Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Gli ingenui
Author: Panzini, Alfredo, 1863-1939
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Gli ingenui" ***


images generously made available by Internet Archive (https://archive.org)



Note: Images of the original pages are available through
      Internet Archive. See
      https://archive.org/details/gliingenuilacagn00panzuoft



ALFREDO PANZINI

GLI INGENUI


LA CAGNA NERA — NORA

DA NOVI A PAVIA — PER UN RIBELLE



MILANO
CASA EDITRICE GALLI DI C. CHIESA & F. GUINDANI
Galleria Vittorio Emanuele, 17-80

1896


PROPRIETÀ LETTERARIA

Tip. Luigi di Giacomo Pirola. — Milano, piazza Scala, 6.

                                ————



ΤΗ ΕΛΠΙΔΙ



_La cagna nera_


Quando mi tornano a mente i miei genitori (adesso si stanno accanto nel
cimitero del villaggio) e gli anni della mia giovinezza, allora gli
occhi si ricolmano di lagrime.

Ecco: era lassù, da tutte le strade del piano, anche da lontano lo si
distingueva il palazzo antico e quadrato, su in vetta della collina, con
i quattro cipressi alti che dentellavano il cielo e facevano la guardia
al portone: il portone era ad arco con grosse bugne di marmo e di sopra
portava una targa; perchè la mia famiglia era nobile: io non sono più
niente; ma la mia famiglia, dico, era nobile e di buona razza. La targa
portava sul quartiere un bel fiordaliso e il motto _crescet in aevum_.
Dietro v'era il roseto, ma grande, grande da farne un podere.

— Ma dissodatelo, signor conte — dicevano al babbo i buoni borghesi del
villaggio — dissodatelo; vi verran fuori venti e più sacchi di grano.

Lui sorrideva nei suoi occhi celesti così dolci e:

— Avete ragione, miei buoni amici — rispondeva — ci penserò su, ci
penserò.

Ma non ne faceva niente perchè era la mamma che non voleva, una delle
poche cose che non voleva; e anche quando morì lui ed anche il palazzo
fu coperto da ipoteche (io non ne sapevo nulla) il roseto non fu
toccato.

— Vecchie ubbìe di aristocratica — diceva la gente —, ci ha le ipoteche
anche sui tetti e vuol conservare le rose!

Ma il roseto rimase fintanto che ella visse, la mia santa madre;
signorilmente rimase a dispetto delle cipolle e delle patate; ed io lo
ricordo tutto vivo e fiammante come una porpora stesa giù per il declive
del colle. Era una meraviglia! Venivano anche da lontano a visitarlo, il
roseto! E per Pasqua fiorita se ne portavano via a carrette delle rose:
e tutti i santi e tutte le sante delle parrocchie vicine ne toccavano la
loro parte.

O Madonne che abitate le chiesuole delle terre d'intorno, ben ne aveste
adorni gli altari, voi! E non ci proteggeste voi! Il profumo delle
bianche e delle purpuree rose non salì sino al vostro seggio celeste?

Mi ricordo di maggio (allora c'era il maggio per me e c'era la
primavera) quella lunga fila di stanze in rettilineo che davano sopra il
roseto: il sole entrava a fili sottili attraverso le persiane socchiuse;
si posava sui mobili sbiaditi di raso, sui quadri dalle cornici di legno
tarsiato appese al muro; e sul filo solare fuggiva un pulviscolo di
quelle vecchie masserizie insieme agli atomi delle rose che morivano
silenziose in molti e bellissimi vasi di cristallo, mentre le loro
sorelle giù nel sole del parco non si stancavano di aprirsi e cadere
come vinte dalla voluttà del loro profumo.

Mia madre passava quasi tutto il giorno per quelle stanze o pel roseto
che essendo dalla parte opposta della via, le permetteva di non essere
veduta. La gente diceva che ella era molto superba: certo nel paese si
faceva vedere a pena due o tre volte all'anno; e pure la messa la udiva
in una cappelletta annessa al palazzo, dove il parroco veniva a
celebrare al mattino presto. Anche questo contribuiva ad accrescere la
reputazione di superbia; ma non era vero. Era piuttosto, io credo, una
riservata e fiera timidezza che non avrebbe potuto vincere nè meno
volendo.

Io mi sforzo di rievocarne l'imagine; ma la memoria ne ha sbiaditi i
contorni così che a pena mi si presenta alla mente una figura di donna
senza sorriso che si aggirava per quelle stanze, fra quelle rose, lenta
e come smemorata anche quando il palazzo risonava dell'allegra vitalità
di mio padre e delle feste degli amici.

Perchè mio padre era tutt'il contrario. Alto, con una superba barba
rossiccia e due occhi cilestri quasi infantili, con un'esuberanza di
vita piena di allegrezza e di ingenuità, avea sbagliato il secolo della
sua venuta nel mondo. Sarebbe stato bene con corazza e stivaloni
speronati al seguito di qualche gioioso barone di Francia al bel tempo
delle guerre e dei tornei.

Garibaldino in sua gioventù, repubblicano e liberale a suo modo, avea
portato in queste sue idee tutta la gentilezza e la idealità del suo
sangue patrizio.

Per mala sorte ne gli ozi forzati della sua virilità gli venne o
piuttosto gli fu suggerita la malaugurata idea di farsi eleggere
deputato; e da allora, per molti anni, fu un seguito di banchetti, di
favori e di munificenze dispensate con principesca liberalità. Il
palazzo era corte bandita. Ma il signor conte dovea riuscire deputato!

Riuscì invece a consumare il patrimonio; ma la sua buona fede era tanto
grande che forse non gli passò ne meno per la mente la frode.

Mi ricordo un vecchio servo di casa, certo Beppo, una specie di
maggiordomo, che quando il babbo gli ordinava di apparecchiare un pranzo
o di distribuire tanto denaro ai poveri o tanto grano in beneficenza,
diventava livido e se avesse potuto mettere del veleno ne le vivande, lo
avrebbe fatto.

Mio babbo ci pigliava gusto a vederlo così imbronciato.

— Si direbbe che consumi del tuo — diceva.

— Peggio! io non ce n'ho; ma lei ha le mani bucate.

Una mattina (questa me la raccontarono poi) dopo un banchetto che si era
protratto oltre la mezzanotte, Beppo indicava a mio babbo, presso il
cancello d'uscita, una lurida pozza vinosa sul terreno. Diceva:

— E l'ho inteso io quello grosso che parlava più forte, dire a quel
piccolo con la faccia di fiele che vomitava, l'ho inteso io dire: «Ah,
tu non vuoi portar via niente dalla casa degli aristocratici!» e l'altro
seguitava a vomitare e singhiozzare dal ridere, e tutti ridevano!

— Va là, va là, Beppo, che non è vero — rispondeva mio babbo col suo
solito sorriso che non smentiva mai —, hai capito male.

— Ho capito male? ah, fè di Dio! E quando l'altra volta passando davanti
alla cappella, dove era entrata la signora contessa, uno ha fatto le
corna alla madonna!?

— Ma no! quello, vedi, era un gesto di manifestazione politica.

Ma per quanto vi celiasse, mio padre non riusciva a placarlo nè a
persuaderlo.

— Ah, povero il mio grigio! — diceva poi, e gli metteva la palma della
mano su la sua testa rozza e gliela scoteva; ma nè pur questo bastava a
farlo sorridere.

Mia madre lasciava fare e dire. Si accontentava della sua parte di
padrona di casa, che adempiva con la maggior cortesia possibile. Solo a
fin di tavola, quando le bottiglie preziose si vuotavano con rapidità
spaventosa e le voci minacciavano di farsi roche e le proposizioni
audaci, ella si appartava con qualche pretesto.

Che cosa passasse fra il babbo e la mamma io non lo seppi mai. Era
debolezza di carattere, era acquiescenza e venerazione ai desideri di
lui, era timore di infliggergli un colpo mortale convincendolo del suo
errore e della sua ingenua buona fede? Io, ripeto, non lo so: forse era
un po' di tutto questo.

La baraonda politica cessò per esaurimento un po' per volta, cioè quando
gli amici democratici si accorsero che il meglio era mietuto e che poco
restava da cogliere ancora.

Allora la vita si ristrinse fra noi tre molto amichevolmente. Io era
allora un giovanetto sui quattordici anni e stavo tutt'orecchi ai
discorsi del babbo, specie dopo pranzo.

V'era una gran stanza da pranzo con vecchi mobili di quercia che
salivano sino al soffitto. Le tre finestre, che prendevano tutta una
parete, davano sul parco e v'entrava la luce verde e silenziosa della
campagna.

La mamma lo ascoltava: non diceva nè sì nè no. Quello che faceva lui era
per ben fatto. Egli si eccitava dopo pranzo; perchè un'altra vena di
attività irrequieta gli si era aperta e ne ragionava con la sua solita
volubilità lieta e rumorosa.

Oh, egli avrebbe messo in piedi il patrimonio nel giro di un paio
d'anni. — Qui l'agricoltura va ancora col sistema di Noè — diceva; —
bisogna rinnovare tutto. Farò venire le macchine dall'Inghilterra, dalla
Francia, dal Belgio, e se occorre, i concimi chimici: prenderò in
affitto una ventina di poderi, stipendierò un agente tecnico e.... e
vedrai.... vedrai! Per la gloria della casa poi, visto che io non ci
sono potuto riuscire, ci penserai tu — e si rivolgeva a me. — Ma bisogna
studiare, perchè oggi i tempi sono mutati e non basta più essere ricchi
come ti lascierò ricco io ed essere nobili, ma bisogna anche essere
istruiti; e questa è una cosa giusta, non è vero Ersilia? E tu
studierai, non è vero? — E mi posava la mano, una mano larga, ardente su
la testa: era la sua mossa favorita, e mi ricordo che mi faceva male con
l'anello che portava all'indice, e mi scoteva la testa che allora avea
molti riccioli biondi a riflessi di rame che erano una delle debolezze
della povera mamma.

Sebbene allora le acque fossero basse e le cambiali degli amici politici
scadessero con la regolarità della classica goccia su la pietra,
tuttavia mio padre non aveva smesso che poco dell'andamento domestico:
due cavalli in istalla per la carrozza della mamma; un bel polledro
bajo, balzano da due piedi, che era una grazia, per me da cavalcare: e
la rigida correttezza del costume inglese, di prammatica in simile
genere di spassi signorili, era stata temperata dal gusto d'arte di mia
mamma, che voleva che io portassi una larga giacca di fine velluto, un
bel cappello all'italiana sotto cui i capelli fuggivano a ciocche; e
mentre io cavalcavo per le vie di campagna che su per le colline
salivano e discendevano, ella mi seguiva con lo sguardo intento dal
terrazzo più alto della villa.

Mio babbo oramai era tutto assorto nel suo lavoro di agricoltore. Le sue
speranze erano senza limite e la sua felicità era raggiante: il
patrimonio di famiglia sarebbe stato rifatto su le basi della sua
attività e della sua industria.

I poderi vennero presi in affitto chè di nostri ne rimanevano ben pochi;
le macchine arrivarono: trebbiatrici, aratri, sgranatrici, pigiatrici,
ecc., ecc.; e poi grandi vagoni di guano e di concimi chimici vennero
portati su fra le meraviglie, le dicerie, le invidie, le maldicenze, le
crollate di testa dei villani, che ognuno voleva dire la sua.

All'antica compagnia degli imbroglioni politici, subentrò una compagnia
nuova, meno numerosa, ma non meno dissanguatrice di agenti,
commissionari, sensali e simile genìa.

Per quegli anni io ricordo mio babbo, anche nei giorni più affocati di
luglio, su e giù per i campi, a sorvegliare, a dare ordini, a dirigere i
lavori. Lo ricordo in mezzo a tutti quei villani con la sua faccia
abbronzata, sotto un gran cappello di panama, una giacca di frustagno,
le grosse scarpe di cuoio grezzo, e la barba rossiccia con qualche filo
d'argento, accuratamente quadrata che cadeva su lo sparato di batista
fragrante.

Morì tragicamente: una pugnalata terribile nel cuore che lo lasciò
freddo, stecchito.

Ecco come: la festa di mezzo agosto, verso sera, su la piazza, fra un
grande tumulto di villani avvinazzati, un certo tale noto e temuto per
sanguinaria violenza, aveva trovato a dire con un giovane; e la madre e
la ragazza di costui atterrite urlavano aiuto, per la madonna, che lo
ammazzavano il figliuolo; e tutti facevano largo, e guardavano senza
muoversi. Passa mio babbo, e le donne e tutti a gridare: «Signor conte,
signor conte, che lo faccia star buono lei!» E mio babbo si avvicinò
solo, solo, sorridendo, con la mano levata per placare quel furibondo,
quando una terribile coltellata nel cuore lo lasciò morto. Hanno avuto
il coraggio di portarcelo a casa così! Dicevano che non era niente, che
era svenuto, perchè aveva il suo sorriso e la sua indimenticabile
sigaretta stretta ancora fra le labbra.

                                  *
                                 * *

Dopo questo tragico evento mia madre non mise più piede fuori dal
recinto del roseto e del parco, e la gente raccontò che era uscita di
senno. Molti anni più tardi, poi, quando quella benedetta lasciò i
patimenti di questa vita, fra quei villani si formò la leggenda, e
dicevano che tutte le notti di mezzo agosto ci si vedeva per il parco
l'ombra della contessa matta, vestita di nero con i capelli tutti
bianchi giù per le spalle: e fu anche a cagione di queste dicerie che il
palazzo ed il parco non trovarono più un padrone stabile, e finirono per
cadere ne la rovina e ne l'abbandono. Queste cose mi furono riferite,
perchè io al mio paese dopo la morte di lei non sono più tornato e la
casa dove nacqui e che fu mia non l'ho più riveduta; certo è che anche
dentro di me trapassò un'eredità di quella morte di persone e di cose.

Io, quando morì mio padre, aveva sedici anni: vennero dei miei parenti
che mi condussero in una città con loro per seguitare gli studi; e, per
mio conto, di quella benedetta non posso dir nulla all'infuori di
questo, che non mi voleva più lassù al palazzo con lei. In quella casa
che risonava a vuoto, v'era troppa morte e troppo dolore; ed ella,
suppongo, paventava che il terribile male della sventura mi si
attaccasse. Pietosa ed inutile previdenza, perchè il male lo aveva con
me, entro di me.

Più tardi, quando io facevo gli ultimi anni di legge, ella fu presa da
un'idea delirante, la quale però la sosteneva in vita e le serviva di
norma direttrice. La nostra casa era caduta, la nostra casa doveva
risorgere; io doveva essere il salvatore ed il redentore della casa.
Come? e quando? e per quale via? Lei certo non lo sapeva; sapeva solo
che la cosa doveva essere. Allora i cipressi avrebbero mandate fuori
verdi fronde, e il fiordaliso d'oro che empiva il quartiere dello scudo,
sarebbe rifiorito in sul suo campo: così profetava il bel motto latino
_crescet in aevum_.

Allora, ma soltanto allora, io doveva tornare. Le stanze della villa
chiuse e mute per tanti anni, si sarebbero aperte al sole; lei mi
sarebbe venuta incontro, giù per la scalea, in mezzo all'applaudire dei
clienti e dei servi, ed avrebbe esclamato: «Tu, o mio figliuolo, hai
fatto finalmente ritorno! Quanto tempo ti abbiamo atteso! I miei capelli
son diventati tutti bianchi, ma non ho voluto morire, sebbene i morti mi
chiamassero e desiderassi morire; non lo volli per assistere al tuo
trionfo in questo giorno felice!»

Su questo proposito non mi fece mai alcun progetto determinato, forse
perchè non ne aveva alcuno; ma io capivo che la sua volontà, come la sua
fede, erano indomabili. Bisognava riuscire: io doveva riuscire! Era
questo pensiero che la teneva in vita. Quando le scrivevo: — Mamma mia,
ho desiderio di vederti, voglio stare vicino a te qualche po' di tempo —
lei rispondeva: — No qui, tu non devi impigrirti fra queste campagne;
devi vivere in città per conquistarti il posto secondo il tuo destino.

Tale era la frase impreteribile, in cui includeva un senso mistico di
cosa fatale.

— Ma gli affari, mamma — io le riscrivevo — tu sei donna, hai bisogno di
qualcuno che ti assista, che ti consigli.... — Ella rispondeva: — Tutto
va bene; agli affari ci penso io, io non ho bisogno di niente; tu pensa
solo a te e a farti una posizione.

Io, insomma, non dovevo vedere, non dovevo saper nulla degli affari di
casa, e forse era anche per questo che non mi voleva lassù con lei, dove
ci sarei stato tanto volentieri a meriggiare sotto quelle piante, a
pranzare io e lei in quella sala a pian terreno tutta silenziosa e verde
per il riflesso del parco. E un'altra lucida ed incoercibile idea la
possedeva: un giovane che è alle sue prime armi, che deve avere
relazioni nel gran mondo e che vuol riuscire ad aprirsi una strada, deve
spendere molto e senza risparmio; e se denari non ne ha, bisogna
mandargliene. Secondo questa logica mia madre, senza nè meno che io le
chiedessi, mi spediva denari con una gran profusione e mi ingiungeva di
spenderli.

Perchè bisogna sapere che io frequentavo la società più aristocratica e
mondana di F***, ma senza vizio come senza passione, cioè naturalmente.
Le relazioni di mia madre, il parentado, il mio nome, mi avevano aperte
tutte le porte; e pensandoci bene, mi pareva allora che non si potesse
vivere che così, cioè che una persona di garbo dovesse necessariamente
condurre quella vita oziosa e mondana. Alle volte, è vero, mi assaliva
il dubbio che quei danari rappresentassero o un pegno di gioielli, o un
podere che mutava padrone, o un prestito ad usura. Ma le sue lettere che
dicevano sempre che stessi di buon animo, che gli affari andavano bene,
mi tranquillavano per due ragioni; la prima perchè mi liberavano
dall'obbligo di occuparmi dell'azienda domestica e di fare atti di
energia, pur lasciandomi la coscienza tranquilla di aver adempito al mio
dovere; la seconda perchè mi toglievano il doloroso dubbio di una
possibile ruina. Quanto ad approfondire _de visu_ la cosa, non ci
pensavo più. Mia madre diceva così, dunque era così; e poi mi pareva che
un patrimonio come il nostro dovesse essere come qualche cosa di
intimamente congiunto alla antica gentilezza del nome e della famiglia,
e che un temporaneo dissesto non potesse per nulla influire su la sua
stabilità.

Rimaneva l'altra questione di conquistare quest'alto grado, questo posto
degno del mio nome. Che cosa lei s'intendesse con tali parole, io allora
non sapeva chiaramente: la spiegazione più semplice che io sapessi darvi
era quella di vivere onoratamente come si conveniva a gentiluomo e come
nel fatto viveva. Alle volte il vero, cioè la vera volontà materna, mi
balenava alla mente, ma la mia inerzia mi impediva di venire ad una
spiegazione concreta.

Chi sa? — pensava — forse vuole che io mi faccia un nome come avvocato,
come uomo politico, che scriva dei libri, che mi metta ne gli affari,
che so io. Tutto ciò mi sarebbe piaciuto, ma in che modo? e da dove si
comincia? Io capiva abbastanza bene che a me mancavano tanto le forze
dell'ingegno come quelle della volontà per raggiungere una così
difficile meta.

Fuori della classe sociale ove il nome e la fortuna mi avevano
collocato, che cosa avrei fatto? Alle volte, è vero, mi vinceva una gran
melanconia pensando a quante illusioni quella povera mamma si facesse
sul conto mio, e avrei voluto venire a delle spiegazioni: ma, ripeto,
non ne ebbi mai il coraggio: sentivo che le avrei dato troppo dispiacere
togliendole quella illusione. Del resto questi erano momenti passeggeri
di tristezza e di dubbio: la solita vita mi riassorbiva naturalmente.

                                  *
                                 * *

Ci volle la conoscenza nuda e cruda della rovina in cui eravamo piombati
per togliermi la benda dagli occhi e farmi prendere una risoluzione.

Ecco come fu: per Natale, una volta, volli andare a casa a far le feste
con lei: era tanto che non ci era stato e morivo della voglia di
rivederla.

Nevicava, nevicava da parecchi giorni, dì e notte, come ne le fole, a
grandi falde.

Ma era il Natale! Quanti ricordi si congiunsero a quel nome soave!
Ricordai quando tutto il palazzo era in festa, quando v'erano tanti
invitati che dormivano anche ne le stanze del palazzo. Erano parenti,
amici venuti da lontano; mio babbo li voleva tutti vicino a sè in quel
giorno. Egli che volevano portare come progressista e repubblicano alla
deputazione politica, aveva una melanconica religione degli usi e dei
buoni costumi di una volta. Mi ricordo che voleva persino che ne la
nostra cappella si celebrasse la messa di mezzanotte. Ricordo anche la
cucina, con la cappa del camino grande come tutta la parete. Lui vi
scendeva madido di neve con gli stivaloni infangati e la carabina a
tracolla e su la tavola rovesciava il carniere pieno di selvaggina da
lui cacciata, e dava gli ordini alla cuoca che parea comandasse una
carica alla baionetta; e poi v'erano certe schidionate enormi di capponi
che rosolavano al fuoco. Fuori imbiancava la neve proprio come faceva
allora. Giorni soavi!

La memoria di quella giovanezza di cose e di vita mi vinse. Telegrafai
che sarei venuto anche contro la voglia di lei e dissi il giorno e
l'ora.

Partii. Ero tutto lieto di passare le feste a casa e fantasticava
giovanilmente in quel tepore che vince durante il viaggio, specie
sedendo come io sedeva su di un soffice divano di prima classe, ravvolto
in una superba pelliccia.

Si giunse. Dal finestrino del vagone, mentre il treno rallentava, aveva
visto una carrozza chiusa, ferma su lo spiazzo deserto che è dietro la
piccola stazione dove si scende per andare su al villaggio. Non ce
n'erano altre. Ma la carrozza e il cavallo non erano i nostri, però
riconobbi Beppo che stava a cassetta. Tutto questo mi meravigliò con un
senso pauroso di presentimento del vero. Il brav'uomo se ne stava più
curvo e più vecchio del solito sotto la neve, e pareva così assorto che
non si avvide nè meno dell'arrivo del treno. Egli era tutto chiuso in
una vecchia livrea verde di famiglia coi paramani d'oro stinti, ma la
carrozza, dico, non era più la nostra; era un _fiacre_ da nolo di forme
preistoriche che stava su a forza di corde, e il cavallo era così alto e
macilento che su quella neve, col muso basso e le gambe davanti piegate,
faceva un effetto spettrale. Indovinai tutto, e il cuore mi si serrò:
pure non chiesi nulla a Beppo. Egli mi salutò scoprendosi, ma non disse
parola; sferzò a parecchie riprese la rozza che si mosse indolente fra
il cigolare delle ruote e delle molle sconquassate. Quel cavallo e quel
_fiacre_ da zingari erranti e quel servo chiuso ne la livrea gentilizia
offrivano un contrasto simbolico e miserevole. Un borghese democratico
ne avrebbe riso a crepapelle, un filosofo di cuore avrebbe pianto. Per
buona sorte non v'era alcuno per la via, e i pochi villani che si
incontravano di tratto in tratto facevano largo e si arrestavano
meravigliati al nostro passaggio; e da un sommesso parlare pareva si
interrogassero se qualche cerretano giungesse al villaggio.

La strada bianca di neve passava lentamente. Quando su lo sfondo plumbeo
di quel cielo si disegnò il profilo del palazzo di mio padre e di mia
madre, il cuore mi tremò e un singulto mi corse su per il petto e
scoppiò in singhiozzi repressi su la spalliera della carrozza; e poi
piansi a lungo.

Quella bestia slombata quasi di passo e fumando per tutta la pelle,
saliva le giravolte del colle fra la neve e il silenzio che incombevano
sui campi. Il silenzio della neve! Si udiva solo l'ansimare della rozza
e lo scuotersi stridente dei vetri ne' telai sconnessi. Giungemmo. I
quattro cipressi dormivano sotto la neve che li impellicciava, come
sentinelle che non hanno più nulla da custodire. La porta d'ingresso a
vetri si aprì: mia mamma stessa la aprì e mi accolse ridendo insieme e
lagrimando. Mi condusse subito ne la stanza da pranzo dove ardevano
pochi sarmenti: ma alla rigidezza dell'aria si capiva che da poco tempo
era stato acceso quell'etico fuoco. Su la tavola grande e quadrata la
tovaglia di lino si stendeva come una candida nevicata, chè tutto il
ricco vasellame d'argento e di fine cristallo non c'era più.

Il vento borea della miseria avea spazzato via tutto. Solo in una antica
e preziosa terraglia a fiorami azzurri che l'ingorda ignoranza dei
compratori dovea aver rifiutata, erano due grappoli d'uva con gli acini
tutti vizzi e con alcune mele dalla pelle rugosa e ferrigna.

Io mi sentiva piombare l'angoscia e lo stupore sul capo e pure pareva
che non fosse vero. Vero! e i miei sensi si rifiutavano di credere.
Anche alcuni lembi del damasco che copriva le pareti si erano slabbrati,
e l'umidità e il gelo penetrando attraverso le screpolature del muro, vi
si erano grommati in una specie di muffa; altri lembi cadevano
accartocciati in sè stessi accidiosamente. Mia madre non si accorgeva o
fingeva di non avvedersi di nulla.

Mi fece sedere vicino a sè, attizzò il fuoco, e mi passò il braccio sul
collo. Domandava con premura notizie della contessa B....; che cosa
n'era della figliuola della signora C...., che ella tenne a battesimo.

— Si deve essere fatta carina! Tu le fai la corte, scommetto? Domandava
se la marchesa A.... era sempre così bionda, se dava ancora quelle feste
così ricche che se ne parlava per dei mesi prima e dei mesi dopo. —
Quanto avrei caro di vederla!

Poi cominciò a parlare di me con una volubilità ardente. Io rispondeva
sì e no, ricambiavo i saluti, raccontavo distrattamente, ma lei non se
n'avvedeva: io guardava, io non potevo distogliere lo sguardo da quella
sua mano che cadeva sul mio petto, scarna, diafana, inerte mano come di
morta; scarna così che l'anello nuziale si appoggiava obliquamente su
l'osso del dito. Per quanto tempo ancora ci sarai conservata tu, o mano
materna, a ravviarci i capelli e tergerci le lagrime? E dopo? Io la
presi quella mano e la sollevai piano sino alle mie labbra come la mano
dell'amante e la baciai; ed ella sorrideva lagrimosamente.

— Via, via — disse poi — accostati alla finestra. Voglio vederti bene
come sei — e si levò in fretta e mi trasse presso la grande vetriata. —
Oh, così! — disse scostandosi e vagheggiandomi. — Come sei bello, e che
aria fiera hai con quei due baffetti rivolti in su! E tu devi essere
forte, forte come tuo padre...! — e questa parola non ebbe altre che la
seguissero, ma risonò come nel vuoto della stanza.

Allora il riso e la eccitata gaiezza del volto di lei scomparvero dopo
aver pronunciato quel nome, gli angoli della bocca le si piegarono in
giù e scoppiò in un pianto stridente che la faceva tremar tutta. Io la
ricoverai fra le mie braccia ed ella vi si nascose; vi si nascose con
quella povera testa grigia che pur profumava di soavità e di un languido
olezzo femmineo che ricordava la sua giovinezza. Si acquetò infine e
ritornò a sorridere e mi ricondusse presso il focolare.

— Tuo babbo — disse con voce oramai pacata e come seguendo un pensiero
dominante — era forte sì, figlio mio, ma era troppo gentiluomo. Ma tu
sarai forte, forte, forte! nevvero? Tutta la sapienza sta ne l'essere
forte.

Beppo venne poco dopo a mettere in tavola.

— Sai — mi disse poi con un'angoscia mal celata e come colta
d'improvviso — non te ne avere a male, figliuolo, ma la cuciniera e la
Rosa hanno voluto andare a far Natale a casa loro, ed io le ho lasciate
andare: ho fatto male; ma io non pensavo che tu avresti voluto lasciare
la tua vita brillante per venire a far Natale con questa povera vecchia
di tua mamma. Non è vero Beppo che è così?

— Sì, signora contessa — rispose Beppo.

Ella parlava quasi io non avessi avuto occhi per vedere e mente per
intendere la sua pietosa bugia, e questa incoscienza di lei mi
paralizzava e mi incuteva un senso quasi di paura. Feci forza su di me e
ripigliai sorridendo:

— Tu hai ancora, mamma, le tue rose, esse fioriscono ancora d'inverno!

A questa mia interruzione respirò come sollevata dal timore che io
insistessi su ciò che voleva nascondermi. Sorrise e mi parlò delle sue
rose.

— Le rose fioriscono sempre e questo è un buon segno: è la benedizione
della Madonna e del Signore. D'inverno il rosaio sembra morto; ma io
cerco, cerco anche sotto la neve. Ebbene, lo crederesti tu? ve n'è
sempre qualcheduna, poverina, che sboccia. E questo è un buon segno.
Vuol dire che la nostra casa è andata un po' in basso, ma che la vita
non è morta. E quando di maggio tutte le rose fioriscono, io dico: Così
fiorirà la nostra casa quando verrà il maggio anche per lei: io forse
allora non vi sarò più; ma tu cercami, cercami qui intorno e mi
troverai, la troverai la tua povera mamma!

E poi, mentre si pranzava, riprese a parlare di me. Voleva sapere i miei
progetti per l'avvenire, quello che avrei fatto, quali speranze avea,
quanto tempo ci sarebbe voluto per attuarle.

Ed io raccontai. Raccontai quello che non era quello che non mi sentiva;
le speranze che non aveva, la fede che con uno sforzo supremo simulai
con la vivacità dello sguardo e l'impeto della voce.

Ella mi ascoltava beatamente, raccolta nel suo seggiolone, con la
guancia pallida appoggiata su la mano, in quel lieve tepore dei sarmenti
che si sfacevano in cenere sul focolare.

— Racconta, racconta, dimmi sempre di te — interrompeva ogni tanto.

Io esponeva dei progetti inverosimili di speculazioni, di fortune
improvvise, di gloria: sì, mi ricordo che ci entrava anche la gloria, e
lei approvava sempre con molta serietà.

— Ogni via è buona, figlio mio, basta riuscire; e per riuscire bisogna
essere forte. D'altronde io — concludeva con convinzione triste e pacata
— non ti prescrivo mica la strada. Fa quello che vuoi, basta che tu
riesca, che ti conquisti la tua posizione nel mondo, degna del tuo nome.
Ai giovani bisogna lasciare libertà di seguire il loro genio: non dico
sempre questo io, Beppo?

— Sì, signora contessa — rispose il servo che passava per caso, ma con
un'intonazione monotona di voce che dava a vedere chiaramente essere
quello il solito modo di rispondere sempre affermativamente al
vaniloquio di mia madre.

Così passarono i giorni del santo Natale, le ore sacre alle famiglie
fiorenti, io ne la mia casa che cadeva, ne la mia famiglia che moriva
mentre la neve addormentava tutto all'intorno nel suo letargo gelido e
bianco.

Venne il giorno della partenza; ed io non cercai di ritardarlo: quella
casa grande, con tutti quelli stanzoni freddi, intorno tutta neve e
tutto silenzio, e mia madre che mi ragionava con quell'enfasi di
inspirata e poi, quando era sola, la scorgevo piangere, e quel servo
curvo, triste, silenzioso: tutto, io dico, mi era entrato nell'animo con
lo sgomento di cose morte. Mia madre voleva che partissi, e mi ricordo
che non feci alcuna opposizione.

La solita berlina mi ricondusse alla stazione.

Il nero palazzo che rinchiudeva mia madre si disegnò per l'ultima volta
sull'alto del colle: i cipressi si profilarono per lungo tratto di via
come buoni soldati che rendono il loro saluto ultimo ai vinti!

Però mentre attendevo il treno, Beppo mi si accostò che tremava tutto, e
disse con voce di chi però ha preso una risoluzione:

— Vostra Signoria mi può dare due schiaffi, ma io per obbligo di
coscienza bisogna che le dica una cosa.

Capii quello che voleva dire; mi sentii venir freddo, ma non ebbi il
coraggio di prevenirlo. Forse voleva parlare di un'altra cosa. Dissi di
esporre sicuramente, ed egli allora parlò così:

— Ecco, signor conte, bisognerebbe che lei spendesse un po' meno, perchè
proprio la signora contessa d'ora in avanti non le potrà, intenda bene,
non potrà mandare tutto quello che le manda; e poi ha anche bisogno di
curarsi la salute; e perchè si vede che la Madonna la grazia non la vuol
fare, così bisognerà chiamare anche i medici....

E dette queste parole non si ricompose, ma rimase nell'attitudine con
cui le aveva pronunciate, e le mandibole, prive di denti, biasciavano
forte per vincere il pianto.

Io veramente non ricordo quello che gli risposi; mi ricordo però che mi
confusi, che arrossii, e che in fine lo ebbi rassicurato che la mamma
non mi avrebbe dovuto mandare più niente per il tempo avvenire.

Allora Beppo mi domandò perdono e mi volle baciare la mano ad ogni
costo. Borbottava con gran devozione:

— Come suo padre buon'anima, e come la signora contessa! Che il Signore
gli dia fortuna!

Quando arrivò il treno, volle mettere lui la valigia su la reticella, e
sul cuscino lo sciallo e un mazzo delle rose; e lo vedo fermo, mentre il
treno era in moto, con la tuba in mano, i capelli bianchi, tutto chiuso
in quella livrea di antichi tempi. Anche il vecchio servo rendeva
l'ultimo saluto all'ultimo gentiluomo del mio casato.

Il movimento del treno produsse su di me un effetto di benessere:
l'oppressione in cui mi avevano piombato le parole di Beppo, si fece
lieve e poi si alzò del tutto, come si alzano i fili del telegrafo
quando si corre a tutto vapore, che pare vadano su, sopra il cielo:
inoltre la macchina andava avanti sul piano di neve come una persona
energica che sa quello che vuole, e ciò, non so perchè, mi faceva
piacere; tanto più che mi allontanava da quella mia casa melanconica. E
come all'aprirsi di un velario, rivedevo il salotto della marchesa B***,
così caldo, così imbottito, dove ci si consumavano le lunghe sere, e
desideravo di ritornarci anche perchè aveva sofferto molto freddo a casa
mia; pensavo poi al club, al teatro, al salottino di donna C***, che
profumava di verbena e di tepide viole di serra; e quivi ci si
accoglieva indugiando sul vespero, ed ella, la gentilissima, ci mesceva
e porgeva la calda bevanda d'oriente: tutti ricordi tepidi ed indolenti.
Poi veniva il campo delle corse, i più intimi ritrovi, gli spassi, gli
svaghi, fra cui aveva passato dieci anni senza accorgermene, come senza
vizi e senza passioni, nel modo stesso che le ore della notte fuggono
inavvertite fra i vani e lieti conversari delle veglie invernali.

Era dolce il ripensarvi, dolce come un riposo di carovana sotto i
palmizi e presso le fredde fontane. Ma poi le parole di Beppo che si
erano allontanate dalla memoria, ritornavano di un tratto e mi
attanagliavano come artigli di avvoltoio, producendomi un senso di
strano dolore, giacchè io non aveva il coraggio di guardare in faccia la
realtà; e quelle parole mi vi costringevano mio malgrado, che non poteva
dare un crollo per liberarmene.

Il treno aveva un bell'allontanarsi, un bel fuggire; ma la mia casa
rimaneva sempre lassù, deserta e trista, e la mia madre, anche senza che
io ci pensassi, si aggirava per quelle stanze oramai nude e fredde, e
parlava di me con tutte quelle cose mute. Povera donna! E
insensibilmente cominciai a piangere con una gran pietà per lei e per
me.

Una decisione mi si imponeva per forza; ma ciò che mi turbava e mi
sconvolgeva era che dovevo essere io, proprio io, a decidere di me; e
vedere quella macchina che andava così diritta e così sicura! Ah, potere
aver la volontà e la forza di quella macchina!

Giunsi a F***. Mi chiusi in me, nel mio appartamentino e cominciai a
meditare sul da farsi.

Gli stenti e le privazioni di una vita di lavoro non tanto mi
impaurivano, quanto il pensiero di dovere contendere e combattere di
accortezza e di forza con gli uomini. Fino allora io ne aveva evitato il
contatto e la mia gioventù era corsa senza scosse, come un olio. Questo
pensiero di dovere venire a tu per tu con gli uomini che lottano per la
vita, mi faceva paura, e l'averne paura mi diceva come per iscritto a
grandi caratteri tutta la mia debolezza. Avevo paura, e provavo
l'impressione di uno che ha viaggiato, sognando, tutto il giorno in un
vagone a letto. Ma quando è venuta la sera, presso gole e picchi di
montagne, il treno si ferma di botto, il conduttore apre lo sportello e
dice:

— Signore, qui dovete scendere.

Egli scende; nè a pena è sceso che il treno fischia e fugge scivolando
su le rotaie; egli rimane solo, sgomentato, con la notte che lo
ravvolge, con le montagne che gli fanno vertigine sopra la testa.

Avrei potuto rivolgermi ai parenti ed agli amici per consiglio e per
aiuto; ma una timidezza ineffabile di confessare la mia disgrazia,
timidezza che io allora nobilitai col nome di giusto orgoglio, mi chiuse
questa via che avrebbe pur condotto a buon fine. Avrei potuto, ed era
dovere, esaminare sino a qual segno si estendesse la ruina del mio
patrimonio e rimediarvi se era cosa possibile. Ma sia che avessi paura
di conoscere lo sfacelo completo, sia piuttosto che mi sgomentasse
l'idea di dovere fare atti di volontà e di accortezza contro usurai,
creditori ipotecari, possessori di cambiali, imbroglioni d'ogni maniera,
fatto è che non ci pensai nè meno. Era un grumo di vermi enormi che si
divoravano ogni mio avere, ed io sentivo schifo di mettervi le mani
dentro.

Scelsi una via di mezzo, cioè scrissi ad un mio amico che stava a Roma,
esponendogli ogni cosa e pregandolo a trovarmi un ufficio che mi desse
da vivere. Era costui un giovane pieno di carattere e di bontà, che
aveva il merito di essersi fatto tutto da sè, perchè era figlio di
povera gente, e ci eravamo conosciuti all'Università. Egli più alto, più
forte di me, mi si era affezionato molto e di cuore; una di quelle
affezioni un po' morbose che nascono su la prima giovanezza; e fu certo
per la memoria di questa intimità che mi rivolsi a lui prima che ad
altri, benchè da qualche tempo ci fossimo perduti di vista.

Sapeva però di lui come dopo molto oscillare fra varie idealità di
fortuna e di onori, era andato a cadere in un ufficio del Ministero
della Pubblica Istruzione; un impiego buono, a quanto mi dissero, dove
c'era da coprirsi contro le raffiche della miseria e da sfamarsi bene: e
anche questo che sembra un'inverosimiglianza quando si ha il fuoco della
giovinezza, più tardi può diventare un'idealità; lo sfamarsi bene, dico.

Mi rispose con l'affetto di una volta, compiangendomi e confortandomi.

— Ma chi sa — egli concludeva — che il dover lasciare quella tua
esistenza oziosa e vana non sia principio di altra migliore, dove ti
troverai cosciente di te e però lieto e tranquillo. Ho caro che tu entri
ne la nostra compagnia dei lavoratori e perciò ho fatto il possibile per
soddisfarti. La tua laurea in legge non ti darebbe diritto di ottenere
un posto ne l'insegnamento; ma io tanto mi sono adoperato, che sono
riuscito a procacciarti una cattedra di professore nel Ginnasio di C***.
È un ufficio umile e non molto lucroso; ma altro ufficio più nobile di
questo di educare la gioventù non saprei nè potrei offrirti. Ritemprati
dunque in questo lavoro, riconfortati ne lo studio degli antichi, e la
loro sapienza sarà un balsamo per il tuo dolore come lo fu per altre
nobili anime, per tutte le avversità della vita.

Io, a dire il vero, aveva poca esperienza di quello che fosse una
scuola, perchè i primi studi li aveva compiti in casa mia, sotto la
guida di valenti maestri che mio padre faceva venire dalla vicina città.
Mi ricordo però che gli studi letterari mi piacevano, così che l'idea di
rinnovare la conoscenza con Cicerone e con le grammatiche non mi riuscì
punto spiacevole; anzi mi parve come di dover rivivere quando era
ragazzino e facevo i miei compiti in pulito su la bella tavola da
pranzo, con dei bei libri legati in pelle; e mia madre ricamava presso
di me. La sera, dopo pranzo, il babbo mi raccontava la storia di Roma un
po' a suo modo. Insomma erano dolci ricordi che rifiorivano!... Mi
sovvenivo anche di uomini di grido e famosi, ne l'antichità come nei
tempi moderni, che tennero fronte all'avversità facendo il maestro di
scuola. Questo pensiero mi nobilitava ai miei occhi: e poi l'idea di
sacrificarmi per mia madre, di compiere un alto dovere, produceva in me
non so quale esaltazione eroica. Infine, come avviene a tutte le nature
deboli e che non hanno il coraggio di guardare in faccia l'avvenire, io
riempivo il non sperimentato e l'ignoto con felici vicende, e ne la
facilità con cui aveva ottenuto quel posto, intravvedevo un mistico
contrassegno di fortuna avvenire.

Con tutto questo non partecipai a nessuno dei miei conoscenti la mia
decisione; ma a quei pochi da cui sarebbe stato sconveniente partirsene
insalutato, addussi come pretesto un lungo viaggio in terra lontana.
Anche a mia madre non scrissi nulla di preciso; solo dissi di avere
ottenuto un onorevole ufficio dal governo; e perchè vi prestasse maggior
fede, le diedi il mio recapito a Napoli, da cui non molto lungi era la
cittaduzza destinata per mia nuova residenza. E partii.

                                  *
                                 * *

_Incipit vita nova._ Ma qui dei primi tempi la memoria in gran parte è
svanita, e solo intravvedo un'oppressione di cose e gente nuove e
confuse.

Vedrò pur tuttavia di ricordarmene. Il viaggio lo compii piacevolmente,
senza pensarci molto alla mia nuova esistenza. Imaginavo forse che avrei
visto tutte le autorità scolastiche ed i colleghi in abito nero a
ricevermi alla stazione? No davvero; ma mi pareva che avrei provato
qualche gradevole sorpresa.

Quando arrivai era una domenica: domando ad uno, domando ad un altro
dove erano le scuole e nessuno mi sapeva indicare. Finalmente un prete
seppe dirmene qualcosa. Vado su, su per una viuzza stretta, sucida, con
tutte le comarelle presso gli sporti e i ragazzi che si ruzzolavano da
presso.

Qualche cosa come un'insegna e una scritta pendevano da una porta un po'
più grande delle altre: supposi che quella fosse la scuola, nè mi era
sbagliato.

Un uomo che stava in uno stambugio, intento a legare dei libri (era il
custode) mi precedette su per le scale, aperse la porta di una stanza,
mi annunciò; e allora vidi un uomo di mezza età, vestito di nero,
levarsi dallo scrittoio e venirmi incontro con un «oh!» che sonava un
po' meraviglia e un po' rimprovero perchè, come mi disse poi, mi
attendeva già da qualche giorno. Era il direttore di quel ginnasio.

Un'altra persona era con lui; un vecchietto mal vestito e tabaccoso che
al mio arrivare salutò rispettosamente ed uscì.

Quando fummo soli, quel signore cominciò senz'altro a darmi moltissime
informazioni di cose scolastiche con una voce cadenzata e lenta di cui
non percepivo che il suono; però mi scossi dolorosamente quando disse:

—.... io so da private informazioni che ella non è fornito di diploma e
che questo posto le fu concesso per singolare favore, e tenuto anche
conto delle benemerenze della di lei famiglia. Questo perciò le impone
l'obbligo di studiare, di fare del suo meglio e vedere di procacciarsi
nel più breve tempo possibile l'abilitazione che si richiede....

Poi parlò della carriera, e infine dello stipendio che avrei percepito.

— Ma come si fa a viverci? — domandai con dolorosa sorpresa perchè
quella somma per me rappresentava a pena il salario di un cuoco o di un
cocchiere di casa signorile; ma come è facile pensare, non dissi nulla.

— Eh, signor mio — rispose lui sorridendo e posando con indiscreta
curiosità lo sguardo su la eleganza del mio vestito — certo è che
bisogna adattarsi e sapere contare il valore del danaro. Ma infine ella
è scapolo e la vita qui non è costosa. Vi sono stanze decentissime a
quindici lire al mese, ed ella può trovare una pensione soddisfacente a
cinquanta lire. Veda quindi che le rimane più che metà dello stipendio
per ciò che è vestiario e minuti piaceri....

Io non risposi; so che mi sentiva come un freddo di avvilimento a quelle
parole. E poi quel tuono di superiorità e di autorità mi sonava nuovo;
mi rimescolava tutto di dentro e nel tempo stesso mi incuteva rispetto.
Di queste gerarchie di uomini che comandano agli altri, non ne avea la
più lontana idea. Ma dunque vi sono di quelli che vestono non la livrea
ma come noi e pure vivono tutta la vita sotto la soggezione degli altri?

—.... E che dovrebbero poi dire — proseguiva lui — quelli che sono
carichi di famiglia? Il signore che è uscito poco fa e che era qui
mentre ella è entrato, ha cinque figli....

— È un professore quello lì? — domandai meravigliato.

— Certamente, è il prof. B***, suo collega. Veda: ha cinque figli, e un
po' con la paga, un po' con qualche lezioncina nelle vacanze viene a
sbarcare il lunario. Ed ora, se ella crede, le farò vedere la sua
scuola....

Si alzò; anch'io mi alzai automaticamente. Egli passò davanti senza far
complimenti ed io lo seguii.

Un corridoio girava tutto attorno ad un porticato e in mezzo vi era un
cortile con un pozzo. Intravvidi e sentii come un silenzio triste di
cose melanconiche. Egli aperse una porta, passò avanti e:

— Ecco la sua scuola — disse —, piccola ma una delle migliori.

Voltai gli occhi attorno: le pareti erano giallognole, nude; tre file di
banchi tagliuzzati si allineavano davanti alla cattedra che era in forma
di tavolo. E mi parlò di altre cose di scuola. Infine mi accomiatò con
un:

— A domani, dunque; alle ore otto.

Ritornai all'albergo; mi sedetti su di una sedia con la fronte su la
mano, e stetti come smemorato. Dai cristalli si vedeva il mare, su per
l'aria veniva ogni tanto una accidiosa cantilena o grido di venditore
che fosse.

— Suvvia, finiamola! — dissi e mi alzai con l'intenzione di rimettere ne
la valigia i pochi arnesi di _toilette_ che avevo tirato fuori,
riprendere il treno, ritornare a F***. — Ma e poi, che cosa faccio? —
Questa fu la dolorosa domanda.

Nel portafoglio mi rimanevano a pena dugento lire. Bisognava ricorrere
per forza a mia madre e con quale animo, sapendo che ella non poteva più
mandarmi nulla; e dopo che le avevo annunciato della mia nuova
occupazione? E notare: passando per Napoli, avea trovata una lettera di
Beppo in cui mi diceva che dal giorno che avea saputo del nuovo ufficio,
in tutto degno del mio nome, ella pareva rinata a nuova vita. Che cosa
dirle, come spiegarle il ritorno improvviso?

E come a quella disperazione subentrò un senso di abbattimento profondo;
così anche cadde la forza della mente e della volontà per decidermi sul
da farsi.

Rimasi. Mi rivedo per la prima volta nella scuola. Loro, gli scolari, si
guardavano sorpresi come a domandarsi: «Chi sarà, chi non sarà? ti pare
che si possano tirar le pallottoline e giocare, e far chiasso con quello
lì? ti pare?» Io pure guardavo; e in quell'angusto spazio mi sentivo
stretto e molto avvilito fra quei bambini, come io fossi stato un grosso
giocattolo.

— Oh mio Dio! — esclamai fra me — dove mi sono andato a cacciare! Se mi
vedessero miei amici di F*** ne riderebbero per un mese.... Carlo B***
ne farebbe la caricatura per tutti i salotti.

A questo pensiero arrossii lievemente e mi sentii sconsolato. Pure erano
dolci e soavi quei volti e ogni tanto, vedendomi silenzioso e triste, si
consultavano, allungavano le loro boccucce e parevano anche pensare:
«Deve essere uno di quei professori cattivi! Chi sa a che cosa medita,
chi sa che domande difficili ci farà mai adesso!» Qualche cosa bisognava
pure che io in fine dicessi; ma lì per lì quelle poche regole di
grammatica che sapevo e avevo ripetuto mi giravano come un arcolaio, e
non ci riusciva a prenderne una. Ma qualche cosa bisognava ben dire!

V'era un ragazzetto che poteva avere un tredici anni con due occhi neri,
tanto vivi che parlavano da soli e due labbra capricciose su cui i denti
davanti sporgevano fuori. Su di lui si posò la mia attenzione.

— Come si chiama lei? — domandai.

— Weiss! — e scattò in piedi come un fantoccino a molla.

— È tedesco?

— Io no, mio babbo sì....

— È quello che ha l'_Hôtel des Etrangers_ ai Cappuccini.... — saltò su a
dire un altro; ma subito capì la grave infrazione di aver aperto bocca
senza essere stato interrogato; diventò tutto rosso e si sedette
vergognoso e confuso.

— Bene, mio caro Weiss — ripigliai — sentiamo un po' lei....

Si fece un silenzio assoluto; e l'interpellato arcuò la mente per
richiamare tutte le sue cognizioni grammaticali, raccolte con tanta
fatica e disperse con altrettanta facilità per i campi e fra gli spassi.

— Bene — ripetei posandogli la mano su la spalla — bene, lei ama sua
mamma e suo babbo?

— Oh sì, tanto!.... — rispose arrossendo e traendo un sospiro di
sollievo.

Anche gli altri respirarono. La domanda non era stata difficile.

— Bravo, dunque; e quel ritratto che è appeso lassù di chi è?

— Del re! — rispose più d'uno a gara.

— E il re che cosa rappresenta?

La domanda era difficile. Anche l'alunno Weiss si mordeva le labbra
inutilmente.

— Il re — dissi io allora — rappresenta la nostra patria, l'Italia; e,
sotto, osservate quel crocifisso che vuol dire la religione: dunque tre
grandi cose voi dovete avere in mente; la famiglia, la patria e la
religione.... — e su questo tema conversando, finii per distrarmi
dall'oppressione che mi durava nel cuore; e quando la scuola fu
terminata e i ragazzetti si allineavano in doppia fila, sentivo che
dicevano:

— Questo sì che è un buon professore! hai sentito tu quante belle storie
ci ha raccontato?

Mi vennero poi presentati i colleghi. Ne ebbi l'impressione di brava
gente; solo il tratto mi parve un po' rozzo; ma forse erano anche
impacciati non sapendo che cosa dirmi, giacchè dal modo con cui mi
guardavano di sottecchi, sembravano pensare: «Ma questo qui da dove è
capitato? non ha mica l'aria d'essere dei nostri!»

                                  *
                                 * *

Rimasi; ma i primi giorni non sapevo più in che mondo mi fossi. Passa
una settimana, ne passano due, e non riusciva a farci l'occhio e
l'abitudine. Tutte le cose mi facevano l'effetto di essere fantasmagorie
di un sogno che fra poco sarebbero scomparse; ma invece non sparivano e
allora finii con l'abituarmi. Furon momenti ben dolorosi! Per fortuna
ero obbligato a studiare per far lezione e un po' i libri e sopra tutto
la scuola mi distraevano. Anzi cominciai a trovarmici bene in mezzo a
quei scolaretti. Ve n'erano alcuni così graziosi, così vivaci, così
buoni, che era uno svago viverci in mezzo. Spiegavo la grammatica,
correggevo i loro latini, facevo delle lunghe prediche di morale e di
civile virtù desunte dai classici, e lo debbo dire? le ore mi fuggivano
quivi più riposatamente che altrove; tanto che io stesso domandava al
direttore di fermarmi una qualche mezz'oretta di più.

— Ella possiede il vero senso del dovere — mi disse una volta costui con
molta gravità, e quelle parole mi fecero un gran bene.

Il direttore era diventato per me una persona grave ed a modo.
Grammatico, assiduo nel suo lavoro, egli viveva nella scuola e per la
scuola. «Veda — mi diceva confidenzialmente — quando gravi pensieri o
forti cure incombono su di me, il lavoro le dissipa come nebbia al sole;
e se alcuna tristezza mi sopravviene, la vista di tanta balda e nobile
gioventù che noi abbiamo l'alto ufficio di educare ed istruire, mi
consola subito».

E doveva essere proprio così perchè io pure mi sentivo bene
nell'adempimento del mio dovere. Anche coi colleghi ci avea fatto la
mano, ma un po' per volta e superando non lievi difficoltà, perchè
avevano davvero un modo di trattare che non era propriamente quello a
cui era assuefatto. Capii però che bisognava adattarsi essendo essi
vecchi insegnanti, e in fondo parevano pieni di bonarietà; certo erano
gente tutto scuola e tutto casa: niente spassi, niente teatri, niente
svaghi. Ve n'erano di quelli che da sei e più anni erano lì a C***, e
non conoscevano una famiglia del luogo. Fumare mezzo toscano, spiegare
qualche sciarada, ragionare del caro dei viveri, dei loro figliuoli, del
miglior modo di far capire agli scolari il latino che non volevano
capire, e commentare i regolamenti formavano tutte le loro occupazioni.

Brava gente, insomma, modesta e senza pretese.

— Adesso anche voi vi accasate — mi dicevano —; trovate una che vi porti
dei buoni ducati e vivete come un principe.

Altre volte dicevano al direttore ponendomi la mano su la spalla: —
Questo giovanotto è pieno di zelo e farà carriera presto!

— Così io spero — rispondeva il direttore sorridendomi a fior di labbro
—, così io spero, se l'avvenire non mente e se in alto sapranno, come
non è dubbio, apprezzare il suo giusto merito.

V'era poi la moglie del direttore, cioè la signora direttrice, come la
chiamavano in segreto con una certa punta di ironia perchè dicevano che
era lei che faceva fare al marito tutto quello che voleva, e metteva il
naso anche dove non le toccava: costei mi aveva preso a benvolere o, per
dir meglio, mi aveva accolto sotto la sua protezione.

Era una donnetta rossiccia sui quarant'anni, ma che pretendeva ancora a
certe velleità di giovinezza e di eleganza: vivace e ciarliera quanto il
marito era duro e tutto d'un pezzo. Ne le sue molte peregrinazioni su e
giù per il bel paese, seguendo fedelmente, almeno nei viaggi, la sorte
dello sposo grammatico, avea preso la lingua ed il dialetto di tutte le
città dove era stata: il fondo era piemontese, ma con spunti siculi; le
grazie e le veneri poi del dire erano del più puro napoletano. Nei gusti
ancora non aveva preferenza: sapeva tanto apprestare un _ragù_ squisito
per condire la più saporita pasta di Gragnano, quanta fare una polentina
bergamasca con contorno di uccelletti; pregi non comuni, coi quali
consolava le elucubrazioni filologiche del compagno. Aveva poi un merito
indiscutibile e assai raro ne le mogli degli impiegati girovaghi, cioè
teneva la sua casa come uno specchio.

Ella era la sola che mi sconsigliasse di prendere moglie, e contro mia
voglia se ne faceva un gran ragionare ne le frequenti passeggiate dopo
scuola.

— Un giovanotto deve conservarsi scapolo e divertirsi, io la penso così
— diceva.

— Ma a un professore — correggeva il marito con lieve sorriso e con
grave intenzione — non è permesso fare troppo il giovanotto. E poi non
son questi i paesi dove si possa... o si trovi.....

— Ah, no? — rispondeva lei vivacemente — Provi un po' — mi diceva
tirandomi il bottone del soprabito — provi un po' a far la corte alla
moglie del professore di prima e vedrà se si trova.....

— Geltrude! — esclamava il marito in tuono di doloroso rimprovero
piantandosi sui due piedi e levando le sopraciglie sino all'arco
frontale. —... Ma Geltrude!

— Ma che! non sei mica coi tuoi professori da farmi paura. Del resto —
proseguiva rivolta a me — lo sanno tutti chi è quella lì e si può parlar
forte. Si figuri che ha avuto il coraggio di farsi quest'estate un abito
di _surah_ che io non mi sognerei nè meno e di andare ai veglioni a
Napoli. E poi dice male di me perchè non la voglio ricevere in casa!...

Del resto io penetravo poco profondamente in queste sottigliezze, ed
alle chiacchiere spiritose della signora preferivo di più ragionare col
marito di grammatica. Avevo anzi finito col prenderci un certo gusto a
tutte quelle minuzie; e lui che era molto colto in materia, mi faceva
delle lezioni che duravano due o tre ore, cioè tutto il tempo della
passeggiata; e ci si interrompeva solo perchè la signora si sentiva
allora tutti i mali; voleva il braccio del marito, la carrozzella pel
ritorno e faceva un muso lungo mezza spanna. — Quanto siete noiosi col
vostro latino! — diceva cumulativamente a tutti e due quando io mi
accomiatava. — Non vi basta la scuola?

Il direttore poi mi aveva consigliato di studiare sul serio per
acquistarmi il diploma in lettere e fare carriera; e di fatto io mi era
messo a studiare di buona lena il greco ed il latino; anzi la sera
andava in casa sua a lavorare.

                                  *
                                 * *

Così trascorse l'anno e ritornai a casa: e ritornando non sapevo che
cosa avrei fatto per il tempo avvenire. Mi circondava un vuoto e una
tristezza pacata ma non perciò meno dolorosa, e sentivo anche che io non
era più quello di una volta. Mia madre invece era un po' meglio in
salute e più riposata di spirito.

Fu a quel tempo che seppi della completa ruina di ogni nostro avere; e
fu molto se, per opera del notaio di famiglia, si potè venire ad un
compromesso coi creditori per cui a mia madre era lasciato vita natural
durante l'usufrutto del palazzo e del parco più un tenue reddito. Ella
però non si dava gran pensiero di questo disastro finanziario.

— La casa nostra rifiorirà per opera tua, figliuolo! — mi diceva con
profonda convinzione; e quando mi vedeva con un libro in mano si
appartava per non recarmi disturbo, quasi che in quelle pagine fossero
stampati i segreti della fortuna.

Del resto cose e persone non era caso che ci turbassero. Nessuno più
veniva a tirare il campanello del portone e il procaccio non avea più
lettera da consegnare. Anche nel parco le rose non più curate dal
giardiniere, crescevano selvagge e pei viali i muschi e le erbe maligne
si distendevano.

— Curiosa! — diceva spesso mia madre — da che tu hai lasciato F***,
nessuna più delle mie amiche mi manda a salutare! nè meno un biglietto
da visita. Mi credono forse morta? — domandava sorridendo — e non sanno
che finchè vivi tu e finchè ti so felice io non morirò? Quando le
rivedrai dillo che si ricordino di me!...

Cercavo con vari pretesti di confortarla alla meglio e le davo il
braccio e andavamo per il parco fra quelle rose e per il silenzio
dell'estiva campagna.

Questo abbandono in cui eravamo lasciati, contribuì non poco a farmi
perdere ogni speranza di vita diversa e migliore; così che nel tempo che
le rondini con molto garrire lasciavano i cornicioni del palazzo per le
solatie terre d'oltremare, lasciai io pure la mia casa, e ritornai
laggiù, fra quei scolaretti.

Ripresi la vita dell'anno prima, e il direttore mostrò di rivedermi con
piacere.

Egli era allora tutto intento a compilare certi commenti latini ed io lo
coadiuvavo ricercando nei lessici e ne le grammatiche.

— Queste ricerche le riusciranno di infinito vantaggio — ripeteva ogni
tanto.

— Eh — interrompeva la signora che lavorava al tavolo appresso, e si
trovava costretta per ore ed ore ad un silenzio assoluto — bisognerebbe
mettere sul libro anche il nome di lui....

Egli sorrideva e poi diceva come sorgesse a galla dal fondo della
latinità in cui era immerso: — Invero tu hai ragione, e certo il
prossimo commento, se l'editore me ne vorrà affidare uno, porterà il
nome mio ed eziandio quello di questo valoroso collega.

Io mi profondeva in ringraziamenti ed egli ricadeva, o meglio, tutti e
due ricadevamo ne la più profonda latinità lasciando la signora lavorare
all'uncinetto presso la sua lampadina a petrolio. Molte volte si
oltrepassava la mezzanotte in tali studi e si finiva col prendere una
piccola tazza di ponce che la signora preparava con liquori che erano un
suo segreto; e il borbottare del pentolino a spirito dava il segnale che
bisognava chiudere i libri e mettere in assetto le schede.

— In questi paesi non se lo sognano nè meno un ponce fatto così — diceva
la signora mescendoci —; ma noi pigliamo il buono dove si trova. È vero
che è fatto bene? È una mia specialità.

Rincasando, pensavo a qualche regola di filologia, alla scuola; e
nell'assenza di altri pensieri, gustavo come una soddisfazione e una
consapevolezza di me medesimo che non avea mai provato per l'addietro.

Così trascorse tutto l'autunno e tutto l'inverno che io non me ne avvidi
nè pure.

Mi era inoltre affezionato a tante piccole cose che mi rendevano piena
la vita: ad esempio la mia stanza d'affitto era per me un piccolo mondo:
il letto, gli abiti bene spazzolati su la sedia, le scarpe messe in
fila, i libri, i fogli, le carte disposte con simmetria, i lapis
allineati secondo le lunghezze: abitudini d'ordine e di pulizia a cui
attendeva con una scrupolosità singolare; e mi pareva di non star bene
se non sapeva che tutto era a posto, tutto spolverato, tutto in assetto.
Le mie relazioni non si estendevano oltre quelle della scuola; ed ogni
mio svago consisteva in quella oretta che passavo la sera alla trattoria
dove ci trovavamo in cinque o sei impiegati a pranzare: tutta brava
gente, di gusti semplici, senza pretese e senza desideri. Finito il
desinare, essi sparecchiavano e facevano la partita, ed io andava a casa
a studiare.

La mia vita passata, la mia casa, mia madre stessa si allontanavano a
poco a poco dalla memoria insensibilmente come cose vaghe e sfumate.

Quando ricevevo lettere dalla mamma, sentivo come un sussulto per il
timore di apprendere qualche cattivo annunzio di malattia o di sventura
che mi obbligasse a partire ed interrompere quella mia vita. Ma lei
stava bene, lei era contenta di me ed io non ci pensava più e non
domandava altro.

La primavera è precoce laggiù: viene l'aprile; i monti si coprono di
fresca verdura, le paranze prendono il largo per tutto l'azzurro del
mare, e gli aranci e i cedri aprono i loro fiori e tutta l'aria è
profumata.

Mi sta alla mente una mattina di Pasqua fiorita: gli scolari avevano
avute le vacanze, e ritenuti dall'alto sguardo del direttore, uscivano
da una scaletta aperta, in doppia fila, mal contenendo l'entusiasmo per
i giorni di svago e di libertà che si ripromettevano.

Rimanemmo io e lui sull'alto del ripiano della scala; i giovanetti, già
fuori dal cortile, si spargevano qua e là per la via rumorosamente.

Egli li seguì un istante; poi spianò il supercilio e mi disse
sorridendo:

— Noi periremo, ma l'opera nostra rimarrà. Questa è la nostra gloria! —
e additava i giovani — questa l'opera nostra più meritevole e veramente
eterna! Quando noi insegnamo, non dimentichiamo mai che la patria e
l'avvenire ci guardano.

Egli pronunciò queste parole con voce piana; eppure esse fecero su di me
una grande impressione, e mi colse come un brivido di entusiasmo. Questo
forse avvenne anche perchè ne l'aria spirava non so quale larga serenità
di cose e di natura trionfanti sotto il sole, e i fiori degli aranci
profumavano all'intorno.

Quell'uomo semplice, quell'esistenza ignorata di pedagogo mi si ingrandì
con proporzioni eroiche, e quelle parole mi germinarono ne la mente come
una rivelazione di un sentimento che io pure aveva indistinto ne
l'anima, ma di cui non aveva sino allora saputo rendermi conto.

— È proprio così — io concludeva. — Che cosa c'è ne la vita di vero, di
serio? Tutto è vanità; solo ne lo studio della sapienza, solo ne le
pratiche del bene sta il segreto della vita.

E da allora io cominciai a portare in giro con me questa idea, e anche
nel silenzio della mia stanza, ne la solitudine del letto ci pensavo su
e ci costruivo di gran cose.

Ma io vi dico in verità che quando a un uomo è entrata nel cervello
troppo piccolo la semente di un'idea troppo grande, ed egli va solo,
solo con quell'idea camminando qua e là, ore ed ore, e comincia a fuggir
la gente come un cane ramingo; voi ben potete allora scommettere novanta
su cento che l'infelice è entrato nel treno direttissimo che conduce al
paese della pazzia.

A me accadde così press'a poco, perchè da allora mi chiusi sempre più in
me stesso nutrendomi di questi miei pensieri.

E come era solitario e poco esperto degli uomini, come il tumulto e il
fragore della vita presente non lo sentivo; così il divenire del mondo
mi si presentava in forma di una facciata bianca dove era facile
scriverci ciò che io voleva; e io ci scriveva le massime più sublimi
degli antichi filosofi; dei quali filosofi, eroi, profeti vedeva
popolato tutto il mondo antico, come se gli altri uomini e le altre cose
non fossero esistiti nè meno. Ed empiendo il libro del futuro di queste
sentenze e di questa virtù, provava il piacere puerile che deve provare
un povero disperato il quale scrive su dei pezzi di carta straccia:
«Buono da cento lire», «buono da mille», «vaglia di un milione presso la
Banca d'Italia», e si immagina che quei fogli si mutino in tanti bei
scudi sonanti, in banconote, pioventi ne la sua stamberga fitte come
falde di neve.

E, si sa bene, le idee germogliano come le gramigne, e a me venne la
fissazione che per riuscire a questo buon fine bisognava cominciare col
diventare esempi di virtù essi stessi; quindi volere fortemente, vincere
le passioni, purificarsi e purificare.

Quando principiarono le vacanze dell'autunno, stabilii di non andare a
casa, perchè mi pareva che quel muovermi, quel rivedere mia madre,
quell'espormi all'affetto di lei, sarebbe stato come un rompere
l'atmosfera di virtù che io andava fabbricandomi d'intorno, come il baco
fa del suo bozzolo.

Andai invece a Napoli, dove vivevo tutto il giorno in una biblioteca, e
la notte in una stanzetta d'albergo di quarto ordine. La colazione
consisteva in un panino che mi mettevo in tasca e che sbocconcellava
piano piano in biblioteca; il pranzo in ciò che all'oste piaceva di
darmi, chè io non me ne sarei accorto lo stesso di quello che c'era nel
piatto.

La prima intenzione (e il direttore stesso mi vi aveva consigliato) era
stata quella di studiare le discipline filologiche e procurarmi poi un
titolo accademico; ma a poco a poco la mente divagò dal primo proposito
e fu come assorbita dalla solitudine di quella delirante idealità che a
me pareva sapienza; da una malinconia stoica ed austera che a me pareva
visione di verità.

Anzi quelle quisquilie linguistiche, in cui sino allora io mi era
riposato, diventarono povera cosa o per lo meno semplice istrumento a
fine più vero e maggiore.

Plutarco, Platone, S. Paolo, Tolstoi, Renan, Schelling, Carlyle
formavano le mie letture preferite.

Questioni di sistemi filosofici, di negazione o di fede, di scienza o di
dogma io non ne faceva, e d'altronde la mia mente poco educata agli
studi e poco positiva, sarebbe stata incapace di farne; ma di questa mia
insufficienza non solo non mi accorgevo, ma essa diventava la mia
malefica forza. Perchè io da quelle letture disparate e di autori così
lontani nel tempo, assorbiva solo una idea semplice e smisurata: il
bene! il perfezionamento morale! Purificarsi, vincersi, vincere,
diventare buoni, essere buoni, ecco lo scopo! Le nazioni per me non
avevano più confine, gli uomini non avevano più patria nè differenza di
lingue, la politica non aveva una forma prestabilita che io preferissi
più tosto che un'altra. Senza bontà ogni perfetta forma di governo, ogni
progresso, ogni scienza, ogni arte mi pareva dannosa; col bene tutto era
possibile e bene. Questa formola semplice mi ossessionava, e si era così
impadronita di me da rendermi insensibile alle cose esterne.

Era una specie di eroismo stoico che mi difendeva come un'armatura
medioevale; e così chiuso in me stesso, mi pareva di essere invincibile.
Finalmente io era forte!

Gli uomini o devono raggiungere questo alto scopo o devono morire, cioè
svolgere sino alla consumazione dei secoli la parabola dei loro
rinnovati errori. Anche quel mezzo milione di plebe variopinta e urlante
che mi fluttuava d'intorno per le vie di Napoli, non aveva ragione di
essere se non rinnovata e purificata.

O essere così o non essere.

La domenica, quando la biblioteca era chiusa, andavo su a piedi sino a
Posillipo; uno spettacolo grandioso, come tutti sanno. E il mare di un
azzurro intenso di cobalto con baleni di acciaio, e il vesuvio di viola,
e il sole ne lo splendentissimo cielo parevano assentire alla mia
pazzia!

A queste molte malinconie un'altra se ne aggiunse: mi venne cioè in
mente di stabilire quale forma di governo, quale vita sociale si sarebbe
dovuto dare agli uomini. Ma per fortuna questa nuova fissazione durò
poco, e la solita idea troncò di colpo la battaglia che le varie
opinioni, irte di dubbi e di difficoltà, stavano per attaccare. Quando
gli uomini saranno buoni — pensava — si svolgeranno di per sè in una
forma di governo o di non governo, con leggi o senza leggi, come verrà
loro fatto naturalmente.

Forse che il buon agricoltore quando ha preparato il terreno, quando ha
scelto un buon seme sta poi a pensare come farà a nascere, come farà ad
assorbire gli umori dalla terra, da dove prenderanno i fiori il loro
profumo, il frutto le sue sostanze benefiche?

Qualche volta pensavo anche a me. Che cosa era io? Niente: io era la
formica che porta il suo granello per costruire la montagna. Eppure
anch'io aveva la mia missione e il mio campo di attività; e questa
missione era la scuola.

In queste fantasticherie consumai le vacanze e poi lasciai Napoli e
ritornai alla mia residenza e alla mia scuola.

                                  *
                                 * *

Come tutto questo mutò? perchè svanì come fata morgana? come tutto cadde
alla maniera di un castello di carta?

È la storia della cagna nera. Fu lei, la miserabile bestiola, che mi
guidò ad urtare contro gli uomini e contro la realtà, io che sognava! Ma
io l'ho ben punita!

Storia strana; e il difficile sarà di raccontarla, ma la storia è vera,
ed io lo posso dire perchè la mia ragione vacillò al colpo, e per molti
anni fui poi ricoverato in luogo di salute.

Vedrò di ricordare solamente i fatti; i diversi passaggi del pensiero mi
sfuggono o non mi sento la forza di analizzarli. Dicevo, dunque, che ero
tornato a C*** ne la solita stanza, solita scuola, solita osteria,
solite passeggiate. La mente seguitava le sue fantasticherie; ma la vita
materiale aveva la regolarità di un orario di collegio.

Così passò l'autunno e parte dell'inverno.

Una sera all'osteria il cancelliere della pretura volle pagare da bere
perchè era il suo onomastico. Per ragioni di cortesia, rimasi io pure e
bevvi.

Dopo avevano giocato a scopa sino alla mezzanotte; poi si era fatto
cuocere un gran piatto di quelli che chiamano maccheroni di _zita_ e si
era bevuto ancora...; si era bevuto molto quella sera. Come avvenne poi
che i miei compagni se ne fossero andati e che io rimanessi solo, non
ricordo.

L'oste (mi par di vederlo) rassettava i fornelli, il garzone chiudeva le
imposte. Allora io sentii qualche cosa di molle che mi fuggì tra le
gambe e un momento dopo una cagnolina nera balzò su la sedia di contro,
dritta su le zampine davanti. Poi saltò sul tavolo e cominciò a
strofinare il muso contro di me.

— È vostra questa bestia? — domandai all'oste.

— No...; non l'ho vista mai; io non tengo cani.

— Sarà di qualcuno degli avventori — replicai io.

— Sarà...; ma io non l'ho mai vista: è una bestia smarrita.

— Tenetela voi — dissi — qui ci avrà da mangiare.

— Se fosse maschio — rispose dopo essersi accostato e averla osservata —
se fosse maschio! Ma una femminaccia non la voglio in casa; la butto
fuori su la strada.

— Allora la porto via io; e se si presenta il padrone sapete dove sto di
casa.

Fu così che uscii dall'osteria seguito dalla cagna che mi si attaccò ai
polpacci come avesse capito.

Quando fui a casa al lume di una candela la vidi in attitudine di un
ospite che è stato invitato e attende che gli si facciano i convenevoli
dovuti.

— Dormirai qui, cara mia, e ti troverai un qualche angolo — dissi forte
e la chiusi nell'anticamera.

Io cadeva dal sonno; mi svestii e mi cacciai sotto le coperte e
cominciai a chiudere gli occhi quando sentii che lei, la bestia, raspava
alla porta. Provai a non badarci e a riaddormentarmi; ma quella ritornò
a raspare con discrezione, però insistentemente. Accesi il lume ed
apersi la porta. Stava su la soglia con la zampina levata in atto di
voler entrare e non l'osava.

— La tua cuccia è là — dissi, e la presi sgarbatamente per il collo e la
misi in un angolo. — Giù e buona! — conclusi minacciandola.

La poverina tremava tutta, ma non osava di muoversi; tentava solo con
l'allungare il collo di lambirmi le mani.

Tornai a letto, ma non potei prendere più sonno. Mi venivano in mente
tutte le obbiezioni che avrebbe fatto la padrona di casa: una donna così
meticolosa! E poi che ne avrei fatto di quella bestiola? condurmela
dietro con la cordellina? e la gente non avrebbe riso? e a darle da
mangiare chi ci avrebbe pensato? Insomma scombussolava tutta la mia
esistenza, sconvolgeva tutte le mie abitudini. Avrei pagato qualche cosa
per averla lasciata dove era. Domani me ne disfarò. Questa fu la
conclusione e allora potei dormire.

Al mattino, un largo raggio di sole oriente mi svegliò prima del tempo.
Per l'affare della cagna mi ero dimenticato di chiudere la finestra. Era
presto; e nessuna delle note voci mattutine, nessuna sonagliera di capra
si udiva; e in quel silenzio, in quella lucentezza di sole mi sorpresero
i ritratti dei santi e delle sante appesi alle pareti. Curiosa! non me
n'ero mai accorto che fossero tanti e così brutti! Perchè brutti erano
davvero, e senza idealità come tutti i santi napoletani: oleografie di
paltonieri in cocolla e di megere affette da pinguedine gialla in
soggolo. V'era poi sul comò un Bambino Gesù di cera, grosso quasi al
naturale, sprofondato ne la bambagia, che ne l'intenzione dell'autore
doveva ridere di celeste beatitudine e invece piangeva come un
marmocchio ringhioso. Pareva fatto di salcicciotti tanto era pingue
anche lui! Tutti convergevano gli occhi verso di me obliquamente come a
domandarsi l'un l'altro con ira e sospetto: Che ci fa qui codesto
intruso? Lo sapete voi che ci fa, S. Francesco? Io non _saccio_! pareva
rispondesse una S. Teresa con la faccia tinta di bile per indicarne
l'ascetismo. Non vedete che il bambino santo ne piange? fremeva un S.
Domenico con gli occhi spiritati da accendere da essi soli i roghi.
Vattene ai paesi tuoi! Vattene! borbottava il santo protettore della
città, che era un vescovo effigiato in gesso con una barba nera e tonda
di brigante ben nutrito. E se non fosse stato gravato dal piviale e
dalla mitria che lo insaccava sino alla nuca, si sarebbe mosso e mi
avrebbe scacciato a colpi di pastorale.

Io cercavo di persuaderli umilmente che da un anno e mezzo era con loro,
che mi dovevano riconoscere per un buon figliuolo, che dovremmo vivere
in buon accordo; ma tutte queste ragioni non piegavano il loro sguardo
stupido e feroce. «Tu per noi sei un intruso, vattene ai paesi tuoi!»
dicevano in coro.

Mi distolse da quella contemplazione un raspìo alla porta.

— Che cosa è? — domandai a me stesso. Poi mi sovvenni della cagna e
provai un rincrescimento disgustoso. — Avanti! — dissi a voce forte; e
allora subito la porta si aprì un pochino, piano piano, e la cagnolina
entrò sbadigliando con confidenza come volesse dire: io ho dormito
benissimo, caro amico, e tu come stai? Si fissò contro il letto, con gli
occhi intenti quasi attendesse un mio cenno per montarvi su, la qual
cosa io ne la mia volontà non avrei mai permesso; eppure quella sua
fissazione intenta ebbe per effetto che acconsentissi. Fu su d'un balzo
e mi si buttò sopra con una tale frenesia che non sapea come impedire e
come liberarmene.

— Ma via! ma buona! ma giù!

E la bestiola a lambirmi, saltar da un lato, dall'altro pazzamente,
gemendo, e con gli occhi nuotanti ne le lagrime che parea piangesse
dalla commozione.

— Adesso come si fa a sbarazzarsene? — rimuginavo con gran
rincrescimento.

Intanto per liberarmi da quelle eccessive gentilezze, pensai che il
mezzo migliore era di levarsi e vestirsi. Ma allora cominciò un nuovo
genere di tormento: mi si arrampicava su per le gambe, sgualcendo e
insudiciandomi gli abiti; e quando io l'allontanava a forza, e lei
allora a balzar da una sedia all'altra, addentare le scarpe lucide,
strascinarle per la stanza, mettere in disordine ogni cosa; anche su lo
scrittoio balzare, e con la coda rovesciarmi inchiostro, scompaginar
carte e matite: insomma una disperazione. E pur non cessava di guaire
dalla contentezza; ma quel suono acuto e continuo mi penetrava dentro
come fosse stato un lamento o un compianto.

Addio ordine geometrico delle matite, addio carte disposte in piramide,
libri allineati in file decrescenti! La mia stanza sarebbe divenuta un
pandemonio, e questo pensiero mi disgustava più di quello che non si
sarebbe potuto pensare. Come ho già detto, il pulire e l'ordinare tutte
le mie cosuccie era per me divenuta un'abitudine; e le abitudini anche
più grette sono, come ognuno sa, causa di piacere o almeno di
soddisfazione perchè servono a riempire la vita e la ricompensano del
vuoto e del deserto che in essa il tempo o le sventure vanno formando.

Un bel calcio e buttarla giù per le scale sarebbe stato il rimedio più
certo; ma non me ne sentiva il coraggio e mi pareva viltà. Si mostrava
così felice, povera bestiola, di trovarsi con me! Anzi mi faceva
compassione e questo senso di compassione, io non so come, si estendeva
anche su di me e diventava tristezza.

In quella entrò la padrona di casa col caffè.

— To' — disse fermandosi su la soglia — voi avete un cane?

— L'ho trovato per la strada.

— L'avete trovato? Oh, la mala bestia! (a me poi pareva graziosa) tutta
nera! Andatevene via! — disse poi mentre quella le si accostava
cautamente annusando — è tutta nera. Se l'avete trovata e sta una
femmina, certo tiene il demonio.

— Voi mi fate il piacere, non è vero, donna Carmela, di darle un po' di
zuppa nel latte? — domandai.

— Per riguardo a voi — rispose dopo averci pensato un poco — lo farò; ma
quell'animale lì non mi piace: e poi ve lo dico prima; se mi sporca per
le stanze lo mando fuori.

Io non risposi nulla e lei se ne andò borbottando non so che cosa.

La cagna si era fermata ne le sue scorribande, io rimanevo pensoso.
Intanto un rumore allegro di voci si udiva giù ne la strada: erano gli
scolari che attendevano che si aprisse il cancello del ginnasio. La mia
finestra dava proprio sopra la scuola. Mi riscossi, presi il cappello,
ma poi vedendo quegli occhi supplichevoli che mi guardavano: — No —
dissi con un'affettuosità che mi sorprese —, non ti abbandonerò, non ti
scaccerò.

E uscii. Ma appena fui su la strada un abbaiamento intenso, acuto,
continuo mi percosse e tutti gli scolari si volsero in su a vedere. Era
la cagna che si era sporta fra i ferri del balcone e mi aveva
riconosciuto. Faceva degli sforzi per buttarsi in fuori che io tremava
che cadesse giù; ma mi pareva di venir meno alla mia dignità di maestro
voltandomi e facendole cenno, tanto più che sentiva un mormorio di voci
presso di me:

— La cagna del professore.

Queste due parole accoppiate mi suonarono come uno scherno, e quel
giorno, per la prima volta, le ore della lezione mi parvero lunghe.

Quando tornai di scuola c'era su l'uscio della mia stanza la figlia
della padrona di casa. Come mi vide, diede in una grassa risata che non
la finiva mai.

Era costei una zitella ventenne che se non fosse stata pingue e sudicia
più del giusto, avrebbe potuto diventar piacevole con l'abitudine, e si
sarebbe potuto anche passar sopra un lieve difetto che avea di
strabismo.

Dunque ella rideva, e quando cessò, disse con la sua voce che avea
flautata e pastosa:

— Lo sapete voi? Quella bestia (e indicava la cagna che se ne stava in
un angolo tutta mortificata) vi mangerà metà del mensile. Sapete che ha
vuotato una scodella grossa, piena di pane con due soldi di latte?

La facezia, in verità, non era delle più felici; ma io per cortesia mi
credetti in dovere di sorridere.

Ella allora interpretò il sorriso come un incoraggiamento, e accostatasi
a me piegò il capo da un lato ed abbozzando una smorfietta che non era
priva di grazia, domandò.

— Voi, professore, m'avete a cavare una curiosità che tutti mi
domandano.

— Dite pure — risposi.

— Voi siete barone, siete marchese, nevvero?

— Sì — dissi arrossendo mio malgrado — io sono conte.

— Oh! — fece lei, e non si capiva se esprimesse meraviglia o dispregio.

— E allora perchè fate il mastro di scuola? — domandò — Al vostro paese
i baroni fanno i mastri di scuola?

Mi guardò con uno sguardo indefinibile in cui c'erano molti sentimenti
fra cui non poca pietà e molto disgusto, e se n'andò crollando il capo
in modo che pareva dire:

— Si capisce che voi siete un miserabile come noi!

                                  *
                                 * *

Da allora si fece vita in comune, e non tanto per mia volontà quanto
perchè quella bestiola non c'era verso che mi si volesse staccare dai
panni.

Sembrerà che io racconti una cosa strana; ma certo quella cagna avea
sconvolto l'equilibrio della mia esistenza. Ecco: se i miei conoscenti
le avessero fatto un po' di festa, se avessero detto che era bellina,
che era graziosa; e se lei mi avesse lasciato in pace con tutte quelle
dimostrazioni di affetto, non me ne sarei forse accorto del mutamento.
Ma invece tutti mi fermavano per la via e mi dicevano in tono
canzonatorio:

— Professore? ih, che brutta bestia avete preso voi; è bastarda, sapete!
— oppure: — Professore, avete passione pei cani? ma questa vi fa torto.
Quando vi decidete voi a mandarla alla concia? Gli scolari poi si
fermavano dietro a guardarmi dopo ch'io era passato.

Tutto ciò mi disgustava; ma più che tutto mi impacciava, perchè era
ferito ne la mia timidezza, e non sapeva quale contegno tenere.

Una volta, mentre attraversavo il corso di sfuggita, vidi molti occhi
rivolti con insistenza su di me, e su le labbra errare un sorriso che mi
parve di scherno. Abbassai il capo e arrossii. «Che sia forse ridicolo?»
e questo pensiero mi balenò all'improvviso e mi disfece nell'animo. Io
che mi credeva così rispettabile agli occhi di tutti per la mia vita
savia e per l'adempimento de' miei doveri!

Un'altra volta ci fu un mio conoscente che si permise di misurarle un
calcio, che la poverina schivò rannicchiandosi tutta di scarto dietro di
me.

Ricordo che dentro nell'animo fremetti, eppure non ebbi lo spirito di
prendere la cosa in ischerzo e nè meno la forza di reagire contro l'atto
villano. Rimasi lì confuso e anzi risposi: «che volete? è una bestiaccia
che non so come sbarazzarmene».

Dopo ci pensai e riconobbi di avere agito e parlato da persona debole e
timorosa. Questo pensiero mi feriva come il ricordo di una viltà e non
lo potevo staccare dalla mente.

Ma quando si usciva fuori dell'abitato, per le viuzze dove c'era un po'
di sole, lei si faceva più vispa, salterellava avanti scodinzolando; e
volgendosi a me sembrava dire con quelle sue pupille umide e intente: —
Poveretto, che ci vuoi fare? siamo due poveri diavoli, io e tu: non è
vero?

Però anche quella villania e quelle volgarità verso di lei mi facevano
male; e ci dava più importanza che non meritassero: e infine cominciai a
pensarci su.

Un giorno mi persuasi anch'io che la cagnolina era poco bella: povera
bestiola!

Ecco come fu: in fondo del corso v'era un negozio di mode con un gran
cristallo a specchio su lo sporto che ci si vedeva da capo a' piedi.

Ci era passato davanti chi sa quante volte senza badarci; ma quel giorno
l'occhio si fissò sull'immagine riflessa in quel vetro e vi si arrestò.
Il vetro pareva sdegnoso di rifletterci; dico così perchè eravamo in
due: io e la cagna. Lei era, come il solito, col muso appuntato ai miei
polpacci; piccola, alta a pena due spanne, la testa bassa, la coda
penzoloni fra quelle gambe di dietro, aduste e macilenti che salivano
tanto alte da tagliare come in due la schiena; e ci si contavano le
costole.

Ma il peggio fu quando m'avvidi che quel non so che di vecchio, di
misero, di spregevole si rifletteva anche su me: anche la mia schiena mi
pareva curva, anch'io era macilento; l'occhio spaurito e melanconico, la
barba incolta e come senza colore.

Ma dove era fuggita la mia giovinezza?

La giovinezza è una ben strana e misteriosa compagna! Ci pare che essa
debba sempre vivere con noi come una sposa fedele; e invece a un certo
punto della vita si parte in silenzio come un'adultera che si leva dal
letto mentre dormiamo e corre a più gagliardi amori; e non c'è manifesto
dell'abbandono se non quando essa è irrimediabilmente divisa da noi e ne
udiamo presso altri il lungo, indimenticabile riso.

Un'altra volta era di domenica, l'ora della messa e c'era un bel sole;
uno di quei soli folgoranti come sono laggiù nel meridionale, specie
quando sta per tornare il buon tempo.

Dinanzi alla più aristocratica bottega da barbiere stava un crocchio di
giovanotti, i più eleganti del paese: occhieggiavano le donne ed i
passanti e poi conversavano fra loro; e movendosi facevano un gran
luccicare di scarpe di vernice, di colletti alti e di catenelle.
Frammisti erano anche due o tre scolari del ginnasio (laggiù sono molto
precoci) di quelli che più si davano il tono di giovanotti.

Passai io, e tutti gli sguardi si puntarono su di me con un'impertinente
insistenza, squadrandomi da capo a piedi. Gli scolari si toccarono a
pena l'ala del cappello, gli altri non si mossero nè meno: e subito che
fui passato mi colpì come una voce di scherno: — il professore e la sua
cagna! — detta in quello sguajato accento napoletano che è di per sè
stesso un oltraggio. Poi udii un'altra parola che terminava in _ai_, che
non capii; ma tutti si misero a ridere.

Mi sentii un gran caldo alle orecchie ed un tuffo al cuore. Diventai
feroce contro coloro ma più contro di me e contro quella mia bestia;
feroce al punto che alzai la gamba per iscagliarle un calcio. Essa
intravvide l'atto, si scansò e mi fissò sorpresa. Pareva dire: — contro
di me? va contro quegl'altri!

Era vero: contro quegl'altri mi doveva rivolgere e feci per tornare in
dietro e domandare ragione dell'oltraggio. Che oltraggio? Avevano detto:
la cagna del professore. Era o non era così? Sì, certo? e allora? e
allora che riparazione chiedere? A quell'ira momentanea successe una
prostrazione di tutte le forze come se i nervi mi si fossero tagliati.
Mi passai la mano su la fronte e la sentii fredda e umidiccia e poi
proseguii camminando, andando lontano, fuor del paese, dove non c'era
gente, dove non c'era nessuno ne le vie polverose battute dal sole.

Ma anche il sole fu crudele quel giorno verso di me, perchè investendomi
da ogni parte, suscitava dal mio abito nero dei riflessi verdognoli; e
tenendo il capo basso per osservare quel colore della miseria, mi avvidi
che i calzoni erano sospesi in alto, su le scarpe, con ignobili frange.

Non trovai altro scampo che mettermi a camminare, camminare forte perchè
non mi raggiungessero. V'era qualche cosa che mi correva dietro.

Era un _char-a-banc_, come usano laggiù. Più di venti persone sedevano
sui banchi; il cavallaccio fuggiva sbrigliato e arrembato con fragore di
sonagliere. Mi oltrepassò e scomparve. Ma il rumore mi rimase ne gli
orecchi.

Mi pareva poi che venisse dietro a me una cavalcata di pensieri
schernevoli e pazzeschi. Cavalcavano dei cavalli apocalittici, maceri
come la mia cagna; ma pur a spronate e a scudisciate avevano levato il
trotto, e coi zoccoli battevano su la strada sonora e polverosa con
cadenza precipitata; «e dai! e dai! e dai!» urlavano tutti dietro di me
e si udivano risa atroci e sghignazzamenti senza fine. Poi quei fantasmi
scomparvero o svoltarono. Allentai il passo e mi accorsi che camminavo
lungo una bella riviera, dove l'acqua, fra le verdi sponde, correva lene
e cristallina su la ghiaia. Quella vista mi calmò un poco, e così
andando, giunsi che il sole era alto e la campagna deserta, perchè era
domenica, giunsi, dico, presso una grande e famosa necropoli latina. Fra
le agave smisurate si apriva il sentiero che conduce a Pompei. Ci ero
stato appunto lo scorso anno, e mi stava ne la memoria l'impressione
lieta e riposata d'allora. Era una domenica e avea con me cinque o sei
dei miei scolaretti più diligenti. Io mi ero preparato a fare alcune
spiegazioni e girando per quei fori, in mezzo a quei ruderi giganteschi,
aveva suscitato alla loro fantasia molte e belle immagini di uomini
virtuosi e di opere degne. Poi, al ritorno, si era fatto un piccolo
asciolvere in un'osteriuccia di campagna, sotto una pergola; e fra quei
visi freschi di giovanetti intenti a divorare con più devozione che non
avessero udite le mie parole, provava uno struggimento di conforto, un
desiderio di far bene, di far sempre di più.

Ma quel giorno le nobili impressioni non fu possibile di rinnovare. La
mente correva per un'altra strada. Le ombre latine e gli spiriti magni
quel giorno dormivano il loro sonno immortale; ma vidi per il foro
grandioso, per la via decumana accalcarsi un sollazzevole popolo che si
dava buon tempo; e parean dire: «Stolto che tu sei! non ombre magne e
come te dolorose, ma ombre liete fummo!» e vidi isnelle bellezze di
_etère_ greche, numerose ed impudiche proprio come adesso. E fra le
eleganze delle marmoree colonne, degli atrii; fra le pulite pietre delle
terme, per gli splendenti mosaici, vedeva gente intenta a godersi la
vita.

                                  *
                                 * *

La domenica seguente seppi che cosa significava quella parola che aveva
udita e che terminava in _ai_.

C'era lì nel paese un certo signor tale, commerciante in calce e in
mattoni, uomo sui cinquant'anni, ma esuberante di rozza e spavalda
vitalità, di quelli che sanno fare a tenere allegre le brigate e
rispondere con bei motti. Costui ci aveva preso gusto della mia
compagnia e gradiva molto che io fossi con lui, tanto che per evitarne
la volgarità e le intemperanti facezie, lo sfuggivo bene e spesso. Ma
lui se mi incontrava col carrettino voleva che salissi; se era al caffè
mi costringeva a sedere e a sorbirmi una bibita che non c'era verso di
pagare.

— Voi altri professori — diceva cacciando le mani in tasca e poi facendo
cadere dall'alto i soldi sul vassoio — sarete fior di letterati, ma
avete una bolletta santissima!

Io sino allora non ci aveva fatto caso di queste confidenze avanzate. Mi
parevano segno di animo un po' rozzo ma affettuoso; e ne la mia
equanimità di uomo savio, lo compativo in segreto.

Dunque quella domenica mi disse fermandomi in mezzo al passeggio, con lo
zigaro in bocca e posandomi la mano su la spalla:

— Be', come sta _Patirai_?

— Chi è _Patirai_? — chiesi sorpreso.

— Bella! — fece lui — se non lo sai tu, chi vuoi che lo sappia?
_Patirai_ è il nome della tua cagna. Tutti la chiamano così.

— E perchè? — domandai arrossendo.

— Perchè è così magra; e poi dicono che deve patire la fame a stare con
te.

— E perchè?

— Cosa vuoi; scusa, non te ne avere a male, ma ti vedono andare in
pensione in un'osteria di secondo ordine a quarantacinque lire al mese,
dove ci sono tutti impiegatucci di dogana, delle poste....

— Sì, ma ci va anche il vice pretore — obbiettai io perchè non mi
sovvenne lì per lì, o non osai dire la cagione vera.

— Bravo! — replicò — Ma sai tu quante ne dicono di lui? Tu sei ancora un
ragazzo; lasciatelo dire: sarai professore, avrai molta scienza in
testa; ma non capisci le cose.

Aveva preso un tono serio e seguitò:

— Mio caro, in questi paesi per essere stimati e rispettati bisogna dare
molto fumo ne gli occhi. Se no...., se no, ti montano sui piedi.

— Ma io faccio il mio dovere — dissi con un tono di voce che non era
privo di dignità.

Allora lui sbuffò due boccate di fumo. E — queste sono parole, caro il
mio ragazzo — disse con dispregio — e se ci credi, peggio per te.
Bisogna darla a bere, non la capisci? Fai il professore, fai il
pizzicagnolo, fai il medico, l'oste, ma bisogna sempre darla a bere.

Va, va! Fa a mio modo, se no, non riuscirai mai a niente; e butta a mare
quella bestia rognosa che ti rende ridicolo; e se vuoi un cane, ti
regalerò io un bel bracco. Cosa vuoi andare in giro con quella carogna?
E poi — aggiunse sorridendo — tienti un po' su, vestiti meglio e
comincia a far la corte alle donne. Non vorrai mica aspettare quando
sarai vecchio?

Egli se ne andò tutto soddisfatto di avermi dato dei buoni consigli; io
rimasi confuso con quella mia bestia da presso, e peggio fu poi, chè
meditando su le sue parole, m'avvidi che esse contenevano molto di vero.

Fu una ben triste sorpresa!

— Ma e allora? — esclamai esterrefatto — allora che era di me? Quella
virtù, quel sacrificio, quel dovere costantemente compiuto, di cui
andavo così superbo, che riempiva tutta la mia vita, non era altro che
una tragica farsa ne la quale io solo era attore e spettatore ad un
tempo.

Pensai a lungo così quel giorno, andando sempre dove non c'era gente,
lungo la spiaggia ferrigna di quel golfo; e l'onda sonante e frangentesi
a miei piedi con regolare intervallo, mi pareva dire con rabbia: tutto è
monotono quaggiù, tutto è fatale. Tu segui la tua parabola di false
opinioni, di idealità sconfinate, perchè l'hai nel sangue la maledetta
eredità della gentilezza e del bene, come io seguito a percuotere questo
lido, come il sole s'annoia nel suo giro, e me lo dice ne' misteriosi
colloqui sopra il deserto dell'oceano, come la tua cagna vien dietro ai
tuoi polpacci, come il tuo soprabito è verde, e come gli uomini sono
quello che sono.

Io andava così pensando lungo la riva del mare e il sole dardeggiava sul
mio capo, e le mie idee turbinavano a tondo come in una ridda.

Mi sedetti su di uno scoglio e mi colpiva il mare col suo bagliore di
cobalto ardente.

Ma le onde battevano su la scogliera. Venivano dall'alto, verdi, erte,
trasparenti come vetro di smeraldo; più e più affrettavano la corsa,
spumeggiavano ne la cresta, si accartocciavano e rompevano fragorose e
rapide con infinito pulviscolo ai miei piedi.

— Lo vedi tu, sorella azzurra? lo vedi tu, sorella bianca? — dicevano
l'una all'altra movendomi in contro. — Quegli è un matto! Egli era nato
in buono stato; poteva far la traversata della vita senza accorgersene,
come un pulcino in una scatola di bambagia. Ne la tua società — mi
domandavano — non ce n'erano più di marchese vecchie con la prurigine
della lussuria; non c'erano fanciulle ereditiere da sposare; non c'erano
sul tappeto verde del tuo _club_ buoni da mille da guadagnare? No! Egli
si è voluto attentare inerme e nudo contro l'immane battaglia della
vita, ed è montato in buona fede su la nave della virtù. Ora è in mezzo
al mare, ed il vascello dei fantasmi varca, ed egli ha paura perchè si è
trovato solo. Credevi forse di trovarci degli uomini veri per compagni?
Erano fantasmi quelli che apparivano. La nave della virtù non ha
viandanti, non ha porto che la ricetti. Solo l'isola della Utopia
l'accoglie qualche volta nel suo eterno errore. Almeno Don Chisciotte,
lo squallido cavaliere, si era messo una corazza di cartone e sul capo
un bacile da barbiere.

Così parevano schernirmi le onde.

Ma io dovetti errare molto su e giù per le anfrattuosità della costiera,
perchè non mi avvidi che il sole discendeva, e solo le tenebre mi fecero
trovare la via del ritorno.

Quando fui a casa, m'accorsi che la cagna non c'era più: evidentemente
si era smarrita o si era addormentata, ed io mi ero levato e me n'era
andato.

Non ne provai dispiacere, e non pensai nè meno che essa avrebbe guaito
tutta la notte cercandomi su e giù per la riva; che avrebbe potuto
cadere in mare, che alla mattina avrebbe avuto fame: io non ci pensai.
Avevo una gran stanchezza e dormii tutta la notte quanto fu lunga senza
risentirmi.

Il giorno seguente mi persuasi che si era affogata; perchè altrimenti a
quell'ora avrebbe fatto ritorno; e stavo col cuore sospeso temendo di
udirla raspare alla porta. Nulla!

Così passarono diversi giorni e a me pareva di essere più libero allora
che _Patirai_ non c'era più. Perchè v'era quel brutto nome di _Patirai_,
quello schernevole nome di _Patirai_ che non mi si voleva staccare dal
cervello. A tutto ciò che è buono e che è debole si può dare il nome di
_Patirai_: un nome che fa ridere! Ma la cagna era affogata: dunque tutto
era finito; anche il nome mi si scancellava a poco a poco dalla visione
della mente.

Questo però non vuol dire che io riacquistassi la pace di prima: anzi mi
sentiva le cose, le occupazioni, gli uomini pesarmi e stringere da ogni
parte. Provai a riconfortarmi ne' miei studi prediletti, ma non ci
riuscii. Ore ed ore, prima, io le passavo ne la mia stanzetta a leggere
e meditare sopra un capitolo di S. Matteo, un'epistola di S. Paolo, un
dialogo di Platone. Il mondo mi si allargava in paesaggi senza confine,
e vi pioveva una gran luce e una gran dolcezza.

Ma allora, per quanto mi ci provassi, non riuscivo più a rinnovare
quello stato di estasi nel pensiero. Un giorno deponendo sul tavolo un
volume di Platone, domandai: Vediamo un po'; se Socrate di cui tanti
hanno scritto in tutti i secoli, tornasse ancora al mondo, che cosa ne
farebbero di lui? lui che aveva la fissazione di voler far diventare gli
uomini belli e buoni, e non lasciava in pace nessuno e si appiccicava ad
ogni persona e ragionava dalla mattina alla sera, ed era noioso come un
moscone! Ma gli tornerebbero a dare il veleno un'altra volta! Ecco una
cosa di cui non si può dubitare.

Anche la scuola che era stata un caro asilo di pace, non mi dava più
alcun conforto, anzi ne provavo un tedio invincibile al punto che la
parola finiva con lo svanire dalle labbra come l'idea dal cervello.
Molti sono i patimenti dell'anima; ma uno dei maggiori deve essere
quello del sacerdote che si accosta all'altare dopo che ha perduto la
fede.

Tutti quei personaggi greci e romani così insigni per virtù patrie e
civili e per grande sapienza, come Catone Uticense, Tiberio Gracco,
Aristide, Fabio Massimo e tanti altri, io non era più capace, come una
volta, di rappresentarli alla mente dei miei scolaretti ne le loro
proporzioni grandiose ed eroiche. Mi ci entusiasmavo tanto, un tempo! Ma
essi allora si rimpicciolivano a poco a poco come quando dopo avere con
gran forza gonfiata una palla di gomma, essa invincibilmente riprende la
forma di prima. Si rimpicciolivano: anzi diventavano goffi, proprio come
li rappresentano gli scolari ne la loro fantasia sui quaderni o
correggendo le vignette intercalate nei testi. A Cesare aggiungono la
barba; sul venerabile capo di Socrate innalzano un _kolback_ borbonico;
ad Attilio Regolo inforcano gli occhiali e lo armano di rivoltella a
percussione centrale e di un vetterly, ultimo modello, perchè si difenda
dai feroci cartaginesi: vecchi fantocci di eroi che, ne le scuole, si
mettono da parte ogni anno al finire delle lezioni e si riprendono
ancora più polverosi e più grotteschi di prima, nel modo stesso che lo
stanco burattinaio appende alle quinte, quando è finita la farsa, i suoi
terribili testa di legno per distaccarli ancora la sera seguente. La
fame ha pur le sue leggi.

E poi anche quel vecchio latino mi era venuto in uggia: quel latino
disseccato ne le scuole con tutte quelle sentenze di virtù, di amor
patrio, di eroismo, di temperanza; sentenze mummificate nei libri di
testo, sotto l'azione pedantesca delle chiose che vi fanno quei poveri
compilatori mezzo rosi dalla miseria e mezzo dalla presunzione!

O antico mondo romano, come ci tormenti con la tua materialità, mentre
l'idea della tua vita forte e serena è così lontana da noi!

E voi pure, deità pagane, o Venere, o Galatea, bianca come il latte, o
Febo Apolline, o Bacco cinto di pampini e d'edera, a cui gli scolaretti
aggiungono tuba e _stiphelius_, non avevate altro rifugio che queste
scuole? In fondo ai mari, su fra i monti inaccessibili, nell'aere
sereno, ne le terre inesplorate non trovaste più stanza o luogo ove
godere della vostra fragrante gioventù? ovvero il tedio e la
decrepitezza dei secoli fatali è caduta anche sopra di voi? o il ferreo
carro del progresso vi ha snidato da ogni selva e da ogni fonte?

E pensare che io un tempo aveva tanta fede in voi, antichi segni di
verità, e che insegnavo con tanta passione che quella dozzina di
scolaretti mi stavano ad udire a bocca aperta e facevano tutto quello
che io avessi ordinato!

Ma allora, ripeto, la voce mi moriva, e stavo lungo tempo in silenzio
come chi è smemorato; e, in fine, riscosso dal bisbiglio degli scolari,
riprendeva stanco la spiegazione di qualche regola. Gli scolari!
fisonomie ingenue, occhi soavi di adolescenti che venivano alla scuola
come sorpresi e un po' paurosi a' nuovi studi. Ed io posavo la mia mano
e le accarezzavo pure quelle testoline bionde e brune; ed essi pendevano
dalle mie labbra: mi compiacevo di vederli così docili, così piccini,
così graziosi col loro giubboncino alla marinaia, i calzoncini corti, le
manine coi geloni, fredde fredde, l'inverno: poveri e cari bimbi! Ma voi
passate in un volger d'anni, voi non vi ricordate più! Diventate giovani
in così breve tempo! Altre cure di piaceri o di eleganze o di studi
maggiori vi distraggono nell'incosciente spensieratezza degli anni, e
non lo salutate nè meno più il vostro primo maestro di cui avevate
allora tanto rispetto e che ha sacrificato a voi tutta la gioventù che
egli pure come voi aveva.

O come scende anzi tempo la vecchiezza e la tristizia nell'animo quando
si vede la fanciullezza tramutarsi in gioventù, sotto i vostri occhi, di
anno in anno e fuggir via spensierata. Ma voi non li potete
accompagnare, voi rimanete sempre lì fra quei banchi rosi da molte
generazioni di tarli e di scolari; in quella scuola semibuia dove il
ritratto del re guarda sempre con quei suoi occhi fissi di falco, e
sotto v'è un povero Cristo inchiodato ad una crocetta, con la testa
china in atto di grande abbandono.

                                  *
                                 * *

Dunque la cagnolina era smarrita da un mese: io non ci pensavo più.

Un giorno — era un cheto meriggio — mentre spiegavo agli scolari alcune
regole, la porta della scuola si aperse un pochino e una cosa nera corse
fra le due file dei banchi, gemendo con suono umano: era la cagna. Balzò
su la cattedra, mi si buttò addosso lambendomi, contorcendosi. Vi fu un
istante di silenzio e di sorpresa, poi scoppiò un riso solo, alto,
argentino, irrefrenabile.

— _Patirai!_ _Patirai!_ — gridavano l'uno e l'altro — la cagna del
professore!

Non stavano più fermi, si erano levati in piedi, alzavano le braccia,
singhiozzavano dal ridere: una cosa atroce! Allora la cagna si voltò
verso di loro e tendendo il collo rabbiosamente, cominciò ad abbaiare
contro con un urlo angoscioso e feroce.

Era magra più di prima, avea tutto il pelo irto, ispido, sucido di
polvere e di pillacchere. Ma a quell'urlo più cresceva il riso degli
scolari e il vocìo di _Patirai!_ _Patirai!_

Che cosa feci io? Nulla: mi sentivo un gran rossore in faccia e le
tempie mi martellavano.

Quanto durò quella scena? Non ricordo. So che la porta si spalancò del
tutto e comparve il bidello e dietro lui la figura nera, sorpresa e
disgustata del direttore: il quale non entrò, non disse nulla, ma fece
un cenno al bidello. Questi allora entrò e senza far parola prese a
forza la bestia e la portò via e poi chiuse la porta.

Allora le risa si calmarono a poco a poco e il rossore lentamente sparve
dalle mie guance; anzi diventai pallido, ma il cuore mi batteva.

Poco dopo rientrò il bidello in punta di piedi; mi si accostò
riguardosamente, e con grande serietà mi disse all'orecchio: — Che cosa
ne devo fare di quella bestia? gliela devo portare a casa?

— No — dissi forte, e avea bisogno di vincere il ridicolo che mi sentivo
ronzare attorno — no a casa...: portatela via, liberatemene!

— Allora lasci fare a me — disse colui con un tono di voce come si fosse
aspettato questa risposta —, e vedrà — aggiunse con triste sorriso — che
non avrà più noie da quella bestiaccia, glielo garantisco io.

Per fortuna la scuola intanto era finita. Mi rifugiai a casa e mi
distesi sopra il letto. Avrei dato qualche cosa per addormentarmi; ma
non ci riuscii: un torpore stupido mi abbatteva e non si voleva mutare
in sonno.

Mi stava poi alla mente quella poverina di _Patirai!_ (già la chiamavo
così anch'io, perchè vedevo che il nome le si conveniva proprio) mi
stava alla mente come dicesse: «Chi ti vuol bene più di me in questo
paese? Nessuno; e tu hai vergogna di riconoscerlo. Vedi che sei un
debole?» No, non era tanto il torpore come questo pensiero che mi
allontanava il sonno.

Quando ad una certa luce più calda e meno viva capii che il giorno stava
per finire, mi vinse come un tedio e non so quale sgomento delle tenebre
che sarebbero entrate fra poco. Allora mi feci forza; mi levai dal letto
ed uscii.

Presi una delle solite vie solitarie e camminava avanti.

Il tramonto luceva vermiglio e grande: la via bianca di polvere si
apriva fra due siepi di alto bianco spino fiorito.

Ad un tratto, allo svoltare della via, in fondo, mi si offerse qualche
cosa di brulicante e di nero; poi una vampa di fuoco, un fumo nell'aria
e un guaito; non forte ma fioco, eppure esso risonò dentro di me, sui
miei nervi come uno strappo selvaggio su le corde di un'arpa
addormentata.

Mi fermai, e il guaito si ripetè una seconda volta, ma tragico,
lacerante, con tutto il terrore della morte. La fiamma per rinnovato
alimento salì a vortice e vi rispose un urlo di festa, con voci e
squilli di risa infantili.

Allora corsi disperatamente. Quelli non se ne accorsero, tanto erano
intenti, se non quando fui da presso e udirono il rumore delle pedate.
Si voltarono, mi riconobbero e poi si squagliarono come una schiera di
conigli ad improvviso rumore. Alcuni filarono giù per la via, altri
svoltarono ad un sentiero, altri si imbucarono ne la siepe e poi via per
i campi.

Mi avevano riconosciuto: era il maestro, l'entusiasta maestro di virtù
classiche e di umanesimo applicato all'infanzia che veniva a constatare
de visu la perfetta inutilità del suo metodo.

Voi avete capito quale fosse l'impresa di gesta de' miei scolari; essi
davano fuoco a _Patirai_; all'imbelle, alla lamentevole _Patirai_.

La paglia di cui l'avevano circondata, crepitava in istami rossi e
fuligginosi che poi si facevano neri, si sfacevano e si spegnevano. Mi
accostai all'albero dove la cagnolina era legata con un grosso canape;
la sciolsi, e poi me la ricoverai in braccio. Essa gemeva e mi lambiva:
seguitò poi a lambirmi per tutta la strada.

Il pelo era mezzo bruciacchiato che mandava un fetore insopportabile;
pure non la deposi e feci tutta la strada così. Su la spalla un lembo di
pelle cadeva e mostrava la carne viva, tanto che la zampina ne era
offesa e la teneva sul mio braccio come morta; e ogni tanto guaiva.

Quando mi si parò davanti la luce dei fanali della barriera (si era
fatta notte) la deposi, e lei mi seguì sino a casa saltellando a sbalzi,
con la zampina rattrappita.

Comperai dallo speziale un po' di pomata; e quando fui di sopra ne la
stanza, la curai alla meglio e le fasciai con due fazzoletti la ferita.
Essa lasciava fare senza più lamentarsi; soltanto mi seguiva con gli
occhi.

— Adesso ti andrò a prendere del latte e te ne farò un po' di zuppa —
dissi come se avesse dovuto intendere — e tu starai buona, è vero? e
farai la cuccia dove vuoi tu, sul letto, che ti piaceva tanto, su questo
bel cuscino.

Uscii, comperai il latte, le feci la zuppa, ma non la mangiò. Allora la
accarezzai pianamente. Pensai per un momento di condurla con me
all'osteria e non abbandonarla lì sola; ma era troppo sfigurata e
deforme, e tutti mi avrebbero chiesto come l'avessi ritrovata dopo tanto
tempo e chi l'avesse conciata a quel modo.

Ora io sentivo che ne avrei sofferto a raccontare quell'avventura di
_Patirai_; anzi avrei voluto anch'io non pensarci, ma mi sentivo un
avvilimento profondo, e insieme un'idea fissa sorgeva da quella
insensibilità torpida di prima e si andava schiarendo a poco a poco.

Con la mano dentro lo sparato della camicia, mi tormentavo il petto; ma
non riuscivo di trovare uno sfogo al dolore di quell'idea.

Andai all'osteria. Per fortuna quando misi il piede ne la saletta tutti
avevano finito di desinare e ragionavano calorosamente con gran voci e
gran gesti dell'ultima seduta parlamentare. Mi sedetti quasi inavvertito
al solito posto.

— La minestra è stracotta — disse l'oste, mettendomi davanti la zuppiera
e levando il piatto che ne conservava il calore. — Colpa vostra; siete
venuto tardi. Chi tardi arriva male alloggia.

Io non risposi; mi provai a mangiare, ma per la gola non ci andava giù
il cibo; allora bevvi in due bicchieri tutto il mezzo litro di vino
perchè mi sentivo arso di dentro, e poi aveva bisogno di calmare come un
tremito di convulso che mi scoteva tutto.

Stavo per sbarazzarmi della sedia, levarmi, andarmene, quando avvenne
che il vice pretore, un omino sui quarant'anni, si distraesse dalla
questione, e appena ebbe posato lo sguardo sopra di me, vi si fermò, e
mi chiese inarcando le ciglia:

— Caro professore, ih, che brutta ciera avete voi!

Mi sforzai di sorridere senza parlare; ma sentii io stesso che il
sorriso era più tosto una smorfia dolorosa; e lui certo se ne avvide
perchè mi domandò con premura:

— Vi è forse accaduta qualche disgrazia? avete avuto una cattiva
notizia?

Sorrisi ancora; cercai con uno sforzo di trovare una risposta che fosse
d'altra natura che quell'idea che mi si era inchiodata di dentro;
finalmente mi parve di averla trovata, e posando il capo su la palma
della mano, domandai con voce che cercavo sonasse tranquilla e come
indifferente:

— Caro avvocato, io vorrei sapere perchè ne le vostre leggi non ci
mettete un articolo che punisca con un paio d'anni di galera, per lo
meno, quegli infami che si divertono a martoriare un essere, creatura di
Dio, che non si può difendere perchè non ha forza da difendersi, perchè
se chiama aiuto non ha nessuno che gli risponda, perchè se piange, se
urla, tutti si mettono a ridere....

Il vice pretore aveva preso la questione sul serio e mi guardava per
iscrutare quale cosa io volessi dire, poi mi fece cenno del capo come a
significare: «Spiegatevi più chiaramente.»

Allora richiamai la voce che sentivo che si era alterata, alle
proporzioni naturali, e seguitai con studiata indifferenza:

— Una cosa da nulla, un'inezia. Dopo mezzodì, voi sapete, si schiaccia
un sonnellino. Quest'oggi, non so come, non riuscii a chiudere occhio;
dunque mi alzo e vado fuori. Voi vi ricorderete anche che io aveva una
cagnolina....

A questa parola la mia voce si intenerì al ricordo, e il volto del vice
pretore fece invece una smorfia come per dire: «Ho capito, voi mi
raccontate una qualche sciocchezza»; e fu allora che io perdetti la
padronanza che aveva conservata su di me sino a quel punto, e cominciai
a raccontare quella scena atroce di barbarie che non era, no, una
sciocchezza. Certo io mi devo essere esaltato in quella narrazione, ma
non mi sovviene; ricordo però che vi fu un certo momento in cui mi
sorprese la mia voce stessa che suonava sola, in alto, in mezzo ad un
silenzio completo.

Tutti si erano voltati verso di me; tutti quei volti mi guardavano con
meraviglia. Anche il cuoco si era accostato al tavolo, col suo ventre
coperto dal grembiule, e il guattero stava con la testa sull'uscio della
cucina e con un tondo in mano.

Allora mi sentii sorpreso, avvilito e d'improvviso tacqui.

— Eh, per Dio — ruppe uno de' miei soliti commensali il silenzio —, per
una cagnaccia rognosa c'è bisogno di pigliarsela tanto calda?

— No, che non è per la cagnaccia rognosa! — ribattei io, prendendo
coraggio dalla sprezzante interruzione e dando sfogo alla fine a
quell'idea che mi ribolliva dentro. — Legatele un sasso al collo,
buttatela in mare, cosa me ne importa? Ma è ben altro. È che l'odio
nostro contro tutto ciò che è più debole di noi, raggiunge un così alto
grado di ferocia istintiva e di voluttà da vergognarci del titolo
naturale di _homo sapiens_! È questo che io voglio dire! Voi
risponderete che è tutt'al più un lascito di eredità dei tempi che
furono prima della storia, quando l'uomo conduceva vita selvaggia. Non è
vero. La nostra ipocrisia e il nostro orgoglio di uomini civili ci fanno
credere così; eppure no, esso è l'istinto naturale, eterno dell'uomo:
dilaniare tutto ciò che è più debole e più buono. Questo è l'assioma su
cui si regge la storia. O povera _Patirai_! Se tu fossi stata un feroce
mastino, altro che sghignazzare ne la scuola, altro che darti fuoco! ti
avrebbero dato il pane e ceduta la destra!

Tenete bene a mente quello che ora dico: Noi potremo volare per l'aria;
illuminare la notte come il giorno; scoprire tutti i segreti dell'anima
e della natura; prolungare la vita per dei secoli; non lavorare più
nessuno; far lavorare il sole, le maree; domare al servizio le tempeste,
i terremoti: tutto è possibile. Ma l'animo dell'uomo non si muterà di
una linea ne la sua sostanza, come non l'abbiamo migliorato sino adesso.
E allora che importa tutto il resto? Io ci credevo una volta, poi ne ho
dubitato e adesso non ci credo più. Già, io la aveva questa fede
sublime: adesso ne rido. Pigliate le uova delle biscie e dei
coccodrilli; curatele: sperate che ne vengano fuori dei colibrì e degli
uccelli del paradiso? Tutto è inutile; serpi verran fuori; rettili e
serpi a grumi, vermi a fiotti, coccodrilli a schiere.... Eppure sembrano
uova come le altre; sono piccine piccine, liscie liscie. Ci si può
illudere facilmente, e poi ci si guadagna anche a fingere di crederci.
Esaminate i bambini, i giovanetti; così biondi, così gentili, che gemono
per un taglio, che hanno una vocina così soave, dei gesti da innamorare;
si direbbe che stanno per spuntar le ali! No: è tutto seme di vipere. Mi
ricordo un esempio che ho veduto a Napoli: allora non ci pensai; ci
penso ora: sentite. All'ospedale, in uno stambugio a piano terreno, era
esposto un cadavere, meglio, una carogna umana, per il riconoscimento:
qualche cosa da far torcere la vista ad un medico positivista tanto era
deforme! Quando si pensa che la creatura umana debba ridursi così, viene
da rinnegare Dio, parola d'onore! Bene; i ragazzi che uscivano dalla
scuola, una cinquantina, si diedero la voce: «il morto, il morto!»
perchè uno era venuto a dar la notizia, e tutti a correre per vederlo, e
tutti attorno: era un gridìo, un cinguettìo allegro di ammirazioni, di
osservazioni, di ingenuità sconce da far maledire la razza umana; e non
si mossero se non quando un beccamorto, facendo sferza del grembiule
insanguinato, li scacciò....

A questo punto la mia voce ristette e vidi tutti con lo sguardo fisso e
meravigliato verso di me, tanto più che non mi avevano inteso mai
parlare così di seguito e con tanta violenza.

Quegli sguardi indicavano, dico, stupore ed anche un po' di
commiserazione per me. La solita timidezza mi vinse, mi sedetti, che mi
era levato in piedi senza avvedermene, e abbassai il capo.

Fu il vice pretore che parlò allora e con certa serietà:

— In tutte le esagerazioni che avete detto, mio caro, c'è in fondo,
molto in fondo, qualche cosa di vero, e che fa grande onore al vostro
modo di sentire, e si vede che avete un cuore gentile....

— Sì, va bene — interruppe un altro —, ma è tanto che si sanno queste
cose: _homo homini lupus_ lo dicevano anche gli antichi; voi però notate
che se uno si fissa sul serio in queste idee, non fa più niente e
rischia di diventar matto....

— Questo può esser vero — risposi io, — ma si deve andare avanti così?

— C'è un rimedio — sentenziò il vice pretore ridendo.

— Sentiamo, sentiamo il rimedio; fuori il rimedio! — disse più d'uno.

— Ecco — e l'omino del vice pretore allargò le dita, si puntò il pollice
sul petto, e volgendosi verso di me con voce di compatimento, come di
uno che fa lezione, disse: — Fatevi crescere, amico mio, su la coscienza
un bel palmo di pelo nero e duro, e non sentirete nè queste punture nè
altre più gravi. È un empiastro che non falla come quelli dei medici.

Tutti si misero a ridere, perchè in fondo il brav'uomo mi dava il solo
consiglio che si potesse in simili casi; e se in quel riso generale
v'era una punta di scherno per me, potevo dire di meritarmela.

— Voi stassera — mi disse il cuoco — avete voglia di scherzare, eh? — e
ritornò lentamente in cucina.

A poco a poco la conversazione per fortuna divagò su di un altro tema;
poi portarono le carte, i litri di vino, ed io presi un giornale. Ma i
caratteri mi ballavano sotto gli occhi e non potevo fare a meno di
pensare a quella povera bestiola ed agli scolari che l'avevano così
martoriata.

La barbara scena non mi si staccava dalla vista:

«Lei così piccina, così debole.... lei così buona, così graziosa!
Cercava di me e non aveva nessuno che la difendesse.... e loro la
flagellavano, la lapidavano.»

Questo pensiero, ma sopra tutto l'idea «così debole!» mi si era fissa
nel cuore. «E non aveva nessuno che la difendesse! non aveva nessuno!»
Sentii come qualche cosa che mi stringeva alla gola, mi alzai, salutai
in fretta e mossi fuori dell'osteria.

Ma quando fui in istrada scoppiai in un singhiozzo irrefrenabile, e come
un'ondata di pianto mi fece velo agli occhi. Camminavo così barcollando
verso casa e pensavo sempre. «Così piccina! così debole, così buona e
non aver nessuno che la difendesse!»

Su per le scale sentii come un gemere fioco: era lei che faceva una
nenia, una nenia che straziava il cuore; mi venne incontro e mi si
rotolò ai piedi ma non ebbe forza di alzarsi.

— Buona lì, fa la cuccia lì, sul letto — dissi riponendovela.

Essa si accovacciò, nascose il muso sotto l'ascella e parve acquetarsi.
Ma io non dormii tutta la notte, o fu più un torpore che un sonno. A
poco a poco dimenticai la cagna. Ma l'idea «così buona, così debole e
nessuno che la difenda!» mi si allargò con una commozione straordinaria:
pensai a mia madre, a me, a tutti quelli che sono deboli e che non hanno
nessuno che li difenda. Mia madre, sopra tutto l'idea di mia madre mi
straziò. Erano due anni che non la vedevo, e allora solo mi accorsi del
lungo tempo e dell'indegno abbandono. La sua immagine che in quella
lunga stupidità si era svanita come quella di persona morta, allora mi
si disegnò viva dinanzi come se il fantasma fosse stato ne la stanza.

— O, perdonami! perdonami! — mormorai supplicando quasi ella mi avesse
potuto rispondere e consolare con le sue carezze.

Ella o sotto la neve o al sole mite del maggio coglie le roselline
pallide o le gran rose vermiglie e misticamente ragiona con esse di me:
e prega, prega la morte che la risparmi ancora perchè mi attende di
giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno che io ritorni coi
segni della vittoria e della fortuna, e allora tutta la casa sarà lieta
e il giglio rifiorirà sul quartiere.

                                  *
                                 * *

Se alcuno leggerà queste pagine, forse crederà che da allora in poi io
fossi diventato aspro e nemico de' miei scolari. La cosa non fu così,
giacchè la mia mente avea trovato, per fortuna, un ordine di pensieri
diversi su cui equilibrarsi; e se così non fosse stato, sarebbe caduta
allora giù ne la pazzia come cadde dopo: ma era un equilibrio a suo
modo.

Avete mai osservato come camminano gli ubbriachi per le strade? Essi per
stare in piedi e andar avanti hanno bisogno di ruinare da un muro
all'altro. Ora ne la vita vi sono di quelli che non hanno mai bevuto una
goccia di vino ma che tuttavia non ci riescono a trovare la via diritta.

Costoro hanno, o per educazione o più tosto per causa di eredità, un
animo soverchiamente gentile ed impressionabile; qualità che loro si
impone in un modo imperativo, e, quando sono disillusi, li spinge su la
via opposta, non mai su la via diritta.

Quale è la via diritta? Non so. Forse è la via più obliqua e tortuosa
del mondo: ma ciò non vuol dire: quando questa via è seguita dalla
maggioranza, senza dubbio diventa la via diritta e bisogna chiamarla con
tal nome.

Così, per fare un paragone, vi sono di quelli che hanno
un'ipersensibilità tattile di tal forma che toccare una cosa untuosa,
immaginare soltanto un oggetto sozzo, li fa rabbrividire. Questa è una
malattia. Bisogna curarla, bisogna abituarsi, per Dio, a tener le mani
nel pattume e ne la morchia! Similmente per quelli forniti di codesta
eccessiva gentilezza dell'animo, ogni ingiustizia, ogni volgarità, ogni
azione indelicata, di cui gli altri nè meno si avvedono, li offende a
morte. Sono qualità degenerative dell'animo che non si devono coltivare,
ma cercar di estirpare appena appaiono.

Forse un tempo, quando il mondo avea la fortuna di essere un po' più
selvaggio, potevano essere necessarie o per lo meno servire alla parte
decorativa della vita; ma oggi che tutto è regolato come un orologio,
che la legge e la burocrazia dispensano dall'avere un'idea individuale,
un'affettività forte e propria, riescono inutili e dannose.

Ho pensato ad una parabola: Un uomo camminava per il deserto affocato.
Corone di gigli e di rose stillanti rugiada, portava su la fronte;
manipoli di rose e di viole reggeva in pugno: e così di quel profumo
confortava il viaggio. Ma non andò a lungo che caddero vizzi i fiori
sotto l'implacabile sole, e non altro divennero che inutile peso e
materia da letame.

Così, in verità, è per chi viaggia la vita con l'animo ornato di
gentilezza e di bontà.

Ma alle volte avviene anche di peggio: costoro si invaghiscono di
qualche idea generosa: uno, per esempio, vuol provare che l'anima
esiste, un altro si ostina a non far cosa che la coscienza gli possa
rimproverare, accada quel che si vuole: un terzo (e questo è il più
miserabile di tutti) ama il prossimo sul serio e lo vuol confortare ne
le sventure come se fossero sue, e così via. Voi lo capite: questa gente
non opera più secondo la pratica e la comune necessità, e allora gli
altri gli incoronano la fronte delle enormi orecchie d'asino della
demenza.

                                  *
                                 * *

Così io meditava, così questi pensieri passavano come dense nubi sul mio
cervello e improntavano di sconsolate e fredde ombre il presente e
l'avvenire della vita.

E se fossi andato a casa mia e mi fossi presentato a mia madre ed ella
mi avesse domandato: «Perchè sei così sparuto e triste? che cosa hai
fatto tutto questo tempo? quale è la tua conquista, la tua vittoria?» ed
io avessi risposto: «Mamma, ho consumato due anni della mia vita
meditando su le questioni più gravi del mondo, e sono giunto a
raccoglierle in queste semplici verità: l'una è: col bene tutto è bene;
l'altra è: se gli uomini non possono raggiungere questo bene, è oramai
inutile che essi esistano;» se io, dico, avessi risposto così, ella,
poveretta, avrebbe sorriso melanconicamente, ma di infinita pietà.

                                  *
                                 * *

Dunque gli scolaretti mi guardavano coi loro visini ingenui e un po'
timorosi come a dire: «Te ne sei avuto a male, di', perchè abbiamo fatto
quello scherzo alla tua cagnolina? Ma ci siamo divertiti tanto! Non ci
leverai mica un punto in condotta?» «No, cari bambini, semi di vipere —
a me pareva di rispondere — io vi darò voti assoluti e con lode, perchè
il triplice ignorante sono io.»

«La natura fu provvida: ha dato alla gazzella la velocità delle gambe
per poter vivere in mezzo ai deserti; ha dato all'aspide il veleno,
all'orso iperboreo il vello denso, al rospo l'orrore della forma per
essere sfuggito; all'uomo che nasce nudo e debole ha dato il genio della
perversità per poter vivere fra i suoi simili.

«Ed io pretendeva che voi vi spogliaste in buona fede di questa scorza
d'insensibilità e di ferocia che vi protegge! Se mi aveste dato ascolto,
a voi sarebbe intervenuto come all'istrice di cui racconta la favola.
Essa tornava dalla guerra e andava in compagnia della volpe, la quale
disse: Levatevi l'armatura di dosso, madonna, or che la guerra è finita.
Ed essa se la levò e fu divorata in saporiti bocconi. È una favola
semplice; ma più ci si pensa più sembra vera.

«Ma era il vostro buon senso, era l'istinto naturale che reagiva in voi
e vi rendeva tardi, meravigliati più che persuasi, ascoltando i miei
entusiasmi e le mie sentenze di virtù.

«Tuttavia la virtù, la bontà, la generosità, ecc., saranno sempre
articoli di gran consumo, miei piccoli amici, anzi di prima necessità e,
ricordatevelo, non fate mostra di averne disprezzo. La vita più è civile
e progredita e più ne ha bisogno. Il segreto sta tutto nel sapersi
abbigliare di questi eleganti vestimenti e lasciare agli imbecilli la
cura di fabbricarli. La virtù e l'onestà sono come l'abito nero di
rigore per presentarsi in società; ma voi capite che per indossarlo non
importa punto di essere gentiluomini. La virtù anzi in certi casi è
obbligatoria come il _frak_ per i camerieri.

«Ma vi dirò anche di più e tutto per niente, senza paga, come faceva
Socrate. Sentite: la morale, la pedagogia, in una parola tutto il grosso
armamentario dell'educazione privata e pubblica deve avere per voi
un'importanza suprema perchè possiate vivere bene e felici ne la civile
e progressiva società. Si studia cioè di rendere voi, o piccoli amici,
simili (scusate il paragone) alle zampine del gatto. Avete mai osservato
le zampine del gatto? Sì certo, e avrete visto come esse sieno soffici e
soavi. Così dovete diventar voi ne la vita. Ma esiste una convenzione
tacita, un accordo segreto e che si comprende solo per l'istinto: cioè
sotto il dolce vello dovete nascondere l'artiglio ben rotato ed adunco:
guai se per isbaglio o per buona fede ve lo sarete fatto tagliare. Come
ghermire, come graffiare, amici miei? Voi sarete perduti in tal caso e
fatti oggetto di scherno ed insozzati e vituperati più del travicello
che Giove mandò alle proterve ranocchie.» Così pensavo guardando
smemorato quegli scolari.

                                  *
                                 * *

Ognuno però può pensare che io, benchè precipitassi in quest'altro
eccesso di negazione e di pessimismo, ero più triste e sconfortato che
mai. Sentivo che avrei dovuto cominciare a vivere un'altra vita e non
sapevo quale nè il modo. E questa tristezza si acuiva maggiormente per
ragione della solitudine in cui ero ridotto.

Anche il direttore, quell'uomo dabbene che vedeva il mondo attraverso le
sue regole grammaticali, ed era così pieno di equità e di congiunzioni
causali e modali, avea preso in uggia la mia cagnolina.

Pensate: io la aveva ben pulita, le aveva messo una fettuccina rossa al
collo con un campanellino, delle quali eleganze essa pareva felicissima.
Ma era venuta l'estate e i cagnacci del luogo le si accostavano
indecentemente.

Un giorno che si era a spasso assieme, il direttore abbozzando un suo
sorriso acido, con la sua voce melata di imperciocchè, squadrata che
ebbe di traverso la cagna che mi appuntava, poverina, il muso fra i
polpacci, disse con un tono che voleva non parere ed era invece serio
nell'intenzione:

— Egregio professore, codesta sua bestiola eccita i sensuali appetiti di
tutti i cani della città. Però — aggiunse sorridendo — essa sembra
verginella e timorosa di questi amori volgari. Ad ogni modo — concluse
mettendo in rettilineo le labbra che prima si erano curvate per il
sorriso, e levata la sfumatura di non parere alla voce — ad ogni modo io
giudicherei conveniente che ella la ritenesse rinserrata in casa per
evitare lo sconcio che immagino pure a lei non debba riuscire piacevole.

— La terrò in casa o la condurrò dove non c'è gente — risposi asciutto
asciutto.

— Sarà per lo meglio — e raddrizzatosi e compostosi della figura,
sciorinò il _Popolo Romano_ e cominciò con molti: veda! capisce!
eppure!... la interminabile serie de' suoi commenti vespertini, da cui
lo distoglievano i saluti ricevuti e resi dai maggiorenti della città e
il sole che folgorando precipitava nell'invincibile mare.

Anche la signora, la vice direttrice, non mi accoglieva più con bel
garbo, anzi mostrava di gradire assai poco la mia compagnia. Quando
qualche cagnaccio faceva atto di accostarsi alla povera mia bestiola,
voltava la faccia inorridita ed esclamava:

— _Schoking! for shame! for shame!_ — perchè era stata istruita in un
pensionato inglese... (collegio, instituto, educandato, mia cara,
correggeva il marito con paziente sorriso) in un pensionato inglese e ci
teneva moltissimo alla sua lingua d'infanzia.

Anzi mi disse spiccio:

— Senta, se lei vuol portare ancora con sè quella sua bestia, faccia
pure a meno di venir fuori con noi.

Io mi sentii trafiggere malamente e non risposi nulla. Fatto è che anche
quella compagnia, la migliore che io avessi, mi venne a mancare.

La solitudine dunque a cui mi ero ridotto acuiva l'intensità di questa
idea: mutar vita! Vivere cioè in modo positivo, come vivono tutti quelli
che si fanno una fortuna e che non hanno pensieri difficili e melanconie
pel capo.

Il fondaco di Don Vincenzo X***, mercante di caciocavallo, aveva la
virtù di richiamarmi alla realtà quando le forze morbose della fantasia
stavano per dare qualche strappo. Don Vincenzo, una truce faccia
borbonica, se ne stava spesso su lo sporto, scamiciato, con la catena
d'oro massiccio che cadeva sopra la pinguedine del ventre. Dietro di lui
il fondaco ne la semi oscurità lontana, appariva pieno di caciocavalli
sospesi al soffitto, alle pareti, dovunque.

Che cosa si poteva fare in città senza Don Vincenzo? Chi osava passare
davanti a Don Vincenzo senza scoprirsi? Senza di lui non si facevano nè
elezioni nè processioni.

Con la sua firma si potevano portar via tutti i tesori della Banca
Nazionale: con la mia avrei semplicemente fatto perdere il valore al
foglio filigranato della cambiale.

Quanto vale un uomo? Tanto, quanto può scontare con il suo nome.

Oh, don Vincenzo, uomo sapiente! il tuo libro mastro e il copione delle
tue corrispondenze contengono più saviezza e sono più profondi che la
bibbia, che il poema di Dante, che tutti i volumi dei filosofi da
Platone allo Spencer!

Oh, don Vincenzo, con la narrazione della tua vita e di quella de' tuoi
pari si deve formare il Plutarco moderno per la lettura dei giovanetti!

Così io pensavo con tristezza senza fine; ma senza ombra di ironia
passando, come mi avveniva sovente, davanti al fondaco di don Vincenzo.

                                  *
                                 * *

Avrei voluto ritornare a casa e rivedere mia madre; ma sentivo dentro di
me che alla sua presenza non avrei avuto la forza di sorridere e di
dirle che io ero contento; ma sarei rimasto come trasognato e triste;
forse avrei pianto; ed ella, ne la sapienza del suo cuore di madre,
avrebbe indovinato tutta la mia debolezza, tutto il dolore, tutte le
inutili prove tentate.

Mi venne anche in mente di rinnovare le conoscenze e le amicizie che
avea a F*** e veder modo di ricavarne alcun profitto. Ma dopo un breve
esame mi persuasi che non sarebbe stato possibile riprendere quella vita
dopo averla così violentemente interrotta, e che le amicizie, le,
confidenze, gli affetti non coltivati per tanti anni, non si potevano
più far rifiorire. Oramai io per loro doveva essere a pena una languida
memoria. E poi sentivo che, nè meno volendo, avrei potuto più
riacquistare quel contegno festevole e disinvolto, quell'elegante
frivolezza di modi e di parole che prima erano in me un'abitudine; e che
sono qualità indispensabili per poter vivere ne la buona società.

E pur desiderando di rivivere di quella vita, pur maledicendo il giorno
in cui l'aveva abbandonata, in fondo io oramai la disprezzavo.

Con quale spasimo di desiderio pensavo alla possibilità di conquistarmi
una posizione salda, netta, con le sue radici dentro la realtà della
vita, non ne la desolazione delle utopie eroiche: una posizione
qualsiasi, onesta o meno, nobile o ignobile, questo non importava, ma
tale che gli uomini vi facciano di cappello sul serio come a don
Vincenzo e non ridano dietro al vostro abito verde e alle vostre scarpe
slabbrate; ma rapidamente, energicamente come una carica alla baionetta;
che passa su tutto, che schiaccia tutti, ma arriva dove vuole arrivare.

Così bisognava rifare la vita: dopo sarei ritornato.

E con questa nuova idea fissa mi accompagnai ne la mia solitudine, e
cominciò da allora un genere di tormento nuovo e grande che condusse
allo sfacelo della mia ragione.

                                  *
                                 * *

La via che io percorreva abitualmente era una delle più belle che si
possa pensare. I Baedeker ne ragionano con entusiasmo e ogni tanto si
vedono passare grossi _landau_ a due e anche a tre cavalli con
sonagliere e postiglioni.

Sono per lo più ricchi stranieri che percorrono quella via così
celebrata, per vaghezza di vedere e conoscere.

Per quella via io andava lentamente meditando; nè del mare che da un
lato splende e si stende; nè delle colline verdeggianti di olivi e di
aranci che dall'altro lato digradano e formano bellissime punte e rade,
io prendeva alcuna distrazione o diletto. Il sole però (si era ai primi
di giugno) battendomi con la forza de' suoi raggi sul capo e
innondandomi di luce, pareva che fosse lui a scomporre in nuove utopie
di progetti fantastici i pensieri che io cercavo di concentrare in
qualche cosa di pratico.

La mia ragione era formata come di farfalle che volavano via e
lasciavano vuoto il cervello.

E allora facevo degli sforzi disperati quasi da piangere per richiamare
la ragione e la intelligenza che mi indicassero una qualche via da
seguire. Bisognava, dico, pensare a qualche cosa di immediato e di
pratico, e che fosse nel tempo stesso una di quelle inspirazioni rapide,
intuitive con cui ci si riesce. Non era scritto anche nei libri di tanti
che ebbero un'idea felice, la misero in atto e in poco tempo riuscirono
ad aggiogare la fortuna al loro carro?

Ma era una vana impresa!

La mente avea perduto la conoscenza di ciò che è limite tra il possibile
ed il fantastico; e scivolava a poco a poco nell'assurdo e nel sogno,
dove finiva con l'addormentarsi in un abbandono che non era però privo
di piacere quasi infantile.

Avveniva di me come dei palloni che mandavano in aria al tempo delle
sagre nel mio paese. A vederli quando li gonfiavano col fumo, erano
grandi come case e pareva che dovessero cadere da ogni parte. Poi, come
fu come non fu, prendevano il volo e dopo un poco erano a pena un punto
su in alto. Io faceva lo stesso: una, due e tre; lasciavo la terra ed
era bell'e spedito per il paese delle più inverosimili fantasticherie.

Ma come si stava bene lassù! come tutto si faceva più leggero e più
facile! Le cose e gli uomini che prima mi pesavano da ogni parte e mi
stringevano più che Don Rodrigo dalla calca dei cenciosi, adesso non li
sentivo più. Ero libero perchè ero lontano dalle cose vere: ma dove?
Fuor di dubbio nel paese dei sogni.

Certo io capiva che quelle erano spedizioni pericolose ed illecite, e
che per chi vola sull'Ippogrifo fuori della realtà, può avvenire una
volta o l'altra di trovar chiusa la via del ritorno. Ma chi se ne
sarebbe accorto? Nessuno. Forse ne lo stupore degli occhi si sarebbe
potuto leggere qualcosa; forse una madre, un'amante, un amico avrebbero
compreso. Ma la madre mia era lontana: amante o amico non ne aveva. Pure
è certo che qualcuno si accorgeva, ed io ne provava una inquietudine
timida e dispettosa.

Perchè _Patirai_ mi fissava con quelle pupille immobili, con
quell'espressione quasi umana? Oh, l'angoscioso linguaggio di quelle
pupille! e più angoscioso ancora perchè pareva che volessero parlare! nè
quasi mai si partivano dal fissarmi, come se dal camminare, dallo stare,
dagli impercettibili moti del mio volto avessero voluto leggere ne la
mia coscienza.

Ma già vi leggevano, perchè ne la loro intenta melanconia portavano
segnata l'espressione di una gran pietà per me. Era proprio così: quelle
pupille esprimevano manifestamente pietà, ed esprimevano il vero perchè
anch'io sentiva compassione di me medesimo, soltanto che io immergendomi
ne le fantasticherie, me ne dimenticavo e invece quelle pupille me ne
facevano ricordare.

V'erano dei momenti che l'odiava a morte quella piccola bestiola.
Pensare poi di essere amato e di essere compreso da quel miserabile
essere, mi sembrava come uno scherno ultimo e il più atroce. Ma va, ma
corri innanzi, insegui le farfalle, abbaia alla gente, al sole, alla
luna! io le diceva, ed essa invece a seguirmi o a precedermi di pochi
passi, ed ogni tanto voltarsi, fissarmi. Che angoscia era per me anche
quell'affetto!

                                  *
                                 * *

Sta fisso ne la memoria un giorno della metà del mese di luglio.

Io camminavo per quella via e _Patirai_, l'indivisibile amica, veniva
dietro di me. La campagna era silenziosa e poche vele segnavano
l'azzurro del golfo. E dopo lungo andare si udì dietro di me un rumore
di sonagliere. Tre cavalli spinti al galoppo dal postiglione che faceva
schioccare la frusta, venivano avanti rapidamente trainando un _landau_
fra un nugolo di polvere.

Mi feci da un lato per lasciar passare. Passarono rapidi come una carica
di cavalleria, ma ciò che vidi non scomparve dalla vista.

Proprio nel punto che m'erano davanti, un giovane signore che sedeva in
quella carrozza avea con un braccio cinta la vita di un'esile e bionda
compagna che gli stava al fianco; e costei piegò indietro la testa per
accogliere un bacio che lui impresse su la bocca di lei; e con l'altro
braccio disteso pareva indicare il mare e il cielo come per dire alle
cose di essere testimoni della sua felicità. E la giovane donna pareva
beata in quell'abbandono.

La carrozza si allontanò e _Patirai_ la rincorse furiosamente che parve
una palla nera fra quella polvere della strada.

La carrozza passò portando con sè una visione di felicità. Felicità?
Certo, e felicità delle più semplici e possibili con i suoi fondamenti
ne la realtà, non nei sogni o su le sabbie mobili della metafisica.
Avrei potuto anch'io essere felice così!

Mi fissai in questo pensiero e fissando m'accorsi che davanti a me su la
bianca strada stava _Patirai_, piantata su le quattro zampe, ansante, e
la lingua fuori. Io non mi era mosso dal luogo ove prima mi ero fermato
per lasciar posto al veicolo. _Patirai_ scodinzolava e cominciò ad
abbaiare come mi volesse dire qualche cosa. Che cosa? Forse voleva dire:
«hai visto? è passata la felicità. Quando la felicità passa, non bisogna
fermarsi a meditare. Allora guai! Si fa subito un salto, la si raggiunge
ad ogni costo. Se ti fermi sempre a pensare, non arriverai mai!.... Vedi
ora come è lontana? io sono corsa subito: dovevi anche tu fare così!»

Io non so come fosse, ma quelle pupille e quell'urlo che volgeva verso
di me, verosimilmente volevano esprimere un pensiero. Non era più
dubbio: quella piccola cosa nera, quella bestiola leggeva dentro di me.

Mi mossi lentamente, e quando mi abbattei in un sentiero che conduceva
verso le colline, mi misi per esso. Mi pareva che la diversione della
strada sarebbe stata pure una diversione delle idee.

Ma tutto era inutile! Io non potevo distogliere la mente dal pensare che
quella felicità la avrei potuto cogliere anch'io fin dal tempo che
vivevo a F***. Ero incapace di curare i miei affari? ero inetto alle
battaglie della vita? E per questo? Ma il mio nome, la mia gioventù, la
buona riputazione, il grado ne la società, non costituivano forse un
capitale che qualunque altro avrebbe saputo sfruttare? Io l'ho dissipato
senza saperlo; io fui vinto da un'esaltazione di sacrificio che non mi
ha prodotto altro che dolore.

Mi sono sacrificato? ho sofferto? Peggio! Soffrire è un lavoro che il
mondo non paga e non riconosce nè meno. Bisognerebbe che ci fosse il
padrone, Iddio. Lui, forse, ricompenserebbe chi soffre: il mondo se ne
ride e non ha torto.

E pure è cosa certa che il mondo ha le sue conquiste, ha i suoi piaceri,
ha le sue felicità; e vi sono fiori di oro e fiori di carne, ma non li
coglie chi si innamora dei fantasmi della sua mente o si nutre di strane
utopie.

Le fantasie corrompono l'anima e il corpo, e rendono l'uomo pallido e
trasognato; e più sono grandi e nobili e più uccidono, e non v'è
corruzione di vizio che maceri più terribilmente.

Camminai per molto tempo e giunsi in vista di un campo coperto di spighe
mature, e i mietitori le falciavano.

Quella vista mi consolò alquanto e mi distrasse: così che postomi dietro
una siepe arborata che dava un po' d'ombra, seguiva con gli occhi quei
lavoratori.

Soltanto le teste e le spalle apparivano dietro le spighe, e il manipolo
in una mano e nell'altra la falce: si avanzavano in fila, di fronte,
movendosi come in ritmo; muti, rossi di sudore e recidevano, recidevano
quelle spighe. Dietro erano le spigolatrici, curve, mute esse pure,
oppresse dalla caldura senza vento che pioveva dalla serenità meridiana.

La schiera dei mietitori mi passò davanti ed ora la scorgevo da tergo,
curva e allineata su le alte spighe, lasciando dietro di sè il campo
brullo ed irto degli steli recisi.

Intanto da una casa non molto discosta si levò una spira di fumo,
sottile, che saliva come un viticcio e si dilatava sfumando nel cielo.
Poi suonò mezzogiorno. Allora il passo dei mietitori si arrestò e le
falci caddero.

In breve tempo i covoni sparsi a regolari intervalli nel campo furono
raccolti e ammucchiati in alcune biche, poi l'uno dopo l'altro quei
lavoratori si avviarono verso la casa. «Ecco la soave ora del pasto e
del riposo meridiano!» pensava, e quella dolcezza dei campi finì per
placarmi lo spirito e i sensi di una serenità melanconica e stupida.

Poco lungi, fra gli alberi, si scorgeva un'altra casetta dalla cui porta
pendeva una frasca. Mi vi recai ed ebbi da rifocillarmi. Poi feci
ritorno presso la siepe dove era prima; e fosse effetto del caldo o
della piacevolezza dell'ombra che la chioma di un albero stampava sul
terreno, fatto è che mi addormentai.

Quando mi risentii, l'ombra dell'albero avea girato ed il sole
battendomi sul volto, mi avea desto. Il sole, oltrepassata più che la
metà del suo corso, pareva essere fermato nel cielo.

La lucentezza dell'aria mattutina avea dato luogo ad un'afosità di
vapori che toglievano ogni trasparenza e veduta delle cose lontane.

Il silenzio era solenne. E allora, in quello stupore che coglie chi si
desta da un grave sonno, fu un suono che da prima mi parve come un
pispiglio di uno stormo di passere: tacque e ripigliò più saltellante e
vivace.

Erano risa di donne.

Volsi lo sguardo al rumore: vidi e non compresi alla prima; poi compresi
e un turbamento profondo mi agitò il sangue come nel brivido della
febbre. Rimasi lì, nascosto dietro la siepe a guardare senza muovermi.
Solo il sangue mi affluiva a ondate larghe al cuore, e poi risaliva al
cervello.

Erano due di quelle spigolatrici, scalze, presso ad una bica, poco
distanti dal luogo ove io stava.

L'una, alta, adusta, quasi sbilenca, co' capelli neri arruffati come un
cimiero affricano si avventava sull'altra, e il riso le scoppiava come
una canzone baccante fuori dei denti bianchi. L'altra era più piccola e
con un volto quasi infantile, ma tutto acceso. Un fazzoletto scarlatto
le si annodava dietro la nuca, e ne scappavano pochi riccioli biondi
madidi di sudore. Ma le anche deformate dalle fatiche precoci e le
mammelle esuberanti di giovanezza, minacciavano di liberarsi dai legami
del busto.

Essa sembrava beata di farsi buttar giù sui covoni che gemevano con un
fruscìo di seta, e rideva, rideva lei pure; ma di un riso sciocco o
schernevole che mi paresse, e squillava come argento.

Poi quando era caduta giù supina, si rizzava contro la compagna e questa
le si avventava contro di nuovo con le braccia tese in avanti; e quella
tornava a cadere.

La piccola bionda diceva ridendo sempre — Mala femmina! — La bruna
risospingendola quando si levava, diceva — Quanto sei bella! — e la voce
aveva oramai un suono tetro di lascivia, e più non rideva. E poi girava
lo sguardo come belva spaurita per ispiare se uomo o donna fosse per
quei campi. In uno di quei momenti la bionda colse il destro, e riuscì a
scappar via, di corsa, sghignazzando; ma si andò a nascondere dietro un
altra bica più lontana; e la bruna dietro, in due salti, come una
lionessa, la raggiunse e si nascosero dietro il mucchio delle spighe.

Allontanarsi era facile: ma le risa di quelle donne certo riempivano
tutta la muta campagna, perchè come io discendeva giù per il sentiero,
così quelle mi seguivano, e mi pareva che dietro la bica le due procaci
sapessero di essere scoperte e pure non arrossissero; ma mi venivano
dietro con le loro risa, ed esse mi schernivano ed io ne aveva vergogna.
Io ne aveva vergogna, non esse, e pure la loro impurità era bestiale ed
orribile, orribile al punto che vinceva la ragione e incuteva un
vaneggiamento di precipitarvi, come a chi contempla gli abissi.

E non v'era nessuna imagine o voce di purità e di virtù che si levasse
al mio soccorso, io che le invocavo!

Le sentenze degli asceti e dei padri della chiesa, le scritte dei
filosofi stavano rigide come le statue dei santi mitrati che sono ne'
templi: le invocano, le invocano le supplicanti, ma essi non fanno un
passo per venire in aiuto, e solo fissano le pupille d'oro come gente
abbacinata.

Anche invocai quello scetticismo che mi aveva fatto perdere la fede ne
le cose più nobili e belle: ma nulla poteva nè meno esso, che era stato
così potente. E pronunciai anche come scongiuro una massima di antico
re, in cui molti affermano che si compendî la saggezza della vita:
«Tutto è vanità!» ma quelle risa si pigliavano giuoco anche di quella
sentenza.

Chiamai pure a raccolta gli avvertimenti materni, le prime massime di
virtù udite da fanciullo; ma non avevan valore contro quel riso
baccante, grande, e che pareva oramai una solenne cosa, tanto solenne
che le piante, gli alti steli dell'erbe non battevano fronda o fiore
come intenti ad ascoltare e bearsi di quella voce ridente.

E allora per la calda afosità del tramonto, in quel muto languire del
giorno, una figura di donna nuda, meravigliosa e splendente come un
sogno, sorse alla mia vista, e si aggirava veloce fra gli alberi come se
i piedi a pena lambissero il suolo, e con le braccia sollevate e le
palme distese e le chiome accarezzava le erbe e i fiori presso cui
trasvolava, come una benedizione.

Il riso lascivo si era mutato in una voce distinta come una cantilena, e
quella voce usciva dalle labbra di quella fata.

                                  *
                                 * *

Diceva: «Io sono impudica come Pasife, io sono casta come la Sibilla, io
sono forte come Ippolita, io sono sapiente come Minerva: io sono eterna.
Proteo aveva meno forme di me, e sono anche orribile più di Megera, e
sono anche fatale e bella più di Medusa. Nè Arianna con Bacco rise più
pazzamente di me, nè Niobe impietrata diffonde dal Sipilo più rivi di
lagrime di quante io ne sparga.

Io sono proteiforme, e pure sono una.

Ma tu mi hai conosciuta soltanto avvolta di bende, severa e terribile,
sopra gli altari. Lassù io sono la virtù e la sapienza, e in quella
forma mi hai adorato: ma sappi che spesso io fuggo fuori delle bende e
delle infule, le quali rimangono e rendono la mia figura agli adoratori
del tempio: ma io non vi sono più. Io corro fra i campi e talvolta rido
come le villane che tu hai inteso: e pur non sono colpevole; io
trascorro nuda e non sono impura; io porto nel mio grembo la fecondità,
e vergine sono.

Io sono eterna e son giovane; io corro pei campi e l'erbe crescono
dietro di me. Vedi: la selva era nuda ed irta. Oggi è tutta chiomata, e
le gemme diventarono fiore e frutto; gemono i rivi, ride e spira il
mare. Chi fu? Io.

Io non ho virtù, come non ho colpa; io do luce al cielo, io faccio
fremere e contorcere le piante che si aprono e fecondano, io avvolgo
tutte le cose create di un invisibile filo, e tutto germina e palpita, e
traggo il mondo affascinato dietro di me; però se io rida o pianga nel
mio eterno lavoro, nessuno mai saprà perchè questo è il gran mistero.

V'è una leggenda antica: Ifigenia in Tauride sacrifica e svena alla Dea
Artemide qualunque uomo a quelle selvagge terre approdi. Io pure godo
dei sacrifici umani, e però sappi anche che la Sventura e la Pazzia mi
seguono come il rosso giustiziere seguiva gli antichi re. E pure io amo
gli uomini e li inebrio della mia felicità e della mia voluttà; ma
questa è riserbata soltanto a coloro che non sanno chi mi sia e non
cercano di indovinarmi. Chiunque vorrà essere scrutatore della mia
divinità sarà oppresso dalla stessa mia gloria.

E pure io amo gli uomini: ma sono come Angelica. Rolando urla per la
selva impazzito di amore: io mi dono a Medoro.»

                                  *
                                 * *

E ne la immensità del tramonto che balenava una luce pallida e cilestra,
l'imagine e la voce svanì.

Era giunto senza avvedermene dove il sentiero sboccava su la via maestra
e _Patirai_ era di fronte a me che stavo fermo sull'estremità della
strada, dove lo scoglio rompe e scende fondo e livido nel mare. Essa mi
fissava con quelle umane e umide pupille che io credo verosimilmente
leggessero dentro la mia anima; e non si moveva nè abbaiava.

«È inutile — meditai —, il problema della vita non l'ho capito: un
compito su cui ci lavorai tanto! Zero punti, maestro; e, pur troppo,
senza il beneficio di ripetere l'anno o la prova! Terribile problema!»

«Problema facile», mi sentii contraddire timidamente.

In quel punto _Patirai_ aveva mandato un lieve guaito che lacerò
l'incombente silenzio delle cose.

«Problema facile..., quasi tutti lo risolvono!...» e quelle pupille mi
guardavano con muto dolore, e il guaito si ripeteva.

Allora non ricordo come avvenne che la paurosa calma che mi occupava si
mutasse in improvviso furore, in una rabbia delirante di annientarmi e
di annientare tutto. Ricordo che io presi _Patirai_ che mi amava e che
io amava, e la scagliai giù nel mare.

La vedo anche ora nettamente dopo tanto tempo.

Ad un certo punto cadendo si voltò con la schiena all'ingiù. Un lamento,
ma che era forte come un nitrito, squarciò l'aria e mi rimase
nell'orecchio. Era caduta su di una punta aguzza dello scoglio; si era
squarciata il fianco: almeno così doveva essere perchè l'acqua mi parve
rosseggiare ad un tratto e l'onda sopravveniente la dissipò.

Allora ebbi paura e voleva fuggire, ma non lo poteva e rimasi lì con
l'occhio fisso in giù.

Mi intronava alle orecchie un ronzìo come se due sciami di vespe fossero
usciti dalla terra e disperdendosi in alto mi susurrassero qualche cosa
di pauroso e di infausto.

Però non sentii nè pietà nè rimorso nè mi mossi per soccorrerla; anzi
era una specie di piacere o almeno di sollievo che io provava a quella
vista sanguinosa giacchè avevo così trovato una distrazione alle
laceranti imagini che mi straziavano. Ma queste ed ogni altro senso o
pensiero si andava affievolendo in una stupidità generale, come le
ultime vibrazioni di un diapason tremano per lungo tempo dopo avere
emesso il primo suono.

Lo scoglio dovea esser liscio dalle alghe perchè lei tutte le volte che
l'onda la sospingeva in su e tentava di arrampicarsi, ricadeva
nell'acqua. E poi le zampe di dietro, vicino alla ferita, si vede che
non aveano più la forza di puntare ma che erano già morte: solo le
zampine davanti, quelle zampettine che poco prima saltellavano con la
baldanza di un polledro, si provavano di risalire su arcuandosi per lo
sforzo, e tutto il corpo tremava per il freddo dell'acqua o per il
brivido della morte. Ma certo le forze le erano fuggite col sangue
perchè ogni tentativo era sempre più debole e la lieve onda della marea
minacciava di rovesciarla.

La sua testolina nera col suo musino appuntito erano o mi parevano
rivolti ancora verso di me e gli occhi neri ineffabilmente tristi non
aveano e mi pare che non avessero che un'espressione di pietà.

Non un lampo di ferocia o di odio vi passò; le labbra non si sollevarono
a scoprire il digrignìo dei denti. Nulla. Era una pietà, una gran pietà
per me.

Un'onda più forte la rovesciò e la fece andar sotto. Allora potei
muovere il passo dal luogo dove era; e mi avvidi che correvo forte e con
terrore come se qualcuno mi inseguisse. Solo quando ebbi svoltata la
strada fermai il passo e allora mi accorsi con meraviglia che era venuta
la notte.

Finalmente o meravigliosa notte eri venuta e mi avevi ravvolto delle tue
ombre, ed io era entrato nel bagno delizioso e profondo delle tue
tenebre.



Nora


Ne la stanza di Nora entrava il sole.

Era una dolce mattinata di febbraio senza nebbia e senza vento; e
quell'onda di luce si estendeva con l'allegrezza infantile della
stagione che ormai si rinnova, per il lettuccio bianco, su per il
ripiano del comò, su per la mussolina candida che copriva la _toilette_.

E quivi e ne la luce dello specchio rinfrangendosi, suscitava un più
vivo riflesso come di pagliuzze e di cirri d'oro, dentro cui pareano
nuotare e godere i molti ninnoli che vi erano sparsi e confusi.

Molti ve n'erano: alcuni puerili, altri che rivelavano la mondana
sapienza e l'eleganza di Nora; ma gli uni e gli altri stavano in buona
armonia e senza scandalo delle vicinanze: anzi, risvegliati a quel sole,
pareano ragionare e ridere sottilmente fra loro, quasi fossero un coro
di piccoli genietti maligni. V'erano, fra gli altri, due pupine di
smalto, rosee e snodate che volevano nascondere le loro nudità entro il
pizzo di un fazzoletto, un gruppo di ciondoli d'argento, i tre ladroni
della _Gran via_, un mazzolino vizzo di gardenie, un tubero di giacinto
con le radici natanti in una caraffa, due giarrettiere aggrovigliate
come biscie presso un libriccino da messa, piumini che si abbeveravano
ne' carnali profumi della cipria, e tutti e tutte susurravano, ridevano,
e spedivano i loro messaggi ad ignota destinazione lungo i raggi del
sole.

E quel loro susurro poteva essere inteso da una di quelle anime che
hanno il sesto senso di intendere la melanconia e il linguaggio delle
cose, se in quella stanza avesse avuto la grazia di penetrarvi;
l'avrebbe ben potuto intendere perchè le due persone che vi erano non si
parlavano: Nora scriveva, e una servetta, in cuffia e grembiale, metteva
la stanza in assetto: dal di fuori non giungeva alcun rumore.

Le mura di quel palazzo attutivano ogni frastuono della città, e dal
giardino su cui dava la finestra di Nora, non si elevava altra voce che
il pispiglio delle passere, ora simile ad un sorriso soffocato, come
risposta alle malizie dei piccoli genietti; ora più intenso e modulato a
canto, quasi un richiamo d'amore che venisse da ignota parte.

Le passere si levavano a stormo da un gruppo di quattro o cinque
platani; giganti secolari che si aprivano in tronchi, in branche, in
rami, in ramoscelli, oltre il cornicione del palazzo. Affondati con le
radici in quel recinto, parevano sognare le foreste spesse e vive,
palpitanti al sole e ai venti ne la selvaggia libertà della materia.

Ma gli stormi delle passere garrivano a prova e si spingevano con tanto
impeto su fino ai più sottili rami, che questi ondeggiavano a lungo...,
poi se ne staccavano; una si spingeva sino al davanzale della finestra,
allungava il collo, lo inturgidiva e vibrava delle note furenti come
un'ambasciata, e poi volava via. Ma Nora non ascoltava quel canto, nè si
accorgeva del destarsi delle cose al tepido sole.

Nora scriveva una lettera, o più tosto la copiava da un libro.

Il braccio fuor dell'accappatoio e la mano si moveano in fretta sul
foglio.

I capelli liberati dalla fronte come un cimiero selvaggio, ad ondate
scorrevano giù lungo la spalliera della seggiola. Ogni tanto però ella
si arrestava, puntava la penna in aria, si mordeva le labbra e faceva
saltellare la pantofola su la punta del piede, poi ripigliava a
scrivere.

— Auf! è finita, finalmente! — esclamò buttando via la penna come un
arnese di tortura, e si rovesciava indietro per isgranchirsi le membra.

A quella esclamazione la servetta si volse e domandò sorridendo:

— È lunga?

— To', guarda, due e due quattro facciate....

— Questa volta sarà contento il signorino.

— Lo spero bene. Ma è un lavoro da copista un giorno sì e un giorno no
scrivere di queste letterone...; lasciami un po' muovere. Si levò e
apparve rigogliosa e superba in quella cruda verginità delle forme; poi
si mosse, girellò per la stanza e infine si postò dinanzi allo specchio,
e con ambedue le mani sollevando quella massa di nere chiome e
immergendovele dentro, cominciò a pettinarsi.

— Un lavoro da copista! — seguitava. — Ah! ora che ci penso, nascondi il
libro; lui è capace di venire a frugare anche ne la mia stanza.

— Se è capace!... — rinforzò la servetta.

— Perchè l'hai visto qualche volta?

— Altro che visto! Un giorno che lei era fuori, l'ho sorpreso qui che
baciava il guanciale, un'altra volta che avea messo in tasca un suo
fazzoletto.

— Oh che sciocco! — sclamò Nora senza voltarsi.

— Se s'accorge poi che le lettere lei le copia dal Segretario galante è
capace di morir dalla disperazione...!

Nora fece spallucce.

Lisetta, la cameriera, proseguì: — Ha poi risposto, signorina, a tutte
le sue domande?

— Ce ne sono tante delle belle espressioni ne la lettera d'oggi... —
rispose Nora con indifferenza.

— Per quell'altro però — ribattè la servetta — le lettere le fa di sua
testa! Quelle sì che sono belle!

— Quell'altro è quell'altro.... E l'hai visto? — domandò con premura
volgendosi.

— Lo vedrò oggi, quando vado fuori. Che risposta poi gli devo dare?

— No!

— Proprio no?

— No; digli che abbia un po' di pazienza.

— Però — insiste la cameriera dopo qualche minuto di silenzio e
ritornando all'argomento di prima — il signorino finirà con l'accorgersi
che quelle lettere non sono roba di lei: bisognerebbe almeno aggiungerci
qualche cosa di più preciso!...

— Allora aspetta... — rispose Nora, e con un moto rapido si accostò di
nuovo al tavolo, prese un altro foglietto e scrisse a larghi caratteri
dettando forte: «Poscritto: lei è un gran curioso; vuol sapere troppe
cose; oggi non ho voglia di rispondere a tutto. Faccia la penitenza di
aspettare sino alla lettera di domani l'altro; così vedrò anche se ha
pazienza. Un uomo prima di sposarlo, bisogna conoscerlo bene, ha
capito?» Ecco fatto.

— Sì, così va bene — approvò Lisetta —, ma c'è poi quella cosa che
domanda sempre in tutte le lettere, come la grazia ai santi.

— Ah, il famoso bacio! Aspetta: «Secondo poscritto: quella cosa è
impossibile per ora. Ne parleremo meglio a voce.» Va bene così?

— Io però glielo darei un bacio — aggiunse l'altra in tono
compassionevole —; è tanto buono, poverino, e le vuole tanto bene!

— Ma ti pare?... Dopo non si accontenta più: e poi mi fa senso a
baciarlo!

— Gli metta almeno una buona parola; con le parole si può andare avanti
un pezzo — consigliò Lisetta.

— Be'... facciamo a tuo modo: «Terzo poscritto: tuttavia sperate.» E
adesso prendi la lettera e nascondila sotto il suo capezzale... E per
oggi è finita! Si sedette al piano e ne fece zampillare fuori un
gorgoglio di note allegre e andanti come di galoppo: il preludio della
_Carmen_. Si fermò, poi giù altro scoppio di suoni, ma baccanti e
lascivi che durarono un pezzo: un'aria della _Gran via_.

Si fermò ancora, e stava per riprendere un terzo motivo, quando qualche
cosa di lugubre si udì in quell'intervallo. Nora si scosse e rimase con
la mano sollevata su la tastiera.

Era uno scoppio di tosse, ma così cavernosa e secca che pareva che le
viscere si dovessero staccare e lacerare. Gli scoppi di tosse si
susseguirono con spasimo decrescente poi tacquero in una specie di
rantolo.

— Povero ragazzo! — sospirò Nora.

Ma allora si udì un passo che strascicava in fretta sul corridoio.

— Dio! la signora! — mormorò la cameriera, e si curvò tutta nell'atto di
spolverare.

Anche Nora fece per istinto la mossa di alzarsi dallo sgabello, ma non
ne ebbe il tempo, che la signora sollevò il velluto della portiera.

Una figura scarna e patita s'inquadrò su la soglia.

Disse con voce sibilante:

— Voi, nipote mia, mi volete obbligare di dire ad Antonio che venga a
portarvi via il piano: è una misura severa, ma voi mi costringete.

Fu una breve pausa; Nora non rispose. La voce della signora si
ammorbidì, come di un tremito e continuò:

— Tu lo sai, Nora, nessuna emozione, sopra tutto nessuna emozione; i
medici dicono tutti così; e la musica è una emozione.

— Ma scusate, zia — rispose questa volta la giovane con mal celata
impazienza — io non ho mica suonato la marcia funebre dell'_Aida_!
Guardate: tutta la musica seria l'ho messa via. Questa che mi rimane,
eccola qui: _Madama Angot_, la _Carmen_, la _Gran via_...; tutta musica
allegra....

— E sconveniente — ribattè la signora.

— Adesso la musica sarà diventata un romanzo dello Zola da essere
sconveniente! — rispose Nora con lieve accento di scherno.

— Si vede dunque che li leggete — ribattè la signora con ironia.

Nora tacque.

— O sconveniente o no — riprese colei — non si suona. Anzi permettete. —
Si mosse verso il piano, lo chiuse e si mise la chiave in tasca.

— Così è levata anche la tentazione. E poi — aggiunse osservandola
meglio — siete ancora in accappatoio, a quest'ora! Sono le undici
oramai. Che cosa avete fatto tutta la mattina? Tutta nuda — e aperse con
dispetto l'uno e l'altro lembo dell'accappatoio denudando le spalle e il
seno —, tutta nuda e tutta spettinata ancora! e la finestra aperta!
Volete dunque ammalarvi anche voi?... Le stanze devono essere a dodici
gradi; qui si gela! chiudete quella finestra.

Lisetta si affrettò a chiudere.

— E voi siete ancora qui? — riprese notando la cameriera —. A quest'ora
avreste dovuto finire di mettere la stanza in assetto. Ma si capisce,
fra voi due!.... Però non è dignitosa, Nora, questa confidenza con una
persona di servizio; si vede proprio che avete nelle vene il sangue di
vostra madre buon'anima, che Dio l'abbia in paradiso. Provvederò anche a
questo; due ragazze come voi non stanno bene insieme.

Nora non si era mossa, nè aveva aperto bocca; solo teneva gli occhi
rivolti al cielo in atto di rassegnazione forzata e si mordeva le
labbra.

— E oggi a pranzo — aggiunse con voce sommessa — mi raccomando, tenete
un contegno più serio; meno gesti, meno sorrisi, meno smorfiette. Ed ora
pettinatevi, ma senza tanti riccioli; e mi farete anche il piacere di
mettervi l'abito marrone scuro.... Eh! avete sì un bel far l'offesa: me
l'avete stregato per dovere, povero figlio — conchiuse con accento di
rabbia e di dolore insieme.

— Ma vi giuro, zia — supplicò Nora — che non sono io; è lui che vuole
che gli scriva, che vuole che lo ami....

— Eh, non dico adesso, io! dico prima quando lui era ancora un bambino
che me l'avete stregato. Adesso le cose sono quello che sono. Ma, se Dio
vuole, non dureranno molto così. A pena si apre la stagione, lui a Nizza
e per voi in un modo o nell'altro si provvederà — e voltatele le spalle
se ne andò.

— Ha sentito la signora — domandò con impertinenza Lisetta dopo che il
passo di colei si fu allontanato, e rifacendole il gesto — ha sentito? È
stata lei a fare innamorare il signorino! Se ne possono dir di peggio?
Ma sicuro lei è stata, lei! Non basta la vita che lei fa da più di un
anno, niente feste, niente conversazioni, come in un convento, non
basta; ma la signorina non si deve fare i riccioli, come se non fossero
i capelli che sono ondati per natura! Ha un bel vitino, e se lo deve far
brutto! L'abito _marron_: vi metterete l'abito _marron_ scuro: e che
tono! Lei vorrebbe così far andar via l'amore al suo figliuolo....: e
dovrebbe invece ringraziarla che lei gli dà retta....; ringraziarla come
si fa coi santi, perchè se lei fosse una giovane come ve ne sono tante e
gli dicesse chiaro e tondo il suo sentimento, li vorrei vedere tutti e
due... madre e figlio! Proprio vero che a far del bene è tempo perso con
certa gente!

Nora non diceva nulla, ma piangeva di rabbia.

— Oh io poi — continuava Lisetta — se fossi in lei, questa pazienza da
santa non ce l'avrei mica. Dopo tutto lei è libera, dispotica di sè, e
io me ne sarei andata da un pezzo....

— Sì! e dove vado? e con cosa vivo? — domandò Nora con voce alterata
levando il fazzoletto dagli occhi.

— Bella! va dove vuole: non ci ha la sua dote?

— Ah, se ci avessi la dote, non dubitare che non sarei rimasta tanto per
i loro begl'occhi!....

— Ma dunque non ci ha la sua dote? — ridomandò con gran sorpresa
Lisetta.

— Se non se la fosse giocata mio padre prima di ammazzarsi, ce l'avrei
ancora; ma l'ha fatta saltar lui a Montecarlo. Ah! cara mia — seguitò
consolandosi ne le memorie del passato —, quella fu una disgrazia, una
disdetta da non darsi pace. Ma che vita si faceva allora, se tu l'avessi
provata! Pensa che si viaggiava tutto l'anno: io era ancora bambina, ero
libera come il sole. E come mi divertivo! Avevo la _bonne_; ma quella
badava a fare l'amore!... Dopo ho fatto la penitenza quando la zia mi ha
raccolta qui per carità, orfana e senza niente....

— Sicuro che allora — sentenziò Lisetta — lei ha la sua buona ragione di
tenersi da conto la signora e di fare a modo suo. Lui, già, il
signorino, non campa. Dopo chi resta? Nessuno: e la parente più vicina è
lei. Anche la vecchia non vivrà mica gli anni di Noè, e allora il
palazzo, tutti i finimenti d'oro e di brillanti, e tutto il capitale
viene a lei per legge.... Poi lei sposa quell'altro.... e tutto finisce
bene.... — Così seguitava ad almanaccare Lisetta.

Nora non diceva nulla e seguitava a vestirsi.

                                  *
                                 * *

Dopo mezzodì il cameriere venne ad annunciare a Nora che il pranzo era
servito.

La tavola era preparata per quattro, ma ne la sala v'era solo suor
Angela, una specie d'infermiera; donna senza sesso, lunga ed ossuta. Si
stropicciava le palme con forza e pianamente, dilatava le narici e
stirava le labbra: segni di un costante e solido appetito.

— Adesso madama viene — disse a Nora con la sua voce ombrata e fuggevole
di sibilanti —; l'ha voluto aiutar lei a vestirsi. Una martire, povera
signora, una vera martire!

Nora non disse nulla.

Febo entrò dando il braccio alla madre.

Non era brutto Febo: anzi un certo non so che di signorile e di eretto
nel portamento e nel vestire allontanava a prima vista l'idea della tisi
che lo minava; ma osservandolo meglio nel volto, sotto la pelle terrea e
smorta, troppo forti apparivano i rilievi e le insenature del teschio, e
ciò incuteva non solo pietà ma ribrezzo, tanto più che la forza tetra
del male spirava da tutta la sua persona. E questi sentimenti si
imprimevano più vivi per ragione di contrasto quando parlava e
sorrideva, giacchè in quel volto gli occhi grandissimi e neri
scintillavano e la voce avea quelle inflessioni di quiete e di soavità
che hanno quelli su cui spira vicina la beatifica aura della morte.

I capelli solo conservavano la vita che da tutto il corpo gli sfuggiva,
chè erano di un nero bellissimo e lucente, e incorniciando a lievi
ondate la fronte, vi imprimevano quel non so che di ingenuo e di nobile
che è proprio della sacra e ancor virginale giovanezza del maschio.

Appena vide Nora, le pupille scintillarono di più larghezza, le guance
gli si colorirono di un fugace rossore, e le labbra tracciando un
fuggevole sorriso scopersero il madore dei denti, d'un color grasso
d'avorio.

Lasciò il braccio di sua madre e accostandosi galantemente alla giovane:

— Come va, cugina? — chiese con lieve turbamento; — e come siete bella!
— esclamò poi fermandosi a contemplare quella rigogliosa forma di
giovane donna.

Nora interruppe e chiese di lui, come stesse, se la tosse era diminuita,
se più riposato il sonno durante la notte.

Febo rispondeva di sentirsi assai meglio. Oramai con la buona stagione
si alzerebbe tutti i dì; poi l'aura mite e il mare della riviera
avrebbero compita la guarigione.

Si posero a tavola. Febo sedeva presso Nora e con bel servire e con
piacevoli conversari si studiava di renderle gradita la sua compagnia.

La vecchia signora, non osservata, osservava ansiosamente il figliuolo,
e ogni tanto dei fremiti convulsi le agitavano le estremità delle
labbra. La suora badava a mangiare con correttezza, non perciò meno
vorace.

Sovente la signora con voce timida e persuasiva osservava:

— Febo, non parlare tanto; sai che ti fa male....

— No, mammina, sta buona — e seguitava a conversare con Nora.

Ma una volta si eccitò d'improvviso perchè lei, la povera mamma,
ripeteva sempre la stessa raccomandazione.

La voce gli tremò di rabbia, spiegazzò la salvietta con tutte e due le
mani e disse con voce stridente e convulsa:

— Ma che sono un bambino, io? Tu dici che sto meglio, lo dice il medico,
lo dicono tutti: oggi v'è un bel sole, m'alzo, mi sento bene, e non
volete che parli? Allora vuol dire che sto molto male. Voglio parlare
finchè mi pare. Sei noiosa come tutte le mamme!

La povera donna abbassò il capo senza rispondere, ma il moto convulso
delle labbra si accrebbe, e quando non potè più trattenere il pianto, si
alzò piano e se ne andò senza che Febo se ne avvedesse.

Egli si era subito calmato e seguitava a parlare con Nora della villa in
riviera, del mare, del dispiacere di aver perso due anni di studi, dei
progetti per l'avvenire.

— Sapete, cugina, quando avrò la laurea? a venticinque anni. E se a uno
di quelli che hanno bisogno di guadagnarsi il pane fosse toccato il mio
male, con tutta la spesa e le cure che ci vogliono, come avrebbe fatto?
Eh, un po' di socialismo bene inteso non guasta mica, non è vero, suor
Angela?

Suor Angela aggrinzò il naso senza rispondere.

— Ma vedete! — diceva sorridendo a Nora — la buona suora è così
religiosa ed ha paura del socialismo! E la mamma dov'è, dov'è la
mammina?

Suor Angela si levò per andare a chiamarla.

Allora, come furono soli, Febo prese con le sue mani umidicce la mano di
Nora e se la pose alle labbra.

— No, Febo — ella diceva, cercando lievemente di liberarsi — no, mi fai
male, mi fai!...

— Giurami che mi sposerai, Nora!...

— Sì, te lo giuro, ma lasciami....

Si udì il passo della signora e della suora pel corridoio. Febo si
ricompose e domandò:

— Hai scritto, mi hai risposto?

— Sì.

— È una lettera lunga?

— Otto pagine.

— Anima cara e santa! — sospirò Febo.

In quella entrò la signora e dietro suor Angela: avea gli occhi un po'
rossi, ma era serena.

— Tu, mamma — le osservò Febo scherzosamente — sei proprio egoista e
cattiva. Oggi mi sento così bene, mi sento così allegro che mi vien da
ridere, e tu mi sgridi e vai via....

— Io lo dico per tuo bene, figliuolo — ella rispose con pacata mestizia.

Un filo di sole sbiadito avea intanto trovato strada fra i cortinaggi e
si stendeva su la tovaglia. Il cameriere avea recato il vassoio col
caffè. Febo volle porgere lui la tazza a Nora e la guardava a sorbire;
poichè ci metteva tanta grazia con quelle labbra che si stringevano così
rosee sull'orlo della tazza, e la pelle della gola che le risaliva in su
ad ogni sorso.

— Voi, Febo, non prendete il caffè? — domandò voltandosi e chinandosi
verso di lui; e in quell'atto il raggio di sole la investì nel volto e
balenavano le gote e le pupille; e i riccioli neri e ribelli parevano
tutti vaneggiare largamente su la fronte.

— La mamma non vuole — rispose il giovane scotendosi dalla sua
contemplazione estatica. — Vero che non vuoi, mamma?

— No, figliuolo, se no perdi il sonno questa notte.... — rispose la
signora e si rivolse ancora distrattamente ad udir suor Angela che avea
ripigliato a raccontare di una mirabile guarigione della Madonna di
Lourdes.

— Allora niente caffè, signorino! — disse Nora scherzosamente.

Febo intanto era riuscito a posare la mano su la palma di lei e
mormorava piano che la mamma non intendesse:

— Come saremo felici quando sarai mia..., la sposa mia..., l'anima
mia!... Tu potrai comandare i miracoli e io li farò....

Il raggio di sole era salito via, e la storia di Lourdes era finita:
l'ora piegava verso il vespero e la signora e suor Angela con vaghe e
timide parole allusive cercavano d'indurre Febo a ritornare a letto.

— Sentite quello che dice vostra madre? ubbidite, cugino mio, è per
vostro bene — disse nettamente Nora che aveva capito a che voleano
intendere le due donne.

Febo allora si levò, e salutatala con un:

— A domani, dunque! — si avviò verso la stanza seguito dalla madre e da
suor Angela.

Anche Nora poco dopo si ritirò ne la sua stanza; ma il sole non la
illuminava più, anzi ci si sentiva un'aria fredda che faceva come
rabbrividire la pelle.

Si ravvolse le spalle in una mantellina e sedette presso la finestra.
Avrebbe voluto far qualche cosa e pensare ad altro, ma l'imagine di Febo
non le si voleva partire dalla mente e ne sentiva tristezza.

Povero Febo! Rivedeva la sua faccia smorta, le risonavano le sue parole.
No! non sarebbe guarito più: da quel palazzo sarebbe uscito, ma solo in
una bara stretta e nera.

Ella stessa quando parlava di lui, non diceva sempre: «Febo era, Febo
faceva?» Si vede dunque che per lei Febo non era più una persona viva.
Era destino, doveva morire; ma non sarebbe stato solo a morire: qualche
cosa anche di lei Febo si sarebbe portato via nel mistero della bara,
qualche cosa anche della giovinezza di lei. Era questo il pensiero che
confusamente la impauriva. Nora si guardava le mani su cui si erano
posate le mani di lui come a cercare se ne rimanevano le impronte, se
sentivano ancora il madore della etica pelle. No, lei non lo voleva
seguire. Era Febo che voleva bene alla sua giovanezza; e per questo la
divorava con gli occhi, ma lei non voleva.

Da cinque anni, da che la zia l'avea accolta orfana e povera, era legata
a Febo, a quel bambino grande che adesso moriva. Si ricordava il giorno
in cui l'aveva visto per la prima volta. Veniva dalla scuola ed era
entrato nel salotto cantando e buttando i libri su di un sofà. Ma appena
vide la giovanetta, che era giunta da poche ore, tutta vestita a lutto,
si fermò, si ricompose e rimase lì come impacciato.

— Questa è la tua cuginetta che ha avuto tante disgrazie e che tu amerai
come una sorella — disse la signora.

— Oh, questa è mia cugina!... — avea esclamato e da quel giorno se ne
era innamorato morto.

Allora, nei primi anni, anche Nora era una ragazzina e ci pigliava gusto
a stuzzicarlo; a vederlo così.

Quelle lettere sentimentali che non finivano mai, quel raccogliere i
fiori che lei toccava, baciarle i capelli che portava lunghi e sciolti,
quelle frasi di adorazione, di paura che lei dovesse fuggire, che era
l'allodola, il sogno, il raggio di sole, erano cose che allora le
piacevano. Ma più ella cresceva nel rigoglio delle forme e delle carni,
più lui sprofondava in quell'ebbrezza di stupida contemplazione.
Arrossiva al vederla, piangeva pensando a lei, lo sentiva tremare tutto
quando gli porgeva la mano o per caso lo toccasse col ginocchio o col
piede.

Nora oramai si era fatta grande, sapeva tante cose e quell'amore da
ragazzi non la soddisfaceva più. Gli uomini non devono amare così,
pensava. Fu a quel tempo che conobbe l'altro in un salotto dove le era
stato presentato, e se ne era invaghita con un senso di soggezione che
non avea mai provato per Febo.

Quello sì era un bel giovane; così elegante, così mondano. Nè Febo nè
altri se ne erano accorti. Febo era così bambino, di che cosa si sarebbe
accorto lui? Al teatro l'altro c'era sempre quando lei ci andava: al
corso, alle feste quando le si accostava e la salutava, Nora provava un
brivido di orgoglio e di gioia pensando: «Questi è mio!».

Ma da quasi due anni, da che Febo si era ammalato, la zia non riceveva
più nè si andava ad alcuna festa o ritrovo dove potesse abboccarsi con
lui. Era molto se lo poteva scorgere qualche volta di sfuggita quando
usciva in carrozza per andare a messa. Intanto gli anni passavano, e lui
si sarebbe stancato. V'erano tante donne che sospiravano il suo amore,
che glielo avrebbero rubato! Questo pensiero la struggeva con un senso
di gelosia e di rimpianto acre e senza conforto.

E poi v'era sempre quell'ombra pallida di Febo che non le si staccava
mai. Anche dopo che si era ammalato il suo modo di amare era rimasto
sempre uguale: lo stesso sentimentalismo, la stessa tirannide delle
lettere che gli doveva scrivere e che egli leggeva e rileggeva ne le
lunghe e solitarie ore del letto. Era rimasto sempre uguale; solo le
pareva che i suoi occhi avessero talvolta dei lampeggiamenti tetri e ne
le lettere di lui c'erano delle frasi che adesso le facevano paura, suo
malgrado.

Diceva ancora: tu sei l'allodola che fuggi: io mi levo al mattino, e non
ti trovo. Ma, aggiungeva: il cielo non è abbastanza grande perchè tu mi
possa sfuggire, io ti raggiungerò, e ti terrò sempre con me!

No ella, Nora, non gli voleva dare la sua giovanezza. Ella avea bisogno
di amare, ma non a quel modo nè lui: e più cresceva il desiderio d'amore
come più chiusa e melanconica si faceva la vita in quella casa sotto
l'approssimarsi della morte.

Il sole intanto si era offuscato e senza alcun raggiare di sua luce,
come un globo d'oro pallido, piegava giù dietro i platani ne la
malinconia del cielo. Anche il terreno non si vedeva che ombrato e
fondo, perchè la nebbia cominciava a salire.

E intanto lei, seguitava pensando, aveva oramai ventun'anni! Cominciava
a percorrere il decennio della trentina: inutile illudersi. Camminava
verso i trent'anni! E ancora quel carnevale, ultimo dei suoi vent'anni,
finiva!

Ieri notte, che ora fosse stata non sapeva, la destò un coro di
mandolini e di chitarre che suonarono tutta la notte: mandavano i
mandolini note acute d'argento che parevano risa, e le chitarre
ripigliavano un dolce ed appassionato motivo. Lei aveva pianto e non
aveva più potuto chiudere occhio.

E quella notte sarebbe stato lo stesso ripetersi di canti e suoni; anzi
di più perchè era l'ultima notte di carnevale.

Dopo ci volevano ancora altri dodici mesi perchè tornasse il carnevale!

Il sole finì con lo scomparire sotto la nebbia che montava più densa
insieme alla notte. La nebbia maligna si sviluppava come globi di fumo
dalla terra e aveva ravvolto tutta la foresta dei platani, di cui a
stento si distinguevano i grandi tronchi.

Le cupole, i tetti della città smarrivano i loro contorni e si
confondevano in un grigio uniforme.

Nessun rumore giungeva; solo qualche grido avvinazzato, e il rotolare di
qualche carro: echi indistinti dell'ultimo giorno di carnevale che
riprendeva la sua pazzia per le strade.

Molto rimase Nora con la fronte sul cristallo. Quando fu buio, venne il
cameriere e disse che la signorina avrebbe cenato da sola perchè la
signora zia avea dovuto uscire per un affare improvviso. Nora era così
assorta che non pensò nè meno a domandare del perchè di quell'insolita
assenza: le portasse qualcosa; avrebbe cenato in camera.

E tornò ancora alla finestra. La città si illuminava; i fanali non si
distinguevano per la nebbia, ma dei bagliori luccicavano qua e là e la
tingevano di sprazzi sanguigni. Più lontano luceva un non so che di
bianco lunare e vivo: era la lampada elettrica sopra la cupola del
_festival_, dove vanno a ballare le sartine.

Come devono essere felici le altre donne che non stanno in casa le sere
di carnevale! Anche le sartine, anche le modiste che agucchiano tutto il
giorno, devono essere felici perchè la sera hanno l'amante che le
aspetta e vanno a spasso e ridono e vanno a ballare.

In quella casa non si rideva più, si moriva: anche la sua giovanezza ci
moriva!

Passa così presto la gioventù della donna! E lei ce lo avea l'amante;
bello, più bello di tutti e non poterlo nè meno vedere!

Tutte le sue amiche a quell'ora erano occupate (lei le vedeva) a mettere
in ordine le loro _toilettes_. Si ballava in casa C***, in casa B***.
Anche quell'anno la nobile signora X*** dava una festa per le signorine
con esclusione di babbi e di mamme: qualche cosa di delizioso. Lei ne
sapeva bene qualcosa!

Come dovevano essere felici di non trovarcela! Era Nora che le
schiacciava tutte. Adesso invece era lei la vinta. Bella vittoria! Un
assassinio della sua giovinezza. Ci sarebbe stato anche lui; si sarebbe
innamorato di qualche altra e per lei era finita.

Questi pensieri confusamente, mal definiti e quasi incoscienti di sè,
passavano per la mente di Nora come le nubi sui monti l'una dopo l'altra
passano in una giornata autunnale, squallida e stillante di pioggia.

In quella si udì un passo lieve ne la stanza che fece trasalire Nora.

— Sono io, signorina! — disse Lisetta con voce sommessa.

— Sei tu? — domandò Nora voltandosi e distinguendola a pena nel buio
della stanza.

— Sì, io — e accese la lampada. — Ma lei ha pianto! — sclamò poi
accostandosi e fissandola in volto.

— Io?... — e si guardò in uno specchietto che avea sul tavolo: di fatto
gli occhi erano rossi. — Non ho pianto, ma mi sento poco bene. È una
sera così noiosa, così melanconica....

— Allora ho una bella nuova da darle.... — disse maliziosamente Lisetta.

— L'hai veduto? — domandò Nora con premura.

— L'ho veduto.

— Di' su.

— Ha detto che le vuole parlare assolutamente....

Nora si strinse ne le spalle.

— Gli ho fatto bene osservare anch'io che era impossibile....

— E lui?

— Oh, lui niente. La aspetta questa sera alla porta del teatro dove c'è
il veglione....

— Ma è diventato matto?

— A sentir lui ragiona sul serio. Mi ha detto di farle sapere che da
mezzanotte sino alle tre ci sarà davanti alla porticina di servizio qui
del palazzo una vettura chiusa, e poi mi ha consegnato un domino e una
maschera....

Nora non rispose. Lisetta seguitò ancora:

— Dice che ha una notizia importante e che non la può comunicare che a
voce....

— E che faccia aveva? — chiese Nora.

— Oh, una faccia scura, signorina. Si vede che è proprio innamorato, ma
che è stanco di andare avanti così.... Qualche progetto lo deve avere
certo per la testa....

Nora stette ancora un poco in silenzio poi domandò:

— Fammi vedere il domino.

Lisetta ruppe svelta i legami di un grosso pacco e sciorinò qualche cosa
di lungo e di lucente che si svolse con un fruscìo di seta e di nastri.

— È molto ricco, molto elegante! — mormorò palpandolo.

— Uno splendore, signorina!

— Sì, ma è una pazzia la sua! — concluse posando il domino su di una
sedia. — Non ti pare che sia una pazzia?

— Pare anche a me....

— È vero?

— Sì..., ma io se fossi in lei ci andrei, perchè è sicuro che nessuno se
ne accorgerà.

— Ma la zia che gira tutte le notti? — obbiettò vivacemente Nora.

— Ma la signora è andata via...! Ha ricevuto un dispaccio. Da prima non
voleva lasciare la casa, poi si è decisa ed è partita alle cinque per
Torino.... Non sarà di ritorno che domani.

— Sei sicura?

— Eh, lo domandi ad Antonio che l'ha accompagnata alla stazione....

— Di fatti me ne ha detto qualcosa — mormorò la giovane. — Ma e suor
Angela.... e Antonio?....

— Quelli dormono della quarta — rispose Lisetta sprezzantemente. —
Infine faccia una cosa: vada in fondo al corridoio, giri la chiavetta
della porticina a vetri, e chi vuole che venga a cercare di lei?... E
poi la sua stanza si può dire come separata dal resto dell'appartamento;
può fare anche del rumore che nessuno sente niente....

Lisetta seguitava a parlare, Nora rispondeva e interrogava a
monosillabi.

Fuori, in lontananza, luceva la luce bianca sopra il _festival_ in
quell'ultima notte di carnevale.


II.

Quante ore della notte erano trascorse quando Febo si svegliò? Era essa
giunta alla metà del suo corso, ovvero le ore fuggivano verso l'aurora?

Fuggivano verso l'aurora. Ma i cavalli del sole dormivano pur ne le
stalle d'oriente; soltanto dietro le nebbie le stelle s'inchinavano
all'orizzonte.

La casa era profondata nel sonno; ma i geni dell'inguaribile male
vigilavano e minavano con maggior fretta le loro caverne; e rallegravano
il loro lavoro con un rantolo gorgogliante continuamente nel sonno.

Si destò Febo soffocato dalla tosse, la quale scoppiò con un urlo che
avea dei suoni laceranti come di metalli spezzati, e risonava nel
silenzio e ne la notte così lugubre che pareva il grido di vittoria
della Morte cavalcante la sua caccia selvaggia.

Il sudore gemeva alle radici dei capelli, alle ascelle, al collo, con un
senso di orripilazione e di caldo febbrile.

Finalmente la tosse si placò e allora Febo riprese coscienza di sè e
riguardò attorno per la stanza. La luce della lampada da notte, nascosta
dietro il paravento verde, si diffondeva tranquilla; ma gli oggetti così
illuminati dal basso in alto, i cortinaggi specialmente, quei cortinaggi
che scendevano giù sul tappeto, avevano assunte attitudini fantastiche e
si prestavano a paurose visioni.

La specchiera aveva poi dei riverberi strani. Tutto era immobile e
muto...; pure pareva a Febo che qualche cosa si dovesse muovere fra poco
e d'improvviso; che la porta si dovesse spalancare, o che la tappezzeria
si dovesse aprire in una parte e una persona uggiosa avesse dovuto
entrare alzando le braccia e parlare con voce cupa.

Chi era che entrava? Egli non lo sapeva; ma un'aspettazione paurosa lo
teneva sospeso.

Ecco: era la suora che entrava. La suora con la tonaca che le sbatteva a
dosso col rumore delle ali delle falene; con quella voce velata, con la
faccia gialla: era lei che entrava a domandare se avesse bisogno di
alcun servizio.

Era lei: era e non era lei, perchè si era fatta erta sino al soffitto
come i cortinaggi, e la tonaca le cadeva giù dietro come un manto.

Gesticolava con delle braccia così lunghe che andavano sempre a battere
contro le pareti. Pareva adesso una maga che facesse sue arti e
chiamasse i demoni. «Monaca! monaca! Tu andrai all'inferno, non hai
paura di andare all'inferno?» così credeva Febo di dire; e quella non
rispondeva, ma scoppiò in un riso sgangherato che le aprì tutta la
mascella, e chinando quelle braccia, si era preso i lembi della tonaca e
si moveva a torno in una ridda: ma non urtava più nel soffitto nè contro
i mobili perchè la stanza si era ingrandita come la scena di un teatro;
tutto era gigantesco; lui solo era piccino e lontano come per chi guarda
con un binoccolo a rovescio. «Monaca, monaca,» gli pareva ripetere
«vengono i diavoli con i cavalli di fuoco e la carrozza di ferro, e ti
portano in fondo all'inferno!» Ma la monaca non rideva più. Si era stesa
supina su la poltrona a sdraio dove il medico faceva stendere lui per
ascoltargli il petto, e quivi si contorceva con gesti da ossessa.

Egli la voleva scacciare quell'imagine impura e faceva dei gesti; e così
avvenne che rovesciò un cristallo che era sul tavolo da notte. Il lieve
rumore lo scosse e provò un senso di sgomento come s'avvide che non era
desto, ma che era ricaduto un'altra volta nel sogno. Erano tutti quei
calmanti che producevano tante e così stanche visioni. Allora per meglio
destarsi girò il bottone della lampada elettrica.

La luce bianca, innondando di colpo la stanza, fece volar via la monaca
con la tonaca su pel soffitto; e la stanza aveva riprese le sue
proporzioni.

Finalmente era scomparsa! Era stato un sogno; ma non importa; il giorno
seguente avrebbe pregato la mamma che la mandasse via. Già gli era
sempre stata insoffribile quella faccia gialla! Doveva ben essere, sotto
la tonaca benedetta, piena di cupidigie infernali! E poi se stava oramai
bene, che bisogno c'era dell'infermiera la notte?

Via, via la monaca; solo lei, la soave, la immacolata Nora.

Dov'era lei? Nel suo letticciuolo, immersa nel sonno, con i capelli
raccolti e le mani in croce sul petto.

Quando, mio Dio, pensava, sarebbero venuti i giorni della felicità?
Perchè Febo vedeva sempre davanti a sè una grande felicità come di oasi
con palme e fontane e quei giorni dovevano venire certo.

Tutto dipendeva dalla tosse, come diceva anche il dottore. Cessata la
tosse, cessato il male; questione di tempo e di buona stagione.

Perchè l'aprile tarda tanto a venire? Allora sarebbe andato in riviera,
in una bella villa, tutta circondata di verzura e di rose. Avrebbe visto
il mare azzurro, con le barche che hanno le vele bianche e girano il
mare quanto è grande: avrebbe visto il sole e la luna quando albeggiano,
perchè le finestre le avrebbe tenute sempre aperte che ci entrasse tanta
aria; e se egli stava male era anche perchè tenevano le finestre sempre
chiuse e l'aria non c'entrava.

Non la voleva capir nessuno che la guarigione stava tutta lì: far
entrare molta aria nel petto.

Ma in riviera avrebbe fatto entrare tutta l'aria che sta sopra il mare!
E appena guarito, subito avrebbe sposato Nora. Un sogno, una felicità
sovra umana, tanto che gli pareva impossibile. E perchè impossibile?
Nora era contenta e questo era il tutto. La mamma certo avrebbe fatto
molte obbiezioni, cioè che era troppo giovane, che doveva terminare gli
studi; ma in fine avrebbe detto di sì. Era così buona la mamma! E poi
v'era un argomento ultimo, decisivo: «Se vuoi che viva lasciami sposare
Nora». Avrebbe detto di no? Dunque l'avrebbe sposata subito in riviera,
ne la villa davanti a cui s'alza il mare: le vele lo percorrono; s'alza
il sole. V'è un bosco di rose, Nora è stretta al suo braccio, gli si
abbandona su la spalla....

Ma insensibilmente s'accorgeva che i pensieri gli si tornavano a
confondere e a dilagare in molti sogni dove discendeva come in un gorgo
cupo, quasi egli fosse una cosa grave, e laggiù gli mancava il respiro.
Le palpebre gli si tornavano a chiudere e la luce che si sprigionava
dalla lampada diventava animata e pareva dire: «Io sono bianca come
l'aurora, io sono bianca come la veste da sposa, io sono bianca come una
fata; io sono la fata lucente che ti trascino a poco a poco giù nei
sogni e tu non lo vuoi ed io ti addormenterò lo stesso e tu verrai....»

No, egli non voleva più dormire, avea paura di quel torpore grave che si
impadroniva dei suoi sensi, e con uno sforzo si levò a sedere sul letto
e discese giù. Finalmente non dormiva, non avrebbe dormito.

— E dell'oppio non ne voglio più! — diceva legandosi i cordoni del lungo
e denso camice da notte.

E infilati i piedi ne le babbucce, si mosse per la stanza come per
liberarsi dalla nebbia del sogno. Sollevò la portiera e fece alcuni
passi pel corridoio illuminato a metà dalla luce della sua stanza. Ma
ebbe fatti a pena pochi passi che urtò contro l'usciolo a vetri. Non
pensò per quale cagione potesse essere chiuso, ma si ricordò che era
stato sempre aperto. Mosse la maniglia, e questa resistette. Allora con
uno sforzo alzò il braccio e abbassò la stanghetta che fermava in alto i
battenti, i quali non rattenuti che dal piccolo dente della serratura,
si apersero con una lieve spinta.

Febo mosse verso la stanza di Nora. Attraversò due sale dove la luce del
corridoio moriva, e si trovò nel buio. Avanzava brancicando. Ma come
ebbe svoltato, vide in fondo un filo di luce che passando per il vano
lasciato dalla portiera della stanza di Nora, si proiettava sul
pavimento; e nel tempo stesso un rumore breve come un soffio, lo fece
sostare. Era come un sorriso ovvero un gemito che non avea mai udito. Oh
che sorriso strano! Eppure era il sorriso di lei! Dunque che era? perchè
Nora rideva? Era la dolce creatura divenuta pazza come Ofelia, la
melanconica, ovvero era lui ancora giù, immerso in fondo, nell'abisso
dei sogni?

Ma dopo qualche tempo che stava in ascolto, quel fievole suono assunse
un carattere più languido, ma spiccato e deciso. Febo sussultò, e
un'onda di terrore gli si aggirò attorno al capo.

Procedette per quel filo di luce senza esitare; e quando ebbe sollevato
il velluto della portiera, gli si offerse una vista che lo fermò; nè le
fauci riarse poterono emettere un grido.

Nora era stretta fra le braccia di un giovane, e i capelli dalla nuca e
dalla fronte le cadevano diffusi per una veste sontuosa e fiammante. Il
giovane si chinava a baciarla; ella levava le braccia e con ambe le mani
gli accarezzava languida i capelli e le tempie.

Un senso mortale atterrò Febo sul tappeto; ma gli occhi, nel piegarsi
delle membra, rimasero fissi.

A quel rumore i due amanti trasalirono e scorsero il velluto della
portiera che si scoteva: un braccio vi si disegnava e tentava di
aggrapparvisi.

Poi sporse la testa di Febo con gli occhi fuori e finalmente tutta la
persona ritta in piedi, e sarebbe parso una statua se non fosse stato il
tremore che lo scoteva: con la mano faceva cenno di voler dire qualche
parola.

— A me.... a me.... Nora!... — riuscì a pronunciare con un accento che
non era più quello di Febo, e fece per camminare verso di lei stendendo
le braccia.

Nora mandò un lieve grido e retrocedeva stretta fra le braccia
dell'altro, e non staccava gli occhi da Febo. Lo vide oscillare due o
tre grandi passi, poi il camice diventar tutto rosso di molto sangue e
lui cadere grave e rotolarsi presso i suoi piedi, presso i piedi di lei,
l'amabile Nora.



Da Novi a Pavia

(MEMORIA DI VIAGGIO)


Quando mi scossi dal torpore che mi aveva vinto per tutta la notte che
si attraversò la maremma e la Toscana, si era alla Spezia ove il diretto
avea fatto sosta quasi di botto; e quel rude serrarsi ed arrestarsi
delle ruote mi aveva desto.

Fuori della tettoia, dietro le lunghe file dei convogli fermi su le
rotaie morte, un'alba livida di cenere si disegnava a pena. La pioggia
flagellava sui vetri e dal mal chiuso telaio entrava il gelo ed il
brivido di quell'alba autunnale. Poi il diretto riprese la sua corsa
internandosi ogni momento fra gran turbini di fumo ne le interminabili
gallerie che si susseguono sino oltre Genova: e nei brevi tratti che ne
usciva, si scorgeva di sotto il mare che spumava in grandi onde cerule e
si arrampicava urlando su per le pareti granitiche della scogliera.

Brutta cosa — pensava — trovarsi in mare; e dolce cosa invece svegliarsi
a casina sua nel suo letto. — Chi ha fatto questo rumore? Sono le
sorelle che ridono? o è la mamma che porta il caffè al figliuolo?

                                  *
                                 * *

Si passò Genova, Sampierdarena; e benchè il giorno fosse fatto più
chiaro (la pioggia non era ancora cessata) pure ne gli occhi mi
perdurava la visione grigia ed uggiosa dell'alba, quale mi era prima
apparsa lungo la riviera di levante.

A Novi il diretto proseguiva per Torino e convenne scendere e salire
dopo un'attesa di un buon quarto d'ora sul treno omnibus che conduceva a
Milano.

Era un vecchio scompartimento di seconda classe, coi sedili senza molle,
le pareti giallastre con la vernice scrostata; freddo, basso, dove
l'aria ci frizzava da ogni parte; e la reticella era solo da un lato.

Salii per il primo senza nè meno guardare chi venisse dopo di me; cercai
un angolo, e tiratomi sul capo la coperta da viaggio, provai di
conciliarmi un po' di sonno che mi sentiva sfinito dalla stanchezza.
Così in confuso capii che altri viaggiatori erano saliti e parlavano fra
loro; ma il rumore della pioggia era più forte delle loro parole e il
torpore che mi aveva ripreso era più forte della pioggia e delle voci.

Il vecchio carrozzone si mosse alfine ballonzolando su le rotaie troppo
larghe per le sue ruote consunte; e pure il sonno cominciava a stendersi
sopra di me in una benefica dimenticanza di molti e non lieti pensieri,
quando insensibilmente una voce di donna cominciò a farmisi intendere su
quel brusìo di voci, e cresceva sempre più forte e più uggiosa e più
continua che lo scotimento stesso del treno.

E come avviene, io stavo in attesa che quel racconto di cui afferrava
solo il suono e non il senso, finisse una buona volta per riprendere il
sonno.

Ma che!

Quella era una macchina montata: bisognava aspettare che la carica fosse
finita: Dio sa quando! Ma che non vi debba essere — pensavo fra me — uno
scompartimento a parte per le vecchie chiacchierone, come c'è quello pei
cani e per le donne brutte!? Perchè quella era evidentemente la voce di
una donna vecchia e brutta per giunta; e in quel perpetuo cicaleccio
queste parole ricorrevano con una nauseante insistenza: — mio figlio —
Bonosaire — la Merica — la fortuna. E quello che più mi disgustava era
che la donna non parlava in dialetto, ma in italiano e con quell'accento
mezzo emiliano e mezzo lombardo, pieno di improprietà e di
sgrammaticature che su le mie orecchie usate alla fluente e sicura
ricchezza del parlare toscano, produceva un effetto di esasperazione e
di tedio.

Alla prima stazione muto scompartimento. Ma il treno andava lento e la
prima stazione era molto lontana. E per maggior disgusto le voci che a
rari intervalli rispondevano alle interrogazioni di colei, avevano
un'inflessione anche più disgustosa. Una voce d'uomo con accento
meridionale, ma corrotto da cadenze e frasi straniere, rispondeva ogni
tanto con un monotono ed invariabile: «Così è» ovvero «Col tempo todo se
passa». Ma anche costui appariva seccato a giudicar dalla voce. Talvolta
era un altro l'interpellato, perchè allora rispondeva una piena e
gagliarda voce giovanile dall'accento tedesco e avea come dei baleni di
riso: «Io, signora, non capir taliano!»; e la voce della donna di
rimando con accento da straziare anche le orecchie di un maestro di
francese: «_Vous êtez français?_» «Oh, no, no; io studente germanico di
Heidelberg». E quella ancora a raccontare lo stesso le cose sue.

Era un affare disperato il mio di voler dormire: buttai via la coperta,
mi ricomposi nell'angolo, e subito cercai con lo sguardo la terribile
chiacchierona che sedeva nell'angolo diametralmente opposto al mio.

Era una figura volgare (così mi parve al primo esame) di una massaia o
borghese cinquantenne. Vestiva dimessa con un abito di lanetta color
avana e un cappellino nero di velo. Ella appena mi vide mi sorrise
benignamente con gli occhi, come ne la speranza di aver trovato un nuovo
interlocutore da supplire agli altri. «Hai proprio indovinato, la mia
donna!» — pensai —, e rimasi impassibile.

Quegli che parlava napoletano, ed era di fronte a me, avea una faccia
butterata dal vaiolo, faccia brutta e rude da mercante di carne porcina
o di carne umana ne le emigrazioni dei miserabili dall'Italia in
America. Gli sedeva vicina la moglie, una donna matura, alta, piena,
dalle linee del volto regolari, ma fredde ed inerti. Per tutto il
viaggio ella non si mosse dalla sua posizione, non sorrise nè diede
alcun segno di ciò che le passasse per l'animo. Portava un cappellino
inelegante ornato di molti fiori vivaci: braccialetti d'oro e catena
grossa al collo, anelli alle dita la gravavano come emblemi di una
ricchezza male acquistata ed inutile. Da quel grosso corpo uscirono due
o tre volte delle frasi che si capivano a pena, con una voce sottile e
disgustosa.

Il marito mi disse poi che la sua signora era di nascita tedesca ma sin
da bambina vissuta a S. Paolo, però sapeva anche l'italiano.

Lo studente germanico che sedeva di fronte alla vecchia donna lombarda,
era un gagliardo e sanguigno discendente di Arminio sui trent'anni, con
un beato sorriso su le labbra e quattro o cinque cicatrici di _rappier_
che gli deturpavano il volto largo ed imberbe. Egli pareva come
incantato a quel fiume di parole di cui non dovea capir niente; ma
evidentemente ci prendeva gusto. Si era chiuso nel suo scialle e,
accomodato alla bell'e meglio nell'angolo, guardava la donna gesticolare
e parlare con l'espressione di chi assista ad una rappresentazione.
Quella colse a pena il mio sguardo rivolto su di lei, che mi domandò:

— Lei è italiano?

Io feci cenno di sì.

— Bene — riprese —, lo dica lei a questo signore qui che viene dalla
Merica e non ci crede; è vero o non è vero che noi italiani siamo tutti
in miseria? — V'era in queste parole una certa mite rassegnazione e non
so quale doloroso convincimento che pareva dire: — ma vi pare possibile
che possa essere diversamente; e come si fa a non crederlo?

— Sicuro che della miseria ce n'è — risposi io.

— Oh, bravo! manco male! E adesso mi dica lei (si rivolgeva proprio a
me) che cosa doveva fare io? A Mantova un posto che sia un posto per un
giovane come si deve non c'è a pagarlo un occhio; e il mio Carletto, non
sta a me a dirlo, ma è proprio un bravo giovane.

Stia a sentire: lui ha fatto le tecniche, che è una bella istruzione;
dopo ha fatto il soldato da volontario, perchè il proprio dovere verso
la patria o prima o dopo bisogna farlo, non è vero lei che è giovanotto?
Era nel 70º di fanteria e il suo capitano gli voleva un bene... un bene,
che se viene a trovarmi a Mantova gli faccio vedere le lettere che gli
scriveva. Basta, è venuto via col grado di sergente. Dopo cosa doveva
fare, povero figliuolo? Io raccomandarmi, io cercare, io far le scale,
andar da questo, da quello, fargli far le istanze, far accendere due
candele alla Beata Vergine se riusciva a trovare un posto. Ma che!
Niente, quando si dice niente....! Le ferrovie sono tutte chiuse;
concorsi non ne fanno più; al municipio peggio che in altri siti; e noi,
veda, si era contenti anche di un posticino da prendere cinquanta lire
al mese. Anche lui era avvilito, perchè a dirla tutta, il mio Carletto è
buono, ma, se vogliamo, non ha molto spirito. Tira più a suo padre che a
me. Oh, se avesse lo spirito che ho io, sarebbe un'altra cosa. Ma già
tutti non possono essere uguali! Oh, io non ho paura di niente; faccia
franca e avanti! Sanno loro quando è partito il vapore di mare chi
piangeva? Loro diranno che piangevo io. Nè pur per sogno. Io rideva....
Piangeva lui che è un giovanotto. Ecco, un po' di dispiacere l'ho
provato piuttosto quando lasciò la casa a Mantova. Ma cosa vuole: suo
padre, mio marito, non lo voleva lasciar andar via: gli si era attaccato
ai panni e piangeva, piangeva che era una vergogna per un uomo di quella
età: ma io niente; è tutto per il suo bene; ed io sarei stata una
cattiva madre se avessi detto al mio Carletto; no, rimani, sta con noi!
Non è vero, signori?

Il discorso diretto a me si era poi esteso a tutti i viaggiatori. Ma il
napoletano accendeva uno zigaro, la signora pareva assopita, il tedesco
non capiva niente.

— Dico bene o dico male? — ripetè, e ci guardò tutti in volto senza
avvedersi della comune indifferenza.

Ma pigliando il nostro silenzio per esitazione a rispondere in modo
affermativo, impallidì e si commosse. Si capiva che avea bisogno di
essere rassicurata.

— Lei ha fatto bene, signora — diss'io.

— Ah, ecco — rispose trionfalmente come la pensa la gente istruita, la
gente che ha esperienza di mondo. Ma lo venga mo' a dire a quelle
zoticone laggiù di Mantova? Tu tradisci tuo figlio, laggiù ci sono i
mali cattivi, bisogna stare tanto tempo in viaggio, dicevano. Stupide,
dico io, e... e..., è che sono stupide.

Tacque un momento, e la sua faccia si scompose in una specie di
abbattimento che mi commosse. Poi dopo un mezzo minuto, si eccitò ancora
e ripigliò. — Veda, sono stata io, proprio io a farlo decidere di andare
in America. Qui non trovi posto? Bene...., aria! Vattene a guadagnar
fuori. E gli ho fatto io tutto; due sacchi di biancheria, due mute di
panno, che laggiù costano un occhio, e poi me lo sono preso su e l'ho
accompagnato a Genova. Lei dirà che lui poteva restare a Mantova. Ma a
far cosa, domando io? A mangiare alle spalle dei genitori? Mio marito è
scrivano da un notaio e guadagna poco; chi manda avanti la famiglia sono
io che faccio di tutto. Abbiamo anche una casa del nostro: ma cosa
conta? Il Governo mette delle tasse che portano via i tetti come un
uragano. Non le dicevo poi che ci ho anche due figliuole che oramai
saranno da marito; e poi anche che avessimo potuto, non va bene che i
giovani stiano con le mani in mano.

Dunque lui non deve pensare soltanto per sè, ma anche per le sorelle e
vedere se può fare la dote a quelle poverine. Dico bene?

Stette sopra pensiero poi melanconicamente aggiunse: — Certo che è un
gran piacere avere un figliuolo in casa! La sera ci faceva compagnia a
tavola, ci teneva in allegria e ci raccontava sui giornali tutto quello
che c'era di nuovo al mondo e anche a Mantova. E adesso? È meglio non
pensarci. Si domanderà sempre: dove sarà in questo momento che parliamo?
cosa farà? Non è mica una cosa allegra! E vorrei esser con lui e nel
tempo stesso mi pare un'eternità di essere a casa mia, perchè già lo
imagino cosa faranno tutti e tre: piangere, piangere, andare alla
stazione ad ogni treno a vedere se vengo; perchè loro non capiscono mica
niente della ferrovia! Bisogna che faccia tutto io. Io non ho paura di
niente. Ecco.... devo dire la verità: un po' di paura l'ho avuta
stamattina a vedere quel mare che urlava come una belva feroce che
pareva volesse mangiare mio figlio e il bastimento. Ma loro, quelli del
bastimento, non ci badavano nè meno. Del resto lo dicono tutti che non
c'è niente pericolo, ed è come essere in casa propria, e deve essere
proprio così perchè se si dovesse morire, tutta quella gente non
viaggerebbe mica; e ce n'erano tanti di signoroni che montavano su. È
vero che non c'è pericolo? — domandò rivolgendosi al signore butterato.

— _Oh, està nada._

— Non capisco mica.

— Io parlo _brazileno_, voi non capite il _brazileno_? Dico che il
viaggio è niente. Ho fatto venti volte la traversata, e da qui un mese
torniamo al nostro paese, a S. Paolo, sul Nord America che è il più bel
bastimento della Veloce; seconda classe distinta, cento patacconi per
uno: e il vostro figliuolo è andato in seconda classe?

— Ma si figuri! — rispose — Noi si voleva fare anche questo sacrifizio,
ma quando siamo stati dove si monta su....

— All'imbarcadero...., — suggerì il brasiliano di Napoli.

— Proprio così: bene, quando siamo stati lì, ci incontriamo in un uomo
che ci guardava con curiosità: ed io subito, franca, ho fatto
conoscenza. Quando si dice la fortuna! Delle volte quelli che sembrano
povera gente sanno dare dei consigli più da amico che certi signori
qualificati. Bene, questo qui vestiva come un poveretto e, a dir tutta
la verità, ci avea anche una faccia poco pulita; ma quando ha saputo che
il mio Carletto andava in America, subito si è fatto tutto gentile e ci
ha detto: perchè volete regalare alla società di Navigazione più di
cinquecento lire? Teneteli in saccoccia che faranno bene quando sarà
laggiù. Anch'io manco dall'Italia da più di vent'anni e adesso torno a
Bonosaire dove ci ho fatto fortuna, e si può dire la mia seconda patria:
e mi mostrava la catena d'oro e la borsa che dovea essere piena di
marenghi. Bene, lui va in terza classe ed ha fatto amicizia col mio
figliuolo, perchè non sta bene a me il dirlo, ma il mio Carletto è un
giovane simpatico; basta vederlo per volergli bene; così che va anche
lui in terza dove si respira l'aria fina che fa bene per chi è un po'
gracile, e si arriva lo stesso e ci si guadagnano quasi quattrocento
franchi di differenza. Poi gli ho detto in segretezza: — Attaccati a
quello lì che deve essere un signorone, fatti voler bene, confidati in
lui, e quando arriverete in America, ti troverà un buon posto. Ho fatto
male a dir così? — domandò con improvvisa agitazione vedendo che il
volto dello straniero si era oscurato a quel racconto.

— Oh, niente; avete fatto bene.... rispose dopo un istante con
indifferenza e spianando la fronte.

Anch'io aveva capito il sospetto che era passato per la mente di colui;
ma non ebbi il coraggio di parlare. Sarebbe stato un colpo crudele ed
inutile per quella povera madre dirle che quell'uomo non era forse altri
che un truffatore volgare.

— Ma non ci ha il posto pronto? — domandò questa volta il signore che
parlava _brazileno_.

— Oh sì, ha tanti posti, ha tante promesse — rispose lei con gran
premura — e poi ha anche delle lettere di signori di laggiù che lo
vogliono al loro servizio; ma delle volte, sa bene, la fortuna si prende
di passaggio che è meglio di tutto. Scommetto che anche lei avrà fatto
così. E quando poi avrà fatto dei soldi, quando avrà da parte un bel
gruzzolo, non voglio mica che venga a Mantova a mangiarseli. Perchè
questi ragazzi che non hanno esperienza di niente, se si trovano a pena
di avere un po' di risparmio, eccoli lì che si credono gran signori. No,
no, deve stare laggiù a farsela la fortuna per davvero. A Mantova neppur
per sogno! Si figurino che vi sono tanti giovani oziosi che stanno tutto
il giorno nei caffè e in altri siti più brutti. Se trovano uno che abbia
due soldi, eccoli tutti attorno. Supponiamo che venga lui; allora
Carletto qua, Carletto là, in baldoria ed in baracca finchè i soldi sono
spariti.

Piuttosto sanno loro cosa faccio? prendo quel vecchio di mio marito, le
mie figliuole e via tutti in America.

In Italia ci devono stare i ricchi e i birbaccioni; ma per la povera
gente o morir di fame o andar via.... — Si arrestò come meditando, poi
con un sorriso che non era privo di dolcezza come per farsi perdonare la
domanda indiscreta, chiese al _brazileno_:

— E lei ci ha messo molto a far fortuna?

Colui sorrise in modo canzonatorio e non rispose.

— Due o tre anni, scommetto, eh!...?

— Io non ho fatto fortuna — rispose colui conservando lo stesso sorriso.

— Me la vuol contare a me? Tutti quei braccialetti, quella bella
catena.... — e indicava l'oro della signora. — Si capisce bene che loro
sono signori. Ma il mio Carletto ci metterà un po' di più, m'imagino,
perchè molto svelto non è....

Tacque allora, e forse stava per riprendere il discorso quando la
signora del _brazileno_ domandò al marito:

— Quanto manca a Milano? — ma l'intonazione era diversa e pareva dire: —
Che seccatura è mai costei!

La madre dell'emigrato o intese il senso riposto di quella domanda o non
seppe che altro dire per allora, perchè non aprì bocca. Il volto, non
più animato dalla foga nervosa delle parole, si era ricomposto di nuovo
in una pallida e triste quiete. Il signore avea riacceso lo zigaro e
buttava fuori gran boccate di fumo; lo studente di Heidelberg avea
mandato in dentro il suo sorriso e tratto fuori il _Baedeker_.

Il carrozzone un po' sbatteva, un po' scivolava su le rotaie lubriche
dalla pioggia mentre attraverso i vetri bagnati passava, passava il
triste paesaggio lombardo.

Alberi e pioppi in lunghe file, cascine, praterie verdi come smeraldo,
vacche e cavallacci pascenti ne la marcitura putre dell'acque, fuggivano
indietro, come attonite cose, sotto il bigio velame delle nebbie che
montavano già nell'ora meridiana autunnale.

Avea quella povera donna tolto furtivamente dal seno una corona del
rosario e in fretta in fretta faceva passare le avemarie e premeva le
labbra nel fervore della preghiera, e chiudeva ogni tanto gli occhi. Il
treno fuggiva verso Mantova, ma il suo cuore se ne portava un gran
bastimento, e le onde immani portavano il bastimento su le loro creste
come una paglia; le onde senza fine dell'abisso del mare.

Frattanto il treno rallentava in prossimità di una stazione e la
macchina fischiò a più riprese.

— Dove siamo? che stazione è questa, signori? — domandò scotendosi tutta
e levandosi in piedi.

— Io non sapere — disse lo studente tedesco.

— Volete l'orario? — chiese il _brazileno_.

Il treno si fermò e si udiva la voce del conduttore che gridava:

— Voghera.... a Voghera; chi scende a Voghera?

— Voghera? — disse la donna — ma io devo scendere qui per andare a
Mantova....

Lo sportello fu aperto e l'aria gelida del di fuori entrando di colpo ci
scosse penosamente. L'aiutammo a scendere e poi le porgemmo una
valigetta e un fagotto che avea. — Stiano bene, si conservino, facciano
buon viaggio tutti — disse come fu scesa, affettuosamente.

La seguii con lo sguardo e vidi che si era accostata al capo stazione il
quale stava dritto sotto la tettoia, sotto l'aureola del suo berretto
rosso. Che cosa gli dicesse non capii lì per lì. Lui stava impassibile;
lei gesticolava umilmente mostrando il biglietto. Infine il capo chiamò
il conduttore, il quale prese la tessera e poi staccò dal suo libretto
un supplemento e lo consegnò alla donna accennando di far presto. Ella
rifece il binario barcollando, e andava su e giù per il treno
evidentemente in cerca del nostro scompartimento. Allora io battei sui
vetri ed ella comprese; si fece aprire e salì. La guardia chiuse con
dispetto il battente borbottando non so che cosa.

— Oh bella — disse colei sorridendo, — volevo tornare qui dai miei
compagni e lui, invece, mi voleva far montare dove voleva lui, io no!

— E bene, non scende a Voghera, signora? — domandai mentre il treno si
metteva in moto.

— Ma che! — rispose con rassegnazione — Il biglietto che mi hanno fatto
a Genova non andava bene perchè avrei dovuto fare un giro lungo sino a
Piacenza: invece loro mi hanno fatto un altro biglietto per Pavia e così
arrivo prima, quasi all'ora del pranzo....

Perchè bisogna sapere come è quella gente! Saranno ad aspettarmi a tutti
i treni, e se non mi vedono arrivare, penseranno Dio sa quali disgrazie.
Cosa vuole che loro sappiano di ferrovie, di orari, di viaggi? Anzi, io
ci penso fin da ora e mi vien da ridere: veda, quando mio figliuolo ci
scriverà che ha fatto fortuna ed andremo tutti laggiù in America, io
scommetto che lui, mio marito, per fare il viaggio, si metterà l'abito
nero che tiene nell'armadio per le grandi occasioni e il cappello a
cilindro. Pover'uomo, di queste cose non se ne intende mica, ma è così
buono!

                                  *
                                 * *

Io avevo aperto l'orario mentre la buona donna parlava e ad una prima
occhiata avea capito che il capo stazione di Voghera avea preso un
grosso errore facendola proseguire per la linea di Pavia, giacchè v'era
una lunga fermata a Pavia ed un'altra a Cremona, per modo che non
sarebbe giunta a Mantova che alla mezzanotte circa.

Però non le dissi nulla e forse me ne sarebbe mancato l'animo. Lei
s'accorse che io consultavo l'orario e mi domandò con premura:

— Non va forse bene...?

— Sì, va bene; soltanto dovrà aspettare a Pavia più di una mezz'ora....

— Questo poi mi dispiace — disse con rassegnazione — perchè non ho
portato nè meno uno sciallettino, e non si può proprio dire che faccia
caldo....

Io non insistetti e lei riprese: — A me basta di arrivare a casa per
l'ora del pranzo; perchè a mangiare all'albergo non si sa mai!... Vedono
una donna sola, danno quel che avanza in cucina e poi mettono su il
conto che vogliono loro....; lo lasci dire a me che ci ho pratica del
mondo. E poi veda: ho anche voglia di andare a pranzo coi miei, perchè
ho preparato una bella sorpresa. Già staranno tutti come tante mummie;
lui poi piangerà, povero vecchio! Allora sa lei che cosa faccio? Tiro
fuori della roba che ci ho qui dentro — e indicava un sacchettino bianco
ben legato al collo. — Sa lei che cosa ci ho qui dentro? Sono dei frutti
che nascono in America e sono dolci come il miele. Si chiamano banani, è
vero? — domandò al _brazileno_.

Quegli fece cenno di sì.

— E ve ne sono tanti laggiù, è vero? — tornò a domandare.

Il _brazileno_ levò il capo e piegò le labbra come a dire: — A
volerne!...

E lei tutta consolata riprese: — Io dirò: cari miei, questi frutti li ho
comprati nel bastimento dove viaggia Carletto. Laggiù poi ve ne sono
tanti che non costano niente. Quella sì è la terra promessa!...

La macchina fischiò; il treno a poco si fermò sotto la pioggia.

— Siamo a Pavia, signora! — le dissi.

— Finalmente! — e prese tutta la sua roba e discese.

— Adesso vado a sentire dal capo stazione quanto tempo devo fermarmi a
Pavia — disse —, e loro signori stiano bene e facciano buon viaggio, e
lei — aggiunse rivolgendosi al _brazileno_ — chi sa che un giorno o
l'altro non ci vediamo in America e allora si vuol stare tutti allegri
in compagnia.

Si scostò, attraversò i binari equilibrandosi alla meglio fra la
borsetta e il sacco dei banani; e dopo aver chiesto a due o tre
impiegati, si rivolse ad un altro di quei mandarini che vivono sotto le
tettoie delle stazioni e sotto la mitra rossa dei loro berretti. La vidi
parlargli umilmente e.... poi fece un atto di disperazione; ripassò per
i binari in furia e venne al nostro sportello.

— Ma sanno, sanno, signori, a che ora giungo a Mantova? Alle undici....
capiscono..., alle undici e quaranta!

Non potè dire altro: una guardia la scostò bruscamente e il treno si
avviò. La rividi riattraversare i binari.... poi ferma col capo chino
sotto la tettoia già deserta, con la borsetta in una mano, nell'altra il
fagotto dei banani, i frutti dolci come il miele che mangerebbe suo
figlio; e non potei staccare gli occhi da lei sinchè il treno, fuggente
sotto la pioggia, non me l'ebbe tolta dallo sguardo.



Per un ribelle

    _. . . . . . . Pictoribus atque poetis
    quidlibet audendi semper fuit aequa potestas._


Al tempo delle recenti sommosse in Sicilia, ne la piccola quanto
illustre città di R*** in Romagna (illustre perchè ha di molti e bei
monumenti antichi) furono sequestrate circa tre mila copie di un
opuscoletto di versi e di prose intitolato _Scaglie roventi_. Il
provvedimento del sequestro — inutile dirlo — era giustificato dal fatto
che l'autore non potendo gettare bombe autentiche, si accontentava di
appuntare la prosa e la rima in forma di saette, e te le scagliava con
una irruenza di entusiasmo e di rabbia tale che guai se invece di essere
archilochee fossero state di semplice ferro.

Dunque il provvedimento era giusto; specie oggi che, grazie a Dio, non
si è più ai tempi di Renzo Tramaglino, ne' quali un facinoroso, un
barattiere o un soperchiatore di professione poteva ridersene della
legge e di chi ne portava le insegne.

Ma pure approvando il sequestro, faceva pena il pensare alla persona
colpita e danneggiata; perchè bisogna sapere che l'autore delle _Scaglie
roventi_ non era un sanguinario di razza, ma un povero giovane non
ancora trentenne, pittore per vocazione e non di mestiere per la ragione
che di commissioni non ne avea; ed affetto inoltre da una malattia che
per lui era divenuta cronica: la miseria.

Costui ne gli ultimi tempi si era buttato tra la compagnia dei peggio
anarchici e rivoluzionari di quella città: i socialisti per costoro non
erano che dei borghesucci annacquati: perchè bisogna anche sapere per
chi non ci ha pratica con quelle regioni, che in Romagna la politica,
oltre a tante cose, è una specie di _steeple-chase_ istintivo a chi
trova le forme più avanzate: giuoco certo non innocente e che abbisogna
di molta sorveglianza, ma non così pericoloso come può sembrare a prima
vista, e come alcuni credono o fanno credere, almeno sintanto che v'è da
mangiare e da bere: ed a questo provvedono a bastanza bene il buon Dio e
le campagne ubertose e felici. Perchè quella è gente che di digiuni non
ne vuol sapere. Solamente la sera che dovessero andare a letto a stomaco
vuoto o scemo, sarebbe una scarsa garanzia per il domani. Ma sino a quel
giorno si può esser tranquilli: o fan di gran chiacchiere o si
accoltellano fraternamente fra di loro. Hanno inoltre un disprezzo per
la legge che è divenuto proverbiale; così invece che dire: «io non
voglio prepotenze», dicono nel loro rude dialetto: «io non voglio
leggi».

Or dunque i compagnoni conducevano a torno il nostro pittore per tutte
le osterie; e alle ore piccole, quando rincasava, era forse più la
gravezza del vino che avea in corpo di quello che potessero pesare
quelle sue ossa e la poca carne che vi era attorno. Gli amici e i
compagnoni gli pagavano da bere e questo era il prezzo delle sue
conferenze, perchè quando era brillo avea delle sortite bizzarre e degli
sproloqui paradossali; insomma faceva ridere o faceva piangere; il che è
tutt'uno. Ma da mangiare non ne avrebbe accettato: non era dignitoso per
un artista.

Il luogo di ritrovo era ne le tipiche e indimenticabili osterie o,
meglio, cantine di Romagna. Altrove non si costumano e val la pena di
descriverle. Sono delle grotte a volta nei sotterranei stessi dei
palazzi e vi si scende per molti scalini sotto il livello della strada.

Due file di botti adornano le pareti; lampade caliginose pendono dalla
volta. Il muro più stretto è occupato da un camino medioevale dove
ardono fascine di sarmenti e, su la brace, in graticole enormi cuociono
pesce e sardella e carne porcina. Uno degli avventori fa vento, un altro
vi versa l'olio a stille, e l'odore nauseabondo si spande dal focolare.
I boccali di coccio bianco a fiorami circolano ricolmi e spumosi di ben
fermentato mosto, e il cantiniere che siede presso la botte, con la mano
su la spina, a fatica soddisfa alle richieste dei molti che gli si
accalcano con i boccali sporti.

Su le panche, attorno ad un tavolo lungo e stretto, stavano dunque i
compagnoni, ravvolti dentro le capparelle tradizionali, gettate a due
colpi attorno al collo e alle spalle; il cappello a cencio con l'ala
schiacciata su la fronte; fisonomie o incoscienti o feroci: tutti
intenti all'oratore, appoggiati alle palme; e su di essi le lampade
improntavano colpi di luce e di buio alla Rembrandt.

Lui era a capo tavola, ritto, esile, macilento, con l'occhio smarrito. A
gran gesti, con certe mani bianche ed affilate, parlava con voce
stridente e con certo digrignare di denti contro la tirannide dei
borghesi e dei preti: propositi immani, applausi feroci. Uno dei seduti
interrompeva con un pugno sul tavolo da sfondarlo in segno di
approvazione, e con una formidabile bestemmia si alzava; abbrancava un
bicchiere colmo, si accostava all'oratore e lo obbligava a bere, per la
Madonna! Entusiasmo bestiale a cui non era possibile sottrarsi. Il vino
talora sgocciolava sul soprabito nero del nostro pittore, miserabile
segno di un'aristocrazia invincibile: e poi seguitava a parlare.

Delle volte, tanto era il vino ingurgitato, che la madre di lui aprendo
la porta ai replicati bussi, vedeva i compagnoni che gli riportavano il
figlio su le spalle mezzo morto dal vino. Questo avviene talora in segno
di buona amicizia ne la dolce terra di Romagna. Ma prima che si fosse
dato a così mala compagnia, ed anche allora, quando il fumo del vino non
lo rendeva aggressivo, egli era la più mite e schietta creatura che si
possa imaginare e si accompagnava anche agli odiati borghesi e li
conduceva su, ne la sua stanza a vedere i suoi abbozzi e i suoi quadri.

Era tanto che voleva andarsene via di quella città, all'estero, lontano,
in Australia, come diceva lui. Ma ogni anno era sempre lì: ci volevano i
soldi del viaggio, e le speranze rifiorivano con la buona stagione e poi
cadevano giù all'autunno, quando le cantine si aprono per il vino nuovo,
e quelle diventavano per lui il rifugio e il solo ritrovo possibile.
Intanto scriveva le sue _Scaglie roventi_ contro i borghesi; anzi avea
un progetto: se ne sarebbe messe le copie in una bisaccia e sarebbe
andato su per il Montefeltro, per le Marche e per altre terre e castella
di Romagna: le avrebbe declamate in piazza, per le fiere, e le avrebbe
vendute. Per mangiare e per dormire avrebbe accettato l'ospitalità degli
amici: in viaggio era permesso.

— Già ho bisogno di aria libera di montagna! — e aggiungeva: — Vuoi che
non le venda le mie _Scaglie roventi_? sono tre mila copie: a cinque
soldi l'una fanno settecento cinquanta franchi, e poi vuoi dire che
lassù in montagna non trovi qualche prete che abbia da rifare la testa
alla Madonna e le ali agli angeli? Dopo faccio fagotto e vado via e non
ci torno più da queste parti.

Ma le tre mila copie furono sequestrate tutte in tipografia, fresche
fresche, a pena venute fuori dalla macchina: una burla lepidissima su
cui la plebea arguzia romagnola trovò modo di sbizzarrirsi in motti e
facezie in gran copia.

— Mi hanno voluto far fare un debito come fate voialtri borghesi! —
esclamava lui arrotando i denti; ed alludeva al fatto di non potere
soddisfare il tipografo, che avea promesso di pagare col ricavato della
vendita.

Ma per quanto si inferocisse o celiasse, si capiva che il colpo del
sequestro gli era andato diritto al cuore: ultima speranza volata via
per terre lontane più che l'Australia e senza pagare il biglietto di
viaggio ai borghesi! Poi v'era anche la vanità del poeta ferita
crudamente in quelle sventuratissime _Scaglie_, legate e portate via
come una balla di carta straccia; perchè quei versi non erano brutti,
anzi come arte aveano un certo pregio; e l'indignazione e l'odio acuiti
dai patimenti e congiunti ad una naturale esaltazione, aveano valicato
di un balzo tutte quelle difficoltà che si frappongono a chi voglia
scrivere in rima.

V'erano delle strofe davvero potenti e scintillanti di furore e ne
citerò alcuna delle più miti per ossequio al sequestro e alla legge.

Ecco ad esempio come comincia il «Canto di un ribelle affamato»:

    Quando cadon le folgori
    e i venti fanno urlare le foreste,
    quando passeggia libero
    il genio che conduce le tempeste;
    ed i torrenti fuggono
    per le chine e le valli spumeggiando,
    coll'onda fiera e torbida
    case, roveri e abeti trascinando;

    sento in me dentro crescere
    l'odio ai potenti ed il desio di guerra,
    sento la furia indomita
    del ribelle che tutto arde ed atterra.

    Poichè pezzente e misero
    mi veggo, e come fossi un vil carcame
    i felici mi fuggono
    ed è compagna mia solo la fame
    . . . . . . . . . . . . . . [1]

  [1] Per evitare equivoci e per aver libera la coscienza da
  peccati che sarebbero due, i versi e le idee rivoluzionarie,
  l'autore del presente volume ci tiene a dichiarare che queste
  rime sono proprio tolte dalle «Scaglie roventi» del sig.
  Francesco A***, edite pei tipi di Emilio R*** ne la illustre
  (sempre a cagione dei monumenti antichi) città di R***. E chi
  non ci crede si rivolga al Sig. Carlo Chiesa, editore, che ne
  darà prove. A.P.

Oh, ma mi faranno il processo, mi faranno — diceva a questo e a quello
il nostro pittore e poeta —, e mi voglio difendere io e allora ne
sentiranno!....

Per ventura ci fu un'anima pietosa che lo dissuase e con buone ragioni
perchè gli disse: — Se tu parli come ne hai l'intenzione, ti legano e ti
mandano a far compagnia alle tue _Scaglie roventi_. Ti difenderò io se
tu lo vuoi.

— Ma tu sei un borghese e un brigante... rispose il giovane pittore; e
se per avventura alcuno non lo sapesse, dirò che la voce di «brigante»
costumasi dare abitualmente a coloro che sono di opinioni moderate e
conservatrici. È una figura retorica che è in uso laggiù!

Ma tanto disse e fece che quegli promise di farsi difendere. La cosa si
riseppe e se ne fece un gran parlare, perchè il sig. C***, difensore
improvvisato, era noto per le sue idee regressive, anzi per le continue
intransigenze contro ogni novità. Avea in sua gioventù viaggiato e
studiato ed anche avea nome di uomo di talento, qualità punto pregiata
in quella città per la semplice cagione del soverchio numero di talenti
che quivi attecchiscono.

Il sig. C*** faceva da molto tempo il gentiluomo di campagna e ci teneva
tanto alla sua proprietà che quando gli parlavano di collettivismo
rispondeva semplicemente che per suo conto li avrebbe difesi a fucilate
i suoi poderi. Queste affermazioni sanguinarie, comuni del resto in
Romagna, non è a credere che gli togliessero dimestichezza e facilità
pur con gli stessi avversari: e la ragione è che in quei paesi un po'
selvaggi e primitivi, vi fiorisce per buona ventura un certo senso di
bonarietà e di umana semplicità e gentilezza che vale ad attutire le
fierezze e gli odi di parte, ed accomuna gli uomini di varia fortuna e
natura.

Non parrà dunque cosa strana se in quel dì la sala dell'udienza in
pretura fosse gremita di gente delle più disparate opinioni politiche e
di sfaccendati ed oziosi, di cui in quel paese è gran numero: e costoro
farebbero la fortuna degli impresari e delle compagnie comiche e liriche
se in teatro ci si potesse andar gratis; ed anche gli autori ed i librai
molto se ne avvantaggerebbero se i libri si potessero dar per niente e
il leggerli e l'intenderli non costasse una certa fatica.

Ecco il discorso di difesa che tenne il sig. C***; e a me spiace che il
mio stile non sia del tutto adatto a rendere la tinta di festevole
serenità e di sarcastica piacevolezza con cui l'oratore seppe rendere
facile quella sua bizzarra e paradossale orazione.

                                  *
                                 * *

«L'imputato che vi è qui dinanzi, illustrissimo sig. Pretore, sotto la
grave e terribile accusa di anarchico, di Tirteo della dinamite, è tanto
per noi, rappresentati e vindici del presente ordine costituito, quanto
per gli innovatori o socialisti che qui vedo largamente rappresentati
fra il pubblico, come anche per i suoi compagni di fede, un individuo
eterogeneo ed eteroclito, cioè è il campione di una specie che va
scomparendo.

Egli è un accusato, senza dubbio. Ma guardate il fremito che lo agita,
la macerie che lo divora, il fuoco che gli si versa dagli occhi, e voi
capirete che egli, ne la sua mente, è un accusatore. Condanniamolo a
venti anni di reclusione; alla ghigliottina, allo squartamento coi
cavalli ed egli non ci domanderà grazie e molto meno si riconoscerà
colpevole.

Condannarlo è facile, ucciderlo pure sarebbe facile.

Il difficile, o signori, sarebbe di provare che tutti i torti stanno
dalla parte sua e tutte le ragioni dalla parte nostra.

Ma pretendere nel mondo questa giustizia ideale sarebbe un pretendere
l'assurdo. Fino dall'età dell'oro, e lo attesta Esiodo, Temi se ne volò
al cielo coprendosi gli occhi con le ali per orrore di noi, e da allora
non è più tornata.

Voi poi avete purificato i cieli dagli angeli e dai fantasmi biblici, e
va bene; pure dai vostri più potenti telescopi non si annuncia ancora
che Temi accenni al ritorno. Stiamo dunque nel reale e nel possibile: la
giustizia con la sua spada vigili in difesa dell'ordine sociale
stabilito dalla volontà dei più e dalla forza delle cose; tuttavia
voglia per pietà rendere meno selvaggio il diritto di quelli che
trionfano e regnano, e pur meno amaro il pianto di chi in ogni età deve
formare le fatali schiere dei vinti.

Questa è la melanconica e pur vera parola di Cristo.

                                  *
                                 * *

Ed ora cominciamo: Chi è costui? Vi potrei rispondere con una frase
d'effetto: È un uomo che ha fame. E sarei nel vero, perchè a casa sua è
una inverosimiglianza che a mezzogiorno bolla la pentola. È anche la
fame che lo fa cantare quelle atroci cose.

Ma io vi dirò di più: Egli è un'anima che ha fame!

I suoi compagni lo hanno spesso costretto ad assidersi a delle
imbandigioni da disgradarne Panurgio e Pantagruel, e gli hanno posto
innanzi una serie interminabile di bottiglie; poi lo hanno accompagnato
a casa cantando.

Ma la sua è una bulimia che non si placa per cibo, è un'arsura che non
si smorza col vino, è un dolore che non si conforta coi canti.

Andiamo innanzi: Voi lo accusate anche dello abbominevole vizio
dell'ubbriachezza. Di fatto egli si è dato a questo smodato uso del
succo settembrino. Ma, in sostanza, egli è sobrio. Assicurategli ogni
giorno una ciotola di minestra, sia pure di fagiuoli, una stanza al
quinto piano senza che il locatario lo venga a infastidire con la
pigione, un abito nero per uscire decente, e voi lo troverete tutto il
giorno occupato a dipingere le sue teste di angeli e di Madonne; e barbe
di profeti e vergini supplicanti.

Se poi lo accoglierete con onore ne le vostre case, se lo farete
partecipe della vostra intimità, gli comprerete o almeno gli loderete il
quadro, lo andrete a visitare nel suo studio, egli sarà un uomo felice e
troverà che il mondo gira così bene col sole e con la luna che lo
vagheggiano a volta a volta, con tutto quel bel mare azzurro e quei
boschi e quei campi, e non gli verrà nè pure in mente di invocare

                    il rabido
    coro degli Austri fremebondi e urlanti

e di dire:

    Amerò sempre i pallidi
    morbi spavento e morte seminanti

come scrive a pagina ventitrè dell'incriminato opuscolo.

                                  *
                                 * *

È un'anima che ha fame. Sentite: una volta un giornalucolo di provincia
portava in terza pagina, prima del sonetto di _réclame_ al Ferro China,
un annuncio così concepito: «La riproduzione dell'effigie dell'illustre
patriotta è stata affidata all'egregio giovane pittore Francesco
A***....» Ebbene, io l'ho veduto per molti giorni consecutivi, contro
suo uso, aggirarsi per le vie, fermarsi alle cantonate e spiare sul
volto dei passanti se lo guardavano, se avessero letto l'annuncio, e poi
domandare al giornalaio quante copie si vendevano del detto foglio. Egli
ne avea le tasche piene.

— Hai comperato molto salame da cena? — gli chiesi vedendolo in quello
strano atteggiamento e con quelle sacche rigonfie di carte. — Dice
Murger ne la sua _Vie de Bohème_, che per diventare artisti, bisogna
mangiare prima molti metri o chilometri di salcicciotto.

— No, è la giustizia che si fa strada — rispose, — forse è la via della
gloria che mi si apre!! — e mi sciorinò fremendo il giornale.

Infelice! Dopo cinque anni ecco dove io lo ritrovo!

V'ho detto che egli per natura è sobrio: meglio: è un asceta. Sapete la
sua storia, signori illustrissimi del tribunale? È breve. Suo padre era
un clericale intransigente. Adempiva alle mansioni di distributore di
libri ne la biblioteca municipale.

Percepiva cinquanta lire mensili, più qualche incerto commerciando in
libri vecchi. Aveva una barba mosaica e una figura inspirata del vecchio
testamento. Con quelle cinquanta lire manteneva la moglie, sè, una
figliuolina e il presente suo figliuolo in una povertà decentissima e
dignitosa. Al figliuolo insegnò lui a leggere e a scrivere, perchè alle
scuole del Governo non lo volle mandare. Lo teneva sempre con sè sino
alle quattro che si chiudeva la libreria e si apriva il Duomo per il
vespero.

Il giovanetto era un cosino smilzo e macilento, e in quella solitudine
della biblioteca, in mezzo a que' quadri e a quelle vecchie stampe si
innamorò pazzamente dei colori e dei pennelli.

Le sue letture preferite erano il Trattato della Pittura del Vinci, le
Vite del Vasari e quella del Cellini, e ne sapeva molti passi a memoria;
e voi avrete osservato che egli, senza avere mai messo piede in una
delle così dette scuole classiche, scrive con una robustezza sintetica e
con periodi vibranti e densi di pensiero che fanno contrasto con le
abbominevoli massime di distruzione che vi professa.

Ma la sua passione era il contemplare le vecchie stampe che
riproducevano i quadri e le tavole dei pittori antichi. Il Lippi, il
Masaccio, Sandro Botticelli, in genere i pittori del quattrocento,
esercitavano su di lui un fascino irresistibile. Parlava del
Ghirlandaio, di Luca Signorelli come di amici presenti, e in mirare
quelle energiche e forti espressioni umane della nostra rinascente arte
italiana la quale con tanta coscienza si era emancipata dalle mistiche e
ingenue forme medioevali e avea così divinamente, così audacemente
affermata la natura e la vita, egli, il giovanetto, perdè la ragione e
il senso delle cose reali; ma vivea sempre in mezzo a quelle figure e le
sognava, io credo, rinnovate in un'altra e grande arte contemporanea.

Per lui tutta la storia dei secoli XV e XVI si riempiva della vita e
delle opere di questi grandi pittori. Pontefici, re, guerrieri, gran
signori non esistevano che come seguito e corteo di quelli.

Tutto quel magnifico e meraviglioso cinquecento gli passava davanti agli
occhi come una visione di fate e gli tenevano le veci quasi del mangiare
e del bere. Erano i suoi amici che passavano!

Allora cominciò a sporcarsi le dita coi carboncini e poi co' colori,
tutto da per sè, senza aiuto o consiglio e così durava da non breve
tempo.

Qualche vecchio gentiluomo, qualche canonico, qualche stravagante
erudito, i soli che (voi lo sapete) in questa nostra città frequentino
la libreria, vedendo il giovanetto tutto curvo sul telaio, là in una
delle aule, nel punto dove batteva un raggio di sole giù dagli alti
finestroni, si fermavano a guardare.

— Questo garzonetto o giovincello ha inclinazione per l'arte della
pittura, eh? — si domandavano con voce chioccia e nasale — Bene, bene!
Bravo, figliuolo mio, lavora, carino...! E che dipingi mai? Ah, una
Madonna! Bene, figliuolo caro, sempre con la santissima religione e
farai buona fine! Iddio ti assisterà.

— Fa tutto da per sè! — avvertiva pianamente il padre che si era
accostato al visitatore.

— Ah sì? Allora — dicevano coloro — è proprio la benedizione del
Signore! Coraggio!

Al vecchio gli occhi che avea sempre rossi e lagrimosi, si colmavano di
maggior pianto e il giovanetto movea la matita con alacrità convulsa
come avesse voluto far venir fuori la sua figura dalla tela, in un
colpo, e farla rizzar gigante e ridente su per quel raggio di sole.

Ma dopo alcun tempo pensò che pur bisognava uscir fuori da quella
solitudine della biblioteca e farsi conoscere; ed allora avvenne che
esponesse un quadro. Il babbo con la sua barba bianca poteva servire da
modello, e così fu.

Le domeniche e tutti i giorni che la libreria stava chiusa, il vecchio
posava davanti al figliuolo con in dosso la cappa rossa di un sagrestano
e gli occhi rivolti al cielo: dovea figurare un profeta o un veggente al
naturale. Quando il quadro fu finito, si lavorò per la cornice, e con
certi regoli di legno e loro arnesi l'ebbero condotta a termine. Un
libraio che avea una bella vetrina sul corso si acconciò ad esporre il
quadro; e il giovanetto trepidante, una sera in su l'imbrunire, lo
trasportò in quella bottega e lo dispose in modo che fosse in buona
luce. Se ne fece un gran parlare, ma le critiche non furono benevoli e
la cosa poi finì ne la solita indifferenza. I primi giorni tutti
andavano a vedere; e i contadini che venivano al mercato, davano di
grandi urtoni perchè volevano vedere anche loro. — Chi è? cos'è? È un
beccamorto con la tonaca rossa! È un matto che muore! To' to'! è il
vecchio della libreria. Proprio lui, vivo sputato! È il figliuolo che ha
fatto il ritratto al padre: si vede che gli vuol bene; e perchè l'ha
vestito di rosso? che bisogno c'era di metter fuori i ritratti di
famiglia? Vada, vada ad imparare il disegno geometrico, l'ornato e la
prospettiva ne le scuole — sentenziava fra gli altri con amaro spregio
il maestro di disegno delle scuole tecniche — e poi farà l'imbrattatele.

— Tutte le pulci han la tosse — diceva uno degli intelligenti — Tutti
dottori, tutti avvocati, tutti artisti! Vecchio matto, all'officina lo
mandi!

Poi la gente non si fermava più e il veggente rimase per qualche giorno
ne la vetrina con la sua tonaca rossa, gli occhi inspirati e l'indice
alzato ad indicare il cielo tutto il giorno fra quella gente che non ci
badava più che tanto.

In questo tempo il vecchio venne a morte e per il giovanetto
cominciarono i giorni tragici della fame.

Uscì dalla biblioteca, si rivolse ai signori, ai preti se avessero avuto
da fare qualche ritratto, da ripulire o accomodare qualche quadro in
chiesa. — Mi dispiace, figliuolo, ma proprio non ne ho di commissioni! —
rispondevano tutti. E pure per le nozze della contessina B*** avevano
fatto venire un pittore da Firenze a farle il ritratto e lo aveano
pagato fior di quattrini. Perchè non affidare a lui l'incarico? Egli
piangeva di dolore e di rabbia e pure seguitava a dipingere, a
dipingere, a dipingere nel suo stambugio sotto i tetti.

Un giorno il bibliotecario che era un uomo da bene e aiutava la vedova
di nascosto del figliuolo, gli disse: — Carino mio, tu bisogna che
cominci da capo e vada a studiar fuori. Breve: lo indusse a fare una
domanda al municipio per avere un piccolo sussidio, e poi si diè attorno
a raccomandarlo ai consiglieri. — Ma chi è costui? — dicevano — È figlio
di un clericale. Deve essere uno stravagante come il padre. Se il
municipio dovesse aiutare tutti quelli che si credono di avere una
vocazione, addio finanze. — E il dabben uomo ribatteva: — E avete pure i
fondi stanziati per i sussidi agli studi. — Ma gli altri — rispondeano —
presentano dei buoni documenti e in regola: questo qui che studi
regolari ha fatto? Dove è andato a scuola? Le scuole allora a che fine
ci sono?

— Ti devi raccomandare un po' anche tu, figliuolo — diceva poi al
giovane il suo protettore.

— Io? io no. Io ho la mia arte. — Basta: tanto disse e fece quell'uomo
per bene che gli fu assegnato un sussidio di trecento lire. E allora
andò a Roma a studiare e vi rimase sei mesi. Avea ne la valigetta due
paia di scarpe con la suola ferrata come costumano i montanari, ma le
riportò a casa sfondate, tanto avea fatto un gran girare pei musei, per
i fori, per le strade. E l'accademia? L'accademia niente.

E quando gli domandarono le carte di frequenza per rinnovargli il
sussidio, rispose che non ne avea ma che avea senz'altro frequentato la
scuola del nudo e del colore. Per questo o per altra malevolenza il
sussidio gli fu tolto ed egli ricominciò la vita misera e deserta di
prima, qui fra noi.

Vennero i giorni dell'inverno, della neve, del freddo e della fame.

Il conte B***, un nostro degno gentiluomo, che l'avea conosciuto quando
da ragazzetto dipingeva in biblioteca, ebbe commiserazione di lui e gli
offrì una stanza ne la sua villa e un posto alla sua tavola senza alcuna
servitù od obbligo. Accettò; ma la mattina seguente la stanza era vuota,
il letto ne pur disfatto e un bigliettino sul tavolo diceva al conte che
egli gli sapeva grazie della sua ospitalità, ma che voleva vivere della
sua arte e non di elemosina.

A questo punto comincia il suo errore di giudizio e, se volete
un'espressione più energica, la sua lagrimevole pazzia. La diagnosi
della sua pazzia è di una semplicità assoluta:

«Egli vuole vivere della sua grande arte». Ma vivere non gli basta:
pennello e tavolozza gli devono dare la gloria, le ricchezze, il piacere
dell'esistenza. Io ho cercato di farglielo capire che questo è un
assurdo anche se potesse apprendere perfettamente l'arte del dipingere;
e per il passato gli ho detto molte cose.

Vedi, amico — io gli ho detto — oggi la grande arte è finita e quella
poca che rimane, se gli si può dar questo nome, è proprietà di pochi e
già famosi artisti, nè credere che la società li ricompensi di onori e
di lodi come faceva coi tuoi amici pittori dei bei tempi antichi. Oggi
se ad un Tiziano cadesse il pennello non vi sarebbe nessun Carlo V a
raccoglierlo.

Un posto di professore in qualche accademia, ecco quello che la società
può concedere. D'altra parte tu, povero ragazzo, hai bisogno di vivere:
ebbene datti all'arte spiccia, all'arte chincagliera. Lì, se hai
fortuna, potrai riuscire. Vi sono le bomboniere da dipingere, i
quadretti per i salottini delle _cocottes_. Esse qualche soldo lo
spendono per amor dell'arte: puoi anche darti a decorare le stanze.

Vedi i poeti come segnano la buona via. Calliope non canta più gli eroi,
ma i callifughi e le pomate. Leggi i giornali e vedrai se dico la
verità. Potrai rispondere che sono poeti da strapazzo. D'accordo. Ma se
tu sapessi come è facile perder la dignità e diventar pagliaccio senza
accorgersene quando la gente non ti dà il soldino se non a patto che tu
faccia quattro capriole in piazza! Dopo però ci si abitua e non si fa
più caso di nulla.

Ma egli mi adduceva gli esempi di coloro che hanno buon nome nell'arte,
e mi ricordava le esposizioni che si inaugurano con tanta frequenza e sì
gran sfoggio di gente decorata. Lascia da parte le esposizioni,
rispondeva io: esse servono a tante cose che non hanno a che vedere con
l'arte, oppure sono inventari, e tu sai che gli inventari si fanno
quando uno è morto o sta lì lì per tirar le cuoia. Ma quanto ai pittori,
è vero, ci sono di quelli che hanno la fede e il genio dell'arte; e pure
a me, a simiglianza dei poeti, fanno l'effetto di persone fuor di posto
e smarrite; e mi ricordano una certa compagnia di bimbi che una volta ho
veduto soffiare, soffiare sotto un pallone.

Il pallone si gonfiava da una parte, poi si faceva floscio dall'altra:
ma in alto non voleva salire.

I pittori fanno press'a poco lo stesso; buffano sino a perdere il fiato;
ci muoiono anche. Che si vuole di più? Ma è impresa che fa ridere. È che
manca l'aria: v'è nell'aria qualche cosa di micidiale per l'arte! Perchè
la pittura non è solo la rappresentazione con segni e colori delle cose
esterne, chè in tal caso sarebbe una lotta impari ed assurda col vero e
meglio riesce la fotografia che qualsiasi ottimo pennello; ma essa è
grande arte in quanto rappresenta un'idealità universalmente vagheggiata
e sentita. Ma ora mai la nostra maggiore idealità si affissa tutta
nell'intento di raggiungere un equilibrio economico e sociale di là da
venire.

Pure l'ignoto ed il meraviglioso, queste due grandi sorgenti a cui
l'arte attingeva a piene mani, non sono più. Dentro l'animo umano, per
la vasta terra, per i cieli si è esplorato tutto o almeno, si è convinti
di avere fugato ogni errore, ogni sogno, ogni superstizione. Lavoro
mirabile, conquista portentosa dell'uomo! E pure siamo forse più tristi
di prima! Tutto su la terra va diventando uguale, a rettifilo, a
proporzioni determinate, nel modo stesso che gli uomini vestono tutti
ugualmente, hanno all'incirca la stessa fisonomia, e le case, le città,
le vie le campagne si vanno assomigliando.

L'arte, credi, non può ridere, distendersi fra queste cose e uomini
geometrici!

Senti questa: vi fu una volta un grande poeta, grande come pochi altri,
il quale non fece altro che ridere ne la vita, tanto che è morto del
troppo ridere; un poeta il più ricco di contraddizioni che mai si possa
pensare. Ma veramente non era lui che si contraddiceva: era il mondo che
è una perpetua contraddizione. Però pensa che il popolo non sbaglia mai,
ed il poeta che aveva tanto spirito da ridergli in faccia, si vide posto
su la divina fronte quel berretto da giullare che egli avea osato di
mettere su la testa di quel terribile tiranno.

Questo poeta si chiamava Arrigo Heine.

Da molti anni egli si sentiva morire e non poteva morire: tuttavia ne la
sua tomba di materassi ove giacque per tanto tempo, non cessò di ridere
e di piangere, perchè ridicola e pur lagrimevole cosa è in fine il
mondo. Un giorno riuscì a levarsi dal letto e si trascinò sino al
_Louvre_. Là, dinanzi alla Venere di Milo, si pose a sedere. Il cuore
gli si intenerì alla vista della Dea e ruppe in un torrente di lagrime.

Questo è un fatto vero ed è anche un simbolo. La Venere di Milo è l'Arte
e Arrigo Heine è l'età presente. V'è qualche cosa che muore attorno a
noi; tu lo senti!

Ma queste ragioni non lo persuadevano. Egli ha anche adesso un'idea
fissa. Si sente soffocare nell'espansione delle sue forze e ne dà la
colpa alla borghesia.

No, ragazzo — io gli ho detto anche — la borghesia non ci ha maggior
colpa di quello che ne abbia una sagoma di legno che il bimbo percuote
perchè ci è andato ad urtar contro con la testa. Un poeta antico lasciò
detto che le cose hanno la loro melanconia. Bene: credi che anche le
cose hanno la loro fatalità, e gli uomini formano le cose e nessuno in
particolare come nessuna classe di gente ci ha colpa se le cose sono
così.

La società ti farà l'elemosina, se la chiedi. Ma se persisti a far della
grande arte, non ti dirà nè meno un bravo. Esiste un'economia
inesorabile ed una logica spietata contro coloro che si ostinano in una
funzione di cui gli uomini e i tempi più non sentono il bisogno. Tu ne
ignori la cagione ma ne devi riconoscere l'effetto dall'odio implacabile
fra le tue tasche e il più straccio bigliettino da una lira.

Che se vedi qualche pittore vendere il quadro, ciò non ti deve illudere
nè fuorviare dal retto giudizio. Non lo comprano, credi, per amor
dell'arte, ma perchè l'uso, le esigenze hanno ancora una certa forza; e
il pubblico, questa gran bestia che oggi veste più o meno all'inglese,
ci si spassa, specie ne le esposizioni, a vedere tutte le pareti coperte
di quadri posti l'uno sopra l'altro, e fa confronti e ci si appassiona
quasi come ad una corsa di cavalli. Allora butta il suo soldo e tutti
pari. Ma la grande arte non se ne avvantaggia per questo, e il pittore
che per compiacere al pubblico ha deturpato in quadretti di genere e
civettuoli le austere idealità che avea forse in mente, ci muore lo
stesso. E allora: «_all right_; vettura, all'ospedale!» La nostra è
un'età umanitaria e previdente che melanconia di cadaveri e di moribondi
non ne vuol veder per le vie. Tientelo a mente, amico pittore!

Ma sempre furono vane parole le mie: lui è rimasto fisso nell'idea della
grande arte. Avea troppo ingegno e troppo amore a quelle sue figure che
gli splendeano ne la mente per adattarsi ad un qualche mestiere; ed è
così che prima ha perduto la fede in Dio, ed è divenuto ateo; poi ha
perduto la fede ne gli uomini ed è divenuto anarchico, che è un ateismo
anche questo! Oh, le orribili parole! E pure oramai egli vive pazzo per
questa pazzia, e quanti ve ne sono con lui!

Egli ha finito poi col buttarsi in braccio delle cattive compagnie,
l'infelice, e quivi trascina la sua ruinata giovinezza, fin che dura.
Viene da piangere a pensarci!

Egli la sera, fra i boccali e le sanguinarie proposte, la bestemmia
atrocemente la Madonna che da giovanetto pregava fra gli incensi, presso
suo padre; quasi che la Madonna dopo la borghesia fosse lei la colpa di
tutto e avesse le orecchie per intendere!

Ma la mattina riprende stanco i pennelli e la dipinge ancora, per
istinto, la soave figura della Vergine, come l'uccello fa il nido che la
sera i fanciulli distruggeranno.

Oh, quando un raggio di sole entra ne la tua stanza, allora su per il
raggio di sole, su fino al cielo tu vedi un ondeggiare e muoversi di
figure che la mente comprende, e di cui il pennello sa a pena rendere
un'imagine fuggitiva! Ed anche il mondo ne le notti stellate, ai dolci
tramonti, e pur ne le tempeste, quale splendore di quadro è desso mai!

Ebbene, no! Egli a questo bellissimo mondo vorrebbe dar fuoco come si fa
ad un malvagio topolino che i monelli cospargono di acceso petrolio!

Ma non è questa una cosa orribile che vi debba essere una classe di
uomini anelanti alla distruzione?

Le _Scaglie roventi_ sono state sequestrate, e va bene: ed a più forte
ragione anche da coloro che lanciano ben altro che dardi poetici, noi
abbiamo il diritto di premunirci, e di opporre arma ad arma.

Ma io mi sono domandato: e dopo questo? Forse che distruggendo con ferro
e fuoco le manifestazioni del male ne avremo anche estirpate le cause? E
poi il male è solamente limitato a questi pazzi furiosi e sanguinari, o
non ha più tosto un'estensione maggiore che non si creda e che sfugge
alle ricerche?

Perchè da quello che si legge e che si ode pare che non scarso sia il
numero di coloro (e questa non è gente nè malvagia nè volgare) che
vivono malcontenti e che hanno perduta ogni fede in ogni buon
ordinamento e in ogni legge: ma si sentono gravati come da un'immensa
oppressione che non si sa in che cosa propriamente consista, ed hanno
bisogno di muoversi più liberamente e più lietamente per questo mondo.

Allora ho voluto consultare quei savi che si dicono antropologi e
filosofi positivi per sapere quale sia la diagnosi di questo male che
affligge la nostra età, ed ecco quale ne fu il responso: «Anarchia: cioè
adempimento di ogni istinto indomabile ed irrefrenabile;
antisociabilità, ritorno atavico all'animalità primitiva, degenerazione
ampiamente diffusa che si manifesta tanto con una opera dell'Ibsen e del
Tolstoi, degenerazione superiore; come una pentola di nitroglicerina,
degenerazione inferiore — forme varie di una malattia unica».

Il linguaggio di questi signori è categorico e proviene dalla gran
sicurezza che sentono della loro scienza. Essi, in certo modo, sono come
dei medici che hanno in cura l'umanità e col termometro sotto l'ascella
ne sanno compulsare ogni menomo moto ed ogni più lieve squilibrio. Da
tale superiorità proviene anche il fatto che essi ragionano con
un'olimpica indifferenza come se questa infermità crescesse non sul
nostro corpo sociale ma su quello degli abitanti della Luna.

O come avviene — ho chiesto loro umilmente — che la nostra società la
quale corre a tutto vapore su le rotaie positive della scienza, verso la
stazione di un avvenire sociale perfetto, debba avere il sangue così
guasto da produrre tali degenerazioni?

La risposta che si degnarono di darmi fu enigmatica, e da quel che ho
capito, pare che dicessero che le cause del male si debbono trovare nel
fatto che noi attraversiamo ora un periodo di passaggio: ma che il
giorno in cui le democrazie sociali avranno raggiunto il loro completo
sviluppo, l'umanità si muoverà liscia senza stridere e senza urti, come
una macchina motrice dei più perfetti sistemi.

Essi ne hanno la piena convinzione, ed io mi sono ben guardato dal
dubitarne.

Uno anzi dei maggiori sacerdoti dell'avvenire e del positivismo in un
suo libro recente non esita a dichiarare che la fede in Dio, gli
entusiasmi, gli eccitamenti affettivi sono un errore soggettivo
dell'uomo. Anche l'arte non è altro che una deviazione iniziale dalla
salute perfetta.

E dal punto di vista di questi signori le cose sono propriamente così.
Se l'ideale della società deve essere come il funzionamento di una gran
macchina di cui ogni individuo rappresenta un ordigno condannato alla
schiavitù di movimenti prestabiliti, certo in tale caso ogni forma
autonoma dell'individuo diventa una deviazione dalla verità. Così
poniamo che io parta dal concetto che solamente le forme geometriche
siano normali e buone: e ognuno può vedere quale immenso lavoro
rimarrebbe a fare per disporre le cose naturali secondo questa supposta
perfetta struttura. Del resto è innegabile che se noi potessimo,
ridurremmo tutto a forme simmetriche e geometriche, come quelle che ci
si presentano più belle e conformi al nostro gusto. La meravigliosa
assimetria, la sapiente irregolarità della natura ci spiace. Quale
felicità se noi potessimo dare ai monti, ai mari, ai fiumi una forma
uguale, con i cucuzzoli, i bacini, i corsi già stabiliti in qualche
studio tecnico, ne lo stesso modo che nei giardini si potano le piante,
le si contorcono, si cimano le erbe come la barba di una persona per
bene.

Ma ritornando a quei signori sapienti, io sarei anche disposto a credere
che essi come gente di molto ingegno e di grande studio, non ragionino
così perchè ne abbiano una convinzione vera e profonda, ma perchè esiste
per così dire nell'aria, questa specie di diffusa tirannide contro le
manifestazioni individuali e geniali, ed essi di questa opinione sentono
l'influsso o la suggestione, come ora si dice, e sono portati
involontariamente a darvi la sanzione scientifica.

Si aggiunge poi un altro fatto: e questo è che, per la ragione del forte
contrasto e del confronto che ne segue, tutte quelle che sono davvero
forme individuali e geniali, assumono indubbiamente uno strano aspetto
di pazzesco e di ridicolo. Uno che abbia una grande idealità ci fa
l'effetto come di un torrione diroccato che debba caderci a dosso e
farci del male. Lo si guarda un po' ridendo, un po' con sospetto: ma lo
si lascia solo. Ed è in questo caso che si svolgono nell'individuo
quelle forme davvero generative ed anarchiche di cui il nostro pittore è
un modesto ma ben eloquente saggio.

Io penso anche che se i più famosi e savi personaggi delle età
trascorse, come guerrieri, filosofi, artisti, dovessero rivivere nel
nostro tempo, si troverebbero in gran disagio e le loro virtù geniali
che tuttora ammiriamo ne le storie e ne le opere che rimangono,
finirebbero con lo scomporsi in forme stravaganti e ridicole.

E un altro fatto pure è notevole: mentre i più belli esemplari della
famiglia umana si vanno perseguitando e finiscono per iscomparire, è un
fatto innegabile che con molto amore e con infiniti mezzi si allevano e
si migliorano quelli che sono tipi inferiori, tanto dal lato fisico come
dal lato intellettuale, i quali la natura tenderebbe a rendere sterili o
ad uccidere in breve tempo.

E questo fatto lo si considera come una delle più grandi conquiste della
civiltà e del progresso, una delle glorie indiscutibili del nostro
secolo. Ed è vero, e come negarlo?

Bisogna però anche concedere che le democrazie sociali verso cui
camminiamo sono per avere una ragione fisiologica oltre quelle che hanno
di natura economica e storica.

Oggi, ad esempio, la scienza medica e l'igiene hanno trovato il modo di
vincere tante infermità che prima conducevano a pronta morte. Etici,
rachitici, scrofolosi, epilettici, che so io, si curano o per lo meno si
portano ben avanti nel tempo; anche i deformi, i muti, i cretini, i
piccoli delinquenti si allevano in massa, si raddrizzano e si adattano
alla vita sociale.

Anche lo stupefacente estendersi degli asili, delle scuole di vario
grado non è senza una ben potente ragione di volontà universale; perchè
è fuor di dubbio che le scuole, oltre a molti nobili fini che si
propongono, sono diventate nel fatto una specie di lungo e raffinato
stabilimento di incubazione dove i meno forniti di intelligenza giungono
al grado voluto di maturità per entrare poi nel torrente vivo della
vita. Solo per questa ragione voi vi spiegate tutte le minuzie dei
metodi pedagogici, la moltiplicità delle materie, il frazionamento in
piccolissime dosi di quelle discipline che sono a pena un po' astruse: e
questo metodo che sembra assurdo anzi dannoso per uno scolaro di
intelligenza vera e forte, diventa invece razionale e proficuo per
l'allevamento dei piccoli idioti o semi idioti delle presenti e future
democrazie.

Questo esercito di deformi, mantenuto a spesa dei più adatti alla vita,
finisce un po' per volta col diventare suscettibile di miglioramento, di
energie e di riproduzione, ed acquistando forza dal grandissimo numero,
si sovrappone con una concorrenza disastrosa e con un'energia feroce in
proporzione della conoscenza della loro originaria inferiorità. Eccone
un piccolo saggio: Ad un tavolino da caffè, in una grande città
industriale, ho udito questo dialogo autentico. Un signore con moglie e
quattro figli si siede presso un giovane, e battendogli su la spalla,
gli dice famigliarmente:

— Caro amico, ho letto il vostro libro di poesie: ma, scusate, non mi
accordo col giudizio del giornale tale, della rivista tal'altra che ne
fanno un mucchio di elogi.

— Mi dispiace: vi trovate de' difetti? è scritto male? i caratteri non
vi paiono veri? vi scarseggia il sentimento, il senso del bello, le
considerazioni? — domandò l'altro timidamente.

— Questo non so, anzi, vi sarà tutto ciò che voi dite; anche troppo! Il
difetto è — aggiunse in tono reciso e di rimprovero come quel tal bravo
a don Abbondio — che voi artisti non scrivete per le masse. Dovete
lavorare per le masse, avete capito? A questo solo patto, vi concediamo
di essere artisti. Altrimenti non avete ragione di esistere.

Così tu, mio stravagante pittore, che hai ne la mente la tua grande arte
e le tue fantasiose figure, devi dipingere per le masse. Che cosa? io
non saprei dirtelo. So che devi dipingere per le masse; se no, crepa di
fame.

È innegabile che noi ci troviamo di fronte ad una nuova specie di
tirannide e delle più crudeli; e fin qui nulla di nuovo giacchè la
tirannide vi fu e vi sarà sempre fra gli uomini; ma la cosa notevole è
che non ce ne avvediamo o non abbiamo il coraggio di confessarla. E pure
in nessun tempo si è tanto imprecato contro la cieca e feroce ignoranza
teocratica che ardeva Giordano Bruno e impediva a Galileo di affermare
una verità di natura! Ma che cosa si dovrebbe dire della odierna
tirannide di tanto più paurosa in quanto essa non risiede in un
individuo nè in un ceto di persone ma nell'universale?

Con tutto ciò è un fatto notevole e da un certo punto di vista
meraviglioso questo miglioramento fisico ed intellettuale delle masse
per quanto sia a discapito degli individui migliori, e certo è una
grande vittoria contro questa terribile e muta Sfinge che è la natura.

Ma a me pare che essa intenda, e seguendo certe sue leggi di fatale
equilibrio, prepari la tarda vendetta contro il piccolo uomo che l'ha
voluta correggere del suo divino errore e strappare ha osato le bende
entro cui si avvolgea.

I degenerati superiori, come li chiamano gli scienziati, di cui è tipo
il nostro pittore, finiranno per iscomparire; e sia pur pace con loro,
se pace almeno fosse per essere con quelli che rimarranno.

Ma così verosimilmente non sarà. Perchè io temo che questo allevamento
delle moltitudini e delle masse quanto più crescerà di raffinatezza e di
estensione, tanto più metterà allo scoperto una infinità di germi gretti
e malefici, di cattivi e bassi istinti che senza quell'allevamento
sarebbero rimasti sterili o occulti o oppressi dagli uomini, veramente
migliori. Già se ne vedono i segni.

Chi avrà un da fare enorme saranno gli scienziati nel registrare tutti i
nuovi fenomeni di criminologia e di degenerazioni devianti dalla salute
perfetta dell'uomo modello. Gran sventura che gli organismi debbano
nascere nell'utero delle donne con fatali leggi e non si possano invece
formare secondo le dosi di una ricetta razionale entro un laboratorio di
chimica!

Queste cose ho voluto dire al nostro giovane pittore affinchè si
persuada a non scrivere più altre rime sul modello delle _Scaglie
roventi_ e si convinca a non prendersela contro nessuno: non contro Dio
che è troppo lontano, non contro la borghesia che non ce n'ha colpa e
pensa a ben altro, non contro i socialisti i quali non hanno altro torto
se non di dire: questa è pasta da far gnocchi!

Il meglio è che tu rompa il pennello e ti butti a qualche mestiere.»

                                  *
                                 * *

Con questa persuasiva conclusione finì la difesa di quello spirito
bizzarro; ma la disputa non ebbe termine ne la sala d'udienza chè fu
proseguita calorosamente per le vie e non sarebbe cessata così presto se
quell'oratore non avesse proposto di pagar da bere ai più intimi ed
arrabbiati avversari.

E bevvero allegramente, perchè quando non finiscono male, possono anche
finire con un buon desinare le questioni ne la dolce terra di Romagna
solatia, come la chiama un caro nostro poeta.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Gli ingenui" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home