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Title: La conquista di Roma Author: Serao, Matilde, 1856-1927 Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La conquista di Roma" *** images generously made available by Internet Archive (https://archive.org) Note: Images of the original pages are available through Internet Archive. See https://archive.org/details/laconquistadirom00serauoft MATILDE SERAO LA CONQUISTA DI ROMA Romanzo Napoli Francesco Perrella editore 1910 ———— PROPRIETÀ LETTERARIA Stab. Tipografico A. Trani--Via Medina 24 INDICE Parte Prima _pag._ 9 Parte Seconda » 140 Parte Terza » 288 PARTE PRIMA I. Il treno si fermò. — Capua; Capua. — gridarono tre o quattro voci, monotonamente, nella notte. S'udì uno strepito di sciabole trascinate e un vivo parlottare fra lombardo e piemontese: un gruppo di ufficialetti, tanto per finire la serata, era venuto a vedere il passaggio del treno notturno Napoli-Roma. Mentre il conduttore chiacchierava, sommesso, col capo-stazione, che gli dava una commissione per Caianiello, e il postino tendeva un sacco di tela pieno di lettere all'impiegato postale ambulante, gli ufficiali, discorrendo fra loro e facendo, per abitudine, risonare i loro speroni, guardavano se qualcuno salisse o scendesse, sbirciavano dagli sportelli aperti se apparisse qualche bel visetto di donna o la faccia di qualche amico. Ma molti sportelli restavano chiusi, con le tendine oscure tese sui vetri, da cui una luce fioca di lampada velata traspariva, quasi uscendo da un'alcova dove già il sonno avesse vinto i viaggiatori: da quelli aperti si scorgevano, nella penombra, dei corpi sdraiati, in un ammasso bruno di coperte, di mantelli e di scialli. «Dormono tutti», disse un ufficiale: «sarebbe meglio andare a letto». «Questi saranno due sposini», soggiunse un altro, leggendo sopra uno sportello: _riservato_. E poichè le tendine non erano abbassate, l'ufficiale che ardeva di curiosità giovanile saltò sul predellino, e accostò il volto al cristallo: ma discese subito, deluso, stringendosi nelle spalle. «È un uomo solo», mormorò: «un deputato, certo; dorme anche lui». Ma l'uomo _solo_ non dormiva. Era lungo disteso sul divano, con la testa appoggiata al bracciale di mezzo, un braccio dietro la nuca e la mano nei capelli: l'altra mano si perdeva nello sparato dell'abito: gli occhi chiusi. Pure, il viso non aveva quella espressione molle dei muscoli che riposano, quella quietezza grave dei lineamenti umani nel sonno: invece, in tutte le linee, vi era la contrazione del pensiero. Quando il treno in partenza ebbe passato il ponte sul Volturno, e s'internò nella campagna deserta, nera, l'uomo riaprì gli occhi, cercò di mutar posizione per potersi addormentare più facilmente. Ma il rumore del treno, sempre uguale e continuo, gli martellava nella testa. Ogni tanto, nell'ombra, una casa colonica, un villino, una casetta cantoniera, sorgevano, oscurissime sul fondo oscuro: un filo sottile di luce trapelava dalle fessure, una lanternina accesa faceva come un circolo danzante di fiammelle, dinnanzi al treno che passava. Egli pensò fosse il freddo che gl'impediva di dormire. Assuefatto alla mitezza delle notti meridionali, non avendo l'abitudine di viaggiare, era partito con un semplice e leggiero soprabito, senza coperta, senza sciallo, con una piccola valigia e un baule che lo seguiva, al bagagliaio. L'importante, per lui, non erano le vesti, nè le carte, nè i libri, nè la biancheria: era quella medaglina d'oro, prezioso amuleto, che gli pendeva dalla catenella dell'orologio. Dal giorno che l'aveva avuta, richiesta dalla provincia, per una eccezione, al questore della Camera, le dita correvano a toccarla, leggiermente, come per una macchinale carezza; e nei momenti in cui si trovava solo, la stringeva nella palma della mano, sino a farne restare il rosso sulla pelle. Per avere il vagone riservato, l'aveva mostrata al capo-stazione, chinando gli occhi, stringendo le labbra, quasi a reprimere uno sguardo di trionfo e un sorriso di compiacenza: e dal principio del viaggio la teneva in mano, come se temesse di perderla, comunicandole il calore della sua epidermide che bruciava. Ed era così acuto il senso di piacere che gli dava quel contatto e quella possessione, che sentiva, delicatamente, tutte le asperità e le concavità del metallo — e _sentiva_, sotto le dita, la cifra e la parola: XIV LEGISLATURA Sul rovescio, un nome, un cognome, la presa di possesso: FRANCESCO SANGIORGIO Con le mani calde, rabbrividiva di freddo. Si levò e andò verso lo sportello. Ora il treno sfilava in aperta campagna, ma il suo rumore era più sordo: pareva che le ruote fossero state unte di olio, e scivolassero chetamente sulle rotaie, per accompagnare, senza turbarlo, il sonno dei viaggiatori. Dirimpetto, sopra un'alta proda nera, si stampavano, fuggendo, gli sportelli luminosi: non un'ombra dietro i cristalli. La grande casa dormiente correva nella notte, come mossa da una volontà ferrea, ardente, che trasportasse seco tutte quelle volontà inerti nel sonno. — Dormiamo, — pensò l'onorevole Sangiorgio. Sdraiatosi di nuovo, cercò di assopirsi. Ma il nome di Sparanise, detto sottovoce, due o tre volte, alla fermata, gli rammentò il piccolo e povero paese di Basilicata, onde veniva, che insieme con venti altri poverissimi villaggi, gli aveva dato tutti i suoi voti per crearlo deputato. Il piccolo paese, distante tre ore da una stazione ignota della linea ferroviaria Eboli Reggio, dove il capo-stazione aveva le febbri, parea molto lontano all'onorevole Sangiorgio; lontano e abbandonato in una valle paludosa, tra le nebbie malsane che salgono, nell'autunno, dai torrenti, il cui letto scoperto, resta, nell'estate, pietroso, arido e giallo. Venendo dal paesello alla stazione, nella solitudine di quella deserta campagna di Basilicata, era passato accanto al cimitero, un grande orto quadrato, con le croci nere, dove sorgevano due pini alti, eleganti. Ivi giaceva, sotto la terra, sotto l'unica lapide di marmo, il suo antico avversario, il vecchio deputato che veniva sempre rieletto per tradizione patriottica, e che egli aveva combattuto con la improntitudine del giovane ambizioso, che non conosce ostacoli. Nè avrebbe mai vinto, il giovane presuntuoso, nato troppo tardi, com'egli diceva, per poter fare la patria; ma la morte, compiacente alleata, gli aveva procurata facile e piena la vittoria: egli avea trionfato, rendendo omaggio al vecchio patriota defunto. E passando presso al camposanto, non provò nel cuore nè pietà, nè invidia pel vecchio milite stanco, che era disceso nella grande serenità della morte. Tutto questo scompariva alle sue spalle, insieme col lungo decennio volgare di avvocatura provinciale, col lavoro meschino e quotidiano nelle preture, nei tribunali, raramente in Corte d'Assise, per liti di terreni, per qualche eredità di trecento lire, per un colpo di roncola: tutto un mondo piccolo, gretto, di vili interessi, di furfanterie contadinesche, di raggiri finissimi per uno scopo volgare, in cui il cliente diffidava dell'avvocato, e costui guardava il cliente, come un nemico disarmato. Dieci anni: il contatto con una gente di tribunale, misera, ignorante, o tranquillamente triviale, o severamente fredda — un mondo glaciale, repulsivo, in continuo movimento da un capo all'altro d'Italia, una fantasmagoria di facce sempre nuove, incapaci di cordialità, o timide da non poterla tentare — e davanti a questo mondo, il giovane avvocato si sentiva morire nell'anima ogni ardore di passione; anche la parola gli moriva nella gola. E poichè la causa che doveva difendere era di una trivialità aridissima, e la gente a cui doveva parlare lo guardava, indifferente, con la faccia pacata di chi non pensa più, egli finiva con sbrigarsi in poche parole, seccamente, del suo dovere di difensore: non aveva perciò grande riputazione di avvocato. Non egli poteva intenerirsi più, lasciando la casa paterna e i vecchi parenti che, vedendolo partire, piangevano come tutta la gente antica d'anni, quando qualcuno parte, per quel gran senso di egoismo che è nella vecchiaia: molte tempeste segrete e caldissime, eruzioni interne senza sfogo, avevano disseccate le sorgenti di tenerezza del suo cuore. Nel viaggio, ora, egli ricordava tutto, lucidamente, ma senza provarne emozione, come uno spettatore disinteressato. Chiudeva gli occhi per dormire: non poteva. Nel treno, invece, pareva dormissero tutti, in sonno profondo. Attraverso il rumore del treno, sempre più cullante, l'onorevole Sangiorgio credeva quasi di udire un lungo respirare calmo, gli pareva quasi di vedere un grande petto sollevarsi e abbassarsi lentamente, nel felice alternarsi meccanico della respirazione. Alla stazione di Cassino, dove il treno si ferma per cinque minuti, all'una dopo mezzanotte, non discese alcuno; e il garzone del caffè che dormiva sotto la lampada a petrolio, con le braccia sul marmo del tavolino e la testa sulle braccia, non si mosse. I guardafreni, avvolti nel cappotto nero, col cappuccio calato sugli occhi e una lanternetta in mano, andavano tentando i freni, che mandavano uno squillo metallico, di un'intonazione purissima, come cristallo. Anche il fischio della vaporiera, partendo, era dolcemente rauco, voce grossa e acuta, che si smorzava, per delicatezza. Riprendendo il cammino, il movimento del treno era come un dondolìo molle, senza stridori, senza urti, senza scatti, un andare rapido come sul velluto, con un rombo sordissimo che pareva il russare di un forte gigante addormentato, nella pienezza del suo riposo. Francesco Sangiorgio pensò a tutta quella gente che viaggiava con lui: gente addolorata per la partenza o allegra pel paese dove si recava; gente innamorata senza speranza, innamorata tragicamente, o felicemente innamorata; gente preoccupata dal lavoro, dagli affari, dalle angustie, dall'ozio; gente oppressa dall'età, dalle infermità, dalla gioventù, dalla felicità; gente che sapeva di camminare a un drammatico destino, o che ci si avviava, inconscia. Eppure, tutti costoro, dopo mezz'ora, a uno a uno, avevano ceduto lentamente al sonno, tutto, l'anima e il corpo, obliando. Il benefizio amoroso, profondo, risanatore del riposo era disceso su quegli ardori, e li aveva mitigati, si era allargato su quella tribolata parte dell'umanità, troppo felice o troppo infelice, placandola nel sonno. Nervi irritati, collere, disprezzi, desiderii, morbosità, vigliaccherie, mestizie incurabili, tutte le miserie e tutte le grandezze umane, viaggianti in quel treno notturno, posavano, nella grande dolcezza dell'addormentamento. Il treno si portava via, alla loro sorte, triste, buona, mediocre, quegli spiriti sognanti e quelle forme abbattute nella quiete: quegli esseri godevano la profonda voluttà dell'annichilimento senza dolore, lasciando a una forza, fuor di loro, il trasportarli lontano. — Ma perchè non posso dormire anch'io? — pensava Francesco Sangiorgio. E un momento, ritto, nel suo vagone deserto, sotto la vacillante luce della fiammella a olio, con la campagna nerissima che fuggiva dietro i cristalli, con la leggera brina che appannava quei cristalli, col freddo della notte che si faceva più frizzante, gli parve d'essere solo, irrimediabilmente, abbandonato, perduto, nella debolezza della solitudine. Si pentì di avere per orgoglio richiesto un compartimento _riservato_, desiderò la compagnia di un uomo, quella di una persona qualunque, un suo simile, il più umile. Si sentì smarrito e pauroso come un bimbo, in quella gabbia donde non poteva uscire, che la macchina portava via, quella macchina che egli era impotente a fermare nella sua corsa: era spaventato, come una miserabile creatura che veglia, solitaria, in una casa dove tutti dormano. Una soffocazione lo assalse alla gola, se no, avrebbe gridato per chiedere aiuto: uno sfinimento lo prese alle gambe, e lo abbattè, di nuovo, sul sedile. Ma questo durò pochissimo: la coscienza del coraggio rinacque subito in lui, e l'abitudine di una vita deserta di soccorsi morali, tutta chiusa in se stessa, tutta appoggiata sulle proprie forze, vinse quel minuto di terrore. A un pensiero che per molto tempo era rimasto latente, e che ora si presentava nella sua forma concreta, con un nome di quattro lettere, egli balzò di scatto dal divano, e si diede a passeggiare, nervosamente, su e giù nella carrozza. — È Roma, è Roma... — mormorava. Sì, era Roma. Adesso quelle quattro lettere, rotonde, chiarissime, squillanti come le trombe di un esercito in marcia, si disegnavano nella sua fantasia, con un'ostinazione d'idea fissa. Il nome era breve e soavissimo, come uno di quei flessuosi e incantevoli nomi di donna che sono un segreto di seduzione; e gli si avvolgeva nella mente in attorcigliamenti bizzarri, in meandri di fascino. Non poteva, non sapeva formarsi l'idea che quelle quattro lettere, come scolpite nel granito, rappresentavano. Il senso che quello fosse un nome di una città, di un grande agglomeramento di case e di popolo, gli sfuggiva: Roma gli era ignota. Per mancanza di tempo, per non sciupare del denaro, ragione di tutte più forte, avvocatuccio ignoto, individuo insignificante, egli non era mai stato a Roma. E non avendola vista, non poteva rappresentarla che astrattamente, come una grande cosa fluttuante, come un grande pensiero, come una grande visione singolare, come un'apparizione femminile ma ideale, come un'immensa figura dai contorni indistinti. Così, tutto quello che egli si figurava di Roma era grandioso, ma indeciso, indefinito: paragoni strani, finzioni che diventano idee, un tumulto nella fantasia, un miscuglio d'immagini e di concetti che si sovrapponevano. Dentro quella maschera glaciale di meridionale pensieroso, ardeva il fuoco di una immaginativa abituata a contemplazioni egoistiche e solitarie: e Roma vi metteva il subbuglio. Oh! egli la sentiva, Roma: la vedeva, come una colossale ombra umana, tendergli le immense braccia materne, per chiuderselo al seno, in un abbraccio potente, come quello che Anteo riceveva dalla terra, e ne usciva ringagliardito: gli pareva di udire, nella notte, la soavità irresistibile di una voce femminile che pronunziasse il suo nome, ogni tanto, dandogli un brivido di voluttà. La città lo aspettava, da un pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio della madre, profondo, che evoca il figliuolo. Da tempo egli sentiva questa seduzione di amore, questo appello di amore, intorno a sè: si rodeva d'impazienza, fermo al suo posto, avvinghiato da mille difficoltà materiali e morali, non potendo sciogliersi, con un tormento inferiore che gli faceva pallido il viso e torbido l'occhio. Quante volte, da terrazzino coperto, ad arcate, della sua casa, nel suo paese di Basilicata, egli aveva guardato l'orizzonte chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell'arco di cielo che si piegava, grandioso, era Roma che lo aspettava! Come i fedeli e pietosi amatori che hanno la loro donna lontana, e si struggono nel desiderio di raggiungerla, egli considerava malinconicamente tutta la distanza che lo separava da Roma, e come, nell'amore contrastato, fra lui e la sua donna si frapponevano uomini, cose, avvenimenti. Di che odio profondo, segreto, tutto concentrato nel suo cuore, egli detestava tutti coloro che si mettevano fra lui e la città che lo chiamava! Come gli amatori, nel mondo intero, egli non aveva che la visione deliziosa della persona che egli amava, che lo amava: tutte queste ombre nere che si interrompevano fra lui e la lucentezza del suo sogno, gli davano lo spasimo. Un'amarezza gl'inondava le vene: nel suo spirito era un grande serbatoio di rancori, di collere, di disprezzi, di desiderii, come in quello degli amatori. Dieci anni di battaglie, tenendo Roma nel cuore, lo avevano trasformato. Una diffidenza, nascosta degli altri e una soverchia stima di sè: un raccoglimento continuo, talvolta dannoso; uno studio incessante di freddezza, mentre, dentro, l'anima gli ribolliva; un disprezzo profondo di tutte le altre forze umane, che non fossero l'ambizione; uno squilibrio crescente fra il desiderio e la realtà; segreta, ma acutissima la conseguente delusione; l'amore del successo, niente altro che il successo. Questo era accaduto, nella oscurità della sua coscienza; ma talvolta, nelle ore bieche della disfatta, egli si abbatteva in una debolezza infinita; una umiliazione soverchiava tutto il suo orgoglio, egli si sentiva un povero essere, limitato, miserrimo. Come gli amatori, quando li sopravvince la cattiva fortuna, egli si sentiva indegno di Roma. Oh! bisognava domarsi nella pazienza, rafforzarsi nella perseveranza, temprarsi le forze nell'avversità, purificarsi lo spirito nel fuoco consumatore, come un penitente antico, per essere degno di Roma. Figura ieratica di sacerdotessa, di madre, di amante, Roma vuole espiazioni e sacrifici, vuole un cuore puro e una volontà di ferro... — Ceprano, Ceprano, dieci minuti di fermata, — si gridò fuori. L'onorevole Francesco Sangiorgio si guardava attorno, ascoltava, come un trasognato: egli aveva la febbre. Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela, all'orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi vedere la lentissima dilatazione sull'alto del cielo. In quella glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima. Dallo sportello presso cui stava ritto, Francesco Sangiorgio la guardava. Era un'ampiezza di pianura il cui colore ancora non si scorgeva, ma che, qua e là ondulava, come le dune d'un mare poco lontano; e la penombra fitta, con quella scialba irradiazione che ancora non arrivava a vincerla, dava alla campagna romana uno sconfinamento di deserto. Non un albero: solo, di tratto in tratto, una siepe alta e fitta, nera, che pareva facesse una riverenza circolare e fuggisse. Le stazioni cominciavano ad apparire bigie, tutte umide ancora della brina notturna, con le finestre sbarrate e le persiane verdi che avevano presa una tinta rugginosa, i magri alberetti di oleandri coi rami pendenti e i fiori tutti stillanti, pioventi al suolo, come se piangessero; con l'orologio dal largo disco biancastro che macchie di umidità deturpavano, e le cui brune lancette, dalla testa grossa, sembravano un ragno nero, a due gambe. Il capo-stazione, tutto imbacuccato nel pastrano, con una sciarpa che gli fasciava le mascelle, andava e veniva, tra i facchini, col capo abbassato: e nella freddissima aria mattinale, un sottile odore di terra bagnata, odore acre, feriva il cervello. Un grosso paese, eretto sopra una collina, fortificato da un giro di mura e da due torri, comparve, tutto bigio, tutto vecchio, con un'aria medievale: era Velletri. Ora, nel treno avveniva un certo risveglio; nel vagone accanto si sentiva scricchiolare il pavimento, due persone parlavano. Da uno sportello di prima classe, la testa d'un prete spagnuolo, molto bruno, dalle guance dure e rase, che avevano un'ombra azzurrina, si sporgeva, fumando alacremente un sigaro. Ma come l'alba s'irradiava in tutto il cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana apparve, nella sua grandezza. Su quei prati a perdita di vista, smarriti in una luce mite, un'erba rada e piccola cresceva, di un verde tutto molle di acquitrino; qua e là grandi appezzamenti giallastri, macchiati di marrone, una terra grossa e rude, pietrosa, fangosa, incoltivabile. Era un imperial deserto che nessun albero allietava, che nessuna ombra d'uomo animava, che non attraversava alcun volo d'uccelli; era una desolazione immensa, solenne. Contemplando questo paesaggio, che a nulla rassomiglia, Francesco Sangiorgio era preso da un senso crescente di sorpresa, in cui tutti i suoi sogni personali si dileguavano. Stava a guardare, muto, immobile, rannicchiato nell'angolo della carrozza, tremando di freddo, sentendo calmarsi il battito delle tempie. Indi a poco una pesantezza gli scendeva sulle palpebre, un rilassamento gli distendeva tutta la persona, egli provava tutta la stanchezza della notte trascorsa vegliando. Avrebbe voluto sdraiarsi nella carrozza, con un bel raggio di sole, che entrasse dal finestrino aperto, per dormire, una buona ora, sino a Roma; invidiava quelli che avevano passato quelle lunghe ore notturne a ristorarsi le forze, nel riposo. Ora il viaggio gli sembrava interminabilmente lungo, e lo spettacolo della campagna romana, quello squallore maestoso, l'opprimeva. Non finiva dunque mai? Non sarebbe dunque mai a Roma? Aveva sonno: un intorpidimento gli si dilatava dalla nuca a tutte le membra, la sua bocca era pastosa e amara, come se uscisse da una malattia; e la sua impazienza diventava pena, un piccolo tormento; egli si lamentava con se stesso, come se gli facessero un'ingiustizia. I treni notturni erano troppo lenti; aveva fatto male a partire con quello, fidando di poter dormire, nella notte; questa ultima ora gli era insopportabile. La realtà de' suoi sogni gli era dappresso, vicinissima, e con la sua vicinanza gli dava una palpitazione di gioia. Sentiva l'appressarsi di Roma, come quello di una donna amata: cercava di esser calmo, vergognandosi innanzi a sè stesso: ma gli ultimi venti minuti furono un vero spasimo. Col capo fuori del finestrino, ricevendo in faccia il fumo umido del vapore, senza più guardare la campagna, senza un'occhiata per gli eleganti acquedotti che si prolungavano nella pianura, egli guardava verso la mèta, credendo e temendo ad ogni tratto di veder apparire Roma, compreso da un vago senso di terrore. Spariva la campagna, dietro, come se si inabissasse, portando con sè i prati umidi, gli acquedotti giallastri e le bianche casette cantoniere. La macchina pareva accrescesse la sua velocità, e ogni tanto dava in un fischio lungo lungo, stridulo, a due, a tre riprese. A quasi tutti i finestrini vi erano delle teste sporgenti. Dov'era Roma, dunque? Nulla si vedeva. E la inquietudine era così forte, che quando il treno cominciò a rallentare, l'onorevole Francesco Sangiorgio ricadde sul sedile: il cuore gli batteva sotto la gola, come se gli si fosse allargato per tutto il petto. Passando sul pavimento ferreo degli scambi, quelle scosse forti gli si ripercuotevano dentro, gli davano sul capo come tanti colpi di martello. Gl'impiegati non dicevano neppure: Roma. Ma egli, scendendo, fu preso da un lieve tremito nelle gambe; la folla lo circondava, lo urtava, lo spingeva, senza badare a lui: in due correnti, per i treni che arrivavano, in coincidenza, da Napoli e da Firenze. L'onorevole Sangiorgio era smarrito tra la gente, addossato al muro, come se non si reggesse, avendo ai piedi la sua valigetta; e con l'occhio vagante guardava tra la folla, come se vi cercasse qualcuno. La stazione era ancora tutta umida, un po' scura, con quel nauseante puzzo di carbon fossile, di olio, di ferro sfregato, che vi è sempre, piena di vagoni neri, di grandi casse d'imballaggio ammonticchiate; e le faccie erano tutte stanche, assonnate, annoiate, in uno sbadiglio che stirava le bocche: la sola espressione era l'indifferenza, un'indifferenza non ostile, ma invincibile. Nessuno gli badava, al deputato Sangiorgio, fermo presso il muro: viaggiatori, impiegati, facchini andavano e venivano, senza curarsi di lui. Egli aveva sbottonato il soprabito, con un moto infantile, per mostrare la medaglina, aveva chiamato un facchino, due volte, ma quello era scomparso, senza dargli retta. Invece la gente di servizio si affaccendava intorno a un gruppo di signori in tuba, dall'aria pallidamente burocratica, che avevano l'abito nero e la cravatta bianca sotto i soprabiti abbottonati, dai baveri rialzati, con la faccia smorta di chi ha poco dormito e il contegno di persone distinte, che compiono un alto dovere di convenienza. Quando da un vagone del treno di Firenze era discesa una signora, alta, svelta, elegante, tutti si erano scappellati: poi un signore, magro, alto e vecchio, discese: il gruppo si strinse, il signore scarno salutava, la signora odorava, sorridendo, un mazzo di fiori che le avevano offerto. Dai soprabiti aperti, adesso, era una gala di sparati bianchi: un sorriso fioriva sulle facce d'un tratto colorite: a certe catenelle d'orologio, le medagline erano quattro, cinque. — Sua Eccellenza, — fu mormorato intorno. Poi il gruppo si avviò, la delicata signora dando il braccio al vecchio magro, i deputati e gli alti funzionari, dietro. L'onorevole Sangiorgio tenne anch'esso dietro, macchinalmente, essendo rimasto solo. Sulla Piazza Margherita egli vide il governo mettersi in carrozza, in mezzo alla fila degli amici che si era schierata, salutando: la signora chinava il capo dallo sportello, sorridendo: vide tutti andarsene, in carrozza, dopo. Egli era solo, sulla vasta piazza. Per terra un umidore come se avesse piovuto: tutto le finestre dell'_Albergo Continentale_ chiuse. A sinistra, il corso Margherita ancora in costruzione: mucchi di tavoloni di travi e calcinacci. Gli _omnibus_ degli alberghi voltavano per andarsene. Tre o quattro carrozze restavano, per indolenza dei cocchieri, che fumavano, aspettando ancora. A dritta, un carosello deserto, sbarrato e sopra un grande muro grezzo, un'accecante _réclame_ del _Popolo Romano_. Su tutto questo un'aria bassa e molle, una nebbiuzza penetrante, un lieve sentore cattivo, l'aspetto nauseato e nauseante di una città che appena si sveglia, nella gravezza flaccida delle mattinate d'autunno, con quel fiato di febbre che pare aliti dalle case. L'onorevole Francesco Sangiorgio era molto pallido, e aveva freddo — nel cuore. II. Quel giorno bisognava resistere e non andare a Montecitorio. Non pioveva più, come per stanchezza di quella settimana di pioggia: un fiato molle di acqua fluttuava ancora nell'aria, le strade erano fangose, il cielo tutto bianco di nuvole: una gente smorta, chiusa nei soprabiti, coi calzoni arrovesciati sul collo del piede e col viso incerto di chi non si fida, girava per le vie. Da una finestra dell'_Albergo Milano_, l'onorevole Sangiorgio guardava il palazzo del Parlamento, dipinto in color legno chiaro, su cui la pioggia autunnale aveva impresso certe larghe macchie più oscure, e cercava di raffermarsi nel suo proponimento di non entrarvi in quel giorno. Per sei giorni di pioggia, egli era stato lì dentro, la mattina, nel pomeriggio, di sera. Come schiudeva la finestra, al mattino, scorgeva, attraverso il velo fitto della pioggia, il grande palazzone panciuto, che pareva volesse sbuzzar fuori per l'umidità. E si vestiva macchinalmente, tenendovi gli occhi addosso, facendo conto di andarsene per Roma, a vedere la città, a cercare un quartierino mobiliato, non potendo durare alla vita di albergo; ma sulla porta dell'albergo, aprendo il paracqua, una subita indolenza lo vinceva; la strada che inclinava a Piazza Colonna, gli pareva sdrucciolevole e pericolosa: egli dava una scrollata di spalle, ed entrava direttamente, sotto la pioggia che incalzava, nel palazzone di Montecitorio. Ne riusciva solo per far colazione, all'albergo, nel salone a terreno che fa angolo, dietro una delle porte-finestre, dai grandi cristalli di un sol pezzo; e mangiando lo stufatino di vitella alla romana, egli si voltava, ogni tanto, a vedere chi entrasse in Parlamento. Mangiava rapidamente, con la distrazione di un cervello che non è sensibile al piacere dello stomaco. Sempre qualcuno che entrava lo interessava. Ora gli sembrava che fosse il Sella, con la sua forte persona, un po' quadrata, come se fosse tagliata con l'ascia, e la barba ispida, di un nero opaco, che si brizzolava presto: e Sangiorgio si levava su, come per corrergli dietro, a raggiungerlo. Ora gli sembrava che fosse il Crispi dal grosso mustacchio bianco, dal viso colorito, simile più a un vecchio generale brontolone, che a un focoso avvocato. L'onorevole Sangiorgio finiva presto di mangiare, ròso dalla impazienza di vedere davvicino questi uomini politici, questi capi-parte, e scappava di nuovo a Montecitorio. Ma lì una crescente delusione lo attendeva. Egli girava dapertutto, cercando il Sella o il Crispi: ma l'aula era vuota e fredda, sotto il lucernario, co' suoi banchi ancora coperti delle fodere di tela estive, coi suoi tappeti di un color polvere, orlati di azzurro, avendo l'aria di un pozzo profondo e umido, con una luce altissima che vi pioveva, quasi filtrando attraverso un velo d'acqua. Distrattamente egli saliva i cinque scalini che portano al seggio presidenziale, e si fermava un momento, dietro il seggiolone, a guardare i banchi, che stretti, giù, ascendevano verso le tribune, allargandosi; gli veniva una voglia infantile di mettersi a baloccarsi coi bottoni bianchi della soneria elettrica: per non cedervi, ridiscendeva subito dall'altra parte e usciva dall'aula, portando seco un po' della malinconia di quel grande cono rovesciato giallastro, così tetro nella solitudine. Non trovava il Sella o il Crispi in nessun posto, nè nel buio corridoio lungo e stretto, dove i deputati hanno i loro cassetti per i progetti di legge e per le relazioni. Egli non trovava il suo uomo politico nè alla _buvette_, nè al grande salone dei _passi perduti_, nè alle stanze degli Uffici che dànno sulla piazza: un silenzio, una solitudine, dappertutto, con qualche usciere che gironzava, in uniforme, ma senza medaglia e con l'aria stanca delle persone disoccupate. Or qua, or là, l'onorevole Sangiorgio incontrava il questore della Camera che, era venuto a dare il cambio all'altro questore, un patrizio che si godeva l'ottobre nel fasto della sua villa magnatizia sul Lago Maggiore: e quest'altro, un barone abruzzese, dalla serena aria signorile, dalla fluente barba bionda, dalla compostezza mite, senza severità, del gentiluomo fedele alla consegna, se ne andava invigilando, senza far mostra di nulla. Ogni volta che il barone questore incontrava l'onorevole Sangiorgio, gli faceva un piccolo saluto col capo: e mormorava: «Onorevole». E non diceva altro, passando. Da questa cortesia continua e da questa continua riserva, l'onorevole Sangiorgio era come imbarazzato e intimidito: avrebbe preferito o non esser salutato, come un estraneo, o discorrere come un collega. Quella correttezza, amabile ma fredda, lo sconcertava, cosicchè, in capo a una settimana, di questi saluti compiti, senza lo scambio di una parola, l'onorevole Sangiorgio aveva finito per arrossire, lievemente quando incontrava il questore, come se costui lo sorprendesse in fallo. Poi, preso da una sfiducia di trovare chi cercava, egli si rifugiava nella sala di lettura, intorno alla grande tavola ovale, dove erano sparsi i giornali quotidiani. Lì, trovava sempre un paio di deputati: un socialista, di Romagna, dalla barbetta biondacastana e dall'occhio mobilissimo dietro gli occhiali, che scriveva continuamente sopra un tavolinetto, lettere sopra lettere, proclami focosi, forse; un deputato vecchio, col pizzo bianco e la faccia rossa, che dormiva sempre, quietamente, in una poltrona, coi piedi sopra una sedia, le mani in grembo e un giornale spiegato sul petto. Francesco Sangiorgio, vinto da quella quiete, da quell'aria calda, dalla mollezza della grande poltrona di velluto azzurro cupo, appoggiava la testa a una mano, tenendo sempre sollevato il numero del _Diritto_ o dell'_Opinione_ che stava leggendo. Un sopore gli scendeva su tutti i nervi, come rilassati in quell'ambiente caldo e silenzioso; ma nel sopore, dietro la mano che gli copriva gli occhi, egli ascoltava. Se il deputato socialista voltava il foglio, se il vecchio faceva gemere una molla del suo seggiolone, Sangiorgio trasaliva: il timore di essere sorpreso dormendo, lo scuoteva, come quell'antico deputato che non aveva vergogna di distendere la sua senilità sfiaccolata e inattiva nella sala, dormendo della grossa, con un respiro roco di vecchio catarroso. Allora egli si alzava e in punta di piedi traversava la sala. Il deputato socialista levava il capo, guardandolo fissamente coi suoi occhi maliziosi di apostolo troppo furbo: forse cercava di indovinare la stoffa di un discepolo, in quel deputato novellino e giovane; ma lo sguardo freddo, la fronte bassa dove i capelli erano piantati duramente, come una spazzola, tutta la fisonomia energica di Francesco Sangiorgio, indicavano un carattere già formato, incapace di subire influenze, su cui non avrebbe avuto presa il misticismo sociale. Sicchè Lamarca, il deputato socialista, riabbassava il capo a scrivere. L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno, scrivevano in certi libroni, un catalogo generale delle opere che si conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante: essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava, sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse una opera introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato, come un segnacarte. Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai, di matite, per gli studiosi, erano deserti. In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto, arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente, con la passione per quella biblioteca, che egli aveva tratta dal disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l'onorevole deputato bibliotecario, al passo cauto dell'onorevole Sangiorgio: o, accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d'occhi nerissimi e vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava facendo. Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell'ultima stanza si metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno a uno, sbalordendosi di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume del Buckle, _Storia della civilizzazione in Inghilterra_, il secondo e leggeva. Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano, subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gli importava. Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente era; un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto. Gli pareva che, come agli amanti, gli si dovesse leggere, sulla faccia, la passione unica. Quel giorno non voleva metterci piede, a Montecitorio, non voleva per nulla occuparsi del mondo parlamentare: aveva bisogno di veder Roma, di trovar casa. Egli s'indugiava alla finestra, volendo mettersi in giro, dopo colazione. Si era svegliato di buon'ora, desto da un frastuono di voci e di risate, nella camera accanto. Una voce sonante, virile, tutta scoppii, che pronunziava con un fortissimo accento napoletano, che parlava un dialetto napoletano schiettissimo, frammezzato da grosse risa, dalla mattina strepitava, esclamando, con due persone in visita che erano poi sostituite da altre due, una sfilata di amici, di sollecitatori che chiedevano, si raccomandavano, ripetevano infinitamente la loro domanda, in dialetto napoletano, con quella ostinazione verbosa partenopea, a cui l'on. Bulgaro, deputato per Chiaia, secondo quartiere di Napoli, rispondeva con forti dinieghi. Si udiva tutto attraverso la porta divisoria: l'onor. Sangiorgio, involontariamente, ascoltava — Non poteva, no, proprio non poteva, l'on. Bulgaro: che era forse il Padre Eterno da far grazia a tutti? Lo lasciassero in pace, una buona volta! — E passeggiava per la stanza, col suo pesante passo di biondone grasso che la vita borghese ha intorpidito, togliendogli l'elasticità del bell'ufficialone vigoroso che aveva sedotto tante belle creature, nel tempo buono. Ma quelli che volevano qualche cosa, insistevano, supplicavano, esponevano i loro fatti di famiglia, narravano i loro guai, ricominciando sempre, tanto che l'onorevole Bulgaro, con la facile bonarietà napoletana, cedeva, stanco, e diceva: «Va bene, va bene: mo' vediamo, se si puol fare qualche cosa». Quelli se ne andavano, soddisfatti, come se già avessero quello che desideravano, e l'on. Bulgaro, rimasto solo, un minuto, sbuffava e mormorava: — Gesù, Gesù, che _schiattamento_! — L'onorevole Sangiorgio si vergognò di aver tanto ascoltato, e scese a colazione, tutto pensieroso. Si armava di forza per resistere alla seduzione di Montecitorio: pensava che forse erano giunti molti deputati, mancando solo venti giorni all'apertura della decimaquarta legislatura; e già cedeva alla curiosità, un pretesto della sua debolezza. Ma, per caso, una carrozza che passava, lentamente, sul selciato bagnato, gli sbarrò la vista del portone: egli salì in quella carrozza con un atto decisivo. «Dove comanda?» chiese il cocchiere a quel passeggiero distratto, che non gli dava l'indirizzo. «A... san Pietro... sì, portami a San Pietro,» rispose Francesco Sangiorgio. Il tragitto fu lungo: le tre vie consecutive, Fontanella di Borghese, Monte Brianzo, Tordinona, erano ingombre di veicoli e di pedoni, strettissime, contorte, con quelle nere botteghe di ferravecchi, di cartoleria, tutte sporche e polverose, con quei portoncini angusti, con quegli angiporti paurosi. A Castel Sant'Angelo si respirava; ma sul torbido e quasi immobile fiume giallastro, era una fittezza di casupole brune, di casamenti bigi, dalle mille piccole finestre, dalle chiazze di verde umido, sulle facciate, come se una schifosa lebbra li deturpasse, dalle fondamenta nerastre di ruggine, che l'acqua bassa lasciava scoperte: quel gomito di fiume, verso Trastevere, era ignobile. In Via Borgo la quiete profonda clericale cominciava, coi palazzi bigiognoli silenziosi, con le botteghe di oggetti sacri, statuette, immagini, oleografie, rosari, crocifissi, su cui era pomposamente messa la leggenda: _Oggetti di arte_. Nella vastità della piazza, solitaria, deserta, che ascende verso la chiesa, le due fontane zampillanti, sembravano due pennacchi bianchi, e l'obelisco di mezzo un bastoncello; e intorno intorno era tutta una bagnatura lieve, un umidiccio di acque quasi trapelanti a fior di suolo, un silenzio di luogo disabitato. La carrozza girò intorno all'obelisco e si fermò innanzi alla grande scalea. L'onorevole Sangiorgio guardava la facciata di San Pietro, sembrandogli molto piccola e molto schiacciata. «Non vole andare in chiesa?» domandò il cocchiere. «.... Sì,» disse il deputato, scotendosi dalla sua distrazione. Quando fu sulla soglia, si voltò a guardare la piazza, macchinalmente. Aveva letto che un uomo sembrava una formica, a quella distanza; ma nessun uomo comparve, e la piazza vuota, grandissima, cosparsa di acqua, sotto il cielo biancastro, gli parve simile alla campagna romana, una vastità di campagna brulla. Nella chiesa non provò nessuna impressione mistica: egli era un indifferente in fatto di religione, non parlandone mai, discutendo il Papato come una grande questione politica, lasciando la fede e le pratiche religiose alle femmine. L'architettura di San Pietro lo lasciò freddo. Avanzandosi, vedeva che la chiesa, s'ingrandiva sempre più, ma questo inganno dell'armonia gli sembrava senza scopo, dannoso. Alcuni tedeschi giravano, guardandosi attorno con una certa severità, come se il loro rigido luteranesimo disdegnasse quella pompa cristiana. Non una sedia, non un banco, non un prete, non un sagrestano, spirito familiare, che spegnesse le candele o rifornisse d'acqua benedetta le grosse pile vuote; i confessionali bruni, su cui leggevasi a caratteri dorati: _Pro hispanica lingua, Pro gallica lingua, Pro germanica lingua_, erano vuoti; per inginocchiarsi, solo lo scalino della Confessione o quello dell'altare maggiore; se no, il freddo pavimento. Francesco Sangiorgio non capiva nulla ai monumenti dei pontefici: li guardava senza intenderne la bellezza o la bruttezza. Aveva idee vaghe e meschine in fatto di arte. Quello del Canova, coi leoni dormienti, gli parve mediocre: quello di papa della Rovere, a terra, tutto di bronzo, gli parve superbo e bello: quello del Bernini, la Morte di oro, il tappeto di marmo rosso venato, il papa di marmo bianco, non gli urtò i nervi, gli sembrò semplicemente bizzarro. Non sapeva se i quadri dipinti sulle pale degli altari fossero di buoni autori o no, se fossero copie od originali. Andava attorno, trattenendosi, quasi per obbligo, distraendosi, pensando ad altro, non interessandosi a quella massa enorme di pietra, glaciale, abbandonata, dove altre tre o quattro ombre vagolavano. Infine, uscendo, il monumento ai due ultimi Stuart gli sembrò una miseria. «Andiamo al Colosseo,» disse risolutamente al cocchiere, buttandosi a sedere sui cuscini. Il cocchiere, ad allungare la corsa, poichè era preso a ora, e per evitare la via per cui erano venuti, abbastanza disastrosa, lo portò per le vecchie strade scure di Borgo Santo Spirito e del Governo Vecchio, dove sta la popolazione vera romanesca, incapace di abbandonare i suoi quartieri antichi e le sue case anguste e piene di scarafaggi. Il cocchiere faceva andare il cavallo al piccolo passo di animale stanco, avendo capito di portare un forestiero senza volontà. Anzi, al Foro Traiano, egli allentò sempre più l'andatura del cavallo, e Sangiorgio finse di ammirare quella larghezza di campo più basso del suolo, dove fanno da tronchi d'albero le colonnette mozzate, grande camposanto di gatti morti, grande vivaio di gatte selvagge, a cui le serve pietose di via Magnanapoli e di Macel de' Corvi vengono a dare gli avanzi del loro pranzo. Egli non potette vedere nè la rude facciata del Campidoglio, nè l'arco di Settimio Severo, nè la Grecostasi, nè il tempio della Pace; nè tutto il grande Foro Romano: si scavava continuamente da quelle parti: non si poteva passare, nè andare sul Colle Palatino. Così spiegava il cocchiere, passando per la via di Tor de' Conti. A un tratto la carrozza si trovò sotto il Colosseo, senza che egli, il visitatore, l'avesse visto da lontano, per la via che aveva dovuto prendere. L'onorevole Sangiorgio _sentì_ che doveva scendere e penetrò sotto l'arco di entrata, affondando nel terreno fangoso. Una pozza di acqua piovana, larga, con gli orli verdicci di vegetazione, era sulla soglia dell'Anfiteatro Flavio: nelle cavità delle pietre bianche sparse qua e là, nelle scanalature degli scalini, perfino nella mano di un tronco di statua, vi era dell'acqua piovana. Francesco Sangiorgio, maravigliato di quella immensità di mura, cercava di orientarsi: dov'era, dunque, il podio imperiale, dove erano la tribuna delle vestali e quella dei sacerdoti? Arrivò nel centro, ma non capì che fossero quelle costruzioni del sottosuolo. Sì, era maestoso il Colosseo, ma la luce sporca di una giornata piovosa gli toglieva una parte della maestà, mostrandone il lato sudicio e tutto lo sgretolamento del tempo. La campagna attorno, fuori, era vastissima: una vegetazione ricca di campagna umida: ma non un canto d'uccello, non una voce di animale, non la voce di un uomo. Sotto l'arco di una porta, una guardia municipale comparve, lenta, indifferente, senza nemmanco accorgersi del visitatore. L'onorevole Sangiorgio girò coscienziosamente pel corridoio circolare, un po' scuro. Pensava che forse era più bello di notte, il Colosseo, con la luna che dà un aspetto magico alle rovine e le fa sembrare più grandi, più meste. Aveva fatto male a venirci di giorno, adesso la prima impressione era irrimediabile: il Colosseo gli pareva una gran cosa immensa e inutile; una costruzione di gente orgogliosa e folle. Un signore e una signora, giovane e delicata lei, alto e robusto lui, giravano anch'essi pel corridoio circolare dove si respira l'aria molle e fresca, come in un sotterraneo: andavano lentamente, senza guardarsi, discorrendo sottovoce, con le dita intrecciate. Ella chinò gli occhi, incontrando quelli di Francesco Sangiorgio, e l'uomo si guardò come meravigliato e importunato. — Figuriamoci che sarà di sera, con la luna! — pensò l'onorevole Sangiorgio. — I romani antichi hanno fatto il Colosseo, perchè gli amanti moderni ci vengano a tubare. E si strinse nelle spalle, nel suo segreto disprezzo dell'amore; il disdegno del provinciale cui mancò il tempo, l'occasione, la voglia di amare, il disdegno dell'uomo profondamente assorto in un altro desiderio, che non era l'amore. «Andiamo a Sangiovanni in Laterano?» chiese il cocchiere, pigliando lui l'iniziativa. «Andiamo pure». E lo condusse prima a San Giovanni Laterano poi a Santamaria Maggiore, deponendolo fedelmente alla porta. Ma quelle chiese erano più piccole di San Pietro: non lo maravigliarono neppure per la loro grandezza: erano più mistiche, forse, ma la sua anima era chiusa ai dolci misteri della pietà religiosa: egli andava su e giù, come un sonnambulo. All'uscire, il cocchiere, senza neppure più chiedergli nulla, lo portò, al piccolo passo del suo ronzino, rifacendo la via già percorsa, e passando sotto l'arco di Tito, alle colossali terme di Caracalla. Il deputato Sangiorgio non si fermò a vedere le fotografie sulla porta: entrò subito, come preso da un'impazienza. Le mura salivano, altissime, coperte di cespugli d'erba e di spini, con la solidità che sfida i secoli. Nel mezzo degli stanzoni vastissimi, il suolo aveva ceduto, era diventato concavo, come quello di una vasca, e vi si accoglieva un pantanello di acqua nerastra. Nel fondo della sala dei giuochi e della ricreazione, era una statua seduta, decapitata, una statua di donna pudicamente velata: Igea, forse. Sul lamentevole cielo di novembre si disegnava un altissimo pezzo di muro sgretolato, uno scoglio irto, a picco, che pareva salisse su, su, nella regione delle nubi. Laggiù, nella campagna, restava ancora ritto, elegante, piccolino, un tempio rotondo: a Venere, forse. L'onorevole Sangiorgio, in quell'ampiezza di ambiente, provava un malessere, aveva un freddo per le ossa, si sentiva piccolo, meschino, e tutto questo lo mortificava, lo umiliava, lo faceva soffrire. «No,» disse risolutamente al cocchiere, che gli offriva di condurlo sulla Via Appia antica. «Andiamo in città». Rientrando in Roma, s'abbrividiva. S'imbruniva quella molle giornata di autunno, e a lui pareva di averne addosso tutto l'umidore filtrante, tutto il colore biancastro e sporco, tutto il sottile strato di fango: e parevagli anche di portare in sè tutta la mestizia, tutta la solitudine, tutta la tetraggine di quelle rovine, piccole o grandi, meschine o immani, tutta la vuotaggine, l'indifferentismo di quelle chiese inutili, di quei grandi santi di pietra, che sembravano figure ieratiche senza viscere, di quegli altari, glaciali, di marmi preziosi. Che gli facevano a lui tutte le memorie del passato, tutti quei ricordi ingombranti? Chi se ne curava del passato? Egli apparteneva al presente, molto moderno, innamorato del suo tempo innamorato della vita, che deve giungere, non di quella che è fuggita, capace di lotta quotidiana, capace dei più forti sforzi per conquistare l'avvenire. Egli non s'indeboliva coi rimpianti, non trovava che le cose andassero meglio prima: egli amava la sua epoca, e la vedeva grande, ecco tutto, più pensierosa, più attiva, più individuale. In quel crepuscolo che saliva al cielo torbido di nuvole, egli si sentiva rimpicciolito, perduto dalla pericolosa, snervante contemplazione del passato; un'oppressione profonda gli scendeva sul petto, sull'anima; certo aveva preso le febbri nell'acquitrino del Colosseo e delle Terme, nell'alito tepido e umido delle chiese. Ma a Piazza Sciarra i primi lumi a gas lo rianimarono. Un venditore di giornali strillava il _Fanfulla_ e il _Bersagliere_. Gruppi di gente erano fermi sui marciapiedi. Una vivezza di vita cominciò a riscaldargli il sangue. Un signore, in un crocchio, davanti a Ronzi e Singer, diceva forte che l'apertura del Parlamento era stabilita pel venti novembre. Le trattorie del _Fagiano_ e delle _Colonne_, sotto il portico di Veio, erano riboccanti di luce. Attraverso i vetri, parve all'onorevole Sangiorgio di discernere, nella trattoria delle _Colonne_, l'onorevole Zanardelli, di cui conosceva un ritratto. Invece di scendere all'_Albergo Milano_, entrò nella trattoria delle _Colonne_, e si mise a sedere, solo, a un tavolino, rimpetto all'onorevole intransigente di Brescia. E mentre mangiava, l'onorevole Sangiorgio contemplava quel lungo corpo dinoccolato e slogato, quella piccola testa nervosa e piena di un'indomita volontà, quegli scatti convulsi, quell'armeggìo tutto meridionale: l'onorevole di Brescia pranzava con tre altri commensali. In un altro angolo pranzavano tre altri deputati, e i camerieri si affaccendavano intorno a quei due tavolini di avventori conosciuti, dimenticando l'onorevole Sangiorgio, tutto solo, ignoto. E in quell'ambiente fittizio si sentiva rinascere, rinfrancare, riprendeva forza pel combattimento: quando, nella sera che si avanzava, risalì a piazza Montecitorio, nel vedere il palazzo del Parlamento, grande nell'ombra, egli trasalì in tutto il suo essere sconvolto. Era là il suo cuore. III. Nella bottega della guantaia, in via di Pietra, vi era ressa: la bella padrona bionda e alta, una milanese allegra, le due commesse, le due giovanettine magre, dagli occhi stanchi, non facevano che rivoltarsi indietro, ogni minuto, con le braccia tese, a prendere un cassetto di guanti dagli scaffali: esse curvavano il capo a scegliere con le dita lunghe e agili, fra le paia, quel paio che cercavano. Tutti quelli che entravano, chiusi nel _paletot_, sotto cui s'indovinava la marsina, col bavero alzato e il cappello a staio, lucidissimo, chiedevano dei guanti chiari o bianchi; un signore elegante, dalla tuba di raso, dal nastro rosso e bianco sotto il goletto, un commendatore, infine, precisò quello che voleva, li chiese color grigio tortorella. Una signora provinciale, vestita di raso granato, con un cappellino bianco che l'affogava, sceglieva lungamente un paio di guanti, discutendo, facendo impazientire i tre o quattro che aspettavano, in un cantuccio: cercava il guanto stretto, non le piaceva che facesse pieghe; poi blaterò contro la debolezza dei bottoni, attaccati con un punto solo, che saltavano via dopo un minuto. Quando le dissero il prezzo, sei lire, si scandalizzò, assunse un contegno serio, disse che era cattiva la pelle per quel prezzo così caro e uscì, senza guanti, con le labbra strette, portando in mano il suo biglietto d'invito per una tribuna. Un onorevole, forte, giovane, bruno, dai grossi mustacchi neri, un meridionale, raccontava a un suo cliente che si trascinava dietro, come all'ultimo momento si era trovato senza guanti, che queste padrone di casa mandano tutto alla malora: e il cliente povero ascoltava, col vago sorriso paziente dei confidenti, senza guanti, lui, non avendo forse il denaro da comperarli. Intanto era entrata una signora, scendendo da una carrozza: era alta, con un bel viso tutto dipinto di carminio, di antimonio e di bianco, le labbra sanguinanti, le sopracciglia azzurre a furia di esser nere, i capelli di un biondo giallissimo. Tutta vestita di bianco, di raso, con un cappello coperto di piume bianche, con un ombrellino di merletto bianco, ella cercava un paio di guanti bianchi, a diciotto bottoni, e i suoi braccialettini tintinnavano, salendo e scendendo sul braccio nudo: ella esalava un acuto profumo di _white-rose_. Un deputatino, piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di barba nera e un par d'occhietti vividi, piccini, rotondi, la guardava di sotto in su, e si lagnava, con un collega, un bel signore alto, dal mustacchio biondastro brizzolato, dall'aria grande di sciocco decoroso, che la Corte glielo faceva per dispetto: deputato democratico, dell'estrema sinistra, veniva sempre fuori nel sorteggio dei deputati che dovevano ricevere il Re e la Regina alla porta del Parlamento. Capite, lui, deputato democratico, dover fare il saluto, la riverenza, offrire il braccio ad una dama di Corte che non si conosce, che non vi parla, a cui non si sa che cosa dire. «Le donne eleganti mi piacciono», mormorò il deputato, col suo contegno di stupido soddisfatto. «Sarà; ma quando si pensa che quel vestito è fatto coi denari dei contribuenti...» ribattè l'onorevole grassotto repubblicano. E uscirono, guardando salire in carrozza la bella femmina dipinta: fra le sfioccature di trina della sua cravatta, ella portava un bigliettino roseo: andava a un'altra tribuna, ella, a una tribuna distinta. «La vendetta del proletariato», disse il deputato democratico, tutto compiaciuto. Ora, nella bottega di guanti, la gente si accalcava. Erano facce d'impiegati, dalla barba rasa di fresco, dalle cravatte bianche stirate in casa, dai soprabiti pepe e sale, fumo di cannone, carbonella, sotto cui i calzoni neri avevano un luccicore di panno conservato: erano facce scialbe di alti funzionari, a cui il nastro verde dei SS. Maurizio e Lazzaro dava un colorito anche più cadaverico: erano ogni sorta di tube antiquate, a cui un colpo di ferro aveva dato un aspetto giovanile. La guantaia bionda e ridente non si stancava, non perdeva mai la testa, si chinava sempre amabilmente, rispondeva con una cortesia di venditrice signorile settentrionale. Aveva consumata la sua provvisione di cravatte bianche, e quando arrivò l'onorevole di Santamarta, un siciliano biondo, dall'aria mefistofelica, a chiederne una, ella si desolò: il marchese di Santamarta era un cliente di tutto l'anno. Proprio in quel momento aveva finite le cravatte bianche: ma il Salvi, qui, in Piazza di Sciarra, ne doveva avere. Il marchesino biondo ascoltava, un po' indolente, con gli occhi azzurri femminili un po' smorti fra le palpebre, e il sorrisetto scettico. «E la signora marchesa era in Roma, si recava naturalmente al Parlamento?». «Si..., credo», rispondeva l'onorevole marchese, «credo che vi andrà con sua sorella. Sono uscito presto di casa, per questa cravatta. Che fastidio, sempre, queste rappresentazioni...». E stracco, come se avesse compiuta una gran fatica, e un'altra insopportabile gliene restasse da fare, se ne andò. «Da questo Salvi, dite?» domandò dalla porta, con una voce seccata. «Salvi, in Piazza Sciarra». Per un momento, la bottega restò vuota. Le giovanette si riposavano, in piedi, con un pallore sul volto, fra le scatole aperte dei guanti e i fasci ammucchiati sul marmo; la stessa padrona era presa da un minuto di lassezza, immobile, appoggiata con le mani al banco. Le pareva di essere in una di quelle ardenti sere di carnevale, delle ultime, in cui Roma ha tre balli aristocratici, quattro veglioni pubblici e otto o dieci ricevimenti; e nella bottega è un affollarsi di giovanotti, di modiste, di servitori, di cameriere, di mariti disperati, di amanti frettolosi. Ma una famiglia di salernitani, padre, madre e figliuola, il padre impiegato all'Interno, entrarono, e chiesero un paio di guanti per la ragazza. Essi spiegarono subito che andavano alla Camera, che i biglietti li avevano avuti, uno dal loro deputato barone Nicotera, il barone, diceva semplicemente la madre; un altro lo avevano avuto da don Filippo Leale, l'onorevole Leale, quello con la barba nera, che era stato segretario generale, e il terzo biglietto lo aveva procurato un usciere della Camera, del loro paese, un brav'uomo, con cinque medaglie: oh! i biglietti non si avevano facilmente, ve n'era una caccia! una signora, zia di un deputato, che essi conoscevano, non aveva potuto averlo. Erano un po' preoccupati, visto il colore diverso dei tre biglietti, tre tribune diverse: ma via, non si sarebbero perduti nel Parlamento. «Credo che bisognerà che vadano per tre vie diverse,» osservò placidamente la guantaia, a quel profluvio di parole, calzando a stento la mano rossa e paffuta della ragazza. Il papà guardò sua moglie, con una cera turbata. Adesso, la bottega si empiva di nuovo, di gente frettolosa, nervosa, che non poteva aspettare, che batteva i piedi dall'impazienza, che lacerava i guanti per metterli presto. Davanti al banco era una doppia fila di avventori, che si accalcavano gli uni sugli altri: sul banco una grande confusione di scatole aperte, uno sfasciamento di mucchi di guanti: un odore forte di pelle, quell'acuto odore tutto femminile che ubbriaca. Il gaio sole autunnale, in quella mattinata tutta gioconda, saliva sulle case di via della Colonna, sulle case di via degli Orfanelli, e illuminava di traverso Piazza Colonna: la colonna Antonina pareva nera e vecchia in quello spolverio di luce bionda che la circondava, e si delineava, tutta raggricchiata, come gobba, sulla facciata rossa del palazzo di Piombino. Nell'aria limpida era come uno scintillio di atomi dorati. Non spirava un'aura di vento: una dolcezza immobile avvolgeva le strade e le case, un ambiente letificato di sole. Dal liquorista Ronzi e Singer, al _Club delle Cacce_, al grande balcone di donna Teresa Boncompagni, principessa di Venosa e dama della Regina, al _Circolo Nazionale_, le bandiere tricolori pendevano spiegate: all'angolo del palazzo Chigi, sul balcone dell'ambasciata austriaca, le due bandiere si univano, fraternamente. Nella nitidezza della luce, in cui tutto pareva vibrasse, a contorni precisi e taglienti, i tre colori, vividi, gittavano una nota acuta, allegrissima: e il tono giallo del sabbione sparso per il Corso e per la salita di Piazza Colonna sino al Palazzo Montecitorio, si rinforzava. Sulla terrazza del _Circolo Nazionale_, era una fittezza di ombrellini rossi, bianchi, azzurri, come imbionditi dal sole. Dai due lati del Corso, da Via Cacciabove, da Via della Missione, da Via Bergamaschi, era un accorrere continuo di gente, a frotte, a gruppi un luccicare di tube nere, uno scintillio di spalline dorate, un movimento ondeggiante di piume bianche e rosee, sui cappelli femminili. Alle nove e mezzo il cordone militare era già a tutti gli sbocchi, e salendo verso Montecitorio, si arrotondava attorno all'obelisco sino agli Uffici del Vicario. A ogni sbocco era un continuo parlamentare fra gli ufficiali e coloro che volevano passare senza biglietto: ognuno di loro cercava un deputato: eccolo, lo vedeva sotto l'atrio del Parlamento, gli faceva dei cenni, ma che! Quello non si voltava! Dietro il cordone, da tutte le parti, la folla aspettatrice si assiepava, profonda, iridescente nella chiarezza mattinale; qua e là un abito rosso femminile, un abito bianco facevano macchia. Di qua dal cordone era un grande spazio libero, innanzi al portone, tutto cosparso di sabbia: ogni tanto qualche signore dal soprabito aperto, qualche signora in elegante abito di mattina, lo attraversavano, a piedi, lentamente per farsi meglio vedere, discorrendo fra loro, sentendo il piacere di sapersi invidiati dalla folla senza biglietto. Per un momento, vicino ai quattro scalini del portone, vi fu un gruppo di tre signore: una, vestita di nero, brillava tutta, al sole, di perline nere, una corazza lucidissima le imprigionava il busto: l'altra vestita di un bigio delicato, aveva un velo bianco sul viso: la terza era vestita di quell'azzurro ferrigno, allora in moda, _elettrico_, tutte tre si erano incontrate sulla soglia, si salutavano, si prodigavano le cortesie, ridevano, s'inchinavano, inarcate sui loro stivaletti dorati, sentendosi guardate dalla gente, ammirate, invidiate, prolungando quel minuto di piacere; poi, l'una dopo l'altra, scomparvero dentro Montecitorio. Come l'ora si approssimava, la folla si pigiava da tutte le parti, e aveva come un moto di marea, un flusso e riflusso che andava a battere contro il muro del cordone militare. Tutte le finestre dell'_Albergo Milano_ erano gremite di teste; alle soffitte comparivano le teste arricciate dei camerieri e le cuffie bianche delle cameriere; i grandi finestroni della _Pensione dell'Unione_, le piccole finestre basse del _Fanfulla_, le finestre del palazzo Wedekind, avevano tre, quattro file di persone, le une buttate sulle altre: e in tutte le vie adiacenti, la piazzetta degli Orfanelli, la viottola della Guglia, gli Uffici del Vicario, i due capi della Via della Missione, era ancora un brulichìo di persone ai balconi, alle terrazze, alle finestre. Sulle sedie, sui tavolini del liquorista Aragno, delle donne erano salite. Intanto, come l'ora della solenne apertura si approssimava, una fila di persone, d'invitati, attraversa lo spazio libero, nel sole, facendo scricchiolare il sabbione: ogni tanto, a un occhiello, luccicava una filza di decorazioni. Le carrozze salivano al trotto dal Corso, senza nessun rumore di ruote, giravano attorno all'obelisco, con una curva molle, e si fermavano innanzi al portone: erano le carrozze dei ministri, dei senatori, del corpo diplomatico, qualche vecchione ne scendeva, sorretto da un servitore e da un segretario, qualche uniforme bianca o rossa compariva, per un istante, poi spariva nel portone. Sulla piccola piattaforma, due giornalisti, in marsina e col cappellino floscio, prendevano delle note, i nomi di coloro che passavano: l'uno piccolo, con la barbetta appuntita, bionda e brizzolata di bianco, le lenti d'oro, l'aria imperturbabile: l'altro, anche piccolo, tarchiato, pallidissimo, con un mustacchietto da collegiale e il sorriso di chi disegna qualche cosa di ridicolo, i direttori dei due maggiori giornali romani, che compivano personalmente il lavoro di quella importante giornata, e se la ridevano fra loro, amichevolmente, di quelle teste strane che si vedevan passare. Il sole saliva sull'angolo della _Pensione dell'Unione_, cominciando a conquistare la piazza di Montecitorio e a quella conquista lenta, corrispondeva un moto della gente, come una espansione di contentezza, e ogni tanto la cappa tesa e rotonda di un ombrellino si levava. La processione degli invitati continuava, attraverso il grande circuito libero: ora essi si affrettavano con un principio d'impazienza, spingendosi un poco, sapendo di arrivar troppo tardi, per aver un buon posto. La folla delle strade, dei vicoli, dei balconi, delle finestre, sembrava talvolta come colpita da un'improvvisa immobilità, quasi un incantesimo l'avesse pietrificata, come se una immensa invisibile macchina fotografica stesse fotografandola; e si potevano discernere le facce immote, gli occhi sbarrati, le file ammassate, i bimbi tenuti in collo dalle mamme, una carrozza da nolo, ferma, fra la gente, su cui erano salite venti persone, in piedi. Poi questo incantesimo si infrangeva, la folla aveva quell'agitazione di colori che si muovono, stando sempre allo stesso posto: un movimento circolare, come lo snodamento degli anelli di un lombrico. Un ragazzetto era salito sul piedistallo, alto, dell'obelisco, e di là, attaccato al grosso tronco di pietra, si divertiva a far dei giuochi di equilibrio. Infine il sole arrivò alla linea dei soldati, pigliandoli di sbieco: prima ne illuminò le ghette bianche, poi il cappotto turchiniccio, poi il _kepì_ di pelle nera e finalmente battè, linea smagliante, sulle canne dei fucili. E di lontano, un rombo lieve, breve, arrivò: l'eco di una cannonata. E dall'uno all'altro di tutti gli astanti, dai balconi alle finestre, dalle strade ai vicoli, fu un fluttuamento, un sospiro enorme di soddisfazione: — Il corteo, il corteo, il corteo, — diceva, sottovoce, con un clamore crescente, la folla. Nell'aula fu anche udito il rombo del cannone: per un istante vi regnò un silenzio perfetto. Poi un mormorio crebbe, si elevò, i ventagli ricominciarono ad agitarsi, il chiacchierio sottile e penetrante femminile, il passo di coloro che giravano pel corridoio, cercando invano un posto, il fruscio degli abiti serici, si confusero, si fusero. L'aula era trasformata. Circolarmente, mediante una impalcatura, l'altezza dei settori era stata elevata sin quasi a livello delle tribune, formando così una grande tribuna provvisoria, dove quattro file profonde di pubblico, sedevano proprio dietro le spalle dei deputati dell'ultimo banco; sulle due scale laterali, quelle che gli uscieri conoscono per doverle salire e scendere cento volte al giorno, nelle ore della seduta, erano due falde fittissime di pubblico, due strisce larghe e nutrite che andavano, dall'alto delle tribune, fino giù, nell'aula, le signore sedute sugli scalini, gli uomini che avevano ceduto galantemente il loro posto, addossati al muro. Attorno attorno, tutte le tribune erano zeppe, sino alle ultime file; quella della stampa, la migliore per udire i discorsi, anch'essa era stata ceduta al pubblico, i giornalisti erano dispersi, giù ai posti migliori; quella destinata alle signore era pienissima, ma sembrava una ironia, tutti ridevano che ci fosse una piccola tribuna speciale per le signore, quando esse avevano invaso tutto, erano dappertutto, alle spalle dei deputati, fin quasi nell'emiciclo, arse dalla indomabile curiosità muliebre; la tribuna dei militari era tutta un brillare di spalline e di galloni; in quella della presidenza era un gran tender di colli, un arretrarsi di gente desolata, delusa nelle sue speranze; le due tribune erano poste sopra il baldacchino reale, vedevano l'aula, non vedevano il Re, nascosto dalla cupola. E le due tribune grandissime degli angoli, quella del corpo diplomatico e quella dei senatori, rimanevano vuote, nella loro ombra profonda che dava il velluto azzurro cupo, sul fondo a legno delle pareti. Nell'emiciclo era scomparso il banco delle commissioni, l'arco di cerchio parallello ai settori; era scomparso il lungo banco dei ministri, quello che gli oppositori a oltranza chiamano il banco degli imputati: il piccolo scrittoio di mezzo, dove i tre stenografi scrivono, dandosi il cambio ogni cinque minuti, non vi era più. Tutto il palco della presidenza era scomparso. Al suo posto, una piattaforma larga a cui si ascendeva per quattro scalini, coperta da un tappeto rosso, si elevava: e su questa un enorme baldacchino di velluto rosso, frangiato d'oro, diviso in tre scompartimenti. Tutto questo rosso prendeva una grande cupezza dalla cupola che si avanzava molto e in quella penombra sacra di cappella, l'oro della poltrona reale luccicava come un reliquiario. A un livello più basso, fuori del baldacchino, a destra e a sinistra, vi erano due altre poltrone per i membri della famiglia reale. I deputati stavano aggruppati nell'emiciclo, ritti su per le scalettine dei settori, riuniti presso le due scalee, a discorrere con le signore: alcuni erano saliti all'ultima fila e voltavano le spalle all'aula, discorrendo allegramente con le donne di una grande tribuna di legno, salutando un conoscente, sorridendo a un amico, ammiccando familiarmente a un cliente, a un elettore cui avevano procurato un biglietto. I dialoghi s'incrociavano, leggieri, frivoli, fra quelle donnine piene di frasi puerili, che si meravigliavano di tutto, che rideano di tutto, e quei deputati che cercavano di secondarle. Una signora brunettina, elegantissima, con un cappellino tutto intrecciato d'oro, si faceva indicare i deputati dall'onorevole Rosario Scalìa un deputato siciliano, tutto serio, corretto nel taglio del vestito, con l'aria di ufficiale in borghese, e una piccolissima margherita all'occhiello; e alle spiegazioni tranquille dell'onorevole Scalìa, la brunettina si chinava, guardava con l'occhialetto, appuntando il musetto roseo e ridacchiando. — Oh! era quello l'onorevole Cavalieri, il calabrese, così ingenuamente goffo? — Un patriota? — Sì, capiva bene, ammetteva i suoi meriti, ma aveva troppe decorazioni! — E l'omettino magro, dalla spazzola di capelli biondi tetro e dagli occhi grigi, era quello Guido Dalma, il deputato letterato che parlava alla Camera di Ofelia e alle signore della fondiaria? Perchè non lo facevano Ministro quel Guido Dalma? Ci vuol molto a essere ministro. Ma era veramente una cosa seria, la passione della politica? — E l'onorevole Scalìa, un po' infastidito da quel rapido vaniloquio, cercava di provare alla signora che la politica poteva sembrare un scherzo a chi non la prendeva sul serio, ma che era una nobile passione: ella scoteva il capo, non convinta, ridendo del suo bel riso frivolo, e l'onorevole Scalìa mostrava sul viso una disattenzione crescente, si stancava di quel cicaleccio, guardando l'aula, trattenendosi ancora, per cortesia. Il pubblico non s'impazientiva per l'attesa. Le donne erano felici di star sedute, di poter vedere, di poter essere vedute, sarebbero rimaste là fino alla sera, agitando i ventagli crollando il capo per far brillare le perline dei capelli, agitando gli occhialetti da teatro; gli uomini si consolavano, mutuamente, di quella _toilette_ mattinale che avevano dovuto fare e che dava loro un carattere di pura eleganza, qualcuno fingeva l'annoiato, ma gli inviti a colazione circolavano, i convegni al caffè fioccavano, per poter commentare la cerimonia. La folla che popolava l'aula e le tribune e i corridoietti e tutto lo spazio dove un uomo può stare, era allegra, con una piccola cima di esaltazione nervosa, un principio di ubbriachezza. Molte di quelle persone non avevano mai visto il Parlamento e fingevano di non guardare intorno, ma in realtà quell'ambiente le esaltava. Pure nulla di gaio aveva l'aula: e conservava il suo aspetto solito. Avevano certo lavato i cristalli del lucernario, ma la luce di quella mattinata bionda vi filtrava malinconica, vi si attenuava, come la luce fredda, biancastra e umida che passa attraverso un acquario; e le pareti color legno, coi fregi di un azzurro cupo, erano fatte apposta per non riflettere nulla, per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione scialba e monotona. Così avveniva, affacciandosi da una tribuna, quel tale fenomeno ottico, che è la prima delusione di chi visita il Parlamento italiano: tutte le facce avevano un uguale colorito, si assomigliavano, non si potevano riconoscere le persone: era un insieme monotono, senza disegno, senza rilievo, che stancava la vista, per cui uno si tirava indietro, ristucco. Ma questo ambiente che unificava tanti visi, tante età, tante condizioni e tante acconciature diverse, questa specie di livello che le più ribelli teste subivano, questa impronta comune cui niuno, entrato nell'aula, poteva sfuggire, produceva una impressione immensa: l'aula sembrava un grande luogo sacro che annientava l'individuo, un recinto che domava l'intelligenza, le volontà e i caratteri, in cui per rialzarsi, per essere _uno_, bisognava avere il profondo e fervido ardore mistico o l'audacia del sacrilega che rovescia l'altare. E il grande baldacchino reale, tutto rosso scuro, con le pieghe diritte e rigide che tendevano il velluto, con la pesante frangia d'oro e l'aquila d'oro che ne riuniva le pieghe sotto gli artigli, con l'ampia poltrona in una penombra mistica, aveva un aspetto ieratico, come il tabernacolo, come il sacrario, dove una potenza sconfinata si nascondeva. A un tratto solo, tutti i deputati furono al loro posto, in piedi, le tribune caddero in un grande silenzio, mentre fuori le trombe squillanti dei bersaglieri sonavano la fanfara reale. Poi un lunghissimo applauso scoppiò, applauso sordo e prolungato di mani inguantate: le signore, in piedi, applaudivano anche esse, piegandosi sulle spalle dei deputati, per meglio vedere. Ritta nella tribuna diplomatica, circondata dalle sue dame, la Regina salutava in giro: e la bianchezza perlacea del volto vinceva la intonazione legnosa del fondo. Ella appariva fresca e giovane, tutta serena, sotto la falda di paglia dorata del suo cappello, che un piumetto color fragola adornava; e mentre sembrava finita l'acclamazione, e la Regina sedeva, più innanzi del suo squadrone di dame, tutto il pubblico fu ripreso da un riflusso di ammirazione per quella poetica figura, un nuovo applauso strepitoso, assordante, salutò ancora la Regina. E un'agitazione regnava dovunque: sulla scalea a destra, le signore si desolavano, erano sotto la tribuna del corpo diplomatico, non vedevano la Regina; quelle della presidenza, erano felici, non vedevano il Re, è vero, pur troppo, ma vedevano la Regina, a due metri di distanza; quelle della scalea a sinistra perdevano una metà dello spettacolo, tutto il corpo diplomatico, in grande uniforme nella tribuna dei senatori, con le mogli degli ambasciatori e dei ministri italiani — e le tribune del centro, della stampa, del pubblico, dei militari, degli impiegati, vedevano tutto, ma erano lontane; l'armeggio degli occhialini era continuo. La folla, presa da una nervosità, si agitava, si piegava, a destra, a sinistra; dei dialoghi di giornalisti si udivano sopra le teste: — Vi era l'ambasciatore di Germania? — Sì, eccolo là, con la sua faccia bonaria, dal mustacchio bianco e dagli occhi dolci — Quella dama vestita di violetto, con grandi occhi neri, chi era dunque, dietro donna Vittoria Colonna? — Donna Lavinia Taverna, una Piombino. E tutte le signore erano vinte da un esaltamento, dei nomi femminili erano susurrati, dei brani di descrizione di _toilette_ erano forniti: quelle più in vista cercavano di essere salutate dalle mogli dei ministri, dalle ambasciatrici, dalle dame: e un mormorìo crescente, un chiedere, un rispondere, un discutere sottovoce, facevano come il ronzio di mille mosconi nell'aria dell'aula. Il Re entrò, improvvisamente: non era giunto il suono della marcia reale. Egli comparve dalla porta di destra, in mezzo alla sua Casa, ai ministri, ai dieci deputati che lo avevano ricevuto, e in tre passi fu sotto al baldacchino, avanti alla poltrona: due o tre volte si voltò a destra, a sinistra, con quei suoi scatti nervosi, di temperamento irrequieto e mal represso. L'assemblea e il pubblico lo salutarono, ed egli rispose, agitando l'elmo dorato dall'alto pennacchio fluente e bianco, tenendo nella mano destra un rotoletto di carta. Sulla giubba di generale aveva solo gli ordini militari stranieri e la medaglia al valor militare. E con l'uniforme stretta e il goletto bianco, i calzoni strettissimi, nell'ombra della cupola rossa, con l'elmo appoggiato sul polso e l'attitudine di un soldato alla posizione, egli sembrava una figura eccezionalmente militare, magra, bruna, robusta, sempre pronta a salire a cavallo, sempre disposta a dormire sotto la tenda: sembrava una di quelle figure degli antichi ritratti di principi soldati, dai fieri occhi aquilini, dal viso pallido che stringono nel pugno una pergamena arrotolata, dove è disegnato il piano di una fortificazione. Il vecchio principe di Savoia-Carignano, zio del re, grasso e calvo, si mise presso la poltrona a destra: appoggiava la persona stracca e floscia al bracciuolo della poltrona, ma non sedeva, per rispetto; il giovane duca di Genova, fratello della Regina e cugino del Re, prese posto, a sinistra: e nell'emiciclo, a destra il gruppo dei ministri; a sinistra la Casa reale. Nel silenzio universale, si elevò la voce un po' rauca del re: e certo, molti, fra quegli uomini politici dovettero trasalire, ricordando, in quella assemblea stessa, un'altra voce, un po' velata, un po' stridula, la voce fatta per comandare nelle battaglie e che pronunziava le leali parole, con cui egli suggellava il patto nazionale. E tutte le facce dei deputati si erano subitaneamente impensierite, rimanevano immote, con gli occhi fissi in quello del Re: tutto il pubblico femminile taceva, come colpito da un improvviso senso di rispetto. Nel silenzio profondo, in quella immobilità di tutta una folla, si udiva perfino il respiro del Re, fra una frase e un'altra di quel messaggio reale; e la voce in cui pareva vibrasse quella paterna, aveva certi scoppi improvvisi, certi rilievi bizzarri d'intonazione. La Regina, dalla tribuna diplomatica, ascoltava, intensamente, senza sorridere, col bel viso piegato e concentrato nella attenzione: le dame ascoltavano, senza batter palpebra; la tribuna degli ambasciatori, tutta, avea l'aria sorridente di chi già sa; le tribune del pubblico, attorno attorno, ascoltavano e ogni tanto, nell'assemblea, correva come un fremito di soddisfazione: il discorso fu interrotto due volte dagli applausi. A tratti, qualche parola più acuta pareva s'involasse, alata, sotto il lucernario: _la pace... l'amministrazione della giustizia... il riscatto finanziario..._ ma subito la voce si abbassava, come se il Re disdegnasse l'applauso finale che corona le frasi; e in fondo egli si affrettò, come se fosse stanco, le ultime parole furono mormorate, più che lette: egli riprese subito il suo elmo dalla poltrona, ove lo aveva deposto, mentre l'assemblea gridava: _Viva il re!_ Ma quella attenzione aveva teso gli animi e un senso di turbamento li invadeva: l'avvenimento di quella giornata, che prima era sembrato uno spettacolo curioso, ora si ingrandiva di proporzioni: la parola reale, in quella unica volta che il re costituzionale parla in pubblico, dice la sua volontà e le sue intenzioni, diventava una promessa solenne. Qualche signora più sensibile aveva un piccolo sudor freddo alle tempie: altre si davano dei colpettini di ventaglio sulla mano, gli occhi distratti, mormorando: _è bello, è bello_: e le più romantiche guardavano con gli occhi assorti la Regina, a discernerne la emozione. Poi il giuramento cominciò. Il vecchio Depretis si era avanzato un poco e aveva letta la formola per i senatori e i deputati, scandendo le parole come se avesse voluto farle imprimere nella mente di coloro che ascoltavano. La massa dei deputati e dei senatori si profilava nera e bianca, dall'alto in basso dei settori: massa di teste energiche e di teste miserabili, di occhi scintillanti e di sguardi di pesce morto, di crani calvi e lucidi e di criniere forti, leonine, massa raggruppata al primo banco, in un semicerchio amplissimo: e sembrava che fosse financo troppo angusto quello spazio per la forza erompente di quelle volontà e di quei cervelli. Il Re squadrava la rappresentanza nazionale; frattanto, il primo senatore, il duca di Genova, giurò, marinarescamente, con una voce vibrata, con un gesto energico: lo applaudirono. Poi giurarono otto nuovi senatori e un movimento vi fu solo al giuramento di fedeltà del grande latinista piemontese, un clericale. Quello che interessava era il giuramento dei deputati. Depretis ne diceva il nome e il cognome, e aspettava un momentino; e da un banco una voce fioca o una voce sonora rispondeva: _giuro_. In quel minuto di attesa, gli animi restavano sospesi; il Re cercava con gli occhi colui che doveva giurare. I vecchi patrioti giuravano militarmente, mettendo la mano nuda sul petto; la loro fede era provata: gli avvocati giuravano con una voce sottile e un tono acuto. Quando arrivò al proprio nome, Depretis cavò la mano destra di sotto l'uniforme ministeriale, la stese e giurò: l'assemblea rise del vecchio astuto che la dominava. Il ministro continuò a dire i nomi, e nell'attenzione generale, le voci commosse e le voci tranquille si facevano udire: ora come sorgenti dalle viscere della terra, ora come discendenti dal lucernario. I vecchi parlamentari giuravano, stendendo semplicemente la mano e pronunziando sottovoce la parola: i deputati radicali, che si erano lungamente preparati a quel passo difficile, giuravano presto presto, come per sbarazzarsi di un peso. E le signore ascoltavano, tutte commosse, tutte prese da un'invincibile tenerezza, esse che hanno inventato ogni sorta di giuramenti falsi, vinte da una emozione innanzi a quelle promesse così solenni che cinquecento uomini facevano a un solo uomo, e a tutto il paese. Ma i deputati nuovi erano i più turbati: quell'apparato reale e parlamentare, quel pubblico femminile e maschile, quel messaggio del re, il giuramento degli altri deputati, tutto questo ne scoteva i nervi. E coloro che si erano preparati a farla da persone spiritose, a giurar come se nulla fosse, tremavano d'impazienza, mentre il loro nome si approssimava, e poi cavavano un fil di voce che faceva, sorridere il vicino e che la folla non arrivava a udire. Qualcuno giocava stizzosamente con la catenella dell'orologio, e quando lo chiamavano, si svegliava come da un torpore, gittava un _giuro_ affogato, frettoloso e ricadeva a sedere. Fra l'onorevole Salviati, un duca fiorentino, e il deputato Santini, giurò, con voce strozzata, che niuno intese, l'onorevole Francesco Sangiorgio. Sulla porta i deputati si assiepavano a veder montare in carrozza la Regina e il Re. Più fitta, più densa, la gente ondeggiava nella Piazza di Montecitorio tutta soleggiata, e quando la carrozza si mosse e la Regina salutò in giro e il Re agitò l'elmo piumato, dalle strade, dalle case, dai balconi, dai terrazzi, dalle soffitte, un'acclamazione frenetica sorse, si confuse, salì nell'aria bionda, nel sole, sino al cielo. IV. Il portoncino segnato col numero 50 in via Angelo Custode, era discosto due botteghe da un palazzo magnatizio, bigio, triste, dal portone chiuso. Francesco Sangiorgio esitò un momento: non vi era nessuno cui chiedere informazioni. Uno dei due battenti del portoncino era chiuso, l'altro socchiuso; il deputato si cacciò per un andito semibuio e vi fece sei o sette passi, sino a che arrivò a un principio di scale. Sentì che erano a chiocciola, e per non correre il rischio di rompersi il collo, accese un fiammifero. Ma al primo piano un po' di luce si fece: al secondo ci si vedeva, quasi. Su quel pianerottolo davano tre porte e sopra quella di mezzo, era attaccato, con due spilli piegati, un sudicio biglietto da visita che portava un nome e un cognome: _Alessandro Bertocchini_. Sangiorgio consultò il pezzetto di carta che gli aveva dato il sensale delle case: era proprio quel nome. Picchiò. Per qualche tempo non gli vennero ad aprire: picchiò di nuovo, debolmente. Poi un gran rumore di chiavistelli, di catenacci, di paletti aperti e rinchiusi, s'intese, ma alla porta di destra: e infine, chetamente quella di mezzo, si schiuse un pocolino. Un uomo alto, con un grande naso rosso e due falde di capelli lucidi attaccati alle tempie, comparve: l'onorevole si toccò il cappello e domandò se vi fosse il signor Alessandro Bertocchini. Era appunto lui, l'uomo dal naso peperonico e dal viso scialbo. «Non si affittava un quartino mobiliato, a quel terzo piano?» Il sor Alessandro squadrò l'onorevole Sangiorgio, adocchiò fra lume e lustro la medaglia d'oro e disse: «Sicuro, c'è un quartino da affittare, mobiliato: vado a prendere le chiavi.» E ficcandosi in tasca le mani rovinate dai geloni, piantò il deputato sul pianerottolo. Dalla porta aperta un'anticameruccia si vedeva, con una sedia, un tavolino e un lume: e un odore di stantìo, di casa vecchia, di di polvere antica, pizzicava la gola. «Eccomi qua», mormorò, col suo filo di voce falsa, il sor Alessandro. E aprì la porta a sinistra. Vi era uno stanzino buio con una sedia: poi una stanza lunga e stretta. Alla lunghezza di una parete era appoggiato un divano di lana cremisi, con la spalliera ed i bracciuoli, di legno tinto e smorto: ai due lati del divano due poltrone di lana cremisi, coperte di pezzi di merletto all'uncinetto: davanti un tappetino consunto. All'altra lunghezza della parete, dirimpetto, era appoggiata una _consolida_ dal marmo bianco, su cui stavano due grandi lampade a petrolio, un orologio fermo e tre fotografie nelle loro cornici. Al muro, uno specchio lungo e stretto, un po' verdastro, nella cui cornice erano ficcate, come ornamento, certe piccole oleografie, rosse gialle e azzurre, il Re, la Regina, e il principe ereditario: accanto alla _consolida_, due sedie di legno e di lana cremisi. Dinanzi al balcone un tavolino da scrivere, su cui era disteso un tappeto di lana, lavorato all'uncinetto, a stelle verdi, violette, scarlatte, arancione, indaco, in mezzo alle quali era cucita una figurina scarlatta di scatoletta di fiammiferi. Al balcone da cui penetrava una luce scarsa, erano attaccate due grame tende di merletto, che uscivano da un panneggiamento di lana cremisi. Due altre sedie di legno nero compivano il mobilio. «Questo è il salotto», disse il sor Alessandro, con la sua voce strascicata ed esile, guardando in aria, con le mani freddolosamente cacciate nelle tasche della giacchetta. Francesco Sangiorgio si accostò al balcone: dava sopra una corte interna, su cui molti altri balconi e terrazzini, e logge coperte tutte di legno, e finestrini sporgevano. Dietro i tetti di una casa un ramo secco di albero spuntava. Dal fondo del cortile saliva un forte odore di cucina, di rigovernatura e di acqua dove avevano bollito dei cavoli. Il sor Alessandro non diceva nulla, conservava la sua aria indifferente, lasciando che il deputato esaminasse il quartino. La camera da letto era accanto, lunga e stretta come il salotto. Nel senso della lunghezza vi era il letto. Innanzi al letto un tappetino, come nel salotto, e accanto una poltrona di lana azzurra, con una macchia che aveva corroso il colore, nel fondo. All'altra parete un canterano, con un piano di legno un po' macchiato, qua e là enfiato, come se vi fossero stati poggiati dei bicchieri bagnati: sopra, due candelieri di ottone, senza candele. La toletta era collocata nel vano del balcone; anche qui le tende di merletto che uscivano da un panneggiamento di tela a stampa, fondo nero a grandi rose azzurre e gialle. E il lusso della stanza era, sul letto, un piumino di cotone di Cava, color tabacco, lavorato all'ago lungo, con sopra tanti arabeschi di lana multicolori. La catinella e la brocca erano nascoste in un angolo fatto dal canterano, senz'asciugamano, senz'acqua. «E il prezzo?» domandò l'onorevole Sangiorgio. «Ottanta lire al mese... anticipate», fischiò la flebile voce del sor Alessandro, mentre si grattava un gelone. «E il servizio?» «Vi è la serva: rifà il letto, spazza, spazzola i vestiti e lustra le scarpe. Otto lire al mese..., anticipate», e respirò profondamente, passandosi una mano sui capelli, che sembravano tirati a pulimento di mogano. «È caro... ottantotto lire». Il sor Alessandro tacque, non trovandosi forse il fiato necessario a una discussione, o non volendo sciuparlo. Quando stavano per uscire dall'appartamentino, soggiunse soltanto, col naso in aria, come un asino che non può respirare: «Ingresso libero». L'onorevole Sangiorgio se ne andò, stringendosi nelle spalle: sarebbe ritornato, forse. Nella strada, presso il Ministero di agricoltura, incontrò la moglie di Sua Eccellenza, quella signora che aveva visto alla stazione. Alta, snella, vestita di nero, chiuso in un mantello di velluto, era tutta rosea e giovanile dietro la veletta nera. Se ne andava con un passo ritmico, con le mani inguantate nascoste nel manicotto, gli occhi chini, come raccolta in un pensiero. Ed era tanta la dignità e la dolcezza di quella figura femminile, che l'onorevole Francesco Sangiorgio, involontariamente, salutò. Ma la moglie di Sua Eccellenza non si accorse di quel saluto e passò avanti, risalendo verso l'Angelo Custode, lungo il marciapiede; e in Francesco Sangiorgio restò un forte dispetto, il pentimento di quel saluto sprecato. Ora, camminava verso la Piazza del Pantheon, verso il secondo indirizzo che il sensale gli aveva dato, e andava per le strade, sempre con quel sintomo di oppressione morale, un peso sul petto, sulle spalle, sul capo, che non arrivava a scuotere dal giorno in cui era in Roma; e nelle vie s'incontrava con gente che aveva anche la medesima espressione di accasciamento. La casa era alla salita del Pantheon, che va verso Piazza della Minerva: una piccola porta accanto ad un fornaio. Di giù si vedevano due finestre con le tende bianche, fitte. Era al primo piano: tre porte, tutte e tre con nomi femminili, uno di questi scritto con inchiostro violetto e con una calligrafia muliebre, sopra un pezzetto di cartoncino rosa. Alla porta a destra: _Virginia Magnani_, venne ad aprire una servetta spettinata che guardò in faccia Sangiorgio, senza parlare. Ma dopo un momento sopraggiunse la padrona, una piccolina, con una vestaglia di Casimiro azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio. «Il signore viene pel quartierino? Va via, Nanna. Si accomodi, si accomodi pure: sono a sua disposizione. Scusi, sa, il modo come la ricevo, ma la mattina non si finisce mai di vestirsi: si va a teatro, qualche volta, con Toto, a sentir la Marini, si fa tardi, la mattina rincresce, naturalmente, di levarsi su...». Sangiorgio ascoltava, interdetto dalla loquela di quella piccola femmina che aveva le guance imbiancate di cipria. «L'ha mandato qui Pochalsky?» «Sissignora». «Me lo immaginavo: Pochalsky lo sa che questo è un quartierino per deputati: io non affitto ad altri. Ma favorisca: questa è l'anticamera, qui ci è un tavolino con l'occorrente da scrivere, per gli elettori che non trovino in casa il deputato. Ci ho avuto l'onorevole Santinelli: quello lì era assediato dalla mattina alla sera, mai un minuto di riposo, me lo diceva sempre, quando si chiacchierava un po' insieme, chè era tanto compìto, l'onorevole Santinelli: — Sora Virginia mia, non ne posso più. — Questo qui, come vede, è il salotto, decente ed elegante, questa tappezzeria è tutto lavoro mio, di quando ero più giovane e non avevo tormenti pel capo: basta, non ne parliamo. Qui vi è tutto, tappeto, tende; e il deputato Gagliardi non se ne sarebbe mai più andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è piena di questi dolori.....». E la femminetta prese un'aria grave, la boccuccia stretta e il capo inchinato sopra una spalla. In realtà, il salotto non era molto diverso da quello di Via Angelo Custode: vi era più tappezzeria sbiadita, un maggior numero di fotografie, una seggiola americana a dondolo: la cornice dorata dello specchio aveva un velo verde, per preservarla dalle mosche. «Questa qui», continuava la sora Virginia con un forte accento romano «è la stanza da letto. Vi è una piccola biblioteca, per i libri, perchè io ci ho avuto sempre dei deputati studiosi: anzi l'onorevole Gotti leggeva continuamente dei romanzi. Ne legge lei, dei romanzi?» «Nossignora: mai». «Peccato, perchè me ne presterebbe. Qui manca un armadio per i vestiti, ma sto aspettando una vendita, in Via Viminale, che anzi il Muccioli, il perito, m'ha promesso di conservarmelo, un bell'armadio. Del resto, può affidare a me la sua roba, marsina, soprabito, pelliccia, quello che sia, che la conserverò nel mio armadio, fra i miei vestiti e vi starà benissimo. Qui vi è tutto, concolina, brocca, lavapiedi per l'acqua, il letto con le sue brave tendine e il _comò_. Osservi tutto, chè tutto è soddisfacente, e non faccio per vantarmi, ma Toto ringrazia Dio sera e mattina per avergli dato una moglie come Virginia. Tutto questo, onorevole?...» «Sangiorgio, Francesco Sangiorgio». «Deputato per?...» «Tito in Basilicata». «Onorevole Sangiorgio, tutto questo per centotrenta lire il mese, senza calare un centesimo, perchè io non ci guadagno niente: se dovessi vivere col far l'affittacamere, starei fresca. In anticamera vi è una porta di comunicazione col mio quartino: chiudendosi, lei ha il suo quartino con l'ingresso libero. Ha bisogno, Lei, dell'ingresso libero?» E lo scrutò, con gli occhietti chiari di gatta. Sangiorgio non capì bene. «... Non so, non so,» disse a caso. «Perchè, per avere l'ingresso libero, come capisce, si pagano venti lire di più il mese, centocinquanta lire. Ma se Lei è ammogliato e vuole delle altre stanze, capitando la sua signora, ci è qui, sullo stesso pianerottolo, mia sorella Restituta Coppi, che ha disponibili delle camere; quelle di mia cognata, al secondo, non gliele posso raccomandare, non cura la pulizia, povera donna, è _popolante_.... tutte così quelle di quel quartiere: è un errore che mio fratello, povero Gigio, ha commesso. È ammogliato, Lei, onorevole?» «Nossignora». «Sia per non detto, allora; e si goda ancora la gioventù, chè ad ammogliarsi subito è un inferno. Io, grazie a Dio, non mi posso lagnare, chè Toto è un fior d'uomo, ma via, meglio la libertà. Glielo dicevo sempre al deputato Gotti, che era ancora celibe come Lei, onorevole Sangiorgio: e lui, che mi rispondeva sempre, bontà sua: — Dovrei trovare un'altra sora Virginia per ammogliarmi, ma non ve ne sono più. — Dicevamo dunque, centotrenta lire il mese, è proprio un prezzo economico, poi ci è il servizio di dieci lire al mese a Nanna, ci è il gas, per le scale, sino alle undici, cinque lire. Al caso, posso pensare anche io alla imbiancatura, ho una lavandaia buonissima, lava con acqua Marcia e sapone, senza potassa. Insomma, tutto quello che ci vuole; e se qualche giorno l'onorevole vuol pranzare in casa, nauseato da quei pasticci che si mangiano nelle trattorie, ci è qui Toto, mio marito, che si diverte a fare e a cucinare gli gnocchi, che è un piacere: io non ci metto piede in cucina, la mia salute è troppo delicata». Erano giunti di nuovo nell'anticamera e Sangiorgio serbava il contegno freddo delle persone taciturne innanzi a quelle troppo loquaci. «E..... scusi, signor deputato,» chiese a un tratto la sora Virginia con la voce che era diventata aspra, pel silenzio di Sangiorgio, «che intende Ella di fare? Io ho molte richieste, capirà, un quartino come questo non ci è da lasciarlo sfuggire...» «Faccia pure i suoi affari, signora,» disse il deputato, in cui la natural diffidenza del provinciale rinasceva. «Nel caso, Le farò sapere qualche cosa». «Aspetterò un suo biglietto, allora? Debbo mandare a ritirarlo alla Camera?» ribattè quella, ridiventata melliflua. «Non s'incomodi, manderò io». La sora Virginia inchinò il capo e gli tese una manina, come una gran signora. Ancora, per le scale, egli restava sbalordito e stanco di quel chiacchiericcio: e già gli sembrava di aver visitato dieci case. Aveva due altri indirizzi sul pezzetto di carta e gli veniva meno la voglia di recarvisi. Fu proprio per una reazione di volontà che si fece condurre, in carrozza, in Via del Gambero, 37, poichè non ancora conosceva le vie. La strada aveva l'aria misteriosa delle parallele al Corso, le vie scorciatoie che scelgono gli uomini frettolosi e le donne preoccupate: dal grande palazzo Raggi, che ha un cortile come una piazza, un portone sul Corso e l'altro sul Gambero, ogni tanto se ne vedeva sfilare qualcuna, che sfuggiva la folla e gl'incontri pericolosi, scantonava rapidamente, senza guardarsi indietro. Nel portoncino n. 37, dall'aria decente, vi era un casotto di legno con vetri, che prendeva luce dalla sala. Una donnetta ne uscì, incontro al deputato. «Non si affitta, qui, al terzo piano, un quartino?» «Sissignore; vuol vederlo?» «Vorrei vederlo». La donnetta rientrò nel suo casotto, scelse una chiave da un mazzo e s'avviò, ammiccando con un par di occhietti bigi dalle palpebre rosse e gonfie. Era evidentemente la portinaia: portava un vestito di lana verdognola, smesso, stinto, guarnito con una certa pompa di raso verde: un perucchino di raso cupo, con un treccione finto sulla nuca e una sfioccatura a frangia sulla fronte: salendo, le calze di seta rosse si vedevano, smorte. E nella floscezza scialba delle guance di un biancore punteggiato di lentiggini, nel pallore violetto di una bocca dal disegno infantile, s'indovinava un viso che una volta era stato rotondo, roseo e che si era a un tratto appassito, vuotato, come quello di una pupattola a cui è sfuggita la crusca da un bucherello. La scala era larga e girava ampiamente, caso raro negli edifizi romani: sopra ogni pianerottolo, tre porte corrispondevano. Al primo piano, a destra, l'onorevole Sangiorgio lesse: _Barone di Sangarzia, deputato al Parlamento_, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: _Anna Scartozzi, sarta_. Al secondo piano a destra: _Marchese di Tuttavilla, deputato al Parlamento_, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: _Ditta di commissioni e rappresentanze._ «Anche questi due deputati hanno dei quartini mobiliati?» «Nossignore; hanno mobiliato del loro; ma il quartino è simile,» rispose la portinaia, mettendo la chiave nella toppa della porta a destra: anche al terzo piano, non vi era alcuna leggenda sulla porta di mezzo, e a quella di sinistra: _Cav. Paolo Galasso, dentista._ Il quartino che dava sulla strada era pieno di luce, e i mobili, quasi nuovi, pretendevano alla eleganza. Un vaso di maiolica per fiori posava sopra un tavolino: vi era un caminetto, un vero e buon caminetto, l'estremo lusso delle case borghesi romane. «Qui si può accendere il fuoco e dopo pranzo d'inverno, è un piacere,» disse la portinaia. «Il caminetto ci è in tutti i piani: che anzi il deputato del primo piano lo fa accendere dalla mattina, una gran fiammata tutto il giorno». «Ma non va alla Camera?» domandò Sangiorgio, cedendo al pettegolezzo. «Non sempre, non sempre,» rispose, con sorriso malizioso che le aggrinzò tutto il floscio viso, la portinaia. «E quanto si paga, qui?» interruppe Sangiorgio, seccamente. «Centotrenta lire al mese.» «E a chi?» «A me.» «Affittate voi?» «Sissignore.» «Mi sembra caro». «Nossignore, Lei s'informi dei prezzi, poichè è forestiero, e vedrà che non è caro, nel centro di Roma, a un passo dal Corso. Non faccio per vantarmi, ma il quartino è messo con molto gusto: ne ho sempre capito io...» E la portinaia si arruffò la frangetta del parrucchino sulla fronte. Il deputato si strinse nelle spalle. «È caro,» insistette. «Non ci è obbligo, sa, di pigliarlo; ma che Lei vuole un quartino libero, con la porta sulle scale, mobiliato e senza noie, chè qui ognuno bada ai fatti suoi, col caminetto, è un lusso che non si trova altrove; che Lei vuole tutto questo in Via del Gambero per meno di centottanta lire, caro signore, Le assicuro che non è possibile. Il deputato del primo piano ci è venuto da quattro anni e vi si trova benissimo, non se ne va più; il deputato del secondo piano ci è venuto, consigliato dall'amico, e ci è rimasto, son già due anni. Qui non si sfitta mai: la sarta del primo piano ha una clientela di signore dell'aristocrazia, che ci è sempre una vettura innanzi alla porta.» «Va bene, capisco, ma tutte queste cose non mi servono». «A piacer suo: ma girerà, girerà, vede, e non troverà nulla di buono come questo. Sono sicura che ci ritorna, signor deputato; questo è proprio un posto fatto per Lei». E scendevano per le scale, mentre saliva una signora, chiusa in una pelliccia di lontra, con un velo marrone che avvolgeva il berrettino di lontra, la testa, il collo, il mento, sotto cui s'annodava con un cappio vistoso. Ella saliva lentamente e presso la porta della sarta si fermò. «Eccone una,» mormorò la portinaia. «Andrà certo a provare un vestito». Ma non s'intese rumore di campanello e di giù, alzando gli occhi, l'onorevole Sangiorgio vide quella irriconoscibile figura femminile salire chetamente al secondo piano. Presto presto, per finirla, egli si fece condurre sempre in carrozza, alla salita di Capo le Case, la via chiara ed allegra, tutta sole, che taglia in mezzo quella dei Due Macelli. Un'aria di signorilità, di tranquillità aristocratica, veniva dalla vicina Piazza di Spagna, da Via Sistina, da Via Propaganda, da Via Condotti, il centro più esotico di Roma. La porta 128 si trovava dirimpetto ad una bottega di biscotti inglesi, di conserve, di liquori, di saponi, ciò che gl'Inglesi chiamano _grocery_, da cui usciva un sentore pungente e quasi caldo di spezierie: dall'altra parte una bottega di fioraio, piena di portafiori di giunco, di vimini dorati, di tronchi grezzi, che aveva, nella mostra, delle rose invernali, e financo in un vasettino, un ramoscello di mughetto, una primizia delicata. La scaletta era di marmo, netta, illuminata, dall'alto, da una finestra sul tetto. Sopra ogni pianerottolo davano tre porte, di legno biondo, un acero venato, coi pomi lucidissimi di ottone, per bussare. Un servitorello in mezza livrea venne ad aprire, subito, e fece entrare l'onorevole Sangiorgio in un salottino semibuio, dicendo che la signora sarebbe venuta a momenti: l'onorevole sentì un tappeto molle in terra e sedette, tastando un poco, sopra una poltroncina, bassa e soffice. Così, nella penombra, distingueva un tavolino coperto di felpa gialla, d'oro, un portacenere giapponese, un vaso di vetro veneziano. Ma un lieve passo si udì: la signora s'intravedeva, alta, non grassa, ma pienotta, con acconciatura corretta di capelli castagni tutta ondulata dal ferro della pettinatrice e ornata di fornicelle di tartaruga bionda; con un vestito di lana nera, semplice, di una stoffa molle, un goletto alto di tela bianca, chiuso da un ferro di cavallo in oro. «Vuol favorire?» chiese la signora. Uscirono insieme sul pianerottolo: ora si vedeva il pallore opaco, di avorio, di quel volto trentenne e gli occhi di un nero cupo, torbido, di carbone, con qualche cosa di claustrale, dentro. La mano bianca e grassa della signora si arrotondò mollemente sulla chiave. Il quartino era piccolo, ma luminoso, gaio, come se fosse nel sole dell'aperta campagna. Il salottino aveva un mobilio di tela stampata, grigio e rosa, molto carezzevole alla vista: lo specchio era ovale con una cornice di legno, intagliato; una _dormeuse_, lunga e bassa, era distesa presso il balcone, innanzi a cui pendevano delle tendine larghe, di mussola ricamata, molto fitta: senza bracciuoli, a pieghe profonde, esse trascinavansi per terra. Una grande raggiera di fotografie era disposta bizzarramente sul muro, come se vi fossero state buttate a caso: un tavolincino da scrivere, minuscolo, su cui era appoggiata una cornice da fotografia, di felpa rossa, senza ritratto. La stanza da letto aveva un mobilio di raso in lana azzurro-pallido, una coltre simile sul lettuccio, velata da un largo merletto bianco; la toletta era tutta di mussola bianca ricamata, con fiocchi di nastro azzurro; l'armadio era a specchio; e alla finestra, oltre le molli tendine che trascinavansi sul suolo, ai vetri erano attaccate certe cortinette di seta azzurrina, a flotti, a ondatine. «Vi è anche un gabinettino da toletta,» mormorò la signora, senza sorridere. «Non si voglia incomodare» soggiunse l'altro. «No, no, voglio farvelo vedere: è importante, ha una porta sulla scala.» La signora, con quel suo viso corretto, un po' grosso, un po' impastato, come quello di certe teste antiche romane, non chinò neppure gli occhi sul lavabo di marmo, dai cui bastoni di legno giallo pendevano gli asciugamani spiegati: aprì una porticina, dava di nuovo sul pianerottolo, era la terza porta: quel quartino di due stanze e mezzo aveva due ingressi liberi. «È una casa comodissima,» soggiunse ella semplicemente, guardandosi una mano e soffregandola per farla diventare più bianca. Nel suo vestito nero, dalle pieghe statuarie, con la pallida e quieta faccia di matrona romana ella imponeva rispetto. L'onorevole Sangiorgio le parlò come a una gran signora. «Il quartino è un po' troppo elegante, per me,» disse. «Mi piace molto, ma sono pochissimo esigente.» «Oh!» fece la signora, quasi non ci credesse, con una lusinghiera intonazione di cortesia. «Glielo assicuro: sono un po' selvaggio,» riprese Sangiorgio, abbandonandosi, «ho bisogno di tranquillità pel mio lavoro, null'altro. Sto molte ore al Parlamento. Qui è un po' femminile, mi pare,» soggiunse, sorridendo. «Infatti vi fu una dama, una russa, l'anno scorso: poi la richiamarono, dovette partire.» E si tacque, senza dare altre spiegazioni. «.... E... costa?» domandò il deputato, dopo un momento di esitazione. «Duecentocinquanta franchi il mese,» disse la signora, con trascuranza, raddrizzandosi il ferro di cavallo al collo. «Ah! e vi sarà, inoltre, la servitù, il gas?» chiese con una curiosità gentile, l'onorevole Sangiorgio. «Bisogna intendersi con Teresa, la mia cameriera...» «È naturale, è naturale,» mormorò l'altro, come se chiedesse scusa. La pallida signora, dai profondi occhi neri, che eran pieni di quel malinconico fluido monacale, ricondusse sino alla porta il deputato, senza neppur chiedergli se avesse intenzione di prendere il quartino, si licenziò da lui con un sorriso, il primo, e non gli strinse la mano. Ora, egli si sentiva snervato, vinto da una fiacchezza mortale: il sole di novembre lo mordeva come quello rovente di agosto, e l'aria gli pesava addosso. Certo, in quella casa di Capo le Case, vi doveva essere un profumo indistinto, ma, permanente, di quelli che eccitano i nervi e poi li buttano in un accasciamento. Forse il profumo lo portava la signora, così smorta, così severa, con la sua grand'aria claustrale, di badessa nobile, dall'abito nero e dal goletto bianco. Mentre andava, con indolenza, per Via Mercede, gli si ripresentava alla fantasia il salotto bigio e roseo, così dolce nella sua semplicità, la camera azzurra tutta velata di bianco, e le doppie tendine, fluttuanti, ondeggianti, che le davano un carattere intimo, di nido involato in alto, lontano dal mondo. Tutti quei mobili, la _dormeuse_ dove si era certo sdraiata la dama russa, a sognarvi i suoi sogni di straniera bizzarra, quel tavolino piccolo su cui aveva scritte le sue lettere, quella toletta davanti a cui si era acconciata, questo _interno_ femminile gli si ripresentava: ma più di ogni altra cosa, lo interessava quella cornice rossa, a cui mancava il ritratto, come se fosse stato portato via in fretta, da una viaggiatrice affannosa. Non si poteva figurare la faccia di quella dama russa: e al posto vuoto che la immaginazione non sapeva riempire ritrovava sempre l'ovale pallido, quella carnagione di avorio della signora, su cui scendevano le onde molli dei capelli castagni. Involontariamente, era entrato nel Caffè Aragno, nell'ultima stanza stretta e solitaria e si era fatto servire un _cognac_ per scuotere quella depressione. La signora di Capo le Case gli ricompariva, ma con contorni meno precisi: più nettamente, ora, gli si ripresentava la donna dal mantello di lontra, incontrata per le scale, in Via del Gambero; ne aveva visto il piede, arcuato, snello, che si appoggiava con precauzione sugli scalini, lungo la ringhiera di ferro, — e avrebbe voluto sapere dove andava, poichè, turbata da quell'incontro, ella aveva finto di picchiare alla porta della sarta e poi era salita più su, chinando il capo, immergendo il basso del viso nel grande fiocco di velo marrone. La portinaia, certo, doveva conoscerla: la doveva saper lunga quella portinaia dal viso floscio e dagli occhi che facevano schifo: una malizia filtrava dalle sue parole leziose. Chissà! doveva essere stata bella, la portinaia dal parrucchino ignobile, fors'anche elegante: doveva aver tutta una singolare istoria che egli non le aveva dato il tempo di raccontare, com'ella desiderava. La sora Virginia invece gliene aveva narrata molta parte, della sua storia: ma che era questa moglie che leggeva romanzi, mentre il marito cucinava gli gnocchi, in cucina? E dall'abbattimento egli risorgeva, a grado a grado, con una curiosità crescente per tutti questi enigmi femminili: la visione della signora russa, il mistero di quella figura mistica, in Via Capo le Case: la visitatrice di Via del Gambero e il suo segreto: il passato della portinaia: lo strano intreccio che appariva e scompariva nella loquacità della sora Virginia. Avrebbe voluto sapere, conoscere, apprezzare tutta questa femminilità fuggente, che spariva, che si nascondeva alla sua curiosità; e da questa sua minuta ricerca, da quest'analisi delle donne viste e delle donne immaginate, una domanda, sino allora latente, sorgeva, una figura si sovrapponeva a tutte, le assorbiva e si rizzava, alta, flessuosa, nerovestita, placidamente rosea dietro il velo nero, andante lontano, con gli occhi raccolti e il passo misurato: la moglie di Sua Eccellenza. Dove poteva andare a quell'ora, dove andava la moglie di Sua Eccellenza? Ma fuori, nella strada, il grosso largo duca di Bonito, il popolare deputato napoletano, dalla facciona tagliata da un colpo di sciabola, passò, con quel movimento di rullìo sulle gambe che lo faceva rassomigliare, camminando, a una nave pesante mercantile, una di quelle navi nere e piatte che approdano nei piccoli porti di Torregreco e del Granatello a Portici, a portarvi carbone e a caricare maccheroni: accanto a lui, il fido amico, il deputato Pietraroia, dal quieto viso e dal carattere violento, dalla voce moderata e dalle frasi appassionate, che taceva per mesi e mesi alla Camera, e poi, un giorno, scoppiava con una forza meridionale, meravigliando tutti. L'onorevole Sangiorgio li seguì con l'occhio, un minuto; tornavano da colazione, si fermarono sul marciapiede, con la terza figura della Trinità napoletana, l'onorevole Piccirillo, dalla bionda barba fluente, dagli occhietti azzurri, il domatore degli irruenti quartieri popolari napoletani. E sul marciapiede, un dialogo vivace cominciò: l'onorevole Piccirillo narrava un fatto grave, senza dubbio, gesticolando, agitando la mano storpiata in duello con l'onorevole Dalma, afferrando il bottone dell'amplissimo soprabito del duca di Bonito che sogghignava e sghignazzava, incredulo, ironico, con la freddezza dell'uomo che ha vissuto, mentre l'onorevole Pietraroia, tranquillo, ascoltava, arricciandosi delicatamente un baffo. E dirimpetto all'onorevole Sangiorgio, nascosto dietro un tavolino, con le gambette raccolte e il viso di bambino vecchiotto, l'onorevole Scalzi, il deputato operaio, il solo che vi fosse al Parlamento e che Milano aveva mandato, faceva colazione, modicamente, con una tazza di caffè e un panino. Francesco Sangiorgio, messo di nuovo a contatto con quel suo mondo, ripreso da un più serio bisogno di osservazione, si sentì a un tratto rinvigorito, come strappato a quel vaneggiamento d'indolenza, che lo turbava dalla mattina. Tutte quelle donne che aveva viste, con cui aveva parlato, gli avevano messo nelle fibre una debolezza, gli avevano immeschinito l'animo sino al pettegolezzo, e scomposta la fantasia in sogni ridicoli e inutili. Una natural reazione gli restituiva l'equilibrio, e col buon senso egli acquistava una lucidezza di ragionamento, un'acutezza di logica che penetrava e intendeva quanto gli era rimasto oscuro la mattina. Egli intendeva che fosse questo accumulamento di case mobiliate, di quartini mobiliati, di stanze mobiliate, che sorgono, s'infittiscono in tutta Roma, e formano in essa una vegetazione larga e potente che quasi la soffoca; e tutto questo rimescolìo bizzarro di donne borghesi, di sarte, di portinaie, di serve, di bottegaie, che dall'affittar camere traggono il più facile e più sicuro guadagno; e fra colui che cerca casa e tutte queste donne, un contatto necessario, le comunicazioni interne delle porte chiuse e aperte, in cui si conviveva, un vedersi al mattino, alla sera, nelle ore pericolose della giornata, una dominazione femminile che comincia dalla casa, si estende alla biancheria, poi ai vestiti, poi ai libri, poi alle lettere dell'inquilino, e arriva sicuramente, per vie oblique, sino alla persona. Egli sentiva quanto vi era di drammatico, di comico, di appassionato e di corrotto, in tutto quel sistema di ingressi liberi, di quartini a due porte, di portoni a due sbocchi, di chiavi inglesi a due ingegni, in tutto quello sdoppiamento, in quella fantasmagoria di usci chiusi, di serrature che stridono, di campanelli che non squillano, di scarpette femminili che non scricchiolano, di veli femminili molto fitti e di mantelli di pelliccia ermeticamente chiusi: e il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nella apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza, gli si rivelava in una delle sue parti. E nel suo vago, istintivo terrore del femminile preponderante e prepotente, nel suo bisogno selvaggio di solitudine e di forza, egli prese la casa in Via Angelo Custode, dove non vi erano donne. V. Ancora una passeggiata dall'angolo di Piazza Sciarra sino a Piazza San Carlo, sempre lungo il Corso, un Corso di giorno festivo, con tutte le botteghe chiuse e in quell'ora del pomeriggio invernale, fra le due e mezzo e le tre, un'ora vuota. A Piazza Colonna, il pasticciere Ronzi e Singer era aperto, ma senza un'anima, con le vetrine dove restavano poche bomboniere e sul grande banco marmoreo i piattelli di cristallo vuoti di pasticcini; chiuso il chiosco dei giornali accanto alla fontana. Da Montecitorio, un grande angolo di sole pallido sulla facciata del palazzo Chigi; qualche rara carrozza da nolo sbucava da Via Bergamaschi, rasentava la bruna colonna Antonina, e andava lentamente a infilarsi nel vicolo del Cacciabove. Dai vetri chiusi si vedeva il Caffè del Parlamento, basso, azzurrognolo, simile ad una cripta dalle ombre fitte: dentro, nessuno. Innanzi al liquorista Morteo, due giornalisti, due giovinotti, chiacchieravano con le mani nelle tasche del _paletot_, sbadigliando, con la cera di due esseri mortalmente annoiati, un altro gruppo di quattro o cinque giovinotti, dietro i larghi cristalli del Caffè Aragno, prendendo dei _vermouth_, e leggendo un fascicoletto di carta rosa, un giornalettino letterario; e poi, tutta una lunghezza di Corso sino a San Carlo, con qualche raro passante, con qualche signora che sbucava da un portone, e montava subito nella carrozza chiusa, che partiva come una freccia. Un dolce scirocco invernale temperava e appesantiva l'aria; e in quel venerdì, in quel giorno di Natale, in quell'ora pomeridiana, pareva a un tratto sospesa la vita di Roma. Tutto quel quartiere centrale della città, quel tratto di Corso sempre così fervido di movimento, con le sue quattro piazze, Sciarra, Montecitorio, Colonna, S. Carlo, con i suoi caffè sempre chiassosi, con le sue botteghe eleganti, coi suoi marciapiedi affollati, sembrava, in quel lieto giorno di festa, in quella temperatura mite, come colto da improvvisa profonda atonia. Al contatto di quel breve mondo attivo, quasi febbrile, ogni giorno Francesco Sangiorgio provava lo stesso fenomeno di eccitamento, per quanto rimanesse estraneo a quell'attività. Ora, quella vuotaggine, quel sonno, quel silenzio del giorno di Natale, che altrove, in provincia, nei più piccoli villaggi si suol celebrare con grida di gioia e sparo di mortaretti, lo avevano colpito di meraviglia, come molte e molte cose di questa Roma, sempre così nuova, così impensata. Passeggiava da un'ora, su e giù, dopo colazione, dopo aver letto i tre o quattro giornali che erano usciti la mattina, e che contenevano delle tirate sentimentali natalizie; non incontrava alcuno, non già una faccia amica, perchè non aveva amici, ma neppure le faccie che per solito incontrava. Tutti quelli che avevan potuto partire per festeggiare il Natale nei loro paesi, con le loro famiglie, deputati, senatori, studenti, impiegati in permesso e ufficiali in licenza, erano scappati via, e quelli che erano restati, indifferenti, si chiudevano borghesemente o aristocraticamente in casa, poichè il romano non chiede e non aspetta ventura. Francesco Sangiorgio aveva presentito che si sarebbe trovato molto solo, molto abbandonato, smarrito in mezzo a una folla festante e spensierata: invece, Roma gli aveva preparata la sorpresa di un gran silenzio solenne di città morta. Mentre tornava indietro per la quarta volta, pentendosi amaramente di non essere andato in quella povera umile e buona Basilicata a far Natale coi suoi vecchi zii, innanzi al ruvido ceppo che arde nell'ampio focolare; mentre s'irritava contro quel fascino singolare della città che se lo teneva stretto, nelle vacanze, quando tutti fuggivano, vide spuntare da Via Convertite al Corso un drappello di quaranta o cinquanta persone che procedevano quasi in processione, con a capo una bandiera tricolore. Avanti, quattro o cinque signori, in soprabito e cappello basso, andavano tutti seri, quasi misurando il passo; il portabandiera aveva sul soprabito una tracolla di pelle, con un anello di metallo sulla pancia per reggere la bandiera, mentre una tuba lucida gli si abbassava fieramente sull'orecchio. Poi una ventina di uomini vecchi, in cappello di feltro molle, con certi soprabitoni grevi e pelosi, di antica data: chi aveva tre, chi quattro medaglie, varî andavano curvi, uno, zoppo, si trascinava a stento reggendosi sopra un bastone. Era un manipolo di reduci dalle battaglie 1848-49; qualche giovanotto, molto meno che trentenne, vi era frammischiato. In coda, le facce equivoche, brune, lucide, dai mustacchi a spazzola, di due guardie travestite, in giacchetta, cappello basso sull'orecchio, passo militare e bastoncino di giunco sotto l'ascella. I giovanotti del Caffè Aragno nemmanco si voltarono, abituati a vederne passar tante di queste processioni, indifferenti oramai: sui marciapiedi qualche persona si fermava distratta: i due giornalisti discussero un momento, davanti a Morteo, poi l'uno si decise, e si staccò dall'altro, si strinse nelle spalle e si unì alla dimostrazione, col contegno dell'uomo disoccupato. Francesco Sangiorgio non si mise in fila, ma costeggiò la dimostrazione, tenendosi sul marciapiedi, studiando il passo. Ogni tanto, lungo la strada, agli Orfanelli, ai Pastini, qualcuno si univa. In Piazza della Rotonda, dinanzi al Pantheon, ove il gran re dorme, la bandiera s'inchinò, i vecchi reduci si cavarono il cappello. La dimostrazione proseguiva il suo cammino, infilando certe strade strette e oscure della vecchia Roma, allungandosi, assottigliandosi in quei vicoli dove possono andare di fronte solo quattro persone: ed era dappertutto un gran silenzio di botteghe chiuse, di finestre chiuse, di androni vuoti, una gran pace festiva che lasciava deserte le vie, che assorbiva, dietro le mura delle case, tutta la giocondità natalizia. Tratto tratto la bandiera oscillava, ma subito il portabandiera la rizzava nell'anello, con un moto energico. Una breve sosta fu fatta all'imboccatura di ponte Sisto. Qui un poco di animazione cominciava: sui due larghi marciapiedi, varie persone, ferme, contemplavano il fiume, tutto biondo sotto uno smorto sole invernale, delle carrozze passavano, al trotto, sobbalzando sulla curva fortemente pronunziata del ponte. Tutt'intorno, al principio di Via Giulia, verso piazza Farnese, laggiù verso il Politeama, era un largo rinnovamento edilizio: mucchi di pietre, pile di mattoni, macerie accumulate, muri di case in demolizione, piccoli laghetti bianchi di calce assodata, carriuole di muratori con le braccia in aria, alte impalcature di legno su cui già la réclame aveva steso i suoi cartelloni: a monte e a valle, a destra e a sinistra, ancora delle demolizioni: poi il tronco di una strada già selciata, i lavori della sistemazione del Tevere già cominciati, un Lungo Tevere abbozzato. La leggiera nuvola dello scirocco avvolgeva l'orizzonte verso la Farnesina e l'acqua gialla scintillava lievemente. Una grossa zattera nera tagliava in mezzo il fiume, immota, messa in quel punto per i lavori: pareva una macchina da guerra. Una quiete era anche lì, come una sospensione di vita, come un sogno nella dolcezza invernale del pomeriggio. Sangiorgio si trasse di lì a stento, e rizzandosi sulla punta dei piedi, vide la bandiera dell'associazione che penetrava in Trastevere. Di nuovo cominciò lo sfilare taciturno per i vicoli sinuosi di quel quartiere estremo; qualche popolano in abito da festa si univa alla dimostrazione: erano, adesso, un centinaio di persone. A un gomito di una piccola strada, tutt'a un tratto, con una improvvisa rischiarata di orizzonte, si trovarono in un grande viale. Da una parte, dietro un breve parapetto, era Roma, tutta chiara nella luce; dall'altra, una proda verde, la cresta del Gianicolo, si elevava; a mezza costa, l'Accademia di Spagna mostrava le sue fondamenta, intorno a cui girava il gran viale ascendente. Tre o quattro volte, l'associazione dovette farsi da parte per lasciar passare qualche equipaggio che trottava vivamente alla salita, senza far rumore, sulla ghiaia; qualche profilo femminile appariva e spariva dietro i cristalli. A un punto, dove il viale piegava ancora, innanzi alla villa Sciarra, fra due siepi aristocratiche di agavi fiorite e di pioppetti giovani, un signore fermo chiamò: «Onorevole Sangiorgio?» Questi trasalì, si voltò e scorse l'onorevole Giustini, un deputato toscano, con cui aveva parlato tre o quattro volte, essendo vicini di posto, all'ultimo banco del loro settore, al centro destro. Lo raggiunse. «Segue la dimostrazione, collega?» domandò Giustini, con la voce velata d'ironia e di stanchezza. «Da curioso. E Lei?» «La guardo passare: fo da spettatore. Già l'è sempre la stessa cosa.» Il Toscano aspirava la lettera _c_, fortemente, e parlava senza guardare in faccia il suo interlocutore, con certe voltate di testa sulle spalle, come uomo infastidito. Camminarono insieme, con un accordo tacito. L'onorevole Giustini non era nè zoppo, nè gobbo, nè propriamente sciancato, ma trascinava straccamente le gambe, portava per malvezzo una spalla più alta dell'altra e il collo raggricchiato come quello della testuggine, le braccia e le mani penzoloni, come se non sapesse che farne e gli dessero noia. Un viso terreo, un par d'occhi chiari, scialbi e una barbetta rada e fulva, divisa sul mento. Tutto un contegno di uomo seccato, un'aria di rachitismo fisico e morale. «Le dimostrazioni, le passeggiate con le bandiere, le corone deposte sopra una lapide, tutte si rassomigliano fra loro. Ne avrò viste mille, ne avrò anche fatte: quando si è stati giovani e studenti di legge, chi può garantire di non aver _dimostrato_?» «Anch'io, all'Università,» rispose Sangiorgio. «Chi ci crede a queste frottole?» riprese l'onorevole Giustini, dando in una energica stretta di spalle. «Bisogna avere vent'anni o sessanta, l'età in cui si è scempiati.» «Non dica male della gioventù, onorevole,» rispose Sangiorgio, abbozzando un debole sorriso. «Già, già, gioventù, amore, morte, le tre cose che ha cantate Leopardi: veramente ne ha cantate due, ma l'altra ci sta dentro. Tutti Leopardiani i meridionali, nevvero? Eppure, che famoso seccatore quel Leopardi! Era gobbo, ne ha profittato per far versi o per annoiare la gente. Anch'io son mezzo gobbo, ma non fo versi, perdio! E non secco neppure i miei colleghi della Camera, parlando.» «Infatti non ha mai parlato, dall'apertura della sessione.» «E sì che i colleghi miei non hanno la cortesia di contraccambiarmi. Che riunione di chiacchieroni incorreggibili, quante parole inutili, quanto fiato sprecato!» Respirò lungamente; aveva lo sguardo smorto che filtrava attraverso le palpebre socchiuse. Sangiorgio lo ascoltava e lo guardava, lasciandolo discorrere e non parlando, continuando nel silenzio che serbava da due mesi che era in Roma, quello studio profondo degli uomini e delle cose, che doveva essere una delle sue forze. Camminando adagio, erano giunti a un altro gomito del viale. Ora, sul piazzale, un vasto orizzonte si apriva: di nuovo Roma vista da una terrazza semi-circolare. Si era a livello dell'Accademia di Spagna: innanzi al grande portone due o tre carrozze aspettavano, una di cardinale: il cameriere, sbarbato, senza un pelo, la faccia di chierico, vestito di nero, passeggiava più in là. La dimostrazione saliva sempre, verso l'acqua Paola, il fontanone sonante e clamoroso. Le persone che passeggiavano, si fermavano a vederla passare. Un signore alto e magro, con una barbetta bionda brizzolata, scambiava dei saluti coi reduci, mentre sfilavano, restando accanto alla siepe. «Quello vorrebbe crederci ai tempi moderni e non può,» ricominciò la voce maligna di Giustini. «Quello sì, un bell'uomo, sì, proprio quello, con la tuba, è Giorgio Serra: l'avrà inteso nominare. Un bel tipo: un apostolo, un poeta, ma dentro, certo, ne deve aver accumulato di delusioni! È in buona fede, lui: uno dei pochi democratici simpatici. Del resto, in arte è aristocratico: ama il popolo, poichè ha un bell'animo affettuoso e deve per forza amare qualche cosa, ma odia la volgarità. Vedrà che sale al Gianicolo per la commemorazione, ma che non parlerà: è delicato come una donna, in certe cose. Ora gli passeremo davanti; mi saluterà freddamente: egli odia il centro, alla Camera. E ha ragione: nulla è più odioso del centro, a cui abbiamo l'onore di appartenere, onorevole collega. «E perchè ci sta, Lei, onorevole Giustini?» «Oh, io!» fece l'altro con un gesto di noncuranza. Nell'ampia vasca cadeva fragorosamente l'acqua da tre bocche; due serve erano sedute sul parapetto del bacino e discorrevano; un prete tedesco guardava, da un terrazzino, Castel Sant'Angelo, il fiume e giù, a picco, la diritta Via della Longara in Trastevere, sotto villa Corsini. La dimostrazione imboccava Via Garibaldi; alla coda si era messo Giorgio Serra, guardando la campagna ed il paesaggio di Roma amorosamente. I due deputati avevano affrettato il passo, ma dovevano ogni tanto sostare per gli equipaggi signorili che transitavano. «Tutte queste signore vanno alla commemorazione?» domandò Sangiorgio. «Sì, proprio!» ghignò Giustini. «Non lo sanno neppure che vi è una commemorazione. Vanno a villa Pamphily, a passeggiare: è venerdì ed il tempo è bello: vale a dire, è il grande scirocco romano che fa mangiar poco, dormir molto, ammollisce i nervi e fiacca la volontà. Del resto, le donne sanno quel che si fanno». «Bah!» fece Sangiorgio, con un atto di disprezzo per le donne. Giustini lo guardò a lungo, come per giudicarlo mentalmente, ma non gli volse domanda. Passavano Porta San Pancrazio, la Via delle Mura s'inclinava, stretta e sinuosa, a diritta verso la Valle dell'Inferno e il Vaticano, a sinistra verso villa Pamphily. Un'_osteria di cocina_ con vino _delli castelli_, innanzi a cui stavano ritti ed indifferenti due carabinieri: poi una strada con una siepe di spini che la divideva; a sinistra, una muraglia alta e bigia, scrostata; a un punto, in una sporgenza, una porticina di legno tarlato, su cui era scritto il nome del podere e della villa che era dietro quella muraglia: _Il vascello_. E il nome, glorioso, bastava — e la lapide sul muro era inutile — e le corone secche e fradice dalla pioggia erano inutili: — bastava il nome. La dimostrazione si era aggruppata sotto la lapide commemorativa, lasciando un po' di spazio libero per le carrozze che sfilavano sempre verso villa Pamphily; i carabinieri si erano avvicinati. I vecchi reduci erano tutti riuniti intorno alla bandiera e stavano muti, ricordando: i due deputati si tenevano a una certa distanza; Giustini faceva una smorfia bruttissima di stanchezza; Sangiorgio, punto dalla curiosità, osservava. Un operaio salì sopra una scala di legno appoggiata al muro, tolse le vecchie corone e le buttò via, spazzò col gomito la lapide e vi sospese la corona fresca: giù, si applaudì. Dall'alto della muraglia, un contadino, il guardiano del podere, una di quelle facce pallide e malinconiche di contadini romani, guardava indifferente. Poi, sul sedile di una carrozza da nolo, a un cavallo, che stava addossata alla muraglia, un uomo sorse per parlare; gli studenti lo applaudirono. Era un giovinotto biondissimo, grassotto, con certi occhietti languidi azzurrini, con un mustacchietto appuntato, con le mani pienotte e bianche come quelle di una donna, con le unghie lunghe e rosee e un anello di brillante al dito mignolo. Era vestito con una raffinatezza da parrucchiere, aveva una faccia serena e fresca, tutta piena della soddisfazione di esistere, mentre gli occhietti roteavano con inclinazioni di beatitudine. Aspettò che si finisse di applaudire, per parlare; anzi fece un cenno con la mano, perchè si cessasse. Tutti si ristrinsero intorno a lui per ascoltarlo, reduci, studenti, operai, carabinieri e guardie. Il giovanotto, con una voce fievole, ma ben modulata, di tenorino da salotto, con pause sapienti, girando il capo con una lentezza graziosa di donnina civettuola, gesticolando con sobrietà, spiegò come e perchè, dopo la commemorazione di aprile, se ne facesse un'altra in dicembre: e subito si ingolfò in una descrizione dell'assedio di Roma, come se vi fosse stato; i reduci crollavano il capo innanzi a quell'elegante giovinotto, essi che vi erano stati. Egli aveva una loquela facile, ma lenta: a un tratto, parve riscaldarsi e se la prese coi preti, col Vaticano, di cui parlava accennando a sinistra, verso la muraglia, vagamente, con un gesto di attrice giovane, arrotando le _r_. I pochi veterani, distratti, assorbiti, non lo ascoltavano più, compresi dai ricordi di quel sacro colle, dove essi avevano combattuto per la redenzione della patria, dove i loro compagni d'arme erano caduti col volto sfigurato, o col petto spezzato dalle palle dei cacciatori di Vincennes. Ogni tanto, fra di loro, mormoravano una frase, si rammentavano un fatto, col capo chino, con le mani appoggiate sul pomo del bastone. «Nella notte si sentivano i Francesi chiacchierare allegramente sotto le loro tende...» «Ve lo rammentate voi il moro di Garibaldi che morì con una spalla fracassata da una scheggia di bomba francese?...» «Com'era bello il colonnello Manara...» «Bello e valoroso...» Il giovinotto finiva con un'apostrofe ai sette colli di Roma, infarcita di storia romana. I suoi compagni, gli studenti, si affollarono più strettamente intorno alla carrozza da nolo, applaudendo, stringendogli la mano, acclamandolo. Ed egli si curvava, tutto amabile, sorridendo, prodigando le strette di mano, interrompendole per passarsi sulla fronte bianca una pezzuola di batista, dal largo orlo nero, profumata di _fieno_. Gli operai e i popolani restavano poco convinti, niente scossi, con quel riso sarcastico romano che poche cose vincono. Una voce circolò: «Serra! Serra! Dov'è Serra? Parli Giorgio Serra!» Ma Serra non rispondeva. Forse si nascondeva, umile, tra la folla. E la folla si mosse in vario senso, come se in lei avvenisse una cerna. «Serra, Serra!» si ripeteva ancora, quasi evocando quella bella testa di poeta e di artista. Ma Serra non vi era. Forse, mite sognatore che qualunque realtà nauseava, era disceso lentamente in quella Roma che egli amava, o, più probabilmente, costeggiando la grande siepe fiorita di biancospini e di roselline, era andato a passeggiare per gli ampi viali, profondi e raccolti, di villa Pamphily, ritrovando le sue care illusioni in quella verdezza di campagna, impregnandosi di quell'alta bellezza naturale. «Gliel'ho detto,» mormorò Giustini a Sangiorgio, «che Serra sarebbe scomparso: egli odia la rettorica». «E fa male: la rettorica è una forza,» ribattè Sangiorgio. Per la seconda volta il deputato toscano squadrò il deputato meridionale, con un lieve accenno di meraviglia sulla faccia. Quei due, non li univa nè l'affetto, nè la simpatia, nè altro interesse; solo la curiosità, il desiderio di conoscersi, misto a un senso di diffidenza, di due maestri di scherma che si mettono in guardia e non si arrischiano ancora a un vero assalto. Attorno a loro la folla si disperdeva lentamente; la bandiera era andata già via, i veterani s'incamminavano per la discesa, sbandati, a gruppi di due o tre, schiene curve nei rozzi soprabitoni e gambe un po' vacillanti: qualcuno, ogni tanto, si voltava a dare un ultimo sguardo al Vascello e si fermava. Il giovane oratore era sceso dalla carrozza con un salto e si era unito ai suoi amici studenti: aveva spiccata una rosellina dalla siepe e se l'era posta all'occhiello: camminando verso Roma, in fila di quattro o cinque, egli si teneva la mazzettina di balena sotto l'ascella e s'infilava delicatamente un guanto. Una comitiva di operai era salita all'_osteria di cocina_: sopra una terrazzina e intorno a una tavola grezza, si beveva di quel leggiero vino giallo che sa di zolfo. E dopo dieci minuti non vi era più nessuno sotto la lapide ai caduti del 1848: la villa del Vascello serbava, nella solitudine, il suo aspetto di casa smantellata, cui è rimasta solo la facciata in piedi. Sulla cornice dell'alta muraglia che chiude il podere, il contadino solo restava: col capo appoggiato al pugno chiuso, guardava giù, indifferente. I due deputati erano discesi sino al piazzale presso la fontana di Paolo III, camminando piano. Un principio di umidità crepuscolare filtrava attraverso lo scirocco, o piuttosto lo scirocco diurno, tepido, si tramutava nell'umido scirocco notturno che invade la città al cader del giorno. Gli equipaggi signorili discendevano da villa Pamphily, tornando verso Roma. Appoggiati al parapetto della terrazza che guarda la città, i due deputati seguivano con lo sguardo le carrozze. Due o tre volte Giustini salutò, con una scappellata secca e breve di uomo poco galante, e subito dopo, come se parlasse a sè stesso: «La Baldassarri, una contessa bolognese, bella donna, moglie di un senatore vecchio. Una sciocca da cui non vado più; ha la smania dei poeti, ne ha sempre vari in collezione, un barbaro, un sentimentale, un naturalista, financo: quelli che fanno i sonetti per nozze sono accolti con una certa considerazione. È la donna per cui si fa più consumo di rime e di parole sdrucciole.» «Questa qui è la Gagliardo, una baronessa: brutta, mediocre, intrigante e cattiva. Medita, continuamente, in silenzio, la caduta del ministero. Quando cade, per opera altrui, ella ha l'aria trionfante. È così crudele che fa le visite alle mogli dei ministri, il giorno in cui i mariti sono caduti. Del resto, lancia i deputati giovani o crede di lanciarli. I disgraziati illusi le fanno la corte: è una donna importante. Nel suo salotto il thè è insipido, ma la maldicenza è saporita.» «Ci andate voi?» «Io no, non più. Sono forse un deputato giovane?... Ah, ecco la moglie di Sua Eccellenza.» Il saluto fu profondo, da ambedue. E la serena donna rispose, dolcemente, chinando la testa dietro il cristallo. Sangiorgio non disse nulla, con un lieve tremito in sè, aspettando e temendo il sarcasmo di Tullio Giustini. «Bella donna, la moglie di Sua Eccellenza,» mormorò il deputato toscano: «troppo bella e troppo giovane, per lui. Gli è persino fedele, non si sa perchè. Le sue amiche la odiano cordialmente, ma è di moda l'ammirarla. È virtuosa... per calcolo, per ipocrisia o per freddezza di temperamento?» «Ci andate, voi?» chiese Sangiorgio. «No: sono troppo ministeriale.» «Vale a dire?» «Che ne farebbero di me? Son un convertito, io: non si predica che ai dubbiosi. Eppoi, diventerei di opposizione, se frequentassi la sua casa. Mi fa troppa rabbia vedere un marito magro, segaligno, arrabbioso e corroso dalla politica, sequestrare una moglie giovane. Eppoi, eppoi, donn'Angelica è troppo buona: mi guasterebbe.» «Donn'Angelica?» ripetette sottovoce Sangiorgio. Ma Giustini non lo intese: si era scappellato di nuovo, dinanzi a un coupè che passava. Questa volta, la carrozza piccolina si fermò, una manina lunga, inguantata di nero, abbassò il cristallo e chiamò a sè il deputato toscano. Sangiorgio restò solo, a guardare il collega che, appoggiato il corpo allo sportello, col capo dentro la carrozza, pareva chiacchierasse. Di lì a poco, Giustini ritornò presso Sangiorgio, e gli disse: «Venga, La presento alla contessa Fiammanti.» Sangiorgio non ebbe tempo nè di resistere nè di rispondere: si trovò accanto alla carrozza. «Contessa, l'onorevole Sangiorgio, deputato per Tito, meridionale e novellino.» I begli occhi grigi della contessa lampeggiarono di malizia: la sua bocca sottile si piegò a un sorriso. «Ho detto qui, a Giustini, di presentarvi, onorevole, dopo aver saputo che siete del Mezzogiorno. Quanto vi deve sembrar noiosa Roma, onorevole! Oh, Napoli è così bella, io l'adoro, signore! Mio marito era napoletano: io ho imparato da lui l'amore per Napoli e per tutte le cose di laggiù. Vedete, io do subito del _voi_. Quel vostro _Lei_, Giustini, che orrenda cosa! Io preferisco di non udirvi, quando dovete parlare in quel modo glaciale.» «Per questo non mi lascia dire mai, contessa, quando comincio...» «A farmi la corte? no, caro Giustini, vi voglio troppo bene per lasciarvi continuare. L'amore è una vecchia farsa, di cui nessuno ride più. Vi par viso da pianto, il mio? Onorevole Sangiorgio, noi dobbiamo sembrarvi molto frivoli, nevvero? Sappiamo anche esser seri: per esempio, quando Giustini mi racconta la politica. Mi interessa moltissimo la politica: mi ci diverto. E voi?» «È la sola cosa che m'interessa,» disse, un po' rudemente, Sangiorgio. «Oh, quanto mi ci diverto!» esclamò la signora, senza mostrare di aver notata la scortesia. «Per divertircisi bisogna non amarla assai,» mormorò Sangiorgio, ma con tanta espressione che la bella contessa, profumata di viole, lo guardò un momento. «Dunque, Giustini, fra un paio d'ore, nevvero? Onorevole Sangiorgio, sono in casa tutte le sere dispari, il tre, il cinque, il sette. Non vi obbligherò a prendere il thè. Si fuma da me. Io canto abbastanza bene. Non ci sono altre donne. Arrivederci, onorevole.» E appena essi si scostarono, la carrozza fuggì verso Roma. «Che è questa signora?» chiese Sangiorgio a Giustini. «Che gliene importa, a Lei? Non Le piace?» «... Sì, mi piace.» «Ebbene, ci vada, la sera: si divertirà. È seducente, non bella: certe sere è irresistibile. Canta benissimo. Talvolta, non spesso, ha dello spirito. Parla troppo. È una buona figliuola.» «Che donna è?» insistette Sangiorgio. «Che posso dirle?» e si strinse nelle spalle. «Non sono giunto a essere suo amante; dipenderà da quella quistione del _voi_ e del _Lei_.» «E si chiama?» «Donna Elena Fiammanti.» Erano giunti sul piazzale dell'Accademia di Spagna, deserto in quella rapida caduta di sole invernale. «Ecco Roma!» disse Giustini, innanzi al parapetto della terrazza. «L'aveva mai vista, tutta, così?» «No, mai.» «È grande, grande assai,» disse sottovoce il maligno deputato toscano, con una malinconia nell'accento. «Pare che dorma,» rispose anche sottovoce Sangiorgio, come se parlasse in una chiesa. «Dormire? Non se ne fidi, non dorme, ella se ne sta quieta e guarda e pensa. Vede laggiù, lontano, a sinistra, quella cupola chiara chiara che si confonde nella bianchezza del cielo? È San Pietro. L'ha visto? Sì. Una grande chiesa, deserta e inutile, nevvero? Dopo San Pietro, un grande gruppo di edifici, quà e là tagliati dal verde dei giardini: sembrano piccoli, di quà, quegli edifici e avvolti in un sonno profondo. È il Vaticano, quello: vi è il papa, là dentro. Ha settant'anni, è gracile, soffre, la morte gli è sopra, che importa? Egli è forte. Quanta gente crede in lui, tende a lui le mani, si prostra innanzi a lui, prega nel suo nome, muore nel suo nome! Noi contiamo, esultanti, le schiere degli atei e degli scettici: chi può contare quelle dei credenti? Ci crede Lei, in Dio, onorevole?» «No.» «Neppur io. Ma il papa è forte. Egli ha per sè gl'infelici, gli sciocchi, gli umili, i giovanetti, le donne: le donne che si trasmettono di madre in figlia, non la religione, ma il culto. Le pare che si dorma, laggiù, sulla sponda del fiume, in quel grande palazzo dove Michelangelo ha dipinto? È il Vaticano, quello: tutta una idea colossale a cui serve, da cui si dirama una popolazione di cardinali, di vescovi, di parroci, di preti, di monache, di frati, di seminaristi, di chierici, e costoro non pregano, non officiano, non cantano soltanto: stanno nelle case, penetrano nelle famiglie, insegnano nelle scuole, essi stessi amano, odiano, godono, vivono, per sè e per il loro interesse, per la Chiesa e pel papa! Chi può misurare la loro forza, la loro espansione, la loro potenza?» «Roma non crede,» interruppe Sangiorgio. «Non parlo di fede, io. Glorifico la religione, forse? La grande fola è finita, ma l'interesse umano vive e si moltiplica. Noi passiamo accanto a questo grande fermento e non ce ne accorgiamo. Viviamo presso un enorme mistero agitantesi nell'ombra, senza sospettarne l'esistenza.» Giustini taceva, fissando ancora gli occhi sull'immenso paesaggio della città che pareva annegata nel sottilissimo aere nebbioso sciroccale. Sangiorgio ascoltava, turbato, con un palpito di ansietà nel cuore, come all'appressarsi di un pericolo. «Quello è il Quirinale: la regina, il re, la corte. Proprio lì, in quella luce rosea. Quattro balli, otto ricevimenti ufficiali, quaranta pranzi di parata, venti serate teatrali, quattro concerti, trenta inaugurazioni, quattrocento presentazioni, brillanti al collo, decorazioni sul petto, piume sui capelli, spalle nude, pasticci di fegato grasso e quadriglie d'onore... chi pensa che vi sia altro? Ma questa bella regina che saluta, con tanta amabilità, amici e nemici, monarchici e repubblicani, è anche una donna che sente, che pensa, che sa, che ascolta: ma questo re, carico di così pesante fardello, obbligato così doverosamente a un'obbedienza continua, non è un uomo, non ha anch'egli una coscienza, un criterio, una volontà? E tutta questa gente di corte, militari e impiegati, dame d'onore e diplomatici, maggiordomi e servitori, non si agitano, non lottano, non vivono forse? E che? Una riverenza è tutta la loro manifestazione? Non sanno che camminare davanti al re, in una sala? Chi dice questo? Non hanno amore e odii e passioni furiose di ambizione? Ognuna, di quelle donne, non ha un desiderio, un'invidia, un rimpianto amaro?» Il brutto uomo, strisciando nervosamente le dita sul piano del parapetto, aveva trovato un grosso frammento di calcinaccio secco: ne staccava dei pezzetti e li buttava giù, per la proda verde. Francesco Sangiorgio seguiva attento attento il moto delle mani magre e brune, dalle grosse vene gonfie. «Non si vede quel caldaione di Montecitorio,» riprese il deputato toscano, con la voce diventata più aspra: «è affogato tra le case; noi affoghiamo in esso. Un forno di cartapesta, dentro cui si cuoce lentamente, con una cottura disseccante, temperatura da bachi che addormenta tutte le audacie e riscalda tutte le timidità, che finisce per dare una dannosa cocciutaggine a tutti gl'irresoluti, e che solleva qualche pseudo-idea sotto il cranio dei cretini. Non si vede di qui il paese della politica, color di legno, come il signor Comotto ha voluto che fosse. Tutti gli abitanti di quel tamburone di cartone si agitano, gridano o tacciono, per una legge, per una leggina, per una ferrovia, per un ponte: più della legge, piccola o grande, più di ogni ferrovia o di ogni ponte, esser ministro, portare un'uniforme, sentirsi assordato dalla marcia reale nei paesi dove si arriva, aver per naturali nemici gli amici di prima, sentirsi dare del ladro dai giornali, vedersi aprire le lettere private da un segretario troppo zelante... e altre dolcezze simili. Vi sono dei disgraziati che desiderano di esser segretari generali! Uno di questi disgraziati sono stato io. Oh, brutto forno che fai ridurre l'uomo come una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato e consumato dalla inettezza di questo desiderio!» Ora il cielo tutto bianco allo zenit si faceva di un bigio delicato sulla linea circolare dell'orizzonte: una dolcezza serale saliva dalla città nell'aria, come un velo finissimo. Francesco Sangiorgio provava un malessere strano: Tullio Giustini gli sembrava più terreo, più brutto che mai, in quel momento: ridendo, gli si scoprivano due fila di denti giallastri. «Com'è quieta la città!» riprese Tullio Giustini; «pare che si goda, dormendo, la festa di Natale. Pare, pare, non è. Lassù, in quel verde del Pincio e di villa Medici che discende fino a Via Babuino, i pittori cantano, ridono, dicono delle eresie come teoriche d'arte, e producono dei quadri che sembrano follie grandi. Che gliene importa, a loro? Per consolarsi dell'insuccesso, hanno inventato la parola _borghese_, con cui disprezzano il pubblico. In tutto quel biancore, dall'altra parte, sono i _quartieri nuovi_. C'è stato mai? Settantamila impiegati, famiglie, servi, cani e gattini: un attendamento di barbari disarmati e affamati, che se ne stanno accoccolati lassù, guardando Roma e odiandola, perchè non la possono capire, e perchè la trovano esorbitante, mentre le loro donne fanno i figli e cucinano, pallide, col seno smunto e colle mani rosse. Costoro avran festeggiato il Natale nelle loro casette, sfogandosi a parlar male del governo, delle serve, di Roma, del macellaio, come veri barbari, miserabili e ottusi. E i Romani, i veri Romani della Regola e del Popolo, del rione Monti e del rione Trevi, che mettono l'aggettivo _romano_ accanto al loro nome come un titolo di nobiltà, che mangiano gli gnocchi il giovedì, la trippa il sabato e l'agnello sempre, che amano il vino bianco e i fuochi d'artifizio di Castel Sant'Angelo, che si vantano dell'acqua Marcia, e fanno placidamente pullulare gli scarafaggi nelle loro case vecchie, i Romani scettici, arguti, indifferenti e laboriosi, eccellenti mariti e amanti affettuosi, quelli lì non dormono sicuro. E tutte le donne, romane o napoletane, italiane o straniere, che passeggiano, stanno alla finestra, discorrono, ridono, amanti baciano, e amate si fanno baciare, non dormono, no!... le donne non dormono mai, neanche le notte. Oh, Roma è così viva, mentre vi sembra immobile: essa è così grande, così complicata, così delicata nel suo congegno, così potente nelle sue leve di acciaio, che quando io mi piego a guardarla, di quassù, mi fa spavento, come una macchina infernale.» In quel tramonto crescente, Francesco Sangiorgio, tutto pallido, si piegò macchinalmente a guardare anche lui, in giù, come per scoprire la misteriosa macchina di Roma. «E quel che si sogna, venendo qui!» seguitò Tullio Giustini, con un breve riso sarcastico. «Tutta una serenità amorosa di grande città che vi aspetta, poichè voi siete giovane e avete ingegno e volete lavorare e non essere indegno della città augusta. Anche io ci son venuto così e mi pareva che il primo cittadino romano dovesse abbracciarmi. Invece, dopo tre o quattro anni di rodimento, di tormenti interni e di forti delusioni, ho imparato varie cose: che ero troppo aperto per riuscire in politica, che ero troppo brutto per piacere alle donne, che ero troppo malato per riuscire in una scienza, che ero troppo duro per riuscire in diplomazia. Questo ho imparato e da questo una verità fulgida come il sole, terribile come la stessa verità: Roma non si dà a nessuno!» «E che bisogna fare?» domandò, quasi tremando, Francesco Sangiorgio. «Conquistarla.» E Tullio Giustini, con la mano scarna, fece un largo gesto verso la città. «Conquistarla... Guai ai mediocri, guai ai paurosi, guai ai deboli, come me! Questa città non vi aspetta e non vi teme: non vi accoglie e non scaccia: non vi combatte e non si degna di accettare la battaglia. La sua forza, la sua potenza, la sua attitudine è in una virtù quasi divina: l'_indifferenza_. Vi movete, gridate, urlate, mettete a fuoco la vostra casa e i vostri libri, danzate sul rogo: essa non se n'accorge. È la città dove tutti son venuti, dove tutto è accaduto: che gliene importa di voi, atomo impercettibile che passate così presto? Ella è indifferente, è la immensa città cosmopolita, che ha questo carattere di universalità, che sa tutto, perchè tutto ha veduto. L'indifferenza: la serenità imperturbabile, l'anima sorda, _la donna che non sa amare_. È lo scirocco spirituale, la temperatura tepida e uniforme, che vi fiacca i nervi, vi ammollisce la volontà e vi dà, ogni tanto, le grandi ribellioni interne e i grandi accasciamenti. Eppure vi dev'essere qualcuno o qualche cosa che turbi questa serenità, che vinca questa indifferenza. Qualcuno bisogna pur che la conquisti, Roma: sia pure per dieci anni, per un anno, per un mese, ma conquistarla, ma prenderla, ma far la vendetta di tutti i morti, di tutti i caduti, di tutti i deboli che hanno toccato le sue mura, senza poterle superare. Oh, costui, bisogna che abbia il cuore di bronzo, una volontà inflessibile e rigida; bisogna che sia giovane, sano, robusto e audace, senza legami, senza debolezze; bisogna che si concentri, profondamente, intensamente, in questo unico ideale di conquista. Qualcuno deve conquistarla, questa superba Roma». «Io,» disse Francesco Sangiorgio. PARTE SECONDA I. Il ministro parlava da un'ora. Non era un oratore: gli mancavano la foga e l'eleganza. Era piuttosto un parlatore modesto, colui che non ricerca verun effetto di eloquenza politica e dice le cose precisamente, nell'ordine logico, matematico, con cui si presentano in un cervello quadrato e solido. Il discorso era, com'è naturale, irto di numeri, una sfilata interminabile di cifre: egli le pronunziava con una certa lentezza, quasi volesse farle apprezzare ad amici e nemici. La voce era un po' molle, troppo familiare forse, ma nel silenzio si effondeva con chiarezza: pareva di assistere a una seduta di consiglio amministrativo: l'intonazione parlamentare mancava affatto. Il ministro, ogni tanto, s'interrompeva, per soffiarsi il naso, con un grande fazzoletto di seta, a scacchi rossi e neri. In realtà, in quella breve personcina grassoccia, onestamente vestita di nero, in quel volto placido, raso sulle labbra e sul mento, ma incorniciato inglesemente da due fedine brizzolate, in quelle mani bianche e grassocce, in tutto quel senso di calma e di meditazione che da lui traspirava, s'indovinava il grande lavoratore di gabinetto, l'uomo che passa dodici ore al giorno al ministero, innanzi a una scrivania ingombra di carte, scrivendo, leggendo, compulsando registri, discutendo coi capi di servizio, coi direttori generali. Così il ministro, l'uomo raccolto, concentrato in un lavoro immane ma segreto, pareva spostato a dover discorrere innanzi ai deputati; e dicendo delle cose importanti, facendo una relazione minuta e profonda, egli conservava una bonarietà di scienziato che spiega popolarmente l'altitudine della sua scienza. La Camera taceva per rispetto, ma in verità era distratta. Erano così sicuri di lui, i suoi amici! Egli era forte, anzi era tutta una forza, metallica, massiccia, lucida, che gli ossidi della maldicenza politica o della discussione non potevano corrodere. Gli stessi avversari suoi ammettevano la sua potenza e contribuivano a rendere più grande il suo trionfo. A studiarlo acutamente, si finiva per intendere com'egli fosse fuori della passione politica, tutto preso dall'amore della finanza. Poi l'atmosfera dell'aula conciliava un certo raccoglimento vago, senza pensiero. Mentre fuori, a metà gennaio, spirava una tramontana secca, fischiante e tagliente, uno dei tre giorni di freddo dell'inverno romano, dentro l'aula le bocche dei caloriferi mandavano un continuo alito di calore. Tutta chiusa, senza finestre, con qualche rara apertura di porte nelle tribune, porte che si richiudevano subito, senza rumore, come se strisciassero sul velluto, con quelle stuoie su cui si smorzava ogni passo, l'aula aveva un aspetto fisicamente confortante. Con tutto questo, il presidente, il bell'uomo cinquantenne, dal viso bruno e dai capelli ancora tutti neri, aveva le gambe avvolte in una coperta di velluto azzurro, foderata di pelliccia; e ascoltando il ministro, ogni tanto dava uno sguardo circolare alle tribune, cercandovi forse una persona. I segretari stavano immobili, seduti alla sua destra e alla sua sinistra: Falucci, l'abruzzese, alto e nerboruto, con una zazzera riccia, un po' brizzolata, diceva tratto tratto, sottovoce, una parolina al bel Sangarzia che approvava col capo, senza rispondere, avvezzo alle lunghe pazienze silenziose; Varrini, il calabrese gentile e intelligente, dalla testa di sorcetto astuto, con una finezza di damina sopra una gagliardia di tribuno, scriveva delle lettere; e Bulgaro, il napoletano, faceva scricchiolare la sedia sotto il suo grosso corpo, portando sul viso imbronciato le tracce di una noia quasi infantile. Non più, come negli altri giorni, durante le piccole discussioni, al banco della presidenza, un viavai di deputati che facevano un discorsetto col presidente, scambiavano una barzelletta con qualcuno dei segretari e ridiscendevano dall'altra parte: poi, una passeggiatina fuori, a brevi intervalli, due chiacchiere fatte nella sala dei _passi perduti:_ la seduta passava via. Ma il ministro faceva, oggi, una esposizione molto seria; bisognava ascoltarlo, ministeriali e oppositori. La destra, una sessantina, quasi tutti vecchi deputati di otto legislature, ascoltavano senza attenzione, sapendo che quello era un avversario invincibile, e avevano l'aria di veterani, consegnati al loro posto, che non soffrono e non godono. La estrema Sinistra non ascoltava punto, ma non turbava la discussione; essa disdegnava le quistioni di ordine economico-amministrativo, non aveva studiato la finanza e aspettava qualche discussione politica per fare un po' di chiasso: uno della piccola falange, Degli Uberti, dormiva, nascondendosi decorosamente la faccia tra le mani, un altro, Gagliardi, dormiva senza celarsi. Solo sopra un banco del centro l'attenzione era sincera, quasi di scolari ardenti innanzi alla parola rivelatrice del maestro. Dei quattro deputati, giovani, intelligenti e ambiziosi: Seymour, anglico, bruno, miope e corretto, prendeva delle note sopra una carta; accanto a lui, la barba da nazzareno di Marchetti; Gerino, fiorentino, taciturno, con una lunga barba bionda e fluente, un po' duro nel volto, passava degli appunti a Joanna, il meridionale, bella testa contemplativa e studiosa. Ma tutta la Camera, presidente, segretari, commissari, deputati, subiva la molle influenza di quell'aria calda, di quel posto chiuso, di quel silenzio che solo la voce tranquilla del ministro interrompeva. Le tribune erano affollate, caso strano in un giorno di discussione finanziaria. Ma il freddo aveva, certo, sorpreso per le vie quelle signore che se ne stavano nella loro tribuna, con le pellicce sbottonate, le mani ficcate nel manicotto, la faccia rosea pel buon caldo dell'aula: esse erano tutte felici di restar là, quantunque non capissero nulla, sentendo la voce del parlatore come un ronzio, rabbrividendo al pensiero di rimettersi per le strade, con quella tramontana che faceva lacrimar gli occhi e arrossire il naso. Così la tribuna pubblica era piena di gente: facce smorte e stanche di sfaccendati, figure miserabili di sollecitatori che passano la giornata a cercare il cugino di un amico di un deputato e che a una certa ora, demoralizzati, tremanti di freddo, vengono a finire alla Camera, alla tribuna pubblica, ascoltando senza batter palpebre. Anche la lunga tribuna dei giornalisti era più popolata del solito e quelli della prima fila fingevano di scrivere il sunto della relazione: ma chi scriveva una lettera, chi un articoletto teatrale, chi disegnava un profilo fantastico di Depretis, chi si esercitava alla calligrafia, scrivendo a svolazzi il proprio nome; i giornalisti di opposizione avevano già in macchina un semplice attacco tutto platonico, quelli ministeriali decantavano già da dieci giorni la esposizione finanziaria del ministro, tutti avevano un'aria tranquilla. Solo Gennaro Casale, impiegato governativo, giornalista napoletano ed enfatico, nemico del governo qualunque esso fosse, ci si riscaldava, e in fondo alla tribuna esclamava: «Signori, il pareggio è una slealtà ministeriale!» Financo nella tribuna diplomatica, appoggiata alla balaustra di velluto azzurro, si vedeva la snella persona e i grandi miti occhi profondi della contessa Beatrice di Santaninfa, che non ascoltava, pensava. Quando, alle quattro e mezzo, il ministro ebbe finito il suo discorso, un grande movimento di soddisfazione, di ammirazione, piegò quelle teste di vecchi e giovani parlamentari. Egli rassettava le sue carte nel grande portafoglio, senza un tremito nelle mani, senza un mutamento di colore nel volto. Poi, intorno gli si aggrupparono amici cadenti e amici tiepidi, per stringergli la mano, per congratularsi con lui: financo qualche ex-ministro delle finanze discese dai banchi di destra a salutare il piccolo ministro grassoccio, dal cervello di acciaio. Vi fu un po' di disordine, un po' di tumulto. E la voce del presidente, sonora e chiara: «Onorevoli colleghi, prego far silenzio. La parola è all'onorevole Sangiorgio». «Chi? chi? chi?» fu una domanda generale. E di nuovo, il presidente disse: «Prego far silenzio. L'onorevole Sangiorgio ha facoltà di parlare». Allora gli occhi curiosi dei deputati cercarono questo collega che quasi nessuno conosceva: era lassù, all'ultimo banco di un settore del centro destro. Stava ritto e calmo, aspettando di poter parlare: anzi si trasse quasi sulla scaletta, fuori del banco, perchè lo vedessero meglio. Non era alto, ma lassù pareva alto, poichè si teneva dritto ed era molto robusto: non era neppur bello, ma la testa aveva tutt'i caratteri della forza, i capelli piantati rudemente sulla fronte bassa, il naso aquilino, i mustacchi bruni e folti, un mento duro, pieno di volontà: a nessuno egli parve insignificante. Poi, una curiosità diversa nasceva ora nella Camera. Questo deputato nuovo parlava in favore o contro? Era uno dei piaggiatori che appena arrivati, si affrettano a far dichiarazione di fedeltà? O qualche piccolo insolente che avrebbe balbettato, innanzi alla Camera, un debole attacco, affogato tra i mormorii ironici dei colleghi? Un meridionale, avvocato: ecco quello che si sapeva. Dunque avrebbe declamato: la solita rettorica che i Piemontesi odiano, i Milanesi deridono, e i Toscani disprezzano. Invece l'onorevole Sangiorgio cominciò a parlare lento, ma con voce così sonora e virile, che si allargava in tutta l'aula e per cui tutti gli ascoltanti respirarono di soddisfazione. Persino le signore, che quasi dormivano pel calduccio, si riscossero: e nella tribuna della stampa, rimasta vuota dopo il discorso del ministro, i giornalisti cominciarono a ricomparire, riprendendo i loro posti. L'onorevole Sangiorgio preludiava con un esordio pieno di riverenza per l'illustre uomo che dirigeva la finanza italiana, e l'elogio non aveva nulla dell'adulazione brutale: era dato con una forma sobria e delicata. Fuggevolmente, il parlatore accennò alla propria giovinezza, alla oscurità di colui che, costretto alla vita provinciale, volse gli occhi sempre verso Roma, dove ferve una continua e nobile lotta politica. Egli esaltò la politica, dicendola più grande dell'arte, più grande della scienza: in essa si compendiava tutta la storia dell'attività umana, e a lui l'uomo politico pareva il tipo supremo dell'uomo, apostolo e operaio, braccio e testa. Un _bene_ squillante partì dalla destra. L'onorevole Sangiorgio si fermò per un minuto secondo: ma solo un minuto secondo. Però quel richiamo alla sublimità dell'idea politica, quella specie di idealità larga, a cui era portata una cosa che nelle mani degli uomini diventa volgare, era piaciuto generalmente, e aveva fatto ringalluzzire una quantità di teste piccole. Il ministro, che sul principio aveva rizzato il capo, fissando bene l'oratore coi suoi occhi di un azzurro pallidissimo, ora lo aveva di nuovo abbassato, sentendosi venire addosso un discorso di parole, di quelli che lo imbarazzavano e lo stizzivano. Sangiorgio però diceva che quegli anni di giovinezza in provincia non sono inutili, a chi vuol sorprendere il mondo moderno in tutt'i suoi bisogni. Le grandi città sono invaditrici, divoratrici, e hanno necessità di vivere dell'esistenza altrui, e sfruttano forze, e affogano lamenti, e danno all'uomo che ci vive una tal febbre, che lo fa dimentico di qualunque altro interesse umano. Chi le sa le miserie delle provincie? Chi si fa l'eco di quegli sfoghi dolorosi e sommessi che non possono arrivare sino a Roma? Certo, alcuni valenti e buoni e coraggiosi, ogni tanto, narrano alla Camera le pene di tanta parte degl'Italiani; ma sono voci isolate, si affiochiscono, poi tacciono. Eppure non bisogna tacere: bisogna che la verità si sappia. Ora la Camera ascoltava attentamente, con un certo interesse meno ironico, più benevolo. Era una neutralizzazione allo stento, alla difficoltà di comprensione che presentava il discorso antecedente del ministro: dopo una tensione dolorosa di due ore e mezzo a seguire il ballo fantastico delle cifre, quella eloquenza abbastanza semplice sollevava gli spiriti oppressi. Eppoi, in quella calata di giorno, freddissima e oscura fuori, beneficamente calda e chiara dentro l'aula, la Camera era presa da una sentimentalità, da un gran bisogno di affetto e di generosità. Di che si lagnavano le province, dunque? Sangiorgio proseguiva, dicendo che tutta la triste esperienza della sua gioventù, a contatto coi contadini, si era ribellata a una proposta del ministro, che pareva molto innocente. Il ministro aveva detto che, dovendo dare dei milioni al collega della guerra, era mestieri fare ancora delle economie. Benissimo; l'economia era una forza nelle nazioni giovani. Ma il ministro chiedeva inoltre un piccolo aumento sulla tassa del sale. Sangiorgio intendeva la necessità di Stato che obbligava il ministro a chiedere quell'aumento di tassa, ma quei pochi centesimi rappresentavano una sequela di guai, un aggravamento a condizioni di vita già insopportabili. E allora egli rifece con vivezza il quadro della miseria contadinesca, così maggiormente e diversamente terribile della miseria cittadina, narrando coi particolari più veristi, con aneddoti brevi e lugubri, dove abitavano i contadini, quello che mangiavano, cioè come digiunavano, e come l'esattore delle tasse fosse per loro lo spettro pauroso della fame e della morte. Egli descrisse tutta la nudità rossastra del grande paese di Basilicata, le frane che ruinano dai monti dispogliati, andando a coprire i pochi pascoli, e la lontananza dei villaggi poveri dalla linea ferroviaria, onde la nessuna possibilità d'industrie, e la malaria della pianura dove gli ingegneri, i cantonieri e i capistazione prendono le febbri. Parlando del proprio paese, così misero, tanto infelice, la voce gli si era abbassata, come se una emozione la velasse: ma si rinfrancò subito, andando alla questione. La tassa sul sale colpiva le classi povere, più nelle province che nelle città: già mangiavano la minestra con poco sale, ora l'avrebbero mangiata senza sale affatto. E le ultime verità igieniche, crudeli ma precise, stabilivano nella scarsezza del sale la origine delle fiere malattie dei contadini nella Lombardia e nel Piemonte. Un mormorìo di approvazione corse per certi banchi: quello dove stavano le quattro teste giovani e vive del centro, Seymour, Gerini, Joanna e Marchetti, prestava la maggiore attenzione, ma senz'approvare, con quella rigidità inglese dei giovani deputati economisti. «Nelle piccole città, nelle borgate, nei villaggi meridionali», proseguiva Sangiorgio, «i fornai hanno sempre due qualità di pane: quello insipido che costa poco, pei poveri, e quello salato pei signori. E a quello salato, spesso i fornai dànno il sapore, non col sale, perchè costa troppo caro, ma passando sulla pasta fresca un panno bagnato nell'acqua di mare; e nelle case povere si usa un sale grosso, nero, grezzo, che si dovrebbe vendere solo per le bestie, ma che sono costretti a comperare gli esseri umani. Coll'aumento della tassa, il governo condannerebbe tutta una classe di contribuenti a privazioni intollerabili, cui terrebbero dietro gravi malattie e sempre più profonda miseria. «I milioni spesi per la difesa nazionale, per l'esercito, sono santamente prodigati; ma è egli necessario essere forti, quando si è così poveri? Quando il ministro della guerra chiamerà sotto le armi i giovani di Basilicata e crederà di trovare una schiera di montanari robusti e animosi, sarà deluso vedendosi davanti un branco di esseri pallidi e rosi dalle febbri, cachettici, malinconici. O piuttosto, questo non accadrà; le province aride e infruttifere si vanno sempre più spopolando; il contadino, desolato dalla durezza della terra, angariato dal fisco, abbandonato dalla natura, perseguitato dagli uomini, preferisce voltare le spalle al proprio paese e andarsene nei lidi lontani di America. Il contadino preferisce una gente straniera, un paese straniero, donde non si ritorna più. Quando si chiameranno all'appello della guerra i figliuoli italiani di Basilicata, essi non risponderanno: spinti dalla fame e dalla disperazione, essi saranno andati a perire lontano.» L'onorevole Francesco Sangiorgio rientrò nel suo banco e sedette al suo posto. Dei _bene_, dei _bravo_ gli giungevano agli orecchi, ma confusamente: sentiva quel ronzio di discussione che tien dietro a ogni discorso importante. Giusto innanzi al suo settore, un gruppo di deputati si era formato e fra loro discutevano un po' forte, nominando ogni tanto l'onorevole collega Sangiorgio, volgendosi a lui, quasi a chiamarlo in appoggio. E stando fermo al suo posto, con le palpebre abbassate, senza che nessuno venisse a stringergli la mano, poichè nessuno lo conosceva, Francesco Sangiorgio sentiva però salire fino all'ultimo banco dov'egli sedeva la soddisfazione di tutta la Camera: della vecchia destra, carezzata nel suo orgoglio politico; della estrema sinistra, che credeva di avere scoperto un socialista in un deputato del centro; di tutti i deputati egoisti e sentimentali, pronti a impietosirsi a tutte le disgrazie, senza cercare di porvi rimedio; di tutti i deputati economisti, con vaghi ideali di socialismo agrario. Questo discorso, che in altra occasione sarebbe passato come uno squarcio qualunque di letteratura, assumeva oggi una grande importanza: trionfavano con Sangiorgio i modesti e intelligenti deputati di Basilicata, che una strana fatalità teneva sempre lontani dal potere; trionfavano tutti gli avvocati, a cui par solo debba spettare il regno parlamentare; trionfavano tutti i meridionali, in genere, a cui è sempre un po' lesinato il successo. La Camera, infine, in certe ore di bontà, presa da un abbandono amoroso quasi femminile, si compiace a questi battesimi pieni di superbia e pieni di dolcezza. Ogni minuto, la porta a cristalli della sala terrena, N. 9, in Via della Missione, si schiudeva per lasciar passare una nuova persona. Quelli che erano già nella sala, seduti sui divanetti, o in piedi, rivolgevano al nuovo venuto una occhiata astiosa: colui che entrava, frettoloso e freddoloso, andava diviato al grande banco che divide in due la sala terrena, prendeva una piccola scheda, vi scriveva il proprio nome e quello del deputato che desiderava vedere: e come costui, ve ne erano sempre cinque o sei che scrivevano sulle piccole schede. Dall'altra parte del banco, gli uscieri, in uniforme, col petto coperto di medaglie, con una fascia tricolore al braccio, teste calve, teste canute, andavano e venivano, portando via, a cinque a cinque, quelle schede, comparendo dietro una porta, che per certi corridoi dava accesso all'aula. Soddisfatto, colui che aveva mandata di là la sua richiesta si metteva a passeggiare, o, se vi era posto, a sedere, senza impazienza, anzi con una certa sicurezza presuntuosa. La porta sacra si schiudeva, e un usciere ricompariva, con varie schede tra le mani: tutti alzavano il capo e tendevano l'orecchio. «Chi ha cercato l'onorevole Parodi?» gridava l'usciere. «Io,» rispondeva una voce tra la folla degli aspettanti. «Non vi è.» «Avete cercato bene?» insisteva la voce, un vecchio col naso rosso e fiorito, con certe labbra grosse e pavonazze. «L'onorevole Parodi non vi è,» replicava lo usciere con pazienza. «Eppure ci dovrebbe essere,» mormorava l'altro. «Chi ha chiesto l'onorevole Sambuchetto?» «Io,» rispondeva un giovanotto, dal viso smorto e dal soprabito gramo, col bavero alzato. «Vi è, ma non può venire.» «Perchè non può venire?» chiedeva, con tono insolente, il giovanotto, quasi facendosi livido. «Non ha scritto altro: non può venire.» Il giovanotto si mescolava alla gente che riempiva la stanza, ma non se ne andava: restava rabbioso, borbottando, col cappelletto abbassato sugli occhi, con una cera di malcontento poco promettente. Del resto, tutt'i visi della gente che andava e veniva impaziente, in quella sala, o se ne stava accasciata sui divanetti appoggiati al muro, tutti quei visi avevano un'impronta di tristezza, di fastidio, di sofferenza repressa. Pareva l'anticamera d'un medico celebre, dove vengono a riunirsi, l'un dopo l'altro, gl'infermi, aspettando il loro turno, guardandosi intorno, con l'occhio vago di chi non s'interessa più a nulla, col pensiero sempre rivolto alla propria infermità. E come in quell'anticamera lugubre, che chi l'ha vista una volta, per sè o per una persona cara, non può dimenticare; come in quella stanza si riuniscono insieme tutt'i malori che tormentano il povero corpo umano: il tisico con le spalle strette e curve, il collo sottile e gli occhi nuotanti in un fluido morboso; il cardiaco dal viso pallido, dall'arteria grossa, dalle mani giallastre e gonfie; l'anemico dalle labbra violacee e dalle gengive bianche; il nevrotico dalle mascelle rimontanti, dai pomelli sporgenti, dal corpo scarnato, — e tutte le altre malattie ignobili o pietose, che torcono le linee del viso, che serrano nervosamente le bocche e danno quel calore insolito alle mani, quel calore che fa spavento alle persone sane; — così in quella stanza fredda, venivano a raccogliersi tutte le miserie morali umane, di tutto dimentiche, concentrate nella propria pena. Vi era il giovanotto che ha fatto il maestro elementare senza patente, è venuto a Roma per avere un impieguccio qualunque, e poichè gira da un mese invano, timido, ha finito per chiedere un posto di servitore che non vogliono dargli, perchè ha l'aria poco servile; l'ex-impiegato del Banco di Napoli o di Sicilia che fu destituito per malversazione dodici anni fa sotto il partito di destra e ora vuol essere reintegrato dal partito progressista che ha sempre servito fedelmente; l'industriale dalle speculazioni vacillanti, che deve pagare una fortissima multa al fisco, perchè non ha fatto registrare un contratto, e che spera nella grazia del signor ministro per essere assoluto dall'ammenda inflittagli; la vedova del pensionato accompagnata da un bambino tutto piagnoloso pel freddo, che chiede da dieci mesi una prenditoria del lotto, rinunziando alla pensione; il fannullone che sa far di tutto e non è buono a niente, che vuole assolutamente un posto, qualunque sia, col pretesto che, mentre alla Camera e ai ministeri ci sono tante bestie, anche lui deve prender parte alla cuccagna. E le variazioni dei bisogni, delle necessità, sono infinite: ognuna di quelle persone ha dentro l'anima un cruccio, un desiderio insoddisfatto, una illusione vivace e tormentosa, una cura segreta, un'asprezza di aspirazione, un malcontento: e sulle facce corrisponde una contrazione spasmodica, uno stringimento di labbra colleriche, una dilatazione di nari che tremano all'urto nervoso, un aggrottamento di sopracciglia che contrista tutto il viso, una convulsione di mani che si serrano nelle tasche del _paletot_, una curva malinconica nel sorriso femminile che va discendendo di delusione in delusione: e insieme un concentramento profondo, una dimenticanza di tutti gli interessi altrui, un pensiero unico, una idea fissa, per cui si guardano, s'incontrano, si urtano, ma par quasi che non si sentano e non si vedano. La sala è sudicia sul pavimento, sporcata dai piedi che hanno attraversato le pozzanghere dei vicoli, tutta macchiata di grossi sputi di persone raffreddate. «Chi ha chiesto l'onorevole Moraldi?» grida la voce dell'usciere. «Io», risponde un vocione imponente, un uomo grasso e grosso, con la pappagorgia rossa. «Prega di aspettare un poco: parla il signor ministro.» E il grosso uomo si pavoneggia nel suo soprabitone caldo, che descrive una curva sensibilissima sulla pancia. Qualcuno lo guarda con invidia, poichè il _suo_ deputato lo ha almeno pregato di aspettare, mentre altri si dànno per assenti, o mandano secco secco a dire che non possono venire. Forse lo invidiano per quel soprabitone caldo, poichè quanti abiti troppo leggieri coperti da un meschino _paletot_ ragnato, quante giacche di autunno portate ancora nell'inverno, con una disinvoltura rassegnata, quanti calzoni _sale e pepe_ sotto un soprabito verde, quanti calzoni di un giallore offuscante sotto la stoffa color cannella di un vecchio e logoro soprabitone! Il movimento continuava; quelli che avevano avuto un rifiuto definitivo restavano un po' indecisi, con la faccia smorta, guardando verso l'uscio, quasi non avessero il coraggio di uscire, pel freddo; poi si decidevano ad andarsene, le spalle curve, lentamente, senza voltarsi. Per uno che ne usciva, due o tre ne entravano: la sala non si vuotava mai: gli uscieri andavano e venivano da quella porta, che pareva quella di un tabernacolo: le risposte negative piovevano. «Chi ha cercato l'onorevole Nicotera?» «Io,» rispondeva un uomo alto e magro, con un collo scarnato, una faccia scheletrita, con pochi peli incolori. «Vi è: si scusa, non può venire.» L'uomo dalla magrezza fantastica si piegava in due, come un bruco, sul banco, scriveva un'altra scheda, la consegnava a un altro usciere, che tornava, gridando: «Chi ha chiesto l'onorevole Zanardelli?» «Io,» rispondeva quella vocetta sibilante. «Vi è: parla il ministro, non può venire.» Lo spettro scriveva ancora, senza perdere la pazienza. Ma un deputato, più arrendevole, era uscito all'appello di colui che lo desiderava, accogliendolo con una certa premura frettolosa, conducendoselo nell'altro salone dove avvengono le conversazioni fra clienti e deputati. In quel salone vi erano tre o quattro signore, sedute nell'ombra, aspettando, con le mani nel manicotto. Il deputato e il cliente andavano su e giù: il cliente discorreva con vivacità, gesticolando, e l'onorevole lo ascoltava, con gli occhi bassi, attentamente, chinando il capo ogni tanto per approvare. Nella sala d'aspetto l'attesa aveva stancato tutta quella gente: una lassezza fisica e morale piombava su loro: la nuova delusione, in quella caduta di giornata, spezzava le loro gambe; qualcuno si appoggiava al muro; sulle ginocchia della vedova il bimbo si era addormentato, un silenzio regnava. E miserie vere o false miserie, desiderii di cervelli oziosi, o pii ferventi desiderii di anime laboriose, necessità in cui il vizio ha fatto precipitare o infortuni immeritati, ambizioni modeste, fantasticherie di nervi esaltati, sete di giustizia di mattoidi ostinati: tutta questa intima pena umana, sopportata in silenzio, si confondeva in un senso di oppressione, di mestizia, in un sentimento di abbandono, in un rammarico sconsolato di essere venuti là, un'altra volta, a picchiare a quella porta che non voleva aprirsi. Già ardevano le fiammelle del gas, vivamente, ma battevano sopra facce scomposte, in una prostrazione, in una immobilità di gente morta. Tre uscieri vennero fuori dalla porta, uno dietro l'altro: «Chi ha chiesto l'onorevole Sella?» «Chi ha chiesto l'onorevole Bomba?» «Chi ha chiesto l'onorevole Crispi?» «Io, io, io,» rispose la vocina piccola dell'uomo scheletro. «L'onorevole Sella non può lasciar l'aula». «L'onorevole Bomba è occupato nell'aula». «L'onorevole Crispi è nella commissione del bilancio». Tranquillamente l'essere scheletrito scrisse una altra scheda e la porse a un usciere. «Scusi,» osservò quello, «non possiamo chiamare i signori ministri e specialmente il presidente del consiglio». «E perchè?» fece lo spettro, meravigliato. «È il regolamento». Ma quello, sempre paziente, scrisse un altro nome e si mise a passeggiare su e giù, sorpassando la statura di tutti. Qualcuno cominciava ad andar via, trascinando il passo, portando seco la umiliazione di quella lunga attesa inutile; altri, prendendo una risoluzione disperata, uscivano di là per andare a piantarsi, nel freddo serale, innanzi alla porta di Montecitorio, aspettando i deputati all'uscita; altri, più timidi, restavano ancora: il gas dava un po' di calore, alla fine della seduta qualche deputato sarebbe comparso. Un _coupé_ si fermò davanti alla porta, restò chiuso, un servitore scese di cassetta, entrò, consegnò un biglietto ad un usciere e stette aspettando, con l'aria indifferente della gente comandata. Un usciere gridò: «Chi ha chiesto l'onorevole Barbarulo?» «Io», fece la fantasima. «Non vi è.» «È in congedo?» «E morto da quattro mesi.» Questa notizia colpì l'uomo-cadavere: egli pensò un momento, ma forse non trovò altro nome da chiamare e se ne andò, lentamente, anche lui. Dopo un minuto, Francesco Sangiorgio attraversò la sala, parlò col servitore — due parole — e accompagnato da lui fin sulla piazzetta, entrò nel _coupé_, vibrando ancora pel successo. «Mi congratulo sinceramente,» disse donna Elena Fiammanti, stringendogli la mano. Il _coupé_ filò via. Nella sala il viavai cessava, il bimbo gridava, svegliato dalla mamma, gli uscieri si sedevano un momento, stanchi: due deputati, uno con tre interlocutori, un altro con due signore, chiacchieravano nel salone attiguo. La vampa ardeva, piccolina, nel caminetto: tre ceppi in triangolo bruciavano, alle punte. Donna Elena stuzzicò un poco la cenere calda e i carboncini accesi, ne schizzò fuori qualche scintilla, i tre ceppi s'infiammarono. Ella si rialzò subito: si stirò, con un moto macchinale, la maglia di seta nera sui fianchi. «Vi piace la vampa, Sangiorgio? Vi dev'esser freddo laggiù, in Basilicata». «Molto freddo», diss'egli, sedendosi in una poltroncina. «I caminetti eleganti non ci sono: ci sono certi larghi e alti camini, sotto la cui cappa, a destra, si pone un banco di legno. Ivi siede il capo della casa, nell'inverno, e attorno i figliuoli e i parenti». «Io amo molto il fuoco, nel caminetto,» diss'ella, con gli occhi socchiusi, come gravi di languore; ma quando vi è qualcuno. Da sola, mi contrista». Parlava, con le due braccia abbandonate lungo i bracciuoli del suo seggiolone, appoggiando la testa alla spalliera. La luce della lampada faceva scintillare l'oro con cui era ricamato l'alto goletto della sua maglia e traeva una scintilla da una fibbia d'oro, sopra la scarpetta nera: il piedino si avanzava, un po' grasso, ma inarcato. «Non sarete mai sola, credo». «No, mai,» rispose ella francamente; «la solitudine è odiosa». «Infatti.....» assentì lui, vagamente. «No, no, non mi date ragione per cortesia. Lo so che voialtri uomini, massime quando avete una grande ambizione o un grande amore, desiderate la solitudine. Ma noi donne, no. Noi abbiamo bisogno della gente. Se una donna vi dice che preferisce la solitudine, non ci credete, Sangiorgio; vi inganna per bontà o per non discutere. Esse sono tutte come me, o, piuttosto, io sono donna come le altre. La gente mi diverte. Anche uno sciocco m'interessa. Oggi, alla Camera, per esempio.....» «Per esempio?...» fece lui, con un mezzo sorriso. «Vi era uno sciocco dietro a me, nella tribuna della presidenza: mi ha parlato di scempiaggini, per un'ora». «E non vi ha seccato?» «No, mi ha impedito di udire il discorso del ministro. Fumate?» «Grazie». Ella gli porse la scatola degli avana. La mano era grassoccina, con certe unghie rosee, lucidissime. «Avete fatto un bellissimo discorso, oggi, Sangiorgio», riprese ella, accendendo una sigaretta gialla. Sangiorgio alzò gli occhi su lei, senza rispondere. «Se ci tenete, comperate i giornali domani: saranno pieni di voi». «Non mi pare: il ministro è molto amato». «Bah!... egli è come Aristide: i suoi concittadini si sono annoiati di udirlo chiamare giusto. Non v'illudete per questa citazione, Sangiorgio: io non so nè il greco, nè il latino. Sono ricordi di giovinezza, quando leggevo». «Ora non leggete?» «No, i libri mi annoiano». «Sono inutili». Il cameriere entrò con un piccolo vassoio di bambù e col caffè: anche le tazze erano giapponesi, di una porcellana delicatissima, azzurrina. «Quanti pezzi?» domandò ella, tenendo sospesa la morsetta d'argento. «Due». Mentre prendevano il caffè, Sangiorgio guardava il salotto. Vi era stato un momento, prima del pranzo, mentre la contessa era di là a cambiarsi di vestito. Era un salotto piccolo, senza tavolini, senza mobili di legno, tutto pieno di poltrone, poltroncine, divanetti, sgabelli, una stanzetta senz'angoli: anche il pianoforte era dissimulato sotto una quantità di stoffe turche e persiane: sul muro, un pezzo di piviale roseo, ricamato in oro, brillava. «Vedrete, vedrete, Sangiorgio: domani molti deputati vi si faranno presentare. Voi godrete tutte le dolcezze del successo». «Bisogna crederci all'ammirazione dei colleghi?» «No, caro amico, ma goderne. Una quantità di cose umane, belle e buone, sono false nella loro essenza. La saggezza è di approfittarne, di prenderle come sono, senza chiedere di più». E gli diede un'occhiata, alla sfuggita, rapidissima. Egli capì subito: lo assisteva in quella piccola stanza la stessa lucidità che, nella giornata, innanzi alla Camera, lo aveva soccorso nella sua audacia. «Anche l'amore è così,» mormorò lui. «Specialmente l'amore,» rispose donna Elena, spalancando i suoi occhioni bigi che avevano delle tinte turchine, quella sera. «Vi siete mai innamorato, Sangiorgio?» «Mai molto,» disse subito lui, «... ancora,» soggiunse. «Grazie. Quando v'innamorate, ricordatevene. L'amore è una cosa bella, non bellissima: non bisogna chiedergli più di quello che può dare. Ma l'uomo è esigente, l'uomo è egoista, l'uomo vuole la passione... e allora... la donna dice la bugia. In realtà il sentimento è mediocre, ce ne sono dei più forti, l'amore è una forma passeggiera, spesso inefficace.» E mentre ella spifferava questi paradossi romantici con un'aria un po' pedantesca, le labbra incarnate si delineavano nella loro tumidezza, la mano arruffava un poco i riccioli naturali della fronte, ella agitava in su e giù il piedino grassoccio, la cui pelle traspariva dalla calza di seta nera traforata. Sangiorgio, già familiarizzato, la guardava con un sorriso un po' fatuo che ella forse non vedeva, infervorata nei suoi paradossi. «Anche la donna vuole essere ingannata,» continuò donna Elena, buttando la sua sigaretta nel caminetto. « — Questi traditori d'uomini non sanno amare! — le sentite gridare, e piangono e si disperano. Esse esigono la fedeltà! la bella frottolina da raccontare ai bimbi. Come se si potesse esser fedeli! come se non si avessero nervi, sangue, fantasia, tutte cose contrarie alla fedeltà! Centomila lire di mancia a chi mi porti in casa un uomo e una donna veramente fedeli, assolutamente fedeli!» Francesco Sangiorgio aveva preso quella mano alzata: egli scherzava con le dita, leggermente, intorno agli anelli di brillanti, intorno a un'opale allungata, dalla tinta lattea. Sangiorgio abbassava ogni tanto la testa sulla mano come per ischerzo, e finì per baciarla, sulla linea del polso. Donna Elena non gl'inspirava più alcuna soggezione: gli sembrava di essere in intimità, con lei, da un pezzo; gli venivano una quantità di idee volgari; una leggera ebbrezza rimastagli dal giorno, rinforzata ora da quell'ambiente femminile tutto profumato di _corylopsis_, da quella donna provocante, da quelle parole che a forza di paradossi diventavano brutali, gli faceva crollare il capo. Per affermare questa sua intimità con donna Elena, avrebbe voluto distendersi sopra un divano, o buttarsi sul tappeto, o gittare i fiammiferi nel caminetto, fare delle impertinenze da bambino ineducato. Resisteva a queste tentazioni con uno sforzo di volontà, ma il sorriso ironico che piegava sdegnosamente il labbro inferiore di donna Elena, ma il lieve fremito delle nari che animava quel grande naso aquilino femminile — l'aristocrazia e la bruttezza di quel volto — lo eccitavano. Piano piano le cavò gli anelli dalla mano sinistra, facendoli ballonzolare nella propria mano; e in quella specie di ubbriachezza che lo vinceva, il suo più forte desiderio era di cavarle una scarpetta, per vedere il piedino che si sarebbe ripiegato, nudo nella calza, quasi pudico. «Certamente vi sono delle donne virtuose,» seguitò donna Elena: «chi lo nega? È tutta un'altra quistione. Vi sono delle donne fredde, vi sono delle donne che non amano. Io ne conosco varie: non molte, ma varie. Allora non ci vuole una gran forza a restar fedeli. Donna Angelica, la moglie di Sua Eccellenza, ecco una donna virtuosa! La conoscete, donna Angelica, Sangiorgio?» «... Sì... di vista,» mormorò lui. E restò tutto imbarazzato, con quegli anelli in mano, non sapendo cosa farne: finì per posarli sopra uno sgabello, senza osare di rimetterli alla mano, donde li aveva tolti. D'improvviso, quella nebbia bassa che gli offuscava il cervello si era dileguata, ed egli si vergognava di tutte le ignobili cose da fanciullo, che aveva pensato di fare. Quasi quasi avrebbe chiesto perdono a donna Elena: ma costei, forse, di nulla si era accorta. Tutta nervosa ancora, si passava le mani sulle pieghe della veste di lana nera, a stirarle, come se volesse far loro prendere una tensione immutabile. «Che ve ne pare della mia predica?» «Sono un neofita ardente: non intendo tutto, ma ammiro,» rispose il deputato, avendo ripreso elasticità di spirito, da poter esser frivolo. «Vi farò della musica: questa la capirete,» disse ella, alzandosi a un tratto: «Fumate, leggete o dormite: se non mi ascoltate, non importa: io, la musica, la fo tanto per me che per voi.» Dopo un momento, una voce delicata e toccante cantò le prime note dell'_Avemaria_ di Tosti. Francesco Sangiorgio trasalì, come a un suono inaspettato, impensato. Invero, la voce di donna Elena non rassomigliava a donna Elena, o, piuttosto, le rassomigliava per un lato solo, e, per gli altri lati, la completava. Invero, donna Elena ritrovava, ogni tanto, nel canto, la nota _sua_, il _suo_ carattere; ritrovava quella nota grave di contralto, un po' rauca, calda, che scuote le fibre, quel tono basso e amoroso, che è una confidenza passionata e una gelosia improvvisa: e per codesto lato la voce le rassomigliava. Ma ella trovava anche la dolcezza molle di intonazione, la purezza di una nota filata senza un tremolìo, la delicatezza di un canto quasi infantile, la tenerezza fluida di una voce innocente di giovanetta: ella ritrovava, nota eccezionale nel canto, una voluttà quasi ideale, una trasfigurazione armoniosa della sensualità, un poetizzamento supremo: per questo, la sua voce la completava. Dimentica di colui che l'ascoltava, ella cantava, la testa un po' arrovesciata, gli occhi tanto illanguiditi che le ciglia ombreggiavano le guance, la bocca appena schiusa, senza fare una contorsione, la gola che si gonfiava, bianca nel colletto nero e oro della maglia, con le mani che scorrevano lievi lievi sui tasti, staccandosene delicatamente come se li carezzassero. Una nuova dolcezza, una nuova serenità pareva che si fossero diffuse per quella stanzetta, sin allora dominata da un ambiente acre e provocante: una blandizie si allargava sulle cose inanimate, temperandone la vivacità. Donna Elena cantava la malinconica romanza di Schumann, il cui ritornello sembra più un novo contristamento che un conforto, tanto la musica ne è acutamente triste: _Va, prends courage, cœur souffrant..._ e Sangiorgio l'ascoltava, pensoso, alla fine di quella giornata trionfale, preso da una emozione ignota di dolore. II. L'ultimo veglione, l'ultimo martedì di carnevale, al Costanzi. La gente minuta che di carnevale ha solo il veglione pel divertimento serale, tutti gli studenti che hanno ancora dieci lire in saccoccia, tutti gl'impiegati che si abbandonano a una piccola orgia onesta, tutt'i commessi di negozio la cui bottega restava chiusa il domani, piccoli avvocati e piccoli dottori, tutti costoro e altri ancora, sfilavano, dalle dieci, attraverso le quattro porte rosse, che non si richiudevano mai. Nel corridoio terreno, i guardarobieri perdevano un po' la testa, numerando soprabiti e pellicce, unendo sciarpe, veli, bastoni e scialli in pacchetti. La vastissima platea ingoiava gente, sempre, e non pareva mai piena, malgrado quel brulichìo di persone, di colori vivi a fondo nero. La gente si dava a quell'eterno passeggio circolare che è la nota caratteristica del veglione romano. Ventiquattro pulcinella, una chiassosa compagnia di giovanotti, tenendosi per la camicia bianca, l'un dopo l'altro, correvano attraverso la sala, ridendo e gridando, come una valanga di neve che precipiti, roteando. In mezzo alla sala, in un largo circolo, erano riunite una quantità di mascherette femminili, per lo più con una vesticciuola bianca e corta, una vera blusa infantile, stretta un po' alle ginocchia da un largo nastro azzurro o rosso, con la cuffietta bambinesca sul capo e un giocattolo tintinnante in mano: l'economico, carino e provocante costume di _donna Juanita_, nell'atto della Giamaica. Venute in buona compagnia, queste mascherette non lasciavano mai il loro cavaliere; appena l'orchestra, dalla tribuna elevata sul palcoscenico, dietro la grande fontana zampillante, preludiava per una _polka_, le coppie si mettevano a girare, con una gravità singolare, misurando il passo, strisciando per non urtarsi, ballando con coscienza; quando la musica cessava, si fermavano di botto, come sorprese: il cavaliere offriva il braccio alla dama, e senza scambiare una parola, si davano alla passeggiata circolare; alle nuove prime battute penetravano nuovamente nel circolo e ballavano ancora, con una ostinazione quasi doverosa, mentre intorno a loro tre file di spettatori ammiravano. Tre ragazze, vestite di lana nera, con certi grembiuli bianchi e certi immensi cuffioni di mussola bianca, si tenevano a braccetto e con un filo di voci sottili, agitando le manine calzate di guanti neri, andavano intrigando mezzo mondo. In un palco di seconda fila, un domino femminile, scarlatto, di raso, con un cappuccio a cresta di gallo, se ne stava solo, quieto, tenendo lungo il parapetto un braccio tutto rosso, financo nel guanto. Qualche altro domino femminile elegante e misterioso appariva qua e là: uno svelto, tutto azzurro, con un grande cappello a forma di conchiglia schiusa; un altro di raso nero, col capo avvolto in una blonda nera veneziana; una opulenta persona che lasciava vedere, dal domino aperto, di broccato fiamma e oro, un vestito di broccato crema: e altri ancora, seguiti da giovanotti che cercavano d'indovinarne la figura. Ma la massa era formata dalle oneste famiglie borghesi, padre e madre, figliuoli e figliuole, che venivano al veglione come a uno spettacolo notturno di passeggiata, col vestitino di lanetta scura, il colletto bianco, il cappellino nero piumato, e incontrandosi fra loro, si fermavano, si salutavano, chiacchieravano, spassandosi con quella serenità della borghesia romana che non si esalta mai. La calca si faceva fittissima innanzi alle due _barcacce_ (palchettoni di proscenio), dove i soci del _Club delle Cacce_, in marsina, cravatta nera, gardenia all'occhiello, da una parte, gli ufficiali di cavalleria, dall'altra, si piegavano a parlare, a ridere con gli amici che passavano in platea. Quando Francesco Sangiorgio entrò nell'atrio e comprò un biglietto di ingresso, erano le undici e mezzo. Una figura femminile avvolta in una stoffa ricamata, con la testa coperta e il volto nascosto sotto una trina bianca, gli disse, con una voce finissima: «Oh caro Sangiorgio, buona sera, perchè sei malinconico?» «Perchè non ti ho riconosciuto ancora, carina». «Tu non mi conosci, tu non devi conoscermi, tu non mi conoscerai mai. Io lo so, perchè sei malinconico, Sangiorgio. Te lo dico in un orecchio: sei innamorato». «Di te, cara». «Mi fai ridere: sei troppo galante: non si usa, al veglione. Sii brutale, te ne prego; ne va del tuo decoro. Senti ancora: il Ferrante non è più candidato a membro della commissione del bilancio. Si parla di te: te lo avverto; sii cauto». Egli restò colpito. Il domino sfilò tra la folla e scomparve. La notizia lo aveva meravigliato molto: non se l'aspettava. Che ne aveva ricavato dal suo grande discorso? Una discussione lusinghiera col capo della destra, don Mario Tasca, l'oratore freddo, mite ed elegante, il moderato socialista, l'uomo politico che aveva perduto il proprio partito per la nebulosità delle proprie tendenze. E poi saluti, presentazioni, strette di mano. Il ministro, rispondendo, aveva reso omaggio all'avversario, ma aveva insistito sulla proposta, e la Camera aveva votato il bilancio con una forte maggioranza. Chi si occupava più del suo discorso? L'onorevole Dalma glielo aveva detto, con quel suo poetico cinismo parlamentare: — In politica tutto si dimentica. — Nel vestibolo, dove le coppie passeggiavano, tenendosi a braccetto, discorrendo, dove gruppi di giovinotti si consultavano finanziariamente, per metter su una cena, dove i domino solitari andavano su e giù aspettando qualcuno che non veniva, Sangiorgio incontrò l'onorevole Gullì-Pausania. Il deputato siciliano era addossato al muro, aspettando anche lui, elegante e corretto nella marsina di meridionale galante, con la barbetta castagna tagliata a punta, con gli occhi verdini che cercavano nella folla e il _gibus_ che nascondeva la calvizie precoce, per cui molte donne lo amavano. «Oh caro Sangiorgio,» disse Gullì, con un forte accento siciliano: «solo, solo, al veglione!». «Solo: non aspetto nessuno, nessuno mi aspetta e l'onorevole mio collega Gullì-Pausania non mi imita, certo....» «Che ci volete fare?» rispose, ridendo, Gullì, «passiamo la vita ad aspettare.....» «Non la stessa persona, sempre, per fortuna». «Oh no, sarebbe troppo grave... Nessuna notizia politica?» «Nessuna, caro collega. Buon divertimento!» «Grazie,» fece Gullì-Pausania, sorridendo con la sua fine aria voluttuosa. Sangiorgio entrò. Le palpebre gli battevano sugli occhi abbarbagliati. Il teatro, nelle sue tre file di palchi, sulle gallerie, sul palcoscenico, era strabbocchevolmente illuminato, e il fondo bianco della sua decorazione ne raddoppiava il fulgore: sul palcoscenico, lo zampillo della fontana, altissimo, era colorato di rosso da un raggio di luce elettrica. La sala era piena: arrivava ancora gente dagli altri veglioni, dai caffè, dai ricevimenti, dai balli. Non era più permesso nè di fermarsi, nè di camminare presto: Sangiorgio principiò col non veder altro che le spalle di un alto signore robusto che camminava innanzi a lui, a diritta l'orecchio rosso di una _ciociaretta_, a cui certo era troppo stretto il lacciuolo della mascherina, a sinistra il profilo sperso di una giovanetta alta e magra, con gli occhi malinconici. L'alto signore guardava a destra e a manca nei palchi, movendo una testa dalla zazzera bionda, ripartita da una diritta scriminatura. Una volta che costui si fermò per poco a guardare in un palchetto di prima fila, pieno di domino neri che se ne stavano immobili e zitti zitti, Sangiorgio gli si trovò accanto. Era l'onorevole principe di Sirmio che portava il titolo di Altezza Serenissima ed era il più ricco signore di Roma. «Buona sera, onorevole signor collega,» disse il principe, con quella sua voce liquida e lenta, con quel tono di stanchezza fredda che era una delle sue originalità. «Credo sia la prima volta che capita in uno di questi luoghi di corruzione dove tutti si danno a una virtù scrupolosa. Una virtù scrupolosa, non Le pare? Le avran detto che noialtri della capitale si fa una vita sfrenata: invece, come vede, noi si gira in tondo, con molta lentezza, _pour le bon motif_, poichè noi si cerca la moglie, che dev'essere in un palco con sua sorella. Intanto si va tra la folla, come vede, per sentire e sapere. Sento dirmi da tutti che son democratico... e ubbidisco. Lei fa della politica, onorevole collega? _Ce n'est pas le bonheur_, ma infine... io non ne fo più, da tempo immemorabile. Il capo del mio partito è don Emilio Castelar: io sono repubblicano spagnuolo. Se ne maraviglia?» Francesco Sangiorgio sorrise e non rispose, il che fece piacere al principe, poichè egli non amava troppo i parlatori e gli interruttori: con quel suo discorrere molle molle, una interruzione lo seccava. «Ah! ecco la moglie,» riprese Sirmio. «Chi sta nell'altro palco, accanto a lei? Ah! è il ministro degli affari esteri con le sue figliuole, la Grazia e l'altra che dovrebbe chiamarsi Giustizia, ma si chiama Eleonora. La freddura non è mia, è di un giornale. Buona notte, onorevole collega». «Buona notte, principe». Sangiorgio, invece di fare il giro minore intorno alla sala, faceva il giro maggiore, ascendeva verso il palcoscenico, dove, dall'una parte e dall'altra, lungo le quinte, stavano dei tavolini e delle sedie, e tutt'intorno famiglie intiere borghesi che bevevano delle gassose, o delle coppie inseparabili e annoiate che, non osando dividersi, bevevano una tazza di birra. Egli rasentava la fontana che adesso la luce elettrica tingeva di violetto, un colore delicatissimo, e passava fra la vasca e il grande specchio del fondo, sotto la tribuna dell'orchestra. Questa, a un tratto, scoppiò sul suo capo, con le prime note della mazurka dei postiglioni del ballo _Excelsior_, che era popolare in quell'inverno. Vi fu un momento di fluttuazione dal palcoscenico alla platea, come se tutte le teste ondeggiassero a quel ritmo vivace: la gente rifluì verso la platea a veder ballare. In un angolo di quinta, a sinistra, solo a un tavolino, l'onorevole Schuffer beveva della birra guardando la gente coi suoi occhietti chiari dietro gli occhiali, rizzando ogni tanto il nasetto sottile e il mento arguto. «Oh caro collega,» disse Schuffer con la dolcezza dell'accento veneziano; «prende una tazza di birra con me? Ma già Lei è napoletano, e non gusterà la birra». «Grazie, grazie, onorevole, non prendo nulla: sono entrato adesso.» «Io, da un'ora, ma in un'ora quante gomitate nelle costole, quanti spintoni, quanti piedi passati sui miei! Mi sono rifugiato qua per evitare le occasioni: Lei già saprà che io sono sfortunato, in certe cose.» Sangiorgio sorrise: l'onorevole Schuffer, con la sua aria di giovanetto biondino e furbettino dalla zazzeretta ricciuta, aveva già avuto tre querele per ingiurie. Questo deputato, fatalmente, capitava ogni tanto a dover litigare con una guardia, con un facchino, con un capo-stazione, con un cameriere di caffè: e mentre a cento altri deputati accadeva lo stesso senza veruna conseguenza, a farlo apposta, la guardia, il facchino, il capo-stazione, il cameriere gli davano querela; onde, di tanto in tanto, la Camera era chiamata ad accordare l'autorizzazione a procedere. «Io ho imparato a bere la birra, viaggiando, andando al Giappone,» proseguì Schuffer. «Gran paese quello, onorevole collega! Là non ho mai litigato con alcuno, glielo assicuro.... Onorevole, Ella è ministeriale: voterà Ella i milioni al ministro della guerra?» soggiunse, come colpito improvvisamente da un'idea. «E Lei, onorevole Schuffer?» rispose, pronto pronto, Sangiorgio. «Io?... Io?...» fece quello, sconcertato, «ci debbo pensare. Ne dovremmo parlare, non Le pare? metterci un po' d'accordo: è una cosa grave: la guerra mangia tutt'i quattrini della nazione». «Non chieggo di meglio, ne riparleremo, sicuramente. Buona notte, onorevole Schuffer.» La mazurka dei postiglioni riscaldava il veglione: ora si ballava in tre circoli, presso la porta della platea, in mezzo alla sala, sul palcoscenico. Una mascherina vestita da ufficiale dei bersaglieri, col cappello piumato sull'orecchio, le braccia nude che uscivano di sotto le frange dorate delle spalline, i calzoncini stretti al ginocchio, ballava con una ragazza vestita da diavolo, serie serie, respingendo quelli che volevano dividerle. Ora anche i palchi erano stati occupati dalle signore che venivano dai ricevimenti, dai balli: tutta la prima e la seconda fila eran piene. In quello subito dopo la _barcaccia_, in prima fila, vi era la bellezza delicata e gentilmente fiorentina di Elsa Bellini, maritata a Novelli, e quella opulenta e biondissima di Lalla Terziani: le due signore venivano dal Valle. Con loro stavano Rosolino Scalìa, il deputato siciliano dall'aria militare, il piccolo principe di Nerola, nuovo deputato per gli Abruzzi, un giovanottino dall'aria fine e dal mustacchietto nero, il cavalier Novelli e Terziani, i due mariti. «Onorevole Sangiorgio?» fece il piccolo principe, piegandosi sul parapetto del palco. «Onorevole collega?» fece quello, alzando il capo. «Se vedete Sangarzia, non vi dispiaccia di dirgli che sono qui..... Sapete chi porteranno, dopodomani, alla commissione del bilancio?» «L'onorevole Ferrante, com'è naturale.» «Non credo, non credo,» disse il principino, sorridendo maliziosamente. Nell'andarsene, Sangiorgio sentì dire nel palco: giovane intelligente... meridionale di talento..... Egli cercava Sangarzia nei palchi. Sempre in prima fila, le due sorelle napoletane, le Acquaviva, maritate una al deputato marchese di Santa Maria, l'altra al deputato conte Lapucci. La contessa, bruna, vivacissima, con una bocca carnosa e colorita, con due occhi folgoranti, era come il contrapposto di suo marito, un giovane bruno ed esile, molto taciturno, molto pensoso, tenuto in conto di orgoglioso, malgrado che fosse un deputato socialista. La coppia Santa Maria era diversa: la moglie, biondina, ricciuta, con un visetto giovanile e un vestito semplicissimo, l'aria candida: il marito, biondo, con gli occhi socchiusi, molto indolente. La contessa Lapucci rideva forte, la marchesa di Santa Maria sorrideva: il conte Lapucci guardava la folla, silenzioso, coi due pollici ficcati nei taschini della sottoveste, il marchese di Santa Maria chiacchierava sbadatamente con l'onorevole Melillo, la testa forte finanziaria della Basilicata, il cuore troppo debole con le donne, un celibato ostinato che lo rendeva interessante a tutte le ragazze, di cui egli non si curava. L'onorevole Melillo rispose con un gran saluto e un cenno protettore della mano al saluto di Francesco Sangiorgio, e costui s'accorse che, per un momento, nel palco si parlava di lui: l'onorevole Melillo diceva forse delle belle speranze che dava il suo compatriota. Nel palco presso la porta, la segretariessa generale delle finanze era arrivata, venendo da un circolo serale del Quirinale: la piemontese magra e svelta, con un viso pallido e interessante d'inferma, era scollata e carica di gemme, tossiva spesso, portava la pezzuola alle labbra un po' vive, si rialzava i lunghi guanti di camoscio fino ai gomiti, con un moto nervoso. L'onorevole Pasta, l'avvocato subalpino, dalla faccia rasa e dalle fedine biondo-brizzolate, le diceva qualche cosa di molto spiritoso che la faceva ridere; l'onorevole Cimbro, il deputato giornalista piemontese, assorbito dietro le lenti, con la cravatta che gli era risalita sotto l'orecchio, aveva l'aria di un uomo che è imbarazzato della propria persona: invece il segretario generale, piccolo, un po' calvo, con un mustacchietto grosso e corto, serbava un silenzio solenne guardando la platea come se non la vedesse. Quando Sangiorgio passò, gli fece un saluto profondo, pieno di espressione, quasi affettuoso, il saluto riconoscente del segretario generale che dimostra la sua gratitudine a colui che gli ha fatto il piacere di attaccare il ministro. — Dove sarà Sangarzia? — pensava tra sè Sangiorgio, camminando a stento in quella folla che cresceva sempre. Nel suo palco, la baronessa Noir, un corpicciuolo serpentino, una simpatica testina viperea, avvolta in uno strano abito di seta cangiante, dove erano ricamati dei tulipani e dei pavoni, aveva raccolto un secondo piccolo ministero degli affari esteri: per vero, ella era stata segretariessa generale. Suo marito si teneva in ombra, con la gravità del diplomatico che aspetta una destinazione; ma l'onorevole di San Demetrio, un abruzzese tranquillo, dalla barba nera già brizzolata, un forte aspirante al ministero, si teneva dritto, sul davanti, in luce; poi l'onorevole di Campofranco, un siciliano freddo e nordico, il figliuolo della più forte donna politica che abbia l'Italia, la principessa di Campofranco. L'onorevole di San Demetrio parlava, spiegando forse qualche paragrafo della sua relazione del bilancio, e la piccola baronessa ascoltava, interessata, dandosi dei colpettini di ventaglio sulle dita. Pressato dalla folla, Sangiorgio si fermò un momento sotto quel palco: una stanchezza gli saliva dai piedi alla testa, i lumi gli davano fastidio, quell'aria già impregnata di odori acri, l'opprimeva. «Sangiorgio,» chiamò San Demetrio. Quello trasalì, come in un sogno. «Sapete se l'onorevole Mascari si è iscritto per parlare contro, nella discussione del bilancio degli esteri?». «No, non si è iscritto.» «Positivamente?» «Positivamente.» «Grazie... Scusate tanto.» E si ricollocò al suo posto, sollevato al pensiero di questo avversario di meno. Sangiorgio si teneva ritto contro la parete, senza muoversi, sentendosi riconfortato da quella immobilità, socchiudendo gli occhi per non vedere i lumi. Seymour e Marchetti, dandosi il braccio, si fermarono accanto a lui; facevano un vivo contrasto le due figure degli apostoli della scienza sociale: Seymour, bruno e asciutto, con un mento rialzato di uomo energico e una spazzola di capelli neri, in cui già spiccavano i bianchi; Marchetti, col viso ingenuo e roseo, la lunga barba castagna e gli occhi azzurri, brillanti, di un entusiasta. Ambedue erravano per quel veglione, senza osare di andare a trovar le signore, poichè erano in soprabito. «Vi annoiate, Sangiorgio?» chiese Seymour. «Un poco: sono anche stanco.» «Siete stato agli uffici, stasera?» domandò Marchetti. «No: che si è fatto?» «Nulla di concreto ancora: si lavora poco,» fece Seymour, raddrizzandosi le lenti sul naso, con un moto familiare. «Perchè non fate stampare il vostro discorso, Sangiorgio?» «A che serve?» rispose questi, con un accento sincero di sfiducia; «ritornerò alla carica diversamente, al bilancio di agricoltura,» riprese poi, come rianimato. Ma come l'orchestra aveva intonato lo stridulo ed eccitante _waltzer_ di Strauss, _Saluto di gioia_, un grande movimento vi fu nella folla, il circolo del ballo si allargò, la gente fu respinta sotto i palchi, il gruppo dei deputati fu diviso. Sangiorgio restò solo. Le signore dei palchi guardavano giù, ardentemente, invidiando quelle pedine che ballavano con tanto entusiasmo: ed esse, lassù, dover starsene sedute, mentre quella musica e il veder gli altri ballare, le eccitavano alla danza. Tre o quattro, scollacciate, venivano dal ballo di casa Huffer e lasciavano ammirare tutta la magnificenza dei loro vestiti. Il piccolo principe di Nerola, adesso, era nel palco di sua cugina, la contessa di Genzano, la grande bionda affascinante e tizianesca: nell'ombra si vedeva il viso un po' scialbo, ma ancora corretto, quasi bello, di lineamenti, del ministro di grazia e giustizia, il magistrato inflessibile e galante, ostinato nella inflessibilità e nella galanteria. Sangiorgio si riscosse da quel torpore che lo invadeva: doveva trovare Sangarzia. Guardando bene, palco per palco, alla fine giunse a scoprirlo in seconda fila, presso il palco reale. Un domino nero, femminile, di raso, elegantissimo, con un fitto velo nero che gli copriva la testa e la faccia, fermato da un grosso ciuffo di garofani, sedeva al primo posto; dirimpetto a lui l'onorevole Valitutti, un calabrese ricco, metteva la sua faccia olivastra, la sua barba nera, la figura di un arabo taciturno; nell'ombra vi era l'onorevole Fraccacreta, uno dei più forti negozianti di cereali del paese di Puglia; in mezzo, l'onorevole Sangarzia, il siciliano simpatico, lo schermidore eccezionale, il gentiluomo perfetto, che tutti amavano. «Chi sarà quella signora?» si domandava Sangiorgio, avviandosi per salire al secondo ordine. Qualche signora, impazientita di non poter ballare, andava via di malumore, lasciando trascinare lo strascico, con la bocca stretta delle donne a cui si è proibito qualche cosa: e il marito e l'amante venivano dietro, con l'aria felice di chi si seccava, e che finalmente potrà andare a letto. I cinque domino neri femminili che erano stati tutta la sera in un palco senza muoversi e senza parlare, come tanti congiurati, ora scendevano al braccio di cinque giovanotti, coppie silenziose, quasi lugubri, che parea si avviassero a una cena funeraria. Giusto dietro loro scendeva l'onorevole Carusio, un deputatino dalla testa calva come una palla di bigliardo, con un lungo, stravagante pizzo nero napoleonico che gli arrivava sulla pancia e con un'aria di uomo timido e impacciato, pieno di faccende e pieno di preoccupazioni. «Caro collega,» disse Carusio, fermando improvvisamente Sangiorgio sul primo scalino, «scusate se vi fermo così, perdonatemi, ve ne prego: sono in molta pena. Un parente di provincia, capitato qui, mi ha costretto ad accompagnarlo al veglione che non aveva mai visto: figuratevi se mi ci annoio. Sono inquietissimo. Il presidente del consiglio è dunque molto ammalato?» «Non molto, non molto,» rispose sorridendo Sangiorgio: «è la solita gotta che lo tormenta.» «Lo sapete di certo, caro collega? È almeno sicura la notizia?» «Sono stato a informarmene personalmente.» «Oh! quanto vi ringrazio, caro collega. È stato proprio un incontro fortunato: mi togliete da una viva inquietudine. Se ammalasse gravemente il presidente, pensate che disordine!? Se morisse, quante complicazioni!...» «Dio sperda l'augurio,» fece Sangiorgio, sorridendo sempre. «Ai vostri ordini, caro collega: sono rinfrancato, vi ringrazio molto, contate su me, ve ne prego, non mi risparmiate; non potevate capitare più a proposito; buona notte, buona notte, onorevole collega.» «Buona notte: dormite tranquillo: il presidente starà bene domani.» «E di nuovo, grazie, grazie.» Sangiorgio picchiò pian piano al numero 15. Un _avanti_ fu pronunziato dalla voce di Fraccacreta. Sangiorgio schiuse appena la porta e disse: «Scusino, onorevoli colleghi, cerco l'onorevole Sangarzia.» «Eccomi, eccomi.» E uscirono fuori ambedue: il domino nero dai garofani aveva appena voltato il capo. «Nerola, il principe, vi cerca, onorevole Sangarzia.» «Oh! caro Sangiorgio, Nerola e voi non potevate rendermi miglior servigio: non sapeva come andar via di qui. E dov'è il principe?» «In prima fila, dalla contessa di Genzano.» «Andiamoci, andiamoci subito.» Egli rientrò nel palco, s'infilò la pelliccia sulla marsina, salutò la signora e i due colleghi, discese con Sangiorgio. «Che gran servigio mi avete reso! La signora si seccava, forse voleva ballare! Venite dalla contessa?» «Non la conosco.» In questo, da un palco di prima fila, una figura femminile, stranamente avvolta in stoffa turca, col capo e la faccia nascosti da un fitto velo bianco, uscì. «Vieni con me,» disse con la sua sottile voce a Sangiorgio. «È inutile augurarvi buona fortuna, collega,» mormorò Sangarzia, licenziandosi. «Vieni con me,» ripetette ancora la donna, stringendogli un po' il braccio per trascinarlo via. Erano le due e mezzo. La gente si accalcava al guardaroba per andar via, infilando i soprabiti con aria svogliata, avvolgendo la testa negli scialli, a guisa dei funamboli che, dopo aver eseguito dei giuochi in piazza, mettono una giacchetta vecchia e stinta sugli stracci di raso, dalle pagliette d'oro. «Vieni, vieni,» disse, presa d'impazienza, la donna, mentre Sangiorgio s'infilava il _paletot_. Fuori, ella distinse subito la propria carrozza e vi si cacciò premurosamente, attirandosi dietro Sangiorgio. «A casa,» ella aveva detto al cocchiere. Ma quando fu dentro, dietro gli sportelli chiusi, ella si tolse rapidamente il velo dal capo e lo buttò sul sedile di rimpetto: si disciolse, con un po' di nervosità, strappando le spille, stracciando la frangia, da quel mantello orientale: una pelliccia col cappuccio era nel fondo della carrozza, ella la indossò. Sangiorgio l'aiutava, in silenzio. Ella guardò un momento nella strada. «Ah! vi è la luna!» mormorò con una grande dolcezza. E picchiò sui cristalli per dire qualche cosa al cocchiere. Subito la carrozza si fermò, in Piazza Barberini. Ella discese presto e si rialzò sul capo il cappuccio del mantello. «Va' a casa,» disse al cocchiere: «dì' a Carolina che vada a letto: ho la chiave.» Restarono soli, in Piazza Barberini. Lo zampillo della fontana, alto, mormorante, scintillava sotto la luna. «Volete che passeggiamo un poco? Nel teatro si soffocava.» Egli le offrì il braccio, deciso a non meravigliarsi di nulla. Andarono per Via Sistina, la grande via che ha un'aria così aristocratica di giorno e così paurosa la notte. Ella si stringeva a lui come se avesse freddo e paura, come se volesse farsi piccola, per mettersi sotto la sua protezione: ma restava forte e alta nel suo mantello nero: sotto il cappuccio gli occhi brillavano. E quella persona, quegli occhi avevano la qualità singolare, che è la simpatia: un fascino violento che turba i sensi. Di nuovo Francesco Sangiorgio si sentiva preso, come nel salotto, quando ella disprezzava così brutalmente l'amore. E l'impressione era profonda e acuta, senza niuna dolcezza, uno sconvolgimento, un tumulto, un principio di ebbrezza. «Che silenzio!» diss'ella, con una voce che fece vibrare tutt'i nervi di Sangiorgio. «Dite ancora qualche cosa,» mormorò lui. «Che cosa?» domandò ella, piegandoglisi sulla spalla. «Quel che volete, quel che volete: la vostra voce mi piace tanto.» Invece donna Elena non rispose. Erano arrivati sulla piazzetta di Trinità dei Monti, illuminata dalla luna. L'obelisco si allungava nella blandizie lunare e la sua ombra, alta e sottile, si disegnava sulla facciata della chiesa; il viale alberato che conduce a villa Medici e al Pincio era tutto chiaro. Essi si accostarono all'alto parapetto della piazzetta, da cui tanti malinconici contemplatori hanno guardato Roma, nelle ore del tramonto. Ma Roma si vedeva molto confusamente, annegata in una chiara nebbia plenilunare che pareva quasi la continuazione del cielo bianchissimo, una discesa di orizzonte che aveva avvolto le case, i campanili e le cupole. «Non si distingue nulla, peccato!» disse donna Elena. E forzando un po' il braccio di Sangiorgio, lo condusse verso una scalettina che si allunga sulla facciata della Trinità: non la scalettina a due rampe della chiesa, ma la scaletta che porta al convento, dove le monache e le bimbe in educazione vivono in comunione. Quella scaletta ha un piccolo pianerottolo di fronte alla porticina e un parapetto. Lassù donna Elena fece salire Francesco Sangiorgio. «Bussiamo al convento?» domandò ella quasi tentando la catenina di ferro. «Noi siamo due pellegrini freddolosi che chieggono ospitalità.» E rise, mostrando quei bianchi denti raggianti che rendevano irresistibile la sua risata. Già, ella non sorrideva mai: rideva. Ma anche dal poggiuolo nulla si vedeva: soltanto il mare di nebbia, trasparente, biancastro, latteo, sembrava più vasto. In linea retta si scorgevano i pochi lumi che restavano ancora accesi, alle tre dopo mezzanotte, in Via Condotti. Sotto, Piazza di Spagna si dilungava, nella sua calma e grandiosa bellezza architettonica, da Propaganda Fide a Via Babuino. «Andiamo via,» diss'ella. Egli si lasciava condurre: quella prima avventura romantica gli dava un piacere intenso. Quella signora, poichè era una dama, malgrado la leggerezza e l'audacia della sua condotta, parlava a tutt'i suoi desiderii di uomo forte, provinciale, fantastico e naturalmente casto. Era proprio un romanzo, un piccolo romanzo d'amore quello che gli accadeva: e quella bella donna avvolta nelle pellicce, profumata, dai grandi orecchini di brillanti che scintillavano alla luna, che aveva rimandata la sua carrozza per girare con lui, di notte, a piedi, per le strade di Roma, quella creatura lo seduceva per tutto quello che rappresentava. Egli ne subiva il fàscino personale, complicato dalla stranezza del caso: e in fondo, nel crescente smarrimento della volontà, in quella specie d'ubbriachezza che lo vinceva, gli restava la coscienza che non commetteva nulla di grave. Così i suoi scrupoli di solitudine e di ordine erano vinti e si lasciava prendere, in questo nuovo trionfo del suo amor proprio, carezzato, lusingato, sentendo la delizia di questa vittoria. Scendevano gli scalini, al chiarore lunare che pareva bagnasse di mollezza le pietre della vecchia Roma. Sull'antipenultimo, donna Elena ritrasse il suo braccio da quello di Sangiorgio e sedette per terra. Ora sembrava piccola, tutta nera, accovacciata sullo scalino, con la testa appoggiata sulle ginocchia, guardando la bella fontana del Bernini, la barca sommersa nell'acqua. Sangiorgio non si era seduto: ritto accanto a lei, la guardava con un senso di orgoglio maschile, che filtrava attraverso quella sua dedizione. La bella signora sembrava abbattuta, seduta per terra come una misera, un mucchio di vesti nere dove forse palpitava un'anima ansiosa in un cuore tumultuante: e lui pareva quasi che la dominasse. «Vi piace la fontana?» chiese ella con la sua voce armoniosa, alzando la testa. «È bella assai.» «Sì,» disse lei, chinando il capo. «Perchè non sedete?» E pareva che non si dirigesse a lui, che parlasse alle acque mormoranti, che ricadevano continuamente nella barchetta naufragata. Egli sedette sullo scalino, accanto a lei. «Non avete sigari? Fumate dunque un poco.» «Mi duole di non aver sigarette per voi.» «Non importa. Fumate, fumate voi.» Egli accese il suo sigaro: ella aspirò l'aria. «Che sigaro è?» «Un _Minghetti_.» «Questi _Minghetti_ odorano talvolta,» osservò lei. E attese che lui fumasse, guardando la sottile striscia di fumo che se ne andava nell'aria chiara. Una carrozza sbucò dai Due Macelli, chiusa, rapidissima, passò innanzi a loro, scomparve verso il Babuino. «Vengono dal veglione,» disse lui. «Che brutta cosa è il veglione!» susurrò donna Elena con un filo di voce armoniosissima. «Sì,» rispose Sangiorgio a quel suono melodioso che gli carezzava così acutamente i nervi che quasi quasi ne soffriva. D'un tratto ella si rizzò in piedi, scattando come una molla. «Ho freddo, ho freddo, andiamo via,» disse rudemente. E si strinse sempre più nella pelliccia, calò il cappuccio più avanti sulla fronte, si attaccò al braccio di lui e lo strascinò via, verso Propaganda. Egli aveva gettato via il sigaro: e sentiva a un tratto mutato lo spirito di quella donna, sentiva che quel momento gli sfuggiva, che non poteva più contare su nulla. Ma, superbo, taceva. Forse la sua era stata una fantasticheria di orgoglio. Contare sopra il capriccio di una donna? E si stringeva nelle spalle, ridendo di sè stesso, che per un istante aveva creduto di poter dominare una di queste creature frivole e vili. Ella non parlava, affrettando il passo per Via Due Macelli, come presa da un gran freddo che volesse vincere, camminando: guardava a terra, non si volgeva al suo compagno. Sangiorgio non chiedeva dove andassero così; era risoluto di secondarla sino all'ultimo, malgrado la defezione di amor proprio che ella gli procurava. Quando furono all'angolo dei Due Macelli, ella voltò risolutamente in giù, per l'Angelo Custode. «Qui abito io,» disse lui, per dire qualche cosa. «Qui?» — esclamò lei, fermandosi un istante. «Dove?» «Al numero 50..... là.» «Solo?» «Solo.» «Andiamo su,» fece ella, avviandosi per traversare la strada. «Mi riscalderò al caminetto.» «Non vi è caminetto.» «Non importa. Mi riscalderò, suonando il pianoforte.» «Non vi è pianoforte,» disse lui, deciso a volere udir tutto. «Non importa,» disse lei, senz'altro. Due giorni dopo, Francesco Sangiorgio era eletto membro della commissione del bilancio. III. Un applauso debole ma gentile, formato da piccole mani femminili bene inguantate e un po' indolenti, salutò il finale fragoroso del pianista, un piccolino magro, bruno, meschinello, che scompariva dietro il pianoforte. «Che sentimento!» esclamò la moglie di un deputato pugliese, una grassona con una pioggia di riccioli neri sulla fronte rossa e lucida. «Bene, bene, è deliziosa,» disse la signora di Bertrand, la moglie di un alto funzionario, piemontese, ma delicatina, dal viso di madonnina, con un mantello di broccato, dove scintillava dell'oro. E di signora in signora, di gruppo in gruppo, lungo i divani, sulle poltrone, sugli sgabelli, sotto le foglie di palma delle giardiniere, accanto alle mensole cariche di statuine, dal pianoforte alla porta, l'approvazione femminile si andò man mano affievolendo: quelle che stavano ancora sulla soglia del salone ministeriale, crollarono il capo, due o tre volte, come se annuissero tacitamente. Solo Sua Altezza, il principe orientale in esilio, accasciato grassamente in una poltrona, rimase immobile; nel viso gonfio, scialbo, macchiato qua e là dalla barbetta incolore e brizzolata, con quella flemma contemplativa di orientale enorme, rimase immobile, pensando forse alle drammatiche canzoni di _Aida_ che erano state uno degli splendori del suo trono, socchiudendo gli occhi rossi e rotondi sotto la striscia rossa e sottile del _fez_. E il chiacchiericcio femminile ricominciò, e donna Luisa Catalani, la moglie del ministro, la padrona di casa, che si era riposata un poco durante la musica, riattaccò i suoi giri di saluti, di riverenze, di sorrisi: e il vestito di casimiro bianco, le rosette di brillanti, la piccola testa, il viso piccante, la pettinatura un po' strana, si scorgevano in ogni posto, quasi nello stesso momento, come se ve ne fossero dieci, di donne Luise, e non una. «Che fatica questi ricevimenti!» disse languidamente la contessa Schwarz, una donna magrissima, dal volto livido, dai capelli arruffati, che imitava, per forza, Sarah Bernhardt. Sprofondata in una poltroncina soffice, rannicchiata nelle pellicce come un uccello ammalato e freddoloso, ella muoveva solo le labbra per sorbire la sua tazza di thè. «Donna Luisa non si stanca: è di ferro,» mormorò la Gallenga, segretariessa generale delle finanze, tossichiando un poco, spianando le sopracciglia arcuatissime, cinesi. «Io, non ci reggerei, sono felice che i miei ricevimenti sieno familiari. È stata alla Camera, oggi, contessa?» «Io non ci vado mai.» E la svelta piemontese intese l'errore della sua domanda. Il conte Schwarz era riuscito a diventare consigliere provinciale, ma deputato mai. «Ci sono stata io,» intervenne la signora Mattei, la moglie di un altro segretario generale, una toscana bruna come un acino di pepe, dagli occhi di fuoco, dalla chiacchiera rapida, dal cappello nero, ricco di papaveri. «Una seduta interessante.» «E non esserci stata!» esclamò la signora Gallenga, «che sfortuna! Ha poi parlato Sangiorgio?» «Sì, sì..... Ma un zittìo corse per la sala. Una robustissima signora, dal seno prepotente, stretto in una corazza di raso rosso, dalla faccia larga e bonaria, cantava una straziante romanza di Tosti: ella aveva sbottonata la sua pelliccia, arrovesciandola sugli omeri e con le mani nel manicotto, la veletta del cappello abbassata sugli occhi, serena, senza che una linea del suo volto si movesse, ella seguitava a lamentarsi nella musica del maestro abruzzese. Donna Luisa, ritta in mezzo al salone, fra le cinquanta signore sedute, ascoltava con l'attenzione cortese della padrona di casa: ma una leggiera inquietudine l'assaliva, ella sentiva che nei due salotti attigui vi era gente, delle signore che aspettavano per entrare. Era il ricevimento più importante della stagione, nel salone vi era una calma di serra e il lieve odore zuccherino, dolcissimo, dei posti dove sono molte donne. Veramente, lungo il muro, in piedi, chiusi nelle _redingotes_ severe, vi era una fila di commendatori, calvi, taciturni, usciti alle quattro e mezzo dalla Corte dei Conti, dagli uffici di finanza, dagli altri ministeri: ma conservavano la glacialità statuaria dei temperamenti burocratici, la lunga pazienza, l'aspettazione incalcolabile, strabocchevole, con cui passano da un grado all'altro, e arrivano a fare quarant'anni di servizio: quel ricevimento era per loro una frazione infinitesimale dei quarant'anni di servizio. Un respiro di sollievo corse per la sala: la dolorosa romanza era finita, e la cantante riceveva i complimenti di donna Luisa Catalani, sorridendo nella faccia di luna piena. La padrona di casa scappò subito fuori: vi erano sette od otto signore nel salottino. «Che vi è stato alla Camera?» chiese ella alla bionda e pallida figlia di un ministro, che era arrivata allora. «Molto caldo: non so come i nostri uomini non vi si ammalino,» e tirò fuori il ventaglio, per originalità. «Sangiorgio ha parlato bene», mormorò la signora Giroux, una piccola dama dai capelli bianchi, dal sorriso soavissimo, la signora del ministro dell'agricoltura. «Un meridionale,» fece donna Luisa Catalani. «Vi era gente alla tribuna diplomatica?» «La contessa di Santaninfa e la contessa di Malgrà». «Bei capelli?» «Così,» rispose la biondina, pallida e distratta. Qui, in un angolo, un circolo di ragazze cinguettavano allegramente, con le giacchettine sbottonate per aver meno caldo, mostrando le vitine sottili negli abiti di lana oscura. Enrichetta Serafini, la figliuola del ministro dei lavori pubblici, una brunetta in lutto, vivacissima, chiacchierava per quattro: e attorno la stavano a sentire la ragazza Camilly, un'italiana nata in Egitto, la ragazza Borai, una zitella anticuccia, afflitta dalla ostinata gioventù di sua madre, la ragazza Ida Fasulo, una creatura linfatica, dagli occhi larghi e pensierosi, nipote di un ragioniere, la ragazza Allievo, una gentilina taciturna; e unico fiore aristocratico, biondo sotto la piuma bianca del cappello, donna Sofia di Maccarese. «Io preferisco Tosti a tutti quanti,» sosteneva Enrichetta Serafini. «Mi fa venir da piangere.» «Anche Denza, alle volte, fa piangere,» osservò la ragazza Borla, che non sapea cantare, e che era condannata a udire la voce cinquantenne di sua madre. «E voi, donna Sofia, chi preferite?» «Schumann,» mormorò essa semplicemente. Le altre ragazze tacquero: non conoscevano quella musica. Ma la ragazza Serafini, nervosa e vivace, rispose: «Ma tutta questa musica bisogna cantarla bene. Scusate», e abbassò la voce, «forse che vi piace la signora di poco fa?» E il gruppo delle ragazze ridacchiò sottovoce. «Quella che canta meglio, in Roma, è la Fiammante,» soggiunse la fanciulla Camilly, dal volto grasso e bianco, dagli occhi socchiusi di orientale trapiantata in Italia. Le altre ragazze tacquero: la Boria strinse le labbra in segno di riprovazione, la Fasulo chinò gli occhi, l'Allievo arrossì; solo donna Sofia di Maccarese non mutò viso: non conosceva, o non si curava della Fiammante. «È vero che sposa il deputato Sangiorgio?» chiese la Serafini. «No, no,» rispose la Camilly, con uno strano sorriso. Questa volta le ragazze si guardavano fra loro, con quelle occhiate mute ed espressive in cui il mondo le obbliga a condensare la loro intelligenza. Nel salone era cresciuta una folla di signore, e vi si addensava un calore di stoffe, un odore di thè e di _opoponax_, di lontra e di martora. Ora quasi tutte chiacchieravano, a coppie, a gruppi di tre o quattro, con certe leggiadre inclinazioni di testa, con certe modulazioni squisite di voci, frivoleggiando sulla Camera dei deputati, discutendo gravemente la voce dell'onorevole Bomba, dicendo quale era la tribuna che preferivano, parlando del colore dei tappeti, discutendo le sottovesti carnicine dell'onorevole conte Lapucci, e la fisonomia romantica, da Cristo pensoso, dell'onorevole Joanna. E la Gallenga, che s'intendeva di letteratura, pronunziò questa frase: «Quest'anno è di moda l'Abruzzo nella letteratura e la Basilicata nella politica.» Così esse credevano di fare della politica, sul serio, esaltate dal cicaleccio, con le loro testoline leggiere. Ma senza che nessun pianista si fosse presentato al pianoforte, mentre che la signora pacifica e veneranda che aveva singhiozzato con Tosti, sorbiva la sua terza tazza di thè, un zittio sottilissimo circolò nel salone: e donna Angelica Vargas, alta e bella, col suo passo ritmico, attraversò il salone, cercando con gli occhi donna Luisa Catalani. Era vestita di nero, come al solito, con qualche cosa di scintillante nella persona e nel cappello: e donna Luisa le corse incontro, col suo più bel sorriso. Le due riverenze furono profonde; un piccolo colloquio, a voce bassa, cominciò tra loro, una tutta bianca, coi capelli di un biondo dolce, l'altra tutta nera, coi dolci capelli bruni ondulati sulla fronte. Il salone fingeva di non ascoltare, per rispetto: ma vi era quel silenzio imbarazzante di molte persone adunate insieme, quando nessuna di loro osa principiare a discorrere. Sua Altezza Mehemet pascià aveva spalancato gli occhi, e guardava la bella italiana, così casta nella figura, ma i cui occhi larghi gli rammentavano le sue donne d'Oriente, di cui forse pativa la nostalgia. Poi quei begli occhi larghi, scintillanti come le perle nere del vestito, guardarono la sala, intorno intorno, un'occhiata intelligente, e come donna Luisa Catalani si voltava, a una, a due, a tre, le signore vennero a circondare donna Angelica Vargas, a chiederne il saluto, e sebbene suo marito non fosse il presidente del consiglio, sebbene ella fosse la moglie di un ministro di affari, non politico, sebbene in quel salone vi fossero tre o quattro mogli di ministri politici, importanti, le colonne del gabinetto, ella era il centro di tutti quei complimenti, ella conservava nella sua semplicità qualche cosa di regale. Per aver meno freddo, mentre scriveva, in quel salottino lungo e stretto, senza fuoco, di via Angelo Custode, Francesco Sangiorgio s'era messo sulle gambe un vecchio soprabito. Alle otto la serva gli aveva portato una tazza di caffè, in letto: e mentre ella rassettava quel glaciale salotto, egli si era vestito, per mettersi al lavoro. La serva aveva rifatta, in un momento, anche l'altra stanza, e se n'era andata senza parlare, con la faccia imbronciata e stizzosa delle creature povere che non sanno rassegnarsi alla miseria e al lavoro. Ma lo spazzamento, fatto in fretta, aveva lasciato sudici gli angoli del pavimento: le cortine delle finestre erano giallastre di polvere, e il nauseante odore di spazzatura stantia restava in quelle due stanze. Sangiorgio, appena scomparsa la serva che strascicava i suoi scarponi da uomo, senza dare uno sguardo a quella triste corte interna, dai balconi pieni di casse vecchie e di cocci, dalle loggette di legno tarlato e sudicio, si era messo a scrivere, sopra un piccolo tavolino da studente; si era posto a scrivere, fra gli stampati della Camera e un mucchio di lettere della Basilicata, sopra certi larghi fogli di carta bianca commerciale, intingendo la penna in un miserabile calamaio di creta. Verso le dieci aveva sentito un insopportabile freddo ai piedi e alle gambe: aveva ancora tre ore di lavoro; andò in camera a prendere un vecchio soprabito, e se ne ravvolse le gambe: tutto questo come un automa, senza distogliere il suo pensiero da quella relazione parlamentare a cui si occupava da otto giorni. Il fuoco interno che lo divorava si manifestava in quella scrittura grande, svelta, chiarissima, di cui ricopriva quei grandi fogli di carta: si manifestava in quell'assorbimento di tutto il volto, in quello sguardo quasi rientrato in sè stesso, estraneo a tutte le cose esterne. I fogli si ammucchiavano alla sua sinistra, egli non si fermava che per isfogliare i resoconti parlamentari, per consultare un grosso volume sull'inchiesta agraria, o un piccolo taccuino vecchio e sdrucito. Alle undici, nel fervore del lavoro, si udì un piccolo scricchiolìo di chiave, e una donna entrò, richiudendo la porta senza far rumore. «Sono io,» diss'ella chetamente, stringendo al petto un fascio di rose. Egli alzò la testa, e la guardò con gli occhi stralunati di chi non si toglie ancora alla sua preoccupazione, tanto da non riconoscere la persona che entra. «Ti disturbo?» chiese Elena, con la sua voce cantante. «Sì, sì, ti disturbo. Resta a scrivere, fa il tuo lavoro. Mi annoiavo tanto stamane, in casa, con questo tempo plumbeo, che mi son fatta trascinare in carrozza per due ore, il povero cavallo scalpitava nel fango, ho visto scivolare della gente, le donne che andavano a piedi avevano gli stivaletti inzaccherati, una pietà. Dovendo aspettare sino all'una, perchè tu venissi a colezione, ho preferito venir qua. Ma tu scrivi... Leggerò un libro.» «Cara, non ve ne sono, di libri per te,» rispose lui, senza pensare a ringraziarla di esser venuta. Ella cercava fra le carte, con le mani sottili inguantate di nero, imbarazzata dal suo gran fascio di rose. Sangiorgio la guardava sorridendo di compiacenza. Era sempre così attraente con quelle grosse labbra umide e rosse, con gli occhi strani dal colore incerto, con quella eleganza opulenta della persona, che il contemplarla, l'averla presente, là, nella sua stanza, era per lui un diletto sempre nuovo. Ogni volta che la sua signoria maschile si affermava in qualunque modo, egli provava un delicato e intenso piacere di orgoglio. «Non vi è nulla,» diss'ella, ridendo, «non posso mica leggere quanta polenta mangino i contadini lombardi, e quante patate i meridionali. Ciò mi affliggerebbe troppo; scrivi, scrivi, Franz: non occuparti di me.» Egli si alzò e venne a baciarla sugli occhi, attraverso il lieve velo, come a lei piaceva: ella fece un risolino di bimba golosa a cui si dà un pasticcino, egli ritornò a scrivere. Elena camminò su e giù nel salotto, come per riscaldarsi: in quella stanza, in quel giorno brutto di marzo, si gelava. «Non hai freddo, Franz?» chiese Elena, dal divano, dove contemplava curiosamente il lusso dei quadrati all'uncinetto. «Un poco,» mormorò lui, senza lasciar di scrivere. Ella contemplò di nuovo la stanza tutta nella sua meschinità, sentì quel fiato di miseria decente che vi alitava, e contemplò lui che scriveva alacremente, su quel piccolo tavolino, dove gli toccava stringere i gomiti per non far cadere le carte. E negli occhi della donna guardante quella testa indomita di lavoratore, si dipinse una tenerezza nuova che egli non vide. Due volte ella fu per dirgli qualche cosa: ma pensando, tacque. Appoggiata alla _console_, ora, ella ridacchiava fra sè, guardando le tre fotografie, di un caporale, di un grasso signore, di un ragazzotto collegiale del Nazzareno, guardando le tre sacrileghe oleografie che rappresentavano la famiglia reale. «Franz? ti sei mai fatto la fotografia?» domandò, mirandosi nello specchio, e aggiustandosi il fiocco del cappello. «Una volta, a Napoli, quand'ero studente,» disse lui, sfogliando gli atti parlamentari. «E ce l'hai?» «No, naturalmente.» «Se ce l'avessi, io la vorrei,» soggiunse ella con voce infantile. «Non ne hai abbastanza dell'originale?» «No,» rispose Elena, tutta pensosa. Egli si alzò di nuovo, venne a prenderle le mani, e le chiese: «Dunque mi vuoi bene?» «Sì, sì, sì,» cantò ella, su tre note musicali. Francesco se ne ritornò di nuovo al tavolino, dove si rimise al lavoro. Ella si azzardò sulla soglia della stanza da letto, e vi gettò un'occhiata. «Franz,» disse di là, «iersera non sei venuto al Valle?» «Vi era la commissione del bilancio, sino alle undici. Dopo, ero stanco.» «Sono venute molte persone a trovarmi in palco. Giustini... perchè sei tanto legato con lui?» «Mi serve,» diss'egli semplicemente, senza alzare il capo. «Dice male di te.» «Lo spero bene.» «Infatti, egli non dice mai bene delle persone mediocri. Tu diventerai un grand'uomo politico, Franz.» «Oh, ci vuol molto tempo,» rispose lui tranquillamente, annotando certe cifre sopra un pezzo di carta. «Sono venuti Gallenga e Oldofredi, che mi fa molto la corte.» «Ha ragione, Oldofredi,» mormorò lui, con galanteria. Ella sorrise e scomparve nella camera. Era così fredda e brutta, che per un momento ristette, come disgustata. Guardava gli arabeschi di lana del piumino, che la serva aveva gonfiato a furia di manate; ma la grande macchia d'olio della poltrona di lana azzurra le fece voltare il capo; il suo istinto femminile la faceva soffrire di quella macchia. E girò per la stanza, cercando un oggetto introvabile: sul canterale non vi erano che due candelieri senza candele, una spazzola pei vestiti, nulla di quello che ella desiderava: sulla toletta, solo i pettini e una bottiglina di acqua di Felsina, dimezzata. Una nudità, una miseria da anacoreta. Finalmente, giunta presso il letto, sul comodino, ella trovò la bottiglia dell'acqua e il bicchiere, e, tutta felice, sciolse il suo fascio di rose, ne ficcò tre o quattro nel collo della bottiglia dell'acqua, un piccolo gruppo nel bicchiere, ne buttò due o tre sul tappetino a piedi del letto, poi non sapendo dove altro metterne, ne ficcò due sotto il cuscino. Camminando piano, andò al canterale, e ne aprì il primo cassetto, dove ci erano delle cravatte e dei guanti: anche lì lasciò le sue rose. Un ritratto era buttato lì dentro, ancora in una busta: il suo. Una lieve ombra di malinconia le passò sul viso, ma disparve. Ora su quella miseria della stanza, in quella luce bigiognola che veniva dal cortile interno, in quel tanfo di acqua di cucina, le rose mettevano una freschezza primaverile, un po' di giardino, un ricordo di sole, un piccolissimo profumo. «Ho finito,» disse Sangiorgio, comparendo sull'uscio. «Andiamo a far colazione.» «Credi tu che avremo finito per l'una e mezzo?» «Perchè?» «Ho un convegno... con un elettore.» «Avremo finito, spero. Tanto più che ho anche io un convegno... alle due.» «Con un elettore?» «Con Oldofredi.» «Ah!» fece lui, infilandosi il soprabito. «Mi deve raccontare come fu che non volle sposare donna Angelica Vargas.» «Doveva sposarla?» «Sì, e non la volle. Forse, è lei che non ha voluto. Oldofredi è antipatico a mezzo mondo: alla Camera, poi! Lo conosci tu?» «No: e mi è indifferente.» «Sei molto pallido; che hai?» «Non so: sarà il freddo.» «Andiamo, andiamo a casa, vi è il fuoco, ti riscalderai.» Egli la seguì senza accorgersi delle rose. L'onorevole Oldofredi non era un frequentatore troppo assiduo della biblioteca della Camera: ci andava qualche volta per cercarvi un amico; ma non leggeva, nè chiedeva mai libri e giornali. Dicevano anzi, le maligne lingue parlamentari, ch'egli non sapeva leggere. Ora, come quel giorno entrò in biblioteca, e trovò Sangiorgio seduto davanti a un vero monte di volumi, che scartabellava opere di statistica, e sfogliava libri di economia politica, di storia, di scienze sociali, con quell'intemperanza di ricerche e di preparazione che è propria dei provinciali meridionali, quel fatuo anconetano ebbe un lieve sorriso di scherno. Affacciò prima il capo all'uscio, per vedere se ci fosse il collega di cui andava in cerca; poi, spinto chi sa da qual nuovo pensiero, entrò, sebbene non avesse trovato il collega. Entrò, e cominciò a passeggiare in su e in giù, oziosamente, soffiando via dal piccolo bocchino d'ambra i rimasugli della sigaretta. L'onorevole Oldofredi, malgrado la riputazione dongiovanesca e spadaccinesca che s'era acquistata, non era nè un bello nè un forte uomo: macchina d'ossa e di nervi mal connessa, aveva in tutta la lunghissima persona uno sconquasso sgradevole, nella faccia un color terreo antipatico, negli occhi una crudezza sciocca, e un dislocamento di tutte le membra che lo faceva parere un automa ambulante a caso. Sangiorgio, dal primo momento che lo vide, gli pose gli occhi addosso, e non potè più lasciarlo. Una specie di attrazione dispettosa distraeva il Basilisco dalle statistiche e dai libri di economia politica, e lo spingeva verso il deputato marchigiano, ch'egli disprezzava e odiava, per un istinto misto di regionalismo, d'amante e d'ambizioso. Lo guardò fissamente, intanto che Oldofredi passeggiava, pensando con la penna sospesa sulla carta. Quel Donchisciotte antipatico a tutte le donne, ignorante, sciocco, inabile, che pure con tutte queste qualità negative era sempre riuscito a farsi rieleggere, a far parlare di sè, ad avere nella vita politica e nella vita mondana una posizione spiccata, gli pesava sullo stomaco, come uno di quei cibi indigeribili contro di cui si ha una ripugnanza istintiva. Oldofredi era lo sciabolatore politico: dei suoi duelli non si parlava più, se non vagamente, come di qualche cosa confusa e lontana, poichè da parecchi anni nessuno aveva più osato provocarlo; ma non c'era questione personale ove egli non fosse chiamato come padrino, o come arbitro, o come consigliere; ma non c'era, fuori o dentro la Camera, una più sicura e più salda autorità cavalleresca. Ciò dava a quel brutto e volgare uomo un'aureola romantica, e diceva la cronaca pettegola che le donne volentieri posavano i desiderii indecisi ai piedi di quel Rolando marchigiano, che appariva ad esse come un campione formidabile contro i pericoli del peccato. «Avete visto, per caso, l'amico Bomba, onorevole Sangiorgio?» chiese Oldofredi, fermandosi innanzi allo scrivente. «Io? No,» rispose l'altro, seccamente alzando il capo. «Dove si sarà ficcato? Nell'aula non ci è: parla quell'asino di Borgonero, sopra non so quali sciocchezze. Ho cercato l'amico Bomba dappertutto: non può essere che qui, in compagnia di quell'imbecille di Giordano Bruno. Ci credete voi, Sangiorgio, all'esistenza di Giordano Bruno?» «Io? Sì,» fece l'altro seccamente. Sangiorgio guardava Oldofredi, fisso, con una freddezza di sguardo che avrebbe fatto tacere un chiacchierone meno vanitosamente distratto, ma quell'altro passeggiava, guardava in aria, aveva accesa un'altra sigaretta, dimenava quel suo lungo e antipatico corpo dinoccolato, empiendo di rumore quella cheta stanza da studio. Di già, dalla stanzetta accanto, a destra, l'onorevole Gasperini, il toscano dalla barba bianca, dal sorriso arguto e dagli occhi fini dietro gli occhiali, si era affacciato due volte, lasciando a mezzo certe teorie di finanza: e si era stretto nelle spalle, infastidito, al chiasso dell'onorevole Oldofredi. Costui, arrivato innanzi all'altra porta che dava sulla stanzetta a sinistra, sogghignò, ritto sulla soglia, appoggiato allo stipite, con le mani in tasca: nella stanza a sinistra, l'onorevole Giroux, un vecchio lento e grave, con le palpebre socchiuse, l'aria di addormentato, leggeva in un librone legato in pergamena. Oldofredi sogghignava. Poi, accostandosi di nuovo al tavolino di Sangiorgio, disse, sghignazzando ancora: «È di là, sapete, con Copernico.» «Chi?» chiese l'altro, con la medesima solita durezza. «Giroux. Non bastandogli di seccare la gente con le sue fandonie filosofiche, ha inventato quelle di Copernico. Chi sarà questo Copernico? Ma... Giroux giura di averlo conosciuto, a Torino: anzi era _carbonaro_.» E scoppiò a ridere. Egli non vedeva, Oldofredi, la prepotente e ostinata espressione di disprezzo sulla faccia di Sangiorgio: non vedeva quel lieve tremito nervoso che faceva ballare la penna nelle dita del deputato meridionale. «E dall'altra parte ci è Gasperini, l'ex-segretario, che certo sta rileggendo gli atti del Parlamento inglese, per poter domani parlare contro Giroux. Che ne dite?» «Io? Niente.» «Ora prendo con due ditini Gasperini, e lo porto nelle braccia di Giroux: così la riconciliazione sarà fatta, Copernico e Bentham la benediranno, e la finanza, nonchè l'agricoltura italiana andranno sempre allo stesso modo, cioè malissimo.» Diceva questo ad alta voce, noncurante che quei due lo ascoltassero. Sangiorgio guardò le due porte, come per esprimere questo timore; Oldofredi intese. «Non odono, no. Quando Giroux è con Copernico, non sente nulla, e Gasperini è smarrito nella finanza inglese.... E anche se sentissero!» Fece la sua stretta di spalle da bravaccio, uno dei suoi gesti che gli avevano procurato la riputazione di un uomo coraggioso. «Potrebbero rispondervi,» osservò con un tono equivoco Sangiorgio. «Ma che! Non risponderebbero affatto. Piuttosto se la legherebbero al dito, per rinfacciarmela più tardi, nell'aula, in un corridoio, in un giornale: così si usa, in politica. O piuttosto, cercherebbero dimenticare anche questa, come tante altre hanno dimenticate. Voi siete novello, mi pare: vi restano molte cose da imparare. Una, vedete, ve la insegno io: in politica non si risponde mai subito, mai in faccia, mai direttamente. O si dimentica o si aspetta.» «E se vi rispondessero subito?» replicò Sangiorgio, sempre più freddo. «Ma che! Figuratevi, mio caro deputato novello, che da cinque anni a questa parte vado dicendo tutta la verità, a tutti quanti, su fatti, uomini e avvenimenti, gridando, strillando, per sollievo del mio fegato. Avesse qualcuno il coraggio di difendersi, di rispondermi sulla faccia! Nessuno, nessuno, caro il mio deputato nuovo.» «E perchè?» domandò Sangiorgio, tenendo gli occhi fissi sulla carta dove aveva scritto come se meditasse. «O bella! perchè i vecchi hanno esaurito la quantità di coraggio che avevano, se ne hanno mai avuto: e i giovani non hanno ancora cominciato a usare la propria, se ne avranno mai una.» «Voi credete, Oldofredi?» «Perdio! se lo credo. La Camera è vigliacca.» «No, onorevole Oldofredi.» «Vigliaccheria e compagni! ecco la ditta.» «Vi assicuro di no, Oldofredi.» «Mi smentite, mi pare.» «Sicuramente.» «Voi mi smentite?» «Io, proprio io.» «Voi volete provarmi che la Camera non è vigliacca?» «Sissignore.» «Io abito in Via Frattina, 46, pranzo alle _Colonne_ e vado all'Apollo, questa sera.» «Va bene.» «Buon giorno.» «Buon giorno.» Oldofredi si strinse nelle spalle, scosse la cenere della sigaretta e uscì, dimenando la sconquassata persona. Sangiorgio intinse la penna nel calamaio e ricominciò a scrivere. Quelli della stanza accanto non avevano udito nulla: tanto più che il dialoghetto era avvenuto sul tono ordinario di voci. Gasperini sfogliava i bilanci della finanza inglese, Giroux s'immergeva in Copernico, e Sangiorgio ricavava delle note dalla _Storia dell'Internazionale_ di Tullio Martello. IV. Quando l'onorevole Sangiorgio entrò nel Caffè del Parlamento, alle sette, per pranzare, in quella cripta egiziana, affogante, rossa, quasi affumicata, varie teste si voltarono e il suo nome fischiò nel susurrìo educato di coloro che mangiavano. Restavano solo due o tre tavole disoccupate: Sangiorgio, dopo esser rimasto un momento indeciso, sedette a una, dove tre posti erano pronti. Subito, dal tavolino accanto a lui, l'onorevole Correr, il giovane deputato di destra, dalla barba nera e dalla molle pronuncia veneta, lo salutò amichevolmente, l'onorevole Scalatelli, il colonnello dei carabinieri, dal pizzo brizzolato e dagli occhi bonari, lo guardò con un certo interesse: gli altri due ex-onorevoli, il grande Paulo, il grosso Paulo, il forte Paulo continuò a litigare col piccolo Mefistofele padovano, Berna, lo spirito bizzarro. «Dunque è vero, Sangiorgio, del duello?» domandò sottovoce Correr. «È vero,» rispose l'altro, guardando la lista delle vivande. «Primo duello?» «Primo.» «Avete mai fatto sala d'armi?» «Un poco.» «È un'imprudenza, Oldofredi è fortissimo.» «Un duello, un duello!... chi si batte?» esclamò il grosso Paulo, finendo di dar dell'asino al suo amico Berna, che gli dava dell'imbecille. «Qui, l'onorevole Sangiorgio, con Oldofredi,» spiegò Correr. «Bell'avversario, perdio! È mancino, Oldofredi: bisogna che Ella ci pensi, onorevole Sangiorgio.» «Non lo sapevo: ci penserò.» «E i padrini, chi sono i padrini?» domandò l'enorme Paulo, il colosso, il molosso, che qualunque duello inebbriava. «Il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa: li aspetto a pranzo,» disse cortesemente Sangiorgio. «Benissimo, buona scelta, sono padrini poco arrendevoli, non vi riconcilieranno sul terreno.» «Era inevitabile il duello, Sangiorgio?» chiese Scalatelli. «Inevitabile.» «Oldofredi è fortunato, Sangiorgio; mi sono battuto con lui, anni sono: m'ha ferito al polso,» spiegò placidamente Scalatelli. In questa, il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa entrarono, cercando con gli occhi Sangiorgio. Il conte conservava la sua freddezza aristocratica che emanava da tutto, dalla magra e alta persona, dalla lunga barba nera che si brizzolava, dalla compostezza un po' naturale, un po' letteraria di scrittore e di signore; Rosolino Scalìa aveva la sua aria di militare elegante in borghese, il fiore all'occhiello e il mustacchio profumato; ma era anche lui freddo e grave. Castelforte si fermò a parlare con Correr e Scalatelli, mentre Scalìa si cavava il soprabito. «Ebbene,» domandò Sangiorgio, «che si fa?» «Nulla ancora,» rispose con riserva Scalìa, «o molto poco.» Sangiorgio non chiese altro. Il pranzo fra quei tre cominciò in silenzio: Castelforte era sempre contegnoso, Scalìa grave e Francesco Sangiorgio indifferente. «I padrini sono Lapucci e Bomba,» disse Scalìa, versandosi del vino. «Abbiamo convegno alle nove e mezzo. Avete provveduto alle sciabole, Sangiorgio?» «Sì.» «Bene,» disse Castelforte. «Spero che le abbiate fatte arrotare: niente più odioso, in un duello, che le sciabole mal affilate. Il duello si prolunga, e le ferite sono sempre ridicole, larghe, una indecenza.» «Le ho fatte arrotare dallo stesso Spadini.» «Bravo,» fece Scalìa. «Un duello lungo ha tutti gli inconvenienti; si presta alla burletta. Una cosa sola vi raccomando, Sangiorgio; non pensate a nulla e di nulla vi preoccupate, ma al primo assalto, andate giù, non aspettate l'avversario, non calcolate nulla, buttatevi: quelli che cominciano, non possono riescire che così.» «D'altra parte,» aggiunse Castelforte, «come ho potuto intendere dalle parole di Lapucci, le condizioni saranno piuttosto gravi. Ma voi non ci badate, Sangiorgio: è naturale che fra due persone serie, queste cose siano prese sul serio.» «Io non ho intenzione di scherzare,» soggiunse Sangiorgio, prendendo dell'insalata. «Tanto meglio. Il medico ce l'avete?» «No.» «Prenderemo il solito Alberti,» disse Scalìa, «ci penserò io, questa sera.» Un fanciullo in piccola livrea, che portava scritto sul berretto _Caffè di Roma_, entrò nella trattoria, cercando qualcuno. Era un biglietto per l'onorevole Sangiorgio. «Il presidente della Camera mi manda a chiamare, al Caffè di Roma, dove resta fino alle nove e mezzo.» «E voi andateci,» rispose Castelforte, «ma siate fermo, non vi lasciate convincere.» «Scalìa, Scalìa,» chiamò dall'altro tavolino il molosso Paulo, che non poteva resistere, «badate al posto del duello. Che sia vicino a una casa, a una osteria, a una capanna, a un ricovero qualunque. Da che ho dovuto ricondurre per tre miglia di strada maestra, piena di sassi e di solchi, il povero Goffredi, con una ferita nel polmone, che boccheggiava e sputava sangue a ogni sbalzo della carrozza, ho fatto voto che, se non vi è un letto pronto a cinquanta passi, non faccio il padrino.» «Sarebbe meglio, allora, in una casa....» osservò Correr. «No, no, che casa!» esclamò Scalìa, «è malaugurio, in una casa. Tutti i duelli in casa finiscono male.» I due padrini si levarono, parlarono altri cinque minuti sottovoce col loro primo, in piedi, stretti a gruppo. Dalle tavole si guardava con curiosità, ma le tre facce erano impassibili: fu fatto un grande scambio di strette di mano vigorose e di saluti. Sangiorgio, rimasto solo, pagava il conto. Quelli dell'altro tavolino andavano via anche essi, si licenziavano da Sangiorgio. «Buona fortuna, collega: in bocca al lupo,» disse Correr. «Buona mano, onorevole Sangiorgio,» soggiunse Scalatelli. «Si metta un corno addosso, se crede alla _iettatura_,» suggerì Berna. Ma dal mezzo della sala, l'immenso Paulo subitamente familiarizzato, urlò, ridendo: «Addio, neh, Sangiorgio: tira alla faccia!» Egli capì che tutti e quattro se ne andavano poco convinti dell'esito. Uscì due minuti dopo di loro. Sulla porta incontrò un _reporter_ di un giornale del mattino che gli chiese notizie. «Nulla ancora,» rispose Sangiorgio. «Nel caso.... nel caso, domani, posso venire a casa Sua per prendere notizie?» insistette il giovanotto imberbe, dall'aria ingenua. «Angelo Custode, 50,» fece l'altro, allontanandosi. Al Caffè di Roma, il presidente finiva di pranzare col suo amico, il colonnello Freitag, il grosso uomo dall'aria infantile, dalla voce stridula e sottile: il presidente aveva l'aria stracca di persona che si riposa finalmente da una fatica improba. E subito, vedendo Sangiorgio, andò allo scopo: «Si può conciliare questo brutto affare, onorevole collega?» «Non lo credo, signor presidente.» Il presidente frenò un piccolo moto nervoso e si morsicò un po' le labbra. «Vediamo, onorevole collega, non vi è stato un po' di malinteso? Un duello fra due deputati è una cosa grave, non bisogna farlo per nulla.» «Non vi è stato malinteso, glielo assicuro, presidente.» «Capisco queste cose: Oldofredi è un po' vivace, Ella è giovane, avrà preso a male qualche scherzo. Bisogna badarci a queste cose, collega: domani i giornali parleranno, ne nascerà uno scandalo.» «Spero di no: a ogni modo, non vi è rimedio.» «Nessuno tratterrà Oldofredi dal dire che Ella, Sangiorgio, ha cercato questo duello per far del chiasso.» E il presidente gittò uno sguardo scrutatore sulla faccia del deputato meridionale, ma vi lesse la indifferenza, l'impassibilità, e parve che rinunziasse al suo progetto di riconciliazione. «E i padrini fissarono le condizioni?» domandò. «Non ancora: ho convegno con loro alle undici,» e si levò per andarsene. «Mi raccomando, non parli con giornalisti: un duello parlamentare è per loro un grande pascolo. Buona fortuna, onorevole collega.» Sangiorgio se ne andò, sentendo che la freddezza della voce del presidente e la tranquillità taciturna dell'onorevole Freitag si equivalevano. Nella via, sul Corso, si fermò, indeciso. Aveva dato convegno ai suoi padrini al caffè Aragno; ma una invincibile ripugnanza gli vietava oramai questo vagabondaggio notturno di caffè in caffè, in quell'artifiziale attendamento di deputati, di giornalisti e di curiosi che non hanno famiglia e passano la loro serata in quelle sale calde, piene di fumo; gli veniva, gli cresceva un fastidio immenso della gente che domanda, che chiede, che vuol sapere, che commenta, sempre indifferente. Sapeva che Castelforte e Scalìa si sarebbero trovati con Lapucci e Bomba agli Uffici: preferì risalire, verso Montecitorio, lentamente, comprando i giornali al chiosco di Piazza Colonna, leggendo sotto un lampione, sotto il portico di Velo. I due o tre giornali della sera annunziavano il duello con una certa solennità, uno metteva solo le iniziali, ma aggiungeva che i tentativi di riconciliazione erano riusciti infruttuosi. Egli li conservò in tasca, e, preso da un po' d'impazienza, andò a passeggiare su e giù innanzi al Parlamento. Le grandi finestre degli Uffici erano tutte illuminate, i commissarii lavoravano ancora: ma la piazza era deserta, la grande piazza senza botteghe. Egli andava su e giù, girando attorno all'obelisco, dagli Uffici del Vicario agli Orfanelli, dagli Orfanelli alla Missione, con le mani in tasca, la testa abbassata, camminando presto per combattere l'umidità che gli entrava nelle ossa. Il portone dell'_Albergo Milano_ che dà sulla piazza si chiuse, dopo l'arrivo dell'ultimo _omnibus_ della stazione: i padrini non discendevano ancora. E lui si seccava di lasciarsi vedere dai deputati che avevano passato la serata alla Camera, e quando qualcuno ne compariva sulla porta, si fermava, o si allontanava colto dall'impazienza. Finalmente Scalìa e Castelforte comparvero sugli scalini: la lunga figura del conte lombardo si delineò accanto a quella più piccola, ma membruta del deputato siciliano. Parlavano fra loro, vivamente, poi scesero e si avviarono verso giù. Sangiorgio li raggiunse correndo: «Non ho voluto aspettarvi al caffè: è pieno di gente e tutti vogliono sapere e io non voglio aver l'aria di _posare_,» spiegò lui, ai padrini. «Avete fatto bene,» disse Scalìa. «Quand'uno deve battersi, è meglio non lasciarsi vedere, per delicatezza. Quel _posatore_ di Oldofredi ha declamato tutta la serata alle _Colonne_: ora è al teatro, all'Apollo, per farsi ammirare. Basta, tutto sembra combinato.» «L'acqua Acetosa, fuori Porta del Popolo, è un buon posto,» soggiunse Castelforte, «poichè ci si va presto. Abbiamo fissato per le dieci, verremo a prendervi alle otto e mezza.» Camminavano tutti e tre verso la casa di Sangiorgio. Egli taceva, fumando. «Siete nervoso, voi?» domandò Scalìa. «Io? per nulla.» «Allora cercate di dormire. _Cognac_, in casa ce ne avete?» «No.» «Il _cognac_ è buono, in caso di duello. Domattina ne porterò io, sul terreno. Ma voi, cercate di dormire.» «Diamine! dormirò.» «Non abbiamo escluso nessun colpo,» riprese Castelforte. «Era quello che volevate, mi pare?» «Proprio questo.» «Ho avvisato il dottor Alberti,» soggiunse Scalìa, «egli verrà; molto dipende dalla sua esperienza. Non pensate alla carrozza: verremo noi col _landau_. Solo fatevi trovare pronto; bisogna arrivare in tempo.» «Come è, Sangiorgio, che non vi siete mai battuto?» «Oh, noi di Basilicata abbiamo la collera molto lenta.» «Non parrebbe,» disse ridendo Castelforte. Poi, come salivano per l'Angelo Custode, tacquero. Nella via deserta le tre ombre salienti si proiettavano: quella di Castelforte scarnata, quasi fantomatica; quella di Scalìa, nella sua rigidezza militare; quella di Sangiorgio, piccola ma solida. Finalmente, solo. La candela stearica illuminava a mala pena il salotto freddo e nudo dove il tanfo di chiuso si mescolava, sempre, a quelli odori cattivi di cucina che venivano dalla corte interna. Finalmente, solo: e ne era contento, con quella selvaggia necessità d'isolamento che rinasceva ogni tanto nel suo temperamento. In quel pomeriggio e in quella serata erano cresciuti in lui tutti gli istinti di disprezzo per l'uomo, che covavano, latenti, nel suo spirito: egli passava, da sette ore, per una di quelle grandi prove umane, donde l'anima esce amareggiata, delusa, nauseata. Nella solitudine del suo piccolo quartiere, nella lucidità notturna del suo cervello che niuna cosa, niuna persona, niun avvenimento era sinora venuto a turbare, tutte le vigliaccherie, le transazioni, le freddezze, le indifferenze, le premure misurate della gente che aveva incontrata, si affollavano, si aggruppavano, si precisavano: prima la difficoltà di trovar padrini contro Oldofredi che aveva fama di sciabolatore, poi l'entusiasmo molto limitato di Scalìa e di Castelforte, e tutti i consigli, tutti i suggerimenti, tutti gli avvertimenti poco caritatevoli, tutti i discorsi lugubri, tutte le domande a base di compassione, tutti i complimenti a fior di labbro, poco convinti, questo ammasso di parole, di frasi, d'intonazioni dispiacevoli, lo disgustavano, sfilandogli di nuovo innanzi, per dimostrargli ancora un'altra volta la miseria e l'ipocrisia serena dell'uomo. Egli sentiva che tutti quanti, conoscenze o estranei, amici o nemici, ammiratori o biasimatori, lontani o vicini, lo giudicavano malamente pel suo duello con Oldofredi; sentiva degli uni la pietà offensiva, degli altri il dispetto ironico, degli altri l'invidia rabbiosa, dei molti un disprezzo grande. Sentiva, che quell'impresa audace, di volersi misurare lui, nuovo, giovane, inesperto, contro uno spadaccino che niuno osava più d'insultare, contro un antico deputato, gli valeva le beffe, la compassione, il dispregio degli altri. In quell'ora egli aveva contro di sè tutta la pubblica opinione, sentiva la ingiustizia umana colpirlo. Per cui era felice di essere finalmente solo, di potersi chiudere nella sua amarezza e nella sua delusione. Non solo, no; qualche cosa scintillò sul divano. E come egli mosse la candela per veder meglio, una striscia lucente brillò. Nella sua veglia le sciabole dal taglio affilato vegliavano con lui. Quelle almeno non mentivano. Ottusa la loro virtù offensiva e difensiva, era bastato farle strisciare per cinque minuti sulla cote, per ridar loro la potenza del male e del bene. Esse non s'infingevano, erano pronte, lealmente pronte a parare i colpi mortali, a ferire, a tagliare, a uccidere; una nelle sue mani, l'altra in quella dell'avversario, lama contro lama, taglio contro taglio: le sciabole erano fedeli. La parola dell'uomo agghiaccia il sangue per la indifferenza o avvelena il cuore per la sua acredine: la buona lama va diritta al suo scopo, recide, nettamente, profondamente. La parola umana strazia: la lama quasi non fa dolore per la rapida precisione del suo colpo. Sangiorgio, attratto invincibilmente dallo scintillìo del metallo, andò a sedersi sul divano e passò il dito sul taglio sottilissimo di una sciabola. Che importavano più i padrini, i deputati, gli amici, i nemici, i giornalisti? Tutto il nodo dell'azione era concentrato adesso in quelle due armi: la catastrofe spettava ora a quel pezzo di acciaio bene temprato e bene affilato. La catastrofe? Che catastrofe? Egli si guardò attorno, come per cercare chi avesse pronunziato quella parola; ma era solo, le sciabole giacevano accanto a lui; il suo sguardo era concentrato su loro. Per altri la notte che procede un duello è notte di agitazione, di nervi, di andirivieni: gli altri hanno tutti una donna, a cui infondere del coraggio con la disinvoltura: un parente a cui scrivere una lettera, un amico a cui mandare un biglietto, un servo a cui raccomandare un servizio importante; gli altri hanno tutti non la paura, forse, ma tutti una piccola pena, un pensiero molesto, una puntura di rimpianto; tutti gli altri al pensiero della catastrofe si esaltano o cercano distrarsi, i grandi interessi del cuore soffrono, l'anima è eccitata o accasciata, nervosa o sonnolenta. Sangiorgio, nulla di tutto questo: nè donna, nè parenti, nè amici, nè servi; non una linea da scrivere, non una parola da pronunziare, non un ordine da dare; Sangiorgio cercava invano, nel cuore, il grande interesse, per cui l'idea della catastrofe fosse dolorosa. A chi poteva dolere se l'indomani Oldofredi lo avesse rimandato a casa gravemente ferito o morto? A quale donna, a quale uomo? Nessuno, nessuno: egli era solo, accanto alle sciabole, accanto alla catastrofe. E in quel freddo processo di eliminazione, in quella selezione misantropa di persone, di sentimenti, egli arrivò a sè stesso, arrivò al suo grande, unico, egoistico sentimento: l'ambizione politica. L'indomani, se egli era ferito, gravemente o lievemente, non importa, — il valore era sempre il medesimo, la disfatta era sempre eguale, — l'indomani, la catastrofe lo avrebbe colpito in pieno, nel suo profondo, fervido, ardente desiderio di fama e di potere. Non sarebbero discese su lui, ferito o morente, lagrime di donna, tenerezza d'amico, rimpianto di persone affettuose: ma lui solo, Sangiorgio, avrebbe pianto su sè stesso, sui propri desiderii di gloria dispersi, sui propri sogni d'ambizione svaniti nella vergogna fisica e morale del disastro. Il colpo di sciabola che l'indomani avrebbe tagliata la carne, recisi i muscoli, divisa una vena, avrebbe trovato la via del cuore, di quel cuore chiuso e duro dove un solo sentimento viveva, per ferire a morte questo sentimento. L'opera lenta e solida a cui egli lavorava da tanto tempo, con una pazienza da formica, con una ostinazione immutabile, domani, sarebbe crollata: a che valevano più tanti sforzi, tanto studio, tante privazioni, tante astinenze, tanti dolori sopportati in silenzio? Un colpo di sciabola: tutto diventava inutile. Così, al lume fumicante di quella candela stearica, nella notte, nella solitudine, quelle armi sguainate e fredde, per un minuto fugacissimo gli fecero paura. Alle otto e mezzo preciso, vennero i padrini. Sangiorgio, vestito di tutto punto, la _redingote_ abbottonata, il cappello a cilindro ben lucido posato sopra un mobile, aveva la faccia un po' pallida, ma era tranquillo; solamente a un lato della bocca, che tremolava lievemente, aveva una piccola animazione. «Dove sono le sciabole?» domandò Castelforte. «Eccole.» Castelforte le trasse dal fodero, l'una dopo l'altra, toccò le punte, poi passò il dito sul taglio, le ripiegò, puntandole a terra, le provò più volte, tirando dei fendenti nell'aria. «Avete una sciarpa, un fazzoletto di seta, per legare la sciabola?» Sangiorgio aveva apparecchiato una sciarpa. Scalìa chiuse le sciabole nel sacco, che legò con la sciarpa: prese il guantone gittato sul canapè, guardò Castelforte: «Andiamo?» «Andiamo.» Scesero la scala buia. Il cocchiere aperse lo sportello del _landau_, Scalìa gettò sopra uno dei sedili le sciabole e il guanto: poi in fretta entrarono tutti tre in carrozza. Passarono per Via Due Macelli, ove già il fioraio aveva esposto molta ricchezza di rose, ed entrarono in Piazza di Spagna. Dalle nuvole mollicce che s'amassavano nel cielo, caddero poche gocce d'acqua che si attaccarono ai cristalli. «Piove,» disse Sangiorgio. «Non è nulla,» disse Castelforte, «il duello con la pioggia è più drammatico.» In Via del Babuino si demoliva. Mucchi di rovine ingombravano gli sbocchi delle vie laterali: il principio di Via Vittoria era tutto sconquassato, perchè riparavano la fognatura. In Piazza del Popolo la pioggia ingrossò, e cominciò a cadere con uno strepito allegro, quasi fosse grandine. «Cesserà,» disse Scalìa «c'è contrasto di venti, in alto.» Fuori la porta, la carrozza si fermò, per prender su il dottore, che aspettava davanti al Caffè dei Tre Re. Aveva sotto il braccio un involtino coi ferri e le fasciature. Sedette dirimpetto a Sangiorgio, accanto a Castelforte. Aveva un'allegrezza briosa, parlava d'altri duelli a cui aveva assistito. E mentre il _landau_ si slanciava al galoppo, sui ciottoli fangosi di Via Flaminia, il primo _tram_ di Ponte Molle si staccava dalla stazione e si avanzava, quasi vuoto, sbalzellando e tentennando sui binari. La carrozza passò davanti al gazometro, e piegò rapidamente nella svolta che conduce a villa Glori. Sotto l'Arco Oscuro, si cominciò a veder la campagna: i primi alberi si affacciarono al disopra delle mura. Allora Sangiorgio, che sino a quel punto era rimasto in una specie di stordimento del pensiero e dell'anima, in una stanchezza spirituale e morale, si svegliò, ed ebbe un brivido. Castelforte aveva abbassato un cristallo, e l'aria frizzante entrava fischiando. E, come la via era tutta in salita, la carrozza camminava piano. Sangiorgio cominciò a rivivere e a pensare. Mano mano che si andava innanzi, tutta la sua forza nervosa si concentrava nei denti che di minuto in minuto più si serravano. Anche, aveva preso fra le dita un fiocco dello sportello e lo stringeva con crescente energia. Sotto gli occhi, gli era nato un tratto di rossore caldo che cominciava a spandersi in giù, irregolarmente. Ma come l'animazione aumentava, ogni potenza d'espansione scemava in lui: si andava lentamente rinchiudendo in sè stesso, in una specie di prosopopea, romantica e orgogliosa di sè medesimo, e alle parole del medico o dei padrini non poteva più rispondere che con qualche movimento del capo più vibrato del solito. I cavalli, per la salita, rifiatavano forte; in fine, a villa Glori, cominciò la discesa. Allora, di nuovo, la carrozza si slanciò di gran trotto. Erano cessate le mura: oramai a destra e a sinistra le siepi fiorite passavano rapidamente davanti agli sportelli. A Sangiorgio parve un momento che delle ragazze corressero, offrendo fasci di biancospino. Poi cessarono le siepi, e la carrozza entrò fra due file di olmi che fremevano cupamente, agitati dal vento. Poi si fermò. Allora, un gran brivido corse i nervi di Sangiorgio, e quel piccolo rossore sotto gli occhi subito sparve. Erano arrivati. Egli si volle slanciare; Castelforte lo trattenne. «Restate in carrozza col dottore. Il luogo non è fissato precisamente. Aspettate un poco.» Scesero i padrini. Sangiorgio affacciò il capo allo sportello. Erano giunti primi. La casina dell'Acqua Acetosa era abbandonata: le porte chiuse, le persiane chiuse: non vestigio d'anima viva. La grande spianata si stendeva lungo il fiume, verde, senza alberi, senza uomini: solamente lontano, lungo la staccionata di villa Ada, una lunga fila di pecore bianche spiccava dalla comune intonazione di cinereo e di verde, e un pastore incappato stava ritto, immobile. Castelforte e Scalìa si allontanarono nella pianura, gesticolando. Il tempo s'era un po' calmato, ma brontolava e minacciava ancora: e quella enorme piattaforma, brulicante di erbe inutili, aveva una tristezza così straziante e così selvaggia, che quelle due sagome di gentiluomini eleganti, avanzanti tra la cicoria fiorita, stonavano bizzarramente. Il Tevere, gonfio e livido, tumultuava con impeto collerico. Castelforte e Scalìa tornarono indietro lentamente, discutendo. Sangiorgio cominciava a vibrare per l'impazienza. Pel fondo dello stomaco gli si era messo un tremolio breve e vivace, che gli si propagava sino ai nervi del palato e gli promoveva una salivazione incessante. La carrozza gli era diventata angustissima. Si sentiva soffocare. I due padrini si accostarono a lui. Castelforte appoggiò le braccia allo sportello: «Abbiamo trovato un buon terreno; si affonda un poco: ma non si scivola. Aspettiamo gli altri per vedere se sono contenti.» «Eccoli,» disse Sangiorgio, i cui nervi erano stranamente aguzzati dall'eccitazione. Infatti, il rumore d'una carrozza si udì, e ingrossò subito: la carrozza, di gran galoppo, voltò nella pianura, e andò a fermarsi in distanza, nel mezzo del prato. Si spalancò lo sportello. Oldofredi, Lapucci, Bomba saltarono giù. Questi ultimi si avanzarono verso Castelforte e Scalìa che venivano incontro; il dottore di Sangiorgio e quello di Oldofredi si fermarono in disparte, e s'inginocchiarono svolgendo i fagottini, sull'erba, per aver tutto pronto. Oldofredi restò presso alla carrozza, col _paletot_ indosso, fumando, battendo gaiamente con una sua bacchettina di bambù la groppa d'uno dei cavalli. Sangiorgio, con mezzo il corpo fuori dallo sportello, guardava incertamente. Ciò che lo smaniava, era l'imperizia, la novità del fatto, e l'ignoranza delle formalità. Doveva restare in carrozza, o scendere come aveva fatto il suo avversario? Guardò i padrini. S'erano raccolti tutti e quattro, con amichevoli saluti e forti strette di mano, sul terreno arso, e discutevano. Ogni tanto, in quella strana e molle calma del tempo piovoso, veniva distintamente l'accento lombardo di Castelforte: le altre voci si udivano smorzate e senza senso, come suoni che uscissero da un involucro di bambagia. Poi Scalìa tornò indietro verso Sangiorgio, e Bomba andò a Oldofredi: Castelforte e Lapucci, chini a terra, sbarazzavano il terreno coi piedi, e segnavano delle linee coi bastoni. Scalìa giunse allo sportello: «Spogliatevi. Lasciate la _redingote_ e il cappello nella carrozza.» Prese le sciabole e il guanto, e tornò verso il luogo dello scontro: anche Bomba tornava, con le sciabole e con un altro guanto. Sangiorgio, che cominciava ad avere un brivido nel petto e alle scapole, brivido di impazienza e di desiderio, buttò via il cappello, si trasse furiosamente il _paletot_, la _redingote_, la sottoveste, la cravatta, e s'avviò in furia verso i padrini. Il crollo acuto e secco delle sciabole buttate sull'erba da Scalìa lo fece trabalzare. Castelforte gli gridò da lontano: «Tenetevi il _paletot_: fa freddo.» Sangiorgio tornò indietro, prese il _paletot_, se lo buttò sulle spalle, raggiunse i padrini. Nel mezzo del terreno, Castelforte e Lapucci traevano a sorte il comando del combattimento e la scelta delle sciabole. Scalìa e il dottore si posero in mezzo Sangiorgio, gli parlavano piano: «Avete bevuto un sorso di _cognac_?» «No.» «Male; bisogna sempre fortificarsi.» «Non ce n'è bisogno,» rispose Sangiorgio mentalmente. «Io comanderò l'azione. Voi scegliete le sciabole,» disse Castelforte. «Volete esaminare le nostre?» «Scelgo le nostre,» disse Lapucci. «Eccole.» Oldofredi, dall'altra parte del terreno, con un anemone ai denti, guardava il paesaggio, voltandosi intorno. Castelforte venne incontro a Sangiorgio, gli fece impugnare la sciabola, gli legò l'elsa al polso, lo accompagnò al suo posto. I due dottori si scostarono di venti passi, Scalìa si fermò alla sinistra di Sangiorgio, Bomba alla sinistra di Oldofredi. Lapucci e Castelforte si posero a mezzo il terreno, uno di qua, l'altro di là, ciascuno con una sciabola in mano. Oldofredi aveva l'aria più sciocca e insignificante del solito: certamente, non ancora il suo spirito s'era fermato al fatto di cui egli era tanta parte. Castelforte, con quella sua aria di capitano di cavalleria, guardò Sangiorgio, poi guardò Oldofredi, imperiosamente. «Signori.....» disse con intonazione di cantilena. La faccia di Sangiorgio, a cui era corso un violento impeto di sangue, si affissò in lui: Oldofredi sputò via l'anemone, e con un movimento elegante si scosse il _paletot_ dalle spalle. «Signori: a due gentiluomini come voi sarebbe ingiuria raccomandare di comportarsi con perfetta cavalleria. Vi rammento soltanto che dovete fermarvi immediatamente appena udrete la parola _Alt!_ che non dovrete attaccare se non al comando: _A voi!_ Andiamo.» Diede un'occhiata a Lapucci, che gli rispose con un'altra occhiata; e comandò: «In guardia.» Oldofredi, con un movimento quasi insensibile avanzò la gamba destra, piegò ad un angolo il braccio e la sciabola, si appoggiò sulle gambe. Sangiorgio andò in guardia con un salto, stendendo il braccio destro e la sciabola in una linea così retta e così dura, che pareva un pezzo di ferro. «A voi!» comandò Castelforte. E si slanciarono. La sciabola d'Oldofredi battè quella di Sangiorgio che s'era buttata di punta, e la scartò, poi cadde sul guantone imbottito; ma Sangiorgio rialzando con impeto brutale il braccio e il ferro, sollevò la lama del nemico, e per poco non gli ruppe il muso con l'impugnatura. «Alt!» gridò Castelforte, interponendo la sua sciabola. I due combattenti si staccarono e tornarono al loro posto. Oldofredi, un po' pallido, sorrideva: aveva capito l'avversario; ma Sangiorgio, a cui era entrata nel petto una furia di toro che abbia visto del rosso, teneva la bocca chiusa e respirava con violenza dal naso. «In guardia!» disse di nuovo Castelforte. Sangiorgio, col braccio teso e la punta della sciabola alla faccia dell'avversario, lo guardava fisso con occhio così torbido e così minaccioso, che Oldofredi se ne avvide. «A voi!» disse Castelforte. Questa volta si slanciò Oldofredi, minacciando al ventre dell'avversario. Sangiorgio, immobile, col braccio teso e la punta agli occhi del nemico, non parò; e come vide la lama, che aveva finto una botta al ventre, passar luccicando davanti a' suoi occhi per ferire alla faccia, la respinse con una battuta strisciante così franca e così pronta che la sciabola escì di mano ad Oldofredi, e restò sospesa per la fasciatura. «_Alt!_» gridò Castelforte. Lapucci e Bomba corsero a rilegar l'arma al polso d'Oldofredi. «Animo. Un'altra botta!» disse piano Castelforte all'orecchio del suo primo. Sangiorgio s'era rasserenato. Un riso interiore di superbia contenta gli spianava la faccia. I suoi denti si schiusero. Oldofredi era di nuovo a posto, con la sciabola in pugno, ma questa volta bianco d'un pallore iroso: aveva lui, ora, i denti sbarrati, e le sopracciglia tese come se dovessero scoccar saette. E al comando si buttò addosso al nemico, d'uno sbalzo, senza finte, senza artifizi di scherma, per spaccargli la testa. Ma prima che la sua sciabola arrivasse allo scopo, la punta di quella di Sangiorgio gli entrò nel labbro inferiore e squarciò tutta la guancia, sino, alla tempia. I quattro padrini si buttarono in mezzo, i due medici accorsero. Oldofredi fu tratto in disparte, posto a sedere sopra un _pliant_, circondato dai sei uomini. Sangiorgio restò solo, con la sciabola in mano, mezzo nudo, stupefatto, sotto il cielo di piombo che da capo schizzava una pioggerella fangosa. Confusamente, intorno a sè, mentre la carrozza passava sotto Porta del Popolo, egli sentiva chiedere da Castelforte al medico: «Quanti punti ci son voluti?» «Dieci.» «Per quanti giorni ne avrà?» «Venti: ammeno che non si dichiari una febbre forte.» «Perdio! che bel colpo!» interveniva a dire Scalìa, fumando voluttuosamente un sigaro. «E resta la cicatrice,» aggiungeva Castelforte, ridendo. «Oldofredi non se lo scorderà, il colpo.» Il medico discese all'ospedale di San Giacomo, dopo essersi dato l'appuntamento per firmare il processo verbale. A quella fermata Sangiorgio si scosse dal suo silenzio. «Avrai fame?» gli chiese Scalìa. «Lo credo io: se l'è meritata bene,» soggiunse Castelforte. E ambedue sorrisero di compiacenza. Sul terreno, per non far vedere, i due padrini non avevano abbracciato il loro primo, ma come ritornavano, in carrozza, si lasciavano andare a poco a poco a un esaltamento affettuoso. Avevano perduta la freddezza, la rigidità: guardavano Sangiorgio amorosamente, con certi occhi lucidi, parlavano di lui con orgoglio, con dolcezza, come di un figlio valoroso che ha subìto un esame, riportando il massimo dei punti: Castelforte arrivò sino a battergli due o tre colpettini sulla spalla, con una familiarità insolita in quel gran signore. Quasi quasi lo accarezzavano con gli occhi, col tono della voce, con certe frasi lusinghiere, fieri di lui, lasciando travedere come diversamente lo apprezzassero e gli volessero bene dopo il duello. Egli riceveva quietamente questa onda novella di amicizia, coi nervi che si ammollivano sempre più, lasciandosi andare a un gran bisogno di vita fisica, non pensando più, avendo voglia soltanto di mangiare, di digerire in una stanza calda, di dormire due, tre ore, profondamente. Sorrideva ai suoi padrini, come il giovanetto che ha fatto magnificamente gli esami, come la fanciulletta che ha preso la prima comunione: tutta la visione dell'Acqua Acetosa, e quella gran cicatrice sanguinante a fiotti sul viso pallido dell'avversario, erano scomparse, egli non sentiva che la soavità letificatrice del riposo nel trionfo. Le linee del volto si erano spianate, gli occhi avevano perduto la loro lucentezza quasi febbrile, la chiostra dei denti si riposava, addolorata: Francesco Sangiorgio aveva l'aria di un ebete. La colezione fu rumorosa e allegra, al Caffè di Roma. Ogni momento Castelforte e Scalìa versavano del vino a Sangiorgio; egli mangiava e beveva molto, tutto felice di mangiare, ringraziando col capo ai discorsi amabili dei due padrini, ridendo quando costoro parlavano del dispetto di Oldofredi, tanto più doloroso della sua ferita. Alle frutta le espansioni divennero maggiori: «... Perchè» continuava a dire Scalìa, «perchè, io ho lunga esperienza di duello, ho temuto per te, caro Sangiorgio. L'avversario era forte e coraggioso e si era battuto venti volte: tu, novello, inesperto... è naturale, ho temuto...» «Oldofredi non se lo aspettava...» aggiunse Castelforte. «Pareva che scherzasse, sul terreno,» osservò Sangiorgio. «Oldofredi non scherza mai,» disse sentenziosamente Scalìa. «Non bisogna credere alle sue _pose_. Al terzo assalto, ve lo assicuro io, cari colleghi, egli era furioso: è andato addosso a te, Sangiorgio, che pareva ti volesse spaccar la testa. Che colpo, santo diavolo!» «Che colpo, perdio!» fece coro Castelforte. E gli stessi discorsi di compiacenza ricominciavano sempre, un po' monotoni, un po' da trasognati, come proferiti da coloro che stanno sotto una grande impressione recente e ne rifanno la storia cento volte, cullandosi in quella stessa musica, incapaci di pensare ad altro. E tre o quattro volte fu rifatta la storia; l'onorevole Melillo, che aveva fatto colezione con l'onorevole Cermignani alle _Colonne_, un po' preoccupato della sorte del collega basilisco, era venuto in su pel Corso, per vedere se incontrava la carrozza, e chiacchierando di politica, gridando, riscaldandosi, strillando, enumerando cifre e demolendo bilanci, avevano scorto nella trattoria il gruppo dei tre che mangiavano: l'onorevole Melillo, il biondone dal viso rosso e dalla sottoveste bianca, era giunto sino ad abbracciare Sangiorgio, mentre Cermignani, il deputato abruzzese, restava in piedi, ascoltando la storia dai padrini, tirandosi la barba nera macchinalmente, esclamando, preso da un furore bellicoso, postato quasi in una posizione di attacco. Il Bencini, il vecchio deputato di destra, il vecchio cattolicone arguto, in sospetto di burlarsi di Dio come del diavolo, che era in fondo alla sala chiacchierando vivamente e ridendo, con quel buon vecchione placido, dalla barba argentea, il Gambara, il decano dell'antico partito conservatore, il Bencini curioso e arzillo come una femminetta, venne anche lui a congratularsi quantunque non conoscesse punto il Sangiorgio: ma il Toscano spiritoso e paradossatico aveva un'antipatia profonda per la stupidità vanagloriosa e spadaccina dell'Oldofredi. Egli sghignazzava pensando alla collera del deputato marchigiano. — Non se la lega al dito questa cosa, Oldofredi: gliel'ha già ricucita sulla faccia! Per fortuna che non siamo in canicola, non siamo: lui avrà una voglia di mordere! — E tutti, intorno a Sangiorgio, ridevano: Scalìa comperava dei fiori da Nerina, Castelforte narrava ancora il fatto a Gambara che si era accostato anche lui, e sorrideva placidamente guardando Sangiorgio con l'occhio del vecchio parlamentare che ama i giovani deputati laboriosi e coraggiosi; Cermignani e Melillo ascoltavano il chiacchiericcio sfavillante del Bencini dalla voce chioccia e dal riso secco. Fu quasi un corteo che accompagnò il deputato Sangiorgio sino al _landau_. Era uscito il sole, la carrozza fu aperta, Melillo volle salire anche lui. E come pel Corso passava la carrozza, vi era un allargarsi, un propagarsi di saluti, di cenni, di congratulazioni, di gesti, di sorrisi: pel Corso dove andavano su e giù deputati e giornalisti, uomini d'affari e _reporters_, dopo colezione, aspettando l'apertura della seduta, facendo il chilo, godendo quel piccolo raggio di sole prima di andarsi a chiudere nel caldaione del signor Comotto. L'onorevole Chialamberto, il breve deputato ligure, discorreva col colonnello Dicenzo, un abruzzese magro dall'aria ascetica; ambedue salutarono profondamente i quattro deputati che passavano, accennando fra loro. In quanto al deputato Carusio, in Piazza Colonna, egli si buttò allo sportello, volle si fermasse, abbracciò e baciò Sangiorgio, gridando, tutto affannato, che correva dal presidente del consiglio a portargli il felice esito del duello. Ma, nella Camera, la dimostrazione crebbe, crebbe sempre, intorno a Sangiorgio. In verità, il presidente della Camera serbò, come sempre, il suo contegno corretto: ma vi fu nel sorriso con cui accolse Sangiorgio qualche cosa di cordiale, di amichevole, una specie di luce affettuosa. L'onorevole Freitag, grande, grosso, dalla testa incassata nelle spalle, dondolandosi mastodonticamente nel nero corridoio, domandò al deputato meridionale, con la sua vocetta sottile: «Alla faccia, nevvero?» «Alla faccia.» Gli altri non facevano che fermarsi, congratularsi vivamente, stringere la mano: tutti quanti chiedevano i particolari del duello; Scalìa, Castelforte, finanche Melillo, erano circondati; i tre assalti con la botta finale circolavano; i deputati bellicosi li ascoltavano con gli occhi lustri, puntandoli, commentandoli con qualche esclamazione; i deputati pacifici ascoltavano in silenzio, sorridendo, figurandosi un combattimento da torneo. Alcuni, i più crudeli, si facevano ancora narrare e descrivere la lunghezza e la profondità della ferita di Oldofredi, chiedevano se vi era stata molta emorragia, se la cicatrice si sarebbe subito rimarginata, se lo sfregio sarebbe rimasto molto visibile. Ma dappertutto, in tutti, anche nei più cauti, anche in quelli che arrischiavano solo una parola e un saluto, trapelava l'antipatia profonda che i molti colleghi avevano per Oldofredi; in molti traspirava il rancore segreto per una parola, per uno sguardo, per qualche piccolo sgarbo ricevuto e sopportato solo per pazienza, per non far chiasso, per non fare scandali; in molti traspariva la noia naturale cagionata dall'individuo che vuol imporsi senza aver meriti, che fa il prepotente a ogni costo e a cui l'improntitudine tien luogo di coraggio e la insolenza tien luogo di spirito. Qualche raro amico di Oldofredi si teneva in disparte, si contentava di non congratularsi con Sangiorgio. Quando Lapucci e Bomba entrarono, verso le quattro, nell'aula, come se niente fosse stato, le domande furono poche, dettate da una fredda curiosità: i due padrini sentivano, alla loro volta, l'isolamento del loro primo che giaceva in letto, con la faccia e la testa fasciata, in preda a una febbre violenta. Pochi domandarono di lui: pochi, i quali come gli altri, pensavano che quella ferita fosse meritata in castigo della soverchia insolenza, ma che convenisse essere pietosi anche coi vinti. E l'entusiasmo per Sangiorgio durò nel pomeriggio, crescendo; aumentò durante il pranzo. Stordito, confuso, ma conservando sempre la sua freddezza esterna che solo uno stupido sorriso veniva a diradare, egli lasciava dire, lasciava fare, accogliendo tutto e tutti, abbandonandosi a quella popolarità novella. Andò al Costanzi, dove si rappresentavano gli _Ugonotti_, prese una poltrona di orchestra, ascoltò la musica che non conosceva, come incretinito: dietro di lui, due giovanotti parlavano del duello, accennando a lui, come quello che aveva data la sciabolata a Oldofredi; essi parlavano sottovoce, ma egli udì benissimo, egli che non udiva la musica. Nell'intervallo sentì sul viso il calore di uno sguardo magnetico: donna Elena Fiammanti lo guardava da un palco. Salì lassù macchinalmente: schiudendo la porticina, entrando in quel camerottino che è separato dal palco e dal pubblico da una tenda rossa, egli sentì due braccia al collo e la voce quasi commossa dirgli: «O Franz, o Franz, perchè battersi per me? Non ne valeva la pena.» Quando scesero, finita l'opera, dopo aver ricevuto almeno dieci visite nel palco, mentre la Fiammanti si appoggiava al suo braccio, con gli occhi umidi di piacere orgoglioso, egli vide nell'atrio il grande Paulo che s'infilava un soprabito enorme. Subito tutta la nebbia superba gli si dileguò e gli venne voglia di buttarsi sul largo torace di quel galantuomo. Era lui, il molosso, che gli aveva consigliato di tirare alla faccia. Sul terreno, egli non aveva ricordato che quel consiglio. V. Il principio della questione si era manifestato due giorni dopo la festa dello Statuto, inopinatamente. In un paese d'Italia, in quella domenica di festa patriottica, la giunta municipale e il consiglio comunale, in parte, avevano dato la prova più manifesta di un repubblicanismo avanzato: i consiglieri monarchici si eran subito dimessi, telegrammi erano giunti ai deputati, ai giornali, agli uomini influenti, il caso era diventato grave, in un momento. Era già l'estate e le sedute si trascinavano lente e fiacche: la politica estera si era già addormentata del suo sonno estivo: leggi importanti non ve ne erano; lo scoppio, dunque, fu improvviso, inaspettato, bene accolto, tutti vi s'interessavano. Gli amori fra la Camera e il Ministero si erano illanguiditi, come tutte le passioni corrisposte e soddisfatte; la gran sazietà empiva di nausea costoro che si erano troppo amati; e il principio della lite che sempre più si complicava, fu il colpo di frusta che risvegliò gli amanti disgustati e sonnolenti. Non avevano più voglia, nè più forza di amarsi con furore: la ritrovarono per litigare, per insultarsi, par darsi a una guerra di sospetti, di maldicenze politiche, di calunnie private. Il maggior accusato era il ministro dell'interno, che, obbedendo a un suo ideale amore della libertà, non aveva voluto sciogliere il municipio di quel paese. Uomo profondo, d'idee larghe, di un grande carattere, abituato a considerare le questioni politiche con un'ampiezza che la meschinità degli altri uomini politici non perdonava, elevandosi sempre a un ordine di concetti molto superiore, egli aveva detto che bisognava rispettare la libertà della coscienza politica: in privato, ridendo un poco della gravità inusata che si dava a questo caso, aveva detto, come i monatti di Milano a Renzo Tramaglino: andate là, andate là, non saranno questi piccoli assessori camuffati da Erostrati, che abbruceranno il tempio delle istituzioni. Rispondeva a tutti che l'affare era di poca importanza, e alle facce serie, preoccupate, di coloro che lo venivano a interpellare, opponeva la sua serenità di uomo superiore, che pareva una _posa_ ed era l'intima sicurezza di una coscienza quieta. Ma intorno a lui, sottomano, trapelante, ferveva il desiderio della crisi: tutti i malcontenti, tutti gli ambiziosi a cuore aperto, tutti i mediocri, tutti gli sciocchi invidiosi, tutti i cretini presuntuosi si agitavano, si radunavano, si davano convegno, discutevano, mettendo insieme la mediocrità e l'invidia, l'ambizione e la presunzione, il malcontento e la cretineria. Si strillava al caffè, si perorava nelle trattorie, si ordivano piccoli complotti parziali nei salottini delle case mobiliate dove i deputati alloggiavano, si aveva l'aria di congiurati davanti ai piccoli tavolini che il liquorista Ronzi e Singer mette innanzi alle sue botteghe, nell'estate, a Piazza Colonna. Ogni giorno, alla stazione, da tutte le parti d'Italia, arrivavano deputati, con una piccola valigia: la valigia della settimana di crisi, dove la moglie mette quattro camicie, sei fazzoletti, le pianelle, una spolverina, giacchè il deputato verrà via subito, in qualunque modo. Erano già in Roma trecentocinquanta deputati, numero eccezionale che le più palpitanti sedute invernali non arrivano mai a formare. E forse, ognuno dei trecentocinquanta aspettava, credeva, voleva, desiderava, era sicuro di diventar ministro, per la crisi. Il ministro, l'uomo forte e buono e sapiente, o non sentiva, o sentendo, non dava molta importanza a questo crescente tumulto di crisi. «Non vi sarà crisi,» rispondeva, sorridendo, a coloro che lo interrogavano amichevolmente. «Non vi sarà crisi,» soggiungeva a chi glielo affermava con una certa aria di protezione preoccupata. In fondo, egli conosceva il mondo politico e gli uomini che lo compongono: sapeva bene che il presidente del consiglio era con lui, che eran con lui gli altri sette ministri, che questo corpo vigoroso di nove individui non si sarebbe fatto scalzare, così, senza una ragione al mondo, perchè un municipio non ha voluto firmare un indirizzo al re e ha levato la croce dalla bandiera tricolore. Egli conosceva bene la passione furibonda dei suoi otto colleghi pel potere, la tenacia di quelle ostriche attaccate allo scoglio; per arrivarci avevan dovuto soffrire e agonizzare politicamente, sarebbero morti prima di andar via. Egli sorrideva, pensando quanta forza può dare la debolezza: sorrideva, ed era sicuro. E passava a un giro d'idee più morale: lo scetticismo non aveva intaccato certe sue nobili credenze, la sua fede nella coscienza umana non era ancora scossa. Egli sentiva che questo culto supremo della libertà era l'amore di tutte le intelligenze, di tutti i cuori italiani: egli sapeva che gli stessi meschini possono per un istante traviare questi cuori e queste intelligenze, ma che di fronte alla grandezza di un'idea, tutto sarebbe scomparso. Invano, ogni tanto, arrivavano sino a lui i soffi maligni, le voci calunniose, le notizie false o falsificate; invano, qualche vero amico gli suggeriva di diffidare, di considerare la situazione da pessimista: il ministro dell'interno conservava quella sua spiritualità appena appena velata di amarezza, egli non poteva esser vinto; moralmente e materialmente, si sentiva saldo, stretto coi colleghi, fatto forte da una causa generosa. Non voleva sentire lo sviluppo della crisi parlamentare, il ministro: eppure in quella grande caldaia politica bollivano tutti i temperamenti, e tutti i caratteri delle regioni italiche si manifestavano. I Siciliani si davano a quella loro foga simpatica, mescolata d'ironia e di buon senso; i Napoletani gridavano e gesticolavano; i Romani aspettavano, attenti, temporeggiando, sapendo il momento in cui dovevano intervenire; i Toscani ridevano dietro gli occhiali, sogghignavano sotto i baffi, ambiziosi, mefistofelici, burloni di sè stessi e degli altri; i Lombardi si aggruppavano, un po' solitari, un po' aristocratici; i Piemontesi e i Liguri andavano e venivano, si agitavano, senza parlare, intendendosi a occhiate. Ma i più ardenti, i più ribelli, i feroci, erano i rappresentanti delle piccole province, gli Abruzzi, le Marche, le Romagne, la Campania, le Calabrie, i rurali, i rappresentanti le province che danno la vita e le ricchezze alle grandi città, i deputati che veramente si appassionano alla politica, che ci credono, che la stimano come la più grande potenza umana, che si inebbriano come di un vino generoso. Solamente, fra tanto tumulto represso, gli uomini della Basilicata non si riunivano, non formavano gruppi, non parlavano, non si chiedevano nulla e non rispondevano nulla, freddi e corretti. Il ministro, l'uomo integro e nobile, era sicuro: non avrebbe mai temuto, in nessun caso; e sorrideva. Il giorno dell'interpellanza, quando il ministro dell'interno entrò nell'aula, vi fu un lungo mormorio sui banchi. Egli se ne accorse, ma, forte lottatore nelle piccole come nelle grandi cose, ebbe lo spirito di non volgere gli occhi intorno, di non alzarli su alle tribune: pensò subito, però, che la cosa era più grave di quello che gli era sembrata sino al giorno prima. Anche il giorno prima, egli aveva detto, così, con una certa noncuranza, al presidente del consiglio: «Vi è molto rumore per quest'affare del municipio.» «Calori estivi,» aveva risposto, sorridendo, il presidente. «Ella è d'accordo con me?» «D'accordo, naturalmente,» soggiunse l'altro, senza però stabilire su che cosa. «Crede che il discorso di don Mario Tasca sarà importante?» «Uno dei soliti discorsi.» E si parlò d'altro. Gli altri colleghi si erano mantenuti in un grande riserbo: solo Vargas, il ministro delle belle arti, il vecchio asciutto e segaligno, disseccato da una divorante ambizione, aveva fatta qualche opposizione vaga, a cui aveva risposto vagamente il ministro dell'interno. Le cose erano restate lì. Ora, nella Camera, egli si accorgeva che la giornata sarebbe stata bollente. Sfogliando certe sue carte, con gli occhi bassi, egli sentiva, dal ronzìo parlamentare, che vi dovevano essere almeno quattrocento deputati: alzò gli occhi alla tribuna diplomatica, la contessa di Santaninfa, la bella pensierosa, vestita di nero, chinava gli occhi malinconici sull'aula; la contessa di Malgrà, la pallida bionda seducente, aveva quel giorno un cappellino di paglia di oro e non lasciava mai di considerare l'aula attentamente. La tribuna degli impiegati era piena: in quella dei giornalisti una triplice fila di teste si piegava curiosamente. — Fiutano l'odore della polvere, — pensò lui. E guardò i suoi due o tre colleghi ministri, come se volesse dir loro qualche cosa: ma costoro avevano l'aria così indifferente, che egli non disse più nulla. Solo guardò la Camera: essa si era chetata, ma aveva un'aria dura e solida, una massa profonda di quattrocento persone che tacciono, aspettando. E dopo una quindicina di minuti, alle tre, l'oratore della destra, don Mario Tasca, cominciò a parlare dal più alto banco del penultimo settore, in mezzo a un silenzio di grande chiesa vuota: pianamente, il presidente del consiglio era entrato nell'aula e si era seduto alla punta del banco dei ministri. Don Mario Tasca, il vecchio bianco, dal collare di barba candido, dalla pelle rosea, parlava con una eleganza di forma, con una rotondità di periodo che talvolta il gesto della mano, circolare, accompagnava e compiva, come il movimento di una piccola ruota. Il discorso filava, filava, dolcissimamente, senza mai un abbassamento di voce, senza un'esitazione, come un canto d'usignuolo: l'oratore non guardava il ministro, guardava in aria, come un _virtuoso_; non si chinava mai a guardare le sue note, come uno che conosca la sua parte a memoria. Ma in tutta quella dolcezza esteriore, il discorso suonava di rampogna: l'oratore non parlava nè di persone, nè di fatti, ma pur restando in una certa vaghezza di termini, diceva che erano state offese certe istituzioni e certe idee, a cui sin allora niuno aveva toccato. Era un discorso senza ingiuria, un po' nebuloso, forse, ma accusava: taceva i nomi, ma feriva le coscienze. Il ministro ascoltava attentamente e ogni tanto sogguardava il presidente, che non si voltava mai dalla sua parte: gli altri ministri ascoltavano con attenzione profonda don Mario Tasca, che continuava nella bella fluidità della sua prosa: i deputati tutti rivolti verso la destra ascoltavano: lassù tutto il pubblico delle tribune si piegava ai parapetti: le due contesse, la bruna e la bionda, pareva che sorbissero le parole di don Mario Tasca. Costui parlò per un'ora, appena appena pigliando fiato, senza bever mai, senza che mai il timbro della sua voce si alterasse di colorito. Egli incalzò il ministro, negli ultimi periodi, più brevi, sempre rotondi, a ruote sempre più concentriche, a rispondere se voleva continuare in questo dannoso sistema di noncuranza, di lasciar fare, di lasciar passare. Un lunghissimo, lunghissimo mormorìo di approvazioni salutò don Mario Tasca. Il ministro, prima di rispondere, interrogò con l'occhio il suo presidente: ma costui scriveva; era inutile. Allora egli si alzò e rispose con molta pacatezza, con molta giustezza, riducendo la questione ai suoi termini minimi, dichiarandola di poca importanza, attenuando e sfrondando tutti i fatti, ricorrendo a una quantità di ragioni piene di buon senso, rinunziando al gonfiamento delle grandi frasi, che egli credeva inopportune. E discorrendo placidamente, si guardava attorno, interrogava i volti dei deputati, quasi volendone ricavare in loro approvazione. Ma i volti non si rischiaravano, chiusi, molto malcontenti: i deputati non erano soddisfatti, no, erano venuti nell'aula esaltati da otto giorni di discussione e di aspettazione, la questione era molto grave, il ministro voleva cambiar loro le carte in mano, riducendola a un piccolissimo affare. Invano egli prodigava certe sue finezze di talento ingegnoso, certe sue risorse stringenti e lucide di logica: egli continuava a sbagliare la nota, non avendo intesa l'intonazione di quel giorno, non comprendendo che il vento era alla grande rettorica delle giornate di crisi. Sentiva lo scontento, ma non ne capiva il perchè: gli pareva sempre di poter vincere questa battaglia con le semplici armi della ragione, — ma un silenzio glaciale regnò nell'aula, alla fine della sua risposta. Poi Niccolò Ferro, il deputato radicale, chiese la parola. Il ministro aggrottò lievemente le sopracciglia: in quel minuto si accorgeva del pericolo. Niccolò Ferro, l'oratore migliore della estrema sinistra, il parlatore lucido, freddo, imperturbabile, forte nella logica, come forte nella rettorica, chiarì così limpidamente la situazione, che non vi fu più dubbio. La dimostrazione di quel municipio era rialzata al suo vero e grande valore, era un segno del tempo, niuno avrebbe osato mai violare la libertà delle coscienze, sino a voler proibire o punire queste manifestazioni. Egli parlò della tradizione storica dei Comuni, di tutto il lungo sforzo italico per giungere a questo stato di libertà, ancora incipiente, ma che presto avrebbe avuto un largo sviluppo. Un consigliere è un uomo, è un cittadino: egli pensa come crede e agisce come pensa. Le istituzioni non decadono per mano degli uomini, ma decadono per la loro naturale corruzione: non sono gli uomini che le uccidono, ma le nuove idee che le distruggono. Fatalmente esse si imputridiscono pel germe morboso che contengono: nulla le salverà mai, quando il corrompimento è così avanzato. In fondo Niccolò Ferro era scontento e contento del ministro: lo dichiarava apertamente. Scontento perchè lui, uomo di libertà, aveva voluto quasi mettere in ridicolo la coraggiosa e audace manifestazione di quel municipio che agiva a viso aperto: contento, perchè sapeva bene che la fede antica non vacilla mai nel cuore degli uomini integri, malgrado le allucinazioni tiranniche del potere — ed era sicuro che giammai un atto di repressione sarebbe partito dalla volontà dell'illustre uomo. L'illustre uomo aveva inteso tutto, torcigliandosi un po' nervosamente il mustaccio bigio: guardava Niccolò Ferro, il suo amico, con molta dolcezza, senza un rimprovero. Si sentiva affogare: sentiva lo sgomento della Camera innanzi all'audacia novella del partito radicale; sentiva l'equivoco in cui tutti lo volevano trascinare, amici e nemici, e contro il quale non poteva difendersi. Nè poteva dichiararsi solidale con Niccolò Ferro, nè combatterlo: e solidale, pel suo silenzio, lui, il ministro della Corona, tutti lo avrebbero creduto. Sentiva, in quel momento, il lungo errore di una politica troppo leale, solamente fondata sulla verità, solamente inspirata agli alti principii, astratta dalle persone e dai fatti, quindi poetica e fallace: una politica così poco pratica, che, ecco, prestava il fianco indifeso alla destra e alla sinistra. Tutto questo capiva l'illustre uomo; ma non poteva dire nulla. Forse, in quel frangente, il vecchio presidente del consiglio, parlando lui, con quella sua temperante bonomia poteva salvar la posizione: egli poteva metter a suo posto le paure mistiche e canore di don Mario Tasca, come le spavalderie intempestive di Niccolò Ferro. Ma il vecchio presidente leggeva una lettera, placidamente, come se si trovasse nella pace del suo gabinetto e non nel tumulto dell'aula. La parola fu data all'onorevole Sangiorgio e subito l'assemblea si chetò; il presidente del consiglio alzò la testa canuta, e guardò fisamente il deputato di Basilicata, come se volesse leggergli nell'anima: il ministro dell'interno respirò, sollevato, immaginando che quanto nè lui, nè il presidente avevano detto, lo avrebbe detto Sangiorgio. Era intelligente, amico sicuro del ministero, non poteva che rimettere le cose al loro posto. Invece, dalla prima frase crudele, l'onorevole Sangiorgio cadde addosso brutalmente alla politica interna, con un furore concentrato. Avevano detto troppo poco don Mario Tasca e Niccolò Ferro, come attacco e come difesa: le cose erano diversamente gravi, da un anno a questa parte; il più profondo disordine regnava nella politica interna, non vi era più nessuna guida, non vi era più freno, i pubblici funzionari agivano a casaccio, o non agivano punto, non avendo ordini. La politica interna era fondata sull'equivoco e sulla noncuranza colpevole: le teorie elastiche di libertà vi portavano la rovina. E questo tono acuto, quasi tragico, di attacco, doveva essere indovinato, era quello della giornata, perchè ad ogni frase la Camera mormorava per approvazione. Sangiorgio citò fatti: non era soltanto quello che dava da pensare, nè il primo; disse il numero delle associazioni repubblicane che in un anno era cresciuto a dismisura; citò i comizi che si moltiplicavano dappertutto; e gli atti di ribellione, non di quel solo municipio, non di quella sola Giunta, ma di altri pubblici funzionari; parlò di un prefetto che aveva consentito ad assistere ad un banchetto, dove era stato proibito di brindare al re, — e il ministro dell'interno, malgrado lo sapesse, malgrado gli articoli dei giornali monarchici, non aveva punito quel prefetto. I prefetti, i questori, i delegati, lasciati in balìa delle loro opinioni, della propria volontà, si abbandonavano ad atti di autoritarismo o di debolezza inqualificabile: ma la nota principale era la indolenza, una trascuraggine colpevole. Da Roma non partiva una circolare energica, mai: i rapporti dei più zelanti funzionari restavano senza risposta, o avevano una risposta ambigua: a Roma si facevano una quantità di deduzioni filosofiche e sociali, ma nessun atto di volontà. La Camera approvava tanto forte, che il suo presidente dovette due volte richiamarla all'ordine. Sangiorgio parlava con una speciale durezza di voce, con una brevità di accento e di frasi, con una tale aridezza di forma, che le più piccole cose facevano effetto: e parevano, quei fatti, tanti scatti di un'arma infallibile, tutti colpivano al segno, implacabili. Era un atto di accusa, una requisitoria compilata con la crudeltà fredda di un magistrato, dalla collera legale e morale. Sangiorgio aveva la faccia rude e concentrata, i lineamenti immobili, non sorrideva, non gesticolava, non ricorreva a nessuna delle solite astuzie dell'oratore: pareva così profondamente sicuro e compenetrato della sua causa, che solo l'enunciazione precisa e glaciale bastava. Non faceva commenti, o quasi mai: era una enumerazione di fatti, passava dall'uno all'altro, dicendo, ogni tanto: _ma non basta, vi è dell'altro_. Questa frase, ripetuta ogni tre o quattro minuti, monotona come un ritornello tragico, faceva una grande impressione: dei brividi nervosi parea corressero lungo la spina dorsale di quel grande corpo che era la Camera. L'aria parlamentare era carica di elettricità: nessuno scriveva, nessuno leggeva, tutti erano rivolti verso l'oratore, dei gruppi di ascoltatori si erano fermati sotto il suo settore; della gente era financo scaglionata sulla scaletta, quasi volesse bere le parole di Sangiorgio, in una esagerazione di attenzione. Lassù, nella tribuna diplomatica, la già bella, e ancora bella contessa Lalla D'Ariccia, il più sicuro barometro della crisi, era comparsa: ella non veniva che nei giorni di elettricità. Donna Luisa Catalani chinava la piccola testa fasciata da una veletta bianca, e, accanto a lei, donna Angelica Vargas piegava la bella faccia senza velo, tutta rossa ai pomelli, quasi esaltata dalla curiosità. L'oratore riassumeva, con una forza di sintesi martellante sull'uditorio, tutto quello che aveva detto: e senza aggiungere osservazioni, senza chiedere risposta, senz'aspettarne, con un disprezzo di qualunque argomento, detto da qualunque avversario, propose, leggendolo, il seguente ordine del giorno: «La Camera, disapprovando la politica interna del ministero, passa all'ordine del giorno, — Francesco Sangiorgio.» Nel rapidissimo minuto di silenzio, si udì, chiaro, nitido, pronunziato dall'on. Schuffer: — Perdio! Poi sorse un tale vocìo, così alto, così irrefrenabile, che per cinque minuti il presidente scampanellò invano. Si discuteva nell'aula, sulle scale, nell'emiciclo, nei banchi, nelle tribune, dapertutto: le signore, da quella diplomatica, guardavano, guardavano, prese forse anche esse da un tremito nervoso. E il forte e onesto uomo, che era ministro dell'interno, aveva ricevuti nel petto, senza muoversi, i colpi dell'onorevole Sangiorgio, quasi ammirando la forza del suo avversario: solo, verso la fine, come lo scioglimento di quella posizione si approssimava, un dubbio crescente lo assaliva. Dopo quell'attacco così vigoroso, fatto dal centro, da un ministeriale, da un uomo che aveva mostrato aver tendenze democratiche, la situazione era così grave, che solo la parola del presidente del consiglio poteva chiarirla. La difesa spettava al più vecchio, al capo, all'antico parlamentare. E un sospetto, sì, un nuovo sospetto, amarissimo, saliva dal cuore al cervello del ministro dell'interno: in quei cinque minuti di tumulto parlamentare, come quelle piante velenose del tropico che crescono in una notte, il sospetto gli si allargò nell'anima, immenso. Egli guardava il vecchio presidente, fiso fiso, come se volesse strappargli la verità, e temendo che una qualche emozione gli velasse la voce, non gli parlò, non gli chiese nulla: lo guardava, soltanto, aspettando che uscisse da quel silenzio, che scotesse quell'inerzia, che rivivesse, poichè dalla mattina pareva morto. Ma il presidente taceva e scriveva, carezzandosi con l'altra mano la barba. Allora il ministro, cedendo a un impeto del suo temperamento sanguigno, si piegò sul banco, per leggere che cosa scriveva il presidente. Niente scriveva: disegnava un pupazzetto, con molta attenzione di disegnatore, e si carezzava la barba con l'altra mano. E il ministro dell'interno si rifece indietro, calmo a un tratto, un po' pallido, senza sospetto. La certezza era venuta, innegabile. Egli sentì l'abbandono, sentì il tradimento. I colleghi, il presidente lo lasciavano cader solo. Erano già staccati da lui, come si fugge il morto, per nausea del puzzo. Certo, il tradimento era completo, erano essi che avevano voluto liberarsi di lui, come di un braccio ammalato o di una gamba cancerosa. E la Camera non voleva più saperne di lui: lo sentiva. Quando il presidente della Camera gli dette la parola, per replicare, si udì la onesta e tranquilla voce dell'illustre uomo dire: «Non ho nulla da aggiungere; accetto l'ordine del giorno Sangiorgio.» Alla votazione egli ebbe trenta voti contro. Il ministro dell'interno era caduto. Dopo otto giorni, il giornale officioso del ministero e tutti gli altri in seguito scrivevano: «È quindi assicurato che nel rimpasto ministeriale, don Silvio Vargas passa dal ministero delle belle arti a quello dell'interno. L'onorevole Sangiorgio, invano pregato di prender parte alla nuova combinazione, ha sempre rifiutato ed è partito per la Basilicata.» PARTE TERZA I. Un soffio molle di pianto; una luce mesta che le funebri tede pagane, lambenti con la fiamma azzurrognola le pareti di masso granitico, non diradavano; una luce velata che le gialle candele funebri cristiane, anime consumantisi nell'amore, non aumentavano; una fredda aura di sepolcro; un singhiozzìo frequente musicale; e una gran massa di gente nera, quasi perduta nell'ombra di quei funerali: e nell'aria, nella luce, nelle fiammelle, nell'ombra, nella musica, erano lacrime versate e desiderio di lacrime nuove, era la nota del dolore irrimediabile. A lui, fermo al suo posto, e lasciantesi penetrare da quel languore melanconico che al dolore per infinite e continue gradazioni declina, un improvviso, intimissimo tremore scosse i nervi e fece battere violenti i polsi: e per naturale moto, sentendosi tremare e impallidire, egli si volse intorno, cercando scorgere qualcosa in quel fioco lume che scendeva dal velario. Ora, egli vide, accanto a sè, questa dolcissima donna, questa donn'Angelica, dalla parvenza realmente angelicata. Era vestita di nero, di cordoglio profondo, come quei funebri reali, in quel Pantheon sacro alla gloria e alla morte dell'Eroe, lo comportavano: e tenea gli occhi languenti fissi in un cero che si struggeva. Nulla ella vedeva, nulla parea sentisse, assorta nei suoi pensieri sicuramente di mestizia, perduta nei suoi sogni di dolore. Seduta accanto a una colonna, aveva voluto leggere, nel suo libro di orazioni, le preghiere che chiedono pace, che invocano requie ai defunti; ma presto il libro le era caduto in grembo, semi-aperto e le mani inerti non avevano avuto forza di riprenderlo. E a lui, quella gentilissima abbrunata, dal pallore di perla sotto il velo nero, dalle labbra soavi ancora schiuse pel passaggio della preghiera, dagli occhi perduti in mistiche e dolorose contemplazioni, parve una figura divina. E tutto, lume fievole azzurro di lampade, lume sottile di fiammelle che si allungavano, aria di dolore, musica di desolazione, profondo impregnamento doloroso che pareva avesse ammollito persino le antichissime, saldissime muraglie del Pantheon, incurabile male dello spirito, tutto per lui si concentrò in quella figura di donna, seduta presso a lui: ella personificò tutta quella tepida e umida giornata invernale, in cui il sole era morto; ella fu la sede morale di tutte quelle lagrime che sgorgavano dalle cose; ella fu l'abisso attraente del dolore, che tutto il dolore delle cose non arrivava a riempire; e sull'urto profondo dei nervi di lui, sulla vibrazione di tutto il suo essere, carne, sangue, nervi, muscoli, in tutta quella forte compagine di uomo forte, che sussultava, salì, crebbe, vinse un sentimento di pietà amorosa. Ella, inconscia, si abbandonava, fidente dell'ombra: si abbandonava alle sue fantasie di donna, vaganti fra i cerei, fra gli abiti neri lucenti d'oro dei preti, fra le grandi, quasi colossali cariatidi umane dei corazzieri, fra tante facce pallide, tristi, annoiate, sofferenti, o indifferenti. Malgrado quella immensa folla di gente che circondava il catafalco, malgrado l'indefinibile mormorio che se ne distaccava, ella si lasciava andare in quell'ora di libertà spirituale, l'ora breve, l'ora indisturbata, l'ora di liberazione, in cui il proprio dolore rinasce e si fonde e si trasforma nel dolore universale. Ogni tanto, a uno strappo più lugubre della musica, a una voce di cantore che pareva quasi bagnata di pianto, a una parola monotonamente cantata in _minore_ dal prete officiante, ella trasaliva e il suo sogno desolato ricominciava, percorrendo altre fasi, altri gradi, altri cerchi di malinconia: e in diverso e più profondo modo, ella procedeva per le vie amare, che le anime dolcissime sono condannate a percorrere. Non piangeva, no, perchè troppo vasta, troppo ampia era la visione funebre di quel giorno: ma egli vedeva bene, egli vedeva che le delicate palpebre, dalla fibra tenue, come petalo di fiore, erano ombrate di violetto: ivi erano state le lagrime e ivi dovevano correre. E guardandola ardentemente nella faccia soavissima, a cui quell'ombra di dolore dava una espressione altamente spirituale, non considerando più altro che quel volto bianco quasi impregnato, quasi saturo di lagrime, avendo tutto dimenticato nella contemplazione amorosa di quella donna, egli sentiva in sè tutta una mirabile trasformazione. La infinita amaritudine ond'ella appariva compresa, a poco a poco, per naturale assorbimento dello spirito passò in lui: fu come una penetrazione di sentimento, lenta, ma sicura, infallibile. Egli non domandava che fosse, ma sentiva tutta la sua personalità scomparire, annegarsi, morire in quella donna: egli era preso, non da lei, forse, ma da quello che ella provava. Tutto il vago, l'arcano, il mistico di un dolore femminile, senza lamenti e senza lacrime, senza cause e senza limite, gli saliva dal cuore al cervello, allargandosi, prendendo possesso, scacciando quanto altro mai trovasse sul suo cammino. No, non era più la pietà, la grande natural pietà dell'uomo verso la donna che soffre: la pietà è ancora un sentimento personale, la pietà è ancora un egoismo, la pietà è ancora il grido dell'individuo. Era lui, lui che soffriva, ora, come se la tortura di quel cuore femminile fosse la propria tortura; era lui che sentiva la puntura acuta delle lagrime che ella non versava, abbruciargli le palpebre; era lui che spasimava nell'altruismo, parendogli di esser perduto nell'angoscia, in un grande vuoto angoscioso, come quella donna appariva perduta, nuotante nel vacuo della sofferenza. Poi, come l'ora funebre procedeva, pel tempio pagano dove degnamente posava l'Eroe, si diffuse un sottile odore cristiano, d'incenso: e le spire eleganti salirono dall'altare alla vòlta, sempre più sfumate, sempre più lievi, perdentisi come preghiere per salire sino al trono della divinità. E l'incenso aveva anche sapore aromatico di pianto: e il profumo, salendo dalle nari al cervello, agiva profondamente sui nervi, carezzandoli con una amarezza voluttuosa. Nella penombra tutto parve ondeggiasse a quel bacio triste e aromale, i volti femminili parve si piegassero tutti, per nascondere il tremolìo delle labbra: e la testa della donna che egli guardava, reclinò, come se le mancasse la forza. Egli trasalì, fece quasi per accostarsi a lei e sostenerla: ma una singolare paralisi teneva legati i suoi movimenti. L'incenso bruciava, bruciava, nei vaselli d'argento, senza fiamma incandescente, vincendo le ultime forze sue. Un campanello risonò, con uno squillo che parve sonoro in tanto silenzio ed era debole: donn'Angelica scivolò dalla sedia sul marmo freddo del pavimento, chinò la testa fra le mani, non era che un mucchio di roba nera, abbattuta per terra, ignorata, ignorante, smarrita. E lui, senza inginocchiarsi, senza chinare il capo, senza pregare, sentiva di essere annientato nell'annientamento di quella donna, tutto gli sembrava finito, come tutto era finito per lei. A ogni nuovo squillo del campanello, come ella sussultava, quasi chiamata da una voce lontana, lo stesso movimento si ripercoteva in lui: nulla che nascesse in lei, spiritualmente, che non si svolgesse in lui, subito, per ripercussione. Attorno al catafalco, una fila di preti si schierò, tenendo nelle mani i cerei accesi: la croce d'argento, dove era confitto il Cristo Redentore morente, stette immobile, di fronte alla bara. E dalla musica, una voce partì, stridula, straziante, una voce che non cantava, ma gridava, una voce che non pregava, ma chiedeva: _libera, libera, libera me, Domine_. L'invocazione cristiana, il grido di dolore che chiede la liberazione, fece levar gli occhi alla dolcissima donna. E nei suoi tratti, che il pallore di fiore languente facea sembrare quasi consunti, nei suoi tratti sfigurati, un potente verissimo desiderio nasceva. Ora, mentre la voce aspra e quasi straziata del cantore domandava al cielo, con la emozione mistica, la liberazione, donn'Angelica, dopo aver percorso tutti gli stadi imprecisi, roteanti del dolore, sentiva in sè precisarsi la necessità del suo cuore. Ella parlava al Signore, ora; le sue labbra si agitavano, chiedendogli la liberazione. Quanto era stato d'indefinito sin allora, si definiva: la liberazione. La liberazione di tutto quello che era stato, bene o male, felicità o infelicità. — Tutto, fuorchè questo, Signore: tutto, fuorchè quello che è stato, Signore misericordioso: tutto, fuorchè il tremendo passato, Signore pietoso. — La liberazione: e per Colui che giaceva nel sepolcro e di cui si celebravano i funebri, la liberazione era giunta, in cima al vertice glorioso dove egli era salito, — era giunta, chissà, forse gradita. E peso reale della corona, pondo di regno, responsabilità grave di leggi e di volontà regali, cumulo di pensieri, di cure, tutto, la liberazione era venuta a cancellare da quell'anima, quietandola nella pace suprema. — Come dorme il re, fatemi dormire. Signore di bontà, come avete liberato la forte anima del re, o Signore, liberate la debole anima mia. Sia pure la morte, la liberazione; fatemi morire e liberatemi, Signore! In un momento supremo, la bella donna straziata tese le braccia al cielo, nella penombra; e in quella preghiera, le calde lacrime ribelli, tanto tempo frenate, le scesero giù per le guance. Egli aveva inteso, misticamente, quanto ella domandava al Signore: e quella preghiera funebre, quell'ultimo affanno doloroso, riassunto in una parola, quella richiesta del cristiano agonizzante, erano sgorgate anche da lui, nella musica, nella voluttà triste dell'incenso, nel crepitìo sepolcrale delle fiammelle, nell'ondeggiare vago della luce, in quel cerchio azzurrognolo del velario che parea si muovesse. Nacquero, sgorgarono dal suo cuore virile le frasi di desolazione, che ella aveva proferite: egli volle quello che ella voleva. Un piacere dell'anima, altissimo, si svolgeva da questo desiderio comune: lo spasimo era così acuto, la volontà era così intensamente concentrata in una sola cosa, che la vita parve a lui si moltiplicasse. E quando si volse e la vide piangere, spossata, cedendo all'intenerimento successivo ai grandi piaceri, ai grandi dolori, egli abbassò il capo superbo. In verità, egli piangeva, per amore. Col viso quasi nascosto da un fascio di rose bianche, con cui ella giocherellava e il cui fresco, invernale profumo, le coloriva le guance, donn'Angelica ascoltava la conversazione fra suo marito e Francesco Sangiorgio. Essi parlavano di politica, da un'ora: in verità, era piuttosto don Silvio Vargas che ne parlava, un po' arrovesciato nella sua poltroncina, fumando un pestilenziale sigaro toscano, guardando i delicati fiori dipinti sul soffitto grigio chiaro del salottino. Ne parlava con la sua secca voce fischiante, a sussulti, a frasi spezzate, sbuffando fumo, tirandosi ogni tanto il mustacchio rimasto rado malgrado la vecchiaia, rimasto castagnino come i capelli, malgrado gli anni. L'età non si vedeva in quel vecchio magro che nelle rughe finissime all'angolo dell'occhio, un ventaglio che si allargava verso le tempie; in due rughe profonde, agli angoli delle labbra, che il sorriso vi scavava: nella durezza di tutta la fisonomia diventata quasi lignea; nel collo scarno, dove i tendini si movevano come corda di strumento. Ma del resto era forte e robusto nella sua magrezza, come quei legni di quercia che s'induriscono per tanti anni nell'acqua prima di poter essere adoperati: e quando conficcava sotto l'arco sopracciliare destro la lente rotonda, senza cornice, sospesa a un cordoncino nero, la fisonomia acquistava una vivacità, quasi una giovanilità. E quella lente, in don Silvio Vargas, era un barometro infallibile: nelle ore di riposo quasi quasi l'arco del sopracciglio non la reggeva: nelle ore d'indifferenza pareva smorta, appannata, l'occhio dietro di essa era chiuso o socchiuso, immobile; nelle ore di stanchezza profonda, di delusione, la lente si staccava dalla sua orbita, ricadeva sul petto, si perdeva fra le pieghe del soprabito e della sottoveste; nelle ore di battaglia, di scaramuccia, di combattimento, la lente stava ritta, al suo posto, lucida, nitida, l'occhio era aperto e scintillante. Gli avversari e gli amici, troppo passionati per essere osservatori, non avvertivano questi mutamenti che più tardi, dopo: il barometro politico essi lo trascuravano: sentivano la gagliardia o la debolezza, non vedevano dove si manifestavano. Donn'Angelica Vargas, quando aveva inteso annunziare, dopo colezione, il deputato Sangiorgio, si era levata per andarsene. Ma il marito, mentre chiudeva un giornale e ne apriva un altro, le aveva detto di restare, brevemente, come quando voleva essere ubbidito. Ella era rimasta ritta, presso una giardiniera fiorita di cinerarie, malgrado il rigore invernale: e salutato colui che entrava, non era intervenuta nella conversazione. La svelta e giovanile persona, smesso l'abito di cordoglio, era mollemente avvolta in una vestaglia a grandi pieghe, di colore, di stoffa, di foggia monacale: un grosso cordone di seta girava intorno alla cintura: le belle mani fini erano perdute nell'ampiezza delle maniche. Ella, ogni tanto, si voltava: e a un motto arguto o vivace di suo marito, sorrideva per dimostrare che prendeva parte alla conversazione, che intendeva, che approvava: a una risposta di Sangiorgio, a una osservazione, a una riflessione, ella si voltava a guardarlo, una breve occhiata, ma intelligente, ma apprezzatrice. Pure, si occupava delle piante, amorosamente, osservandole con una grande attenzione, togliendone via la polvere dalle foglioline che ne erano coperte, staccando i piccoli rami secchi e i fiorellini già fracidi, che deturpavano la bellezza di quelli freschi. Si vedevano andare e venire, intorno alle molte piante verdi, onde il salottino pareva un boschetto primaverile, le mani bianche, piccoline, uscenti dalla larghezza claustrale delle maniche: e le dita avevano una gentilezza infantile. Chinandosi sulle pianticelle, la testa abbassata lasciava vedere il biancore attraente della nuca, dove i capelli neri segnavano una linea sinuosa e fitta. Quando si rivolgeva verso don Silvio o verso Sangiorgio, nel volto soave era scomparsa, dalle palpebre, l'ombra violetta delle lagrime versate o delle lagrime soffocate: una pacatezza amabile vi regnava. Poi, a un certo punto, ella aveva di nuovo interrogata la faccia legnosa di suo marito: l'occhio vivido dietro la unica lente le aveva detto di rimanere. E poichè ella aveva finita la visita quotidiana alle sue piante, da un vasello aveva preso il fascio delle rose, era andata a sedersi in una poltroncina presso un balcone e odorava i fiori, mentre un po' di sangue le saliva alle guance pallide. In verità, sulle sedie, sui tavolinetti, sulle mensole era un grande trascinar di giornali, aperti, buttati via, non aperti ancora, con quell'acuto odor d'inchiostro di stamperia: sul tappeto le fascette, sparse, multicolori, a brani, strappate con violenza e con noncuranza. Ma donn'Angelica non li prendeva, i giornali, non li toccava, non li guardava neppure: il suo piede aveva scartate due o tre fascette, come per istinto di pulizia intorno a sè. Odorava i fiori. Francesco Sangiorgio era venuto in quella casa, in Piazza dell'Apollinare, chiamato da don Silvio Vargas: il ministro dell'interno si era fermato con lui, sulla soglia del Pantheon, gli aveva passato il braccio sotto il braccio ed aveva parlato con lui, sottovoce, per qualche minuto. Poi, aveva insistito perchè andasse da lui, non al ministero, non a quel dannato palazzo di Braschi che sembra un mercato, che è ancora Piazza Navona, nella notte della Befana: venisse a casa sua, all'Apollinare, dopo colezione, doveva parlargli, che diamine, non si lasciava veder mai. «Domani, allora?» chiedeva Sangiorgio, esitando. «Ma che domani, oggi stesso;» aveva bisogno di parlargli. E passando dal braccio di Sangiorgio a quello di sua moglie, se ne era andato. Sangiorgio era capitato, all'una, all'Apollinare; temendo fosse ancora troppo presto, fu preso da una esitazione innanzi al campanello. Ma dentro, si era inteso subito bene, tranquillo, innanzi alla cordialità di don Silvio; soltanto, mentre il ministro parlava, giudicando uomini e cose, egli ascoltava, sì, ma seguiva tutti i movimenti molli ed eleganti di donna Angelica. «Fumate, fumate,» gli aveva detto don Silvio, offrendogli dei sigari e continuando a masticare il suo toscano. Egli aveva guardato dalla parte della signora: «Mia moglie è abituata, non le fa nulla,» aveva soggiunto brevemente il ministro. Pure, Sangiorgio non aveva fumato, malgrado il bel sorriso di donn'Angelica. Seduto presso un tavolino, più che parlare, ascoltava: poichè a don Silvio piaceva di essere ascoltato. Il ministro che adorava la politica, ardentemente, come un appassionato ventenne, era quel giorno in collera con lei: e negli stessi rimproveri che le dirigeva, nel disprezzo che mostrava di averne, nella nervosità, ora sarcastica, ora collerica, con cui ne parlava, si sentiva la passione, la vecchia passione, tutta fiammeggiante ancora, che gli abbruciava le vene di antico parlamentare. A Sangiorgio, in don Silvio, come in un sogno, gli pareva di udire una parte dei propri pensieri, uno sfogo del suo spirito vaneggiante, i cui deliri mai a nessuno aveva confidati. Riconosceva quella febbre interiore che lo travagliava da anni, senza sfogo, mentre in don Silvio quel morbo spirituale trovava il suo sviluppo nell'idea e nella parola: era troppo vecchio e troppo appassionato, il ministro dell'interno, per celare più il suo sentimento: non era più tempo d'infingersi. Questo fuoco intimo aveva dovuto conservare ancora vivo lo spirito di don Silvio: Sangiorgio si spiegava ora la ragione di tanto lunga e ostinata vigoria. Ogni tanto, don Silvio, guardando Sangiorgio, smetteva quel ghigno che rendeva più profonde le rughe degli angoli labiali e sorrideva come intenerito. Oh, egli non dimenticava, no, che il suo predecessore era caduto dietro un discorso e dietro una mozione di Sangiorgio: nè si scordava del reciso rifiuto di Sangiorgio a voler entrare nel rimpasto. Non gli aveva mai potuto dire la sua riconoscenza, ma da quando la Camera si era riaperta, egli lo guardava affettuosamente, lo chiamava a sè, lo consultava, con un'aria fra la deferenza e la cordialità. «In fondo, il potere vi secca», disse, in una pausa di silenzio, Sangiorgio. «No,» rispose francamente Vargas, «non mi secca, mi piace, era quello che desideravo. Ma la opposizione mi fa nausea: talvolta sciocca, talvolta ipocrita, talvolta bestiale, sempre in mala fede. Dov'è quella bella opposizione leale, audace, crudele, implacabile? Invece dell'accusa aperta, il pettegolezzo da serve al pozzo; invece della battaglia, l'agguato; invece dell'attacco, il tranello.» «L'uomo è una meschina cosa,» disse Sangiorgio. «Non dev'essere: o non deve parer tale, quando è. Perdio! sono stato anch'io all'opposizione. Te ne rammenti, Angelica, quando ero all'opposizione?» «Me ne rammento,» rispose costei con una dolcissima voce minore, alzando il capo. «Ero un diavolo: non avevo e non davo pace ai miei avversari. Senza tregua! Ora, impoltronisco. Io non posso fare guerra: debbo aspettarla, e questa sequela di avventure brigantesche m'inacidisce il sangue. Come attaccaste il ministro, quel giorno, Sangiorgio: ed eravate ministeriale! Ci eri tu, Angelica, quel giorno?» «Sì, vi ero.» «È a voi che dobbiamo di esser ministri, qui all'interno, Sangiorgio,» fece Vargas preso dalla tenerezza. «Ma no,» mormorò Sangiorgio, sorridendo. «Sì, sì, il presidente non avrebbe mai avuto il coraggio di disfarsi apertamente del suo collega. Mi meraviglia persino che ne abbia parlato a voi: nessuno lo sapeva, neppure io.» «Il presidente non mi aveva detto nulla,» rispose lentamente Sangiorgio. «Come? Non sapevate nulla?» «Nulla.» «Non eravate di accordo?» «No.» «Perdio!» esclamò Vargas, «siete fortissimo!» E squadrò Sangiorgio con ammirazione. Costui rideva, macchinalmente: ma vedeva bene che il viso di donn'Angelica perdeva la serenità, — una stanchezza l'invadeva. «Venite alla Camera, meco, Sangiorgio: sono le due,» e si alzò per andare di là. «Rientri presto?» domandò donn'Angelica, scotendo quell'espressione di lassezza. «No. Ho la Camera, prima: poi il Senato; dopo debbo andare al Ministero per concordare un movimento di prefetti.» «Verrai alle sette?» «Alle otto o alle nove, non so.» «Debbo venirti a prendere alla Camera?» «No. Va' pure a passeggiare, a villa Borghese, fuori Porta Pia, dove vuoi: è inutile venire al Parlamento. Io pranzerò, quando avrò finito. Questo affare dei prefetti è molto serio, Sangiorgio: vi dirò, strada facendo. Qualunque lettera o plico o dispaccio arrivi, mi vengano a cercare dove sono, alla Camera, al Senato, al Ministero: subito. Aspetto notizie importanti: ora vengo, Sangiorgio.» E gli ordini partivano brevi, concisi, alla moglie, al segretario che era comparso sulla soglia, erano dati con un tono militare di comando: don Silvio stava ritto e robustamente piantato, come un giovanotto; la sua febbre era la sua salute, il suo morbo era la sua salvazione. Andò di là, nello studio, portandosi il segretario, parlandogli a voce bassa, ma seccamente. Rimasero soli, Francesco e donn'Angelica: egli ritto, ella col capo chino come nel Pantheon, nel minuto della preghiera, giocando con le dita attorno al cordone serico della sua vestaglia. E non parlavano e il minuto presente aveva vibrazioni prolungate come di suono musicale, come di palpito. A un tratto, ella lo guardò coi bellissimi occhi rattristati, congiunse le mani e gli disse: «Ma perchè avete voi voluto che noi fossimo ministro dell'interno?» e la voce tremava di emozione contenuta. Don Silvio rientrava, con soprabito e cappello, stringendo fra le labbra il mozzicone spento e nero del suo sigaro toscano: il segretario lo seguiva con una cartella imbottita di fogli. «Vuoi una rosa?» disse improvvisamente donn'Angelica a suo marito, facendo per mettergliela all'occhiello. «Ma che ti pare?» esclamò lui, staccando con una certa durezza la mano bianca, «vuoi farmi burlare dall'opposizione? Un ministro con la rosa: mi farebbero subito la caricatura nei giornali.» Donn'Angelica si ritrasse: guardò fuggevolmente Sangiorgio, ma non gli offrì la rosa. Un cielo basso di nuvole bianche, grige, plumbee, scuricce, che si facevano nere all'orizzonte, sopra i colli tuscolani, sul Soratte che pareva anche esso un grosso nuvolone sceso sulla terra: una campagna brulla, bigia, qua e là ondulata, come se dovesse sbuzzar fuori; due siepi nere, due siepi ispide e scarnate, senza un'ombra di verde, senza un fiore: qualche _osteria di cocina_, dai rozzi dipinti sulla parete umidiccia — tre bocce nere che formavano triangolo, un pulcinella che beve una _foglietta_ — ma le porte e le finestre sbarrate, un cancelletto di legno che cadeva in frantumi: il grande fabbricato bigio dove la vedova Mangani dà da mangiare ai romani buontemponi dell'estate e dell'autunno la trippa in brodetto e l'_abbacchio alla cacciatora_, sopra un terrazzo, sotto un pergolato, in un cortile, dovunque si può mettere una tavola o un litro di vino bianco; quel rudere strano, perduto in un campo, che sembra una colossale poltrona dalla spalliera sbocconcellata e che infatti si chiama la _sedia del diavolo_; un carrettiere buttato giù, bocconi, sonnecchiante sopra un carro di pozzolana che rientrava verso Roma; ogni tanto, qualche grossa goccia di pioggia che cadeva sul terreno. Prima di Sant'Agnese qualche carrozza di cardinale che tornava lentamente dalle catacombe, qualche prete pedone sui due marciapiedi; subito dopo Sant'Agnese due carabinieri a cavallo, avvolti dei mantelli neri, immobili; un soffio molle e sciroccale che radeva la terra; un odore acuto, quell'odore particolare della campagna romana, che va al cervello e dal cervello va nel sangue, come miasma sottile: un cane sperduto, tutto infangato, che andava annusando per le siepi e guardava il viandante, con certi tristi occhi di animale infelice: ecco le cose, le persone, gli animali, le parvenze che vide Francesco Sangiorgio, in quel cader del giorno invernale, sulla Via Nomentana. E in tutte le cose, gli animali, le case, le chiese, la grande malinconia della pioggia imminente, la immensa malinconia del tramonto romano, in campagna. «Ecco il Ponte Nomentano,» gli disse il cocchiere, indicandoglielo con la bacchetta. «Ferma; voglio scendere. E aspettami qua,» rispose Sangiorgio. E a piedi fece la piccola erta che conduceva al ponte, lo strano ponte murato, dall'arco largo e molle che si piegava sull'acqua gorgogliante dell'Aniene, con le due larghe finestre che affacciano a monte e a valle del fiume. Sangiorgio si fermò sul ponte, si appoggiò allo sporto e guardò lontano, donde il fiume veniva. E veniva, stretto, ma profondo e sinuoso, con una rapidità di corrente singolare, aumentato dalle pioggie invernali: veniva, tutto bianco, con un colore di argento smorto, ma freddissimo; senza lucentezza, ma glaciale. Una quantità di piccoli gorghi vi si formavano, cerchiolini con un buco intorno a cui l'acqua si arrotondava, a piccole onde circolari. Sulla riva un po' di terriccio più chiaro, non una pianta, non sabbia, non pozzolana e attorno il grande deserto della campagna romana. Non pioveva ancora: ma le nebbie del fiume e lo scirocco morbido avevano dato una tinta di bagnato alla vecchia costruzione nomentana: e toccando la parete del finestrone donde si affacciava, Sangiorgio sentì un'umidità gocciolante; i gomiti stessi del suo soprabito erano già bagnati e sporchi. Aguzzò gli occhi su tutta la campagna, ma non si vedeva nè il gramo profilo di un albero, nè il meschino profilo di un uomo: attraverso di essa, il fiume che a Tivoli è così bello, così allegro, così sonante, metteva la larga nota mestissima delle acque correnti. Allora egli si affacciò dal finestrone a sinistra, sul fiume, guardando l'acqua che correva a valle, rapidamente, per ricongiungersi al Tevere. Qui, si vedeva la Via Nomentana prolungarsi fra la pianura, fare un gomito e scomparire: in mezzo a un campo, una casetta, un tugurio di due stanze, senza soffitto, diruto dalle mura simili a denti spezzati; al gomito della strada, una casetta bianca e pulita, piccolina, l'_Osteria dei cacciatori_, e di lì un larghissimo prato discendente al fiume. Qui a valle, di mezzo l'acqua sorgevano dei boschetti di salici, rami nerastri e scarni; una chiatta tenuta per mezzo di una fune a un piuolo di legno conflitto, sulla riva: contro la chiatta, contro i salici, contro la fune, l'acqua si rompeva, gorgogliando. Nell'ora oscura che discendeva, parea che discendesse anche il cielo. Guardando, con l'ardore concentrato di chi cerca, Sangiorgio vide una carrozza chiusa, ferma presso l'_Osteria dei cacciatori_, ma era rivolta in modo che non si vedevano nè i cavalli, nè il cocchiere. E poi, di lontano lontano, sulla riva destra del fiume, vide lentissimamente un punto bruno ingrandirsi ingrandirsi, e riconobbe la dolcissima donna che aveva visto piangere nella chiesa. Solitaria, vestita di nero, ella camminava lungo il fiume, arrestandosi ogni tanto a veder fuggire la corrente, contro cui andava: camminava piano, molto rasente l'acqua, affondando nel terreno bagnato, movendo i passi con lentezza. Come fu più vicina, egli potè scorgere, sul bruno del vestito, il fascio di rose bianche che ella aveva in casa, nel salotto tutto pieno di piante verdi: con le mani ella lo teneva stretto alla cintura. Due o tre volte, ella si rivolse verso l'orizzonte, mirando la tristezza del cielo che pareva volesse soffocare la terra, cercando invano i lieti colli di Tuscolo che il temporale già aveva nascosti; poi riprese la sua passeggiata solinga, con tale lentezza di movenze che sembrava appena appena radesse la terra. Giammai ella alzò gli occhi sulle mura del ponte, dal cui largo finestrone, colui che aveva pianto per lei, la contemplava. Certo, ella si credeva profondata nella solitudine, in quella vasta campagna nuda, in quella minaccia crescente di bufera, in quell'ora ultima della giornata, in quel paesaggio triste da cui rifugge la gente volgare: si credeva sola, come nel tempio, pregando Dio, parlando a Dio. A cinquanta passi dal ponte, presso il piuolo mezzo marcito dove la fune della chiatta era attaccata, donn'Angelica si fermò. Pareva che una stanchezza l'avesse presa, a un tratto, malgrado la lentezza della passeggiata: o forse aveva agito su lei il grande fascino delle acque correnti che si prendono lo spirito di coloro che le contemplano e ne assorbono la volontà. Difatti, appoggiata al piuolo, come confitta sulla riva, a un passo dall'acqua che correva, inclinando i rami neri dei salici, donn'Angelica si smarriva nella contemplazione del fiume. Un larghissimo coperchio nero di nuvole, una cappa che affrettava il sopraggiungere della sera, chiudeva oramai tutto l'orizzonte, intorno: e pareva che la luce a poco a poco morisse, schiacciata fra il cielo e la terra. Sangiorgio non vedeva più nulla, salvo quella figura di donna, immobile come una statua, sulla riva del fiume. Pure, uno strepito sordo venne dalla Via Nomentana, un rumore di ruote, di cavalli trottanti: e in tanto bigio qualche cosa di rosso, di acceso balenò. Sotto il mantice abbassato di una _daumont_, qualche cosa di bianco, un viso fulgido il viso regale, passò: passò l'equipaggio reale sul ponte, al trotto, mentre la regale donna salutava al saluto di Sangiorgio; e tutta la visione, brevissima, accesa, fulgida, scomparve verso Roma. Sangiorgio si rivolse di nuovo al fiume. Nulla sapeva la donna: perduta nelle sue visioni, il rumore, il passaggio purpureo dell'equipaggio regale, quella specie di cometa bionda e luminosa che aveva per un istante animato quello scurore di tramonto nuvoloso, le era sfuggita. Pareva non sapesse più distaccarsi dalla vista del severo Aniene dalle acque gelate. Egli la vide inchinarsi due o tre volte, quasi volesse contemplarsi nell'acqua o vedere il fondo del fiume. Poi le mani di lei sfogliarono una rosa e ne gittarono i petali bianchi nell'acqua fuggente che li portò via: e una dopo l'altra, tutte le rose furono sfogliate e, a manate, i petali lasciati andare alla corrente. Non ella strappava rabbiosamente quelle foglioline bianche dallo stelo, ma le distaccava con un moto di abbandono, come se realmente tutto partisse, tutto morisse nel suo spirito, insieme a quei petali che partivano, che morivano. Vi era nelle mani che lasciavano andare via quelle vite di fiori, la desolazione di altre vite morte. E l'ultima foglia, invero, le svanì fra le dita. Non egli vedeva tutto questo, per la distanza, ma lo indovinava: e come l'ultima foglia se ne andò, perduta, travolta, sentì uno struggimento come di morte. La donna, dato un ultimo sguardo all'Aniene, risalì senza voltarsi; pel prato della strada, rientrò in carrozza. Sul ponte, la carrozza passò con una velocità grandissima: donn'Angelica non vide Sangiorgio, ma egli vide bene che la pallida donna stringeva ancora alla cintura gli steli nudi delle rose morte. II. Dal suo banco del centro, dove fingeva di scrivere delle lettere, ma dove in verità tracciava macchinalmente il suo nome, venti, trenta volte sopra un foglietto di carta, egli vedeva perfettamente donn'Angelica Vargas sola sola nella tribuna diplomatica, appoggiantesi con un braccio sul parapetto di velluto. Ne aveva sentita la presenza, subito, a un sussulto dei nervi; aveva osato voltarsi due o tre volte e anche salutarla; — ella aveva risposto con un sorriso profondo, ma aveva immediatamente guardato altrove. Ora egli non provava altro desiderio che salire lassù, sederlesi accanto: ma pensava che non era forse conveniente farsi notare da tanti colleghi, darsi in spettacolo. Pure, il desiderio era così forte che si levò dal suo posto, attraversò l'aula e uscì nel corridoio, gironzando, distratto, rispondendo qualche monosillabo a chi gli parlava della riforma della legge universitaria. Rientrò, non avendo avuto il coraggio di salire su: e vergognoso della propria vigliaccheria. Presso il banco dei ministri, don Silvio Vargas lo chiamò: «Sentite, Sangiorgio...» E gli disse qualche cosa sopra la legge comunale e provinciale, di cui si parlava di nuovo, per la terza volta. La simpatia di don Silvio per Sangiorgio era cresciuta rapidamente, in poco tempo: ogni volta che aveva un dubbio politico o amministrativo, lo chiamava, se lo portava a casa, lo consultava, lo conduceva al ministero, aveva con lui delle lunghissime conversazioni. Ora, di nuovo, aveva qualche cosa da sottomettergli. Sangiorgio gli dette il suo avviso; poi: «La signora è lassù...» soggiunse. «Ah sì?» fece don Silvio, senza voltarsi, con una perfetta indifferenza. «Credete vi sarà viva discussione sugli articoli?» «Specialmente sull'articolo quarto: la estrema sinistra ci tiene molto.» «Parlerete voi, Sangiorgio?» «Non so bene.» «Dovreste parlare.... Sentite, venite domani a pranzo con me, vi spiegherò certe mie idee...» «Verrò,» disse Sangiorgio, dopo aver esitato un momento. E si allontanava; ma sottovoce il ministro lo richiamò. «Giacchè ci siete a sacrificarvi per me, andate un po' lassù a far compagnia a mia moglie. Quella si annoia a morte: io non ho tempo neppur di salutarla.» «Si annoia?» «Essa odia la politica: la femmina è egoista, caro Sangiorgio,» rispose filosoficamente don Silvio, conficcandosi la lente sotto l'arco sopracciliare. Sangiorgio raccolse le sue carte con una fretta che non giungeva a dissimulare, le ficcò nel cassetto e attraversò l'aula, i corridoi, salì le scale, frenandosi per non correre. Donn'Angelica non si voltò neppure, udendo schiudere la porta della tribuna. «Si annoia molto, signora?» le chiese lui, alle spalle, a voce bassa. «Non più del solito, onorevole,» disse lei, voltandosi un poco e dandogli la mano, senza manifestare nessuna sorpresa. Egli sedette alle sue spalle: ella, sebbene fosse rimasta rivolta a lui, gli parlava senza guardarlo, tenendo gli occhi sull'aula. «E ci viene spesso, mi pare?» «Spesso: anche la noia diventa un'abitudine. E poi... Silvio è ministro, molti credono che io sia una donna influente, a casa è un viavai di persone che vogliono qualche cosa.» «Si proibisce l'entrata.» «Sì, quando si è una semplice signora, non quando si è moglie di un uomo politico, di un ministro. Don Silvio ha sempre paura che io gli faccia perdere la popolarità.» E la voce le si velò d'amarezza. «Ella dovrà dunque subire dei contatti volgari?» chiese lui, con una dolcezza di pietà, per cui ella si tramutò di colore. «Sì. Io sono piena d'indulgenza, mi par naturale essere indulgente: ma la volgarità mi offende e mi addolora.» «Bisogna mettere in alto il cuore.» «Il cuore? Il cuore non ci entra, in questo. È la fibra morale che soffre, sono i nervi. Così, preferisco venir qua: fra due mali, il minore.» «Tanto Ella odia la politica?» arrischiò lui. «Non la odio, non posso amarla.» «Eppure è una forte e nobile idea,» azzardò egli ancora. «Lo dicono: ma io non la intendo. Capisco altre idee nobili, buone, forti, generose, feconde di bene: non questa. Io sono troppo ignorante,» soggiunse, poi, umilmente. «No, no,» si affrettò a dire lui, «Ella ha forse ragione.» «Non posso amarla, questa idea. E poi, per noi donne certe idee, anzi le idee astratte, non rappresentano nulla. Noi abbiamo bisogno di una realtà che le concreti: la religione nella chiesa, nella figura della Madonna, del Cristo: la patria, nel dolce paese, nel mare, nella collina, fra la gente che amiamo: — la politica, idea, chi la rappresenta?» «Gli uomini politici,» mormorò lui, dopo aver esitato. «Ah sì!» fece lei, come pocanzi aveva esclamato suo marito, con una indifferenza disdegnosa. «Anche quelli li odia?» «Li compatisco.» Egli non ebbe un impeto di ribellione, ma una impressione dolorosa gli si rivelò sulla faccia. «Li vengo a guardare, ogni tanto: li guardi anche lei, onorevole. Che facce scarne, consumate, gialle di bile, verdi d'invidia! Che facce grasse e flosce, pallide e malaticce! Che stanchezze precoci in certi corpi, che movimenti nevrotici in certi altri! Sembrano tutti ammalati di una medesima infermità, un morbo fatale che li corrode o li gonfia. Così, forse, debbono essere i giocatori, nelle bische.» «Almeno, è una grande passione,» soggiunse lui, timidamente. «Grande? Forse. Lo dicono: non lo credo. Quando essa è entrata in uno spirito, lo restringe in un meschino orgoglio, in un'ambizione piccolina. Ecco trecento persone, quaggiù, che hanno ingegno e che hanno studiato, che hanno coraggio fisico e coraggio morale, che hanno coscienza onesta e carattere d'uomo. Ebbene, questi trecento ingegni, queste trecento audacie, queste trecento volontà, queste coscienze e queste intelligenze, che cosa vogliono tutte, senza eccezione, a qualunque costo?» «Esser ministri.» «Ministri: a qualunque costo. E in questa voglia implacabile, ditelo voi, non si sgretola forse miseramente l'ingegno? Questo ingegno che farebbe miracoli di bellezza e di utilità, applicato all'arte e alla scienza, non si sfinisce, senza risultato?» «È vero,» disse lui. «Inventare una macchina che renda gli uomini più felici, moralmente o fisicamente, non è forse meglio che far cadere un ministero? Non è meglio fare una statua, dipingere un quadro, scrivere un libro?» «È vero,» rispose lui. «E il coraggio, crede Ella che conservi lo stesso impeto d'azione, lo stesso slancio di audacia, qui, dove tutto si riassume in un discorso, dove ogni nobile iniziativa si spreca in venticinque sedute pomeridiane e in quattordici discussioni negli uffici? Tante parole, tante parole!» «Noi abbiamo combattuto, quando si doveva.» «Sì,» disse lei, pensierosa a un tratto, «quelli eran tempi! Noi donne, vede, comprendiamo l'eroismo dei campi di battaglia e quello delle cospirazioni, — questo parlamentare ci sfugge.» Tacquero un momento. Una fiammolina ardeva le guance di donn'Angelica: e le calde parole sue ondeggiavano nell'anima di Sangiorgio, vi s'imprimevano come sulla cera molle. «Resta poi la coscienza,» riprese lei, che voleva dire tutto. «Ahimè, come restar saldi fra tanti istinti personali che scoppiano, fra tante necessarie transazioni, fra tanti equivoci? Come restar immobili, inflessibili, quando la maggior virtù per riuscire è proprio la elasticità?» «È vero, è vero,» ripeteva lui. «Una grande passione, la politica: lo so bene,» continuò ella, chinando gli occhi sull'aula, battendo con le dita sul velluto del parapetto, «lo sappiamo tutte noi altre, mogli di uomini politici. In questi cuori di uomini, questa passione scaccia tutte le altre. Se stiamo in provincia, l'uomo ci abbandona per nove mesi dell'anno, senza badare alla gioventù, alla bellezza, alla solitudine della moglie. Se veniamo in Roma, peggio: la casa diventa un piccolo Parlamento, dove si congiura, se non siamo al potere: dove si preparano i mezzi di difesa, se siamo ministri. Non più amici: alleati, clienti, servi, invidiosi, interessati, niente altro. Non si chiede loro l'affetto: si chiede il voto. Ha detto _sì_? è un amico. Ha detto _no_? è un traditore. In casa sparisce la intimità: la invade un fiume di gente estranea che la deturpa, che la rende simile a un porticato, a un cortile, a una via pubblica, a una piazza. La cordialità sparisce: il marito è inquieto, è annoiato, cercate di saperne la cagione, — non ve la dice, crede che non possiate capirla, gli uomini politici disprezzano il consiglio delle donne. A tavola? Il marito legge i giornali o risponde ai telegrammi. Al ballo? È difficile che vi possa accompagnare, eppure bisogna andarci, per rappresentare il governo, parlare coi deputati influenti, far la riverenza alle mogli dei capi-parte, dare la mano a creature insignificanti che non esisterebbero, se la grande passione politica non esistesse. La solitudine malinconica in provincia, come una povera creatura abbandonata: o la folla affogante in città, senza un soffio di poesia, senza un sorriso d'ideale. Grande passione, certo: ma così furiosa e invadente e sequestrante che fa spavento o fa nausea.» Di nuovo, silenzio grande. Nell'aula, don Silvio Vargas parlava, con la sua voce stridula, con le mani in tasca, piegando un poco l'alta persona scarna, guardando dietro la sua lente lucida colui che lo aveva interrogato, quasi burlandosi di lui, con quella forza d'ironia che irritava l'avversario. «Una grande passione, una grande passione...» mormorava donn'Angelica, «la donna ne capisce una sola...» «E quale?» «L'amore.» «È vero,» rispose Sangiorgio. «Si pranza soli, oggi,» aveva detto don Silvio a Sangiorgio, sedendosi a tavola, «donn'Angelica è dietro a vestirsi pel ballo del Quirinale.» Alla piccola tavola dei pranzi familiari sedeva anche il segretario: un quarto posto, quello della padrona di casa, restava vuoto. In mezzo alla tavola, in un vasello di cristallo dal collo sottile, stava in fresco un ramo di gigli rossi: e gli occhi di Sangiorgio andavano continuamente da quel posto vuoto e a quel grande fiore rosso. I due deputati, il ministro e l'importante uomo politico discorrevano vivacemente di politica, mangiando senza badarci, don Silvio tagliuzzando nervosamente la carne, mentre si infiammava sulla legge comunale e provinciale, Sangiorgio ascoltandolo, rispondendogli, facendogli obbiezioni, dimenticando di pranzare: ma il suo pensiero si staccava da quella piccola stanza, tutta in legno biondo, resa tiepida dalla fiamma allegra del caminetto, per andare dietro quella porta chiusa, per indovinare dove fosse donn'Angelica. Solo il segretario, dunque, pensava a pranzare e ci si dedicava con tutto lo stomaco: ma serbava un contegno serio; ogni tanto, a una frase del ministro, approvava col capo, con un'aria di ammirazione contenuta; a ogni osservazione di Sangiorgio, inarcava le ciglia, come se si preoccupasse anche lui della difficoltà. Così il pranzo continuava, fra l'andirivieni dei due servi che ora portavano un telegramma, ora una lettera, ora un giornale, ora una pietanza: don Silvio stracciava subito la busta del dispaccio, apriva e leggeva la lettera, rompeva la fascetta del giornale, ne scorreva con l'occhio le colonne, non assaggiava la pietanza, la guardava con l'occhio distratto dello spirito assente. Accanto a lui un calamaio, una penna, della carta da telegrammi, dei foglietti da lettere: e subito rispondeva dopo aver respinto il piatto dinanzi a sè, passava il giornale al segretario, dopo averci fatto un segno col lapis rosso in qualche posto: il segretario leggeva il passaggio segnato, con l'aria imperturbabile di un vecchio diplomatico. E Sangiorgio invano tendeva l'orecchio per cogliere qualche rumore femminile, invano stava attento al minimo incidente: non una cameriera passava, non un campanello risonava, niente di femminile trapelava la ricerca di un fiore, il passaggio di un candelabro, l'affaccendamento dei servi, nulla, proprio nulla. Donn'Angelica aveva radunato nel silenzio delle sue stanze tutta la poesia nervosa e febbrile di una donna che si veste pel ballo: e il gran mistero della bellezza che si adorna, fatto di acque lustrali e di profumi, di capelli disciolti e di fiori sparsi, di veli volanti e di gioielli luccicanti, di stoffe spiegate e di molli pellicce, il gran mistero d'Iside della donna moderna, si compiva come in un tabernacolo. Un desiderio sempre più cocente di sapere, di udire, assaliva Sangiorgio in quel tepore della stanza da pranzo, fra tanti discorsi di politica, tanto odore di inchiostro: un desiderio che nasceva da quel posto bianco e vuoto dove il seggiolone di legno era accostato, come se allora allora ne fosse partita colei che l'occupava: che nasceva da quel ramo di gigli rossi, i focosi gigli di san Luigi, che pare uniscano alla purezza il calore della passione. Almeno fosse venuta fuori un momento, a salutare suo marito, a salutare il suo ospite: si fosse fatta vedere, fiorente di gioventù e di bellezza! A ogni schiuder di porta, come l'ora si avanzava, Sangiorgio trasaliva, chiudendo gli occhi, credendo di vederla comparire nello splendore della venustà e della acconciatura. Ma di nuovo capitava un dispaccio, un plico, una lettera: a un certo momento, don Silvio cavò di tasca la _cifra_ per interpretare un telegramma politico. Dov'era dunque donn'Angelica? In quali onde di profumo si annegava la sua persona? Passava l'ora e niente nella casa si moveva, che fosse appartenuto alla lietezza di un ballo: essa serbava il suo aspetto confuso, il suo batter di porte, il suo discorrere ora concitato, ora sommesso, il suo andirivieni di carte scritte e stampate, il suo aspetto di piazza, di Borsa, di casa politica dove viene ad approdare ogni intrigo, ogni falsità, ogni imbroglio. Forse, di là, nel santuario, la bellezza giovanile di donn'Angelica si manifestava nella piccola febbre femminile che precede il ballo, mettendo nella sua camera il disordine inebbriante delle biancherie sparse, delle calze di seta che sgorgano dai cassetti aperti, delle boccette sturate, dei busti che trascinano sul tappeto: ma questa confusione muliebre, questo scombussolamento inebbriante che innamora un marito o un amante più profondamente che mai, si ignorava. Francesco Sangiorgio sentiva, sì, attraverso le tre o quattro porte che lo dividevano dalla donna che amava, sentiva questo fascino novello, tutto umano, che lo dominava in modo diverso, che s'indirizzava all'uomo; sentiva il contrasto fra la secchezza, l'aridità di quella esistenza tumultuosa di don Silvio, e la morbidezza poetica di quella acconciatura di donna, laggiù, nel grande turbamento tenero e sensuale che dànno tutte le cose che hanno toccato il corpo femminile. Finalmente, alle dieci, si udì aprire e chiudere qualche porta, qualche voce parlò sommessa: e Sangiorgio, preso alla gola dalla soffocazione di un desiderio, chiuse gli occhi per salvarsi dallo spettacolo abbagliante della bellezza di donn'Angelica. Ma niuno comparve, un rotolìo sordo si udì nel cortile e sulla Piazza dell'Apollinare. «Donn'Angelica è partita pel Quirinale,» disse quietamente don Silvio, aprendo la _Riforma_ che gli avevano portato allora. «Non andate anche voi, Sangiorgio?» «Più tardi,» rispose fievolmente Sangiorgio che era diventato pallidissimo. Nella bianchissima luce elettrica che illuminava lo scalone d'onore, le donne ascendevano lentissimamente, posando appena il piede calzato di raso sul tappeto: e con lo strascico abbandonato, il ricco mantello di lana bianca molle e caldo sulle spalle nude, la testa ingemmata o piumata o infiorata, davano, salendo, certe occhiate lente e distratte alle due grandi siepi di piante verdi, alle muse dalle foglie larghe venate di rosso, alle palme che parevan cupissime sullo stucco bianco delle pareti. Le donne guardavano, inerti, come se non vedessero nulla, per conservare la serenità — e salivano piano, per non scalmanarsi, perchè sul viso non fosse turbato il pallore eguale o il fiorente roseo. Dopo tanta nervosità febbrile, la calma egoistica della donna che vuol restar bella era scesa in loro: e bastava vedere la tranquillità con cui nel grandissimo salone degli arazzi, trasformato in guardaroba, un po' freddo, esse discioglievano i nastri, snodavano i cappi dei mantelli, lasciandoseli togliere delicatamente dalle spalle, conservando la loro apparenza di bellissime statue insensibili e semoventi; bastava vedere il gesto flemmatico, con cui distendevano su per le braccia la pelle cedevole dei guanti di Svezia, mentre il marito, o il fratello, o il padre, aspettava, impaziente, col braccio pronto, per accompagnare la bella indifferente e serena che si rialzava pacificamente le spalline del corpetto un po' spostate. E anche l'attraversare i due saloni e il corridoio delle statue era una passeggiata molle e silenziosa: ma già nel fiato caldo che i caloriferi mettevano dappertutto e in quell'approssimamento quieto e pieno di dolcezza, le donne schiudevano le labbra al sorriso florido dei balli, il sorriso che si diffonde per tutta la faccia, per tutta la persona. E alla porta del grande salone da ballo, il cerimoniere, che offriva loro il taccuino da ballo, un mazzetto di fiori e il braccio per introdurle nel salone, aveva la primizia incantevole di quel sorriso: il padre, il marito, il fratello erano abbandonati senza un saluto, senza una parola. Scintillìo profondo di gemme. Su tre file di panchette rosse, trecento donne erano sedute, ingemmate nei capelli, alle orecchie, al collo nudo e sul seno, sulle braccia. Da certe testine, più modeste, partiva un raggio sottile, vivissimo, a ogni movenza: ma alla ondulazione di certe spalle altiere che s'inchinavano, al moto di un braccio che agitava un ventaglio piumato, era tutto un vivido fluire di scintille, un balenìo chiarissimo e fulgido. Strette le donne l'una all'altra, l'un vestito femminile assorbiva e confondeva quello dell'altra, per essere a sua volta assorbito e confuso: e nulla si discerneva di colori e di stoffe, si vedeva solo un po' di corpetto, un lembo breve di spallina che talvolta un fiore o un nastro o un gioiello copriva. E quello che vinceva tutto, sul molle soffio del velo, sulla lucentezza del raso, sulla delicatezza del merletto, sulla pesantezza nera dei capelli, sulla leggerezza delle chiome bionde, sulla pelle quasi viva dei guanti, sulla carnagione del collo, delle spalle, del braccio, era il gioiello, più di tutti lucido, vivido, colorito, iridescente, era il gioiello trionfante. E su quella triplice profondità scintillante, quella che sgorgava, che si allargava, che dominava tutto, era la plasticità varia, infinita, delle braccia e delle spalle denudate. Qui il biancore anemico e freddo che più si assomiglia alla glacialità del marmo e che gela lo sguardo che vi si ferma; e qui il perlaceo, la carnagione dalla trasparenza levigata che nessun'ombra verrà mai a colorire; subito dopo la carnagione bianca e forte, sotto cui scorre, come un flutto, il sangue ricco, una stoffa rossa dietro un tessuto leggiero bianco; altrove il carnicino mite e eguale, temperamento medio, temperatura media che nulla vale a rialzare mai; altrove il bianco opaco che il calore o l'emozione marmorizza qua e là, a placche di roseo; altrove ancora la carnagione nè bruna nè bianca, ma scura, come se il sangue fluttuante portasse seco un letto di sabbia nera; altrove ancora, il carnicino vivo, bello, attraente, simile alla densità grassa di un petalo di magnolia, simile alla polpa nutrita di un frutto maturo. Questa plasticità germogliava dai corpetti, come se si sprigionasse delicatamente da un legame; fioriva dalla strettezza delle spalline, dall'arricciatura del velo, come dal calice; aveva qualche cosa di rigoglioso, di spontaneo, come le bellissime generazioni del mondo vegetale. Questa plasticità ripetuta su tutti i toni, trecento volte, finiva per acquistare un generale carattere di bellezza, d'insieme, come è la bellezza di una grande foresta: l'individuo vi scompariva, la personalità era assorbita. Nulla più che parlasse febbrilmente all'occhio, nulla più che turbasse la fantasia, più nulla che inducesse alla particolar seduzione: ma invece la grande nota della bellezza femminile, presa in complesso, che i sensi non sentono, ma che lo spirito sente; il coro unico dove tutte quelle voci bianche, rosee, rosse, diventavano una sola voce. Invano, invano, sotto l'orchestra, dietro le panchette, nei vani delle porte, la siepe nera e bianca degli uomini, fittissima, cercava discernere un viso, una fisonomia, una persona, la persona, quella donna. Essi, gli uomini, non percepivano più che un grande splendore di gioielli, dove ogni altra cosa moriva: non percepivano più che una donna sola, la donna, dalle braccia nude, dalle spalle nude, dove trecento donne scollate erano assorbite. Ma un improvviso silenzio cadde sulla sala: una immobilità colpì quelle trecento donne che rimasero con gli occhi fissi sulla porta del fondo, senza batter palpebra. Dall'orchestra risonarono le prime note della fanfara: chiarissime, squillanti, militari, di un effetto strano in quel silenzio, in quella pompa tutta femminile. Come di scatto, le trecento signore si alzarono, con un fruscìo di stoffe: e stettero aspettando, strette l'una all'altra: tutte sorridenti, con le spalle un po' sollevate che parea dovessero sfuggire dal vestito, con le braccia molli e abbandonate, con una serenità inflessibile di bellezza sulla figura. Dietro di loro, sotto l'orchestra, nei vani delle porte, la massa bianca e nera degli uomini fluttuava, ma silenziosamente: e l'attesa di un minuto parve lunghissima. Poi, sotto la porta del fondo, qualche cosa di fulgido apparve, un fulgore moltiplicato e concentrato che parve la visione di una cometa: e mentre lo splendore augusto femminile s'inchinava, scintillando, con un moto di grazia suprema, quella siepe scintillante di gioielli, quella gran fittezza di gemme, quello splendore di stelle, s'inchinò profondamente. Al femminile eterno, nella sua unicità, riveriva il femminile eterno nella sua molteplicità. Gli uomini — turbati — guardavano. Ergendosi sulla punta dei piedi, Francesco Sangiorgio cercava di scorgere dove fosse la dolcissima donna. Egli era fra un gruppo di deputati, l'onorevole Galvagna, il colonnello delle province irridente, l'onorevole di Sangarzìa che aspettava pazientemente di raggiungere le signore, l'onorevole di San Demetrio che applicava la galanteria alla diplomazia: ma Sangiorgio cercava donn'Angelica. Tutte quelle donne ritte, in fila, che sollevavano i loro mazzi di fiori e che guardavano, sorridendo, la quadriglia reale, lo confondevano, egli non distingueva i loro lineamenti, non ne riconosceva nessuna. Giammai aveva visto tante donne riunite, compatte, intensamente raccolte, in tutto lo splendore della bellezza e del lusso, in tutta la potenza della loro femminilità. Chiudeva gli occhi, ogni tanto, abbarbagliato: li riapriva, cercando di distinguerne la più bella, la sola che a lui paresse donna. A un tratto, mentre l'augusta donna girava mollemente intorno al canuto e bonario ambasciatore di Germania, e il lungo strascico regale, color fiamma, serpeggiava come la coda di una cometa, e il diadema reale aveva qualche cosa di siderale, Sangiorgio vide donn'Angelica Vargas al braccio di un signore bruno e vecchio, dai mustacchi tinti, dai capelli radi di un nero che tirava al rossastro: donn'Angelica figurava nella quadriglia reale, di fronte alla biondissima, pallida signora amletiana che era l'ambasciatrice di Germania. Donn'Angelica passeggiava attraverso il salone con quell'incesso armonioso, quasi musicale, che rendeva la sua andatura una delle sue più grandi seduzioni: dietro lei, lo strascico di broccato bianco ondulava dolcemente, come a flutti: qualche filo d'argento, che passava nella trama del broccato, vi brillava. Ogni tanto, come la nobile e lenta passeggiata, che era poi la quadriglia reale, lo consentiva, si vedeva il busto giovanile e snello di donn'Angelica e il corpetto di broccato bianco, pudicamente scollato, terminato da una nebulosa arricciatura di velo bianco: sulla nitidezza del collo bianco un monile di perle si confondeva col perlaceo della carnagione, e una grande croce di brillanti scendeva sul petto, luminosa. Donn'Angelica, dai capelli castagni strettamente raccolti intorno al capo, era coronata di stelle: le lucenti stelle di brillanti le ingioiellavano tutta la scurezza della chioma bruna, quattro innanzi, quattro indietro, diffuse, senz'ordine, come realmente compaiono le stelle sulla nerezza notturna, sull'azzurro cupo e profondo del firmamento. E l'occhio acuto dell'uomo che amava distinse bene, per sè solo, sulla scollatura di velo un fiocchettino di mughetti quasi indistinguibile, messo là per aver il profumo e la poesia di un fiore, messo là perchè soltanto lo sguardo di colui che sapeva amare, lo distinguesse. E invero fra tanto rigoglio di bellezza, talvolta mite e semplice, talvolta provocante, talvolta gracile e delicato, fra tanto espandersi di bellezza e di seduzione, donn'Angelica era la bellezza pura e pensosa, la bellezza nella sua espressione di candore malinconico, nella sua serenità di cuore che ha vissuto. Tutto in lei era casto: il vestito bianco ricchissimo, ma di un colore appannato, senza sfarzo, con lieve scorrere di fili d'argento, fra la trama, qua e là, come pensieri, come idee dolci che allietavano la monotonia di quel candore; le pieghe nobili dello strascico che avevano qualche cosa di classico, come il panneggiamento di una casta statua antica; la scollatura giusta, in modo che nulla vi perdeva di attrazione la donna, tutto vi guadagnava come castità la signora, la ricchezza della spallina che nascondeva il punto provocante, quasi sensuale, dove la spalla della donna diventa braccio; il guanto chiarissimo, di un bianco rosato, di una pelle finissima, che oltrepassava castamente di cinque dita il gomito e si distendeva, senza far pieghe, modellando il braccio; non un braccialetto; due semplici e fulgenti stelle di brillanti alle orecchie. Tutto l'insieme casto, che nulla aveva della stupidaggine odiosa della fanciulla ritrosa, ma aveva tutta la castità di pensieri e di sensi della donna pura. A Francesco Sangiorgio parve vedere la medesima purezza. Una lucentezza blanda negli occhi: lento e buono il moto delle palpebre: non un'ombra di veglia o di pena sotto lo sguardo, che si posava quietamente sugli oggetti e sulle persone che la circondavano: freschissime, di fanciulla, le tempie, dove la pelle aveva la tenuità del velo che circonda l'uovo; da cammeo la linea del profilo, dalle nari foderate delicatamente di roseo: sinuosamente colorita di rosso, come un fiore chiuso, la bocca. E in tutta la fisonomia la espressione pacata di chi è senza speranza, come senza desiderii: un'aureola più che umana, tutta spirituale, la quale trasfigurava quella bellezza. Francesco Sangiorgio, a quell'aspetto, aveva sentito dileguarsi quell'acre desiderio che lo aveva signoreggiato in quella stanza da pranzo, nell'attesa spasimante di donn'Angelica che era fuggita, senza farsi vedere; i suoi nervi si erano placati a poco a poco: i sensi eccitati cadevano in un languore di contemplazione. Quella castità, quella purezza scendevano su lui, come un soffio fresco a mitigare il calore della passione: penetravano in lui come la benedizione di una carezza tutta innocente, bacio di bimba, mano di sorella, abbraccio affettuoso di amica: s'impossessavano di lui, come un placido fiume di dolcezza dilaga senza rumore e senza disastri e copre le rive. La febbre dei suoi polsi si era calmata: le vene delle tempie non battevano più precipitosamente, come prima; quel malvagio desiderio brutale era sfinito in una blandizie. E mentre donn'Angelica, ferma al suo posto, si riposava, egli sentì che ella lo guardava: sguardo chiaro e schietto, tutto umido di dolcezza, tutta luce quieta. Invero, per lui, ella era, in quell'ora e per sempre, la celeste Beatrice. Dalla grande poltrona reale, la sovrana piegava un po' il capo per discorrere con donna Clara Tasca, che sedeva accanto a lei sullo sgabello, come moglie di un cavaliere dell'Annunziata: l'ardente siciliana dagli occhi vivi spirituali sotto i capelli un po' brizzolati, dalla fisonomia mobile dove tutta l'espressione di un'anima irrequieta si dipingeva, rispondeva presto presto alla regina, piegandosi anche lei, dimostrando un interesse rispettoso. Le altre signore del mondo aristocratico, del politico, del diplomatico, riunite in gruppi, discorrevano fra loro, fingendo d'interessarsi al discorso, ma tenendo d'occhio, attentamente, ogni moto della sovrana: e non ballavano ancora, non accettavano inviti a ballare, distratte, assorbite nel pensiero di quello che avrebbe detto loro la regina. Tutte quante, malgrado il censo, il nome, la bellezza, tutte le fortune dell'anima e del corpo, non ambivano che questo minuto di colloquio pubblico, innanzi a duemila persone, con la regina; tutte quante dimenticavano ogni speranza, ogni desiderio, ogni interesse, ogni altro affetto, nell'ambizione muliebre di questo breve colloquio, al cospetto del pubblico. Le ragazze, soltanto, a cui non sarebbe mai toccato quest'onore, venute al ballo per mostrare la loro giovanile bellezza, per essere allegre, per ballare, per annodare uno di quegli innocenti e poetici legami d'amore, le ragazze, invece, già ballavano il _waltzer_, nel largo giro del salone, fra un grande volteggiare di veli bianchi, rosei, azzurri, scostandosi solo, con una certa timidezza, innanzi alla poltrona reale. Gli uomini andavano, venivano, si fermavano in gruppi, ballavano, chiacchieravano: niuno badava a loro. Francesco Sangiorgio, dopo la quadriglia reale, era scivolato fra le gonne seriche, lentamente, era distante da donn'Angelica soltanto venti passi e la vedeva discorrere col deputato di Carimate, il gran signore lombardo, dalla barba nera e dai principii vaghi di socialismo: ma ella stessa, donn'Angelica, era un po' distratta, con gli occhi bassi, che ogni tanto si rivolgevano verso la persona regale. E come quell'astro si volgeva a destra e a sinistra, come faceva cenno di alzarsi, certi lunghi fremiti correvano per quei gruppi di donne: tutte volgevano il capo da quella parte, molte tacevano, aspettando, molte continuavano a chiacchierare o ad ascoltare, ma balbettavano: il loro spirito era altrove. La regina era passata al gruppo delle sue dame, mostrando il profilo regale alla sala: e lo squadrone delle dame, in piedi, la circondava: le due principesse americane maritate a due principi romani, una biondissima, più inglese che americana, l'altra magra, simpatica, elegante; donna Vittoria Colonna, dagli occhi di diamante nero: donna Lavinia di Sora, dal volto perlaceo, dai grandi occhi lionati, pensierosi: la contessa di Genzano, la bellezza fatata, dai fulvi capelli; la principessa Seraphita, dal volto ideale, vestita semplicemente di bianco, con un mazzolino di violette sul seno; la principessa Lalla, dal volto che serbava le giovanili, pure linee di cammeo, dalle spalle bianche e lunate; e infine la marchesa Paola, la gran dama di onore, la madre felice dai capelli ancora biondi e ondulati, le cui figliuole allegre e brune ballavano, nel salone. Pazientemente, le signore del mondo diplomatico si stiravano i lunghi guanti di camoscio sulle braccia, chiudevano e schiudevano il largo, molle ventaglio di piume, lo agitavano, odoravano il mazzetto di fiori, guardavano curiosamente, per la centesima volta, il taccuino da ballo, come se non lo avessero mai visto. Ora, poco a poco, Francesco Sangiorgio era arrivato alle spalle di donn'Angelica, e pian piano, come un soffio, le aveva detto: «Buona sera.» «Buona sera,» mormorò lei, con quella profondità di accento, che era la sua particolare espressione. E si rivolse un po' verso lui, chiedendogli se fosse arrivato suo marito, parlando a fior di labbro, mentre egli la fissava con certi occhi innamorati e così rispettosi, che una lieve fiamma salì a colorire le guance di donn'Angelica. La regina parlava, in francese, con l'ambasciatrice di Francia, una magra e ascetica signora, dal viso lungo. Laggiù, il re discorreva con donna Luigia Catalani, vestita di color bronzo, con un piumino azzurro e strano nei capelli biondi: e la viva, spiritosa siciliana sorrideva argutamente. Una quadriglia era cominciata, fittissima, con un grande fluttuare di strascichi: le signore che erano sul lato dove Sua Maestà discorreva, per non volgerle le spalle, ballavano di profilo, con gli occhi bassi, misurando i loro passi. «Non ballate?» chiese Sangiorgio. «Non ballo: il governo non può ballare,» rispose ella, placidamente. «Dopo, se volete, faremo un giro.» «Dopo?» «Dopo.» Egli non capì subito, non aveva guardato attorno, concentrato solo in colei che era l'amor suo, non aveva sentito intorno a sè la febbre di quella grande ambizione femminile. Ma intese che qualche cosa di importante, di supremo in quella festa tutta muliebre andava accadendo: intese la profonda preoccupazione di quelle donne che avevano scordato tutto, financo di essere belle. Nel centro della sala era grande il movimento pel ballo: e la folla degli uomini era diminuita, dirigendosi verso i salotti, verso le stanze da fumo, verso il _buffet_. Qui, sulla destra, era sempre grosso, sempre fitto fitto il gruppo delle donne che aspettavano, desiose, a cui altre si venivano ad aggiungere, credendo che il loro turno fosse venuto, incapaci di girare, avendo il cuore e la mente e l'attenzione là, in quel lato del salone. La regina seduta quasi nel vano di un balcone, lasciando vedere solo lo strascico e il fermaglio del monile sulla nuca, s'intratteneva con donna Lidia, la moglie del presidente del consiglio, la piccola, buona e amabile signora che usciva dalla modestia della famiglia, solo in qualche festa ufficiale. — Quella è donna Lidia, donna Lidia, la regina parla con donna Lidia, — si susurrava nella folla delle signore e fra i giovanotti bene informati. Il colloquio durava da cinque minuti, e, per una invincibile attrazione, tutti gli occhi delle signore che aspettavano, erano fissati su donna Lidia e sulla sovrana, di cui si misuravano i movimenti: sarebbe andata a destra o a sinistra, alzandosi, uscendo da quel vano di balcone? Nel salone era una passeggiata di tutte le coppie che avevano ballata la quadriglia; gli impegni per la _polka_ si prendevano, dei giovanotti scrivevano, con la matita, nei taccuini delle ragazze; le signore straniere, anziane, mature o vecchie, rimanevano sulle ultime panchette di velluto rosso, con la loro aria corretta di persone che si annoiano volontariamente, coperte di gioielli e di merletti ricchissimi, col capo piumato. Quelle che già avevano avuto l'onore della parola reale, circolavano, tutte rosee, sorridenti, soddisfatte, con una lucentezza di felicità negli occhi, ripetendo l'una all'altra il motto amabile ricevuto; e non si curavano più di altro, non badavano più alle altre, che aspettavano ancora, celando l'impazienza. Il re discorreva con la forte e bella signora del primo patriotta italiano, la buona e bruna signora, dal volto colorito, dal viso schietto, tutta vestita di azzurro. «Speravo di vedervi prima, questa sera,» disse Sangiorgio, come un collegiale. «Infatti...» rispose vagamente lei. E subito gli voltò le spalle. Un improvviso solco si era aperto fra la folla: innanzi a loro, nello spazio libero, fra due siepi di persone, si avanzava, maestosamente e graziosamente bella, la sovrana, in una luce tremolante di stella. Ella veniva verso donn'Angelica: e Sangiorgio dette addietro, intimidito, sentendo in quella coppia muliebre, la donna semplice e serena, la donna regale e sorridente, tutta la potenza femminile. _Dopo_, Francesco Sangiorgio e donn'Angelica passeggiavano per le sale, lentamente, attraverso gl'ingombri degli strascichi, formando delle piccole file, arrestandosi ogni tanto, come la circolazione femminile si ammucchiava, si accalcava. Nel grande salone da ballo, le ragazze, le mogli dei segretari, le signore innamorate del ballo, le spose borghesi, le dame che non avevano alcun posto ufficiale, si davano intieramente al piacere della danza, l'orchestra strideva nelle note eccitanti di Metra e di Fahrbach, l'animazione giovanile e femminile era al suo colmo. Invece le _altre_ passeggiavano, sedevano sui divani dei salotti, tenevano circolo, si allargavano dappertutto. L'ambasciatrice d'Inghilterra, tenendosi accanto la bella e poetica figliuola che pareva una madonnina del Botticelli, nel salone azzurro, teneva intorno a sè un circolo di giovani diplomatici: per due minuti parlarono in inglese, dolcemente, con donn'Angelica: Sangiorgio ascoltava, senza intendere, ma gli sembrava una musica deliziosa. La contessa di Malgrà, la simpatica bionda, dal pallore provocante e dagli occhi incantatori, diceva dei paradossi sociali a tre o quattro giovani deputati del centro che la seguivano nelle sue passeggiate; la signorina Maria Gaston, dalla bellezza dolcissima, figliuola del ministro della marina, in un vano di finestra, vestita di bianco, angeletta mondanamente soave, chiacchierava con due o tre vecchi ammiragli, rinunziando al ballo; la signora Giulia Greuze, la belga dallo spirito scintillante e dal bel corpo giovanile simile a una rosa che si sviluppi dall'involucro, ridacchiava sotto l'edera di una grande giardiniera, mostrando i dentini candidi. Donn'Angelica, al braccio di Sangiorgio, passava, fermandosi ora qua ora là, scambiando saluti e sorrisi con le mogli dei deputati che incontrava: la marchesina di Santo Marta, bionda e ricciuta come un uccellino; la marchesa di Corvisea, fedele ai suoi vestiti di rosso-cupo, mostrando i più bei piedini della politica italiana; la baronessa de Romito, la bellissima e tranquilla Giunone; la contessa di Trecastagne, una francese pallidina e gentile che aveva sposato un siciliano; la baronessa di Sparanise, la spirituale signora dai nerissimi occhi egiziani; la mite e piacente marchesa Costanza, dalla voce affettuosa e dall'incesso molle; le due bionde signore figliuole del ministro di grazia e giustizia, una bionda ed esile, l'altra bionda e pensosa: esse andavano in su e in giù, senza rientrare nella sala da ballo, formandosi ogni tanto in gruppi, ridendo fra loro, narrandosi gli aneddoti della serata, guardandosi da capo a piedi, con un sorriso benevolo ma profondo, misurandosi giustamente in tutta la loro manifestazione di lusso e di bellezza. Donna Clara Tasca era rimasta mezz'ora, aveva chiacchierato con ministri, uomini politici e deputati, ed era subito partita, trascinandosi dietro don Mario, di cui certo avrebbe completata la fortuna politica, se egli fosse stato meno nebuloso, meno fantastico, meno _virtuoso_ di politica. Donna Angelica, al braccio di Sangiorgio, parlava poco: ma egli non chiedeva altro, felice di avere, sulla manica della sua marsina, quel braccio nascosto pudicamente dal guanto, felice di poter contare, ogni tanto, macchinalmente, le perle di quel monile, felice di sentirsi sfiorare il piede, ogni tanto, dall'orlo di quel vestito di broccato. Ella cercava suo marito, ma quietamente, senza troppo insistere, senza chiederne a nessuno: e col suo cavaliere scambiava solo qualche rara parola. Finalmente don Silvio, al braccio di un deputato d'opposizione, comparve sotto una porta, si avanzò verso lei e senza quasi guardarla, senza accorgersi di chi l'accompagnava, le chiese subito, sottovoce: «Sua Maestà?» «Amabilissima,» fece lei, chinando gli occhi. «Più del solito?» «Non so... mi pare...» «Ti pare o sei certa?» ribattè egli, duramente. «Sono certa, sono certa,» si affrettò ella a soggiungere. Egli le voltò le spalle: ella era pallida e turbata. «Volete sedere, forse?» le chiese Sangiorgio, pietosamente. «No, no,» disse donn'Angelica, «passeggiamo, passeggiamo.» Andarono in una sala del _buffet_, sala da dolci, da caffè, da thè, da gelati, piena di gente che rosicchiava e beveva, con una quantità di cartine ricce da confetti sparse sul tappeto. Anche qui era pieno di donne, la principessa di Valmy sorbiva del thè, discorrendo col piccolino-grande traduttore di Platone, atleta della Camera, il meridionale profondo, dalla voce un po' stridula e dalla frase incisiva, talvolta terribile; la contessa di Roccamorice mangiava delle castagne giulebbate, parlando col Gran Maestro dell'Ordine Mauriziano, dalla barba bianca e dal fine sorriso lombardo; la principessa di Tocco, la più bella donna di Roma, seduta in una poltrona, avendo intorno l'on. Melillo, l'on. Marchetti, l'on. di Sangarzìa, sorbiva un gelato, col suo contegno buono e placido di Dea; la baronessa Noir, piccolina, sottile, dall'abito di azzurro giapponese, dai magnifici giojelli, turchesi grosse circondate di brillanti, si batteva il ventaglio sulle dita, nervosamente, ascoltando una discussione fra il ministro d'Italia a Bruxelles e il ministro d'Italia a Bucarest. «Non voglio nulla, non voglio nulla,» mormorò ella a Sangiorgio che la portava verso la tavola imbandita. Cercava di dominare, a poco a poco, il suo turbamento. Parlò un minuto con la signora Gasperini, la moglie del segretario, cercando di riprendere la sua serenità; ma non vi riesciva che a metà. Un'agitazione restava ancora al fondo di quell'anima. «Vorreste andar via?» le domandò Sangiorgio. «Oh sì!» esclamò lei con uno slancio. Si rimisero a cercare don Silvio di nuovo, attraversarono di nuovo la sala rossa, il salone azzurro, il salone da ballo, il corridoio delle statue dove ella rabbrividì dal freddo, con un tremito delle spalle nude; attraversarono altri tre o quattro saloni vuoti, si trovarono nel salone delle cene, dove era un allegro rumorìo di forchette, un tintinnìo di bicchieri. Ritornarono indietro: infine nel salottino degli arazzi di don Chisciotte, trovarono don Silvio in uno strettissimo colloquio con l'ambasciatore d'Inghilterra. Donn'Angelica fece per accostarsi, ma con un cenno delle palpebre don Silvio glielo proibì, le fece intendere di allontanarsi: ella chinò il capo, arrossendo, trascinò via Sangiorgio rapidamente. «Non ballate voi, Sangiorgio?» gli domandò, ridendo. «Siete troppo serio, voi: a che pensate sempre così? Non alla politica, spero?» «Oh no!» «Non ci pensate, non ci pensate, ve ne prego,» fece lei, appoggiandosi maggiormente sul suo braccio. «Non sareste innamorato per caso?» «Sì,» disse lui, schiettamente. Ella si arrestò, un po' interdetta, pentita di aver detto troppo. E subito parlò di altro, del ballo, degli arazzi, di don Chisciotte, del caldo, di tutto, con una voce un po' velata. Il ballo, alle due dopo mezzanotte, era nel suo più vivo splendore: nel salone da ballo una quarantina di coppie ballavano il _waltzer_, e in tutte le sale, sotto gli arazzi, fra le giardiniere, fra le portiere di broccato, fra il bianco dello stucco e l'oro degli ornamenti, era un sorgere, un pullulare, un espandersi di donne, una lucentezza di chiome stellate, un anelare di petti femminili luminosi. Il segretario di don Silvio si accostò a donn'Angelica, con la sua aria affaccendata. «Sua Eccellenza deve andare immediatamente al ministero, per un telegramma di urgenza. Non può accompagnare la signora.» «Bene,» fece lei, licenziandolo con lo sguardo. Tacitamente egli l'aveva accompagnata in anticamera, dove, nello scialbo luccicore della luce elettrica, sotto gli occhi dei camerieri muti, quasi automatici, l'aveva aiutata a infilare il grande mantello di broccato bianco, foderato di ermellino. E, senza avere spiegazioni, senza dirsi nulla, ella aveva ripreso il suo braccio ed era discesa placidamente per lo scalone: il cameriere di casa Vargas li aveva preceduti, per chiamare la carrozza. E con un moto gentile e rapido, innanzi allo sportello aperto del _coupé_, ella raccolse lo strascico, inarcò il piedino calzato di raso bianco e saltò in carrozza: non salutò, non tese la mano, — naturalmente, egli salì in carrozza con lei. Nulla si dissero: ma lo strascico bianco copriva i piedi e le gambe di Francesco Sangiorgio, empiendo la piccola vettura delle sue onde seriche e candide, e si distingueva, nel breve ambiente, un lievissimo odore di mughetti. Ella non aveva nulla sul capo, nè una sciarpa, nè un cappuccio, nè un merletto: la testa libera si ergeva dal candore morbido dell'ermellino e nei capelli neri le stelle di diamanti scintillavano. Dalle ampie maniche del mantello le mani uscivano, si abbandonavano sulle ginocchia: una calzata ancora dal guanto di camoscio chiarissimo: l'altra, senza guanto, nuda, con un brillante all'anulare, che scintillava. E nella penombra della carrozza che a mezzo trotto scendeva dal colle del Quirinale alla vecchia Roma, Francesco Sangiorgio guardava ora quel viso soavissimo che un pallore vivo rendeva più affascinante che mai, ora quella piccola mano lasciata con tanto abbandono in grembo, come se una mortale stanchezza l'avesse vinta. Nella dolcezza desiderata e aspettata di quel momento, nella solitudine bizzarra di quel piccolo nido azzurro cupo che riconduceva a casa la soavissima donna, l'amatore non era preso da alcun desiderio, niuna ansia del minuto che fuggiva, niuno spavento del tempo che passava e che avrebbe portato la loro divisione: egli godeva delicatamente quel vivissimo piacere spirituale, quella felicità era per lui senza mescolanza di amarezza. Immobile, muto, con gli occhi quasi incantati, i quali null'altro sapevano vedere che quel viso bianco e quella mano piccoletta e molle che parea dormisse, egli non si moveva e non parlava, buddista dell'amore, perchè in nulla l'altissima sensazione venisse scemata. Giammai aveva inteso la sua vita svolgersi ed allargarsi con tanta dolcezza, come un fiume largo e felice che se ne va innamorato al mare, nella bellezza della pianura verde, sotto il sole, appena appena mormorando sotto i giuncheti: giammai si era sentito così inondato di una letizia pura, dove egualmente si fondeva l'appagamento dello spirito e dei sensi, la delizia del cuore e dei nervi. Delibava, intensamente, completamente, quella letizia, nella immobilità, nella passività dell'uomo felice. Donn'Angelica, ogni tanto, lo guardava con un lento moto di occhi. Buttata in quell'angolo, ma non rannicchiata, non raggomitolata, con quella bella compostezza di forme e di pose che era la sua grazia, ella pareva si riposasse, senza troppo abbandono e senza troppa rigidità. Non dormiva, no, tenendo gli occhioni scuri spalancati e rivolgendoli, tratto tratto, quietamente, su colui che l'amava, — ma tutte le linee del volto si erano quasi ammollite, arrotondate nel riposo. Come i fanciulli, come certe donne che riprendono la infantilità, dormendo, il cui volto si ringiovanisce, si addolcisce, ridiventa ingenuo e bonario, ella aveva, in quel momento di calma, l'aria di una fanciulletta, di un'adolescente creatura ingenua. Era scomparsa l'apparenza di donna vestita con la pompa di un ballo: il mantello pareva il vestito di una educanda, un vestito morbido e candido, senza forma, castissimo, un manto verginale: e lo scintillio dei brillanti nei capelli neri, sulla mano piccola, pareva raggio di luce, non ricchezza fulgida di gioielli. Ella era ridiventata giovanetta, in una pura essenza spirituale di bellezza e di grazia, in un riposo che era anche un rinascimento. Niuna fiamma si accendeva nei begli occhi pieni di ombra e pieni di pace; nessun sorriso veniva a dissuggellare le labbra chiuse e arcuate come quelle delle statue, non una parola usciva da quelle labbra. Anche ella era immobile, la piccola mano pareva di cera sul bianco della stoffa, il volto si delineava sul fondo cupo della carrozza, come un ovale chiaro: e che pensasse, che sentisse, non si sapeva, non s'intendeva. Dietro quell'apparenza di pace, dietro quel riposo delle linee, forse era alacre il pensiero, forse il cuore fortemente palpitava, forse la grande vita interiore dell'intelletto del sentimento passava per tutti i fenomeni dell'attività. E forse in lei erano penetrati sin nello spirito quella calma e quel riposo: forse ella era simile, dentro, al grande lago profondo d'acciaio che niuna tempesta mai può turbare. Ma non si sapeva nulla: ella, come sempre, era avvolta nel grande mistero della serenità. Fra loro due, fra l'essere felice che si lasciava annegare dall'onda soverchiante di delizia spirituale che lo assaliva senza strepito, e fra la creatura giovane, casta, quieta, serena, sedeva terzo l'amore. III. Appena spuntò dal Babuino in Piazza del Popolo, Francesco Sangiorgio ebbe un pugno di coriandoli nel collo, senza sapere donde gli venissero: un mazzettaccio informe, di fiori di cicoria, gli sfiorò una guancia: egli fu preso da un flotto di folla che lo trasportò verso l'obelisco. Una grande folla nera, tumultuante, urlante, fischiante, ondeggiava intorno alla fontana, sotto un nembo bianco di coriandoli lanciati dai pedoni, dalle carrozze, dalle due grandi tribune di legno che quasi continuavano il Corso sino alla fontana. La chiarezza pomeridiana, larghissima, si effondeva su questa folla scura, dai volti convulsi, mettendo la piazza sotto una grande calotta luminosa di primavera, e nell'aria tepida, nello scirocco mite di febbraio, la polvere di gesso dei coriandoli sfarinati bruciava la gola e attirava il sangue alle guance. Sangiorgio dovette fare forza di gomiti e di spalle per liberarsi da quell'onda clamante che lo sospingeva, lo travolgeva, e una collera lo prese contro quella brutalità di divertimento che rassomigliava o superava i furori degli animali festanti. La gente rifluiva sino alle due porte del Pincio, sbarrandole, chiudendole, aggrappata ai cancelli aperti, volgendo le spalle ai due viali ascendenti: ma niuno entrava, niuno pensava di salire al Pincio, presi da quell'ardore concentrato che danno i grandi spettacoli dello sfrenamento umano. Sangiorgio camminava con stento, contro corrente, ora pallido, ora rosso, frenandosi malamente a non dare dei pugni a quelli che lo spingevano. Ma la estrema difficoltà fu per lui di poter entrare al Pincio: la folla che ne sbarrava l'entrata non lo voleva lasciar passare, non voleva perdere il posto, non voleva che lui ne usurpasse uno, credendo che egli volesse installarsi là, non supponendo mai che egli volesse andare a passeggiare lassù. Quale singolarità di gusti poteva dunque condurre quell'uomo a passeggiare pel Pincio deserto, in quella giornata di baldoria, in quell'ora tiepida pomeridiana, quando tutta la gente impazziva di gioia carnevalesca da Piazza Venezia a Piazza del Popolo? La folla non voleva crederci, a questa stranezza, e non voleva lasciar passare Francesco Sangiorgio. Egli gridò, di nuovo, due o tre volte, avendo le fiamme della collera sul volto: — Vado al Pincio, vado al Pincio! Passò. Appena fatto il gomito del viale, un gran respiro di contentezza gli sollevò il petto, un senso di calma gli si diffuse pei nervi esaltati. Entrava nella solitudine saliente e verde del grande viale, sotto la mite ombra degli olmi che fiorivano novellamente, nella primavera che veniva. Non una persona s'incontrava nel viale che da una parte andava verso villa Medici e verso la Trinità dei Monti, dall'altra saliva al Pincio: non un viandante, non una donna, non un fanciullo. Tutti, tutti erano al Corso, per la via, nei portoni, sui balconi, sulle logge, sulle tribune improvvisate, sui fusti dei lampioni, attaccati al soffietto delle carrozze, tutti, tutti al Corso, presi dalla grande follia carnevalesca. Francesco Sangiorgio si sentiva sempre più rassicurato, sempre più tranquillo, montando a quell'alta pace di campagna solitaria. Ogni tanto gli arrivava un'eco fioca, da Piazza del Popolo, di voci stridule e gravi che la distanza attenuava; ma come si allontanava, sempre più questa eco diminuiva, arrivava ancora fievolissima, poi moriva. Solo, costeggiando il muretto che dava sulla Piazza del Popolo, si vedeva ancora, sotto, un'agitazione confusa di una gran massa nera e una grande nuvola trasparente bianca, una nuvola bianca e bassa come quelle palustri. Sul grande terrazzo, che è piuttosto una spianata, amplissimo, chiaro, che guarda Roma e San Pietro al Vaticano e Monte Mario e tutta la campagna romana intorno al Tevere, oltre la Porta Flaminia, sopra un banco, sotto un albero, un vecchio, modestamente vestito, era seduto. Il bastone gli si abbandonava fra le gambe, il sole gli batteva sulla faccia, ed egli chiudeva gli occhi, inebetito dall'età, dal riposo e dal tepore. Appoggiato, o piuttosto buttato sulla larga balaustra del terrazzo, un prete guardava Roma, piccola macchia nera di fronte alla grande macchia biancastra della città bagnata nella dolce luce del pomeriggio. Francesco Sangiorgio, per vedere, si accostò a questo prete: era un giovanotto magro e pallido, dal volto sparso di macchie di lentiggini: ma non guardava Roma, nè la indistinta massa bruna che fluttuava in Piazza del Popolo: leggeva il breviario, un grosso libro legato di nero. Sangiorgio si allontanò rapidamente, sempre più fiducioso. E invero, in tutto il giardino che le balie, le cameriere, le istitutrici, le mamme modeste prediligono e che i bimbi adorano, era uno squallore di parco abbandonato, donde è fuggito ogni rumore, ogni traccia di vita: l'aiuola grande intorno a cui si mette la musica, pareva da anni non richiamasse più nessuno; i leggii di ferro, sparsi qua e là e che servono per la musica del concerto, erano sbandati e arrugginiti, come se per un'infinita quantità di tempo avessero ricevute le ingiurie del sole e della pioggia, senza che la mano dell'uomo li toccasse; nella piccola bacheca del venditore di palle elastiche, di cerchi, di corde per saltare, non vi era un'anima, e la sua merce era sospesa all'albero senza che niuno pensasse a venderla, a comperarla, a rubarla; silenzioso, deserto, immobile, coi suoi cavallucci azzurri e rossi, il carosello; pendente, come piangente, come trascinante il suo abbandono, la corda dell'altalena. Negli altri giorni tutti questi ingenui divertimenti eran pieni di strilli infantili, di vive risate, di richiami materni, di voci allegre: ora i bimbi e le madri e le serve erano laggiù, perduti nella grande voragine carnascialesca e da anni sembravano aver dimenticato quell'amabile ritrovo verde che la incipiente primavera già faceva germogliare tutto. Intorno al minuscolo laghetto, niuno buttava la mica di pane al bel cigno candido che chinava il collo delicatamente, come una donnina malata, e navigava con lentezza in quel breve giro di acque verdigne: pareva vecchio e triste di vecchiaia il cigno, come se avesse perso l'abitudine di vedere le manine gentili delle creature dargli da mangiare. L'orologio ad acqua, sporco, appannato, segnava le 5.15; di quale giorno, di quale anno? Una sfera era rotta. Nessuno, nessuno seduto all'ombra della capanna svizzera che gli strani seminaristi tedeschi vestiti di rosso e gli allievi del collegio del Nazzareno amano: e dal cancello che separa villa Medici dal Pincio, si vedeva un lungo viale cupo, deserto, bruno e umido. Sotto i platani le erme marmoree, dalle guance un po' consumate dalle piogge, con le anella delle chiome abbrunite dall'umidità, pareva si annoiassero lì, da secoli. E Francesco Sangiorgio si consolava di questo profondo deserto campestre che si rigonfiava di succhio novello, come la dolce stagione lo comportava. Il grande giardino, coi suoi larghi viali, pareva tutto suo, lasciato in abbandono dalla folla chiassona, pronto a nascondere i suoi amori, nido solitario di un purissimo idillio sentimentale. Lontano, dalla terrazza posteriore, egli aveva ben guardato la immensa massa verde di villa Borghese dove sarebbe stato così facile il celarsi: ma ella non aveva voluto, per non attraversare piazza del Popolo, in quell'orrendo giorno di carnevale: e più del Pincio, villa Borghese sembrava un immenso parco naturale, senza traccia di uomo, una vasta campagna vergine e solitaria. Passando innanzi al cancello che separa il Pincio da villa Medici, Sangiorgio dette un'occhiata di rimpianto alla cupezza malinconica di quel viale fittissimo, dove l'idillio soave sarebbe stato anche al coperto della chiarezza larga del cielo: ma ella non aveva voluto, per entrare a villa Medici ci vuole un permesso speciale. E quello che turbava Sangiorgio, nei suoi giri attorno al grande giardino, era la parte che dava sopra Roma e sopra Piazza del Popolo, tutto quel lato scoperto, quell'immensa breccia, donde veniva, a riprese, un rombo cupo, il clamore giocondo e pauroso della folla: ogni volta che girava verso villa Borghese, gli pareva di essere in pace, solo con l'amor suo, non disturbato, nel beneficio della solitudine campestre; ogni volta che ritornava verso Roma, l'improvvisa visione della città e il rombo e tutto quel mondo estraneo che s'imponeva, gli guastavano tutti i sogni. Sentiva in quel pubblico, in quella folla, l'ostacolo, la difficoltà, il dolore. Quando ella giunse, egli l'aspettava da un'ora, non essendosi ancora impazientito, ignorando ancora i tormenti di colui che attende nell'incertezza, fiducioso ancora nella parola femminile. Ella venne dallo stradone che dà sulla Trinità dei Monti, avendo lasciata la carrozza in Piazza di Spagna: era vestita di lana azzurro cupo, con una veletta bianca sulla faccia che aumentava la giovanilità del suo aspetto: camminava piano, senza muovere le gonne, come se scivolasse sul suolo, non venendo, ma avanzandosi. In un minuto, alzando ambedue gli occhi, senza affrettare il passo: egli non si era mosso dal pilastrino dove stava appoggiato, aspettandola, vedendola avanzarsi, nella cupezza della stoffa bruna, nel candore della veletta bianca. Non dunque lei era un fiore primaverile, un grande fiore umano sbocciato per la sua delizia? Quando furono accanto, non si salutarono, non si tesero la mano, ella stringeva nel piccolo pugno il manico dell'ombrellino, un galletto di legno scolpito, con la cresta rossa: non si parlavano, camminavano l'uno accanto all'altro, senza guardarsi. «Grazie,» disse lui. «No, no,» rispose lei, subito. E guardandosi intorno, con un'occhiata timida, soggiunse: «Qui ci vedranno tutti.» «Non vi è nessuno; non temete.» «Nessuno?» «Nessuno; è carnevale.» «È vero; tutti sono al Corso: dovevo andare anch'io...» E si accostò al largo terrazzo soleggiato, donde si vedeva tutto il mare magno della folla clamante, in Piazza del Popolo: egli provò una fitta al cuore, come se quello spettacolo gli togliesse una parte della sua felicità. Ella appoggiò al parapetto la mano sottile inguantata di camoscio: e guardò quei grandi flotti oscuri di gente, da cui saliva un rombo come di vulcano. «Come si divertono, laggiù!» ella mormorò melanconicamente. Egli l'aspettava, tenendosi indietro, preso da un senso d'impazienza. «Venite via,» le disse. Ella voltò le spalle alla città, internandosi con lui nel grande viale a sinistra; e guardava in terra, come se pensasse profondamente. «Nessuno, nessuno,» diss'ella, come sollevata. «È una fortuna che sia carnevale. La gente impazzisce. Non preferireste voi essere laggiù?...» «Come potete credere...» cominciò lui, addolorato. «Non posso più credere in molte cose,» susurrò ella, come se parlasse a sè stessa. «Siete così buona: io non so dirvi nulla: risparmiatemi,» la pregò lui, con l'umiltà del cristiano innanzi l'immagine benedetta. «Ho da dirvi delle cose tristi, amico,» disse ella, con la sua bella voce dolente. «Non oggi, non oggi, domani, un altro giorno...» «Meglio oggi che domani,» soggiunse ella, fissando i begli occhi mesti sopra la campagna di villa Borghese. «Bisogna aver coraggio...» «Io non ne ho, non ne ho niente...» «Bisogna averne,» insistette ella, «per vivere in pace con la propria coscienza.» E si strinse, con un brivido, nella piccola mantellina di pelliccia, passando innanzi alla freddezza nera di villa Medici. «La coscienza, la coscienza!» esclamò lui, ribellandosi, «e l'amore?» «Non si deve amare,» pronunziò ella, come una sentenza. «E perchè?» «Perchè non vogliono.» «Chi non vuole?» «Quelli,» e tendendo la mano, indicò Roma e Piazza del Popolo, dove alta ferveva la follia carnevalesca. «Non sapete chi siano.» «Sono la coscienza: io non saprei ingannare, amando.» «Voi non amate,» fece egli con amarezza. «... Forse,» diss'ella, perdendosi nella contemplazione di Monte Mario. «Venite via, venite via,» ripetette lui, preso da un'angoscia di pentimento, volendo sottrarla allo spettacolo della folla. Infatti, com'ella volgeva le spalle al panorama di Roma, il volto le si serenava e pareva che i pensieri prendessero un corso meno lugubre. La grande pace campestre del colle Pinciano, quella solitudine, quel primo fiato di primavera, quel dolcissimo pomeriggio fra il verde e il tepore dell'aria, quello sguardo innamorato e reverente con cui egli la circuiva, quella fedeltà con cui la seguiva, quel rispetto amoroso con cui le parlava, le facevano scordare l'urlio, la gazzarra della città ammalata di carnevale, le facevano scordare che un altro mondo esistesse, oltre la campagna, oltre la primavera, oltre l'amore. Oh, egli bene intendeva che un poco di quell'anima era sua, che gli era pietosa in quell'ambiente deserto, fra le piante, le cadenti acque della fontana, l'orizzonte agreste e semplice: indovinava che quel poco di anima femminile gli sfuggiva, che quel cuore gli si chiudeva, appena il vasto e duro orizzonte cittadino se ne impossessava, appena la grande voce della folla saliva sino alle sue orecchie. Nella solitudine, fra il novello germoglio degli alberi e dei fiori, in tanta soavità di cose e di cielo, ella era buona e cara e amorosamente compassionevole: ma al cospetto della maligna e dura città che non perdona, ella chiamava tutto il suo coraggio per diventare inflessibile, s'irrigidiva nella sua volontà di chiedere e di ottener sacrificio dell'amore. Così egli faceva di tutto perchè non ritornasse più verso il grande terrazzo, verso la breccia cittadina, persuaso che l'ora e il tempo e la stagione l'avrebbero indotta a mitezza. La trattenne presso il parapetto, donde giù giù si vede quello stretto budello che è la Via delle Mura: non vi passava un'anima. «Non bisogna amare troppo tardi,» riprese ella, con un'infinita dolcezza di mestizia, «è inutile, è doloroso. Dove eravate voi cinque anni fa?» «Laggiù, in Basilicata,» rispose, con un gesto vago. «Io lassù, lassù, nei monti, fra le nevi. Credevo alla neve dei ghiacciai, io, il ghiacciaio che nulla vince. Ho sposato don Silvio: egli era buono, io non sapevo nulla del sole. Ora, il sole viene per me troppo tardi.» «Non lo dite, non lo dite,» egli mormorò. «Non possiamo fare convertire la neve in fango, amico.» Un silenzio regnò: egli era pallidissimo, come se dovesse morire. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime: e lui, guardava quelle pupille nuotanti, tremante di vedere scorrere quelle lagrime, commosso come se quella fosse l'ultima sua ora. Ma non le disse quanto soffriva: non voleva, non sapeva lamentarsi: tutto quanto veniva da lei era bene, era dolcezza. Con quel profondo altruismo che dànno i veri e forti amori, egli dimenticava tutta l'angoscia propria, guardando quei begli occhi lagrimosi, vedendo la piega dolorosa di quelle labbra. Il dolore di lei lo scoteva e lo esaltava; una grande, spasimante voluttà sentimentale lo trasportava. «Eppure per me la vita è molto dura,» continuò lei, fievolmente, come se la emozione la accasciasse. «Io non ho figliuoli per riscaldarmi il cuore con l'amore materno: accanto a me, vi è un vecchio dall'anima gelida per me, avvampante di passione per un'altra cosa, per un'altra idea. Oh se sapeste, amico, che è questa solitudine, questo eterno silenzio!» «Ma perchè rinunziate?» «Così,» disse lei, come se quella fosse la inesplicabile parola della fatalità. E camminò di nuovo, tacendo, ma sempre più lentamente, come se la stanchezza la signoreggiasse: egli la seguiva, senza vedere più niente, senza intendere più nulla, in uno di quegli oblii dell'anima e dei sensi. Cadeva il sole, dietro San Pietro, fra la Chiesa e Monte Mario. «È finita, amico, è finita, mi pare quasi di essere morta. La gente vede la mia faccia serena, la mia tranquillità imperturbabile, e non deve saper altro, non deve indovinare la verità. Ma non vi è più nulla qui dentro.» E dette un colpettino sulla mantellina, al posto dove il cuore batte. E non sentì quale ferita crudele portava al cuore di quell'uomo innamorato, dicendogli che mai potrebbe amarlo. In quell'ora e in quel posto, ella si lasciava andare a uno di quegli sfoghi malinconici ed egoistici delle anime che restarono lungamente chiuse: ella non vedeva più il suo compagno, si abbandonava a tutta la personale amarezza di un cuore giovane e deluso. «Eppure,» mormorò lui, «vi è accanto a voi un'amicizia schietta e tenace, una devozione a tutta prova: quello che voi volete, egli vuole; il suo desiderio di giovarvi, umilmente, segretamente, non conosce nessun limite...» E si arrestò, perchè la voce gli tremava, perchè le parole lo affogavano, perchè questo suo amore, esorbitante, parea volesse traboccar tutto. «Grazie, grazie,» ella disse con un lieve sorriso mesto, che le rischiarò la fisonomia, «io lo so...» «Non potete, non potete sapere, non ve l'ho mai detto, non ve lo dirò mai, non so dirvelo: vi assicuro che è la devozione più grande... perchè respingerla? Come potete rinunziarvi?» «Perchè essa rassomiglia troppo all'amore, amico.» «Essa non vi parla d'amore...» «Io lo indovino...» «Non dovete intenderlo, non dovete indovinarlo; io non vi chiedo nulla, non voglio da voi che il permesso di dedicarvi questa devozione...» «Oggi, così: domani l'amore esigerà l'amore...» «Chi lo dice?» «Ahimè! l'esperienza, amico». «L'esperienza mentisce!» esclamò egli, con violenza, «l'amore mio non è simile a nessun altro.» Angelica chinò il capo, come vinta, per un momento: e Sangiorgio si pentì della sua violenza. «Perdonatemi, signora,» le disse, umilmente, «ma l'idea di perdervi mi è insopportabile.» «Eppure dobbiamo lasciarci. Meglio ora che più tardi: più tardi soffrireste molto di più, io avrei maggiori torti, voi avreste il diritto di accusarmi. La consuetudine inacerbisce ed esalta l'amore: verrebbe un giorno in cui non potremmo dividerci più, giorno di spasimo per voi, di vergogna per me. Ora... ora, ancora tutto è possibile. Che siamo l'uno per l'altro? Nulla: meglio così. Ci siamo visti, quattro o cinque volte...» «Io vi ho vista sempre.» «In mezzo alle volgarità della vita...» «Io ho pianto con voi, signora, quando piangevate nel Pantheon.» «Fra la gente curiosa e maligna...» «Io vi ho guardata per un'ora, quel giorno, a Ponte Nomentano, quando lasciavate andare alla corrente dell'Aniene le foglie delle rose... eravate sola... eravamo soli...» «Fra gli obblighi convenzionali della vita politica...» «Quanto eravate bella, signora, quella sera, al ballo del Quirinale: io venni via con voi: non vi parlai: non mi diceste nulla: quanto eravate bella!» «È un sogno, è un sogno,» ribattè lei, esaltata nel sacrificio dalle vibranti parole dell'amore, «bisogna svegliarsi. Bisogna dividersi.» «Bisogna morire, allora.» «Chi parla di morte?» Non rispose egli alla sua domanda, ma nello sguardo di dolore e di rimprovero con cui la fissò, ella comprese. Oramai il sole tramontato e i grandi veli violetti crepuscolari salivano dalla terra al cielo bianco: una brezza fredda e cattiva si alzava nell'aria: dalla terrazza era scomparso il prete tedesco, lettore del breviario; dal banco di legno il vecchietto era scomparso: tutto il colle Pinciano si oscurava; e laggiù la folla urlava più che mai, eccitata dalla sera che veniva. Ella si avviò per andarsene, pel grande viale che portava alla Trinità dei Monti; ma egli la seguiva, come stordito, senza osare di dirle altro, deciso a seguirla dovunque. Al pilastro di marmo dove l'aveva incontrato, ella si volse e gli tese la mano: «Addio, amico.» «No addio, no!» «È tardi,» pronunziò quella voce amata e glaciale. E Angelica si perdette nelle brume crepuscolari. * * * * * Ora, da Piazza del Popolo a Piazza di Venezia, accendevano i moccoletti. Era una miriade di punti luminosi, di fiammelle erranti, per la via, sui poggiuoli, sui balconi, sui carri: e un volare di mazzettacci informi e infangati, un soffiare di lunghe ventole, un agitarsi di fazzoletti, di stracci, un saltare, un soffiare di bocche, tutti i mezzi, tutti gli scherzi, tutte le violenze, tutte le brutalità per spegnere il moccolo: e i gridi di resistenza e quelli di attacco e la gran voce umana ripercossa: — Moccoli, moccoli, moccoli! Fra tanta luce, fra tanto schiamazzo, fra tanto baccano d'allegrezza, andava urtato, sballottato, sospinto, incosciente, un povero essere agonizzante di angoscia. IV. Tre volte avevano camminato accanto, sulla larga via di campagna che va da Ponte Molle a Porta Angelica, sotto gli olmi e i platani, costeggiando il Tevere biancastro. Ella lasciava la carrozza prima del Ponte Milvio, dicendo al cocchiere di andarla ad aspettare in Piazza S. Pietro: e faceva un centinaio di passi a piedi, passando il Ponte, cercando con gli occhi. Egli era sempre là, aspettando da due ore, turbato dall'impazienza e dal desiderio, passeggiando su e giù innanzi all'osteria di Morteo, internandosi un poco nella Via di Tor di Quinto, tornando indietro sino al Ponte, arrivando sin dove comincia la Via Flaminia, tornando ancora indietro, dando dappertutto delle occhiate distratte, ai salici rinverditi che si piegavano sulle sponde del fiume, ai mandorli fioriti che sorgevano dietro le siepi della Farnesina, non vedendo nulla, col capo rivolto sempre verso Ponte Milvio, donde ella doveva arrivare: e di lontano la vedeva spuntare, un improvviso rossore colorava di fiamma il suo volto pallido, non le andava incontro, l'aspettava di piè fermo, fingendosi distratto, disattento. Ella arrivava sempre dopo il terzo o il quarto convegno mancato, sempre con un'ora e mezzo di ritardo, ma non si scusava mai, non ricorreva neppure a uno dei tanti pretesti femminili: e lui che fremeva di dolore, che sino a quel momento l'aveva incolpata di freddezza, di noncuranza, battendo i piedi, in preda a una nervosità invincibile, quando la vedeva comparire, non le diceva più nulla, la guardava, incantato, pagando con quel minuto acuto di gioia tutte le sofferenze passate. Il primo minuto era sempre imbarazzante: non si sapevano dire nulla, ella seria e preoccupata, egli incapace di profferir parola, per l'emozione: e si mettevano a camminare, sotto gli alberi, lentamente, ella con gli occhi bassi, con le mani ficcate nel manicotto, per avere il pretesto di non andare sotto il suo braccio; egli girando fra le dita il sigaro spento, sogguardandola, felice, malgrado il contegno severo e triste di donna Angelica. Dolcissima la primavera romana si allargava nell'aria dai cipressetti di Monte Mario sui platani dei Monti Parioli; e dalle siepi alte, sul fiume e sulla campagna, un candore di biancospino si offriva acutamente profumato. Le prime parole di donn'Angelica sonavano dolore, rimpianto, pentimento: parole brevi, ma profonde, che piombavano, tutte, sul cuore dell'amatore. Egli taceva umiliato, non sapendo che offrire di consolazione a questa virtuosa e santa donna, che per lui aveva la coscienza turbata dai rimorsi. Ma come la naturale pietà rifioriva nell'ora e nel tempo in donn'Angelica, ella moderava i suoi lamenti che diventavano sempre meno precisi, più vaghi, erano infine un ritornello malinconico che l'amatore ascoltava, come una musica dilettosa e rattristante: — Se soffre per me, mi ama, — egli pensava, nella follìa dell'amore. Ma nè ella aveva mai detto di amarlo, nè lui mai lo aveva chiesto: una timidezza paurosa, una vergogna e un riserbo strano avevano impedito all'amatore di fare questa domanda. Sì, temeva la risposta, la risposta serena, ma crudele della donna che non ama e a cui la pietà, per quanto grande, non concede di mentire. Così, naturalmente, in questa loro singolare relazione, senza nessuno suo sforzo, donna Angelica nulla doveva concedere del suo cuore e nulla le si doveva chiedere che concedesse: tacitamente, senz'altro, era stato inteso che ella accettasse, sopportasse, subisse l'amore, senza mai aver l'obbligo di ricambiarlo. Ella era la immagine benedetta che si degnava tenere gli occhi pieni di grazia sul suo devoto — e il devoto la benediceva sempre più, l'adorava, le parlava del suo amore. Sotto i grandi alberi di Via Angelica, attraverso i quali il fiume s'inargenta, andando fra gli odori forti campestri sul terreno duro, egli, poco a poco, come quel cullamento triste della voce di donn'Angelica si affievoliva, le parlava sottovoce del suo amore. Sulle prime erano delle frasi tronche che la passione spezzava, il riassunto frettoloso di quello che aveva pensato e sentito nei giorni in cui non l'aveva vista, o, vedendola, non aveva potuto parlarle: e allora, pronunziando quelle frasi smozzicate, quasi violente, la fissava con certi occhi pazzi, che a lei davano un'impressione rapidissima di terrore. Ma al suono della propria voce, Sangiorgio andava riprendendo cuore, la parola diventava più facile, le idee si annodavano fra loro logicamente, il suo amore trovava in lui una eloquenza di sentimento così semplice e così convincente, che donn'Angelica, a quell'onda umile e letificante, andava riprendendo la sua bella pace: la faccia le si faceva rosea, come quella di una fanciulla che si gode puramente l'omaggio dell'amore. Talvolta in quei momenti ella andava cogliendo dei lunghi rami verdi o un fascio di celidonie giallissime o quei mucchietti di fiorellini bianchi minuti, come un merletto, o quelle bacche rosse e velenose, dall'aspetto così attraente: ed egli parlava d'amore ed ella coglieva fiori, a un tratto ringiovanita, — e talvolta dal suo fascio staccava un fiore e glielo dava. Egli lo teneva fra le mani, arso dal desiderio di morderlo: e un giorno volle mangiare le bacche rosse, dalla tinta viva, così provocante. «Volete morire?» fece ella scherzando, ma tremando. E quel tremito fu uno dei tesori morali che andava raccogliendo Sangiorgio. Un giorno, presso un mandorlo basso, ella si eresse sulla punta dei piedi e staccò alcuni ramoscelli rosei, odorandoli lungamente, col sorriso della felicità sulla faccia. Non ella era dunque la primavera fresca e amabile? Il fiorellino di mandorlo che ella gli donò, andò a raggiungere un mazzolino appassito di mughetti, un pezzetto di stoffa di un vestito, chiesto e ottenuto per grazia, e che cosa preziosa, impagabile, un fazzolettino di battista, orlato di merletto antico — ottenuto in una sera di disperazione, dopo tre giorni inutili di attesa, invocato come un conforto. Ella sapeva questo: e le piaceva di saperlo. Ella guardava sì, lontano, verso Castel S. Angelo, verso la nuova caserma dei carabinieri, verso Roma vecchia, in cui qualche lume cominciava ad accendersi: ma ascoltava, pur guardando altrove, tutte le parole che Sangiorgio le diceva, dolcissimamente, e crollava il capo, come una bimba lusingata. Arrivavano a Porta Angelica, così, calmati, pacificati: egli doveva andarsene per la Via Reale che va ai Prati di Castello e a Ripetta, ella per la porta che conduce a San Pietro, — ma il loro saluto era pieno di tenerezza e lungo. Un giorno ella giunse tutta tremante. Presso l'Arco Oscuro ella aveva incontrato l'onorevole Giustini, quel toscano tanto maligno, mezzo gobbo, mezzo sciancato, che trascinava intorno la sua noia cinica e la sua salute distrutta. Sì, ella era passata in _coupè_, rapidamente, ma Giustini l'aveva perfettamente riconosciuta, le aveva fatto un grande saluto a fondo di meraviglia, poi si era piantato sulla via, a seguire con l'occhio la carrozza che fuggiva. Ella tremava tutta: per poco non era tornata indietro, tanto la possedeva il terrore che quel cattivo di Giustini la seguisse, per curiosità maligna, per sapere. E si voltava, ogni tanto, spaurita, credendo che ogni villano che passava per Via Angelica fosse il gobbo deputato di Toscana, guardando Sangiorgio con certi occhi timidi e dolenti che lo desolavano; egli cercava invano di rassicurarla, di dirle che un uomo a piedi non segue mai una carrozza al trotto, che Giustini era là per caso, che, del resto, Via Flaminia era una passeggiata pubblica, dove non era da meravigliare nessuno se ci s'incontrava una signora in carrozza. Ma egli stesso era preso dal primo glaciale brivido di spavento, quello che colpisce gli amanti in piena sicurezza e turba tutta la purezza della loro gioia: cercava di rinfrancar lei, ma egli stesso era scosso profondamente. Quell'ora di convegno fu amara, non ritrovarono mai più la serenità, e donn'Angelica, a un certo punto, riassunse tutte le sue paure, con la precisione che hanno le donne pel dramma che le sovrasta: «Ora Giustini va alla Camera e dice a tutti, anche a don Silvio, che mi ha incontrata a Via Flaminia.» Fu in quest'ora di amarezza che egli, sentendo i lamenti di donn'Angelica, osò dirle che bisognava levare dalla strada questo amore e metterlo in una casa, fra quattro pareti, al coperto dallo sguardo della gente, dalla curiosità dei viandanti. E glielo disse con tanta emozione rispettosa, con un sentimento così alto di riverenza, con una semplicità così onesta, che ella disse subito _no_, brevemente, ma non potette offendersene. No, ripeteva ella a tutte le umili considerazioni che egli le veniva facendo, un _no_ lento ma deciso, senza collera, ma senza debolezza. A un certo momento, ella, come infastidita, gli disse: «Tacete.» Tacque: si separarono, senz'altre parole. Ma da quel minuto fatale in cui ella aveva incontrato Giustini, essi sentirono sempre più la pena di quell'amore in pubblico e intanto non prendevano nessuna precauzione, la pena di quell'amore randagio che non aveva tetto: amore vagabondo che faceva sorridere d'ironia i camerieri della trattoria Morteo a Ponte Molle, oziosi sulla porta e sul terrazzo della palazzina: amore malinconico che faceva ridere, coi suoi saluti teneri, i doganieri grossolani di Porta Angelica. Due altri convegni furono molto penosi: la paura, oramai, si era messa in fondo al cuore di donn'Angelica e la faceva fremere al passaggio di un carrettiere, di un cacciatore: persino i canotti sul Tevere la spaventavano, le sembrava sempre che i canottieri la conoscessero e che alzassero il remo in segno di saluto. Non più parlavano d'amore: cioè non più egli poteva parlarle d'amore, ella lo interrompeva, ogni momento, sogguardandosi intorno, chinando il capo a qualche rara carrozza di forestieri che passava, arrossendo, impallidendo, respirando appena. Un giorno di convegno, piovve dirottamente, da un'ora prima dell'appuntamento: egli si ricoverò sotto il portone di Morteo, ma non potendo reggere alla impazienza, si avanzava continuamente verso Ponte Milvio, bagnandosi tutto, cercando di distinguere qualche cosa attraverso quel velo di pioggia. Non vedeva nulla, ella non sarebbe venuta, era impossibile con quella pioggia, ma intanto egli continuava ad aspettare, sorretto da una uniforme speranza; la pioggia seguitava, ella non venne, naturalmente, ed egli ritornò in Roma, soltanto alle sette, bagnato, con l'umido nelle ossa, nel _tram_ aperto, coi piedi sul legno intriso dell'ultimo carrozzone che faceva il viaggio da Ponte Molle a Roma, preso da una grande desolazione, abbattuto, con un principio di febbre. Non potette dirle nulla alla sera, ella era circondata di gente e non seppe le ore dolorose che egli aveva vissuto, là, tra la pioggia del cielo e la nebbia del fiume. Ma l'altra volta, egli insistette. Ella disse ancora _no_, ma vagamente, come se rispondesse più a sè stessa che a lui. Era tarda l'ora e la temperatura fredda. Era una di quelle pessime giornate di gennaio trasportate in aprile, vento noioso e glaciale, cielo nuvoloso e basso, terreno bagnato e fangoso. Ella aveva soltanto una piccola mantellina di velluto che le copriva le spalle e il petto, e sentiva un gran freddo salirle dai piedini irrigiditi sino al cervello, abbassava la testa, portava il fazzoletto alla bocca. Anche Sangiorgio aveva molto freddo, col soprabito leggiero primaverile, ma non le diceva nulla, ambedue mortificati e oppressi dall'ora e dal tempo. Ogni tanto le chiedeva: «Avete molto freddo, è vero?» «Oh sì!» diceva lei, piano. «Oh Dio!» ripeteva lui, guardandosi intorno, non sapendo che cosa fare per riscaldarla. E affrettavano il passo, ma il fango inzaccherava gli stivalini di donn'Angelica e l'orlo della gonna, essi non potevano correre. Come per istinto, egli le disse di una stanza calda, come la sua, come quel salotto dell'Apollinare dove sempre divampava il fuoco nel caminetto, una stanza dove sarebbero stati soli: ella non rispose. «Dove?» domandò ella, dopo una pausa. Egli stette per dire, poi si fermò: «Laggiù...» soggiunse vagamente, poi, indicando Roma. Più altro. L'ora avanzava, cupa e fredda nella campagna deserta. Ella era così triste e spaventata, che per la prima volta passò il suo braccio sotto quello di lui: e quella intimità egli la ricevette umilmente. Poi, per tre giorni non la vide, non potette vederla, non ne ebbe notizie, era un po' ammalata: glielo aveva detto don Silvio. Un minuto, dopo quattro sere, la trovò sola nel suo palco, all'Apollo: ella era pallida, come se avesse la febbre. E nascondendosi dietro il ventaglio di piume, gli disse subito che per giunta, in quell'ultimo giorno di convegno, aveva incontrato l'onorevole Oldofredi in Piazza di San Pietro e che l'aveva squadrata con un certo ghigno beffardo. Oldofredi era vendicativo. Per ultimo, arrossendo per la vergogna, la soave donna dovette confessargli che temeva, temeva, finanche del cocchiere e del cameriere: temeva che l'avessero spiata. E vedendolo sbalordito, gli soggiunse, presto presto, mentre bussavano alla porta del palco: «Verrò, verrò, dove voi volete.» V. Quando rientrò, di notte, nel suo quartierino dell'Angelo Custode, Francesco Sangiorgio aveva un po' di febbre. La promessa fattagli da donna Angelica gli sconvolgeva il sangue: nella testa sentiva un grande ronzio, una confusione. E subito, entrando nel salottino, una impressione di freddo, il cattivo odore che vi regnava, sempre, gli aveva dato un fremito e una nausea: per non vedere quel brutto posto, così nudo, così miserabile, non accese nè il lume, nè il fiammifero. Si buttò, vestito, sul letto, sognando la casa dove avrebbe ricevuto donn'Angelica. La sua fantasia accesa, rovente di febbre e di amore, fluttuava nelle visioni. Non sognava nulla di preciso, di determinato, egli vedeva innanzi ai suoi occhi aperti una fuga di stanze calde e profumate, dalle triplici tendine profonde, dal tappeto morbido che attutisce qualunque rumore di passi; ma non sapeva dove fossero, queste stanze, non si raccapezzava in che posto di Roma si trovassero, ora supponeva che fossero al Gianicolo, ora a Piazza Navona, ora a Via Sistina, ora a Piazza di Spagna. E questa indecisione, questo non sapere, lo crucciava molto, era il tormento di quelli che fanno un sogno cattivo e incompleto, e volendo camminare, non possono muoversi, volendo gridare, non trovano voce. Dove era la porta per entrare in quelle stanze, dove era situata la scala, dove sporgevano le finestre? Egli vedeva, sì, ogni tanto, come un lampo di colori, il roseo di una tenda serica, sul muro; il riflesso fulvo di una poltrona di felpa; la scintilla metallica che partiva da un coltello damaschino colpito dalla luce; il disegno minuto di una trina antica giallastra, ma tutto questo confusamente, senza saper dove, nè come, nè quando, nulla. Dove si sarebbe seduta donn'Angelica, entrando in quella casa, dove avrebbe posato i bei piedini stanchi, dove avrebbe appoggiato il bel braccio, per sorreggersi, nella sua posa abituale, dolcissima? Gli pareva che in quella casa non vi fossero nè sedie, nè divani, nè sgabelli, nè tavolini; gli pareva che fosse un gran posto vacuo, profondo, incommensurabile, in cui lui e donn'Angelica si fossero perduti. Il suo sogno lo faceva spasimare d'angoscia, l'incubo gli premeva sul petto, la febbre gli mordeva il sangue, la testa gli girava. Disteso sul letto, in un dormiveglia, soffrendo e pur godendo del suo sogno, egli non si moveva per paura che tutto s'involasse, anche la promessa di donn'Angelica: e ogni quarto d'ora che passava, nel parossismo, il sogno cambiava d'aspetto, si tramutava, si arrovesciava stranamente, diventava pauroso o comico. Talvolta gli pareva che stesse da tempo immemorabile aspettando donn'Angelica, la quale non veniva mai, mai: le tende bianche erano diventate prima gialle, poi bige; le stoffe si erano scolorite, il tarlo le aveva rosicchiate, cadevano in pezzi, cadevano in polvere; i mobili erano tutti sporchi, cadenti per vecchiaia; in fondo alle giardiniere vi era un po' di cenere puzzolente che era stata fiore; le mura stesse stillavano umidità e vecchiaia, sembravano danneggiate. Ed egli stesso, Sangiorgio, nell'attesa lunghissima, sembrava diventato un vecchione più che centenario, lento, infermo, con una lunga barba bianca e la vista indebolita. Donn'Angelica non veniva mai, mai; e Sangiorgio continuava ad aspettarla, paziente, innamorato. Poi, una gran voce aveva tonato in quella casa tre volte: donn'Angelica è morta, donn'Angelica è morta, donn'Angelica è morta. Alla prima volta erano caduti in un ammasso di frantumi i mobili, alla seconda il vecchione era caduto morto, col viso in terra e le braccia aperte, alla terza le mura della casa erano crollate, seppellendo tutto, facendo una tomba di quella casa che donn'Angelica non aveva voluto visitare. Si tramutava il sogno, continuamente. Gli pareva che nel giorno del primo convegno, in quella casa, egli, per un caso stranissimo, avesse dimenticata l'ora dell'appuntamento e si torturava per rammentarsela, le due o le tre, non sapeva bene, non giungeva a ricordare. Poi si avviava da Montecitorio a mezzogiorno, per essere in tempo: ma incontrava in un corridoio il vecchio presidente del consiglio, che lo fermava, e, carezzandosi la barba bianca fluente, gli parlava della Basilicata, del sale, dei contadini, di cose che egli non capiva troppo bene, tanto il suo spirito era altrove. Arrivava a sbrigarsi di costui, ma sulla soglia del portone incontrava l'onorevole Giustini, la cui gobba era diventata immensa e il cui sorriso velenoso gli faceva male al petto, come se un succhiello gli cavasse il sangue. Giustini gli sbarrava la via, inarcando le gambe storte, parlandogli di Roma, di Roma che fingeva di dormire nella indifferenza e che era invece bene sveglia: e gli scoteva il braccio, facendogli male. Passava il tempo, passava. Sangiorgio si scioglieva bruscamente da Giustini, correva per Piazza Colonna, quando una voce femminile lo chiamava, da una carrozza ferma. Non avrebbe voluto arrestarsi, ma si sentiva trascinato, suo malgrado, verso quella carrozza: era un paio di occhi neri e scintillanti che lo guardavano con amore e con desiderio, erano certe labbra sanguigne e provocanti che lo avevano baciato e lo volevano baciare ancora, era la mano molle e carezzevole, era il profumo forte e dolce di violetta, era donna Elena Fiammanti che gli aveva voluto bene e gliene voleva, e, quasi senza muovere le labbra, gli diceva: «Vieni, vieni, rammentati tutto, rammentati quando ci siamo visti, il giorno di Natale, al Gianicolo; rammentati la notte del veglione e la luna a Piazza di Spagna; rammentati le rose che ho lasciate a casa tua, quel giorno; rammenta il bacio che ti ho dato, nel teatro, dopo il duello; rammenta tutti i baci, tutto l'amore; vieni con me, con me è la gioia, con me è il piacere, con me non piangerai, con me non dovrai spasimare. Vieni dunque, mi dirai tutto quello che soffri, ti consolerò: non ti dirò quello che soffro, non dovrai consolarmi.» Ma egli chinava il capo, si turava le orecchie, chiudeva gli occhi, per non udire quella voce ammaliatrice, per non vedere quel volto farsi triste triste, diceva fra sè un nome, _Angelica_, il suo talismano, e pareva che donna Elena ne ricevesse il contraccolpo nel cuore, che si buttasse indietro, nella carrozza, come disperata e dicesse al cocchiere di fuggir via. Sangiorgio correva, correva, per la strada, tutte le carrozze che incontrava, erano piene; tutti gli amici che incontrava, volevano fermarlo; la folla che gli si assiepava dintorno gl'impediva di camminare; i cani gli attraversavano la via. Egli correva, correva, affannava, affannava, oramai non era più in tempo, era troppo tardi, donn'Angelica era già arrivata, sarebbe già partita, non avrebbe atteso. Quanto lungo il cammino, quanti ostacoli, quante difficoltà! Infine, giunto al posto, rosso, ansimante, perso, si doveva fermare: innanzi al portone, l'onorevole Oldofredi passeggiava, ironico, minaccioso, ridente. Gli rideva finanche sul volto, sanguigna, la ferita che Sangiorgio gli aveva fatta. E faceva la guardia, andava e veniva, bruttissimo, odioso, odiante, implacabile. * * * * * La casa era al numero 62, in Piazza di Spagna, al primo piano. Sulla soglia del portoncino, un fioraio ambulante aveva posato il suo largo cesto pieno di fiori primaverili, le violette pallide e profumate di Parma, le rose doppie, vivissime, le giunchiglie volgari dal forte odore; e tutto lo scalino era bagnato di acqua, vi era appena posto per entrare. Mancava il portinaio, come in quasi tutti i portoncini di Piazza di Spagna; e le scalette erano oscure: il pianerottolo, dove tre porte si aprivano, era appena illuminato da un piccolo finestrino. Sulla porta di mezzo, un biglietto da visita era conficcato con due spilli, il biglietto dell'onorevole Francesco Sangiorgio. Nella piccola anticamera un po' scura, Noci aveva messo un grande cofano da nozze, nero, antico, delicatamente scolpito, su cui era disteso un lungo e sottile cuscino di seta rossa e gialla; tre o quattro sedie di legno bruno, cupo, scolpito, e un tavolino uguale; dal soffitto una lampada di bronzo pendeva, sempre accesa, dando una falsa apparenza di notte a quell'anticamera un po' tetra, di cui una grande tela dipinta copriva il triviale soffitto e le pareti, nascondendo le grottesche pitture e il parato di carta di Francia. Dopo veniva il salotto che aveva un grande balcone sulla piazza, un salotto largo e luminoso, sempre pieno di sole: ma certe tende antiche, di un lampasso roseo e verdigno molto chiaro e un grande pezzo di merletto antico giallastro, innanzi al balcone, mitigavano la luce. Le pareti erano tese di un raso molto lucido color nocciuola, ma scomparivano sotto le stoffe orientali, sotto i tappeti persiani, sotto i brani di broccato vecchio, tesi, aggruppati fantasticamente, tenuti fermi qui da un grande piatto lucidissimo di ottone a sbalzo, altrove da una scimitarra artisticamente cesellata, altrove da un grande fascio di piume di pavone disposte a ventaglio. Un rosario di legno di sandalo, una di quelle lunghe collane a grani profumati, che le donne turche girano e rigirano continuamente fra le dita, per profumarsi le mani e per ingannare, con un esercizio monotono, il tempo che non vuole passare, il rosario turco che non è preghiera, ma è un piacere del tatto e dello spirito, il _comboloi_, pendeva da una gran parete; un grande velo biancastro a stelline d'argento, il mantello delle donne orientali, il _feredjè_, pendeva da un'altra. Ma la nota dominante, stranissima, era, sopra una parete, un pezzo di broccato giallo antico, qualche cosa come un oriflamma, tagliato nella larghezza e nella lunghezza da una croce che acciecava, che risaltava su tutte le mezze tinte di nocciuola, di mattone smorto, di rosa pallidissima che regnavano in quel salotto. Vi era una morbidezza profonda, mancava sapientemente qualunque mobile di legno, non un tavolino dagli angoli duri, non uno sgabello: il velluto, la seta, il raso nascondevano qualunque traccia di durezza. In certi leggierissimi vaselli opalini dei giacinti rosei, carnicini, violetti, bianchi, lilla pallidissimi; sopra un divano, da un vaso giapponese, una rosa si era sfogliata, come di languore. Dei cuscini di piume, larghi, di seta rossa, rosea, scarlatta, porporina, rosa secca, in tutte le gradazioni del rosso, dal seno della rosa bianca sino al tetro color vinoso, erano ammucchiati in un angolo: se ne poteva formare un sedile, un letto, un trono. La stanza da letto dava pure su Piazza di Spagna, ma con due balconi: per smorzare la soverchia luminosità, oltre le tende e le cortine, tutta la stanza era parata di velluto azzurro cupo, ricamato a larghe striscie di seta bianca e di argento. Ma non vi era letto, sembrava piuttosto un altro salotto, più cupo, più severo, senza tanti ornamenti: vi era un basso e largo divano, senza spalliera, su cui era stata buttata una grande coltre di velluto azzurro, ricamata d'argento, con una cifra in mezzo, un'audacia del tappezziere, un'_A_ lunga e sottile. Sopra vi proiettava la sua ombra una tenda azzurro cupo, tutta stellata, come il firmamento: una tenda che formava un triangolo strano, rialzato da cordoni e da fiocchi d'argento. Rallegravano quella tetraggine uno scrigno di legno di rosa, due o tre di quei mobili piccolini e civettuoli che la Pompadour amava. In un vaso alto del Giappone, un vaso dove un uomo si poteva nascondere, una musa paradisiaca allargava le sue foglie doviziose, dalla grossa vena sanguigna: nessun'altra pianta, nessun altro fiore. E il piccolo stanzino da _toilette_, accanto, era parato di casimiro bianco e di rosso, con un _nécessaire_ d'argento brunito, segnato colle cifre di Francesco Sangiorgio: due enormi azalee bianche vi fiorivano. In quattro giorni, cedendo alla fretta del deputato, l'artista gli aveva messo su quella casa: sulle prime Sangiorgio si era tenuto guardingo, andando ogni tanto a sorvegliare: ma la impazienza lo mordeva troppo, tutto gli sembrava troppo brutto per lei, troppo lento per il suo amore. Se ne andò via, deciso a ritornare solo quando la casa fosse finita, dormendo e sonnecchiando e sognando nel suo freddo e puzzolente quartierino di Via Angelo Custode, mentre a Piazza di Spagna preparava il nido dell'amore. Egli vi ritornò, solo quando tutto era a posto, e ne ricevette una impressione gioconda e dolorosa. Che avrebbe ella detto? Non era troppo morbido quel salotto per la bella e composta persona, che non si abbandonava mai sopra una poltrona? Non era troppo sensuale tutto quell'Oriente per la casta fantasia della soavissima? Non erano forse troppo voluttuosi quei giacinti, fiori senza foglie, carnali in tutta la loro efflorescenza? E quell'ammasso di cuscini sanguigni e delicatamente rosati, non erano forse un invito troppo manifesto al riposo, al perfido riposo, che è l'abbandono dell'anima? La stanza da letto gli pareva bella per la sua severità: ma giammai la pura signora sarebbe entrata lì dentro. Egli era soddisfatto e turbato: aveva chiesto all'artista un quartierino destinato all'amore, e costui glielo aveva fatto. Ora quell'ambiente chiuso, sacro, quei profumi floreali ed esotici gli sconvolgevano il suo ideale: o piuttosto facevano sorgere in lui un nuovo ideale, più vivo, più umano. * * * * * Qui, in questo quartierino che il lieto sole di primavera riscaldava, conquistando Piazza di Spagna dal bigio palazzo di _Propaganda Fide_ sino al biondo palazzo dello _Albergo di Londra_, innanzi al caminetto dove sempre scoppiettava e divampava un fuoco di legna secca, Francesco Sangiorgio aspettava donn'Angelica. Quando l'arredamento fu finito, egli ricominciò a insistere con lei, dovunque la trovava per un minuto solo, in casa, al teatro, alla tribuna di un diplomatico, fra due porte, in un corridoio, sulla soglia di casa sua, dovunque le poteva dire una parola, dirigere uno sguardo di preghiera senza esser visto, senza essere udito. Diventava la sua idea fissa quel convegno nella casa a Piazza di Spagna, non sapeva balbettare altro, non chiedeva altro. Ella, pentita della sua concessione, ripresa dagli scrupoli, diceva ancora di no, scrollando il capo, non persuasa, diffidente di lui, dell'amore, paurosa delle strade e delle persone. Ella non parlava delle sue paure, dei suoi sospetti, ma rifiutava sempre, ostinata, vinta di nuovo dalla indolenza della donna virtuosa, guarita da quell'impeto di febbre, scampata da quel desiderio di peccato spirituale. Egli s'inaspriva, sdegnato di quei sospetti, amareggiato dalla resistenza, urtandosi colla violenza del suo temperamento e del suo desiderio contro la mitezza di donn'Angelica, spezzandosi contro quel rifiuto. Uno scontento profondo di sè e dell'amore cominciava a nascergli nell'anima: e aveva il senso di una grande ingiustizia che la donna amata gli usava. Una sera, soccombendo all'amarezza per l'ingratitudine di donn'Angelica, le disse, tremando di ira e di dolore: «Infine.... che temete? Voi siete sicura, voi che avete l'anima invincibile: non ho io sempre fatto quello che voi volevate? Non sentite, nella vostra invincibilità, Angelica, che non correte nessun pericolo, in casa mia? La vostra difesa è in voi: e voi siete senza debolezza, senz'abbandono.» Ella rizzò il capo, tutta rosea di coraggio e di orgoglio: «Verrò,» disse, come una eroina sicura della vittoria. «Quando?» «Non so: non so bene, aspettatemi, conoscete le mie ore.» E null'altro precisò. Non credeva di dovergli dire altro, credeva che egli abitasse proprio lì, in Piazza di Spagna e non gli costasse nulla di aspettarla, credeva alla sua divozione; come tutte le donne, calcolava solo il proprio sacrificio, non sapeva misurare quello altrui. E tutti i giorni, in quella fine gaia di aprile, Francesco Sangiorgio andava ad aspettarla nel salottino, a Piazza di Spagna. Egli si alzava un po' tardi, nell'ambiente scuriccio e sudicio di Via Angelo Custode, andava attorno, macchinalmente, vestendosi, bevendo la cattiva tazza di caffè che la servaccia gli portava, non toccava nè un libro, nè una penna, uscendo subito da quella brutta casa, dove si sentiva soffocare. Per istinto si recava a Montecitorio, ma non andava nei corridoi, nè alla sala di lettura: si spingeva sino alla posta, preso da una curiosità istintiva, sempre, cercando le sue lettere. Incontrava qualche collega, che gli domandava: «Che fai, che non ti si vede più? Perchè non vieni alle sedute?» «Lavoro, lavoro,» rispondeva lui, pensoso, passandosi una mano sulla fronte. Oppure: «Siete stato in Basilicata, Sangiorgio? E quelle relazioni, per l'inchiesta agraria, saranno a buon termine?» «Sì, sono stato in Basilicata,» rispondeva lui, arrossendo, imbarazzato, per un minuto, dalla bugìa. «Le relazioni.... presto, presto saranno finite,» soggiungeva vagamente, «....è un lavoro che mi affoga...» Ma cercava di evitare questi incontri, non sapendo mentire, turbandosi innanzi a queste risorgenti voci della coscienza: e se ne andava, leggendo le sue lettere, senza intenderne il senso, preso da una grande indifferenza innanzi a quelle domande dei suoi elettori, innanzi a quelle raccomandazioni dei sindaci, pressanti, insistenti, noiose. Sino a un mese prima, era stato un deputato freddo, ma compìto, rispondendo sempre, a tutti, talvolta il giorno stesso, non curandosi delle persone poco influenti, saggiamente rendendo servigi ai grandi elettori, a tutti coloro che potevano essergli utili, appagando costui con una promessa, per qualcuno ottenendo quello che desiderava, in realtà non disgustando nessuno. Ma tutti quegli affari gli erano prima tornati indifferenti, ora lo seccavano, lo irritavano: egli pensava solo a quel nido odoroso dove forse, in quel giorno, la dolce signora sarebbe venuta, rimetteva in saccoccia, con un moto nervoso, quelle lettere e andava a far colazione, presto, alle _Colonne_, solo solo, assorbito dal suo pensiero, immerso in una contemplazione buddistica dell'amore. Mangiava senza vedere: e se a un tratto la coscienza gli rimproverava di non rispondere alle lettere urgenti, si faceva portare della carta, il calamaio e la penna, e scriveva frettolosamente, brevemente, sopra un angolo del tavolino, lasciando raffreddare la bistecca. Ma dopo un paio di lettere, la stanchezza, l'impazienza lo vincevano: e pagava il conto, andava via subito. Talvolta le lettere scritte gli restavano in tasca due o tre giorni, le dimenticava, non servivano più. All'una era sempre in Piazza di Spagna, comprando dei fiori da tutti i fiorai, caricandosi di rose, di giacinti, di mammole, infilando subito il portoncino, preso da un'ansietà, quasi che donna Angelica dovesse essere là ad aspettarlo, lei, mentre egli aveva la chiave in tasca. Subito, l'ambiente calmo, ricco, felice del quartierino gli procurava una sensazione di benessere. Là, certo, sarebbe venuta donn'Angelica: lo aveva promesso, sarebbe venuta. E si metteva ad accendere il fuoco, accovacciato per terra, come uno sposo premuroso e innamorato: non era contento, se non quando la catasta divampava, donn'Angelica adorava il fuoco vivo, che rallegra le fibre e riscalda il cuore. Poi girava per la casa, metteva fiori nei vasi, cambiandovi l'acqua, buttando via quelli appassiti, nella piccola cucinetta vuota: e certe volte mutava posto a un fascio di giacinti, univa le mammole alle rose, le disuniva, mai contento, occupandosi a quel lavoro d'amante con un grande ardore. Girava per la casa: sempre la stanza da letto, con quel grande divano basso e molle, gli dava un crollo ai nervi. Ritornava in salotto, accanto al fuoco, al fuoco casto e familiare, al fuoco che purifica e che è l'immagine dell'anima nobile. Ivi aspettava. Per fortuna, la contemplazione del fuoco è un grande diletto per gli spiriti pensosi e raccolti; così Francesco Sangiorgio poteva dominare, quasi cullare, la sua impazienza, poichè donn'Angelica non veniva. Passando in quel salotto, accanto al caminetto, cinque o sei ore al giorno, solo solo, senza osare di muoversi, egli aveva imparato a seguire tutta la vita del fuoco, dalla lieve scintilla che si comunica, si propaga, si dilata, si dilata, sino alla vampa larga e crepitante: dalla incandescenza viva e forte, sino alla scintilla che si va restringendo, si appanna, muore. L'occhio suo, macchinalmente, in quei lunghi pomeriggi primaverili, soffocanti di dolcezza, seguiva la vita, l'accensione, la morte di ogni tizzo: e mentre tutta l'anima sua invocava e aspettava donn'Angelica, consumandosi come lui, con gli stessi ardori, gli stessi avvampamenti, gli stessi languori smorenti a poco a poco. Le maggiori ore di fiamma erano dalle quattro alle sei, in cui donn'Angelica avrebbe potuto venire: allora nel cuore dell'uomo e nel fondo del caminetto, era tutto un bruciare altissimo, una temperatura dove tutto si strugge, il coraggio e il metallo. Ella poteva capitare da un minuto all'altro, era forse per le scale, si fermava sul pianerottolo, esitante, tremante: ed egli chiudeva gli occhi, nel sussulto caldo e febbrile di quell'idea: ogni giorno, dalle quattro alle sei, l'eccitamento dei nervi diventava acutissimo; e in quelle due ore l'incendio di una catasta di legna lambiva le pareti del caminetto. Poi veniva l'imbrunire: il desiderio e la speranza s'illanguidivano nel cuore dell'amante, accasciati in un sopore, s'illanguidiva il fuoco nel caminetto: cadeva la luce, cadevano le vampate, la cenere bigia del crepuscolo discendeva sulla terra, sull'uomo, sull'amore, sul fuoco. Egli usciva di là, ogni sera, alle sette e mezzo, fra il freddo della strada e della sera che lo colpiva: fra il freddo del disinganno che era in lui. Andava, smorto, tutto raggricchiato, con le mani in tasca e il capo chinato sul petto, come un miserabile febbricitante, che ha addosso il ribrezzo del male, come un giuocatore che ha perduta l'ultima sua partita. E così, come il giuocatore che ogni giorno si abbatte nella sua delusione, ma ogni notte ritrova le forze per sperare e per giocare, più ardimentoso, più audace, l'amatore avvilito nella sua speranza ritrovava la sera al cospetto di Angelica la fede nell'Amore. Non la vedeva che fra la gente, non poteva quasi mai parlarle, ma lo sguardo di lei gli diceva sempre, esortandolo alla pazienza, alla rassegnazione: — Aspettami, aspettami ancora: verrò. Il giorno seguente, malgrado una voce scettica che gli parlava nell'anima, malgrado tutte le delusioni passate, egli andava a chiudersi più presto nel quartierino di Piazza di Spagna. Era una follia sperare che ella avesse potuto venire prima delle due: ma, nella sua impazienza, egli arrivava ogni giorno più presto, penetrando nel salotto a mezzodì col bel sole meridiano di aprile, ne usciva alla sera, sempre più tardi, alle otto. Alle volte, accanto al fuoco semispento, un assopimento lo prendeva, come quelli che colgono i febbricitanti: sonnecchiava, sognava quasi, svegliandosi in sussulto, credendo di aver udito squillare il campanello. Non era nulla: donn'Angelica non veniva. E in quell'attesa, un grande cruccio lo teneva: quando non doveva aspettare, immobile e solitario, donn'Angelica; quando non vi era ancora l'idea del quartierino, egli, in quelle ore, aveva la libertà di cercarla dovunque, al Parlamento, a una conferenza, a un ricevimento, a una passeggiata; poteva trovare un pretesto per andare, finanche, un minuto, in casa di lei: poteva, in mancanza di meglio, parlare di lei, un minuto, con don Silvio. Ma ora no. Mentre ella andava e veniva, forse a villa Borghese, forse a una visita di amiche, forse a una seduta parlamentare, mentre ella beava di sua presenza le donne, gli sciocchi, gli indifferenti, e il primo imbecille capitato poteva vederla, salutarla, parlarle: egli, che l'amava, che la desiderava, che viveva soltanto per lei, era ridotto all'inazione, all'impotenza, solo solo, fra quattro pareti, martoriato da due pensieri: — Dove sarà? Verrà? Prima, quando non vi era ancora l'idea del quartierino, egli faceva ancora parte del consorzio umano. Andava, veniva fra le gente, dominato da un sol pensiero, è vero, ma infine avendo tutte le apparenze dell'esistenza. I colleghi lo incontravano, discutevano con lui di politica, egli li ascoltava, macchinalmente, rispondeva loro, come un musicista che suona a orecchio; fingeva d'interessarsi ancora alla sua vecchia passione, — era ancora vivere, quello. Ma, ora, fra lui e la politica, fra lui e la vita, una grande divisione era accaduta: egli compariva un minuto solo a Montecitorio, di buon mattino, per quell'abitudine di aprir la posta, poi il quartierino di Piazza di Spagna ingoiava quel pensiero e quell'azione, sequestrava l'attività e l'attenzione di Sangiorgio. Tanto che, alla sera, quando si metteva in giro, per cercare donn'Angelica, egli ricascava nella vita, come un trasognato, non sapeva nulla, non aveva inteso e visto niente, non aveva parlato con nessuno, non aveva letto i giornali, aveva l'aria rimbecillita: tanto che sul conto suo cominciavano a correre di questi giudizi: «Quel Sangiorgio! pareva una forza, ma che delusione....» «Tutti così i meridionali: gran fuoco di paglia che non illumina, nè riscalda...» «Uomo finito, Sangiorgio...» Sentiva egli questo ghiaccio che gli si formava intorno, questo abbandono del pubblico, questo uscire dalla vita pubblica: aveva il senso di questo dissidio fra il suo spirito e la politica: intendeva che ogni giorno di assorbimento nel nuovo ideale consumatore lo allontanava, per migliaia di miglia, dai vecchi ideali: tutto intendeva. Non cieco, no: non acciecato, ma veggente e volente il sacrificio. Non vittima mormorante parole di disperazione, non ribelle che oltraggia il tiranno: ma martire soddisfatto, felice, che vede scorrere con delizia tutto il miglior sangue delle sue vene. Anzi, più il suo amore gli toglieva, più cresceva il suo ardore: maggiore il desiderio del sacrificio. Così, una specie di lugubre, dolorosa voluttà lo colpiva, quando al mattino soleggiato egli abbandonava le vie piene di gente e il lavoro e il movimento e la vita, per andare a rinchiudersi in una stanzetta, ed aspettare. Come il fanatico adoratore di Buddha, egli saliva o discendeva tutti i cerchi dell'annichilimento, sino all'astrazione completa e amarissima, sino al nirvano pieno di dolore. * * * * * Era nel primo mattino odoroso di maggio, nel chiarore allegro, fra lo scampanio festoso che veniva da Trinità dei Monti. Egli era entrato nel suo tempio, carico di rose, ma col viso pallido ed emaciato: e quella freschezza umida dei fiori, quel loro colorito di salute e di bellezza, urtava con colui che li portava, triste e infermiccio come una serata di ottobre carica di miasmi. Egli metteva al posto le rose, con quell'aria quasi infantile di dolore che fa tanta pietà, per quanto più è ingenua e silenziosa. Quando un lieve tocco del campanello gli sconvolse i nervi, lo fece arrossire, gli mandò le lagrime agli occhi: caddero le rose sul tappeto. «Sono io, io,» disse, a voce bassa, donn'Angelica, entrando. Ella non si guardò neppure intorno, entrò subito nel salotto, si buttò sopra una poltrona, mormorando ancora: «Sono io, sono io.» Egli restava ritto innanzi a lei, contemplandola con gli occhi inumiditi dalle lagrime, nulla osando dire, non avendo neanche il coraggio di ringraziarla. La dolce donna aveva tenuta la sua promessa, ella non poteva mentire: col maggio odoroso, col mese delle rose, delle preghiere a Maria Vergine, ella era venuta, la divina. Non lei era dunque la Madonna a cui si offrono le rose? Senza dire niente, egli, preso da un moto improvviso, andò raccogliendo per casa tutte le rose, sparse per terra, già semiaperte nei vasi, e con un gesto gentile e delicato, senz'altro soggiungere, gliele andava gettando in grembo, tanto che la stoffa di un bigio chiaro del vestito ne rimase coperta. «Ho tardato, ho tardato assai,» mormorò ella, chinando il capo a quella pioggia di fiori, «ma non ho potuto...» E fece un gesto vago, di donna oppressa. Egli la pregò di cessare, con lo sguardo e col cenno della mano: non lei aveva bisogno di giustificazione innanzi a lui. Ed era così profonda la consolazione della sua presenza in quella casa, così completa la felicità del suo cuore, che nulla voleva la turbasse, nulla di amaro, nulla che sonasse rimprovero. La dolce donna, vestita di un tenerissimo color bigio, con una lieve piuma bianca sul cappello, con una velettina bianca sugli occhi che ne aumentava la giovanilità della fisonomia, posava compostamente, con le ginocchia coperte di rose, con una mano inguantata di grigio, abbandonata in grembo, perduta fra le rose; l'altra manina inguantata pendeva fuori del bracciuolo con le dita chiuse, come se avessero lasciate sfuggire qualche cosa. Egli sedette là accanto, sollevò lievemente quella manina inerte, la portò alle labbra, la baciò, con un soffio; parve che non se ne accorgesse. «È bello, qui,» disse lei, placidamente, come se si trovasse in visita da un'amica, «è molto bello.» «Mi sembrò udirvi dire che amavate Piazza di Spagna,» disse lui. «È la strada che più amo, avete fatto bene a venir qui. Io non ho potuto, mai: non ho trovato. Quella vecchia Roma, dove io abito, è così triste, così triste! Per questo esco sempre: ogni volta che io esco, per quanta fretta abbia, passo sempre per Piazza di Spagna.» «Venite a star qui, in questa stanza,» disse lui, sorridendo, come se scherzasse. «Vorrei, se potessi,» rispose ella, con molta semplicità. «Ma non posso: debbo restare laggiù, nell'ombra. Che sole che ci è qui! Sulla soglia delle porticine si vendono dei fiori: anche qui, entrando, ne ho visti. Pare che trabocchino dalle case. Mi pare che in questa piazza sieno tutte case di felici: tanto sole, tanta primavera, tanta bellezza! Non siete felice voi, amico?» «Sì,» disse lui, profondamente. «Iddio vi assista,» diss'ella a voce bassa, congiungendo le mani, come se pregasse. Acuto l'odore delle rose di maggio. Ella ne odorò una a lungo. «E in fondo alla piazza, per contrasto a tanta chiarezza, ai bei palazzi bianchi, alle ricche botteghe d'oggetti d'arte, quanto è mai strano quel grande palazzo bigio, severissimo, su cui stanno scritte le parole: _Propaganda Fide! — Propaganda Fide!_ non vi sembra che queste due parole abbiano qualche cosa di vasto e di misterioso, che si allarghino repentinamente per tutto il mondo? Io spero che voi siate credente, amico.» «Se voi credete, io credo, Angelica.» «È così volgare essere atei! La religione è bella, è buona, vale molto più di molte cose che il mondo apprezza. Siete mai stato in qualche chiesa di Roma?» «Ho visto le basiliche per curiosità di arte.» «Sì, sì, sono grandi chiese vuote, non servono a nulla. Bisogna vedere le piccole chiese di Roma, quelle che servono per pregare. Ve n'è una quassù, la Trinità, dove cantano le monachelle, ogni domenica, dietro la grata: che soavità di canto! Non le vedete, vi sembrano anime esalanti il loro amore e il loro dolore. Ci andremo una volta insieme, dite, nevvero?» «Se voi volete, io ci verrò.» «Io vorrei che pensaste quello che penso, amico mio: vorrei che sentiste quello che sento. Non indovinate, forse?» «Vi voglio tanto bene, indovinerò,» disse lui, con quella soffocazione di voce che gli veniva quando le parlava del suo amore. «Non dite questo,» ella mormorò arrossendo come una fanciulla, «avevate promesso di non dirmelo.» «È che, talvolta, ciò è più forte di me. Lasciatemelo dire, qualche volta, Angelica: siate dolce, voi che siete la dolcezza. Io vi voglio tanto bene, tanto bene, che me ne muoio. Sono solo, non amo altri, non debbo amare altri, voglio bene a voi, Angelica.» E vedendolo diventare rosso di passione, ella non gli disse più nulla, ma leggermente, come l'ala di un uccello, come una foglia d'albero, agitata dalla brezza, gli agitò la manina sul volto. Egli tacque, come un fanciullo vergognoso, un po' sorridente, un po' imbronciato, sentendosi rinfrescare il viso da quel soffio. Ella sorrise, con una certa malizia ingenua, prima di fargli questa domanda: «È vero che avete amato donna Elena Fiammanti?» «No, mai.» «Allora ella ha amato voi?» «No, neppure.» «Voi non mentite mai, mi pare?» «Mai.» «Eppure ella deve avervi amato, credo. Sembra una donna leggera, volubile, ma deve avere il cuore molto buono, molto affettuoso. Io non la vedo quasi mai, ella preferisce la compagnia degli uomini a quella delle donne. Proprio mai le avete voluto bene?» «Io non ho voluto bene a nessun'altra donna che a voi, Angelica.» «Non parliamo d'amore, amico. Me lo avete promesso. Se io ne parlo, non mi rispondete: lasciatemi dire, non m'interrompete. Io ho bisogno di pensare ad alla voce, accanto a una persona che m'intenda, che abbia per me dell'affetto, che mi compatisca. La pietà, anzitutto: voi sarete pietoso per me, nevvero, amico?» «Angelica, Angelica, non dite questo...» «Perchè, vedete, io sono come una bimba, talvolta, io dimentico la mia parte di donna grave, di persona seria. Io ridivento una creatura timida e paurosa, superstiziosa, sognatrice, piena di stravaganze puerili, di capricci inevitabili. Io sono serena, pel mondo, questo è il mio dovere, questo è il mio obbligo: ma nell'ora bizzarra, nell'ora della tristezza indefinibile, delle gioie impensate, che niuno sa spiegare, io ho bisogno che qualcuno abbia pietà di me. Avrete voi pietà di me, amico?» E quasi a pregarlo, giunse le mani, gli rivolse gli occhi supplicanti: egli si chinò, un minuto, sulla fronte dolce e bianca, la baciò così lievemente, che parve un soffio, ma con tanta amorosa pietà, con tanta innocenza di amore, che ella, commossa, si mise a piangere silenziosamente. «Non piangete, Angelica,» diss'egli, dopo un poco, con una voce tramutata, «non piangete.» «Lasciatemi piangere, lasciatemi: mi fa piacere, è uno sfogo: a casa non posso piangere mai. Ora.... ora non piangerò più, vedrete, mi passerà.» Egli non insistette, parendogli di togliere un conforto alla povera donna: ma le lagrime che le correvano per le guance gli procuravano un grande spasimo, erano per lui un dolore acuto e un'acuta seduzione, lo vincevano con la irresistibile voluttà dell'angoscia. Mentre ella parlava, placida, sorridente, come se fosse nel proprio salotto o in visita nel salotto di un'amica e non chiusa con un amante in una casa recondita, dove nessuno sarebbe mai venuto a disturbarli, egli poteva dominare il suo temperamento d'uomo, sino al punto di non chiederle nulla, sino al punto di non parlarle di amore: ma quando ella, dopo aver parlato del suo cuore ferito insanabilmente, dei suoi sogni perduti, della sua giovinezza morta per sempre, piangeva, piangeva su questa tomba, quando egli la sentiva singhiozzare lievemente, immota, come una bambina che soffra, allora egli non poteva resistere alla tentazione di prendersela nelle sue braccia, di tenersela stretta a sè, per sempre, sino alla ultima ora. Sangiorgio chinava il capo per non veder più quel viso solcato di pianto, quel petto che si gonfiava e alenava, come quello di un uccellino: ma stanca, ella si acchetò, lentamente, conservando ancora la malinconia di chi ha pianto, il profumo delle lagrime. Guardava il merletto del suo fazzoletto molle di lagrime e taceva. «Perdono, amico,» disse, dopo, come se allora soltanto si ricordasse che egli era là. «Non lo dite... non sono io il vostro amico?» «Ohimè, sono una triste amica, io,» soggiunse ella con un sorriso mesto: «non vi allieterò certamente la vita. Val meglio perdermi che guadagnarmi, ve lo assicuro.» «Io vi amo così, io vi amo come siete, io vi amo per questo,» soggiunse lui, con una certa violenza. Ella tacque un momento, guardando la striscia di sole meridiano che attraversava la tendina di merletto di un giallo antico e si distendeva sul tappeto, sino al mucchio di cuscini di seta rossa che aspettavano una bella donna stanca. E un pensiero le venne, ella si alzò di scatto: «Vado via,» disse. «No, no,» egli mormorò, smarrito, come se non si attendesse mai a quello schianto. «Debbo andare,» rispose ella, seria. «Perchè?» chiese egli, infantilmente. «Per questo,» ed era ritornata al sorriso, per la ingenuità della domanda. «Restate ancora, siete giunta adesso.» «È un'ora, è già tardi, debbo andare.» «Un altro poco, un altro pochino,» insisteva lui, nella puerilità del suo amore. «Non posso, ve lo assicuro, sono restata già troppo.» «Che vi fa un altro pochino?» «Nulla mi fa, ma a che serve? Un minuto di più, cinque minuti di più, che vi fanno?» «Non mi tormentate, Angelica, siate buona, concedetemi altri cinque minuti.» «Rimarrò, ma esigete troppo,» diss'ella, crollando il capo, come una mamma che concede, sforzata, una chicca al fanciulletto che strepita. E stettero fermi, presso la porta del salotto, una innanzi all'altro, ella come annoiata e impaziente di andar via, egli come imbarazzato e pentito di averla trattenuta. A un tratto un pensiero cattivo contrasse il viso di Sangiorgio: «È vero che non volete tornar più?» «Tornerò, tornerò,» mormorò ella, facendo per uscire, parendole che già fossero passati quegli eterni cinque minuti. «Oh, non lo dite, voi non tornerete, non volete tornar più,» riprese lui, tutto agitato, incapace di resistere a questa idea; «perchè ingannarmi? Ora ve ne andate, ma non ritornerete più, lo so, qualcuno me lo ha detto, dentro di me.» «Ritornerò, ritornerò,» continuava a dire ella, con la sua voce dolce e ferma che aveva il potere di calmarlo. E per dargli la tranquillità, lo tenne per un momento sotto la freschezza del suo sorriso, sotto la serenità del suo sguardo. Egli si placava, mansuefatto. «Promettetelo, allora, che ritornerete: potete promettermelo?» «Ve lo prometto.» «Per la cosa o per la persona che più vi interessano nel mondo?» «Per la cosa o per la persona che più mi interessano nel mondo, ve lo prometto.» «Quando tornerete?» «Questo non posso dirvelo: non posso venir sempre: quando potrò, verrò.» «Sta a voi, Angelica, di tornar presto. Ma non potreste dirmi, così, un giorno, un'ora?» «A che serve? Vi duole l'aspettarmi? Non siete qui in casa vostra?» «Sì, sì: ma ditemi almeno un giorno...» «Non vi piace l'aspettarmi forse? Avvi alcuna cosa che vi piace di più?» «Nessuna, Angelica, nessuna.» «Ebbene?» «Ebbene, se sapeste, per chi ha la dolcezza di aspettarvi, Angelica, quale amarezza è il non conoscere nè il giorno, nè l'ora in cui arriverete! Questo ignoto è un tormento, è un incubo, è una sofferenza così grave, nel cuore, nel cervello, Angelica, che se la sapeste, vi farebbe una grande pietà. Doveste anche ingannarmi o non potere, ditemi un giorno!» «Oggi è domenica,» ella disse, pensando, «nè domani, nè dopo domani, nè mercoledì, il mio tempo è preso crudelmente. Verrò giovedì, sì, giovedì, credo di poter venire giovedì.» «Non prima?» «Chissà! forse potrei, un minuto, in uno di questi tre giorni... ma giovedì, sicuramente. A rivederci, amico.» «Oh restate!...» egli gridò, trattenendola per la mano. «È una fanciullaggine: a rivederci,» e fuggì per le scale, come liberata. Immediatamente egli sentì come mancarsi la vita: pareva che tutto il sangue gli fosse andato via, per una ferita. Non dette neppure un'occhiata al salotto dove erano stati, al posto dove si erano seduti accanto: prese il cappello e scappò via, nella necessità di raggiungere Angelica, nella folle speranza di raggiungerla. La piazza, piena di sole, nel mezzogiorno, lo abbagliò: e istintivamente si buttò per via dei Condotti. Ma non vedeva in niuna parte il bel vestito bigio e la veletta bianca: a mezza strada tornò indietro, si mise a correre verso Propaganda Fide, quel nome gli era rimasto, si perdette per S. Andrea delle Fratte, la Mercede, San Silvestro, come istupidito, come colui che ricerca con cura un oggetto, che sa sicuramente di avere smarrito. Ma la cara figura parea si fosse dileguata nel sole, poichè dopo aver battuto tutte le vie che circondano Piazza di Spagna, correndo, spronato da una necessità invincibile, Sangiorgio non arrivò a ritrovarla. Camminò ancora per un'ora, pel Babuino, per Due Macelli, Via Sistina, villa Medici, il Pincio, in preda a una febbrilità che non gli faceva sentire la stanchezza, lasciandosi vincere dall'idea folle che a quell'ora donn'Angelica avesse avuto voglia di passeggiare, dopo di essere stata un'ora con lui: si trovò in Piazza del Popolo, solo solo, a un tratto calmato, con le gambe stanche, con la testa piena di confusione. Doveva esser tardi, molto tardi; gli parea che fosse passata una lunga giornata piena di avvenimenti, sentiva la stanchezza morale e fisica delle grandi giornate della vita umana: cavò l'orologio. Era appena l'una e mezzo: l'altra metà del giorno rimaneva innanzi a lui vuota. Macchinalmente, pian piano, obbedendo a un antico istinto, si avviò pel Corso, alla Camera, con un'aria annoiata, non guardando neppure le belle romane borghesi che ritornavano dall'ultima messa, non riconoscendo neppure qualcuno che lo salutava, in quel lieto polverio luminoso della domenica di maggio. Andava al Parlamento, ma non sapeva neppure se vi fosse seduta, era domenica: a ogni modo, andava lì per rifugio, non sapendo dove buttare il suo corpo e il suo spirito. Gli sembrava tutta nuova, tutta estranea la gente che incontrava, e come egli la guardava, sorpreso di tante facce esotiche, pareva che anche costoro lo guardassero sorpresi, non conoscendolo. In quell'ora, il viavai dei deputati, intorno Montecitorio, era continuo, era un salire e discendere di coppie d'amici, di gruppetti di uomini politici che avevano fatto colazione insieme alle _Colonne_, al _Parlamento_, al _Fagiano_, alle _Sorelle Venete_: Sangiorgio scambiava qua e là dei saluti, come trasognato. Li vedeva discorrere, li udiva discutere: passando accanto a loro, afferrava dei brani di discussione, ma non intendeva nulla. Per fortuna, ci era seduta, quel giorno. Sedette al suo posto abituale, ordinando per consuetudine fisica le carte che aveva innanzi, udendo la voce del segretario Sangarzìa, piccola ma sonora, leggere il processo verbale. Di che si trattava? Questa voce gli sonava confusa nella mente, quelle parole gli sembrava di averle udite altra volta, ma quando? Gli costava uno sforzo enorme il raccapezzarsi: era come colui che, vissuto per un certo tempo in un crescente esaltamento dei nervi, si abbandona poi a una stanchezza profonda, nell'esaurimento di tutte le sue forze. Assisteva a quella seduta, con la testa fra le mani, cercando di afferrare il suono e il senso di tutto quello che vi si diceva, ma era troppo sfinito, un torpore l'aveva invaso, aveva paura di addormentarsi. Uscì nei corridoi, a fumare un sigaro. L'onorevole di Carimate, il simpatico signore lombardo, presidente di una commissione agraria, gli corse incontro: «Ebbene, Sangiorgio, e la relazione?» «La relazione... già... quando si sarebbe dovuta presentarla?» «Ma, una settimana fa: siamo in grave ritardo. Io vi ho cercato dovunque, non avete avuto due miei biglietti?» «No, nulla,» rispose egli, mentendo. «E ieri, ci hanno attaccati! Ho dovuto rispondere io, come presidente. Siete stato ammalato?» «Molto ammalato.» «Si vede. Curatevi, Sangiorgio. Non avreste per caso le febbri?» «Credo.» «Curatevi. E quando potremo essere pronti?» «Non saprei... fra otto giorni, forse... Ve lo dirò.» Egli rientrò nell'aula, avendo già scossa da sè la penosa impressione della menzogna. Si parlava ancora, l'onorevole Bonora, un deputatino nuovo e noioso che parlava di tutto, seccava la Camera. Il presidente, dal suo seggio, fece un piccolo cenno amichevole a Sangiorgio: costui scese e andò a stringergli la mano. «Ammalato?» domandò il romagnolo, dai leali occhi bruni. «Un poco.» «Perchè non chiedere un congedo?» «Lo chiederò: ne ho bisogno.» E ritornò al suo posto, esausto. Una irritazione sorda cominciava a nascere in lui. Erano le cinque, gli pareva di stare da un secolo in quella Camera. Sandemetrio, il deputato abruzzese e Scalìa, il siciliano, parlavano accanto di un duello fra un giornalista e un deputato; chiesero il suo parere: egli fece vedere la sua indifferenza. Tutte quelle voci alte o basse finirono per dargli un gran fastidio. Aveva caldo, ora: si sentiva male, in quell'ambiente: vi soffriva, non poteva più respirare. Uscì precipitosamente, prese una carrozza, difilato si recò al suo quartierino di Piazza di Spagna. Ivi si buttò a braccia aperte sulla poltrona dove Angelica si era seduta, appoggiata, e vi pianse su tutte le sue lagrime. VI. Angelica mancava, quasi sempre, agli appuntamenti. Talvolta, alla sera, offrendogli una tazza di thè, gli diceva, in fretta, sottovoce: «Domani, alle due.» «Certo?» domandava lui, già deluso varie volte. «Certo: non ne dubitate.» E avendo fede in quella parola, la notte, la mattina seguente, di quella parola viveva. Venivano le due: ella non veniva; egli cominciava per credere a un ritardo, pazientava, non si levava dal suo posto, per andare sino al balcone. Poi lo vinceva la incertezza: e infine, come calava la sera, in quel soave mese di maggio, egli perdeva ogni speranza, si abbatteva in un accasciamento. Quando la rivedeva, bella, serena, rosea, senza una preoccupazione al mondo, amabile con tutti, prodiga di amabilità, un grande rancore misto di tenerezza, di rimpianto, gli si affondava nell'animo. Giammai, giammai ella avrebbe saputo la misura del suo amore e delle sue sofferenze. Ella non si scusava o lo faceva con una parolina vaga, detta fuggendo, con una intonazione di voce, con un discorso fatto a un'altra persona, dove raccontava le infinite noie della sua giornata — ed era sempre un concerto, una conferenza, una visita agli asili, una funzione pubblica, noiosa o inutile, che glielo avevano impedito. Così, l'amarezza di Sangiorgio cresceva, vedendo quanto poco gli appartenesse quell'anima, ma ella gli versava, in tutta la serata, la dolcezza di certe occhiate velate, ella lo teneva sotto la lucentezza blanda del suo sorriso, gli domandava un libro, o il suo ventaglio, o il suo fazzoletto con tanta mitezza di voce, insomma ella era per lui così femminilmente beatificante, che alla fine della serata egli era vinto: nella sua debolezza, mentalmente, le chiedeva perdono di averle serbato rancore. Ma, ogni tanto, ella si rammentava del povero solitario che l'aspettava, chiuso in una casa, in quella primavera crescente, che era così dolce godere per le vie di Roma e per le sue ville e pei suoi colli fioriti. Ella capitava a Piazza di Spagna, improvvisamente, in un'ora imprevista, la mattina alle dieci, alle sette della sera, quando egli era per uscire, non aspettandola più: una volta, con una di quelle lunghissime piogge di maggio fra i primi lampi della elettricità estiva, elle venne. Così, per il suo arrivo imprevisto, donn'Angelica dava sempre una scossa profonda all'anima di Sangiorgio: egli non si poteva abituare a quelle visite, fatte quando non aveva più speranza di riceverle, quando era immerso nell'abbattimento della delusione o in quell'ebetismo che hanno gli esseri assorbiti da un sol pensiero; la sazietà non arrivava per lui, poichè ogni nuova apparizione di donn'Angelica gli sembrava una grazia singolare, una gemma del suo tesoro spirituale. E quando ella veniva, in quel primo minuto di consolazione, la fastidiosa, crucciante piaga dell'aspettazione inutile si guariva miracolosamente, l'uomo contristato, sofferente, ammalato, risorgeva, come Lazzaro evocato dalla tomba dalla forte voce di Gesù. Tutto preso dalla sua amorosa realtà, egli si scordava di quello che aveva sofferto per la sua amorosa visione: e nel cospetto dell'amata, egli non sapeva che adorarla, che inginocchiarsi innanzi a lei, baciarle le mani, umilmente, ringraziandola d'essersi ricordata di lui, come il cristiano che dopo un periodo di travagli, sopportati senza mormorare, batte la fronte sulle pietre della chiesa per una piccola grazia ottenuta. E donn'Angelica rimaneva al posto dove l'amore di Sangiorgio l'aveva elevata, dove ella sapeva restare con la sua forza di temperamento e di carattere, una nicchia alta e solinga, inarrivabile, inattaccabile, tabernacolo di virtù e di purità, donde ella poteva degnarsi di abbassare gli occhi su colui che l'amava, poteva sorridergli, tendergli le mani, lasciarsi baciare l'orlo dell'abito, divinità pietosa, senza che però nessuna di queste degnazioni le offuscassero menomamente l'aureola, senza che la pietà arrivasse mai a umanizzarla, a femminizzarla. Quanto veniva da lei, era una grazia; dalle sue mani piovevano rose; ella portava con sè la felicità. Niente altro ella doveva fare che esistere, apparire, sorridere, scomparire: questo ella faceva. Sicchè la personalità di Sangiorgio sempre più scompariva. Angelica non si occupava di quello che egli avesse pensato o sentito o sofferto, mentre ella non era venuta; non gli chiedeva nulla di lui, delle sue ore, delle sue occupazioni, dei suoi desiderii; non aveva nessuna curiosità di conoscerlo. Gli dava del _voi_, era questa la sola familiarità; lo chiamava Sangiorgio, poichè quel nome di Francesco era troppo volgare, troppo antipatico: e lui che sentiva questa volgarità e quest'antipatia, se ne doleva, ma non osava pregarla di chiamarlo per nome. Seduta accanto a lui, guardando la grande croce di velluto nero che tagliava la stoffa di broccato giallo, con una vivacità e nello stesso tempo con una cupezza di tinta passionale, ella si piaceva di parlargli, lungamente, lungamente, vedendo l'estasi con cui egli l'ascoltava. Angelica obbediva a quel continuo bisogno di espansione che hanno le donne, per le piccole e per le grandi cose; a quella necessità di sfogo, che butta tante donne sui gradini di un confessionale, che crea tante amicizie fittizie con altre donne, che fa loro ricercare un confidente anche in un uomo, nulla curandosi dell'effetto di queste confidenze. Quanto ella aveva da dire, ella ridotta a un continuo silenzio, dalle preoccupazioni politiche, dall'età, dal natural carattere ironico di don Silvio! Quanto ella aveva da dire, ella a cui la posizione di suo marito proibiva di legarsi in amicizia con nessuna donna del suo mondo! Ed ecco, ella aveva trovato un confidente, il migliore dei confidenti, sempre felice di ascoltarla, sempre pronto a darle ragione, sempre disposto a compatirla, sempre disposto ad ammirarla, sentendo nelle sue parole il suono e il motto, il senso aperto e la intenzione, quello che essa diceva e quello che essa pensava; egli era l'interprete migliore, quello che le donne cercano, l'uomo che tutto vuol sapere, la cui curiosità è insaziabile, che intende tutto, che è indulgente per tutti i piccoli torti, che trasforma e glorifica le più piccole virtù, che fa di una parola una poesia, di una frase una emozione e di una bontà un eroismo, — l'uomo che ama. Seduta accanto a lui, nella pace di quel salotto profumato di fiori, fra i molli colori e le pieghe ricche, profonde, persuaditrici d'intimità delle stoffe, fra quella bizzarra intonazione di oggetti esotici, perduti gli occhi in un punto luminoso, d'oro, di un tessuto, ella gli parlava di sè, del suo cuore, delle ineffabili tristezze che niuno doveva sapere, che _lui_ sapeva, delle piccole gioie spirituali, i brevi godimenti che si narrano solo a sè stessi o alla più intima persona. La delusione di Angelica, dopo il matrimonio, non era stata improvvisa, ma graduale, continua, discendendo ogni giorno di più, per una via di piccole amarezze, sino alla indifferenza e alla solitudine; le oneste speranze di felicità coniugale, i bei sogni puri di amore lungo e tranquillo, la fiducia di un'anima leale, si erano frantumati, sgretolati, miseramente, contro la grande, ardente, egoistica passione di don Silvio: la politica. Non era la catastrofe di un minuto solo, la immensa catastrofe che atterra, ma da cui si solleva, per forza naturale, l'anima forte: era lo stillicidio quotidiano che scava, che scava, che fa solco, che consuma finanche la durezza e la freddezza della pietra. Molto aveva da narrare donn'Angelica, per fare la storia della sua vedovanza spirituale: e la lagnanza, infinita, variava musicalmente su tutti i toni della malinconia. Non accusava apertamente, ella, no: non una parola di violenza, d'ingiuria, le usciva dalle labbra: ma tutto quello che diceva era una recriminazione dolente e semplice, era la storia di una oppressione crescente e schiacciante, raccontata con una grande delicatezza di parole, ma con un senso interminabile di mestizia. Egli ascoltava, Sangiorgio: e vedendola immersa in quella storia, così presa da quella che era stata la lenta sciagura del cuore, non aveva il coraggio d'interromperla mai, non osava neppure dirle quanto l'avrebbe adorata, se il destino gli avesse concesso il supremo bene di averla per moglie. Avidamente, egli raccoglieva, da quelle labbra adorate, i dettagli, minutissimi, di quelle piccole angosce quotidiane, fremendo a ognuna di esse, sentendo quello che essa aveva sentito: egli s'impregnava di quella storia, che quasi quasi diventava la sua, dove sempre più si perdeva la sua individualità: quando ella, eccitata dai propri racconti, vedendo il pallore e la emozione di colui che l'ascoltava, arrossiva e a stento frenava le lagrime, egli provava, per ripercussione, la stessa sensazione. Più in là di lei, egli andava in un solo sentimento: donn'Angelica non odiava don Silvio, ella non sapeva odiare, ma era uscita per sempre dal suo cuore, ella non poteva amarlo, poichè egli non aveva saputo amarla, ella non poteva rispettarlo, poichè a troppe transazioni, a troppe viltà costringe la passione politica, — ma non l'odiava, no, gli era indifferente. E diceva questa piccola frase della indifferenza con tanto distacco freddo, con una così glaciale semplicità, che Sangiorgio ne rabbrividiva di paura, pensando che forse quella frase che uccide si potesse applicare a lui. Ma egli andava più innanzi di Angelica, egli era uomo e odiava don Silvio, come tutti coloro che amano veramente. Egli lo odiava cordialmente, in tutte le forme, materiali e morali, come un nemico e come un uomo cattivo, come un rivale fortunato e come un essere spregevole, lo odiava al punto da desiderarlo vinto, avvilito, insultato, disonorato, morto. Egli gli aveva presa donn'Angelica: egli ne aveva inaridita l'anima, l'aveva resa delusa e incapace di nuove illusioni, infelice e diffidente della felicità, non l'aveva amata e le aveva tolta la facoltà di amare; egli, egli aveva ancora in suo potere Angelica. E Sangiorgio odiava don Silvio, questo marito, con la collera, la gelosia, il disprezzo e la ingiustizia dell'amante che ama veramente. * * * * * Ma non solo questo narrava donn'Angelica, in quelle visite a Piazza di Spagna: con quella ingenuità infantile delle donne che ignorano il peccato, con quella incosciente, ma pericolosa lealtà che rassomiglia tanto alla provocazione e alla civetteria, ella si abbandonava a quelle confidenze picciolette di sensazioni, di usi, di consuetudini, di gusti che formano la base della vita femminile. Sangiorgio conosceva, ora, minutamente, tutta la giornata di donn'Angelica: a tutte le ore, chiudendo gli occhi, egli si poteva figurare quello che facesse, tante volte ella gli aveva narrato le occupazioni predilette. Malgrado andasse tardi a letto, ella si alzava presto la mattina, per abitudine giovanile di settentrionale che mai aveva potuto smettere: niuno entrava in camera sua, neppure la cameriera. Angelica ci teneva che nessuno penetrasse nel suo nido dove ella aveva pensato, sognato, dormito, nella notte: non gli pareva a lui, Sangiorgio, che la stanza da letto fosse un sacrario, dove nessun profano dovesse penetrare? — Sì, gli pareva bene, ella faceva benissimo, — rispondeva lui, turbato assai, con un calore che gli mordeva lo stomaco. Donn'Angelica non si lasciava pettinare e vestire dalla cameriera che quando andava ai balli: ella odiava quelle mani servili affaccendate attorno al suo corpo; quel chiacchiericcio volgare, quel contatto delle dita coi suoi capelli, le urtavano i nervi, la disgustavano: per molto tempo, da giovanetta, dandole fastidio, nel pettinarsi, la lunghezza delle trecce, ella le aveva fatte tagliare, portando i capelli corti, la zazzerina riccia e bruna di un'adolescente. Un giorno, mentre parlava di ciò, sottovoce, come in sogno, Sangiorgio la pregò umilmente di sciogliersi i capelli, non ne aveva mai vista la lunghezza: ella disse di no, semplicemente, non avrebbe mai avuto tempo di riacconciarseli, ci voleva un'ora. Egli la pregò di nuovo, invano: glielo promise per un altro giorno, quando avesse avuto più tempo da restare. Dopo l'acconciatura, donn'Angelica passava un paio d'ore nel suo salottino, accanto alla sua stanza, leggendo, suonando, scrivendo, sempre sola. Ella rispondeva alle sue amiche di lassù, alle persone che le dirigevano delle suppliche, alle raccomandazioni: ella scriveva rapidamente, sempre sulla carta bianca, senza emblemi, senza motto, senza cifra: tutto questo, che le altre donne prediligevano, le sembrava una chincaglieria, una volgarità. Egli la pregò, un giorno, di scrivergli qualche cosa sopra una carta, un rigo solo; non aveva mai avuta una parola scritta da lei: ed ella lo avrebbe fatto, forse, ma Sangiorgio girò inutilmente pel quartierino, non trovò nè un calamaio, nè una penna, nè un foglio di carta, — in quella casa destinata all'amore, logicamente, mancavano le cose destinate allo studio, agli affari, a tutto quello che non è l'amore. Ella osservò, sorridendo, che egli non scriveva mai dunque? No, non scriveva mai, amava soltanto: e Angelica, sempre sorridendo, gli fece cenno di tacere, non voleva udir parlare di questo, non sarebbe più tornata, se continuava. E le adorabili, provocatrici confidenze continuavano: alle undici e mezzo don Silvio e donna Angelica si ritrovavano per la colazione. Ella aveva sempre molta fame, la mattina; come tutte le persone sane e giovani ella avrebbe amato di stare con un essere giovane e allegro come lei, chiacchierando, ridendo, in quell'ora lieta del giorno: ma don Silvio era sempre livido, in quell'ora, di collera o di noia mattutina, non aveva mai fame, la febbre della politica gli rodeva il fegato e lo stomaco, e sempre leggeva giornali, lettere, scriveva a tavola, come nel suo salone di palazzo Braschi, come alla Camera, come dappertutto. Oh, ella preferiva alla compagnia di quel magro, vecchio, ostinato divoratore di giornali, di lettere, di telegrammi, che lasciava raffreddare sul piatto la sua costoletta, che dimenticava di mangiare le frutta, nel primo accesso giornaliero del suo morbo, ella preferiva la solitudine, col sole che si allungava sulla tovaglia, col suono di un pianoforte poco lontano, col ronzìo di qualche moscone nel meriggio che si faceva caldo. E presa da un capriccio bizzarro di donna virtuosa, ella proponeva a Sangiorgio di andare, una mattina, presto, col sole, in campagna, in una di quelle piccole osterie, dalla terrazza coperta di un pergolato, dove la vite si arrampica, a far colazione insieme, come due scolari che hanno marinata la scuola. «Ma perchè mi tormentate, perchè mi dite questo?» le chiedeva lui, con un dolcissimo rimprovero. «Vi tormento io?...» «Voi non ci verreste mai...» «Ci verrò, ci verrò...» mormorava lei, vagamente, sorridendo ancora al suo sogno infantile. Dopo colazione, alle due, donn'Angelica cominciava la sua vita di ministressa, di donna che si deve al pubblico, le corse pei magazzini, le compre: ella amava i vestiti semplici, il nero era il colore che preferiva. Anche lui, Sangiorgio, preferiva il nero, così l'aveva vista vestita la prima volta, alla stazione, il giorno in cui era arrivato a Roma. Poi venivano: tutta la parte femminile della politica, le visite fatte e ricevute, le commissioni di patronato, le associazioni di carità, i concerti di beneficenza, i ricevimenti diplomatici, le inaugurazioni, le conferenze, le premiazioni, tutta questa roba noiosa, lunga, senza causa, esteriore, vernice lucidissima sopra il cartone, ossequio fatto a Sua Eccellenza, nulla per sè, nulla per lo spirito: ella odiava tutto questo; oh, come sarebbe stata felice di essere la moglie di un uomo tranquillo, intelligente, che la febbre della politica non divorasse, a cui il potere sembrasse una ignobile burletta, a cui l'esser ministro paresse quello che è, il passaggio da giudice a imputato, il banco dei colpevoli! «Moglie vostra, Sangiorgio,» soggiunse. «Oh Angelica!...» disse lui con un accento singolare. Ma ella non intese nulla. Gli rivelava tutta la sua vita, gli diceva tutto. Sangiorgio la conosceva: ma ella non conosceva Sangiorgio. * * * * * E un mutamento avveniva in ambedue. Angelica si assuefaceva oramai a queste visite, essa veniva spesso, disinvolta, come se capitasse a un ritrovo di amiche: neppure un'ombra di emozione, neppure il minimo imbarazzo. Sangiorgio ne interrogava il viso, ogni volta: era sereno, senza che lo turbasse nè paura nè vergogna. Veniva, si sedeva, come in una casa qualunque, non un palpito nella voce, non un tremito nella mano, nulla della donna che commette un'azione furtiva, nulla che indicasse l'inganno fatto. Oramai ella non trovava più difficoltà a venire, le pareva una cosa semplice, naturale; capitava sempre, fra due visite, usciva dalla Camera, andava dall'ambasciatrice di Russia, era venuta per un momento, un momento solo, prima di salire all'ambasciata; capitava fra due affari, uscendo dalla sua sarta che era in Piazza di Spagna, per andare da Janetti a comperare un oggetto e veniva a chiedere il consiglio di Sangiorgio sopra un vestito, sopra uno scrignetto del Rinascimento. Una volta, crudelmente, comparendo, gli disse: «Son passata di qui, per caso; ho pensato che forse eravate in casa, sono salita...» Un'altra volta egli era dietro ai vetri, guardando nella piazza, temendo di aprire per non farsi riconoscere, soffrendo del caldo: ella passava per la piazza, col suo bel passo ritmico, guardando le botteghe e i viandanti. Egli trabalzò, avrebbe voluto chiamarla, gridare, per farla venir su, ma non ne ebbe il coraggio, gli mancò la voce: ella se ne andava, se ne andava, senza voltarsi: a un certo punto, ella parve ricordarsi, si voltò, dette un'occhiata a quei balconi del primo piano, vide dietro i vetri quella faccia pallida e ardente, sorrise, tornò indietro, salì su, come quando si va da un'amica, che si è vista sul balcone, — crudelmente, crudelmente. Quei convegni con un uomo che l'amava, in una casa appartata, in un salotto dove nessuno poteva penetrare, non avevano per lei nessun sapore di colpa, di tradimento. Erano un'abitudine. Gli stringeva la mano come se lo incontrasse in una passeggiata; si faceva riabottonare il guanto, come in una festa da ballo; lo guardava francamente, negli occhi, come quando egli era nel salotto dell'Apollinare; gli parlava di cose profonde o di cose frivole, egualmente, come capitava; gli dava da leggere le lettere che si trovava in tasca; lo consultava sugli affari di famiglia; si era familiarizzata, come da amico ad amico, senza parlar mai più dell'amore, senza pensarvi più, con una franchezza ingenua e feroce. Non così Sangiorgio. Quella familiarità continua, quelle confidenze intime, quei colloqui solitari, in una stanzetta calda, con la bella signora del suo cuore, quella mano che ella gli lasciava baciare, quel braccio che si appoggiava così mollemente sul suo, quei capelli ondulanti sulla fronte che ella gli lasciava accarezzare; tutta questa umanità muliebre penetrava nel suo sangue e nei suoi nervi, rievocandone la forza e la gioventù. Era un uomo, infine: e quando quel viso adorato si piegava sul suo, vicinissimo, per dirgli qualche cosa; quando sentiva l'odore di quei capelli salirgli al cervello; quando quel corpo sottile si arrovesciava sulla poltroncina sotto l'impeto di un singhiozzo, o per la scossa di una fresca risata; quando quella fronte bianca s'inchinava sotto il peso di una preoccupazione, — egli era lì lì per prendere Angelica nelle braccia, dolcemente, furiosamente, ma tenacemente. Troppo la divina immagine era diventata buona, familiare, amichevole, perchè egli non sentisse la donna in lei, con tutte le sue attrazioni, con tutte le sue seduzioni; troppo vivevano insieme, soli, sicuri, perchè egli restasse sempre il cristiano che adora passivamente; troppo era vero e grande l'amore suo, perchè non mirasse, finalmente, ad avere, tutta sua, quella donna. Invano egli voleva scacciare quella tentazione, richiamandosi all'anima i primi dolci tempi purissimi, quando l'amore fluttuava nei campi dell'idea e del sentimento: che anzi, troppo grande essendo stata la dedizione, ecco, adesso era impossibile levarsi Angelica dal sangue e dai nervi. Invano, invano: l'assorbimento dell'anima, assoluto, buddistico, di cinque mesi, aveva portato con sè anche l'assorbimento di un solo desiderio; il temperamento robusto, sobrio, semplice, invano usciva da quella contemplazione spirituale, non sapendo volere altro. Ed erano lotte quotidiane per non far leggere la verità ad Angelica negli occhi desiosi, per non farle intendere il tremito delle labbra desiose, per impedire alle braccia desiose di stringerla in un abbracciamento. Era uomo, infine: e combatteva con la disperazione interna tanto della vittoria quanto della sconfitta. La dolce donna gli sorrideva, accostava il suo viso a quello di lui, gli parlava sottovoce, inconscia, crudele e innocente: egli soffocava, chiudeva gli occhi, come se si sentisse perduto. Aveva promesso, aveva promesso: ma ella, perchè non intendeva? Ma non era donna dunque? Ma perchè giocare con quel cimento? Aveva promesso: ma era un uomo, non poteva durare a quella lotta. Come non capiva Angelica? Non avrebbe mai capito? Fino a quando sarebbe durata quella croce? Ecco, il tormento era superiore alle sue forze, tenerla accanto, bella, giovine, amata, nel silenzio, nella solitudine, — non poteva no, mancare alla sua promessa, ma glielo avrebbe detto, gli risparmiasse questo calice, lo abbandonasse, non venisse più... Era un giorno di giugno, quand'ella, parlando di un'acconciatura di capelli, si ricordò di avergli promesso di fargli vedere disciolti i suoi. «No, no,» mormorò lui. «E perchè?» chiese ella, ingenuamente. «Mi farebbe male.» «Male?» Nulla egli rispose: ella ridendo si tolse il cappello, cavò via tre forcinelle bionde, il pettine di bionda tartaruga e scosse i bruni capelli per le spalle, ridendo ancora, come una bimba che fa un giuoco. «Come son belli, come son belli!» diceva egli con voce semispenta, pigliandone ogni tanto una ciocca, e baciandola. «Si può entrare in camera vostra, per acconciarsi?» diss'ella, balzando in piedi, tutta rosea e fresca sotto quel manto. Non era mai entrata lì dentro, non ne aveva mostrata la curiosità: ma ora non aveva neppure aspettata la risposta, era già entrata, familiare, confidente, senza sospetto. Pure era rimasta colpita innanzi a quell'azzurro listato di argento, così serio e così amoroso nel medesimo tempo. Si passava fra i capelli il pettine biondo, macchinalmente, senza guardarsi nello specchio _Pompadour_, come se pensasse a tante cose mai pensate. Accanto a lei, Sangiorgio non parlava. Poi, ella chinò un minuto gli occhi sulla coltre di velluto azzurro, vide la lettera maiuscola che vi era ricamata, vide quell'audacia e diede un leggiero grido di angoscia: guardò negli occhi di Sangiorgio e la verità le fu palese. Muta, raccolse i capelli sulla nuca, uscì di camera, rimise il cappello, prese i guanti, uscì senza volgersi indietro. VII. Sotto il portone di Montecitorio, Francesco Sangiorgio s'indugiava, mentre dietro a lui gli uscieri avevano man mano spento il gas della biblioteca, delle sale di lettura e di scrittura, degli uffici: egli guardava il cielo stellato estivo e la piazza, non sapendo decidersi a ritornare in casa. Un'alta figura magra, venendo dagli Orfanelli, gli si accostò, traendosi di bocca il sigaro, piegando un po' le spalle: «Buona sera, Sangiorgio,» gli disse. «Siete libero?» «Buona sera, don Silvio. Libero.». «Ho da dirvi qualche cosa.» «Andiamo al ministero, allora?» «No, no, non al ministero.» «... A casa vostra?» «Neppure. Preferisco venir da voi, Sangiorgio,» ribattè il ministro, brevemente, rialzando il capo. «A piacer vostro,» rispose Sangiorgio, con lo stesso tono di voce, avendo inteso tutto. «Andiamo.» Si avviarono per Piazza Colonna, taciturni, fumando i loro sigari, guardando le loro ombre che si disegnavano in terra, in quella notte lunare. All'angolo di Via Cacciobove, Sangiorgio volle voltare. «Di qua?» domandò don Silvio, con un dubbio. «Già.» «Non abitate voi, Sangiorgio, in Piazza di Spagna, numero 62?» «Avete ragione, don Silvio,» soggiunse ancora Sangiorgio, con freddezza. Camminarono pel Corso, sempre senza parlarsi, incontrando quelli che uscivano dai teatri estivi, il Quirino, il Corea, l'Alhambra, e che malgrado la notte, riconoscendo l'alta statura del vecchio ministro, se lo indicavano, sottovoce, voltandosi ancora a guardarlo, pigliando Sangiorgio per un segretario, per un impiegato. Andavano lenti lenti. A Via Condotti non incontrarono più nessuno: nessuno a Piazza di Spagna. Il portoncino numero 62 era chiuso, ma Sangiorgio aveva la chiave, sebbene non ci fosse mai venuto di notte: per le scale oscure egli accese un fiammifero, don Silvio veniva di dietro, sempre fumando. Nell'anticamera l'antica lampada a olio, perpetua, gettava delle ombre tragiche sul nero cofano di nozze, di legno scolpito, sulle sedie dalla spalliera alta; nel salotto dove mai lume era stato acceso, Sangiorgio si trovò imbarazzato, girava col fiammifero in mano, non sapendo come far la luce; alla fine trovò un sottile candeliere di bronzo, pompeiano, in cui tre candele rosee erano infitte, e le accese. Si sedette, dirimpetto a don Silvio, già seduto; costui aveva buttato il sigaro sul pianerottolo, lasciato il cappello in anticamera e teneva il capo abbassato sul petto: di nuovo, la lente pendeva sul soprabito, don Silvio era in uno dei suoi momenti di raccoglimento. «Io aspetto, don Silvio,» disse Sangiorgio, frenando a stento l'impazienza della sua voce. «Pensavo, Sangiorgio,» cominciò quietamente il ministro, «quanto il desiderio di ammazzarmi debba essere violento in voi.» «Molto violento.» «Da oggi, poi, deve essere irresistibile.» «Irresistibile.» «Avete torto, Sangiorgio,» soggiunse don Silvio, con molta dolcezza. «Perchè mi uccidereste? Sono vecchio, vecchio assai: quello che voi non farete, farà naturalmente la morte.» «Don Silvio!...» gridò l'altro, colpito improvvisamente. «È così: ho settantadue anni, ma ho vissuto la vita di tre uomini. Sono stanco e rifinito, dentro, come nessuno s'immagina. Cadrò, quandochessia, di un colpo solo. Mi potreste esser figlio, Sangiorgio: non vorreste uccidere vostro padre, voi, per raccoglierne l'eredità.» «Don Silvio, don Silvio, non dite!...» «Lasciatemi dire. Per questo non ci batteremo insieme, quantunque in me fosse forte il diritto di farlo e in voi grande il desiderio. Eppoi, saremmo ridicoli: io, così presso alla tomba, pretendendo aver risentimenti e passioni da giovanotto: voi così giovane, non avendo la pazienza di aspettare. Ridicoli, mai. Capisco la tragedia, in simili cose, quando vi è l'amore e la gioventù: non capisco la farsa. Meglio il disonore che la burletta, Sangiorgio.» «È vero, è vero.» «Eppoi... vi è Angelica...» soggiunse il vecchio marito pronunziando quel nome con una infinita soavità. Fu un silenzio prolungato, in quel piccoletto tempio dove la dea, assente, regnava sempre, invisibile. «Angelica è buona, non deve soffrire. Quando oggi ella si è buttata nelle mie braccia, tremante di paura, scongiurandomi di salvarla — e non tremate voi di gelosia, Sangiorgio, ella è una figliuola per me, — io che sapeva tutto il suo segreto, l'ho lasciata dire, poichè quel pianto, quei singhiozzi, quella disperazione erano lo scoppio della sua rettitudine, erano lo spettacolo di una coscienza che si ribellava contro il male.» «Voi sapevate il suo segreto, tutto?» «Sì, dal primo giorno. Ella non rammentava bene se fosse venuta qui, la prima volta, il due o il tre maggio, ma io sapevo bene che era venuta una domenica, due maggio; ella mi ha confessato di esser venuta qui una quindicina di volte, ma io sapevo meglio di lei che erano diciotto le volte che ci era venuta: sono ministro dell'interno. Ma non le ho fatto rimproveri, come non ne faccio a voi. Voi avete ragione di amarvi.» Sangiorgio alzò il capo umiliato per guardare negli occhi il vecchio marito malinconico. «Naturalmente,» riprese costui. «Angelica è bella, è giovane, è intelligente, avrebbe bisogno di una persona giovane, come lei, tutta a lei dedicata, che la sapesse apprezzare in tutte le sue belle e buone qualità, che vivesse con lei la vita in comune, la vita dello spirito e del cuore: invece ha un vecchio inaridito, scettico, distrutto, che ha una vecchia e ardente passione da alimentare, l'ambizione, la passione esigente, concentrata, rabbiosa di quelli che hanno passato i quarant'anni. «È naturale che Angelica preferisca voi a me: voi stesso, che volete e sapete ancora amare, che non avete ambizione, che non conoscete ancora questa febbre dell'anima che mai non si cheta, che avete il cuore pieno di fiducia e la fantasia piena di entusiasmo, voi preferite a tutto questa dolcissima ebbrezza dell'amore. Chi vi darà mai torto? Siete voi i più saggi, noi siamo i pazzi, noi meritiamo di essere burlati e ingannati, noi combattiamo per una illusione volgare, voi per una divina realtà! Io non posso rimproverarvi.» Sangiorgio ascoltava, con la faccia fra le mani, senza rispondere. «E poi...» riprese don Silvio, come se parlasse a sè stesso, «l'uomo, questa gran cosa, questa potenza, questa forza, questo complesso di forze, ha una legge che ne limita gli sforzi. Farai questo e non altro, dice questa legge, se non vuoi riuscire mediocre, inefficace in ambedue. Una sola passione potrai nutrire, forte, intensa, profonda: un solo ideale potrai desiderare, alto, lontano, inafferrabile; e la tua anima si dovrà consacrare tutta a questa unica passione, nulla te ne dovrà distrarre, e la tua volontà si dovrà intieramente concentrare nel desiderio dell'unico ideale, se vuoi raggiungerlo. L'amore, l'arte, la politica, la scienza, queste grandi efficienze umane, queste altissime forme di passione e d'ideale, vanno ognuna per sè, solitarie, tanto vaste che appena appena il misero spirito di un uomo può abbracciarne una sola. Non si è scienziato ed artista, non si è uomo politico ed amante, ammeno di non essere mediocre nelle due cose che si vogliono fare. Bisogna scegliere: le grandi forme umane dello spirito e del cuore sono egoistiche e chieggono grandi sacrifizi...» * * * * * «Qual'è il desiderio di donn'Angelica?» chiese brevemente Sangiorgio, riscotendosi dalla lunga meditazione in cui era stato immerso. «Che voi partiate da Roma, Sangiorgio,» rispose don Silvio. «Partirò. Per molto tempo?» «Pel maggior tempo che vi è possibile.» «Darò le mie dimissioni. Potrò rivedere donn'Angelica? Non ho in questo momento neppure l'ombra del cattivo pensiero, domandando ciò.» «Ella desidera non vedervi.» «Bene. Le potrò scrivere, almeno?» «Ella vi prega di risparmiarla: intenderete il suo riserbo.» «Ditemi, Don Silvio, in nome di Dio, per questa ora che è la più dura della mia vita, non siete voi che la costringete a tutto questo? È ella libera?» «Ve lo giuro, figliuol mio, ella è libera,» disse dolcemente don Silvio, «a nulla la costrinsi. Voi potete vederla, se volete non mi opporrò. Ma sarà meglio per voi non vederla,» soggiunse, con profondità. «Soffre ella?» «Ha sofferto.» «Che dice ella di me?» «Conta sul vostro amore.» «Bene. Ditele che parto, che non ritorno più. Addio, don Silvio.» «Addio, Sangiorgio.» E sulla porta della strada, nella notte, si licenziarono. «Sentite, ancora, don Silvio. Sapevate che amavo donn'Angelica, che ella veniva da me e non temeste nulla?» «Io conosco donn'Angelica,» rispose don Silvio, con un accento profondo, allontanandosi. Francesco Sangiorgio intese: come don Silvio, ora, egli conosceva donn'Angelica, la donna che non sapeva amare. * * * * * Era scivolato, durante la seduta, negli appartamenti del presidente, non volendo lasciarsi vedere. Di là gli aveva scritto un biglietto, offrendo le sue dimissioni, per motivi di salute; un biglietto secco secco, senza nessuna spiegazione. Nel consegnare la lettera all'usciere, un gran tumulto era accaduto nei suoi nervi, un fiotto di sangue parea lo soffocasse: dopo averlo visto scomparire dietro la porta, egli si era rovesciato sulla poltrona di raso giallo, invecchiato, affralito, come se uscisse da una malattia di dieci anni. Aspettava, aspettava, non osando muoversi, non osando girare in quella Camera donde egli, in quel giorno, volontariamente si esiliava: temeva di farsi vedere, come un colpevole, temeva d'intenerirsi, temeva di buttarsi per terra a piangere su tutto quello che moriva in lui in quel giorno. L'usciere ritornò, con un biglietto del presidente: la Camera, come si usa, a richiesta dell'on. Melillo, gli accordava un congedo di tre mesi. Ma non capivano, dunque, che voleva andarsene? L'agonia, dunque, doveva ricominciare? Dovette scrivere di nuovo al presidente: assolutamente, era ammalato, non poteva più fare il deputato. Ora passeggiava su e giù, nel salotto presidenziale, come un leone in gabbia: e ogni volta che arrivava presso la stanza da letto, un senso d'invidia lo afferrava. Lì dietro, sopra un lettuccio, dove era stato trasportato, colpito da un morbo improvviso mentre discuteva alla Camera, aveva agonizzato un atleta giovane e audace della finanza; lì aveva avuto il supremo bene di poter morire, come un soldato sul campo di battaglia: e Sangiorgio invidiava questo morto. L'usciere ritornò: la Camera accettava le dimissioni, vista l'insistenza; — il presidente aggiungeva qualche amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed era finito. Macchinalmente Sangiorgio cercò la medaglina, il suo orgoglio, il suo amuleto, e fra le mani gli parve erosa, assottigliata, come se l'avesse consumata un fuoco. E uscì di là, lentamente, resistendo al forte desiderio di guardare un'altra volta le sale, i corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la _buvette_, i saloni degli uffici; uscì senza rivederli, avendo paura d'incontrare troppi deputati, di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani — e lo sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato, gli diceva _addio_, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi, senza vergogna, come un fanciullo a cui è stata chiusa la porta della casa paterna. Meglio andarsene, come un indifferente, come un cattivo servo che non si ringrazia e non si saluta, che non vuol ringraziare e non saluta. A un tratto, sulla piazza di Montecitorio, sentì come un vuoto profondo in sè, attorno a sè. Gli pareva di non aver più nulla da fare, di non dover andare più in nessun posto, di non dover più vedere nessuno: tutte le cose, le persone, i fatti avevano subìto come una scolorazione. Non voleva nè camminare, nè mangiare, nè parlare, nè pensare, tutto gli sembrava inutile, tutto: istintivamente si recò all'Angelo Custode, nel vecchio quartierino dove l'estate accumulava tanta polvere, e al nauseante odore dei bacherozzi univa tutti gli altri cattivi odori che venivano dal cortiletto; là si buttò sul letto, bocconi, con la faccia morta nei cuscini, con le mani abbandonate, nella inerzia mortale. Non aveva cercato di rivedere Angelica: a che sarebbe servito? Forse che qualche cosa in lei o nell'amore si sarebbe mutato, rivedendola? Tutto era inutile, tutto. Aveva un forte debito col tappezziere, un altro con una banca popolare la necessaria rovina che porta con sè ogni amore onesto, ma illecito: ma che gliene importava? Avrebbe pagato, forse, quando avrebbe potuto, in un tempo vago: o se no, la rovina, tanto peggio, nulla poteva più commuoverlo, tutto era inutile, tutto. Non aveva voluto neppur rivedere il quartierino di Piazza di Spagna, tutto profumato e caldo ancora della presenza di Angelica, non aveva voluto baciare il posto ove ella si era seduta: le memorie doveano inabissarsi nel passato, le testimonianze del passato dovevano perire. Non aveva neppure voluto fare un giro per Roma, per la città prediletta, per la città dei suoi sogni, che lasciava fra due ore. Nulla serviva più a nulla: tutto era inutile, tutto. Giacchè tutto era finito, meglio sprofondarsi sul gramo lettuccio del quartierino mobigliato, fra il sudiciume e i cattivi odori; meglio non vedere, non sentire più nulla, poichè tutto era finito. E certo era un sonnambulo colui che andava su e giù, nello stanzone della stazione, avendo preso un biglietto di seconda classe per un paesello ignoto della Basilicata, poichè non gli bastavano i quattrini a comperarne uno di prima: era un sonnambulo che non vedeva le persone e le urtava, mentre aspettava la partenza del treno per Napoli; che non badava nè alla sua valigetta, nè al venditore ambulante che gli offriva i giornali, nè al vento estivo che facea vacillare le fiammelle a gas; era un sonnambulo colui che cercava il suo posto, sospinto dalla voce dell'impiegato. Che lungo sogno! Ai primi sbuffi del treno che parte, un grande colpo nel cuore che sveglia quel pallido sonnambulo; egli si affaccia allo sportello e vede Roma, nera, alta, immensa, nei suoi sette colli che brillano di lumi; e ritira il capo, si abbatte sul sedile, come morto. Poichè, in verità, Roma lo ha vinto. FINE. Opere di MATILDE SERAO (Edizione PERRELLA) I capelli di Sansone — Romanzo. Vol. di 424 pag L. 4, — La leggenda di Napoli — 7º migliaio volume in 16º » 3, — Il Ventre di Napoli — Venti anni fa — Adesso — L'anima di Napoli. 5º migliaio volume in 16º » 3, — «Sterminator Vesevo» — Diario eruzione aprile 1906. Nuova edizione illustrata » 3, — Vesuvius the great Exterminator — Translated by L. Hammond » 2, — Il romanzo della fanciulla — 7ª Edizione, 20º migliaio. Volume di 364 pagine » 3, — Il Giornale — Conferenza » 0,50 Le Amanti — pastelli, vol. in 16º di 336 pagine » 3, — Gli Amanti — 5º migliaio, vol. in 16º di 320 pagine » 3, — Dopo il perdono — Dramma in quattro atti » 2, — Lettere d'una viaggiatrice — 5º migliaio, volume in 16º di 480 pag. » 4, — Saper vivere — Elegante volume di 330 pag. » 3, — Lo stesso rilegato in peau souple con ornamenti in oro e astuccio » 4,50 La Madonna e i Santi — Nella fede e nella vita. Vol. di 488 pag. » 4, — Nel paese di Gesù — Ricordi di un viaggio in Palestina » 3, — Il paese di Cuccagna — 23º migliaio. Vol. di 480 pag. » 4, — * * * * * Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (bugia/bugìa, danno/dànno, vari/varî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "La conquista di Roma" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.