieri pontifici fatti prigionieri la
notte innanzi.

Cessato il trambusto e l'agitazione, dileguatisi uno ad uno i compagni,
io mi gettai di nuovo sulla paglia, e fosse stanchezza dei patiti disagi
o reazione all'angoscia sofferta, fatto sta che in quella casa dove
pareva restassero gli avanzi di un saccheggio, fra compagni feriti che
gemevano, con due amici morti d'accanto, con l'incertezza crudele del
domani in cuore, quando il sole spuntò al mattino sull'orizzonte lontano
ad illuminar quella scena d'orrore.... io dormivo.



X.

L'indomani.


Dormivo davvero quando un raggio di luce penetrò nella stanza a
pianterreno. Destarmi e riconoscere subito la terribile realtà della
situazione, fu cosa di un minuto. Non sognavo, no. Chi sogna dorme male
ed io in quelle brevi ore avevo dormito profondamente. Tanto ero stanco!

Mi rizzai a sedere. La poca paglia su cui giacevo mi aveva mal difeso
dall'umidità del pavimento e mi sentivo le ossa peste ed ammaccate come
se mi avessero bastonato. Contemplai un istante la scena che mi
circondava, poi uscii all'aria aperta. Avevo proprio bisogno di
respirare liberamente.

L'orrore di quel luogo chiuso, barricato, pieno d'armi accatastate alla
rinfusa, di cappotti, di borraccie, di vestiti abbandonati dai compagni
per essere più lesti al cammino; l'aspetto di saccheggio e di
devastazione che presentavano quei tavoli, quelle sedie rovesciate, le
bottiglie fracassate, le stoviglie infrante, gli avanzi della cucina del
giorno innanzi ancora sparsi sul pavimento e frammisti alla paglia, ai
cappelli, alle bende, e tutto ciò chiazzato di macchie sanguigne; il
gemito dei poveri miei compagni feriti, e nella stanza vicina, giacente
a terra quasi a sbarrarne la porta, il cadavere del povero Enrico e
l'altro più terribile del Mantovani, il quale pareva sfidasse ancora
l'assassino che lo aveva morto a bajonettate sul terreno, formavano
nell'insieme uno spettacolo raccapricciante.

Si soffocava: uscii, come ho detto.

Un magnifico sole cominciava ad indorare le foglie alle siepi ed agli
alberelli che costeggiavano la stradicciuola di fronte alla casa. Di
lontano giungeva il suono delle campane della città eterna, e ad ogni
tratto un'archibugiata dei pacifici cacciatori onde abbonda la campagna
romana, veniva a rompere la pace di quel luogo. Spettacolo di natura
tanto tranquilla e sorridente che faceva vivo contrasto con la
desolazione della villa, con la realtà del fatto, con l'amarissima
incertezza della sorte nostra.

Pensavo... forse domani ci sottoporranno ad un Consiglio di guerra;
forse.... e il pensiero inorridiva, mentre inavvertita dalla congiuntiva
dell'occhio mi scendeva una lagrima... E la mamma?...

Levai il capo per cacciare i neri presentimenti e... mi vidi faccia a
faccia con uno sconosciuto!... Dio mio! lo fisso. Era Giovannino!
Giovannino Cairoli in persona!... Ma chi avrebbe potuto più ravvisarlo?
Pallido in viso e macchiato orribilmente di sangue che era colato dalla
testa fasciata con un cencio e coperta da un cappellaccio. Si reggeva su
di un bastone e camminava a stento.

Anch'egli pativa per le ferite toccate nella schiena difendendo il
fratello dopo che era caduto. Povero Giovanni! Avea lottato corpo a
corpo, aveva veduto cadere il fratello in quel terribile attacco alla
bajonetta, avea veduto i soldati precipitarglisi allora addosso, si era
avventato colla rivoltella alle tempia di quegli aggressori; ma la
rivoltella, arruginita, non aveva agito. Disperato l'aveva sbattuta
sulla testa d'uno di quei miserabili colla furia della tigre ferita, e
come tigre ferita era caduto poi rovescio, colpito da una palla che gli
sfiorò il cranio. Si era gettato allora sul corpo del fratello esamine,
colle mani, col petto facendogli scudo, e le bajonette nemiche avevano
finito anche lui, che giacque spossato, sanguinante, svenuto accanto al
suo Enrico!

E quanta vita, quant'anima in quel giovinetto, mentre mi raccontava sì
orribile tragedia!

— Ah! lasciatemi vedere il mio Enrico! che io lo baci ancora una volta,
una volta ancora!

Gli amici Campari, Colombi ed io pure tentamno in ogni modo di opporci,
e lo assicurammo che più tardi gli avremmo concesso questo supremo sfogo
di dolore. Fu fatto entrare in casa, ma uno di noi ebbe l'avvedutezza di
andare innanzi e di chiudere la porta della stanza dove giaceva il
fratello.

— Sentite, amici, disse poi risoluto ed appena entrato in casa, facciamo
una cosa. Abbiamo ancora fucili, abbiamo rivoltelle; se vengono i
soldati barrichiamoci in casa e vendiamo cara la nostra vita.

Eroico ardimento d'un cuore generoso e ferito.

Non ci volle molto però a farlo persuaso della impossibilità di tale
progetto. I gemiti dei compagni pressochè moribondi avrebbero condannato
qualunque tentativo temerario da parte di noi, feriti pur anco ed
impotenti a qualsiasi resistenza.

Era prossimo il mezzogiorno. Una brezza leggiera piegava gli alberi,
metteva un lieve senso di brivido nelle ossa indolenzite e faceva
lentamente sventolare il bianco lenzuolo che, annodato a mo' di bandiera
ad un bastone, avevamo issato da una finestra della casa.

Uno strepito confuso d'armi e di voci, lo scalpitar di cavalli ci fe'
comprendere che s'avanzavano dei militi. Erano certamente venuti a
levare i feriti.

Le guardie di Finanza da noi fatte prigioniere lungo il Tevere e
liberate da noi quella mattina, avevano senza dubbio mosso il comando
militare pontificio al soccorso dei nostri feriti.

Così pensavamo: ma non era così.

— I pochi della scaramuccia di ier sera non dovean essere che
l'avanguardia. Di certo sui Monti Parioli ora ci deve essere il grosso
della banda. La chiamata al soccorso dei feriti non può essere che un
gherminella per tirarci lassù ed attaccarci.

Ecco quale certamente deve essere stato il ragionamento del ministro
delle armi e generale delle truppe pontificie, poichè non è credibile
che si venisse a levar feriti con tanto apparato di forze. Zuavi,
antiboini, tiraioli, zampitti, dragoni, gendarmi, ogni arma era stata
messa a contribuzione.

Al primo vederci puntarono le armi in atto di _fuoco_.

— Feriti, feriti, _blessés_! gridavamo noi. Si! era come dire al muro!
non ne capivano d'italiano! Finalmente un tenentino dei dragoni si fe'
avanti gridando loro:

— _Ne faites pas de feu! pas de feu!_ e fatti alcuni passi verso la
nostra casa, prima ci ordinò d'uscire, poi messici in fila tutti fuor
della porta, con una sentinella cui graziosamente ordinò d'infilzarci
tutti se ci fossimo mossi, entrò nella casa e la masnada intera lo
seguì.

Descrivere il fracasso che fecero con quei poveri fucili, ferrivecchi
della Guardia nazionale, è cosa da non potersi ridire! Ce n'erano
moltissimi di carichi ed essi li prendevano per la canna e pestandoli
contro il suolo o contro il muro, ne spaccavano il calcio.

E dire che non uno esplose loro nelle mani!

— _Vous étiez venus ici avec de trés-bonnes intentions_, ci disse il
tenentino uscendo e portando in pugno una mezza dozzina di rivoltelle.

Ricordo ancora la faccia del Campari e la sua risposta. I buoni
ambrosiani non dimenticano mai la loro parlata, talora francamente
ingenua, anche nei momenti supremi della vita.

— _Oh me par peu_, rispose egli con un accento di bonaria persuasione,
_me par che voressen minga cojonà gnanca lor!_

Dopo un'ora circa impiegata a distinguere i fucili, i vestiti e quanto
trovarono, ripresero finalmente la loro strada e sembrava che avessero
fretta. Chiedemmo loro dove andassero e perchè non trasportassero i
feriti. Ci fu risposto che non ne avevano il tempo, perchè doveano
inseguire le bande[17]! Credevan forse a pochi passi da noi di scovare
Garibaldi in persona!


Un gendarme prima di montare a cavallo mi presentò una bottiglia,
offerendomi da bere. Lo guardai in viso; non comprendevo così strana
cortesia.

— Bevi, bevi, mi ripeteva.

— Ah è così che la credete? sclamai d'un tratto. Presi la bottiglia e
tracannati tre o quattro sorsi, la lanciai contro lo stipite
fracassandola in mille pezzi. Temevano che avessimo avvelenato il vino!

Imbruniva. Il povero Giovanni era riuscito ad ottenere da noi di poter
dare l'ultimo bacio all'amato suo estinto. Ma lo trascinammo subito
fuori dalla stanza, promettendogli che guarderemmo noi stessi la
preziosa salma perchè nessuno la toccasse.

Pochi minuti dopo io ed il Campari gli consegnammo alcuni oggetti e
ricordi tolti di dosso al glorioso eroe.

Un rumor sordo di carri ci avvertiva che finalmente qualcuno da Roma si
era mosso in nostro aiuto.

Era ben ora. I feriti nostri languivano senza cibo da ventiquattr'ore e
le ferite incrudivano coll'avvicinarsi della notte. Erano bare tirate da
un cavallo e coperte da un saccone. In ciascuna fu adagiato alla meglio
un ferito. Vi erano pure due carrozze. Il corteo era composto d'un
medico, un cappellano, un capitano dei gendarmi e di quel tenentino
della mattina. Costui al povero Giovanni che io pregava di usare
riguardo nell'entrar dentro la stanza ov'era suo fratello morto, rispose
cinico:

— Ebbene, se è morto, non posso certo fargli del male!

Anche nei momenti più tristi c'è sempre una nota amena. Ce la diede
questa volta il cappellano, un grosso e corpulento prete belga con una
faccia da cuor contento inesprimibile, il quale domandò a più d'uno dei
nostri feriti se prima di battersi aveva fatto le devozioni sue:
qualcuno gli rispose che sì, ed egli ne fu contento come una pasqua.

C'incaminammo. Si scendeva lentamente per la calata dell'Arco scuro, ma
quando imboccammo lo stradone di Porta del Popolo si accelerò il passo.
Io ero a cassetta ed il cocchiere mi andava infastidendo con rimproveri
ed ammonimenti.

— Fate il vostro mestiere! gli dissi. E tacque.

Arrivammo a Porta del Popolo e il treno si arrestò. Una compagnia di
truppa era in arme al limitare della porta. C'era una agitazione, una
ressa indiavolata. Un capitano venne allo sportello della nostra
carrozza e raccontò che in città avveniva un fatto d'arme: eran
duecento, trecento, quattrocento insorti, c'eran morti, feriti,
ecc.[18].

In quel mentre si udivano infatti parecchie fucilate.

— Oh Gesummaria! invocò il mio cocchiere.

— Niente paura, gridò il tenentino spavaldo, è qualcuno che... (lasciamo
nella penna la parola). Avanti!

Uno squadrone di dragoni a cavallo ci si mise al fianco per iscorta e il
corteo mosse di nuovo.

Tre cannoni erano puntati in Piazza del Popolo, uno contro il Corso, un
altro verso il Babbuino, il terzo contro Ripetta. Noi prendemmo da
questa parte. La via era deserta affatto, chiusi i negozi, le porte e le
finestre. Il rumore delle ruote, lo scalpitar dei cavalli, il tintinnio
delle sciabole dei dragoni in mezzo a quel sepolcrale silenzio aveano un
che di sinistro. Appena vedevasi qualche imposta di finestra aprirsi un
momento e far capolino qualche curioso attratto dall'insolito rumore, e
poscia tosto rinchiudersi.

La traversata di Roma seguì senza inconvenienti.

Battevano le 8 di sera e noi arrivammo alle porte dell'ospedale di Santo
Spirito incerti di nostra sorte, se prigionieri di guerra ovvero insorti
sorpresi coll'armi alla mano, e quindi forse dannati nel capo per alto
tradimento!



XI.

Santo Spirito.


La ressa di popolo pel nostro arrivo all'ospedale militare era grande.
Eravamo i primi garibaldini prigionieri portati in Roma: si può
immaginare se la novella era corsa di bocca in bocca!

Al primo arrivare ci fu un po' di parapiglia, perchè non era stato
preparato alcun locale. Ma la superiora delle suore trovò subito un
ripiego; fatti levare alcuni zuavi del picchetto di guardia, che
russavano placidamente sui pagliericci in una camera di pian terreno, in
un momento ci fe' mettere insieme sette letti, e tutti in una sola
stanza, cosa che ci fece molto piacere.

Ufficiali, medici, flebotomi, monsignori, cappellani, soldati, suore,
tutti erano in moto per noi. La curiosità avea naturalmente molta parte
in tante premure.

Prima cura fu quella di visitar le nostre ferite. Ne avevamo veramente
bisogno, perchè ci si era fasciati appena alla meglio in modo da far
ristagnare il sangue e questo s'era rappreso sulle ferite. Io poi
desideravo sapere quale ferita fosse la mia, se grave o no.

Mentre ognuno di noi si adagiava alla meglio, mi venne fatto di notare
un prete lungo, alto, con una croce sul petto, di fisonomia piuttosto
seria, non troppo entrante; uno degli infermieri mi disse che era
monsignor De Merode, elemosiniere segreto di sua Santità.

Fummo medicati con premura. A Giovannino, ricordo, furon tagliati i
capelli e gli fu fatto dalla suora un salasso.

Tutto sommato, l'ingresso nostro non fu cattivo e ci lasciava sperare
che non avremmo avuto dispiaceri, quantunque gli animi, specie dei
militari, fossero irritatissimi per il fatto della caserma Serristori
avvenuto il dì innanzi.

Il primo sospetto era stato per l'appunto che quel fatto fosse opera
nostra.

Mia prima cura fu quella di chiedere carta penna e calamaio per scrivere
alla mia buona mamma. Mi fu risposto che prima bisognava dar contezza di
noi all'autorità militare politica, dopo avrei avuto quanto desideravo.

Di fatto, eseguita la medicatura, venne un auditore militare a prendere
nota delle nostre generalità. Il nome di Colloredo fece grande
impressione su lui e sugli astanti.

I Colloredo sono una famiglia antica nobilissima che trae la sua origine
dal castello di Colloredo in Friuli. Ebbe molti illustri guerrieri
marescialli e generali che in gran parte militarono al servizio
dell'Austria, coprirono onorevoli incarichi e condussero a fine
importanti missioni. Alcuni de' suoi rami esistono tuttora nel Friuli,
ed in Austria pure sussiste sempre il ramo dei Colloredo Mels e dei
Colloredo Mansfeld.

Uno dei Colloredo del Friuli era allora imparentato coi principi Altieri
qui di Roma, perchè marito a donna Livia, morta alcuni anni or sono, e
in Roma vivea allora anche un vecchio padre Colloredo dei preti
dell'Oratorio.

Incontanente si sparse la voce che all'ospedale di Santo Spirito era
ricoverato un Colloredo garibaldino e non tardò a diffondersi per la
città, per l'Italia e dirò anzi per l'Europa. Infatti la notizia fu
riportata, oltrechè dai giornali nostri e dai francesi, anche dalla
_Presse_ di Vienna e dal _Tageblatt_.

Prima di lasciar Villa Glori si era fra noi convenuto di chiamare il
Mosettig col nome di Colloredo, come si era fatto per il Muratti in
Roma.

L'auditore militare si mostrò anche non poco stupito allorchè, chieste
le generalità a Giovannino, si senti rispondere:

— Anni ventiquattro.

— Condizione?

— Ex capitano di artiglieria.

Infatti su quel volto ingenuo di gentil giovinetto, oltre che la bontà,
si leggeva chiara anche l'intelligenza, che nei brevi anni vissuti già
lo avea portato a quel grado distinto. O se vivesse ancora! sarebbe
forse uno dei migliori nostri generali!

La prima notte fu affannosissima e appena al mattino mi fu dato di poter
dormire un poco. L'apparecchio di stecche cui era raccomandato il mio
braccio, mi costringeva ad una supina immobilità, la quale mal si
prestava al sonno, ma ad ogni movimento ch'io facessi mi si rinnovellava
il dolore.

L'indomani nuove domande dell'auditore militare, nuove ricerche, nuovi
curiosi e sempre molti medici, infermieri, suore, inservienti.

Chiesi nuovamente al direttore dell'ospedale, capitano Galliani,
l'occorrente per scrivere e, se mi era permesso, anche qualche libro da
leggere. Immantinente egli si diede premura di soddisfare il mio
desiderio e portò per tutti carta da scrivere ed alcuni romanzi di
Walter Scott.

Il capitano Galliani era una gentilissima persona, della quale
conserverò sempre finchè vivo ottima memoria. La gentilezza d'animo e la
squisitezza di sentire sono una dote dei cuori buoni e non vengono meno
per ragione dei principii o d'idee professate. Il Galliani era
affezionatissimo al Santo Padre ed attaccato al governo papale che
serviva con zelo ed attività esemplari. Nel 1861 era stato alla
battaglia di Castelfidardo; fatto prigioniero, era stato condotto a
Genova, dove aveva avuto molte cortesie ed era stato trattato
amorevolmente. Apprezzava quindi per esperienza fatta le attenzioni
usate in simili circostanze e conosceva per prova come tornino gradite e
quale imperituro ricordo lascino nell'animo dei vinti.

Veniva spesso a tenerci compagnia e sapeva evitare tutti i discorsi, nei
quali non potevamo trovarci d'accordo; era uomo onesto, leale, di ottima
cultura e d'ingegno acuto.

Pur di usarci un'attenzione si sarebbe fatto in quattro; se gli
chiedevamo un favore si sarebbe detto che il piacere fosse tutto suo nel
procurarcelo. Ci condusse la gentile sua signora con la figlia a
visitarci: più volte ritirò la nostra biancheria e ne fece il bucato in
casa sua. Un giorno che andò alla caccia, ci portò al ritorno una
magnifica spiedata d'allodole.

A proposito della biancheria, anche il Galliani era fra coloro che
subivano il fascino del nome di Colloredo: a tutti presentava il
Mosettig e più a lungo con lui si tratteneva. Or bene, quando
gentilmente egli si prese l'incarico della nostra biancheria, dovette
trovare di necessità quella del Mosettig segnata con sigla differente da
quella di Colloredo e senza alcun segno gentilizio. Ma di questa
scoperta non diede segno: essa restò affatto segreta nella famiglia
Galliani. Il capitano venendo a visitarci continuò a salutare sempre per
primo il Colloredo, e la signora e la figlia che ritornarono più volte,
s'intrattenevano sempre col _signor conte_.

Svelare il segreto all'autorità militare sarebbe stato una delazione
vigliacca, dissimularlo anche con noi fu delicato riserbo d'animo
squisito.

Chè se, tre mesi dopo, al momento di partire, il Mosettig si sentì
ufficialmente denegata da un gendarme tale sua qualifica di nome e
condizione, lo dovette ad uno dei conti Colloredo austriaci, il quale,
quando vide girare sui giornali il proprio casato come appartenente ad
un garibaldino, si affrettò a dare alla notizia una solenna smentita
impugnando l'autenticità del preteso conte.

Rividi il capitano Galliani nel settembre del 1870, perchè appena
entrato in Roma la mia prima visita fu allo spedale di Santo Spirito.
Stava allora appunto il Galliani facendone la consegna all'incaricato
italiano. Appena mi vide lasciò ogni cosa e mi venne incontro con vera
effusione esclamando:

— Vedi, caro amico, ora abbiam mutato sorte: io son diventato servitore
e tu sei il padrone.

Io gli risposi che fra noi non c'erano nè padroni nè servi, ma amici. E,
in verità, amico gli ero proprio di cuore.

Mi condusse poi a visitare lo stabilimento, creazione che si poteva dire
sua e che nulla lasciava a desiderare per ordine, pulizia e buon
andamento di servizio e d'amministrazione. Mi espresse con espansione
d'amico il vivissimo suo dispiacere di doverlo abbandonare, e da ultimo
mi condusse a vedere la stanza di nostra prigionia.

Oh quanti ricordi, quante emozioni fra quelle quattro mura nude,
bianche, illuminate da una sola finestra in un angolo; quanti pensieri
rivedendo quel soffitto alto ed a volta, su cui io per tanti giorni,
immobilmente supino, fui costretto a fissare lo sguardo!

Di sette che eravamo stati ricoverati in quel luogo, due erano già
scomparsi dalla scena del mondo; e non erano scorsi tre anni!

Ritornai a Roma nel 1871 e nel 72 e non trascurai mai di fare una visita
al capitano Galliani. Era pensionato; il nuovo ordine di cose lo avea
danneggiato non poco, però non se ne doleva e conservò sempre l'ilare
suo contegno e l'onesta sua bonomia di vecchio soldato. Ingannava il
tempo andando a caccia, esercizio pel quale era appassionatissimo.
L'ultima volta che lo vidi fu in casa sua ventisei anni or sono, la sera
della _befana_, nella festosa e rumorosa allegria con cui si suole qui
in Roma trascorrere quella sera, e la veglia si chiuse con una
quadriglia da lui comandata.

Da allora non fui più a Roma per parecchi anni.

Ritornatoci dopo lungo tempo, non seppi risolvermi a chieder notizia di
lui. Temevo sentirmene dare una brutta! Pochi mesi or sono finalmente,
passando dal palazzo Gabrielli, dov'egli abitava, domandai della
famiglia sua e il portiere mi rispose stupito come se gli chiedessi
notizie dell'altro mondo.

Se egli vive ancora (e glielo auguro di cuore e per lungo tempo!) mando
a lui un cortese saluto: sappia che io sono lieto d'avergli pagato
modestamente il tributo di mia riconoscenza scrivendo il suo nome in
queste povere pagine.

Avuta la carta e il calamaio scrissi a mia madre.

Senza reticenze le diedi addirittura la triste notizia dell'accaduto,
incuorandola a non temere di nulla, trovandomi io ben ricoverato. Mi
parve fosse meglio così, perchè pensai che la vista della mia scrittura
avrebbe dovuto rassicurarla più di qualunque inutile ipocrisia. Quando
si sta male e si soffre, non si scrive.

Quella lettera mi venne tra le mani pochi mesi or sono riordinando un
pacco di vecchie carte e duolmi non averla conservata. Portava da piedi
il _visto_ del generale Zappi.

In quel primo giorno avemmo parecchie visite illustri che poi si
rinnovarono spesso.

Prima fra tutte quella di due signore accompagnate da un prelato. L'una
era una donna di bella statura, di piacevole aspetto e gentile di modi.
Era la signora Kanzler moglie al Generale Ministro delle Armi. L'altra
era una signora bionda con occhi bigi e lineamenti e mosse da maschio.
Non era bella; portava un abbigliamento strano che non era nè da ragazza
nè da matrona, ma un che di mezzo fra la monaca, la amazzone e la
zingara. In capo un caschettino nero all'ungherese inforcato da una
piuma alla cacciatora, col velo ripiegato all'intorno e tenuto a dovere
da un enorme fermaglio d'argento rappresentante la medaglia di S. Pietro
(una croce capovolta). In tutto il resto dell'abbigliamento nessun
gingillo, nemmeno i pendenti; corsetto e sottana tutto in nero, e questa
molto succinta, il che colle mode d'allora produceva un effetto strano.
Parlava bene il francese, ma il biondo della sua capigliatura e la tinta
pallida, le mosse originali, la spigliatezza indipendente del tratto
l'accusavano inglese.

Seppi poi che era la signora Stone, una fanatica del sanfedismo, portata
a cielo dai giornali clericali per il suo zelo e coraggio da vandeana,
che non avean nulla da invidiare a quello dei soldati e dei birri.
Durante la campagna insurrezionale dell'agro romano aveva sempre trovato
tempo e modo di frequentare chiese, ospedali e carceri, di recarsi più
volte al campo dei pontifici a curare i feriti, e di passare poi a
quello dei garibaldini, di giorno e di notte, affrontando sentinelle,
per riscattare prigionieri.

Una volta corse rischio di essere presa a fucilate: fu fatta prigioniera
e condotta al generale Garibaldi col quale desiderava abboccarsi. Era di
quelle nature esaltate che non s'acquetano di una pietà tranquilla,
rassegnata, amorosa, ma vogliono la virtù attiva, inframmettente,
turbolenta, crociata, le religione delle isteriche fantasie, la pietà
rivoluzionaria, la carità del trambusto, il fervore che arrota i denti e
mena le mani, l'arruffio continuato, il perpetuo sussulto.

Il prelato invece era un vero gentleman inglese in veste talare: si
chiamava Edmund Stonor. Non mancò un giorno di venir a visitarci.
Parlava bene l'italiano benchè con accento straniero, pacato, senza mai
alterare d'un punto la voce e con grande compostezza e parsimonia di
gesti.

Per qualunque servigio era con noi cortesissimo e molto s'adoperò in
favor nostro. Quieto, gentile, moderato, era un vero cavaliere di modi e
d'aspetto. Non ebbe mai una parola di rimprovero per noi, non una
recriminazione. Anche Giovannino nei suoi Ricordi parla di lui con molta
riconoscenza.

So che vive ancora qui in Roma. Non so quale grado coprisse allora alla
Corte Pontificia, non so quale occupi ora. Non credo però che abbia
fatto carriera politica; forse ama più la propria indipendenza che gli
onori ed i fasti della diplomazia. Di famiglia credo fosse ricco: per
noi allora avea un solo torto, quello d'essere prete.[19]

La visita fu un po' lunga; le interlocutrici erano donne e quindi
avevano molta curiosità da soddisfare. La fissazione loro, come quella
di tutti, era che la nostra fosse una banda di fuorusciti e non una
colonna venuta dal confine.

Verso il mezzogiorno un ufficiale spalancò i due battenti della porta
annunciando il Generale! Entrò infatti un ometto piuttosto vecchio,
adusto, in assisa da generale, accompagnato dallo stato maggiore e dai
medici dell'ospedale. Era il generale Zappi di Imola, comandante il
presidio di Roma.

Per primo gli fu presentato Giovannino. Gli chiese come stava, gli
domandò notizie della spedizione nostra, ebbe parole di compianto per le
nostre illusioni. Giovannino approfittò del momento per chiedergli conto
della salma del fratello e pregarlo a volersi adoperare perchè ne fosse
eseguito il trasporto a Pavia con ogni cura e decoro.

— Di questo Ella non deve dubitare; sarà compito mio.

Giovannino arrischiò allora un'altra domanda e cioè di poter assistere
egli stesso al trasporto.

Il generale aggrottò le ciglia.

— Ella non può ignorare, rispose, in quale condizione si trovi qui. Ella
è prigioniero di guerra, e le leggi militari non permettono per ciò che
possa uscire finchè non sia stipulata una regolare consegna dei
prigionieri. Accordarle ora l'uscita dallo spedale mi è assolutamente
impossibile. Però può star sicuro che da parte mia farò quanto sta in me
per accontentarla interpretando io benissimo i di lei sentimenti.

Poi venne al mio letto.

— Ah, voi leggete, esclamò togliendomi di mano il libro e guardandone il
titolo (Kenilworth). Il modo dell'esclamazione parea volesse dire: Ah
voi sapete leggere! Infatti la prevenzione di una gran parte dei
prelati, ufficiali e visitatori in genere che venivano da noi, si era
che i garibaldini fossero nulla più che dei ragazzacci ignoranti sedotti
dal fanatismo; forse a ciò contribuiva lo stato nostro miserevole di
vestiario e di toeletta, dal quale essi non sapevano prescindere nel
giudicare della cultura e del grado delle persone.

— Ah voi leggete! mi disse; ecco, è un romanzo. Infatti nelle vostre
idee, tenetelo bene a mente, c'è molto romanzo e pochissima storia; c'è
della poesia, ma vi manca la prosa. Voi credevate di venire qui a fare
la rivoluzione e che Roma insorgesse come un sol uomo. Nulla di tutto
questo; lo avete constatato anche voi. Neppure Viterbo si è mossa.
L'avete veduto coi vostri occhi stessi dai Monti Parioli che la Roma
eterna non si muove.

Queste le testuali ed autentiche parole che lo Zappi, generale
pontificio, disse a me il giorno 25 ottobre a mezzodì. Poche ore dopo
accadeva l'eccidio di casa Aiani in Trastevere, tentativo eroico di Roma
italiana, ahi pur troppo isolato e soffocato nel sangue! bastevole però
a dare una mentita solenne al generale. Roma non si era mossa, perchè
esilio e carcere aveano disperso i patrioti e, fatte poche eccezioni,
non restavano in città che gli stranieri, i venduti e i rinnegati.

In quella mattina avemmo pure una breve visita di Monsignor De Merode.
Parlò col pseudo Colloredo e da ultimo gli chiese quale mira avevamo con
lo spingerci fin sotto le mura di Roma.

— Portarvi la rivoluzione, rispose Mosettig.

— E quanti eravate?

— Settantotto.

— Matti da legare! sclamò Monsignore scoppiando in una sonora risata e
dato un lieve scapaccione sulla fronte al Mosettig, faceva atto di
andarsene, ridendo sempre come si trattasse della più lepida cosa del
mondo.

Inavvertentemente però la mano piuttosto pesante di sua Eccellenza aveva
fatto un piccolo danno, avea rotto cioè al Mosettig l'occhialino ch'ei
sempre portava.

— Oh, chi rompe...? osò, scherzando, esclamare il Mosettig levando in
alto le lenti col cerchiello rotto e in attesa di risposta.

— Paga, paga, avete ragione. Ci penso io non dubitate, soggiunse tosto
il prelato avvedutosi del malanno. Ma che matti! che matti graziosi! E
se n'andò ridendo sempre in modo da far credere che il matto fosse lui.

Un'ora dopo all'incirca, si presentò nella sala un signore con una
cassetta. Era un ottico e veniva da parte di S. E. Monsignor De Merode
ad offrire al conte Colloredo un occhialino a sua scelta in sostituzione
di quello che gli era stato rotto. Ve n'era d'ogni qualità, d'oro,
d'argento, d'acciaio, di tartaruga. Il Mosettig ne scelse uno simile al
rotto, che consegnò ravvolto in un foglietto di carta al negoziante.

— Che è questo? domandò egli.

— È roba di Monsignore. Chi rompe paga, sta bene; ma i cocci sono suoi.

L'ottico rise e portò seco i cocci.

Il secondo giorno il Castagnini, ch'era il ferito più lieve, potè
alzarsi da letto: io invece fui preso da febbre, la febbre di reazione.
Contemporaneamente mi si gonfiarono le tonsille e mi pigliò male alla
gola, effetto dell'umidità assorbita i giorni prima.

Quello che peggiorava era il povero Moruzzi. Già dal suo stato
chiaramente si comprendeva quale dovesse essere la sua sorte. Non
gemeva, ma urlava; si lamentava e ad ogni istante desiderava cambiar di
posizione. La ferita al basso ventre gli toglieva la possibilità di
orinare e quest'era il sommo suo tormento. Sul proprio destino non avea
dubbio e lo incontrò rassegnato. Chi ne lo fece sicuro fu un medico
balordo, di cui spiacemi non ricordare il nome e che accompagnava
appunto il generale Zappi.

— E questo che cos'ha? domandò il generale passando dal mio al suo
letto.

— Ha una ferita mortale — rispose freddamente il medico.

Allungai il braccio sano e diedi una solenne strappata alla tunica di
quell'imbecille per richiamarlo. Il generale stesso cercò di coprire la
risposta e continuando quasi il discorso fatto dapprima a me, lo incuorò
a stare di buon animo.

Ma il Moruzzi aveva udita la fatale parola ed al generale che gli
chiedeva se gli occorresse alcunchè rispose:

— Desidero sapere schietta la verità sul conto mio.

Il generale naturalmente non gliela disse, ma il Moruzzi non ebbe più
alcun dubbio su di essa.

La sera del 27 cominciò ad aggravarsi. Il letto gli era diventato
insopportabile. Nostro infermiere in quella sera era un legionario
d'Antibo. Fortunatamente il Moruzzi, che era stato molti anni a Ginevra,
parlava correttamente il francese. Si faceva voltar di fianco, mettere
supino, voleva alzar la testa, appoggiarsi ai gomiti, muoversi, girarsi,
pativa una sete ardente, chiedeva da bere, si sentiva soffocare.

A notte inoltrata cominciò a singhiozzare interrotto. Il cappellano
militare lo sollecitava perché facesse le sue devozioni; il povero
infermo lo pregava a sua volta di volerlo lasciar in pace.

— Se provasse Ella a soffrire quello che soffro io! — gli rispondeva.

E il cappellano ripigliava lena ed argomento da ciò e lo scongiurava a
rivolgersi a Dio, il consolatore degli afflitti: finalmente, vedendo che
non riusciva a nulla, si volse a me interessandomi onde persuadessi il
compagno.

Io gli risposi che il poveretto era troppo aggravato ed avea bisogno di
quiete e che non mi pareva opportuno tormentarlo con inutili esortazioni
in quegli istanti, dal momento che non si persuadeva.

Tacque infatti e si limitò a pregare in silenzio.

L'alba non era ancora spuntata e il povero mio amico aveva cessato di
soffrire.

Una candela fu accesa appiè del suo letto ed il prete vi si inginocchiò
accanto recitando le preci dei trapassati.

La mattina il cadavere fu trasportato alla cella mortuaria e di là al
Campo Verano, dove non so se un cippo, per quanto modesto, abbia mai
ricordato il suo nome.

Le giornate scorrevano tristi, lunghe, noiose. Si contavano i giorni
passati, si chiedeva sempre ai medici quanto tempo ci sarebbe voluto a
guarire. Essi ci trattavano con cura e con attenzione e s'intrattenevano
volentieri, specialmente col Bassini, che era allora laureando in
medicina. Ora è professore di chirurgia all'Università di Padova e
mirabile operatore.

Dei medici che conobbi allora, mi è rimasta buona memoria, ed ancor
m'accade di rivederne qualcuno. Uno di loro da poco tempo è scomparso.
Però forse non v'ha persona che percorrendo qualche via del quartiere
dell'Esquilino fino a pochi mesi or sono, non siasi abbattuto in una
fisionomia asciutta, naso lungo, occhi bigi, figura allampanata ed
infilata in uno stifelius di panno chiaro scendente ai talloni, tuba
nera, guanti di lana chiari, pantaloni a campana disegnati a quadrelli
chiari con uose colorite alle piante, andatura lenta, mani pendenti a
tergo, come temesse sciupare l'originale abbigliamento. Quello, non ne
farò il nome, fu il primo medico che ci prese in cura all'ospedale di
Santo Spirito.

Uno solo di quei medici non mi ha lasciato buona memoria di sè, quello
già accennato più sopra parlando del Moruzzi, e la cui sciempiaggine
andava di pari passo colla pretesa. M'era decisamente antipatico: doveva
essere anche un vigliacco.

Un giorno, quando cominciai ad alzarmi di letto, avendo perduto il mio
famoso caschettino ungherese, mi misi in testa un altro copricapo, che
trovai, d'un mio compagno: era di quelli alla calabrese. Appena
l'antipatico dottore me lo vide, me lo tolse di botto dicendomi che
quello era un abbigliamento da facinoroso. Non so che cosa io gli abbia
replicato, ma egli tagliò corto conchiudendo che era un cappello
anticattolico! Guardate un po' dove ficcava costui il cattolicismo!

Oltre alle infermiere di servizio, frequentavano la nostra sala dei
flebotomi che assistevano alle medicature. Un giorno uno di essi s'era
tolto il cappotto e l'avea appoggiato su d'una sedia. L'esculapio
sopralodato nel girar l'occhio vide da una delle tasche sporgere il
calcio d'una pistola. Piantò lì la medicatura, corse a prendere il
cappotto e levatane la pistola:

— Di chi è quest'arma? cominciò a strillare.

— Mia, signor dottore.

— E avete il coraggio di confessarlo?

— Che c'è di male?

— C'è che questo non è luogo da venire con armi. L'ospedale è luogo di
pace e non di guerra. Portate via, subito! subito! e lo diceva con tale
risolutezza ed era tale il suo orgasmo da farci comprendere chiaramente
ch'egli temeva la presenza d'un arma in quella sala. Temeva che ce ne
servissimo; forse sentiva di meritarselo.

Dopo il 1870 questo signore emigrò col corpo degli zuavi dello Charrette
ed essendo còrso, andò a portare in Francia contro i tedeschi il suo
coraggio e la sua scienza.

Oltre a monsignore Stonor, alle due signore ed a monsignor De Merode,
venivano anche spesso a visitarci quel prete grasso che fu a levarci a
Villa Glori, qualche cappellano militare e i monsignori Ricci e Talbot
camerieri segreti di sua Santità. Quest'ultimo monsignore era stato
preso anch'egli dalla malinconia di volerci convertire alla fede e ci
portava ogni volta delle medaglie, dei rosari e dei libretti di Massime
Eterne.

Un giorno gli chiedemmo se le medaglie erano d'argento e avendoci
risposto di no, ci fu chi ebbe il coraggio di rimproverargli,
scherzando, la povertà del regalo.

Un buon uomo in complesso, anzi un gentiluomo, ma di corta misura. In
quella veste poi era addirittura un gentiluomo proibito! Discendente
dall'illustre famiglia dei Talbot, che diede luogotenenti e vicerè
d'Irlanda celebri per il loro attaccamento agli Stuardi, costui avea
fatta rapida carriera alla Corte pontificia; ma l'esaltazione ascetica
finì col pregiudicarlo. Si era proposto di convertire al cattolicismo la
sua patria e assorto in tale idea andò in Inghilterra a predicare. Fu
fatto segno immediatamente agli strali dei pubblici diarii, e la
derisione fu tale che il pover'uomo finì con l'uscirne pazzo.

Ma non era il solo Talbot che avesse il ticchio di fare il missionario
fra i garibaldini. Anche il De Merode ci si adoperava e avea preso di
mira principalmente il pseudo conte Colloredo, al quale andava facendo
delle lunghe ammonizioni.

Un giorno venne anche un frate dal profilo lungo ed adusto, in abito
bianco, un vero tipo di asceta. Egli prese invece di mira me, forse
perchè ero il più giovane, e venne a dirmi che era un sacerdote
cattolico. Gli chiesi che cosa con ciò volesse significare.

— Se volete riconciliarvi con Dio, mi disse.

— A dir vero non sono mai stato in collera con lui, risposi sorridendo.

— Ma avete bisogno di confessarvi, replicò.

— Non sento questo bisogno.

— No? tuonò adirato. Ebbene, ricordatevi che Cristo è morto per voi; non
vi dico altro. Poi girò sui tacchi e senza lasciarmi tempo di replicare,
andò dal Cairoli, dal Bassini, dal Papazzoni, da tutti, di letto in
letto, replicando enfaticamente ad ognuno:

— Ricordatevi che Cristo morì pure per voi, per voi, per voi, e se ne
andò ritenendo di aver fatto in noi chi sa qual terribile sensazione.

Mi fu detto che era un generale non so se dei domenicani o dei
carmelitani.

Se questo è il generale, pensai fra me, che cosa sarà l'armata?

Era morto da due o tre giorni il Moruzzi, quando un dopo pranzo venne un
ufficiale coll'ordine di trasportare alle carceri i numeri uno, tre e
sette, che corrispondevano ai nomi di Cairoli, Bassini e Castagnini. Il
Bassini infatti avea occupato il posto vicino al mio lasciato vuoto dal
Moruzzi.

Invano facemmo osservare all'ufficiale che era materialmente impossibile
il trasporto del Bassini; egli insisteva pretestando l'ordine ricevuto.
Mi offersi d'andar io in sua vece. Non ne volle sapere. Replicò che io
era il numero due e che egli avea l'ordine per il numero tre. Finalmente
ci riuscì di far chiamare un medico, il quale constatò la gravità del
ferito e sulla propria responsabilità contrordinò il trasporto per il
Bassini, che così rimase con noi.

Ma Giovannino e il Castagnini ci dovettero lasciare e ci dividemmo colle
lagrime. Fu quello l'ultimo bacio. Il povero Giovannino non lo dovevo
più rivedere!



XII.

Nuovi tormenti e nuovi tormentati.


— Madre superiora, noi ci presentiamo ancora una volta al venerabile
arcispedale di Santo Spirito. Sia ringraziato Iddio benedetto! Per noi è
andata abbastanza bene, ma le garantisco che fu un brutto affare, assai
brutto.

Queste parole, colle quali uno dei medici, e precisamente quello
eccentrico che ho più sopra descritto, salutava la Superiora delle suore
entrando nella nostra sala dopo due giorni d'assenza, ci fecero
intendere che qualche cosa di grave dovea essere accaduto.

Nulla, già lo dissi, a noi si lasciava trapelare di quanto avveniva
fuori dell'ospedale. Dei fatti di Porta S. Paolo, del Campidoglio, di
Casa Ajani, di Monte Rotondo noi non sapemmo nulla fino all'arrivo dei
feriti di Mentana. Potemmo però comprendere chiaramente da quelle parole
che un fatto d'armi era occorso e favorevole ai nostri. Infatti quel
sanitario era reduce da Monterotondo.

Alla porta della sala c'era costantemente una sentinella che avea
consegna di non lasciar passare se non le persone conosciute e quelle
addette al servizio. In quella sera uno dei flebotomi che diceva essere
stato sanitario al tempo della repubblica romana, mi confidò sottovoce e
sotto sigillo che l'indomani Garibaldi avrebbe assalita Roma.

Questa notizia, ripetuta fra noi, ci riempì di gioia. La tristezza e la
preoccupazione invece nell'ospedale si vedean dipinte in volto a tutti,
militi, suore e prelati.

Aspettammo impazienti il domani, certi di sentire all'alba tuonare il
cannone, invece...... nulla.

Le visite in quel giorno furono pochissime. Evidentemente gli animi
erano tutti assorbiti da altri pensieri.

Scorsero così due giorni di penosa aspettativa, giorni lunghissimi,
noiosi, insoffribili.

Ma alla sera del secondo giorno un prete molto ciarliero, già cappellano
nell'armata francese e che veniva spesso ad annoiarci discutendo di
politica con quella tracotanza che è tutta propria della sua nazione,
venne a visitarci e quasi trionfante ci disse:

— Ora sarete contenti: le truppe francesi stanno sbarcando a
Civitavecchia.

Infatti era vero.

Il giorno seguente parecchi ufficiali francesi vennero a visitare
l'ospedale. Uno di costoro vedendo appesi ai nostri letti scapolari e
medaglie (regali di monaci e suore) ci credette feriti papalini e si
rallegrava con noi perchè la nostra devozione ci avea salvati dalla
morte. L'equivoco ci fece ridere non poco ed ei rimase, a dir vero, un
po' male quando se ne accorse.

Noi però ancora speravamo!

Ma al mattino del giorno 4 novembre d'improvviso la porta della nostra
sala si spalancò e questa fu invasa da una turba di flebotomi ed
infermieri. Poco dopo comparvero quattro soldati sostenendo un ferito,
poi un altro, poi un terzo, un quarto. Alcuni potevano camminare, altri
eran portati a braccia o sovra un materasso, molti gemevano, altri
imprecavano, chi era ferito alla testa, chi alle braccia, chi al petto,
e tutti erano trasportati in una stanza attigua alla nostra, ove erano
stati adattati alcuni letti.

Erano i feriti di Mentana.

Uno scoramento indicibile ci prese allorchè potemmo apprendere la triste
realtà dei fatti. Si deplorava vivamente l'accaduto, si narravano
particolari dolorosissimi, s'imprecava al Governo che non avea dato
aiuto, si gridava, si giurava la riscossa. I francesi si sarebbero
fucilati, l'imperatore impiccato, il Governo italiano posto in istato
d'accusa. L'irritazione era al colmo, perchè il disastro era grande, la
catastrofe immensa. Si parlava di eletta gioventù sacrificata, si diceva
la colonna Valzania distrutta, i carabinieri livornesi rimasti
pochissimi, Garibaldi sconfitto per la prima volta in sua vita,
soprafatto dal numero, dalle armi eccellenti, dalle truppe fresche;
feriti parecchi graduati, Stallo, Bezzi, Ronco, e fra tutte queste
narrazioni i gemiti affermanti la terribile realtà dei fatti, lo strazio
dei moribondi, le chiamate, le grida, la disperazione, la morte!

Gli infermieri, le suore, i militi accorrevano al letto ora di questo ed
ora di quello. I medici prestarono le prime indispensabili cure e per
tutto quel giorno fu un tetro affaccendarsi a collocare feriti, a rifar
letti, a moltiplicar giacigli.

Ma sventuratamente arrivavano sempre nuovi convogli. Le sale
dell'ospedale di S. Spirito erano incapaci a tanti ricoverati. Perciò
l'indomani si dovette pensare ad un provvedimento. Per quella notte però
tutti furono adattati alla meglio in S. Spirito.

E fu una notte infernale. Nella nostra stanza ce n'erano stati collocati
tre, uno dei quali gemette per lo spasimo dalla sera all'alba. Nella
stanza attigua s'udivano grida interrotte, lamenti, urla, scoppi di
pianto, imprecazioni, si sentiva chiamare gli infermieri, le suore, i
medici; e tanto strazio durò tutta la notte quanto fu lunga!

Nel mattino passò e ripassò il cappellano militare recitando preci, e
dietro a lui erano soldati che reggevano enormi involti in lenzuola
chiazzate di sangue. Erano due individui portati all'ospedale già
moribondi e vaneggianti, morti nella notte senza che se ne potesse
sapere il nome! Forse erano padri di famiglia, forse i loro parenti li
aspettano ancora, li crederanno dispersi, fuggiti; non avendo avuto
nessun annunzio della loro fine, ancora spereranno!

Tra i feriti collocati nella nostra sala ce n'era uno, maestro
elementare, cui una palla avea offeso il dito medio della mano diritta
che si dovette disarticolare. Non potendo scrivere, mi creò suo
segretario e mi dettò parecchie lettere da spedire a suoi parenti ed
amici. Tutte su per giù aveano lo stesso stile e dicevan le medesime
cose. Sembrava che n'avesse preso il modello da qualche epistolario.

Nel primo giorno dopo il loro arrivo tutti i feriti furono trasportati
in un locale a due piani situato a piè della salita di S. Onofrio e
appartenente a monsignor Ricci commendatore di Santo Spirito.

Due o tre giorni prima dei dolorosi avvenimenti di Mentana ebbi una
lettera dalla mia buona mamma, la quale si struggeva perchè non poteva
venire in mio aiuto, e mi pregava di dirle in qual modo mi avrebbe
potuto spedire soccorsi. Se non temessi urtare la delicata sua
riservatezza, la riporterei, perchè rispecchia al giusto i sentimenti
d'una vera madre italiana.[20]

La lettera, come al solito, portava in fine il _visto_ del general
Zappi.

Prima ancora però che io rispondessi, venne incontro al desiderio di mia
madre un nostro conoscente che avea qui in Roma qualche influente
relazione. Una sera si presentò al mio letto un cappellano militare e mi
fece scivolar tra mano venti scudi, dicendomi che questi me li mandava
il professor Luccardi da parte di mia madre e che l'indomani sarebbe
venuto in persona il detto professore con Sua Eccellenza il Ministro
delle armi a consegnarmi il restante d'una somma che avea ordine di
farmi tenere.

— Così pure, soggiunsemi, se anche il conte Colloredo avesse bisogno di
qualche cosa, il professor Luccardi è dispostissimo in suo favore,
essendo amico di suo padre, il conte Giuseppe.

Il Luccardi ed il Kanzler erano cognati perchè mariti alle signore
Vannutelli, romane e parenti, se non erro, ai due monsignori, ora
cardinali ed al pittore.

Partito il cappellano, comunicai la cosa al Mosettig. Ne fummo
impensieriti. La scoperta del pseudo Colloredo in faccia al Ministro
delle armi era inevitabile. Chi potea immaginarne le conseguenze? Al
postutto però non si trattava che di una sostituzione. Si stabilì quindi
che io alla meglio con segni e con gesti facessi intendere al Luccardi
il mutamento di nome pregandolo a non tradirci. Il Luccardi però io non
lo conosceva e quindi tornava non poco difficile il mio assunto.

All'indomani, alle dieci del mattino vennero infatti il generale ed il
Luccardi colle rispettive signore, ma io non ebbi nè tempo nè modo di
farmi intendere. Era del resto affatto superfluo, perchè il Luccardi,
accostatosi al letto dell'ammalato che tentava celarsi:

— Ah ecco, esclamò, questi è Colloredo! già lo si ravvisa subito, è suo
padre spiccicato; tale e quale, nè più nè meno!

Respirai, ed anche il Colloredo, preso coraggio, si scoperse il volto
senza timore per poter dar campo al Luccardi di trovare nuove
rassomiglianze. Infatti egli andava ripetendo:

— Tutto, tutto suo padre: eravamo tanto amici!

Quanto era viva la mia apprensione prima, altrettanto ridevo in cuor mio
dipoi. La cosa infatti volgeva in burletta. Per comprendere la quale
bisogna notare che il Luccardi dimorava qui in Roma da molti e molti
anni e che se in passato avea conosciuto ed era amico dell'ottimo conte
Giuseppe Colloredo, ora defunto, non conosceva però alcuno dei figli
suoi o quanto meno li avea conosciuti piccini.

Questo professor Luccardi venne poscia altre volte a trovarmi. Era in
complesso un buon uomo: non fu però buon italiano quando accettò da Pio
IX l'incarico di fare il monumento commemorante i soldati pontifici a
Mentana, monumento che, in omaggio alla politica tolleranza, si ammira
ancora a Campo Verano.

Lo rividi poi nel 1870 e fui a visitare anche il suo studio, ma
quantunque dovessi riconoscere il merito di taluno dei suoi lavori, pure
quel monumento non glielo potetti mai perdonare. E poichè gli dissi
l'animo mio francamente quando era vivo, posso ora liberamente ridirlo
senza per questo che la sua fama venga offuscata o scemato il suo valore
come artista. L'_Ajace_, uno dei primi suoi lavori, ebbe plausi ed
onoranze, ed il _Caino_, il gruppo del _Diluvio_, il _Raffaello_ e
_Fornarina_ gli procacciarono nuova fama. Il _Diluvio_ anzi venne molto
ammirato all'Esposizione mondiale di Parigi di quell'anno e gli fruttò
la croce della Legion d'onore.

Fra gli altri pochi che spesso ci venivano a visitare, oltre a monsignor
Stonor che ci recava frequenti notizie di Giovannino, vi era pure un
monsignor Tizzani, uomo di molta coltura e intelligenza, ma per sua
sventura vecchio e cieco. Era stato vescovo di Terni, poi avendo perduta
la vista, venne creato vescovo _in partibus_ di Nisibi. Campò ancora
molto a lungo ed è morto solo da pochi anni.

La conversazione sua era molto piacevole, perchè aneddotica e perchè
rivelava un uomo di scienza e di studio. Eppure anch'egli, parlandoci un
giorno d'un suo cane da guardia affezionatissimo, lo chiamava Lutero!
Piccinerie dell'intransigenza ed effetto d'ambiente che pur troppo
talora subiscono anche gli spiriti elevati! S'intratteneva volentieri
col Bassini ragionando di medicina, per la quale pare avesse una
speciale inclinazione. Anzi ci portò un suo opuscolo stampato su alcuni
casi di elefantiasi; non ci seccava mai nè colla confessione nè colle
devozioni. Intendeva adempiere un dovere di carità visitandoci ed
intrattenendosi con noi, e questo dovere si vedea che l'adempiva con
vero sentimento e con profonda convinzione.

Non così potea dirsi d'un giovinotto vanitoso e scapato, quintessenza di
sanfedismo sposata ad una donchisciottesca posa di crociato, un
giovinotto, che venne un dì a visitarci appunto mentre stavamo
conversando con monsignor Tizzani. Seppi dipoi che era un notissimo
principe del patriziato romano. Questo signore, italiano pur troppo,
baciata la mano al vescovo, prese a magnificare le fatiche ed i disagi
da lui sostenuti in quei giorni per la difesa del papa, ossia nel dar la
caccia ai nostri, e finiva coll'invitare il prelato ad ammirare
l'abnegazione sua e dei suoi compagni i quali, mentre dai garibaldini
non avevano avuto che sprezzi di ogni maniera e sputi in faccia (così
diceva lui!), ora s'affaccendavano tra l'ospedale di Santo Spirito e
quello di Sant'Agata a rendere male per bene ed a soccorrere i
garibaldini.

Il vescovo gli rispose, e molto opportunamente, che di fronte alla
sventura non vi sono partiti e che la carità, non facendo distinzioni di
tal fatta, abbraccia tutti in un medesimo amplesso. E la risposta chiuse
la bocca al petulante patrizio, il quale ora, fatto uomo e ripensando a
quei giorni, troverà coll'esperienza acquistata per lo meno ridicole, se
non deplorevoli, quelle giovanili sue smargiassate.

I feriti all'ospedale di Sant'Onofrio erano sistemati e tutto era
organizzato il servizio medico dipendente dall'Ospedale civile di Santo
Spirito, quando un bel giorno venne l'ordine di trasportare anche noi
assieme agli altri. Provammo un vivissimo dolore all'idea di lasciare
quel luogo, dove per le cure del capitano Galliani ricevevamo
un'assistenza tutta speciale e dove si godeva d'una quiete per noi
preziosa. Anche lui ne provò dispiacere intenso. Da alcune sue mezze
frasi e da un leggiero tono di rancore mal celato potemmo comprendere
che egli subiva una sopraffazione e che il nostro trasloco non doveva
essere se non effetto delle attenzioni da lui usateci, riferite ad
autorità superiori, facilmente esagerate e forse alterate.

L'ordine venuto alla mattina doveva eseguirsi subito. Fu ritardato di
qualche ora in causa d'un avvenimento inatteso, la visita di Pio IX
all'ospedale!

Le porte infatti furono spalancate a due battenti, la sentinella
presentò l'arma in ginocchio, s'udirono grida di Evviva Pio IX, evviva
il Papa-Re! poi una figura bianco vestita, piuttosto pingue, apparve sul
limitare, benedicendo.

Un frate benedettino che seguiva il Papa più da vicino, lo condusse al
letto del Mosettig per presentargli il conte Colloredo, di cui
probabilmente a Pio IX si era in antecedenza discorso.

Il Papa si accostò al suo letto e sporse la mano destra all'infermo
perchè la baciasse. Questi finse di non comprendere l'atto, simulandosi
molto aggravato dai dolori, e non la baciò. Al Papa non isfuggì il
rifiuto, ne conservò memoria in appresso; intanto anche sul momento
volle, indispettito, rendergli la pariglia.

Chi conobbe da vicino Pio IX e la infantile sua vanità che lo rendeva
tanto sensibile alle lustre ed alle compiacenze personali, potrà farsi
giusta ragione di questa meschina vendetta.

— Soffrite molto? gli chiese.

— Si, rispose asciutto il Colloredo.

— Ebbene, pigliate questi dolori quale salutare penitenza dalla mano di
Dio e chiedetegli perdono d'averlo offeso!

E suggellò l'amorevole conforto con l'apostolica benedizione!

Il padre benedettino che l'accompagnava e che, come seppi dipoi, era un
Casareto di Genova, all'udire le parole del Papa s'intenerì e gli si
mosse una commozione sì abbondante che egli si stemperava in lagrime di
gioia le quali gocciavano a quattro a quattro, mentre egli andava
esclamando:

— Ah, Santo Padre! ih, Santo Padre! quale degnazione, quanta bontà! e
piangeva come un ragazzo.

Poco dopo, partito il pontefice, s'affrettò a rientrare per sentire da
noi l'impressione di quell'avvenimento, che per noi doveva essere,
secondo lui, veramente straordinario e da segnarsi _albo lapillo_. Era
ancor tutto gongolante e badava a dirci:

— Eh, ci eravamo commossi, non è vero, alla visita del Santo Padre! non
potevamo trattenere le lagrime! quanta bontà! quanta dolcezza! Siete
pentiti, non è vero? Vero, Colloredo?

— Sì, rispose questi, di non averlo mandato a...

Sopravvennero in buon punto gli infermieri ad annunziarci che la
carrozza e le barelle erano pronte, altrimenti la frase del Mosettig, se
avesse avuto seguito, avrebbe senza meno essiccate al buon padre
Casareto le fonti lacrimatorie tanto facili e copiose.



XIII.

Sant'Onofrio.


Riveder la luce del sole dopo la prigionia, respirar l'aria libera a
pieni polmoni dopo parecchi giorni d'ospedale è soddisfazione di vita
nuova, è respiro di giovinezza!

Non eravamo liberi, no, tutt'altro! anzi avevamo la certezza di andare a
star peggio; ma per il momento quella boccata d'aria, la vista libera
della natura ampiamente serena, del cielo purissimo, ci ricreava lo
spirito come la promessa di giorni migliori.

Mentre si attendeva sulla porta dell'ospedale un delegato militare il
quale ci dovea scortare, si fece crocchio di curiosi intorno a noi. Ci
guardavano e squadravano da capo a piedi come si guarderebbero gli
zingari, ad una rispettosa distanza. Le nostre _toilettes_ da Lazzari
resuscitati o fors'anco la presenza delle guardie li teneva in riserbo.

A Sant'Onofrio fummo collocati parte nelle sale superiori, parte nelle
inferiori. Quell'ospedale improvvisato accoglieva circa centonovanta
feriti, dei quali novanta nelle due corsie del primo piano e cento circa
nelle sale del pianterreno.

Da un riassunto istorico-clinico pubblicato dal dottor Bianchi nel 1871
sulla cura dei garibaldini prigionieri feriti nel 1867 e ricoverati
all'ospedale di Santo Spirito in Roma, risultano i seguenti dati:

Dei feriti, cinque erano romani di Roma, cinque della provincia,
trentatre della Toscana, diciannove dell'Umbria, trentatre delle Marche,
ventotto delle Romagne, diciannove dell'Emilia, ventitre della
Lombardia, sei del Piemonte, sei della Liguria, sei delle provincie
venete, tre del Trentino, un inglese ed un russo.

Rispetto alle lesioni, centocinquantuno erano feriti di arma da fuoco,
sedici erano feriti per arma da punta, nove per semplici contusioni o
distrazioni, dieci erano affetti da malattie mediche e provenienti dalle
prigioni del palazzo Salviati, due non avevano lesioni e due cessarono,
come dissi, di vivere poco dopo giunti all'ospedale senza che si potesse
precisamente conoscere il gravissimo loro stato.

La maggior parte delle ferite, come si vede, erano di arma da fuoco e
aveano colpito le estremità inferiori.

Dei feriti centotrentasei guarirono ovvero partirono in lodevoli
condizioni (io fra questi) e cinquantaquattro morirono. La mortalità fu
dunque del 27 per cento.

E per i medici aggiungerò che la morte fu cagionata: per ventiquattro,
da ferite trasfosse di vario genere; per due, da ferite penetranti
nell'addome con lesione del retto e della vescica; per nove, da ferite
penetranti nel petto, con grave lesione polmonare; per dodici, da
fratture semplici; per cinque da fratture comminute, e due spirarono
appena portati all'ospedale.

E basti delle cifre.

Appena entrato nella corsia, mi sentii chiamare per nome. Mi volsi e
riconobbi il maestro elementare. Tosto mi pregò di scrivergli altre
lettere, non avendo potuto trovare un nuovo segretario.

Chi venendo dalla Città Leonina imbocchi la Lungara, a pie' della salita
che guida a Sant'Onofrio, di fronte al manicomio, vedrà un locale
abbastanza ampio che allora aveva la forma di un granaio, specialmente
nel piano superiore. Ora venne ristaurato e ripulito e vi si è allogata
la ditta Calzone e C., la quale vi stabilì un suo laboratorio di
cartonaggio.

Questo era il nuovo ospedale improvvisato. Il mio letto stava al piano
superiore sull'angolo e portava, se ben ricordo, il numero ventiquattro.

Si fece presto conoscenza coi nuovi amici, specialmente coi vicini. Fra
questi rammento il capitano marchese Ronco di Genova, gentiluomo
distinto e soldato valoroso. Si era segnalato in tutte le campagne
dell'indipendenza, rimanendo però sempre incolume. A Mentana invece era
stato colpito nel momento in cui si credeva meno esposto, mentre stava
ragionando con un suo amico, senza pensare menomamente a pericoli. La
sua conversazione era piacevole, perchè colto ed arguto parlatore. Pochi
anni dopo seppi con vero cordoglio da un comune amico che era morto, non
però per la ferita o per conseguenze riportatene.

Come si prevedeva, a Sant'Onofrio si era caduti in peggio d'assai quanto
al trattamento. Mancava anzitutto la schietta cortesia del capitano
Galliani; il vitto era ben altro da quello dello spedale militare; il
servizio era fatto da inservienti di piazza o da infermieri salariati
ben diversi dai militari. Cotesti infermieri ci frodavano atrocemente
sulle spese e sulle commissioni. Il locale pure era basso ed opprimente
e le finestre da un lato sovrastavano ad un letamaio od immondezzaio.
Quindi le condizioni igieniche infelicissime. Da ultimo avevamo
peggiorato anche quanto a libertà e perfino quanto all'assistenza delle
suore. Quelle di Santo Spirito appartenevano alle dame di S Vincenzo,
volgarmente dette _Cappellone_, dall'enorme cuffia a vela inamidata che
portano in testa. Erano disinvolte, andavano venivano, e facevano le
faccende loro con alacrità e senza inceppamenti o pastoie di regole e di
prescrizioni. Queste di Sant'Onofrio, oltre all'avere un vestito
incappucciato e chiuso, sembravano impacciate anche nel camminare,
procedevano lente lente, nè potevano accostarsi al letto di un ammalato
se non a due a due; avean l'aspetto gesuitico e per colmo erano brutte
ed antipatiche. Seppi di poi che tra queste e quelle di Santo Spirito
esisteva un odio implacabile, che non cessò finchè le _Cappellone_ non
furono sfrattate dall'ospedale e mandate lontano.

Di queste ultime, ripeto, non posso dire che bene, e ricorderò sempre la
madre superiora, ottima dama belga, che parlava distintamente
l'italiano, disinvolta, franca, intelligente e di florido e
piacevolissimo aspetto.

Questo mi è rimasto talmente impresso, che pochi anni sono, ossia circa
ventisei anni più tardi, trovandomi un giorno tra una corsa e l'altra
fermo alla stazione di Catania e adocchiando un crocchio di suore che,
reduci da chi sa quali lidi, si salutavano fra loro cordialmente, fra
l'agitarsi di quelle candide cuffie che sembravan vele di navigli
spiegate, mi colpì una fisonomia che fra me stesso giuravo di aver
veduta altre volte, benchè certo forse dovesse essere di molto mutata
dal tempo.

Il fischio importuno della vaporiera mi impedì di fissare più oltre il
placido sorriso della suora, ma quando era proprio il momento del
partire, un lampo dei passati ricordi mi fe' trovare vivo e presente,
fra le traccie d'una incipiente vecchiaia, il sorriso gentile della mia
amabile infermiera d'un tempo. Il treno già si moveva ed istintivamente
non potei a meno di mandarle colla mano un amichevol saluto. La suora
chinò gli occhi. La poveretta l'avrà creduto uno scherzo ed era invece
il saluto della riconoscenza che un antico suo ammalato le mandava.

La malinconia dei frati e la vista di gendarmi in permanenza a guardia
delle sale incutevano del pari un'uggia desolante. I frati cappuccini
stessi che per il loro spirito d'abnegazione e di carità e per la
povertà volontaria acquistano agevolmente la popolare confidenza, in
quelle corsie e tra gli ammalati avean alcunchè di sinistro. Quel
vederli soltanto intorno a moribondi ed a morti metteva ribrezzo. Ve
n'era uno poi che avea un ceffo tanto ributtante ch'io avrei giurato che
prima che frate fosse stato masnadiero.

I meno antipatici fra tutti erano ancora gli zuavi di guardia. Venivano
a tenerci compagnia e noi ce ne servivamo liberamente come di galoppini
per comperar cibarie, frutta, vino, poichè diffidavamo di quella schiuma
d'infermieri che ci stavano attorno.

Gli zuavi uscivan quasi tutti da buone famiglie ed avean perciò modi
cortesi ed umani. D'altronde il fanatismo stesso che li spingeva a Roma
da lontano per farsi schioppettare in difesa della religione, li
induceva poi in nome di questa a prestarsi in soccorso della sventura e
ad esercitare in tal modo una delle così dette opere di misericordia
che, com'è noto, accrescono il merito dei buoni cristiani.

Avevano pantaloni larghi e saccoccie ampie e però, quando uscivano per
le compere, ritornavano colle tasche letteralmente imbottite e donde
traevano fondaci interi di commestibili, pane, abbacchio, vitello
arrosto, salumi, bottiglie, formaggio, frutta; uno solo portava da
desinare per quattro.

Questi desinari a nostre spese erano talvolta indispensabili perchè il
vitto dell'ospedale era per verità molto meschino. Per quanto noi si
pregasse e scongiurasse il medico visitante di assegnarci nelle sue
prescrizioni giornaliere il _tutto vitto_, il _vino generoso_ e la
_minestra particolare_, in complesso tutto si risolveva in un brodo
allungato, un bocconcino di bollito ed un bicchiere di vino. Per chi
avea d'uopo di rimettersi in forze era senza dubbio un foraggio scarso.
Perciò quelli che non avean mezzo di provvedersi altrimenti, la facevano
magra.

Un caso fortuito ci apprese però il segreto d'ottenere miglior
trattamento. Frati e monache riuscirono un giorno a persuadere uno dei
feriti più aggravati a fare la confessione e la comunione.

Volle la fortunata sorte che il ferito migliorasse. Non è a dire se
frati e monache gridassero al miracolo! E da quel giorno l'ammalato fu
ricolmo di carezze e le suore incaricate della distribuzione del vitto
andarono a gara per ben trattarlo. Gli portavano brodi, pasticcetti,
frutta, limonate.

Tanto bastò perchè molti imitassero l'esempio di colui, sicchè in un
attimo ci furono nel nostro ospedale conversioni in gran copia; e i
preti, come è naturale, menarono di queste conversioni rombazzo non
piccolo, ciò che torna a severo biasimo dei nostri. Comperarsi un
vantaggio a prezzo d'ipocrisia è riprovevole e neanche la burla può
servire di scusa.

Chi si procacciò invece un miglior trattamento con sistema del tutto
opposto fu un professore di scienze naturali, allora tenente di stato
maggiore. Il casetto merita d'esser ricordato, ma è difficile riprodurre
la scena: bisognerebbe aver conosciuti i tipi.

Era costui uomo di carattere piuttosto bilioso e di temperamento
irritabile: tutto lo infastidiva, tutto lo inquietava; era
scrupolosissimo dell'ordine e della pulizia, ma amante de' suoi comodi,
sofistico, esigente.

Una delle prime sue cure, appena arrivato all'ospedale, fu di farsi fare
il bucato e di mutarsi i panni dal capo ai piedi, di farsi rattoppare le
scarpe e tenersele sempre lucide, di lustrarsi la catenella dell'oriolo,
di costruirsi a fianco del letto una piccola toeletta, di
rimpannucciarsi alla meglio provvedendosi d'una cravatta, d'un colletto
e d'un cappello nuovi. Anche al vitto ci teneva, e però esigeva il pane
cotto in punto, il bollito magro, la minestra particolare, il vino
generoso, e via dicendo.

Un giorno, chiamato da molti fra noi che avevano bisogno di mutare
copricapo, venne il cappellaio in corsia ed avendone portati parecchi,
li depose tutti su di un letto che tosto fu attorniato da compratori,
fra i quali il professore in parola. Mentre tutti stavano negoziando,
ecco scoccare il mezzodì, ora in cui le suore distribuivano il vitto.
Una di esse, come di solito, precedeva posando sul letto d'ogni ferito
un piatto di peltro; teneva dietro un'altra la quale deponeva nel piatto
un pezzo di bollito. Le razioni erano numerate una per ammalato, non una
di più, non una di meno.

Essendo andata in lungo la contrattazione dei cappelli, qualcuno dei
vicini di letto, approfittò, o da burla o da senno per appetito
irresistibile, della razione destinata al professore. Ritornato costui e
trovato vuoto il suo piatto, ritenne che la suora, perchè assente, lo
avesse saltato e però reclamò la sua parte.

La suora protestò d'avergliela distribuita, egli rispose che no; essa
insisteva ed egli che avea poche cerimonie, le domandò ruvidamente se lo
teneva per un burattino da dir una cosa per un'altra. La suora tacque e
diede senz'altro al reclamante un'altra razione.

Ma procedendo nella distribuzione quando arrivò all'ultimo e si trovò
mancante una porzione, non potè trattenersi, e passando vicino
all'amico, gli disse con un risolino:

— Ah furbo il signore! s'è voluto trattar bene quest'oggi!

Questi spalancò tanto d'occhi:

— O che intende di dire?

— Nulla. Se ha appetito, ce n'è ancora sa; basta che ella lo chieda.

— Ma che crede dunque che io l'abbia ingannata?

— Ohibò! L'ospedale non misura il vitto, se un ammalato ne ha bisogno.
Solo sarà bene che un'altra volta Ella lo chieda francamente, senza
ricorrere a sotterfugi.

— Ma che sotterfugi! Io? replicava l'amico spazientito ed alzando la
voce.

— Si calmi, ha fatto benone, anzi benissimo! ripetè la suora sorridendo
e scappando in fretta per non lasciar luogo ad alterchi.

Il professore restò molto male. Gli parve di essere canzonato e quel che
era peggio, canzonato da una monachella. Masticò veleno tutto il
pomeriggio e perlustrò ogni angolo delle corsie per rintracciare la
pettegola sua corbellatrice.

La sera il caso portò all'ospedale la madre generala delle suore. C'era
stata altre volte e la si conosceva. Era una donna piccola, traccagnotta
e di lineamenti piuttosto grossolani. Camminava adagio ed a battute,
come se il passo le fosse misurato da un metronomo; teneva sempre la
persona e la testa ritte, come se avesse inghiottito un manico di scopa,
gli occhi socchiusi e le mani in croce avanti al petto. Parlava adagio,
con intonazione inalterabilmente melliflua; vero gesuita in gonnella!
Dicono fosse potentissima e che il papa le accordasse udienza qualunque
volta le piacesse di farsi annunziare.

Costei procedeva passo passo accompagnata da una suora sua segretaria
lungo le corsie. La vide il professore e senza tanti complimenti
l'affrontò con questa apostrofe:

— Madre superiora, Ella vorrà avere la compiacenza di richiamare
all'ordine le sue dipendenti, le quali, mi sembra, dovrebbero avere
l'obbligo d'assistere i poveri feriti e non di corbellarli.

— Oh! sclamò la generala sgranando per la prima volta gli occhi, che è
stato?

E qui il nostro compagno, col dolce stile di cui ho dato un saggio, le
narrò il fatto della razione sparita, dei suoi reclami e delle risposte
sardoniche della monaca. Ma quale non fu il suo stupore quando, mentre
s'attendeva la promessa d'una soddisfazione qualsiasi, sentì invece la
generala replicare col suo tono mellifluo le stesse parole della monaca
da lui accusata.

— Ma bravo, ma bene, ha fatto ottimamente!

— Ma io non domando degli elogi!

— Ma sì, ma vada là! Quando ha appetito non ha che da parlare, si figuri
se l'ospedale rifiuta....

— Ma che appetito o non appetito! Io interesso Lei, come superiora, a
far valere la sua autorità....

— Sì, benissimo! Darò dunque ordine che il vitto Le sia accresciuto!

— Ma non voglio questo io!...

— Stia tranquillo, non dubiti. Ella ne ha tutto il diritto!

— Insomma, io Le dico che se Ella non mette a posto....

— Sì, sì, sta bene! tutto quello che desidera. Vedrà, metteremo ogni
cosa a posto e si troverà contento....

— Oh insomma, urlò l'amico scoppiando, io Le dico che sono stufo di
chiacchiere e che le sue suore sono... E qui cadde, come Dio la mandava,
una gragnuola di improperi, di invettive e di moccoli all'indirizzo
delle povere monachelle. Noi si era fatto bossolo; le suore si erano
ritirate impaurite e la madre superiora, per smorzare tanto fuoco, non
badava che a ripetere:

— Ha fatto bene! Ha ragione Lei, ma benone, tutto quello che desidera!

E di quanto giovamento ciò fosse lo si può di leggieri argomentare!

La mattina dopo, al letto del focoso amico, cui non era per il sonno
ancora sbollita l'ira, mentre stava per alzarsi, si presentarono due
suore, fra cui quella che era stata causa del chiasso. Ambedue gli
porgevano dei panieri di frutta pregandolo da parte della madre
superiora, che lo mandava a riverire, di accettare quel piccolo
presente, chiedendogli in pari tempo scusa di avergli arrecato
dispiacere e dello scandalo dato.

— Ma che scuse, ma che scandalo, ma che frutta! gridò l'amico, dolce
come un'istrice e facendo l'atto di buttar all'aria ogni cosa.

Le monache spaventate posarono i panieri sul letto e fuggirono.

Poco dopo, radunati intorno al letto parecchi di noi ed acquetato il
fegatoso amico, facemmo festa alle frutta, e mandato a prendere un
fiasco di vino bianco, le inaffiammo a piacer nostro.

Per essere giusti però e per debito di storico fedele, debbo dire che ne
fu offerto anche alle suore in segno di pace.

Dopo quella scena l'amico non aveva che da chiedere qualunque cosa
volesse e gli veniva tosto concessa.

Dei feriti ricoverati a Sant'Onofrio molti versavano in uno stato
gravissimo. Ricordo come ora un capitano romagnolo, uomo sulla
quarantina: aveva una ferita alla gamba sinistra e non grave, anzi era
prossima a cicatrizzarsi. Ma improvvisamente venne preso dal tetano. Due
giorni interi spasimò orribilmente, aggomitolandosi e distendendosi,
contraendo convulsivamente i muscoli del volto ad un terribile sorriso
sardonico, mentre soffriva dolori d'inferno; finalmente il terzo dì
soccombette.

Anche a lui fu fatta molta ressa perchè si volesse confessare. Morendo,
dispose che i pochi suoi vestiari li avessero due garibaldini i quali lo
avevano assistito. Fu un _casus belli_! Il regolamento dell'ospizio
prescriveva che gli oggetti di vestiario dei morti restassero proprietà
dell'Opera pia: il testamento quindi fu dichiarato nullo e
l'amministrazione del pio luogo ebbe quei pochi cenci.

Questo individuo, pur troppo, posteriormente si scoperse che era indegno
del nome e dell'assisa di garibaldino, perchè apparteneva ad una sètta
sanguinaria. Fu certamente una disillusione crudele e però, tacendo
della sua vita e avendo dovuto dire della sua morte, copro di un pietoso
velo il suo nome.

Un altro ferito vidi io pure morire, ed era degno della più alta pietà.
Era un giovinetto di poco oltre i quindici anni. Veniva, mi si disse, da
Mantova, dove trovavasi in educazione in quel seminario, ed era fuggito
per seguire Garibaldi.

Erano le prime armi che faceva, il poveretto, e furono anche le ultime.
Vaneggiava; e più ancora che per la ferita gravissima d'arma da fuoco
che gli passava il petto, morì delirante dallo spavento. Battutosi
valorosamente alla baionetta ed atterrato da un avversario altrettanto
forte quanto vile, venne preso di mira a bruciapelo, supino ed esanime e
passato da parte a parte da piombo nemico, non so se italiano o
straniero; forse è meglio ignorarlo. Al vedersi l'arma omicida puntata
sul petto da quel vigliacco, il giovinetto, impotente a reagire, die' in
un subitaneo delirio e perduto ogni sentimento, pazzo, fu trasportato
all'ospedale e, pazzo di spavento e di dolore, spirò.

E ricordo pure un gentilissimo e biondo inglese, Scholey, cui si dovette
amputare il braccio sinistro, operazione che affrontò colla maggior
serenità fumando il sigaro e ringraziando il dottore. Mi richiamava il
povero Maroncelli nello Spielberg. Ma poi per successiva irrefrenabile
emorragia dovette soccombere.

L'amico Mosettig era stato collocato nelle sale a pianoterra assieme al
Papazzoni. Io andavo quasi ogni giorno a trovarlo. Nella stessa stanza
giaceva pure un giovane marchigiano, la cui ferita destava l'attenzione
e l'interesse dei medici curanti perchè molto grave. Era una lesione
alla vescica per arma da fuoco con permanenza del proiettile. Soffriva
spasimi indicibili e la cura cui dovea sottostare, era oltremodo
dolorosa. Eppure più tardi seppi che, partito in discrete condizioni, da
ultimo era perfettamente guarito.

Al letto del Mosettig trovai più volte un monsignor Antici Mattei,
prelato domestico, protonotario, canonico, ecc., e più tardi cardinale,
in cui la vacuità del cervello era pari all'albagia. Costui, sedotto pur
esso da quel benedetto nome di Colloredo, s'era fitto in testa di voler
procacciare al Mosettig migliore trattamento e di ottenere che fosse
trasferito in una casa privata. Vane essendo riuscite le pratiche presso
il Comando militare, senza meno ei pensò di rivolgersi a Pio IX in
persona, contrariamente al volere del Mosettig.

Pio IX che certamente ricordò l'accoglienza avuta dal Colloredo a S.
Spirito, rifiutò qualsiasi concessione. Dolente il monsignore venne a
riferire l'esito della sua missione, rimproverando al Mosettig lo sgarbo
usato al Santo Padre e la irreligione dimostrata e non trovò migliore
rimedio a tanto male se non, invitandolo dapprima e seccandolo dipoi in
tutti i modi, perchè, confessato, facesse pubblica ammenda, in modo che
il Santo Padre n'avesse piena soddisfazione; e andava ripetendogli:

— Io riferirò a Sua Santità il vostro pentimento! mi incarico io di
portare a' suoi piedi la vostra umiliazione! Vedrete che senza dubbio
allora egli si degnerà d'ascoltare le vostre suppliche e vorrà disporre
per trovarvi un ricovero conveniente alla vostra condizione ed al vostro
stato!...

Un ultimo contrattempo ebbe il Mosettig a patire, sempre in causa di
quel malaugurato scambio di passaporto; ed anche allora, trovandomi per
fortuna presente, fui io che in qualche modo lo salvai.

Venne un dì a trovarlo quel padre Colloredo che ho sopra ricordato, dei
preti dell'Oratorio, un vecchietto, sulle cui spalle dovea certo gravare
un secolo di carnevali.

Egli, che da molti e molti anni non avea riveduto il paese natìo,
cominciò a tempestare il Mosettig di domande relative al casato ed ai
parenti.

— Come sta mio nipote Girolamo? quanti figli ha? e il nipote Riccardo, e
la Elisa? Vive ancora suo marito? E il fratello Giacomo? ed il nipote
Martino? e il cugino Lucrezio?

Il Mosettig che non ne sapeva una maledetta di quel parentado, fingevasi
aggravato dal male per non rispondere e, per il poco che ne sapevo,
rispondevo io in sua vece, e, quando non sapevo nulla nemmeno io...
inventavo. Dio sa qual bella famiglia di fratelli, cognati e nipoti gli
avrò creato!

Col permesso del Comando superiore e debitamente accompagnati vennero in
quei giorni parecchi forestieri a visitare l'ospedale e specialmente
alcuni parenti dei feriti.

Tra i molti ne rammento uno che rappresentava non so qual società
democratica o comitato dell'Umbria o della Romagna che fosse, e veniva
per reclamare la salma d'un garibaldino morto pochi giorni prima. Quella
società o comitato non potevano scegliere rappresentante più infelice!

Venne annunziandosi _tout-bonnement_ per quello che era e non ricordo se
recasse con sè anche coccarde o gonfaloni, ma è probabile.

C'è sempre un santo per gli imbecilli e infatti costui riuscì a trovare
chi lo introdusse nello ospedale. Ci venne perchè, tornate vane le
pratiche per esumare e asportare il cadavere, voleva ricuperare gli
effetti di vestiario, e cioè una camicia ed un berretto logori e
macchiati. Avrebbero servito, diceva egli, per i solenni funerali, che
si stavano apprestando a quel _martire_.

— Vede, rispondevagli con un sorriso canzonatorio uno scaltrito
cappuccino, vede, caro signore, le sembra, non dirò convenienza, ma
elementare prudenza, di venire qui a Roma a nome dei framassoni a
chiedere di queste cose?

— Ma che ne vogliono fare di quei due cenci logori e sudici? replicava
insistendo in buona fede il malcauto ambasciatore.

— E che ne vogliono fare lor signori?

— Devono servire pei solenni funerali, replicava egli ingenuamente.

— Già: si apporranno sul feretro cogli strappi e le macchie di sangue in
vista, su d'un catafalco in chiesa, e lì davanti ad una turba di
vassalli e d'eretici che da anni forse non poser piede in un tempio
cristiano, qualche tribuno indiavolato vomiterà bestemmie ed improperi
alla religione, al Santo Padre, alla Chiesa. Abbia pazienza, caro
signore, a Roma non si chiedono certe cose e ringrazi Domeneddio d'aver
fatto capo a me anzichè ad altri.

Ma quel signore insisteva e per poco non perdeva le staffe. La sua
domanda sembravagli tanto naturale! Partito il frate, non potei a meno
di consigliarlo a far tesoro dell'ultimo avvertimento datogli. Ad
insistere c'era di che farsi legare.

Ma egli ancora non era persuaso e non giurerei che tornato al suo paese,
a proposito del consiglio da me datogli, non abbia esclamato: Col lupo
si sta e col lupo si urla!

Fra le notabilità diplomatiche o militari venute a farci visita non va
dimenticato il cavaliere della Vandea, il colonnello degli zuavi
De-Charrette. Si intrattenne a lungo in conversazione col capitano
Ronco, al quale rese ampia testimonianza del valore con cui si batterono
i garibaldini.

Ci venne pure monsignor Ricci, governatore di Santo Spirito,
proprietario del locale ove eravamo ricoverati, e già governatore
d'Ancona nel 1861 all'epoca del fatto d'arme di Castelfidardo. Costui
era un furbacchione matricolato; bastava parlare con lui per
avvedersene. Fu, credo, l'ultimo dei governatori dell'opera di Santo
Spirito ch'era un tempo ospizio ricchissimo.

Monsignor Ricci aveva un figlio, un giovinotto che morì, se ben ricordo,
nel 1872. Faceva parte della guardia nazionale a cavallo, corpo scelto
fra il fiore dell'aristocrazia danarosa di Roma. I suoi commilitoni,
dalla splendida montura e dagli stupendi cavalli, gli fecero corteo
funebre brillantissimo. Credo anzi che un tal fatto per la sua
pubblicità abbia poscia di molto raffreddato i rapporti
dell'Eminentissimo padre con Sua Santità.

Un giorno, nelle sale si presentò una dama francese accompagnata da una
suora e seguita da un servitore in alta livrea che recava biancheria,
indumenti, sigari e dolci. Essa sembrava molto interessarsi ai casi
nostri, e la suora le accennava quelli fra i nostri che erano più
bisognosi di vestiario. Passando vicino a me ed avendole io risposto in
francese che per il momento di nulla avevo bisogno:

— Coraggio, ragazzi, coraggio! replicò sottovoce in buonissimo italiano,
e mi diè una stretta di mano lasciandovi cadere alcuni sigari, poi
continuò disinvolta a fare la francese.

Non credo però che la sua parte le sia riuscita fino in fondo, perchè
più tardi la vidi alle prese colla madre superiora generale, che
gentilmente volea persuaderla, poichè avea fatta la sua distribuzione, a
voler lasciare l'ospedale. Chi fosse quella signora non mi fu dato di
sapere neanche dopo.

Un'altra invece venne col proposito deliberato di far la missionaria,
come faceva Monsignor Talbot, e regalava a tutti libri di devozione,
medagliette, Agnus-Dei. L'istituto _De propaganda fide_ avea così fra
noi per rappresentanti Monsignor Talbot... e la sua signora. Quale fine
abbiano fatto quei libri ed amuleti sarebbe stato piacevole indagare.
Per me, so benissimo qual fine fecero i sigari della mia francese, che
furono davvero eccellenti.

Il fumare era libero. Si fumava anche alla domenica mentre il prete in
mezzo alla crociera celebrava la messa: condiscendenza, per dir vero, a
quei tempi, in un ospedale di Roma quasi incredibile. L'abitudine da
soldatacci in taluni di pipare e fumare eternamente era però tale che in
quel luogo diventava addirittura crudeltà. Si fumava, si beveva e si
rideva infatti senza scrupolo veruno, mentre avevamo vicini compagni di
sventura che gemevano e morivano.

In brevi giorni pur troppo s'era ridotti a tal punto! L'egoismo in date
circostanze diventa sovrano ed il cinismo non ha limiti. Entrambi sono
frutto dell'abitudine e l'abitudine è presto contratta nelle circostanze
della vita in cui la necessità si impone e diventa legge. Io che
rabbrividisco vedendo del sangue e cui la vista d'un cadavere fa
ribrezzo, allora assistevo impassibile alle operazioni chirurgiche, e
rammento d'avere, come se nulla fosse, pranzato accanto ad un letto sul
quale giaceva un misero compagno spirato appena da pochi minuti!

Le lettere che ricevevo da casa, non mi pervenivano più col _visto_ del
general Zappi, ma chiuse e suggellate; e questo mercè la gentilezza d'un
prete, il cui nome mi è obbligo di segnalare in questo libro, chiudendo
col suo ricordo il breve racconto di questi episodi di prigionia.

Era monsignor Giovanni Biffani, già canonico di Santa Maria in
Trastevere ed ultimamente cappellano al collegio militare. Parecchi anni
or sono, vidi, con sincero rimpianto, annunciata la sua morte dai
giornali; posso quindi scrivere di lui liberamente.

Era un giovane sacerdote di cultura ed intelligenza distinte. S'era
trovato prete e prete in Vaticano presso Pio IX, perchè figlio d'un
famigliare del papa fin da quando era semplice vescovo d'Imola. Pio IX
intese beneficare il fedele domestico concedendo un canonicato al figlio
maggiore ancora in tenera età, e gli è perciò che il Biffani fu prete.

Quando la capitale era ancora a Firenze, erano state notate in un diario
fiorentino certe corrispondenze da Roma, che contenevano notizie molto
esatte e particolari molto intimi della Corte del Vaticano. I sospetti
caddero su monsignor Biffani, e non potendosi o non volendosi fare lo
scandalo d'una espulsione, si ricorse al mezzo tradizionalmente
sbrigativo, già altre volte usato in Vaticano, il veleno!

Monsignor Biffani prima di coricarsi avea l'abitudine di bere una tazza
di _consommé_. Una sera, essendo rincasato piuttosto tardi e sentendosi
stanco, andò a letto senza sorbire la solita tazza che ordinariamente
gli veniva lasciata sul tavolo del salottino d'ingresso. La bevve invece
suo padre l'indomani, e poco dopo morì.

Fu eseguita una segreta inchiesta e fu accertato il colpevole nella
persona d'un prete che dimorava prossimo al Biffani ed era anzi in
comunicazione di casa. Fu istruito un processo segretissimo, dal quale
risultò che i tentativi d'avvelenamento erano stati fatti più volte e
non si limitavano alla sola persona del canonico. Il reo fu condannato a
vent'anni di galera, e del fatto fu severamente proibito far parola.

Monsignor Biffani ragionava spesso con me, e più liberamente che con
altri, delle speranze e delle aspirazioni nostre; confortava i
prigionieri garibaldini, li incoraggiava, li assisteva ed i deboli
sorreggeva, aiutandoli a camminare. Le sue attenzioni furono ben presto
notate e dopo un primo rabuffo inflittogli d'ordine superiore da uno dei
frati soprastanti, fu finalmente bandito dall'ospedale. Ciò fu però dopo
la mia partenza ed egli stesso mi diede la notizia per lettera.

Io, il Mosettig ed altri ancora gli consegnavamo le nostre
corrispondenze, perchè le impostasse al coperto dagli occhi della
polizia ed egli, per maggior sicurezza ancora, a tutte imprimeva il
bollo della segreteria del Capitolo di Santa Maria in Trastevere. Le
lettere per noi venivano dai parenti nostri a lui dirette ed egli
fedelmente ce le portava premuroso.

Nel 1870, quando ritornai a Roma, non sapendo ove dimorasse, impostai un
bigliettino diretto a monsignor Biffani canonico in Santa Maria in
Trastevere. Gli chiedevo se si ricordava ancora di me e gli domandavo il
suo indirizzo perchè l'avrei veduto molto volentieri..

— S'io mi ricordo di lei! risposemi; ella favorirà domani a pranzo in
casa mia, via della Lungara, alle ore 6.

Ci andai, mi fece mille feste, mi fe' trovare a tavola con alcuni
patrioti di Roma e tutti insieme, si ricordarono con commozione i giorni
passati.

Il canonico Biffani ebbe dalla corte papale vessazioni d'ogni sorta, a
cominciare dalla revoca del titolo di monsignore fino all'ultimo e più
feroce affronto al suo cuore di figlio, la grazia cioè accordata, dopo
soli tre anni, al prete omicida.

Costui continuò a vivere in Vaticano, mentre al Biffani, dopo sì feroce
insulto, non si lasciò nemmeno la soddisfazione d'andarsene da sè, ma fu
bandito.

Monsignor Biffani morì consunto parecchi anni or sono, come dissi, ed io
pago un debito di gratitudine ricordandolo in questo scritto.

Il prete malfattore credo invece che viva tuttora. Venne però cacciato
di Vaticano da papa Leone perchè all'epoca d'un pellegrinaggio spagnolo
fu scoperto a trafficare in reliquie false[21].



XIV.

Partenza.


Due o tre giorni prima della nostra partenza un frate francescano volle
tentare per un'ultima volta di convertirmi, di farmi fare la confessione
generale e la comunione. Chi ve lo spingeva, era un conte, guardia
nobile del papa, al quale io era stato raccomandato da un suo parente
per lettera, non tanto, diceva questa, per i bisogni materiali, quanto
per le _occorrenze_ spirituali.

Questo conte venne a trovarmi, ma non ebbe il coraggio di fare in
persona prima l'apostolo e perciò ne aveva incaricato il padre
francescano.

Avevo allora diciannove anni ed uscivo di recente da un convitto diretto
da religiosi ove ero stato otto anni. L'impresa del padre cappuccino non
sarebbe stata quindi per sè malagevole. In circostanze normali e
richiamando i ricordi del collegio, il confessarmi e comunicarmi
avrebbero rappresentato nulla più che l'adempimento d'una pratica di
religione. Nelle condizioni d'allora invece sarebbero state una
confessione di resipiscenza, una vera ritrattazione del mal fatto. Per
questo io non volli saperne. Si voleva operare su di me una conversione
per poi forse menarne vanto e gridare al miracolo; ed io non intendevo
prestarmi a simile chiasso menzognero.

Il padre francescano ricorse a tutti gli argomenti d'una sconclusionata
dialettica per indurmi a fare quanto non volevo, e fra l'altre cose
tentò di incutermi almeno un'oncia di rossore per trovarmi in quello
stato ed in mezzo a quella compagnia di vassalli, com'ei li chiamava.

Per far comprendere quest'uscita del frate, m'è forza accennare ad un
fatto spiacevolissimo e per noi doloroso accaduto il giorno prima nella
corsia.

Alcuni nostri prigionieri che erano degenti allo spedale, perchè affetti
da febbre o da altra malattia, guariti che furono, ad evitare il ritorno
nelle carceri, cercavano di rendersi utili aiutando gli infermieri,
assistendo i compagni feriti, prestandosi alla distribuzione del vitto,
al riassetto delle corsie. La Direzione e la Polizia chiudevano un
occhio e lasciavano fare.

Uno di questi però, che era forse il più sollecito ed il più mattiniero
e non isdegnava rendere anche i più bassi servigi con una abnegazione
veramente mirabile, fu notato che bazzicava frequentemente al letto di
un ferito il quale, per la immobilità cui era condannato, da noi si
giudicava gravissimo. L'osservazione a lungo andare sì mutò in sospetto,
che comunicato di bocca in bocca assieme a qualche tacito lagno,
pervenne all'orecchio di uno dei gendarmi di guardia. Questi, in un
momento in cui il compagno sano adempiva i soliti uffici, ordinò agli
infermieri di mutar posto al ferito, poi fece rovesciare il materasso e
nel saccone si trovarono pur troppo parecchi oggetti stati involati di
sotto ai guanciali dei compagni mentre dormivano.

Inutile dire l'indignazione generale. Tutti protestammo di non voler più
per compagni quei due, ed infatti poche ore dopo una vettura della
polizia li trasportava altrove.

Il padre Francesco alludeva a questo fatto quando deplorava la mia
condizione. Gli risposi che ogni regola ha la sua eccezione. Anche tra
gli apostoli vi fu un Giuda e Cristo morì pur esso fra due ladroni senza
che ne fosse per ciò disonorato!

Il frate inorridì della risposta e del paragone, mi trattò da
bestemmiatore e disperando di riuscire a nulla, desistette dalle inutili
sollecitazioni.

Se i connotati avuti non sbagliano, questo frate stesso pochi anni di
poi fece più che insistenza, quasi violenza per poter assistere al suo
letto di morte Urbano Rattazzi, di cui era conoscente ed amico. Non
ricordo se riuscisse nell'impresa, nè se con l'illustre uomo di Stato i
suoi tentativi abbiano avuto miglior fortuna che con me.

L'ordine per la partenza nostra venne alla sera e si estendeva a tutti
quelli la cui condizione di salute permetteva il viaggio.

Dei vicini nostri partivamo io e il Bassini. Questi era allora in buone
condizioni. Più tardi invece le ferite gli si riaprirono e sofferse una
lunga e penosa malattia. Le bajonette gli avevano forato un intestino.

La nostra partenza fu motivo di grande accoramento e di dolore per gli
amici costretti a rimanere. Il capitano Ronco, la ferita del quale in
quei giorni avea assunto aspetto cancrenoso, quando ilare e contento lo
salutai facendogli coraggio:

— Addio, addio, mi disse; non ci rivedremo più, sai.

— Perchè?

— Perchè io non uscirò di qui che per andare a Campo Verano!

Baciai tutti gli amici, ci scambiammo vicendevolmente promesse ed
auguri, salutammo con vera effusione d'affetto il buon capitano
Galliani, ringraziammo i medici, e allegri come andassimo a nozze
lasciammo l'ospedale per andare in patria.

Invece andavamo a... Castel Sant'Angelo!

Attraverso corridoi, scale ed androni, a suon di chiavacci e di cancelli
arrugginiti, fummo introdotti in uno stanzone lungo e buio, difeso dal
freddo e dall'umido della notte con impannate di tela e lungo il quale
in terra era disposta della paglia con dei sacconi.

Al lume delle fiaccole rividi il Campari, il Colombi e il Fiorini, i tre
compagni che vollero rimanere nella vigna per curare i feriti, restando
così prigionieri volontari, i fratelli Rosa di Bergamo ed altri che non
ricordo.

Nella stessa prigione stavano pure molti fra gli arrestati della città.
Ce n'era d'ogni condizione. C'era pure un _clown_ di compagnia equestre
che ogni tanto per tenersi in esercizio dava spettacolo di salti e
capriole. Costui stette in prigione fino al 1870 e appena liberato
ritornò al primitivo mestiere. Il poveretto finì più tardi la vita in un
ospedale di Bologna, cieco d'ambedue gli occhi.

Rivedere i miei buoni amici fu per me somma consolazione; e in quella
sera, per quanto ci fu permesso dalla presenza dei secondini e dei
custodi, ragionammo a lungo dei casi nostri e delle passate traversie.

Essi però erano più al corrente che noi di notizie, perchè le avevano
giornalmente dall'_Osservatore Romano_, che un secondino recava loro
piegato nelle fodere del suo berretto. Per questo incarico (del resto
abbastanza arrischiato) veniva retribuito con una lira per ogni copia.

Un pensiero ci angustiava, che con noi non ci fosse Giovannino, ancora
detenuto alle Carceri Nuove, e pensavamo che forse il Governo papale
volesse fare di lui un martire, lasciandolo soffrire chi sa per quanti
anni in segreta.

Quella notte non dormii, e nemmeno i miei compagni. Si sapeva di dover
partire, si vegliò tutti al buio.

A notte inoltrata, i chiavistelli delle porte girarono e comparvero
finalmente alcuni secondini con torcie e con lumi. Fra questi se ne
notava uno vestito da zuavo, aitante della persona e giovane ancora, ma
inerme. Costui trasportò in braccio fino al basso il Bassini e qualche
altro che non reggevasi in gambe, come avesse portato sacchi di piuma.
Mi fu detto che era notissima spia, famigerato sicario e arnese segreto
della polizia e che era riuscito colle sue arti a darle in potere
parecchi compromessi politici. Vociferavasi ch'egli, unico in tutto il
presidio, avesse l'accesso da Castel S. Angelo al Vaticano per il noto
passaggio segreto riserbato ai pontefici in caso di cataclismi, e ciò
perchè non s'arrischiava ad uscire in città, non essendo sicura la sua
pelle se poneva piede fuor delle inferriate del Castello. Di là dirigeva
con acutezza di vero cagnotto le sue operazioni di gran mastro
caccialepre.

Da Castel S. Angelo alla stazione marciammo a piedi al chiaror delle
fiaccole. Era notte inoltrata e si traversò tutta Roma senza incontrare
anima viva.

Qual triste senso avrà dovuto fare un corteo simile, di notte, per
quelle strade ove, anzichè prigionieri, due mesi prima speravamo di
passeggiar trionfatori!

Ma scommetto che quest'antitesi abbastanza dolorosa non ad uno dei
nostri in quella notte passò per la mente. Il miraggio dell'imminente
libertà e la certezza di rivedere fra brevi ore la famiglia era in
quell'istante l'unico nostro pensiero.

Il treno che doveva portarci al confine fu scortato da soldati francesi.

A Civitavecchia ci arrestammo a lungo per attendere altri prigionieri
provenienti da quel bagno: una torma di infelici, scarni, pallidi,
smunti, abbattuti, veri _pezzenti_. Furono caricati in vetture di terza
classe e stipati come le bestie. Anche fra loro ritrovai degli amici,
Alberto Ceresa, Silvio Andreuzzi, Carlo Marzuttini ed altri.

Un ufficiale francese della nostra scorta, avendo riconosciuto a quella
stazione un altro ufficiale suo amico della legione d'Antibo, che gli
chiese dove andasse, rispose che veniva fino alla frontiera a scortare
_cette canaille_. Un capitano dei nostri l'udì, lo apostrofò come si
meritava e credo ne seguisse una sfida. L'aspetto nostro esteriore però
non dava tutto il torto al vocabolo.

Al confine trovammo un altro inciampo. Il treno pontificio dovea
retrocedere, ma il treno di ricambio da Grosseto non era ancora
arrivato.

Bisognò attenderlo più ore in rasa campagna con un freddo ed un vento
micidiali. E ciò naturalmente fu causa che noi mandassimo le ultime
nostre benedizioni al governo italiano, il quale appena arrivati al
confine ci dava tosto un saggio del suo buon ordine!

Ora, a pensarci bene, si direbbe: che c'entra il governo colle ferrovie?
ma allora si ragionava così.

A Grosseto si sostò per pernottare.

Era prefetto il commendator Homodei, un pavese, gentilissima persona. Il
Campari e il Bassini, suoi compatrioti, lo conoscevano e perciò fummo
ospitati da lui. Alla sera ci trovammo tutti assieme ad una trattoria e
si fece onore a parecchi fiaschi di ottimo Chianti.

Chi mi crederebbe se volessi asserire d'aver serenamente e da me solo
trovato in quella sera la strada per giungere al soffice ed elastico
letto della Prefettura?...

Finora dissi intera la verità, e però una bugia all'ultimo guasterebbe
ogni cosa.

L'indomani io abbracciava i miei cari!



XV.

Conclusione.


Sono trascorsi trent'un anni!

Nel 1870, poco dopo la breccia di Porta Pia, un giorno vidi nella
vetrina di un libraio al Corso una oleografia rappresentante la _morte
d'Enrico Cairoli_. Era una copia del quadro dell'Ademollo e molti si
trattenevano a guardarla.

— Chi era questo Cairoli? mi chiese un _paino_. Era un brigante?

I tre militari che si scagliano a baionetta calata sovra un borghese
caduto gli suggerivano codesta idea, ignorando egli affatto la recente
istoria della campagna di Roma del 1867 ed i suoi particolari.

La domanda di colui sintetizza veramente lo stato d'ignoranza e
d'ignavia in che viveva allora la popolazione di Roma intorno ai propri
destini.

Venuto il 1870, ed entrate le truppe dalla breccia, il patriottismo
fiorì a dismisura, i martiri pullularono, tutti non solo conobbero la
storia patria ma ne furono principali attori, tutti furono fattori
efficaci della libertà e dell'indipendenza, gli eroi dalle coccarde e
dalle bandiere fiorirono innumerevoli!

È storia, non di Roma soltanto, ma di tutta l'Italia. Le commemorazioni
patriotiche, a partire da quell'anno diventarono d'obbligo. Quella di
Villa Glori, per la vicinanza del posto fuori le mura, divenne popolare
e rese pure popolare il fatto che, ignorato e quasi sconosciuto da
principio, coll'andar del tempo, accresciuto, ingigantito da artisti e
da poeti, per poco non divenne leggendario.

Queste brevi pagine spero rimettano le cose a posto.

Senza esagerare però d'idolatria o di feticismo io deploro un fatto. A
merito del municipio di Roma e per iniziativa del compianto comm.
Pianciani, coadiuvato poscia dal duca don Leopoldo Torlonia suo
successore, venne collocato al Pincio il bel monumento dello scultore
Ercole Rosa. Dell'opera d'arte fu già detto abbastanza. È un gioiello
artistico, in cui non sono a lamentare che le modeste proporzioni, rese
tali ancora più dallo spazioso ambiente dove fu collocato, dal
vastissimo orizzonte e dall'imponente panorama che gli fa cornice.

Ma il luogo dove caddero i fratelli Cairoli, doveva essere dal municipio
di Roma religiosamente conservato. Invece la passeggiata dei Monti
Parioli mutò faccia interamente a quel posto.

Quando ancora la si stava costruendo, un giorno io condussi la mia
famiglia a passeggio da quella parte e, quando arrivammo sul posto, io
stesso non riconoscevo più la storica villa. Il cancello da cui
penetrarono gli svizzeri, la stradicciuola da cui salirono e donde
apersero il fuoco, sono spariti. Una frana di terra dava accesso alla
sommità del colle ove a stento si scernevano i ruderi della casetta del
vignarolo, donde fu aperto dai nostri il fuoco e dove cadde il povero
Moruzzi.

La vigna, passata in altre mani, era stata espropriata ed il Municipio
si era valso di quella collina come cava di terra per costruire la
passeggiata. Per accedere al sommo non v'era altro modo che inerpicarsi
per quella frana.

Recentemente, in occasione del 25º anniversario di Roma italiana, venne
praticata una nuova strada d'accesso e sul posto ove caddero Enrico e
Giovannino fu eretta una colonna commemorativa. La topografia però del
posto è affatto mutata, nè alcuno può farsi un'idea del come avvenne
l'attacco e si svolse l'azione. Della casa del vignarolo quasi non resta
più traccia, la Villa ancora intatta è convertita in una caserma di
guardie di finanza e dove spirò il Mantovani e giacque esanime il povero
Enrico, ora è la camera di sicurezza per le guardie! Costava tanto poco
il coordinare la passeggiata dei Parioli in modo da rispettarne quei
cari ricordi! Si rispettano tanti ruderi insignificanti, unicamente
perchè hanno il battesimo e la patina dell'antichità, senza forse
conoscere se abbiano effettivamente un valore storico ed artistico! Non
si risparmiarono quelle sacre zolle che ebbero battesimo glorioso di
sangue e dove con nessuna spesa e con verun disagio poteva la
generazione crescente tener viva e palpitante la religione dei ricordi
colle visite frequenti e col riandare la pietosa storia del dramma ivi
consumatosi.

Ora, da due o tre anni, e dopo l'inaugurazione della colonna avvenuta
nel 1895, commemorazioni non se ne fanno più; la data però se la
ricordano i superstiti ed i pochi che ancora tengono vivo il culto dei
patrii ricordi, ed ogni anno il 23 ottobre infiorano di corone il
mandorlo alla Villa ed il Monumento al Pincio.

Il popolo di Roma li ama quei due modesti ricordi, e quando passa per il
Pincio o sale ai Parioli, vi si trattiene e manda un mesto saluto ai
caduti.

Opportune le epigrafi, non così l'elenco del volontari a tergo del
monumento. Il nome dei vivi non va mai passato solennemente alla
posterità, poichè fino a che c'è vita, c'è campo ancora a coprirsi
d'infamia.

Pur troppo però, mentre io scrivo, se venisse fatto di riunirci, molti
mancherebbero all'appello.

Per quanto n'ebbi notizia io, li segnai tutti i poveri nostri morti con
una crocetta ed ahimè! che la funebre lista già mi rende l'immagine di
un cimitero.

Di settantotto nomi già una trentina portano il segno della morte! Uno
per anno!

Chi sarà l'ultimo a spargere fiori e corone sui compagni caduti?...

A lui sieno raccomandate queste mie memorie!


NOTE:

[1] «Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu che
certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella
friulano; entrambi valorosi davvero e l'uno competente all'altro; però o
la maggior perizia o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, il
fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a
rendere: finchè durò questo duello cessarono di tirare da una parte e
dall'altra, e il vincitore con parole blande consolò il vinto, chè a
questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la virtù gli frutti
lode e non biasimo». GUERRAZZI, _Il secolo che muore_, cap. X. — Posso
aggiungere che i due feriti furono trasportati a Salò e curati in uno
stesso ospedale, divennero poscia amici.

[2] I sessanta carabinieri livornesi, la vecchia guardia della giornata,
lasciarono circa la metà di loro sul terreno. Fra questi dodici morti,
dei quali troviamo in un album pietoso registrati i nomi, che ci par
sacro ripetere: Bertagni Vincenzo, Boni Egidio, Caillon Gustavo,
_Capaccioli Natale_, Cipriani Ubaldo, Costa Pietro, Franceschi
Francesco, Grotta Giovanni, Lircan Bellini, Giuliani Francesco, Paci
Silvestro.

[3] «Si vedevano da più ore gruppi di giovinazzi dal piglio scherano...
ben è vero che udivasi tra i borghesi un lamentìo frequente perchè il
governo lasciasse errare per la città uomini nuovi di aspetto sinistro e
truculento» (!). _Civiltà Cattolica, I crociati di S. Pietro._ Anno
1868, vol. VII.

[4] Per chi non conosce o non ricordi la storia di quei giorni, è bene
ripetere qui che fra i progetti d'insurrezione, vi era pur quello di far
saltare talune caserme militari. La cosa non riuscì in parte che per la
caserma Serristori in Trastevere. Vi rimasero feriti taluni zuavi del
concerto e per questo fatto furono imputati e condannati Monti e
Tognetti, che scontarono poi sul patibolo il loro ardimento. Lo scoppio
accadde il 22 ottobre, ossia il giorno prima del fatto di Villa Glori.

[5] ... parmi si debba pensare a rifornir Roma di giovani; rendere più
forte l'elemento importato, dal quale solo puossi aspettare una vigorosa
iniziativa. Nè con ciò intendo far torto alla popolazione romana; tutti
sanno quale depressione subisca l'animo di un popolo che per tanti anni
fu soggetto a dispotico governo, tanto più se tale governo è il
clericale. Era davvero necessaria cosa rendere più forte l'elemento
importato, che a minime proporzioni era stato ridotto dagli arresti e
dagli sfratti, il quale elemento, senza bisogno d'aggiungerlo, era per
buona dose composto d'emigrati romani. GIOVANNI CAIROLI, _Spedizione dei
Monti Parioli_. Milano, editore Perelli, 1888.

[6] Una sera venne fatta dal Comitato certa distribuzione di denaro. Era
giorno di festa, e i quattrini ben si può arguire come furono adoperati.
Tanto bastò perchè a tarda ora la città fosse percorsa da numerose
pattuglie a cavallo!

[7] Qui in Terni funziona liberamente un comitato, direi meglio una
specie di ministero sotto la presidenza del generale Fabrizi, che
organizza le bande, le provvede d'armi e le manda oltre il confine. Ogni
giorno giungono qui mille circa volontari, e questa sera ve ne sono in
paese non meno di duemila. _Rapporto del generale Ricotti, 21 ottobre,
al Ministero della guerra._

[8] «Impedisca partenza volontari. Imbarazzano non giovano. Ce ne sono
moltissimi. Non si sa che farne». Così telegrafava da Terni un deputato
autorevole di sinistra al presidente del Consiglio Rattazzi.

[9] Il colonnello Gustavo Frigyesi, ungherese, fu uno dei più valorosi
seguaci del generale Garibaldi. Combattè tutte le campagne
dell'indipendenza italiana ed ebbe in ricompensa di morire poverissimo
in un ospedale.

[10] Furono pubblicate dal _Capitan Fracassa_ (non però per intiero) il
27 maggio 1883. L'autografo della prima, piegato in quattro, vidi
conservato in una busta sulla quale Giovanni Cairoli aveva scritto:
_Lettera autografa di mio fratello Enrico (17 ottobre p. p.) da Orte_.
La lettera di Giovanni è scritta a lapis su di un foglietto piccolo di
carta e non ha busta. Questa lettera probabilmente si trovava fra le
carte del portafoglio di Enrico tolto a lui, dopo morto, da me e dal
Campari e consegnato con la cintura, l'orologio ed altri oggetti a
Giovannino il giorno 24 a Villa Glori poco prima della nostra cattura.

[11] Allude al taglio della ferrovia operato ad Orte dal Ghirelli.

[12] La prima idea dei Cairoli era che la banda non superasse i sessanta
uomini. Vedi in proposito più avanti al cap. VIII, nonchè l'opuscolo di
E. CAIROLI: _La spedizione ai Monti Parioli_.

[13]

    Dove che dietro a noi c'era pe' scorta
    N'onibussetto tutto sganghenato,
    Dov'uno ce montava un po' pe' vorta

PASCARELLA, _Villa Gloria_, sonetto II.

[14] Il castello e feudo di Cantalupo apparteneva al principe Vaini che
morì senza successione. Poscia passò in potere dei Lante; presentemente
è posseduto dal barone Commini.

[15] Di questo tratto di Giovannino, che a prima giunta potrebbe a
taluno sembrare strano, s'incarica egli stesso di darci la spiegazione
nel suo libretto: «Debbo ora osservare che l'argomento ora toccato (dei
legami tra superiori e inferiori) costituisce a mio avviso uno dei punti
caratteristici di differenza tra corpo di milizia regolare e corpo di
volontari; che cioè, se in quello non è conveniente dare ai soldati dei
capi che a loro sieno legati da vincoli d'amicizia, in questo deve
all'incontro riuscire vantaggioso. Può forse a tutta prima sembrare
strana tale differenza, ma riesce chiara ricercandone le ragioni col
mezzo d'acuto esame delle condizioni e qualità diverse del soldato
regolare e del volontario».

[16]

                       . . . . . Quarcuno

    Rimase ner casale chiuso drento
    Co' li feriti; e de nojantri, ognuno
    Doppo che s'approvò lo sciojjmento
    Se sbandassimo tutti. Quarchiduno

    Fu preso a Roma a Piazza Barberina;
    L'antri sperduti in braccio de la sorte
    Agnedeno a schizzà pe' la Sabbina.

    Li più se riformòrno in carovana,
    Passòrno fiume, presero le corte
    Drento a li boschi, e agnedeno a Mentana.

PASCARELLA, _id._, son. XXV.

[17] «Il comando di piazza solo a giorno avanzato mosse una poderosa
colonna di fanti e di cavalli con mandato di battere la campagna da
Porta del Popolo infino a Porta Pia, e snidare il nemico se si
scoprisse, e dar la caccia agli sbandati». _Civiltà cattolica._

[18] Era probabilmente una ricognizione capitanata dal principe
Lancellotti, zelante crociato di quei giorni.

[19] Stavo correggendo queste bozze quando dai giornali appresi che
Monsignor Stonor, canonico lateranense e arcivescovo di Cesarea, ebbe
dalla Regina d'Inghilterra una speciale attestazione di stima
accompagnata da lettera autografa di Sua Maestà, per le grandi sue
benemerenze verso la popolazione cattolica inglese residente o di
passaggio in Roma.

[20] Nella chiusa mi dava la notizia del fidanzamento d'una nostra
parente e poichè, giovine ancora, io avevo già avuto la malinconia di
stampare dei versi, concludeva incoraggiandomi: «Addormentati
prigioniero, risvegliati poeta!»

[21] Dell'autenticità di questo episodio posso farmi garante, essendomi
stato narrato, oltrechè da parenti strettissimi del Biffani (credo
tuttora viventi), anche da persone certamente non sospette di
partigianeria liberale.



APPENDICE


SCRITTI INEDITI DI GIOVANNI CAIROLI

ED

ELENCO DEI COMBATTENTI A VILLA GLORI



AVVERTENZA


_Nel 1868 Giovanni Cairoli raccontò la gloriosa spedizione dei Monti
Parioli traendone la materia specialmente da «un libriccino di note
scritto nelle segrete di Roma»: e l'opuscolo di lui fu anche ristampato,
dieci anni dopo, a cura di B. E. Maineri. Pur tuttavia siamo certi che
gli appunti tratti da quel medesimo «libriccino» e qui per la prima
volta pubblicati saranno letti dai cultori devoti delle patrie memorie
con piacere e con vivo interesse._

_Sono brevi note scritte frettolosamente e per semplice memoria
personale, quando viva ancora era nella mente di Giovanni l'impressione
dei casi occorsi e le sofferenze fisiche e morali, che ne erano la
conseguenza, dovevano rendergliene più pungente ed in pari tempo più
desiderato e continuo il ricordo. Nella loro disadorna brevità quelle
poche frasi rapide, concise, buttate giù a scatti e talvolta anche
incompiute, ma pur sempre suggestive, tra le quali con insistente
affettuosità ritorna di tratto in tratto la frase piena di doloroso
rimpianto per il fratello «il mio Enrico, il mio caro Enrico»,
conservano tutta intiera la loro ingenuità ed efficacia, come uscissero
ancor vive direttamente dall'animo del giovane eroe che faticosamente le
ha vergate col lapis nei giorni tristi dell'ospedale e della prigionia.
Per ciò la commozione che viene da questi incomposti appunti è più
immediata e più intensa: nel rifacimento posteriore di essi dato alle
stampe l'efficacia dell'espressione spontanea riesce attenuata dalla
preoccupazione letteraria, cui, sia pure inconsapevolmente, obbediscono
anche gli eroi quando sanno di scrivere per il pubblico._

_Non v'è artificio di letterato che valga la semplicità non cercata:
così è degli appunti di Giovanni Cairoli, donde fra pochi tocchi, ma
forti e schietti, si intravedono e balzan fuori effetti drammatici
mirabili nella loro semplice verità. Valga per tutte la pagina dove è
descritto lo svegliarsi dei feriti che giaciono abbandonati sul campo
della pugna: nell'oscurità silenziosa della notte, incerti della loro
sorte, impotenti a muoversi, si chiamano, si riconoscono alle voci, si
scambiano le notizie e gli addii che credono gli estremi, e da ultimo la
loro voce si unisce nel grido di Viva l'Italia. È una scena di così
grandiosa e sublime semplicità che par staccata dai poemi omerici._

_La nostra edizione riproduce integralmente l'autografo che Benedetto
Cairoli consegnò a Federico Napoli e del quale il Ferrari trasse una
copia. La lettera con cui il signor Napoli volle cortesemente
permetterne la pubblicazione è ispirata a così nobili sentimenti che non
possiamo trattenerci dal metterla sotto gli occhi dei lettori come degna
prefazione agli scritti di Giovanni Cairoli._

                                               «Roma, 7 gennaio 1899.

    «Caro Ferrari,

«Mi pare quasi superfluo darti l'autorizzazione di pubblicare il
giornaletto di Giovannino Cairoli relativo a Villa Glori: — ma poichè tu
la chiedi la dò con tutto il cuore. Anche se tu, senza interpellarmi, lo
avessi fatto, non mi sarebbe mai venuto in mente di rimproverartelo, chè
anzi ti avrei dato lode di curare con affetto e venerazione una memoria
così cara e gloriosa. E oggi singolarmente in Italia, ove tanto scarso è
divenuto il culto delle cose belle! e alla quale a ragione potrebbe
rivolgersi l'apostrofe di Giacomo Leopardi:

        O Italia, a cor ti stia
    Fare ai passati onor, che d'altrettali
    Oggi vedove son le tue contrade
    Nè v'è chi d'onorar ti si convegna!

«E saranno malinconie di noi vicini al tramonto, vissuti in altri tempi,
con altri ideali, con altra religione!

«Quando sarà uscito il tuo volumetto che, non dubito punto, riuscirà
degno del fatto, non dimenticare di mandarne copia a Groppello, a Donna
Elena. Là sono raccolte tutte le memorie di quelle anime buone e grandi,
anzi grandissime, e non deve mancare quella di un amico, di un compagno
d'armi.

«Con tutto l'affetto

                                                         «Tuo

                                                   «FEDERICO NAPOLI».



GIORNALETTO DI CAMPO

DI

GIOVANNI CAIROLI

      [Le parole in corsivo e fra parentesi quadre sono aggiunte
      da noi.]


=20 ottobre.= — 8½ di sera. Partenza.

=21.= — Si arriva a P[_onte_] S[_fondato_] alle 9½ pom. — Con
T[_abacchi_] e col mio Enrico si va a C[_orese_] — Enrico resta, io e T.
torniamo a P. S.

=22.= — Alle 4 e mezza ant. partenza per C. — Parlo alla mia sezione.
Dietro ordine del capo (il mio caro Enrico) la dispongo di guardia.

Incomincio a conoscere la mia sezione; le prime quattro squadre
m'ispirano molta confidenza; poco la quinta in causa di due individui
che mi sembrano troppo ciarlieri per quei momenti serii. — Il capo della
prima squadra viene incaricato dal Comandante (il mio Enrico) di una
missione speciale.

Alle 3 circa si parte dopo aver ricevuti i fucili.[22]

Verso la 1 di notte si arriva alla foce del Teverone dove troviamo la
squadra ch'era stata distaccata la quale avea terminato d'eseguire
l'incarico avuto. — Il capo della 5ª squadra viene incaricato d'una
missione speciale. — Ci fermiamo a 2 miglia da Roma. Stiamo ad aspettare
un paio d'ore, poi si passa in un bosco per un'apertura praticata in una
siepe dalla 3ª squadra della mia sezione. Spuntando il giorno, ho
l'ordine di occupare in fretta il monte, che è a ridosso del bosco.
Accenno alla necessità d'occupare la casa che è alla sommità del monte.
Il Comandante (il mio Enrico) mi risponde di fare. Occupo dunque la casa
colla mia sezione, dopo averla perlustrata con la Iª squadra colle
debite cautele.

=23.= — Alle 6½ avviso il Comandante che la posizione è occupata
sicuramente dalla mia sezione, per cui può esserlo anche dalle altre
due. Di lì a poco tutta la compagnia è installata nella casa. L'Aiutante
Maggiore visita la posizione per disporre poi le sentinelle. I fucili,
essendo stati lasciati nel bosco, perchè s'era stimato sconveniente il
sormontare attraverso luoghi rischiarati dal sole, io chiedo al
Comandante (il mio Enrico) d'essere incaricato di farli introdurre in
casa. Eseguisco in mezz'ora l'operazione colle debite precauzioni. Più
tardi si tiene consiglio, presieduto dal Comandante, fra i Capi sezione,
l'Aiutante Maggiore e P[_erozzi_]. Si decide d'aspettare, disposti a
disperata resistenza. — Si scrive a R[_oma_]. — Dietro mia proposta si
decide occupare la casa del vignajolo ove stanno i viveri. — L'occupo io
colla prima squadra, quindi vi colloco anche la 2ª; le altre tre hanno
ordine di tenersi pronte. — Dietro ordine visito gli avamposti che
trovo bene collocati. — Più tardi sono avvisato dal Capo della squadra
lasciata di guardia alla casa del vignajolo essere passato in vicinanza
un drappello di dragoni a perlustrare; probabile dunque un prossimo
attacco. Ne avviso il Comandante e chiedo di portare in quella posizione
tutta la mia sezione coi fucili. Eseguisco l'operazione e mi stabilisco
là io pure. — Un'ora e mezza più tardi, verso le 5¼ pom., si
presentano i papalini al cancello della vigna; è una compagnia di
Carabinieri esteri. — Mando subito ad avvertire il Comandante e dispongo
in catena la mia sezione — una squadra nella casa, alle finestre, che
poco dopo colloco colle altre. — Di lì a poco arrivano i colpi nemici;
dobbiamo soffrirli per buon tratto senza tirare, stante l'inferiorità
dei nostri fucili. Quindi faccio aprire il fuoco. Arriva il Comandante
(il mio Caro Enrico) e mi ordinò di ripiegare verso la casa grande; si
eseguisce nel massimo ordine. — Moruzzi è ferito da due palle; io e
Campari facciamo ogni sforzo per poterlo trasportare con noi, ma
inutilmente; siamo costretti a lasciarlo sul terreno.

Poco dopo è ferito Castagnini.

Ripiegata la sezione fino all'ultimo risvolto della strada che conduce
alla casa grande, la stabilisco di nuovo in catena sulla linea delle
altre. Dopo poco spuntano i papalini. Grido «W. Italia!» che, proferito,
è ripetuto da tutti con entusiasmo. — Il Comandante comanda la carica
alla baionetta e si slancia alla corsa verso il nemico; io lo seguo con
tutta la sezione. — Vedendo il Comandante (il mio Enrico) troppo
distaccato da noi, lo chiamo: — «Aspetta, Enrico, che andiamo uniti». —
Ei mi aspetta. Arrivatolo, m'accorgo che il mio revolver non funziona
bene; lo aggiusto, sparo un colpo nella direzione del nemico, quindi con
Enrico monto la scarpa sinistra sulla strada ed entro nella campagna ad
inseguire i fuggenti. — Alcuni si sono fermati; il Capitano è fra essi.
— Ci dirigiamo a lui (che ci prendeva di mira con una pistola) coi
revolver spianati. Enrico sparò; in quel momento vedo un carabiniere
diretto contro di lui; mi gli slancio addosso e trovando nuovamente il
mio revolver ribelle allo scatto, glielo percuotei furibondo sul viso. —
Dopo un istante di mischia furiosa, mi trovo accanto (sulla sinistra)
d'Enrico mio e circondato; una scarica ci fa cadere nello stesso
istante. — Appena a terra ci vediamo barbaramente assaliti alla
baionetta; ci feriscono ancora, e fuggono seguiti dalle nostre
imprecazioni di «Vigliacchi!» e «Birbanti!».[23]

Passai alcuni istanti in una specie di letargo; appena svegliato [_mi
parve_] d'essere stato sotto l'incubo d'un sogno, ma subito fui chiamato
alla triste realtà dalla voce del mio Enrico e dai dolori delle ferite.
— «Muoio» mi disse il fratel mio. — «Io pure» replicai. — «Povera la
nostra Mamma!» ripigliò Enrico. — Poi gli si aumentò l'affanno; aveva
due gravi ferite al petto, l'una ch'io non poteva scorgere, l'altra
all'angolo destro della bocca. — Feci il possibile per dargli aiuto; non
potei altro che prestargli debole appoggio del mio braccio destro. —
Soffriva assai il mio Enrico, ma emetteva pochi lamenti. — Riprese: —
«Desidero essere seppellito a Groppello» — poi, dopo un istante di
silenzio: — «Salutami Mammina, Benedetto, Minoja» — fece uno sforzo
supremo per dirizzarsi sull'anche, e ricadde. — Il mio Enrico spirava. —
Gli mandai un bacio come potei. Poco dopo io pure sentiva vicinissima la
morte; la sordità, abbondantissimo il sangue (specialmente dal capo),
l'emozione della morte del fratello, la posizione incomodissima
m'avevano procurato un affanno tale che parea il rantolo dell'agonia. —
Soffriva tanto che affrettava col desiderio la morte. — Accorgendomi dai
lamenti d'aver alcuni de' nostri a poca distanza pure feriti, dissi: —
«M'è morto Enrico in questo momento». — Alcune voci improntate da
profondo dolore mi risposero, una tra l'altre (quella di Bassini) con
queste parole; — «Vorrei potermi avvicinare per baciarlo» — Aggiunsi: —
«Io pure muoio. Salutate la mia Mammina; desideriamo essere seppelliti a
Groppello». — Dopo poco riprendeva: — «Ci resta però la soddisfazione
d'aver fatto il nostro dovere, siamo caduti da forti». — «È vero!»
risposero tutti quei dolenti amici — «W. l'Italia!» aggiungevano [Prima
aveva scritto: _mormoravano_.] ancora in coro con voce fioca. —
L'affanno diminuiva sensibilmente, sicchè più distinti mi si facevano i
rumori all'intorno. — Distinguevo i lamenti del povero amico Mantovani
da quelli di Papazzoni e di Bassini, poi udii chiaramente una voce in
lontananza gridar «Aiuto!» — Si aspettava ansiosamente d'essere
soccorsi, qualcuno che venisse almeno ad inumidirci le fauci ardenti per
la sete; invano. — Parlo di tentare uno sforzo per alzarmi; Bassini dice
tentare d'aiutarmi. Due volte mi provai, ma ricaddi estenuato di forze
coll'affanno di nuovo aumentato. Alla terza prova, tentata dopo non
breve intervallo, riuscii e mi trovai in piedi. — Mi provai a camminare,
lo potei barcollando. — Bassini ebbe la stessa sorte. — Ci accompagnammo
l'un l'altro fino a cercar la strada; lo potemmo con molto stento per
uno dei punti meno scoscesi della riva. Arrivati sulla strada non
sapevamo qual direzione prendere; la mente indebolita pel sangue perduto
non sapeva a sufficienza raccapezzare le idee per condurci a qualche
punto ben conosciuto, tanto più che l'oscurità era grande. Finalmente io
potei orizzontarmi ed additare con quasi certezza la direzione della
casa del vignaiuolo. Presici sottobraccio c'incamminammo alla meglio a
quella volta; non avevo errato: di lì a poco la trovammo. Entrammo sotto
il porticato che nella giornata ci aveva servito di corpo di guardia;
udiamo un lamento; ci avviciniamo; è Moruzzi disteso su d'uno strato di
paglia. Mi prega di cangiargli posizione alla gamba ferita; l'aiutiamo a
grande stento. — Quindi io mi porto fuori e mi trascino fino all'uscio
di casa; batto, non si risponde; replico, odo una voce cui rispondo, e
mi viene aperto. Quei bravi coloni mostrano gran dispiacere al vedermi
ridotto in quella guisa. — Parlo loro di mio fratello morto e degli
altri compagni feriti che attendono soccorsi; li supplico di accorrere a
raccoglierli, quindi, estenuato di forze, mi corico su d'un letticciuolo
che mi vien preparato. Mi si prodigano molte cure, mi fasciano le ferite
alla meglio; quella del capo ne aveva specialmente grande bisogno. Passo
così alcune ore tormentato dalla debolezza e più dalla sete che ogni
tanto vo smorzando con un po' d'acqua che quei pietosi mi porgono;
grandissima è poi l'agitazione d'animo per la cocente rimembranza del
mio Enrico spento, e pel pericolo dei miei dolenti compagni che forse
sono ancora stesi sul terreno in attesa d'aiuti, e che io non posso
volare a soccorrere. Qual pena, mio Dio! Ad ogni tratto chiamo qualcuno
e rinnovo la preghiera [Seguono alcune parole inintellegibili.]..... dan
promessa, non mai la consolazione di cedere sull'istante alle insistenti
mie domande.

Riesco solo a sapere che fu portata dell'acqua ai due rimasti sotto il
porticato, Bassini e Moruzzi. — Fra quelle angoscie spunta il mattino;
se il tempo ha sensibilmente scemata la debolezza fisica, vieppiù ha
aumentata l'agitazione morale. — Il letto mi pare di carboni accesi. —
Mi alzo. — Mi dicono essere stati nella notte levati i feriti dal campo;
non si sa se dai nostri o dal nemico, e ricoverati nella casa
principale. — A quella nuova procuro d'accelerare l'operazione del
vestirmi, o meglio del farmi vestire. Sono in piedi, debole sì, assai,
ma capace di camminare coll'aiuto di un bastone, che mi viene collocato
in mano. Esco e mi dirigo verso la casa grande, deciso a penetrarvi. — È
in mano dei nostri, pensai, e niente di meglio potrei fare; è del nemico
e dividerò la sorte dei miei compagni. — A ciò insomma in ogni caso sono
deciso, trovare la sorte istessa dei miei amici. — Arrivato al tratto di
strada che corrisponde al campo del combattimento, non so impedirmi dal
valicare la scarpa e dall'entrare. Fucili, qualche revolver stanno sul
terreno. — Mi porto fin sul luogo in cui cademmo io e il fratel mio, in
cui egli spirò. — Oh sì, ne son certo, l'ho perfettamente riconosciuta
quella sacra zolla! Raccolsi un pugno di terra e lo baciai; il bravo
contadino che mi seguiva ne fu commosso vivamente. — Procedo per la mia
strada ed arrivo in pochi minuti alla casa. — Un fazzoletto bianco
applicato ad un bastone è messo in vista presso la porta. — Penetro
nella prima camera e parmi dall'aspetto (senza sapermi abbastanza
spiegare tale impressione) che la casa debba trovarsi in mano del
nemico. — Ciò malgrado senza esitare un istante (non ero io già deciso
per ogni caso?) entro nella seconda camera. — Qual momento di mesto
conforto. — Due compagni feriti stesi su due pagliericci riconosco
sull'istante; Moruzzi e Papazzoni; due altri vedo dirigermisi incontro
col volto impressionato della più cara sorpresa. Uno è l'intimo amico
Campari, l'altro il bravo Fiorini cremonese; ci abbracciamo con
trasporto. — Mi dicono che la mia apparizione riesce loro tanto più cara
per ciò che mi ritenevano morto, mi aggiungono che tale persuasione si
son portata seco i compagni che in numero d'una sessantina nella notte
abbandonarono la casa per unirsi, dopo ben lunga strada, alle bande. —
Nella casa son rimasti i feriti e tre bravi amici a soccorrerli;
Campari, Fiorini, Colombi. — Avute in tutta fretta codeste informazioni,
domando a stento del corpo del mio Enrico. — «È là» (mi dicono
accennando alla camera vicina) «assieme a quello del povero Mantovani».
— «Lui pure!» — dissi — «Buon amico. Morto forse per ritardo di
soccorsi». — E qui scacciava il pensiero che se fossi riuscito a spedire
subito gli uomini del vignaiuolo a raccogliere i feriti, forse i
soccorsi non sarebbero riusciti inefficaci al bravo Mantovani. Mi
levarono l'acuta spina facendomi intendere come gli altri compagni
feriti fossero stati tolti dal campo ben poco più tardi di me. Ciò per
l'opera di Tabacchi e di Stragliati. — Mostrai l'intenzione di vedere il
fratel mio, ma ne fui impedito dalle esortazioni degli amici. Mi recai a
veder a stento [Prima voleva scrivere: _lentissimamente_.], come poteva,
tutti gli altri compagni feriti; trovai a letto Bassini e Colloredo;
Ferrari e Castagnini in piedi, feriti ambedue al braccio; tutti
mostrarono in vedermi grande sorpresa. — Più tardi non seppi resistere
alla tentazione di vedere il mio Enrico, vinsi le esortazioni degli
amici, ed entrai nella stanza dei morti, quella stessa nella quale con
tanto ardore il mattino si era tenuto consiglio sotto la direzione del
mio spento fratello. — Entro e scorgo i cadaveri dei due amici, l'uno
accanto all'altro: mi chinai sul mio Enrico e lo baciai in viso. — Qual
consolazione, mio Dio! — Il buon Campari mi strappa a forza da quella
camera. — Scorgendo il bisogno che i feriti fossero alla meglio medicati
penso recarmi a raccogliere delle bende alla casa del vignajolo. — Mi
faccio accompagnare da Campari. — Là arrivati, riceviamo dai bravi
coloni quante pezzuole ponno raccogliere. — Campari scrive un biglietto
indirizzato all'autorità militare di Roma, in cui si dà avviso di feriti
che richiedono pronti soccorsi. Come avrei voluto risparmiarci tale
passo; ma (per non parlare del mio stato) quello in cui si trovavano
Moruzzi, Papazzoni, Colloredo, lo richiedevano imperiosamente. — Si
vinse dunque la ripugnanza, e si consegnò il biglietto al vignaiuolo
perchè lo portasse in Roma, raccomandandogli però di non consegnare il
biglietto che in _extremis_. — Nell'uscire ci vien dato avviso essere
stato ricoverato un ferito dei nemici sotto il porticato. — Entriamo a
visitarlo. — Appena ci scorse mostrò temere assai, lo rassicuriamo colle
parole seguenti: — «Per noi il nemico, quando ferito, diventa sacro». —
Gli atti accompagnarono le parole. — Ci mettiamo, io pure, benchè
sofferente per le avute ferite, a medicargli la grave ferita. — La
coscia è trapassata da una palla. Ma si riesce alla meglio a togliergli
di dosso le robe ed a fasciarlo. — Durante la operazione brevi
interrogazioni mi fan sapere essere il ferito un Perugino già da diversi
anni arruolato nell'armata pontificia. — «Renitente» — gli dissi —
«della nostra armata forse?» — «No» — rispose — «emigrai da giovinetto e
m'arruolai nell'esercito pontificio». — Sciagurato, pensai, hai tradito
la tua patria! — Nè perciò vennero meno le mie cure. — Il nemico ferito,
pensai ancora, è sacro. — Terminata alla meglio la pia bisogna, si tornò
alla casa grande presso gli altri compagni. Discorrendo dei casi nostri
si previde la probabilità di esser assaliti da distaccamenti di truppe
talmente inspirate a sensi di crudeltà da voler scorgere nel nostro
ricovero un nido di banditi, anzichè un ospedale di feriti, ed agire di
conseguenza, cioè perpetrare un orribile massacro, una strage di
individui storpiati in mille guise dalle ferite. In tal caso,
conchiudevamo, quel po' d'armi che ci è qui rimasto, servirà per
vendicarci alla meglio, per impedirci di morire come le pecore sbranate
dal lupo.

Poco dopo questo discorso udiamo rumori d'armati, guardiamo fuori, è un
distaccamento di zuavi (a cui stan mischiati alcuni gendarmi) che
s'avvicinano. In pochissimo tempo sono arrivati ad una cinquantina di
passi dalla casa. Vedo diversi di essi spianare il fucile verso la
porta; in quella direzione sta appunto coricato su di un pagliericcio il
ferito Moruzzi. — Visto il gran pericolo mi mostro sulla soglia della
porta levando in pari tempo il fazzoletto di tasca agitandolo. Lo
credevo bianco, mentr'era orribilmente insanguinato. Allora vedo uno di
essi che punta il fucile, affretto il passo e balzo (come le ferite
ponno permettermi) fuori della casa esclamando: — «È una casa di
feriti!» — Nè per questo si desiste dal tenere spianato i fucili su di
essa e sui bravi compagni Campari e Fiorini che senza perder tempo mi
han tenuto dietro. Alla fine si mostrano persuasi, non del tutto però;
abbassano le armi, ma stanno ancora alcun poco in sospetto. Il mio
aspetto di uomo assai malconcio da ferite contribuisce a
tranquillizzarli vieppiù. Allorchè si son fatti a noi vicini dico loro:
— «Che mai volete che io vi faccia colle quattro ferite che tengo? — Se
poi siete in dubbio sui nostri compagni che stanno in casa, vi aggiungo:
— Sono nelle vostre mani; quando uno solo dei compagni porti le armi
contro di voi, uccidetemi». — «Noi pure» — esclamano ad una voce Fiorini
e Campari ed il ferito Ferrari, che a noi s'è aggiunto in quel momento.
— Cinque o sei zuavi sotto condotta d'un sergente entrano in casa per
perlustrarla; questi prima d'entrare ci affida in consegna di quelli
rimasti fuori con queste _eroiche_ parole: — «S'ils bougent, enfilez-les
tous le quatre.» — «Anima di fango!» non potei a meno di dire fra me
accompagnando il pensiero con una fosca occhiata.

Per tutto il tempo della perquisizione rimasi in non poca pena: temeva
per quei poveri compagni feriti, temeva pel cadavere del mio Enrico, per
quello dell'amico Mantovani. L'idea che potessero essere manomessi mi
dava raccapriccio. — In quel punto arrivava un ufficiale dei gendarmi.
Scendeva da cavallo e poneva il piede in casa. Capii alla prima parola
ed al far burbanzoso essere egli un francese. Onde gli dissi mentre
entrava: — «Monsieur le lieutenant: je vous prie. Il y a là dedans le
cadavre de mon frère» — «Eh bien» — mi risponde entrando — «s'il est
mort je ne puis pas lui faire du mal». — «Anime di fango!» dissi fra me
una seconda volta e con maggior cruccio della prima. — Ormai avea
diritto di dirlo in plurale. — Si fruga per ogni canto. — Sono portate
fuori le armi e pressochè tutti i fucili e diversi revolvers. Questi
ultimi sono _intascati_, i primi spaccati in due all'impugnatura. Provai
non poco dolore in mirare quell'opera di distruzione. Il soldato
s'affeziona presto all'arme che porta per quanto cattiva! Più di tutto
il soldato della libertà che deve adoperarle per uno scopo santo. Basta;
anche questo strazio (per altro assai minore di quello che in questa
circostanza ebbi già a subire) c'era riservato. — Però dura poco, tanto
è lo zelo spiegato da quei bravi nel distruggere le armi nostre. —
Terminata la perlustrazione e l'opera di distruzione, se ne partono a
far ricerca per la campagna dei nostri commilitoni partiti nella notte.
— «Oh non riusciranno certo a raggiungerli!» ci diciamo fra noi. — Passa
così un altro paio d'ore poi ricompare la stessa compagnia di zuavi a
ripetere in fretta una seconda perlustrazione, dopo di che se ne
partono. — Passano altre ore ed il bisogno dei soccorsi medici ai feriti
si fa vieppiù imperioso, specialmente pel povero Moruzzi ch'è attaccato
dai più vivi spasimi.

Sull'imbrunire udiamo rumor di carri, quindi vediamo a spuntarne diversi
misti a carrozze, il tutto scortato da un forte drappello di gendarmi
[Il Cairoli ha cancellato: «_Osserviamo il capitano, con modi abbastanza
cortesi ci chiede ad ognuno di noi_».]. — M'affretto a fare un'altra
mestissima visita alla stanza dei morti prevedendo di doverne essere
assai presto distaccato. — Bacio ancora in viso il mio Enrico, stringo
nelle mie le mani sue gelate! L'ultimo bacio, l'ultima stretta di mano
su questa terra! Ugual segno d'affetto volevo dare all'amico Mantovani,
ma me lo impediva, trascinandomi fuori, il buon Campari che teme la
soverchia commozione m'aggravi lo stato delle ferite al capo. Ei compie
la pia bisogna di staccare due ciocche di capelli ai due poveri spenti,
e mi rende possessore del prezioso ricordo di morte. — Usciamo ad
attendere il nuovo distaccamento di nemici che sta per arrivare. — Son
già alle porte della casa.

Il capo del distaccamento (Capitano) con modi abbastanza cortesi ci
chiede il nome ad ognuno di noi, quindi ordina una perquisizione della
casa ad un suo subalterno. — Io mi annuncio al Capitano quale capo degli
individui rimasti nella casa e domando di accompagnare per tale mia
qualità il sergente incaricato della perlustrazione, onde dargli le
necessarie dilucidazioni. Lo desiderava per ovviare ad ogni
inconveniente, e per vedere un'altra volta il fratello mio e l'amico
spenti. Mi risponde affermativamente il Capitano, ma lasciatimi fare
alcuni passi, mi richiama e mi invita a star quieto, a riposare su d'un
saccone. — Capisco tal richiamo essere stato cagionato dalle
osservazioni che l'amico Campari, sempre temendo per me scosse fisiche e
morali, doveva aver fatte al Capitano. — La perlustrazione fece nascere
un piccolo inconveniente. Si pretendeva aver trovato nella casa un
individuo in meno del numero che vi si trovava al mattino. Causa di ciò
fu uno sbaglio commesso dall'Ufficiale francese dei gendarmi che al
mattino era venuto, e che ora accompagnava il Capitano. Le franche
nostre assicurazioni finiscono per convincere dell'errore commesso,
della nostra lealtà. — Dopo la perlustrazione si dà mano a collocare i
feriti sui carri e carrozze. Per mettere al posto il povero Moruzzi non
poca fu la fatica e la pena morale, tanto il corpo suo martirizzato
dalle ferite era sensibile ad ogni scossa. — Per gli altri assai minori
poterono riuscire i riguardi. Io fui messo in una carrozza assieme a
Ferrari, Bassini ed un impiegato [Prima aveva scritto: _Per ultimo fui
messo in una carrozza assieme a Ferrari, Castagnini ed un ufficiale
impiegato_.] del tribunale militare. — Eravamo già sulle mosse per
partire quando udii il Capitano profferire le seguenti parole: —
«Abbiamo allocati per bene tutti _questi_, ma non abbiamo ancora pensato
al nostro ferito» — alludeva al carabiniere che io e Campari avevamo
medicato al mattino. Incontanente dissi: — «Non vi sarà per ciò
difficoltà: io mi metterò al cassetto» — «Ed io» — aggiunse Ferrari —
«andrò a piedi». — «No» — rispose il capitano — «non v'è bisogno di ciò»
— e mostrò di capire d'aver tocca con quella sua brutta esclamazione la
nostra delicatezza. — Colsi l'occasione per ripetergli le vive domande
(che già al principio gli aveva rivolte) circa al corpo del mio Enrico,
cioè che mi fosse accordata la licenza di farlo collocare in una cassa
di zinco, e che si chiedesse per ciò la superiore autorizzazione di
farlo trasportare nella tomba di famiglia a Groppello. — Intanto essere
assolutamente necessario (aveva bisogno d'esserne assicurato) che tanto
le sue preziose ossa quanto quelle dell'amico Mantovani fossero inumate
in luogo ben distinto con ogni debita indicazione. Il Capitano mi
tranquillizzò sul supremo argomento con ogni sorta d'assicurazioni.
Montò quindi al cassetto della nostra carrozza e diede l'ordine di
partenza per tutto il convoglio.

Prendiamo dunque la direzione dell'Eterna Città sotto la scorta dei
gendarmi. Entriamo per la Porta del Popolo che troviamo barricata con
ogni cura, e ci fermiamo davanti la Caserma di gendarmeria ch'è presso
la Porta. In quei pochi momenti di fermata quanti pensieri mi passarono
per la mente indebolita: prima soavi, poi tristi, cocenti quai ferri
roventi! Tali rimembranze, rimembranze di cari momenti passati col mio
Enrico nelle altre due visite fatte a Roma. Se dirigo lo sguardo
all'Obelisco, corre alla mente il ricordo di quelle sere in cui dopo
lunghe passeggiate sul Corso ci fermavamo a riposare sui gradini che gli
fan corona, a riposare contemplando l'effetto sui monti dell'astro della
sera. Se guardo al Pincio, mi rammento le passeggiate nell'ora del
crepuscolo, i discorsi animati che tra noi si facevano contemplando dal
terrazzo lo stupendo panorama di Roma; discorsi sul passato, sulle
grandi memorie dell'Eterna Città, sull'avvenire, sul prossimo avvenire.
— A questo punto del discorso i nostri sguardi sempre convergevano su
Castel S. Angelo e più animata facevasi la conversazione. Ma lasciamo la
triste memoria ch'è troppo fissa, perchè possa già contenere alcunchè di
soave; è rimembranza che arrovella il cuore.

Riprendiamo il cammino e per Ripetta dopo non breve tratto si taglia a
destra, si passa sul Ponte S. Angelo e si fa sosta al Castello. Qui
discendono e vengono rinchiusi Campari e gli altri due compagni sani.

Noi procediamo per l'Ospedale di S. Spirito. Vi troviamo gran movimento
cagionato dal nostro arrivo; gente alla porta, monache, infermieri,
soldati sotto l'atrio. — Quel po' di confusione ritarda l'operazione del
trasportare all'interno i feriti. Passò per certo più di mezz'ora prima
che ad ognuno fosse assegnato il letto; s'ebbe il riguardo di
raccoglierci tutti in una sola camera. — Grande era per me il bisogno di
riposo, avendo il capo molto addolorato specialmente per le scosse della
vettura. I medici quasi subito ci passarono la visita e ci medicarono.
Mi si trovarono quattro ferite tutte però abbastanza leggere; due al
capo, di baionetta e di palla strisciante, due altre di baionetta al
dorso..... quelle che m'erano state regalate quand'era già a terra privo
di forze.

Poco dopo i medici ebbimo visite di frati e preti; ad uno di questi (il
Cappellano dell'Ospedale) parlai di ciò che tanto m'era a cuore, il
trasporto della salma del mio Enrico, e lo trovai dispostissimo ad
interessarsene. Fra le numerose persone che accorsero a vederci, ma che
però non s'intrattennero con noi, mi venne additato il Cardinal De
Merode[24].

=25.= — Passai una notte agitatissima: oltre all'immensa inquietudine
morale dipendente dal continuo pensiero della perdita del mio Enrico,
una febbre ardente m'ha pure tenuto il corpo in grande orgasmo. I
medici, dopo aver viste le ferite, mi ordinarono un salasso che poco
dopo mi vien fatto dalle Suore di Carità. — Rivedo il Cappellano
dell'Ospedale che mi assicura d'avere scritto al Capitano dei Gendarmi
sull'argomento che tanto m'è a cuore, il trasporto del mio Enrico. — Più
tardi entra nella nostra camera il Generale Zappi accompagnato dallo
stesso Capitano dei Gendarmi; mi dice di star pienamente tranquillo
circa al supremo argomento: l'autorizzazione m'è accordata. Ciò mi
consola assai. Chiedo mi si permetta d'assistere ai funerali. N'ho
risposta negativa.

Alla sera mi vien fatto dalla suora un altro salasso.

=26.= — La notte fu più tranquilla della precedente, solo fisicamente
però, s'intende. Gli altri amici feriti in complesso migliorano, fuorchè
Moruzzi, che mi dà qualche pensiero. Scrivo all'intimo amico di me e del
povero mio Enrico, Minoja, l'informo dettagliatamente della tristissima
digrazia e di quanto mi concerne. Tale sfogo servì a sollevarmi un poco
l'animo. Fin dal giorno innanzi, mi scordai dirlo più indietro, aveva
scritto all'amico deputato Cadolini, raccontandogli il tutto;
l'impegnava a voler mandare al più presto qualche stretto conoscente a
Roma per combinare il trasporto delle preziose salme. — Lo scopo
principale che mi spinse a scrivere le prime mie lettere a questi due
amici si fu di fare in modo che la sciagurata novella della subita
perdita immensa arrivasse il meno possibile crudamente a Mammina e a
Benedetto. — In giornata altre persone vengono a visitarci tra le quali
una signora inglese che sebbene di principii avversi ai nostri, mostrò
molto interesse pei nostri mali. Non tutti certamente sanno anteporre i
doveri d'umanità a ogni altra idea; quando trovo perciò di tali persone,
amo render loro pubblica lode per ogni mezzo mi si presenti. — Debbo
però dire che dessa, la suddetta signora, mi rivolse subito parole tali
che certo non s'attagliavano alla reciproca nostra posizione di
tribolato cioè (moralmente anzitutto) e di consolatore. — Mi disse: —
«Fu commesso l'altro ieri (22) un atto di barbarie contro i nostri
soldati; fu fatta diroccare col mezzo d'una mina una caserma di
zuavi...». — Tutto ciò con tal tono che voleva certo farmi comprendere
il rimprovero al partito al quale io appartengo, al partito
dell'indipendenza e del mio paese. — «Signora» — risposi — «se si
dovesse formalizzarsi di certi atti isolati, darne tutta la colpa ad un
intiero partito, noi ne avremmo per certo maggior diritto per quanto ci
accadde l'altra sera nel combattimento in cui restammo feriti. La
maggior parte di noi ebbimo ferite di bajonetta quando già per altre
ferite eravamo stesi al suolo privi di forze. Come può Ella, signora,
qualificare tale condotta dei nostri nemici? condotta forse di leali
soldati?» — «Non posso dar loro torto» — mi rispose con grande mio
stupore la signora — «comprendo come nel bollor dell'azione tali scene
possano succedere senza grave colpa di chi le commette». — «Noi non ne
siamo capaci» — ripresi con forza. — «Il nemico ferito per noi è sacro».
— Non replicò, certamente comprendendo com'io avessi piena ragione e si
parlò d'altro. — Verso l'imbrunire sentimmo parlare di trasporto in
altro ospedale di qualcuno di noi; tre, si aggiungeva. Poco dopo i
medici vennero a visitarci e ci dichiararono tutti non trasportabili. —
Nel mentre ci rimettiamo dall'apprensione di essere separati gli uni
dagli altri, in cui quella notizia di traslocazione ci aveva gettato,
alcuni gendarmi entrano nella sala a chiamare i n. 1, 3 e 7, me, cioè,
Bassini e Castagnini. — Temendo il trasporto ad altro luogo non
riuscisse fatale a Bassini ch'era in quel momento il più aggravato di
noi tre, pensammo far avvisati i medici dell'ordine strano, che contro
il loro consiglio ci era stato dato.[25]



NELLE CARCERI PONTIFICIE.

      [Queste parole sono scritte sulla copertina del
      «Libretto-Giornale» scritto nelle Carceri Nuove di Roma.]


..... Sono prigioniero solo in una segreta, porto nel cuore lo strazio
della recentissima perdita d'un diletto fratello, l'atroce ricordo del
momento in cui me lo vidi cadere sotto gli occhi coperto di ferite e
spirare. Non scorre dunque lieto per me questo giorno. Ma quanto più
tetro a te!.... Pure oltre al respirare la pura aria che ci ha dato
Iddio, oltre al vederti d'attorno tutta la tua famiglia, altri assai su
di me hai di que' vantaggi che fan lieta la vita. Un nome glorioso: di
qual gloria non te lo vo' ancor dire.... ma pur glorioso od almeno
famoso per tutta Europa, pel mondo, mentre io non son noto che alla mia
città natale. Sommo potere ti sta nelle mani sopra molti milioni di
uomini, mentre io non ho potere che sul cuore de' miei diletti.

Come mai dunque saran più tetre a te le ore di questa giornata? Ecco. —
Io sono prigioniero, ma la stessa causa della mia cattività m'è di
grande conforto... chè dessa fu l'aver obbedito ai doveri di cittadino.
Piango un fratello, ma lo stesso genere di cruda sua morte m'è di
conforto: sul campo dell'onore combattendo per la Patria. — Il mio nome
è noto a pochi, ma so di certo che suona onestà. Non ho potere, ma mi
basta l'affetto de' miei cari e i pensieri che da questo luogo di
solitudine rivolgo ad essi ad ogni istante, sono un altro conforto, che
assieme a quelli che t'ho già enumerato scema d'assai la tristezza delle
ore che qui vo passando prigioniero. — E tu?..... Io so che l'alba
di questo giorno (2 dicembre) t'ha portato intorno una luce
insopportabile, attraverso la quale ti si fan vedere larve da far
raccapricciare anche un cuore incenerito, il tuo. — Più di tutte si fan
rimarcare due figure di donna! desse formano il fondo importante del
quadro, il fondo della tetra tua visione. Non t'impedisce, no, di
distinguerle perfettamente il bagliore delle dorate pareti, nè d'udirne
la voce l'eco del tuo nome ripetuto da tutti i confini della Europa, da
ogni costa di mare ai monti, cieli.... Eccole quelle due larve. — Belle
tutte due queste figure di donna.... ma di aspetto indebolito e triste.
L'una ha le impronte d'una felicità trascorsa ed una tal qual aria di
natural gaiezza di vanitosa baldanza traspare attraverso quel velo di
tristezza: le smunte sue labbra sembra che conoscano il riso! Forse ieri
stesso, la notte scorsa dessa ha passato tra i gaudi e tra le danze, e
solo da stamane è ridotta d'aspetto sì triste. Ma perchè? Eccolo, ella
stessa lo dice. — Guardandoti cupamente ti mostra una data che ha
scolpito nei ceppi che le legano le belle membra, quei ceppi che, strana
cosa per vero! non le riescono gravi tra i piaceri in cui passa
l'ordinaria sua vita. — Ma quella data l'hai letta?.... Sì, perchè hai
impallidito. — 2 Decembre! — Ella ti parla! Udiamola. — Me misera! Che
solo in questa giornata sappia accorgermi dell'abisso in cui m'hai
gettata? Che solo questa funebre data valga a farmi sentire il peso
delle catene di cui m'hai avvinta, e farmi scorgere le macchie di sangue
di cui i miei figli, per te uccisi, m'hanno tinta? terribile
prostrazione questa in cui da tanti anni nella giornata d'oggi sono
caduta! Più ancora che quel sangue, quest'oggi io ho a rinfacciarti la
corruzione che m'hai gettata nell'animo, la malnata ambizione che vi hai
instillata colle tue tenebrose arti. Queste splendide vesti di cui mi
hai adorna nascondono ai miei occhi le obbrobriose catene di cui vo
carca, e la finta parola di Gloria, Gloria, che ad ogni tratto vai
abilmente sussurrandomi all'orecchio, m'hanno spinto più d'una volta,
(insensata!) a guidare i miei figli alla morte per sgozzare i figli
delle mie sorelle. Prima intendeva comprendere la santa parola di
libertà, anzi fui quella che prima la proferii, che la proclamai
all'universo, attraverso le fitte tenebre del dispotismo. — Ora, me
misera, solo a brevi [_intervalli_] ne comprendo il magico senso; che tu
ti sei dato ogni cura di confonderla nella mia mente con parole che
altro non significano se non turpitudini. Un tuo parente m'ha pur una
volta legata e come te colla violenza; ma poi, più che colle strette dei
ceppi ed il veleno dei mali consigli, m'ha tenuta per varii anni
soggiogata col fascino dell'alto suo Genio e dell'indomabile energia. —
Errai anche allora, anche sotto la guida del parente tuo più volte ho
stretto di ceppi diverse mie sorelle.

Ma pur al male che allora ho fatto andò mischiato gran bene nei colpi
che ho dato al dispotismo: in quel vorticoso mio giro pel mondo, è
sempre grandezza! Allora insomma, già te lo dissi, sentiva legata la mia
libertà dal fascino che m'ispirava l'Uomo di Genio, traviato sì, ma pur
spesso generoso; ora quando so scorgerle, le ritorte che m'avvinghiano
m'ispirano ribrezzo.... mi sembrano le spire d'un serpente. — Ah vo'
terminare il confronto. Quel tuo parente quanto generosamente ha chiusa
la grande e colpevole sua carriera! Pensa qual parola l'animo suo seppe
dettare a Fontainebleau in un momento di sublime infortunio.... qual
parola ha scritto per troncare i mali che addosso ei mi aveva attirati.
— Abdicazione! — Ne saresti tu capace? — Il sogghigno che, anche in
questo momento, in cui sei torturato da rimorsi, tu rivelasti a traverso
il pallore del tuo viso, mi risponde di no.

E lo so bene.... nè su ciò confido per riprendere la libertà che in
questa funesta giornata m'hai rapita. — Fuvvi un momento in cui sperai
acquistar vera gloria sotto la tua guida, anzi per fermo l'ho acquistata
ed ho fatto benedire il mio nome: quando al tuo cenno condussi i miei
figli, or sono otto anni, a liberare una loro sorella, questa che ora mi
vedi d'accanto e che unisce su te i suoi sguardi di rimprovero ai miei
per torturarti il cuore. Allora fu vera, santa gioia la mia, ben diversa
da quella che ora spesso, non so come, vo dimostrando; stolto tripudio
imparato alla tua scuola, che somiglia a un fuoco fatuo. Pure piansi
allora sul sangue versato da' miei figli. Ma qual pianto! qual conforto
vi andò mischiato dal pensiero della morte loro veramente gloriosa! —
Però fu corto quell'istante che a tanta speranza m'aveva animato.....
alla suprema speranza di vederti lealmente procedere nel sentiero di
libertà su cui t'eri posto, e perfino sperai che, dopo avermi guidato a
dar la completa indipendenza alla mia sorella, m'avresti restituito quel
tesoro che barbaramente in questa giornata tu mi hai rapito.... Illusa!
Ma, lo dissi, fu breve l'illusione! Assai presto potei comprendere che
quel tuo atto, che aveva ogni apparenza di generosità, non poteva pur
chiamarsi un lucido intervallo, che era dettato, come ogni altro de'
tuoi precedenti, da precetti di tenebrosa politica.

Diffatti, proprio il giorno appresso di quello in cui fu versato dai
miei figli gran copia di sangue per la redenzione della sorella, tu me
li arresti sulla gloriosa via, e stringi la mano all'oppressore di essa.
Prova ancora il rossore di quell'istante! Eccomi da quel momento da te
introdotta in una via incerta, enigmatica, per diversi anni nei rapporti
colla sorella, cui aveva prestato aiuto, finchè... ma Ella stessa ti
riparlerà tra poco del male, che in questi ultimi tempi m'hai costretto
a farle, ti rinfaccierà il dardo che m'hai costretto a lanciarle contro.

Io n'ho vergogna! Parlandone mi s'infiammerebbe il viso per l'ira
d'averti obbedito nella fratricida missione.[26]


Dicembre.

=3.= — Sono al termine del quarantesimo giorno di prigionia. — Nulla di
nuovo — Tutta la giornata passai nell'attesa di quella dichiarazione,
cui è necessario apporre la firma per ottenere la libertà. Forse mi
verrà mostrata domani. Dubito assai ch'io possa trovarla accettabile; in
ogni modo però desidero, per dare una favorevole risposta, di leggerla
attentamente; così, qualunque sarà la mia decisione, mi resterà la
soddisfazione d'averla data in piena cognizione di causa.

=4.= — Allo svegliarmi fui sorpreso stamane dal rimbombo di molte
cannonate. — Ne chiesi la causa al custode e mi disse essere oggi S.
Barbara, la festa d'Artiglieria. Mi scosse questo annunzio. — Quanto
fausto gli altri anni mi scorreva questo giorno tra l'allegra comitiva
dei compagni alternata alla gioia quasi infantile dei miei bravi
soldati.... Nel 60 passai questa giornata in Accademia, pure in una
specie di prigionia, ma quanto diversa da questa! — Nel 61 ancora in
Torino, mentr'era alla Scuola d'Applicazione, da mattina a sera assieme
al mio amatissimo Adolfo, che doveva dopo due anni essermi rapito da
morte quasi improvvisa. — Nel 62 a Pavia nel Reggimento Pontieri. Che
liete ore tra la famiglia e buoni compagni! — Nel 63 a Salò. Mi ricordo
che fu imbandito un pranzo ai bravi pontieri della Compagnia, che era la
5ª. — Nel 64 a Casale. — Nel 65 mi trovava in permesso a Firenze col mio
Enrico. — Nel 66 a Verona. Mi sovvengo che non fu combinato il solito
pranzo di tutti gli ufficiali dell'arma onde non essere costretti dalle
leggi di militare convenienza ad invitare gli ufficiali austriaci
rimasti in Verona per la consegna del materiale; il che sarebbe riuscito
un brutto spettacolo per i buoni cittadini. — Nel 67: nella segreta N.
10 delle Carceri nuove di Roma! — Nel 68? — Finora, come abbiamo visto,
da un anno all'altro vi fu variazione di località; è ben sperabile
dunque che questa legge abbia a mantenersi ancora per poco, cioè ch'io
abbia a trovarmi alla fine del nuovo anno in luogo diverso. — Vorrei
quasi sperare anche al principio... ma no, comprimiamo i battiti del
cuore, freniamo le speranze cotanto dubbie.

=5.= — Stamane venne monsignor Stonor a trovarmi. Il degno uomo, pieno
per me d'interessamento, mi parlò ancora della promessa che tra poco mi
verrebbe presentata da firmare ed insistè perchè lo facessi, aggiungendo
i consigli dell'amico Colloredo. Gli esposi la mia riconoscenza per
tanta premura, lo pregai di ringraziar pure l'amico, ma in merito alla
questione dissi che sentiva di dovere star fermo in proposito altra
volta mostratogli. Un dovere di più che agli altri compagni, aggiunsi,
mi incombe circa a tale argomento: la memoria santa del mio diletto
Enrico! Del resto, non debbo dar formale risposta finchè possa leggere
quel foglio.

Più tardi fui chiamato in cancelleria una seconda volta; appunto la
sospirata carta mi veniva portata da un impiegato all'Auditorato
militare. Il suddetto signore mi parlò subito d'una certa istanza che
dovevasi rivolgere credo al Direttore della Polizia per ottenere
l'autorizzazione di rimpatriare. Credei volesse parlare della promessa,
onde gli chiesi in quali termini dovesse essere concepita tale istanza.
Dalla risposta capii essere questa una semplice domanda per soddisfare
ad una formalità, onde gli venni subito a parlare della promessa.

— «Ah, mi rispose, la conoscerà già, ritengo: è la stessa che fu firmata
dagli altri suoi compagni già partiti».

— «N'ho sentito a parlare, ma desidero conoscerla perfettamente;
favorisca dunque a leggermela».

Me la lesse: n'è questo il senso:

«Liberato in seguito alla grazia accordatami da Sua Santità dalla
prigionia in cui m'ha gettato l'aver fatto parte delle bande che hanno
invaso il Territorio Pontificio, m'impegno sulla mia parola d'onore di
non portare più le armi contro il suo legittimo governo».

Mi feci consegnare il foglio e lo rilessi attentamente.

Appena terminata la lettura risposi all'impiegato: — «Non posso
firmare». — Discretamente sorpreso ei mi replicò: — «In tal caso, credo,
si formulerà dal Tribunale un'altra intimazione» — «Favorisca a far
sentire, s'Ella lo può, ch'io sarei disposto a firmare, avvece di quella
promessa che ora ha letto, una dichiarazione in cui m'impegnassi ad
essere sottoposto alla pena di diversi anni di carcere, quando fossi
colto un'altra volta colle armi alla mano entro lo Stato Pontificio». —
«Sarà difficile che si possa combinare in tal maniera...». — In ogni
modo or conchiudo ripetendo che questa non la posso firmare, e per certo
n'ho dispiacere. — Fui ricondotto alla mia segreta dopo aver esaminato
gli oggetti statimi sequestrati all'epoca della mia entrata alle Carceri
Nuove dall'Auditorato Militare, ed ora riconsegnati alla Cancelleria
delle prigioni per mezzo dell'impiegato sunnominato. — Lo sguardo
appassionato che potei gettare sulle ciocche di capelli del mio Enrico e
dell'amico perduto, mi consolarono assai del dolore cagionatomi
dall'aver dovuto rifiutare la cara libertà. — Ritornato alla solitudine
della segreta, mi trovai l'animo più tranquillo d'assai dei giorni
precedenti, durante i quali, per quanto io facessi, non potè a meno
l'animo mio di trovarsi in preda ad un vago turbamento per l'ansietà di
leggere quel foglio, da cui poteva dipendere la sospirata liberazione. —
Era cagionato da una lieve (lievissima!) speranza che quella promessa
potesse essere formulata in termini accettabili dalla mia coscienza,
mista ad un vago timore che io potessi in un momento di vertigine
cagionata dal vivissimo desiderio d'abbracciare i miei cari firmarla
anche se, com'era probabilissimo, quella promessa fosse tale da doversi
respingere.


Giorno 5.

Vidi monsignor Stonor, e gli dissi il mio rifiuto. — Se ne mostrò assai
addolorato, il degno uomo, ma finì per mostrar d'approvare la mia
condotta. — Volle udire in quali parti io non trovassi accettabile
quella promessa. — «La frase sulla grazia» — ripresi — «l'epiteto
legittimo al Governo Pontificio e quella parte che si riferisce alla
parola d'onore».


Giorno 6.

La situazione è radicalmente cambiata, rischiarata perfettamente la
prospettiva. — Posso tornare tra le braccia dei miei senza alcuna
condizione contraria ai miei principii. — Avvece di firmare una
dichiarazione ebbi una intimazione.

Domattina all'alba partirò. Il giorno 7 Decembre mi resterà sempre
scolpito in cuore.

Mia Mammina, Benedetto, Minoja. — Come anelo di abbracciarvi![27]


NOTE:

[22] Il Cairoli ha cancellato le seguenti parole: _Fui incaricato di
dirigere l'imbarco._

[23] Qui il «Giornaletto» si interrompe e dopo una pagina bianca
ricomincia nella pagina seguente che è la 16ª.

[24] Segue a questo punto una pagina tutta cancellata, nella quale sono
scritte con poche varianti alcune righe che già si leggono nella pag.
194: probabilmente il Cairoli, avendole scritte per errore qui, le ha
poi cancellate e poste al loro luogo. Si riprende quindi il racconto con
la pagina seguente, che è la 74ª.

[25] Qui finisce il «Giornaletto di Campo» di Giovanni Cairoli: consta
di 82 pagine e due righe ed è scritto tutto a lapis.

[26] Qui, a metà della pag. 10 del «Libretto-Giornale» scritto nelle
Carceri Nuove, si interrompe la visione: il Cairoli lasciate in bianco
alcune pagine, certo con l'intenzione di condurre a termine più tardi il
suo sogno politico, va alla pagina 21 e riprende la continuazione del
suo diario.

[27] Qui, colla pagina 32, finisce il «Libretto-Giornale» scritto dal
Giovanni Cairoli nelle Carceri Nuove. Arrivato a casa, pareva che le
ferite dessero speranza di guarigione; invece formatosi un ascesso per
le ferite di baionetta ricevute a Villa Glori dopo che già era caduto,
morì l'11 settembre 1869. Un anno dopo, nel medesimo mese di settembre,
Roma era ricongiunta all'Italia ed il voto, per cui egli ed il fratello
avevano fatto sacrificio della vita, era compiuto!



ELENCO DEI COMBATTENTI A VILLA GLORI

      [Dall'opuscolo di B. E. Maineri, _Il sacro drappello di
      Villa Glori_, con documenti e appendice. Roma, Civelli,
      1881. — L'elenco fu compilato a cura di Cesare Elisei, uno
      dei componenti il drappello.

      I contrassegnati da una croce sono morti, quelli da un punto
      interrogativo coloro che emigrarono, e di cui si ignora la
      sorte.]

  †  1. Cairoli Enrico — Pavia — _Comandante il drappello._
     2. Tabacchi Giovanni — Mirandola (Modena) — _Comandante
       la 1ª Sezione._
  †  3. Isacchi Cesare — Cremona — _Comandante la 2ª Sezione._
  †  4. Cairoli Giovanni — Pavia — _Comandante la 3ª Sezione._
     5. De Verneda Ermenegildo — Chiavenna (Sondrio) — _Aiutante
       maggiore._
     6. Muratti Giusto — Trieste — _Furiere maggiore._
     7. Angeli Enrico — Vicenza.
     8. Barbarini Alessandro — Cremona.
  †  9. Bariani Ernesto — Casarile (Milano).
    10. Bassini Odoardo — Pavia.
    11. Bassini Pietro — Pavia.
    12. Bazzoli Massimiliano — Forlimpopoli (Forlì).
  † 13. Bonfatti Carlo — Mirandola (Modena).
  † 14. Boudet-Dutel-Vollerin Fleury — Lione (Francia).
    15. Campari Camillo — Pavia.
    16. Candida Alfredo — Roma.
    17. Capra Giovanni — Castelbolognese (Ravenna).
    18. Castagnini Domenico — Pavia.
    19. Celli Silvestro — Forlimpopoli (Forlì).
    20. Cerri Silvestro — Dorno (Pavia).
    21. Chiap Valentino — Forni (Udine).
  † 22. Colombi Antonio — Vescovato (Cremona).
  † 23. Dal Corso Gaetano — Verona.
    24. Dall'Oppio Antonio — Castelbolognese (Ravenna).
  † 25. Donelli Filippo — Cremona.
    26. Elisei Cesare — Roma.
    27. Emiliani Giovanni — Castelbolognese (Ravenna).
    28. Fabris Placido — Povegliano (Treviso).
    29. Ferrari Pio Vittorio — Udine.
    30. Fiorini Odoardo — Cremona.
    31. Francischelli Francesco — Castelbolognese (Ravenna).
    32. Galli Carlo — Pavia.
    33. Garavini Enrico — Carpinello (Forlì).
  † 34. Gentili Oreste — Loreto (Ancona).
    35. Gilioli-Cesatti Antonio — Mirandola (Modena).
  † 36. Gozzoli Arturo — Bologna.
  † 37. Gramigna Angelo — Castelbolognese (Ravenna).
  † 38. Guangiroli Ercole — Pavia.
    39. Guida Carlo — Soresina (Cremona).
    40. Isacchi Antonio — Milano.
  † 41. Lelli Vincenzo — Ancona.
  † 42. Mai Tommaso — Mantova.
  † 43. Mancini Giovanni — Roma.
  † 44. Mantovani Antonio — Pavia.
    45. Marzari Giambattista — Castelbolognese (Ravenna).
  ? 46. Michelini Giovanni — Meduno (Udine).
  † 47. Moruzzi Giuseppe — Pavia.
    48. Mosetig Pietro — Trieste.
    49. Musini Luigi — Busseto (Parma).
  ? 50. Nicolato Luigi — Lonigo (Vicenza).
  † 51. Nobili Ernesto — Robecco d'Oglio (Cremona).
    52. Papazzoni Ernesto — Cavezzo (Modena).
    53. Papotti Francesco — Mirandola (Modena).
    54. Pasquali Ubaldo — Loreto (Ancona).
  † 55. Perozzi Angelo — Roma.
    56. Petitbon Francesco — Golese (Parma).
  † 57. Pietrasanta Luigi — Pavia.
    58. Ricci Emilio — Pavia.
    59. Rosa Angelo — Bergamo.
  † 60. Rosa Eugenio — Bergamo.
    61. Rossi Raffaele — Rimini (Forlì).
    62. Stragliati Baldassarre — Pavia.
    63. Taddeo Francesco — Napoli.
  † 64. Tamanti Costantino — Petricoli (Ascoli Piceno).
  † 65. Tarabra Giacomo Alessio — Asti (Alessandria).
  † 66. Tinelli Luigi — Napoli.
    67. Tirapelle Severo — Verona.
    68. Trabucchi Ercole — Pavia.
    69. Trentini Pietro — Viadana (Mantova).
    70. Vacchelli Luigi — Cremona.
    71. Vacchelli Nicola — Cremona.
  † 72. Valdrè Antonio — Castelbolognese (Ravenna).
    73. Valdrè Francesco — Castelbolognese (Ravenna).
    74. Vecchio Giovanni — Pavia.
  † 75. Veroi Luigi — Verona.
    76. Veronesi Aristide — Mirandola (Modena).
    77. Veronesi Tito — Mirandola (Modena).
  ? 78. Vidali Gian Luigi — Trieste.



INDICE


AIANI (eccidio di casa), 122, 132.

ADAMOLI GIULIO, in Roma, 26.

_Alicante_, 8.

ALTIERI _donna_ LIVIA, moglie di un Colloredo, 112.

ANDREUZZI _dott._ ANTONIO, come si salvò dagli austriaci, 7.

ANDREUZZI SILVIO, parte per Roma, 8; suo ottimismo, 28 e seg., 33, 45;
suoi discorsi sulla condotta dei romani, 34-37; alla stazione di
Civitavecchia, 175; ric., 9, 45.

ANGELI ENRICO, 213.

_Antibo_ (legionari di), due di essi vengono a parole col Muratti, 20 e
seg.

ANTICI MATTEI _mons._ RUGGERO, sue pratiche per far trasferire il
Mosettig in una casa privata, 159.

AUGUSTO conduce Ferrari e Muratti in casa Giovanelli, 26-27; vi porta
notizie sui movimenti dei garibaldini, 36; e sulle armi che entrarono
per il Tevere, 40-41.

AUGUSTO, fidanzato d'una figlia del Giovanelli, 28.

BARBARINI ALESSANDRO, 213.

BARIANI ERNESTO, 213.

BARTOLOMEI GIUSEPPE, vignarolo di Villa Glori, 85, 196.

BARTOLOMEI LUIGI, figlio del vignarolo di Villa Glori, 85.

BASSINI ODOARDO, a Villa Glori, 213; non si trova il suo corpo, 99; sue
parole a Giovanni Cairoli, 192; con lui si dirige alla casa del
vignarolo, 193; soccorso, 194; visitato da Giovanni Cairoli, 195;
trasportato a Roma, 199; a S. Spirito, 126; che gli dice un frate, 130;
si vuole levarlo da S. Spirito, 130-31, 203; discorre con mons. Tizzani,
139; esce dall'ospedale, 172; portato fuori di Castel S. Angelo, 174; a
Grosseto, 176; ric., 97.

BASSINI PIETRO, 213.

BAZZOLI MASSIMILIANO, 213.

BENEDEK LUIGI (_De_), _generale_ 7.

BERGHINZ AUGUSTO, parte per Roma, 8; ric., 9.

BERTAGNI VINCENZO, morto a Mentana, 11.

BEZZI EGISTO, 134.

BIANCHI _dott._ ACHILLE, suo resoconto istorico-clinico, cit., 144.

BIFFANI _mons._ GIOVANNI, notizie, 165-168.

BONFATTI CARLO, 213.

BONI EGIDIO, morto a Mentana, 11.

_Borghetto_, 58.

BOUDET-DUTEL-VOLLERIN FLEURY, 213.

BUGLIELLI, romano, aiuta l'imbarco dei fucili, 79.

CADOLINI GIOVANNI, deputato, 202.

_Caffaro_ (combattimento al ponte del), 8.

CAILLON GUSTAVO, morto a Mentana, 11.

CAIROLI ADELAIDE, 192, 202, 212.

CAIROLI BENEDETTO, 186, 192, 202, 212.

CAIROLI ENRICO, come pensò alla spedizione, 41; a Terni, 50; reclama la
liberazione del fratello, 50; prepara la spedizione, 51; avvertito degli
arruolamenti del Ghirelli, 52; si assenta da Terni, 55; sua lettera al
fratello Giovanni, 56 e seg.; impedisce al Ghirelli di rompere la
ferrovia, 57; va a Corese, 58, 189; torna a Terni, 63; discorso ai
compagni, 64-65; suo contegno durante la marcia, 66; suo ordine al
fratello, 189; suo colloquio col Cucchi, 67; suo ordine del giorno,
71-72; fa trasportare i fucili, 76; avvertito di gente che sta spiando,
78; dispone una guardia sopra coperta, 79; veglia scendendo il Tevere,
82; suoi scherzi coi compagni, 83-84; fa esplorare le alture di Villa
Glori, 84, 190; le fa occupare, 190; avvertito dell'avvicinarsi del
nemico, 91, 190; fa ripiegare il fratello verso la casa, 191; ordina
l'attacco alla baionetta, 94-95, 191; si slancia contro il nemico, 95,
191; è ferito, 103, 191; sue ultime parole al fratello, 192; il suo
cadavere è trasportato nella Villa Glori, 98; ric., 69, 86, 96, 97, 102,
178, 179, 193, 194, 195, 197, 198, 200, 201, 202, 210, 211, 213.

CAIROLI GIOVANNI, che cosa scrive dei romani, 35; a Terni, 50; arrestato
a Roma, _ivi_; prepara la spedizione, 51; mostra ai compagni le
rivoltelle, 55; fa distribuire le coperte, 56; sua lettera al fratello,
58 e seg.; osservazioni sul testo del discorso di Enrico da lui
pubblicato, 65; va a Corese, 189; comandante la 3ª sezione, 71, 213; suo
discorso ad essa, 74-75, 189; giudizio sulla sua sezione, 74-75, 189;
sua marcia verso Roma, 189-90; suo colloquio col Cucchi, 67; sue parole
al Ferrari, 81; che dice ad Enrico, 82; esplora ed occupa le alture di
Villa Glori, 84-85, 190; vi trasporta i fucili, 190; a consiglio con gli
altri capi, 91, 190; sue parole ai capi squadra, 91; avverte il fratello
della presenza del nemico, 190; che fece nel combattimento, 92 e seg.,
190-91; soccorre il Moruzzi, 93, 191; ordina di ritirarsi verso la casa,
94, 191; invita Enrico ad aspettarlo, 95, 191; è ferito, 103, 191;
creduto morto, 99, 195; suo risvegliarsi sul campo, 192; sue parole al
fratello e agli altri feriti, 192-93; va alla casa del vignarolo, 193;
alla Villa, 194; rivede gli amici che vi sono raccolti, 195; suo
incontro col Ferrari, 102-3, 195; vuol vedere il cadavere del fratello,
103, 107, 195; propone di barricarsi nella Villa, 104; richiede soccorsi
a Roma, 196; soccorre un nemico ferito, 196, 200; impedisce di sparare
sui feriti, 197; suo dolore per la distruzione delle armi, 198; cinica
risposta di un tenente a lui, 107, 198; bacia il cadavere di Enrico,
198-99; gli è negato di tornar nella Villa, 199; trasportato a Roma,
_ivi_; sua risposta al capitano dei gendarmi, 200; insiste per la
sepoltura del fratello, _ivi_, 201, 202; suoi pensieri rivedendo Porta
del Popolo, 200-201; all'Ospedale di S. Spirito, 201; gli sono tagliati
i capelli, 111; gli sono chieste le generalità, 212; assalito dalla
febbre, 202; loda lo Stonor, 119; scrive al fratello Benedetto e al
Minoja, 201; suo colloquio con il generale Zappi, 120-21, 202; parole
dettegli da un frate, 130; suo colloquio con una signora inglese,
202-203; è levato da S. Spirito, 130-31, 203; lo Stonor porta notizie di
lui agli altri feriti, 139; alle Carceri Nuove, 173, 205; sua apostrofe
a Napoleone III, 205-8; ricordi e pensieri nel carcere, 209; è visitato
dallo Stonor, 210, 211-212; rifiuta di firmare la promessa di non
portare più le armi contro Roma, 210-11; liberato, 212; muore, _ivi_;
suo racconto della spedizione, 35, 63, 68, 74, 185 e seg.

CALDESI VINCENZO, a Terni, 48; è avvertito degli arruolamenti del
Ghirelli, 52.

CAMPARI CAMILLO, a Villa Glori, 213; soccorre il Moruzzi, 93, 191; resta
a guardia dei feriti, 100, 195; rivede Giovanni Cairoli, 195; gli
impedisce di vedere il cadavere del fratello, 103, 195-96; lo accompagna
e scrive a Roma per soccorsi, 196; soccorre un soldato nemico ferito,
196, 200; muove incontro a un distaccamento di zuavi, 197; sua risposta
a un tenente pontificio, 106; consegna a Giovanni Cairoli i ricordi del
fratello, 107, 199; gli impedisce di tornare nella Villa, 199; in Castel
S. Angelo, 172, 201; a Grosseto, 176.

CANDIDA ALFREDO, tenta di penetrare in Roma, 83; a Villa Glori, 213.

_Cantalupo_, 68, 69, 70, 74.

CAPACCIOLI NATALE, suo incontro col Ferrari, 11; muore a Mentana, _ivi_.

CAPRA GIOVANNI, 213.

CASARETO (_Padre_) di Genova, accompagna Pio IX nella visita ai feriti,
141-43.

CASTAGNINI DOMENICO, a Villa Glori, 213; ferito, 94, 191, 195; può
alzarsi dal letto, 123-24; è levato da S. Spirito, 130-31, 203; ric.,
199.

_Castel Sant'Angelo_, ric., 17, 18, 173, 203.

CASTELLANI CARLO, a Terni, sue notizie, 49-50, 53.

CASTELLANI NINO, a Terni, 49, 53.

CASTELLAZZO LUIGI, in Roma, 26; arrestato, 55.

CELLA GIAMBATTISTA, parte per Roma, sue notizie, 8; lotta con un
capitano austriaco, 9; conduce l'Erter in casa Giovanelli, 43; ric., 7.

CELLI SILVESTRO, 213.

_Centro d'insurrezione in Roma_, incita alla cospirazione, 26;
distribuisce danaro, 40; manca di armi e di quattrini, 41, 48; è
discorde col comitato fiorentino, 61; ric., 37.

CERESA ALBERTO di Lodi, parte per Roma, 9; alla stazione di
Civitavecchia, 175.

CERRI SILVESTRO, 213.

CESARI (Albergo), 10.

CHARETTE (_De_) ATANASIO _barone_ DE LA CONTRIE, visita i feriti, 162;
ric., 128.

CHIAP VALENTINO, 213.

CIALDI CARLO, capitano pontificio, 78.

CIPRIANI UBALDO, morto a Mentana, 11.

_Civiltà Cattolica_, che cosa scrive, 18, 41-42.

_Civitavecchia_, 8, 12, 175.

COLOMBI ANTONIO, a Villa Glori, 213; resta a guardia dei feriti, 100,
195; impedisce a Giovanni Cairoli di vedere il cadavere del fratello,
103; in Castel S. Angelo, 173, 201.

COLLOREDO _conte_ GIUSEPPE, creduto padre del Mosettig, 137.

COLLOREDO, _Prete dell'Oratorio_, 112; visita il Mosettig, 160.

COLLOREDO GIOVANNI, suo passaporto prestato al Muratti, 5, 46; il suo
passaporto passa al Mosettig, 90; impressione che fa il suo nome portato
dal Mosettig, 111-12.

_Comitato centrale di soccorso di Firenze_, 9, 57, 61.

_Comitato nazionale romano_, ordina al Ferrari e al Muratti di tenersi
pronti, 25; giudizio sull'opera sua, _ivi_.

_Comitato pei danneggiati politici_ nel 1870, ric., 31.

_Configni_, 66.

_Corese_, 8, 46, 57, 74, 66, 81, 189.

COSTA PIETRO, morto a Mentana, 11.

CRISPI FRANCESCO, a Terni, 50, 59.

CUCCHI FRANCESCO, capo della cospirazione di Roma, 23, 25, 39, 41, 42,
55, 59, 60, 68; è richiesto di danaro, 44-45.

CUCCHI LUIGI, suo colloquio coi Cairoli, 68.

D'ANDREIS NINO, a Terni, 50, 53, 61.

DAL CORSO GAETANO, 214.

DALL'OPPIO ANTONIO, 214.

DEL VECCHIO PIETRO, a Terni, sue notizie, 50.

DE VERNEDA ERMENEGILDO, aiutante maggiore, 71, 213; legge un ordine del
giorno, 71; visita la posizione di Villa Glori, 190; a consiglio con gli
altri capi, _ivi_.

DONELLI FILIPPO, 214.

ELISEI CESARE, 213, 214.

EMILIANI GIOVANNI, 214.

ERTER EDUARDO, sue notizie, 43-4.

FABRIS PLACIDO, a Villa Glori, 214; comanda una squadra, 79; medica il
Ferrari, 97; esce dalla Villa in cerca dei feriti, 98.

FABRIZI NICOLA, presidente del Comitato di Terni, 49, 50, 52, 57, 61.

FACCI CARLO, parte per Roma, 8; sua morte, 9.

FERRARI PIO VITTORIO, suoi preparativi per partire, 1-5; lascia la
madre, 6 e seg.; a Firenze, 5, 7-8; parte per Roma, 9; a Livorno, a
Montalto, a Follonica, 10; incontra il Capaccioli, 11; arriva a Roma,
12-13; all'_Hôtel Minerva_, 13 e seg.; visita Roma, 16 e seg.; fa
cessare una lite fra il Muratti e un Antiboino, 20; sue preoccupazioni,
22 e seg.; incontra la carrozza del Papa, 22 e seg.; suo incontro sul
Corso, 23; va all'_Hôtel Roma_, _ivi_; suoi discorsi con l'Andreuzzi,
23, 33; avvisato di tenersi pronto, 25; lascia l'_Hôtel Minerva_, 26; in
casa Giovanelli, 27 e seg.; prepara filaccie, 30; conosce altri
cospiratori, 30 e seg.; suoi certificati di patriottismo, 31 e seg.; è
sfiduciato e lascia Roma, 45-46; a Terni, 47 e seg.; va col Mosettig dal
Caldesi, 48 5 conosce parecchi patriotti, 49-50; vede arrivare i Cairoli
a Terni, 50; si cerca di arrestarlo, 53; muta abbigliamento, 62 e seg.;
parte da Terni, 64 e seg.; rettifica il testo del discorso di Enrico
Cairoli, 65; privato del giaciglio, 68-69; riceve una lira, 70; suo
dialogo con un prete a S. Spirito, 70-71; sua impressione alle parole di
Giovanni Cairoli, 75-76; trasporta i fucili, 76-77; che gli disse il
Buglielli, 78; suo turno di guardia sopra coperta, 78-80; che gli dice
Giovanni Cairoli, 81; vede i doganieri arrestati, 84; esplora le alture
di Villa Glori, 84-85; col vignarolo della Villa, 86; come seppe
dell'arresto del Muratti, 90; si prepara a combattere, 91-92; quel che
fa durante la pugna, 93; sua impressione vedendo il primo sangue, 94;
ferito, 95-96; medicato, 97; visita il Mosettig, 99; si addormenta, 100;
impressione al risvegliarsi, 101; rivede Giovanni Cairoli ferito, 102,
195; gli impedisce di vedere il cadavere del fratello, 103; sue parole
ad un distaccamento di zuavi, 197; sua risposta ad un gendarme, 107;
consegna a Giovanni i ricordi del fratello, _ivi_; condotto a Roma, 108,
199; sue parole al capitano dei gendarmi, 200; al cocchiere, 108;
medicato allo Spedale, 110; chiede di scrivere, 111; sue sofferenze la
prima notte, 113; ha da scrivere e da leggere, 113; sue amichevoli
relazioni col Galliani, 115-19; scrive alla madre, 117; che gli dice il
generale Zappi, 121-22; è preso da febbre, 124; cerca di impedire che il
Moruzzi conosca la sua prossima fine, 124-25; sue impressioni sui medici
di S. Spirito, 126 e seg.; un frate vuol convertirlo, 129-30; si offre
di prendere il posto del Bassini, 130; scrive lettere per un maestro,
135, 146; riceve lettere dalla madre, 136; lo visita il prof. Luccardi,
136-37; sue preoccupazioni per il Colloredo, 137-38; a S. Onofrio,
141-44; come rivide la Madre superiora di S. Spirito, 148; ricorda
alcuni feriti di Mentana, 156; visita il Mosettig, 158; suo consiglio al
rappresentante di una società democratica, 162; sue relazioni con mons.
Biffani, 165 e seg.; ultimo tentativo per convertirlo, 168 e seg.; esce
dall'Ospedale, 171; saluta Roma, 172; a Castel S. Angelo, 173; vede un
agente segreto della polizia, 174; a Civitavecchia, 175; a Grosseto,
176; ric., 214.

FERRARIS dott. ADAMO, disdice l'arruolamento nella legione romana, 52.

FERRI CARLO, 61,

FIORINI ODOARDO, a Villa Glori, 214; resta a guardia dei feriti, 100,
195; suo incontro con Giovanni Cairoli, 195; muove ad incontrare un
distaccamento di zuavi, 197; in Castel S. Angelo, 172, 201.

_Follonica_, 10.

FRANCESCHI FRANCESCO, morto a Mentana, 11.

FRANCISCHELLI FRANCESCO, 214.

FRATTINI conte FEDERICO, la sua casa è il ritrovo della spedizione
Cairoli, 63.

FRIGYESI GUSTAVO, sua colonna, 55.

GALLIANI, _capitano_, direttore dell'ospedale di S. Spirito. Notizie di
lui, 114-15; suo contegno nel 1870, 115-16; visite fattegli dal Ferrari,
116-17; suo dispiacere nel lasciare i feriti di Villa Glori, 141; ric.,
147, 172.

GALLI CARLO, 214.

GARAVINI ENRICO, 214.

GARIBALDI GIUSEPPE, 50, 106, 119, 132, 134.

GARIBALDI MENOTTI, 33, 45, 49, 52, 58, 59, 61.

GENTILI ORESTE, 214.

GHIRELLI GIOVANNI FILIPPO, _maggiore_, arruola volontari a Terni, 51-52;
la sua legione lascia Terni, 54-55; a Orte vuol rompere le rotaie, 57,
59, 66; come si intitola, 57; sue assicurazioni, ad Enrico Cairoli, 58;
dichiara di obbedire al Fabrizi, 61.

GIGLI GIUSEPPE, _capitano_, arruola a Terni volontari, 52.

GILIOLI CESATTI ANTONIO, 214.

GIOVANELLI, calzolaio, ospita il Ferrari ed altri cospiratori, 27; sua
famiglia 28 e seg.; fa da cuoco per gli ospiti, 30; presenta al Ferrari
altri cospiratori, 30; tace agli ospiti la vicinanza di un precettato,
37; cerca di persuadere il Turco a non dare una festa da ballo e non vi
riesce, 38-39; le sue figlie, 44.

GIOVANELLI PIETRUCCIO, figlio del precedente, 31, 38, 44.

GIULIANI FRANCESCO, morto a Mentana, 11.

GLORI, _ingegnere_, è un clericale, 85; non avrebbe voluto
commemorazioni, 86; bottiglie sturate in suo onore, 89.

GOZZOLI ARTURO, 214.

GRAMIGNA ANGELO, 214,

_Groppello_, 192, 200.

_Grosseto_, 175, 176.

GROTTA GIOVANNI, morto a Mentana, 11.

GUANGIROLI ERCOLE, 214.

GUERZONI GIUSEPPE in Roma, 26.

GUIDA CARLO, 214.

GULMANELLI LUIGI, _capitano_, arruola a Terni volontari, 52.

HOMODEI _comm._ FRANCESCO, sottoprefetto a Grosseto, 176.

ISACCHI ANTONIO, 214.

ISACCHI CESARE, comandante la 2ª sezione, 71, 213; a consiglio con gli
altri capi, 190.

KANZLER _generale_ Ermanno, ministro delle armi, visita il Mosettig,
137.

KANZLER LAURA, moglie del generale, visita i feriti garibaldini, 118,
128; è una Vannutelli, 137.

LANCELLOTTI _principe_ don FILIPPO, fa una ricognizione, 108.

LELLI VINCENZO, 214.

LIRCAN BELLINI (_correggi_ LINARI-BELLINI ALCIDE), morto a Mentana, 11.

_Livorno_, 10.

LUCCARDI _prof._ VINCENZO, visita il Ferrari, 136 e seg.; crede di
riconoscere nel Mosettig il Colloredo, 137; è cognato del gen. Kanzler,
_ivi_; notizie di lui, 138-39.

LUYNES (_duca di_), tenente dei dragoni, suo contegno coi feriti di
Villa Glori, 105, 108.

_Maccarese_, 12.

_Magliana_, 12.

MAI TOMMASO, 214.

MANCINI GIOVANNI, 214.

MANTOVANI ANTONIO, a Villa Glori, 214; suo carattere faceto, 91-2, 96;
ferito, 192; muore, 98; suo cadavere, 102, 179, 195, 197, 199, 200.

MARZARI GIAMBATTISTA, 214.

MARZUTTINI CARLO, parte per Roma, 8; alla stazione di Civitavecchia,
175.

MAYER (battaglione) 11.

MAYER, capitano dei carabinieri esteri pontifici, combatte con Enrico
Cairoli, 96, 191.

MELCHIORRI CESARE, proprietario di un albergo a Terni, 48.

MAINERI BACCIO EMANUELE, 185, 213.

_Mentana_ (battaglia di), prime notizie giunte all'ospedale di S.
Spirito, 131 e seg.; arrivo all'ospedale dei feriti, 133 e seg.;
monumento ai pontifici caduti a Mentana, 138; statistica dei feriti,
144; alcuni feriti di Mentana ricordati, 156 e seg.; ric., 11, 46, 88,
89.

MERLUZZI AUGUSTO, suo incontro sul Corso, 24.

MERODE (_De_) _mons._ FRANCESCO SAVERIO, visita i feriti all'ospedale di
S. Spirito, 111, 128, 201; suo colloquio col Mosettig, 122-23; vuol
convertire i feriti, 129.

MICHELINI GIOVANNI, 214.

_Minerva_ (Hôtel), 10, 13 e seg., 19, 23, 25.

MINOJA, 192, 202, 212.

MISTRALI FRANCO, giudizio che ne dà Enrico Cairoli, 57.

_Montalto_, 8, 10, 16.

_Monte Castello_ (combattimento di), 7.

_Montecitorio_, sede della Direzione generale di Polizia, 17.

MONTEFIORE, a Terni, 50.

_Monterotondo_, 88, 132.

MONTI GIUSEPPE, 35.

_Monti Parioli_, 105, 122, 178.

MORUZZI GIUSEPPE, a Villa Glori, 214; cade ferito, 93, 191; all'ospedale
peggiora, 124, 202; parole imprudenti dette avanti a lui da un medico,
124, 127; sua morte, 125-26, 130, 179; sue parole a Giovanni Cairoli,
193: soccorso 193, 194; trasportato a Roma, 199; ric., 195, 196, 197,
198.

MOSETTIG PIETRO, a Terni, 47; incontra il Ferrari e il Muratti, 48; suo
colloquio coi Cairoli, 50; a Villa Glori, 214; torna ferito alla Villa,
98; suo colloquio col Ferrari, 99-100; porta il nome di Colloredo, 112;
gli sono usate cortesie speciali credendolo un Colloredo, 115; come si
scoprì che non era un Colloredo, 115; suo colloquio col De Merode,
122-23; Mons. De Merode cerca di convertirlo, 129; il prof Luccardi lo
crede il Colloredo, 137-38; Pio IX si ferma al suo letto, 142; sue
parole al Padre Casareto, 143; viene collocato in S. Onofrio, 158;
pratiche di mons. Antici Mattei in suo favore, 159; lo visita il Padre
Colloredo, 160; visitato da Giovanni Cairoli, 195; suo consiglio a
Giovanni Cairoli, 210; ric., 96, 196

MURATTI GIUSTO, si decide a partire per Roma, 4; come ebbe un
passaporto, 5; arriva a Firenze, 7-8; partì per Roma, 9; a Livorno, a
Montalto, a Follonica, 10; all'albergo della Minerva, 13; battibecco col
cameriere, 14; visita Roma 16 e seg.; viene in lite con un Antiboino,
20; lascia l'Hôtel Minerva, 21; in casa Giovanelli, 27-28; lascia Roma,
46; che gli accadde a cagione del passaporto, 46-7; incontra il
Mosettig, 48; va dal Caldesi, 48; nominato furiere, 71, 213; ordina di
trasportarci fucili della spedizione, 76; mandato a Roma per provvedere
viveri, 90; lascia il passaporto del Colloredo al Mosettig, 90;
arrestato, _ivi_; ric., 212.

MUSINI LUIGI, 214.

NAPOLEONE III, 205-8.

NAPOLI FEDERICO, sua lettera, 186-87.

NICOLATO LUIGI, 214.

NOBILI ERNESTO, 214.

NUVOLARI GIUSEPPE, garibaldino a Terni, 50.

_Orte_, 8, 66.

PACI SILVESTRO, morto a Mentana, 11.

_Palidoro_, 12.

_Palo_, 12.

PAPAZZONI ERNESTO, a Villa Glori, 214; ferito, 192; portato ferito
dentro la Villa, 98; parole dettegli da un frate, 130; all'ospedale di
S. Onofrio, 158; ric., 92, 195, 196.

PAPOTTI FRANCESCO, 214.

PARBONI NAPOLEONE, visita il Ferrari ed il Muratti, 26.

PASQUALI UBALDO, 214.

_Passo Correse_ v. _Corese_.

PAVESI URBANO, in Roma, 26.

PEROZZI ANGELO, sue notizie, 40, 53; a Villa Glori, 214; aiuta l'imbarco
dei fucili, 78; fa sostare la spedizione a poca distanza da Roma, 82;
consiglia ai compagni di nascondersi, 84; a consiglio coi capi della
spedizione, 190.

PETITBON FRANCESCO, 215.

PETRARCA (_madama_) è perquisita la sua casa, 39.

PIANCIANI conte LUIGI, sue pratiche col sig. Glori, 86; ric., 178.

PIETRASANTA LUIGI, garibaldino a Terni, 50; a Villa Glori, 215.

_Pietro_ (_S._), 17.

PIO IX, sul Corso, 22; sua visita a S. Spirito, 141 e seg.; rifiuta di
concedere al Mosettig il passaggio in una casa privata, 159; concede un
canonicato a mons. Biffani, 165; ric., 10, 138.

PIOMBINO (_principe di_), 67, 68.

_Ponte Sant'Angelo_, 19.

_Ponte Sfondato_, 73, 74, 189.

_Porta del Popolo_, 22.

_Porta San Paolo_ (tentativo alla), 46.

POVOLERI AUGUSTO, parte per Roma, 8; sua morte, _ivi_.

RANDI mons. LORENZO, direttore generale della polizia pontificia, fa
liberare i fratelli Cairoli, 50-51.

RATTAZZI URBANO, condotta del Ministero presieduto da lui, 49; suo
telegramma, ivi; sua morte, 171.

RICCI mons. ACHILLE MARIO, commendatore di S. Spirito, gli appartiene
l'ospedale di S. Onofrio 136; visita i feriti, 162-63.

RICCI EMILIO, 215.

RICCI mons. FRANCESCO, cameriere segreto di S. S., visita i feriti
garibaldini, 128.

Roma, pensieri che suscita, 12-13.

_Roma_ (_Hôtel_), 23.

_Romani_, osservazioni sulla loro condotta durante i preparativi
dell'insurrezione, 34-36.

RONCO _march._ GAETANO, notizie di lui, 146; visitato dal De Charette,
162; suo saluto al Ferrari, 172; ric., 134.

ROSA ANGELO, a Villa Glori, 215; in Castel S. Angelo, 173.

ROSA ERCOLE, autore del monumento ai fratelli Cairoli, 178.

ROSA EUGENIO, a Villa Glori, 215; in Castel S. Angelo, 173.

ROSSI RAFFAELE, 215.

SABATINI CLAUDIO, a Terni, 50.

_Salò_, 9.

SCHOLEY GIOVANNI, ferito a Mentana, 158.

_Sentinella friulana_, periodico di Udine, 2.

SERAFINO, falegname, frequentatore di casa Giovanelli, 31; porta a Terni
notizie, 55.

_Serristori_ (_caserma_) 35, 111.

_Spedale di Sant'Onofrio_, accoglie i feriti di Mentana, 135; anche i
feriti di Villa Glori vi sono trasportati, 141; come vi furono
distribuiti i feriti, 144; sua descrizione, 146; come vi si trattavano i
feriti, 147 e seg.

_Spedale di Santo Spirito_, 70; vi sono condotti i feriti di Villa
Glori, 109 e 201; statistica dei feriti che vi furono portati, 144.

STALLO LUIGI, 154.

STONE BIDDULPH CATERINA MARIA, visita i feriti garibaldini, 118, 128;
fatta prigioniera e condotta al generale Garibaldi, 119.

STONOR _mons._ EDMONDO, visita i feriti garibaldini, 119-20, 139;
notizie di lui, 120, 128; visita in carcere Giovanni Cairoli, 210, 211.

STRAGLIATI BALDASSARRE, a Villa Glori, 215; addetto ai carri, 72; ha
ordine di sorprendere un posto di doganieri, 79; riesce ad
impadronirsene, 82; esce a cercare i feriti, 98, 195.

TABACCHI GIOVANNI, garibaldino, a Terni, 50; è proposto per condurre la
spedizione alla volta di Orte, 60; aneddoto di lui, 69-70; comandante la
1ª sezione, 71, 213; si slancia all'attacco, 94; si ritira a difendere
la Villa, 96; va a Corese, 189; a Campiglia, 190; leva i feriti dal
campo, 195.

TADDEO FRANCESCO, 215.

TALBOT mons. GIORGIO, cameriere segreto di S. S., visita i feriti
garibaldini, 128; suo carattere, 129; ric., 164.

TAMANTI COSTANTINO, 215.

TARABRA GIACOMO ALESSIO, 215.

_Terni_, suo aspetto nell'ottobre 1867, 48-49; vi sono delle spie, 52;
la spedizione Cairoli si muove da Terni, 65; ric., 46, 47, 62.

TINELLI LUIGI, 215.

TIRAPELLE SEVERO, 215.

TIZZANI mons. VINCENZO, vescovo di Terni, visita i feriti, 139-40; sua
nobile risposta ad un principe romano, 140.

TOGNETTI GAETANO, 35.

TOLAZZI FRANCESCO, sue notizie, 7.

TORLONIA LEOPOLDO, 178.

TRABUCCHI ERCOLE, 215.

_Tre Ladroni_ (_Osteria dei_), 20.

TRENTINI PIETRO, 215.

_Udine_, 1.

VACCHELLI LUIGI, 215.

VACCHELLI NICOLA, 215.

VALDRÈ ANTONIO, 215.

VALDRÈ FRANCESCO, 215.

VALZANIA (colonna), 134.

VALZANIA EUGENIO, a Terni, 50.

VECCHIO GIOVANNI, 215,

VEROI LUIGI, a Villa Glori, 215; segnala l'avvicinarsi di alcuni
dragoni, 91.

VERONESI ARISTIDE, 215.

VERONESI TITO, 215.

VIDALI GIAN LUIGI, 215.

_Villa Glori_, sua descrizione, 85; giudizio sulla spedizione che prende
il nome dalla Villa, 87 e seg., 177 e seg.; suo aspetto dopo il
combattimento, 101; non fu conservato il luogo del combattimento,
178-79; commemorazione annuale, 180, ric., 35.

_Viterbo_, 122.

_Wedekind_ (palazzo), progetto di tentarvi un colpo di mano, 42.

WOËLMONT (_mons. di_), capellano belga, va a Villa Glori, 107, 108.

ZAPPI gen. GIOVANNI BATTISTA, suo colloquio con Giovanni Cairoli 120,
202; suo _visto_ alle lettere del Ferrari, 117, 136, 165; visita i
feriti garibaldini, 120-22; al letto del Moruzzi, 124.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come
le grafie alternative (compito/còmpito, subita/subìta e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Villa Glori - Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home