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Title: La conquista di Roma
Author: Serao, Matilde, 1856-1927
Language: Italian
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MATILDE SERAO

LA CONQUISTA DI ROMA

Romanzo



Napoli
Francesco Perrella editore
1910

————

PROPRIETÀ LETTERARIA

Stab. Tipografico A. Trani--Via Medina 24



INDICE

  Parte Prima       _pag._    9
  Parte Seconda       »     140
  Parte Terza         »     288



PARTE PRIMA



I.


Il treno si fermò.

— Capua; Capua. — gridarono tre o quattro voci, monotonamente, nella
notte.

S'udì uno strepito di sciabole trascinate e un vivo parlottare fra
lombardo e piemontese: un gruppo di ufficialetti, tanto per finire la
serata, era venuto a vedere il passaggio del treno notturno Napoli-Roma.
Mentre il conduttore chiacchierava, sommesso, col capo-stazione, che gli
dava una commissione per Caianiello, e il postino tendeva un sacco di
tela pieno di lettere all'impiegato postale ambulante, gli ufficiali,
discorrendo fra loro e facendo, per abitudine, risonare i loro speroni,
guardavano se qualcuno salisse o scendesse, sbirciavano dagli sportelli
aperti se apparisse qualche bel visetto di donna o la faccia di qualche
amico. Ma molti sportelli restavano chiusi, con le tendine oscure tese
sui vetri, da cui una luce fioca di lampada velata traspariva, quasi
uscendo da un'alcova dove già il sonno avesse vinto i viaggiatori: da
quelli aperti si scorgevano, nella penombra, dei corpi sdraiati, in un
ammasso bruno di coperte, di mantelli e di scialli.

«Dormono tutti», disse un ufficiale: «sarebbe meglio andare a letto».

«Questi saranno due sposini», soggiunse un altro, leggendo sopra uno
sportello: _riservato_.

E poichè le tendine non erano abbassate, l'ufficiale che ardeva di
curiosità giovanile saltò sul predellino, e accostò il volto al
cristallo: ma discese subito, deluso, stringendosi nelle spalle.

«È un uomo solo», mormorò: «un deputato, certo; dorme anche lui».

Ma l'uomo _solo_ non dormiva. Era lungo disteso sul divano, con la testa
appoggiata al bracciale di mezzo, un braccio dietro la nuca e la mano
nei capelli: l'altra mano si perdeva nello sparato dell'abito: gli occhi
chiusi. Pure, il viso non aveva quella espressione molle dei muscoli che
riposano, quella quietezza grave dei lineamenti umani nel sonno: invece,
in tutte le linee, vi era la contrazione del pensiero. Quando il treno
in partenza ebbe passato il ponte sul Volturno, e s'internò nella
campagna deserta, nera, l'uomo riaprì gli occhi, cercò di mutar
posizione per potersi addormentare più facilmente. Ma il rumore del
treno, sempre uguale e continuo, gli martellava nella testa. Ogni tanto,
nell'ombra, una casa colonica, un villino, una casetta cantoniera,
sorgevano, oscurissime sul fondo oscuro: un filo sottile di luce
trapelava dalle fessure, una lanternina accesa faceva come un circolo
danzante di fiammelle, dinnanzi al treno che passava.

Egli pensò fosse il freddo che gl'impediva di dormire. Assuefatto alla
mitezza delle notti meridionali, non avendo l'abitudine di viaggiare,
era partito con un semplice e leggiero soprabito, senza coperta, senza
sciallo, con una piccola valigia e un baule che lo seguiva, al
bagagliaio. L'importante, per lui, non erano le vesti, nè le carte, nè i
libri, nè la biancheria: era quella medaglina d'oro, prezioso amuleto,
che gli pendeva dalla catenella dell'orologio. Dal giorno che l'aveva
avuta, richiesta dalla provincia, per una eccezione, al questore della
Camera, le dita correvano a toccarla, leggiermente, come per una
macchinale carezza; e nei momenti in cui si trovava solo, la stringeva
nella palma della mano, sino a farne restare il rosso sulla pelle. Per
avere il vagone riservato, l'aveva mostrata al capo-stazione, chinando
gli occhi, stringendo le labbra, quasi a reprimere uno sguardo di
trionfo e un sorriso di compiacenza: e dal principio del viaggio la
teneva in mano, come se temesse di perderla, comunicandole il calore
della sua epidermide che bruciava. Ed era così acuto il senso di piacere
che gli dava quel contatto e quella possessione, che sentiva,
delicatamente, tutte le asperità e le concavità del metallo — e
_sentiva_, sotto le dita, la cifra e la parola:

XIV LEGISLATURA

Sul rovescio, un nome, un cognome, la presa di possesso:

FRANCESCO SANGIORGIO

Con le mani calde, rabbrividiva di freddo.

Si levò e andò verso lo sportello. Ora il treno sfilava in aperta
campagna, ma il suo rumore era più sordo: pareva che le ruote fossero
state unte di olio, e scivolassero chetamente sulle rotaie, per
accompagnare, senza turbarlo, il sonno dei viaggiatori. Dirimpetto,
sopra un'alta proda nera, si stampavano, fuggendo, gli sportelli
luminosi: non un'ombra dietro i cristalli. La grande casa dormiente
correva nella notte, come mossa da una volontà ferrea, ardente, che
trasportasse seco tutte quelle volontà inerti nel sonno.

— Dormiamo, — pensò l'onorevole Sangiorgio.

Sdraiatosi di nuovo, cercò di assopirsi. Ma il nome di Sparanise, detto
sottovoce, due o tre volte, alla fermata, gli rammentò il piccolo e
povero paese di Basilicata, onde veniva, che insieme con venti altri
poverissimi villaggi, gli aveva dato tutti i suoi voti per crearlo
deputato. Il piccolo paese, distante tre ore da una stazione ignota
della linea ferroviaria Eboli Reggio, dove il capo-stazione aveva le
febbri, parea molto lontano all'onorevole Sangiorgio; lontano e
abbandonato in una valle paludosa, tra le nebbie malsane che salgono,
nell'autunno, dai torrenti, il cui letto scoperto, resta, nell'estate,
pietroso, arido e giallo. Venendo dal paesello alla stazione, nella
solitudine di quella deserta campagna di Basilicata, era passato accanto
al cimitero, un grande orto quadrato, con le croci nere, dove sorgevano
due pini alti, eleganti. Ivi giaceva, sotto la terra, sotto l'unica
lapide di marmo, il suo antico avversario, il vecchio deputato che
veniva sempre rieletto per tradizione patriottica, e che egli aveva
combattuto con la improntitudine del giovane ambizioso, che non conosce
ostacoli. Nè avrebbe mai vinto, il giovane presuntuoso, nato troppo
tardi, com'egli diceva, per poter fare la patria; ma la morte,
compiacente alleata, gli aveva procurata facile e piena la vittoria:
egli avea trionfato, rendendo omaggio al vecchio patriota defunto. E
passando presso al camposanto, non provò nel cuore nè pietà, nè invidia
pel vecchio milite stanco, che era disceso nella grande serenità della
morte. Tutto questo scompariva alle sue spalle, insieme col lungo
decennio volgare di avvocatura provinciale, col lavoro meschino e
quotidiano nelle preture, nei tribunali, raramente in Corte d'Assise,
per liti di terreni, per qualche eredità di trecento lire, per un colpo
di roncola: tutto un mondo piccolo, gretto, di vili interessi, di
furfanterie contadinesche, di raggiri finissimi per uno scopo volgare,
in cui il cliente diffidava dell'avvocato, e costui guardava il cliente,
come un nemico disarmato. Dieci anni: il contatto con una gente di
tribunale, misera, ignorante, o tranquillamente triviale, o severamente
fredda — un mondo glaciale, repulsivo, in continuo movimento da un capo
all'altro d'Italia, una fantasmagoria di facce sempre nuove, incapaci di
cordialità, o timide da non poterla tentare — e davanti a questo mondo,
il giovane avvocato si sentiva morire nell'anima ogni ardore di
passione; anche la parola gli moriva nella gola. E poichè la causa che
doveva difendere era di una trivialità aridissima, e la gente a cui
doveva parlare lo guardava, indifferente, con la faccia pacata di chi
non pensa più, egli finiva con sbrigarsi in poche parole, seccamente,
del suo dovere di difensore: non aveva perciò grande riputazione di
avvocato. Non egli poteva intenerirsi più, lasciando la casa paterna e i
vecchi parenti che, vedendolo partire, piangevano come tutta la gente
antica d'anni, quando qualcuno parte, per quel gran senso di egoismo che
è nella vecchiaia: molte tempeste segrete e caldissime, eruzioni interne
senza sfogo, avevano disseccate le sorgenti di tenerezza del suo cuore.
Nel viaggio, ora, egli ricordava tutto, lucidamente, ma senza provarne
emozione, come uno spettatore disinteressato. Chiudeva gli occhi per
dormire: non poteva.

Nel treno, invece, pareva dormissero tutti, in sonno profondo.
Attraverso il rumore del treno, sempre più cullante, l'onorevole
Sangiorgio credeva quasi di udire un lungo respirare calmo, gli pareva
quasi di vedere un grande petto sollevarsi e abbassarsi lentamente, nel
felice alternarsi meccanico della respirazione. Alla stazione di
Cassino, dove il treno si ferma per cinque minuti, all'una dopo
mezzanotte, non discese alcuno; e il garzone del caffè che dormiva sotto
la lampada a petrolio, con le braccia sul marmo del tavolino e la testa
sulle braccia, non si mosse. I guardafreni, avvolti nel cappotto nero,
col cappuccio calato sugli occhi e una lanternetta in mano, andavano
tentando i freni, che mandavano uno squillo metallico, di un'intonazione
purissima, come cristallo. Anche il fischio della vaporiera, partendo,
era dolcemente rauco, voce grossa e acuta, che si smorzava, per
delicatezza. Riprendendo il cammino, il movimento del treno era come un
dondolìo molle, senza stridori, senza urti, senza scatti, un andare
rapido come sul velluto, con un rombo sordissimo che pareva il russare
di un forte gigante addormentato, nella pienezza del suo riposo.
Francesco Sangiorgio pensò a tutta quella gente che viaggiava con lui:
gente addolorata per la partenza o allegra pel paese dove si recava;
gente innamorata senza speranza, innamorata tragicamente, o felicemente
innamorata; gente preoccupata dal lavoro, dagli affari, dalle angustie,
dall'ozio; gente oppressa dall'età, dalle infermità, dalla gioventù,
dalla felicità; gente che sapeva di camminare a un drammatico destino, o
che ci si avviava, inconscia. Eppure, tutti costoro, dopo mezz'ora, a
uno a uno, avevano ceduto lentamente al sonno, tutto, l'anima e il
corpo, obliando. Il benefizio amoroso, profondo, risanatore del riposo
era disceso su quegli ardori, e li aveva mitigati, si era allargato su
quella tribolata parte dell'umanità, troppo felice o troppo infelice,
placandola nel sonno. Nervi irritati, collere, disprezzi, desiderii,
morbosità, vigliaccherie, mestizie incurabili, tutte le miserie e tutte
le grandezze umane, viaggianti in quel treno notturno, posavano, nella
grande dolcezza dell'addormentamento. Il treno si portava via, alla loro
sorte, triste, buona, mediocre, quegli spiriti sognanti e quelle forme
abbattute nella quiete: quegli esseri godevano la profonda voluttà
dell'annichilimento senza dolore, lasciando a una forza, fuor di loro,
il trasportarli lontano.

— Ma perchè non posso dormire anch'io? — pensava Francesco Sangiorgio.

E un momento, ritto, nel suo vagone deserto, sotto la vacillante luce
della fiammella a olio, con la campagna nerissima che fuggiva dietro i
cristalli, con la leggera brina che appannava quei cristalli, col freddo
della notte che si faceva più frizzante, gli parve d'essere solo,
irrimediabilmente, abbandonato, perduto, nella debolezza della
solitudine. Si pentì di avere per orgoglio richiesto un compartimento
_riservato_, desiderò la compagnia di un uomo, quella di una persona
qualunque, un suo simile, il più umile. Si sentì smarrito e pauroso come
un bimbo, in quella gabbia donde non poteva uscire, che la macchina
portava via, quella macchina che egli era impotente a fermare nella sua
corsa: era spaventato, come una miserabile creatura che veglia,
solitaria, in una casa dove tutti dormano. Una soffocazione lo assalse
alla gola, se no, avrebbe gridato per chiedere aiuto: uno sfinimento lo
prese alle gambe, e lo abbattè, di nuovo, sul sedile.

Ma questo durò pochissimo: la coscienza del coraggio rinacque subito in
lui, e l'abitudine di una vita deserta di soccorsi morali, tutta chiusa
in se stessa, tutta appoggiata sulle proprie forze, vinse quel minuto di
terrore. A un pensiero che per molto tempo era rimasto latente, e che
ora si presentava nella sua forma concreta, con un nome di quattro
lettere, egli balzò di scatto dal divano, e si diede a passeggiare,
nervosamente, su e giù nella carrozza.

— È Roma, è Roma... — mormorava.

Sì, era Roma. Adesso quelle quattro lettere, rotonde, chiarissime,
squillanti come le trombe di un esercito in marcia, si disegnavano nella
sua fantasia, con un'ostinazione d'idea fissa. Il nome era breve e
soavissimo, come uno di quei flessuosi e incantevoli nomi di donna che
sono un segreto di seduzione; e gli si avvolgeva nella mente in
attorcigliamenti bizzarri, in meandri di fascino. Non poteva, non sapeva
formarsi l'idea che quelle quattro lettere, come scolpite nel granito,
rappresentavano. Il senso che quello fosse un nome di una città, di un
grande agglomeramento di case e di popolo, gli sfuggiva: Roma gli era
ignota. Per mancanza di tempo, per non sciupare del denaro, ragione di
tutte più forte, avvocatuccio ignoto, individuo insignificante, egli non
era mai stato a Roma. E non avendola vista, non poteva rappresentarla
che astrattamente, come una grande cosa fluttuante, come un grande
pensiero, come una grande visione singolare, come un'apparizione
femminile ma ideale, come un'immensa figura dai contorni indistinti.
Così, tutto quello che egli si figurava di Roma era grandioso, ma
indeciso, indefinito: paragoni strani, finzioni che diventano idee, un
tumulto nella fantasia, un miscuglio d'immagini e di concetti che si
sovrapponevano. Dentro quella maschera glaciale di meridionale
pensieroso, ardeva il fuoco di una immaginativa abituata a
contemplazioni egoistiche e solitarie: e Roma vi metteva il subbuglio.

Oh! egli la sentiva, Roma: la vedeva, come una colossale ombra umana,
tendergli le immense braccia materne, per chiuderselo al seno, in un
abbraccio potente, come quello che Anteo riceveva dalla terra, e ne
usciva ringagliardito: gli pareva di udire, nella notte, la soavità
irresistibile di una voce femminile che pronunziasse il suo nome, ogni
tanto, dandogli un brivido di voluttà. La città lo aspettava, da un
pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio
della madre, profondo, che evoca il figliuolo.

Da tempo egli sentiva questa seduzione di amore, questo appello di
amore, intorno a sè: si rodeva d'impazienza, fermo al suo posto,
avvinghiato da mille difficoltà materiali e morali, non potendo
sciogliersi, con un tormento inferiore che gli faceva pallido il viso e
torbido l'occhio. Quante volte, da terrazzino coperto, ad arcate, della
sua casa, nel suo paese di Basilicata, egli aveva guardato l'orizzonte
chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell'arco di cielo
che si piegava, grandioso, era Roma che lo aspettava! Come i fedeli e
pietosi amatori che hanno la loro donna lontana, e si struggono nel
desiderio di raggiungerla, egli considerava malinconicamente tutta la
distanza che lo separava da Roma, e come, nell'amore contrastato, fra
lui e la sua donna si frapponevano uomini, cose, avvenimenti. Di che
odio profondo, segreto, tutto concentrato nel suo cuore, egli detestava
tutti coloro che si mettevano fra lui e la città che lo chiamava! Come
gli amatori, nel mondo intero, egli non aveva che la visione deliziosa
della persona che egli amava, che lo amava: tutte queste ombre nere che
si interrompevano fra lui e la lucentezza del suo sogno, gli davano lo
spasimo. Un'amarezza gl'inondava le vene: nel suo spirito era un grande
serbatoio di rancori, di collere, di disprezzi, di desiderii, come in
quello degli amatori.

Dieci anni di battaglie, tenendo Roma nel cuore, lo avevano trasformato.
Una diffidenza, nascosta degli altri e una soverchia stima di sè: un
raccoglimento continuo, talvolta dannoso; uno studio incessante di
freddezza, mentre, dentro, l'anima gli ribolliva; un disprezzo profondo
di tutte le altre forze umane, che non fossero l'ambizione; uno
squilibrio crescente fra il desiderio e la realtà; segreta, ma
acutissima la conseguente delusione; l'amore del successo, niente altro
che il successo. Questo era accaduto, nella oscurità della sua
coscienza; ma talvolta, nelle ore bieche della disfatta, egli si
abbatteva in una debolezza infinita; una umiliazione soverchiava tutto
il suo orgoglio, egli si sentiva un povero essere, limitato, miserrimo.
Come gli amatori, quando li sopravvince la cattiva fortuna, egli si
sentiva indegno di Roma. Oh! bisognava domarsi nella pazienza,
rafforzarsi nella perseveranza, temprarsi le forze nell'avversità,
purificarsi lo spirito nel fuoco consumatore, come un penitente antico,
per essere degno di Roma. Figura ieratica di sacerdotessa, di madre, di
amante, Roma vuole espiazioni e sacrifici, vuole un cuore puro e una
volontà di ferro...

— Ceprano, Ceprano, dieci minuti di fermata, — si gridò fuori.

L'onorevole Francesco Sangiorgio si guardava attorno, ascoltava, come un
trasognato: egli aveva la febbre.

Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela,
all'orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi
vedere la lentissima dilatazione sull'alto del cielo. In quella
glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima.
Dallo sportello presso cui stava ritto, Francesco Sangiorgio la
guardava. Era un'ampiezza di pianura il cui colore ancora non si
scorgeva, ma che, qua e là ondulava, come le dune d'un mare poco
lontano; e la penombra fitta, con quella scialba irradiazione che ancora
non arrivava a vincerla, dava alla campagna romana uno sconfinamento di
deserto. Non un albero: solo, di tratto in tratto, una siepe alta e
fitta, nera, che pareva facesse una riverenza circolare e fuggisse.

Le stazioni cominciavano ad apparire bigie, tutte umide ancora della
brina notturna, con le finestre sbarrate e le persiane verdi che avevano
presa una tinta rugginosa, i magri alberetti di oleandri coi rami
pendenti e i fiori tutti stillanti, pioventi al suolo, come se
piangessero; con l'orologio dal largo disco biancastro che macchie di
umidità deturpavano, e le cui brune lancette, dalla testa grossa,
sembravano un ragno nero, a due gambe. Il capo-stazione, tutto
imbacuccato nel pastrano, con una sciarpa che gli fasciava le mascelle,
andava e veniva, tra i facchini, col capo abbassato: e nella freddissima
aria mattinale, un sottile odore di terra bagnata, odore acre, feriva il
cervello. Un grosso paese, eretto sopra una collina, fortificato da un
giro di mura e da due torri, comparve, tutto bigio, tutto vecchio, con
un'aria medievale: era Velletri.

Ora, nel treno avveniva un certo risveglio; nel vagone accanto si
sentiva scricchiolare il pavimento, due persone parlavano. Da uno
sportello di prima classe, la testa d'un prete spagnuolo, molto bruno,
dalle guance dure e rase, che avevano un'ombra azzurrina, si sporgeva,
fumando alacremente un sigaro. Ma come l'alba s'irradiava in tutto il
cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana
apparve, nella sua grandezza. Su quei prati a perdita di vista, smarriti
in una luce mite, un'erba rada e piccola cresceva, di un verde tutto
molle di acquitrino; qua e là grandi appezzamenti giallastri, macchiati
di marrone, una terra grossa e rude, pietrosa, fangosa, incoltivabile.
Era un imperial deserto che nessun albero allietava, che nessuna ombra
d'uomo animava, che non attraversava alcun volo d'uccelli; era una
desolazione immensa, solenne.

Contemplando questo paesaggio, che a nulla rassomiglia, Francesco
Sangiorgio era preso da un senso crescente di sorpresa, in cui tutti i
suoi sogni personali si dileguavano. Stava a guardare, muto, immobile,
rannicchiato nell'angolo della carrozza, tremando di freddo, sentendo
calmarsi il battito delle tempie. Indi a poco una pesantezza gli
scendeva sulle palpebre, un rilassamento gli distendeva tutta la
persona, egli provava tutta la stanchezza della notte trascorsa
vegliando. Avrebbe voluto sdraiarsi nella carrozza, con un bel raggio di
sole, che entrasse dal finestrino aperto, per dormire, una buona ora,
sino a Roma; invidiava quelli che avevano passato quelle lunghe ore
notturne a ristorarsi le forze, nel riposo.

Ora il viaggio gli sembrava interminabilmente lungo, e lo spettacolo
della campagna romana, quello squallore maestoso, l'opprimeva. Non
finiva dunque mai? Non sarebbe dunque mai a Roma? Aveva sonno: un
intorpidimento gli si dilatava dalla nuca a tutte le membra, la sua
bocca era pastosa e amara, come se uscisse da una malattia; e la sua
impazienza diventava pena, un piccolo tormento; egli si lamentava con se
stesso, come se gli facessero un'ingiustizia. I treni notturni erano
troppo lenti; aveva fatto male a partire con quello, fidando di poter
dormire, nella notte; questa ultima ora gli era insopportabile. La
realtà de' suoi sogni gli era dappresso, vicinissima, e con la sua
vicinanza gli dava una palpitazione di gioia. Sentiva l'appressarsi di
Roma, come quello di una donna amata: cercava di esser calmo,
vergognandosi innanzi a sè stesso: ma gli ultimi venti minuti furono un
vero spasimo. Col capo fuori del finestrino, ricevendo in faccia il fumo
umido del vapore, senza più guardare la campagna, senza un'occhiata per
gli eleganti acquedotti che si prolungavano nella pianura, egli guardava
verso la mèta, credendo e temendo ad ogni tratto di veder apparire Roma,
compreso da un vago senso di terrore. Spariva la campagna, dietro, come
se si inabissasse, portando con sè i prati umidi, gli acquedotti
giallastri e le bianche casette cantoniere. La macchina pareva
accrescesse la sua velocità, e ogni tanto dava in un fischio lungo
lungo, stridulo, a due, a tre riprese. A quasi tutti i finestrini vi
erano delle teste sporgenti.

Dov'era Roma, dunque? Nulla si vedeva. E la inquietudine era così forte,
che quando il treno cominciò a rallentare, l'onorevole Francesco
Sangiorgio ricadde sul sedile: il cuore gli batteva sotto la gola, come
se gli si fosse allargato per tutto il petto. Passando sul pavimento
ferreo degli scambi, quelle scosse forti gli si ripercuotevano dentro,
gli davano sul capo come tanti colpi di martello. Gl'impiegati non
dicevano neppure: Roma. Ma egli, scendendo, fu preso da un lieve tremito
nelle gambe; la folla lo circondava, lo urtava, lo spingeva, senza
badare a lui: in due correnti, per i treni che arrivavano, in
coincidenza, da Napoli e da Firenze. L'onorevole Sangiorgio era smarrito
tra la gente, addossato al muro, come se non si reggesse, avendo ai
piedi la sua valigetta; e con l'occhio vagante guardava tra la folla,
come se vi cercasse qualcuno.

La stazione era ancora tutta umida, un po' scura, con quel nauseante
puzzo di carbon fossile, di olio, di ferro sfregato, che vi è sempre,
piena di vagoni neri, di grandi casse d'imballaggio ammonticchiate; e le
faccie erano tutte stanche, assonnate, annoiate, in uno sbadiglio che
stirava le bocche: la sola espressione era l'indifferenza,
un'indifferenza non ostile, ma invincibile. Nessuno gli badava, al
deputato Sangiorgio, fermo presso il muro: viaggiatori, impiegati,
facchini andavano e venivano, senza curarsi di lui. Egli aveva
sbottonato il soprabito, con un moto infantile, per mostrare la
medaglina, aveva chiamato un facchino, due volte, ma quello era
scomparso, senza dargli retta.

Invece la gente di servizio si affaccendava intorno a un gruppo di
signori in tuba, dall'aria pallidamente burocratica, che avevano l'abito
nero e la cravatta bianca sotto i soprabiti abbottonati, dai baveri
rialzati, con la faccia smorta di chi ha poco dormito e il contegno di
persone distinte, che compiono un alto dovere di convenienza. Quando da
un vagone del treno di Firenze era discesa una signora, alta, svelta,
elegante, tutti si erano scappellati: poi un signore, magro, alto e
vecchio, discese: il gruppo si strinse, il signore scarno salutava, la
signora odorava, sorridendo, un mazzo di fiori che le avevano offerto.
Dai soprabiti aperti, adesso, era una gala di sparati bianchi: un
sorriso fioriva sulle facce d'un tratto colorite: a certe catenelle
d'orologio, le medagline erano quattro, cinque.

— Sua Eccellenza, — fu mormorato intorno.

Poi il gruppo si avviò, la delicata signora dando il braccio al vecchio
magro, i deputati e gli alti funzionari, dietro. L'onorevole Sangiorgio
tenne anch'esso dietro, macchinalmente, essendo rimasto solo.

Sulla Piazza Margherita egli vide il governo mettersi in carrozza, in
mezzo alla fila degli amici che si era schierata, salutando: la signora
chinava il capo dallo sportello, sorridendo: vide tutti andarsene, in
carrozza, dopo. Egli era solo, sulla vasta piazza. Per terra un umidore
come se avesse piovuto: tutto le finestre dell'_Albergo Continentale_
chiuse. A sinistra, il corso Margherita ancora in costruzione: mucchi di
tavoloni di travi e calcinacci. Gli _omnibus_ degli alberghi voltavano
per andarsene. Tre o quattro carrozze restavano, per indolenza dei
cocchieri, che fumavano, aspettando ancora. A dritta, un carosello
deserto, sbarrato e sopra un grande muro grezzo, un'accecante _réclame_
del _Popolo Romano_. Su tutto questo un'aria bassa e molle, una
nebbiuzza penetrante, un lieve sentore cattivo, l'aspetto nauseato e
nauseante di una città che appena si sveglia, nella gravezza flaccida
delle mattinate d'autunno, con quel fiato di febbre che pare aliti dalle
case.

L'onorevole Francesco Sangiorgio era molto pallido, e aveva freddo — nel
cuore.



II.


Quel giorno bisognava resistere e non andare a Montecitorio. Non pioveva
più, come per stanchezza di quella settimana di pioggia: un fiato molle
di acqua fluttuava ancora nell'aria, le strade erano fangose, il cielo
tutto bianco di nuvole: una gente smorta, chiusa nei soprabiti, coi
calzoni arrovesciati sul collo del piede e col viso incerto di chi non
si fida, girava per le vie. Da una finestra dell'_Albergo Milano_,
l'onorevole Sangiorgio guardava il palazzo del Parlamento, dipinto in
color legno chiaro, su cui la pioggia autunnale aveva impresso certe
larghe macchie più oscure, e cercava di raffermarsi nel suo proponimento
di non entrarvi in quel giorno.

Per sei giorni di pioggia, egli era stato lì dentro, la mattina, nel
pomeriggio, di sera. Come schiudeva la finestra, al mattino, scorgeva,
attraverso il velo fitto della pioggia, il grande palazzone panciuto,
che pareva volesse sbuzzar fuori per l'umidità. E si vestiva
macchinalmente, tenendovi gli occhi addosso, facendo conto di andarsene
per Roma, a vedere la città, a cercare un quartierino mobiliato, non
potendo durare alla vita di albergo; ma sulla porta dell'albergo,
aprendo il paracqua, una subita indolenza lo vinceva; la strada che
inclinava a Piazza Colonna, gli pareva sdrucciolevole e pericolosa: egli
dava una scrollata di spalle, ed entrava direttamente, sotto la pioggia
che incalzava, nel palazzone di Montecitorio. Ne riusciva solo per far
colazione, all'albergo, nel salone a terreno che fa angolo, dietro una
delle porte-finestre, dai grandi cristalli di un sol pezzo; e mangiando
lo stufatino di vitella alla romana, egli si voltava, ogni tanto, a
vedere chi entrasse in Parlamento.

Mangiava rapidamente, con la distrazione di un cervello che non è
sensibile al piacere dello stomaco. Sempre qualcuno che entrava lo
interessava. Ora gli sembrava che fosse il Sella, con la sua forte
persona, un po' quadrata, come se fosse tagliata con l'ascia, e la barba
ispida, di un nero opaco, che si brizzolava presto: e Sangiorgio si
levava su, come per corrergli dietro, a raggiungerlo. Ora gli sembrava
che fosse il Crispi dal grosso mustacchio bianco, dal viso colorito,
simile più a un vecchio generale brontolone, che a un focoso avvocato.
L'onorevole Sangiorgio finiva presto di mangiare, ròso dalla impazienza
di vedere davvicino questi uomini politici, questi capi-parte, e
scappava di nuovo a Montecitorio. Ma lì una crescente delusione lo
attendeva.

Egli girava dapertutto, cercando il Sella o il Crispi: ma l'aula era
vuota e fredda, sotto il lucernario, co' suoi banchi ancora coperti
delle fodere di tela estive, coi suoi tappeti di un color polvere,
orlati di azzurro, avendo l'aria di un pozzo profondo e umido, con una
luce altissima che vi pioveva, quasi filtrando attraverso un velo
d'acqua. Distrattamente egli saliva i cinque scalini che portano al
seggio presidenziale, e si fermava un momento, dietro il seggiolone, a
guardare i banchi, che stretti, giù, ascendevano verso le tribune,
allargandosi; gli veniva una voglia infantile di mettersi a baloccarsi
coi bottoni bianchi della soneria elettrica: per non cedervi,
ridiscendeva subito dall'altra parte e usciva dall'aula, portando seco
un po' della malinconia di quel grande cono rovesciato giallastro, così
tetro nella solitudine. Non trovava il Sella o il Crispi in nessun
posto, nè nel buio corridoio lungo e stretto, dove i deputati hanno i
loro cassetti per i progetti di legge e per le relazioni. Egli non
trovava il suo uomo politico nè alla _buvette_, nè al grande salone dei
_passi perduti_, nè alle stanze degli Uffici che dànno sulla piazza: un
silenzio, una solitudine, dappertutto, con qualche usciere che
gironzava, in uniforme, ma senza medaglia e con l'aria stanca delle
persone disoccupate. Or qua, or là, l'onorevole Sangiorgio incontrava il
questore della Camera che, era venuto a dare il cambio all'altro
questore, un patrizio che si godeva l'ottobre nel fasto della sua villa
magnatizia sul Lago Maggiore: e quest'altro, un barone abruzzese, dalla
serena aria signorile, dalla fluente barba bionda, dalla compostezza
mite, senza severità, del gentiluomo fedele alla consegna, se ne andava
invigilando, senza far mostra di nulla. Ogni volta che il barone
questore incontrava l'onorevole Sangiorgio, gli faceva un piccolo saluto
col capo: e mormorava:

«Onorevole».

E non diceva altro, passando. Da questa cortesia continua e da questa
continua riserva, l'onorevole Sangiorgio era come imbarazzato e
intimidito: avrebbe preferito o non esser salutato, come un estraneo, o
discorrere come un collega. Quella correttezza, amabile ma fredda, lo
sconcertava, cosicchè, in capo a una settimana, di questi saluti
compiti, senza lo scambio di una parola, l'onorevole Sangiorgio aveva
finito per arrossire, lievemente quando incontrava il questore, come se
costui lo sorprendesse in fallo. Poi, preso da una sfiducia di trovare
chi cercava, egli si rifugiava nella sala di lettura, intorno alla
grande tavola ovale, dove erano sparsi i giornali quotidiani. Lì,
trovava sempre un paio di deputati: un socialista, di Romagna, dalla
barbetta biondacastana e dall'occhio mobilissimo dietro gli occhiali,
che scriveva continuamente sopra un tavolinetto, lettere sopra lettere,
proclami focosi, forse; un deputato vecchio, col pizzo bianco e la
faccia rossa, che dormiva sempre, quietamente, in una poltrona, coi
piedi sopra una sedia, le mani in grembo e un giornale spiegato sul
petto.

Francesco Sangiorgio, vinto da quella quiete, da quell'aria calda, dalla
mollezza della grande poltrona di velluto azzurro cupo, appoggiava la
testa a una mano, tenendo sempre sollevato il numero del _Diritto_ o
dell'_Opinione_ che stava leggendo. Un sopore gli scendeva su tutti i
nervi, come rilassati in quell'ambiente caldo e silenzioso; ma nel
sopore, dietro la mano che gli copriva gli occhi, egli ascoltava. Se il
deputato socialista voltava il foglio, se il vecchio faceva gemere una
molla del suo seggiolone, Sangiorgio trasaliva: il timore di essere
sorpreso dormendo, lo scuoteva, come quell'antico deputato che non aveva
vergogna di distendere la sua senilità sfiaccolata e inattiva nella
sala, dormendo della grossa, con un respiro roco di vecchio catarroso.
Allora egli si alzava e in punta di piedi traversava la sala.

Il deputato socialista levava il capo, guardandolo fissamente coi suoi
occhi maliziosi di apostolo troppo furbo: forse cercava di indovinare la
stoffa di un discepolo, in quel deputato novellino e giovane; ma lo
sguardo freddo, la fronte bassa dove i capelli erano piantati duramente,
come una spazzola, tutta la fisonomia energica di Francesco Sangiorgio,
indicavano un carattere già formato, incapace di subire influenze, su
cui non avrebbe avuto presa il misticismo sociale. Sicchè Lamarca, il
deputato socialista, riabbassava il capo a scrivere.

L'onorevole Sangiorgio saliva al terzo piano, alla biblioteca. Nel
corridoio chiarissimo che ha le sue finestre proprio sul lucernario
dell'aula, due o tre impiegati, innanzi agli alti leggii di legno,
scrivevano in certi libroni, un catalogo generale delle opere che si
conservavano in biblioteca, e il loro lavoro era continuo, incessante:
essi scrivevano senza far rumore, senza parlare. Un deputatino, già
calvo, col naso rosso, era sempre innanzi a un leggio e sfogliava,
sfogliava, in uno di quei libroni, come se cercasse una opera
introvabile: piccolino, ritto sopra uno sgabello per arrivare
all'altezza del leggio, con un par d'occhi miopi che gli facevano
mettere il naso sulla carta per leggere, pareva sempre che dovesse
scomparire dentro il librone e restarvi schiacciato, come un segnacarte.
Nella fuga delle stanze, tutte piene di libri, l'onorevole Sangiorgio
non trovava alcuno: i tavolini coperti di carta, di penne, di calamai,
di matite, per gli studiosi, erano deserti.

In qualche angolo di stanza, innanzi a uno scaffale semivuoto,
arrampicato sopra una scala, l'erudito deputato bibliotecario, il
dantofilo paziente dalle sopracciglia nere, che sembravano tracciate da
un colpo di carbone troppo forte, rovistava fra i libri, furiosamente,
con la passione per quella biblioteca, che egli aveva tratta dal
disordine in cui giaceva. Nemmeno si voltava, l'onorevole deputato
bibliotecario, al passo cauto dell'onorevole Sangiorgio: o,
accorgendosene, si voltava e lo guardava con un paio d'occhi nerissimi e
vivi, ancora sbalorditi e pregni della ricerca letteraria che stava
facendo.

Francesco Sangiorgio, di nuovo imbarazzato, come un disturbatore, messo
in soggezione da quel silenzio e da quello sguardo stralunato del
bibliotecario, camminava anche più adagio, e nell'ultima stanza si
metteva a leggere i titoli delle nuove opere, a uno a uno, sbalordendosi
di tutta quella scienza amministrativa, economica, politica, che era
accumulata in quelle scansie. Poi, per non parere, prendeva un volume
del Buckle, _Storia della civilizzazione in Inghilterra_, il secondo e
leggeva.

Come gli amanti che non possono staccarsi dalla donna che amano,
subendone il fascino dolcissimo, cercano dei piccoli pretesti, per poter
restare accanto a lei, così egli si tratteneva nei corridoi a guardare
le carte geografiche in rilievo, nell'aula a studiare la distribuzione
dei posti, in sala di lettura a leggere i giornali, in biblioteca a
leggere un libro qualunque, di cui poco o nulla gli importava.

Con la naturale salvatichezza del suo spirito e la timidità del
provinciale, egli temeva, in cor suo, che quel questore che lo salutava
così compostamente, ma senza mai dirgli niente, che quegli uscieri così
indifferenti che lo vedevano passare, che quel bibliotecario così
amoroso della sua biblioteca, non lo giudicassero quello che realmente
era; un provinciale, un novellino, stordito dalla sua prima fortuna
politica, che fremeva di piacere a distendersi nei seggioloni
parlamentari e che non sapeva staccarsi da quel posto. Gli pareva che,
come agli amanti, gli si dovesse leggere, sulla faccia, la passione
unica.

Quel giorno non voleva metterci piede, a Montecitorio, non voleva per
nulla occuparsi del mondo parlamentare: aveva bisogno di veder Roma, di
trovar casa. Egli s'indugiava alla finestra, volendo mettersi in giro,
dopo colazione. Si era svegliato di buon'ora, desto da un frastuono di
voci e di risate, nella camera accanto. Una voce sonante, virile, tutta
scoppii, che pronunziava con un fortissimo accento napoletano, che
parlava un dialetto napoletano schiettissimo, frammezzato da grosse
risa, dalla mattina strepitava, esclamando, con due persone in visita
che erano poi sostituite da altre due, una sfilata di amici, di
sollecitatori che chiedevano, si raccomandavano, ripetevano
infinitamente la loro domanda, in dialetto napoletano, con quella
ostinazione verbosa partenopea, a cui l'on. Bulgaro, deputato per
Chiaia, secondo quartiere di Napoli, rispondeva con forti dinieghi. Si
udiva tutto attraverso la porta divisoria: l'onor. Sangiorgio,
involontariamente, ascoltava — Non poteva, no, proprio non poteva, l'on.
Bulgaro: che era forse il Padre Eterno da far grazia a tutti? Lo
lasciassero in pace, una buona volta! — E passeggiava per la stanza, col
suo pesante passo di biondone grasso che la vita borghese ha
intorpidito, togliendogli l'elasticità del bell'ufficialone vigoroso che
aveva sedotto tante belle creature, nel tempo buono. Ma quelli che
volevano qualche cosa, insistevano, supplicavano, esponevano i loro
fatti di famiglia, narravano i loro guai, ricominciando sempre, tanto
che l'onorevole Bulgaro, con la facile bonarietà napoletana, cedeva,
stanco, e diceva:

«Va bene, va bene: mo' vediamo, se si puol fare qualche cosa».

Quelli se ne andavano, soddisfatti, come se già avessero quello che
desideravano, e l'on. Bulgaro, rimasto solo, un minuto, sbuffava e
mormorava:

— Gesù, Gesù, che _schiattamento_! —

L'onorevole Sangiorgio si vergognò di aver tanto ascoltato, e scese a
colazione, tutto pensieroso. Si armava di forza per resistere alla
seduzione di Montecitorio: pensava che forse erano giunti molti
deputati, mancando solo venti giorni all'apertura della decimaquarta
legislatura; e già cedeva alla curiosità, un pretesto della sua
debolezza. Ma, per caso, una carrozza che passava, lentamente, sul
selciato bagnato, gli sbarrò la vista del portone: egli salì in quella
carrozza con un atto decisivo.

«Dove comanda?» chiese il cocchiere a quel passeggiero distratto, che
non gli dava l'indirizzo.

«A... san Pietro... sì, portami a San Pietro,» rispose Francesco
Sangiorgio.

Il tragitto fu lungo: le tre vie consecutive, Fontanella di Borghese,
Monte Brianzo, Tordinona, erano ingombre di veicoli e di pedoni,
strettissime, contorte, con quelle nere botteghe di ferravecchi, di
cartoleria, tutte sporche e polverose, con quei portoncini angusti, con
quegli angiporti paurosi. A Castel Sant'Angelo si respirava; ma sul
torbido e quasi immobile fiume giallastro, era una fittezza di casupole
brune, di casamenti bigi, dalle mille piccole finestre, dalle chiazze di
verde umido, sulle facciate, come se una schifosa lebbra li deturpasse,
dalle fondamenta nerastre di ruggine, che l'acqua bassa lasciava
scoperte: quel gomito di fiume, verso Trastevere, era ignobile. In Via
Borgo la quiete profonda clericale cominciava, coi palazzi bigiognoli
silenziosi, con le botteghe di oggetti sacri, statuette, immagini,
oleografie, rosari, crocifissi, su cui era pomposamente messa la
leggenda: _Oggetti di arte_.

Nella vastità della piazza, solitaria, deserta, che ascende verso la
chiesa, le due fontane zampillanti, sembravano due pennacchi bianchi, e
l'obelisco di mezzo un bastoncello; e intorno intorno era tutta una
bagnatura lieve, un umidiccio di acque quasi trapelanti a fior di suolo,
un silenzio di luogo disabitato. La carrozza girò intorno all'obelisco e
si fermò innanzi alla grande scalea. L'onorevole Sangiorgio guardava la
facciata di San Pietro, sembrandogli molto piccola e molto schiacciata.

«Non vole andare in chiesa?» domandò il cocchiere.

«.... Sì,» disse il deputato, scotendosi dalla sua distrazione.

Quando fu sulla soglia, si voltò a guardare la piazza, macchinalmente.
Aveva letto che un uomo sembrava una formica, a quella distanza; ma
nessun uomo comparve, e la piazza vuota, grandissima, cosparsa di acqua,
sotto il cielo biancastro, gli parve simile alla campagna romana, una
vastità di campagna brulla. Nella chiesa non provò nessuna impressione
mistica: egli era un indifferente in fatto di religione, non parlandone
mai, discutendo il Papato come una grande questione politica, lasciando
la fede e le pratiche religiose alle femmine. L'architettura di San
Pietro lo lasciò freddo. Avanzandosi, vedeva che la chiesa, s'ingrandiva
sempre più, ma questo inganno dell'armonia gli sembrava senza scopo,
dannoso. Alcuni tedeschi giravano, guardandosi attorno con una certa
severità, come se il loro rigido luteranesimo disdegnasse quella pompa
cristiana. Non una sedia, non un banco, non un prete, non un sagrestano,
spirito familiare, che spegnesse le candele o rifornisse d'acqua
benedetta le grosse pile vuote; i confessionali bruni, su cui leggevasi
a caratteri dorati: _Pro hispanica lingua, Pro gallica lingua, Pro
germanica lingua_, erano vuoti; per inginocchiarsi, solo lo scalino
della Confessione o quello dell'altare maggiore; se no, il freddo
pavimento.

Francesco Sangiorgio non capiva nulla ai monumenti dei pontefici: li
guardava senza intenderne la bellezza o la bruttezza. Aveva idee vaghe e
meschine in fatto di arte. Quello del Canova, coi leoni dormienti, gli
parve mediocre: quello di papa della Rovere, a terra, tutto di bronzo,
gli parve superbo e bello: quello del Bernini, la Morte di oro, il
tappeto di marmo rosso venato, il papa di marmo bianco, non gli urtò i
nervi, gli sembrò semplicemente bizzarro. Non sapeva se i quadri dipinti
sulle pale degli altari fossero di buoni autori o no, se fossero copie
od originali. Andava attorno, trattenendosi, quasi per obbligo,
distraendosi, pensando ad altro, non interessandosi a quella massa
enorme di pietra, glaciale, abbandonata, dove altre tre o quattro ombre
vagolavano. Infine, uscendo, il monumento ai due ultimi Stuart gli
sembrò una miseria.

«Andiamo al Colosseo,» disse risolutamente al cocchiere, buttandosi a
sedere sui cuscini.

Il cocchiere, ad allungare la corsa, poichè era preso a ora, e per
evitare la via per cui erano venuti, abbastanza disastrosa, lo portò per
le vecchie strade scure di Borgo Santo Spirito e del Governo Vecchio,
dove sta la popolazione vera romanesca, incapace di abbandonare i suoi
quartieri antichi e le sue case anguste e piene di scarafaggi. Il
cocchiere faceva andare il cavallo al piccolo passo di animale stanco,
avendo capito di portare un forestiero senza volontà. Anzi, al Foro
Traiano, egli allentò sempre più l'andatura del cavallo, e Sangiorgio
finse di ammirare quella larghezza di campo più basso del suolo, dove
fanno da tronchi d'albero le colonnette mozzate, grande camposanto di
gatti morti, grande vivaio di gatte selvagge, a cui le serve pietose di
via Magnanapoli e di Macel de' Corvi vengono a dare gli avanzi del loro
pranzo. Egli non potette vedere nè la rude facciata del Campidoglio, nè
l'arco di Settimio Severo, nè la Grecostasi, nè il tempio della Pace; nè
tutto il grande Foro Romano: si scavava continuamente da quelle parti:
non si poteva passare, nè andare sul Colle Palatino. Così spiegava il
cocchiere, passando per la via di Tor de' Conti. A un tratto la carrozza
si trovò sotto il Colosseo, senza che egli, il visitatore, l'avesse
visto da lontano, per la via che aveva dovuto prendere.

L'onorevole Sangiorgio _sentì_ che doveva scendere e penetrò sotto
l'arco di entrata, affondando nel terreno fangoso. Una pozza di acqua
piovana, larga, con gli orli verdicci di vegetazione, era sulla soglia
dell'Anfiteatro Flavio: nelle cavità delle pietre bianche sparse qua e
là, nelle scanalature degli scalini, perfino nella mano di un tronco di
statua, vi era dell'acqua piovana.

Francesco Sangiorgio, maravigliato di quella immensità di mura, cercava
di orientarsi: dov'era, dunque, il podio imperiale, dove erano la
tribuna delle vestali e quella dei sacerdoti? Arrivò nel centro, ma non
capì che fossero quelle costruzioni del sottosuolo. Sì, era maestoso il
Colosseo, ma la luce sporca di una giornata piovosa gli toglieva una
parte della maestà, mostrandone il lato sudicio e tutto lo sgretolamento
del tempo. La campagna attorno, fuori, era vastissima: una vegetazione
ricca di campagna umida: ma non un canto d'uccello, non una voce di
animale, non la voce di un uomo.

Sotto l'arco di una porta, una guardia municipale comparve, lenta,
indifferente, senza nemmanco accorgersi del visitatore. L'onorevole
Sangiorgio girò coscienziosamente pel corridoio circolare, un po' scuro.
Pensava che forse era più bello di notte, il Colosseo, con la luna che
dà un aspetto magico alle rovine e le fa sembrare più grandi, più meste.
Aveva fatto male a venirci di giorno, adesso la prima impressione era
irrimediabile: il Colosseo gli pareva una gran cosa immensa e inutile;
una costruzione di gente orgogliosa e folle. Un signore e una signora,
giovane e delicata lei, alto e robusto lui, giravano anch'essi pel
corridoio circolare dove si respira l'aria molle e fresca, come in un
sotterraneo: andavano lentamente, senza guardarsi, discorrendo
sottovoce, con le dita intrecciate. Ella chinò gli occhi, incontrando
quelli di Francesco Sangiorgio, e l'uomo si guardò come meravigliato e
importunato.

— Figuriamoci che sarà di sera, con la luna! — pensò l'onorevole
Sangiorgio. — I romani antichi hanno fatto il Colosseo, perchè gli
amanti moderni ci vengano a tubare.

E si strinse nelle spalle, nel suo segreto disprezzo dell'amore; il
disdegno del provinciale cui mancò il tempo, l'occasione, la voglia di
amare, il disdegno dell'uomo profondamente assorto in un altro
desiderio, che non era l'amore.

«Andiamo a Sangiovanni in Laterano?» chiese il cocchiere, pigliando lui
l'iniziativa.

«Andiamo pure».

E lo condusse prima a San Giovanni Laterano poi a Santamaria Maggiore,
deponendolo fedelmente alla porta. Ma quelle chiese erano più piccole di
San Pietro: non lo maravigliarono neppure per la loro grandezza: erano
più mistiche, forse, ma la sua anima era chiusa ai dolci misteri della
pietà religiosa: egli andava su e giù, come un sonnambulo. All'uscire,
il cocchiere, senza neppure più chiedergli nulla, lo portò, al piccolo
passo del suo ronzino, rifacendo la via già percorsa, e passando sotto
l'arco di Tito, alle colossali terme di Caracalla. Il deputato
Sangiorgio non si fermò a vedere le fotografie sulla porta: entrò
subito, come preso da un'impazienza.

Le mura salivano, altissime, coperte di cespugli d'erba e di spini, con
la solidità che sfida i secoli. Nel mezzo degli stanzoni vastissimi, il
suolo aveva ceduto, era diventato concavo, come quello di una vasca, e
vi si accoglieva un pantanello di acqua nerastra. Nel fondo della sala
dei giuochi e della ricreazione, era una statua seduta, decapitata, una
statua di donna pudicamente velata: Igea, forse. Sul lamentevole cielo
di novembre si disegnava un altissimo pezzo di muro sgretolato, uno
scoglio irto, a picco, che pareva salisse su, su, nella regione delle
nubi. Laggiù, nella campagna, restava ancora ritto, elegante, piccolino,
un tempio rotondo: a Venere, forse.

L'onorevole Sangiorgio, in quell'ampiezza di ambiente, provava un
malessere, aveva un freddo per le ossa, si sentiva piccolo, meschino, e
tutto questo lo mortificava, lo umiliava, lo faceva soffrire.

«No,» disse risolutamente al cocchiere, che gli offriva di condurlo
sulla Via Appia antica. «Andiamo in città».

Rientrando in Roma, s'abbrividiva. S'imbruniva quella molle giornata di
autunno, e a lui pareva di averne addosso tutto l'umidore filtrante,
tutto il colore biancastro e sporco, tutto il sottile strato di fango: e
parevagli anche di portare in sè tutta la mestizia, tutta la solitudine,
tutta la tetraggine di quelle rovine, piccole o grandi, meschine o
immani, tutta la vuotaggine, l'indifferentismo di quelle chiese inutili,
di quei grandi santi di pietra, che sembravano figure ieratiche senza
viscere, di quegli altari, glaciali, di marmi preziosi.

Che gli facevano a lui tutte le memorie del passato, tutti quei ricordi
ingombranti? Chi se ne curava del passato? Egli apparteneva al presente,
molto moderno, innamorato del suo tempo innamorato della vita, che deve
giungere, non di quella che è fuggita, capace di lotta quotidiana,
capace dei più forti sforzi per conquistare l'avvenire. Egli non
s'indeboliva coi rimpianti, non trovava che le cose andassero meglio
prima: egli amava la sua epoca, e la vedeva grande, ecco tutto, più
pensierosa, più attiva, più individuale. In quel crepuscolo che saliva
al cielo torbido di nuvole, egli si sentiva rimpicciolito, perduto dalla
pericolosa, snervante contemplazione del passato; un'oppressione
profonda gli scendeva sul petto, sull'anima; certo aveva preso le febbri
nell'acquitrino del Colosseo e delle Terme, nell'alito tepido e umido
delle chiese.

Ma a Piazza Sciarra i primi lumi a gas lo rianimarono. Un venditore di
giornali strillava il _Fanfulla_ e il _Bersagliere_.

Gruppi di gente erano fermi sui marciapiedi. Una vivezza di vita
cominciò a riscaldargli il sangue. Un signore, in un crocchio, davanti a
Ronzi e Singer, diceva forte che l'apertura del Parlamento era stabilita
pel venti novembre. Le trattorie del _Fagiano_ e delle _Colonne_, sotto
il portico di Veio, erano riboccanti di luce. Attraverso i vetri, parve
all'onorevole Sangiorgio di discernere, nella trattoria delle _Colonne_,
l'onorevole Zanardelli, di cui conosceva un ritratto. Invece di scendere
all'_Albergo Milano_, entrò nella trattoria delle _Colonne_, e si mise a
sedere, solo, a un tavolino, rimpetto all'onorevole intransigente di
Brescia. E mentre mangiava, l'onorevole Sangiorgio contemplava quel
lungo corpo dinoccolato e slogato, quella piccola testa nervosa e piena
di un'indomita volontà, quegli scatti convulsi, quell'armeggìo tutto
meridionale: l'onorevole di Brescia pranzava con tre altri commensali.
In un altro angolo pranzavano tre altri deputati, e i camerieri si
affaccendavano intorno a quei due tavolini di avventori conosciuti,
dimenticando l'onorevole Sangiorgio, tutto solo, ignoto. E in
quell'ambiente fittizio si sentiva rinascere, rinfrancare, riprendeva
forza pel combattimento: quando, nella sera che si avanzava, risalì a
piazza Montecitorio, nel vedere il palazzo del Parlamento, grande
nell'ombra, egli trasalì in tutto il suo essere sconvolto. Era là il suo
cuore.



III.


Nella bottega della guantaia, in via di Pietra, vi era ressa: la bella
padrona bionda e alta, una milanese allegra, le due commesse, le due
giovanettine magre, dagli occhi stanchi, non facevano che rivoltarsi
indietro, ogni minuto, con le braccia tese, a prendere un cassetto di
guanti dagli scaffali: esse curvavano il capo a scegliere con le dita
lunghe e agili, fra le paia, quel paio che cercavano. Tutti quelli che
entravano, chiusi nel _paletot_, sotto cui s'indovinava la marsina, col
bavero alzato e il cappello a staio, lucidissimo, chiedevano dei guanti
chiari o bianchi; un signore elegante, dalla tuba di raso, dal nastro
rosso e bianco sotto il goletto, un commendatore, infine, precisò quello
che voleva, li chiese color grigio tortorella. Una signora provinciale,
vestita di raso granato, con un cappellino bianco che l'affogava,
sceglieva lungamente un paio di guanti, discutendo, facendo impazientire
i tre o quattro che aspettavano, in un cantuccio: cercava il guanto
stretto, non le piaceva che facesse pieghe; poi blaterò contro la
debolezza dei bottoni, attaccati con un punto solo, che saltavano via
dopo un minuto. Quando le dissero il prezzo, sei lire, si scandalizzò,
assunse un contegno serio, disse che era cattiva la pelle per quel
prezzo così caro e uscì, senza guanti, con le labbra strette, portando
in mano il suo biglietto d'invito per una tribuna.

Un onorevole, forte, giovane, bruno, dai grossi mustacchi neri, un
meridionale, raccontava a un suo cliente che si trascinava dietro, come
all'ultimo momento si era trovato senza guanti, che queste padrone di
casa mandano tutto alla malora: e il cliente povero ascoltava, col vago
sorriso paziente dei confidenti, senza guanti, lui, non avendo forse il
denaro da comperarli.

Intanto era entrata una signora, scendendo da una carrozza: era alta,
con un bel viso tutto dipinto di carminio, di antimonio e di bianco, le
labbra sanguinanti, le sopracciglia azzurre a furia di esser nere, i
capelli di un biondo giallissimo. Tutta vestita di bianco, di raso, con
un cappello coperto di piume bianche, con un ombrellino di merletto
bianco, ella cercava un paio di guanti bianchi, a diciotto bottoni, e i
suoi braccialettini tintinnavano, salendo e scendendo sul braccio nudo:
ella esalava un acuto profumo di _white-rose_.

Un deputatino, piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di barba
nera e un par d'occhietti vividi, piccini, rotondi, la guardava di sotto
in su, e si lagnava, con un collega, un bel signore alto, dal mustacchio
biondastro brizzolato, dall'aria grande di sciocco decoroso, che la
Corte glielo faceva per dispetto: deputato democratico, dell'estrema
sinistra, veniva sempre fuori nel sorteggio dei deputati che dovevano
ricevere il Re e la Regina alla porta del Parlamento. Capite, lui,
deputato democratico, dover fare il saluto, la riverenza, offrire il
braccio ad una dama di Corte che non si conosce, che non vi parla, a cui
non si sa che cosa dire.

«Le donne eleganti mi piacciono», mormorò il deputato, col suo contegno
di stupido soddisfatto.

«Sarà; ma quando si pensa che quel vestito è fatto coi denari dei
contribuenti...» ribattè l'onorevole grassotto repubblicano.

E uscirono, guardando salire in carrozza la bella femmina dipinta: fra
le sfioccature di trina della sua cravatta, ella portava un bigliettino
roseo: andava a un'altra tribuna, ella, a una tribuna distinta.

«La vendetta del proletariato», disse il deputato democratico, tutto
compiaciuto.

Ora, nella bottega di guanti, la gente si accalcava. Erano facce
d'impiegati, dalla barba rasa di fresco, dalle cravatte bianche stirate
in casa, dai soprabiti pepe e sale, fumo di cannone, carbonella, sotto
cui i calzoni neri avevano un luccicore di panno conservato: erano facce
scialbe di alti funzionari, a cui il nastro verde dei SS. Maurizio e
Lazzaro dava un colorito anche più cadaverico: erano ogni sorta di tube
antiquate, a cui un colpo di ferro aveva dato un aspetto giovanile.

La guantaia bionda e ridente non si stancava, non perdeva mai la testa,
si chinava sempre amabilmente, rispondeva con una cortesia di venditrice
signorile settentrionale. Aveva consumata la sua provvisione di cravatte
bianche, e quando arrivò l'onorevole di Santamarta, un siciliano biondo,
dall'aria mefistofelica, a chiederne una, ella si desolò: il marchese di
Santamarta era un cliente di tutto l'anno. Proprio in quel momento aveva
finite le cravatte bianche: ma il Salvi, qui, in Piazza di Sciarra, ne
doveva avere. Il marchesino biondo ascoltava, un po' indolente, con gli
occhi azzurri femminili un po' smorti fra le palpebre, e il sorrisetto
scettico.

«E la signora marchesa era in Roma, si recava naturalmente al
Parlamento?».

«Si..., credo», rispondeva l'onorevole marchese, «credo che vi andrà con
sua sorella. Sono uscito presto di casa, per questa cravatta. Che
fastidio, sempre, queste rappresentazioni...».

E stracco, come se avesse compiuta una gran fatica, e un'altra
insopportabile gliene restasse da fare, se ne andò.

«Da questo Salvi, dite?» domandò dalla porta, con una voce seccata.

«Salvi, in Piazza Sciarra».

Per un momento, la bottega restò vuota. Le giovanette si riposavano, in
piedi, con un pallore sul volto, fra le scatole aperte dei guanti e i
fasci ammucchiati sul marmo; la stessa padrona era presa da un minuto di
lassezza, immobile, appoggiata con le mani al banco. Le pareva di essere
in una di quelle ardenti sere di carnevale, delle ultime, in cui Roma ha
tre balli aristocratici, quattro veglioni pubblici e otto o dieci
ricevimenti; e nella bottega è un affollarsi di giovanotti, di modiste,
di servitori, di cameriere, di mariti disperati, di amanti frettolosi.
Ma una famiglia di salernitani, padre, madre e figliuola, il padre
impiegato all'Interno, entrarono, e chiesero un paio di guanti per la
ragazza. Essi spiegarono subito che andavano alla Camera, che i
biglietti li avevano avuti, uno dal loro deputato barone Nicotera, il
barone, diceva semplicemente la madre; un altro lo avevano avuto da don
Filippo Leale, l'onorevole Leale, quello con la barba nera, che era
stato segretario generale, e il terzo biglietto lo aveva procurato un
usciere della Camera, del loro paese, un brav'uomo, con cinque medaglie:
oh! i biglietti non si avevano facilmente, ve n'era una caccia! una
signora, zia di un deputato, che essi conoscevano, non aveva potuto
averlo. Erano un po' preoccupati, visto il colore diverso dei tre
biglietti, tre tribune diverse: ma via, non si sarebbero perduti nel
Parlamento.

«Credo che bisognerà che vadano per tre vie diverse,» osservò
placidamente la guantaia, a quel profluvio di parole, calzando a stento
la mano rossa e paffuta della ragazza. Il papà guardò sua moglie, con
una cera turbata.

Adesso, la bottega si empiva di nuovo, di gente frettolosa, nervosa, che
non poteva aspettare, che batteva i piedi dall'impazienza, che lacerava
i guanti per metterli presto. Davanti al banco era una doppia fila di
avventori, che si accalcavano gli uni sugli altri: sul banco una grande
confusione di scatole aperte, uno sfasciamento di mucchi di guanti: un
odore forte di pelle, quell'acuto odore tutto femminile che ubbriaca.


Il gaio sole autunnale, in quella mattinata tutta gioconda, saliva sulle
case di via della Colonna, sulle case di via degli Orfanelli, e
illuminava di traverso Piazza Colonna: la colonna Antonina pareva nera e
vecchia in quello spolverio di luce bionda che la circondava, e si
delineava, tutta raggricchiata, come gobba, sulla facciata rossa del
palazzo di Piombino.

Nell'aria limpida era come uno scintillio di atomi dorati. Non spirava
un'aura di vento: una dolcezza immobile avvolgeva le strade e le case,
un ambiente letificato di sole. Dal liquorista Ronzi e Singer, al _Club
delle Cacce_, al grande balcone di donna Teresa Boncompagni, principessa
di Venosa e dama della Regina, al _Circolo Nazionale_, le bandiere
tricolori pendevano spiegate: all'angolo del palazzo Chigi, sul balcone
dell'ambasciata austriaca, le due bandiere si univano, fraternamente.
Nella nitidezza della luce, in cui tutto pareva vibrasse, a contorni
precisi e taglienti, i tre colori, vividi, gittavano una nota acuta,
allegrissima: e il tono giallo del sabbione sparso per il Corso e per la
salita di Piazza Colonna sino al Palazzo Montecitorio, si rinforzava.
Sulla terrazza del _Circolo Nazionale_, era una fittezza di ombrellini
rossi, bianchi, azzurri, come imbionditi dal sole. Dai due lati del
Corso, da Via Cacciabove, da Via della Missione, da Via Bergamaschi, era
un accorrere continuo di gente, a frotte, a gruppi un luccicare di tube
nere, uno scintillio di spalline dorate, un movimento ondeggiante di
piume bianche e rosee, sui cappelli femminili.

Alle nove e mezzo il cordone militare era già a tutti gli sbocchi, e
salendo verso Montecitorio, si arrotondava attorno all'obelisco sino
agli Uffici del Vicario. A ogni sbocco era un continuo parlamentare fra
gli ufficiali e coloro che volevano passare senza biglietto: ognuno di
loro cercava un deputato: eccolo, lo vedeva sotto l'atrio del
Parlamento, gli faceva dei cenni, ma che! Quello non si voltava! Dietro
il cordone, da tutte le parti, la folla aspettatrice si assiepava,
profonda, iridescente nella chiarezza mattinale; qua e là un abito rosso
femminile, un abito bianco facevano macchia. Di qua dal cordone era un
grande spazio libero, innanzi al portone, tutto cosparso di sabbia: ogni
tanto qualche signore dal soprabito aperto, qualche signora in elegante
abito di mattina, lo attraversavano, a piedi, lentamente per farsi
meglio vedere, discorrendo fra loro, sentendo il piacere di sapersi
invidiati dalla folla senza biglietto. Per un momento, vicino ai quattro
scalini del portone, vi fu un gruppo di tre signore: una, vestita di
nero, brillava tutta, al sole, di perline nere, una corazza lucidissima
le imprigionava il busto: l'altra vestita di un bigio delicato, aveva un
velo bianco sul viso: la terza era vestita di quell'azzurro ferrigno,
allora in moda, _elettrico_, tutte tre si erano incontrate sulla soglia,
si salutavano, si prodigavano le cortesie, ridevano, s'inchinavano,
inarcate sui loro stivaletti dorati, sentendosi guardate dalla gente,
ammirate, invidiate, prolungando quel minuto di piacere; poi, l'una dopo
l'altra, scomparvero dentro Montecitorio. Come l'ora si approssimava, la
folla si pigiava da tutte le parti, e aveva come un moto di marea, un
flusso e riflusso che andava a battere contro il muro del cordone
militare. Tutte le finestre dell'_Albergo Milano_ erano gremite di
teste; alle soffitte comparivano le teste arricciate dei camerieri e le
cuffie bianche delle cameriere; i grandi finestroni della _Pensione
dell'Unione_, le piccole finestre basse del _Fanfulla_, le finestre del
palazzo Wedekind, avevano tre, quattro file di persone, le une buttate
sulle altre: e in tutte le vie adiacenti, la piazzetta degli Orfanelli,
la viottola della Guglia, gli Uffici del Vicario, i due capi della Via
della Missione, era ancora un brulichìo di persone ai balconi, alle
terrazze, alle finestre. Sulle sedie, sui tavolini del liquorista
Aragno, delle donne erano salite.

Intanto, come l'ora della solenne apertura si approssimava, una fila di
persone, d'invitati, attraversa lo spazio libero, nel sole, facendo
scricchiolare il sabbione: ogni tanto, a un occhiello, luccicava una
filza di decorazioni. Le carrozze salivano al trotto dal Corso, senza
nessun rumore di ruote, giravano attorno all'obelisco, con una curva
molle, e si fermavano innanzi al portone: erano le carrozze dei
ministri, dei senatori, del corpo diplomatico, qualche vecchione ne
scendeva, sorretto da un servitore e da un segretario, qualche uniforme
bianca o rossa compariva, per un istante, poi spariva nel portone.

Sulla piccola piattaforma, due giornalisti, in marsina e col cappellino
floscio, prendevano delle note, i nomi di coloro che passavano: l'uno
piccolo, con la barbetta appuntita, bionda e brizzolata di bianco, le
lenti d'oro, l'aria imperturbabile: l'altro, anche piccolo, tarchiato,
pallidissimo, con un mustacchietto da collegiale e il sorriso di chi
disegna qualche cosa di ridicolo, i direttori dei due maggiori giornali
romani, che compivano personalmente il lavoro di quella importante
giornata, e se la ridevano fra loro, amichevolmente, di quelle teste
strane che si vedevan passare.

Il sole saliva sull'angolo della _Pensione dell'Unione_, cominciando a
conquistare la piazza di Montecitorio e a quella conquista lenta,
corrispondeva un moto della gente, come una espansione di contentezza, e
ogni tanto la cappa tesa e rotonda di un ombrellino si levava. La
processione degli invitati continuava, attraverso il grande circuito
libero: ora essi si affrettavano con un principio d'impazienza,
spingendosi un poco, sapendo di arrivar troppo tardi, per aver un buon
posto. La folla delle strade, dei vicoli, dei balconi, delle finestre,
sembrava talvolta come colpita da un'improvvisa immobilità, quasi un
incantesimo l'avesse pietrificata, come se una immensa invisibile
macchina fotografica stesse fotografandola; e si potevano discernere le
facce immote, gli occhi sbarrati, le file ammassate, i bimbi tenuti in
collo dalle mamme, una carrozza da nolo, ferma, fra la gente, su cui
erano salite venti persone, in piedi. Poi questo incantesimo si
infrangeva, la folla aveva quell'agitazione di colori che si muovono,
stando sempre allo stesso posto: un movimento circolare, come lo
snodamento degli anelli di un lombrico. Un ragazzetto era salito sul
piedistallo, alto, dell'obelisco, e di là, attaccato al grosso tronco di
pietra, si divertiva a far dei giuochi di equilibrio.

Infine il sole arrivò alla linea dei soldati, pigliandoli di sbieco:
prima ne illuminò le ghette bianche, poi il cappotto turchiniccio, poi
il _kepì_ di pelle nera e finalmente battè, linea smagliante, sulle
canne dei fucili. E di lontano, un rombo lieve, breve, arrivò: l'eco di
una cannonata. E dall'uno all'altro di tutti gli astanti, dai balconi
alle finestre, dalle strade ai vicoli, fu un fluttuamento, un sospiro
enorme di soddisfazione:

— Il corteo, il corteo, il corteo, — diceva, sottovoce, con un clamore
crescente, la folla.

Nell'aula fu anche udito il rombo del cannone: per un istante vi regnò
un silenzio perfetto. Poi un mormorio crebbe, si elevò, i ventagli
ricominciarono ad agitarsi, il chiacchierio sottile e penetrante
femminile, il passo di coloro che giravano pel corridoio, cercando
invano un posto, il fruscio degli abiti serici, si confusero, si fusero.
L'aula era trasformata. Circolarmente, mediante una impalcatura,
l'altezza dei settori era stata elevata sin quasi a livello delle
tribune, formando così una grande tribuna provvisoria, dove quattro file
profonde di pubblico, sedevano proprio dietro le spalle dei deputati
dell'ultimo banco; sulle due scale laterali, quelle che gli uscieri
conoscono per doverle salire e scendere cento volte al giorno, nelle ore
della seduta, erano due falde fittissime di pubblico, due strisce larghe
e nutrite che andavano, dall'alto delle tribune, fino giù, nell'aula, le
signore sedute sugli scalini, gli uomini che avevano ceduto galantemente
il loro posto, addossati al muro.

Attorno attorno, tutte le tribune erano zeppe, sino alle ultime file;
quella della stampa, la migliore per udire i discorsi, anch'essa era
stata ceduta al pubblico, i giornalisti erano dispersi, giù ai posti
migliori; quella destinata alle signore era pienissima, ma sembrava una
ironia, tutti ridevano che ci fosse una piccola tribuna speciale per le
signore, quando esse avevano invaso tutto, erano dappertutto, alle
spalle dei deputati, fin quasi nell'emiciclo, arse dalla indomabile
curiosità muliebre; la tribuna dei militari era tutta un brillare di
spalline e di galloni; in quella della presidenza era un gran tender di
colli, un arretrarsi di gente desolata, delusa nelle sue speranze; le
due tribune erano poste sopra il baldacchino reale, vedevano l'aula, non
vedevano il Re, nascosto dalla cupola. E le due tribune grandissime
degli angoli, quella del corpo diplomatico e quella dei senatori,
rimanevano vuote, nella loro ombra profonda che dava il velluto azzurro
cupo, sul fondo a legno delle pareti.

Nell'emiciclo era scomparso il banco delle commissioni, l'arco di
cerchio parallello ai settori; era scomparso il lungo banco dei
ministri, quello che gli oppositori a oltranza chiamano il banco degli
imputati: il piccolo scrittoio di mezzo, dove i tre stenografi scrivono,
dandosi il cambio ogni cinque minuti, non vi era più. Tutto il palco
della presidenza era scomparso. Al suo posto, una piattaforma larga a
cui si ascendeva per quattro scalini, coperta da un tappeto rosso, si
elevava: e su questa un enorme baldacchino di velluto rosso, frangiato
d'oro, diviso in tre scompartimenti. Tutto questo rosso prendeva una
grande cupezza dalla cupola che si avanzava molto e in quella penombra
sacra di cappella, l'oro della poltrona reale luccicava come un
reliquiario. A un livello più basso, fuori del baldacchino, a destra e a
sinistra, vi erano due altre poltrone per i membri della famiglia reale.

I deputati stavano aggruppati nell'emiciclo, ritti su per le scalettine
dei settori, riuniti presso le due scalee, a discorrere con le signore:
alcuni erano saliti all'ultima fila e voltavano le spalle all'aula,
discorrendo allegramente con le donne di una grande tribuna di legno,
salutando un conoscente, sorridendo a un amico, ammiccando familiarmente
a un cliente, a un elettore cui avevano procurato un biglietto. I
dialoghi s'incrociavano, leggieri, frivoli, fra quelle donnine piene di
frasi puerili, che si meravigliavano di tutto, che rideano di tutto, e
quei deputati che cercavano di secondarle. Una signora brunettina,
elegantissima, con un cappellino tutto intrecciato d'oro, si faceva
indicare i deputati dall'onorevole Rosario Scalìa un deputato siciliano,
tutto serio, corretto nel taglio del vestito, con l'aria di ufficiale in
borghese, e una piccolissima margherita all'occhiello; e alle
spiegazioni tranquille dell'onorevole Scalìa, la brunettina si chinava,
guardava con l'occhialetto, appuntando il musetto roseo e ridacchiando.
— Oh! era quello l'onorevole Cavalieri, il calabrese, così ingenuamente
goffo? — Un patriota? — Sì, capiva bene, ammetteva i suoi meriti, ma
aveva troppe decorazioni! — E l'omettino magro, dalla spazzola di
capelli biondi tetro e dagli occhi grigi, era quello Guido Dalma, il
deputato letterato che parlava alla Camera di Ofelia e alle signore
della fondiaria? Perchè non lo facevano Ministro quel Guido Dalma? Ci
vuol molto a essere ministro. Ma era veramente una cosa seria, la
passione della politica? — E l'onorevole Scalìa, un po' infastidito da
quel rapido vaniloquio, cercava di provare alla signora che la politica
poteva sembrare un scherzo a chi non la prendeva sul serio, ma che era
una nobile passione: ella scoteva il capo, non convinta, ridendo del suo
bel riso frivolo, e l'onorevole Scalìa mostrava sul viso una
disattenzione crescente, si stancava di quel cicaleccio, guardando
l'aula, trattenendosi ancora, per cortesia.

Il pubblico non s'impazientiva per l'attesa. Le donne erano felici di
star sedute, di poter vedere, di poter essere vedute, sarebbero rimaste
là fino alla sera, agitando i ventagli crollando il capo per far
brillare le perline dei capelli, agitando gli occhialetti da teatro; gli
uomini si consolavano, mutuamente, di quella _toilette_ mattinale che
avevano dovuto fare e che dava loro un carattere di pura eleganza,
qualcuno fingeva l'annoiato, ma gli inviti a colazione circolavano, i
convegni al caffè fioccavano, per poter commentare la cerimonia.

La folla che popolava l'aula e le tribune e i corridoietti e tutto lo
spazio dove un uomo può stare, era allegra, con una piccola cima di
esaltazione nervosa, un principio di ubbriachezza. Molte di quelle
persone non avevano mai visto il Parlamento e fingevano di non guardare
intorno, ma in realtà quell'ambiente le esaltava. Pure nulla di gaio
aveva l'aula: e conservava il suo aspetto solito. Avevano certo lavato i
cristalli del lucernario, ma la luce di quella mattinata bionda vi
filtrava malinconica, vi si attenuava, come la luce fredda, biancastra e
umida che passa attraverso un acquario; e le pareti color legno, coi
fregi di un azzurro cupo, erano fatte apposta per non riflettere nulla,
per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva
e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione
scialba e monotona.

Così avveniva, affacciandosi da una tribuna, quel tale fenomeno ottico,
che è la prima delusione di chi visita il Parlamento italiano: tutte le
facce avevano un uguale colorito, si assomigliavano, non si potevano
riconoscere le persone: era un insieme monotono, senza disegno, senza
rilievo, che stancava la vista, per cui uno si tirava indietro,
ristucco.

Ma questo ambiente che unificava tanti visi, tante età, tante condizioni
e tante acconciature diverse, questa specie di livello che le più
ribelli teste subivano, questa impronta comune cui niuno, entrato
nell'aula, poteva sfuggire, produceva una impressione immensa: l'aula
sembrava un grande luogo sacro che annientava l'individuo, un recinto
che domava l'intelligenza, le volontà e i caratteri, in cui per
rialzarsi, per essere _uno_, bisognava avere il profondo e fervido
ardore mistico o l'audacia del sacrilega che rovescia l'altare. E il
grande baldacchino reale, tutto rosso scuro, con le pieghe diritte e
rigide che tendevano il velluto, con la pesante frangia d'oro e l'aquila
d'oro che ne riuniva le pieghe sotto gli artigli, con l'ampia poltrona
in una penombra mistica, aveva un aspetto ieratico, come il tabernacolo,
come il sacrario, dove una potenza sconfinata si nascondeva.

A un tratto solo, tutti i deputati furono al loro posto, in piedi, le
tribune caddero in un grande silenzio, mentre fuori le trombe squillanti
dei bersaglieri sonavano la fanfara reale. Poi un lunghissimo applauso
scoppiò, applauso sordo e prolungato di mani inguantate: le signore, in
piedi, applaudivano anche esse, piegandosi sulle spalle dei deputati,
per meglio vedere. Ritta nella tribuna diplomatica, circondata dalle sue
dame, la Regina salutava in giro: e la bianchezza perlacea del volto
vinceva la intonazione legnosa del fondo. Ella appariva fresca e
giovane, tutta serena, sotto la falda di paglia dorata del suo cappello,
che un piumetto color fragola adornava; e mentre sembrava finita
l'acclamazione, e la Regina sedeva, più innanzi del suo squadrone di
dame, tutto il pubblico fu ripreso da un riflusso di ammirazione per
quella poetica figura, un nuovo applauso strepitoso, assordante, salutò
ancora la Regina. E un'agitazione regnava dovunque: sulla scalea a
destra, le signore si desolavano, erano sotto la tribuna del corpo
diplomatico, non vedevano la Regina; quelle della presidenza, erano
felici, non vedevano il Re, è vero, pur troppo, ma vedevano la Regina, a
due metri di distanza; quelle della scalea a sinistra perdevano una metà
dello spettacolo, tutto il corpo diplomatico, in grande uniforme nella
tribuna dei senatori, con le mogli degli ambasciatori e dei ministri
italiani — e le tribune del centro, della stampa, del pubblico, dei
militari, degli impiegati, vedevano tutto, ma erano lontane; l'armeggio
degli occhialini era continuo. La folla, presa da una nervosità, si
agitava, si piegava, a destra, a sinistra; dei dialoghi di giornalisti
si udivano sopra le teste: — Vi era l'ambasciatore di Germania? — Sì,
eccolo là, con la sua faccia bonaria, dal mustacchio bianco e dagli
occhi dolci — Quella dama vestita di violetto, con grandi occhi neri,
chi era dunque, dietro donna Vittoria Colonna? — Donna Lavinia Taverna,
una Piombino. E tutte le signore erano vinte da un esaltamento, dei nomi
femminili erano susurrati, dei brani di descrizione di _toilette_ erano
forniti: quelle più in vista cercavano di essere salutate dalle mogli
dei ministri, dalle ambasciatrici, dalle dame: e un mormorìo crescente,
un chiedere, un rispondere, un discutere sottovoce, facevano come il
ronzio di mille mosconi nell'aria dell'aula.

Il Re entrò, improvvisamente: non era giunto il suono della marcia
reale. Egli comparve dalla porta di destra, in mezzo alla sua Casa, ai
ministri, ai dieci deputati che lo avevano ricevuto, e in tre passi fu
sotto al baldacchino, avanti alla poltrona: due o tre volte si voltò a
destra, a sinistra, con quei suoi scatti nervosi, di temperamento
irrequieto e mal represso. L'assemblea e il pubblico lo salutarono, ed
egli rispose, agitando l'elmo dorato dall'alto pennacchio fluente e
bianco, tenendo nella mano destra un rotoletto di carta. Sulla giubba di
generale aveva solo gli ordini militari stranieri e la medaglia al valor
militare. E con l'uniforme stretta e il goletto bianco, i calzoni
strettissimi, nell'ombra della cupola rossa, con l'elmo appoggiato sul
polso e l'attitudine di un soldato alla posizione, egli sembrava una
figura eccezionalmente militare, magra, bruna, robusta, sempre pronta a
salire a cavallo, sempre disposta a dormire sotto la tenda: sembrava una
di quelle figure degli antichi ritratti di principi soldati, dai fieri
occhi aquilini, dal viso pallido che stringono nel pugno una pergamena
arrotolata, dove è disegnato il piano di una fortificazione. Il vecchio
principe di Savoia-Carignano, zio del re, grasso e calvo, si mise presso
la poltrona a destra: appoggiava la persona stracca e floscia al
bracciuolo della poltrona, ma non sedeva, per rispetto; il giovane duca
di Genova, fratello della Regina e cugino del Re, prese posto, a
sinistra: e nell'emiciclo, a destra il gruppo dei ministri; a sinistra
la Casa reale.

Nel silenzio universale, si elevò la voce un po' rauca del re: e certo,
molti, fra quegli uomini politici dovettero trasalire, ricordando, in
quella assemblea stessa, un'altra voce, un po' velata, un po' stridula,
la voce fatta per comandare nelle battaglie e che pronunziava le leali
parole, con cui egli suggellava il patto nazionale. E tutte le facce dei
deputati si erano subitaneamente impensierite, rimanevano immote, con
gli occhi fissi in quello del Re: tutto il pubblico femminile taceva,
come colpito da un improvviso senso di rispetto. Nel silenzio profondo,
in quella immobilità di tutta una folla, si udiva perfino il respiro del
Re, fra una frase e un'altra di quel messaggio reale; e la voce in cui
pareva vibrasse quella paterna, aveva certi scoppi improvvisi, certi
rilievi bizzarri d'intonazione. La Regina, dalla tribuna diplomatica,
ascoltava, intensamente, senza sorridere, col bel viso piegato e
concentrato nella attenzione: le dame ascoltavano, senza batter
palpebra; la tribuna degli ambasciatori, tutta, avea l'aria sorridente
di chi già sa; le tribune del pubblico, attorno attorno, ascoltavano e
ogni tanto, nell'assemblea, correva come un fremito di soddisfazione: il
discorso fu interrotto due volte dagli applausi. A tratti, qualche
parola più acuta pareva s'involasse, alata, sotto il lucernario: _la
pace... l'amministrazione della giustizia... il riscatto finanziario..._
ma subito la voce si abbassava, come se il Re disdegnasse l'applauso
finale che corona le frasi; e in fondo egli si affrettò, come se fosse
stanco, le ultime parole furono mormorate, più che lette: egli riprese
subito il suo elmo dalla poltrona, ove lo aveva deposto, mentre
l'assemblea gridava: _Viva il re!_ Ma quella attenzione aveva teso gli
animi e un senso di turbamento li invadeva: l'avvenimento di quella
giornata, che prima era sembrato uno spettacolo curioso, ora si
ingrandiva di proporzioni: la parola reale, in quella unica volta che il
re costituzionale parla in pubblico, dice la sua volontà e le sue
intenzioni, diventava una promessa solenne. Qualche signora più
sensibile aveva un piccolo sudor freddo alle tempie: altre si davano dei
colpettini di ventaglio sulla mano, gli occhi distratti, mormorando: _è
bello, è bello_: e le più romantiche guardavano con gli occhi assorti la
Regina, a discernerne la emozione.

Poi il giuramento cominciò. Il vecchio Depretis si era avanzato un poco
e aveva letta la formola per i senatori e i deputati, scandendo le
parole come se avesse voluto farle imprimere nella mente di coloro che
ascoltavano. La massa dei deputati e dei senatori si profilava nera e
bianca, dall'alto in basso dei settori: massa di teste energiche e di
teste miserabili, di occhi scintillanti e di sguardi di pesce morto, di
crani calvi e lucidi e di criniere forti, leonine, massa raggruppata al
primo banco, in un semicerchio amplissimo: e sembrava che fosse financo
troppo angusto quello spazio per la forza erompente di quelle volontà e
di quei cervelli.

Il Re squadrava la rappresentanza nazionale; frattanto, il primo
senatore, il duca di Genova, giurò, marinarescamente, con una voce
vibrata, con un gesto energico: lo applaudirono. Poi giurarono otto
nuovi senatori e un movimento vi fu solo al giuramento di fedeltà del
grande latinista piemontese, un clericale. Quello che interessava era il
giuramento dei deputati. Depretis ne diceva il nome e il cognome, e
aspettava un momentino; e da un banco una voce fioca o una voce sonora
rispondeva: _giuro_. In quel minuto di attesa, gli animi restavano
sospesi; il Re cercava con gli occhi colui che doveva giurare.

I vecchi patrioti giuravano militarmente, mettendo la mano nuda sul
petto; la loro fede era provata: gli avvocati giuravano con una voce
sottile e un tono acuto. Quando arrivò al proprio nome, Depretis cavò la
mano destra di sotto l'uniforme ministeriale, la stese e giurò:
l'assemblea rise del vecchio astuto che la dominava. Il ministro
continuò a dire i nomi, e nell'attenzione generale, le voci commosse e
le voci tranquille si facevano udire: ora come sorgenti dalle viscere
della terra, ora come discendenti dal lucernario. I vecchi parlamentari
giuravano, stendendo semplicemente la mano e pronunziando sottovoce la
parola: i deputati radicali, che si erano lungamente preparati a quel
passo difficile, giuravano presto presto, come per sbarazzarsi di un
peso. E le signore ascoltavano, tutte commosse, tutte prese da
un'invincibile tenerezza, esse che hanno inventato ogni sorta di
giuramenti falsi, vinte da una emozione innanzi a quelle promesse così
solenni che cinquecento uomini facevano a un solo uomo, e a tutto il
paese.

Ma i deputati nuovi erano i più turbati: quell'apparato reale e
parlamentare, quel pubblico femminile e maschile, quel messaggio del re,
il giuramento degli altri deputati, tutto questo ne scoteva i nervi. E
coloro che si erano preparati a farla da persone spiritose, a giurar
come se nulla fosse, tremavano d'impazienza, mentre il loro nome si
approssimava, e poi cavavano un fil di voce che faceva, sorridere il
vicino e che la folla non arrivava a udire. Qualcuno giocava
stizzosamente con la catenella dell'orologio, e quando lo chiamavano, si
svegliava come da un torpore, gittava un _giuro_ affogato, frettoloso e
ricadeva a sedere. Fra l'onorevole Salviati, un duca fiorentino, e il
deputato Santini, giurò, con voce strozzata, che niuno intese,
l'onorevole Francesco Sangiorgio.


Sulla porta i deputati si assiepavano a veder montare in carrozza la
Regina e il Re. Più fitta, più densa, la gente ondeggiava nella Piazza
di Montecitorio tutta soleggiata, e quando la carrozza si mosse e la
Regina salutò in giro e il Re agitò l'elmo piumato, dalle strade, dalle
case, dai balconi, dai terrazzi, dalle soffitte, un'acclamazione
frenetica sorse, si confuse, salì nell'aria bionda, nel sole, sino al
cielo.



IV.


Il portoncino segnato col numero 50 in via Angelo Custode, era discosto
due botteghe da un palazzo magnatizio, bigio, triste, dal portone
chiuso. Francesco Sangiorgio esitò un momento: non vi era nessuno cui
chiedere informazioni. Uno dei due battenti del portoncino era chiuso,
l'altro socchiuso; il deputato si cacciò per un andito semibuio e vi
fece sei o sette passi, sino a che arrivò a un principio di scale. Sentì
che erano a chiocciola, e per non correre il rischio di rompersi il
collo, accese un fiammifero. Ma al primo piano un po' di luce si fece:
al secondo ci si vedeva, quasi. Su quel pianerottolo davano tre porte e
sopra quella di mezzo, era attaccato, con due spilli piegati, un sudicio
biglietto da visita che portava un nome e un cognome: _Alessandro
Bertocchini_. Sangiorgio consultò il pezzetto di carta che gli aveva
dato il sensale delle case: era proprio quel nome. Picchiò.

Per qualche tempo non gli vennero ad aprire: picchiò di nuovo,
debolmente. Poi un gran rumore di chiavistelli, di catenacci, di paletti
aperti e rinchiusi, s'intese, ma alla porta di destra: e infine,
chetamente quella di mezzo, si schiuse un pocolino. Un uomo alto, con un
grande naso rosso e due falde di capelli lucidi attaccati alle tempie,
comparve: l'onorevole si toccò il cappello e domandò se vi fosse il
signor Alessandro Bertocchini. Era appunto lui, l'uomo dal naso
peperonico e dal viso scialbo. «Non si affittava un quartino mobiliato,
a quel terzo piano?» Il sor Alessandro squadrò l'onorevole Sangiorgio,
adocchiò fra lume e lustro la medaglia d'oro e disse: «Sicuro, c'è un
quartino da affittare, mobiliato: vado a prendere le chiavi.» E
ficcandosi in tasca le mani rovinate dai geloni, piantò il deputato sul
pianerottolo. Dalla porta aperta un'anticameruccia si vedeva, con una
sedia, un tavolino e un lume: e un odore di stantìo, di casa vecchia, di
di polvere antica, pizzicava la gola.

«Eccomi qua», mormorò, col suo filo di voce falsa, il sor Alessandro.

E aprì la porta a sinistra. Vi era uno stanzino buio con una sedia: poi
una stanza lunga e stretta. Alla lunghezza di una parete era appoggiato
un divano di lana cremisi, con la spalliera ed i bracciuoli, di legno
tinto e smorto: ai due lati del divano due poltrone di lana cremisi,
coperte di pezzi di merletto all'uncinetto: davanti un tappetino
consunto. All'altra lunghezza della parete, dirimpetto, era appoggiata
una _consolida_ dal marmo bianco, su cui stavano due grandi lampade a
petrolio, un orologio fermo e tre fotografie nelle loro cornici. Al
muro, uno specchio lungo e stretto, un po' verdastro, nella cui cornice
erano ficcate, come ornamento, certe piccole oleografie, rosse gialle e
azzurre, il Re, la Regina, e il principe ereditario: accanto alla
_consolida_, due sedie di legno e di lana cremisi. Dinanzi al balcone un
tavolino da scrivere, su cui era disteso un tappeto di lana, lavorato
all'uncinetto, a stelle verdi, violette, scarlatte, arancione, indaco,
in mezzo alle quali era cucita una figurina scarlatta di scatoletta di
fiammiferi. Al balcone da cui penetrava una luce scarsa, erano attaccate
due grame tende di merletto, che uscivano da un panneggiamento di lana
cremisi. Due altre sedie di legno nero compivano il mobilio.

«Questo è il salotto», disse il sor Alessandro, con la sua voce
strascicata ed esile, guardando in aria, con le mani freddolosamente
cacciate nelle tasche della giacchetta.

Francesco Sangiorgio si accostò al balcone: dava sopra una corte
interna, su cui molti altri balconi e terrazzini, e logge coperte tutte
di legno, e finestrini sporgevano. Dietro i tetti di una casa un ramo
secco di albero spuntava. Dal fondo del cortile saliva un forte odore di
cucina, di rigovernatura e di acqua dove avevano bollito dei cavoli. Il
sor Alessandro non diceva nulla, conservava la sua aria indifferente,
lasciando che il deputato esaminasse il quartino.

La camera da letto era accanto, lunga e stretta come il salotto. Nel
senso della lunghezza vi era il letto. Innanzi al letto un tappetino,
come nel salotto, e accanto una poltrona di lana azzurra, con una
macchia che aveva corroso il colore, nel fondo. All'altra parete un
canterano, con un piano di legno un po' macchiato, qua e là enfiato,
come se vi fossero stati poggiati dei bicchieri bagnati: sopra, due
candelieri di ottone, senza candele. La toletta era collocata nel vano
del balcone; anche qui le tende di merletto che uscivano da un
panneggiamento di tela a stampa, fondo nero a grandi rose azzurre e
gialle. E il lusso della stanza era, sul letto, un piumino di cotone di
Cava, color tabacco, lavorato all'ago lungo, con sopra tanti arabeschi
di lana multicolori. La catinella e la brocca erano nascoste in un
angolo fatto dal canterano, senz'asciugamano, senz'acqua.

«E il prezzo?» domandò l'onorevole Sangiorgio.

«Ottanta lire al mese... anticipate», fischiò la flebile voce del sor
Alessandro, mentre si grattava un gelone.

«E il servizio?»

«Vi è la serva: rifà il letto, spazza, spazzola i vestiti e lustra le
scarpe. Otto lire al mese..., anticipate», e respirò profondamente,
passandosi una mano sui capelli, che sembravano tirati a pulimento di
mogano.

«È caro... ottantotto lire».

Il sor Alessandro tacque, non trovandosi forse il fiato necessario a una
discussione, o non volendo sciuparlo. Quando stavano per uscire
dall'appartamentino, soggiunse soltanto, col naso in aria, come un asino
che non può respirare:

«Ingresso libero».

L'onorevole Sangiorgio se ne andò, stringendosi nelle spalle: sarebbe
ritornato, forse. Nella strada, presso il Ministero di agricoltura,
incontrò la moglie di Sua Eccellenza, quella signora che aveva visto
alla stazione. Alta, snella, vestita di nero, chiuso in un mantello di
velluto, era tutta rosea e giovanile dietro la veletta nera. Se ne
andava con un passo ritmico, con le mani inguantate nascoste nel
manicotto, gli occhi chini, come raccolta in un pensiero. Ed era tanta
la dignità e la dolcezza di quella figura femminile, che l'onorevole
Francesco Sangiorgio, involontariamente, salutò. Ma la moglie di Sua
Eccellenza non si accorse di quel saluto e passò avanti, risalendo verso
l'Angelo Custode, lungo il marciapiede; e in Francesco Sangiorgio restò
un forte dispetto, il pentimento di quel saluto sprecato. Ora, camminava
verso la Piazza del Pantheon, verso il secondo indirizzo che il sensale
gli aveva dato, e andava per le strade, sempre con quel sintomo di
oppressione morale, un peso sul petto, sulle spalle, sul capo, che non
arrivava a scuotere dal giorno in cui era in Roma; e nelle vie
s'incontrava con gente che aveva anche la medesima espressione di
accasciamento.

La casa era alla salita del Pantheon, che va verso Piazza della Minerva:
una piccola porta accanto ad un fornaio. Di giù si vedevano due finestre
con le tende bianche, fitte. Era al primo piano: tre porte, tutte e tre
con nomi femminili, uno di questi scritto con inchiostro violetto e con
una calligrafia muliebre, sopra un pezzetto di cartoncino rosa. Alla
porta a destra: _Virginia Magnani_, venne ad aprire una servetta
spettinata che guardò in faccia Sangiorgio, senza parlare. Ma dopo un
momento sopraggiunse la padrona, una piccolina, con una vestaglia di
Casimiro azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte
avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio.

«Il signore viene pel quartierino? Va via, Nanna. Si accomodi, si
accomodi pure: sono a sua disposizione. Scusi, sa, il modo come la
ricevo, ma la mattina non si finisce mai di vestirsi: si va a teatro,
qualche volta, con Toto, a sentir la Marini, si fa tardi, la mattina
rincresce, naturalmente, di levarsi su...».

Sangiorgio ascoltava, interdetto dalla loquela di quella piccola femmina
che aveva le guance imbiancate di cipria.

«L'ha mandato qui Pochalsky?»

«Sissignora».

«Me lo immaginavo: Pochalsky lo sa che questo è un quartierino per
deputati: io non affitto ad altri. Ma favorisca: questa è l'anticamera,
qui ci è un tavolino con l'occorrente da scrivere, per gli elettori che
non trovino in casa il deputato. Ci ho avuto l'onorevole Santinelli:
quello lì era assediato dalla mattina alla sera, mai un minuto di
riposo, me lo diceva sempre, quando si chiacchierava un po' insieme, chè
era tanto compìto, l'onorevole Santinelli: — Sora Virginia mia, non ne
posso più. — Questo qui, come vede, è il salotto, decente ed elegante,
questa tappezzeria è tutto lavoro mio, di quando ero più giovane e non
avevo tormenti pel capo: basta, non ne parliamo. Qui vi è tutto,
tappeto, tende; e il deputato Gagliardi non se ne sarebbe mai più
andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto
il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è piena di questi
dolori.....».

E la femminetta prese un'aria grave, la boccuccia stretta e il capo
inchinato sopra una spalla. In realtà, il salotto non era molto diverso
da quello di Via Angelo Custode: vi era più tappezzeria sbiadita, un
maggior numero di fotografie, una seggiola americana a dondolo: la
cornice dorata dello specchio aveva un velo verde, per preservarla dalle
mosche.

«Questa qui», continuava la sora Virginia con un forte accento romano «è
la stanza da letto. Vi è una piccola biblioteca, per i libri, perchè io
ci ho avuto sempre dei deputati studiosi: anzi l'onorevole Gotti leggeva
continuamente dei romanzi. Ne legge lei, dei romanzi?»

«Nossignora: mai».

«Peccato, perchè me ne presterebbe. Qui manca un armadio per i vestiti,
ma sto aspettando una vendita, in Via Viminale, che anzi il Muccioli, il
perito, m'ha promesso di conservarmelo, un bell'armadio. Del resto, può
affidare a me la sua roba, marsina, soprabito, pelliccia, quello che
sia, che la conserverò nel mio armadio, fra i miei vestiti e vi starà
benissimo. Qui vi è tutto, concolina, brocca, lavapiedi per l'acqua, il
letto con le sue brave tendine e il _comò_. Osservi tutto, chè tutto è
soddisfacente, e non faccio per vantarmi, ma Toto ringrazia Dio sera e
mattina per avergli dato una moglie come Virginia. Tutto questo,
onorevole?...»

«Sangiorgio, Francesco Sangiorgio».

«Deputato per?...»

«Tito in Basilicata».

«Onorevole Sangiorgio, tutto questo per centotrenta lire il mese, senza
calare un centesimo, perchè io non ci guadagno niente: se dovessi vivere
col far l'affittacamere, starei fresca. In anticamera vi è una porta di
comunicazione col mio quartino: chiudendosi, lei ha il suo quartino con
l'ingresso libero. Ha bisogno, Lei, dell'ingresso libero?»

E lo scrutò, con gli occhietti chiari di gatta. Sangiorgio non capì
bene.

«... Non so, non so,» disse a caso.

«Perchè, per avere l'ingresso libero, come capisce, si pagano venti lire
di più il mese, centocinquanta lire. Ma se Lei è ammogliato e vuole
delle altre stanze, capitando la sua signora, ci è qui, sullo stesso
pianerottolo, mia sorella Restituta Coppi, che ha disponibili delle
camere; quelle di mia cognata, al secondo, non gliele posso
raccomandare, non cura la pulizia, povera donna, è _popolante_.... tutte
così quelle di quel quartiere: è un errore che mio fratello, povero
Gigio, ha commesso. È ammogliato, Lei, onorevole?»

«Nossignora».

«Sia per non detto, allora; e si goda ancora la gioventù, chè ad
ammogliarsi subito è un inferno. Io, grazie a Dio, non mi posso lagnare,
chè Toto è un fior d'uomo, ma via, meglio la libertà. Glielo dicevo
sempre al deputato Gotti, che era ancora celibe come Lei, onorevole
Sangiorgio: e lui, che mi rispondeva sempre, bontà sua: — Dovrei trovare
un'altra sora Virginia per ammogliarmi, ma non ve ne sono più. —
Dicevamo dunque, centotrenta lire il mese, è proprio un prezzo
economico, poi ci è il servizio di dieci lire al mese a Nanna, ci è il
gas, per le scale, sino alle undici, cinque lire. Al caso, posso pensare
anche io alla imbiancatura, ho una lavandaia buonissima, lava con acqua
Marcia e sapone, senza potassa. Insomma, tutto quello che ci vuole; e se
qualche giorno l'onorevole vuol pranzare in casa, nauseato da quei
pasticci che si mangiano nelle trattorie, ci è qui Toto, mio marito, che
si diverte a fare e a cucinare gli gnocchi, che è un piacere: io non ci
metto piede in cucina, la mia salute è troppo delicata».

Erano giunti di nuovo nell'anticamera e Sangiorgio serbava il contegno
freddo delle persone taciturne innanzi a quelle troppo loquaci.

«E..... scusi, signor deputato,» chiese a un tratto la sora Virginia con
la voce che era diventata aspra, pel silenzio di Sangiorgio, «che
intende Ella di fare? Io ho molte richieste, capirà, un quartino come
questo non ci è da lasciarlo sfuggire...»

«Faccia pure i suoi affari, signora,» disse il deputato, in cui la
natural diffidenza del provinciale rinasceva. «Nel caso, Le farò sapere
qualche cosa».

«Aspetterò un suo biglietto, allora? Debbo mandare a ritirarlo alla
Camera?» ribattè quella, ridiventata melliflua.

«Non s'incomodi, manderò io».

La sora Virginia inchinò il capo e gli tese una manina, come una gran
signora. Ancora, per le scale, egli restava sbalordito e stanco di quel
chiacchiericcio: e già gli sembrava di aver visitato dieci case. Aveva
due altri indirizzi sul pezzetto di carta e gli veniva meno la voglia di
recarvisi. Fu proprio per una reazione di volontà che si fece condurre,
in carrozza, in Via del Gambero, 37, poichè non ancora conosceva le vie.
La strada aveva l'aria misteriosa delle parallele al Corso, le vie
scorciatoie che scelgono gli uomini frettolosi e le donne preoccupate:
dal grande palazzo Raggi, che ha un cortile come una piazza, un portone
sul Corso e l'altro sul Gambero, ogni tanto se ne vedeva sfilare
qualcuna, che sfuggiva la folla e gl'incontri pericolosi, scantonava
rapidamente, senza guardarsi indietro. Nel portoncino n. 37, dall'aria
decente, vi era un casotto di legno con vetri, che prendeva luce dalla
sala. Una donnetta ne uscì, incontro al deputato.

«Non si affitta, qui, al terzo piano, un quartino?»

«Sissignore; vuol vederlo?»

«Vorrei vederlo».

La donnetta rientrò nel suo casotto, scelse una chiave da un mazzo e
s'avviò, ammiccando con un par di occhietti bigi dalle palpebre rosse e
gonfie. Era evidentemente la portinaia: portava un vestito di lana
verdognola, smesso, stinto, guarnito con una certa pompa di raso verde:
un perucchino di raso cupo, con un treccione finto sulla nuca e una
sfioccatura a frangia sulla fronte: salendo, le calze di seta rosse si
vedevano, smorte. E nella floscezza scialba delle guance di un biancore
punteggiato di lentiggini, nel pallore violetto di una bocca dal disegno
infantile, s'indovinava un viso che una volta era stato rotondo, roseo e
che si era a un tratto appassito, vuotato, come quello di una pupattola
a cui è sfuggita la crusca da un bucherello. La scala era larga e girava
ampiamente, caso raro negli edifizi romani: sopra ogni pianerottolo, tre
porte corrispondevano. Al primo piano, a destra, l'onorevole Sangiorgio
lesse: _Barone di Sangarzia, deputato al Parlamento_, nulla sulla porta
di mezzo, e a sinistra: _Anna Scartozzi, sarta_. Al secondo piano a
destra: _Marchese di Tuttavilla, deputato al Parlamento_, nulla sulla
porta di mezzo, e a sinistra: _Ditta di commissioni e rappresentanze._

«Anche questi due deputati hanno dei quartini mobiliati?»

«Nossignore; hanno mobiliato del loro; ma il quartino è simile,» rispose
la portinaia, mettendo la chiave nella toppa della porta a destra: anche
al terzo piano, non vi era alcuna leggenda sulla porta di mezzo, e a
quella di sinistra: _Cav. Paolo Galasso, dentista._

Il quartino che dava sulla strada era pieno di luce, e i mobili, quasi
nuovi, pretendevano alla eleganza. Un vaso di maiolica per fiori posava
sopra un tavolino: vi era un caminetto, un vero e buon caminetto,
l'estremo lusso delle case borghesi romane. «Qui si può accendere il
fuoco e dopo pranzo d'inverno, è un piacere,» disse la portinaia. «Il
caminetto ci è in tutti i piani: che anzi il deputato del primo piano lo
fa accendere dalla mattina, una gran fiammata tutto il giorno».

«Ma non va alla Camera?» domandò Sangiorgio, cedendo al pettegolezzo.

«Non sempre, non sempre,» rispose, con sorriso malizioso che le aggrinzò
tutto il floscio viso, la portinaia.

«E quanto si paga, qui?» interruppe Sangiorgio, seccamente.

«Centotrenta lire al mese.»

«E a chi?»

«A me.»

«Affittate voi?»

«Sissignore.»

«Mi sembra caro».

«Nossignore, Lei s'informi dei prezzi, poichè è forestiero, e vedrà che
non è caro, nel centro di Roma, a un passo dal Corso. Non faccio per
vantarmi, ma il quartino è messo con molto gusto: ne ho sempre capito
io...»

E la portinaia si arruffò la frangetta del parrucchino sulla fronte. Il
deputato si strinse nelle spalle.

«È caro,» insistette.

«Non ci è obbligo, sa, di pigliarlo; ma che Lei vuole un quartino
libero, con la porta sulle scale, mobiliato e senza noie, chè qui ognuno
bada ai fatti suoi, col caminetto, è un lusso che non si trova altrove;
che Lei vuole tutto questo in Via del Gambero per meno di centottanta
lire, caro signore, Le assicuro che non è possibile. Il deputato del
primo piano ci è venuto da quattro anni e vi si trova benissimo, non se
ne va più; il deputato del secondo piano ci è venuto, consigliato
dall'amico, e ci è rimasto, son già due anni. Qui non si sfitta mai: la
sarta del primo piano ha una clientela di signore dell'aristocrazia, che
ci è sempre una vettura innanzi alla porta.»

«Va bene, capisco, ma tutte queste cose non mi servono».

«A piacer suo: ma girerà, girerà, vede, e non troverà nulla di buono
come questo. Sono sicura che ci ritorna, signor deputato; questo è
proprio un posto fatto per Lei».

E scendevano per le scale, mentre saliva una signora, chiusa in una
pelliccia di lontra, con un velo marrone che avvolgeva il berrettino di
lontra, la testa, il collo, il mento, sotto cui s'annodava con un cappio
vistoso. Ella saliva lentamente e presso la porta della sarta si fermò.

«Eccone una,» mormorò la portinaia. «Andrà certo a provare un vestito».

Ma non s'intese rumore di campanello e di giù, alzando gli occhi,
l'onorevole Sangiorgio vide quella irriconoscibile figura femminile
salire chetamente al secondo piano.

Presto presto, per finirla, egli si fece condurre sempre in carrozza,
alla salita di Capo le Case, la via chiara ed allegra, tutta sole, che
taglia in mezzo quella dei Due Macelli. Un'aria di signorilità, di
tranquillità aristocratica, veniva dalla vicina Piazza di Spagna, da Via
Sistina, da Via Propaganda, da Via Condotti, il centro più esotico di
Roma. La porta 128 si trovava dirimpetto ad una bottega di biscotti
inglesi, di conserve, di liquori, di saponi, ciò che gl'Inglesi chiamano
_grocery_, da cui usciva un sentore pungente e quasi caldo di spezierie:
dall'altra parte una bottega di fioraio, piena di portafiori di giunco,
di vimini dorati, di tronchi grezzi, che aveva, nella mostra, delle rose
invernali, e financo in un vasettino, un ramoscello di mughetto, una
primizia delicata. La scaletta era di marmo, netta, illuminata,
dall'alto, da una finestra sul tetto. Sopra ogni pianerottolo davano tre
porte, di legno biondo, un acero venato, coi pomi lucidissimi di ottone,
per bussare. Un servitorello in mezza livrea venne ad aprire, subito, e
fece entrare l'onorevole Sangiorgio in un salottino semibuio, dicendo
che la signora sarebbe venuta a momenti: l'onorevole sentì un tappeto
molle in terra e sedette, tastando un poco, sopra una poltroncina, bassa
e soffice. Così, nella penombra, distingueva un tavolino coperto di
felpa gialla, d'oro, un portacenere giapponese, un vaso di vetro
veneziano. Ma un lieve passo si udì: la signora s'intravedeva, alta, non
grassa, ma pienotta, con acconciatura corretta di capelli castagni tutta
ondulata dal ferro della pettinatrice e ornata di fornicelle di
tartaruga bionda; con un vestito di lana nera, semplice, di una stoffa
molle, un goletto alto di tela bianca, chiuso da un ferro di cavallo in
oro.

«Vuol favorire?» chiese la signora.

Uscirono insieme sul pianerottolo: ora si vedeva il pallore opaco, di
avorio, di quel volto trentenne e gli occhi di un nero cupo, torbido, di
carbone, con qualche cosa di claustrale, dentro. La mano bianca e grassa
della signora si arrotondò mollemente sulla chiave. Il quartino era
piccolo, ma luminoso, gaio, come se fosse nel sole dell'aperta campagna.
Il salottino aveva un mobilio di tela stampata, grigio e rosa, molto
carezzevole alla vista: lo specchio era ovale con una cornice di legno,
intagliato; una _dormeuse_, lunga e bassa, era distesa presso il
balcone, innanzi a cui pendevano delle tendine larghe, di mussola
ricamata, molto fitta: senza bracciuoli, a pieghe profonde, esse
trascinavansi per terra. Una grande raggiera di fotografie era disposta
bizzarramente sul muro, come se vi fossero state buttate a caso: un
tavolincino da scrivere, minuscolo, su cui era appoggiata una cornice da
fotografia, di felpa rossa, senza ritratto. La stanza da letto aveva un
mobilio di raso in lana azzurro-pallido, una coltre simile sul
lettuccio, velata da un largo merletto bianco; la toletta era tutta di
mussola bianca ricamata, con fiocchi di nastro azzurro; l'armadio era a
specchio; e alla finestra, oltre le molli tendine che trascinavansi sul
suolo, ai vetri erano attaccate certe cortinette di seta azzurrina, a
flotti, a ondatine.

«Vi è anche un gabinettino da toletta,» mormorò la signora, senza
sorridere.

«Non si voglia incomodare» soggiunse l'altro.

«No, no, voglio farvelo vedere: è importante, ha una porta sulla scala.»

La signora, con quel suo viso corretto, un po' grosso, un po' impastato,
come quello di certe teste antiche romane, non chinò neppure gli occhi
sul lavabo di marmo, dai cui bastoni di legno giallo pendevano gli
asciugamani spiegati: aprì una porticina, dava di nuovo sul
pianerottolo, era la terza porta: quel quartino di due stanze e mezzo
aveva due ingressi liberi.

«È una casa comodissima,» soggiunse ella semplicemente, guardandosi una
mano e soffregandola per farla diventare più bianca. Nel suo vestito
nero, dalle pieghe statuarie, con la pallida e quieta faccia di matrona
romana ella imponeva rispetto. L'onorevole Sangiorgio le parlò come a
una gran signora.

«Il quartino è un po' troppo elegante, per me,» disse. «Mi piace molto,
ma sono pochissimo esigente.»

«Oh!» fece la signora, quasi non ci credesse, con una lusinghiera
intonazione di cortesia.

«Glielo assicuro: sono un po' selvaggio,» riprese Sangiorgio,
abbandonandosi, «ho bisogno di tranquillità pel mio lavoro, null'altro.
Sto molte ore al Parlamento. Qui è un po' femminile, mi pare,»
soggiunse, sorridendo.

«Infatti vi fu una dama, una russa, l'anno scorso: poi la richiamarono,
dovette partire.» E si tacque, senza dare altre spiegazioni.

«.... E... costa?» domandò il deputato, dopo un momento di esitazione.

«Duecentocinquanta franchi il mese,» disse la signora, con trascuranza,
raddrizzandosi il ferro di cavallo al collo.

«Ah! e vi sarà, inoltre, la servitù, il gas?» chiese con una curiosità
gentile, l'onorevole Sangiorgio.

«Bisogna intendersi con Teresa, la mia cameriera...»

«È naturale, è naturale,» mormorò l'altro, come se chiedesse scusa.

La pallida signora, dai profondi occhi neri, che eran pieni di quel
malinconico fluido monacale, ricondusse sino alla porta il deputato,
senza neppur chiedergli se avesse intenzione di prendere il quartino, si
licenziò da lui con un sorriso, il primo, e non gli strinse la mano.

Ora, egli si sentiva snervato, vinto da una fiacchezza mortale: il sole
di novembre lo mordeva come quello rovente di agosto, e l'aria gli
pesava addosso. Certo, in quella casa di Capo le Case, vi doveva essere
un profumo indistinto, ma, permanente, di quelli che eccitano i nervi e
poi li buttano in un accasciamento. Forse il profumo lo portava la
signora, così smorta, così severa, con la sua grand'aria claustrale, di
badessa nobile, dall'abito nero e dal goletto bianco. Mentre andava, con
indolenza, per Via Mercede, gli si ripresentava alla fantasia il salotto
bigio e roseo, così dolce nella sua semplicità, la camera azzurra tutta
velata di bianco, e le doppie tendine, fluttuanti, ondeggianti, che le
davano un carattere intimo, di nido involato in alto, lontano dal mondo.
Tutti quei mobili, la _dormeuse_ dove si era certo sdraiata la dama
russa, a sognarvi i suoi sogni di straniera bizzarra, quel tavolino
piccolo su cui aveva scritte le sue lettere, quella toletta davanti a
cui si era acconciata, questo _interno_ femminile gli si ripresentava:
ma più di ogni altra cosa, lo interessava quella cornice rossa, a cui
mancava il ritratto, come se fosse stato portato via in fretta, da una
viaggiatrice affannosa.

Non si poteva figurare la faccia di quella dama russa: e al posto vuoto
che la immaginazione non sapeva riempire ritrovava sempre l'ovale
pallido, quella carnagione di avorio della signora, su cui scendevano le
onde molli dei capelli castagni. Involontariamente, era entrato nel
Caffè Aragno, nell'ultima stanza stretta e solitaria e si era fatto
servire un _cognac_ per scuotere quella depressione.

La signora di Capo le Case gli ricompariva, ma con contorni meno
precisi: più nettamente, ora, gli si ripresentava la donna dal mantello
di lontra, incontrata per le scale, in Via del Gambero; ne aveva visto
il piede, arcuato, snello, che si appoggiava con precauzione sugli
scalini, lungo la ringhiera di ferro, — e avrebbe voluto sapere dove
andava, poichè, turbata da quell'incontro, ella aveva finto di picchiare
alla porta della sarta e poi era salita più su, chinando il capo,
immergendo il basso del viso nel grande fiocco di velo marrone. La
portinaia, certo, doveva conoscerla: la doveva saper lunga quella
portinaia dal viso floscio e dagli occhi che facevano schifo: una
malizia filtrava dalle sue parole leziose. Chissà! doveva essere stata
bella, la portinaia dal parrucchino ignobile, fors'anche elegante:
doveva aver tutta una singolare istoria che egli non le aveva dato il
tempo di raccontare, com'ella desiderava. La sora Virginia invece gliene
aveva narrata molta parte, della sua storia: ma che era questa moglie
che leggeva romanzi, mentre il marito cucinava gli gnocchi, in cucina? E
dall'abbattimento egli risorgeva, a grado a grado, con una curiosità
crescente per tutti questi enigmi femminili: la visione della signora
russa, il mistero di quella figura mistica, in Via Capo le Case: la
visitatrice di Via del Gambero e il suo segreto: il passato della
portinaia: lo strano intreccio che appariva e scompariva nella loquacità
della sora Virginia. Avrebbe voluto sapere, conoscere, apprezzare tutta
questa femminilità fuggente, che spariva, che si nascondeva alla sua
curiosità; e da questa sua minuta ricerca, da quest'analisi delle donne
viste e delle donne immaginate, una domanda, sino allora latente,
sorgeva, una figura si sovrapponeva a tutte, le assorbiva e si rizzava,
alta, flessuosa, nerovestita, placidamente rosea dietro il velo nero,
andante lontano, con gli occhi raccolti e il passo misurato: la moglie
di Sua Eccellenza. Dove poteva andare a quell'ora, dove andava la moglie
di Sua Eccellenza?

Ma fuori, nella strada, il grosso largo duca di Bonito, il popolare
deputato napoletano, dalla facciona tagliata da un colpo di sciabola,
passò, con quel movimento di rullìo sulle gambe che lo faceva
rassomigliare, camminando, a una nave pesante mercantile, una di quelle
navi nere e piatte che approdano nei piccoli porti di Torregreco e del
Granatello a Portici, a portarvi carbone e a caricare maccheroni:
accanto a lui, il fido amico, il deputato Pietraroia, dal quieto viso e
dal carattere violento, dalla voce moderata e dalle frasi appassionate,
che taceva per mesi e mesi alla Camera, e poi, un giorno, scoppiava con
una forza meridionale, meravigliando tutti.

L'onorevole Sangiorgio li seguì con l'occhio, un minuto; tornavano da
colazione, si fermarono sul marciapiede, con la terza figura della
Trinità napoletana, l'onorevole Piccirillo, dalla bionda barba fluente,
dagli occhietti azzurri, il domatore degli irruenti quartieri popolari
napoletani. E sul marciapiede, un dialogo vivace cominciò: l'onorevole
Piccirillo narrava un fatto grave, senza dubbio, gesticolando, agitando
la mano storpiata in duello con l'onorevole Dalma, afferrando il bottone
dell'amplissimo soprabito del duca di Bonito che sogghignava e
sghignazzava, incredulo, ironico, con la freddezza dell'uomo che ha
vissuto, mentre l'onorevole Pietraroia, tranquillo, ascoltava,
arricciandosi delicatamente un baffo. E dirimpetto all'onorevole
Sangiorgio, nascosto dietro un tavolino, con le gambette raccolte e il
viso di bambino vecchiotto, l'onorevole Scalzi, il deputato operaio, il
solo che vi fosse al Parlamento e che Milano aveva mandato, faceva
colazione, modicamente, con una tazza di caffè e un panino.

Francesco Sangiorgio, messo di nuovo a contatto con quel suo mondo,
ripreso da un più serio bisogno di osservazione, si sentì a un tratto
rinvigorito, come strappato a quel vaneggiamento d'indolenza, che lo
turbava dalla mattina. Tutte quelle donne che aveva viste, con cui aveva
parlato, gli avevano messo nelle fibre una debolezza, gli avevano
immeschinito l'animo sino al pettegolezzo, e scomposta la fantasia in
sogni ridicoli e inutili.

Una natural reazione gli restituiva l'equilibrio, e col buon senso egli
acquistava una lucidezza di ragionamento, un'acutezza di logica che
penetrava e intendeva quanto gli era rimasto oscuro la mattina. Egli
intendeva che fosse questo accumulamento di case mobiliate, di quartini
mobiliati, di stanze mobiliate, che sorgono, s'infittiscono in tutta
Roma, e formano in essa una vegetazione larga e potente che quasi la
soffoca; e tutto questo rimescolìo bizzarro di donne borghesi, di sarte,
di portinaie, di serve, di bottegaie, che dall'affittar camere traggono
il più facile e più sicuro guadagno; e fra colui che cerca casa e tutte
queste donne, un contatto necessario, le comunicazioni interne delle
porte chiuse e aperte, in cui si conviveva, un vedersi al mattino, alla
sera, nelle ore pericolose della giornata, una dominazione femminile che
comincia dalla casa, si estende alla biancheria, poi ai vestiti, poi ai
libri, poi alle lettere dell'inquilino, e arriva sicuramente, per vie
oblique, sino alla persona. Egli sentiva quanto vi era di drammatico, di
comico, di appassionato e di corrotto, in tutto quel sistema di ingressi
liberi, di quartini a due porte, di portoni a due sbocchi, di chiavi
inglesi a due ingegni, in tutto quello sdoppiamento, in quella
fantasmagoria di usci chiusi, di serrature che stridono, di campanelli
che non squillano, di scarpette femminili che non scricchiolano, di veli
femminili molto fitti e di mantelli di pelliccia ermeticamente chiusi: e
il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nella
apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza, gli si rivelava
in una delle sue parti.

E nel suo vago, istintivo terrore del femminile preponderante e
prepotente, nel suo bisogno selvaggio di solitudine e di forza, egli
prese la casa in Via Angelo Custode, dove non vi erano donne.



V.


Ancora una passeggiata dall'angolo di Piazza Sciarra sino a Piazza San
Carlo, sempre lungo il Corso, un Corso di giorno festivo, con tutte le
botteghe chiuse e in quell'ora del pomeriggio invernale, fra le due e
mezzo e le tre, un'ora vuota. A Piazza Colonna, il pasticciere Ronzi e
Singer era aperto, ma senza un'anima, con le vetrine dove restavano
poche bomboniere e sul grande banco marmoreo i piattelli di cristallo
vuoti di pasticcini; chiuso il chiosco dei giornali accanto alla
fontana. Da Montecitorio, un grande angolo di sole pallido sulla
facciata del palazzo Chigi; qualche rara carrozza da nolo sbucava da Via
Bergamaschi, rasentava la bruna colonna Antonina, e andava lentamente a
infilarsi nel vicolo del Cacciabove. Dai vetri chiusi si vedeva il Caffè
del Parlamento, basso, azzurrognolo, simile ad una cripta dalle ombre
fitte: dentro, nessuno.

Innanzi al liquorista Morteo, due giornalisti, due giovinotti,
chiacchieravano con le mani nelle tasche del _paletot_, sbadigliando,
con la cera di due esseri mortalmente annoiati, un altro gruppo di
quattro o cinque giovinotti, dietro i larghi cristalli del Caffè Aragno,
prendendo dei _vermouth_, e leggendo un fascicoletto di carta rosa, un
giornalettino letterario; e poi, tutta una lunghezza di Corso sino a San
Carlo, con qualche raro passante, con qualche signora che sbucava da un
portone, e montava subito nella carrozza chiusa, che partiva come una
freccia. Un dolce scirocco invernale temperava e appesantiva l'aria; e
in quel venerdì, in quel giorno di Natale, in quell'ora pomeridiana,
pareva a un tratto sospesa la vita di Roma. Tutto quel quartiere
centrale della città, quel tratto di Corso sempre così fervido di
movimento, con le sue quattro piazze, Sciarra, Montecitorio, Colonna, S.
Carlo, con i suoi caffè sempre chiassosi, con le sue botteghe eleganti,
coi suoi marciapiedi affollati, sembrava, in quel lieto giorno di festa,
in quella temperatura mite, come colto da improvvisa profonda atonia. Al
contatto di quel breve mondo attivo, quasi febbrile, ogni giorno
Francesco Sangiorgio provava lo stesso fenomeno di eccitamento, per
quanto rimanesse estraneo a quell'attività. Ora, quella vuotaggine, quel
sonno, quel silenzio del giorno di Natale, che altrove, in provincia,
nei più piccoli villaggi si suol celebrare con grida di gioia e sparo di
mortaretti, lo avevano colpito di meraviglia, come molte e molte cose di
questa Roma, sempre così nuova, così impensata. Passeggiava da un'ora,
su e giù, dopo colazione, dopo aver letto i tre o quattro giornali che
erano usciti la mattina, e che contenevano delle tirate sentimentali
natalizie; non incontrava alcuno, non già una faccia amica, perchè non
aveva amici, ma neppure le faccie che per solito incontrava. Tutti
quelli che avevan potuto partire per festeggiare il Natale nei loro
paesi, con le loro famiglie, deputati, senatori, studenti, impiegati in
permesso e ufficiali in licenza, erano scappati via, e quelli che erano
restati, indifferenti, si chiudevano borghesemente o aristocraticamente
in casa, poichè il romano non chiede e non aspetta ventura. Francesco
Sangiorgio aveva presentito che si sarebbe trovato molto solo, molto
abbandonato, smarrito in mezzo a una folla festante e spensierata:
invece, Roma gli aveva preparata la sorpresa di un gran silenzio solenne
di città morta.

Mentre tornava indietro per la quarta volta, pentendosi amaramente di
non essere andato in quella povera umile e buona Basilicata a far Natale
coi suoi vecchi zii, innanzi al ruvido ceppo che arde nell'ampio
focolare; mentre s'irritava contro quel fascino singolare della città
che se lo teneva stretto, nelle vacanze, quando tutti fuggivano, vide
spuntare da Via Convertite al Corso un drappello di quaranta o cinquanta
persone che procedevano quasi in processione, con a capo una bandiera
tricolore.

Avanti, quattro o cinque signori, in soprabito e cappello basso,
andavano tutti seri, quasi misurando il passo; il portabandiera aveva
sul soprabito una tracolla di pelle, con un anello di metallo sulla
pancia per reggere la bandiera, mentre una tuba lucida gli si abbassava
fieramente sull'orecchio. Poi una ventina di uomini vecchi, in cappello
di feltro molle, con certi soprabitoni grevi e pelosi, di antica data:
chi aveva tre, chi quattro medaglie, varî andavano curvi, uno, zoppo, si
trascinava a stento reggendosi sopra un bastone. Era un manipolo di
reduci dalle battaglie 1848-49; qualche giovanotto, molto meno che
trentenne, vi era frammischiato. In coda, le facce equivoche, brune,
lucide, dai mustacchi a spazzola, di due guardie travestite, in
giacchetta, cappello basso sull'orecchio, passo militare e bastoncino di
giunco sotto l'ascella. I giovanotti del Caffè Aragno nemmanco si
voltarono, abituati a vederne passar tante di queste processioni,
indifferenti oramai: sui marciapiedi qualche persona si fermava
distratta: i due giornalisti discussero un momento, davanti a Morteo,
poi l'uno si decise, e si staccò dall'altro, si strinse nelle spalle e
si unì alla dimostrazione, col contegno dell'uomo disoccupato. Francesco
Sangiorgio non si mise in fila, ma costeggiò la dimostrazione, tenendosi
sul marciapiedi, studiando il passo. Ogni tanto, lungo la strada, agli
Orfanelli, ai Pastini, qualcuno si univa. In Piazza della Rotonda,
dinanzi al Pantheon, ove il gran re dorme, la bandiera s'inchinò, i
vecchi reduci si cavarono il cappello.

La dimostrazione proseguiva il suo cammino, infilando certe strade
strette e oscure della vecchia Roma, allungandosi, assottigliandosi in
quei vicoli dove possono andare di fronte solo quattro persone: ed era
dappertutto un gran silenzio di botteghe chiuse, di finestre chiuse, di
androni vuoti, una gran pace festiva che lasciava deserte le vie, che
assorbiva, dietro le mura delle case, tutta la giocondità natalizia.
Tratto tratto la bandiera oscillava, ma subito il portabandiera la
rizzava nell'anello, con un moto energico.

Una breve sosta fu fatta all'imboccatura di ponte Sisto. Qui un poco di
animazione cominciava: sui due larghi marciapiedi, varie persone, ferme,
contemplavano il fiume, tutto biondo sotto uno smorto sole invernale,
delle carrozze passavano, al trotto, sobbalzando sulla curva fortemente
pronunziata del ponte. Tutt'intorno, al principio di Via Giulia, verso
piazza Farnese, laggiù verso il Politeama, era un largo rinnovamento
edilizio: mucchi di pietre, pile di mattoni, macerie accumulate, muri di
case in demolizione, piccoli laghetti bianchi di calce assodata,
carriuole di muratori con le braccia in aria, alte impalcature di legno
su cui già la réclame aveva steso i suoi cartelloni: a monte e a valle,
a destra e a sinistra, ancora delle demolizioni: poi il tronco di una
strada già selciata, i lavori della sistemazione del Tevere già
cominciati, un Lungo Tevere abbozzato. La leggiera nuvola dello scirocco
avvolgeva l'orizzonte verso la Farnesina e l'acqua gialla scintillava
lievemente. Una grossa zattera nera tagliava in mezzo il fiume, immota,
messa in quel punto per i lavori: pareva una macchina da guerra. Una
quiete era anche lì, come una sospensione di vita, come un sogno nella
dolcezza invernale del pomeriggio.

Sangiorgio si trasse di lì a stento, e rizzandosi sulla punta dei piedi,
vide la bandiera dell'associazione che penetrava in Trastevere. Di nuovo
cominciò lo sfilare taciturno per i vicoli sinuosi di quel quartiere
estremo; qualche popolano in abito da festa si univa alla dimostrazione:
erano, adesso, un centinaio di persone. A un gomito di una piccola
strada, tutt'a un tratto, con una improvvisa rischiarata di orizzonte,
si trovarono in un grande viale. Da una parte, dietro un breve
parapetto, era Roma, tutta chiara nella luce; dall'altra, una proda
verde, la cresta del Gianicolo, si elevava; a mezza costa, l'Accademia
di Spagna mostrava le sue fondamenta, intorno a cui girava il gran viale
ascendente. Tre o quattro volte, l'associazione dovette farsi da parte
per lasciar passare qualche equipaggio che trottava vivamente alla
salita, senza far rumore, sulla ghiaia; qualche profilo femminile
appariva e spariva dietro i cristalli. A un punto, dove il viale piegava
ancora, innanzi alla villa Sciarra, fra due siepi aristocratiche di
agavi fiorite e di pioppetti giovani, un signore fermo chiamò:

«Onorevole Sangiorgio?»

Questi trasalì, si voltò e scorse l'onorevole Giustini, un deputato
toscano, con cui aveva parlato tre o quattro volte, essendo vicini di
posto, all'ultimo banco del loro settore, al centro destro. Lo
raggiunse.

«Segue la dimostrazione, collega?» domandò Giustini, con la voce velata
d'ironia e di stanchezza.

«Da curioso. E Lei?»

«La guardo passare: fo da spettatore. Già l'è sempre la stessa cosa.»

Il Toscano aspirava la lettera _c_, fortemente, e parlava senza guardare
in faccia il suo interlocutore, con certe voltate di testa sulle spalle,
come uomo infastidito. Camminarono insieme, con un accordo tacito.

L'onorevole Giustini non era nè zoppo, nè gobbo, nè propriamente
sciancato, ma trascinava straccamente le gambe, portava per malvezzo una
spalla più alta dell'altra e il collo raggricchiato come quello della
testuggine, le braccia e le mani penzoloni, come se non sapesse che
farne e gli dessero noia. Un viso terreo, un par d'occhi chiari, scialbi
e una barbetta rada e fulva, divisa sul mento. Tutto un contegno di uomo
seccato, un'aria di rachitismo fisico e morale.

«Le dimostrazioni, le passeggiate con le bandiere, le corone deposte
sopra una lapide, tutte si rassomigliano fra loro. Ne avrò viste mille,
ne avrò anche fatte: quando si è stati giovani e studenti di legge, chi
può garantire di non aver _dimostrato_?»

«Anch'io, all'Università,» rispose Sangiorgio.

«Chi ci crede a queste frottole?» riprese l'onorevole Giustini, dando in
una energica stretta di spalle. «Bisogna avere vent'anni o sessanta,
l'età in cui si è scempiati.»

«Non dica male della gioventù, onorevole,» rispose Sangiorgio,
abbozzando un debole sorriso.

«Già, già, gioventù, amore, morte, le tre cose che ha cantate Leopardi:
veramente ne ha cantate due, ma l'altra ci sta dentro. Tutti Leopardiani
i meridionali, nevvero? Eppure, che famoso seccatore quel Leopardi! Era
gobbo, ne ha profittato per far versi o per annoiare la gente. Anch'io
son mezzo gobbo, ma non fo versi, perdio! E non secco neppure i miei
colleghi della Camera, parlando.»

«Infatti non ha mai parlato, dall'apertura della sessione.»

«E sì che i colleghi miei non hanno la cortesia di contraccambiarmi. Che
riunione di chiacchieroni incorreggibili, quante parole inutili, quanto
fiato sprecato!»

Respirò lungamente; aveva lo sguardo smorto che filtrava attraverso le
palpebre socchiuse. Sangiorgio lo ascoltava e lo guardava, lasciandolo
discorrere e non parlando, continuando nel silenzio che serbava da due
mesi che era in Roma, quello studio profondo degli uomini e delle cose,
che doveva essere una delle sue forze. Camminando adagio, erano giunti a
un altro gomito del viale. Ora, sul piazzale, un vasto orizzonte si
apriva: di nuovo Roma vista da una terrazza semi-circolare. Si era a
livello dell'Accademia di Spagna: innanzi al grande portone due o tre
carrozze aspettavano, una di cardinale: il cameriere, sbarbato, senza un
pelo, la faccia di chierico, vestito di nero, passeggiava più in là. La
dimostrazione saliva sempre, verso l'acqua Paola, il fontanone sonante e
clamoroso. Le persone che passeggiavano, si fermavano a vederla passare.
Un signore alto e magro, con una barbetta bionda brizzolata, scambiava
dei saluti coi reduci, mentre sfilavano, restando accanto alla siepe.

«Quello vorrebbe crederci ai tempi moderni e non può,» ricominciò la
voce maligna di Giustini. «Quello sì, un bell'uomo, sì, proprio quello,
con la tuba, è Giorgio Serra: l'avrà inteso nominare. Un bel tipo: un
apostolo, un poeta, ma dentro, certo, ne deve aver accumulato di
delusioni! È in buona fede, lui: uno dei pochi democratici simpatici.
Del resto, in arte è aristocratico: ama il popolo, poichè ha un
bell'animo affettuoso e deve per forza amare qualche cosa, ma odia la
volgarità. Vedrà che sale al Gianicolo per la commemorazione, ma che non
parlerà: è delicato come una donna, in certe cose. Ora gli passeremo
davanti; mi saluterà freddamente: egli odia il centro, alla Camera. E ha
ragione: nulla è più odioso del centro, a cui abbiamo l'onore di
appartenere, onorevole collega.

«E perchè ci sta, Lei, onorevole Giustini?»

«Oh, io!» fece l'altro con un gesto di noncuranza.

Nell'ampia vasca cadeva fragorosamente l'acqua da tre bocche; due serve
erano sedute sul parapetto del bacino e discorrevano; un prete tedesco
guardava, da un terrazzino, Castel Sant'Angelo, il fiume e giù, a picco,
la diritta Via della Longara in Trastevere, sotto villa Corsini. La
dimostrazione imboccava Via Garibaldi; alla coda si era messo Giorgio
Serra, guardando la campagna ed il paesaggio di Roma amorosamente. I due
deputati avevano affrettato il passo, ma dovevano ogni tanto sostare per
gli equipaggi signorili che transitavano.

«Tutte queste signore vanno alla commemorazione?» domandò Sangiorgio.

«Sì, proprio!» ghignò Giustini. «Non lo sanno neppure che vi è una
commemorazione. Vanno a villa Pamphily, a passeggiare: è venerdì ed il
tempo è bello: vale a dire, è il grande scirocco romano che fa mangiar
poco, dormir molto, ammollisce i nervi e fiacca la volontà. Del resto,
le donne sanno quel che si fanno».

«Bah!» fece Sangiorgio, con un atto di disprezzo per le donne. Giustini
lo guardò a lungo, come per giudicarlo mentalmente, ma non gli volse
domanda. Passavano Porta San Pancrazio, la Via delle Mura s'inclinava,
stretta e sinuosa, a diritta verso la Valle dell'Inferno e il Vaticano,
a sinistra verso villa Pamphily. Un'_osteria di cocina_ con vino _delli
castelli_, innanzi a cui stavano ritti ed indifferenti due carabinieri:
poi una strada con una siepe di spini che la divideva; a sinistra, una
muraglia alta e bigia, scrostata; a un punto, in una sporgenza, una
porticina di legno tarlato, su cui era scritto il nome del podere e
della villa che era dietro quella muraglia: _Il vascello_. E il nome,
glorioso, bastava — e la lapide sul muro era inutile — e le corone
secche e fradice dalla pioggia erano inutili: — bastava il nome.

La dimostrazione si era aggruppata sotto la lapide commemorativa,
lasciando un po' di spazio libero per le carrozze che sfilavano sempre
verso villa Pamphily; i carabinieri si erano avvicinati. I vecchi reduci
erano tutti riuniti intorno alla bandiera e stavano muti, ricordando: i
due deputati si tenevano a una certa distanza; Giustini faceva una
smorfia bruttissima di stanchezza; Sangiorgio, punto dalla curiosità,
osservava. Un operaio salì sopra una scala di legno appoggiata al muro,
tolse le vecchie corone e le buttò via, spazzò col gomito la lapide e vi
sospese la corona fresca: giù, si applaudì. Dall'alto della muraglia, un
contadino, il guardiano del podere, una di quelle facce pallide e
malinconiche di contadini romani, guardava indifferente. Poi, sul sedile
di una carrozza da nolo, a un cavallo, che stava addossata alla
muraglia, un uomo sorse per parlare; gli studenti lo applaudirono.

Era un giovinotto biondissimo, grassotto, con certi occhietti languidi
azzurrini, con un mustacchietto appuntato, con le mani pienotte e
bianche come quelle di una donna, con le unghie lunghe e rosee e un
anello di brillante al dito mignolo. Era vestito con una raffinatezza da
parrucchiere, aveva una faccia serena e fresca, tutta piena della
soddisfazione di esistere, mentre gli occhietti roteavano con
inclinazioni di beatitudine. Aspettò che si finisse di applaudire, per
parlare; anzi fece un cenno con la mano, perchè si cessasse. Tutti si
ristrinsero intorno a lui per ascoltarlo, reduci, studenti, operai,
carabinieri e guardie.

Il giovanotto, con una voce fievole, ma ben modulata, di tenorino da
salotto, con pause sapienti, girando il capo con una lentezza graziosa
di donnina civettuola, gesticolando con sobrietà, spiegò come e perchè,
dopo la commemorazione di aprile, se ne facesse un'altra in dicembre: e
subito si ingolfò in una descrizione dell'assedio di Roma, come se vi
fosse stato; i reduci crollavano il capo innanzi a quell'elegante
giovinotto, essi che vi erano stati. Egli aveva una loquela facile, ma
lenta: a un tratto, parve riscaldarsi e se la prese coi preti, col
Vaticano, di cui parlava accennando a sinistra, verso la muraglia,
vagamente, con un gesto di attrice giovane, arrotando le _r_. I pochi
veterani, distratti, assorbiti, non lo ascoltavano più, compresi dai
ricordi di quel sacro colle, dove essi avevano combattuto per la
redenzione della patria, dove i loro compagni d'arme erano caduti col
volto sfigurato, o col petto spezzato dalle palle dei cacciatori di
Vincennes. Ogni tanto, fra di loro, mormoravano una frase, si
rammentavano un fatto, col capo chino, con le mani appoggiate sul pomo
del bastone.

«Nella notte si sentivano i Francesi chiacchierare allegramente sotto le
loro tende...»

«Ve lo rammentate voi il moro di Garibaldi che morì con una spalla
fracassata da una scheggia di bomba francese?...»

«Com'era bello il colonnello Manara...»

«Bello e valoroso...»

Il giovinotto finiva con un'apostrofe ai sette colli di Roma, infarcita
di storia romana. I suoi compagni, gli studenti, si affollarono più
strettamente intorno alla carrozza da nolo, applaudendo, stringendogli
la mano, acclamandolo. Ed egli si curvava, tutto amabile, sorridendo,
prodigando le strette di mano, interrompendole per passarsi sulla fronte
bianca una pezzuola di batista, dal largo orlo nero, profumata di
_fieno_. Gli operai e i popolani restavano poco convinti, niente scossi,
con quel riso sarcastico romano che poche cose vincono. Una voce
circolò:

«Serra! Serra! Dov'è Serra? Parli Giorgio Serra!»

Ma Serra non rispondeva. Forse si nascondeva, umile, tra la folla. E la
folla si mosse in vario senso, come se in lei avvenisse una cerna.

«Serra, Serra!» si ripeteva ancora, quasi evocando quella bella testa di
poeta e di artista.

Ma Serra non vi era. Forse, mite sognatore che qualunque realtà
nauseava, era disceso lentamente in quella Roma che egli amava, o, più
probabilmente, costeggiando la grande siepe fiorita di biancospini e di
roselline, era andato a passeggiare per gli ampi viali, profondi e
raccolti, di villa Pamphily, ritrovando le sue care illusioni in quella
verdezza di campagna, impregnandosi di quell'alta bellezza naturale.

«Gliel'ho detto,» mormorò Giustini a Sangiorgio, «che Serra sarebbe
scomparso: egli odia la rettorica».

«E fa male: la rettorica è una forza,» ribattè Sangiorgio.

Per la seconda volta il deputato toscano squadrò il deputato
meridionale, con un lieve accenno di meraviglia sulla faccia. Quei due,
non li univa nè l'affetto, nè la simpatia, nè altro interesse; solo la
curiosità, il desiderio di conoscersi, misto a un senso di diffidenza,
di due maestri di scherma che si mettono in guardia e non si arrischiano
ancora a un vero assalto. Attorno a loro la folla si disperdeva
lentamente; la bandiera era andata già via, i veterani s'incamminavano
per la discesa, sbandati, a gruppi di due o tre, schiene curve nei rozzi
soprabitoni e gambe un po' vacillanti: qualcuno, ogni tanto, si voltava
a dare un ultimo sguardo al Vascello e si fermava.

Il giovane oratore era sceso dalla carrozza con un salto e si era unito
ai suoi amici studenti: aveva spiccata una rosellina dalla siepe e se
l'era posta all'occhiello: camminando verso Roma, in fila di quattro o
cinque, egli si teneva la mazzettina di balena sotto l'ascella e
s'infilava delicatamente un guanto. Una comitiva di operai era salita
all'_osteria di cocina_: sopra una terrazzina e intorno a una tavola
grezza, si beveva di quel leggiero vino giallo che sa di zolfo. E dopo
dieci minuti non vi era più nessuno sotto la lapide ai caduti del 1848:
la villa del Vascello serbava, nella solitudine, il suo aspetto di casa
smantellata, cui è rimasta solo la facciata in piedi. Sulla cornice
dell'alta muraglia che chiude il podere, il contadino solo restava: col
capo appoggiato al pugno chiuso, guardava giù, indifferente.


I due deputati erano discesi sino al piazzale presso la fontana di Paolo
III, camminando piano. Un principio di umidità crepuscolare filtrava
attraverso lo scirocco, o piuttosto lo scirocco diurno, tepido, si
tramutava nell'umido scirocco notturno che invade la città al cader del
giorno. Gli equipaggi signorili discendevano da villa Pamphily, tornando
verso Roma. Appoggiati al parapetto della terrazza che guarda la città,
i due deputati seguivano con lo sguardo le carrozze. Due o tre volte
Giustini salutò, con una scappellata secca e breve di uomo poco galante,
e subito dopo, come se parlasse a sè stesso:

«La Baldassarri, una contessa bolognese, bella donna, moglie di un
senatore vecchio. Una sciocca da cui non vado più; ha la smania dei
poeti, ne ha sempre vari in collezione, un barbaro, un sentimentale, un
naturalista, financo: quelli che fanno i sonetti per nozze sono accolti
con una certa considerazione. È la donna per cui si fa più consumo di
rime e di parole sdrucciole.»

«Questa qui è la Gagliardo, una baronessa: brutta, mediocre, intrigante
e cattiva. Medita, continuamente, in silenzio, la caduta del ministero.
Quando cade, per opera altrui, ella ha l'aria trionfante. È così crudele
che fa le visite alle mogli dei ministri, il giorno in cui i mariti sono
caduti. Del resto, lancia i deputati giovani o crede di lanciarli. I
disgraziati illusi le fanno la corte: è una donna importante. Nel suo
salotto il thè è insipido, ma la maldicenza è saporita.»

«Ci andate voi?»

«Io no, non più. Sono forse un deputato giovane?... Ah, ecco la moglie
di Sua Eccellenza.»

Il saluto fu profondo, da ambedue. E la serena donna rispose,
dolcemente, chinando la testa dietro il cristallo. Sangiorgio non disse
nulla, con un lieve tremito in sè, aspettando e temendo il sarcasmo di
Tullio Giustini.

«Bella donna, la moglie di Sua Eccellenza,» mormorò il deputato toscano:
«troppo bella e troppo giovane, per lui. Gli è persino fedele, non si sa
perchè. Le sue amiche la odiano cordialmente, ma è di moda l'ammirarla.
È virtuosa... per calcolo, per ipocrisia o per freddezza di
temperamento?»

«Ci andate, voi?» chiese Sangiorgio.

«No: sono troppo ministeriale.»

«Vale a dire?»

«Che ne farebbero di me? Son un convertito, io: non si predica che ai
dubbiosi. Eppoi, diventerei di opposizione, se frequentassi la sua casa.
Mi fa troppa rabbia vedere un marito magro, segaligno, arrabbioso e
corroso dalla politica, sequestrare una moglie giovane. Eppoi, eppoi,
donn'Angelica è troppo buona: mi guasterebbe.»

«Donn'Angelica?» ripetette sottovoce Sangiorgio.

Ma Giustini non lo intese: si era scappellato di nuovo, dinanzi a un
coupè che passava. Questa volta, la carrozza piccolina si fermò, una
manina lunga, inguantata di nero, abbassò il cristallo e chiamò a sè il
deputato toscano. Sangiorgio restò solo, a guardare il collega che,
appoggiato il corpo allo sportello, col capo dentro la carrozza, pareva
chiacchierasse.

Di lì a poco, Giustini ritornò presso Sangiorgio, e gli disse:

«Venga, La presento alla contessa Fiammanti.»

Sangiorgio non ebbe tempo nè di resistere nè di rispondere: si trovò
accanto alla carrozza.

«Contessa, l'onorevole Sangiorgio, deputato per Tito, meridionale e
novellino.»

I begli occhi grigi della contessa lampeggiarono di malizia: la sua
bocca sottile si piegò a un sorriso.

«Ho detto qui, a Giustini, di presentarvi, onorevole, dopo aver saputo
che siete del Mezzogiorno. Quanto vi deve sembrar noiosa Roma,
onorevole! Oh, Napoli è così bella, io l'adoro, signore! Mio marito era
napoletano: io ho imparato da lui l'amore per Napoli e per tutte le cose
di laggiù. Vedete, io do subito del _voi_. Quel vostro _Lei_, Giustini,
che orrenda cosa! Io preferisco di non udirvi, quando dovete parlare in
quel modo glaciale.»

«Per questo non mi lascia dire mai, contessa, quando comincio...»

«A farmi la corte? no, caro Giustini, vi voglio troppo bene per
lasciarvi continuare. L'amore è una vecchia farsa, di cui nessuno ride
più. Vi par viso da pianto, il mio? Onorevole Sangiorgio, noi dobbiamo
sembrarvi molto frivoli, nevvero? Sappiamo anche esser seri: per
esempio, quando Giustini mi racconta la politica. Mi interessa
moltissimo la politica: mi ci diverto. E voi?»

«È la sola cosa che m'interessa,» disse, un po' rudemente, Sangiorgio.

«Oh, quanto mi ci diverto!» esclamò la signora, senza mostrare di aver
notata la scortesia.

«Per divertircisi bisogna non amarla assai,» mormorò Sangiorgio, ma con
tanta espressione che la bella contessa, profumata di viole, lo guardò
un momento.

«Dunque, Giustini, fra un paio d'ore, nevvero? Onorevole Sangiorgio,
sono in casa tutte le sere dispari, il tre, il cinque, il sette. Non vi
obbligherò a prendere il thè. Si fuma da me. Io canto abbastanza bene.
Non ci sono altre donne. Arrivederci, onorevole.»

E appena essi si scostarono, la carrozza fuggì verso Roma.

«Che è questa signora?» chiese Sangiorgio a Giustini.

«Che gliene importa, a Lei? Non Le piace?»

«... Sì, mi piace.»

«Ebbene, ci vada, la sera: si divertirà. È seducente, non bella: certe
sere è irresistibile. Canta benissimo. Talvolta, non spesso, ha dello
spirito. Parla troppo. È una buona figliuola.»

«Che donna è?» insistette Sangiorgio.

«Che posso dirle?» e si strinse nelle spalle. «Non sono giunto a essere
suo amante; dipenderà da quella quistione del _voi_ e del _Lei_.»

«E si chiama?»

«Donna Elena Fiammanti.»

Erano giunti sul piazzale dell'Accademia di Spagna, deserto in quella
rapida caduta di sole invernale.

«Ecco Roma!» disse Giustini, innanzi al parapetto della terrazza.
«L'aveva mai vista, tutta, così?»

«No, mai.»

«È grande, grande assai,» disse sottovoce il maligno deputato toscano,
con una malinconia nell'accento.

«Pare che dorma,» rispose anche sottovoce Sangiorgio, come se parlasse
in una chiesa.

«Dormire? Non se ne fidi, non dorme, ella se ne sta quieta e guarda e
pensa. Vede laggiù, lontano, a sinistra, quella cupola chiara chiara che
si confonde nella bianchezza del cielo? È San Pietro. L'ha visto? Sì.
Una grande chiesa, deserta e inutile, nevvero? Dopo San Pietro, un
grande gruppo di edifici, quà e là tagliati dal verde dei giardini:
sembrano piccoli, di quà, quegli edifici e avvolti in un sonno profondo.
È il Vaticano, quello: vi è il papa, là dentro. Ha settant'anni, è
gracile, soffre, la morte gli è sopra, che importa? Egli è forte. Quanta
gente crede in lui, tende a lui le mani, si prostra innanzi a lui, prega
nel suo nome, muore nel suo nome! Noi contiamo, esultanti, le schiere
degli atei e degli scettici: chi può contare quelle dei credenti? Ci
crede Lei, in Dio, onorevole?»

«No.»

«Neppur io. Ma il papa è forte. Egli ha per sè gl'infelici, gli
sciocchi, gli umili, i giovanetti, le donne: le donne che si trasmettono
di madre in figlia, non la religione, ma il culto. Le pare che si dorma,
laggiù, sulla sponda del fiume, in quel grande palazzo dove Michelangelo
ha dipinto? È il Vaticano, quello: tutta una idea colossale a cui serve,
da cui si dirama una popolazione di cardinali, di vescovi, di parroci,
di preti, di monache, di frati, di seminaristi, di chierici, e costoro
non pregano, non officiano, non cantano soltanto: stanno nelle case,
penetrano nelle famiglie, insegnano nelle scuole, essi stessi amano,
odiano, godono, vivono, per sè e per il loro interesse, per la Chiesa e
pel papa! Chi può misurare la loro forza, la loro espansione, la loro
potenza?»

«Roma non crede,» interruppe Sangiorgio.

«Non parlo di fede, io. Glorifico la religione, forse? La grande fola è
finita, ma l'interesse umano vive e si moltiplica. Noi passiamo accanto
a questo grande fermento e non ce ne accorgiamo. Viviamo presso un
enorme mistero agitantesi nell'ombra, senza sospettarne l'esistenza.»

Giustini taceva, fissando ancora gli occhi sull'immenso paesaggio della
città che pareva annegata nel sottilissimo aere nebbioso sciroccale.
Sangiorgio ascoltava, turbato, con un palpito di ansietà nel cuore, come
all'appressarsi di un pericolo.

«Quello è il Quirinale: la regina, il re, la corte. Proprio lì, in
quella luce rosea. Quattro balli, otto ricevimenti ufficiali, quaranta
pranzi di parata, venti serate teatrali, quattro concerti, trenta
inaugurazioni, quattrocento presentazioni, brillanti al collo,
decorazioni sul petto, piume sui capelli, spalle nude, pasticci di
fegato grasso e quadriglie d'onore... chi pensa che vi sia altro? Ma
questa bella regina che saluta, con tanta amabilità, amici e nemici,
monarchici e repubblicani, è anche una donna che sente, che pensa, che
sa, che ascolta: ma questo re, carico di così pesante fardello,
obbligato così doverosamente a un'obbedienza continua, non è un uomo,
non ha anch'egli una coscienza, un criterio, una volontà? E tutta questa
gente di corte, militari e impiegati, dame d'onore e diplomatici,
maggiordomi e servitori, non si agitano, non lottano, non vivono forse?
E che? Una riverenza è tutta la loro manifestazione? Non sanno che
camminare davanti al re, in una sala? Chi dice questo? Non hanno amore e
odii e passioni furiose di ambizione? Ognuna, di quelle donne, non ha un
desiderio, un'invidia, un rimpianto amaro?»

Il brutto uomo, strisciando nervosamente le dita sul piano del
parapetto, aveva trovato un grosso frammento di calcinaccio secco: ne
staccava dei pezzetti e li buttava giù, per la proda verde. Francesco
Sangiorgio seguiva attento attento il moto delle mani magre e brune,
dalle grosse vene gonfie.

«Non si vede quel caldaione di Montecitorio,» riprese il deputato
toscano, con la voce diventata più aspra: «è affogato tra le case; noi
affoghiamo in esso. Un forno di cartapesta, dentro cui si cuoce
lentamente, con una cottura disseccante, temperatura da bachi che
addormenta tutte le audacie e riscalda tutte le timidità, che finisce
per dare una dannosa cocciutaggine a tutti gl'irresoluti, e che solleva
qualche pseudo-idea sotto il cranio dei cretini. Non si vede di qui il
paese della politica, color di legno, come il signor Comotto ha voluto
che fosse. Tutti gli abitanti di quel tamburone di cartone si agitano,
gridano o tacciono, per una legge, per una leggina, per una ferrovia,
per un ponte: più della legge, piccola o grande, più di ogni ferrovia o
di ogni ponte, esser ministro, portare un'uniforme, sentirsi assordato
dalla marcia reale nei paesi dove si arriva, aver per naturali nemici
gli amici di prima, sentirsi dare del ladro dai giornali, vedersi aprire
le lettere private da un segretario troppo zelante... e altre dolcezze
simili. Vi sono dei disgraziati che desiderano di esser segretari
generali! Uno di questi disgraziati sono stato io. Oh, brutto forno che
fai ridurre l'uomo come una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato
e consumato dalla inettezza di questo desiderio!»

Ora il cielo tutto bianco allo zenit si faceva di un bigio delicato
sulla linea circolare dell'orizzonte: una dolcezza serale saliva dalla
città nell'aria, come un velo finissimo. Francesco Sangiorgio provava un
malessere strano: Tullio Giustini gli sembrava più terreo, più brutto
che mai, in quel momento: ridendo, gli si scoprivano due fila di denti
giallastri.

«Com'è quieta la città!» riprese Tullio Giustini; «pare che si goda,
dormendo, la festa di Natale. Pare, pare, non è. Lassù, in quel verde
del Pincio e di villa Medici che discende fino a Via Babuino, i pittori
cantano, ridono, dicono delle eresie come teoriche d'arte, e producono
dei quadri che sembrano follie grandi. Che gliene importa, a loro? Per
consolarsi dell'insuccesso, hanno inventato la parola _borghese_, con
cui disprezzano il pubblico. In tutto quel biancore, dall'altra parte,
sono i _quartieri nuovi_. C'è stato mai? Settantamila impiegati,
famiglie, servi, cani e gattini: un attendamento di barbari disarmati e
affamati, che se ne stanno accoccolati lassù, guardando Roma e
odiandola, perchè non la possono capire, e perchè la trovano
esorbitante, mentre le loro donne fanno i figli e cucinano, pallide, col
seno smunto e colle mani rosse. Costoro avran festeggiato il Natale
nelle loro casette, sfogandosi a parlar male del governo, delle serve,
di Roma, del macellaio, come veri barbari, miserabili e ottusi. E i
Romani, i veri Romani della Regola e del Popolo, del rione Monti e del
rione Trevi, che mettono l'aggettivo _romano_ accanto al loro nome come
un titolo di nobiltà, che mangiano gli gnocchi il giovedì, la trippa il
sabato e l'agnello sempre, che amano il vino bianco e i fuochi
d'artifizio di Castel Sant'Angelo, che si vantano dell'acqua Marcia, e
fanno placidamente pullulare gli scarafaggi nelle loro case vecchie, i
Romani scettici, arguti, indifferenti e laboriosi, eccellenti mariti e
amanti affettuosi, quelli lì non dormono sicuro. E tutte le donne,
romane o napoletane, italiane o straniere, che passeggiano, stanno alla
finestra, discorrono, ridono, amanti baciano, e amate si fanno baciare,
non dormono, no!... le donne non dormono mai, neanche le notte. Oh, Roma
è così viva, mentre vi sembra immobile: essa è così grande, così
complicata, così delicata nel suo congegno, così potente nelle sue leve
di acciaio, che quando io mi piego a guardarla, di quassù, mi fa
spavento, come una macchina infernale.»

In quel tramonto crescente, Francesco Sangiorgio, tutto pallido, si
piegò macchinalmente a guardare anche lui, in giù, come per scoprire la
misteriosa macchina di Roma.

«E quel che si sogna, venendo qui!» seguitò Tullio Giustini, con un
breve riso sarcastico. «Tutta una serenità amorosa di grande città che
vi aspetta, poichè voi siete giovane e avete ingegno e volete lavorare e
non essere indegno della città augusta. Anche io ci son venuto così e mi
pareva che il primo cittadino romano dovesse abbracciarmi. Invece, dopo
tre o quattro anni di rodimento, di tormenti interni e di forti
delusioni, ho imparato varie cose: che ero troppo aperto per riuscire in
politica, che ero troppo brutto per piacere alle donne, che ero troppo
malato per riuscire in una scienza, che ero troppo duro per riuscire in
diplomazia. Questo ho imparato e da questo una verità fulgida come il
sole, terribile come la stessa verità: Roma non si dà a nessuno!»

«E che bisogna fare?» domandò, quasi tremando, Francesco Sangiorgio.

«Conquistarla.»

E Tullio Giustini, con la mano scarna, fece un largo gesto verso la
città.

«Conquistarla... Guai ai mediocri, guai ai paurosi, guai ai deboli, come
me! Questa città non vi aspetta e non vi teme: non vi accoglie e non
scaccia: non vi combatte e non si degna di accettare la battaglia. La
sua forza, la sua potenza, la sua attitudine è in una virtù quasi
divina: l'_indifferenza_. Vi movete, gridate, urlate, mettete a fuoco la
vostra casa e i vostri libri, danzate sul rogo: essa non se n'accorge. È
la città dove tutti son venuti, dove tutto è accaduto: che gliene
importa di voi, atomo impercettibile che passate così presto? Ella è
indifferente, è la immensa città cosmopolita, che ha questo carattere di
universalità, che sa tutto, perchè tutto ha veduto. L'indifferenza: la
serenità imperturbabile, l'anima sorda, _la donna che non sa amare_. È
lo scirocco spirituale, la temperatura tepida e uniforme, che vi fiacca
i nervi, vi ammollisce la volontà e vi dà, ogni tanto, le grandi
ribellioni interne e i grandi accasciamenti. Eppure vi dev'essere
qualcuno o qualche cosa che turbi questa serenità, che vinca questa
indifferenza. Qualcuno bisogna pur che la conquisti, Roma: sia pure per
dieci anni, per un anno, per un mese, ma conquistarla, ma prenderla, ma
far la vendetta di tutti i morti, di tutti i caduti, di tutti i deboli
che hanno toccato le sue mura, senza poterle superare. Oh, costui,
bisogna che abbia il cuore di bronzo, una volontà inflessibile e rigida;
bisogna che sia giovane, sano, robusto e audace, senza legami, senza
debolezze; bisogna che si concentri, profondamente, intensamente, in
questo unico ideale di conquista. Qualcuno deve conquistarla, questa
superba Roma».

«Io,» disse Francesco Sangiorgio.



PARTE SECONDA



I.


Il ministro parlava da un'ora. Non era un oratore: gli mancavano la foga
e l'eleganza. Era piuttosto un parlatore modesto, colui che non ricerca
verun effetto di eloquenza politica e dice le cose precisamente,
nell'ordine logico, matematico, con cui si presentano in un cervello
quadrato e solido. Il discorso era, com'è naturale, irto di numeri, una
sfilata interminabile di cifre: egli le pronunziava con una certa
lentezza, quasi volesse farle apprezzare ad amici e nemici. La voce era
un po' molle, troppo familiare forse, ma nel silenzio si effondeva con
chiarezza: pareva di assistere a una seduta di consiglio amministrativo:
l'intonazione parlamentare mancava affatto. Il ministro, ogni tanto,
s'interrompeva, per soffiarsi il naso, con un grande fazzoletto di seta,
a scacchi rossi e neri. In realtà, in quella breve personcina
grassoccia, onestamente vestita di nero, in quel volto placido, raso
sulle labbra e sul mento, ma incorniciato inglesemente da due fedine
brizzolate, in quelle mani bianche e grassocce, in tutto quel senso di
calma e di meditazione che da lui traspirava, s'indovinava il grande
lavoratore di gabinetto, l'uomo che passa dodici ore al giorno al
ministero, innanzi a una scrivania ingombra di carte, scrivendo,
leggendo, compulsando registri, discutendo coi capi di servizio, coi
direttori generali. Così il ministro, l'uomo raccolto, concentrato in un
lavoro immane ma segreto, pareva spostato a dover discorrere innanzi ai
deputati; e dicendo delle cose importanti, facendo una relazione minuta
e profonda, egli conservava una bonarietà di scienziato che spiega
popolarmente l'altitudine della sua scienza.

La Camera taceva per rispetto, ma in verità era distratta. Erano così
sicuri di lui, i suoi amici! Egli era forte, anzi era tutta una forza,
metallica, massiccia, lucida, che gli ossidi della maldicenza politica o
della discussione non potevano corrodere. Gli stessi avversari suoi
ammettevano la sua potenza e contribuivano a rendere più grande il suo
trionfo. A studiarlo acutamente, si finiva per intendere com'egli fosse
fuori della passione politica, tutto preso dall'amore della finanza.

Poi l'atmosfera dell'aula conciliava un certo raccoglimento vago, senza
pensiero. Mentre fuori, a metà gennaio, spirava una tramontana secca,
fischiante e tagliente, uno dei tre giorni di freddo dell'inverno
romano, dentro l'aula le bocche dei caloriferi mandavano un continuo
alito di calore. Tutta chiusa, senza finestre, con qualche rara apertura
di porte nelle tribune, porte che si richiudevano subito, senza rumore,
come se strisciassero sul velluto, con quelle stuoie su cui si smorzava
ogni passo, l'aula aveva un aspetto fisicamente confortante. Con tutto
questo, il presidente, il bell'uomo cinquantenne, dal viso bruno e dai
capelli ancora tutti neri, aveva le gambe avvolte in una coperta di
velluto azzurro, foderata di pelliccia; e ascoltando il ministro, ogni
tanto dava uno sguardo circolare alle tribune, cercandovi forse una
persona. I segretari stavano immobili, seduti alla sua destra e alla sua
sinistra: Falucci, l'abruzzese, alto e nerboruto, con una zazzera
riccia, un po' brizzolata, diceva tratto tratto, sottovoce, una parolina
al bel Sangarzia che approvava col capo, senza rispondere, avvezzo alle
lunghe pazienze silenziose; Varrini, il calabrese gentile e
intelligente, dalla testa di sorcetto astuto, con una finezza di damina
sopra una gagliardia di tribuno, scriveva delle lettere; e Bulgaro, il
napoletano, faceva scricchiolare la sedia sotto il suo grosso corpo,
portando sul viso imbronciato le tracce di una noia quasi infantile. Non
più, come negli altri giorni, durante le piccole discussioni, al banco
della presidenza, un viavai di deputati che facevano un discorsetto col
presidente, scambiavano una barzelletta con qualcuno dei segretari e
ridiscendevano dall'altra parte: poi, una passeggiatina fuori, a brevi
intervalli, due chiacchiere fatte nella sala dei _passi perduti:_ la
seduta passava via. Ma il ministro faceva, oggi, una esposizione molto
seria; bisognava ascoltarlo, ministeriali e oppositori.

La destra, una sessantina, quasi tutti vecchi deputati di otto
legislature, ascoltavano senza attenzione, sapendo che quello era un
avversario invincibile, e avevano l'aria di veterani, consegnati al loro
posto, che non soffrono e non godono. La estrema Sinistra non ascoltava
punto, ma non turbava la discussione; essa disdegnava le quistioni di
ordine economico-amministrativo, non aveva studiato la finanza e
aspettava qualche discussione politica per fare un po' di chiasso: uno
della piccola falange, Degli Uberti, dormiva, nascondendosi
decorosamente la faccia tra le mani, un altro, Gagliardi, dormiva senza
celarsi. Solo sopra un banco del centro l'attenzione era sincera, quasi
di scolari ardenti innanzi alla parola rivelatrice del maestro. Dei
quattro deputati, giovani, intelligenti e ambiziosi: Seymour, anglico,
bruno, miope e corretto, prendeva delle note sopra una carta; accanto a
lui, la barba da nazzareno di Marchetti; Gerino, fiorentino, taciturno,
con una lunga barba bionda e fluente, un po' duro nel volto, passava
degli appunti a Joanna, il meridionale, bella testa contemplativa e
studiosa. Ma tutta la Camera, presidente, segretari, commissari,
deputati, subiva la molle influenza di quell'aria calda, di quel posto
chiuso, di quel silenzio che solo la voce tranquilla del ministro
interrompeva.

Le tribune erano affollate, caso strano in un giorno di discussione
finanziaria. Ma il freddo aveva, certo, sorpreso per le vie quelle
signore che se ne stavano nella loro tribuna, con le pellicce
sbottonate, le mani ficcate nel manicotto, la faccia rosea pel buon
caldo dell'aula: esse erano tutte felici di restar là, quantunque non
capissero nulla, sentendo la voce del parlatore come un ronzio,
rabbrividendo al pensiero di rimettersi per le strade, con quella
tramontana che faceva lacrimar gli occhi e arrossire il naso. Così la
tribuna pubblica era piena di gente: facce smorte e stanche di
sfaccendati, figure miserabili di sollecitatori che passano la giornata
a cercare il cugino di un amico di un deputato e che a una certa ora,
demoralizzati, tremanti di freddo, vengono a finire alla Camera, alla
tribuna pubblica, ascoltando senza batter palpebre. Anche la lunga
tribuna dei giornalisti era più popolata del solito e quelli della prima
fila fingevano di scrivere il sunto della relazione: ma chi scriveva una
lettera, chi un articoletto teatrale, chi disegnava un profilo
fantastico di Depretis, chi si esercitava alla calligrafia, scrivendo a
svolazzi il proprio nome; i giornalisti di opposizione avevano già in
macchina un semplice attacco tutto platonico, quelli ministeriali
decantavano già da dieci giorni la esposizione finanziaria del ministro,
tutti avevano un'aria tranquilla. Solo Gennaro Casale, impiegato
governativo, giornalista napoletano ed enfatico, nemico del governo
qualunque esso fosse, ci si riscaldava, e in fondo alla tribuna
esclamava:

«Signori, il pareggio è una slealtà ministeriale!»

Financo nella tribuna diplomatica, appoggiata alla balaustra di velluto
azzurro, si vedeva la snella persona e i grandi miti occhi profondi
della contessa Beatrice di Santaninfa, che non ascoltava, pensava.

Quando, alle quattro e mezzo, il ministro ebbe finito il suo discorso,
un grande movimento di soddisfazione, di ammirazione, piegò quelle teste
di vecchi e giovani parlamentari. Egli rassettava le sue carte nel
grande portafoglio, senza un tremito nelle mani, senza un mutamento di
colore nel volto. Poi, intorno gli si aggrupparono amici cadenti e amici
tiepidi, per stringergli la mano, per congratularsi con lui: financo
qualche ex-ministro delle finanze discese dai banchi di destra a
salutare il piccolo ministro grassoccio, dal cervello di acciaio. Vi fu
un po' di disordine, un po' di tumulto. E la voce del presidente, sonora
e chiara:

«Onorevoli colleghi, prego far silenzio. La parola è all'onorevole
Sangiorgio».

«Chi? chi? chi?» fu una domanda generale.

E di nuovo, il presidente disse:

«Prego far silenzio. L'onorevole Sangiorgio ha facoltà di parlare».

Allora gli occhi curiosi dei deputati cercarono questo collega che quasi
nessuno conosceva: era lassù, all'ultimo banco di un settore del centro
destro. Stava ritto e calmo, aspettando di poter parlare: anzi si trasse
quasi sulla scaletta, fuori del banco, perchè lo vedessero meglio. Non
era alto, ma lassù pareva alto, poichè si teneva dritto ed era molto
robusto: non era neppur bello, ma la testa aveva tutt'i caratteri della
forza, i capelli piantati rudemente sulla fronte bassa, il naso
aquilino, i mustacchi bruni e folti, un mento duro, pieno di volontà: a
nessuno egli parve insignificante. Poi, una curiosità diversa nasceva
ora nella Camera. Questo deputato nuovo parlava in favore o contro? Era
uno dei piaggiatori che appena arrivati, si affrettano a far
dichiarazione di fedeltà?

O qualche piccolo insolente che avrebbe balbettato, innanzi alla Camera,
un debole attacco, affogato tra i mormorii ironici dei colleghi? Un
meridionale, avvocato: ecco quello che si sapeva. Dunque avrebbe
declamato: la solita rettorica che i Piemontesi odiano, i Milanesi
deridono, e i Toscani disprezzano.

Invece l'onorevole Sangiorgio cominciò a parlare lento, ma con voce così
sonora e virile, che si allargava in tutta l'aula e per cui tutti gli
ascoltanti respirarono di soddisfazione. Persino le signore, che quasi
dormivano pel calduccio, si riscossero: e nella tribuna della stampa,
rimasta vuota dopo il discorso del ministro, i giornalisti cominciarono
a ricomparire, riprendendo i loro posti. L'onorevole Sangiorgio
preludiava con un esordio pieno di riverenza per l'illustre uomo che
dirigeva la finanza italiana, e l'elogio non aveva nulla dell'adulazione
brutale: era dato con una forma sobria e delicata. Fuggevolmente, il
parlatore accennò alla propria giovinezza, alla oscurità di colui che,
costretto alla vita provinciale, volse gli occhi sempre verso Roma, dove
ferve una continua e nobile lotta politica. Egli esaltò la politica,
dicendola più grande dell'arte, più grande della scienza: in essa si
compendiava tutta la storia dell'attività umana, e a lui l'uomo politico
pareva il tipo supremo dell'uomo, apostolo e operaio, braccio e testa.

Un _bene_ squillante partì dalla destra. L'onorevole Sangiorgio si fermò
per un minuto secondo: ma solo un minuto secondo. Però quel richiamo
alla sublimità dell'idea politica, quella specie di idealità larga, a
cui era portata una cosa che nelle mani degli uomini diventa volgare,
era piaciuto generalmente, e aveva fatto ringalluzzire una quantità di
teste piccole. Il ministro, che sul principio aveva rizzato il capo,
fissando bene l'oratore coi suoi occhi di un azzurro pallidissimo, ora
lo aveva di nuovo abbassato, sentendosi venire addosso un discorso di
parole, di quelli che lo imbarazzavano e lo stizzivano.

Sangiorgio però diceva che quegli anni di giovinezza in provincia non
sono inutili, a chi vuol sorprendere il mondo moderno in tutt'i suoi
bisogni. Le grandi città sono invaditrici, divoratrici, e hanno
necessità di vivere dell'esistenza altrui, e sfruttano forze, e affogano
lamenti, e danno all'uomo che ci vive una tal febbre, che lo fa
dimentico di qualunque altro interesse umano. Chi le sa le miserie delle
provincie? Chi si fa l'eco di quegli sfoghi dolorosi e sommessi che non
possono arrivare sino a Roma? Certo, alcuni valenti e buoni e
coraggiosi, ogni tanto, narrano alla Camera le pene di tanta parte
degl'Italiani; ma sono voci isolate, si affiochiscono, poi tacciono.
Eppure non bisogna tacere: bisogna che la verità si sappia.

Ora la Camera ascoltava attentamente, con un certo interesse meno
ironico, più benevolo. Era una neutralizzazione allo stento, alla
difficoltà di comprensione che presentava il discorso antecedente del
ministro: dopo una tensione dolorosa di due ore e mezzo a seguire il
ballo fantastico delle cifre, quella eloquenza abbastanza semplice
sollevava gli spiriti oppressi. Eppoi, in quella calata di giorno,
freddissima e oscura fuori, beneficamente calda e chiara dentro l'aula,
la Camera era presa da una sentimentalità, da un gran bisogno di affetto
e di generosità. Di che si lagnavano le province, dunque?

Sangiorgio proseguiva, dicendo che tutta la triste esperienza della sua
gioventù, a contatto coi contadini, si era ribellata a una proposta del
ministro, che pareva molto innocente. Il ministro aveva detto che,
dovendo dare dei milioni al collega della guerra, era mestieri fare
ancora delle economie. Benissimo; l'economia era una forza nelle nazioni
giovani. Ma il ministro chiedeva inoltre un piccolo aumento sulla tassa
del sale. Sangiorgio intendeva la necessità di Stato che obbligava il
ministro a chiedere quell'aumento di tassa, ma quei pochi centesimi
rappresentavano una sequela di guai, un aggravamento a condizioni di
vita già insopportabili. E allora egli rifece con vivezza il quadro
della miseria contadinesca, così maggiormente e diversamente terribile
della miseria cittadina, narrando coi particolari più veristi, con
aneddoti brevi e lugubri, dove abitavano i contadini, quello che
mangiavano, cioè come digiunavano, e come l'esattore delle tasse fosse
per loro lo spettro pauroso della fame e della morte. Egli descrisse
tutta la nudità rossastra del grande paese di Basilicata, le frane che
ruinano dai monti dispogliati, andando a coprire i pochi pascoli, e la
lontananza dei villaggi poveri dalla linea ferroviaria, onde la nessuna
possibilità d'industrie, e la malaria della pianura dove gli ingegneri,
i cantonieri e i capistazione prendono le febbri.

Parlando del proprio paese, così misero, tanto infelice, la voce gli si
era abbassata, come se una emozione la velasse: ma si rinfrancò subito,
andando alla questione. La tassa sul sale colpiva le classi povere, più
nelle province che nelle città: già mangiavano la minestra con poco
sale, ora l'avrebbero mangiata senza sale affatto. E le ultime verità
igieniche, crudeli ma precise, stabilivano nella scarsezza del sale la
origine delle fiere malattie dei contadini nella Lombardia e nel
Piemonte.

Un mormorìo di approvazione corse per certi banchi: quello dove stavano
le quattro teste giovani e vive del centro, Seymour, Gerini, Joanna e
Marchetti, prestava la maggiore attenzione, ma senz'approvare, con
quella rigidità inglese dei giovani deputati economisti.

«Nelle piccole città, nelle borgate, nei villaggi meridionali»,
proseguiva Sangiorgio, «i fornai hanno sempre due qualità di pane:
quello insipido che costa poco, pei poveri, e quello salato pei signori.
E a quello salato, spesso i fornai dànno il sapore, non col sale, perchè
costa troppo caro, ma passando sulla pasta fresca un panno bagnato
nell'acqua di mare; e nelle case povere si usa un sale grosso, nero,
grezzo, che si dovrebbe vendere solo per le bestie, ma che sono
costretti a comperare gli esseri umani. Coll'aumento della tassa, il
governo condannerebbe tutta una classe di contribuenti a privazioni
intollerabili, cui terrebbero dietro gravi malattie e sempre più
profonda miseria.

«I milioni spesi per la difesa nazionale, per l'esercito, sono
santamente prodigati; ma è egli necessario essere forti, quando si è
così poveri? Quando il ministro della guerra chiamerà sotto le armi i
giovani di Basilicata e crederà di trovare una schiera di montanari
robusti e animosi, sarà deluso vedendosi davanti un branco di esseri
pallidi e rosi dalle febbri, cachettici, malinconici. O piuttosto,
questo non accadrà; le province aride e infruttifere si vanno sempre più
spopolando; il contadino, desolato dalla durezza della terra, angariato
dal fisco, abbandonato dalla natura, perseguitato dagli uomini,
preferisce voltare le spalle al proprio paese e andarsene nei lidi
lontani di America. Il contadino preferisce una gente straniera, un
paese straniero, donde non si ritorna più. Quando si chiameranno
all'appello della guerra i figliuoli italiani di Basilicata, essi non
risponderanno: spinti dalla fame e dalla disperazione, essi saranno
andati a perire lontano.»

L'onorevole Francesco Sangiorgio rientrò nel suo banco e sedette al suo
posto. Dei _bene_, dei _bravo_ gli giungevano agli orecchi, ma
confusamente: sentiva quel ronzio di discussione che tien dietro a ogni
discorso importante. Giusto innanzi al suo settore, un gruppo di
deputati si era formato e fra loro discutevano un po' forte, nominando
ogni tanto l'onorevole collega Sangiorgio, volgendosi a lui, quasi a
chiamarlo in appoggio. E stando fermo al suo posto, con le palpebre
abbassate, senza che nessuno venisse a stringergli la mano, poichè
nessuno lo conosceva, Francesco Sangiorgio sentiva però salire fino
all'ultimo banco dov'egli sedeva la soddisfazione di tutta la Camera:
della vecchia destra, carezzata nel suo orgoglio politico; della estrema
sinistra, che credeva di avere scoperto un socialista in un deputato del
centro; di tutti i deputati egoisti e sentimentali, pronti a
impietosirsi a tutte le disgrazie, senza cercare di porvi rimedio; di
tutti i deputati economisti, con vaghi ideali di socialismo agrario.
Questo discorso, che in altra occasione sarebbe passato come uno
squarcio qualunque di letteratura, assumeva oggi una grande importanza:
trionfavano con Sangiorgio i modesti e intelligenti deputati di
Basilicata, che una strana fatalità teneva sempre lontani dal potere;
trionfavano tutti gli avvocati, a cui par solo debba spettare il regno
parlamentare; trionfavano tutti i meridionali, in genere, a cui è sempre
un po' lesinato il successo. La Camera, infine, in certe ore di bontà,
presa da un abbandono amoroso quasi femminile, si compiace a questi
battesimi pieni di superbia e pieni di dolcezza.


Ogni minuto, la porta a cristalli della sala terrena, N. 9, in Via della
Missione, si schiudeva per lasciar passare una nuova persona. Quelli che
erano già nella sala, seduti sui divanetti, o in piedi, rivolgevano al
nuovo venuto una occhiata astiosa: colui che entrava, frettoloso e
freddoloso, andava diviato al grande banco che divide in due la sala
terrena, prendeva una piccola scheda, vi scriveva il proprio nome e
quello del deputato che desiderava vedere: e come costui, ve ne erano
sempre cinque o sei che scrivevano sulle piccole schede. Dall'altra
parte del banco, gli uscieri, in uniforme, col petto coperto di
medaglie, con una fascia tricolore al braccio, teste calve, teste
canute, andavano e venivano, portando via, a cinque a cinque, quelle
schede, comparendo dietro una porta, che per certi corridoi dava accesso
all'aula. Soddisfatto, colui che aveva mandata di là la sua richiesta si
metteva a passeggiare, o, se vi era posto, a sedere, senza impazienza,
anzi con una certa sicurezza presuntuosa. La porta sacra si schiudeva, e
un usciere ricompariva, con varie schede tra le mani: tutti alzavano il
capo e tendevano l'orecchio.

«Chi ha cercato l'onorevole Parodi?» gridava l'usciere.

«Io,» rispondeva una voce tra la folla degli aspettanti.

«Non vi è.»

«Avete cercato bene?» insisteva la voce, un vecchio col naso rosso e
fiorito, con certe labbra grosse e pavonazze.

«L'onorevole Parodi non vi è,» replicava lo usciere con pazienza.

«Eppure ci dovrebbe essere,» mormorava l'altro.

«Chi ha chiesto l'onorevole Sambuchetto?»

«Io,» rispondeva un giovanotto, dal viso smorto e dal soprabito gramo,
col bavero alzato.

«Vi è, ma non può venire.»

«Perchè non può venire?» chiedeva, con tono insolente, il giovanotto,
quasi facendosi livido.

«Non ha scritto altro: non può venire.»

Il giovanotto si mescolava alla gente che riempiva la stanza, ma non se
ne andava: restava rabbioso, borbottando, col cappelletto abbassato
sugli occhi, con una cera di malcontento poco promettente. Del resto,
tutt'i visi della gente che andava e veniva impaziente, in quella sala,
o se ne stava accasciata sui divanetti appoggiati al muro, tutti quei
visi avevano un'impronta di tristezza, di fastidio, di sofferenza
repressa. Pareva l'anticamera d'un medico celebre, dove vengono a
riunirsi, l'un dopo l'altro, gl'infermi, aspettando il loro turno,
guardandosi intorno, con l'occhio vago di chi non s'interessa più a
nulla, col pensiero sempre rivolto alla propria infermità. E come in
quell'anticamera lugubre, che chi l'ha vista una volta, per sè o per una
persona cara, non può dimenticare; come in quella stanza si riuniscono
insieme tutt'i malori che tormentano il povero corpo umano: il tisico
con le spalle strette e curve, il collo sottile e gli occhi nuotanti in
un fluido morboso; il cardiaco dal viso pallido, dall'arteria grossa,
dalle mani giallastre e gonfie; l'anemico dalle labbra violacee e dalle
gengive bianche; il nevrotico dalle mascelle rimontanti, dai pomelli
sporgenti, dal corpo scarnato, — e tutte le altre malattie ignobili o
pietose, che torcono le linee del viso, che serrano nervosamente le
bocche e danno quel calore insolito alle mani, quel calore che fa
spavento alle persone sane; — così in quella stanza fredda, venivano a
raccogliersi tutte le miserie morali umane, di tutto dimentiche,
concentrate nella propria pena.

Vi era il giovanotto che ha fatto il maestro elementare senza patente, è
venuto a Roma per avere un impieguccio qualunque, e poichè gira da un
mese invano, timido, ha finito per chiedere un posto di servitore che
non vogliono dargli, perchè ha l'aria poco servile; l'ex-impiegato del
Banco di Napoli o di Sicilia che fu destituito per malversazione dodici
anni fa sotto il partito di destra e ora vuol essere reintegrato dal
partito progressista che ha sempre servito fedelmente; l'industriale
dalle speculazioni vacillanti, che deve pagare una fortissima multa al
fisco, perchè non ha fatto registrare un contratto, e che spera nella
grazia del signor ministro per essere assoluto dall'ammenda inflittagli;
la vedova del pensionato accompagnata da un bambino tutto piagnoloso pel
freddo, che chiede da dieci mesi una prenditoria del lotto, rinunziando
alla pensione; il fannullone che sa far di tutto e non è buono a niente,
che vuole assolutamente un posto, qualunque sia, col pretesto che,
mentre alla Camera e ai ministeri ci sono tante bestie, anche lui deve
prender parte alla cuccagna.


E le variazioni dei bisogni, delle necessità, sono infinite: ognuna di
quelle persone ha dentro l'anima un cruccio, un desiderio insoddisfatto,
una illusione vivace e tormentosa, una cura segreta, un'asprezza di
aspirazione, un malcontento: e sulle facce corrisponde una contrazione
spasmodica, uno stringimento di labbra colleriche, una dilatazione di
nari che tremano all'urto nervoso, un aggrottamento di sopracciglia che
contrista tutto il viso, una convulsione di mani che si serrano nelle
tasche del _paletot_, una curva malinconica nel sorriso femminile che va
discendendo di delusione in delusione: e insieme un concentramento
profondo, una dimenticanza di tutti gli interessi altrui, un pensiero
unico, una idea fissa, per cui si guardano, s'incontrano, si urtano, ma
par quasi che non si sentano e non si vedano. La sala è sudicia sul
pavimento, sporcata dai piedi che hanno attraversato le pozzanghere dei
vicoli, tutta macchiata di grossi sputi di persone raffreddate.

«Chi ha chiesto l'onorevole Moraldi?» grida la voce dell'usciere.

«Io», risponde un vocione imponente, un uomo grasso e grosso, con la
pappagorgia rossa.

«Prega di aspettare un poco: parla il signor ministro.»

E il grosso uomo si pavoneggia nel suo soprabitone caldo, che descrive
una curva sensibilissima sulla pancia. Qualcuno lo guarda con invidia,
poichè il _suo_ deputato lo ha almeno pregato di aspettare, mentre altri
si dànno per assenti, o mandano secco secco a dire che non possono
venire. Forse lo invidiano per quel soprabitone caldo, poichè quanti
abiti troppo leggieri coperti da un meschino _paletot_ ragnato, quante
giacche di autunno portate ancora nell'inverno, con una disinvoltura
rassegnata, quanti calzoni _sale e pepe_ sotto un soprabito verde,
quanti calzoni di un giallore offuscante sotto la stoffa color cannella
di un vecchio e logoro soprabitone!

Il movimento continuava; quelli che avevano avuto un rifiuto definitivo
restavano un po' indecisi, con la faccia smorta, guardando verso
l'uscio, quasi non avessero il coraggio di uscire, pel freddo; poi si
decidevano ad andarsene, le spalle curve, lentamente, senza voltarsi.
Per uno che ne usciva, due o tre ne entravano: la sala non si vuotava
mai: gli uscieri andavano e venivano da quella porta, che pareva quella
di un tabernacolo: le risposte negative piovevano.

«Chi ha cercato l'onorevole Nicotera?»

«Io,» rispondeva un uomo alto e magro, con un collo scarnato, una faccia
scheletrita, con pochi peli incolori.

«Vi è: si scusa, non può venire.»

L'uomo dalla magrezza fantastica si piegava in due, come un bruco, sul
banco, scriveva un'altra scheda, la consegnava a un altro usciere, che
tornava, gridando:

«Chi ha chiesto l'onorevole Zanardelli?»

«Io,» rispondeva quella vocetta sibilante.

«Vi è: parla il ministro, non può venire.»

Lo spettro scriveva ancora, senza perdere la pazienza.

Ma un deputato, più arrendevole, era uscito all'appello di colui che lo
desiderava, accogliendolo con una certa premura frettolosa,
conducendoselo nell'altro salone dove avvengono le conversazioni fra
clienti e deputati. In quel salone vi erano tre o quattro signore,
sedute nell'ombra, aspettando, con le mani nel manicotto. Il deputato e
il cliente andavano su e giù: il cliente discorreva con vivacità,
gesticolando, e l'onorevole lo ascoltava, con gli occhi bassi,
attentamente, chinando il capo ogni tanto per approvare.

Nella sala d'aspetto l'attesa aveva stancato tutta quella gente: una
lassezza fisica e morale piombava su loro: la nuova delusione, in quella
caduta di giornata, spezzava le loro gambe; qualcuno si appoggiava al
muro; sulle ginocchia della vedova il bimbo si era addormentato, un
silenzio regnava. E miserie vere o false miserie, desiderii di cervelli
oziosi, o pii ferventi desiderii di anime laboriose, necessità in cui il
vizio ha fatto precipitare o infortuni immeritati, ambizioni modeste,
fantasticherie di nervi esaltati, sete di giustizia di mattoidi
ostinati: tutta questa intima pena umana, sopportata in silenzio, si
confondeva in un senso di oppressione, di mestizia, in un sentimento di
abbandono, in un rammarico sconsolato di essere venuti là, un'altra
volta, a picchiare a quella porta che non voleva aprirsi. Già ardevano
le fiammelle del gas, vivamente, ma battevano sopra facce scomposte, in
una prostrazione, in una immobilità di gente morta. Tre uscieri vennero
fuori dalla porta, uno dietro l'altro:

«Chi ha chiesto l'onorevole Sella?»

«Chi ha chiesto l'onorevole Bomba?»

«Chi ha chiesto l'onorevole Crispi?»

«Io, io, io,» rispose la vocina piccola dell'uomo scheletro.

«L'onorevole Sella non può lasciar l'aula».

«L'onorevole Bomba è occupato nell'aula».

«L'onorevole Crispi è nella commissione del bilancio».

Tranquillamente l'essere scheletrito scrisse una altra scheda e la porse
a un usciere.

«Scusi,» osservò quello, «non possiamo chiamare i signori ministri e
specialmente il presidente del consiglio».

«E perchè?» fece lo spettro, meravigliato.

«È il regolamento».

Ma quello, sempre paziente, scrisse un altro nome e si mise a
passeggiare su e giù, sorpassando la statura di tutti. Qualcuno
cominciava ad andar via, trascinando il passo, portando seco la
umiliazione di quella lunga attesa inutile; altri, prendendo una
risoluzione disperata, uscivano di là per andare a piantarsi, nel freddo
serale, innanzi alla porta di Montecitorio, aspettando i deputati
all'uscita; altri, più timidi, restavano ancora: il gas dava un po' di
calore, alla fine della seduta qualche deputato sarebbe comparso. Un
_coupé_ si fermò davanti alla porta, restò chiuso, un servitore scese di
cassetta, entrò, consegnò un biglietto ad un usciere e stette
aspettando, con l'aria indifferente della gente comandata. Un usciere
gridò:

«Chi ha chiesto l'onorevole Barbarulo?»

«Io», fece la fantasima.

«Non vi è.»

«È in congedo?»

«E morto da quattro mesi.»

Questa notizia colpì l'uomo-cadavere: egli pensò un momento, ma forse
non trovò altro nome da chiamare e se ne andò, lentamente, anche lui.
Dopo un minuto, Francesco Sangiorgio attraversò la sala, parlò col
servitore — due parole — e accompagnato da lui fin sulla piazzetta,
entrò nel _coupé_, vibrando ancora pel successo.

«Mi congratulo sinceramente,» disse donna Elena Fiammanti, stringendogli
la mano.

Il _coupé_ filò via. Nella sala il viavai cessava, il bimbo gridava,
svegliato dalla mamma, gli uscieri si sedevano un momento, stanchi: due
deputati, uno con tre interlocutori, un altro con due signore,
chiacchieravano nel salone attiguo.


La vampa ardeva, piccolina, nel caminetto: tre ceppi in triangolo
bruciavano, alle punte. Donna Elena stuzzicò un poco la cenere calda e i
carboncini accesi, ne schizzò fuori qualche scintilla, i tre ceppi
s'infiammarono. Ella si rialzò subito: si stirò, con un moto macchinale,
la maglia di seta nera sui fianchi.

«Vi piace la vampa, Sangiorgio? Vi dev'esser freddo laggiù, in
Basilicata».

«Molto freddo», diss'egli, sedendosi in una poltroncina. «I caminetti
eleganti non ci sono: ci sono certi larghi e alti camini, sotto la cui
cappa, a destra, si pone un banco di legno. Ivi siede il capo della
casa, nell'inverno, e attorno i figliuoli e i parenti».

«Io amo molto il fuoco, nel caminetto,» diss'ella, con gli occhi
socchiusi, come gravi di languore; ma quando vi è qualcuno. Da sola, mi
contrista».

Parlava, con le due braccia abbandonate lungo i bracciuoli del suo
seggiolone, appoggiando la testa alla spalliera. La luce della lampada
faceva scintillare l'oro con cui era ricamato l'alto goletto della sua
maglia e traeva una scintilla da una fibbia d'oro, sopra la scarpetta
nera: il piedino si avanzava, un po' grasso, ma inarcato.

«Non sarete mai sola, credo».

«No, mai,» rispose ella francamente; «la solitudine è odiosa».

«Infatti.....» assentì lui, vagamente.

«No, no, non mi date ragione per cortesia. Lo so che voialtri uomini,
massime quando avete una grande ambizione o un grande amore, desiderate
la solitudine. Ma noi donne, no. Noi abbiamo bisogno della gente. Se una
donna vi dice che preferisce la solitudine, non ci credete, Sangiorgio;
vi inganna per bontà o per non discutere. Esse sono tutte come me, o,
piuttosto, io sono donna come le altre. La gente mi diverte. Anche uno
sciocco m'interessa. Oggi, alla Camera, per esempio.....»

«Per esempio?...» fece lui, con un mezzo sorriso.

«Vi era uno sciocco dietro a me, nella tribuna della presidenza: mi ha
parlato di scempiaggini, per un'ora».

«E non vi ha seccato?»

«No, mi ha impedito di udire il discorso del ministro. Fumate?»

«Grazie».

Ella gli porse la scatola degli avana. La mano era grassoccina, con
certe unghie rosee, lucidissime.

«Avete fatto un bellissimo discorso, oggi, Sangiorgio», riprese ella,
accendendo una sigaretta gialla.

Sangiorgio alzò gli occhi su lei, senza rispondere.

«Se ci tenete, comperate i giornali domani: saranno pieni di voi».

«Non mi pare: il ministro è molto amato».

«Bah!... egli è come Aristide: i suoi concittadini si sono annoiati di
udirlo chiamare giusto. Non v'illudete per questa citazione, Sangiorgio:
io non so nè il greco, nè il latino. Sono ricordi di giovinezza, quando
leggevo».

«Ora non leggete?»

«No, i libri mi annoiano».

«Sono inutili».

Il cameriere entrò con un piccolo vassoio di bambù e col caffè: anche le
tazze erano giapponesi, di una porcellana delicatissima, azzurrina.

«Quanti pezzi?» domandò ella, tenendo sospesa la morsetta d'argento.

«Due».

Mentre prendevano il caffè, Sangiorgio guardava il salotto. Vi era stato
un momento, prima del pranzo, mentre la contessa era di là a cambiarsi
di vestito. Era un salotto piccolo, senza tavolini, senza mobili di
legno, tutto pieno di poltrone, poltroncine, divanetti, sgabelli, una
stanzetta senz'angoli: anche il pianoforte era dissimulato sotto una
quantità di stoffe turche e persiane: sul muro, un pezzo di piviale
roseo, ricamato in oro, brillava.

«Vedrete, vedrete, Sangiorgio: domani molti deputati vi si faranno
presentare. Voi godrete tutte le dolcezze del successo».

«Bisogna crederci all'ammirazione dei colleghi?»

«No, caro amico, ma goderne. Una quantità di cose umane, belle e buone,
sono false nella loro essenza. La saggezza è di approfittarne, di
prenderle come sono, senza chiedere di più».

E gli diede un'occhiata, alla sfuggita, rapidissima. Egli capì subito:
lo assisteva in quella piccola stanza la stessa lucidità che, nella
giornata, innanzi alla Camera, lo aveva soccorso nella sua audacia.

«Anche l'amore è così,» mormorò lui.

«Specialmente l'amore,» rispose donna Elena, spalancando i suoi occhioni
bigi che avevano delle tinte turchine, quella sera. «Vi siete mai
innamorato, Sangiorgio?»

«Mai molto,» disse subito lui, «... ancora,» soggiunse.

«Grazie. Quando v'innamorate, ricordatevene. L'amore è una cosa bella,
non bellissima: non bisogna chiedergli più di quello che può dare. Ma
l'uomo è esigente, l'uomo è egoista, l'uomo vuole la passione... e
allora... la donna dice la bugia. In realtà il sentimento è mediocre, ce
ne sono dei più forti, l'amore è una forma passeggiera, spesso
inefficace.»

E mentre ella spifferava questi paradossi romantici con un'aria un po'
pedantesca, le labbra incarnate si delineavano nella loro tumidezza, la
mano arruffava un poco i riccioli naturali della fronte, ella agitava in
su e giù il piedino grassoccio, la cui pelle traspariva dalla calza di
seta nera traforata. Sangiorgio, già familiarizzato, la guardava con un
sorriso un po' fatuo che ella forse non vedeva, infervorata nei suoi
paradossi.

«Anche la donna vuole essere ingannata,» continuò donna Elena, buttando
la sua sigaretta nel caminetto. « — Questi traditori d'uomini non sanno
amare! — le sentite gridare, e piangono e si disperano. Esse esigono la
fedeltà! la bella frottolina da raccontare ai bimbi. Come se si potesse
esser fedeli! come se non si avessero nervi, sangue, fantasia, tutte
cose contrarie alla fedeltà! Centomila lire di mancia a chi mi porti in
casa un uomo e una donna veramente fedeli, assolutamente fedeli!»

Francesco Sangiorgio aveva preso quella mano alzata: egli scherzava con
le dita, leggermente, intorno agli anelli di brillanti, intorno a
un'opale allungata, dalla tinta lattea. Sangiorgio abbassava ogni tanto
la testa sulla mano come per ischerzo, e finì per baciarla, sulla linea
del polso. Donna Elena non gl'inspirava più alcuna soggezione: gli
sembrava di essere in intimità, con lei, da un pezzo; gli venivano una
quantità di idee volgari; una leggera ebbrezza rimastagli dal giorno,
rinforzata ora da quell'ambiente femminile tutto profumato di
_corylopsis_, da quella donna provocante, da quelle parole che a forza
di paradossi diventavano brutali, gli faceva crollare il capo. Per
affermare questa sua intimità con donna Elena, avrebbe voluto
distendersi sopra un divano, o buttarsi sul tappeto, o gittare i
fiammiferi nel caminetto, fare delle impertinenze da bambino ineducato.
Resisteva a queste tentazioni con uno sforzo di volontà, ma il sorriso
ironico che piegava sdegnosamente il labbro inferiore di donna Elena, ma
il lieve fremito delle nari che animava quel grande naso aquilino
femminile — l'aristocrazia e la bruttezza di quel volto — lo eccitavano.
Piano piano le cavò gli anelli dalla mano sinistra, facendoli
ballonzolare nella propria mano; e in quella specie di ubbriachezza che
lo vinceva, il suo più forte desiderio era di cavarle una scarpetta, per
vedere il piedino che si sarebbe ripiegato, nudo nella calza, quasi
pudico.

«Certamente vi sono delle donne virtuose,» seguitò donna Elena: «chi lo
nega? È tutta un'altra quistione. Vi sono delle donne fredde, vi sono
delle donne che non amano. Io ne conosco varie: non molte, ma varie.
Allora non ci vuole una gran forza a restar fedeli. Donna Angelica, la
moglie di Sua Eccellenza, ecco una donna virtuosa! La conoscete, donna
Angelica, Sangiorgio?»

«... Sì... di vista,» mormorò lui.

E restò tutto imbarazzato, con quegli anelli in mano, non sapendo cosa
farne: finì per posarli sopra uno sgabello, senza osare di rimetterli
alla mano, donde li aveva tolti. D'improvviso, quella nebbia bassa che
gli offuscava il cervello si era dileguata, ed egli si vergognava di
tutte le ignobili cose da fanciullo, che aveva pensato di fare. Quasi
quasi avrebbe chiesto perdono a donna Elena: ma costei, forse, di nulla
si era accorta. Tutta nervosa ancora, si passava le mani sulle pieghe
della veste di lana nera, a stirarle, come se volesse far loro prendere
una tensione immutabile.

«Che ve ne pare della mia predica?»

«Sono un neofita ardente: non intendo tutto, ma ammiro,» rispose il
deputato, avendo ripreso elasticità di spirito, da poter esser frivolo.

«Vi farò della musica: questa la capirete,» disse ella, alzandosi a un
tratto: «Fumate, leggete o dormite: se non mi ascoltate, non importa:
io, la musica, la fo tanto per me che per voi.»

Dopo un momento, una voce delicata e toccante cantò le prime note
dell'_Avemaria_ di Tosti. Francesco Sangiorgio trasalì, come a un suono
inaspettato, impensato. Invero, la voce di donna Elena non rassomigliava
a donna Elena, o, piuttosto, le rassomigliava per un lato solo, e, per
gli altri lati, la completava.

Invero, donna Elena ritrovava, ogni tanto, nel canto, la nota _sua_, il
_suo_ carattere; ritrovava quella nota grave di contralto, un po' rauca,
calda, che scuote le fibre, quel tono basso e amoroso, che è una
confidenza passionata e una gelosia improvvisa: e per codesto lato la
voce le rassomigliava. Ma ella trovava anche la dolcezza molle di
intonazione, la purezza di una nota filata senza un tremolìo, la
delicatezza di un canto quasi infantile, la tenerezza fluida di una voce
innocente di giovanetta: ella ritrovava, nota eccezionale nel canto, una
voluttà quasi ideale, una trasfigurazione armoniosa della sensualità, un
poetizzamento supremo: per questo, la sua voce la completava.

Dimentica di colui che l'ascoltava, ella cantava, la testa un po'
arrovesciata, gli occhi tanto illanguiditi che le ciglia ombreggiavano
le guance, la bocca appena schiusa, senza fare una contorsione, la gola
che si gonfiava, bianca nel colletto nero e oro della maglia, con le
mani che scorrevano lievi lievi sui tasti, staccandosene delicatamente
come se li carezzassero. Una nuova dolcezza, una nuova serenità pareva
che si fossero diffuse per quella stanzetta, sin allora dominata da un
ambiente acre e provocante: una blandizie si allargava sulle cose
inanimate, temperandone la vivacità. Donna Elena cantava la malinconica
romanza di Schumann, il cui ritornello sembra più un novo contristamento
che un conforto, tanto la musica ne è acutamente triste:

    _Va, prends courage, cœur souffrant..._

e Sangiorgio l'ascoltava, pensoso, alla fine di quella giornata
trionfale, preso da una emozione ignota di dolore.



II.


L'ultimo veglione, l'ultimo martedì di carnevale, al Costanzi. La gente
minuta che di carnevale ha solo il veglione pel divertimento serale,
tutti gli studenti che hanno ancora dieci lire in saccoccia, tutti
gl'impiegati che si abbandonano a una piccola orgia onesta, tutt'i
commessi di negozio la cui bottega restava chiusa il domani, piccoli
avvocati e piccoli dottori, tutti costoro e altri ancora, sfilavano,
dalle dieci, attraverso le quattro porte rosse, che non si richiudevano
mai. Nel corridoio terreno, i guardarobieri perdevano un po' la testa,
numerando soprabiti e pellicce, unendo sciarpe, veli, bastoni e scialli
in pacchetti. La vastissima platea ingoiava gente, sempre, e non pareva
mai piena, malgrado quel brulichìo di persone, di colori vivi a fondo
nero. La gente si dava a quell'eterno passeggio circolare che è la nota
caratteristica del veglione romano. Ventiquattro pulcinella, una
chiassosa compagnia di giovanotti, tenendosi per la camicia bianca, l'un
dopo l'altro, correvano attraverso la sala, ridendo e gridando, come una
valanga di neve che precipiti, roteando. In mezzo alla sala, in un largo
circolo, erano riunite una quantità di mascherette femminili, per lo più
con una vesticciuola bianca e corta, una vera blusa infantile, stretta
un po' alle ginocchia da un largo nastro azzurro o rosso, con la
cuffietta bambinesca sul capo e un giocattolo tintinnante in mano:
l'economico, carino e provocante costume di _donna Juanita_, nell'atto
della Giamaica. Venute in buona compagnia, queste mascherette non
lasciavano mai il loro cavaliere; appena l'orchestra, dalla tribuna
elevata sul palcoscenico, dietro la grande fontana zampillante,
preludiava per una _polka_, le coppie si mettevano a girare, con una
gravità singolare, misurando il passo, strisciando per non urtarsi,
ballando con coscienza; quando la musica cessava, si fermavano di botto,
come sorprese: il cavaliere offriva il braccio alla dama, e senza
scambiare una parola, si davano alla passeggiata circolare; alle nuove
prime battute penetravano nuovamente nel circolo e ballavano ancora, con
una ostinazione quasi doverosa, mentre intorno a loro tre file di
spettatori ammiravano.

Tre ragazze, vestite di lana nera, con certi grembiuli bianchi e certi
immensi cuffioni di mussola bianca, si tenevano a braccetto e con un
filo di voci sottili, agitando le manine calzate di guanti neri,
andavano intrigando mezzo mondo. In un palco di seconda fila, un domino
femminile, scarlatto, di raso, con un cappuccio a cresta di gallo, se ne
stava solo, quieto, tenendo lungo il parapetto un braccio tutto rosso,
financo nel guanto. Qualche altro domino femminile elegante e misterioso
appariva qua e là: uno svelto, tutto azzurro, con un grande cappello a
forma di conchiglia schiusa; un altro di raso nero, col capo avvolto in
una blonda nera veneziana; una opulenta persona che lasciava vedere, dal
domino aperto, di broccato fiamma e oro, un vestito di broccato crema: e
altri ancora, seguiti da giovanotti che cercavano d'indovinarne la
figura. Ma la massa era formata dalle oneste famiglie borghesi, padre e
madre, figliuoli e figliuole, che venivano al veglione come a uno
spettacolo notturno di passeggiata, col vestitino di lanetta scura, il
colletto bianco, il cappellino nero piumato, e incontrandosi fra loro,
si fermavano, si salutavano, chiacchieravano, spassandosi con quella
serenità della borghesia romana che non si esalta mai.

La calca si faceva fittissima innanzi alle due _barcacce_ (palchettoni
di proscenio), dove i soci del _Club delle Cacce_, in marsina, cravatta
nera, gardenia all'occhiello, da una parte, gli ufficiali di cavalleria,
dall'altra, si piegavano a parlare, a ridere con gli amici che passavano
in platea.

Quando Francesco Sangiorgio entrò nell'atrio e comprò un biglietto di
ingresso, erano le undici e mezzo. Una figura femminile avvolta in una
stoffa ricamata, con la testa coperta e il volto nascosto sotto una
trina bianca, gli disse, con una voce finissima:

«Oh caro Sangiorgio, buona sera, perchè sei malinconico?»

«Perchè non ti ho riconosciuto ancora, carina».

«Tu non mi conosci, tu non devi conoscermi, tu non mi conoscerai mai. Io
lo so, perchè sei malinconico, Sangiorgio. Te lo dico in un orecchio:
sei innamorato».

«Di te, cara».

«Mi fai ridere: sei troppo galante: non si usa, al veglione. Sii
brutale, te ne prego; ne va del tuo decoro. Senti ancora: il Ferrante
non è più candidato a membro della commissione del bilancio. Si parla di
te: te lo avverto; sii cauto».

Egli restò colpito. Il domino sfilò tra la folla e scomparve. La notizia
lo aveva meravigliato molto: non se l'aspettava. Che ne aveva ricavato
dal suo grande discorso? Una discussione lusinghiera col capo della
destra, don Mario Tasca, l'oratore freddo, mite ed elegante, il moderato
socialista, l'uomo politico che aveva perduto il proprio partito per la
nebulosità delle proprie tendenze. E poi saluti, presentazioni, strette
di mano. Il ministro, rispondendo, aveva reso omaggio all'avversario, ma
aveva insistito sulla proposta, e la Camera aveva votato il bilancio con
una forte maggioranza. Chi si occupava più del suo discorso? L'onorevole
Dalma glielo aveva detto, con quel suo poetico cinismo parlamentare:

— In politica tutto si dimentica. —

Nel vestibolo, dove le coppie passeggiavano, tenendosi a braccetto,
discorrendo, dove gruppi di giovinotti si consultavano finanziariamente,
per metter su una cena, dove i domino solitari andavano su e giù
aspettando qualcuno che non veniva, Sangiorgio incontrò l'onorevole
Gullì-Pausania. Il deputato siciliano era addossato al muro, aspettando
anche lui, elegante e corretto nella marsina di meridionale galante, con
la barbetta castagna tagliata a punta, con gli occhi verdini che
cercavano nella folla e il _gibus_ che nascondeva la calvizie precoce,
per cui molte donne lo amavano.

«Oh caro Sangiorgio,» disse Gullì, con un forte accento siciliano:
«solo, solo, al veglione!».

«Solo: non aspetto nessuno, nessuno mi aspetta e l'onorevole mio collega
Gullì-Pausania non mi imita, certo....»

«Che ci volete fare?» rispose, ridendo, Gullì, «passiamo la vita ad
aspettare.....»

«Non la stessa persona, sempre, per fortuna».

«Oh no, sarebbe troppo grave... Nessuna notizia politica?»

«Nessuna, caro collega. Buon divertimento!»

«Grazie,» fece Gullì-Pausania, sorridendo con la sua fine aria
voluttuosa.

Sangiorgio entrò. Le palpebre gli battevano sugli occhi abbarbagliati.
Il teatro, nelle sue tre file di palchi, sulle gallerie, sul
palcoscenico, era strabbocchevolmente illuminato, e il fondo bianco
della sua decorazione ne raddoppiava il fulgore: sul palcoscenico, lo
zampillo della fontana, altissimo, era colorato di rosso da un raggio di
luce elettrica. La sala era piena: arrivava ancora gente dagli altri
veglioni, dai caffè, dai ricevimenti, dai balli. Non era più permesso nè
di fermarsi, nè di camminare presto: Sangiorgio principiò col non veder
altro che le spalle di un alto signore robusto che camminava innanzi a
lui, a diritta l'orecchio rosso di una _ciociaretta_, a cui certo era
troppo stretto il lacciuolo della mascherina, a sinistra il profilo
sperso di una giovanetta alta e magra, con gli occhi malinconici. L'alto
signore guardava a destra e a manca nei palchi, movendo una testa dalla
zazzera bionda, ripartita da una diritta scriminatura. Una volta che
costui si fermò per poco a guardare in un palchetto di prima fila, pieno
di domino neri che se ne stavano immobili e zitti zitti, Sangiorgio gli
si trovò accanto. Era l'onorevole principe di Sirmio che portava il
titolo di Altezza Serenissima ed era il più ricco signore di Roma.

«Buona sera, onorevole signor collega,» disse il principe, con quella
sua voce liquida e lenta, con quel tono di stanchezza fredda che era una
delle sue originalità. «Credo sia la prima volta che capita in uno di
questi luoghi di corruzione dove tutti si danno a una virtù scrupolosa.
Una virtù scrupolosa, non Le pare? Le avran detto che noialtri della
capitale si fa una vita sfrenata: invece, come vede, noi si gira in
tondo, con molta lentezza, _pour le bon motif_, poichè noi si cerca la
moglie, che dev'essere in un palco con sua sorella. Intanto si va tra la
folla, come vede, per sentire e sapere. Sento dirmi da tutti che son
democratico... e ubbidisco. Lei fa della politica, onorevole collega?
_Ce n'est pas le bonheur_, ma infine... io non ne fo più, da tempo
immemorabile. Il capo del mio partito è don Emilio Castelar: io sono
repubblicano spagnuolo. Se ne maraviglia?»

Francesco Sangiorgio sorrise e non rispose, il che fece piacere al
principe, poichè egli non amava troppo i parlatori e gli interruttori:
con quel suo discorrere molle molle, una interruzione lo seccava.

«Ah! ecco la moglie,» riprese Sirmio. «Chi sta nell'altro palco, accanto
a lei? Ah! è il ministro degli affari esteri con le sue figliuole, la
Grazia e l'altra che dovrebbe chiamarsi Giustizia, ma si chiama
Eleonora. La freddura non è mia, è di un giornale. Buona notte,
onorevole collega».

«Buona notte, principe».

Sangiorgio, invece di fare il giro minore intorno alla sala, faceva il
giro maggiore, ascendeva verso il palcoscenico, dove, dall'una parte e
dall'altra, lungo le quinte, stavano dei tavolini e delle sedie, e
tutt'intorno famiglie intiere borghesi che bevevano delle gassose, o
delle coppie inseparabili e annoiate che, non osando dividersi, bevevano
una tazza di birra. Egli rasentava la fontana che adesso la luce
elettrica tingeva di violetto, un colore delicatissimo, e passava fra la
vasca e il grande specchio del fondo, sotto la tribuna dell'orchestra.
Questa, a un tratto, scoppiò sul suo capo, con le prime note della
mazurka dei postiglioni del ballo _Excelsior_, che era popolare in
quell'inverno. Vi fu un momento di fluttuazione dal palcoscenico alla
platea, come se tutte le teste ondeggiassero a quel ritmo vivace: la
gente rifluì verso la platea a veder ballare. In un angolo di quinta, a
sinistra, solo a un tavolino, l'onorevole Schuffer beveva della birra
guardando la gente coi suoi occhietti chiari dietro gli occhiali,
rizzando ogni tanto il nasetto sottile e il mento arguto.

«Oh caro collega,» disse Schuffer con la dolcezza dell'accento
veneziano; «prende una tazza di birra con me? Ma già Lei è napoletano, e
non gusterà la birra».

«Grazie, grazie, onorevole, non prendo nulla: sono entrato adesso.»

«Io, da un'ora, ma in un'ora quante gomitate nelle costole, quanti
spintoni, quanti piedi passati sui miei! Mi sono rifugiato qua per
evitare le occasioni: Lei già saprà che io sono sfortunato, in certe
cose.»

Sangiorgio sorrise: l'onorevole Schuffer, con la sua aria di giovanetto
biondino e furbettino dalla zazzeretta ricciuta, aveva già avuto tre
querele per ingiurie. Questo deputato, fatalmente, capitava ogni tanto a
dover litigare con una guardia, con un facchino, con un capo-stazione,
con un cameriere di caffè: e mentre a cento altri deputati accadeva lo
stesso senza veruna conseguenza, a farlo apposta, la guardia, il
facchino, il capo-stazione, il cameriere gli davano querela; onde, di
tanto in tanto, la Camera era chiamata ad accordare l'autorizzazione a
procedere.

«Io ho imparato a bere la birra, viaggiando, andando al Giappone,»
proseguì Schuffer. «Gran paese quello, onorevole collega! Là non ho mai
litigato con alcuno, glielo assicuro.... Onorevole, Ella è ministeriale:
voterà Ella i milioni al ministro della guerra?» soggiunse, come colpito
improvvisamente da un'idea.

«E Lei, onorevole Schuffer?» rispose, pronto pronto, Sangiorgio.

«Io?... Io?...» fece quello, sconcertato, «ci debbo pensare. Ne dovremmo
parlare, non Le pare? metterci un po' d'accordo: è una cosa grave: la
guerra mangia tutt'i quattrini della nazione».

«Non chieggo di meglio, ne riparleremo, sicuramente. Buona notte,
onorevole Schuffer.»

La mazurka dei postiglioni riscaldava il veglione: ora si ballava in tre
circoli, presso la porta della platea, in mezzo alla sala, sul
palcoscenico. Una mascherina vestita da ufficiale dei bersaglieri, col
cappello piumato sull'orecchio, le braccia nude che uscivano di sotto le
frange dorate delle spalline, i calzoncini stretti al ginocchio, ballava
con una ragazza vestita da diavolo, serie serie, respingendo quelli che
volevano dividerle. Ora anche i palchi erano stati occupati dalle
signore che venivano dai ricevimenti, dai balli: tutta la prima e la
seconda fila eran piene. In quello subito dopo la _barcaccia_, in prima
fila, vi era la bellezza delicata e gentilmente fiorentina di Elsa
Bellini, maritata a Novelli, e quella opulenta e biondissima di Lalla
Terziani: le due signore venivano dal Valle. Con loro stavano Rosolino
Scalìa, il deputato siciliano dall'aria militare, il piccolo principe di
Nerola, nuovo deputato per gli Abruzzi, un giovanottino dall'aria fine e
dal mustacchietto nero, il cavalier Novelli e Terziani, i due mariti.

«Onorevole Sangiorgio?» fece il piccolo principe, piegandosi sul
parapetto del palco.

«Onorevole collega?» fece quello, alzando il capo.

«Se vedete Sangarzia, non vi dispiaccia di dirgli che sono qui.....
Sapete chi porteranno, dopodomani, alla commissione del bilancio?»

«L'onorevole Ferrante, com'è naturale.»

«Non credo, non credo,» disse il principino, sorridendo maliziosamente.

Nell'andarsene, Sangiorgio sentì dire nel palco: giovane intelligente...
meridionale di talento..... Egli cercava Sangarzia nei palchi. Sempre in
prima fila, le due sorelle napoletane, le Acquaviva, maritate una al
deputato marchese di Santa Maria, l'altra al deputato conte Lapucci. La
contessa, bruna, vivacissima, con una bocca carnosa e colorita, con due
occhi folgoranti, era come il contrapposto di suo marito, un giovane
bruno ed esile, molto taciturno, molto pensoso, tenuto in conto di
orgoglioso, malgrado che fosse un deputato socialista. La coppia Santa
Maria era diversa: la moglie, biondina, ricciuta, con un visetto
giovanile e un vestito semplicissimo, l'aria candida: il marito, biondo,
con gli occhi socchiusi, molto indolente. La contessa Lapucci rideva
forte, la marchesa di Santa Maria sorrideva: il conte Lapucci guardava
la folla, silenzioso, coi due pollici ficcati nei taschini della
sottoveste, il marchese di Santa Maria chiacchierava sbadatamente con
l'onorevole Melillo, la testa forte finanziaria della Basilicata, il
cuore troppo debole con le donne, un celibato ostinato che lo rendeva
interessante a tutte le ragazze, di cui egli non si curava. L'onorevole
Melillo rispose con un gran saluto e un cenno protettore della mano al
saluto di Francesco Sangiorgio, e costui s'accorse che, per un momento,
nel palco si parlava di lui: l'onorevole Melillo diceva forse delle
belle speranze che dava il suo compatriota.

Nel palco presso la porta, la segretariessa generale delle finanze era
arrivata, venendo da un circolo serale del Quirinale: la piemontese
magra e svelta, con un viso pallido e interessante d'inferma, era
scollata e carica di gemme, tossiva spesso, portava la pezzuola alle
labbra un po' vive, si rialzava i lunghi guanti di camoscio fino ai
gomiti, con un moto nervoso. L'onorevole Pasta, l'avvocato subalpino,
dalla faccia rasa e dalle fedine biondo-brizzolate, le diceva qualche
cosa di molto spiritoso che la faceva ridere; l'onorevole Cimbro, il
deputato giornalista piemontese, assorbito dietro le lenti, con la
cravatta che gli era risalita sotto l'orecchio, aveva l'aria di un uomo
che è imbarazzato della propria persona: invece il segretario generale,
piccolo, un po' calvo, con un mustacchietto grosso e corto, serbava un
silenzio solenne guardando la platea come se non la vedesse. Quando
Sangiorgio passò, gli fece un saluto profondo, pieno di espressione,
quasi affettuoso, il saluto riconoscente del segretario generale che
dimostra la sua gratitudine a colui che gli ha fatto il piacere di
attaccare il ministro.

— Dove sarà Sangarzia? — pensava tra sè Sangiorgio, camminando a stento
in quella folla che cresceva sempre.

Nel suo palco, la baronessa Noir, un corpicciuolo serpentino, una
simpatica testina viperea, avvolta in uno strano abito di seta
cangiante, dove erano ricamati dei tulipani e dei pavoni, aveva raccolto
un secondo piccolo ministero degli affari esteri: per vero, ella era
stata segretariessa generale. Suo marito si teneva in ombra, con la
gravità del diplomatico che aspetta una destinazione; ma l'onorevole di
San Demetrio, un abruzzese tranquillo, dalla barba nera già brizzolata,
un forte aspirante al ministero, si teneva dritto, sul davanti, in luce;
poi l'onorevole di Campofranco, un siciliano freddo e nordico, il
figliuolo della più forte donna politica che abbia l'Italia, la
principessa di Campofranco. L'onorevole di San Demetrio parlava,
spiegando forse qualche paragrafo della sua relazione del bilancio, e la
piccola baronessa ascoltava, interessata, dandosi dei colpettini di
ventaglio sulle dita. Pressato dalla folla, Sangiorgio si fermò un
momento sotto quel palco: una stanchezza gli saliva dai piedi alla
testa, i lumi gli davano fastidio, quell'aria già impregnata di odori
acri, l'opprimeva.

«Sangiorgio,» chiamò San Demetrio.

Quello trasalì, come in un sogno.

«Sapete se l'onorevole Mascari si è iscritto per parlare contro, nella
discussione del bilancio degli esteri?».

«No, non si è iscritto.»

«Positivamente?»

«Positivamente.»

«Grazie... Scusate tanto.»

E si ricollocò al suo posto, sollevato al pensiero di questo avversario
di meno. Sangiorgio si teneva ritto contro la parete, senza muoversi,
sentendosi riconfortato da quella immobilità, socchiudendo gli occhi per
non vedere i lumi.

Seymour e Marchetti, dandosi il braccio, si fermarono accanto a lui;
facevano un vivo contrasto le due figure degli apostoli della scienza
sociale: Seymour, bruno e asciutto, con un mento rialzato di uomo
energico e una spazzola di capelli neri, in cui già spiccavano i
bianchi; Marchetti, col viso ingenuo e roseo, la lunga barba castagna e
gli occhi azzurri, brillanti, di un entusiasta. Ambedue erravano per
quel veglione, senza osare di andare a trovar le signore, poichè erano
in soprabito.

«Vi annoiate, Sangiorgio?» chiese Seymour.

«Un poco: sono anche stanco.»

«Siete stato agli uffici, stasera?» domandò Marchetti.

«No: che si è fatto?»

«Nulla di concreto ancora: si lavora poco,» fece Seymour, raddrizzandosi
le lenti sul naso, con un moto familiare. «Perchè non fate stampare il
vostro discorso, Sangiorgio?»

«A che serve?» rispose questi, con un accento sincero di sfiducia;
«ritornerò alla carica diversamente, al bilancio di agricoltura,»
riprese poi, come rianimato.

Ma come l'orchestra aveva intonato lo stridulo ed eccitante _waltzer_ di
Strauss, _Saluto di gioia_, un grande movimento vi fu nella folla, il
circolo del ballo si allargò, la gente fu respinta sotto i palchi, il
gruppo dei deputati fu diviso. Sangiorgio restò solo. Le signore dei
palchi guardavano giù, ardentemente, invidiando quelle pedine che
ballavano con tanto entusiasmo: ed esse, lassù, dover starsene sedute,
mentre quella musica e il veder gli altri ballare, le eccitavano alla
danza. Tre o quattro, scollacciate, venivano dal ballo di casa Huffer e
lasciavano ammirare tutta la magnificenza dei loro vestiti. Il piccolo
principe di Nerola, adesso, era nel palco di sua cugina, la contessa di
Genzano, la grande bionda affascinante e tizianesca: nell'ombra si
vedeva il viso un po' scialbo, ma ancora corretto, quasi bello, di
lineamenti, del ministro di grazia e giustizia, il magistrato
inflessibile e galante, ostinato nella inflessibilità e nella
galanteria. Sangiorgio si riscosse da quel torpore che lo invadeva:
doveva trovare Sangarzia. Guardando bene, palco per palco, alla fine
giunse a scoprirlo in seconda fila, presso il palco reale. Un domino
nero, femminile, di raso, elegantissimo, con un fitto velo nero che gli
copriva la testa e la faccia, fermato da un grosso ciuffo di garofani,
sedeva al primo posto; dirimpetto a lui l'onorevole Valitutti, un
calabrese ricco, metteva la sua faccia olivastra, la sua barba nera, la
figura di un arabo taciturno; nell'ombra vi era l'onorevole Fraccacreta,
uno dei più forti negozianti di cereali del paese di Puglia; in mezzo,
l'onorevole Sangarzia, il siciliano simpatico, lo schermidore
eccezionale, il gentiluomo perfetto, che tutti amavano.

«Chi sarà quella signora?» si domandava Sangiorgio, avviandosi per
salire al secondo ordine. Qualche signora, impazientita di non poter
ballare, andava via di malumore, lasciando trascinare lo strascico, con
la bocca stretta delle donne a cui si è proibito qualche cosa: e il
marito e l'amante venivano dietro, con l'aria felice di chi si seccava,
e che finalmente potrà andare a letto. I cinque domino neri femminili
che erano stati tutta la sera in un palco senza muoversi e senza
parlare, come tanti congiurati, ora scendevano al braccio di cinque
giovanotti, coppie silenziose, quasi lugubri, che parea si avviassero a
una cena funeraria. Giusto dietro loro scendeva l'onorevole Carusio, un
deputatino dalla testa calva come una palla di bigliardo, con un lungo,
stravagante pizzo nero napoleonico che gli arrivava sulla pancia e con
un'aria di uomo timido e impacciato, pieno di faccende e pieno di
preoccupazioni.

«Caro collega,» disse Carusio, fermando improvvisamente Sangiorgio sul
primo scalino, «scusate se vi fermo così, perdonatemi, ve ne prego: sono
in molta pena. Un parente di provincia, capitato qui, mi ha costretto ad
accompagnarlo al veglione che non aveva mai visto: figuratevi se mi ci
annoio. Sono inquietissimo. Il presidente del consiglio è dunque molto
ammalato?»

«Non molto, non molto,» rispose sorridendo Sangiorgio: «è la solita
gotta che lo tormenta.»

«Lo sapete di certo, caro collega? È almeno sicura la notizia?»

«Sono stato a informarmene personalmente.»

«Oh! quanto vi ringrazio, caro collega. È stato proprio un incontro
fortunato: mi togliete da una viva inquietudine. Se ammalasse gravemente
il presidente, pensate che disordine!? Se morisse, quante
complicazioni!...»

«Dio sperda l'augurio,» fece Sangiorgio, sorridendo sempre.

«Ai vostri ordini, caro collega: sono rinfrancato, vi ringrazio molto,
contate su me, ve ne prego, non mi risparmiate; non potevate capitare
più a proposito; buona notte, buona notte, onorevole collega.»

«Buona notte: dormite tranquillo: il presidente starà bene domani.»

«E di nuovo, grazie, grazie.»

Sangiorgio picchiò pian piano al numero 15. Un _avanti_ fu pronunziato
dalla voce di Fraccacreta. Sangiorgio schiuse appena la porta e disse:
«Scusino, onorevoli colleghi, cerco l'onorevole Sangarzia.»

«Eccomi, eccomi.»

E uscirono fuori ambedue: il domino nero dai garofani aveva appena
voltato il capo.

«Nerola, il principe, vi cerca, onorevole Sangarzia.»

«Oh! caro Sangiorgio, Nerola e voi non potevate rendermi miglior
servigio: non sapeva come andar via di qui. E dov'è il principe?»

«In prima fila, dalla contessa di Genzano.»

«Andiamoci, andiamoci subito.»

Egli rientrò nel palco, s'infilò la pelliccia sulla marsina, salutò la
signora e i due colleghi, discese con Sangiorgio.

«Che gran servigio mi avete reso! La signora si seccava, forse voleva
ballare! Venite dalla contessa?»

«Non la conosco.»

In questo, da un palco di prima fila, una figura femminile, stranamente
avvolta in stoffa turca, col capo e la faccia nascosti da un fitto velo
bianco, uscì.

«Vieni con me,» disse con la sua sottile voce a Sangiorgio.

«È inutile augurarvi buona fortuna, collega,» mormorò Sangarzia,
licenziandosi.

«Vieni con me,» ripetette ancora la donna, stringendogli un po' il
braccio per trascinarlo via.

Erano le due e mezzo. La gente si accalcava al guardaroba per andar via,
infilando i soprabiti con aria svogliata, avvolgendo la testa negli
scialli, a guisa dei funamboli che, dopo aver eseguito dei giuochi in
piazza, mettono una giacchetta vecchia e stinta sugli stracci di raso,
dalle pagliette d'oro.

«Vieni, vieni,» disse, presa d'impazienza, la donna, mentre Sangiorgio
s'infilava il _paletot_.

Fuori, ella distinse subito la propria carrozza e vi si cacciò
premurosamente, attirandosi dietro Sangiorgio.

«A casa,» ella aveva detto al cocchiere.

Ma quando fu dentro, dietro gli sportelli chiusi, ella si tolse
rapidamente il velo dal capo e lo buttò sul sedile di rimpetto: si
disciolse, con un po' di nervosità, strappando le spille, stracciando la
frangia, da quel mantello orientale: una pelliccia col cappuccio era nel
fondo della carrozza, ella la indossò. Sangiorgio l'aiutava, in
silenzio. Ella guardò un momento nella strada.

«Ah! vi è la luna!» mormorò con una grande dolcezza.

E picchiò sui cristalli per dire qualche cosa al cocchiere. Subito la
carrozza si fermò, in Piazza Barberini. Ella discese presto e si rialzò
sul capo il cappuccio del mantello.

«Va' a casa,» disse al cocchiere: «dì' a Carolina che vada a letto: ho
la chiave.»

Restarono soli, in Piazza Barberini. Lo zampillo della fontana, alto,
mormorante, scintillava sotto la luna.

«Volete che passeggiamo un poco? Nel teatro si soffocava.»

Egli le offrì il braccio, deciso a non meravigliarsi di nulla. Andarono
per Via Sistina, la grande via che ha un'aria così aristocratica di
giorno e così paurosa la notte. Ella si stringeva a lui come se avesse
freddo e paura, come se volesse farsi piccola, per mettersi sotto la sua
protezione: ma restava forte e alta nel suo mantello nero: sotto il
cappuccio gli occhi brillavano. E quella persona, quegli occhi avevano
la qualità singolare, che è la simpatia: un fascino violento che turba i
sensi. Di nuovo Francesco Sangiorgio si sentiva preso, come nel salotto,
quando ella disprezzava così brutalmente l'amore. E l'impressione era
profonda e acuta, senza niuna dolcezza, uno sconvolgimento, un tumulto,
un principio di ebbrezza.

«Che silenzio!» diss'ella, con una voce che fece vibrare tutt'i nervi di
Sangiorgio.

«Dite ancora qualche cosa,» mormorò lui.

«Che cosa?» domandò ella, piegandoglisi sulla spalla.

«Quel che volete, quel che volete: la vostra voce mi piace tanto.»

Invece donna Elena non rispose. Erano arrivati sulla piazzetta di
Trinità dei Monti, illuminata dalla luna. L'obelisco si allungava nella
blandizie lunare e la sua ombra, alta e sottile, si disegnava sulla
facciata della chiesa; il viale alberato che conduce a villa Medici e al
Pincio era tutto chiaro. Essi si accostarono all'alto parapetto della
piazzetta, da cui tanti malinconici contemplatori hanno guardato Roma,
nelle ore del tramonto. Ma Roma si vedeva molto confusamente, annegata
in una chiara nebbia plenilunare che pareva quasi la continuazione del
cielo bianchissimo, una discesa di orizzonte che aveva avvolto le case,
i campanili e le cupole.

«Non si distingue nulla, peccato!» disse donna Elena.

E forzando un po' il braccio di Sangiorgio, lo condusse verso una
scalettina che si allunga sulla facciata della Trinità: non la
scalettina a due rampe della chiesa, ma la scaletta che porta al
convento, dove le monache e le bimbe in educazione vivono in comunione.
Quella scaletta ha un piccolo pianerottolo di fronte alla porticina e un
parapetto. Lassù donna Elena fece salire Francesco Sangiorgio.

«Bussiamo al convento?» domandò ella quasi tentando la catenina di
ferro. «Noi siamo due pellegrini freddolosi che chieggono ospitalità.»

E rise, mostrando quei bianchi denti raggianti che rendevano
irresistibile la sua risata. Già, ella non sorrideva mai: rideva. Ma
anche dal poggiuolo nulla si vedeva: soltanto il mare di nebbia,
trasparente, biancastro, latteo, sembrava più vasto. In linea retta si
scorgevano i pochi lumi che restavano ancora accesi, alle tre dopo
mezzanotte, in Via Condotti. Sotto, Piazza di Spagna si dilungava, nella
sua calma e grandiosa bellezza architettonica, da Propaganda Fide a Via
Babuino.

«Andiamo via,» diss'ella.

Egli si lasciava condurre: quella prima avventura romantica gli dava un
piacere intenso. Quella signora, poichè era una dama, malgrado la
leggerezza e l'audacia della sua condotta, parlava a tutt'i suoi
desiderii di uomo forte, provinciale, fantastico e naturalmente casto.
Era proprio un romanzo, un piccolo romanzo d'amore quello che gli
accadeva: e quella bella donna avvolta nelle pellicce, profumata, dai
grandi orecchini di brillanti che scintillavano alla luna, che aveva
rimandata la sua carrozza per girare con lui, di notte, a piedi, per le
strade di Roma, quella creatura lo seduceva per tutto quello che
rappresentava. Egli ne subiva il fàscino personale, complicato dalla
stranezza del caso: e in fondo, nel crescente smarrimento della volontà,
in quella specie d'ubbriachezza che lo vinceva, gli restava la coscienza
che non commetteva nulla di grave. Così i suoi scrupoli di solitudine e
di ordine erano vinti e si lasciava prendere, in questo nuovo trionfo
del suo amor proprio, carezzato, lusingato, sentendo la delizia di
questa vittoria.

Scendevano gli scalini, al chiarore lunare che pareva bagnasse di
mollezza le pietre della vecchia Roma. Sull'antipenultimo, donna Elena
ritrasse il suo braccio da quello di Sangiorgio e sedette per terra. Ora
sembrava piccola, tutta nera, accovacciata sullo scalino, con la testa
appoggiata sulle ginocchia, guardando la bella fontana del Bernini, la
barca sommersa nell'acqua. Sangiorgio non si era seduto: ritto accanto a
lei, la guardava con un senso di orgoglio maschile, che filtrava
attraverso quella sua dedizione. La bella signora sembrava abbattuta,
seduta per terra come una misera, un mucchio di vesti nere dove forse
palpitava un'anima ansiosa in un cuore tumultuante: e lui pareva quasi
che la dominasse.

«Vi piace la fontana?» chiese ella con la sua voce armoniosa, alzando la
testa.

«È bella assai.»

«Sì,» disse lei, chinando il capo. «Perchè non sedete?»

E pareva che non si dirigesse a lui, che parlasse alle acque mormoranti,
che ricadevano continuamente nella barchetta naufragata. Egli sedette
sullo scalino, accanto a lei.

«Non avete sigari? Fumate dunque un poco.»

«Mi duole di non aver sigarette per voi.»

«Non importa. Fumate, fumate voi.»

Egli accese il suo sigaro: ella aspirò l'aria.

«Che sigaro è?»

«Un _Minghetti_.»

«Questi _Minghetti_ odorano talvolta,» osservò lei.

E attese che lui fumasse, guardando la sottile striscia di fumo che se
ne andava nell'aria chiara. Una carrozza sbucò dai Due Macelli, chiusa,
rapidissima, passò innanzi a loro, scomparve verso il Babuino.

«Vengono dal veglione,» disse lui.

«Che brutta cosa è il veglione!» susurrò donna Elena con un filo di voce
armoniosissima.

«Sì,» rispose Sangiorgio a quel suono melodioso che gli carezzava così
acutamente i nervi che quasi quasi ne soffriva.

D'un tratto ella si rizzò in piedi, scattando come una molla.

«Ho freddo, ho freddo, andiamo via,» disse rudemente.

E si strinse sempre più nella pelliccia, calò il cappuccio più avanti
sulla fronte, si attaccò al braccio di lui e lo strascinò via, verso
Propaganda. Egli aveva gettato via il sigaro: e sentiva a un tratto
mutato lo spirito di quella donna, sentiva che quel momento gli
sfuggiva, che non poteva più contare su nulla. Ma, superbo, taceva.
Forse la sua era stata una fantasticheria di orgoglio. Contare sopra il
capriccio di una donna? E si stringeva nelle spalle, ridendo di sè
stesso, che per un istante aveva creduto di poter dominare una di queste
creature frivole e vili.

Ella non parlava, affrettando il passo per Via Due Macelli, come presa
da un gran freddo che volesse vincere, camminando: guardava a terra, non
si volgeva al suo compagno. Sangiorgio non chiedeva dove andassero così;
era risoluto di secondarla sino all'ultimo, malgrado la defezione di
amor proprio che ella gli procurava. Quando furono all'angolo dei Due
Macelli, ella voltò risolutamente in giù, per l'Angelo Custode.

«Qui abito io,» disse lui, per dire qualche cosa.

«Qui?» — esclamò lei, fermandosi un istante. «Dove?»

«Al numero 50..... là.»

«Solo?»

«Solo.»

«Andiamo su,» fece ella, avviandosi per traversare la strada. «Mi
riscalderò al caminetto.»

«Non vi è caminetto.»

«Non importa. Mi riscalderò, suonando il pianoforte.»

«Non vi è pianoforte,» disse lui, deciso a volere udir tutto.

«Non importa,» disse lei, senz'altro.


Due giorni dopo, Francesco Sangiorgio era eletto membro della
commissione del bilancio.



III.


Un applauso debole ma gentile, formato da piccole mani femminili bene
inguantate e un po' indolenti, salutò il finale fragoroso del pianista,
un piccolino magro, bruno, meschinello, che scompariva dietro il
pianoforte.

«Che sentimento!» esclamò la moglie di un deputato pugliese, una
grassona con una pioggia di riccioli neri sulla fronte rossa e lucida.

«Bene, bene, è deliziosa,» disse la signora di Bertrand, la moglie di un
alto funzionario, piemontese, ma delicatina, dal viso di madonnina, con
un mantello di broccato, dove scintillava dell'oro.

E di signora in signora, di gruppo in gruppo, lungo i divani, sulle
poltrone, sugli sgabelli, sotto le foglie di palma delle giardiniere,
accanto alle mensole cariche di statuine, dal pianoforte alla porta,
l'approvazione femminile si andò man mano affievolendo: quelle che
stavano ancora sulla soglia del salone ministeriale, crollarono il capo,
due o tre volte, come se annuissero tacitamente. Solo Sua Altezza, il
principe orientale in esilio, accasciato grassamente in una poltrona,
rimase immobile; nel viso gonfio, scialbo, macchiato qua e là dalla
barbetta incolore e brizzolata, con quella flemma contemplativa di
orientale enorme, rimase immobile, pensando forse alle drammatiche
canzoni di _Aida_ che erano state uno degli splendori del suo trono,
socchiudendo gli occhi rossi e rotondi sotto la striscia rossa e sottile
del _fez_.

E il chiacchiericcio femminile ricominciò, e donna Luisa Catalani, la
moglie del ministro, la padrona di casa, che si era riposata un poco
durante la musica, riattaccò i suoi giri di saluti, di riverenze, di
sorrisi: e il vestito di casimiro bianco, le rosette di brillanti, la
piccola testa, il viso piccante, la pettinatura un po' strana, si
scorgevano in ogni posto, quasi nello stesso momento, come se ve ne
fossero dieci, di donne Luise, e non una.

«Che fatica questi ricevimenti!» disse languidamente la contessa
Schwarz, una donna magrissima, dal volto livido, dai capelli arruffati,
che imitava, per forza, Sarah Bernhardt. Sprofondata in una poltroncina
soffice, rannicchiata nelle pellicce come un uccello ammalato e
freddoloso, ella muoveva solo le labbra per sorbire la sua tazza di thè.

«Donna Luisa non si stanca: è di ferro,» mormorò la Gallenga,
segretariessa generale delle finanze, tossichiando un poco, spianando le
sopracciglia arcuatissime, cinesi. «Io, non ci reggerei, sono felice che
i miei ricevimenti sieno familiari. È stata alla Camera, oggi,
contessa?»

«Io non ci vado mai.»

E la svelta piemontese intese l'errore della sua domanda. Il conte
Schwarz era riuscito a diventare consigliere provinciale, ma deputato
mai.

«Ci sono stata io,» intervenne la signora Mattei, la moglie di un altro
segretario generale, una toscana bruna come un acino di pepe, dagli
occhi di fuoco, dalla chiacchiera rapida, dal cappello nero, ricco di
papaveri. «Una seduta interessante.»

«E non esserci stata!» esclamò la signora Gallenga, «che sfortuna! Ha
poi parlato Sangiorgio?»

«Sì, sì.....

Ma un zittìo corse per la sala. Una robustissima signora, dal seno
prepotente, stretto in una corazza di raso rosso, dalla faccia larga e
bonaria, cantava una straziante romanza di Tosti: ella aveva sbottonata
la sua pelliccia, arrovesciandola sugli omeri e con le mani nel
manicotto, la veletta del cappello abbassata sugli occhi, serena, senza
che una linea del suo volto si movesse, ella seguitava a lamentarsi
nella musica del maestro abruzzese. Donna Luisa, ritta in mezzo al
salone, fra le cinquanta signore sedute, ascoltava con l'attenzione
cortese della padrona di casa: ma una leggiera inquietudine l'assaliva,
ella sentiva che nei due salotti attigui vi era gente, delle signore che
aspettavano per entrare. Era il ricevimento più importante della
stagione, nel salone vi era una calma di serra e il lieve odore
zuccherino, dolcissimo, dei posti dove sono molte donne. Veramente,
lungo il muro, in piedi, chiusi nelle _redingotes_ severe, vi era una
fila di commendatori, calvi, taciturni, usciti alle quattro e mezzo
dalla Corte dei Conti, dagli uffici di finanza, dagli altri ministeri:
ma conservavano la glacialità statuaria dei temperamenti burocratici, la
lunga pazienza, l'aspettazione incalcolabile, strabocchevole, con cui
passano da un grado all'altro, e arrivano a fare quarant'anni di
servizio: quel ricevimento era per loro una frazione infinitesimale dei
quarant'anni di servizio. Un respiro di sollievo corse per la sala: la
dolorosa romanza era finita, e la cantante riceveva i complimenti di
donna Luisa Catalani, sorridendo nella faccia di luna piena. La padrona
di casa scappò subito fuori: vi erano sette od otto signore nel
salottino.

«Che vi è stato alla Camera?» chiese ella alla bionda e pallida figlia
di un ministro, che era arrivata allora.

«Molto caldo: non so come i nostri uomini non vi si ammalino,» e tirò
fuori il ventaglio, per originalità.

«Sangiorgio ha parlato bene», mormorò la signora Giroux, una piccola
dama dai capelli bianchi, dal sorriso soavissimo, la signora del
ministro dell'agricoltura.

«Un meridionale,» fece donna Luisa Catalani. «Vi era gente alla tribuna
diplomatica?»

«La contessa di Santaninfa e la contessa di Malgrà».

«Bei capelli?»

«Così,» rispose la biondina, pallida e distratta.

Qui, in un angolo, un circolo di ragazze cinguettavano allegramente, con
le giacchettine sbottonate per aver meno caldo, mostrando le vitine
sottili negli abiti di lana oscura. Enrichetta Serafini, la figliuola
del ministro dei lavori pubblici, una brunetta in lutto, vivacissima,
chiacchierava per quattro: e attorno la stavano a sentire la ragazza
Camilly, un'italiana nata in Egitto, la ragazza Borai, una zitella
anticuccia, afflitta dalla ostinata gioventù di sua madre, la ragazza
Ida Fasulo, una creatura linfatica, dagli occhi larghi e pensierosi,
nipote di un ragioniere, la ragazza Allievo, una gentilina taciturna; e
unico fiore aristocratico, biondo sotto la piuma bianca del cappello,
donna Sofia di Maccarese.

«Io preferisco Tosti a tutti quanti,» sosteneva Enrichetta Serafini. «Mi
fa venir da piangere.»

«Anche Denza, alle volte, fa piangere,» osservò la ragazza Borla, che
non sapea cantare, e che era condannata a udire la voce cinquantenne di
sua madre.

«E voi, donna Sofia, chi preferite?»

«Schumann,» mormorò essa semplicemente.

Le altre ragazze tacquero: non conoscevano quella musica. Ma la ragazza
Serafini, nervosa e vivace, rispose:

«Ma tutta questa musica bisogna cantarla bene. Scusate», e abbassò la
voce, «forse che vi piace la signora di poco fa?»

E il gruppo delle ragazze ridacchiò sottovoce.

«Quella che canta meglio, in Roma, è la Fiammante,» soggiunse la
fanciulla Camilly, dal volto grasso e bianco, dagli occhi socchiusi di
orientale trapiantata in Italia.

Le altre ragazze tacquero: la Boria strinse le labbra in segno di
riprovazione, la Fasulo chinò gli occhi, l'Allievo arrossì; solo donna
Sofia di Maccarese non mutò viso: non conosceva, o non si curava della
Fiammante.

«È vero che sposa il deputato Sangiorgio?» chiese la Serafini.

«No, no,» rispose la Camilly, con uno strano sorriso.

Questa volta le ragazze si guardavano fra loro, con quelle occhiate mute
ed espressive in cui il mondo le obbliga a condensare la loro
intelligenza. Nel salone era cresciuta una folla di signore, e vi si
addensava un calore di stoffe, un odore di thè e di _opoponax_, di
lontra e di martora. Ora quasi tutte chiacchieravano, a coppie, a gruppi
di tre o quattro, con certe leggiadre inclinazioni di testa, con certe
modulazioni squisite di voci, frivoleggiando sulla Camera dei deputati,
discutendo gravemente la voce dell'onorevole Bomba, dicendo quale era la
tribuna che preferivano, parlando del colore dei tappeti, discutendo le
sottovesti carnicine dell'onorevole conte Lapucci, e la fisonomia
romantica, da Cristo pensoso, dell'onorevole Joanna. E la Gallenga, che
s'intendeva di letteratura, pronunziò questa frase:

«Quest'anno è di moda l'Abruzzo nella letteratura e la Basilicata nella
politica.»

Così esse credevano di fare della politica, sul serio, esaltate dal
cicaleccio, con le loro testoline leggiere. Ma senza che nessun pianista
si fosse presentato al pianoforte, mentre che la signora pacifica e
veneranda che aveva singhiozzato con Tosti, sorbiva la sua terza tazza
di thè, un zittio sottilissimo circolò nel salone: e donna Angelica
Vargas, alta e bella, col suo passo ritmico, attraversò il salone,
cercando con gli occhi donna Luisa Catalani.

Era vestita di nero, come al solito, con qualche cosa di scintillante
nella persona e nel cappello: e donna Luisa le corse incontro, col suo
più bel sorriso. Le due riverenze furono profonde; un piccolo colloquio,
a voce bassa, cominciò tra loro, una tutta bianca, coi capelli di un
biondo dolce, l'altra tutta nera, coi dolci capelli bruni ondulati sulla
fronte.

Il salone fingeva di non ascoltare, per rispetto: ma vi era quel
silenzio imbarazzante di molte persone adunate insieme, quando nessuna
di loro osa principiare a discorrere. Sua Altezza Mehemet pascià aveva
spalancato gli occhi, e guardava la bella italiana, così casta nella
figura, ma i cui occhi larghi gli rammentavano le sue donne d'Oriente,
di cui forse pativa la nostalgia. Poi quei begli occhi larghi,
scintillanti come le perle nere del vestito, guardarono la sala, intorno
intorno, un'occhiata intelligente, e come donna Luisa Catalani si
voltava, a una, a due, a tre, le signore vennero a circondare donna
Angelica Vargas, a chiederne il saluto, e sebbene suo marito non fosse
il presidente del consiglio, sebbene ella fosse la moglie di un ministro
di affari, non politico, sebbene in quel salone vi fossero tre o quattro
mogli di ministri politici, importanti, le colonne del gabinetto, ella
era il centro di tutti quei complimenti, ella conservava nella sua
semplicità qualche cosa di regale.


Per aver meno freddo, mentre scriveva, in quel salottino lungo e
stretto, senza fuoco, di via Angelo Custode, Francesco Sangiorgio s'era
messo sulle gambe un vecchio soprabito. Alle otto la serva gli aveva
portato una tazza di caffè, in letto: e mentre ella rassettava quel
glaciale salotto, egli si era vestito, per mettersi al lavoro. La serva
aveva rifatta, in un momento, anche l'altra stanza, e se n'era andata
senza parlare, con la faccia imbronciata e stizzosa delle creature
povere che non sanno rassegnarsi alla miseria e al lavoro.

Ma lo spazzamento, fatto in fretta, aveva lasciato sudici gli angoli del
pavimento: le cortine delle finestre erano giallastre di polvere, e il
nauseante odore di spazzatura stantia restava in quelle due stanze.
Sangiorgio, appena scomparsa la serva che strascicava i suoi scarponi da
uomo, senza dare uno sguardo a quella triste corte interna, dai balconi
pieni di casse vecchie e di cocci, dalle loggette di legno tarlato e
sudicio, si era messo a scrivere, sopra un piccolo tavolino da studente;
si era posto a scrivere, fra gli stampati della Camera e un mucchio di
lettere della Basilicata, sopra certi larghi fogli di carta bianca
commerciale, intingendo la penna in un miserabile calamaio di creta.
Verso le dieci aveva sentito un insopportabile freddo ai piedi e alle
gambe: aveva ancora tre ore di lavoro; andò in camera a prendere un
vecchio soprabito, e se ne ravvolse le gambe: tutto questo come un
automa, senza distogliere il suo pensiero da quella relazione
parlamentare a cui si occupava da otto giorni. Il fuoco interno che lo
divorava si manifestava in quella scrittura grande, svelta, chiarissima,
di cui ricopriva quei grandi fogli di carta: si manifestava in
quell'assorbimento di tutto il volto, in quello sguardo quasi rientrato
in sè stesso, estraneo a tutte le cose esterne. I fogli si ammucchiavano
alla sua sinistra, egli non si fermava che per isfogliare i resoconti
parlamentari, per consultare un grosso volume sull'inchiesta agraria, o
un piccolo taccuino vecchio e sdrucito. Alle undici, nel fervore del
lavoro, si udì un piccolo scricchiolìo di chiave, e una donna entrò,
richiudendo la porta senza far rumore.

«Sono io,» diss'ella chetamente, stringendo al petto un fascio di rose.
Egli alzò la testa, e la guardò con gli occhi stralunati di chi non si
toglie ancora alla sua preoccupazione, tanto da non riconoscere la
persona che entra.

«Ti disturbo?» chiese Elena, con la sua voce cantante. «Sì, sì, ti
disturbo. Resta a scrivere, fa il tuo lavoro. Mi annoiavo tanto stamane,
in casa, con questo tempo plumbeo, che mi son fatta trascinare in
carrozza per due ore, il povero cavallo scalpitava nel fango, ho visto
scivolare della gente, le donne che andavano a piedi avevano gli
stivaletti inzaccherati, una pietà. Dovendo aspettare sino all'una,
perchè tu venissi a colezione, ho preferito venir qua. Ma tu scrivi...
Leggerò un libro.»

«Cara, non ve ne sono, di libri per te,» rispose lui, senza pensare a
ringraziarla di esser venuta.

Ella cercava fra le carte, con le mani sottili inguantate di nero,
imbarazzata dal suo gran fascio di rose. Sangiorgio la guardava
sorridendo di compiacenza. Era sempre così attraente con quelle grosse
labbra umide e rosse, con gli occhi strani dal colore incerto, con
quella eleganza opulenta della persona, che il contemplarla, l'averla
presente, là, nella sua stanza, era per lui un diletto sempre nuovo.
Ogni volta che la sua signoria maschile si affermava in qualunque modo,
egli provava un delicato e intenso piacere di orgoglio.

«Non vi è nulla,» diss'ella, ridendo, «non posso mica leggere quanta
polenta mangino i contadini lombardi, e quante patate i meridionali. Ciò
mi affliggerebbe troppo; scrivi, scrivi, Franz: non occuparti di me.»

Egli si alzò e venne a baciarla sugli occhi, attraverso il lieve velo,
come a lei piaceva: ella fece un risolino di bimba golosa a cui si dà un
pasticcino, egli ritornò a scrivere. Elena camminò su e giù nel salotto,
come per riscaldarsi: in quella stanza, in quel giorno brutto di marzo,
si gelava.

«Non hai freddo, Franz?» chiese Elena, dal divano, dove contemplava
curiosamente il lusso dei quadrati all'uncinetto.

«Un poco,» mormorò lui, senza lasciar di scrivere.

Ella contemplò di nuovo la stanza tutta nella sua meschinità, sentì quel
fiato di miseria decente che vi alitava, e contemplò lui che scriveva
alacremente, su quel piccolo tavolino, dove gli toccava stringere i
gomiti per non far cadere le carte. E negli occhi della donna guardante
quella testa indomita di lavoratore, si dipinse una tenerezza nuova che
egli non vide. Due volte ella fu per dirgli qualche cosa: ma pensando,
tacque. Appoggiata alla _console_, ora, ella ridacchiava fra sè,
guardando le tre fotografie, di un caporale, di un grasso signore, di un
ragazzotto collegiale del Nazzareno, guardando le tre sacrileghe
oleografie che rappresentavano la famiglia reale.

«Franz? ti sei mai fatto la fotografia?» domandò, mirandosi nello
specchio, e aggiustandosi il fiocco del cappello.

«Una volta, a Napoli, quand'ero studente,» disse lui, sfogliando gli
atti parlamentari.

«E ce l'hai?»

«No, naturalmente.»

«Se ce l'avessi, io la vorrei,» soggiunse ella con voce infantile.

«Non ne hai abbastanza dell'originale?»

«No,» rispose Elena, tutta pensosa.

Egli si alzò di nuovo, venne a prenderle le mani, e le chiese:

«Dunque mi vuoi bene?»

«Sì, sì, sì,» cantò ella, su tre note musicali.

Francesco se ne ritornò di nuovo al tavolino, dove si rimise al lavoro.
Ella si azzardò sulla soglia della stanza da letto, e vi gettò
un'occhiata.

«Franz,» disse di là, «iersera non sei venuto al Valle?»

«Vi era la commissione del bilancio, sino alle undici. Dopo, ero
stanco.»

«Sono venute molte persone a trovarmi in palco. Giustini... perchè sei
tanto legato con lui?»

«Mi serve,» diss'egli semplicemente, senza alzare il capo.

«Dice male di te.»

«Lo spero bene.»

«Infatti, egli non dice mai bene delle persone mediocri. Tu diventerai
un grand'uomo politico, Franz.»

«Oh, ci vuol molto tempo,» rispose lui tranquillamente, annotando certe
cifre sopra un pezzo di carta.

«Sono venuti Gallenga e Oldofredi, che mi fa molto la corte.»

«Ha ragione, Oldofredi,» mormorò lui, con galanteria.

Ella sorrise e scomparve nella camera. Era così fredda e brutta, che per
un momento ristette, come disgustata. Guardava gli arabeschi di lana del
piumino, che la serva aveva gonfiato a furia di manate; ma la grande
macchia d'olio della poltrona di lana azzurra le fece voltare il capo;
il suo istinto femminile la faceva soffrire di quella macchia. E girò
per la stanza, cercando un oggetto introvabile: sul canterale non vi
erano che due candelieri senza candele, una spazzola pei vestiti, nulla
di quello che ella desiderava: sulla toletta, solo i pettini e una
bottiglina di acqua di Felsina, dimezzata. Una nudità, una miseria da
anacoreta. Finalmente, giunta presso il letto, sul comodino, ella trovò
la bottiglia dell'acqua e il bicchiere, e, tutta felice, sciolse il suo
fascio di rose, ne ficcò tre o quattro nel collo della bottiglia
dell'acqua, un piccolo gruppo nel bicchiere, ne buttò due o tre sul
tappetino a piedi del letto, poi non sapendo dove altro metterne, ne
ficcò due sotto il cuscino. Camminando piano, andò al canterale, e ne
aprì il primo cassetto, dove ci erano delle cravatte e dei guanti: anche
lì lasciò le sue rose. Un ritratto era buttato lì dentro, ancora in una
busta: il suo. Una lieve ombra di malinconia le passò sul viso, ma
disparve. Ora su quella miseria della stanza, in quella luce bigiognola
che veniva dal cortile interno, in quel tanfo di acqua di cucina, le
rose mettevano una freschezza primaverile, un po' di giardino, un
ricordo di sole, un piccolissimo profumo.

«Ho finito,» disse Sangiorgio, comparendo sull'uscio.

«Andiamo a far colazione.»

«Credi tu che avremo finito per l'una e mezzo?»

«Perchè?»

«Ho un convegno... con un elettore.»

«Avremo finito, spero. Tanto più che ho anche io un convegno... alle
due.»

«Con un elettore?»

«Con Oldofredi.»

«Ah!» fece lui, infilandosi il soprabito.

«Mi deve raccontare come fu che non volle sposare donna Angelica
Vargas.»

«Doveva sposarla?»

«Sì, e non la volle. Forse, è lei che non ha voluto. Oldofredi è
antipatico a mezzo mondo: alla Camera, poi! Lo conosci tu?»

«No: e mi è indifferente.»

«Sei molto pallido; che hai?»

«Non so: sarà il freddo.»

«Andiamo, andiamo a casa, vi è il fuoco, ti riscalderai.»

Egli la seguì senza accorgersi delle rose.


L'onorevole Oldofredi non era un frequentatore troppo assiduo della
biblioteca della Camera: ci andava qualche volta per cercarvi un amico;
ma non leggeva, nè chiedeva mai libri e giornali. Dicevano anzi, le
maligne lingue parlamentari, ch'egli non sapeva leggere. Ora, come quel
giorno entrò in biblioteca, e trovò Sangiorgio seduto davanti a un vero
monte di volumi, che scartabellava opere di statistica, e sfogliava
libri di economia politica, di storia, di scienze sociali, con
quell'intemperanza di ricerche e di preparazione che è propria dei
provinciali meridionali, quel fatuo anconetano ebbe un lieve sorriso di
scherno. Affacciò prima il capo all'uscio, per vedere se ci fosse il
collega di cui andava in cerca; poi, spinto chi sa da qual nuovo
pensiero, entrò, sebbene non avesse trovato il collega. Entrò, e
cominciò a passeggiare in su e in giù, oziosamente, soffiando via dal
piccolo bocchino d'ambra i rimasugli della sigaretta.

L'onorevole Oldofredi, malgrado la riputazione dongiovanesca e
spadaccinesca che s'era acquistata, non era nè un bello nè un forte
uomo: macchina d'ossa e di nervi mal connessa, aveva in tutta la
lunghissima persona uno sconquasso sgradevole, nella faccia un color
terreo antipatico, negli occhi una crudezza sciocca, e un dislocamento
di tutte le membra che lo faceva parere un automa ambulante a caso.

Sangiorgio, dal primo momento che lo vide, gli pose gli occhi addosso, e
non potè più lasciarlo. Una specie di attrazione dispettosa distraeva il
Basilisco dalle statistiche e dai libri di economia politica, e lo
spingeva verso il deputato marchigiano, ch'egli disprezzava e odiava,
per un istinto misto di regionalismo, d'amante e d'ambizioso. Lo guardò
fissamente, intanto che Oldofredi passeggiava, pensando con la penna
sospesa sulla carta. Quel Donchisciotte antipatico a tutte le donne,
ignorante, sciocco, inabile, che pure con tutte queste qualità negative
era sempre riuscito a farsi rieleggere, a far parlare di sè, ad avere
nella vita politica e nella vita mondana una posizione spiccata, gli
pesava sullo stomaco, come uno di quei cibi indigeribili contro di cui
si ha una ripugnanza istintiva.

Oldofredi era lo sciabolatore politico: dei suoi duelli non si parlava
più, se non vagamente, come di qualche cosa confusa e lontana, poichè da
parecchi anni nessuno aveva più osato provocarlo; ma non c'era questione
personale ove egli non fosse chiamato come padrino, o come arbitro, o
come consigliere; ma non c'era, fuori o dentro la Camera, una più sicura
e più salda autorità cavalleresca. Ciò dava a quel brutto e volgare uomo
un'aureola romantica, e diceva la cronaca pettegola che le donne
volentieri posavano i desiderii indecisi ai piedi di quel Rolando
marchigiano, che appariva ad esse come un campione formidabile contro i
pericoli del peccato.

«Avete visto, per caso, l'amico Bomba, onorevole Sangiorgio?» chiese
Oldofredi, fermandosi innanzi allo scrivente.

«Io? No,» rispose l'altro, seccamente alzando il capo.

«Dove si sarà ficcato? Nell'aula non ci è: parla quell'asino di
Borgonero, sopra non so quali sciocchezze. Ho cercato l'amico Bomba
dappertutto: non può essere che qui, in compagnia di quell'imbecille di
Giordano Bruno. Ci credete voi, Sangiorgio, all'esistenza di Giordano
Bruno?»

«Io? Sì,» fece l'altro seccamente.

Sangiorgio guardava Oldofredi, fisso, con una freddezza di sguardo che
avrebbe fatto tacere un chiacchierone meno vanitosamente distratto, ma
quell'altro passeggiava, guardava in aria, aveva accesa un'altra
sigaretta, dimenava quel suo lungo e antipatico corpo dinoccolato,
empiendo di rumore quella cheta stanza da studio. Di già, dalla
stanzetta accanto, a destra, l'onorevole Gasperini, il toscano dalla
barba bianca, dal sorriso arguto e dagli occhi fini dietro gli occhiali,
si era affacciato due volte, lasciando a mezzo certe teorie di finanza:
e si era stretto nelle spalle, infastidito, al chiasso dell'onorevole
Oldofredi. Costui, arrivato innanzi all'altra porta che dava sulla
stanzetta a sinistra, sogghignò, ritto sulla soglia, appoggiato allo
stipite, con le mani in tasca: nella stanza a sinistra, l'onorevole
Giroux, un vecchio lento e grave, con le palpebre socchiuse, l'aria di
addormentato, leggeva in un librone legato in pergamena. Oldofredi
sogghignava. Poi, accostandosi di nuovo al tavolino di Sangiorgio,
disse, sghignazzando ancora:

«È di là, sapete, con Copernico.»

«Chi?» chiese l'altro, con la medesima solita durezza.

«Giroux. Non bastandogli di seccare la gente con le sue fandonie
filosofiche, ha inventato quelle di Copernico. Chi sarà questo
Copernico? Ma... Giroux giura di averlo conosciuto, a Torino: anzi era
_carbonaro_.»

E scoppiò a ridere. Egli non vedeva, Oldofredi, la prepotente e ostinata
espressione di disprezzo sulla faccia di Sangiorgio: non vedeva quel
lieve tremito nervoso che faceva ballare la penna nelle dita del
deputato meridionale.

«E dall'altra parte ci è Gasperini, l'ex-segretario, che certo sta
rileggendo gli atti del Parlamento inglese, per poter domani parlare
contro Giroux. Che ne dite?»

«Io? Niente.»

«Ora prendo con due ditini Gasperini, e lo porto nelle braccia di
Giroux: così la riconciliazione sarà fatta, Copernico e Bentham la
benediranno, e la finanza, nonchè l'agricoltura italiana andranno sempre
allo stesso modo, cioè malissimo.»

Diceva questo ad alta voce, noncurante che quei due lo ascoltassero.
Sangiorgio guardò le due porte, come per esprimere questo timore;
Oldofredi intese.

«Non odono, no. Quando Giroux è con Copernico, non sente nulla, e
Gasperini è smarrito nella finanza inglese.... E anche se sentissero!»

Fece la sua stretta di spalle da bravaccio, uno dei suoi gesti che gli
avevano procurato la riputazione di un uomo coraggioso.

«Potrebbero rispondervi,» osservò con un tono equivoco Sangiorgio.

«Ma che! Non risponderebbero affatto. Piuttosto se la legherebbero al
dito, per rinfacciarmela più tardi, nell'aula, in un corridoio, in un
giornale: così si usa, in politica. O piuttosto, cercherebbero
dimenticare anche questa, come tante altre hanno dimenticate. Voi siete
novello, mi pare: vi restano molte cose da imparare. Una, vedete, ve la
insegno io: in politica non si risponde mai subito, mai in faccia, mai
direttamente. O si dimentica o si aspetta.»

«E se vi rispondessero subito?» replicò Sangiorgio, sempre più freddo.

«Ma che! Figuratevi, mio caro deputato novello, che da cinque anni a
questa parte vado dicendo tutta la verità, a tutti quanti, su fatti,
uomini e avvenimenti, gridando, strillando, per sollievo del mio fegato.
Avesse qualcuno il coraggio di difendersi, di rispondermi sulla faccia!
Nessuno, nessuno, caro il mio deputato nuovo.»

«E perchè?» domandò Sangiorgio, tenendo gli occhi fissi sulla carta dove
aveva scritto come se meditasse.

«O bella! perchè i vecchi hanno esaurito la quantità di coraggio che
avevano, se ne hanno mai avuto: e i giovani non hanno ancora cominciato
a usare la propria, se ne avranno mai una.»

«Voi credete, Oldofredi?»

«Perdio! se lo credo. La Camera è vigliacca.»

«No, onorevole Oldofredi.»

«Vigliaccheria e compagni! ecco la ditta.»

«Vi assicuro di no, Oldofredi.»

«Mi smentite, mi pare.»

«Sicuramente.»

«Voi mi smentite?»

«Io, proprio io.»

«Voi volete provarmi che la Camera non è vigliacca?»

«Sissignore.»

«Io abito in Via Frattina, 46, pranzo alle _Colonne_ e vado all'Apollo,
questa sera.»

«Va bene.»

«Buon giorno.»

«Buon giorno.»

Oldofredi si strinse nelle spalle, scosse la cenere della sigaretta e
uscì, dimenando la sconquassata persona. Sangiorgio intinse la penna nel
calamaio e ricominciò a scrivere. Quelli della stanza accanto non
avevano udito nulla: tanto più che il dialoghetto era avvenuto sul tono
ordinario di voci. Gasperini sfogliava i bilanci della finanza inglese,
Giroux s'immergeva in Copernico, e Sangiorgio ricavava delle note dalla
_Storia dell'Internazionale_ di Tullio Martello.



IV.


Quando l'onorevole Sangiorgio entrò nel Caffè del Parlamento, alle
sette, per pranzare, in quella cripta egiziana, affogante, rossa, quasi
affumicata, varie teste si voltarono e il suo nome fischiò nel susurrìo
educato di coloro che mangiavano. Restavano solo due o tre tavole
disoccupate: Sangiorgio, dopo esser rimasto un momento indeciso, sedette
a una, dove tre posti erano pronti. Subito, dal tavolino accanto a lui,
l'onorevole Correr, il giovane deputato di destra, dalla barba nera e
dalla molle pronuncia veneta, lo salutò amichevolmente, l'onorevole
Scalatelli, il colonnello dei carabinieri, dal pizzo brizzolato e dagli
occhi bonari, lo guardò con un certo interesse: gli altri due
ex-onorevoli, il grande Paulo, il grosso Paulo, il forte Paulo continuò
a litigare col piccolo Mefistofele padovano, Berna, lo spirito bizzarro.

«Dunque è vero, Sangiorgio, del duello?» domandò sottovoce Correr.

«È vero,» rispose l'altro, guardando la lista delle vivande.

«Primo duello?»

«Primo.»

«Avete mai fatto sala d'armi?»

«Un poco.»

«È un'imprudenza, Oldofredi è fortissimo.»

«Un duello, un duello!... chi si batte?» esclamò il grosso Paulo,
finendo di dar dell'asino al suo amico Berna, che gli dava
dell'imbecille.

«Qui, l'onorevole Sangiorgio, con Oldofredi,» spiegò Correr.

«Bell'avversario, perdio! È mancino, Oldofredi: bisogna che Ella ci
pensi, onorevole Sangiorgio.»

«Non lo sapevo: ci penserò.»

«E i padrini, chi sono i padrini?» domandò l'enorme Paulo, il colosso,
il molosso, che qualunque duello inebbriava.

«Il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa: li aspetto a pranzo,» disse
cortesemente Sangiorgio.

«Benissimo, buona scelta, sono padrini poco arrendevoli, non vi
riconcilieranno sul terreno.»

«Era inevitabile il duello, Sangiorgio?» chiese Scalatelli.

«Inevitabile.»

«Oldofredi è fortunato, Sangiorgio; mi sono battuto con lui, anni sono:
m'ha ferito al polso,» spiegò placidamente Scalatelli.

In questa, il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa entrarono, cercando
con gli occhi Sangiorgio. Il conte conservava la sua freddezza
aristocratica che emanava da tutto, dalla magra e alta persona, dalla
lunga barba nera che si brizzolava, dalla compostezza un po' naturale,
un po' letteraria di scrittore e di signore; Rosolino Scalìa aveva la
sua aria di militare elegante in borghese, il fiore all'occhiello e il
mustacchio profumato; ma era anche lui freddo e grave. Castelforte si
fermò a parlare con Correr e Scalatelli, mentre Scalìa si cavava il
soprabito.

«Ebbene,» domandò Sangiorgio, «che si fa?»

«Nulla ancora,» rispose con riserva Scalìa, «o molto poco.»

Sangiorgio non chiese altro. Il pranzo fra quei tre cominciò in
silenzio: Castelforte era sempre contegnoso, Scalìa grave e Francesco
Sangiorgio indifferente.

«I padrini sono Lapucci e Bomba,» disse Scalìa, versandosi del vino.
«Abbiamo convegno alle nove e mezzo. Avete provveduto alle sciabole,
Sangiorgio?»

«Sì.»

«Bene,» disse Castelforte. «Spero che le abbiate fatte arrotare: niente
più odioso, in un duello, che le sciabole mal affilate. Il duello si
prolunga, e le ferite sono sempre ridicole, larghe, una indecenza.»

«Le ho fatte arrotare dallo stesso Spadini.»

«Bravo,» fece Scalìa. «Un duello lungo ha tutti gli inconvenienti; si
presta alla burletta. Una cosa sola vi raccomando, Sangiorgio; non
pensate a nulla e di nulla vi preoccupate, ma al primo assalto, andate
giù, non aspettate l'avversario, non calcolate nulla, buttatevi: quelli
che cominciano, non possono riescire che così.»

«D'altra parte,» aggiunse Castelforte, «come ho potuto intendere dalle
parole di Lapucci, le condizioni saranno piuttosto gravi. Ma voi non ci
badate, Sangiorgio: è naturale che fra due persone serie, queste cose
siano prese sul serio.»

«Io non ho intenzione di scherzare,» soggiunse Sangiorgio, prendendo
dell'insalata.

«Tanto meglio. Il medico ce l'avete?»

«No.»

«Prenderemo il solito Alberti,» disse Scalìa, «ci penserò io, questa
sera.»

Un fanciullo in piccola livrea, che portava scritto sul berretto _Caffè
di Roma_, entrò nella trattoria, cercando qualcuno. Era un biglietto per
l'onorevole Sangiorgio.

«Il presidente della Camera mi manda a chiamare, al Caffè di Roma, dove
resta fino alle nove e mezzo.»

«E voi andateci,» rispose Castelforte, «ma siate fermo, non vi lasciate
convincere.»

«Scalìa, Scalìa,» chiamò dall'altro tavolino il molosso Paulo, che non
poteva resistere, «badate al posto del duello. Che sia vicino a una
casa, a una osteria, a una capanna, a un ricovero qualunque. Da che ho
dovuto ricondurre per tre miglia di strada maestra, piena di sassi e di
solchi, il povero Goffredi, con una ferita nel polmone, che boccheggiava
e sputava sangue a ogni sbalzo della carrozza, ho fatto voto che, se non
vi è un letto pronto a cinquanta passi, non faccio il padrino.»

«Sarebbe meglio, allora, in una casa....» osservò Correr.

«No, no, che casa!» esclamò Scalìa, «è malaugurio, in una casa. Tutti i
duelli in casa finiscono male.»

I due padrini si levarono, parlarono altri cinque minuti sottovoce col
loro primo, in piedi, stretti a gruppo. Dalle tavole si guardava con
curiosità, ma le tre facce erano impassibili: fu fatto un grande scambio
di strette di mano vigorose e di saluti. Sangiorgio, rimasto solo,
pagava il conto. Quelli dell'altro tavolino andavano via anche essi, si
licenziavano da Sangiorgio.

«Buona fortuna, collega: in bocca al lupo,» disse Correr.

«Buona mano, onorevole Sangiorgio,» soggiunse Scalatelli.

«Si metta un corno addosso, se crede alla _iettatura_,» suggerì Berna.

Ma dal mezzo della sala, l'immenso Paulo subitamente familiarizzato,
urlò, ridendo:

«Addio, neh, Sangiorgio: tira alla faccia!»

Egli capì che tutti e quattro se ne andavano poco convinti dell'esito.
Uscì due minuti dopo di loro. Sulla porta incontrò un _reporter_ di un
giornale del mattino che gli chiese notizie.

«Nulla ancora,» rispose Sangiorgio.

«Nel caso.... nel caso, domani, posso venire a casa Sua per prendere
notizie?» insistette il giovanotto imberbe, dall'aria ingenua.

«Angelo Custode, 50,» fece l'altro, allontanandosi.

Al Caffè di Roma, il presidente finiva di pranzare col suo amico, il
colonnello Freitag, il grosso uomo dall'aria infantile, dalla voce
stridula e sottile: il presidente aveva l'aria stracca di persona che si
riposa finalmente da una fatica improba. E subito, vedendo Sangiorgio,
andò allo scopo:

«Si può conciliare questo brutto affare, onorevole collega?»

«Non lo credo, signor presidente.»

Il presidente frenò un piccolo moto nervoso e si morsicò un po' le
labbra.

«Vediamo, onorevole collega, non vi è stato un po' di malinteso? Un
duello fra due deputati è una cosa grave, non bisogna farlo per nulla.»

«Non vi è stato malinteso, glielo assicuro, presidente.»

«Capisco queste cose: Oldofredi è un po' vivace, Ella è giovane, avrà
preso a male qualche scherzo. Bisogna badarci a queste cose, collega:
domani i giornali parleranno, ne nascerà uno scandalo.»

«Spero di no: a ogni modo, non vi è rimedio.»

«Nessuno tratterrà Oldofredi dal dire che Ella, Sangiorgio, ha cercato
questo duello per far del chiasso.»

E il presidente gittò uno sguardo scrutatore sulla faccia del deputato
meridionale, ma vi lesse la indifferenza, l'impassibilità, e parve che
rinunziasse al suo progetto di riconciliazione.

«E i padrini fissarono le condizioni?» domandò.

«Non ancora: ho convegno con loro alle undici,» e si levò per andarsene.

«Mi raccomando, non parli con giornalisti: un duello parlamentare è per
loro un grande pascolo. Buona fortuna, onorevole collega.»

Sangiorgio se ne andò, sentendo che la freddezza della voce del
presidente e la tranquillità taciturna dell'onorevole Freitag si
equivalevano.

Nella via, sul Corso, si fermò, indeciso. Aveva dato convegno ai suoi
padrini al caffè Aragno; ma una invincibile ripugnanza gli vietava
oramai questo vagabondaggio notturno di caffè in caffè, in
quell'artifiziale attendamento di deputati, di giornalisti e di curiosi
che non hanno famiglia e passano la loro serata in quelle sale calde,
piene di fumo; gli veniva, gli cresceva un fastidio immenso della gente
che domanda, che chiede, che vuol sapere, che commenta, sempre
indifferente. Sapeva che Castelforte e Scalìa si sarebbero trovati con
Lapucci e Bomba agli Uffici: preferì risalire, verso Montecitorio,
lentamente, comprando i giornali al chiosco di Piazza Colonna, leggendo
sotto un lampione, sotto il portico di Velo.

I due o tre giornali della sera annunziavano il duello con una certa
solennità, uno metteva solo le iniziali, ma aggiungeva che i tentativi
di riconciliazione erano riusciti infruttuosi. Egli li conservò in
tasca, e, preso da un po' d'impazienza, andò a passeggiare su e giù
innanzi al Parlamento. Le grandi finestre degli Uffici erano tutte
illuminate, i commissarii lavoravano ancora: ma la piazza era deserta,
la grande piazza senza botteghe. Egli andava su e giù, girando attorno
all'obelisco, dagli Uffici del Vicario agli Orfanelli, dagli Orfanelli
alla Missione, con le mani in tasca, la testa abbassata, camminando
presto per combattere l'umidità che gli entrava nelle ossa.

Il portone dell'_Albergo Milano_ che dà sulla piazza si chiuse, dopo
l'arrivo dell'ultimo _omnibus_ della stazione: i padrini non
discendevano ancora. E lui si seccava di lasciarsi vedere dai deputati
che avevano passato la serata alla Camera, e quando qualcuno ne
compariva sulla porta, si fermava, o si allontanava colto
dall'impazienza. Finalmente Scalìa e Castelforte comparvero sugli
scalini: la lunga figura del conte lombardo si delineò accanto a quella
più piccola, ma membruta del deputato siciliano. Parlavano fra loro,
vivamente, poi scesero e si avviarono verso giù. Sangiorgio li raggiunse
correndo:

«Non ho voluto aspettarvi al caffè: è pieno di gente e tutti vogliono
sapere e io non voglio aver l'aria di _posare_,» spiegò lui, ai padrini.

«Avete fatto bene,» disse Scalìa. «Quand'uno deve battersi, è meglio non
lasciarsi vedere, per delicatezza. Quel _posatore_ di Oldofredi ha
declamato tutta la serata alle _Colonne_: ora è al teatro, all'Apollo,
per farsi ammirare. Basta, tutto sembra combinato.»

«L'acqua Acetosa, fuori Porta del Popolo, è un buon posto,» soggiunse
Castelforte, «poichè ci si va presto. Abbiamo fissato per le dieci,
verremo a prendervi alle otto e mezza.»

Camminavano tutti e tre verso la casa di Sangiorgio. Egli taceva,
fumando.

«Siete nervoso, voi?» domandò Scalìa.

«Io? per nulla.»

«Allora cercate di dormire. _Cognac_, in casa ce ne avete?»

«No.»

«Il _cognac_ è buono, in caso di duello. Domattina ne porterò io, sul
terreno. Ma voi, cercate di dormire.»

«Diamine! dormirò.»

«Non abbiamo escluso nessun colpo,» riprese Castelforte. «Era quello che
volevate, mi pare?»

«Proprio questo.»

«Ho avvisato il dottor Alberti,» soggiunse Scalìa, «egli verrà; molto
dipende dalla sua esperienza. Non pensate alla carrozza: verremo noi col
_landau_. Solo fatevi trovare pronto; bisogna arrivare in tempo.»

«Come è, Sangiorgio, che non vi siete mai battuto?»

«Oh, noi di Basilicata abbiamo la collera molto lenta.»

«Non parrebbe,» disse ridendo Castelforte.

Poi, come salivano per l'Angelo Custode, tacquero. Nella via deserta le
tre ombre salienti si proiettavano: quella di Castelforte scarnata,
quasi fantomatica; quella di Scalìa, nella sua rigidezza militare;
quella di Sangiorgio, piccola ma solida.


Finalmente, solo. La candela stearica illuminava a mala pena il salotto
freddo e nudo dove il tanfo di chiuso si mescolava, sempre, a quelli
odori cattivi di cucina che venivano dalla corte interna. Finalmente,
solo: e ne era contento, con quella selvaggia necessità d'isolamento che
rinasceva ogni tanto nel suo temperamento.

In quel pomeriggio e in quella serata erano cresciuti in lui tutti gli
istinti di disprezzo per l'uomo, che covavano, latenti, nel suo spirito:
egli passava, da sette ore, per una di quelle grandi prove umane, donde
l'anima esce amareggiata, delusa, nauseata. Nella solitudine del suo
piccolo quartiere, nella lucidità notturna del suo cervello che niuna
cosa, niuna persona, niun avvenimento era sinora venuto a turbare, tutte
le vigliaccherie, le transazioni, le freddezze, le indifferenze, le
premure misurate della gente che aveva incontrata, si affollavano, si
aggruppavano, si precisavano: prima la difficoltà di trovar padrini
contro Oldofredi che aveva fama di sciabolatore, poi l'entusiasmo molto
limitato di Scalìa e di Castelforte, e tutti i consigli, tutti i
suggerimenti, tutti gli avvertimenti poco caritatevoli, tutti i discorsi
lugubri, tutte le domande a base di compassione, tutti i complimenti a
fior di labbro, poco convinti, questo ammasso di parole, di frasi,
d'intonazioni dispiacevoli, lo disgustavano, sfilandogli di nuovo
innanzi, per dimostrargli ancora un'altra volta la miseria e l'ipocrisia
serena dell'uomo.

Egli sentiva che tutti quanti, conoscenze o estranei, amici o nemici,
ammiratori o biasimatori, lontani o vicini, lo giudicavano malamente pel
suo duello con Oldofredi; sentiva degli uni la pietà offensiva, degli
altri il dispetto ironico, degli altri l'invidia rabbiosa, dei molti un
disprezzo grande. Sentiva, che quell'impresa audace, di volersi misurare
lui, nuovo, giovane, inesperto, contro uno spadaccino che niuno osava
più d'insultare, contro un antico deputato, gli valeva le beffe, la
compassione, il dispregio degli altri. In quell'ora egli aveva contro di
sè tutta la pubblica opinione, sentiva la ingiustizia umana colpirlo.
Per cui era felice di essere finalmente solo, di potersi chiudere nella
sua amarezza e nella sua delusione. Non solo, no; qualche cosa scintillò
sul divano. E come egli mosse la candela per veder meglio, una striscia
lucente brillò. Nella sua veglia le sciabole dal taglio affilato
vegliavano con lui.

Quelle almeno non mentivano. Ottusa la loro virtù offensiva e difensiva,
era bastato farle strisciare per cinque minuti sulla cote, per ridar
loro la potenza del male e del bene. Esse non s'infingevano, erano
pronte, lealmente pronte a parare i colpi mortali, a ferire, a tagliare,
a uccidere; una nelle sue mani, l'altra in quella dell'avversario, lama
contro lama, taglio contro taglio: le sciabole erano fedeli. La parola
dell'uomo agghiaccia il sangue per la indifferenza o avvelena il cuore
per la sua acredine: la buona lama va diritta al suo scopo, recide,
nettamente, profondamente. La parola umana strazia: la lama quasi non fa
dolore per la rapida precisione del suo colpo.

Sangiorgio, attratto invincibilmente dallo scintillìo del metallo, andò
a sedersi sul divano e passò il dito sul taglio sottilissimo di una
sciabola.

Che importavano più i padrini, i deputati, gli amici, i nemici, i
giornalisti? Tutto il nodo dell'azione era concentrato adesso in quelle
due armi: la catastrofe spettava ora a quel pezzo di acciaio bene
temprato e bene affilato. La catastrofe? Che catastrofe? Egli si guardò
attorno, come per cercare chi avesse pronunziato quella parola; ma era
solo, le sciabole giacevano accanto a lui; il suo sguardo era
concentrato su loro. Per altri la notte che procede un duello è notte di
agitazione, di nervi, di andirivieni: gli altri hanno tutti una donna, a
cui infondere del coraggio con la disinvoltura: un parente a cui
scrivere una lettera, un amico a cui mandare un biglietto, un servo a
cui raccomandare un servizio importante; gli altri hanno tutti non la
paura, forse, ma tutti una piccola pena, un pensiero molesto, una
puntura di rimpianto; tutti gli altri al pensiero della catastrofe si
esaltano o cercano distrarsi, i grandi interessi del cuore soffrono,
l'anima è eccitata o accasciata, nervosa o sonnolenta. Sangiorgio, nulla
di tutto questo: nè donna, nè parenti, nè amici, nè servi; non una linea
da scrivere, non una parola da pronunziare, non un ordine da dare;
Sangiorgio cercava invano, nel cuore, il grande interesse, per cui
l'idea della catastrofe fosse dolorosa.

A chi poteva dolere se l'indomani Oldofredi lo avesse rimandato a casa
gravemente ferito o morto? A quale donna, a quale uomo? Nessuno,
nessuno: egli era solo, accanto alle sciabole, accanto alla catastrofe.
E in quel freddo processo di eliminazione, in quella selezione
misantropa di persone, di sentimenti, egli arrivò a sè stesso, arrivò al
suo grande, unico, egoistico sentimento: l'ambizione politica.
L'indomani, se egli era ferito, gravemente o lievemente, non importa, —
il valore era sempre il medesimo, la disfatta era sempre eguale, —
l'indomani, la catastrofe lo avrebbe colpito in pieno, nel suo profondo,
fervido, ardente desiderio di fama e di potere. Non sarebbero discese su
lui, ferito o morente, lagrime di donna, tenerezza d'amico, rimpianto di
persone affettuose: ma lui solo, Sangiorgio, avrebbe pianto su sè
stesso, sui propri desiderii di gloria dispersi, sui propri sogni
d'ambizione svaniti nella vergogna fisica e morale del disastro. Il
colpo di sciabola che l'indomani avrebbe tagliata la carne, recisi i
muscoli, divisa una vena, avrebbe trovato la via del cuore, di quel
cuore chiuso e duro dove un solo sentimento viveva, per ferire a morte
questo sentimento. L'opera lenta e solida a cui egli lavorava da tanto
tempo, con una pazienza da formica, con una ostinazione immutabile,
domani, sarebbe crollata: a che valevano più tanti sforzi, tanto studio,
tante privazioni, tante astinenze, tanti dolori sopportati in silenzio?
Un colpo di sciabola: tutto diventava inutile. Così, al lume fumicante
di quella candela stearica, nella notte, nella solitudine, quelle armi
sguainate e fredde, per un minuto fugacissimo gli fecero paura.


Alle otto e mezzo preciso, vennero i padrini. Sangiorgio, vestito di
tutto punto, la _redingote_ abbottonata, il cappello a cilindro ben
lucido posato sopra un mobile, aveva la faccia un po' pallida, ma era
tranquillo; solamente a un lato della bocca, che tremolava lievemente,
aveva una piccola animazione.

«Dove sono le sciabole?» domandò Castelforte.

«Eccole.»

Castelforte le trasse dal fodero, l'una dopo l'altra, toccò le punte,
poi passò il dito sul taglio, le ripiegò, puntandole a terra, le provò
più volte, tirando dei fendenti nell'aria.

«Avete una sciarpa, un fazzoletto di seta, per legare la sciabola?»

Sangiorgio aveva apparecchiato una sciarpa. Scalìa chiuse le sciabole
nel sacco, che legò con la sciarpa: prese il guantone gittato sul
canapè, guardò Castelforte:

«Andiamo?»

«Andiamo.»

Scesero la scala buia. Il cocchiere aperse lo sportello del _landau_,
Scalìa gettò sopra uno dei sedili le sciabole e il guanto: poi in fretta
entrarono tutti tre in carrozza. Passarono per Via Due Macelli, ove già
il fioraio aveva esposto molta ricchezza di rose, ed entrarono in Piazza
di Spagna. Dalle nuvole mollicce che s'amassavano nel cielo, caddero
poche gocce d'acqua che si attaccarono ai cristalli.

«Piove,» disse Sangiorgio.

«Non è nulla,» disse Castelforte, «il duello con la pioggia è più
drammatico.»

In Via del Babuino si demoliva. Mucchi di rovine ingombravano gli
sbocchi delle vie laterali: il principio di Via Vittoria era tutto
sconquassato, perchè riparavano la fognatura. In Piazza del Popolo la
pioggia ingrossò, e cominciò a cadere con uno strepito allegro, quasi
fosse grandine.

«Cesserà,» disse Scalìa «c'è contrasto di venti, in alto.»

Fuori la porta, la carrozza si fermò, per prender su il dottore, che
aspettava davanti al Caffè dei Tre Re. Aveva sotto il braccio un
involtino coi ferri e le fasciature. Sedette dirimpetto a Sangiorgio,
accanto a Castelforte. Aveva un'allegrezza briosa, parlava d'altri
duelli a cui aveva assistito.

E mentre il _landau_ si slanciava al galoppo, sui ciottoli fangosi di
Via Flaminia, il primo _tram_ di Ponte Molle si staccava dalla stazione
e si avanzava, quasi vuoto, sbalzellando e tentennando sui binari.

La carrozza passò davanti al gazometro, e piegò rapidamente nella svolta
che conduce a villa Glori. Sotto l'Arco Oscuro, si cominciò a veder la
campagna: i primi alberi si affacciarono al disopra delle mura.

Allora Sangiorgio, che sino a quel punto era rimasto in una specie di
stordimento del pensiero e dell'anima, in una stanchezza spirituale e
morale, si svegliò, ed ebbe un brivido. Castelforte aveva abbassato un
cristallo, e l'aria frizzante entrava fischiando. E, come la via era
tutta in salita, la carrozza camminava piano. Sangiorgio cominciò a
rivivere e a pensare. Mano mano che si andava innanzi, tutta la sua
forza nervosa si concentrava nei denti che di minuto in minuto più si
serravano. Anche, aveva preso fra le dita un fiocco dello sportello e lo
stringeva con crescente energia. Sotto gli occhi, gli era nato un tratto
di rossore caldo che cominciava a spandersi in giù, irregolarmente. Ma
come l'animazione aumentava, ogni potenza d'espansione scemava in lui:
si andava lentamente rinchiudendo in sè stesso, in una specie di
prosopopea, romantica e orgogliosa di sè medesimo, e alle parole del
medico o dei padrini non poteva più rispondere che con qualche movimento
del capo più vibrato del solito. I cavalli, per la salita, rifiatavano
forte; in fine, a villa Glori, cominciò la discesa. Allora, di nuovo, la
carrozza si slanciò di gran trotto. Erano cessate le mura: oramai a
destra e a sinistra le siepi fiorite passavano rapidamente davanti agli
sportelli. A Sangiorgio parve un momento che delle ragazze corressero,
offrendo fasci di biancospino. Poi cessarono le siepi, e la carrozza
entrò fra due file di olmi che fremevano cupamente, agitati dal vento.
Poi si fermò. Allora, un gran brivido corse i nervi di Sangiorgio, e
quel piccolo rossore sotto gli occhi subito sparve. Erano arrivati. Egli
si volle slanciare; Castelforte lo trattenne.

«Restate in carrozza col dottore. Il luogo non è fissato precisamente.
Aspettate un poco.»

Scesero i padrini. Sangiorgio affacciò il capo allo sportello. Erano
giunti primi. La casina dell'Acqua Acetosa era abbandonata: le porte
chiuse, le persiane chiuse: non vestigio d'anima viva. La grande
spianata si stendeva lungo il fiume, verde, senza alberi, senza uomini:
solamente lontano, lungo la staccionata di villa Ada, una lunga fila di
pecore bianche spiccava dalla comune intonazione di cinereo e di verde,
e un pastore incappato stava ritto, immobile.

Castelforte e Scalìa si allontanarono nella pianura, gesticolando. Il
tempo s'era un po' calmato, ma brontolava e minacciava ancora: e quella
enorme piattaforma, brulicante di erbe inutili, aveva una tristezza così
straziante e così selvaggia, che quelle due sagome di gentiluomini
eleganti, avanzanti tra la cicoria fiorita, stonavano bizzarramente. Il
Tevere, gonfio e livido, tumultuava con impeto collerico. Castelforte e
Scalìa tornarono indietro lentamente, discutendo. Sangiorgio cominciava
a vibrare per l'impazienza. Pel fondo dello stomaco gli si era messo un
tremolio breve e vivace, che gli si propagava sino ai nervi del palato e
gli promoveva una salivazione incessante. La carrozza gli era diventata
angustissima. Si sentiva soffocare.

I due padrini si accostarono a lui. Castelforte appoggiò le braccia allo
sportello:

«Abbiamo trovato un buon terreno; si affonda un poco: ma non si scivola.
Aspettiamo gli altri per vedere se sono contenti.»

«Eccoli,» disse Sangiorgio, i cui nervi erano stranamente aguzzati
dall'eccitazione.

Infatti, il rumore d'una carrozza si udì, e ingrossò subito: la
carrozza, di gran galoppo, voltò nella pianura, e andò a fermarsi in
distanza, nel mezzo del prato. Si spalancò lo sportello. Oldofredi,
Lapucci, Bomba saltarono giù.

Questi ultimi si avanzarono verso Castelforte e Scalìa che venivano
incontro; il dottore di Sangiorgio e quello di Oldofredi si fermarono in
disparte, e s'inginocchiarono svolgendo i fagottini, sull'erba, per aver
tutto pronto. Oldofredi restò presso alla carrozza, col _paletot_
indosso, fumando, battendo gaiamente con una sua bacchettina di bambù la
groppa d'uno dei cavalli. Sangiorgio, con mezzo il corpo fuori dallo
sportello, guardava incertamente. Ciò che lo smaniava, era l'imperizia,
la novità del fatto, e l'ignoranza delle formalità. Doveva restare in
carrozza, o scendere come aveva fatto il suo avversario? Guardò i
padrini. S'erano raccolti tutti e quattro, con amichevoli saluti e forti
strette di mano, sul terreno arso, e discutevano. Ogni tanto, in quella
strana e molle calma del tempo piovoso, veniva distintamente l'accento
lombardo di Castelforte: le altre voci si udivano smorzate e senza
senso, come suoni che uscissero da un involucro di bambagia. Poi Scalìa
tornò indietro verso Sangiorgio, e Bomba andò a Oldofredi: Castelforte e
Lapucci, chini a terra, sbarazzavano il terreno coi piedi, e segnavano
delle linee coi bastoni. Scalìa giunse allo sportello:

«Spogliatevi. Lasciate la _redingote_ e il cappello nella carrozza.»

Prese le sciabole e il guanto, e tornò verso il luogo dello scontro:
anche Bomba tornava, con le sciabole e con un altro guanto. Sangiorgio,
che cominciava ad avere un brivido nel petto e alle scapole, brivido di
impazienza e di desiderio, buttò via il cappello, si trasse furiosamente
il _paletot_, la _redingote_, la sottoveste, la cravatta, e s'avviò in
furia verso i padrini. Il crollo acuto e secco delle sciabole buttate
sull'erba da Scalìa lo fece trabalzare. Castelforte gli gridò da
lontano:

«Tenetevi il _paletot_: fa freddo.»

Sangiorgio tornò indietro, prese il _paletot_, se lo buttò sulle spalle,
raggiunse i padrini. Nel mezzo del terreno, Castelforte e Lapucci
traevano a sorte il comando del combattimento e la scelta delle
sciabole. Scalìa e il dottore si posero in mezzo Sangiorgio, gli
parlavano piano:

«Avete bevuto un sorso di _cognac_?»

«No.»

«Male; bisogna sempre fortificarsi.»

«Non ce n'è bisogno,» rispose Sangiorgio mentalmente.

«Io comanderò l'azione. Voi scegliete le sciabole,» disse Castelforte.
«Volete esaminare le nostre?»

«Scelgo le nostre,» disse Lapucci. «Eccole.»

Oldofredi, dall'altra parte del terreno, con un anemone ai denti,
guardava il paesaggio, voltandosi intorno. Castelforte venne incontro a
Sangiorgio, gli fece impugnare la sciabola, gli legò l'elsa al polso, lo
accompagnò al suo posto. I due dottori si scostarono di venti passi,
Scalìa si fermò alla sinistra di Sangiorgio, Bomba alla sinistra di
Oldofredi. Lapucci e Castelforte si posero a mezzo il terreno, uno di
qua, l'altro di là, ciascuno con una sciabola in mano.

Oldofredi aveva l'aria più sciocca e insignificante del solito:
certamente, non ancora il suo spirito s'era fermato al fatto di cui egli
era tanta parte.

Castelforte, con quella sua aria di capitano di cavalleria, guardò
Sangiorgio, poi guardò Oldofredi, imperiosamente.

«Signori.....» disse con intonazione di cantilena.

La faccia di Sangiorgio, a cui era corso un violento impeto di sangue,
si affissò in lui: Oldofredi sputò via l'anemone, e con un movimento
elegante si scosse il _paletot_ dalle spalle.

«Signori: a due gentiluomini come voi sarebbe ingiuria raccomandare di
comportarsi con perfetta cavalleria. Vi rammento soltanto che dovete
fermarvi immediatamente appena udrete la parola _Alt!_ che non dovrete
attaccare se non al comando: _A voi!_ Andiamo.»

Diede un'occhiata a Lapucci, che gli rispose con un'altra occhiata; e
comandò:

«In guardia.»

Oldofredi, con un movimento quasi insensibile avanzò la gamba destra,
piegò ad un angolo il braccio e la sciabola, si appoggiò sulle gambe.
Sangiorgio andò in guardia con un salto, stendendo il braccio destro e
la sciabola in una linea così retta e così dura, che pareva un pezzo di
ferro.

«A voi!» comandò Castelforte.

E si slanciarono. La sciabola d'Oldofredi battè quella di Sangiorgio che
s'era buttata di punta, e la scartò, poi cadde sul guantone imbottito;
ma Sangiorgio rialzando con impeto brutale il braccio e il ferro,
sollevò la lama del nemico, e per poco non gli ruppe il muso con
l'impugnatura.

«Alt!» gridò Castelforte, interponendo la sua sciabola. I due
combattenti si staccarono e tornarono al loro posto. Oldofredi, un po'
pallido, sorrideva: aveva capito l'avversario; ma Sangiorgio, a cui era
entrata nel petto una furia di toro che abbia visto del rosso, teneva la
bocca chiusa e respirava con violenza dal naso.

«In guardia!» disse di nuovo Castelforte. Sangiorgio, col braccio teso e
la punta della sciabola alla faccia dell'avversario, lo guardava fisso
con occhio così torbido e così minaccioso, che Oldofredi se ne avvide.

«A voi!» disse Castelforte.

Questa volta si slanciò Oldofredi, minacciando al ventre
dell'avversario. Sangiorgio, immobile, col braccio teso e la punta agli
occhi del nemico, non parò; e come vide la lama, che aveva finto una
botta al ventre, passar luccicando davanti a' suoi occhi per ferire alla
faccia, la respinse con una battuta strisciante così franca e così
pronta che la sciabola escì di mano ad Oldofredi, e restò sospesa per la
fasciatura.

«_Alt!_» gridò Castelforte.

Lapucci e Bomba corsero a rilegar l'arma al polso d'Oldofredi.

«Animo. Un'altra botta!» disse piano Castelforte all'orecchio del suo
primo. Sangiorgio s'era rasserenato. Un riso interiore di superbia
contenta gli spianava la faccia. I suoi denti si schiusero. Oldofredi
era di nuovo a posto, con la sciabola in pugno, ma questa volta bianco
d'un pallore iroso: aveva lui, ora, i denti sbarrati, e le sopracciglia
tese come se dovessero scoccar saette.

E al comando si buttò addosso al nemico, d'uno sbalzo, senza finte,
senza artifizi di scherma, per spaccargli la testa. Ma prima che la sua
sciabola arrivasse allo scopo, la punta di quella di Sangiorgio gli
entrò nel labbro inferiore e squarciò tutta la guancia, sino, alla
tempia. I quattro padrini si buttarono in mezzo, i due medici accorsero.
Oldofredi fu tratto in disparte, posto a sedere sopra un _pliant_,
circondato dai sei uomini. Sangiorgio restò solo, con la sciabola in
mano, mezzo nudo, stupefatto, sotto il cielo di piombo che da capo
schizzava una pioggerella fangosa.

Confusamente, intorno a sè, mentre la carrozza passava sotto Porta del
Popolo, egli sentiva chiedere da Castelforte al medico:

«Quanti punti ci son voluti?»

«Dieci.»

«Per quanti giorni ne avrà?»

«Venti: ammeno che non si dichiari una febbre forte.»

«Perdio! che bel colpo!» interveniva a dire Scalìa, fumando
voluttuosamente un sigaro.

«E resta la cicatrice,» aggiungeva Castelforte, ridendo. «Oldofredi non
se lo scorderà, il colpo.»

Il medico discese all'ospedale di San Giacomo, dopo essersi dato
l'appuntamento per firmare il processo verbale. A quella fermata
Sangiorgio si scosse dal suo silenzio.

«Avrai fame?» gli chiese Scalìa.

«Lo credo io: se l'è meritata bene,» soggiunse Castelforte.

E ambedue sorrisero di compiacenza.

Sul terreno, per non far vedere, i due padrini non avevano abbracciato
il loro primo, ma come ritornavano, in carrozza, si lasciavano andare a
poco a poco a un esaltamento affettuoso. Avevano perduta la freddezza,
la rigidità: guardavano Sangiorgio amorosamente, con certi occhi lucidi,
parlavano di lui con orgoglio, con dolcezza, come di un figlio valoroso
che ha subìto un esame, riportando il massimo dei punti: Castelforte
arrivò sino a battergli due o tre colpettini sulla spalla, con una
familiarità insolita in quel gran signore. Quasi quasi lo accarezzavano
con gli occhi, col tono della voce, con certe frasi lusinghiere, fieri
di lui, lasciando travedere come diversamente lo apprezzassero e gli
volessero bene dopo il duello. Egli riceveva quietamente questa onda
novella di amicizia, coi nervi che si ammollivano sempre più,
lasciandosi andare a un gran bisogno di vita fisica, non pensando più,
avendo voglia soltanto di mangiare, di digerire in una stanza calda, di
dormire due, tre ore, profondamente. Sorrideva ai suoi padrini, come il
giovanetto che ha fatto magnificamente gli esami, come la fanciulletta
che ha preso la prima comunione: tutta la visione dell'Acqua Acetosa, e
quella gran cicatrice sanguinante a fiotti sul viso pallido
dell'avversario, erano scomparse, egli non sentiva che la soavità
letificatrice del riposo nel trionfo. Le linee del volto si erano
spianate, gli occhi avevano perduto la loro lucentezza quasi febbrile,
la chiostra dei denti si riposava, addolorata: Francesco Sangiorgio
aveva l'aria di un ebete.

La colezione fu rumorosa e allegra, al Caffè di Roma. Ogni momento
Castelforte e Scalìa versavano del vino a Sangiorgio; egli mangiava e
beveva molto, tutto felice di mangiare, ringraziando col capo ai
discorsi amabili dei due padrini, ridendo quando costoro parlavano del
dispetto di Oldofredi, tanto più doloroso della sua ferita.

Alle frutta le espansioni divennero maggiori:

«... Perchè» continuava a dire Scalìa, «perchè, io ho lunga esperienza
di duello, ho temuto per te, caro Sangiorgio. L'avversario era forte e
coraggioso e si era battuto venti volte: tu, novello, inesperto... è
naturale, ho temuto...»

«Oldofredi non se lo aspettava...» aggiunse Castelforte.

«Pareva che scherzasse, sul terreno,» osservò Sangiorgio.

«Oldofredi non scherza mai,» disse sentenziosamente Scalìa. «Non bisogna
credere alle sue _pose_. Al terzo assalto, ve lo assicuro io, cari
colleghi, egli era furioso: è andato addosso a te, Sangiorgio, che
pareva ti volesse spaccar la testa. Che colpo, santo diavolo!»

«Che colpo, perdio!» fece coro Castelforte.

E gli stessi discorsi di compiacenza ricominciavano sempre, un po'
monotoni, un po' da trasognati, come proferiti da coloro che stanno
sotto una grande impressione recente e ne rifanno la storia cento volte,
cullandosi in quella stessa musica, incapaci di pensare ad altro. E tre
o quattro volte fu rifatta la storia; l'onorevole Melillo, che aveva
fatto colezione con l'onorevole Cermignani alle _Colonne_, un po'
preoccupato della sorte del collega basilisco, era venuto in su pel
Corso, per vedere se incontrava la carrozza, e chiacchierando di
politica, gridando, riscaldandosi, strillando, enumerando cifre e
demolendo bilanci, avevano scorto nella trattoria il gruppo dei tre che
mangiavano: l'onorevole Melillo, il biondone dal viso rosso e dalla
sottoveste bianca, era giunto sino ad abbracciare Sangiorgio, mentre
Cermignani, il deputato abruzzese, restava in piedi, ascoltando la
storia dai padrini, tirandosi la barba nera macchinalmente, esclamando,
preso da un furore bellicoso, postato quasi in una posizione di attacco.

Il Bencini, il vecchio deputato di destra, il vecchio cattolicone
arguto, in sospetto di burlarsi di Dio come del diavolo, che era in
fondo alla sala chiacchierando vivamente e ridendo, con quel buon
vecchione placido, dalla barba argentea, il Gambara, il decano
dell'antico partito conservatore, il Bencini curioso e arzillo come una
femminetta, venne anche lui a congratularsi quantunque non conoscesse
punto il Sangiorgio: ma il Toscano spiritoso e paradossatico aveva
un'antipatia profonda per la stupidità vanagloriosa e spadaccina
dell'Oldofredi. Egli sghignazzava pensando alla collera del deputato
marchigiano.

— Non se la lega al dito questa cosa, Oldofredi: gliel'ha già ricucita
sulla faccia! Per fortuna che non siamo in canicola, non siamo: lui avrà
una voglia di mordere! —

E tutti, intorno a Sangiorgio, ridevano: Scalìa comperava dei fiori da
Nerina, Castelforte narrava ancora il fatto a Gambara che si era
accostato anche lui, e sorrideva placidamente guardando Sangiorgio con
l'occhio del vecchio parlamentare che ama i giovani deputati laboriosi e
coraggiosi; Cermignani e Melillo ascoltavano il chiacchiericcio
sfavillante del Bencini dalla voce chioccia e dal riso secco. Fu quasi
un corteo che accompagnò il deputato Sangiorgio sino al _landau_. Era
uscito il sole, la carrozza fu aperta, Melillo volle salire anche lui. E
come pel Corso passava la carrozza, vi era un allargarsi, un propagarsi
di saluti, di cenni, di congratulazioni, di gesti, di sorrisi: pel Corso
dove andavano su e giù deputati e giornalisti, uomini d'affari e
_reporters_, dopo colezione, aspettando l'apertura della seduta, facendo
il chilo, godendo quel piccolo raggio di sole prima di andarsi a
chiudere nel caldaione del signor Comotto.

L'onorevole Chialamberto, il breve deputato ligure, discorreva col
colonnello Dicenzo, un abruzzese magro dall'aria ascetica; ambedue
salutarono profondamente i quattro deputati che passavano, accennando
fra loro. In quanto al deputato Carusio, in Piazza Colonna, egli si
buttò allo sportello, volle si fermasse, abbracciò e baciò Sangiorgio,
gridando, tutto affannato, che correva dal presidente del consiglio a
portargli il felice esito del duello.

Ma, nella Camera, la dimostrazione crebbe, crebbe sempre, intorno a
Sangiorgio.

In verità, il presidente della Camera serbò, come sempre, il suo
contegno corretto: ma vi fu nel sorriso con cui accolse Sangiorgio
qualche cosa di cordiale, di amichevole, una specie di luce affettuosa.

L'onorevole Freitag, grande, grosso, dalla testa incassata nelle spalle,
dondolandosi mastodonticamente nel nero corridoio, domandò al deputato
meridionale, con la sua vocetta sottile:

«Alla faccia, nevvero?»

«Alla faccia.»

Gli altri non facevano che fermarsi, congratularsi vivamente, stringere
la mano: tutti quanti chiedevano i particolari del duello; Scalìa,
Castelforte, finanche Melillo, erano circondati; i tre assalti con la
botta finale circolavano; i deputati bellicosi li ascoltavano con gli
occhi lustri, puntandoli, commentandoli con qualche esclamazione; i
deputati pacifici ascoltavano in silenzio, sorridendo, figurandosi un
combattimento da torneo. Alcuni, i più crudeli, si facevano ancora
narrare e descrivere la lunghezza e la profondità della ferita di
Oldofredi, chiedevano se vi era stata molta emorragia, se la cicatrice
si sarebbe subito rimarginata, se lo sfregio sarebbe rimasto molto
visibile. Ma dappertutto, in tutti, anche nei più cauti, anche in quelli
che arrischiavano solo una parola e un saluto, trapelava l'antipatia
profonda che i molti colleghi avevano per Oldofredi; in molti traspirava
il rancore segreto per una parola, per uno sguardo, per qualche piccolo
sgarbo ricevuto e sopportato solo per pazienza, per non far chiasso, per
non fare scandali; in molti traspariva la noia naturale cagionata
dall'individuo che vuol imporsi senza aver meriti, che fa il prepotente
a ogni costo e a cui l'improntitudine tien luogo di coraggio e la
insolenza tien luogo di spirito.

Qualche raro amico di Oldofredi si teneva in disparte, si contentava di
non congratularsi con Sangiorgio. Quando Lapucci e Bomba entrarono,
verso le quattro, nell'aula, come se niente fosse stato, le domande
furono poche, dettate da una fredda curiosità: i due padrini sentivano,
alla loro volta, l'isolamento del loro primo che giaceva in letto, con
la faccia e la testa fasciata, in preda a una febbre violenta. Pochi
domandarono di lui: pochi, i quali come gli altri, pensavano che quella
ferita fosse meritata in castigo della soverchia insolenza, ma che
convenisse essere pietosi anche coi vinti.

E l'entusiasmo per Sangiorgio durò nel pomeriggio, crescendo; aumentò
durante il pranzo. Stordito, confuso, ma conservando sempre la sua
freddezza esterna che solo uno stupido sorriso veniva a diradare, egli
lasciava dire, lasciava fare, accogliendo tutto e tutti, abbandonandosi
a quella popolarità novella.

Andò al Costanzi, dove si rappresentavano gli _Ugonotti_, prese una
poltrona di orchestra, ascoltò la musica che non conosceva, come
incretinito: dietro di lui, due giovanotti parlavano del duello,
accennando a lui, come quello che aveva data la sciabolata a Oldofredi;
essi parlavano sottovoce, ma egli udì benissimo, egli che non udiva la
musica. Nell'intervallo sentì sul viso il calore di uno sguardo
magnetico: donna Elena Fiammanti lo guardava da un palco. Salì lassù
macchinalmente: schiudendo la porticina, entrando in quel camerottino
che è separato dal palco e dal pubblico da una tenda rossa, egli sentì
due braccia al collo e la voce quasi commossa dirgli:

«O Franz, o Franz, perchè battersi per me? Non ne valeva la pena.»

Quando scesero, finita l'opera, dopo aver ricevuto almeno dieci visite
nel palco, mentre la Fiammanti si appoggiava al suo braccio, con gli
occhi umidi di piacere orgoglioso, egli vide nell'atrio il grande Paulo
che s'infilava un soprabito enorme. Subito tutta la nebbia superba gli
si dileguò e gli venne voglia di buttarsi sul largo torace di quel
galantuomo. Era lui, il molosso, che gli aveva consigliato di tirare
alla faccia. Sul terreno, egli non aveva ricordato che quel consiglio.



V.


Il principio della questione si era manifestato due giorni dopo la festa
dello Statuto, inopinatamente. In un paese d'Italia, in quella domenica
di festa patriottica, la giunta municipale e il consiglio comunale, in
parte, avevano dato la prova più manifesta di un repubblicanismo
avanzato: i consiglieri monarchici si eran subito dimessi, telegrammi
erano giunti ai deputati, ai giornali, agli uomini influenti, il caso
era diventato grave, in un momento.

Era già l'estate e le sedute si trascinavano lente e fiacche: la
politica estera si era già addormentata del suo sonno estivo: leggi
importanti non ve ne erano; lo scoppio, dunque, fu improvviso,
inaspettato, bene accolto, tutti vi s'interessavano. Gli amori fra la
Camera e il Ministero si erano illanguiditi, come tutte le passioni
corrisposte e soddisfatte; la gran sazietà empiva di nausea costoro che
si erano troppo amati; e il principio della lite che sempre più si
complicava, fu il colpo di frusta che risvegliò gli amanti disgustati e
sonnolenti. Non avevano più voglia, nè più forza di amarsi con furore:
la ritrovarono per litigare, per insultarsi, par darsi a una guerra di
sospetti, di maldicenze politiche, di calunnie private. Il maggior
accusato era il ministro dell'interno, che, obbedendo a un suo ideale
amore della libertà, non aveva voluto sciogliere il municipio di quel
paese.

Uomo profondo, d'idee larghe, di un grande carattere, abituato a
considerare le questioni politiche con un'ampiezza che la meschinità
degli altri uomini politici non perdonava, elevandosi sempre a un ordine
di concetti molto superiore, egli aveva detto che bisognava rispettare
la libertà della coscienza politica: in privato, ridendo un poco della
gravità inusata che si dava a questo caso, aveva detto, come i monatti
di Milano a Renzo Tramaglino: andate là, andate là, non saranno questi
piccoli assessori camuffati da Erostrati, che abbruceranno il tempio
delle istituzioni. Rispondeva a tutti che l'affare era di poca
importanza, e alle facce serie, preoccupate, di coloro che lo venivano a
interpellare, opponeva la sua serenità di uomo superiore, che pareva una
_posa_ ed era l'intima sicurezza di una coscienza quieta.

Ma intorno a lui, sottomano, trapelante, ferveva il desiderio della
crisi: tutti i malcontenti, tutti gli ambiziosi a cuore aperto, tutti i
mediocri, tutti gli sciocchi invidiosi, tutti i cretini presuntuosi si
agitavano, si radunavano, si davano convegno, discutevano, mettendo
insieme la mediocrità e l'invidia, l'ambizione e la presunzione, il
malcontento e la cretineria. Si strillava al caffè, si perorava nelle
trattorie, si ordivano piccoli complotti parziali nei salottini delle
case mobiliate dove i deputati alloggiavano, si aveva l'aria di
congiurati davanti ai piccoli tavolini che il liquorista Ronzi e Singer
mette innanzi alle sue botteghe, nell'estate, a Piazza Colonna.

Ogni giorno, alla stazione, da tutte le parti d'Italia, arrivavano
deputati, con una piccola valigia: la valigia della settimana di crisi,
dove la moglie mette quattro camicie, sei fazzoletti, le pianelle, una
spolverina, giacchè il deputato verrà via subito, in qualunque modo.
Erano già in Roma trecentocinquanta deputati, numero eccezionale che le
più palpitanti sedute invernali non arrivano mai a formare. E forse,
ognuno dei trecentocinquanta aspettava, credeva, voleva, desiderava, era
sicuro di diventar ministro, per la crisi.

Il ministro, l'uomo forte e buono e sapiente, o non sentiva, o sentendo,
non dava molta importanza a questo crescente tumulto di crisi.

«Non vi sarà crisi,» rispondeva, sorridendo, a coloro che lo
interrogavano amichevolmente. «Non vi sarà crisi,» soggiungeva a chi
glielo affermava con una certa aria di protezione preoccupata.

In fondo, egli conosceva il mondo politico e gli uomini che lo
compongono: sapeva bene che il presidente del consiglio era con lui, che
eran con lui gli altri sette ministri, che questo corpo vigoroso di nove
individui non si sarebbe fatto scalzare, così, senza una ragione al
mondo, perchè un municipio non ha voluto firmare un indirizzo al re e ha
levato la croce dalla bandiera tricolore. Egli conosceva bene la
passione furibonda dei suoi otto colleghi pel potere, la tenacia di
quelle ostriche attaccate allo scoglio; per arrivarci avevan dovuto
soffrire e agonizzare politicamente, sarebbero morti prima di andar via.
Egli sorrideva, pensando quanta forza può dare la debolezza: sorrideva,
ed era sicuro.

E passava a un giro d'idee più morale: lo scetticismo non aveva
intaccato certe sue nobili credenze, la sua fede nella coscienza umana
non era ancora scossa. Egli sentiva che questo culto supremo della
libertà era l'amore di tutte le intelligenze, di tutti i cuori italiani:
egli sapeva che gli stessi meschini possono per un istante traviare
questi cuori e queste intelligenze, ma che di fronte alla grandezza di
un'idea, tutto sarebbe scomparso.

Invano, ogni tanto, arrivavano sino a lui i soffi maligni, le voci
calunniose, le notizie false o falsificate; invano, qualche vero amico
gli suggeriva di diffidare, di considerare la situazione da pessimista:
il ministro dell'interno conservava quella sua spiritualità appena
appena velata di amarezza, egli non poteva esser vinto; moralmente e
materialmente, si sentiva saldo, stretto coi colleghi, fatto forte da
una causa generosa. Non voleva sentire lo sviluppo della crisi
parlamentare, il ministro: eppure in quella grande caldaia politica
bollivano tutti i temperamenti, e tutti i caratteri delle regioni
italiche si manifestavano. I Siciliani si davano a quella loro foga
simpatica, mescolata d'ironia e di buon senso; i Napoletani gridavano e
gesticolavano; i Romani aspettavano, attenti, temporeggiando, sapendo il
momento in cui dovevano intervenire; i Toscani ridevano dietro gli
occhiali, sogghignavano sotto i baffi, ambiziosi, mefistofelici, burloni
di sè stessi e degli altri; i Lombardi si aggruppavano, un po' solitari,
un po' aristocratici; i Piemontesi e i Liguri andavano e venivano, si
agitavano, senza parlare, intendendosi a occhiate. Ma i più ardenti, i
più ribelli, i feroci, erano i rappresentanti delle piccole province,
gli Abruzzi, le Marche, le Romagne, la Campania, le Calabrie, i rurali,
i rappresentanti le province che danno la vita e le ricchezze alle
grandi città, i deputati che veramente si appassionano alla politica,
che ci credono, che la stimano come la più grande potenza umana, che si
inebbriano come di un vino generoso.

Solamente, fra tanto tumulto represso, gli uomini della Basilicata non
si riunivano, non formavano gruppi, non parlavano, non si chiedevano
nulla e non rispondevano nulla, freddi e corretti. Il ministro, l'uomo
integro e nobile, era sicuro: non avrebbe mai temuto, in nessun caso; e
sorrideva.

Il giorno dell'interpellanza, quando il ministro dell'interno entrò
nell'aula, vi fu un lungo mormorio sui banchi. Egli se ne accorse, ma,
forte lottatore nelle piccole come nelle grandi cose, ebbe lo spirito di
non volgere gli occhi intorno, di non alzarli su alle tribune: pensò
subito, però, che la cosa era più grave di quello che gli era sembrata
sino al giorno prima. Anche il giorno prima, egli aveva detto, così, con
una certa noncuranza, al presidente del consiglio:

«Vi è molto rumore per quest'affare del municipio.»

«Calori estivi,» aveva risposto, sorridendo, il presidente.

«Ella è d'accordo con me?»

«D'accordo, naturalmente,» soggiunse l'altro, senza però stabilire su
che cosa.

«Crede che il discorso di don Mario Tasca sarà importante?»

«Uno dei soliti discorsi.»

E si parlò d'altro. Gli altri colleghi si erano mantenuti in un grande
riserbo: solo Vargas, il ministro delle belle arti, il vecchio asciutto
e segaligno, disseccato da una divorante ambizione, aveva fatta qualche
opposizione vaga, a cui aveva risposto vagamente il ministro
dell'interno. Le cose erano restate lì. Ora, nella Camera, egli si
accorgeva che la giornata sarebbe stata bollente. Sfogliando certe sue
carte, con gli occhi bassi, egli sentiva, dal ronzìo parlamentare, che
vi dovevano essere almeno quattrocento deputati: alzò gli occhi alla
tribuna diplomatica, la contessa di Santaninfa, la bella pensierosa,
vestita di nero, chinava gli occhi malinconici sull'aula; la contessa di
Malgrà, la pallida bionda seducente, aveva quel giorno un cappellino di
paglia di oro e non lasciava mai di considerare l'aula attentamente. La
tribuna degli impiegati era piena: in quella dei giornalisti una
triplice fila di teste si piegava curiosamente.

— Fiutano l'odore della polvere, — pensò lui.

E guardò i suoi due o tre colleghi ministri, come se volesse dir loro
qualche cosa: ma costoro avevano l'aria così indifferente, che egli non
disse più nulla. Solo guardò la Camera: essa si era chetata, ma aveva
un'aria dura e solida, una massa profonda di quattrocento persone che
tacciono, aspettando. E dopo una quindicina di minuti, alle tre,
l'oratore della destra, don Mario Tasca, cominciò a parlare dal più alto
banco del penultimo settore, in mezzo a un silenzio di grande chiesa
vuota: pianamente, il presidente del consiglio era entrato nell'aula e
si era seduto alla punta del banco dei ministri. Don Mario Tasca, il
vecchio bianco, dal collare di barba candido, dalla pelle rosea, parlava
con una eleganza di forma, con una rotondità di periodo che talvolta il
gesto della mano, circolare, accompagnava e compiva, come il movimento
di una piccola ruota. Il discorso filava, filava, dolcissimamente, senza
mai un abbassamento di voce, senza un'esitazione, come un canto
d'usignuolo: l'oratore non guardava il ministro, guardava in aria, come
un _virtuoso_; non si chinava mai a guardare le sue note, come uno che
conosca la sua parte a memoria. Ma in tutta quella dolcezza esteriore,
il discorso suonava di rampogna: l'oratore non parlava nè di persone, nè
di fatti, ma pur restando in una certa vaghezza di termini, diceva che
erano state offese certe istituzioni e certe idee, a cui sin allora
niuno aveva toccato. Era un discorso senza ingiuria, un po' nebuloso,
forse, ma accusava: taceva i nomi, ma feriva le coscienze.

Il ministro ascoltava attentamente e ogni tanto sogguardava il
presidente, che non si voltava mai dalla sua parte: gli altri ministri
ascoltavano con attenzione profonda don Mario Tasca, che continuava
nella bella fluidità della sua prosa: i deputati tutti rivolti verso la
destra ascoltavano: lassù tutto il pubblico delle tribune si piegava ai
parapetti: le due contesse, la bruna e la bionda, pareva che sorbissero
le parole di don Mario Tasca.

Costui parlò per un'ora, appena appena pigliando fiato, senza bever mai,
senza che mai il timbro della sua voce si alterasse di colorito. Egli
incalzò il ministro, negli ultimi periodi, più brevi, sempre rotondi, a
ruote sempre più concentriche, a rispondere se voleva continuare in
questo dannoso sistema di noncuranza, di lasciar fare, di lasciar
passare. Un lunghissimo, lunghissimo mormorìo di approvazioni salutò don
Mario Tasca.

Il ministro, prima di rispondere, interrogò con l'occhio il suo
presidente: ma costui scriveva; era inutile. Allora egli si alzò e
rispose con molta pacatezza, con molta giustezza, riducendo la questione
ai suoi termini minimi, dichiarandola di poca importanza, attenuando e
sfrondando tutti i fatti, ricorrendo a una quantità di ragioni piene di
buon senso, rinunziando al gonfiamento delle grandi frasi, che egli
credeva inopportune. E discorrendo placidamente, si guardava attorno,
interrogava i volti dei deputati, quasi volendone ricavare in loro
approvazione. Ma i volti non si rischiaravano, chiusi, molto
malcontenti: i deputati non erano soddisfatti, no, erano venuti
nell'aula esaltati da otto giorni di discussione e di aspettazione, la
questione era molto grave, il ministro voleva cambiar loro le carte in
mano, riducendola a un piccolissimo affare.

Invano egli prodigava certe sue finezze di talento ingegnoso, certe sue
risorse stringenti e lucide di logica: egli continuava a sbagliare la
nota, non avendo intesa l'intonazione di quel giorno, non comprendendo
che il vento era alla grande rettorica delle giornate di crisi. Sentiva
lo scontento, ma non ne capiva il perchè: gli pareva sempre di poter
vincere questa battaglia con le semplici armi della ragione, — ma un
silenzio glaciale regnò nell'aula, alla fine della sua risposta. Poi
Niccolò Ferro, il deputato radicale, chiese la parola. Il ministro
aggrottò lievemente le sopracciglia: in quel minuto si accorgeva del
pericolo.

Niccolò Ferro, l'oratore migliore della estrema sinistra, il parlatore
lucido, freddo, imperturbabile, forte nella logica, come forte nella
rettorica, chiarì così limpidamente la situazione, che non vi fu più
dubbio. La dimostrazione di quel municipio era rialzata al suo vero e
grande valore, era un segno del tempo, niuno avrebbe osato mai violare
la libertà delle coscienze, sino a voler proibire o punire queste
manifestazioni. Egli parlò della tradizione storica dei Comuni, di tutto
il lungo sforzo italico per giungere a questo stato di libertà, ancora
incipiente, ma che presto avrebbe avuto un largo sviluppo. Un
consigliere è un uomo, è un cittadino: egli pensa come crede e agisce
come pensa. Le istituzioni non decadono per mano degli uomini, ma
decadono per la loro naturale corruzione: non sono gli uomini che le
uccidono, ma le nuove idee che le distruggono. Fatalmente esse si
imputridiscono pel germe morboso che contengono: nulla le salverà mai,
quando il corrompimento è così avanzato. In fondo Niccolò Ferro era
scontento e contento del ministro: lo dichiarava apertamente. Scontento
perchè lui, uomo di libertà, aveva voluto quasi mettere in ridicolo la
coraggiosa e audace manifestazione di quel municipio che agiva a viso
aperto: contento, perchè sapeva bene che la fede antica non vacilla mai
nel cuore degli uomini integri, malgrado le allucinazioni tiranniche del
potere — ed era sicuro che giammai un atto di repressione sarebbe
partito dalla volontà dell'illustre uomo.

L'illustre uomo aveva inteso tutto, torcigliandosi un po' nervosamente
il mustaccio bigio: guardava Niccolò Ferro, il suo amico, con molta
dolcezza, senza un rimprovero. Si sentiva affogare: sentiva lo sgomento
della Camera innanzi all'audacia novella del partito radicale; sentiva
l'equivoco in cui tutti lo volevano trascinare, amici e nemici, e contro
il quale non poteva difendersi. Nè poteva dichiararsi solidale con
Niccolò Ferro, nè combatterlo: e solidale, pel suo silenzio, lui, il
ministro della Corona, tutti lo avrebbero creduto. Sentiva, in quel
momento, il lungo errore di una politica troppo leale, solamente fondata
sulla verità, solamente inspirata agli alti principii, astratta dalle
persone e dai fatti, quindi poetica e fallace: una politica così poco
pratica, che, ecco, prestava il fianco indifeso alla destra e alla
sinistra. Tutto questo capiva l'illustre uomo; ma non poteva dire nulla.
Forse, in quel frangente, il vecchio presidente del consiglio, parlando
lui, con quella sua temperante bonomia poteva salvar la posizione: egli
poteva metter a suo posto le paure mistiche e canore di don Mario Tasca,
come le spavalderie intempestive di Niccolò Ferro. Ma il vecchio
presidente leggeva una lettera, placidamente, come se si trovasse nella
pace del suo gabinetto e non nel tumulto dell'aula.

La parola fu data all'onorevole Sangiorgio e subito l'assemblea si
chetò; il presidente del consiglio alzò la testa canuta, e guardò
fisamente il deputato di Basilicata, come se volesse leggergli
nell'anima: il ministro dell'interno respirò, sollevato, immaginando che
quanto nè lui, nè il presidente avevano detto, lo avrebbe detto
Sangiorgio. Era intelligente, amico sicuro del ministero, non poteva che
rimettere le cose al loro posto.

Invece, dalla prima frase crudele, l'onorevole Sangiorgio cadde addosso
brutalmente alla politica interna, con un furore concentrato. Avevano
detto troppo poco don Mario Tasca e Niccolò Ferro, come attacco e come
difesa: le cose erano diversamente gravi, da un anno a questa parte; il
più profondo disordine regnava nella politica interna, non vi era più
nessuna guida, non vi era più freno, i pubblici funzionari agivano a
casaccio, o non agivano punto, non avendo ordini. La politica interna
era fondata sull'equivoco e sulla noncuranza colpevole: le teorie
elastiche di libertà vi portavano la rovina. E questo tono acuto, quasi
tragico, di attacco, doveva essere indovinato, era quello della
giornata, perchè ad ogni frase la Camera mormorava per approvazione.
Sangiorgio citò fatti: non era soltanto quello che dava da pensare, nè
il primo; disse il numero delle associazioni repubblicane che in un anno
era cresciuto a dismisura; citò i comizi che si moltiplicavano
dappertutto; e gli atti di ribellione, non di quel solo municipio, non
di quella sola Giunta, ma di altri pubblici funzionari; parlò di un
prefetto che aveva consentito ad assistere ad un banchetto, dove era
stato proibito di brindare al re, — e il ministro dell'interno, malgrado
lo sapesse, malgrado gli articoli dei giornali monarchici, non aveva
punito quel prefetto. I prefetti, i questori, i delegati, lasciati in
balìa delle loro opinioni, della propria volontà, si abbandonavano ad
atti di autoritarismo o di debolezza inqualificabile: ma la nota
principale era la indolenza, una trascuraggine colpevole. Da Roma non
partiva una circolare energica, mai: i rapporti dei più zelanti
funzionari restavano senza risposta, o avevano una risposta ambigua: a
Roma si facevano una quantità di deduzioni filosofiche e sociali, ma
nessun atto di volontà. La Camera approvava tanto forte, che il suo
presidente dovette due volte richiamarla all'ordine. Sangiorgio parlava
con una speciale durezza di voce, con una brevità di accento e di frasi,
con una tale aridezza di forma, che le più piccole cose facevano
effetto: e parevano, quei fatti, tanti scatti di un'arma infallibile,
tutti colpivano al segno, implacabili.

Era un atto di accusa, una requisitoria compilata con la crudeltà fredda
di un magistrato, dalla collera legale e morale. Sangiorgio aveva la
faccia rude e concentrata, i lineamenti immobili, non sorrideva, non
gesticolava, non ricorreva a nessuna delle solite astuzie dell'oratore:
pareva così profondamente sicuro e compenetrato della sua causa, che
solo l'enunciazione precisa e glaciale bastava. Non faceva commenti, o
quasi mai: era una enumerazione di fatti, passava dall'uno all'altro,
dicendo, ogni tanto: _ma non basta, vi è dell'altro_. Questa frase,
ripetuta ogni tre o quattro minuti, monotona come un ritornello tragico,
faceva una grande impressione: dei brividi nervosi parea corressero
lungo la spina dorsale di quel grande corpo che era la Camera.

L'aria parlamentare era carica di elettricità: nessuno scriveva, nessuno
leggeva, tutti erano rivolti verso l'oratore, dei gruppi di ascoltatori
si erano fermati sotto il suo settore; della gente era financo
scaglionata sulla scaletta, quasi volesse bere le parole di Sangiorgio,
in una esagerazione di attenzione. Lassù, nella tribuna diplomatica, la
già bella, e ancora bella contessa Lalla D'Ariccia, il più sicuro
barometro della crisi, era comparsa: ella non veniva che nei giorni di
elettricità. Donna Luisa Catalani chinava la piccola testa fasciata da
una veletta bianca, e, accanto a lei, donna Angelica Vargas piegava la
bella faccia senza velo, tutta rossa ai pomelli, quasi esaltata dalla
curiosità.

L'oratore riassumeva, con una forza di sintesi martellante
sull'uditorio, tutto quello che aveva detto: e senza aggiungere
osservazioni, senza chiedere risposta, senz'aspettarne, con un disprezzo
di qualunque argomento, detto da qualunque avversario, propose,
leggendolo, il seguente ordine del giorno:

«La Camera, disapprovando la politica interna del ministero, passa
all'ordine del giorno, — Francesco Sangiorgio.»

Nel rapidissimo minuto di silenzio, si udì, chiaro, nitido, pronunziato
dall'on. Schuffer:

— Perdio!

Poi sorse un tale vocìo, così alto, così irrefrenabile, che per cinque
minuti il presidente scampanellò invano. Si discuteva nell'aula, sulle
scale, nell'emiciclo, nei banchi, nelle tribune, dapertutto: le signore,
da quella diplomatica, guardavano, guardavano, prese forse anche esse da
un tremito nervoso.

E il forte e onesto uomo, che era ministro dell'interno, aveva ricevuti
nel petto, senza muoversi, i colpi dell'onorevole Sangiorgio, quasi
ammirando la forza del suo avversario: solo, verso la fine, come lo
scioglimento di quella posizione si approssimava, un dubbio crescente lo
assaliva. Dopo quell'attacco così vigoroso, fatto dal centro, da un
ministeriale, da un uomo che aveva mostrato aver tendenze democratiche,
la situazione era così grave, che solo la parola del presidente del
consiglio poteva chiarirla. La difesa spettava al più vecchio, al capo,
all'antico parlamentare. E un sospetto, sì, un nuovo sospetto,
amarissimo, saliva dal cuore al cervello del ministro dell'interno: in
quei cinque minuti di tumulto parlamentare, come quelle piante velenose
del tropico che crescono in una notte, il sospetto gli si allargò
nell'anima, immenso. Egli guardava il vecchio presidente, fiso fiso,
come se volesse strappargli la verità, e temendo che una qualche
emozione gli velasse la voce, non gli parlò, non gli chiese nulla: lo
guardava, soltanto, aspettando che uscisse da quel silenzio, che
scotesse quell'inerzia, che rivivesse, poichè dalla mattina pareva
morto. Ma il presidente taceva e scriveva, carezzandosi con l'altra mano
la barba. Allora il ministro, cedendo a un impeto del suo temperamento
sanguigno, si piegò sul banco, per leggere che cosa scriveva il
presidente. Niente scriveva: disegnava un pupazzetto, con molta
attenzione di disegnatore, e si carezzava la barba con l'altra mano. E
il ministro dell'interno si rifece indietro, calmo a un tratto, un po'
pallido, senza sospetto. La certezza era venuta, innegabile. Egli sentì
l'abbandono, sentì il tradimento. I colleghi, il presidente lo
lasciavano cader solo. Erano già staccati da lui, come si fugge il
morto, per nausea del puzzo.

Certo, il tradimento era completo, erano essi che avevano voluto
liberarsi di lui, come di un braccio ammalato o di una gamba cancerosa.
E la Camera non voleva più saperne di lui: lo sentiva. Quando il
presidente della Camera gli dette la parola, per replicare, si udì la
onesta e tranquilla voce dell'illustre uomo dire:

«Non ho nulla da aggiungere; accetto l'ordine del giorno Sangiorgio.»

Alla votazione egli ebbe trenta voti contro. Il ministro dell'interno
era caduto.


Dopo otto giorni, il giornale officioso del ministero e tutti gli altri
in seguito scrivevano:

«È quindi assicurato che nel rimpasto ministeriale, don Silvio Vargas
passa dal ministero delle belle arti a quello dell'interno. L'onorevole
Sangiorgio, invano pregato di prender parte alla nuova combinazione, ha
sempre rifiutato ed è partito per la Basilicata.»



PARTE TERZA



I.


Un soffio molle di pianto; una luce mesta che le funebri tede pagane,
lambenti con la fiamma azzurrognola le pareti di masso granitico, non
diradavano; una luce velata che le gialle candele funebri cristiane,
anime consumantisi nell'amore, non aumentavano; una fredda aura di
sepolcro; un singhiozzìo frequente musicale; e una gran massa di gente
nera, quasi perduta nell'ombra di quei funerali: e nell'aria, nella
luce, nelle fiammelle, nell'ombra, nella musica, erano lacrime versate e
desiderio di lacrime nuove, era la nota del dolore irrimediabile.

A lui, fermo al suo posto, e lasciantesi penetrare da quel languore
melanconico che al dolore per infinite e continue gradazioni declina, un
improvviso, intimissimo tremore scosse i nervi e fece battere violenti i
polsi: e per naturale moto, sentendosi tremare e impallidire, egli si
volse intorno, cercando scorgere qualcosa in quel fioco lume che
scendeva dal velario.

Ora, egli vide, accanto a sè, questa dolcissima donna, questa
donn'Angelica, dalla parvenza realmente angelicata. Era vestita di nero,
di cordoglio profondo, come quei funebri reali, in quel Pantheon sacro
alla gloria e alla morte dell'Eroe, lo comportavano: e tenea gli occhi
languenti fissi in un cero che si struggeva. Nulla ella vedeva, nulla
parea sentisse, assorta nei suoi pensieri sicuramente di mestizia,
perduta nei suoi sogni di dolore. Seduta accanto a una colonna, aveva
voluto leggere, nel suo libro di orazioni, le preghiere che chiedono
pace, che invocano requie ai defunti; ma presto il libro le era caduto
in grembo, semi-aperto e le mani inerti non avevano avuto forza di
riprenderlo.

E a lui, quella gentilissima abbrunata, dal pallore di perla sotto il
velo nero, dalle labbra soavi ancora schiuse pel passaggio della
preghiera, dagli occhi perduti in mistiche e dolorose contemplazioni,
parve una figura divina. E tutto, lume fievole azzurro di lampade, lume
sottile di fiammelle che si allungavano, aria di dolore, musica di
desolazione, profondo impregnamento doloroso che pareva avesse ammollito
persino le antichissime, saldissime muraglie del Pantheon, incurabile
male dello spirito, tutto per lui si concentrò in quella figura di
donna, seduta presso a lui: ella personificò tutta quella tepida e umida
giornata invernale, in cui il sole era morto; ella fu la sede morale di
tutte quelle lagrime che sgorgavano dalle cose; ella fu l'abisso
attraente del dolore, che tutto il dolore delle cose non arrivava a
riempire; e sull'urto profondo dei nervi di lui, sulla vibrazione di
tutto il suo essere, carne, sangue, nervi, muscoli, in tutta quella
forte compagine di uomo forte, che sussultava, salì, crebbe, vinse un
sentimento di pietà amorosa. Ella, inconscia, si abbandonava, fidente
dell'ombra: si abbandonava alle sue fantasie di donna, vaganti fra i
cerei, fra gli abiti neri lucenti d'oro dei preti, fra le grandi, quasi
colossali cariatidi umane dei corazzieri, fra tante facce pallide,
tristi, annoiate, sofferenti, o indifferenti. Malgrado quella immensa
folla di gente che circondava il catafalco, malgrado l'indefinibile
mormorio che se ne distaccava, ella si lasciava andare in quell'ora di
libertà spirituale, l'ora breve, l'ora indisturbata, l'ora di
liberazione, in cui il proprio dolore rinasce e si fonde e si trasforma
nel dolore universale. Ogni tanto, a uno strappo più lugubre della
musica, a una voce di cantore che pareva quasi bagnata di pianto, a una
parola monotonamente cantata in _minore_ dal prete officiante, ella
trasaliva e il suo sogno desolato ricominciava, percorrendo altre fasi,
altri gradi, altri cerchi di malinconia: e in diverso e più profondo
modo, ella procedeva per le vie amare, che le anime dolcissime sono
condannate a percorrere. Non piangeva, no, perchè troppo vasta, troppo
ampia era la visione funebre di quel giorno: ma egli vedeva bene, egli
vedeva che le delicate palpebre, dalla fibra tenue, come petalo di
fiore, erano ombrate di violetto: ivi erano state le lagrime e ivi
dovevano correre.

E guardandola ardentemente nella faccia soavissima, a cui quell'ombra di
dolore dava una espressione altamente spirituale, non considerando più
altro che quel volto bianco quasi impregnato, quasi saturo di lagrime,
avendo tutto dimenticato nella contemplazione amorosa di quella donna,
egli sentiva in sè tutta una mirabile trasformazione. La infinita
amaritudine ond'ella appariva compresa, a poco a poco, per naturale
assorbimento dello spirito passò in lui: fu come una penetrazione di
sentimento, lenta, ma sicura, infallibile. Egli non domandava che fosse,
ma sentiva tutta la sua personalità scomparire, annegarsi, morire in
quella donna: egli era preso, non da lei, forse, ma da quello che ella
provava. Tutto il vago, l'arcano, il mistico di un dolore femminile,
senza lamenti e senza lacrime, senza cause e senza limite, gli saliva
dal cuore al cervello, allargandosi, prendendo possesso, scacciando
quanto altro mai trovasse sul suo cammino. No, non era più la pietà, la
grande natural pietà dell'uomo verso la donna che soffre: la pietà è
ancora un sentimento personale, la pietà è ancora un egoismo, la pietà è
ancora il grido dell'individuo. Era lui, lui che soffriva, ora, come se
la tortura di quel cuore femminile fosse la propria tortura; era lui che
sentiva la puntura acuta delle lagrime che ella non versava,
abbruciargli le palpebre; era lui che spasimava nell'altruismo,
parendogli di esser perduto nell'angoscia, in un grande vuoto
angoscioso, come quella donna appariva perduta, nuotante nel vacuo della
sofferenza.

Poi, come l'ora funebre procedeva, pel tempio pagano dove degnamente
posava l'Eroe, si diffuse un sottile odore cristiano, d'incenso: e le
spire eleganti salirono dall'altare alla vòlta, sempre più sfumate,
sempre più lievi, perdentisi come preghiere per salire sino al trono
della divinità. E l'incenso aveva anche sapore aromatico di pianto: e il
profumo, salendo dalle nari al cervello, agiva profondamente sui nervi,
carezzandoli con una amarezza voluttuosa. Nella penombra tutto parve
ondeggiasse a quel bacio triste e aromale, i volti femminili parve si
piegassero tutti, per nascondere il tremolìo delle labbra: e la testa
della donna che egli guardava, reclinò, come se le mancasse la forza.
Egli trasalì, fece quasi per accostarsi a lei e sostenerla: ma una
singolare paralisi teneva legati i suoi movimenti. L'incenso bruciava,
bruciava, nei vaselli d'argento, senza fiamma incandescente, vincendo le
ultime forze sue.

Un campanello risonò, con uno squillo che parve sonoro in tanto silenzio
ed era debole: donn'Angelica scivolò dalla sedia sul marmo freddo del
pavimento, chinò la testa fra le mani, non era che un mucchio di roba
nera, abbattuta per terra, ignorata, ignorante, smarrita. E lui, senza
inginocchiarsi, senza chinare il capo, senza pregare, sentiva di essere
annientato nell'annientamento di quella donna, tutto gli sembrava
finito, come tutto era finito per lei. A ogni nuovo squillo del
campanello, come ella sussultava, quasi chiamata da una voce lontana, lo
stesso movimento si ripercoteva in lui: nulla che nascesse in lei,
spiritualmente, che non si svolgesse in lui, subito, per ripercussione.

Attorno al catafalco, una fila di preti si schierò, tenendo nelle mani i
cerei accesi: la croce d'argento, dove era confitto il Cristo Redentore
morente, stette immobile, di fronte alla bara. E dalla musica, una voce
partì, stridula, straziante, una voce che non cantava, ma gridava, una
voce che non pregava, ma chiedeva: _libera, libera, libera me, Domine_.
L'invocazione cristiana, il grido di dolore che chiede la liberazione,
fece levar gli occhi alla dolcissima donna. E nei suoi tratti, che il
pallore di fiore languente facea sembrare quasi consunti, nei suoi
tratti sfigurati, un potente verissimo desiderio nasceva.

Ora, mentre la voce aspra e quasi straziata del cantore domandava al
cielo, con la emozione mistica, la liberazione, donn'Angelica, dopo aver
percorso tutti gli stadi imprecisi, roteanti del dolore, sentiva in sè
precisarsi la necessità del suo cuore. Ella parlava al Signore, ora; le
sue labbra si agitavano, chiedendogli la liberazione. Quanto era stato
d'indefinito sin allora, si definiva: la liberazione. La liberazione di
tutto quello che era stato, bene o male, felicità o infelicità. — Tutto,
fuorchè questo, Signore: tutto, fuorchè quello che è stato, Signore
misericordioso: tutto, fuorchè il tremendo passato, Signore pietoso. —
La liberazione: e per Colui che giaceva nel sepolcro e di cui si
celebravano i funebri, la liberazione era giunta, in cima al vertice
glorioso dove egli era salito, — era giunta, chissà, forse gradita. E
peso reale della corona, pondo di regno, responsabilità grave di leggi e
di volontà regali, cumulo di pensieri, di cure, tutto, la liberazione
era venuta a cancellare da quell'anima, quietandola nella pace suprema.
— Come dorme il re, fatemi dormire. Signore di bontà, come avete
liberato la forte anima del re, o Signore, liberate la debole anima mia.
Sia pure la morte, la liberazione; fatemi morire e liberatemi, Signore!

In un momento supremo, la bella donna straziata tese le braccia al
cielo, nella penombra; e in quella preghiera, le calde lacrime ribelli,
tanto tempo frenate, le scesero giù per le guance.

Egli aveva inteso, misticamente, quanto ella domandava al Signore: e
quella preghiera funebre, quell'ultimo affanno doloroso, riassunto in
una parola, quella richiesta del cristiano agonizzante, erano sgorgate
anche da lui, nella musica, nella voluttà triste dell'incenso, nel
crepitìo sepolcrale delle fiammelle, nell'ondeggiare vago della luce, in
quel cerchio azzurrognolo del velario che parea si muovesse. Nacquero,
sgorgarono dal suo cuore virile le frasi di desolazione, che ella aveva
proferite: egli volle quello che ella voleva. Un piacere dell'anima,
altissimo, si svolgeva da questo desiderio comune: lo spasimo era così
acuto, la volontà era così intensamente concentrata in una sola cosa,
che la vita parve a lui si moltiplicasse. E quando si volse e la vide
piangere, spossata, cedendo all'intenerimento successivo ai grandi
piaceri, ai grandi dolori, egli abbassò il capo superbo. In verità, egli
piangeva, per amore.


Col viso quasi nascosto da un fascio di rose bianche, con cui ella
giocherellava e il cui fresco, invernale profumo, le coloriva le guance,
donn'Angelica ascoltava la conversazione fra suo marito e Francesco
Sangiorgio.

Essi parlavano di politica, da un'ora: in verità, era piuttosto don
Silvio Vargas che ne parlava, un po' arrovesciato nella sua poltroncina,
fumando un pestilenziale sigaro toscano, guardando i delicati fiori
dipinti sul soffitto grigio chiaro del salottino. Ne parlava con la sua
secca voce fischiante, a sussulti, a frasi spezzate, sbuffando fumo,
tirandosi ogni tanto il mustacchio rimasto rado malgrado la vecchiaia,
rimasto castagnino come i capelli, malgrado gli anni. L'età non si
vedeva in quel vecchio magro che nelle rughe finissime all'angolo
dell'occhio, un ventaglio che si allargava verso le tempie; in due rughe
profonde, agli angoli delle labbra, che il sorriso vi scavava: nella
durezza di tutta la fisonomia diventata quasi lignea; nel collo scarno,
dove i tendini si movevano come corda di strumento. Ma del resto era
forte e robusto nella sua magrezza, come quei legni di quercia che
s'induriscono per tanti anni nell'acqua prima di poter essere adoperati:
e quando conficcava sotto l'arco sopracciliare destro la lente rotonda,
senza cornice, sospesa a un cordoncino nero, la fisonomia acquistava una
vivacità, quasi una giovanilità.

E quella lente, in don Silvio Vargas, era un barometro infallibile:
nelle ore di riposo quasi quasi l'arco del sopracciglio non la reggeva:
nelle ore d'indifferenza pareva smorta, appannata, l'occhio dietro di
essa era chiuso o socchiuso, immobile; nelle ore di stanchezza profonda,
di delusione, la lente si staccava dalla sua orbita, ricadeva sul petto,
si perdeva fra le pieghe del soprabito e della sottoveste; nelle ore di
battaglia, di scaramuccia, di combattimento, la lente stava ritta, al
suo posto, lucida, nitida, l'occhio era aperto e scintillante. Gli
avversari e gli amici, troppo passionati per essere osservatori, non
avvertivano questi mutamenti che più tardi, dopo: il barometro politico
essi lo trascuravano: sentivano la gagliardia o la debolezza, non
vedevano dove si manifestavano.

Donn'Angelica Vargas, quando aveva inteso annunziare, dopo colezione, il
deputato Sangiorgio, si era levata per andarsene. Ma il marito, mentre
chiudeva un giornale e ne apriva un altro, le aveva detto di restare,
brevemente, come quando voleva essere ubbidito. Ella era rimasta ritta,
presso una giardiniera fiorita di cinerarie, malgrado il rigore
invernale: e salutato colui che entrava, non era intervenuta nella
conversazione. La svelta e giovanile persona, smesso l'abito di
cordoglio, era mollemente avvolta in una vestaglia a grandi pieghe, di
colore, di stoffa, di foggia monacale: un grosso cordone di seta girava
intorno alla cintura: le belle mani fini erano perdute nell'ampiezza
delle maniche. Ella, ogni tanto, si voltava: e a un motto arguto o
vivace di suo marito, sorrideva per dimostrare che prendeva parte alla
conversazione, che intendeva, che approvava: a una risposta di
Sangiorgio, a una osservazione, a una riflessione, ella si voltava a
guardarlo, una breve occhiata, ma intelligente, ma apprezzatrice. Pure,
si occupava delle piante, amorosamente, osservandole con una grande
attenzione, togliendone via la polvere dalle foglioline che ne erano
coperte, staccando i piccoli rami secchi e i fiorellini già fracidi, che
deturpavano la bellezza di quelli freschi. Si vedevano andare e venire,
intorno alle molte piante verdi, onde il salottino pareva un boschetto
primaverile, le mani bianche, piccoline, uscenti dalla larghezza
claustrale delle maniche: e le dita avevano una gentilezza infantile.
Chinandosi sulle pianticelle, la testa abbassata lasciava vedere il
biancore attraente della nuca, dove i capelli neri segnavano una linea
sinuosa e fitta. Quando si rivolgeva verso don Silvio o verso
Sangiorgio, nel volto soave era scomparsa, dalle palpebre, l'ombra
violetta delle lagrime versate o delle lagrime soffocate: una pacatezza
amabile vi regnava. Poi, a un certo punto, ella aveva di nuovo
interrogata la faccia legnosa di suo marito: l'occhio vivido dietro la
unica lente le aveva detto di rimanere. E poichè ella aveva finita la
visita quotidiana alle sue piante, da un vasello aveva preso il fascio
delle rose, era andata a sedersi in una poltroncina presso un balcone e
odorava i fiori, mentre un po' di sangue le saliva alle guance pallide.
In verità, sulle sedie, sui tavolinetti, sulle mensole era un grande
trascinar di giornali, aperti, buttati via, non aperti ancora, con
quell'acuto odor d'inchiostro di stamperia: sul tappeto le fascette,
sparse, multicolori, a brani, strappate con violenza e con noncuranza.
Ma donn'Angelica non li prendeva, i giornali, non li toccava, non li
guardava neppure: il suo piede aveva scartate due o tre fascette, come
per istinto di pulizia intorno a sè. Odorava i fiori.

Francesco Sangiorgio era venuto in quella casa, in Piazza
dell'Apollinare, chiamato da don Silvio Vargas: il ministro dell'interno
si era fermato con lui, sulla soglia del Pantheon, gli aveva passato il
braccio sotto il braccio ed aveva parlato con lui, sottovoce, per
qualche minuto. Poi, aveva insistito perchè andasse da lui, non al
ministero, non a quel dannato palazzo di Braschi che sembra un mercato,
che è ancora Piazza Navona, nella notte della Befana: venisse a casa
sua, all'Apollinare, dopo colezione, doveva parlargli, che diamine, non
si lasciava veder mai.

«Domani, allora?» chiedeva Sangiorgio, esitando. «Ma che domani, oggi
stesso;» aveva bisogno di parlargli. E passando dal braccio di
Sangiorgio a quello di sua moglie, se ne era andato. Sangiorgio era
capitato, all'una, all'Apollinare; temendo fosse ancora troppo presto,
fu preso da una esitazione innanzi al campanello. Ma dentro, si era
inteso subito bene, tranquillo, innanzi alla cordialità di don Silvio;
soltanto, mentre il ministro parlava, giudicando uomini e cose, egli
ascoltava, sì, ma seguiva tutti i movimenti molli ed eleganti di donna
Angelica.

«Fumate, fumate,» gli aveva detto don Silvio, offrendogli dei sigari e
continuando a masticare il suo toscano.

Egli aveva guardato dalla parte della signora:

«Mia moglie è abituata, non le fa nulla,» aveva soggiunto brevemente il
ministro.

Pure, Sangiorgio non aveva fumato, malgrado il bel sorriso di
donn'Angelica. Seduto presso un tavolino, più che parlare, ascoltava:
poichè a don Silvio piaceva di essere ascoltato. Il ministro che adorava
la politica, ardentemente, come un appassionato ventenne, era quel
giorno in collera con lei: e negli stessi rimproveri che le dirigeva,
nel disprezzo che mostrava di averne, nella nervosità, ora sarcastica,
ora collerica, con cui ne parlava, si sentiva la passione, la vecchia
passione, tutta fiammeggiante ancora, che gli abbruciava le vene di
antico parlamentare. A Sangiorgio, in don Silvio, come in un sogno, gli
pareva di udire una parte dei propri pensieri, uno sfogo del suo spirito
vaneggiante, i cui deliri mai a nessuno aveva confidati.

Riconosceva quella febbre interiore che lo travagliava da anni, senza
sfogo, mentre in don Silvio quel morbo spirituale trovava il suo
sviluppo nell'idea e nella parola: era troppo vecchio e troppo
appassionato, il ministro dell'interno, per celare più il suo
sentimento: non era più tempo d'infingersi. Questo fuoco intimo aveva
dovuto conservare ancora vivo lo spirito di don Silvio: Sangiorgio si
spiegava ora la ragione di tanto lunga e ostinata vigoria.

Ogni tanto, don Silvio, guardando Sangiorgio, smetteva quel ghigno che
rendeva più profonde le rughe degli angoli labiali e sorrideva come
intenerito. Oh, egli non dimenticava, no, che il suo predecessore era
caduto dietro un discorso e dietro una mozione di Sangiorgio: nè si
scordava del reciso rifiuto di Sangiorgio a voler entrare nel rimpasto.
Non gli aveva mai potuto dire la sua riconoscenza, ma da quando la
Camera si era riaperta, egli lo guardava affettuosamente, lo chiamava a
sè, lo consultava, con un'aria fra la deferenza e la cordialità.

«In fondo, il potere vi secca», disse, in una pausa di silenzio,
Sangiorgio.

«No,» rispose francamente Vargas, «non mi secca, mi piace, era quello
che desideravo. Ma la opposizione mi fa nausea: talvolta sciocca,
talvolta ipocrita, talvolta bestiale, sempre in mala fede. Dov'è quella
bella opposizione leale, audace, crudele, implacabile? Invece
dell'accusa aperta, il pettegolezzo da serve al pozzo; invece della
battaglia, l'agguato; invece dell'attacco, il tranello.»

«L'uomo è una meschina cosa,» disse Sangiorgio.

«Non dev'essere: o non deve parer tale, quando è. Perdio! sono stato
anch'io all'opposizione. Te ne rammenti, Angelica, quando ero
all'opposizione?»

«Me ne rammento,» rispose costei con una dolcissima voce minore, alzando
il capo.

«Ero un diavolo: non avevo e non davo pace ai miei avversari. Senza
tregua! Ora, impoltronisco. Io non posso fare guerra: debbo aspettarla,
e questa sequela di avventure brigantesche m'inacidisce il sangue. Come
attaccaste il ministro, quel giorno, Sangiorgio: ed eravate
ministeriale! Ci eri tu, Angelica, quel giorno?»

«Sì, vi ero.»

«È a voi che dobbiamo di esser ministri, qui all'interno, Sangiorgio,»
fece Vargas preso dalla tenerezza.

«Ma no,» mormorò Sangiorgio, sorridendo.

«Sì, sì, il presidente non avrebbe mai avuto il coraggio di disfarsi
apertamente del suo collega. Mi meraviglia persino che ne abbia parlato
a voi: nessuno lo sapeva, neppure io.»

«Il presidente non mi aveva detto nulla,» rispose lentamente Sangiorgio.

«Come? Non sapevate nulla?»

«Nulla.»

«Non eravate di accordo?»

«No.»

«Perdio!» esclamò Vargas, «siete fortissimo!»

E squadrò Sangiorgio con ammirazione. Costui rideva, macchinalmente: ma
vedeva bene che il viso di donn'Angelica perdeva la serenità, — una
stanchezza l'invadeva.

«Venite alla Camera, meco, Sangiorgio: sono le due,» e si alzò per
andare di là.

«Rientri presto?» domandò donn'Angelica, scotendo quell'espressione di
lassezza.

«No. Ho la Camera, prima: poi il Senato; dopo debbo andare al Ministero
per concordare un movimento di prefetti.»

«Verrai alle sette?»

«Alle otto o alle nove, non so.»

«Debbo venirti a prendere alla Camera?»

«No. Va' pure a passeggiare, a villa Borghese, fuori Porta Pia, dove
vuoi: è inutile venire al Parlamento. Io pranzerò, quando avrò finito.
Questo affare dei prefetti è molto serio, Sangiorgio: vi dirò, strada
facendo. Qualunque lettera o plico o dispaccio arrivi, mi vengano a
cercare dove sono, alla Camera, al Senato, al Ministero: subito. Aspetto
notizie importanti: ora vengo, Sangiorgio.»

E gli ordini partivano brevi, concisi, alla moglie, al segretario che
era comparso sulla soglia, erano dati con un tono militare di comando:
don Silvio stava ritto e robustamente piantato, come un giovanotto; la
sua febbre era la sua salute, il suo morbo era la sua salvazione.

Andò di là, nello studio, portandosi il segretario, parlandogli a voce
bassa, ma seccamente. Rimasero soli, Francesco e donn'Angelica: egli
ritto, ella col capo chino come nel Pantheon, nel minuto della
preghiera, giocando con le dita attorno al cordone serico della sua
vestaglia. E non parlavano e il minuto presente aveva vibrazioni
prolungate come di suono musicale, come di palpito.

A un tratto, ella lo guardò coi bellissimi occhi rattristati, congiunse
le mani e gli disse:

«Ma perchè avete voi voluto che noi fossimo ministro dell'interno?» e la
voce tremava di emozione contenuta.

Don Silvio rientrava, con soprabito e cappello, stringendo fra le labbra
il mozzicone spento e nero del suo sigaro toscano: il segretario lo
seguiva con una cartella imbottita di fogli.

«Vuoi una rosa?» disse improvvisamente donn'Angelica a suo marito,
facendo per mettergliela all'occhiello.

«Ma che ti pare?» esclamò lui, staccando con una certa durezza la mano
bianca, «vuoi farmi burlare dall'opposizione? Un ministro con la rosa:
mi farebbero subito la caricatura nei giornali.»

Donn'Angelica si ritrasse: guardò fuggevolmente Sangiorgio, ma non gli
offrì la rosa.


Un cielo basso di nuvole bianche, grige, plumbee, scuricce, che si
facevano nere all'orizzonte, sopra i colli tuscolani, sul Soratte che
pareva anche esso un grosso nuvolone sceso sulla terra: una campagna
brulla, bigia, qua e là ondulata, come se dovesse sbuzzar fuori; due
siepi nere, due siepi ispide e scarnate, senza un'ombra di verde, senza
un fiore: qualche _osteria di cocina_, dai rozzi dipinti sulla parete
umidiccia — tre bocce nere che formavano triangolo, un pulcinella che
beve una _foglietta_ — ma le porte e le finestre sbarrate, un
cancelletto di legno che cadeva in frantumi: il grande fabbricato bigio
dove la vedova Mangani dà da mangiare ai romani buontemponi dell'estate
e dell'autunno la trippa in brodetto e l'_abbacchio alla cacciatora_,
sopra un terrazzo, sotto un pergolato, in un cortile, dovunque si può
mettere una tavola o un litro di vino bianco; quel rudere strano,
perduto in un campo, che sembra una colossale poltrona dalla spalliera
sbocconcellata e che infatti si chiama la _sedia del diavolo_; un
carrettiere buttato giù, bocconi, sonnecchiante sopra un carro di
pozzolana che rientrava verso Roma; ogni tanto, qualche grossa goccia di
pioggia che cadeva sul terreno.

Prima di Sant'Agnese qualche carrozza di cardinale che tornava
lentamente dalle catacombe, qualche prete pedone sui due marciapiedi;
subito dopo Sant'Agnese due carabinieri a cavallo, avvolti dei mantelli
neri, immobili; un soffio molle e sciroccale che radeva la terra; un
odore acuto, quell'odore particolare della campagna romana, che va al
cervello e dal cervello va nel sangue, come miasma sottile: un cane
sperduto, tutto infangato, che andava annusando per le siepi e guardava
il viandante, con certi tristi occhi di animale infelice: ecco le cose,
le persone, gli animali, le parvenze che vide Francesco Sangiorgio, in
quel cader del giorno invernale, sulla Via Nomentana. E in tutte le
cose, gli animali, le case, le chiese, la grande malinconia della
pioggia imminente, la immensa malinconia del tramonto romano, in
campagna.

«Ecco il Ponte Nomentano,» gli disse il cocchiere, indicandoglielo con
la bacchetta.

«Ferma; voglio scendere. E aspettami qua,» rispose Sangiorgio.

E a piedi fece la piccola erta che conduceva al ponte, lo strano ponte
murato, dall'arco largo e molle che si piegava sull'acqua gorgogliante
dell'Aniene, con le due larghe finestre che affacciano a monte e a valle
del fiume. Sangiorgio si fermò sul ponte, si appoggiò allo sporto e
guardò lontano, donde il fiume veniva. E veniva, stretto, ma profondo e
sinuoso, con una rapidità di corrente singolare, aumentato dalle pioggie
invernali: veniva, tutto bianco, con un colore di argento smorto, ma
freddissimo; senza lucentezza, ma glaciale. Una quantità di piccoli
gorghi vi si formavano, cerchiolini con un buco intorno a cui l'acqua si
arrotondava, a piccole onde circolari.

Sulla riva un po' di terriccio più chiaro, non una pianta, non sabbia,
non pozzolana e attorno il grande deserto della campagna romana.

Non pioveva ancora: ma le nebbie del fiume e lo scirocco morbido avevano
dato una tinta di bagnato alla vecchia costruzione nomentana: e toccando
la parete del finestrone donde si affacciava, Sangiorgio sentì
un'umidità gocciolante; i gomiti stessi del suo soprabito erano già
bagnati e sporchi.

Aguzzò gli occhi su tutta la campagna, ma non si vedeva nè il gramo
profilo di un albero, nè il meschino profilo di un uomo: attraverso di
essa, il fiume che a Tivoli è così bello, così allegro, così sonante,
metteva la larga nota mestissima delle acque correnti.

Allora egli si affacciò dal finestrone a sinistra, sul fiume, guardando
l'acqua che correva a valle, rapidamente, per ricongiungersi al Tevere.
Qui, si vedeva la Via Nomentana prolungarsi fra la pianura, fare un
gomito e scomparire: in mezzo a un campo, una casetta, un tugurio di due
stanze, senza soffitto, diruto dalle mura simili a denti spezzati; al
gomito della strada, una casetta bianca e pulita, piccolina, l'_Osteria
dei cacciatori_, e di lì un larghissimo prato discendente al fiume.

Qui a valle, di mezzo l'acqua sorgevano dei boschetti di salici, rami
nerastri e scarni; una chiatta tenuta per mezzo di una fune a un piuolo
di legno conflitto, sulla riva: contro la chiatta, contro i salici,
contro la fune, l'acqua si rompeva, gorgogliando.

Nell'ora oscura che discendeva, parea che discendesse anche il cielo.
Guardando, con l'ardore concentrato di chi cerca, Sangiorgio vide una
carrozza chiusa, ferma presso l'_Osteria dei cacciatori_, ma era rivolta
in modo che non si vedevano nè i cavalli, nè il cocchiere. E poi, di
lontano lontano, sulla riva destra del fiume, vide lentissimamente un
punto bruno ingrandirsi ingrandirsi, e riconobbe la dolcissima donna che
aveva visto piangere nella chiesa.

Solitaria, vestita di nero, ella camminava lungo il fiume, arrestandosi
ogni tanto a veder fuggire la corrente, contro cui andava: camminava
piano, molto rasente l'acqua, affondando nel terreno bagnato, movendo i
passi con lentezza.

Come fu più vicina, egli potè scorgere, sul bruno del vestito, il fascio
di rose bianche che ella aveva in casa, nel salotto tutto pieno di
piante verdi: con le mani ella lo teneva stretto alla cintura. Due o tre
volte, ella si rivolse verso l'orizzonte, mirando la tristezza del cielo
che pareva volesse soffocare la terra, cercando invano i lieti colli di
Tuscolo che il temporale già aveva nascosti; poi riprese la sua
passeggiata solinga, con tale lentezza di movenze che sembrava appena
appena radesse la terra.

Giammai ella alzò gli occhi sulle mura del ponte, dal cui largo
finestrone, colui che aveva pianto per lei, la contemplava. Certo, ella
si credeva profondata nella solitudine, in quella vasta campagna nuda,
in quella minaccia crescente di bufera, in quell'ora ultima della
giornata, in quel paesaggio triste da cui rifugge la gente volgare: si
credeva sola, come nel tempio, pregando Dio, parlando a Dio.

A cinquanta passi dal ponte, presso il piuolo mezzo marcito dove la fune
della chiatta era attaccata, donn'Angelica si fermò. Pareva che una
stanchezza l'avesse presa, a un tratto, malgrado la lentezza della
passeggiata: o forse aveva agito su lei il grande fascino delle acque
correnti che si prendono lo spirito di coloro che le contemplano e ne
assorbono la volontà. Difatti, appoggiata al piuolo, come confitta sulla
riva, a un passo dall'acqua che correva, inclinando i rami neri dei
salici, donn'Angelica si smarriva nella contemplazione del fiume.

Un larghissimo coperchio nero di nuvole, una cappa che affrettava il
sopraggiungere della sera, chiudeva oramai tutto l'orizzonte, intorno: e
pareva che la luce a poco a poco morisse, schiacciata fra il cielo e la
terra. Sangiorgio non vedeva più nulla, salvo quella figura di donna,
immobile come una statua, sulla riva del fiume. Pure, uno strepito sordo
venne dalla Via Nomentana, un rumore di ruote, di cavalli trottanti: e
in tanto bigio qualche cosa di rosso, di acceso balenò. Sotto il mantice
abbassato di una _daumont_, qualche cosa di bianco, un viso fulgido il
viso regale, passò: passò l'equipaggio reale sul ponte, al trotto,
mentre la regale donna salutava al saluto di Sangiorgio; e tutta la
visione, brevissima, accesa, fulgida, scomparve verso Roma. Sangiorgio
si rivolse di nuovo al fiume.

Nulla sapeva la donna: perduta nelle sue visioni, il rumore, il
passaggio purpureo dell'equipaggio regale, quella specie di cometa
bionda e luminosa che aveva per un istante animato quello scurore di
tramonto nuvoloso, le era sfuggita. Pareva non sapesse più distaccarsi
dalla vista del severo Aniene dalle acque gelate. Egli la vide
inchinarsi due o tre volte, quasi volesse contemplarsi nell'acqua o
vedere il fondo del fiume. Poi le mani di lei sfogliarono una rosa e ne
gittarono i petali bianchi nell'acqua fuggente che li portò via: e una
dopo l'altra, tutte le rose furono sfogliate e, a manate, i petali
lasciati andare alla corrente. Non ella strappava rabbiosamente quelle
foglioline bianche dallo stelo, ma le distaccava con un moto di
abbandono, come se realmente tutto partisse, tutto morisse nel suo
spirito, insieme a quei petali che partivano, che morivano. Vi era nelle
mani che lasciavano andare via quelle vite di fiori, la desolazione di
altre vite morte. E l'ultima foglia, invero, le svanì fra le dita. Non
egli vedeva tutto questo, per la distanza, ma lo indovinava: e come
l'ultima foglia se ne andò, perduta, travolta, sentì uno struggimento
come di morte. La donna, dato un ultimo sguardo all'Aniene, risalì senza
voltarsi; pel prato della strada, rientrò in carrozza. Sul ponte, la
carrozza passò con una velocità grandissima: donn'Angelica non vide
Sangiorgio, ma egli vide bene che la pallida donna stringeva ancora alla
cintura gli steli nudi delle rose morte.



II.


Dal suo banco del centro, dove fingeva di scrivere delle lettere, ma
dove in verità tracciava macchinalmente il suo nome, venti, trenta volte
sopra un foglietto di carta, egli vedeva perfettamente donn'Angelica
Vargas sola sola nella tribuna diplomatica, appoggiantesi con un braccio
sul parapetto di velluto. Ne aveva sentita la presenza, subito, a un
sussulto dei nervi; aveva osato voltarsi due o tre volte e anche
salutarla; — ella aveva risposto con un sorriso profondo, ma aveva
immediatamente guardato altrove. Ora egli non provava altro desiderio
che salire lassù, sederlesi accanto: ma pensava che non era forse
conveniente farsi notare da tanti colleghi, darsi in spettacolo. Pure,
il desiderio era così forte che si levò dal suo posto, attraversò l'aula
e uscì nel corridoio, gironzando, distratto, rispondendo qualche
monosillabo a chi gli parlava della riforma della legge universitaria.
Rientrò, non avendo avuto il coraggio di salire su: e vergognoso della
propria vigliaccheria. Presso il banco dei ministri, don Silvio Vargas
lo chiamò:

«Sentite, Sangiorgio...»

E gli disse qualche cosa sopra la legge comunale e provinciale, di cui
si parlava di nuovo, per la terza volta.

La simpatia di don Silvio per Sangiorgio era cresciuta rapidamente, in
poco tempo: ogni volta che aveva un dubbio politico o amministrativo, lo
chiamava, se lo portava a casa, lo consultava, lo conduceva al
ministero, aveva con lui delle lunghissime conversazioni. Ora, di nuovo,
aveva qualche cosa da sottomettergli. Sangiorgio gli dette il suo
avviso; poi:

«La signora è lassù...» soggiunse.

«Ah sì?» fece don Silvio, senza voltarsi, con una perfetta indifferenza.
«Credete vi sarà viva discussione sugli articoli?»

«Specialmente sull'articolo quarto: la estrema sinistra ci tiene molto.»

«Parlerete voi, Sangiorgio?»

«Non so bene.»

«Dovreste parlare.... Sentite, venite domani a pranzo con me, vi
spiegherò certe mie idee...»

«Verrò,» disse Sangiorgio, dopo aver esitato un momento.

E si allontanava; ma sottovoce il ministro lo richiamò.

«Giacchè ci siete a sacrificarvi per me, andate un po' lassù a far
compagnia a mia moglie. Quella si annoia a morte: io non ho tempo neppur
di salutarla.»

«Si annoia?»

«Essa odia la politica: la femmina è egoista, caro Sangiorgio,» rispose
filosoficamente don Silvio, conficcandosi la lente sotto l'arco
sopracciliare.

Sangiorgio raccolse le sue carte con una fretta che non giungeva a
dissimulare, le ficcò nel cassetto e attraversò l'aula, i corridoi, salì
le scale, frenandosi per non correre. Donn'Angelica non si voltò
neppure, udendo schiudere la porta della tribuna.

«Si annoia molto, signora?» le chiese lui, alle spalle, a voce bassa.

«Non più del solito, onorevole,» disse lei, voltandosi un poco e
dandogli la mano, senza manifestare nessuna sorpresa.

Egli sedette alle sue spalle: ella, sebbene fosse rimasta rivolta a lui,
gli parlava senza guardarlo, tenendo gli occhi sull'aula.

«E ci viene spesso, mi pare?»

«Spesso: anche la noia diventa un'abitudine. E poi... Silvio è ministro,
molti credono che io sia una donna influente, a casa è un viavai di
persone che vogliono qualche cosa.»

«Si proibisce l'entrata.»

«Sì, quando si è una semplice signora, non quando si è moglie di un uomo
politico, di un ministro. Don Silvio ha sempre paura che io gli faccia
perdere la popolarità.»

E la voce le si velò d'amarezza.

«Ella dovrà dunque subire dei contatti volgari?» chiese lui, con una
dolcezza di pietà, per cui ella si tramutò di colore.

«Sì. Io sono piena d'indulgenza, mi par naturale essere indulgente: ma
la volgarità mi offende e mi addolora.»

«Bisogna mettere in alto il cuore.»

«Il cuore? Il cuore non ci entra, in questo. È la fibra morale che
soffre, sono i nervi. Così, preferisco venir qua: fra due mali, il
minore.»

«Tanto Ella odia la politica?» arrischiò lui.

«Non la odio, non posso amarla.»

«Eppure è una forte e nobile idea,» azzardò egli ancora.

«Lo dicono: ma io non la intendo. Capisco altre idee nobili, buone,
forti, generose, feconde di bene: non questa. Io sono troppo ignorante,»
soggiunse, poi, umilmente.

«No, no,» si affrettò a dire lui, «Ella ha forse ragione.»

«Non posso amarla, questa idea. E poi, per noi donne certe idee, anzi le
idee astratte, non rappresentano nulla. Noi abbiamo bisogno di una
realtà che le concreti: la religione nella chiesa, nella figura della
Madonna, del Cristo: la patria, nel dolce paese, nel mare, nella
collina, fra la gente che amiamo: — la politica, idea, chi la
rappresenta?»

«Gli uomini politici,» mormorò lui, dopo aver esitato.

«Ah sì!» fece lei, come pocanzi aveva esclamato suo marito, con una
indifferenza disdegnosa.

«Anche quelli li odia?»

«Li compatisco.»

Egli non ebbe un impeto di ribellione, ma una impressione dolorosa gli
si rivelò sulla faccia.

«Li vengo a guardare, ogni tanto: li guardi anche lei, onorevole. Che
facce scarne, consumate, gialle di bile, verdi d'invidia! Che facce
grasse e flosce, pallide e malaticce! Che stanchezze precoci in certi
corpi, che movimenti nevrotici in certi altri! Sembrano tutti ammalati
di una medesima infermità, un morbo fatale che li corrode o li gonfia.
Così, forse, debbono essere i giocatori, nelle bische.»

«Almeno, è una grande passione,» soggiunse lui, timidamente.

«Grande? Forse. Lo dicono: non lo credo. Quando essa è entrata in uno
spirito, lo restringe in un meschino orgoglio, in un'ambizione
piccolina. Ecco trecento persone, quaggiù, che hanno ingegno e che hanno
studiato, che hanno coraggio fisico e coraggio morale, che hanno
coscienza onesta e carattere d'uomo. Ebbene, questi trecento ingegni,
queste trecento audacie, queste trecento volontà, queste coscienze e
queste intelligenze, che cosa vogliono tutte, senza eccezione, a
qualunque costo?»

«Esser ministri.»

«Ministri: a qualunque costo. E in questa voglia implacabile, ditelo
voi, non si sgretola forse miseramente l'ingegno? Questo ingegno che
farebbe miracoli di bellezza e di utilità, applicato all'arte e alla
scienza, non si sfinisce, senza risultato?»

«È vero,» disse lui.

«Inventare una macchina che renda gli uomini più felici, moralmente o
fisicamente, non è forse meglio che far cadere un ministero? Non è
meglio fare una statua, dipingere un quadro, scrivere un libro?»

«È vero,» rispose lui.

«E il coraggio, crede Ella che conservi lo stesso impeto d'azione, lo
stesso slancio di audacia, qui, dove tutto si riassume in un discorso,
dove ogni nobile iniziativa si spreca in venticinque sedute pomeridiane
e in quattordici discussioni negli uffici? Tante parole, tante parole!»

«Noi abbiamo combattuto, quando si doveva.»

«Sì,» disse lei, pensierosa a un tratto, «quelli eran tempi! Noi donne,
vede, comprendiamo l'eroismo dei campi di battaglia e quello delle
cospirazioni, — questo parlamentare ci sfugge.»

Tacquero un momento. Una fiammolina ardeva le guance di donn'Angelica: e
le calde parole sue ondeggiavano nell'anima di Sangiorgio, vi
s'imprimevano come sulla cera molle.

«Resta poi la coscienza,» riprese lei, che voleva dire tutto. «Ahimè,
come restar saldi fra tanti istinti personali che scoppiano, fra tante
necessarie transazioni, fra tanti equivoci? Come restar immobili,
inflessibili, quando la maggior virtù per riuscire è proprio la
elasticità?»

«È vero, è vero,» ripeteva lui.

«Una grande passione, la politica: lo so bene,» continuò ella, chinando
gli occhi sull'aula, battendo con le dita sul velluto del parapetto, «lo
sappiamo tutte noi altre, mogli di uomini politici. In questi cuori di
uomini, questa passione scaccia tutte le altre. Se stiamo in provincia,
l'uomo ci abbandona per nove mesi dell'anno, senza badare alla gioventù,
alla bellezza, alla solitudine della moglie. Se veniamo in Roma, peggio:
la casa diventa un piccolo Parlamento, dove si congiura, se non siamo al
potere: dove si preparano i mezzi di difesa, se siamo ministri. Non più
amici: alleati, clienti, servi, invidiosi, interessati, niente altro.
Non si chiede loro l'affetto: si chiede il voto. Ha detto _sì_? è un
amico. Ha detto _no_? è un traditore. In casa sparisce la intimità: la
invade un fiume di gente estranea che la deturpa, che la rende simile a
un porticato, a un cortile, a una via pubblica, a una piazza. La
cordialità sparisce: il marito è inquieto, è annoiato, cercate di
saperne la cagione, — non ve la dice, crede che non possiate capirla,
gli uomini politici disprezzano il consiglio delle donne. A tavola? Il
marito legge i giornali o risponde ai telegrammi. Al ballo? È difficile
che vi possa accompagnare, eppure bisogna andarci, per rappresentare il
governo, parlare coi deputati influenti, far la riverenza alle mogli dei
capi-parte, dare la mano a creature insignificanti che non
esisterebbero, se la grande passione politica non esistesse. La
solitudine malinconica in provincia, come una povera creatura
abbandonata: o la folla affogante in città, senza un soffio di poesia,
senza un sorriso d'ideale. Grande passione, certo: ma così furiosa e
invadente e sequestrante che fa spavento o fa nausea.»

Di nuovo, silenzio grande. Nell'aula, don Silvio Vargas parlava, con la
sua voce stridula, con le mani in tasca, piegando un poco l'alta persona
scarna, guardando dietro la sua lente lucida colui che lo aveva
interrogato, quasi burlandosi di lui, con quella forza d'ironia che
irritava l'avversario.

«Una grande passione, una grande passione...» mormorava donn'Angelica,
«la donna ne capisce una sola...»

«E quale?»

«L'amore.»

«È vero,» rispose Sangiorgio.


«Si pranza soli, oggi,» aveva detto don Silvio a Sangiorgio, sedendosi a
tavola, «donn'Angelica è dietro a vestirsi pel ballo del Quirinale.»

Alla piccola tavola dei pranzi familiari sedeva anche il segretario: un
quarto posto, quello della padrona di casa, restava vuoto. In mezzo alla
tavola, in un vasello di cristallo dal collo sottile, stava in fresco un
ramo di gigli rossi: e gli occhi di Sangiorgio andavano continuamente da
quel posto vuoto e a quel grande fiore rosso. I due deputati, il
ministro e l'importante uomo politico discorrevano vivacemente di
politica, mangiando senza badarci, don Silvio tagliuzzando nervosamente
la carne, mentre si infiammava sulla legge comunale e provinciale,
Sangiorgio ascoltandolo, rispondendogli, facendogli obbiezioni,
dimenticando di pranzare: ma il suo pensiero si staccava da quella
piccola stanza, tutta in legno biondo, resa tiepida dalla fiamma allegra
del caminetto, per andare dietro quella porta chiusa, per indovinare
dove fosse donn'Angelica.

Solo il segretario, dunque, pensava a pranzare e ci si dedicava con
tutto lo stomaco: ma serbava un contegno serio; ogni tanto, a una frase
del ministro, approvava col capo, con un'aria di ammirazione contenuta;
a ogni osservazione di Sangiorgio, inarcava le ciglia, come se si
preoccupasse anche lui della difficoltà.

Così il pranzo continuava, fra l'andirivieni dei due servi che ora
portavano un telegramma, ora una lettera, ora un giornale, ora una
pietanza: don Silvio stracciava subito la busta del dispaccio, apriva e
leggeva la lettera, rompeva la fascetta del giornale, ne scorreva con
l'occhio le colonne, non assaggiava la pietanza, la guardava con
l'occhio distratto dello spirito assente.

Accanto a lui un calamaio, una penna, della carta da telegrammi, dei
foglietti da lettere: e subito rispondeva dopo aver respinto il piatto
dinanzi a sè, passava il giornale al segretario, dopo averci fatto un
segno col lapis rosso in qualche posto: il segretario leggeva il
passaggio segnato, con l'aria imperturbabile di un vecchio diplomatico.
E Sangiorgio invano tendeva l'orecchio per cogliere qualche rumore
femminile, invano stava attento al minimo incidente: non una cameriera
passava, non un campanello risonava, niente di femminile trapelava la
ricerca di un fiore, il passaggio di un candelabro, l'affaccendamento
dei servi, nulla, proprio nulla.

Donn'Angelica aveva radunato nel silenzio delle sue stanze tutta la
poesia nervosa e febbrile di una donna che si veste pel ballo: e il gran
mistero della bellezza che si adorna, fatto di acque lustrali e di
profumi, di capelli disciolti e di fiori sparsi, di veli volanti e di
gioielli luccicanti, di stoffe spiegate e di molli pellicce, il gran
mistero d'Iside della donna moderna, si compiva come in un tabernacolo.

Un desiderio sempre più cocente di sapere, di udire, assaliva Sangiorgio
in quel tepore della stanza da pranzo, fra tanti discorsi di politica,
tanto odore di inchiostro: un desiderio che nasceva da quel posto bianco
e vuoto dove il seggiolone di legno era accostato, come se allora allora
ne fosse partita colei che l'occupava: che nasceva da quel ramo di gigli
rossi, i focosi gigli di san Luigi, che pare uniscano alla purezza il
calore della passione. Almeno fosse venuta fuori un momento, a salutare
suo marito, a salutare il suo ospite: si fosse fatta vedere, fiorente di
gioventù e di bellezza! A ogni schiuder di porta, come l'ora si
avanzava, Sangiorgio trasaliva, chiudendo gli occhi, credendo di vederla
comparire nello splendore della venustà e della acconciatura. Ma di
nuovo capitava un dispaccio, un plico, una lettera: a un certo momento,
don Silvio cavò di tasca la _cifra_ per interpretare un telegramma
politico. Dov'era dunque donn'Angelica? In quali onde di profumo si
annegava la sua persona?

Passava l'ora e niente nella casa si moveva, che fosse appartenuto alla
lietezza di un ballo: essa serbava il suo aspetto confuso, il suo batter
di porte, il suo discorrere ora concitato, ora sommesso, il suo
andirivieni di carte scritte e stampate, il suo aspetto di piazza, di
Borsa, di casa politica dove viene ad approdare ogni intrigo, ogni
falsità, ogni imbroglio. Forse, di là, nel santuario, la bellezza
giovanile di donn'Angelica si manifestava nella piccola febbre femminile
che precede il ballo, mettendo nella sua camera il disordine inebbriante
delle biancherie sparse, delle calze di seta che sgorgano dai cassetti
aperti, delle boccette sturate, dei busti che trascinano sul tappeto: ma
questa confusione muliebre, questo scombussolamento inebbriante che
innamora un marito o un amante più profondamente che mai, si ignorava.

Francesco Sangiorgio sentiva, sì, attraverso le tre o quattro porte che
lo dividevano dalla donna che amava, sentiva questo fascino novello,
tutto umano, che lo dominava in modo diverso, che s'indirizzava
all'uomo; sentiva il contrasto fra la secchezza, l'aridità di quella
esistenza tumultuosa di don Silvio, e la morbidezza poetica di quella
acconciatura di donna, laggiù, nel grande turbamento tenero e sensuale
che dànno tutte le cose che hanno toccato il corpo femminile.

Finalmente, alle dieci, si udì aprire e chiudere qualche porta, qualche
voce parlò sommessa: e Sangiorgio, preso alla gola dalla soffocazione di
un desiderio, chiuse gli occhi per salvarsi dallo spettacolo abbagliante
della bellezza di donn'Angelica. Ma niuno comparve, un rotolìo sordo si
udì nel cortile e sulla Piazza dell'Apollinare.

«Donn'Angelica è partita pel Quirinale,» disse quietamente don Silvio,
aprendo la _Riforma_ che gli avevano portato allora. «Non andate anche
voi, Sangiorgio?»

«Più tardi,» rispose fievolmente Sangiorgio che era diventato
pallidissimo.


Nella bianchissima luce elettrica che illuminava lo scalone d'onore, le
donne ascendevano lentissimamente, posando appena il piede calzato di
raso sul tappeto: e con lo strascico abbandonato, il ricco mantello di
lana bianca molle e caldo sulle spalle nude, la testa ingemmata o
piumata o infiorata, davano, salendo, certe occhiate lente e distratte
alle due grandi siepi di piante verdi, alle muse dalle foglie larghe
venate di rosso, alle palme che parevan cupissime sullo stucco bianco
delle pareti.

Le donne guardavano, inerti, come se non vedessero nulla, per conservare
la serenità — e salivano piano, per non scalmanarsi, perchè sul viso non
fosse turbato il pallore eguale o il fiorente roseo. Dopo tanta
nervosità febbrile, la calma egoistica della donna che vuol restar bella
era scesa in loro: e bastava vedere la tranquillità con cui nel
grandissimo salone degli arazzi, trasformato in guardaroba, un po'
freddo, esse discioglievano i nastri, snodavano i cappi dei mantelli,
lasciandoseli togliere delicatamente dalle spalle, conservando la loro
apparenza di bellissime statue insensibili e semoventi; bastava vedere
il gesto flemmatico, con cui distendevano su per le braccia la pelle
cedevole dei guanti di Svezia, mentre il marito, o il fratello, o il
padre, aspettava, impaziente, col braccio pronto, per accompagnare la
bella indifferente e serena che si rialzava pacificamente le spalline
del corpetto un po' spostate.

E anche l'attraversare i due saloni e il corridoio delle statue era una
passeggiata molle e silenziosa: ma già nel fiato caldo che i caloriferi
mettevano dappertutto e in quell'approssimamento quieto e pieno di
dolcezza, le donne schiudevano le labbra al sorriso florido dei balli,
il sorriso che si diffonde per tutta la faccia, per tutta la persona. E
alla porta del grande salone da ballo, il cerimoniere, che offriva loro
il taccuino da ballo, un mazzetto di fiori e il braccio per introdurle
nel salone, aveva la primizia incantevole di quel sorriso: il padre, il
marito, il fratello erano abbandonati senza un saluto, senza una parola.

Scintillìo profondo di gemme. Su tre file di panchette rosse, trecento
donne erano sedute, ingemmate nei capelli, alle orecchie, al collo nudo
e sul seno, sulle braccia. Da certe testine, più modeste, partiva un
raggio sottile, vivissimo, a ogni movenza: ma alla ondulazione di certe
spalle altiere che s'inchinavano, al moto di un braccio che agitava un
ventaglio piumato, era tutto un vivido fluire di scintille, un balenìo
chiarissimo e fulgido. Strette le donne l'una all'altra, l'un vestito
femminile assorbiva e confondeva quello dell'altra, per essere a sua
volta assorbito e confuso: e nulla si discerneva di colori e di stoffe,
si vedeva solo un po' di corpetto, un lembo breve di spallina che
talvolta un fiore o un nastro o un gioiello copriva. E quello che
vinceva tutto, sul molle soffio del velo, sulla lucentezza del raso,
sulla delicatezza del merletto, sulla pesantezza nera dei capelli, sulla
leggerezza delle chiome bionde, sulla pelle quasi viva dei guanti, sulla
carnagione del collo, delle spalle, del braccio, era il gioiello, più di
tutti lucido, vivido, colorito, iridescente, era il gioiello trionfante.


E su quella triplice profondità scintillante, quella che sgorgava, che
si allargava, che dominava tutto, era la plasticità varia, infinita,
delle braccia e delle spalle denudate. Qui il biancore anemico e freddo
che più si assomiglia alla glacialità del marmo e che gela lo sguardo
che vi si ferma; e qui il perlaceo, la carnagione dalla trasparenza
levigata che nessun'ombra verrà mai a colorire; subito dopo la
carnagione bianca e forte, sotto cui scorre, come un flutto, il sangue
ricco, una stoffa rossa dietro un tessuto leggiero bianco; altrove il
carnicino mite e eguale, temperamento medio, temperatura media che nulla
vale a rialzare mai; altrove il bianco opaco che il calore o l'emozione
marmorizza qua e là, a placche di roseo; altrove ancora la carnagione nè
bruna nè bianca, ma scura, come se il sangue fluttuante portasse seco un
letto di sabbia nera; altrove ancora, il carnicino vivo, bello,
attraente, simile alla densità grassa di un petalo di magnolia, simile
alla polpa nutrita di un frutto maturo.

Questa plasticità germogliava dai corpetti, come se si sprigionasse
delicatamente da un legame; fioriva dalla strettezza delle spalline,
dall'arricciatura del velo, come dal calice; aveva qualche cosa di
rigoglioso, di spontaneo, come le bellissime generazioni del mondo
vegetale. Questa plasticità ripetuta su tutti i toni, trecento volte,
finiva per acquistare un generale carattere di bellezza, d'insieme, come
è la bellezza di una grande foresta: l'individuo vi scompariva, la
personalità era assorbita.

Nulla più che parlasse febbrilmente all'occhio, nulla più che turbasse
la fantasia, più nulla che inducesse alla particolar seduzione: ma
invece la grande nota della bellezza femminile, presa in complesso, che
i sensi non sentono, ma che lo spirito sente; il coro unico dove tutte
quelle voci bianche, rosee, rosse, diventavano una sola voce.

Invano, invano, sotto l'orchestra, dietro le panchette, nei vani delle
porte, la siepe nera e bianca degli uomini, fittissima, cercava
discernere un viso, una fisonomia, una persona, la persona, quella
donna. Essi, gli uomini, non percepivano più che un grande splendore di
gioielli, dove ogni altra cosa moriva: non percepivano più che una donna
sola, la donna, dalle braccia nude, dalle spalle nude, dove trecento
donne scollate erano assorbite.

Ma un improvviso silenzio cadde sulla sala: una immobilità colpì quelle
trecento donne che rimasero con gli occhi fissi sulla porta del fondo,
senza batter palpebra. Dall'orchestra risonarono le prime note della
fanfara: chiarissime, squillanti, militari, di un effetto strano in quel
silenzio, in quella pompa tutta femminile. Come di scatto, le trecento
signore si alzarono, con un fruscìo di stoffe: e stettero aspettando,
strette l'una all'altra: tutte sorridenti, con le spalle un po'
sollevate che parea dovessero sfuggire dal vestito, con le braccia molli
e abbandonate, con una serenità inflessibile di bellezza sulla figura.
Dietro di loro, sotto l'orchestra, nei vani delle porte, la massa bianca
e nera degli uomini fluttuava, ma silenziosamente: e l'attesa di un
minuto parve lunghissima. Poi, sotto la porta del fondo, qualche cosa di
fulgido apparve, un fulgore moltiplicato e concentrato che parve la
visione di una cometa: e mentre lo splendore augusto femminile
s'inchinava, scintillando, con un moto di grazia suprema, quella siepe
scintillante di gioielli, quella gran fittezza di gemme, quello
splendore di stelle, s'inchinò profondamente. Al femminile eterno, nella
sua unicità, riveriva il femminile eterno nella sua molteplicità. Gli
uomini — turbati — guardavano.

Ergendosi sulla punta dei piedi, Francesco Sangiorgio cercava di
scorgere dove fosse la dolcissima donna. Egli era fra un gruppo di
deputati, l'onorevole Galvagna, il colonnello delle province irridente,
l'onorevole di Sangarzìa che aspettava pazientemente di raggiungere le
signore, l'onorevole di San Demetrio che applicava la galanteria alla
diplomazia: ma Sangiorgio cercava donn'Angelica.

Tutte quelle donne ritte, in fila, che sollevavano i loro mazzi di fiori
e che guardavano, sorridendo, la quadriglia reale, lo confondevano, egli
non distingueva i loro lineamenti, non ne riconosceva nessuna. Giammai
aveva visto tante donne riunite, compatte, intensamente raccolte, in
tutto lo splendore della bellezza e del lusso, in tutta la potenza della
loro femminilità.

Chiudeva gli occhi, ogni tanto, abbarbagliato: li riapriva, cercando di
distinguerne la più bella, la sola che a lui paresse donna.

A un tratto, mentre l'augusta donna girava mollemente intorno al canuto
e bonario ambasciatore di Germania, e il lungo strascico regale, color
fiamma, serpeggiava come la coda di una cometa, e il diadema reale aveva
qualche cosa di siderale, Sangiorgio vide donn'Angelica Vargas al
braccio di un signore bruno e vecchio, dai mustacchi tinti, dai capelli
radi di un nero che tirava al rossastro: donn'Angelica figurava nella
quadriglia reale, di fronte alla biondissima, pallida signora amletiana
che era l'ambasciatrice di Germania.

Donn'Angelica passeggiava attraverso il salone con quell'incesso
armonioso, quasi musicale, che rendeva la sua andatura una delle sue più
grandi seduzioni: dietro lei, lo strascico di broccato bianco ondulava
dolcemente, come a flutti: qualche filo d'argento, che passava nella
trama del broccato, vi brillava.

Ogni tanto, come la nobile e lenta passeggiata, che era poi la
quadriglia reale, lo consentiva, si vedeva il busto giovanile e snello
di donn'Angelica e il corpetto di broccato bianco, pudicamente scollato,
terminato da una nebulosa arricciatura di velo bianco: sulla nitidezza
del collo bianco un monile di perle si confondeva col perlaceo della
carnagione, e una grande croce di brillanti scendeva sul petto,
luminosa.

Donn'Angelica, dai capelli castagni strettamente raccolti intorno al
capo, era coronata di stelle: le lucenti stelle di brillanti le
ingioiellavano tutta la scurezza della chioma bruna, quattro innanzi,
quattro indietro, diffuse, senz'ordine, come realmente compaiono le
stelle sulla nerezza notturna, sull'azzurro cupo e profondo del
firmamento.

E l'occhio acuto dell'uomo che amava distinse bene, per sè solo, sulla
scollatura di velo un fiocchettino di mughetti quasi indistinguibile,
messo là per aver il profumo e la poesia di un fiore, messo là perchè
soltanto lo sguardo di colui che sapeva amare, lo distinguesse.

E invero fra tanto rigoglio di bellezza, talvolta mite e semplice,
talvolta provocante, talvolta gracile e delicato, fra tanto espandersi
di bellezza e di seduzione, donn'Angelica era la bellezza pura e
pensosa, la bellezza nella sua espressione di candore malinconico, nella
sua serenità di cuore che ha vissuto.

Tutto in lei era casto: il vestito bianco ricchissimo, ma di un colore
appannato, senza sfarzo, con lieve scorrere di fili d'argento, fra la
trama, qua e là, come pensieri, come idee dolci che allietavano la
monotonia di quel candore; le pieghe nobili dello strascico che avevano
qualche cosa di classico, come il panneggiamento di una casta statua
antica; la scollatura giusta, in modo che nulla vi perdeva di attrazione
la donna, tutto vi guadagnava come castità la signora, la ricchezza
della spallina che nascondeva il punto provocante, quasi sensuale, dove
la spalla della donna diventa braccio; il guanto chiarissimo, di un
bianco rosato, di una pelle finissima, che oltrepassava castamente di
cinque dita il gomito e si distendeva, senza far pieghe, modellando il
braccio; non un braccialetto; due semplici e fulgenti stelle di
brillanti alle orecchie. Tutto l'insieme casto, che nulla aveva della
stupidaggine odiosa della fanciulla ritrosa, ma aveva tutta la castità
di pensieri e di sensi della donna pura.

A Francesco Sangiorgio parve vedere la medesima purezza. Una lucentezza
blanda negli occhi: lento e buono il moto delle palpebre: non un'ombra
di veglia o di pena sotto lo sguardo, che si posava quietamente sugli
oggetti e sulle persone che la circondavano: freschissime, di fanciulla,
le tempie, dove la pelle aveva la tenuità del velo che circonda l'uovo;
da cammeo la linea del profilo, dalle nari foderate delicatamente di
roseo: sinuosamente colorita di rosso, come un fiore chiuso, la bocca. E
in tutta la fisonomia la espressione pacata di chi è senza speranza,
come senza desiderii: un'aureola più che umana, tutta spirituale, la
quale trasfigurava quella bellezza.

Francesco Sangiorgio, a quell'aspetto, aveva sentito dileguarsi
quell'acre desiderio che lo aveva signoreggiato in quella stanza da
pranzo, nell'attesa spasimante di donn'Angelica che era fuggita, senza
farsi vedere; i suoi nervi si erano placati a poco a poco: i sensi
eccitati cadevano in un languore di contemplazione.

Quella castità, quella purezza scendevano su lui, come un soffio fresco
a mitigare il calore della passione: penetravano in lui come la
benedizione di una carezza tutta innocente, bacio di bimba, mano di
sorella, abbraccio affettuoso di amica: s'impossessavano di lui, come un
placido fiume di dolcezza dilaga senza rumore e senza disastri e copre
le rive.

La febbre dei suoi polsi si era calmata: le vene delle tempie non
battevano più precipitosamente, come prima; quel malvagio desiderio
brutale era sfinito in una blandizie. E mentre donn'Angelica, ferma al
suo posto, si riposava, egli sentì che ella lo guardava: sguardo chiaro
e schietto, tutto umido di dolcezza, tutta luce quieta. Invero, per lui,
ella era, in quell'ora e per sempre, la celeste Beatrice.

Dalla grande poltrona reale, la sovrana piegava un po' il capo per
discorrere con donna Clara Tasca, che sedeva accanto a lei sullo
sgabello, come moglie di un cavaliere dell'Annunziata: l'ardente
siciliana dagli occhi vivi spirituali sotto i capelli un po' brizzolati,
dalla fisonomia mobile dove tutta l'espressione di un'anima irrequieta
si dipingeva, rispondeva presto presto alla regina, piegandosi anche
lei, dimostrando un interesse rispettoso. Le altre signore del mondo
aristocratico, del politico, del diplomatico, riunite in gruppi,
discorrevano fra loro, fingendo d'interessarsi al discorso, ma tenendo
d'occhio, attentamente, ogni moto della sovrana: e non ballavano ancora,
non accettavano inviti a ballare, distratte, assorbite nel pensiero di
quello che avrebbe detto loro la regina. Tutte quante, malgrado il
censo, il nome, la bellezza, tutte le fortune dell'anima e del corpo,
non ambivano che questo minuto di colloquio pubblico, innanzi a duemila
persone, con la regina; tutte quante dimenticavano ogni speranza, ogni
desiderio, ogni interesse, ogni altro affetto, nell'ambizione muliebre
di questo breve colloquio, al cospetto del pubblico. Le ragazze,
soltanto, a cui non sarebbe mai toccato quest'onore, venute al ballo per
mostrare la loro giovanile bellezza, per essere allegre, per ballare,
per annodare uno di quegli innocenti e poetici legami d'amore, le
ragazze, invece, già ballavano il _waltzer_, nel largo giro del salone,
fra un grande volteggiare di veli bianchi, rosei, azzurri, scostandosi
solo, con una certa timidezza, innanzi alla poltrona reale. Gli uomini
andavano, venivano, si fermavano in gruppi, ballavano, chiacchieravano:
niuno badava a loro. Francesco Sangiorgio, dopo la quadriglia reale, era
scivolato fra le gonne seriche, lentamente, era distante da
donn'Angelica soltanto venti passi e la vedeva discorrere col deputato
di Carimate, il gran signore lombardo, dalla barba nera e dai principii
vaghi di socialismo: ma ella stessa, donn'Angelica, era un po'
distratta, con gli occhi bassi, che ogni tanto si rivolgevano verso la
persona regale.

E come quell'astro si volgeva a destra e a sinistra, come faceva cenno
di alzarsi, certi lunghi fremiti correvano per quei gruppi di donne:
tutte volgevano il capo da quella parte, molte tacevano, aspettando,
molte continuavano a chiacchierare o ad ascoltare, ma balbettavano: il
loro spirito era altrove. La regina era passata al gruppo delle sue
dame, mostrando il profilo regale alla sala: e lo squadrone delle dame,
in piedi, la circondava: le due principesse americane maritate a due
principi romani, una biondissima, più inglese che americana, l'altra
magra, simpatica, elegante; donna Vittoria Colonna, dagli occhi di
diamante nero: donna Lavinia di Sora, dal volto perlaceo, dai grandi
occhi lionati, pensierosi: la contessa di Genzano, la bellezza fatata,
dai fulvi capelli; la principessa Seraphita, dal volto ideale, vestita
semplicemente di bianco, con un mazzolino di violette sul seno; la
principessa Lalla, dal volto che serbava le giovanili, pure linee di
cammeo, dalle spalle bianche e lunate; e infine la marchesa Paola, la
gran dama di onore, la madre felice dai capelli ancora biondi e
ondulati, le cui figliuole allegre e brune ballavano, nel salone.

Pazientemente, le signore del mondo diplomatico si stiravano i lunghi
guanti di camoscio sulle braccia, chiudevano e schiudevano il largo,
molle ventaglio di piume, lo agitavano, odoravano il mazzetto di fiori,
guardavano curiosamente, per la centesima volta, il taccuino da ballo,
come se non lo avessero mai visto. Ora, poco a poco, Francesco
Sangiorgio era arrivato alle spalle di donn'Angelica, e pian piano, come
un soffio, le aveva detto:

«Buona sera.»

«Buona sera,» mormorò lei, con quella profondità di accento, che era la
sua particolare espressione.

E si rivolse un po' verso lui, chiedendogli se fosse arrivato suo
marito, parlando a fior di labbro, mentre egli la fissava con certi
occhi innamorati e così rispettosi, che una lieve fiamma salì a colorire
le guance di donn'Angelica. La regina parlava, in francese, con
l'ambasciatrice di Francia, una magra e ascetica signora, dal viso
lungo. Laggiù, il re discorreva con donna Luigia Catalani, vestita di
color bronzo, con un piumino azzurro e strano nei capelli biondi: e la
viva, spiritosa siciliana sorrideva argutamente. Una quadriglia era
cominciata, fittissima, con un grande fluttuare di strascichi: le
signore che erano sul lato dove Sua Maestà discorreva, per non volgerle
le spalle, ballavano di profilo, con gli occhi bassi, misurando i loro
passi.

«Non ballate?» chiese Sangiorgio.

«Non ballo: il governo non può ballare,» rispose ella, placidamente.
«Dopo, se volete, faremo un giro.»

«Dopo?»

«Dopo.»

Egli non capì subito, non aveva guardato attorno, concentrato solo in
colei che era l'amor suo, non aveva sentito intorno a sè la febbre di
quella grande ambizione femminile. Ma intese che qualche cosa di
importante, di supremo in quella festa tutta muliebre andava accadendo:
intese la profonda preoccupazione di quelle donne che avevano scordato
tutto, financo di essere belle. Nel centro della sala era grande il
movimento pel ballo: e la folla degli uomini era diminuita, dirigendosi
verso i salotti, verso le stanze da fumo, verso il _buffet_.

Qui, sulla destra, era sempre grosso, sempre fitto fitto il gruppo delle
donne che aspettavano, desiose, a cui altre si venivano ad aggiungere,
credendo che il loro turno fosse venuto, incapaci di girare, avendo il
cuore e la mente e l'attenzione là, in quel lato del salone.

La regina seduta quasi nel vano di un balcone, lasciando vedere solo lo
strascico e il fermaglio del monile sulla nuca, s'intratteneva con donna
Lidia, la moglie del presidente del consiglio, la piccola, buona e
amabile signora che usciva dalla modestia della famiglia, solo in
qualche festa ufficiale.

— Quella è donna Lidia, donna Lidia, la regina parla con donna Lidia, —
si susurrava nella folla delle signore e fra i giovanotti bene
informati. Il colloquio durava da cinque minuti, e, per una invincibile
attrazione, tutti gli occhi delle signore che aspettavano, erano fissati
su donna Lidia e sulla sovrana, di cui si misuravano i movimenti:
sarebbe andata a destra o a sinistra, alzandosi, uscendo da quel vano di
balcone? Nel salone era una passeggiata di tutte le coppie che avevano
ballata la quadriglia; gli impegni per la _polka_ si prendevano, dei
giovanotti scrivevano, con la matita, nei taccuini delle ragazze; le
signore straniere, anziane, mature o vecchie, rimanevano sulle ultime
panchette di velluto rosso, con la loro aria corretta di persone che si
annoiano volontariamente, coperte di gioielli e di merletti ricchissimi,
col capo piumato.

Quelle che già avevano avuto l'onore della parola reale, circolavano,
tutte rosee, sorridenti, soddisfatte, con una lucentezza di felicità
negli occhi, ripetendo l'una all'altra il motto amabile ricevuto; e non
si curavano più di altro, non badavano più alle altre, che aspettavano
ancora, celando l'impazienza. Il re discorreva con la forte e bella
signora del primo patriotta italiano, la buona e bruna signora, dal
volto colorito, dal viso schietto, tutta vestita di azzurro.

«Speravo di vedervi prima, questa sera,» disse Sangiorgio, come un
collegiale.

«Infatti...» rispose vagamente lei.

E subito gli voltò le spalle. Un improvviso solco si era aperto fra la
folla: innanzi a loro, nello spazio libero, fra due siepi di persone, si
avanzava, maestosamente e graziosamente bella, la sovrana, in una luce
tremolante di stella. Ella veniva verso donn'Angelica: e Sangiorgio
dette addietro, intimidito, sentendo in quella coppia muliebre, la donna
semplice e serena, la donna regale e sorridente, tutta la potenza
femminile.


_Dopo_, Francesco Sangiorgio e donn'Angelica passeggiavano per le sale,
lentamente, attraverso gl'ingombri degli strascichi, formando delle
piccole file, arrestandosi ogni tanto, come la circolazione femminile si
ammucchiava, si accalcava. Nel grande salone da ballo, le ragazze, le
mogli dei segretari, le signore innamorate del ballo, le spose borghesi,
le dame che non avevano alcun posto ufficiale, si davano intieramente al
piacere della danza, l'orchestra strideva nelle note eccitanti di Metra
e di Fahrbach, l'animazione giovanile e femminile era al suo colmo.

Invece le _altre_ passeggiavano, sedevano sui divani dei salotti,
tenevano circolo, si allargavano dappertutto.

L'ambasciatrice d'Inghilterra, tenendosi accanto la bella e poetica
figliuola che pareva una madonnina del Botticelli, nel salone azzurro,
teneva intorno a sè un circolo di giovani diplomatici: per due minuti
parlarono in inglese, dolcemente, con donn'Angelica: Sangiorgio
ascoltava, senza intendere, ma gli sembrava una musica deliziosa.

La contessa di Malgrà, la simpatica bionda, dal pallore provocante e
dagli occhi incantatori, diceva dei paradossi sociali a tre o quattro
giovani deputati del centro che la seguivano nelle sue passeggiate; la
signorina Maria Gaston, dalla bellezza dolcissima, figliuola del
ministro della marina, in un vano di finestra, vestita di bianco,
angeletta mondanamente soave, chiacchierava con due o tre vecchi
ammiragli, rinunziando al ballo; la signora Giulia Greuze, la belga
dallo spirito scintillante e dal bel corpo giovanile simile a una rosa
che si sviluppi dall'involucro, ridacchiava sotto l'edera di una grande
giardiniera, mostrando i dentini candidi.

Donn'Angelica, al braccio di Sangiorgio, passava, fermandosi ora qua ora
là, scambiando saluti e sorrisi con le mogli dei deputati che
incontrava: la marchesina di Santo Marta, bionda e ricciuta come un
uccellino; la marchesa di Corvisea, fedele ai suoi vestiti di
rosso-cupo, mostrando i più bei piedini della politica italiana; la
baronessa de Romito, la bellissima e tranquilla Giunone; la contessa di
Trecastagne, una francese pallidina e gentile che aveva sposato un
siciliano; la baronessa di Sparanise, la spirituale signora dai
nerissimi occhi egiziani; la mite e piacente marchesa Costanza, dalla
voce affettuosa e dall'incesso molle; le due bionde signore figliuole
del ministro di grazia e giustizia, una bionda ed esile, l'altra bionda
e pensosa: esse andavano in su e in giù, senza rientrare nella sala da
ballo, formandosi ogni tanto in gruppi, ridendo fra loro, narrandosi gli
aneddoti della serata, guardandosi da capo a piedi, con un sorriso
benevolo ma profondo, misurandosi giustamente in tutta la loro
manifestazione di lusso e di bellezza.

Donna Clara Tasca era rimasta mezz'ora, aveva chiacchierato con
ministri, uomini politici e deputati, ed era subito partita,
trascinandosi dietro don Mario, di cui certo avrebbe completata la
fortuna politica, se egli fosse stato meno nebuloso, meno fantastico,
meno _virtuoso_ di politica.

Donna Angelica, al braccio di Sangiorgio, parlava poco: ma egli non
chiedeva altro, felice di avere, sulla manica della sua marsina, quel
braccio nascosto pudicamente dal guanto, felice di poter contare, ogni
tanto, macchinalmente, le perle di quel monile, felice di sentirsi
sfiorare il piede, ogni tanto, dall'orlo di quel vestito di broccato.
Ella cercava suo marito, ma quietamente, senza troppo insistere, senza
chiederne a nessuno: e col suo cavaliere scambiava solo qualche rara
parola. Finalmente don Silvio, al braccio di un deputato d'opposizione,
comparve sotto una porta, si avanzò verso lei e senza quasi guardarla,
senza accorgersi di chi l'accompagnava, le chiese subito, sottovoce:

«Sua Maestà?»

«Amabilissima,» fece lei, chinando gli occhi.

«Più del solito?»

«Non so... mi pare...»

«Ti pare o sei certa?» ribattè egli, duramente.

«Sono certa, sono certa,» si affrettò ella a soggiungere.

Egli le voltò le spalle: ella era pallida e turbata.

«Volete sedere, forse?» le chiese Sangiorgio, pietosamente.

«No, no,» disse donn'Angelica, «passeggiamo, passeggiamo.»

Andarono in una sala del _buffet_, sala da dolci, da caffè, da thè, da
gelati, piena di gente che rosicchiava e beveva, con una quantità di
cartine ricce da confetti sparse sul tappeto. Anche qui era pieno di
donne, la principessa di Valmy sorbiva del thè, discorrendo col
piccolino-grande traduttore di Platone, atleta della Camera, il
meridionale profondo, dalla voce un po' stridula e dalla frase incisiva,
talvolta terribile; la contessa di Roccamorice mangiava delle castagne
giulebbate, parlando col Gran Maestro dell'Ordine Mauriziano, dalla
barba bianca e dal fine sorriso lombardo; la principessa di Tocco, la
più bella donna di Roma, seduta in una poltrona, avendo intorno l'on.
Melillo, l'on. Marchetti, l'on. di Sangarzìa, sorbiva un gelato, col suo
contegno buono e placido di Dea; la baronessa Noir, piccolina, sottile,
dall'abito di azzurro giapponese, dai magnifici giojelli, turchesi
grosse circondate di brillanti, si batteva il ventaglio sulle dita,
nervosamente, ascoltando una discussione fra il ministro d'Italia a
Bruxelles e il ministro d'Italia a Bucarest.

«Non voglio nulla, non voglio nulla,» mormorò ella a Sangiorgio che la
portava verso la tavola imbandita.

Cercava di dominare, a poco a poco, il suo turbamento. Parlò un minuto
con la signora Gasperini, la moglie del segretario, cercando di
riprendere la sua serenità; ma non vi riesciva che a metà. Un'agitazione
restava ancora al fondo di quell'anima.

«Vorreste andar via?» le domandò Sangiorgio.

«Oh sì!» esclamò lei con uno slancio.

Si rimisero a cercare don Silvio di nuovo, attraversarono di nuovo la
sala rossa, il salone azzurro, il salone da ballo, il corridoio delle
statue dove ella rabbrividì dal freddo, con un tremito delle spalle
nude; attraversarono altri tre o quattro saloni vuoti, si trovarono nel
salone delle cene, dove era un allegro rumorìo di forchette, un
tintinnìo di bicchieri. Ritornarono indietro: infine nel salottino degli
arazzi di don Chisciotte, trovarono don Silvio in uno strettissimo
colloquio con l'ambasciatore d'Inghilterra. Donn'Angelica fece per
accostarsi, ma con un cenno delle palpebre don Silvio glielo proibì, le
fece intendere di allontanarsi: ella chinò il capo, arrossendo, trascinò
via Sangiorgio rapidamente.

«Non ballate voi, Sangiorgio?» gli domandò, ridendo. «Siete troppo
serio, voi: a che pensate sempre così? Non alla politica, spero?»

«Oh no!»

«Non ci pensate, non ci pensate, ve ne prego,» fece lei, appoggiandosi
maggiormente sul suo braccio. «Non sareste innamorato per caso?»

«Sì,» disse lui, schiettamente.

Ella si arrestò, un po' interdetta, pentita di aver detto troppo. E
subito parlò di altro, del ballo, degli arazzi, di don Chisciotte, del
caldo, di tutto, con una voce un po' velata. Il ballo, alle due dopo
mezzanotte, era nel suo più vivo splendore: nel salone da ballo una
quarantina di coppie ballavano il _waltzer_, e in tutte le sale, sotto
gli arazzi, fra le giardiniere, fra le portiere di broccato, fra il
bianco dello stucco e l'oro degli ornamenti, era un sorgere, un
pullulare, un espandersi di donne, una lucentezza di chiome stellate, un
anelare di petti femminili luminosi. Il segretario di don Silvio si
accostò a donn'Angelica, con la sua aria affaccendata.

«Sua Eccellenza deve andare immediatamente al ministero, per un
telegramma di urgenza. Non può accompagnare la signora.»

«Bene,» fece lei, licenziandolo con lo sguardo.

Tacitamente egli l'aveva accompagnata in anticamera, dove, nello scialbo
luccicore della luce elettrica, sotto gli occhi dei camerieri muti,
quasi automatici, l'aveva aiutata a infilare il grande mantello di
broccato bianco, foderato di ermellino. E, senza avere spiegazioni,
senza dirsi nulla, ella aveva ripreso il suo braccio ed era discesa
placidamente per lo scalone: il cameriere di casa Vargas li aveva
preceduti, per chiamare la carrozza. E con un moto gentile e rapido,
innanzi allo sportello aperto del _coupé_, ella raccolse lo strascico,
inarcò il piedino calzato di raso bianco e saltò in carrozza: non
salutò, non tese la mano, — naturalmente, egli salì in carrozza con lei.

Nulla si dissero: ma lo strascico bianco copriva i piedi e le gambe di
Francesco Sangiorgio, empiendo la piccola vettura delle sue onde seriche
e candide, e si distingueva, nel breve ambiente, un lievissimo odore di
mughetti.

Ella non aveva nulla sul capo, nè una sciarpa, nè un cappuccio, nè un
merletto: la testa libera si ergeva dal candore morbido dell'ermellino e
nei capelli neri le stelle di diamanti scintillavano. Dalle ampie
maniche del mantello le mani uscivano, si abbandonavano sulle ginocchia:
una calzata ancora dal guanto di camoscio chiarissimo: l'altra, senza
guanto, nuda, con un brillante all'anulare, che scintillava. E nella
penombra della carrozza che a mezzo trotto scendeva dal colle del
Quirinale alla vecchia Roma, Francesco Sangiorgio guardava ora quel viso
soavissimo che un pallore vivo rendeva più affascinante che mai, ora
quella piccola mano lasciata con tanto abbandono in grembo, come se una
mortale stanchezza l'avesse vinta. Nella dolcezza desiderata e aspettata
di quel momento, nella solitudine bizzarra di quel piccolo nido azzurro
cupo che riconduceva a casa la soavissima donna, l'amatore non era preso
da alcun desiderio, niuna ansia del minuto che fuggiva, niuno spavento
del tempo che passava e che avrebbe portato la loro divisione: egli
godeva delicatamente quel vivissimo piacere spirituale, quella felicità
era per lui senza mescolanza di amarezza. Immobile, muto, con gli occhi
quasi incantati, i quali null'altro sapevano vedere che quel viso bianco
e quella mano piccoletta e molle che parea dormisse, egli non si moveva
e non parlava, buddista dell'amore, perchè in nulla l'altissima
sensazione venisse scemata.

Giammai aveva inteso la sua vita svolgersi ed allargarsi con tanta
dolcezza, come un fiume largo e felice che se ne va innamorato al mare,
nella bellezza della pianura verde, sotto il sole, appena appena
mormorando sotto i giuncheti: giammai si era sentito così inondato di
una letizia pura, dove egualmente si fondeva l'appagamento dello spirito
e dei sensi, la delizia del cuore e dei nervi. Delibava, intensamente,
completamente, quella letizia, nella immobilità, nella passività
dell'uomo felice.

Donn'Angelica, ogni tanto, lo guardava con un lento moto di occhi.
Buttata in quell'angolo, ma non rannicchiata, non raggomitolata, con
quella bella compostezza di forme e di pose che era la sua grazia, ella
pareva si riposasse, senza troppo abbandono e senza troppa rigidità. Non
dormiva, no, tenendo gli occhioni scuri spalancati e rivolgendoli,
tratto tratto, quietamente, su colui che l'amava, — ma tutte le linee
del volto si erano quasi ammollite, arrotondate nel riposo.

Come i fanciulli, come certe donne che riprendono la infantilità,
dormendo, il cui volto si ringiovanisce, si addolcisce, ridiventa
ingenuo e bonario, ella aveva, in quel momento di calma, l'aria di una
fanciulletta, di un'adolescente creatura ingenua. Era scomparsa
l'apparenza di donna vestita con la pompa di un ballo: il mantello
pareva il vestito di una educanda, un vestito morbido e candido, senza
forma, castissimo, un manto verginale: e lo scintillio dei brillanti nei
capelli neri, sulla mano piccola, pareva raggio di luce, non ricchezza
fulgida di gioielli. Ella era ridiventata giovanetta, in una pura
essenza spirituale di bellezza e di grazia, in un riposo che era anche
un rinascimento.

Niuna fiamma si accendeva nei begli occhi pieni di ombra e pieni di
pace; nessun sorriso veniva a dissuggellare le labbra chiuse e arcuate
come quelle delle statue, non una parola usciva da quelle labbra. Anche
ella era immobile, la piccola mano pareva di cera sul bianco della
stoffa, il volto si delineava sul fondo cupo della carrozza, come un
ovale chiaro: e che pensasse, che sentisse, non si sapeva, non
s'intendeva. Dietro quell'apparenza di pace, dietro quel riposo delle
linee, forse era alacre il pensiero, forse il cuore fortemente
palpitava, forse la grande vita interiore dell'intelletto del sentimento
passava per tutti i fenomeni dell'attività. E forse in lei erano
penetrati sin nello spirito quella calma e quel riposo: forse ella era
simile, dentro, al grande lago profondo d'acciaio che niuna tempesta mai
può turbare. Ma non si sapeva nulla: ella, come sempre, era avvolta nel
grande mistero della serenità.

Fra loro due, fra l'essere felice che si lasciava annegare dall'onda
soverchiante di delizia spirituale che lo assaliva senza strepito, e fra
la creatura giovane, casta, quieta, serena, sedeva terzo l'amore.



III.


Appena spuntò dal Babuino in Piazza del Popolo, Francesco Sangiorgio
ebbe un pugno di coriandoli nel collo, senza sapere donde gli venissero:
un mazzettaccio informe, di fiori di cicoria, gli sfiorò una guancia:
egli fu preso da un flotto di folla che lo trasportò verso l'obelisco.
Una grande folla nera, tumultuante, urlante, fischiante, ondeggiava
intorno alla fontana, sotto un nembo bianco di coriandoli lanciati dai
pedoni, dalle carrozze, dalle due grandi tribune di legno che quasi
continuavano il Corso sino alla fontana.

La chiarezza pomeridiana, larghissima, si effondeva su questa folla
scura, dai volti convulsi, mettendo la piazza sotto una grande calotta
luminosa di primavera, e nell'aria tepida, nello scirocco mite di
febbraio, la polvere di gesso dei coriandoli sfarinati bruciava la gola
e attirava il sangue alle guance. Sangiorgio dovette fare forza di
gomiti e di spalle per liberarsi da quell'onda clamante che lo
sospingeva, lo travolgeva, e una collera lo prese contro quella
brutalità di divertimento che rassomigliava o superava i furori degli
animali festanti.

La gente rifluiva sino alle due porte del Pincio, sbarrandole,
chiudendole, aggrappata ai cancelli aperti, volgendo le spalle ai due
viali ascendenti: ma niuno entrava, niuno pensava di salire al Pincio,
presi da quell'ardore concentrato che danno i grandi spettacoli dello
sfrenamento umano. Sangiorgio camminava con stento, contro corrente, ora
pallido, ora rosso, frenandosi malamente a non dare dei pugni a quelli
che lo spingevano. Ma la estrema difficoltà fu per lui di poter entrare
al Pincio: la folla che ne sbarrava l'entrata non lo voleva lasciar
passare, non voleva perdere il posto, non voleva che lui ne usurpasse
uno, credendo che egli volesse installarsi là, non supponendo mai che
egli volesse andare a passeggiare lassù.

Quale singolarità di gusti poteva dunque condurre quell'uomo a
passeggiare pel Pincio deserto, in quella giornata di baldoria, in
quell'ora tiepida pomeridiana, quando tutta la gente impazziva di gioia
carnevalesca da Piazza Venezia a Piazza del Popolo? La folla non voleva
crederci, a questa stranezza, e non voleva lasciar passare Francesco
Sangiorgio. Egli gridò, di nuovo, due o tre volte, avendo le fiamme
della collera sul volto:

— Vado al Pincio, vado al Pincio!

Passò. Appena fatto il gomito del viale, un gran respiro di contentezza
gli sollevò il petto, un senso di calma gli si diffuse pei nervi
esaltati. Entrava nella solitudine saliente e verde del grande viale,
sotto la mite ombra degli olmi che fiorivano novellamente, nella
primavera che veniva.

Non una persona s'incontrava nel viale che da una parte andava verso
villa Medici e verso la Trinità dei Monti, dall'altra saliva al Pincio:
non un viandante, non una donna, non un fanciullo. Tutti, tutti erano al
Corso, per la via, nei portoni, sui balconi, sulle logge, sulle tribune
improvvisate, sui fusti dei lampioni, attaccati al soffietto delle
carrozze, tutti, tutti al Corso, presi dalla grande follia carnevalesca.

Francesco Sangiorgio si sentiva sempre più rassicurato, sempre più
tranquillo, montando a quell'alta pace di campagna solitaria. Ogni tanto
gli arrivava un'eco fioca, da Piazza del Popolo, di voci stridule e
gravi che la distanza attenuava; ma come si allontanava, sempre più
questa eco diminuiva, arrivava ancora fievolissima, poi moriva. Solo,
costeggiando il muretto che dava sulla Piazza del Popolo, si vedeva
ancora, sotto, un'agitazione confusa di una gran massa nera e una grande
nuvola trasparente bianca, una nuvola bianca e bassa come quelle
palustri.

Sul grande terrazzo, che è piuttosto una spianata, amplissimo, chiaro,
che guarda Roma e San Pietro al Vaticano e Monte Mario e tutta la
campagna romana intorno al Tevere, oltre la Porta Flaminia, sopra un
banco, sotto un albero, un vecchio, modestamente vestito, era seduto. Il
bastone gli si abbandonava fra le gambe, il sole gli batteva sulla
faccia, ed egli chiudeva gli occhi, inebetito dall'età, dal riposo e dal
tepore. Appoggiato, o piuttosto buttato sulla larga balaustra del
terrazzo, un prete guardava Roma, piccola macchia nera di fronte alla
grande macchia biancastra della città bagnata nella dolce luce del
pomeriggio. Francesco Sangiorgio, per vedere, si accostò a questo prete:
era un giovanotto magro e pallido, dal volto sparso di macchie di
lentiggini: ma non guardava Roma, nè la indistinta massa bruna che
fluttuava in Piazza del Popolo: leggeva il breviario, un grosso libro
legato di nero. Sangiorgio si allontanò rapidamente, sempre più
fiducioso. E invero, in tutto il giardino che le balie, le cameriere, le
istitutrici, le mamme modeste prediligono e che i bimbi adorano, era uno
squallore di parco abbandonato, donde è fuggito ogni rumore, ogni
traccia di vita: l'aiuola grande intorno a cui si mette la musica,
pareva da anni non richiamasse più nessuno; i leggii di ferro, sparsi
qua e là e che servono per la musica del concerto, erano sbandati e
arrugginiti, come se per un'infinita quantità di tempo avessero ricevute
le ingiurie del sole e della pioggia, senza che la mano dell'uomo li
toccasse; nella piccola bacheca del venditore di palle elastiche, di
cerchi, di corde per saltare, non vi era un'anima, e la sua merce era
sospesa all'albero senza che niuno pensasse a venderla, a comperarla, a
rubarla; silenzioso, deserto, immobile, coi suoi cavallucci azzurri e
rossi, il carosello; pendente, come piangente, come trascinante il suo
abbandono, la corda dell'altalena. Negli altri giorni tutti questi
ingenui divertimenti eran pieni di strilli infantili, di vive risate, di
richiami materni, di voci allegre: ora i bimbi e le madri e le serve
erano laggiù, perduti nella grande voragine carnascialesca e da anni
sembravano aver dimenticato quell'amabile ritrovo verde che la
incipiente primavera già faceva germogliare tutto.

Intorno al minuscolo laghetto, niuno buttava la mica di pane al bel
cigno candido che chinava il collo delicatamente, come una donnina
malata, e navigava con lentezza in quel breve giro di acque verdigne:
pareva vecchio e triste di vecchiaia il cigno, come se avesse perso
l'abitudine di vedere le manine gentili delle creature dargli da
mangiare. L'orologio ad acqua, sporco, appannato, segnava le 5.15; di
quale giorno, di quale anno? Una sfera era rotta. Nessuno, nessuno
seduto all'ombra della capanna svizzera che gli strani seminaristi
tedeschi vestiti di rosso e gli allievi del collegio del Nazzareno
amano: e dal cancello che separa villa Medici dal Pincio, si vedeva un
lungo viale cupo, deserto, bruno e umido. Sotto i platani le erme
marmoree, dalle guance un po' consumate dalle piogge, con le anella
delle chiome abbrunite dall'umidità, pareva si annoiassero lì, da
secoli.

E Francesco Sangiorgio si consolava di questo profondo deserto campestre
che si rigonfiava di succhio novello, come la dolce stagione lo
comportava. Il grande giardino, coi suoi larghi viali, pareva tutto suo,
lasciato in abbandono dalla folla chiassona, pronto a nascondere i suoi
amori, nido solitario di un purissimo idillio sentimentale. Lontano,
dalla terrazza posteriore, egli aveva ben guardato la immensa massa
verde di villa Borghese dove sarebbe stato così facile il celarsi: ma
ella non aveva voluto, per non attraversare piazza del Popolo, in
quell'orrendo giorno di carnevale: e più del Pincio, villa Borghese
sembrava un immenso parco naturale, senza traccia di uomo, una vasta
campagna vergine e solitaria.

Passando innanzi al cancello che separa il Pincio da villa Medici,
Sangiorgio dette un'occhiata di rimpianto alla cupezza malinconica di
quel viale fittissimo, dove l'idillio soave sarebbe stato anche al
coperto della chiarezza larga del cielo: ma ella non aveva voluto, per
entrare a villa Medici ci vuole un permesso speciale. E quello che
turbava Sangiorgio, nei suoi giri attorno al grande giardino, era la
parte che dava sopra Roma e sopra Piazza del Popolo, tutto quel lato
scoperto, quell'immensa breccia, donde veniva, a riprese, un rombo cupo,
il clamore giocondo e pauroso della folla: ogni volta che girava verso
villa Borghese, gli pareva di essere in pace, solo con l'amor suo, non
disturbato, nel beneficio della solitudine campestre; ogni volta che
ritornava verso Roma, l'improvvisa visione della città e il rombo e
tutto quel mondo estraneo che s'imponeva, gli guastavano tutti i sogni.
Sentiva in quel pubblico, in quella folla, l'ostacolo, la difficoltà, il
dolore.

Quando ella giunse, egli l'aspettava da un'ora, non essendosi ancora
impazientito, ignorando ancora i tormenti di colui che attende
nell'incertezza, fiducioso ancora nella parola femminile.

Ella venne dallo stradone che dà sulla Trinità dei Monti, avendo
lasciata la carrozza in Piazza di Spagna: era vestita di lana azzurro
cupo, con una veletta bianca sulla faccia che aumentava la giovanilità
del suo aspetto: camminava piano, senza muovere le gonne, come se
scivolasse sul suolo, non venendo, ma avanzandosi. In un minuto, alzando
ambedue gli occhi, senza affrettare il passo: egli non si era mosso dal
pilastrino dove stava appoggiato, aspettandola, vedendola avanzarsi,
nella cupezza della stoffa bruna, nel candore della veletta bianca. Non
dunque lei era un fiore primaverile, un grande fiore umano sbocciato per
la sua delizia?

Quando furono accanto, non si salutarono, non si tesero la mano, ella
stringeva nel piccolo pugno il manico dell'ombrellino, un galletto di
legno scolpito, con la cresta rossa: non si parlavano, camminavano l'uno
accanto all'altro, senza guardarsi.

«Grazie,» disse lui.

«No, no,» rispose lei, subito.

E guardandosi intorno, con un'occhiata timida, soggiunse:

«Qui ci vedranno tutti.»

«Non vi è nessuno; non temete.»

«Nessuno?»

«Nessuno; è carnevale.»

«È vero; tutti sono al Corso: dovevo andare anch'io...»

E si accostò al largo terrazzo soleggiato, donde si vedeva tutto il mare
magno della folla clamante, in Piazza del Popolo: egli provò una fitta
al cuore, come se quello spettacolo gli togliesse una parte della sua
felicità. Ella appoggiò al parapetto la mano sottile inguantata di
camoscio: e guardò quei grandi flotti oscuri di gente, da cui saliva un
rombo come di vulcano.

«Come si divertono, laggiù!» ella mormorò melanconicamente.

Egli l'aspettava, tenendosi indietro, preso da un senso d'impazienza.

«Venite via,» le disse.

Ella voltò le spalle alla città, internandosi con lui nel grande viale a
sinistra; e guardava in terra, come se pensasse profondamente.

«Nessuno, nessuno,» diss'ella, come sollevata. «È una fortuna che sia
carnevale. La gente impazzisce. Non preferireste voi essere laggiù?...»

«Come potete credere...» cominciò lui, addolorato.

«Non posso più credere in molte cose,» susurrò ella, come se parlasse a
sè stessa.

«Siete così buona: io non so dirvi nulla: risparmiatemi,» la pregò lui,
con l'umiltà del cristiano innanzi l'immagine benedetta.

«Ho da dirvi delle cose tristi, amico,» disse ella, con la sua bella
voce dolente.

«Non oggi, non oggi, domani, un altro giorno...»

«Meglio oggi che domani,» soggiunse ella, fissando i begli occhi mesti
sopra la campagna di villa Borghese. «Bisogna aver coraggio...»

«Io non ne ho, non ne ho niente...»

«Bisogna averne,» insistette ella, «per vivere in pace con la propria
coscienza.»

E si strinse, con un brivido, nella piccola mantellina di pelliccia,
passando innanzi alla freddezza nera di villa Medici.

«La coscienza, la coscienza!» esclamò lui, ribellandosi, «e l'amore?»

«Non si deve amare,» pronunziò ella, come una sentenza.

«E perchè?»

«Perchè non vogliono.»

«Chi non vuole?»

«Quelli,» e tendendo la mano, indicò Roma e Piazza del Popolo, dove alta
ferveva la follia carnevalesca.

«Non sapete chi siano.»

«Sono la coscienza: io non saprei ingannare, amando.»

«Voi non amate,» fece egli con amarezza.

«... Forse,» diss'ella, perdendosi nella contemplazione di Monte Mario.

«Venite via, venite via,» ripetette lui, preso da un'angoscia di
pentimento, volendo sottrarla allo spettacolo della folla.

Infatti, com'ella volgeva le spalle al panorama di Roma, il volto le si
serenava e pareva che i pensieri prendessero un corso meno lugubre. La
grande pace campestre del colle Pinciano, quella solitudine, quel primo
fiato di primavera, quel dolcissimo pomeriggio fra il verde e il tepore
dell'aria, quello sguardo innamorato e reverente con cui egli la
circuiva, quella fedeltà con cui la seguiva, quel rispetto amoroso con
cui le parlava, le facevano scordare l'urlio, la gazzarra della città
ammalata di carnevale, le facevano scordare che un altro mondo
esistesse, oltre la campagna, oltre la primavera, oltre l'amore.

Oh, egli bene intendeva che un poco di quell'anima era sua, che gli era
pietosa in quell'ambiente deserto, fra le piante, le cadenti acque della
fontana, l'orizzonte agreste e semplice: indovinava che quel poco di
anima femminile gli sfuggiva, che quel cuore gli si chiudeva, appena il
vasto e duro orizzonte cittadino se ne impossessava, appena la grande
voce della folla saliva sino alle sue orecchie.

Nella solitudine, fra il novello germoglio degli alberi e dei fiori, in
tanta soavità di cose e di cielo, ella era buona e cara e amorosamente
compassionevole: ma al cospetto della maligna e dura città che non
perdona, ella chiamava tutto il suo coraggio per diventare inflessibile,
s'irrigidiva nella sua volontà di chiedere e di ottener sacrificio
dell'amore. Così egli faceva di tutto perchè non ritornasse più verso il
grande terrazzo, verso la breccia cittadina, persuaso che l'ora e il
tempo e la stagione l'avrebbero indotta a mitezza. La trattenne presso
il parapetto, donde giù giù si vede quello stretto budello che è la Via
delle Mura: non vi passava un'anima.

«Non bisogna amare troppo tardi,» riprese ella, con un'infinita dolcezza
di mestizia, «è inutile, è doloroso. Dove eravate voi cinque anni fa?»

«Laggiù, in Basilicata,» rispose, con un gesto vago.

«Io lassù, lassù, nei monti, fra le nevi. Credevo alla neve dei
ghiacciai, io, il ghiacciaio che nulla vince. Ho sposato don Silvio:
egli era buono, io non sapevo nulla del sole. Ora, il sole viene per me
troppo tardi.»

«Non lo dite, non lo dite,» egli mormorò.

«Non possiamo fare convertire la neve in fango, amico.»

Un silenzio regnò: egli era pallidissimo, come se dovesse morire. Ella
aveva gli occhi pieni di lagrime: e lui, guardava quelle pupille
nuotanti, tremante di vedere scorrere quelle lagrime, commosso come se
quella fosse l'ultima sua ora.

Ma non le disse quanto soffriva: non voleva, non sapeva lamentarsi:
tutto quanto veniva da lei era bene, era dolcezza. Con quel profondo
altruismo che dànno i veri e forti amori, egli dimenticava tutta
l'angoscia propria, guardando quei begli occhi lagrimosi, vedendo la
piega dolorosa di quelle labbra. Il dolore di lei lo scoteva e lo
esaltava; una grande, spasimante voluttà sentimentale lo trasportava.

«Eppure per me la vita è molto dura,» continuò lei, fievolmente, come se
la emozione la accasciasse. «Io non ho figliuoli per riscaldarmi il
cuore con l'amore materno: accanto a me, vi è un vecchio dall'anima
gelida per me, avvampante di passione per un'altra cosa, per un'altra
idea. Oh se sapeste, amico, che è questa solitudine, questo eterno
silenzio!»

«Ma perchè rinunziate?»

«Così,» disse lei, come se quella fosse la inesplicabile parola della
fatalità.

E camminò di nuovo, tacendo, ma sempre più lentamente, come se la
stanchezza la signoreggiasse: egli la seguiva, senza vedere più niente,
senza intendere più nulla, in uno di quegli oblii dell'anima e dei
sensi.

Cadeva il sole, dietro San Pietro, fra la Chiesa e Monte Mario.

«È finita, amico, è finita, mi pare quasi di essere morta. La gente vede
la mia faccia serena, la mia tranquillità imperturbabile, e non deve
saper altro, non deve indovinare la verità. Ma non vi è più nulla qui
dentro.»

E dette un colpettino sulla mantellina, al posto dove il cuore batte. E
non sentì quale ferita crudele portava al cuore di quell'uomo
innamorato, dicendogli che mai potrebbe amarlo. In quell'ora e in quel
posto, ella si lasciava andare a uno di quegli sfoghi malinconici ed
egoistici delle anime che restarono lungamente chiuse: ella non vedeva
più il suo compagno, si abbandonava a tutta la personale amarezza di un
cuore giovane e deluso.

«Eppure,» mormorò lui, «vi è accanto a voi un'amicizia schietta e
tenace, una devozione a tutta prova: quello che voi volete, egli vuole;
il suo desiderio di giovarvi, umilmente, segretamente, non conosce
nessun limite...»

E si arrestò, perchè la voce gli tremava, perchè le parole lo
affogavano, perchè questo suo amore, esorbitante, parea volesse
traboccar tutto.

«Grazie, grazie,» ella disse con un lieve sorriso mesto, che le
rischiarò la fisonomia, «io lo so...»

«Non potete, non potete sapere, non ve l'ho mai detto, non ve lo dirò
mai, non so dirvelo: vi assicuro che è la devozione più grande... perchè
respingerla? Come potete rinunziarvi?»

«Perchè essa rassomiglia troppo all'amore, amico.»

«Essa non vi parla d'amore...»

«Io lo indovino...»

«Non dovete intenderlo, non dovete indovinarlo; io non vi chiedo nulla,
non voglio da voi che il permesso di dedicarvi questa devozione...»

«Oggi, così: domani l'amore esigerà l'amore...»

«Chi lo dice?»

«Ahimè! l'esperienza, amico».

«L'esperienza mentisce!» esclamò egli, con violenza, «l'amore mio non è
simile a nessun altro.»

Angelica chinò il capo, come vinta, per un momento: e Sangiorgio si
pentì della sua violenza.

«Perdonatemi, signora,» le disse, umilmente, «ma l'idea di perdervi mi è
insopportabile.»

«Eppure dobbiamo lasciarci. Meglio ora che più tardi: più tardi
soffrireste molto di più, io avrei maggiori torti, voi avreste il
diritto di accusarmi. La consuetudine inacerbisce ed esalta l'amore:
verrebbe un giorno in cui non potremmo dividerci più, giorno di spasimo
per voi, di vergogna per me. Ora... ora, ancora tutto è possibile. Che
siamo l'uno per l'altro? Nulla: meglio così. Ci siamo visti, quattro o
cinque volte...»

«Io vi ho vista sempre.»

«In mezzo alle volgarità della vita...»

«Io ho pianto con voi, signora, quando piangevate nel Pantheon.»

«Fra la gente curiosa e maligna...»

«Io vi ho guardata per un'ora, quel giorno, a Ponte Nomentano, quando
lasciavate andare alla corrente dell'Aniene le foglie delle rose...
eravate sola... eravamo soli...»

«Fra gli obblighi convenzionali della vita politica...»

«Quanto eravate bella, signora, quella sera, al ballo del Quirinale: io
venni via con voi: non vi parlai: non mi diceste nulla: quanto eravate
bella!»

«È un sogno, è un sogno,» ribattè lei, esaltata nel sacrificio dalle
vibranti parole dell'amore, «bisogna svegliarsi. Bisogna dividersi.»

«Bisogna morire, allora.»

«Chi parla di morte?»

Non rispose egli alla sua domanda, ma nello sguardo di dolore e di
rimprovero con cui la fissò, ella comprese. Oramai il sole tramontato e
i grandi veli violetti crepuscolari salivano dalla terra al cielo
bianco: una brezza fredda e cattiva si alzava nell'aria: dalla terrazza
era scomparso il prete tedesco, lettore del breviario; dal banco di
legno il vecchietto era scomparso: tutto il colle Pinciano si oscurava;
e laggiù la folla urlava più che mai, eccitata dalla sera che veniva.
Ella si avviò per andarsene, pel grande viale che portava alla Trinità
dei Monti; ma egli la seguiva, come stordito, senza osare di dirle
altro, deciso a seguirla dovunque. Al pilastro di marmo dove l'aveva
incontrato, ella si volse e gli tese la mano:

«Addio, amico.»

«No addio, no!»

«È tardi,» pronunziò quella voce amata e glaciale.

E Angelica si perdette nelle brume crepuscolari.

       *       *       *       *       *

Ora, da Piazza del Popolo a Piazza di Venezia, accendevano i moccoletti.
Era una miriade di punti luminosi, di fiammelle erranti, per la via, sui
poggiuoli, sui balconi, sui carri: e un volare di mazzettacci informi e
infangati, un soffiare di lunghe ventole, un agitarsi di fazzoletti, di
stracci, un saltare, un soffiare di bocche, tutti i mezzi, tutti gli
scherzi, tutte le violenze, tutte le brutalità per spegnere il moccolo:
e i gridi di resistenza e quelli di attacco e la gran voce umana
ripercossa:

— Moccoli, moccoli, moccoli!

Fra tanta luce, fra tanto schiamazzo, fra tanto baccano d'allegrezza,
andava urtato, sballottato, sospinto, incosciente, un povero essere
agonizzante di angoscia.



IV.


Tre volte avevano camminato accanto, sulla larga via di campagna che va
da Ponte Molle a Porta Angelica, sotto gli olmi e i platani,
costeggiando il Tevere biancastro.

Ella lasciava la carrozza prima del Ponte Milvio, dicendo al cocchiere
di andarla ad aspettare in Piazza S. Pietro: e faceva un centinaio di
passi a piedi, passando il Ponte, cercando con gli occhi.

Egli era sempre là, aspettando da due ore, turbato dall'impazienza e dal
desiderio, passeggiando su e giù innanzi all'osteria di Morteo,
internandosi un poco nella Via di Tor di Quinto, tornando indietro sino
al Ponte, arrivando sin dove comincia la Via Flaminia, tornando ancora
indietro, dando dappertutto delle occhiate distratte, ai salici
rinverditi che si piegavano sulle sponde del fiume, ai mandorli fioriti
che sorgevano dietro le siepi della Farnesina, non vedendo nulla, col
capo rivolto sempre verso Ponte Milvio, donde ella doveva arrivare: e di
lontano la vedeva spuntare, un improvviso rossore colorava di fiamma il
suo volto pallido, non le andava incontro, l'aspettava di piè fermo,
fingendosi distratto, disattento.

Ella arrivava sempre dopo il terzo o il quarto convegno mancato, sempre
con un'ora e mezzo di ritardo, ma non si scusava mai, non ricorreva
neppure a uno dei tanti pretesti femminili: e lui che fremeva di dolore,
che sino a quel momento l'aveva incolpata di freddezza, di noncuranza,
battendo i piedi, in preda a una nervosità invincibile, quando la vedeva
comparire, non le diceva più nulla, la guardava, incantato, pagando con
quel minuto acuto di gioia tutte le sofferenze passate.

Il primo minuto era sempre imbarazzante: non si sapevano dire nulla,
ella seria e preoccupata, egli incapace di profferir parola, per
l'emozione: e si mettevano a camminare, sotto gli alberi, lentamente,
ella con gli occhi bassi, con le mani ficcate nel manicotto, per avere
il pretesto di non andare sotto il suo braccio; egli girando fra le dita
il sigaro spento, sogguardandola, felice, malgrado il contegno severo e
triste di donna Angelica.

Dolcissima la primavera romana si allargava nell'aria dai cipressetti di
Monte Mario sui platani dei Monti Parioli; e dalle siepi alte, sul fiume
e sulla campagna, un candore di biancospino si offriva acutamente
profumato. Le prime parole di donn'Angelica sonavano dolore, rimpianto,
pentimento: parole brevi, ma profonde, che piombavano, tutte, sul cuore
dell'amatore. Egli taceva umiliato, non sapendo che offrire di
consolazione a questa virtuosa e santa donna, che per lui aveva la
coscienza turbata dai rimorsi. Ma come la naturale pietà rifioriva
nell'ora e nel tempo in donn'Angelica, ella moderava i suoi lamenti che
diventavano sempre meno precisi, più vaghi, erano infine un ritornello
malinconico che l'amatore ascoltava, come una musica dilettosa e
rattristante:

— Se soffre per me, mi ama, — egli pensava, nella follìa dell'amore.

Ma nè ella aveva mai detto di amarlo, nè lui mai lo aveva chiesto: una
timidezza paurosa, una vergogna e un riserbo strano avevano impedito
all'amatore di fare questa domanda. Sì, temeva la risposta, la risposta
serena, ma crudele della donna che non ama e a cui la pietà, per quanto
grande, non concede di mentire.

Così, naturalmente, in questa loro singolare relazione, senza nessuno
suo sforzo, donna Angelica nulla doveva concedere del suo cuore e nulla
le si doveva chiedere che concedesse: tacitamente, senz'altro, era stato
inteso che ella accettasse, sopportasse, subisse l'amore, senza mai aver
l'obbligo di ricambiarlo. Ella era la immagine benedetta che si degnava
tenere gli occhi pieni di grazia sul suo devoto — e il devoto la
benediceva sempre più, l'adorava, le parlava del suo amore. Sotto i
grandi alberi di Via Angelica, attraverso i quali il fiume s'inargenta,
andando fra gli odori forti campestri sul terreno duro, egli, poco a
poco, come quel cullamento triste della voce di donn'Angelica si
affievoliva, le parlava sottovoce del suo amore. Sulle prime erano delle
frasi tronche che la passione spezzava, il riassunto frettoloso di
quello che aveva pensato e sentito nei giorni in cui non l'aveva vista,
o, vedendola, non aveva potuto parlarle: e allora, pronunziando quelle
frasi smozzicate, quasi violente, la fissava con certi occhi pazzi, che
a lei davano un'impressione rapidissima di terrore. Ma al suono della
propria voce, Sangiorgio andava riprendendo cuore, la parola diventava
più facile, le idee si annodavano fra loro logicamente, il suo amore
trovava in lui una eloquenza di sentimento così semplice e così
convincente, che donn'Angelica, a quell'onda umile e letificante, andava
riprendendo la sua bella pace: la faccia le si faceva rosea, come quella
di una fanciulla che si gode puramente l'omaggio dell'amore. Talvolta in
quei momenti ella andava cogliendo dei lunghi rami verdi o un fascio di
celidonie giallissime o quei mucchietti di fiorellini bianchi minuti,
come un merletto, o quelle bacche rosse e velenose, dall'aspetto così
attraente: ed egli parlava d'amore ed ella coglieva fiori, a un tratto
ringiovanita, — e talvolta dal suo fascio staccava un fiore e glielo
dava.

Egli lo teneva fra le mani, arso dal desiderio di morderlo: e un giorno
volle mangiare le bacche rosse, dalla tinta viva, così provocante.

«Volete morire?» fece ella scherzando, ma tremando.

E quel tremito fu uno dei tesori morali che andava raccogliendo
Sangiorgio. Un giorno, presso un mandorlo basso, ella si eresse sulla
punta dei piedi e staccò alcuni ramoscelli rosei, odorandoli lungamente,
col sorriso della felicità sulla faccia. Non ella era dunque la
primavera fresca e amabile? Il fiorellino di mandorlo che ella gli donò,
andò a raggiungere un mazzolino appassito di mughetti, un pezzetto di
stoffa di un vestito, chiesto e ottenuto per grazia, e che cosa
preziosa, impagabile, un fazzolettino di battista, orlato di merletto
antico — ottenuto in una sera di disperazione, dopo tre giorni inutili
di attesa, invocato come un conforto. Ella sapeva questo: e le piaceva
di saperlo. Ella guardava sì, lontano, verso Castel S. Angelo, verso la
nuova caserma dei carabinieri, verso Roma vecchia, in cui qualche lume
cominciava ad accendersi: ma ascoltava, pur guardando altrove, tutte le
parole che Sangiorgio le diceva, dolcissimamente, e crollava il capo,
come una bimba lusingata. Arrivavano a Porta Angelica, così, calmati,
pacificati: egli doveva andarsene per la Via Reale che va ai Prati di
Castello e a Ripetta, ella per la porta che conduce a San Pietro, — ma
il loro saluto era pieno di tenerezza e lungo.

Un giorno ella giunse tutta tremante. Presso l'Arco Oscuro ella aveva
incontrato l'onorevole Giustini, quel toscano tanto maligno, mezzo
gobbo, mezzo sciancato, che trascinava intorno la sua noia cinica e la
sua salute distrutta. Sì, ella era passata in _coupè_, rapidamente, ma
Giustini l'aveva perfettamente riconosciuta, le aveva fatto un grande
saluto a fondo di meraviglia, poi si era piantato sulla via, a seguire
con l'occhio la carrozza che fuggiva. Ella tremava tutta: per poco non
era tornata indietro, tanto la possedeva il terrore che quel cattivo di
Giustini la seguisse, per curiosità maligna, per sapere. E si voltava,
ogni tanto, spaurita, credendo che ogni villano che passava per Via
Angelica fosse il gobbo deputato di Toscana, guardando Sangiorgio con
certi occhi timidi e dolenti che lo desolavano; egli cercava invano di
rassicurarla, di dirle che un uomo a piedi non segue mai una carrozza al
trotto, che Giustini era là per caso, che, del resto, Via Flaminia era
una passeggiata pubblica, dove non era da meravigliare nessuno se ci
s'incontrava una signora in carrozza. Ma egli stesso era preso dal primo
glaciale brivido di spavento, quello che colpisce gli amanti in piena
sicurezza e turba tutta la purezza della loro gioia: cercava di
rinfrancar lei, ma egli stesso era scosso profondamente. Quell'ora di
convegno fu amara, non ritrovarono mai più la serenità, e donn'Angelica,
a un certo punto, riassunse tutte le sue paure, con la precisione che
hanno le donne pel dramma che le sovrasta:

«Ora Giustini va alla Camera e dice a tutti, anche a don Silvio, che mi
ha incontrata a Via Flaminia.»

Fu in quest'ora di amarezza che egli, sentendo i lamenti di
donn'Angelica, osò dirle che bisognava levare dalla strada questo amore
e metterlo in una casa, fra quattro pareti, al coperto dallo sguardo
della gente, dalla curiosità dei viandanti. E glielo disse con tanta
emozione rispettosa, con un sentimento così alto di riverenza, con una
semplicità così onesta, che ella disse subito _no_, brevemente, ma non
potette offendersene. No, ripeteva ella a tutte le umili considerazioni
che egli le veniva facendo, un _no_ lento ma deciso, senza collera, ma
senza debolezza. A un certo momento, ella, come infastidita, gli disse:

«Tacete.»

Tacque: si separarono, senz'altre parole. Ma da quel minuto fatale in
cui ella aveva incontrato Giustini, essi sentirono sempre più la pena di
quell'amore in pubblico e intanto non prendevano nessuna precauzione, la
pena di quell'amore randagio che non aveva tetto: amore vagabondo che
faceva sorridere d'ironia i camerieri della trattoria Morteo a Ponte
Molle, oziosi sulla porta e sul terrazzo della palazzina: amore
malinconico che faceva ridere, coi suoi saluti teneri, i doganieri
grossolani di Porta Angelica.

Due altri convegni furono molto penosi: la paura, oramai, si era messa
in fondo al cuore di donn'Angelica e la faceva fremere al passaggio di
un carrettiere, di un cacciatore: persino i canotti sul Tevere la
spaventavano, le sembrava sempre che i canottieri la conoscessero e che
alzassero il remo in segno di saluto. Non più parlavano d'amore: cioè
non più egli poteva parlarle d'amore, ella lo interrompeva, ogni
momento, sogguardandosi intorno, chinando il capo a qualche rara
carrozza di forestieri che passava, arrossendo, impallidendo, respirando
appena.

Un giorno di convegno, piovve dirottamente, da un'ora prima
dell'appuntamento: egli si ricoverò sotto il portone di Morteo, ma non
potendo reggere alla impazienza, si avanzava continuamente verso Ponte
Milvio, bagnandosi tutto, cercando di distinguere qualche cosa
attraverso quel velo di pioggia. Non vedeva nulla, ella non sarebbe
venuta, era impossibile con quella pioggia, ma intanto egli continuava
ad aspettare, sorretto da una uniforme speranza; la pioggia seguitava,
ella non venne, naturalmente, ed egli ritornò in Roma, soltanto alle
sette, bagnato, con l'umido nelle ossa, nel _tram_ aperto, coi piedi sul
legno intriso dell'ultimo carrozzone che faceva il viaggio da Ponte
Molle a Roma, preso da una grande desolazione, abbattuto, con un
principio di febbre. Non potette dirle nulla alla sera, ella era
circondata di gente e non seppe le ore dolorose che egli aveva vissuto,
là, tra la pioggia del cielo e la nebbia del fiume.

Ma l'altra volta, egli insistette. Ella disse ancora _no_, ma vagamente,
come se rispondesse più a sè stessa che a lui. Era tarda l'ora e la
temperatura fredda. Era una di quelle pessime giornate di gennaio
trasportate in aprile, vento noioso e glaciale, cielo nuvoloso e basso,
terreno bagnato e fangoso. Ella aveva soltanto una piccola mantellina di
velluto che le copriva le spalle e il petto, e sentiva un gran freddo
salirle dai piedini irrigiditi sino al cervello, abbassava la testa,
portava il fazzoletto alla bocca. Anche Sangiorgio aveva molto freddo,
col soprabito leggiero primaverile, ma non le diceva nulla, ambedue
mortificati e oppressi dall'ora e dal tempo. Ogni tanto le chiedeva:

«Avete molto freddo, è vero?»

«Oh sì!» diceva lei, piano.

«Oh Dio!» ripeteva lui, guardandosi intorno, non sapendo che cosa fare
per riscaldarla.

E affrettavano il passo, ma il fango inzaccherava gli stivalini di
donn'Angelica e l'orlo della gonna, essi non potevano correre. Come per
istinto, egli le disse di una stanza calda, come la sua, come quel
salotto dell'Apollinare dove sempre divampava il fuoco nel caminetto,
una stanza dove sarebbero stati soli: ella non rispose.

«Dove?» domandò ella, dopo una pausa.

Egli stette per dire, poi si fermò:

«Laggiù...» soggiunse vagamente, poi, indicando Roma.

Più altro. L'ora avanzava, cupa e fredda nella campagna deserta. Ella
era così triste e spaventata, che per la prima volta passò il suo
braccio sotto quello di lui: e quella intimità egli la ricevette
umilmente.

Poi, per tre giorni non la vide, non potette vederla, non ne ebbe
notizie, era un po' ammalata: glielo aveva detto don Silvio. Un minuto,
dopo quattro sere, la trovò sola nel suo palco, all'Apollo: ella era
pallida, come se avesse la febbre. E nascondendosi dietro il ventaglio
di piume, gli disse subito che per giunta, in quell'ultimo giorno di
convegno, aveva incontrato l'onorevole Oldofredi in Piazza di San Pietro
e che l'aveva squadrata con un certo ghigno beffardo. Oldofredi era
vendicativo. Per ultimo, arrossendo per la vergogna, la soave donna
dovette confessargli che temeva, temeva, finanche del cocchiere e del
cameriere: temeva che l'avessero spiata. E vedendolo sbalordito, gli
soggiunse, presto presto, mentre bussavano alla porta del palco:

«Verrò, verrò, dove voi volete.»



V.


Quando rientrò, di notte, nel suo quartierino dell'Angelo Custode,
Francesco Sangiorgio aveva un po' di febbre. La promessa fattagli da
donna Angelica gli sconvolgeva il sangue: nella testa sentiva un grande
ronzio, una confusione. E subito, entrando nel salottino, una
impressione di freddo, il cattivo odore che vi regnava, sempre, gli
aveva dato un fremito e una nausea: per non vedere quel brutto posto,
così nudo, così miserabile, non accese nè il lume, nè il fiammifero. Si
buttò, vestito, sul letto, sognando la casa dove avrebbe ricevuto
donn'Angelica.

La sua fantasia accesa, rovente di febbre e di amore, fluttuava nelle
visioni. Non sognava nulla di preciso, di determinato, egli vedeva
innanzi ai suoi occhi aperti una fuga di stanze calde e profumate, dalle
triplici tendine profonde, dal tappeto morbido che attutisce qualunque
rumore di passi; ma non sapeva dove fossero, queste stanze, non si
raccapezzava in che posto di Roma si trovassero, ora supponeva che
fossero al Gianicolo, ora a Piazza Navona, ora a Via Sistina, ora a
Piazza di Spagna. E questa indecisione, questo non sapere, lo crucciava
molto, era il tormento di quelli che fanno un sogno cattivo e
incompleto, e volendo camminare, non possono muoversi, volendo gridare,
non trovano voce. Dove era la porta per entrare in quelle stanze, dove
era situata la scala, dove sporgevano le finestre?

Egli vedeva, sì, ogni tanto, come un lampo di colori, il roseo di una
tenda serica, sul muro; il riflesso fulvo di una poltrona di felpa; la
scintilla metallica che partiva da un coltello damaschino colpito dalla
luce; il disegno minuto di una trina antica giallastra, ma tutto questo
confusamente, senza saper dove, nè come, nè quando, nulla. Dove si
sarebbe seduta donn'Angelica, entrando in quella casa, dove avrebbe
posato i bei piedini stanchi, dove avrebbe appoggiato il bel braccio,
per sorreggersi, nella sua posa abituale, dolcissima?

Gli pareva che in quella casa non vi fossero nè sedie, nè divani, nè
sgabelli, nè tavolini; gli pareva che fosse un gran posto vacuo,
profondo, incommensurabile, in cui lui e donn'Angelica si fossero
perduti.

Il suo sogno lo faceva spasimare d'angoscia, l'incubo gli premeva sul
petto, la febbre gli mordeva il sangue, la testa gli girava.

Disteso sul letto, in un dormiveglia, soffrendo e pur godendo del suo
sogno, egli non si moveva per paura che tutto s'involasse, anche la
promessa di donn'Angelica: e ogni quarto d'ora che passava, nel
parossismo, il sogno cambiava d'aspetto, si tramutava, si arrovesciava
stranamente, diventava pauroso o comico. Talvolta gli pareva che stesse
da tempo immemorabile aspettando donn'Angelica, la quale non veniva mai,
mai: le tende bianche erano diventate prima gialle, poi bige; le stoffe
si erano scolorite, il tarlo le aveva rosicchiate, cadevano in pezzi,
cadevano in polvere; i mobili erano tutti sporchi, cadenti per
vecchiaia; in fondo alle giardiniere vi era un po' di cenere puzzolente
che era stata fiore; le mura stesse stillavano umidità e vecchiaia,
sembravano danneggiate. Ed egli stesso, Sangiorgio, nell'attesa
lunghissima, sembrava diventato un vecchione più che centenario, lento,
infermo, con una lunga barba bianca e la vista indebolita. Donn'Angelica
non veniva mai, mai; e Sangiorgio continuava ad aspettarla, paziente,
innamorato. Poi, una gran voce aveva tonato in quella casa tre volte:
donn'Angelica è morta, donn'Angelica è morta, donn'Angelica è morta.

Alla prima volta erano caduti in un ammasso di frantumi i mobili, alla
seconda il vecchione era caduto morto, col viso in terra e le braccia
aperte, alla terza le mura della casa erano crollate, seppellendo tutto,
facendo una tomba di quella casa che donn'Angelica non aveva voluto
visitare.

Si tramutava il sogno, continuamente. Gli pareva che nel giorno del
primo convegno, in quella casa, egli, per un caso stranissimo, avesse
dimenticata l'ora dell'appuntamento e si torturava per rammentarsela, le
due o le tre, non sapeva bene, non giungeva a ricordare.

Poi si avviava da Montecitorio a mezzogiorno, per essere in tempo: ma
incontrava in un corridoio il vecchio presidente del consiglio, che lo
fermava, e, carezzandosi la barba bianca fluente, gli parlava della
Basilicata, del sale, dei contadini, di cose che egli non capiva troppo
bene, tanto il suo spirito era altrove.

Arrivava a sbrigarsi di costui, ma sulla soglia del portone incontrava
l'onorevole Giustini, la cui gobba era diventata immensa e il cui
sorriso velenoso gli faceva male al petto, come se un succhiello gli
cavasse il sangue. Giustini gli sbarrava la via, inarcando le gambe
storte, parlandogli di Roma, di Roma che fingeva di dormire nella
indifferenza e che era invece bene sveglia: e gli scoteva il braccio,
facendogli male. Passava il tempo, passava. Sangiorgio si scioglieva
bruscamente da Giustini, correva per Piazza Colonna, quando una voce
femminile lo chiamava, da una carrozza ferma. Non avrebbe voluto
arrestarsi, ma si sentiva trascinato, suo malgrado, verso quella
carrozza: era un paio di occhi neri e scintillanti che lo guardavano con
amore e con desiderio, erano certe labbra sanguigne e provocanti che lo
avevano baciato e lo volevano baciare ancora, era la mano molle e
carezzevole, era il profumo forte e dolce di violetta, era donna Elena
Fiammanti che gli aveva voluto bene e gliene voleva, e, quasi senza
muovere le labbra, gli diceva:

«Vieni, vieni, rammentati tutto, rammentati quando ci siamo visti, il
giorno di Natale, al Gianicolo; rammentati la notte del veglione e la
luna a Piazza di Spagna; rammentati le rose che ho lasciate a casa tua,
quel giorno; rammenta il bacio che ti ho dato, nel teatro, dopo il
duello; rammenta tutti i baci, tutto l'amore; vieni con me, con me è la
gioia, con me è il piacere, con me non piangerai, con me non dovrai
spasimare. Vieni dunque, mi dirai tutto quello che soffri, ti consolerò:
non ti dirò quello che soffro, non dovrai consolarmi.»

Ma egli chinava il capo, si turava le orecchie, chiudeva gli occhi, per
non udire quella voce ammaliatrice, per non vedere quel volto farsi
triste triste, diceva fra sè un nome, _Angelica_, il suo talismano, e
pareva che donna Elena ne ricevesse il contraccolpo nel cuore, che si
buttasse indietro, nella carrozza, come disperata e dicesse al cocchiere
di fuggir via. Sangiorgio correva, correva, per la strada, tutte le
carrozze che incontrava, erano piene; tutti gli amici che incontrava,
volevano fermarlo; la folla che gli si assiepava dintorno gl'impediva di
camminare; i cani gli attraversavano la via. Egli correva, correva,
affannava, affannava, oramai non era più in tempo, era troppo tardi,
donn'Angelica era già arrivata, sarebbe già partita, non avrebbe atteso.
Quanto lungo il cammino, quanti ostacoli, quante difficoltà! Infine,
giunto al posto, rosso, ansimante, perso, si doveva fermare: innanzi al
portone, l'onorevole Oldofredi passeggiava, ironico, minaccioso,
ridente. Gli rideva finanche sul volto, sanguigna, la ferita che
Sangiorgio gli aveva fatta. E faceva la guardia, andava e veniva,
bruttissimo, odioso, odiante, implacabile.

       *       *       *       *       *

La casa era al numero 62, in Piazza di Spagna, al primo piano. Sulla
soglia del portoncino, un fioraio ambulante aveva posato il suo largo
cesto pieno di fiori primaverili, le violette pallide e profumate di
Parma, le rose doppie, vivissime, le giunchiglie volgari dal forte
odore; e tutto lo scalino era bagnato di acqua, vi era appena posto per
entrare. Mancava il portinaio, come in quasi tutti i portoncini di
Piazza di Spagna; e le scalette erano oscure: il pianerottolo, dove tre
porte si aprivano, era appena illuminato da un piccolo finestrino. Sulla
porta di mezzo, un biglietto da visita era conficcato con due spilli, il
biglietto dell'onorevole Francesco Sangiorgio. Nella piccola anticamera
un po' scura, Noci aveva messo un grande cofano da nozze, nero, antico,
delicatamente scolpito, su cui era disteso un lungo e sottile cuscino di
seta rossa e gialla; tre o quattro sedie di legno bruno, cupo, scolpito,
e un tavolino uguale; dal soffitto una lampada di bronzo pendeva, sempre
accesa, dando una falsa apparenza di notte a quell'anticamera un po'
tetra, di cui una grande tela dipinta copriva il triviale soffitto e le
pareti, nascondendo le grottesche pitture e il parato di carta di
Francia.

Dopo veniva il salotto che aveva un grande balcone sulla piazza, un
salotto largo e luminoso, sempre pieno di sole: ma certe tende antiche,
di un lampasso roseo e verdigno molto chiaro e un grande pezzo di
merletto antico giallastro, innanzi al balcone, mitigavano la luce. Le
pareti erano tese di un raso molto lucido color nocciuola, ma
scomparivano sotto le stoffe orientali, sotto i tappeti persiani, sotto
i brani di broccato vecchio, tesi, aggruppati fantasticamente, tenuti
fermi qui da un grande piatto lucidissimo di ottone a sbalzo, altrove da
una scimitarra artisticamente cesellata, altrove da un grande fascio di
piume di pavone disposte a ventaglio. Un rosario di legno di sandalo,
una di quelle lunghe collane a grani profumati, che le donne turche
girano e rigirano continuamente fra le dita, per profumarsi le mani e
per ingannare, con un esercizio monotono, il tempo che non vuole
passare, il rosario turco che non è preghiera, ma è un piacere del tatto
e dello spirito, il _comboloi_, pendeva da una gran parete; un grande
velo biancastro a stelline d'argento, il mantello delle donne orientali,
il _feredjè_, pendeva da un'altra. Ma la nota dominante, stranissima,
era, sopra una parete, un pezzo di broccato giallo antico, qualche cosa
come un oriflamma, tagliato nella larghezza e nella lunghezza da una
croce che acciecava, che risaltava su tutte le mezze tinte di nocciuola,
di mattone smorto, di rosa pallidissima che regnavano in quel salotto.
Vi era una morbidezza profonda, mancava sapientemente qualunque mobile
di legno, non un tavolino dagli angoli duri, non uno sgabello: il
velluto, la seta, il raso nascondevano qualunque traccia di durezza. In
certi leggierissimi vaselli opalini dei giacinti rosei, carnicini,
violetti, bianchi, lilla pallidissimi; sopra un divano, da un vaso
giapponese, una rosa si era sfogliata, come di languore. Dei cuscini di
piume, larghi, di seta rossa, rosea, scarlatta, porporina, rosa secca,
in tutte le gradazioni del rosso, dal seno della rosa bianca sino al
tetro color vinoso, erano ammucchiati in un angolo: se ne poteva formare
un sedile, un letto, un trono.

La stanza da letto dava pure su Piazza di Spagna, ma con due balconi:
per smorzare la soverchia luminosità, oltre le tende e le cortine, tutta
la stanza era parata di velluto azzurro cupo, ricamato a larghe striscie
di seta bianca e di argento. Ma non vi era letto, sembrava piuttosto un
altro salotto, più cupo, più severo, senza tanti ornamenti: vi era un
basso e largo divano, senza spalliera, su cui era stata buttata una
grande coltre di velluto azzurro, ricamata d'argento, con una cifra in
mezzo, un'audacia del tappezziere, un'_A_ lunga e sottile. Sopra vi
proiettava la sua ombra una tenda azzurro cupo, tutta stellata, come il
firmamento: una tenda che formava un triangolo strano, rialzato da
cordoni e da fiocchi d'argento. Rallegravano quella tetraggine uno
scrigno di legno di rosa, due o tre di quei mobili piccolini e
civettuoli che la Pompadour amava.

In un vaso alto del Giappone, un vaso dove un uomo si poteva nascondere,
una musa paradisiaca allargava le sue foglie doviziose, dalla grossa
vena sanguigna: nessun'altra pianta, nessun altro fiore. E il piccolo
stanzino da _toilette_, accanto, era parato di casimiro bianco e di
rosso, con un _nécessaire_ d'argento brunito, segnato colle cifre di
Francesco Sangiorgio: due enormi azalee bianche vi fiorivano.

In quattro giorni, cedendo alla fretta del deputato, l'artista gli aveva
messo su quella casa: sulle prime Sangiorgio si era tenuto guardingo,
andando ogni tanto a sorvegliare: ma la impazienza lo mordeva troppo,
tutto gli sembrava troppo brutto per lei, troppo lento per il suo amore.
Se ne andò via, deciso a ritornare solo quando la casa fosse finita,
dormendo e sonnecchiando e sognando nel suo freddo e puzzolente
quartierino di Via Angelo Custode, mentre a Piazza di Spagna preparava
il nido dell'amore.

Egli vi ritornò, solo quando tutto era a posto, e ne ricevette una
impressione gioconda e dolorosa. Che avrebbe ella detto? Non era troppo
morbido quel salotto per la bella e composta persona, che non si
abbandonava mai sopra una poltrona? Non era troppo sensuale tutto
quell'Oriente per la casta fantasia della soavissima? Non erano forse
troppo voluttuosi quei giacinti, fiori senza foglie, carnali in tutta la
loro efflorescenza? E quell'ammasso di cuscini sanguigni e delicatamente
rosati, non erano forse un invito troppo manifesto al riposo, al perfido
riposo, che è l'abbandono dell'anima? La stanza da letto gli pareva
bella per la sua severità: ma giammai la pura signora sarebbe entrata lì
dentro. Egli era soddisfatto e turbato: aveva chiesto all'artista un
quartierino destinato all'amore, e costui glielo aveva fatto. Ora
quell'ambiente chiuso, sacro, quei profumi floreali ed esotici gli
sconvolgevano il suo ideale: o piuttosto facevano sorgere in lui un
nuovo ideale, più vivo, più umano.

       *       *       *       *       *

Qui, in questo quartierino che il lieto sole di primavera riscaldava,
conquistando Piazza di Spagna dal bigio palazzo di _Propaganda Fide_
sino al biondo palazzo dello _Albergo di Londra_, innanzi al caminetto
dove sempre scoppiettava e divampava un fuoco di legna secca, Francesco
Sangiorgio aspettava donn'Angelica. Quando l'arredamento fu finito, egli
ricominciò a insistere con lei, dovunque la trovava per un minuto solo,
in casa, al teatro, alla tribuna di un diplomatico, fra due porte, in un
corridoio, sulla soglia di casa sua, dovunque le poteva dire una parola,
dirigere uno sguardo di preghiera senza esser visto, senza essere udito.
Diventava la sua idea fissa quel convegno nella casa a Piazza di Spagna,
non sapeva balbettare altro, non chiedeva altro. Ella, pentita della sua
concessione, ripresa dagli scrupoli, diceva ancora di no, scrollando il
capo, non persuasa, diffidente di lui, dell'amore, paurosa delle strade
e delle persone. Ella non parlava delle sue paure, dei suoi sospetti, ma
rifiutava sempre, ostinata, vinta di nuovo dalla indolenza della donna
virtuosa, guarita da quell'impeto di febbre, scampata da quel desiderio
di peccato spirituale. Egli s'inaspriva, sdegnato di quei sospetti,
amareggiato dalla resistenza, urtandosi colla violenza del suo
temperamento e del suo desiderio contro la mitezza di donn'Angelica,
spezzandosi contro quel rifiuto. Uno scontento profondo di sè e
dell'amore cominciava a nascergli nell'anima: e aveva il senso di una
grande ingiustizia che la donna amata gli usava. Una sera, soccombendo
all'amarezza per l'ingratitudine di donn'Angelica, le disse, tremando di
ira e di dolore:

«Infine.... che temete? Voi siete sicura, voi che avete l'anima
invincibile: non ho io sempre fatto quello che voi volevate? Non
sentite, nella vostra invincibilità, Angelica, che non correte nessun
pericolo, in casa mia? La vostra difesa è in voi: e voi siete senza
debolezza, senz'abbandono.»

Ella rizzò il capo, tutta rosea di coraggio e di orgoglio:

«Verrò,» disse, come una eroina sicura della vittoria.

«Quando?»

«Non so: non so bene, aspettatemi, conoscete le mie ore.»

E null'altro precisò. Non credeva di dovergli dire altro, credeva che
egli abitasse proprio lì, in Piazza di Spagna e non gli costasse nulla
di aspettarla, credeva alla sua divozione; come tutte le donne,
calcolava solo il proprio sacrificio, non sapeva misurare quello altrui.

E tutti i giorni, in quella fine gaia di aprile, Francesco Sangiorgio
andava ad aspettarla nel salottino, a Piazza di Spagna. Egli si alzava
un po' tardi, nell'ambiente scuriccio e sudicio di Via Angelo Custode,
andava attorno, macchinalmente, vestendosi, bevendo la cattiva tazza di
caffè che la servaccia gli portava, non toccava nè un libro, nè una
penna, uscendo subito da quella brutta casa, dove si sentiva soffocare.
Per istinto si recava a Montecitorio, ma non andava nei corridoi, nè
alla sala di lettura: si spingeva sino alla posta, preso da una
curiosità istintiva, sempre, cercando le sue lettere. Incontrava qualche
collega, che gli domandava:

«Che fai, che non ti si vede più? Perchè non vieni alle sedute?»

«Lavoro, lavoro,» rispondeva lui, pensoso, passandosi una mano sulla
fronte.

Oppure:

«Siete stato in Basilicata, Sangiorgio? E quelle relazioni, per
l'inchiesta agraria, saranno a buon termine?»

«Sì, sono stato in Basilicata,» rispondeva lui, arrossendo, imbarazzato,
per un minuto, dalla bugìa. «Le relazioni.... presto, presto saranno
finite,» soggiungeva vagamente, «....è un lavoro che mi affoga...»

Ma cercava di evitare questi incontri, non sapendo mentire, turbandosi
innanzi a queste risorgenti voci della coscienza: e se ne andava,
leggendo le sue lettere, senza intenderne il senso, preso da una grande
indifferenza innanzi a quelle domande dei suoi elettori, innanzi a
quelle raccomandazioni dei sindaci, pressanti, insistenti, noiose. Sino
a un mese prima, era stato un deputato freddo, ma compìto, rispondendo
sempre, a tutti, talvolta il giorno stesso, non curandosi delle persone
poco influenti, saggiamente rendendo servigi ai grandi elettori, a tutti
coloro che potevano essergli utili, appagando costui con una promessa,
per qualcuno ottenendo quello che desiderava, in realtà non disgustando
nessuno. Ma tutti quegli affari gli erano prima tornati indifferenti,
ora lo seccavano, lo irritavano: egli pensava solo a quel nido odoroso
dove forse, in quel giorno, la dolce signora sarebbe venuta, rimetteva
in saccoccia, con un moto nervoso, quelle lettere e andava a far
colazione, presto, alle _Colonne_, solo solo, assorbito dal suo
pensiero, immerso in una contemplazione buddistica dell'amore. Mangiava
senza vedere: e se a un tratto la coscienza gli rimproverava di non
rispondere alle lettere urgenti, si faceva portare della carta, il
calamaio e la penna, e scriveva frettolosamente, brevemente, sopra un
angolo del tavolino, lasciando raffreddare la bistecca.

Ma dopo un paio di lettere, la stanchezza, l'impazienza lo vincevano: e
pagava il conto, andava via subito. Talvolta le lettere scritte gli
restavano in tasca due o tre giorni, le dimenticava, non servivano più.

All'una era sempre in Piazza di Spagna, comprando dei fiori da tutti i
fiorai, caricandosi di rose, di giacinti, di mammole, infilando subito
il portoncino, preso da un'ansietà, quasi che donna Angelica dovesse
essere là ad aspettarlo, lei, mentre egli aveva la chiave in tasca.

Subito, l'ambiente calmo, ricco, felice del quartierino gli procurava
una sensazione di benessere. Là, certo, sarebbe venuta donn'Angelica: lo
aveva promesso, sarebbe venuta. E si metteva ad accendere il fuoco,
accovacciato per terra, come uno sposo premuroso e innamorato: non era
contento, se non quando la catasta divampava, donn'Angelica adorava il
fuoco vivo, che rallegra le fibre e riscalda il cuore.

Poi girava per la casa, metteva fiori nei vasi, cambiandovi l'acqua,
buttando via quelli appassiti, nella piccola cucinetta vuota: e certe
volte mutava posto a un fascio di giacinti, univa le mammole alle rose,
le disuniva, mai contento, occupandosi a quel lavoro d'amante con un
grande ardore. Girava per la casa: sempre la stanza da letto, con quel
grande divano basso e molle, gli dava un crollo ai nervi. Ritornava in
salotto, accanto al fuoco, al fuoco casto e familiare, al fuoco che
purifica e che è l'immagine dell'anima nobile. Ivi aspettava.

Per fortuna, la contemplazione del fuoco è un grande diletto per gli
spiriti pensosi e raccolti; così Francesco Sangiorgio poteva dominare,
quasi cullare, la sua impazienza, poichè donn'Angelica non veniva.

Passando in quel salotto, accanto al caminetto, cinque o sei ore al
giorno, solo solo, senza osare di muoversi, egli aveva imparato a
seguire tutta la vita del fuoco, dalla lieve scintilla che si comunica,
si propaga, si dilata, si dilata, sino alla vampa larga e crepitante:
dalla incandescenza viva e forte, sino alla scintilla che si va
restringendo, si appanna, muore. L'occhio suo, macchinalmente, in quei
lunghi pomeriggi primaverili, soffocanti di dolcezza, seguiva la vita,
l'accensione, la morte di ogni tizzo: e mentre tutta l'anima sua
invocava e aspettava donn'Angelica, consumandosi come lui, con gli
stessi ardori, gli stessi avvampamenti, gli stessi languori smorenti a
poco a poco. Le maggiori ore di fiamma erano dalle quattro alle sei, in
cui donn'Angelica avrebbe potuto venire: allora nel cuore dell'uomo e
nel fondo del caminetto, era tutto un bruciare altissimo, una
temperatura dove tutto si strugge, il coraggio e il metallo.

Ella poteva capitare da un minuto all'altro, era forse per le scale, si
fermava sul pianerottolo, esitante, tremante: ed egli chiudeva gli
occhi, nel sussulto caldo e febbrile di quell'idea: ogni giorno, dalle
quattro alle sei, l'eccitamento dei nervi diventava acutissimo; e in
quelle due ore l'incendio di una catasta di legna lambiva le pareti del
caminetto. Poi veniva l'imbrunire: il desiderio e la speranza
s'illanguidivano nel cuore dell'amante, accasciati in un sopore,
s'illanguidiva il fuoco nel caminetto: cadeva la luce, cadevano le
vampate, la cenere bigia del crepuscolo discendeva sulla terra,
sull'uomo, sull'amore, sul fuoco. Egli usciva di là, ogni sera, alle
sette e mezzo, fra il freddo della strada e della sera che lo colpiva:
fra il freddo del disinganno che era in lui. Andava, smorto, tutto
raggricchiato, con le mani in tasca e il capo chinato sul petto, come un
miserabile febbricitante, che ha addosso il ribrezzo del male, come un
giuocatore che ha perduta l'ultima sua partita.


E così, come il giuocatore che ogni giorno si abbatte nella sua
delusione, ma ogni notte ritrova le forze per sperare e per giocare, più
ardimentoso, più audace, l'amatore avvilito nella sua speranza ritrovava
la sera al cospetto di Angelica la fede nell'Amore. Non la vedeva che
fra la gente, non poteva quasi mai parlarle, ma lo sguardo di lei gli
diceva sempre, esortandolo alla pazienza, alla rassegnazione:

— Aspettami, aspettami ancora: verrò.

Il giorno seguente, malgrado una voce scettica che gli parlava
nell'anima, malgrado tutte le delusioni passate, egli andava a chiudersi
più presto nel quartierino di Piazza di Spagna. Era una follia sperare
che ella avesse potuto venire prima delle due: ma, nella sua impazienza,
egli arrivava ogni giorno più presto, penetrando nel salotto a mezzodì
col bel sole meridiano di aprile, ne usciva alla sera, sempre più tardi,
alle otto. Alle volte, accanto al fuoco semispento, un assopimento lo
prendeva, come quelli che colgono i febbricitanti: sonnecchiava, sognava
quasi, svegliandosi in sussulto, credendo di aver udito squillare il
campanello. Non era nulla: donn'Angelica non veniva. E in quell'attesa,
un grande cruccio lo teneva: quando non doveva aspettare, immobile e
solitario, donn'Angelica; quando non vi era ancora l'idea del
quartierino, egli, in quelle ore, aveva la libertà di cercarla dovunque,
al Parlamento, a una conferenza, a un ricevimento, a una passeggiata;
poteva trovare un pretesto per andare, finanche, un minuto, in casa di
lei: poteva, in mancanza di meglio, parlare di lei, un minuto, con don
Silvio. Ma ora no. Mentre ella andava e veniva, forse a villa Borghese,
forse a una visita di amiche, forse a una seduta parlamentare, mentre
ella beava di sua presenza le donne, gli sciocchi, gli indifferenti, e
il primo imbecille capitato poteva vederla, salutarla, parlarle: egli,
che l'amava, che la desiderava, che viveva soltanto per lei, era ridotto
all'inazione, all'impotenza, solo solo, fra quattro pareti, martoriato
da due pensieri:

— Dove sarà? Verrà?

Prima, quando non vi era ancora l'idea del quartierino, egli faceva
ancora parte del consorzio umano. Andava, veniva fra le gente, dominato
da un sol pensiero, è vero, ma infine avendo tutte le apparenze
dell'esistenza. I colleghi lo incontravano, discutevano con lui di
politica, egli li ascoltava, macchinalmente, rispondeva loro, come un
musicista che suona a orecchio; fingeva d'interessarsi ancora alla sua
vecchia passione, — era ancora vivere, quello. Ma, ora, fra lui e la
politica, fra lui e la vita, una grande divisione era accaduta: egli
compariva un minuto solo a Montecitorio, di buon mattino, per
quell'abitudine di aprir la posta, poi il quartierino di Piazza di
Spagna ingoiava quel pensiero e quell'azione, sequestrava l'attività e
l'attenzione di Sangiorgio. Tanto che, alla sera, quando si metteva in
giro, per cercare donn'Angelica, egli ricascava nella vita, come un
trasognato, non sapeva nulla, non aveva inteso e visto niente, non aveva
parlato con nessuno, non aveva letto i giornali, aveva l'aria
rimbecillita: tanto che sul conto suo cominciavano a correre di questi
giudizi:

«Quel Sangiorgio! pareva una forza, ma che delusione....»

«Tutti così i meridionali: gran fuoco di paglia che non illumina, nè
riscalda...»

«Uomo finito, Sangiorgio...»

Sentiva egli questo ghiaccio che gli si formava intorno, questo
abbandono del pubblico, questo uscire dalla vita pubblica: aveva il
senso di questo dissidio fra il suo spirito e la politica: intendeva che
ogni giorno di assorbimento nel nuovo ideale consumatore lo allontanava,
per migliaia di miglia, dai vecchi ideali: tutto intendeva.

Non cieco, no: non acciecato, ma veggente e volente il sacrificio. Non
vittima mormorante parole di disperazione, non ribelle che oltraggia il
tiranno: ma martire soddisfatto, felice, che vede scorrere con delizia
tutto il miglior sangue delle sue vene. Anzi, più il suo amore gli
toglieva, più cresceva il suo ardore: maggiore il desiderio del
sacrificio. Così, una specie di lugubre, dolorosa voluttà lo colpiva,
quando al mattino soleggiato egli abbandonava le vie piene di gente e il
lavoro e il movimento e la vita, per andare a rinchiudersi in una
stanzetta, ed aspettare. Come il fanatico adoratore di Buddha, egli
saliva o discendeva tutti i cerchi dell'annichilimento, sino
all'astrazione completa e amarissima, sino al nirvano pieno di dolore.

       *       *       *       *       *

Era nel primo mattino odoroso di maggio, nel chiarore allegro, fra lo
scampanio festoso che veniva da Trinità dei Monti. Egli era entrato nel
suo tempio, carico di rose, ma col viso pallido ed emaciato: e quella
freschezza umida dei fiori, quel loro colorito di salute e di bellezza,
urtava con colui che li portava, triste e infermiccio come una serata di
ottobre carica di miasmi. Egli metteva al posto le rose, con quell'aria
quasi infantile di dolore che fa tanta pietà, per quanto più è ingenua e
silenziosa. Quando un lieve tocco del campanello gli sconvolse i nervi,
lo fece arrossire, gli mandò le lagrime agli occhi: caddero le rose sul
tappeto.

«Sono io, io,» disse, a voce bassa, donn'Angelica, entrando.

Ella non si guardò neppure intorno, entrò subito nel salotto, si buttò
sopra una poltrona, mormorando ancora:

«Sono io, sono io.»

Egli restava ritto innanzi a lei, contemplandola con gli occhi inumiditi
dalle lagrime, nulla osando dire, non avendo neanche il coraggio di
ringraziarla.

La dolce donna aveva tenuta la sua promessa, ella non poteva mentire:
col maggio odoroso, col mese delle rose, delle preghiere a Maria
Vergine, ella era venuta, la divina. Non lei era dunque la Madonna a cui
si offrono le rose? Senza dire niente, egli, preso da un moto
improvviso, andò raccogliendo per casa tutte le rose, sparse per terra,
già semiaperte nei vasi, e con un gesto gentile e delicato, senz'altro
soggiungere, gliele andava gettando in grembo, tanto che la stoffa di un
bigio chiaro del vestito ne rimase coperta.

«Ho tardato, ho tardato assai,» mormorò ella, chinando il capo a quella
pioggia di fiori, «ma non ho potuto...»

E fece un gesto vago, di donna oppressa. Egli la pregò di cessare, con
lo sguardo e col cenno della mano: non lei aveva bisogno di
giustificazione innanzi a lui. Ed era così profonda la consolazione
della sua presenza in quella casa, così completa la felicità del suo
cuore, che nulla voleva la turbasse, nulla di amaro, nulla che sonasse
rimprovero. La dolce donna, vestita di un tenerissimo color bigio, con
una lieve piuma bianca sul cappello, con una velettina bianca sugli
occhi che ne aumentava la giovanilità della fisonomia, posava
compostamente, con le ginocchia coperte di rose, con una mano inguantata
di grigio, abbandonata in grembo, perduta fra le rose; l'altra manina
inguantata pendeva fuori del bracciuolo con le dita chiuse, come se
avessero lasciate sfuggire qualche cosa. Egli sedette là accanto,
sollevò lievemente quella manina inerte, la portò alle labbra, la baciò,
con un soffio; parve che non se ne accorgesse.

«È bello, qui,» disse lei, placidamente, come se si trovasse in visita
da un'amica, «è molto bello.»

«Mi sembrò udirvi dire che amavate Piazza di Spagna,» disse lui.

«È la strada che più amo, avete fatto bene a venir qui. Io non ho
potuto, mai: non ho trovato. Quella vecchia Roma, dove io abito, è così
triste, così triste! Per questo esco sempre: ogni volta che io esco, per
quanta fretta abbia, passo sempre per Piazza di Spagna.»

«Venite a star qui, in questa stanza,» disse lui, sorridendo, come se
scherzasse.

«Vorrei, se potessi,» rispose ella, con molta semplicità. «Ma non posso:
debbo restare laggiù, nell'ombra. Che sole che ci è qui! Sulla soglia
delle porticine si vendono dei fiori: anche qui, entrando, ne ho visti.
Pare che trabocchino dalle case. Mi pare che in questa piazza sieno
tutte case di felici: tanto sole, tanta primavera, tanta bellezza! Non
siete felice voi, amico?»

«Sì,» disse lui, profondamente.

«Iddio vi assista,» diss'ella a voce bassa, congiungendo le mani, come
se pregasse.

Acuto l'odore delle rose di maggio. Ella ne odorò una a lungo.

«E in fondo alla piazza, per contrasto a tanta chiarezza, ai bei palazzi
bianchi, alle ricche botteghe d'oggetti d'arte, quanto è mai strano quel
grande palazzo bigio, severissimo, su cui stanno scritte le parole:
_Propaganda Fide! — Propaganda Fide!_ non vi sembra che queste due
parole abbiano qualche cosa di vasto e di misterioso, che si allarghino
repentinamente per tutto il mondo? Io spero che voi siate credente,
amico.»

«Se voi credete, io credo, Angelica.»

«È così volgare essere atei! La religione è bella, è buona, vale molto
più di molte cose che il mondo apprezza. Siete mai stato in qualche
chiesa di Roma?»

«Ho visto le basiliche per curiosità di arte.»

«Sì, sì, sono grandi chiese vuote, non servono a nulla. Bisogna vedere
le piccole chiese di Roma, quelle che servono per pregare. Ve n'è una
quassù, la Trinità, dove cantano le monachelle, ogni domenica, dietro la
grata: che soavità di canto! Non le vedete, vi sembrano anime esalanti
il loro amore e il loro dolore. Ci andremo una volta insieme, dite,
nevvero?»

«Se voi volete, io ci verrò.»

«Io vorrei che pensaste quello che penso, amico mio: vorrei che sentiste
quello che sento. Non indovinate, forse?»

«Vi voglio tanto bene, indovinerò,» disse lui, con quella soffocazione
di voce che gli veniva quando le parlava del suo amore.

«Non dite questo,» ella mormorò arrossendo come una fanciulla, «avevate
promesso di non dirmelo.»

«È che, talvolta, ciò è più forte di me. Lasciatemelo dire, qualche
volta, Angelica: siate dolce, voi che siete la dolcezza. Io vi voglio
tanto bene, tanto bene, che me ne muoio. Sono solo, non amo altri, non
debbo amare altri, voglio bene a voi, Angelica.»

E vedendolo diventare rosso di passione, ella non gli disse più nulla,
ma leggermente, come l'ala di un uccello, come una foglia d'albero,
agitata dalla brezza, gli agitò la manina sul volto. Egli tacque, come
un fanciullo vergognoso, un po' sorridente, un po' imbronciato,
sentendosi rinfrescare il viso da quel soffio. Ella sorrise, con una
certa malizia ingenua, prima di fargli questa domanda:

«È vero che avete amato donna Elena Fiammanti?»

«No, mai.»

«Allora ella ha amato voi?»

«No, neppure.»

«Voi non mentite mai, mi pare?»

«Mai.»

«Eppure ella deve avervi amato, credo. Sembra una donna leggera,
volubile, ma deve avere il cuore molto buono, molto affettuoso. Io non
la vedo quasi mai, ella preferisce la compagnia degli uomini a quella
delle donne. Proprio mai le avete voluto bene?»

«Io non ho voluto bene a nessun'altra donna che a voi, Angelica.»

«Non parliamo d'amore, amico. Me lo avete promesso. Se io ne parlo, non
mi rispondete: lasciatemi dire, non m'interrompete. Io ho bisogno di
pensare ad alla voce, accanto a una persona che m'intenda, che abbia per
me dell'affetto, che mi compatisca. La pietà, anzitutto: voi sarete
pietoso per me, nevvero, amico?»

«Angelica, Angelica, non dite questo...»

«Perchè, vedete, io sono come una bimba, talvolta, io dimentico la mia
parte di donna grave, di persona seria. Io ridivento una creatura timida
e paurosa, superstiziosa, sognatrice, piena di stravaganze puerili, di
capricci inevitabili. Io sono serena, pel mondo, questo è il mio dovere,
questo è il mio obbligo: ma nell'ora bizzarra, nell'ora della tristezza
indefinibile, delle gioie impensate, che niuno sa spiegare, io ho
bisogno che qualcuno abbia pietà di me. Avrete voi pietà di me, amico?»

E quasi a pregarlo, giunse le mani, gli rivolse gli occhi supplicanti:
egli si chinò, un minuto, sulla fronte dolce e bianca, la baciò così
lievemente, che parve un soffio, ma con tanta amorosa pietà, con tanta
innocenza di amore, che ella, commossa, si mise a piangere
silenziosamente.

«Non piangete, Angelica,» diss'egli, dopo un poco, con una voce
tramutata, «non piangete.»

«Lasciatemi piangere, lasciatemi: mi fa piacere, è uno sfogo: a casa non
posso piangere mai. Ora.... ora non piangerò più, vedrete, mi passerà.»

Egli non insistette, parendogli di togliere un conforto alla povera
donna: ma le lagrime che le correvano per le guance gli procuravano un
grande spasimo, erano per lui un dolore acuto e un'acuta seduzione, lo
vincevano con la irresistibile voluttà dell'angoscia. Mentre ella
parlava, placida, sorridente, come se fosse nel proprio salotto o in
visita nel salotto di un'amica e non chiusa con un amante in una casa
recondita, dove nessuno sarebbe mai venuto a disturbarli, egli poteva
dominare il suo temperamento d'uomo, sino al punto di non chiederle
nulla, sino al punto di non parlarle di amore: ma quando ella, dopo aver
parlato del suo cuore ferito insanabilmente, dei suoi sogni perduti,
della sua giovinezza morta per sempre, piangeva, piangeva su questa
tomba, quando egli la sentiva singhiozzare lievemente, immota, come una
bambina che soffra, allora egli non poteva resistere alla tentazione di
prendersela nelle sue braccia, di tenersela stretta a sè, per sempre,
sino alla ultima ora.

Sangiorgio chinava il capo per non veder più quel viso solcato di
pianto, quel petto che si gonfiava e alenava, come quello di un
uccellino: ma stanca, ella si acchetò, lentamente, conservando ancora la
malinconia di chi ha pianto, il profumo delle lagrime. Guardava il
merletto del suo fazzoletto molle di lagrime e taceva.

«Perdono, amico,» disse, dopo, come se allora soltanto si ricordasse che
egli era là.

«Non lo dite... non sono io il vostro amico?»

«Ohimè, sono una triste amica, io,» soggiunse ella con un sorriso mesto:
«non vi allieterò certamente la vita. Val meglio perdermi che
guadagnarmi, ve lo assicuro.»

«Io vi amo così, io vi amo come siete, io vi amo per questo,» soggiunse
lui, con una certa violenza. Ella tacque un momento, guardando la
striscia di sole meridiano che attraversava la tendina di merletto di un
giallo antico e si distendeva sul tappeto, sino al mucchio di cuscini di
seta rossa che aspettavano una bella donna stanca. E un pensiero le
venne, ella si alzò di scatto:

«Vado via,» disse.

«No, no,» egli mormorò, smarrito, come se non si attendesse mai a quello
schianto.

«Debbo andare,» rispose ella, seria.

«Perchè?» chiese egli, infantilmente.

«Per questo,» ed era ritornata al sorriso, per la ingenuità della
domanda.

«Restate ancora, siete giunta adesso.»

«È un'ora, è già tardi, debbo andare.»

«Un altro poco, un altro pochino,» insisteva lui, nella puerilità del
suo amore.

«Non posso, ve lo assicuro, sono restata già troppo.»

«Che vi fa un altro pochino?»

«Nulla mi fa, ma a che serve? Un minuto di più, cinque minuti di più,
che vi fanno?»

«Non mi tormentate, Angelica, siate buona, concedetemi altri cinque
minuti.»

«Rimarrò, ma esigete troppo,» diss'ella, crollando il capo, come una
mamma che concede, sforzata, una chicca al fanciulletto che strepita.

E stettero fermi, presso la porta del salotto, una innanzi all'altro,
ella come annoiata e impaziente di andar via, egli come imbarazzato e
pentito di averla trattenuta. A un tratto un pensiero cattivo contrasse
il viso di Sangiorgio:

«È vero che non volete tornar più?»

«Tornerò, tornerò,» mormorò ella, facendo per uscire, parendole che già
fossero passati quegli eterni cinque minuti.

«Oh, non lo dite, voi non tornerete, non volete tornar più,» riprese
lui, tutto agitato, incapace di resistere a questa idea; «perchè
ingannarmi? Ora ve ne andate, ma non ritornerete più, lo so, qualcuno me
lo ha detto, dentro di me.»

«Ritornerò, ritornerò,» continuava a dire ella, con la sua voce dolce e
ferma che aveva il potere di calmarlo. E per dargli la tranquillità, lo
tenne per un momento sotto la freschezza del suo sorriso, sotto la
serenità del suo sguardo.

Egli si placava, mansuefatto.

«Promettetelo, allora, che ritornerete: potete promettermelo?»

«Ve lo prometto.»

«Per la cosa o per la persona che più vi interessano nel mondo?»

«Per la cosa o per la persona che più mi interessano nel mondo, ve lo
prometto.»

«Quando tornerete?»

«Questo non posso dirvelo: non posso venir sempre: quando potrò, verrò.»

«Sta a voi, Angelica, di tornar presto. Ma non potreste dirmi, così, un
giorno, un'ora?»

«A che serve? Vi duole l'aspettarmi? Non siete qui in casa vostra?»

«Sì, sì: ma ditemi almeno un giorno...»

«Non vi piace l'aspettarmi forse? Avvi alcuna cosa che vi piace di più?»

«Nessuna, Angelica, nessuna.»

«Ebbene?»

«Ebbene, se sapeste, per chi ha la dolcezza di aspettarvi, Angelica,
quale amarezza è il non conoscere nè il giorno, nè l'ora in cui
arriverete! Questo ignoto è un tormento, è un incubo, è una sofferenza
così grave, nel cuore, nel cervello, Angelica, che se la sapeste, vi
farebbe una grande pietà. Doveste anche ingannarmi o non potere, ditemi
un giorno!»

«Oggi è domenica,» ella disse, pensando, «nè domani, nè dopo domani, nè
mercoledì, il mio tempo è preso crudelmente. Verrò giovedì, sì, giovedì,
credo di poter venire giovedì.»

«Non prima?»

«Chissà! forse potrei, un minuto, in uno di questi tre giorni... ma
giovedì, sicuramente. A rivederci, amico.»

«Oh restate!...» egli gridò, trattenendola per la mano.

«È una fanciullaggine: a rivederci,» e fuggì per le scale, come
liberata.

Immediatamente egli sentì come mancarsi la vita: pareva che tutto il
sangue gli fosse andato via, per una ferita. Non dette neppure
un'occhiata al salotto dove erano stati, al posto dove si erano seduti
accanto: prese il cappello e scappò via, nella necessità di raggiungere
Angelica, nella folle speranza di raggiungerla. La piazza, piena di
sole, nel mezzogiorno, lo abbagliò: e istintivamente si buttò per via
dei Condotti. Ma non vedeva in niuna parte il bel vestito bigio e la
veletta bianca: a mezza strada tornò indietro, si mise a correre verso
Propaganda Fide, quel nome gli era rimasto, si perdette per S. Andrea
delle Fratte, la Mercede, San Silvestro, come istupidito, come colui che
ricerca con cura un oggetto, che sa sicuramente di avere smarrito.

Ma la cara figura parea si fosse dileguata nel sole, poichè dopo aver
battuto tutte le vie che circondano Piazza di Spagna, correndo, spronato
da una necessità invincibile, Sangiorgio non arrivò a ritrovarla.
Camminò ancora per un'ora, pel Babuino, per Due Macelli, Via Sistina,
villa Medici, il Pincio, in preda a una febbrilità che non gli faceva
sentire la stanchezza, lasciandosi vincere dall'idea folle che a
quell'ora donn'Angelica avesse avuto voglia di passeggiare, dopo di
essere stata un'ora con lui: si trovò in Piazza del Popolo, solo solo, a
un tratto calmato, con le gambe stanche, con la testa piena di
confusione. Doveva esser tardi, molto tardi; gli parea che fosse passata
una lunga giornata piena di avvenimenti, sentiva la stanchezza morale e
fisica delle grandi giornate della vita umana: cavò l'orologio. Era
appena l'una e mezzo: l'altra metà del giorno rimaneva innanzi a lui
vuota. Macchinalmente, pian piano, obbedendo a un antico istinto, si
avviò pel Corso, alla Camera, con un'aria annoiata, non guardando
neppure le belle romane borghesi che ritornavano dall'ultima messa, non
riconoscendo neppure qualcuno che lo salutava, in quel lieto polverio
luminoso della domenica di maggio. Andava al Parlamento, ma non sapeva
neppure se vi fosse seduta, era domenica: a ogni modo, andava lì per
rifugio, non sapendo dove buttare il suo corpo e il suo spirito. Gli
sembrava tutta nuova, tutta estranea la gente che incontrava, e come
egli la guardava, sorpreso di tante facce esotiche, pareva che anche
costoro lo guardassero sorpresi, non conoscendolo. In quell'ora, il
viavai dei deputati, intorno Montecitorio, era continuo, era un salire e
discendere di coppie d'amici, di gruppetti di uomini politici che
avevano fatto colazione insieme alle _Colonne_, al _Parlamento_, al
_Fagiano_, alle _Sorelle Venete_: Sangiorgio scambiava qua e là dei
saluti, come trasognato. Li vedeva discorrere, li udiva discutere:
passando accanto a loro, afferrava dei brani di discussione, ma non
intendeva nulla. Per fortuna, ci era seduta, quel giorno.

Sedette al suo posto abituale, ordinando per consuetudine fisica le
carte che aveva innanzi, udendo la voce del segretario Sangarzìa,
piccola ma sonora, leggere il processo verbale. Di che si trattava?
Questa voce gli sonava confusa nella mente, quelle parole gli sembrava
di averle udite altra volta, ma quando? Gli costava uno sforzo enorme il
raccapezzarsi: era come colui che, vissuto per un certo tempo in un
crescente esaltamento dei nervi, si abbandona poi a una stanchezza
profonda, nell'esaurimento di tutte le sue forze. Assisteva a quella
seduta, con la testa fra le mani, cercando di afferrare il suono e il
senso di tutto quello che vi si diceva, ma era troppo sfinito, un
torpore l'aveva invaso, aveva paura di addormentarsi. Uscì nei corridoi,
a fumare un sigaro. L'onorevole di Carimate, il simpatico signore
lombardo, presidente di una commissione agraria, gli corse incontro:

«Ebbene, Sangiorgio, e la relazione?»

«La relazione... già... quando si sarebbe dovuta presentarla?»

«Ma, una settimana fa: siamo in grave ritardo. Io vi ho cercato
dovunque, non avete avuto due miei biglietti?»

«No, nulla,» rispose egli, mentendo.

«E ieri, ci hanno attaccati! Ho dovuto rispondere io, come presidente.
Siete stato ammalato?»

«Molto ammalato.»

«Si vede. Curatevi, Sangiorgio. Non avreste per caso le febbri?»

«Credo.»

«Curatevi. E quando potremo essere pronti?»

«Non saprei... fra otto giorni, forse... Ve lo dirò.»

Egli rientrò nell'aula, avendo già scossa da sè la penosa impressione
della menzogna. Si parlava ancora, l'onorevole Bonora, un deputatino
nuovo e noioso che parlava di tutto, seccava la Camera. Il presidente,
dal suo seggio, fece un piccolo cenno amichevole a Sangiorgio: costui
scese e andò a stringergli la mano.

«Ammalato?» domandò il romagnolo, dai leali occhi bruni.

«Un poco.»

«Perchè non chiedere un congedo?»

«Lo chiederò: ne ho bisogno.»

E ritornò al suo posto, esausto. Una irritazione sorda cominciava a
nascere in lui. Erano le cinque, gli pareva di stare da un secolo in
quella Camera. Sandemetrio, il deputato abruzzese e Scalìa, il
siciliano, parlavano accanto di un duello fra un giornalista e un
deputato; chiesero il suo parere: egli fece vedere la sua indifferenza.

Tutte quelle voci alte o basse finirono per dargli un gran fastidio.
Aveva caldo, ora: si sentiva male, in quell'ambiente: vi soffriva, non
poteva più respirare. Uscì precipitosamente, prese una carrozza,
difilato si recò al suo quartierino di Piazza di Spagna. Ivi si buttò a
braccia aperte sulla poltrona dove Angelica si era seduta, appoggiata, e
vi pianse su tutte le sue lagrime.



VI.


Angelica mancava, quasi sempre, agli appuntamenti. Talvolta, alla sera,
offrendogli una tazza di thè, gli diceva, in fretta, sottovoce: «Domani,
alle due.»

«Certo?» domandava lui, già deluso varie volte.

«Certo: non ne dubitate.»

E avendo fede in quella parola, la notte, la mattina seguente, di quella
parola viveva.

Venivano le due: ella non veniva; egli cominciava per credere a un
ritardo, pazientava, non si levava dal suo posto, per andare sino al
balcone. Poi lo vinceva la incertezza: e infine, come calava la sera, in
quel soave mese di maggio, egli perdeva ogni speranza, si abbatteva in
un accasciamento.

Quando la rivedeva, bella, serena, rosea, senza una preoccupazione al
mondo, amabile con tutti, prodiga di amabilità, un grande rancore misto
di tenerezza, di rimpianto, gli si affondava nell'animo.

Giammai, giammai ella avrebbe saputo la misura del suo amore e delle sue
sofferenze. Ella non si scusava o lo faceva con una parolina vaga, detta
fuggendo, con una intonazione di voce, con un discorso fatto a un'altra
persona, dove raccontava le infinite noie della sua giornata — ed era
sempre un concerto, una conferenza, una visita agli asili, una funzione
pubblica, noiosa o inutile, che glielo avevano impedito.

Così, l'amarezza di Sangiorgio cresceva, vedendo quanto poco gli
appartenesse quell'anima, ma ella gli versava, in tutta la serata, la
dolcezza di certe occhiate velate, ella lo teneva sotto la lucentezza
blanda del suo sorriso, gli domandava un libro, o il suo ventaglio, o il
suo fazzoletto con tanta mitezza di voce, insomma ella era per lui così
femminilmente beatificante, che alla fine della serata egli era vinto:
nella sua debolezza, mentalmente, le chiedeva perdono di averle serbato
rancore.

Ma, ogni tanto, ella si rammentava del povero solitario che l'aspettava,
chiuso in una casa, in quella primavera crescente, che era così dolce
godere per le vie di Roma e per le sue ville e pei suoi colli fioriti.
Ella capitava a Piazza di Spagna, improvvisamente, in un'ora imprevista,
la mattina alle dieci, alle sette della sera, quando egli era per
uscire, non aspettandola più: una volta, con una di quelle lunghissime
piogge di maggio fra i primi lampi della elettricità estiva, elle venne.
Così, per il suo arrivo imprevisto, donn'Angelica dava sempre una scossa
profonda all'anima di Sangiorgio: egli non si poteva abituare a quelle
visite, fatte quando non aveva più speranza di riceverle, quando era
immerso nell'abbattimento della delusione o in quell'ebetismo che hanno
gli esseri assorbiti da un sol pensiero; la sazietà non arrivava per
lui, poichè ogni nuova apparizione di donn'Angelica gli sembrava una
grazia singolare, una gemma del suo tesoro spirituale. E quando ella
veniva, in quel primo minuto di consolazione, la fastidiosa, crucciante
piaga dell'aspettazione inutile si guariva miracolosamente, l'uomo
contristato, sofferente, ammalato, risorgeva, come Lazzaro evocato dalla
tomba dalla forte voce di Gesù.

Tutto preso dalla sua amorosa realtà, egli si scordava di quello che
aveva sofferto per la sua amorosa visione: e nel cospetto dell'amata,
egli non sapeva che adorarla, che inginocchiarsi innanzi a lei, baciarle
le mani, umilmente, ringraziandola d'essersi ricordata di lui, come il
cristiano che dopo un periodo di travagli, sopportati senza mormorare,
batte la fronte sulle pietre della chiesa per una piccola grazia
ottenuta. E donn'Angelica rimaneva al posto dove l'amore di Sangiorgio
l'aveva elevata, dove ella sapeva restare con la sua forza di
temperamento e di carattere, una nicchia alta e solinga, inarrivabile,
inattaccabile, tabernacolo di virtù e di purità, donde ella poteva
degnarsi di abbassare gli occhi su colui che l'amava, poteva
sorridergli, tendergli le mani, lasciarsi baciare l'orlo dell'abito,
divinità pietosa, senza che però nessuna di queste degnazioni le
offuscassero menomamente l'aureola, senza che la pietà arrivasse mai a
umanizzarla, a femminizzarla. Quanto veniva da lei, era una grazia;
dalle sue mani piovevano rose; ella portava con sè la felicità. Niente
altro ella doveva fare che esistere, apparire, sorridere, scomparire:
questo ella faceva.

Sicchè la personalità di Sangiorgio sempre più scompariva. Angelica non
si occupava di quello che egli avesse pensato o sentito o sofferto,
mentre ella non era venuta; non gli chiedeva nulla di lui, delle sue
ore, delle sue occupazioni, dei suoi desiderii; non aveva nessuna
curiosità di conoscerlo. Gli dava del _voi_, era questa la sola
familiarità; lo chiamava Sangiorgio, poichè quel nome di Francesco era
troppo volgare, troppo antipatico: e lui che sentiva questa volgarità e
quest'antipatia, se ne doleva, ma non osava pregarla di chiamarlo per
nome.

Seduta accanto a lui, guardando la grande croce di velluto nero che
tagliava la stoffa di broccato giallo, con una vivacità e nello stesso
tempo con una cupezza di tinta passionale, ella si piaceva di parlargli,
lungamente, lungamente, vedendo l'estasi con cui egli l'ascoltava.
Angelica obbediva a quel continuo bisogno di espansione che hanno le
donne, per le piccole e per le grandi cose; a quella necessità di sfogo,
che butta tante donne sui gradini di un confessionale, che crea tante
amicizie fittizie con altre donne, che fa loro ricercare un confidente
anche in un uomo, nulla curandosi dell'effetto di queste confidenze.

Quanto ella aveva da dire, ella ridotta a un continuo silenzio, dalle
preoccupazioni politiche, dall'età, dal natural carattere ironico di don
Silvio! Quanto ella aveva da dire, ella a cui la posizione di suo marito
proibiva di legarsi in amicizia con nessuna donna del suo mondo! Ed
ecco, ella aveva trovato un confidente, il migliore dei confidenti,
sempre felice di ascoltarla, sempre pronto a darle ragione, sempre
disposto a compatirla, sempre disposto ad ammirarla, sentendo nelle sue
parole il suono e il motto, il senso aperto e la intenzione, quello che
essa diceva e quello che essa pensava; egli era l'interprete migliore,
quello che le donne cercano, l'uomo che tutto vuol sapere, la cui
curiosità è insaziabile, che intende tutto, che è indulgente per tutti i
piccoli torti, che trasforma e glorifica le più piccole virtù, che fa di
una parola una poesia, di una frase una emozione e di una bontà un
eroismo, — l'uomo che ama.

Seduta accanto a lui, nella pace di quel salotto profumato di fiori, fra
i molli colori e le pieghe ricche, profonde, persuaditrici d'intimità
delle stoffe, fra quella bizzarra intonazione di oggetti esotici,
perduti gli occhi in un punto luminoso, d'oro, di un tessuto, ella gli
parlava di sè, del suo cuore, delle ineffabili tristezze che niuno
doveva sapere, che _lui_ sapeva, delle piccole gioie spirituali, i brevi
godimenti che si narrano solo a sè stessi o alla più intima persona.

La delusione di Angelica, dopo il matrimonio, non era stata improvvisa,
ma graduale, continua, discendendo ogni giorno di più, per una via di
piccole amarezze, sino alla indifferenza e alla solitudine; le oneste
speranze di felicità coniugale, i bei sogni puri di amore lungo e
tranquillo, la fiducia di un'anima leale, si erano frantumati,
sgretolati, miseramente, contro la grande, ardente, egoistica passione
di don Silvio: la politica. Non era la catastrofe di un minuto solo, la
immensa catastrofe che atterra, ma da cui si solleva, per forza
naturale, l'anima forte: era lo stillicidio quotidiano che scava, che
scava, che fa solco, che consuma finanche la durezza e la freddezza
della pietra.

Molto aveva da narrare donn'Angelica, per fare la storia della sua
vedovanza spirituale: e la lagnanza, infinita, variava musicalmente su
tutti i toni della malinconia.

Non accusava apertamente, ella, no: non una parola di violenza,
d'ingiuria, le usciva dalle labbra: ma tutto quello che diceva era una
recriminazione dolente e semplice, era la storia di una oppressione
crescente e schiacciante, raccontata con una grande delicatezza di
parole, ma con un senso interminabile di mestizia.

Egli ascoltava, Sangiorgio: e vedendola immersa in quella storia, così
presa da quella che era stata la lenta sciagura del cuore, non aveva il
coraggio d'interromperla mai, non osava neppure dirle quanto l'avrebbe
adorata, se il destino gli avesse concesso il supremo bene di averla per
moglie.

Avidamente, egli raccoglieva, da quelle labbra adorate, i dettagli,
minutissimi, di quelle piccole angosce quotidiane, fremendo a ognuna di
esse, sentendo quello che essa aveva sentito: egli s'impregnava di
quella storia, che quasi quasi diventava la sua, dove sempre più si
perdeva la sua individualità: quando ella, eccitata dai propri racconti,
vedendo il pallore e la emozione di colui che l'ascoltava, arrossiva e a
stento frenava le lagrime, egli provava, per ripercussione, la stessa
sensazione.

Più in là di lei, egli andava in un solo sentimento: donn'Angelica non
odiava don Silvio, ella non sapeva odiare, ma era uscita per sempre dal
suo cuore, ella non poteva amarlo, poichè egli non aveva saputo amarla,
ella non poteva rispettarlo, poichè a troppe transazioni, a troppe viltà
costringe la passione politica, — ma non l'odiava, no, gli era
indifferente. E diceva questa piccola frase della indifferenza con tanto
distacco freddo, con una così glaciale semplicità, che Sangiorgio ne
rabbrividiva di paura, pensando che forse quella frase che uccide si
potesse applicare a lui.

Ma egli andava più innanzi di Angelica, egli era uomo e odiava don
Silvio, come tutti coloro che amano veramente. Egli lo odiava
cordialmente, in tutte le forme, materiali e morali, come un nemico e
come un uomo cattivo, come un rivale fortunato e come un essere
spregevole, lo odiava al punto da desiderarlo vinto, avvilito,
insultato, disonorato, morto. Egli gli aveva presa donn'Angelica: egli
ne aveva inaridita l'anima, l'aveva resa delusa e incapace di nuove
illusioni, infelice e diffidente della felicità, non l'aveva amata e le
aveva tolta la facoltà di amare; egli, egli aveva ancora in suo potere
Angelica. E Sangiorgio odiava don Silvio, questo marito, con la collera,
la gelosia, il disprezzo e la ingiustizia dell'amante che ama veramente.

       *       *       *       *       *

Ma non solo questo narrava donn'Angelica, in quelle visite a Piazza di
Spagna: con quella ingenuità infantile delle donne che ignorano il
peccato, con quella incosciente, ma pericolosa lealtà che rassomiglia
tanto alla provocazione e alla civetteria, ella si abbandonava a quelle
confidenze picciolette di sensazioni, di usi, di consuetudini, di gusti
che formano la base della vita femminile.

Sangiorgio conosceva, ora, minutamente, tutta la giornata di
donn'Angelica: a tutte le ore, chiudendo gli occhi, egli si poteva
figurare quello che facesse, tante volte ella gli aveva narrato le
occupazioni predilette.

Malgrado andasse tardi a letto, ella si alzava presto la mattina, per
abitudine giovanile di settentrionale che mai aveva potuto smettere:
niuno entrava in camera sua, neppure la cameriera. Angelica ci teneva
che nessuno penetrasse nel suo nido dove ella aveva pensato, sognato,
dormito, nella notte: non gli pareva a lui, Sangiorgio, che la stanza da
letto fosse un sacrario, dove nessun profano dovesse penetrare? — Sì,
gli pareva bene, ella faceva benissimo, — rispondeva lui, turbato assai,
con un calore che gli mordeva lo stomaco. Donn'Angelica non si lasciava
pettinare e vestire dalla cameriera che quando andava ai balli: ella
odiava quelle mani servili affaccendate attorno al suo corpo; quel
chiacchiericcio volgare, quel contatto delle dita coi suoi capelli, le
urtavano i nervi, la disgustavano: per molto tempo, da giovanetta,
dandole fastidio, nel pettinarsi, la lunghezza delle trecce, ella le
aveva fatte tagliare, portando i capelli corti, la zazzerina riccia e
bruna di un'adolescente.

Un giorno, mentre parlava di ciò, sottovoce, come in sogno, Sangiorgio
la pregò umilmente di sciogliersi i capelli, non ne aveva mai vista la
lunghezza: ella disse di no, semplicemente, non avrebbe mai avuto tempo
di riacconciarseli, ci voleva un'ora. Egli la pregò di nuovo, invano:
glielo promise per un altro giorno, quando avesse avuto più tempo da
restare.

Dopo l'acconciatura, donn'Angelica passava un paio d'ore nel suo
salottino, accanto alla sua stanza, leggendo, suonando, scrivendo,
sempre sola.

Ella rispondeva alle sue amiche di lassù, alle persone che le dirigevano
delle suppliche, alle raccomandazioni: ella scriveva rapidamente, sempre
sulla carta bianca, senza emblemi, senza motto, senza cifra: tutto
questo, che le altre donne prediligevano, le sembrava una chincaglieria,
una volgarità.

Egli la pregò, un giorno, di scrivergli qualche cosa sopra una carta, un
rigo solo; non aveva mai avuta una parola scritta da lei: ed ella lo
avrebbe fatto, forse, ma Sangiorgio girò inutilmente pel quartierino,
non trovò nè un calamaio, nè una penna, nè un foglio di carta, — in
quella casa destinata all'amore, logicamente, mancavano le cose
destinate allo studio, agli affari, a tutto quello che non è l'amore.

Ella osservò, sorridendo, che egli non scriveva mai dunque? No, non
scriveva mai, amava soltanto: e Angelica, sempre sorridendo, gli fece
cenno di tacere, non voleva udir parlare di questo, non sarebbe più
tornata, se continuava.

E le adorabili, provocatrici confidenze continuavano: alle undici e
mezzo don Silvio e donna Angelica si ritrovavano per la colazione.

Ella aveva sempre molta fame, la mattina; come tutte le persone sane e
giovani ella avrebbe amato di stare con un essere giovane e allegro come
lei, chiacchierando, ridendo, in quell'ora lieta del giorno: ma don
Silvio era sempre livido, in quell'ora, di collera o di noia mattutina,
non aveva mai fame, la febbre della politica gli rodeva il fegato e lo
stomaco, e sempre leggeva giornali, lettere, scriveva a tavola, come nel
suo salone di palazzo Braschi, come alla Camera, come dappertutto.

Oh, ella preferiva alla compagnia di quel magro, vecchio, ostinato
divoratore di giornali, di lettere, di telegrammi, che lasciava
raffreddare sul piatto la sua costoletta, che dimenticava di mangiare le
frutta, nel primo accesso giornaliero del suo morbo, ella preferiva la
solitudine, col sole che si allungava sulla tovaglia, col suono di un
pianoforte poco lontano, col ronzìo di qualche moscone nel meriggio che
si faceva caldo. E presa da un capriccio bizzarro di donna virtuosa,
ella proponeva a Sangiorgio di andare, una mattina, presto, col sole, in
campagna, in una di quelle piccole osterie, dalla terrazza coperta di un
pergolato, dove la vite si arrampica, a far colazione insieme, come due
scolari che hanno marinata la scuola.

«Ma perchè mi tormentate, perchè mi dite questo?» le chiedeva lui, con
un dolcissimo rimprovero.

«Vi tormento io?...»

«Voi non ci verreste mai...»

«Ci verrò, ci verrò...» mormorava lei, vagamente, sorridendo ancora al
suo sogno infantile.

Dopo colazione, alle due, donn'Angelica cominciava la sua vita di
ministressa, di donna che si deve al pubblico, le corse pei magazzini,
le compre: ella amava i vestiti semplici, il nero era il colore che
preferiva. Anche lui, Sangiorgio, preferiva il nero, così l'aveva vista
vestita la prima volta, alla stazione, il giorno in cui era arrivato a
Roma.

Poi venivano: tutta la parte femminile della politica, le visite fatte e
ricevute, le commissioni di patronato, le associazioni di carità, i
concerti di beneficenza, i ricevimenti diplomatici, le inaugurazioni, le
conferenze, le premiazioni, tutta questa roba noiosa, lunga, senza
causa, esteriore, vernice lucidissima sopra il cartone, ossequio fatto a
Sua Eccellenza, nulla per sè, nulla per lo spirito: ella odiava tutto
questo; oh, come sarebbe stata felice di essere la moglie di un uomo
tranquillo, intelligente, che la febbre della politica non divorasse, a
cui il potere sembrasse una ignobile burletta, a cui l'esser ministro
paresse quello che è, il passaggio da giudice a imputato, il banco dei
colpevoli!

«Moglie vostra, Sangiorgio,» soggiunse.

«Oh Angelica!...» disse lui con un accento singolare.

Ma ella non intese nulla. Gli rivelava tutta la sua vita, gli diceva
tutto. Sangiorgio la conosceva: ma ella non conosceva Sangiorgio.

       *       *       *       *       *

E un mutamento avveniva in ambedue. Angelica si assuefaceva oramai a
queste visite, essa veniva spesso, disinvolta, come se capitasse a un
ritrovo di amiche: neppure un'ombra di emozione, neppure il minimo
imbarazzo. Sangiorgio ne interrogava il viso, ogni volta: era sereno,
senza che lo turbasse nè paura nè vergogna.

Veniva, si sedeva, come in una casa qualunque, non un palpito nella
voce, non un tremito nella mano, nulla della donna che commette
un'azione furtiva, nulla che indicasse l'inganno fatto. Oramai ella non
trovava più difficoltà a venire, le pareva una cosa semplice, naturale;
capitava sempre, fra due visite, usciva dalla Camera, andava
dall'ambasciatrice di Russia, era venuta per un momento, un momento
solo, prima di salire all'ambasciata; capitava fra due affari, uscendo
dalla sua sarta che era in Piazza di Spagna, per andare da Janetti a
comperare un oggetto e veniva a chiedere il consiglio di Sangiorgio
sopra un vestito, sopra uno scrignetto del Rinascimento. Una volta,
crudelmente, comparendo, gli disse:

«Son passata di qui, per caso; ho pensato che forse eravate in casa,
sono salita...»

Un'altra volta egli era dietro ai vetri, guardando nella piazza, temendo
di aprire per non farsi riconoscere, soffrendo del caldo: ella passava
per la piazza, col suo bel passo ritmico, guardando le botteghe e i
viandanti. Egli trabalzò, avrebbe voluto chiamarla, gridare, per farla
venir su, ma non ne ebbe il coraggio, gli mancò la voce: ella se ne
andava, se ne andava, senza voltarsi: a un certo punto, ella parve
ricordarsi, si voltò, dette un'occhiata a quei balconi del primo piano,
vide dietro i vetri quella faccia pallida e ardente, sorrise, tornò
indietro, salì su, come quando si va da un'amica, che si è vista sul
balcone, — crudelmente, crudelmente. Quei convegni con un uomo che
l'amava, in una casa appartata, in un salotto dove nessuno poteva
penetrare, non avevano per lei nessun sapore di colpa, di tradimento.

Erano un'abitudine. Gli stringeva la mano come se lo incontrasse in una
passeggiata; si faceva riabottonare il guanto, come in una festa da
ballo; lo guardava francamente, negli occhi, come quando egli era nel
salotto dell'Apollinare; gli parlava di cose profonde o di cose frivole,
egualmente, come capitava; gli dava da leggere le lettere che si trovava
in tasca; lo consultava sugli affari di famiglia; si era familiarizzata,
come da amico ad amico, senza parlar mai più dell'amore, senza pensarvi
più, con una franchezza ingenua e feroce.

Non così Sangiorgio. Quella familiarità continua, quelle confidenze
intime, quei colloqui solitari, in una stanzetta calda, con la bella
signora del suo cuore, quella mano che ella gli lasciava baciare, quel
braccio che si appoggiava così mollemente sul suo, quei capelli
ondulanti sulla fronte che ella gli lasciava accarezzare; tutta questa
umanità muliebre penetrava nel suo sangue e nei suoi nervi, rievocandone
la forza e la gioventù.

Era un uomo, infine: e quando quel viso adorato si piegava sul suo,
vicinissimo, per dirgli qualche cosa; quando sentiva l'odore di quei
capelli salirgli al cervello; quando quel corpo sottile si arrovesciava
sulla poltroncina sotto l'impeto di un singhiozzo, o per la scossa di
una fresca risata; quando quella fronte bianca s'inchinava sotto il peso
di una preoccupazione, — egli era lì lì per prendere Angelica nelle
braccia, dolcemente, furiosamente, ma tenacemente.

Troppo la divina immagine era diventata buona, familiare, amichevole,
perchè egli non sentisse la donna in lei, con tutte le sue attrazioni,
con tutte le sue seduzioni; troppo vivevano insieme, soli, sicuri,
perchè egli restasse sempre il cristiano che adora passivamente; troppo
era vero e grande l'amore suo, perchè non mirasse, finalmente, ad avere,
tutta sua, quella donna.

Invano egli voleva scacciare quella tentazione, richiamandosi all'anima
i primi dolci tempi purissimi, quando l'amore fluttuava nei campi
dell'idea e del sentimento: che anzi, troppo grande essendo stata la
dedizione, ecco, adesso era impossibile levarsi Angelica dal sangue e
dai nervi.

Invano, invano: l'assorbimento dell'anima, assoluto, buddistico, di
cinque mesi, aveva portato con sè anche l'assorbimento di un solo
desiderio; il temperamento robusto, sobrio, semplice, invano usciva da
quella contemplazione spirituale, non sapendo volere altro. Ed erano
lotte quotidiane per non far leggere la verità ad Angelica negli occhi
desiosi, per non farle intendere il tremito delle labbra desiose, per
impedire alle braccia desiose di stringerla in un abbracciamento. Era
uomo, infine: e combatteva con la disperazione interna tanto della
vittoria quanto della sconfitta. La dolce donna gli sorrideva, accostava
il suo viso a quello di lui, gli parlava sottovoce, inconscia, crudele e
innocente: egli soffocava, chiudeva gli occhi, come se si sentisse
perduto. Aveva promesso, aveva promesso: ma ella, perchè non intendeva?
Ma non era donna dunque? Ma perchè giocare con quel cimento? Aveva
promesso: ma era un uomo, non poteva durare a quella lotta. Come non
capiva Angelica? Non avrebbe mai capito? Fino a quando sarebbe durata
quella croce? Ecco, il tormento era superiore alle sue forze, tenerla
accanto, bella, giovine, amata, nel silenzio, nella solitudine, — non
poteva no, mancare alla sua promessa, ma glielo avrebbe detto, gli
risparmiasse questo calice, lo abbandonasse, non venisse più...

Era un giorno di giugno, quand'ella, parlando di un'acconciatura di
capelli, si ricordò di avergli promesso di fargli vedere disciolti i
suoi.

«No, no,» mormorò lui.

«E perchè?» chiese ella, ingenuamente.

«Mi farebbe male.»

«Male?»

Nulla egli rispose: ella ridendo si tolse il cappello, cavò via tre
forcinelle bionde, il pettine di bionda tartaruga e scosse i bruni
capelli per le spalle, ridendo ancora, come una bimba che fa un giuoco.

«Come son belli, come son belli!» diceva egli con voce semispenta,
pigliandone ogni tanto una ciocca, e baciandola.

«Si può entrare in camera vostra, per acconciarsi?» diss'ella, balzando
in piedi, tutta rosea e fresca sotto quel manto.

Non era mai entrata lì dentro, non ne aveva mostrata la curiosità: ma
ora non aveva neppure aspettata la risposta, era già entrata, familiare,
confidente, senza sospetto. Pure era rimasta colpita innanzi a
quell'azzurro listato di argento, così serio e così amoroso nel medesimo
tempo. Si passava fra i capelli il pettine biondo, macchinalmente, senza
guardarsi nello specchio _Pompadour_, come se pensasse a tante cose mai
pensate. Accanto a lei, Sangiorgio non parlava. Poi, ella chinò un
minuto gli occhi sulla coltre di velluto azzurro, vide la lettera
maiuscola che vi era ricamata, vide quell'audacia e diede un leggiero
grido di angoscia: guardò negli occhi di Sangiorgio e la verità le fu
palese. Muta, raccolse i capelli sulla nuca, uscì di camera, rimise il
cappello, prese i guanti, uscì senza volgersi indietro.



VII.


Sotto il portone di Montecitorio, Francesco Sangiorgio s'indugiava,
mentre dietro a lui gli uscieri avevano man mano spento il gas della
biblioteca, delle sale di lettura e di scrittura, degli uffici: egli
guardava il cielo stellato estivo e la piazza, non sapendo decidersi a
ritornare in casa. Un'alta figura magra, venendo dagli Orfanelli, gli si
accostò, traendosi di bocca il sigaro, piegando un po' le spalle:

«Buona sera, Sangiorgio,» gli disse. «Siete libero?»

«Buona sera, don Silvio. Libero.».

«Ho da dirvi qualche cosa.»

«Andiamo al ministero, allora?»

«No, no, non al ministero.»

«... A casa vostra?»

«Neppure. Preferisco venir da voi, Sangiorgio,» ribattè il ministro,
brevemente, rialzando il capo.

«A piacer vostro,» rispose Sangiorgio, con lo stesso tono di voce,
avendo inteso tutto. «Andiamo.»

Si avviarono per Piazza Colonna, taciturni, fumando i loro sigari,
guardando le loro ombre che si disegnavano in terra, in quella notte
lunare. All'angolo di Via Cacciobove, Sangiorgio volle voltare.

«Di qua?» domandò don Silvio, con un dubbio.

«Già.»

«Non abitate voi, Sangiorgio, in Piazza di Spagna, numero 62?»

«Avete ragione, don Silvio,» soggiunse ancora Sangiorgio, con freddezza.

Camminarono pel Corso, sempre senza parlarsi, incontrando quelli che
uscivano dai teatri estivi, il Quirino, il Corea, l'Alhambra, e che
malgrado la notte, riconoscendo l'alta statura del vecchio ministro, se
lo indicavano, sottovoce, voltandosi ancora a guardarlo, pigliando
Sangiorgio per un segretario, per un impiegato. Andavano lenti lenti. A
Via Condotti non incontrarono più nessuno: nessuno a Piazza di Spagna.
Il portoncino numero 62 era chiuso, ma Sangiorgio aveva la chiave,
sebbene non ci fosse mai venuto di notte: per le scale oscure egli
accese un fiammifero, don Silvio veniva di dietro, sempre fumando.
Nell'anticamera l'antica lampada a olio, perpetua, gettava delle ombre
tragiche sul nero cofano di nozze, di legno scolpito, sulle sedie dalla
spalliera alta; nel salotto dove mai lume era stato acceso, Sangiorgio
si trovò imbarazzato, girava col fiammifero in mano, non sapendo come
far la luce; alla fine trovò un sottile candeliere di bronzo, pompeiano,
in cui tre candele rosee erano infitte, e le accese. Si sedette,
dirimpetto a don Silvio, già seduto; costui aveva buttato il sigaro sul
pianerottolo, lasciato il cappello in anticamera e teneva il capo
abbassato sul petto: di nuovo, la lente pendeva sul soprabito, don
Silvio era in uno dei suoi momenti di raccoglimento.

«Io aspetto, don Silvio,» disse Sangiorgio, frenando a stento
l'impazienza della sua voce.

«Pensavo, Sangiorgio,» cominciò quietamente il ministro, «quanto il
desiderio di ammazzarmi debba essere violento in voi.»

«Molto violento.»

«Da oggi, poi, deve essere irresistibile.»

«Irresistibile.»

«Avete torto, Sangiorgio,» soggiunse don Silvio, con molta dolcezza.
«Perchè mi uccidereste? Sono vecchio, vecchio assai: quello che voi non
farete, farà naturalmente la morte.»

«Don Silvio!...» gridò l'altro, colpito improvvisamente.

«È così: ho settantadue anni, ma ho vissuto la vita di tre uomini. Sono
stanco e rifinito, dentro, come nessuno s'immagina. Cadrò,
quandochessia, di un colpo solo. Mi potreste esser figlio, Sangiorgio:
non vorreste uccidere vostro padre, voi, per raccoglierne l'eredità.»

«Don Silvio, don Silvio, non dite!...»

«Lasciatemi dire. Per questo non ci batteremo insieme, quantunque in me
fosse forte il diritto di farlo e in voi grande il desiderio. Eppoi,
saremmo ridicoli: io, così presso alla tomba, pretendendo aver
risentimenti e passioni da giovanotto: voi così giovane, non avendo la
pazienza di aspettare. Ridicoli, mai. Capisco la tragedia, in simili
cose, quando vi è l'amore e la gioventù: non capisco la farsa. Meglio il
disonore che la burletta, Sangiorgio.»

«È vero, è vero.»

«Eppoi... vi è Angelica...» soggiunse il vecchio marito pronunziando
quel nome con una infinita soavità.

Fu un silenzio prolungato, in quel piccoletto tempio dove la dea,
assente, regnava sempre, invisibile.

«Angelica è buona, non deve soffrire. Quando oggi ella si è buttata
nelle mie braccia, tremante di paura, scongiurandomi di salvarla — e non
tremate voi di gelosia, Sangiorgio, ella è una figliuola per me, — io
che sapeva tutto il suo segreto, l'ho lasciata dire, poichè quel pianto,
quei singhiozzi, quella disperazione erano lo scoppio della sua
rettitudine, erano lo spettacolo di una coscienza che si ribellava
contro il male.»

«Voi sapevate il suo segreto, tutto?»

«Sì, dal primo giorno. Ella non rammentava bene se fosse venuta qui, la
prima volta, il due o il tre maggio, ma io sapevo bene che era venuta
una domenica, due maggio; ella mi ha confessato di esser venuta qui una
quindicina di volte, ma io sapevo meglio di lei che erano diciotto le
volte che ci era venuta: sono ministro dell'interno. Ma non le ho fatto
rimproveri, come non ne faccio a voi. Voi avete ragione di amarvi.»

Sangiorgio alzò il capo umiliato per guardare negli occhi il vecchio
marito malinconico.

«Naturalmente,» riprese costui. «Angelica è bella, è giovane, è
intelligente, avrebbe bisogno di una persona giovane, come lei, tutta a
lei dedicata, che la sapesse apprezzare in tutte le sue belle e buone
qualità, che vivesse con lei la vita in comune, la vita dello spirito e
del cuore: invece ha un vecchio inaridito, scettico, distrutto, che ha
una vecchia e ardente passione da alimentare, l'ambizione, la passione
esigente, concentrata, rabbiosa di quelli che hanno passato i
quarant'anni.

«È naturale che Angelica preferisca voi a me: voi stesso, che volete e
sapete ancora amare, che non avete ambizione, che non conoscete ancora
questa febbre dell'anima che mai non si cheta, che avete il cuore pieno
di fiducia e la fantasia piena di entusiasmo, voi preferite a tutto
questa dolcissima ebbrezza dell'amore. Chi vi darà mai torto? Siete voi
i più saggi, noi siamo i pazzi, noi meritiamo di essere burlati e
ingannati, noi combattiamo per una illusione volgare, voi per una divina
realtà! Io non posso rimproverarvi.»

Sangiorgio ascoltava, con la faccia fra le mani, senza rispondere.

«E poi...» riprese don Silvio, come se parlasse a sè stesso, «l'uomo,
questa gran cosa, questa potenza, questa forza, questo complesso di
forze, ha una legge che ne limita gli sforzi. Farai questo e non altro,
dice questa legge, se non vuoi riuscire mediocre, inefficace in ambedue.
Una sola passione potrai nutrire, forte, intensa, profonda: un solo
ideale potrai desiderare, alto, lontano, inafferrabile; e la tua anima
si dovrà consacrare tutta a questa unica passione, nulla te ne dovrà
distrarre, e la tua volontà si dovrà intieramente concentrare nel
desiderio dell'unico ideale, se vuoi raggiungerlo. L'amore, l'arte, la
politica, la scienza, queste grandi efficienze umane, queste altissime
forme di passione e d'ideale, vanno ognuna per sè, solitarie, tanto
vaste che appena appena il misero spirito di un uomo può abbracciarne
una sola. Non si è scienziato ed artista, non si è uomo politico ed
amante, ammeno di non essere mediocre nelle due cose che si vogliono
fare. Bisogna scegliere: le grandi forme umane dello spirito e del cuore
sono egoistiche e chieggono grandi sacrifizi...»

       *       *       *       *       *

«Qual'è il desiderio di donn'Angelica?» chiese brevemente Sangiorgio,
riscotendosi dalla lunga meditazione in cui era stato immerso.

«Che voi partiate da Roma, Sangiorgio,» rispose don Silvio.

«Partirò. Per molto tempo?»

«Pel maggior tempo che vi è possibile.»

«Darò le mie dimissioni. Potrò rivedere donn'Angelica? Non ho in questo
momento neppure l'ombra del cattivo pensiero, domandando ciò.»

«Ella desidera non vedervi.»

«Bene. Le potrò scrivere, almeno?»

«Ella vi prega di risparmiarla: intenderete il suo riserbo.»

«Ditemi, Don Silvio, in nome di Dio, per questa ora che è la più dura
della mia vita, non siete voi che la costringete a tutto questo? È ella
libera?»

«Ve lo giuro, figliuol mio, ella è libera,» disse dolcemente don Silvio,
«a nulla la costrinsi. Voi potete vederla, se volete non mi opporrò. Ma
sarà meglio per voi non vederla,» soggiunse, con profondità.

«Soffre ella?»

«Ha sofferto.»

«Che dice ella di me?»

«Conta sul vostro amore.»

«Bene. Ditele che parto, che non ritorno più. Addio, don Silvio.»

«Addio, Sangiorgio.»

E sulla porta della strada, nella notte, si licenziarono.

«Sentite, ancora, don Silvio. Sapevate che amavo donn'Angelica, che ella
veniva da me e non temeste nulla?»

«Io conosco donn'Angelica,» rispose don Silvio, con un accento profondo,
allontanandosi.

Francesco Sangiorgio intese: come don Silvio, ora, egli conosceva
donn'Angelica, la donna che non sapeva amare.

       *       *       *       *       *

Era scivolato, durante la seduta, negli appartamenti del presidente, non
volendo lasciarsi vedere. Di là gli aveva scritto un biglietto, offrendo
le sue dimissioni, per motivi di salute; un biglietto secco secco, senza
nessuna spiegazione. Nel consegnare la lettera all'usciere, un gran
tumulto era accaduto nei suoi nervi, un fiotto di sangue parea lo
soffocasse: dopo averlo visto scomparire dietro la porta, egli si era
rovesciato sulla poltrona di raso giallo, invecchiato, affralito, come
se uscisse da una malattia di dieci anni. Aspettava, aspettava, non
osando muoversi, non osando girare in quella Camera donde egli, in quel
giorno, volontariamente si esiliava: temeva di farsi vedere, come un
colpevole, temeva d'intenerirsi, temeva di buttarsi per terra a piangere
su tutto quello che moriva in lui in quel giorno. L'usciere ritornò, con
un biglietto del presidente: la Camera, come si usa, a richiesta
dell'on. Melillo, gli accordava un congedo di tre mesi. Ma non capivano,
dunque, che voleva andarsene? L'agonia, dunque, doveva ricominciare?
Dovette scrivere di nuovo al presidente: assolutamente, era ammalato,
non poteva più fare il deputato. Ora passeggiava su e giù, nel salotto
presidenziale, come un leone in gabbia: e ogni volta che arrivava presso
la stanza da letto, un senso d'invidia lo afferrava.

Lì dietro, sopra un lettuccio, dove era stato trasportato, colpito da un
morbo improvviso mentre discuteva alla Camera, aveva agonizzato un
atleta giovane e audace della finanza; lì aveva avuto il supremo bene di
poter morire, come un soldato sul campo di battaglia: e Sangiorgio
invidiava questo morto. L'usciere ritornò: la Camera accettava le
dimissioni, vista l'insistenza; — il presidente aggiungeva qualche
amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed
era finito. Macchinalmente Sangiorgio cercò la medaglina, il suo
orgoglio, il suo amuleto, e fra le mani gli parve erosa, assottigliata,
come se l'avesse consumata un fuoco. E uscì di là, lentamente,
resistendo al forte desiderio di guardare un'altra volta le sale, i
corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la _buvette_, i saloni degli
uffici; uscì senza rivederli, avendo paura d'incontrare troppi deputati,
di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani — e lo
sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato, gli diceva
_addio_, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi, senza vergogna, come un
fanciullo a cui è stata chiusa la porta della casa paterna. Meglio
andarsene, come un indifferente, come un cattivo servo che non si
ringrazia e non si saluta, che non vuol ringraziare e non saluta.

A un tratto, sulla piazza di Montecitorio, sentì come un vuoto profondo
in sè, attorno a sè. Gli pareva di non aver più nulla da fare, di non
dover andare più in nessun posto, di non dover più vedere nessuno: tutte
le cose, le persone, i fatti avevano subìto come una scolorazione. Non
voleva nè camminare, nè mangiare, nè parlare, nè pensare, tutto gli
sembrava inutile, tutto: istintivamente si recò all'Angelo Custode, nel
vecchio quartierino dove l'estate accumulava tanta polvere, e al
nauseante odore dei bacherozzi univa tutti gli altri cattivi odori che
venivano dal cortiletto; là si buttò sul letto, bocconi, con la faccia
morta nei cuscini, con le mani abbandonate, nella inerzia mortale. Non
aveva cercato di rivedere Angelica: a che sarebbe servito? Forse che
qualche cosa in lei o nell'amore si sarebbe mutato, rivedendola?

Tutto era inutile, tutto. Aveva un forte debito col tappezziere, un
altro con una banca popolare la necessaria rovina che porta con sè ogni
amore onesto, ma illecito: ma che gliene importava? Avrebbe pagato,
forse, quando avrebbe potuto, in un tempo vago: o se no, la rovina,
tanto peggio, nulla poteva più commuoverlo, tutto era inutile, tutto.
Non aveva voluto neppur rivedere il quartierino di Piazza di Spagna,
tutto profumato e caldo ancora della presenza di Angelica, non aveva
voluto baciare il posto ove ella si era seduta: le memorie doveano
inabissarsi nel passato, le testimonianze del passato dovevano perire.
Non aveva neppure voluto fare un giro per Roma, per la città prediletta,
per la città dei suoi sogni, che lasciava fra due ore.

Nulla serviva più a nulla: tutto era inutile, tutto.

Giacchè tutto era finito, meglio sprofondarsi sul gramo lettuccio del
quartierino mobigliato, fra il sudiciume e i cattivi odori; meglio non
vedere, non sentire più nulla, poichè tutto era finito. E certo era un
sonnambulo colui che andava su e giù, nello stanzone della stazione,
avendo preso un biglietto di seconda classe per un paesello ignoto della
Basilicata, poichè non gli bastavano i quattrini a comperarne uno di
prima: era un sonnambulo che non vedeva le persone e le urtava, mentre
aspettava la partenza del treno per Napoli; che non badava nè alla sua
valigetta, nè al venditore ambulante che gli offriva i giornali, nè al
vento estivo che facea vacillare le fiammelle a gas; era un sonnambulo
colui che cercava il suo posto, sospinto dalla voce dell'impiegato.

Che lungo sogno! Ai primi sbuffi del treno che parte, un grande colpo
nel cuore che sveglia quel pallido sonnambulo; egli si affaccia allo
sportello e vede Roma, nera, alta, immensa, nei suoi sette colli che
brillano di lumi; e ritira il capo, si abbatte sul sedile, come morto.
Poichè, in verità, Roma lo ha vinto.


                                FINE.



  Opere di MATILDE SERAO

  (Edizione PERRELLA)

  I capelli di Sansone — Romanzo. Vol. di 424 pag            L. 4, —
  La leggenda di Napoli — 7º migliaio volume in 16º          »  3, —
  Il Ventre di Napoli — Venti anni fa — Adesso — L'anima
    di Napoli. 5º migliaio volume in 16º                     »  3, —
  «Sterminator Vesevo» — Diario eruzione aprile 1906.
    Nuova edizione illustrata                                »  3, —
  Vesuvius the great Exterminator — Translated by
    L. Hammond                                               »  2, —
  Il romanzo della fanciulla — 7ª Edizione, 20º migliaio.
    Volume di 364 pagine                                     »  3, —
  Il Giornale — Conferenza                                   »  0,50
  Le Amanti — pastelli, vol. in 16º di 336 pagine            »  3, —
  Gli Amanti — 5º migliaio, vol. in 16º di 320 pagine        »  3, —
  Dopo il perdono — Dramma in quattro atti                   »  2, —
  Lettere d'una viaggiatrice — 5º migliaio, volume in 16º
    di 480 pag.                                              »  4, —
  Saper vivere — Elegante volume di 330 pag.                 »  3, —
  Lo stesso rilegato in peau souple con ornamenti in oro
    e astuccio                                               »  4,50
  La Madonna e i Santi — Nella fede e nella vita.
    Vol. di 488 pag.                                         »  4, —
  Nel paese di Gesù — Ricordi di un viaggio in Palestina     »  3, —
  Il paese di Cuccagna — 23º migliaio. Vol. di 480 pag.      »  4, —



      *      *      *      *      *



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (bugia/bugìa, danno/dànno, vari/varî e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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