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Title: Passeggiate per l'Italia, vol. 4
Author: Gregorovius, Ferdinand, 1821-1891
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Passeggiate per l'Italia, vol. 4" ***


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                          FERDINANDO GREGOROVIUS


                         Passeggiate per l'Italia


                                  Napoli
                             L'isola di Capri
                             Palermo-Siracusa
                       Napoli e la Sicilia dal 1830
                                 al 1852


                    _Versione dal tedesco di Mario Corsi_


                       ULISSE CARBONI--LIBRAIO EDITORE
                                    ROMA
                           _Via delle Muratte, 77_
                                    1909



                                 NAPOLI

                                 (1854)



                                 Napoli.

                                 (1854).


                                    I.

Roma, da dopo la rivoluzione del 1848, appare ancor più silenziosa che
nel passato; tutta la vivacità del popolo è scomparsa e le classi agiate
si tengono paurosamente nascoste, guardandosi bene di far parlare di sè;
e le classi infime sono ancora più misere e più oppresse di prima. Le
feste popolari sono scomparse, o quasi; il carnevale è in piena
decadenza; e persino le feste di ottobre, un tempo sì allegre fuori
delle porte, fra i bicchieri di vino dei Castelli e il saltarello, sono
presso che dimenticate. Roma è oggi una grande rovina della civiltà: non
vi si vedono che processioni di preti e di frati, non vi si sente che
suono di campane o musica chiesastica, e tutta la vita sembra essersi
rifugiata fra i curiali, fra i cardinali, fra i monaci, fra i preti. Il
popolo non è che un semplice spettatore che non lavora, che non
commercia e si contenta soltanto di contemplare, e contempla le rovine
antiche, le gallerie del Vaticano, le funzioni in S. Pietro o nella
Cappella Sistina, dove il Papa e i cardinali stanno disposti in gruppi,
sempre nello stesso ordine, sì da parere un gran quadro. Persino nel
Corso, per cui il Romano passeggia gravemente nel pomeriggio ed alla
sera, la gente vi si reca non per muoversi, ma per ammirare le belle
signore che corrono in su e in giù in carrozza.

Ben diverso è l'aspetto di Napoli, dove il vivace, febbrile e continuo
chiassoso movimento di tutto quel popolo, ha del fantastico. Si direbbe
una città in rivoluzione, perchè tutti si muovono, tutti si agitano,
tutti gridano e schiamazzano. Nel porto, sulle rive del mare, nei
mercati, in via Toledo, persino a Capodimonte, al Vomero, a Posillipo,
lo stesso movimento, lo stesso chiasso. A Napoli non si riesce a far
nulla, e il nostro occhio nulla può fissare: ovunque bisogna guardarsi
senza posa contro gli urti e gli spintoni. La stessa viva luce del mare
e delle rive mantiene in continua agitazione, eccita la vista e la
fantasia; e il frastuono delle voci umane e delle carrozze non cessa
nemmeno nel cuore della notte.

Da Castel Sant'Elmo salii fino al monastero di S. Margherita, un
edificio principesco dei Benedettini senza l'uguale per magnificenza
architettonica e per posizione, il quale domina Napoli dal Vomero, con
la vista insuperabile dell'ampio golfo, delle sue isole e dell'immensa
città, distendentesi da Posillipo sino alle falde del Vesuvio. Ebbene,
anche a quell'altezza arriva confuso il rumore della città e pare quasi
che la popolazione in basso sia impegnata in una lotta terribile, sia in
piena rivoluzione. Chi volesse ricercare perchè tutta quella gente
grida, che cosa offrano tutte quelle voci, troverebbe che tutto ciò è
per il popolo napoletano un piacere, un godimento. Mi diceva un frate
benedettino di distinguere fra tutta quella confusione la voce di alcune
donne che vendevano frutta. Che cosa non si offre in vendita qui ad alta
voce? Tutto quello che sorge su questo suolo benedetto, tutto quello che
l'industria dell'uomo produce, ha il suo grido particolare: i pesci, le
frutta, i pulcinella, le statue dei santi in legno. L'unica cosa che non
si offre ad alta voce sono le belle ragazze; ma v'è pure il ruffiano
pallido, che come serpe striscia per via Toledo e va susurrando a mezza
voce, al passante: «Una ragazza fresca, bella, bellissima, di tredici
anni...».

Rimasi a lungo sulla terrazza di S. Martino appoggiato al parapetto ad
ascoltare le voci che salivano da Napoli. Se questo popolo, pensavo, fa
tanto chiasso nella sua vita comune, quanto ne farà quando è agitato da
passioni, durante le lotte, quando vuole il saccheggio, come fecero il
15 maggio 1848 i lazzaroni a migliaia dietro la carrozza di re
Ferdinando!

Il frastuono napoletano ha però di solito un carattere pacifico: è
allegro ed in fondo è ordinato nel suo apparente disordine. Tutta quella
gente, che brulica come formiche, si muove in certe direzioni fisse, con
uno scopo determinato. In questo popolo la vita circola come il sangue
nel corpo umano, e quelle sue pulsazioni febbrili in apparenza, sono in
realtà regolari e normali.

La rivoluzione e le sconfitte morali di questi ultimi anni non hanno
lasciato tracce profonde nella città partenopea. La vita ha ripreso il
suo corso, come nulla fosse accaduto, e non ci si accorgerebbe nemmeno
di quello che accadde, se le persone prudenti non ci avvertissero di
parlare con molta cautela, di guardarci dalle spie, ovunque sparse, e se
qua e là, in specie a Medina e a Monte Oliveto, non si vedessero case e
palazzi ancora danneggiati dalle artiglierie di Castel Nuovo. Ora, ai
forestieri è concesso di portare il cappello alla calabrese ed il pizzo
al mento, avendo l'ambasciatore francese chiesta ed ottenuta
soddisfazione per lo sfregio fatto ad un suo connazionale arrestato per
istrada e senz'altra formalità trascinato in una bottega di barbiere,
dove, per ragioni di Stato, gli si erano rase le basette ed il pizzo. Mi
ha narrato un prigioniero di Stato a Pozzuoli che alcuni giovani
napoletani hanno dovuto scontare nel carcere il grande delitto di aver
portato un cappello od una barba rivoluzionaria...

L'armonia regna in questo paese: non un volto grave, melanconico: tutto
qui sorride; a migliaia scivolano nel porto le barche, a migliaia
passano per Chiaia e S. Lucia le carrozze; ad ogni passo s'incontrano
persone intente a mangiare maccheroni, o frutti di mare; in terra si
canta e si suona; tutti i teatri sono aperti; oggi, come prima, il
sangue di S. Gennaro bolle e si discioglie; nessuna bomba ha ucciso
pulcinella; la Villa Reale è piena di forestieri che lasciano cospicue
mancie. Questo popolo vive alla giornata: non ha passioni politiche, non
ama le cose gravi, le passioni virili, senza le quali un paese non ha
una storia propria. Dalle sue origini Napoli ha sempre avuto per padroni
gli stranieri: i Bizantini prima, poi i Normanni, gli Svevi, gli
Angioini, gli Spagnuoli, i Borboni e Gioacchino Murat. Un popolo, che è
privo di carattere, che non ha sentimento nazionale, si piega a
qualunque signoria. Fa senso vedere ancora oggi in corso le monete
coll'effigie di Murat, accanto a quelle di re Ferdinando. Gli uomini
assennati, che scusano il carattere di questo popolo e non se ne
adontano, mancano di perspicacia e di prudenza.

Tornavo una sera a Napoli da Portici, e per istrada salì nella carrozza
in cui mi trovavo un medico, ancor giovane, spiritoso e gentile. Egli
scandagliò da prima il mio modo di pensare, quindi parlò liberamente
sulle condizioni presenti di Napoli. Le sue osservazioni erano così
serene che io rimasi stupito che egli si arrischiasse a farle ad uno
sconosciuto. Gl'Italiani parlano volentieri di politica con i forestieri
e con essi non fanno misteri del loro modo di pensare. Quel medico era
stato perseguitato per aver avuto in tempo passato relazioni con Poerio.
Lo interruppi nel suo discorso per additargli una grande quantità di
lumi che si erano accesi alla Marinella, certo per una festa.

Come è stupenda questa vista--dissi--con tutti quei lumi che fan corona
al porto!

E' vero--rispose quegli--è proprio stupendo. Così è il nostro popolo! È
lieto ogni qual volta c'è una festa, uno spettacolo, una illuminazione.
Come potrà mai questa folla ignorante nutrire idee serie?

I Napoletani sono irritati, ma ridono. Non vi è in tutto il mondo un
paese in cui il dispotismo sia usato con tanta facilità, poichè è
impossibile distruggere i tesori di questa splendida natura, ridurre
sterile questo fertile suolo. Sotto questo cielo ognuno può sempre
liberamente muoversi, tutti quanti i sensi provano la loro
soddisfazione. La natura eguaglia tutto: non vi è luogo più democratico
di Napoli. Chi potrebbe mai annullare questa _magna charta_ della
libertà?

Io ho trovato sempre straordinariamente caratteristico questo
spettacolo. Nelle ore calde del pomeriggio, sotto il porticato di una
delle principali chiese, quella di S. Francesco di Paola, si vedono
centinaia di lazzaroni sdraiati che dormono, sudici e cenciosi,
decorazione poco armoniosa e decorosa con quell'opera architettonica. Ho
ripensato a quegli altri lazzaroni dell'antica Roma, i quali facevano
essi pure la siesta sotto il portico di Augusto e di Pompeo, se non che
quelli tenevano in tasca le tessere per la distribuzione del grano, e
questi non l'hanno. In qualunque altra capitale d'Europa la polizia
caccerebbe via tutti quei dormienti dal portico di una chiesa dinanzi
al palazzo reale. Qui, invece, dormono a loro bell'agio, e le sentinelle
che passeggiano distratte in su e in giù presso le statue equestri di
Carlo III e di Ferdinando I, li guardano come la cosa più naturale del
mondo.

Questa Piazza Reale, vicinissima al mare, di cui però non si gode la
vista, mirabilmente selciata, tanto che potrebbe servire benissimo da
sala da ballo, circondata di eleganti edifici, è uno dei punti più
eleganti della città. Vi risiedono il Re, la Corte e le principali
amministrazioni; si potrebbe chiamare questa piazza, non il cuore di
Napoli, chè questo titolo spetta al porto, ma il cervello. La piazza non
ha carattere storico e mostra piuttosto un inespressivo aspetto moderno,
sia nel palazzo reale, un edificio dalla facciata liscia, dalle mura
tinte di rosso, simmetrico, monotono, sia nei due palazzi uguali che
fiancheggiano la piazza stessa, sia infine nella chiesa di S. Francesco
di Paola, un'imitazione del Pantheon di Roma, senza carattere proprio,
inespressiva come tutte le copie senz'anima. Anche le statue equestri di
bronzo di Carlo III, fondatore della dinastia, e di Ferdinando I, opere
pregevoli del Canova e di Antonio Calì, con la loro tinta allegra e
chiara, svelte e liscie, non hanno niente di storicamente monumentale:
si direbbero piuttosto decorazioni transitorie. Tutto qui ha del resto,
lo stesso carattere di modernità e di gaiezza. Il palazzo reale potrebbe
benissimo trasportarsi, senza che il suo stile vi si opponesse, in mezzo
ad un grandioso giardino, o ad un parco, e sarebbe allora una villa
principesca come quella di Caserta e di Capodimonte, alle quali
moltissimo assomiglia. Il famoso teatro di S. Carlo, il più vasto fra i
teatri, è attaccato al palazzo, di cui anzi forma un'ala. Le muse della
musica e del ballo dimorano dunque sotto lo stesso tetto del capo dello
Stato, e in una corte laterale, che si vede anche dalla strada, fanno
ogni mattina gli esercizi i soldati svizzeri, molto semplicemente
vestiti di tela grigia, che armonizza perfettamente con l'architettura
fredda ed inespressiva del palazzo.

Re Ferdinando è tuttora imbronciato con Napoli. Il suo palazzo è
deserto, la Corte trovandosi nella deliziosa isola d'Ischia. Un giorno
però il Re è venuto in città per assistere alla festa della Madonna del
Mercato, che gode tanta fama quanto quella di Piedigrotta. Io ho avuto
occasione di vedere la famiglia reale e la Corte al Mercato, e poi per
istrada, quando faceva ritorno al palazzo. Il corteo, composto di varie
berline dorate, era splendido e faceva bella mostra nel Largo di
Castello, mentre il palazzo reale, che avevo visto sempre muto e
silenzioso, riacquistava anima e vita. Non un sol grido di _Viva il Re!_
si levò da quella folla, che si accontentò di scoprirsi la testa, come
fa quando suonano le campane dell'_Ave Maria_.

Le truppe si presentavano bene: bellissimi specialmente gli usseri,
dalla pittoresca divisa a colori vivaci e dagli eccellenti cavalli.
Abituato a non vedere in Roma che soldati francesi, ho provato un vero
godimento nel trovarmi di nuovo dinanzi a truppa italiana. I Napoletani
sono bei soldati, ben vestiti, abbastanza istruiti, ma, si capisce
facilmente, in essi di militare è soltanto l'apparenza.

A Roma, per le vie, s'incontrano spesso corporazioni che vanno in lunghe
file, a due a due, portando un po' di vita nei quartieri silenziosi e
deserti, e dànno insieme un'idea della vita del paese, governato e
disciplinato esclusivamente da preti: sono lunghe file di monache, di
frati, di ragazzi appartenenti a questo o a quell'istituto, di poveri
orfani, di colleggiali vestiti in rosso, in nero, in turchino, in
bianco; sono confraternite della Morte con i cappucci neri, od altre dal
cappuccio verde, bianco, violetto, e sono anche file di soldati. A
Napoli tutte queste comparse, più o meno clericali, non vi sono, o si
perdono fra le masse del popolo; si distinguono però i militari e più
ancora i galeotti che camminano scortati dalla truppa, incatenati a due
a due, e vestiti di vario colore, a seconda della categoria a cui
appartengono per i delitti commessi. Se ne incontrano in città e fuori,
a Portici e a Torre del Greco, e la vista di quei disgraziati, in mezzo
a quella natura così raggiante, che dà gaiezza al cuore e all'anima, che
invita al piacere, produce un'impressione infinitamente dolorosa. A
Napoli però non vi è nessuna di quelle corporazioni che attraggono tanto
l'attenzione in Roma, e i monaci stessi, numerosissimi ovunque la vita è
facile ed agevole la vegetazione alle piante parassite, si confondono
nella folla, dando a questa un nuovo contributo di varietà.

Tanto nella festa della Madonna del Mercato, quanto in altre occasioni,
il popolo non pensa che a divertirsi e a stare allegro. I Napoletani non
vanno ad una festa per assistere alle funzioni religiose, per ammirare
le fonti del culto, ma per stare all'aria aperta, per godere le bellezze
naturali, cui la folla variopinta dà un nuovo risalto. Ho visto migliaia
e migliaia di Napoletani alla festa per il centenario della Madonna di
Posillipo. Non avevo mai assistito ad uno spettacolo così teatrale: la
folla variopinta ingombrava la splendida riviera di Chiaia, la Villa
Reale, tutta la strada sino a Posillipo: ovunque bandiere, festoni,
fiori; il golfo splendeva di luce; sei navi da guerra, ancorate fra
Chiaia e il porto, facevano senza posa fuoco dalle loro artiglierie; il
rumore ed il chiasso erano indescrivibili; la processione non aveva
niente di dignitoso, di solenne, d'imponente, per chi arrivava da Roma.
A Roma, anche le processioni più meschine presentano un carattere
artistico, il che mostra avere le arti esercitato la loro benefica
influenza persino sulle minime cose del culto, quali sono gli emblemi,
le allegorie, le immagini dei santi. Il senso del bello ivi regna
dovunque, in ogni cosa; si direbbe che gli Dei della Grecia, i quali
stanno al Vaticano e al Campidoglio, non tollerino il brutto e il
barocco neanche nei santi. Il Museo Borbonico non ha esercitata affatto
quest'influenza sul popolo di Napoli. L'arte plastica ha pochi aderenti,
pochi cultori; quivi ha fatto sentire la sua influenza la sola pittura,
quella allegra e brillante degli affreschi di Pompei, dei quali si
vedono imitazioni ad ogni passo le quali quanto più sono fantastiche
tanto più piacciono.

Non potrei descrivere quali brutte immagini di santi io abbia visto
portare in processione a Napoli; prodotti di un'arte senza principî,
senza gusto e di una fantasia bizzarra che, in quanto a stranezza, ha
poco da invidiare all'arte indiana. Per formarsi un'idea di quanto sia
disposto questo popolo ad essere tollerante in materia d'arte, basta
osservare bene quelle barocche statue di santi per le strade e quei
Cristi in legno di orribile fattura, sorgenti qua e là nelle piazze.

E' necessario entrare a Napoli in una di quelle botteghe dove si vendono
statue di santi, per comprendere quale sia il modo con cui questo popolo
meridionale sente ed esprime la religione e l'arte. Un giorno capitai in
una di quelle strade, brutte e strette, che dal porto salgono alla
collina; ad un tratto, la mia attenzione fu richiamata dalla vista di
alcuni artefici occupati a lavorare assiduamente in una stanza aperta.
Gettai lo sguardo in quell'ambiente lungo e profondo, che si andava
oscurando verso la fine, e vidi disposti lungo le pareti due file di
santi già ultimati e in mezzo una S. Agnese, col suo agnellino, vestita
di bianco, con le gote colorite in rosso da fare invidia a due ciliege.
Sulla porta d'ingresso lavoravano parecchi giovanotti, uno dei quali era
intento ad ornare una statuetta in legno, con pagliuzze d'oro. Vi
saranno state nella bottega per lo meno cento statue di santi, di tutte
le dimensioni, dall'altezza di un fantoccio alla grandezza naturale,
tutte dipinte coi colori più vivaci e più dissonanti, fregiate d'oro e
d'argento, in tutte le posizioni, in tutte le attitudini. Impossibile
descrivere la penosa impressione prodotta dall'accozzo di tutti quei
colori, dalla stranezza di quelle attitudini, dalla quantità di amuleti,
di simboli superstiziosi, di cui sono ricoperte quelle immagini.

Si direbbe che questi scultori, se pure meritano un tal nome,
fabbrichino divinità per il popolo, come le crearono Esiodo ed Omero.

Nel contemplare tutte quelle statue, credetti di essermi fatta un'idea
della natura della religione di questo popolo, e, stanco e nauseato, mi
affrettai a recarmi sul molo, per respirare l'aria libera e ricreare il
mio spirito nella vista della natura sempre pura, bella e santa. Pur
troppo, l'uomo qui non corrisponde, alla natura che lo circonda;
diversamente, in vista di questo mare, di questi monti, di questo cielo,
non potrebbe pregare davanti a quegli orribili fantocci.


                                  II.

Una breve dimora in Napoli è sufficiente per dimostrare che non tutta la
vita si concentra nella città, bensì si riversa grandemente nei
dintorni. La città in sè è tutt'altro che piacevole; quell'enorme
frastuono, quelle case altissime ed architettonicamente barocche, quel
sudicio ovunque, quel gridare incessante ed assordante, finiscono con lo
stancare. A Napoli si dimora soltanto perchè ha dintorni di bellezza
meravigliosa e perchè da questo centro si può andare in breve tempo a
Pompei, ad Ischia, a Sorrento, a Portici, a Pozzuoli, a Baia, al
Vesuvio, a Capri.

La gente va continuamente fuori della città per tre direzioni, che
formano propriamente la topografia della città: per la via Toledo, la
massima arteria di Napoli, che porta alla bella collina di Capo di
Monte, ai colli circostanti cosparsi di ville, ed al romitaggio
delizioso di Camaldoli; e per le due vie che partono insieme
dall'estremità di via Toledo e vanno lungo il mare, una attorno il
porto, sino a Marinella, a Portici, a Pompei, e al Vesuvio; l'altra per
Chiaia, a Posillipo, e, oltre la grotta di questa, a Pozzuoli e a Baia.
Queste sono le tre maggiori strade di Napoli, per le quali senza posa
passa un fiume di gente, in ispecie nel pomeriggio e nella sera. Vi si
vedono lunghe file di carrozze, di carretti, e di carri a due ruote
tirati da muli; vi si vedono tutto il lusso, tutte le industrie, tutto
quello che occorre nella vita. I magazzini e le botteghe più eleganti
sono in Toledo; nelle altre due vie si trovano specialmente gli oggetti
di prima necessità; il quartiere più elegante di Napoli è però
costituito dalla via Toledo, sino lungo Chiaia e verso la grotta di
Posillipo. Chiaia è una strada meravigliosa; i suoi palazzi moderni sono
occupati dai più ricchi cittadini, dai rappresentanti delle potenze
straniere e dai principali alberghi. Di fronte sorge la Villa Reale, i
cui giardini non sono aperti che alle persone decentemente vestite;
soltanto alle classi superiori ne è permesso l'accesso; il popolo ne è
escluso. Sulla spiaggia non vi sono che pochi pescatori; i bagni colà
costruiti non sono alla portata delle borse moderne. Le botteghe di
oggetti di prima necessità, i modesti mercati di pesce, di legumi, e le
taverne ricominciano là dove la via si divide e mena alla grotta di
Posillipo e a Margellina.

Tutte queste vie hanno un aspetto ordinario e tranquillo; ma la scena
muta non appena, oltrepassato il Castello, si giunge a S. Lucia. Qui
pullula tutta la vita popolare, non interrotta per breve spazio che dal
palazzo reale e dal castello, per raggiungere la massima intensità al
molo, al porto, a Marinella ed al mercato; al di là, nei sobborghi fino
a Portici, diminuisce. S. Lucia, il luogo di carattere più svariato e
dove sono le locande di secondo ordine, è la linea di confine fra la
parte aristocratica di Napoli e quella popolare. Il porto è il punto del
maggior movimento popolare e del commercio; ivi si lavora, si traffica
senza posa, e ivi è tutto quello che è necessario alla vita del popolo.
V'è un movimento continuo; le calate sono sempre ingombre di carbone e
di altri materiali; vi si affollano continuamente pescatori, barcaiuoli,
lazzaroni, piccoli mercanti. Gli abitanti delle campagne, i popolani
vengono qui ad acquistare gli abiti e le scarpe, che empiono case da
cima a fondo. Qui si vendono tutte le masserizie casalinghe, qui sono
caffè, liquorerie, spacci di tabacco, unicamente frequentati dal popolo,
fruttaioli i quali tengono gli aranci e le angurie già tagliate a fette
che essi vendono per un tornese e che vengono mangiate dai compratori in
piedi. Qui si vedono vere montagne di fichi d'India, di cui la gente più
misera si nutre; questo è il luogo di riunione, si potrebbe dire la sala
di conversazione del popolo. Nel pomeriggio, agli angoli di certe vie,
si vedono lettori pubblici di storie cavalleresche e di storie di
briganti. Qui lo scrivano pubblico tiene il suo tavolo e scrive lettere
amorose. A Marinella vi sono teatri con pulcinella, il quale di su la
porta invita la gente ad entrare. Vicino al porto esiste pure il
principale teatro popolare detto di S. Carlino, e nei dintorni vi sono
altre capanne per chi vuol fare i bagni di mare a poco prezzo.

La folla e il movimento che regnano sul porto, sono un nulla in
confronto a quanto si vede nei due maggiori mercati, vicini a Marinella:
il Porto Nuovo e il Mercato. Il Porto Nuovo è sempre ingombro da una
folla immensa; si direbbe che l'intera Campania abbia mandato le sue
frutta e il golfo tutti i suoi pesci su questa piazza. Il popolo vi si
reca per comprare, per mangiare; lo si potrebbe dunque definire come il
ventricolo di Napoli. È veramente interessante osservare tutta quella
folla, tutto quel frastuono, ed uno lo può fare a suo bell'agio,
rifugiandosi in una di quelle cucine all'aperto, costituite da quattro
tavole, dove si preparano e vengono mangiate le _pizze_, specie di torte
schiacciate, rotonde, condite con formaggio, o con prosciutto. Si
ordinano e in cinque minuti sono pronte; per digerirle, però, è
necessario avere i succhi gastrici di un lazzarone.

I mercati settimanali hanno pure luogo su quella piazza, per un Tedesco
di triste memoria, perchè colà fu decapitato l'ultimo degli
Hohenstaufen; è del pari caratteristica per essere stato il teatro di
uno storico episodio, quello di Masaniello, su quella piazza dai lazzari
eletto loro re, e ivi trucidato.

Questo luogo è storico per il popolo napoletano; è come la sua piazza
della Bastiglia, sanguinosa per le scene terribili di giustizia
popolare; il popolo vi troncò il capo a nobili cittadini e li espose
all'oltraggio. È rimasta terribile anche per i ricordi della peste.

Interessante, ma difficile insieme, sarebbe descrivere tutto questo caos
di persone e classificarle in tanti gruppi ben distinti. Sono stati
fatti infiniti quadri e disegni della vita popolare a Napoli; si sono
scritte su ciò numerose opere, profonde e vivaci, ma nessuna ne dà
un'idea precisa a chi non la potè mai vedere coi propri occhi. Pertanto,
vo' provarmi a dare uno schizzo della strada di S. Lucia, più di ogni
altra interessante. Ho pur già detto che questa via, sita in uno dei
punti più belli di Napoli, è quella dove vennero a contatto le classi
superiori ed inferiori della popolazione e dove la vittoria rimase al
ceto medio. Non troppo lunga, la strada è circoscritta a sinistra dal
mare, dal palazzo reale e a destra dal pittoresco Castel dell'Ovo.
Distendendosi quasi al centro del grande arco del golfo, si trova aperta
sul mare, di cui si gode liberamente la vista, non intercettata come
pel porto dalle alberature dei bastimenti. La sua posizione è
meravigliosa ed invita molti forestieri a stabilirsi nei suoi alberghi
di second'ordine, dai quali si può godere alla sera la bellezza
insuperabile del mare e la frescura della brezza marina.

Io dimorai a S. Lucia quaranta giorni, e dalla mia finestra vedevasi
tutto il golfo raggiante di luce: le due cime del Vesuvio dominanti la
bianca città, le pittoresche spiaggie di Castellammare, di Sorrento,
fino a Capo Minerva, e l'isola di Capri. Ogni mattino, quando la rosea
luce del golfo veniva a svegliarmi nella mia camera, mi abbandonavo alla
contemplazione di quel fantastico spettacolo che è colà il levare del
sole, e guardavo le tinte di fuoco dei monti e del mare, che parevano
avvolgere in un incendio colossale la grandiosa città. Ma più magico
ancora era lo spettacolo che mi si parava dinanzi allorchè la luna nel
suo pieno, sorgeva sul Vesuvio, e spandeva la sua luce argentea sui
monti, sul mare, sulla città, illuminando l'intero golfo. La cupa
foresta degli alberi delle navi nel porto si distaccava allora sopra un
fondo di brillante bianchezza; la luce dei fanali impallidiva; infinite
barche scivolavano sulle onde, e sparivano, e tosto ricomparivano
all'orizzonte; lo scoglio gigantesco di Capri appariva, e Somma, il
Vesuvio, i monti di Castellammare e di Sorrento, quasi forme
fantastiche, s'illuminavano. Chi avrebbe potuto dormire in quelle notti?
Io prendevo una barca a S. Lucia e navigavo su quelle onde
fosforescenti, oppure rimanevo seduto sulla spiaggia, insieme con
popolani a mangiare frutti di mare.

Quei luoghi anche di notte sono animati, pieni di vita.

Nel quartiere di S. Lucia è concentrato specialmente il commercio dei
frutti marini, disposti in buon ordine, con le ostriche, nelle piccole
botteghe, ciascuna delle quali porta un numero e il nome del
proprietario. Sono incessanti le grida per invitare la gente ad entrare;
le botteghe sono illuminate, e tutti quei prodotti del mare rilucono dei
colori più svariati: sono ricci, stelle di mare, coralli, araguste,
dalle forme più bizzarre, dalle tinte più dissimili. Il mistero delle
profondità marine è ivi svelato e quel piccolo mercato presenta ogni
sera il lieto aspetto quasi di una notte di Natale marittima.

Chi scende la gradinata che porta al mare, ad un tratto si trova come in
una specie di grande sala illuminata a cielo scoperto. Intorno a piccole
tavole i popolani mangiano ostriche e maccheroni; è uno spettacolo
stupefacente vedere come quegli esseri divorino, pagandoli un paio di
grani ad un pescatore o ad un lazzarone, i maccheroni, e con quanta
velocità li facciano scivolare nella gola. Là dove termina il frastuono
di questi divoratori, incomincia un'altra scena assai caratteristica:
sotto una specie di volta, presso una fonte sulfurea, da mane a sera
donne e fanciulli gridano, schiamazzano con bicchieri in mano, invitando
a bere l'acqua salubre. Si prende posto su una sedia, si beve un
bicchiere di quest'acqua minerale e si mangiano alcune piccole
ciambelle. Con pochi soldi la gente modesta vi trova uno spasso;
difatti, vi accorrono intiere famiglie e chi non mangia i maccheroni,
prende almeno l'acqua sulfurea e le ciambelle. Ivi il movimento,
l'andare e venire della gente dalla terra, dal mare, nelle barche, è
incessante, ed ivi le ninfe notturne tendono le loro reti ai forestieri:
sono fanciulle di facili costumi, accompagnate di solito dalla madre o
da una canuta matrona, custode apparente del loro cuore. Più di una
tenera relazione nasce a S. Lucia, fra un bicchiere e l'altro d'acqua
sulfurea.

Di giorno il movimento in questo quartiere non è minore. Vi si prendono
bagni in pubblico, alla presenza di tutti, ed io ho visto presso Castel
dell'Uovo, nell'intiera giornata, schiere di ragazzi e di giovanotti
saltare in mare, tuffarvisi e far mostra delle loro prodezze acquatiche.
I Napoletani nuotano come tanti delfini. Il clima contribuisce a
mantenerli in uno stato primitivo di natura; la temperatura calda
mantiene in onore il nudo, il cui studio si può fare liberamente per le
strade, ad ogni ora. Napoli è la città dei contrasti: corrono per le vie
carrozze di lusso, appartenenti alle famiglie più aristocratiche, e alla
presenza dei principi coperti di decorazioni scintillanti, di dame della
più insigne nobiltà parigina e londinese, stuoli d'uomini, come se nulla
fosse, si gettano in mare in costume adamitico. Io mi son concesso
spesso il diletto di chiamare dalla mia finestra al quarto piano, quei
ragazzi nudi della strada e di far loro vedere una moneta: in un atto
essi si tuffavano nelle onde, vi compivano le loro prodezze e quindi
tornavano nella strada, grondanti acqua per ricevere la mercede
promessa. Lo spettacolo del nudo è in tutto il golfo; sulle stesse
cancellate di ferro del porto si vedono di continuo arrampicarsi ragazzi
intieramente spogli e precipitarsi di lassù a capo fitto in mare.

Il 18 maggio, per dare sfogo a questa immensa popolazione, fu aperta
verso la campagna una nuova via, quella di S. Teresa, secondo il nome
dal Re impostole in onore della Regina sua consorte. Questa strada
domina la città e sopra Castel S. Elmo fa una parabola verso il Vomero,
traversando colline e valli, per sboccare quindi a Chiaia. Ancora non è
compiuta, nè selciata, e in molti punti bisogna attraversare fossati
sopra a tavole; vi si incontrano però già cavalli, asini, muli e una
folla di gente che, sopratutto, nelle domeniche e nelle feste, si reca a
visitare i lavori. A quanto sembra le tre grandi arterie non bastavano
più alla numerosa popolazione della città ed è stato necessario
procurarle uno sbocco sul Vomero, ponendo Chiaia in comunicazione con
questo. La nuova via sarà fiancheggiata da ville con giardini, secondo
il gusto di coloro che ricercano l'aria pura, il verde, quasi la
campagna in città, e col tempo sarà indubbiamente una delle più
deliziose strade di Europa.

Ad ogni svolto di collina e di piccola valle, lo spettacolo della città
sottostante, del golfo e delle isole varia, e tu non sapresti dove è
meglio rivolgere lo sguardo nell'insuperabile bellezza di
quell'orizzonte, sulla città, su quegli aranceti profumati, su quei
giardini cosparsi di fiori o su quelle pittoresche macchie di pini, di
palme, di cipressi. Chi non si sentisse rapito qui d'incanto per le
bellezze che natura offre, non potrebbe che essere privo del senso del
bello.

Si ascende alla nuova strada dagli Studi, dove vengono dati a nolo
asinelli; io, però, preferii recarmici a piedi, da solo, onde meglio
goderla ed arrestarmi qua e là a mio piacere. Vidi così successivamente
Castel S. Elmo, dalle bianche mura, sorgente sopra un nero scoglio,
circondato di captus, di aloe, di piante rampicanti; vidi, in basso,
verdeggianti giardini, rocce calcaree dinanzi ad un'osteria quasi
sperduta nella lussureggiante vegetazione di una vigna; vidi una
valletta di limoni, di aranci, di melagrani, che mandavano nell'aria
profumi deliziosi; e poi un sobborgo formato di fabbriche industriali, e
amene e ridenti collinette, e case rustiche, e una gola piena di captus
e di palme; e poi, ad un tratto, a sinistra, scorsi la città, il golfo,
l'isola di Capri, ed una foresta di pini ai piedi del Vesuvio, che si
staccava sullo splendido azzurro del cielo, tinto di violaceo; poi nuove
rocce, nuovi giardini, nuove casette rustiche: una vera scena campestre,
popolata da pastori, i quali portavano le loro capre al pascolo; un
convento animato da monaci, alte colline rivestite di pini. Quante,
quante bellezze! Mare, cielo, terra, tutto immerso nella splendida luce,
ed un'aria finissima olezzante di profumi, ristoratrice!

Mi sedetti sotto un cipresso e rivolsi ancora lo sguardo ai giardini
sottostanti, dove i tralci delle viti, agitati lievemente dalla brezza
marina, pendevano a foggia di festoni dagli alberi, come nelle pitture
di Pompei rappresentanti le baccanti. Avevo letto un libro in cui non
ricordo quale erudito non sapeva darsi pace che quelle giovani donne
ballassero per aria, affermando che ciò era contro natura, poichè
avrebbero dovuto posare sul suolo i loro piedi e sostenendo che tali
affreschi erano soltanto dei capricci di una fantasia sbrigliata. Povere
cose, invero, l'erudizione e l'archeologia! In questo angolo di paradiso
le cose si sentono e si comprendono oggi come le sentivano e le
comprendevano gli antichi. Qui regna ancora l'idea del culto di Bacco e
l'immaginazione si solleva in alto come una baccante col tirso; qui ci
sembra di staccarci dal suolo e, sciolti da ogni vincolo terreno, di
spaziare nell'atmosfera.

Le bellezze della natura e i sentimenti cristiani, alla presenza delle
più grandi meraviglie della creazione, risvegliano sempre idee tristi.
Ero giunto su di una altura dove alcuni soldati svizzeri stavano bevendo
fuori di una piccola bettola, una capanna di paglia. Di lassù si
dominavano il mare, le isole di Nisida, di Procida e d'Ischia, tutte
avvolte nel manto meraviglioso del sole al tramonto. Uno di quei
soldati mi si avvicinò e, gettando uno sguardo su quello spettacolo
meraviglioso, con tono di mestizia mi disse: «Come è bello! troppo
bello!... rende melanconici...»


                                  III.

Ho visitato le tre più belle città marittime d'Italia: Napoli, Palermo e
Genova, che gareggiano fra loro per magnificenza di posizione. Senza
dubbio il primato spetta a Napoli, nessun'altra città potendo vantare un
panorama naturale così classicamente grandioso, un Vesuvio, un golfo
così bello, spiagge come quella di Castellammare e di Sorrento, isole
così pittoresche. Le svariate tinte, la grandiosità, l'ampiezza di tutto
questo non hanno le uguali al mondo; tutto qui ha il carattere
dell'immenso, tanto l'opera dell'uomo quanto quella della natura, e
tutto qui è avvolto in un mare di luce. L'occhio non riesce ad afferrare
in una sol volta tutto il quadro, a meno di non restringere la
prospettiva, di salire sopra una collina, oppure di inoltrarsi in mare,
da dove le forme della città si perdono e rimangono visibili soltanto
quelle della natura.

Genova, invece, ed anche Palermo si possono abbracciare con un sol colpo
d'occhio; la prima, disposta ad anfiteatro co' suoi splendidi palagi,
con le sue ville sui monti; la seconda distesa nella fertile vallata,
con le sue cupole, co' suoi campanili, incoronata di monti dall'aspetto
severo, che si estendono ai due lati, dal monte Pellegrino al capo
Zafferano, lasciando fra essi breve spazio di mare. Entrambe, come ho
detto, formano un quadro meraviglioso, visibile, apprezzabile con un
solo sguardo. A Napoli, invece, tutto è grande, sterminato ed immerso in
una luce in cui l'occhio si smarrisce ed in cui non può contemplare che
una cosa alla volta. Salendo, per avere una idea di Napoli, sino a
Castel S. Elmo, ai Camaldoli, o sul Vesuvio, i quali sono i punti più
adatti per ammirare il panorama, ovunque Napoli si presenta come
un'ampia città indefinita, dove prevale l'aspetto della campagna, la
vista del mare. Le infinite case che sorgono attorno al golfo, non
presentano caratteri architettonici, non dànno altra idea che
d'un'immensa popolazione colà agglomerata. Si direbbe quasi che a quella
gente basti il luogo e la vista, che dinanzi a tante meraviglie di
natura, abbiano incrociato le braccia e rinunziato a gareggiare con
quella natura stessa. Nessuna di quelle case emerge sulle altre; non si
vedono che tetti a forma di terrazze, fatti a bella posta per godere il
panorama; poche cupole di chiese, e queste poche bassissime ed appena
visibili; quasi nessun campanile su quella monotona distesa.
Costantinopoli è almeno assai più pittoresca, con le sue cupole, i suoi
arditi minareti che sorgono fra i pini e i cipressi, dando alla città un
aspetto caratteristico, simpatico. La mancanza di carattere
architettonico in Napoli, la sua uniformità monotona, mi hanno sempre
colpito ed io le ho spiegate per mezzo della sua storia, delle varie sue
signorie, tutte passeggere, della inazione del suo popolo, della
mancanza di attività diretta ad un dato scopo, della sua tendenza a
vivere alla giornata, della sua cura del presente soltanto e di vivere
il più gaiamente possibile. La storia non ha lasciato sulla città
un'importanza e perciò questa città monumentalmente non ha veruna
importanza. Nè le dinastie succedutesi rapidamente le une alle altre, nè
il popolo espressero le loro idee per mezzo di quei monumenti che sono i
ricordi più tangibili delle varie fasi di civiltà, la rappresentazione
più visibile delle idee che predominarono per un dato tempo, o che
tuttora sussistono.

Nota veramente caratteristica di Napoli è che quasi tutte le sue glorie
sono glorie musicali: Scarlatti, il suo discepolo Porpora, Leonardo,
Leo, Francesco Durante, Pergolese, Paisiello, Cimarosa, e tutti quei
maestri che fino a Bellini, a Mercatante uscirono dal Conservatorio di
Napoli, sono le più belle illustrazioni della città. Con questo non
voglio dire che Napoli non abbia avuto altri uomini illustri; soltanto
furono celebrità isolate, perchè quivi nessuna scienza o disciplina fu
tenuta mai in grande onore.

Lascio da parte la descrizione e torno al carattere architettonico di
Napoli, dove l'assoluta mancanza di opere monumentali colpisce in
special modo chi, come me, giunge da Roma, la città più monumentale del
mondo ed essa stessa monumento della storia universale. Anche
indipendentemente da questo carattere monumentale, che è proprio di
Roma, io credo che non vi sia altra città dove l'architettura e il
paesaggio siano in tanta armonia e dove, indipendentemente dalle
bellezze naturali, i monumenti portino da sè a suscitare l'ammirazione.
Per cogliere queste perfette armonie, basta salire sul Monte Testaccio,
sul Monte Mario, a San Pietro Montorio, sulla torre del Campidoglio; e
per convincersi dell'imponenza architettonica di Roma, basta gettare uno
sguardo su questa dal Pincio, da dove la città si presenta
maestosamente, in linee grandiose e severe, come un monumento storico
colossale.

Di là si scorgono i vari periodi di civiltà, le rovine del paganesimo,
la cupola trionfante del cristianesimo, e le vicende del papato ci
sfilano dinanzi, e tutto il significato di Roma si presenta alla nostra
mente.

A Napoli, invece, in questa città di vita lieta, senza pensieri, i
monumenti architettonici che attirano la nostra attenzione non sono
nelle rovine, nelle chiese. Le reliquie dell'antichità sono scomparse;
qui non si costruiva per l'eternità. L'unico e stupendo monumento che
Napoli possegga dei tempi antichi sono le catacombe, più vaste forse di
quelle di Siracusa, alle quali devesi aggiungere la meravigliosa grotta
di Posillipo. Quanto a chiese Napoli ne possiede un bel numero, ma
nessuna veramente pregevole: la noncuranza tutta democratica con la
quale vengono lasciate nascoste fra le strade e le case, senza
campanili, con orribili facciate, provano sufficientemente quanto il
popolo napoletano, che pure formicola di preti e di frati, sia stato in
ogni tempo indifferente nella religione. Qui non vi furono mai grandi
ardori per la fede di Cristo, per la grandezza della Chiesa, e sotto gli
Hohenstaufen anzi lunga ed accanita fu la lotta fra Napoli e il papato.
La tendenza a vivere lietamente e piacevolmente, ha impresso un
carattere di mondanità anche alle cose di religione; per convincersi di
questo basta visitare la più bella chiesa moderna della città, S.
Francesco di Paola, edificata da Ferdinando I per sciôrre un voto dopo
la sua restaurazione nel trono. E' un'imitazione del Pantheon di Roma e
serve principalmente di decorazione alla Piazza Reale; per convincersi
poi quanta poca serietà e dignità ecclesiastica presenti, basta guardare
il suo porticato, dove sono sempre negozi di spinette, che vengono
suonate per prova continuamente.

A Napoli anche i palazzi, che dopo le chiese sono gli edifici più
notevoli in ogni città italiana, sono sperduti fra dedali di casupole e
per lo più sono grandi edifici di pessimo gusto, ed anche quando hanno
qualche cosa d'imponente, come il superbo palazzo Maddaloni, simile ad
una fortezza, non si possono osservare sufficientemente, perchè mancano
di aria libera intorno a sè. A Napoli nulla ricorda il medio evo; tutto
è moderno.

Osservando Napoli sotto l'aspetto architettonico, si finisce per
convincersi che le sole abitazioni degne di attenzione, di ricordo, sono
le amene ville che popolano le colline, l'arsenale, gli edifici che
circondano il porto, il palazzo reale ed in special modo i tre grandi
castelli che dominano da ogni parte il panorama della città. Da Castel
S. Elmo, sul pittoresco Vomero, si ammira tutta Napoli; è uno spettacolo
magico, soprattutto nell'ora indecisa del crepuscolo.

Nel golfo sorgono poi Castel Nuovo e Castel dell'Uovo, le due bizzarre
moli di roccia, di color grigio e di aspetto cupo e minaccioso: sono le
briglie del cavallo focoso di Napoli.

Volevo visitare Castel dell'Uovo, che è uno degli edifici più antichi di
Napoli, poichè risale a Lucullo e fra le sue mura perì Romolo Augustolo,
ultimo degli imperatori romani, ma non mi fu concesso. Federico II
ultimò il Castello nel 1221, non immaginando certo che quello sarebbe
stato il carcere degli ultimi suoi discendenti; giacchè qui, dopo
l'infelice battaglia di Benevento, nella quale re Manfredi perdette
regno e vita, per molti anni languirono i miseri figli suoi, e l'unica
sua figliuola, Beatrice, dovette la sua liberazione da quelle mura
soltanto al Vespro Siciliano.

Era il 5 giugno 1284, quando i Siciliani al comando dell'illustre
ammiraglio Ruggero di Lauria, sostennero la famosa battaglia navale
dinanzi a Napoli.

Dagli spalti del castello la figlia di Carlo d'Angiò ne fu spettattrice
e con ansia ne attese l'esito; con non minore ansia dovette contemplarla
attraverso l'inferriata del suo carcere l'infelice figlia di Manfredi;
la principessa vide la flotta napoletana ripiegarsi da prima, poi
sbaragliata e posta in fuga. Suo fratello Carlo fu fatto prigione e due
galere siciliane gettarono l'ancora dinanzi al Castello, e Lauria chiese
che venisse subito consegnata la figlia di Manfredi, minacciando in caso
di rifiuto di far decapitare il figlio di Carlo d'Angiò a bordo del suo
legno, innanzi a tutta Napoli. La misera fu tolta dal carcere,
consegnata ai Siciliani e soltanto diciotto anni dopo, quando già aveva
trascorsa tutta la sua giovinezza in prigione, riacquistò la sua
libertà, fu condotta trionfalmente a Messina, dove sua sorella Costanza,
moglie di Pietro d'Aragona, l'accolse nelle sue braccia, come una morta
risuscitata. Nello stesso castello morirono pure i figli di Manfredi.

Castel Nuovo è ancora più imponente, e rappresenta senza dubbio il
maggior monumento architettonico di Napoli. Di esso è famoso il
bell'arco trionfale che Alfonso I di Napoli vi fece costruire nel 1470,
su disegno di Giuliano Da Murano, o secondo altri, di Pietro Di Martino.
Sorge sopra a colonne corinzie, fra due torri, ed ha numerosi
bassorilievi di gran pregio, nei quali è riprodotto l'ingresso del Re
vittorioso di Napoli. Le sue porte in bronzo sono opera di Guglielmo
Monaco. Disgraziatamente quest'arco, veramente pregevole monumento, si
trova nascosto come in un castello ed è sottratto quindi alla vista del
pubblico. Si era parlato di trasportarlo davanti alla Cattedrale, ma
l'idea non ebbe più seguito.[1]

Castel Nuovo venne edificato da Carlo d'Angiò nel 1283 e i più cospicui
edifici di Napoli furono opera degli Angioini, come parimenti risalgono
a quel periodo le chiese più importanti della città. Queste sono i veri
monumenti storici di Napoli, non solo per le tombe che racchiudono, ma
perchè la maggior parte di esse attinge la loro origine da fatti
storici, come si vedrà quando ci tratterremo a parlarne.

La cattedrale fu incominciata da Carlo I sulle rovine di un antico
tempio dedicato a Nettuno, e venne ultimata da Roberto I. Essa segna
l'inizio dell'epoca degli Angioini. S. Domenico Maggiore venne eretta da
Carlo di Calabria, nel 1289, per sciôrre un voto da esso fatto quando
cadde prigione nelle mani di Ruggiero Lauria. L'altra chiesa di S.
Lorenzo Maggiore venne fondata nel 1265 da Carlo I, ugualmente per
sciôrre un voto da esso fatto dopo la battaglia di Benevento. S. Pietro
Martire fu edificata da Carlo II d'Angiò; S. Chiara, da Re Roberto nel
1310; l'Immacolata, abbellita da affreschi di Giotto, venne fondata da
Giovanna I, per ricordare le sue nozze con Ludovico di Taranto; S.
Giovanni a Carbonara, Monteoliveto e S. Antonio Abate, tutte chiese
edificate da Ladislao e da Giovanna. Anche lo stupendo monastero di S.
Martino, sopra S. Elmo, ripete la sua origine dagli Angioini; e da
ultimo il Carmine Maggiore ed il Purgatorio sul Mercato che segnò la
caduta degli Hohenstaufen. Infatti, nella prima di queste due ultime
chiese trovasi la tomba di Corradino e la statua erettagli nel 1847 dal
re Massimiliano di Baviera; e nella seconda cappella sorge la colonna di
porfido innalzata da Carlo I, sul punto dove vennero decapitati
Corradino e Lodovico di Baviera. In essa si legge la seguente epigrafe:

                      ASTURIS UNGUE, LEO PULLUM
                          RAPIENS AQUILINUM
                  HIC DEPLUMAVIT, ACEPHALUMQUE DEDIT.

Nè i Normanni, nè gli Hohenstaufen lasciarono edifici in Napoli e
sarebbe inutile ricercare gli avanzi di quella architettura
moresco-normanna, i quali, al contrario, si trovano abbondantemente in
Sicilia. Lo stabilirsi della dinastia degli Angioini a Napoli, dopo
perduta la Sicilia, procurò a questa città l'unica epoca in cui
fiorirono la scultura e l'architettura, facendo subentrare allo stile
romano delle basiliche, quello germanico. Questo periodo di rifiorimento
durò fin verso gli ultimi tempi del secolo XIV e raggiunse il suo apogeo
sotto il regno di re Roberto, fautore ed amante delle arti belle. Napoli
diede allora i natali ai due Masuccio, il secondo dei quali fu pure
scultore distinto. Egli fece le tombe di Carlo di Durazzo, di Caterina
d'Austria, di Roberto di Artois, e di Giovanni di Durazzo, nella
grandiosa chiesa di S. Lorenzo, da lui ultimata sugli antichi disegni;
costrusse pure la chiesa gotica di S. Chiara, collocando in quella, a
tergo dell'altar maggiore, il capolavoro della scultura napoletana, la
tomba di re Roberto, morto nel 1343. Questa è di stile gotico, ed è
ornata di parecchie statue. Sebbene le forme non si presentino
all'occhio ancora purissime, il complesso della composizione è artistico
ed ha una semplicità di buon gusto. S. Chiara è ricca di monumenti
sepolcrali, perchè riposano in questa chiesa parecchi altri Angioini,
fra i quali Carlo di Calabria, figlio di Roberto, Giovanna I, ed altre
principesse.

In generale, però, tutte le tombe degli Angioini fanno l'effetto di
mancare di serietà e di dignità. Nella stessa maniera che le tombe di
questa stirpe, passata senza alcuna influenza nella civiltà e vissuta
nel piacere e nella crudeltà, non destano nell'animo commozione di
sorta, nè la più lontana riflessione, parimenti l'arte non riuscì ad
acquistare una forma espressiva e a dar loro un carattere netto. Il loro
stile gotico è ricco, talvolta bizzarro, tal altra ingenuo, ma il più
comunemente è di gusto assai equivoco. Anche dinanzi a questi monumenti
ci si accorge di essere a Napoli, dove, non per la caduta degli
Angioini, non per colpa dei tempi, l'arte cadde nel manierismo, nel
barocco, nell'esagerazione, come appare entro e fuori a molte chiese,
come quella del Gesù Nuovo, più simile ad una rocca che ad un tempio
cristiano. Qui gli stessi edifici gotici furono indegnamente deturpati
dai numerosi restauri, resi necessari dai frequenti terremoti, ed
eseguiti senza spirito, senza sentimento artistico.

Ma dove questo pessimo gusto veramente trionfa, è nei tre obelischi
della Concezione, di S. Gennaro e di S. Domenico, che reggono in cima la
statua adorata del santo, e sono sopracarichi di statue, di figure, di
ornati, peggiori dei quali è impossibile concepirne. In questi monumenti
si rivela grandemente l'influenza spagnola, la quale regnò per molti
anni e di cui non è rimasta un'unica memoria pregevole, giacchè governò
queste belle contrade per mezzo dei suoi vicerè. Gli Spagnuoli
lasciarono però alcuni ricordi di quel periodo, fra i quali la grandiosa
Fontana Medina, opera di Domenico Auria, eseguita per ordine del vicerè
Olivares nel 1593. Poi, la fontana fu per tre volte mutata di posto,
sotto i vicerè Carlo Alba e Montery fino a tanto che donna Anna Caraffa,
moglie del vicerè Medina, la fece collocare là dove attualmente si
trova.[2]

E' opera grandiosa, ma di poco effetto, sopraccarica di figure, di
tritoni, di delfini e di mostri marittimi tra i quali si leva la statua
di Nettuno, in una conchiglia sostenuta da tre satiri. L'acqua assai
genialmente sgorga dalle punte del suo tridente; ma il miglior ricordo
dei vicerè spagnuoli rimarrà sempre la via Toledo, aperta alla metà del
secolo XVI dal vicerè don Pietro di Toledo.

Ho visitato anche le meravigliose catacombe napoletane e ne sono uscito
con una impressione di terrore e di ammirazione insieme, sopratutto di
viva curiosità per quei tempi oscuri nei quali quei sotterranei furono
costruiti ed abbelliti onde servire da dimore. Le catacombe di Siracusa
hanno un aspetto assai men cupo, le loro gallerie essendo disposte
simmetricamente. Al contrario, le catacombe romane, nelle parti almeno
fino ad oggi rese praticabili, sono strette e basse. Sono semplici
corridoi e stanzucce di modeste dimensioni, che non cessano con questo
di apparire meno meravigliose, quando si ricordi che colà i cristiani
celebravano di notte i loro misteri, e di là il cristianesimo uscì, per
prendere possesso prima di Roma, quindi del mondo intero.

Le catacombe di Napoli furono scavate nel tufo, nelle colline a
settentrione della città, al disotto di Capo di Monte; e si ritiene che
si estendano fin verso Pozzuoli. Non potevasi rinvenire una qualità di
pietra più facile ad essere scavata per tali abitazioni sotterranee di
questo tufo vulcanico, di colore gialliccio; ed uno può farsi
agevolmente un'idea esatta e chiara del modo in cui vennero aperte
quelle caverne e quelle grotte, osservando le pareti di quel tufo
stesso, che si lasciano in piedi per servire di ponti, nelle case in
costruzione. Anche nelle strade nuove di Posillipo si trovano grotte e
caverne scavate nella roccia, le quali non servono soltanto di
magazzini, ma ancora di abitazioni.

I grandiosi scavi fatti in tal guisa sotto terra, i quali a poco a poco
formarono un laberinto troglodito, dovevano avere uno scopo e servire a
qualche uso. Sembra inverosimile che i Cimméri, primi abitatori delle
sponde del golfo di Napoli, avessero fissata in quei sotterranei la loro
dimora, perchè non è possibile immaginare una razza d'uomini capace da
volersi cacciar nelle tenebre, nelle viscere della terra, in presenza di
una natura così splendida e di un cielo così sereno. Nelle abitazioni di
tal natura dei popoli primitivi, che si trovano nella valle Ispica e a
Malta penetra sempre la luce nel giorno. Da principio quelle catacombe
poterono servire di ricovero in caso di pericoli contro assalti di
nemici, e quando si ampliarono, togliendo di colà i materiali che
servirono alla costruzione della città, è naturale che sia sorto il
pensiero di farle servire ad uso di sepolture. È accertato poi che non
furono i cristiani a seppellire per primi i loro morti nelle catacombe
di Napoli, bensì i Greci e i Romani, e basta osservarle per
persuadersene. In una di queste vaste stanze trovasi oggidì ancora una
piccola colonna, sulla quale sta scritto il nome _Priapos_ in caratteri
greci.

L'epoca nella quale le catacombe cominciarono a servire di sepolture è
incerta. Furono certamente ridotte a tale uso per la natura dei luoghi,
ma non vennero scavate appositamente per questo scopo. I Romani, per
esempio, i quali abitavano la pianura, collocavano le loro tombe
all'aperto, mentre gli Etruschi, abitatori dei paesi montuosi, le
aprivano nelle rupi. Però, fin dai tempi della Repubblica, si scavarono
camere mortuarie nel tufo vulcanico, onde collocarvi i sarcofagi; e
oggigiorno le tombe degli Scipioni possono dare una piccola idea della
catacomba.

In origine queste non dovettero servire di sepoltura che alle classi
povere, impossibilitate a sostenere la spesa di sontuosi monumenti
all'aperto e che dovevano scavare nel tufo i così detti _loculi_, dove
deponevano le urne cinerarie dei loro cari. Nelle catacombe di Napoli si
conservano avanzi di pitture le quali risalgono ai tempi dei pagani; la
maggior parte però appartengono all'èra cristiana. I primi cristiani,
infatti, dopo aver cercato in quelle dimore sotterranee rifugio contro
le persecuzioni e luoghi adatti alla celebrazione del loro culto,
cominciarono ad ornare le tombe dei loro cari in quell'asilo con
immagini e simboli riferentesi alla fede.

Nelle catacombe di Napoli questi avanzi di pitture rivestono quasi un
carattere pagano e si riconosce sulle pareti di queste tombe cristiane
il carattere gaio degli affreschi di Pompei, e gli stessi simboli sono
in qualche punto pagani, per esempio quelli della vendemmia e del
torchio, tolti dal culto di Bacco. Vi si scorgono tralci di viti e
grappoli d'uva, dei quali si cibano genî ed uccelli, ed il Cristo si
vede rappresentato sotto le spoglie di Orfeo. I simboli cristiani però
vanno acquistando a poco a poco il loro predominio e si cominciano a
vedere: Cristo, il buon pastore che pasce le pecore e porta un agnello
sulle spalle, il cervo, il pesce, il pavone, la colomba, la croce e gli
angeli. Produce una profonda impressione vedere questi antichi affreschi
cristiani, anneriti dal fumo delle fiaccole, ed osservare in questi
luoghi tenebrosi i principî dell'arte cristiana, che tengono dietro allo
stile pompeiano ed assumono a mano a mano il carattere bizantino,
succedendo i simboli cristiani alla mitologia pagana, mentre la novella
religione si preparava ad uscire alla luce del giorno ed a popolare le
chiese.

Nelle catacombe si riscontrano propriamente le origini del culto
cristiano e non deve far meraviglia se questo ha serbato, uscendo
all'aria libera, un carattere severo, quale si rivela nelle
rappresentazioni della morte, nella maestà terribile dei santi bizantini
e de' suoi Cristi. Chi sa se il modo cristiano di considerare la morte,
l'abnegazione ascetica, l'idea del martirio, del disprezzo della vita,
del dolore; se finalmente l'intolleranza, il fanatismo, si sarebbero
radicati così profondamente nella religione cristiana, quando questa si
fosse sviluppata liberamente sulla terra, alla luce del sole, in
presenza delle bellezze della natura, invece di esser costretta a cercar
ricovero in quelle regioni sotterranee, alla luce delle fiaccole,
relegata e costretta ad abitare presso le tombe dei martiri, col timore
continuo di novelle persecuzioni?

Nessuna cosa mi ha prodotto in Napoli tanta viva impressione quanto la
visita di queste catacombe e di quelle di Pompei. Sono preziosi ricordi
della storia del genere umano che giacciono sotto terra; quelle
catacombe si potrebbero a buon diritto chiamare la Pompei del
cristianesimo. Segnano quelle e questa una grande epoca dell'umanità, ma
fra esse vi è pure un grande contrasto. Nelle dimore abbandonate dagli
antichi cristiani tutto è severo; mentre nella città pagana tutto è
sorridente, i templi, le abitazioni le pitture; e tutto rivela una
popolazione portata al vivere lieto, che si compiaceva della bellezza
delle forme e che aveva tolti tutti i suoi Dei dalle regioni della
poesia. E qui si trovano anche le delizie di altre generazioni di uomini
appartenenti però alla stessa razza. Sono Greci e Romani come quelli di
Pompei, che appartengono ad uno stesso periodo, ma molto diversi da
quelli. Sembra che non abbiano dimenticato lo spirito pompeiano, allegro
e vivace.

Coi ricordi di Pompei hanno trasportato pure su quelle oscure pareti gli
affreschi, i graziosi rabeschi, il torchio di Bacco per ornamento delle
tombe. I novelli abitatori, seduti presso le tombe, celebrano con i
defunti le loro agapi e fanno risuonare quei luoghi del canto monotono
delle loro preghiere. Verrà però il giorno in cui essi usciranno alla
luce, portando fuori la loro religione devota alla morte e diffonderanno
per tutto il mondo le reliquie dei loro martiri, offrendole
all'adorazione dei fedeli sugli altari infranti, dove sorgevano le
statue degli Dei bellissimi dell'antica Grecia. Pompei fu sepolta dalle
ceneri del Vesuvio; dalle catacombe usciranno le ceneri che copriranno
il mondo di mestizia.

Queste mie idee saranno considerate quali sogni fantastici di
catacombe? Ognuno penserà come crederà più opportuno. Certo è però, che
non si potrebbe trovare luogo più adatto alla teologia speculativa di
quelle regioni sotterranee, dove regnano cupe tenebre, aria pesante e un
odore nauseabondo. In quei laberinti di stanze, di gallerie e di
corridoi, che occupano tanta estensione; fra mezzo a quelle pareti
fiancheggiate da tombe, da ossami, da nicchie, da loculi non si cammina,
bensì si passa, si striscia, come altrettante ombre.

Le fiaccole stentano a mandare la luce e a quel chiarore fioco e debole,
le figure dipinte sulle pareti con le mani sollevate in alto, quasi
mirassero ad uscire dai loro abissi e a volare alla luce del giorno,
assumono l'aspetto di spettri. Iscrizioni greche, latine ed anche
ebraiche, in parte cancellate e in parte ancor oggi decifrabili, fanno
comprendere essere quello un mondo dove tutto è simbolo, mistero e
allegoria. Due vecchi ricoverati dell'ospedale di S. Giovanni dei
Poveri, sono mantenuti nel convento alla porta delle catacombe per
accompagnare in quelle i forestieri. Tengono fiaccole e guidano i passi
del visitatore. _Ciceroni_ più adatti di essi non si sarebbero potuti
trovare. Non camminano, strisciano con la loro lunga tonaca di colore
turchino, con la fiaccola in mano, come spettri. Nel considerare quei
due poveri vecchi incurvati per gli anni, canuti e col viso pallido del
pallor della morte, mi sembravano morti essi pure al pari degli
scheletri sui quali proiettavano la luce incerta delle loro fiaccole ed
avrei detto che da ben mille anni si aggirassero fra le catacombe. In
una delle sotterranee stanze lessi sotto due figure, in una nicchia:
_Votum solvimus, nos quorum nomina Deus scit_, e mi parve che quelle
parole misteriose, di cui rimane nascosto il significato, si potessero
porre in bocca delle mie due vecchie guide, quasi non fossero più due
viventi. Le guardai in faccia, ed al vederle così pallide, con
quell'aspetto di spettri, mi colse tanto ribrezzo e terrore che non
volli saperne più di catacombe.

Ne avevo oramai abbastanza di tutti quei misteri, di quelle regioni
sotterranee, di quella profonda e continua notte e di quelle scene di
morte, e provai un desiderio irresistibile di tornare alla luce del
sole, tra i vivi. Pregai le mie due guide di tornare indietro, di
condurmi fuori di quelle caverne ed esse sorrisero e subito rifacemmo la
strada percorsa. Nell'uscire, però, ebbi campo di persuadermi che i miei
_ciceroni_ erano esseri viventi, perchè mi ringraziarono di cuore della
moneta che diedi loro onde potessero andare a bere alla mia salute.

Non v'è modo migliore per conciliarsi con l'idea della morte, uscendo
dalle catacombe di Napoli, che recandosi a visitare il nuovo camposanto
di quella città. Dicono che sia il più bello d'Europa, ed io non ho
difficoltà a crederlo, imperocchè la sua posizione è stupenda, ed i
monumenti che vi sorgono, come in un ameno giardino, ricreano la vista.
Si trova collocato al di sotto di Poggio Reale, sopra una piccola
collina, la quale domina la strada di Nola e dalla quale si gode il
panorama magnifico della città, del golfo, della spiaggia di Sorrento,
del Vesuvio e della ricca vegetazione che si estende ai suoi piedi.

Quasi tutta questa collinetta è ricoperta di monumenti, la maggior parte
dei quali ha la forma di tempietti, sostenuti da colonne. In certi punti
ve ne sono moltissimi che fiancheggiano le strade, e nel percorrer
queste si ha una lontana idea di quello che fosse la via Appia ai tempi
antichi. Altri monumenti sorgono isolati, altri in gruppi e formano
tutti tante piccole necropoli. In cima alla collina si trovano un
porticato a colonne ed una chiesa assai grande, dove si celebrano le
messe per i morti. La maggior parte dei tempietti appartengono alle
confraternite della città, e queste istituzioni benefiche, le quali
senza distinzione di classi sociali hanno scopo non solo di dar
sepoltura ai morti, ma anche di soccorrere i poveri e di assistere gli
ammalati, sono in numero di centosettantaquattro, ed i nomi di esse si
leggono sui frontoni di alcuni monumenti. Altri di questi tempietti sono
tombe di famiglie; in essi vi sono piccoli spazî per una cappella,
chiusa da un'inferriata, in cui si vedono o un piccolo altare, od una
statua della Madonna, o una lampada eterna e il più delle volte i
ritratti, o i busti dei morti. Ognuno può ivi recarsi a pregare per i
propri defunti, che in tal guisa, non diventano totalmente estranei alla
pia associazione alla quale appartennero in vita. Questi monumenti sono
quasi tutti di stile antico, di gusto puro, semplici, di forme graziose,
taluni ornati di pitture di genere pompeiano, e producono in complesso
grata e soave impressione. Vi sono fiori da per tutto, cespugli di
oleandri, di amaranti, di tulipani, di ortensie, di mirti, che
bandiscono, nell'armonia dei loro colori, totalmente la desolazione.
Stando fra tutti quei fiori e gettando lo sguardo sulla Campania felice,
sul mare illuminato dai raggi del sole cadente, non si può fare a meno
di riconoscere che qui si è molto bene e lodevolmente pensato anche ai
morti. Questo bel camposanto venne aperto nell'anno 1845.


                                  IV.

Pochi sono coloro che partono da Napoli senza aver compiuto l'ascensione
del Vesuvio, ma pochi prima di partire hanno fatta quella dell'altro
monte gemello, del bellissimo Somma. Il vulcano, che fuma tuttora,
attrae intera l'attenzione del visitatore, il quale non pensa di onorare
di una sua visita il monte Somma con le sue pendici riccamente vestite
di foreste verso le pianure della Campania.

Mi decisi pertanto di farne l'ascensione, anche perchè il cratere del
Vesuvio, considerato dall'alto ed in vicinanza, doveva presentarsi sotto
nuovo aspetto, tale da compensare la fatica della salita. Eravamo
un'allegra brigata di sette persone, fra le quali due naturalisti, un
zoologo francese, ed un medico russo. Uscimmo di città alle sei del
mattino, e dopo aver oltrepassato S. Giovanni, prendemmo a sinistra per
gli ameni campi di S. Anastasia, ai piedi del Somma. Ivi cercammo guide
pratiche del luogo. Una donna robusta portava la cesta contenente i
nostri viveri; ci precedevano due uomini dalla bella figura, uno dei
quali portava uno schioppo in spalla, ed al fianco un lungo pugnale
nella sua guaina.

La piccola carovana si pose in cammino di buonissimo umore, rallegrata
da uno splendido sole di luglio, e dall'ampia vista delle fertili
pianure della Campania, le quali si estendono ai piedi del monte.
Cominciammo a salire attraverso alle vigne, che forniscono il rinomato
vino di Somma, e quindi entrammo nella regione ombrosa dei castagni,
mentre, a misura che salivamo, le pendici diventavano più erte e la
salita più faticosa. I fianchi del monte, fin verso la sommità,
continuavano ad essere popolati di castagni e di una flora veramente
splendida. I fiori stupendi, particolarmente i gigli purpurei, i
garofani, il licno, il trifoglio purpureo, l'antirrino, la valeriana
medicinale, traevano a sè tutta quanta l'attenzione del botanico, mentre
il zoologo dava la caccia alle farfalle variopinte.

A misura che si saliva, andavano scomparendo le strade e finimmo per non
trovare nemmeno più sentieri di pastori e per camminare su tracce di
passi, attraverso cespugli, entro gole e sull'orlo di precipizi.
Incontrammo rivi che scendevano quasi a picco, letti di torrenti quasi
disseccati, le cui sponde, di carattere interamente vulcanico, erano
formate ora di ceneri, ora di lapilli, ora di lava impietrita.

Tre della nostra comitiva scesero in una di quelle gole vulcaniche,
provvisti di martelli e di scalpelli, per raccogliere cristallazioni.
Ne trovarono una discreta quantità nelle grotte formate dalla lava
basaltica e dalle ceneri indurite. Le varie qualità di cristalli e la
stupenda pietra vulcanica si trovano parte a fior di terra e parte
sepolte nel suolo, e chi non si lasciasse spaventare dalla fatica, ed
anche dal pericolo delle frane di quelle pareti di lava, potrebbe
formarne una bella collezione mineralogica.

I tre compagni, più o meno carichi di pietre, si riunirono a noi che
eravamo rimasti ad attenderli in un bosco, all'ombra. Proseguimmo la
nostra ascensione, resa faticosa dalla mancanza di strade e dall'ardore
del sole, fino ad una fonte che trovammo ad un terzo circa della salita.
Sul monte Somma le sorgenti sono scarse e a quella dove ci fermammo, le
cui acque non erano abbondanti, però fresche e di buona qualità, le
nostre guide diedero il nome di fontana di Mennone. Tutti i sassi di
quella regione sono sonori, perchè stati soggetti all'azione del fuoco
e, percuotendoli con un ferro, o con un bastone, mandano un suono
metallico, come le colonne di Pompei.

A misura che si sale, la vista diviene più bella, ma il monte più arido,
perchè crescono le ceneri, i lapilli, e la salita diviene per
conseguenza più faticosa.

Ancora non scorgevamo affatto il Vesuvio, perchè rimaneva nascosto dalla
vetta del monte Somma, mentre invece l'orizzonte si allargava sempre
più, stendendosi da Baia all'isola d'Ischia; si scorgevano Napoli, il
golfo, la pianura di Caserta e tutta quanta la fertile regione della
Campania centrale, fin verso i monti di Sarno. Tutta la stupenda pianura
si estende dalle colline che circondano il golfo, sulle quali sorge in
parte Napoli, fino agli Appennini e ai monti del Matese. Si direbbe un
immenso parco cosparso di castelli, di ville, di chiese, di monasteri,
di città che spiccano biancheggianti sulla verzura della campagna,
frastagliate dalle vie di comunicazione. Ci fermammo quasi estatici
sull'ultimo contrafforte, al disotto della vetta del Somma, perchè da
quel punto potevamo spaziare la vista e scorgere da una parte Napoli ed
il mare e dall'altra la pianura campana.

Potemmo riconoscere le seguenti città: S. Anastasia e Somma; più in là
Poncigliano d'Arco, Acerra, Afragola, S. Maria e Capua; a destra Caserta
ed il suo palazzo; Maddaloni ai piedi dei monti; in faccia a noi,
Marigliano; più in là ancora Nola, Ottaiano, Palma e Sarno situate
propriamente a destra di Nocera, dove i monti chiudono la pianura. Era
il giorno della Madonna delle Grazie; noi udivamo il rombo dei cannoni
della sottostante città; e quando fummo giunti presso al cratere ora
spento del Somma, ci parve che quei colpi provenissero dalle profondità
del vulcano.

Contemplando da quell'altura, la stupenda regione e lo splendido mare,
si comprende che chi ne fu una volta padrone, preferì la morte alla
perdita della signoria. Così avvenne alla stirpe sveva, a quella di
Aragona e a Gioacchino Murat. Si può allora comprendere l'esclamazione,
per dir vero, non molto ortodossa, di Federico II imperatore, il quale
diceva che «se il Dio d'Israello avesse veduta Napoli, non avrebbe tanto
vantata a Mosè la terra promessa». A noi però era riservato uno
spettacolo più grandioso; non avevamo ancora veduto il Vesuvio. Ci
avvicinammo alla vetta del Somma, la quale è segnata al suo punto
culminante da una croce in legno, e, fatti ancora pochi passi sulla
cresta sottile, ci trovammo tutto ad un tratto di fronte, e vicinissimi
al vulcano, che sembrava balzar fuori all'improvviso. Non può esprimersi
quale fosse il contrasto fra la vista delle pianure ridenti e fertili
della Campania e quella regione arida, morta, sepolta tutta sotto un
denso strato di ceneri di color grigio. Non è possibile esprimere con
parole la profonda impressione di quella mole imponente che fuma; si
sarebbe detto un demone uscito tutto ad un tratto dagli abissi
dell'interno.

Non vi è posizione da cui possa il Vesuvio produrre un tale effetto,
come dal vertice del monte Somma, che quasi lo eguaglia in altezza.
Quando si sale sul Vesuvio per la strada di Resina, si vede il vulcano
dal basso in alto; qui invece si contempla dall'alto in basso e si può
benissimo guardare nel suo cratere e vederlo campeggiare in tutta la sua
imponenza, sul fondo del cielo e del mare; inoltre si ha davanti agli
occhi il cratere del Somma, con le sue pareti scoscese di lava, che
scendono quasi a picco. Coloro che salgono invece dai piedi del Vesuvio
alla sua sommità, non scorgono mai la sua forma e non ne vedono altro
che i campi coperti di lava e di cenere.

Tre soltanto di noi ci avventurammo sulla cresta affilata del Somma,
fino alla punta più esterna dove si vede il monte a tre punte inclinate
verso il Vesuvio. A sinistra e a destra si scorgono gli antichi crateri
spenti delle nere cavità, frastagliate in ogni senso, con intorno un
terreno cosparso di pietre rosse e grige e di massi di lava eruttati dal
vulcano. A metà del margine del Somma, il terreno appare inclinato a
forma piramidale, ed a semicerchio verso il Vesuvio, dal quale lo
disgiunge un vero precipizio. Innanzi agli occhi si erge il cono
imponente del Vesuvio, coperto tutto di ceneri dalla base fino
all'estremità, di un colore fra il grigio e il giallo e con strisce di
tinta nera dove colò la lava. I margini del cratere sono di colore
giallo cupo, circondati da una striscia bianca, e dal suo interno si
sprigionano leggieri vortici di fumo. A poco a poco l'osservatore si va
rimettendo dalla prima impressione prodotta da quella vista imponente ed
allora non può fare a meno di osservare le linee armoniche, le belle
forme di quel cono, e la varietà delle sue tinte. Non ho visto nessuno
spettacolo naturale simile a questo, dove il severo ed il grazioso siano
così armoniosamente uniti. Anche dopo salito sull'Etna, debbo affermare
che questa fusione di aspetti tanto diversi, è tutta particolare del
Vesuvio. Questo è propriamente di una maestà tranquilla, quieta e
melanconica; la tinta bruna od azzurra delle ceneri si armonizza in modo
stupendo con le belle forme del cono, e se si aggiunge a questo
l'aspetto del mare, della pianura e dei monti circostanti, il tutto
irradiato da uno splendido sole, s'immagina facilmente quanta debba
essere la bellezza di quella visuale, dalla quale uno non riesce a
staccarsi. Vedevamo le barche nel golfo, e all'orizzonte le forme
strane dell'isola di Capri. A sinistra scorgevamo la spiaggia di
Castellamare, e la regione vitifera di Boscotrecase, Boscoreale, di
Scafati e di Lettere.

Ci fermammo un bel po' sulla vetta del Somma, godendo di tutte quelle
bellezze di cielo, di terra, di mare.

Il Vesuvio era tranquillo; non usciva dal suo cratere che una leggera
colonna di fumo, quasi ad additare che in mezzo a tante delizie,
albergava il demonio della distruzione. Le sue strisce nere a traverso
le ceneri erano formate dai torrenti di lava delle due ultime eruzioni,
e quella a sinistra datava solo dal 1850. Si erano aperti allora sul
cono cinque piccoli crateri, tuttora visibilissimi. Ci fu additato il
punto preciso dove, durante l'eruzione del 1847, perdettero miseramente
la vita un Tedesco ed un Americano. Costoro, inoltratisi
imprudentemente, furono colpiti dai sassi infuocati eruttati dal monte;
il Tedesco, il quale ebbe le gambe rotte, morì ai piedi dello stesso
Vesuvio; l'Americano, colpito in un braccio, perì poco dopo
nell'ospedale di Napoli.

Un caso assai strano toccò nel 1822 ad un calzolaio di Sorrento, che si
era recato a visitare il Vesuvio senza una guida. Il cratere
dell'eruzione del 1820 era libero, e l'imprudente calzolaio volle
scendervi con l'animo non solo di sorprendere gli spiriti infernali, ma
quasi di prenderli a dileggio. Colto da una vertigine in questa sua
temeraria impresa, precipitò nel cratere e fortuna volle che fosse
trattenuto, nella caduta, da una sporgenza di lava. Riportò la rottura
di un braccio e di una gamba, e stette per ben due giorni in quella
posizione, sospeso sull'abisso, fintanto che i suoi lamenti giunsero
all'orecchio delle guide che avevano accompagnato sul monte altri
forestieri. L'infelice fu tratto fuori per mezzo di corde, e bisogna
dire che discendesse dalla natura immortale di Alasvero, imperocchè,
portato all'ospedale di Napoli, finì per guarire e per tornare a
Sorrento, sano e salvo come nulla fosse stato. Questa avventura
terribile e lieta ad un tempo ci venne narrata da don Michele,
cappellano del romitaggio sul Vesuvio, dove scendemmo dopo esserci
trattenuti più di un'ora sulla vetta del Somma.

Qui, tutto ad un tratto, cambiò la scena. Il Vesuvio si velò di nebbia,
ed un forte vento spingeva di qua e di là le nuvole sollevando vortici
di ceneri e facendoci assistere a una stupenda lotta di elementi, che
dava novella vita e nuovo carattere a questa contrada selvaggia. La
nebbia non tardò però a dissiparsi, e ricomparvero sotto di noi Napoli,
lo splendido golfo, Capri, Ischia, Miseno, e a destra i piani della
Campania.

«_Voilà la Cléopatre!_» Questa strana ed inaspettata esclamazione ci
fece volgere a tutti. Era il nostro naturalista francese, uomo di
sessantasette anni, il quale a furia di correre e di saltare, era
riuscito, benchè vecchio, quasi novello Antonio, a fare la conquista di
Cleopatra. Quel vecchietto allegro, pieno di vivacità e di brio, di una
forza sorprendente per la sua età, non degnava di uno sguardo nè il
Vesuvio, nè lo stupendo panorama; non aveva pensiero che per le sue
farfalle.

La ripida discesa della sommità del monte, non avvenne senza qualche
pericolo; dopo aver camminato a stento sulle ceneri e sulle lave
dell'eruzione del 1850, le quali si sarebbero potute benissimo
paragonare ad una cascata nera pietrificata, arrivammo, stanchi assai,
al romitaggio. Questo sorge in vicinanza dell'Osservatorio, edificio
abbastanza elegante, collocato in amenissima posizione, di dove si
scopre un'estesa vista. Attorno, attorno sorgono colossali tigli, i
quali avranno almeno duecento anni, e la cui vegetazione così
rigogliosa, a tanta prossimità del vulcano, dimostra che la località è
molto sicura. Difatti le pietre e le scorie eruttate dal cratere,
descrivendo una parabola, passano di sopra al romitaggio, e la collina
su cui sorge la chiesa, trovandosi separata da una profonda gola del
Vesuvio, è protetta contro i torrenti di lava. Inoltre, una lastra nera,
con caratteri gialli di ottone, ci fece conoscere che l'edificio era
assicurato contro l'incendio, da una compagnia di Magdenburgo. Noi
certamente non ci aspettavamo di trovare questo semplice ricordo della
patria lontana alle falde del Vesuvio.

Negli ultimi anni abitava un romito presso la chiesetta di S. Salvatore;
ma il parroco di Resina lo allontanò da quel posto che dava un certo
reddito, ed ora sale egli stesso, di quando in quando, a celebrarvi la
santa messa e a trattare gli ospiti, che gli capitano, con eccellente
_lacrima Christi_. Il piccolo villaggio si compone di alcuni coloni, i
quali si sono stabiliti ai piedi del monte, di impiegati
dell'Osservatorio e di una stazione di carabinieri. Nel giorno della
Pentecoste vi si celebra una festa, ed allora vengono dalle città vicine
forse undicimila persone, le quali si recano devotamente in processione
dalla chiesa di S. Salvatore fino alla Croce ai piedi del Vesuvio, per
scongiurare con le loro preghiere il terribile flagello; Ora il vulcano
tace, dal 1850, ed anche in quell'ultima eruzione non produsse gravi
danni; il torrente di lava, di discreta ampiezza, prese la direzione di
Ottaiano, devastò i giardini del principe di quel nome, e rovinò il
convento di S. Teresa ed alcune case.[3]

Dopo una buona refezione presso il parroco don Michele, il quale ci fece
stupenda accoglienza, essendo amico di uno della nostra comitiva,
salimmo a Resina sul fiume di lava, che, con il suo nero aspetto,
produce una malinconica impressione. Anche qui si può ammirare di quanto
sia capace l'industria umana, imperocchè, non appena la lava è
raffreddata, si cerca di trarne partito. Avevo già veduto
nell'Osservatorio certe grotte bizzarre e chiusure di giardino lavorate
artisticamente in lava, e nel romitaggio avevamo preso il caffè sopra un
tavolo di lava stupendamente lavorato. Con questa si formano pure busti;
ed a Catania, rimasi sorpreso nel vedere la varietà e la bellezza di
tinte della lava dell'Etna, ed ebbi campo di osservare e riconoscere
quanto bella diventi dopo la politura.

Scendemmo da Resina; ivi il torrente di lava disseccata era
fiancheggiato da vigne stupende, ed a contatto della stessa lava, quasi
nelle ceneri, vegetavano belle piante di melagrani, con i loro fiori
purpurei che sembravano di fuoco.

Fummo talmente soddisfatti della nostra bella gita, che ci decidemmo
farne presto un'altra. Dopo pochi giorni muovemmo, difatti, in carrozza,
per il monte della Maddalena, verso il Vesuvio.

Era nostra intenzione di contemplarlo, questa volta, dal lato opposto, e
prendemmo perciò la direzione del fiume di lava del 1850, il quale si
stende sopra Boscotrecase e Boscoreale. Osservai allora per la prima
volta questi strani villaggi, collocati nel punto più pericoloso del
Vesuvio. La loro posizione, in mezzo alla ricca vegetazione del suolo,
composto tutto di detriti vulcanici, è amenissima quanto quella dei
villaggi che sorgono alle falde dell'Etna, con la differenza che hanno
un carattere tutto orientale più ancora di quelli. Le case piccole e a
volta come quelle dell'isola di Capri e gli stessi campanili delle
chiese sono costruiti di lava bruna. La popolazione è rozza, timida,
povera; non sono riuscito a vedere una bella fisionomia. Eravamo scesi
in una bettola a Boscoreale, per proseguire di là il nostro cammino sui
campi di lava. Domandammo inutilmente delle frutta, ed il nostro
desiderio di averne fu accresciuto dall'impossibilità di trovarne,
quando, ad un tratto, vedemmo, presso la nostra tavola, un cavallo che
si stava mangiando tranquillamente un secchio pieno di carrubbe.
Accadde allora una scena gustosa, imperocchè ci precipitammo tutti al
secchio per disputare al cavallo quel cibo saporito e fu in
quest'occasione che seppi per la prima volta che a Napoli si nutrivano
di carrubbe i cavalli.

Visitammo il fiume di lava, a cui le vigne sono tanto vicine e a
contatto di queste vedemmo annosi olmi, da cui pendono ghirlande di
tralci, e quell'allegro aspetto di vita, presso tanto spettacolo di
desolazione, mi parve pieno di contrasto. Vidi pure gli avanzi del
palazzo del duca Miranda e le ruine di altre abitazioni distrutte dalla
lava. Anche da questa parte il cono del monte produce uno splendido
effetto.

Mi trovavo abbastanza inoltrato nei misteri del vulcano per visitare il
suo cratere. Avevo udito ripetere, le mille volte, che l'ascensione del
Vesuvio fosse molto più faticosa di quella dell'Etna, ma dopo aver fatto
anche quest'ultima, posso assicurare che arrampicarsi sul Vesuvio non è
che una semplice passeggiata in paragone agli sforzi che costa
l'ascensione dell'Etna, sopratutto per la grande rarefazione dell'aria,
e per le continue emanazioni di gas dal suolo caldo e oscillante. Anzi,
dopo aver camminato a lungo sui neri campi flegrei dell'Etna,
sconfinati, il Vesuvio, che pure ha distrutto popoli e città, non sembra
più che un fuoco d'artifizio, destinato a divertire i Napoletani. Non si
può negare, però, che nella sua piccolezza il cratere dia un'idea più
viva e più animata delle regioni infernali, che non il cratere
dell'Etna.

Era una bellissima notte quando scendemmo dal Vesuvio; il sole era
scomparso in mare, dietro l'isola di Ponza e, a misura che crescevano le
tenebre, Napoli e le città della pianura campana si andavano
illuminando. L'azzurra volta del cielo era rischiarata dalla cometa
annunziatrice di guerra e tutto insieme lo spettacolo, commoveva
profondamente l'animo, già impressionato dall'aspetto del vulcano.


                                   V.

Mi si era parlato a Napoli della festa di S. Paolino a Nola e mi si era
anche assicurato che meritava di essere veduta. A questa festa accorreva
tutta la popolazione della Campania, porgendo uno spettacolo che non ha
l'uguale. Mi recai pertanto colà il 26 giugno, anche bramoso di
conoscere Nola, la quale racchiude più di un ricordo storico. Alle porte
di questa città, Marcello aveva inflitto la prima sconfitta ad Annibale;
ivi era morto l'imperatore Augusto e ivi Tiberio era salito all'impero.
È noto pure quale sorgente inesauribile di vasi preziosissimi sia stata
Nola; i più belli fra tutti quei che si trovano nel museo borbonico,
furono scoperti quivi, in Ruvo e in S. Agata dei Goti. Chiunque li abbia
veduti, non può certo aver dimenticato il vaso grandioso di Nola, che
rappresenta, in una composizione ricca di figure, la distruzione di
Troia. Conviene pure ricordare l'invenzione delle campane di cui mena
vanto questa città ed il suo Vescovo, S. Paolino, buon poeta e dotto
padre della Chiesa, che fece molto onore alla sua città natale.

Saverio de Rinaldis, lo cantò in un poema epico latino, ad imitazione di
Virgilio, dal titolo la _Paolineide_. Lo acquistai un giorno nel porto
di Napoli, dove lo vidi in vendita sopra un muricciolo; ma, sebbene
quanto avevo udito intorno alla festa del santo m'ispirasse curiosità,
non mi bastò però il coraggio per leggere tutto quanto quel lungo poema.
Non sarà tuttavia fuor di luogo accennare che il santo nacque nell'anno
351 in Guascogna, dove suo padre, prefetto della Gallia, era tuttora
gentile, ed aveva educato il suo figliuolo al paganesimo. Se non che,
convertitosi Paolino al cristianesimo in Bordeaux, non tardò molto a
divenire zelantissimo della novella religione. Ottenuto il consolato,
venne mandato ad amministrare la provincia della Campania e quivi giunto
trasferì la sua dimora dal capoluogo Capua a Nola, per la ragione che in
questa trovavasi sepolto il santo vescovo Felice, e che i molti miracoli
da esso operati traevano gran folla alla sua tomba. Paolino, rinunciò al
mondo, e le proprie convinzioni e le tristi esperienze fatte della vita
lo portarono a dedicarsi tutto al sacerdozio, imperocchè accusato
nientemeno che dell'uccisione di suo fratello, non aveva potuto provare
la sua innocenza che grazie all'intercessione del santo suo protettore
Felice. Diventato prete, Paolino non tardò ad acquistare grande
rinomanza per il suo ingegno e per la sua dottrina nelle scienze
ecclesiastiche, mentre la santità della sua vita gli procurò
l'universale venerazione. Venne chiamato a succedere a Felice nella
cattedra vescovile di Nola, e quando morì, nel 431, fu sepolto nella
stessa cattedrale, di dove il suo corpo venne trasportato prima a
Benevento, poscia a Roma, nella chiesa di S. Bartolomeo.

Nè il suo genio, nè i suoi miracoli contribuirono maggiormente però a
mantenere viva nel popolo la memoria di S. Paolino, bensì una sua buona
azione, un suo atto generoso. Mentre era vescovo, l'unico figliuolo di
una vedova di Nola fu preso dai Vandali e portato come schiavo in
Africa. Paolino, mosso da sentimento di carità cristiana, si portò colà
per riscattare il giovane, sottoponendosi in vece sua alla schiavitù
africana. Compiuta questa santa opera, tornò dalla Libia, ed i Nolani si
recarono ad incontrarlo fuori della città, riconducendolo al suo
vescovato, con musica, danze e con le più solenni manifestazioni di
gioia. Questo ingresso trionfale ebbe luogo il 26 di giugno di non si sa
quale anno e ogni anno si celebra la memoria di quel giorno, con
straordinario intervento di persone, le quali accorrono da tutte le
contrade della Campania, per prendere parte a divertimenti curiosi e
originali.

Mi recai di buon mattino a Nola con la ferrovia. I prezzi dei biglietti
erano stati ridotti e alla stazione vi era una grande ressa di gente,
mentre tutte le altre strade che portano a Nola erano piene di carrozze
di ogni specie, le quali, movevano verso la città in festa. Il mio
viaggio durò poco più di una mezz'ora a traverso fertilissime contrade,
tutte coltivate a viti. Giunto a Nola, vidi, per così dire, una fiumana
di gente che entrava in città.

In vicinanza della porta si teneva la tradizionale fiera; le antiche
mura della città ed una torre aderente, erano tappezzate di cartelloni
giganteschi, dipinti bizzarramente; nella torre stessa si faceva vedere
la gran foca marina e sulla porta un uomo con una tromba faceva un
fracasso del diavolo, ora suonando l'istrumento ed ora vantando i pregi
del curioso animale. In una casa di fronte si faceva pure una musica
infernale, interrotta di quando in quando dalle voci stentoree di una
compagnia di giocolieri, i quali invitavano il pubblico ad ammirare le
loro prodezze. Non è possibile descrivere la varietà delle merci che
venivano offerte con alte grida nelle botteghe; nè il chiasso assordante
della folla, la quale irrompeva nella città; nè la varietà dei colori
dei vestiti che il popolo indossava e delle bandiere che quasi tutti i
popolani agitavano in mano. Ero appena entrato a Nola che mi colpì la
vista una strana cosa, della quale non avevo ombra d'idea e che mi fece
dubitare di trovarmi piuttosto nelle Indie, od al Giappone, che in
Italia, nella Campania. Vidi una specie di torre, alta, sottile, tutta
ornata di carta rossa, di dorature, di fregi d'argento, portata sulle
spalle da uomini. Era divisa in cinque ordini, a piani, a colonne,
decorata di frontespizi, di archi, di cornici, di nicchie, di figure e
coperta ai due lati di numerose bandiere. Le colonne erano rosse,
lucide, le nicchie dorate all'interno e guarnite di rabeschi assai
originali; le figure rappresentavano geni, angeli, santi, guerrieri,
tutti vestiti nelle foggie più strane ed erano collocati gli uni sopra
gli altri, e tenevano, in mano corni, mazzi di fiori, ghirlande e
bandiere. Tutto si moveva, tremava e svolazzava, e la torre stessa,
portata da circa una trentina d'uomini robusti, oscillava essa pure. Nel
piano inferiore stavano sedute alcune ragazze, incoronate di fiori, in
mezzo ai suonatori, i quali facevano un chiasso indescrivibile con
trombe, tamburi e triangoli.

La torre si avanzava lentamente nella strada, superando l'altezza delle
case, ed era sormontata in cima dalla statua di un santo. Da altre parti
si udivano nuove musiche e si vedevano consimili torri.

«Dio mio!--dissi ad un uomo che mi stava vicino--che cosa significa
tutto questo?» Mi rispose alcune parole in un dialetto incomprensibile,
fra le quali, uniche che riuscii ad afferrare, quelle di _guglie di S.
Paolino_. «Dovete sapere--mi disse allora un Napoletano--che queste
torri e questi obelischi sono dedicati al santo, perchè quando egli
ritornò dall'Africa, gli abitanti di Nola gli andarono incontro
facendogli grandi feste e portando fra le altre cose tali obelischi. Di
qui potrete vederli passare tutti, mentre si avviano alla cattedrale».

Preferii recarmi senza indugio sulla piazza stessa, davanti al duomo,
dove dovevano prender posto tutte le torri.

Ne arrivarono subito nove da diverse parti ed erano quasi tutte della
stessa altezza, ad eccezione di una più elevata delle altre, che
raggiungeva i centodue palmi d'altezza appartenente alla corporazione
degli agricoltori. Ogni corporazione, od arte di una certa importanza,
prepara simili torri per la festa del santo. Le spese sono sostenute
dall'arte e ascendono per ogni torre a circa novantasei ducati
napoletani.

Nell'esaminare più da vicino quelle strane apparizioni che tanto mi
avevano colpito, a prima vista rilevai che riproducevano l'architettura
bizzarra e barocca degli obelischi che sorgono sopra alcune piazze di
Napoli, e che, sopracarichi di sculture e di ornati, non dànno un'idea
molto favorevole del buon gusto artistico dei Napoletani.

Ogni obelisco è fabbricato in istrada, presso la casa di qualche
distinto maestro d'arte, sotto una grande e alta tenda destinata a
proteggere contro le intemperie l'opera stessa e gli artisti che la
stanno componendo.

Lo scheletro delle torri è formato di antenne e di travicelli; un piano
si sovrapone all'altro e la parte anteriore e i due lati si ricoprono
di carta, mentre la parte posteriore è formata tutta da foglie di rami
di mirto e da una quantità di piccole bandiere. Sulle pareti di carta
dei due lati sono dipinti geni i quali portano ghirlande. La parte
anteriore è la più ricca di ornamenti, perchè a questa lavorano pittori
ed architetti. Ogni piano è formato di colonne di ordine corinzio,
sormontate da una cornice con una nicchia ed in questa sono collocate
figure e statue. Le persone vive stanno al piano inferiore, e sono
ragazze e giovanetti che vestono una gonnella corta e portano in testa
elmi di carta dorata. Nella nicchia, a metà della torre, si trova la
figura principale. In quella degli agricoltori, o mietitori, io vidi una
Giuditta colossale stupendamente vestita, la quale teneva in mano la
testa di Oloferne; in altre torri scorsi santi, o protettori, o patroni
dei varî mestieri. A fianco di queste figure principali si trovano ad
ogni piano emblemi di varia natura, angeli che tengono in mano bandiere,
od arpe, e geni con corone di fiori e trombe. Nella nicchia del piano
superiore sta un angelo con un incensorio, e sulla cupola dorata, o
sull'ornamento a foggia di giglio, che forma l'estremità della torre,
sorge un santo. Sulla torre degli agricoltori si vedeva S. Gregorio
vestito da cavaliere dell'ordine di Malta, con una bandiera in mano.

Un emblema posto sulla cornice che sormonta la nicchia a metà della
torre, indica la corporazione, o il mestiere a cui quella appartiene. Su
quella degli agricoltori stava una falce; su quella dei pastai stavano
due grossi pani; su quella dei macellai era un pezzo di carne; su quella
dei sarti una bianca veste; su quella dei calzolai una scarpa; su quella
dei pizzicagnoli una forma di cacio; su quella dei negozianti di vino un
fiasco. Ogni torre inoltre è preceduta da un giovanetto, il quale porta
un altro emblema: quello dei giardinieri portava un corno di abbondanza;
gli albergatori e i bettolieri erano preceduti da un barile di vino
sostenuto da due giovani, vestiti in guisa da raffigurare S. Pietro e S.
Paolo.

Al suono delle loro bande musicali, tutte le torri si avviarono verso la
cattedrale. Tutto quel chiasso, tutta quella gente dai costumi più
svariati, tutte quelle bandiere, i balconi delle case gremiti di fiori e
di belle ragazze, tutte quelle torri bizzarre che oscillavano, sotto il
sole abbagliante del mezzogiorno, formavano uno spettacolo così vivace,
così singolare che ne rimasi assordito, allibito: credetti di essere
tornato ai tempi del paganesimo.

La marcia delle torri era aperta da due di queste, assai piccole, al
piano inferiore delle quali erano ragazzi coronati di fiori; poi veniva
una barca, in cui stava un giovanetto vestito alla turca, con in mano un
fiore di granata. Dietro la barca veniva un grandioso legno da guerra,
benissimo rappresentato, con a prua un giovane vestito da moro, che se
ne stava fumando un sigaro, mentre sul ponte eravi la statua di S.
Paolino, inginocchiata in atto di preghiera, davanti ad un altare.

Giunta poi ogni torre davanti alla cattedrale, incominciava uno strano
spettacolo, imperocchè ognuna di quelle moli grandiose si dava a ballare
a suon di musica. Precedeva i portatori un uomo con un bastone, il quale
batteva il tempo, e le torri seguivano quello. Il colosso oscillava e
sembrava ad ogni istante che volesse perdere l'equilibrio e cadere;
tutte le figure si muovevano, le bandiere sventolavano; era un colpo
d'occhio fantastico. Ogni torre incominciava a danzare davanti al duomo,
e poi ballavano tutte insieme per quasi cinque minuti. Appena ogni torre
si era fermata davanti alla cattedrale e aveva ripreso il suo posto, una
ventina di giovani e di uomini si disponevano in circolo intorno ad
essa, tenendosi le mani sulla spalla e ballavano. Intanto due ballerini
facevano in mezzo a questi una danza particolare, finchè sopraggiungeva
un terzo che veniva da questi sollevato per aria, dove si dimenava con
tutte le membra. A poco a poco cominciava a divenir pallido e, quasi
colpito da vertigine, cadeva a terra come morto. Gli altri continuavano
a ballargli intorno, in circolo, mentre il morto si rialzava sorridendo
e al suono di nacchere esso pure si rimetteva a girare. Quelle danze
strane e originali, mi ricordarono il culto di Adone, ma non trovai
nemmeno chi potesse fornirmi un'esatta spiegazione di quel ballo
mistico. Davanti ad una torre, invece di ballare, si facevano giuochi di
forza e un uomo faceva esercizi sulla testa di un altro. Ballò
perfino il grosso legno da guerra. In alcuni momenti suonavano
contemporaneamente le musiche di quattro di quelle torri, che insieme
con gli urli, con gli schiamazzi e con le grida di migliaia di persone,
facevano un baccano indiavolato.

Tutto questo chiasso avveniva sulla piazza, davanti alla cattedrale,
mentre nell'interno della chiesa il vescovo cantava tranquillamente
messa solenne che i fedeli in ginocchio stavano ad ascoltare
devotamente.

Terminata la messa e finito il ballo delle torri, si chiuse la funzione
religiosa con una processione a cui presero parte tutto il clero
secolare, e tutte le corporazioni di frati; non vidi mai in Italia
frati di un aspetto così imponente e così florido come questi e non so
se ciò dipendesse dalla bontà dell'aria, dalla ricchezza e fertilità del
paese, o dalla libertà con cui vivono i frati nel regno di Napoli. La
processione con dietro tutte le torri, fece il giro di tutta la città
accompagnata dallo scoppio incessante di razzi e di mortaletti.

Era intanto passato mezzogiorno; le funzioni religiose erano terminate e
la popolazione cominciava ad andarsene per i fatti suoi. Stordito da
tutto quel baccano, stanco di tutta quella folla, cercai rifugio in una
trattoria, che trovai già piena di gente. In questi paesi tutto è
allegro e chiaro, ed anche le pareti di quella bettola erano dipinte a
colori vivaci. In un batter d'occhio vidi recare e scomparire piatti
enormi di maccheroni, e di carne di agnello arrosto. Il vino rosso e
denso era servito in brocche di terra cotta, a doppio manico, e non si
beveva, come nell'Italia superiore e centrale, in bicchieri di vetro, ma
alla brocca stessa, come nei tempi antichi. Il vino mi parve assai
migliore, bevuto in una brocca la quale per la forma mi ricordava i vasi
antichi e quelle brocche scoperte a Pompei, ora a Napoli nel Museo
Borbonico e che hanno del pari doppio manico e la brocca a foggia di
trifoglio. Oggigiorno, tutte queste brocche, nella Campania, sono
verniciate in bianco con alcuni ornati che però non conservano più nulla
dello stile greco.

Nel pomeriggio il calore insopportabile riversò tutte le persone nei
caffè, i quali prendono il nome di _Caffè nobile_, non appena cominciano
a presentare una certa apparenza. Cercai il migliore di tutti, che
trovai però già pieno zeppo di persone; vi si soffocava per il caldo.
V'erano contadini che cantavano ritornelli, improvvisatori, signori e
dame elegantemente vestite, gli uni seduti, gli altri in piedi, e altri
ancora che giravano attorno ai tavoli. Si prendevano gelati in
abbondanza e di gusto squisito. Non ho mai provato come in quel caffè la
voluttà di sorbire un buon gelato, tanto era soffocante il calore, e non
tardai molto in mezzo a tutta quella folla, ad addormentarmi e sognai
Marcello, Annibale, Augusto morente, Livia, Tiberio, le baccanti, gli
affreschi di Pompei, i vasi di Nola, S. Paolino e la sua festa, e le
torri che ballavano. Al di fuori la folla continuava a gridare e a far
chiasso, ma siccome il rumore era continuato, si poteva benissimo
dormire come si dorme sulla spiaggia del mare, al muggito delle onde.

La città, che visitai tutta quanta, non ha nulla di notevole, ma è
abbastanza pulita e resa gaia dai molti e bei giardini. Nei tempi
antichi Nola non era affatto inferiore a Pompei con la quale manteneva
grandi relazioni commerciali. Le tre città più fiorenti della Campania
erano infatti: Nola, Aceria e Nocera, che avevano il loro porto a
Pompei, sulla foce del Sarno, ricoprendo allora il mare, che di poi si
ritirò da Pompei, buona parte di quella fertile pianura.

Ero uscito di città per salire al convento di S. Angelo, appartenente ai
monaci di S. Francesco, il quale sorge con un porticato aperto in una
bella posizione ed è attorniato da una splendida vegetazione, quando
incontrai per istrada una famiglia che tornava già dalla festa e che era
composta di una matrona di forse ottant'anni, con le sue figliuole e
nipoti. Non vidi mai vecchia di bellezza più classica, alta com'era
della persona e d'imponenza tragica.

Vestiva un abito di seta color chermisino, con ampio bordo di broccato
d'oro, stretto alla vita alla foggia greca, e sopra questo portava un
farsetto tutto rosso, ricamato in oro. I suoi capelli canuti erano
trattenuti sulla fronte da un nastro alla pompeiana. Procedeva
coll'imponenza e con la dignità di una principessa, o di una regina dei
tempi antichi, ed avrebbe potuto rappresentare benissimo nei _Persiani_
di Eschilo la parte di Atossa, consorte sublime di Dario e madre di
Serse. Mi ero unito a quella piccola brigata e, sebbene una delle nepoti
della vecchia fosse di non comune bellezza, pur non potevo staccare gli
occhi da quella imponente matrona. Le giovani che l'accompagnavano, non
erano vestite riccamente come quella; portavano invece abiti a larghe
maniche, di colori chiari ed avevano in capo, alla moda del paese, il
_muccador_, specie di velo fissato poco sopra la nuca, in maniera da
lasciar visibili i capelli sulle tempie, antica usanza che si può
osservare anche negli affreschi di Pompei. Provavo molta fatica a
comprendere qualche cosa, qualche parola del dialetto che quelle donne
parlavano. Compresi però che mi invitavano ad accompagnarle a casa loro,
la quale, mi dissero, che si trovava a poca distanza. Per curiosità ci
sarei andato molto volentieri, ma il giorno era già inoltrato, mi
premeva vedere S. Angelo, godere del panorama che di là si osserva e
perciò ringraziai, declinando il cortese invito.

La vista che si gode dal convento è veramente bella. Si scoprono, a
sinistra il monte Somma ed il Vesuvio, a destra i monti di Maddaloni, e
sopra il monastero, in cima ad una collina, le rovine pittoresche del
castello di Cicala. In mezzo a quei monti si stende la campagna di
Nola, riccamente popolata di pioppi, di olmi, di alberi da frutta, da
cui pendono, a guisa di festoni, le viti. In mezzo a tutte queste piante
crescono rigogliosi il frumento ed il grano turco, e dovunque brillano
gli aranci e i melagrani, e la città, irradiata da un sole abbagliante,
trovasi come immersa in un mare di verzura, di vigneti e di fiori. È
davvero una contrada adatta per continue feste: la stessa natura,
eminentemente voluttuosa, invita senza posa al piacere.

Partii da Nola verso sera, quando stavano per cominciare le corse dei
cavalli; più tardi doveva ancora aver luogo un'illuminazione generale.
Quando a sera inoltrata mi trovai a Napoli, alla finestra della mia
abitazione a S. Lucia, vidi la folla che tornava dalla festa e si
avviava verso Chiaia; i cavalli erano guarniti di nastri e di fiori, la
gente faceva sventolare le piccole bandiere; tutti, carrozze, cavalli, e
uomini erano coperti di polvere. Gridando e schiamazzando la folla si
recava a Chiaia a prendere parte alla sfilata per il corso.


                                  VI.

Chiunque si sia recato da Salerno ad Amalfi, seguendo la strada lungo il
mare, deve ricordare questa gita con vera soddisfazione. Non ve ne è
un'altra ugualmente bella in tutto il regno di Napoli, e di tante
escursioni che ho fatto in tutta quanta l'Italia, questa è quella che mi
ha lasciata più grata impressione di tutte le altre.

La strada segue sempre la spiaggia del mare, mantenendosi ad una certa
altezza, e piegandosi a tutte le sinuosità del suolo. Si hanno a
sinistra i monti e le fresche valli, popolate di villaggi, le quali
scendono al mare che rimane disotto, mentre lo sguardo può intanto
benissimo abbracciare Pesto, i monti delle Calabrie, il capo Licosa e il
golfo Policastro.

Il primo abitato che s'incontra in vicinanza di Salerno è Vietri; la
posizione di questa piccola città mi ha ricordato Tivoli. Giace in una
gola ampia e grandiosa, sulla riva di un torrente, il quale fornisce
l'energia necessaria a parecchi molini, ed è un paese bruno, d'aspetto
bizzarro, con parecchie chiese e cappelle. Sulla spiaggia del mare
possiede il suo piccolo porto popolato di barche. Quasi tutti i paesi
situati in alto hanno un piccolo borgo alla marina, dove si possono
godere scene di vita marinaresca con maggior evidenza che nei quadri.
Quando dall'alto di quelle rupi si contemplano le barchette, che ora
compaiono sulle onde e ora spariscono, si direbbe che siano sospese per
aria.

Tutte le torri che ancora si scorgono sulla spiaggia del mare, tutti i
castelli situati sulle alture, fanno pensare ai tempi in cui i Normanni
fondarono in queste contrade il loro meraviglioso regno, quel regno che
segnò un'epoca nella storia della civiltà ed esercitò una grande
influenza nell'Occidente e nell'Oriente.

In quel tempo erano, a dire il vero, assai strane le condizioni
dell'Italia meridionale; aspre signorie di Greci e di Longobardi,
scorrerie continue degli Arabi e repubbliche fiorenti come quelle di
Amalfi, di Gaeta e di Napoli.

In questa bella Salerno, che oggi riposa tranquilla in riva al suo mare,
regnava allora il principe longobardo Guaimaro, quando comparve davanti
alla città una flotta saracena e gl'infedeli diedero l'assalto alle
mura. I Salernitani erano infiacchiti al pari dei Sibariti e dei
Bizantini e la città, male guardata, stava in pericolo di cadere.
Fortuna volle che si trovassero per caso in quel momento a Salerno
quaranta pellegrini normanni che tornavano di Terra Santa, a bordo di un
legno amalfitano. Domandarono subito armi, si precipitarono fuori della
porta ed attaccarono con impeto i mussulmani. I Salernitani, animati
dall'esempio, tennero lor dietro, e dopo un sanguinoso combattimento i
Saraceni furono sbaragliati e costretti a levar l'assedio. Guaimaro
ricompensò generosamente i pellegrini, i quali, ritornati in patria,
eccitarono la fantasia dei loro compaesani con le narrazioni delle
bellezze della spiaggia di Salerno, dei prodotti di quel suolo
fertilissimo, della primavera perpetua che vi regnava e dei tesori che
colà, uomini arditi e coraggiosi avrebbero potuto acquistare.

Gli avventurosi Normanni s'imbarcarono allora pel mezzodì d'Italia,
guidati da Dragut. Ciò avvenne in principio del secolo XI e la stirpe
dei Normanni fu più fortunata di quella dei napoleonidi e di Murat.

Sismondi osserva che da quell'epoca, nella lingua dell'Irlanda, si
mantenne dell'antico dialetto scandinavo la voce _figiakasta_, vale a
dire _desiderî di fichi_, locuzione figurata per esprimere un desiderio
intenso.

Giungemmo frattanto a Cetara, luogo delizioso quanto mai sulla spiaggia
del mare, una vera e fertile oasi in mezzo ai monti. Di questo paese mi
colpì l'architettura tutta moresca. Le case sono piccole e ad un sol
piano, con logge e verande circondate di viti; i tetti sono convessi e
tinti di nero. La chiesa piccola e di architettura bizzarra, sorge in un
boschetto di aranci. Tutto l'insieme del paese aveva un carattere così
esotico, che non si sarebbe mai pensato di essere nel centro d'Europa.
Allo splendore di un magnifico sole, le piante e i fiori sembravano
sorridere e le piccole case con le loro verande, parevano sepolte nella
verzura. Tutto era pulito, bello; v'eran piante di aranci, di carrubbe e
di gelsi; stupendi cactus in fiore e magnifiche piante di aloe
contribuivano a dare un carattere esotico al paesaggio.

Cetara fu il primo punto occupato dai Saraceni su questa riviera. Quivi
essi si fermarono e in seguito estesero i loro dominî, fondando colonie
ad Amalfi, Minori, Maiori, Scala e Ravello, perchè i mussulmani facevano
scorrerie continue su queste spiaggie, prima ancora di conquistare la
Sicilia. Costoro erano attirati e indotti su questi lidi, dalle continue
lotte dei Greci, con le città e con i Longobardi. La stessa città di
Napoli ne diede l'esempio in principio dell'anno 836, quando si rivolse,
per mezzo del suo console Andrea, agli Arabi, onde avere soccorso e
liberarsi dalla signoria di Sicardo principe di Benevento, e quella
repubblica, allora fiorente, strinse lega con i Saraceni senza tener
conto nè degli anatemi del sommo pontefice, nè delle minacce degli
imperatori greco-romani. Tale lega durò circa un mezzo secolo e si narra
che a quei tempi il porto di Napoli presentasse un aspetto addirittura
saraceno. Quando, dopo la morte di Sicardo avenuta nell'839, la
signoria longobarda cadde a Salerno e a Benevento, e pugnavano per
questa fra di loro Radelchi e Siconulfo, quest'ultimo chiamò una banda
di Saraceni e prese ai suoi servizi il mussulmano Apolofar con un certo
numero di Cretesi. Gli Arabi presero liberamente stanza in Salerno e vi
si stabilirono definitivamente, fabbricando case nei dintorni della
città.

Finalmente, nell'anno 871, Radelchi e Siconulfo fecero la pace,
dividendosi gli stati di Salerno e di Benevento e stabilirono la
condizione che non si dovesse permettere più agli Arabi il soggiorno
nella costa fra Amalfi e Salerno; ma ad onta di ciò, molti si fecero
battezzare e vi rimasero. Costoro avevano già data a quella località
un'impronta tutta moresca che non si è più cancellata. Altri Arabi
vennero poi dalla Sicilia, di modo che nel corso del secolo IX tutta
quanta la Calabria si trovò in pericolo di diventare mussulmana; a Bari
regnava un sultano, Taranto cadeva nelle loro mani e minacciavano di
prendere Roma stessa, dove i Saraceni sorpresero e saccheggiarono le
chiese di S. Pietro e di S. Paolo, mentre Napoli continuava a stare con
loro in buone relazioni, ad onta degli sforzi dell'imperatore Ludovico
II.

Si stabilirono nuovamente in Cetara nell'anno 880 e la repubblica di
Napoli assegnò loro alcune terre sulle sponde del Sebeto. Essi presero
pure dimora alle falde del Vesuvio, nei dintorni classici di Pompei, non
che sul Garigliano, donde partivano per fare scorrerie in tutta quanta
la Campania. Fondarono parimenti la loro colonia di Agropoli, nelle
vicinanze di Pesto.

Ai tempi del dominio dei Normanni si ritirarono più di una volta da
queste contrade e molti abbracciarono il cristianesimo, altri rimasero
al servizio di Ruggero, portando nella bella provincia di Salerno le
costumanze e la civiltà orientale. Lo stesso nome di Cetara sembra che
sia di origine orientale.

Il sole intanto si era fatto cocentissimo, riflettendosi sulle nude
rocce dove camminavamo in fretta, e noi eravamo ancora a buona distanza
da Amalfi. L'aspetto della riviera si faceva a mano a mano sempre più
bello. Al nostro fianco sorgevano monti altissimi, le cui cime si
perdevano nelle nubi, mentre la loro tinta oscura, sotto la sferza del
sole che rendeva sempre più azzurre le onde del mare, faceva un grande
contrasto con lo splendore di questo e con la limpidezza del cielo.
Sorgevano qua e là, sul pendio dei monti, rovine di antichi castelli dei
tempi normanni indicanti i luoghi dove un giorno esistettero villaggi.
Stupenda ci apparve la posizione di Maiori e di Minori nei due punti
più belli della riviera, due piccole città al pari di Cetara, appoggiate
al monte e circondate da giardini amenissimi.

Le spiagge di Minori e di Maiori sono quanto c'è di più ridente in
questo golfo, da Salerno ad Amalfi e Sorrento, ed io non esito a
dichiarare che superano in bellezza la stessa spiaggia di Sorrento, a
costo anche di esser tacciato di un'eresia. Sono due punti di una magica
tranquillità, ristretti in breve spazio, freschi, ombreggiati e ridenti;
si direbbero appartati da tutto il resto del mondo. Non ho veduto luoghi
più graziosi. Il primo che s'incontra è Maiori, fondato da Siccardo di
Benevento nel secolo IX; il paese giace quasi in riva al mare. Il monte
situato dietro l'abitato, ridotto a foggia di terrazzi, è coltivato a
giardini nei quali sorgono casette bianche e pulite che hanno l'aspetto
di altrettante ville. Più in alto torreggia pittorescamente un antico
castello.

Le strade ed i sentieri solitari e tranquilli si addentrano nei monti
dai quali scaturiscono acque limpide e fresche. Tanta solitudine
romantica ricrea l'animo e fa nascere il desiderio di vivere colà
tranquilli, o almeno di trascorrervi un'estate. Ivi davvero l'abitante
dei paesi settentrionali comprende che cosa significhi la _figiakasta_.

Trovammo colà, in riva al mare, una locanda graziosa, dipinta a colori
vivaci, dove ci procurammo vino, ottimi fichi neri e aranci stupendi. Il
sole che splendeva di fuori, quella tranquillità profonda, il frangersi
delle onde sulla spiaggia e l'atmosfera pregna di profumi, conciliavano
il sonno.

Poco dopo ci trovammo mezzo addormentati in un caffè del vicino borgo di
Minori. Quivi le case sono piccole e basse quanto quelle di Pompei e le
stanze così piccole che appena possono contenere quattro persone. Alla
tavola della locanda il padrone ci girava attorno con un ventaglio in
mano smovendo l'aria, cacciando le mosche e narrando nel suo dialetto
una quantità di storie, parlando sopratutto della fabbricazione dei
maccheroni, industria speciale della riviera di Amalfi, la quale ne
provvede tutto il regno di Napoli.

Partimmo da Minori nelle ore calde del pomeriggio e, girato che avemmo
un promontorio, ci trovammo di fronte ad Atrani, il quale è separato da
Amalfi da una gigantesca rupe. La posizione di Atrani è imponente. Sorge
a foggia di piramide sulla riva del mare, che in quel punto è altissima
e scende assai ripida, addirittura a picco. L'architettura delle case,
le quali hanno tutte la propria loggia, produce un aspetto
piacevolissimo per il bianco delle mura che si stacca sul fondo nero
della rupe. Questa, forma vicino al paese una verde valletta ed alla sua
sommità si presenta il paesetto di Pontone. Sulla sommità delle falde di
quei monti tutte rivestite di pini marittimi sorgono antiche torri e
castelli. Si scorgono intorno villaggi che giacciono ancora più alti fra
vigne e castagneti e dove sarebbe molto faticoso l'arrampicarsi. Oltre
Pontone, soprastano Atrani gli altri paesetti di Minuto, Scala, e
Ravello. Quest'ultimo è particolarmente notevole per i ricordi dei
Saraceni. Vi si sale da Atrani percorrendo una ripida e faticosa strada,
ma romantica, attraversando gallerie coperte e camminando fra vigneti,
castagni e boschi di carrubbe. A misura che si sale, la vista del mare
si fa più bella. Dalla cima delle nere rupi, coronate di torri, si getta
lo sguardo sull'azzurro delle onde che si direbbero sgorgare dalla gola
di Pontone. Si vedono pure verdeggianti pendici, seminate di case, dove
per buona ventura gli abitanti non hanno più a temere le scorrerie
saracene.

Arrivammo all'abbandonato monastero delle Clarisse e ivi trovammo le
prime tracce dell'architettura moresca. Salimmo quindi alla villa
Cembrano, casa di campagna di un ricco signore napoletano, la quale
sorge tra le rose e gli oleandri, su di un altipiano da dove lo sguardo
spazia nel mare. Questa villa è propriamente bella e sopra tutto
attrasse la mia attenzione il pergolato, il quale forma un rettangolo
attorno al magnifico giardino. Esso è sostenuto da pilastri bianchi, sui
quali corre un tetto di verdi tralci, da cui pendono i grappoli in
abbondanza; nel giardino poi, tenuto con molta cura, crescono i più bei
fiori, e tutte le piante meridionali, nella vegetazione rigogliosa del
mese di luglio. Sul margine dell'altipiano sorge un belvedere,
circondato di statue, invero orribili, le quali però in distanza
producono buon effetto. Si gode di là la vista dell'ampiezza del mare,
delle coste delle Calabrie con le cime dei loro monti coperte di neve,
dell'imponente punta di Conca e del bel capo d'Orso, presso Maggiori,
tutte vedute severe che bisogna ammirare e tacere, anzichè provarsi a
farne la descrizione. Nel contemplare da quegli orti di Armida, fra le
rose e le ortensie, il mare magico nel quale si riflette l'azzurra tinta
di un cielo limpidissimo, nasce il desiderio di poter volare. Io credo
che a Dedalo ed a Icaro venne desiderio di poter spaziare per l'aria in
una bella sera d'estate, sedendo su di un promontorio dell'isola di
Creta.

Salimmo ancora più in alto, al convento di S. Antonio; anche questo è
collocato in amenissima posizione ed è di stile interamente moresco, con
archi spezzati e colonnette graziose. Raggiungemmo quindi l'antica
Ravello e ci trovammo tutto ad un tratto in una città moresca, con torri
e case di stile arabo, fabbricata di tufo nero solitaria e tranquilla,
abbandonata, quasi morta, sopra una verde pendice del monte. Si direbbe
che è segregata da tutto il resto del mondo; non si vedono che alberi e
rocce e da qualche punto il mare in lontananza. Nei giardini si
osservano alte torri nere, case di stile moresco con arabeschi in parte
rovinati, finestre ad arco con piccole colonne.

Sulla piazza del Mercato, presso la chiesa, sorge un antico edificio di
architettura araba, con ornati di gusto fantastico e con colonne
meravigliosamente lavorate negli angoli. Il tetto riposa sopra una
graziosissima cornice. Questo edificio è designato col nome di teatro
moresco e non vi è dubbio che era il palazzo degli antichi signori di
Ravello, imperocchè questa città, ora deserta e derelitta, fu un tempo
una colonia fiorente di Amalfi che contava trentaseimila abitanti.
Ricche famiglie vi avevano introdotto il lusso a cui davano origine le
loro relazioni con l'Oriente e il continuo commercio con i Saraceni
stabiliti in Sicilia. Fra le più illustri erano annoverate le famiglie
degli Afflitti, dei Ragadei, dei Castaldi e sopratutto dei Ruffoli. Si
erano fabbricate tutte palazzi di stile moresco, con vasche, con getti
d'acqua di vero gusto arabo, su disegni e sotto la direzione di artisti
arabi. E' noto che Ravello si mantenne in relazione continua con i
Saraceni, molti dei quali vi avevano presa dimora e gli Arabi vi tennero
il presidio fino ai tempi di Manfredo. Avvenne perciò che questa piccola
città fu una delle prime che accolse nell'Italia meridionale
l'architettura araba ed oggidì è una delle poche che ne conservi ancora
gli avanzi.

Trovai in Ravello maggiori avanzi di architettura moresca che in Palermo
stesso, dove i castelli di Cuba e della Zisa sono per la massima parte
distrutti. Il palazzo Ruffoli in Ravello è una vera miniera di
architettura moresca di quei tempi, e di queste contrade. Esso trovasi
in un giardino, ed appartiene da tre anni all'inglese sir Nevil Reed, il
quale lo ha fatto per primo sgombrare dalle macerie. E' addirittura un
piccolo Alhambra, uno stupendo edificio a tre piani, che conta più di
trecento stanze sostenute tutte da colonne moresche. Le sale sono ornate
di rabeschi in puro stile arabo-siculo e un tempo debbono essere state
magnifiche. Esistono ancora nei giardini una rotonda di stile moresco,
alcuni avanzi di mura, fra le quali una torre quadrata di gusto
bizzarro, rovine di porticati, di bagni, di archi e di cortili, i quali
debbono aver fatto parte di una specie di castello cinto di mura, e da
questi ruderi è agevole farsi un'idea delle grandi ricchezze che
dovevano aver accumulato un tempo le famiglie distinte di Ravello.

In tutte le città impoverite del regno di Napoli, queste reliquie di
tempi migliori provano la triste decadenza delle contrade. Due volte
furono in fiore queste regioni predilette dalla natura: la prima
nell'antichità greca, come lo attestano le rovine di Pesto; la seconda
durante le Repubbliche del medio evo, allorquando Napoli, Gaeta, Amalfi,
Sorrento, riempivano i mari delle loro flotte, ben molti anni prima che
lo spirito repubblicano, avanzo degli ordinamenti politici greci e
romani, risorgesse nell'Italia settentrionale e desse origine alle
repubbliche di Pisa, di Genova e di Venezia. Nella prima epoca furono i
Romani quelli che spensero il fiore della civiltà nell'Italia
meridionale; nella seconda epoca cominciò a venir meno sotto il dominio
dei Normanni; e quindi, a poco a poco, quelle contrade si vennero
riducendo alla misera condizione in cui si trovano attualmente. Manca
tuttora una buona storia di quelle Repubbliche dell'Italia meridionale
dal secolo VII ai tempi di re Ruggiero di Sicilia, e gli archivi di
Napoli potrebbero fornire tutti gli elementi necessari, se non fossero
chiusi, ed impenetrabili più della sfinge egiziana.[4]

Vidi intanto, mentre mi trovavo nei giardini del palazzo Ruffoli, un
meraviglioso fenomeno di luce in mare. Il sole stava per tramontare, ed
i monti di Pesto e di Salerno cominciavano ad oscurarsi, assumendo una
tinta dolce di verde cupo, mentre sopra a Pesto stava un'ampia nuvola
bianca, la quale non tardò a tingersi in rosso acceso. Si sarebbe detto
che divampasse in cielo un immenso incendio, la cui luce si proiettasse
in mare, sembrando fosse in fiamme tutto quanto il golfo di Salerno; a
poco a poco il mare assunse prima un color d'oro, quindi verde pallido,
violaceo, gialliccio, finalmente grigio, finchè vennero le tenebre.
Colpito da quegli scherzi indescrivibili di luce, non potei più muovermi
finchè fu notte.

Potrei ancora narrare molte cose di Ravello, particolarmente
dell'antico duomo edificato da Niccolò Ruffoli nel secolo XI, il quale
possiede un pulpito raro in mosaico ed antiche porte di bronzo e dove si
conserva in un'ampolla il sangue di S. Pantaleo, che bolle al pari di
quello di S. Gennaro; ma non conviene vedere tante cose, e sopratutto
descriverle molto a lungo.



                            L'ISOLA DI CAPRI



                            L'isola di Capri.


Un mese intiero ho vissuto nell'isola di Capri ed ho goduto, in tutta la
sua pienezza, la solitudine magica di quella marina. Così potessi io
riprodurre le sensazioni ivi provate! Ma è impossibile descrivere con
parole la bellezza e la tranquillità di quella romita solitudine.
Giampaolo Richter, contemplandola dalla terra ferma, ha paragonato Capri
ad una sfinge; la bella isola a me è apparsa simile ad un sarcofago
antico, fiancheggiato dalle Eumenidi scarmigliate, su cui campeggiasse
la figura di Tiberio. La vista dell'isola ha sempre esercitato su me un
vero fascino per la sua conformazione monumentale, per la sua
solitudine, e per i cupi ricordi di quell'imperatore romano, che,
signore del mondo intiero, considerava quello scoglio come sua unica e
vera proprietà.

Una domenica, di buon mattino, con un tempo stupendo, andammo a
Sorrento, in barca, e di là ci dirigemmo verso Capri. Il mare non era
meno tranquillo del cielo; le linee del paesaggio si perdevano
all'orizzonte in una luce vaga ed indecisa; Capri però ci appariva
davanti imponente, grave, rocciosa, severa, con i suoi monti selvaggi,
con le sue rupi rossastre di roccia calcarea, tagliate a picco.
Sull'altura si scorgeva un bruno castello rovinato; qua e là avanzi di
batterie e gole aperte di cannoni abbandonati, solitari, già quasi
ricoperti dal ginestro selvaggio dai fiori gialli; scogli aspri e
ripidi, in cima ai quali svolazzavano falchi di mare e uccelli indigeni,
assuefatti al sole, come dice Eschilo; in basso caverne, grotte oscure,
misteriose; sul dorso del colle una piccola città di aspetto gaio, con
case bianche, mura alte e una cupola di chiesa; più in basso ancora,
sulla zona ristretta della spiaggia, un piccolo porto per i pescatori ed
una fila di barche tirate in secco.

Suonavano le campane allorquando approdammo; una graziosa fanciulla,
figlia di un pescatore, si avanzò nell'acqua, afferrò la barca e,
tenendola ferma alla riva, ci permise di scendere a piedi asciutti.
Nello spiccare un salto sul suolo dell'isola di Capri, che io mi ero
raffigurata tante volte sotto il nordico cielo natio, mi parve di
trovarmi nella stessa mia casa. Tutto era silenzio e tranquillità; non
si vedevano che un pescatore e due ragazzi intenti a bagnarsi presso uno
scoglio, due giovanette sulla spiaggia, e tutto all'intorno rupi severe.
Ero dunque giunto in una solitudine selvaggia e romantica insieme. Da
quel punto della marina partiva un sentiero ripido e scosceso, che, fra
mura di giardini, conduceva alla piccola città. Quei giardini aperti nei
seni della rupe erano coltivati a viti, a olivi e ad agrumi, ma la
vegetazione ne era meschina, specialmente per chi ne veniva dalla
lussureggiante Campania. Anche gli alberi a Capri sembrano eremiti. Si
accede alla cittadina per un ponte di legno e per una vecchia porta,
dall'aspetto romito, in cui par che regni la pace e s'ignorino le umane
necessità. Alcuni abitanti, vestiti a festa, stavano ciarlando, seduti
sui gradini della chiesa. Parecchi ragazzi giocavano allegramente sulla
piccola piazza, davanti al tempio, che pareva fatta appositamente per i
loro giuochi. Le case, piccole, con i tetti a terrazza, avevano quasi
tutte una pianta di vite arrampicantesi per le mura. Un'angusta
stradicciuola, non mai percorsa da nessun veicolo, ci condusse alla
locanda di Don Michele Pagano, di fronte alla quale sorgeva una stupenda
palma. Anche quivi sembrava di arrivare in un eremo ridotto ad albergo
per i pellegrini.

Eravamo appena entrati nella nostra camera, che un canto, giù nella
strada, ci chiamò alla finestra. Era di domenica: una processione
strana, caratteristica attraversava il paese. Seguivano la croce uomini
e donne, quelli con cappucci bianchi, queste con bianchi veli. I
cappucci erano circondati di una corona formata di foglie di roveto
spinoso. Gli uomini ai fianchi portavano una fune, certo in segno di
penitenza. La processione era dedicata alla crittogama. Tutte quelle
teste coronate di frondi offrivano un quadro pagano: si sarebbe detta
una processione di sacerdoti di Bacco coronati di pampini e diretti ad
un tempio di Dionisio. Quasi tutti gli uomini portavano la corona di
spine, compresi quelli che non rivestivano l'abito della confraternita.
Mi colpì in modo particolare la figura di un vecchio invalido, canuto di
capelli e di barba, il quale, con quella corona, aveva davvero l'aspetto
di un satiro. Dopo gli uomini venivano le donne e le fanciulle con
bianchi veli. Le strade essendo tanto strette da dare il passaggio a
stento a due persone per volta, erano stipate da un muro all'altro.

Questa processione fu la prima cosa che vidi a Capri. Siccome poi vissi
colà felicissimi giorni e nessuna località al mondo così completamente
visitai, perlustrando ogni suo angolo più remoto, ogni sua grotta
accessibile, e posi affetto a Capri e ai suoi abitanti, voglio usare a
quest'isoletta il trattamento di quei navigatori riconoscenti, che
appendevano una tabella votiva e sotto vi scrivevano: _Votum fecit;
gratiam recepit_.

Il nome dell'isola, presso i Greci ed i Romani, era _Caprea_. Spiegando
la parola latinamente, significherebbe isola delle capre; ma altri la
derivarono dalla lingua fenicia, nella quale _Caprain_ significa due
città. I Greci la considerarono quale isola delle sirene, e tuttora un
punto della spiaggia si chiama la Sirena. Se non che, le isole delle
Sirene di Omero giacevano di fronte a Capri, verso Amalfi ed il Capo
Minerva; e quella denominata oggi Capo di Campanella, è ritenuta per
l'isola di Circe. Tuttavia, tutto il tratto di mare all'intorno è
mitologico e ricorda l'_Odissea_ ed il canto delle sirene, le quali
traevano alla rovina i naviganti, allorquando dal golfo di Posidonia si
accostavano a questi ripidi scogli, sorgenti appena sulle onde. S'ignora
di dove vennero i primi abitatori dell'isola, ma molto probabilmente
dalla terra ferma e furono i vicini Osci. Si ritiene pure che vi
approdassero i Fenici, e ad essi si è attribuita la fondazione delle due
città, imperocchè l'isola, parte piana e parte montuosa, dovette di
necessità avere due centri di popolazione. Strabone ha difatti lasciato
scritto: «Capri ebbe anticamente due città, ma ora non ne possiede che
una». Più tardi vennero i Greci nel bel golfo di Napoli, nel _cratere_,
come lo chiamano gli antichi geografi, e presero stanza lungo le coste e
nelle isole. Secondo quanto asseriscono poi Tacito e Virgilio, si
stabilirono in seguito a Capri i Telebori, gente di stirpe arcanica. Il
primo Greco signore dell'isola si chiamava Telone.

In quel periodo, circa otto secoli prima della nascita di Cristo, i
Greci si stabilirono nei due golfi di Posidonia e di Napoli, edificarono
Cuma e Napoli, s'impossessarono delle isole di questo stupendo mare, e
imposero all'alto abitato di Capri il nome che ancor oggi conserva di
Anacapri, che è quanto dire Capri superiore. Prestando attenzione al
linguaggio che oggi parlano quei di Capri, si ritrovano parole di
origine greca, e di tipo greco sono le fisonomie distinte e nobili delle
donne, di foggia greca i paramenti, l'acconciatura dei loro capelli, ed
il modo con cui dispongono il _mucadore_, sorta di velo col quale
sogliono ricoprirsi il capo. Sebbene più tardi i Romani abbiano essi
pure posseduta l'isola, tuttora, come a Napoli, in gran parte è sangue
greco quello che scorre nelle vene de' suoi abitatori e dei Greci; essi
hanno la grazia e la dolcezza che li rendono accetti allo straniero e
che rendono idilliache persino le loro nude rocce e fanno dimenticare
anche quel demone che fu Tiberio. In quell'epoca i Greci costrussero
nell'isola dei templi, dei quali rimangono parecchie vestigia. Si e
detto pure che la gioventù di Capri fosse valentissima nei ludi
ginnastici che allora si praticavano nella palestra greca.

Augusto s'innamorò di Capri, diede ai Napoletani l'isola fiorita
d'Ischia e prese possesso del classico scoglio. Narrasi che sbarcando la
prima volta su questa spiaggia, gli si annunciasse, quale felice
presagio, che un vecchio elce disseccato avesse preso tutto ad un tratto
a rinverdire, e che l'imperatore ne avesse provato cotanto piacere da
decidersi al cambio dell'isola.

Augusto, quando per gli anni gli venne meno la salute, si recava a
respirare l'aria pura della Campania. Il clima balsamico della fresca
isola, la rara bellezza naturale delle sue rupi, il carattere tutto
greco degli abitanti, gli andarono a genio ed egli si fece costruire a
Capri una villa con magnifici giardini. Sorgeva questa, secondo le
ricerche degli archeologi, in quel punto dove si trovano attualmente i
ruderi grandiosi della villa di Giove, ai quali il popolo dà di
preferenza il nome di «villa di Tiberio». La località è stupenda.
Situata nel punto più elevato della spiaggia orientale, vi si gode la
vista dei due golfi e dell'ampio mare di Sicilia. I ricordi spaventosi
di Tiberio hanno però spento nell'isola la memoria di Augusto, e non si
sa più nè dove abbia questi abitato, nè dove sia stato, nè che cosa vi
abbia fatto. Fu senza dubbio negli ultimi anni che soleva venire a
Capri. Poco tempo prima di morire, vi trascorse quattro giorni in
compagnia di Tiberio e dell'astronomo Trasillo, abbandonandosi
interamente al riposo e acquistandovi un ottimo umore, secondo quanto
narra Svetonio: «Allorquando approdò nel golfo di Pozzuoli, era giunto
pure colà un legno di Alessandria d'Egitto. I passeggeri e la ciurma
indossarono abiti candidi, offrirono sacrifici, cantarono le lodi
dell'imperatore, augurandogli lunga vita, commercio, libertà e
benessere. Questa cosa gli procurò tanta soddisfazione da fargli
distribuire alle persone del suo seguito quattrocento monete d'oro, dopo
essersi fatto promettere d'impiegarle unicamente nel fare acquisto di
merci provenienti da Alessandria. Anche nei giorni seguenti continuò a
far loro doni, particolarmente di toghe e di palli, e ordinò che i
Romani parlassero greco e vestissero alla foggia greca ed i Greci alla
romana e parlassero latino. Volle assistere pure ai riti degli Efebi e
diede loro un banchetto, cui assistè. Accordò loro facoltà infine di
portar via pomi, altre frutta ed ogni specie di doni. Si prese in una
parola ogni ameno sollazzo. Diede ad un isola vicina a Capri il nome di
Agrapopoli, a motivo dell'ozio in cui vivevano le persone del suo
seguito che colà si recavano e si compiacque di dare ad un suo favorito,
Masgaba, il nome di Ktiste, quasi lo ritenesse il fondatore dell'isola,
e nel vedere, al sorgere delle mense, circondata da una folla di lumi la
tomba di quel Masgaba, il quale era morto un anno prima, improvvisò ad
alta voce un verso greco che diceva:

     Veggo in fiamme la tomba del fondatore.

Domandò di poi a Trasillo, compagno di Tiberio, che gli stava di fronte,
se sapesse di qual poeta fosse il verso; e non avendo questi saputo
dirlo, improvvisò un secondo verso dicendo:

     Non vedi Masgaba onorato di fiaccole?

e domandò del pari di chi fosse. Ed avendo Trasillo risposto che di
chiunque fossero, i due versi erano eccellenti, l'imperatore proruppe in
uno scoppio di risa, e non cessò dallo scherzare. Poco dopo si portò a
Napoli, quindi a Nola, dove morì».

Tali sono i particolari narrati da Svetonio intorno all'ultimo soggiorno
di Augusto a Capri. Per quanto scarsi, bastano a dare un'idea della
vecchiaia serena dell'imperatore, il quale si compiaceva scherzare con
gli abitanti dell'isola. E questa serenità appare tanto più notevole,
ponendola a confronto di Tiberio, che pure a Capri invecchiò.

La piccola isola fu durante undici anni il centro di Roma e di tutto il
mondo. I tempi erano diventati cupi al pari dell'eremita che viveva su
quello scoglio; la storia stessa del mondo non era più che un cupo
monologo dell'uomo dalla testa di Medusa.

Mentre io stavo seduto sulle rovine della villa di Giove, contemplando
lo splendido golfo irradiato dal sole, il Vesuvio che fumava mi parve
quasi il Tiberio della natura, e pensai che spesso da questo punto
Tiberio lo contemplasse cupo e pensoso, ravvisando la sua stessa
immagine personificata nel demonio della distruzione. Nel contemplare il
vulcano e ai suoi piedi la fertile Campania e il mare avvolto di luce,
il monte solitario che terribile signoreggia quella felice regione mi
sembrò quasi un simbolo della storia dell'umanità ed il vasto anfiteatro
di Napoli la più profonda poesia della natura. Cupo, solitario, maligno
verso la terra beata che si stende a' suoi piedi, al pari del vulcano,
l'eremita di Capri dominava un giorno sopra il mondo intero che obbediva
alle sue leggi. L'animo suo mostruoso, invaso dal demone della
distruzione, non sognava che sentenze di morte, ruine di città,
proscrizioni, esilî. La memoria ne dura ancora nel popolo; i secoli non
l'hanno spenta giacchè più tenace si mantiene la ricordanza del male che
quella del bene. Quei di Capri danno a Tiberio il nome di _Timberio_,
come dicono _Crapi_ invece di Capri. Ad ogni passo nell'isola
s'incontrano traccie del terribile imperatore. Il vino più prezioso ha
nome _Lacrima di Tiberio_, come quello del Vesuvio porta il nome di
_Lacrima Christi_. E a dire il vero, rara cosa dovettero essere le
lacrime di un uomo qual fu Tiberio.

Appresi nell'isola una credenza popolare che mi ha profondamente
stupito. Il popolo ritiene che nelle viscere della terra, dove esistono
i ruderi della villa di Tiberio, sia sepolta una statua colossale in
bronzo dell'imperatore a cavallo e che tanto esso quanto il destriero
abbiano gli occhi di diamante. Si narra che lo vedesse un giovanetto
caduto per caso in una fessura della roccia, ma che si sia perduta la
traccia del luogo. Raccolsi questa favola dalla bocca un frate
francescano, che abita quale eremita alla villa di Tiberio e la trovai
pure riportata nel libro di Mangone sull'isola. Essa ricorda la
tradizione tedesca molto simile dell'imperatore Barbarossa, se non che
dubito assai che il popolo desideri vedere tornare in vita Tiberio. Egli
venne a Capri nell'anno XXVI dopo la nascita di Cristo, e vi dimorò
undici anni, finchè venne a morte a Capo Miseno, dove si era recato per
breve tempo. Aveva dedicata l'isola a Venere e l'aveva ornata
magnificamente di tutte le divinità dell'Olimpo. Le ville da lui erette
alle dodici divinità maggiori, i molti altri edifici, congiunti alla
forma caratteristica delle rocce, dovevano produrre un colpo d'occhio
fantastico. Oggi, rimangono ancora numerose vestigia di tutte quelle
costruzioni, e molte ancora stanno sepolte sotto terra; nelle vigne si
scorgono fra le macerie l'aperture delle volte e degli archi come
reliquie di una festa selvaggia e producono sinistra impressione, poichè
la fantasia le popola di cupe figure, bizzarre ed orribili.

Morto il tiranno, rimase deserto il teatro delle sue orgie, e la
magnificenza di Capri tramontò.

Il popolo narra che i Romani vennero nell'isola e ne atterrarono tutti
gli edifici; ma questo fatto, per dire il vero, non è confermato dalla
storia, la quale del pari non dice se i successori di Tiberio visitarono
Capri. Certo Caligola dimorò nell'isola: ivi si fece radere per la prima
volta la barba, vi vestì la toga e si formò alla scuola di suo zio.
Anche Vitellio, l'imperatore crapulone, fu da giovanetto nell'isola, e
più tardi, sotto il regno di Commodo, vi vennero mandati in esilio
Crispino, la sua consorte e Lucilla sua sorella, secondo quanto narra
Dione Cassio e come venne confermato da un bassorilievo scoperto a Capri
nel secolo scorso, bassorilievo che rappresenta le due principesse nella
mesta attitudine di chi domanda protezione.

Le sorti dell'isola divennero in seguito eguali a quelle delle spiagge
vicine. Dopo la caduta dell'Impero romano, passò, come Napoli, in
possesso prima dei barbari, poscia dei Greci, e nel secolo IX sotto la
signoria della fiorente repubblica di Amalfi, che l'ebbe in dono
dall'imperatore Ludovico.

Al principio della signoria dei Normanni sull'Italia meridionale, Capri
fu tolta agli Amalfitani dal prode Ruggero; quindi fu posseduta dai
Normanni, dagli Hohenstaufen, dagli Angioini, dagli Aragonesi, e retta
da capitani. Nel 1806 gl'Inglesi la tolsero ai Napoletani, la occuparono
in nome di Ferdinando re di Sicilia, vi si fortificarono validamente e
vi posero a comandante quell'Hudson Lowe che doveva più tardi acquistare
sì triste celebrità, come carceriere di Napoleone a S. Elena. Gl'Inglesi
tennero l'isola quasi tre anni, fino a che se ne impadronirono i soldati
di Murat con un ardito colpo di mano. Lo storico Pietro Colletta, allora
ufficiale del Genio, fu quegli che, dopo aver esplorata accuratamente
Capri, segnò il punto dove era possibile dare l'assalto; e l'isola fu
presa il 4 ottobre 1808, dopo viva lotta, ed Hudson Lowe, fatto
prigioniero, fu portato a Napoli.

Basteranno questi brevi cenni a dare un'idea delle vicende storiche di
Capri. Se non che, di tutti questi avvenimenti più recenti, nella
popolazione dell'isola si serba scarsa ricordanza. Colui che vive ancora
di più nella memoria di tutti, è il crudele Tiberio, di cui spesso, non
senza stupore, ho udito ripetere il nome terribile sulle labbra di
allegri ragazzi, intenti a giuocare. Lo si sente ad ogni istante, in
qualunque punto dell'isola; si è ormai immedesimato con questa. La
storia di quell'uomo la stringe da ogni lato, ed ha aggiunto alla natura
già di per sè severa, il carattere tragico della storia, rendendola
accetta a quanti sono capaci di apprezzare questo senso della natura,
come nella storia. Il terribile ed il piacevole vi producono un
singolare contrasto.

Le valli ridenti sono circoscritte da rupi tagliate a picco, prive di
ogni vegetazione, nude, gigantesche. Ad ogni momento s'incontrano uomini
semplici, rispettabili per la loro povertà e per la loro fede,
nobilitati dal lavoro; in essi nulla ricorda quel Tiberio che fu mostro
umano di diabolica corruzione. Il continuo contrasto che regna a Capri
mi ha sempre procurato un grande stupore. L'isola ha tante rocce nude da
dare l'impressione di un deserto; ma ha pure grande varietà di tinte,
verdura di piante e splendore di fiori. Da questo complesso di deserto e
di rocce ne deriva un insieme che ha un aspetto imponente e grazioso ad
un tempo. L'animo si sente sereno, inclinato ai pensieri tranquilli; la
solitudine invita alla vita romita. Monti, rocce, valli esercitano
un'influenza magica; racchiudono lo spirito come dietro ad
un'inferriata, attraverso la quale si può contemplare il più bel golfo
della terra, circoscritto dalle più amene spiagge.

Le somiglianze tra il suolo di Capri ed il suolo di Sicilia sono molte e
sorprendenti: la stessa tinta rossiccia delle rocce calcaree, lo stesso
quadro grandioso e fantastico di monti, la stessa vegetazione. Questa è
tutta meridionale, ma scarsa. Nelle fessure delle rocce, sulle pendici
dei monti, crescono tutte le piante delle isole meridionali di Europa ed
imbalsamano l'atmosfera dei loro profumi aromatici. Crescono colà il
mirto, il rosmarino, la ruta, il citiso, l'albatro; i roveti, l'edera,
la clematite si avviticchiano alle rovine, le ricoprono, ed il ginestro
con i suoi fiori gialli d'oro occupa tutte le alture. La più bella
pianta dell'isola, quella per avventura alla quale va debitrice del suo
nome, non è affatto il caprifoglio o piede di capra, bensì il cappero,
che sorge contro ogni muro, contro ogni rupe, che rallegra co' suoi
abbondanti fiori bianchi dai lunghi pistilli violacei. Sulle pendici
stesse, gli abitanti con grande lavoro hanno formato a forza di muri
piccoli piani, i quali costituiscono i loro campi ed i loro giardini.
Ivi crescono abbondanti tutte le piante e tutti i fiori della Campania:
gli elci, i gelsi e gli olivi; scarseggiano i pini ed i cipressi, ma vi
abbondano per contro le carrubbe, i fichi, i mandorli; vi sono anche, ma
più scarsi, i noci ed i castagni; abbondantissimi invece e di una
inarrivabile bellezza gli aranci ed i limoni, i cui frutti raggiungono
non di rado il volume di una testa di bambino. La vite non è
lussureggiante di fronde come nella Campania, ma ricca di grappoli, che
maturati da quel sole ardentissimo, producono un vino eccellente.
Quelli che poi danno alla piccola isola un aspetto tutto siciliano sono
i fichi d'India, che vi crescono in quantità enorme. La loro forma
bizzarra, africana, corrisponde meravigliosamente alla severità delle
rocce e allo splendore di quel sole tropicale.


                                  II.

Nella stessa maniera che la natura con le sue forme, con le sue tinte
contribuisce a rendere eminentemente poetica quest'isola magica,
fantastici parimenti e degni di un idillio vi appaiono gli abitanti. La
cittadina di Capri, la quale giace sopra una depressione del monte fra
le colline di S. Michele e del Castello, ha un aspetto assai
caratteristico. Le case piccole e bianche hanno i tetti a foggia di
terrazzo ricurvi alquanto nel mezzo. Sono questi per la maggior parte
ornati di vasi di fiori ed ivi si stanno la sera le fanciulle a godere
il fresco e a contemplare la vastità del mare tinto di rosa. Le case
sono attorniate per lo più da un terrazzino o da una loggia coperta o
veranda, resa più graziosa di solito da una pianta di vite e da vasi di
ortensie, garofani e oleandri. Quando il giardino è aderente alla casa,
vi dà accesso per lo più un pergolato che congiunge questo a quella.
Ciò forma il più bell'ornamento delle abitazioni dell'isola, imperocchè
consiste in un basamento in muratura a doppia fila, sul quale sorgono i
pilastri che sostengono le traverse in legno a cui si appoggia la vite.
Tutti quei pilastri e quelle colonne dànno alle case, anche alle più
povere, un certo aspetto grandioso ed alla loro architettura un
carattere antico e ideale. Si direbbero i portici di un tempio;
ricordano più di una volta le colonne delle case di Pompei.

Sorgono qua e là nei giardini alcune palme, ma la più bella è quella del
giardino del nostro albergatore, la cui casa, a paragone delle altre di
Capri, può meritare il nome di palazzo. Abitano pure fuori della città i
vignaiuoli, che sono sparsi nelle loro masserie, sulle alture od ai
piedi delle rupi, nascoste e quasi sepolte fra le viti e gli oleandri.
In tutte le casette par che risieda la felicità, la tranquillità,
v'abbia dimora la vita solitaria e romita.

I Capresi, duemila circa, sono il popolo più pacifico della terra: umani
di sensi, dolci d'indole, svegliati d'ingegno, dolorosamente poveri e
straordinariamente operosi, fanno i bifolchi, i vignaiuoli, i pescatori
e soltanto questi ultimi posseggono qualche cosa di proprio: la loro
barca e il pesce che raccolgono. Gli altri non sono in generale che
semplici fittaiuoli o mezzadri, imperocchè le masserie appartengono per
la maggior parte ai Napoletani. Il fittaiuolo paga per lo più dagli
ottanta ai centoventi ducati di fitto che deve ricavare, oltre il suo
sostentamento, dal vino, dall'olio e dalle frutta. Quando viene a
mancare il vino, come ora accade da ben tre anni, il contadino cade
nella miseria; stringe davvero il cuore vedere tutte le vigne spoglie di
grappoli e udire le lamentele di quella povera gente. Alcune donne mi
narrarono, sospirando amaramente, di aver dovuto vendere tutti i loro
ori, anelli, orecchini, segno questo della loro maggior miseria,
imperocchè soltanto in casi disperati una donna si spoglia delle sue
gioie. Qui le portano di continuo, ed è strano vedere povere ragazze
occupate ai lavori più gravi della campagna, portare grandi orecchini
d'oro e catenella d'oro al collo, cioè tutti i loro gioielli, spesso
tutto quanto posseggono.

A Capri il bestiame non è abbondante, però se ne asportano annualmente
duecento capi nel Napolitano; anche il cacio dell'isola è tenuto in
pregio. Nell'autunno e nella primavera gli isolani si nutrono in massima
parte di cacciagione, passando in quest'epoca stormi di volatili,
particolarmente di quaglie, dirette dal mezzogiorno al settentrione, e
dal settentrione al mezzodì. I poveri uccelli, spossati dal lungo
viaggio, cercano riposo su gli scogli infidi e vengono uccisi a frotte,
o presi vivi nei lacci.

L'isola, del resto, non ha selvaggina o altri animali da cacciare; non
vi sono nè volpi, nè martore; v'è soltanto una sterminata quantità di
conigli, i quali, di nottetempo, escono dalle fessure delle rocce e
rubano ai campi larga messe a danno dei poveri coloni. I conigli sono il
flagello dell'isola. Il mare è quello che procura reddito più sicuro
agli abitanti di Capri. I pescatori vi trovano pesci di ogni sorta,
persino tonni, pesci spada, murene bellissime, ma sopratutto le sardelle
e le seppie, dette volgarmente calamai. La pesca viene fatta per lo più
di notte. I pescatori escono in mare alla sera; i pesci, allettati a
salire alla superfice delle acque dal chiarore di una fiaccola, sono
afferrati da una rete sostenuta da legni leggeri galleggianti, e in tal
maniera tirati su nella barca. Tutta quanta la notte i pescatori
rimangono in mare; tornano a terra col levare del sole, pongono ad
asciugare le loro reti, ne racconciano i guasti, dormono un paio d'ore,
e quindi si alzano, pronti a ricominciare la sera. E' dura e faticosa la
loro vita, poichè il mare è spesso infido e spesso la preda d'una
intera compagnia di pescatori non raggiunge il valore di un _carlino_.
La vita animata della Marina grande, unico porto dell'isola, dove sorge
una fila di case, porge in ogni tempo uno spettacolo pieno d'interesse.
I pescatori sono uomini nerboruti, spesso di forme erculee, e le loro
figure, abbronzate ed energiche, spiccano anche pel berretto frigio che
portano costantemente. Quando il mare è agitato, è bellissimo vederli
occupati a trarre frettolosi le loro barche all'asciutto, sulla
spiaggia, una spiaggia ristretta e poco riparata dall'urto delle onde.
Le barche hanno però i loro ripari murati per quando più impetuosa
infierisce la tempesta. Stanno sulla spiaggia un centinaio circa di
barche, fra le quali tre di maggior portata, adibite pel commercio con
Napoli, dove si recano il lunedì e il giovedì, e ne ritornano il martedì
e il venerdì. Regna allora una grande animazione sulla spiaggia,
imperocchè anche le ragazze e le donne di Anacapri scendono dalla loro
altura a ritirare gli oggetti recati dalle barche. Allorquando il mare è
agitato, i pescatori più giovani si buttano in mare con la testa in giù,
come tanti marangoni: coloro che stanno nella barca cacciano loro i remi
ed i cordami, ed il peso di questa riesce per tal guisa attenuato
finchè l'uno dopo l'altro saltano tutti a terra. Giunti colà, tirano la
barca sulla spiaggia con funi, gridando a squarciagola e più possente di
tutte risuona la voce del padrone della barca, il quale comanda e regola
i movimenti dell'intera turba, piena di febbrile attività. Le donne si
affollano attorno al carico, che si compone di cibi per la vita
quotidiana, legumi, poponi, biscotti, e di oggetti di vestiario e
masserizie di casa. Giungono pure da Napoli vaghi mazzi di fiori e le
canzoni stampate di recente sulla riviera di S. Lucia. Intanto lo
straniero siede sopra uno scoglio presso la riva, ed apre le lettere
allora allora ricevute.

Quasi tutte le barche della marina appartengono a pescatori di Capri;
pochi ve ne sono ad Anacapri. La natura ha isolato questa cittadina dal
mare; essa sorge in alto, verso la metà dell'isola, alla base del
Solaro. Molti giovani robusti si recano però con quelli di Capri alla
pesca del corallo; ne partono ogni anno non meno di duecento, che si
portano per conto dei mercanti di corallo ad esercitare la loro
industria nello stretto di Bonifazio e sulle coste d'Africa. Partono
insieme e tornano in ottobre, trovando in famiglia tuttociò che il
destino ha loro preparato durante l'assenza: piaceri e dolori, fedeltà
ed oblio, nascite e morti. Quando hanno guadagnato cento ducati, si
accasano, sposando la propria innamorata. Un centinaio di ducati sono
ritenuti necessari a Capri per contrarre il matrimonio e metter su
famiglia.

Un pittore mi narrava un giorno il dialogo seguente da lui tenuto con un
giovane che gli portava il cavalletto. Il giovane disse: «Signore, avete
voi moglie?» Il pittore: «No» e il giovane: «Non avete voi dunque cento
ducati?» «Sì che li ho cento ducati». Il giovane rimase grandemente
attonito: «Come, avete cento ducati e non prendete moglie?» Ripensavo a
questo pescatore di corallo scapolo un giorno in cui una fanciulla mi
offrì alcune monete arabe, sulla salita che porta ad Anacapri; suo
fratello le aveva recate l'anno precedente dal paese degl'infedeli. Le
acquistai quale ricordo e come talismani, pensando che dovessero
riferirsi ad una storia misteriosa.

Anche sulla spiaggia di Capri si trovano coralli. Li colgono i ragazzi
dei pescatori e le giovanette che tessono poi piccole ceste di paglia,
vi pongono i pezzetti preziosi, oltre a frutti di mare e a conchiglie e,
quando v'incontrano sulla spiaggia, vi presentano le loro cestelline con
un sorriso così grazioso, che bisogna per forza fare qualche acquisto.
Tutto qui è grazioso, piacevole, in miniatura, e fa davvero piacere
osservare le ragazze nelle loro piccole case occupate a dipanare le
matasse di seta color d'oro od a tessere nastri di variopinti colori.
L'industria delle donne, sia di Capri che di Anacapri, consiste nella
coltivazione di poca quantità di seta e particolarmente nella tessitura
dei nastri. I telai sono continuamente in moto. Il cotone e la seta
vengono forniti dai mercanti di Napoli, i quali retribuiscono magramente
l'opera delle assidue lavoratrici. Esse tessono nastri di ogni colore;
bisogna vederle, intente in quel lavoro omerico, nelle loro camerette o
su i terrazzi, in mezzo ai fiori, dinanzi al mare; offrono uno
spettacolo graziosissimo ed è un piacere scambiare alcune parole con
quelle piccole Circi, dalla chioma corvina.

Sorge in Capri, sopra una collina, una casuccia solitaria, occupata da
quattro ragazze, snelle, intente senza posa a filar seta e ad
intrecciare paglia da cappelli. Le quattro fanciulle sono il fior fiore
del mondo femminile di Capri e la loro stanzuccia è il punto di ritrovo
più frequentato dell'isola. Vi si recano pure talvolta i forestieri, gli
artisti, che chiamano Dee quelle fanciulle per i continui sacrifici che
si offrono loro. Il mio albergatore le chiamava le quattro stagioni. Un
giorno io mi recai lassù; il mio occhio cadde sopra un foglio che una
delle sorelle teneva appeso al suo telaio. Rappresentava un ramo d'edera
e sotto vi stava scritto il primo verso dell'_Edipo Tiranno_ di Sofocle

                     Ôtekna, Kadmou ton neo trophê
           (O fanciulli, giovane progenie del vecchio Cadmo).

La tessitrice mi pregò di spiegarle che cosa volessero significare
quelle parole in lingua ignota; mi aggiunse di avergliele scritte un
Inglese. Le risposi che volevano dire: «Ragazza, di giorno sei il mio
fiore, di notte la mia stella». Essa sorrise soavemente e rimase
soddisfatta.

Parecchie volte avevo precedentemente osservato nelle montagne d'Italia
l'ingenuità del popolo, ma non avevo mai trovato un popolo tanto ingenuo
quanto questo. La sua segregazione dal mondo ha mantenuta la dolcezza
dei suoi costumi e la naturalezza attraente de' suoi modi. Il forestiero
viene accolto come fosse un'antica conoscenza e vi si trova come a casa
sua. Non si potrebbe immaginare un maggior contrasto di quello che
esiste tra la popolazione di Capri e quella di Napoli. Le donne non sono
tanto belle, per quanto siano piacevoli e graziose. I loro tratti hanno
sovente un qualche cosa di originale, e le linee del loro viso,
sormontato da una piccola fronte, sono regolari; il loro profilo è
spesso distinto, i loro occhi sono di un nero ardente o di un grigio
verdognolo; il colorito bruno, la foggia dell'acconciatura del capo, i
coralli e gli orecchini d'oro che portano costantemente, dànno loro un
aspetto orientale. Vidi spesso, specialmente nel paese di Capri,
fisonomie di vera e rara bellezza e nell'osservarle coi capelli
scarmigliati, gli occhi nerissimi e grandi che parevano lanciare fiamme,
sorgere nelle camere oscure dai loro telai e venir fuori, mi sembrò di
vedermi comparire dinanzi tante Danaidi. In Capri s'incontrano di
frequente figure che si direbbero staccate da una tela del Perugino o
del Pinturicchio, di una soavità incomparabile. Le donne portano,
particolarmente in Capri, i capelli disposti con gusto artistico nella
sua semplicità, scendenti al basso, e trattenuti da uno spillo
d'argento. Talvolta fissano il _mucadore_ alla testa con una catenella
ed allora hanno davvero l'aspetto di donne di paesi remoti. Il pregio
comune però delle donne di Capri, più prezioso dell'oro, sono i denti,
in tutti gli abitanti dell'isola stupendi, forse perchè non sempre hanno
di che mangiare. Bisogna vederle, quelle belle figure riunite in gruppi,
quando scendono dalla montagna, portando sul capo brocche d'acqua di
forme antiche, o ceste ripiene di terra, ovvero pietre, dal quale
faticoso lavoro traggono il loro misero sostentamento. Le donne a Capri
compiono, pur troppo, un vero officio di bestie da soma, e anche le più
belle, fra i quattordici e i vent'anni: Gabriella, Costanziella,
Mariantonia, Concetta, Teresa e tante altre, le cui fisonomie in
Inghilterra, in Francia ed in Germania sarebbero ammirate in un quadro,
portano alla spiaggia, sulle loro testine, pesi che in altri paesi
apparirebbero troppo gravi per un uomo.

Due settimane fa approdò all'isola un legno napoletano e sbarcò sulla
spiaggia un carico di massi calcarei, destinati alla ricostruzione di un
antico convento. Tutto quel pesante materiale fu, nello spazio di cinque
giorni, trasportato alla sua destinazione dalle ragazze dell'isola,
sulla testa. La strada ne è talmente ripida che, quando la percorrevo
tornando dal bagno e da questo ristorato, giungevo alla sommità ansante
e spossato di forze. Eppure io vidi una trentina di quelle ragazze
cariche dei loro macigni fare per cinque giorni consecutivi e più di una
volta al giorno la stessa strada, ed anzi, le più robuste, portare
persino due massi. Per avere un'idea del peso di quelle pietre, provai a
sollevarne una e mi ci volle tutta la mia forza per riuscire a
collocarla sul capo di una di quelle povere fanciulle, cui mi parve di
aver reso un non lieve servigio. Esse pregavano ingenuamente le persone
che incontravano per strada di dar loro aiuto in quel penoso lavoro, a
cui attendevano dal levare del sole fino a quando s'immergeva in mare,
tingendo del più stupendo colore di porpora la lontana isola di Ponza.
Le poverette, sotto la sferza del sole meridionale, per ben sedici volte
percorrevano la dura strada. Mentre raccoglievano i massi alla marina,
uno scrivano ne pigliava nota e sopra, alla Certosa, un altro li
registrava in un libro, con tutta serietà. Gabriella ne aveva portati
venti, e la bella Costanziella, poverina, non ne aveva recati che dieci!
Il loro guadagno era di circa dieci carlini al giorno. Nella loro
ingenuità, non avevano fatto nessun contratto con l'impresario, e quando
si domandava loro quanto avrebbero guadagnato in quel penoso lavoro,
rispondevano: «Crediamo un _carlino_ al giorno o tanto pane di
Castellamare di quel valore; sabbato sarà fatta la paga». In quel giorno
l'isola presentava uno spettacolo stupendo, che i pittori non
trascurarono di riprodurre sulle loro tele. La roccia calcarea di
Ercolano essendo di un bel grigio, posata sul _mucadore_ di colore rosso
di quelle teste giovanili, sostenuta da un braccio o da entrambi,
produceva un bellissimo effetto; la lunga fila delle ragazze cariche di
massi mi ricordò la figura delle antiche canofore, o meglio delle
fanciulle d'Egitto che recavano materiali per la costruzione delle
piramidi. Non potevo saziarmi dal contemplarle, dall'ammirarle. Esse
scherzavano, ridevano, sotto il grave peso, sempre allegre e graziose.
Talvolta le vedevo verso il mezzogiorno, sedute in circolo per terra,
all'ombra di una pianta di carrubba, intente a consumarsi il loro
pranzo, se pur si potevano così chiamare quelle poche prugne mature e il
loro pane asciutto. Dopo questa refezione, ciarlavano, scherzavano e
correvano a riprendere, leggere al pari di gazzelle, il loro faticoso
lavoro. Se dovessi rappresentare in un quadro la povertà tranquilla ed
allegra, prenderei a modello la figura della bella Costanziella. Dopo di
aver portato sotto la sferza del sole, una piramide di macigni al
monastero così pittorescamente collocato, sedeva la sera sulla porta
della sua casetta, deliziandosi con la musica. Mi fece udire parecchi
pezzi eseguiti con molta grazia e con rara espressione: fantasie marine,
canzoni delle sirene e della Grotta Azzurra; poesie senza parole, arie
squisite non mai udite finora e senza nome. Suonava tuttociò con una
rara perfezione, mentre i suoi occhi nerissimi scintillavano come quelli
delle sirene e la sua bruna capigliatura incolta scherzava sulla sua
fronte. Dopo aver suonato, Costanziella m'invitava col suo fare più
disinvolto ad entrare in casa ed a prendere parte alla sua cena insieme
con la mamma: mi porgeva fichi d'India maturi, che sapeva staccare con
molta destrezza col coltello dall'unica pianta che sorgeva davanti alla
casa, senza pungersi le dita della piccola mano. Non si parlò mai di
letteratura, perchè Costanziella non conosceva i nomi di Goethe, di
Schiller e non sapeva del pari che cosa fosse la letteratura francese od
inglese; le sue cognizioni letterarie non si estendevano al di là di
poche canzoni del porto di Napoli. Sua madre era una donna come suol
dirsi alla buona, ed i suoi discorsi si aggiravano per lo più intorno ai
cibi e ai mezzi di sussistenza. Costanziella non aveva mai mangiato
carne; portava sassi, si ricreava con la musica e si cibava di pane
asciutto, di patate con un po' d'olio e di sale. Rise assai di cuore una
volta che le domandai se avesse mangiato mai l'arrosto. Intanto, però,
con tutta la sua vita di stenti, essa era fresca, ricciuta quanto Ebe, o
Circe, o Diana cacciatrice, e non vidi mai nessuna più gaia di lei e
più esperta nel suonare lo _scacciapensieri_.

Ad ogni momento, a Capri, vi si domanda un grano, un baiocco, o, come
dicono, _la bottiglia_. Sono per lo più i ragazzi o le bambine che fanno
questa domanda, a cui non potrei dare il nome di mendicità, imperocchè
essi non hanno affatto l'idea di chiedere l'elemosina. Trovano naturale,
essendo poveri, di domandare a quei che posseggono qualche cosa, e
quando ottengono un rifiuto, vi fan buon viso ugualmente, dicendovi:
«Addi', signoria». Vi si domanda sempre e dovunque. Un giorno che entrai
nella scuola di Anacapri, tutta la scolaresca sorse da' suoi banchi
esclamando: «Signore, la butiglia!» e per un momento pensai che me la
chiedesse persino il maestro. Entrando poi in una casa, si è certi di
vedersi venire incontro una ragazza, la quale vi porge alcune foglie di
maggiorana od un garofano, e questo dono bisogna in qualche modo
contraccambiarlo. E' una specie di mendicità esercitata per mezzo di
fiori, ma non sempre, perchè anche senza di questi si domanda
francamente e liberamente il grano. Si possono rendere felici con il più
piccolo regalo, ed io ho visto anche adulti rallegrarsi per la più
piccola cosa al pari dei ragazzi. Nasce allora il desiderio di possedere
i tesori, anche di un solo dei liberti di Tiberio, per farne parte a
questo popolo buono e riconoscente.

Ora si parla molto nell'isola di un matrimonio. Un ricco Inglese si è
innamorato di una povera ragazza, al punto di convertirsi per amore di
lei alla religione cattolica. La bella fanciulla si trova presentemente
in un monastero di Napoli, ma nell'autunno tornerà qui gran dama a
prendere possesso della nuova casa costruita appositamente per lei sul
monte Tuoro. La sorte toccata alla bella Annarella non eccita nessuna
invidia, anzi, non si considera neanche come un avvenimento
straordinario. V'è pure a Capri un altro Inglese, che vi si è stabilito
definitivamente.

Capri è un luogo fatto apposta per gli uomini stanchi della vita; non
saprei indicarne un altro in cui coloro i quali ebbero a soffrire
dispiaceri, potessero finire più tranquillamente i loro giorni. Lo
attestano i soldati invalidi ai quali fu assegnata per dimora. Trecento
di essi, inabili alla vita militare per infermità o per vecchiaia,
occupano la caserma posta al limite estremo della città. Essi dànno
all'isola l'aspetto di un asilo: si vedono girellare in ogni angolo, o
seduti, intenti a cantare le loro canzoni. Alcuni sono veterani delle
guerre napoleoniche; altri presero parte ai fatti che seguirono la
rivoluzione del quarantotto, in gran parte ciechi. Siccome nell'isola
non vi sono nè bestie, nè carri, nè carrozze, non corrono verun
pericolo.

Nella festa di S. Anna ne ho visti una schiera aprire una processione ed
entrare in buon ordine in chiesa, ed ho ricordato il versetto biblico:
«Beati coloro i quali non vedono, ma credono». Alla sera, assistettero
al fuoco d'artificio, godendo, in mancanza di meglio, lo scoppio delle
bombe e dei razzi. In nessun posto, io credo, si deve sentire tanto la
sventura di esser ciechi, quanto a Capri, dove la natura fa mostra di
tutte le sue bellezze, di tutta la magica varietà e lo splendore delle
sue tinte! Aggirarsi in questa contrada senza il beneficio della vista,
mi è parso un'amara ironia. Quei poveri ciechi si muovono però molto e
volentieri: hanno la loro passeggiata favorita, l'unica alquanto piana,
la bella strada nella valle Tragara, in mezzo agli olivi. Ne ho visti
spesso alcuni seduti sui banchi di pietra, sotto la porta della città,
quasi spianti i passi delle persone che entrano ed escono, ed anche al
di fuori della porta stessa, dove si gode la stupenda vista da una parte
del golfo di Napoli e del Vesuvio, dall'altra delle ripide pendici del
monte Solaro e della triplice sua vetta. Nel calore della giornata
queste rupi splendono di una tinta incomparabile, ed al lume di luna si
perdono in una luce magica.

Quei poveri ciechi si dilettano pure di musica, ed ogni sera dànno un
piccolo concerto: due invalidi prendono posto sul terrazzo del
quartiere, ed uno suona la chitarra, mentre l'altro l'accompagna col
fischio. E' una musica singolare, che risuona in modo tutto particolare
nel silenzio della notte, e di frequente è accompagnata dalle voci di
un'aria melanconica. I due invalidi suonano anche al mattino, sulla
piazza, e radunano intorno tutti i compagni, quelli che vedono e quelli
ciechi, quelli che possono camminare e gli storpi. In quest'isola
innocente, perciò, la fisica infermità come la povertà, assume un
aspetto lieto, ed appare rassegnata alla sua sorte.


                                  III.

Ogni cosa a Capri porta un'impronta per così dire fanciullesca; persino
nelle fisonomie di parecchi vecchi, tanto uomini quanto donne, si scorge
questo segno caratteristico di puerilità. I ragazzi, maschi e femmine,
sono in generale bellissimi, e, sebbene crescano senza istruzione, la
loro intelligenza è straordinariamente sveglia. Portano tutti al collo
un amuleto: i bambini, piccoli corni benedetti, destinati a proteggerli
contro lo spirito maligno; i più grandicelli, una medaglia della Madonna
o un'immagine della Beata Vergine del Carmine, impressa sopra un pezzo
di stoffa. Ho visto un giorno esposto nella chiesa il cadavere di un
bambino. Era coperto di un velo bianco, ornato di fiori, ed aveva
attorno a sè mandorle inzuccherate: il poverino non ne aveva mai
assaporate in vita, perchè cotali ghiottonerie non si dànno ai ragazzi
dei pescatori che allorquando sono morti. Il cadavere fu deposto senza
cerimonie nella sepoltura nell'interno della chiesa, dove, secondo
l'usanza antica, si eseguiscono tutte le tumulazioni. Soltanto coloro
che non sono cristiani--così si esprimono per intendere i non
cattolici--vengono sepolti in qualche punto ameno e solitario della
spiaggia.

A Capri tutti si conoscono, e il forastiero non tarda del pari a
divenire amico degli isolani e a formare con quelli una sola famiglia.
Non tarda molto per conseguenza a non sentirsi più straniero, e a
considerarsi quale membro di quella specie di comunità.

La vita pubblica si concentra tutta quanta sulla piazza, presso la porta
della città; ivi si vendono i pochi oggetti che rispondono agli scarsi
bisogni della popolazione; ivi hanno luogo le feste religiose e si
radunano gli abitanti a riposarsi dell'incessante lavoro. La vita
solitaria è interrotta di quando in quando dall'arrivo di qualche
forastiero, il quale prende alloggio nella locanda di don Michele,
visita rapidamente le curiosità dell'isola, e poi riparte. Un certo
numero di forestieri si ferma però qualche tempo alla locanda, sedendo a
mensa comune, per lo più pittori, i quali formano una società
caratteristica e si vedono in ogni angolo occupati a disegnare ora una
di quelle casuccie ridenti col suo pergolato, ora qualche roccia di
forma bizzarra, ora un gruppo di alberi od una marina.

Non v'è cosa davvero più piacevole dell'aggirarsi per i colli,
dell'arrampicarsi su per gli scogli, del vagabondare lungo la riva del
mare, dove le onde mugghiano e si frangono senza posa. La tranquillità
profonda, la vista dell'ampio golfo, delle amene sue rive, delle isole
lontane, sono davvero incantevoli: si rimane lunghe ore seduti su di uno
scoglio a contemplare gli effetti mirabili e sempre vari di luce sulle
coste e sulla liquida pianura.

Voglio ora condurre il lettore attraverso l'isola, che io ho percorsa da
un capo all'altro. Ci recheremo da prima dove sorgeva Capri, l'antica
Capri, scomparsa da quando i Saraceni la distrussero. Colà, dove sorge
la rupe scoscesa di Anacapri, stanno ancora, quasi fra i giardini, i
ruderi dell'antica città e la piccola e vetusta chiesa di S. Costanzo,
l'antica parrocchia dell'isola e sede del vescovo fin dal secolo X,
Capri essendo stata innalzata a sede vescovile sotto la dipendenza
dell'arcivescovo di Amalfi. Tale rimase lino al 1799; dopo di allora, la
sede vescovile non venne più occupata e la chiesa venne ridotta a
monastero, dipendente dall'arcivescovo di Sorrento. L'oratorio di S.
Costanzo è piccolo, pesante, ed ha tutto l'aspetto di una chiesa di
campagna. All'intorno si scorgono sotterranei e nella terra avanzi di
antiche mura. Si rinvennero pure colà urne sepolcrali, bassorilievi,
monete, e si scorge tuttora, in una vigna, un grande sarcofago di marmo,
disotterrato da alcuni anni.

Del resto, le antichità scavate nell'isola, statue, bassorilievi,
mosaici, urne ed avanzi di colonne, furono parte vendute dai contadini a
vile prezzo, parte regalate a privati dagli ufficiali pubblici
incaricati degli scavi, e parte ancora trafugate di nascosto. Molte ne
portarono via gl'Inglesi, durante i tre anni che occuparono l'isola;
pochi oggetti quindi giunsero al Museo di Napoli, loro sede naturale.
In nessuna parte del mondo, io credo, si sia fatto tanto spreco di
antichità quanto a Napoli.

Gli scavi e le scoperte fatte a Pompei furono quelle che richiamarono
per la prima volta l'attenzione degli archeologi sull'isola di Capri. Il
primo, per quanto io sappia, a praticarvi ricerche fu Luigi Gilardi da
Ferrara, nel 1777, a cui tenne dietro Hadrava e, al principio di questo
secolo, Giuseppe Romanelli; vennero quindi Giuseppe Maria Secondo ed il
conte della Torre Rezzonico, i quali tutti pubblicarono scritti intorno
all'isola. Nel 1830 venne incaricato Feola di compiere altri scavi e vi
si trattenne molto tempo. Si scoprirono allora avanzi di antiche
abitazioni e parecchie sculture dell'aurea epoca romana. Scarseggiando
però la terra, gli agricoltori riempirono di bel nuovo gli scavi e ne
disparvero le tracce sotto recenti piantagioni. Molti oggetti si trovano
ancora nascosti e verranno certo un giorno in luce. Ciò che di tanto in
tanto casualmente si scopre, sono le monete degl'imperatori e i
frammenti di marmo. Nei pavimenti di Capri, nella pianura di Domecuta,
presso Anacapri, si notano molti avanzi di marmi antichi ed anche, qua e
là, si vedono adattati ad uso di soglie sulle porte delle case pezzi di
marmo con avanzi d'iscrizioni diventate inintelligibili.

Molti marmi antichi vennero parimenti impiegati nelle fondazioni delle
case e non vi è angolo dell'isola in cui non si scorgano memorie e resti
dei tempi trascorsi.

Non molto lontano da S. Costanzo, vicino al mare, su di un'altura,
sorgeva l'antica villa di Tiberio, detta oggi _Palazzo al mare_. Hadrava
vi fece praticare scavi nel 1790, e nonostante la trovasse in gran parte
devastata, vi fece però ancora scoperte importanti, fra cui due colonne
di cipollino, due di portasanta, uno stupendo capitello corinzio, oggi
esposto al Municipio di Napoli, due magnifici mosaici, passati in
possesso l'uno di un Inglese e l'altro della contessa Woronzow, e
finalmente un bell'altare di Cibele, che il cavaliere Hamilton acquistò
pel Museo britannico. Ora il palazzo presenta l'aspetto di una
distruzione completa. Gran parte delle mura rovinarono in mare, altre
giacciono disperse sul pendio dell'altura che scende alla spiaggia; si
possono scorgere però ancora le vestigia di un certo numero di sale
circolari, avanzo forse del tempio della divinità alla quale era
dedicata la villa, e sorge ancor oggi, fra tutte quelle rovine, l'avanzo
di un fusto di colonna di granito rosso orientale.

Più scarsi ancora sono gli avanzi della villa che sorgeva un dì sulla
bella collina di Castello, che sta a cavalcioni della città verso
mezzogiorno. Dal lato del mare la rupe sorge tagliata a picco, ed a metà
si apre l'apertura di una grotta. Verso terra stanno molte vigne e sulla
sommità torreggia, in istato ancora di buona conservazione, il castello
di Capri, piccola fortezza con mura merlate e torri, che dà all'isola
un'impronta medioevale. Hadrava eseguì scavi anche in questa località,
nel 1786, e vi scoprì buon numero di sale e di bagni già devastati,
alcuni pavimenti, statue, un bel vaso di marmo bianco, un bassorilievo
rappresentante Tiberio nell'atto di offrire un sacrificio, un cammeo con
ritratto di Germanico e busti di marmo e di gesso. Anche tutti questi
oggetti vennero dispersi e regalati parte ad Hamilton, al pittore
Tischbein, al principe Schwarzenberg, parte a Russi ed Inglesi ignoti.
Nel 1791 gli scavi furono nuovamente riempiti di terra. Tutte le rarità
antiche però scompaiono di fronte alla vista stupenda che si gode dalla
collina di Castello, sul mare di Sicilia, sul golfo azzurro di Napoli e
sulla rupe maestosa di Anacapri. Si vedono pure di là la rupe scoscesa
che dà a mezzodì, nonchè i tre picchi che si slanciano verso il cielo a
foggia di obelischi granitici, denominati i Faraglioni.

Ai piedi della collina, trovasi una delle località più romantiche
dell'isola, la _Marina piccola_, spiaggia angusta, esposta a
mezzogiorno, incassata nelle rocce, i cui massi rotolati in mare si
avanzano a foggia di penisola. Sorgono ivi, quasi scavate nella roccia,
due casette solitarie di pescatori; in quel punto la spiaggia può
ricettare a mala pena due barche. Seduto colà, uno si può credere solo
al mondo. Il golfo di Napoli, le sue spiagge, le sue isole, le sue vele,
sono scomparse quasi non esistessero; la vista spazia unicamente
sull'immensità del mare nella direzione della Sicilia e più lontano
dell'Africa. Non si vede che acqua, e la fantasia può trasportarsi
ugualmente a Palermo, a Cagliari ed a Cartagine. Non si hanno
all'intorno che nude rocce, scogli deserti, caverne che si aprono sulla
riva ad ambo i lati; a destra il capo Marcellino, rupe erta gigantesca,
la quale si avanza in mare; a sinistra, dentellato e merlato, come un
castello antico, il capo Tragara, ed in vicinanza a questo i Faraglioni,
scogli giganteschi, inaccessibili, d'oltre cento piedi di altezza,
emergenti dal mare come piramidi, di forma conica, uno levigato, l'altro
frastagliato in modo fantastico e bizzarro. La loro ombra si estende sul
mare, a cui dà un aspetto melanconico. Più in là si apre in uno scoglio
l'arco di una caverna, in cui possono entrare anche le barche, e sulla
loro sommità, agitati dal vento, ondeggiano vaghi arbusti e piante
selvatiche. Di tanto in tanto l'alcione che ammaestra la giovane prole
al volo, fa udire il suo rauco grido. Non si può fare a meno di
ricordare il passo del _Prometeo incatenato_ di Eschilo e par quasi che
all'orecchio giunga lo sbatter d'ali delle Oceanidi e l'eco dei loro
canti. Più di una volta, di buon mattino, io son rimasto ad ascoltare il
canto degli uccelli marini quando scendono sugli scogli e svolazzano
sulle onde, ed alla sera la loro voce m'è apparsa più lamentosa, simile
al suono delle arpi eoliche, che riportano inconsciamente ai desiderî
del passato. Sapevo che su i Faraglioni si trovano pure alcioni venuti
dall'isola di Ustica e dalla grotta d'Alghero in Sardegna, e se io
avessi avuto vent'anni di meno, avrei domandato loro di portarmi in
quella rara grotta, o nella foresta di Milis, dove cinquecento mila
piante di aranci fan mostra dei lor fiori e dei lor frutti, e dove notte
e giorno risuona il canto dell'usignolo. Colà mi avrebbero potuto
deporre un mattino, ai piedi della pianta di aranci più alta d'Europa,
grande quanto un'elce, dove il marchese Boyl fa ai suoi ospiti gli onori
della sua villa.

Sono sogni, è vero, ma chi può rimanere qualche istante sulla Marina
piccola di Capri senza lasciare sciolta la briglia alla propria
fantasia? La solitudine e l'aspetto deserto della spiaggia sono magici,
in ispecie nel silenzio della notte, al lume di luna, quando non si ode
altro che il frangere delle onde che incessantemente si succedono le une
alle altre, quando gli scogli e i capi si perdono nell'ombra, e le
fiaccole delle barche pescherecce ora brillano sulla superficie del
mare, ora scompaiono. Pochi sono i pescatori che tengono ivi le loro
barche: io li ho visti seduti sulla sabbia bianca, intenti a racconciare
le reti, silenziosi, immersi in profondi pensieri come gente che sa
mirabili cose delle profondità marine e delle sirene che vi abitano. Uno
degli scogli porta appunto il nome di scoglio delle Sirene.
L'immaginazione del popolo sa sempre dare ai luoghi le denominazioni che
più vi si adattano; certo, sarebbe impossibile trovare in Capri un luogo
migliore per collocarvi le Sirene. Quivi si possono passare lunghe ore a
godere la brezza marina ed a contemplare gli effetti di luce sul mare:
tutto è tranquillo e tutto risplende; scintillano le onde, e gli scogli
nel calore della giornata; non si ode altro che il canto monotono delle
cicale. Luce, aria, profumi, tutto vive sotto il regno dell'armonia, e
l'animo si inebria di solitudine.

Tra la Marina piccola ed i Faraglioni, si apre una delle più vaste
grotte dell'isola, la grotta dell'Arsenale. L'acqua non vi penetra,
perchè trovasi entro terra. Vi si scorgono vestigia di costruzioni
romane. Il suo nome dice già che dovette un tempo servire di magazzino
alla gente di mare, se pure non fu un ricovero per le galere di Tiberio,
imperocchè la sua entrata è abbastanza grande per dar loro accesso, e
sono tutt'ora visibili le impronte dello scalpello che l'allargarono e
resero più regolare. Il punto della spiaggia dove essa si trova, porta
il nome di Unghia Marina, ed ivi pure, tanto al mare quanto in alto, si
scorgono vestigia di antichi muri. Anche al capo Tragara, presso il
quale sorgono in mare i Faraglioni e lo scoglio detto il Monacone, si
scorgono avanzi di antiche mura; difatti ai tempi di Tiberio ivi era un
piccolo porto, cui probabilmente si accedeva per una strada coperta
dalla villa sorgente sul monte Tuoro.

Al capo Tragara si può discendere a terra dalla barca e salire sul monte
Tuoro, dal quale si scopre un bellissimo panorama. Sorge colà, sopra un
antico muro, un telegrafo aereo; è una particolarità dell'isola che
quasi ogni punto elevato sia occupato da un solitario, da un monaco o da
un ufficiale telegrafico. Quello del monte Tuoro abita una piccola casa
bianca. La sua stanza ha due piccole finestre ed in ognuna trovasi
fissato un telescopio. L'ufficiale telegrafico, piccolo vecchietto dalla
vista stanca, sta seduto ad un tavolo collocato fra le due finestre, sul
quale tiene aperto un voluminoso registro. Ad ogni istante sorge dalla
sua sedia, va all'una o all'altra finestra, pone l'occhio ai due
cannocchiali, quindi torna a sedere, con tranquillità filosofica,
dinanzi al suo registro, per portarsi di nuovo dopo pochi istanti alle
finestre; e questo dura dalla mattina alla sera. Il suo cane sta seduto
avanti alla porta e spia esso pure il mare, ma... senza cannocchiale. In
cima al Solaro, sopra Anacapri, dimora un altro ufficiale telegrafico
per la segnalazione dei legni che compaiono nel mare di Sicilia.
Allorquando scorge qualche cosa degna di osservazione, la comunica al
suo collega del monte, il quale ne dà avviso all'ufficio telegrafico di
Massa, che si trova al di là dello stretto di mare, sul promontorio
della Minerva; questi manda l'avviso a Castellamare, e di là lo si
trasmette infine a Castello S. Elmo di Napoli, da dove la notizia viene
tosto spedita al palazzo reale, vera sede di novello Atreo. L'ufficiale
telegrafico del monte Solaro è quegli che dà origine a tutto questo
movimento. Quando io lo vidi intento al suo ufficio di vigilanza, mi
venne in mente la sentinella del castello di Atreo, nell'_Agamennone_
d'Eschilo, che sta aspettando la fiammata che deve annunciargli la presa
di Troia:

                    Theous men aitô ton apallagen ponon
        (Supplico gli Dei di volere por termine alla mia fatica).

e mi sovvennero pure i versi di Clitennestra, quelli che descrivono con
rara evidenza il modo di trasmissione dei segnali con le fiammate. La
fiamma si accendeva sul monte Ida, giungeva su quello di Lemno, arrivava
al monte Athos dedicato a Giove, e, varcando le onde dell'Euripo,
svegliava il guardiano di Mesapio, passava il fiume Asopo, giungeva
sulla rupe di Ciotaro e, per lo stretto di Gargopi, per la vetta di
Agiplanco, per il mare Saronico e per la rupe Aracnea, arrivava
finalmente al castello degli Atridi.

Se i Greci avessero comunicato con Troia per via di un telegrafo
elettrico sottomarino, saremmo privi del piacere di leggere nei versi
stupendi di Eschilo una descrizione così vivace piena di verità.

Era venuta intanto la sera. L'ufficiale telegrafico del monte Solaro
fece un segnale, che quello del monte Tuoro trasmise tosto a Massa.
Domandai che cosa volesse esso significare. «Oggi nulla di nuovo», mi
rispose tutto soddisfatto il vecchietto; si stropicciò gli occhi, pose
in ordine i suoi istrumenti, diede un fischio al suo cane e cominciò a
scendere dal monte. Egli abitava in Anacapri, ed ogni sera doveva
discendere cinquecento sessanta gradini, per risalirne il mattino
appresso altrettanti. Da dieci anni egli compie quel solitario ufficio,
compresi i giorni di feste, compreso quello di Pasqua: si potrebbe
dunque calcolare matematicamente quante centinaia di volte il brav'uomo
abbia fatto l'ascensione del Chimborazo, e ciò per la paga di trenta
carlini al giorno!...

Ad eccezione di questo guardiano, che mi ricordò Eschilo, non ho trovata
alcuna antichità sul monte Tuoro. Però, anche su quell'altura Tiberio
ebbe una villa. Fra il monte Tuoro e quello di Castello, scende al mare
la valle Tragara, tutta coltivata a viti e ad olivi. Giace in questa
l'edificio medioevale più ragguardevole dell'isola, la Certosa, ora
deserta, ma un giorno abitata dai monaci dell'ordine di S. Bruno. Occupa
questa un grande spazio; la sua architettura originale, i suoi portici,
i suoi i campanili bizzarramente istoriati, le sue terrazze, i suoi
tetti fatti a volta, sorgenti in mezzo alla verzura e specchiantisi in
mare, le dànno un'impronta tutta magica, che è appunto la caratteristica
dell'isola.

La navata angusta della chiesa senza cupola è parimenti l'unico edificio
di Capri che possegga un tetto a forma gotica ricoperto di tegole. Le
sue linee, delicate e nette, offrono un vivo contrasto coi tetti a volta
delle celle e coi portici ad arco tondo del cortile. Nell'interno, la
chiesa è semplice, ed ha solo qualche affresco sulle mura. Entrando,
tutto l'insieme produce una favorevole impressione. Le celle sparse qua
e là, le piccole corti, i giardini deserti ed invasi da lussureggiante
vegetazione, dànno al monastero abbandonato l'aspetto di un laberinto
romantico. La Certosa è dedicata a S. Giacomo e venne fondata nel 1363
dal nobile caprese Giacomo Arcucci. Sua moglie era rimasta sterile al
par di Sara ed egli aveva fatto voto di fondare un monastero se Dio gli
avesse _concesso_ un figliuolo; la preghiera fu esaudita e il gentiluomo
mantenne la promessa facendo edificare il convento sul disegno della
stupenda Certosa del Vomero a Napoli, dedicata a S. Martino; e nel 1374,
terminato l'edificio, vi chiamò i padri di S. Martino. Col tempo, la
Certosa diventò ricca e le migliori terre dell'isola passarono in sua
proprietà. La Repubblica Partenopea però la soppresse, fondendola con i
due conventi di Toresiani, che si trovavano pure nell'isola, e
incamerandone gli averi. Ora, questi son venuti in possesso della
cattedrale d'Ischia e la povera popolazione di Capri va soggetta alla
grande ingiustizia di vedersi tolte le sue terre migliori per arricchire
il clero ozioso di un'isola straniera. Durante l'occupazione inglese, la
Certosa fu il quartiere generale di Hudson Lowe, ed anche i Francesi
l'adibirono ad usi militari. Oggidì vi ha sede un ospedale militare.


                                  IV.

Anche nella valle Tragara esistono avanzi di antiche costruzioni. Gli
archeologi pretendono che ivi esistessero l'antico collegio degli Efebi
e la villa Giulia, eretta da Augusto in onore della figlia sua
dilettissima. Ivi sorgeva pure la Sellaria, quella vergognosa villa di
Tiberio, dedicata alla Venere impudica, che, secondo Svetonio, era
ornata delle imagini più oscene. Tali congetture però hanno poco
fondamento, perchè è facile riconoscere la destinazione di tutti quegli
avanzi di mura denominati camerelle e che corrono in una linea ad arco
sul Tragara fino al di là del Tuoro. Portano il nome di camerelle come
alcuni avanzi della Villa Adriana a Tivoli, e sono costruite parte di
roccia calcarea dell'isola, parte di mattoni. Nella loro fronte
esteriore presentano una serie di camere, le cui volte sono in parte
ancora in piedi. Rosario Mangone afferma che queste camerelle
sostenessero una strada che doveva portare alla villa di Tiberio e si
divideva in tre rami: l'uno diretto al monte Tuoro, l'altro alla villa
di San Michele, il terzo alla villa di Giove.

Sopra le camerelle sorge la collina di S. Michele, una delle più
graziose dell'isola, e da cui si gode la vista stupenda della
sottostante città. A cavallo di questa s'innalza il forte Castello,
sopra le ripide pendici del Solaro, e ai due lati si aprono vallette
ricche di vegetazione che scendono al mare ceruleo. La stupenda
posizione di questo colle dice da sè che lassù doveva sorgere uno dei
palazzi di Tiberio. Si vedono infatti ai piedi del monte rovine
grandiose ed una serie di volte che sostenevano senza dubbio la strada
che portava al monte. Sulla sommità stanno giardini, case di
agricoltori. Percuotendo col piede il suolo, questo manda un suono cupo,
il che indica chiaramente esservi al disotto delle volte, di cui, del
resto, ancora oggi si scorgono gli avanzi ad opera reticolata. In una
di queste stanze io scoprii tracce di un'antica cappella dedicata a S.
Michele, _da cui il monte ha preso il nome_. Oggi sorge solitaria sulla
collina una chiesetta del santo, curiosa assai per la sua architettura
moresca: circondata com'è da un muro, sulla roccia deserta, ricorda i
templi della Mecca.

Si fecero pure scavi sul monte di S. Michele, ma le ricerche diedero uno
scarso risultato. Gli agricoltori ridussero tutto il terreno d'intorno a
terrazzi piantati ad olivi, e le case della città sono addossate al
monte in guisa che da questo si può scendere benissimo su i tetti. Una
sera, difatti, presi questa strada per rientrare in città e passando da
un tetto all'altro, riuscii ad entrare in casa mia.

La costa orientale dell'isola s'innalza ripida sul mare per un'altezza
di novecento settanta piedi, di guisa che la villa di Giove trovasi al
punto più elevato della spiaggia, d'aspetto veramente selvaggio.

Scendendo dal Tuoro per la piccola valle di Matromania, verso la
spiaggia a mezzogiorno, si giunge ad un punto in cui la costa si apre in
uno spazio circondato da rupi tagliate a picco, dove regna una
confusione fantastica di scogli, uno dei quali, aperto a foggia di
portico, ha nome d'Arco Naturale. Questo è il punto più solitario
dell'isola. Ai piedi giace il cupo mare, in alto si scorge il cielo
limpido ed azzurro, tutto all'intorno stanno rupi rossastre, e la vista
si estende fino al capo di Minerva, ed alle spiagge di Amalfi e di
Salerno.

Scendendo per un ripido sentiero, si giunge alla grotta enigmatica di
Matromania, piena di rovine, ed a cui si accede per un ampio arco, che
dà in una caverna larga circa cinquantacinque piedi e profonda circa
cento. La grotta è opera della natura, ma la mano dell'uomo l'ha
migliorata: tanto all'ingresso quanto nell'interno si vedono difatti
ancora avanzi di mura romane. Dentro stanno disposti a forma di
semicerchio due rialzi bianchicci, dei sedili; alcuni gradini portano ad
una nicchia, dove probabilmente stava la statua del nume.

Tutto là fa pensare che la grotta sia stata ridotta ad uso di tempio. Il
nome di Matromania, che il popolo con innocente ironia ha convertito in
quello di _Matrimonio_, quasi Tiberio avesse celebrato ivi le sue nozze,
si pensa che derivi da _Magnae Matris antrum_, oppure da _magnum Mithrae
antrum_.

Si dice che il tempio fosse dedicato a Mitra, non tanto perchè il dio
persiano del Sole fosse venerato nella caverna, quanto per essersi
scoperto in questa uno dei bassorilievi rappresentanti il mistico
sacrificio di Mitra, tanto numerosi nel museo Vaticano. Io ne ho visti
due negli Studi a Napoli, uno dei quali venne scoperto appunto in questa
grotta, l'altro nella grotta di Posillipo. Rappresentano Mitra in
ginocchio dinanzi al toro, nell'atto di piantargli il coltello nel
collo, mentre la bestia viene ferita da un serpente, da uno scorpione e
da un cane. Non è addirittura inammissibile che la grotta fosse dedicata
a Mitra, essendo anche adatta al culto del sole, la sua apertura
guardando verso oriente. Dalla sua profondità io potei vedere il sole
che nasceva, imporporando i lontani monti ed illuminando il mare. La
posizione romantica e selvaggia della grotta, le rovine dell'antico
tempio, il culto mistico di Mitra, il profondo silenzio, la luce
crepuscolare, lo stillare dell'acqua a goccia a goccia, e infine la
vista stupenda del mare e della campagna, tutto contribuisce a produrre
una profonda impressione di mistero, anche su chi nulla sa del culto di
Mitra e della vita di Tiberio. In questa caverna misteriosa fu fatta la
rara scoperta di una tavola di marmo con la seguente iscrizione in versi
greci: «O regione dello Stige, spirti propizi che qui avete la vostra
stanza, accogliete me pure, infelice, che morte repentina colse nel
fiore degli anni e dell'innocenza. Me pure aspettavano i favori di
Cesare; ma ora per me, per i miei genitori, non avvi più speranza. Non
avevo ancor raggiunta l'età nè di venti, nè di quindici anni: non godrò
più la splendida vista del sole. Ipato fu il mio nome. Fratello, io mi
rivolgo ancora a te! Genitori, ve ne scongiuro, non piangete più a lungo
me poveretto».

A quale orribile fatto possono alludere le parole misteriose di questa
iscrizione? Vi è in questo un romanzo di Capri. La storia del povero
Ipato è ignota, ma si può facilmente indovinare. In un'ora indemoniata,
Tiberio sacrificò al sole il suo favorito, un giovanetto, qui, in questa
caverna, davanti all'imagine del Dio, nella stessa guisa che più tardi
Adriano sacrificò al Nilo il bellissimo Antinoo. In quei tempi i
sacrifici umani, sebbene non frequenti, erano ancora in uso e venivano
dedicati per lo più a Mitra.

Se questa grotta, questi scogli potessero parlare, quanti orrendi fatti
dell'antichità noi apprenderemmo! La tradizione accenna a questa
selvaggia riva, quale sito prediletto di Tiberio e quale teatro delle
immani sue crudeltà. E' il luogo più diabolico dell'isola; procedendo
sulla spiaggia, verso mezzogiorno, si arriva ad un punto denommato
Salto di Tiberio. La riva cade ivi a picco sul mare dall'altezza di più
di ottocento piedi. Si dice che di là il mostro precipitasse le sue
vittime. Narra Svetonio: «Si fa vedere in Capri il punto dove Tiberio
spiegava tutta la sua crudeltà, facendo precipitare in mare alla sua
presenza le vittime, dopo averle a lungo martoriate con ogni sorta di
tormenti. Cadevano in mezzo ad una squadra di marinai, i quali le
percuotevano barbaramente con bastoni e con i remi, fino a tanto che non
fosse spento in esse ogni alito di vita.» Doveva essere per dir vero un
piacere diabolico quello di precipitare disgraziate creature da
quell'altezza, vederle balzare di scoglio in scoglio, ed udire il tonfo
dei loro corpi in mare.

A pochi passi dal Salto crudele, sorge ora una casetta, sulla cui porta
sta scritto _Restaurant_. Nella stanza trovasi ad ogni ora apparecchiata
una tavola con frutta, pane ed un fiasco di _lacrime di Tiberio_.
L'albergatore ha fatto costruire sul margine del Salto un piccolo muro
ed offre così di che ristorarsi, a chi piace, sul teatro stesso di tanti
orrori.

Si passa da questa casa per arrivare all'antico faro di Capri, il quale
non dista che una trentina di passi dal Salto. Questo faro è in gran
parte rovinato ed i suoi neri avanzi vennero alcuni anni or sono
colpiti dalla folgore. I materiali giacciono all'intorno dispersi fra le
vigne. Si trovano ancora in piedi avanzi di mura e di vòlte, le quali
bastano a far comprendere che il faro era un edificio ampio e notevole,
che poteva benissimo competere con quello di Alessandria e con quello di
Pozzuoli. Il poeta Stazio in un verso lo paragona alla luna, splendore
delle notti. Svetonio narra che quella torre fu atterrata da un
terremoto pochi giorni prima della morte di Tiberio; ma dopo di allora è
da ritenersi che sia stata ricostruita, altrimenti Stazio non ne avrebbe
potuto far parola. Attualmente la sua altezza non supera i sessanta
piedi.

Nel 1800 Hadrava fece in quel luogo eseguire scavi e vi rinvenne avanzi
di un piano sotterraneo, alcuni marmi ed anche un bassorilievo, che
rappresentava Lucilla e Crispina in atto di pregare.

Dal faro, salendo ancora pochi passi, si arriva alla rinomata villa di
Giove, la quale, secondo Svetonio, era propriamente l'abitazione
ordinaria di Tiberio; anzi, il tiranno, dopo l'esecuzione di Seiano, vi
si tenne rinchiuso per ben nove mesi, per il timore di una congiura. Le
rovine che si scorgono al capo della spiaggia a settentrione-levante
dell'isola, appartengono alla villa: lo confermano la tradizione, la
quale addita quella località come la più importante dell'isola;
l'estensione del palazzo, le cui rovine sono le più importanti di tutta
Capri, e la natura delle costruzioni, appartenenti all'epoca migliore
dell'architettura romana.

Uno può aggirarsi colà in un vero laberinto di volte, di gallerie
sotterranee, di infinite stanze, in massima parte ridotte poi ad uso di
cantine e di stalle per il bestiame. Giacciono qua e là dispersi sul
suolo capitelli, piedistalli, fusti di colonne, frammenti di marmo;
alcune stanze presentano ancora avanzi di stucco e in qualche punto si
osservano tracce di pitture gialle e rosse, simili a quelle di Pompei.
Sul suolo sono pure frammenti di pavimenti a mosaico di marmo bianco,
inquadrati da una fascia nera, come pure sono tuttora visibilissime le
scale che portavano ai piani superiori.

Sembra che la villa avesse parecchi piani; l'inferiore è intieramente
sepolto sotto il suolo. Nel piano superiore invece si può ancora
riconoscere la distribuzione delle stanze, e, dal lato verso il mare, la
pianta di un semicircolo, probabilmente di un teatro. In altro punto,
nicchie e mura circolari dimostrano l'esistenza di un tempio. La villa
riuniva in sè tutto quanto apparteneva allo splendore della vita
principesca di allora, ed essendo stata così a lungo la sede della corte
imperiale, doveva, prima che Nerone ed Adriano innalzassero i loro
sontuosi palazzi, sorpassare in bellezza tutte le altre ville romane.
Certo contribuiva a renderla ancora più bella la sua incomparabile
posizione sul mare e la vista dei due golfi. Da questo punto Tiberio
dominava tutta l'isola come un avvoltoio e scorgeva anche le navi che
traversavano il golfo, provenienti dall'Ellade, dall'Asia, dall'Africa,
o da Roma.

Più bella però doveva essere la vista dell'isola dal mare, veleggiando
fra Capri ed il capo di Minerva e contemplando i palazzi marmorei, il
faro ed i templi, imperocchè Tiberio, in cima ad ogni vetta, aveva
innalzata una torre, od un tempio, fra cui quelli famosi di Minerva,
delle Sirene e di Eracleo.

Rimasi lunghe ore seduto sulle rovine, cercando raffigurarmi l'antica
Capri. Pensavo che dovesse essere stupenda con ogni sua sommità coronata
da un tempio, con i suoi portici, teatri e ville e le strade popolate di
tutto quel mondo romano, dalla corte di Cesare, da senatori, da
ambasciatori d'ogni parte del mondo, dalle più belle donne della Ionia,
delle Etari seducenti dell'Asia, da squadre scapigliate di baccanti, da
ninfe, da dee, da tutto un popolo di figure mitologiche. Qui regnava
Bacco, e la sua corte era composta di baccanti e di satiri.

Il lungo soggiorno di Tiberio a Capri non fu che una satira dell'uman
genere e probabilmente la più terribile: si può facilmente indovinare
contemplando i tratti del principale attore, giacchè a Napoli esistono
busti e figure colossali di Tiberio. Il suo miglior ritratto però
trovasi nel Museo Vaticano a Roma; quelli di Napoli lo rappresentano già
avanzato negli anni; quello di Roma, al contrario, nel fiore della sua
giovinezza, probabilmente perchè la maggior parte dei busti disotterrati
ad Ercolano ed a Pompei appartengono all'epoca del suo soggiorno in
Capri. Nella galleria Chiaramonti del Museo Vaticano esiste la sua
figura colossale, scoperta a Veia, in cui è rappresentato giovane,
divinizzato, ma con i suoi lineamenti reali. La sua testa appare
intelligente, ben formata, la bocca regolare e di una finezza
indicibile; tutti i suoi lineamenti giovanili hanno qualche cosa di
dionisiaco ed anche le forme del corpo sono piene, voluttuose, in certa
guisa femminili.

Questo mostro reale era, al pari di Cesare Borgia, l'uomo più bello de'
suoi tempi, e, fra tutti gl'imperatori romani, Augusto solo fu di
bellezza più classica. Non si dimentica la figura di Tiberio dopo averla
veduta una sola volta; ognuno si aspetta di trovarsi dinanzi un mostro,
una specie di demone, ed invece rimane addirittura stupito dalla
bellezza de' suoi lineamenti feminei, che gli dànno piuttosto l'aspetto
di un Sardanapalo. Soltanto con gli anni la bocca acquistò
un'espressione di sarcasmo, d'ironia, e tutta la sua fisonomia qualche
cosa di duro, di crudele e di volgare insieme, come si rivela nella
testa colossale di Napoli e nel suo busto in Campidoglio. Volendo avere
una rappresentazione plastica della scelleratezza bestiale, fa d'uopo
contemplare la testa diabolica di Caracalla, che è la rappresentazione
più perfetta di un carattere diabolico a cui sia potuta giungere la
scultura. Ritengo che quell'uomo scellerato fosse davvero tale e quale
la storia ce lo ha descritto. Fu il solo monarca, dopo Augusto, che
abbia regnato con le forme repubblicane. Ebbe in retaggio un popolo
divenuto spregevole, e trovato un mondo pessimo e proclive ad ogni sorta
di abbiettezza vi si abbandonò interamente. Caligola vaneggiava di
divenire il padrone del mondo e la sua potenza durò pochi anni. Egli che
avrebbe voluto sorbirsi il mondo come si sorbe un uovo, fu un giorno
atterrato dal caso, con tutti i suoi godimenti, che non eran che pazzie.

Dopo le guerre civili e dopo Augusto, regnò un silenzio spaventoso nella
storia del mondo e quella fu l'epoca più cupa dell'umanità. Augusto fu
grande e felice perchè aveva dovuto conquistare la sua signoria; i suoi
successori, invece, furono miseri per non aver più nulla da conquistare.
Venuti ad un tratto in possesso di un dominio già affermato, non seppero
quale impiego fare del loro tempo, imperocchè anche i piaceri diventano
insopportabili quando non l'interrompono il lavoro e le difficoltà.
Caligola nella sua pazzia volle gettare un ponte sul mare; Claudio fu un
pedante; Nerone incendiò Roma, e mentre questa era in fiamme suonò la
cetra; faceva versi e voleva aver fama di abile guidatore di cocchi, e
di commediante. In quel periodo di generale sonnolenza del genere umano,
noi troviamo l'uno dopo l'altro, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone,
demoni e scellerati: la storia taceva.

Sarebbe però mostrarsi ingiusti con Tiberio confondendolo co' suoi
successori, i quali furono soltanto scellerati volgari, senza pudore e
senz'ombra di vergogna nel rivelare la loro bestiale natura; Tiberio,
superiore per ingegno alla sua epoca, fu uomo fiero, diplomatico, della
scuola dell'ipocrita Augusto. Tutta la sua fisonomia rivela la finezza,
la dissimulazione, particolarmente il taglio della sua bocca gesuitica,
la bocca più perfetta di diplomatico che la natura abbia creato: si
direbbe che pronunci la sentenza di Talleyrand, che, cioè, la parola fu
data all'uomo per nascondere i suoi pensieri. Infatti poi sappiamo da
Tacito quanta fosse l'arte di Tiberio nel parlare: egli fu veramente
l'inventore della grammatica e della logica diplomatica. Non prometteva,
non giurava, non mentiva: egli era un impasto di menzogna continua.
Quanto sembrano grossolani, di fronte a questo despota finissimo e
signore classico della storia nuova, quegli avventurieri venuti in
possesso di un trono e quei re che rompono pubblicamente i loro
giuramenti! Tiberio, certamente, li avrebbe cacciati, con un sorriso di
disprezzo, fra i suoi liberti. Quest'uomo non lasciò immaginare, nemmeno
una sol volta, che cosa avesse in animo di fare governando, non col
mezzo ruvido dei colpi di stato, bensì padroneggiando sopra gli
avvenimenti. Non lasciò mai trapelare nè la sua volontà, nè i suoi
disegni; basta ricordare la caduta di Seiano.

Il proscritto dell'isola dell'Elba prese una volta a difendere
calorosamente il carattere di Tiberio contro le accuse di Tacito e della
storia. Dopo di aver ridotta la diplomazia di Augusto a sistema del
gesuitismo il più raffinato, Tiberio, compiuta la sua opera e sazio
della vita, si ritirò in quest'isola per distrarsi con i piaceri
materiali, e non lasciò venir meno il terrore che aveva incusso fin dal
principio del suo governo, e provò i piaceri di ogni sorta. L'umana
natura però è costituita in modo che non può godere in una volta poca
parte di piaceri, e ciò lo dimostrano lo scoglio di Capri e la villa di
Giove, nella quale erasi ritirato il signore del mondo che considerava
questi luoghi come una specie di esilio. Fa orrore il pensare alle scene
di cui furono testimoni queste mura, agli eccessi di rabbia di un animo
che non conosceva più freno di sorta. Là dove risuonarono un giorno le
armonie dei flauti della Lidia, e splenderono i sorrisi di donne
superbe, mugghiano ora le mandrie dei poveri contadini. A tanto vennero
ridotte le sale di Tiberio. L'edera, i fichi d'India, le malve, le rose,
le cinerarie e il melagrano riempiono della loro vegetazione
lussureggiante le stanze in ruina. Pendono dall'alto i festoni delle
viti, discendenti dall'antico Bacco di Capri, quasi fossero gli spirti
di quelle etère che quivi praticavano, un tempo, alla presenza di
Tiberio, le loro danze oscene.

Sorge attualmente fra le rovine, sul punto più elevato della villa, una
cappella dedicata a S. Maria del Soccorso. Vi abita un eremita. Nessun
luogo mi è apparso più adatto per la penitenza, dei ruderi della villa
di Tiberio, sotto il regno del quale, e durante il suo soggiorno in
Capri, venne Cristo posto in croce. La cappella sorge quivi, come il
cristianesimo stesso, sulle rovine del mondo pagano. Questa coincidenza
è singolare, e pochi luoghi, io credo, possono ritenersi adatti del pari
alla meditazione. Qui si presentano contemporaneamente all'immaginazione
due figure rappresentanti i due periodi della storia del genere umano:
ad occidente, il demone canuto, Tiberio, signore della terra,
rappresentante del mondo pagano che sta per tramontare, ed immagine di
tutti i mali; ad oriente, la figura giovanile dell'uomo Dio, di Cristo
appeso alla croce, circondato di profeti ispirati di una rigenerazione
novella dell'umanità. Queste due figure sorgono una di fronte all'altra,
come Arimano ed Arzmud, il Dio della luce e quello delle tenebre. Come
non ricordare qui la figura di Giovanni di Patmos, inondata di luce
accanto alla quale l'aquila di Giove compare tutt'ora come simbolo
pagano?

Seduto sopra quelle rovine, in mezzo a tali pensieri, nella meditazione
del cristianesimo primitivo, vidi tutto ad un tratto il rappresentante
storico di quella religione ideale nella persona dell'eremita, sudicio
frate francescano, e poco mancò non mi ritraessi dallo spavento. Era un
vecchio monaco, dalla lunga barba bianca, vestito di una tonaca nera,
zoppo, brutto, con due occhi da falco. Mi parve che sorgessero davanti a
me Tiberio o Mefistofele, e mi dicessero, con sorriso beffardo:
«Redivivo! soltanto mutato d'aspetto». Tale è la storia del
cristianesimo.

Il vecchio frate mi condusse zoppicando nella sua cella. Diedi uno
sguardo ai suoi libri, e su di uno lessi il titolo seguente: _Leggende
delle sante vergini che vollero morire per Nostro Signore Gesù Cristo_.
Anche il solitario Tiberio leggeva libri che parlavano di vergini; non
erano però di quelle che volevano morire per il suo contemporaneo, bensì
i libri della etéra greca Elefantide, i quali insegnavano la scienza del
piacere, ed erano allora di moda in Roma. Svetonio narra che Tiberio
teneva quei libri nella sua stanza a Capri. Trovai, del resto, qualche
cosa di lascivo anche presso l'eremita; egli mi fece vedere la copia di
un bassorilievo esistente nel Museo di Napoli: un vecchio nudo, a
cavallo, che portava in sella, davanti a sè, una ragazza parimenti nuda
con una fiaccola in mano; un giovanetto, esso pure nudo, guidava il
cavallo verso la statua di un Dio. La somiglianza del vecchio con
Tiberio mi parve così sorprendente, che io credetti che quel
bassorilievo rappresentasse una scena notturna nella sua villa di
Capri, forse un sacrificio a Priapo. La catena sola, che il vecchio
portava al collo, era quella stessa dei gladiatori combattenti e degli
altri condannati, e non si addiceva affatto all'imperatore Tiberio.
L'eremita aveva copiato il bassorilievo ad acquarello, con somma
diligenza e con vera intelligenza del nudo. L'opera apparteneva alla sua
abitazione, imperocchè era stata scoperta fra le rovine della villa.
Sebbene in modo incompleto, due volte furono praticati scavi intorno a
questa: la prima volta da Hadrava nel 1804, la seconda da Feola nel
1827. Vi si trovarono bei pavimenti di marmo, uno dei quali venne
adattato davanti all'altare maggiore nella cattedrale di Capri;
parecchie belle statue, fra cui una piccola in lapislazzuli acquistata
poi da un Inglese; varî busti, che andarono dispersi, e mosaici,
attualmente raccolti nel Museo di Napoli.

Nessun imperatore può vantare una villa da cui si goda una vista pari a
quella che ha dinanzi a sè l'eremita nella sua cella. Dalla sua finestra
ei vede i due golfi di Napoli e di Salerno, e le più belle coste e le
isole d'Italia.

L'aria quel giorno era limpidissima, ed io vidi distintamente Pesto,
Castel Baro e la lontana punta di Licosa. Al cadere del sole i monti e
il mare rivestirono dei colori dell'iride, ed io mi chiesi sorpreso se
ciò era realtà o piuttosto una fantasmagoria di sogno.


                                   V.

Una sera, mentre stavo seduto sulle rovine della villa e contemplavo il
magico panorama, il mio sguardo cadde sulla testa argentea di una serpe,
che doveva avere mutata di recente la pelle e che stava ai miei piedi.
La considerai quale un felice presagio, riferendosi a qualche mia
memoria dei giorni trascorsi, e ricordai che Tiberio pure possedeva una
serpe favorita, a cui porgeva il cibo di sua mano e con la quale soleva
scherzare. Scesi dal monte con la lucente bestia e per istrada incontrai
il mio Mefistofele che saliva a cavalcioni di un asinello. Gli feci
vedere la mia piccola serpe, ed allora egli mi disse di essere un grande
incantatore di serpenti. Mi narrò anzi che prendeva e maneggiava a sua
volontà qualsiasi specie di rettile, ed avendogli domandato in qual modo
facesse ciò, mi rispose: «Li prendo dopo aver loro comandato di stare
tranquilli, li attorciglio intorno al mio braccio, e poi li chiudo in un
vaso e li mando a Napoli a dei farmacisti».--«Ma come mai voi potete
comandar loro di rimanere tranquilli?» Mi rispose subito con un sorriso
diabolico: «Dico loro una parola, ed il nome di S. Paolo, ed allora non
si muovono più!»--«Non potreste insegnarmi quella parola?» gli
chiesi.--«Impossibile--mi rispose-; io l'ho appresa da un altro eremita,
ed ho giurato solennemente di non rivelarla a nessuno». Quando gli
domandai perchè aggiungesse alla parola il nome di S. Paolo, mi rispose
che S. Paolo era il patrono dei serpenti, e che tutti gli animali
avevano il loro protettore. Gli domandai ancora quali fossero i patroni
di alcuni altri animali, ed appresi che S. Geltrude è la protettrice
delle lucertole, e S. Antonio è patrono dei pesci, S. Agata dei leoni e
S. Agnese degli agnelli. Non mi era affatto ingannato nel ritenere a
prima vista quel frate per una specie di negromante, e chi sa che non
praticasse ancora altre arti occulte, di notte, al lume di luna in mezzo
alle rovine, con erbe, radici e animali velenosi.

Ho dimenticato fino ad ora di accennare che nell'isola vi è un'altra
piccola città, Anacapri, e la cosa non è strana, perchè vivendo in Capri
inferiore non si vede e non se ne sente neanche parlare a cagione della
sua posizione solitaria e appartata. Si scorgono, è vero, i molti
gradini tagliati nella roccia che bisogna salire per giungervi, ma la
loro ripidezza non invita davvero il visitatore a salire.

È singolarissimo trovare in una stessa piccola isola, alla distanza di
poco più di un quarto d'ora, due paesi tanto estranei l'uno dall'altro,
e i cui abitanti abbiano così scarsi rapporti e non prendano parte gli
uni alle feste degli altri, e parlino perfino un dialetto diverso.

Secondo la tradizione, Anacapri deve la sua origine all'amore. Nei tempi
antichi un'amorosa coppia fuggì dalla città inferiore, si arrampicò su
per gli scogli e si costruì una capanna in mezzo ai cespugli, alla base
del monte Solaro. Altri innamorati, col tempo, li seguirono e ne nacque
quella colonia di amanti, che oggi porta il nome di Anacapri. Ancor
oggi, Amore alato vola come un falco di montagna su e giù da Capri ad
Anacapri, e dà le sue ali in prestito al giovanetto della città
inferiore, il quale ama una di quelle belle e ritrose ragazze che lassù,
nella loro casetta circondata da tralci di viti, siedono al telaio e
tesseno nastri, cantando canzoni d'amore, come Circe nell'_Odissea_.
Anacapri si trova talmente lontana da tutto il rimanente dell'isola, che
non v'è altra strada per giungervi all'infuori dei cinquecento sessanta
gradini di quell'eterna scala di Giacobbe. Gli scogli scendono a picco,
verticali, quasi un muro di cinta sulla città inferiore, avendo alla
loro sommità, simile al tetto di una basilica, il monte Solaro. La
scala, scavata nel vivo della roccia, sale in ripidissimo zig-zag.

Si attribuisce quest'opera singolare ai tempi remoti, allorquando i
Fenici ed i Greci costrussero la città superiore, allora in
comunicazione con l'inferiore solamente per questa via. Si vedono ancora
tracce di più antica salita: a metà della strada s'incontra una piccola
cappella di forma bizzarra, dedicata a S. Antonio, dove uno può fermarsi
a prender fiato; quindi si sale di bel nuovo e si arriva spossati alla
sommità. Giunti al piano denominato Capo di Monte, si trova ampia
ricompensa della fatica sofferta nella vista di quell'altura coltivata,
la quale ricorda gli orti pensili di Semiramide, della parte
sottostante, dell'isola e dell'immensità del mare. Sulla pianura
s'innalza ancora d'alcune centinaia di piedi il monte Solaro, che è
d'aspetto bruno e selvaggio e presenta in cima a uno de' suoi picchi le
belle rovine del castello di Barbarossa, così nomato dal famoso corsaro
che sorprese un giorno Capri.

Fatti appena pochi passi sul piano, si apre davanti agli occhi una
novella vista. Non si vede più Capri in basso e si entra in una
solitudine di bellezza inarrivabile. Sorge di fronte il monte Solaro,
della stessa forma del monte Pellegrino di Palermo, nudo, nero, cosparso
di massi staccati. Verso ponente e settentrione, scende alla pianura più
ampia di tutta l'isola; e su quella ripida pendice, ad altezza notevole
sopra il mare, fra le piante verdeggianti ed i cespugli, giace Anacapri.
La piccola città può dirsi un complesso di eremi, imperocchè le case
piccoline, di costruzione originale, sorgono sparse in mezzo ai
giardini, la cui vegetazione è più rigogliosa di quella di Capri,
particolarmente per gli olivi e per le vigne che pendono in festoni
dagli alberi, come nelle pianure della Campania. Nel contemplare la
pittoresca cittadina, la profonda solitudine, non che la vista del mare
ceruleo, nasce il desiderio di deporre il bastone di pellegrino, dare un
addio al mondo, e costruire lassù una cella.

La tranquillità regna ancor più solenne che a Capri; non si vedono altro
che uomini seduti sulla porta delle loro case, i quali cantano davanti
al telaio od all'arcolaio, da cui dipanano una seta color dell'oro,
ovvero intenti nei giardini a vangare e a raccogliere la foglia dei
gelsi per i bachi, o diretti alla fonte, con le loro brocche sul capo.
Siccome quando io mi recai lassù tutti gli uomini stavano in campagna e
molti giovani erano partiti per la pesca del corallo, non vidi in paese
che donne; sembrava di essere a Lemno, dove le femmine sole, sedute
sulle rupi, lavorano indefessamente davanti ai loro telai.

Nei giorni e nelle ore in cui sogliono arrivare da Napoli le barche,
trovai spesse volte sedute sulla lunga gradinata più di trenta
fanciulle, alcune delle quali di rara bellezza; cinguettavano fra loro
ed aspettavano che comparissero le vele per scendere sulla spiaggia.
Sedevo in mezzo ad esse, ed io pure aspettavo con non minore desiderio
la barca, che doveva recarmi la posta. Quelle fanciulle avevano in mano
quasi tutte un mazzolino di fiori od un ramo di maggiorana, che
offrivano ai visitatori. Antonietta aveva uno stupendo mazzo di
garofani, di rose, di maggiorana e di mirto legato con un bel nastro.
Questo mazzo fu l'intermediario della nostra amicizia; esso m'introdusse
in una delle più linde e graziose casette di Anacapri, dove trascorsi
molte ore simpatiche. Antonietta tesseva in giardino, sotto un
pergolato, fra le viti e i leandri, nastri di molteplici colori: era una
tessitrice disinvolta quanto Aracne; sua sorella maggiore non tesseva
che nastri di un colore solo. Essa non suonava lo scacciapensieri, ma
era abilissima nel battere il tamburello. I fratelli delle due ragazze
si trovavano in mare. L'attività di quelle donne, che attendono inoltre
a tutte le cure di casa, è sorprendente, imperocchè fin dal levare del
sole seggono al loro telaio, e vi rimangono con brevi interruzioni fino
a sera, e questo dura tutto l'anno. Per vero dire, non sono condannate
alle dure e gravose fatiche delle sorelle di Capri, ad eccezione di
quando viene a mancare l'acqua nelle cisterne; allora sono costrette a
scendere a Capri, dove esistono quattro povere fonti, e recar l'acqua
nelle brocche su per la lunga gradinata. Portano quasi tutte un qualche
gioiello d'oro o di corallo, spilloni d'argento nelle trecce.

La città possiede un bel cimitero, piantato di cipressi e popolato di
fiori; ma il più grande orgoglio gli Anacapresi lo ripongono nel
cosiddetto _paradiso terrestre_, vale a dire nel pavimento della loro
chiesa, sui quadrelli del quale è rappresentato in ismalto il Paradiso,
opera di buon disegno del Chiaese, e che risale al secolo XVII. Anche in
Anacapri l'architettura moresca è bizzarra ed originale, e vi sono case
col loro pergolato, veramente belle a vedersi. Sono poche nel paese le
rovine di Tiberio; i coltivatori di vigne le hanno quasi tutte
distrutte; del resto, gli edifici romani erano qui in minor numero che a
Capri. I ruderi romani di maggior momento si rinvengono nella pianura
di Damecuta, fertile regione che scende dolcemente al mare, e sulla cui
riva trovasi la Grotta Azzurra. Capri superiore, nonostante la sua
altezza, possiede coste più basse che Capri inferiore, imperocchè la
montagna degrada dolcemente verso il mare, quantunque la spiaggia non
sia accessibile nè alle barche, nè alle persone, e si trovi senza
sabbie, senza porto, ed irta di scogli.

La torre di Damecuta indica ad un dipresso il punto dove, sotto la
spiaggia, trovasi la famosa Grotta Azzurra, la meraviglia di Capri, ma
non la sola che si rinvenga in quest'isola delle sirene. Il mio
albergatore, don Michele, mi narrò quando e come venne fatta la
scoperta, alla quale prese parte ei pure, da ragazzo. Suo padre
Giuseppe, Augusto Kopisch, il pittore Fries ed il barcaiuolo Angelo
Ferraro, furono i primi ad arrischiarsi nella grotta. Ora sono morti
tutti quanti, e solo don Michele può ancora narrare la scoperta. Un suo
zio sacerdote ammonì la compagnia di non voler tentare l'impresa,
asserendo che la grotta era sede di spiriti maligni e di mostri marini,
e che era pericoloso avvicinarvisi, perchè a quell'epoca non esisteva in
Capri nessuna barca adatta. Angelo pertanto si servì di una tinozza, e
Kopisch e Fries vi penetrarono a nuoto. Il mio albergatore mi descrisse
con vivacità la gioia dei due pittori quando riuscirono a penetrare
nella grotta e mi disse che Fries particolarmente pareva fuori di sè, e
che entrava e usciva nuotando e mandando continue grida d'allegria.
Augusto non ebbe riposo, finchè non partì per Napoli, onde far parte ai
suoi amici della scoperta. Pagano conserva un vecchio registro dei
forestieri, il quale è una vera reliquia, ed in questo Kopisch ha fatto
menzione, sotto la data del 17 agosto 1826, della scoperta nei termini
seguenti: «Raccomando agli amanti di curiosità naturali la scoperta da
noi fatta, insieme col nostro albergatore Giuseppe Pagano e col signor
Fries, della grotta, nella quale da secoli nessuno si arrischiava a
penetrare, per timori superstiziosi. Finora è accessibile appena ai
buoni nuotatori; quando il mare è tranquillo vi si potrebbe pure entrare
con una piccola barca, però la cosa sarebbe sommamente pericolosa,
imperocchè il più leggiero soffio d'aria, basterebbe ad impedirne
l'uscita. Abbiamo dato il nome di Azzurra a questa grotta, perchè le
acque del mare sotto l'azione della luce vi assumono il più bel colore
ceruleo. Recherà stupore trovare che ogni onda del mare presenta
l'aspetto quasi di una fiamma azzurrina. In fondo trovasi un antico
sentiero fra gli scogli, il quale porta probabilmente alla pianura
superiore di Damecuta dove, secondo la tradizione, Tiberio manteneva una
fanciulla; ed è possibile che questa grotta sia stato un tempo un punto
segreto d'approdo. Fino ad ora un marinaio soltanto ed un conduttore di
somari furono dotati di bastante coraggio per accompagnarmi nella
grotta, sul conto della quale si spacciano le favole più assurde.
Consiglio però ad ognuno di contrattare prima il prezzo. L'albergatore,
che raccomando a tutti per la sua conoscenza dell'isola, ha in animo di
far costruire una piccola barca per agevolare l'accesso alla grotta.
Finchè non sia costruita l'imbarcazione, la visita alla grotta non la
consiglio che ai bravi nuotatori. Le ore migliori sono quelle del
mattino; nel pomeriggio la soverchia luce che scende perpendicolarmente,
ne menoma l'effetto magico. L'impressione pittoresca sarà maggiore
ancora se si entrerà nella grotta nuotando con una torcia a vento accesa
nella mano, come abbiamo fatto noi».

Tali sono le parole di Kopisch. Il dabben uomo assicurò con questa
scoperta la sua memoria nell'isola, e la meravigliosa grotta mi parve in
certo modo proprietà tedesca e simbolo tedesco. Non rimane soltanto il
ricordo di Kopisch nell'isola; vi si rammentano pure Tieck, Novalis,
Fouqué, Arnim, Brentano, i quali tutti sono morti; l'eccellente
Fichendorff ed Heine, l'ultimo scomparso di quella scuola poetica
floridissima.

Mandiamo pertanto, dalle onde azzurre di questa grotta, un saluto alla
loro memoria, imperocchè tutti l'hanno vagheggiata, ed era degna
veramente di essere scoperta da un pittore e da un poeta, ai tempi di
coloro i quali cercavano il fiore della poesia nelle acque con le
Ondine, nei monti con Venere e nelle grotte sotterranee d'Iside. Essi
furono tutti graziosi ed amabili, giovani e vecchi, con il loro corno
magico. Il loro gran sacerdote Novalis compare quasi un bel giovanotto
pallido, il quale abbia rivestito la lunga tonaca del defunto suo nonno
e che stia ragionando di una saviezza mistica, che nessuno sa dove il
giovanetto abbia potuto imparare. La loro musa è una sirena che abita la
bella Grotta Azzurra nell'isola del crudele e lascivo Tiberio. Tutti
udirono il suo canto, ma nessuno la potè scoprire; tutti la cercarono e
morirono col desiderio vivo di quel fiore azzurro e misterioso. Goethe
lo profetava nel suo pescatore: «Ora lo chiamava a sè, ora si tuffava
nelle onde e non si lasciava vedere». Ed ora che il misterioso fiore
azzurro, vale a dire la meravigliosa Grotta Azzurra, il mistero ignorato
venne scoperto, il prestigio è scomparso, ed il canto dei romantici ha
cessato di risuonare nelle regioni germaniche.

Intanto, nella grotta mi sovvennero tutte le storie delle fate ascoltate
avidamente da bambino. Il mondo ed il giorno erano scomparsi; mi trovavo
tutto ad un tratto in un elemento nuovo di luce cerulea. Le onde si
muovevano appena e scintillavano con tutta la varietà dei colori, con
tutto lo splendore delle pietre preziose; le pareti erano rivestite di
una misteriosa tinta azzurra, quasi fossero quelle di un palazzo di
fate. Tutto colà era nuovo, strano, misterioso. Il silenzio era così
profondo che nessuno osava aprir bocca. Provammo a dire qualche parola,
ma tacemmo subito di bel nuovo; non si udiva più che il tonfo del remo
ed il frangersi delle onde contro le pareti, dalle quali si
sprigionavano sprazzi di luce fosforescente. Avrei voluto tuffarmi,
immergermi in quella specie di bagno di luce. Secondo me, da quello che
narra Svetonio, ivi si doveva bagnare Tiberio e nuotare con le belle
fanciulle del suo _harem_. Fra quelle onde fosforescenti, quei corpi
giovanili dovevano splendere di luce magica, nè dovevano mancare allora
il canto delle sirene, nè l'armonia dei flauti, a rendere quel bagno più
voluttuoso. Vidi dipinta sopra un vaso greco una sirena, in atto di
sollevare due bianche braccia, sorridere e battere l'un contro l'altro
due cembali d'argento. Tali dovevano essere le sirene della magica
grotta, che solo gli uomini prediletti dalla fortuna ed i bambini
possono ancor oggi vedere.

L'abbondanza di grotte, di caverne, in quest'isola è straordinaria. Vi
sono grotte marine, caverne sotto terra, tutte belle, dalle forme più
bizzarre, ed in così gran numero che rimane impossibile visitarle tutte.
Io entrai in più di quindici e ne trovai sulla riva, a mezzogiorno, una
piccola con effetti di luce molto simili a quelli della Grotta Azzurra.
In altre invece rinvenni una luce verdognola, particolarmente in quella
detta appunto la Grotta Verde, per la vastità e per le forme grandiose
della sua architettura, fuor di dubbio la più notevole dell'isola.
Questa non è intieramente sotterranea e vi si può entrare ed uscire da
due grandi aperture. Alcune grotte hanno un nome, come la Marmolata e la
Marinella; altre invece no. Mi procurai la soddisfazione di battezzare
tutte quelle da me visitate e senza nome. Unica e veramente bella mi
parve la grotta Stella di Mare popolata di piante acquatiche; ammirai
pure la grotta Euforio e quella dalle pareti variopinte dei più vivaci
colori, detta la grotta dei Ragni di mare. Ne trovai una anche dove le
onde erano di continuo agitate e la dedicai alle Eumenidi.

Quasi tutte queste cavità si trovano lungo la riva dal Solaro ai
Faraglioni; sono però poco visibili al di fuori. All'interno sono alte,
oscure, popolate da ragni, da uccelli e da ogni specie d'animali marini.

Una bella passeggiata in mare è quella del giro dell'intera isola; vi
s'impiegano circa tre ore. La costa a ponente non offre di simili
cavità, imperocchè ivi le pendici del Solaro scendono dolcemente in
mare, fra i due capi denominati Punta di Visareto, e Punta di Carena. Si
avanzano colà in mare tre promontori, bassi ma ripidi, detti:
Campitello, Pino, ed Orica, muniti di alcune fortificazioni. Fu in
quella località che i soldati di Murat sorpresero di notte tempo
l'isola, arrampicandosi su per gli scogli. Procedendo oltre la Carena,
la sponda meridionale si presenta ad un tratto altissima e tagliata a
picco. Le rupi sono gigantesche e selvaggie e si specchiano in mare,
innalzandosi verso il cielo. La riva presenta lo stesso aspetto sino
alla punta di Tragara e non è meno gigantesca e bizzarra tutta la costa
di levante fino al promontorio di Lo Capo, a settentrione levante
dell'isola, dove abbondano le grotte ricche di stallattiti.

Rimane ora da parlare della vetta più alta dell'isola, del monte
Solaro. Partendo da Anacapri e salendo a stento per un malagevole
sentiero, si arriva sul dorso del monte. La sua forma e il suo aspetto
sono strani, imperocchè alla sommità la montagna presenta una pianura
arida, nericcia, quasi a foggia di terrazzo sulle rupi che scendono
sopra Capri. Si cammina colà in un labirinto di macigni, facendo sorgere
ad ogni passo sciami di locuste nere, le quali, innumerevoli, ricoprono
tutto il suolo. All'orlo di questa pianura, sopra una rupe severa che
piomba in mare, sorge la cella dell'eremita di Anacapri; io non vidi mai
romitaggio più degno di questo nome. Per entrare nella cella, bisogna
attraversare un'antica cappella. Trovai tutte le porte aperte e
l'eremita assente; la sua tonaca era gettata sul muricciolo del giardino
e sopra il suo letto stavano appesi un'immagine di S. Antonio di Padova,
un ramoscello d'olivo ed un rosario. Nella stanza stavano derrate, una
Madonna Addolorata era appesa sopra un mucchio di cipolle, presso una
cesta piena di pane e di piatti vuoti.

Vidi nel camposanto di Pisa quella pittura ad affresco, originalissima,
di Ambrogio e di Pier Lorenzetti, la quale rappresenta la vita degli
anacoreti nel deserto e posso dire di averla veduta qui riprodotta al
vero. Credo che il vecchio eremita di Capri facesse ivi, ogni venerdì,
la sua predica ai pesci, come si vede, in un dipinto a Roma, S. Antonio
seduto sur uno scoglio predicare verso il mare, brulicante di pesci con
la testa fuori dell'acqua, a bocca aperta. Mentre stavo girando attorno
alla casetta, comparve il vecchio frate laico, con un fardelletto di
legna sulle spalle.

Tutto lieto di trovare un ospite, dimostrò il suo dispiacere di non
avere vino da offrirmi. Egli abitava da ben trentadue anni su
quell'altura; zoppicava esso pure nell'arrampicarsi, ma non aveva
affatto l'aspetto mefistofelico dell'eremita zoppo della villa di
Tiberio; in lui era anzi qualcosa di quell'ingenua bontà propria dei
santi e delle statue degli idoli indiani. Sopra la sua casa sorgeva la
vetta del Solaro, il punto più elevato dell'isola, con la stazione del
telegrafista, di cui ho già fatto parola. Saliti colassù, si ottiene
giusta ricompensa della fatica sostenuta, imperocchè si scopre tutta
l'isola e si gode una vista insuperabilmente bella: all'orizzonte, verso
mezzodì, il mare senza limiti; a ponente e a settentrione l'isola di
Ponza, quella torreggiante d'Ischia, quella di Vivara e di Procida; più
lontani, perduti nelle nebbie, i monti di Gaeta, di Terracina, il
promontorio di Miseno, ai cui piedi finì i suoi giorni Tiberio; i campi
Elisi e Cimmeri, le spiagge azzurre di Baia, Pozzuoli e Cuma, il monte
Gauro, la Solfatara, l'isola di Nisida col suo castello, Posillipo, la
vetta dei Camaldoli, i monti di Capua, la splendida spiaggia di Napoli
con una collana di città fino a Torre del Greco, la punta del Vesuvio
montata da una colonna di fumo; verso il basso, Pompei; al di là i monti
frastagliati di Sarno e di Nocera; a levante la spiaggia bruna di Massa
coi capi di Sorrento e di Minerva; al di là il gigantesco monte S.
Angelo, più oltre gli scogli delle Sirene e tutta la regione montuosa
dei golfi di Amalfi e di Salerno; finalmente, in lontananza, i monti
delle Calabrie biancheggianti per le nevi, e la spiaggia di Pesto, al
capo Licosia in Lucania.

A tale altura e con tale vista dinanzi agli occhi, uno si sente quasi
vivere doppiamente. Imperocchè è assai ristretta la cerchia dell'umana
vita, tante sono le cose che quotidianamente ci stringono, ci
contrastano da ogni parte, ci condannano ad una lotta penosa, meschina,
in un orizzonte che pure sarebbe vasto. Ogni orizzonte è bello; bello è
contemplare dall'altezza della civiltà l'orizzonte del pensiero, delle
scienze, delle arti, l'armonia che presiede all'ordine di tutte le cose
create. Io, in cima al monte Solaro, pensava ad Humboldt, al cui genio,
credo, andiamo debitori di trovare il mondo così bello, così
mirabilmente ordinato, e, fissando poi lo sguardo sul capo Miseno e sul
Vesuvio, pensavo pure a Plinio, l'Humboldt dei Romani, non che ad
Aristotile, genio veramente universale ed ordinatore dell'umano sapere.

Lieto di aver potuto contemplare tanto spettacolo delle armonie della
natura, scesi di lassù quando il sole verso Ischia volgeva al tramonto.
Il mare s'imporporava già ad occidente e l'isola di Ponza, la quale
emergeva lontana e bella dalle onde, quasi giacesse in una sfera di
luce, rosseggiava come se fosse in fiamme.

Addio pertanto, bella e romita isola di Capri.



                                 PALERMO

                                  (1855)



                                 Palermo.

                                  (1855).


                                   I.

La Sicilia fu il primo paese europeo ove sbarcarono i Saraceni dopo che
la signoria araba ebbe allargati i suoi confini sui lidi settentrionali
dell'Africa. Le loro prime scorrerie nell'isola risalgono al VII secolo:
provenivano dall'Asia, in seguito dall'Africa, da Candia, dalla Spagna,
come corsari, senza un fine prestabilito. Solo nell'827 iniziarono un
piano regolare di conquista.

Michele Amari, nella sua _Storia dei Mussulmani in Sicilia_, ricostruì
dalle fonti originali, con fedeltà storica, le vicende dell'invasione
araba. Egli si servì per ciò delle cronache di Giovanni Diacono di
Napoli, dell'830, e delle cronache dettate dall'Anonimo Salernitano,
della fine del x secolo; nonchè, presso i Bizantini, delle cronache di
Costantino Porfirogenito e del suo continuatore, e presso gli Arabi,
delle storie di Ibn-el-Athir Nowairi e di Ibn-Kaldum.

Una rivoluzione militare era scoppiata in Sicilia, che mal sopportava il
giogo bizantino; il duca Eufemio decise allora di strappare l'isola
all'odiosa dominazione di Costantinopoli; ma le truppe non erano
siciliane e ben presto passarono al partito bizantino, costringendo i
ribelli a cercare scampo in Africa ed a gettarsi fra le braccia degli
Aglabiti. Per odio e per desiderio di personale vendetta, Eufemio
divenne allora traditore della sua fede e della sua patria: fece in
Kairewan la proposta a Ziadeth-Allah d'inviare nell'isola un esercito,
perchè, con l'aiuto dei Siciliani insorti, la conquistasse.

Nel suo atto Eufemio sperava anche di conseguire un sogno ambizioso:
quello di divenire imperatore. Le opinioni in Kairewan erano discordi:
gli uni protendevano per l'impresa, gli altri la ritenevano troppo
arrischiata: Ased-ben-Forad, il cadì settuagenario della città, stimato
da tutti per la sua sapienza, riuscì a persuadere i recalcitranti ed
egli stesso volle assumere il comando della spedizione.

Il 13 giugno dell'827, in un centinaio d'imbarcazioni, 10.000 fanti,
composti di Arabi, Berberi, Saraceni fuggiti dalla Spagna, Persiani e
sopra tutto Africani, salparono dal porto di Susa e quattro giorni dopo
sbarcarono presso Mazzara e sconfissero in un sanguinoso scontro il
duce Palata, mentre Ased, durante la mischia, seguendo l'esempio di Alì
e di Maometto, stava in preghiere e recitava il capitolo la-Sin del
Corano.

Poscia i Saraceni mossero contro Siracusa e si accamparono, come narra
lo storico arabo, in alcune grotte intorno alla città, cioè nelle famose
_latomie_. Per un anno rimasero dinanzi alla città, dove i Greci,
incoraggiati dalle promesse di soccorso fatte dal doge di Venezia
Giustiniano Partecipazio, opposero gagliarda resistenza. I Saraceni
furono decimati dalla peste, come era avvenuto a tutti gli eserciti che,
nei tempi anteriori, avevan stretto d'assedio Siracusa, particolarmente
ai Cartaginesi ed agli Ateniesi. Lo stesso Ased-ben-Forad vi perdette la
vita, per malattia, nell'828. Si dovette eleggere un nuovo condottiero,
che fu Mohamed-ibn-el-Gewari. Ma presto, ridotto a mal partito, come un
tempo quello di Nicia, l'esercito saraceno dovette nella stessa
direzione battere in ritirata, inseguito dai nemici.

Guidati da Eufemio, gl'infedeli si arrestarono a Minoa e, rinforzati di
nuove truppe, poterono impadronirsi di Agrigento. Panormo cadde
nell'831. Questa città veniva dai Maomettani chiamata Bulirma; più tardi
prese il nome di Palermo. Ivi si stabilì Ibrahim-ibn-Abdallah-ibn-el
Aglab, che fu il primo _valì_ (governatore) della Sicilia. Sotto il suo
successore anche Castrogiovanni, l'antica Ema, passò in potere dei
Saraceni. Siracusa e Taormina continuarono a resistere, difendendosi con
grande valore: di quel memorabile assedio rimangono documenti che
attestano l'eroismo dei Siracusani ai tempi di Nicia e di Marcello.
Tutti i viveri erano consumati; i miseri abitanti dovevano nutrirsi di
ossa triturate e di cadaveri; essi speravano sempre negli aiuti
dell'imperatore Basilio, che avea appunto inviato il suo ammiraglio
Adriano con una flotta in soccorso della città.

Per dimostrare il culto che ancora a quei tempi inspirava l'antica
Siracusa, basta riportare la singolare tradizione la quale narra che,
nel mentre Adriano se ne stava inoperoso sulle coste dell'Elide nel
Peloponneso, vennero alcuni pastori ad annunziargli l'apparizione avuta
nelle paludi di alcuni demoni, che avevan annunziata loro la caduta di
Siracusa pel giorno appresso. I pastori vollero inoltre condurre
l'ammiraglio sul luogo indicato, ed egli udì le voci che annunziavano la
resa dell'eroica città. Così difatti avvenne: il 21 maggio 878 Siracusa
dovette arrendersi; i Saraceni, entrati nella città, compirono gesta
vandaliche, trucidarono gli abitanti, saccheggiarono le case, vi
appiccarono poscia il fuoco, e largo bottino vi fecero, perchè il paese
anche allora era un centro di grande commercio bizantino.

Di quell'epoca esiste un prezioso documento, una lettera del monaco
Teodosio all'arcidiacono Leone, nella quale egli descrive l'assedio e la
sua prigionia, nonchè quella dell'arcivescovo. Dopo che la città fu
presa e ne fu trucidata la maggior parte degli abitanti, i Saraceni
trascinarono l'arcivescovo e l'autore della lettera a Palermo, davanti
al grande emiro. Allorchè gl'infedeli comparvero dinanzi alla città col
bottino raccolto, i loro correligionari andarono ad incontrarli,
cantando inni di vittoria. Si sarebbe detto--scrive il monaco,--che colà
si fosse dato appuntamento tutto il popolo d'Islam, da oriente a
ponente, da settentrione a mezzogiorno. I prigionieri furono condotti
dinanzi all'emiro, che stava seduto a terra. E sembrava fiero del suo
potere assoluto. Egli rimproverò all'arcivescovo il disprezzo che i
cristiani nutrivano per Maometto, rimprovero a cui il degno sacerdote
rispose con l'energia e la sincerità di un martire, così che gli valse,
e valse al monaco suo compagno, il carcere. Di là quest'ultimo scrisse
la lettera.

Il 1^o agosto del 901 anche Taormina si arrese e così l'intera Sicilia
passò in potere della mezza luna maomettana ed ebbe, da quel momento,
leggi mussulmane, lingua e costumi arabi. Quella Sicilia che aveva dato
a Roma ben quattro papi (Agatone nel 679, Leone II nel 682, Sergio nel
687 e Stefano III nel 768), correva ormai il rischio di andare perduta
per la cristianità, tanto più che gli Arabi non si comportavano da
popolo fanatico, ma si sforzavano piuttosto d'indurre i Siciliani ad
abbracciare la fede di Maometto. Narra Albufeda che Achmed, governatore
dell'isola nel 959, portò seco in Africa trenta giovani della nobiltà
siciliana e li costrinse ad abbracciare l'islamismo. Parecchie chiese e
parecchi monasteri cristiani furono però distrutti, molte corporazioni
religiose soppresse; altre ottennero la tolleranza mediante il pagamento
di forti tributi, riuscendo così a sopravvivere anche sotto questa
dominazione. Allorquando i Normanni discesero nell'isola, trovarono
valido appoggio nei cristiani in Val Demone e nella Valle di Mazzara; a
Palermo trovarono un vescovo greco, Nicodemo, che compiva il suo ufficio
nella chiesa di S. Ciriaco.

La signoria degli Arabi fu, secondo la natura di quel popolo, irrequieta
e agitata: mentre la minacciavano la guerra con i Greci delle Calabrie e
di Bisanzio, era travagliata all'interno dalle fazioni; più di una volta
le ribellioni di Siracusa, di Agrigento, d'Imera, di Lentini, di
Taormina ne minacciarono la sicurezza.

Fino a che durò la dominazione degli Aglabiti di Kairewan, l'isola fu
governata dai loro valì; ma quando, sui primi del x secolo, successero a
quella dinastia i Fatimidi, e il califato di Tunisi fu riunito a quello
egiziano, la Sicilia divenne del pari egiziana, senza lotta sanguinosa
fra gli antichi e i nuovi signori.

La signoria dei Fatimidi fu l'epoca più fortunata della dominazione
araba in Sicilia: l'isola fu elevata a dignità di emirato, indipendente
dall'Egitto, e Palermo ne divenne la capitale. Primo emiro ne fu
Hassan-ben-Alì, nel 948; e nel 969 l'emirato della sua stirpe divenne
ereditario. La sapienza di Hassan non fu meno apprezzata della sua
energia; egli seppe domare i varî partiti, restituire all'isola la
tranquillità, ed incutere timore alle Calabrie ed all'intera Italia,
Roma compresa. Invano contro di lui tentò una spedizione l'imperatore
greco Costantino Porfirogineta; il suo esercito fu battuto, la sua
flotta distrutta. Anche Abal-Kasem-Alì, successore di Hassan, diede da
fare all'Italia con le sue scorrerie, e per poco lo stesso imperatore
Ottone II non cadde nelle sue mani. Frattanto i continui bottini che gli
Arabi portavano a Palermo, rendevano ricca la città; nuove continue
schiere di arabi veniano a stabilirsi dall'Africa, e l'isola cominciò a
rifiorire, come la Spagna era rifiorita sotto i Mori.

I regni di Jussuf, dal 990 al 998, quello di Giaffar, al principio
dell'xi secolo, e quello del suo successore Al-Achals furono del pari
felici. Questo stato di cose durò circa ottant'anni, finchè le
sollevazioni africane si estesero anche nell'isola e generarono la
scissione del governo in tante piccole signorie, le quali portarono alla
caduta finale della dominazione araba in Sicilia.

L'ultimo emiro dell'intera isola fu Hassan-Samsan-Eddaula, contro il
quale insorse il fratello Abu-Kaab: questi riuscì a cacciarlo in Egitto
nel 1036. Cominciarono così a sorgere nelle varie città dei piccoli
tirannelli arabi, ed altri, approfittando del movimento, ne vennero
dall'Africa, per impadronirsi della signoria. L'imperatore Michele
Paflagonio capì che era giunto il momento per la riconquista dell'isola
e vi spedì il valoroso Giorgio Maniace con un esercito; ma questi non
riuscì nell'intento e vi riuscirono invece, nel 1072, i Normanni.

Come abbiam detto, la dominazione degli Arabi in Sicilia fu assai
diversa da quella dei Mori in Spagna; le due regioni, fra le più belle
dell'Europa meridionale, furono conquistate dagli Arabi africani, ma in
condizioni assai diverse: i Mori in Spagna distrussero un possente
impero cristiano, che già possedeva i suoi buoni ordinamenti di governo
e di amministrazione, ai quali dovettero sostituirne altri. La loro
signoria, sorta dal califfato degli Ommiadi, assunse carattere regolare
ed ortodosso di fronte a quello degli Abassidi d'Asia; il passaggio si
compì con eroismo cavalleresco, a contatto della cristianità, che
dovette nella lotta raddoppiare di energia. Ed infine, la Spagna era una
vasta e ricca contrada. In Sicilia, invece, gli Arabi non ebbero da
distruggere una grande potenza indigena, ma solo dovettero cacciare i
Greci-bizantini indeboliti e quasi imbarbariti. La conquista per essi fu
facile: trovarono delle città in piena decadenza e non dovettero lottare
col cristianesimo, col quale piuttosto si confusero, ristretti essendo i
confini dell'isola e non offrendo i suoi monti quel rifugio che avevano
dato i Pirenei agli Spagnuoli.

I Mori raggiunsero in breve in Spagna uno splendore che abbagliò
l'intera Europa; illustrarono il loro regno con meravigliosi monumenti
architettonici e con una cultura scientifica che fece epoca nella
civiltà europea; e poterono così mantenersi per ben settecento anni
nella terra conquistata. Gli Arabi in Sicilia invece non riusciron
durante i duecento anni di dominazione ad uscire da loro stato caotico.
Ad onta dell'opinione dei Siciliani d'oggi, i quali guardano con una
certa compiacenza romantica il periodo della dominazione araba
nell'isola, si può affermare che il regno dei grandi emiri di Sicilia
non differì gran che dagli stati barbareschi d'Africa.

I Saraceni, del resto, non erano affatto rozzi, nè barbari. Tutti
presero parte alla cultura scientifica d'Oriente, sviluppatasi con
grande rapidità. Anche la poesia, le arti, le scienze orientali
piantarono le loro radici nell'antico suolo dorico di Sicilia. La storia
moderna della letteratura dell'isola accolse anche gli Arabi-siculi nel
catalogo de' suoi scrittori compilato dall'Amari. Ma noi regaleremmo
assai volentieri tutti quei verseggiatori dai nomi ampollosi per
un'opera sola, la storia araba di Sicilia di Ibn-Kalta, che andò
perduta; per questa rinunceremmo del pari al _Divano_ di Ibn-Hamdis di
Siracusa.

I monumenti che soli rimangono della loro presenza in Sicilia, sono
quelli dell'architettura Kairewan, la città donde pervennero, rinomata
per la moschea fondata da Akbah nel VII secolo, e quale sede del
califfato. Di là portarono gli Arabi il gusto della buona architettura,
ma non costruirono nelle sicule contrade notevoli edifici come i Mori in
Spagna. Nessuna traccia di qualche loro bella moschea rimane a Palermo,
e lo stesso Alcazar, divenuto più tardi castello dei Normanni e degli
Svevi, non conserva niente della parte dagli Arabi edificata. Palermo
fra tutte le città si distinse per lusso e ricchezza, e divenne presto
un centro voluttuoso, tutto orientale. Ivi e in altre città gli Arabi
edificarono i loro mercati, le loro ville cinte di giardini. Nel periodo
più florido della loro dominazione, sotto il governo di Hassan-ben-Alì e
di Kasem, dei quali ci e stato tramandato che costruirono città e
castelli, l'architettura moresca necessariamente si estese. Nessun
contrasto doveva esser maggiore di quello offerto allora dallo stile
grazioso e fantastico dell'Oriente con quello severo e maestoso dei
tempi dorici in Sicilia. L'architettura moresca si mantenne anche nei
periodi posteriori; fu, come la scrittura e la lingua araba, usata
talvolta anche dai Normanni e dagli Svevi, e dalla fusione del tipo
saraceno col tipo bizantino-romano nacque quello stile misto che prese
il nome di arabo-normanno: dal che si può argomentare che i Saraceni in
Sicilia dovettero elevare splendidi edifici. Ma il tempo ha distrutto
tutti i palazzi degli emiri, la cui magnificenza produsse tanto stupore
nel principe normanno Ruggero, e dei monumenti di architettura araba non
rimangono più che la Cuba e la Zisa, due ville presso Palermo, costruite
senza dubbio dai Saraceni, ma poi alterate grandemente e restaurate e in
tempi posteriori ampliate.

Le due ville stanno fuori della Porta Nuova, sulla strada che mette a
Monreale. La Cuba (parola che in arabo significa arco o vòlta) è stata
da parecchi anni adibita a caserma di cavalleria ed ha subito tali
rovine e alterazioni che ben poco ormai si riconosce dell'antica
disposizione. All'esterno è un edificio quadrato, regolare, costruito
con pietre ben lavorate, proporzionato e diviso da archi e da finestre,
in parte finte e soltanto ornamentali, secondo l'usanza araba. Sulla
cornice in cima all'edificio si scorge ancora un'iscrizione araba,
indecifrabile. L'interno fu completamente devastato e trasformato;
soltanto nella sala centrale, in origine molto probabilmente sormontata
da una cupola, sono avanzi di pittura e bellissimi rabeschi di stucco.

Boccaccio collocò in questo palazzo la scena della V novella della sesta
giornata del suo _Decamerone_, e lo storico Fazello ne descrisse la
magnificenza, riportando quello che ne avevano detto scrittori antichi,
imperocchè a quel tempo--secolo XVI--il castello era già rovinato. Così
egli ce lo descrive: «Unito al palazzo, fuori le mura della città verso
ponente, trovasi un pomario di duemila passi di circonferenza, detto
parco, ossia Circo reale. In questo giardino, rallegrato da acque
perenni, crescono meravigliose specie di piante e qua e là si vedono
cespugli di alloro e di mirto odoroso. Colà, dall'entrata all'uscita, si
stendeva un lungo portico, con parecchi padiglioni aperti a forma
circolare, adibiti per gli svaghi del re, uno dei quali tuttora rimane
in buone condizioni, con nel mezzo una grande vasca fatta con pietre
regolari e commesse con mirabile arte. La vasca esiste ancora, ma priva
d'acqua e di pesci. In questo pomario sorgeva lo stupendo palazzo dei re
saraceni, in un angolo del quale si tenevano raccolte fiere d'ogni
sorta. Oggi tutto è rovinato; i giardini sono stati ridotti a vigne di
privati e solo se ne giudica l'estensione dai muri di cinta in massima
parte ancora in piedi. I Palermitani continuano ancora a dare a questo
luogo l'antico nome saraceno di Cuba».

Il palazzo nelle sue parti principali esiste ancor oggi, tale e quale ci
fu descritto da Fazello, ed in particolare si possono ancor vedere le
mura di cinta del giardino ed in questo gli avanzi dell'antica vasca.

La Zisa era una villa ancor più bella, più vasta. La famiglia spagnuola
di Sandoval, di poi proprietaria, l'alterò grandemente con nuove
costruzioni, ma la preservò anche in tal modo dalla sua completa rovina.
Lo stile è lo stesso della villa Cuba; ha la forma ben proporzionata di
un dado, semplice, costruita con pietre regolarmente lavorate, divisa in
tre parti da cornici, archi e finestre. Guglielmo il Malo la fece
restaurare e probabilmente anche l'ampliò, poichè non potrebbesi
spiegare altrimenti l'asserzione di Romualdo da Salerno: che quel re
cioè avesse fatto costruire un palazzo chiamato la Zisa. «In quel
tempo--ha lasciato scritto Romualdo--re Guglielmo fece edificare presso
Palermo un palazzo di meravigliosa architettura, cui diede nome Zisa e
che circondò di ameni giardini e arricchì questi con appositi
acquedotti, di grandi vasche in cui si allevavano dei pesci». La Zisa
mantenne sempre il suo carattere arabo, nonostante che re Guglielmo vi
facesse notevoli modificazioni. Il suo interno, interamente restaurato,
contiene parecchie sale e appartamenti, che niente conservano del loro
carattere arabo; soltanto il portico d'ingresso ha serbato un certo
aspetto di antichità. Ivi, nel muro, sono nicchie ed archi sostenuti da
colonne, fra le quali sgorga in una vasca di marmo una fonte, tappezzata
di muschio e di piante rampicanti. L'arco superiore alla fonte è di
stile arabo ed ha notevoli ornati e rabeschi originalissimi e
fantastici. Gli affreschi e i mosaici, rappresentanti palme, ramoscelli
d'olivo, pavoni e figure di arceri, sono di origine normanna, e normanna
è pure l'iscrizione cufica sulla parete, riprodotta anche
dall'orientalista Morso nella sua opera _Palermo antica_, nonchè dal de
Sacy. La già nominata iscrizione, ora illeggibile, in cima al palazzo, è
invece araba.

La fonte dal portico sgorgava in una bella vasca, ancora esistente nel
1626, come ne fa parola il monaco bolognese Leandro Alberti nella sua
descrizione dell'Italia e delle sue isole. La vasca era sita di fronte
al portico, aveva forma regolare, lunga cinquanta passi ed era rivestita
tutta di muratura. Nel mezzo vi sorgeva un grazioso e piccolo edificio,
al quale si accedeva per mezzo di un ponticello di pietra, ed in cui
esisteva una saletta a vòlta, lunga dodici passi e larga sei, con due
finestre; di là, dice l'Alberti, si passava in una bella stanza
destinata alle donne, con tre finestre a duplice arco, sostenuto nel
mezzo da una colonnetta di marmo.

Parecchie scale portavano al piano superiore del palazzo, ove erano
varie camere a vôlta, con colonne ed archi di stile arabo; e
nell'interno c'era un cortile a porticato. Tutto quanto l'edificio era
coronato di merli. Le sale, con le pareti rivestite di mosaici, coi
pavimenti di marmo e di porfido nei colori più svariati, dovevano essere
indubbiamente stupende. Ma l'Alberti trovò già la Zisa ridotta in tale
stato di ruina da fargli esclamare melanconicamente:

«In verità, io non credo possa esistere animo gentile che, dinanzi a
quest'edificio già così bello e in parte ora caduto, in parte
minacciante rovina, non provi un senso di profonda compassione». Quanto
bella doveva essere questa villa ai tempi degli emiri, dei Normanni, di
Federigo, sotto questo splendido cielo, in quelle notti serene di questa
amena contrada che fa pompa, dal lido del mare ai piedi del monte, de'
più deliziosi aranceti dai frutti d'oro!...

Ho visto pochi panorami simili a quello che si gode dal tetto a foggia
di terrazzo di questo castello; di là si scorgono tutti i dintorni di
Palermo, dalla spiaggia ai monti, dintorni di una bellezza che la parola
non sa, nè può descrivere. Basti dire che si abbraccia con lo sguardo
tutta la _Conca d'oro_, co' suoi neri monti, maestosi e severi, tali da
sembrar tagliati dallo scalpello greco, co' suoi giardini ricchi
d'aranci, cosparsi di ville, con la sua città turrita e piena di cupole,
col suo mare sempre meraviglioso, con la mole gigantesca e imponente da
una parte del monte Pellegrino, dall'altra del capo Zafferano, che si
protende in mare, co' suoi monti coronati di neve nel lontano orizzonte,
perduti in una atmosfera pura, serena, tranquilla. Terra, mare, aria,
luce, colà tutto ricorda l'Oriente. Nel fissare dal tetto della Zisa i
giardini, vien fatto di attendere l'uscita delle belle odalische al
suono di una mandola, e di un emiro dalla lunga barba, in caftano rosso
e pantofole gialle. Là si prova quasi il desiderio di vivere secondo i
precetti del Corano.

Non è errato credere che, specie ai tempi della dominazione spagnuola,
il fanatismo religioso abbia cercato di distruggere l'antica dimora dei
Saraceni. I principi normanni, invece, rimasero colpiti dallo splendore
dei palagi e dei giardini arabi e l'imitarono nelle loro costruzioni.
Ruggero pel primo edificò delle ville in quello stile, Favara Mimnermo
ed altre, come ha lasciato scritto Ugo Falcando, contemporaneo degli
ultimi principi normanni. Le fontane sopratutto furono da questi imitate
e le vasche di foggia orientale; molte ne costruì difatti Federigo II,
giovandosi della ricchezza d'acqua di cui Palermo godeva sin dai tempi
più antichi. A prova della passione che gli Arabi dimostrarono nel
costruire vasche, basta citare la descrizione che Leonardo Alberti fa di
quella della Zisa, e la descrizione che l'ebreo Beniamino di Tudela,
nella sua breve opera su Palermo, fa della vasca Albehira. Beniamino di
Tudela venne in Sicilia nel 1172, ai tempi di Guglielmo il Buono, per
visitarvi le corporazioni israelitiche, e così descrisse l'Albehira:
«Nel centro della città sgorga la più copiosa delle fontane, quella
circondata da mura cui gli Arabi diedero il nome di Albehira. Vi si
mantengono pesci di varie specie e vi navigano le barche reali, ornate
d'oro, d'argento ed elegantemente dipinte; il re con le sue dame vi si
reca spesso per diletto. Nei giardini reali trovasi inoltre un castello,
le cui pareti son rivestite d'oro e d'argento, e i pavimenti sono
formati di marmi rarissimi; contiene statue d'ogni sorta. Non vidi mai
altrove edifici paragonabili ai palagi di questa città».

S'ignora ove sorgesse l'Albehira; Morso ha cercato di provare che
Beniamino alludesse al così detto _Mar Dolce_, nome dato alle rovine
arabe del castello di Favara, presso il pittoresco convento del Gesù,
fuori le porte della città, sotto la grotta famosa per i suoi fossili.
Queste rovine presero il nome di _Mar Dolce_ perchè si trovavano di
fronte ad una vasca; gli Arabi però le dicevano _Case Djiafar_.

Fuori di Palermo esiste ancora una quarta villa o palazzo saraceno,
quello di Ainsenin, dal popolo soprannominato _Torre del Diavolo_, le
cui rovine giacciono nella pittoresca valle Guadagna, attraversata
dall'Oreto e dominata dal monte Grifone.

Questi sono gli unici monumenti di costruzione saracena che, a ricordo
della dominazione araba, rimangono in Palermo. Con l'invasione spagnuola
scomparve la graziosa architettura orientale e cominciarono anche a
venir meno ai tempi di Federigo II le tradizioni dell'islamismo,
sopratutto allorquando, nel 1220, gli Arabi ancor rimasti nell'isola
furono trasportati a Nocera nelle Puglie, avendo durante l'assenza di
Federigo, guidati da Mirabet, tentato di riacquistare la loro
indipendenza. D'allora in poi il linguaggio e i costumi arabi andarono
perdendosi in Sicilia ed una nuova nazionalità, quella spagnuola, cercò
di stabilirvisi, cominciando col cancellare ogni traccia dei
predecessori.

Nell'ultimo secolo, quando la scoperta di Pompei riaccese in tutta
Italia lo studio dell'antichità, si prese a indagare pure con ardore le
vicende della dominazione araba in Sicilia. Le iscrizioni esistenti
nelle chiese e nei palazzi portarono allo studio della lingua araba ed
in Palermo sorse anzi una cattedra speciale per l'insegnamento di
questa. Ma la cosa non avvenne senza grottesca soperchieria, la quale
valse a provare sino a qual segno ogni tradizione araba fosse scomparsa
dall'isola in cui un tempo gli stessi re cristiani avevano parlato
quella lingua. Il maltese Giuseppe Vella venne a Palermo e si spacciò
per dotto orientalista, falsificando anche un codice contenente
parecchie corrispondenze degli Arabi in Sicilia. L'abile falsario seppe
ingannare tutta quanta l'Europa erudita, fintanto che, smascherato,
venne rimosso dalla cattedra e imprigionato.

Frattanto però presero a dedicarsi allo studio dell'arabo parecchi
Siciliani, fra i quali Airoldi, Rosario e Morso, quest'ultimo in special
modo, che successe al Vella nella cattedra e fu in relazione con i
maggiori orientalisti, col Tichsen, col Silvestre, col Sacy, con
l'Hammer e col Frahn, e molto si adoperò nell'interpretazione delle
iscrizioni cufiche esistenti in Palermo. Ne risultarono opere veramente
utili, come la _Rerum Arabicarum quae ad historiam siculam spectant
ampla collectio_ di Gregorio, pubblicata a Palermo nel 1790; le _Notizie
storiche dei Saraceni siciliani_ del Martorana, pubblicate del pari a
Palermo, nel 1833; ed infine la _Storia dei Mussulmani in Sicilia_,
dovuta all'insigne Michele Amari, ma di cui furono editi soltanto i due
primi volumi.

Lo studio delle antichità arabe risvegliò anche l'amore per
l'architettura saraceno-normanna, e divenne così generale, che molte
botteghe della bella via Toledo di Palermo sono oggi ornate alla foggia
araba e in stile arabo sono costruite molte ville di ricchi possidenti
nella campagna.

Il gusto corrotto dei palazzi e delle ville siciliane è noto a tutti per
la sua straordinaria bizzarria. Mentre si avevano sott'occhio dei
modelli graziosissimi e si avevano alle porte di Palermo la Cuba e la
Zisa, mentre esistevano nella stessa città edifici dell'epoca normanna o
posteriori, come, per esempio, il palazzo del tribunale, che insegnavano
come anche in edifici grandiosi si potesse unire la semplicità
all'armonia delle proporzioni ed alla sobrietà della decorazione, si
preferì innalzare costruzioni di gusto esageratamente barocco, come la
villa del principe di Palagonia, o ricorrere al gusto cinese, come nella
regale villa della Favorita.

In questi ultimi tempi veramente si è fatto ritorno allo stile
arabo-normanno, e farà epoca fra le moderne costruzioni la villa Serra
di Falco, innalzata a poca distanza dalla Zisa da quel duca che è
altamente benemerito per lo studio delle antichità siciliane. I
magnifici giardini di questa palazzina dànno l'illusione di rivivere ai
tempi di Hassan.

In Palermo, il marchese Forcella innalzò pure un bel palazzo di stile
arabo-normanno, nel quale sono però alcune cose grottesche come in tutte
le imitazioni di architettura passata. Questo palazzo sorge in piazza
Teresa, presso la porta dei Greci; il proprietario vi spese ingenti
somme e i lavori non ne sono peranco ultimati. All'esterno le finestre
sono a doppio arco di sesto acuto, divise da una colonnetta, guarnite
con vetri colorati. Le sale sono parecchie e ricche, in specie quelle
centrali, di gusto tutt'altro che arabo, con le pareti rivestite di
marmi e di pietre dure, preziosi quelli e queste, di vario colore, a
disegni graziosissimi. La volta è ornata fantasticamente, e il pavimento
è in marmo di vario colore; questa profusione di marmi prova la
ricchezza mineralogica dell'isola. A rendere quest'edificio simile ad
un'Alhambra non manca nemmeno una fontana. Altre stanze furono dal ricco
marchese decorate in stile romano e pompeiano e dimostrano l'abilità dei
Siciliani nell'affresco, imperocchè tutte le imitazioni di pitture
antiche furono colà eseguite unicamente da artisti nati e vissuti
nell'isola.


                                   II.

Due isole molto distanti fra loro, l'Inghilterra e la Sicilia furono ad
uno stesso tempo conquistate da una razza audace e avventuriera, quella
dei Normanni, che, dopo avervi per poco brillato, vi si spense. Nell'una
e nell'altra isola venne introdotto il governo feudale, con baronie e
maggioraschi, i quali durano ancor oggi[5]. In entrambe le isole si
formò una costituzione aristocratica, che si sviluppò possente in
Inghilterra e di cui rimangono ancora vestigia in Sicilia, ove più
presto si estinse.

Questa similitudine di destini fra le due isole è abbastanza singolare e
potrebbe servire a spiegare altri fatti storici avvenuti dopo la
Rivoluzione francese, fra i quali la costituzione introdotta dagli
Inglesi in Sicilia nel 1812.

La signoria dei Normanni in Sicilia fu di breve durata; brillò appena un
secolo e ne furono caratteri distintivi l'intelligenza, la costanza,
l'audacia quasi feroce, una politica vasta e intraprendente, una grande
vastità di disegni e di imprese. Tutto ciò soggiacque al contatto della
vita voluttuosa dei Saraceni, al clima, alla libidine sfrenata delle
partigianerie.

Nel 1038 Giorgio Maniace era stato invitato in Sicilia dall'Imperatore
greco per cacciarne i Saraceni. Egli si rivolse a Guaimaro perchè gli
concedesse una piccola schiera di Normanni che teneva al suo servizio;
Guaimaro gli mandò circa trecento uomini al comando di Guglielmo dal
braccio di ferro, di Dragone e di Umfrido. Greci e Normanni si
precipitarono sull'isola, posero in fuga gli Arabi, s'impadronirono di
Messina, Siracusa e altre città; ma l'avidità del bottino portò fra loro
la discordia; i Greci rapaci volevano tutto per sè; allora i Normanni,
offesi, partirono, passarono in Italia e cercarono quivi qualche altro
compenso. Sorpresero Melfi ed altri paesi delle Puglie, cominciarono per
questa via a stabilire la propria indipendenza. Ma non appena i Greci
seppero questo, abbandonarono la Sicilia per cacciarli dalle Puglie, ma
non vi riuscirono, e le città da loro conquistate in breve tornarono in
potere dei Saraceni.

Trascorsero così varî anni senza speciali avvenimenti; i Normanni
riaffermarono il loro prestigio nelle Puglie, Guglielmo ne divenne
conte, più tardi Drogone ne ereditò i possessi, e Umfrido, dopo la morte
di quest'ultimo, costrinse papa Leone IX a concedergli l'investitura
della provincia. Novelle schiere vennero dalla Normandia, sotto il
comando di Ruggero Guiscardo, il quale, dopo la morte di Umfrido,
avvenuta nel 1056, si fece proclamare duca delle Puglie e delle
Calabrie. Più tardi discese anche suo fratello minore, Roberto, per
dividerne le sorti. I due valorosi fratelli nel 1060 occuparono Reggio
ed una notte, Ruggero, accompagnato da soli sessanta soldati, mosse alla
volta di Messina, per conoscere le condizioni del paese; attaccò
audacemente sulla spiaggia i Saraceni, quindi s'imbarcò di nuovo e fece
ritorno a Reggio. Poco dopo, la fortuna volle favorirlo ed egli si
accinse seriamente all'arrischiata impresa. A lui si presentò l'emiro di
Siracusa, Bencumen, scacciato dal fratello Belcamend, e lo informò delle
lotte che travagliavano l'isola e lo persuase di tôrre agli Arabi il
possesso della Sicilia.

L'impresa non fu certo facile. I Saraceni opposero la più viva
resistenza e nuove truppe vennero dall'Africa per respingere Ruggero,
che, dopo una sanguinosa battaglia, si era impadronito di Messina.
Roberto lo raggiunse allora a Castrogiovanni; l'esercito principale dei
Saraceni fu posto in fuga, dopo di che i Normanni fecero ritorno nelle
Calabrie per rafforzare le proprie file e prepararsi ad una più seria
lotta. Almocz, califfo d'Egitto, aveva frattanto spedito in Sicilia una
flotta, la quale però fu dispersa da una tempesta e distrutta presso
l'isola di Pantelleria. La fortuna aveva arriso agli arditi
avventurieri, ma la discordia minacciò di rovinarli. Roberto Guiscardo
cominciò ad avere invidia dei successi del fratello Ruggero, pretendendo
il possesso di metà delle Calabrie e dell'intera Sicilia; l'altro non
volle aderirvi e i due eroi ricorsero alle armi, e, senza curarsi dei
Greci e dei Saraceni, nè della poca stabilità delle recenti conquiste,
presero a straziarsi fra loro in una guerra feroce. Ruggero cadde nelle
mani di suo fratello, che, però, cedendo all'influenza di quell'uomo
straordinario, lo lasciò libero. Allora, riconciliati, i due fratelli si
rivolsero verso la Sicilia e due volte si spinsero sino a Palermo, ma
dovettero quindi far ritorno nelle Calabrie per sistemare la loro
posizione in quel dominio. Soltanto nel 1071 poterono stringere di
regolare assedio la capitale dell'isola. A quell'epoca Palermo era forse
la città più popolosa d'Italia, senza dubbio la più florida, la più
ricca: in essa era tutto lo splendore della vita orientale. Gli Arabi
opposero fiera resistenza e narra la tradizione che, per dimostrare la
loro fiducia nell'esito della lotta, essi non chiudessero neppure le
porte della città e che un ardito cavaliere normanno l'attraversasse un
giorno da solo, di galoppo, con la lancia in resta. Finalmente Roberto
penetrò per la porta di mezzogiorno, mentre Ruggero entrava per quella
di ponente. I Saraceni, ritiratisi nel centro della città, capitolarono,
cedendo Palermo al fortunato vincitore, a condizione che fosse loro
garantita salva la vita e libero l'esercizio del loro culto.

Venti anni appresso i cristiani entrarono in Gerusalemme, conquistata
pure a forza, e si portarono quali orde selvagge. I Normanni, invece,
essi pure valorosi crociati, furono più clementi e risparmiarono Palermo
maomettana. Presero possesso della splendida città senza versare sangue,
senza commettere devastazioni, quali vincitori soddisfatti, che non
avevano altro scopo che cacciare il nemico dalle sue voluttuose dimore
per alloggiarvisi. Nessuno di quegli scoppi d'odio di cui diedero prova
più tardi i cristiani contro i maomettani avvenne; i Saraceni furono
lasciati liberi di vivere come volevano e di esercitare la loro
religione. Il cristianesimo, languente, riprese forza e in breve si
sostituì all'islamismo, che soltanto sopravvisse, per quasi
centocinquant'anni ancora, fra i monti.

I Normanni furono per ragioni politiche tolleranti verso i Saraceni e
vissero con questi in perfetto accordo; i conquistatori, in picciol
numero, presto scomparvero quasi in mezzo alla popolazione saracena, che
seppero guadagnare a sè, trattandola con dolcezza. Accettarono le arti e
le scienze degli Arabi; nei loro edifici usarono lo stile arabo e la
stessa corte cristiana prese un carattere arabo, circondandosi di
guardie saracene, di eunuchi, ed adottando pure la foggia turca di
vestire. Allorquando Mohamed-Ibn-Djobair di Valenza visitò la Sicilia,
sullo scorcio del secolo XII, lodò re Guglielmo pel suo amore verso
l'islamismo. «Il re--scrisse--legge e scrive l'arabo, e il suo _harem_ è
composto di donne mussulmane, e mussulmani sono i suoi paggi e i suoi
eunuchi». Il visitatore trovò le donne di Palermo belle, voluttuose,
vestite completamente alla turca, e nel vederle, nei giorni di festa, in
chiesa, con abiti di seta gialla, con veli dai vivaci colori, con
catenelle d'oro e grandi orecchini, dipinte e profumate come le femmine
orientali, ricordò i versi del poeta: «In verità, quando si entra in un
giorno di festa nella moschea, vi si trovano gazzelle ed antilopi».

La lingua araba continuò ad essere insegnata, ed usata anche negli atti
governativi; ed anche le iscrizioni arabe, visibili tuttora nei mosaici
delle chiese cristiane, furono dai re e dai vescovi cristiani dettate. I
Normanni in Sicilia trovarono la lingua greca degli antichi Elleni, dei
Bizantini e la lingua latina degli antichi Romani; nella bocca del
popolo il linguaggio volgare, che divenne poi l'italiano; ed infine, gli
idiomi arabo ed ebraico, tutti contemporaneamente in uso e tutti usati
nei diplomi, in sulle prime scritti in greco con la traduzione araba.

Caduta Palermo, l'isola fu suddivisa: Roberto Guiscardo prese per sè la
capitale e metà della Sicilia; Ruggero ebbe l'altra metà; al prode
nipote Serlo furon date grandi baronie e l'altro nipote Tancredi fu
creato conte di Siracusa. Roberto prese il titolo di duca di Sicilia,
Ruggero quello di conte. Ma l'isola non era ancora tutta soggiogata;
Siracusa, difatti, si arrese solo nel 1088, Agrigento nel 1091, e più
tardi anche Castrogiovanni, Noto e Butera. Fino al 1127 i ducati delle
Puglie e di Sicilia si mantennero in questo stato di cose; ma nel 1127,
estintosi il ramo di Roberto Guiscardo, il figlio di Ruggero ereditò
pure gli Stati al di là del Faro. Fu questi Ruggero II, il principe più
insigne della stirpe normanna. Suo padre, che valorosamente aveva
conquistato la Sicilia, era morto nel 1011; gli era succeduto il figlio
maggiore Simone per cinque anni; poi, ancora minorenne, sotto la tutela
della madre Adelasia e dell'ammiraglio Giorgio Antiocheno, Ruggero era
salito sul trono.

Ruggero, possessore di tutte le virtù necessarie in un fondatore di
dinastia, sollevò il regno normanno a grande splendore. Nel 1127 ereditò
il ducato delle Puglie, come abbiamo detto, e ciò spaventò il papa,
l'imperatore tedesco e quello bizantino; ma Ruggero combattè con fortuna
contro tutti e tre, e poi contro i principi di Salerno, di Capua, di
Napoli, di Avellino e costrinse il papa a concedergli l'investitura
delle Puglie ed infine si cinse della corona reale. Non potè però far
questo senza il consenso del Parlamento, dei baroni e dell'alto clero,
poichè, seguendo l'usanza dei conquistatori normanni, per creare una
nobiltà novella era stata stabilita una certa forma di costituzione
aristocratica. Il Parlamento, convocato a Salerno, decretò al principe
la corona regale, che gli fu solennemente posta in testa nella
cattedrale di Palermo, il dì di Natale del 1130. Così sorse il regno
delle Due Sicilie.

Subito Ruggero si die' a ordinare la sua monarchia, in modo grandioso e
sicuro: creò sette grandi ufficiali della corona, un connestabile, un
grande ammiraglio, un cancelliere, un giudice, un ciambellano, un
pronotario, un maresciallo, che formarono il suo consiglio. Si circondò
di un cerimoniale orientale, affidò la custodia del palazzo ad eunuchi e
a guardie saracene. Il suo regno trascorse fra continue lotte, in
continua guerra; ma seppe tener fronte a tutti i suoi nemici, interni ed
esterni; ispirò vivo terrore nella stessa Costantinopoli all'imperatore
greco, il quale non intendeva rinunziare a' suoi diritti sulla Sicilia;
s'impadronì di Corinto, di Atene e di Tebe; portò dalla Grecia a Palermo
molti operai abili nel filare e nel tessere la seta, contribuendo a
propagarla così nell'Occidente, e da questi fece fabbricare il pallio
famoso che vestirono più tardi gl'imperatori tedeschi nell'atto della
loro incoronazione; conquistò poscia Malta, inviò centocinquanta
bastimenti in Africa e punì quello stesso regno di Kairewan che aveva
conquistato la Sicilia. Durante la sua signoria la potenza normanna
raggiunse l'apogeo. Egli morì il 26 febbraio 1154, cinquantanovenne. Fu
principe di grande prudenza, valore, giustizia e ingegno: fu bello di
persona, disinvolto e distinto. Verso gli Arabi si dimostrò tollerante e
tenne in gran conto la loro scienza e la loro arte. Fra gli altri,
accolse onorevolmente alla sua corte Edris Edscheriff, esiliato
dall'Africa, che gli costruì una sfera terrestre d'argento, sulla quale
erano disegnate tutte le contrade allora note, con la loro denominazione
in lingua araba, e scrisse una geografia nota generalmente sotto il nome
di re Ruggero, un estratto della quale, la _Geografia Nubiense_, venne
più volte stampata a Roma, a Parigi e per ultimo a Palermo nel 1790.

Segno veramente espressivo del carattere di Ruggero era l'iscrizione
incisa sulla lama della sua spada: _Apulus et Calaber, Siculus mihi
servit et Afer_.

Gli successe Guglielmo I, per le sue cattive qualità detto il Malo. Egli
era l'unico figlio superstite a Ruggero, imperocchè gli altri quattro,
Ruggero, Anfuso, Tancredi ed Enrico precedettero tutti il padre nella
tomba. Fu sorprendente la rapida decadenza di una stirpe tanto forte e
numerosa: in pochi anni si ridusse ad un unico discendente collaterale,
ed insieme il Regno di Sicilia decadde rapidamente dall'altezza a cui
Ruggero aveva saputo portarlo. Morto questi, si dovette riconoscere che
tutta la forza del nuovo regno riposava esclusivamente nella sua
persona. Sotto il governo di Guglielmo il Malo non tardò la Sicilia a
ricadere in tali condizioni da ricordare gli emirati dei Saraceni, sotto
l'influenza di un favorito del re, avventuriero straniero al paese, il
grande ammiraglio del regno Maione di Bari, il quale attentò alla
corona. Non vi furono che congiure, rivoluzioni di palazzo, ribellioni
di nobili, un caos ovunque. L'odioso re Guglielmo, dopo una vita
travagliata, ma non senza qualche successo in guerra, morì nel 1166, in
età di quarantacinque anni.

Con suo figlio Guglielmo II, detto il Buono, salito sul trono a soli
undici anni, si estinse la linea diretta della stirpe normanna. I primi
anni del suo regno furono agitatissimi, a motivo delle contestazioni
sulla tutela, delle ribellioni dei baroni e degli intrighi di corte. I
Normanni avevano saputo magnificare e conquistare un regno, ma non se lo
seppero mantenere. Non appena il clima ed il lusso orientale
cominciarono ad infiacchire in essi la nordica forza, decaddero, ed
infine il feudalismo e la prepotenza indomabile dei nobili li vinsero.
Nessuna dinastia, del resto, avrebbe potuto mantenersi a lungo sul
vulcanico suolo di Napoli e di Sicilia; tutte furono d'origine
straniera, tutte vennero in possesso dell'isola in modo avventuroso,
tutte finirono miseramente e per lo più per tradimento. Guglielmo II,
del resto, fu molto dissimile dal padre, e la posterità gli confermò il
titolo di Buono che il clero, per gratitudine, avevagli dato. Mentre
Guglielmo il Malo viveva come un maomettano e si fabbricava sontuosi
palazzi e giardini, Guglielmo il Buono fondava monasteri e conventi. A
lui sono dovuti parecchi monumenti d'architettura religiosa, in ispecie
il famoso duomo di Monreale e la cattedrale di Palermo. Morì il 1^o
novembre 1189, in età di soli trentasei anni.

Della stirpe di Ruggero I non rimaneva più che un bastardo, Tancredi
conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero, primogenito di re Ruggero,
premorto al padre; inoltre, l'altra figlia Costanza aveva sposato
l'imperatore Arrigo VI; erede legittimo delle Due Sicilie sarebbe dunque
stato l'imperatore. Ma il partito nazionale si rivolse a Tancredi, conte
di Lecce, che venne a Palermo nel 1190 e si fece incoronare. Questo
prode bastardo ebbe molti punti di somiglianza con re Manfredi, vissuto
dopo di lui; come questo fu uomo d'ingegno, poeta, musico, versato nelle
matematiche e nell'astronomia, che gli Arabi avevano allora diffuse, e
come questo fu generoso ed infelice. Riuscì vittorioso nei primordi
della guerra che ebbe a sostenere contro i Tedeschi di Arrigo, per
assicurarsi il possesso del regno, e quando Costanza cadde nelle sue
mani, la trattò con grande cavalleria, restituendole la libertà. Pareva
che la nobile stirpe dei Normanni dovesse rifiorire in Tancredi, che
aveva, ei pure, due figli, Ruggero e Guglielmo, al primo dei quali,
bellissimo giovane, aveva dato in isposa Irene, la figlia
dell'imperatore greco Isacco Angelo ed avevalo già fatto incoronare re,
quando il giovane repentinamente morì nel 1193. Tancredi provò gran
dolore alla perdita di questo figlio, tanto che presto, il 20 febbraio
1194, lo raggiunse nella tomba. Rimase suo unico erede Guglielmo, ancor
minorenne, che fu incoronato a Palermo. La reggenza venne assunta dalla
vedova di Tancredi, Sibilla, che aveva pure tre figlie: Albina, Costanza
e Mandonia.

In questo stato di cose, facile fu ad Arrigo conquistare la Sicilia.
L'esercito di Sibilla fu sconfitto; Messina, Catania e Siracusa caddero
nelle mani dell'imperatore e i baroni passarono dalla parte di questo.
L'infelice regina si era ritirata co' figli suoi nella rocca di
Caltabellotta ed attendeva colà il corso degli avvenimenti. Il 30
novembre 1194, Arrigo era entrato in Palermo, che avevagli fatto festosa
accoglienza, salutando con musica ed inni di gioia la nuova signoria
degli Svevi. Sibilla, allora, vistasi da tutti tradita, si decise a
trattare, ed il giovane principe Guglielmo, cui l'imperatore aveva
promesso solennemente la contea di Lecce e il principato di Taranto,
venne a deporre a' suoi piedi la corona. Ma gl'infelici erano caduti in
un tranello: Arrigo, non appena incoronato, col pretesto di una falsa
congiura, dimentico de' suoi giuramenti, sfogò la sua selvaggia passione
di vendetta contro i partigiani della stirpe normanna e contro la misera
famiglia regale. Molti baroni e sacerdoti furono tormentati e condannati
a morte; Sibilla e i suoi figli furon cacciati in carcere, e Guglielmo,
l'ultimo campione della sua gente, venne accecato. Indi la regina e le
figlie furono trasportate nel monastero di Hoenburgo, in Alsazia, ove a
lungo vissero in prigionia. S'ignora qual fine facesse Guglielmo; una
vaga leggenda vuole che ei fuggisse dal carcere e vivesse a lungo da
eremita a S. Giacomo, presso Chiavenna.

Così tragicamente si spense la stirpe normanna, cui la fortuna aveva
fatto dono di una fra le più belle contrade del mondo, e la sua fine fu
tanto più notevole in quanto che non tardò a tenergli dietro quella
degli Hohenstaufen. La Nemesi vendicativa colpì questa pure. Come erasi
impadronita della signoria di Sicilia col sangue e la crudeltà, così
ebbe a patire la stessa sorte, raccogliendo quel che aveva seminato.
Secondo la tradizione, Federigo nacque lo stesso giorno in cui suo padre
Arrigo macchiava la sua mano di sangue, il 26 dicembre 1194. Arrigo morì
tre anni dopo in Messina, di soli 32 anni. Manfredi, bastardo al pari di
Tancredi ed al pari di Tancredi prode e generoso, fu tradito e cadde
nella battaglia di Benevento; Elena, sua moglie, ricoveratasi nella
rocca di Trani, come un dì Sibilla co' suoi figli in quella di
Caltabellotta, al pari di lei si vide tradita e fu rinchiusa insieme con
i figli in carcere, dove morì di dolore; sua figlia Beatrice visse per
ben diciotto anni nel Castel dell'Uovo a Napoli; i tre figli minori,
Enrico, Federigo e Anselmo rimasero per trenta anni in carcere, e
Corradino, infine, lasciò la vita sul patibolo. Tanto sangue versato
suscitò novella sete di vendetta che poi si sfogò sopra gli Angioini,
nei Vespri siciliani.

Gli Hohenstaufen trovarono, del resto, l'isola in floride condizioni;
paese dalla natura prediletto, la Sicilia era divenuta durante la
signoria normanna ricca, mercè l'industria e il commercio. Nessun nemico
esterno in quel periodo era entrato nella città, mentre dall'Oriente e
dall'Africa erano stati portati in grande quantità oggetti preziosi.

Allorquando Arrigo VI entrò in Palermo, rimase impressionato dallo
splendore della città, e trovò nel palazzo dei re normanni grandi
tesori, oro, gemme, rare stoffe di seta, che fece imbarcare.

Arnoldo, abate di Lubecca, narra che «entrato Arrigo nella dimora del
morto Tancredi, vi trovò letti, sedili, tavole d'argento, vasellame
d'oro finissimo, tesori nascosti, gemme, meravigliosi gioielli sì da
caricarne centocinquanta bestie da soma, facendo ritorno in patria ricco
e glorioso».

Fu in questa occasione che venne portato in Germania il prezioso manto,
tessuto con seta, ornato di caratteri arabi, che aveva servito
all'incoronazione di Ruggero I, e che, nel 1424, per volere
dell'imperatore Sigismondo, fu riunito con altri gioielli dell'Impero a
Norimberga, tanto che poi lo si credette il pallio di Carlomagno.

Reynaud recentemente ha dato questa traduzione dell'iscrizione araba
ricamata sul manto di re Ruggero: «Tessuto nella fabbrica reale, nella
sede della felicità, della nobiltà, della gloria, del conseguimento
duraturo del benessere, della buona accoglienza, della fortuna, dello
splendore, della reputazione, della bellezza, del compimento di ogni
desiderio, di ogni speranza; del piacere del giorno e della notte, senza
tregua, della devozione, della conservazione, della simpatia, della
felicità, della salute, dell'aiuto, della soddisfazione, nella città di
Sicilia nell'anno 528» (1133 dell'èra volgare). Questa orgogliosa ed
ampollosa iscrizione in stile orientale, sul manto solenne di un re
normanno, basta a provare quanto i Normanni si compiacessero di
conformarsi agli usi ed ai costumi arabi.

Di quei tempi ci rimane una delle più antiche descrizioni di Palermo,
quella del normanno Ugo Falcando, che visse in quella città durante il
regno di Guglielmo il Malo, e che poi fece ritorno nella sua patria.
Mentre la dinastia di Ruggero stava per estinguersi, egli scrisse
un'epistola a Pietro, tesoriere della cattedrale di Palermo, lamentando
i mali che stavano per cadere sopra la città e dando un'idea della sua
bellezza. La sua lettera rivela un odio feroce contro i Tedeschi. Dopo
aver rivolto apostrofi piene di entusiasmo verso i Normanni che a
Messina ed a Catania stavano allora lottando coi barbari, si rivolge a
Siracusa, esclamando: «Dovrà dunque ridursi a servire i barbari l'antica
nobiltà di Corinto che, abbandonata la propria patria, venne in Sicilia
per edificare una città, e finì per stabilirsi sulla costa più amena
dell'isola ed ivi innalzò una città, fra porti che non hanno gli eguali?
A che ti vale ora l'antico splendore de' tuoi filosofi, dei poeti che
s'inspirarono alla tua fonte profetica? A che ti vale avere scosso il
giogo del tiranno Dionigi e de' suoi eguali? Minor danno sarebbe per te
stato sopportare il furore dei despoti siciliani, piuttosto che la
tirannia di un popolo barbaro e crudele. Guai a te, guai a te, Aretusa,
fonte cantata da uomini illustri che, dopo aver offerto ai vati
l'ispirazione, devi saziare l'ebbrezza dei Tedeschi e soffrire le loro
turpitudini!»

La lettera di Falcando è un documento importantissimo per la conoscenza
delle condizioni di Palermo al tempo dei Normanni. A questo proposito,
l'autore ad un certo punto esclama: «Chi potrà mai bastantemente
esaltare la bellezza degli edifici di questa nobile città? Chi
l'abbondanza delle fontane sgorganti d'ogni parte? Chi lo splendore
della lussureggiante vegetazione? Chi gli acquedotti, che in tanta
abbondanza forniscono alla città il salutare elemento?»

Ancora prima di Falcando, Ibn-Hankal di Bagdad, verso la metà del secolo
X, aveva dato una descrizione di Palermo in un'opera geografica,
descrizione che venne pubblicata, tradotta in francese da Michele Amari,
a Parigi nel 1845. Il lavoro non è di gran mole, ma ha un certo valore.
L'autore divide Palermo in cinque quartieri, e nell'Alcazar (la
Paleopoli di Polibio) fa menzione della grandiosa moschea, l'antica
cattedrale dei cristiani, nella quale eravi una cappella in cui stava
sospesa per aria la tomba di Aristotile. Ivi, nei tempi anteriori,
venivano i cristiani a pregare per implorare la pioggia.

Nel Khalessah stava la dimora dell'emiro; nel Sakalibah (secondo
l'Amari, quartiere degli Schiavoni) c'era il porto; il quarto quartiere
era quello della moschea di Ibn-Saktab; a mezzogiorno della città si
stendeva il quartiere di El-Jadid, l'attuale Albergaria.

Ibn-Hankal accenna anche ai mercanti, alle loro botteghe, specie quella
dei macellai, alla preparazione dei papiri, ed ancor più descrive le
fontane, sopratutto quella di Favara.

Ho già ricordato il viaggio di Mohamed-Ibn-Djobair, che contiene pure
una pregevole descrizione della città sotto i Normanni: egli paragona
Palermo, specialmente la città antica, l'Alcazar, per i suoi bei palazzi
e le sue torri, a Cordova. «La città, egli scrive, è fabbricata
mirabilmente sullo stesso tipo di Cordova, tutta in pietra lavorata,
della cosidetta El-Kiddan. I palazzi reali stanno all'intorno e la
circondano come una collana posta sul bel collo di una fanciulla».

Le notizie di questi due Arabi e dell'ebreo Beniamino di Tudela
completano la breve descrizione del normanno Falcando, il quale descrive
pure i principali edifici di Palermo ed afferma che la città al suo
tempo si era mantenuta divisa in quartieri, come sotto la dominazione
araba, e che parecchie piazze e strade e porte avevano conservato i loro
antichi nomi arabi. Da quanto egli narra si arguisce che la città a quel
tempo si trovava nel suo massimo splendore. Per la ricchezza e la
bellezza dell'architettura indubbiamente il periodo normanno fu il più
felice e normanni sono difatti i monumenti più notevoli che ancora
rimangono. Gli Svevi, compreso Federico, non hanno lasciato alcun
ricordo architettonico. Per varie ragioni essi dimorarono sempre fuori
dell'isola, mentre i principi normanni stabilirono colà la loro dimora e
cercarono di dare alla città lo splendore necessario alla capitale di
una nuova e possente monarchia.

Ci resta ora da parlare dei principali monumenti dell'epoca normanna,
primo fra tutti il palazzo reale. Questo castello, così
straordinariamente interessante in special modo pei Tedeschi, poichè fra
le sue mura trascorse la poetica giovinezza uno dei più grandi
imperatori di Germania, e del pari interessante per gl'Italiani, che lo
considerano quale culla della poesia nazionale,--sorge in fondo alla
via detta Cassero, sulla piazza da cui si domina tutta la città. A
quanto pare, è l'edificio più antico di Palermo, non risalendo soltanto
ai Saraceni, ma ai Cartaginesi, ai Romani ed ai Goti, che vi stabilirono
la loro sede principale. Ivi sorgeva indubbiamente il palazzo degli
emiri, da cui si farebbe derivare il nome di Cassero, che fui poi esteso
a tutta la città e finì per rimanere alla strada principale. Si vuole
che il palazzo sia stato costruito dal saraceno Adelkam. Ruggero I e il
suo successore lo ampliarono; ivi vissero Federico, Manfredi e i suoi
successori, che lo resero sempre più vasto, riducendolo nella forma
irregolare di palazzo e di fortezza che attualmente presenta.

Falcando così ce lo descrive ai tempi di Guglielmo il Malo: «Lo stupendo
edificio è costruito con pietre lavorate con grande cura ed arte
squisita; è circondato da solide mura ed è pieno di ori e di argenti.
Alle estremità sorgono due torri, la Pisana, destinata a custodire i
tesori regali, e la Greca, dominante la parte della città chiamata
Khemonia. Nel centro sorge una sala straordinariamente decorata, per
nome _Ioaria_, in cui si trattengono in udienze segrete il re e i suoi
confidenti, ed in cui il re concede udienza ai baroni, per discutere
degli affari più importanti del regno».

Quasi ogni traccia di quelle antiche costruzioni è ormai andata perduta;
solo rimane la torre di S. Ninfa, che doveva essere la parte più antica
del castello, e la famosa cappella palatina. In cima alla torre sorge
l'osservatorio, da cui padre Piazzi, il 1^o giugno 1801, scoprì Cerere,
la stella dal nome della Dea protettrice dell'isola. Il cortile ha tre
ordini di portici, che lo circondano; al primo piano trovasi la celebre
cappella palatina, uno dei più bei monumenti dell'epoca normanna,
costruita da re Ruggero nel 1132 e dedicata a S. Pietro. Essa è connessa
al palazzo e non ha una vera facciata; vi si accede da un portico
sostenuto da otto colonne di granito egiziano, con mosaici nelle parti
superiori, illustranti i fatti dell'antico Testamento e l'incoronazione
di Ruggero. Sull'ingresso sta un'iscrizione in lingua greca, araba e
latina, che indica come il re avesse fatto disegnare con somma cura nel
palazzo un orologio solare. L'iscrizione in lingua araba è stata così
tradotta: «Fu dato ordine dalla maestà reale, il magnifico ed illustre
re Ruggero, che Iddio protegga ed eterni, di costruire questo strumento
per segnare le ore, nella metropoli di Sicilia, protetta da Dio, l'anno
536» (dell'Egira).

La basilica, davvero caratteristica, fantastica e misteriosa, non
paragonabile a nessun altro tempio italiano dello stesso genere,
scarsamente illuminata dal sole, ha le pareti rivestite di marmi e di
mosaici a figure su fondo d'oro, che a momenti si perdono nella dubbia
luce e a momenti, colpite da un raggio improvviso e passeggero, balzano
fuori violentemente. Quando io vi entrai, si stava celebrando una messa
solenne da morto per l'ultimo re defunto. Nella navata centrale sorgeva
un alto catafalco coperto di velluto nero, su cui posava una regale
corona d'oro; tutt'intorno ardevano ceri e sotto le volte risuonavano i
canti dei sacerdoti e si elevavano nubi d'incenso. Lo spettacolo, fra lo
splendore misterioso dei mosaici e le decorazioni arabe, riportava la
fantasia ai tempi di re Ruggero.

La cappella ha forma di basilica, con una tribuna e superiormente una
cupola d'oro. Dieci colonne corinzie, sulle quali riposano gli archi, la
dividono in tre navate. Le pareti, all'intorno, sono del pari rivestite,
sino all'altezza di dodici palmi, di marmi diversi, e al disopra,
ovunque, sono mosaici, che illustrano gli episodi dell'antico e del
nuovo Testamento. Sull'arco della tribuna vi è rappresentata
l'Annunciazione e sulla tribuna stessa una mezza figura gigantesca di
Cristo, con la mano sollevata in atto di benedire. Sotto le figure
stanno iscrizioni greche e latine. Questi mosaici non risalgono a
Ruggero I, ma a Guglielmo I, secondo quanto afferma Romualdo da Salerno,
il quale ha lasciato scritto che «Guglielmo fece ornare di pitture
preziose la cappella di S. Pietro, nel palazzo, e ne fece rivestire le
pareti di marmi preziosi». Ciò non esclude però che tali lavori fossero
stati iniziati, come pare, da Ruggero.

A quel che sembra, in Sicilia e nell'Italia meridionale esisteva una
scuola di mosaicisti greci, i quali allo stile bizantino diedero una più
vivace espressione. Infatti, i mosaici siciliani sono di una dolcezza
tutta speciale, non hanno nulla della durezza e dell'angolosità della
scuola bizantina. Mentre i Veneziani chiamavano mosaicisti da
Costantinopoli per la decorazione del S. Marco, i Normanni, allorchè
edificarono in Sicilia le loro chiese, vi trovarono già una scuola, che
era in fiore al tempo dei Greci, come ne fa fede il tempio grandioso di
Gerone a Siracusa, ove era rappresentata in mosaico l'_Iliade_. La
pratica di quest'arte non venne mai meno: sul finire del secolo IV
dell'èra cristiana gli artefici del mosaico in Sicilia erano superiori a
quelli di Roma, da quel che si rileva dall'epistola che papa Simmaco
scrisse ad un certo Antioco di Sicilia per avere dei modelli per i
mosaicisti romani: «L'eleganza del tuo ingegno--dice la lettera--e la
squisitezza delle tue invenzioni meritano di essere tenute in gran
conto, poichè tu hai trovato nell'arte tua mezzi nuovi, prima
sconosciuti, e ci piacerebbe poter ornare con qualcosa di tuo i nostri
appartamenti: inviaci dunque una tavola, o una lastra di marmo con un
modello dei metodi nuovi da te escogitati».

L'arte del mosaico non si perdette nell'isola, neppure sotto la
dominazione degli Arabi; la Sicilia si era mantenuta sempre in relazioni
continue con Costantinopoli, e gli Arabi si valsero dell'opera loro per
ornare le proprie case, con figure e sopratutto con disegni capricciosi
e con arabeschi. Molto probabilmente i lavori in mosaico del duomo di
Salerno, di quello di Palermo, di quello di Monreale, sono opera di
scuola indigena dell'Italia meridionale. Ruggero stesso fece eseguire
notevoli lavori in mosaico nel suo palazzo e la cappella palatina è
adorna di dorature, pitture e arabeschi, che conferiscono ancor più al
tempio un carattere misterioso.

Nel 1798 fu scoperta nella vòlta di questa cappella una lunga iscrizione
araba, in caratteri cufici, compresa in venti grandi compartimenti,
che, per quanto si potè decifrarla, si riferiva al fondatore della
cappella ed al tempio stesso, con parole esagerate di lode e invocazioni
di durata. Siccome poi quest'iscrizione, al pari di tutte le altre arabe
che sono nelle chiese palermitane, era di origine cristiana, si rimane
davvero stupiti nel trovare adoperata con tanta ingenuità nei tempi
cristiani la lingua e le parole del Corano, specie in un'epoca in cui il
fanatismo religioso dei crociati aveva raggiunto l'apogèo. Come
facilmente si arguisce, nessuna di queste iscrizioni è tolta
testualmente dal Corano, ma coi caratteri serba anche una certa impronta
mussulmana. L'idioma arabo a quel tempo non era ritenuto da meno del
greco, e l'Oriente, per intelligenza e per civiltà, era grandemente
superiore all'Occidente, e buona parte della letteratura greca era pure
stata rivelata all'Occidente per mezzo della lingua araba che divenne
quasi una lingua ufficiale. Del resto, i caratteri orientali avevano un
non so che di enigmatico, di misterioso; avevano già in sè delle linee
geometriche e si prestavano quindi mirabilmente all'ornamento delle
pareti e delle colonne delle basiliche siciliane, che formano quasi un
nesso tra il cristianesimo e l'Oriente, nella stessa guisa che quelle
di Roma lo formano tra il paganesimo e il cristianesimo.

Negli archivi della cappella palatina sono conservati parecchi diplomi
greci, latini ed arabi del periodo normanno ed un prezioso cofano
circondato d'iscrizioni in caratteri cufici.

Uscito dall'antica cappella, salii al piano superiore del palazzo e vidi
i ricchi e belli appartamenti, che hanno un valore storico, poichè vi si
ammira ancora la sala del Parlamento, la sala del trono e quella delle
udienze, ove si conserva ancora uno dei due famosi arieti di bronzo, che
ornavano un tempo una delle porte di Siracusa; l'altro andò distrutto in
un incendio. La sala dei Vicerè ne contiene i ritratti dal 1488 ai
giorni nostri.

Più interessante di tutte queste sale mi parve la stanza di re Ruggero,
ornata di mirabili mosaici, che rappresentano una lotta di centauri, una
caccia e degli uccelli. Non si sa veramente perchè questa stanza porti
il nome di Ruggero: i mosaici appartengono al XII secolo. Tutti i locali
subirono trasformazioni, ed invano io ricercai l'appartamento di
Federico II, o almeno una stanza che portasse il suo nome. Qual nome
avrebbe del resto potuto dar lustro al palazzo quanto quello di
Federigo? Molti principi di diversi paesi, Saraceni, Normanni, Svevi,
Spagnuoli, Angioini, Borboni, abitarono questo palagio nella prospera ed
avversa fortuna; ma il ricordo di tutti questi scompare quando il nostro
pensiero va a quel grande imperatore che vi trascorse la sua giovinezza.


                                  III.

Molte cause contribuirono a far sorgere in Sicilia un'eccellente
architettura ecclesiastica ed a darle un'impronta tutta speciale, e
sopratutto il carattere di quel secolo in cui il cristianesimo venne in
lotta con l'islamismo, in contatto del quale sì a lungo era vissuto,
specie quando la dominazione dei Normanni si trovò di fronte alla
religione di Maometto. Trionfante, allora, risorse in Sicilia la fede di
Cristo e riacquistò il terreno perduto: chiese stupende, capolavori in
cui l'ispirazione orientale sopravviveva, monumenti della vittoria della
religione cristiana su quella di Maometto, sorsero ovunque.

Qualcosa di simile era già avvenuto quando gli Elleni avevano sconfitto
nella battaglia d'Imera i Cartaginesi, che avevano invasa tutta quanta
l'isola: essi, nell'ebbrezza della vittoria, avevano disseminato il
suolo conquistato delle loro magnifiche costruzioni. Gli Dei della
Grecia, Giove, Apollo, Cerere e Venere, avevano atterrato il Moloch
africano, e il contrasto della civiltà e della religione greca con la
barbarie africana si era pronunciato meravigliosamente, avendo Gelone di
Siracusa, fra le altre condizioni di pace, imposto ai Cartaginesi di
cessare del tutto, qualsiasi sacrificio umano.

Dopo oltre quindici secoli, nel secondo grande periodo architettonico
siculo, un fatto quasi identico si ripetè, fatto degno di osservazione,
unico, che prova ad un tempo come la civiltà umana si svolga secondo le
leggi esterne immutabili nella sostanza, varie nella forma. Nella stessa
guisa che i Greci nel primo periodo innalzarono i famosi templi di
Segesta, di Selinunte, di Agrigento e di Siracusa, i Normanni, una volta
liberata l'isola dai novelli Cartaginesi, innalzarono le splendide
cattedrali di Monreale, di Palermo, di Cefalù e di Messina. Nel primo
periodo la civiltà si era rivolta verso il mezzodì, nel secondo invece
si estese nel settentrione, mentre le contrade di mezzodì e di levante
decadevano.

A lato del tempio greco a colonne sorse la cattedrale cristiana; a lato
del tempio marmoreo, maestoso, severo di Giunone ad Agrigento, sorse il
duomo scintillante d'ori dedicato alla Vergine Maria di Monreale:
ambedue segnarono un'epoca di florido rinnovamento nella storia dello
spirito umano; ambedue avevano un carattere originale diverso e diversa
è quindi l'impressione che oggi suscitano. Chi può esprimere la
commozione che si prova nel contemplare, in mezzo alla solitudine della
campagna siciliana, uno dei templi maestosi di Agrigento? Si direbbe
impossibile poter trovare cosa più perfetta, più bella, più armonica
nelle forme. Ma anche entrando in una cappella normanna, nella sua
semioscurità, fra le sue navate, sotto i suoi archi, fra quelle pareti
splendenti di mosaici, non si può fare a meno, dimentichi
dell'antichità, di persuadersi di essere entrati in una novella sfera di
beltà e d'armonia.

Il sentimento religioso suscitato da questa architettura normanna, che
io volentieri, per la sua origine orientale, chiamerei architettura
delle Crociate, fu profondo. Da ciò nacquero altre conseguenze. La
Chiesa romana di fronte a Bisanzio che sosteneva esser la Sicilia sua
proprietà, dovette dare alla conquista dei Normanni quasi un diritto
sacro, un'alta consacrazione. Il papa aveva nominato i conti Normanni
suoi legati apostolici, aveva concesso a re Ruggero le sacre insegne,
quasi a testimonianza della conferma data dalla Chiesa alla sua
signoria; i re, inoltre, si ritenevano eletti, non per concessione del
papa, ma per grazia di Dio, e difatti rappresentavano nei mosaici delle
loro chiese Ruggero e Guglielmo nell'atto di venire incoronati da Cristo
stesso. Era dunque necessario che fossero zelanti nel promuovere il
risorgimento del cristianesimo nel loro nuovo regno, e tali furono.

Malaterra, storico dei due Ruggeri, così parla del conquistatore della
Sicilia:

«Allorchè il conte Ruggero vide che per la grazia di Dio, tutta quanta
la Sicilia faceva omaggio alla sua signoria, non volle mostrarsi ingrato
a così gran beneficio e cominciò a render grazia a Dio, ad esser giusto,
a ricercare la verità, a frequentare le chiese, a prendere devotamente
parte ai sacri uffizi, a concedere alle chiese il decimo de' suoi
redditi, a soccorrere le vedove, gli orfanelli, i derelitti, e in molti
luoghi dell'isola innalzò basiliche».

Altre ragioni politiche, in quel tempo di Crociate, si unirono allo
spirito religioso per indurre i Normanni a favorire gl'interessi della
Chiesa; una stirpe principesca, salita di recente e soltanto per forza
di conquista su uno dei più bei troni d'Europa, aveva bisogno dell'aiuto
del papa e del clero per affermarsi. Senza quest'appoggio, sarebbero
stati perduti, come avvenne di poi agli Hohenstaufen, i quali, entrati
in lotta con la Chiesa, cominciarono dal perdere Napoli, poi la Sicilia
e quindi ogni dominio.

A queste influenze aggiungasi il desiderio naturale in una dinastia
sorgente di affermare per mezzo di splendidi monumenti la sua
dominazione, e si capirà facilmente perchè l'architettura ecclesiastica
in Sicilia abbia preso rapidamente piede. Si voleva superare tutto
quello che si era fatto, rivestire le chiese per intero d'oro, far cosa
ancor più bella della basilica di S. Sofia e di quella di Bisanzio, al
cui imperatore era stato tolto il regno: e Ruggero edificò
rapidissimamente, in un anno si dice, il duomo di Cefalù, la cattedrale
di Messina e la cappella palatina di Palermo. Così lo sviluppo dell'arte
fu altrettanto rapido quanto quello della dominazione stessa dei
Normanni.

Tutte queste costruzioni furono però superate da Guglielmo II, ultimo
principe legittimo della stirpe normanna, il quale eresse nel duomo di
Monreale il più bel monumento alla sua famiglia e contemporaneamente uno
dei più bei monumenti dell'architettura medioevale. Fu compiuto in sei
anni, fra il 1170 e il 1176 e la fama della sua magnificenza si propagò
rapidamente sin nei più lontani paesi. Nel 1182, papa Lucio III innalzò
Monreale alla dignità di arcivescovado e parlando nella bolla di re
Guglielmo, così scrisse: «In brevissimo volgere di tempo seppe elevare
al Signore Iddio un tempio meraviglioso, lo dotò di castella, di
rendite, di libri, di arredi sacri, riccamente ornati d'oro e di
argento, vi chiamò buon numero di monaci dalla Cava, li fornì di
abitazioni e di ogni cosa occorrente, di guisa che non vi fu dai tempi
più remoti altro re che compisse opera altrettanto grande, la cui sola
descrizione riempie di stupore».

La chiesa di Monreale ha veramente qualche cosa di singolare; si direbbe
che ivi, nelle vicinanze dei lidi africani, fra quelle piante aromatiche
e bizzarre, fra le palme gli agavi, gli aloe, sotto quel luminoso sole
meridionale, il cristianesimo abbia ricevuto una speciale, quasi
fantastica impronta.

L'architettura della basilica è un capolavoro dello stile ecclesiastico
normanno-siculo e riunisce in sè i tre tipi: greco-bizantino, latino ed
arabo. I Normanni, che veniano dall'Occidente, ove predominavano le
forme romane, trovarono in Sicilia tanto le tradizioni bizantine, quanto
quelle saracene. L'isola era stata posseduta varî secoli dai Bizantini,
la lingua usata in Sicilia era greca, greco il loro culto, greci i
caratteri architettonici delle loro chiese, caratteristiche per la
pianta quadrata e per l'abbondanza delle cupole. In esse il Santuario
veniva elevato in forma di triplice ovale, simbolo della Santissima
Trinità, imperocchè di fianco del coro stavano due cappelle meno
elevate, di forma emisferica, a sinistra la _protesi_ per la
preparazione al sacrificio, a destra il _diaconico_, destinato ai
diaconi ed alle loro letture. Anche i Bizantini solevano ornare di
mosaici le vòlte, gli archi e le pareti delle loro chiese.

I Normanni accettarono quest'architettura e dai Saraceni presero l'arco
a sesto acuto e i rabeschi per le pitture murali. Conservarono inoltre
il tipo della basilica romana, in uso nel resto d'Italia, cioè a dire
una navata lunga, divisa da due file di colonne sostenenti il tetto a
solaio, e collocarono questa navata davanti al santuario, ma invece di
destinare, come nelle antiche chiese le colonne a sopportare un
architrave, portarono sopra quelle gli archi a sesto acuto, riunendo in
una le tre forme architettoniche e dando origine a quel tipo che fu in
uso in tutta quanta la Sicilia e che a poco a poco si accostò a quello
gotico, e finì per confondersi con questo.

Si possono consultare utilmente a questo riguardo l'opera di Serra di
Falco intorno a Monreale ed altre chiese sicule-normanne, quelle di
Hittorf e di Zanth sull'architettura moderna della Sicilia, e le
descrizioni di Monreale fatte dal Lelli e dal Del Giudice.

Il duomo misura 372 palmi di lunghezza, 174 di larghezza; il suo
campanile è alto 154 palmi. Ha bellissime porte di bronzo, sulle quali
sono scolpiti parecchi archi semispezzati ed ornati di ricchi arabeschi,
sostenuti da pilastri con mosaici, e sculture nel vano: un'iscrizione
latina dice che fonditore di esse fu Bonanno da Pisa, lo stesso che
gittò le porte di bronzo del duomo di quest'ultima città. Gli
altorilievi, divisi in quarantadue campi, rappresentano le gesta
dell'antico e del nuovo Testamento, e per valore artistico possono stare
a fronte dei mosaici bizantini. Le figure sono forse dure, sono un po'
magre, ma colpiscono pel loro carattere d'ingenuità quasi puerile. Le
iscrizioni in lingua volgare dell'epoca che accompagnano le figure,
corrispondono perfettamente all'idioma usato dai poeti siciliani
contemporanei. Ad un lato della chiesa v'è un'altra porta, pure di
bronzo, opera di Barisano da Trani.

Nell'interno il duomo si presenta grandioso, stupendo, ma non con quel
carattere severo delle antiche cattedrali gotiche, ove l'anima quasi si
sperde nell'idea dell'infinito, e non ha neppure l'imponenza maestosa
di S. Pietro, in cui lo splendore del papato s'impone, e nemmeno ha la
severa maestà delle basiliche bizantine: ivi la grandezza è minore e la
severità è temperata dalla grazia dell'arte. Gli archi snelli a sesto
acuto, poggianti sopra nove colonne di granito orientale, dànno belle
proporzioni alla navata centrale e lasciano penetrare e spaziare lo
sguardo in quelle laterali. Il pavimento di marmi rari, di vario colore
e a disegni, lo splendore delle travi dorate, le pitture dei
compartimenti del solaio, i mosaici e gli arabeschi che cuoprono tutti
gli archi e le pareti delle tre navate, tanta profusione di sculture e
d'oro, producono un'impressione indimenticabile. Pel Dio delle terre
nordiche un tempio così luminoso e così gaio non parrebbe conveniente,
ma pel Dio del mezzogiorno indubbiamente sì. Entrando in questo tempio
dalla meravigliosa campagna di Monreale, pare piuttosto di trovarsi in
un vasto e regale palazzo.

Nella navata centrale i mosaici cominciano sopra il piccolo architrave
che posa sui capitelli delle colonne. La parete superiore è divisa in
due parti da una cornice, l'inferiore è ornata di arabeschi che seguono
la forma degli archi; nei campi intermedi fra questi sono rappresentate,
su fondo d'oro, scene bibliche. Nella parte superiore si trovano le
finestre, aperte nel centro degli archi, e gl'intervalli sono tutti
quanti riempiti di mosaici. Sotto il solaio corre una larga fascia,
coperta di arabeschi, con spazi circolari di tanto in tanto, nei quali
stanno mezze figure d'angeli. Ovunque lo sguardo si volge, verso le
cappelle, le navate, le pareti, ovunque trova mosaici, che rappresentano
fatti della sacra Scrittura, oppure figure isolate di Dio, di angeli, di
santi greci o latini; tutto l'antico e novello Testamento contribuì alla
decorazione di questa meravigliosa chiesa; tutto il ciclo della
religione mosaica e di quella cristiana venne svolto sulle pareti di
questo duomo; e concorsero ad arricchirlo perfino le due comunioni
cristiane in disaccordo, quella dei Greci e quella dei Latini: i santi
dell'una e i santi dell'altra vi trovarono ospitalità.

Grande è la meraviglia che desta questo fatto, l'aver l'arte potuto
nello stesso luogo concentrare, radunare e rappresentare tutto quanto il
sistema e l'ordinamento della religione cristiana. L'arte moderna non è
più capace di riprodurre, come allora, le varie fasi dello svolgimento
dello spirito umano; tutti i tentativi recentemente fatti con la pittura
ad affresco, son riusciti fredde allegorie, incapaci di suscitare veruna
commozione.

I mosaici, le sculture di Giotto sul campanile di Firenze,
rappresentanti la storia della civiltà umana, e il poema di Dante, si
possono considerare come monumenti di quel periodo in cui l'idea
cristiana si rese padrona dell'arte e la costrinse a farsi riprodurre
sotto tutte le più svariate forme. Bisogna però ricordare che il ciclo
di mosaici di Monreale è anteriore di circa un secolo a Dante e a
Giotto; e quando si pensi che la _Divina Commedia_ non esercitò la sua
vera e positiva influenza sull'arte che ai tempi di Michelangelo, e non
indusse fino a quell'epoca i pittori a rappresentare il ciclo epico di
quella, sembrerà ancor più meraviglioso che fin da allora si potesse
rappresentare con tanta grandiosa unità nei mosaici di Monreale,
l'intera storia del cristianesimo.

Non si sa bene a chi si debba attribuire questo pensiero; ma osservando
in altre chiese di Palermo del periodo normanno la stessa idea,
quantunque in esse svolta con minori proporzioni nella loro decorazione,
si può arguire che avesse origine da tradizioni bizantine. Del pari non
sappiamo chi dirigesse i lavori, ma si sa che furono impiegati tre anni
nell'esecuzione dei mosaici, e il duca Serra di Falco ha calcolato che
vi dovettero essere adibiti non meno di cinquanta artefici.

L'idea della ripartizione è la seguente: il ciclo comincia con la
creazione del mondo ed arriva sino alla lotta di Giacobbe con l'angelo;
ogni quadro ed ogni soggetto ha il suo fine in Cristo, la cui immagine è
rappresentata nella tribuna. La navata centrale è riservata all'antico
Testamento; nel santuario, nelle cappelle e nelle navate laterali è
tracciata la vita di Cristo e sono rappresentati anche i profeti e i
patriarchi che annunziarono la sua venuta; infine vi è tutta la storia,
forse soverchia, dei martiri e dei santi. S. Pietro e S. Paolo, come
principi della Chiesa, stanno a fianco della cappella di Cristo: S.
Pietro a destra, seduto sul trono, con la mano sinistra appoggiata ad un
libro, e con la destra sollevata in atto di dare la benedizione; al
disopra ed ai lati sono rappresentate le gesta della sua vita. S. Paolo
si trova a sinistra, seduto; superiormente c'è raffigurata la sua
decapitazione. In mezzo alla tribuna campeggia il colossale Cristo. Una
croce greca splende sul suo capo, lunghe ciocche di capelli gli scendono
sulle spalle ed una barba lunga e folta gli copre il mento. Egli solleva
la mano destra in atto d'insegnare e con la sinistra tiene un libro:
un'iscrizione in lingua greca gli dà il nome di _Gesù Cristo
pantocrate_. Questa figura colossale fa l'impressione di una potenza
soprannaturale; è di una cupa solennità e, come tutte le immagini di
Cristo d'origine bizantina, rivela un'espressione tutt'altro che divina;
come le immagini degli Dei dell'antico Egitto, rivela tradizioni ancora
pagane. Il tipo ci trasporta in un'ordine d'idee più lontane da noi
della stessa antichità pagana; esso rappresenta un'astrazione terribile
che esclude ogni idea di umanità, d'immaginazione, di vita. Tali
immagini di Cristo producono in certo modo l'impressione che suscita la
testa di Medusa. Io non le ho mai potute guardare senza vedervi, quasi
in uno specchio, riflessa la storia della Chiesa, cioè l'ascetismo
fanatico, il monachismo, l'odio contro gli ebrei, la persecuzione degli
eretici, le lotte dogmatiche, la supremazia dei papi. Nessun'altra cosa
ha mai rappresentato meglio, sotto forma simbolica, la potenza positiva
e negativa della religione cristiana, e nessuna cosa potrebbe meglio
spiegare lo sviluppo dell'arte cristiana nel progresso dei tempi, quanto
il confronto di un Cristo bizantino con le teste del Salvatore di
Raffaello, o del Tiziano, che esprimono i limiti estremi del modo di
comprendere e di rappresentare il tipo religioso.

Non parlerò degli altri mosaici, come quello della Vergine col bambino,
in mezzo alla cappella centrale, e dei fatti della vita di Cristo. In
genere si osserva nel santuario il predominio del carattere patetico,
soprannaturale, religioso ed astratto. Nel riprodurre invece i fatti
dell'antico Testamento, l'arte si fa più umana, assume un carattere meno
severo, e talvolta anzi quasi ridente; essa, spesso, rappresenta anche
piante ed animali. Con molti di questi quadri, che sono di un'ingenuità
primitiva, si entra nel mondo naturale, nella storia dell'umanità. Il
sacrificio di Isacco, per esempio, è rappresentato con una semplicità
caratteristica: Isacco è disteso sopra una catasta di legno; Abramo lo
ha afferrato pel capo e solleva un coltellaccio lungo quanto la metà del
corpo del ragazzo; dietro a lui stanno due uomini che impugnano nodosi
bastoni, e al di sotto un cavallo sellato, e in alto un angelo in atto
di volare. Il disegno è spesso difettoso, specialmente negli animali; i
dromedari a cui Rebecca porge da bere, sono addirittura grotteschi.
Nell'insieme però tutti questi mosaici producono una buona impressione,
per quanto le loro tinte si siano di molto annerite pel fumo, giacchè
l'11 novembre 1811 lo stupendo tempio di Monreale corse rischio di
rimanere preda delle fiamme. Un chierichetto aveva collocata una candela
accesa in un armadio, e il fuoco si era appiccato ad alcune stoffe ivi
riposte; egli aveva tentato di soffocarlo, chiudendo l'armadio, ed era
fuggito senza dir nulla, per timore di una punizione. Nel pomeriggio si
vide uscire un denso fumo dalle porte e dalle finestre della chiesa; il
popolo si precipitò dentro e trovò il coro in fiamme. Dopo quattr'ore di
alacre lavoro si riuscì a spegnere il fuoco, ma il danno era stato
grave; i due organi erano rimasti distrutti, il solaio in gran parte
rovinato, le travi nella caduta avevano infranto le tombe di Guglielmo I
e di Guglielmo II, ed i mosaici erano stati in parte devastati. Fin dal
1816 si diede principio al restauro dei guasti, e fu fortuna che le
tribune e le navate fossero rimaste illese dalle fiamme.

Le tombe dei due Guglielmi e della loro famiglia, a quell'epoca rimaste
danneggiate, si trovano oggi nell'ala destra del coro. Guglielmo il Malo
riposa in un sarcofago di porfido, e presso di questo sono pure sepolti
i suoi tre figli: Ruggero, duca delle Puglie, morto nel 1164; Enrico
principe di Capua, morto nel 1179; Guglielmo il Buono, e Margherita loro
madre. Così, di tutta la stirpe normanna di Sicilia non mancano che
Ruggero I, Simone e Tancredi. Guglielmo il Buono, che costruì la bella
chiesa, si vede rappresentato due volte nei mosaici, in uno seduto su
di un trono, dove Cristo gli pone sul capo la corona, e nell'altro
assiso sulla cattedra vescovile, in atto di presentare alla Vergine il
disegno del tempio. Egli riposa ora in un sarcofago di marmo bianco,
ornato di graziosi arabeschi, su fondoni d'oro. Il monumento gli venne
innalzato solo nel 1575 dall'arcivescovo Ludovico de Torres, perchè il
pio re aveva voluto che la sua salma fosse deposta in una semplice fossa
murata, a fianco dello stupendo sarcofago del padre.

Guglielmo II non si contentò di costruire il duomo, ma volle anche
erigere al suo fianco uno stupendo monastero, dove chiamò dalla Cava i
padri Benedettini; e spesso si compiaceva di trattenersi con essi,
rallegrandosi dei lavori degli edifici grandiosi, che in quell'epoca
andavano sorgendo in Monreale. Il monastero edificato da re Guglielmo,
cadde poi in rovina, ma uno nuovo ne venne innalzato sullo stesso luogo,
veramente splendido, come del resto lo sono in Italia tutti i conventi
dell'Ordine di S. Benedetto, rassomiglianti più a palagi principeschi
che a monasteri.

L'antico convento doveva essere assai bello, più bello certo di quello
di S. Martino. Sorgeva, come si è detto, di fianco al duomo e dominava
tutta la pianura di Palermo. Guglielmo aveva circondato il convento di
mura e di torri, delle quali rimangono oggi alcuni avanzi; del resto,
dell'antico convento poche rovine rimangono, ad eccezione del
meraviglioso chiostro, ancora ben conservato. Questo è un ampio
quadrato, circondato da portici; duecentosedici colonnette fantastiche,
accoppiate a due a due, reggono gli archi a sesto acuto, ricchi di
ornamenti bizzarri; negli angoli si trovano riunite quattro di queste
colonnette, ed i loro capitelli sono lavorati con grande cura e
perfezione. Meraviglioso è l'effetto che produce questa selva di
colonnette graziose, i cui fusti sono tutti lavorati in modo diverso; ve
ne sono degli scanalati, degli striati, dei lisci, ed anche a spirale.
L'arte prese qui la varietà per legge e si abbandonò interamente al suo
capriccio; tutto vi è ingenuo, grazioso, puerile, fantastico. La
piccolezza delle forme si prestò a questo slancio ardito
dell'immaginazione. Il porticato del chiostro offre il più grande
contrasto dei colonnati greci, e difficilmente si possono trovare, negli
ordini architettonici, due cose più dissimili.

Meritano poi grande attenzione i capitelli di tutte queste colonnette.
Anche in essi regna la varietà; non v'è un capitello simile ad un altro;
sembra inoltre che gli scultori abbiano voluto gareggiare con la natura
nel riprodurre la varietà delle sue forme. Dalle foglie di acanto, che
disposte in varî modi formano la base dei capitelli, sorgono imagini
fantastiche, ora di un fiore, ora di un animale, ora di una pianta, ora
di una figura umana, le quali sembrano rappresentare un piccolo poema.
In alcuni capitelli si scorgono intiere figure che, a guisa di
cariatidi, sostengono l'abaco; in altri si vedono imagini bizzarre di
leoni, di cavalli, di delfini, di geni alati, di arpie, di dragoni, di
grifoni, di esseri fantastici, che balzano fuori dai fiori, e sostengono
la tavola che forma l'estremità superiore del capitello. Molti di questi
rappresentano fatti dell'antico e del nuovo Testamento; se per il
disegno non sempre sono pregevoli, meritano purtuttavia l'attenzione per
la loro semplicità e la loro ingenuità. Sopra uno dei capitelli si
scorge, come sopra un mosaico di cui abbiamo parlato, re Guglielmo che
presenta alla Vergine il disegno del duomo, e in un altro i re Magi che
offrono doni a Gesù Bambino. Vi sono poi lotte di guerrieri, che muovono
gli uni contro gli altri armati, e scene del tiro all'arco, esercizio
molto gradito ai Normanni e in genere a tutti i popoli del Nord. Vi si
vedono dunque riuniti argomenti sacri e profani, biblici e scientifici.
Come spesso nella natura umana si trovano a contatto il serio e il
giocoso, così in Monreale si trova ad ogni passo il contrasto del
sublime e dell'umile; la qual cosa è caratteristica dell'architettura
gotica, molto più ricca di quella dei Greci sull'espressione delle idee
che le diedero vita, perchè maggiormente è rivolta a riprodurre sotto i
suoi varî aspetti la natura.

Il chiostro di Monreale è uno dei migliori monumenti di quei primi tempi
del medioevo, in cui lo spirito umano nell'architettura, nella scultura
e nella poesia cominciava a prodursi con infinite varietà di forme. E
poichè tutti i rami di civiltà sono uniti gli uni con gli altri, si può
dire che nella poesia i sonetti, le canzoni, le terzine, i madrigali,
corrispondessero ai mosaici, agli arabeschi, agli ornati architettonici,
alle sculture di quell'epoca di risorgimento delle arti e delle lettere.
Come meglio si comprende il senso intimo delle tragedie di Eschilo, dopo
aver contemplato i tempî greci di Pesto e di Sicilia, così meglio si
comprendono e si apprezzano i poemi di Dante e di Wolfram di Eschenbach,
dopo aver visitato le cattedrali d'Italia e i monasteri della Germania.

                                    *
                                   * *

Il duomo di Palermo era, anche prima della venuta dei Saraceni, la
chiesa principale della città e della arcidiocesi; esso era dedicato a
Maria Assunta in cielo. Gli Arabi lo avevano ridotto a moschea, i
Normanni lo restituirono al culto cristiano, togliendovi tutto quanto
sapeva di Saraceno. È rimasta solo sopra una colonna del portico
un'iscrizione araba tolta dal Corano, la quale così si può tradurre: «Il
nostro Dio ha creato il giorno, al quale segue la notte, e la luna e le
stelle si muovono secondo i suoi cenni. Non è sua la creatura, non è sua
la signoria? Sia lodato Dio, il Signore dei secoli».

L'antica chiesa fu eretta dall'arcivescovo Gualtiero di Offamil, parente
di Ruggero, dal 1170 al 1194, secondo lo stile gotico, che il duomo ha
ancora conservato, nonostante le molte ed infelici mutazioni a cui andò
soggetto. Dell'antica chiesa non lasciò che la cappella di S. Maria
Incoronata, nella quale furono incoronati Ruggero e tutti i suoi
successori, come accenna l'iscrizione _hic regi corona datur_. Nel 1781
il duomo fu restaurato, o per dir meglio fu deturpato, per opera
dell'architetto napoletano Ferdinando Fuga, il quale eresse una barocca
cupola e fece molti altri lavori che ne alterarono completamente
l'antico stile. Però, nonostante questi non felici restauri, il duomo di
Palermo produce ancora una grande impressione, perchè riunisce in sè la
semplicità dell'architettura gotica, e la grazia degli archi e degli
arabeschi saraceni, e non v'è altro edificio a Palermo che mostri con
tanta evidenza i contrasti di cui è ricca la storia dell'isola.

Il duomo sorge libero, su una piazza di discreta ampiezza, circondata da
una balaustra con barocche statue. In mezzo, sopra un piedistallo
triangolare s'innalza la statua di S. Rosalia, protettrice della città;
questa santa è per i Palermitani quello che per i Napoletani è S.
Gennaro.

Ai quattro angoli del duomo si levano quattro torri e sopra le navate
laterali delle piccole cupole. L'antico campanile quadrato, per fortuna,
non fu restaurato; secondo l'uso toscano sorge accanto alla chiesa ed è
a questa unito per mezzo di archi. La tribuna, di forma semicircolare, è
ornata con arabeschi in nero. Sulle pareti esteriori, nelle porte, nelle
finestre, nelle fasce, nelle cornici si vedono graziose sculture dalle
forme fantastiche di colonne e di merli. Sulle porte sta il maggiore
ornamento; soprattutto sono da ammirarsi i ricchi arabeschi della porta
maggiore e lo stile della porta laterale. Il portico, del 1430, è
formato da tre archi a sesto acuto, i quali riposano sopra quattro
colonne. Sulle pareti interne dell'altro si vedono due sculture moderne,
rappresentanti l'incoronazione di Carlo III e di Vittorio Amedeo di
Sardegna, che fu per pochi anni re di Sicilia.

L'interno della chiesa, interamente rimodernata, appare semplice e di
piacevole aspetto; ha tre navate a forma di croce latina, con archi a
sesto tondo, sostenuti da pilastri. Le cappelle e gli altari sono
sopraccarichi di ornati di gusto assai barocco. V'abbondano il marmo e
il porfido, ma non vi sono sculture, nè pitture di pregio, eccezione
fatta di due acquasantiere di marmo, una delle quali appartiene alla
scuola di Antonio Gagini, discepolo di Michelangelo ed uno dei migliori
scultori della Sicilia. Nel duomo ci sono pure molte opere di questo
chiaro artista, mirabili sopratutto alcuni monumenti sepolcrali nella
cripta sotterranea, edificata al tempo dei Normanni e conservante tutto
il suo antico carattere di basilica ad archi a sesto acuto sostenuti da
gigantesche colonne di granito. Lungo le pareti si allineano le tombe
degli arcivescovi di Palermo, consistenti per la maggior parte in
sarcofaghi di mediocre lavoro romano. L'aspetto semplice e severo di
questo edificio produce una profonda impressione.

La cosa però più pregevole del duomo sono le tombe dei re della stirpe
normanna, e di quella degli Hohenstaufen: monumenti non solo della
storia siciliana, ma anche di quella tedesca. Queste tombe sono
collocate in una cappella della navata di destra; sono dei sarcofaghi di
puro e severo stile, di porfido rosso cupo o di marmo. Non ho visto mai
nessuna tomba dei tempi cristiani che abbia un carattere così semplice e
severo come queste, e che sembri come queste fatta per durare
eternamente. Gli stessi due sarcofaghi di porfido del tempo di
Costantino, che si ammirano in Vaticano, non producono un'eguale
impressione, perchè i loro bassorilievi distraggono alquanto
l'attenzione. Tombe di una così grandiosa semplicità e di una maestà
così severa potrebbero servire anche per i re dei Nibelungi. In esse si
riconosce l'impronta grandiosa del secolo XIII. Attestano che in
quell'epoca i Siciliani avevano conservata l'arte di lavorare il
porfido, arte che nel resto della penisola era andata perduta e non fu
ritrovata, narra il Vasari, che alla metà del secolo XVI da Francesco
del Todda.

In queste tombe sono sepolti il gran re Ruggero, Costanza sua figlia, il
marito di lei Arrigo VI, Federico II, il principe più geniale che abbia
avuto la Germania, e la sua prima moglie Costanza d'Aragona.

La tomba di Federico è quella che più colpisce la nostra attenzione.
Egli morì a Firenzuola, presso Luceria, nelle Puglie, il 13 dicembre
1250, in età di soli cinquantasei anni; e la sua salma fu trasportata in
Sicilia da sei squadroni di cavalleria e dalle guardie saracene, e venne
deposta nella stessa chiesa dove aveva da ragazzo ricevuta la corona e
dove aveva fatto incoronare suo figlio Manfredi. Questi aveva incaricato
Arnolfo di Lapo, discepolo dell'illustre Nicola Pisano, d'innalzare uno
stupendo monumento all'imperatore suo padre, che però non fu eseguito.
Non si sa bene chi sia stato l'autore del monumento attuale, se un
Toscano od un Siciliano. Il sarcofago, col coperchio ornato di aquile e
di grifoni, posa sopra quattro leoni, i quali tengono fra le loro zanne
degli schiavi; al di sopra si erige un tempietto, sostenuto da colonne.

Nel 1491 il vicerè spagnuolo Ferdinando di Acunta si arrischiò ad aprire
quelle tombe: alla presenza degli arcivescovi di Palermo e di Messina e
del Senato Palermitano, fece scoperchiare i sarcofaghi di Arrigo VI e di
Costanza di Aragona, e, solo per la disapprovazione manifesta di tutti
gli astanti, si trattenne dall'aprire anche le altre tombe. Quando nel
1781 il duomo fu restaurato, le tombe che si trovavano in una cappella
di fianco al coro, vennero trasportate dove ora si vedono, e in quella
occasione vennero tutte aperte. Il principe di Torremuzza, che si trovò
presente, l'11 agosto, alla loro apertura, narra nella sua vita: «I
cadaveri di Ruggero I, di Arrigo VI e di Costanza si trovarono quasi
completamente distrutti e nulla di notevole si potè osservare nei loro
ornamenti; invece, le salme di Federico II e di Costanza II, suscitarono
grande ammirazione per la ricchezza dei loro abbigliamenti e per la
qualità delle gemme che insieme con i due principi erano state sepolte.
Sulla corona di Arrigo VI e sulla camicia che Federico II portava sotto
le altre sue vesti, si trovarono ricamati parecchi caratteri arabi, che
furono esattamente ricopiati e spediti, per mio suggerimento, al
professore Tichsen, in Butzow, per averne la traduzione».

Le parole del principe non concordano esattamente con la notizia
pubblicata dallo storiografo napoletano Daniele, intitolata: _I sepolcri
del duomo di Palermo illustrati_. Secondo questa, il cadavere di
Federico II si sarebbe trovato rivestito di magnifici abiti, quantunque
con poco decoro si fossero collocati nella stessa tomba due altri
cadaveri, uno dei quali fu ritenuto per Pietro II di Aragona, morto nel
1342. La corona dell'imperatore, ornata di perle, posava sopra un
guanciale di cuoio, ed a sinistra del suo capo stava lo scettro. Portava
in dito un anello con uno smeraldo; al suo fianco stava la spada; aveva
attorno al corpo una cintura di seta, con fibbie d'argento; era calzato
con stivali di seta, ricamati a colori, ed aveva speroni d'oro.

Disgraziatamente, di questo gran principe non ci è pervenuto nessun
ritratto autentico; non possediamo che quelli delle sue monete, e
quello, scolpito in un anello, che lo storico Daniele fece incidere con
l'aiuto di una maschera in gesso di Federico. Gli abitanti di Capua
avevano eretto sul ponte del Volturno una statua all'imperatore Federico
e a' suoi due consiglieri, Taddeo di Sessa e Pier della Vigna; oggi
rimane solo la statua dell'imperatore ed in assai cattivo stato, perchè,
secondo quanto narra Raumer, una soldatesca sfrenata le ruppe le braccia
e i piedi e ne buttò a terra la testa. Prima che la statua fosse così
mutilata, Daniele aveva preso l'impronta della fisonomia e con questa
aveva inciso l'anello.

Quali sensazioni prova oggidì un Tedesco davanti alla tomba di questo
grande imperatore, sepolto in terra straniera!

La tomba suscita molti pensieri, e nessuno certo vi si può accostare
senza sentirsi commosso.

Altri principi proiettano sul mondo ancora dopo molti secoli un'ombra
cupa; questi invece getta tuttora sull'Italia e sulla Germania un raggio
di vivida luce. Un grande impulso partì da lui, impulso che si andò poi
allargando e che fece sentire per molti secoli la sua influenza,
quantunque sembri che nella lotta Federico sia stato vinto. Egli fu il
primo ad indebolire il Papato, col quale a lungo lottò, e la sua morte
non rimase senza frutto. Federico fu un precursore della Riforma; egli
prese a propugnare i diritti dell'umanità, della civiltà e della
ragione, contrastati dalle barbarie feudali e sacerdotali del medioevo.
Egli dette a' suoi popoli leggi piene di saviezza e di umanità, come mai
prima di lui erano state concesse; fu il primo a render ragione al
popolo nel diritto di essere rappresentato, chiamando il terzo stato a
sedere a parlamento; favorì le scienze, in cui era dotto e per le quali
nutriva profondo affetto; amò in sommo grado la poesia e si studiò di
farla risorgere in Italia. Federico II fu insomma uno dei più grandi
fautori della civiltà, della quale gettò semi che dovevano poi
germogliare nel corso dei secoli.

Ora voglio descrivere altre chiese di Palermo, pure dell'epoca normanna;
alcune fra le più antiche sono molto graziose, come, per esempio, quella
della Martorana, detta anche S. Maria dell'Ammiraglio. Questa venne
costruita nel 1143 dal grande ammiraglio Giorgio, in uno stile
antichissimo e puro. A fianco della chiesa sorge un campanile di
carattere arabo-normanno, ornato di piccole colonne. Si entra nella
chiesa per un portico, e subito produce grande impressione la
magnificenza dei mosaici, assai simili a quelli della cappella palatina.
Il coro ha otto colonne di granito con capitelli dorati che sopportano
gli archi. Questi, la cupola, le pareti sino a mezza altezza, sono
rivestiti interamente di mosaici su fondo d'oro; il pavimento è formato
di marmi rari e di porfido; molte sono in questa chiesa le iscrizioni
arabe sopra alcune colonnette.

Fra i quadri a mosaico, due meritano una speciale attenzione; in uno si
vede il grande ammiraglio inginocchiato ai piedi della Madonna, e sopra
di lui sta scritto in greco: «_Preghiera di tuo servo Giorgio
Ammiraglio_». La Vergine, modestamente vestita, tiene in mano un foglio
arrotolato; in alto sta un Cristo con lo scettro. Sul rotolo si legge la
seguente iscrizione: «_Proteggi e libera da ogni male Giorgio, primo fra
tutti i principi, il quale mi abbia costruito questo tempio dalle
fondamenta, e concedi a lui il perdono dei suoi peccati, chè tu solo,
come Dio, lo puoi_». Un altro mosaico, di migliore fattura, rappresenta
re Ruggero incoronato da Cristo. Il re ha una bella testa, con i capelli
lunghi che gli scendono sulle spalle e con la barba a pizzo; porta un
abito lungo di colore turchino, con sopra una tunica del medesimo
colore, ricamata d'oro, e sulle spalle una fascia pure d'oro, che, dopo
essersi incrociata sul petto, gli ricade sotto il braccio sinistro.

In capo tiene la corona, o meglio un berretto quadrato, ed ai piedi le
scarpe color di rosa. A questa maniera fu trovato vestito Federico II,
quando fu aperta la sua tomba, e così pure vestivano Arrigo VI e
Guglielmo I. Marso sostiene che questi abiti regali fossero insegne
della podestà sacerdotale che Ruggero ottenne dal papa Lucio II per dare
maggiore consacrazione alla sua nuova signoria. Infatti, come narra
Ottone da Frisinga, egli ottenne lo scettro, l'anello, la dalmatica e i
sandali.

Disgraziatamente i mosaici della tribuna furono distrutti quando si
fecero i restauri alla chiesa, nel secolo XVI, e la tribuna stessa fu
trasformata in stile barocco. Oltre il pregio artistico, la chiesa della
Martorana ha pure quello storico, poichè essa fu, dopo il Vespro, sede
del Parlamento che elesse re Pietro di Aragona.

La piccola chiesa di S. Giovanni degli Eremiti è più antica, essendo
stata edificata da re Ruggero nel 1132. Ha quattro cupole di stile
prettamente arabo, nell'interno è piccola, ed essendo abbandonata da
lungo tempo, non presenta che nude pareti. Vicino alla chiesa si vedono
le rovine di un piccolo chiostro, di stile arabo-normanno,
graziosissimo.

La terza chiesa dei primi tempi normanni è S. Cataldo, di carattere
greco, con tre cupole emisferiche sostenute da archi a sesto acuto. Essa
è di forma quasi quadrata, e si dice che sia stata eretta
dall'ammiraglio Maione.

Di altre chiese normanne, come quella di S. Giacomo la Magara e di S.
Pietro la Bagnara, non rimangono quasi più traccie; altre furono in
tempi più recenti dagli Spagnuoli mutate interamente di forma. Gli
Hohenstaufen non costruirono chiese in Sicilia. Sembra invece che
l'architettura religiosa sia tornata a fiorire al tempo degli Aragonesi,
e ne fanno prova S. Agostino e S. Francesco; di quest'ultima non si
conosce l'anno preciso della fondazione. La sua porta maggiore è ornata
di colonne che sembrano di origine araba, e che debbono aver appartenuto
prima ad una moschea, poichè sopra una di esse si legge ancora la
seguente iscrizione maomettana in caratteri cufici: «Nel nome di Dio
misericordioso, misericordia. Non vi è altro Dio che Dio, e Maometto è
il suo profeta».

Bella e pittoresca è la facciata della piccola chiesa di S. Maria della
Catena, che risale al secolo XVI; il suo portico a tre archi, sostenuto
ognuno da due colonne, è molto bello, e sopra di esso corre una fascia
con arabeschi graziosissimi. Anche S. Maria Nuova possiede un simile
portico. Potrei descrivere molte altre belle chiese, come quella
dell'Olivella, ma ciò mi porterebbe in altri tempi, nei quali
l'architettura non ebbe più un carattere deciso, poichè col secolo XV
l'arco normanno andò in disuso, e lo sostituì l'arco a sesto tondo,
sostenuto da gravi pilastri. Il mosaico artistico è scomparso, le pareti
non sono più che sovraccariche di marmi di vario colore, disposti senza
gusto: l'unico capolavoro di pittura di cui Palermo potesse essere
orgogliosa, lo Spasimo di Raffaello, che si trovava in S. Maria dello
Spasimo, è ora il principale ornamento del museo di Madrid.



                                SIRACUSA

                                 (1855)



                                Siracusa.

                                 (1855).

Il meraviglioso paesaggio siracusano mi apparve, la prima volta, mentre
il sole volgeva al tramonto, illuminando il mar Ionio e la ricurva
costiera fino ai monti d'Ibla, di quelle tinte calde che sono quasi un
segreto e un prodigio del cielo siciliano.

Nessuna parola varrebbe ad esprimere le sensazioni che quella vista mi
produsse io dirò soltanto che l'emozione che ne ebbi fu di molto
superiore a quella che avevo provata sulla cima dell'Etna, di dove si
scorgono tutta quanta l'isola, i tre mari che la recingono e, più
lontano, le coste del continente italiano. La storia parla all'anima più
che gli spettacoli della natura e l'uomo non vive che di _memorie_.
Giunsi a Lentini (Leonzio), patria del sofista Gorgia, seguendo la via
di Catania e passando dinanzi alla deserta penisola di Magnisi--l'antica
Tapso--e per il porto Trogilo.

Tra queste località s'innalza, per sessantacinque metri circa sul
livello del mare, un vasto altipiano, dalla forma triangolare, e col
vertice segnato dalla vetta del monte Eurialo. Su questo altipiano
sorgeva l'antica Siracusa che si prolungava fino all'isola di Ortigia,
congiungendo questa alla terra ferma per mezzo di una diga.

Oggi dal sommo dell'altipiano si vede l'isola con la povera Siracusa
moderna, ai lati di essa i due stupendi porti e a tergo il capo
Plemmirio: paesaggio classicamente severo, paragonabile soltanto alla
campagna romana. Verso terra si aggruppano neri ed imponenti i monti
d'Ibla ed ai loro piedi il mar Ionio, solcato una volta da vittoriose
moltitudini di galee, s'inargenta di spume. Da tutti questi luoghi
deserti e sassosi, dalle pianure ove crescono magri oliveti, dai ruderi
da cui sbucano a frotte gli uccelli di rapina, dovunque si volga lo
sguardo, sorgono in folla le memorie di tempi trascorsi, di generazioni
distrutte, di una civiltà che originò tanti grandi avvenimenti storici.
Dalla parte opposta appare il capo Plemmirio, anch'esso arido e pietroso
e l'isola di Ortigia che formano i due bracci di quel porto che i
Siracusani avevano sbarrato a Nicia con navi e con catene; in fondo
l'Anapo scorre fra i suoi papiri; qualche capanna di pescatore
biancheggia su quella solitudine e niente più della maravigliosa corona
di giardini e di ville che anticamente facevano superba la contrada.

Proseguii la strada deserta verso l'isola, osservando i numerosi
sepolcri scavati nelle rocce ed i bizzarri accidenti di cave
abbandonate. Vicino al piccolo porto si cominciano a vedere alcuni
giardini e parecchie vigne, le quali forniscono il rinomato vino di
Siracusa che una volta procurava molta ebbrezza a Gelone, a Yerone ed a
Pindaro. Dinanzi all'isola s'innalza una colonna bellissima, unico
avanzo di quella città ricca di industrie e popolata di un milione di
abitanti.

Cercherò di dare un'idea approssimativa dell'antica città della Magna
Grecia, descrivendola sul luogo. Essa era composta di cinque città;
Cicerone non ne annoverò che quattro, poichè non tenne conto di quella
parte superiore di Epipola, la quale non constava che di castella e di
fortificazioni. Le cinque città erano pertanto: Ortigia (isola),
Achradina, Neapoli, Tycha ed Epipola. Le ricerche di Fazello, di
Cluverio e di Mirabella e quelle più recenti di Serra di Falco,
permettono di assegnare a ciascuna città la propria località di un tempo
e di precisare a quali edifici debbano riferirsi le rovine che ancora
esistono.


                                   I.

                                Ortigia.

L'isola di Ortigia ha, anch'essa, la forma di un triangolo, col vertice
in direzione del capo Plemmirio. Presentemente vi è costruita tutta la
moderna Siracusa e le fortificazioni la cingono di alte muraglie. Essa
era la parte più vecchia della città ed anche la più importante per le
sue tradizioni favolose. Artemio vi dimorò molto tempo e fu denominata
Artigia, nome appartenente pure all'isola di Delo. Fu da prima abitata
dai Sicani; quindi i Corinzi, sotto la guida di Archia, la conquistarono
e edificarono Siracusa.

In Ortigia si trovano i monumenti sacri più antichi di Siracusa, fra i
quali notevolissimi i templi di Giunone, di Diana e di Minerva. L'isola
era validamente fortificata già sotto il primo Dionigi, che costruì
sull'istmo un muro con torri e con un castello, nel punto ove prima
sorgeva lo stupendo palazzo di Yerone. Da Dionigi furono pure innalzate
le fortificazioni dell'isola e la darsena del piccolo porto, che dopo di
lui ebbe nome di Porto Marmoreo. Ortigia in seguito subì parecchie e
notevoli vicende: Timoleone atterrò la rocca edificata da Dionigi e vi
costruì i tribunali; ivi egli stesso fu sepolto e presso la sua tomba fu
edificato il Timoleonzio, ch'era un ginnasio per la gioventù. Quando
però i Romani assediarono Siracusa, sull'istmo sorgeva di nuovo una
fortezza.

Dell'antica Ortigia poche rovine oggi rimangono. La città moderna occupa
tutta quanta l'isola. Essa fu, per le sue opere di difesa, compiute nei
tempi bizantini e sotto i regni di Carlo V e di Carlo III di Borbone,
una delle fortezze più possenti del regno delle Due Sicilie. Al vertice
del triangolo s'innalza la torre del greco Giorgio Maniace, generale
dell'imperatore Costantino Paflagonio, il quale, avendo tolto sul
principio del secolo XI ai Saraceni Siracusa, edificò la fortezza. Sulla
porta di questa collocò i due famosi arieti di bronzo, fusi al tempo di
Diocleziano e più tardi trasportati a Palermo, nel palazzo reale, dove
ancor oggi uno si trova, essendo stato l'altro consumato in un incendio.

Vicino a questa fortezza sgorga la famosa fonte d'Aretusa, che ha
origine in due antiche grotte a vòlta. Visitando queste sacre fonti, si
rimane fortemente impressionati nel vedere la quantità di mendicanti che
ivi domandano l'elemosina, e la turba di donne seminude che vi guazzano
dentro, in modo schifoso, offrendo l'acqua ai forestieri, vera parodia
delle ninfe che un dì si tuffavano in quelle onde. Nel punto dove la
fonte sbocca dalla grotta, tempo addietro fu costruito un semicircolo in
muratura, nel centro del quale sorge un piedistallo che aspetta ancora
la statua della ninfa. Mi fu mostrato non molto distante da terra
l'_Occhio della Zilica_, una polla d'acqua dolce che sorge nel mare nel
punto dove, secondo la leggenda, Alfeo raggiunse la ninfa fuggiasca.

La più bella rovina, non solo di Ortigia, ma di tutta l'antica Siracusa,
è il tempio di Minerva, salvatosi da completa distruzione pel fatto che
fu ridotto a tempio cristiano. Se ne ammirano ancora le ventidue colonne
del peristilio; tredici a settentrione, e nove a mezzogiorno, quantunque
miseramente rinchiuse nelle pareti della chiesa. Sono stupende colonne
doriche, con magnifici capitelli di otto palmi di diametro e trentadue
di altezza. La forma del tempio era quella di un _hexastylos
peripteros_, con trentasei colonne, lungo duecento diciotto palmi e
largo ottantasei e mezzo. Dalla leggenda narrata da Diodoro, che i
Geomori di Siracusa confiscarono i beni dell'appaltatore della
costruzione, Agatocle, per essersi costruita una casa con materiali
destinati al pubblico edificio, si può dedurre che il tempio di Minerva
risalga all'epoca in cui i Geomori non erano stati scacciati dai plebei.
Cicerone nelle sue _Verrinae_ fa una bella descrizione del tempio,
affermando che era il più bello che avesse mai visto. Bella e sontuosa
era la sua decorazione, in cui abbondavano preziose sculture d'oro e
d'avorio; nell'interno, sulle pareti, erano scolpite le guerre di re
Agatocle contro i Cartaginesi ed i ritratti di ventisette re di Sicilia
disposti come i ritratti dei Papi in S. Paolo fuori delle mura, a Roma.
In cima al frontone del tempio, secondo quanto narra Ateneo, sorgeva una
statua d'oro di Minerva, la quale, pel suo grande splendore, si scorgeva
dal mare a grande distanza. I naviganti che salpavano dal porto di
Siracusa toglievano dall'altare di Giove Olimpico un vaso di carbone
acceso e lo tenevano in mano finchè potevano vedere la statua di
Minerva. Marcello risparmiò il tempio, le sue statue e i suoi tesori;
Verre, invece, rubò tutto quanto vi era di valore, e non ebbe nessun
rispetto per l'opera d'arte.

Del tempio di Diana, in Ortigia, si sono scoperti alcuni avanzi, due
colonne doriche con sedici scannellature, oggi visibili nella corte di
una casa Santoro.

Questi sono gli unici avanzi dell'antica città insulare; di tutti i suoi
splendidi edifici nulla più rimane; la città presenta oggi un aspetto
melanconico e triste ancor più di Girgenti. Le sue strade, strette,
sudicie rivelano ad ogni passo la miseria; nessun altro paese mi ha
fatto tanta e così triste impressione. I due bei porti, una volta così
attivi, sono morti come la città e i campi sassosi di Achradina, e le
onde si frangono mestamente sulla spiaggia deserta e silenziosa. Per
avere un'idea precisa della tristezza del passato, bisogna contemplare
quel panorama da dove sgorga la fonte d'Aretusa, in una notte serena.
Ivi la notte mi parve più mesta e più fantastica che fra le ruine del
palazzo dei Cesari dell'antica Roma. Io provai una vera nostalgia per
l'antica Grecia, patria di ogni eletto ingegno.

Nella notte, presso il porto più grande, splendono alcuni fanali fra gli
alberi dell'unica passeggiata dei moderni Siracusani, ove s'inalzano due
meschine statue di Yerone, e di Archimede. Per questa passeggiata
passano lentamente i Siracusani, poveri, melanconici, senza cultura,
senz'arti, senza industria, ridotti alla misera vita di abitatori di una
povera terra sotto l'esecrato dispotismo di Napoli. Non ricordo di aver
veduto una bella fisonomia in tutta la città; solo lo sguardo di una
signora che mi passò davanti, tutta vestita di nero, mi richiamò ai
tempi di Aristippo e della siciliana Laide.

Contemplando il bel porto deserto, in cui erano ancorati soltanto due
piccoli legni mercantili turchi, mi tornarono alla memoria le parole di
Cicerone: _Nihil pulchrius quam Syracusanorum portus, et moenia videre
potuisse_. Infatti, l'attività commerciale dell'antica Siracusa non fu
inferiore a quella di Costantinopoli, nei suoi tempi più belli.

Quanta mestizia si prova anche visitando il museo! Ivi sono radunati
tutti gli avanzi dei capolavori dell'arte antica di Siracusa,
ammonticchiati in una povera stanza, quasi fossero rottami di nessun
valore. Tra questi scorsi la famosa Venere Siracusana, priva della testa
e mutilata del braccio destro, rappresentata nell'atto di uscire dal
bagno, mentre con la mano sinistra raduna il drappo attorno al corpo e
tiene la destra ripiegata sul seno. Fra le varie statue più famose della
Dea dell'amore, quella di Milo, di Capua, del Campidoglio, di Firenze,
la Venere di Siracusa si distingue più che per la grazia, per il pieno
sviluppo della bellezza femminile. La sua posa non ha quella grazia che
mostrano la Venere di Firenze e quella di Roma; essa riposa quieta nella
coscienza della sua sensualità divina. Non si comprende come la statua
stupenda abbia potuto sfuggire allo sguardo rapace di Verre. Essa fu
scoperta dal cavaliere Landolina in un giardino della famiglia Bonavia,
a Siracusa, nel 1804, e diede occasione alla fondazione di questo museo,
pel quale molto lavorarono fin dal 1809 lo stesso cavaliere Landolina,
degno emulo del Mirabello, ed il vescovo Filippo Maria Trigona. La
Sicilia non possiede un museo nazionale, e se si riunissero le
collezioni di Noto, di Girgenti, di Siracusa, del museo Biscari di
Catania e di quello di Palermo, si potrebbe formare una collezione
nazionale che, specialmente per le monete, difficilmente potrebbe avere
l'eguale.


                                   II.

                                Achradina.

La seconda e la più bella parte di Siracusa era Achradina, sita presso
Ortigia; vi si accedeva dall'isola, passando sulla diga che portava pure
allo stupendo faro. Achradina si estendeva lungo la costa di levante,
poichè a settentrione il suo territorio confinava col mare, a ponente
con Tycha e con Neapoli e a mezzogiorno con l'isola e con i due porti.
Da ogni parte era cinta da mura che dovevano, in verità, essere molto
resistenti perchè Marcello, dopo essersi reso padrone di Tycha, di
Epipola, e di Neapoli, trovò in Achradina una grande resistenza, e forse
senza il tradimento dello spagnuolo Merico, che cedette per denaro
l'isola ai Romani, rendendo inutile la difesa di Achradina, mai sarebbe
riuscito ad impadronirsene. Verso il mare era protetta da quelle mura
nelle quali Archimede aveva fatto delle feritoie per poter far
funzionare le sue meravigliose macchine.

Cicerone, in una delle sue opere, così scrive: «La seconda città di
Siracusa ha nome Achradina; in essa si trovano il faro principale,
bellissimi portici, una vasta curva, ed un tempio magnifico dedicato a
Giove Olimpico; gli altri quartieri della città sono occupati da
un'ampia via maestra, in senso longitudinale, da varie strade
trasversali e da private abitazioni».

In Achradina oggi si trovano le più vaste rovine di Siracusa; è un
altipiano di roccia calcarea, di tinta nera, in cui si scorgono traccie
di numerose strade, vestigia di passaggio di carri, sepolcri, ponti di
pietra, fondamenta di case e piazze.

Per andare dall'isola ad Achradina vi sono due vie: si può passare per i
tre ponti levatoi delle fortificazioni che tagliano l'istmo, ovvero per
mare, imbarcandosi nel piccolo porto e scendendo a terra al disotto del
convento dei Cappuccini.

Al di là dell'argine si trova la fonte degli Ingegneri, presso la quale
sorge quella colonna isolata, unico segno dell'antica città, di cui già
parlai. La colonna ha una base attica, è senza scannellature; non si può
quindi dire dorica; Serra di Falco sostiene che abbia appartenuto al
tempio di Giove, che Yerone II fece costruire nel fòro; ma questa
ipotesi è assai dubbia per le dimensioni piuttosto piccole che essa
presenta. Si sa invece con certezza che il fòro si trovava in quella
località, poichè nessun'altra ve ne era adatta a servire alle due città
di Ortigia e di Achradina. Nel fòro si entrava per una porta a cinque
archi, ed esso era tutto contornato da portici; e vi si trovavano il
pritaneo, la curia, della quale non rimane nessuna traccia, e anche la
così detta _Casa dei sessanta letti_, avanzo di un antico edificio, che
viene senza fondamento ritenuto come rudero del palazzo di Agatocle.

In mezzo ad Achradina, sul punto culminante dell'altipiano, si trovano
le famose latomie o cave di pietra, che oggi portano il nome dei
Cappuccini, avendole quei monaci ridotte a giardini per adornare il loro
solitario convento che sorge all'ingresso di quelle. All'intorno si
estende la pianura deserta e morta di Achradina, e sembra quasi che la
natura colpita dallo sguardo di Gorgona, sia stata convertita ad un
tratto in pietra.

La campagna di Roma è bella, con la sua lussureggiante vegetazione, con
le sue graziose colline, con i suoi sepolcri e con le sue torri
solitarie circondate da edera e non si potrebbe trovare teatro più
adatto per i grandi fatti della storia antica. Qui invece tutto ha
l'aspetto di decadenza, di abbandono, e per quella pianura sassosa non
si vedono aggirarsi che i solitarii cappuccini. Avendo molto sentito
parlare di queste latomie, credevo che mi avessero fatto molta
impressione, non mai che mi commovessero come mi hanno commosso. Un
monaco mi aprì la porta, e mi trovai in un ampio recinto, scavato nella
viva roccia.

Vi erano stanze della grandezza di una piccola piazza, con pareti
tagliate a picco, dell'altezza di 26 metri, alcune di una tinta
giallognola propria delle rovine greche, altre rossicce. L'edera le
copriva in gran parte, arrampicata in cerca del sole e della luce, e
ricadente in graziosi festoni. Il piano era tutto smaltato di fiori, e
qua e là, nelle fessure della roccia, crescevano allori, oleandri e
pini. Queste latomie un tempo erano coperte; poi le intemperie ne
ruinarono il tetto, ed i massi giacciono oggi ammonticchiati, formando
gole, valli, così da dare l'imagine di una catena di monti in
miniatura. Gli spazi di terreno esposti alla luce furono dai cappuccini
ridotti ad orti e a giardini, che sono tutto l'opposto degli orti
pensili di Semiramide, perchè si trovano alla profondità di venti ed
anche venticinque metri sotto il livello del suolo; in queste cavità
vegetano stupende piante di aranci, di melagrani, viti, cipressi, mirti
e vi si vedono anche erbaggi e legumi, che i monaci coltivano per la
loro parca mensa. Nell'osservare queste latomie si dimentica che esse
furono orribili prigioni e che dopo la sconfitta toccata a Nicia e a
Demostene, vi furono rinchiusi gli Ateniesi. Molti di questi morirono di
febbre, per lo scarso nutrimento, altri invece si salvarono in grazia
dei versi di Euripide. Potevano contenere ben seimila uomini; nessuna
prigione presentava certo peggiori difficoltà di evasione. Trovandosi
proprio nel mezzo di Achradina, si comprende che furono anteriori alla
fondazione della città. Si crede che ivi abbiano lavorato i prigionieri
cartaginesi dopo la battaglia d'Imera, per estrarre il materiale
occorrente alla fabbricazione delle case e dei templi di Siracusa. Le
rovine e la terra cadutavi hanno rialzato il suolo di circa dieci metri,
diminuendone di molto la primitiva profondità. Ancora si osservano molte
gallerie, anditi coperti, portici, stanze quadrate e a volta, che non
sono però di origine greca, poichè presentano lo stesso carattere delle
catacombe cristiane.

Sul suolo dell'antica Achradina, oltre le latomie, si vedono ovunque
tracce di antiche strade e impronte di ruote di carri, come a Pompei, in
grandissimo numero e visibilissime, essendo il suolo di Siracusa di
calcare e non di tufo come quello di Roma. Vicino alle latomie trovai
queste tracce più abbondanti, dal che argomentai che fossero state
impresse dai carri che trasportavano i materiali di costruzione estratti
da quelle. Certamente anche nei tempi più belli di Achradina, queste
cave aperte nel centro della città dovevano deturparla, dandole
l'aspetto di un vasto cantiere occupato da una folla di lavoratori. Le
latomie erano le galere di Siracusa. La roccia si trova scavata e
lavorata per parecchie miglia, e molte sono le fosse sepolcrali, della
stessa forma delle nostre cripte. Certamente il lavoro dell'uomo in
questa parte della Sicilia fu immenso, poichè, oltre le tombe, che sono
innumerevoli, sotto il suolo di Siracusa si estendono vaste catacombe
tutte scavate nella viva roccia.

Vidi molti spazi quadrati che segnavano certo l'area di antiche case,
poichè queste in Achradina sorgevano sulla nuda roccia, senza
fondamenta. Si cammina per ore intere per questo campo pietroso, lungo
il mare, cercando la località e la direzione delle antiche mura, a
ponente verso Tycha, dove la città si congiungeva anche a Neapoli, e
dovunque si trovano traccie del passaggio dei carri e del lavoro
dell'uomo.

È strano come tutta questa immensa città piena di mura e di templi, di
portici e di fori, di edifizi colossali, abbia potuto sparire, quasi
fosse un monticello di sabbia. Si sa, è vero, che per molto tempo non si
costruì in Siracusa che con questo materiale, e che le città moderne di
levante asportarono per mare grandi quantità di rovine dell'antica
Siracusa; purtuttavia la completa scomparsa dei ruderi rimane sempre un
enigma.

A mezzodì l'altipiano di Achradina si abbassa e anche colà si trovano
degli scavi, delle tombe, quasi tutte a forma di colombari, e dei loculi
di tipo romano. Ivi si trovano pure le maravigliose catacombe
estendentisi sotto Neapoli, il cui accesso è sito presso la più antica
chiesa cristiana della Sicilia, quella di S. Giovanni. Questa chiesa è
un edificio piccolo bizzarro, preceduto da un portico con archi
bizantini, ergentisi sopra colonne addossate a pilastri con capitelli
del medio evo. Disgraziatamente la chiesa è ormai quasi una rovina. Si
accede alle catacombe da una porta presso la chiesa; queste catacombe
sono meno vaste e meno imponenti di quelle di Napoli, ma assai più
regolari e formano una vera città di morti, con strade, gallerie,
corridoi, stanze, nicchie, piazze. Ivi i morti dormono da secoli, mentre
al disopra di essi si agita e si evolve un mondo pieno di passioni.
Quanti siano ogni giorno i morti di una grande città ce lo dicono le
catacombe di Napoli; da ciò si arguisce quale immenso numero ne abbiano
accolto i sotterranei di Siracusa, un tempo così popolosa.

Le catacombe, come le altre, erano in origine cave di pietre; in seguito
vennero ridotte ad uso di necropoli, e per molti secoli vi si
seppellirono i morti secondo un sistema regolare, poichè tutte le
gallerie sono di tanto in tanto interrotte da una stanza centrale, a
forma di circolo, ampia e piena di nicchie, con una o tre porte a vòlta,
posteriori all'epoca greca. Fino ad oggi se ne sono aperte quattro, ma
la tradizione vuole che siano trecentosessanta e che arrivino sino al
Sebeto e si estendano sotto il suolo fino a Catania. Per la maggior
parte appaiono ingombre, specialmente nel piano inferiore; nonostante
questo, furono esplorate per l'estensione di parecchie miglia. Venti
anni or sono in esse si perdette un maestro con sei scolari, che da
soli vollero visitare la necropoli. Si smarrirono in quel laberinto, e
invano cercarono un'uscita, finchè, spossati dalla fatica, vi perirono
di fame e di paura. I loro corpi furono poi rinvenuti alla distanza di
quattro miglia dall'ingresso: si può facilmente immaginare di quale
terribile morte gl'infelici perirono. Da allora si sono praticate di
quando in quando alcune aperture, per le quali un po' di luce penetra in
quei tenebrosi corridoi. La larghezza di questi è, in genere, dai dodici
ai sedici palmi, e la loro altezza dagli otto ai dodici; per la
lunghezza sembrano non aver fine; si continua a camminare per ore ed ore
fra le tenebre in questi canali sterminati ed uniformi quanto
l'eternità. Solo di quando in quando la monotonia è interrotta da
sepolcri ornati di orribili pitture e rivestiti di stucco rossiccio come
quelli di Pompei. In molti punti i sepolcri si succedono gli uni agli
altri, quasi celle di un alveare. Si direbbe fossero tante che un verme
sepolto nella terra abbia scavato tutte queste gallerie, tutti questi
corridoi; e che le generazioni si siano succedute le une alle altre, e
milioni di uomini vi abbiano trovato la pace eterna. Oggi non vi si
vedono più nè ceneri nè ossa; il tempo, che ha distrutto ogni vestigia
dell'antica Achradina, ha fatto scomparire anche le reliquie dei morti.
I Greci, i Romani, i Cristiani vi trovarono, gli uni dopo gli altri, il
gran riposo: vi sono stati scoperti difatti idoli pagani, piccoli
bronzi, lacrimari, simboli cristiani ed un bassorilievo rappresentante i
dodici apostoli, trasportato poi nella cattedrale di Siracusa. L'uso di
seppellire i morti nelle catacombe è anteriore ai tempi cristiani; lo
provano i sepolcri scavati nella pietra e ritrovati nella città
troglodita di Ispeca, e le tombe rinvenute in Egitto, nelle Indie e
nella stessa America, risalenti a tempi preistorici. Nel punto in cui
Achradina confinava con Neapoli e dove sorgevano tanti stupendi
monumenti, si vede oggi l'antica strada dei sepolcri, con tombe di stile
greco, scavate nella pietra. La stessa strada, della larghezza di circa
sette metri, si trova scavata nella roccia, ed a poco minore altezza
s'innalzano le pareti che la fiancheggiano. Le tombe aperte nelle pareti
sono di varia grandezza e dimensione; in molte si scorgono traccia
d'iscrizioni. In genere sono di stile greco, ma in completa rovina; in
parecchi si vede ancora un frontone sostenuto da due colonne
scannellate. Ricostruendo la strada nella sua forma primitiva, con tutti
i suoi monumenti, si avrebbe da ambedue le parti una serie di
tempietti, interrotta da tombe più meschine e di povero aspetto; poichè
in questa via, sita fuor delle mura di Achradina, si seppellivano
persone di varia condizione.

La strada però non doveva produrre la stessa grande impressione della
via dei sepolcri a Pompei. Anche il campo che si estende fra Achradina,
Tycha e Neapoli, un tempo comune alle tre città e non fabbricato, appare
oggi pieno di fosse e di tombe, il cui straordinario numero dice quanto
grande e popolosa dovesse essere Siracusa.

Alcuni di questi sepolcri attirano sopratutto l'attenzione per la loro
architettura, ch'è più ricca, o per le loro pitture ancora visibili:
senza dubbio erano destinate a personaggi illustri. In questi paraggi
sorgevano pure le meravigliose tombe che il popolo siracusano innalzò a
Gelone e a Demarata, sua moglie; s'ignora però il luogo preciso ove si
trovavano. Di tutti i sepolcri che rimangono, due meritano di essere
segnalati: si trovano a poca distanza fra loro, in una bella e piccola
cava di pietra gialla, fra numerose altre tombe, presso l'antico
acquedotto di Tycha, e sono formati da massi sferici, ammonticchiati gli
uni sopra gli altri a forma di piramide. Molto, certo, ebbero a soffrire
dal tempo, a giudicare dalla presente disposizione delle pietre, non
più regolare. Fra mezzo vi si scorge ancora però un frontone dorico,
sostenuto da due colonne doriche, di cui una è ancora in piedi. Per
quanto lo stile greco e l'altezza delle colonne e del frontone,
superiori alle proporzioni dell'ordine dorico, dicano che questo
sepolcro è posteriore ai tempi greci, i Siracusani, con pietoso
pensiero, gli diedero il nome di _Tomba di Archimede_, forse per la
stessa ragione che indusse gli Agrigentini a battezzare un antico
monumento col nome di _Sepolcro di Yerone_.

Il grande matematico aveva ordinato che sulla sua tomba fosse innalzata
una colonna, su cui dovevano essere incise le proporzioni del cilindro
con la sfera, a ricordo de' suoi studi prediletti. Cicerone, quando era
questore a Siracusa, fece ricerca della tomba di Archimede, e sotto la
scorta di questa tradizione riuscì a scoprirla, quasi perduta in mezzo a
folti cespugli. Il grande oratore fu orgoglioso della scoperta ed
esclamò vanitosamente: «Il Destino ha voluto che la tomba del più grande
dei Siracusani fosse scoperta da un uomo di Arpino». A quel tempo non
erano trascorsi che cento cinquanta anni dalla conquista di Marcello,
eppure la città era già decaduta, tanto che la tomba del più illustre
fra' suoi cittadini stava sepolta fra cardi selvatici e spine. Cicerone,
che sotto la guida dei Siracusani e della tradizione municipale, va
cercando fra i ruderi la tomba di Archimede, dà la imagine di un erudito
archeologo romano dei nostri giorni.

Forse dovremo anche noi rinunciare a scoprire la tomba di Archimede e
verrà un giorno in cui si cercherà invano quella di Humboldt;[6] ma il
ricordo degli uomini illustri è eterno, e giustamente Pericle esclamava,
nella commemorazione degli Ateniesi caduti in guerra: «A gli uomini
grandi è tomba il mondo!»

Enorme è l'impressione che producono le tombe siracusane, in quella
regione deserta, inondata di luce e popolata solo di grandi memorie.
Seduto colà, nel silenzio del mezzogiorno, o nella tranquillità
dell'infuocato tramonto, ovvero vagante fra quelle tombe, che a
centinaia si aprono nel suolo, sembra che debbano sorgerci dinanzi, come
ad Ulisse nell'inferno, le ombre di una stirpe di uomini più grande
della presente, le ombre dei magni della Grecia. Allorchè io visitai i
venerandi sepolcri, stavano seduti sui loro gradini uomini e ragazzi di
povero aspetto, logori dalla febbre, con gli occhi infiammati, i capelli
ispidi, coperti a mala pena da pochi luridi cenci. Nelle loro fisionomie
si leggeva tutta la storia della moderna Sicilia, le sevizie della
polizia borbonica, il predominio corruttore del clero, e l'animo mio,
amareggiato, non potè fare a meno d'imprecare contro la sorte degli
sventurati discendenti di Archimede. Non verrà mai il giorno della
redenzione per questa stupenda contrada? Che Dio la renda piuttosto ai
Saraceni!...

Ci vorrebbe un novello Archimede per scacciare con le sue macchine e
ridurre in cenere tutto il pretismo ed il monachismo che infestano la
sventurata isola!

Ancora di una tomba mi resta a parlare. Non lontano dalla via dei
Sepolcri, in un giardino di viti e di olivi, si trova sepolto il nostro
concittadino Platen.[7] Mentre stavo sui gradini della sua tomba, dopo
avervi depositato una corona di tralci di vite, mi ricordai, in quella
pura atmosfera ellenica, le relazioni di Platen con Heine, e questi
pensieri mi portarono nella malsana atmosfera della letteratura patria,
nei tempi falsi, tendenti all'ebraismo, che fecero tanto male alla
nostra poesia, generando una razza di uomini snervati, incuranti di Dio
e dei loro simili. Come fu diversa la sorte di Heine e di Platen! Se Dio
avesse concesso al primo di poter esprimere quanto soffriva nel suo
animo, invece di farsi beffe di tutto, sarebbe stato un uomo veramente
grande, chè per ingegno Heine fu infinitamente superiore al povero
Platen. Eppure l'accanito nemico di Platen si dovè rassegnare a vedere
che a questi fosse innalzata una statua.

Fu ventura per Platen il morire a Siracusa. Poco tempo prima della mia
venuta, il re di Baviera, come mi narrò il giardiniere, aveva visitato
la tomba del poeta e deciso di farla restaurare, poichè già cominciava a
cadere in rovina.

               AGUSTO COMITI PLATEN HALLERMUNDE AUSPACHIENSI
                           GERMANIAE HORATIO.

Questa è l'iscrizione che il cavaliere Landolina fece incidere sulla
tomba. Meritò quel freddo versificatore di Platen di riposare solitario
fra i monti di Siracusa, in mezzo a Yerone, ad Archimede, a Timoleone,
quale unico rappresentante del popolo che più di ogni altro era versato
negli studi ellenici? Questo dubbio mi rimpiccioliva quella tomba
poetica quanto i cipressi che presso la piramide di Caio Cestio
ombreggiano la tomba di Schelley, uno dei pochi veri poeti dei tempi
moderni.


                                  III.

                                Neapoli.

Mi resta ora da descrivere Neapoli, la parte di Siracusa che fu, come lo
dice il suo nome, l'ultima ad essere costruita. Negli inizi Neapoli fu,
come Tycha, un sobborgo di Achradina; si estendeva fra il porto maggiore
e l'altipiano su cui sorgeva Siracusa; dalla parte di Tycha era protetta
da mura e da rupi naturali. La porta Menetide, o Temenetide, conduceva
dalla città alla campagna; questa parte di Siracusa era chiamata
Temenide da una statua di Apollo che portava questo nome. Cicerone ne
descrive un teatro e due templi, uno dedicato a Cerere e uno a
Proserpina, innalzati da Gelone col bottino fatto sui Cartaginesi. In
questo luogo sorgevano anche i sepolcri di lui e della sua consorte, che
più tardi vennero distrutti da Imileone cartaginese.

Non vi è in Neapoli luogo dove si raccolgano tante memorie e tanti
monumenti quanto nell'angolo che confinava con Achradina, poichè in quel
breve spazio vi erano le latomie di Dionigi, il teatro, la strada,
l'anfiteatro e l'acquedotto.

Le famose latomie, che portano il nome di Orecchio di Dionigi, non sono
vaste come quelle di Achradina, ma sono più pittoresche e, in certi
punti, più belle e più singolari. Esse formano un vasto quadrato, nella
cui profondità si trova un giardino sempre verde. Nel centro s'innalza
un pilastro di roccia naturale, dell'altezza di circa ventisette metri,
sulla cui cima, tra una lussureggiante vegetazione di piante rampicanti,
si elevano gli avanzi di una torre.

Può sembrare sulle prime che questo fosse il luogo ove stava il
guardiano del carcere, ma osservando meglio si vede che era invece una
colonna del tetto, ora crollato. A destra, entrando, si trovano le
stanze di appartamenti scavati nella roccia, una delle quali porta il
nome di Orecchio di Dionigi. Questo nome le fu dato da Michelangiolo da
Caravaggio che, visitando le latomie in compagnia dell'erudito
siracusano Mirabella, fu indotto a darle questo nome dalla forma della
cavità, dando così in seguito origine a innumerevoli leggende.

Tutte le pareti verticali di questa grotta sono rivestite di edera e di
capelvenere; in cima, sul margine della cava, sorge un pino solitario.
La forma strana e singolare della latomia dà luogo a quei fenomeni
acustici, per i quali si formò la leggenda che ivi Dionigi stesse in
agguato a spiare i discorsi de' suoi prigionieri. Serra di Falco scoprì
nel 1340 un'apertura in alto, dalla quale, come da una specie di loggia,
si poteva vedere tutta la latomia e udire le parole che ivi si
pronunciano. Una parola sussurrata a voce bassissima, la lacerazione di
un pezzo di carta si sentono distintamente di lassù, e le guide non
tralasciano di darsi il piacere innocente di far ripetere all'eco:
«Dionigi era un tiranno!» Un colpo di pistola viene ripetuto cento
volte, col fragore di un tuono.

Un'altra parte delle latomie, vicino all'Orecchio di Dionigi, si chiama
il Paradiso ed è di una bellezza straordinaria. Ha la forma di un ampio
quadrato, col suolo piano; e le pareti di color roseo, o nero cupo, o
giallo carico sono in certi punti angolose, in altri di aspetto bizzarro
per i massi rovinati nella caduta del tetto. In un angolo si apre una
specie di grotta sostenuta da pilastri naturali e a traverso a questi si
vedono il verde cupo degli aranci, i fiori infuocati del melagrano ed il
limpido cielo di Siracusa.

Nel tratto della latomia ancora coperta, da lungo tempo è stata
costruita una fabbrica di cordami: uomini, donne, ragazze, poveri,
cenciosi, pallidi, di aspetto malaticcio, guadagnano stentatamente la
vita filando in quell'antica prigione.

Spesse volte mi sono trattenuto ad osservare il lavoro stando seduto
all'ingresso dell'oscura galleria, e nel vederli girare di continuo le
ruote e andare su e giù, filando i loro cordami, mi è parso di trovarmi
nell'Averno ed ho creduto che quelle donne pallide e smunte fossero le
Parche intente a filare lo stame della mia solitaria vita. Donai alcune
monete a quella povera gente, che le accettò con l'espressione di
gratitudine di chi non si aspetta di essere soccorsa, ed uscito di là,
tornato alla luce del giorno, mi trovai ancora sotto l'impressione di
quelle misere esistenze.

In Sicilia tutto ha l'aspetto di favola e di mito: Girgenti al pari di
Siracusa, l'Etna e l'Enne, ogni spiaggia della sua marina. La fantasia
ci riporta a tempi più antichi, ancor più della campagna romana; quivi
regna severa la storia, in Sicilia la leggenda. Non è difatti la terra
di Tifone, dei Ciclopi, di Dedalo?

Per quanto le latomie di Achradina e di Neapoli siano imponenti per la
loro vastità, ve ne sono altre a Siracusa, più piccole, ma che pure
hanno un carattere più romantico: quella del conte Casale, simile ad un
piccolo Paradiso, per esempio. Io non ho mai visto un giardino così
bello; è diviso in due parti, riunite da una galleria coperta,
dell'altezza di circa due metri. Nel fondo si trova una sala, alta cento
otto palmi e larga sessantadue, le cui pareti sono tinte di rosso e
paiono rischiarate dai raggi del sole nascente. Nelle pareti vi sono
molti fori i quali salgono in alto, in linea curva: forse colà si
trovavano uncini di ferro per servire di scala agli schiavi che
scavavano le pietre. La pianta della sala è abbastanza regolare e certo
anche in origine ebbe la stessa forma. I terremoti rovinarono molte sale
di questa latomia, e ultimamente, nel 1853, crollarono dall'alto varî
massi, che ora ingombrano gran parte del giardino. Lo spazio libero è
ammirabile per la splendida vegetazione; le foglie di fico, per esempio,
hanno una larghezza tale che potrebbero servire da piatti; vi si trovano
pure piante e fiori delle Indie.

Le palme, contornate di pianticelle rampicanti, vi crescono
rigogliosissime; l'aria è tutta impregnata del profumo degli aranci, del
mirto, e gli aloe, le agave vi crescono giganteschi. Il giardino, con le
sue mura rivestite d'edera e di muschio, con tutti i suoi corridoi, con
le sue rovine, presenta un aspetto così fantastico da farlo credere il
giardino di Titania e di Oberone. Non un soffio di vento, non un atomo
di polvere turba la tranquillità del luogo.

Presso l'Orecchio di Dionigi si trovano i notevoli avanzi del teatro di
Siracusa, uno dei più vasti dell'antichità, che Cicerone chiamava
_maximum_. Serra di Falco crede che fosse contemporaneo al teatro di
Bacco in Atene, edificato da Temistocle, ed il primo che sia stato
costruito con pietre in Grecia. Il bell'edificio è di un aspetto
mirabile per la sua semplicità ed eleganza, nonostante che sia in gran
parte rovinato e che della scena rimanga soltanto un mucchio di rovine
coperte di cespugli. Il semicircolo oblungo degli ordini dei gradini è
scavato nella roccia della collina di Neapoli; si contano quarantasei
gradini interrotti da una larga fascia, e tagliati da otto scale
diagonali.

Con quarantasei file di sedili non si ottiene che un diametro di
quattrocento palmi, ma Serra di Falco ritiene che il teatro avesse un
maggior numero di ordini e che perciò si allargasse a misura che saliva.

Egli crede pure che il suo diametro fosse di cinquecento palmi, cosicchè
sarebbe stato il teatro più vasto di tutta la Grecia, ad eccezione di
quello di Mileto. Non comprendo del resto perchè nel passo di Cicerone:
_quam ad summum theatrum est maximum_, la parola _maximum_ si traduca
per «maggiore di tutti» e non soltanto per molto ampio.

Nell'orchestra sboccano due corridoi: la scena, che è fiancheggiata da
due edifici quadrati, è attraversata da un piccolo canale d'acqua,
proveniente dal vicino acquedotto. Molto si è discusso intorno alle due
iscrizioni greche _Basillissas Nereidos_ e _Basillissas Philisdos_, che
si leggono sulla cornice che circonda il teatro, non conoscendosi nella
storia di Siracusa questi nomi di regine. Secondo alcuni, Nereide era la
figlia di Pirro re dell'Epiro, che aveva sposato il figlio di Gelone II,
e Philiste era la figlia di Leptine e moglie di Gelone. Del teatro non
rimangono altri avanzi degni di attenzione: pochi sono i frammenti di
sculture, ed uno solo pregevole per quello che esso rappresenta: è un
cippo di marmo bianco, sul quale è scolpita la favola omerica del serpe
e del nido di passero in Aulide, che presagì a Calcante la durata della
guerra di Troia.

Quello che più fa impressione è l'importanza avuta da questo teatro, che
fu uno dei centri più belli della civiltà umana, poichè su quei gradini,
quasi sepolti oggi nell'erba, sedettero un tempo Platone, Eschilo,
Aristippo, Pindaro; nella sua orchestra furono messi i prigionieri
Ateniesi, e ivi parlò Timoleone, vecchio e cieco, quando prese parte
alla discussione degli affari pubblici. Tutta quanta la storia di
Siracusa s'intrecciò con l'azione drammatica di questo teatro, poichè in
esso si trattavano gli affari di Stato e si declamavano i versi dei
sommi poeti. L'importanza nazionale del teatro era accresciuta anche dal
luogo in cui sorgeva, fra Neapoli, Tycha e Achradina, e non molto
distante da Ortigia.

Il panorama visibile da quell'altura è meraviglioso, il più bello certo
che si gode da Siracusa: di là si vedono i due porti, il mare, la
spiaggia fino ai monti d'Ibla e in lontananza la mole imponente
dell'Etna ed i contorni del mar Ionio fino alla rocca di Taormina. Come
doveva essere più bella la vista quando davanti si estendeva l'immensa
città, co' suoi templi, i suoi portici, i suoi meravigliosi edifici e il
porto pieno di una selva di antenne!

Su quelle scene l'orgoglio patrio era legittimo; e qual effetto
dovessero suscitare _I Persiani_ di Eschilo, con i quali i Siracusani
festeggiavano la vittoria d'Imera, si può facilmente immaginarlo.

Non meno bello e pittoresco appare il teatro veduto dai gradini più
elevati, con tutti i giardini smaltati di fiori che lo circondano. Anche
di là la semplicità dell'architettura rivela la purezza del gusto
ellenico.

In alto, là dove i gradini del teatro confinano con la collina, vi è un
Ninfeo rivestito di muschio e di licheni, dal quale sgorga una fonte:
esso mi ha fatto ricordare la grotta della ninfa Egeria a Roma.

Vicino a questa si trovano altre due piccole grotte, nelle quali le
donne lavano i loro panni, aumentando col loro canto melanconico la
tristezza del paesaggio. A destra vi è la strada dei sepolcri, a
sinistra un braccio dell'antico acquedotto di Tycha, che oggi mette in
movimento un mulino; perciò il luogo vien chiamato _Mulino di Galerone_.
Il paesaggio è reso ancora più bello dalla parte dell'acquedotto moderno
che, sostenuto da archi, corre per un certo tratto all'aperto. Nelle
altre parti l'acqua scorre in canali sotterranei, che furono scavati
probabilmente dai Cartaginesi. In alcuni punti il canale si trova
scoperto, e si vede l'acqua discendere alla distanza di sei miglia dai
monti, e correre rapida e gorgogliante.

A levante del teatro, in un bosco di melagrane, sorge l'anfiteatro di
Siracusa, assai ben conservato e più vasto di quelli di Verona, di Pola
e di Pompei, giacchè misura duecentosessantatre palmi nel suo asse
maggiore, e centocinquantaquattro nel minore. Per la maggior parte è
costruito di pietra; alle quattro estremità dei due assi si trovano
quattro porte, corrispondenti alle quattro parti della città. Serra di
Falco lo fece sgombrare nel 1840 dalle macerie. Nonostante che in alcuni
punti le mura siano in completa ruina, nel suo complesso l'edificio può
dirsi assai ben conservato. L'anfiteatro è certo di origine romana,
perchè i Greci non si dilettarono mai al barbaro spettacolo delle lotte
fra gladiatori e fiere. Cicerone non ne parla; ne fa menzione invece
Tacito. La sua costruzione prova che Siracusa, sede di un pretore romano
ai tempi di Augusto e di Tiberio, aveva riacquistato una certa
prosperità.

L'ultima rovina antica che esista vicino al teatro, sono le fondamenta
di un edificio lungo e stretto, del quale non rimangono che alcuni
frammenti di cornici con teste di leoni. Serra di Falco scoprì queste
rovine nel 1839: egli dice che dovessero appartenere all'altare di
Yerone, per grandezza superiore a quello di Olimpia.


                                   IV.

                            Tycha ed Epipola.

Gli edifici più imponenti dell'antica Siracusa si trovano radunati in
uno spazio relativamente ristretto. Verso settentrione, vicino
all'acquedotto, c'è una pianura deserta e sassosa, attraversata dalla
strada che conduce a Catania; qui sorgeva Tycha, ricca un tempo di
notevoli monumenti, fra i quali primeggiava il Ticheio, o tempio alla
dèa Fortuna.

Tycha, a settentrione, presso il porto Trogilo, confinava col mare,
cinta da forti mura, a ponente con la fortezza di Epipola. Cicerone
ricorda di questa un ginnasio _amplissimum_ e molti templi; oggi non
rimangono che i sepolcri scavati orizzontalmente nella roccia, nei quali
si scorgono ancora le scanalature per adattarvi le lapidi e le impronte
di carri, prova questa della loro antichità.

La gita da Neapoli o da Tycha per la strada di Floridia ad Epipola è
malagevole e bisogna farla a piedi o a cavallo, poichè appena si arriva
sull'antico territorio di Epipola, è necessario arrampicarsi per
un'orribile strada sassosa ingombra di rovine e di massi di roccia
calcarea. Epipola occupava il punto più elevato dell'altipiano e
confinava col colle Eurialo, mentre più in basso s'innalzava un'altro
colle, il Labdalo. Anche oggi, queste due caratteristiche alture
dell'antica Siracusa sono riconoscibili e portano il nome di Belvedere e
di Mongibellesi.

Il Labdalo era stato fortificato dagli Ateniesi sotto Nicia per
dominare la città; essi avevano fortificato anche Epipola, ma ne furono
presto cacciati dai Siracusani comandati da Gelippo, i quali, come narra
Diodoro, atterrarono tutte le mura. Rimase così soltanto il Labdalo
fortificato. Ma Dionigi fece atterrare anche queste fortificazioni
quando costruì le sue famose mura a settentrione di Epipola. In queste
mura vi erano di tanto in tanto delle torri costruite con massi così
grandi che sarebbe stato assai arduo abbattere. S'ignora se Dionigi
abbia costruito fortezze sull'Eurialo e sul Labdalo; certo è che
l'Esapilo, per il quale i Romani entrarono nella città, si trovava a
settentrione di Epipola; e senza dubbio, nelle stesse mura s'innalzava
la torre Gallagra, che i Romani assalirono durante le feste di Diana.
Gli avanzi che oggi rimangono del Labdalo, i massi enormi della
lunghezza di quattordici a sedici palmi, le fondamenta delle torri, i
fossi, le gallerie sotterranee, provano che ivi sorse un giorno una
fortezza e non già opere provvisorie fatte dagli Ateniesi in vista
dell'assedio. Tutti gli enormi massi, secondo il sistema antico dei
Greci, erano sovrapposti gli uni agli altri, ma senza cemento; ancor
oggi formano una mole gigantesca. Nella roccia si vedono scavate
catacombe e gallerie dell'altezza di nove e dieci palmi, e della
larghezza di otto piedi, formanti quasi coi loro corridoi e coi loro
antri sotterranei una seconda fortezza. Probabilmente questa era in
comunicazione con la porta di soccorso che dalla città metteva nella
campagna. La mancanza di volte e l'uso della linea retta ne attestano
l'origine greca.

Dalle rovine di Labdalo si scorgono i dintorni di Epipola, cosparsi di
massi delle mura di Dionigi, di rovine della fortezza, di pietre. Vi si
vedono pure latomie di bizzarra struttura, dove si dice che Dionigi
tenesse prigioniero Filesseno. Di qui furono tolti i materiali di
costruzione per molte città, e tutte le fortificazioni moderne di
Siracusa vennero costruite coi ruderi delle mura di Dionigi. Nel
visitare queste caverne e queste rovine si rimane stupiti della grande
quantità di materiale eccellente da costruzione estratto dal suolo.

Per un ripido sentiero si sale in cima all'Eurialo, che domina tutta la
pianura siracusana. Lassù non si trovano altre rovine, se non una
cisterna e alcune mura antiche d'origine incerta. Esaminando però il
luogo, da cui si domina tutta quanta l'area occupata dall'antica città,
non si può fare a meno di persuadersi che ivi dovesse sorgere una
fortezza. Non essendo ricordata all'epoca dell'assedio degli Ateniesi,
non sappiamo se la costruisse Dionigi; certo però, quando Marcello prese
Siracusa, essa doveva avere un'importanza grandissima. Impadronitosi di
Tycha e di Neapoli, Marcello dovette trovarsi l'Eurialo, cui Tito Livio
dette il nome di colle e di fortezza, alle spalle, e minacciantegli la
sua posizione. Egli era dunque come rinchiuso fra queste mura, e siccome
dovevano arrivare Ippocrate e Imilcone, correva un grande pericolo,
quando il comandante della fortezza Filodemo, perduta ogni speranza di
soccorso, si arrese.

Oggi a buon diritto l'Eurialo porta il nome di Belvedere, giacche di
lassù si gode una vista magnifica. Di fronte ha il mare Ionio, di dietro
l'Etna «colonna del cielo»; lo sguardo spazia poi sulla costa orientale
dell'isola, ricca di magnifici golfi e di promontorî, fin oltre Augusta,
fino a Catania, che si perde fra le nebbie. Sul davanti appare tutta
quanta la pianura siracusana.

Imaginando tutto questo ampio spazio ricoperto di abitazioni, ed il
golfo seminato di villaggi, di ville, si ha una pallida idea
dell'aspetto che doveva avere questa grande città. Ora la pianura è
deserta e arida, e solo al confine del territorio di Neapoli, verso
mezzogiorno, una linea di vegetazione segna il corso dei fiumi Ciane e
Anapo.


                                   V.

                           L'Anapo e l'Olimpo.

Da Neapoli si diramava la via Elorica, che attraversava le paludi
Lisimelia e Siraca e varcava, sopra un ponte, l'Anapo. Sulla riva
opposta di questo sorge il colle Poliene ed in cima a questo si trova il
tempio di Giove Olimpico, ed un luogo chiamato Olimpio. Tutta questa
contrada è assai nota nelle guerre di Siracusa, poichè tanto gli
Ateniesi quanto i Cartaginesi si accamparono spesso ai piedi
dell'Olimpio, e sempre furono decimati dalle esalazioni di quei terreni
paludosi. Le poche colonne, unici avanzi dell'Olimpio, che ancora
esistano su quell'altura, si scorgono dalla distanza di molte miglia; e
queste, con le colonne che vi sono presso la fonte degl'Ingegneri, sono
le sole che rimangano in piedi dell'antica Siracusa.

Per giungere fin lassù e seguire il corso dell'Anapo, il mezzo migliore
è quello d'imbarcarsi nel porto più grande e di risalire il fiume
attraverso le paludi. Questo sbocca in mare passando sotto un ponte, e a
misura che lo si risale, il suo letto si va sempre più restringendo,
fino a che la barca a stento può aprirsi un passaggio.

Allora si abbandonano i remi, e i barcaiuoli spingono la navicella con
l'aiuto di una pertica, o la rimorchiano con una fune. La navigazione
dell'Anapo è una gita assai romantica. Sulle due sponde crescono folti
giunchi, dell'altezza di sei metri, e canne palustri di una
straordinaria grossezza, tutte rivestite di piante rampicanti, che
ricadono in graziosi festoni. La profonda solitudine, la tranquillità
dell'atmosfera e il silenzio quasi misterioso del luogo, producono una
magica impressione. Oltrepassata la via Elorica, l'Anapo si divide in
due rami, o per dir meglio in esso s'immette un torrente azzurro, il
classico Ciane, che sgorga da un limpido stagno circolare, chiamato la
Pisma. In questo fiume, secondo la leggenda, si gettò la ninfa Ciane che
fuggiva Plutone, allorchè questi portò Proserpina all'inferno, e venne
trasformata in fonte azzurra. I Siracusani venivano ogni anno in questo
luogo a festeggiare la memoria di Proserpina, sacrificandole un toro ed
una vacca, che precipitavano nello stagno. Questo luogo è meraviglioso;
riporta con la fantasia ai tempi mitologici e fa comprendere pienamente
il significato delle sculture degli antichi sarcofaghi, là dove è
rappresentato il ratto di Proserpina.

Cerere ricompensò la sua ninfa delle lacrime versate per Proserpina,
facendo crescere sulle sponde di questo torrente la pianta rara che
produce il papiro.

È l'unico luogo in cui questa pianta cresce ancora in Europa, dopo la
sua scomparsa dalle sponde dell'Oreto presso Palermo.

Questo giunco sorge dalle acque all'altezza di circa cinque metri,
graziosamente incurvato, triangolare, liscio e di un bellissimo verde
cupo; ha in cima una ricca chioma di filamenti verdi, fini, sottili, che
ricadono quasi come una folta capigliatura, a cui il popolo ha dato
l'appropriato nome di «parrucca». La vista di questa pianta, vera ninfa
dell'erudizione, produce una grata sorpresa in tutti coloro che vengono
dalle regioni nordiche; sembra quasi un'apparizione favolosa. Ogni
ricordo greco scompare, e la fantasia vola sulle sponde di quel Nilo
solenne, enigmatico, alle piramidi, alle sfingi, ai rotoli dei
meravigliosi papiri. La rara pianta, sulle rive del Ciane siracusano, in
questa terra ellenica, mi sembrò un mito rappresentante la tradizione,
secondo la quale ogni civiltà, ogni scienza ha avuto origine
dall'Egitto. Guardando alternativamente le piante del papiro e le
colonne spezzate del tempio di Giove Olimpico, mi sembrò di avere
davanti agli occhi i simboli della civiltà orientale ed occidentale.

Landolina e Politi provarono ad estrarre da queste piante il papiro, e
la loro prova riuscì perfettamente; essi ne fecero delle striscie che
non differenziavano da quelle egiziane che per maggior freschezza di
tinta.

Lasciai la barca nel Ciane per salire sulla vicina collina di Poliene.
Le colonne scannellate dell'Olimpio hanno piedistallo, ma mancano di
capitelli. Il tempio è molto antico, fu costruito prima della battaglia
d'Imera; era piccolo.

Gelone rivestì la statua di Giove di un mantello d'oro, ma Dionigi lo
tolse dalle spalle del Dio, dicendo, da libero pensatore, che un
mantello d'oro era troppo pesante per l'estate e troppo leggero per
l'inverno. Verre s'impadronì poi di questa statua di Giove e la portò a
Roma. Nell'Olimpio si conservavano i registri coi nomi di tutti i
cittadini di Siracusa, che caddero nelle mani degli Ateniesi, quando
questi occuparono l'Olimpio. La veduta di Siracusa da questa altura è
molto bella; al disotto si estende tutta la pianura verde, irrigata
dalle acque del Ciane. Dopo avere attraversato la pianura arida e
sassosa, che si estende da Achradine ad Epipola, l'occhio si riposa
sulle verdi sponde dell'Anapo, sui meandri del Ciane, e i nomi di
Teocrito e di Pindaro ritornano alla mente. Dove sono andati i bei tempi
dell'antica Grecia?

La pioggia mi cacciò da quell'altura e mi costrinse, appena fui sulle
rive dell'Anapo, a ricoverarmi sotto un ponte, ove dovetti rimanere a
lungo, come un'anima sullo Stige. Ma poichè, come dice Cicerone, non v'è
giorno in cui il sole non splenda a Siracusa, dopo una mezz'ora il cielo
si rischiarò ed io vidi Iride, nunzia di pace, stendere il suo arco sul
mare, mentre un raggio di sole rischiarava Ortigia.

Così, nelle stesse condizioni di luce, per l'ultima volta, potei
contemplare il Vesuvio, allorchè nel ritornare a Napoli fui colto dalla
pioggia. Auguro a tutti coloro che visiteranno Napoli e Siracusa di
poter godere lo stesso spettacolo, veramente superbo.

Gettai un ultimo addio a Siracusa, perchè dovevo partire l'indomani, e
volli ancora una volta salire sino al teatro per contemplare la città.

Ed ora, addio, Aretusa! Addio, rive del Timbro, volgenti le vostre acque
poetiche senza posa!



                            NAPOLI E SICILIA

                           (Dal 1830 al 1852)



                            Napoli e Sicilia.

                           (Dal 1830 al 1852).


Ferdinando II aveva vent'anni, quando l'8 novembre 1830 successe al
padre Francesco I sul trono delle Due Sicilie, in mezzo alle agitazioni
che le giornate di luglio avevano suscitato in tutta Europa. Nove anni
prima, la rivoluzione dei Carbonari del 1820 era stata distrutta per
l'intervento austriaco e per lo spergiuro di suo nonno, e solo nel 1827
gli Austriaci avevano lasciato il regno di Napoli, dopo che erano
costati al paese 74 milioni di ducati. I partiti si guardavano con
diffidenza; i Carbonari preparavano una nuova sollevazione che, con
l'aiuto dei cospiratori dell'Italia centrale, doveva assumere un
generale carattere nazionale. Mentre l'Italia di mezzo si sollevava, nel
regno di Napoli si ebbero solo dei moti fugaci, fino a che la rapida
soffocazione dei tentativi rivoluzionari di Modena e delle Legazioni
non scoraggiò del tutto i ribelli.

Frattanto Ferdinando II cercava di ingraziarsi il popolo con delle
concessioni; ma quantunque alleggerisse alquanto il giogo, allontanasse
impiegati odiati, amnistiasse alcuni esiliati e condannati del 1821 e
del 1828, pure il governo continuava a trovare una speciale contrarietà
in tutti. Quindi ben presto fu nominato ministro dell'interno il
marchese Pietracatella, una creatura dell'odiato Canosa; e l'intendente
di Cosenza, De Matteis, condannato precedentemente per vergognosi atti
di violenza, non solo fu graziato, ma ricevette, con meraviglia di
tutti, una pensione dal giovine re.

Era ministro della polizia Intonti, un uomo odiato dal popolo e ritenuto
per ambizioso e crudele. Mentre egli osservava con timore il fermento
del paese, faceva al giovane re la proposta di modificare in senso
liberale il sistema di governo, di creare un Gabinetto nazionale ed un
Consiglio di Stato con poteri più estesi di quelli di un Senato e di
istituire una guardia nazionale. Intonti supponeva nel re, data la sua
giovanile età, inclinazioni liberali che egli sperava di volgere a suo
personale profitto; ed infatti Ferdinando II non si mostrò alieno dal
seguire i consigli del suo ministro di polizia. Ma appena monsignor
Olivieri, che era il precettore ed il consigliere del re, ebbe sentore
di ciò, fece causa comune con i ministri e fece credere al re che
Intonti non fosse che un intrigante, e che spinto dall'ambizione, si
fosse messo d'accordo col governo francese per fare scoppiare una nuova
rivoluzione nel reame. Ferdinando dette senz'altro 24 ore di tempo al
suo ministro di polizia per lasciare il paese, e con ciò abortì ogni
tentativo di riforma.

La caduta d'Intonti fu accolta con giubilo in Napoli, ma ben presto la
gioia si mutò in spavento quando si seppe che il suo posto era preso da
Del Carretto, il capo della gendarmeria, del quale si diceva che fosse
nato per la forca, e che già nel 1828 s'era segnalato per la sua
crudeltà, radendo al suolo Bosco, dove i Carbonari avevano tentato una
sommossa e mandando a morte o alle galere gran numero di disgraziati.
Del Carretto, da questo momento tino al 1848, fu il demonio di Napoli ed
il fondatore di un abominevole sistema poliziesco.

Nel 1832 il re Ferdinando sposò Maria Cristina di Savoia, figlia di
Vittorio Emanuele I. Questa principessa si fece subito amare per le sue
virtù e per la sua pietà, ma le sue idee troppo bigotte ebbero
un'influenza dannosa nella Corte. Morì il 31 gennaio 1836, pochi giorni
dopo d'aver dato alla luce l'erede al trono, Francesco Maria Leopoldo,
duca di Calabria. Un anno dopo, nel 1837, il re sposò in seconde nozze
la principessa Maria Teresa, figlia dell'arciduca d'Austria Carlo,
rinforzando così in Napoli la politica di Metternich. Fu questo un anno
funesto per l'inaudita violenza con cui il colera fece strage in tutto
il reame. In pochissimo tempo nella sola Napoli morirono 13.798 persone;
nella calda Sicilia la strage fu ancora più terribile: a Palermo
morirono 24.000 persone, a Catania 5360 ed in tutta l'isola 69.250. Da
quando la _morte nera_ aveva visitato l'Europa, non si erano più vedute
simili scene di terrore: si ripetette ciò che Boccaccio e Manzoni
avevano raccontato nelle loro descrizioni della peste e ciò che Spadaro
aveva illustrato col suo pennello. L'orrore crebbe per il furore del
popolo, il quale, credendo che fossero state avvelenate le fontane e le
vettovaglie, uccideva, bruciava o seppelliva vivi, impiegati, medici e
privati. A Siracusa ci fu una vera sommossa contro il governo locale e
l'intendente, e molte altre persone furono uccise. In seguito a questi
eccessi il re nominò Commissioni militari con l'incarico di punire i
colpevoli e mandò in Calabria l'intendente di Catanzaro, Giuseppe de
Liguori, ed in Sicilia Del Carretto, come _alter ego_. Siracusa, per
punizione, tu privata della sede dell'intendenza, così che la patria di
Yerone e di Archimede precipitò sempre più in basso.

Sommosse, terremoti e pestilenze riempiono la storia recentissima delle
Due Sicilie. Da quando la setta dei Carbonari aveva ceduto il posto alla
«Giovane Italia» di Mazzini, i rivoluzionari d'Italia avevano
raddoppiato i loro sforzi in tutte le provincie. I moti furono più
frequenti nel Sud che altrove, perchè quantunque il Reame disponesse di
un esercito numeroso, aumentato negli ultimi tempi anche con qualche
reggimento di Svizzeri, pure esso era lontano dall'influenza diretta
dell'Austria, ed inoltre i radicali erano sicuri di poter contare sul
temperamento infiammabile dei Calabresi e sull'odio dei Siciliani per
tutti i loro diritti manomessi. E una sommossa generale era attesa nel
1840. La questione orientale cominciava già allora a conturbare
l'Europa, e gravi avvenimenti potevano derivare da una generale
sollevazione degli animi. Napoli era minacciata di guerra
dall'Inghilterra per la così detta questione dello zolfo, ed il governo,
come nel 1830, cominciò a prendere atteggiamenti liberali. La voce che
il re volesse concedere la costituzione e la libertà di stampa non era
che l'espressione del desiderio di tutti. Frattanto avvenivano qua e là
isolate levate di scudi. Nel 1841, in Aquila si proclamò la costituzione
ed il popolo uccise l'intendente Tanfano, un tempo creatura del cardinal
Ruffo ed aborrito per le sue idee e le sue crudeltà; ma le truppe ebbero
rapidamente ragione del movimento. Il generale Casella, inviato ad
Aquila come commissario del governo, condannò 56 persone alle galere ed
altre alla pena capitale.

Poco dopo si sollevò Cosenza e poi Salerno. Questi moti isolati tenevano
desto l'odio, ma mostravano anche l'impotenza di simili esplosioni,
dalle quali soltanto menti esaltate potevano aspettarsi la caduta di uno
Stato. Di tutte queste imprese avventurose, di carattere così
meridionale, nessuna ha l'impronta caratteristica del tempo e nessuna
sollevò tanta dolorosa simpatia in tutta l'Europa come quella dei due
fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, i giovani e generosi figli
dell'ammiraglio austriaco, i quali partirono per le Calabrie da Corfù
dove erano in esilio, non rattenuti da Mazzini stesso che li
sconsigliava, non dalle lagrime della madre loro, nè dalla evidente
follia della loro impresa. L'Inghilterra aveva informato il governo di
Napoli di tutti i piani degli esiliati, e quindi le Calabrie furono
sorvegliate così rigorosamente, che gl'insorti non si poterono neppure
riunire, e quei giovani arditi andarono incontro ad una morte
inevitabile. Un traditore attirò i due fratelli e quindici loro compagni
verso S. Giovanni in Fiore, dove furono fatti prigionieri, ed il 25
giugno 1844 fucilati a Cosenza. Il mondo rimase stupito della debolezza
e della crudeltà del governo napoletano, mentre l'esempio dei Bandiera
non fece altro che infiammare ancora di più la gioventù italiana. E
specialmente in Romagna le cose presero un carattere minaccioso; gli
emissari della «Giovane Italia» sollevarono il popolo, le provincie
furono inondate di scritti volanti, si formarono comitati e venne
raccolto molto denaro. In Bologna sedeva ancora la Commissione militare;
si era verso la fine del regno di Gregorio XVI.

Il cardinale legato, Massimo, aveva convocato la Commissione a Ravenna e
fatti imprigionare molti cittadini sotto l'accusa d'alto tradimento.
Questi ed altri atti di violenza avevano esasperato gli animi, e
sembrava che, dopo falliti i tentativi di Napoli, il centro
rivoluzionario si fosse portato negli Stati della Chiesa, che a fatica
riuscivano a tenere soggette le popolazioni. Ma intanto si faceva
strada un nuovo orientamento; per rendere nazionale il movimento e
trascinare il popolo era necessaria la cooperazione anche di forze
legali e morali. Si prese la via delle riforme e si cercò di dare tale
una forza all'opinione pubblica, da obbligare i governi a tenerne conto.

Un tale mutamento di tendenze si rivela già dal notevole manifesto di
Rimini (_Manifesto delle popolazioni dello Stato Romano ai principi ed
ai popoli d'Europa_), nel quale i liberali nel 1845 formularono con
parole temperate il loro programma. Si chiedeva qui, come in tutti i
paesi, la costituzione con grande fermezza. In Italia, allora,
l'opinione pubblica non poteva esprimere i suoi desiderî come in
Germania avveniva per opera degli Stati provinciali, e quindi solo la
stampa, e specialmente dall'estero, esprimeva la volontà del popolo. La
stampa aveva allora in Italia una forza trascinante ed universale.

Meritano d'essere ricordati, come esempio di grande efficacia
letteraria, _Il primato morale e civile degli Italiani_ di Gioberti, _Le
speranze d'Italia_ di Cesare Balbo e gli scritti di Massimo d'Azeglio,
di Giacomo Durando e di altri. Mentre il partito delle riforme dal
Piemonte allargava i suoi piani politici e faceva una rapida e
vittoriosa propaganda per l'unità e per la confederazione, venivano
anche prognosticati i due perni intorno a cui si doveva aggirare la
rivoluzione generale oramai imminente; il papa (secondo Gioberti) ed il
re di Sardegna (secondo Balbo), l'uno come centro morale, l'altro
politico; e quindi sembrava che il regno delle Due Sicilie dovesse
rimanere in disparte. Perchè nè da questa parte del Faro, nè tanto meno
dall'altra, il nazionalismo italiano ha per base il popolo. L'isolamento
geografico, il movimento commerciale tendente verso l'Oriente, costumi e
linguaggio, la storia quasi non italiana dividevano i Siciliani ed i
Napoletani dal resto d'Italia, come anche questi due popoli sono divisi
tra loro. E il movimento rivoluzionario assunse nel Sud un carattere
particolare e regionale, mentre nella rimanente Italia diventava
nazionale e generale.

E come ora in Italia gli scritti di Gioberti e di Cesare Balbo
rappresentavano un momento decisivo, così nel regno delle Due Sicilie
due scrittori, Colletta ed Amari, avevano dato corpo al movimento
riformista. Il primo, il noto generale di Murat, che aveva conchiusa la
convenzione di Casa Lanza, era stato esiliato a Firenze, dove morì nel
1831. Ed in esilio aveva scritto la sua _Storia di Napoli_, libro
notevolissimo per forma e per contenuto, che partendo da Carlo III, per
giungere fino alla rivoluzione dei Carbonari, pone in evidenza con
l'artistica concisione di un Tacito, il cattivo governo dello Stato, la
precarietà dell'assolutismo e la necessità di un governo costituzionale
e popolare. Questo libro fu una delle vittorie più segnalate del partito
delle riforme; esso aprì gli occhi al popolo con argomenti storicamente
fondati.

La storia del Colletta esercitò la sua influenza anche nella Sicilia.
Senza dubbio il bell'ingegno di Michele Amari si ispirò ad essa nello
scrivere la _Storia dei Vespri Siciliani_, che apparve nel 1842; un
libro di forma tacitiana, ma più ricercata che quella di Colletta.
Michele Amari rappresenta con drammatica vivacità la mirabile
rivoluzione siciliana, fa conoscere ai Siciliani i loro diritti
costituzionali e pel contrasto, il miserevole stato del suo tempo.

Amari, che più recentemente si è fatto molto apprezzare per uno
splendido libro sulla storia dei Musulmani in Sicilia, con il_ Vespro
Siciliano_ aveva senz'altro sposato la causa liberale. Egli era spinto
da vedute nazionali e siciliane nel dare alla figura ben nota di
Giovanni da Procida un rilievo più leggendario che storico, onde
apparisse come opera di popolo la liberazione della Sicilia dal giogo di
Napoli.

Si può dire che le opere di Colletta e di Amari preannunziassero la
rivoluzione che nel 1848 scoppiò tanto a Napoli che a Palermo. Tutte e
due le opere furono proteste storiche contro l'assolutismo del governo e
contro la dispotica violazione dei diritti del popolo; ma tutte e due,
senza volerlo, militando in campi avversari, l'una, la napoletana,
rappresenta il programma del costituzionalismo, l'altra, la siciliana,
sostiene il separatismo e quindi la repubblica. In tutte e due lo scopo
patente si è rifugiato entro l'asilo di un'opera strettamente
scientifica.

Mentre questi libri abitavano le menti colte della popolazione, la
stampa segreta non rimaneva inoperosa a Napoli, e venivano divulgati a
migliaia di copie fogli volanti, proteste, appelli, violenti ed
eccentrici nel contenuto, e senza riguardi nel giudicare il re ed i
ministri. La stampa pubblica poi subiva una censura delle più feroci. Le
parole, _popolo, cittadino, nazione_, venivano regolarmente soppresse;
le paure del governo erano assolutamente ridicole. Al contrario i
gesuiti avevano la libertà più completa di stampare ciò che volevano;
prima che venisse fondata in Napoli la _Civiltà Cattolica_, essi
pubblicavano la rivista _Scienza e Fede_, sotto la direzione del padre
Curci, un battagliero avversario di Gioberti, con la protezione di
monsignor Cocle che era il potentissimo consigliere del re. I preti
esercitavano la censura anche su tutti i libri e tutte le riviste che
venivano dall'estero e sulle rappresentazioni teatrali e sui balli.

A corte regnava una grande bigotteria ed il re ne dava il primo esempio.

È noto che Ferdinando, fin dall'infanzia sempre affidato alle cure dei
preti, mostrava un grande ossequio verso la religione ed i santi.
Ascoltava la messa ogni mattina, digiunava rigorosamente il venerdì ed
il sabato, recitava l'_Angelus_ tre volte al giorno, non mancava mai
alle solenni funzioni della Chiesa. Celestino Cocle, dell'ordine di S.
Alfonso, era il suo confessore, ed il suo potere non era meno temuto e
meno odiato di quello di Del Carretto. Il re era circondato anche da
altri preti; don Claudio, che era un focoso e bigotto predicatore e che
in Napoli faceva molto chiasso, specialmente tra le donne, era uno dei
suoi beniamini. Dopo gli avvenimenti del febbraio 1848, Ferdinando II
ebbe fama di feroce tiranno e fu chiamato un secondo Attila, ma le
passioni gli dettero delle qualità che non aveva. Dotato di nessuna
intelligenza, nè in bene nè in male, questo principe molto mediocre subì
lo stesso destino di molti altri in tempi più antichi e più recenti: le
circostanze e gli uomini che lo circondavano lo avevano formato; la
paura lo spingeva a qualunque estremo. Era troppo debole per vincere
questa paura, e troppo ignorante per avere dello Stato un concetto
diverso da quello che egli si era formato, cioè che esso fosse sua
esclusiva proprietà. Era avaro ed ammonticchiava milioni spremuti dal
suo popolo.

Si dice non senza fondamento che in nessun altro Stato regnasse nel
trattamento degli affari tanta diffidenza e tanta paura come a Napoli;
il re non solo viveva in continuo timore della rivoluzione nelle
provincie, ma diffidava dei suoi stessi ministri. Sembra che avesse per
principio di comporre il suo Gabinetto di elementi avversi, di modo che
l'uno diventasse controllo dell'altro. Nel 1846 era presidente dei
ministri il marchese di Pietracatella, un partigiano accanito
dell'assolutismo e delle idee austriache. Ministro dell'Interno era
Niccolò Santangelo; ministro della Polizia Francesco Saverio Del
Carretto; delle Finanze Ferdinando Ferri, un vecchio liberale del 1799;
degli Esteri il principe di Scilla, Falco Ruffo; della Giustizia Niccolò
Parisio, uomo molto dotto ma senza energia; ministro della Guerra e
della Marina era lo stesso re con il generale Giuseppe Garzia come
direttore generale. Vicerè di Sicilia era il duca Luigi di Maio, un
uomo spregiato dai Siciliani per la sua nullità.

Di tutti questi ministri erano potenti solo Del Carretto e Santangelo;
dietro di loro stava monsignor Cocle per mezzo del quale dominavano
l'animo del Re e si potevano permettere tutto, sia pubblicamente
nell'indirizzo di governo, sia privatamente vendendo impieghi e favori.
Una protesta stampata clandestinamente nel 1846, suonava così: «Tra i
ministri non regna nemmeno quell'unione che c'è tra briganti, perchè si
conoscono, si odiano e si insidiano; il Re li tiene uniti con la forza e
crede che, quanto più si odiino tra loro, tanto più si mantengano fedeli
a lui. Se uno di loro propone qualche cosa di buono, gli altri vi si
oppongono per malvagità e fanno prevalere il partito peggiore; se uno
propone una cosa cattiva, gli altri diventano eroi di virtù e la
impediscono, e così non si fa niente, nè di buono nè di cattivo, ma
ognuno fa nel suo ministero ciò che vuole. Del Carretto s'atteggia a
Nerone, Santangelo ruba, Ferri fa economia, Parisio sogna la giustizia,
il Re dice orazioni, monsignore apre le porte del cielo e della terra.
Nessuna meraviglia quindi se non c'è un consiglio di Stato e se il
governo è stupido, ingiusto, ridicolo, tirannico e vergognoso tanto per
gli oppressori come per gli oppressi».

In fatti le condizioni di Napoli prima della rivoluzione del 1848 erano
spaventevoli. Ogni giorno avvenivano nuovi imprigionamenti; la polizia
riempiva le prigioni, violando continuamente le leggi e la sicurezza
personale e facendo regola di ogni sua licenza. I processi si
accumulavano perchè al minimo sospetto o al più leggero cenno di spioni,
seguivano processi in massa, istruiti dalla stessa polizia; gli avvocati
non osavano più difendere gli arrestati, perchè temevano la vendetta del
governo, che toglieva loro le cariche. Questa sorte toccò tra gli altri
a Giuseppe Macarelli, presidente della Corte criminale di Napoli, per
aver difeso strenuamente alcuni giovani accusati di far parte della
«Giovane Italia». Nello stesso tempo il governo non si vergognava di
mostrare la sua impotenza contro i briganti e di fare con loro dei veri
e propri trattati d'alleanza. Così fece per esempio con Talarico, un
brigante che per ben dodici anni aveva scorazzato per il Sila. Si
capitolò con lui, il ministro Del Carretto gli consegnò personalmente il
decreto di grazia a Cosenza, e dopo che il terribile capitano si fu
sottomesso, fu inviato insieme con i suoi compagni a Lipari, con una
pensione di 18 ducati al mese. Un governo così demoralizzato, che era
forte solamente contro gli inermi, non poteva non essere odiato e
disprezzato. Il fermento cresceva in ogni provincia; in Calabria, dove
l'odio contro Napoli uguagliava quello dei Siciliani, in ogni paese si
preparava una rivolta con l'accordo con i capi del partito liberale di
Napoli.

Il movimento fu arrestato un momento dalla morte di Gregorio XVI e dalla
elezione di Pio IX avvenuta il 16 giugno 1846 e dal meraviglioso
cambiamento, che come per incanto, commosse gli animi di tutti. Mentre
il rimanente d'Italia s'abbandonava ad un entusiasmo indicibile ed il
popolo si ridestava a nuova vita nell'irresistibile impulso verso le
riforme e l'indipendenza nazionale, Napoli assumeva un aspetto sempre
più doloroso, perchè il governo raddoppiava le misure di rigore. Il re
si mostrava senza cuore e senza testa, incapace come era di comprendere
i nuovi tempi, e il potere di Del Carretto giunse a limiti che sembrano
incredibili. Napoli si riempì di gendarmi e di spie, gli imprigionamenti
non si contavano più e nessuna concessione in senso liberale venne fatta
fino all'estate del 1847. Nella stupida illusione che un esercito pronto
a sparare ed una numerosa gendarmeria fossero sufficienti a comprimere
l'odio sempre maggiore del popolo, alimentato per diecine e diecine
d'anni con odiosi spargimenti di sangue, il governo lasciò che
l'amarezza crescesse senza limiti, incoraggiato anche dalle nuove
relazioni di amicizia con la Russia, annodatesi durante la visita che
nel 1845 lo czar Nicola aveva fatta alla Corte di Napoli. Oramai si
erano abituati da lungo tempo a reprimere i numerosi tentativi di
rivolta che venivano considerati come romantiche ed inconcludenti
pazzie. Ed ogni nuova impresa di questo genere sarebbe stata impedita
con tutte le forze, e frattanto si mandava il generale Statella con
numerose truppe in Calabria, che era il focolare di tutte le aspirazioni
rivoluzionarie, al di qua dello stretto.

Ma la prima rivolta ebbe luogo in Sicilia, a Messina. Un gruppo di
giovani audaci e fanatici aveva deciso di sorprendere e di catturare il
comandante e gli ufficiali ad una festa dove si dovevano recare. Il
movimento, dopo una breve lotta per le strade, finì con l'arresto o con
la fuga di tutti i congiurati. Questo tentativo non era isolato, ma era
in rapporto con le altre sollevazioni che nell'estate del 1847 ebbero
luogo in Calabria ed in Sicilia, le quali in breve tempo trascinarono
tutto il Reame. In Calabria erano stati nominati capi del movimento i
fratelli Domenico e Gian Andrea Romeo, di Reggio. Dopo essersi messi
d'accordo con i congiurati di Napoli, questi due uomini ardimentosi,
alla testa di un gruppo di insorti, s'impadronirono di Reggio e
costrinsero la piccola guarnigione a deporre le armi. Questi fatti
avvennero verso la fine del mese di agosto. Il moto non era
repubblicano; si voleva il re costituzionale e Pio IX, e nella
cittadella venne inalberata la bandiera pontificia. Ma il moto rimase
locale. Vi prese parte solamente la popolazione di Reggio e dei
dintorni; quindi la resistenza non poteva durare a lungo, e tutto doveva
finire come qualche tempo prima ad Aquila, Salerno e Cosenza. Difatti
apparvero ben presto nel porto di Reggio alcune navi della marina
napoletana e dopo una breve resistenza, la città si arrese. I capi degli
insorti si rifugiarono nelle montagne per cercare di scuotere le
provincie: ma le truppe li inseguirono e dopo che Domenico Romeo, un
uomo di grande coraggio e di nobile cuore, cadde con l'arme in mano, suo
fratello si consegnò spontaneamente alle autorità. Più fortunato dei
suoi predecessori, fu condannato alle galere e qualche tempo dopo potè
di nuovo prendere una parte attiva ai casi della sua patria.

Questo moto era stato più importante di quanti altri ne erano avvenuti
dal 1820. Pur senza nessuna consistenza, una città era caduta in mano
degli insorti, era stato proclamato un governo provvisorio e solamente
dopo due mesi di lotta accanita, il governo aveva potuto ottenere
vittoria completa.

Al governo questa impresa apparve doppiamente minacciosa, pel fatto che
era in relazione con tutto il movimento rivoluzionario italiano e perchè
gli insorti avevano inalberato la bandiera di Pio IX. E quindi la
repressione fu più crudele che mai, e si arrivò perfino a far subire la
tortura agli insorti ed ai liberali arrestati e rinchiusi in prigioni
orribili; innumerevoli cittadini, nella capitale e nelle provincie
furono strappati alle loro famiglie e la ferocia di Del Carretto e di
Campobasso non ebbe più limiti. Ma oramai si era alla fine.
L'eccitazione oramai non più frenabile delle popolazioni doveva
scoppiare nella capitale. Le convulsioni che finora avevano agitato le
provincie, avevano un carattere locale, ma ben diversa era la cosa se la
capitale stessa del Reame forzava la mano al governo.

E così accadde. Tanto più numerose si seguivano le riforme che concedeva
Pio IX, tanto più ardente se ne accendeva il desiderio a Napoli.

La notizia che il papa aveva concessa una Consulta di Stato cadde su
Napoli e su Palermo come una scintilla in mezzo alla polvere. La polizia
oramai non arrivava più in tempo negli arresti; ogni giorno per tutte le
piazze e per tutte le strade si rinnovavano dimostrazioni di migliaia di
persone. Il moto si faceva ogni giorno più intenso; indirizzi,
petizioni, manifesti d'ogni genere, deputazioni di Siciliani, di
Calabresi, di Napoletani si seguirono ininterrottamente, e per le strade
non si udiva più che: «Viva l'Italia! Pio IX! Viva i Siciliani!
Costituzione!»

Bisognava battere in ritirata. Già nell'agosto il re aveva abolito la
penosa tassa sul macinato e diminuita quella sul sale; da ultimo si
decise a cambiare il Ministero. Ne uscirono Niccolò Santangelo e
Ferdinando Ferri; vi rimasero Del Carretto e l'austriacante
Pietracatella. Ma il popolo continuava a circondare ogni giorno il
palazzo reale gridando: «Riforme! Riforme!» Ogni giorno continuavano a
giungere deputazioni da tutte le parti del Reame; ogni giorno i rapporti
che venivano dalla provincia, parlavano di movimenti sempre più
pericolosi. Napoli era in uno stato di agitazione convulsa. Il 14
dicembre il popolo si affollò in piazza della Carità. Schiere
innumerevoli di gente di tutte le condizioni, con numerose bandiere dai
tre colori nazionali, gridavano: «Viva Pio IX, Leopoldo di Toscana e i
Siciliani», e invocavano ad alta voce le riforme. La truppa, rinforzata
con le guarnigioni di Salerno e di Nola, era tutta sotto le armi, ed il
palazzo era guardato dall'artiglieria con i cannoni carichi. Di nuovo
ebbero luogo arresti in massa, e poichè tra gli arrestati vi erano
numerosi giovani dell'aristocrazia, quali il principe Caracciolo, il
duca di San Donato, il duca di Albaneto ed altri, il popolo poteva
convincersi che le idee liberali erano penetrate anche nella più alta
nobiltà. Si chiusero l'Università e le scuole superiori e alcune
migliaia di studenti appartenenti alla provincia furono costretti ad
abbandonare Napoli. E l'agitazione cresceva, da un momento all'altro
poteva scoppiare la tempesta. Ma invece di scoppiare in Napoli, scoppiò
in Sicilia, e Palermo dette con la sua coraggiosa rivolta il segnale a
tutta l'Europa per quella rivoluzione che si diffuse con rapidità
elettrica, per poi finire con mettere in evidenza in tutti i paesi la
debolezza della razza moderna.

Tra tutte le nazioni che allora si sollevarono in nome del diritto e
della libertà, poche erano più degne di simpatia e nessuna più
conculcata nei suoi diritti della Sicilia. Nessuna aveva davanti agli
occhi una meta così chiara e così reale: l'indipendenza nazionale e la
costituzione del 1812. Mentre in tutto il resto d'Europa ed anche in
Italia, una quantità di idee di natura politica o sociale prodotte da
scuole teoriche o da evoluzioni storiche, confondevano la mente del
popolo, sminuzzavano le forze e gli interessi e rendevano impossibile un
risultato generale, la Sicilia era rimasta nel suo patriottico
isolamento in disparte da ogni indirizzo moderno. Era stato abolito il
feudalismo senza che sorgessero tendenze socialistiche; la nobiltà
alleata col clero, insigne per cultura, mentre tutto il resto della
popolazione rimaneva indietro, e per meriti patriottici nelle scienze,
era senza contrasti alla testa nel chiedere il riconoscimento dei
diritti nazionali. È noto che la costituzione del 1812 concessa da lord
Bentich fu abrogata da Ferdinando I. L'ultimo Parlamento siciliano fu
disciolto il 15 maggio 1815. Quando il re nel 1816 si preparava a
modificare sostanzialmente quella costituzione di cui l'Inghilterra si
era resa garante, lord Castelreagh lo minacciò di un intervento inglese.
Ma la minaccia rimase allo stato di nota diplomatica ed il re potè
indisturbato conculcare i diritti della Sicilia e riunire l'11 dicembre
1816 l'isola a Napoli. L'esercito nazionale fu disciolto,
l'amministrazione tornò napoletana e le imposte furono aumentate
arbitrariamente. I Siciliani con la rivoluzione del 20 fecero di nuovo
trionfare la loro indipendenza e la loro costituzione; ma dopo che
Palermo fu costretta ad aprire le porte al generale Florestano Pepe, ed
il generale Colletta ebbe domata l'insurrezione, il governo di Napoli si
mise di nuovo nella via che s'era prefissa, quella cioè di rendere la
Sicilia una semplice provincia del Reame. L'isola, angariata in modo
incredibile dalle imposte, cadde in una profonda miseria; le città
perdettero ogni animazione, ed il governo sperò che in questo stato di
cose ed incoraggiando premeditatamente l'ignoranza, le forze
patriottiche si sarebbero sempre più indebolite.

Nel 1837, dopo l'insurrezione provocata dal colera, Ferdinando II aveva
con un decreto del 31 ottobre compiuto un ulteriore atto di violenza
contro i Siciliani; venne stabilita la reciprocità degli impieghi fra
Napoli e la Sicilia, così che, senza differenza di paese, qua potevano
venir assunti i Napoletani, là i Siciliani. Inoltre anche il disagio
finanziario contribuì ad inasprire l'animo dei Siciliani, poichè
quantunque per legge del Parlamento del 1813 il governo non potesse
ricavare dalla Sicilia una somma superiore a 1.847.685 oncie, pure
questa cifra era stata di molto superata, specialmente per la tassa sul
macinato e l'imposta fondiaria. S'aggiunsero poi altre tasse, tanto che
la piccola proprietà era oberata del 32 per cento.

E la miseria divenne sempre più spaventosa. Due flagelli avevano
devastata l'isola: il colera e Del Carretto, l'_alter ego_ del re.
Questo uomo, che lo stesso Tiberio non avrebbe sdegnato di nominare
ministro di polizia, si comportava in una maniera inaudita. I Siciliani
soffocavano sotto la triplice compressione delle tasse, degli sbirri e
dei soldati. Perfino il governatorato, quest'ultima larva di
riconoscimento nazionale, pel quale la Sicilia si distingueva dalle
altre provincie di terra ferma, venne dato in mano a dei militari. Il
conte di Siracusa, fratello del re, noto pel suo umore bizzarro che
ricordava quello del granduca Costantino di Russia, fu l'ultimo
governatore di sangue reale. Dopo il suo richiamo, avvenuto nel 1835,
non furono nominati che generali. Nel 1839 il re nominò luogotenente
dell'isola perfino uno Svizzero, il generale Tschudy; gli successe il
generale Vial e nel 1840 il De Maio.

Le relazioni della Sicilia con Napoli e con la dinastia dei Borboni alla
fine del 1847, somigliavano a quelle prima dei Vespri Siciliani. A
tanta distanza di tempo si trattava ugualmente della stessa oppressione
e dello stesso sforzo di Napoli per togliere alla Sicilia ogni carattere
nazionale, e tutte e due le volte una costituzione, prima esistente, e
poi tolta con la violenza, causava e giustificava la rivoluzione. Vi
sono anche altre somiglianze: tutte e due le volte venne proclamata la
decadenza della dinastia regnante e nominato un re straniero. Ma i
risultati invece furono ben differenti. La rivoluzione del 1848
intrapresa con entusiasmo, fu da principio mirabile per unanime
concordia di animi, ebbe favorevoli le circostanze di tempo, e pure in
poco tempo finì miseramente con grande meraviglia di tutti. Quasi
ventimila uomini in armi potevano combattere per lei e si può dire che
due reggimenti svizzeri ne ebbero ragione senza fatica.

Esaminiamo un poco l'andamento delle cose.

Già nell'autunno del 1847 mentre il popolo di Napoli si agitava
violentemente, anche quello di Palermo era in grande fermento.
Governatore del re era Maio (un nome che ai tempi di Guglielmo il
Normanno aveva avuto un periodo di rinomanza molto sgradita) e
comandante delle truppe reali era Vial. La popolazione, con alla testa
uomini della più antica nobiltà, il marchese Ruggiero Settimo, il
marchese Spedalotto, il principe Serra di Falco, Scordia, Pallagonia,
Grammonte, Pantellaria, aveva mandato a Napoli numerose deputazioni
chiedenti il riconoscimento degli antichi diritti. In Palermo avevano
luogo le stesse dimostrazioni che a Napoli, gli stessi arresti in massa
e lo stesso atteggiamento minaccioso delle truppe. Non venendo nessuna
concessione da parte del governo, i Siciliani annunziarono la lotta con
cavalleresca franchezza ad alta voce; la rivoluzione, infatti, venne
proclamata con manifesti, discorsi e deputazioni. Essa non doveva avere
nessuno dei caratteri di una cospirazione, nè assumere l'aspetto di una
rivolta o di una sedizione; no, era la popolazione che si sollevava
tutta intiera. Si stabilì anche una data, il 12 gennaio 1848, giorno
natalizio di Ferdinando: se per quel giorno i desiderî del popolo non
venissero soddisfatti, si sarebbe dato principio alla lotta. E la
mattina di quel giorno il popolo infatti si ribellò. Le campane
suonarono a stormo, tutta la popolazione, nobili, frati, preti,
borghesi, operai e pescatori, senza distinzione di casta, gli uni bene
armati, gli altri impugnando armi d'occasione, spiedi, ramponi e
coltelli da caccia, si riversò sulle piazze. Si gridava: _Evviva Pio IX!
Evviva la Lega Italiana! Evviva Santa Rosalia_. Le truppe si ritirano;
l'artiglieria circonda il palazzo reale, il quale domina il Cassaro che
è la strada principale della città. Alle due dopo mezzogiorno Palermo
era piena di barricate, senza che si venisse alle mani. Si stava pronti
da una parte e dall'altra; tutta la notte passò in silenzio, interrotto
solo da qualche voce di comando, da qualche lumicino nelle strade e dai
fuochi accesi sulle piazze. La mattina dopo i cannoni che circondavano
il palazzo reale cominciarono a fare fuoco e nel dopo pranzo dal forte
di Castellammare si prese a tirar granate. Questo forte era comandato da
uno Svizzero risoluto, il colonnello Gros, che aveva ordine di lanciare
ogni cinque minuti una bomba sulla città; egli tirò solamente ogni
quarto d'ora. Per le strade si combattè con ardore; le campane, che
suonavano a stormo, confondevano il loro frastuono con le grida dei
combattenti e con il crepitío delle armi. I consoli di tutte le potenze
estere ed il comandante della nave inglese ancorata nel porto,
formularono una protesta in cui si chiedeva di moderare almeno il
bombardamento della città e che si interrompessero le ostilità per
ventiquattr'ore, onde dar tempo agli stranieri di rifugiarsi sulle navi.
Trascorso questo termine, che fu concesso, la lotta cominciò di nuovo.
Il coraggio dei Palermitani fu degno dei loro antenati; si videro
gruppi capitanati perfino da frati benedettini e preti, che, in mezzo al
grandinar delle palle, tenevano in alto una croce o una bandiera.
Meraviglioso l'ordine; non fu commesso nessun eccesso e nessun furto
senza che non venisse immediatamente punito dalla stessa giustizia
popolare. Nessun atto di crudeltà fu commesso da parte del popolo nei
primi giorni della rivolta; gli insorti stessi trasportavano al
lazzaretto i soldati feriti. Ma più tardi s'accese la sete di vendetta,
e gli odî personali e politici vollero le loro vittime; avvennero scene
di terribile furore popolare; anche i soldati, e forse per i primi,
divennero feroci, inaspriti dalla situazione insostenibile e dallo
sforzo disperato che dovettero sostenere. Essi assaltarono i conventi,
uccisero tutti i frati benedettini, e gettarono dalle finestre sul
selciato delle strade, morti e viventi.

Mentre il popolo combatteva sulle strade, i capi emanarono un proclama
in cui si enumeravano le cause della rivoluzione. Da trent'anni, si
diceva in esso, il Parlamento siciliano non viene più convocato;
l'assolutismo, che ha violato le leggi e conculcato tutti i diritti, ha
prodotto la miseria nelle campagne e nelle industrie. Invano il popolo
ha nel 1816 protestato presso l'Inghilterra, che pure nel 1812 aveva
garantito l'applicazione dello Statuto di Federico II d'Aragona nella
sua nuova forma; invano le sollevazioni del 1831, 1837, 1847! Ma con le
riforme di Pio IX è venuta l'ora della liberazione, ed ora i Siciliani
si sono armati per riconquistare i loro diritti, per ricondurre di nuovo
la loro patria nel numero delle nazioni viventi. Siciliani, non hanno
forse i nostri antenati cacciato via il tirannico Carlo d'Anjou? Non
hanno sostenuto Ferdinando d'Aragona contro tutta l'Europa? Che cosa
possono le armi di Ferdinando II, se tutto un popolo persiste nel suo
volere? Il dado è tratto, completiamo noi la santa impresa. Viva Pio IX!
Viva la Sicilia! Viva i nostri fratelli d'Italia!

Frattanto la nave _Vesuvio_ aveva portato a Napoli la notizia dello
scoppio della rivoluzione. Il governo spaventato fece imbarcare su dieci
navi, sei mila uomini agli ordini del generale Desauget. E quando queste
truppe giunsero a Palermo il 15 gennaio (ci vogliono sedici ore di
navigazione da Napoli a Palermo) tutta la città, meno i forti ed il
palazzo reale, era in mano degli insorti. La rivolta era organizzata
splendidamente; si era formato un governo provvisorio composto di trenta
persone scelte tra le più nobili. Oramai tutti partecipavano alla
rivoluzione; che essa fosse una sollevazione vera e propria e non, come
si disse poi, un semplice colpo di mano del clero desideroso di potere e
della nobiltà gelosa dei suoi diritti, lo dimostra il fatto che vi
parteciparono tutte le altre città dell'isola. A Siracusa, Girgenti,
Catania, Trapani, Noto, Milazzo e Caltanissetta le truppe napoletane
furono sbaragliate; fu nominata una Giunta provvisoria e proclamato di
procedere d'accordo con Palermo. Il governo provvisorio di Palermo si
suddivise in quattro Giunte, la prima per la difesa, presieduta dal
principe di Pantellaria, la seconda per il vettovagliamento, presieduta
dal marchese Spedalotto, la terza per le finanze, presieduta dal
marchese di Rudinì, e la quarta per gli affari di Stato, presieduta da
Ruggiero Settimo, un nobile e degno vecchio, che era stato ministro e
che godeva una grandissima popolarità per le sue idee liberali.

Le truppe di Desauget si unirono agli assediati e formarono un corpo di
novemila uomini, coi quali fu possibile ricominciare la lotta. Il duca
Maio e Spedalotto, pretore della città, vale a dire presidente del
Senato di Palermo, si scambiarono delle note: il popolo chiedeva la
costituzione del 1812 e l'immediata convocazione del Parlamento. Il
conte d'Aquila, fratello del re, che era giunto il 15 insieme con le
truppe, ventiquattr'ore dopo ripartì per Napoli con due fregate, per
esporre al re lo stato delle cose ed esortarlo a cedere. Il 25 era già
di ritorno portando seco il decreto di riforme che il re, spaventato
dalla piega degli avvenimenti, si era lasciato strappare. Con questo
decreto veniva concessa ai Siciliani un'amministrazione separata oltre
che per tutti gli affari anche per la giustizia, veniva abrogato il
decreto del 31 ottobre 1837; il conte d'Aquila veniva nominato
governatore, e si creava un nuovo Ministero presieduto da Lucchesi,
Palli.

Ma il governo provvisorio rifiutò queste concessioni; esso voleva
l'allontanamento delle truppe, la consegna di tutti i forti e la
convocazione del Parlamento in base alla costituzione del 1812.
L'entusiasmo non permetteva più di riflettere, si voleva ottenere tutto
e la lotta ricominciò con nuovo ardore da tutte e due le parti. I
soldati soffrivano enormemente; mancavano di pane e amareggiati da una
lotta ininterrotta, cominciarono a ripiegare. Allorchè il 25 gennaio
anche il palazzo reale cadde in mano del popolo, Desauget vide
l'impossibilità non solo di domare Palermo, ma di resistere ancora, e
domandò un armistizio per imbarcare gli avanzi delle sue truppe e
rimandarli a Napoli. Ma il popolo mise come condizione assoluta per
l'armistizio, la consegna del forte di Castellammare ed allora le
truppe regie nella notte del 29 gennaio si portarono a Solanto passando
per Bagaria, dove, stremate di forze, riuscirono ad imbarcarsi. Quando
furono giunti a Napoli, laceri scalzi e istupiditi come dopo una lunga
campagna, apparve chiaro che i Siciliani erano riusciti vittoriosi e che
il governo era incapace di resistere anche adoperando senza riguardo le
armi.

Ed infatti la rivoluzione faceva, in Sicilia, passi da gigante. La
resistenza delle truppe restate nell'isola era oramai ridotta a nulla;
eran rimaste nelle loro mani, solo la cittadella di Palermo e quella di
Messina, difesa dal generale Pronio: tutto il resto dell'isola era
perfettamente libero ed in condizione di organizzarsi in senso
nazionale.

In Napoli questi avvenimenti venivano ingrossati, ed il popolo si
abbandonava ad una gioia irrefrenabile; le strade rintronavano
continuamente del grido: «Sicilia! Costituzione!» Già in Castel
Sant'Elmo sventolava la bandiera rossa ed in tutte le caserme
risuonavano segnali d'allarme. Chi poteva più frenare una città come
Napoli? Il re, assediato dai suoi consiglieri e dal corpo diplomatico,
tentannava, ma alla fine si decise a cedere. Già la sera del 26 gennaio
Del Carretto fu allontanato, ed allorchè in compagnia del duca
Filangieri scendeva le scale del palazzo reale, venne arrestato e poi
silenziosamente e di notte, come si usava un tempo a Venezia, condotto
su di una nave già pronta che partì immediatamente per Livorno. Non gli
fu concessa nessuna dilazione e non potè salutare nè amici, nè parenti;
solamente il re gli mandò 3000 ducati.

Tutti i ministri presentarono le loro dimissioni. A presiedere il nuovo
gabinetto fu chiamato il duca Serracapriola che era stato ambasciatore
in Francia; gli altri ministri furono scelti tra le persone bene accette
al popolo, come Borelli, che aveva partecipato alla rivoluzione del '20
e che aveva sofferto il carcere e l'esilio; Bonanni, Dentice, e Carlo
Cianciulli che andò agli Interni. Si disse che costoro avevano accettato
il portafogli solo alla condizione che il re concedesse la costituzione;
altri dicevano che il re stesso avesse preso l'iniziativa di concedere
la costituzione. Ed il decreto venne il 29 gennaio 1848. Si creava una
Camera Alta, i di cui componenti venivano scelti dal re, ed una Camera
di Deputati eletti dal popolo; si annunziava inoltre la responsabilità
dei ministri, la fondazione di una Banca nazionale; e si riconcedeva la
libertà di stampa. Così il re assoluto di Napoli era stato condotto
dalla forza degli avvenimenti a concedere la costituzione prima ancora
che in Toscana ed in Piemonte. In un baleno le cose cambiarono
d'aspetto: la polizia scomparve come gli uccelli notturni che la luce
del sole spaventa; gli esiliati tornarono in patria; le carceri
restituirono le loro vittime; la libertà di stampa fece piovere
giornali, fogli volanti, e specialmente satire atroci contro i passati
ministri. Il popolo però nei suoi strati più bassi contemplava queste
novità con sfiducia; i lazzaroni, questi amici del re assoluto, che si
erano abituati alle esortazioni dei frati fanatici ed alle distribuzioni
di denaro che faceva loro Del Carretto, cominciarono ad agitarsi ed a
riunirsi al Mercato e nel porto per difendere il re; ma la guardia
nazionale li costrinse a mantenersi tranquilli. La concessione della
costituzione creò per prima cosa la divisione degli animi in vari
partiti, e mentre da una parte si schieravano radicali ed avvocati,
scrittori e principi e si univano in un lavoro appassionato, si vide
dall'altra parte il popolo in grande maggioranza, per quanto commosso
dalla novità della cosa, incapace di afferrare un principio politico e
di partecipare efficacemente al nuovo stato di cose. I Napolitani sono
dei grandi fanciulli, anche la storia universale diventa per loro una
cosa decorativa come la natura, e si risolve in una rappresentazione
teatrale, mentre la polizia pensa a sgombrare il palcoscenico.

Si fecero dei saturnali d'una incredibile vivacità; partirono emissari
per tutte le provincie con la formola di giuramento della costituzione.
Una nave salpò in gran fretta per Palermo onde calmare i Siciliani che
ancora combattevano e per ordinare al comandante di Castellammare di
consegnare il forte nelle mani del popolo. E ciò accadde il 5 febbraio.
Tre giorni prima il governo provvisorio aveva assunto una forma più
stabile sotto la presidenza di Ruggiero Settimo e mentre tutta l'isola
si rafforzava sempre più nel nuovo stato, cresceva anche la fiducia
nelle proprie forze e la convinzione della debolezza di Napoli. E pure
Messina era ancora nelle mani delle truppe regie; perchè la poderosa
fortezza resisteva a tutte le tempeste di popolo e dalle mura di essa
Pronio rovesciava sugli insorti una pioggia di bombe. Quello che
sorprende è che i Siciliani non sieno stati in grado d'impadronirsi di
quella fortezza nel primo impeto della loro rivolta. Costretti ad
abbandonare questo posto così importante, essi lasciarono in vita il
primo germe di rovina della loro impresa; Messina fu il tallone
d'Achille della loro libertà.

Frattanto il governo di Napoli si trovava nella peggiore delle
situazioni. Incapace di riprendere la Sicilia con la forza ed ancor
meno disposto a riconoscere le pretese del popolo, fu costretto ad
accettare la proposta mediazione dell'Inghilterra.

Il Gabinetto di Palmerston profittò con prontezza dell'interna
confusione di Napoli per indebolire il Regno, per intromettersi
attivamente nei suoi affari e conquistarsi una stabile posizione in
Sicilia. Tutti gli occhi erano rivolti sull'Inghilterra. Essa aveva
garantito la costituzione di Bentick e quindi era considerata come la
naturale alleata dell'insurrezione siciliana; la sua flotta apparve
dinanzi a Palermo, altre navi sue incrociavano nelle acque di Messina ed
armi e munizioni inglesi erano state distribuite in gran copia a
Palermo. La diplomazia inglese spingeva il re a fare le maggiori
concessioni e ad accettare la mediazione di lord Munto. Allorchè poi la
rivoluzione di febbraio in Francia minacciò di sconvolgere la situazione
di tutta l'Europa e dette nuova energia alle richieste dei popoli, il
governo di Napoli concesse ai Siciliani tutto quello che era possibile
concedere senza arrivare ad una definitiva rinunzia.

Il 6 marzo, il re dette il suo assenso ad un'immediata convocazione del
Parlamento siciliano e alla revisione della costituzione del 1812
«adattandola ai nuovi tempi». Contemporaneamente Ruggiero Settimo venne
nominato vicerè e venne creato un Ministero siciliano; tuttavia,
Siracusa e Messina dovevano, come garanzia, permettere una guarnigione
di truppe napolitane.

Se i Siciliani nella calma avessero esaminato la debolezza della loro
forza di resistenza e quella ancora maggiore dei loro mezzi di guerra ed
avessero accettata la proposta mediazione, paghi di un Parlamento e di
una costituzione propria, forse avrebbero potuto sotto la garanzia
dell'Inghilterra e della Francia, conservare le fatte conquiste. Ma la
facile vittoria del gennaio, la spregevole debolezza della dinastia dei
Borboni, a cui il popolo rimproverava sempre i precedenti spergiuri, la
passione patriottica, l'odio, l'orgoglio nazionale e finalmente lo stato
di convulsione in cui si trovava l'Europa e che sembrava presagire una
nuova èra, soffocarono ogni voce di moderazione. Lord Munto venne
accolto in Palermo con fredda sostenutezza, si diffidò dell'Inghilterra
non meno che dei Napolitani, si reclamò la indipendenza più completa, si
accettò solamente un governatore di sangue reale purchè riconosciuto dal
Parlamento nazionale e come procuratore di esso. Tutti gli impiegati
dovevano essere siciliani e dovevano venir nominati senza la
convalidazione del re; la flotta doveva essere siciliana. Si chiedeva
inoltre la consegna di Messina e di Siracusa e che la quarta parte della
marina da guerra e degli approviggionamenti militari fossero dichiarati
proprietà nazionale della Sicilia. Da ultimo la Sicilia doveva avere una
rappresentanza autonoma nella Lega italiana.

Si concedeva al monarca di Napoli di assumere il titolo di re di
Sicilia, ma allo stesso modo come ha ancora il titolo di re di
Gerusalemme. I Siciliani, dato il trattamento che avevano fino allora
subíto, potevano bene assumersi il diritto di fare queste richieste, ma
disgraziatamente mancava loro il più efficace dei diritti, quello della
forza che è l'unica che possa mutare in fatti la sola volontà.

Il re protestò solennemente contro ogni atto che tendeva a diminuire la
situazione creatagli dal Congresso di Vienna, come re delle Due Sicilie.
Dietro di lui si agitava il rappresentante dello Czar a Napoli,
Chreptowitsch, di fronte a lui stava lord Munto. Ed intanto si andava
avanti con le trattative senza concludere nulla, mentre da una parte i
Siciliani si governavano da sè stessi e dall'altra a Napoli si
rappresentava una nuova opera intitolata: _La Costituzione_.

La costituzione venne annunziata il 10 febbraio ed il re, il 24 febbraio
la giurò nella chiesa di S. Francesco di Paola, sopra il Vangelo, con
grande pompa, in mezzo all'entusiasmo del popolo, così come aveva fatto
suo nonno Ferdinando I. Ancora una volta Napoli diventava uno Stato
costituzionale.

Subito dopo, il 2 marzo, cadeva il ministero Serracapriola, e ne veniva
formato un altro sotto la presidenza di Cariati. Che trasformazione
avveniva! Carlo Poerio, l'avvocato liberale, appena liberato dalle
catene messegli da Del Carretto, diventava ministro della pubblica
Istruzione; Gian Andrea Romeo, pochi giorni prima mandato in gran fretta
in galera, godeva ora del favore della Corte e veniva nominato
Intendente del Principato Citeriore, e come difensore della monarchia
costituzionale veniva posto contro il radicalismo che diventava sempre
più irrequieto. L'11 marzo i Napoletani godettero uno spettacolo
eccezionalissimo: Nella piazza davanti a Castel Nuovo, passavano trenta
carrozze con entro i gesuiti mandati in esilio. Monsignor Cocle, il
potentissimo confessore del re, era già scappato via e si era rifugiato
a Malta. Del resto l'allontanamento dei gesuiti mise in luce lo stato
morale del popolo. Appena essi avevano abbandonata la città, i
lazzaroni, sobillati da frati e preti, si radunarono in gran numero e
cominciarono a chiedere a grandi gridi il richiamo dei seguaci della
Compagnia di Gesù. Acclamavano il re e la Madonna del Carmine, ma
gridavano morte alla costituzione ed ai liberali che volevan togliere
loro, come essi dicevano, i loro santi e la loro religione, e
distruggere le loro chiese. La guardia nazionale dovette penare non poco
per sedare il tumulto. Questi lazzaroni, povere creature del momento e
pure ardenti sostenitori del passato, non avevano la più lontana idea di
ciò che fosse costituzione. Essi rimanevano fedeli al re; appena questi
si mostrava in pubblico, essi lo circondavano e gli chiedevano le armi
per combattere i suoi nemici. «Se non abbiamo armi, dicevano, prenderemo
le pietre delle strade e ti difenderemo, come i nostri padri hanno
difeso tuo nonno».

Mentre la Sicilia, che il 25 marzo aveva solennemente inaugurato il suo
Parlamento, si apparecchiava alla completa indipendenza e alla
deposizione del re, così che il governo si trovava in grandi imbarazzi
tanto da una parte che dall'altra del faro, sopraggiunse anche il
movimento che si era propagato in tutta Italia e che costrinse Napoli ad
uscir fuori dei propri confini. Si trattava della _Lega d'Italia:_ si
doveva tenere il Congresso italiano a Roma, inviare un esercito a
cooperare alla guerra dì Lombardia in favore dell'indipendenza
italiana. Si preparò tutto con grande abilità. Già il 28 marzo il
principe Schwarzenberg, ambasciatore austriaco a Napoli fu costretto a
partire; il 7 aprile salì al potere un nuovo Ministero sotto la
presidenza di Carlo Troia ed il re pubblicò un pomposo manifesto in cui
invitava il suo popolo a cooperare all'unione d'Italia. Immediatamente
partirono i reggimenti per la Lombardia sotto il comando del generale
Guglielmo Pepe, il celebre capo dei Carbonari del 1820. Numerosi
volontari erano già partiti, accompagnati dall'entusiastica principessa
Belgioioso.

Erano appena accaduti questi fatti e gli occhi di tutti erano rivolti
verso una patria più grande, quando giunse da Palermo la notizia che il
Parlamento siciliano aveva all'unanimità deposto Ferdinando II e l'aveva
dichiarato decaduto da tutti i suoi diritti sulla Sicilia. Il 13 aprile
fu redatto questo atto straordinario e lo sottoscrissero il marchese
Torrearsa, come Presidente della Camera dei Deputati, il duca Serra di
Falco, come presidente della Camera Alta, Ruggero Settimo, presidente
del Consiglio, e Calvi ministro dell'Interno. La Sicilia si era resa
indipendente e nel suo trono doveva esser chiamato un principe italiano,
appena la costituzione fosse stata completata in tutte le sue parti.

Questi provvedimenti estremi non ottennero un consenso unanime nel
popolo. I radicali esultarono; Palermo s'illuminò a festa per tre sere
consecutive; furono spezzate tutte le statue dei re, eccetto quella di
Carlo III; ma i moderati ne rimasero spaventati; oramai era inevitabile
una maggiore divisione di partiti e quindi un principio di reazione. Odî
sconfinati e passioni fanatiche, l'orgoglio dell'alta nobiltà, la
speranza nell'Inghilterra e nella Francia ed anche nel Piemonte, al cui
re si era spontaneamente offerta la corona, avevano contribuito a far
prendere quelle decisioni; si volevano ripetere i giorni gloriosi dei
Vespri e si contava, oltre che nelle proprie forze, anche
nell'intervento straniero.

Il re di Napoli rispose con una protesta, nella quale dichiarava che
quel decreto non aveva nessun valore. Il Parlamento frattanto aveva
nominato una Commissione con l'incarico di redigere un manifesto a tutte
le Nazioni civili, nel quale si spiegassero i motivi della deposizione
del re, e nello stesso tempo di rivedere la costituzione del 1812. Ma
non con la stessa energia si procedeva alla creazione di una flotta
nazionale. Pronio rimaneva sempre chiuso nella cittadella di Messina,
respingendo con successo ogni tentativo del popolo di impadronirsene.
Da ultimo Giannandrea Romeo, mandato in Sicilia dal re, ottenne la
conclusione di un armistizio fino al 15 maggio.

Le cose stavano a questo punto, quando il 15 maggio avvenne un colpo di
scena che ferì a morte la rivoluzione di Napoli. Era il giorno destinato
all'apertura del Parlamento; i deputati erano già giunti dalla
provincia, ed il re aveva nominato le 50 persone che dovevano far parte
della Camera Alta. Il giorno prima nel giornale ufficiale era stato
pubblicato anche il cerimoniale da seguirsi per l'inaugurazione. I
deputati ed i senatori dovevano riunirsi nella chiesa di S. Lorenzo
dove, dopo ascoltata la Messa, il re avrebbe pronunciato il discorso
d'apertura, a cui avrebbe seguito il giuramento di fedeltà al trono ed
alla costituzione. Appena questo programma fu pubblicato, cominciò
un'agitazione violenta. I deputati si rifiutavano di prestare un
giuramento che veniva a limitare i poteri della futura Camera; i
radicali non volevano sentir parlare di una Camera Alta. Questi ultimi,
in numero di 99, tra i quali Ricciardi, Camaldoli e La Cecilia,
appartenenti alla nobiltà, si riunirono a Monteoliveto, sedendo in
permanenza tutta la notte dal 14 al 15 e mandando una deputazione al
presidente dei ministri perchè rinunziasse a quel programma. Il re vi si
rifiutò. Ed i radicali allora, forse tra loro vi era qualche agente del
governo, eccitarono il popolo: si proruppe in minaccie, si disse che
giungevano in rinforzo i Calabresi di Romeo, che sarebbero intervenuti i
Francesi che già tenevano pronta una flotta nelle acque di Napoli, e si
gridò che bisognava deporre il re e proclamare la repubblica. Nelle
strade laterali di Toledo, occupate dalla guardia nazionale, si
innalzarono numerose barricate, mentre le truppe circondarono in fretta
il palazzo reale. Il furore e la confusione crescevano di minuto in
minuto. La mattina del 15 i deputati si costituirono nel Parlamento in
governo provvisorio e nominarono un Comitato di salute pubblica. E così
si rese impossibile una soluzione incruenta. Fu la sfiducia verso la
dinastia dei Borboni che spinse le cose a questi estremi; più a questa
sfiducia che al partito repubblicano si deve ascrivere la catastrofe del
15 maggio; perchè i repubblicani erano poco numerosi e senza alcun
seguito nel popolo. Il re poi la mattina fece ancora delle altre
concessioni: la Camera Alta non si sarebbe radunata e la formola del
giuramento sarebbe stata mutata, e sembrava da principio che il tumulto
si calmasse; alcune barricate furono abbandonate ed i reggimenti
svizzeri tornarono nelle loro caserme. Ma i radicali non si fidarono di
queste promesse; i tumultuanti nelle piazze che in gran parte erano
venuti a Napoli dagli Abbruzzi, dal Principato e dalle Calabrie,
attizzavano il fuoco, impedivano la demolizione delle barricate e ne
innalzavano delle nuove. Di nuovo i deputati posero al re le seguenti
condizioni come garanzia della sua buona intenzione di mantenere la
costituzione: abolizione della Camera Alta, consegna di tutti i forti
alla guardia nazionale, allontanamento di tutte le truppe dieci miglia
dalla città. Il re di rimando si riportò alla costituzione da lui
giurata e che la Camera dei Deputati aveva apertamente violata con le
sue deliberazioni illegali e che egli invece difendeva. E' fuor di
dubbio che a questo momento erano i deputati che avevano violato la
costituzione del 10 febbraio, mentre finora il governo aveva agito
legalmente. Esso conosceva la debolezza del partito popolare e poteva
contare sulla fedeltà delle truppe e perciò non temeva d'ingaggiare la
lotta con risolutezza. Il re stesso alla fine si mostrò risoluto di
andare fino agli estremi, e mandò un ordine a tutti i comandanti dei
forti di bombardare la città al primo inizio delle ostilità.

Alle 11 del mattino si sparò il primo colpo di fucile. Una guardia
nazionale uccise un soldato e la lotta cominciò. Le truppe si
slanciarono subito contro le barricate e i quattro reggimenti svizzeri
si avanzarono con le baionette inastate. Contemporaneamente da Castel
Nuovo si cominciò a bombardare a mitraglia la città senza riguardi. Si
combattè per lungo tempo con grande accanimento; ma quantunque i
radicali avessero trasformato in fortezze molte case e dalle finestre e
dai balconi sparassero come da feritoie, pure tutte le barricate caddero
davanti all'impeto degli Svizzeri, i quali poi si precipitarono entro i
palazzi ed uccisero a colpi di spada chiunque trovarono in armi. Nel
pomeriggio la mischia era già finita sotto Toledo, ma si combatteva
ancora a S. Brigida in Mercadello. Molti palazzi bruciavano o cadevano
in rovina. Dietro gli Svizzeri infuriavano schiere sfrenate di lazzaroni
venuti per saccheggiare la città e che si precipitavano in ogni casa
rimasta libera per prendere quanto capitava loro nelle mani. La notte
del 15 trascorse illuminata dai bagliori degli incendi e l'alba sorse su
di un quadro spaventevole; palazzi in rovina, barricate distrutte, morti
e feriti confusi insieme, marmaglia vagante con aria sospetta e carica
di mobili e di cose di valore; gruppi di prigionieri che venivano
spinti a piattonate verso Castel Nuovo. I deputati dispersi o
prigionieri, alcuni come Romeo, Pellicano, Scialoia, Saliceti, avevano
potuto fuggire; altri tentarono d'imbarcarsi sulle navi francesi
ancorate nel porto.

Il trono era stato salvato dagli Svizzeri. Si è rimproverato a questi
mercenari del dispotismo la loro crudeltà verso il popolo ed anche di
aver partecipato al saccheggio dei palazzi nella giornata del 15 maggio;
ed i quattro comandanti a nome dei loro reggimenti pubblicarono una
dichiarazione (Napoli, 7 giugno 1848) dove si respingeva questa accusa e
si affermava che avevano combattuto non contro il popolo, ma per il
popolo e per la costituzione del 10 febbraio che anch'essi avevano
giurato di difendere.

Il 16 maggio il re comparve sul balcone del suo palazzo per ringraziare
i suoi salvatori ed il 17 fece una passeggiata in carrozza per le strade
devastate della sua città. I lazzaroni lo circondarono subito,
sventolando bandiere borboniche, con in mezzo la Madonna del Carmine, e
gridando: «Santa fede!» Pretendevano anche che il re desse loro il
permesso di saccheggiare la città.

Il giorno 16 era stata disciolta la guardia nazionale ed una ragazzaglia
cenciosa portò le armi al Comando generale con urli di gioia. Napoli
venne posta in stato d'assedio e contemporaneamente apparve un decreto
reale che conteneva la formale assicurazione che la costituzione giurata
sarebbe stata fedelmente mantenuta e che, mentre scioglieva la Camera,
ne convocava un'altra pel primo giugno. Si formò anche un nuovo
Ministero nel quale Cariati ebbe la presidenza, Bozzelli l'interno, il
principe Ischitella la guerra e la marina, Torella l'agricoltura e il
commercio, il generale Carascosa i lavori pubblici, Paolo Ruggiero le
finanze e Serracapriola la presidenza del Consiglio di Stato.

Così Ferdinando II uscì vincitore dalla lotta del 15 maggio, più
fortunato di suo nonno che potè liberarsi dalla costituzione solo con un
aperto spergiuro e con l'aiuto delle armi straniere. I giudizi sulla
giornata del 15 maggio sono assai discordi; se si pensa però che
l'assolutismo non può mai essere benevolo verso la costituzione, si deve
riconoscere che il governo napoletano mostrò carattere e che in
principio agì anche con moderazione. I radicali, male organizzati, senza
essere sostenuti dal popolo, audaci fino alla pazzia e nella grande
maggioranza uomini visionari, come in tutta l'Europa, offrirono essi
stessi al governo una splendida occasione. Ed il governo naturalmente
l'afferrò con furberia e con prontezza, fece sì che il popolo si
sollevasse contro di loro, e si atteggiò a difensore della costituzione.
Si paragonino gli avvenimenti del 1848 con quelli del 1820 e si vedrà
che la rivoluzione dei Carbonari fu più pronta al principio e più
efficace nel seguito. Allora si voleva una cosa sola; nel 1848, a
Napoli, come in Germania ed in Francia, si perdette di vista il punto
principale per correre dietro a mille questioni. Da ciò quella
straordinaria debolezza del partito del popolo e l'esempio di una
rivoluzione cominciata così felicemente e così dolorosamente terminata,
come mai era avvenuto in precedenza.

La giornata del 15 maggio ebbe conseguenze importantissime per tutta
l'Italia; ed il contraccolpo se ne fece sentire subito in Lombardia.
Mentre Ferdinando II richiamava il suo corpo di spedizione, la guerra
con l'Austria subiva una nuova crisi e le aspirazioni degli Italiani
venivano colpite a morte. La flotta napoletana che il 5 maggio era
apparsa davanti ad Ancona ed ora, incrociando davanti a Venezia,
bloccava Trieste e teneva in iscacco la flotta austriaca, tornò indietro
e lasciò Venezia indifesa.

La milizia territoriale, comandata da Pepe, venne anch'essa richiamata.
Già nell'andata, ed appena entrata nel territorio pontificio, essa
aveva proceduto lentissimamente, secondo ordini segreti ricevuti;
infatti molti ufficiali che godevano la fiducia del re, frapponevano una
quantità di ostacoli alla marcia, così che si raggiunse Bologna solo
dopo moltissimo tempo. A Bologna comparve un ufficiale dello Stato
maggiore napoletano, con l'ordine di tornare immediatamente indietro.
Pepe vi si rifiutò e con una piccola schiera continuò ad avanzare fin
sotto il Po; ma la grande maggioranza delle truppe tornò indietro sotto
gli ordini del generale Statella, per andare a domare l'insurrezione in
Calabria. Mentre così 14.000 Napoletani, sui quali si faceva calcolo in
Lombardia, tornavano indietro, accadde anche che il generale Durando,
romano, non potè più mantenere le sue posizioni contro gli Austriaci di
Nugent e quindi anche da quest'altro lato i piani dei Piemontesi
venivano scompigliati.

I Napoletani marciarono molto più sollecitamente contro le Calabrie che
contro la Lombardia. Perchè in Calabria doveva continuare ancora la
lotta infelice; la disciolta Camera dei Deputati voleva radunarsi là e
stabilire a Cosenza il centro delle operazioni. Quattro deputati,
Ricciardi, Eugenio di Riso, Raffaele Valentini e Domenico Mauro,
dovevano radunarsi a Cosenza e di là convocare i loro colleghi. Mentre
essi si costituivano in Comitato di salute pubblica, accorrevano i
radicali da tutti i paesi e si distribuivano armi al popolo. Si
radunarono alcune migliaia di Calabresi, da Messina giunse il valoroso
Ignazio Ribotti con alcune centinaia di isolani. Ma appena il generale
Lanza marciò su Cosenza, i Calabresi si ritrassero ed il comitato di
salute pubblica si dileguò. Contemporaneamente Nunziante sbarcava a
Pizzo e ottenuti rinforzi a Monteleone, si diresse verso Campo Longo,
dove i Calabresi lo respinsero con grande energia. I Napoletani
ripiegarono su Pizzo, dove si abbandonarono ad ogni sorta di eccessi.
Ma, sfortunatamente, tra i capi del popolo regnava una grande discordia,
specialmente tra Ribotti e Mauro. I Calabresi si disciolsero, i
Siciliani che tentavano di imbarcarsi furono fatti prigionieri: pure il
Comitato riuscì a riparare a Corfù. Gl'insorti si trasformarono in
banditi, si gettarono sui monti e resero malsicura tutta la Calabria.
Una terribile anarchia fu la conseguenza della guerra calabrese, così
che in ogni provincia abbondarono orrori barbarici, furti ed uccisioni.

Nelle altre provincie il movimento non ebbe importanza; la causa del
popolo oramai era perduta. Si cullò il popolo con una parvenza di
costituzione; ma solo perchè il partito della reazione ebbe paura di
osare tutto in una volta. Il 14 giugno fu tolto lo stato d'assedio;
venne riorganizzata la guardia nazionale, e le elezioni per la nuova
Camera si svolsero tranquillamente e riuscirono una totale sconfitta del
governo. Il primo luglio Serracapriola inaugurò la sessione in nome del
re con un discorso in cui esprimeva il dolore del sovrano per i
sanguinosi avvenimenti del 15 maggio e richiamava l'attenzione e la cura
dei deputati sull'amministrazione dei comuni e delle provincie, sulla
guardia nazionale e sulla pubblica istruzione.

Il governo, padrone della situazione da questa parte del faro, rivolgeva
tutte le sue forze contro la Sicilia. Disinteressatosi interamente degli
avvenimenti dell'alta Italia, ora disponeva di tutti i suoi mezzi. Già
Nunziante radunava il suo esercito a Reggio, dirimpetto a Messina e la
flotta si preparava a trasportare in Sicilia i reggimenti svizzeri.
Allora il Parlamento di Sicilia decise l'11 luglio di offrire la corona
dell'isola al valoroso Duca di Genova, secondogenito del re di Sardegna,
che avrebbe assunto il titolo di Alberto Amedeo re di Sicilia, con una
lista civile di 243.030 ducati. Una deputazione si recò in Torino a
portare al duca la corona, ma venne accolta con parole incerte. Il
principe (che morì sei anni dopo) conosceva troppo bene la precarietà
della situazione in Sicilia, e la Sardegna doveva guardarsi allora da un
passo troppo ardito.

Si era giunti così alla fine del mese di agosto; le truppe reali, forti
di 10.000 uomini si erano imbarcate sotto il comando di Filangieri su
tredici vapori e venti cannoniere, e, dopo aver toccato Reggio,
apparvero nelle acque di Messina il 2 settembre. Questa città, nella
quale funzionava un governo provvisorio, era difesa da 16.000 uomini
della guardia nazionale che non erano certo sufficienti a respingere due
assalti contemporaneamente, quello del castello e quello di soldati di
sbarco. Mentre Pronio la mattina apriva il bombardamento e copriva di
proiettili questa città che, come poche in Europa, era da tanti secoli
provata da terremoti, pestilenze e guerre, le truppe effettuavano il
loro sbarco. I Messinesi sono un popolo assai coraggioso e noncurante di
morte, forse i più energici tra i Siciliani, ed anche questa volta si
difesero con grande ardore. Ma essi furono costretti a cedere un posto
dopo l'altro e, dopo una lotta gloriosa, tutta la città cadde in potere
dei nemici.

Il 7 settembre Filangieri si impadronì definitivamente di Messina che ne
rimase assai danneggiata, dopo tre giorni di accanita resistenza. Anche
qui il pensiero ricorre ai Vespri siciliani. Allora tutte le forze
riunite di Carlo d'Anjou, che comandava in persona le sue truppe, non
riuscirono a piegare Messina, e, dall'aprile fino al 2 settembre 1282,
il grande eroe Alaimo riuscì vincitore in innumerevoli fatti d'arme,
nonostante che la fame travagliasse la città in modo orribile ed i
difensori fossero ridotti agli estremi.

La caduta di Messina produsse un'impressione enorme in Palermo. Il
Parlamento si rivolse di nuovo all'Inghilterra nella speranza di essere
riconosciuti indipendenti da quella nazione. Il Gabinetto di Londra
sconsigliò il re di Napoli da una guerra con la Sicilia, e
all'Inghilterra si unì anche la Francia per mezzo del suo ambasciatore
Rayneval. Le trattative furono condotte innanzi dagli ammiragli Baudin e
Parker che con le loro flotte incrociavano nelle acque di Sicilia ed
ebbero per risultato la stipulazione di un armistizio.

Mentre le armi tacevano da una parte e dall'altra, in Napoli non
accadeva niente notevole all'infuori dell'aggiornamento della Camera e
della sua nuova convocazione, specie di commedia che il popolo oramai
seguiva senza nessun interesse. Di nove mila elettori iscritti solo
mille andarono a votare, e la Camera appena aperta fu immediatamente
aggiornata fino al primo febbraio 1849. La città aveva ripreso in
tutto la fisonomia di una volta; la polizia riempiva di nuovo le
strade; la Commissione militare che doveva giudicare gli arrestati
del 15 maggio, si era messa all'opera con grande energia, ed anche
monsignor Cocle il 2 settembre era tornato ridendo a Napoli dal suo
esilio di Malta.

Ma ben presto uno strano avvenimento doveva di nuovo convergere gli
occhi del mondo su Napoli, un avvenimento che non si ripeteva più da
secoli e che prometteva ora di avere conseguenze molto durevoli. Il 27
novembre giunse in Napoli il conte Spaur, ambasciatore di Baviera presso
la Santa Sede, per consegnare nelle mani del re la seguente lettera:

«_Sire!_ Il momentaneo trionfo dei nemici della Santa Sede e della
religione hanno costretto il Capo della Chiesa cattolica di lasciare
Roma. Io non so in quale punto della terra la volontà del Signore, al
quale io affido umilmente l'anima mia, vorrà dirigere i miei passi;
frattanto io mi sono rifugiato con alcune persone fedeli negli Stati di
V. M. Io non so quali possano essere le vedute di V. M. a mio riguardo e
non sapendolo, reputo mio dovere farle conoscere per mezzo del conte
Spaur, ministro di Baviera presso la Santa Sede, che io sono pronto a
lasciare il territorio napoletano se la mia presenza negli Stati di V.
M. può diventare causa di timore o di difficoltà politiche. Pio IX».

Alle sette del mattino dopo, il re con tutta la sua famiglia s'imbarcò
su di una nave per andare a Gaeta. Lo stesso papa che con le sue riforme
aveva infiammato il movimento italiano e il di cui nome era stato
gridato come un simbolo di rivoluzione in tutte le città in rivolta,
veniva ora a chiedere, fuggitivo, l'ospitalità della Corte di Napoli. La
Corte l'accolse con entusiasmo, lo fece alloggiare nel palazzo del
governo di Gaeta e questa Gibilterra di Napoli divenne la Coblenza
d'Italia, il centro della reazione.

Frattanto erano continuate le trattative per risolvere la questione di
Sicilia. Ferdinando si piegò talmente alle pressioni della Francia e
dell'Inghilterra che offrì il seguente _ultimatum:_ la costituzione
sulle basi di quella del 1812; il governatore siciliano o di sangue
reale; l'amministrazione interna del tutto separata da quella di Napoli;
ma esercito e flotta in comune e tutti i rapporti con l'estero trattati
solo da Napoli. Concedeva inoltre un'amnistia, eccetto che per 45
persone, che dovevano abbandonare l'isola.

Gli ammiragli stranieri consegnarono a Palermo questo _ultimatum_ assai
benevolo. Ma le cose erano già andate troppo oltre, e per di più i
Siciliani non avevano nessuna fiducia in quel re falso che già aveva
violato la costituzione di Napoli. In quelle concessioni vi erano
parecchi punti che dovevano col tempo rendere illusoria la costituzione.
Tra gli altri il fatto che la nobiltà siciliana era minacciata di
perdere i suoi diritti, perchè il re si riservava il diritto di nominare
i membri della Camera Alta. E il Parlamento rispose all'_ultimatum_ con
un invito all'insurrezione generale (20 marzo 1849):

«_Siciliani!_ Per noi il grido di guerra è grido di gioia! Il 29 marzo,
giorno in cui cominceranno le ostilità con il despota di Napoli, sarà
salutato con la stessa gioia, con cui fu salutato il 12 gennaio, perchè
ci sarà possibile conquistare la libertà col prezzo del nostro sangue.
La pace che vi si offre è vergognosa. Distrugge in un colpo tutto il
bene che ci è venuto dalla rivoluzione. Voi avete meritato l'attenzione
di tutta l'Europa; ma che avrebbe detto l'Europa, se vi foste mostrati
poco gelosi dei nostri diritti, se vi foste piegati al fraudolento
despotismo di un tiranno? Siciliani, quantunque la vittoria sia incerta,
pure una Nazione, il di cui onore è un giuoco, ha, come un individuo, il
sacrosanto diritto di sacrificarsi. È meglio seppellirsi sotto le
rovine della patria, che dare all'Europa lo spettacolo di una inaudita
viltà. La morte è da preferirsi alla schiavitù. Ma no, noi vinceremo,
noi confidiamo nella santità della nostra causa e nella forza delle
nostre armi. Pensate alla disperazione e alle rovine di Messina! La
guerra è per noi simbolo di vendetta e di pietà. Un'unica città di
Sicilia geme sotto il giogo del nemico della libertà. Alle armi! Alle
armi! Vittoria o morte!»

Che cosa dava efficacia a questo manifesto? Quali erano i mezzi di
difesa? quali i generali ed i capi del popolo? Quando i Magiari si
sollevarono in circostanze simili, l'Europa attonita vide sorgere in un
baleno una schiera di talenti organizzati e di generali, che in ogni
epoca avrebbero potuto figurare come geni militari. Ma i Siciliani non
avevano nessun uomo veramente superiore. Questo popolo appassionato ed
intelligente era troppo indebolito dalla lunga schiavitù in cui i
Borboni l'avevano tenuto; quella nobiltà feudale, così vigorosa nel
medioevo, aveva perduto le qualità guerresche e brillava solo nelle arti
della pace e del lusso.

Mieroslawoski, un Polacco di un talento molto dubbio, comandava il così
detto esercito nazionale siciliano, 20.000 uomini appena di truppe
regolari, tra i quali si trovavano parecchi Francesi e Polacchi.
Nessuna meraviglia quindi che la guerra dell'indipendenza finisse così
miseramente. Niente altro che scaramuccie e qualche scontro un po' più
serio. Le ostilità cominciarono il 4 aprile, ed anche questa volta
furono gli Svizzeri che fecero trionfare il partito dell'assolutismo.
Filangieri da Messina si portò verso Taormina, la famosa città quasi
imprendibile che domina la grande strada, tanto che egli si aspettava di
trovarvi una resitenza assai pericolosa. Ma quantunque difesa da 4000
uomini e da nove cannoni, quella importante posizione fu conquistata in
poche ore. Filangieri proseguì subito la sua avanzata verso Catania,
occupando Aci Reale, accolto con simpatia dalla popolazione. Di qui a
Catania, la bella città ai piedi dell'Etna, non vi sono che poche ore di
marcia. Poichè a Catania si era riunito il grosso delle truppe
siciliane, era da aspettarsi una battaglia campale. Il 5 aprile la città
venne circondata per mare e per terra; le navi da guerra si ancorarono
davanti al porto, la cui entrata era difesa da tre batterie. Il giorno
dopo le truppe e le navi si avanzarono contemporaneamente, e la lotta
incominciò. La legione straniera combattè valorosamente, ed anche i
Catanesi si comportarono da eroi, ma la resistenza ebbe poca durata.
Gli Svizzeri forzarono porta S. Agata, e penetrarono nella città dopo
una breve lotta per le strade; si ripetettero le uccisioni, i saccheggi
e gli incendi di Napoli e di Messina. La strada Etnea, la più bella di
Catania, venne interamente devastata; anche il museo Biscari fu
saccheggiato, e molte opere di gran pregio andarono perdute o distrutte.

Caduta Catania, Mieroslawoski fece da Regalbutto ancora un tentativo di
sopraffare i Napoletani, ma respinto, dovette con gli avanzi delle sue
truppe rifugiarsi nell'interno dell'isola. Siracusa, Augusta e Noto
caddero senza colpo ferire. Tutta la costa orientale era stata
riconquistata in pochi giorni, e oramai Filangieri poteva marciare
tranquillamente su Palermo.

Il Parlamento, alla notizia che quei luoghi così importanti erano caduti
in mano del nemico, era piombato in un grande sgomento. Il popolo
cominciò ad agitarsi e a lamentarsi, e ben pochi pensarono ad una seria
resistenza. Non venne nemmeno presidiato Castrogiovanni, l'antica Enna
che i Bizantini ed i Saraceni avevano per tanti anni occupata.
L'imprevidenza di tutti non aveva confine; mancava insomma il Garibaldi
di quella lotta. E così accadde che il Ministero propose al Parlamento
di sottomettersi. La Camera Alta accettò la proposta all'unanimità, la
Camera dei Deputati con 60 voti favorevoli contro 30, e subito dopo si
tentò di ottenere la mediazione dell'ammiraglio Baudin. Filangieri aveva
raggiunto già Caltanissetta insieme con le sue truppe, quando fu
raggiunto da una deputazione, della quale facevano parte il conte
Lucchesi Galli, il principe di Pallagonia ed il marchese di Rudinì, con
la notizia che Palermo si arrendeva senza condizioni. A dire il vero, i
radicali, capitanati da Scordati si erano ribellati, avevano formato un
governo provvisorio e si preparavano alla difesa, così l'8 ed il 9
maggio avvennero anche combattimenti con le truppe.

In Palermo regnava un'anarchia selvaggia; era scoppiata una contesa tra
i Siciliani e la legione straniera; il Parlamento si era disciolto, e
più di 3000 persone si erano rifugiate nelle navi francesi ed inglesi.
Filangieri rimase alcuni giorni fermo davanti a Palermo, annunziando
un'amnistia generale, ad eccezione solo di 45 persone, tra le quali
Ruggiero Settimo, Serra di Falco, il marchese Torrearsa, Mariano
Stabile, il principe Scordia; ed alla fine, il 15 maggio, un anno giusto
dalla controrivoluzione di Napoli, entrò nella città.

Così finì la rivoluzione di Sicilia; in modo veramente lamentevole se si
pensa al modo come cominciò. Anche i Siciliani avevano calcolato male;
quando le cose presero il 15 maggio un'altra piega, l'Inghilterra li
abbandonò a loro stessi, ed il popolo ben presto si stancò della
rivoluzione. La nobiltà ed il clero suscitarono viva diffidenza a causa
delle loro mire egoistiche; mancavano inoltre i capi e i mezzi, perchè
le campagne e le città erano esauste. E l'isola ripiombò più miseramente
di prima sotto il giogo dell'odiata Napoli.

Lo stesso giorno in cui cadeva Palermo, re Ferdinando--così stranamente
si svolgevano gli avvenimenti--si accampava col suo esercito ad Albano,
nel territorio del papa ed in vista di Roma.

Nella primavera il papa aveva da Gaeta ordinato a tutte le potenze
cattoliche di concorrere a domare Roma ribelle, e a rimetterlo nel suo
trono.

Mentre i Francesi, in contradizione con la loro costituzione
repubblicana, si accampavano davanti a Roma, sotto il comando di
Oudinot, e gli Austriaci occupavano Bologna, e gli Spagnuoli sbarcavano
a Porto d'Anzio, il re di Napoli si era avanzato con 16,000 uomini e 72
cannoni.

Questa campagna cominciò e finì tuttavia senza gloria; mancò poco che il
valore di Garibaldi non annientasse del tutto l'esercito napolitano nei
due scontri di Palestrina e di Velletri, il 9 ed il 19 maggio. Dopo la
giornata di Velletri, il re si affrettò a ritirarsi nei suoi Stati,
inseguito dai repubblicani romani che, più arditi e perseveranti dei
Siciliani, furono costretti a tornare indietro per prepararsi ad una più
seria difesa contro i Francesi.

Con la caduta della Sicilia il 15 maggio e quella di Roma il 3 luglio
1849, ebbe fine la rivoluzione nell'Italia meridionale, ed ora a noi non
resta altro che accennare alle dolorose conseguenze che ne seguirono,
come giudizi marziali, processi e misure di reazione.

Per quel che riguarda la Sicilia, non venne mantenuta nessuna delle
promesse fatte da Filangieri ai Palermitani. Il re non volle sentir
parlare di un principe reale come governatore di Sicilia; ma nominò
invece il Filangieri stesso vicerè, conferendogli il titolo di duca di
Taormina in premio delle sue benemerenze militari. Nunziante, il
vincitore in Calabria e Statella, che aveva ricondotto indietro dal Po
le truppe, rimase agli ordini del vicerè. Tuttavia un Siciliano, don
Giovanni Carrisi, venne nominato ministro per gli affari dell'isola, con
residenza presso il re, e per di più, conforme alla decisione presa il
27 settembre 1849, venne creata una Consulta siciliana che tenne la sua
prima seduta il 28 febbraio 1850. Una terribile oppressione pesava ora
sul popolo; non solo vennero ripristinate le antiche tasse, ma ne
vennero imposte anche delle nuove, come una tassa generale di bollo, e
perfino una sulle finestre. Tutti i commerci cadevano in rovina, le
strade erano rese malsicure da numerosi briganti; l'agricoltura mancava
di braccia, perchè quei che la guerra non aveva uccisi, dovevano fuggire
o andare in carcere. Gran parte dei capi del movimento si era rifugiata
nelle navi inglesi o francesi; Ruggieri Settimo era riuscito a fuggire a
Malta, altri a Parigi, a Londra o a Corfù; ma molti furono raggiunti
dalla polizia, che rovistava tutte le case e le campagne e perseguitava
i deputati per costringerli ad emettere una dichiarazione in cui
revocavano la deliberazione con la quale i Borboni erano stati
dichiarati decaduti dal trono di Sicilia. Anche tutte le armi furono
sequestrate senza misericordia. Le misere condizioni dell'isola durante
il 1837 erano un nulla in confronto di quelle sotto cui gemeva ora, dopo
l'ultima rivoluzione. Dopo che furono violate tutte le promesse,
compresa quella dell'amnistia, la Sicilia divenne una semplice provincia
del Regno di Napoli.

Anche a Napoli la costituzione finì miseramente; dopo che la Camera fu
sciolta il 14 marzo 1849, essa non venne più riconvocata. La
costituzione figurava oramai solo nel titolo del giornale ufficiale
_Giornale costituzionale delle Due Sicilie;_ ma il 21 maggio 1850, anche
quella parola _costituzionale_ disparve. Nonostante il solenne
giuramento del 14 febbraio 1848, le cose tornarono allo stato di prima.
Ci furono qua e là, in Abruzzo ed in Calabria, strascichi rivoluzionari,
ma la polizia teneva gli occhi aperti e li soffocò.

Il governo assoluto riprese silenziosamente il suo sopravvento. Il re
non dimorò più a Napoli ma a Gaeta, dove anche Pio IX rimase fino al 4
settembre 1849; giorno in cui si imbarcò per Portici. Le cose notevoli
della permanenza del papa a Gaeta e a Napoli sono state già registrate
negli annali ecclesiastici; noi accenneremo solo alla fondazione di un
istituto che avvenne sotto gli occhi del papa. Già a Gaeta si era venuti
nella decisione di fondare un organo universale della Chiesa che
servisse di baluardo contro la stampa democratica e contro ogni tendenza
sovversiva. E così nel 1850 sorse in Napoli la _Civiltà Cattolica_ sotto
la direzione del gesuita Curci, che già prima della rivoluzione
pubblicava la rivista _Scienza e Fede_ e dei gesuiti Bresciani e
Trapello. Questo giornale, che l'anno dopo fu trasportato a Roma, vive
ancora e combatte con tutte le armi contro la rivoluzione. È redatto con
abilità e contiene corrispondenze da tutte le parti del mondo e si
pubblica il primo ed il terzo sabato di ogni mese, ed ogni fascicolo
contiene svariati argomenti, considerazioni di politica generale, una
cronaca contemporanea degli affari del mondo ed anche romanzi, come
_L'Ebreo di Verona_ (il primo che vi apparve) del padre Bresciani, che
ha per soggetto la rivoluzione del 1848. Sui primi del 1855 questa
rivista dispiacque al re di Napoli, si dice, per un certo articolo, che
fu stampato solo in poche copie, e di cui si ignora il contenuto. Il
padre Curci dovette dare le dimissioni e per un momento parve che i
gesuiti stessero per essere espulsi da Napoli; ma poi la cosa venne
accomodata.

Dopo che Pio IX ebbe battezzato e cresimato alcuni principi e
principesse della Corte napoletana ed ebbe conferito la rosa d'oro alla
regina, il 4 aprile lasciò Portici per Caserta. Visitò di nuovo Gaeta
innalzandone il Duomo a chiesa metropolitana e quindi, accompagnato dal
re e dal duca delle Calabrie, raggiunse il confine a Fondi dove, con
lagrime ed abbracci, prese congedo dai suoi ospiti che l'avevano
assistito nei giorni tristi. Poi proseguì il suo viaggio ed il 12 aprile
rientrò in Roma da quella stessa porta S. Giovanni da cui era fuggito
il 24 novembre 1848.

Il re tornò a Caserta dove aveva fissato la sua dimora, mentre nella
capitale si svolgevano avvenimenti che riempivano di dolore tutto il
paese. Perchè ora erano cominciate le persecuzioni in massa contro
deputati e liberali, e tutta quella serie di processi colossali che si
prolungarono fino all'anno 1853. Nove ministri dei precedenti Gabinetti
e cinquantaquattro deputati erano in carcere o in esilio; si diceva che
il numero dei carcerati salisse a molte migliaia; secondo alcuni
rapporti autentici, nel 1851 nelle prigioni di Stato vi erano 2024
liberali.

Tra tutti questi processi ce ne fu uno che sollevò l'indignazione di
tutta l'Europa, quello contro la setta detta dell'_Unità Italiana_.
L'accusa era connessa con un fatto avvenuto a Portici, dove il 16
settembre 1849, davanti al palazzo reale, mentre il papa dava la
benedizione, lo scoppio di un petardo aveva causato un grande
scompiglio. Questa sciocchezza venne considerata come una dimostrazione
da parte di una setta segreta, che si organizzava sotto il titolo
accennato per diffondere le idee di Mazzini e per attentare alla vita
dei principi. Anonime delazioni di agenti di polizia dettero i seguenti
dettagli: la setta è suddivisa in cinque gradi, ed ha un gran
Consiglio, alla testa del quale si trova il conte Mamiani, un Comitato
generale, e poi Comitati provinciali, distrettuali e comunali,
corrispondenti ai corpi amministrativi del reame. Esisteva in realtà una
associazione che aveva per scopo di promuovere l'unità d'Italia, che un
tempo era stata appoggiata anche dal governo napoletano; ma gli agenti
di polizia denunziarono molte personalità spiccate come appartenenti ad
una setta segreta, che si prefiggeva di sopprimere i sovrani; tra cui
inclusero anche Carlo Poerio, quell'avvocato che nel 1848 era stato
nominato prima direttore della polizia e poi ministro dell'istruzione,
un uomo dalle idee assai temperate e che non aveva preso parte nemmeno
al moto repubblicano del 15 maggio. In quella lista furono compresi
anche Dragonetti ed il duca Caraffa d'Andria; gli accusati furono in
tutto quaranta. La polizia era l'accusatrice, una speciale corte
criminale, sotto la presidenza di Navarro, istruì il processo e giudicò.
Il dibattimento cominciò il 1^o giugno 1850, e la sentenza fu emanata il
5 dicembre: furono assolte solo quattro persone; tre, Francittano,
Settembrini ed Agresti furono condannati a morte, tutti gli altri alle
galere. I tre condannati a morte solo poche ore prima della esecuzione
ebbero commutata la pena nelle galere. E' vero sì che il governo
napoletano non mandava mai a morte i rei politici, ma bisogna anche dire
che le prigioni napoletane erano assai peggiori di una morte rapida.
Quei disgraziati, fra i quali Poerio che era stato condannato a 24 anni,
legati coi ferri a due a due come volgari delinquenti, furono condotti
al porto e trasportati su di una nave al carcere di Nisida. Da tutto il
mondo si sollevò un grido d'indignazione per la barbarie con cui
venivano trattati quei disgraziati. Il _Risorgimento_ di Torino
descrisse con grande esattezza di particolari le orribili prigioni
sotterranee di Nisida, Ventotene e Tremiti, dove i condannati politici,
uomini di grande mente e cultura, un tempo ministri, duchi e conti,
furono rinchiusi in locali infetti e confusi con i malfattori comuni. Le
note lettere di Gladstone a lord Aberdeen che confermavano le notizie
del _Risorgimento_, sollevarono una vera tempesta. Il governo napoletano
tentò, è vero, di giustificare con pubbliche dichiarazioni, ma anche se
si tiene conto dell'esagerazione di quei rapporti, rimane pur sempre che
la sorte di quei condannati politici era terribile. Legati due a due ad
una catena lunga sei piedi, oltre le sofferenze fisiche, essi
sopportavano entro quelle mura fetide, una ancor più insopportabile
pena morale. Un giorno il mondo avrà da questa o quella vittima della
rivoluzione napoletana del 1848 un libro di memorie dal carcere, che non
rimarranno indietro per l'orrore che desteranno a quelle che Silvio
Pellico scrisse sullo Spielberg.

Ed intanto i processi continuavano. Quelli che si facevano in provincia,
più numerosi in Calabria che altrove, passavano inosservati agli occhi
del mondo; solo quelli che avevano luogo a Napoli, facevano parlare di
sè, come quello di cui abbiamo già parlato e l'altro contro la _Setta
carbonara militare_. Ai condannati alle galere bisogna poi aggiungere
altre migliaia di cittadini che, o venivano posti sotto la diretta
sorveglianza della polizia, o venivano strappati dalle loro famiglie e
esiliati in qualche isola lontanissima. Bastava per provocare queste
misure, qualche parola sospetta o poco cauta, e perfino portare un
cappello alla calabrese, o la barba a pizzo. Nel 1852 per le strade di
Napoli venivano fermati perfino gli stranieri e si imponeva loro di
farsi radere la barba se la portavano _à la Napoléon_.

Nuovo motivo di paura per il governo napoletano furono, nel 1852, il
_giuseppinismo_ e il _murattismo_. Dopo il successo del colpo di Stato a
Parigi, e dopo la proclamazione dell'impero, che Napoli si affrettò a
riconoscere prima delle altre Potenze, ogni manifestazione in questo
senso creava nuovi timori. La situazione del Regno di Napoli è in vero
terribile; esso si trova in continue apprensioni di sbarchi di
mazziniani, di pretese murattiane e di permanenti agitazioni in Calabria
ed in Sicilia, dove ora qua ora là, a Caserta, a Messina, a Palermo, a
Girgenti sorgono società segrete, si tentano sollevazioni, e non è
nemmeno il caso di pensare ad una pacificazione degli animi. Nel
febbraio 1852 il governo tentò di calmare almeno Messina con la
concessione di un porto franco; il re stesso facendo un viaggio in
Sicilia, promise l'apertura di nuove strade, poi concesse un'amnistia
per la quale furono liberate duecento persone e si cominciava di nuovo a
vociferare che egli avesse in animo di concedere di nuovo la
costituzione. Ma l'odio dei Siciliani è implacabile ed i partiti
radicali di tutto il Reame sono indomabili. La situazione di Napoli è
oggi la stessa se non peggiore di quella dopo il 1837. Il governo
trascurando di soddisfare i bisogni di quella città ed accendendo sempre
più le passioni politiche con la violenza della reazione, va incontro ad
una nuova e più terribile rivoluzione che non può tardare.


NOTE:

[1] Nel 1906 lo storico monumento, nei di cui sotterranei tanti martiri
dell'Indipendenza italiana languirono e morirono, fu liberato da quella
cinta ibrida di vecchie e sporche casupole, e il meraviglioso arco di
Ferdinando d'Aragona, intieramente restaurato, fu restituito
all'ammirazione del pubblico. Oggi il maschio angioino è interamente
isolato, mercè l'opera sapiente dell'architetto Adolfo Avena.
_(N. d. T.)_.

[2] La Fontana Medina mutò di posto cinque volte, e non già tre come
affermò il Gregorovius. L'Auria la situò nell'Arsenale, da dove, essendo
rimasta priva d'acqua, il duca d'Alba la fece trasferire nella piazza
del Palazzo Reale, da dove passò quindi nella piazza di S. Lucia presso
Castel dell'Uovo. Nel 1659 l'architetto Cosimo Fansaga trasportò ed ornò
la storica fontana presso la chiesa di S. Gioacchino; nel 1664 fu
innalzata in Piazza Medina, e di qui, in questi ultimi anni, per i
lavori del risanamento edilizio di Napoli, nella nuova piazza della
Borsa. _(N. d. T.)_.

[3] Dopo il 1850, una grave eruzione si è rinnovata, come è noto, nel
1906. Ne rimase quasi distrutto il territorio di Ottaiano e
Boscotrecase. _(N. d. T)_.

[4] Giova ricordare che Gregorovius scriveva queste righe nel 1854. Da
allora molti e pregevoli studi sono stati fatti sulla storia dell'Italia
meridionale, e gli archivi di Napoli non sono dopo la rivoluzione che
concluse all'unità italiana, chiusi ed impenetrabili. _(N. d. T.)._

[5] Giova ricordare che Ferdinando Gregorovius scriveva queste note
prima della rivoluzione siciliana del 1855.

[6] Von Alexander Humboldt, celebre naturalista, geografo, archeologo,
statista, etnologo, nacque a Berlino nel 1769, morì nel 1859.

[7] Von Hallermund Platen, nobile poeta tedesco, nacque ad Ansbach nel
1796, morì a Siracusa nel 1835. _(N. d. T.)._



                                 INDICE


Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 1

L'isola di Capri . . . . . . . . . . . . .  »  97

Palermo . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 183

Siracusa . . . . . . . . . . . . . . . . .  » 265

      _Ortigia_ . . . . . . . . . . . . . . » 270

      _Achradina_ . . . . . . . . . . . . . » 276

      _Neapoli_ . . . . . . . . . . . . . . » 291

      _L'Anapo e l'Olimpo_ . . . . . . . . .» 305

Napoli e Sicilia (dal 1830 al 1852) . . . . » 311



Nota del Trascrittore


L'ortografia e la punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le parole in
greco a pag. 123 e 144 sono state traslitterate. Tutte le
occorrenze dell'abbreviazione N. d. T. (Nota del Traduttore) sono state
normalizzate in (N. d. T.).

Grafie alternative mantenute:

  desideri/desiderî
  promontori/promontorî
  vari/varî


Altre correzioni:

  pag. 70 cartelloni giganteschi, dipinti bizzarramente [bizzaramente]
  pag. 78 ma è abbastanza [obbastanza] pulita
  pag. 86 fra Amalfi e [a] Salerno
  pag. 90 una verde [verda] valletta
  pag. 156 in cima [cime] ad ogni vetta
  pag. 195 il governo di Hassan-ben-Alì [Hassan-len-Alì]
  pag. 201 con la mole [mola] gigantesca
  pag. 255 alla scuola di Antonio Gagini [Gagginà]
  pag. 258 esattamente con la notizia pubblicata [publicata]
  pag. 278 si trovava in quella [quelle] località
  pag. 326 pubblicamente [publicamente] nell'indirizzo
  pag. 384 aggiunto il riferimento al paragrafo IV del Capitolo "Siracusa"





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Passeggiate per l'Italia, vol. 4" ***

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