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Title: La Madonna di Mamà  - Romanzo del tempo della guerra
Author: Panzini, Alfredo
Language: Italian
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LA MADONNA DI MAMÀ.

      *      *      *      *      *

DEL MEDESIMO AUTORE:


  _Piccole storie del mondo grande_                        L. 1 --
  _La lanterna di Diogene_                                    3 50
  _Il 1859. Da Plombières a Villafranca_                      3 50
  _Le fiabe della virtù_, novelle                             3 50
  _Santippe_, piccolo romanzo tra l'antico e il moderno       3 50

      *      *      *      *      *


ALFREDO PANZINI

LA MADONNA DI MAMÀ

ROMANZO DEL TEMPO DELLA GUERRA



MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1916.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._

Copyright by Fratelli Treves, 1916.

Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera che non porti
il timbro a secco della Società Italiana degli Autori.

Milano -- Tip. Treves.



A RENATO SERRA.


_Noi ci conoscemmo di persona, la prima volta, a Bellària. «Lei chi è?»
domandai. Io stavo sdraiato all'ombra di quella mia disgraziata casa,
quando, riscosso ai lievi passi sull'erba, domandai:_

«_Lei chi è?_»

«_Io sono Renato Serra»._

_E allora guardai. Diritto, luminoso, puro: coi sàndali ai piedi nudi
come di peregrino. Non mai il mattino d'estate, il mare in pace, il
canto grande delle cicale mi parvero circondare più nobile creatura
giovane. Tu, o Renato, sorridevi a me di un indefinibile sorriso, ove
era insieme timidezza e ironia._

_E mi ricordo che, nei frequenti colloqui di poi, lungo la riva del
mare, io ti rimproveravo di consumare la giovinezza in quell'oscura tua
città di Cesena; e tu pur sorridevi.... Ora ripenso a quei colloqui
lontani, alle tue parole; le quali certamente erano singolari per un
giovane, ma più che per sè, erano singolari perchè spazìavano in
un'atmosfera meravigliosa di elevazione._

_E più che le parole, ho in mente la tua figura forte e il tuo passo
andante lungo la riva del mare: le onde azzurre si venivano umilmente a
smorzare su le arene, come ricamandoti innanzi la via; e i grandi corpi
delle donne, distese su la sabbia, entro gli accappatoi, volgevano verso
di noi gli occhi indolenti._

«_Perchè andare così in fretta, Renato? Perchè non stàrcene così
indolenti anche noi al sole e spremere qualche grappolo che la fresca
vite pur matura agli uomini?_»

_Oh, tu eri ben avviato a piè scalzo, Renato Serra! tu ben camminavi
espedito ben fuori della tua oscura città, gettando via ogni mondano
impedimento. Tu eri avviato verso una immota verità, tu camminavi verso
la morte._

_Certamente, o Renato, tu, colpito nelle tempie da palla austriaca sul
monte Podgora, il 20 luglio 1915, sei fra i grandi morti per la Patria,
ma più specialmente tu a me appari morto per non so quale alta
predestinazione._

_Ora, quest'agosto, a Bellària, aprivo la finestra prima che si levasse
il sole._

_La finestra dà sul mare verso l'oriente: tutto il ricamo delle stelle
ardeva ancora; poi quella luce azzurrina schiariva; poi la palpèbra del
sole si apriva. Un'ebbrezza sino alle lagrime: e su le acque, senza più
vele, mi pareva di vedere la nave dei liberati dalla servitù
dell'Egitto. Un mio piccolo fanciullo, che già tempo sollazzava su
questa spiaggia, era con te, o Renato; la cara madre mia era con te in
quella nave. E non sentivo tristezza per i morti, nè inerzia. Avevo
l'impressione di essere come il fringuello cieco, che pur disperatamente
canta._

_In quei mattini d'estate fu proseguito questo romanzo senza pensiero di
letteratura e mi pareva di fartene lettura di qualche passo, come era
intervenuto altre volte quando tu eri in vita. Così durava l'incanto
finchè il sole mi investiva tutto sul capezzale, e la voce degli uomini
allora si destava: e spesso si inquadrava nella finestra a terreno la
pescivèndola bellariese. Una bella ragazza in verità: scalza e pomposa
giovinetta, che vestiva tricolore!_ Bernuss _rosso di velo, alitante su
le carni, un velo verde in testa e un gonnellino bianco:_ Vol e' pess?

_Così si è formato questo libro. Libro, nato di me solo e non di donna,
nato con dolore: porta il bel nome di lui, e con lui il nome degli
altri, morti per difendere la umana Pietà, morti per la più vera Verità,
per la più pura Bellezza della vita, cioè per la patria più grande, per
la conquista di più giusto impero._

                                                          A. P.



LA MADONNA DI MAMÀ



CAPITOLO PRIMO.

La bella fetta d'angùria.


I calzoni di Aquilino erano corti per quelle gambe che si facevano ogni
anno più lunghe; ma quella sera riserbavano al giovinetto una piacevole
sorpresa, perchè sentì alcunchè di solido dentro una tasca. E non era la
medaglia della Madonna, che mamà gli cuciva tra gli abiti: non era un
baiocco del papa, ma una moneta con l'effige del re.

Nel cielo splendeva la luna piena d'agosto; sulla terra la gente andava
in processione a respirare la frescura del mare, e sentire la banda.

Aquilino, trovata che ebbe la moneta, si fermò. Lì, presso la barriera,
c'era un venditore di angurie. Le spaccava con la coltella e, al lume di
una candela, esponeva quella roridezza di fiamma.

-- Angurie dai semi mondi -- vociava l'omaccione: -- si mangia e si beve.

Aquilino stette un po' considerando se era cosa più saggia comperare con
quel denaro una misura di brustolini, o forse anche entrare arditamente
nel caffè dei signori e comperare un'offella: cose nutrienti e solide.
Ma vinse l'anguria, benchè acquosa.

Che bontà, ma come sottile quella fetta! E stava intagliando sulla
scorza gli ultimi vestigi del rosso, quando il venditore gli si
appressò, e gli portò una nuova fetta, grande quasi un quarto di
anguria.

-- Ma questo cos'è?

-- C'è quel signore che gliela paga.

Il giovinetto si accorse allora che, un poco discosto da lui, sedeva un
signore che mangiava anche lui l'anguria.

Sorrideva, e faceva cenno di «no»!

Era proprio un signore! con una bella barba e due occhi dolci e
luminosi: ma una faccia forestiera; di quei foresti che vengono pei
bagni di mare: anche perchè un signore della sua città mai si sarebbe
seduto sotto una frasca a mangiare angurie.

-- Mangi senza scrùpolo la sua cocòmera -- disse la voce di quel signore --
, io non c'entro. È quest'onesto cocomeraio che è stato preso da un
violento accesso di rimorso per la fetta troppo sottile che le ha dato.
È vero, signor cocomeraio?

Quel signore parlava a sbalzi, a sfumature, con un certo accento che
Aquilino non avrebbe saputo ben definire di qual paese, ma non era la
gorgia melliflua e cascante dei signori della sua città: oh, un
forastiero.

-- Sai? -- disse poi confidenzialmente -- non te ne avere a male; ma mi è
parso che tu stavi facendo come dicono a Napoli: si mangia, si beve e si
lava la faccia.

-- La faccia me la lavo con l'acqua tutte le mattine.

-- Oh, guarda! E allora prendi....

E così dicendo, gli diede una manciatella di confetti, di cioccolatini,
di quelli ravvolti nella stagnola d'oro e d'argento. Gli sonavano nelle
tasche. Aquilino si voleva schermire, ma fu vano.

-- E adesso te ne vai anche tu al mare, a sentire la banda, eh?

-- È un po' tardi oramai, signore, e mamà non va a letto se prima non
vado a casa io.

-- Ma tu sei l'araba fenice dei figliuoli. Lavori anche? {004}

-- Studio, signore.

-- Oh, guarda! e cosa studi?

-- Il liceo, signore!

-- Il liceo? -- E colui corrugò le ciglia.

-- Il liceo, sì: oh bella! Perchè mi guarda così?

E parve ad Aquilino che gli occhi di quell'incognito lo fissassero
stranamente. Ma fu un attimo. Attinse dalle tasche altre manciate di
confetti, e a forza li insinuò nelle tasche di Aquilino. -- Così ne porti
anche alla mamma che aspetta, vero? Oh, puoi accettare senza scrupoli.
Io sono il padrone delle cose dolci: io vivo sempre in mezzo alle cose
dolci.

-- Cosa?

-- Sono un dolciere. Vai, vai!



CAPITOLO II.

Gli àngioli.


Aquilino si destò il dì seguente col bel sole d'estate e con una
vaghezza nel cuore di incontrare nella luce del giorno quel così dolce
signore.

-- Che buoni confetti, quelli col rosòlio dentro, e le mandorle toste!

-- Non sono certo quelli del droghiere, -- confermava la mamma, -- che c'è
più gesso che zucchero; e con quei numeri del lotto, che poi non vengono
mai.

Che mattino gioioso! C'erano lì, nella stanzetta, tutti i libri della
scuola: un po' in vacanza anche loro. E i libri di scuola riposavano, un
po' perchè era il mese delle vacanze; e un po' anche perchè, da qualche
tempo, fra il giovinetto ed i libri di scuola si interponevano gli
àngioli della terra.

                              *

Aquilino era oramai entrato in quella beata costellazione dello zodìaco
della sua esistenza, in cui davanti agli occhi meravigliati appaiono
figure con l'aurèola d'oro in testa, come gli àngioli che i pittori di
una volta dipingevano. Erano teste chiomate di giovanette. Oh, quante!
Oh, come belle! Con gli occhioni pietosi o sorridenti su di lui. Oh,
come pure! perchè, dopo la testa chiomata, non appariva allora che un
manto che ventilava, come appunto negli àngioli degli antichi pittori.
Spesso la stanza era piena di queste testoline.

Provava una dolcezza di sogno; e tutt'al più -- ogni tanto -- qualche
fremito strano nelle maschili membra; del quale fremito non trovava
allora la relazione con tutti quegli àngioli così puri; e insieme col
fremito, una gran distrazione. E bisognava proprio che fosse un bravo
figliuolo per non abbandonare interamente i suoi libri di latino, di
greco, di matematica, che erano proprio niente in confronto degli
àngioli.

                              *

Aquilino uscì, dunque, di casa e non ebbe molto a girare che trovò quel
signore, sotto il tendone del caffè dei signori, che sorbiva una
granita. Gli stette un po' davanti, ma non osava accostarsi. Lo
riconobbe lui: -- Sei tu quel signorino -- gli disse -- che faceva, ier
sera, all'amore con la cocòmera?

Ad Aquilino pareva di dover dire tante parole di riconoscenza; e invece
rimase lì un po' oca mùtola. Il cuore lo spingeva bensì verso colui, ma
ora la luce del giorno metteva in rilievo troppa differenza fra quel
signore e lui. Non che quel signore vestisse con sfarzo, anzi vestiva un
semplice àbito grigio scuro: ma c'era un non so che di troppo fine; come
di vellutato, di profumato, che formava una gran distanza fra loro due.

-- Prendi, bimbo, un rinfrescativo per bocca? -- gli bisbigliò. E ordinò
una granita.

Proprio in quel momento transitava lì, davanti al caffè, il vecchio
conte Biancolini, uno dei maggiorenti più autoritarî della città. Il
quale conte certamente, in mezzo alla gran barba grigia, aveva una
bocca: ma Aquilino mai la aveva veduta aperta al sorriso.

Ebbene, in quel mattino, ne vide la bocca sorridente e ne udì anche la
voce, perchè quel personaggio così autorevole, appena ebbe veduto
l'amico di Aquilino, sorrise; e insieme sventolò la destra in atto di
saluto e con voce del tutto amichevole, lasciò cadere queste parole: --
Buon giorno, buon giorno, caro Còsimo. -- E passò oltre.

-- Lei è amico di quello lì? -- domandò Aquilino.

-- Zitto! Sono il suo maggiordomo. Non ci credi? Ma tu che hai visto,
bimbo? hai visto la versiera? il _bau-bau_?

-- È quello lì -- disse Aquilino con un trèmito di odio -- che quando
(voleva dire «mamà» ma si rattenne): che quando abbiamo fatto l'istanza
al Comune per un sussidio per poter continuare il liceo, ha risposto che
non c'erano fondi; ma che se anche ci fossero stati, era tempo di
finirla con la poveràglia che vuol studiare.

-- Sai? È un po' _ancien régime_....

-- Lo so però io cosa mi costa l'_ancien régime_! Se non era, del resto,
per mamà, li avrei già piantati gli studi. Noti che il sussidio c'era, e
l'han dato a un altro che era della cricca, e valeva meno di me. Oh, ma
verrà la rivoluzione....

Ma capì subito la sconvenienza di quella parola _rivoluzione_, che gli
era rigurgitata dal cuore. Anche quel signore aveva un po' il profumo di
_ancien régime_.

Ma quel signore non si scompose. -- Fai, fai pure! Io come t'ho detto,
sono un maggiordomo, e sai? Tutti i camerieri sono partitanti della
rivoluzione.

                              *

Aquilino incontrò anche nei dì seguenti quel signore, e si diè ad
osservarlo. Vide che, contrariamente a quella sua gaiezza, se ne stava
un po' appartato dalla gente mondana, come suol fare una persona
melancònica. Chi poteva essere? Certo una persona di molto riguardo,
perchè altrimenti il conte Biancolini non lo avrebbe trattato così; ed
anche altri signori aristocratici lo salutavano con segni di amicizia e
rispetto. E quando lo vedeva ben solo, Aquilino faceva a modo del cane
smarrito e senza padrone verso l'uomo che ha usato l'imprudenza di
buttargli da mangiare, o gli ha fatto una carezza.

-- È un poco triste, mi pare, signore! -- diceva accostandosi -- Che ha?

-- No caro, triste; sto rosicchiando dei _peeck-frean_. Ne vuoi? -- E
gliene dava.

E così il cagnolino, invece di andar ramingo per la sua via, si
accostava sempre di più.

Aquilino avrebbe parlato così volentieri di argomenti serî; e lui invece
faceva bizzarri discorsi su argomenti vuoti. -- Conosci come è fatta la
specialità inglese dei _peeck-frean_? A Napoli li fanno anche e buoni, e
li chiamano _tarallucci_.

-- Sai? Sta attento, bimbo -- gli disse una volta, -- non ti accostare
troppo a me. Io sono una spia segreta dello czar.

E Aquilino non capì, cioè il cagnolino non si smarrì.

Ma una sera dovette capire.

Una sera che c'era la banda al mare, Aquilino era in istato di ebbrezza:
profumi di tuberose e gardènie; mare azzurro; e tutte quelle testoline
di àngioli, bionde o brune! Il sole tramontando fra incredìbili fulgori
estivi, aveva parlato a lui, il sole! alla sua anima giovane per
misteriosi segni: «Tu sorgi alla vita, Aquilino!» Poi, dall'altra parte
del cielo, era apparsa la luna, ed anch'essa gli aveva parlato, e
l'anima di lui si era gonfiata e tremava come le acque inargentate del
mare si gonfiano e treman d'amore verso il bel pianeta. E la banda in
mezzo al gran popolo suonava, per i clarini e le trombe; ma ad Aquilino
pareva una di quelle musiche eroiche che intònano agli uomini l'assalto
verso non so quale sublime conquista.

Ma sopra la marmorea terrazza del casino rifulgeva come un olimpo di
signore e signori.

Nessun impedimento fra quell'olimpo ed il popolo basso, fuor che una
scalea. Ed Aquilino, smarrito, sentiva il bisbiglio del popolo, vedeva
gli occhi delle donne, dal basso, rivolti verso lassù: «_Quella è la
tale; quello dicono che è il suo amante; senti quella come ride! Che
brillanti! Buscherata, che brillanti! Quella è tutta dipinta. Adesso
usa. Se ridessimo noi così!_»

Ma quell'olimpo pareva come ignorare la esistenza di quel pavimento di
popolo.

Anche Aquilino stava a guardare lassù. Egli vedeva vivi, di carne, i
deliziosi suoi àngioli. Ce ne erano tante lassù di giovinette; e avevano
anche il corpo. Oh, come bello!

Oh, i flessuosi corpi, oh, i leggiadri inchini delle teste chiomate! Ma
a chi, in quel circolo, quelle giovinette si inchinavano? A chi, come
preso e sorpreso, tutti facevano onore? A lui, al suo amico, al bel
signore, che gli aveva regalato i confetti e la cocòmera rossa. Parevano
tutti come festeggiarlo. E c'era fra quei signori il conte Biancolini, e
c'era quel melenso del suo figliuolo, il quale pur gli era debitore,
giacchè i compiti di greco (sia pur con qualche compenso), glieli
passava lui.

Come una siccità era nella gola di Aquilino e un martellare nel cuore.

Evvia, che una scalea non è insuperabile barriera per chi ha avuto un
richiamo dal sole e dalla luna! _E se quei signori sono nobili, tu che
sei in rapporti con i lucumoni, con gli arconti, coi cesari antichi, sei
pur nobile! Perchè ardire e franchezza non hai, come dice Dante?_

-- Dopo tutto -- pensò -- vado a fare un salutino a quel signore, mio
amico; e a dire _ciao!_ a un compagno di scuola.

E varcò quella frontiera.

E poi? Che cosa era successo poi? Quanto tempo era passato lassù?

Egli si ritrovò ancora giù fra il popolo basso.

Il compagno di scuola aveva arrossito nel riconoscerlo.

E lui, l'amico, che cosa aveva detto?

Aimè! non aveva detto: _signorine e signori, io vi presento questo
bravo, buono e istruito giovine._ Ma con certe sue mosse, aveva
bisbigliato: -- Guarda, guarda laggiù che ti chiamano.

E il conte Biancolini gli aveva detto:

-- Sì, carino, poverino, buona sera.

Quasi gli faceva la limòsina!

Ed egli aveva rifatto quegli scalini, scendendo con la testa in giù,
quasi barcollante.

Era stato respinto. Senza che si fossero mossi, tutti lo avevano
respinto. Lo avevano appena guardato, e con lo sguardo lo avevan
respinto.

Si ritrovava ancora giù tra il popolo basso. Ebbe la fallace sensazione
che tutti gli occhi del popolo basso se ne fossero accorti. Oh,
vergogna!

Sentiva un fischiare atroce agli orecchi: quell'orrenda parola:
_Poverino!_ Guardò i suoi calzoni e li vide. Ah, i miserabili calzoni!



CAPITOLO III.

I dèmoni.


L'estate di poi, quando Aquilino prese la sua bella licenza liceale con
tanti bei punti, ci si sarebbe dovuto mettere anche il nome della mamma
sua, perchè è vero che Aquilino studiò; e con Cicerone e con Orazio
parlava quasi a tu per tu di tutte quelle cose sublimi; ma tutte quelle
umili parsimonie, quelle minestrine col battuto, coi ceci, e tutte
quelle maglie e giubboncini pel mercante, a furia di _tic e tac_ coi
ferri da calza, li aveva fatti pur lei!

Ed era perchè tutte queste necessità domandavano la preminenza che i
calzoni di Aquilino eran rimasti corti e sgraziati tuttavia.

-- Ah, i tempi -- diceva talora Aquilino -- i tempi, mammina, che era vivo
il povero babbo, e portava dalla campagna, e uova, e formaggi, e polli!
Vedi un po', mammina, se c'è più uno di quelli che tu allora sfamavi,
che adesso ti venga almeno a trovare!

E voleva far capire a mamà che quando in casa c'era l'abbondanza, e lei
fosse stata meno caritatevole, non si sarebbe, adesso, lesinato così.

-- A te ti manca niente? -- gli rispondeva la mamma. -- No, e allora? Di
quello che faccio, so io a chi devo render conto. Caro mio, se dovessimo
tutti ragionare come ragioni tu, vedresti che bel mondo!

Su questo punto era inutile discutere con mamà.

                              *

Aquilino si rifaceva un po' la domenica quando era invitato a pranzo da
una sua zia paterna, di nome Maria Anna, la quale era rimasta zitella e
sola. Ella era una donnina un pochino povera di mente e più povera di
membra. Parsimoniosa sino allo scrùpolo, era riuscita a vivere con una
sua piccola dote: e voleva assai bene, a suo modo, ad Aquilino.
«Domenica, Aquilino -- diceva -- verrai a pranzo da me»; e faceva la spesa
grossa in quel dì, come a dire una libbra di carne; e la minestra di
passatini, e gli spinacci con l'uva passa e i pinòli, e talvolta anche
la zuppa inglese. E col lesso, traeva anche un prezioso vasetto di
carciofini.

Aquilino mangiava e lodava; ma assai più si lodava da sè la zietta. «Il
brodino vero, vedi, deve bollire adagino, adagino con il suo sèdano e le
sue erbucce; gli spinacci devono covare, covare nella teglia; e la crema
senza farina non la sanno far tutti. Vostra madre, già, non ci riesce.
Lei è tutta un _fru-fru_ quando fa da mangiare. Già, vostra madre, una
superba, una sprecona, che se avesse saputo metter da parte, adesso non
si troverebbe a dover lavorare per gli altri, e lavora anche la
domenica!»

Questo era lo scotto del desinare; ma poi c'era dell'altro: «Siete
andato a Messa, Aquilino? Già vostra madre è libera pensatrice! E perchè
leggi, Aquilino mio, tutti quei libracci, e Dumà e Sù? non sai che sono
proibiti e conducono a perdizione la gioventù?»

Aquilino protestava per Dumà e Sù.

-- Ma sì, che ti vedono in libreria, e me l'hanno detto: _quel vostro
nipote si guasta la testa! Ha certe idee._ Vostra madre vi lascia troppo
la briglia sul collo.

Povera Maria Anna! Da quando aveva dato retta ad alcuni uomini neri, che
le fecero togliere quei suoi soldi dalla cassa di risparmio per metterli
in ipoteca, che così invece del quattro avrebbe lucrato il sette per
cento, la sua pace fu perduta, perchè non vedeva più nè il quattro nè il
sette. Quegli uomini neri la accontentavano con facezie: «che bella cera
avete, Maria Anna! Beata voi, Maria Anna, che quando avete pensato
all'anima vostra, avete pensato a tutto. Ah, quei soldi? Sì, ripassate
domani». E le davano il suo a spizzico, come un'elemosina.

                              *

Aquilino in quei tempi passava -- è vero -- molto tempo in libreria -- come
avevano riferito alla zietta, -- ma non a leggere Dumà e Sù, bensì a
leggere certi autorevoli libri, non antichi e sempliciotti, ma moderni e
complicati, che parlavano della catàrsi o palingènesi, o purificazione,
o rinnovazione del mondo, prossima da venire. La verità era già in
cammino, trainata dalla potente locomotiva della scienza. Sarebbe
arrivata alle calende di un maggio luminoso.

Del che erano dispute fra lui, altri giovani e il vecchio bibliotecario,
il quale era dabbene e paziente con quei ragazzi, ma troppo antiquario
oramai.

Ma intanto che si aspettava il giorno della _purificazione_, quegli
uomini neri rubavano alla povera zietta; e il suo professore di
matematica si era mostrato senza pietà. Quanto lo aveva Aquilino
supplicato di mutare il _sei_ in un _nove_ per ottenere l'esonero dalle
tasse! «Quel rampino del sei, sia buono, lo volti in giù,
professore....»

Irremovibile come il suo virginia sul grosso faccione!

«Ah, farti mangiare tanti fagioli quanti se ne mangiavano in casa!»

E quando vedeva mamà lavorare anche fin tardi, gli veniva su un non so
che! E cominciava a dubitare se era bene che tutti gli uomini dovessero
godere dei benefici della purificazione del mondo.

Ma più lo tormentava vedere quella povera zietta, che non stava più in
piedi oramai, e andare e tornare, con quel suo velo nero in testa, per
le vie lunghe, da quegli uomini neri a limosinare il suo....

«Aquilino -- diceva la zietta -- stanotte non ho potuto dormire. Son sola
sola! Loro m'han detto che adesso i tempi sono difficili per le
ipoteche, e che se voglio vivere più sicura, dovrei far vitalizio.
Faccio bene? faccio male a far vitalizio? Aquilino! M'han detto che a
quelli che fan vitalizio, dànno poi l'acquetta per farli morir prima.
Oh, Aquilino, aiutami tu!»

E a quella parola _morire_, alla povera zietta si era deformata la bocca
in giù per la paura.

E Aquilino allora si era fatto forza: aveva imposto, sopra la sua
giovinezza, l'armatura del dovere, ed era andato lui nello studio di
quelli uomini neri, e come uomo aveva osato parlare. «Poverino! -- gli
avevan detto -- ma che ne capite voi di ipoteche?» E lui dicendo che
voleva i soldi, gli avevano detto che lui voleva i soldi della zietta
per farne bisbòccia, e che essi pagavano chi dovevano pagare, e che le
sue erano tutte esaltazioni di una testa calda.

Era uscito da quello studio con le fiamme sul volto e aveva sùbito
pensato di rivolgersi alla legge. Ma dove, ma come si prende la legge?
La legge era tutta in mano degli uomini neri, in quella sua città! E
dopo, gli venne una rabbia contro la legge, e contro i Romani che, per
quanto ne sapeva, avevano creato essi le leggi. Ed essere stato trattato
così da _poverino_, da ragazzo, lui, che nei libri si trovava in
rapporti di intimità con tanti uomini grandi! Gli venne una bile che
stava per scaraventare a terra i suoi libri latini.

Finalmente andò a sfogarsi con mamà. Nella camera dove mamà lavorava,
c'era entro una cornice vecchia di legno, dal contorno barocco,
quell'imagine di una Madonna, con un profilo bianco, sur un fondo scuro,
inclìne e dolce sul pargoletto lattante. Mamà ci teneva acceso davanti
il lumino col miglior olio d'oliva, e alcuni fiori ed erbe odorose.

Aquilino andava su e giù per la stanza e raccontava le nequizie degli
uomini neri.

-- E lasciali fare -- disse lei senza commuoversi troppo.

-- Ma è un'iniquità!

-- E se è un'iniquità? Saran loro che dovran render conto; non tu.

«_Già a quella lì!_ -- borbottava Aquilino -- _Alla Madonna col pupo
renderan conto! Eh, povera mamma! Sai quanto faresti meglio a condir di
più la minestra con quell'olio._» -- E appunto perchè gli voglio far
render conto, -- disse forte -- ; perchè, dopo tutto, quei quattro soldi
della zia dovrebbero venire a me....

-- Vedi? Vedi che c'è sempre dell'egoismo nel fondo del tuo pensiero?
Lascia che se li prenda chi vuole quei maledetti soldi. La tua strada te
la farai da per te. Ringrazia piuttosto la Madonna che ti ha dato la
salute....

-- Già, la Madonna!

-- Quella proprio! -- e mamà volge il bianco degli occhi, severi, verso
Aquilino.

                              *

Aquilino poi, di nascosto di mamà, si era rivolto a Don Malfattini, il
quale era almeno un autentico uomo nero, perchè portava un tricorno di
felpa e non unto, un mantello di seta svolazzante sino alle scarpe, e le
scarpe con le fibbie d'argento. Era un pretino occhialuto, fino come la
polvere, raso come la seta, soave come il miele, che si aggirava con
ugual sveltezza tanto tra i banchi delle Banche, come fra gli altari e i
tabernàcoli. Grande dovizia egli aveva accumulato con una sua ingegnosa
combinazione finanziaria per alleviare le pene dei poveri morti che
stanno nel purgatorio. Così che Don Malfattini aveva potuto indorare
tutte le Madonne ed i Santi della sua chiesa, fare molte opere di
beneficenza ai vivi, ed essere àrbitro delle elezioni nella città.

Non fu facile per Aquilino afferrare Don Malfattini; egli svolazzava
sempre di qua e di là in mille faccende; ma a furia di pazienza, potè
afferrarlo per cinque minuti di udienza. Senonchè quando si trovò
davanti a quei due lanternoni di occhiali e udì quella voce secca, gli
cadde il cuore. Un uomo in partecipazione di affari con Domineddio,
avrebbe dovuto possedere una meno arida voce e far segni pietosi col
volto, udendo le premesse che fece Aquilino, cioè la devozione di mamà
per la Madonna, l'olio d'oliva, i fiori, ed altre delicatezze della
pietà e della miseria.

-- Già -- rispose Don Malfattini. -- Ma ci troviamo, signor mio, di fronte
ad una pregiudiziale: la di lei riverita madre, nostra parrocchiana e
degnissima persona, gode intanto di una pensioncina di cinquantadue lire
dal Comune; ella, poi, è studente, cioè in condizione privilegiata e in
bella salute, del che mi compiaccio. Ora le nostre instituzioni
benefiche sono rivolte a speciali categorie di persone, come liberati
dal carcere, fanciulle sviate dal retto sentiero, piccoli malviventi,
deformi....

E numerando queste categorie, Don Malfattini si ritraeva col volto,
restringendo le labbra come un vecchio gatto a cui si minacciano
buffetti sul naso, e parea dire: «_Dolente, ma come vede, ella non è
compresa in nessuna di queste categorie!_»

Aquilino, benchè con la gola secca, si ingegnò di far capire che egli,
in tal caso, era in condizioni di inferiorità rispetto ad un liberato
dal carcere, ad un malvivente. Del resto lui non veniva per elemosine,
ma per un prèstito. Gli speculatori fabbricano pur le case, e vanno su
ipotecando piano per piano! Ora che un giovane per bene offrisse meno di
sicurtà che una casa di pietre?

Audace e ingegnoso il giovincello! E Don Malfattini battendo allora le
labbra a modo dei pàperi, «Eh, eh!» esclamò come approvando: -- «Ma
bisogna che mi informi, che prenda le mie referenze, il mio caro
figliuolo -- disse -- .... Ripassi, eh sì, ripassi!»

Ed Aquilino ripassò, ed imparò come sia difficile il verbo _ripassare_,
ma non ottenne niente; perchè _ma_, perchè _se_, perchè _sì_, perchè Don
Malfattini era dolente. Insomma, si possono, in via eccezionale,
sovvenzionare le teste, oltre che le case. Ma le case sono di fredde
pietre e la sua risultava essere una testa un po' calda.

Ah, meglio essere malviventi che teste calde!

                              *

Mamà, quando seppe la cosa, se ne dolse col figliuolo. «Non so -- disse
scotendo la testa un po' grigia -- perchè tu vada a levarti il cappello a
certa gente, che sai come è fatta.»

Aquilino, quel giorno, lagrimò. E c'era un così bel sole di maggio che
tutte le viole a ciocche davanti alla Madonna, nella stanzetta di mamà,
profumavano all'intorno l'aria, insieme con l'erba cedrina.



CAPITOLO IV.

L'abito «blumarèn».


Pur con queste amarezze nel cuore, oltre a le viole a ciocche, erano, in
quell'ultimo anno di liceo, tornate le rondinelle ancora sotto il tetto
della casetta di mamà, perchè era il maggio fiorito.

Oh, gran fortuna che il nostro pianeta non si fermò nel calen di maggio:
ma venne il giugno con le spighe, venne il luglio con le angurie! Neve,
viole, rondini, spighe, angurie, rose e spine, demoni ed angioli; tutte
cose che girano attorno, come le sirene delle giostre; girano,
scompaiono, riappaiono. Sono i segni zodiacali della vita.

Ma viene un giorno che scompaiamo noi, e la giostra continua lo stesso!

                              *

E allora con la cara estate, Aquilino aveva veduto ritornare ancora quel
signore dell'anguria e dei confetti.

Gli battè il cuore nel vederlo, ma insieme gli rifiorì anche lo spregio
di quella sera; e fece finta di non conoscerlo.

                              *

Fu lui che gli andò incontro, spalancando comicamente gli occhi e
alzando le ciglia: -- Se non mi sbaglio, tu sei il signor Aquilino!

No, non gli resse il cuore di tenergli il broncio, e sùbito gli si
arrese.

-- Come sei cresciuto! Ve', ve'! La peluria dei baffi e i bitorzoli della
barbetta.

Anche lui era un po' cambiato: un po' cereo, un po' imbiancato nella
barba, nelle labbra.... Però che bel signore! Con quel naso badiale, con
quell'ondulatura dei baffi, gli venivano in mente quelle figure severe
di gentiluomini che aveva visto in un quadro, attorno al trono di non
sapea quale re di Francia. Ma appena sorrideva, quella severità si
illuminava tutta. Scherzava; e il riso correva giovanilmente sulle
labbra smorte; e gli occhi vellutati ravvolgevano lui, Aquilino, con una
beninanza che gli dava un senso di piacere.

Doloroso Aquilino del contatto con la stoffa cilìcia degli uomini della
sua maligna città, si sentì sospingere verso quel dolce signore.

-- Hai ottenuto la licenza _ad honorem_? Oh, bravo, allora puoi cantare
anche tu:

    Son Perèda son pieno d'onore,
    Bacelliere mi fè Salamanca,
    Sarò presto _in utroque_ dottore....

-- Lei ha voglia di scherzare, come tutti i signori, che non hanno da
pensare a niente.... Io invece.... -- e gli raccontò allora tutte le sue
istorie, e col professore di matematica, e con gli uomini neri, e con
Don Malfattini; e anche un pochino di fame sofferta in compagnia di
mamà.

-- Oh, povero bimbo! Hai cominciato realmente un po' presto -- diceva quel
signore -- a mangiare gramigna, roba amara e cardi secchi. Ma sai? Ognuno
ha la sua porzione di cardi da consumare. Prendi intanto, prendi! Son
caramelle speciali....

-- Ci vuol altro, ci vuole, che caramelle per me, oramai!

-- To', bimbo! Non te la prenderai mica con me?...

-- Io non me la prendo con lei. Ma verrà il giorno....

-- Che giorno? Il giorno del _riscatto_? Credi anche tu alla promessa del
_riscatto_?

-- Credo nel giorno della giustizia! Li distruggeremo gli uomini falsi,
gli uomini egoisti, in malafede....

-- Ma no, bimbo, che non distruggerai niente -- disse con tutta calma quel
signore. -- Tutt'al più, quelli che adesso vedi coloriti di nero, te li
vedrai coloriti con un'altra tinta, e tu rimani grullo più di prima. E
poi chi ti dice, bimbo mio, che siano _falsi_, _egoisti_, in _malafede_?
Credi tu che esista l'uomo che la mattina, quando si alza dica a sè
stesso: _oggi voglio essere falso_, _cattivo_, _in malafede_? Troppo
onore!

Ma Aquilino digrignava i denti.

-- Del resto, se ti fa bene -- disse quel signore --, vòmita.

Realmente Aquilino aveva mangiato roba pessima. Vomitava adesso per la
prima volta, ed era lui stesso meravigliato d'aver tanta robaccia verde
nello stomaco. Oh, buon Iddio, che stai nei cieli, quanti son quelli in
questo mondo che muòiono senza aver mai avuto la gioia di poter
vomitare! Buon Iddio, prepara per loro, in compenso, bei seggi in
paradiso.

-- Adesso, vedi, che digrigni i denti -- disse quel signore (e parlavano
forte perchè il bel viale dei platani per cui andavano, era deserto; e
non c'erano che gli occhi del sole che filtravano attraverso il
fogliame, scherzando su la ghiaia minuta) -- adesso che digrigni i denti
per rabbia, ti fai vedere sotto un altro aspetto. Sai, bimbo? Se io
dovessi classificare gli uomini, li classificherei come gli uccelli; in
uccelli dal becco gentile e in uccelli dal becco ad uncino. Non si
vedono, ma ci sono! Tu, con quelle labbra a cuore, con quegli occhi
cilestri, sei, come dire? un uccello dal becco gentile. Non fai troppa
soggezione. Ma adesso che digrigni i denti, va bene. Cosa vuoi? La vita
non è pane fresco che si mangi col burro. Un po' di _morgue_, un po' di
grinta, ci vuole! Hai i denti in punta e belli, ma quel verdolino, te li
fa scomparire. Le mani sono discrete, ma non te le curi. Le unghie poi
sono un orrore! Coperte di pipite. Lasciatele crescere le unghie.
Capirai, se ti presenti così, un po' trasandato, anche se hai in corpo
tutta la sapienza di Pico della Mirandola, chi te la vede? Capisco poco
anch'io; ma un po' di malizia te la potrei insegnare.

                              *

E un altro giorno, guardando Aquilino più intensamente, così gli disse:

-- Vuoi che te la insegni un po' di malizia?

-- Ma sì!

-- Vieni allora con me.

-- Dove?

-- Dove sto io.

-- All'albergo?...

-- No, sta attento; io sono alloggiato qui, per carità, perchè sai? io
sono un conte, ma un conte _dalle braghe onte_. Oh, non lo andare a
dire!

-- Da Biancolini lei sta?

-- No, non aver paura. Da.... (e fece il nome di un nobile di quella
città).

-- Dove c'è quel gran palazzone sempre chiuso? Allora vicino a casa mia.

-- Bravo! Vieni. Zitti, zitti, piano piano, non facciam tanto rumor....

E il conte condusse Aquilino davanti ad un palazzo antico e nero, che
Aquilino sempre aveva veduto chiuso e come disabitato.

Con una chiavetta il conte aprì uno sportellino nel portone, e furono
dentro.

-- Oh, bello! -- esclamò Aquilino, compreso di gran stupore e con
reverenza, come quando si entra in chiesa.

Lo sportellino si era richiuso. Aquilino si trovò in un mondo a lui
ignoto.

Si trovò in un cortile a colonne a due a due, sottili, di marmo; dietro
il cortile riposava il verde di un giardino. Montarono per una scalea:
alle pareti sogguardavano, dai quadri, certe fronti aggrondate di
porporati e guerrieri: agli angoli, armi ed armature vere, come le aveva
viste in fantasia leggendo _La Disfida di Barletta_. Cose secolari,
silenziose, piene di soggezione. Sul cielo era dipinta la biga
dell'aurora, coi cavalli dalle giube svolazzanti.

Aquilino non avrebbe mai sospettato che vicino alle sgretolate camerette
di mamà ci fosse roba sì bella.

Stava incantato.

-- Se ti incanti così, viene mezzogiorno -- gli disse il conte.

Aquilino allungò la mano per toccare la tappezzeria di una parete.

-- È proprio seta! -- esclamò con stupore.

Si ricordò allora di quello che aveva letto nei libri positivi delle
profezie, che per creare il mondo nuovo bisognava distruggere tutto il
mondo vecchio. Che peccato, però!

Tutte quelle figure, dai ritratti, pareva che lo guardassero più
torvamente ancora.

-- Ma non ti incantare, bimbo -- ripetè il conte -- a guardare quei pupi. A
guardarli troppo, se ne hanno a male e qualche volta piangono. Sì, sì,
da vero, piangono.

Aquilino si mosse. Il conte lo condusse per una fila di stanze, piene di
libri antichi, di libri morti, di libri addormentati.

-- Quanta ricchezza! -- esclamò Aquilino.

-- Non ti scandalizzare. Libri, pupi, durlindane, tutta roba destinata a
finire dal rigattiere, bimbo. È il destino delle cose.

Arrivarono così ad una cameretta che dava sul giardino: quivi era un
letto semplice; ed era quella la camera dove il conte era ospitato dai
signori di quella casa.

-- Ed ora da' mo' retta. Vieni qui, sta zitto, non parlare, ubbidisci,
làsciati fare.

Ed il conte fece accostare Aquilino ad una teletta, sulla cui piana di
cristallo posavano fiale, spazzolini, profumi. Fece scorrere acqua,
infuse essenze, in un bicchiere e, _Suvvia, così! i denti; forte! E poi
le mani! Ancora, ancora!_ E poi con certi ferruzzi, e poi con certi
spazzolini; insomma lavorò tutto a nuovo Aquilino.

-- Ci pigli gusto, eh? Aspetta adesso che ti darò l'acqua benedetta. -- E
con uno spruzzatoio lo avvolse di un profumo assai aristocratico che
dava al giovinetto una leggerezza voluttuosa. E il conte canticchiava: --
_asperge me Yssòpo, et mundabor_, ed ora va a casa e vedremo poi: _le
vin est tiré, il faut le boire_.

                              *

Era mezzodì; mamà era sul limitare della porta di casa, e diceva:

-- Dove sei stato, che la minestra è già cotta? Ma cos'è il puzzo che hai
d'intorno?...

Ed Aquilino gli raccontò la sua avventura in quel dì, e mostrò, tutto
soddisfatto, i denti, e mostrò le mani con le unghie lavorate in punta,
senza più le pipite.

Mamà però non rimase molto soddisfatta:

-- Caro mio, bisognerebbe non aver da far niente come le signore per
badare alle unghie.... Allora deve essere proprio lui, quel signore che
ti ha mandato, ora è poco, che tu eri fuori, quel bell'abito, con quelle
belle scarpette.

-- Quale, quale? dove, dove?

-- Eh, che furia! Lo troverai disteso sul tuo letto.

Aquilino, senz'altro, corse su. C'era sul lettuccio un magnifico abito
color d'oltre mare, cupo. Aquilino lo sciorinò con stupore:

-- Proprio alla moda! E cosa deve costare!

-- Oh, per questo, lavorato come gli abiti dei signori -- spiegava la
mamma. -- Vedi le fodere? Proprio di raso. E le cuciture, e gli orli come
sono ben ribattuti. Ci poteva però mettere il ròtolo con gli scàmpoli
della stoffa. Andiamo giù a mangiare. Ti vestirai dopo.

Ma Aquilino rimase lì e si volle vestire, e quando si trovò così ben
vestito, si sentì una gran voglia di battagliare.

Aspettò con impazienza che il giorno calasse, e andò in giro per la
città. Cercò del conte ma non lo trovò. Poi dimenticò anche il conte per
un'ebbrezza vana che lo coglieva tutte le volte che passava davanti una
vetrina. Vide per la prima volta le fanciulle voltare i loro occhi su di
lui; e la sera tornò a casa col cervello in tumulto.

Non ebbe a lamentare che un solo inconveniente, perchè gli amici e i
coetanei gli si accostavano lo stesso e lo prendevano sottobraccio senza
troppi riguardi. E il nobile abito _bleu-marin_ (perchè tutti lo
chiamavano _blumarèn_), ne soffriva.

Nei giorni seguenti, prese più confidenza col suo nobile abito.

-- Be'? Cosa fai, figliuolo? -- sentì che di sorpresa la mamma gli diceva.

Aquilino, in quel momento, faceva davanti allo specchio certe reverenze
che avevano l'intenzione di essere molto aristocratiche.

                              *

Quando infine vide il conte, mosse per lanciarsi verso di lui con tutto
l'impeto della sua giovanile riconoscenza. Ma egli stupì nel vederlo,
domandò se lui era lui; ed un'infinità di sciocchezze.

Assicurò che lui non ci entrava affatto con l'abito e le scarpette.
Poteva essere il caso di un abito _réclame_, che i sarti fanno portare
ai giovani ed alle ragazze di belle forme.

Poi dell'abito non si parlò più. -- Piuttosto ci vorrebbe un orologio --
disse dopo alcuni giorni, e lo ricondusse ancora in quella
stanzetta, e da uno scrigno andava estraendo molti bei monili, così
indifferentemente.

-- Scusi, signor conte, come è che lei, che ha tanta roba, non porta
niente d'oro in vista?

-- Sei curioso, bimbo mio. L'oro intanto non conviene che ai ricchi, ed
io tale non sono: ma tu sei ragazzo, e un po' di spicco sta bene. Questa
catenina leggera vedi come rompe il colore turchino dell'abito.

Ma Aquilino, per quanto gli facesse gola quella roba d'oro, non volle.

Il conte gli sfiorò con un bacio i capelli, e non insistette più.

-- Però questa cipolla la accetterai?

Era un orologio di metallo comune.

E preso un nastrino di seta, il conte lo adattò alla sottoveste, e
diceva per conto suo: «Andando un giorno nostro Signor Gesù Cristo co'
suoi discepoli per un luogo foresto, videro rilucere piastre d'oro
fine....»

-- E Cristo non volle che le raccogliessero -- continuò Aquilino; -- e dopo
capitarono quei due amici che videro l'oro e per gola dell'oro si
uccisero sopra quelle piastre. Come è che la sa anche lei questa
leggenda, signor mio?

-- Credi di esser bravo tu solo? E poi io sono stato tirato su in un
collegio di padri Gesuiti. Ah così! ora sei _incroyable_, _pschutt_,
_select_, _vlan!_

    Prenci, duchi e ciò che ha il regno
    Di più inclito e più forte,
    Son raccolti a gran convegno
    D'Aquisgrana nella corte....

-- Però questo cappello di feltro portalo più alla brava, _sacré tonnerre
de Dieu_, come si diceva una volta. Gli occhi sono ancora puri, ma te li
sporcherai un po' per volta. E aspetta ancora una cosa....

-- Cosa?

-- La cravatta è fuori di posto. Con uno strozzino bene annodato al
collo, vedrai che ti senti più coraggio a dire la tua opinione.



CAPITOLO V.

Uccellin che spicca il volo.


Un giorno, sul finir dell'estate, il conte Cosimo disse ad Aquilino che
forse doveva parlargli di cose molto serie.

-- Dica, oh dica sùbito.

-- No, caro, sùbito. Domenica verrai a prendere la zuppa con me, al
ristorante, e allora ne parleremo.

Quando arrivò la domenica, Aquilino si vestì con tutte le regole
dell'arte, che sino allora erano a sua notizia. Era quasi
_irreprensibile_; e viene da domandarci perchè mai tutti gli uomini non
siano, innanzi tutto, irreprensibili.

-- Chi sa che bel pranzo ti farà preparare quel conte! -- gli disse la
mamma.

-- Se mi riesce, ti porterò qualche cosa.

                              *

Il conte, dopo la minestra, non assaggiò che un pochino di dolce. Se
avesse potuto, Aquilino avrebbe portato a casa quel bel mezzo pollo
arrosto che rimaneva.

-- Mangia, mangia, bimbo mio -- diceva il conte --, e non badare a me.
Quell'ala, va! mangiala pur con le mani: con il coltello vedo che non ci
raccapezzi niente. Poi, sai? Se il pollo si mangia con le mani oppure
col coltello, è ancora una questione insoluta.

Ma più che della prammatica del pollo, Aquilino era seccato dal
cameriere: un cotale, lì del paese, di sua conoscenza, e un po'
gaglioffo di professione, che d'estate, indossava il _frac_ del
cameriere nel grand'_hôtel_. Costui faceva mostra di servire Aquilino
con degnazione e gli dava del _tu_, amareggiandogli tutta la dolcezza
del pranzo. Che se non era il conte a tenerlo lontano con cenni e
monosillabi, Aquilino paventava che il manigoldo gli mettesse la mano
sulla spalla e gli dicesse qualcosa di sìmile a questa: _Che bel pranzo
abbiamo scroccato, eh, amicone?_

Bastò infatti che il conte si allontanasse un momento, perchè colui
dicesse ad Aquilino: -- C...! Vi siete fatto aristocratico! Fate finta di
non conoscere più gli amici. Eh, se anche hai quell'abito da moscardino,
va! che siamo tutti e due figli della p.... miseria.

-- Questo lo dice lei -- soggiunse Aquilino. -- Io sono, invece, come un
uccellino, destinato, forse, a spiccare il volo.

In quella, per buona ventura, era ritornato il conte, e ordinò il
gelato.

-- Di' un po' Aquilino -- principiò egli a dire --, tu che idee hai per il
tuo avvenire? Avrai già l'ambizione, come tutti i giovani, di riuscire
un grand'uomo; benchè dopo che Cristoforo Colombo scoprì l'America, e
Galileo inventò che è la terra che gira.... Curiosa, sai? io non sono
ancora riuscito a ricordare bene cos'è che gira. Certo qualcosa gira!
Basta, ti volevo domandare se sai qualche cosa di quelle due famose
strade, a capo delle quali c'era: in una, una donna troppo scarna, che
si chiamava la Virtù; e nell'altra, un'altra donna troppo..., come dire?
troppa grazia di dio in mostra: la Voluttà.

-- Ercole al bivio! -- disse Aquilino.

-- Ma bravo! Ebbene, bimbo mio, con l'andar del tempo quelle due famose
strade dell'antichità si sono un po' smarrite e confuse in mezzo alla
rete delle comunicazioni moderne. Ma ciò non toglie. Ad ogni modo,
scegliere bisogna!

Aquilino a queste parole sussultò. Sentì il palpito dell'avvenire: del
suo avvenire. Che cosa fare nella vita? Era il problema insorgente da
tanto tempo.

Seguitare a portare a spasso l'abito _blumarèn_, non si poteva e non era
bella nè degna cosa: continuare gli studi, ecco! ma avrebbe dovuto
seguitare a vivere alle spalle di mamà. _No, no! -- E poi mamà è stanca,
non può più lavorare. Devo lavorare io!_ -- Sarebbe stato contento di
imbucarsi in un impieguccio lì, nella città; ma con gli uomini neri che
allora comandavano nel Comune, c'era poco da sperare: forse quando
fossero andati su gli uomini rossi. _Benchè questo è un paesaccio!_

-- Be', senti -- disse il conte --, si sarebbe presentata una combinazione
discreta per te. Sempre se ti va.... La settimana scorsa, era qui ai
bagni una signora, mia buona amica, la quale non avrebbe niente in
contrario a prenderti in casa come precettore di un suo figliuoletto.

-- Se mi va? altro che andare! E potrei seguitare gli studi lo stesso?

-- Io dico di sì. Anzi!

-- E sarei pagato?

-- Naturalmente.

-- E alloggiato anche? e da mangiare?

-- Vuoi stare senza mangiare?

-- Volevo dire: mangiare gratis.

-- Si intende.

-- E quanto di paga?

-- Questo non te lo saprei dire: ma se si dànno sessanta, settanta lire
ad una bàlia, tu che saresti la bàlia asciutta o spirituale, prenderesti
almeno lo stesso.

Aquilino non poteva credere ad una cosa tanto bella, tanto semplice,
tanto facile che risolveva tutti i nodi gordiani della sua vita.

-- Oh, signor conte, scriva a quella signora che accetto, che mi prenda.
Sarebbe tutto il mio avvenire....

-- Caro mio, per scrivere io scriverò. Ma non mettere mica la cosa come
bella e fatta.

-- Se lei vuole! Oh, se lei vuole!

-- Eh; se volessi io! -- sospirò.

-- Ma che difficoltà ci sono, allora?

-- Ci possono essere. Senti: Io ti metterò in corrispondenza con la
signora, ecco quello che io posso fare. Scriverai poi tu. E poi bada
bene: bisognerà vedere se tu hai latte, latte buono, latte a
sufficienza. La signora è capace di far le prove. È vero che sei fresco
di studi....

-- Tant'è vero, signor conte, -- disse calorosamente Aquilino, -- che son
fresco (ma questo non lo dica a nessuno), che avevo mezzo combinato con
un tale di andare quest'ottobre a Napoli, a far l'esame di licenza per
lui. Oh, mi pagavano bene, per quello!

-- Davvero? -- disse il conte facendo una faccia severa. -- Ma sai che son
brutte cose, disoneste cose?

-- Lo so, ma anche la miseria è brutta.

Il conte a questa risposta non replicò.

-- Sarai fresco di studi, bimbo mio, ma devi sapere che le bàlie di primo
parto riescono di solito poco bene. Bisognerebbe -- aggiunse poi
sorridendo affettuosamente -- che su quella faccia da signorina tu ci
potessi appiccicare un paio di baffi più seri.

-- Ah, per quello lasci fare a me. Se voglio essere serio, lo so fare,
sì! Il più è che quella signora non sia cattiva. È cattiva quella
signora?

-- Tutte le donne son buone. Sai come dicono a Napoli? _Quant'è bbona!_

                              *

Ritornando a casa, quella sera, Aquilino faceva, per il viale, salti di
felicità. _Ti porto bene, o mamma, qualcosa di meglio che i confetti,
mamma!_

E anche la mamma fu tutta felice: un terno al lotto.

Avevano quasi paura di sperare, tutti e due.

Aquilino da quel giorno entrò in grande orgasmo. Quello che più lo
stupiva non era la cosa in sè, per quanto agli occhi suoi essa apparisse
meravigliosa; ma la inverosimiglianza per lui era che per un bimbetto si
potesse spendere tanto.

Era quasi preoccupato della borsa di quella buona signora.

E da giovane accorto e saggio, volle prendere informazioni. E non fu
difficile. Quella signora era rimasta una settimana all'_hôtel_ grande;
ed era una vera grande marchesa, _con un gran pennacchio indiamantato in
cima alla testa, una gran borsa d'oro, una gran padronanza. Aveva
un'automobile da far paura. Fra lei e quelli che eran con lei, la
spendeva cento franchi al giorno come ridere. Ordinò, per due giorni di
seguito, il pranzo per le sette, e tornò coll'automobile, tardi. Aveva
già pranzato; e il pranzo preparato fu messo nel conto e la marchesa non
fiatò_.

Ed Aquilino, dopo queste eloquenti documentazioni, non si preoccupò più
della borsa della marchesa; ma della esistenza di tanta signoria, in
questo mondo di tante miserie.

Ed allora, accompagnata da un biglietto del conte Cosimo, mandò alla
marchesa una lettera che era un capolavoro.

-- Povero bimbo! -- aveva esclamato involontariamente il Conte, leggendo
lentamente la lunga lettera.

-- Non va bene, signor conte? non va bene questa mia lettera?

-- Sì, sì, va! Mandala pure. Va anche troppo bene.

-- E allora perchè adesso ride?

-- Lo saprai quando diventerai grande.

                              *

Dopo alcuni giorni, arrivò una lettera di risposta con una gran placca
verde, fuori, e una corona impressa; dentro, una corona ancora, e certi
caratteri impiccati in una lettera di grande soggezione: la marchesa
dava il bene stare ad Aquilino, e diceva come si dovesse trovare a ***,
per San Carlo.

Il vicinato, di poi, seppe la cosa e tutte le donnicciuole si
congratulavano con la mamma di Aquilino, per quella grande fortuna:
_Mantenuto, imbiancato, stirato! e settanta franchi, che sarebbe come
dire quasi quattordici scudi il mese! Ecco cosa vuol dire studiare. Oh,
oh, oh!_ e alzavano le trèmule mani, scappando via per lo stupore, entro
i lor scialli neri.

                              *

Quell'ottobre passò: lui, Aquilino a ripassare grammatiche latine e
libri di scuola; la mamma a rinacciare vecchie camicie lise, qualcuna
farne di nuove; e calze e maglie di vera lana, fatte coi ferri, perchè
si andava contro l'inverno. Così fin tardi, al lume della lampada a
petrolio. Si parlava anche dell'avvenire di Aquilino. Mamà avrebbe
voluto che avesse studiato da medico, come il babbo e come il nonno. _La
più nobile delle professioni_, diceva lei. Ma Aquilino che si ricordava
da bimbo quando andava, talvolta, col babbo in campagna a far le visite,
era d'altra opinione. _Io non voglio fare il medico che cura i villani.
Voglio far l'avvocato che è il mestiere che fa tremare i villani._

-- Vuoi far l'avvocato? -- esclamava mamà, e lo diceva con un certo suo
far della testa, come per significare: _Per vivere di imbrogli e di
ciarle? Non c'è già quella grande avvocata nostra, la Madonna?_

_Se per far l'avvocato_, questo egli non sapeva; _ma per imparare come è
fatta quella stregonerìa della legge_, questo sì, sapeva, _già che si
deve vivere in questo mondo. E la Madonna sarà buona avvocata; ma per
l'altro mondo._

Così pensava Aquilino, ma non lo diceva per non dare dispiacere a mamà.

                              *

_Uccellin che spicca il volo_, sì; ma di giorno in giorno che si
appressava il novembre, e il dì di San Carlo sul calendario, la gioia di
spiccare il volo svaporava, e la melanconia di lasciare quel nido
cresceva. Perchè non rimanere per tutta la vita, lì, nel suo nido, senza
mutamento? Non basta che giri il sole? Gira dovunque il sole, ma in
nessun luogo adesso gli pareva che il sole sarebbe stato tepido come lì.
Abbellirlo un poco, quel nido, ecco; ma vivere sempre lì in santa pace,
in santa quiete. Aver la farina da fare il pane; comprare quella
casetta; una bella poltrona per la mamma; un po' di riposo per lei; una
vita che scorre e rinasce. Quella mamma sempre più bianca! Scrostare i
vecchi muri ammuffiti; ripulire i vecchi soffitti; ma non andare via di
lì. Una fontanella nell'orto; dei fiori, le galline che fanno l'uovo: ma
sempre quel sole, sempre il pane con quel sapore! Poi portare in quella
casa un angiolo di grazia e di vita: una bella sposina. Da lei sarebbero
generate altre vite, forse: la mamma starà nella bella poltrona. Poi
avere un cavallino ed una carrettella per andare a spasso....

E così Aquilino si affissava, come talvolta l'uomo si affissa in quei
dorati palagi che sono le nubi del sole al tramonto.

Ma se era così bello, prima, il partire!

Quante volte, al porto, vedendo partire le navi, aveva esclamato:
«Potessi partire anch'io!» Ed ora gli venivano in mente le parole dei
marinai in lor dipartita: _Addio, Addio, Addio!_ E subito il vento di
maestrale strappava, sollevando, la nave, e quelle voci _Addio, addio,
addio!_ risuonavano, strappate esse pure, con il suono dello strazio
dell'uomo.

                              *

Per la partenza, mamà preparò un dolce di latte stretto, ma fu mangiato
senza sorriso. _Son trecento chilometri; ma vi si va col vapore_, diceva
Aquilino, _e per Natale ritornerò._

Ed ella stette forte senza lagrime, sulla porta della casetta finchè lui
scomparve con la sua valigia, e scomparve la mano di lei che agitava,
_Addio, addio, addio!_

_Sulla soglia, mamma, ancora, ancora ti rivedrò._



CAPITOLO VI.

La signora marchesa.


È moltissimo interessante -- specie per chi ha tempo da perdere --
meditare quante parole vi sono per indicare le malattie dell'uomo; tanto
che se, nella tranquillità della vita uterina, si potesse leggere un
dizionario medico, all'ordine: _Làzzare, veni foras!_ si risponderebbe:
Niente affatto!

Aquilino, appena varcato il Po, e si trovò in quella città, fu preso dal
male che si chiama nostalgia, così che non solo non ammirò i monumenti
della grande città; ma non gli piacque nemmeno il pane, perchè gli parve
di altro sapore; e tutte quelle case attaccate alle case, e tutta quella
gente che vive fra le case, forse quella è una malattia.

Ma un giorno vide, con sorpresa, in uno specchio di vetrina, un ragazzo,
con un abito _blumarèn_. Ed era lui. -- Oh, che cera smarrita!... E in
quel giorno vide che passavano tre _turlulù_ con un sacco dietro le
spalle, una magliaccia, certi passacci, tre nasi a trombetta, e sei
occhiacci buttati qua e là.

-- Chi sono quei disgraziati? -- aveva domandato Aquilino.

-- Quelli sono tedeschi -- gli risposero -- che calan con l'autunno: il
primo dì han le toppe ai calzoni, il secondo han la camicia quasi
pulita, il terzo dì sono essi i padroni.

Infatti coloro non avevano la cera smarrita.

-- Non la voglio avere nemmeno io, -- disse Aquilino; e andò in cerca del
palazzo della marchesa.

                              *

Oh, il bel palazzo! Quale itinerario egli avesse seguito per scale,
corridoi, salotti, prima di arrivare dove la signora marchesa sarebbe
venuta «a momenti», Aquilino non avrebbe potuto ricostruire. Un
portinaio -- personaggio che non usava al suo paese -- lo aveva consegnato
ad un marcantonio sbarbato, con un gilè rosso e un grembiulone verde: e
stava sfregando così bene i pavimenti, che Aquilino sdrucciolò; e perciò
quando si trovò solo in un gran salotto, stette prudente nel muoversi
per non sdrucciolare una seconda volta e cagionar malestri in quella
specie di labirinto fra mobili, cristallerie, fiori, bamboccini, quadri,
libri. Invece di accomodarsi, come aveva detto quel marcantonio, si
appressò a una vetrata e lì scoperse una cosa piacevole: qualche cosa
come un giardino signorile, ma così ben pettinato che le piante gli
parevano di una botànica diversa: e dietro quel verde, una specie di
torrione. Poi gli parve che fossero già trascorsi molti di quei momenti,
e si mise a guardare per indovinar da quale porta, da quale cortinaggio
sarebbe apparsa la signora marchesa. E così girando gli occhi, s'accorse
che nel salotto non era solo, ma c'era lì, sopra un cuscino di raso, una
vaga bestia tutta arruffata; e dall'arruffio del lungo pelo veniva fuori
un brutto muso spelato e due occhi sospettosi fissi sopra di lui: un
gatto? un cane? o non piuttosto una scimmia?

Una voce, dietro le spalle, lo fece trasalire:

-- Ah, buon giorno. -- Era la signora marchesa.

Il cui aspetto rincorò Aquilino.

Non che egli credesse che la signora marchesa, perchè marchesa, dovesse
venire con la corona in testa -- come le sue lettere -- e il paggetto,
dietro, che tien su la coda: ma per quella descrizione della marchesa
_col pennacchio in cima alla testa_, si aspettava una dama di gran
soggezione: e invece gli si affacciò una figurina carina, semplice, che
scivolò con disinvoltura fra tutte quelle cose complicate.

Ella si sedette, fece sedere: e allora Aquilino ebbe davanti a sè la
signora marchesa, cioè un visetto di un grazioso ovale, un po' pallido,
incorniciato da gran capellatura nera: e due occhioni languidi. Ma
quando, dopo le prime domande di cortesia, la signora prese un
occhialetto d'oro e per qualche attimo perscrutò Aquilino, la prima
sensazione del giovane si mutò, e lasciò il posto ad altra sensazione
meno piacevole. Ed anche le parole che seguirono gli fecero uno strano
effetto: erano saltellanti, dubitose, accompagnate da una smorfietta che
voleva sembrare benevola; e con tanti _Nevvero?_, che ad Aquilino venne
voglia di dire: _Per me -- scusi -- non è vero niente affatto._

-- Io non dubito -- disse -- delle sue brillanti qualità: il conte Cosimo,
ottimo nostro amico, mi parlò di lei in modo del tutto rassicurante. Sì,
mi aveva, effettivamente, detto che lei era giovane; ma adesso mi sembra
che lei sia troppo, troppo giovane -- e pronunciò questo _troppo, troppo
giovane_ che pareva voler dire: _Io mi trovo imbarazzatissima._

Era impacciato anche lui, e seccato per quell'affare dell'occhialino che
tornava a passare su la sua persona.

-- Eh, signora marchesa -- disse con gravità impressionante --, vi sono
certi anni nella vita che contano per due.

-- Sì, capisco bene: ma specialmente è per Bobby. Non so come faremo con
Bobby.

Certamente Bobby doveva essere il figliuolo della signora marchesa,
benchè a quel nome, gli occhi di Aquilino corsero su quella vaga bestia
che stava sul cuscino.

-- Già -- fece la signora marchesa dubitosamente -- e quel _già_ voleva
dire: «oh! c'è ancora dell'altro».

Ad Aquilino veniva un po' a meno il cuore, e forse lo si capiva dal
volto.

La signora marchesa domandò di colpo risolutamente:

-- Lei intende nel tempo stesso frequentare l'Università?

-- Sì, signora marchesa. Così del resto eravamo intesi.

-- Perfettamente. E quale facoltà?

-- La facoltà di legge, signora marchesa.

-- Me lo aspettavo! Non ci siamo spiegati bene, o forse io non mi sono
spiegata. Comunque, è necessario intenderci. Nevvero?

Aquilino s'accorse di stare a bocca aperta.

-- Le dirò dunque nettamente -- proseguì la marchesa, -- che è mia
intenzione fare studiare Bobby in casa, almeno per tutto il ginnasio,
per tante belle ragioni, che adesso non le sto a dire. Gli esami, però,
badi! alle scuole pubbliche. Mi era stato, dunque, messo innanzi un
precettore di età rispettabile e con ottimi precedenti....

-- Signora marchesa -- interruppe a questo punto Aquilino vivacemente,
anche sapendo che non si deve interrompere. -- Io sono qui! -- e lo disse
assai con intenzione. -- Del resto lei prova me e lui. Si piglia un libro
greco e latino, si apre a caso e poi si vede. Per le matematiche non oso
dir tanto....

La marchesa sorrise:

-- Non si tratta di questo. Apprezzo, senza prova, il suo latino e greco.
Avevo un impegno con lei, ed ho rifiutato quel precettore. Però non le
nascondo che mi è stato più difficile rifiutare le offerte, un po'
insistenti, che mi ha fatto il senatore X***, di un suo studente di
second'anno di filologia. Nessuna prevenzione in proposito: ma non le
nascondo che il professore, il senatore X***.... Non conosce il senatore
X***?

E la domanda fu tale che rispondere di non conoscere, almeno di nome, il
celebre senatore X*** era come dichiarare di venire dal mondo
dell'Ignoranza.

-- Lei mi capisce -- riprese la marchesa. -- Se lei si inscrive nella
facoltà filologica, io posso giustificare meglio il mio rifiuto al
senatore. E poi, schiettamente; la casa è frequentata da gente di studi.
Ora lei non essendo professore, e nemmeno avviato per questa carriera,
mi pare che ci esponiamo alla critica. Nevvero? Se lei invece è
inscritto in filologia, noi siamo allora in perfetto protocollo, ed
evitiamo la critica.... Personalmente poi le dirò che mi piace molto la
sua pronuncia, e questo è già un titolo.... Bobby, in fondo, è
italiano....

Aquilino rimase un po' lì dubitoso. Studiare i poeti per i poeti, ed i
savi per la saviezza, sì, gli piaceva; ma per fare poi nella vita la
carriera del professore, non ci aveva pensato. Che cosa avrebbe detto
mamà? Per lei il maestro di scuola è sempre quello che, urlando, conduce
a casa i monelli.

Aquilino capì che il gentile _mi pare_ della signora voleva dire: _son
certa_; e quel fare dubitoso non era che una smorfia elegante.
Smorfiette inzuccherate; ma soltanto alla superficie. O prendere o
lasciare. Ebbene avrebbe fatto il volere della marchesa, per il
protocollo di lei; e per il protocollo della sua vita futura, cosa molto
seria! avrebbe studiato legge.

-- Accetta la signora marchesa?

La marchesa fece un gesto che voleva dire: _Gli interessi della sua vita
non mi riguardano, faccia lei...._

-- Già, per la facoltà di legge -- aggiunse a quel gesto -- basta la pura
iscrizione.

Dopo di che la marchesa, con una sicurezza stupefacente, entrò nel tema
così delicato degli obblighi di lui e di lei: dare ed avere.

-- E centocinquanta lire mensili. Le va?

Quando Aquilino sentì il suono di quella cifra favolosa, balzò.
«Milleottocento lire all'anno, spesato di tutto! La casetta di mamà la
si poteva avere per duemila lire, l'orto per mille. Ma io ti studio
anche veterinaria. Altro che filologia!»

-- E allora le presento Bobby, nevvero?

E la marchesa suonò su certi tastini d'avorio che aveva sottomano; e,
non so, forse perchè prima era apparso quel marcantonio rosso, e la
marchesa squillò _Bobby, Bobby!_, che l'apparso Bobby parve un
lillipuziano. Un cosino quasi trasparente, d'improvviso, era scivolato
sul tappeto, finchè giunto davanti ad Aquilino, si irrigidì, stese la
mano, lui, il minuscolo, a lui. Pareva un pupo, vestito così alla
marinara, coi calzoni lunghi a campana. Ma dove l'aveva veduto quel
cosino altre volte? Eppure l'aveva veduto! Ma sì! In quelle stampe
antiche dove c'è un pupino vestito così: il figlio di Napoleone, quello
che morì etico. Si vede che la moda torna su.

_Ma questo mimmo qui, così tristanzuolo, mi campa come un passerotto da
nido_, pensò Aquilino -- e _allora addio le mie centocinquanta lire_.
Disse poi: -- Deve essere intelligentissimo.

Bobby era immoto.

-- Ah sì, anche troppo. Proverà -- disse la signora marchesa sorridendo.

-- Forse un po' gracilino -- aggiunse lui con molta meditazione.

Ahi, ahi! Un tasto falso, dopo tanta meditazione.

-- Bobby è sanissimo -- disse la marchesa; -- e da quando ho avuto la
fortuna di affidarlo a miss Edith, non ha fatto più il benchè minimo
raffreddore.

-- Gli occhi di questo caro bambino -- disse Aquilino cercando di
rimediare -- sono così belli e profondi! Sembrano quasi melanconici....

Aquilino aveva toccato altro tasto falso.

-- Melanconico Bobby? -- disse la marchesa. -- Ah, _rigolo, rigolo_.

Aquilino non sapeva che cosa volesse dir _rigolo_, ma certo una cosa
contraria di _melanconico_. Per Dio! Stava così grave quel pupo, che
avrebbe ingannato ognuno: il quale pupo ad un cenno della marchesa,
tornò a porgere la mano; riscivolò, scomparve.

-- Io vorrei -- disse poi la marchesa quando Bobby fu scomparso -- che lo
studio del latino non lo distogliesse troppo dalle altre molte
occupazioni. Nei ginnasi pubblici li brutalizzano addirittura col
latino.

Per Dio! Aquilino era uno, esperto della montagna del latino e avrebbe
trasportato coi metodi più semplici e per belle giravolte, il suo
allievo sino al verso eroico, _qui cupit optatam cursu contìngere metam,
multa talit fecitque puer...._

Ma qui la signora marchesa si entusiasmò poco. L'importante per lei era
passare ai primi esami. Raggiungere le alte vette, cosa secondaria. Un
_grimpeur_ può, per giuoco, varcare le cime dell'_optatam metam_: Bobby
bastava che passasse sotto il _tunnel_ degli esami, alla maniera
moderna.

Ed Aquilino s'accorse che aveva commessa un'altra stonatura: le quali
erano già tre, e nel linguaggio della signora marchesa si chiamavano
_gaffes_.

                              *

«È quel frùgolo lì che io non saprò mettere a posto? -- diceva tra sè
Aquilino quando il marcantonio del cameriere lo lasciò solo nella stanza
che gli era stata assegnata. -- Ma io ti mangio in insalata!»

Gli dava quasi più soggezione quella stanza chiara: chiari i mobili;
chiaro, di metallo, anche il letto. Oh, una bella stanza! E quella
specie di sistema nervoso e vascolare che aveva? Fili per la luce, fili
per i suoni, tubi per il caldo, tubi per l'acqua. Però una bella stanza,
e che buoni materassi, e centocinquanta lire il mese!

Ma quella valigia di tela così gonfia, con quella corda in croce, che il
cameriere gli posò senza dir nulla, come era vergognosa in quella
magnificenza tutta bianca.

Povera mamà!



CAPITOLO VII.

Bobby.


Appena Aquilino fu immesso nella possessione di Bobby, s'accorse che era
lui, invece, in possessione di Bobby. Quel minuscolo essere vestito da
omino, sotto il pretesto che la signora marchesa gli aveva detto di far
vedere la casa al suo professore, lo prese subito per la mano e lo
condusse nella _nursery_ a visitare le sue bestie feroci: c'era un
leone, un cammello, un orso bianco, quasi al naturale, pelosi; e infine
l'uomo selvaggio. Erano su due file, fra scaffali di altri balocchi.

Aquilino ebbe il torto di rimanere un po' a bocca aperta.

-- Vengono tutte dalla Germania queste belve feroci -- disse Bobby.

Ad un tratto gli sgusciò di mano, saltò come un diavoletto sul cammello;
da questo sul leone; li fece andare sulle rotelle e poi botte da orbo su
tutte le bestie.

-- La prego, signorino, di cessare da quel feroce esercizio.

Ma Bobby fissò appena per un attimo il suo pedagogo, e per tutta
risposta iniziò un assalto contro l'uomo selvaggio; e calci e pugni
anche a lui.

-- Ma non va bene, signor Bobby, picchiare quell'infelice pupo -- disse
Aquilino appena cessò l'assalto contro l'uomo selvaggio.

-- È Cettivaio, re dei Zulù. E poi io non picchio: faccio ginnastica.

-- Ma se anche è Cettivaio e zulù, è sempre un uomo. La pietà è una
nobile virtù dell'uomo.

-- Ah, no! signor professore: è la virtù delle pecore.

Aquilino, alle nuove parole, contemplò Bobby come sant'Agostino riguardò
il fanciullo che gli apparve miracolosamente su la riva del mare a
spiegargli il mistero della Trinità.

-- Scusi, da chi ha imparato a dire così?

-- Miss Edith dice così.

Ed ecco il leone cominciò a ruggire, l'orso ad aprire le fauci, il
cammello a dondolare il collo, mandando un lamento spaventoso.

-- Smetta, smetta, signorino....

Bobby gongolava dalla gioia.

-- Ah, non possono smettere finchè non hanno finito la carica. Ha paura?

Non fu atterrito il buon Fabrizio alla vista dell'elefante del re Pirro,
non poteva essere atterrito Aquilino al ruggito delle bestie finte: ma
ebbe paura che in quel punto capitasse la marchesa e domandasse: _È
questo l'eteroclito principio delle sue lezioni?_

Dalle bestie, Bobby passò nel _garage_.

Quivi erano due automobili di maestà diversa, ma di uguale lucidezza.
Aquilino ebbe il torto di manifestare alcuna tenue curiosità, sì che
Bobby iniziò subito una lezione di automobilismo.

-- Signor professore -- disse Bobby dopo un po', con un fare insinuante --
, lei deve indovinare quale è il mio ideale.

-- La avverto che io non sono qui per spiegare indovinelli....

-- Sia gentile anche lei. Lei non sarà gentile con me? Il professore che
avevo prima era tanto gentile.... Allora glielo dico io quale è il mio
ideale: quando sarò grande, voglio fare il viaggio in automobile dal
Cairo a Capetown.

-- Impossibile!

-- Dal Cairo a Capetown è tutto dominio inglese, e perciò è possibile.

-- Ma chi lo dice?

-- Miss Edith. E non farò una _panne_....

-- Dica _panna_ in italiano.

-- Ma la _panna_ si mette nel thè!

La parola _panna_ eccitò il riso di Bobby.

-- Lei ride troppo -- ammonì Aquilino.

-- Io sono _rigolo_, _rigolo_, _rigolo_, come dice mamà; e poi i _bebi_
non devono essere melanconici.

Era inutile domandare di chi era questa sentenza: certo di miss Edith.

-- Dica _bimbi_.

-- _Bebi_ è più bello!

Gli faceva lui da pedagogo, ed era seccato.

-- Senta, invece che a vedere dei balocchi, mi conduca nella sua stanza
da studio.

-- È al terzo piano. Prendiamo il _lift_.

Ma Aquilino, quando si trovò davanti all'ascensore, pensò a tante
disgrazie, e volle salire per le scale.

-- Ha paura del _lift_?

-- Io non ho mai paura: ma le gambe son fatte per qualche cosa.

Passando per il salotto, c'era ancora quel bestiolo sdraiato sui
cuscini. Aquilino si guardò bene dal chiedere che bestia fosse; ma non
potè a meno di esclamare: -- Che brutta bestia!

-- Brutta? Ah, professore, uno dei cani più belli, più rari, più
preziosi: un regalo di miss Edith a mamà.

                              *

La stanzetta da studio di Bobby era semplice; ma una lindura, un
profumo, una luce che destò l'ammirazione del giovane. Però un non so
che di esòtico, di troppo ordinato gli destò come un senso di freddo.

E quanti bei libri: tutti dorati ed eguali.

-- Professore -- disse Bobby togliendo una scatoletta di metallo da una
mensola -- posso offrire? Una violetta! Sono viole candite.

-- Non mangio le viole.

-- Un goccettino di _chartreuse_....

-- Non bevo liquori.

-- Ma è un rosolio!

-- Non bevo rosoli.

-- Oh!

-- Ma questi sono tutti libri francesi, inglesi! -- disse con stupore
Aquilino. -- Non è lei italiano?

-- Sì, ma l'italiano lo so. Conosce questo bel libro, _Alice in
Wonderland_? Guardi che splendore di illustrazioni! Adesso le racconto
la storia di _Water-babies_, il bimbo inglese mutato in pesciolino....
Come? non la interessa?

(Tutte quelle cose inglesi, belle, producevano ad Aquilino un certo non
so che, come se volessero dire: «Tu, Aquilino, sei brutto»).

-- Io invece, le devo raccontare ben altra storia -- disse con gravità
magistrale: -- la storia del pesciolino che deve diventar uomo.

-- Ah sì, racconti.

E gli si accoccolò vicino, posandogli la manina su le ginocchia.

-- La mano, giù! -- disse Aquilino.

Bobby meravigliato, ritirò la manina.

-- È una storia divertente?

Aquilino lo ammonì che occorrevano anni molti e molta fatica per mutare
il pesciolino in uomo.

-- Allora è meglio restar pesciolino.

A vedere quel mimmo diafano, con quei due occhioni, veniva da
accarezzarlo.

                              *

Poco dopo Bobby spargeva ai quattro venti che il nuovo professore aveva
paura del _lift_; aveva chiamato brutta la più bella delle bestie; era
il protettore di Cettivaio; diceva che l'automobile _fa la panna_.

Fu la stessa marchesa che ne informò Aquilino.

-- Noi stessi dobbiamo stare in guardia, davanti a Bobby. È terribile!

-- Ma lei, caro Robertino, dice tutto!

-- Ah sì, io vedo tutto, e dico tutto.

Subito dopo, altra strabiliante notizia: il professore gli aveva mutato
il nome: lui adesso si chiamava Robertino e niente Bobby.

-- Ma lei mi spìffera tutto! -- rimproverò Aquilino.

-- Dico quello che sento. Non dire mai bugie e lavarsi! Ecco la vera
educazione -- disse Bobby.

Aquilino rimase lì, stupito davanti a quell'assioma. Voleva domandare di
chi era. Certo di miss Edith.



CAPITOLO VIII.

Le vie della pedagogia.


Il cameriere addetto alla persona di Aquilino era un vecchietto serio il
quale camminava su scarpe di felpa: e doveva esser lui che gli faceva
trovare le scarpe lucenti, i calzoni delicatamente posati, l'acqua
calda. Sensazione -- senza dubbio -- gradevole quella di essere così ben
servito.

Tuttavia considerando che le sue scarpe ed i suoi indumenti personali
cadevano sotto l'esame di un cameriere di tanta finezza, sentì la
necessità di rivolgergli questa avvertenza: -- Sappiate, ottimo uomo, che
la mia guardaroba più bella e più nuova, è in viaggio e deve ancora
arrivare.

«Effettivamente è in viaggio -- disse Aquilino a se stesso. -- Anch'io
sono nel viaggio della vita; e se tutto andrà bene, spero di finire con
un'eccellente guardaroba.»

Ma non solamente quel cameriere era silenzioso; ma tutto in quella casa
procedeva con ordine silenzioso; e Aquilino, lì per lì, si domandò se,
per avventura, non fosse un privilegio delle grandi case quello di
andare avanti così bene per effetto di un moto proprio.

Ma non tardò molto ad accorgersi che tutto quel macchinario ubbidiva ad
una volontà, cadeva sotto un'invisibile sorveglianza.

Donna Barberina!

E allora venne anche a lui gran soggezione di quella delicata donnina
della marchesa: quasi un po' di paura.

In realtà egli era lasciato solo con Bobby; ma aveva la sensazione di
sentirsi la marchesa presente.

Davvero terribile quel Bobby! e di un ordine così meticoloso che
Aquilino da principio non sapeva che dire. La penna va tenuta così, i
quaderni vanno disposti cosà. Un segno con la penna nei libri? _Ma lei,
professore, sporca i libri! La finestra non si può aprire, altrimenti la
temperatura scende sotto i trentasei Fahrenait._

Inutile domandare di chi erano queste norme. Certo, di miss Edith.

Almeno fosse stato fisso lui! Che! Pareva che avesse una molla nel
piccolo sedere, e ogni tanto interrompeva con una domanda, con una
ricerca nel dizionario.

E intanto la lancetta della gran pendola arrivava al sessantesimo
minuto, e Bobby, con una percezione perfetta, riponeva libri e quaderni.
La maestra di piano attendeva per la lezione di piano; doveva andare
alla cavallerizza; doveva arrivare il venerabile prevosto per la lezione
di religione.

E quando Bobby non scattava, era un fuoco di fila di domande: _È vero
che i Romani non avevano il fazzoletto? Come fecero i Romani a
conquistare il mondo se dovevano imparare il latino? È vero che Enea
partì da Troia col papà su le spalle? No, me lo dica! Oh come è cattivo!
Lei? non mi vuole spiegare niente._

Bastava inoltre che Aquilino si lasciasse sorprendere da una naturale
curiosità, perchè il piccolo Bobby vi si insinuasse pronto a dare tutte
le spiegazioni di cui Aquilino sembrava avere bisogno; dal _five
o'clock_ al _plum-cake_; dal _tennis_ ai corti circuiti della luce
elettrica; ad un indovinello da risolvere. Quel _faivoclòc_, così
ripetuto, era poi la parola più irritante. Gli pareva il verso di un
gallinaccio.

Ad Aquilino qualche volta veniva da sorridere alla vivacità del
fanciullo. Ma bastava il baleno di un sorriso. Era bello che fritto!

-- Scusi, professore, ma se ride anche lei!

E Aquilino si persuase che la prima cosa era non sorridere.

-- Creda, Bobby -- disse Aquilino -- per imparare qualche cosa è necessaria
una certa immobilità. Come potrebbe un chicco....

-- Chicco? Mai inteso dir _chicco_.

-- Sì, _chicco_; dico _chicco_ e basta! Come potrebbe un chicco di grano
germogliare se le particelle della terra fossero di continuo agitate
come fa lei? I grandi savî li vedrà sempre immoti e pensosi. -- E detto
questo, Aquilino cercò attorno una esemplificazione di una umana
immobilità: ma le pareti non offrivano che quadretti di agitazione e di
moto; volpi, messe in fuga da bracchi bianchi; cavalieri, in abito
rosso, in fuga a saltar siepi; automobili in fuga; tacchini
grottescamente in fuga. Non c'erano altri esempi.

-- Ah, ecco, come quel santo che mi pare sant'Antonio abate --, perchè
infine aveva scoperto una figura ferma fra tutti quei personaggi in
moto.

-- Sant'Antonio? Ma quello è Jesus Christus -- disse Bobby.

-- Impossibile, signorino!

Infatti Cristo, secondo le comuni cognizioni, fu un piagato, nudo e
doloroso uomo; quello lì, invece, era paffuto, composto, pudicamente
vestito con un bel manto, e con un sorriso pieno di compiacenza.

Naturalmente Bobby scattò, staccò il quadretto e spiegò:

-- È un Cristo inglese, il regalo di miss Edith per Natale.

-- Mio caro Bobby -- disse Aquilino -- non discutiamo se quello è o non è
Cristo. Pensi piuttosto ad una cosa: lei è ricco, nobile, intelligente:
lei ha davanti a sè un avvenire invidiabile. Che cosa domandiamo noi a
lei, adesso? Nient'altro che un po' di fatica; di ben intesa fatica, sa?
e un poco di immobilità.

-- _Nello_ sport _sì, la fatica! Ma nello studio!_ Ma in Inghilterra i
bebi -- disse -- imparano più che in Italia, e non fanno mai fatica....

-- Creda, Bobby, senza fatica non si fa nulla, anche in Inghilterra. -- Ed
Aquilino parlò alte e commoventi parole che mai Bobby aveva udite:
_Davanti alla gloria dell'uomo gli Dei avevano posta la fatica! La
fatica e il dovere, Bobby! Persuadersi di un dovere, Bobby! un alto
dovere morale! Ecco aperta, Bobby, la via della vera grandezza! Lavarsi,
non dir bugie, giocare alla pallacorda...._

-- Al _tennis_....

-- Al _tennis_, come vuol lei; ebbene tutto questo sarà molto inglese, ma
è troppo poco! Occorre una più nobile igiene.

Ed Aquilino fece allo stupefatto Bobby la figurazione di un Bobby
divenuto grande veramente.

E dopo la figurazione, venne la ricerca delle vie del cuore, e con la
mano blandiva quel pomino nero e lucido che era la testa di Bobby, e
stava per suggellare le sue parole con un bacio paterno, quando Bobby
scattò:

-- Non sa lei che nei baci ci sono i micròbi?

Doveva essere un'opinione di miss Edith.

Ah, invece della via del cuore, cercar la via del.... sedere dove c'era
la molla e dargliene tante, ma tante! E poi dirgli: _lei è un viziato,
petulante fanciullo; e la sua curiosità è una stupida curiosità._

                              *

-- Signorino -- disse un giorno --, io la preavviso che d'ora innanzi,
qui, con me, non si parlerà che di cose grammaticali: ogni altro
argomento resta assolutamente abolito.

Ma Aquilino aveva fatto i conti senza Bobby, il quale iniziò un
questionario grammaticale.

Volea sapere se si dice _zolla di zucchero_ o _pezzetto di zucchero_, se
si dice _mòllica_ o _mollìca_, e perchè! se si deve scrivere _tè_,
_tea_, o _thé_, e se i versi belli sono quelli lunghi o quelli corti; e
perchè in italiano c'è il _tu_, il _voi_, il _lei_, e di chi è il verso
_appena vidi il sol, che ne fui privo_. -- Lei non lo sa, non lo sa!

Aquilino si sentiva stringere come da un nodo maligno da parte del
piccolo demonio. La coercizione poi di pesare ogni parola, di esprimere
il contrario di quel che pensava, si presentò come una fatica non
calcolata nel suo nuovo ufficio. E d'altra parte darsi per vinto davanti
a quel minuscolo personaggio, irritava il suo amor proprio.

                              *

Stava una mattina meditando tristamente a quale genere di pedagogia
avrebbe potuto ricorrere, quando i suoi occhi caddero su la propria
imagine, riflessa nello specchio.

Si era messo un nuovo abito nero, a lunghe falde, che il popolo, nel suo
paese, dicea _giacchetto coi prosciutti_; e s'accorse che il suo aspetto
era elegante; ma lugubre. Lugubre! _Non mi resta che camuffarmi da uomo
lugubre. Se le mie labbra giovanili avranno la virtù di non sorridere
più, io sarò salvo. Sarò un pessimo precettore, ma sarò salvo._

Bobby, appena gli si presentò Aquilino vestito di nero, iniziò un fuoco
di fila sul _frac_, la _financière_, lo _smoking_.

Aquilino era una statua nera: -- Prima declinazione, caso nominativo:
_rosa rosae_.

Si impegnò allora un duello feroce.

Aquilino, immobile come il destino nero, non si partiva dalla mossa,
_rosa rosae_. E la antica povera _rosa_ girava, ed Aquilino presentava
la punta della spada dei sei casi. Bobby assaliva alla maniera disperata
dei selvaggi: -- Lo dirò alla mamma, lo dirò a miss Edith quando verrà!
lei mi vuol fare ammalare! Almeno un po' di riposo, un'oasi. Ma mi
spieghi almeno! Tutti i professori spiegano!

Le punte dei sei casi erano inesorabili. Sessanta minuti feroci, un
rosario di casi. Bobby, esterrefatto, snocciolava i casi.

Quando la lancetta dell'orologio segnò il sessantesimo minuto, Bobby
scappò.

-- La bestia mi pare domata -- mormorò il giovane asciugandosi il sudore.

                              *

-- Ma almeno una spiegazione -- supplicava Bobby alle lezioni seguenti. --
Io lo dirò alla mamma, sa?

-- Lo dica a chi vuole. In questo momento io sono il re, l'imperatore.
Finchè lei non saprà tutti i casi di tutte le declinazioni, io non darò
una spiegazione. Soprattutto nessuna discussione: quello che dico io è
assoluto, indiscutibile. Io ho sempre ragione. Io sono superiore a lei
di cento gran cùbiti.

Aquilino sudava, ma respirava.

Ma il respiro della più grande soddisfazione lo trasse un giorno che
Bobby con grazia irresistibile, disse:

-- Professore, adesso poi le devo dire una cosa....

-- Non ascolto cose.

-- Si tratta di un fatto personale.

-- Non esistono fatti personali.

-- Esistono, perchè io lo facevo apposta.

-- Che cosa «apposta»?

-- A interrompere ogni momento. Con il professore che veniva prima di
lei, mi divertivo tanto....

-- Lei si divertiva?

-- Ah, tanto! Lui mangiava tutte le violette.

-- Non ascolto queste cose; lo dirò io alla sua signora mamma.

-- Oh, mamà lo sa. La colpa era di quello là che non sapeva farsi
rispettare.

Ah, piccola canaglia, ti dovevi provare con me!



CAPITOLO IX.

La confusione dei casi.


-- Faceva anche l'alpinista su le spalle di quel disgraziato maestro, e
sì che a vederlo pareva un uomo serio, -- disse il grosso cameriere ad
Aquilino. -- Ma con lei ha trovato il duro, ed anche con me....

Questo riconoscimento dei propri meriti da parte della servitù tornò
molto gradito ad Aquilino: ma avrebbe anteposto le lodi di donna
Bàrbera.

Queste non vennero.

Una bella mattina invece capitò donna Bàrbera in persona ad assistere
alle lezioni.

Ohimè! In quella occasione accadde ad Aquilino un fatto del tutto
insignificante, ma anche seccante.

Donna Barberina vestiva un semplice abito da mattina. Entrò nella stanza
da studio con un _prego_, cioè _prego di non interrompere_, anzi prese
ella stessa uno sgabello. Si sedette. Da una specie di corsaletto di
pizzo candido, usciva la sua testolina dai capelli ròridi e bruni. Le
mani delicate di lei, con qualche baleno di gemme, lavoravano non so
quale lavoro. Ciò voleva significare: _io seguito il mio lavoro, lei può
seguitare il suo._ E allora accadde quel fatto deplorevole. Perchè si
presentava in quella mattina, così bene, l'occasione propizia di
sbalordire la marchesa con i progressi di Bobby. Se non avesse voluto
lodare, non importa! L'importante era che ella fosse rimasta sbalordita,
cioè avesse visto che razza di precettore aveva preso in casa; altro che
quelli che le erano stati proposti! Ah, troppo giovane lui? Avrebbe
visto ora la signora marchesa come lui era riuscito a domare il
cavallino Bobby! Al trotto! al galoppo! di salto! Oplà! in piedi, giù!
Piroletta! E lui il maestro fermo, con quell'abito nero, freddo,
impassibile: appena un comando, come fa il domatore del circo, che
accenna. Appena un ondeggiar della frusta.

E invece? Ahi, giovinezza!

Perchè in grammatica vi è una tal cosa della quale non si può far senza;
e se non si è sicuri, non si può procedere innanzi bene, perciò è cosa
importantissima: distinguere cioè quale è il caso nominativo o soggetto,
e quale è -- invece -- il caso accusativo, o l'oggetto. Una cosa, del
resto, elementare e facilissima. E a furia di esercizi, Aquilino ci era
riuscito. Ora si trattava di farne il saggio.

Perchè è evidente: se per esempio io dico: _Bobby bastona il povero
Cettivaio_, Bobby è il soggetto e il povero Cettivaio è l'oggetto.

E sin qui il cavallino saltava che era un piacere.

Ma quella mattina, Aquilino ebbe la mala idea di volere approfondire
quell'affare così semplice.

-- Se invece, io dico: _Il povero Cettivaio è bastonato da Bobby_, ecco
Cettivaio che, alla sua volta, diventa lui il soggetto.

Anche a questo punto il piccolo Bobby avrebbe dovuto ricordarsi che
tutto quello che il maestro diceva era assoluto, assiomatico,
indiscutibile.

Ma quella mattina non se ne ricordò.

Se _Cettivaio è bastonato da Bobby_, il soggetto vero rimaneva sempre
Bobby, perchè era sempre lui che seguitava a compiere l'azione di
bastonare. E perciò egli, Bobby, non condivideva l'opinione del maestro
che Cettivaio avesse potuto con tanta facilità diventare il soggetto.

Alla obbiezione del suo dolce rampollo, Aquilino scorse gli occhioni
della marchesa che si sollevavano lenti e con compiacenza dal suo
lavoro.

-- Ma no, caro ragazzo, che Cettivaio è il soggetto!

-- Finchè io sèguito a bastonare, creda, professore, che il soggetto
rimango sempre io.

-- Per accontentarla, Bobby, diremo che nell'esempio su riferito,
_Cettivaio_ è un soggetto così, per apparenza....

-- Allora -- scattò Bobby -- vi sono due soggetti....

Accidenti anche a Bobby!

-- Non entriamo nel difficile, caro Bobby -- disse poi. -- Lei per ora si
persuada che in grammatica Cettivaio è il soggetto....

-- Sarà, ma nei fatti, io sono il soggetto perchè io picchio. Chi picchia
è il soggetto.

-- E poi creda, Bobby -- aggiunse il maestro per abbandonare quel
groviglio tra la _realtà_ e la _grammatica_, -- non va bene bastonare il
povero Cettivaio.

Ma così dicendo, un terzo elemento, la _morale_, si complicava con gli
altri due elementi in conflitto.

Donna Bàrbera, che avrebbe dovuto dargli un po' d'aiuto, era tornata al
suo lavoro, con le grandi ciglia chine.

-- Professore, scusi, ma dovrò forse io farmi bastonare da Cettivaio? --
disse Bobby.

Aquilino ebbe la sensazione che fosse molto caldo in quella stanza: al
di là dei trentasei gradi Fahrenheit.

Ma come mai, quella mattina, si era fatta così difficile la questione,
sempre così facile, del _soggetto_ e dell'_oggetto_?

Con un lampo geniale, Aquilino pensò di abbandonare Cettivaio alla sua
sorte, e cambiare paradigma. Ma strana cosa! Mentre, prima, gli esempi
zampillavano a bizzeffe, ora i canali dell'intelligenza gli si erano
come otturati; e sentì egli stesso, con una specie di terrore, che le
sue labbra avevano già proferito questo spaventoso paradigma: -- _Io amo
la mamma._ Rivolga al passivo!

E la voce di Bobby suonò tranquilla: -- _Il professore è amato dalla
mamma._ Scrivo su la lavagna?

A quel punto parve ad Aquilino che le grandi ciglia di donna Barberina
si riscotessero; e come una lacerazione per una inverosimile goffaggine
gli entrò nel cuore.

Ahi, giovinezza! Invece di rispondere a Bobby tranquillamente: _sì,
scriva su la lavagna_, corse ai ripari, moltiplicando altri esempi,
cercando di soffocare sotto innumerevoli altri esempi quel paradigma che
emergeva lucido e spietato: _Io amo la mamma!_

Arrossiva; e arrossiva dal rossore. Discese nelle profondità
grammaticali, lanciò in una specie di fantasia moresca i verbi neutri, i
verbi riflessi, i verbi recìproci: tutta una mirabile confusione per cui
il nominativo e l'accusativo si complicavano nella maniera più
filosofica. Riuscì, insomma, a fare una bellissima lezione.

Donna Bàrbera, volgendo gli occhi alla pèndola, si levò allora in piedi,
e troncò la lezione. Si rallegrò con Bobby perchè aveva un professore
così bravo ed entusiasta per la grammatica.

Atteggiò le labbra alla sua smorfietta e -- Lei ci ha fatto stare venti
minuti di più -- disse. -- Non credevo che una lezione di grammatica
potesse riuscire così interessante.

Stese la mano ad Aquilino, e per quella sensazione di freddo, al
contatto della mano della marchesa, egli capì che si era riscaldato
enormemente.

-- Ha compreso bene, è vero, Bobby? -- domandò quando la marchesa se ne fu
andata.

-- Io? Non ho capito niente.

-- Niente?

-- Niente del tutto! Stavo attento a lei. Lei dice che sono io che non
sto mai fermo; ma oggi non stava mai fermo lei. Saltava qua e là.
Prenda, professore!

E Bobby offrì un suo càndido fazzoletto perchè si asciugasse il sudore.

                              *

Lo spettacolo era riuscito tutto l'opposto delle previsioni: il
cavallino era stato fermo, e il domatore aveva saltato, lui.... Per
giunta il passivo di _io amo la mamma_, era: _la mamma è amata da me_. E
Bobby aveva detto invece: _il professore è amato dalla mamma_. Orrore! E
non se ne era accorto.

Ahi, giovinezza!

Le apparizioni della marchesa alle lezioni si fecero più rare, e
lasciarono il posto a miss Edith.

La presenza di miss Edith complicò qualcosa di più che i casi della
grammatica.



CAPITOLO X.

Miss Edith.


Questa miss Edith, la quale rappresentava la più severa pedagogia
applicata al piccolo Bobby, non era -- come Aquilino si era da prima
pensato -- un'arcigna signora, di venerabile età, fornita di dentiera e
di occhiali; ma una giovanetta, quasi; senza occhiali e con occhi
cilestrini. I suoi denti erano così tersi che rimase in Aquilino la
curiosità di sapere come si facesse ad avere denti così bellissimi. E
tutta ella era mirabilmente tersa.

Mai al suo paese aveva visto simili denti e tanta mondizia. Può darsi
che ci fosse anche stata; ma è vero che al suo paese mai gli era
capitato di trovarsi così da presso ad un angiolo della terra da poterlo
osservare come gli accadeva ora con questa miss Edith, nei venti minuti
che durava la colazione, e nei trenta minuti del pranzo.

Ella aveva fatto ritorno dopo qualche tempo che lui era in quella casa,
ed era stata accolta da donna Barberina come una della famiglia.

L'età che miss Edith poteva dimostrare era in sui vent'anni.

Il colore dei capelli, bizzarramente composti, si fondeva con la
compostezza del volto: un volto chiaro, d'una chiarità ferma e sana;
interrotta da quei due squarci azzurri e un po' stupefatti degli occhi;
e dalle vive labbra, terminanti in due lievi ghirigori, qua e là su le
gote, le quali si riunivano nel bell'ovale del mento. Vestiva adoràbile
e semplice; semplice e misurata nei gesti; ma quando rideva, svelava una
perturbante infantilità; ed anche le gonne, un po' corte, le conferivano
alcunchè di più giovanile che non fosse per gli anni.

Strana creatura! E più la vedeva, più gli pareva strana. Da dove veniva?
Dalla Scozia. Ma lui avrebbe detto: da un bagno lunare.

                              *

Nei primi tempi, il sedere a tavola con quelle signore era stato per
Aquilino una cosa più adatta a levar l'appetito del cibo che a
soddisfarlo. Gli pareva di essere osservato nelle mani, nei diportamenti
verso la forchetta, verso le salse, verso il pane, verso il cameriere in
guanti bianchi.

Stando però attento, e, sorvegliandosi, qualcosa aveva imparato; ma non
mai sarebbe potuto arrivare alla perfezione con cui miss Edith mangiava.
Mangiava con la grazia con cui una capinera bèzzica qua e là.

Ogni tanto un sorriso a destra su la spalla destra; ogni tanto un
sorrisino a sinistra su la spalla sinistra, accompagnato da un lieve
chinar della testa, e quelle parolette, _yes_, _please_, _merci_,
_grand-merci_, _s'il vous plait_. Però, bèzzica qua, bèzzica là, ella
mangiava più che non paresse. Con Aquilino era gentile, ma parlare....
oh, quanto a parlare era inutile! _Do you speak english?_ -- aveva
chiesto -- _Noh? Allemand? Nooh? Francesse?_

Ahimè, no! Nemmeno _francesse_! Cioè lui avrebbe parlato, caso mai, il
francese con la stessa grazia con cui lei parlava italiano. Pareva il
verso di una pavona quando la parlava italiano, con la differenza che
lui non si azzardava, e lei metteva fuori quel poco di italiano che
sapeva, con tale impudenza che Aquilino ne provava scàndalo e sdegno. E
ci rideva per giunta come di compiacimento.

_Uno di noi due_ -- meditò Aquilino -- _deve appartenere ad una razza
inferiore._ Ma per quanto ella non desse a vedere, Aquilino si persuase
che miss Edith aveva il convincimento di appartenere lei ad una razza
superiore.

Per fortuna c'era Bobby a tavola! Con la venuta di Aquilino, soltanto --
cioè con l'ingresso al ginnasio -- egli era stato ammesso alla tavola.

_Quando stanno come si deve, e non versano il vino su la tovaglia,
quando non mettono le mani sul piatto, e non si rimpinzano, sono pure un
ornamento della mensa i bimbi!_

Così pensava e così aveva detto Aquilino.

-- Oh, no! non i _bebi_ a tavola coi grandi -- aveva detto miss Edith. Era
un complesso di ragioni pedagogiche ed igieniche che miss Edith non
riuscì a spiegare, e allora era intervenuta donna Bàrbera a spiegare,
cioè che Bobby -- prima -- faceva un lieve pasto già alle quattro, poi un
altro lieve pasto alle sette; qualcosa come latte, burro, miele, un
panino lieve, poi il bagno della sera, poi a letto.

Miss Edith assentiva con tanti graziosi _Yes!_, perchè quando parlava
inglese con la marchesa, era proprio graziosa, e la sua voce correva
imperiosa e veloce come su la tastiera di un piano, in una sala ducale.

_Ho capito_ -- disse fra sè Aquilino -- _io e la mia pedagogia passiamo in
second'ordine. Non c'è niente da fare!_

Però gli seccava. Specialmente vedersela mandata lì, a sorvegliare le
sue lezioni! Ad onor del vero, miss Edith assisteva alle lezioni come se
non ci fosse. Se ne stava silenziosa, rigida, con un libro straniero o
anche con un lavoro. Solo qualche volta aiutava Aquilino con un --
_Bobby!_ -- di avvertenza, che dal tuono basso della prima sìllaba,
saliva ad un gorgoglìo un po' buffo della seconda sillaba. Indubbiamente
Bobby aveva soggezione di miss Edith, più che di lui.

_Guarda mo'_ -- meditava talvolta Aquilino --, _tanta pedagogia in una
creatura così!_ E non riusciva a combinare tanta pedagogia con quei
capelli quasi barbaricamente intrecciati; con quella gran turchese alle
dita, e quelle unghie di rosa.

_È proprio bella questa ragazza_ -- disse una volta a se stesso, quasi
con terrore, -- _e mettermela così, sempre davanti, è una vera crudeltà
della marchesa. Cos'è poi adesso tutta questa sorveglianza?_

Alle volte gli veniva questo mostruoso pensiero: _Pedagogia_ (cioè, miss
Edith) _senti: Poterti fare emettere uno strido di passione! Voce di
pavona, devi tubare, languire come una tòrtora!_

Alle volte, in quegli occhi cilestri, gli pareva di leggere questa
scritta strana: _Non ci badare, fanciullo! La pedagogia che ti
impressiona in me, è come la toga che veste il magistrato. Fuori
dell'aula, esso è un uomo come un altro. Desiderate voi che mi tolga la
toga?_

Erano tutte fantasie dei suoi sensi.

Ella era una stupida, meticolosa pedagòga; e lui, uomo e italiano,
soffriva a stare sotto quella pedagogia, sotto quel gesuitismo anglicano
e femminile.

Odiava i suoi _Water-babies_, i suoi libri policromi e stranieri, il suo
_Christmas_ panciuto. Avrebbe strozzato il suo cane; avrebbe rimesso sul
trono il povero Cettivaio.

A volta pensava: _Finchè è la marchesa capisco; ma come fa lei, che dopo
tutto è una povera ragazza come me, che ha lasciato la sua casa, la sua
famiglia, per guadagnarsi la vita, ad avere tanta aristocrazia?_

Ma poi non si spiegava la gran dimestichezza con la marchesa. Le aveva
intravviste che fumavano sigarette.

_Una donna fumare, anche in casa, non sta mai bene!_

Ricordava questa frase di mamà. Certo una sciocchezza di mamà.

Eppure gli aveva fatto una grande impressione. E anzi, un giorno, aveva
esaminato una scatola di quelle sigarette tùrgide e ricche. Ne tolse
una, l'accese in segreto, e gli parve che se ne svolgesse qualcosa di
velenoso che gli dava alla testa. _Non bevono vino, e poi fumano questa
roba che dà alla testa!_

                              *

La presenza muta di miss Edith alle lezioni produsse il curioso effetto
di eccitare Aquilino all'esaltazione della virtù. E siccome doveva
spiegare a Bobby la storia romana, così esaltò le virtù dei Romani; la
virtù di Muzio Scevola, di Bruto, di Fabrizio, di Quinzio Cincinnato: e
più precisamente la loro incomparabile modestia, il loro sacrificio
verso la patria, la loro adorabile semplicità. E parallelamente alle
virtù dei Romani, esaltò le virtù delle donne romane, la loro spaventosa
pudicizia, la loro sottomissione, la loro abilità nel filar la lana; e
che dove le donne sono così ùmili, gli uomini crescono grandi e tremendi
a modo di querce, e viceversa!

Era come una provocazione a miss Edith; ma lei rimaneva impassibile.
Forse non capiva niente.

Aquilino stesso si trovò maravigliato del suo entusiasmo per la virtù.
Ma la virtù delle incomparabili estremità di miss Edith, che si
intravvedevano benissimo sotto il tavolo, davano ad Aquilino i furori
eroici, specialmente in confronto delle virtù della Vergine Camilla,
della Vergine Clelia, della Vergine Virginia che, forse, andavano
scalze.

Bobby invece si interessava piuttosto di sapere come aveva fatto Muzio
Scevola a tenere la mano sul fuoco, e se era vero che i Romani
mangiavano rimanendo sdraiati, e se era vero, oibò!, che mangiavano
pigliando dal piatto con le dita.

-- E la conseguenza -- veda Bobby -- di tutte queste virtù dei Romani è
stata la conquista del mondo, dall'Oriente alla Britannia, che è
l'odierna Inghilterra!

Allo scoppiare di questo epifonèma, Bobby osservò che le virtù dei
Romani dovevano essere passate, almeno in misura doppia, negli Inglesi,
in quanto che gli Inglesi possedevano adesso un impero che era il doppio
di quello dei Romani.

-- Pensi che Cesare è sbarcato in Britannia! -- disse allora Aquilino con
voce gravida di minacce, sperando di commuovere miss Edith. Ma miss
Edith non si commosse.

Bobby però scattò e protestò vivamente. -- Nessuna forza del mondo può
invadere l'Inghilterra!

All'interruzione, la mano di miss Edith si levò: -- Bobby, quando il
maestro parla, voi non dovete parlare.

Ma la pupilla di lei ravvolse il fanciullo di un lampo di tenerezza.

                              *

Quando però la presenza di miss Edith mancava -- e nelle belle giornate
invernali mancava spesso -- le lezioni cadevano in tono molto minore.

Fu lo stesso Bobby che fece osservare la cosa al maestro.

-- Quando c'è miss Edith, lei fa la lezione che assomiglia al poeta Emme,
nostro amico di casa, quando tiene le conferenze. Solo ci manca lo
_smoking_ e la gardenia.

Il miserabile Bobby! V'erano momenti in cui Aquilino era preso da
Bobbyfagia. Lo avrebbe strangolato!

E non solo cantava meglio, ma anche ammutoliva in presenza di miss
Edith, come in quel mattino invernale che miss Edith era apparsa nello
studio e scomparsa, subito. Ella tornava dal suo sport preferito, con
donna Bàrbera: il pattinaggio. Ella e la marchesa erano brinate come
mandorli in fiore: la chioma era chiusa entro un berretto di vaio; un
robone candido scendeva, deliziosamente goffo, sino alla caviglia. Dalla
mano di miss Edith pendevano i lucidi pattìni d'acciaio. Sul seno, rame
di calicanto. Acciaio e gelo e fiori del gelo!

Era apparsa e scomparsa, insieme con donna Bàrbera.

Ma rimanevan lì, nello studio, da sottili vasi, altri rami di calicanto,
il fiorellino dal penetrante profumo: il fiore del gelo. E quel profumo
continuava l'imagine di lei, di loro, le belle femmine.

La volontà della marchesa rinnovava fiori nei vasetti, violette candìte
nelle scatolette. Sul davanzale della mamma, invece, fiorivano le viole
a ciocche secondo lor tempo, cioè in primavera; lì in ogni tempo!

Fuori scintillava la fredda neve crudele; e la miseria batteva i denti:
ma lì era il tepore, lì i fiori, lì le dolcezze, lì ogni sensazione
piacevole.

Forse questa era la virtù di donna Bàrbera: non sentire, non far sentire
attorno a sè -- nel trànsito della vita breve -- la mortificazione della
verità.

E le virtù dei Romani, allora? Allora tutti i valori della vita mutati?

-- Professore, andiamo avanti o stiamo fermi? _Duabus, ambabus_.... In
latino è tutto _abus et orum et arum, e bellum e bella_! Se non ci fosse
questo latino, andrei al pattinaggio anch'io.

Ma Aquilino aveva un'aria triste e non sorrise. -- È vero, Bobby --
domandò lentamente -- che lei non si lava al mattino con l'acqua
fredda?...

-- L'acqua fredda non lava bene -- disse Bobby.

Non sapeva perchè; ma ad Aquilino fioriva nella mente questo intercalare
di mamà: _Ha paura di toccare col dito l'acqua fredda._

Come era lontana mamà, e che viaggio aveva fatto lui: altro che trecento
chilometri!



CAPITOLO XI.

Muzio Scevola e compagni.


Una mattina Bobby, con aria di grande letizia e soddisfazione, la
incominciò lui la lezione, e per l'appunto, così: -- Professore, mi
dispiace di dovèrglielo dire; ma lei mi fa perdere il tempo ad imparare
tante fandonie. Ed io perchè devo studiare le _fandonie_?

-- Sarebbe a dire?

-- Ma tutte quelle sue storie di Muzio Scevola, di Fabrizio, di
Cincinnato non sono vere _niente del tutto_. Sono tutte fandonie!

-- E chi glielo ha detto? -- domandò Aquilino turbatissimo.

-- Lo ha detto il senatore X..., e se non lo sa lui che è professore
all'Università ed ha la fabbrica di tutti gli altri professori, chi
vuole che lo sappia? Se Romolo, se Camillo, se Muzio Scevola, se
Lucrezia e compagnia bella non sono mai nemmeno esistiti, perchè devo io
studiare la storia di gente che non è mai esistita?

Aquilino a queste parole fece un rapido esame di coscienza. Realmente,
egli poteva avere rappresentato con troppa evidenza drammatica la storia
di Romolo, di Muzio Scevola, di Fabrizio, di Camillo; e quanto a
Lucrezia, a Cornelia, a Virginia aveva forse tenuto conto più della
presenza di miss Edith che del minuscolo Bobby. Ma per Dio, _fandonie_,
ah questo poi...!

Ma Bobby dolentissimo, anzi felicissimo, non si mosse dalla parola
_fandonie_; precisò anzi tempo, luogo, azione: cioè ieri l'altro sera,
venerdì; il salotto di mamà, presenti tutti: _Oh povero bebi,_ -- gli
avevano detto -- _ti fanno ancora imparare tutte queste fandonie?_ E poi
c'è dell'altro, sentirà.

-- Anche dell'altro? Ebbene, senta Bobby, -- disse Aquilino levandosi in
piedi con un grande convulso -- le dispiacerebbe sentire se la sua
signora mamma può ricevermi per un momento?

Bobby non domandava di meglio. L'ostruzionismo delle lezioni era una sua
specialità. E corse di là.

«_Manigoldo!_» -- fremeva Aquilino. -- _Ecco la riconoscenza per tutto
quello che faccio! «Fandonie!»_

Poco dopo Bobby ritornava tirandosi a rimorchio la mamma e anche miss
Edith.

La marchesa capì al primo sguardo che Aquilino bolliva col coperchio
chiuso, e per quella squisitezza che era tutta sua, parlò così: -- Bobby
non le ha raccontato che imperfettamente, cioè a modo suo. Tutti, anzi,
(la marchesa si riferiva ai personaggi dei suoi ricevimenti) sono
rimasti _enchantés_ dei progressi fatti da Bobby, ed il senatore non
meno degli altri. Ma purtroppo Bobby è un _farceur_ incorreggibile, e si
è messo, ier l'altro, a far la parte di Muzio Scevola quando stende la
mano sul fuoco. E poi l'altra scena quando il re Pirro tira la tenda e
fa venir fuori l'elefante con la proboscide per spaventare il virtuoso
Fabrizio. E infine Orazio che butta a terra i tre Curiazi. Impossibile
non ridere. Da questo punto Bobby non c'entra più ed entrano in scena
altri personaggi: insomma si accese un poco di discussione intorno a
Roma antica, ed il senatore -- suo professore, del resto -- che, come lei
non ignora, è una autorità del genere, ha fatto osservare che i primi
sècoli di Roma sono _fole ampiamente dimostrate insussistenti_ dalla
critica tedesca....

-- Io ho inteso _fandonie_ -- interruppe Bobby -- ; e che non si spiegano
più nei ginnasi. I miei compagni non le studiano, e non le voglio
studiare nemmeno io!

Evidentemente Bobby era, per intuito, seguace della teoria del minimo
mezzo.

A questo punto intervenne miss Edith. Ella aveva con sè due manuali
scolastici di Storia Romana in uso nelle scuole italiane, e con un
_Please, sir_, rivolto ad Aquilino, gli sottopose il fatto che anche la
pedagogia italiana, uniformandosi al metodo tedesco, aveva soppresso
quei _fabulous tales_.

Ah, era quello il bel frutto delle sue drammatiche lezioni sull'anima
anche di miss Edith?

-- Infatti, signorina -- rispose con calma e seguendo su le pagine il dito
di miss Edith, che sfogliava quei manuali -- infatti lei ha ragione. Nei
nostri libri di scuola queste leggende sono appena accennate. Lei ha
perfettamente ragione.

Ma qualcosa gli ribolliva oramai, più forte che l'affare delle
_fandonie_.

E si ricordò quando due o tre ragazzacci studenti -- ai quali Aquilino
teneva un po' bordone -- si divertivano nella libreria, sempre vuota,
della sua città, sì che si poteva anche urlare, ad abolire, nel nome
della scienza e della critica, proprio Lucrezia, e Muzio Scevola, e
Fabrizio e Camillo; e un po' anche i dieci comandamenti; e un po' anche
qualche altra cosa; giacchè quando si può togliere un mattone, niente
vieta di togliere il resto. E il buon vecchio del bibliotecario non si
sdegnava per quella giovinezza; e spesso li chiamava vicino a sè dicendo
tutt'al più: -- _Venite qui, filosofi dell'abbicì._

Ora dunque gli tornarono a mente le già derise parole del buon vecchio,
quando difendeva l'_antica sapienza italica_ contro gli _oltramontani_,
come lui usava di esprimersi.

-- Sinceramente, -- disse Aquilino, moderando se stesso -- se il signor
senatore è positivista per uno, io sono positivista per due. Della
storia romana io me ne.... Ma mi secca, sa, signora marchesa, passare
per.... Ma cosa vuole che importi se Romolo, se Lucrezia, se Muzio
Scevola, se Fabrizio sono esistiti sì o no? e se la critica storica li
ha aboliti? Quello che il signor senatore e tutti i suoi (voleva proprio
dire _mardochei_) non possono abolire, è Roma e il suo imperio che
esistette realmente. E il fondamento di Roma sta tutto qui; in questi
miti: in Romolo che, morendo, annunzia che Roma sarà capo del mondo; e
perciò siano coltivate le armi; in Lucrezia che muore perchè dal suo
esempio nessuna donna romana divenga impudica; in Muzio Scevola che
afferma, _civis romanus sum! fàcere et pati fòrtia romanum est_; in
Fabrizio la cui virtù è molto spaventevole, miss Edith, perchè dice a
Pirro, che lui non vuol l'oro, perchè vive con una rapa, ma gli piace
comandare a quelli che posseggono l'oro. Questo è il terribile mito
della disciplina di Roma! E quanto all'Orazio che distanzia, divide e
poi abbatte i Curiazi, la cosa è molto più seria che non sembri, perchè
quella di Orazio è stata sempre la tattica di guerra che ha finito per
vincere in tutti i tempi. Sì, caro Bobby, Muzio Scevola, forse non è mai
esistito; e sa lei perchè? Perchè non ne è esistito uno, ma molti! E se
nei libri di scuola italiani, signorina Edith, le leggende di Roma, come
lei mi dimostra, sono state _depennate_, io come italiano, ne
arrossisco, e peggio per noi!

Aquilino così parlando, ebbe la sensazione interiore di essere bello. Ne
vedeva il miràglio nella attitudine un po' nuova e un po' sorpresa delle
due donne.

La marchesa fu la prima a parlare: fece anzi il suo bel risolino e -- Lei
dice bellissime cose -- proferì --, ma un po' di colpa è anche sua: se
lei fosse venuto alle nostre conversazioni, avrebbe potuto far valere
con quei signori queste sue ragioni, meglio che con noi. Quanto a Bobby,
se lei crede, noi stiamo ai programmi governativi, nevvero?

-- Ma si figuri, signora marchesa, (e voleva proprio dire: _io lego
l'asino dove vuole la padrona_).

Bobby saltava dalla gioia: -- Allora non li studio, allora non li studio
più i Muzio Scevola. Mamà, di' allora al professore anche quell'altra
cosa....

-- Ma no, una sciocchezza, Bobby....

Aquilino si ricordò che Bobby gli aveva detto che c'era «dell'altro»
oltre alle _fandonie_; e pregò la signora marchesa di volerlo chiarire
anche su quest'altra cosa; tanto più che Bobby insisteva con un: -- mi
riguarda direttamente!

-- Allora si tratta di questo -- disse la marchesa --, cioè del libro di
testo degli esercizi latini che lei ha scelto e che non corrisponde
precisamente al libro che è stato adottato nei ginnasi pubblici.... Se
lei ricorda, noi eravamo intesi di uniformarci alle scuole pubbliche,
nevvero?

-- Ma io ho scelto il migliore libro di esercizi, signora marchesa....

-- Non ne dubito....

-- E allora?

-- Allora le dirò: un nostro buon amico, assessore del comune per le
scuole, un uomo molto abile, molto influente, uno -- in confidenza -- che
vuole arrivare alla deputazione politica, il _leader_ del nostro
partito, lo avrà inteso nominare, il commendator X....

-- Mai inteso nominare. Ebbene? -- domandò Aquilino.

-- Ecco: sempre venerdì, a proposito di quelle storie di Roma, il
commendator X.... domandò a Bobby quale testo di esercizi latini
adoperava, e Bobby glielo disse. Proprio a proposito di quel testo il
commendatore aveva fatto una campagna abbastanza vivace per abolirlo
perchè in esso si parla troppo di guerre, di conquiste: tutti esercizi
sulle guerre....

-- Tutto _bellum_, _bellum_, _bellum_ e _bella_ e _bellicosus_ -- saltò su
Bobby -- persino _foeminae Scytarum sunt bellicosae, e interfecerunt et
deleverunt et strangolaverunt_.

-- Zitto lei -- disse la marchesa. -- Il commendatore X.... ha osservato
che per i giovanetti tutti questi esempi di guerra non sono morali;
infondono anzi lo spirito del litigio, della sopraffazione nei popoli; e
che pur dovendosi mantenere il latino nelle scuole, era consigliabile un
testo che esaltasse, invece, le virtù civili, la giustizia, la
concordia, la fratellanza. Anzi pare che voglia provocare dal ministro
competente una circolare in proposito: abolire anche il _de bello
gallico_ di Giulio Cesare, o almeno ridurlo a quei passi dove non si
ragioni di guerre.

Aquilino cadeva dalle nuvole.

-- E poi l'altro testo di esercizi che hanno i miei compagni delle scuole
è più facile -- disse Bobby. -- E anche in italiano hanno un'antologia più
facile: tutti bei raccontini, _Cecco grullo_, indovinelli, poesiine....

Aquilino avrebbe strangolato addirittura Bobby.

-- Ma non è più latino, signora mia! -- esclamò Aquilino. -- Del resto,
sinceramente, mi spiegherei questo pacifismo se il commendatore X....
fosse un socialista, ma per il capo del partito monarchico questo modo
di vedere mi pare un poco strano....

La marchesa sorrise: -- E intanto il commendatore X.... per questa sua
campagna, ha ottenuto elogi molto significativi dalla stampa socialista,
dalla stampa radicale. Sa? La verità è una cosa, e la politica è
un'altra.

-- Capisco (cioè, _non capisco niente_, voleva dire). Oh, io sono
disposto a mutare gli esercizi fin che lei vuole. E noi, caro Bobby,
leggeremo in italiano la novella di _Cecco grullo_. Al mio paese conosco
un cameriere, un curioso tipo, che ne fece una bellina ad un avventore.
Questo era un gran signore, e gli disse: _Sì, questo vino è buono, ma un
po' troppo spiritoso. Ho paura di non poterlo digerire. Non avresti del
chianti più leggerino, più delicato? Subito, signor conte_, perchè al
mio paese o danno del conte o del poverino. Porta via il fiasco, va in
cucina, si mette il collo del fiasco in gola, beve la metà del vino, poi
ci schizza dentro un sifone di acqua di seltz; e, _Ecco il chianti che
lei desidera_. L'avventore lo trovò di suo gradimento e pagò senza
fiatare quattro lire invece di due. Era mezzovino e non vino. E così io,
signora marchesa, se lei desidera, le posso mutare tutti i Romani in
tanti padri Cristofori del Manzoni. Ma onestamente la preavviso che non
sono più Romani, (ma _Romani evirati_, voleva proprio dire, perchè era
proprio fuori della grazia di Dio, evirati come il suo buon amico,
_leader_ del partito monarchico).

Ma la marchesa col suo sorrisino già faceva molto ben capire ad Aquilino
che si era spinto un po' troppo in là con quella volgare comparazione
paesana. -- La prego, la prego -- come un -- _la prego, si calmi_. Lei è
molto giovane, -- aggiunse poi -- ed i suoi entusiasmi sono belli; ma
creda, in questo, come in tutto il resto, è questione di forma. _La
forma!_ Venga, venga il venerdì alle nostre conversazioni. Il vivere un
po' nel mondo vedrà che le smusserà certi angoli senza che lei se ne
accorga.

Aveva un tono quasi di superiorità materna, donna Barberina!

                              *

_Oh, cara mamà,_ -- scriveva Aquilino a sua mamma -- _tu mi mandi
magliotti e calze di lana. Ma sapessi come fa caldo qui, anche
d'inverno! Anche troppo, tanto che si sentono dei brividi di freddo. Si
mangia bene qui, ma sapessi quanta voglia mi viene di una di quelle
minestre di ceci o di fagiuoli, che sai fare tu! Sembravano ordinarie, e
invece...._



CAPITOLO XII.

Il salotto della marchesa.


Nel tempo che Aquilino era assai giovanetto, e che fra l'avemaria e
l'ora di notte, la sua piccola città si addormentava, egli pensava
talvolta come invece doveva esser beata la vita in quelle città, dove
sui teatri splendenti rècitano e càntano gli uomini e le dee; e non il
teatro dei burattini con quelle due candele di sego. E dove specialmente
vi sono i club e le conversazioni. E non le veglie, dove le donne vi si
avviano con lo scialle, e lo scaldino sotto il zinnale: ma quelle
conversazioni scintillanti, dove un servo in livrea annuncia conti e
contesse; e vi sono quegli angioli con le trecce, fra cui un giovane di
spirito può trovare anche una dote. O felicità, essere presentato in
quei luoghi!

E qualche volta, nel suo letticciolo, sentendo avvicinarsi e lontanare
il grido della guardia: «Sono le due, tempo sereno! Sono le tre, tempo
nùvolo!», pensava che a quell'ora il signor conte Orloff usciva dal
club, nelle sue pelliccie d'astracan, e tornava a casa in _rue d'Antin_,
portando nel suo coupé, o una borsa d'oro guadagnata al baccarà, o un
angelo di Parigi con la _toilette_ in _deshabillé_. Beato conte Orloff!
Ma chi era il conte Orloff? Un personaggio conosciuto in un romanzo di
Ponson du Terrail.

                              *

Ebbene, allora in sul più bello della giovinezza, Aquilino fu presentato
nel salotto della marchesa, ma non provò tutte quelle soddisfazioni che
si era ripromesso; forse perchè egli non era il conte Orloff. O forse
perchè la miglior soddisfazione consiste non nel vigilare, ma nel
dormire. Ben è vero che ai ricevimenti della marchesa non si ballava,
non si facevano simpòsi. Tutt'al più simpòsi intellettuali: ed una delle
più ambite soddisfazioni della nobile signora era quando un qualche
personaggio qualificato, di trànsito per la città, facesse scalo ai suoi
venerdì.

E non solamente non provò soddisfazione; ma trovò che navigare per
quelle sale era difficile. Ma la marchesa aveva fatto capire che
desiderava che lui navigasse, e _desiderare_ era un verbo uguale a
volere.

Sperò di farci buona figura, ma capì sùbito che era molto non farci
cattiva figura.

Ma cosa saltò in mente al cameriere di annunciarlo con: _il signor
professore?_ «Ma no, buon uomo. Uno della casa come te: tu strofini i
pavimenti, io la testa di Bobby».

Eppure non bastava quell'ampolloso annuncio a spiegare l'attenzione di
cui era fatto segno.

«Io devo avere addosso qualcosa di speciale -- pensò -- perchè tutti mi
ossèrvano». Eppure la cravatta era a posto e quell'abito nero conveniva
bene alle modeste sue qualità di precettore.

Parlare? Adagio Biagio! Allora tacere. Ma anche tacere presentava
inconvenienti.

In verità in lui era qualcosa di speciale; cioè alcune cose gli erano in
più, e alcune cose in meno: il braccio sinistro gli era in più, perchè
la mano, lui, non sapeva dove collocarla. La sua pronuncia gli era in
più, e la avrebbe scambiata con un po' di più snella pronuncia francese.

Una carta topografica per evitare certi scogli a fior d'acqua, ecco una
cosa in meno.

Egli trattò alla semplice alcuni signori presentati col nudo cognome. Ma
quel nudo cognome voleva anzi dire, _illustre_, o già _stato illustre_ o
_in via di diventare illustre_.

Più soggezione gli davano le signore, benchè fossero tanto gentili. Ma
che brutta abitudine avevano quelle signore, quando gli parlavano, di
venirgli a parlare sì da presso da sentirne il fiato in bocca!

Allora invece di essere sciolto, e ridere, e parlare anche lui, si
impietriva in una serietà precoce e dolorosa. «È inutile; è perchè sei
tìmido», gli diceva una voce di dentro. «Non è vero -- rispondeva lui a
quella voce --, non è perchè sono tìmido». Era perchè egli vedeva nella
donna qualcosa, che è proprio della donna, che derideva la sua costumata
giovinezza maschile. E quando anche ragionavano di alcuna grave
questione, gli pareva che quella tal cosa pur sorridesse.

Ma le signore forse non si accorgevano di tutte queste complicazioni.

Per fortuna, a disimpegnarlo un po', c'era quella testolina sentimentale
di giovane donna con la quale conversava quasi alla buona.

-- Lei conosce l'amore? -- gli aveva domandato.

-- Non ancora, signora.

-- Oh! -- aveva ella risposto con stupore, come dire: «lei ignora la
grammatica del mondo».

-- Che vuole? C'erano state tante cose da pensare prima dell'amore: la
colazione, i libri, l'affitto di casa....

-- Ah, io vivo nell'amore -- rispose la testolina sentimentale.

Aquilino le avrebbe anche chiesto qualche bonaria spiegazione come
facesse a star sempre sott'acqua, nell'amore. Ma quando seppe che la era
una gran poetessa, non ebbe più il coraggio di così semplici domande; ed
allora imparò che non esistono soltanto gli uomini illustri, ma anche le
donne illustri, e perciò la cautela nel parlare non è mai troppa.

                              *

Anche tutto quello che egli sapeva, cioè la sua intellettualità, era in
più, perchè prevalevano altre intellettualità esotiche, le quali come
correnti marine portavano lui lontano lontano sì che una nostalgia amara
e nuova gli stringeva il cuore: «O cara Italia, come sei tu lontana!»

Gli parea anzi strano sentir talvolta nominare Dante e Leonardo da
Vinci.

Più sovente ricorreva il nome di Gabriele D'Annunzio, di cui sapevano
più cose che non ne sapesse forse quel poeta medèsimo. «Bisognerà che mi
impratichisca un po' -- pensava -- di tutte quelle diavolerie di nomi
stranieri; e anche di quel Leonardo di cui tanto si parla». Ma poi vi
erano altri nomi, pur non stranieri, che gli davano un cerchio alla
testa: che so io, _cerebrale_, _amorale_, _volitivo_, _androgìno_,
_edonismo_, _idealismo_, _positivismo_, _buddismo_, _teosofia_,
_futurismo_, _estetico_, _micènico_, _dionisìaco_, ecc.

E quando parlavano di politica, s'accorse di stare a bocca aperta ad
ascoltare. «Gran Dio! Come è possibile che questi signori sappiano tanti
segreti di Stato? E quelle confidenze così ciniche di uomini del
Governo, che qui si ripètono, possono essere vere?»

                              *

Uno dei momenti di maggior impaccio era per Aquilino quando andavano in
giro gli scintillanti vassoi con fini complicati beveraggi, con dolci e
confetti. Cioè _gatô_. E non potere, come con Bobby, proclamare: «Si
dice _dolci_, e non _gatô_». Prendere e lasciare in quei vassoi era
ugualmente seccante. E allora si appartava, per disimpegno, presso
qualche signore anziano un po' solitario, al margine -- per così dire --
della conversazione.

Quel signore canuto, alteramente in posa, con la fronte in
contemplazione delle scarpe lustre, era quegli che pareva accogliere la
sua solitaria conversazione con più deferenza. Senonchè cominciò ad
accorgersi che quel signore aveva anche tutta l'aria di volere
sottoporre lui, il professore della casa, ad una specie di esame
generale.

-- Professore, -- gli avea chiesto -- ha letto l'ultimo articolo della
_Revue des Deux Mondes_?

-- No.

-- Oh!

-- Lei ignora Debussy?

Aquilino rispose che ignorava Debussy, e si sentì guardare come se gli
mancasse il naso.

-- Lei non ha letto l'ultimo romanzo di Bourget? Ah! Lei non ha visitato
il _British Museum_? a Monaco non c'è mai stato?

-- Finora, no: ma spero di andarci.

-- Veda: il precettore del duca X.... conduce ogni estate i signorini, o
a Londra o a Parigi.... Lei non ha mangiato il salmone del Reno _à la
Richelieu_? Certamente avrà letto i romanzi di Abel Hermant....

-- No, signore.

-- Oh!

-- Le poesie di Mallarmé....

-- Nemmeno.

«Ma che precettore si è preso in casa la marchesa?», pareva dire quel
dotto signore.

Ad Aquilino era venuto una gran voglia di rispondere: «Ho mangiato molte
cipolle».

A quel signore balenava un felice sorrisino maligno, come avviene in un
professore che sta per bocciare uno scolaro.

Aquilino pensava:

«Ho capito: qui è meglio dire di sapere tutto, di aver letto tutto, di
essere stato da per tutto, di aver mangiato tutti i salmoni del Reno».

                              *

Ma vi erano cose di cui non avrebbe saputo dir niente.

Che ne sapeva lui di certa gran cronaca mondana? e dell'arrivo dei
cavalli al traguardo? e di cotali accenni, talvolta, intorno al vestire
muliebre, come di cosa gravissima, e quasi eleusina, per cui vedeva le
signore compiere su di se stesse gesti lenti e quasi ieràtici? E quel
chiacchierìccio, continuo come quello di Bobby, a spettàcolo continuato,
come nei cinematògrafi, ma ad imagini mutevoli ad ogni istante, tanto
che se ci avesse voluto azzeccare una parola non avrebbe mai fatto a
tempo o avrebbe dovuto dire: «Fermi un momento, per carità»? E
quell'ingannevole modo di ragionare per cui niuna cosa seria appariva
eccessivamente seria; niuna cosa stolta appariva totalmente stolta? E
l'inganno stesso della parola! Spesso scintillava il paradosso, ma erano
paradossi addomesticati; spesso spumeggiava la parola, ma non era la
divina ebbrezza; spesso erano fiamme, ma fiamme innocue come in su la
scena.

Ah, il parlare era difficile come il tacere!

E se l'argomento era anche di sua competenza, o non sapeva come
afferrarlo o gli sgusciava via come un'anguilla.

La guerra bandita dall'onorevole Luigi Luzzatti contro le figurine poco
vestite, ecco un argomento di sua competenza. Ma ecco l'_arte_, la
_morale_, la _bellezza_ ballare una tal ridda che Aquilino non sapeva se
prender l'_arte_, o la _morale_, o la _bellezza_.

Ma già il ragionamento era scivolato via. La bellezza, la divina
bellezza estasiava miss Edith.

Ah, il caso di quella dama, la quale si era recata a Parigi in un
_Institut de beauté_, per farsi fare più estètico il naso! Oimè, durante
il ritorno, il naso si era sgonfiato.

-- _Malheureuse!_ -- esclamò miss Edith.

-- Dunque, miss Edith -- aveva chiesto il poeta Emme con un fine sorriso e
il monocolo ben incastrato nell'orbita --, dunque per lei, miss Edith,
la bellezza è forse più importante della virtù?

-- _Yes! pour une femme, parce que la vertu n'a pas de visage._

Oh, la invereconda parola e come proferita!

                              *

Aquilino ci pensò per tanto tempo. Una giovinetta parlava così! Una
istitutrice! Se lui avesse un figlio, mai avrebbe preso al suo servizio
miss Edith. Cioè per lui sì, ma non per il figlio.

Ma tutti fatui quei discorsi! E avrebbe voluto avere tanta autorità per
deridere e condannare tutto quel chiacchierìccio, quella maldicenza,
quell'ipocrisia, quella vacuità.

Ma poi perchè deridere? perchè condannare?

La maldicenza vi era amabile, e si poteva anche chiamare reciproco
compatimento; la ipocrisia era come una _toilette_ necessaria per
nascondere le parti pudende del discorso; quella vacuità poteva parere
come simbolo dell'enorme verità filosofica che tutto nel mondo è vano: e
se quei vacui signori questo non dichiaravano, è appunto perchè nel
gioco infantile del _perchè_, mai si deve pronunciare la parola
_perchè_.

Forse sarebbe stata goffaggine plebea lo schernire.

E la stessa sentenza di miss Edith che gli parve così immorale, perchè
immorale?

«La bellezza è tutto per la donna» -- questo, in sostanza, avea detto
miss Edith.

E al suo paese -- or ricordava -- quella vecchietta che piamente si recava
mattina e sera nel gran tempio, tutto isculto a sentenze, non soleva
ripetere una sentenza consimile?

Soleva la vecchietta dire, ed ora Aquilino ricordava: «Quando una donna
bella è, povera del tutto non è».

E nel tempio fra le sculte sentenze, questa vi era: _Quod est quod est?
Ipsum quod fuit. Quod est quod fuit? Ipsum quod est._

Era lui che non sapeva. E leggere libri per imparare, non basta.

                              *

Certo miss Edith in quelle conversazioni non trasportava le sue qualità
pedagogiche. Era molto vivace; e se non la avesse veduta bere acqua,
Aquilino la avrebbe detta misteriosamente ebbra. Le sue grazie un po'
esotiche, il suo parlare straniero attraeva. Dalle pupille di lei
piovevano muti lunghi sguardi. Intimi colloqui or con l'uno or con
l'altro: lungo ridere sonoro come in su le scene. Oh, il _flirt_! E col
senatore più che con altri.

Il grosso uomo ne godeva come un gargantuà a cui è offerta delicata
pastura.

E verso di lui?

Mai! Gli occhi di miss Edith verso di lui erano opachi come occhi di
donna cieca.

E quando la sentiva ridere così, la malediceva dicendo: «Ah potesse
venire anche per te l'ora tenebrosa!»

-- Ah, Nicce! Nicce! Nicce! -- suonava in ritmo dionisìaco la voce di miss
Edith.

Aquilino odiava quel Nietzsche senza conoscerlo; e quanto al _flirt_, si
sentiva capace di un apostolato contro questo inverecondo giuoco
dell'amore.

Però come era elegante miss Edith, come adorabile nella sua semplicità.

                              *

-- Io credo -- disse ad Aquilino la languida poetessa -- che miss Edith ne
parli più per snobismo che per convinzione. Ma realmente Federico
Nietzsche è l'annunziatore.

-- Ah sì, molto probabile -- rispose Aquilino.

-- Lei -- fu sollecita la giovane donna a soggiungere -- forse lei crede
che Nietzsche sia un pazzo o un perverso?

Il volto di Aquilino tradiva, in realtà, un candore così bello.

-- Oh, un santo! -- sospirò la giovane donna. -- Questo vecchio mondo
imputridisce, e Nietzsche è il profeta dell'igiene del mondo.

Anche Aquilino non aveva troppa stima del mondo, ma quell'_imputridisce_
gli pareva eccessivo. Però, se le faceva piacere....

-- La grande creatrice della vita è la guerra -- disse la poetessa --, e
soltanto un bagno di sangue farà sano il mondo.

Aquilino guardò con stupore quel dolce viso che proferiva così
spaventose cose; sperò che la giovane donna mutasse discorso; invece,
anche più fatale, ella proseguì così:

-- Ed allora avverrà che l'eletto incontrerà la eletta, e la fusione dei
due esseri sarà così sublime che non rimarrà che la morte.

Oh, quale lugubre imagine! «Ma se l'eletto incontrerà la eletta, il
meglio è continuare, e non pensare a morire.»

Questa era l'opinione di Aquilino, e la espresse nei modi più condecenti
all'interlocutrice.

Ma la giovane donna lo riguardava pietosamente come l'iniziato ai
misteri di Eleusi guarda il profano: -- Non si può concepire la vita dopo
l'ardore della fusione.... -- disse ieraticamente.

«E si vada a far fondere» -- le rispose Aquilino in cuor suo.

-- Ed è necessario, -- ribattè colei -- perchè dalla fusione deve poi
nascere il superuomo.

Se quella testolina non fosse appartenuta ad un'illustre poetessa,
Aquilino la avrebbe consegnata per esame ad un direttore di manicomio.
L'amore era per colei come un biscottino inzuppato nel sangue.

                              *

Ed anche donna Bàrbera come era meravigliosa!

Ma quella era un'altra donna Bàrbera! Non ne esisteva una, ne esistevano
due. Come si metteva! Pareva una giovinetta! Quella testolina bruna con
due diamanti così! E quella voce carezzevole come il flauto!

Parlava con tutti, e naturalmente di tutto; dell'_abùlico_,
dell'_androgìno_, del _Parsifal_, di _Gotamo Budho_, del _dionisìaco_; e
nel tempo stesso nulla le sfuggiva, e -- ohimè! -- neanche lui, Aquilino.
E certe fuggevoli occhiate su lui parevano significare: «senta, lei è
una brava persona, ma si fa un po' compatire. Sa un poco più _dégagé_».

                              *

Uno dei personaggi più ornamentali del salotto della marchesa era il
senatore, quello delle _fandonie_.

Lo aveva visto due o tre volte in cattedra, e lo aveva inteso parlare di
non so quali codici pergamenacei e cartacei, intorno ad un ignoto autore
di antichi tempi. Lo aveva inteso anche leggere un poeta, ma con sì
fatta voce che gli venne in mente -- per virtù del contrario -- il povero
bibliotecario del suo paese, quando leggeva i poeti, chè gli si
inumidivano gli occhi. Mai il povero bibliotecario del suo paese avrebbe
saputo portare una camicia croccante e scintillante come quella che si
sfoderava fuor dello _smoking_ del senatore. Eppure il bibliotecario del
suo paese era anche lui un erudito: e leggeva i palinsesti e capiva bene
le làpidi.

Si sarebbe creduto che un così autorevole senatore avesse preferito
parlare di cose di somma saviezza. No! Preferiva parlare di cose
mondanette, e ciò non senza un'amabile causticità. Le vesti, e i
reggimenti, e gli ornamenti delle donne avevano in lui un espositore
altrettanto dotto, quanto misurato e garbato.

Se avesse usato pari acume e lepore nelle sue lezioni, esse sarebbero
parse meno tediose.

Quando però interveniva alcuna intricata questione, allora si ricorreva
ai suoi lumi. Egli illuminava, e nessun vento, se non cortese zeffiro di
fronda, si permetteva di soffiare sopra quei lumi.

La marchesa aveva presentato Aquilino a questo _magnifico signore_ come
frequentatore «entusiasta» delle sue «interessantissime» lezioni.

Bugia di prima grandezza, che donna Barberina aveva proferito con un
candore inimitabile.

-- Mi pare, mi pare, mi pare -- rispose quel personaggio; e quel _mi pare_
suonò con voce blesa, in fretta, come un: _mi pale, mi pale, mi pale._

Aquilino avrebbe voluto dire qualche cosa; per esempio, tornar sopra le
fandonie di Muzio Scevola: ma quel _mi pare_ fu proferito in modo da far
capire che se essi due, materialmente, si trovavano a pochi metri di
distanza, realmente la distanza era sì enorme che era inutile parlare.

Ma perchè un tale sgarbo?

La marchesa aveva presentato Aquilino a quel signor commendatore che
aveva _fatto la campagna_ contro il _de bello gallico_ di Giulio Cesare.

La parola di quell'altero signore era adorna e correttissima come le sue
vesti; ma egli non fu corretto con Aquilino.

All'atto della presentazione, tirò un fendente con un'occhiataccia di
traverso e aveva detto: -- Felicissimo!

Parve dire: _felicissimo quel giorno in cui le potrò fare del male._

Perchè poi?

Questo sgarbo tolse al giovane la voglia di venire a qualche spiegazione
sugli esercizi latini e su Giulio Cesare.

                              *

Da alcun tempo si parlava nel mondo scientifico degli _elettroni_. Gli
_elettroni_ non potevano non passare anche per il salotto di donna
Barberina.

Mandar giù Nietzsche per opera di una languida donnina, era tollerabile;
ma quegli _elettroni_, così difficili, no. Tanto più che a tutti
parevano così facili.

Colse un momento di pausa e -- Signor senatore -- domandò --, ma noi
sappiamo veramente che cosa siano gli _elettroni_?

-- Particelle elettriche, cioè gli intimi elementi dell'architettura
dell'universo -- rispose il senatore.

-- E l'intima natura delle particelle elèttriche?

Questa seconda domanda seccò il senatore. Rispose:

-- Ma lei mi confonde il pensiero con la materia, la fisica con la
metafisica!

-- Era una gloria dei nostri grandi essere insieme fisici e metafisici --
contraddisse Aquilino.

-- Ma no! ma no! ma no! -- disse il senatore con lieve moto delle spalle --
scusi: lei vive nel passato o nel presente?

-- Io non so -- rispose Aquilino -- se il tempo in cui vivo si chiami
passato ovvero si chiami presente: ma so che l'anima è come soggiogata
dalla paura di certi problemi, e quando noi diciamo che la materia è
formata dagli _elettroni_, senza altro sapere, ci accontentiamo di
troppo poco, perchè noi spostiamo, non risolviamo l'enigma.

-- Ma non esistono enigmi. E poi sa? chi si accontenta gode.

Ah, questa era insolenza!

-- E allora -- disse Aquilino -- si accontentava anche il filosofo
peripatetico del tempo di Don Ferrante e di Donna Prassede quando diceva
che _la materia ora è caos, ora è una selva, or massa, or peccato, ora
tàbula rasa, ora prope nihil, ora neque quid, neque quale, neque
quantum_, e per esprimere tutte queste definizioni con una sola parola,
che la materia _est tamquam foemina_.

-- E sia contento anche lei -- disse con manifesta derisione il senatore.
-- Quando io vado in treno elettrico, io mi accontento del dominio umano
su la forza della materia, trasportata da una cascata alpina alle rotaie
del treno. E non penso più in là.

-- Ed io, invece, penso più in là! -- rispose Aquilino.

-- Bravo e mi piace -- si udì allora una voce nel silenzio dell'uditorio.

Quel _bravo_ e quel _mi piace_ appartenevano al poeta Emme. Aquilino si
volse. Il poeta Emme, ritto, nell'ampio ondeggiante sottano nero, detto
or _stiffelius_, or _financière_, or _prefettizia_, sorgeva dietro alle
sue spalle. Pareva dire dal ghigno del volto e dalla caramella
nell'orbita: «Si batte bene, il giovanotto».

«Caro monòcolo, caro poeta -- disse in suo cuore Aquilino -- grazie. Ecco
i poeti utili a qualche cosa».

-- Ma mi faccia il piacere -- disse il senatore al poeta Emme, -- che lei
contraddice per semplice sport -- ; e si allontanò con le spalle, per un
angolo di quarantacinque gradi da Aquilino. -- Lei sa meglio di me, caro
poeta, che le fandonie metafisiche di quel signore non hanno più
importanza se non come stìmolo del pensiero. È l'uomo che crea il fatto,
e col fatto crea la verità, e perciò l'uomo è Dio.

-- Ma una simile opinione, signor senatore -- disse forte Aquilino -- fu
già annunciata duemilacinquecento anni fa; e poi fu ritenuta fandonia,
ed oggi ritorna verità. Sia pure! Ma può anche col tempo ritornare allo
stato di fandonia.

-- Eh! -- fece il senatore -- cioè «eh! chi è l'audace che chiama fandonie
le mie parole?» Ed il senatore fu costretto a girare di nuovo per
quarantacinque gradi, intorno al suo cardine, sino ad incontrare il
volto di Aquilino.

-- Ma sì, signor senatore! Ella sa benissimo che duemila e più anni fa,
il sapiente Protàgora affermò quello che lei afferma, cioè che _l'uomo è
la misura di tutte le cose, cioè che l'uomo è il criterio unico della
falsità o della verità di tutte le cose_; cioè è Dio! Un Dio che
trasporta anche la energia alpina alle rotaie; ma lui, come lui, non si
porta bene in gambe.

Il nome del filosofo greco Protàgora non era evidentemente stato
introdotto nel salotto di donna Barberina.

Un po' di sconcerto, un po' di malessere.

-- Ma lei con le sue paure e gli enigmi -- disse il senatore -- non capisce
che mi manda la civiltà indietro?

-- Mie? Di tanti! Per esempio anche di Leonardo da Vinci. Leonardo da
Vinci quando penetrò nella caverna dei misteri della natura, dichiara
che fu preso da due sentimenti: _desiderio_ l'uno e l'altro, per
l'appunto, _paura_.

Donna Barberina era su le spine.

Leonardo da Vinci era un personaggio presentato, conosciuto, e non si
poteva trattarlo male.

E d'altra parte il volto del senatore esprimeva questa opinione intorno
ad Aquilino: «Sa che lei è un bell'empiastro?»

Ma quel commendatore, che non aveva riguardo per Giulio Cesare, non ne
ebbe nemmeno per Leonardo.

La parola _caverna_ detta da Aquilino, illuminò il di lui spirito; e
troncò corto, dicendo al giovane: -- Tutto questo che lei dice, sarà
benissimo: ma al tempo che gli uomini andavano in giro per le caverne.
Lei, scusi, da quale paese viene? forse dal paese delle caverne?

Aquilino sentì tutto lo scherno di quelle parole. Gli formicolavano le
dita per una gran voglia di creare il fatto e la verità, scaraventando
qualcosa.

-- Signor commendatore -- disse --, lei mi domanda da che paese vengo. Io
vengo da X...; ma veramente io sono originario da un povero paese in
cima ai monti dove ci sono anche le caverne. Mio padre era medico in
quel paese e mio nonno _idem_; e l'uno e l'altro, per ragioni
professionali, erano al contatto continuo con il dolore umano. E siccome
in quel paese non c'erano le lampade elettriche che ci sono qui, così
avevano l'abitudine di guardare le stelle, la luna, il sole. E siccome i
boschi, e i monti, e le caverne hanno certi loro aspetti paurosi, così
essi sentirono e il dolore e la incommensurata paura delle cose. Io, da
bambino, sono vissuto con loro, lassù. Quei miei vecchi, inoltre, non mi
hanno lasciato in retaggio che la loro povertà. E se per effetto di essa
sono venuto da lungi qui al servizio della signora marchesa, questo
dichiaro e non me ne vergogno. E se le idee un po' semplici portate giù
dalla montagna e dalle caverne sono sbagliate, cercherò qui, e con
l'aiuto delle lezioni di lor signori, di correggerle e di emendarle.

Così parlò Aquilino; e le sue parole stridevano come un violino a cui fa
accompagnamento un contrabbasso commosso.

Tutti ascoltavano, e donna Bàrbera pareva pur essa sorpresa che un suo
servitore, a centocinquanta lire, suonasse, su di una vecchia ribeca,
una musica di sua testa. Il _magnifico commendatore_ borbottava non so
che voci, come, _poesia, poesia, poesia!_

                              *

La marchesa a cui quella partita di parole pareva già troppo pericolosa,
fu pronta come nel giuoco del dòmino, a confondere le tèssere per
preparare nuovo giuoco.

-- Scusate -- disse -- ma io rimango dell'opinione del senatore. Quando io
vado in treno elettrico, non sto a domandare perchè va. _Il ne faut pas
pousser la sagesse jusqu'à la folie._ D'altronde il treno elettrico non
fa fumo.

Il senatore lodò la saggezza sempre notevole della marchesa, ed infine
il discorso fu sviato.

La poetessa assicurò Aquilino dicendogli, in confidenza, che aveva
ottenuto ottimo successo, esaltandosi con la umiltà.

Il giovane la pregò di credere che lui per l'affare degli elettroni
riposava benissimo la notte; e poi volle ringraziare il poeta Emme del
suo valido soccorso.

Ed aggiunse: -- Io avrei voluto approfondire, ma il senatore mi voltò le
spalle....

-- Approfondire? Lei ha approfondito anche troppo!

-- Ho paura anch'io.

-- Il senatore non gliela perdona più.

-- Pazienza! Ma io sto in pensiero per la marchesa. Con l'amicizia che
c'è fra loro, non vorrei che mi capitasse qualche brutto scherzo.

-- Già, perchè lei è alle dipendenze della marchesa....

-- Precisamente.

-- Per la marchesa, per la marchesa....

-- Dica....

-- Per la marchesa, la faccenda è complessa, e se crede, le spiegherò.

-- Faccia il piacere, mi spieghi.

-- Non qui: ci vedremo fuori. Qui anzi non si faccia vedere troppo a
parlare con me. Non si è accorto che io sono, qui, un po' la _bête
noire_?

-- Non mi pare.

-- Ma lei vede pochissimo!

-- Me ne persuado, ohimè, sempre di più.

                              *

Del resto poco gli importava, anche della marchesa.

Aveva visto gli occhi di miss Edith che si erano finalmente aperti sopra
di lui.



CAPITOLO XIII.

La cura di Mitridate.


Aquilino andò in cerca di quel poeta per domandargli un poco di bùssola
per navigare. Sentiva di essere entrato in mezzo a correnti marine; e la
sua navicella, benchè tanto innòcua, si trovava sotto minaccia.
Fors'anche qualche mina subàcquea. Già! _La verità partorisce l'odio, e
l'osservanza partorisce gli amici._ Ma non sempre possiamo seguire le
sentenze dei savî.

Trovò quel poeta di pessimo umore, e prima di farlo parlare di quello
che l'interessava, lo dovette seguire per tutta la cucina del gran
ristorante della letteratura combattente. «Guardate che pèntole! che
intìngoli! E il pubblico, più la roba è sporca, più mangia. Ed io
sèguito a fare dell'arte pura!»

«Dio, che male anche quello della gloria -- pensava Aquilino -- che muta
in aceto quel poco di zucchero che ha l'uomo».

Forse era per questo che il vecchio bibliotecario soleva ripetere:
_Dòmine dà mihi nesciri_

Santi numi, se tutti vogliono la gloria, come ci può essere posto per
tutti?

Ma se Aquilino avesse cominciato questo discorso, chi sa dove sarebbe
andato a finire! E perciò gli grattò un pochino di quella malattia,
dicendogli che i poeti sono conosciuti, di solito, dopo molto tempo.
Voleva dire, per non sbagliare, «dopo la morte».

Il poeta Emme era anche lui di questa opinione.

-- Lei dice -- domandò Aquilino -- che il senatore non me la perdonerà più?

Il poeta Emme crollò la testa come un medico che fa una diàgnosi
disperata. -- Però senta: c'è un rimedio: donna Barberina l'ha mai
spedito a sentire delle conferenze?

-- No -- rispose Aquilino, meravigliando.

-- Oh, la spedirà! Bene: il senatore deve tenere una sèrie di conferenze.
Lei vi assiste, fa la relazione, e loda in modo particolare _la grazia,
il sentimento, il profondo intuito del bello_.

-- Cioè quello che non ha.

-- Già! E lo vuol lodare per quello che ha? Lei firma i soffietti e ci
penso io a far pubblicare.

-- Non mi garba, -- rispose Aquilino. -- E poi senta: io mi sono inscritto
in lettere, perchè la marchesa ne ha fatta una questione. Ma scusi: è
letteratura italiana quella che fa quel professore?

-- Ma lei ignora il mètodo! Per il suo professore, la letteratura è
scienza, e per uno scienziato studiare Dante o una tignola, appiccicata
a Dante, ha la stessa importanza scientifica. Naturalmente così nascono
più tignole che Danti dalla sua scuola.

-- Quello che mi sta a cuore -- disse Aquilino -- è di non disgustarmi con
la marchesa, almeno per due o tre anni. Dopo poi.... Ed io ho paura che
quei miei discorsi dell'altra sera....

-- Ma no! -- disse il poeta. -- Lei si imagini di essere un cavallo delle
scuderie della marchesa. L'altra sera lei ha fatto un salto, un po'
selvaggio, ma un bel salto. Glielo dico io che non ho l'abitudine di
lodare, fatta eccezione delle belle donnine. La marchesa si è sentita
lusingata; tanto più che lei era quotato un po' male. Oh, ma ora si è
piazzato.

-- Perchè quotato male? -- domandò Aquilino -- tutt'al più ero sconosciuto
fra quei signori.

-- Lo dice lei: lei vi era molto conosciuto....

-- Ohimè! Ero illustre? E cioè?

-- E cioè si sapeva di lei che lei per esempio non conosce l'inglese,
pronuncia maluccio il francese, non ha viaggiato all'estero....

-- Ohimè!

-- Viceversa si sapeva che lei distingue con molta attenzione il soggetto
dall'oggetto; che lei fa molto conto del filar la lana, _domi mansit,
lanam fecit_; che lei è un ammiratore di Muzio Scèvola; che in politica
le piace la candidatura di Cincinnato....

-- Ma le mie lezioni! Quel Bobby è un chiacchierone.

-- E non solo Bobby; ma la marchesa, e specialmente miss Edith. In una
parola, si sapeva che lei vuol nutrire l'ineffabile Bobby di midolla di
leone, e che perciò miss Edith e donna Barberina devono sudare quattro
camicie.... Scusi la metafora, perchè oggi le signore non portano più
camicia....

-- Che?

-- Non lo sa che le signore oggi non portan camicia? Ma lei non sa
niente! Dunque le signore devono sudare quattro camicie per impedire che
Bobby faccia un'indigestione di midolle leonine. Insomma, lei passava
per una balia di ottima costituzione fisica, di ottimi costumi, ma un
po' grossolana, che può fare morire il pupo. Il senatore diceva,
senz'altro, che il pupo cresceva male.

-- Ah, l'affare delle _fandonie_! -- esclamò Aquilino. -- Come sono
suscettìbili questi grandi uomini. Tutto è di poco conto, per essi; ma
guai a toccare la loro sacra epidèrmide!

-- Il commendatore, poi, -- disse il poeta Emme -- si divertiva a
rappresentare lei come l'uomo primitivo, e diceva: «Da quali monti
d'Abruzzo, marchesa, ha fatto scendere quel precettore?»

-- L'affare di Giulio Cesare. Idiota!

-- Un idiota di ingegno, perchè vuole arrivare e arriverà. La marchesa
spesso ha preso le sue difese. Ah, vuol sapere il giudizio che miss
Edith ha dato di lei?

-- Di me?

-- Sì, di lei. Che lei è a _pure-minded man_.

-- Che vuol dire?

-- Qualcosa come un _uomo ancora vergine_.

«Mi dovresti capitar sottomano», pensò Aquilino; e disse:

-- Allora è per questo che mi curiosavano tanto, in principio.

-- Già! Ed anche per un'altra ragione: che lei è un discreto giovane.

Aquilino arrossì.

-- Non arrossisca. Di bei giovani siamo in pochi, oramai.

Aquilino dopo un po' disse: -- Giacchè lei è tanto penetrante, mi cavi
una curiosità: perchè miss Edith fa tutte quelle smorfie al senatore....

-- La interessa miss Edith?

-- Mi interessa...? Mi fa rabbia vedere tutti quei complimenti a
quell'uomo....

-- È cosa semplice. Sollètica un poco l'ombellico al grosso ippopòtamo
perchè desidera di ottenere una cattedra di inglese nelle nostre scuole.

-- Infatti miss Edith, è istruitissima -- disse Aquilino.

-- Una deflorata -- disse il poeta.

-- Sarebbe a dire?

-- Una deflorata a tutti gli spìgoli dell'intellettualità.

Aquilino stette un po' stupito alla strana definizione. -- A me pare
intelligente -- disse.

-- Intelligenza delle donne -- disse il poeta.

-- Sarebbe a dire?

-- Intelligenza di donna. Ogni alto sapere ha per substrato la conoscenza
della morte. Ciò non può essere pienamente conosciuto dalla donna,
perchè essa è donna, cioè è bellezza e vita. Non le pare di vederla
dietro il paravento occupata a impennacchiare e mettere campanelli e
nastri allegri ai poeti, ai filosofi melanconici?

-- E quella poetessa? È sempre vicina a me....

-- A lei? Oh, anche a me. Quella povera signora vive per la ricerca delle
anime alte; e ogni anima alta -- maschile, s'intende! -- dovrebbe
congiungersi con lei più o meno spiritualmente. Si ubbriaca con se
stessa ed ignora che di solito l'anima alta maschile se ha bisogno di
una donna, questa è la cuoca.

-- Scusi. Anche la marchesa è autrice?

-- Autrice di Bobby.

-- Ah, questo lo so. Voleva dire _autrice di qualche opera_.

-- Infatti lei ha ragione. Esiste un'opera, un capolavoro di donna
Barberina: lei non l'ha ancora visto.

-- Quale? -- domandò Aquilino.

-- Il marchese suo marito.

Aquilino stette un po' lì, sospeso.

-- Scusi, e perchè un capolavoro?

-- Perchè lo ha completamente idiotizzato.

-- Idiota?

-- Ho detto idiotizzato. Il marchese Don Ippolito sta ritirato in
campagna e vive la sua filosofia. Lei mi capisce: quando uno cade nella
filosofia, è bell'e finito, se pure non si tratta di filosofia
umoristica.

                              *

Dio, che cerchio alla testa! Quanti veleni! Per vivere bisognerà
cominciare la cura di Mitridate: abituarsi ai veleni.



CAPITOLO XIV.

Il capolavoro della marchesa.


A metà dell'inverno arrivò dalla campagna il marito di donna Bàrbera; ed
Aquilino vide, con un certo trasecolamento, un uomo di forte persona, di
poche parole, rossiccio, due baffacci rossicci, due ciglia corrugate.

Si chiamava Ippolito, ed era l'uomo idiotizzato.

«Sarà idiotizzato; ma sta il fatto che mi dà soggezione», diceva
Aquilino a se stesso.

-- È arrivato il suo signor padre -- disse con tutta prudenza a Bobby.

-- Ah, sì! Sta lassù -- disse Bobby -- nella torre di Albraccà, -- ed
indicò col ditino quella specie di torrione, che Aquilino aveva
osservato, la prima volta.

«Albraccà?» -- dove aveva inteso già altre volte questo nome? Lontano
lontano: eppure lo aveva inteso.

Il marchese fece ad Aquilino un'accoglienza così fredda che il giovane
disse entro di sè: «non sono mica stato io che ti ho idiotizzato!»

Ma quando donna Bàrbera spiegò che era stato il conte Cosimo a mettere
avanti quel precettore, il volto del marchese si spianò, si aprì come se
vi apparisse l'azzurro dell'anima. La sua parola parlò: -- Ah, sì? Caro e
buon conte Cosimo!

Al nome di Cosimo così affettuosamente espresso, Aquilino dimenticò che
era lì a tavola della marchesa; che c'era il cameriere in guanti; e
parlò; parlò come il cuore gli dettava, come vuole affetto e natura,
come avesse riaperte le vàlvole della sincerità. Ed il marchese
Ippolito, appoggiato con la testa su la mano e il gomito su la tavola,
ascoltava con letizia come si ode un racconto della cara giovinezza; e
ogni tanto diceva: -- Caro, ma sì, oh, un gentil uomo vero! Quanto tempo
è che non ci vediamo! E i figli non li avete conosciuti?

-- I suoi figliuoli? di chi? Ha figli il conte Cosimo? -- domandò Aquilino
con molta sorpresa.

-- Scusate, caro giovine, in questo momento ero assente col pensiero --
disse il marchese. -- È una stòria....

-- Mi pare che siate sempre assente -- disse donna Barberina.

Il marchese o non aveva udito o non volle rilevare la intenzione
provocatrice della signora.

-- Già, non li potevate aver conosciuti. Uno, credo che sia segretario
d'ambasciata a.... a.... a....

E pareva tutt'intento a cercar dove.

-- .... a Pietroburgo. Mah!

-- È che quando si ha la disgrazia di nascere con un temperamento
stravagante -- interruppe ancora donna Barberina --, bisogna per lo meno
avere il buon senso di non mettere su famiglia.

Le parole di donna Barberina avevano una sottile intonazione di
riferimento al di là del conte Cosimo.

Il marchese -- questa volta -- non potè non rilevare la interruzione: ma
spingeva il discorso di sua moglie, indietro, verso il conte Cosimo.

-- Stravagante, se così vi pare -- disse -- ; ma un uomo di ottimo cuore e
un gentiluomo vero, e quando si è gentiluomini veri come è il conte
Cosimo....

-- Non si è niente -- terminò donna Barberina. -- Noi viviamo delle idee e
delle convenienze del nostro tempo e non dei tempi di Carlo Magno.

-- Piuttosto io direi -- corresse con mansuetudine il marchese cercando
con gli occhi l'approvazione di Aquilino -- che nei tempi nostri si è
perduto la conoscenza della parola _gentiluomo_ vero.

-- Una parola medievale -- disse la marchesa.

Ed Aquilino meravigliò vedendo che il marchese non rispose.

Ma poi gli entrò un gran triste pensiero, come una lacerazione nel
cuore: «Oh, povero conte Cosimo, chi sa quanto doveva aver pregato
quella prepotente signora per fare accettare lui, povero meschino
sconosciuto figlio, come precettore! E tu non mi hai fatto capir
niente!» Quanto avrebbe pagato per essergli per un momento vicino e, sì,
proprio, baciargli la mano sua nobile.

                              *

Era venuta la buona stagione oramai, ma Aquilino aveva come il
presentimento di un temporale sospeso nell'aria.

I serviti, a tavola, correvano anche con maggior fretta, e sùbito
s'allungava lo spazzolone lieve a sgombrare le briciole; e la tavola
veniva abbandonata, anche più in fretta, come un luogo di abominazione.

Aquilino sentiva, anche nella conversazione più insignificante, come uno
stridere di contrasti, e stava attento e con paura.

Dal modo come mangiava, il marchese pareva un uomo di formidabile
appetito. Avrebbe divorato, e non bezzicato.

Ahi ahi, si andava camminando verso la guerra coniugale, ed Aquilino
sentiva di trovarsi in quel territorio di confine dove i due eserciti,
marito e moglie, si incontreranno.

-- Mi piace, caro giovane -- diceva il marchese --, perchè vedo che lei è
di buona bocca come me.... Un bicchier di vino non fa male.... Ma sì,
che lo bevi il vino....

E infatti Aquilino lo avrebbe anche bevuto un bicchierotto, ma se ne
asteneva per non far cosa diversa da miss Edith e dalla marchesa, che
trattavano quella povera ampolletta come messa lì per pittura: un
insulto al dio Bacco.

-- Lei osservi -- diceva il marchese con soddisfazione, e gravemente
passando al _lei_ -- e vedrà che il fiore della civiltà è fiorito nei
paesi dove abitava il dio Bacco con i pàmpini della dolcissima vite.
Dove non c'è il dio Bacco, abita il dio Moloc al sud, ed il dio Thor al
nord....

-- E l'arteriosclerosi nel centro -- disse la marchesa. -- Vecchiezza
precoce, tendenza al litigio, alla sonnolenza, e poi il sangue grosso e
quel reticolato vinoso nelle guance. E gli occhi truci.

Più scientifica era miss Edith, la quale veniva in aiuto della marchesa.
Miss Edith sapeva che un litro di vino contiene un decilitro di alcool
puro, e che le esperienze dimostrano che l'alcool determina la
coagulazione della pepsina.

Ma le parole, anzi la sola presenza di miss Edith, pareva esasperare i
nervi del marchese: «Oh ecco le truppe scozzesi coi _bag-pipes_» --
borbottava.

-- L'esperienza nel vetro, _experientia in vitro_, dirà anche così,
madamigella; ma l'esperienza nello stomaco -- rispondeva poi il marchese
-- non la conoscono nemmeno i chimici tedeschi. E poi cosa mi fa lei
l'elogio della temperanza, che i vostri marinai inglesi si ubbriacano
come monne; e ho paura che al bisogno si coàguli qualcosa d'altro che la
pepsina!

Guai toccare la marina inglese a miss Edith! Pareva un'aquiletta
sboglientata. E tutte e due le donne lavoravano a colpi di spillo contro
il marchese. Ad Aquilino faceva compassione, non sapea se più Bobby o il
marchese.

«E lasciatelo mangiare e bere a suo piacimento, povero disgraziato --
diceva Aquilino fra sè. -- Sono piuttosto tutte quelle allusioni che
fermano la pepsina!» Ed anche la voce di donna Barberina aveva tutti
suoni strìduli: non aveva più la sua voce di flauto.

Dove aveva letto Aquilino la storia di quel santo frate il quale ad una
buona femminetta aveva suggerito un miracoloso rimedio per guarire il
marito dal vizio di picchiare? Togliete -- aveva detto il santo frate
alla femminetta -- quest'ampolla di acqua benedetta, e quando vostro
marito rincasa, mettetèvene un sorso in bocca, ma per carità non ve ne
sfugga una stilla! La donna così fece e il marito, con grande letizia
della buona donna, non picchiò più. Ma la storiella è dei tempi antichi,
quando le donne non sapevano nè di lettere nè di chimica; perchè in
quella ampolletta non si conteneva che semplice acqua.

                              *

Anche i gusti gastronomici del marchese non si incontravano con i gusti
della marchesa.

Quei _flans_, quelle _suprêmes_, quei _vol-au-vent_, quella roba _en
belle vue_, quelle salse gli garbavano poco.

-- Un bel lesso! un bell'arrosto! delle belle lasagne! -- diceva con aria
di soddisfazione.

Aquilino avrebbe anche voluto rispondere di sì; ma donna Barberina la
quale pareva che si fosse assunta l'incarico di coagulare con parole
gelide ogni di lui effervescenza di letizia, disse: -- Per impinzarvi e
diventare obeso. Nulla è più repugnante dell'obesità.

Aquilino cominciava ad essere un po' atterrito, e l'ora in cui il
cameriere suonava i suoi timpani per la tavola gli coagulava la pepsina.

                              *

Fu proprio il lesso e l'arrosto la causa di una scena bruttissima: un
disgraziato lesso che il marchese aveva cominciato a mangiare con fine
appetito.

-- Ci vogliono denti di elefante a mangiare questo manzaccio -- disse
donna Barberina.

(Proprio il marchese aveva grossissimi denti).

-- E un'altra volta non più lesso a tavola -- ordinò donna Bàrbera.

-- Sissignora, signora marchesa -- rispose il domestico.

-- Farete il lesso quando lo voglio io! -- tuonò come una bombarda il
marchese Ippolito, verso il servo; e poi rivolto alla moglie:

-- E voi -- disse -- rispettate almeno il lesso, signora, chè vostro padre,
in fondo, poi, ha fatto i milioni avvelenando mezzo esercito con le sue
scatole di carne in conserva!

La marchesa ascoltò, non si mosse, sfoderò due occhi da basilisco che
Aquilino non aveva mai veduto. Disse con una secchezza atroce: -- Fareste
meglio a starvene tutto l'anno fra i villani o a non uscire dal
sudiciume del vostro studio.

Il marchese ascoltò come estàtico, parve mandar giù in gola qualche cosa
che gli veniva su; e non replicò.

Successe un gran silenzio, ed Aquilino, si vide solo a tavola, col
cameriere idiota che con lo spazzettone liberava automaticamente la
tovaglia dagli abominevoli avanzi del santo pane.



CAPITOLO XV.

Nella comica torre di Albraccà.


-- Caro maestro -- disse il marchese incontrando Aquilino, -- l'altra sera
a tavola mi sono lasciato trasportare. Ma sarei dispiacente che voi
aveste frainteso. Venìtemi a trovare nel mio studio. Voi ci potete
venire in due modi: _palam vel clam_: ma se ci venite _clam_, sarà
meglio. Sono ottantasette scalini, di cui ventinove appartengono ad una
scala a chiocciola.

Fu così che Aquilino entrò _clam_ nello studio del signor marchese, cioè
nella torre di Albraccà.

Tempo era di primavera; e dai finestroni aperti l'occhio correva
sull'ampia distesa dei tetti. Ma anche lì, nel mondo dei tetti, la
natura riprendea l'universale suo impero, anche lì, a suo modo, fioriva
la primavera, piccola primavera silenziosamente.

Il sole, entrando a ondate d'oro, suscitava la vita anche da certi
canterani scuri di antica melanconia, ricolmi di libri, libroni,
libracci. Altri libri stravacavano sul pavimento e si arrampicavano sino
al soffitto. Un leggìo, come nei cori delle chiese; e alle pareti,
vecchie armi: partigiane, alabarde, alte spade dall'elsa a trafori; una
corazza ageminata.

Il marchese stravacato anche lui in una enorme poltrona, non si mosse;
prima perchè era stravacato, secondo perchè era occupato a sospingere da
una pipa buffi di fumo azzurro dentro il fascio della luce solare; terzo
perchè nella mano sinistra teneva un bastoncello sul quale era posato un
uccellino.

Tuttavia allungò verso Aquilino l'indice e il medio della mano destra e
diede il benvenuto.

-- _Passer domèsticus_ -- disse accennando all'uccellino -- : così
definiscono i naturalisti: ma io direi _passer idiota_, inquantochè
segue l'uomo. A questo qui dico: Va fuori, vola! E lui resta qui. Dunque
vi volevo dire (oh, ma accomodatevi) che realmente fra me e la marchesa
esistono alcune divergenze, le quali però non impediscono il buon
accordo. Io, per esempio, ho in testa una selva forse di gufi, di
girfalchi, e forse anche qualche usignolo. Ma la marchesa preferisce la
musica del Conservatorio! Io cerco la verità nuda ed amara, e la
marchesa pudicamente la ricopre con pizzi, merletti, con amabili
_bibelots_, o bamboccini che dir vogliate: la raddolcisce con tutte
quelle cosine dolci che avrete notato per casa. Io sono storico e la
marchesa è politica. Che cosa è la storia? La politica di ieri. Che cosa
è la politica? La storia di oggi. Senonchè io coi morti della storia
vado d'accordo. La marchesa non conosce la storia, ma va d'accordo
benissimo coi vivi. Io amo qualche volta contemplare il corso delle
stelle: la marchesa preferisce di osservare i corsi del listino di
Borsa. Ella è positivista, pure coi _bibelots_ e le violette candite;
io, pur con la mia nuda ed amara verità, temo di essere un sognatore.

A questo punto il marchese si arrestò.

Si levò faticosamente in piedi, tolse da un armadio una bottiglia, e
disse: -- Questo è un vino che potrebbe raccontare istorie di altri
tempi. -- Volle sturare lui stesso, ed il tappo saltò provocando
un'uscita lieve di gas: parve l'esalazione dell'anima imprigionata del
vino: poi versò in due coppe di antico vetro, sottile, a rabeschi.

-- Bisogna, badi, _chopiner theologaliter_, cioè a sorsettini.

Aquilino bevve _theologaliter_, e potè notare che, oltre alla collezione
di vecchie armi, vecchie pipe, vecchi libri, esisteva anche un archivio
segreto di vecchie bottiglie, da cui il marchese estraeva la verità
teologale.

-- Perchè -- disse sdraiandosi di nuovo, -- le cose stanno così: il nostro
secolo è sotto la speciale costellazione del dio Mammone! Io, marchese
Ippolito di Torrechiara, posso dolèrmene; ma non posso distruggere
l'influsso del dio Mammone. Perchè.... -- e si voleva alzare ancora come
chi cerca qualcosa.

Aquilino si offerse; ed il marchese disse: -- Allora togliete quel libro
che sta sul leggìo.

Aquilino tolse. Era un libro legato in vecchio cuoio con molti nastri di
sargia pendenti; e come il marchese lo aperse su le sue ginocchia,
apparvero nella pagina gialla nitide ottave.

-- Perchè io -- disse puntando il dito e l'unghia sopra un'ottava -- posso
approvare quello che dice il paladino Orlando in difesa del nobile
mestiere delle armi:

    Ogni gentiluomo naturale
    Viene obbligato, per cavalleria,
    Di esser nemico ad ogni disleale,
    E far vendetta de ogni villania.

Ma a patto di possedere Durlindana, la spada miracolosa che spezza i
monti e taglia a fette i marrani; altrimenti si rimane pesti e buffi
come Don Chisciotte. Io ammiro ciò che dice il prefato paladino Orlando:

    Ma l'acquisto de l'oro e de l'argento
    Non m'avria fatta mai il brando cavare.

E quando Orlando arriva ai giardini della fata Morgana, sapete, maestro,
perchè riesce a vincere tutti gli incanti? Perchè Orlando non si lasciò
affascinare dall'oro.

    Giunse alla porta che guarda ricchezza
    Che non cura Vertute o Gentilezza.

Ciò è verissimo. Ma quei paladini andavano su cavalli fatti di vento,
dormivano sotto le stelle, non conoscevano le questioni economiche.
Oggi, invece, l'uomo povero non possiede realtà nemmeno morale. E il
popolo dice, _Guardalo bene, guardalo tutto, l'uomo senza danar quanto è
mai brutto!_ La marchesa, naturalmente, risente del secolo in cui vive:
suo padre è un abilissimo industriale, checchè altri ne dica; e la
figlia è un'eccellente amministratrice: una donna, sotto quest'aspetto --
vi garantisco -- di primissimo ordine, perchè se dovessi amministrare
io.... Non ne parliamo perchè la prima cosa è riconoscere la verità.
Mentre, dunque, sotto questo riflesso io riconosco i meriti della
marchesa ed ho abdicato con riconoscenza alla sovranità materiale della
casa, non vi nascondo che alla sovranità morale non intendo abdicare, e
non potendo diversamente, me la tengo per me. Da ciò molte piccole
divergenze. Alla marchesa piace troppo il protocollo esteriore. E molte
volte le ho detto: troppa proiezione borghese nella vita! Il popolo
vede, e come dice il proverbio, _al contadino non ci far sapere quanto è
buono il formaggio con le pere!_ Ed il popolo può dire: «Io adoro
Mammone al par di te, e allora perchè tu sì, ed io no?» Guardate che è
un bell'argomento! Io lascio, concedo, permetto che lei tenga una specie
di corte politico-letteraria: ma io mi credo libero di non partecipare.
È una _ménagerie_ di ventrìloqui, scusate il paragone. Ripetono le
ultime voci di Francia o di Germania; quel senatore pontìfica beato
nella rocca forte del suo sistema. Delle donne non parliamo, perchè io
sono cavaliere. Trovo più interessante questo passerotto. La conseguenza
di tutto questo è che madama ed io siamo come due ospiti sotto il
medesimo tetto, e viviamo con quella correttezza che è un dovere
dell'ospitalità. Qualche volta però avvengono piccoli corti circuiti,
come l'altra sera. Dove posso, mi sforzo di accontentare la marchesa: ma
non sempre mi è possibile. La marchesa avrebbe desiderato che io
percorressi la via degli onori nelle cariche pubbliche e che, quanto
meno, avessi posto la mia candidatura al laticlavio. Ma in primo luogo,
io, marchese Ippolito di Torrechiara, non sento affatto il bisogno di un
democratico titolo di «onorevole» davanti al mio nome: in secondo luogo
non posso abdicare alle mie idee. Di preciso non saprei proprio dirvi
quali siano le mie idee in materia di politica; ma piuttosto
repubblicane. Onoro, rispetto, mi inchino alla casa Sabauda. Ha avuto
molte _bonnes chances_. Forse troppe _bonnes chances_! Ma ha dovuto
firmare troppi compromessi, accordarsi con troppa gente, e gentuzza.
_Vivere est necessarium!_ Capisco. Ma io sono io, marchese di
Torrechiara.

                              *

Veramente la ragione per cui Aquilino era salito volentieri su la torre
di Albraccà non era tanto per conoscere le verità e le opinioni del
signor marchese e le sue divergenze con la moglie, ma per farsi dire il
mistero del suo caro conte Cosimo; ma poi come era avvenuto? Che se
Aquilino stava ancora ad ascoltare, correva il rischio di finire
idiotizzato anche lui.

Ripensandoci però bene, dovette riconoscere che quello stravagante
signore aveva gli occhi dolcissimi, e non «truci» come diceva donna
Barberina.



CAPITOLO XVI.

Nella tragica torre di Albraccà.


Ma un'altra volta che Aquilino era salito alla torre di Albraccà, trovò
l'uomo di un umore diverso: non citò Orlando; non fece le lodi delle
qualità amministratrici della marchesa, non citò nemmeno, _io, marchese
Ippolito di Torrechiara_. O aveva bevuto la verità ad altre fonti, che
alla bottiglia; o non aveva bevuto _theologaliter_; o forse aveva
ragione la marchesa: «uno stravagante». _L'uomo, essendo entro la
verità, era fuori del liquido, entro cui sta immersa la vita: e per
questo fatto i nervi rimanevano scoperti._

«Don Ippolito doveva essere -- pensò Aquilino -- uomo neurastènico.»

                              *

Ben è vero che nei giorni precedenti, all'ora del pranzo -- il solito! --
proprio l'ora in cui _la bufera infernal che mai non resta_ dovrebbe
arrestarsi, era avvenuto fra lui e la marchesa un altro _corto
circuito_: una cosa lieve, ma non perciò meno sgradita per lo stomaco,
che in quell'ora non vuole seccature. E questa volta non era stata la
parola _lesso_ o _arrosto_, ma la parola _virtus_, in latino, che in
italiano vuol dire _virtù_.

Malauguratamente, Aquilino era stato la causa involontaria del _corto
circuito_; ma se quel benedetto uomo fosse ritornato ancora in campagna,
o fosse rimasto nella sua torre di Albraccà, la cosa non sarebbe
successa.

Invece era lì ad assistere alla lezione di Bobby, e andava su e giù per
la stanza, un po' assorto, tirandosi i baffacci rossi, e ogni volta che
passava presso Bobby, gli accarezzava il parrucchino.

Aquilino, a gran dilettazione del marchese, faceva andare Bobby,
cavallino ben domato, svelto, svelto, giù per le declinazioni, su per le
coniugazioni.

-- _Mòrior_, _mòreris_ e non _morèris_ -- diceva Bobby. -- _Volo, nolo
malo. Volo vis, vult._

Il volto del marchese era tutto illuminato.

-- Ha una memoria, ha una prontezza.... -- diceva Aquilino.

-- _Paparino_, _paparone_, sai? -- disse Bobby di botto. -- Con gli altri
miei compagni, io detengo il _record_ dei verbi irregolari.

-- Ma pensi, figlio mio? connetti? rifletti? -- domandava lui. -- _In
principium erat verbum_, cioè in principio c'è il verbo, _io penso_.

Buon uomo! Ma non sapeva che una delle qualità più spiccate di Bobby era
non pensare?

-- Paparino, i Romani quanta più gente ammazzavano, tanto più erano
forniti di virtù, _virtute praèditi_.

Questa sortita di Bobby disorientò lì per lì il marchese: ed allora
Aquilino fu pronto a spiegare a Bobby come la parola _virtù_ aveva in
antico un significato un po' diverso, cioè indicava più specialmente _le
molteplici energie dell'uomo_.

-- Perfettamente -- disse il marchese, -- _virtus_ è la qualità specifica
del _vir_. Un po' di latino mi ricordo anch'io.

Ma _vir_ vuol dire «uomo!» E Bobby sapeva alla perfezione il nome _vir_.
Nome irregolare! -- Io sono un _vir_ e perciò io ho la _virtus_ -- diceva
Bobby. -- Allora le donne, perchè non sono _vir_, non hanno la _virtus_!
Io ho la _virtus_, ma tu non ce l'hai! La cameriera non ha la _virtus_,
miss Edith non ha la _virtus_, mamà non ha la _virtus_....

Bobby si divertì quel giorno per casa con la _virtus_, come con un
balocco.

                              *

A tavola, oimè, il discorso cascò sulla _virtus_; ed Aquilino, già
sentendo nell'aria un odore di temporale, con molto tatto, con molta
forma, spiegò la storia della parola _virtus_.

Ma il marchese, che poteva star zitto, volle parlare anche lui!

Donna Barberina aveva accolto, così e così, la spiegazione data da
Aquilino, della parola _virtus_, uguale a _superiorità materiale_
dell'uomo su la donna. Pur troppo! Ma quando il marchese parlò, e volle
spiegare che poi _virtus_ indicò la _superiorità morale_ dell'uomo su la
donna, allora si formò il corto circuito.

Donna Barberina negava ogni genere di superiorità. Ma nessuna
superiorità!

Il marchese cercava di condurre il discorso su le generali; e che Dante,
e che Platone, e che Cristo erano di sesso maschile: e che nella storia
non esistevano personaggi di tal fatta di sesso femminile.

Ma la marchesa accennava _ad personam_; a lui, poveretto!

-- Ma non parlatemi di superiorità! Nessuna superiorità.

«Al mio paese -- pensava Aquilino sentendo la voce della marchesa
stridere, -- un materialone di marito picchierebbe, come al tempo di quel
frate che inventò la cura con l'acqua benedetta».

Don Ippolito tacque allora; ma parlò dopo, nella torre di Albraccà.

                              *

Aquilino trovò dunque il marchese, nella sua torre di Albraccà, di umore
detestabile perchè l'acqua benedetta la aveva dovuta ingoiare lui.

Non offrì nemmeno da bere.

D'altra parte nel cuore del giovane era come un bisogno di cancellare
con un giudizio suo proprio il giudizio di condanna, sia pur lieve, ma
inesorabile, che la marchesa aveva dato sul caro e buon conte Cosimo:
«uno stravagante!» Pareva la condanna del mondo! Ed anche Pietro,
l'apostolo, tremò davanti alla condanna del mondo, e disse ben tre volte
che egli non era stato con Cristo, che non conosceva quel nazzareno
chiamato Cristo! E Cristo non trovando altro espediente per guarire la
viltà di Pietro, dovette ricorrere allo Spirito Santo: il quale scese
bensì dal cielo nel giorno della Pentecoste ed illuminò i dodici
apostoli: ma in misura non sufficiente per illuminare poi gli altri
uomini.

                              *

Vedendo il marchese di così reo umore, Aquilino levò una lettera
ricevuta qualche tempo innanzi dal conte Cosimo, nella quale si
contenevano affettuose parole per il marchese, ed abilmente, un po' per
volta, si mostrò desideroso di sapere quella parte della vita del conte
che egli non sapeva, ed a cui, con parole di condanna, aveva fatto
allusione donna Barberina.

Il marchese disse: -- _Infandum, regina, iubes renovare dolorem_, o come
dice Dante, _Tu vuoi che io rinnovelli_, con quel che segue. Favoritemi
quella pipa. Dunque io dicevo una cosa....

-- _Infandum_ -- suggerì Aquilino.

-- Ah, sì, proprio _infandum_. Il conte Cosimo è da molti anni divorziato
dalla moglie ed ha due figli di cui uno segretario d'ambasciata. Tutto
questo è di dominio pubblico e può essere detto senza indiscrezione.
Quanto poi alle cause del divorzio....

-- Vorrà dire _separazione_, signor marchese -- potè interrompere allora
Aquilino.

-- Divorzio, dico!

-- Perdoni, il divorzio da noi non esiste.

-- E se non esiste da noi, si prende dove c'è. È sempre questione di
pecunia: e vi sono avvocati specialisti del genere. Mi meraviglio che
studiate legge! E ignorate che viviamo nell'età dell'oro del dio
Mammone. Che diamine!... Senza fare insinuazioni maligne, senza entrare
nel _pro_ e nel _contro_, -- continuò --, vi devo dire, per onore di
verità, che la contessa, moglie di Cosimo, fece tutto quello che si può
fare per internare il marito in una casa di cura o manicomio. Non vi
riuscì, non per mancanza di buona volontà, ma perchè la tesi era
insostenibile e perchè si opposero protezioni potenti. Ma, ad onor del
vero, vi debbo anche significare che il conte vi si prestava
stupendamente. Ho passato con lui gli anni migliori della mia
giovinezza, e debbo dirvi di una sua grave pecca; per cui ebbe molestie,
e duelli anche: la _beffa_! Poter fare una _beffa_! Con le beffe da lui
perpetrate si potrebbe mettere insieme un volume tutto da ridere. Io non
ve le racconto, perchè non ne ho voglia. Sotto questo riflesso si poteva
pensare anche ad un vizio mentale. Però la dirittura morale dell'uomo vi
è dimostrata da quanto sto per dirvi. Avvenuto il divorzio, Cosimo mutò
di punto in bianco. I figliuoli, per ragioni delicate che credo
opportuno tralasciare, furono affidati alla tutela del padre. Ebbene:
per circa dieci anni, quanto durò l'educazione dei figli, egli non fu
altro che il precettore, il compagno indivisibile dei figli: oh, figli
studiosi, seri, educati, composti! Mi ricordo -- quei giovanotti facevano
allora il liceo -- che padre e figli parevano quasi tre fratelli. Lui
s'era messo a studiare con loro; e viaggi all'estero; viaggi di
istruzione in Italia in tanti luoghi, anche remoti -- sapete quale enorme
ricchezza è nel nostro paese di simili peregrinazioni! Irraggiava da lui
una felicità così grande che attraeva ognuno. I suoi figli! Oh, come li
ama! si dicea con stupore. Un'adorazione! Il sospetto di una infermità,
di un pericolo lo faceva tremare. Potrei scendere a particolari, che vi
rivelerebbero la delicatezza spinta sino allo scrùpolo. Sentite: Il
conte fu in giovinezza uno dei più belli uomini di cui abbia ricordanza,
e libero come egli era, gli caddero sul piatto molte coturnìci e
allodole belle e cotte, _Io le mangerei anche_ -- mi diceva in confidenza
-- ; _ma che devo dirti? fare cosa che non potrei rivelare ai miei figli,
i quali dormono puri, mi pare un'impurità._ E si asteneva dalle gioie di
amore. Vi dirò in breve: gli fu giuocata una beffa che è la più atroce
di tutte quelle che egli fece. Un fratello della contessa lasciò ai
nepoti una somma di parecchi milioni; alla condizione che al nome
paterno avessero sostituito il nome della madre.

-- Ed essi? -- domandò Aquilino.

-- Ed essi lo fecero.

-- Oh! E il mondo dei nobili non li ha scacciati dal suo seno?

-- Il mondo dei nobili ne ha fatto semplicemente un _numero_ di
discussione nelle conversazioni. I figli di Cosimo sono, oggi, perfetti
_gentlemen_, _sportmen_ molto stimati! Non vi ho detto che viviamo sotto
la costellazione zodiacale del dio Mammone?

-- E il povero conte?

-- Fu lo schianto, la morte! Da allora vive solo, errante come un'anima
in pena. Ah, i figli che fanno morire i padri di crepacuore!

-- Io sono un plebeo, signor marchese -- disse allora Aquilino -- ; e il
mio povero babbo è morto: ma proprio non ho niente da rimproverarmi. Mi
sembrerebbe, se avessi questi rimorsi, di sentire, la notte, il mio
povero papà venirmi a tirare per i piedi. E allora dov'è questa nobiltà,
signor marchese?

-- Lo so io dove è la nobiltà? Io sono nobile, e basta! -- disse il
marchese.

«Ah, se non lo sa lei -- disse fra sè Aquilino -- non ne parliamo più».

Ma dopo un poco il marchese prese a dire:

-- La nobiltà è gente che ha il _pedigree_. Voi avete il _pedigree_? No.
Noi abbiamo un _pedigree_ antico. I marchesi di Torrechiara -- perchè
sappiate che realmente esiste tuttora il castello di Torrechiara, da cui
si domina tanto sereno all'intorno, -- i marchesi di Torrechiara, vi
dico, sono stati al seguito di Carlo V. Ciò è nella storia! Eppure ecco
quello che un'antica pergamena dice, che pare un libro del dare e
dell'avere. _Addì_, ecc. _quelli dei Torrechiara ammazzorno due uomini
della famiglia dei Cacciaterra. Addì, ecc. Cagnaccio Cacciaterra ammazzò
cinque uomini dei Torrechiara, e questi poi ammazzorno_, ecc. Quando le
note degli _ammazzorno_ da una parte e dall'altra formavano una specie
di pareggio, si acquetavano per un po'. Poi tornavano da capo. Queste
sono le origini della mia famiglia. Ma forse può darsi che sia il
_pedigree_ anche degli altri nobili: cioè _ammazzorno_, _ruborno_,
_ingannorno_. La musa poi della storia prende questi rari _ammazzorno_,
_ruborno_, e ci sparge sopra la polvere d'oro, come il cuoco fa con la
salsa _béchamel_ su le polpette vecchie: o ci stordisce con il rimbombo
dei gloriosi oricalchi. Miserie!

-- E la moglie del conte Cosimo era bella?

-- Molto bella! E perciò il re Salomone dice: _Averte faciem tuam a
muliere compta!_ «Allontana, allontana il tuo sguardo dalla bella
donna». Ma il sapiente re Salomone, sapendo quanto la cosa sia
difficile, teneva presso di sè mille concubine, perchè mille donne sono
meno pericolose di una sol donna. Ma lasciamo tali facezie. Io penso
allo strazio del povero Cosimo che ha dovuto, un poco per volta,
seppellire i suoi figli vivi. Ed io mi domando: sono figli quei figli, o
che cosa? Il marchese, detto questo, si arrestò, stette meditabondo, e
dopo un po' riprese:

-- E quando poi io penso che mio figlio è affidato a quelle mani....
Bouuh! -- fece con terrore ed orrore.

Ed Aquilino vide d'improvviso il marchese Ippolito di Torrechiara
avventarsi ad una partigiana che era in un angolo e squassarla come
forse aveva fatto l'antico, che era stato al servizio di Carlo V.

-- Un bimbo educato così sarà figlio mio? -- replicò. -- E se i figli non
ereditano la bontà dei padri, perchè i figli nel mondo?

Lì per lì Aquilino non capì. Gli venne il sospetto che il conte fosse un
po' ubriaco. Evidentemente alludeva a Bobby, e a miss Edith; fors'anche
alla marchesa.

E come ebbe compreso questo passaggio, si diè amorosamente a calmare il
marchese di quella sua repentina vesània.

-- Non fatevi campione di quella rea femmina -- disse presentandoglisi con
la partigiana. -- Mio figlio affidato a quelle mani impure! Povero
fanciullo!

E rigettò la partigiana, e si buttò su la poltrona dando in uno scoppio
di risa.

Aquilino se ne stava, così, fra l'_idiotizzato_ e l'atterrito, come chi
corre in treno e sente il treno uscire dalle rotaie.

Per fortuna il marchese si rimise sul tono di prima e disse ancora:

-- Non vi fate campione di quella rea femmina.

Evidentemente alludeva a miss Edith.

-- Io sento che dalla mia casa sale sino quassù un lezzo di cancrena....

-- La condotta e la vita di miss Edith -- disse allora Aquilino -- mi
paiono, signor marchese, del tutto conformi al decoro.

-- Al decoro! Sì, maestro! Avete proprio imbroccata la parola giusta: il
decoro: salvo il decoro, è salva l'anima. È stato il genio malefico di
questa casa, quella inglese!

Aquilino si sforzò ancora di metter pace nel cuore di quel povero
signore: -- Forse -- disse -- miss Edith ha studiato troppo; ha letto
troppo per la sua età: certe idee sono prese forse un po' troppo alla
lettera. Troppa filosofia!

-- Filosofia? E anche questa qui è filosofia?

E il marchese si levò, aprì il canterano, ne tolse dei libri, li mise
sotto il naso di Aquilino, e seguitò leggendo il titolo di uno di quei
libelli: _Heptameron di Margherita di Navarra_. -- È questa filosofia?

Poi altro libello ed altro titolo: _Discours de Brantôme_. -- È questa
filosofia?

Aquilino guardava confuso quei libri.

-- E questo spaventoso immoralissimo libro, _Claudine à l'école_; e
quest'altro, _Intentions_ di Oscar Wilde; e quest'altro, _Décadence
latine_ di Sar Peladan, son libri per una giovanetta, per una
educatrice? E mia moglie lo sa, lo sa!

-- E cosa le ha risposto la signora marchesa?

-- Ha risposto che è letteratura, e che non c'è niente di strano che una
giovane donna istruita legga questi libri e sappia tutto. Ma è stùpido --
io le ho detto -- spalancare la finestra davanti ai ciechi. Non si può
piantare una quercia entro un vaso da fiori, se no il vaso si spezza.
Accidenti alla letteratura!

-- E la marchesa?

-- La marchesa ha detto che badassi alla mia testa, perchè la mia è già
spezzata. La mia! Credete, credete, quella inglese ha stregato mia
moglie! E quest'altro infernale libro del Nietzsche, _Jenseits von Gut
und Böse_, _al di là del bene e del male_, cioè un libro esotèrico, che
io, voi forse, con molti «forse», potete leggere, può essere dato in
pasto al cervello frullino di una donna? E questa putrefazione elegante
_Demi-Vierges_? pensate maestro _mezze vergini_! il solo titolo è
l'infamia della minotaura! E costei è la educatrice di mio figlio.

Aquilino si ricordò allora di quella espressione del poeta Emme, _che
miss Edith era una deflorata a tutti gli spigoli della intellettualità_.

Imagini di voluttà e di colpa si svolgevano da quei titoli dei libri
nella mente del giovane, senza il concorso della sua volontà.

Vedeva miss Edith, la bionda; vedeva anche donna Bàrbera, la bruna.

Le carni di lui avevano brìvidi e fiamme.

E dopo alquanto silenzio Don Ippolito proseguì:

-- Io, a detta della marchesa, sono l'uomo che sogna. Ma vi giuro,
maestro, che io avrei tutta la straordinaria energia di Ercole per
purgare queste stalle di putredine. Ma poi penso: a che vale? Se è
destino che mio figlio debba vivere in un mondo avvelenato, forse è bene
che cominci da piccino la cura del veleno. Miss Edith, avete ragione,
maestro, è un'ottima, igienica istitutrice. Conservatene ottima
opinione. Ma se un figlio, oltre che figlio delle vostre carni, non sarà
anche il figlio della vostra anima, perchè procreare?

Aquilino udiva queste parole, stando col capo in giù. Non rispondeva
perchè vedeva quelle imagini voluttuose e non poteva dire ciò che
sentiva.

Poi sentiva la sua giovinezza trascinata verso alcunchè di indomabile.

Egli aveva, nella sua adolescenza, sognato gli angioli della pietosa
testa chiomata, con solo un manto, cui le ali ventilavano.

Ora non vedeva più le ali e gli angioli. Vedeva un'imagine che fu,
fermata in un quadro: una donna erta, tetra con le pupille fisse avanti,
col petto denudato e tutta aggirata all'intorno da un verde maculato
enorme serpe, e la testa triangolare del mostro ricadeva giù su la
spalla della donna.

E ben guardando quell'imagine, non sapeva dire se quella donna godesse o
soffrisse di quel mostruoso abbracciamento della serpe. Pareva, al più,
che ella fosse come la sacerdotessa di non sapea quale oscura e perpetua
religione: qualcosa di più potente e terribile che lo stesso dio
Mammone.

Miss Edith la bionda, e donna Bàrbera la bruna.

                              *

No, non sarebbe più andato nella torre di Albraccà.

Non si va, non è igiene andare dove sono gli infermi.

Quell'uomo era troppo sano; e perciò era un infermo tra gli altri
uomini.



CAPITOLO XVII.

La mamma è morta!


Non poche volte la madre aveva veduto il figlio tornare. Ora egli aveva
tutti assai belli abiti nella sua valigia; biancheria fina, scarpe con
la mascherina di camoscio; e quando passava, lui e ogni sua cosa sapeva
di buon profumo.

O Natale con la prima neve, o Pasqua con le prime viole, trascorsa
ancora con mamà nella povera casetta!

Veramente lo meravigliava sentire la mamma dirgli, come una volta:
«Aquilino, lèvami un secchio d'acqua dal pozzo» o dire: «Aquilino, va
dal macellaio e prendi una libbra di carne;» e più lo meravigliava
vedere le sue mani attingere l'acqua dal pozzo. Ed al mattino udiva
ancora con istupore la voce della mamma, forte: «Vengo, vengo!» e poi la
sentiva giù, su la porta della casetta, contrattare dimesticamente la
bella verdura e il bianco latte, così come una volta. Però, se non fosse
stato per rivedere mamà, non sarebbe tornato al suo paese; e sapeva che
la gente diceva di lui: «Il figlio della vedova potrebbe darsi meno
arie, perchè si sa che egli è a servire».

                              *

Ma una volta il figlio era improvvisamente tornato alla sua casa: la
mamma era improvvisamente caduta inferma, e gli occhi della madre non lo
videro, che come ombra. La mano di lei però stette nelle sue mani,
accanto al letto, per tutta la notte. Ma anche la mano un poco per volta
si era spenta, come si era spenta la voce, come si era spenta la
pupilla.

In quelle due stanzette dove Aquilino aveva sognato una continuazione di
vita senza mutamento, era arrivata l'_Ora_ che non è attesa e pur deve
arrivare! ed allora Aquilino meravigliò vedendo che l'orologio di mamà
morta continuava pur la sua continuazione del tempo, e la Madonna -- lì
sul comò -- non si era mossa.

E per tutto quel giorno che la mamma morta giacque nel suo letto, egli
guardò attorno quella camera che ora gli pareva strana e nuova. Pure
avrebbe voluto conservarla intatta così come era, quella camera; e non
per breve tempo, ma per molto, ma per un tempo senza limite.

«Dei figli -- meditava con la testa fra le mani -- che avessero questa
religione di conservare, e poi dei figli dei figli....»

Perchè la religione è la vittoria contro la morte.

Ma poi -- dopo assai tempo -- si tolse da quella meditazione, e gli
insorse un furore di tutto distruggere in quella camera. E pareva
empietà.

                              *

E volle che la bara fosse grande, più grande, assai grande! e dentro
tutto depose: i pannilini antichi di lei, con la sua cifra; alcuni
merletti che le mani di lei, giovanetta, lavoràrono; e i santi tutti, e
Cristo; e i ritratti tutti; del babbo, di una sorellina adorata che era
morta, e i balocchi di lei, che la mamma serbava come sacri (e nessun
occhio profano aveva più veduti dopo che la bimbetta era morta, in
quella campagna). «Lì, lì, sul tuo cuore, nel tuo cuore!» -- diceva
Aquilino --, ed i ferri della calza incominciata, e la sua piccola
lampada, e il cuscinetto antico di raso verde, che odorava di verbena
antica. E la Madonna, non ci stava! «Poter spezzar la Madonna! Oh,
famiglia, famiglia, famiglia morta!»

                              *

E allora vennero i vicini, che avevano udito grandi urli e pianti.

Ed alcuni dicevano che non piangesse; ed altri invece dicevano che
piangesse, perchè il pianto lo avrebbe liberato dal dolore.

Si acquetò alfine.

Ora contemplava la madre dormente nel feretro, con istupore.

Un sentimento nuovo e strano veniva ora sorgendo entro di lui. E non lo
distingueva da prima se non come alcunchè di mostruoso. Alfine distinse:
«Ora che mamà è morta, io sono libero!» Un senso di liberazione: una
visione lucida, rettilinea della restante sua vita. «Tutto è stato
sepolto: dunque io sono libero. Se a me piacerà, io sarò libero sino al
delitto. Chi mi sarà giudice?»

E il petto gli si sollevò.

E quando vennero, poi, gli uomini della morte, meravigliarono del grande
peso del feretro.

«Anch'io vi sono sepolto. Io son morto e poi sono rinato.»

Così il feretro passò il limitare: quel limitare da cui ella salutava
lui nelle dipartite con quella sua mano; quel limitare dove ella lo
attendeva ai ritorni. E quando veniva al mattino la rubizza ortolana, a
portar le primizie, era ancora su quel limitare che ella scendeva
gioiosamente.

Ora ella passava il limitare dentro quel feretro, e la gente passava
come prima per le strade della città.

E nella chiesa vide quel feretro posato su la terra, e quattro candele
ai lati. Stupì nel vedersi solo anche lì, con quel feretro. Dunque non
sapevano nella città che mamà era morta? Un piccolo mormorìo di
preghiere lo riscosse. Erano alcune donne in scialle nero; conoscenti di
mamà, forse.

Una di quelle si fece avanti, e disse che ella era colei che al mattino,
col sole ridente, veniva a portare a mamà pimpinella, fava fresca e
lattuga.

E poi sentì che diceva: -- Sicuro che la rivedremo ancora! Oh, se non
fosse così, allora poi? Quanto bene le voleva la sua mamma, signor
Aquilino!

Ed a queste parole gli rinacque il pianto lì in chiesa; e vide un prete
parato che, meravigliando, lo guardava.

                              *

Ora Aquilino andava avanti per una via di campagna, che discendeva il
vespero già, verso il Camposanto. Sentiva l'odore del biancospino
novello, e una croce dorata precorreva. Il sole -- cadendo -- raggiava, e
i cipressi del Camposanto sorgevano accesi nell'oro del cielo. L'oro
della croce, l'oro del cielo: un sogno! come un angelo con le ali
spiegate. E gli parea di vedere una scritta nel cielo che diceva: «Tanto
più splende l'angelo del Signore quanto più la bara è deserta». Pensava
a quelle fallaci parole della vecchia ortolana. E questa fallacia gli
parve, per un istante, più grande delle più grandi verità, perchè tutte
le cose che aveva messo nella bara non dovevano essere dissolte; e la
parola che vince la morte, è la più grande parola! Poi, nell'enorme
stanchezza, il pensiero gli si assopì in un torpore mortale: fallacia e
verità si confondevano insieme.

                              *

-- E voi -- disse il dì seguente Aquilino alle donne, e alla femminetta
che portava pimpinella a mamà, -- queste cose prendete. (Indicava tutte
le masserizie rimaste nelle due stanzette.)

E stupiva di sè. -- Prendete, portate con voi. Bruciatele se vi pare; ma
non date in vendita in piazza. -- E sentiva come una ripercussione di
dolore ad ogni urto che le povere masserizie facevano, smovendosi e come
morendo esse pure.

                              *

Così la stanza fu vuota. Ed allora venne un uomo, il quale umilmente
domandò udienza per una piccola cosa.

Lo richiese chi fosse.

Era il sacrestano, appunto, di Don Malfattini. Egli levò da un
portafoglio e presentò un foglio intestato debitamente a stampa, e vi
era scritto: _Parrocchia di Santa Maria Addolorata, Dare, Avere._

Era il conto delle spese dei funerali. Aquilino aveva pagato altro,
altri, non sapea chi, non ricordava dove; negli uffici del Comune, ecco!
ma quelle spese di chiesa, sì, non aveva pagato e non conosceva, onde
prese quel foglio che l'uomo porgeva.

-- Lei deve scusare, anzi, -- diceva frattanto l'uomo. -- Il signor
arciprete, di solito, aspetta sempre a mandare la lista; ma siccome,
salvo il vero, abbiamo sentito dire che lei da queste parti non tornerà
tanto presto, così per regolarità, anche per lei.... E c'è anche il
bollo con la firma, e tutto in regola. Vuol dire che se trovasse qualche
osservazione da fare, si può sempre intendere con il signor
arciprete....

L'uomo parlava, parlava, perchè lui taceva e guardava la lista.

Che strana, che terribile, che folle impressione!

Pagare!

E suo malgrado Aquilino parlò, anzi minutamente si soffermò a parlare.

-- Venticinque franchi le candele, buon uomo?

-- Vedrà che dice -- disse l'uomo allungando un sòrdido dito verso la
lista: -- _Candelotti di cera vergine, del peso di libbre quattro
catuna._ Ve ne sono anche di minor peso....

-- E dite, onesto uomo, dove sono essi i candelotti, che vennero subito
spenti?

-- Sono -- rispose -- di diritto della parrocchia e servono, poi, per i
funerali di quelli che non possono spendere. E poi lo domandi a tutti,
perchè questo è l'uso.

-- Dunque voi fate qualche cosa anche gratis?

E Aquilino contemplava tutt'all'intorno l'uomo nero e domandò ancora:

-- Dunque dicevamo?

-- Settantacinque lire, signore.

-- E non vi sembra un poco caro?

-- Oh, signore, si vede che lei non ha pratica! Vi sono di quelli che
vogliono fare le cose in regola, e che spendono migliaia. Anzi si può
dire che Don Malfattini le ha usato riguardo....

-- Davvero?

-- Davvero! Veda: i pregadìi, che mai non si mettono meno di dieci lire,
qui sono segnati otto....

-- Che sono i pregadìi, buon uomo?

-- Sono quelli scritti che si mettono qua e là della bara e vi è scritto,
_Pregate Iddio per l'anima...._

-- Ho capito. E chi li fa?

-- Io, signore.

-- Allora voi siete in rapporti con Dio....

L'uomo nero guardava Aquilino con commiserazione.

-- Dunque dicevamo, buon uomo?

-- Settantacinque lire.

-- Ecco!

Erano carte nuove che il giovane lasciava cadere su quelle mani,
evitandone il contatto come un'abominazione.

L'uomo nero le palpò quelle carte, le ricontò.

-- Temete che il danaro dei poveri sia falso?

-- Noi contiamo sempre il denaro. È che sono così nuove. -- E sorrise col
suo riso idiota.

-- Andate, andate buon uomo.

                              *

«Dopo di che -- mormorò Aquilino quando il treno si mosse -- sii maledetto
anche tu, vecchio paese che i vecchi chiamavano patria».

Era un po' ingombro di roba lo scompartimento del treno del ritorno.

-- Per piacere -- disse un signore ad Aquilino, -- un po' di posto su la
reticella.

Aquilino portava con sè, realmente, un oggetto alquanto ingombrante: la
Madonna di mamà.



CAPITOLO XVIII.

Bobby felice.


Nei primi tempi, dopo la morte della mamma, Aquilino aveva ogni tanto la
sensazione dolorosa, simile a un arto del suo corpo, che gli fosse stato
avulso. Guardava nel mondo; e gli pareva che vi mancasse qualcosa. Alle
volte come un fantasma gli era vicino: la mamma.

                              *

In quella dolorosa occasione tutti furono molto gentili con Aquilino: la
marchesa volle sapere come la cosa era andata; ascoltò con occhi buoni,
e quando vide che Aquilino ad un certo punto del racconto si intoppava,
trovò certe parole tutte belle e conclusive, per cui ella se ne andò
prima che quella specie di irrigidimento si trasmutasse in pianto.

Del resto la marchesa non avrebbe avuto difficoltà ad accordare ad
Aquilino qualche settimana di licenza perchè viaggiasse e si svagasse un
po'. Ma essendo già ai primi del maggio, si prospettavano i prossimi
esami di Bobby.

Aquilino ringraziò; ma no, egli non desiderava viaggiare. Se mamà fosse
morta lì, oh, allora! Ma lì non c'eran ricordi. Anzi lo studiare quelle
semplici cose con Bobby lo avrebbe distratto.

                              *

Il conte Cosimo mandò una lettera molto affettuosa: e sarebbe venuto lui
a confortarlo; ma non istava punto bene; e ne era prova che, _come fa
ogni bestia ammalata, si era rifugiato nel suo vecchio nido_: una gran
casa antica nella sua città.

Anche Bobby si mostrò gentile. Le pupille del giovinetto, alla vista del
gran lutto del suo precettore, apparvero per la prima volta
impressionate.

Guardava quel nero, come se quel nero fosse stato al contatto di una
cosa di cui Bobby sapeva appena il nome: la morte.

Domandava con premura ogni mattina: «Come sta?» quasi che il male della
morte fosse stato una specie di raffreddore.

                              *

Ma Aquilino, che aveva deliberato di non recarsi più nella torre di
Albraccà, vi si recava sovente. Non che il marchese Ippolito gli
permettesse di parlare della sua cara mamma, e della sua casa che non
era più!

Il marchese parlava sempre lui, e non ascoltava che le sue parole. Ma
certi suoi aberranti ragionamenti gli addormentavano il dolore o
parevano far scomparire il suo dolore in un più gran dolore.

Il marchese don Ippolito offriva anche da bere _theologaliter_, e questo
pure era un bene.

-- Mio nonno è morto, mio padre è morto -- diceva --, mia madre è morta.
Per fortuna, la mia memoria, a cagione della lontananza, non li vede
più! Io morirò. E allora? Caro maestro, lei è giovane, ma le cose
procedono lo stesso così, anche se siete giovani e non le vedete.

Alle volte erano spunti stravaganti ed inattesi: il passerotto.

-- Questo stupido animale, secondo voi, maestro, quanto tempo ha? Tre
mesi? Un anno? Voi lo dite! Io dirò che ha cinquemila anni, come le
mummie d'Egitto. È lo stesso passero che esisteva cinquemila anni fa.
Che differenza c'è? L'esistenza dell'individuo è una astrazione
dell'uomo. Questo passero è un passero del tempo di Radamès; e nulla
vieta che io mi possa credere un contemporaneo di Nabucodonosor.
L'usignolo canta agli amori di Giulietta e Romeo. L'importante è che
esistano i rosignoli. Se non è più quello di prima, cosa importa? La
gallina fa l'uovo; la formica raccoglie i cadaveri; il nibbio divora
l'usignolo; il verme ara la terra. Sempre così. E l'uomo? L'uomo fa le
classi, i generi, le specie, i molluschi, i vertebrati, l'evo medio,
l'evo moderno. Ci credete voi?

Avete mai pensato come è ridicolo l'uomo che viaggia? Sempre si trova in
un punto del globo terracqueo egualmente distante dal centro. Tanto vale
allora rimanere fermi qui. Sapete? Nei tempi di Omero, che si credeva il
mondo fatto come una tavola, poteva essere interessante viaggiare con la
speranza di arrivare all'orlo della tavola. Ma adesso che dicono che il
mondo è fatto come una palla, non c'è più sugo. Hanno trovato oggi il
modo di elevarsi cogli aereoplani. È qualche cosa! Ma quest'uomo con la
benzina è assolutamente inferiore al mio passerotto: il quale comprende
così bene la inutilità anche di aver le ali, che preferisce stare qui.

E con tutto questo voi giovane desiderate il futuro sperando in esso
quel bene di cui finora non avete goduto; e benchè siate maestro o
professore, non vi avvedete che desiderate la vostra disfazione. Rimane
l'amore: una cosa sozza! ma l'uomo non se ne avvede alla vostra età, e
forse a nessuna età. Ma tu considera che anche le belle donne sono
_transito di cibi, guaina di corruzione_, e potrai dominare un po' la
concupiscenza.

                              *

Ma più insistenti erano i richiami su la morte.

Il cavallo morto.

Il cavallo, uno dei cavalli di un enorme carro da trasporto, era caduto
improvvisamente fulminato giù nel cortile. Il marchese volle che
Aquilino scendesse con lui ad osservare il cavallo morto.

-- Vedete -- dicea -- come si sta in pace! Osservatelo attentamente e poi
ditemi se anche in voi non sorge questo dubbio: il vero stato di
perfezione è il non essere, ovvero l'essere? Certamente ora riposa. Il
grave carro che esso doveva trainare, eccolo là. Voi lo vedete! E
l'altro cavallaccio dalle gambe difformi, vedete come si sta
profondamente meditabondo? Sembra pensare. E quel grosso diavolo del
carrettiere che è lì avvilito in contemplazione della sua bestia morta,
osservate che faccia da idiota. Ha in mano la frusta, e non può
frustare. Non vi pare di scorgere un risolino ironico in quel dente che
spunta fuori dal muso del cavallo morto? «Tu, o padrone, non mi
frusterai più. Te l'ho fatta!» Non dite niente, o maestro, di tutto
questo al carrettiere. Non vi capirebbe; forse vi risponderebbe in malo
modo. Gli uomini hanno bensì maggior giudizio degli animali, ma hanno
anche più errore.

Così ed altre coserelle che non istavano nè in cielo nè in terra, andava
dicendo il marchese; e non facevano dispiacere ad Aquilino perchè quando
l'uomo è in qualche grave afflizione, si compiace se altri gli prova che
non esiste ordine buono nè in terra nè in cielo.

                              *

Ma nella sua cameretta, fra quei mobili tutti bianchi e laccati, che
effetto faceva quella antica Madonna scura che egli aveva posato sopra
un comò. O madre di Dio, chi avrebbe detto che avresti fatto così strano
viaggio! E lì veniva anche l'imagine della mamma, perchè la lontananza
del tempo da quando la mamma partì, era poca e perciò egli sentiva
ancora il dolore e vedeva ancora l'imagine.

Una volta ci sorprese miss Edith, la quale guardava con curiosità, con
quei suoi occhi azzurri.

Ella pareva avesse un suo cotale pensiero che non sapeva come esprimere.

Ella infine disse: -- Voi in Italy avete tante Madonne! Madonna del
Rosario, Madonna della Concezione, Madonna dell'Assunta....

Però il piccolo _bebi_, Gesù Cristo, gli pareva grazioso.

E col dito si posava sul vetro della tavola nera; quel dito della
morbida mano, posato lì dove si era posata la povera mano di mamà.

Che strano viaggio aveva fatto la Madonna!

E stando ella così un poco china, Aquilino aveva sotto di sè quella
capellatura; e ne vaporava un profumo, che non pareva un artificioso
profumo. Ella era così giovane, così graziosa che -- o maraviglioso
inganno! -- non parea che anch'ella fosse _guaina di corruzione_, ma
anfora di giovinezza.

-- Già, miss Edith, -- disse Aquilino, -- la Madonna, la donna assunta nel
cielo.

Ella indugiava lì davanti al quadro. Un bisogno di chinarsi su quella
testa, di sfiorare quella capellatura con un bacio.... Davvero, poco
mancò che non commettesse una sciocchezza davanti alla Madonna! Non la
commise: ma non perchè si fosse in quel momento ricordato del saggio
consiglio del re Salomone, raccomandatogli dal marchese. Aquilino non
aveva più casa nè focolare; e quella dolce creatura di miss Edith gli
parve casa, focolare, famiglia. L'anima di lui si incendiò di gioia e di
lagrime. Ma che ne sapeva, povero marchese, della donna?

                              *

E intanto si avvicinava il tempo degli esami! La marchesa aveva ordinato
che Bobby doveva essere promosso alle prime prove, e quell'anno più che
mai, perchè la marchesa, Bobby e miss Edith avrebbero passato tutta la
state all'estero, e la marchesa non voleva preoccupazioni. Bobby era
preparato, anche: ma ad Aquilino tremava il cuore come ad un avvocato
che ha per le mani una causa giusta da sostenere, e ben si sa che è,
appunto quando le cause son giuste, molto facile aver sentenza
contraria. E d'altra parte correvano voci sinistre: il professore del
ginnasio pubblico, sotto il cui ferro doveva cadere Bobby, era un
giovanotto di nuova nomina, un po' sbarazzino, e lo aveva fatto sapere:
«Guai a chi non sa bene la grammatica latina! la storia latina! la
grammatica italiana!»

Non che costui fosse un purista, un latinista, un classicista. Era un
modernista, anzi! E l'_instauratio ab imis fundamentis_ della società
gli stava a cuore più assai del latino; ma quel _guai_ era un mezzo di
esercitare, nel limite delle sue facoltà, la guerra sociale specialmente
contro i signorini privatisti, i privilegiati che sdegnano le scuole
pubbliche, che hanno il ben pasciuto precettore in casa. Oh, li avrebbe
pettinati lui!

Quanto sudò Aquilino in quell'estate!

Bobby era beato. I laghi della Scozia! Il paradiso incantato dei laghi
della Scozia dove sarebbe andato con mamà! Il paese di miss Edith. «Auf,
che caldo qui, ma lassù in Iscozia...! Le manderò cartoline fresche
fresche.»

E per combinare quel _guai_ con gli ordini della marchesa, gli convenne
anche _ambìre_, come dicevano i latini: conoscere quel professore,
dargli ragione in tutto, ricordargli che anche lui Aquilino lavorava per
affrettare l'arrivo, al calendimaggio, dell'_instauratio ab imis_; ed
anche dovette fare una parte del tutto indecente: quella del servo
infedele, dire cioè un po' male dei suoi signori, che gli davano il pane
e il companatico.

Il professorino ne godeva: -- Ah, io sono indipendente, indipendente --
diceva.

-- Forse un po' troppo! -- pensava Aquilino.

Una mattina del mese di luglio, e per l'appunto il dieci di luglio,
Bobby saltava dalla contentezza come un vero saltamartino.

Cettivaio, per sua fortuna, in quell'estate, cadeva a pezzi, esausto
dalla lotta contro gli inglesi, e perciò non offriva più resistenza agli
assalti di Bobby. Ma anche Aquilino era esausto.

Si adagiò su di una poltrona, si asciugò l'abbondante sudore; ma, grazie
a Dio, era salvo, in fine.

La tabella esposta quella mattina nell'atrio del Regio Ginnasio Liceo,
recava _Torrechiara Roberto, (idest Bobby), promosso_. Oh, ma attorno a
Roberto, una strage!

Tutti i nobili amici di lui, privatisti come lui, tutti mortalmente
caduti! Egli ne ripeteva i nomi, con esuberante letizia: Un _record_!

Lui solo, ritto!

Aquilino dovette tenere Bobby per mano durante tutta la strada del
ritorno. Gli pareva di essere un villano che mena alla fiera un vitello,
o un poledro giovane.

Quando fu giunto a casa, gli diede la molla. -- Ora salta fin che vuoi --
disse fra sè.

Oh, ma la signora marchesa non ne dubitava che il suo Bobby sarebbe
stato promosso! Così naturale! Ma Aquilino solo sapeva quello che gli
era costato salvare Bobby dalla strage. Quanta eloquenza (_e la
persuasione, e la perorazione, e la mozione degli affetti_) dovette
svolgere, seguendo, su e giù pel corridoio, quel monosillabico scuro
regio preside!

E tutto questo per persuadere quel signore che _se poenitet_ invece di
_illum poenitet_, è errore sì, ma errore veniale e non mortale, così che
il signor professore di latino sommando tutti gli errori, i mezzi
errori, i quarti di errore, doveva arrivare ad un _cinque e tre quinti_.
Ora se egli metteva a Bobby _cinque_ soltanto, Bobby veniva defraudato
di quei _tre quinti_; ai quali se per magnificenza del signor preside
fossero stati aggiunti _due quinti_, si arrivava al _sei_, cioè alla
salvezza, cioè al colle della beatitudine nella commedia degli esami di
ciascun scolaro.

Più dolorosa fu la umiliazione davanti al signor professore di
matematica (tutti fatti su di uno stampo quei professori di matematica!)
Aquilino gli si protestò umilmente convinto che il non sapere trovare
bene il _minimo comune multiplo_ è un fatto grave, gravissimo; e perciò
giusta causa di rimandare un allievo al mese di ottobre. Ma ben è vero
che Bobby in tale caso avrebbe sofferto ingiusta pena, perchè tutta la
colpa era sua, della sua presunzione, che aveva voluto istruire il
giovinetto anche nelle matematiche: _me poenitet, illum poenitet_! Ma,
per amor del cielo, mutasse il signor professore quel lugubre segno
algebrico del _cinque_ in un simpatico _sei_, chè l'anno venturo,
deposta ogni presunzione, gli avrebbe affidato Bobby e lo studio su la
aritmetica ragionata.

-- Se il signor professore vive anche fuori della scuola, osserverà che
il non saper trovare il _minimo comune multiplo_, è un fatto che si
verifica spesso.

                              *

Ora Bobby dopo aver saltato _ad abundantiam_, si preparava a collocare
in una profonda tomba i libri della sua adolescenza.

«Gothardbahn! Saint-Moritz! Calais! Ostenda, Inghilterra, Scozia», erano
le parole che squillavano su le sue labbra.

Non si aspettava per partire che la promozione di Bobby.

Molti imponenti bauli erano già pronti in anticamera. Fra quei bauli,
aristocratico, enorme, nero, era il baule di miss Edith.

Il giovane guardò a lungo la camera, ora disfatta, di miss Edith.
L'anima delle piccole cose, delle care eleganze di lei era sparita.

-- Non tornerà più, miss Edith, in Italia? -- le domandò Aquilino.

-- Forse che sì, forse che no -- rispose sorridendo.

La marchesa fu più esplicita: -- Forse che sì.

Il senatore aveva quasi assicurato il posto a miss Edith. E quando un
uomo, come il senatore, propone allo Stato una data partita, lo Stato
compera.

Aquilino questa volta baciò Bobby. Bobby era in abito da viaggio, ma non
saltava più.

-- Cos'ha, Bobby?

-- C'è paparone che non voleva che io partissi.

-- Perchè, Bobby?

-- Perchè.... E Bobby nominò un'altra cosa, della quale non soltanto lui,
piccolo fanciullo, ma quasi tutte le generazioni degli uomini null'altro
oramai più sapevano se non il nome.... -- Perchè lui, paparone, ha detto
alla mamma che ci sarà la guerra.

-- E mamà?

-- Mamà ha detto che paparone sogna sempre e sèguita a sognare.

                              *

-- _Good-bye_ -- disse all'ultimo momento miss Edith, gaiamente, fissando
Aquilino con i suoi occhi chiari.

                              *

E quella parola straniera gli stette nel cuore come un profumo di lei.



CAPITOLO XIX.

Marte e Venere.


Lo scoppio della guerra in quell'estate, costrinse la marchesa con Bobby
ad un precipitoso ritorno. Il viaggio per la Francia, _un disastro_,
come ella diceva: Parigi come Babylon all'appressarsi di Ciro! Ah,
finalmente donna Barberina aveva potuto approdare alla pace di
Ventimiglia! La pace.

Miss Edith era stata trattenuta, da ragioni familiari, in Inghilterra.

                              *

La guerra, come uno spostamento dell'asse terrestre, avendo tutto
sconvolto, aveva spezzato anche quel famosissimo _ritmo_, di cui
qualcuno ancora si ricorderà. La vita era stata proclamata _piacere_; ed
il _ritmo_ era il delicato regolatore di una esistenza bene impiegata.

La marchesa osservò che anche il suo caro _ritmo_, per effetto della
guerra, non c'era più.

Ella era stata costretta a ridursi, anzi tempo, a Villa delle Magnolie,
_vis-à-vis_ del marchese.

I fili delle consuete comunicazioni mondane andavan cadendo ad uno ad
uno, e perciò fra i due coniugi avvenivano meno _corti circuiti_.

Però la marchesa si annoiava _vis-à-vis_ del marchese.

La Villa settecentesca delle Magnolie era grande; il parco era grande;
satiretti e flore marmoree tra i viali di mortella lo adornavano; ma gli
sbadigli della marchesa erano grandi, per quanto la grazia della bocca
piccoletta comportasse.

Ella era già _esausta_ della guerra; ma il signor marchese diceva:

-- Eh, eh! Ma, mia cara amica, non sono stato io che ho dichiarato la
guerra all'universo. È stato il sire di Hohenzollern!

-- Sembra che vi faccia piacere.

-- Niente affatto, piacere; ma cònstato: quella vostra Inghilterra è da
un secolo, _sacrebleu_, che si diverte, dopo aver mutata la sua isola in
un'immensa _pelouse_ per i suoi _sports_ e per i suoi cavalli levrieri!
Che terribile _season!_ Eh, ci vuol altro che il _comfort_ e la
_splendid isolation_, poveretta! Cònstato, mia cara, che non sono io che
ho sognato; ma sono forse le democrazie occidentali che hanno sognato.
La Germania le sta svegliando, con poca urbanità, d'accordo, a colpi di
cannone.

-- Come siete opprimente!

-- Può darsi, ma non sono io che vi opprimo; è l'atmosfera realistica che
opprime.

Ma la marchesa lo pregava, almeno a tavola, di non creare
dell'atmosfera.

Senonchè il marchese era come un terreno ricco di acque. Pullulava da
ogni parte zampilli e vapori; e quando pigliava Aquilino, lo inondava. E
procedeva per aforismi e affermazioni, e non ammetteva che il giovane
contraddicesse.

-- Io, marchese Ippolito di Torrechiara -- gli diceva -- non andrò alla
guerra; la marchesa nemmeno; mio figlio nemmeno. Sotto questo aspetto
sono olimpico! La marchesa teme un po' per le sue tenute a ***; ma
questa preoccupazione non è la mia, anche perchè il filo dell'erba è
forse la sola cosa che l'unghia del cavallo prussiano non distruggerà.
Risorgerà. L'erba ricoprirà ancora la terra, tenera e lucida, nella
primavera perpetua. Ed anche dal suo punto di vista utilitario la
marchesa ha torto, perchè le terre saranno fecondate dai morti e dal
sangue.

Si parla del _giùs gèntium_, calpestato dai Germani! Grozio dice.... E i
Germani dicono: _Noi facciamo così!_

Vi pare poco, caro maestro? È una rivoluzione, è una rivelazione! I
nostri mastri-muratori che stavano fabbricando la città della _liberté_,
dell'_egalité_, della _fraternité_, vedono l'archipenzolo oscillare; le
mura che già erano poco buone, crollare; la squadra non squadrare. Essi
credevano di fabbricare sopra un vulcano spento; e invece è un vulcano
umano in attività di servizio.

-- Ma i Tedeschi, signor marchese, che cosa sono questi Tedeschi? --
domandava Aquilino con un po' di paura.

-- I Tedeschi -- rispondeva il marchese, -- sono stati gli inventori al
mondo di tre famose invenzioni: le armi da fuoco, la stampa, il libero
esame. Le armi da fuoco (questo lo saprete), dice l'Ariosto che fu
Belzebù che le indicò agli Alemanni: ma anche le due altre sopralodate
invenzioni, credetelo (ma non andatelo a dire!) hanno un poco del
diabolico. Ebbene, caro amico, essi, questi pericolosi ordigni li sanno
maneggiare molto bene.

-- Un popolo che aveva la musica più patetica del mondo.... -- disse
Aquilino.

-- .... E adesso fa la musica col cannone, eh? Non ti fidare della
musica, -- disse gravemente il marchese. -- Vi ricordate quando veniva in
scena Loengrino? _Deh, non mi domandare, nè a palesar tentare._ Nessuno
gli ha mai domandato niente, nemmeno il passaporto, tanto cantava bene,
tanto lo ammiravamo. Noi credevamo che il candido Loengrino fosse
coperto di stagnola, e che il suo cigno fosse un rispettoso, innocente
volatile. Invece Loengrino era vestito d'acciaio autentico, e il cigno
era carico di armi come il cavallo di Troia: esercito modello-1914! Non
è simpatico tutto ciò?

-- Ma come può combinarsi una simile guerra -- domandava Aquilino -- con
tutta quella filosofia tedesca così mistica, così metafisica....

-- Eh, che mi vai sprofessorando, professore? -- diceva Don Ippolito. --
Mistici i filosofi tedeschi? Mistici della realtà! Anche tu, credevi i
filosofi tedeschi come estàtici veggenti che non respirassero che
divozione e timor di Dio? Essi anzi, hanno strappato con frenesia le
azzurre bende del cielo: il più completo ateismo è l'espressione ultima
della loro filosofia.

-- Ma il Dio che essi invocano?

-- Il Dio che essi invocano -- rispose il marchese, -- è formato da loro
stessi, dalla loro volontà, dalla loro crudele necessità. Che ti credi
che il loro ateismo sia uguale al salcicciotto di libero pensiero,
imbandito dalle nostre democrazie davanti ogni fedel minchione? Il loro
è un ateismo _chic!_, che può andar d'accordo anche con i Padri della
Compagnia di Gesù. Credi: sono i filosofi tedeschi che precedono senza
pietà la gran cavalcata! «Ah, Nicce, Nicce, Nicce!» esclamava quella
vanerella di un'inglesina, che per fortuna non c'è più. Nietzsche, caro
amico, non è morto! Il filosofo folle è risorto! Con pifferi e
trombette, fa capriole e salta davanti alle tetre schiere teutoniche.

-- E i Francesi, signor marchese, e la Francia? -- domandava Aquilino.

-- I Francesi hanno dato al mondo gli _immortali princìpi_
dell'Ottantanove, che furono come un arcobaleno nel cielo; ma hanno
vissuto la vita dell'arcobaleno. Ah sì, veramente _immortali_ come un
secondo vangelo, se gli uomini non fossero pecore, razionali sì, ma
irragionevoli. Ma c'è di peggio: pecore col bisogno fisiologico del
male, come del bene. La Ragione! il culto della dea Ragione! Gli uomini
chiesero agli Dei di essere governati dalla dea Ragione, come le rane
domandarono un re a Giove. E la dea Ragione venne. Era un'allegra
ragazza che il popolo di Parigi incoronò e mise sul trono a modo di
simbolo. Ma poi non si accontentarono, come le rane non si
accontentarono del re Travicello che Giove mandò loro. «Vogliamo un re
vero, una dea Ragione vera»; e Giove mandò giù la dea Ragione tedesca.
Ora è un fuggi fuggi, un protestare, come le rane incontro alla biscia.
Ma è la dea Ragione, anime ingenue! Per tanto tempo Giove ve la tenne
sospesa sul capo e voi non ve ne siete accorti. Dicevate: «Come è
bellina, come è carina! Dorme?» Sì, con un occhio solo. Non è simpatico
tutto ciò?

Ma Aquilino faceva un grande assegnamento su la Russia: come una mezza
Europa e mezza Asia, che si ribaltava a modo di trappola mostruosa su la
Germania.

-- Sarà -- rispondeva il marchese -- ma io non vi consiglio -- almeno per
mezzo secolo -- di farci troppo assegnamento. Che volete? Le classi alte
della Russia sono paralizzate, per una parte da un feudalismo medievale,
per l'altra parte dai vizi del nostro occidente. Il popolo? Il popolo
dice _Nicevò_; crede nella madonna di Kazàn; è indifferente a tutto,
alla vita ed alla morte; ma non alla _wotka_. Gli intellettuali russi
fanno i ribelli, e ripètono con Tolstoi: _che cosa è la guerra rispetto
ad un cielo stellato?_ Niente! Siamo d'accordo. Ma mentre essi guardano
il cielo o dicono _Nicevò_, quegli altri che sono i mistici della
realtà, fanno i loro affari.

-- E il Papa, signor marchese?

-- Non vorrei essere nei panni del Papa. Buon papa Sarto! Sentirsi erede
di chi disse: _il mio regno non è di questo mondo_, e dovere fare
reverenza a chi dice: _il mondo non basta al mio regno._ Vedete!
Quand'ero bambino, mi diceva la mia mamma buon'anima: _l'erba «voglio»
non nasce che nel giardino del Papa._ Si vede che non nasce neppur più
lì.

                              *

Queste ed altre cose andava dicendo Don Ippolito ad Aquilino, spesso
ambulando per gli ombrosi viali del parco di Villa delle Magnolie.
Traeva fumo azzurro dalla sua _gibidì_; sopra il ricamo delle piante,
rideva il bel sereno.

Fauni e flore, e rose in abbracciamento, e sedili settecenteschi, e
scaturigini mormoranti da antichi tufi, trasportavano, per incantesimo,
l'anima verso altri tempi. Il marchese si soffermava talora come
attratto da richiami di altre età.

-- Sentite, maestro, questo verso settecentesco come è bello qui:

    Solitario bosco ombroso.

                              *

Più strane cose, intanto, Aquilino veniva notando. La marchesa, la quale
si annoiava e non voleva sentir parlare della guerra, ascoltava con
piacere Aquilino. E siccome non si poteva parlar d'altro che della
guerra, erano discorsi su la guerra. Ed il giovane inconsapevolmente
ripeteva a donna Barberina press'a poco i discorsi che a lui faceva il
marchese; e donna Barberina udiva ammirando, e con dolce volger d'occhi,
come se lui fosse diventato un personaggio qualificato dei venerdì.

                              *

E una volta.... Quale notizia una volta, a tavola, recava il giornale?
Un numero spaventoso di morti, uno di quei mostruosi numeri che in sul
principio della guerra, paralizzavano il pensiero.

In fondo, nulla!

Come quando si parla di un milione di _reis_. In fondo, una piccola
somma. L'uomo stava per iscomparire dalla coscienza dell'uomo ed oramai
non si diceva più uomo, ma _materiale-uomo_.

-- Se si va avanti di questo passo -- osservò il marchese --, verrà il
giorno in cui l'individuo maschio salirà alla Borsa della vita di un
numero incalcolabile di punti. Sarò quotato anch'io.

La marchesa nulla aveva risposto alla facezia del marito. Ma ad Aquilino
non isfuggì un intraducibile moto del volto di lei. Poi si interessò di
lui, se aveva obbligo di leva; come se ciò che toccava la vita di lui,
la riguardasse.

                              *

E una volta egli aveva chiesto licenza di andarsene per qualche tempo.

-- Perchè?

Non sempre un giovane può dire perchè vuole andarsene.

-- Per trovare il conte Cosimo che sta poco bene -- aveva risposto.

Ed ella lo aveva pregato di rimanere. Ma in un certo modo che il giovane
ne fu assai perturbato.

Egli pensava troppo spesso a quello che si sapeva sul conto della
marchesa. Aveva avuto onore di amanti? Voci vaghe correvano di qualche
autorevole personaggio che ella aveva saputo far umiliare sino ai suoi
fieri talloni; ma più per giovàrsene che per passione. Pensava a quei
libri, a quelle letture ardenti, al di là del bene e del male, che il
marchese gli aveva rivelato.

L'afa era grande: grave sopra i suoi sensi cadeva l'odore delle magnolie
dal verde fogliame metallico: perturbazione dei sensi. Non vedeva più
miss Edith la bionda, nè donna Bàrbera la bruna; ma quella tetra
imagine, femminea, col petto scoverto e la serpe verde che rodeva le
carni.

Gli parea anche di aver visto, una e due volte, gli occhi di donna
Bàrbera, tetri, sopra di lui, come se misurassero lui, uomo.

                              *

Il più felice a Villa delle Magnolie, era Bobby. Mai aveva goduto tanta
libertà! Aquilino avrebbe voluto cominciare lo studio del greco, ma
Bobby lo pregava di osservare che, probabilmente, il greco sarebbe stato
abolito sul serio. Rimaneva un po' di ripetizione, e sbrigàtosi da
questa, i colloqui con il meccanico delle automòbili, e soprattutto
_mademoiselle Joséphine_.

Nell'assenza di miss Edith, era stata scoperta questa _mademoiselle
Joséphine_, una signora -- come si suole dire -- di mezza età. Il suo
aspetto era quanto mai imponente: il suo italiano, dopo venti anni di
residenza in Italia presso le _plus aristocratiche_ e _respectable
famiglie_, come ella diceva, si manteneva un campionario delle
sconcordanze. _Delicatezza e rispetto_, costituivano le due specialità
che impartiva insieme alle tre lingue, francese, tedesco, inglese,
indifferentemente, essendo ella, non si capiva più se francese, se
tedesca, se inglese. Era a tre usi. Ma pur con tutto quel suo
campionario di atrocità verso una lingua, quasi a dimostrazione del suo
amore verso le altre tre, ma pur con tutto _il rispetto e la
delicatezza_, la povera signora, _idest mademoiselle Joséphine_,
specialmente da quando, oltrepassata la prima mezza età, era entrata
nella seconda mezza età, si trovava spesso _giù di servizio;_ e con sua
sorpresa e dolore, doveva passare dalle _plus aristocratiche_ e
_respectable famiglie_, nella casa di una buona donna che la ricoverava
a pensione.

Di questi salti, cioè dalle tavole coi fiori, i merletti, i centri, le
_Delikatessen_, al desco che aveva per tovaglia anche un giornale,
_mademoiselle Joséphine_ incolpava la troppa perfezione del suo
insegnamento trilingue; e ultimamente incolpava _cette incommensurable
atrocité_ della guerra.

Come vittima della guerra, si era presentata a donna Bàrbera, in tenuta
di irreprensibile e virtuosa governante. Ma è che la povera
_mademoiselle Joséphine_ era la più innocente delle oche. La sua
pudibonda maestà, non priva di rotondità appariscenti, la aveva salvata,
nei primi giorni. Poi fu un disastro! Bobby, intuita, azzannata la
preda, non la lasciò più. Il nomignolo che le aveva applicato era, _la
moglie di re Cettivaio_. In fondo _mademoiselle Joséphine_ avrebbe
sopportato questo ed altro, ma a patto che due cose le fossero state
concesse: mangiare bene a tavola e un pìsolo dopo mezzodì. Poi si
sarebbe abbandonata alla mercè di Bobby. Ma Bobby con quella prontezza
di giudizio che lo contraddistingueva, faceva appunto trottare
_mademoiselle Joséphine_ dopo il mezzodì; e a tavola sapeva, con
diabolica abilità, mutarle in veleno le più saporite vivande. Ciò poi
che avvenisse durante le lezioni di inglese e di francese, nelle ore
afose fra le due e le tre, era un mistero di cui qualche traccia
appariva nell'esclamazione: -- Ah, Bobby niente _gentleman_ con io!

Aquilino se ne accorse, e rimproverò Bobby: -- Sono scherzi indecenti,
Bobby.

-- Lo so, ma voglio fare il Kaiser anch'io.

_Mademoiselle Joséphine_ ricorse allora, ingenuamente, a donna Bàrbera;
e mise in rilievo, ohimè, certi esercizi ginnastici di Bobby, nei quali
la rispettabilità delle sue ridondanze non era troppo osservata. Ma
invece di eccitare la dolorosa sorpresa di donna Bàrbera, non aveva
eccitato che un freddo sorriso. -- Ma non mi racconti storie. Se fosse
una ragazzina, capirei anche! Ma alla sua età! Pensi, pensi piuttosto ai
casti pensieri della tomba.

_Mademoiselle Joséphine_ era uscita dal salottino di donna Bàrbera con
una faccia apoplèttica. Poi avendo trovato don Ippolito che fumava la
sua _gibidì_, gli aveva raccontato il tragico _event_, terminando: -- Ah,
io sono il _souffre douleur_ della marchesa!

Ma aveva visto don Ippolito sorridere: pareva in quel sorriso dire:
_Anch'io!_

-- Cara signora,... -- cominciò egli.

-- Signorina, _s'il vous plaît, monsieur_.

-- Cara signorina, diciamo allora -- riprese il marchese -- in questa
faccenda io non me ne intrigo.

-- Ma non siete voi?

-- Niente _voi, ma lei, s'il vous plaît_. Sì, io sono realmente il capo
di casa, ma mi occupo specialmente.... dell'alta direzione morale.

                              *

Le atrocità del _Kaiser-Bobby_, divennero un bel giorno così
insopportabili, che _mademoiselle Joséphine_ ricorse ancora alla
marchesa; ma invece di precisare gli atti _grossiers_ di Bobby, e le
infrazioni a quella _delicatezza e riserbo che costituiscono le prime
qualità di un vero gentleman_, la povera donna commise l'errore
imperdonabile di elencare le case rispettabili dove ella era stata e
dove mai le erano successi simili inconvenienti.

-- Favorisca ripetere -- disse donna Bàrbera.

La gran _mademoiselle Joséphine_ allibì.

-- Da questo momento lei è licenziata. -- E donna Barberina levò il dito.

Aquilino trovò la gran _mademoiselle Joséphine_ che piangeva: così
dirottamente che quasi gli venne da ridere. Ma quando la povera donna
confessò la sua miseria, la sua solitudine, e che la sua maestà con le
tre lingue era buttata sul lastrico, gliene venne pietà.

-- Proverò a parlare io alla marchesa -- disse.

_Mademoiselle Joséphine_ voleva abbracciare Aquilino.

-- Mi ringrazierà dopo -- disse -- perchè...., perchè non prometto niente.

Pensò ad una patetica perorazione in favore della disgraziata; ma non
ebbe mestieri di condurla a fine, che si sentì rispondere dalla marchesa
questo strano verso: _A tanto intercessor nulla si nega_.

E fu lui, allora, che allibì di fronte all'imperterrito sorriso della
marchesa.

                              *

Anche certe esibizioni del vestire di lei, certe pose erano perturbanti.

Oh, non ricordava più donna Barberina che anche lei aveva dato il suo
onorevole nome alla società per la morale pubblica?

                              *

È inutile, un giovane anche se volesse rimanere virtuoso, non può.

-- _Non è mica vero che tu voglia rimaner virtuoso_ -- gli diceva una voce
dentro.

«E poi quel poveruomo lì del marchese, -- pensava Aquilino come per un
martellamento della coscienza -- che non vede niente, che non capisce
niente.... No, no! io non tradirò mai quel pover'uomo!»

-- _È che tu sei giovane timido_, gli diceva ancora quella voce. E aveva
una rabbia!

Non reggeva più a quella vita in tre. Ed ecco venne il quarto nella
persona del senatore.

Soleva il magnifico senatore venire ogni autunno a Villa delle Magnolie,
e se questo fosse un onore che faceva o che riceveva, non era stabilito.
In quell'anno, essendo forse anche per lui spezzato il _ritmo_, venne in
agosto. La valigia con cui il magnifico signore sbarcò dall'automobile
sui marmorei gradini di Villa delle Magnolie, dimostrava la intenzione
di una lunga dimora.

Il discorso anche del senatore scivolava su la guerra.

Il senatore notò con sorpresa come don Ippolito parlava; aveva libertà
di parola; ed avendo libertà di parola, spiegava tutte le vele non senza
una certa magnificenza.

Il senatore sperava ancora che l'Italia avrebbe mantenuto fede alla
alleanza germanica; e su questo punto il marchese non diceva nè sì nè
no.

-- Perchè altrimenti -- aggiungeva il senatore -- una spedizione punitrice
di mezzo milione di Bavaresi sarebbe calata per la Gotthard-bahn.

E il marchese disse di no.

-- No? -- Il senatore sapeva tutto da confidenze segretissime di generali,
di alti diplomatici....

-- No, perchè ci devo essere anch'io, marchese Ippolito di Torrechiara.

E quando il senatore disse che i Tedeschi erano educatissimi guerrieri,
il marchese domandò il permesso di avere contraria opinione.

E quando il senatore disse che tutt'al più si poteva deplorare qualche
eccesso di baldanza giovanile, il marchese osservò che era una
giovinezza che datava dal tempo di Ariovisto e di Alboino.

E quando il senatore disse che il Re del Belgio aveva operato come un
amministratore imprudente che per fare delle grandezze non dà poi un
centesimo di dividendo agli azionisti, il marchese Don Ippolito non
ammirò la bellezza della similitudine.

E quando il senatore osservò che i Tedeschi violando la neutralità del
Belgio, avevano rispettato lo spirito dei patti nel modo medesimo che
Cristo aveva osservato la legge sul riposo festivo quando salvò
l'infermo nel giorno di festa; perchè se avesse aspettato il giorno di
lavoro per operare il miracolo, l'ammalato sarebbe morto; il marchese
Ippolito non ammirò abbastanza la sottigliezza dell'ingegno del
senatore, ma lo consigliò di essere più semplice.

-- Come?

-- _Il Prìncipe non debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli
torni contro_, come diceva Machiavelli.

-- Ma suo marito parla! ma suo marito si diverte a contraddirmi, ma lei,
ma lei, cara donna Barberina.... -- diceva in disparte il senatore. Cioè,
ma lei lo lascia parlare! Ciò è inaudito.

La marchesa faceva per risposta quella sua smorfietta che serviva a
tutti gli usi.

Ma don Ippolito, sentendosi libero, alzava oltre alle vele, anche i
pavesi e le fiamme della sua eloquenza.

-- No, signor senator riverito! Se anche Clio, la musa della storia,
scriverà questa guerra fra le grandi sue pagine, Clio rimarrà lo stesso
un'indecente baldracca. Quanti re dei cannoni e delle piastre d'acciaio,
quanti ideòlogi pazzi d'orgoglio passeranno per eroi; e quanta povera
gioventù, anche in Germania, crederà di morire per la patria; e
moriranno soltanto per il dio Mammone! Almeno i Greci e i Troiani
d'Omero morivano per la bella Elena. Ma chi le nega, senator mio, che la
Germania è la prima in tutte le scienze? È appunto per questo che essa è
dimostrativa del fatto eterno che l'uomo non è nè più nè meno che un
ruminante. Rumina tante belle idealità, e vive nel suo fimo come un
ruminante. Ah, laurearsi in chimica, in meccanica, in fisica e
metafìsica! Nessuno è più altamente laureato della Germania. Ma è nei
princìpi elementari che è difficile laurearsi! Ed è per questo che
Cristo ha detto: _Se non divenite come piccoli fanciulli, non entrerete
nel Regno dei Cieli_. Oh, povero Cristo! Oh, vane acque lustrali del
battesimo! L'uomo sèguita ad insudiciarsi perpetuamente! Forse, prima di
morire, cade nell'uomo un barbaglio di verità della sua inguaribile
sudiceria, ma è troppo tardi. In fondo credo che abbia ragione il Papa
quando dice: _Pregate!_ Non rimane che pregare. I vecchi medici, nei
mali incuràbili, per confortar l'ammalato, scrivevano nelle ricette:
_mica panis!_ «pillole di mollica di pane». Voi siete ammalati di un
male incurabile!

                              *

-- Suo marito, marchesa, non si può sopportare alla lettera -- aveva detto
il senatore.

-- Lo compatisca. La guerra gli è andata alla testa.

-- Compatire è una cosa, cara marchesa, e rimanere qui è un'altra.
Faccia, faccia visitare suo marito da qualche specialista.

E il senatore se ne era andato.

                              *

-- Avete osservato? -- aveva detto don Ippolito ad Aquilino -- da quando
quell'inglesina se ne è ita, mia moglie non si riconosce più. Non ha
nemmeno trattenuto il senatore. Un ospite che, vi garantisco, dopo tre
dì, manda odore come un pesce. Eppure quello, vedete, è un uomo felice!
Vive dentro la proprietà di un suo sistema filosofico, come un mollusco
entro la sua corazza. Oh, un uomo d'ingegno!

Ma la marchesa aveva detto ad Aquilino: -- So che la presenza del
senatore non le era gradita, e ce ne siamo disfatti.

E Aquilino allibì una seconda volta.

                              *

Il giovane aveva oramai la percezione di trovarsi sopra un terreno in
frana, con moto insensibile, ma irresistibile: una percezione paurosa e
voluttuosa insieme. Il suo stupore era che nessuno se ne accorgesse: il
marchese tutto occupato dell'enorme frana del genere umano, meno di
tutti.

Ora donna Barberina aveva preso l'abitudine di farlo chiamare, di quando
in quando, per futili motivi. Usciva da quelle stanze di lei con una
tempesta di dentro.

-- Scusi se la ho fatta incomodare -- disse ella graziosamente una volta,
e aveva molte lettere in iscrittura: -- mi si presenta una questione, oh
una sciocchezza, sa! Quel _gentile_ oppure _gentilissima signora_, che
si mette negli indirizzi, mi è diventato così banale. Come si potrebbe
variare; come dicevano una volta?

Aquilino aveva un bollore di dentro, un formicolìo nelle mani.

-- Una volta dicevano -- rispose -- _valorosa, eccellentissima madama,
illustre eroina;_ oppure erano lunghi titoli, non privi di una certa
bellezza che oggi però suonerebbero disusati.

-- Per esempio?

«_Anche gli esempî!_» -- Per esempio, ad un gentiluomo si diceva: _Nobile
e savio cavaliere, huomo di molta gentilezza e savere_.

-- E ad una donna?

-- Secondo la condizione.

-- Per esempio?

-- Ad una monaca si diceva: _Religiosa, honesta dòmina, molto da onorare
e alla verace luce di vita eterna pervenire_.

-- E ad una signora maritata?

-- _Alla carissima donna sua, molto da onorare, manda salute, cum
perfecto amore; vel salutem cum honestà di puro matrimonio da conservare
castamente; vel salutam cum dirittamente lo matrimoniale ordine
conservare_.... «La capisce la lezione sì o no?» disse entro di sè
Aquilino.

Ma donna Barberina mostrò di non aver capito.

-- Ah grazioso! -- aveva ella detto, sorridendo.

Era seguìto un certo silenzio.

Aquilino aveva chiesto se comandava altro.

-- No, lei può andare -- aveva risposto con la continuazione di quel
sorriso, un sorriso di lento squisito martirio.

E Aquilino uscì piano per quella sfilata di stanze, dal silenzio
profondo, che precedevano il salottino di donna Bàrbera. Una luce
verdolina pioveva dai diaframmi di seta, alle finestre: tutto ombrato in
riflesso verde; anche i fiori, i quadri, i tappeti profondi, i mobili
laccati: un lùcido verde, contro il sole: come uno smarrimento. Gli
veniva a mente quella serpe verde attorno al petto della donna, nel
tenebroso quadro di Francesco Stuck.

Barcollava. _Per dio, ma dovrà ben riconoscere in me un'eroica forza!_
Ben ricordava: la voce di lui, il suo gesto non avevano tradito
un'emozione, nulla: impassibile.

Ma più si allontanava, più precipitava il passo per il bisogno che egli
avea di rifugiarsi nella sua camera. _Io non sono, per dio, il paggio al
servizio della marchesa!_ gridò.

-- _No, tu sei un pedagogo idiota!_ sentì ghignare quella voce di dentro.

-- Si diverte di me, l'infame! -- gridò ancora Aquilino.

-- _No, non si diverte!_ gli rispose quella voce.

                              *

Gli parve di trovar pace nella sua camera. Ma chi c'era nella sua
camera?

L'imagine grottesca di Giuseppe, figlio di Giacobbe, interprete di
sogni, ridìcolo attraverso i secoli, era lì, nella camera; era da per
tutto.

_Oh, Giuseppe fu un virtuoso giovane_ -- gli diceva quella voce diabòlica
-- ; _ma tu troverai sempre, fra il tuo piacere e la tua imbecillità,
qualche impedimento a cui darai il nome di virtù_.

Or Aquilino uscì dalla sua camera e chiamava a gran voce:

-- Bobby, Bobby, Bobby!

Andò in cerca del giovinetto.

-- Ha ripassato la lezione?

-- Scusi, ma non è l'ora, -- rispose Bobby.

-- Se non è l'ora, creiamo l'ora. Studiamo insieme. Quest'alta poesia,
su, Bobby!

E Bobby lesse:

    Qual masso, che dal vertice
    Di lunga erta montana,
    Abbandonato all'impeto
    Di rumorosa frana,
    Per lo scheggiato calle
    Precipitando a valle,
    Batte sul fondo e sta;....

-- Sa che è lunga! -- disse Bobby, traendo il respiro.

-- Bobby -- disse Aquilino dopo un po' -- facciamo una cosa eroica!

-- Ah, sì!

-- Cominciamo il greco.

-- No, professore -- disse Bobby con mansuetudine. -- Mamà ha assicurato
che il greco sarà tolto.

-- Anche se inutile, una cosa eroica è utile....

-- Sarà....

«_Ah Bobby, Bobby: destinato a rimanere Bobby; un essere inùtile, come
vi sono tanti inutili Carletti, Totò, Jean!_» sospirò Aquilino.

-- Oh, come è fatto il greco! -- esclamò Bobby rigirando la grammatica che
il precettore gli avea messo innanzi. -- Ma professore -- esclamò poi
Bobby --, perchè mi guarda così?

Aquilino si era fissato nel giovinetto, e pensava non al greco, ma, per
indurre in sè repugnanza, pensava al viaggio che Bobby aveva fatto
nascendo per le oscure, immutabili vie dell'essere, tredici anni fa:
_Inter faeces et sanguinem natus_ -- diceva per indurre in sè repugnanza.
Ma non vi riusciva. Aveva davanti il piedino di donna Bàrbera.

_Un piede? Un pezzo anatòmico, una calza, una scarpa.... Come il piede
di un parroco._

Vaneggiava.

-- _No! io non farò. Non è bene!_ -- disse a se stesso. Aveva la
sensazione tragica, che un'invisibile fenditura minacciasse su su, sino
alla torre di Albraccà, la vecchia casa patrizia. -- _No, non cederò!_

                              *

In un pomeriggio grave, fu pregato di passare da donna Bàrbera.

Le tre sale, con la luce verde, precedevano il salottino di donna
Bàrbera. Immote le magnolie giù nel parco si vedevano: disabitato era il
luogo.

Oh, l'affannoso, tormentoso percorso!

-- È permesso? -- domandò Aquilino quando fu giunto in fine dei tre
salotti verdi.

-- Venga avanti! -- Era la consueta voce. Ma come aprì l'uscio, agli occhi
di Aquilino, ritto su la soglia, si discoprì donna Bàrbera.

Ella si stava, come stanca, seduta sopra un divano; perfidamente
vestita. Una lama infocata penetrò nelle carni del giovine, e le pupille
videro sangue.

E con voce indolente ella disse: -- Bobby si è lamentato del greco. Io lo
rimanderei, caro professore. Non le pare che sia da rimandare?

Ed allora soltanto sorrise; ma le pupille di lei non ridevano. Tenebrose
pupille! Parlava dello studio del greco.

Ella procedeva lentamente, con quel sorriso e con quelle parole,
dondolando -- un fremito? -- come la testa fascinatrice della serpe.

Un'oscura nube ottenebrò l'uomo.

Egli aperse la palma della mano, e la posò con rabbia su la spalla di
lei, sì che la abbattè con violenza.



CAPITOLO XX.

Italia Italia, o tu cui feo la sorte....


Aquilino fu preso da delizioso stupore quando -- da quel giorno -- gli si
rivelò la esistenza di una terza donna Barberina, ma cara, soave,
arrendevole. E considerando che quella docile e appassionata donna era
proprio lei, la tremenda marchesa, non poteva sottrarsi all'ebbrezza
dell'orgoglio. Forse la aveva plasmata così lui, con quel gesto della
sua mano brutale. Ed oltre all'orgoglio, anche il piacere! Perchè se
quello non era proprio il sognato amore con gli angioli, era pur sempre
un delizioso amore.

Oh, ammirabile, o insospettata, o tutta rivelata a lui, donna Barberina!

_Un colpo d'audacia, e l'uomo crea la donna, anche se la donna è una
marchesa. Non è sublime tutto ciò?_ E il giovane masticava quest'idea
del possesso, della conquista, del piacere; e sentiva una gran pienezza
di vita.

Aveva temuto di provare rimorso davanti al marito.... Ma no! Non ne
provava, e ne era sorpreso. Dalla coscienza non gli giungeva più alcuna
comunicazione in proposito. Doveva simulare bensì e dissimulare alla
presenza di don Ippolito: ma donna Barberina gliene offriva l'esempio
con tanta grazia, con tanta naturalezza; e lui sarebbe stato da meno?
Anzi quell'esercizio dell'ingannare gli si presentava, a tratti, come
una cosa singolare e non elencata fra le virtù dell'uomo.

                              *

Ma con tutto questo non potè reprimere una certa perturbazione il giorno
che il marchese don Ippolito, coi baffi arruffati più che mai, gli occhi
quasi truci (come diceva donna Barberina), e una lettera in mano, gli
disse:

-- Devo significarvi una cosa molto grave, giunta a mia notizia. -- E così
dicendo, accennava ad un sedile, sotto una dea Pomona, la quale si era
pudicamente ricoperta di muschio il seno marmoreo.

Che cosa poteva contenere quella lettera?

-- Anch'io sono turbato, maestro, -- cominciò don Ippolito a dire, e la
testa gli cadde in giù. Sollevàndola poi e presentando la faccia tutta
luminosa e commossa, che quasi era bello, battè lente queste parole: --
Le ore attuali sono le più solenni e terribili che l'Italia abbia
vissuto! E perciò beati coloro che oggi saranno liberati dalla vita.

Aquilino allora sorrise.

-- Voi sorridete? Voi sorridete _italice_? -- disse il marchese con
stupore e corruccio.

È che Aquilino in quel punto non pensava all'Italia.

-- Quando negli anni di grazia 1494 discese in Italia re Carlo VIII,
v'era anche allora chi sorrideva!

Ad Aquilino in quel giorno importava pochissimo di Carlo VIII di
Francia: ma gli fece piacere; perchè se don Ippolito pensava all'Italia
e alla roba di tanti secoli fa, voleva dire che neppur l'ombra di un
sospetto attraversava la mente dell'ottimo signore per ciò che
riguardava le cose circostanti.

E perciò fece il volto compunto di attenzione e lasciò che il marchese
viaggiasse il largo mare delle sue divagazioni. E cominciò così:

-- Ahi! che cosa valsero all'Italia le sue arti, i suoi studi eleganti,
ed il risorto Platone? e quel Leonardo? e le statue nate dalla divina
frenesia di Michelangiolo? e la decantata saggezza di quel Lorenzo,
magnifico e pacifico?

Noi seguitammo a sorridere per le facezie degli zanni: _scarpa larga e
gotto pien, prendi el mondo come vien_! E i dotti a disputare se questa
voce è tosca; se quella è saporosa di Marco Tullio; o tutt'al più,
sospirare, _Italia Italia, o tu cui feo la sorte_! Noi diventammo
intanto merce da baratto fra i potenti del mondo. Le armi! le armi! la
forza e la concordia! E sapete voi, maestro, chi, in quell'anno di
grazia 1494, previde le sventure d'Italia e predicò la concordia e le
armi? Un umanissimo gentiluomo, il quale sapeva altrettanto bene
maneggiare la spada, come trattare i civili negozi. Io vi ho nominato
quel conte e poeta che fu Matteo Maria Boiardo; e ne vedeste, se vi
ricorda, il volume sul mio scrittoio. A sua dilettazione e conforto egli
veniva componendo la favola o romanzo di quel barbuto paladino Orlando,
al quale, a mezzo della vita, capitò mala ventura: innamorarsi della
bianca Angèlica! ed ella ne fece strazio e beffa; guìdalo per le
mordacchie, l'eroe! fagli vedere la luna nel pozzo! Del che non
meravigliatevi, perchè tale è sempre stato il destino degli eroi; e le
belle donne non amano che i vanesi e baliosi giovincelli.

                              *

A questo punto Aquilino corrugò le ciglia. Dove andava a dar di cozzo la
nave del marchese? Per fortuna, prese ancora il largo e proseguì: -- E se
i nostri rètori meglio avessero lette quelle ottave fiorite in gioia di
primavera, noi vanteremmo un'opera, per cui la gloriosa favola di Don
Chisciotte apparirebbe come seconda. Ahi, la _infernal tempesta della
spietata guerra_ interruppe quel canto, ed il nobile conte, in quel
tardo autunno del 1494, ne morì di crepacuore; e non per l'inganno di
Angelica, chè in fondo può reputarsi natural sacrifizio dell'uomo essere
seviziato da bella donna; ma per le sventure d'Italia.

«Oh, adesso mi pare che filiamo bene», pensò Aquilino, libero oramai da
ogni sospetto, chè, quanto all'Italia, egli non sentiva i timori del
marchese. «L'Italia è tanto grande ed antica che nessuna balena la
avrebbe ingoiata».

E il marchese proseguì:

-- Che debbo dirvi di quello che oggi avviene, maestro? Io sono stato sin
qui un _razionabile_ ammiratore del popolo germanico e riconosco che dal
tempo di Fichte in poi, i Germani hanno dalle nostre idee democratiche
latine formato un organismo ammirevole e degno di seria considerazione.

E vi dirò in confidenza che, al principiar della guerra, quasi mi
compiacqui della fiera lezione di cose che i Germani, dalle teste
ubbidienti, impartivano alle teste delle nostre democrazie, buone a
muovere i mulini a vento dell'utopia; e come i Torrechiara militarono
sotto Carlo V, io non avrei reputato disdicevole rispondere all'eribanno
del Cesare germanico. Quando non si può essere signori, non è disdoro
confessar di esser buoni vassalli.

Così dicendo, parve al marchese di aver proferita cosa gravissima.
Sospese il suo dire e attese dal suo ascoltatore una obbiezione.

Aquilino nulla disse, e il marchese proseguì:

-- Ma da quei primi giorni ad oggi il mio pensiero si è venuto cambiando.

Ma che cosa è successo nel popolo germanico? Quale follia di grandezza
lo sconvolge? Ah, questa follia ha una spada, e che spada!

Noi non siamo più, come per lo innanzi credevo, di fronte alla guerra,
doloroso fenomeno delle umane competizioni. E le democrazie occidentali
commisero il grave errore di logica nell'ammettere tutte le ambizioni e
le competizioni; e non tenere nel dovuto conto l'estrema competizione:
la guerra.

La guerra, amico mio! Io ho incolpato gli altri popoli di imprevidenza:
ma in realtà dovrei incolpare me stesso. Nella mia mente di uomo che
attraverso i secoli è giunto al secolo nostro, non entra più l'idea di
un popolo ubriaco per la conquista di un pezzo di terra. Un pezzo di
qua, un pezzo di là! È poi tutta terra! come noi, tutti uomini! un
giorno, tutti sotto la terra! Sono bazzècole che possono interessare chi
studia la storia, come il buon senatore. Ma per me la storia ha
interesse perchè non ha più nessun interesse. Siamo oggi di fronte
soltanto alla guerra?

Noi siamo di fronte al fanatismo dei favolosi Germani antichi,
combattenti per la voluttà di combattere. Io rivedo oggi gli antichi
guerrieri germani; risorti con tutta la scienza, con tutta la ragione;
ma, orrore! con le pupille cieche. E allora? _Quid sum miser tum
dicturus, quem patronum rogaturus?_ Dio?

Ascoltatemi ora, giovane e caro amico: ai dì passati, tanto per
divertire il pensiero, leggevo un libro di medicina, quando mi imbattei
in questo.... passo a proposito dell'opoterapia. Ve lo cito a memoria:
«la cura del vitto carneo è assai antica: infatti nei tempi primi,
l'uomo non si accontentava di soggiogare il nemico vinto: lo uccideva e
lo divorava. Il sangue umano era considerato come alimento di primo
ordine e altresì come agente dotato di misteriosa possanza. Il cuore, il
fegato, il sangue ancor caldo, godevano soprattutto la fama di dare
forza e coraggio» ecc. Dunque l'antropofagia era una forma igienica di
vita! Ora io vedo, e mi par di impazzire, i sècoli avvallarsi e
scomparire: vedo la nostra età mostruosamente congiungersi a quelle
remote età. Inconsapevolmente allora, scientificamente adesso, rivedo
gli uomini-belve, dal volto insanguinato. E proclamammo Dio fatto con la
nostra effigie!

Dicendo questo, il marchese si percosse la fronte con la palma della
mano, non senza violenza. E poichè Aquilino, disorientato un po' a quel
viaggio transoceanico attraverso i secoli, nulla ancora rispose, il
marchese Don Ippolito continuò:

-- Io non vi nasconderò inoltre un altro mio folle pensiero, e non lo
dite alla marchesa la quale ha già così mediocre opinione di me. Sapete
voi per quale ragione ogni mattina io richiedo con ansia il giornale?
forse per leggervi quale è la vicenda delle armi? Anche, amico. Ma più
specialmente perchè mi pare che da un dì all'altro debba rimbombare la
voce del miracolo, perchè attendo il miracolo, attendo il portento: che
quei popoli una mattina si dèstino dal sonno sanguinoso, aprano le
pupille, tendano le braccia in questo unico grido: Oh Cristo, Cristo,
Cristo!

Oh, vano sogno! Coloro non sembrano nemmeno più figli di questa pur
crudele Natura! La parola d'amore e di pietà è morta. I costruttori
della torre di Babele costruiscono con ossa umane. E dobbiamo noi essere
alleati con essi? o non piuttosto saremmo marrani e sicarî? Beati quelli
che ora scompaiono dalla scena della vita!

E la grossa testa sconvolta del marchese don Ippolito di Torrechiara
cadde in giù.

-- L'amico vostro e mio -- disse poi, sollevando il volto -- il conte
Cosimo, sta per morire, e questa lettera me ne dà l'annuncio. Io lo
reputo beatissimo. Era la cosa che vi volevo dir prima. Ma voi col
vostro sorriso mi avete distratto. Perchè voi avete sorriso, nevvero?

                              *

Donna Bàrbera quando seppe la triste nuova del povero conte Cosimo,
volle telegrafare sùbito. La risposta venne e gravissima. Aquilino si
diè malinconia e rivedeva già immerse nella nebbia e nell'ombra le cose
passate. -- Io voglio vederlo, salutarlo ancora -- dicea. E la marchesa
allora consigliò don Ippolito di andar lui con Aquilino; tanto più che
il povero conte doveva trovarsi solo. Ma don Ippolito pregò di essere
dispensato. Non si moveva; aveva troppe tristezze: gli pesava la testa.

-- Quando è così, andremo noi -- disse donna Barberina --, e mentre il
professore si ferma a X..., condurrò Bobby a far qualche bagno al lido,
a Venezia.

Così fu deciso.

Donna Bàrbera, Bobby, _mademoiselle Joséphine_, Aquilino si imbarcarono
a Villa delle Magnolie, una mattina splendida, su la automobile
splendida.

Bobby era radiante, l'enorme _mademoiselle Joséphine_ trepidante.

-- Su, su, su! -- le diceva Bobby.

-- Dove?

-- Ma su!

Donna Bàrbera a destra, _mademoiselle Joséphine_ da lato, e immobile
come una vittima.

-- In quattro ore ci siamo -- diceva Bobby saltando presso il meccanico. --
Paparone, addio!

-- Mi raccomando quel ragazzo, Barberina, -- ripeteva, e aveva una
tristezza nella voce. E poi fece cenno, e fece fermare la automobile:
accorse. Che cosa? Un altro bacio a Bobby. Era rosso in volto.

-- Caro, caro, il mio piccolo Bobby!

-- Arrivederci, papà.

-- _Pas trop vite!_ -- uscì la voce di _mademoiselle Joséphine_
supplichevolmente fuori dal denso velo che tre volte Bobby le aveva
ravvolto attorno alla testa.

-- Tenersi forte perchè voliamo -- fu la risposta di Bobby.

-- Jesus Maria!

E la automobile precipitò verso l'oriente dove Venezia, fra le
cilestrine acque, eleva al cielo le sue croci d'oro e i suoi domi.

Ma nessun incidente, se non un grido soffocato di _mademoiselle
Joséphine_.

Donna Barberina, col sottile tallone aveva, per errore di indirizzo,
premuto con forza su di un largo callo di _mademoiselle Joséphine_.

Il volto di donna Barberina sorrideva giovanilmente da una preziosa
cuffietta.



CAPITOLO XXI.

La vita è un'amarezza.


Il palazzo del conte Cosimo, dove Aquilino si recò come fu giunto in
quella città, era una costruzione massiccia di altri tempi, da cui
spirava un'ineffabile aria di abbandono. Un gran portone; e dopo, un
grande atrio; e dopo l'atrio, un cortile con i muri rivestiti di vecchie
edere.

Non c'era portinaia, non trovò nessuno. Finalmente venne chi gli indicò
a quale campanello doveva suonare.

-- Ah, sì -- gli fu detto --, il signor conte stava tanto male!

Fra breve sarebbe venuto il castaldo. Aquilino aspettò, e quegli venne.
Ma non fece buona cera, e confermò che il signor conte stava molto male.

-- Che male?

-- Dicono, mal di cuore.

-- È a letto?

-- Da una settimana non si muove più dal letto.

-- Ero venuto apposta per vederlo....

-- Vederlo? Impossibile.

Ma il giovane tanto lo pregò che andasse dal signor suo, e questo nome
solo gli dicesse: «Aquilino».

E il castaldo andò e ritornò poco dopo. Era tutto mutato.

-- Ha tanto piacere di vederla. Oh, venga.

E lo precedette per la scala, finchè giunsero ad un gran loggiato ove in
lunga fila erano allineati seggioloni e cassapanche, come in attesa di
chi non sarebbe venuto.

Qui il giovane si soffermò e chiese: -- Mal di cuore?

-- Così dicono i medici. Il petto del povero signore non si solleva più.
Ecco!

Parve ad Aquilino di non potere più, nemmeno lui, sollevare il petto. Lo
sollevò con gran respiro e quasi con pena, e vide allora disegnarglisi
davanti quelle parole del marchese Ippolito: _I figli che fanno morire i
padri di crepacuore_.

Ah, nessun bene vale il bene di potere sollevare il petto liberamente!

Il castaldo sospinse il battente di una porta; e transitavano per la
penombra di alcune stanze enormi. Un'impressione gèlida; una visione di
mobili enormi, chiusi, che scomparivan negli angoli. Quella fuga di
stanze pareva non finire più.

-- Non lo faccia parlare troppo -- avvertì il castaldo quando arrivarono
alla fine di quelle stanze.

-- È solo?

-- C'è mia moglie. Ci diamo il cambio. Aspetti.

Entrò lui. E poco dopo disse ad Aquilino di entrare. Entrò, e si trovò
nella luce.

Era una stanzetta chiara, con un lettino di ferro: una donna accanto al
letto; e sopra il capezzale c'era il naso, le cartilagini, la barba, il
sorriso del conte Cosimo.

In alto del capezzale, pendeva Cristo, l'uomo crocifisso, per il quale
Dio volle significare agli uomini che l'eccidio di un solo uomo equivale
all'eccidio di tutta l'umanità.

-- Non ti posso dare la mano -- mormorò il conte --, ma posso parlare. Non
badare a questa buona donna che dice di no. Posso parlare.

Ma in verità non poteva parlare. Erano parole che porgevano l'imagine di
segmenti di pensieri.

-- Caro Aquilino, c'è la guerra, eh? Fanno bene, sai!

-- Chi, fanno bene, signor conte?

-- I Tedeschi! Fanno da anti-Cristo! L'uomo è una cattiva pecora. Ah,
povero Aquilino! Queste sono cose che riguardano te, e non me; perchè io
me ne vado. _Abeo, abìbo_ e, ohimè, non _redìbo_.

Aquilino cercava parole di conforto. Ma il conte faceva, con gli occhi,
segni di no.

-- Lo sai?

-- Che cosa, signor conte?

-- Esco di minorità. Però, credi: è difficile imparare a morire....

Aquilino cominciava a sentirsi un male dentro come se anche lui avesse
dovuto avviarsi per il viaggio delle tenebre. Oh, c'era tempo per lui;
ma in quel momento sentì che anche lui, pur nella sua giovinezza, era un
inquilino sopra la terra, corrente verso la morte. Ebbe paura, e niente
seppe rispondere al conte.

Questi allora continuò con un piccolo sorriso:

-- .... perchè i vivi non sanno le molte cose che sanno i morti; e i
morti non le dicono.

E dopo un poco riprese:

-- Ti devo dire una cosa.

-- Quale, signor conte?

-- Ho cercato anche a te di farti mangiare cose dolci, ma te lo devo
confessare: la vita è una grande amarezza. Tu sei venuto, Aquilino, a
trovarmi: hai fatto bene, sei un bravo figliuolo; ma vi è chi non è
venuto, e non verrà. Vi sono anche i morti sopra la terra, sai!

Gli occhi del conte si venivano appannando.

Ma già la donna faceva segni ad Aquilino.

-- Sì, vienimi a trovare spesso -- disse accomiatandolo.

Ed Aquilino uscì, con quella scritta nell'anima:

_I figli che fanno morire i padri di crepacuore_.

Quando fu uscito disse al castaldo:

-- Però mi pare abbastanza sollevato.

-- È la morfina, -- rispose il castaldo.

L'ultima cosa dolce assaporata dal signor conte.

                              *

Aquilino, dietro il castaldo, rifaceva il cammino per quelle sale tetre
e chiuse; ma ad un tratto diè un balzo indietro.

Un biancore di figura umana parve che gli venisse incontro.

-- Cos'è?

-- Niente -- disse l'uomo. -- Ora vedrà meglio. -- E si accostò alla
finestra, l'aprì e fece penetrare la luce.

Or si vedea nella luce una figura di donna con un manto di capelli
biondi e una veste bianca.

-- E la contessa -- disse il castaldo. -- La testa è fatta di cera, ma
l'abito è proprio quello che portava quando andò sposa. È uno scherzo
del signor conte.

Aquilino si accostò a quella signora di cera, che parea viva; ma non osò
di toccarla. Era un volto delicato e quasi soave: anzi una piccola piega
amara all'angolo delle labbra faceva pensare che colei pensasse.

Venne in mente ad Aquilino questa strana idea, che esistesse anche una
chìmica delle anime, per cui una speciale combinazione fra due anime
innocue può generare veleni. Voleva domandare al castaldo; ma forse
anche colui ignorava questa chìmica.

Ed or con la luce, si vedeva una gran stanza parata a riquadri di stoffa
gialla. Rivèrberi d'oro. Poi guardò in alto. Imeneo e amorini volavano
per la volta del soffitto. Un gran letto incortinato di foggia antica
nel mezzo.

-- Questa era la camera nuziale? -- domandò.

-- Signorsì.

Aquilino si appressò a quel letto, e ad un dei lati di esso vide una
cosa delicata, bianca, velata.

-- La cuna dei figliuoli?

-- Signorsì.

Aquilino si allontanò piano piano come se ci fosse stato qualcuno.

                              *

Procedettero oltre. E quando furono nel loggiato, Aquilino disse tanto
per dire: -- È molto bello, dentro, questo palazzo!

-- Lei non ha visto -- disse il vecchio castaldo -- la sala da ballo.
Venga. È alta quanto il primo ed il secondo piano.

Cercò le chiavi; sospinse una gran porta. Entrarono in una gran sala.

Le pareti erano affrescate a figure grandi, ma stinte e sbiadite: sedili
di marmo negli strombi dei grossi muri, presso i finestroni. Gli occhi
del giovane furono attratti da un balenar d'oro e d'azzurro sul
soffitto.

Era un soffitto regio, a lacunare. Attorno, attorno, in bei riquadri,
c'eran dipinti cavalli e gonfaloni svolazzanti; guerrieri, aste, e
quelle _armi pietose_, che usavano un tempo. Nel mezzo, in un ovale, una
guerriera bionda languiva presso una fontana; e, presso la donna, un sol
cavaliere.

-- Questo soffitto -- spiegava il castaldo -- si sarebbe potuto vendere a
gran prezzo; ma il signor conte, il quale pur non era ricco, mai volle.
Del soffitto gli importava poco; ma quella figurazione lì in mezzo che
lei ora guarda, non la voleva dar via.

-- La morte di Clorinda!

-- Mi pare bene che dicessero così.

E allora Aquilino, affissandosi, vide da quella figurazione venir fuori
questi versi luminosi e palpitanti nel suono delle parole:

    E la man nuda e bianca alzando verso
    Il cavalier, gli diè pegno di pace.

Alcun che di giovanile e come arridente correva per la stanza. Era la
poesia, giovanetta austera e immortale, che consola di baci e di rose il
pianto degli umani. E questa cosa immortale e beata è generata dai poeti
mortali?

Imagini ancora non sospettate, della vita e della morte, si rivelavano
al giovane.

Poi gli sopraggiunse repentina l'imagine di quella guerra crudele che
buttava in fondo al mare tutti gli Iddii e tutte le Dee.

                              *

Tornò all'albergo ove era alloggiata donna Barberina, e le raccontò
della visita e delle parole del conte che la _vita è una grande
amarezza_.

E lei carezzevolmente gli rispondeva che la vita è invece una grande
dolcezza, e perchè è fuggevole, più è bella; ed altre cose assennate gli
diceva, come donna che ella era di molte cose intendente; ma l'ombra di
quelle parole del conte che la _vita è una grande amarezza_, non pareva
ad Aquilino che ella intendesse o mai avesse potuto intendere.

-- Ma no, Aquilino -- ella diceva con convincimento profondo, -- la vita è
bella, e la morte è la condizione, anzi, di questa bellezza.

Era ben pagana donna Barberina, anche se del greco non ne voleva sapere!

Il giovane, invece, non riusciva a liberarsi da una apprensione di
peccato sotto l'amore, specie in quell'ora, in quella città, chè se non
ci fossero stati i muri e le case interposte, si sarebbe potuto vedere
dall'albergo il conte Cosimo sul suo capezzale.

E voleva non dire, non rivelare a donna Barberina questo suo pensiero e
questa sua visione. Ma non ne potè più, e glie lo disse.

Ella ascoltò, sorrise. Disse: -- È un effetto della tua educazione da
bambino. Tua madre, così religiosa, quei santi, quella chiesa....

-- Ma io non andavo in chiesa....

-- Non importa: influisce lo stesso. Ma ridi, fanciullo!

                              *

Bobby elevava intanto le sue discrete proteste. Cosa si stava a far lì
in quella piccola città melanconica? Aspettava mamà che si guastasse il
tempo per andare a Venezia? E i bagni al lido? _Mademoiselle Joséphine_
su la _Guide de Venise_ spiegava in anticipo a Bobby la gran bellezza
dei monumenti di Venezia.

-- _Mais vous ne prenez pas intérêt à l'art!_

Bobby sclamava:

-- _Pas plus que vous, mademoiselle_.

                              *

Ma non fu mestieri ritornare più volte in quel tetro palazzo.

Il conte se ne era andato alla sua fine.

Il giovane se ne diè gran tristezza: ma lo confortava donna Bàrbera con
care e savie parole, alle quali certo la ragione di lui assentiva.
Eppure dentro una voce gli sussurrava che era viltà l'assentire.

L'amico morto; la madre morta; la pace del mondo, morta. Gli Dei
morti!... Ma non era viva lei, donna Barberina? Non bastava?

-- Sei avaro, un pochino avaro -- diceva donna Barberina ad Aquilino. --
All'amore di donna tutto deve dare chi vuole amore di donna.

E questo era il suo pensiero.

                              *

Finalmente, Venezia!

Il grande albergo sul Canal grande era di una magnificenza regale.

_Mademoiselle Joséphine_ dichiarò a Bobby che lì si sentiva nel suo
_juste milieu_, come quando era stata, _autrefois_, in quell'albergo
_avec l'ambassadeur de la Chine_.

Càndida _mademoiselle Joséphine!_ così càndida e decente, se il suo
appetito non fosse stato indecente.

Ora Bobby, all'albergo a Venezia, si era preso il gusto contrario che a
Villa delle Magnolie: rimpinzare _mademoiselle Joséphine_ e faceva di
continuo cenno al cameriere perchè venisse ancora a colmare il piatto di
_mademoiselle Joséphine_....

-- _Assez, merci. Ah, oui, un petit peu_.... D'altra parte nelle _tables
d'hôte_ -- osservava -- è _une bêtise_ aver dei riguardi. _Les Allemands
n'ont jamais d'égards_.

E la felicità della buona femmina sarebbe stata incommensurabile se,
dopo quei làuti _repas_, ella avesse potuto appartarsi liberamente nella
sua càmera e dormire i suoi càndidi sonni.

Ma proprio in quell'ora strana della gran calura era pronta la lancia a
motore che mamà aveva fatto mettere a disposizione di Bobby; perchè per
Bobby la gòndola era bella sì, ma era pura archeologia.

-- Caro Bobby -- diceva _mademoiselle Joséphine_ con insinuante
insistenza, -- tu non senti questo _terrible_ sirocco _de Venise?_

Il sirocco? Bobby non lo aveva inteso mai nominare.

Così, a grande velocità, Bobby visitava i monumenti di Venezia, e a
_mademoiselle Joséphine_ quasi si arrestava la digestione per il terrore
di scender nelle acque.

-- _Pas de peur, mademoiselle, ici l'on vous attrape avec la plus grande
facilité_ -- diceva Bobby.

Coi dèbiti riguardi aveva _mademoiselle Joséphine_ fatto osservare a
_madame_ che il professore era più adatto di lei per spiegare i
monumenti.

Ma il professore, per la pèrdita dell'amico, soffriva un po' di
neurastenia. -- D'altronde voi avete studiato alla perfezione la guida di
Venezia -- rispondeva donna Barberina.

Aquilino in quella gran vita fastosa dell'albergo si sentiva lentamente
sconvolgere e portare verso un mondo di sogno. Domandavano a lui gli
ordini; gli si accostavano con ossequio come se lui fosse stato il
signore. Ogni tanto lo coglievano bruschi risvegli della realtà: «non
era morale quanto allora avveniva!» Ed il fantasma di quell'uomo ignaro,
dalla rossa testa arruffata, rimasto cogitabondo e solo co' suoi sogni,
a Villa delle Magnolie, lo tormentava.

Come un prepotente bisogno lo sorprendeva di dire a donna Barberina,
seduta dolcemente presso di lui su la terrazza, al livello di quelle
incantatrici acque: «Ma non è morale quanto ora avviene!»

Ma la donna non avrebbe compreso, oppure così ella avrebbe compreso, che
il castello del sogno sarebbe irrimediabilmente scomparso; e perciò,
questa volta, egli si tacque.

Il sogno o la realtà?

Quel portiere in inchini, quel maggiordomo del tutto servizievole; e
quelle impassibili labbra sbarbate dei servi, sempre stirate al sorriso,
perchè gli sorridevano?

Perchè il denaro di donna Bàrbera fluiva e rifluiva impassibile. «Ah,
uomini, vestiti da servi, a quale prezzo sputare sul vostro volto?»

E quest'altro pensiero gli germinava:

«Ah, denaro sublime, pel quale se tu ti contàmini una sol volta, non hai
più bisogno di contaminarti alla timbratura della società. La cosa è
vile, ma è comoda. E il bene e il male si equivalgono.»



CAPITOLO XXII.

La condotta del marchese don Ippolito di Torrechiara.


Ma la condotta di don Ippolito li costrinse al ritorno.

Perchè don Ippolito, da quando sentì i battaglioni della storia che si
approssimavano all'Italia con cupo rumore, fu preso da grande passione.
Egli pensava a quello che meglio sarebbe convenuto all'Italia di fare.
Ma le costruzioni dei suoi pensieri crollavano sotto la responsabilità
immane del fare; crollavano sotto la responsabilità immane del non fare;
e intanto la notte odorosa a Villa delle Magnolie passava insonne,
mentre il rombo della cupa storia si avvicinava.

E abbandonò allora Villa delle Magnolie, e venne alla città.

Ah, come don Ippolito s'avvide in quei giorni che donna Bàrbera lo aveva
saviamente consigliato a percorrere la strada degli onori politici, chè
se così avesse fatto avrebbe avuto almeno una tribuna da cui parlare!
Don Ippolito, pur con tutti i suoi lumi, era oscuro agli uomini rossi
del serpente verde; era oscuro agli uomini neri della bianca colomba.

Era solo, e non era nemmeno senatore!

E come giunse alla città, cercò di venire in contatto con quanti
conosceva uomini autorevoli, uomini di cattedra, uomini di toga, gente
cioè che lo Stato nutre ed onora, gente di grande sapere e dottrina, e
di gran voce: gente che sa distinguere il dritto ed il torto. Ma ora che
la volta del cielo precipitava, non sapevano più distinguere, non
sapevano più che dire. Essi così eloquenti, erano colpiti da afasia.
Appena dicevano: «Ma sì, ma già, caro marchese: ma ecco.... C'è il pro,
c'è il contro. Stiamo a vedere, caro marchese. Già, un po' prepotentelli
quei Tedeschi; ma è il difettuzzo delle loro belle qualità. Noi tuttavia
vediamo, marchese, le cose con più serenità; il cielo, o da una parte o
dall'altra, deve pure schiarire».

                              *

E vide sè, marchese Ippolito di Torrechiara, miseramente ramingo per le
vie, insieme col popolo dei comizi e dei tumulti; e sentì parole di
vituperio e derisione cadere sopra le sue parole.

E un giorno aveva creduto di operare bene per la salute della patria; ma
probabilmente operò male per la sua personale salute. Perchè si era
recato presso uno di quelli uomini, i quali con molta autorità
proclamavano: «guerra guerra, e presto! se no l'Austria è già cadàvere».

Andò, dunque, e dopo lunga attesa, fu introdotto.

Ma quando fu introdotto davanti a quel signore, don Ippolito stupì di
trovarsi di fronte ad un giovane senza rughe, il quale trattava lui,
uomo di molte rughe, come se viceversa.

«Ma forse -- pensò -- è un giovane di genio»; benchè la sicumera e la
troppa vanèsia eleganza, facevano dubitare su la consistenza del suo
genio.

-- Sinceramente, signore -- disse Don Ippolito --, il mio sentimento
sarebbe per la guerra. Ma la politica non è il sentimento. D'altronde la
testa del conte di Cavour riposa nella tomba da cinquantatrè anni, e in
questo tempo le democrazie non ne hanno fabbricata un'altra. Hanno
fabbricate altre teste.

Il nemico per il popolo è l'Austria: ma in realtà si chiama Mefisto: al
quale, sino a ieri, quelle teste hanno fatto molti inchini....

-- La guerra -- rispose il giovane -- sarà in ogni caso benefica. Eravamo
già alle porte della guerra civile.

-- Ma la guerra è il sacrificio di giovani generazioni!

-- Già! E cosa dev'essere altro? Se lei passa un'altra volta, avrò il
piacere di ascoltare i suoi discorsi, che sono molto, molto
interessanti.

E il giovane signore accompagnò don Ippolito alla porta e lì si inchinò.

                              *

Nè maggior vantaggio, nei riflessi della salute della patria; e certo
maggior nocumento quanto alla propria salute, riportò il marchese don
Ippolito, quando si recò presso le porte, o, per dir grecamente, _parà
tas thiras_, di uno di quei sàtrapi che tengono le moltitudini sotto la
loro balia. E con mansuetudine, ma con fermezza, aveva parlato così: «Tu
non vuoi la guerra, o signore, ed io non la voglio perchè essa è cosa
inumana. Ebbene, svela alle turbe questa verità: la patria non è un fico
secco! E confessa sinceramente che tu, forse, sei stato turlupinato e
alla tua volta hai turlupinato le turbe: perchè la patria non è un fico
secco. Forse, o satrapo, perderai la tua satrapia, ma salverai il
popolo; perchè così confessando, disarmerai i tuoi avversari che gridano
guerra. Credi: la patria non è un fico secco!»

Ma quel signore chiamò i satelliti delle porte, e fece scacciare dal suo
cospetto quel pazzo insolente che aveva osato parlare così.

                              *

E il dì seguente don Ippolito non uscì di casa.

Ciò avvenne perchè don Ippolito fu colto da apoplessia.

Allora tutto il palazzo fu a rumore. Fu telegrafato a donna Barberina.
La quale venne col direttissimo; e appena ella fu giunta al palazzo, ha
telefonato; il signorino ha telefonato. Sono arrivati molti medici e
molti amici. «Ma come l'è?» È che il marchese era sempre lì, con gli
occhi di vetro e senza poter riprendere la parola. Poi i medici hanno
mandato via gli amici; un medico ha mandato via l'altro medico; poi sono
venute le vecchie sanguisughe; poi è venuta la notte; poi è rimasta una
monaca con lui solo, a vigilare.

Poi la monaca si addormentò, ed anche il marchese don Ippolito di
Torrechiara si deve essere addormentato perchè non si svegliò più.

Infine la torre di Albraccà fu vuota; ed i funerali furono di prima
classe, con molte corone di fiori. E questa repentina morte era dovuta
all'arteriosclerosi ed al propinare _frequenter_. E in questo la
marchesa aveva ben veduto. Ma è la passione e il dolore che,
combinandosi con l'arteriosclerosi, producono talvolta la morte
repentina! E in questo la marchesa non aveva veduto bene.

Il povero Bobby fu assai triste.

-- Dunque, il papà -- diceva -- non lo vedrò più nella sua torre di
Albraccà? Neanche altrove lo vedrò più? Più?

E Aquilino non sapea che rispondere.

-- Guardi, professore -- disse Bobby, con una faccia triste triste. --
Anche il passerottino è morto!

Venne malinconia anche ad Aquilino.

E sul leggìo, lì in Albraccà, era aperto quel libro, dove un'ottava
boiardesca diceva:

    Ciascun che puote e non divieta il male,
    In parte del difetto par che sia,
    Ed ogni gentiluomo naturale
    Viene obbligato per cavalleria
    D'esser nemico d'ogni disleale
    E far vendetta d'ogni villania.

                              *

Per molte notti Aquilino non potè dormire bene.

Vedeva nella notte il fantasma del marchese che parlava con la consueta
mansuetudine: «Ma sì, caro maestro, il bene vale il male; se non che il
male è sudicio. Non ti pare di essere un po' sudicio, Aquilino? La tua
biancheria è profumata; ma la tua anima ha bisogno di un bagno».



CAPITOLO XXIII.

Ja! Ja! Ja!


Miss Edith capitò in casa di donna Bàrbera preceduta appena da un
telegramma.

                              *

Noi udimmo dire una volta da bella donna che le belle donne hanno ogni
due anni certe loro naturali fasi di mutamento della loro bellezza. Ma
fino a quale anno dùrino queste fasi della bellezza, noi non udimmo
dire.

Ora miss Edith apparve mutata in minor tempo; e benchè vestisse con
quella consueta compostezza, appariva sconvolta; e benchè parlasse
tranquilla, appariva agitata.

«Da dove venite, miss Edith, che gli occhi vostri non sono più quelli di
un tempo, e quali cose paurose avete veduto?»

Nella casa di donna Bàrbera la pace posava su le suppellettili delle
stanze adorne; e nel giardino sorridea melanconicamente la pace del sole
che baciava le bianche rose arrampicanti.

Miss Edith si stava seduta in quel salotto dove Aquilino, entrando per
la prima volta, aveva avuto paura di commettere qualche malestro (ed ora
non temeva più niente): si stava ancora col lungo velo del viaggio
attorno alla fronte, e pareva guardare attonita quella pace.

Attorno a lei affettuosamente, la marchesa, Bobby e Aquilino.

Miss Edith parlava e si arrestava ogni tanto nel suo parlare. La
marchesa era in lutto; Bobby si era allungato, come un ragno; Aquilino
aveva un aspetto nuovo: pareva il signor Aquilino. Queste erano le cose
nuove nelle consuete stanze.

Lei era tornata in Italia perchè aveva ottenuto quel posto di scuola per
intercessione del senatore. Sì, era contenta. Avrebbe ammobigliato un
piccolo appartamentino. E queste pure erano cose nuove. Ma vi erano
anche fantasmi davanti alle sue strane pupille.

Navi, navi, navi, aveva ella veduto approdare dai lontani domini
d'Inghilterra; navi cariche di maori, di indù, di guerrieri barbari con
bianche pupille, con lame strane orrende da affondar nelle carni:
bastimenti con profili di mostruose macchine di morte: un'umanità da
ogni parte del mondo, lentamente, si metteva in moto verso la guerra....

-- Quando finirà la guerra? -- aveva, così per dire, domandato la marchesa
a miss Edith.

-- Mai più, mai più....

E la voce della fanciulla suonò con tragico disperato suono, sì che la
marchesa non replicò.

Ma ad Aquilino l'aspetto nuovo e la voce strana di miss Edith produceva
sensazione di dolore e di piacere. E quella parola così insistentemente
da lei ripetuta, _navi, navi, navi,_ gli fece nascere nella memoria
quella filastrocca che fanno i bimbi:

_È arrivato un bastimento carico di_....

Era bello vedere miss Edith soffrire.

Ma quando ella come di colpo disse che un suo fratello era morto
combattendo in battaglia a Charleroi, allora il gioco si fermò
d'incanto, e una pietà gli germogliò per la pietà di lei.

Ella, ciò detto, si arrestò.

-- Io vi ho scritto, donna Bàrbera -- disse vedendo la dolorosa sorpresa
dei suoi amici. -- Anche a voi, maestro, ho scritto. Voi non avete
ricevuto mie lettere? Oh!

-- Mia povera fanciulla -- disse la marchesa accarezzandola
affettuosamente; nè altro sapeva dire.

Aquilino attese per un momento lo spettàcolo delle lagrime, tante almeno
per velare le pupille; ma non fu così: le pupille di lei si fissarono
come sbarrate, rigide, cieche, verso una visione lontana: un lampo di
odio vi oltrepassò.

Se non ci fosse stato Bobby e la marchesa lì presenti, Aquilino avrebbe
ceduto a quella interna tenerezza che lo portava verso miss Edith ed
avrebbe con le sue mani sollevata la bella mano abbandonata di lei, e
gliela avrebbe baciata. Ebbe come per descritta la sensazione
dell'enorme refrigerio che il contatto del bacio arreca sull'umano
dolore. Non amore soltanto, ma fratellanza di umanità nel dolore.

                              *

La marchesa, in lutto, non riceveva che gli amici più intimi; all'ora
del the, e, qualche volta, la sera.

Era cosa elegante non parlar di guerra. Ma era più facile dirne
paradossali graziose facezie che non parlarne: -- _Vi sognate voi di far
la guerra alla Germania? Ma se siamo tutti germanici! La tecnica è
germanica, il socialismo è germanico, le mollette per gli abiti delle
signore sono germaniche. A proposito, la mia sarta non ne ha più! Un
disastro. Come sarà il mondo dopo la guerra? Ah, vedo la Pace che si
affaccia al limitare e dice a quei monelli dei popoli; me la avete
fatta, birichini, eh? Tu poi, Ermanno, che parevi il più serio!
Vergogna! Starai senza frutta. La Pace? che dite mai? Il mondo, invece,
vestirà alla prussiana, io vi dico. Non vedete voi questo baco che è
l'uomo, il quale sta chiudendosi oramai nel suo bozzolo di filo
d'acciaio? Se la Germania vince.... Anzi! Specialmente se non vince. Vi
spaventa? Mio egregio nazionalista, non dicevate anche voi, sino a ieri,
che la conquista è l'etica e la guerra è l'estetica? Da quando siete
diventato francescano? Voi rinnegate la vostra fede? Ma il gallo ha
cantato. Ma l'umanità sta diventando un carnaio.... Si cammina nella
belletta rossa. Crema di sangue._ (Oh, quali parole nel salotto di donna
Barberina!) _Perchè? Perchè è diventata un carnaio l'umanità? È
semplice: perchè esiste la storia. Allora, felice la Spagna che non ha
più storia. Caro Bobby, avevi ragione a non volerne_ _sapere di storia.
No, esiste un altro perchè. Sentiamo. I Tedeschi avevano da mezzo secolo
accumulato un enorme stoc di cannoni, munizioni, veleni. Ne dovevano pur
far qualche cosa. Era un articolo che bisognava esperimentare. Adesso
quando avranno esperimentato, diranno ai popoli: Kamaraden, ça suffit et
embrassons-nous. Comment vous portez-vous? Enchanté de vous revoir. Ah,
bisogna mandare un intimazione per mezzo d'usciere al Kaiser. Scusi, ci
va lei? Io credo un'altra cosa. Dite. I Tedeschi attraversano una tetra
ubbriacatura di birra. Ci va lei a portar via la birra?_

(Povera donna Barberina! dopo tanta guerra contro il vino, ecco la
birra. In tale caso era proprio inutile far morire quel povero
marchese.) _Dicevamo? Ah, che eravamo nella tetra casa dei folli._

_Passerà, passerà tutto. È questione di guardare le cose serenamente. A
due chilometri dalle linee del fuoco, la vita riprende il suo ritmo; le
donne allattano i bimbi, scopano anche le mine fatte dalle bombe; i
contadini zappano, i contabili tengono la contabilità. A venti
chilometri agiscono i cinematografi. E poi c'è il Signore lassù. Sempre
fede in Dio. Ogni mattina il buon Iddio, quando l'umanità si addormenta,
versa su la terra lavacri di oblio. Credete, passerà tutto. Ma è che
passeremo anche noi!_

Così si conversava nel salotto di donna Barberina.

Erano facezie, ma pesanti come palle infuocate e plumbee. Ognuno di
quegli eleganti reggeva per un istante con un sorriso stirato, poi la
passava al vicino. -- Dica lei.

Ah, un po' di _champagne_, un po' di esilarante _champagne_ alla
francese. Non ce n'è più. Bevuto tutto. Come in sul finire di un festino
la fredda alba sorprende i gaudenti, e l'uno vede l'altro, pàllido,
abbrividire! Ma voi siete ben pallido! Anche voi. Ma chi ha spento i
doppieri? Chi ha aperto le finestre per fare entrare questa luce infame?
Un'altra bottiglia di facezie, o uno _champagne_ di illusioni. Non ce
n'è più! Tutto bevuto. Il vascello fantasma, col suo equipaggio cieco
dell'umana follia, passa pel suo viaggio eterno.

                              *

Aquilino qualche volta era sorpreso di trovarsi a mezza scala della
torre di Albraccà per andare a trovare quello squilibrato del marchese
don Ippolito di Torrechiara, che gli dicesse una parola non di verità,
ma di umanità.

«Parli, parli, signor marchese!» Ahi, non poteva più parlare.

Donna Barberina abituata a dare ordini, e non potere ordinare che questo
lugubre incubo della guerra scomparisse!

L'autorità militare aveva prenotato le sue automòbili; e questo semplice
fatto avea reso la signora nervosissima. Tutte le sere poi quei tumulti
per le vie, che parevano riverberarsi anche nelle sale del gran palazzo
marchionale.

Aquilino poi sapeva di altre cause che turbavano donna Barberina: certe
voci sinistre di fallimenti; chiusura di sportelli alle Banche; tracollo
di valori; ed egli in quei giorni adempì, con zelo ed onore, uffici
delicatissimi. «Povera signora con tutti i suoi milioni!» sclamava
spesso Aquilino fra sè.

                              *

Un giorno venne il senatore, e la guerra scoppiò anche nel salotto di
donna Barberina.

Un uomo come il senatore, il quale possedeva la documentazione di tutto,
era il solo che potesse dare esatta spiegazione dei termini ideali del
mondiale conflitto.

Egli si degnò di parlare per _extenso;_ e tutti stettero ad ascoltare.

La sua voce, blesa e pacata, cadeva nel silenzio attorno a lui.

-- Sostanzialmente -- disse -- è il conflitto di due Mènadi furibonde sotto
due màschere avverse. Esse si vibrano colpi mortali: l'una è la Mènade
mediterranea, Inghilterra e Francia, che mirano alla disgregazione della
società umana in una moltitudine di patrie, e di sotto-patrie, aventi
uguali diritti; l'altra è la Mènade continentale germànica, che nega
tutte le patrie, per dilatare se stessa, sovrana sopra tutte le antiche
patrie.

-- Allora è la fine del mondo! -- sclamò donna Barberina.

-- Fine e principio, cara marchesa -- corresse pacatamente il senatore -- ;
o piuttosto è la consolidazione di uno stato preesistente. La Germania
compie la sua rivoluzione: nel dominio dei fatti, come la compì nel
dominio delle idee. Ai miti della religione, alle utopie delle
democrazie, alla falsa carità cristiana, intende sostituire nel mondo la
scienza, la tecnica, l'ordine.

-- Ma i diritti degli altri?

-- Ma la rivoluzione è rivoluzione in quanto si stracciano i diritti
degli altri.

-- Ma la proprietà degli altri popoli?

-- Il mondo _est res nullius_, ma se me lo prendo diventa mio.

-- E la Giustizia?

-- Il papa tace, dunque la Giustizia tace.

-- E la Storia?

Rispose il senatore:

-- Chi vince scrive la Storia. Non esiste la ultrice Istoria col taccuino
in mano. Codesta è un'invenzione dei poeti.

-- Ma è un'odiosa tirannide.

Rispose il senatore:

-- Questione di intenderci. Lo Stato è anzi il massimo della liberty
quando ogni individuo diventa Stato. Veda i social-democratici tedeschi.
Essi sono i primi soldati dell'Impero; e giustamente sono indignati
vedendo che non tutti i loro colleghi delle altre nazioni apprezzano la
rivoluzione che oggi la Germania compie nel mondo.

-- Ma è un'orribile violenza!

-- La violenza? Ma ogni idea per vivere deve incarnarsi in violenza.
Vedete il Cristianesimo. Si inizia con l'apostolato pacifico di Cristo,
con la rinuncia; e finisce con la conquista, la organizzazione
cattolica, il rogo, il Sant'Uffizio, il cannone.

-- Ma l'Inghilterra si opporrà....

Rispose il senatore:

-- Si opponga pure la vostra Inghilterra. Ma sapete, signore e signori,
che cosa occorre per opporsi?

Silenzio!

Ripigliò il senatore: -- Occorre una ferrea determinazione di morire in
una lotta mortale. La Germania, studiosa e profonda, ha fatto esatto
calcolo anche su questo elemento psicologico.

-- Ma è allora un'aggressione spaventevole....

-- È la realtà! -- corresse elegantemente il senatore.

-- Del resto è bene che l'Inghilterra si sia opposta. Essa rappresenta
l'ostacolo che deve superare il cavallo allo _steeple chase_. L'ostacolo
anzi è indispensabile. Ma l'ostacolo sarà rovesciato, perchè
l'Inghilterra rappresenta una fòrmola di civiltà già sorpassata; e
domani tutti batteranno le mani al cavallo, cioè alla Germania vincente.

In questo punto fu udito un angoscioso scoppio di pianto, e fu vista
miss Edith, con il fazzoletto su gli occhi, cercar di fuggire.

-- Miss Edith, cara fanciulla -- disse il senatore un po' meravigliato, --
che è? -- e si levò per accostarsi a lei, e prenderle la mano. Ma ella lo
respingeva. -- Le mie parole, cara miss Edith, le hanno fatto dispiacere?

-- Pòvera, cara Edith -- disse la marchesa, e si accostò alla fanciulla e
la prese presso di sè, con affetto.

-- Io sono mortificato, cara miss -- disse il senatore -- ma non supponevo
che lei che era così ben penetrata dell'intimo meccanismo della vita;
lei così freddamente razionale si risentisse tanto per un accenno del
tutto obbiettivo al suo paese d'origine....

-- Razionale, razionale, caro senatore -- disse la marchesa, -- ma siamo
tutti formati di carne....

-- Continuate pure, senatore -- disse miss Edith. Sorrideva ora,
squassando la testa per far cadere via le lagrime dalle grandi pupille.

-- Io sono mortificato, molto mortificato -- diceva il senatore.

Ma le lagrime sgorgàrono con rinnovata violenza dalle pupille di miss
Edith.

-- Venite, venite, Edith -- e donna Bàrbera trasse di là la fanciulla.

Allora Aquilino parlò e disse del fratello di miss Edith, morto
combattendo a Charleroi.

Tutti ne furono dolenti, e il senatore anche più mortificato. Se avesse
saputo la cosa, si sarebbe guardato dal rievocare tristi ricordi. -- Ma a
parte le rispettàbili ragioni del sentimento -- disse poi --, quando si
fa la guerra, i morti non costituiscono che una semplice nomenclatura.
Secondo le ultime statistiche dei corpi scientifici, il mondo ha 1800
milioni di abitanti: trent'anni or sono, erano 1500 milioni. Voi capite
che c'è margine....

-- Sente? -- disse piano il poeta Emme all'orecchio di Aquilino. -- Il
senatore già pregusta per sè e per i suoi discepoli futuri tutta la
gioia di catalogare i morti in guerra, schedare i monumenti abbattuti.
Vi sarà del lavoro per parecchie generazioni di savi di siffatto genere.
C'è margine! Che cosa sono 1800 milioni di nomenclature? Ma non toccate
il sacro quintale della sua onorevole persona.

Fremeva.

-- Onorevole senatore -- disse poi, forte, il poeta Emme --, io sono della
sua opinione.

-- Oh, oh, sentiamo.

-- Il concetto di un'ùnica patria germanica -- disse il poeta Emme -- è
tutt'altro che disprezzàbile. È una soluzione, come un'altra, del
problema della felicità. E infatti i tedeschi non dicono di combàttere
per la felicità del genere umano? La Germania porge al genere umano la
medicina della perfetta igiene. Non vediamo noi i germanici come sono
belli, forti, floridi? Fra un paio di generazioni, saremo anche noi
spaventosamente sani, forti, floridi: coi nervi in perfetto òrdine, con
lo stòmaco capace di inghiottire, in perfetto orario, pinte di birra, e
molti _Würsten_ con _Sauerkraut_, e _Delicatessen_, cinque volte al
giorno: l'ideale dei nostri buoni proletari! Ogni cèllula uomo è Stato,
lo Stato è Dio: tutto con lettera maiuscola, senatore. Dunque io sono
Dio. Ma non capisce, senatore, che io sono io, io, io? Ah, c'è _nu
guajo_, senatore. Che ne faremo del nostro pallido pensiero? È una tabe
il pensiero; è una maledizione l'idea. Che ne faremo di Amleto, di
Dante, di San Francesco, di Leopardi? Li affideremo a voi, eruditi
signori; e voi li terrete bene in prigione affinchè non scàppino a
spaventare la umanità. I nostri occhi si faranno piccini: ma il ventre
sarà ben pingue. Noi non sorrideremo più dubitosamente; rideremo a
scosse, facendo ballare i grossi ventri: _Ah, ah, ah!_ E invece di dire
sì, diremo: _Ja, ja, ja!_ Si prepari, senatore, a scrivere qualche suo
_ghiotto contributo_ -- si dice così, vero? -- nella lingua del _ja_.

-- Ma non diciamo sciocchezze, -- ripeteva il senatore, -- ma non facciamo
dello spirito. Ma non mi faccia il poeta.

Donna Bàrbera tornò, dicendo che miss Edith non stava bene, ma trovò il
salotto in tumulto.

-- Io mi meraviglio soltanto di questo -- gridava con la sua voce di tuono
il poeta Emme --, come lei insegni _belle lettere_ in una Università
italiana.

-- _Lettere lettere_, soltanto _lettere!_ -- strideva il senatore.

-- Allora, _brutte lettere!_ Del resto tenga a mente, senatore: nessuna
forza umana distruggerà la nostra saggezza e libertà latina, che è
fondata sull'eterno.

-- Impertinente, impertinente, impertinente! -- andava ripetendo il
senatore; e non fu facile a donna Bàrbera mettere un po' di pace.

                              *

Miss Edith non stava bene, o _non era bene_, come diceva donna
Barberina. Una cosa da nulla, del resto, che presto sarebbe passata.

Aquilino la aveva vista nel suo lettuccio candido, d'ottone. Molti fiori
le aveva messo donna Barberina, lì presso. E Bobby era con lei, che le
teneva compagnia. Sorrise un po' ad Aquilino. Una cosa da niente:
_merci!_

Ma quella testolina bionda e stanca gli stava davanti; poi il discorso
del senatore: poi le ironie del poeta Emme. Già bastava che tutti gli
uomini si fossero adattati a dire: _Ja, ja, ja!_ e nessuno avrebbe
pianto mai più. Poi gli venne in mente la mamma morta che diceva così
dolcemente: _sì_. Se avesse dovuto dire _ja_, gli pareva che la mamma
sarebbe morta due volte. Poi rivide tutta quella gioventù che voleva la
guerra. Gli era sembrata inconsapevole. «Ma non sapete che se morite, la
vostra mamma non vi rifarà un'altra volta?» -- aveva esclamato. Ma ora
gli parevano consapevoli. «È per non morire due volte!»

Uno smarrimento.

E quella testa chiomata di miss Edith, languente sul capezzale,
richiamava ora al suo pensiero una strana imagine. Dove aveva visto il
grosso quadro?

Ah, come _réclame_ in un serraglio tedesco. Il quadro rappresentava una
bianca fanciulla ghermita e languente tra le quattro branche di un
enorme urangutano nero: il quale volgeva al pubblico il muso
insanguinato, e pareva dire ingenuamente: Molto igienico!

In fondo un onesto urangutano. Ma allora perchè in Betlemme, Maria aveva
elevato sugli uomini il pargoletto, salvatore del mondo?

Affinchè non ci fossero più quadrumani; ma umani. «Allora è necessario --
pensava -- debellare i Tedeschi, rinsavirli, ricondurli a certi principii
di umanità e di pace a cui tutti avremmo diritto.»

                              *

-- Volete, maestro, consegnare questa lettera al senatore? -- disse il dì
seguente miss Edith ad Aquilino.

Miss Edith aveva uno strano pallido sorriso. -- Oh, leggete, prego,
maestro.

Aquilino lesse: il foglio profumato aveva queste semplici parole a
grandi caratteri: -- L'Inghilterra troverà la ferrea determinazione.
_Miss Edith._

                              *

Brividi di terrore percorrevano per gli uomini, come il vento per le
foglie degli alberi prima che scrosci la tempesta. Attimi, ogni tanto,
di immobilità. I giorni seguivano ai giorni di ventiquattro in
ventiquattro ore; e non parevano giorni, ma evi: quello trascorso era
già lontano lontano, quello da venire era atteso con ansia, come se ogni
alba avesse portato su le ali silenziose il messaggio di grandi cose.

                              *

Donna Barberina non reggeva a quest'ansia. Aveva assicurato che se le
cose andavano così, si sarebbe ammalata di neurastenia. I thè _benefici_
-- di cui le parlavano le amiche -- le feste benefiche, i comitati
benefici, avevano un sapore di infermeria, di acido fenico.

Il medico le consigliò di viaggiare. -- Ah sì, andare nell'Italia del
sud, dove meno si sente la guerra. E un bel giorno ella decise ed ordinò
la partenza per l'Italia del sud, anche allo scopo di distrarre quella
povera ragazza di miss Edith.

                              *

Era inverno ancora, ma la automobile ben chiusa e di grande turismo, le
grandi pellicce, toglievano ogni disagio. Poi si andava verso più tepide
terre, verso la primavera oramai; e la stagione era ferma.

Fu un viaggio un po' senza meta, come di gente che fugge.

Talvolta ripartivano al mattino da una città, quando su la campagna
evanescente, brinata, rompea il sole dalle porpore infiammate
dell'oriente. Quanta pace! Le pie opere agricole seguivano nei campi il
lento lor ritmo. L'automobile scivolava per i gran rettifili quasi
addormentando il pensiero con i suoi dolci ondeggiamenti. Come una
narcòsi. Eppure parte della terra è insanguinata. Uomini armati,
cavalli, carriaggi, cannoni, in turbine, in folle ubbidienza, tra ferro
e fiamme e sterminio, fabbricano coi loro cadaveri le mura della storia.

Bobby sedeva sovente presso il meccanico, per quella sua passione di
guidare; ed Aquilino aveva davanti a sè le due donne; quelle due teste
un po' assopite nel dolce ondulamento; «bionda l'una, l'altra bruna»;
grandi chiome, grandi veli, bende quasi sacerdotali. La pupilla bruna
dell'una, la pupilla azzurra dell'altra si schiudevano come fari nel
sopore o nell'intervallo delle rare parole.

Tante chiome, tanti veli, tante grazie.

Che cosa importava se anche dietro quelle chiome i loro cervelli non
pensavano? Le loro pupille sorridevano. La gioia della vita.
Inaccessibili? Chi lo dice?

Lassù, nel sereno, presso il sole, qualche punto luminoso, qualche grido
melodioso: le allodole. Sembrano anch'esse inaccessibili, eppure....
_Eppure cadono_ -- diceano le pupille delle dame.

                              *

Si destò anche lui una mattina da quella dolce narcòsi.

-- Oh, ma signora, quale paese percorriamo noi?

Vedeva in lontananza un cinereo, azzurro profilo di monti.
Attraversavano quella terra che era stata il suo paese, e che gli
antichi chiamavano «patria».

Fra quei monti, si vedeva quel monte con quel castello che in lontananza
si confondeva col monte. Lassù, quand'era fantolino, era stato di
condotta il babbo. C'era il greppo fuori del castello, dove mamà, in sul
vespero, si recava con lui, che era vestito con un gonnellino bianco.
Ricordava. E attendevano il babbo dal ritorno dalle visite. Rivedeva il
baroccino, il cavallino roano che rampava su, e il babbo lo chiamava
_bimbo_. Perchè? Ma ora ricordava. Poi la cena semplice sul focolare
odoroso. Poi gli parve sentir delle lagrime; poi vide il tempo; gli
parve di capire quella cosa che è mistero: il tempo. Lui che con quel
gonnellino bianco una volta respirava lassù fra il babbo e la mamma ed
ora fuggiva per la gran strada piana nella grande automobile (babbo e
mamma non c'erano più: c'erano due dame), lui era l'orologio vivo del
tempo.

E gli parve strano di essere chiamato giovane.

«Oh, quanto tempo sono io vissuto!»

Ad un tratto Bobby gridò: -- Il mare, il mare!

Una lama cilestrina, addormentata nella perpetua pace dell'essere,
sorrideva in fondo all'orizzonte.

Le dame e Bobby si additavano il mare, le vele.

Aquilino chinò la fronte per non vedere. C'erano dei cipressi.
L'automobile oltrepassò. Poi s'arrestò presso il dazio. Allora convenne
anche ad Aquilino vedere e parlare. Davanti a lui si ergevano le vecchie
mura di quella città in cui era vissuto, e dove certo esisteva ancora la
casetta di mamà.

Il rallentare dell'automobile, un rombo chiuso fra le case, avvertì che
erano entrati nella città.

Oh la sua misera città! I rari passanti si volgevano con lungo sguardo
verso la grande vettura ondeggiante. Erano ancora quelle donne chiuse
nel sciallo nero; era la stessa antica miseria, un po' indolente, un po'
sudicia. L'automobile era una visione di forza e di bellezza in
quell'inverno.

-- Ci sarà, è vero, un caffè? -- domandò donna Bàrbera.

Allora Aquilino si ricordò del caffè dei signori, dove timidamente
entrava per comperare un'offella da un soldo. E indicò al conduttore.

Lì davanti al caffè si fermò l'automobile. Oh, quella bottega come
adesso gli pareva misera, e come misera la gente! Fermavano l'ozioso
passo; guardavano la automobile poderosa ed esòtica, le splèndide donne,
le gravi pellicce stemmate, gli splèndidi fiori.

Come un cerchio di gente un po' per volta si formò attorno
all'automobile.

Un bisbigliare, un mormorare sommesso. Le signore e Bobby lentamente
discesero.

Scese anche Aquilino. Dentro l'invòlucro metallico dell'automobile,
ferma, si udiva il motore che continuava con cupo rombo: i colpi si
avvicendavano sincroni, potenti: un ammaestramento delle materie al
cuore mal pulsante dell'uomo: «Se vorrai, o uomo, percorrere
vittoriosamente la terra, vittoriosamente il cielo, così ferreo ti
conviene pulsare, o povero cuore dell'uomo.»

Parve ad Aquilino che qualcuno in quella folla lo riconoscesse, che
qualche dito si levasse verso di lui.

Un senso di orgoglio lo irrigidì. «Ma io non vi conosco! Il mio cuore
pulsa come l'anima metallica dell'automobile.»

Entrò anche lui nel caffè.

«Voi qui, di questo caffè, non avete miele? non avete dolce panna, non
avete conserve per le dame? Perchè io sono il signore di queste dame. Io
sono il signore di quella automobile, io sono il signore. Non lo sapete?
Io sono Aquilino.»

                              *

Ma poi pregò donna Bàrbera di non volere rimanere in quella città; di
partir subito.

Su la soglia, su la soglia, ella, la mamma parea attendere ancora.

Dunque il povero cuore di lei non si era fermato?



CAPITOLO XXIV.

Il the delle cinque.


Erano tornati da quel viaggio; stava per tornare la primavera, e a donna
Barberina non pareva ammissibile che con la primavera dovesse, anche in
Italia, venire la guerra.

Aveva fatto bene miss Edith ad andare a star da sola nel suo
quartierino! Ogni momento, e _la guerra!_ e _quando marciate?_ e _cosa
fa l'Italia?_...

Adesso la sentiva più di rado quella ragazza. Ma quando veniva all'ora
del the, e ancora: _la guerra_, e _l'Italia che non si muove_....

-- L'Italia, cara Edith -- disse donna Barberina -- farà quello che crederà
meglio di fare. Vedo intanto che a voi altri vi affondano quasi una
corazzata al giorno; e, scusate, non è lusinghiero.

-- Meglio che affondino le corazzate che l'onore -- aveva ribattuto miss
Edith.

Oh, un'insopportabile ragazza.

                              *

Se non ci fosse stato il viaggio di mare con tutti quegli affondamenti,
donna Barberina aveva pensato all'America. Rimaneva libera sempre la
Spagna, dolce paese senza più storia; ma era venuta a sapere che la
Spagna era tutta pei Tedeschi. Non dicevano in Ispagna che il Kaiser era
cattolico e che aveva promesso di venire glorioso, e vincitore in
Ispagna a regalare la spada alla Madonna del _Pilar?_ Spaventoso quel
Kaiser! Maomettano coi Turchi, cattolico con gli Spagnuoli.... La
Svizzera! Ma per la Svizzera non doveva passare quel milione di
Bavaresi, di cui parlava il senatore? Andare a Roma dal Papa, ecco! Ma
si diceva che anche il Papa voleva andar via da Roma. E gli affitti? e
le possessioni? e i denari alle Banche? Donna Bàrbera passava lunghe ore
col suo ragioniere.

Aquilino, con tutta la buona voglia di confortare donna Bàrbera, non
sapeva che dire se non che il tempo gli sembrava chiuso, molto chiuso da
tutte le parti.

È che Aquilino si trovava in uno stato di squilibrio che non osava
confessare nemmeno a se stesso.

Ah, i _five o'clock_ della marchesa erano diventati molto melanconici!

Il commendatore X***, come uomo politico, era, invece, molto sicuro di
sè, ed era quegli che più confortava donna Barberina.

-- Si persuada, donna Bàrbera -- diceva il commendatore -- che è tutto un
retroscena, una montatura massonica. Passerà, passerà....

-- E cosa salta in mente adesso al D'Annunzio di venire in Italia? Stava
così bene in Francia....

Qui il commendatore non sapeva che rispondere, se non che i poeti sono
disordinati loro, e mettono il disordine da per tutto.

(Quel poeta era, infatti, venuto di Francia in Italia a destare il gran
fantasma di Roma.)

-- Ma lasciatela stare Roma, che appartiene alla storia antica -- diceva
donna Barberina.

-- La guerra dichiarata per un menestrello! Enorme, inaudito! -- esclamava
il commendatore, agitando le palme in alto, qua e là dalle orecchie.

-- Però anche loro, i Tedeschi -- diceva donna Bàrbera -- lo potevano
lasciare in pace questo povero mondo, che già, dite quello che volete,
lo avevano in mano tutto, loro.

-- Eh, un popolo giovane, marchesa.

-- Anche lei, col _popolo giovane_. Anche la teppa è giovane; ma non è
una buona ragione.

                              *

E intanto avvenivano cose che se don Ippolito, marchese di Torrechiara,
invece di essere morto, fosse stato in vita, avrebbe ordinato di sellare
un caval di battaglia, e forbire una lancia; o, per lo meno, sarebbe
morto più consolato.

Molti Dodò, Jean, Carletti, che solevano fare elegante sostegno agli
stipiti delle _buvettes_, non si vedevano quasi più.

Ufficiali, ufficiali, ufficiali! imberbi la più parte: eretti, ridenti,
eleganti nell'assisa grigia, uno più bello dell'altro. Come l'Italia
possedeva tanta giovinezza? Se fosse venuta la guerra, erano i destinati
alla prima morte. Eppure pareva che dovessero vivere perennemente.

Un poco per volta l'Università fu deserta. Gli studenti tumultuavano
quasi ogni sera.

                              *

Aquilino aveva il còmpito di fare un po' di cronaca per donna Barberina;
ma era un cattivo cronista.

Un giorno aveva veduto il piccone che lavorava in fretta
sull'acciottolato. Che è? Riaccordo tramviario con l'ospedale militare.
Dunque di lì sarebbero passati i feriti.

Ebbe la strana impressione che tutta la gente lì intorno parlasse più
sommessamente.

Lo stupiva il vedere nel gran sole di maggio passare ancora per le vie
le donne eleganti: donne dipinte, occhi di magnifiche civette, gambe
quasi nude. «Non vedono esse il vessillo nero che sventola sul mondo?»

Una domenica, di gran sole, Aquilino aveva veduto passare un battaglione
di volontari al ritorno degli esercizi.

Erano studenti, suoi compagni d'Università, erano professionisti, esuli,
qualche ragazzo, qualche testa grigia, qualche faccia di aristocratico,
qualcuno della plebe: ma in tutti una gravità, un silenzio,
un'elevazione, una parificazione, una purificazione.

Italiani che non sorridono più! E gli nacque questo pensiero: «Questa è
la guerra contro la giovinezza del mondo. È la guerra del popolo che non
sorride contro gli umani che possedevano ancora la virtù del sorriso».

Passavano intanto gli armati e i vessilli. I vessilli parevano confusi
col cielo. Aquilino guardò nel cielo per vedere quale cosa invisibile
passasse davanti al sole: un grande orifiamma, come nel giorno del
Signore.

Passarono, e il loro passaggio aveva arrestato il moto della via, come
per incantesimo; e soltanto dopo che furono passati, carrozze, tram,
uomini, ripresero il loro moto.

I pensieri davano al giovane una sensazione di spasimo, perchè ogni
pensiero vagava sincero per conto proprio; si componeva, si scomponeva:
ma non se ne formava un sistema, dentro cui l'anima si acquetasse.

E rivedendo con la mente quegli uomini del popolo che marciavano in
armi, insieme con quegli aristocratici, si domandava: «Quei miserabili
cosa sperano di guadagnare con la guerra?»

La consueta vita degli uomini era turbata; i fili della vita interrotti,
chiusa la Borsa, non più scambi, chiusi per paura delle dimostrazioni, i
negozi; quasi ogni sera, tumulti fra quelli che volevano la guerra, e
quelli che la guerra non volevano.

«Eppure certamente verrà il giorno -- pensava, -- verrà il giorno che gli
operai della vita riallacceranno i fili della vita interrotti: la Borsa,
gli scambi, le corse, i caffè folgoranti».

Eppure queste cose avverranno: nella lingua del _sì_, o nella lingua del
_ja_.

Ma avverranno queste cose!

E quelli che saranno morti? La loro madre non li rifarà più; e il loro
nome scomparirà dalla memoria degli uomini. «La madre tua non ti rifarà
una seconda volta, se tu muori, o Aquilino».

Questo ragionamento era saggio. E pur con questo saggio ragionamento,
Aquilino sentiva vergogna della sua giovinezza, ed evitava la comunione
con gli altri giovani....

«E quegli altri là, i Tedeschi, non muoiono?» -- si domandava allora.

Mostruoso pensiero! Gli pareva che quegli altri là non dovessero
veramente morire, ma che dovessero poi rinascere in quella compattezza e
perfetta materialità del loro popolo immenso.

«Ah, quale espiazione per noi che sognammo anime libere e giustizia
migliore! Non l'han dichiarato quelli là che, pel bene del mondo,
intendono ridurre il mondo alla loro materialità e compattezza?
Combattere allora è necessario, dar morte e morire. Ma come posso, io,
Aquilino, diventare omicida?»

E un'altra volta aveva veduto passare, per una delle vie principali, una
schiera di scolari, scolaretti, scioperanti dalla scuola: tricolore in
testa: gridavano _l'Italia s'è desta, Iddio la creò_.

Sfilavano fra la indifferenza e gli occhiacci dei bottegai, agli sporti
dei loro negozi. Ve n'erano di quelli piccini, che parevano come timidi
di passare, con quella loro picciolezza e con quel gran grido _l'Italia
s'è desta_, fra tutte quelle persone grosse, serie, mute, o che
dicevano: «Ma andate a scuola, ragazzi».

«A scuola, a scuola!», voleva dire anche lui, ma nulla disse, e svoltò
per un vicolo, per non vedere, per non sentire. Provava una pena, come
un approssimarsi di pianto.

-- Ma lei, caro professore, -- diceva donna Barberina ad Aquilino in
presenza degli altri -- mi fa della filosofia sentimentale, invece che
far della cronaca.

E da sola a solo gli diceva: -- È inutile, è inutile, sei un sentimentale
anche tu. Ma già è forse per questo che ti voglio tanto bene. Uh!

E con la mano bianca gli dava uno strattone al ciuffo dei capelli, e
glieli arruffava tutti.

                              *

S'aprì un po' di spiraglio alle speranze di donna Barberina in quei due
o tre giorni, su la metà del maggio, quando parve delinearsi un
mutamento netto del Governo.

Aquilino fu ancora pregato di andare a spasso a fare della cronaca.

-- Rivoluzione? -- diceva il commendatore. -- Ma no! Milano la attende da
Roma, e Roma da Milano. Un po' di tumulto, quel po' di tumulto che è
necessario per la precipitazione in fondo delle particelle agitate....
Oh, un colpo abile!

-- Chi sa cosa succede adesso nella reggia di Roma -- diceva donna
Bàrbera.

-- Un colpo inabile -- diceva Aquilino -- un colpo maldestro, un colpo
villano. L'uomo del potere, come un rozzo _chauffeur_ al volante, crede
di abbattere, come al solito, il solito impedimento: un ministero. Non
ha calcolato un impedimento più serio: la nazione.

-- Ma non faccia della metafisica -- disse il commendatore.

Apparve su la soglia del salotto miss Edith. Gli occhi le luccicavano
stranamente. Pareva anelante da lunga corsa. Aveva un supplemento di
giornale.

Il Re aveva confermato il ministero di prima.

Era la guerra.

-- Vatti un po', cara.... -- disse donna Barberina.



CAPITOLO XXV.

Il bacio dell'Inghilterra.


Quella sera il tumulto era grande più che mai, ed Aquilino cercava una
via per rincasare; ma non era facile per la gran calca; e gli sbocchi
delle vie erano chiusi dai soldati.

D'improvviso sentì una mano che gli si posò su la mano, e una voce gli
disse:

-- Volete essere mio cavaliere?

Era miss Edith.

-- Ben volentieri. Ora cercheremo qualche passaggio e poi la accompagnerò
a casa.

Ma ella disse che non intendeva andare a casa, ma voleva vedere la
_dimostrazione_.

-- Ecco qui, allora, signorina. Qui saremo un po' schiacciati, ma
riparati.

No, no! nemmeno questo ella intendeva. Intendeva spingersi in mezzo al
tumulto.

-- Piglieremo delle busse, signorina. -- E fece un gesto che si capiva
anche in inglese.

-- Avete paura? -- chiese miss Edith.

-- No, miss Edith, ma è seccante, perchè creda: là in mezzo, non ci sono
soltanto dei patriotti o degli anti-patriotti....

Ma miss Edith non doveva aver capito perchè disse:

-- Allora siate mio cavaliere! -- E gli si strinse al braccio.

                              *

Le ondate venivano dal largo del mare della folla e si propagavano con
moti di pànico fin lì dove erano loro. Ma miss Edith sospingeva Aquilino
verso l'alto mare della folla.

«Speriamo in bene -- diceva tra sè Aquilino, -- ma io ho paura che si
torni a casa con qualche cosa di rotto.»

-- Veda, signorina, questa dimostrazione non è molto seria. Si dovrebbe,
caso mai, fare una di quelle dimostrazioni ordinate, silenziose, come
fanno a Londra.

(Aquilino non aveva mai vedute le dimostrazioni che fanno a Londra; ma
aveva inteso parlare di certe imponenti e regolate processioni, che
erano preposte a modello per tutte le sagge democrazie del mondo.)

Ma miss Edith, o non capiva non stava attenta. Era tutta protesa verso
una schiera che avanzava inneggiando alla guerra. Ad un tratto ella si
slanciò levando il grido: -- Viva la guerra! Io vi porto il saluto della
libera Inghilterra. Hurrà!

Aquilino, sorpreso, la seguì, e si trovò fra il tumulto dei
_dimostranti_.

Per fortuna, ecco irruppe di traverso un cordone di carabinieri, che
acciuffavano qua e là.

-- Attenta, signorina, ci acciuffano! -- ebbe appena il tempo di dire,
sospingendola con violenza sotto il portico, che la grossa mano di un
carabiniere calò su di lei.

La giovinetta si stette imperterrita.

-- Carabiniere italiano -- gridò, -- ti porto il bacio della libera
Inghilterra! -- E gli buttava baci.

Il povero uomo, davanti a quel bel volto che gli buttava baci, rimase
interdetto. Ma una voce rabbiosa che dietro gridava: -- Arrestate!
arrestate! -- fece cambiare di posizione alla mano del carabiniere; e si
posò su Aquilino. -- Io? -- Lui era un saggio giovane. E i carabinieri,
sospinti, passarono oltre.

-- Cara signorina -- disse Aquilino a miss Edith -- io credo che ci
capiterà qualcosa di grosso questa notte; finiamo in guardina, ecco! e
non deve essere piacevole. D'altronde mi pare che abbiamo partecipato
abbastanza alla dimostrazione. Quel povero carabiniere come era buffo!
Mi vien da ridere, ancora. Ma io direi che basta di baci della libera
Inghilterra! Non tutti qui capiscono il linguaggio simbolico.

Ma miss Edith, o non gli stava attenta, o non capiva. Non sorrideva.

Ed ecco, sopra il buio della folla densa, delinearsi, in alto, i caschi
dorati dei cavalieri e le spade in alto: al galoppo!

La folla si apre, si squarcia al passar dei soldati a cavallo. Un grido
prorompe, si propaga, rimbomba, fa sollevare cavalli ed animi: «Evviva!
Evviva l'esercito!»

In quel momento Aquilino sentì miss Edith sfuggirgli di mano; la vide
avventarsi contro un cavalleggero, afferrarsi a lui; sentì il suo grido
stridere: «A Vienna! A Vienna, soldato italiano!...»; la vide per un
momento trascinata via dal cavallo; poi gli scomparve dalla vista, nel
buio della folla.

-- Ah, è impazzita quella povera ragazza! -- e si slanciò dietro ai
cavalleggeri. Ma questi erano già oltrepassati. Il rigùrgito della folla
lo sbalestrò lontano: «Si fa massacrare, si fa schiacciare! Oh, povera
miss Edith!» -- E la cercava con ansia, e ne chiedeva qua e là. Le ondate
della folla lo sospingevano in lor balia per la gran piazza, e aveva
davanti a sè quest'enigma:

«Una ragazza così assennata, impazzire così!

Ah, ecco: le suffragette! quelle tremende suffragette inglesi, capaci di
tutto!»

Era spiegato l'enigma; ma non trovava miss Edith.

E senza saper come, ora si trovava a navigare lento, a furia di braccia,
in mezzo a una marea umana, nereggiante fantasticamente; ma più queta e
come assorta verso un punto, verso una gradinata, densa di figure umane,
sotto i vessilli. Pareva che un uomo, lassù, dovesse parlare.

Ecco, lassù, una figura giovane, dritta, immota, a capo scoperto.

Chi è? che fa? che dice?

Dalla folla, intanto, ad intervalli, si propagava con esplosioni di
collera, di passione, l'urlo di guerra. Le tenebre ne erano come
lacerate; e nel cuore di lui, come una lacerazione. Quell'urlo si
acquetava; riprendeva più violento.

Ah, finalmente, miss Edith! Il bel volto di lei, pallido, e con gli
occhi estatici, come vengono figurate le sante, era rivolto verso quel
gruppo d'uomini, sotto le bandiere, ove si adergeva quel giovane.

-- Finalmente la ho trovata, creatura mia -- disse Aquilino.

-- Zitto! -- disse miss Edith, religiosamente. -- Parla!

-- Chi parla?

-- Garibaldi.

«Garibaldi? Oh, strano nome!» -- Che Garibaldi? -- domandò.

-- Peppino Garibaldi.

«Giuseppe Garibaldi? Non è morto Garibaldi? Non dorme a Caprera? Chi è
costui? Da dove viene? Non è passato il tempo? Si rinnovella il tempo?
Parlano i morti? I fanciulli, i morti, i poeti governano la storia?»

Garibaldi! che strano nome, e averlo sentito pronunciare così da miss
Edith!

Allora anche lui, Aquilino, accanto a miss Edith, si affissò in quel
giovane. Pareva pallido d'ira.

Quel nome, quel pallore, quella gran folla davano ad Aquilino un senso
di smarrimento. Gli parve che gli sguardi di colui misurassero
quell'enorme assemblea, misurassero la sua responsabilità. Poi come se
un'ebbrezza di cimento e di martirio gli risalisse dal cuore, una parola
corse e rimbombò su la folla:

-- Italia, Italia, Italia!

Non udì altro.

Dagli orli della gradinata, un improvviso tumulto sorse; un repentino
impeto di nuclei umani, montanti a cuneo, un rotear di bastoni; grida
esasperate di dolore, di furore: «Abbasso la guerra!»

La folla si rompe, ondeggia, si sbanda paurosamente.

Miss Edith, come ridesta, si voleva lanciare là, dove imperversava la
battaglia.

A fatica Aquilino riuscì ad allontanarla di lì; e come le parve di
potere essere inteso, sì le disse:

-- Mi pare, miss Edith, che adesso potremmo tornarcene a casa.

Non ebbe alcuna risposta. Se la sentiva tremare presso di sè.

Le voleva dire tante cose sagge.

«Quel soldatino non ha nessuna voglia di andare a Vienna. Quel Garibaldi
è un sentimentale». Ma poi non sapeva nemmeno lui dove era la saggezza e
dove era la follia. La storia andava avanti, o tornava indietro? Era
vero che i Germani calavano giù dalle Alpi, come mille e più anni fa,
sui cavalli criniti, le fràmee in pugno, e le corna sul capo per
esterminare il mondo?

I filosofi germanici, cavalcando, precedevano le falangi teutoniche:
pupille calme abbacinate di fanatismo: i filosofi sterminatori di ogni
tradizione, i filosofi negatori di ogni pietà nel mondo dei fatti come
nel mondo delle idee, i filosofi assertori della pura idea trascendente,
i filosofi della materia, i filosofi della ricchezza e della conquista:
discordi e concordi nella gran cavalcata. La croce di Cristo, il
talismano sublime, infranto; in alto il martello del dio Thor: davanti
alle falangi, con capriole e pifferi, Nietzsche! Visione apocalittica,
lasciatagli in eredità dal marchese Ippolito. Ne aveva paura, perchè non
gli parevano uomini; ma vuoti di viscere umane come i demoni.

Una gran pietà e un grande amore per quella giovanetta che lo aveva
chiamato «suo cavaliere».

Disse soltanto: -- Creatura mia, è mezzanotte. A quest'ora i dimostranti
seri sono andati tutti a casa. Non rimangono per le vie che malviventi e
teppisti. Permetta che la accompagni a casa.

Parve acconsentire.

Aquilino guardava con emozione quel bel volto, quella bella persona
abbandonata a lui.

Ci fosse stata una vettura! Ma non c'era; c'erano quelle lampade
elettriche, rare, in alto, che rompevano a zone, quasi paurose, il buio
della strada. Tutti i negozi chiusi, e il quartiere dove lei abitava,
era un po' lontano. Più vicino era il palazzo della marchesa: ma a
quell'ora, destare il portinaio, dar spiegazioni, donna Bàrbera....

Presero uno dei marciapiedi e si avviarono.

Ma dopo un po', Aquilino fece: «Ahi, ahi!»

Dal fondo della via, procedeva un gruppo di gente, troppo compatta per
esser -- come loro -- viandanti, troppo tumultuosa perchè non apparissero
dimostranti, e di quale colore lo dichiarò subito un grido che si levò
dal profondo: «Abbasso la guerra!»

Aquilino volse lo sguardo per vedere se apparivano provvidenziali
guardie o carabinieri. Niente!

-- Non ci badi, miss Edith. Deve essere luna nuova, mi pare.

In quel punto, erano entrati nell'orbita di quella gente. Uno, due, tre!
Oh, che brutte facce rivolte su lui, su lei! A lui tremava il cuore per
qualche scherzo ribaldo. Per fortuna, niente. Già coloro eran passati;
già lor due uscivano da quell'orbita, quando uno degli ultimi,
volgendosi, mandò il grido: «Abbasso i borghesi che vogliono la guerra!»

-- Niente, niente! -- disse Aquilino premendo forte il polso di miss
Edith. -- È il nostro popolo che si sfoga così.

Ma non potè nemmeno finire, che miss Edith, di scatto, volgendosi verso
colui, dal chiaro volto, gridò:

-- Evviva la guerra!

«Ci siamo!» -- disse mentalmente Aquilino.

In un baleno si vide circuito.

-- Li prego, signori, via! C'è una donna.

Per risposta ebbe un pugno. Lo restituì come potè, e gli parve con
bastevole energia. Ma ci voleva altro! Cercò di far scudo a miss Edith,
e gridar forte: «Vigliacchi!» Quelli pure gridavano; e intanto le
finestre si aprivano. Altre grida rispondevano. Poter difendere miss
Edith, almeno! Pigliava molti pugni; ma pur ci riusciva a proteggere la
fanciulla.

Ad un tratto rintronarono due colpi di rivoltella. Ai colpi di fuoco
successe una sospensione, un breve silenzio. In quel silenzio, una voce
gridò: -- Si facciano presso la porta, ora apro.

Molti degli assalitori si erano sbandati ai colpi: una voce dall'alto di
una finestra gridò: -- Le guardie! -- e fece fuggire altri degli
assalitori. Intanto una saracinesca si sollevò. Aquilino potè spingervi
miss Edith; poi lui.

Erano in salvo.

Un grosso uomo, che era quello che aveva sparato, disse: -- Se la sono
cavata abbastanza bene.

-- Ah, caro signore -- disse Aquilino con effusione -- lei ci ha proprio
salvati.

-- Io non sono nè per la guerra, nè contro la guerra -- disse colui --, ma
quella è stata un'aggressione.

Aquilino si guardò attorno. Erano nell'atrio d'un alberghetto. L'uomo,
l'albergatore, aveva una faccia risoluta e forte. Miss Edith pareva come
fuori di sè.

Il cappellino non c'era più, i guanti nemmeno, la borsetta smarrita, le
vesti.... In che stato le vesti di miss Edith!

-- E adesso? Ah, il mio braccio, -- esclamò Aquilino: -- credo proprio che
me l'abbiano stroncato.

-- Zitto! -- fece l'albergatore. S'accostò alla porta. Stette in ascolto:
-- Sono ancora lì, gli amici!

Calci violenti e grida contro la porta.

-- Ma le guardie? -- domandò Aquilino.

-- Hanno altro a che fare le guardie! Per la teppa sono sere d'oro,
queste.

Spense la luce, pregò di non parlare, e poi, accesa una candela,
condusse i giovani in una camera. Aprì la luce.

Miss Edith si lasciò cadere su di una seggiola. L'albergatore esclamò: --
Guardi, guardi, cos'ha in mano la signorina? Ma sànguina!

Miss Edith guardò: nel pugno contratto ancora, era un ciuffo di capelli
neri.

Li buttò con orrore.

Povere mani! Tutte le belle unghie spezzate. Una sanguinava.

-- Se avesse un po' di sublimato, qualcosa per disinfettare.... E un po'
di cognac -- disse Aquilino.

-- Vi deve essere del sublimato sciolto. Scusi, guardi se lei ha ancora
il portafoglio in tasca.

Aquilino si palpò. -- Sì, ancora.

-- Allora può dire di avere avuto fortuna.

-- Anzi.... -- E il giovane fece atto di volere con denaro ricompensare il
beneficio ricevuto.

A quel gesto miss Edith si riscosse. Si tolse con violenza quella
turchesi dal dito, e voleva che l'albergatore la accettasse.

Quegli si schermiva. Ella non desistette finchè colui non ebbe preso
l'anello.

-- Lo renderò domattina....

-- Faccia come crede -- gli disse piano Aquilino seguendolo in su l'uscio;
-- ma, adesso, non insista. Sapesse quanto ho fatto io per condurla a
casa! Si vede che doveva succedere così.

-- Ah, cara signorina, -- disse poi rientrando nella camera, -- io devo
proprio supporre che il mio braccio me lo abbiano stroncato.

-- Oh, mio Dio -- fece miss Edith levandosi. -- Ed anche la fronte! --
esclamò con terrore.

-- Infatti qualcosa sento che mi cresce anche su la fronte.

-- Oh, mio caro -- fece, palpitando, miss Edith. E posò la mano bianca,
non sanguinante, su quel lividore della fronte, che cresceva. E poi
tolse la mano e convulsamente vi posò le labbra; e poi lui ebbe una
rabbrividente impressione: le labbra di lei erano posate su le sue
labbra. Non gli faceva più male la fronte, più il braccio, più niente;
ma sentiva una palpitazione enorme nel cuore. Oh, le tenere, delicate,
carnose labbra!

E i micròbi dei baci?

Più niente i micròbi.

Ora Aquilino sorrideva come un fanciullo baciato. Sentiva -- e gli pareva
di vederlo -- un sorriso di beatitudine infantile disegnarsi sul suo
viso, come un lontano strano ricordo materno. La persona di lei, presso
la sua persona, era percorsa da brividi.

Il silenzio della notte era grande, e la lampada elettrica che pendeva
dal soffitto, illuminava la coperta di un letto che forse era stato
testimone di amori impuri.

Eppure tutto era puro!

-- Quell'uomo! -- esclamò d'un tratto Aquilino, sentendo i passi
dell'albergatore che si avvicinavano. -- Mi pare, miss Edith, che noi
siamo abbracciati.

Ma miss Edith non si mosse da così abbracciata come era. Ed Aquilino
guardandola negli occhi, li vide natanti come nella serenità di un sogno
plenilunare.

Quell'uomo posò il vassoio; se ne andò.

                              *

La notte era di primavera; ed egli fu sorpreso come da un lungo gioco
infantile di parole, formato di una sola parola.

Ella diceva: «Io t'amo!» E lui correggeva: «Io t'amo». Ed ella ripeteva:
«Io t'amo».

Poi lo sorprese questa espressione di lei: _Que je suis bienheureuse!_

E fu l'ultima. Sì, tutto era puro.

Poi si spense quella luce. Come si era spenta la luce?

La notte era di primavera.

                              *

E quando il mattino apparve, Aquilino vide quella perfetta grazia di
fanciulla addormentata con lieve respiro.

La pupilla del sole, penetrando nella stanza, destò miss Edith. Ella
dischiuse gli occhi, gli sorrise; senza dire, se non: _Que je suis
bienheureuse!_

Miss Edith era desta, e non pareva ben desta; perchè ripeteva: _Que je
suis bienheureuse!_

Ma certo era ben desta, perchè le sue parole suonavano così:

-- _Tu es l'amant de madame._

-- Come lo sai?

-- _Je le sais. Je connais bien madame._

-- Perchè?

-- Perchè _je connais bien madame. Mais tu es libre parfaitement. Je suis
bienheureuse quand même_.

                              *

Sì, tutto era stato puro.



CAPITOLO XXVI.

In nome di Maria.


-- Che cosa mi è successo? che cosa è successo qui, sulla fronte?

Ed Aquilino raccontò a donna Barberina con esattezza storica tutto
quello che era successo, in quel tumulto, sino alla mezzanotte.

-- Quella ragazza, decisamente, è impazzita -- disse donna Bàrbera.

-- Deve essere come una legge naturale, donna Bàrbera, perchè tutti,
anch'io, andiamo impazzendo.

                              *

Con quell'ematoma su la fronte, non era bello uscir di casa; tanto più
che il braccio fu per qualche giorno obbligato al collo.

Bobby volle un duplicato della narrazione; ed Aquilino la ripetè.

-- Miss Edith si batteva bene?

-- Magnificamente, caro Bobby. Credo che abbia un'unghia, qualcosa di
rotto, insomma. Oh, ma roba da nulla.

-- Lei ha preso dei bei pugni, professore.

-- Senza dubbio, caro Bobby.

-- Professore -- disse gravemente Bobby, -- se lei avesse imparato proprio
bene l'_uitsu_, o lotta giapponese, invece di pigliarli li avrebbe dati.
Non ha mai inteso nominare l'_uitsu?_ Ah! una cosa sublime. Con un colpo
di mano, _zag_, là! si mettono gli avversari in condizione da domandare
misericordia; e li può anche ammazzare. Senza armi, ben inteso! Io lo
farei imparare nelle scuole invece del greco.

-- È una saggia osservazione la sua, Bobby; e quando sarò ministro, terrò
conto della sua proposta. Ma che cosa ha da guardarmi tanto con quegli
occhietti, Bobby?

-- Glielo devo dire?

-- Ma certo.

-- Lei mi pare felice di avere preso dei pugni.

-- Ma perchè, Bobby?

-- C'è un non so che nel suo volto....

-- C'è questo bernòccolo, infatti....

-- Sì, c'è il bernòccolo; ma c'è anche un'aria di felicità che si direbbe
che lei ha mangiato il misterioso frutto del loto. Si ricorda,
professore, quando lei mi spiegava la storia del delizioso frutto del
loto, che non si sa bene che cosa sia?

Aquilino, infatti, sentiva il bisogno di gridare la sua felicità.

Rispose: -- Realmente, caro Bobby, sono felice di avere, l'altra notte,
sperimentato le mie energie. Io non ho mai dati pugni in vita mia, e
credevo che se ne potesse fare a meno. Oggi vado mutando opinione.

-- Allora avevo ragione io a volere sempre bastonare Cettivaio....

-- Può darsi, caro Bobby.

                              *

E vi è stato un infelice poeta, Giacomo Leopardi, il quale osservò
melanconicamente che la donna è del tutto inconsapevole _dei magici
effetti che ella induce sull'uomo con la sua bellezza_.

Vero è che Aquilino, trovandosi ora in belle condizioni di salute e di
giovinezza, fece, invece, entro se stesso più lieta osservazione, cioè
che l'amore di miss Edith lo faceva cantare, quasi egli fosse stato un
rosignolo o un poeta.

Anche l'amore di donna Barberina lo aveva fatto cantare; ma era un'altra
canzone. Dunque ogni bella donna possiede una sua forza di ebbrezza per
cui l'uomo eleva al cielo la sua canzone? Gran felicità sarebbe allora
per l'uomo variare queste ebbrezze così deliziose.

Forse perchè miss Edith era giovanetta e nuova, e il tempo era di
primavera, certo Aquilino nella selva di sua vita elevava liriche così
ben snodate che egli stesso se ne meravigliava.

Aquilino e miss Edith si davano ritrovo in una parte remota dei giardini
della città ove erano grandi piante, ed un laghetto, su le verdi acque
del quale i cigni andavano biancamente galleggiando.

Ed anche miss Edith era musicale.

Ella diceva: -- _Tu m'as désiré bien longtemps._

-- E perchè allora? -- domandava Aquilino.

-- Già, e allora perchè.... -- ripeteva miss Edith.

-- Quella volta -- diceva ella tutta gioiosa -- ti ricordi? _cette fois
après la Vierge de ta mère, j'ai senti ton baiser s'épanouir sur ma tête
penchée_.... E perchè allora non mi hai baciata?

-- Già, e allora perchè? -- ripeteva Aquilino.

Ma il motivo lirico di cui più ella si compiaceva era questo:

-- Tu non credevi, di'! che io fossi una.... una _good girl_, una buona
fanciulla....

Era un solo verso, ma era inebriante.

                              *

Aquilino, invece, spiegava, davanti ai belli occhi estatici di lei, più
vario canto.

-- Mia cara Edith, vedi come in quest'ora di primavera tutte le cose
della terra e del cielo si compongono in pace. Senti la città che va
spegnendo i suoi rumori; nessuna voce giunge più fra queste piante, ed i
tuoi occhi, o Editta, brillano dell'incomparabile fulgore delle stelle.
Non senti tu che noi siamo le più ricche, le più sovrane creature sotto
quelle stelle che fra breve ora si accenderanno lassù? Senza indagare
quali impurità sono nella mia vita; senza indagare tu chi sei, io chi
sono; senza indagare che cosa sarà domani; senza domandare quali
necessità spingeranno me e te; per quali vie dovremo camminare. Noi ci
siamo finalmente incontrati. Avevamo i sensi e per molti anni non ci
accorgemmo di questo delizioso amore. Ora i miei occhi vedono i tuoi, e
tu vedi i miei, e le tue mani sono nelle mie, così senza parlare. O
dolce amore senza domani, perchè l'immortalità non ci sommerge così,
come le tenebre sommergono tutte le cose create?

                              *

Così cantava Aquilino davanti a miss Edith, senza che egli fosse poeta,
così come l'usignolo canta nella selva, come la selva si ingemma di
fiori al canto dell'usignolo, come l'insetto splende e vola sui fiori,
come l'antèra apre i suoi incensieri, come il verme ara la terra; lavoro
senza fine che noi non abbiamo parola per nominare, che a volte
chiamiamo vita, a volte chiamiamo morte. Ma chi sa come veramente si
chiami?

Certo miss Edith ascoltava e capiva benchè Aquilino parlasse in italiano
diffuso, e miss Edith parlasse in inglese, in francese e in brutto
italiano; ma in amore ci si intende in ogni linguaggio, e, un tempo, ci
si intendeva anche in tedesco.

Oh, povero ragazzo, Aquilino! Egli cantava così bene e gli pareva che
tutte le cose create stessero, come miss Edith, intente ad ascoltarlo.
Ma no, povero ragazzo, alle cose create non importava proprio niente del
tuo canto di rosignolo, se non in quanto esso ha facoltà di affrettare
la deposizione di un uovo entro il nido. Nient'altro, nient'altro!

                              *

-- E se ci vedesse donna Barberina?

-- Se ci vedesse! Ma cosa importa anche se tutto il mondo ci vedesse?

                              *

Più sovente Aquilino si recava nel nido di miss Edith, cioè nel piccolo
grazioso quartierino che ella aveva preso in affitto. Un po' trepidante,
un po' di nascosto vi si recava. Ma che gioia trovarsi lì! Non si
stancava Aquilino di guardare quelle stanzette di miss Edith, che si
venivano pudicamente vestendo, un poco per volta, delle prime
masserizie.

E talvolta, a testa china, egli era sorpreso lì, nell'appartamento di
miss Edith, da questo pensiero:

«Già, le cose stanno così. Far masserizia, fare il nido. Vivere nel
nido. E poi? E da prima si è in due. Il protocollo della nostra vita
porta che si dorma in un letto grande, nel quale si va a posare la sera;
e la mattina ci si sveglia quando la notte si dorme. Su quel letto anche
si muore; prima lei, o prima io; o prima io e dopo lei. Su quel letto
anche nascono i figli. Ah, i figli! Ecco il frutto del canto di
primavera. La fiorita del maggio, ohimè, è scomparsa. Quale legge or ci
trascina?

«I figli, perchè? Per chi, i figli? Per noi? per nostra consolazione?
per loro? per una ecatombe, come in questi tempi? Chi ne sa qualche cosa
di sicuro? Fuorchè l'ufficio di anàgrafe, nessuno ne sa proprio niente
perchè si creano i figli!»

-- Ma che hai, che hai, -- gli chiedeva allora miss Edith, vedendo d'un
tratto l'amico così pensieroso, -- che hai, _my sweet one_, mio dolce
amore?

-- È, è, cara Editta, -- diceva Aquilino riscotendosi, -- che hai ragione
tu. Va bene come dici tu: _tu hai donato te a me, ed io ho donato me a
te._ È basta! Io sono, credi, un piccolo idiota!

«Ah, è questo stupido uomo, che appena vede una paglia, pensa a fare il
nido, a far le uova. Per il serpe che le verrà a succhiare? È questo
stupido uomo! Tu sei ben più saggia di me!»

Così pensava Aquilino nel tempo triste che tutta un'umanità fluiva,
scompariva entro la guerra. Le generazioni fluivano verso la guerra. I
figli non avrebbero più riveduto i padri. I gladiatori germanici erano
discesi nell'anfiteatro per combattere sino alla morte. Ai popoli
d'Europa era necessario combattere.

                              *

Ora avvenne che un giorno, in sul finire del giugno, Aquilino si sentì
fermare da queste parole:

-- Non si salutano più gli amici?

Guardò con occhi aperti: stupì: era un ufficiale, con una tunica nuova
fiammante e due gambali lucidi come due tubi nuovi da stufa.

Ma chi lo avrebbe riconosciuto?

Era quel poeta Emme, che non credeva a molto cose, ma forse credeva
nell'immortalità.

-- Come? lei ufficiale?

-- Dammi del tu.

-- Be', e come sei ufficiale?

-- Lo sono e basta! T'avverto che sto ancora imparando il saluto
regolamentare: Si mette la mano.... Aspetta: ho qui in tasca il manuale:
«si mette la mano di scatto alla visiera con le dita ben tese, e si
batte un colpo di sproni in segno di omaggio». Ma questo poco importa.
L'importante è che non mettiamo il piede in troppi falli. Ti saluto
perchè, in settimana, partirò per Peschiera, «forte e bell'arnese», come
tu sai.

Aquilino guardava con pupille non bene deste quella vigorosa giovane
esuberante figura che offriva così largo bersaglio.

-- Pare che tu veda in me un fantasma -- disse il poeta. -- Voleva andare a
salutare donna Bàrbera, ma salutamela tu! Come mi sono divertito quella
sera! Bada che è un'impresa quella di far uscire il senatore dalla sua
sedia olìmpica! Diceva cose intollerabili; ma tutt'altro che dissennate.

-- E allora perchè tu vai alla guerra contro i Tedeschi? -- domandò
Aquilino.

-- Bravo! È quello che anch'io mi sono domandato. Perchè vado a fare le
fucilate coi Tedeschi? Credi tu alla funzione storica della guerra? Io
no! Le cose resteranno, su per giù, come prima. Credi tu che la guerra
sia una cosa seria? Dev'essere una cosa seria, perchè vedo che si muore.
Probabilmente non è che un'enorme sofferenza in tutti, orientata nella
pazza insensibilità di pochi. Ma per il resto! Per mio conto, è una cosa
da bruti. Credi tu agli eroi? Hai inteso il senatore: _nomenclatura!_
con accompagnamento di musica, qualche volta. Credi tu alle democrazie,
spegnimòccoli di ogni alta fiamma? Ci guardiamo come gli Auguri antichi,
eh? Allora mi sai dire perchè io, perchè tanti altri andiamo a farci
ammazzare? Trento e Trieste! Sì, bello, ma non è sufficiente ragione. La
grande Italia? Mi accontenterei dell'Italia. Odio contro la Germania?
Certo un odioso popolo di colossali formiche che vuol ridurre cicale,
grilli, rondini a sistema di formiche. È un fatto che io vado ora in
guerra contro il colossale popolo delle formiche. Bada però che anche
questa non è una buona ragione per andarsi a fare ammazzare.

Un'umanità organizzata a tipo formica, pare il meglio agli occhi di
tanti, anche non germanici. Oggi la gira così!

_Homo, animal illògicus!_ Fa, disfà, rifà, e poi? Qualche cosa deve pur
fare per consumare i secoli. Volevano, quei signori, sgrassare
l'Inghilterra? Forse avevano ragione. E allora? Per me è una causa
imponderabile. Chiamiamola _Sacramento_. Ma sarà bene non far guerra col
Sacramento! E quello che io sento, mi pare che lo senta anche il popolo,
perchè il popolo italiano è un popolo che se anche bestemmia, ha ancora
della religione; e benchè il popolo d' Italia sia un po' straccione, è
un popolo di cavalieri. E benchè l'Italia sia la patria del troppo
eloquente Dottor Balanzone, molti vi sono in Italia che silenziosamente
e virtuosamente òperano senza paura. Così è! Facciamo la guerra perchè
siamo cavalieri, perchè abbiamo gentilezza. Semplicemente!

-- E le Muse? -- domandò Aquilino.

-- Le Muse le ho ignominiosamente respinte. Esse ci hanno dilettato anche
troppo! Però ieri sera ne venne una e per carità, su la punta della
spada brunita, mi ha pregato di accettare questi due versi.

Ed il poeta in mezzo alla via, con voce di metallo, come batte la
grandine, disse:

    Batti sul Cesare folle, distrùggine il seme, o Signore,
    Cristo risorto, percuoti chi uccise entro noi la pietà.[1]

  [1] Questi versi sono del nobile poeta e, oggi, soldato Luigi
  Siciliani.

Ciao! Se i Lanzichenecchi del Nord non mi foreranno il ventre, verrò poi
a combattere i Lanzichenecchi qui in Italia. Salutami donna Barberina, e
un bacio al bimbo.

                              *

Ed Aquilino si vide solo in mezzo la via. Gli pareva di vedere il sano
cuore di quel poeta palpitar rosseggiante nel mezzo del petto.

E aveva pur fatto la cura di Mitridate!

                              *

Ma quando i giorni furono pieni, anche Aquilino fu travolto da quella
religione o elevazione. Vestiva l'assisa militare e lo specchio gli
rimandava la immagine con l'abito militare. Era realmente lui. Era anche
lui cavaliere. «Volete essere mio cavaliere» gli aveva pur chiesto miss
Edith.

Bobby aveva voluto vestire l'assise del giovanetto-esploratore; saltava
al collo di Aquilino e gli diceva:

-- Portami Trento e Trieste!

-- In che modo? Per pacco postale, ragazzo mio?

Bobby cantava per le stanze come un fringuello:

    O Trieste, o Trieste del mio cuore,
    Ti verremo, ti verremo a liberar!

Chi gliela aveva insegnata quella canzone?

Ma ad Aquilino veniva su un groppo quasi di pianto. Caro, piccolo Bobby!
E quando Aquilino passava, gli apriva gli usci, e si metteva in
posizione di _Attenti!_

-- Non capisco però, professore, -- diceva Bobby -- perchè lei sia semplice
soldato. Perchè non fa la domanda per passare ufficiale? Sa come sarebbe
più bello!

-- Lo so, caro Bobby. Ma ti prego di prendermi per quello che sono.

                              *

Ed anche con miss Edith, si era scusato se non si presentava
nell'elegante assisa dell'ufficiale, -- Cara Edith, l'ufficiale deve
comandare, e per comandare bisogna sentire la missione. Ora io sento la
necessità di fare come gli altri, di partecipare alla guerra. Ma la
missione non la sento, cara Edith.

                              *

Fra donna Bàrbera ed Aquilino erano seguìte scene dolorose e lunghe.
Ella non voleva assolutamente; non voleva! -- Ah io non credevo che _il
professore fosse così amato dalla mamma di Bobby!_ Ti ricordi di quel
giorno della lezione di grammatica?

Ma Bobby, un giorno, presente Aquilino, aveva detto alla mamma:

-- Mamà, quando il signor professore tornerà, tu lo potresti sposare. Era
tanto amico del povero paparone!

-- Eh, eh! che parole son queste, figlio mio?

-- Io so tutto, mamà.

In verità egli sapeva molte cose, ma non tutte. Non sapeva, ad esempio,
che Aquilino vedeva finalmente gli occhi vitrei, spalancati di Don
Ippolito, marchese di Torrechiara, chiudersi in pace e perdono. Non
sapeva che Aquilino sentiva che non era facile servire due padroni,
_duobus servire dominis_. Chè, se avesse saputo tutto, Bobby avrebbe
corretto, _duabus servire dominàbus_.

E donna Bàrbera si acquetò anche lei in quella specie di fatalità che
prendeva un po' ogni persona.

                              *

Il giorno che ad Aquilino fu recato l'ordine di partire, si recò da miss
Edith, e le parlò così: -- Mia cara amica, io sono molto felice, e sono
oggi molto loquace, come un eroe di Omero. Rimarrà, cara Edith, sempre
materia di discussione se sia meglio morire nel colmo dei guai, o nel
colmo delle felicità. Io preferisco il secondo dei casi, senza dire che
non è certo se morirò. Una vita discretamente felice la mia, cara
Editta! Sapere che vi sono cattive azioni e non averne commesse di
gravi; aver studiato da avvocato e non aver fatto l'avvocato; non aver
dati dispiaceri nè a papà nè a mamà, i quali non han fatto a posta a
mettermi al mondo. Cara fanciulla, io conserverò il profumo dei tuoi
baci, finchè potrò. Ed anche di donna Barberina. Ma sì! Perchè non
posso, oggi, non essere sincero. I vostri baci sono come le cene dei
grandi filosofi antichi, deliziose nel giorno che si celebrano, ed anche
il giorno dopo. Non ho dovuto faticare a far testamento; non lascio
eredità. Ma ti porto questo involto. E tu lo conserverai. È la Madonna
di mamà. Non è la Madonna indorata dei sacerdoti, è la _nemica di
ciascun crudele_, è la Madonna che calca il serpente, che difende gli
infanti. È la stella del mattino, colei che cammina sopra le acque. Io
non so come andranno le cose. So che noi entrammo in guerra nel mese di
maggio, che è il mese di Maria. Dunque noi marciamo nel nome di Maria.
Cara fanciulla, se le cose andranno bene, vorrà dire che esiste ancora
una banca dove le cambiali dell'ideale sono ammesse allo sconto; ed è la
banca di Maria.

Ed Aquilino sciolse l'involucro e depose la Madonna scura sul mobile
nuovo di miss Edith.

E poi aggiunse:

-- Quando mamà andava in chiesa nel mese di maggio! È un bel canto, sai,
quello del maggio nelle nostre chiese! Il maggio, mia madre, la Madonna,
erano tre imagini che vivevano riunite qui, entro di me. Ma qualcosa vi
mancava. Ora vi sei tu, e non manca più niente. Tiènci una lampadina
davanti, finchè ti ricorderai di me. Già, non conta niente. Io so, come
te, che è una finzione. Ma che vuoi? Oggi mi pare di vedere assai
lucido; e le finzioni che gli uomini hanno creato, valgono più delle
loro realtà. Ah! Un'altra cosa ti voglio dire perchè oggi son molto
eloquente: oggi mi sembra che tutti i lombrichi umani che scavano il
cancro dei loro miserabili interessi, debbano scomparire, distrutti
dalla fiamma del nostro sacrificio. È una illusione anche questa: ma è
così bella!

Mi viene da ridere, caro amore, perchè parlo sempre io. Nel racconto di
Paolo e Francesca, è sempre Francesca che parla. E adesso parlo sempre
io.

                              *

E miss Edith lagrimava silenziosamente.


  _(Marina di Bellària, estate del 1915)_.


                                 FINE.



INDICE.


  DEDICA                                                    _pag._ V
      I. La bella fetta d'angùria                                  1
     II. Gli àngioli                                               5
    III. I dèmoni                                                 14
     IV. L'abito «blumarèn»                                       25
      V. Uccellin che spicca il volo                              38
     VI. La signora marchesa                                      49
    VII. Bobby                                                    60
   VIII. Le vie della pedagogia                                   67
     IX. La confusione dei casi                                   77
      X. Miss Edith                                               84
     XI. Muzio Scevola e compagni                                 95
    XII. Il salotto della marchesa                               106
   XIII. La cura di Mitridate                                    131
    XIV. Il capolavoro della marchesa                            138
     XV. Nella comica torre di Albraccà                          147
    XVI. Nella tragica torre di Albraccà                         155
   XVII. La mamma è morta!                                       172
  XVIII. Bobby felice                                            182
    XIX. Marte e Venere                                          196
     XX. Italia, Italia, o tu cui feo la sorte.....              224
    XXI. La vita è un'amarezza                                   235
   XXII. La condotta del marchese don Ippolito di Torrechiara    249
  XXIII. Ja! Ja! Ja!                                             256
   XXIV. Il the delle cinque                                     279
    XXV. Il bacio dell'Inghilterra                               288
   XXVI. In nome di Maria                                        303





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