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Title: Casta diva
Author: Rovetta, Gerolamo, 1854-1910
Language: Italian
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                          GEROLAMO ROVETTA


                             CASTA DIVA



                               MILANO
                 CASA EDITRICE BALDINI, CASTOLDI & C.
                 Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80

                                1909


PROPRIETÀ LETTERARIA

_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
Paesi, compresi il Regno di Svezia e Norvegia_.

MILANO — TIP PIROLA & CELLA DI P. CELLA



Casta diva


I.

— Opportunisti irresoluti, ambiziosi e... paurosi!... Nient'altro che
interesse, vanità e paura! Hai capito?

— Sissignore.

— Il partito, il paese, l'ordine, le istituzioni! Hanno tutto sotto la
suola delle scarpe quella gente là! Hai capito?

— Sissignore.

Chi si arrabbia e grida è l'onorevole, cioè no, Sua Eccellenza, o meglio
l'ex S. E. Gerardo Parvis, appena arrivato da Roma col diretto della
notte.

Ha «offerte» le proprie dimissioni da Ministro delle Poste e Telegrafi,
nauseato della debolezza dei suoi colleghi che non hanno avuto nè il
coraggio di tener testa all'ostruzionismo, nè l'abilità di disarmarlo.

— Mille volte meglio quegli indemoniati dell'Estrema Sinistra! Sinceri
non sono nemmeno quelli là... accozzaglia di idee e di ideali che fanno
a pugni. Tutt'insieme, non andrebbero d'accordo neanche loro nel
proclamare ciò che vogliono, ma sanno però quello che non vogliono!
Contro l'ordine, contro lo stato presente, contro le Istituzioni sono
d'accordissimo sempre, tutti, come un uomo solo! E qualche volta
riescono persino simpatici per la loro audacia, e hanno ragione di rider
di noi e di non lasciarci più nemmeno il diritto di parlare! A che cosa
siam ridotti noi? A un branco di pecore, di nullità, gonfi di quattrini,
di boria e d'ignoranza. Dall'altra parte anche quelli che non hanno
ingegno si affermano con la loro combattività... Dove manca il
carattere, la coltura, abbonda la sfacciataggine e la violenza... È vero
sì o no?

— Sissignore.

Chi risponde all'ex-Eccellenza è il suo vecchio servitore che gli disfa
le valigie, mentre dal gabinetto attiguo alla camera da letto si sente
il rumore dell'acqua che riempie la vasca del bagno.

— Furboni, sai, quegli Estremi, con tutta la loro retorica! Furbi e
scettici... Gente di poca fede!... Sono i primi loro a ridere dei
paroloni coi quali accendono la testa alla folla, ma almeno capiscono i
tempi e nel cacciarsi avanti per conto loro, per le loro mire, cacciano
avanti anche le loro idee, il loro partito...

— Sissignore.

Prospero, il servitore, è taciturno, quanto il padrone è verboso. Non
risponde mai più che «sissignore» o «nossignore» e soltanto quando non
può farne a meno. Ogni volta che il padrone arriva da Roma lo accoglie
con un: «Ha fatto buon viaggio?» del quale si sente appena: «fat...
bon... viag...» perchè il resto delle quattro parole si perde fra le
labbra grosse e le rughe del faccione sbarbato, mentre un tenero
luccichio degli occhi rivela un affetto intenso per il padrone, il
piacere vivo di rivederlo.

— E così, capisci... L'onorevole Parvis, che si è levata la giacca e la
sottoveste, siede sulla bassa poltroncina accanto al letto, mentre il
servo gli leva le scarpe. — E così; quattro ossessi, ostinati,
prepotenti, a furia di parole, di urli e di scenate, sono riusciti a
metterci in un sacco e a violare la Camera nel suo diritto sacrosanto,
che è poi anche il suo dovere: quello di fare le leggi! Basta, per Dio!
Da parte mia, capirai bene, li ho piantati là e non mi ci pigliano
altro! A Roma, capisci, non torno più!

— Non torna più a Roma? E il Governo da... comandare?

Prospero non dice queste parole, ma alza il capo, e fermo, colle scarpe
fra le mani, guarda il padrone che gli legge la domanda negli occhi. Era
avvezzo alle sfuriate del padrone e non udiva nè capiva tutto quanto
egli diceva. Era forse anche per questo che l'onorevole Parvis si
sfogava così, le sue parole si spegnevano, una dopo l'altra, come tanti
fiammiferi buttati nell'acqua. Ma quella dichiarazione di non voler più
tornare a Roma, ha fatto al vecchio Prospero una straordinaria
impressione. E l'ex-ministro delle «Poste e Telegrafi» — gli avevano
dato quel portafogli secondario, perchè in Italia, dove tutto va innanzi
per anzianità, egli era parso troppo giovane per un ministero più
importante — si sente lusingato constatando che il fatto veramente
enorme del suo ritrarsi sull'Aventino, stupisce anche uno zotico testone
come il suo servitore.

— Precisamente così! Li ho piantati con tanto di naso! Avranno capito
adesso che non facevo per burla, allorchè ripetevo loro che io con i
timidi, con i conigli non ci sto, assolutamente non ci sto!

Gerardo Parvis continua per un bel pezzo ancora, ma il vecchio — svanito
quel lampo fugace di maraviglia — è ritornato impassibile ed accudisce
metodicamente alle sue incombenze, prepara la biancheria calda e fredda,
le spugne, le babbucce, tutto l'occorrente per il bagno.

Ad un tratto gli sfoghi dell'ex-ministro contro i colleghi e il silenzio
rispettoso e affaccendato del servo, sono interrotti da un abbaiare
festoso, poi da un quattire affannoso all'uscio, finché un bolide vivo
si slancia contro le imposte a vetri e le spalanca... E un cagnolino
lungo lungo, basso basso, dal bel pelo lustro, color marrone, dagli
aurei riflessi di scarabeo al sole. Il cane si precipita addosso
all'onorevole, gli salta sulle ginocchia e continua ad abbaiare e a
quattire torcendosi e allungandosi per arrivare a lambirgli il volto.

— Teo! — esclama Prospero fermandosi ritto. E la luce che gli brilla
negli occhi sembra gli spiani le rughe fonde della vecchia faccia. —
Teo! Giù! Teo! Qui! Vieni qui!... Teo!

Ma tutto è inutile e anche il padrone tenta invano, con la voce, con le
mani di sottrarre il volto alle leccate della bestiola che salta, si
arrotola, si allunga e smania sempre più.

Il servitore continua a guardare il cane, poi si volta al padrone:

— Ha sentito subito la sua voce! Lo ha conosciuto subito! Teo! Bravo
Teo! Povero Teo!

Teo, — diminutivo del vero nome, — Matteo, — salta fra i piedi del
servitore abbaiando, dimenando la coda, dimenandosi tutto, piegando con
mille vezzi il lungo testone intelligente dall'espressione umana, come
per metter il vecchio a parte della sua gioia. Ma poi subito si volta,
corre, si slancia verso il padrone e per raggiungere lo scopo salta
sullo schienale della poltroncina e lo lecca sul collo e riesce,
finalmente, a lambirgli la faccia.

— Basta! Fermo! Giù! — grida Gerardo un po' infastidito e nondimeno
maravigliato e lusingato di tanta festa. Lusingato e commosso.

Quella sua casa d'uomo importante e influente, d'uomo politico e d'uomo
di Governo, così piena di gente seccante, noiosa e interessata non
appena è noto il suo arrivo, è altrettanto vuota e melanconica ogni
volta ch'egli vi capita quasi improvvisamente, come appunto quella
mattina.

Il: «ha... fat... bon... viag...» del vecchio servitore, e nient'altro.

— Teo! Teo! — Quel povero Teo! Quanta festa gli faceva e con quanta
sincerità! Come gli riempiva il cuore e la casa di affetto e di
allegria.

— Sta fermo, dunque! Giù, giù! Basta, Teo! Adesso basta!

... Ma le labbra sorridono, come continuano a sorridere gli occhi del
vecchio Prospero che ripete sotto voce:

— Teo! Povero Teo! Ha conosciuto subito la voce!

— Ma se quando sono partito per Roma era un cucciolo di tre o quattro
mesi appena?... Davvero! Io non mi ricordavo nemmeno più d'averlo!

— La povera bestiola no, invece!... Quando io mettevo mano agli abiti
del signor padrone, Teo vi si sdraiava vicino, vi metteva il muso
sopra... e mi guardava come se volesse domandarmi qualche cosa.

Teo capisce che si parla di lui: fermo, attento, fissa il padrone con
gli occhi lucentissimi e piegando un po' la testina in atto di dolcezza
affettuosa.

Il servo è andato a chiudere il rubinetto del bagno.

— Pronto!

— Vengo!

Ma Gerardo non si muove; accende una sigaretta e sempre sdraiato nella
poltroncina accarezza le orecchie del cane che gli si è avvicinato e che
messogli il muso sopra una gamba, socchiude gli occhi e sbatte le
labbra, con un senso di delizia soddisfatta.

Il giovane ex-ministro, per altro, non pensa già più a Matteo. Quella
festa, quell'accoglienza lo portano col pensiero a ricordi lontani, ma
che erano sempre i più cari e i più vivi nel suo cuore.

Quasi ancora ragazzo era rimasto senza parenti, e gli anni dell'ardore e
della bontà, li aveva dati ad una donna, — non la prima, ma la sola
ch'egli avesse amato davvero, — una donna che ben meritava quell'omaggio
assoluto di devozione e di passione, una creatura fatta di grazia, di
bontà e d'intelligenza, una mente eletta ed un'anima grande, un cuore
dolce, affettuoso, sapiente e indulgente, un cuore di donna innamorata.

La cara e fida e buona amica era morta da tre anni e il cuore del
Parvis, dopo tre anni, era ancora pieno di ricordi e vuoto di persone.
Soltanto il lavoro, un grande lavoro assorbente, e poi gli odi e gli
amori, le passioni, le cure e le lotte della politica, lo avevano
occupato, agitato e stordito.

Nient'altro!... Nessuna donna, mai. Nè la civetta che si offre, nè la
bellezza che si vende.

Giovane ancora, nè la sua anima nè il suo sangue avevano mai avuto un
fremito. Lei ancora, sempre Flaviana, soltanto Flaviana riappariva ai
suoi occhi nelle brevi soste della stanchezza, ritornava a lui nel
sogno.

Com'era stata bella, com'era stata buona! Bella, buona e _sicura_.

Egli era vissuto, a sua volta, sicuro dell'amore di lei, come di
nessun'altra cosa al mondo; sicuro dell'amore, sicuro della fedeltà... E
che gioia poter essere _sicuro_ della donna che si ama... e che tormento
dover sempre dubitare, sospettare, temere.

Oh, egli aveva saputo amarla in ragione di quanto aveva potuto
crederle!... Allorchè si dubita, si disprezza, o si odia: si desidera
ancora, forse, con tutto l'ardore, con tutta l'ansia, ma «amare», no;
non si ama più.

Ed egli, invece, aveva potuto amare... aveva potuto amarla, sempre,
senza una nube, senza una bugia mai, sino alla fine!... Buona, tanto, e
bella!... Come rivedeva quel volto classico, pallido, nel quale ardevano
i grandi occhi neri pieni d'amore e di devozione... Quanto il suo cuore,
quegli occhi e quelle labbra erano stati sicuri! E come era intelligente
e lieta e cara e pensosa... e come le sue ansie e le sue gioie, la sua
anima e i suoi nervi rispondevano sempre al desiderio, al sogno, al
«momento» dell'uomo amante...

— Cara!...

Come gli aveva riempito di sè il cuore e la giovinezza, senza mai
attraversargli la via, senza mai essergli d'inciampo, senza mai dargli
una pena!... Ed egli — allora! — a' suoi improvvisi ritorni da Roma,
come saliva di corsa quelle scale, ansioso...

— C'è la marchesa?

C'era sempre! Il cuore di lei aveva immancabilmente il presagio del suo
ritorno; e che festa d'amore quel rivedersi, che luce ne' suoi occhi e
che baci per l'improvvisa gioia!

Teo sospira forte scuotendo il muso umido e fresco sulle ginocchia di
Gerardo, che torna a fissare il cane, ma con una grande mestizia negli
occhi umidi.

— Più!... Non c'è più! E da allora... sei tu, sei proprio tu il primo
che mi fa un po' di festa, sincera, soltanto per me! Teo!... Povero Teo!
— e Gerardo, scrollando il capo gli accarezza le orecchione calde e
morbide come il velluto. — Anche di te posso essere _sicuro_?

— L'acqua del bagno diventa fredda.

— Eccomi! Vengo subito!

Gerardo si alza vivamente e finisce in fretta di svestirsi, mentre
Matteo, preso da una smania di gioia, corre per le camere, gira su se
stesso, torcendosi a semicerchio, attraversando a salti, innanzi e
indietro, e il letto basso e la poltroncina, e mordendo per ischerzo,
delicatamente, i piedi scalzi del padrone.


II.

— Viene anche il Teo, all'Abetone?

— Il Teo?

L'onorevole Parvis guarda Prospero con aria stupita e la bestiola
capisce che si parla di lei. Teo, seduto sulle gambe di dietro e ritto
su quelle davanti, corte e storte, a roncolo, con gli occhi gialli,
d'ambra lucida, fissi, guarda a sua volta il padrone ed il servitore,
piega, ora verso l'uno, ora verso l'altro, la testolina con
un'espressione d'ansia, con un atto fra interrogativo e supplichevole.

— Prendere anche il Teo, con noi? Diventi matto?

— Perchè?

— Un cane? In viaggio? Figurati che seccatura!

— Durante tutto il viaggio lo terrò con me. Lei non ci pensi; non se ne
accorgerà neppure!

Teo, che per quanto inglese puro sangue, capisce benissimo l'italiano di
Prospero, gli si avvicina, rizzandosi, tenendosi appoggiato con le
grosse zampe alla gamba del suo protettore e leccandogli la mano.

— In viaggio, sta bene... — continua il Parvis. — Ma poi lassù,
all'Abetone, all'albergo? Con tanta gente, con tanti forestieri?... No,
no, è impossibile! Diventi matto, ti ripeto!

— Anche all'albergo, starà sempre con me. Dormirà con me. Gli darò io da
mangiare, lo condurrò io a passeggiare. Lei non ci pensi neppure!

Trattandosi di intercedere per Matteo, per l'amico fedele che sa dire,
come lui, tante cose senza parlare, il vecchio Prospero diventa persino
loquace.

Ma l'onorevole è insofferente di contraddizioni. Non vuol saperne di
cani in viaggio, all'albergo: e siccome l'altro insiste, egli perde la
pazienza, si arrabbia, alza la voce, e Prospero, subito, allunga il
broncio.

— Allora, mi dirà lei, dove e a chi lo dovrò lasciare! Lo avverto, però,
che in un'altra casa non ci sta, certo, nemmeno dipinto!... E poi,
quando non vedrà più nè me, nè lei, creperà, magari, anche di fame!

Dopo questo _aut aut_, e quasi affermando la gravità del problema, Teo
torna a fissare il padrone, tenendo la coda bassa e dimenandola
lentamente, come aspettando che venga decisa la sua sorte.

— Si potrebbe lasciarlo alla portinaia!

Prospero non si degna nemmeno di rispondere, di voltarsi. Continua a
chiudere bauli e valigie.

— Oh Dio! — pensa Parvis, sbuffando. — Ci siamo! — Infatti, quando
Prospero si imbroncia ce n'è per un bel pezzo... — Perchè poi, domando
io, non si potrebbe lasciarlo alla portinaia?

— Perchè dalla portinaia non ci sta.

Teo dimena la coda più forte. Dice anche lui che dalla portinaia non ci
sta. Egli aveva una precisa antipatia contro quella donna per certe
vivissime impressioni ricevute sotto l'atrio e lungo le scale, durante
la sua prima gioventù.

Gerardo non vuol troppo inquietarsi; s'è inquietato abbastanza a Roma,
per cose più serie, e finisce col sorridere a Teo e coll'accarezzarlo,
per rappacificarsi col servitore. Riflette, intanto, quale possa essere
la maggiore delle sue seccature: viaggiare col cane, oppure col broncio
di Prospero che è capacissimo di farglielo godere per tutto il tempo
della villeggiatura...

— Starò lassù un paio di settimane, per riposare, camminare, prendere il
fresco e per scrivere un paio di articoli sulle condizioni politiche
dell'Italia al _Daily Express_... Poi, basta Abetone! Tornerò a Roma per
una settimana. A Roma ci posso andare senza Prospero e Prospero, invece,
potrà tornare a Milano con Matteo!

Il muso di Prospero ha dunque ottenuto l'effetto voluto. Gerardo Parvis
è ormai disposto a cedere. Adesso, cerca soltanto di salvare l'onore
delle armi e quindi continua a guardare e ad accarezzare il cane, mentre
domanda al servitore:

— E se poi disturbasse i forestieri?

Prospero, sempre zitto. Ha finito di chiudere i bauli e tutte le valigie
e comincia ad arrotolare il _plaid_.

— Se poi, qualche notte, si mettesse ad abbaiare?

Silenzio perfetto.

— Basta! Sarà quel che sarà! Condurremo anche Teo in montagna! Ma
ricordati, Prospero, ci penserai tu!

— Sissignore!

La faccia del vecchio ha un lampo di sorriso, e Teo, dalla gioia,
comincia a squittire frenetico, a correre di nuovo in giro per la
stanza, a tirare, a mordere la giacca e i pantaloni del padrone; poi
afferra colla bocca una babbuccia di pelle e se la porta via scappando
sotto le seggiole e il canapè, inseguito dalle grida e dalle minacce di
Prospero.


L'onorevole Parvis ha fatto conto di fermarsi a Pracchia e di salire
all'Abetone in carrozza, la mattina presto, col fresco, e così prende
l'ultimo diretto, quello della notte per Firenze.

Come tutti gli uomini politici e gli uomini d'affari che viaggiano molto
e non hanno tempo da perdere, l'onorevole Parvis legge, scrive, lavora
anche in treno, nel suo scompartimento. Un ministro, anche
dimissionario, trova facilmente il modo di rimaner solo.

Appena il treno è in moto, egli apre la sua valigetta particolare, leva
la cartella, il calamaio, poi un fascio di lettere e di carte. Ne
sfoglia, ne esamina alcune attentamente, poi le mette da parte e
comincia a scrivere. Sente di dover inviare una lettera al suo
sotto-segretario, l'onorevole Donadei. Bisogna persuaderlo che non è il
caso ch'egli pure dia le dimissioni, e ciò non soltanto per atto di
cortesia, abituale in simili casi, ma altresì perchè al Parvis, preme
realmente che il suo collaboratore rimanga qualche tempo ancora sulla
breccia a sostenere l'urto delle opposizioni postume ed anche delle
postume invettive.

La lettera non è facile a scrivere, neppure per un diplomatico fine e
consumato come Gerardo Parvis. Ma il rullio del treno, che non gli
permette di scrivere in fretta, gli lascia il tempo necessario di
meditare sulle frasi. E non c'è male: certe lettere, quando meno ci si
pensa, si vedono poi comparire, al solito momento più inopportuno, su
questo e su quel giornale.

Le lettere degli uomini politici, come quelle delle donne che hanno più
di un innamorato, non sono mai prudenti abbastanza...

«_Onorevole amico_,

«Se ho avuto qualche perplessità nel risolvermi ad abbandonare le cure e
le responsabilità del Governo e se ora ne provo qualche rimpianto, è
soltanto pel rammarico di separarmi da lei, di interrompere un'opera con
tanta fiducia iniziata insieme e, mercè la sua intelligente e provvida
collaborazione, proseguita in mezzo a contrarie fortune, non senza onore
ed utilità.

«Ma questo rimpianto si farebbe in me assai più grave e doloroso, e mi
indurrebbe quasi a temere di aver recato danno colla mia risoluzione
agli interessi del Paese e delle Istituzioni, ove dovessi apprendere,
che per eccessiva delicatezza nell'intendere l'obbligo morale di
un'antica e fida solidarietà ella intendesse di ritirarsi a sua volta.

«Il Ministero del quale oggidì Ella regge interinalmente e così
degnamente le sorti, è d'indole affatto amministrativa, ed in un paese
ove le forme rappresentative fossero più progredite, dovrebbe al pari
dei dicasteri dell'_Agricoltura_, del _Commercio_, dei _Lavori Pubblici_
e così via — essere sottratto alle vicende troppo di frequente mutabili
della politica parlamentare. A questo carattere imperfetto del nostro
ordinamento, procuriamo di riparare, anche a costo di personali
sacrifici, noi tutti, uomini d'ordine, zelanti del bene pubblico; ed
Ella, ne offra l'esempio col rimanere...»


A questo punto, il treno rallenta, poi si ferma nella stazione di Lodi.

Il Parvis sente, tra il fragore del convoglio, il trepestìo dei
passeggieri e il gridare dei conduttori, un abbaiare furioso; è la voce
di Matteo!

— Bravo!... Cominciamo bene!

Poco dopo aprono lo sportello dello scompartimento. L'Onorevole si
volta, guarda... È Prospero, confuso, impacciato, che tiene Teo fra le
braccia, Teo che si agita, si dibatte nervoso, furioso, inquieto.

— Che vuoi?... Cosa c'è con quel cane?

— Sa che lei è qui vicino, e non vuol più stare con me!... Non ha fatto
altro che abbaiare e smaniare tutto il tempo!

— Te lo avevo detto io!... Avevo preveduto che sarebbe stata una
seccatura! «Lei non ci pensi! Lei non ci pensi!» E poi subito, tanto di
muso, ostinato, testardo!

Ma più del vecchio servitore, che rimane a testa bassa, l'ostinato e il
testardo è Teo, che si divincola, si torce più che mai per sfuggire
dalle braccia di Prospero, e ringhia al conduttore, che tenendo con una
mano lo sportello, coll'altra cerca di accarezzarlo.

— E adesso che facciamo?

— Lo tenga con lei...

La campanella, il fischio...

— Partenza!...

Teo fa il diavolo a quattro e Prospero non riesce più a trattenerlo.

— Dà qui! E ricordati: se non sta tranquillo, alla prima stazione vi
lascio a terra: te e la tua bestia! Tutti e due!

Il cane è già saltato sul sedile, sulle ginocchia di Gerardo, che lo
accoglie con uno spintone e uno scappellotto. Ma Teo, in questa
circostanza, non si mostra permaloso. Scuote, pieno di allegrezza, le
orecchie e la coda, e poi corre a rizzarsi sul finestrino per guardare
fuori.

— Fermo! E quieto! — impone Gerardo con voce aspra e alzando la mano in
aria di minaccia.

Teo capisce... e non capisce. Si acquatta di colpo, si stende sulle
quattro zampe. Ma poi, alzando gli occhi, senza alzare la testa, fissa
il padrone attentamente, e lo studia, ancora poco persuaso che quel tono
di minaccia non sia uno scherzo.

Prospero frattanto è scomparso; il treno si ripone in moto e l'onorevole
Parvis ricomincia a scrivere e continua la sua lettera all'onorevole
Donadei.

Matteo, queto queto, stirandosi sul cuscino, si avvicina al padrone e
pone la punta del musetto, lustro ed umido, sulle ginocchia di lui,
senza muoversi più. Solo, di tanto in tanto, apre ed alza gli occhi,
sempre senza alzar la testa, e guarda Gerardo con una lunga occhiata
affettuosa; poi sbatte le labbra mandando sospironi di soddisfazione.

Quando il treno giunge a Pracchia, comincia ad albeggiare. Fra le varie
carrozze che attendono presso la stazione, Matteo distingue subito il
più bel landò a due cavalli, e mentre i facchini scaricano i bauli e le
valigie, egli salta in carrozza, rimanendo appoggiato accanto allo
sportello aperto, sempre guardando il padrone e dimenando la coda a
Prospero, quando il vecchio servo si avvicina, per far caricare il
bagaglio nella carrozza.

E per tutto il viaggio, per tutta la salita, Teo non fa altro che
passare da un capo all'altro del sedile, in faccia al padrone,
allungandosi quasi ad aspirare con delizia i buoni odori della campagna,
fiutando Prospero per accertarsi che sia sempre ben lui l'uomo che siede
a cassetta presso il cocchiere; poi di nuovo, di qua e di là,
spingendosi molto all'infuori dello sportello, quando sulla strada passa
qualche mucca o qualche pecora, balzando fin sul mantice del landò
quando la vettura s'incontra in un qualche cagnaccio ringhioso che le
corre dietro latrando.

L'onorevole Parvis sorride a Teo, sorride a quella gioia quasi
bambinesca e involontariamente apre l'animo alla stessa allegrezza, si
sente preso dallo stesso ingenuo benessere.

A mano a mano che la strada sale e l'aria si fa più pura ed elastica, e
dalla foresta, che si stende verde e cupa a ridosso della montagna,
esalano più forti i profumi delle resine sotto il sole, anche i pensieri
dell'ex-ministro sembrano sollevarsi, farsi più tenui, più languidi.
Quei buoni aromi del monte gli penetrano nel cervello, come un blando
narcotico, e lo inducono a una lieve sonnolenza cullata dal moto della
carrozza, che i cavalli oramai trascinano al passo, su per l'erta,
sostando tratto tratto, per riprender fiato. E di quelle fermate,
Gerardo Parvis non si indispettisce; tutt'altro! Per la prima volta,
dopo tanto tempo, non ha nessuna fretta di arrivare: non ha più nulla
che lo stimoli, che lo urga a fare o a dire: non aspetta nessuno, non si
prepara a parlare con nessuno, comincia a non pensare più a niente, o
quasi!

— Che silenzio!... Che delizia!

Poi quell'odor forte della resina che lacrima attraverso la scorza bruna
degli abeti, gli richiama la fragranza dell'incenso, che fanciullo
aspirava con avidità, nella lunga noia delle cerimonie religiose, al suo
paese, nella cappella della ampia e melanconica villa paterna.

— Quanto tempo è passato! Quante cose, quanti dolori, quanti amici,
quanti nemici!

Ma è inutile. Anche il cumulo delle memorie non vale a rattristarlo
sotto quel bel sole, in mezzo a quel verde, a quel silenzio, a quella
solitudine! Il silenzio! La solitudine! Che ristoro, che carezza, che
pace, che vita nuova! Non par vero che lui, proprio lui, è lì, su quella
strada, solo con Prospero, con Teo, col vetturale e non è obbligato nè
ad ascoltare, nè a dire, nè a pensare niente, proprio niente, più
niente! I soli rumori che ode sono anch'essi discreti, diversi dai
rumori soliti: il passo dei cavalli, ogni tanto la musica argentina
delle sonagliere scosse, od un sommesso squittire di Teo, che sembra
matto di gioia e di piacere, od il ronzìo di un moscone che batte contro
il cuoio del mantice e se ne va, o il fruscio d'ali d'uno scarabeo che
fende l'aria luminosa con un barbaglio d'oro e scompare...

Più niente, più nessuno!... Riposo, riposo e pace; la pace profonda,
immensa che ha sospirato tante volte, con una nostalgia da studente e da
innamorato, in mezzo ai fastidi, alle cure, ai disinganni, alle ire
represse, alle ipocrisie forzate della sua vita occupata, preoccupata,
eccitata, tutta per gli altri... Come si sente bene, anche di nervi e di
stomaco!... Non prova neppure più il bisogno di accendere sigarette, una
dopo l'altra, come poche ore innanzi, in treno... Forse è una illusione,
ma gli sembra già di avere appetito... Appetito, di quello buono, che fa
pensare all'odore del pan fresco e del formaggio, non già quel languore,
quegli stiramenti del ventricolo, a bocca amara, che lo avvisavano di
aver lasciata passare l'ora del pranzo o della colazione, per sbrigare
tutto quello che a sbrigare non si arriva mai!... Più niente! Più
nessuno!

La strada sale continuamente e i villaggi, i casolari, giù nelle vallate
ridenti, si fanno sempre più piccoli. Come si fanno piccine anche le
impressioni, le cose, le battaglie che fino alla vigilia ingombravano la
sua mente, agitavano la sua vita! Come appare meschina e perfida la
grande politica di Stato, di fronte a quel cielo così vasto e così puro!
Ed anche la sua missione di salvatore della patria e della umanità,
quella persuasione intima, inavvertita di essere indispensabile al bene
degli altri, non è una fisima, una vanità? Il Parvis comincia a
dubitarne, vedendo come tutto intorno fiorisca e gioisca la vita, in un
distacco assoluto, in una perfetta ignoranza di tutto quanto si agita e
si trascina al basso, nei grandi centri del cosidetto mondo civile...
Anche gli uomini — quei pochi uomini che appaiono a rari intervalli
sulla via e che la carrozza si lascia dietro — gli sembrano uomini di
un'altra razza: più fieri e più onesti nei loro poveri panni, di tutti i
suoi colleghi e clienti e adulatori e denigratori di Roma e di Milano,
in frak e cravatta bianca... Quasi quasi gli spiace di arrivare anche
all'Abetone... Vorrebbe passare la sua vacanza, tutta intera, in quel
bel deserto verde, fatto di frescura e di silenzio.


All'Abetone, fra la folla elegante, sempre a caccia del più piccolo
incidente atto a rompere la monotonia della vita, la venuta
dell'ex-Eccellenza delle cui dimissioni avevano tanto parlato i
giornali, fu un avvenimento vero, importante.

Era stato consultato l'orario e fatti i calcoli. Si sapeva che
l'onorevole Parvis sarebbe arrivato in landò a due cavalli e che quei
due cavalli impiegavano nella salita tre ore e mezzo. L'onorevole Parvis
doveva dunque giungere all'Abetone verso le dieci.

E verso le dieci, la larga strada fiancheggiata ai due lati, dalla
locanda e dalla _Succursale_, formicolava di villeggianti incuriositi.

Quando, sullo stradone, allo svolto ove finiva il bosco d'abeti, spuntò
la carrozza, vi fu un mormorìo.

— È venuto col Narducci!

Il Narducci era il più bravo vetturale, quello che aveva il più bel
landò e i migliori cavalli, dell'Abetone e di tutto Boscolungo.

Poi, quando il landò fu vicino alla locanda, chi attirò l'attenzione
generale fu Teo, sempre appoggiato colle zampe allo sportello, Teo che
guardava a sua volta e fiutava curiosamente quei signori e quelle
signore.

Al Parvis la vista di quella folla, il «bel mondo» di Firenze, di
Napoli, di Palermo, riunita dalla indiscrezione e dalla smania del
pettegolezzo intorno alla sua carrozza, dà un senso di uggia
invincibile. Addio buon umore, addio serenità di spirito, addio
godimento ingenuo e profondo della campagna, della montagna! Egli ha
sperato invano in un altro paese; il paese è sempre quello! L'uomo, come
la formica, s'illude inutilmente di trovare la solitudine: gira e
rigira, quando meno se lo crede, si trova di nuovo in mezzo al
formicaio.

— Piccolo _caaro_!

L'albergatore accorre, tutto ossequioso, apre lo sportello della
carrozza e il Parvis sta per scendere, quando lo scuote il «piccolo
_caaro_» pronunciato con voce tenera e armoniosa, il languore del doppio
_a_, strascicato. Mette piede a terra e si volge.

È uno splendore di ragazza, tutta vestita di bianco, ritta in mezzo ad
un gruppo di altre signorine, ma di tutte più alta, più bella, più viva.

Sotto l'enorme cappellone di trine e di nastri rosa, le si avvolge
confusamente la massa ondulata dei capelli neri, e luccicano gli occhi
pure neri, nerissimi, di un nero lucente: di fuoco.

— Bella creatura!

Per l'onorevole Parvis la «bella creatura» ha anche il merito di non
occuparsi di lui, ma di Teo, e Teo, riconoscente, appena balzato di
carrozza, le fa festa intorno, poi subito segue il padrone, fiutando di
qua e di là, fiutando lungo le scale, nella camera, intorno ai bauli,
alle valigie, sotto il letto, come per una prima ricognizione ed una
presa di possesso dei luoghi e delle cose.

Le camere sono al primo piano, le finestre sono aperte e dalla strada
sale un brusìo di voci fresche ed allegre, e fra tutte, più fresca, più
allegra, come una risata, la voce già nota del «piccolo _caaro_». Il
Parvis vuol restare solo e Teo deve andarsene con Prospero. Ma quando il
padrone ha finito la sua toletta, prima ancora che richiami Prospero,
ecco Teo, — il quale ha già imparato la strada, — precipitarsi contro
l'uscio ed entrare nella camera come una bomba: Prospero, lo segue, con
la faccia soddisfatta.

— Teo ha già fatte amicizie!

— C'è qualche altro cane, all'_Hôtel_?

— No, no! Amicizia... con una bella signorina! E Prospero accarezza la
bestiola, come approvando il suo buon gusto nella scelta.

Il Parvis non dubita neppure chi sia la bella signorina. Rivede la
figura bianca, gli occhioni neri sotto il grande cappellone rosa, e di
nuovo sente la melodia, l'incanto del doppio _a_, di quel _caaro_...

— Ha fatto amicizia, povero Teo!

Mentre Prospero continua ad accarezzare il fido amico, Gerardo si avvede
che anche sul viso di limone del vecchio servitore, quella apparizione
di donna giovane e fiorente ha gettato come un raggio di calore e di
luce.

— Piccolo _caaro_!


III.

Gerardo Parvis era un polemista ed un oratore violento e, certe volte,
persino aggressivo. Sul terreno, in quegli anni in cui i duelli erano
ancora di moda, era stato un avversario pronto e assai temibile;
tuttavia nel suo carattere c'era un fondo di timidezza che pure nelle
lotte della tribuna parlamentare e nelle vicende rumorose della vita
pubblica non era ancora riuscito a vincere interamente. Anzi, questa sua
timidezza, non scemava punto, ma, al contrario, si faceva più viva, a
grado a grado che aumentavano la sua fama e la popolarità del suo nome.

Al primo presentarsi in un teatro o in una sala o in qualunque altro
luogo, in mezzo alla gente, egli rimaneva un istante confuso, impacciato
da tutti gli sguardi curiosi che gli si fissavano addosso. Egli doveva
sempre fare uno sforzo per vincersi, per mostrarsi sicuro e disinvolto;
ma questo sforzo non sempre gli riusciva e allora il Parvis nascondeva
la propria timidezza sotto una apparenza seria, quasi dura, pronunciando
poche parole tronche e imperiose.

Quel primo giorno, in montagna, entrando per far colazione nella grande
sala, lunga, bassa e così affollata e rumorosa della locanda, egli si
sentì ancor più viva e più fastidiosa l'impressione di debolezza che lo
turbava e lo impacciava.

Le due lunghe tavole erano piene. Non un posto vuoto. Subito al suo
presentarsi, era cessato per un istante il cicalìo e il risonare delle
posate e dei cristalli; tutti gli sguardi si erano alzati e fermati
sopra l'onorevole Parvis.

«Per un ex-ministro era ancora giovane! E molto elegante!... Aveva un
aspetto simpatico!... — Doveva avere del talento! — Certo, per arrivare,
sia pure soltanto alle «Poste e Telegrafi», di talento ce ne vuole!

Lo fissavano con ostinata curiosità anche gli occhi neri, nerissimi,
della bella signorina del grande cappellone tutto bianco e tutto rosa.

Gerardo, aveva veduta l'amica di Teo, prima di guardarla; anzi, più che
averla vista, l'aveva sentita.

— Che combinazione! Era lì, proprio lì, dinanzi, in faccia al suo
tavolino!

Per restar solo, per non conoscere nessuno, l'onorevole aveva ordinato
per sè un tavolino a parte, e glielo avevano tenuto e preparato proprio
in faccia all'amica di Teo!

Il primo cameriere, in atto di grande deferenza, aspettava i suoi
ordini, porgendogli la lista del giorno.

Gerardo la guardò un momento.

— Devo ordinare, invece, per sua Eccellenza, una costoletta alla
milanese con patate _soufflées_? Oppure un buon _chateaubriand au beurre
d'anchois_?

— Come volete. Quello che c'è. Purchè si faccia presto!

— E vino, Eccellenza?

— Niente Eccellenza e niente vino! Soda e cognac.

Gerardo ha fra le mani la _Tribuna_, e mentre aspetta che gli portino la
colazione comincia a scorrerla lanciando occhiate in giro, senza parere.

Varie di quelle facce non gli riuscivano del tutto nuove.

— Quanta fatica dovrò fare per impedire le conoscenze, i riconoscimenti
e i complimenti!

Nella sala erano ricominciate le conversazioni e a mano a mano
diventavano più animate e rumorose. Le pronunzie delle varie regioni
spiccavano più nettamente fra quel brusìo festevole e cerimonioso.
L'accento piemontese rispondeva al toscano, il napoletano e il siciliano
al milanese, e la parlata veneta rumorosa alla romana aggraziata e
melodica. Ma ben chiara, scolpita, fra quelle mille voci diverse e
stonate, giungeva al suo orecchio la voce fresca di quella tal signorina
— l'amica di Teo.

— Piccolo _caaro_!

Parlava benissimo; senza tradire nessun dialetto. Doveva essere
dell'alta Italia... milanese no. L'avrebbe veduta qualche volta a
Milano.

— Signorina? — Perchè signorina?... — Che cosa ne sapeva Prospero? —
Poteva essere benissimo anche una signora.

Gerardo, colla scusa di voltare la pagina della _Tribuna_, lanciò
un'altra occhiata.

— Signorina! È ancora signorina...: Pure, per essere una signorina, è
molto disinvolta! Troppo disinvolta!

Seduta in mezzo a due giovanotti, che sembravano piuttosto due
giovinetti, col viso sbarbato e smorto, rimpicciolito dall'abbondante e
folta capigliatura, ella parlava molto, rideva molto, si moveva molto.

— Signorina, sì; ma già un po' civetta!

Ecco il cameriere col _chateaubriand_, l'onorevole ripone la _Tribuna_,
e intanto guarda ancora il cappellone rosa e i due vicini.

Dalle giacche bigie, larghissime, spuntavano i colli impiccati negli
alti solini rigidi.

— Che caricature... Con la marca autentica dell'imbecillità fatua e
pretenziosa!

— Pure, bisogna essere così per piacere alle donne!

E al Parvis, sfugge un sospiro. È forse il rammarico di essere diverso!

— Com'è più viva e radiosa lei, di quei due lì,

Pareva un caldo fiore dell'Oriente, un sole di luce, in mezzo a due
candele spente!

— Eh! Se io fossi ancora giovane! Mah!... Potrò diventare presidente del
Consiglio, ma giovane non lo ritorno più, pur troppo!

E l'onorevole, per la prima volta, sospira alla bella gioventù sparita,
sparita per sempre, senza che egli nemmeno se ne sia accorto!

All'Abetone, le noie della celebrità furono, per fortuna, di breve
durata. Quel giorno stesso all'ora di pranzo, la sua entrata nella sala
non fece più voltar la testa a nessuno.

Come mai?... La bella amica di Teo è partita?

Così pensa Gerardo mettendosi a sedere, ma poi la vede al suo posto, fra
i due soliti cavalierini rigidi, impettiti e angolosi, come due
cavallette nell'abito di sera.

— C'è! C'è!

Ma non c'è più il cappellone!... Peccato!

Nessuna signora aveva il cappello. Gli uomini in _smoking_ o in _frak_,
le signore in _toilette_; non c'era più nella sala l'allegria espansiva
della mattina; correva invece per le due lunghe tavolate un'aria
compassata di grande sussiego e di musoneria.

— Peccato! Stava così bene con quel grande cappello alla moschettiera!

Mentre l'onorevole pensa al cappellone, il signor Vincenzo — il primo
cameriere, — aspetta i suoi ordini.

— Date anche a me il pranzo del giorno!... Il solito della pensione.

L'inchino del signor Vincenzo si fa, involontariamente meno profondo.
Tante raccomandazioni e tanto strepito per un ministro... che non ordina
nemmeno un _extra_ e beve la soda!

Bel ministro e bel Governo «da carovana!»

Il Parvis si accorge d'essere un po' in ribasso nella considerazione del
signor Vincenzo e nota pure di non destare più nessuna curiosità
nell'amica di Teo, la quale mangia di buon appetito e come alla mattina
parla, ride, scherza... ma senza occuparsi affatto di Sua Eccellenza!

— Ha un tipo espressivo; tuttavia dev'essere una ragazza inconcludente!
Come può divertirsi tanto ai discorsi di que' due scimuniti?... — Perchè
sono due scimuniti!... Positivo!... — Senza cappello ci perde
moltissimo! È molto meno bella; non sembra più lei!

— Desidera senape inglese, o _worcester sauce_! — domanda il signor
Vincenzo passandogli vicino.

— Datemi il _Secolo_ e il _Corriere della Sera_.

E fra un boccone e l'altro comincia a leggere i due giornali.

Dio, la politica!... Sembra una cosa tanto grande e non è che un
pettegolezzo così piccolo! — Baruffe chiozzotte! — Invidie e gelosie,
ambizione e volgarità! È l'interesse proprio, colla scusa di fare quello
degli altri.

L'amica di Teo aveva però una voce ben singolare! Che voce strana! Non
era forte, eppure come la si sentiva bene, anche da lontano! Che bella
voce, calda, penetrante!

— Una bella voce è una gran bella cosa! Deve avere anche dello spirito,
la signorina. Quelle due mummiette vive sono condotte per il naso — si
vede — che è un piacere! — Come ride di gusto e come ride bene! — Sfido
io a non rider bene con quei denti! Che bianchezza! È una bocca
abbagliante!

— I bei denti sono una gran bella cosa! — Che età potrà avere? Non deve
essere più giovanissima!...

L'onorevole Parvis l'osserva, questa volta con coraggio, attentamente.

La giovinezza trionfava in lei, in tutto il suo pieno rigoglio: ogni
linea, ogni contorno era vivente e fiorente, mentre il volume enorme e
capriccioso dei capelli nerissimi sembrava dare alla sua carnagione un
brunito di sodezza e di forza.

— E pensare che con tante belle ragazze e con tante belle donne che ci
sono al mondo, io ho speso le ore migliori della mia vita con Saracco...
e con Zanardelli! — Al diavolo il Governo e la politica, la Camera e il
Senato! — E sua madre? — Ci sarà la mamma, certo. — Dov'è? — La vecchia
gialla che le sta di faccia? — No! No!... Non le somiglia affatto! Più
che altro, ha l'aria di essere un'istitutrice. — Ad ogni modo, madre o
istitutrice, perchè non le sta accanto? Una ragazza seduta in mezzo a
due giovanotti, che le fanno la corte... Come sono cambiati i costumi e
gli usi del mondo! A' miei tempi...

Ma a questo punto, mentre l'onorevole Parvis, occupato da così gravi
pensieri, si serve distrattamente dell'arrosto e dell'insalata, è
richiamato d'improvviso alle piccole realtà della vita e dell'Abetone da
una gravissima disobbedienza commessa da Teo.

... Com'è stufo il povero Teo di passeggiare su e giù dinanzi alla
locanda, legato e tenuto al guinzaglio dal vecchio Prospero! Ogni tanto
dà una grande strappata e tenta di mordere il laccio. Peggio ancora
quando passa vicino al portone dell'albergo: si ferma, puntando le
quattro zampe, s'allunga prodigiosamente. Ma non c'è verso! — Prospero
continua passo passo, trascinandoselo dietro inesorabile e muto come il
destino.

Teo si arrabbia, brontola riottoso, ma intanto medita il colpo, e sta
attento.


Un po' innanzi, passato l'albergo, la valle si apre spaziosa e libera,
tutta verde di abeti; e in fondo alta, nuda, rocciosa la vetta del monte
Cimone prende, in quell'ora del crepuscolo estivo e dopo l'ultima
doratura infocata del sole, una tinta arancia, poi violacea, poi quasi
rosea, in sullo sfondo, limpido e terso, del cielo azzurrino.

La giornata non era stata mai tanto bella, nè il tramonto tanto
maraviglioso. Prospero contempla a bocca aperta, e Teo, che lo vede in
estasi, non perde l'occasione: una terribile strappata e via come una
saetta! Infila la porta dell'albergo, infila l'uscio della sala da
pranzo e sempre a tutta carriera e sempre tirandosi dietro il guinzaglio
passa sotto le tavole, fra le gambe della gente, fra le sottane delle
signore, fiutando, annusando, frugando di qua e di là, in cerca del
padrone di cui sente l'odore, ma non trova ancora la traccia.

Il monotono sussiego della _table d'hôte_ è rotto come per incanto: due
vecchie inglesi — detestate alla lor volta dai villeggianti, per l'odio
che portano alla sigaretta — si alzano spaventate e inorridite,
sbattendo i tovaglioli per difendersi. Teo, credendo l'atto uno scherzo
e un incitamento, corre loro addosso saltando e abbaiando. Tutti ridono
e molti gridano per far del chiasso.

— Teo! Qui! Teo!...

— Piccolo _caaro_! — esclama l'amica, colla sua voce più languida e più
tenera e con un accento di ammirazione e di protezione.

— _Caaro! Caaro!_ Piccolo _caaro_!

— Teo! Teo! — L'onorevole è furioso. Quel _piccolo caaro_ gli rimescola
il sangue più dell'ira ridicola delle due vecchie inglesi.

— Teo! Qui! Subito!

Teo comprende al tono che non è il momento di scherzare. Prima si
rimpiatta sotto la tavola, poi esce fuori quatto quatto, tutto basso,
tutto lungo, tutto storto, la coda fra le gambe e sbirciando il padrone.

Gerardo afferra il guinzaglio e di colpo, sollevandolo mezzo da terra,
lancia il povero Teo fra le gambe di Prospero che aspettava timoroso
sull'uscio e che a sua volta acchiappa il cane e scompare.

— Povero _piiccolo_... Che cattiveria!

L'onorevole sente appena queste parole volare nell'aria, sente il
lamento, il rimprovero che gli è diretto e torna a sedere al suo
tavolino con una faccia così seria e torva, come se non si trovasse
dinanzi ai quarti di un pollo arrosto, ma di fronte ad una schiera di
ostruzionisti!

Passata la collera, gli resta in corpo la stizza. Va presto su, nella
sua stanza per dormire. Lo ha preso la stanchezza delle due notti
passate in ferrovia e più ancora dell'aria diversa della montagna. Ma
prima di coricarsi, dà una lavata di testa sonora, al povero Prospero,
che lascia passare la burrasca senza fiatare e questa volta senza metter
muso, perchè riconosce il proprio torto.

— Dov'è quella bestiaccia maledetta?

— Lì.

Prospero indica una poltrona in fondo alla camera sulla quale c'è una
coperta e sulla coperta Teo, raggomitolato, ma che è stato attento,
senza parere, a tutta la grande sfuriata.

— Se lo fai un'altra volta! Se vieni in sala un'altra volta, stai
fresco! — E Gerardo, che ormai s'è sfogato, alza ancora la mano, ma
nell'atto, più che una minaccia, c'è adesso un invito... Teo non si
muove: gli occhi bassi, socchiusi, guardano da un'altra parte; invece di
Prospero è lui, questa volta, che tiene il muso al padrone.

— Bravo Teo! Hai più fierezza e più carattere di molti miei colleghi!

Gerardo, ridendo, si avvicina al povero Teo per accarezzarlo e far la
pace, ma a un tratto si ferma sospeso e sorpreso...

Dalla sala terrena della _Succursale_ di faccia — la sala dell'albergo
riservata al ballo, alla musica e alla conversazione — dopo i primi
accordi incerti del pianoforte, si è levata e sale nell'aria una bella
voce di soprano, limpida e squillante, un canto largo e pieno che
riempie tutta la strada e tutta la valle.

È una romanza del Massenet che ripete ad ogni ritornello in tutti i
toni, con tutte le cadenze, e con l'estasi più appassionata le parole:
_Je t'adoore!_...

— È la signorina! — borbotta Prospero vedendo il padrone come incantato.

— Quale signorina?

— Quella del Teo!

Non c'era dubbio: i due _oo_ del _t'adoore_, avevano la stessa
intonazione dei due _aa_ del «piccolo _caaro!_»

— È una signorina di famiglia molto nobile; ma vuol darsi al teatro lo
stesso, perchè non ha più nè padre, nè madre e ha pochi soldi.

— Come lo sai?... Chi te l'ha detto?

— La signora Clotilde.

— E chi è questa signora Clotilde?

— La cameriera della signorina. Siamo vicini di tavola. — La signorina è
una marchesa. Marchesa D'Albaro di Genova.

Gerardo fissa il servitore stupito.

... Oh bella! Quella mutria taciturna del signor Prospero che
all'Abetone diventa loquace e pettegolo!


IV.

L'onorevole Parvis non dormì bene quella prima notte; anzi, non dormì
affatto. Era troppo stanco e troppo agitato. E poi non era ancora
abituato all'aria, al clima, alla montagna alta.

Non potendo dormire, era rimasto tutta notte in preda al «Je t'adoore!»,
anche dopo che la marchesina D'Albaro, ricevuta una duplice salva di
applausi, si era ritirata con la sua istitutrice ed era andata a
dormire.

Il Parvis aveva sentito i complimenti che le erano stati fatti giù in
strada, i saluti e il ricambio della buona notte.

— Al teatro!... Sarebbe andata a finir male!

L'onorevole Parvis, che in vita sua era stato assai poco a teatro e che
non era forse mai salito sopra un palcoscenico, aveva tutti i pregiudizi
comuni a chi vede da lontano le quinte e i camerini.

— Sola e libera? Sul teatro!

Gerardo era contrariato e indispettito. L'onda di simpatia era svanita.
Egli, ad un tratto, provava quasi del risentimento contro la marchesina.
E lì, nel buio, dalla _Gilda_ alla _Tosca_, tutte le eroine delle poche
opere che ricordava, gli passavano innanzi nella loro posa più
provocante... ma tutte col viso, colla bocca e con gli occhi della
giovane e bella amica di Teo.

— Farà certo fortuna con quella sua bellezza! E anche con
quell'espressione che sa dare al _caaro_ e al «Je t'adoore!».

— Auf!... Non si può dormire all'Abetone!...

Era venuto per godere il fresco e invece soffriva un caldo, un'afa, che
gli mettevano la smania addosso!

— Che letto incomodo!... E quanta gente antipatica, odiosa!

Ma a lui che cosa importava della gente? Era venuto all'Abetone per
passeggiare e per riposare con la testa e con lo spirito. Avrebbe fatto
una vita assolutamente solitaria. Poi aveva tante cose da leggere e
tante lettere e tanti articoli da scrivere!

— Non voglio conoscere nessuno e non voglio parlare con nessuno. Lunghe
escursioni, faticare tanto da poter dormire e poi a tavolino!... E se
qui non mi sentirò sicuro, cambierò locanda... e se occorre, anche
paese!

La mattina dopo, si alza prestissimo, gira nel bosco per un paio d'ore e
poi, evitando la gente, ritorna all'albergo e sale in camera sua, dove
trova Teo che gli fa quattro salti e una corsa in giro, ma che torna
subito ad accucciolarsi, avvolgendosi in sè stesso sulla poltrona.

— Ha sonno! È stanco, povero piccolo!...

Gerardo non s'è accorto di chiamarlo piccolo, «povero piccolo» come l'ha
chiamato la signorina del cappellone.

— Povero piccolo!... Tu dormi ed io mi metto a lavorare.

Infatti, siede al tavolino e comincia il suo primo articolo al _Daily
Express_.

Ma quando si dorme male, non si può poi scrivere bene. È impossibile! —
L'onorevole Parvis quella mattina non è di lena.

... E il pianoforte della _Succursale_ che non tace mai!

— È un'ira di Dio!... È proprio la terra dei suoni e dei canti,
l'Abetone!

Ma non sono gli accordi della sera innanzi! Non sono gli accordi della
romanza di Massenet; non è il _Je t'adoore!_

Il Parvis resta per una buona mezz'ora assorto e pensoso... e la carta
che ha dinanzi, per quella mattina, rimane bianca e intatta.

— Andiamo, Teo! Andiamo a fare un'altra passeggiata! L'articolo al
_Daily Express_ lo scriveremo dopo colazione.

Si era di piena estate, eppure lassù si respirava un'aria fresca di
primavera! Il verde ancora tenue sotto il verde carico e cupo dei vecchi
abeti; nei prati le margherite e i _vergiss_, nelle rive ombrose fra il
murmure del rio e lo spionciare delle cingallegre, le violette e le
fragole. La primavera! La primavera!

Come consola gli occhi, come accarezza il viso e penetra nel sangue ed
anche nel cuore con un infinito e dolce benessere!

— Mi sento più giovane in montagna! — Andiamo Teo! Andiamo a fare una
bella passeggiata! Siam qui per riposare e non per lavorare! Ci
divertiremo, mangeremo di buon appetito e ci faremo buona compagnia!...
Noi soli, sempre soli!... E tu, bravo Teo, sta attento e fa la guardia!
Se vedi un seccatore da lontano, abbaia! E se ti viene vicino, ringhia e
mordi! Qui non sei costretto a portare la museruola; all'occorrenza
approfittane!

Teo, che ha ascoltato il lungo discorso, standosene attento con una
gamba davanti ripiegata e sospesa, con la testa inclinata da un lato,
alzando, allargando le orecchie, fissando, dilatando le pupille, fa un
atto di assenso con un piccolo starnuto e via come il vento, giù dalle
scale, guaiolando prima, non di dolore ma di gioia, e poi fuori
all'aperto, innalzando lui pure il suo inno alla primavera e alla
montagna con festevoli latrati che echeggiano risonanti nel silenzio
della valle!

Ma in quanto al non fare conoscenze, il signor Matteo è di tutt'altro
avviso e di tutt'altri gusti dell'onorevole Parvis! All'Abetone lui vuol
vivere nel bel mondo, giuocare con tutti, divertirsi con tutti! E
specialmente con le signore! Quando ne vede una in distanza si acquatta,
prima, allungandosi e poi prende la corsa saltandole addosso.

— Teo! Qui, Teo!

Il grande stradone fiancheggiato dagli abeti comincia a popolarsi. Dai
boschi spuntano le signore nelle bianche _toilettes_ mattinali,
circondate, seguìte dagli eleganti cavalieri. E Teo, ormai reso popolare
dalla scena del giorno innanzi con le due vecchie stizzose, riceve da
tutti saluti e carezze, che gli sono prodigate anche per ingraziarsi il
padrone.

— Teo! Qui!... Teo!

Teo si volta un momento con la testa, sbatte le orecchione ricadenti
come foglie di lattuga appassita, e poi di nuovo salti, giravolte,
cerimonie, di qua e di là, con tutti quelli che incontra, purchè sia
gente ben vestita.

A un certo punto, dove la strada si biforca nel bosco, l'occhio di
Gerardo si fa torbido, il viso accigliato:

— Teo! Qui! Teo!

Ha visto sbucare dal verde folto il grande cappellone a trine bianche e
a nastri rosa, seguìto dai due soliti giovinotti o giovinetti, vestiti
pure di chiaro, il berretto bigio, e con in mano le racchette e la
reticella, con le palle del _tennis_.

— Teo! Qui! Teo!

Ma che!... Teo si è già abbassato, allungato e all'invito di un —
_piccolo caaro! caaro! caaro!_ — si precipita incontro alla sua amica
del dì innanzi, le salta addosso, riesce a leccarle la faccia, poi,
sempre di corsa, torna indietro a far festa al padrone, e poi di nuovo
alla signorina, e poi di nuovo, al padrone, come per far capire all'una
e all'altro che ormai devono essere amici tutti e tre!

La bella marchesina saluta l'onorevole Parvis con un cenno grazioso e
signorile del capo: i due giovanotti o giovanetti si fermano a due passi
di distanza, diritti, come due aiutanti di campo, scoprendosi
rispettosamente.

Non c'è verso! L'onorevole deve salutare, deve fermarsi, deve parlare...

— È una grande seccatura questa mia bestiola! Si permette troppe
confidenze, e si prende troppe libertà!...

— È tanto _caaro_!

— Il mio servitore... È stata un'idea infelice del mio servitore, quella
di tirarselo dietro, fin quassù! Giù! Fermo! Bestiaccia sconveniente!

— Teo, una bestiaccia?! Oh, povero _piiccolo_!

Teo, con il petto giallo sporgente e le gambette anteriori puntate ad
arco, scrolla la testa e starnuta di nuovo con l'atto di dire anche lui
di no, che non è una bestiaccia.

— È carino, carino, carino! È un _tesooro_, lui; è un _amoore_! Soltanto
l'intelligenza che ha dimostrato ieri sera!

— Già, interloquisce uno dei due pallidi cavalieri. Quando voleva
mangiare il naso a miss Kean e a mrs Brand!

La marchesina ride, con tutti i suoi bei denti luccicanti e chinandosi e
tenendo Teo per le zampe gli scocca due bacioni sulla grossa testa di
raso.

— _Caaro! Caaro! Tesooro!_

Gerardo ha un barbaglio agli occhi e sente una scossa in tutto il corpo:
il barbaglio di quella bocca, di quei capelli.... Ha la scossa dei due
baci sonanti.

Si parla del tempo, del fresco, del buon odore di resina.

— Ritorna all'albergo, marchesina?

— Vicino all'albergo, al _tennis_. Facciamo due ore di _tennis_ tutti i
giorni, prima di colazione. Lei giuoca al _tennis_?

— Giuocavo!...

L'onorevole Parvis, guardando la marchesina, mette involontariamente un
sospiro, un rimpianto in quel verbo giuocare al tempo passato.

La marchesina è molto intelligente, coglie al volo la mesta intonazione.

— Adesso, non giuoca più?... È naturale! A Roma! La Camera! Tante
occupazioni! Tanto _lavooro_! Ma qui vorrà ben riposare un po'! Farà
qualche partita con noi? Accetta una sfida?

E si volge, senza aspettare risposta, ai due giovinotti rimasti fermi,
impalati e li chiama per presentarli:

— Se permette, Eccellenza....

— Non sono più un'Eccellenza!

— Come devo dire, allora?... Onorevole?... Se permette, onorevole, le
presento il conte Annibale e il conte Cesare Mattioli, miei cugini.

L'onorevole Parvis saluta l'uno e l'altro, con una stretta di mano, e
tutti insieme ritornano fin al campo del _tennis_, che è giù, basso, in
una conca verde, proprio sotto l'albergo.

L'onorevole cammina al fianco della marchesina D'Albaro, con Teo che gli
passa fra le gambe: Cesare e Annibale, che non hanno dei due grandi
conquistatori altro che il nome, rimangono dietro, sempre a due passi di
distanza.

La marchesina parla e fa ammirare il paesaggio: l'onorevole tace e
ammira la marchesina. — Come sa essere amabile e vivace, pur rimanendo
sempre... bambina! Non è civetteria, è schiettezza, è naturalezza
giovanile la sua!... Ha bandite — si vede — tutte le stupide formalità,
tutte le ipocrisie del suo ambiente, ma per altro, ne conserva tutta la
grazia signorile. È proprio «marchesina» fino alla punta dei capelli! —
Che capelli meravigliosi!... E che occhi! Neri, neri, nerissimi! Da
perdervi dentro, l'anima e il corpo!

— Teo, Teo! Finiamola!

Teo diventava troppo insopportabile!... Aveva visto da lontano le due
vecchie quacquere, e s'era messo a correre per saltar loro addosso!

— Teo, qui!

Teo si ferma sulle tre gambe: dall'aria birichina, lo si vede, non c'è
da fidarsi! La bella fanciulla, ridendo, lo piglia in braccio,
accarezzandolo e baciandolo di nuovo, finchè le due vecchie non sono
sparite.

— Caro, caro, _caaro_!

Gerardo ne è ormai più che persuaso: bisogna rinunziare, da quel
momento, ad ogni speranza di solitudine, ad ogni proposito di non voler
fare conoscenze. La signorina D'Albaro, prima ancora di arrivare al
_tennis_, è circondata da una frotta di villeggianti, che approfittano
dell'occasione per essere presentati all'onorevole. Molti, anzi,
dichiarano di averlo già visto, già conosciuto altre volte e citano
luoghi, date, particolari.

Di qualcuno, il Parvis si ricorda davvero: di un vecchio generale, fra
gli altri: il generale Bonferreri, messo da parecchi anni in posizione
ausiliaria dalla gotta e dai reumatismi.

Addio solitudine! Addio quiete! Addio pace!

Giunti vicino al _tennis_, la marchesina ripete l'invito: il Parvis
crolla il capo, ringraziandola con un inchino.

— Oggi no? Proprio no?... Ma domani?... Domani sì?... Promette?

— Giuocare al _tennis_? Io?... Ma io non sono più un giovanotto! Sono
vecchio, marchesina!

— Vecchio? _Leei!_

Quanti _e_, in quel _lei_! E tutti, uno più delizioso dell'altro!


— Bella ragazza! — esclama il generale Bonferreri, rimasto solo
coll'onorevole. L'onorevole lo guarda: il generale, lungo lungo, secco
secco, un po' dondolante sulle gambe malferme, ha i capelli e i grossi
baffi d'un bianco d'argento, che dànno risalto al rosso vivo della
faccia. Quell'ammirazione per la marchesina è tutta paterna. — Bella
ragazza... e buona! Le piace scherzare, divertirsi, ma non c'è nulla da
dire sul conto suo!

Il Parvis ha uno slancio di simpatia per il generale e lo piglia sotto
braccio... senza appoggiarsi troppo.

— Quando l'avete conosciuta, onorevole?

— Stamattina; un momento fa. È stato Teo a presentarmi.

— La signorina D'Albaro viene all'Abetone tutti gli anni. Conosce tutti!
Qui, è come un po' la padroncina di casa.

— Ed è... sola?

— La signora De Paolis, la sua antica governante o istitutrice, adesso è
la sua dama di compagnia. Bisogna sentirla cantare! Come canta! È una
Patti! Una Stoltz!

— La signora De Paolis?

— No, che! La marchesina Sofia! La faremo cantare! Sentirete!... Una
voce! Un talento! Straordinario! Ha intenzione di darsi al teatro e farà
bene.

— Farà male. Giovane, bella e sola.

— Non c'è pericolo! È una donnina piena di giudizio! Saprebbe tener
testa a un reggimento! Oh, sono molti anni che la conosco. E poi è d'un
carattere calmo, freddo, positivo. Sapete come la chiamo io, per farla
arrabbiare?... _Notte di gelo!_ E poi, per farla ridere, _la casta
diva!_

Così discorrendo, sono giunti, passo passo, fin sulla soglia
dell'albergo. L'onorevole Parvis, salutando il generale, gli stringe la
mano con grande e sentita effusione.

— Sono contento, contentissimo di avervi trovato quassù, caro generale!
Spero che ci vedremo spesso e ci faremo buona compagnia.

... Che mattina deliziosa! Che aria balsamica!

Il Parvis, messo di buon umore dall'aria e dal cielo, fa le scale
cantarellando. Appena in camera, chiude la finestra in faccia alla
_Succursale_, — vi entrava troppo sole, — e apre l'altra di fianco,
dalla quale si domina tutta la vallata e si vede, proprio, sotto, il
giuoco del _tennis_.

Egli rimane a lungo alla finestra, ma tenendosi nascosto dietro le
persiane.

— Che bel verde! Che bel cielo limpido! E che fragranza, che buon odore
di pino!

Teo, visto che il padrone non si occupa di lui, è sparito. È andato in
cerca di Prospero e della colazione.


V.

In due o tre giorni, Gerardo Parvis ha fatto conoscenza con tutti gli
abitanti di Boscolungo.

— Buona gente, in fondo; abbastanza simpatica!

Gli dimostrano molta deferenza, molta stima e molta ammirazione; tutte
cose che in faccia alla marchesina D'Albaro lusingano il suo amor
proprio e la sua vanità. Ma non fa il grand'uomo per ciò; non sta in
sussiego. È semplice, alla mano; è allegro e pieno di brio. Si diverte
sopratutto a punzecchiare, come fa il generale, la marchesina Sofia.

— Sofia!... Che bel nome!

Ha preso passione alla musica — proprio lui, l'onorevole Parvis, — che
non ne capisce niente! È vero, tuttavia, che Massenet non è Wagner... e
che si finisce sempre colla romanza del Massenet: _Je t'adoore!_

Questa romanza, adesso, la marchesina la canta soltanto per l'onorevole
e cantandola, lo guarda, lo fissa co' suoi occhi neri, neri,
nerissimi... _Je t'adoore!_

Finita la romanza, mentre il pubblico applaude, la marchesina si
avvicina all'onorevole Parvis e sorridendo con dolcezza, con soavità,
con bontà, gli domanda sempre:

— È contento, signor Parvis?

Il Parvis risponde:

— Sì, grazie... — e rimane incantato ed esitante, e studia e pensa per
ben capire il significato di quella bontà, di quella soavità...

— Giudizio, Gerardo mio! Giudizio! Potresti essere suo padre! Domani,
niente passeggiata! Scenderò soltanto a colazione e forse nemmeno a
colazione! Ho da lavorare; ho da rispondere a un mucchio di lettere.

E mantiene la parola data a sè stesso. Il giorno dopo, appena alzato, si
mette subito al lavoro. Teo, che vuol uscire, gli annaspa con le zampe
contro le gambe. Gerardo gli tira un po' le orecchie accarezzandolo e lo
manda a passeggiare con Prospero.

— Giudizio! Giudizio! Non bisogna perdere la testa! Posso essere suo
padre!

Se avesse una figliuola così bella e così buona, come le vorrebbe bene!
E se ci fosse ancora la povera Flaviana, come ne sarebbe gelosa!

— Povera Flaviana, non ci sei più, proprio più!

Lavora, lavora in fretta, e per un po' di tempo riesce a non pensare ad
altro. In un paio d'ore risponde a tutte le lettere e comincia a
scrivere al _Daily Express_, quando, a un tratto, sente bussare...

— Toc, toc, toc...

Si volta: è Teo, sulla soglia, che dimenando la coda, la batte contro
l'uscio.

— Toc, toc, toc...

— Teo!... vieni qui! Teo!

Ma Teo, accertatosi che il padrone è ancora lì, in camera, che non è
andato via, invece di entrare sparisce di nuovo, e dopo un momento lo si
sente abbaiare giù, dietro l'albergo.

Il Parvis va alla finestra:

— Eccolo là, il cappellone rosa!

La marchesina giuocava al _tennis_ e Teo, abbaiando, correva dietro alle
palle. La marchesina vede l'onorevole alla finestra:

— Basta! Non si lavora più! Venga giù! Venga a sgridare il suo Teo!...
Non ci lascia giuocare!

Gerardo scende di corsa e poi, quando la partita è finita e gli altri si
fermano a raccogliere le palle e le racchette, egli invita la marchesina
a fare «due passi» nel bosco, all'ombra, come raccomanda l'igiene. Teo
li segue, dando la caccia ai grilli e alle cavallette.

— Com'è accesa in volto! Com'è riscaldata!... Si stanca troppo!

— Non è vero! Mi sento così bene! — Ho forse brutta cera?

La marchesina lo guarda sorridendo; sa anche troppo di averla buonissima
la cera!

— Io ho diritto di farle la predica, signorina!

— Perchè... diritto?

— Perchè... potrei essere suo padre!

— Avrei un papà giovane e un bel papà!

— Le farebbe piacere... se io fossi suo padre?

— _Moolto!_

Quanta tenerezza e quanta grazia! La marchesina Sofia guarda fissa negli
occhi l'onorevole ed è lui questa volta, il forte parlamentare, che
abbassa i suoi.

Lì presso, c'è un piccolo muricciuolo.

— Mi siedo qui. Permette, signor papà?

— Si copra; se piglia freddo le farà male. Si metta la giacca.

— Obbedisco... papà!

Il Parvis resta in piedi e Teo si allunga annaspando contro la veste
della marchesina per farsi accarezzare.

— Mi dica proprio la verità, marchesina.

— La dico sempre la verità,

Gerardo esita, poi dopo un momento ripiglia con un leggero tremito nella
voce:

— Ha veramente l'intenzione di darsi al teatro?

La marchesina lo guarda un istante, poi abbassa a sua volta gli occhi e
ha un lampo di rossore che le corre fin sulla fronte.

— Risponda... Sia buona... Risponda...

— Adesso... non l'ho più.

Il cuore dell'onorevole batte violentemente.

— È molto tempo che non l'ha più?

La marchesina lo guarda... abbassa ancora gli occhi e risponde di «no»,
ma soltanto con un cenno del capo.

Rimangono tutti e due silenziosi, poi è lei, la prima a parlare:

— Che ora è?

— Le undici e mezzo.

— Bisogna ritornare, o facciamo troppo tardi per la colazione.

— Ritorniamo.

E di nuovo, per quasi tutta la strada, non parlano più nè l'uno, nè
l'altra: sembrano solo intenti a guardare Teo, che ha ripresa la sua
caccia facendo dei piccoli saltetti graziosi e comicissimi.

Gerardo Parvis pensa alle ultime parole, soprattutto a quell'ultimo _no_
della marchesina: questa, invece, deve avere tutt'altro in mente, perchè
giunta vicino all'albergo esclama con un sospiro:

— All'Abetone, però, c'è un grande inconveniente: la posta una volta
sola al giorno... e non arriva mai!


VI.

Il generale Bonferreri, che i veneti della colonia chiamavano «general
gambe de pano,» se appunto stava male in gambe, era altrettanto forte
anzi duro di testa. Di solito, non gli venivano in mente più di due idee
all'anno, una d'estate e l'altra d'inverno, ma poi l'idea gli restava
dentro fissa, come un chiodo nel muro, per tutta la stagione. In
quell'anno, a Boscolungo, l'idea estiva era il matrimonio dell'onorevole
Parvis con la marchesina D'Albaro: due bei nomi, uno vecchio e uno
nuovo, — per tutti i gusti, — e anche due belle persone. C'era,
evidentemente, molta simpatia, perchè si trovavano insieme spesso e
volentieri... — Lui sembrava appassionato per la musica, lei... per i
cani. — Dunque, un bel matrimonio!... Un bellissimo matrimonio!

Pensandoci sopra, queste nozze sarebbero state appunto convenientissime,
almeno per il generale, sotto tutti gli aspetti. Egli era un vecchio
amico della marchesina e all'Abetone avrebbe avuto campo di diventarlo
anche dell'onorevole. Lui pure, il generale, — perchè no! — si sarebbe
stabilito a Milano. Sarebbe andato in villa da Parvis a passare
l'autunno; poi in città, in casa Parvis, a pranzare la domenica... e
qualche altro giorno della settimana. A teatro, avrebbe avuto il
palchetto dei Parvis dove avrebbe fatto da cavaliere alla marchesa...
cioè a donna Sofia, quando l'onorevole sarebbe stato a Roma.

— Sì! sì! Il matrimonio è più che conveniente, è necessario!

Oramai «Gambe de pano» sente il bisogno di avere una famiglia... altrui.

Egli comincia col decantare e col far ammirare la ragazza all'onorevole,
come fosse «un puro sangue» di cui volesse proporre l'acquisto.

— Guardate, onorevole, che bella incollatura.

— Bellissima!

— Che portamento superbo!... E che _ginger_! Ma nello stesso tempo di
bocca gentile! Garantisco: parola d'onore! Niente morso, niente briglie!
Si lascia guidare con un filo di seta rosa!

Nella foga dell'entusiasmo, «Gambe de pano» sa trovare anche l'immagine
poetica; ma pure, non perde tempo in chiacchiere e viene subito e
diritto all'assalto.

Sono otto giorni, in punto, da che il Parvis è arrivato all'Abetone. È
appena finito il pranzo e passeggia su e giù col Bonferreri dinanzi alla
_Succursale_. La sera è dolce e tepida: una di quelle due tre sere
primaverili, che l'Agosto concede alla montagna. La luna immobile —
inonda l'etere — e dall'orizzonte pallido e luminoso la catena dei monti
e il profilo frastagliato della pineta sembrano avvicinarsi, sembrano
unirsi in un'intimità consapevole ed affettuosa.

Ma Gerardo non vede nè la luna d'argento, nè le stelle d'oro, nè il
cielo bianco, nè la terra nera. Sofia canta; egli non vede: ascolta. La
sua anima e i suoi sensi provano il fascino, il languore di tutti gli
_ooo_ del _Je t'adooore_!

— Onorevole, una buona idea.

Il Parvis ha una scossa.

— Voi, generale?... Sentiamo.

— Dovete prender moglie.

— Prendere moglie?

— Penso io a tutto!

— Grazie; troppo buono, generale. Trovatemi intanto la moglie, poi ne
discorreremo.

— Già trovata.

Il Parvis si ferma serio, inquieto.

— E... sarebbe?

— La... _casta diva_.

Gerardo aspettava il colpo e però risponde ancora più arrabbiato, con
un'alzata di spalle.

— Diventate matto!

Ma l'altro replica spiccando le sillabe:

— _La ca-sta di-va!_ Ed è davvero una creatura da far diventare matti!
Vorrei esser in voi per una cosa sola, garantisco: per sposarla io!

— Scherzate; avete voglia di scherzare!

— Che cosa c'è di strano? La ragazza vi piace. Non negatelo, _vi piace
molto_: si vede ad occhio nudo.

Il canto è cessato: vien gente in istrada.

— Parlate sottovoce!

— E voi... — Gerardo sente i baffoni bianchi ed ispidi del generale che
gli sfiorano l'orecchio: — e voi, piacete a lei.

— Basta! Cambiamo discorso!

— Vi guarda in un certo modo!... Quando voi la punzecchiate finge di
arrabbiarsi, ma le ridono gli occhi! E poi, volete una prova? In tanti
anni non è mai andata sola a passeggiare, con nessuno, e con voi sì.

— Due volte!

— Come ve ne ricordate! — Il generale molto soddisfatto di poter
cogliere in trappola un'Eccellenza, scoppia in una risata rumorosa.

Gerardo diventa ancora più serio, quasi torvo vuol mettere fine allo
scherzo.

— Se è venuta a passeggiare con me... lo poteva fare. Non sono più un
ragazzo. Potrei essere suo padre.

Il generale si scosta un attimo fissandolo attentamente con l'aria di
fare una stima.

— Quanti anni avete?

— Sono... dopo i quaranta, da un pezzo.

— L'uomo, fino a che non ne ha cinquanta, e molte volte anche dopo, ne
ha sempre quaranta.

— Sia pure; ma la signorina D'Albaro ne avrà venti, ventidue! Quanti ne
ha, generale?

— Ventidue che vanno per i ventitrè. È più vecchia lei, come ragazza, di
voi, come ex-ministro. L'età è relativa, secondo la condizione
dell'individuo. Mettete in capo a un uomo di quarant'anni un berretto da
capitano e avrete un vecchio obeso: metteteci quello coi distintivi di
colonnello e avrete un uomo fresco e vegeto.

— E allora voi, che siete... generale? — Il Parvis comincia quasi a
divertirsi agli aforismi dell'amico. Ma «Gambe de pano» risponde con un
doloroso sospiro:

— Vicino ai sessanta, si hanno sempre più anni, in realtà, di quelli che
si dimostrano!

A questo punto, quasi conferma dell'asserzione, il Bonferreri ha una
specie di traballamento. È Teo, il signor Teo, che gli è piombato
addosso improvvisamente, con tutto l'impeto.

— _Saper_... _lotte_! Fermo... Giù!

Ma Teo, invece di quietarsi, continua con le feste e con i salti
indiavolati.

Il generale rinuncerebbe assai volentieri a tante e così affettuose
espansioni. Le zampe del cane gli insudiciano le falde del soprabito
nero; un nero un po' lustro, che tradisce la pensione.

— Grazie, caro; grazie! Adesso basta! Basta complimenti!

Teo spicca un altro salto: gli strappa quasi un bottone della
sottoveste.

— Giù... E finiamola!

Alla voce minacciosa del padrone, Teo si acquatta, sbirciandolo di
soppiatto, mentre, per rabbonirlo, gli passa fra le gambe scodinzolando.

— Dove siete stato finora? — Prospero dov'è?

Teo gli esce di fra le gambe, allungandosi, strisciando, terra terra.

— Dove siete stato?

Teo si torce e si avvoltola rimanendo diritto, disteso sul dorso, con le
gambette corte, ripiegate.

— Rispondete! Si risponde! Dove siete stato?

Teo si raddrizza, si alza, squassa le orecchie, e allunga e spinge il
musetto contro il padrone: gli risponde come può, in tutti i modi,
sforzandosi quasi per trovare la parola che non ha.

Ma intanto ecco Prospero che sopraggiunge. Prospero minaccioso a sua
volta, e in atto d'accusatore. Teo corre di nuovo a mettersi vicino al
padrone e lo guarda.

— Perchè non lo tieni con te, questo cane?

Prospero mastica una mezza frase che non si capisce, poi conclude più
intelligibilmente:

— Cerca _Mimì_; scappa.

— Chi è questa _Mimì_?

Il vecchio resta muto un momento: si ode il leggero tintinnìo di una
piccola bubbolina. Teo rizza il muso, fissa gli occhi, gli si gonfiano
le orecchie.

— Eccola là!

Una bestiola bigia, arruffata, tonda tonda, mezzo cane e mezzo gatto,
con un grande collarone d'argento, esce in quel punto dall'albergo: per
un tratto di strada, fin che dura la luce dei lampioni, la si vede
camminare di sghembo su tre gambe, che sembrano due, dietro una vecchia
americana.

La brutta bestiola è _Mimì_: Teo la fissa, ritto, immobile, finchè può
vederla; poi quando sparisce nel buio, via come un lampo per raggiungere
_Mimì_.

— Teo! Teo! Teo! Qui Teo! — grida Prospero, mettendosi egli pure a
correre.

Si diffonde rapidamente la grande notizia: Teo è innamorato,
innamoratissimo di _Mimì_, arrivata quel giorno stesso da Cutigliano.

— _Caaro_ il suo Teo! Com'è facilmente infiammabile! _Caaro!_ — È la
marchesina che si affaccia ad un tratto sulla soglia della _succursale_.

È imbacuccata in un mantello rosso e sotto il riverbero del lampione
appare in un contrasto fantastico di luci e di ombre. Che bel diavoletto
con quei capelli neri, con quegli occhi neri, fiammeggianti! Più bello
di qualunque angelo biondo!

— Ancora non ha finito il suo sigaro?

Sofia, sorridendo, guarda il Parvis e lo fissa sicura: il Parvis,
invece, non può sostenere quello sguardo; è intimidito per il discorso
di poco prima del generale.

— Eravamo qui... intenti a sentirla cantare!

— Lo sapevo; e per farle piacere ho cantato la sua romanza!

La bella fanciulla risponde forte, persino un po' ardita.

L'onorevole ha la voce bassa e alterata.

— Venga con noi! Venga a giuocare! Miss Kean e Mrs Brand sono partite!
La sigaretta è permessa e, se vuole... anche il sigaro! Faremo
un'eccezione per lei! Ma venga a giuocare! Giuoco anch'io stasera,
perchè la _chouette_ è a scopo di beneficenza!

— Cioè?

— Si fa così: chi perde perde e la vincita è destinata al povero
burattinaio di Boscolungo. È il solito che viene quassù tutti gli anni.
Pensi, gli è appena morta la moglie. È rimasto solo con tre figliuoli.
Una ragazzina di dodici anni, con un visino pallido pallido, tanto
intelligente, e due bimbi piccini piccini, biondi _bioondi_, due
_amoori_ di _piiccoli_, due _tenerezze caare_...

L'onorevole attratto da tante vocali d'oro segue la marchesina nella
sala dove si giuoca, disposto a perdere tutto il suo patrimonio, se
occorre... e anche la testa per sopramercato. La marchesina è allegra e
felice: per amore del burattinaio, suo protetto, si fa un giuoco
d'inferno e Sua Eccellenza perde più di tutti e con grande piacere.
Sofia lo ha voluto accanto, al tavolino di giuoco, e gli ride proprio
sotto il naso, con quei denti bianchi, e con quella bocca da baci. Lo
guarda, lo fissa, e gli dice tante cose, col solo guardarlo: sono
risposte, osservazioni, arguzie, che si riferiscono a questo, o a
quello, alla parsimonia del generale, alla goffa prodigalità di Cesare e
di Annibale, gelosi l'uno dell'altro, e che, pare, cominciano ad esserlo
un po' tutti e due, di Sua Eccellenza.

Il Parvis è beato; si diverte a stuzzicare la marchesina, ma il frizzo
non punge e gli occhi rimangono incatenati.

Una volta, nel passarle il mazzo delle carte, irresistibilmente le
stringe la mano, ed ella risponde alla sua stretta guardandolo calma,
tranquilla.

Intanto, c'è chi fa la proposta di una rappresentazione del burattinaio
dinanzi all'albergo. La proposta è accolta con entusiasmo e subito Sofia
invita l'onorevole ad essere il suo compagno di questua.

Gerardo starebbe ancora più volontieri lì, accanto alla marchesina e
sarebbe completamente felice se lì, non ci fosse anche il generale. Ma
il buon vecchio è distratto, indifferente. Lanciata la bomba, «Gambe de
pano» spiega una straordinaria diplomazia.

E la marchesina?

Gerardo non capisce più niente: tanta amabilità, tanta confidenza, tanta
simpatia? E insieme tanta sicurezza?

Ingenuità o civetteria? Che cos'è? Cos'è? Ma che cos'è?... Fosse
vero?... Davvero una grande simpatia... per lui?

Quella stretta di mano in risposta alla sua?... Che cosa ha voluto
esprimere quella stretta di mano?

L'ex ministro, mentre è beato, lì, vicino a Sofia, mentre non darebbe
quel posto per nessun altro, neppure a capo del Ministero, si sfoga fra
sè in buoni proponimenti.

— Bisogna usare prudenza; bisogna lavorare, rimanere in camera tutto il
mattino, tutto il giorno, per non compromettersi, per non compromettere
la marchesina, per evitare le chiacchiere, i pettegolezzi, i commenti! —
Pensa persino di partire!

— Sì, se il generale torna da capo con quel discorso stupido, si fanno i
bauli e si parte! — Ma intanto che matura in mente così fieri propositi
non si accorge di dare importanza al più piccolo atto di Sofia, ad ogni
sua parola, ad ogni suo sguardo, a tutto di lei. Non vede che lei, non
sente che lei!

E quella stretta di mano?... Come, a poco a poco, diventa importante e
grave il piccolo episodietto!

La stretta di mano della sincera, della allegra fanciulla, diventa quasi
una promessa. — Oppure è una civetteria... Una grande civetteria!


Altro che riposare! altro che dormire! Egli era molto più tranquillo e
dormiva meglio a Roma, dopo le sedute più tempestose in Parlamento!

Anche quella notte rimase un pezzo alla finestra: l'afa era
insopportabile... e dalla sua finestra vedeva quella di Sofia.

La stanzetta era illuminata. A un tratto, pure Sofia venne alla
finestra.

Il cuore del Parvis battè con violenza.

— Veniva per lui?

No. La fanciulla lasciò la finestra aperta e si sedette a un tavolino. A
leggere o a scrivere?

— Scriveva?.... A chi scriveva?.... Di notte?.... Tutta notte?

Gli occhi di Gerardo diventarono serî, poi torvi...

A chi scrive? A chi continua a scrivere?...

Finalmente Sofia si alza, chiude la finestra, e dopo un momento anche il
lume si spegne.

Gerardo respira! Prova un senso di sollievo: chiude a sua volta la
finestra e si corica. Ma non vuol più restare in camera la mattina dopo,
a lavorare. Tutt'altro!

Ha la smania che sia giorno, per correre giù, in cerca della marchesina
e sapere, — scherzando, ridendo, punzecchiandola, — a chi ha scritto
così a lungo, durante la notte.


VII.

Il generale non disse più una parola a Gerardo Parvis intorno al suo
matrimonio; anzi cercava di nominare la marchesina il meno possibile
Pure stava attentissimo, osservava, spiava ogni più piccolo incidente ed
era molto soddisfatto del come procedevano le cose. Prima di colazione,
dopo il _tennis_, passeggiata igienica della marchesina
coll'onorevole... e dopo colazione, musica. Dopo pranzo, altra
passeggiata — tutti i giorni un po' più lunga, — o su, arrampicandosi in
mezzo al bosco, sotto i vecchi abeti del _viale Elena_, o giù per la
strada provinciale verso Fiumalbo; e la sera, di nuovo musica. Al «Je
t'adoore» adesso, si erano aggiunti: _l'adieu de l'hôtesse Arabe_ e la
_serenade Espagnole_, e l'onorevole, che sedeva accanto a lei al
pianoforte, cominciava a capire la musica tanto da saper voltare le
pagine al momento giusto.

E Teo?... Sicuro, anche Teo faceva la sua parte! Come il leardo
pomellato della Tavola rotonda, girava attorno per Boscolungo con i
colori della bella: un nastro rosa, — uguale ai nastri del cappellone, —
con un magnifico fiocco e i bubbolini d'argento: il tutto ricamato e
regalato dalla _casta diva_.

«Gambe de pano» gongolava! Soltanto quando sentiva i sonaglini si
oscurava in viso:

— Maledetto cane e maledetti bubboli!... Frastornano la testa!

E tornava per la millesima volta a esaminare, a studiare e a fregare col
dito, come per farlo sparire, un ricordo dei dentini di Teo, che era
rimasto indelebile in fondo alla falda del soprabito, con la forma di un
piccolo sette.

Intanto ferve il lavoro per la rappresentazione dei burattini: e
all'Abetone non si parla d'altro. È stata scelta la commedia
_Stenterello cuoco e generale in capo alla corte della bella Ircana_.
Tutto il mondo aristocratico è affaccendato in preparativi; Cesare e
Achille, pittori dilettanti, dipingono gli scenarî e gli avvisi
illustrati, la marchesina prepara una nuova _toilette_ sfolgorante per
la bella Ircana, e per le damigelle d'onore. Sua Eccellenza loda il
talento artistico dei rivali suoi, oramai pienamente sconfitti ed anche
rassegnati, e ammira la grazia, la bravura e più di tutto le manine
della marchesina. Due mani bianche e morbide, lunghe, sottili, con le
unghiette lucenti come il cristallo.

— Che bella mano, la sua! Con l'espressione del carattere e
dell'intelligenza!

— _Oooh!_... Ma che cosa dice, signor Parvis!... Un'espressione
intelligente, le mani? Le mani non hanno occhi, e l'intelligenza è
espressa dagli occhi!

— Sì, appunto! Queste sue manine hanno bene gli occhi: due occhiettini
furbissimi.

— Dove sono?

— Lì, guardi lì! — Le indica le due fossettine della mano. — Eccoli lì,
e come ridono!

Sofia si diverte guardando la mano, alzandola, allungandola, facendo
sparire le fossette, o facendole riapparire più fonde.

— Ridere? Di che cosa dovrebbero ridere?

— Di me. — Il Parvis si corregge subito. — Del papà!

— Perchè?

— Non so...

— Perchè è un papà troppo giovane? Poi... sarebbe forse un papà troppo
indulgente!

E si finisce sempre che il papà bacia la manina che la figliuola gli
offre scherzando.

Il giorno della rappresentazione, — la rappresentazione deve aver
principio alle ore due, in punto, — è l'onorevole che sceglie il posto
più adatto nel bosco dietro l'albergo, e che presiede all'impianto del
teatro e alla divisione dei posti di platea. Nella prima fila i bambini,
nella seconda le signore, in fondo gli uomini.

E Teo?... Il signor Matteo, dove lo si mette? Fra i piccini o fra gli
uomini grandi? E se non starà fermo?... Se abbaierà? Teo avrebbe certo
messo in pericolo il buon successo della rappresentazione. Era già
colpevole di un grave reato: mentre si stava innalzando la baracca,
aveva rubato il sire di Trebisonda, padre d'Ircana; era fuggito,
scappato a nascondersi in un cespuglio e gli aveva strappato la corona,
la barba e divorato il naso!... A tanto strazio, figurarsi il dolore e
gli strilli di tutti i bimbi che riempivano il bosco e lo animavano con
le loro vocine e lo picchiettavano di bianco e di rosso con i loro
vestitini; angeli ed uccelletti insieme.

Il generale, energicamente, propone di chiudere Teo nella rimessa
dell'albergo: Prospero si offre di condurlo a passeggiare finchè dura la
recita; ma Sofia legge fra le rughe del faccione ingenuo e buono il
rammarico di perdere il trattenimento e allora dichiara senz'altro che
Teo resterà con lei, sopra una seggiola accanto a lei!

— Sarai buono? Prometti che sarai buono, buono, _buooono_?

Il generale scrolla il capo, borbotta che è un capriccio, una pazzia, ma
Teo, invece, che è stato attento al dibattito dimenando la coda,
risponde di sì, che sarà buono, con uno starnuto ed un saltetto di
gioia.

E infatti per tutto il tempo che dura la commedia, Teo rimane immobile,
sulla seggiola accanto alla marchesina, intento alla baracca e ai
burattini.

Quando Stenterello, con il manico della scopa, bastona gli sguatteri che
non fanno il loro dovere, sollevando l'entusiasmo dei bambini, Teo con
gli occhi fissi, allunga il muso, odorando col nasetto lustro e umido
verso la baracca, ma non abbaia nemmeno allo sparo dei petardi che
annunziano l'ingresso solenne di Stenterello, creato generalissimo, alla
corte della bella Ircana; spari indiavolati, che portano lo spavento e
lo scompiglio fra le testine rotonde e ricciolute della prima fila.

Furono trecentocinquantatrè lire d'incasso che il Parvis fece diventare
cinquecento. Una vera ricchezza!

La marchesina Sofia ripone la somma in una busta, mentre il generale
parla di interessi, di libretti, di cassa di risparmio.

— No, no! Bisogna portar subito il danaro alla povera piccina pallida,
dagli occhi tanto buoni e tanto intelligenti! _Caara!_.... _Tesooro!_


Il burattinaio e la sua famigliuola — la figliuoletta e i due bambini —
due poveri esseri mezzo rachitici, con un enorme testone, sudici e
mocciosi, abitavano nel loro _carro-omnibus_, o meglio, nella loro casa
di legno, ambulante.

Quando l'onorevole e la marchesina giunsero al largo erboso, dietro gli
alberi, alla fine dell'abitato, ove il burattinaio aveva piantate le
tende, dal breve fumaiolo di lamiera che sovrastava al tetto del carro
usciva un pennacchietto di fumo azzurrognolo; ma tosto non lo si
distingueva più; svaniva sul fondo del cielo, reso di un azzurro
languido, nella grande luce ultima, prima del tramonto.

La fanciulletta pallida dagli occhi intelligenti accoccolata presso
l'usciolino del carro-omnibus faceva cuocere un po' di cena in un
vecchio tegame sopra un fornelletto di ghisa; e le cipolle, friggendo,
mandavano intorno certe zaffate grasse, di stantio, che sembravano più
acri e più nauseanti fra i miti profumi dei prati in fiore e la
fragranza della vicina pineta.

Il burattinaio era seduto sopra un muricciuolo, masticando tabacco per
ingannare l'appetito, e sembrava assorto nel rabberciare il cranio nero
di un Matamoro, sul quale la spatola di Arlecchino aveva picchiato
troppo forte per ordine di Stenterello. Il capocomico vagabondo delle
teste di legno, quando era nascosto nella sua baracca e stava infondendo
una parolina di vita ne' suoi fantocci, poteva essere immaginato
un uomo simpatico, allegro ed anche geniale. Ma lì, visto in
quell'atteggiamento, alla luce del giorno, appariva soltanto quello che
era in realtà: un villano, tra lo scaltro e l'assonnato; un mezzo bruto
dal viso gonfio e livido e dallo sguardo spento dall'acquavite.

All'estremità di una delle stanghe del carro, legato con un cencio di
corda, stava il vecchio asino del burattinaio, magro, spellato,
malinconioso, sintesi moribonda, o quasi, di tutte le tristezze e di
tutti gli stenti, le fatiche, i patimenti raccolti intorno a quel povero
disgraziato che portava attorno la commedia della fame e della miseria.

Quando Teo vide la brutta bestiaccia, non ne riconobbe subito la razza,
si fermò sospettoso, fiutando alla lontana, non arrischiando di
avvicinarsi... e l'asino, a sua volta, chinò il testone canuto verso
l'aristocratico Teo, così lustro, così elegante, col bel nastro rosa dal
largo fiocco, il dono di Sofia. Fiutava anche il ciuco per riconoscere
Teo, ma più che fiuto, il suo pareva sospiro: un sospiro che usciva
dalla povera e martoriata carcassa, tatuata di piaghe e di guidaleschi.

Sofia ebbe una stretta al cuore, alla vista di quegli infelici, — la
ragazzina, i due bimbi ed anche la bestia: — ma volle vedere dentro
nella baracca. Dal vano aperto, un raggio di sole basso, entrava diritto
nell'interno del carro... Quali tristi segreti fra quelle pareti tarlate
e sconnesse! Là dentro si faceva da mangiare e si dormiva in quattro. Si
accumulavano i cenci, i burattini, le scene, gli avanzi dei magri pasti,
il bottino dei furtarelli campestri del burattinaio ed anche dei due
marmocchi mocciosi. Sopra mensole sostenute da funicelle, vecchi libri
slabbrati — il repertorio per le grandi rappresentazioni — misti a mazzi
di rape e di carote, a pezzi di pane raffermo e di cacio ammuffito: e
bottiglie dal collo rotto, contenenti liquidi sospetti, e vasi d'ogni
forma e povere salme di burattini mutilati, decapitati, sventrati...
Alle pareti, immagini sacre, il ritratto di Garibaldi, canzoni popolari
illustrate: un vecchio schioppo arrugginito, con una carniera vicina,
rigonfia ormai chi sa di che cosa e in un angolo un vasetto di garofani
che protendeva fuori dal finestrino un bel ramo carico di bottoni con
qualche fiore sbocciato, aperto, come sitibondo d'aria e di luce! Il
garofano era il giardino della fanciulletta pallida dagli occhi tanto
intelligenti, come suo doveva essere il giaciglio dall'altro canto, meno
sudicio, meno scomposto di quello dei bimbi...

Il burattinaio dormiva certo più in fondo, laggiù sopra quel mucchio di
vecchi panni, di pacchi, di stuoie. Non si vedeva bene; il sole...
nemmeno il sole voleva entrare fin là!

Sembrava che in quei pochi metri di spazio, una lunga vita randagia
avesse accumulato tutte le reliquie della pitoccheria incontrata su
tutte le strade, in ogni paese, in ogni costa e si ostinasse a
mettervene ancora, ogni giorno di più, senza rimuovere nulla, senza
nulla rinnovare, in una specie di ostinazione incosciente, di
compiacimento infingardo.

La fanciulletta dagli occhi intelligenti capiva tutta la bruttezza,
l'orrore di quel suo antro ambulante?

Chi sa?... Quel fiore, quel garofano, messo lì, certamente da lei,
vicino alla finestretta, non era forse un rimpianto, un desiderio, un
anelito verso qualche cosa di bello, di gentile?

Anche l'onorevole Parvis era rimasto colpito da quel triste spettacolo.
Egli ricordava le grandi e tempestose discussioni della Camera, la
facondia, gli strepiti dei socialisti... A quella piccola gente lì, chi
mai ci pensava? Non aveva «Camera del lavoro» non aveva «Società
umanitaria!»

Oh, prima che penetrasse fin dentro a quella baracca il beneficio degli
_sgravi_!

Come tutti gli uomini del Parlamento, anche i più avanzati, anche i più
scalmanati erano lontani col loro pensiero, col loro cuore e con le loro
chiacchiere, da tutta quella miseria materiale e morale!

Invece Sofia... Sofia sì. Pur così delicata e squisita nella vita e nei
gusti, lei, un vero fiore fra la seta e i merletti, lei circonfusa di
grazia, di soavità e di profumo, lei non mostrava nè ripugnanza, nè
ribrezzo: non era e non appariva altro che profondamente commossa da una
viva, da una grande pietà.

Uno dei due bimbi ha un ditino malconcio: Sofia si fa portare
dell'acqua, lo lava delicatamente, lo copre col taffetà che ha sempre
con sè. E nel consegnare il danaro alla sorellina maggiore, rimasta
sbalordita, trasognata, incapace di dire una parola, le fa
raccomandazioni e le dà consigli... Sofia sente che la sua presenza, lì,
fa del bene, e non se ne andrebbe mai.

Tutto ciò che vi è di brutto e di immondo in quella grande miseria non
l'ha offesa: ella non ne sente che le sofferenze e le lacrime.

— Quanti dolori, non è vero? — dice Sofia al Parvis, mentre riprendono
il sentiero del bosco ritornando verso la locanda. — Quanti dolori, che
nessuno vede, ai quali nessuno può provvedere!

— E questa gente non si agita e non impreca, non fa comizî, nè scioperi.
E tutti, tutti noi, abbiamo la colpa di lasciar vivere e crepare tanta
gente, tanti uomini, come bestie!

— Quei due piccini, poveretti...

— Erano brutti, assai!

— Non lo dica! I bambini non sono mai brutti! Sono disgraziati,
sofferenti, ammalati, ma non sono mai brutti!

— Ama molto, lei, i bambini?

— Sì.

— Le piacciono molto?

— Tanto, tanto!

— E se... — il Parvis si fa forte e le domanda sorridendo: — E quando
avrà un bambino suo?

La fanciulla diventa rossa; una fiamma. China gli occhi, un istante, ma
poi li rialza raggianti, con una luminosità piena di dolcezza e di
lacrime:

— Non è forse il perchè di tutto, nella nostra vita?

Gerardo la guarda: ella sospira e per un lungo tratto di strada rimane
raccolta, tutta in sè stessa e pensierosa.

Il Parvis che le cammina accanto passo passo sente l'odore acuto della
massa folta, confusa, ondulata dei capelli neri. Egli guarda, continua a
guardare e sospira. Sono così neri, quei capelli, così neri e lucenti
che abbruniscono la bella nuca rotonda e forte sotto il grande
cappellone tutto bianco e tutto rosa.

E intanto, guardando e sospirando, i suoi propositi di saviezza, i suoi
disegni di prudenza svaniscono tutti insieme, rapidamente.

Sì; il generale Bonferreri aveva colpito giusto. Sì; gli piaceva molto
quella bella, quella giovane creatura così giovine e così bella! Ma
voleva star a vedere qualche mese, voleva aspettare ancora, allontanarsi
per qualche tempo... Voleva mettere alla prova sè stesso, il proprio
cuore, la propria passione. Sì, questo bisognava fare: allontanarsi da
lei a qualunque costo! Scrivere a Genova, andare a Genova, sapere,
informarsi... — Ma intanto guarda, continua a guardare e a sospirare.
No, no; non è nera, è bianchissima la bella nuca rotonda e forte; è la
radice dei capelli folti, è la lanurie dei capelli più fini, che la
rendono bruna...

Bisogna informarsi, bisogna sapere, prima, tante cose! Bisogna scrivere,
bisogna andare a Genova. Genova! Genova!... Come in quell'istante la
vede bella, Genova, in faccia al mare, piena di luce, piena di sole!

Che cosa ne sa lui, della marchesina D'Albaro?

— Ciò che gli ha detto il generale; nient'altro. Il generale, del resto,
è un bravo uomo, un perfetto galantuomo... Egli poi, il Parvis, è
riuscito anche a sapere, finalmente, ciò che più gli preme, — a chi la
marchesina scrive tanto sovente e così a lungo; e adesso egli sa,
finalmente, perchè aspetta con tanta ansia l'ora della posta e perchè
ripete sempre, a ogni momento, che non si può vivere all'Abetone con la
posta una sola volta al giorno! — La marchesina scrive alle sue amiche!
Aspetta lettere e cartoline dalle sue amiche. — Ne ha molte, sparse in
tutta Italia, ma sono tre, le più care; due di Genova e una di Torino:
l'Ippolita, la Felicina e la _Poupette_.

— Com'è buona! Come vuol bene alle sue amiche!... Buona, sincera!
Sopratutto sincera. Che bella cosa la sincerità!

Perchè aspettare ancora a parlare, ad aprirle il cuore? — Per
informarsi, per sapere... — Sapere che cosa? informarsi di che cosa? Non
lo sa che è buona, affettuosa, tenera, non lo vede che è bella, com'è
bella — tanto, tanto, troppo...

— Cara... figliuola.

Sofia si ferma e lo guarda interrogandolo con gli occhi ridenti:

— Signor... papà?

Gerardo ha un tremito negli occhi, e gli trema leggermente anche la
voce:

— Papà?... Risponda, marchesina. — Papà? Proprio... sempre... soltanto
papà?

La fanciulla ha un sussulto e il suo viso si trasforma mentre si
allontana d'un passo, istintivamente:

— Teo?... Dov'è Teo?... Dov'è andato Teo?

— Che importa adesso, di Teo?

— È rimasto indietro! S'è perduto! Non c'è più! — E Sofia chiama forte,
con tutta la sua bella voce: — Teo! Teo! Teo!

Il Parvis fa un passo, la raggiunge e le afferra una mano.

— Risponda! Deve rispondere!

— Ma... Teo!

— È corso avanti! L'ho visto io! È a casa!... Non si tratta di Teo; mi
guardi; si tratta di me, — di un uomo, — della felicità, dell'avvenire,
della vita di un uomo!... Ma non capisce?... Non ha capito? — Il Parvis
cerca di afferrarle anche l'altra mano e fa per portarsele tutt'e due
alla bocca: — Non ha ancora capito?

Sofia si ritrae come spaventata, scioglie le mani da quella stretta e
fissa il Parvis muta, con una grande espressione di maraviglia dolorosa.

A Gerardo si oscura la vista: sente la terra che gli manca sotto i
piedi.

— Ha capito e... e mi risponde di no?... È un _no_?

Sofia, più che attonita, è come atterrita: fissa quel volto pallido,
contraffatto dall'ansia, dall'angoscia, dal dolore... Poi è lei stessa
che gli afferra una mano e gliela stringe con forza, con tutta la forza,
mentre le lacrime le corrono agli occhi.

— Amico! Amico! Oh povero amico mio!

Il Parvis sente in queste parole, in questo dolore della buona
fanciulla, che la sua condanna è inesorabile. Aspetta un istante, poi le
domanda, con un'altra voce, una voce stranamente mutata, ma ferma e
sicura:

— Nemmeno col tempo? Nessuna speranza?

Ella rimane a capo chino.

— Risponda: mai, nessuna speranza?... Mi risponda.

Sofia alza il capo lentamente e lo guarda: ha una grande, una profonda
pietà negli occhi dolcissimi. Vorrebbe parlare, non sa, non ne ha il
coraggio. Allora leva dalla tasca della giacchettina un telegramma
arrotolato, e glielo dà.

— Legga.

Il Parvis la fissa; guarda il telegramma come per indovinare, poi apre e
legge:

  «Mamma contentissima — parlerà lei babbo — sono felice.

                                                  _Andrea._

Tutto si ferma, per un istante: anche i due cuori non battono in
quell'istante...

— A lei. — Il Parvis le ritorna il telegramma: un sorriso cattivo gli
increspa le labbra. — Sia tutto come non detto. E, soltanto, mi usi la
finezza di dimenticare le mie stupide parole.

Il bosco, folto in quel punto, dopo un breve tratto, diradandosi, si
apre sulla strada maestra. Sofia si arresta per poter discorrere, lì,
senza essere veduti.

— Signor Parvis, si fermi! Ascolti, ho anche io da parlarle! Lei non mi
deve disprezzare, non mi deve giudicar male, e non mi deve odiare!
Soffrirei troppo: voglio sempre essere stimata da lei! Con Andrea — con
mio cugino — ci siamo fidanzati da due anni. E da un anno e mezzo non lo
vedo! È in marina: ufficiale. È stato in Cina: è tornato soltanto da
pochi giorni.

— Io non ho il diritto di chiederle niente; non ho diritto di saper
niente!

— Sì, invece; tutto! Deve saper tutto! Voglio spiegarle tutto! Mi ha
dato un grande dolore, sa, e lo merito! Lo merito, perchè senza saperlo,
creda, senza saperlo, sono stata leggera con lei! Ho sbagliato; l'ho
ingannato!

— No... No!

— Sì, mi lasci dire! L'ho ingannato, e ingannato me stessa
nell'interpretare la mia simpatia per lei. Mi lasci dire! Mi lasci dire,
mi ascolti! Non ci vedremo più, ma io voglio dirle tutto, tutto. tutto!
Il sentimento, la simpatia, lo chiami come vuole, ciò che io sento per
lei, è vero, è sincero, è forte! Sapesse... è proprio così. Io le voglio
bene. Un bene fatto di stima, di fiducia, di confidenza! Era così bella,
così buona la nostra amicizia e mi addolora tanto di doverla perdere! —
Ho sbagliato, ci siamo ingannati.

— No...

— Io, io! Mi sono ingannata! Peccato! Lei scherzava quando mi chiamava
«cara figliuola», io invece credevo, mi ero illusa! Fosse proprio così,
proprio, come una figliuola! Lei scherzava ed io ho avuto torto di non
capire, di aver preso il suo scherzo sul serio! Ridevo e scherzavo
anch'io quando le dicevo «signor papà»; ma pure, nel dirlo, sentivo in
me una grande tenerezza e un grande rimpianto! Pensi, io non l'ho
conosciuto il mio povero babbo, e ho conosciuta appena la mia povera
mamma! È un vuoto grande, sa, nella vita, non avere il papà, non avere
la sua mamma! È un vuoto che nemmeno l'amore non riesce a colmare! Ho
sbagliato! Non dovevo scherzare con lei, come ho scherzato! Ma... avrei
mai potuto pensare, immaginare che lei, proprio lei, un uomo di tanto
merito e di tanto spirito, un uomo così grande, — ne parlavano tutti con
tanto rispetto, con tanta ammirazione, quando doveva arrivare quassù!...
— avrei potuto mai immaginare che ella prendesse così sul serio una
ragazza, come me, una ragazza frivola, che non sa niente, che non
saprebbe fare un discorso con un po' di giudizio... Io credevo che lei
si divertisse a star con me, appunto, perchè con me non aveva da pensare
a niente! Così... un po'... come con Teo!

Gerardo scrolla il capo, vuole interromperla.

— Mi lasci dire! Mi lasci dir tutto! Poi, a poco a poco, senza
accorgermene, lo scherzo per me diventava realtà... o idealità, come
vuole! Lei è tanto buono, tanto diverso degli altri, tanto superiore
agli altri. Dice così giuste cose che colpiscono e fanno pensare!... E
io ho sognato, ho sperato... Se davvero, col tempo, diventasse proprio
un amico, un buon amico, se diventasse davvero... un po' il mio papà?
L'amico _nostro_, buono! — Sofia si corregge subito — l'amico _mio_, che
mi avrebbe guidata, consigliata, confortata. Sì, confortata, perchè la
vita non è mai senza lacrime, anche quando si crede di poter essere
felici! E in cambio, di questa sua amicizia, di questo suo affetto, io
sentivo e sento, che avrei potuto darle lealmente, e apertamente, una
parte così buona della mia anima, della mia tenerezza! Non è possibile!
Non è più possibile! Lo capisco! Lo sento! Per questo non ci vedremo
più, non ci parleremo più! Ecco, le ho detto tutto! Adesso... addio! Ma
pure... questo mio sentimento, questo mio grande rimpianto lo proverò
sempre, sempre! — Io adesso torno indietro; è meglio che non ci vedano
insieme; e poi devo avere la faccia stravolta... — Si ricordi sa,
così... come le ho detto, un gran bene! Sempre, sempre! Per tutta la
vita.

Sofia si volta a un tratto con la voce rotta da un singhiozzo e si
allontana rapidamente, quasi correndo: il grande cappellone tutto bianco
e tutto rosa, si perde, e sparisce nel buio, fra i tronchi vecchi e
diritti, in fondo al lungo viale.

Il Parvis ritorna verso l'albergo, camminando in fretta, a capo chino,
senza vedere nessuno, senza salutar nessuno.

— La posta, Eccellenza.

È il portiere che gli presenta il solito fascio di lettere, di giornali
e di libri.

Il Parvis lo prende macchinalmente e straccia la busta della prima
lettera, senza nemmeno guardarla.

— Il mio servitore dov'è?

— Era qui adesso.

— Fatelo chiamare, subito. E il mio conto, subito. E una carrozza.

Il portiere fa un atto di meraviglia:

— Parte, Eccellenza?

— Sì.

— Prende il diretto per Roma o per Milano?

— Per Roma.

— Vorrà pranzare, prima. Le ordino il pranzo?

— No. Pranzerò a San Marcello o a Pracchia.

Gerardo parla spedito, con la voce sicura, con tono risoluto. La sua
faccia è la solita, di tutti gli altri giorni. Soltanto ha le labbra
pallide, stirate e in mezzo alla fronte è apparsa una piccola ruga: una
ruga diritta, dura e fonda, che non c'era prima.

Fa le scale tranquillamente, ma poi entrato in camera richiude l'uscio
con un impeto di collera. Rapidamente, quasi macchinalmente, prende la
piccola valigia a mano e la riempie di lettere, di carte, di libri: vi
caccia dentro la scatola delle sigarette, i danari, le spazzole, il
berretto da viaggio, l'orario. — E il portafogli? Dov'è? — Non ricorda
se lo ha messo nella valigia... Lo cerca con la mano.

— Eccolo.

— Ma invece del portafogli è l'astuccio di pelle con il ritratto di
Flaviana.

Lo guarda, ma senza commuoversi: freddamente.

— Sei vendicata! Come sei vendicata!

Ripone il ritratto e non pensa più al portafogli, continuando invece a
cacciar roba nella valigia, tutta la roba che gli capita sotto le mani.

A un tratto si riscuote, trasalisce: qualche cosa di fresco, di umido è
passato sopra la sua faccia; è il nasino nero di Teo; è Teo che è
saltato sul tavolo.

— Via! Va via!

Lo caccia giù dal tavolo, d'un colpo, ma Teo ritorna all'assalto, gli
corre fra le gambe, lo fa inciampare!

— Maledetta bestia!

Gli dà un altro colpo così forte, che lo fa rotolare sul pavimento.

Teo non guaisce, corre a nascondersi sotto il canapè.

— Comanda?...

È la voce di Prospero, entrato dietro a Teo, ma che il Parvis non ha
veduto.

— È un'ora che aspetto, vivaddio! Mai al tuo posto! Mai!

Prospero non risponde: la sua faccia rasata, scura, sembra diventata di
bronzo.

— Il mio baule, la mia roba subito. Soltanto la mia. Tu partirai domani,
per Milano.

E non dice più una parola. Rimane immobile, muto, diritto, le braccia
dietro il dorso, fissando il baule che Prospero riempie lentamente.

Soltanto, quando sta per salire in carrozza, non può trattenere un
impeto, un moto di stizza.

È il generale che lo chiama, che lo ferma. Il generale, gli occhi
sbarrati, i baffi irti, la bocca aperta, è tutto un punto
d'interrogazione.

— Ritornate presto, onorevole?

— No. Non torno più.

— Come?... Non tornate più?

— Ho ricevuto un telegramma: sono chiamato a Roma d'urgenza. Affari
importantissimi. Buona permanenza, generale, e sempre in buona salute!

— Ma...

La carrozza parte. «Gambe de pano» rimane fermo, in mezzo alla strada,
seguendone, con l'occhio stupito, la rapida discesa.

Prospero, sempre con la faccia scura, annuvolata, ritorna subito in
camera del padrone, appena questi è partito, e si china ginocchioni,
guardando sotto il sofà.

— Teo! Vieni qui! Teo! — Niente: Teo non risponde, non si muove. — Teo!
Vieni qui! Teo!

Dopo un momento, Teo, quatto quatto, esce di sotto il canapè, le
orecchie basse, la coda nascosta fra le zampe: si avvicina a Prospero,
gli odora la faccia, poi corre di nuovo ad accucciarsi nel suo
nascondiglio.

Prospero scrolla il capo e se ne va chiudendo l'uscio. Prima di sera,
ritorna con la zuppa di pane e di carne.

— La pappa, Teo!... Buona la pappa!

Teo riappare, odora il piatto, ma gli dà contro con il muso,
rifiutandolo, e di nuovo si rifugia sotto il canapè.

— Teo!... Teo!... Povero Teo!


VIII.

Com'era vertiginosa quella discesa! Il Parvis era preso da un senso di
sconforto, di oppressione, di tedio.

Quando si trovò di nuovo, improvvisamente, alla stazione di Pracchia,
senza mai aver detto una sillaba al vetturino, gli parve di essersi
destato da un sogno. Il solito rumore, il solito frastuono, il solito
caldo, la solita polvere, il sudiciume, i saluti ossequiosi del
capo-stazione, degli impiegati: il correre affaccendato dei facchini.

Come ormai erano già lontani l'Abetone, il bosco, il viale Elena! Quanto
tempo era passato... un'ora sola!

Rincantucciato nell'angolo del suo scompartimento, non si muove più. Non
scrive, non legge, non apre, non tocca nemmeno la valigia.

A Civitavecchia, il conduttore spalanca lo sportello:

— Desidera i giornali del mattino, Eccellenza?

— No.

Il Parvis, sempre immobile, sempre rincantucciato, richiude le palpebre,
ma non può chiudere gli occhi. Il treno corre velocemente lungo la bigia
e desolata campagna romana, così brulla ed arida, qua e là disseminata
di ruderi, di avanzi, e di castelli diroccati: un grande cimitero di cui
il vento secolare ha portato via i cippi, le statue e le croci. Ma
Gerardo non vede che boschi e prati... uno spazio infinito di verde, e
in fondo in fondo e poi vicino, più vicino... il cappellone... il grande
cappellone tutto bianco e tutto rosa!

Lei, sempre lei, lei!... _Amoore!_ _Tesooro!_ _Je t'adoore!_...

— Sarà sempre così? Dovrò vederla sempre, così? Non potrò mai chiudere
gli occhi della memoria, gli occhi dell'anima, e non vederla più, e
ritornare calmo, tranquillo, felice?... — Oh Flaviana, povera la mia
Flaviana cara, amata, adorata! Tu sì, tu sì, che mi volevi bene!

A Roma, l'onorevole Parvis grida con tutti, strapazza tutti: appena
sceso all'albergo per le camere; poi al ristorante per la colazione, poi
da Aragno per un articolo della _Tribuna_. Il Governo ormai è una
baracca, i partiti sono una commedia: il paese è in rovina, la società
in dissoluzione. È nervoso, aggressivo, violento.

— Che ha l'onorevole Parvis?

— Nevrastenia.

I più sorridono con malizia:

— Nevrastenia, prodotta dalle dimissioni date, e che furono accettate
troppo presto! È il bruciore di aver perduto il potere!

— Non ha equilibrio, non ha prudenza. Gli manca la serenità, la
stabilità dell'uomo di governo.

— Ha un carattere troppo impetuoso, atrabiliare! È mezzo matto!

Gerardo se ne va da Roma dopo una settimana; ha levato il saluto a tre o
quattro persone ed è stato sul punto di avere un duello.

— Sono stufo di questa vita, di questa baraonda, di tutte queste liti!
Manderò le mie dimissioni anche da deputato! Voglio viaggiare,
viaggiare... Viaggiare in paesi lontani, nuovi, diversi dai nostri!

E pensa, in cuor suo, a un paese di ghiaccio, di neve, o scolorito, o
giallo, ma senza un filo di verde! — Là, finalmente, non lo avrebbe
veduto più, mai più, quel grande cappellone tutto bianco e tutto rosa!


Quando a Milano sta per entrare in casa, Prospero gli viene incontro,
con la faccia stralunata, borbottando qualche parola che Gerardo non
capisce bene.

— Che c'è?

— Teo ha preso il cimurro. Sta maliss...

Il resto si perde, vola per aria.

— Non hai chiamato il signor Lodetti?

Il signor Lodetti è il veterinario.

Prospero scrolla il capo, borbottando: si capisce, s'indovina che non
c'è più niente da fare.

— Dov'è?

Prospero va innanzi e Gerardo lo segue.

Attraversano l'anticamera, il salotto, lo studio, la stanza da letto, il
gabinetto di toilette... Nel guardaroba, sotto la finestra c'è il
lettuccio del povero Teo: una cesta rotonda, e un vecchio _plaid_
disteso sopra la paglia.

— Il padrone! Teo! il padrone!

Prospero ha un suono tremulo, un accento insolito nella voce pietosa.

— È qui il padrone, Teo...

— Teo... povero Teo, — mormora il Parvis avvicinandosi alla cuccia. Teo
fa uno sforzo, si alza a stento sulle due zampe anteriori; ha il testone
grosso, sformato, che non può più reggere. Eppure, barcollando... cerca,
allunga il muso verso il padrone, e muove ancora adagio la coda... ma è
sfinito: ricasca giù, nella cuccia, abbandonandosi, le gambe ripiegate,
il respiro affannoso, come un rantolo, un lamento che continua, che
continua, mentre l'occhio rimane aperto, con la pupilla vitrea,
dilatata.

— Teo, povero Teo...

Gerardo si china per accarezzarlo, e allora il lamento, il rantolo si fa
più sommesso...

— Teo, povero Teo...

Gerardo continua ad accarezzarlo, ad accarezzarlo... ma poi, quando fa
per allontanare la mano, il rantolo, il lamento diventa più forte, più
lungo, disperato, e Teo gli volge l'occhio umano, che si ravviva in
quell'ultima, suprema espressione del dolore e della morte.

Prospero porta uno sgabello: Gerardo siede e rimane sempre vicino a Teo,
accarezzandolo sempre, finchè il rantolo, che continua, che continua per
un'ora, per due ore, si fa più affannoso, più profondo, più forte, indi,
a poco a poco, più lento, più sommesso... poi finisce... non si sente
più. Teo, dopo un ultimo sussulto, rimane fermo, immobile, disteso.

Gerardo ha il cuore gonfio, stretto: lì, nella cuccia, accanto al povero
Teo, c'è ancora il nastro rosa, ricamato e regalato da Sofia.


... La mattina dopo, all'alba, nel piccolo giardino della casa, il
portinaio sta scavando una buca. Prospero ha portato Teo, rigido,
stecchito, avvolto in un panno bianco.

Gerardo è pallido, ha gli occhi stravolti.

Mentre il portinaio prepara la piccola fossa, Prospero scopre il testone
di Teo, poi lo ricopre di nuovo.

— Ecco fatto! — esclama il portinaio, allegramente. — Di qua, signor
Prospero!

E stende le mani per prendere il lungo involto bianco.

Prospero non dice nulla, si alza, e sotto gli occhi di Gerardo, sempre
ritto, muto, pallidissimo, depone Teo, delicatamente, nella fossa, e lo
copre, lo ricopre con il panno bianco, per difenderlo dalle palate di
terra, umida e nera.

Il portinaio riempie la buca in fretta, poi vi distende sopra la terra,
rassodandola con quattro colpi di badile ben forti, bene assestati:

— Ecco fatto!

Allora, allora soltanto dal petto del Parvis prorompe un urto di
singhiozzi, uno scoppio di pianto dirotto, desolato.

Egli rientra nella sua stanza, si butta attraverso il letto, piangendo
ancora, sfogandosi. Finalmente ha trovato la via delle lagrime.

— Finito! Finito! È proprio tutto finito!



Fernanda


I.

A Milano, in via Stendhal, numero 31.

Un salotto, ai mezzanini, dove la principessa Strufelzkoy, quasi cugina
di Adelina Patti per via del suo primissimo marito, tiene una piccola
_roulette_ per pura condiscendenza verso gli intimissimi _habitués_
della sera: tutte persone d'importanza straordinarissima, — la
principessa usa sempre il superlativo con grande enfasi, — e della
massima serietà.

— Primo, — nientemeno! — il conte Galantino di Castelpus-ter-lengo!...
il «debolissimo» della poderosa e tonante Strufelzkoy, che comincia
sempre col «bel contino» l'elenco dei suoi «fedeli più costanti.» — Un
portento di compitezza!

Un miracolo di conservazione! Vicino alla settantina, non dimostra
nemmeno cinquant'anni!

— Il Conte Galantino di Castel-pus... — e nel pronunciarne il titolo la
principessa sgrana gli occhi e batte le sillabe, mentre con le due dita
della mano destra continua a scuotere lentamente il pollice della
sinistra, sciorinando nome, cognome e feudo.

— Secondo, il cavalier Lorenzo Scarminati, grande industriale con
fabbrica di cravatte nazionali ed estere, a San Gerolamo. — L'indice
resta preso fra le due dita dell'altra mano, ma cessa il movimento e la
principessa, smorzando la voce, apre una parentesi nel proprio
entusiasmo. — Niente di straordinario. Un _permè di Gorgonzola_, un
ottavino di Mont'Orobio e basta per la nottata; ma sempre di buon umore
e per questo appunto detto Letizia; il Cavalier Letizia.

Terzo il marchese... — le due dita della destra riprendono il movimento,
stringendo il medio della sinistra — il marchese Dolfin-Cocaglio, grande
diplomatico e più volte ambasciatore, al presente esonerato. Con le
donne? Un Sardanapalo redivivo... Ha speso in un anno più di
sessantamila lire per l'Algerina e si trova in procinto, illico ed
immediate, di tornar da capo con la Waldhofstein delle Dame Viennesi.

— Quarto, il banchiere Spinazzola!... Spinazzola! — La principessa,
entusiasmata, spalanca le braccia: — la massa informe del petto dopo un
sobbalzo si riadagia allargandosi. Il commendatore Spinazzola!... Il
padronissimo di tutta Milano! L'onnipotenza personificata!... Basta il
dire che è riuscito, tanto quanto, a dispetto della Commissione,
dell'impresario e del prefetto a far ballare alla _Scala_, per una sera,
la Bianca Largomare!... — Poi... l'ex maggiore Foscarini, degli
autentici di Venezia! Il ramo cadetto, più direttissimo, dei Foscari!...
Un grande patriottone per quattro! È stato con Garibaldi, con Cialdini,
col Pantaleo, con tutti quanti! Poi Carletto Brenta, il _superuomo_! —
La principessa appoggia la punta dell'indice sulla punta del naso con
aria di grande mistero — _Citto!_ — Sarebbe come chi dicesse, per
intendersi, una specie di... di capitalista in particolare. Il dieci per
cento, forse il quindici, mai niente di più, giuro e spergiuro, tanto è
vero che lo ricevo impunemente!... Cattiverie!... I soliti invidiosi!
Perchè spende, spande e si diverte, senza mai intaccare il fatto suo!...
Superbioso, da poco in qua, d'accordissimo! E criticone all'eccesso!...
Ma ha preso un palco alla _Scala_, in società, fra gli altri, con un
giornalista dei primi e un commediografo famoso e s'è messo anche lui a
voler sentenziare di arte, di politica, di libri, del Manzotti! È stato
il cavalier Letizia, per ischerzo, a chiamarlo il _Superuomo_... e non
gli va più giù!

— Poi, immancabilissimo tutte le sere, e tiene il banco, il nobile
Roderigo De-Farentes, grande gentiluomo siciliano. E poi... e poi e poi,
succede sempre così!... Uno tira l'altro: presentazioni,
raccomandazioni, forestieri per le corse... qualche _tosa_ anche di
contrabbando... Ma, intendiamoci, le mani a casa, e proibitissimi i
discorsi sboccati! Insomma, l'educazione impone a una signora di non
chiuder mai la porta in faccia a chississia, quando si presenta in abito
decente. L'educazione e anche la prudenza. Non si sa mai, quando magari
meno si crede, capita proprio quel tizio capacissimo, per vendicarsi, di
correre in questura a inventar fandonie!


II.

In cucina, mezzo al buio; la principessa e il maggiordomo:

LA PRINCIPESSA (_che dorme seduta in un angolo accanto alla màdia:
destandosi di colpo_). Romolo!... Che ora è?

IL MAGGIORDOMO (_raschia, ma non risponde. Sotto la cappa dei fornelli a
gas sta preparando una scodella di zuppa con poco brodo e molto vino_).

LA PRINCIPESSA (_sospira, si volta sulla seggiola, russa; poi di nuovo
risvegliandosi_). Romolo! Che ora è?

IL MAGGIORDOMO (_con la voce grossa, sgarbata, da servitore che
spadroneggia_). Non è ancora mezzanotte, maledetta la furia!... C'è
tempo!

LA PRINCIPESSA. Già: sicuro. Stasera è anche la primissima del ballo
nuovo! (_soffia, starnuta e fa un altro pisolo_).

Il maggiordomo della principessa, un Ercole infingardo e melenso, è il
marito della portinaia. Nel casamento ha la mansione speciale di
attendere ai caloriferi: tutto il giorno nei sotterranei, la sera sale
ai mezzanini, indossando, ancora col muso e con le manacce nere di
carbone, la livrea nocciuola degli Strufelzkoy, ricca di bottoni, ma
scarsa di maniche.


Un'ora dopo: nella sala da giuoco, tappezzata di carta moarè color rosso
cupo. Il maggiordomo in punta di piedi sullo sgabello, sta cambiando il
tubo ad una delle quattro lucerne a gas, sporgenti dalle pareti. La
principessa lo sostiene con equilibrio facendogli puntello alle gambe
con le due mani.

IL MAGGIORDOMO (_traballando_). Forte!... Tenga forte! Se mi lascia
scivolare le spacco la campana sulla testa!

LA PRINCIPESSA (_con dolcezza insinuante_). Da bravo!... Non ti domando,
in grazia, altro che un pochettin di belle maniere. Specialmente quando
c'è gente!

IL MAGGIORDOMO (_che ha rimesso il tubo ed ha acceso il gas, piomba giù
dallo sgabello facendo traballare la sala e sussultare la principessa_).
Dov'è la spazzola?... Lo strofinaccio? Qua!... subito!... E via,
_marche_, con lo sgabello!

La principessa, lentamente, eseguisce gli ordini ricevuti, poi ritorna
con un bicchiere in mano e una bottiglia di vino sotto il braccio, e col
seno gonfio, bisognoso di espansione, si avvicina ancora al maggiordomo
che, brontolando, sempre seguita a spazzolare e a spolverare i mobili
con molta leggerezza.

— Son qua, col nostro caro vecchio prediletto! Si fa la pace?... Ma ad
un patto: brontola con me: strapazzami anche. Tra noi due, soli soletti,
divento democraticissima... ed anzi mi piace. Ma _coran popola_, non
dirmi tutte quelle brutte parole!... In presenza, specialmente, del bel
contino, dell'ambasciatore, insomma delle persone del mio ceto!... Pur
troppo, volendo conservare un tantinin di decoro, bisogna tener calcolo
della differenza grandissima della nostra reciproca condizione!

Il maggiordomo non ascolta affatto la supplice principessa, ma con gli
occhi ammammolati, fissa la vecchia bottiglia: di colpo la strappa di
mano alla padrona e a due riprese, per pigliar fiato, ne tracanna una
buona metà. Anche la principessa, riagguantata la bottiglia; se ne versa
e ne beve un bicchiere, poi un altro:

— Ah! questo è il vero Apostolo che riconforta lo spirito e salva
l'anima!... Stasera, specialmente, che mi sento un certo brividino nelle
ossa!... Vuol nevicare, scommetto! (_strizzando l'occhio al
maggiordomo_). Ne ho ancora una mezza dozzina di queste bottiglie, ma le
ho nascoste in camera mia, dietro il letto, per nostro solo uso e
consumo!

— E ieri sera?... Ohè! Bisogna star più attenti! La carne... — e il
maggiordomo arriccia il nasotto camuso con muta, ma espressiva
eloquenza.

LA PRINCIPESSA (_offesa nel suo punto d'onore_). Impossibilissimo! (_poi
a poco a poco, si arrende con un sospiro_) Santo Iddio, come si fa? Ciò
che alle volte rimane della sera prima, deve necessariamente consumarsi
la sera dopo: la mia casa non è un esercizio, ma un luogo privatissimo
di pura conversazione! (_Trasalendo all'improvviso al rumore di un
oggetto che cade con fracasso, rasentando la parete_) Che cos'è? Cos'hai
rotto?!

— Niente!

Romolo, spolverando un trofeo di ritratti degli «intimissimi» ne ha
fatto cadere uno tra i più grandi:

— Al diavolo!

La principessa corre a raccogliere e a raddrizzare gli angoli del
cartone ammaccato. È la fotografia di un vecchio bell'uomo in
_smocking_, dalla faccia scarna, dal ghigno sinistro, coi baffoni grigi,
appuntati e la guardatura un po' losca:

— Oh, poveretto coccolo!... Quel mio caro De-Farentes, simpaticissimo,
che s'è rotta la testa!

IL MAGGIORDOMO (_In piedi sul canapè, studiandosi di rimettere al posto
il gentiluomo siciliano_). Fosse rotta davvero!

LA PRINCIPESSA (_Attenta al maggiordomo, per paura che faccia cadere
anche tutti gli altri ritratti_). Piano... pianino... pianin!

IL MAGGIORDOMO. Per la Casilda Maiser sarebbe un bel risparmio!

LA PRINCIPESSA (_con grande sussiego_). Il tortissimo, per altro, della
Casilda è quello di lamentarsi sempre col terzo e col quarto! Quando una
donna può procurarsi l'usbergo di una persona seria, di proposito, anche
se le costa qualche sacrifizio — benissimo spesi! — Il De-Farentes sarà
quel che sarà, privatamente, ma come gentiluomo è sempre più che
perfettissimo!... Sempre in guanti, pulito, profumato!... Anche la
Casilda, in fine, che cosa potrebbe pretendere di più?

Il campanello elettrico della portineria:

— Driinn!!

— Eccoli!... Romolo! Fa presto!

Sultano, un gattone enorme, tutto bianco e con solo un'orecchia nera,
esce dall'ombra, stirandosi, e salta sul canapè. Il campanello
ricomincia: driinn!!...

LA PRINCIPESSA (_in orgasmo_). Romolo! Romolo! Corri!... No! No! Un
momento!... E le scarpe? Hai messo la livrea e non hai ancora le scarpe!

E la cravatta?

Driiinn!!...

— Vengo! Vengo! (_Al maggiordomo, in fretta, mentre si tira giù la
sottana di damasco nero che ha rivoltata sotto la cintura e infila uno
stretto figaro di velluto amaranto_). Ti scongiuro! Fa presto! Che la
gente ti veda sempre in tutto punto! (_Precipitandosi nell'anticamera,
mentre Sultano, che ha seguito in cucina il maggiordomo, salta sui
fornelli, e alzando, allungando, ingrossando la coda, passa in rivista
cocome e cazzarole_) Vengo! Vengo! (_Spalancando l'uscio_). Apro io, per
non far aspettare; ma anche il mio maggiordomo è subito prontissimo!...
Buona sera! Complimenti!... Brrr! Presto, dentro, perchè spira
un'arietta tremendissima che brucia la pelle!

IL PRIMO DEI DUE SIGNORI che entrano:

— Infatti, portiamo la neve!


III.

Il Cavalier Letizia e Carletto Brenta, detto il _superuomo_, entrano
nella camera da letto della principessa, che serve anche da guardaroba
per gli intimissimi.

LA PRINCIPESSA (_Aiutandoli a levarsi il paltò_). E così?... Il ballo
nuovo? Furoroni?

LETIZIA. A me, è piaciuto moltissimo!

CARLETTO BRENTA. E a me, niente affatto!

LETIZIA. Si sa, io non sono un genio: io non ho talento! e me ne vanto!
Ma il Manzotti, ha avuto un grande successo.

— Successo di sartoria.

— Tre ballabili bissati e tutti i quadri applauditissimi.

— Contrastatissimi! Un insuccesso! In fatti una melensaggine banale,
volgare, idiota!... Una noiosità pretenziosa e interminabile!

— Diremo al Manzotti, un'altra volta, per divertire i... superuomini, di
far ballare lo Zacconi con l'Ibsen, o con quell'altro... come si
chiama?... Quello delle marionette?

— Con l'Ibsen hai detto una sciocchezza: con il Maeterlinck hai dato,
forse, un giudizio molto acuto. Ben inteso, senza saperlo, perchè in
arte, come in critica, appartieni agli innocenti.

Driiinnn!! (_Una sonata lunga, più lunga e più forte delle altre_).

LA PRINCIPESSA. Vengo!... Eccomi!... Il contino e il mio ambasciatore!
Capisco subitissimo alla scampanellata! (_Passando dalla cucina, mentre
si precipita nell'anticamera_). Presto, Romolo!... Mi raccomando! (_Dopo
aperto l'uscio, con un grido di gioia_). Eccoli! «il palpito del cor mi
fa indovina!» Buona sera signor Marchese! Sono stata oggi al grande
concertone delle nostre _Dame Viennesi_. Che splendori quella
Waldhofstein!... Evviva... Giusto in punto anche il nostro
Spinazzola!... Così la terna degli eletti è completissima! Avanti!
Avanti, in camera mia e tutte le pelliccie sul mio talamo; al sicuro!
Con tanta gente in continuo andirivieni, non si può mai garantire! — E
così, dunque, il ballo nuovo?... Fiaschissimo?

Il bel contino, allacciando con un braccio il vitone enorme della
principessa, le solletica la pelle e l'amor proprio, sfiorandole la
guancia coi baffettini biondi, ritinti e impomatati, mentre il galante
ambasciatore, palpeggiandola per cortesia, esalta quelle sue abbondanze
monumentali, ma non marmoree, con le solite espressioni del noto
repertorio. Invece il banchiere non saluta, non guarda nemmeno la
Strufelzkoy. Le butta sgarbatamente la pelliccia fra le braccia e
passando dall'anticamera al salotto, continua a sfogarsi, non contro il
decadimento dei grandi balli, famosi, della Scala, ma contro la
decadenza delle ballerine.

— I _ballerinn_, le ballerine!... Una specialità, un'istituzione, direi
quasi, ambrosiana! Ma la ballerina d'una volta, la vera, _adess_,
adesso, non c'è più! _Sott'i todesch_, sotto i tedeschi, allora, l'_era
propi tutta lee_!... Sana, allegra, spiritosa affettuosa!... Una cara
_popolina_ di famiglia, senza malizia, senza inganno e senza cotone!! Ti
prendeva per amante, _così, sui duu pee_ — sui due piedi — detto fatto —
e con la sola idea di divertirsi. E nessuna spesa, anzi, la ballerina
d'una volta, rappresentava una vera economia. Un paio di stivaletti, al
massimo, e dopo teatro una _barbajada_ con un _chifel_ al Caffè
dell'Accademia. Ma invece _adess_, adesso?... Fatturata come il
_Champagne_ svizzero, secca, tisica, schizzinosa, e anche, magari, col
_fradell_ che fa il socialista o l'_anarchic_!... Piena di esigenze, di
capricci, impastata di nervi, d'impostura e d'emicrania come _ona miee_,
investe i suoi benefizî in tanta rendita e parla di azioni, di
obbligazioni, di prestiti _mej d'on agent de cambi_!

Driiinn!!

Il nobile De-Farentes e l'ex maggiore Foscarini.

Il grande gentiluomo siciliano scambia a bassa voce alcune parole con
Romolo, che è corso a levargli il paltò, e con magnanimo sussiego gli
ficca tra le labbra il mozzicone di un trabucos nazionale; l'ex
maggiore, ancora con l'_ulster_ dal largo bavero di coniglio, solleva la
portiera e caccia nel salotto il cranio roseo, lucente, circondato da
una fitta corolla di capelli bianchissimi:

— Come mai?... Non ancora al giuoco?

Poi la portiera ricade e l'ex maggiore scompare per ritornar quasi
subito, stretto e impettito nel vecchio soprabito nero.

— E così?... questo ballo nuovo?... Un orrore, ho sentito?... Ma tutti
quei cretini della Commissione?... È ora di finirla, vivaddio!

L'ex maggiore non mette mai piede alla Scala, per via delle cinque lire
del biglietto — troppo caro! un orrore! — e in odio a Wagner, una delle
solite gonfiature dei milanesi. Ma è tra i più arrabbiati demolitori di
ogni spettacolo, perchè la Scala disturba le sue abitudini, lo obbliga
ad annoiarsi solo solo al caffè, sin dopo la mezzanotte, e fa cominciare
il giuoco troppo tardi.

Driiinn!! Driinn!! Driinn!!

Le scampanellate si seguono una dopo l'altra e, in breve, tutti gli
«intimissimi» affollano il salotto.

Il De-Farentes entra con gli ultimi arrivati discutendo a proposito di
Zola e di Dreyfus e mentre si dichiara _antidreyfusista_ per l'onore
della Francia e dell'esercito, prova se la ruota è in bilico e se gira
regolarmente. Ad un tratto, imprimendole un moto velocissimo esclama con
un tremito nella voce forte, imperiosa:

— _Messieurs faites le jeu!... Messieurs!_

I più vicini alla roulette cominciano a puntare: gli altri si alzano e
guardano il giuoco.

L'EX MAGGIORE (_correndo a mettersi accanto al De-Farentes_). Un
momento!... Un momento! Il nostro solito franchetto!... E sempre sul
rosso! Fedele al rosso!

L'ambasciatore, il contino, il banchiere si alzano gli ultimi, dopo aver
chiamato la principessa e ordinata la cena. Si avvicinano pure alla
roulette, disponendosi a giocare, ma lentamente, fermandosi ancora su
due piedi a criticare la debolezza del Governo, le incertezze della
Giunta, e ormai disperando dell'uno e dell'altra.

LA VOCE DI UN GIOCATORE: Ventisei!

UN'ALTRA VOCE: _En plein!_

L'EX MAGGIORE: (_con un grido di giubilo_). Rosso! Gran bel colore il
rosso! Lascio le due lirette sempre sul rosso.

L'AMBASCIATORE (_Rivolgendosi piano al contino, dopo aver puntato cento
lire sul «dispari»_). Ma... quell'ex maggiore? Che roba è?

IL CONTINO (_con un sorriso enigmatico, mostrando i bei denti fini_) Chi
lo sa? Nel nostro esercito, pare, non c'è mai stato. Ho parlato con
molti ufficiali: nessuno lo conosce.

L'AMBASCIATORE (_irritatissimo_). E allora?... Come mai si fa chiamare
maggiore?... Ex maggiore? Maggiore di che?

IL BANCHIERE (_per calmarlo_). Delle guardie notturne della principessa.

— Quattordici!

— Pari e nero!

LA PRINCIPESSA (_spazzando il salotto, dopo aver spazzato la cucina, col
lungo strascico della sottana di seta, e portando, come in trionfo,
preceduta da Sultano, il vassoio con la cena_).

— Sultano, via! ffut! ffut! Non venirmi tra i piedi per farmi cadere!
Faccio io stessa da primo cameriere, da tutto quel che occorre,
volentierissimo, pur di schivare il pericolo dei musi nuovi!... E così,
signor contino? Il filetto, ieri sera, non era famosissimo come al
solito, mi ha detto il maggiordomo?... Che rabbia! Che dispetto! Ho
pianto, persino, dal dispiacere!

DE-FARENTES. _Messieurs faites le jeu! Messieurs!_

Il grande gentiluomo siciliano sorride amabilmente; la sua voce è
tornata calma, sicura. Il giuoco ha ormai ripreso il solito interesse,
la solita animazione di tutte le sere. Dall'uscio della cucina, quando
rimane socchiuso, si scorge la principessa che torna a sonnecchiare
seduta accanto alla madia, con in bocca il suo bravo sigaro di virginia
e il maggiordomo che beve il fondo dei bicchieri e dei piccoli
fiaschettini di Mont'Orobio.

— _Messieurs, faites le jeu, messieurs!_

Si annunziano grosse perdite: perde molto l'ambasciatore e perde molto
il bel contino.

— Nove!

— Dispari!

— Nero!

Carletto Brenta e il cavalier Letizia strepitano contro la jettatura.
Avevano vinto due scudi a testa e li hanno perduti in un sol colpo! L'ex
maggiore continua a ridere, a scherzare e a parlare, compiangendo chi è
in sfortuna, esaltando chi è in vena, ammaestrando gli inesperti sui
grandi misteri del rosso e del nero, e, frattanto, abilmente, sottraendo
se perde o aggiungendo se vince, qualche soldo alla puntata, riesce a
guadagnare la piccola sommetta che forma tutta la sua rendita
giornaliera. Il grande gentiluomo, sempre attento, vede tutto, ma chiude
un occhio, come per un patto tacitamente concluso: anche l'ex maggiore,
all'occorrenza, gli fa da compare.

— _Messieurs, faites le jeu!..... Messieurs!.... Rien ne va plus!_


IV.

Due donne, strane e tipiche figure, entrano quasi inosservate nella
sala.

— Buona sera!

— Buona sera!

Sono rauche, non hanno più voce.

— Buona sera!

— Buona sera!

Nessuno risponde al saluto, nessuno le guarda, nessuno si volta.

— Ciao, Letizia.

— Ciao, bel siciliano!

DE-FARENTES (_più forte_). _Faites votre jeu, messieurs!_

... Le facce delle due donne appaiono stanche e livide sotto le macchie
nere degli occhi e il rossetto delle guance. La più alta, è una virago;
ha un bolèro in testa e in dosso uno sfarzoso abito d'estate
chiarissimo, scollato. È appena coperta d'una corta mantelletta foderata
di vecchio ermellino. L'altra, piccola, magra, con una giacca verdognola
e un cappellino a punta, alla tirolese, ha un viso scarno, ossuto,
cattivo, da strega giovine. È tutta occhi e tutta capelli neri, crespi,
arruffati.

Sono due tristi maschere della miseria e del vizio, che portano dalla
strada una ventata fredda di neve. Continuano a camminare nella sala,
interrogandosi con un'occhiata incerta, ma non sono nè intimidite, nè
sorprese da quella fredda accoglienza. Dopo un momento si avvicinano al
tavolino, dove stanno ancora cenando il bel contino e l'ambasciatore.

— Buona sera!

— Buona sera, carine!... — risponde il Castelpusterlengo sempre
amabilmente _vieux-regime_. L'ambasciatore un po' miope, colpito lì per
lì dal voluminoso bolèro, si ficca la lente nell'occhio per vedere come
alla quantità corrisponda la qualità:

— Buona sera, signorine belle!

Le «signorine belle» sentendosi incoraggiate, si slanciano, l'una, il
bolèro, addosso all'ambasciatore, l'altra, la tirolese, sulle ginocchia
del bel contino.

— Aristocratico simpaticone!

— Ciao, bel biondo!

E scoccano i baci.

L'AMBASCIATORE (_cercando di allontanare le mani dal bolèro per
difendere la simmetria dei radi ricciolini messi in fila attorno alla
fronte_). Adagio! Adagio! Troppa espansione!

IL BEL CONTINO (_difendendosi a sua volta dall'assalto del Tirolo_).

— .... Da brave! Rispettate il nostro candore!

A un tratto, una vocina fioca, sottile, che sembra uscire tra il falpalà
e gli svolazzi molticolori del gran bolèro:

— Complimenti!... Complimenti!

Dietro alla vocina, in fondo ad un cappellone di paglia dalle rose
stinte e gualcite, appare un povero visino di malatina, smunto,
affilato, con grandi occhi cerulei che fissano «i signori» con un
tremolio incerto fra il sorriso e le lacrime.

L'ambasciatore, dopo aver guardata la bimba un istante, lascia cader la
lente facendo un atto di disgusto.

IL BEL CONTINO (_infastidito_). Che! Che! I bimbi si mandano a letto!

Dagli occhi della piccina, che non ha ancora cenato, sparisce a un
tratto ogni luce di sorriso e non vi restan più che le lacrime.

IL BOLERO (_Aggrottando le ciglia, con la voce più ròca, più aspra_). È
una mocciosa, che ci serve di compagnia.

LA TIROLESE (_Lanciando sulla bimba un'occhiata bieca, torva_). Per le
guardie. È meglio non essere del tutto sole.

L'EX MAGGIORE (_Allontanandosi dal tavolo della_ ROULETTE: _ha
guadagnato le sue dieci lirette e ha capito da un'occhiata del
De-Farentes che per quella sera, basta_). Signore?... Oh! Oh! Abbiamo la
visita di due signore!

— Buona sera!

— Buona sera!

LA BIMBA. — Complimenti!

L'EX MAGGIORE. — Oh! Oh! Anche l'infanzia abbandonata! (_Siede pure al
tavolino e prende da uno dei piatti del_ DESSERT _dell'ambasciatore un
savoiardo per la bimba e un cannoncino alla crema, per sè_).

LA TIROLESE (_dando un pizzicotto rabbioso alla piccina che divora, con
la bocca, il savoiardo e con gli occhi il cannoncino_). Ringrazia,
villana!

LA BIMBA (_trasalendo per il dolore improvviso ma sorridendo e
inchinandosi amabilmente_). Grazie, signore! Tante grazie! Complimenti!

L'EX MAGGIORE (_Ingolla d'un colpo il cannoncino per non imbrattarsi di
crema_). Brava! Una buona educazione è il condimento della virtù! E un
_marron glacé_, sarebbe aggradito, signorina?

La bimba, che si era aggrappata con una mano alla veste del bolèro, è
spinta per un braccio dinanzi al tavolino dei tre signori, e ripete i
complimenti e i ringraziamenti con un inchino e un sorriso ardito che ha
già perduta la bella timidezza, ma non tutta ancora la soavità
infantile, e che illumina, fugacemente, il pallido visino per lasciarlo,
dopo, più smunto e più avvizzito.

La bimba ha fame e ha freddo. Lì, nel salotto, si soffoca; ma essa ha
portato con sè, dentro di sè, tanto freddo dalla strada!

Quanto girare quella sera!... Su e giù! Su e giù! Quanto girare!

Dalla scollatura del corto vestitino di seta rosa, spuntano le esili
spalluccie e il collo fino fino, trasparente, con una riga nerognola
sotto la grossa collana di perle azzurre. Ha le gambine nude screpolate
dal gelo, inzaccherate, come le calzette di lana e gli scarpini gialli,
di neve motosa.

L'EX MAGGIORE. (_Scherzando sempre con la bimba e offrendole, dopo il
marron glacé, una susina di Marsiglia_). A lei, madamigella! Anche una
prugna secca!... Vedo che l'appetito le serve!

LA TIROLESE (_ingolosita adocchiando i dolci del dessert_). — È una
ghiottona! Non è mai sazia!

L'EX MAGGIORE. — Abito _décolleté_! E anche le perle! Che lusso!

L'ex maggiore continua a scherzare e a divertirsi con la piccina: le
regala un altro mezzo biscotto, uno spicchio di mandarino e intanto
approfitta dell'occasione per fare _gratis_ la sua piccola cenetta dopo
la partita. Quattro mandorle spaccarelle, un pezzetto di grana, per
assicurarsi se la principessa lo abbia fatto venire direttamente da
Parma seguendo il suo consiglio; poi una fetta di panettone... poi, in
fine, deve chiedere al contino un bicchiere di bordò, perchè gli è
rimasto, — e fa le boccacce, — quel maledetto sapore di formaggio!

— Desidera ancora qualche cosa, la signorina? Un grappolo d'uva?
Signorina... — E il nome? Come ti chiami?

IL BOLERO. Non hai sentito?... Rispondi!

La bimba, interroga il bolèro con gli occhi intimoriti: non ricorda più
il nome che le hanno dato per quella sera.

LA TIROLESE (_scotendola forte_). Non far la stupida!

LA BIMBA (_sempre più smarrita_). Mercedes... Iolanda... (_ricordandosi:
con un piccolo grido_). Fernanda!... Fernanda!... Mi chiamo Fernanda!

L'EX MAGGIORE. Fernanda!... Nientemeno! La Fernanda di Sardou? E di
queste due signore chi è la tua genitrice?

LA BIMBA (_lanciando uno sguardo tenero al bolero e alla tirolese per
rabbonirle_). Sono la mia mamma... tutte e due!

IL BOLERO. Che bestia!

L'EX MAGGIORE (_amabilmente_). Se queste signore sono «la tua mamma
tutte e due» a casa, vuol dire, ne avrai anche un'altra?... La vera?

LA BIMBA (_accompagnandosi con un gesto espressivo della manina_). Oh,
tante!... Ho ancora tante mamme a casa!

L'EX MAGGIORE. Allora, se hai tante mamme, avrai anche... molti papà?

LA BIMBA. (_con un inchino e un'occhiata affettuosa, carezzevole_).
Tutti i buoni signori, sono tutti i miei papà!

Si ride a questa risposta. Ridono anche il bel contino e l'ambasciatore
e subito il bolèro e la tirolese approfittano del buon successo che
ottiene la piccina, per riattaccare conversazione.

IL BOLERO. L'ha avuta una nostra compagna, la Goriziana, ma non le ha
portato fortuna: lo stesso anno ha fatto un vaiòlo tremendo che l'ha
rovinata, tanto che non ha più potuto andar fuori. Adesso ci fa da
cuoca, e quando una di noi vuol prendersi la bimba in compagnia, si paga
un franco.

LA TIROLESE. È un'infingarda, una bugiarda, una golosa! Fosse mia,
l'avrei pestata di botte!

DE-FARENTES (_Più forte_). _Messieurs! Faites le jeu!_

Egli vede con indifferenza allontanarsi dalla _roulette_ Carletto Brenta
e il cavalier Letizia, ma è seccato che il banchiere, il quale punta
anche per conto del contino e del marchese, abbandoni il giuoco per
avvicinarsi alle due donne.

— _Faites le jeu!_

— _Rien ne va plus!_

— Ventisei!

— Rosso!

— _En plein!_

DE-FARENTES (_lanciando un'occhiata alla principessa che passa in quel
punto col caffè e con i liquori, per farle capire di mandar via quelle
baldracche_). Non ci sono giuocatori stasera! Non c'è il numero
sufficiente! Così non è possibile continuare! — (_Con impeto: con ira:_)
_Messieurs! Faites le jeu!... Messieurs!_

La _roulette_, torna a girare e a stridere.

IL BANCHIERE (_avvicinandosi, soffiando e brontolando, al contino e al
marchese_). Quel De-Farentes ha una fortuna vergognosa! Abbiamo perduto
l'impossibile! (_Vedendo la bimba sfoga il suo malumore_). Che roba è?
(_Alla principessa_). Ormai, qui, è porta aperta? Si lascia passar di
tutto! È una vergogna! Una immoralità!

LA BIMBA (_pallida, intimorita, ma pur fissando il banchiere con gli
occhi carezzevoli e facendo un inchino_). Complimenti! Complimenti!
Buona sera!

IL BANCHIERE. (_Sempre rivolto alla principessa che versa il cognac al
bel contino e all'ambasciatore_). A dormire! I ragazzi si mandano a
dormire! E poi... si votano leggi sul lavoro dei fanciulli!... E poi si
spoglia la gente per gli asili, per i ricoveri, per le scuole! — Bella
scuola!

LA PRINCIPESSA (_Senza nemmeno guardare le donne, con un'espressione
schifiltosa di grande sussiego e di pudore offeso_). Subitissimo! Dico
adesso al maggiordomo di metterle alla porta!

La piccina spaventata al pensiero di dover tornar fuori, di dover
tornare a girar su e giù, su e giù, sotto il rovaio, afferra la sottana
del bolèro come per trattenerlo.

Il bolèro e la tirolese, insieme, con un atto di ribellione e di
disperazione in faccia al pericolo di andare a letto senza cena:

— Alla porta?

— Come sarebbe a dire?

— Se siamo venute è perchè siamo state invitate!

— Siamo state pregate!

LA PRINCIPESSA (_Sempre senza guardar le donne, per non sporcarsi la
vista, ma con grande autorità, imponendo silenzio e indicando l'uscio_).
Sst! Fuori! Fuori! Fuori! Subitissimo fuori!

IL BOLERO (_Ancora più rauco_). Non si tratta così con le ragazze
educate! Perchè noi siamo ragazze educate!

LA TIROLESE. Farci perdere tutto il tempo! farci perdere tutta la notte!
(_Chiamando il cavalier Letizia_). Siamo state invitate sì, o no?

LA PRINCIPESSA (_Sempre più imponente e maestosa e sempre senza
guardarle in faccia_). Sst! Niente affattissimo! Fuori! Fuori! Fuori!

Le due donne, inviperite, fanno per lanciarsi contro il cavaliere:

— Ci hai invitate, sì, o no?

LA PRINCIPESSA (_frapponendosi_). Nella mia società invito io, comando
io, e la sola, padronissima, sono io!

CARLETTO BRENTA (_sbocconcellando un panino gravido in onore del
simbolismo e rivolgendosi al grande industriale_). Come?... Sono tue
conquiste?

L'EX MAGGIORE (_Al contino, indicando il bolèro_). Quel donnone, per
altro, non è del tutto disprezzabile!

LETIZIA (_Borbotta, sorridendo, qualche parola all'orecchio di Carletto
Brenta_).

CARLETTO BRENTA (_con entusiasmo_). La tirolese! Vi raccomando la
tirolese!

L'EX MAGGIORE (_divertendosi_). Il bolèro! Evviva il bolèro!

DE-FARENTES (_gridando sempre più forte, per richiamare i giuocatori
alla roulette_). _Messieurs faites le jeu!... Messieurs!_

— Diciassette!

— Nero!

LETIZIA (_che ha calmato le ire della comitiva e venendo a patti,
sottovoce, con le due donne_). Sentite, noi siamo anche disposti ad
offrirvi una modesta sì, ma sostanziosa cenetta; ben inteso senza
Sciampagna.

LA PRINCIPESSA (_mostrandosi arrendevole e conciliante pur di
assecondare il desiderio della_ «società»). Per lo Sciampagna, al caso,
ci penso io! (_Stringendo l'occhio con intelligenza al cavalier
Letizia_). Ho io, per l'appunto, una marca famosissima!

IL BANCHIERE (_Ancora brontolando, sotto voce, contro la piccina_).
Impossibile! Per me è impossibile! Con quella roba lì, sotto gli occhi!
Mi disgusta, mi rivolta! Non mi diverto più! Perdo l'appetito!

«I signori» restano sospesi, esitanti fissando la piccina, che nella sua
disperazione lancia uno sguardo supplichevole all'ex maggiore, il quale,
dopo essersi fatto offrire un mezzo bicchierino di cognac, ingolla un
africano di cioccolata.

LA TIROLESE (_al banchiere, indicando la bimba_). Questa marmotta?...
Giuro, non dà nessun fastidio!

IL BOLERO. Si mette a dormire!... Subito a dormire!

LA BIMBA (_ha un tremito, le si riempiono gli occhi di lacrime, ma non
osa fiatare_).

LA TIROLESE (_chiamandola, come se comandasse ad un cane_). Qui!...
Qui!... Subito! Qui! (_Si guarda attorno, cercando con gli occhi, poi
corre in fondo alla sala, dove ha veduto un tavolino coperto da un
tappeto vecchio di lana a fiorami rosso e nero: al bolèro_). Presto, la
marmotta!

IL BOLERO (_tirandosi dietro la bimba per un braccio, poi sollevandola
di peso, la butta sul tavolino_). E non si piange! Hai capito?

LA TIROLESE. Giù!

La bimba si inginocchia.

LA TIROLESE. Giù! Giù! Più giù, distesa!

(_La piccina ubbidisce, tremando_).

IL BOLERO (_minacciandola con l'indice teso_). E si dorme!

LA TIROLESE (_minacciandola sulla faccia, con tutta la mano_). Si dorme,
o guai!

LA BIMBA (_balbettando, col visino tutto molle di lacrime_). Buona
notte!... Buona notte alle mamme!... Tante buone notti... ai signori
papà!... E buon appetito!

Ma la misera creaturina non può finire: è avvolta, rotolata nel vecchio
tappeto polveroso e portata, cacciata nell'angolo d'un sofà, in fondo
alla sala.

— Dormi! Si dorme!

— Fino a domani!

Il grosso involto fa ancora un movimento: si sente un lungo gemito sotto
il tappeto... poi più niente.

IL BOLÈRO (_correndo a buttarsi fra le braccia dell'ambasciatore_).
Anche se bruciasse la casa, non si sveglia!

LA TIROLESE (_saltando sulle ginocchia del bel contino_). Dorme come una
talpa!

— Aristocratico simpaticone!

— Caro, biondino bello!

Scoppiano urli e risate.

DE-FARENTES (_dinanzi alla roulette, dissimulando il dispetto, da vero
gentiluomo_). Signor Contino! Signor Spinazzola! Non volete tentar la
rivincita?... Adesso il banco non è più in fortuna!

— _Messieurs, faites le jeu! Messieurs!_


V.

Un'ora dopo: un campanello elettrico, diverso dal solito, acuto,
sottile, comincia a suonare senza più smettere. Sultano attraversa di
corsa il salotto e sparisce.

LA PRINCIPESSA (_con un grido tutt'affatto plebeo_). Maria Vergine
Santissima! La questura!

DE-FARENTES (_cacciandosi il denaro in tasca_). Presto! Tutti ai
tavolini!... A discorrere, a cenare, a fumare!

IL MAGGIORDOMO (_In fretta, fa per buttare un tappeto sulla roulette, ma
intanto due signori si precipitano dall'anticamera in sala, seguiti dal
fracasso di una portina a vetri, mandata in frantumi_). Fermi tutti!

Dietro ai due delegati, e in fondo al salotto, appariscono altre facce
risolute di questurini in borghese.

LA PRINCIPESSA (_strillando come un'indemoniata, mentre tutti gli altri,
compreso l'ex-maggiore, sono rimasti muti, allibbiti_). Mi protesto
innocentissima! La mia casa, come tutta la mia parentela, è onorata e
rispettatissima da secoli a Milano e fuori di Milano! Sarà stata certo
qualche... donnaccia a far la spia! Per il dispetto di non poterci
entrare!... Si giuoca per puro divertimento! A giuochi... di pura
società, perchè la mia società, la mia conversazione può stare a pari
delle più aristocraticissime di tutto il mondo! Presento il marchese
Dolfin-Cocaglio! Il Conte Galantino di Castelpusterlengo, e il
commendatore Spinazzola, nientemeno, tutti intimissimi! (_Rivolgendosi
al bolèro e alla Tirolese che continuano imperterrite a cenare_).

— Siete state voi due? Spione?

UNO DEI DELEGATI (_con viso torvo, al bel contino, all'ambasciatore e al
banchiere_). Con me, lor signori!

Li fa passar in fretta nella camera da letto della principessa, poi,
scambiata appena una rapida occhiata, apre loro l'uscietto della gabbia
e i tre privilegiati piccioni pigliano il volo, prontissimi a
dichiarare, alla prima occasione, che «con questo Governo» c'è troppa
eguaglianza e libertà!

Frattanto di là, nella grande sala, mentre l'altro delegato e le guardie
procedono alla perquisizione ed al sequestro di vari mazzi di carte, e
di un'altra piccola _roulette_, la lite fra la principessa, il bolèro e
la tirolese si fa più arrabbiata, le voci più assordanti, e il
De-Farentes, per sfogarsi, finisce col dare uno schiaffo al bolèro che
si rivolta, si dibatte, cerca di graffiarlo e strepita e piange, mentre
gli scaraventa addosso le peggiori ingiurie:

— Ladro!... Schifoso!... Ladro!

IL DELEGATO. Silenzio! (_fissando il bolèro_). Ma brava!... la Teresa
Rossetti?... La Bolognese!... Tu hai avuto il foglio di via e sei
tornata a Milano a _batter la frusta?_ In arresto!... (_indicando la
tirolese_). E tu pure! Verrai con noi! Farai vedere le tue carte in
questura! E anche la padrona del locale, e il nostro bravo signor
De-Farentes che teneva il banco! E anche quello là (_indicando
l'ex-maggiore_). Arrestati!

L'EX MAGGIORE (_Senza più fiato in corpo_). Ma io... è stato un caso...
un puro accidente...

IL DELEGATO. Arrestati: tutti gli altri in contravvenzione. — Lei? —
comincia indicando il cavalier Letizia che balbetta nome cognome
professione indirizzo. — Lei?... — (_continua rivolgendosi a Carlo
Brenta che fa altrettanto_) — Lei?...

LA PRINCIPESSA (_fra le guardie_). Almeno il brum! La carrozza! Una
carrozza! E manderò i miei reclami in alto!... Molto in alto! Perchè io
sono intimissima con deputati, senatori, ministri! Con tutti i nobili di
Milano!... Con tutti i grandi personaggi più influentissimi!

Una guardia in borghese che continua nella perquisizione, ad uno dei
compagni, indicando il fagotto nell'angolo del canapè:

— E qui?... Che ci sta?

L'ALTRA GUARDIA (_sollevando il fagotto_). _Chiò, el se move!_

LA PRIMA GUARDIA (_aprendo il fagotto con un grido di maraviglia_). _Na
piccirilla!_

LA SECONDA GUARDIA. _La sarà la fia de la parona._

LA PRIMA GUARDIA (_Toglie la bimba ancora addormentata dal tappeto_).
Dorme!

LA SECONDA GUARDIA (_prendendola in braccio e scotendola_). _Chiò
piccola! Sveiete!_

LA PRIMA GUARDIA. Non fingere di dormire! Chi sei? Come ti chiami?

LA BIMBA (_apre a stento gli occhi, pallida pallida, tutta madida di
sudore_).

— Parla!

— Piccola, che nome _ghetu_?

LA BIMBA. Celestina... (_correggendosi_) Mercede.

— O Mercede o Celestina!

— La verità! _Se dise_ la verità!

LA BIMBA (_li crede due_ «bei signori» _in visita dalle sue mamme.
Svegliandosi completamente, fissa le due facce minacciose e nuove per
lei, ma senza punto spaventarsi: poi, dopo un momento, ricordandosi del
nome che le è stato imposto la sera innanzi e sorridendo
graziosamente_).

— Fernanda! Mi chiamo Fernanda!... Buon giorno! (_Allunga il collo per
offrire un bacio sorridendo e continua con la vocina tenera, insinuante,
volendo mostrarsi compita con tutti e due_). No, buon giorno!... _Buon
giorni!_... _Buon giorni!_ Signori papà!



Canto di Montagna


Troppo grasso... e troppo grassi!

Quel gran cuoco del _Kurhaus_ — benchè cavaliere e malgrado tutte le sue
_stagioni_ di Vichy — aveva respirato troppo fumo di tedescheria e col
lezzo pesante delle sue cucine ammorbava anche l'aria della pineta.

Ecco!... Le zaffate di _goulasch_ e di _plumcake_ — compresi ogni giorno
nel _ménu_ per gli stomachi... deboli — arrivavano sin là, alla sua
panchina prediletta, dietro la chiesuola luterana, dove anche quel
giorno la marchesa Felicita avea riparato verso le cinque, mentre il
lungo servente dei grassi e delle grasse cominciava a snodarsi lungo il
viale della _Trinkhalle_. Com'era diventata opprimente e schiacciante
quella turba di pingui, in mezzo alla quale viveva da due settimane!

Ed era stata proprio lei ad insistere, perchè il dottore convenisse nel
dire che un po' di cura per dimagrare le era necessaria, e le avrebbe
fatto meglio del mare! Come l'aveva colta la paura di essere ingrassata,
di dover ingrassare?

La marchesa sorrise. Quella tremenda paura l'aveva presa una mattina di
maggio — era un giovedì — nel «gabinetto degli specchi» negli ammezzati
del Ventura.

Vi si era indugiata, in corsè, a riprovare l'amazzone per Castelletto.

A un tratto, sulla grande lastra di fianco, era apparsa e scomparsa via
come un fantasma, la figura mefistofelica del cavalier Febo, esile
esile, nero, nero, nel suo eterno lutto misterioso, e il sorriso freddo
ed arguto dello scapolo maturo, quel suo sguardo vivo ed intelligente,
l'avevano tutta rapidamente ravvolta e sapientemente accarezzata così
come ella si trovava in quel punto.

Soltanto Febo era capace di penetrare in un luogo simile, in un momento
simile, in uno specchio così riservato!

Rinetto, per esempio, non avrebbe mai osato farlo, e forse non sarebbe
mai arrivato nemmeno e pensarlo! Un ragazzo, nient'altro che un ragazzo,
quel povero Rinetto!... Tante volte l'aveva accompagnata sospirando, fin
sulla soglia del Ventura! Ma solo per far ridere alle sue spalle tutte
le madamine addette alla sartoria, mentre col visetto tondo volto in su,
il nasino schiacciato volto in su, l'aspettava gironzando sul Corso.

E nemmeno suo marito avrebbe mai avuto il coraggio di ficcarsi lì dentro
e di apparire in quello specchio! Suo marito che avrebbe tanto
desiderato di poterlo fare quando dal Ventura, in corsè, c'era la
contessa Ersilia!

In quello sguardo del cavalier Febo ella aveva letto una quantità di
restrizioni sulla bellezza troppo appariscente delle rose in pieno
sboccio, dalle foglie troppo spesse e carnose, di cui le aveva già
parlato una volta. Ella aveva sentito che la linea del suo corpo
minacciava di perder la purezza statuaria e, con quel pensiero molesto,
un altro ancora, anzi un vero brivido di malinconia, l'aveva scossa
tutta... Il pensiero degli anni, di quell'implacabile diciassette
d'agosto un'altra volta imminente. Così si era decisa per «il paese dei
grassi» e aveva gustato sin dai primi giorni la consolazione, la voluttà
di essersi ingannata, di doversi ricredere. Non si era mai sentita tanto
giovine, tanto flessuosa, tanto agile e fresca come in mezzo a quelle
opulenti dame esotiche, infagottate di seta come le «donne fenomeno»
delle fiere, tutte ciondolanti di gioielli come le Madonne della
Riviera, e sempre asmatiche, lustre, gocciolanti, preoccupate solo di
non riportare a casa tali e quali i loro novanta o cento chilogrammi di
peso.

E pazienza ancora le donne, elemento di contrasto e quindi di
conforto!... Ma gli uomini!? Non ne poteva più!

La Germania intera aveva dunque rovesciato in riva a quel fiume, in
quella conca verde, tutti i campioni della sua pinguedine, i suoi
colossi di gelatina tremolante, impastati di birra e di patate?

Da qualche giorno ogni diligenza che arrivava ne rotolava giù al
_Kurhaus_ un'altra dozzina.

E sempre quei ventri enormi che sembravano scappare fuori dalla cintola
dell'immancabile blusa di panno color ramarro, sempre quegli occhiali
d'oro, quei baffi color di stoppa, sempre quegli orribili capelli a pan
di zucchero, coll'antipatica piuma di fagiano piantata dietro!

Per qualche tempo la marchesa si era divertita col cavalier Febo e con
Rinetto, a godersi la sfilata dei tipi, e anzi soleva dire ridendo:
«Andiamo a sfogliare l'ultimo numero dei _Fliegend Blätter_!» Ma ormai
gente e luoghi, e quel continuo _ja! ja! so! so!_ nelle orecchie le
erano venuti a noia.. Non ne poteva più! Guai se non ci fossero stati —
soli italiani, soli magri e soli amici — quel povero Rinetto.... e il
cavalier Febo!

                                  *
                                 * *

Dopo un meriggio caldo, quasi come in pianura, lassù a quell'altezza si
diffondeva verso le cinque la deliziosa frescura delle Alpi e correvano
per la selva i primi aliti della brezza. Giù dai prati scendeva l'odor
forte del fieno e oltre il fiume e la valle, pel grande anfiteatro
dirimpetto, avvicendato di pinete, di frane, di immense pareti
granitiche, di nevai e di vette, cominciava a distendersi l'armonia
delle penombre, la delicata e morbida grazia dei violetti, degli ori
pallidi, quello spettacolo del tramonto, che la marchesa Felicita aveva
molte volte ammirato, come un grande quadro del Manzotti alla Scala, ma
senza alcuna persuasione, senza alcun intimo commovimento... E nemmeno
in quell'ora l'anima della bella signora s'apriva ai fascini della
splendida egloga vespertina. Ella pensava che non sarebbe scesa alla
_Trinkhalle_, tanto era stufa e infastidita della solita processione,
pensava al modo di sottrarsi, per quel giorno almeno, a quell'altra noia
ineffabile della _table d'hôte_, nel salone semibuio e triste come una
chiesa, dove soltanto in fin di tavola, al silenzio scontroso e
all'ipocrita parlar sommesso fra i commensali, succedeva un momento di
frastuono, il volgare acciottolìo delle tazze e delle posate, con
qualche nota aspra, qualche strappo di frase rauca, di tedeschi un po'
alticci.... E poi, la sera!.... I soliti cento passi lungo il fiume, che
sembrava correre ancor più livido ed iracondo nel buio, ed il solito
esame delle sue mantelle ed anche delle sue sottane di pizzo, da parte
delle grasse più curiose e più sfacciate... per finire poi dinanzi al
chiosco, a godere, sin verso le undici, il primo quarto di luna e il
miagolìo dell'orchestrina, che di milanese non aveva più che il nome e i
triangoli!... Ah, bisognava pur rompere il pigro ritmo di quella vita!
La splendida valle non finiva lì! Oltre quelle montagne s'aprivano altre
conche, altri incanti, dietro quella millenaria muraglia di pietre era
il mondo, il gran mondo.... Ella non aveva affatto bisogno di
mummificarsi intorno a quella fonte... Dunque?

                                  *
                                 * *

— È arrivata! Non ha sentito il _tuff tuff_?

Rinetto era comparso a capo del viale e si riposava della dolce e breve
salita, poggiandosi come un vecchietto, con le due mani inguantate di
bianco, sul bastoncino puntato innanzi.

Si era messe anche le scarpe di _melton_ tutte bianche, e le mani e i
piedi dell'elegantissimo ragazzone sembravano fatti di gesso ed
appiccicati alle braccia e alle gambe di quella sua lunga persona
dinoccolata e un po' fantocciesca, insaccata nell'abitone estivo di seta
color pulce. Nemmeno l'aria e nemmeno il sole delle alpi erano riusciti
a dare un po' di colorito e un po' di solidità alle guance flosce e
smorte di quel viso sempre volto in su, sovra il collo fasciato del
grande cravattone a tre giri, come nei ritratti di famiglia. Si sarebbe
detto che il buon genio del monte non volesse sciupar nulla della sua
tavolozza intorno al giovane prototipo dello snobismo cittadino, ben
sapendo che di ritorno al piano sarebbe bastata una settimana di veglie
buttate via fra le ragazze dell'Eden, per ridurlo di nuovo cascante,
imbambolato ed assonnato, come del resto egli godeva di mostrarsi.

Di fronte alla comica e bolsa virilità del giovinetto, la femminilità
forte e rigogliosa della marchesa trionfava ancor più nella sua rosea e
bionda bellezza, sullo sfondo verde cupo del bosco, nel molle abbandono
del riposo, sovra la rustica panca. Ogni volta che Rinetto le compariva
dinnanzi in una toeletta nuova, modestamente pretenzioso come un artista
sicuro di sè, la marchesa non poteva a meno di ridere, e Rinetto ormai
si era persuaso che era quella l'espressione irresistibile della sua
ammirazione. Ma quella sera neppur Rinetto, così bello e così
affascinante, riuscì a divertirla. Anzi, seccata, gli chiese, quasi
strapazzandolo, chi mai fosse arrivato.

— Come? Non si ricorda? _Eureka_, la nuova automobile di Febo.

— Ah! Sì! Arrivata? E dov'è?

— Alla villa del dottore, presso la «curva del latte». Di qui non la si
vede, ma credevo l'avesse scorta, quando Febo, poco fa, la manovrava
sullo stradone, laggiù... Immagini che ha mangiato quasi di volata le
due salite sino al _Waldhaus_. Una bella macchina, non c'è che dire.

— Di che forma?

— Una _vittoria_, una vera _vittoria_.

— Il colore?

— Grigio-piombo, filettata di turchino. Molto seria, forse un po'
troppo.

— Sarà goffa e pesante come le altre.

— Un po' meno; si progredisce. Anche il rombo non è così seccante come
nelle ultime provate a Milano. Farà un magnifico viaggio l'amico Febo!

Rinetto aveva insistito su quest'ultima frase, con un'intonazione così
fatua, che pareva avesse voluto dire alla marchesa: «Fra un paio di
giorni, presso di voi, rimango... io solo!»

Felicita lo guardò e questa volta rise di cuore, abbandonandosi
indietro, sulla spalliera della panca, sin quasi a celare la massa dei
capegli biondi tra i dardi verdi dei pini, mentre la bella gola ampia e
candida le sussultava nel riso aperto, traverso la tenue camicietta,
slacciata prima pel caldo.

Rinetto si provò a ridere anch'egli ma ebbe invece un momento di stizza;
di pallido si fece verdognolo. E dire che per lei aveva mancato al
patto, si era ridotto alla più insigne e bottegaia delle volgarità,
quella di andarsene da Milano in pieno luglio, e che da due settimane si
struggeva in mezzo a quei tedeschi, a quelle piante, a quelle capre,
mentre gli altri erano rimasti laggiù imperterriti sulla soglia del
_bar_, padroni del Corso, pieno di sole e vuoto di gente, difendendo
l'onore del gruppo! E dire che gli amici passavano serate deliziose al
Savini, mentre la gran folla borghese era scappata dai trenta gradi di
caldo, cosicchè essi soli avrebbero potuto dire con tutta semplicità:
«Non ci siam mossi un giorno da Milano!»

E per che cosa poi? Per vederla ridere?

Ridere... o _flirtare_ con Febo!

Allora, perchè la marchesa gli aveva fatto così chiaramente capire che
lo avrebbe avuto caro, con lei, in montagna?... E perchè qualche volta,
di tempo in tempo, quando egli osava dirle tante cose con un'occhiata,
ella non rideva più?

La marchesa scendeva lentamente lungo il viale, buttando via con la
punta del parasole scarlatto i rari sassolini bianchi fra la sabbia.
Prima di infilare il grande viale del _Kurhaus_, si volse d'improvviso a
Rinetto e quasi seriamente gli chiese:

— Quanti giorni durerà il viaggio del cavalier Febo?

— Non so bene... Otto o dieci giorni, credo. Non ricorda il famoso
itinerario? Cinque valichi alpini, dei quali due oltre i
duemilaquattrocento metri, quindi in mezzo alla neve, e per ultimo
ritorno in Italia dal Sempione. Un _record_... ed una pazzia!

— Vi pare? E di quanti posti è la nuova automobile, Oscar?

Quando la marchesa lo chiamava Oscar, invece di Oscarinetto o Rinetto,
c'era da sperare. Era segno che parlava quasi sul serio.

— Quanti posti? Ma tre, quattro, credo. Job la dirige stando a cassetta:
è una _vittoria_, tal quale una _vittoria_ di cavalli!

— Dunque, se io mi unissi al cavalier Febo, nel suo _record_, ci
potreste venire anche voi?

— Come?... Si andrebbe?

— Tutti e tre, come siamo stati qui, insieme, fino adesso, da buoni
amici.

Rinetto era rimasto di gesso — tutt'intero come le mani e i piedi! — e
il rapido sguardo rivolto al suo io, non appena udita la proposta della
marchesa, rivelò subito la prima, la precipua preoccupazione passatagli
in mente.

— Per gita alpina in automobile, disse Felicita — credo correttissimi i
costumi soliti di montagna. Anch'io dovrò acconciarmi alla meglio.

E la marchesa tirò via verso il _Kurhaus_ senza aprir più bocca.

                                  *
                                 * *

Fu Rinetto stesso che appena scorse Febo, ancora affaccendato intorno ad
_Eureka_, lo informò del capriccio della marchesa, come di una cosa
molto strana ed anche — via! — molto arrischiata. Febo, chino a serrare
le viti d'uno stantuffo, non si alzò, non si volse neppure. Sorrise, più
con lo sguardo che con le labbra, e con tutta flemma consolò Rinetto.

— È un'idea come un'altra. Che qui ci si diverta, non è cosa sicura, ti
pare? Per me non vedevo l'ora che Job arrivasse colla macchina per
cambiare aria.

— Tu... tu. Credevo appunto fossi soltanto tu!

— Già, capisco! L'idea della marchesa è un po' bizzarra; ma che vuoi
farci? Non è da oggi che la conosciamo, e poichè il viaggio le sorride e
lei si è invitata... io invito anche te, naturalmente, e la cosa va via
liscia.

— Già, come l'automobile.

— Speriamo bene! Ti dispiace forse il progetto? Non ti trovi bene con
me?

— Con te? Con te è un altro conto!...

— Ma ti troverai benissimo anche... con noi. In viaggio, come qui! Via,
non sei un ragazzo; devi capire che se la marchesa ci tiene allo svago
non potrebbe permetterselo nè con te, nè con me...

— Presi ad uno ad uno, nevvero?

— Precisamente. Cosicchè, senz'altro, posdomani mattina, _tuff, tuff,
tuff_.... In viaggio tutti e tre.... Sei contento?

E Febo tornò a chinarsi sugli stantuffi, fingendosi più che mai assorto
nel verificare la solidità delle viti. Ma si era fatto serio. L'occhio
gli scintillava ancor più fra le molte rughe sottili delle tempie già un
po' calve; su tutto quel viso d'uomo arguto pareva che una lunga
tensione di propositi e di desideri si allentasse nella certezza di una
grande soddisfazione imminente.

                                  *
                                 * *

Dopo una serata di cortesi e significanti insistenze — sottolineate, al
momento di separarsi, da un'occhiata di invocazione, quasi imperativa —
il cavalier Febo, il dì dopo, non aveva aggiunto parola, certo che la
marchesa era omai decisa. Nel pomeriggio, infatti, comunicazione
ufficiale: un lungo telegramma esplicativo alla mamma, in Brianza, un
altro molto più breve e molto più abile al marito, ancora a Roma, ed in
fretta e in furia, ed un po' anche di nascosto, i preparativi per la
partenza, la mattina seguente, prestissimo.


Avevano lasciato il _Kurhaus_ ch'erano appena scoccate le cinque, quasi
di soppiatto, mentre tutti dormivano ancora, ed _Eureka_ correva da
un'ora sulla magnifica strada piana verso quel paese romancio, che la
marchesa desiderava tanto di ammirare anche per tutto quello che gliene
aveva narrato Febo.

Il paesaggio era divinamente bello e vario così da rapire per qualche
tempo anche lo spirito poco infervorabile di Felicita. L'essersi alzata
così per tempo, dava alla marchesa un'eccitazione nuova, quasi
voluttuosa, ma buona, infantile.

Rassegnata ad ogni disastro della carnagione, si era tolta anche la
veletta, perchè l'aria viva della mattina le sferzasse forte le gote e
la fronte nella corsa rapida dell'automobile, una corsa bizzarra,
deliziosa verso il nuovo, verso l'alto... si sarebbe detto verso il
cielo. — Nello scompiglio dei riccioli biondi, nel fuggevole
rabbrividire per le improvvise sensazioni di freddo, ella era e si
sentiva ancor più leggiadra e più desiderata, ma ne aveva a volte un
senso lieve di turbamento, la intimidiva, di tanto in tanto, così il
desiderio ardente che scattava da certi sguardi quasi corrucciati di
Febo, come l'adorazione di Rinetto che nella sua sonnolenza invincibile
per l'ora mattutina diventava ancor più sentimentale.

                                  *
                                 * *

Nell'automobile ci stavano tutti, benissimo.

Rinetto di fronte alla marchesa e a Febo, e Job a cassetta. Ma ella ci
si sarebbe trovata mille volte meglio sola, per allora almeno, senza
sguardi che la fissassero, senza alcuno che le chiedesse ad ogni
momento, come si sentiva, se si trovava bene, se le piaceva il paese. E
siccome, ad onta di ogni sforzo, un senso nuovo di benessere e di
ammirazione le chiudeva la bocca, anche Rinetto, intimidito, non osava
più parlare; si preoccupava di tenersi sveglio e delle poche valigie
ch'erano state chiuse negli ampi fianchi di _Eureka_, mentre il grosso
dei bagaglio avrebbe viaggiato di tappa in tappa, con le diligenze
federali: Febo capiva ed aspettava, tacendo. Tutt'al più scambiava
qualche frase con Job, sulla manovra della macchina o sulla direzione
della corsa.

Job non era passato altre volte, come Febo, per quella strada, ma in
un'ora non aveva già più bisogno nè d'indicazione, nè di consigli.

Quel magnifico tipo incrociato di _starter_ e di _master_ che Febo prima
di lasciar per sempre l'Inghilterra e la diplomazia, era riuscito a
scritturare per sè, e che in breve lo aveva... sublimato in tutti i rami
dello _sport_, dall'ippica al _lawn-tennis_, dal _foot-ball_
all'automobilismo, s'era insediato a cassetta di _Eureka_, come un
capitano di nave sul ponte di comando, ed era già, a bordo, il padrone
dopo Dio, dignitoso e corretto, senza una parola oltre l'indispensabile,
sicuro e pronto negli incidenti della strada, disinvolto e imperioso nel
suo gergo fatto di tutte le lingue, quando _Eureka_ sostava alle porte
dei grandi alberghi, per la colazione, pel pranzo, per gli alloggi.

                                  *
                                 * *

Il sole, il grande sole di luglio, aveva inondato la valle. La strada
saliva e la carrozza procedeva lenta, ansimando, con qualche stridore a
intervalli. Febo era disceso e camminava a lato, e poichè Rinetto,
acciecato dal sole, si era tirato sugli occhi il berretto bianco di
marinaio, e cedeva al sonno lasciando ballonzolare la grossa testa, Febo
stringeva con la sinistra il polso della marchesa, nervosamente, perchè
non le sfuggisse nulla di quanto il paese offriva di interessante, ma
senza guardarla, soggiogandola, con quella espressione quasi brutale
della sua vicinanza e dei suoi desideri.... Venivano incontro e
passavano scendendo la china al gran trotto fragoroso dei loro cinque
cavalli, fra nembi di polvere e schioccar di frusta le enormi diligenze
gialle, alte e traballanti come navi, e dall'alto era un volgersi di
visi esotici, maravigliati e sorridenti verso _Eureka_ e verso la bella,
elegantissima signora bionda, che si sentiva ravvolta e seguita da una
vampa di ammirazione e di cupidigie.

A quegli incontri, anche Rinetto apriva gli occhi, si scoteva,
sorrideva, si dava un contegno, godeva egli pure un po' dell'invidia
lasciata dietro per via, ma poi il sonno — quel sonno invincibile della
mattina per chi suole dormire tardissimo — lo riafferrava alla gola e
non c'era verso... Febo poteva tornarsene a fianco della carrozza, e
stringere forte, con la mano scarna e nervosa, il polso tondo e ignudo
della marchesa, perchè non le sfuggisse nulla del paesaggio...

— Ecco lassù, più in alto... Appare adesso... È il primo lembo di
ghiacciaio che il panorama ci offre.... Vedete quanto è bruno e livido
in confronto dei nevai, bianchissimi, più sotto? Domani sera, saremo ai
piedi di quella grande muraglia che sembra lo sorregga... Chi direbbe
che si può arrivare sin quasi lassù, in automobile?

                                  *
                                 * *

Entravano in un villaggio. Che silenzio! Non giungeva all'orecchio altro
che il martellare argentino di un vecchio contadino seduto su di un
tronco d'albero, serio ed assorto come un filosofo, che affilava la
falce picchiandola a colpi uguali sopra un'incudine piantata nel ceppo.
Qualche donna vestita di nero, con una cuffietta di lana bianca annodata
sul capo, attraversava la strada frettolosa, senza quasi voltarsi a
guardare chi arrivasse e spariva in uno dei soliti _chalets_.... Altri
visi di donna — visi affaticati e invecchiati anzi tempo — comparivano
ai vetri delle finestrelle, chiuse, chi sa perchè, anche con quel
caldo.... Uno sciame di bimbi, tutti puliti, con le grosse scarpe a
chiodi, sbarravano tanto d'occhi all'arrivo di quella strana carrozza
senza cavalli, che aveva le ruote cerchiate di gomma e si lasciava
dietro un forte odor di benzina, e la seguivano a distanza, ficcandosi
un dito in bocca, scambiandosi le loro impressioni in un linguaggio
breve e dolce, che a Felicita ricordava la canzone provenzale di
_Magalì_ nella _Sapho_ del Massenet.

I piccoli indigeni si decidevano a fermarsi in crocchio dinanzi alla
solita botteguccia dei _conditorei_ co' suoi immancabili automi di
cartone, in vetrina, per la _rèclame_ del Maestrani: altri se ne
incontravano pure sui gradini della _chesa comunela_, il Municipio del
paese, il solo edificio oltre gli alberghi e le due chiese, la cattolica
e la protestante, che non fosse di legno e in forma di _chalet_.

— Sente come parlano? — le diceva Febo. — Questo non è ancora
precisamente il romancio; è ladino. Niente di tedesco, molto di voci
nostre e di vecchio francese. — Poi, sommesso, chinandosi su di lei: —
Ditemi, Felicita, che vi sentite lieta, così, qui... — E d'un tratto: —
Mi siete più cara che mai!

Ella volgeva il viso dall'altra parte, puntando il binoccolo sui pascoli
della montagna, di là della valle.

— Pecore ancora, lassù tanto in alto?... E qualche cosa gira presso quei
_chalets_... Ah! una cascatella... Un molino, forse.... Nemmeno voi,
scommetto, senza cannocchiale, non lo vedreste!

— L'ho già visto e ne ho già scoperto il nome, nel Bäedeker; guardate
qui; _Immersäge! Immer_, capite? Sempre! Nell'eternità... E vi è morto
un famoso cacciator di camosci... v'è tutta una leggenda d'amore
intorno...

— Mettetela in versi!

— E perchè no? Ancora qualche mattina come questa quassù, con voi, così
cara, così buona...

— E sarete poeta! Per fortuna siamo nelle mani di Job!...

Rinetto, poverino, pisolando più sodo, si era messo a fischiare,
leggermente, ma in modo insopportabile e Febo, sebbene a malincuore, per
l'onore del sesso, lo dovette svegliare, gridandogli con paterna
commiserazione:

— Sta desto se puoi! Guardati intorno ed ammira, disgraziato! Tra venti
minuti si smonta, si fa colazione, e ti concederemo anche un po' di
siesta...

                                  *
                                 * *

Ritta in piedi su quello strano blocco di neve immacolato, ravvolta,
anzi fasciata da quel suo costume morbido e fine a riflessi di bronzo,
che non turbava una sola delle grazie rigogliose della bella persona.
Felicita si poggiava all'alto _alpenstok_ cui aveva legato in cima un
fascio di rododendri; e il mazzo delle roselline delle Alpi spiccava
come una gran macchia di sangue sul fondo cupo e quasi verdastro del
cielo.

Sostava così ansante e commossa ad ammirare la distesa melanconica del
ghiaccio e siccome si era riempita anche tutta la cintola di fiori
dell'Alpi — raccolti con ostinata abnegazione pur nei momenti più
scabrosi della salita — così sembrava sbocciasse col busto forte ed
eretto e la testa superba, di mezzo ad una festa bizzarra di
violaciocche, di tulipani, di verbene, di anemoni, di petunie e di
calceolarie... La si sarebbe detta, tutt'insieme, la statua di un'iddia
dolce e fiera della montagna, ergentesi sopra un rozzo basamento di
marmo purissimo, alla quale il prodigio di una nuovissima gioia avesse
infuso vita e calore. Felicita, infatti, era tutta rapita e vibrante di
fatica, d'ansia, di curiosità e si sentiva sinceramente grata a Febo che
le aveva procurato un così strano piacere. Egli non l'aveva obliata un
minuto solo, dacchè erano scesi di carrozza per salire a piedi il
ghiacciaio, e la marchesa, per oltre due ore, in quella immensa e
suggestiva solitudine alpina, si era sentita in balìa di quell'uomo
quasi protervo che pur sapeva con squisita sapienza dirle troppo in
mille modi, ma senza dir mai tanto ch'ella potesse bruscamente punirlo.

In quello sforzo assiduo di forza e di resistenza fisica, ed in pari
tempo di coltura e di genialità dello spirito, l'ostinato amore si
rivelava con tutte le seduzioni, con tutte le arti e con tutte le armi
di una seconda o terza gioventù, intraprendente ed esperta. Chi lo
avrebbe mai detto, conoscendolo solo come un impenitente _viveur_
cittadino? Agile, destro, prontissimo, audace e discreto, egli l'aveva
per così dire portata lassù e quasi senza un battito più frequente dei
polsi, senza un più affannoso respiro, nè una stilla di sudore; aveva
larvato per lei la fatica e i timori della salita, narrandole le cose
più varie, insegnandogliene una quantità d'altre, tutte curiose ed
interessanti. Ora ella, _lo sentiva_ ancora tranquillamente seduto, lì
su di un greppo, sotto di lei e chi sa perchè, proprio in quel punto, di
fronte alla scena nuova e nella nuova commozione, le passavano dinanzi
come mortificate e piccine, le figure del marito e di Rinetto... quel
povero Rinetto che con cento pretesti, fino lassù, al ghiacciaio, non
c'era voluto venire...

                                  *
                                 * *

Una nube bianca e soffice passava sopra il disco del sole e tosto si
smorzò tutto lo scintillio di quell'immenso mare immobile di ghiacci, si
spensero le vive luci abbaglianti che venivano prima dai nevai. Sulla
scena desolata corse come un brivido di morte: tutto all'intorno si fece
squallido, livido, sinistro e Felicita n'ebbe un senso improvviso di
raccapriccio, di terrore: le parve che anche i suoi fiori declinassero
ad un tratto, improvvisamente avvizziti, si sentì sola, come una bimba
persa, nell'orrore di quel paesaggio spettrale, e fattasi smorta, si
lasciò scivolare dal suo piedestallo di neve, si lasciò prendere sotto
le braccia di Febo e stringere, quasi rabbiosamente, da lui...

Ma nel mentre egli stava forse per osare, la nube stopposa, veleggiando
e sfasciandosi a fiocchi, lasciò sgorgare ad un tratto la grande luce
del sole... Tutto si riaccese: un senso di tepore e di conforto rianimò
la bella smarrita... le sembrò che la vaniglia bruna di cui aveva tutto
ingombro il corsetto la richiamasse, con un alito repentino della sua
forte fragranza, ai sensi e al pericolo, cosicchè sorrise, si scosse,
dolcemente si sciolse, tentò col piede il terreno e arditamente cominciò
a discendere verso la strada che serpeggiava laggiù tra i larici
estremi, senza più volgersi indietro, senza parlare.

                                  *
                                 * *

L'itinerario di viaggio ideato dal cavalier Febo, era un capolavoro del
genere. Non un'ora sprecata, non un chilometro di strada che non
offrisse un'attrattiva, un godimento speciale; ed in pari tempo una
studiosa cura di evitare quei luoghi sciupati nella loro bellezza dalla
moda borghese, dalla _réclame_ più fastidiosa. La si sarebbe detta una
peregrinazione in paese ignoto, un viaggio di scoperta, fra genti
primitive e caratteristiche, disseminate nei recessi delle valli più
quiete.

L'interno morbido ed elegante dell'automobile in quella vita zingaresca
e un po' selvaggia, era divenuto come la cabina comune di un bastimento
in rotta attraverso un gran mare di verde. La marchesa vi si era fatto
il suo cantuccio, vi aveva disposte le sue piccole cose, e ridendo
diceva che vi riceveva le sue visite, quando Febo e Rinetto dopo qualche
tratto a piedi chiedevano licenza di risalire. Job, sempre taciturno,
sempre vigile, rallentava a tempo, quando il paesaggio rivelava
improvvisamente inattesi splendori, o quando, senza neppur voltarsi,
avvertiva che un incidente qualunque — uno stormo di corvi gracchianti
nel prato, un falco che s'aggirasse stridendo nell'azzurro, od uno
scoiattolino saltellante fra gli alberi — avesse destato la curiosità
della grande e bella bambina bionda che quei due dietro a lui — il
cavaliere ed il giovinetto — sembravano mangiarsi cogli occhi.

Rinetto — nella famigliarità di quella vita a tre, nell'abbandono quasi
studentesco che per forza di cose si era stabilito fra loro, durante i
pasti, spesso frugali, nei piccoli _gasthaus_ ove la marchesa aveva
vaghezza di soffermarsi, — smarriva tutta la sua spavalderia, il suo
snobismo artificiale, ritornava un buon bambinone, senza alcuno dei
piccoli ardimenti che la vita della città e dello stabilimento gli
avevano ispirato in quegli ultimi tempi, verso la marchesa.

La sua «cotta per la bella bionda» come una volta, un po' brillo, si era
permesso di definire la sua passione, in un certo ritrovo, si era
purificata, si era elevata sino a duemila metri sopra... le volgarità
del loro mondo. Ogni sera, separandosi da lei per coricarsi in un luogo
diverso, in un letto nuovo, si sentiva innamorato più che mai... ma
sempre più idealmente.

Egli stesso non si conosceva più. Per non farsi aspettare al mattino,
non si radeva più barba e baffi con quella scrupolosa cura che rendeva
un tempo tutto il suo viso mondo di ogni virile peluria... Qualche
mattina anzi era sceso con più di uno sberleffe del rasoio e qualche
aiuola rossastra qua e là. Si occupava molto meno delle cravatte, delle
calze e degli altri accessori della sua toletta, e molto più del paese,
delle cose nuove e belle che gli si offrivano dinanzi, in quel su e giù
sulle «montagne russe» inventate — come diceva lui — da Febo... per i
suoi fini.

                                  *
                                 * *

Ed anche intorno ai fini... insidiosi del _vecchio_ Febo, il buon
Rinetto aveva smesso omai ogni gelosia. Capiva che la marchesa non
voleva nè la felicità nè l'infelicità di alcuno dei due. Il dì prima,
ella si era fermata a tracciare con la punta dell'_alpenstock_ il suo
nome nella parete di un grosso blocco di neve che fiancheggiava la
strada come la bianca muraglia di un giardino invisibile. Rinetto,
seduto su di un paracarro vicino, compitava melanconicamente le sillabe
a mano a mano che comparivano incise sulla neve: Fe-li-ci-ta...

— Passerà qualcuno, — osservò ad un tratto timidamente, — e leggerà
male; crederà sia arrivata davvero quassù la felicità e che vi abbia
lasciato il suo nome...

La marchesa si volse e con la sua smorfietta di rimprovero:

— Non è forse così?

— Ahimè! È passata la bellezza, la grazia... ma la felicità no... Manca
sempre l'accento.

E fece atto di bucare la neve, col suo bastone ferrato sovra l'innocente
_a_ finale... La marchesa gli trattenne il braccio e ridendo, ma con una
intonazione seria e recisa, concluse:

— Nè voi, nè altri... Resta così, senza accento!

Quel «nè altri» aveva consolato il povero ragazzo. Che donna
straordinaria la marchesa! Che spirito! Che tatto!

Egli ormai aveva preso tutte le abitudini di lei, tutti i suoi gusti. Si
gonfiava ogni mattina di latte appena munto, di miele odoroso, di carne
secca. Non si lagnava più di nulla, non sentiva più alcuno dei piccoli
disagi del viaggio, imparava da Febo i nomi dei fiori per sfoggiare poi,
egli pure, un po' di conoscenza della flora dell'Alpi e poichè la
marchesa s'era innamorata di quel delizioso linguaggio _romancio,_
copiava per lei i detti e le sentenze alle porte delle chiese, le
epigrafi nei piccoli cimiteri e appena si giungeva ad un villaggio
correva a fare incetta delle fotografie e delle cartoline illustrate del
luogo, riuscendo ad emulare, pel futuro album dei ricordi, lo stesso
Febo che con il _poket kodak_ avrebbe fotografato ogni pianta, ogni
sasso della montagna, e la marchesa poi ad ogni minuto della giornata,
in tutti gli atteggiamenti, in tutte le luci.

                                  *
                                 * *

Quel giorno avevano sostato a lungo allo strano albergo che sembrava
fatto soltanto di ferro e di vetro, eretto poco lungi dalla vecchia
cantoniera al sommo dell'ultimo valico. Il _record_ volgeva alla fine.
La marchesa, con la fronte appoggiata ai cristalli della veranda,
fissava la superficie immobile e fosca del piccolo lago alpino che si
stendeva sotto quel bizzarro edificio e nel quale si specchiavano le
nevi delle montagne ignude e tristi, che circondavano ad anfiteatro lo
speco. Altre nevi, che i calori estivi avevano staccate dalla riva,
galleggiavano lente verso il mezzo, dando alla scena l'aspetto
fantastico di un paesaggio polare. Da quei luoghi ermi e deserti, il
pensiero della marchesa scendeva alla pianura; le si riaffacciava alla
mente l'animazione dell'inverno cittadino, rivedeva i teatri, le feste,
i ritrovi, le amiche, la casa, il marito, e alla voluttà del nuovo che
l'aveva sino allora soggiogata, cominciava a succedere il desiderio
dell'antica vita, degli agi, delle mollezze, delle femminilità, alle
quali da una settimana aveva pressochè rinunziato.

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                                 * *

Si scosse... Era rimasta sola nella veranda chiusa e tepida come una
serra, che delle serre aveva anche la luce bianca ed i fiori forzati.
Sfogliò l'albo in cui c'erano i nomi di chi era passato prima di lei...
Tutti tedeschi, inglesi, americani del nord. Qualche raro nome italiano,
ma sconosciuto; qualche altro nome letto già, il dì prima, in un altro
albergo lungo la via; qualche accenno gentile, qua e là, ad una persona
amata, ad una patria lontana, ma nel complesso elogi banali al _menu_,
ostentazioni di titoli, firme presuntuose, evidentemente di
semi-analfabeti, diventati milionari... Dinanzi a quel lago ghiacciato,
una finlandese, una signorina indubbiamente, aveva evocato con due
melanconici versi tedeschi i suoi _fjords_. Un prete bretone aveva
trovato modo d'imprecare a Dreyfus, inneggiando _au drapeau de la
France_ nel bianco delle nevi, nel rosso dei rododendri, nell'azzurro
dei cieli.

Ad un tratto Felicita, alzando gli occhi dal libro, sentì Febo dietro di
sè. Egli le prese un po' per forza le mani, gliele tirò indietro,
stringendole fra le sue che scottavano, e chinandosi come per leggere
nell'albo, cominciò a dirle che lassù si viveva benissimo, anche nel
cuore dell'inverno.

— Io ci sono passato, tre anni fa, con le slitte... Tutto bianco
intorno... E come vi pensavo sin d'allora! Ci conoscevamo assai poco,
nevvero? Eppure mi ero giurato che sarei tornato con voi... Con voi,
Felicita, qui e dappertutto, con voi e per voi...

Ella strappò le mani da quelle tenaglie, chiuse rumorosamente l'albo, si
avviluppò tutta nel _plaid_ ed uscì a dar del pane, rompendolo ella
stessa a grossi pezzi, ad un povero cavalluccio giunto sin lassù, dietro
di loro, con una carriuola sconquassata, e che si riposava ora in un
angolo, ma si guardava intorno, come esterrefatto di tutti quei sassi,
di tutta quella neve senza un arboscello, senza un filo d'erba! Febo,
passandole vicino, per raggiungere Job che scaldava l'automobile, la
guardò prima fieramente, poi le disse, con una scrollata di spalle:

— Meglio così! L'elemosina a tutti! Al cavallo come ieri al cane, come
domani a Rinetto... A me nulla!... — E premendo stizzosamente la palla
di gomma dell'automobile, ruppe il divino silenzio delle Alpi, con lo
stridulo, insistente _què, què, què_, della cornetta, che fece accorrere
in furia Rinetto, dal vicino ufficio postale.

Felicita, frattanto, deposta la manciata dei suoi anelli nel lieve cavo
di un sasso e rimboccate alquanto le maniche, si lavava energicamente le
manine fatte violacee dal freddo, voltandole e rivoltandole sotto lo
zampillo gelido che canticchiava da un tronco, di fronte alla porta
dell'albergo.

— _Carmen_ bionda, nel terzo atto! — esclamò Rinetto rapito.

Ella era adorabile davvero anche così, e Febo ebbe di nuovo un sussulto
come stesse per commettere una sciocchezza, come volesse lanciarsi verso
di lei... La bella capì, e crudele nella vittoria, lo pregò che le
infilasse gli anelli, ad uno ad uno, e le riallacciasse i polsini,
dicendogli ad ogni momento:

— Così, da bravo, _les petits services_... mantengono le grandi
amicizie!

                                  *
                                 * *

— Vedete quei culmini ultimi, lassù? Li vedete ancora? Lassù è
appollaiato il villaggio, il più alto di tutta l'Europa ove crescono
ancora le biade, l'ultimo ove si parli ancora il bel dialetto
romancio... Domattina, ridiscendendo al di là, non udremo parlare altro
che il francese e vedremo la catena dietro la quale è l'Italia... Fra
tre giorni al più saremo a casa... È finita.

Per la prima volta nella voce di Febo, vibrava una nota di tristezza
sincera. Imbruniva. Ella avea finalmente accettato il suo braccio, e
salivano lentamente lungo la strada silenziosa, deserta, tagliata lungo
un abisso profondo, tutto verde, sopra il quale sembrava calassero più
frettolose che alle sommità, le ombre della sera, una sera indicibile,
purissima. Lungo l'altro margine della strada, erano schierati, come i
militi di un esercito sterminato, immobili e silenziosi, gli immensi
pini bruni, con le guglie diritte ed acute a forar quasi la vôlta
azzurra del cielo, nella quale si andavano accendendo le prime stelle...
Qualche fremito misterioso tra le forre, a piè degli alberi, qualche
fuggevole stormire nei rami, — uccelletti che mutavano di posto — e
null'altro. Non una casa, più, non un fuoco sulla montagna... nulla...
nessuno. Loro due ed il popolo muto delle piante, delle erbe che si
addormiva, in una calma magnifica.

— Vi duole che ci siamo incamminati così tardi? — le chiese Febo.

Ella scosse il capo dolcemente ed a lui parve che il morbido e tepido
braccio di Felicita tremasse contro il suo petto.

_Eureka_ aveva preparato una incresciosa sorpresa ai viaggiatori. A
cinque chilometri dall'ultima borgata, un guasto improvviso!
Inutilmente, fra il cavalier Febo e Job si era cercato di ripararvi:
senza un fabbro, senza arnesi, senza un gancio di ricambio, non era
possibile. Che fare? Tornare indietro, scompigliando tutto l'itinerario?
Si era quasi a mezza via per quel giorno, altri sei chilometri di
salita, ed il dì dopo, anche prima della riparazione, _Eureka_, in
continua discesa, li avrebbe portati abbasso, alla gran valle... la
valle ultima del pellegrinaggio. Job riuscì a persuadere due mandriani
diretti essi pure lassù, ad associarsi a lui nello spingere innanzi
l'automobile, e Rinetto, un po' a malincuore, ma lieto nondimeno di
compiacere Felicita, che si era mostrata seccatissima all'idea di dover
tornarsene indietro, aveva a mano a mano affrettato il passo per
vigilare davvicino la spedizione... e, al bisogno, spingere un pochino
anche lui. Così Febo e la marchesa erano rimasti addietro assai, nè ella
mostrava ora di volere affrettarsi molto, presa dal fascino di quel
silenzio, di quella solitudine, di quella tenebra luminosa.

                                  *
                                 * *

Come mai erano cascati a parlare di Milano, di tante cose tristi ed
uggiose in un'ora simile? E perchè Febo, già per la seconda volta, le
aveva indirettamente richiamato il ricordo di donna Ersilia e di suo
marito e di quell'orribile scenata di Roma, di cui appena si era
smorzato il pettegolezzo?

Forse aveva avuto ragione Febo, un momento prima:

— Tutto è divinamente bello nel creato; tutto quello che noi vediamo
qui, ora, è sovranamente grande; ma i luoghi e le cose non dicono niente
alle anime, se le anime dormono...

— La mia anima dorme? — aveva chiesto Felicita.

— Sì, mentre la mia soffre... E per questo, entrambe le nostre anime,
non sono qui. Se l'anima vostra si destasse, la mia cesserebbe di
soffrire e noi godremmo insieme... l'attimo che forse non tornerà più,
nè per me nè per voi! Essere soli, in mezzo ad un mondo silenzioso e
deserto e sentirsi felici di esservi...

Ella chinò il capo. L'ora era grave. La voce di Febo non sembrava la
stessa e Felicita pensò se doveva pentirsi d'essersi indugiata tanto con
lui.

Ad uno svolto brusco della strada, la pineta si apriva ad un tratto
verso il monte e a pochi passi biancheggiava una cava diruta, nel cui
fondo brillava una fiamma.

— C'è qualcuno? — chiese Felicita vivamente.

— Può darsi; siete stanca? Volete fermarvi?

— No, soltanto vedere.

Presso un focherello di sterpi che ardeva tra i sassi, fumigando di
resina, sulla soglia nera di un capanno fatto di ardesie e di tavole
d'abete, piccolo ed informe come l'abitazione d'un troglodita, un
vecchio irsuto, monco di una gamba, raspava in un paiuolo, e vicino a
lui, un ragazzo dalla testa enorme, gozzuto e sbilenco, mungeva, in una
ciotola, una caprettina stecchita, che per la prima avvertì gli
stranieri e cercò di ritirarsi belando dolorosamente.

Il vecchio aveva perduto la gamba sotto un macigno.

— Quanti anni fa?

— Oh! molti. — Non se ne ricordava più, ma qualche volta ne soffriva
ancora.

Viveva in quell'abituro fino al calar delle nevi, picchiando nel sasso
dalla mattina alla sera. Il ragazzo gli recava le pietre e gli
scalpelli, poi gli dava da mangiare, giacchè lui non poteva quasi
muoversi sul terreno ingombro della cava. Quel fanciullo era l'ultimo di
otto: tutti suoi nipotini, figli di una figliuola ch'era morta. Il
padre, stanco di vederli patire la fame, era andato in America e non se
n'era saputo più niente. Gli altri più grandi erano sparsi «pel mondo» a
lavorare e l'ultimo gli era rimasto vicino, attaccato a lui, come la
rozza gamba di legno alla sua coscia.

Il vecchio aveva detto la sua miseria, tranquillamente, sorridendo,
parlando piano, in quel _romancio_ di cui poco ormai sfuggiva
all'orecchio musicale di Felicita; e intanto il ragazzo scemo e la
capretta arguta guardavano i due, ma senza curiosità.

Neppure il vecchio sembrava stupito della apparizione di quella coppia
signorile, a quell'ora, a quell'altezza....

— Oggi sono passate in su molte carrozze, con molti signori.

— E qualcuno si è fermato a discorrere con voi?

Il vecchio alzò gli occhi dal paiuolo, sorridendo di più.

— Di giorno il sole batte forte sulla cava. Non si ferma nessuno qui. Io
non parlo mai... Quasi mai. — Non un lagno in quella voce, nè il menomo
accento d'invidia o di rancore per quei signori che gli passavano
dinanzi, in carrozza, senza fermarsi, mentr'egli viveva così, inchiodato
dalla sventura e dalla miseria ai macigni della sua montagna, ignaro
della suprema bellezza della scena che ogni giorno gli si apriva
dinanzi, quando all'alba usciva carponi come una povera bestia dal covo,
e riprendeva a martellare sul sasso...

— Siete cattolici o protestanti qui? — gli domandò Febo.

— Cattolici. Il villaggio dove arriverete fra mezz'ora, è il primo della
valle, abitato tutto da cattolici. Vedrete che bella chiesa!... Ci vado
anch'io alla domenica.

                                  *
                                 * *

Quando Felicita e Febo furono di nuovo sulla strada, era già sera. Il
discorso cadeva. Ascoltavano, entrambi, le mille voci di quel silenzio
più profondo e più canoro ad un tempo, d'ogni silenzio udito mai.

Ma si levava il vento freddo delle vette, e Felicita, anche pel
contrasto col tepore del focherello presso il quale si era indugiata
parlando, rabbrividiva e cercava di ravvilupparsi quanto era possibile
nel _plaid_. Febo, un po' preoccupato di quel vento rigido e dell'ora
tarda, preso come da una smania stizzosa d'arrivare, le serrava il
braccio sotto il suo, affrettava il passo, la trascinava quasi, sempre
tacendo, fissando i fuochi del villaggetto ch'erano comparsi ad uno
svolto della strada, che ora si avvicinavano, ora sembravano
allontanarsi, quasi burlandosi delle sue ansie, ma che brillavano sempre
come un dolce richiamo, come un invito, come una promessa... Giunsero
alle prime case del paese, quasi senza avvedersene.

Tutto silenzioso, tutto cheto... Qualche lume dietro i doppi vetri delle
solite finestruole, delle solite casette, qualche lieve rumore appena...

Ad un tratto si udì la voce di Rinetto e quasi subito un fascio di luce
si precipitò sulla strada.

Rinetto veniva loro incontro, in compagnia di Job che aveva staccato il
lampione dell'automobile.

— Amici! — gridò Rinetto con enfasi, ancor da lontano — Siamo fritti!
L'unico albergo del paese, pieno come un ovo!

E avvicinandosi, scrutando un po' inquieto i volti della marchesa e di
Febo, continuò:

— Non un letto a pagarlo un milione! Sembra una casa presa d'assalto! Ci
si è fermata mezza Boston e mezza Filadelfia! Una specie d'invasione di
quaccheri, che salgono domani ai ghiacciai...

— Possibile? Neppure qualche camera?

— Ma che! Sarà molto se ci avranno avanzato un po' di cena! Vi sono
letti anche nella sala da biliardo, nei tre camerini da bagno
dell'albergo, dappertutto!

— E nondimeno, una camera per la marchesa, bisognerà pure che ce la
diano! — esclamò Febo, in furia, contrariato, seccatissimo, riprendendo
a trascinare rapidamente Felicita verso l'albergo, del quale apparivano,
nel buio, le finestre illuminate in fondo all'unica via del villaggio.

— Caro mio — proseguì Rinetto, egli pure di pessimo umore, tenendo
dietro, e badando alla strada — puoi credere se ho tempestato per una
camera, almeno una, per la marchesa!... È tempo perso! Ti rispondono
appena: «Tutto occupato!» Non c'è altro che accettare la proposta dello
stesso proprietario dell'albergo, l'unica tavola di salvezza, del
resto...

— E cioè? — fece Febo.

— _Chez monsieur le curé, s'il vous plaît, messieurs._

— In casa del curato?

— Già. La casa laggiù, quasi in faccia all'albergo. Pare che la casa del
ministro di Dio, sia una specie di _dépendance_, al bisogno!

La marchesa non aveva aperto bocca, ma era più infastidita di tutti per
quel contrattempo. Si sentiva fisicamente stanca. Durante l'ultimo pezzo
di strada, a passo affrettato, non aveva sognato altro che una bella
camera con un bel fuoco e molto spazio per tuffare le mani nelle
valigie... anzi tutto; poi, prima ancora, della cena, del fuoco, del
letto, aveva bisogno, materialmente bisogno di un buon bagno tiepido...
di un lungo bagno riparatore. Tutti i suoi istinti, le sue abitudini, le
sue raffinatezze, fatte tacere in quei giorni fra le distrazioni del
nuovo, riprendevano ora il sopravvento di fronte all'impossibilità di
appagarle, e il dispetto, la stanchezza, il freddo, la prospettiva di
una cattiva notte, le davano un senso di amarezza indefinita, quasi
quasi la voglia di prendersela con Febo e con Rinetto, o di mettersi a
piangere...

In casa del curato! Che sciocchezza, che seccatura! Dover magari dar
conto... spiegare... far delle presentazioni! Il suo entusiasmo per i
piccoli _chalet_ svizzeri, visti dal di fuori, si era molto smorzato da
quando aveva avuto occasione, in que' giorni, di mettere la testa dentro
a qualcuno di essi. Puliti sì e ordinati, ma afosi: vere scatole
opprimenti.

Capitare di notte in un luogo simile, a quell'altezza, e trovare un solo
albergo, senza una camera vuota... Era la prima contrarietà del viaggio,
ma fastidiosissima!

                                  *
                                 * *

L'albergo era pieno infatti, pur nondimeno quieto e silenzioso. Finiva
la cena. Uomini enormi, dai piedi enormi, dalle mani enormi, signore e
signorine che sembravano uomini, tutti dall'aria stanca e severa,
occupavano sino all'ultimo posto della _table d'hôte_ e sbucciavano
gravemente delle mele e delle pere, senza quasi guardarsi l'un l'altro,
scambiando appena qualche parola.

Scialli, _plaid_, zaini, binoccoli e _Bädeker_ dappertutto; in ogni
angolo fasci di _alpenstok_ giganteschi, delle piccozze nelle custodie
di cuoio, e sopra ogni mobile mazzi di _edelweiss_ e di _alpen-rose_.
L'irruzione rumorosa della bella marchesa e dei due amici, la
disinvoltura con la quale i tre italiani sedettero ad un tavolino
d'angolo e assediarono di domande in tutte le lingue il _maître d'hôtel_
e i camerieri, per la cena e per le camere, parvero scandalizzare quegli
sbarbati indigeni delle rive del Michigan.

Dopo qualche minuto, come spinti da una molla si alzarono tutt'insieme
uomini e donne, e presa la loro roba, quasi furtivamente, con un lieve
abbassar del capo, uno dopo l'altro, infilarono l'uscio e sparirono come
ombre. Non rimasero a tavola, sparsi qua e là, che due o tre commensali,
in _smoking_ e in cravatta bianca.

Mentre la marchesa, Rinetto e Febo finivano di cenare, comparve
sull'uscio un bel pretone, forte, tarchiato, dal viso rubicondo, con
grossi riccioli bianchi alle tempie ed un fare, fra il furbo ed il
gioviale, da prete italiano che finì d'indisporre, con la volgarità, i
suoi ospiti forzati.

Il prete però non era affatto italiano: svizzero puro sangue e
precisamente, grigione, dell'_Oberalpstein_, da oltre trent'anni curato
fra quelle casupole, «l'ultima tappa verso il Paradiso». Il brav'uomo,
del quale ogni gesto, ogni parola, rivelava l'atavismo forse
dell'albergatore anzichè la vocazione ecclesiastica, s'era presentato da
sè, parlando mezzo francese e mezzo _romancio_ con qualche storpiatura,
qua e là, d'italiano. Si era già molto bene informato: qualche cosa sul
conto dei signori risultava dalla dichiarazione scritta da Job sul
_Fremdenbuch_; quanto al resto, il prete furbo lo aveva indovinato, e
pareva arcicontento di poter dar ricetto nella sua povera casetta a
«così nobile compagnia».

— Anzi se la signora vuol favorire anche subito, mi permetterò di
presentarle mio nipote, don Arcangelo, il quale parla molto bene
l'italiano perchè ha studiato teologia per quattro anni, nel Seminario
di Milano, ed è stato ordinato prete dall'arcivescovo che c'era allora,
monsignor Calabiana!

Febo e la marchesa non rispondevano, sempre più infastiditi, e Rinetto
dovette pur mettere fuori qualche parola, per tutti.

— Come mai, un suo nipote, svizzero m'immagino... è andato a farsi prete
a Milano?

— Sa, è un antico privilegio della nostra diocesi di Coira, di poter
mandare venticinque chierici per gli ordini, al loro insigne Seminario
di Milano. Una concessione che risale al medio evo!

                                  *
                                 * *

Nell'attraversare la strada per passare dall'albergo alla casa del
curato, tutt'e tre avvertirono che il vento si era fatto ancor più forte
e più freddo, ed appena posto piede nella piccola anticamera, Felicita
provò un senso di tepore e di conforto che dissipò quasi le cattive
prevenzioni. L'aria in quella specie di cassa di tavole d'abete e di
larice, era poca infatti, ma aveva lo stesso profumo della pineta.

Il cuculo, mettendo fuori la testina dal vecchio oriolo sospeso in un
angolo dava il benvenuto agli ospiti co' suoi dieci _dan-cucù_, quasi
festosi... La vecchia Perpetua, ch'era accorsa con la lucernetta, si
faceva in quattro per sbarazzare i nuovi arrivati dei mantelli e di
tutto quanto avevano in mano, ed un cagnolino bianco, brutto, ma con
un'aria buona e ospitale, s'era messo a scodinzolare, curvo e festoso
dinanzi alla marchesa.... Alle sollecitazioni del curato, Felicita si
fece innanzi nel breve corridoio, a mezzo del quale brillava lo
spiraglio di luce di un uscio socchiuso: spinse ed entrò. La prima cosa
che le colpì lo sguardo nel salottino lindo e gaio, fu un _harmonium_ di
legno nero, aperto in un angolo, e fasci di musica tutt'intorno, sui
mobili e per terra.... Felicita ad un lieve grido, come un singulto, si
volse e scorse un giovane prete, il nipote del signor curato.

Questi entrando e scostando le seggiole perchè gli ospiti sedessero,
fece in fretta e con molta disinvoltura un po' di presentazione.

— Questi signori... tutti di Milano, e don Arcangelo, mio nipote e mio
coadiutore alla parrocchia, un po' milanese anche lui... come ho già
spiegato.

Don Arcangelo era lì, ritto presso la tavola, fissando la marchesa, in
atto quasi di tenderle le mani, e nel suo sguardo spirava la sorpresa,
la soggezione, il timore, ma più ancora una gioia, una grande gioia,
quasi infantile.

Era un giovine di media statura, esile, dal volto pallido e un po'
scarno, dagli occhi grandi e azzurri, dall'espressione dignitosa e
nobile. Sulla fronte ampia, pallida, un gran disordine di capelli
castagni; una selva. Quelle due mani protese per un momento verso di lei
erano pure apparse a Felicita esili e nobili, come tutta la sua figura e
bianche poi come i tasti dell'_harmonium_: in quell'atto, avevano
tremato nelle ampie maniche della veste nera....

Durava fra loro un silenzio imbarazzante. Il curato disponeva sulla
tavola un grande piatto di fragole di monte, odorosissime e piccine, e
faceva star ritto, in un curioso vaso di terra bruna, un bel mazzo di
ciclamini smorti, ma essi pure, profumatissimi.

La vecchia fantesca aveva recato anche una bottiglia di vecchio vino di
Valtellina, rosso come il rubino, ed il signor curato ne riempiva certi
bicchieri dipinti a rabeschi, insistendo perchè tutti bevessero, ma
bevendo lui per primo, a piccoli sorsi, da vecchio innamorato. La
marchesa, per non fissare il pretino, si guardava intorno, esaminava
tutte le strane cose accumulate in quel piccolo salotto, dall'immensa
stufa di muro che ne occupava la quarta parte al piccolo nido
appiccicato sopra lo stipite dell'uscio e che — spiegava il curato — da
sette anni le rondini venivano a rifare, proprio lì dentro, entrando or
dalla finestra or dal corridoio, come se fossero in casa loro

Dopo aver riempito e vuotato più volte il bicchiere, il curato
giovialone chiese il permesso di ritirarsi.

Il dì dopo era domenica, e per le sei egli doveva salire a dir la prima
messa nell'oratorio dei pastori; quasi un'ora di sentiero erto,
faticoso... un luogo da capre. Ma durante l'estate, una messa anche per
quei poveretti confinati lassù, almeno alla domenica bisognava pur
dirla!

— Anche loro signori saranno stanchi; vorranno levarsi presto. Però,
come loro garba meglio. E ad ogni modo, un altro gocciolo, signora!
Permetta; in questi paesi, il vino è sangue! Arcangelo magari, non ne
vuol quasi sapere; ma lui, lui, è più santo di me! E poi... ha la
musica, lui!

Quando il vecchio chiacchierone se ne fu andato, dopo gli ultimi ordini
impartiti alla fantesca perchè accompagnasse gli ospiti alle loro
camere, Felicita, temendo si rinnovasse l'increscioso silenzio del primo
momento, si volse subito al pretino e gli chiese, volgendo un'occhiata
all'_harmonium_:

— Musicista?

— Sì, — rispose il giovine prete. E quel sì, fu detto quasi fieramente,
tanto ch'egli stesso sentì di dover aggiungere in tono più dimesso: — O
almeno, appassionato tanto della musica!

Subito, come per prevenire la banalità dell'invito, si avvicinò
all'_harmonium_, sedette, e pose le mani sulla tastiera. Senza musica
dinanzi, senza guardare in viso ad alcuno, come parlando fra sè, mentre
sfiorava appena la tastiera, soggiunse:

— Mi sono provato oggi a musicare il poeta più umile e più profondo
della Bibbia: Giobbe, nel suo libro dei morti. Ma non c'è ancora tutta
la sua melanconia, e non c'è tutta la sua rassegnazione!

La voce dell'_harmonium_, in quella piccola stanza foderata di legno,
aveva squilli e sonorità strane che si smorzavano in più strani
languori.

Il giovine prete accennava ai versetti del Salmo a mezza voce, nel
vecchio linguaggio _romancio_ della vallata e le mani esili e bianche
traevano dallo strumento voci di dolori ineffabili, senza disperazione,
in un ritmo originalissimo, che non ricordava nessuna musica, nessuna
scuola:

    L'uman, nad dalla donna vis da court età
    e vegni impli de diversas miserias. El comparà
    sco üna fluor, vegn taglià jo e svanisca,
    sco la sumbriva....

L'immagine ultima del fiore reciso, che scompare come l'ombra, aveva
ispirato al musicista una elegia ampia e magniloquente, che si risolveva
però subito in una perorazione intima e semplice. Nella frase estrema
esultava la canzone della montagna; quelle note ne raccoglievano i
suoni, ne esalavano le fragranze, sembrava distruggessero col loro
soffio le pareti della stanzetta e sollevassero gli spiriti alla maestà
delle vette inaccessibili....

L'artista fissava la marchesa coi grandi occhi cerulei, sfavillanti;
pareva le fosse amico, le fosse intimo da tempo, pareva le rivelasse con
quell'esplosione magnifica di melodie prorompenti dall'animo, tutte le
ansie dei suoi sogni di adolescente, tutte le intime lotte ignorate e la
lunga attesa ed il gaudio di quell'ora creata da un capriccio del
caso... Però, in quell'ebbrezza di una grande gioia e di un completo
abbandono d'artista, cessato di cantare ed accennando appena sulla
tastiera alla frase ultima del suo salmo, il giovine prete diceva ora a
Felicita, che le stava vicino, in piedi, presso l'_harmonium_, il
segreto della sorpresa, del suo turbamento, nel vederla.

— Non è la prima volta che noi c'incontriamo!

— Davvero? Ma dove? Quando?

— Oh! È impossibile che lei si sia mai accorta di me! Ma io... io la
ricordavo; e l'ho riconosciuta. Ella da fanciulla, era contessina di
C..., nevvero?

— Sicuro! E come lo sa?

— Abitava colla mamma l'antico palazzo sul Corso, quasi dirimpetto al
Seminario?...

— Ma certo! certo! Casa mia, da ragazza!

— Ebbene.... Io la vedevo di frequente, allora. Sono cose... che si
ricordano per tutta la vita! Ella qualche volta era al balcone, oppure
usciva in carrozza, colla mamma, ed io, due volte la settimana, con i
compagni.

La marchesa si picchiò la fronte coll'indice e uscì fuori, quasi ridendo
a esclamare:

— Ah! Ecco finalmente! Ci siamo!

Rivedeva infatti, come se si fosse trovata dieci anni innanzi, al suo
balcone del Corso, la lunga fila nera dei giovinetti chierici, a due a
due, uscire dal gran portone barocco del Seminario e voltare, ora verso
i giardini pubblici, per la passeggiata, ora verso la chiesa di San
Babila, per le funzioni. E ricordava, quegli _spirlongoni_, tutti
cascanti e goffi nelle ampie veste nere svolazzanti e certi visi smorti,
quasi terrei, emaciati, con i pomelli rossi, e certi sguardi arditi,
sfavillanti, gettati di traverso alle donne in istrada, ed anche in
direzione del suo poggiolo, frenati tosto da un rapido e compunto
abbassar di palpebre. Molte volte, la carrozza, dov'ella sedeva con la
mamma, doveva fermarsi perchè finisse di passare la sfilata.... Oh,
allora non poteva divertirsi a celiare e a sorridere alle spalle di quei
poveri ragazzi, come quando, invece, era al balcone con la cugina
Emma!... Con la mamma bisognava star seria e sopportare, senza una
smorfia, il fuoco di fila di tutti quegli sguardi. Ma allora appunto,
fra tutte quelle facce che dall'alto sembravano uguali, ne distingueva
alcune o più brutte o più belle delle altre, e adesso il viso del
giovine prete, ancor più pallido per la intensa commozione, non le
tornava affatto nuovo. Sentiva che quegli occhi l'avevano già molte
altre volte cercata e fissata così, a lungo.... Fu un istante solo, ma
di grande e profondo turbamento per entrambi: ella, come lui, non erano
più in quella stanzetta, in quella casa perduta tra i monti; non c'era
più nessuno presso di loro, tutti quegli anni non erano passati ed una
folla d'ansie, di curiosità, di domande pareva dovesse prorompere dalle
labbra dell'uno o dell'altra. Ma siccome Febo con qualche punta d'ironia
e Rinetto con ammirazione sincera insistevano nel chiedere come mai
scrivendo della musica simile non la facesse conoscere e vivesse lassù,
fuori del mondo, così l'artista, come svegliandosi da un sogno e
ridiventando tutto prete, si alzò e tornò verso la tavola.

— La mia povera musica è per me e per i miei montanari, ed il mio posto
è qui, fra di loro.

— E ci sta tutto l'anno? — chiese Felicita.

Egli la tornò a guardare più calmo ed accennò di sì.

— Chi sa che freddo d'inverno! — esclamò Rinetto.

Il pretino sorrise.

— Freddo, sicuro.... Molto freddo... sino a 17, o a 18 gradi sotto
zero.... E l'inverno dura otto mesi... Da ottobre a maggio: la posta
passa soltanto due volte la settimana, con le slitte.

— E allora? — fece quasi con ansia Felicita, avvicinandosi.

Egli la guardò, così alta, così bella nel chiarore della lucernetta che
ardeva ancora sull'_harmonium_ ed ebbe di nuovo una fiamma alla fronte
ed un tremito ai polsi. Ma proseguì con la voce pacata:

— Allora qui si lavora, si pensa. Molta gente migra lontano. Io tengo la
scuola. — Dove? Qui, a casa?

— No! No! È un po' lontana, la scuola; oltre la chiesa. E quando la neve
è alta si pena un po' ad andarvi. Ma è anche nel posto più sicuro pei
ragazzi.

— Sicuro per che cosa?

— Per la valanga.

E in questa sola parola, detta con la consueta semplicità, c'era tutta
una evocazione di memorie lugubri, di tragici casi.

Stretto dalle domande, don Arcangelo dovette pur dire della sua vita di
stenti e di fatiche in quegli eterni mesi d'inverno.

Ma poi, come temendo di sembrarle pusillanime, soggiunse:

— Una volta all'anno però, prima delle nevi, scendo al nostro paese,
nella vallata dell'Albula, oltre Thusis, dove c'è ancora la mamma....

E proseguiva a parlare, fissando quasi sempre Felicita con dignitosa
tenerezza, e magnificava i conforti della sua vita, la gratitudine di
quella povera gente, la gioia del sentirsi così vicino anche
materialmente a Dio, in un piccolo mondo fatto tutto di umili e di
buoni, e di pregarlo, di onorarlo, in quella chiesuola, la più alta
forse di tutte le Alpi.

— E... la montagna, la selva e la musica.... Vede? Quante cose, quante
ricchezze, nella nostra povertà!... Anzi, per me, la montagna, la
foresta e la musica sono ormai una cosa sola, una felicità sola, che io
amo, amando il Signore che me le ha concesse. Mi capisce? Sente, non è
vero, ciò che io le voglio dire, con queste mie parole? La montagna è
come una religione, una poesia, una musica per sè stessa... Beato chi
riesce a capirla! Ma forse non basta passarvi qualche settimana, così di
sfuggita, come hanno fatto loro. È d'uopo viverci, farsi degli amici
negli alberi, nei sassi, negli insetti. Da questa finestra, io scorgo
forse un centinaio di vette di pini... e li conosco quasi tutti, anzi
potrei quasi mettere un nome a ciascuno di loro, come alle cime dei
monti; e così, proprio soli, non si è mai... mai.

Ad un tratto, si accorse che parlava da troppo tempo e si alzò, tutto in
soggezione, chiedendo scusa della sua grande indiscretezza. Ma aveva
ancora sul cuore troppe cose per lei... per lei sola.

Nel trasmestìo, allorchè furono tutti in piedi, impacciandosi a vicenda
nell'angustia della saletta, egli si trovò vicino alla marchesa e
prendendole la mano fra le sue, che non tremavano più le chiese
sommessamente:

— Felice?...

Ella sorrise e scosse il capo.

— Ha bambini?

Ella accennò di no, scotendo ancora la testa.

— Non importa.... Deve essere felice lo stesso, signora.... Ella lo può;
deve esserlo!

                                  *
                                 * *

Alla marchesa avevano destinato la camera migliore, un po' grande, con
un lettone altissimo dai materassi di piume.

Febo e Rinetto avevano dovuto allogarsi insieme, in una stanza vicina e
la marchesa, che aveva dato una capatina per curiosità, sorrideva ora
pensando alla lugubre compagnia che era toccata a' suoi compagni.

A' piedi del canterano v'era un grande sarcofago di vetro, nel quale
stava disteso, immobile, livido, sanguinoso, con l'occhio spento, un
immenso Gesù Cristo di cera: sembrava una figura patologica da museo, ed
anche Febo e Rinetto avevano tentato inutilmente di nascondere,
celiando, la prima impressione, di aver vicino quella salma. Tutta la
casa, del resto, era un po' anche una sagrestia. Aprendo gli armadi e i
cassettoni esalava un odore misto di lavanda e di incenso,
s'intravedevano cotte e pianete, e nel corridoio, lungo le pareti,
luccicavano i papi e i candelabri degli altari.

— La chiesa è così piccola!... — aveva detto la fantesca.

La marchesa cominciò a spogliarsi.

Com'era stanca! Quante strane impressioni! Sopratutto quella musica,
quegli occhi ed il suo balcone del Corso, le sue birichinerie di
ragazza, sua cugina Emma e la biscia nera dei chierici che usciva dal
portone del Seminario....

Bisognava far tutto piano in quella casa. Ci si sentiva da una stanza
all'altra, come se non ci fossero state le pareti. In quella commessura
di tavole era un succedersi di colpi secchi, di tonfi cupi e adesso la
marchesa sentiva Rinetto che parlava di quegli «spiriti» con Febo, il
quale gli rispondeva appena, evidentemente di pessimo umore.

Quante cose le mancavano! Non aveva potuto metter mano a tutte le
valigie! Ed il rimpianto del bagno?... Continuando a svestirsi, le
sembrò che tutti i santi e le sante inchiodate o sospese alle pareti, in
cornicette di scorza d'albero, la guardassero molto stupiti e un po'
anche scandalizzati... Dirimpetto all'uscio, fra le due finestruole,
verso il monte, era appesa una fotografia di lui, in piedi, vestito
mezzo da prete e mezzo da montanaro, sopra un fondo di neve, con un
grosso bastone nella destra ed il brutto cagnolino bianco ai piedi. Quel
volto mite e fiero la fissava come un momento prima, nel chiederle se
fosse felice, nel comandarle di essere felice. La marchesa si avvicinò
col lume al ritratto e lesse i quattro versi scritti in tedesco e in
italiano, da mano femminile, — la mamma od una sorella forse, — al basso
della fotografia, sulla neve:

    _Wo Liebe da Friede_
    _Wo Friede da Segen_
    _Wo Segen da Gott_
    _Wo Gott keine Noth._

    _Dov'è amore è pace_
    _Dov'è pace è benedizione_
    _Dov'è benedizione è Dio_
    _Dov'è Dio nessun bisogno._

Nessun bisogno? Nessun desiderio? L'antica quartina della poesia
popolare tedesca, col trionfo della fiducia in Dio, poteva essere il
motto di quell'uomo intelligente e forte, artista ed... innamorato di
una memoria? La pia mano non aveva scritto quei versi sotto il ritratto,
come un'invocazione, come un augurio, come l'espressione del desiderio
che si acquetasse in lui la moltitudine dei desideri che lo
tormentavano?

La marchesa ritta in piedi a rileggere, a pensare, ad un tratto,
istintivamente — era un senso di freddo o di pudore? — raccolse intorno
al collo il morbido _saut du lit_ di _crépe de Chine_ che le era
scivolato dalle spalle... Un momento dopo, al buio, porgendo orecchio ai
mille rumori di quella casa che sembrava la cassa armonica di un
violoncello, rivedeva ancora lui, udiva l'estrema frase, dolorosa e
sublime del salmo, e pensava. Ma poi, crogiolandosi nel tepore delle
piume, che sembravano accavallarsi quasi per accarezzare tutta la nuova,
bellissima ospite, la marchesa cedette alla stanchezza ed al sonno,
ripetendo a fior di labbra, come una preghiera:

    _Wo Liebe, da Friede..._

                                  *
                                 * *

E don Arcangelo?... Che cosa aveva fatto in quelle ore, mentre ella
dormiva vicina, a pochi passi? Quale stranezza! Il caso solo non ne era
stato capace. Il buon Dio lo aveva voluto!... E perchè? Perchè aveva
voluto lì, così vicina a lui, quella donna la cui immagine era andata da
anni idealizzandosi nel vivo, melanconico rimpianto, colei che aveva
animate, agitate le notti dolorose ed ardenti di un tempo, prima delle
tragiche vittorie dell'anima sopra le ribellioni della mente e dei
sensi? Che cosa aveva egli fatto durante quelle ore insonni? Non lo
ricordava: pregato e pianto indubbiamente. Pregato per lei, pianto per
lei e per sè.

... Non appena il primissimo albore sbiancò il cielo ad oriente, don
Arcangelo scese affranto, cauto, silenzioso, ed uscì alla montagna,
porgendo la fronte alla brezza aspra che stracciava e metteva in fuga le
brume, svelando tutta una gloria di nevi e di vette... Mosse lento su
per l'erta verso la chiesuola luminosa che le betulle si chinavano ad
abbracciare, dai gradini al tetto, a' piedi della selva estrema dopo la
quale non v'era più niente, tranne il cielo e Dio... E la selva si
svegliava!... Andava intonandosi, tra il verde, la sinfonia eterna,
ispiratrice della sua musica santa che nessuno avrebbe udito, tranne
quei poveri mandriani poco dissimili dalle bestie, ma che lei, lei, lei
aveva udita e capita!... I fringuelli bisbigliavano nella boscaglia, la
cingallegra verde saltellava tra le fronde verdi, una gazza batteva
l'ala negra d'abete, in abete, ed un rigolo fischiava sommesso, mentre
il picchio cominciava a battere il tempo...

                                  *
                                 * *

Job, ad un cenno di Febo, mise in moto la macchina riaggiustata ed
_Eureka_ cominciò a scivolare verso la valle, lasciandosi indietro un
forte odor di benzina.

Il vento gonfiava la veletta bianca intorno al visino di Felicita, come
una piccola vela, ed ella si era già voltata più volte, inutilmente, a
guardare verso la chiesa. Era seria, tranquilla, un po' triste.

Le impressioni, le evocazioni della sera le risalivano dal fondo
dell'anima. Per la prima volta dopo tanti anni, si sentiva turbata dai
mistici fervori di fanciulla, svaniti nei fastidi e nei piaceri della
sua vita ardente e vuota. Sentiva che quell'umile pretino di montagna,
il quale non si era lasciato più vedere, che ella non avrebbe visto più
mai, aveva adorata la sua immagine nel segreto, nella solitudine, nel
sagrificio, e gli appariva moralmente più grande e più bello di tutti
gli uomini che fin'allora le avevano detto di amarla, e che l'avevano
esaltata nell'universale volgarità del desiderio.

Strano! Pensava alla Madonna, di cui un tempo era stata divota, pensava
alla mamma morta, che era stata bella e desiderata quanto lei e che
nondimeno si era serbata buona sempre, in mezzo a gioie e a dolori molto
simili ai suoi....

Sentì che Febo la fissava, ardito e tenace, indovinando e disperando, ed
ella allora gli si volse, risolutamente, con un'espressione di sfida
tranquilla e superba, per sorridere poscia a Rinetto, fuggevolmente,
quasi in atto di sconforto materno, in una improvvisa, irrevocabile
dissoluzione d'ogni equivoco, fra tutti e tre.

Una mandria, allo svolto, fuor del villaggio, ingombrava la via e mentre
Job frenava, Febo stizzoso cominciò a premere la palla di gomma
dell'automobile, sfogando con quel rabbioso _tè — tè — tè_ — d'allarme,
il dispetto che gli faceva nodo alla gola. Ma dall'alto, dalla chiesuola
aprica, ove don Arcangelo inginocchiato pregava ancora, un altro squillo
scendeva invece discreto, argentino, lo squillo dell'unica campanina,
lassù tra i pini della selva estrema... dopo la quale non vi era più
niente, tranne il cielo e Dio!



Il pranzo della barcaccia


Donna Rosana, dopo aver pranzato in cinque minuti, mangiando poco,
divorando in fretta, non bevendo altro che due gocce d'acqua calda,
attraversa quasi di corsa le sale riscaldate a 16 gradi _reaumur_ ed
entra nel suo piccolo salottino, esclamando con un brivido di freddo:

— Presto, Fabrizio! Accendete il fuoco!

Sta ritta, immobile dinanzi al caminetto ad aspettar la fiammata; e,
così alta e sottile, tutta bianca nella morbida veste da camera dalle
pieghe ondeggianti, sembra quasi una statua ergentesi sopra uno sfondo
di arazzi dalle scolorite allegorie amarantine, in mezzo alle dorature,
alle rarità artistiche, agli sparsi gruppettini di _vieux-saxe_ dagli
atteggiamenti languidetti e voluttuosi.

— Presto! Presto, Fabrizio!... Brrr!

Fabrizio, in falda, rigido ed ossequioso, si china un istante sotto
l'ampia cappa del caminetto sontuoso e subito i fastelli di pino
divampano crepitando e illuminando il salotto d'una luce rossastra.

— Comanda altro?

— Portate il caffè.

Fabrizio, già lontano, sparisce dietro una portiera come un'ombra.

Donna Rosana dà un'occhiata all'orologio, poi spinge una poltroncina
dinanzi al fuoco, siede, si sdraia con un sospiro, e mentre stende le
mani per riscaldarle e per ripararsi la faccia, verso la fiamma troppo
viva, guarda l'ora un'altra volta.

— Sono le otto. Prima delle otto e mezzo non verrà di certo.

Chiusi gli occhi, si allunga dell'altro, e mettendosi un po' di fianco,
appoggia il capo sulla poltroncina, e rigira le mani dinanzi alla fiamma
che ne fa scintillare gli anelli, che le fa diventare trasparenti e
rosee come conchiglie.

Ad un tratto si riscuote trasalendo e si rizza a sedere. Voleva cercare
di addormentarsi, voleva fingere di essere tranquilla, indifferente, ma
non può. Non può fingere, non può mentire nemmeno con sè stessa, e
allora si abbandona interamente a quel pensiero che la turba, che la
inquieta e che le imprime in mezzo alla fronte piana e luminosa, una
ruga profonda.

— Doveva finire... proprio così. Tutto deve finire a questo mondo!

Ma poi, adagio adagio, la collera si calma, sparisce la ruga e il volto
sempre pallido di donna Rosana, quel volto che per le commozioni, la
fatica e la gioia non si accende di subitanee vampe, ma si fa più
pallido ancora e ha trasparenze quasi brune, sorride appena con ironia
amara; e i grandi occhi neri come carboni, lucidi come diamanti, hanno
il tremolio delle lacrime.

— Doveva finire... e proprio così Mah! Tutto deve finire a questo mondo!

La portiera si alza e riappare Fabrizio col caffè.

— Mettete due altri fascinotti sul fuoco, — gli ordina donna Rosana
senza voltarsi: — Versate pure il caffè. Datemi quel libro lì, piccolo,
legato in pergamena. Guardate lì, sulla scrivania!

Fabrizio va, porta il libro e torna a sparire, in punta di piedi. Nella
stanzetta si ode soltanto lo scoppiettìo sempre più interrotto del fuoco
che si va spegnendo.

Intanto, donna Rosana, ha aperto macchinalmente il volumetto e
macchinalmente comincia a leggere:

    _«Amour, fléau du monde, exécrable folie...»_

Alza gli occhi dal libro, e guarda un'altra volta l'orologio:

— Le otto e mezzo!

Lelio, quel giorno, dalla marchesa Ippolita, le aveva detto sottovoce,
in fretta: — Mi permettete di venire da voi stasera, un momento solo, ma
subito dopo pranzo? Ho da parlarvi! — Sono le otto e mezzo; non può
tardare. — A donna Rosana sembra già di sentire quel maledetto
campanello elettrico del portiere che annunzia le visite...

    _«Amour, fléau du monde, exécrable folie,_
    _«Toi qu'un lien si frêle à la volupté lie,_
    _«Quand par tant d'autres noeuds tu tiens à la douleur»_

... ma gli occhi soli continuano a leggere; il pensiero di donna Rosana
si allontana da _Don Paez_ e si ferma ostinatamente sul contino Lelio
Vigodarzo.

— Sapeva egli che quella sera, Ottavio (Ottavio di San Severo, marito di
lei) non avrebbe pranzato in casa? Che sarebbe andato al _Falcone_ per
il solito pranzo inaugurale dei soci della barcaccia?... — Altro se lo
sapeva! Lelio non era con lei, era sempre con... lui! — Subito, dopo
pranzo, ho da parlarvi? — Subito? — Evidentemente per trovarla sola!...
— Ed erano tanti giorni che donna Rosana, invece, faceva di tutto per
non trovarsi mai sola con Lelio!

Ahimè! Da certi sospiri, da certi dispetti gelosi, da certe occhiate or
furibonde or troppo tenere, ella ha capito che l'istante temuto e
preveduto si avvicinava.

— _Posso_ venire, _subito_ dopo pranzo?... — Perchè tanto mistero, tanta
trepidazione? Perchè chiedere il permesso? Quando si chiede il permesso
per fare una cosa lecita, vuol dire che quella cosa non è più lecita.
Cioè che è diventata non più lecita... cioè... Auf! — Non le riesce di
cogliere la forma del bisticcio che pur sente nella sostanza così vero:
fa un atto di dispetto e torna con la mente dov'è rimasta cogli occhi:

              _«.... je songeais qu'une femme_
    _Qui trahit son amour, Juana, doit avoir l'âme_
    _Fait de ce métal faux dont sont fabriqués_
    _La mauvaise monnaie et les écus marqués»._

— _Son amour..._ — pensa donna Rosana, questa volta chiudendo il
volumetto e buttandolo sopra un seggiolino lontano. — _Son amour_,
secondo le buone regole, dovrebbe essere il proprio marito: e una moglie
che tradisce il proprio marito fa peggio ancora di Juana!... Questo, il
signor Lelio, dovrebbe sapere; e in tal caso, che concetto si è formato
di me? Proprio carino! Tante grazie! Se facessi dire alla porta che
stasera non ricevo? — No; domani mi troverei allo stesso punto! È meglio
parlar chiaro e finirla subito, così com'era destino che dovesse finire!

— Destarsi, aprir gli occhi, non sognare mai più... e _amen!_

— Peccato! Era un sogno così bello e senza inquietudini, senza
turbamenti! Volersi bene sempre e non dirselo mai! Tutto il cuore preso,
tutta la giornata occupatissima e la coscienza libera. Leggere negli
occhi di Lelio attraverso un guizzo di gelosia ed un lampo di collera,
la passione più ardente: ma non dover mai ascoltare e, per conseguenza,
non dover mai rispondere ad una dichiarazione esplicita, compromettente.
Vedere e non vedere; capire, e all'occorrenza, quando sarebbe stato il
caso di dover andare in collera, poter anche non capire... Rispondere
pure... ma agli occhi soltanto e soltanto con gli occhi, ora quasi un
sì, ora quasi un no. Insomma, poter trovare il proprio «ideale» nella
vita senza mancare ai propri doveri e senza dar adito alle malignità
della marchesa Ippolita!... Un «ideale» elegante, simpatico, apprezzato
nel proprio mondo, al quale poter dedicare l'orario delle giornate così
eterne, le acconciature, le visite, le passeggiate a piedi della mattina
e quelle in carrozza del pomeriggio... Un «perchè» insomma nella vita!
Il «perchè» di andare ancora alle cacce a cavallo, alla Scala, al
_Manzoni_ e a quelle monotone feste da ballo, sempre in mezzo alle
stesse persone che cambiano soltanto per diventare più vecchie e più
brutte! No, no, certo! Non l'acre e disgustoso sapore del peccato, ma
soltanto il lontano profumo del frutto proibito!... Un peccato, forse,
sì, un peccato anche questo; ma così veniale, da far sorridere il
confessore... ed anche Ottavio!

— Invece, tutto è andato a monte! Com'è noiosa, Dio mio, questa nostra
esistenza! E come tutto ciò che deve accadere, accade inesorabilmente ad
ora fissata, con monotona precisione!

In fatti mancava poco alle nove, e per le nove il conte Lelio Vigodarzo
sarebbe venuto di sicuro!

— ... Come?... Da che parte avrebbe incominciato il suo discorso?...
Mah!... — Gira, rigira e poi a donna Rosana pareva già di sentirlo
esclamare:

— È più forte di me, è più forte della mia volontà, della mia ragione!
Ormai non posso più frenarmi; non posso più dissimulare, tacere... vi
amo!

Così, indubbiamente, avrebbe finito Lelio, e così indubbiamente, avrebbe
dovuto finire anche lei... col metterlo alla porta!

— Non voglio fare anch'io come Ippolita, ah, no! per quanto l'a...mico
d'Ippolita, ormai, ammesso e riconosciuto, col suo tatto, con le sue
aderenze, le faccia più bene che male anche nella pubblica stima! Ma
Ippolita, — grazie! — , è molto leggera e sventata; ha bisogno della
guida, del freno di un a...mico. Io, invece, no: saprò sempre condurmi
da sola, anche per un riguardo a Ottavio. Povero Ottavio! — Donna Rosana
ha un sussulto, dà un balzo sulla poltroncina, ma poi si calma subito: è
l'orologio del caminetto che comincia a battere le nove.

— Così tardi? che non venga più?... Io, veramente, non gli ho risposto —
sì — che poteva venire: non gli ho risposto nulla. L'ho fissato
soltanto, con molto stupore. — Le nove? Ormai posso anche far rispondere
alla porta, che non ricevo più: far attaccare e andare dalla zia.

Per qualche sera ancora c'era la _Scala_, il _Manzoni_, casa Resi e la
Lina Suardo. Il suo «ideale» avrebbe, così potuto durare in vita
un'altra settimana. Ma, ad un tratto, corrugò ancora la fronte: gli
occhi nerissimi e cupi ebbero un lampo.

— No! Potrebbe sorprendermi, farmi una scena! Bisogna parlar chiaro,
adesso che lo aspetto, che sono preparata: bisogna finirla! Forse, ho
già aspettato troppo!... Ippolita ha certi sorrisi... E poi, ha troppa
cura di farci trovar insieme a pranzo o in teatro, per non aver capito,
o supposto, di farci molto piacere. E se ha capito Ippolita, hanno già
capito in tre: Ippolita, il marito di Ippolita e l'a...mico d'Ippolita:
l'uomo perfetto!

— E Ottavio? — Rosana fa un lungo sospiro. — Chi sa? Alle volte avrebbe
potuto anche darsi il caso che Ottavio pure sospettasse di qualche
cosa... In tal caso, potrebbero succeder guai... Certo, ci sarebbero
malumori. Per quanto Ottavio si studii molto di non farsi scorgere,
anzi, di mostrare tutto il contrario, in fondo... è geloso! — A questo
punto donna Rosana sorrise e continuò a sorridere, pensando:

— Come il mondo è fatto di strane contradizioni! Se io fossi la moglie
di Lelio, mi piacerebbe moltissimo che Ottavio mi facesse la corte!...
Se io fossi la contessa Vigodarzo, indubbiamente sarebbe don Ottavio il
mio ideale e forse anch'io, — altro che ideale! — sarei la grande
passione di don Ottavio! Quante stranezze, quante contradizioni nella
vita, mentre sarebbe così naturale e così semplice... essere felici!

Ormai preso l'aire, sempre sdraiata dinanzi al fuoco semispento, ella
continua a sprofondarsi nel nuovo sogno: riunire in un uomo solo il
reale e l'ideale, il marito e l'a...mico. Lei e Ottavio, in fondo, si
volevano bene. Perchè, con una piccola spinta, non avrebbero anche
potuto amarsi? Di ostacoli gravi, ne vede uno solo: l'essere,
precisamente, marito e moglie. Tutta la poesia di cui il suo cuore e la
sua intelligenza sentono il bisogno, perchè non chiederla al cuore e
all'intelligenza di suo marito?

— Quando sono stata ammalata, così gravemente, Ottavio è stato sempre,
giorno e notte, accanto al mio letto. Sorrideva per farmi coraggio, ma
con gli occhi pieni di lacrime! È buono; nascosto in fondo al suo cuore
c'è un tesoro di bontà, e la bontà non è la più vera, la più alta
poesia? Sì, ma... siamo, pur troppo, marito e moglie! Che peccato!

A turbare il bel sogno di donna Rosana ecco apparire d'improvviso le tre
facce ironiche d'Ippolita, del marito d'Ippolita e dell'a...mico
d'Ippolita che ridono e che fanno ridere alle loro spalle inventando
mille storielle sciocche e cattive!

Il «marito amante della moglie» e viceversa, dopo tre anni e più di
matrimonio?... Dio! Dio. Avrebbero finito, tutti e due, _lei_ e Ottavio,
con l'essere soggetto di scandalo... anche per le ragazze!

E dare un bel saluto al mondo noioso e maligno, popolato solo di
Ippolite, con altrettanti mariti grotteschi e relativi a...mici
perfetti? D'inverno il mare, d'estate la montagna e il resto dell'anno a
San Severo? Divertirsi da soli, loro due, invece di annoiarsi tutti
insieme in mezzo alla gente? Oh, essere un po' liberi, alla fine, liberi
da ogni pregiudizio, da ogni rispetto sociale, liberi al punto di
potersi anche amare... pur essendo marito e moglie!

— La felicità — continua a pensare fra sè donna Rosana — la vera
felicità è una sola: amare, Dio! Potersi amare con tutta la passione del
cuore, e con la coscienza in pace! Certo, è il lieto fine della
commediuccia borghese, un po' volgare, terra terra, senza le emozioni,
le ansie, i turbamenti del dramma; ma il dramma, non c'è caso, va quasi
sempre a finir male!

— Ottavio far la corte a me?... Che idee!... Eppure, se io proprio
volessi che gli saltasse in testa un'idea simile? Se quel tanto di
«mio», che ci ho messo fin qui e che è bastato ad innamorare Lelio, lo
impiegassi d'ora in poi per... conquidere Ottavio! Se proprio proprio
volessi mettermi di buon proposito?... — Rosana apre gli occhi e torna a
sorridere con una certa malizietta birichina e tutta particolare. Pensa
che con Ottavio le sarebbe stato anche più facile; avrebbe potuto
spingere la propria civetteria molto più innanzi! Ella si allunga di
nuovo, si allunga di più sulla poltrona, stirando le braccia con un
sospiro, con un fremito... poi torna a chiudere gli occhi, ma adesso,
continua a sorridere.

Il bellissimo sogno non accende soltanto la fantasia un po' romantica
della donna giovine e sensibile, ma ne accarezza, ne ravviva le fibre
più nascoste e penetra nell'anima.... Ottavio si affina idealizzandosi.
Non è più il marito un po' bisbetico e svogliato, irrisore sistematico
di ogni più delicata sentimentalità; è un amico migliore assai
dell'altro, di Lelio, del corteggiatore assiduo ed astuto, abile
nell'appagare la sua vanità, ma inetto a vincere il suo cuore. Ottavio,
a poco a poco, va acquistando con l'aiuto della fantasia di sua moglie
tutte le migliori qualità positive e poetiche. È lui, proprio lui,
Ottavio, l'ignoto... tanto aspettato! Egli non è più il marito, è lo
sposo, è l'amante al quale potrà abbandonarsi, finalmente, con tutto il
cuore, con tutto il trasporto della sua grande tenerezza che ha tanto
bisogno di prorompere! È lui, è lui, è Ottavio, l'amante caro, l'amante
appassionato al quale potrà concedere tutti i tesori della sua bontà,
tutti gli incanti della sua bellezza, tutti i suoi baci e tutte le sue
carezze, senza esitazioni, senza restrizioni e con l'animo tranquillo:
senza rimorsi e senza... spaventi!

— Amore, amore, amor mio!... — bisbiglia donna Rosana. Si alza ad un
tratto, spalanca gli occhi e cammina su e giù premendosi la fronte,
battendo i piedi per cercar di calmarsi.

— Son quasi le nove e mezzo! Non ricevo più, chiamo Fabrizio, ordino di
attaccare e mi faccio condurre dalla zia! Domani mattina, niente
passeggiata! Anche più tardi, resterò in casa e non andrò da Ippolita
per due o tre giorni. Se Lelio vorrà capire, capirà, se no, peggio per
lui! — E con questa minaccia contro il povero Lelio, stendendo il
braccio si appoggia con abbandono quasi voluttuoso e preme sul
bottoncino del campanello elettrico; ma in quel punto il campanello del
salotto si unisce e si fonde con l'altro della portineria che annunzia
una visita.

— Eccolo! — esclama donna Rosana con dispetto. — Sta fresco!

C'è ancora il caffè, già versato nella chicchera; ella lo inghiotte d'un
sol colpo così freddo e amaro. Poi, quando sente che Fabrizio si
avvicina con quell'altro, volta le spalle all'uscio con una mossa di
stizza, afferra le molle e chinatasi dinanzi al caminetto, picchia e
ripicchia contro un lungo tizzone, facendo sprizzar le scintille fin
sopra i tappeti. Tutti quei colpi sono diretti, in cuor suo, contro
Lelio di Vigodarzo; le fa dispetto che sia innamorato di lei, e le fa
ancora più dispetto il pensare che, in questo, anche lei ne ha avuto un
po' di colpa.

— Che cosa crede? Crede forse di poter vantare qualche diritto?

Adesso, più che mai, tutti i diritti sono di Ottavio!

Fabrizio alza la portiera, annunziando:

— Il conte Vigodarzo!

Donna Rosana indica al servitore il vassoio del caffè, ma quasi senza
voltarsi e picchiando sul tizzone con più forza: — Portate via!

Entra Lelio: tre teste sopra un abito tutto chiuso, lunghissimo: la sua,
dai capelli neri lucenti, ben pettinati; quella bianca del garofano
all'occhiello; quella d'oro, appuntata alla cravatta monumentale. Egli
si avvicina a Rosana per darle la mano con passo lento e grave, da uomo
fatale.

Donna Rosana continua a picchiare sul tizzone:

— Buona sera.

Il conte Lelio non si scompone: aspetta che Fabrizio sia uscito, poi le
chiede sommessamente, scrollando il capo:

— Perchè?... Siete in collera?... Perchè?

Rosana butta le molle in un angolo e torna a sdraiarsi sopra la
poltroncina dinanzi al fuoco sforzandosi di parer tranquilla, ma facendo
saltare i candidi merletti de' falpalà colle punte dei piedini
irrequieti.

Lelio, dopo essersi seduto a sua volta nell'angolo del canapè, accanto
al caminetto, mormora dolcemente:

— Perdonatemi.

— Perdonarvi? Di che?... Io non sono in collera! — Donna Rosana dà in
una risatina troppo lunga, che lo resta in gola. — Soltanto, fa un po'
freddo qui, non vi pare?

— Non mi pare, anzi, tutt'altro!

— Sapete? Stasera devo andare da mia zia.

Rosana comincia a parlare, e continua a parlare a parlare, saltando di
palo in frasca, con grande volubilità, e sempre a voce alta; troppo
alta. È seccata, è inquieta. Non vuol lasciar tempo al Vigodarzo di
cominciar lui quel suo bel discorso!

Ma Lelio... non ci pensa nemmeno! Sta tanto bene lì, così, e sta zitto
volentieri. Seduto comodamente, come raccolto in un'estasi malinconica,
se la gode alla vista delle grazie eleganti della giovine signora e al
suono della bella voce armoniosa. Sta tanto bene lì, così, nel dolce
riposo del dopo pranzo, nel tepore profumato di quel salottino
delizioso!

Rosana, tira diritto per un pezzo, ma finisce a stancarsi, nè trova più
nuovi argomenti. Allora, per evitare un silenzio pericoloso, vuol far
parlare quell'altro:

— Come mai non siete andato anche voi al _Falcone_, al famoso pranzo
della barcaccia?

Lelio strizza gli occhi e le labbra con un'indicibile espressione di
noia e di disgusto. Dopo un momento, quasi faticando a parlare,
bisbiglia a fior di labbra:

— _Les escargots à la Perigord?_... L'ultimo grande successo della
gastronomia che Ottavio ha portato trionfalmente da Parigi a Milano? Non
avendo nè il coraggio, nè lo stomaco di vostro marito, voglio morire per
una causa migliore.... che non sia un'indigestione!

— Prego! Prego! Non fate il sentimentale, l'uomo che vive soltanto di
poesia... dopo il caffè! Al _club_ siete citato anche voi come esempio
di buon appetito e maestro nell'arte squisita di comporre il _menu_!
Ditemi, piuttosto, dove avete pranzato oggi e che cosa avete mangiato di
buono?

Rosana, tuffandosi in tanta prosa, spera di allontanare e, forse, di
scansare il pericolo.

— Da mia sorella, — risponde il contino Lelio, ma subito arrossisce
visibilmente.

In fatti egli è stato invitato a pranzo da sua sorella, la marchesa
Tarvis, ma non c'è andato. Temeva di far troppo tardi per la sua visita
a donna Rosana della quale, da un paio di giorni, è innamoratissimo. Tre
o quattro duchi e principi romani e napoletani, venuti a Milano per le
corse, hanno ammirata donna Rosana dicendola bellissima, elegantissima,
_tout ce qu'il y a de plus parisien_, e il grande entusiasmo degli amici
gli ha montata la testa, e ha spinto al massimo bollore quel suo tepido
affetto sino allora scaldato a bagnomaria.

Lelio ha pranzato, solo solo, _all'hôtel de la Ville_ facendosi servire
un pranzettino sostanzioso, ma leggero. La serata poteva riuscire molto
drammatica: sarebbe stata certo agitatissima. Ad ogni modo, con le
donne, non si sa mai: è sempre prudenza prevedere... anche
l'imprevedibile! Di una cosa però si trova pentito, nell'attraversare le
sale troppo riscaldate del palazzo di San Severo: di aver pasteggiato
con lo _Champagne_ Schröderer, secco. Lo _Champagne_ gli produce un
effetto strano: lo rende sensibilissimo. Quanto più secco è stato lo
_Champagne_, tanto più gli occhi gli s'inumidiscono facilmente.

— Rosana!... Rosana!... — Oh, in quel momento come l'avrebbe teneramente
abbracciata! E quando Rosana gli domanda, certo per burlarsi de' suoi
sguardi appassionati: — A pranzo, che cosa avete mangiato di buono? —
Lelio non si sente offeso, niente affatto!

Anche ironico, quel sorriso mostra una bocca... deliziosissima!

— Che dentini, _saperlotte_!

Egli la guarda e continua a guardarla con tenera mestizia:

— Ho da chiedervi un consiglio.

— A me?

— Sì; a voi. Pippo Sardis, Castelsillia e Niccolino de Rolland, partono
irrevocabilmente, al primo del mese.

— Per la Cina?

— Per il loro viaggio, attraverso la Cina! — Lelio ha la voce profonda.
— Resteranno assenti un paio d'anni per lo meno. Doveva essere della
brigata anche Fabio Spinola, ma Fabio, all'ultimo momento, preoccupato
dalla distanza, dalla lunga assenza e dai pericoli del viaggio, adduce
la scusa di sua madre, e si ritira. Pippo Sardis, Castelsillia e De
Rolland, rimasti in tre, mi offrono di prendere il posto di Fabio
Spinola. Io... non ho madre, sono solo, non ho nessuno al mondo, che mi
voglia bene. Ditemi voi se... se devo accettare.

— Lo domandate a me? Perchè lo domandate a me?

— Perchè se voi mi dite di andare, allora vado.

— Ma, scusate, e vostra sorella? Avete una sorella, la marchesa
Tarvis!... Perchè non andate a chiedere alla marchesa Tarvis un simile
consiglio? — Rosana, così dicendo, afferra di nuovo le molle e
ricomincia a picchiare, a tartassare, a scheggiare il povero tizzone
fumoso che sembra gemere sotto i colpi, con un gorgoglio di bollicine
d'aria.

— Dio, Dio! Ci siamo! — pensa in cuor suo. Ma come mai avrebbe ella
potuto prevedere che la dichiarazione amorosa di Lelio facesse un
viaggio così straordinario?... Dovesse arrivare, nientemeno, fin dalla
Cina?

— Non avete nessuno al mondo che vi voglia bene? — ripiglia dopo un
momento. — E la marchesa Tarvis? Povera marchesa! Avete dimenticato
vostra sorella!

— Oh le sorelle... Sono come i fratelli! — esclama il giovinotto
scrollando il capo gravemente, come se queste parole che non dicono
nulla, nascondessero un concetto profondo e doloroso. Un lungo silenzio,
poi ricomincia con accento prima umile, supplichevole, ma che a mano a
mano diventa risoluto, imperioso:

— Voi sola dovete decidere; mi dovete dire sì o no. Vi prego, vi
prego... Vi prego! Sì o no? Devo andare?... Devo andare?

— Ma sì! Andate! Tanto più se credete di divertirvi! — risponde Rosana
con impazienza, quasi con ira.

Com'è insistente, quel Lelio! È opprimente! Ma d'altra parte, finchè non
c'è in ballo altro che la Cina, deve fingere di non capire e non può
offendersi!

Ella si rimette a sedere, ma i piedini fanno saltare sempre più
nervosamente i merletti del falpalà. Ad un tratto, con uno scatto
improvviso, si alza di nuovo per suonare e per chiamare Fabrizio.

Si alza subito anche Lelio, ma senza scostarsi dal canapè. Fissa Rosana,
prima attonito, sbalordito; poi diventando serio, assume un'aria quasi
di rimprovero.

— Decidete. Dovete decidere.

Ella rimane un po' scossa:

— Vi ho già detto che stasera devo andare asso-lu-tis-simamente da mia
zia.

— Prima mi dovete dire, sì o no!

Lelio si ferma, ascolta: sente il passo del servitore. La fretta,
l'ansia del momento gli raddoppia il coraggio.

— _Sì_ o _no_? Se vado via, è per voi! Per disperazione!

— Cosa?... Che cosa? Non... non capisco! — balbetta Rosana sottovoce;
poi, più sottovoce ancora, indicando l'uscio:

— Per amor del cielo!... Viene Fabrizio!

— _Sì_ o _no_? Bisogna decidere fra la morte o la vita per me!... Fra la
morte o la vita...

Fabrizio si presenta all'uscio, e la decisione, per il momento, rimane
sospesa.

— Dite a Giacomo di attaccare, — ordina Rosana al servitore, con voce
alterata.

— Giacomo è uscito con la carrozza. È andato a prendere il signor
padrone.

— Va bene. Appena ritorna gli direte di non staccare e verrete ad
avvertirmi.

Fabrizio s'inchina, fa per andarsene, ma è ancora trattenuto.

— Portate qui la scatoletta delle sigarette. — Guardate il fuoco;
mettete legna nel caminetto..

Lelio indovina che donna Rosana non vuol restar sola con lui; la vede
inquieta, nervosa... È contentissimo!

Ha fatto bene a spiegarsi! Perchè non ha parlato anche prima? Di che mai
aveva paura? Oh, come egli sente di amarla quella donna!... Stringerla
fra le braccia! Coprir di baci gli occhioni ardenti di fuoco lavorato,
la bella faccia così pallida!

Rosana, sempre in piedi, irrequieta, dinanzi al caminetto, si china, si
rizza, si volta di qua, di là, stende ora le mani, ora un piedino verso
la fiamma... e Lelio si sente sempre più commosso anche dalle grazie
leggiadre della bella persona.

— Sembra quasi magra, tanto è perfetta la sua alta e svelta eleganza! E
invece... Che splendore di... movimenti! Anima mia! Tesoro! Che tesori!

Lelio, oramai, è più che sicurissimo di... non andare in Cina!

Come gli era saltato in testa quell'ottima trovata della Cina?... Mah!
Un lampo di genio! In Cina, no; pure, come si sentirebbe disposto dalla
dolcezza profonda della sua stessa commozione a compiere ogni doloroso
sacrifizio per quel tesoro di creatura! — E magari anche... sì, perchè
no? Anche in Cina, se lo avesse imposto lei stessa, come una condizione,
con la sua voce armoniosa, così calda e penetrante... Il suo cuore, la
sua vita, la sua felicità, sono ormai nelle mani di donna Rosana! Che
manine!... E che piedini! E che... Tutto in lei è meraviglioso!... Altro
che la Cina! Si sente pronto a giuocare la vita per una donna simile!
Anche morire!

— «Morir... per te d'amore!»

Morire, chiuder gli occhi dolcemente, al caldo... senza muoversi da quel
delizioso cantuccio del canapè!

— Cara! — Si sprofonda tutto nella nuova estasi, finchè è riscosso dalla
voce di Rosana:

— Voi avete ragione, sì; avete ragione.

Egli spalanca gli occhi e cerca Fabrizio nel salottino: Fabrizio se n'è
già andato tranquillamente.

— Avete ragione, sì; avete ragione, — continua Rosana, non più sdraiata,
ma seduta sulla poltroncina e chinata in avanti, curva, con la testa
bassa, con gli occhi fissi sopra un fiore del tappeto e battendo, tratto
tratto, l'una contro l'altra le palme delle mani. — Avete ragione di
trattarmi così; di non stimarmi, di disprezzarmi...

— Oh!... — geme Lelio dal canapè.

— Sono stata leggera e cattiva! Voi mi avete data la lezione che mi
merito. Mi sta bene; non ho nessun diritto di offendermi.

— Oh!... — Il gemito si ripete più lungo e più tremulo.

— Ho avuto torto! Ho creduto, forse, anche di poter ispirare un
sentimento puro, sincero di amicizia e di devozione. Sono stata una
sciocca credendo possibile... l'impossibile, e voi mi avete aperto gli
occhi!

— Se vi ho dato un dispiacere... — risponde Lelio balbettando, e non può
più proseguire.

Rosana continua a battere nervosamente le palme delle mani, poi si
rivolge di nuovo a Lelio ma con un'intonazione più calma e più cordiale:

— Si fa la pace? Io sono stata un po' civetta... e voi un po'... leggero
nel giudicarmi. Facciamo la pace e amici come prima. Anzi, più di prima!
Ora ci conosciamo meglio e ci stimeremo anche di più. È... inutile il
viaggiare; restate pure a Milano. Soltanto, basta con le nostre
passeggiate mattutine e coi nostri ritrovi quotidiani da donna Ippolita.
— Via, da bravo, si fa la pace? Volete?

Così dicendo ella stende la mano e si volta verso Lelio, ma Lelio rimane
immobile, muto, a testa bassa, mentre due lacrime silenziose gli colano
lungo le guancie paffutelle.

Rosana balza in piedi sbuffando. Un'altra cosa che non aveva previsto!
Dopo la Cina... le lacrime!

— Infine poi... spieghiamoci! — esclama vivamente. — Che cosa pretendete
da me?

Lelio non risponde: le due grosse lacrime gocciolano sul cravattone
nero.

Che dispetto le fa quell'uomo! Rabbia e dispetto! Eppure... piange. Per
piangere, un uomo, — anche donna Rosana ha il pregiudizio che l'uomo sia
un animale molto forte, — per piangere, deve soffrire assai!

Se soffre, peggio per lui! Peggio per lui, sì: ma per altro è anche un
po' colpa mia! È colpa mia! Soffre... per me!

Povero giovine!

In certe donne nervose, troppo sensibili e portate all'analisi, tutto
diventa complicato e pericoloso; anche la coscienza che, ad ascoltarla
troppo, finisce magari col suggerire più il male che il bene.

— Basta!... Non voglio così... Basta! Rosana non osa guardare Lelio in
faccia.

— Mi date un grande dispiacere!... Non me lo perdonerò mai!

L'altro risponde appena scrollando il capo.

— No! Mai! Voi potete perdonarmi perchè siete buono, molto buono, ma io
non perdonerò mai a me stessa di avervi dato tanto... dispiacere!

Quel «buono, molto buono» aumenta la commozione, le lacrime di Lelio.

— Non fate così! — supplica Rosana sottovoce. — Può entrare Fabrizio e
se vi vede a piangere?... Anch'io ho le mani gelate! Devo avere la
faccia stravolta! Ebbene, sentite, se proprio è così... il consiglio che
mi avete chiesto poco fa... Andate via.

Lelio la fissa, attonito; non ha capito bene.

— Sì; andate via! Partite! Ma non andate in Cina! No, no; non ci sarà
bisogno, vedrete, di un viaggio così lontano!

Rosana gli sorride con arguta finezza e insieme con una dolcezza quasi
materna.

— Sarà un'assenza brevissima, anzi, speriamo, di qualche giorno
soltanto! E appena... guarito, verrete subito a trovarmi e avrete in me
un'amica sincera e affettuosa.

— Foste almeno felice!... — sospira l'innamorato, scrollando il capo con
grande sconforto. — Nel mio sacrificio immenso, nel mio esilio doloroso,
eterno, potessi, almeno, avere la consolazione di sapervi felice!
Invece... no!

Rosana, a questo punto, pacatamente, ma risolutamente, cerca di farlo
ben persuaso che credendola infelice si è molto ingannato.

— No, no, no! — replica Lelio con più forza. — Voi non dite la verità!
Il vostro è «un eroismo sublime di virtù» ma voi non dite la verità! Voi
non siete felice.

I piedini di donna Rosana tornano a guizzare vivamente fra i merletti
bianchi.

— Scusate, conte Lelio; devo saperlo io più di voi. Del resto... ciò non
vi riguarda.

— Mi riguarda, precisamente: la vostra infelicità è la mia scusa, anzi
la mia giustificazione.

Rosana aggrotta le ciglia, Lelio continua a gemere e a sospirare.

— Oh, credete, signora, io non vi amo con gli occhi, vi amo col cuore!
Vi amo e vi ho sempre amata non già perchè siete bella, — bellissima! —
ma perchè siete infelice. Sorridete, deridetemi pure! Non è per il
vostro sorriso che io vi amo tanto; è per le vostre lacrime!

— Sì?... Allora tanto meglio! Allora dovete guarir subito! Per vostra
regola, non piango mai! Io odio le lacrime!

— Voi dovete rispondermi così per... per... «un eroismo sublime di
virtù», ma io so molto bene, e me lo ha detto anche la marchesa
Ippolita, che voi siete infelice, infelicissima!

— La marchesa è... troppo gentile! Avrà detto così per farvi piacere!

— Oh... ci sono lacrime, le più amare, forse che non si vedono! Restano
giù, giù!

— Ma per poter vedere le lacrime che... restano giù, scusate, caro
conte, bisognerebbe conoscermi di più e meglio.

— Oh!... — Lelio, ha bisogno di parlare, di tirar fuori le parole con un
sospirone, lungo come la corda del pozzo. — Oh, conosco Ottavio
intimamente! E basta. Sono troppo amico di vostro marito per potermi
ingannare. Con quell'uomo così... terra terra, voi così... in alto? Ma
come potreste essere felice?

— Eppure lo sono.

— No!

— Sì! Certo molto più, in ogni caso, che non sia stato felice mio marito
nella scelta dei suoi amici... intimi!

— È colpa mia se ho cominciato col voler bene a lui, e se ho finito,
invece, col voler bene a voi?... Del resto che cosa vi domando, io? Vi
domando, forse, di ricambiare la... tenerezza del mio cuore? No! Dunque,
se vi fo arrabbiare perchè non credo alla vostra felicità, perdonatemi.
Oh! — Lelio torna a commuoversi profondamente, al pensiero del proprio
sacrificio, della propria partenza. — Perdonatemi; vi fo arrabbiare per
l'ultima volta. Parto domani mattina, prestissimo. Soltanto prima dovete
confessare che voi siete infelice; molto infelice!

— Ma...

— Molto infelice! — continua a ripetere Lelio con un'ostinazione molto
strana in lui, di solito sempre garbato e remissivo.

— Sentite, donna Rosana: qui fa caldo, un caldo, da togliere il fiato.
Ebbene, se voi mi diceste — qui fa freddo — io vi crederei subito e
sarei capacissimo anche di gelare. Ma voi, felice con Ottavio?... No,
no; conosco Ottavio troppo bene; siamo troppo amici! È impossibile!

— Ah! ah! ah! — Rosana finisce col ridere allegramente; e il suo riso è
tutto un tesoro di arguzia e di grazia, è una visione di amoroso
abbandono per Ottavio e di canzonatura atroce per il povero Vigodarzo.
Ella ormai non è più irritata, non è più nervosa; Lelio non le desta più
nè compassione nè pietà, e quindi non le fa più nè rabbia nè paura:
Lelio, adesso, la diverte!

Infatti egli non è stato abile. In generale, attaccare il marito per
sedurre la moglie, è sempre una mossa sbagliata: nel caso particolare
poi, con donna Rosana, peggio che peggio! Quella goffa e presuntuosa
insistenza ha urtato la sua delicata sentimentalità e l'ha punta nella
sua fierezza di donna, e per ciò, scomparsa dal suo animo ogni
impressione del viaggio in Cina e delle lacrime di Lelio, non vi resta
altro «ideale» che Ottavio; Ottavio, lo sposo, l'amante accarezzato,
adorato dal suo sogno.

— Ah! ah! ah! Ma voi credete, caro Vigodarzo, che il _mio_ Ottavio sia
lo stesso Ottavio che conoscete voi? Che conoscono i suoi amici... amici
buoni, come voi? Ah! ah! ah! No; nè punto nè poco! Mentre molti fingono
di sentire anche ciò che non sentono in realtà, il _mio_ Ottavio finge
invece di non sentire ciò che sente davvero e con tutto il trasporto
della passione! Ma bisogna far così; anch'io voglio che Ottavio faccia
così! Un marito innamorato di sua moglie? — Lelio si volta, la guarda,
sorride leggermente, ma Rosana continua senza fermarsi, sempre con più
calore e con più esaltazione: — Un marito amante di sua moglie? È come
una moglie innamorata di suo marito! In pubblico, in società, bisogna
fingere tutto il contrario o si diventa ridicoli! Abbiamo poi tutto il
tempo, tanto tempo per volerci bene... a casa nostra!

— Innamorato Ottavio?... — Risolino di Lelio, ma leggero leggero...

— Vi ripeto che mio marito non ama far pompa dei suoi sentimenti. È
troppo geloso e orgoglioso della bontà, della nobiltà, della
delicatezza, della poesia che chiude nella sua anima e che io sola posso
conoscere ed apprezzare!

— Poesia? — Il risolino si fa più visibile e più vivace. — Poesia?
Quello là?

— Ottavio; — prego.

— Poesia, quell'Ottavio là? Ma se è la negazione di ogni poesia! Se non
l'apprezza la poesia, se non la capisce nemmeno!

— Basta! Finitela! Non vi permetto di continuare su questo tono!

— Se non ha mai capito voi!... Voi che siete davvero la più bella, la
più splendida poesia della terra! Oh, se vi avesse capito vi adorerebbe
in ginocchio, umilmente, devotamente, teneramente! — Ottavio... — No!
No! Voi volete difenderlo con me, esaltarlo, perchè... Perchè voi siete
«un eroismo sublime di virtù!»

— Il mio Ottavio... altro che adorarmi in ginocchio! Quando sono stata
tanto ammalata è rimasto giorno e notte a vegliarmi presso il capezzale
del mio letto! Ha avuto per me, allora, tutte le cure, le delicatezze
più affettuose! Era un innamorato vero, un fratello, un babbo, era tutto
per me! Quanto ha sofferto, povero Ottavio! — Certe volte, quando mi
destavo, dopo un lungo assopimento, vedevo i suoi occhi stanchi e
infossati, che mi fissavano ansiosi. Come ascoltava attento, inquieto,
ogni parola del dottore!... E che grido di gioia, che baci, la prima
volta che il dottore dichiarò sicura la guarigione! E durante tutta la
convalescenza? — Ottavio è sempre stato con me, vicino a me, tenendomi
stretta la mano. Credete ancora, adesso, che Ottavio non mi abbia
capita?... Vi fa ancora ridere l'idea di un Ottavio innamorato? — Rosana
ha uno sguardo di trionfo, poi soggiunge, con una lentezza più languida:
— Vedete quel libro?

Lelio alza il capo, ma non vede niente. Sconvolto da quella descrizione
così viva, da quella voce lenta, carezzevole, ha la testa in fiamme, e
lo sguardo smarrito. Egli non vede che quegli occhioni neri neri, grandi
grandi, che diventano sempre più neri e sempre più grandi.

— Vedete quel libro?

— Quale? — Lelio segue l'indicazione della manina bianca: sulla poltrona
di faccia, dall'altra parte del caminetto c'è il piccolo libro legato in
pergamena: — Quello lì?

— Sì. Le poesie del De Musset. Durante la mia convalescenza lo abbiamo
letto e riletto! E ne abbiamo imparato a mente tante pagine! Com'era
buono, povero Ottavio! E com'è buono sempre! Soltanto... bisogna
conoscerlo a fondo... come me!

Lelio china il capo mortificato, vinto. Ottavio ha persino imparato a
memoria le poesie del De Musset?

— Perdonatemi; avete ragione. Sono stato ingiusto con Ottavio;
perdonatemi.

Rosana lo guarda: rimane colpita da quella faccia, da quell'accento.

— Perdonarvi? Il torto è mio! La colpa è mia! Nella nostra vita così
vuota, eppur così rapida e affannata, diventiamo distratti, smemorati:
si dimentica tutto; e questo è male. Anch'io ho avuto il torto di
dimenticare troppo e troppe cose! Il torto è mio! La colpa è mia! Sono
stata io, leggera, molto leggera, troppo leggera!

— Oh — ricomincia a gemere Lelio ancora più forte, facendole segno di
no; di non proseguire: gli fa troppo male.

— La colpa è mia! Io dovevo farvi amare e stimare Ottavio; invece con la
mia leggerezza l'ho calunniato dinanzi ai vostri occhi, dinanzi al
vostro cuore! Io, io stessa, sono colpevole anche verso di voi. Ho fatto
soffrire anche voi; ho reso infelice anche voi. Voi che pure siete
buono... molto buono!

Lelio non può più frenarsi: al ripetersi di quel «buono, molto buono» ha
un singhiozzo e le lacrime ricominciano a gocciolare.

— Sono stata cattiva, cattiva, cattiva! Cattiva con Ottavio, cattiva con
voi! Non merito che mi si voglia bene! Sì, sì; partite; andate lontano,
e per dimenticarmi! Pensate soltanto, quanto sono cattiva! — A questo
punto ella pure ha un singulto nervoso, improvviso; uno scoppio di
lacrime.

— Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio! — balbetta Lelio, disperato. — Abbiate
pietà di me! Non posso vedervi piangere! È uno strazio troppo forte!

— Guardate: non piango più! — Rosana si asciuga gli occhi. — Ma
adesso... andate via. Sì, andate via. Diamoci la mano e andate via!

Lelio le stringe la mano, ma non può parlare. Si scosta da Rosana
andando a tastoni e vacillando, verso l'uscio... Ad un tratto si ferma,
si volta, come per interrogarla.

— Che cos'è?

Un lungo fischio dalla strada: una carrozza entra nel cortile.

— Chi è?

— Ottavio! — esclama Rosana vivamente.

— Ottavio! — risponde Lelio come un'eco.

— Fermatevi, adesso! Non potete andar via senza salutarlo! Asciugatevi
gli occhi! Aspettate!

E in fretta, spaurita, col suo proprio fazzoletto, Rosana stessa gli
asciuga le lacrime cadute sulla cravatta e sul vestito. È un attimo:
quando si sente camminare nella stanza attigua, donna Rosana è già
sdraiata sulla poltroncina dinanzi al fuoco, Lelio è seduto nel solito
cantuccio del canapè e tutti e due discutono animatamente a proposito
della Scala e dei _Maestri Cantori_.


II.

Don Ottavio, attraversando l'anticamera, dà un'occhiataccia di malumore
ad un cappello e a un soprabito da uomo, appesi all'attaccapanni.

— Ah! Ah! Lelio non è venuto al pranzo della barcaccia per poter essere
più presto da mia moglie e trovarla sola!

Egli è geloso, come tutti i mariti, che hanno una moglie che piace
moltissimo agli amici di casa; ma per boria e per seguire la moda, più
si sente rodere e più si fa forza, ostentando una olimpica indifferenza.

— Ah! Ah! Mia moglie che doveva andare da sua zia! Brava! E non fa altro
che vantare la sua straordinaria sincerità!

Don Ottavio sta per entrare nel salotto, ma poi si ferma un istante,
chinandosi e sbuffando. Egli allenta la cinghia del panciotto: ha
mangiato troppo; si sente oppresso.

— Che seccatura aver moglie! È il fastidio più grande e più inutile!...
Però l'amico, questa volta, ha preso fuoco davvero! Mattina, giorno e
sera! Ormai, io non lo vedo più!... E mia moglie, così piena di
affettazioni e di scrupoli, comincia a slanciarsi! Brava! Ma che peso,
dev'essere mia moglie innamorata! Povero Lelio, ti compiango! — Ottavio
si sbottona un occhiello del panciotto. Il peso di sua moglie gli fa
sentir maggiormente quello del pranzo.

— Chi sa quante smorfie, quante esagerazioni e quante contradizioni! Con
quegli occhi, con quella faccia sempre incantata! Dev'essere
insopportabile! Maledetti gli _escargots_! — Si ferma di nuovo, dà
un'alzata di spalle, e torna indietro.

— Da mia moglie... A far che?

Invece di andare da Rosana, entra nelle sue stanze.

— Non sono tornato a casa altro che per mettere la falda e prendere le
sigarette!

Non è vero. Ottavio ha fatto quella corsa per levarsi una curiosità, che
gli era venuta subito, appena si era messo a tavola e che, alla frutta,
era diventata assai stimolante: sapere se Lelio, quel dopo pranzo,
sarebbe andato da sua moglie e sapere se sua moglie, con tutta la sua
«sincerità» sarebbe rimasta in casa invece di andare dalla zia, come
aveva annunziato. — Nient'altro che questo.

Appena in camera, egli cerca le sigarette, le sue solite sigarette
«_Sossidi frères_» marca violetta: le scatole sono tutte vuote.

— Rosana, di là, ne deve avere; ne ha sicuramente! Come si fa? Eppure..
Mi spiace interrompere i dolci colloqui, ma perchè Lelio fa la corte a
mia moglie io non devo restare anche senza sigarette... Ah no!

Non pensa più ad altro, nemmeno a mettersi la falda. Va difilato da
Rosana, continuando a brontolare ad alta voce contro il caldo esagerato.

— Un marito di spirito deve sempre annunziare il proprio arrivo, — pensa
sogghignando, mentre alza la portiera del salottino. — Disturbo?...
Prendo soltanto un po' di sigarette e me ne vado!

— Lì, nel mio cestino! — indica Rosana che ripiglia subito con Lelio a
parlare di musica.

Ottavio, imbronciato, riempie il proprio astuccio di sigarette: la voce
di sua moglie, il suo entusiasmo pel teatro di Wagner, gli urtano i
nervi terribilmente.

— Wagner! Ma che Wagner! — barbotta fra sè. — Questa è una commedia! Un
improvviso cambiamento di scena in mio onore! Ah! Ah! Benissimo! La
donna perfetta! La donna sincera!

E sempre più si sente rodere dalla bile; tutta bile contro sua moglie,
non già contro Lelio. È sua moglie, la civetta! Sua moglie, con quegli
occhi di fuoco... spento, che sembrano due pallottole di vetro nero
infisse in una faccia scialba, di midolla di pane! È sua moglie la
colpevole! Lelio è nel suo pieno diritto. Lui, se si fosse trovato nei
panni di Lelio, sente che avrebbe fatto altrettanto. E come, vivaddio!

— Oh! Oh! Che salti acrobatici! — esclama dopo un momento ridendo forte,
ma rivolgendosi a Lelio, senza guardare Rosana. — L'anno scorso, quando
mia moglie si faceva far la corte dal Tosti, altro che _Maestri
Cantori_! Andava in estasi per l'_Ideale_!

Rosana, trasalendo, diventa subito serissima: — Io non mi sono mai fatta
fare la corte nè dal Tosti, nè da nessuno; avverto!

— Tutto il santo giorno — continua Ottavio sempre sogghignando e sempre
rivolto a Lelio, — non avevo nelle orecchie altro che la sua voce,
languida e stonata:

    «_Io ti seguii com'iride di pace_...»

E comincia lui stesso a cantare e a stonare davvero, maledettamente.

— Basta! Finiscila! — ribatte Rosana.

— Ma che! Finiscila tu, di darti l'aria di donna perfetta, così sarai,
se non altro... più divertente! — Ottavio fa un'altra risataccia. —
Sincerità! Sincerità! Tutti i tuoi cento cappellini, i tuoi
abbigliamenti, le tue acconciature, — certe volte sei bardata più di una
cavalla del Gondrand! — Per chi li metti?... Per me, no! Per piacere!
Per farti far la corte!

— Finiscila!

Ottavio nota il pallore di sua moglie, ma geloso e rabbioso, con la
testa accesa dal troppo caldo e dal vino rosso del _Falcone_ e con lo
stomaco gonfio degli _escargots_, continua a sfogarsi, diventando sempre
più sguaiato e più incivile.

— Non è per piacere a me, ma per far effetto in pubblico, per piacere
agli altri, per trovare chi ti faccia la corte, che stai chiusa ore e
ore a miniarti, e cincischiarti nel tuo gabinetto di _toilette_; a farti
i ricciolini, a stringerti da una parte, a gonfiarti dall'altra, a
strapazzar la sarta e far piangere la cameriera! — Non ho ragione,
Lelio? Gli inganni di questo genere non son per il marito; si sa che il
marito, in questo, non si può ingannare! Perchè fai quella faccia?...
Perchè ti arrabbi tanto?... Non sei tu la sola! Tutt'altro! Sei anche tu
come le altre! Come tutte le altre!

Dopo un'altra sghignazzata, ricomincia da capo con l'_Ideale_:

    «_Io ti seguii com'iride di pace_...»

Questa volta non può continuare. Si sente troppo gonfio, troppo
oppresso: allarga altri due occhielli. Uff! che caldo!

Rosana, con gli occhi fissi, torvi, non dice più una parola: Lelio è
sulle spine.

— Buono il pranzo? — domanda dopo un momento, tanto per dire qualche
cosa.

— Squisito! — Ottavio slaccia, adagio, un altro bottoncino.

— E _les Escargots_?

— Ne ho mangiato quattro dozzine!

Soffia, brontola, poi, di colpo, corre a spalancare la finestra.

— È un inferno! Si soffoca!

— Diventi matto! — Il Vigodarzo balza in piedi, ma pur riceve con
piacere sulle gote ardenti quella folata improvvisa di aria diaccia e
frizzante.

— Vi prego, Lelio, chiudete! — esclama Rosana senza muoversi, senza
scomporsi. Tutta la sua arguta vendetta di donna è in quel nome «Lelio»
e in quel tono di affettuosa intimità.

Il giovinotto, preso così fra marito e moglie, sorride all'una e
all'altro per restar d'accordo con tutt'e due e va lentamente a chiudere
i vetri. Egli spera che il marito se ne vada; ma Ottavio, non si muove.
Cantarellando, con odiosa insistenza, la solita arietta dell'_Ideale_,
va prima a sedere sul canapè, accanto a Lelio, ci si trova incomodo; è
troppo basso; non può allungar le gambe. Prova allora a mettersi sopra
una seggiolina di faccia: ha la fiamma della lampada proprio negli
occhi! Finalmente, trova una poltrona mezzo al buio, dall'altra parte
del camino e vi si sdraia, sempre soffiando, brontolando e sbottonandosi
e riabbottonandosi la sottoveste.

— Uff! Maledetto pranzo!

Ha un cerchio alla testa; gli occhi pesanti... — Maledetto pranzo!

    «_Io ti seguii com'iride di pa...ce_...»

A mano a mano canticchia più sottovoce, con uno sforzo visibile, con
riso stentato e melenso. Rosana rimane impassibile e muta mentre il
conte Vigodarzo pensa come potrebbe fare a salutare e svignarsela.

... — Che cos'è?... Anche i libri, sotto le sedie? — Ottavio, chinandosi
faticosamente e allungando il braccio afferra il volumetto delle poesie
di De Musset che era caduto dalla poltrona. — Vedi, Lelio? Tu sei un
ammiratore di mia moglie; ammira anche il bell'ordine col quale ella
tiene i libri! E si tratta, nientemeno, dell'autore favorito! Dimmi la
verità: quante volte non ha detto anche a te, «rapita in estasi» i bei
versi innamorati del suo poeta romantico... e alcoolizzato?

Rosana, gli strappa il volumetto di mano: ha gli occhi stravolti,
sfavillanti di collera.

— Mi hai graffiato! — Don Ottavio la guarda un po' inquieto e comincia a
succhiarsi un dito per metter la cosa in burletta.

— Per tua regola, — prorompe Rosana appena può parlare, — per tua
regola, io non tollero e non permetto in mia presenza nè questi tuoi
modi, nè questo tuo spirito troppo da..... da dopo pranzo!

— Oh! oh! Che furia!... Mi hai graffiato... a sangue!

— Assolutamente no! Sia detto una volta per sempre!

— Oh! oh! — ripete Ottavio continuando a succhiarsi il dito. Lancia
ancora qualche frizzo a mezza voce... finalmente allungandosi e
appoggiando la testa sulla poltrona, non dice più una parola.

Don Ottavio non ha paura di nessuno, ma di sua moglie, qualche volta,
quando va molto in collera... sì!

Eppure, quella sera, in quel momento, egli non è soltanto intimidito:
dinanzi alla rivolta di Rosana prova un senso di sollievo, di benessere,
un moto vivissimo di contentezza e di tenerezza. Egli, in fatti, pensa
così: — Mia moglie si è arrabbiata; è fiera con me, più del solito: ciò
vuol dire che con Lelio... non c'è niente di nuovo!

— Povero Lelio! — Don Ottavio, lo guarda fra le palpebre socchiuse: —
Eh! eh! il tuo naso con la mia Rosana, deve diventar più lungo di quello
di Cyrano! — Intanto, stirandosi e adagiandosi più comodamente continua
a pensare:

— La mia Rosana! — Quanto tempo che non l'ho più abbracciata, che non le
ho più susurrato all'orecchio queste semplici parole «la mia Rosana» che
la fanno tremare e diventar più bianca... ancora più bianca, più pallida
e più bella! Non le dico più «La mia Rosana cara» soltanto perchè le fa
piacere. Niente di ciò che le fa piacere! Invece... tutto ciò che le fa
dispetto! Sono geloso, non voglio mostrarmi geloso e mi vendico a furia
di dispetti! Com'è bella anche in collera! E dire che se io voglio,
quando voglio, una parola sola, e si getta fra le mie braccia sempre più
innamorata, appassionata, cara... Io le dico «cara» e i suoi occhi si
riempiono di lacrime e perdonano. È una sensitiva innamorata. E anche io
sono innamorato... Sono geloso e soffro... perchè... perchè... vorrei
essere solo persino a guardarla! Dirle «cara... perdono» e portarmela
via! Portarla via a Lelio, portarla via a tutti!

.... Donna Rosana rimane immobile e muta con le ciglia aggrottate: la
ferita è stata troppo profonda! E in faccia a Lelio? Proprio quella
sera, proprio in quel momento! — Basta, adesso basta! — Ha sempre
perdonato a suo marito finchè è stato cattivo e ineducato, ma da solo a
sola, con lei! Adesso basta! Poteva farla piangere, farla soffrire, ma
renderla ridicola no; ridicola anche in faccia agli altri, in faccia a
Lelio, no!

Senza muoversi, senza voltarsi, senza guardarlo, ella sente sopra di sè
gli occhi umidi, amorosamente devoti del povero innamorato e soffre
atrocemente nel suo cuore e nel suo orgoglio.

— Basta, adesso basta! Stupido e villano! Ma Lelio, Lelio? Che cosa
penserà di me? Chi sa come deve soffrire vedendomi trattata in questo
modo; messa in ridicolo in questo modo! Lui che mi ama, che parte, che
mi sacrifica tutta la sua vita! Ma che cosa penserà di me?... Crederà
che abbia voluto mentire con lui e che l'abbia fatto per vanità?... Chi
sa che cosa penserà di me!... Lelio adesso non mi crederà più! Ha
diritto di non credermi più! Mi giudicherà bugiarda e ridicola...
ridicola!...

A questo punto, trasalendo, si volta verso suo marito: dal cantuccio
buio del caminetto, ha sentito un sibilo, un fischietto, che a mano a
mano diventa il concertino sempre più rumoroso di una piccola orchestra:
suo marito russa.

— Che ne dite?... Lelio? — Rosana ha il viso contraffatto da un sorriso
amaro, sardonico.

Lelio rimane serissimo. Le rivolge uno sguardo appassionato, ma più che
mai rispettoso e devoto. Si mostra addolorato per Ottavio e cerca di
scusarlo:

— _Les escargots!_... Povero Ottavio! Quattro dozzine! — Si alza, si
avvicina in punta di piedi a donna Rosana e inchinandosi con la testa
bassa mestamente, fa per salutarla, e prender commiato.

— Addio! Addio! E adesso che voi non potete più fingere con me per
eroismo, per... virtù sublime, adesso con tutto il mio cuore vi auguro
ancora di poter essere felice, ma _veramente felice_!

Il dardo è tratto: Rosana ne riceve la punta in mezzo al cuore. Che cosa
fare? Non vuole, non può lasciarlo partire così, per la Cina! Senza
quasi salutarlo! Senza giustificarsi! impossibile!

— Andate subito a casa vostra, o andate al _Club_?... Dove andate?

— Passerò un momento al _Club_. Debbo combinare con Pippo Sardis e con
Castelsillia, per... domani.

— Vi accompagno io, con la carrozza. Devo passar di lì, andando da mia
zia. Aspettatemi: in un attimo sono pronta!

Così dicendo, ella se ne va, tirando la portiera, sbattendo l'uscio
senza alcun riguardo: ma Ottavio non si sveglia; cessa appena un momento
dal russare, poi l'orchestrina ricomincia l'andante misurato, con tutti
i vari strumenti.

Lelio, giubilante, non può più contenersi! Quando Rosana si è
allontanata, si pone diritto dinanzi al povero marito, e con
un'espressione di comica severità, alzando e scotendo la mano in segno
di rimprovero e di minaccia, ripete sottovoce quell'aria fastidiosa
dell'_Ideale_, che gli ronza ancora nelle orecchie, ma cambiandone le
parole:

    _Les escargots, les escargots_, mio caro!

Ad un tratto sente un profumo delizioso; si volta: donna Rosana, alta,
sottile, vaporosa, tien sollevata la portiera: il suo viso non è stato
mai così pallido; i suoi occhi mai così neri.

— Andiamo? — mormora appena, sottovoce.

Lelio s'inchina senza parlare, e passo passo attraversa tutte le sale
seguendo l'ombra bianca e avvolto dall'onda profumata.

Don Ottavio non si sveglia; continua a fischiettare e a russare:
Fabrizio ha ricevuto l'ordine dalla padrona, di lasciarlo dormire.


— Che cos'hai, stasera?... Non ti senti bene — domanda più tardi la zia
a donna Rosana.

— Non è nulla. Un po' di emicrania; passerà! Ma l'emicrania ha durato un
pezzo, e donna Rosana ha proprio cominciato quella sera a soffrire, ad
essere infelice e a piangere tutte le lacrime che sgorgano calde come il
sangue da una ferita, da quella ferita atroce dell'anima che cambia la
vita in dolore e che non si rimargina più!

Lelio, in carrozza, l'ha baciata sugli occhi, sulla bocca e le ha detto
che non sarebbe più partito, che ormai non voleva partir più!

... Che cosa fare? Che cosa doveva fare? Ella si sente molto,
profondamente scontenta e infelice... Ma che cosa può fare?... Che cosa
doveva fare?... Anche Lelio è tanto infelice e infelice per lei, per
cagion sua!

Invece il conte Lelio di Vigodarzo, appena giunto al _Club_, offre lo
_Champagne_ agli amici e discutendo sulla virtù delle donne dichiara,
col fondamento della propria esperienza, e fra le più matte risate, che
tutte le donne sono conquistabili: per quelle facili, basta saper
ridere; per le difficili, — per le virtuose, — basta saper piangere!



A rovescio!...

COMMEDIA DI UN ATTO


PERSONAGGI.

DONNA FULVIA — IL CONTE ANDREA — UN VECCHIO SERVITORE.

    La scena rappresenta un salotto ricco, elegantissimo, da
    giovane scapolo: il salotto precede la camera da letto:
    l'uscio dal salotto alla camera da letto, è a sinistra dello
    spettatore e rimane socchiuso: si vedrà, in iscorcio, il
    cortinaggio del letto. La _comune_ è a destra. In un angolo
    del salotto, un tavolino con servizio di liquori e con teiera,
    tazze, zuccheriera. Sopra una mensola un grosso involto di
    pasticcini e un cartoccio di fiori freschi.


SCENA I.

_Il Conte_ ANDREA, _poi il_ VECCHIO SERVITORE.


— _Andrea entra dalla comune e chiude l'uscio in fretta, per non essere
osservato dalla gente sulle scale._

ANDREA (_Dà un'occhiata in giro e fa un atto di sorpresa e di collera,
vedendo i due involti: chiama a mezza voce, con rabbia_) Francesco!
(_Più forte, ma sempre a mezza voce_) Francesco!


SCENA II.

ANDREA _e il_ VECCHIO SERVITORE.


SERVITORE (_Si affaccia sull'uscio della camera da letto_). Ho subito
finito, signor Conte!

ANDREA. Finito o non finito, via!

SERVITORE (_Per iscusarsi_). È ancora presto!

ANDREA. Tutto doveva essere pronto per le quattro! E non dovevo più
trovarvi qui!

SERVITORE (_Prende l'involto dei fiori per metterli a posto_). Non sono
ancora le quattro!

ANDREA (_strappandogli i fiori di mano, cacciandogli il cappello in
testa_). Via! Fuori! E una volta per sempre, ricordatevi...

SERVITORE. Sissignore!

ANDREA. Voglio essere obbedito quando do un ordine! Dovete essere
preciso quando fisso un'ora! (_Spinge fuori il servitore dalla comune e
chiude l'uscio_).


SCENA III.

ANDREA _solo, poi donna_ FULVIA.


ANDREA (_Va alla finestra, guardando dietro al servitore_). Allunga il
passo, tartaruga! (_Dopo un momento_) Se n'è andato! Meno male! Anche
per oggi non l'ha incontrata! (_Sempre col cappello in testa, il bavero
alzato, il bastone sotto il braccio, leva i pasticcini dall'involto e li
mette sopra un vassoio; prende i fiori e li mette nei vasi di
cristallo_). La prossima volta, se Fulvia mi dice di venire alle
quattro, farò che sia pronto per le tre! (_Si ferma, con un vaso di
fiori in mano, tendendo l'orecchio_). Francesco aveva ragione, le
quattro sonano adesso! (_Si leva in fretta il cappello, il paltò, che
porta nella camera da letto; poi dinanzi allo specchio della camera da
letto, col pettine e la spazzola si accomoda i capelli e si arriccia i
baffi: in fine, con lo spruzzatore dell'acqua odorosa, si asperge i
capelli e i baffi. Torna a mettersi in ascolto vicino alla comune
aspettando: ad un tratto il suo viso attento, ansioso, si rischiara; ha
un lampo di gioia: spalanca l'uscio, che richiude subito dietro a
Fulvia, la quale entra rapidamente, di colpo_).


SCENA IV.

_Il Conte_ ANDREA _e Donna_ FULVIA.


ANDREA (_con grande passione, per abbracciarla_). Finalmente!

FULVIA (_Respingendolo; agitatissima_). Mi lasci stare! Per amor di Dio,
mi lasci stare!

ANDREA (_Insiste per abbracciarla, non molto sorpreso, perchè si
comincia sempre così, con una piccola scena_). Un altro spavento?...
Anche oggi un incontro noioso?

FULVIA (_Sempre respingendolo e con più forza_). Ma no! Ma no! Ho detto
di no!

ANDREA. Bambina! Cara!

FULVIA. Sono nervosa! Sono nervosissima!

ANDREA. Ti levo soltanto il cappellino, i guanti. Siedi qui, vicino a
me!

FULVIA. Impossibile! Devo tornar via, subito! Ho fatto una corsa, — che
corsa! — perchè lei non restasse qui tutto il giorno ad aspettarmi!

ANDREA (_Vivamente_). Non aver sempre tante paure!

FULVIA. Paura!... Adesso no, più! Vorrei che mi vedesse tutto il
mondo! Anche Alberto! Anzi il mio signor marito più di tutti!
(_Affettuosamente_) Lei mi vuol bene? Mi vuol proprio bene?

ANDREA. Ti amo! Ti adoro!

FULVIA. Allora... mi sia amico! Ho tanto, tanto bisogno di un amico per
potermi sfogare! (_Con le lacrime agli occhi_). Senta come ho le mani
gelate!

ANDREA. È vero! (_Le bacia le mani e le stropiccia in fretta_). Ti
preparo una buona tazza di tè, caldo caldo!

FULVIA. Dio mio! Ho già detto che devo tornar a casa, subito!

ANDREA. Perchè?

FULVIA. Alberto mi aspetta.

ANDREA (_inquieto_). Ti ha fatto qualche osservazione sul conto mio?

FULVIA (_Scoppiando in una risata piena di amarezza e di ironia_). Mi ha
fatto — sicuro! — quello che non avrei proprio mai creduto!

ANDREA. E sa che io?..

FULVIA. Ma non c'entra lei! Pensa tanto a lei... e a me, quello là!
(_Con impeto e con la voce sorda_) Sono quattro mesi! Più di quattro
mesi, che mio marito mi tradisce!

ANDREA (_non osservato da Fulvia, si rasserena e tira il fiato_). Ah!...

FULVIA. Lui! Proprio lui! Alberto! Il grand'uomo, l'uomo d'ordine,
l'uomo della compostezza, della freddezza, della moralità — sopratutto
della moralità — nella famiglia e nello Stato! (_Di nuovo con impeto_).
E sa con chi?... Sa con chi? con la mia migliore, con la mia più _caara_
amica!

ANDREA. La Vivaldi?

FULVIA. La Ninì! Quella patetica smorfiosa! _Gneognao-merignao!_ Tonda,
corta, goffa! Cammina dondolando, tipeto-tapete! Come una cagnetta
_bassè_!

ANDREA. Ah! Ah! Ah!

FULVIA. Non rida. Avrebbe il coraggio di ridere?

ANDREA. No!

FULVIA. Falsa! Ipocrita! La mia Fulvietta, la mia bella Fulvietta. (_Con
ira_) È troppo!

ANDREA. Ma in fine... A me, che cosa importa?

FULVIA. Troppo! Troppo! Troppo!

ANDREA (_Le leva un guanto, le accarezza e le bacia la mano per
calmarla_). Non esagerare! Non inquietarti! Come lo sai, intanto?

FULVIA. Come lo so?

ANDREA. Scommetto!... Non è vero niente!

FULVIA. È vero! È vero! È vero!

ANDREA. Non sarà... tutto quello che credi!

FULVIA. Tutto!... _Et ultra!_

ANDREA. Vieni qui, con me, vicino a me, amore, amor mio! (_Siede e la fa
sedere sul canapè_). Mi racconterai tutto!... Ma tranquillamente! (_Con
amoroso trasporto_) Dio, come sei bella! Oggi sei ancora più bella!

FULVIA. Grazie! Me l'ha già detto... anche ieri!

ANDREA. Non essere cattiva! C'è tanto tempo per... per gli altri!
Adesso... guardami, gioia, e non pensare che a me!

FULVIA (_Ironicamente_). Bravo!... Ecco una buona idea!

ANDREA. Siamo qui soli! Io ti amo! Ti adoro! (_Abbracciandola_). Io
dimentico tutto il mondo!

FULVIA (_Alzandosi e allontanandosi_). Perchè non è stato offeso _lei_,
nel suo punto d'onore! — Fosse stata un'altra, almeno! No!... Proprio la
Ninì!... Quella bombolona sentimentale!

ANDREA. (_Fa per condurla con tenera violenza nell'altra camera_). Ma la
Ninì, o un'altra, o cento altre...

FULVIA (_Corruga la fronte: irrigidendosi_). Che cosa fa?... Che cosa
dice?

ANDREA. Due dita di _curaçao_ nell'acqua gelata?... Hai corso...

FULVIA. Non ho sete.

ANDREA. Un _fondant_?

FULVIA. Non ho fame.

ANDREA. Un _fondant_ si mangia anche senza fame! Ridi anche tu, ridi,
ridi, ridi! Ch'io veda i tuoi bei dentini! Voglio coprirti di fiori e di
baci!

FULVIA. (_Scostandosi: seccamente_). Lei, almeno, ha il grande talento
dell'opportunità!

ANDREA (_con ira_). Anche tu, per opportunità... scusa...

FULVIA. Io le ho detto, le ho ripetuto che sono nervosa, nervosissima!
(_Pausa: Fulvia apre e chiude il ventaglio nervosamente finchè lo rompe
e lo butta via: Andrea cammina su e giù per calmarsi_).

ANDREA (_S'incontra faccia a faccia con Fulvia: sorride e torna a
prenderle la mano dolcemente_). Dunque Alberto fa la corte alla marchesa
Vivaldi?

FULVIA. La corte!... Altro che corte!... Quello là... non perde il suo
tempo!

ANDREA. Come lo hai saputo?

FULVIA. È il mio segreto.

ANDREA. Pettegolezzi! Malignità! Non ci credo!

FULVIA. Così lei dimostra... di essere anche pieno di perspicacia!

ANDREA (_Vivamente_). Quando una relazione c'è — davvero — non si può
mai nasconderla interamente! E noi due (_con un sospiro_) lo sappiamo
per esperienza! — Io non ho mai sentito la più piccola allusione sul
conto di... Sua Eccellenza e della Vivaldi.

FULVIA. Perchè Alberto è più prudente e più furbo di lei! (_Con
ammirazione_). Per bacco, se è furbo! Comincio adesso a conoscerlo bene
il mio signor marito e ad apprezzarlo per il suo giusto merito! È un
famosissimo Don Giovanni! Ci sa mettere in un sacco tutti e due: Lei...
e poi anche me!

ANDREA. Ah! Ah! Ah!... Alberto? L'ex sottosegretario delle poste e
telegrafi? — Lo vedo ministro, una volta o l'altra — magari degli
esteri! — ma Don Giovanni, mai!

FULVIA. Io, invece, sì; ce lo vedo, e moltissimo!

ANDREA (_Irato e geloso_). Risponda, dunque: lei come lo sa? Chi
gliel'ha detto? Credo di avere il diritto di saperlo e voglio saperlo!
Chi gliel'ha detto?

FULVIA. Nessuno.

ANDREA. Chi te l'ha detto?

FULVIA. Le lettere! Le lettere! Ho le lettere!

ANDREA. Sst! Abbassa la voce! Qui le pareti sono grosse un dito!

FULVIA (_Sottovoce, battendo le sillabe_). Ho tutte le lettere! —
(_Cambiando tono_). Le riunioni della minoranza? Le sedute per
combattere i sovversivi?... Va dalla Ninì, a sedere... e a riunirsi!

ANDREA. Come hai avuto queste lettere?

FULVIA (_Con aria solenne_). La giustizia di Dio! — Perchè Dio è giusto!
— Volevo comperare _Flirt_, il sauro della Ninì e stamattina aspettavo
una risposta. Ma stamattina — si ricorda? — io dovevo uscire presto, per
trovarmi con lei sul Corso...

ANDREA. Appunto! Invece... niente!

FULVIA. Invece, proprio sul portone, incontro il servitore dei Vivaldi.
— «Una lettera della signora Marchesa!» — Per me? — «No, per Don
Alberto». — Datemela; fa lo stesso!... — Apro, leggo...

ANDREA (_Severamente_). Male.

FULVIA. Il biglietto — proprio così! — mi sono sentita gelare, poi
montare il sangue alla testa! — il bigliettino, era un appuntamento!
Voglio saper tutto! Voglio andare in fondo a tanta... mostruosità! Corro
in camera di Alberto, nello studio di Alberto e comincio a cercare...

ANDREA (_Borbottando_). Ed io, intanto, su e giù, lungo il Corso, ad
aspettarti!... Su e giù!

FULVIA. ... A frugare in tutti i tiretti, in tutte le carte...

ANDREA. Male.

FULVIA. E finalmente, in una cassettina chiusa a chiave, trovo il
pacchetto delle lettere!

ANDREA. Male! Ha fatto male!

FULVIA. Auff! Non prenda quel... sussiego di predicatore! — Male! Male!
— E a venir qui, allora?... Faccio bene?

ANDREA. Non spostiamo la questione. Si tratta del segreto delle lettere,
che deve essere inviolabile!

FULVIA. Ma che segreto! Ma che inviolabile! Si tratta di mio marito, che
da me, sua moglie, è violabilissimo! — Quattro mesi! È una relazione che
dura da quattro mesi! — Mio marito!... Il papà di Ettorino! (_Con le
lacrime alla gola_). Che coraggio!... Ingannarmi in tal modo!
(_Cambiando tono_) E sa?... Tutte le cautele e tutti i comodi! Hanno il
loro nido _sicuro_ le due colombe! (_Andrea, istintivamente, dà
un'occhiata in giro_). Già: il loro appartamentino _par-ti-co-la-re_,
dove si trovano insieme, loro due soli...

ANDREA (_Teneramente, abbracciandola_). Soli... come noi... qui...

FULVIA (_Senza badare all'interruzione di Andrea_). Non crederà che io
sia gelosa? Gelosa? Io? — È... è la finzione, la grande finzione di
quell'uomo che mi fa orrore, che mi fa... male! Ma pensi, dopo i ritrovi
teneri, nell'appartamentino ammobigliato, aveva il coraggio, il _toupè_
di tornarsene a casa mia, a casa nostra, tranquillamente... di
abbracciarmi — come se niente fosse! — di venire a pranzo con me, di
sedersi lì, a tavola, con me, in faccia mia, in faccia di Ettorino! —
Noi tre! — E parlava, rideva, scherzava, allegro, disinvolto, fresco
come una rosa! — E mi faceva anche... dei complimenti! — Sicuro, se lo
vuol proprio sapere, in questi ultimi tempi era di un'affettuosità, di
un'espansione... straordinaria! — La mia _muci_, la mia bella _mucina_!
— Mostro! — E ha perduto anche l'avarizia! In quindici giorni mi ha
regalato tre cappellini — tre! — E, forse, anche questo.... (_Alzando
gli occhi_). Sicuro! (_Se lo strappa dal capo: lo guarda_). Questo no,
per fortuna! (_Lo butta sul canapè_).

ANDREA (_Con ironia_). Cara donna Fulvia....

FULVIA. Che c'è?

ANDREA. Non avrei mai creduto di vederla così furibonda per... per un
fatto simile!

FULVIA. Ah, caro mio, scoprire di essere ingannati non fa mai piacere a
nessuno! E per noi donne è molto peggio che per gli uomini! Noi non
abbiamo nient'altro al mondo! Il nostro amor proprio e il nostro
orgoglio è tutto lì.

ANDREA. Mi giurava, anche, — più volte me lo ha giurato! — di non essere
mai stata innamorata di suo marito!

FULVIA. Io no, ma lui sì!

ANDREA. In fatti... c'è una bella differenza!

FULVIA. E lui ha l'obbligo di essere sempre innamorato di me!

ANDREA. Hai ragione! Adesso hai ragione! Cento volte ragione! Per
dimenticarti, per trascurarti, bisogna essere un vero... cretino!

FULVIA. Però, — scusi sa — non toccherebbe a lei, — proprio lei — il suo
più grande amico, ad accusarlo!

ANDREA. Ah, ma finalmente! Non so più che cosa dire, nè che cosa fare!
Difendo Alberto, fo male; do ragione a lei, fo peggio! Non vuol essere
gelosa... e smania! Non vuol essere innamorata e si dispera! Che cosa
vuole? Dica, almeno, che cosa vuole?

FULVIA. Come alza la voce! Che maniera! Che modi!

ANDREA. Sarà, a furia di gelosia, diventata matta, perchè non la
riconosco più, non la capisco più, ma perdio!

FULVIA. Bestemmia adesso? Di bene in meglio!

ANDREA. Fa diventar matti anche gli altri!

FULVIA. Già, già, già! Lei non mi riconosce più, lei non mi capisce più!
Ma sa perchè?... Perchè, lei, non ha mai altro che un solo movente, una
sola spinta: il suo proprio egoismo!

ANDREA. Oggi il mio amore, la mia passione... si chiama egoismo!

FULVIA. Diventa egoismo! L'anima di una donna non può essere sempre
la... la stessa a tutte le ore! Oggi lo slancio, l'impeto del cuore che
mi ha portata qui era l'aspirazione, la speranza di un affetto, buono,
nobile, alto! Oggi avevo tanto bisogno d'indulgenza e di protezione! Mi
sono illusa? Non avrei dovuto illudermi? Va bene. Io avrò torto e lei
avrà ragione, ma anche questo non è nè un conforto, nè un piacere per
me!

ANDREA. Una cosa sola, non doveva dimenticare e non aveva il diritto di
dimenticare...

FULVIA. Oh, Dio mio! Si comincia coi diritti e coi doveri! Che
malinconia!

ANDREA. Da egoista, da profondo egoista, ma — ti amo — e anch'io divento
geloso e sono geloso.

FULVIA. Geloso di Alberto?

ANDREA. Sì.

FULVIA. Ma Alberto è mio marito.

ANDREA. E questo ti par poco?

FULVIA. Non è un fatto nuovo! Mio marito è sempre... stato mio marito.
Lo sapeva anche prima.

ANDREA. Non sapevo, per altro, che tu fossi così facile a disperarti per
i suoi traviamenti.

FULVIA. L'ironia no; si ricordi, l'ironia non la tollero!

ANDREA. Ma allora, certi suoi dolori, intimi, perchè viene proprio a
confidarli a me... _qui_, perchè viene a dirli proprio a me, a me, a me,
e proprio _qui_?

FULVIA. Perchè se non vengo a dirli a lei, a chi potrei andarli a
dire?... A chi? Forse a mio padre? Ah! Ah! Un marito anche lui, e un
altro bel campione come sopra! Tutti gli uomini sono uguali... Tutti una
risma e tutti una lega: avrebbe preso le difese di Alberto. La mamma? —
Mia madre crede che le donne sieno state create e messe al mondo
soltanto per far visite, far _toilette_ e far figliuoli! — Mi avrebbe
imposto la rassegnazione ed il perdono. Le mie amiche? — Oh povera
Fulvietta! Oh povera la nostra Fulvietta! — Per sentirmi compiangere e
vederle beate?... Dunque, vede, per confidarmi e per confortarmi, non
avevo che lei! Non avevo che lei per potermi sfogare... Cioè, lo credevo
e lo speravo! Invece no! Anche lei non sente che il suo risentimento, il
suo orgoglio, ed io non ho nessuno, nessuno al mondo, più nessuno, al
quale poter aprire la mia anima e il mio cuore, col quale potermi
lamentare, gridare e piangere. (_Scoppia in un pianto dirotto di
dispetto e di dolore, buttandosi sul canapè_). Sì, piangere, piangere,
piangere!

ANDREA (_Calmandosi a sua volta e dopo una lunga pausa, si appoggia
dietro il canapè e accarezza Fulvia sui capelli_). E io? E il mio cuore?
Vedendoti a piangere così per... un altro? (_Le dà un bacio_).

FULVIA (_Si alza e si allontana con un profondo sospiro_). Il torto è
mio, tutto mio!

ANDREA (_Conciliante_). No, no! Anch'io, forse, sarò irragionevole...

FULVIA. Il torto è mio! A questo mondo, soprattutto, bisogna sapersi
risolvere. O una cosa, o un'altra...

ANDREA. Ma Fulvia!

FULVIA. Sì! Sì! Io, invece, sono un complesso di indecisioni, di
contradizioni e così ho fatto infelice me, faccio infelice lei..

ANDREA (_Per abbracciarla_). Io infelice? Ma soltanto una tua parola...

FULVIA (_Continuando a respingerlo_). E ho fatto infelice anche il
povero Alberto.

ANDREA. Alberto! Alberto! Basta! Ieri, lo chiamava Sua Eccellenza anche
lei! Alberto, lasciamolo dove si trova!

FULVIA. Ragioniamo!

ANDREA. Ah, no! Per amor del cielo! Non c'è quanto i tuoi ragionamenti,
che facciano perdere la testa!

FULVIA. Perchè sono pieni di sincerità e di verità.

ANDREA. E di contradizione: lo hai detto tu stessa.

FULVIA. Ma più ancora di sincerità.

ANDREA. (_Con un nuovo impeto di passione_). Ebbene sì, cara, bambina
cara, capricciosissima, ma tanto cara!... Sincera, sempre sincera!

FULVIA. Sincera anche... a proposito di Alberto?

ANDREA. Anche a proposito di Alberto.

FULVIA. Questo lo deve ammettere. Senza esserne mai stata proprio
innamorata, però le ho sempre detto che a mio marito volevo molto bene.

ANDREA (_Con ira_). Sì! Sì!

FULVIA. Può arrabbiarsi fin che vuole; ma si ricordi: quando una donna
le dirà di non voler bene a suo marito, le dirà sempre una bugia.
Sempre! — Tutte noi amiamo nostro marito, e se molte volte ci rendiamo
infelici è appunto perchè non abbiamo il coraggio di confessare questa
grande verità a noi stesse!

ANDREA. Brava!

FULVIA (_Sospirando_). Certe... scoperte, come rischiarano la vista,
caro mio!

ANDREA. E... che cosa si comincia a vedere?

FULVIA. Che anch'io ho la mia parte di torto.

ANDREA. Benissimo!

FULVIA. Sono stata eccessiva oggi nel condannare Alberto, e sono stata
ingiusta prima, nell'apprezzarlo.

ANDREA. Nell'apprezzarlo? Oh! Oh! Sua Eccellenza deve essere molto
soddisfatto... del rialzo delle proprie azioni!

FULVIA (_Scrollando il capo e sospirando_). Oh, il Circolo monarchico,
il prefetto, il presidente del Consiglio! (_Continua a scrollare il
capo_). No, no, no! Non possono riempiere il cuore di un uomo, la vita
di un uomo! — Avrà trovato in me della freddezza...

ANDREA (_Con molta ironia_). Della freddezza? Possibile?

FULVIA. Io sono spesso lunatica, intrattabile, insopportabile. Gli ho
resa la casa uggiosa, antipatica. — Se Alberto, in fine, è andato a
cercarsi delle distrazioni altrove, la colpa, siamo giusti, non è anche
un po' mia? Un po' di rimorso non devo averlo anch'io?

ANDREA. Perchè no? Anche il rimorso è un'opinione!

FULVIA. Il rimorso, intanto, di aver trattato Alberto come l'ho
trattato, anche poco fa. Io — proprio io — ero in diritto di fargli una
scena così tremenda?

ANDREA. Eh, cara mia, quando si ama, quando si diventa gelosi...

FULVIA. Quando si sente il proprio torto! Ecco il tormento! Una cosa
sola, avrei dovuto dire in un impeto di sincerità.

ANDREA. Quale?

FULVIA. Tu l'hai fatta a me, ed io l'ho fatta a te.

ANDREA (_Vivamente_). Lei scherza! Non lo dica nemmeno per ischerzo!

FULVIA. Guai se la mia coscienza comincia ad alzare la voce! Guai se mi
monta il sangue alla testa! In un impeto di onestà e di lealtà sarei
capacissima di buttarmi fra le braccia di mio marito e di confessargli
tutto!

ANDREA. Ma vivaddio!

FULVIA. Glielo giuro! E farla finita, una buona volta, con tutti i
sotterfugi, coi timori, con gli sgomenti! — Sì, Alberto! Sono colpevole
anch'io come te: tu mi hai tradita con la mia migliore amica, io ti ho
tradito col tuo migliore amico! Perdoniamoci a vicenda!

ANDREA (_Fuori di sè_). Queste sono sciocchezze, fanciullaggini,
balordaggini!

FULVIA (_Osservandolo_). Brr! Che spavento! Si calmi! Si calmi!
(_Sorridendo_). Ha un po'.. un po' d'inquietudine — pare — per le
conseguenze, che potrebbe avere... la mia sincerità?...

ANDREA. Ho paura di una cosa soltanto: del ridicolo!

FULVIA. Ridicolo?

ANDREA. Potrò esserlo, forse, per un momento, in faccia sua: ma in
faccia a... agli altri, al mondo, no!

FULVIA. In faccia mia? Ridicolo? Mai! Sa quanta stima ho di lei!

ANDREA (_Inchinandosi con affettazione_). Oh, grazie!

FULVIA. Si offende, adesso, anche della mia stima?

ANDREA. La ringrazio! Se la ringrazio! Soltanto io sarò un egoista, ma
lei...

FULVIA. Io sono una leggera, una civetta! È il solo, però, che può
prendersi il gusto, il capriccio di dirmelo! _È il solo!_

ANDREA. Perchè sono anche il solo — lei che vanta tanto la sua sincerità
— col quale lei... non è stata sincera!

FULVIA. Ma benissimo! Sono stata io a ingannarla! Ero io che volevo
partire! Ero io che volevo morire! — Un'ora! Un'ora sola e poi morire! —
Quante ore! E, guarda lì, che bella cera!

ANDREA. Ma lei, lei mi ha visto soffrire! Le ansie del dubbio, la febbre
della gelosia, i tormenti della disperazione! Oh! lei, lei può vantarsi
di avermi visto soffrire!

FULVIA. Appunto! Appunto per ciò. Una donna può resistere all'amore che
prova, ma insisti, insisti, insisti, viene il giorno — santo cielo! —
che non può più resistere all'amore che ispira! (_Va a prendere il
cappellino: poi va dinanzi allo specchio della caminiera a metterselo_).

ANDREA. Che cosa fai?

FULVIA. Non vede? Mi metto il cappello.

ANDREA. Vuoi proprio andare?

FULVIA. Sicuro!

ANDREA. Ti prego! Ti supplico! Rimani!

FULVIA. Impossibile! Glie l'ho detto! Impossibile! Alberto mi aspetta.

ANDREA. Un bacio! Voglio un bacio! Sei qui con me, finalmente! Sei mia.
Un bacio! Voglio un bacio!

FULVIA. No! La prego, la supplico, di essere buono, di essere generoso!
Non mi faccia pentire di... di volerle bene!

ANDREA. Bene!... Mi vuol bene? Lei a me?

FULVIA. Sì, un bene forse più tranquillo del suo, ma più sicuro —
riposante...

ANDREA (_Con uno scoppio di risa_). Ah! Ah! Ah! Un bene riposante!

FULVIA. Sono una povera (_cantarellando_) ammalata! Mi aiuti a curarmi e
a guarire!

ANDREA. Dovrei aiutarla a guarire di quel po' di bene che... non mi vuol
più?

FULVIA. Guarire... di tutto ciò che può turbarmi, agitarmi. E per farmi
guarire — lei, proprio lei, — dovrebbe aiutarmi a farmi dimenticare...
tante cose.

ANDREA. A dimenticare una cosa sola: _me_.

FULVIA. No, invece. A dimenticare soltanto questi ultimi mesi. Chiudere
un momento gli occhi — e poi riaprirli — ah! — e trovarmi, _come prima_,
come quest'estate... a San Moritz! Quanta gratitudine per lei! Quanta
poesia per lei e per me!

ANDREA. Ma scusi...

FULVIA (_Interrompendolo: con forza_). È un sacrificio! Sarà un
sacrificio! — Voleva esser messo alla prova? Ecco la prova!

ANDREA. Intanto, spieghiamoci chiaro. Tutto questo «dimenticare» sarebbe
per qualche giorno... o per sempre?

FULVIA. Non precisiamo adesso! È inutile! Chi può mai prevedere... ciò
che sarà? Chi mi avrebbe detto, soltanto questa mattina, che io, proprio
oggi, le avrei fatto un simile discorso?... E per la Ninì, poi! Per
colpa di quell'antipatica odiosa! Con tutto quel... (_accenna al seno_)
peso! Dio, che peso!

ANDREA. E per colpa di Sua Eccellenza.

FULVIA. Di Alberto. Proprio così. E tutto questo m'impone un nuovo
dovere.

ANDREA. Un nuovo dovere?

FULVIA. Per la mia famiglia, per Ettorino, per me stessa. Mio marito non
deve perdere la testa, non deve mettersi sopra una cattiva strada, ed io
devo, voglio salvarlo!

ANDREA. Sua Eccellenza? — Sicuro! Salvarlo, in buona salute! Anche per
lo Stato! Anche per l'Italia!

FULVIA. Ho capito stamattina che il marito è qualche cosa di più e di
diverso... della mia prima idea. Nostro marito è la casa; è tutta la
casa! Col marito che si perde, è il sistema della nostra vita regolata e
sicura, dei nostri rapporti, delle nostre abitudini, che ne soffre...
che va a soqquadro. E io stessa che cosa fo? Che cosa divento se mio
marito prende l'abitudine d'ingannarmi? Quando una donna commette un
piccolo errore... sa poi, anche, sacrificarsi e riparare. L'uomo, no;
mai! Per un uomo le conseguenze sono ben più gravi e ricadono tutte
sulla povera moglie!

ANDREA. È innegabile! Dal suo punto di vista lei ragiona benissimo.
Ma... e dal mio... punto di vista?

FULVIA. Lei non domandava che di vedermi: mi vedrà sempre: più di prima.
Anzi, dopo domani, sabato, è la festa di Ettorino. Ci sarà con noi, a
pranzo, il papà e la mia mamma. Aspetto anche lei. Si pranza alle sette.
(_Dà un'occhiata all'orologio del tavolino_). Adesso, mi lasci andare.

ANDREA. Adesso no!

FULVIA. Mi lasci andare. Guardi se non c'è nessuno sulle scale.

ANDREA. Lei ha fatto il suo nuovo piano, ha preparata la sua nuova vita,
calma, serena, dopo il grande temporale di questa mattina, e sta bene.
Io, _generoso e buono_, farò tutto quello che lei vuole, come lei vuole;
ma... cominciando da domani.

FULVIA. Sarebbe a dire?

ANDREA (_Mentre dura il dialogo, Andrea l'insegue, senza parere, e
Fulvia, senza parere, continua a ritirarsi_). Sì cara: sabato verrò al
pranzo di famiglia, perchè la mia presenza ti occorre, perchè la mia
assenza susciterebbe commenti. Sì, io mi sacrificherò alla tua
riputazione, alla tua tranquillità, alla tua casa, a tuo marito ma...
cominciando da domani! Oggi sei qui! Qui, dove ci siamo amati, dove sei
stata mia, dove sei mia, dove l'aria è ancora piena del nostro amore,
della nostra gioia, dei nostri baci...

FULVIA. Sst! Badi! Ha detto lei, che possono sentire!

ANDREA. No, cara! No! Non devo essere punito io, se Alberto è colpevole!
Soprattutto se il grand'uomo, se il futuro ministro, è stato così
ingenuo da lasciarsi cogliere! (_Le corre dietro:_ _Fulvia fugge_).
Fulvia! Fulvia! La vendetta! La gioia della vendetta! (_Sta per
afferrarla, Fulvia rovescia una seggiolina nella quale Andrea inciampa e
cade_).

FULVIA (_Corre sulla comune: gira la chiave e si ferma sulla soglia
tenendo l'uscio socchiuso_). Sst! C'è gente di sopra!

ANDREA (_Si è alzato di colpo per inseguirla: si ferma interdetto_).

FULVIA (_Dopo un momento, sorridendo_). È stato cattivo, sa?... Molto
cattivo!

ANDREA. Basta! La finisca! Basta!

FULVIA. No! In collera, no! Non voglio che sia in collera! (_Gli stende
la mano, poi la ritira_). No! No!... Oggi non mi fido! Vede, che cosa ha
guadagnato? Non mi fido più! (_Scrollando il capo_) Più...! Addio!

ANDREA (_Irato_). Addio!

FULVIA. Cioè «a rivederci» sabato alle sette: a pranzo.

ANDREA. No!

FULVIA. Sì. Badi! Non le conviene, sa, di contrariarmi, di essere
cattivo con me. No, proprio no! — Verrà dunque?... Promette?

ANDREA (_Pestando i piedi: sbuffando_). Verrò! Verrò! Prometto!

FULVIA. Ma non con quegli occhi! Non con la luna! (_Supplichevole_)
Voglio vederla con la sua bella faccia... di buon umore! La prego! La
prego tanto! Arivederci! E... presto! (_Gli getta un bacio con la
mano_)... Se sarai buono! (_via_).


(_Cala la tela_).



In extremis


Guardando giù nell'immenso giardino, tutto pieno di silenzio, di fresco
e di umidità, si dimenticava di essere nel cuore di Milano, a cento
passi dal Duomo e dal grande forno brulicante della Galleria. Quelle
piante secolari, quei viali invasi dall'erba, quelle vecchie statue di
granito dal tronco verdognolo, facevano pensare al parco di qualche
villa solitaria e disabitata.

Una malinconia sonnolenta stagnava nell'aria coll'odore acuto e
snervante delle magnolie che sfiorivano sopra un albero gigantesco,
presso la fontana. Dall'albero cadevano a intervalli con un rumore ora
secco, ora velato, le foglie lucenti e metalliche già accartocciate e
ingiallite.

Quei lievi strepiti, qualche eco indistinta di voci lontane passavano
soli dentro a quella pace torpida, di clausura.

Il marchese Pier Luigi, appena finito di sorbire il caffè, si era alzato
ed ora indugiava sul balcone verso il giardino, le due mani nelle tasche
della giacchetta chiara, aspirando grosse boccate di fumo dall'avana
squisito. Una passeggiatina mattinale, — dalle dieci alle undici, — in
certi quartieri della città, gli aveva dato, a colazione, il «nervoso»
allo stomaco.

Era una giornata splendida di giugno, un sole caldo e giocondo, quel bel
sole domenicale che non pure alla piccola gente sembra così diverso dal
sole degli altri giorni.

Egli si era avventurato, ballonzolando in tempo di valtzer nel fondo
della _charrette_, guidando egli stesso, — col _groom_ accanto, dalle
braccia al sen conserte, come un piccolo Napoleoncino in tuba, — si era
avventurato nelle vie più lontane dell'antico sobborgo, nei quartieri
più popolari e più popolosi dove sorgono le numerose officine, gli
opifici, e le enormi case operaie, quadrate, forellate dalle spesse
finestre, simili a caserme o a gabbie mastodontiche. Quivi, sulle porte,
sugli usci, nelle bettole e nei caffè, così frequenti da far disgusto e
quasi terrore, in quel brusìo di gente affrettata e animata, non ostante
la giornata di riposo, egli aveva trovato il popolo, il popolo tanto
diverso da quello che egli aveva descritto, con foga retorica — non
improvvisata — a' suoi colleghi del Parlamento; il nuovo popolo delle
grandi città, cui il lavoro e l'industria dànno una fisonomia così
tipica.

Il marchese Pier Luigi, sempre ballonzolando nella gialla, rilucente
_charrette_, in mezzo a quei gruppi di operai, invece della soggezione
ammirativa e invidiosa, che gli mostravano i contadini delle sue tenute,
raccoglieva occhiate sarcastiche e irose, capiva di attraversare quel
tal mondo reale e formidabile del quale egli ed i suoi amici si
ostinavano, per convenienza più che per convinzione, a negare
l'esistenza.

Ma l'ultima, la più sgradevole impressione gli era toccata nel ritorno,
percorrendo le strade del quartiere di Porta Garibaldi, dove erano più
spessi alle cantonate certi enormi manifesti di una tinta scarlatta,
ch'era di per sè una provocazione. Quegli avvisi invitavano «i
cittadini» per le due di quella stessa domenica, ad un grande comizio
pubblico all'Alhambra. I «Partiti popolari» avrebbero discusso del
«momento politico» e oratore del comitato era il dottor Giusto Allori.

Egli lanciava contro il suo baio dei dispettosi colpetti di frusta e
sogghignava:

— Ah! Ah! Il dottor Giusto Allori!

Con un colpo di frusta avrebbe voluto stracciare anche i manifesti!

— Pagliaccio! Buffone! Anche oratore nei comizi! Buffone... Pagliaccio!
E ingrato! Non bastavano i giornali, gli opuscoli, tutto quel suo
lavoro, quei due o tre anni di... sobillazione! Adesso anche in teatro,
anche in piazza!

E Pier Luigi tornava a guardare di traverso i manifesti.

— «Il momento politico!» Sì! Lo avrebbero studiato e capito e
rappresentato loro il «momento politico» quei disgraziati capaci appena
di compitare la _Lotta di classe_!

Il marchese Pier Luigi lo aveva vissuto a Roma, lo viveva ora a Milano
il «momento politico!» Ma, pur troppo, quella plebaglia che sarebbe
accorsa in una baracca di legno a cianciare, a sbraitare, a batter le
mani a quell'ambizioso esaltato dell'Allori, era la stessa che del
momento, appunto, era l'arbitra... in caso di elezioni.

Il marchese Pier Luigi aveva affrettata la corsa verso il palazzo, ormai
risoluto a non mettere piedi fuor di casa in tutto il giorno. Era
rientrato prima delle undici, si era impazientito perchè donna Maria
tardava a farsi vedere, arrischiando quindi di perdere la messa e la
predica del mezzodì a S. Fedele, poi aveva osato — ardimento ben raro —
di mandar la cameriera a farle premura, e finalmente si era seduto solo
a colazione.

Donna Maria entrò quasi subito: anch'ella appariva dello stesso umore
del marito. Un umore che si intonava con maravigliosa armonia al colore
del luogo, alla penombra triste, ai mobili austeri, alle tappezzerie
oscure, al vasellame pesante, ai grandi quadri di «natura morta» della
sala da pranzo, così sfarzosa e così opprimente.

Subito dopo colazione, il marchese Pier Luigi era uscito a fumare sul
terrazzino. Temeva uno sfogo della moglie per il contegno troppo debole
del gruppo lombardo alla Camera. Donna Maria, ritta sul busto e armata
dell'occhialetto di tartaruga che dava un'espressione ancor più severa e
quasi arcigna al suo bel volto di medaglia d'avorio antico, leggeva
attentamente il _Neo-Guelfo_ di quella mattina: non era opportuno
distrarla nè disturbarla.

Giù nel giardino, sembrava che la pace e il silenzio aumentassero con
l'avanzare dell'ora meridiana. Appena il _tic_ metallico delle foglie di
magnolia che cadevano a terra, appena qualche eco flebile dei rumori
della strada. Chi avrebbe detto che oltre quella muraglia coperta di
muschio e di edera si agitasse tanta vita sonora di voci e di anime?

Il gran mare fragoroso dell'ire popolari veniva a rompere le sue ondate
ai piedi di quelle mura massicce, che resistevano impassibili,
incrollabili da secoli. Oh! Esse ne avevano vedute e sopportate delle
burrasche... e ben più terribili!

— Un comizio più o meno? Un comizio all'Alhambra non è ancora il
finimondo, la rivoluzione!... Il «momento politico?» Buffoni!

A un tratto si sentì alle spalle la marchesa e voltandosi capì subito
che la lettura del _Neo-Guelfo_ non le aveva dato le stesse impressioni
di calma consolatrice trasfuse in lui dalla quiete del giardino.

— Guarda — La marchesa gli segnò con l'unghia rosea un articolo del
giornale. — Il dottor Giusto Allori fa anche il tribuno!

— Già.

Pier Luigi rispose con un sorriso di scherno, ma la marchesa, invece,
ebbe un impeto di collera.

— E tutto questo è in gran parte colpa tua.

— Colpa mia?

— Sì. Con la tua debolezza verso il padre, hai contribuito alla rovina
morale del figliuolo.

Pier Luigi rientrò nella sala e cominciò a girellare in lungo e in largo
rannuvolandosi di più ad ogni passo.

Sua moglie aveva ragione: la colpa era anche sua. Non aveva data
importanza alle eccessive indulgenze del vecchio Lorenzo verso il
figliuolo. Anzi, per dir la verità, lui pure si era lasciato vincere
qualche volta, dalla prontezza di quel ragazzetto, così pieno di sè.
Egli stesso aveva tollerato, aveva letto le prime poesiole, le prime
novelline del giovine studente, appena comparse sui giornalucoli
letterari.

Invece sua moglie, no. Ella aveva sentito subito che in quel monello,
male infagottato negli abiti smessi, che il padrone regalava a Lorenzo,
si maturava uno spirito insofferente, un ribelle, un ambizioso, un
declamatore; e lo aveva anche messo in guardia più di una volta, ma
inutilmente.

Debole il padrone: il padre infatuato.

Una sera anche Monsignore gli aveva parlato dello scandalo di quel
rivoluzionario che cresceva proprio nel suo palazzo, che mangiava il suo
pane, che dormiva sotto il suo tetto; ma neppure allora egli aveva
voluto intervenire, comandare. Sua moglie aveva ragione. Il nibbio
cominciava a mettere le ali e gli artigli!... Ma che andasse almeno ad
annidarsi altrove, lontano da casa sua!

— Lorenzo è in casa? — domandò il marchese ad un servitore.

— Credo di sì. È tornato alle undici dalla messa e dalle funzioni.

— Che cosa gli vuoi dire? — La marchesa, rannicchiandosi nella sua
poltroncina sotto una finestra, e rompendo la fascia alla rivista _Les
dames du bien_, sorrise crollando il capo: — Adesso è troppo tardi! Il
figlio è quello che è, ed il padre è il primo ad essere pentito e
spaventato.

— Non è mai troppo tardi! Lascia fare.

Pier Luigi si volse di nuovo al servitore:

— Chiamate Lorenzo.

Qualche momento dopo Lorenzo entrò, e, fatti pochi passi nel salotto,
chiese licenza di poter sedere, perchè quella mattina il suo mal di
cuore lo tormentava e quei pochi scalini gli avevano già dato l'asma.

Il maggiordomo, costretto ormai dagli acciacchi ad un riposo assoluto,
aveva infatti una bruttissima cera. Gli occhi aveva pesti, incavati,
cerchiati di livido, la pelle delle guance, sbarbate di fresco, floscia
e cascante, e le labbra smorte erano agitate da un fremito angoscioso,
come se il malato cercasse continuamente di bere a piccoli sorsi l'aria
che si sentiva mancare.

— Mi dispiace di dovervi fare dei discorsi... antipatici, tanto più
perchè non vi sentite bene; ma così non si va avanti. Sapete la nuova
pagliacciata? Quella d'oggi?

Lorenzo, seduto sull'orlo di una sedia, le mani scarne abbandonate sulle
ginocchia, cominciò a tremare in tutta la persona, ma quel tremito non
era di spavento, nè di soggezione; il pover'uomo, soffriva assai.

— Il signor Giusto Allori va a fare il predicatore al popolo!

Lorenzo accennava di sì, con la testa, dolorosamente. Poi si sforzò a
gridare:

— So, so, signor marchese. Il comizio all'Alhambra! Ho supplicato
Giustino anche ieri sera, con le lacrime agli occhi; almeno una
pubblicità simile... non la facesse per lor signori! Gli ho ricordato
tutti i benefizi ricevuti... L'ho scongiurato di aver compassione di me,
così vecchio, così malandato. M'ha risposto quello che mi risponde
sempre, da un anno: — «È inutile, babbo! Tu non capisci, tu non puoi
capire certe cose. Quello che io faccio è il mio dovere!»

— Il suo dovere! Il suo dovere! — balzò a dire la marchesa Maria con un
sussulto di sdegno e di odio nella voce. — Il suo dovere sarebbe di
rispettare il nome della famiglia presso la quale suo padre ha lavorato
tutta la vita, di non schierarsi con i più furibondi nemici del nostro
sangue e della nostra religione! Questo sarebbe il suo dovere! Questo è
il suo preciso dovere!

Il vecchio guardò la padrona, stupito e sconcertato da quell'ondata di
avversione che le prorompeva dalle labbra, e non rispose. Egli accennava
sempre di sì, continuamente di sì, chinando la testa grigia, respirando
con fatica. Non avrebbe immaginato mai che il suo figliuolo fosse tanto
odiato!

La marchesa proseguiva, implacabile, senza guardarlo:

— Dal canto mio, non ho nulla a rimproverarmi. Ho cercato di giovare
materialmente e moralmente a vostro figlio, come la mia religione e il
mio cuore mi consigliavano. Sì, anche il mio cuore; perchè quel...
ragazzo prometteva tutt'altro: era sveglio, molto vivace, ma docile,
riflessivo. Non dico già che lo si dovesse mettere in seminario... ma
almeno non si doveva permettere che gli montassero la testa con tutte le
empietà, con tutte le mostruosità che sono state inventate dai nemici
del bene.

— Appunto, — intervenne Pier Luigi, il quale trovava opportuno lo sfogo
della moglie, che sebbene un po' eccessivo, arrivava ad una conclusione.
— Che cosa avete creduto di farne col seguire la vostra vanità e la sua
ambizione? Sacrifici d'ogni sorta, per sette od otto anni, perchè
diventasse dottore! Dottore in scienze economiche! Belle... scienze!
L'ingiustizia del capitale, l'abolizione della proprietà.

L'onorevole si concitava al suono della propria voce come un vecchio
cavallo di razza al suono di una fanfara. Era un pezzo che non aveva
occasione di far udire in casa, a sua moglie specialmente, come il
gruppo neo-guelfo avesse approfondita anche la questione sociale. E
tirava via, contro l'inganno indegno dei marxisti, sostenitori di una
possibile socializzazione degli arnesi del lavoro, contro
l'auto-suggestione morbosa e collettiva delle masse verso un'utopia
rivoluzionaria alla quale giungevano dopo essersi lasciati adescare
dall'illusione «deleteria» della tattica evolutiva, da parte dei
sobillatori, capaci di tutto pur di appagare le loro sfrenate ambizioni
personali. Camminava in su e in giù, con le mani dietro il dorso, lo
sguardo al suolo, come ascoltando attentamente le parole ed
approfittando dell'occasione per immagazzinare ed ordinare un po' di
materiale adatto alla sua prossima conferenza, sulla enciclica papale
d'incoraggiamento ai cattolici della «vera democrazia». Ma ad un tratto,
nel volgere un'occhiata a Lorenzo, lo vide così accasciato, così
disfatto, così piegato in due sull'orlo della sua sedia, ch'ebbe
compassione del vecchio servo fedele e pensò ch'era tempo di liberarlo
da quella tortura.

— Già, ormai, sono parole inutili! Mi ricordo, quando vi è nato questo
vostro unico maschio, dopo parecchi anni di matrimonio! Sembrava che vi
fosse piovuta dal cielo una speciale benedizione! E anche nella scelta
del nome, vi ricordate? Non avete avuto niente affatto la nostra
approvazione. Chiamarlo Giusto!

— Giustino...

— Giusto! Come se non ci rintronasse abbastanza la testa con la
giustizia, senza cacciarla anche nei nomi! Avete già la disgrazia di
quel vostro cognome, così... bizzarro, di Allori!... Anche Giusto! Così
n'è venuto fuori il Giusto Allori. Un tutt'insieme... spettacoloso, che
pare proprio combinato apposta per fare del chiasso, per battere la gran
cassa di tribuno e di martire!

— Ma queste cose poi, signor marchese, chi le va a pensare! — osò
mormorare Lorenzo, giungendo le mani tremanti.

Donna Marianna intervenne, alzandosi ed accennando al povero vecchio
ch'era finita l'udienza.

— Non si tratta di parole nè di nomi, ma di fatti. Ed il fatto... grave
ormai, insopportabile, è che abiti ancora qui nella nostra casa, quello
stesso individuo che fuori, nei giornali, nelle assemblee...

— No, no, scusi, signora marchesa, non si inquieti più — supplicò
Lorenzo, in piedi, con una certa energia. — Credevo ne fosse già
informata. Giustino, da quasi due mesi, non abita più precisamente qui,
con me. Viene di tanto in tanto, a trovarmi, a sentire come sto; ha
ancora qui... qualche libro, ma ha capito anche lui che non era più il
caso!... Sicuro, signora padrona, anche questo dolore mi era riserbato.
Non aver più vicino il mio figliuolo, alla vigilia di andarmene per
sempre. E loro signori hanno tutte le ragioni! Con tanta bontà che hanno
sempre dimostrato a quel ragazzo, con tanti benefici... Ah! Io capisco,
capisco, e non dimentico nulla... Ma che fare? È la mia disgrazia! Il
Signore ha voluto così. Non bastava la malattia, questo asma, che mi
tronca il fiato... scusino, scusino tanto!... Giustino in casa, se
credono non ci verrà più affatto! Andrò io a trovarlo, fuori del
palazzo, finchè potrò... E poi una volta morto io... gli perdonino per
me... soltanto per me!

Il vecchio si portò le mani alla gola per aprirsi il colletto: la
commozione, il dolore, le lacrime gli avevano accresciuta l'asma. Uscì a
ritroso, inchinandosi barcollando e annaspando con le mani. Impiegò non
meno di dieci minuti a fare i tre piani della scala di servizio, per
rifugiarsi nelle sue camerette dove almeno avrebbe potuto starsene solo,
solo col suo struggimento, con la sua disperazione. Non sarebbe uscito
neppure pei vespri. Gli era impossibile fare ancora le scale in quel
giorno. Poi lassù, poteva raccogliersi e pregare con tutta la devozione,
come in chiesa. Avrebbe letto tutti i vespri ed anche compieta ed un po'
di salmi, guardando dalla finestruola il suo bel Duomo, così vicino, che
gli pareva di poterlo toccare allungando la mano, tutto bianco e roseo
ed azzurro, co' suoi terrazzi, le sue balaustre, le sue guglie, e le
statue, i santi, gli angeli, le madonne! Lorenzo le guardava, le
salutava più volte ogni giorno da oltre quarant'anni e le conosceva ad
una ad una, aveva parlato con ciascuna, aveva rivolta a ciascuna qualche
preghiera speciale, nelle disgrazie della sua vita, quando era rimasto
solo col bimbo, poi quando Giustino era cresciuto così sempre
mezz'ammalato, poi negli ultimi anni quando Giustino aveva manifestato
quelle idee, e si era buttato come un matto a quella maledetta politica
ed a lui, povero vecchio, per le paure e i dispiaceri e i rimbrotti dei
padroni, si era aggravato il mal di cuore.

Dopo una lunga sosta, premendosi le due mani sul petto perchè gli pareva
che il cuore gli volesse saltare in gola, salì anche l'ultima branca
della scala, la più breve, ma anche la più ripida e finalmente fu al
pianerottolo pieno d'aria e di luce, come le sue camerette. Prima di
scendere aveva chiuso l'uscio: come mai adesso era aperto con la chiave
nella toppa? Da un leggero e noto colpo di tosse nell'interno capì
subito.

— A casa, a quest'ora? A far che? — pensò il vecchio sempre più
angosciato all'idea di incontrarsi col figliuolo, mentre si sentiva così
male.

— Animo! — Spinse l'usciolo, ed appena entrato si lasciò cadere sopra
una seggiola, affranto, con un sospiro che finì in un gemito.

— Perchè hai voluto fare le scale sentendoti così male? Avevi promesso
di startene tranquillo o in casa o sul terrazzo.

— Sono stato chiamato giù dai padroni.

Il giovane, a questa parola «padroni», arrossì leggermente.

— Che cosa volevano? Lo sanno pure che sei ammalato!

— Dovevano parlarmi!

Il giovane aveva trovato finalmente un fascio polveroso di opuscoli, nel
quale si era messo a frugare, febbrilmente, perdendo la pazienza,
arrabbiandosi, pauroso di non arrivare a tempo.

— Se non ho il riassunto del _Capitale_ fatto da Gabriele Deville, oggi
sono senza una mano. Ed era qui, in questo pacco. Dove si è cacciato?

— Io già, sai... non tocco mai niente! — mormorò il vecchio.

Giusto alzò gli occhi e lo fissò commosso, turbato da quella voce
addolorata, in quel momento per lui così grave. Poi gli sorrise,
mormorando:

— So, so, babbo; i miei libri tu non li tocchi; ma bisogna che io trovi
questo Deville. Voglio chiudere il Comizio...

— Lascia stare il Comizio! — interruppe Lorenzo giungendo le palme in
atto d'umile, ma fervida preghiera. — Non ci andare a questo Comizio!
Evita almeno uno scandalo, per riguardo a tuo padre, alla famiglia che
tuo padre ha sempre servito con onore, con fedeltà...

— Servito? Ah! Ah! La fedeltà, la devozione colla quale tu hai servito
questi signori, dovrebbero impedire a me di servire le mie idee? Ed è
per dirti queste cose che ti hanno chiamato? E chi sa contro di me, la
marchesa specialmente, chi sa che accanimento!... Via, via! Non ho tempo
da perdere, io! Dirai giù, ai signori, che ho anch'io i miei padroni, e
i miei padroni sono i miei doveri, che valgono molto più del signor
marchese e della signora marchesa.

— No, no, Giustino! Non fare, non parlare così anche tu, quest'oggi!...
Non arrabbiarti, anche tu! Non darmi altri dolori. Il mondo non cambierà
nemmeno co' tuoi discorsi, perchè è sempre andato e andrà sempre allo
stesso modo. È il buon Dio, il solo padrone dei grandi e dei piccoli,
che vuole così!

Il giovane lo interruppe, col viso intelligente, illuminato da un lampo
di indulgenza e di pietà.

— Basta, basta, babbo mio, povero vecchio mio! Oggi no, oggi no, non mi
stare a ripetere queste cose, oggi. Son tre, quattromila persone,
operai, lavoratori che si riuniscono, ora, ed io dirò a tutti quello che
da un mese mi va fermentando qui dentro... Ma abbi pazienza, mettiti
quieto e prendi, leggi il tuo libro da messa... Tu, non puoi capirmi.
Ecco, ecco il mio Deville! Meno male! L'ho trovato! — Il giovane dà
un'occhiata all'orologio come per avere la spinta e trovare il coraggio
di finirla e di andarsene. — Le due meno un quarto?... Salto in tram e
via all'Alhambra! Non posso arrivar tardi! E tu pensa che io sono sempre
un galantuomo, qualunque cosa ti dicano contro di me per le mie idee!

Il giovane, piegando l'alta persona secca, ossuta, angolosa, per uscire
dal piccolo uscio un po' basso, fece ancora un cenno d'addio al povero
Lorenzo, scese rapidamente le scale e si diede a camminare ancor più in
fretta verso il tram di Porta Garibaldi, sfogliando ed annotando in
margine, a grossi segni di matita azzurra, il volume del Deville. Col
cappello a cencio, gli occhiali d'oro, il vestito trasandato, una grande
cravatta nera mezzo disfatta, le tasche piene di giornali, i gesti
rapidi, nervosi, concitati, masticando fra i denti lo spunto di qualche
frase oratoria, egli passava tra la gente senza veder nessuno, osservato
da tutti, conosciuto da molti, e lo seguivano sguardi di curiosità, di
ammirazione, di simpatia, ma anche di compatimento, di scherno, e di
avversione palese ed astiosa.


II.

Nei dintorni dell'Alhambra frotte di gente che si affrettavano,
discutendo animatamente. Il teatro era già gremito, in ogni parte, sin
nel vestibolo, e l'Allori dovette farsi largo vigorosamente tra la folla
per non giungere tardi sul palcoscenico dove era aspettato.

La grande luce del pomeriggio estivo entrava a ondate dagli ampi
finestroni spalancati e dava una crudezza lucida e sfacciata alle tinte,
una volgarità sciatta e grottesca ai fregi grossolani di quell'immenso
baraccone di legno, in stile pseudo-moresco. E l'ampia sala risonava
tutta nell'impazienza del pubblico ansioso; risonava di mille voci, di
mille rumori diversi che si fondevano in un solo fracasso assordante e
somigliante al muggito del mare co' suoi alti e bassi e le sue tregue.

Il popolino minuto, che per istinto, per abitudine, era accorso mezz'ora
prima, avea preso d'assalto la galleria ed ora l'affollava tutta così da
offrire l'aspetto di una sola massa palpitante, in cui i colori scuri e
i vivaci si confondevano. Un'altra moltitudine giù in platea, andava
sempre più accalcandosi per il lento continuo insinuarsi di nuovi gruppi
che venivano come ingoiati dalla massa. E questa poteva sembrare a tutta
prima la folla consueta, chiassosa e insolente che, nell'aspettativa del
banale spettacolo, se la gode per proprio conto, offre spettacolo di sè
a sè stessa, si abbandona a tutte le licenze del grosso umorismo
popolare.

Infatti correvano per l'aria grida, urli, fischi, grugniti e richiami;
qua e là era uno sventolare carnevalesco di giornali, di manifesti e di
ventaglietti; in un angolo, in alto, un gruppo di ragazzacci, di
monelli, s'erano levati le giacche col pretesto del caldo e dirimpetto,
sull'opposto lato, altri giovinastri, dall'aspetto equivoco, si erano
dati a picchiare con i bastoni, dal manico di corno di cervo ricurvo,
sulla ringhiera di ferro, con un crescendo infernale. L'Allori, tosto
riconosciuto ed accolto da un primo moto di curiosità e d'impazienza
soddisfatta, si faceva strada lungo la corsìa, dietro i palchetti del
primo ordine.

Ad un tratto questi, già in parte occupati, vennero brutalmente invasi
da altra gente, rozza ed audace che non avrebbe avuto alcun diritto
d'entrarvi. Fu un momento di baccano orribile; s'incrociarono grida
sguaiate di conquista ed altre furibonde di protesta, si videro
pennacchi rossi e nappine azzurre disseminate un po' dappertutto,
ondeggiare e affrettarsi verso i palchetti. Ma fu un attimo.

Sul palcoscenico la luce era più blanda, calma e dorata come una luce di
tramonto in chiesa. Lassù vi era un'altra folla composta di persone
meglio vestite, alcune anzi vestite di nero, col cappello a cilindro,
altre con cappello piumato e con un ciondolo di medaglie al petto. Più
in fondo, da un lato, un gruppo di bandiere, dall'altro lato, gruppi di
antichi e più o meno autentici superstiti delle campagne garibaldine,
con le camicie di flanella rossa, nuova fiammante, e col berrettino
sulle ventitrè. Le sedie disseminate sul palcoscenico erano state
offerte ai vecchi e ve n'erano alcuni, quasi tutti veterani, non
apocrifi, delle patrie battaglie, che ostentavano con fanciullesca
vanità le loro decorazioni, e si arricciavano i baffi bianchi con una
certa spavalderia innocua e senile. V'erano anche delle donne, borghesi
e popolane, le prime infagottate nelle vesti di seta delle grandi
occasioni, ma senza roba d'oro addosso perchè nella folla «non si sa
mai»; le altre, per lo più ragazze, belle ragazze dalle bocche
sorridenti, dagli occhi scintillanti, liete della loro giornata di
riposo e dello spettacolo gratuito del Comizio, sudate e scarmigliate,
che si narravano, con grandi scoppi di risa, le loro avventure nel lungo
tragitto attraverso la folla per arrivare sino sul palcoscenico e sentir
bene ed essere vicine al fratello o all'innamorato, nel caso di un
«quarantotto». I _reporters_ dei giornali, stretti a gomito nella più
bizzarra promiscuità dei colori politici, intorno a due tavolini,
traballanti presso la ribalta, cominciavano a scrivere furiosamente, a
matita, sulle piccole cartelle, guardandosi intorno sul serio, per poi
«dipingere l'ambiente» con la diversa intonazione, secondo il diverso
colore del giornale.

«Le più note e spiccate personalità dei partiti popolari, i
rappresentanti dei sodalizi promotori, i compagni venuti a fare atto di
solidarietà dalle vicine città sorelle» avevano una cert'aria decorativa
e guardavano, con calma serena, gli incidenti della platea, come chi è
abituato a certe cose e ne ha vedute di più gravi, e sa di aver fissi
addosso gli sguardi del popolo, gli sguardi di tutta Milano, quindi di
tutta Italia.

E mentre giù, nella platea, la gente tumultuava per l'assalto ai
palchetti, in quei gruppi, sul palcoscenico, vi fu un breve rimescolìo,
poi d'un tratto, scoppiò un applauso fragoroso che coprì ogni altro
clamore, e le bandiere si agitarono, i gruppi si aprirono ed un bel
vecchio, dall'aspetto simpatico e dolce, con passo sicuro, si avanzò
insieme a tre o quattro altre persone di varia età, fra cui Giusto
Allori, fin presso il tavolo, dinanzi alla buca del suggeritore, ch'era
stata coperta. Tutto tacque repentinamente nel teatro. Poi, subito, come
lo scoppio del fulmine, un grande applauso breve e secco. Un attimo
soltanto di sosta e ancora lo stesso applauso, ugualmente vigoroso, ma
questa volta insistente, prolungato, interminabile, risolventesi alla
fine nelle grida, negli «evviva», negli «abbasso» dapprima informi e
confusi, poscia determinati e diretti da voci isolate, gagliarde e
squillanti.

Giusto Allori stette ad assaporare con gioia palese quello spettacolo
per qualche istante, girando lo sguardo vivo dietro le lenti degli
occhiali, verso ogni punto del teatro, abbasso e in alto, come a
persuadersi, che dappertutto vi fossero anime vibranti e cuori aperti.
Poi alzò la mano ad un gesto largo ed imperioso di calma, e quasi subito
un po' di calma infatti si fece, in mezzo però a nuovi clamori, di
plauso, che si ridestavano qua e là, rivolti a lui, dai più impazienti
di udirlo parlare. Ed egli parlò subito, ma soltanto per invitare
l'assemblea ad eleggersi un presidente; ciò che risollevò un altro
uragano di grida, fra le quali cominciò però tosto a prevalere distinto
un nome.

Ed allora il bel vecchio, dall'aspetto dolce e simpatico, ch'era in
piedi presso al tavolo, un po' incitato e poi sospinto quasi a forza da
Giusto Allori e dagli altri vicini, si fece nel mezzo, accennò
ripetutamente alla folla che si chetasse e con molta energia,
sbatacchiando a lungo il grosso campanello, ottenne un qualche silenzio:
allora, con voce ancora robusta, ringraziò dell'onore che gli veniva
fatto. Aggiunse anche altre frasi, evidentemente preparate, e spiegò lo
scopo del Comizio; ma tosto si smarrì, e ripetè più volte le cose già
dette, finchè trovò il coraggio di correre alla conclusione, anch'essa
preparata, raccomandando la calma, il rispetto alle opinioni di tutti e
la brevità dei discorsi.

Ma i primi discorsi furono tutt'altro che brevi. Dapprima parlò un
antico ex-deputato, retorico e prolisso, ogni frase del quale celava un
rancore. Poi il rappresentante di una confederazione di fuori, un
dicitore rapido, verboso, cui l'aspetto bizzarro e l'accento
spiccatamente dialettale e qualche immagine nuova avevano sul principio
guadagnata l'attenzione; alla quale però erano poco dopo successi il
tedio e il fastidio.

Il pubblico si impazientiva, si irritava.

Il presidente trovò modo di persuadere l'oratore, già scalmanato in
viso, a chetarsi a metà di una argomentazione, e tosto Giusto Allori,
mosse avanti, sino alla ribalta, represse quasi subito l'applauso che
era ricominciato per lui, e prese a dire stringendo nella destra un
fascicoletto di bozze, assicurandosi di frequente, con un gesto abituale
della sinistra, gli occhiali d'oro e volgendosi or da un lato or da un
altro, fissando per un momento gli sguardi proprio sotto di lui, poi
alzandoli alla folla pigiata, lassù, in mezzo alla galleria.


III.

Tutto ciò che era stato detto fino a quel momento dagli altri nella
forma più incolta e più disordinata, cominciò a fluire dalle sue labbra
con una limpidezza, con una continuità, con una rapidità simile a quella
d'una fresca vena d'acqua, dinanzi alla quale sia rimosso ad un tratto
ogni ostacolo. Ma intorno alle vicende politiche della giornata, Giusto
Allori non intendeva evidentemente di soffermarsi a lungo.

Egli voleva approfittare di quella grande riunione di gente per dire
molte altre cose, che gli premevano molto di più; e subito, infatti, la
sua parola illuminò ben altre idee che non quelle di una critica astiosa
dei gruppi, delle persone e della politica. Con un caldo fervore di
convincimento ed una eloquenza vera, vibrante sopratutto della
commozione dell'artista, il giovane scioglieva un inno alla concordia
degli umili fra loro, alla loro esaltazione morale verso la bontà, verso
l'intelligenza, e la sua parola dava alla folla un'ebbrezza che erompeva
in iscoppî d'applausi, soffocati immediatamente dal timore di non sentir
bene ciò che egli avrebbe detto ancora.

E l'ebbrezza crebbe alla fine, mentre anche l'oratore si abbandonava
alla lirica della perorazione e le sue mani tremavano, e gli pulsavano
le tempie e il teatro pareva crollasse in una tempesta, in un delirio di
grida e di battimani, ed egli, madido, affranto, doveva reggersi per un
momento con la mano al tavolo, prima di ritirarsi.

Fu allora che qualcuno, facendosi largo tra i gruppi, gli si avvicinò e
gli sussurrò brevi parole all'orecchio. Giusto Allori trasalì, si volse,
si scosse, respinse quelli che gli si facevano intorno domandandogli che
cosa fosse accaduto e lasciò rapidamente il palcoscenico, per essere al
più presto possibile nella strada.

Da per tutto una muraglia di gente.

Come passare? Come farsi largo subito, egli poi, che tutti anzi
stringevano in mezzo?

Un vecchio delegato di questura, fermo sul palcoscenico alla soglia
d'un'uscita di servizio, aveva seguito con lo sguardo fisso l'Allori, in
quel suo improvviso, angoscioso tentativo di andarsene; e quando il
giovane gli fu vicino, gli disse con tono, oltrechè cortese, quasi
amichevole:

— Se crede, dottore, può uscire di qui...

Giusto si fermò come trasognato, guardò, capì, e nello sguardo del
vecchio che in quel momento gli parlava a quel modo, gli parve di
scorgere una profonda simpatia alla sua invocazione di poco prima
all'amore fra gli umili.

— Grazie, grazie — mormorò, tendendo la mano e stringendo forte quella
che l'altro gli porgeva esitando. — Grazie... Sì, ho bisogno d'essere a
casa subito...

Ed a quell'uomo che lo precedeva per guidarlo fuori, fra scale e
corridoi, a quel funzionario della polizia prima che ad un altro, Giusto
Allori confidò l'ambascia che improvvisamente gli aveva stretto il
cuore:

— Sono venuti ad avvisarmi che mio padre sta male, malissimo...
Presto... Grazie... Che mi veda subito!... Grazie ancora, grazie!


IV.

Le camerette splendevano come di una luce d'oro. Il sole, già basso,
sembrava ardesse d'un fuoco d'incendio dietro le guglie, le statue e i
trafori del Duomo. Il vecchio infermo, che già un'ora innanzi,
all'aggravarsi del male aveva chiesto disperatamente, con le mani alla
gola, aria, aria, aria, anche adesso, cessata la crisi, tentava ad ogni
momento di sollevarsi dai guanciali del seggiolone, quasi per lanciarsi
fuori dalle piccole finestre tutte aperte, verso quel mare immenso di
aria e di spazio. Ed ogni tanto l'occhio stanco e imbambolato aveva
ancora la consueta espressione di riverenza devota, allorchè riusciva a
distinguere quelle belle statue lontane nel cielo, che egli conosceva
tutte per nome, e le mani brancicanti si congiungevano nel gesto
abituale della preghiera e si levavano verso la Madonnina d'oro
fiammeggiante come una face, sulla guglia maggiore...

Ma quando Giustino gli fu presso, inginocchiato a lato del seggiolone,
le dita scarne e tremanti del vecchio si cacciarono nei capelli del
figliuolo, con un atto convulso, quasi d'impazienza e di sdegno, e sul
volto smorto e chiazzato di macchie violacee non passò alcun raggio di
conforto e di gioia.

— Come hanno fatto ad avvisarti... che... me ne vado? Là dentro... in
quella bolgia d'inferno? Che cosa dicevi a quella gente, mentre io ero
qui ad aspettarti... per morire? Oh! so, so... quello che vuoi
rispondermi!... Me lo hai detto un milione di volte, sempre!... Io
queste cose non le posso capire!... E così, me ne vado, là dove c'è la
tua povera mamma che mi aspetta, senza aver capito mai niente di te!
Cioè... sì: dopo aver capito che non ci vedremo più... nemmeno di là...
perchè tu non hai voluto... tu non vuoi... Questo... ho capito... ho
capito... E tu invece eri il mio Giustino buono, affettuoso, studioso.
Che cosa hai detto oggi, anche oggi, a tutta quella gente?

Giusto comprese.

In quell'animo affranto, dilagava un immensa disperazione, ed egli ne
era la causa.

La sua parola soltanto poteva dar pace allo spirito tormentato del
padre, in un'ora così terribile. E il giovane, si accosciò a' piedi del
seggiolone e cominciò ad accarezzare le mani tremule e le ginocchia del
vecchio.

Lorenzo viveva in quell'ora di una vita dello spirito, affatto diversa
dalla intera sua vita, più intensa, più eletta, di quanto la sua indole
timida e mite, la sua modestissima coltura, prima d'allora, gli avessero
mai consentito.

Giusto lo sentì, con l'intuito sapiente che dànno i grandi dolori, con
l'affetto tenero e profondo che aveva allacciato la sua giovine vita
fremente a quella vita ingenua, che andava estinguendosi.

E allora cominciò a parlare...

Poco prima egli era il ministro di una religione nuova che aveva accesa
la passione d'una moltitudine: adesso era ancora il ministro della
stessa religione che confortava con l'amore una coscienza.

— Sai che cosa ho detto poco fa, a tutta quella gente? Ascoltami bene,
babbo, ascoltami bene, babbo mio! Ho detto loro che gli uomini devono
vivere come fratelli e che ognuno deve fare per gli altri quello che
vorrebbe fosse fatto a sè stesso.

— Ma... questo è il Vangelo che lo dice!

— Ed ognuno deve lavorare secondo le proprie forze, perchè nessuno deve
vivere in ozio... Non è vero? È il tuo figliuolo che ti parla, e tu sai
che non ha mai mentito. Non diceva Gesù Cristo essere più facile che un
cammello passi per la cruna di un ago che non un ricco per la porta del
paradiso?

— Sì, ma il Vangelo comanda ai poveri la rassegnazione...

— Appunto, perchè il Vangelo non è fatto soltanto pei ricchi o pei
poveri, ma per tutti gli uomini che sono uguali fra di loro. E ti pare
giusto che vicino a tanti che sperperano pazzamente le loro ricchezze,
vi sieno dei miseri cui manca il pane? E ti par giusto che chi ha
vissuto sempre sempre, dall'infanzia alla vecchiezza, soffrendo e
spasimando, debba morire in un canto di via esausto, derelitto, solo,
come se non fosse anch'egli un figliuolo di Dio?

— Ma c'è la carità, c'è la beneficenza...

— Sì; ma quanto sarebbe più bello il mondo se di questa carità non vi
fosse bisogno.

— È vero... è vero...

— Noi non predichiamo l'odio a nessuno: noi vogliamo che i buoni, quelli
che soffrono, si uniscano, si aiutino per sollevarsi a vicenda e
diventare migliori.

Lorenzo guardava il figliuolo con gli occhi sorpresi e incantati e sulla
torbida angoscia di prima scendeva una blanda luce di conforto e di
gioia:

— Anche Gesù l'ha detto — mormorava...

— Sì, sì, babbo, e coloro i quali affermano che il tuo Giustino insegna
ad odiare e a distruggere non sanno o non vogliono sapere il vero. Tu mi
parlavi dianzi di carità. Ebbene, la carità che il figliuolo di Dio
predicava, non era la bella e santa carità tra fratelli?

— Sì, sì, nel Vangelo...

— E non diciamo noi, come sta scritto in quel libro della sapienza e
dell'amore, che deve venire il giorno della pace e della giustizia, per
tutti gli uomini di buona volontà?

— Sì, sì, sì...

Il vecchio maggiordomo, il quale non aveva mai pensato altro mondo
tranne quello di cui era stato un'umile parte fedele, e che poneva in
esso la sede di ogni bontà, di ogni giustizia, vedeva ora che la bontà e
la giustizia avevano fuori di esso un altro aspetto. Non a lui toccava
d'esser giudice; ma egli era in quel momento felice di poter ricordare i
benefici dei padroni, e di poter ascoltare il figlio adorato, senza che
la sua anima semplice e scrupolosa trovasse, tra la devozione e il
dispetto ai primi, e l'affetto al secondo, un'inconciliabile
contradizione... e gli pareva che da quel momento l'odio, il rancore, la
perfidia, fossero per sempre scomparsi dalla vita. Non egli poteva
cogliere il senso delle distinzioni e degli opposti principî, ma sentiva
che sotto le crudeli apparenze, le rigide tradizioni o le fervorose
speranze, una sola forza palpita: l'amore. L'amore dei suoi vecchi
padroni gli aveva resa la vita pacata, chiara, onesta e tranquilla;
l'amore che scaldava con impeti generosi lo spirito giovanile del
figliuolo gli rasserenava la morte. La sua religione, che in quell'ora
estrema diveniva quasi più perspicace e indulgente, sorrideva ai ricchi
e ai poveri, e scopriva inconsciamente dove stava il vero in ogni
conflitto delle anime e dei cuori: nella buona volontà degli uomini!

Il vecchio accarezzava ora la testa del figlio con lente mani tremanti e
la bocca disse parole di benedizione.

... Gli occhi profondi guardavano nel vuoto, sorridenti, verso la Morte.



INDICE


  Casta Diva                      _Pag._   1
  Fernanda                          »    103
  Canto di Montagna                 »    141
  Il pranzo della Barcaccia         »    205
  A rovescio!                       »    257
  In extremis                       »    287



DELLO STESSO AUTORE

  =Mater dolorosa=, romanzo                        L. 4 —
  =I Barbaro o le lagrime del prossimo=, rom.       » 4 —
  =La Baraonda=, romanzo                            » 4 —
  =La Signorina=, romanzo                           » 4 —
  =Casta diva=, romanzo                             » 3 50
  =La moglie di Sua Eccellenza=, romanzo            » 4 —
  =L'Idolo=, romanzo                                » 4 —
  =Il Tenente dei Lancieri=, romanzo                » 3 —
  =Il processo Montegù=, romanzo                    » 1 —
  =Baby — Tiranni minimi=, romanze                  » 1 —
  =Il primo amante=, romanzo                        » 1 —
  =Sott'acqua=, romanzo                             » 1 —
  =Cavalleria assassina=                            » 1 —
  =Romanticismo=, dramma                            » 3 50
  =Il Re Burlone=, commedia                         » 3 50
  =La Baraonda= — Principio di Secolo, comm.        » 2 50
  =I disonesti=, dramma                             » 2 —
  =Il ramo d'ulivo= — Il poeta, commedia            » 3 —
  =La Realtà — La trilogia di Dorina=, commedie     » 2 50
  =Madame Fanny=, commedia                          » 1 50
  =La cameriera nova=, commedia                     » 2 —
  =Scellerata — Collera cieca=, commedie            » 1 50



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (sottosegretario/sotto-segretario, benefizi/benefizî,
madia/màdia e simili), correggendo senza annotazione minimi errori
tipografici.





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