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Title: Minerva oscura - Prolegomeni: la costruzione morale del poema di Dante
Author: Pascoli, Giovanni
Language: Italian
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Nota del Trascrittore

      Text enclosed by underscores is in italics (_italics_).

      Text enclosed by equal signs is in bold face (=bold=).



GIOVANNI PASCOLI

MINERVA OSCURA

PROLEGOMENI:

LA COSTRUZIONE MORALE DEL POEMA DI DANTE.



LIVORNO
TIPOGRAFIA DI RAFF. GIUSTI
EDITORE-LIBRAIO
1898



PROPRIETÀ LETTERARIA



                                 A

                          GASPARE FINALI



_Eccell.mo Senatore,_


questo mio studio fu già pubblicato, sebbene con alcuna varietà, nel
=Convito= di Adolfo de Bosis, del mio Adolfo, uno dei cuori più nobili e
degl’ingegni più forti che mi sia stato e mi sia per essere concesso di
ammirare e di amare. In quel =Convito=, in cui elettissimi spiriti
offrirono (con quale frutto di lodi e di grazie, Adolfo dirà) ai loro
cittadini coppe ideali, ferventi di pensiero generoso, Χαῖρε
καὶ πῶ τάνδε dicendo col poeta di Mytilene, anch’io fui così ardito di
propinare; e pòrsi, tra altro, questi _Prolegomeni_ della _Minerva
Oscura_, quanto a dire, la chiave per entrare nel mistero di Dante. Era
da cinque o sei anni il mio lavoro segreto e prediletto: lo meditavo per
giorni interi e ne sognavo (sorrida o rida chi vuole; ma è vero!) le
notti. Era la mia compagnia, il mio conforto, il mio vanto. Dai dispregi
che mai non mi sono mancati, io mi rifugiava nell’oscuro _Tesoro_ delle
mie argomentazioni e divinazioni; le contavo e ripetevo, e ne uscivo
raggiante di solitario orgoglio. Aver visto nel pensiero di Dante! Io
ricordava spesso quella affermazione, che si legge nel Convivio di lui e
che è riportata nel Cap. III di questi Prolegomeni: _La vera
sentenza.... per alcuno vedere non si può, s’io non la conto_; ed
estendevo alla Comedia ciò che egli dice delle canzoni conviviali; e
soggiungevo: E io, la vera sentenza, io l’ho veduta! Sì: io era giunto
al _Polo_ del mondo Dantesco, di quel mondo che tutti i sapienti
indagano come opera d’un altro Dio! Io aveva scoperto, in certo modo, le
leggi di gravità di questa altra _Natura_; e quest’altra natura, la
ragione dell’Universo Dantesco, stava per svelarsi tutta! E così
concludevo, nel nostro Convito, con parlare della _gloria_ che da
_ricerca e scoperta tanto importante_ doveva _derivarmi_.

Non sono da allora passati due anni, e, mentre la fede nei miei
argomenti si è assodata per sempre, è svanito dal mio cuore ogni
desiderio di gloria e di gloriola. Se vanità è la vita, la gloria è
l’ombra gettata da quella vanità. Cancelliamo dunque quelle superbe
parole! Mi perdoni chiunque ne sia rimasto scandalizzato! Oh! se la
gloria è ombra di vanità, se è vaporazione di nulla, non è però così
vana e nulla cosa il desiderio di essa. È un desiderio di sopraffare, è
un desiderio di deprimere e di avvilire altrui. Via dal cuore così
perverso fermento!

E il perverso fermento se ne è andato, e non c’è più dentro me se non
una grande aspirazione a contemplare e ad amare. Sì che ora mi giova
credere che anche in questa povera opera mia io non abbia fatto se non
contemplare, con nessun altro fine se non questo di contemplare. Nè
alcun altro frutto me ne venga, se non quest’uno, d’essere amato da chi
contemplò, con me, il _miro gurge_ Dantesco; e, se non da alcun altro,
da lei, grande e buono onore e presidio mio; da lei che conosce Dante,
come pochi altri; da lei che ne scrive con tanta profondità di pensiero
e tanta dignità di stile; da lei che, tra le cure assidue e severe del
suo alto uffizio, ne prende il coraggio del bene e l’inspirazione del
vero; da lei, infine, che ama Dante e ama (come è difficile, eppur dolce
a dire!) ama ancora questo minimo interprete di lui; come a dire, la
stella che riluce nel cielo, e la stilla, pendula e caduca, che di
quaggiù la riflette.

Mi ama, illustre senatore, e io l’amo; e perciò dedico a lei questi
Prolegomeni; non senza pensare che così io vengo a fare atto di omaggio
anche alla forte terra di Romagna, che fu madre ad ambedue noi, e della
quale Ella attesta la sanità e la genialità, la fortezza e la
gentilezza, con la virtù sua antica; a quella forte terra che ospitò le
grandi memorie e le grandi sventure, l’Impero e Dante; non senza pensare
che così per me si dà un supremo tributo d’affetto a quella cara anima
nel cui pietoso ricordo si strinse tra lei e me l’indissolubile nodo: a
mio padre.

  Messina, 20 Gennaio 1898.

                                                  GIOVANNI PASCOLI.



  INDICE


  Lettera a Gaspare Finali                  _Pag._ v

  _Minerva Oscura_: Prolegomeni,               1-149

  _Appendice_: Schiarimenti e aggiunte.
  I. Il Messo del Cielo                          151
  II. Il Conte Ugolino                           159
  III. Le difficoltà del Bartoli ecc.            177
  IV. Moralium dogma                             209
  V. Corrispondenze                              212



Conoscere e descrivere la mente di Dante sarà mai possibile? Egli
eclissa nella profondità del suo pensiero: volontariamente eclissa. Io
già mi posi in cuore di seguirlo in una di queste sparizioni, nella
quale, dopo aver detto, MIRATE, egli lascia i nostri occhi in mezzo alla
caligine. Se vedo questa volta, io dicevo, vedrò sempre, se lo comprendo
in questa parte, lo comprenderò nel resto.



I.


Il luogo oscurissimo è dal VII al IX dell’inferno. E l’ora del tempo è
mezzanotte. È mezzanotte quando il Poeta scende con Virgilio ‛a maggior
pieta’, mentre era vespro quando si ‛apparecchiava a sostener la guerra
Sì del cammino e sì della pietate’. Cadono le stelle e persuadono il
sonno: è l’ora che Enea, con voce che noi sentiamo risonare nei versi di
Virgilio, grave e quasi velata, si fa a narrare l’ultima notte di Troia.
E Dante che già nella sera, nel silenzio e sopore universale, si sentiva
solo a vegliare di tutti i viventi, ora a mezzanotte pare oppresso da un
sogno sognato per tutto il durare d’un viaggio notturno. E il viaggio
pare uno di quelli che possiamo ricordare d’aver fatti da fanciulli
(Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio), un poco a piedi, poi
portati di peso in carrozza, poi discesi senza averne coscienza intera,
balzati di qua e di là, tra cigolii e schiocchi e scricchiolii e tonfi,
con qualche carezzevole parola mormorata all’orecchio in mezzo a un
rotolare continuamente e sordamente fragoroso. L’Ombra e il Vivente
scendono accompagnati dal gorgoglio assiduo di un fossato di acqua buia,
e questo fossato si fa palude, la palude della ‛Tristizia’, in fondo
alla piaggia. E la palude è piena di strepito d’anime che rissano tra
loro e di scoppi di bolle che vengono da altre anime fitte nel fango.
Essi girano per un grande arco del margine e si trovano avanti una
torre. La torre accenna con due fiamme sulla cima, e un’altra di lontano
rende il cenno. Una barca s’appressa nel buio, e il barcaiuolo grida
sinistramente. Entrano, vanno. A Dante apparisce, pieno di fango, il
nemico morto che non riconosce lui e forse vuol salire nella sua barca;
ma è da lui riconosciuto e respinto. Una scena infernale di odio e di
sdegno e di giusta vendetta e di rabbia impotente e di battaglia tra
morti, tramezza il viaggio della mezzanotte. Il vocio dei dannati
s’allontana; ed ecco avanti avanti un immenso lamento, in fondo in fondo
un rosseggiare di fuoco: è una città di ferro incandescente, Dite, il
vero Inferno. Sbarcano, e per la prima volta Dante vede i ‛da’ ciel
piovuti’; per la prima volta è lasciato solo; per la prima volta vede il
Maestro, con gli occhi alla terra, dubitare e sospirare, l’ode parlare
con parole tronche e raccontare una tetra storia di scongiuri e di
luoghi fondi e bui. Lo interrompe l’apparizione delle Furie, viene in
volta il Gorgon, e Virgilio chiude gli occhi a Dante con le sue mani.
Quando egli è così senza vista, sente come l’appressare di un temporale.
Viene il liberatore, un Messo del cielo che con una verghetta apre le
porte di ferro. È il risveglio, finalmente: e Dante si trova in un
cimitero con gli avelli scoperchiati, donde escono fiamme. Tra il sommo
del pericolo, quando sulla cima della torre rovente si mostra il Gorgon,
e il risveglio, è un ammonimento agli intelletti sani che sembra un
lampo il quale aprendo a un tratto le tenebre, le lascia più nere e
inerti che mai. Or qui, più che in ogni altro luogo e momento, è dubbio
e oscurità. Stige, torri, Flegias, parole di Virgilio, Furie, Gorgon,
Messo: tutto mistero. Ma nello Stige, che cinge la città dolente, ‛il
fummo è più acerbo’.



II.


Io pensava:

La sua Comedia volle Dante che parlasse ‛faticosa e forte’; e certo egli
credeva, come e più che per la canzone “Voi che, intendendo„, che radi
avessero a essere coloro che intendessero bene sua ragione, pago che la
bellezza ne fosse veduta, se la bontà meno ne era sentita.[1] Certo egli
avverte nel poema stesso e di nascondere la dottrina sotto il velo dei
versi e di volere ben forniti di dottrina i suoi lettori; d’essere cioè
forte od oscuro, e faticoso o duro. Avanti le porte di Dite, quando le
feroci Erine domandano il Gorgon e il Maestro chiude gli occhi a Dante,
questi interrompe il racconto, che séguita col fracasso sonante per le
torbide onde, dicendo al lettore:

    O voi, che avete gl’intelletti sani,
      Mirate la dottrina che s’asconde
      Sotto il velame degli versi strani.[2]

  [1] Canzone ‛Voi che intendendo’, Tornata, v. 1-3 e Convivio II
  cap. XII.

  [2] _Inf._ IX 61 e segg.

Così nella valletta dei fiori, finito l’inno della Compieta, prima di
narrare lo scendere dei due angeli e il venire del serpente, si volge
pure al lettore:

    Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
      Chè il velo è ora ben tanto sottile,
      Certo, che il trapassar dentro è leggiero.[3]

  [3] _Purg._ VIII 19 e segg.

Il velo è della lettera, è la sentenza letterale, il di fuori, e il vero
è quello che si nasconde sotto il manto di quella favola: il di dentro,
una verità, come egli dice, ascosa sotto bella menzogna.[4] Il velo qui
è sottile, il vero dunque facilmente trasparisce: perchè l’invito ad
aguzzare gli occhi? Per comprendere la cosa, bisogna rileggere nel
Convivio il perchè, quale egli lo espone, della ‛fortezza’ o ‛gravezza’
non solo delle canzoni, ma ‛dello scritto che quasi Comento dire si
può’, che ordinato a levare il difetto della durezza in esse, è ‛in
parte un poco duro’.[5] Dante scrive che per l’esilio e per il vento
secco che vapora la dolorosa povertà, la quale ne fu l’effetto, essendo
vile apparito agli occhi a molti, e non solo nella persona sua ma in
ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare, gli conveniva
con più alto stile dare nel Convito un poco di gravezza, per la quale
paresse di maggiore autorità.[6] Or, senza voler prendere alla lettera
il divino autore della Comedia, bisogna pur credere che sì con
l’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e la sottilità dei
ragionamenti, egli si proponesse più di essere alto che chiaro, secreto
più che accessibile, autorevole più che persuasivo. Certo restringendo
il discorso all’allegoria, facilmente si può vedere che se essa fu da
Gesù adoperata nella forma di parabola per fare meglio intendere la sua
divina parola, da altri fu usata, o per timore dei potenti al fine di
schivare la loro vendetta, o per isfoggio d’arte, al fine di colpire
d’ammirazione gli uditori. Nei quali casi, non si persegue
dall’allegorizzatore il pregio della chiarezza, per la quale il suo
pensiero sia aperto a tutti, ma il vanto dell’ingegnosità, con la quale
o celi in parte il vero, sì che a questi sia manifestissimo, a quelli
occultissimo, o a tutti lo ricopra, sì che bisogni a tutti affaticarsi
per trapassar dentro. Or quando il Poeta ammonisce il lettore di aguzzar
ben gli occhi al vero, egli, in certo modo, lo sfida, lo mette alla
prova indicandogli un velo sottile attraverso il quale si può vedere da
tutti, eppure non è detto che da tutti si veda; se ciò avviene d’un velo
ben tanto sottile, che sarà dei velami più fitti e dei versi più strani?

  [4] Conv. II 1: ‛perocchè in ciascuna cosa che ha ’l dentro e ’l
  di fuori, è impossibile venire al di dentro, se prima non si
  viene al di fuori: onde, conciossiacosachè nelle scritture la
  sentenza litterale sia sempre al di fuori, impossibile è venire
  all’altre, massimamente all’allegorica, senza prima venire alla
  litterale’.

  [5] Conv. I 3.

  [6] Conv. I 3 e 4.



III.


Con tali parole adunque Dante ci ammonisce della ‛fortezza’ della sua
Comedia, per l’allegoria che ne copre la sentenza; con altre ci ricorda
la sua difficoltà, per la dottrina che è necessaria a intenderla:

    O voi che siete in piccioletta barca
      Desiderosi d’ascoltar, seguiti
      Dietro al mio legno che cantando varca,
    Tornate a riveder li vostri liti,
      Non vi mettete in pelago; chè forse
      Perdendo me, rimarreste smarriti
    L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse:
      Minerva spira e conducemi Apollo
      E nove Muse mi dimostran l’Orse.
    Voi altri pochi, che drizzaste il collo
      Per tempo al pan degli Angeli, del quale
      Vivesi qui, ma non sen vien satollo,
    Metter potete ben per l’alto sale
      Vostro navigio, servando mio solco
      Dinanzi all’acqua che ritorna eguale.[7]

  [7] _Par._ II 1-15.

Il pelago o alto sale è la terza Cantica; la barca piccioletta che ai
desiderosi d’ascoltare poteva bastare nelle altre due parti del Poema,
più non basta. Certo, dottrina occorreva anche allora, ma ora più assai:
allora bastava ascoltare e capire, ora bisogna avere dottrina anche di
suo, per non rimanere smarriti quando si perdesse un poco di vista il
legno del Poeta, e di udito la sua musica voce. Se ne ricava che la
difficoltà della terza Cantica è non solo più forte delle altre due, ma
di genere differente: si direbbe che in quelle proviene dalle allegorie
o dai simboli, che pertengono all’arte del poeta e in questa più
specialmente dalla profondità della scienza, che riguarda il filosofo e
il teologo. Ma, insomma, egli stesso, Dante, ha confessato di voler
essere oscuro e di volere ora esercitare l’acume, ora mettere a prova la
dottrina de’ suoi lettori. E guai se questo acume e questa dottrina
fosse quanto e quale sarebbero stati necessari a scoprire il velo delle
canzoni del Convivio! Starebbero sulla porta della Comedia queste parole
di colore oscuro: _La vera sentenza... per alcuno vedere non si può,
s’io non la conto_.[8]

  [8] Conv. I 3 in fine.



IV.


Ma a bene sperare, che il Poema sacro, sebbene volutamente faticoso e
forte, sia pure accessibile alle nostre menti, invita una considerazione
tra le altre. Il Poeta nel Convivio dichiara che dal suo Comento, un
effetto può derivarne al lettore: ‛non solamente... diletto buono a
udire, ma sottile ammaestramento, e a così parlare e a così intendere
l’altrui scritture’. Ora, non c’è bisogno di moltiplicare parole per
intendere che dal capire la Comedia egli dovesse imaginare al lettore
oltre quel diletto e quell’ammaestramento, un effetto di utilità più
larga e profonda. Tutto il poema ci attesta che questo effetto il Poeta
se lo proponeva come fine, e non aggiungo, principale; perchè principale
fine del Poeta è veramente questo: fare poesia. Ma dopo questo, Dante
adunque si proponeva un fine d’ammaestramento; e di quante e quali
specie, non occorre dire; ma che esso avesse a essere ‛vitale’, dice da
sè. Ora, come avrebbe egli cinto d’alte mura un fonte di vita? Sperare
dunque che libera sia a quello la via, a chi la trovi, è ragionevole. E
per trovarla, egli dice che bisogna seguir lui e non perderlo di vista o
di udito, e sforzarsi di passare oltre il velo della parola, e dal di
fuori entrare nel di dentro. Ebbene: io ricordo che in fine quegli che
dà tali ammonimenti e consigli, è, in certo modo, un Dante diverso da
quello che prima segue Virgilio e poi Beatrice; è bensì lui, ma esce in
quel momento dalla mirabile finzione del suo canto e richiama su essa
l’attenzione nostra: non è più l’attore, ma l’autore, che parla. Ora io
credo che a noi convenga, per intendere il poema, seguire appunto
l’attore, il Dante che figura come ammaestrato e guidato e illuminato
continuamente e a mano a mano; prima da Virgilio, poi da Beatrice, e qua
e là impara da tutti e da tutto; e finge, per mostrare agli altri come
possano condurvisi, di essere tratto esso ‛di servo... a libertate’. Da
questa parte di Dante io penso che come è naturale che derivi non
piccola oscurità, perchè l’autore, fingendo che l’attore sia ammaestrato
nella verità via via, non può dire la verità, quale è, d’un tratto; così
è sperabile che a noi venga la luce, se non presumeremo di precedere
Dante stesso e di veder più di quello che egli stesso dice di aver
veduto.



V.


Egli non è lo scolare, che narrando come imparasse, chiarisca gli stadii
del suo tirocinio con la luce, che solo al termine della lunga
disciplina glielo illustrò; ma il discente, che volendo che gli altri
imparino come esso, non nasconde il suo graduale passare dall’ignoranza
alla scienza. Non è quel pellegrino che narra il suo viaggio come chi,
dopo lungo incerto errare nell’ombra e nella penombra vide poi chiara a
giorno fatto la via non veduta bene quando la percorreva nella notte e
all’alba, e la descrive altrui quale la scorse al sole e non quale la
intravide al buio o nella caligine; ma come chi guidando per un cammino
già trito da lui un altro uomo nuovo di quello, voglia lasciargli
provare tutti i dubbi e gli sconforti della via, per non menomargli la
gioia del giungere, dopo aver brancolato; cioè di scoprire, dopo aver
ignorato. Egli si mostra sin da principio, scolare diffidente e
pellegrino timoroso. L’esito del viaggio e dell’insegnamento non fa sì
che egli, nel raccontare, ci nasconda tale timore e diffidenza.

Dante s’abbandona subito del venire, dove Virgilio gli ha detto di
menarlo, solo per fuggire il male della lupa, e ‛peggio’; ma appena
mosso con lui, disvuol ciò che volle, e Virgilio, per guarirlo della sua
viltate e della sua tema (il linguaggio di Dante avrebbe fatto solo
credere a una ispirazione di modestia), gli narra perchè venne,
minutamente riferendogli non solo che ne fu pregato da Beatrice, ma che
Beatrice fu mossa da Lucia e Lucia dalla Donna Gentile:

    Dunque che è? perchè, perchè ristai?
      Perchè tanta viltà nel core allette?
      Perchè ardire e franchezza non hai?
    Poscia che tai tre donne benedette
      Curan di te nella corte del cielo,
      E il mio parlar tanto ben t’impromette?[9]

  [9] _Inf._ II 121 e segg.

La virtù stanca di Dante si rinvigorisce, l’ardire gli corre al cuore;
ma è solo la menzione delle tre donne benedette che lo fa tornare nel
suo primo proposito. O non bastava dunque il ‛parlare’ di quello che di
lì a poco egli chiama duca, signore e maestro? No: non bastava più,
appena Dante fu libero del pericolo imminente. E perchè? pare che il
perchè sia incluso nella preghiera volta al poeta:

              Poeta, io ti richieggio
    Per quello Dio, che tu non conoscesti.[10]

  [10] _Inf._ I 180 e seg.

Dante medita, certo, il fatto, che quegli che gli si offre a salvatore,
non conobbe il vero Iddio; sa però che egli è (mi si perdoni
l’espressione) l’Evangelista degli atti di Enea e delle geste di Roma, e
ha narrato della discesa di Enea. Ma diffida, diffida:

    _Tu dici_, che di Silvio lo parente,
      Corruttibile ancora, ad immortale
      Secolo andò, e fu sensibilmente.[11]

  [11] _Inf._ II 18 e segg.

Con quanto maggiore asseveranza dice continuando:

    _Andovvi_ poi lo Vas d’elezione![12]

  [12] l. c. 28.

Nell’effetto di questi due straordinari fatti Dante trova motivo a
crederli come giustificati così veri; e chi conosce il poeta, sa che
l’effetto del primo non doveva parergli minore del secondo: tuttavia,
nella sua finzione poetica, non mostra certo con la frase attenuata ‛Non
pare indegno ad uomo d’intelletto’ e con la parentesi ‛A voler dir lo
vero’, quella sicurezza che ha dicendo:

    Per recarne conforto a quella fede
    Ch’è principio alla via di salvazione.[13]

  [13] l. c. 29 e segg.

Nè sfugga che dopo il primo grido ‛Per quello Iddio che tu non
conoscesti’, ora che parla dietro la meditazione della paura e del
dubbio, non pronunzia più il proprio nome di Dio, ma circoscrive o
accenna: ‛l’avversario d’ogni male’, ‛altri’. Però, alle ‛parole’ di
Virgilio, ora che echeggiano altre ‛vere parole’, crede più che al
‛parlare’ di prima; e ogni dubbio o timore è svanito. Per sempre?
Tutt’altro. ‛Sospetto’ e ‛viltà’ mostra subito all’ingresso
dell’inferno, e ha bisogno del ‛lieto volto’ del maestro per
riconfortarsi. Ma il volto non è sempre lieto; basta che diventi smorto
per pietà, perchè Dante (che noi vediamo sempre fisso nel duca) esiti a
scendere:

              Come verrò, se tu paventi
    Che suoli al mio dubbiare esser conforto?[14]

  [14] _Inf._ IV 17.

La persuasione dunque ispiratagli dalle parole di Virgilio, le quali
sono eco delle parole di Beatrice, non dura salda e immutabile e ha
bisogno di sempre nuove conferme.

E nel secondo cerchio ha subito di che alimentare la sua coperta
diffidenza, nelle parole di Minos:

    Guarda com’entri, e di cui tu ti fide;[15]

  [15] _Inf._ V 19.

se non che il Maestro è pronto a ribattere la insinuazione, come diremmo
noi, del giudice infernale. Nè può, nel terzo, incorarlo il notare che
il gran vermo mostra le sanne, non a lui solo, ma a tutti e due:

    Quando _ci_ scorse Cerbero, il gran vermo,
      Le bocche aperse, e _mostrocci_ le sanne.[16]

  [16] _Inf._ VI 22 e seg.

Se avesse compreso che solo esso era il minacciato e non Virgilio,
avrebbe creduto di avere in lui un ausiliatore sicuro; ma Virgilio era
con lui accomunato nel pericolo. Vero è che anche questa volta il
Maestro è pronto, non con le parole più, ma con le pugna piene di terra.
Nel quarto cerchio il timore di Dante ha tempo di manifestarsi, alla
voce chioccia di Pluto; chè il Maestro gli si volge per confortarlo;

                  Non ti noccia
    La tua paura, chè, poder ch’egli abbia,
    Non ti torrà lo scender questa roccia.[17]

  [17] _Inf._ VII 4 e segg.

Finora, in tutti i quattro cerchi, Dante o esplicitamente o
implicitamente ha narrato di avere avuto paura; il che vuol dire che
egli non si fidava ancora perfettamente di Virgilio: al quinto poi, la
sua sfiducia è tanta, che egli propone di ritrovar l’orme loro:

    Pensa, Lettor, se io mi sconfortai
      Nel suon delle parole maledette;
      Ch’io non credetti ritornarci mai.
    O caro duca mio, che più di sette
      Volte m’hai sicurtà renduta, e tratto
      D’alto periglio che incontro mi stette,

(non sono veramente nemmeno sette le volte, e questa esagerazione
attesta il timore presente, e le parole che seguono provano, se ce n’è
di bisogno, il timore passato)

    Non mi lasciar, diss’io, così disfatto:
    E se ’l passar più oltre c’è negato,
    Ritroviam l’orme nostre insieme ratto.[18]

  [18] _Inf._ VIII 94 e segg.

Lasciato solo un poco, Dante è in forse; e il sì e il no gli tenzonano
nel capo; vedendo poi tornare il suo Signore con passi rari, con gli
occhi alla terra, senza baldanza e sospiroso, egli sbigottisce e la
viltà gli spinge sul volto il pallore; e al sentirlo parlare interrotto
e tra sè, impaura sempre più e ci confessa di aver molto dubitato che si
avverasse la speranza e l’aspettazione di Virgilio che di qua dalla
porta dell’inferno alcuno discendesse l’erta. Ora non poteva essere, se
mai, se non dal Limbo, chè gli altri dannati sono dalla loro colpa
circoscritti al loro cerchio; e Dante appunto domanda se dal Limbo può
alcuno venire negli altri cerchi più bassi. Virgilio mostra di credere
che la diffidenza di Dante non sia per l’aspettato salvatore, ma per lui
stesso; e risponde assicurandolo che già altra volta fece il viaggio; e
quindi:

    Ben so il cammin: però ti fa sicuro.[19]

  [19] _Inf._ IX 30.

Ma Dante non si fa sicuro, se non appresso le parole sante del messo del
cielo, e nel sesto cerchio può fare, in certo modo, ammenda de’ suoi
dubbi, dicendo al Maestro cui ora segue docilmente (‛io dopo le
spalle’):

    O virtù somma, che per gli empi giri
      Mi volvi,... come a te piace.[20]

  [20] _Inf._ X 4 e seg.

Certo, passata la porta di Dite, Dante ha ragione di credere al Maestro,
e (subito, prima di scendere nell’abisso inferiore) ne dà la prova,
richiedendogli un compenso del tempo che sono altrimenti per perdere, e
ne ottiene la dichiarazione di tutto l’Inferno.



VI.


Or come mai questa dichiarazione minuta ed esatta non è pur tale da
togliere ogni difficoltà che c’impedisce di vedere la costruzione morale
dell’Inferno, e perciò il sistema filosofico di tutto il poema? Io credo
che ciò venga dal fatto che Dante stesso non ha voluto esser chiaro. E
perchè? Giova rispondere domandando: perchè Dante non si fidava troppo e
qualche volta apertamente dubitava di Virgilio? La risposta è facile:
perchè Virgilio è simbolo di cosa, in cui noi abbiamo torto se riponiamo
intera e infinita fiducia, sia essa cosa la Ragione o sia la Filosofia;
e solo a lei dobbiamo credere, quando ci dimostra d’essere mossa da
quelle tali tre donne che si chiamano la Donna Gentile, Lucia e
Beatrice, di essere mossa da Beatrice, per limitarci, e di andare a
Beatrice:

    Con lei ti lascerò nel mio partire.[21]

  [21] _Inf._ I 123.

Ora, se la esposizione filosofica delle colpe punite in Inferno non c’è
chiara, noi possiamo fondatamente credere, che chiara non è appunto
perchè fatta da chi chiara non la poteva fare. Al che possiamo
aggiungere che, anche potendo, Virgilio non l’avrebbe al tutto chiarita,
perchè egli è il Maestro, e il Maestro deve lasciar lavorare
l’intelletto del discepolo. Dei quali due punti accenno la prova,
rimandando a ciò che Virgilio stesso dice nel Purgatorio,
nell’esposizione che fa del Purgatorio, al verso 139 del XVII per il
secondo punto, e ai versi 46-49 del XVIII per il primo. Dai quali ultimi
versi possiamo ricavare la conclusione che Virgilio può dire solo
‛quanto ragion qui vede’. E che vedeva la ragione dunque
nell’ordinamento e divisione dei peccati nell’Inferno? Vedeva, quanto
aveva insegnato il maestro di color che sanno, di cui è appunto citata
l’Etica e la Fisica. Noi possiamo aggiungere il libro _de Officiis_ di
Cicerone, sia che Dante avesse letto l’opera intera, sia che ne
conoscesse solo alcuni estratti.



VII.


Che dobbiamo concludere sulla ‛costruzione morale’, dell’Inferno? sulla
divisione de’ peccati?[22] Questo: che delle tre disposizioni che il
Ciel non vuole, una, l’Incontinenza, è punita fuori della città roggia,
e le altre due, Malizia e matta Bestialità, dentro: che queste due
equivalgono poi a una triplice Malizia, di cui ingiuria è il fine, della
qual Malizia le tre specie sono Violenza, Frode in quello che fidanza
non imborsa, Frode in colui che si fida, o ‛di chi trade’. Può alcuno
anzi tenere che la matta Bestialità sia cosa diversa da questa triplice
Malizia. D’Incontinenza sono certo tre peccati di cui Dante discepolo di
Virgilio conosceva già il nome: peccato carnale o vizio di lussuria (V
38 e 55) di coloro che mena il vento; colpa della gola (VI 53) di quelli
che batte la pioggia; avarizia (VII 48) o spendio senza misura (42) o
mal dare e mal tenere (58) degli altri che si incontran con sì aspre
lingue. Sa forse anche il nome del peccato di quei della palude pingue?
In essa sono l’anime di color cui vinse l’ira (VII 116), e sono anche i
tristi che portarono dentro accidioso fummo (121). Il peccato è dunque
duplice e contrario, come di quelli del quarto cerchio: ira e accidia.
Nulla si potrebbe dire, a questo punto, di più chiaro: or come si
parlava d’oscurità o d’incompiutezza? Oh! oscura è sì, e incompiuta la
sposizione di Virgilio. Lasciando da parte il punto della matta
Bestialità, della quale io non mi sono mai resa ragione come abbia
potuto suscitar dubbi e dispute, e stringendo in poche parole il molto
che si è scritto, come mai dei sette peccati capitali, due l’Invidia e
la Superbia, non sono puniti nell’inferno Dantesco? O sono puniti sì, ma
con altro nome e con altro sistema, dentro Dite, dove con l’Invidia e la
Superbia, avrebbero la loro pena un’Ira, una Lussuria, una Cupidigia o
che so io, più gravi di quelle dei cerchi primi e dello Stige? Ma
perchè, se questi che sono peccati minori hanno un luogo a loro ordinato
fuori di Dite e, qua e là, dentro, la Superbia e l’Invidia l’avrebbero
solo dentro Dite? Non si risponda: sono più gravi; perchè di qua da Dite
quella gradazione, per cui Lussuria è meno grave di Gola e Gola di
Avarizia e Avarizia di Ira e Accidia, non si potrebbe trovare più
osservata, se, per esempio, lussurioso è Brunetto, e iracondo, per
esempio, Azzolino. E così come di questi cinque peccati, si troverebbe
degli altri due. Ma può essere che questi due si trovino nello Stige,
accennati appena con un aggettivo o mostrati con un atteggiamento. Può
anche essere; ma allora, credendo che così sia, io dovrei sempre
concludere, come concludo credendo che ciò non sia, che l’insegnamento
di Virgilio è oscuro, o perchè la ragione, sebbene illuminata dalla
filosofia Aristotelica, non vede assai, o perchè il Maestro vuole
esercitare il discepolo e avvezzarlo a cercar da sè, o per tutte e due
le ragioni insieme. Certo Virgilio stesso fa intendere l’insufficienza
dei lumi filosofici, quando cita, sia pure per confermare una sentenza
d’Aristotele, un libro di tutt’altra natura che l’Etica e la Fisica (la
‛tua’ Etica, la ‛tua’ Fisica: si noti): lo Genesi.

  [22] _Inf._ XI 16-111.



VIII.


Utile e necessario è andare all’altra lezione che Virgilio fa a Dante,
nel Purgatorio, sull’ordinamento di questo. Io osservo che, mentre
nell’Inferno Virgilio ha ragionato partitamente dei tre cerchietti che
avevano ancora a vedere, nel Purgatorio tace del come è tripartito
l’Amore che sopra loro si piange per tre cerchi:

    L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
      Di sopra noi si piange per tre cerchi;
      Ma come tripartito si ragiona,
    Tacciolo, acciocchè tu per te ne cerchi.[23]

  [23] _Purg._ XVII 136 e segg.

Ora in questi tre cerchi si espiano l’Avarizia, la Gola, la Lussuria, i
quali peccati sono in Inferno puniti, non nei tre cerchietti che erano
ancora da visitare, ma nei tre già visitati prima dello Stige. È in ciò
una corrispondenza, dirò così, esterna, poichè nell’Inferno si parla di
ciò che è da vedere e si tace, sulle prime, di ciò che si è veduto, e
nel Purgatorio, al contrario, si parla di ciò che si è veduto e si tace,
almeno in parte, di ciò che è da vedere. E ciò che si ha a vedere è di
sopra ai parlanti, nel Purgatorio, e di sotto, nell’Inferno, e ciò che
si è veduto, al contrario. Ma vi è anche una corrispondenza meno
materiale e locale; poichè nel Purgatorio Virgilio non dà una
particolare definizione dei tre peccati che si piangono di sopra loro, e
lascia che Dante ne cerchi per sè, mentre nell’Inferno questi medesimi
tre peccati Dante aveva chiaramente richiamati alla sua mente: ‛Quei...
Che mena il vento e che batte la pioggia E che s’incontran con sì aspre
lingue’, ossia i peccatori carnali, i rei delle colpe della gola, i rei
di non misurato spendio. Ai quali sono d’aggiungere quei della palude
pingue, ossia color cui vinse l’ira e che portaron dentro accidioso
fummo. Non parrebbe che il Poeta volesse a noi, come Virgilio faceva a
lui, dichiarare solo quello ch’era necessario, sorvolando su ciò che non
era? Or dunque dichiarare più minutamente nel Purgatorio i tre peccati
di Avarizia, Gola e Lussuria non era necessario? Non era, e in fatti è
cosa che s’intende da tutti, come tripartito si ragiona quell’amore.
Perchè? Il perchè, nell’economia del poema, non può essere, se non per
il fatto che Dante rispetto a Virgilio, e noi rispetto a Dante, siamo
chiariti dall’aver visto già quei tre medesimi peccati d’incontinenza
nell’Inferno, e dall’averne anche appreso il nome. E solo per questo
Virgilio assegna a Dante quel leggiero cómpito, quasi dicesse: Oh!
vediamo se il viaggio per loco eterno ha fruttato! vediamo se tu ricordi
e ciò che hai veduto e ciò che io t’ho detto. Ora, se questi tre peccati
Virgilio lascia riconoscere a Dante, perchè facili a riconoscere, gli
altri, di cui esso stesso dà i contrassegni e la definizione, facili a
riconoscere non sarebbero stati. E perchè? perchè non visti
nell’Inferno, onde a Dante manca la esperienza e l’insegnamento? Può
essere, sebbene a nessuno possa venire in mente che di essi l’ira non
sia stata veduta; ma può anche essere che se ne discorra ora più
chiaramente, perchè allora ne fu parlato oscuramente. E, accettando per
un momento quest’ultima supposizione, noi troveremmo a un tratto quella
prima corrispondenza che io dissi, illuminarsi e illuminare noi: tutte e
due le esposizioni hanno una parte chiara, la prima, e una parte oscura,
la seconda; la prima che riguarda ciò che fu veduto, la seconda ciò che
è ancor da vedere; ma poichè sono in ordine inverso tra loro, così la
parte chiara della prima spiegazione getta la sua luce sulla parte
oscura della seconda, e la parte chiara della seconda illumina la parte
oscura della prima. E ciò condurrebbe a questo: come Dante, avendo
sentito definire rei d’incontinenza quelli che aveva udito chiamare
peccator carnali o di lussuria, colpevoli della gola, dannati per non
misurato spendio, poteva facilmente riconoscere quelli che per tre
cerchi piangevano l’amore che troppo s’abbandona al bene che non fa
l’uom felice; così sentendo ora nel Purgatorio, che i superbi, gl’invidi
e gl’irosi espiavano il triforme amore del male, doveva, ripensando alla
spiegazione udita nell’Inferno, concludere che i peccatori dei tre
cerchietti, rei di malizia, di cui ingiuria è il fine e che si
distinguono in tre specie, secondo che l’ingiuria è con forza o con
frode o con tradimento, erano appunto irosi, invidi e superbi. Ma poichè
concludere è precoce, teniamo almeno questo per fermo: che le due
esposizioni riguardano, l’una e l’altra, sette divisioni di peccatori:
la prima quattro già vedute,

          quei della palude pingue,
    Che mena il vento e che batte la pioggia
    E che s’incontran con sì aspre lingue,[24]

  [24] _Inf._ XI 70 e segg.

e tre da vedere in tre cerchietti; la seconda tre già vedute, i rei del
triforme amor del male, e quattro ancora da vedere, i rei di lento amore
e di amore che troppo s’abbandona; che insomma l’una ha dietro sè
quattro peccati e tre innanzi, e l’altra quattro innanzi e tre dietro; e
che è fuor di dubbio che alle due spiegazioni tre sono comuni di questi
sette peccati. Nove sono nell’inferno i gironi, ma i peccati di cui
ragiona Virgilio, sono sette. Sette e non più, sette come quelli del
Purgatorio.



IX.


Non è dunque assurdo tenere sin d’ora che la lezione dell’Inferno lascia
qualche cosa da meditare al discente. È compiuta quella del Purgatorio?
No; e noi potremo da ciò confermare la nostra opinione su quella
dell’Inferno. Non è compiuta; e questa volta (per qual ragione se non
perchè Virgilio non è più per essere con lo scolare dopo visitato il
Purgatorio?) questa volta Virgilio ne ammonisce Dante:

              Quanto ragion qui vede
    Dirti poss’io; da indi in là t’aspetta
    Pure a Beatrice, ch’opera è di fede.[25]

  [25] _Purg._ XVIII 46 e segg.

Che sia ciò che la ragione non vede e che solo Beatrice può dire, è
accennato più sotto quando, dopo aver discorso della ‛virtù che
consiglia, Che dell’assenso de’ tener la soglia’, donde in noi cagione
di meritare, conclude:

    La nobile virtù Beatrice intende
      Per lo libero arbitrio, e però guarda
      Che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende. [26]

  [26] l. c. 78 e segg.

E Beatrice in vero gliene parla nel Paradiso (V 19) per affermare la
nobiltà di essa virtù, che è il maggior dono che Dio fece agli uomini.
Tuttavia sappiamo che in Dante era un dubbio; un dubbio che si riporta
più alle parole di Virgilio, che a quelle di Beatrice; a ciò che egli
dice

    Quest’è il principio, là onde si piglia.
    Ragion di meritare in voi.[27]

  [27] l. c. 64 e seg.

Non dubita Dante che noi non abbiamo facoltà di accogliere e vigliare
buoni e rei amori: no; la spiegazione filosofica lo appaga nè d’altro
richiede Virgilio. Ma ciò che a Virgilio avrebbe domandato invano e che
perciò tacque, è cosa fuori di questa libertà di accogliere e vigliare,
è oltre la filosofia e la ragione. Tutti hanno sì il libero arbitrio, e
perciò cagione di meritare: or come alcuni e molti anzi, accogliendo
tutti i buoni amori, non riuscirono e non riescono a meritare? Questo è
il dubbio che Dante confessa di avere concepito, secondo la finzione
poetica, a questo ragionamento di Virgilio, che ammonisce di non poter
dire se non quanto ragion vede: questo

                il gran digiuno
    Che lungamente m’ha tenuto in fame,
    Non trovandogli in terra cibo alcuno.[28]

  [28] _Par._ XIX 25 e segg.

Dante non ha bisogno di esprimerlo: l’Aquila lo solve e poi lo rivela:

            tu dicevi: Un uom nasce alla riva
      Dell’Indo, e quivi non è chi ragioni
      Di Cristo, nè chi legga, nè chi scriva;
    E tutti i suoi voleri ed atti buoni
      Sono, quanto ragione umana vede,
      Senza peccato in vita o in sermoni.
    Muore non battezzato e senza fede;
      Ov’è questa giustizia che il condanna?
      Ov’è la colpa sua, s’egli non crede?[29]

  [29] l. c. 70-8.

Il dubbio di Dante è sciolto. Io non devo osservare altro, se non che
questa risposta dell’Aquila alla pensata domanda del discepolo, è fatta,
quando ad esso resta salire in tre sfere, Saturno, Stelle fisse, Primo
Mobile; non contando l’Empireo, che tutte le comprende. Così
nell’Inferno dopo la esposizione di Virgilio, Dante ha tre cerchietti da
visitare. E sebbene nove gironi abbia l’Inferno, abbiamo veduto come tra
esso e il Purgatorio che ha sette cornici, sia un’esatta proporzione di
parti. Non sembri dunque che sì fatta corrispondenza sia compromessa dal
numero nove delle sfere. Nove, ripetiamo, gironi ha l’Inferno, ma nella
esposizione sua Virgilio non parla se non di sette peccati. E in vero i
peccati dalla filosofia cristiana furono ridotti a sette. Nel Purgatorio
Virgilio li fa discendere da una causa sola: l’amore che erra o per malo
obbietto o per poco vigore o per troppo nel proseguire l’obietto del
bene. L’amore che erra per malo obietto, genera tre peccati: superbia,
invidia, ira; quello che per poco vigore, uno, l’accidia; quello che per
troppo, tre, anch’esso, avarizia, gola, lussuria. Non è questo l’ordine
che hanno i peccati in S. Tomaso (2ª LXXXIV 7). L’ordine dei peccati
come è in Dante si trova in S. Bonaventura (Comp. III 14), in Ugo di S.
Vittore (All. in Matthaeum II, XV e seg. Institutiones Monasticae,
XXXVIII), in S. Gregorio (Mor. XXXI 31). Per quali riguardi sono essi
peccati così distribuiti nei Teologi e in Dante? Ma in Dante erano
veramente distribuiti e ordinati così? Nel Purgatorio, non era dubbio;
ma nell’Inferno? Dei sette peccati dell’Inferno, quale era la ragione e
la natura? Di tre la sapevo: degli altri quattro, no.



X.


Io dissi: Esaminiamo a uno a uno questi quattro peccati oscuri. E
cominciamo dall’ultimo, da quello del nono cerchio. Ivi è L’imperator
del doloroso regno. — Come sei caduto dal cielo, Lucifero, che di mane
sorgevi?... Tu pur dicevi in cuor tuo, “In cielo salirò, porrò sopra le
stelle di Dio il mio soglio, sederò sul monte del Testamento, ne’ lati
di verso settentrione. Ascenderò sopra l’altezza delle nubi, simile sarò
all’Altissimo„: E pur sei tratto giù nell’inferno, nel profondo del lago
(_Isaia_ XIV 12). — Non era dubbio per me, come per nessuno, che il
peccato primo dell’Angelo non fosse altro se non la superbia (_Summa_ 1ª
LXIII 2). Quale l’inizio del mal volere, domanda S. Agostino (_Civ. D._
XIV 21), potè essere, se non la superbia? Nel fatto la superbia è
appetito di perversa eccellenza (_Civ. D._ XVI 13), è amore di primazia.
E poi che Dio è massimo e primo, nella superbia è la ribellione a lui.
Questo dunque era chiaro a me come a tutti, che Lucifero fu superbo,
anzi la superbia stessa. Ma poi che essa è l’inizio d’ogni peccato
(_Eccles._ 10, 15) io potevo con gli altri credere che Lucifero fosse
nel fondo, come principio del male. E così credei. Ma in tanto io
proponeva a me stesso: Come la superbia è inizio d’ogni peccato? Mi
rispose il Dottore d’Aquino, il quale, dopo avermi insegnato che in ogni
peccato è un volgersi verso un commutevole bene e un ritorcersi dal bene
immutabile che è Dio, affermava che nella superbia il torcersi da Dio
non proveniva da ignoranza o debolezza o desiderio di alcuna cosa, come
negli altri peccati, ma da ciò ‛quod non vult Deo et eius regulae
subiici (1ª 2ae LXXXIV 2)’. In questo modo ogni peccato comincia con la
superbia, ossia col disprezzo di quella tal legge di Dio, che proibisce
quel tal atto. Ma se in ogni peccato è superbia, vi è anche una superbia
di per sè; se gli altri peccati, come dice Boezio, fuggono da Dio, la
superbia sola a Dio si pone di fronte. E così in vero fece il bellissimo
degli Angeli, che contra il suo fattore alzò le ciglia, e così fecero i
Giganti, che sperimentarono la loro potenza contra il sommo Giove. Onde
l’uno e gli altri ben mi parvero acconci simboli di superbia. Ma se la
superbia di Lucifero si estrinsecò con alzar le ciglia contro Dio, e
quella dei Giganti col menar le braccia contra Giove, come, domandavo
io, si estrinseca la superbia degli uomini secondo i Padri, i Dottori e
Dante? Certo col porsi di fronte a Dio, col non volere sottomettersi a
lui e alla sua regola. Ma poi che tal regola consiste in molte leggi e
precetti cui chi viola, commette questo o quel peccato, che è mosso
bensì da superbia, ma non è la superbia, io vedeva di non poter
profittare nella mia ricerca, se non riducevo tutte queste leggi e
precetti a una legge e a un precetto solo, che fosse la regola di Dio
per l’Uomo, la quale chi violasse, fosse reo di superbia e non d’altro
peccato. Ora, come questa regola, per l’Angelo appena creato, consisteva
solo in questo, di riconoscere da Dio la sua creazione e aspettar
lume,[30] ed egli non la riconobbe e non lo aspettò e cadde, così per
l’Uomo fu tempo che si riduceva al solo divieto del pomo. Perchè rompere
sì fatto divieto fu, come tutti affermano, superbia? Perchè il Tentatore
disse ad Eva: “Dio sa che in qualunque dì mangerete di quello,
s’apriranno i vostri occhi e sarete come Iddii, conoscenti del bene e
del male„? Onde il Poeta

    ... là dove ubbidia la terra e il cielo,
    Femmina sola, e pur testè formata,
    Non sofferse di star sotto alcun velo.[31]

  [30] _Par._ XIX 48.

  [31] _Purg._ XXIX 25.



XI.


Alle mie domande rispondeva S. Agostino (_Civ. D._ XIV 12 e segg.).
Rispondeva che essi avevano appetito una falsa primazia; che falsa
primazia è lasciare quello, a cui l’anima deve aderire come a suo
Principio, e farsi in certo modo ad essere Principio a sè stessi.
Rispondeva che l’atto superbo consisteva nel trasgredire quell’unico
precetto, che provava la loro dipendenza da Dio. Rispondeva: ‛tam leve
praeceptum ad observandum, tam breve ad memoria retinendum.... tanto
maiore iniustitia violatum est, quanto faciliore posset observantia
custodiri’. Or questo mirabile comento mi parve dovesse spiegare la
superbia, come nei primi parenti, così nei loro figli. Me ne persuadeva
una parola, che al bel principio mi sembrava quasi sfuggita a Virgilio
nella sua esposizione aristotelica e messa quasi fuor di posto, e
perciò, subito dopo, mi si mostrò piena di potenza illuminatrice per il
pensiero di Dante: lo Genesi. Virgilio dopo aver richiamato alla mente
di Dante l’Etica e poi la Fisica dello Stagirita, concludeva, a compiere
il suo trattato delle tre disposizion che il Ciel non vuole, con
rammemorare quel libro della Sacra Scrittura. Questo libro dunque come
valeva a dimostrare la via ‛dell’usuriere’, così poteva servire a
rischiarare anche il resto. Vediamo adunque. Adamo ed Eva furono rei di
superbia, perchè violando l’unico divieto posto loro da Dio, a lui si
posero direttamente di fronte e ne misconobbero tutta l’autorità e
vollero divenire Principio e Regola a sè stessi; e poi che il divieto
era facilissimo ad osservare, trasgredirono un precetto che, una volta
violato, non poteva essere scusato con nessuna imaginazione di giustizia
(_Civ. D._ XIV 13). Ora, per quel primo peccato, si moltiplicarono agli
uomini i divieti: non è dunque il caso di trovare quell’uno solo,
violato il quale, l’Uomo si pone direttamente contro Dio; ma non è
difficile trovare quello che è sì facile ad osservare, che non osservato
non possa essere scusato in alcun modo. I divieti e i comandamenti di
Dio agli uomini si contengono nel Decalogo, de’ quali l’ultimo è ‛Non
desidererai l’asino del prossimo tuo’, e il primo ‛Non avrai Iddii
altrui in mia presenza’. Or di questi precetti di giustizia quale è o
quali sono quello o quelli che con maggiore ingiustizia si violano?
Chiaro che quello o quelli che possono essere osservati con obbedienza
più facile. E così con minore ingiustizia si violeranno quelli cui
osservare è più difficile. E quale cosa è più difficile che custodire il
suo cuore dal desiderio? Dal desiderio del servo, dell’ancella, del bue,
dell’asino o di altro che sia del tuo prossimo? Pare che ultimo sia
messo tale divieto a dimostrare che chi osserverà, oltre gli altri,
anche questo così difficile, debba considerarsi perfetto; e che a mano a
mano sia meno virtuoso e giusto chi viola gli altri, a farsi
dall’ultimo, finchè violando il primo è a dirittura malvagio ed empio.



XII.


Questo dunque io avevo fermo nel pensiero, quando, leggendo in S. Tomaso
d’Aquino, vidi che era da trascurarsi nella mia ricerca la gradazione
tra i singoli divieti e comandamenti, e che si doveva attendere a una
divisione più larga e generale dei precetti della prima Tavola e di
quelli della seconda, giusta la dilezione di Dio e del prossimo. I primi
tre sono della prima, gli altri sette della seconda; ma di questi ultimi
il primo ‛Onora il padre tuo e la madre tua, perchè tu campi molti anni
sulla terra, che il Signore Iddio ti darà’, si pone (2ª 2ae CXXII 5)
‛immediatamente dopo i precetti che ci ordinano verso Dio, perchè i
genitori sono particolare Principio del nostro essere, come Dio ne è il
Principio universale. Onde è una tal quale affinità di questo precetto a
quelli della prima Tavola’. Inoltre questo precetto, essendo distinto
dai tre primi per ciò che esso è intorno ad atti di _pietas_, che è
della _iustitia_ parte seconda, mentre la prima e principale è la
_religio_, intorno a’ cui atti sono i tre primi, è pur distinto dai sei
ultimi perchè questi sono dati intorno alla _iustitia communiter dicta_,
che è tra uguali (2ª 2ae CXXII 1). Sì che io potevo distinguere i
precetti di Giustizia in quattro che sono di atti di Religione e Pietà,
e altri sei che sono di atti di Giustizia propriamente detta. Conclusi
adunque che tali precetti di Religione e Pietà erano quelli che con
obbedire più facile possono essere osservati, e perciò con maggiore
ingiustizia sono violati. Così io mi avviavo a riconoscere che era ben
possibile che Dante, secondo la dottrina di Agostino e di Tomaso,
dicesse superbi quegli uomini i quali, a somiglianza di Adamo e di Eva,
avessero violato quei precetti che, una volta violati, non si potevano
scusare con alcuna imaginazione di Giustizia, e che questi precetti
fossero quelli della prima Tavola più il quarto che è affine ad essi.
Tanto più, quanto veramente a Dio si pone direttamente a fronte chi
misconosce il Principio e universale e particolare del nostro essere, e,
poi che trasgredisce ciò che per i primi Parenti era l’unico e per i
loro figli è il minimo, si fa Principio e Regola a sè stesso, appetendo
una falsa primazia. E io pensai al lago del centro terrestre, al lago
che aggela per il ventilare delle sei ali del primo superbo. Facilmente
s’intende come notassi subito che era diviso in quattro circuizioni, e
come ricordassi i quattro precetti di Religione e di Pietà, cui violare
credevo essere superbia. Di vero la più leggiera delle quattro
gradazioni di colpa, quella che è punita in Caina, assomigliava assai
alla violazione del quarto precetto, che, comandando d’onorare i
genitori, implica in essi anche i consanguinei (2ª 2ae CXXII 5). Ma poi
che i Dottori aggiungono anche la patria, e della patria è punito il
violatore nella seconda circuizione, che è Antenora, imaginai che o non
vi fosse tra le quattro fascie e la violazione dei quattro precetti la
relazione che intravedevo, o che Dante nella santificazione del Sabato,
che è il terzo precetto, avesse veduto un senso più profondo di quello
che noi vediamo. In verità dice Tomaso (2ª 2ae CXXII 4): ‛Nel terzo
precetto del Decalogo si comanda l’esterior culto di Dio sotto il segno
del comune benefizio, che a tutti pertiene, cioè a rappresentare l’opera
della creazione del mondo, da cui si dice che Dio riposò nel settimo
giorno’. E aggiunge che raffigura, in senso anagogico, la quiete del
fruir di Dio, che sarà in patria. E alla obiezione, che, come del
sabato, si doveva far menzione anche degli altri dì sacri e sacri luoghi
e vasi e simili, risponde: ‛observatio sabbati est signum generalis
beneficii, scilicet productionis universae creaturae’. Festeggiare
dunque il giorno del Riposo di Dio, è quanto riconoscere che Dio fece
‛caelum et terram’, la qual Terra è la patria nostra presente, e il
Cielo la patria futura. E mi pareva non impossibile che, nel pensiero
simboleggiante del Poeta, il peccato di Bocca, per esempio, fosse
espresso con queste parole: Violò il Sabato di Dio. Come quello di
Alberigo poteva esprimersi con queste altre: Assunse il nome di Dio in
vano; poichè col secondo precetto si proibisce lo spergiuro che pertiene
a irreligiosità (2ª 2ae CXXII 3), e spergiura in massimo grado chi viola
la santità della mensa, secondo anche l’antico: ‛Violasti il giuramento
grande, il sale e la mensa’. Ma non era necessità seguitare per questa
via, poichè a me pareva che Dante potesse avere in mente una più
semplice distinzione, suggeritagli da uno scrittore che certo in questo
luogo aveva presente, da Cicerone (_De off._ III 10) che di Romolo
uccisor del fratello aveva detto: ‛Omisit hic et pietatem et
humanitatem’. E io pensava che, a ogni modo, più semplicemente si poteva
affermare che superbia fosse violare la Pietà quale è in Cicerone, e
altro peccato fosse violare la Umanità sola. Ma qui d’un tratto mi
arrestai, dicendo: che cerco io questi particolari, quando è forse
errato il punto principale? In vero superbia io dico la colpa che si
punisce nella Ghiaccia; il ragionamento mi pare dirittamente condurre a
questo. E c’è altro: ognuno di quei peccatori in giù tiene volta la
faccia, in giù volta è altra gente e altra tutta riversata, esposta
all’ingiuria dei piedi trascorrenti, e altre ombre ancora tutte sono
coperte sotto il gelo, e Giuda ha il capo dentro una bocca di Lucifero e
Bruto e Cassio il capo di sotto; atteggiamenti tutti ben convenienti a
superbi puniti. C’è questo e altro ancora; ma tutto si può spiegare
altrimenti che come sentivo di dovere spiegare io. Perchè io pensavo
alla Superbia, ma Dante aveva detto che colà giù era qualunque trade, e
in quel lago si puniva la frode in colui che si fida.



XIII.


Bene: ma io avevo concluso che la superbia viola precetti di Giustizia e
appunto quelli compresi nella prima Tavola, più il quarto comandamento.
Mi conveniva adunque esaminare diligentemente che cosa era Giustizia:
Essa così è definita: ‛perpetua et constans voluntas ius suum unicuique
tribuendi (2ª 2ae LVIII 1)’; ed è sempre ‛ad alterum (ib. 2)’; e atto di
essa ‛è reddere unicuique quod suum est (ib. 1)’. Ora se della Giustizia
è fine dare a ognuno il ‛ius’ suo, dell’Ingiustizia sarà fine altrui
‛inferre iniuriam’. E Virgilio dice (_Inf._ XI 22): d’ogni malizia....
Ingiuria è il fine. Onde si può vedere che malizia è in Dante sì quella
che in Aristotele (_Eth._ VII 1) è detta ‛kakía’, sì quella che in
Cicerone (_De off._ I 7, 23) è chiamata ‛iniustitia’. Cicerone poi, cui
Dante in quel canto aveva in pensiero più che altro autore, quasi, come
latino, avesse a essere conosciuto più che ogni altro da Virgilio, dice
(ib. 13, 41): ‛Cum... duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat
iniuria’.... E Dante: ‛ed ogni fin cotale O con forza o con frode altrui
contrista’. Vediamo anche in Cicerone (ib. 7, 23): ‛Fundamentum... est
iustitiae fides’: la quale mancando, è chiaro che vi sarà ingiustizia o
malizia, come dice Dante; ma specialmente, nel pensiero di Dante, quella
che ha per fine l’ingiuria con frode, ossia il male fatto con inganno. E
l’ingiuria con frode è di due specie e costituisce, fatta, due peccati
di maggiore e minore gravità, secondo che l’uomo l’usa in ‛colui che ’n
lui fida Ed in quei che fidanza non imborsa’, ossia in quello che non è
tenuto a fidarsi. L’inganno verso chi non ha ragione di fidarsi,
infrange, secondo Dante, ‛Pur lo vinco d’amor che fa natura’; quello
verso chi si fida, fa obliare sì l’amor naturale, sì ‛quel ch’è poi
aggiunto Di che la fede spezial si cria’. Il che torna a dire che i
fraudolenti sono rei contro la Giustizia comunemente detta, mentre da
chi trade è offesa la Religione e la Pietà; poi che ‛tra le parti di
Giustizia (che sono la Religione e la Pietà) e la Giustizia comunemente
detta è questo divario, che per esse parti si rende il debito ad alcune
determinate persone, alle quali l’uomo per qualche speciale ragione è
obbligato, e, per la Giustizia comunemente detta, uno rende il debito
comunemente a tutti (2ª 2ae CXXII 6)’. Donde consegue che in Dante il
tradere non prende sua qualità dall’inganno con cui si accompagna
l’ingiuria, ma dalla persona, contro cui l’ingiuria è commessa, persona
contro la quale ogni ingiuria è inganno, perchè ella si fida. Tanto
dunque è dire che uno trade, e dire che usa frode in colui che in lui
fida per qualche speciale benefizio fattogli, onde si crea un motivo
speciale di fiducia, e dire che offende i precetti di Religione e di
Pietà che comandano l’amore verso Dio e i Parenti; e dire, con Cicerone,
_omisit pietatem_, e dire che è reo di superbia. E così mi pareva
considerando i peccatori del nono cerchio e i loro peccati, poi che di
quelli che sono nelle tre bocche di Lucifero, Giuda aveva tradito
direttamente Cristo, e Bruto e Cassio la Monarchia, che dipende
direttamente da Dio (_Mon._ III 15): avevano tradito, non tanto, come
dissi, per il mezzo fraudolento posto in opera dall’uno e dagli altri,
quanto per la persona, perchè Dio era il loro benefattore, o
immediatamente, come Cristo, o mediatamente, come Cesare; e perciò Dio e
Cesare avevano particolar motivo di fidarsi di loro, sì che Cristo
esclamava: “Con un bacio!„, e Cesare: “Anche tu, figlio?„. Gli altri
peccatori della Giudecca e della Tolomea avevano pur tradito Dio, nelle
persone che per il benefizio più avevano di Dio e in quelle che per Dio
erano state accolte alla mensa ospitale, e gli uni e gli altri avevano
per ciò fede intera nel beneficato e nell’ospite. E anche quelli
dell’Antenora avevano offeso direttamente Dio, il che, più che per
altro, intendevo per la differenza tra Bocca, traditor di parte guelfa o
della patria, e Camicion de’ Pazzi, uccisore d’un suo congiunto. Poi che
questi non rifugge di dire il suo nome, perchè non crede il suo peccato
gravissimo tra tutti, anzi aspetta un altro suo congiunto, che per la
colpa di aver tradito la patria, faccia parer meno grave la sua d’aver
tradito un parente. In fatti, essendo la superbia appetito di perversa
eccellenza, tale appetito non si può mostrare che da chi vuol essere
superiore al Sommo, cioè a Dio. Ora questo appetito si punisce in
Inferno anche col desiderio del contrario, come chiaramente a Dante, che
aveva domandato se volesse fama, risponde Bocca: ‛del contrario ho io
brama’, e come chiaramente dimostrano gli altri peccatori della
Ghiaccia. E io pensavo che ciò che dice Virgilio ad Anteo: ‛Questi può
dar di quel che qui si brama’, ciò è della fama, non è detto perchè
Virgilio avesse in pensiero gli altri peccatori dell’Inferno, bramosi di
essere ricordati ancora nel dolce mondo; ma perchè egli sapeva di essere
nel cerchio di quelli che avevano desiderato la celsitudine ‛cui si deve
onore e reverenza’ (1ª 2ae LXXXIV 2), in quel grado supremo,
simboleggiato nelle parole dell’Angelo “Simile sarò all’Altissimo„, e
nelle parole del Serpente “Sarete come Iddii„. E il Poeta aveva
adoperata, a questo luogo, la sua circoscrizione, perchè il lettore poi
comprendesse che l’amor della fama nella vita terrena si volgeva
nell’Inferno in altrettanto orrore di essa. Notevole mi appariva, che
come, dei peccatori, Camicion de’ Pazzi non mostrava tale ribrezzo di
nomarsi quale gli altri delle circuizioni più interne; così, de’
Giganti, rispondeva pronto, allo scongiuro per la fama, Anteo. Poi che
Anteo non aveva menate le braccia direttamente contro gli Dei, e perciò
era disciolto; e così Camicione non si era direttamente sopraposto a
Dio; ma l’uno era stato superbo in quanto aveva combattuto con Ercole
semidio, sebbene non fosse stato all’alta guerra; e l’altro era stato
reo contro i congiunti, di quella reità che è compresa sotto l’offesa al
Principio particolare del nostro essere, non veramente al Principio
universale.



XIV.


Così mi confermavo nel mio pensiero, e altre e molte considerazioni
facevo, nè trascuravo di spiegarmi come e perchè il conte Ugolino si
nomasse desiosamente, sebbene fosse nell’Antenora; ma io cercavo una
prova manifesta, che permettesse alla mia mente di non dubitar più, sì
che potessi procedere avanti: e la trovai. Sì: nella Ghiaccia era
veramente punita la superbia, la quale si nascondeva sotto il nome di
tradimento o di frode in chi si fida. Era superbia quella e quello, e
non altro che superbia, e Dante lo aveva detto in modo così chiaro che
più chiaro non si poteva desiderare. Io lessi, come ebbro, in S.
Agostino (_Civ. D._ XIV 13): ‛È bene avere in alto il cuore; non
tuttavia verso di sè, che è della superbia; ma verso il Signore, che è
dell’obbedienza, che non può essere se non degli umili. Vi è adunque
mirabilmente nell’umiltà qualche cosa che solleva in alto il cuore, e
qualche cosa nell’elevazione, che porta il cuore a basso. Or pare un
assurdo, che l’elevazione sia per in giù e l’umiltà in su’. Ecco perchè,
dissi io, i peccatori della Ghiaccia tengono il viso basso, oltre che
sono nell’imo. Ma non era per me una novità, nè per altri, questa. S.
Agostino continuava a spiegare come gli umili si esaltavano e si
abbassavano i superbi, e diceva: ‛Avviene ciò che fu scritto: “Li hai
abbattuti, mentre si elevavano„. Che non dice: “Poi che si erano
esaltati„, quasi che prima si elevassero e poi fossero abbattuti; ma
“Mentre si elevavano„ allora furono abbattuti’. E concludeva: ‛Ipsum...
extolli iam deiici est’. E tu, Dante, dei traditori avevi detto, anzi
mostrato il medesimo, facendoli, così, simili al primo superbo e ai
primi parenti, che furono superbi. O come non credere che superbi
fossero i traditori, se ciò che nei primi avviene, avviene anche nei
secondi? E avviene: tu l’avevi fatto dire a frate Alberigo[32]:

    Sappi che tosto che l’anima trade,
      Come fec’io, il corpo suo l’è tolto
    Da un demonio...
      Ella ruina in sì fatta cisterna.

  [32] _Inf._ XXXIII 129 e segg.

Proprio come di Lucifero dice Isaia: “_ad infernum detraheris in_
profundum laci„. E perchè Dante, contro ogni verisimiglianza teologica,
pone questo cader dell’anima in inferno, tosto che trade, se non per
significare che il suo tradere è un superbire, e che ‛ipsum extolli iam
deiici est’? Come Lucifero nel primo istante di sua creazione fu buono,
nel secondo fu malo (1ª LXIII 6), e appena peccò, fu travolto; come
Adamo ed Eva, appena mangiarono il pomo, conobbero la loro nudità, e
furono puniti; così il superbo, appena ha commesso quel proprio peccato
di superbia, equivalente a quello del primo Angelo e del primo Uomo, ha
la sua pena eterna. Perchè il traditore da Dante si stima ‛aderire
immobilmente al male che appetì’, come Tomaso (1ª LXIV 2) dice
dell’Angelo peccatore. Così io riposai nel pensiero che nel nono cerchio
era la superbia. Molte cose in essa mi erano ignote e molte ragioni
nascoste; ma nella Ghiaccia e non altrove, sotto i Giganti, nel profondo
del lago, nelle tre bocche e presso e intorno al primo superbo, sapevo
già che non altri erano se non superbi.



XV.


Io sapeva, dunque, come e dove era punita la superbia nell’Inferno di
Dante. Dove, ora chiedevo, e come, l’invidia? chè subito il pensiero da
quella scendeva a questa; nè solo perchè nell’ordine de’ peccati
capitali quella è prima e questa è seconda, ma perchè l’una trovavo che
era considerata madre dell’altra. Diceva infatti S. Agostino (_De Virg._
XXXI) che superbia partorisce invidia nè mai è senza tale compagna, e
che (_Civ. D._ XIV 11) l’Angelo malo fu superbo e perciò invido. Il che
da Agostino aveva appreso come Tomaso così Dante, il quale affermava
(_Inf._ I 111 e _Par._ IX 129) che l’invidia del primo superbo era stata
la cagione di tutti i mali al genere umano. Donde inferivo che la
superbia era contro Dio, la invidia era contro gli uomini. Tanto più che
Dante stesso dichiarava nel Convito (I 4) che la paritade de’ viziosi è
cagione d’invidia; onde l’invidia, secondo lui, non avrebbe potuto
ingenerarsi nell’Uomo contro Dio, sì solo in uomini contro uomini. Nè a
ciò contradice il fatto che l’Angelo fu mosso da invidia verso l’Uomo:
perchè quello, in parte simile in parte dissimile da questo, invidiò per
la parte che in esso gli era simile prima: nella felicità; e volle che
l’altro non gli fosse dissimile dopo: nella sventura. Adunque Lucifero
ebbe invidia di Adamo e lo indusse al peccato di superbia: il primo
superbo tra gli Angeli fece il primo superbo tra gli uomini. E come
l’Angelo fu superbo e perciò invido, così anche l’Uomo dalla superbia
passò all’invidia, e il peccato di Caino seguì quello di Adamo. Invero
invido fu Caino, e che Dante così credesse come tutti, attesta la voce
(_Purg._ XIV 133) ‛Anciderammi qualunque m’apprende’, che suona nel
balzo secondo del Purgatorio. E così mi confermava nel pensiero che
l’invidia differisce dalla superbia in questo, che l’una è contro gli
uomini o, a dir meglio, contro il Prossimo, l’altra contro Dio; perchè
mi pareva chiaro che finchè non erano che l’Angelo e Dio, non potè
essere che il peccato di superbia, e quando l’Angelo ebbe un Prossimo
che fu Adamo, allora sorse il peccato d’invidia; e similmente quando
l’Uomo, o la coppia umana, era solo in faccia a Dio, non potè essere che
superbo, e quando ebbe un Prossimo, cioè un fratello, allora fu anche
invido. Ora un fatto pareva annullare il mio ragionamento, che invece lo
afforzava e rendeva certo: il fatto che da Caino prende il nome la
estrema circuizione della Ghiaccia, nella quale Ghiaccia io avevo veduto
la punizione della superbia. Chè Dante, il quale stima diretta contro
Dio l’ingiuria fatta ai genitori e ai consanguinei, ponendo lo stesso
Caino una volta invido, una volta superbo, fa intendere come l’invidia
quale si estrinseca nella latitudine del consorzio umano, sia contro il
Prossimo, poi che quella che si estrinsecò nell’ambito breve della prima
famiglia fu sì contro Dio, ma soltanto perchè tutto il Prossimo per il
primo invido si riduceva al fratello. E ne consegue che il modo meno
grave di superbia è una specie più grave d’invidia, e che l’una è
finitima all’altra. Onde io cominciai a sospettare che in Malebolge, nel
cui mezzo vaneggia il pozzo della superbia, fosse punita l’invidia, la
quale Dante facesse a Virgilio chiamare frode in quei che fidanza non
imborsa, la qual frode è modo che uccide soltanto lo vinco d’amor che fa
natura, ossia quello che lega l’uomo all’uomo. E subito, a confermarmi,
soccorse il luogo del Purgatorio in cui (XIII 37 e segg.) l’amore o
carità è considerata virtù contraria all’invidia, come è manifesto a
tutti. Uccidere il vincolo d’amore o fare contro la carità è dunque sì
della frode in chi non si fida, e sì della invidia. Onde si faceva più
probabile per me che fossero, la detta frode e l’invidia, una medesima
colpa. Invero anche sì fatta Frode è solo rispetto a uomini, come
l’invidia, perchè solo Dio e chi da Dio più tiene è obbietto dell’amore
aggiunto, cui non oblia il fraudolento semplice. Il quale fraudolento, a
modo nostro di vedere, sarebbe il solo vero ingannatore, poi che ha
bisogno di raggiri, di insidie, di vie coperte per sopraffare chi,
perchè non si fida, si guarda. Ora è chiaro quanto queste operazioni del
fraudolento siano anche dello invido; tanto che la Bestia malvagia che è
a guardia dell’ottavo cerchio sembra non più sozza imagine di froda che
d’invidia. Anzi se invidia si sostituisce a froda, tutto parrà più
chiaro in quel simbolo, e meglio si intenderà la voce del duca:

    Ecco la fiera con la coda aguzza
      Che passa i monti e rompe mura ed armi,
      Ecco colei che tutto il mondo appuzza.[33]

  [33] _Inf._ XVII 1 e segg.

Parole che suonano del loro proprio suono solo a chi intende che questo
serpente... con la faccia d’uom giusto è l’invidia stessa infernale che
dice Agostino; _è la figura... la quale, come dice un antico, si partì
dal fondo dell’Inferno da Lucifero, la quale prima usò ad ingannare i
nostri primi parenti_.



XVI.


Sì: Gerione è l’invidia infernale, che fu cagione di tutti i mali al
genere umano: più cercavo ne le valli di Malebolge e più me ne
convincevo. Già la prima di esse cerchiava quelli che con segni e con
parole ornate rinnovarono con Eva l’inganno del serpente biblico; e la
seconda quelli che, come esso serpente, ebbero la lingua pronta sempre
alle lusinghe: quelli insomma, l’una e l’altra, che nel far male al loro
Prossimo usarono le stesse arti del primo Tentatore. Nella terza bolgia
vedevo i simoniaci; e non è a dire come sul principio io divenissi
perplesso a credere invidiosi quelli che adulterano per oro e per
argento le cose di Dio. In ciò è, dicevo, avarizia, empietà o che so io,
non invidia. Ma Dante stesso mi rassicurava sulla vera natura del
peccato di simonia:

    ... la vostra avarizia il mondo attrista
    Calcando i buoni e sollevando i pravi.

Il mondo attrista; cioè danneggia il genere umano, a cui volete male, a
cui invidiate il bene, come già Satana; calcando i buoni, cioè facendo
quello che l’invido fa, il quale, come spesso noi vediamo, nessun male
crede poter fare più grande al buono e al valente, che esaltare sopra
lui il malvagio e l’inetto. Si tratta, io soggiungeva leggendo in
Agostino (_Civ. Dei_ XV, 5), di quella _invidentia_ diabolica, per la
quale i pravi invidiano i buoni, per nessun’altra ragione se non che
quelli sono buoni ed essi pravi. Anche il peccato di simonia io
concludeva dunque essere invidia, e l’avarizia dei venditori delle cose
divine intendeva essere altro che il mal dare e mal tener della quarta
lacca. Nè gli altri peccatori di Malebolge mi parevano contrastare al
concetto generale dell’invidia, che è mal vedere il bene del Prossimo, o
al significato del primo peccato di invidia, commesso da Lucifero a
sventura del genere umano: nè gl’indovini, che non vedono dinanzi più
che Satana quando diceva. Sarete come Iddii; nè quelli che falsificarono
sè in altrui forma, come Satana che si mutò in serpente; nè i falsi che
hanno il principal vizio del diavolo che è bugiardo e padre di menzogna;
nè i seminator di scandalo e di scisma che imitarono il Nemico che fu
autore della separazione degli uomini da Dio; nè gli ipocriti tristi
(aggiunto, questo, proprio degl’invidi) che, sotto color di bene, gente
dipinta, come la figura che benigna avea di fuor la pelle, fecero il
male; gli ipocriti che, come dice S. Gregorio (_Mor._ VIII 34) ‛laudari
de inchoata iustitia appetunt, praeesse ceteris etiam melioribus
concupiscunt’; nè i ladri che si trasformano in serpenti, nè i
barattieri, nè i pravi consiglieri. E non mancavano altri indizi, messi
qua e là ad ammonire il lettore che Malebolge è il regno dell’invidia.
Papa Niccolò storce i piedi, quando apprende che non è Bonifazio quello
che con tanta sua gioia credeva venuto anzi tempo in inferno: ‛Sei tu
già costì ritto, Sei tu già costì ritto?’ E così tutti questi dannati
sono ossessi dall’invidia: i due frati godenti,

    Quando fur giunti, assai con l’occhio bieco
      Mi rimiraron senza far parola:
      Poi si volsero in sè e dicean seco:
    “Costui par vivo all’atto della gola;
      E s’ei son morti, per qual privilegio
      Vanno scoperti della grave stola?„;[34]

  [34] _Inf._ XXIII 85 e segg.

e Maestro Adamo:

    O voi, che senza alcuna pena siete,
    E non so io perchè...[35]

  [35] _Inf._ XXX 58 e seg.

I dannati par che si dolgano che gli altri non soffrano abbastanza, sì
che gran parte di lor martoro è data dai compagni di pena, come a
Caifas, che deve sentire ‛Qualunque passa com’ei pesa pria’. E così i
ladri l’uno muta e tramuta l’altro: ‛io vo’ che Buoso corra, Com’ho
fatt’io, carpon per questo calle’; e così le due ombre smorte e nude
corrono mordendo, come porci; e così rissano Mastro Adamo e Sinone,
compiacendosi l’uno della maggior pena e maggior peccato dell’altro.
Rissano persino due diavoli, Alichino e Calcabrina, dei quali questo era
invaghito ‛Che quei campasse (ossia che succedesse un male, un
disordine) per aver la zuffa’: il qual desiderio è come nota precipua
dell’invidia. E quasi a suggellare il tutto, a Dante che piange in
vedere il pianto degl’indovini, dice rimbrottando Virgilio:

      ancor se’ tu degli altri sciocchi?
    Qui vive la pietà quando è ben morta.[36]

  [36] _Inf._ XXVII e seg.

Le quali parole più che in generale ai dannati dell’Inferno, si
riferiscono in particolare a quelli che operarono contro la carità,
ossia agli invidi, per i quali non aver carità, è mostrare ossequio alla
carità che essi offesero.



XVII.


Poi considerai la propria ragione del ‛Loco in inferno detto Malebolge’;
e il suo esser di pietra e di color ferrigno mi ricordò la ripa e la via
della seconda cornice del Purgatorio, che si mostravano ‛Col livido
color della petraia’. Questa simiglianza non era a caso, e a me
sovveniva delle chiose dell’antico, già riportato, il quale diceva de’
simoniaci: _Sono fitti nella pietra livida; cioè nella durezza odiosa
che hanno verso il prossimo, che non hanno carità veruna_. E in altro
luogo: _Nel mondo furono duri ed ostinati come il sasso e freddi d’ogni
carità_. Queste rispondenze per altro fra gli invidi del purgatorio e i
frodolenti dell’inferno mi richiamavano a cercare in esso purgatorio
conferma per ciò che avevo concluso della superbia e lume per ciò che
venivo concludendo della invidia: conferma e lume che dovevano venirmi
da quel ragionamento Tomistico del purgatorio, che già aveva stabilito
avesse a compiere la spiegazione Aristotelica data nell’inferno. Vidi in
fatti che tra la malizia ch’odio in cielo acquista e il mal che s’ama
era una relazione evidente; poichè il fatto di malizia che si espia
nell’Inferno doveva esser preceduto da quell’amor del male, che si
sconta nel Purgatorio. Ma vedevo ancora ‛Che il mal che s’ama è del
Prossimo’, non del suo suggetto, non dell’Esser primo; e ciò poneva gran
differenza tra la malizia dell’inferno e il triforme amor del
purgatorio, sì che io potevo dubitare che tra la superbia e invidia,
quali sono dichiarate in esso purgatorio (XVII 115-120), e il tradimento
e la froda dell’inferno vi fosse la uguaglianza che doveva esserci, se
era vero ciò che io avevo creduto, che il tradimento fosse superbia e la
froda invidia. Ma il dubbio si schiariva subito al considerare che
Tomaso (2ª 2ae XXXIV 1) disputa che Dio può sì essere avuto in odio da
alcuni, non però per sè, non per certi effetti suoi che in niun modo
possono essere contrari alla volontà umana, ma per certi altri effetti
che ripugnano a una inordinata volontà, ‛sicut inflictio poenae et etiam
cohibitio peccatorum per legem divinam, quae repugnant voluntati
depravatae per peccatum’. Chiaro m’era dunque, senza necessità di più
sottili indagini e di più larghe ricerche, che nel purgatorio dove si
ama la pena inflitta da Dio e si loda la sua legge, non può essere
peccato in cui abbia parte l’odio di Dio, e che quindi nella definizione
che si fa in esso dei peccati capitali si deve attendere una differenza
con quella che si fa dei medesimi nell’inferno, poi che in questi è
l’odio di Dio, in quelli o non era o fu rimosso. E lo stesso trovavo
dell’odio di sè, poi che Tomaso dice (1ª 2ae XXIX 4) che alcuno _per
accidens_ può sì odiar sè stesso, ‛accadendo che taluni stimano di
essere massimamente ciò che sono secondo la natura corporale e
sensitiva; onde amano sè secondo ciò che stimano d’essere, ma odiano ciò
che veramente sono, mentre vogliono cose contrarie alla ragione’. Anche
questo amore di sè che è veramente un odio, io diceva non poter trovarsi
nei peccati che si piangono per le sette cornici. Con questo pensiero
leggevo la definizione del superbo:

    È chi, per esser suo vicin soppresso,
      Spera eccellenza; e sol per questo brama
      Ch’el sia di sua grandezza in basso messo;[37]

  [37] _Purg._, XVII 115 e segg.

e vedevo che questa in nulla contradiceva al concetto che della superbia
si era fatto Dante nell’inferno, come io avevo concluso che si fosse
fatto. Di vero nel purgatorio si puniva una speranza e una brama; che se
il peccatore avesse voluto tenere ciò che sperava, l’eccellenza, avrebbe
veduto il vicin da sopprimere a mano a mano collocato in maggior
grandezza fin che non si fosse trovato a fronte di Dio stesso, cui
doveva mettere in basso se voleva essere veramente il primo. Ma egli
l’abbassamento del vicino bramava soltanto; che se dalla brama fosse
passato al fatto avrebbe veduto che, non che il Prossimo, gli conveniva
odiare Dio, che proibiva nella sua legge e reprimeva con la sua pena
l’adempimento di quella brama. E l’invido in che differiva dal superbo?
Io leggeva ancora:

    È chi podere, grazia, onore e fama
      Teme di perder per ch’altri sormonti,
      Onde s’attrista sì che il contrario ama.[38]

  [38] l. c. 118 e segg.

Il superbo spera, l’invido teme: l’uno spera ciò che tener non potrebbe
se non sopraponendosi a Dio; l’altro teme di perdere ciò che ha o crede
di avere: l’uno vorrebbe essere il sommo, l’altro si contenterebbe di
restare quello che è; ma l’uno e l’altro, per adempiere la sua speranza
o cessare il suo timore, hanno il medesimo desiderio: quello brama e
questo ama, che altri discenda. Non differiscono dunque nel desiderio
del male e non differirebbero nella materia dell’azione malvagia il
superbo e l’invido; sì nel fine ultimo, che è la non concessa eccellenza
nell’uno, per il quale terminerebbe con l’opporsi a Dio stesso; e il
podere e gli altri umani possedimenti nell’altro, per i quali egli si
trova solo con uomini in contrasto. E l’invido teme di perder e
s’attrista, e perciò scendendo all’atto sarebbe guardingo e coperto e
ricorrerebbe all’inganno e sarebbe fraudolento; mentre il superbo,
passando anch’esso al fatto, potrebbe bensì andare per vie coperte al
suo fine, ma non sarebbe meno fraudolento anche non andando per esse,
perchè il suo fine dovrebbe essere di sopprimere quello che gli è
legittimamente superiore per il benefizio che gli fece. Dalle
definizioni del purgatorio era dunque confermato ciò che avevo concluso
della superbia, e lumeggiato ciò che venivo concludendo della invidia
nell’inferno: che la superbia era punita col nome di tradimento o di
frode in chi si fida nella Ghiaccia, e la invidia, col nome di frode in
quei che fidanza non imborsa, in Malebolge; e che se l’una è contro le
due parti di _Iustitia_ dette _Religio_ e _Pietas_, l’altra è contro la
_Iustitia communiter dicta_. In vero questa è tra uguali, come l’invidia
che la offende non può essere che tra pari.



XVIII.


Come l’invidia con la superbia, così i peccatori di Malebolge hanno
qualche cosa di comune con quelli della Ghiaccia: la ripugnanza di
nomarsi e d’essere conosciuti. Venedico celar si credette bassando il
viso; Alessio Interminei sgrida verso Dante; Niccolò papa sospira e
parla con voce di pianto; gl’indovini sono tutti accennati da Virgilio;
Ciampolo non dice il suo nome, sì quello degli altri rii, frate Gomita e
Michel Zanche; Francesco de’ Cavalcanti e Puccio Sciancato fuggono
chiusi; nè Ulisse ha bisogno di rivelarsi, e Guido di Montefeltro
risponde senza tema d’infamia perchè crede che Dante non sia mai per
tornare al mondo, e Maometto gli si noma perchè lo crede anima che ‛in
su lo scoglio muse Forse per indugiar d’ire alla pena’. Vero è che, come
dei traditori, così de’ fraudolenti alcuni si svelano da sè stessi, ma
per qualche sottil ragione speciale dalla quale non è offeso il fatto
generale e il suo perchè. Gl’ipocriti frati godenti dicono il loro nome,
perchè, pur essendo nell’inferno, sembrano sperare di nascondere la loro
reità, come fecero nel mondo; i seminatori di scandalo e di scisma
sembra che vincano l’orrore di palesarsi con la speranza di seminare
ancora nuovi scismi e scandali, come quelli che rivelano, nello
svelarsi, nomi d’altri peccatori; o, più semplicemente, con l’amor del
male del prossimo, che vive ancora in essi, come si vede specialmente
tra i falsari. A ogni modo io osservava che i più dei frodolenti non
bramavano la fama, sì il contrario come Bocca; e questo pensavo che
fosse perchè come la superbia è amor della propria eccellenza, così la
invidia si esercita ‛rispetto a quei beni in cui è vanagloria e in cui
gli uomini amano d’essere onorati e aver riputazione’ (2ª 2ae XXXVI). Il
che Virgilio diceva nel suo definire:

    È chi podere, grazia onore e fama
      Teme di perder...[39]

  [39] l. c. 118 e seg.

E ciò era confermato dall’antico, di cui tre volte ho riportato le
parole; il quale a proposito del peccato degli indovini e ammaliatori,
tutti accennati da Virgilio e nessuno palesatosi da sè, dice che _è
contenuto sotto la fraude per tanto che questi sì fatti peccatori
intendono a vanaglorie e per farsi onorare e tenere saputi_.... Così
dunque vedevo l’invidia e la superbia assomigliare anche in questo,
nell’amor della fama, che l’una teme di perdere e l’altra desidera in un
grado sommo, onde nell’Inferno dantesco erano punite col vano desiderio
del contrario. Ma qui mi si presentava, a confondere tutti i miei
ragionamenti, un peccatore della settima bolgia il quale, non che
celarsi e bassare il viso e fuggirsi chiuso, proclamava: son Vanni Fucci
bestia! Ma vidi subito che Vanni Fucci mentiva e si dava per quel che
non era, sì che il suo palesarsi bugiardo forniva la riprova alla mia
osservazione. Se egli era stato veramente quello che diceva essere stato
e quale Dante lo aveva veduto, uomo di sangue e di crucci, non sarebbe
stato ‛In giù... messo tanto’. Egli che menava vanto di sua vita bestial
e di suo essere malo, quando credeva di potere ingannare Virgilio, di
trista (l’aggettivo degl’invidi) vergogna si dipinse, quando non potè
negare la colpa per la quale era spinto più giù che non sarebbe
convenuto per le altre sue colpe. Era dunque in questa colpa una
vergogna che non era nelle altre. Ora questa vergogna nasceva certamente
per essere egli stato non uomo soltanto di sangue e di crucci, ma ancora
ladro, ossia per dirla più in generale, fraudolento. E Dante stesso dice
che frode più spiace a Dio: perchè frode è dell’uom proprio male; che è
quasi correzione in parte e in parte dichiarazione del detto di Tullio
(_de off._ I 13, 41): ‛utrumque homine alienissimum, sed fraus odio
digna maiore’. La ragione adunque, come distingue gli uomini dalle
bestie, così rende più grave l’ingiuria che si fa con inganno; onde è
con più dolore e più vergogna punita. Di che mi spinsi, poi che della
frode, ossia dell’invidia e della superbia, sapevo un elemento, la
intelligenza, a cercare gli altri, per vedere non forse avessi errato a
credere come credevo. Questo indagando, mi avvenni a un punto della
Comedia dove è figurato l’Angel d’inferno nell’atto proprio di
commettere il male; e lessi[40]

    Giunse quel mal voler, che pur mal chiede
      Con l’intelletto, e mosse il fummo e il vento
      Per la virtù che sua natura diede;

nei quali versi, comunque interpretati, riconoscevo attribuiti all’Angel
d’inferno, la volontà, rivolta solo al male, l’intelletto e la virtù che
sua natura diede. Questa virtù naturale, che mi era alquanto oscura, mi
fu chiarita da un altro luogo del poema, dove si loda la Natura di
creare ancora bensì elefanti e balene, ma non più Giganti[41]:

    Chè dove l’argomento della mente
      S’aggiunge al mal volere ed alla possa,
      Nessun riparo vi può far la gente.

  [40] _Purg._ V 112 e segg.

  [41] _Inf._ XXXI 55 e segg.

Qui è l’intelletto o mente e il mal volere, come nel luogo del
Purgatorio; e per la virtù che sua natura diede, è la possa. La quale
ne’ Giganti è del gran corpo: e, nell’Angel d’inferno, del corpo non può
essere, poi che corpo non ha, essendo egli totalmente di intellettuale
natura. Ma come agli Angeli così ai Demoni sono attribuite passioni e
tendenze che supporrebbero in essi la parte sensitiva dell’anima, la
quale in essi, perchè incorporei, non può essere. Nel qual proposito
leggevo nella Somma (1ª LIX 4) che Dionisio dice che nei demoni è ‛furor
irrationabilis et concupiscentia amens’, donde si dedurrebbe che in essi
è l’irascibile e il concupiscibile, i quali, per essere nella parte
sensitiva dell’anima, non si possono trovare nè nei Demoni nè negli
Angeli, che questa parte sensitiva non hanno. Ora Tomaso rispondeva:
‛quod furor et concupiscentia metaphorice dicuntur esse in daemonibus’;
e mi pareva che il Poeta avesse seguito Dionisio nella sua affermazione
e Tomaso nella sua spiegazione, e che attribuisse, sia pur
metaforicamente, all’Angel d’inferno una virtù naturale per riuscire a
fare quello che i Giganti facevano con la possa, l’appetito insomma
sensitivo, che si divide in concupiscibile ed irascibile (S. 1ª LIX 4 e
altrove) e che è ‛proximus motui corporis nostri (ib. XXI)’. Nei demoni
adunque Dante poneva, come l’intelletto e la volontà, così anche
l’appetito sensitivo. Ora l’obbietto del primo è il vero, della seconda
il bene, del terzo il bene sensibile: onde nell’Angel d’inferno, al
contrario, dell’intelletto sarà obbietto il falso, della volontà il
male, dell’appetito sensitivo il male sensibile. Il che quanto si
convenga all’azione del diavolo nel fatto di Buonconte, ognun vede.



XIX.


Ma questa triplice composizione dell’atto malvagio mi fece pensare
all’imperador del doloroso regno, che ha tre facce alla sua testa:
quella dinanzi, vermiglia, la destra, fra bianca e gialla, la sinistra,
nera. E vidi subito che la faccia vermiglia era la volontà di cui
obbietto è il male, la nera l’intelletto che ha per obbietto il falso,
quella tra bianca e gialla il metaforico appetito sensitivo che ha per
obbietto il male sensibile e che si divide in irascibile e
concupiscibile, come può essere indicato dai due colori di essa faccia;
e che può chiamarsi la possa, quanto a dire la possibilità di fare il
male, che l’intelletto suggerisce e la volontà comanda. Ora poi che in
‛benigna volontade... si liqua (_Par._ XV 1) Sempre l’amor che
drittamente spira, Come cupidità fa nell’iniqua’, sì che io vedevo al
mal volere corrispondere l’amor perverso o l’amor del male o cupidità,
mi pareva chiaro come le tre facce di Lucifero simboleggiassero la
Trinità del male, essendo la faccia vermiglia o l’iniqua volontà in cui
si liqua l’amore che non spira drittamente, opposta al primo amore, e la
bianca e gialla che significa la possa diabolica, essendo contraria alla
divina potestate, come la nera, che esprime l’argomento della mente,
quale è nei demoni, alla somma sapienza. Di che io avevo una conferma
nella collocazione stessa delle tre teste, poi che dubitando da
principio che bene fosse in mezzo posta la faccia contraria all’amore,
cioè allo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, e perciò
ultimo credevo dovesse essere messo, come è scritto ultimo nella porta
dell’inferno; lessi in Tomaso (1ª XXXVII 1) che lo Spirito Santo
_secundum originem_, è la terza persona, ma, _prout est amor_, è il
medio nesso dei due, Padre e Figlio. Sì che Dante nella Porta Inferni
aveva annoverate le tre persone _secundum originem_, e nelle tre facce
di Lucifero le aveva disposte secondo l’_abitudine d’amore_ del Padre al
Figlio. Era dunque Lucifero l’Anti-Dio uno e trino, e nel tempo stesso
era il tricipite peccato, costante di mal volere, d’intelletto e di
possa; era la superbia origine d’ogni peccato ed era la superbia peccato
speciale. E le sei grandi ali, che uscivano due sotto ciascuna faccia,
mi pareva dovessero essere gli altri sei peccati, ma come fossero
disposti a due a due non sapevo; e dei tre venti sospettavo bensì che
cosa fossero, ma non osavo affermare. Vedevo bensì non solo perchè Giuda
fosse nella bocca del mal volere o dell’odio e Bruto, il filosofo, fosse
in quella dell’intelletto, ma anche perchè Cassio fosse in quella della
possa e dell’appetito sensitivo e perchè fosse accennato come sì
membruto, una specie di Gigante. Ma a me premeva procedere ed esaminare
il tricorpore Gerione, che io credevo simbolo dell’invidia come il
tricipite Lucifero era simbolo della superbia, peccato in generale e in
ispecie. Gerione in fatti mi si mostrava misto di tre nature, avendo la
faccia d’Uomo, il fusto di Serpente e due branche pilose infin
l’ascelle. Ora, come l’invidia assomiglia alla superbia, così mi
attendevo di trovare in tali tre nature l’intelletto, il mal volere, la
possa o appetito sensitivo. E poi che Dante diceva la frode essere
proprio male dell’uomo, perchè senza intelletto non può darsi, nella
faccia d’uom giusto con la quale soltanto poteva compiersi detta frode,
non solo perchè di giusto, ma perchè d’uomo, vedevo l’intelletto, e nel
fusto di serpente quale fu il primo autore d’ogni male, il mal volere; e
non restavano che le branche le quali per essere due mi fecero ricordare
la faccia a due colori di Lucifero e l’appetito sensitivo che si divide
in irascibile e concupiscibile. E in che differiva il simbolo dal
simbolo? in quello in cui il peccato dal peccato. Ora la invidia non
differendo dalla superbia se non in questo, che la prima per far
l’ingiuria ha bisogno sempre d’ingannare, mentre la seconda non ne ha
bisogno, Gerione ha la faccia d’uom giusto e benigna di fuor la pelle e
il fusto di serpente e il dosso e il petto e le coste dipinte di nodi e
di rotelle; ed essendo poi la superbia, per la persona che offende, la
trasgressione suprema e totale della legge, Lucifero ha la cresta, come
a dire la corona, da imperadore che egli è.



XX.


E tornavo a Vanni Fucci, che più d’ogni altro peccatore di Malebolge fa
pensare all’invidia con quel sinistro vaticinio, che fa solo perchè
Dante doler sen debbia. Nel fatto, anche dopo che Dante se ne sarà
doluto, che ne viene al ladro di quel dolore? Così l’invidia si strugge
sempre in un lavorìo vano; chè l’abbassamento altrui non limiterà mai il
suo timore di perdere quello che ha, di podere, di grazia, d’onore, di
fama. Ma Vanni Fucci si vergogna d’esser colto nella miseria, dove Dante
lo vede, egli che si professa con orgoglio bestia e d’aver amato vita
bestiale e non umana. E nè anche Dante avrebbe pensato di vederlo in giù
messo tanto, perchè il peccato, che Vanni sconta, falsamente già fu
apposto altrui ed esso Dante vide lui uomo di sangue e di crucci, ciò è,
come spiega l’antico, uomo di brighe e d’omicidi. Or dove Dante si
sarebbe aspettato di vedere questo peccatore? dove appunto il peccatore
vorrebbe dare a credere di meritare d’essere messo: dove si espia la
‛morte per forza e le ferute dogliose che nel prossimo si danno,’ nel
‛La riviera del sangue, in la qual bolle Qual che per violenza in altrui
noccia’. Il che non solo Dante ha accennato chiaramente dicendo d’averlo
veduto uomo di sangue e di crucci, ma egli stesso ha più chiaramente
espresso professando: Vita bestial mi piacque e non umana. Di fatti tra
la malizia con forza e quella con frode, quella è meno punita perchè non
dell’uom proprio male, come la frode, essendo comune con le bestie. Onde
il ladro che dalle parole e dal tono di esse parrebbe tutt’altro che
ipocrita e sembra più tosto voler accrescere che diminuire la sua colpa,
in verità si trova che con quelle parole stesse attenua la sua malizia,
come quello che afferma di non aver posto in essa la intelligenza: il
che non era. Tuttavia quando ancor dopo scoperto per quello che è,
grida: ‛Togli, Dio, chè a te le squadro’, si comprende bene che il ladro
vuol continuare il suo gioco di passare per quello che non è, mostrando
di meritare pena diversa da quella che ha avuta dalla Giustizia di Dio,
ma non si comprende bene se egli ora pretenda di meritare più grave o
più leggera la pena e di essere meglio violento o superbo, violento come
Capaneo o superbo come Lucifero; sì che Dante stesso, che con la
distinzione Aristotelica delle disposizioni mostra di non ritrovar più
la divisione cristiana, soggiunge:

    Per tutti i cerchi dell’inferno oscuri
      Non vidi spirto in Dio tanto superbo,
      Non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.[42]

  [42] _Inf._ XXV 13 e segg.

E in verità Vanni Fucci è acerbo, come Capaneo non è maturato dalla
pioggia di fuoco. Ma Capaneo giace dispettoso e torto, e il ladro fugge
senza parlare più verbo, quando è rilegato dalle serpi, simboli di
frode. Ora nè Capaneo è reo veramente di quella superbia che Virgilio
suppone in lui dicendo, ‛in ciò che non s’ammorza La tua superbia se’ tu
più punito’, nè Vanni Fucci è quello spirto in Dio tanto superbo che
pare a Dante; perchè la superbia è con intelletto e Capaneo è violento e
nella violenza intelletto non ha luogo, e Vanni Fucci alla sua volta non
riesce con la sua bestemmia che a farsi simigliante a Capaneo e a
confermarsi bestia, ciò è tale da commettere un peccato bestiale e non
umano. Ora quale è questo peccato?



XXI.


Così cercavo; e confesso che con meraviglia vedevo qui che non tutti
gl’interpreti del Poema Sacro trovavano l’Aristotelica disposizione
detta matta bestialitate tutt’una con la malizia con forza o violenza.
Nulla in verità era più chiaro. Vanni Fucci, conosciuto come violento,
come uomo di sangue e di crucci, che come tale si sarebbe creduto di
trovare nel giron primo del primo cerchio dentro dai sassi dell’alta
ripa, professa bensì d’essere bestia e d’avere condotta vita bestiale e
non umana, ma deve confessare di necessità, perchè il luogo e il modo
della pena non concordano con ciò che professa, d’avere anche commesso
un dell’uom proprio male e di stare per questo di sutto: oh! come non
comprendere subito che la violenza è senza intelletto, ciò è bestiale e
che matta bestialitate e violenza sono una cosa? E sì che sopra veniva
subito un centauro pien di rabbia a confermare e ribadire la cosa. Caco
in vero, _semi-homo_ e _semifer_ come lo chiama Virgilio, non è come gli
altri centauri nel giron primo del primo cerchietto, sebbene vi avesse
luogo non solo come simbolo ma come reo, poi che ‛sotto il sasso di
monte Aventino Di sangue fece spesse volte laco’; ma egli fu anche
frodolento, ciò è, per quanto bestiale, come quello che era mezzo uomo e
mezzo bestia, commise un fatto di quella frode che è dell’uom proprio
male. Onde al centauro, oltre le bisce che ha sul dosso,

    Sopra le spalle, dietro dalla coppa,
      Con l’ale aperte gli giacea un draco;
      E quello affoca qualunque s’intoppa.[43]

  [43] l. c. 22.

Ma qui mi soffermavo prima dubitando e poi mutando a mano a mano il
dubbio in ammirazione profonda e lunga. Perchè questo draco che affoca
qualunque s’intoppa? io domandai. E cambiai subito la domanda. Perchè i
centauri simboli di violenza? Non soltanto perchè tutti solean nel mondo
andar a caccia, non soltanto perchè Nesso fe’ di sè la vendetta egli
stesso, non soltanto perchè Folo fu sì pien d’ira, ma anche e più perchè
i Centauri sono mezzo uomini e mezzo bestie o bestiali, o a dirittura
fiere. Così l’infamia di Creti che sembra simbolo più generale ancora
dei centauri, è detta bestia e paragonata a un toro e chiamata ira
bestiale. Ma un altro simbolo era in questo primo cerchietto: le brutte
Arpie. Ora Minotauro, Centauri, Arpie hanno una cosa in comune tra loro
e differente dai simboli Gerione e Lucifero del secondo e terzo
cerchietto. Quale? le duo nature, mentre Gerione ne ha tre, e tre faccie
ha Lucifero. Ma se le tre faccie di Lucifero e le tre nature di Gerione
raffiguravano il mal volere, l’intelletto e la possa, necessari elementi
o capi del peccato di superbia e d’invidia; le duo nature dei simboli
del peccato punito nel primo cerchietto, peccato in cui non ha luogo
l’intelletto, perchè la forza non è, come la frode, dell’uom proprio
male, raffiguravano certamente la possa, che io chiamai appetito
sensitivo e il mal volere. E che le duo nature del Minotauro, dei
Centauri, delle Arpie raffigurassero gli elementi subbiettivi del
peccato, era chiarito dal fatto che il centauro Caco, essendo posto in
altro cerchietto, per il furar frodolente che fece, ossia per aver
aggiunto alla sua Malizia bestiale o violenta un terzo elemento,
l’intelletto, assumeva un terzo corpo o una terza natura che dir si
voglia: ‛il draco Sopra le spalle, dietro dalla coppa, Con l’ale
aperte’. La quale a me pareva convenevolissima aggiunta, pensando alle
serpi della bolgia e più alla sozza imagine di froda che aveva il fusto
di serpente. Bene: ma qui ripensavo che nel tricorpore Gerione la natura
serpentina io avevo concluso significasse il mal volere, mentre mi
pareva che l’intelletto fosse rappresentato dalla faccia d’uom giusto; e
qui in vece, in Caco, dovevo ammettere che dal draco fosse significato,
non il mal volere, ma l’intelletto. Ma Dante creando il simbolo della
violenza, peccato bestiale, ne significava, di necessità, la bestiale
natura con escludere dal simbolo l’elemento che avrebbe rappresentato
l’intelletto; tuttavia, avendo il peccato, per quanto bestiale, de’ due
elementi che rimanevano, uno umano e non ferìno, perchè la volontà non è
dei bruti ma solo degli uomini, il simbolo era semiumano e semiferino.
La parte dunque che ne’ centauri, nelle Arpie, e nel Minotauro, avrebbe
potuto rappresentare la ragione, era già stata dal simboleggiatore usata
per la volontà; sì che quando egli volle poi dare la mente ad un
Centauro, fu costretto a prendere, per simboleggiarla, il Serpente che
altrove aveva simboleggiato il mal volere. Eppure, mirabile accortezza!,
egli seppe riparare il difetto come meglio non avrebbe potuto, ponendo
in Caco il serpente in modo che sormontasse la testa e fosse in certa
guisa la testa medesima del Centauro, mentre il serpente in Gerione era
il fusto e la coda. E ciò confermava facendo che tale nuova testa del
Centauro, la quale affoca qualunque s’intoppa, somigliasse negli effetti
appunto alla coda di Gerione, la quale passa i monti e rompe mura ed
armi. Così dunque era tricorpore anche Caco: mentre bicorpori erano i
suoi fratelli e il Minotauro e le Arpie, perchè di due elementi soli è
commisto il peccato, di cui sono simboli e guardie e punitori. E di
questo mi soccorreva una riprova tale, da sommergere in me ogni dubbio.
Io leggevo che il peccato più grave di violenza era, oltre spregiar
natura e sua bontà,

              far forza nella deitade
    Col cor negando e bestemmiando quella;

onde nell’infimo girone, oltre Sodoma e Caorsa, è posto chi spregiando
Dio, col cor favella. Io non sapeva se altri avesse intese queste parole
di negare Dio e favellare spregiando Dio col core: sapevo che non
potevano intendersi che in un modo: soltanto col cuore, ossia col
ΘΥΜΟΣ, con l’irascibile, con la parte sensitiva dell’anima,
senza concorso d’intelletto. Nel fatto Capaneo stolidamente minaccia Dio
di non allegra vendetta, anche se lo saetti di tutta sua forza; ed è
nell’inferno precipitatovi appunto dalla saetta di Dio! Onde le parole
di Virgilio. E che l’intelletto mancasse nel primo girone, Dante lo
aveva detto esplicitamente, cieca chiamando la cupidigia e folle l’ira
che si puniva nel fiume di sangue. Non restava dunque che sapere del
secondo, poi che senza concorso d’intelletto avevano peccato quelli del
primo, come gli omicide, e quelli del terzo, come Capaneo. Ma quelli che
privano sè del mondo, o biscazzano e fondono la loro facoltà e piangono
dove devono essere giocondi, sono così manifestamente pazzi nel loro
operare, che non occorreva che Dante lo dicesse altrimenti che
raccontando che cosa avevano operato. Ora quale era questo peccato o
disposizione cattiva, chiamata malizia che persegue il suo fine solo con
la forza, senza concorso d’intelletto, chiamata ancora matta
bestialitade? Io rileggevo: l’infamia di Creti...

    Quando vide noi, sè stesso morse,
      Sì come quei, cui l’ira dentro fiacca;[44]

  [44] _Inf._ XII 14 e seg.

poi è in furia, poi è detta ira bestiale; ira folle è chiamata quella
che immolla nel fiume di sangue; un de’ centauri, sebben da lungi,
minaccia di tirar subito l’arco, e Chiron prende subito uno strale,
appena veduti Dante e Virgilio; Pier della Vigna dichiara d’essere stato
mosso da disdegnoso gusto e feroce chiama l’anima che si disvelle dal
corpo da sè stessa; di rabbia è ancora compreso Capaneo, che giace
dispettoso e i cui dispetti ‛Sono al suo petto assai debiti fregi’. E
poi i peccatori che parlano, parlano sdegnosamente, sì che d’ira pare
fosse il loro abito da vivi se da morti lo conservano: sdegnosamente
parla non solo Pier della Vigna della meretrice delle corti, ma colui
che fe’ giubbetto a sè delle sue case, e ser Brunetto ricordando la
città del Batista e il suo ingrato popolo maligno, e Iacopo Rusticucci,
domandando se cortesia e valore del tatto se n’è gita fuori della sua
città, e lo Scrovegni dicendo a Dante, Or te ne va, e predicendo
sventura al suo vicin Vitaliano. Il loro peccato sarebbe dunque l’ira?
Oh! che hanno che vedere Sodoma e Caorsa con l’ira? Nella violenza entra
qualche volta bensì l’ira, ma non è l’ira. Così pensavo e m’indugiavo
perplesso.



XXII.


Io doveva a ogni modo comprendere come il Poeta sotto il medesimo
concetto di violenza o di malizia con forza raggruppasse oltre omicidi e
predoni, oltre suicidi e dissipatori, i bestemmiatori, i sodomiti e gli
usurieri. Di questi ultimi specialmente non intendevo il come e il
perchè. In ciò era veramente un groppo, che Dante pregava Virgilio di
solvergli. Dante non capisce come usura offenda la divina bontà, e
Virgilio spiega acconciamente come l’usuriere dispregi la natura (e
perciò Dio) in sè stessa e nell’arte. Bene: ma come in tale offesa o in
tale dispregio è violenza? è forza? Perchè offese Dio nella sua bontà
anche Lucifero, ma non fu violento, sì superbo; e lo offendono tutti i
peccatori, i quali sono detti rei di questo o quel peccato, non
necessariamente di violenza. Costringere il danaro a fruttar danaro,
senza altra propria operazione: questa era la risposta che trovavo ai
miei dubbi. Ma mi pareva un parlar per metafora, un arzigogolo ingegnoso
quanto si voglia, non degno di Dante. E veramente in sì fatto
“costringere„ come non è intelletto? Anzi vi abbonda, e sottile; mentre
nella violenza non avrebbe a essere. Bisognava attendere alle parole
proprie di Virgilio per giungere al pensiero di Dante. Alla domanda di
Dante, in che usura offende la divina bontà, Virgilio, risponde che
l’usuriere dispregia la natura e Dio, perchè altra via tiene da quella
assegnata da Dio agli uomini. Dalla natura e dall’arte conviene che
l’uomo tragga il suo sostentamento e avanzamento. Conviene, perchè Dio
così volle, ed è scritto nello Genesi. Così volle nella sua bontà,
perchè chi altrimenti fa, offende quella. Ora in che principalmente Dio
mostrò all’uomo la sua bontà? nel crearlo simile a sè, non solo
intelligente quindi ma operante. Dice lo Genesi dal principio: ‛Posuit
Deus hominem in Paradiso ut operaretur...’ E Tomaso (1ª CII 3) riporta
qui il comento di Agostino che dice che quell’operare ‛non sarebbe stato
faticoso, come dopo il peccato, ma giocondo per lo sperimento della
virtù naturale’. Ma poi il lavoro e la fatica, e in particolare
l’agricoltura, fu all’uomo imposta da Dio ‛in poenam peccati (ib.),’ chè
Dio era irato, come l’ira e simili si attribuiscono a Dio, secondo la
simiglianza dell’effetto; or poi che proprio dell’irato è punire, il suo
punire si chiama metaforicamente ira. Disse dunque Dio all’uomo:
‛Vesceris pane tuo in sudore vultus tui’. Ma quale di questi due passi
dello Genesi dobbiamo noi recarci a mente per intendere il pensiero di
Dante? Nel primo è espresso un atto della bontà di Dio, nel secondo un
atto della sua giustizia: quindi il primo parrebbe più a noi opportuno
che il secondo. Ma, oltre che il bene sta al giusto come il genere alla
specie, non dovremmo noi credere che la giustizia di Dio, nella
punizione del primo uomo, Dante ritenesse più tosto ‛condecentia suae
bonitatis’ che ‛retributio pro meritis’? Per la prima infatti risparmia,
per la seconda punisce i cattivi (_S._ 1ª XXI 1). Ora l’Uomo
predestinato già nella pena a essere riparato dalla divina bontà con ‛Sì
alto e sì magnifico processo (_Par._ VII 109, 113)’ non fu certo punito
‛pro meritis’, ed ebbe dunque piuttosto un perdono che una pena e ricevè
la prova meglio della bontà che della giustizia di Dio. Agostino poi
(_De Civ. D._ XIV 21) ha per l’esortazione ‛crescite et multiplicamini’
un comento, che Dante poteva essersi appropriato per questo altro monito
divino. Dice egli che tale benedizione di nozze ‛fu data avanti il
peccato, perchè si conoscesse che la procreazione dei figli pertiene
alla gloria del connubio, non alla pena del peccato’. E così l’operare,
perchè dato come fine prima del peccato, conservava dopo il peccato la
nota della bontà divina per una parte, e per un’altra prendeva la nota
della giustizia, come il procreare figli era segno della prima e il
partorir con dolore della seconda. E concludevo che nel pensiero di
Dante l’usuriere, negandosi di lavorare, disubbidiva a un precetto in
cui era bensì il castigo dell’antico peccato, ma che era stato dato
prima ancora di esso per divina bontà. Quindi offendeva la bontà anche
ricusando di fare ciò che la giustizia di Dio aveva ingiunto, nè
soltanto perchè ciò che la giustizia aveva ingiunto, la bontà aveva
destinato, ma perchè la giustizia fu nel punire piuttosto una condecenza
della bontà di Dio che una retribuzione secondo il merito dell’uomo, e
perchè a ogni modo la giustizia è contenuta nella bontà, come la specie
nel genere. Ma in tanto l’usuriere, pure riuscendo a offendere la bontà
divina, faceva però direttamente contro la giustizia, perchè solo Adamo
nel paradiso terrestre avrebbe potuto fare contro la bontà ricusando di
operare. Ma i figli di Adamo nel paradiso non sono più, e per essi
l’operare non è più disgiunto dalla fatica: dunque immediatamente si
ribellano alla giustizia e solo mediatamente offendono la bontà.



XXIII.


Questo posto, io chiedeva; come l’uomo può ribellarsi alla Giustizia?
come può misconoscerla? La Giustizia sta nel dare a ognuno ‛suum ius’:
la misconosce chi ritiene ‛iniuria’ il ‛ius’, e Ingiustizia la
Giustizia. L’usuriere dunque tiene ingiuria quello che è giusto; e si
ribella. Ma io leggevo (_S._ 1ª 2ae XLVII l) che ‛ira est appetitus
nocendi alteri sub ratione iusti vindicativi’; e così da Tomaso e da
altri apprendevo che l’irato in tanto cerca vendetta (_vindictam_) in
quanto gli par giusta; e vendetta giusta non si dà se non di ciò che
ingiustamente fu fatto: e quindi ciò che provoca all’ira è sempre
alcunchè sotto la ragion dell’ingiustizia (ib. 2); e che l’ira è ‛libido
ulciscendi (_De Civ. Dei_ XIV 15)’ e che, per non dire d’altri,

              è chi per ingiuria par ch’adonti
    Sì che si fa della vendetta ghiotto,
    E tal convien che il male altrui impronti,[45]

  [45] _Purg._ XVII 121 e segg.

come Dante definisce. Ed ecco, io comprendeva assai meglio come quel
della scrofa azzurra e grossa fosse collocato sotto le falde del fuoco
nello stesso girone di colui che disse: _Primus in orbe deos fecit
timor_. Poi che chiaro mi appariva, ora che violenza avevo fatta uguale
a ira, come violenti potessero essere chiamati sì Capaneo e sì lo
Scrovegni. Di vero gli usurieri par che adontino, come d’un’ingiuria,
del castigo giustamente dato da Dio agli uomini ‛di nutrirsi del pane
loro nel sudore del loro volto’, e si fanno ghiotti della vendetta. Ma
come può essere vendetta di Dio? A questo proposito sapevo bene che il
peccatore peccando ‛non può in nulla nuocere effettivamente a Dio,
tuttavia da parte sua doppiamente fa contro Dio: primamente, in quanto
dispregia i suoi comandi, secondo, in quanto porta nocumento a qualcuno,
a sè o ad altrui: il che pertiene a Dio, per il fatto che quegli, cui si
porta nocumento, si contiene sotto la provvidenza e tutela di Dio (_S._
1ª 2ae XLVII 1)’. Ora che è vendetta? Me lo spiegava Dante con l’ultimo
verso del ternario sopra scritto, verso che vedevo non troppo ben
inteso: chè egli dice male tal, come a dire sì fatto o uguale, a quello
che ha ricevuto, gli bisogna rendere subito a quello che glielo ha
fatto. Ora è opportuno considerare che secondo Tomaso, che segue
Aristotele, tutte le cause d’ira si riducono alla ‛parvipensio’ o
‛despectio’, ossia disprezzo (1ª 2ae XLVII 2). Dunque l’usuriere si
vendica di Dio opponendo al disprezzo il disprezzo, poi che dispregia
per sè natura e per la sua seguace, e perciò Dio; come Capaneo, che
giace dispettoso ed ebbe e par ch’egli abbia Dio in disdegno. Ma come
l’usuriere può credere d’essere spregiato da Dio? La ‛parvipensio’ o
disprezzo, dice Tomaso (ib.), ‛si oppone all’eccellenza dell’uomo; chè
gli uomini ciò che in nessun modo stimano essere degno, disprezzano,
come è detto nel secondo della Retorica: or dai nostri beni vogliamo
alcuna eccellenza: e perciò qualunque nocumento a noi si porti, in
quanto deroga dall’eccellenza, pare appartenere al disprezzo’. Si pensi
ora alla tasca che avea certo colore e certo segno, in cui si pasce
l’occhio di questi peccatori: si vedrà con quanta accortezza il Poeta
significhi come essi fossero teneri d’alcuna eccellenza e come perciò
propensi a considerare disprezzo il comandamento di trarre il
sostentamento dalla propria fatica. Chi può affermare d’aver capito
qualche cosa in questa strana comune “nobiltà„ degli usurai di Dante? E
se ne conferma che il loro peccato è ira, perchè tutte le cause d’ira si
riducono alla _parvipensio_. Sono poi collocati su per la strema testa
di quel settimo cerchio, come i superbi imitatori di Caino sono finitimi
agl’invidi; per mostrare come la loro colpa abbia qualche cosa della
frode; poi che pur volendo vendicarsi di Dio “portano nocumento... ad
altrui„. Ma pur facendo direttamente contro Dio, non sono più giù messi,
perchè il loro peccato, che non è dell’uom proprio male, è senza
concorso d’intelletto e non può quindi essere che ira.



XXIV.


La violenza è senza lume d’intelletto; dunque è matta bestialitade o ira
che è ‛furor brevis’; la bestialità è appetito di vendetta; dunque è
ira. Così avevo concluso, così dovevo concludere. Ma l’ira è con
ragione: dice Tomaso. Sì; ma egli disputa (1ª 2ae XLVI 4) che con
ragione ella è _quodammodo_, poi che la ragione non le si accompagna se
non come denunziatrice dell’ingiuria da vendicare; ed essa ‛non
perfettamente la ode, poichè non osserva la regola della ragione nel far
vendetta; sì che all’ira si richiede qualche atto della ragione e si
aggiunge impedimento di essa ragione’. Ora io vedevo a questo concetto
rispondere esattamente il subito adirarsi del Minotauro, chè questi,
quando vide Dante e Virgilio, ‛sè stesso morse, Sì come quel, cui l’ira
dentro fiacca’. Perchè? perchè egli crede, come lo rimbrotta Virgilio,
che lì sia il duca d’Atene, il suo uccisore. Qui è dunque un atto di
ragione la quale manifesta o ricorda all’infamia di Creti l’antica
ingiuria; onde s’adira, appena veduti i due visitatori d’Inferno,
appetendo vendetta. Ma Virgilio vuol renderne vana l’azione, e perciò
più vivo gli desta nell’anima il ricordo di quella ingiuria; onde
l’uomo-toro si fa e sembra toro soltanto, e diventa bestiale: ciò è
all’atto di ragione, che gli denunzia l’ingiuria che è nelle parole di
Virgilio, segue impedimento di essa ragione: il che fa sì che i due
possano agevolmente correre al varco, mentre ch’è in furia. Così vedevo
che a tutti i violenti la ragione bensì denunziava un’ingiuria o
supposta o vera, di cui essi bramavano, anzi facevano vendetta, ma che
essi, nel farla, obliavano la ragione. Così dei tiranni mi pareva che
Dante pensasse come appunto tiranni fossero perchè il loro giudizio non
era stato quel che doveva essere, che Dante significa, parlando di
Arrigo (_Ep._ V 3): ‛semper citra medium plectens’. Di Arrigo egli dice
che, come Cesare, perdonerà a chi implorerà misericordia, poi che la sua
maestà ‛de fonte defluat pietatis’; e come Augusto, ‛relapsorum facinora
vindicabit’. In simile guisa i sovrani devono bensì vendicare i delitti,
ma hanno a castigare ‛citra medium’ e ascoltare la pietà: se no, sono
tiranni. Or di questi nel fiume di sangue si piangono appunto gli
spietati danni, ossia le pene date senza ascoltare la pietà, che è
giustizia e ragione ascoltare. Quanto poi alla vendetta privata, che
Dante tien giusta (_Inf._ XXIX 16 e segg.), pone l’esempio di Guido di
Monforte, che avendo ragione di vendicarsi di Eduardo Re, non seguì
ragione _in rependendo vindictam_, e per la persona sulla quale si
vendicò e per il luogo, in grembo a Dio, e per il modo come si vendicò.
Nè i guastatori e ladroni sono puniti nel settimo cerchio invece che
nell’ottavo, per altro che per avere sì con la ragione appresa
un’ingiuria, di cui o ragionevolmente o no appetirono vendicarsi (il che
dei guerrieri di strada maestra è ancora consuetudine ed opinione), ma
non aver poi seguito ragione nel vendicarsi stesso, specialmente col
prendersela con tutti, senza più attendere se rei verso loro o no: onde
la loro cupidigia cieca. Ciò in nessuno appariva più manifesto che in
Pier della Vigna: al quale il Poeta fa dimostrare e giurare che non
ruppe fede al suo signore e perciò fu a torto accusato e abbacinato o
imprigionato, donde in lui giusto risentimento per vera ingiuria. Ma la
ragione dopo l’abbandonò:

    L’animo mio per disdegnoso gusto
      Credendo col morir fuggir disdegno
      Ingiusto fece me contra me giusto:[46]

  [46] _Inf._ XIII 70.

nel qual luogo è da notarsi ‛l’animo mio’, che è precisamente il
θυμός di cui è parola di Tomaso (1ª 2ae XLVI 8), dove si conclude:
_nihil autem prohibet, ut θυμός graece, quod latine furor
dicitur, utrumque importet, et velocitatem ad irascendum, et firmitatem
propositi ad puniendum._ Anche Pier della Vigna adunque, abbandonato
dalla ragione, la qual pur rettamente gli designava l’ingiuria e
l’ingiuriatrice, scambiò nella vendetta la persona, punendo sè stesso e
non altri. L’ira invero è matta, è folle, è una “pazzia breve„; una
pazzia che può, per il momento che arde, trovarsi in persone per solito
e per altre parti ragionevolissime; onde Dante sotto la guardia del
Semifero ci fa vedere uomini come Pier della Vigna e altri che posero
gli ingegni a ben fare, e cui abbracciare Dante avrebbe voluto, e avanti
i quali egli poteva andare reverente. Ma qui anch’io esclamai, come
Dante, vedendo uno in cotal famiglia: Siete voi qui, Ser Brunetto? Il
peccato di cui foste lercio, come può essere ira? Ma mi soccorse lo
Genesi, e subito compresi, che come gli eccellenti e nobili usurieri
erano violenti contro l’Arte e perciò contro la Natura e quindi rei
d’ira contro Dio, così questi letterati grandi e di gran fama erano rei
d’ira contro Dio perchè colpevoli di violenza contro la Natura. Nel
fatto il loro peccato è contro natura, ‛in quantum impeditur generatio
prolis (_S._ 1ª 2ae CLIV 1)’. E in somma contro il dolce comando di Dio:
‛Crescete e moltiplicate ed empite la terra e sottomettetela...’. Il
qual comando, poi che fu dato prima che i primi parenti mangiassero del
pomo, attestava la santità delle nozze ed era argomento della divina
bontà. Ma dopo il peccato sonarono le lugubri parole: Dio ‛alla donna
ancora disse: Moltiplicherò i dolori tuoi e i concepimenti tuoi: nel
dolore farai figli e sotto il potere dell’uomo sarai ed esso dominerà su
te. E ad Adamo disse: Perchè udisti la voce della moglie tua e mangiasti
del legno del quale ti avevo comandato che tu non mangiassi, maledetta
la terra nell’operar tuo! nelle fatiche mangerai da lei in tutti i
giorni della vita tua; spine e triboli ti germinerà e mangerai le erbe
della terra. Nel sudore del volto tuo ti ciberai del pane tuo, finchè
ritorni nella terra dalla quale preso fosti; perchè polvere sei e in
polvere tornerai!’. Ora l’invito alle nozze che resta anche dopo questa
intimazione di morte e di sventura, può fare apparire maledizione quella
che fu una benedizione, e credere pena del peccato quella che è gloria
del connubio: onde gli uomini respingono, nell’ira loro, la provvidenza
di Dio che ‛masculum et feminam fecit eos’. Perchè “crescere„
l’infelicità? perchè “moltiplicare„ la morte? Così non vollero che per
loro seguisse ‛generatio prolis’, e spregiando natura e perciò Dio,
vollero vendicarsi del dispregio di Dio, che essi letterati grandi e di
gran fama più che altri sentivano nel cuore. In tal modo cominciavo a
comprendere come il peccato, di che era lercio ser Brunetto, non
impedisse che Dante tenesse il capo chino come uom che reverente vada;
anzi come Dante potesse porre tra tale masnada chi nel mondo ad ora ad
ora gli insegnava come l’uom s’eterna. E ricordavo che a quei tempi
erano sette o congreghe che erano riputate ree di simile ribellione a
Dio, e che i Cathari, come diceva il Moneta, affermavano illegittima,
cioè contro la legge di Dio la congiunzione pur nel matrimonio, ‛quia
credunt corpus maris et foeminæ a diabolo fuisse factum’ (Tocco,
_Eresia_, p. 90, n. 1), e gli Almariciani, partendo dal principio che la
distinzione del sesso si dovesse al peccato, ‛et stupra, come Martino
Polono asseriva, et adulteria in charitatis nomine committebant’ (ib. p.
413, n. 2); e ammiravo il Poeta che così altamente concepiva il peccato
degli uomini, raffigurandolo in quel primo eterno drama, dentro e fuori
il paradiso deliziano, dove sonava la voce di Dio e fiammeggiava la
spada del Cherubino; di che Dante aveva ammonito il discreto lettore
ricordando lo Genesi: quando in me patii, quello che il primo Angelo
patì nel sentire che il suo levarsi era cadere. Udii in fatti nella
settima cornice del Purgatorio una delle due schiere di lussuriosi
sopragridar, Soddoma e Gomorra. Erano essi manifestamente rei del
peccato di Ser Brunetto, e il loro peccato era manifestamente di
lussuria: dunque io avevo errato e tutto il mio argomentare era stato,
per questo punto, e forse per tutti, in vano.



XXV.


Peraltro io pensai come già avessi veduto che tra il Purgatorio e
l’Inferno si doveva attendere una differenza, in quanto che nei peccati
che si puniscono nell’Inferno, sono l’odio di Dio e l’odio di sè, i
quali non sono nei peccati che si scontano nel Purgatorio. Onde
m’incorai a cercar meglio la cosa. Come in vero potrebbe entrare a farsi
bella anima che odiasse ciò che veramente ella è, e volesse cose
contrarie alla ragione? come potrebbe odiar Dio chi appunto, se a Dio
non si rivolgesse in un empito d’amore, non salirebbe il santo monte?
Dice Manfredi:[47]

    Piangendo a Quei che volentier perdona.
      Orribil furon li peccati miei,
    Ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
    Che prende ciò che si rivolge a lei.

  [47] _Purg._ III 119 e segg.

Senza quel pianto di contrizione, egli meritava forse la Ghiaccia; ma si
rese in tempo, sebbene in punto di morte, a Quello da cui si era
allontanato in vita co’ suoi peccati. E quali fossero questi, non dice
Dante, e non si sa se credesse a quello a cui molti credevano: a ogni
modo, in ogni peccato è allontanamento da Dio, è ‛aversio’; anzi esso
peccato è allora mortale e da punirsi eternalmente, quando giunge sino
all’allontanamento dall’ultimo fine, ciò è Dio (_S._ 1ª 2ae LXXII 5):
ora questa aversione non è più certo in chi si converte o si rivolge. Il
che è significato da Tomaso con queste parole: ‛Quando per la grazia si
rimette la colpa, si toglie l’allontanamento (aversio) dell’anima da
Dio, in quanto per la grazia l’anima a Dio si congiunge. Onde e per
conseguente insieme si toglie la condanna alla pena eterna (3ª LXXXVI
4)’. Ma aggiunge: ‛Può tuttavia rimanere la condanna a qualche pena
temporale’. Or come questo? Perchè in ogni peccato è non solo l’’aversio
ad incommutabile bono’, ma anche la ‛inordinata conversio ad commutabile
bonum (lª 2ae LXXXVII 4 e passim)’. Quale per la superbia, per la
invidia, per l’ira sia questo commutevole bene, Dante dice (_Purg._ XVII
115 e segg.): l’eccellenza, che il superbo spera; podere, grazia, onore,
fama, che l’invido teme di perdere; la vendetta, di cui l’iroso è
ghiotto. Tace poi quale sia l’altro ben che non fa l’uom felice, a cui
troppo s’abbandonano gli avari e prodighi, i golosi, i lussuriosi; ma
facilmente s’intende, quale è. E io m’indugiavo a solvere un dubbio, che
qui mi si presentò d’un tratto. I peccati si dividono dai Teologi in
spirituali e carnali. Carnali sarebbero, secondo Gregorio, soli la
lussuria e la gola; ma altri, seguendo San Paolo (_Ad Ephes._ V) che
nomina l’_avaritia_ accanto alla _fornicatio_ e all’_immunditia_,
aggiungono l’avarizia; e di questi era certo Dante: il quale in altra
cosa (lasciando l’opinione sulle gerarchie angeliche; _Par._ XXVIII 132)
pare non si accordi con Gregorio, poi che, dicendo questi che i peccati
carnali sono _minoris culpae_ ma _infamiae maioris_, esso, come
correggendo, dice dell’incontinenza (_Inf._ XI 84) che men Dio offende e
men biasimo accatta. Pone dunque Dante l’avarizia o meglio il malo
spendio tra i peccati carnali o d’incontinenza, seguendo Tomaso che
spiega (1ª 2ae LXXII 2) Potest dici, quod res, in qua delectatur avarus,
corporale quoddam est; e come il più grave dei tre. Ma questi tre sono
pur meno gravi dei peccati spirituali, i quali (_S._ 1ª 2ae LXXIII 5)
‛pertengono allo spirito, di cui è proprio il volgersi a Dio e
l’allontanarsi da lui, mentre i peccati carnali si consumano nella
dilettazione dell’appetito carnale, a cui principalmente pertiene
volgersi al bene corporale; e perciò il peccato carnale, in quanto è
tale, ha più della conversione, perchè è anche di maggiore adesione; ma
il peccato spirituale ha più di aversione, dalla quale procede la
ragione della colpa, e perciò il peccato spirituale in quanto è tale è
di maggior colpa’. Ora il mio dubbio era qui: poi che nel purgatorio i
rei di peccati spirituali non possono essere più con allontanamento da
Dio, perchè non sono essi posti nelle cornici superiori? In vero osserva
S. Tomaso (2ª 2ae CLXII 6) che ‛dalla parte della conversione non ha la
superbia di che essere il più grande de’ peccati: perchè l’altezza
(_celsitudo_) che il superbo inordinatamente appetisce, secondo la
ragion sua non ha la più grande ripugnanza al bene della virtù’. E pure
anche nel Purgatorio pone Dante la superbia come il massimo dei peccati,
ponendola nell’ima cornice, sebbene dichiari ch’ella non altro appetisce
se non quella stessa eccellenza ‛che secondo la ragion sua non ha la più
grande repugnanza al bene della virtù’. E qui il dubbio si sciolse;
diceva infatti Dante:

    È chi per esser suo vicin soppresso
      Spera eccellenza;

e così della superbia, come dell’invidia e dell’ira, affermava che il
fine era il mal del Prossimo. Aveva dunque Dante concepiti questi tre
peccati, o almeno la superbia, in un modo tutto suo; sì che nessuno
avrebbe dovuto meravigliarsi di ciò che m’era parso: che egli avesse
agguagliate la superbia e la invidia e l’ira punite in inferno al
tradimento o frode in chi si fida, alla frode in chi non si fida, alla
violenza o bestialità. E così tornavo al punto in cui avevo perduto la
speranza dell’altezza; al punto in cui tutti i miei ragionamenti avevo
veduti vani, accorgendomi che Soddoma, che io credevo fosse per Dante
peccato d’ira o violenza o bestialità, che sono una cosa, era invece per
lui, come per tutti, peccato di lussuria. Oh! ma, io dissi, i soddomiti
del Purgatorio si resero a Dio, entrarono nel Purgatorio dopo giusto
pentere. Ora la penitenza di che effetto era stata nel loro reo?
Rispondeva S. Tomaso (3ª 86 4): ‛Per la grazia si toglie l’aversione
della mente da Dio, insieme con la condanna alla pena eterna: rimane
tuttavia ciò che è materiale, cioè l’inordinata conversione a un bene
creato, per la quale si deve condanna a pena temporale’. Tolto dunque
nel peccato de’ soddomiti ciò per cui esso era più veramente un
allontanamento da Dio, ciò è la volontà d’impedire la generazione della
prole, rimaneva pur sempre l’atto materiale, che è di lussuria. E così
non solo io mi confermava nei miei ragionamenti, ma vi trovava una forza
nuova che mi spingeva a cercare sempre più, con la certezza che avrei
trovato. Di vero io mi rivolgeva agli altri interpreti e domandava loro,
perchè non avessero spiegato come Dante in Inferno non avesse posto
Brunetto coi lussuriosi, poi che nel Purgatorio vi aveva posto il
Guinizelli; e sentivo che non avrebbero potuto o non potrebbero darne
ragione, che stesse. Io in vece poteva anche ricordare, che Tomaso
afferma come in un peccato possono concorrere più difformità e, a modo
d’esempio, riportare che egli dice dell’adulterio come non solo pertenga
al peccato di lussuria ma sì anche a quello d’ingiustizia (1ª 2ae LXXII
2).



XXVI.


Nei peccati adunque del Purgatorio sapevo mancare l’aversione da Dio e
di essi punirsi soltanto la conversione a un commutevole bene. Al
contrario in quelli dell’Inferno, si puniva con pena eterna l’aversione
da Dio. Il Purgatorio era tutto d’uomini conversi a Dio; l’Inferno era
d’uomini aversi da Dio. Il che vedevo significato dal Poeta col fare che
nessuno de’ rei pronunziasse il nome di Dio; salvo Capaneo, il violento
contro Dio, che nomina sdegnosamente _Giove_ (_Inf._ XIV 52), e Vanni
Fucci, il finto violento, che con lo sconcio gesto grida: _Togli, Dio_
(_Inf._ XXV 3). Quante volte un dannato vuole significare Dio, accenna o
vela; e così Francesca (V 91) dice, _il Re dell’universo_; e Farinata,
_il Sommo Duce_ (X 102); e Ulisse, _altrui_ (XXVI 141); e Maestro Adamo,
_la rigida giustizia_ (XXX 70); nello stesso modo che Virgilio, il quale
pure pronunzia il nome di Dio, accenna però e vela quello di Cristo,
chiamandolo _un Possente_ (IX 53); _Colui che la gran preda Levò a Dite_
(XII 38), _l’Uom che nacque e visse senza pecca_ (XXXIV 115). E
tralascio, come evidente a tutti, che l’Inferno stesso è volto alla
parte contraria a quella donde si sale a Dio e che, rispetto a Dio,
Lucifero e tutto il suo gregge doloroso sono capovolti. Ora io notava
che in ogni peccato mortale è aversione e conversione; ma che tuttavia
il peccato carnale ha più della conversione, e lo spirituale più
dell’aversione, e che perciò questo è più grave di quello (_S._ 1ª 2ae
LXXIII 5). E questo sapeva essere la ragione per cui Dante aveva
collocato i peccati carnali, dei quali per lui era anche l’avarizia,
fuori di Dite e oltre lo Stige. Men Dio offende, dice esso,
l’incontinenza; tuttavia l’offende e con conseguenza anche di pena
eterna. Perchè, mentre in ogni peccato mortale è aversione e
conversione, in alcuni peraltro è principale quella, in altri questa; e
l’una porta con sè l’altra (_S._ 2ª 2ae XX 1). Così nel peccato di
lussuria, è la conversione al piacere carnale che porta seco l’aversione
da Dio e nel peccato di superbia è invece l’aversione da Dio che produce
la conversione a qualcosa di terreno. E gli altri peccati carnali sono
come la lussuria, e gli altri spirituali, come la superbia. E la
superbia, dice S. Tomaso (2ª 2ae CLXII 6), ‛excedit in aversione’. Il
che, come dà l’esatta spiegazione dell’ordine, in cui sono puniti
nell’Inferno questi sei peccati, lussuria, gola, avarizia, carnali, ira,
invidia, superbia, spirituali, così ci illumina di nuova luce la
profonda coscienza di Dante. Poi che noi vediamo come egli punisca tra i
lussuriosi gli adulteri Paolo e Francesca, significando con ciò che in
loro la conversione aveva preceduto l’aversione; che colpa d’amore era
la loro, d’amor che a cor gentil ratto s’apprende, d’amor ch’a nullo
amato amar perdona; che nel loro adulterio incestuoso non era peccato
d’ingiustizia; che l’uccisore della moglie e del fratello, sebbene
colpevoli, era più reo di loro; e mostrando così prima ancora di venir
meno e cadere, la pietà per i duo cognati. E vediamo altresì che, nei
peccati spirituali, l’aversione da Dio per desiderio o di primazìa
assoluta, o di podere, onore, grazia e fama, o di vendetta, doveva
suggerire all’intelletto volto al male un’ingiuria contro Dio e contro
chi di Dio più tiene o contro gli uomini, oppure alla passione, al core,
un’ingiuria contro Dio, contro sè stesso, contro il Prossimo; perchè
ella fosse eternalmente punita. Così Dante non poneva nell’Inferno la
superbia se non come tradimento, l’invidia se non come frode, l’ira se
non come bestiale violenza contro il prossimo, contro sè stesso, contro
Dio, la Natura e l’Arte.



XXVII.


Ma se l’ira è punita nel settimo cerchio, quali sono nel pantano di
Stige ‛L’anime di color cui vinse l’ira’? Così tornavo al luogo e
all’ora oscura dell’Inferno; a cui quante volte avevo pensato
interrompendo i miei ragionamenti, tante dicevo a me stesso che io
doveva ossequio ad essi, anche quando parevano contradire la verità
meglio apparente. Ora, dunque, riprendevo l’esame della questione, dalla
quale avevo mosso, e domandavo quali erano esse anime, e di che ree. Una
cosa era chiarissima, che essi, della palude pingue, come i lussuriosi,
golosi, avari e prodighi, avevano peccato per quella disposizione che
l’Etica chiama incontinenza, allo stesso modo che di malizia erano rei i
felli dell’ottavo e nono cerchio e di matta bestialitate quelli del
settimo. E incontinenza è, secondo lo stesso Dante (_Purg._ XVII 136 e
segg.), l’abbandonarsi troppo con l’amore d’animo a un bene, che è bene
sì ma non fa l’uom felice; è (ib. 97 e segg.) il non misurarsi che
faccia il detto amore ne’ beni terrestri, è il correre suo nel bene con
più cura che non dee. E anche nell’inferno egli definisce
gl’incontinenti in genere, pure adombrando i lussuriosi in ispecie
(_Inf._ V 38 e segg.): ‛i peccator carnali, Che la ragion sommettono al
talento’. Ora il talento che è? È quello che Dante chiamò ancora libito;
è l’appetito sensitivo; anzi, quella sua parte che è detta il
concupiscibile. Dunque nei peccatori carnali la ragione non fa più il
suo ufficio di muovere essa la volontà, la quale è media tra la ragione
e il concupiscibile (_S._ 2ª 2ae CLV 3); ma lascia che l’altro la muova
a suo piacere. E io mi domandavo, con altri molti: Può essere
incontinenza d’altro che di concupiscibile? L’Etica in vero (VII 4)
distingue gl’incontinenti assolutamente, cioè quelli che tali sono
intorno ai piaceri del corpo, e gl’incontinenti secondo l’aggiunta
intorno a questo o quello. E nel capo sesto distingue gl’incontinenti
d’ira e quelli della concupiscenza, e dice quelli meno turpi di questi;
quelli in qualche parte seguendo la ragione, e questi no. Vi è dunque
come un’incontinenza di concupiscibile, così un’incontinenza
d’irascibile, parti, questo e quello, dell’appetito sensitivo; il che
conferma Tomaso in molti punti della Somma (2ª 2ae LIII 6, CLVI 4,
CLVIII 4, CLV 2, CLVI 2). Bene: ma che altro è essere incontinente d’ira
da essere reo d’ira o violenza o bestialità? E pure Dante i rei d’ira
pone nel settimo cerchio, dentro Dite, con ciò affermando che non sono
incontinenti. E che sono dunque? Sono uomini che fecero ingiuria, in
seguito a incontinenza d’ira. Poi che per Dante l’ira non è ira se non
ha per fine il male, come nè la invidia è invidia, nè la superbia è
superbia senza altrui danno. Or dunque, se noi supponiamo che
incontinenti d’irascibile siano quei della palude pingue, cui vinse
l’ira, come incontinenti di concupiscibile sappiamo che sono quelli dei
tre cerchi anteriori, che la ragion sommettono al talento, dobbiamo
inferire che essi non fecero ingiuria, perchè altrimenti sarebbero stati
messi più giù, nel settimo cerchio. Così pensavo; e vedevo che nel
pantano erano genti fangose con sembiante offeso, di cui uno solo era
nomato, Filippo Argenti, che all’ultimo in sè medesmo si volgea coi
denti; e di questo non era ricordata alcuna reità e solo se ne diceva:
‛Bontà non è che sua memoria fregi’. E concludevo che ben poteva essere
che il bizzarro e le altre genti ignude fossero stati incontinenti
d’ira, ma che male altrui non avessero fatto, sì l’avessero voluto fare,
rodendosi continuamente per l’odio e la rabbia: il che era significato
sì dal male che erano, per divina giustizia, costretti a farsi laggiù,
‛Troncandosi coi denti a brano a brano’, e sì volgendosi, come l’uno
d’essi fa, coi denti in sè medesimi. E subito le genti ignude tutte mi
richiamarono al pensiero altri sciaurati anch’essi ignudi (_Inf._ III 64
e segg.), anch’essi continuamente in moto, anch’essi continuamente
tormentati, sebbene da mosconi e da vespe e non dai compagni di pena o
da loro stessi. Le somiglianze erano altre molte: Virgilio lassù
garrisce Dante, dicendo ‛Non ragioniam di lor, ma guarda e passa’; qua
Virgilio cinge a Dante il collo con le mani e lo bacia e lo chiama ‛Alma
sdegnosa’, perchè ha ributtato l’Argenti; là e qua conosce un’Ombra, e
della prima non dice il nome, la seconda non noma esso, sì il volgo
delle anime; ‛Fama di loro il mondo esser non lassa’, dice Virgilio
degli sciaurati; ‛Bontà non è che sua memoria fregi’, dice di Filippo
Argenti. Cattivo il coro degli angeli che furono per sè, dei cattivi è
tutta quella setta; bontà non fregia la memoria della persona
orgogliosa. E questa esclama: ‛Vedi che son un che piango’; e di lagrime
è mischiato il sangue che riga il volto dei vili. E là sono angeli, e
qua staranno gran regi. E sopra tutto così dalla riviera d’Acheronte,
presso cui era la setta dei cattivi, come dalla secca ripa della palude,
in cui stavano i vinti dall’ira, Dante vedeva arrivare per il fiume e
per il pantano una nave, e nella nave là Caron, qua Flegias; e tutti e
due gridano e tutti e due tacciono alle parole di Virgilio. Che dovevo
concludere?



XXVIII.


Questo, per allora: che vi era come un navicellaio dell’Inferno così un
galeotto di Dite, e come un Antinferno così un Antidite, e che alle
anime dell’Antinferno rassomigliavano quelle dell’Antidite, come a Caron
Flegias e a Stige Acheronte. In tanto posi mente ai peccatori fitti nel
limo, che dicono:

                      tristi fummo
      Nell’aer dolce che dal sol s’allegra,
      Portando dentro accidioso fummo:
    Or ci attristiam nella belletta negra;[48]

  [48] _Inf._ VII 121 e segg.

e notai che nella tristezza erano simili non solo alle anime triste
degl’ignavi, ma anche ai loro compagni che si percotono, de’ quali uno
dice: ‛son un che piango’. Ricordai a questo proposito che anche il
violento, almeno contro sè e le sue cose, piange là dove esser dee
giocondo (_Inf._ XI 45): il che faceva più stretta la relazione tra i
peccatori della palude pingue, che io diceva incontinenti d’irascibile
senza ingiuria, e quelli del settimo cerchio, che io aveva dichiarati
rei d’ira. Ma ad altro io attendeva: che rea d’accidia fosse la gente
che sospirava nel limo, era per me indubitabile, oltre che per altre
ragioni, per questa, che l’accidia è, secondo la definizione di Gregorio
Nysseno (vedi in _S._ 1ª 2ae XXXV 8), ‛tristitia vocem amputans’, il che
dà la spiegazione non solo dell’attristarsi di quell’anime che triste
furono già in vita, ma anche di non poter esse dire il loro inno con
parola integra. Ora questi accidiosi assomigliano certo, nell’essere
stati e nell’essere tristi, alle ‛anime triste di coloro Che visser
senza infamia e senza lodo’. Le quali in altro assomigliano ad altri
accidiosi, a quelli del Purgatorio: nella pena; poi che e questi e
quelli corrono incessantemente. Accidiosi dunque potevo riputare anche i
vili o ignavi dell’Antinferno: ai quali avevo veduto assomigliare in
molte parti gl’incontinenti d’ira dell’Antidite. Sì che entravo a poco a
poco nel pensiero che come l’Antinferno così l’Antidite fosse popolato
d’accidiosi. In vero accidioso è chi non fa il bene, poi che accidia è
definita ‛taedium bene operandi (_S._ 1ª LXIII 2ae passim)’; e d’uno
della fangosa gente, e s’intende di tutti, Virgilio dice: ‛Bontà non è
che sua memoria fregi’. Non fecero dunque il bene. Ma forse perchè lento
fosse l’amore (_Purg._ XVII) che li tirava ad esso? Non propriamente, ma
perchè, sotto il predominio dell’irascibile, amavano il male. Fecero
dunque il male? No: chè allora sarebbero puniti tra i violenti. Non
fecero dunque nè il bene nè il male, come appunto i vili
dell’Antinferno, ma con la differenza che questi sciaurati mai non fur
vivi, ossia non si giovarono della libertà del volere concesso da Dio
per suo maggior dono, e gli incontinenti d’ira ne profittarono sì, per
amare il male, ma non fecero poi nè male nè bene. Sì che come l’Inferno,
quanto egli è, non riceve quelli, così Dite non vuol questi. Ora questi
mi parevano di due ragioni: l’anime dei vinti dall’ira e la gente che
gorgoglia l’inno; ma vedevo che avevano tra loro di comune, oltre
l’essere nel pantano, la ‛Tristitia’; che negli immobili era significata
dalle parole stesse del loro canto, e nei rissosi era accennata dal
sembiante offeso e dichiarata con l’accento d’uno d’essi: ‛Vedi che son
un che piango’. Ora la Tristizia è ‛media tra due passioni
dell’irascibile: che segue il timore; poi che quando occorra il male che
si temeva, se ne causa la tristezza; e precede il moto d’ira, perchè,
quando dalla precedente tristezza alcuno insorge alla vendetta, ciò
pertiene al moto d’ira (_S._ 1ª 2ae XXV 1)’. Sopra tutto ricordavo:
‛l’irato ha speranza di punire, che appetisce la vendetta come a sè
possibile. Onde se molto alta sia stata la persona che fece nocumento,
non ne segue ira, ma solamente tristizia (_S._ 1ª 2ae XLVI 1)’. A questo
mi pareva aver mirato Dante e aver segnata una differenza tra peccatori
e peccatori nella palude stessa. E ciò era evidente dal fatto che fitti
immobilmente nel limo sono i primi, per mostrare che essi scontano
quella passione del concupiscibile, ciò è la Tristezza, la quale
‛importa quiete nel male (_S._ l. c.)’; e mobili e inquieti sono i
secondi, per indicare che essi ubbidirono al moto dell’irascibile; ma
sino a un certo punto; non essendo giunti a fruire di quella ‛quiete nel
bene’ che è il gaudio della vendetta: nel bene, poi che ‛rendere il
male, si apprende come bene (_S._ l. c.)’. Così concludevo: ma dubitavo
ancora come potessero essere considerati incontinenti dell’irascibile sì
i quieti e sì gl’inquieti, parendomi che quelli, più tosto che
incontinenti, se ne avessero a giudicare privi, poi che il timore aveva
impedito le loro azioni e cagionata la loro tristezza: il timore che è
la passione dell’irascibile opposta alla speranza o al desiderio. A ciò
rispondevo che incontinenza si aveva a interpretare disordine o
squilibrio, e che essi erano fitti nel limo sotto e presso quelli che
dentro esso limo rissavano, per la medesima ragione che di fronte
agl’incontinenti nell’amore della ricchezza erano i prodighi, sì che
come avari e prodighi potevano contenersi nello stesso nome di male
spenditori o dismisurati nello spendio, così i quieti e gl’inquieti
dello Stige si potevano definire dismisurati o squilibrati nelle
passioni dell’irascibile. E il Poeta rappresentava sopra loro, in modo
molto chiaro, come l’uomo deve essere temperato in tali passioni. Chè
Dante, respingendo l’Argenti, che forse voleva salire sulla barca (me lo
fa sospettare un altro sospetto, che l’episodio Dantesco sia suggerito
dal Virgiliano di Palinuro: _Da dextram misero et tecum me tolle per
undas_: _Aen._ VI 370 e segg.), e facendosi poi abbracciato e baciato da
Virgilio per il suo sdegno, dichiara che nè la misericordia è sempre
virtù, nè l’ira è sempre peccato; e che il moto dell’irascibile è
naturale all’uomo, quando è secondo ragione (_S._ 2ª 2ae CLVIII 2), e
che vi è un appetito d’ira lodevole, che si chiama ‛ira per zelum,
quando alcuno appetisce che secondo l’ordine della ragione si faccia
vendetta (_vindicta_) (ib.)’. E qui la vendetta era, se mai altra,
giusta, perchè veniva da Dio. Ora chi di questa ‛ira per zelum’ non è
capace, come chi solo è capace di ‛ira per vitium’, pecca, e poi che
Dante in quel brago destina, per bocca di Virgilio, gran regi, io non
sapeva se intendesse che v’abbiano a essere tuffati per difetto della
prima o per abbondanza della seconda.



XXIX.


Questi gran regi fermavano il mio pensiero. Era chiaro che il loro
castigo dopo morte era in aspro contrasto con la nobiltà loro in vita, e
che tra porci e gran regi Dante intendeva l’opposizione che è tra
nobilissimi e vilissimi. E qui soggiungevo che Dante fa veramente vile
contrario di nobile, anzi reputa che il vocabolo nobile sia quasi non
vile (_Conv._ IV 16). E vile fa uguale a bestia (_Conv._ III 7), dicendo
vedersi ‛molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non
pare essere altro che bestie’. Il che è ancor meglio spiegato con queste
parole (_Conv._ II 8): ‛le cose deono essere denominate dall’ultima
nobiltà della loro forma; siccome l’uomo dalla ragione, e non dal senso,
nè da altro che sia meno nobile: onde quando si dice: l’uomo vivere, si
dee intendere, l’uomo usare la ragione; ch’è sua spezial vita ed atto
della sua più nobile parte. E però chi dalla ragione si parte e usa pur
la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia’. Queste parole
illustrano il fatto che quelli che la ragion sommettono al talento, sono
dal Poeta assomigliati ad animali: i lussuriosi a stornelli e poi a gru,
e due d’essi a colombe, in cui il disio precede il volere; i golosi, a
cani; e a cani, implicitamente, i mali spenditori della cui voce dice
che abbaia, lasciando che equivale a dire che non vissero uomini e
perciò vissero bestie, il dichiarare:

    La sconoscente vita che i fe’ sozzi
    Ad ogni conoscenza or li fa bruni.[49]

  [49] _Inf._ VII 53 e seg.

E poi a guardia de’ golosi è il dimonio Cerbero, che con tre gole
caninamente latra, e de’ mali spenditori, Pluto, che è chiamato
maledetto lupo. Ma cani sono anche detti i dannati dello Stige, come a
porci sono assomigliati i gran regi: chè anche di loro si può affermare
che non usarono ragione. Bestie dunque furono e saranno, se pure non si
voglia dire, che non furono mai vivi, che torna lo stesso; poi che
Dante, stesso osserva (_Conv._ IV 7): ‛... vivere nell’uomo è ragione
usare. Dunque se vivere è l’essere dell’uomo, e così da quello uso
partire è partire da essere, e così è essere morto’. Ora appunto di
quelli rei di viltate, il Poeta dice: che mai non fur vivi. Ma si sa che
i bruti e sono privi di libero arbitrio (_S._ 1ª LIX 3 e passim) e usano
‛pur la parte sensitiva (_Conv._ l. c.)’ o appetito: quell’appetito che,
secondo le parole di esso Dante (_Conv._ IV 26) ‛mai altro non fa, che
cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che è da
cacciare, e quanto si conviene, e fugge quello che è da fuggire, e
quanto si conviene, l’uomo è nelli termini della sua perfezione.
Veramente questo appetito conviene essere cavalcato dalla ragione: chè
siccome uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sè
senza il buono cavalcatore bene non si conduce, e così questo appetito,
che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile,
alla ragione ubbidire conviene; la quale guida quello con freno e con
isproni; come buono cavaliere lo freno usa, quando elli caccia; e
chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al
quale è da cacciare; lo sprone usa, quando fugge per lo tornare al loco
onde fuggir vuole; e questo sprone si chiama fortezza, ovvero
magnanimità, la qual vertute mostra lo loco ove è da fermarsi e da
pungere (_al._ pungare)’. Di che consegue che non è nobile, sì vile, sì
bestia, sì non vivo, come colui che non usa nel cacciare il freno della
temperanza, così quello che non adopera nel fuggire lo sprone della
fortezza o della magnanimità. E qui io notava che non il solo
concupiscibile caccia e il solo irascibile fugge; ma che per l’una
potenza ‛l’anima è inclinata a proseguire (cacciare, dice Dante) le cose
che sono convenienti secondo senso e a fuggire le nocive’; per l’altra
‛l’animale resiste a ciò che gl’impugna le cose convenienti e gli porta
danno (_S._ 1ª LXXXI 2)’. Dunque Dante poteva trovare due specie di
viltà, in proposito: di chi non fuggisse e di chi non resistesse; di chi
fosse dominato da passioni atte a infirmare o la potenza concupiscibile
o la potenza irascibile dell’anima nella loro attitudine a ‛fuggire’:
dalla tristizia, per la prima; dal timore, per la seconda; poi che a
quattro si riducono le passioni dell’anima, gioia e tristezza, speranza
e timore (_S._ 1ª 2ae XXV 4 e passim), che Dante trovava espresse
nell’Eneide (VI 733), e nel suo dottore, in Boezio (_Cons. Phil._ I). E
io avevo già veduto come i fitti nel limo scontassero l’essere stati in
vita tristi, l’essersi quietati nel male, e i rissosi nel brago fossero
puniti per esser sorti sì alla vendetta, ma non averla compiuta per
timore. Che se la vendetta era giusta, erano rei di non averla fatta, se
era ingiusta, erano colpevoli d’averla desiderata. E qui tornando ai
gran regi, io ricordava come Dante avesse adombrato l’ufficio del
Principe, parlando di Arrigo (_Ep._ V 3) il quale, come Cesare, avrebbe
perdonato, come Augusto castigato (_vindicabit_). Il che si appartiene a
giustizia. Ora io concludeva che quello che Dante desiderava in questi
gran regi era precisamente il sentimento della giustizia e che, per loro
vilissimi perchè ‛non solamente colui è vile, cioè non gentile, che,
disceso di buoni, è malvagio, ma eziandio è vilissimo (_Conv._ IV 7)’ e
perciò assomigliati a porci, la viltà si riduceva appunto a non aver
dirizzato la volontà a essere quando come Cesare, quando come Augusto. E
pensavo che il galeoto di Stige, il Caron che tragitta all’inferno
inferiore, Flegias, ha tale ministero, perchè la sua grande voce grida
per l’ombre dalle pagine dell’Eneida (VI 620): ‛Discite iustitiam moniti
et non temnere Divos’. Chè in Dite si punisce chi misconobbe la
Giustizia, sia la _communiter dicta_, sia quella che si chiama _Religio_
e _Pietas_, e fuori di Dite, nello Stige, come oltre Acheronte chi non
usò la libertà del volere, quelli che, per le passioni del
concupiscibile e dell’irascibile, non si risolsero alla ingiuria, ma non
vollero la giustizia; sì che da una parte sono incontinenti, come quelli
che al talento o all’appetito sommisero la ragione, da un’altra sono
maliziosi, perchè o nel male quietarono o dal fine del male furono
distolti solo dal timore. Furono in somma gli accidiosi del male.



XXX.


Avevo veduto come Dante reputasse non solo vili, ma vilissimi i re
malvagi o inetti. Il perchè egli assegna (_Conv._ IV 7) col paragone
d’uno, che non avendo, per andare in alcun luogo, se non a seguire le
vestigie lasciate da un altro, ‛erra e tortisce per li pruni e per le
ruine, ed alla parte dove dee, non va’. E conclude chiamando valente il
primo che trovò la via, e non valente o vile, anzi vilissimo, l’altro
che la via già trovata non seppe seguire. Donde ricavavo che l’opposto
di accidia era per Dante, oltre nobiltà e fortezza, anche valore. Ma
meglio ancora comprendeva perchè il Poeta indicasse, come tra gli
accidiosi dell’Antinferno, ‛l’ombra di colui Che fece per viltate il
gran rifiuto’, così tra quelli dell’Antidite i gran regi; poi che
veramente e singolarmente accidioso è chi, dovendo per operare bene,
fare uno sforzo minimo, vi si rifiuta; lasciando che il suo operare è
sopra tutto utile, e il non operare, dannoso ad altrui, come dimostra
Marco Lombardo; colui che amò il valore abbandonato dai degeneri del
mondo d’allora; concludendo:

    Ben puoi veder che la mala condotta
      È la cagion che il mondo ha fatto reo.[50]

  [50] _Purg._ XVI 25 e segg.

E qui notavo che tale dimostrazione è fatta nello scaglione dell’ira e
da un iracondo, per accennare che se è male andar di là dell’ira, è
male, e per Dante peggio, restar di qua. Certo nulla al Poeta coceva più
che l’ignavia dei re e degl’imperatori, e, in genere, il tralignare
degli uomini. Mi venivano subito in mente due luoghi, uno nel
Purgatorio, l’altro nel Paradiso, dove Dante parlava più particolarmente
dei re del suo tempo. Sordello, il cui abbracciare aveva dato argomento
alla digressione in cui è acerbamente punto Alberto Tedesco (_Purg._ VI
76 e segg.), mostra nella Valletta dei fiori i Principi che vi sedevano
(_Purg._ VII 64 e segg.); e la sua dimostrazione si aggira sopra un
punto cardinale:

      Rade volte risurge per li rami
    L’umana probitate.

Nella spera di Giove le anime luminose che avevano di sè formato prima
le parole, _Diligite iustitiam qui iudicatis terram_, e poi la testa e
il collo dell’aquila, cantano i dispregi dei re, de’ quali il primo è
Alberto, figlio di Ridolfo che è il primo mostrato da Sordello nel
Purgatorio. E nel luogo del Purgatorio (114 e 117) e in quello del
Paradiso (25: ‛Che mai valor non conobbe nè volle’) si legge la parola
valore, come propria dei re. Che concludevo da questi raffronti? Dal
fatto che nel cielo di Giove, dalle anime di Principi amanti della
Giustizia si condannano i Principi allora regnanti, concludevo che detti
Principi _non valenti_, che non conobbero cioè nè vollero valore,
spiacevano per la loro mancanza di giustizia e che per questo erano
vili. Ma c’era altro. Io domandava: dove è la Valletta amena? e che
significa ella? In tanto io sapeva che cosa era la mala striscia.
Leggevo nel _de Monarchia_ (I 13): _notandum, quod iustitiae maxime
contrariatur_ cupiditas, _ut innuit Aristoteles in quinto ad Nicomachum.
Remota_ cupiditate _omnino nihil iustitiae restat adversum_. E
nell’Epistola ai Principi italiani leggevo ancora (V 4): _nec seducat
illudens_ cupiditas, _more Sirenum, nescio qua dulcedine vigiliam
rationis mortificans_; E nell’Epistola ai Fiorentini (5): _nec
advertitis dominantem cupidinem... sanctissimis legibus, quae iustitiae
naturalis imitatur imaginem, parere vetantem_. Era la cupidità, dunque,
e tralascio il molto che potrei soggiungere: quella cupidità che si
mostra nel mal volere (_Par._ XV 3) e che è bene il nostro avversaro, il
serpente antico che seduce. Poi che è ben la Cupidigia, che sotto sè
affonda i mortali (_Par._ XXVII 121), come quella che fa iniqua la
volontà; che è l’origine di tutti i peccati d’ingiustizia, e che,
simboleggiata nella Valletta dall’antico serpente che ammalia, è altrove
raffigurata in bestie fameliche, nel leone che ha la rabbiosa fame,
nella lupa, che ha tutte brame, che dopo il pasto ha più fame che pria,
che fu dall’invido Nemico scatenata nel mondo e perciò equivale al
serpente. E di passaggio osservavo che la lupa significava avarizia più
ristrettamente nel Purgatorio (XX 10 e segg.); ma nell’Inferno (I 49 e
segg., 94 e segg.) tutto al più ad avarizia equivaleva nel senso di
Agostino (_De lib. arb._ III 17): _avaritia... non in solo argento vel
in nummis, at in omnibus rebus quae immoderate cupiuntur intelligenda
est_, e nel senso di Tomaso (2ª 2ae CXVIII 2): _nomen avaritiae
ampliatum est ad omnem immoderatum appetitum habendi quamcumque rem...
quod avaritia est non solum pecuniae, sed etiam_ altitudinis.... Il che
ci porta a Lucifero e alla superbia e all’origine d’ogni peccato. Ma la
Valletta dove dunque è sita? Chiaro che ella è nell’Antipurgatorio, nel
quale indugiano, più o meno, quelli che indugiarono al fin li buon
sospiri, quelli che furono peccatori infino all’ultim’ora. E
consideravo, oltre l’andare delle anime trapassate in contumacia della
Chiesa, che ‛movieno i piè ver noi E non pareva, sì venivan lente’, e il
loro subito arrestarsi, lo stare delle altre anime, all’ombra dietro al
sasso, ‛Come l’uom per negghienza a star si pone’, e specialmente
l’atteggiamento e le parole di Belacqua che si mostrava più negligente
‛Che se pigrizia fosse sua sirocchia’, coi suoi atti pigri e le parole
corte, tra le quali queste: ‛Va su tu, che se’ valente’. Vedevo inoltre,
che come nel passaggio dello Stige Dante faceva prova di quella ‛ira per
zelum’, che nell’uomo nobile o perfetto ha da essere, così
nell’Antipurgatorio dava la riprova dello stesso concetto facendo
parlare Nino

                segnato dello stampo
    Nel suo aspetto di quel dritto zelo
    Che misuratamente in core avvampa.[51]

  [51] _Purg._ VIII 82 e segg.

Tutto diceva a me che con la necessità di stare fuor della porta del
Purgatorio per il tempo che vissero, o per trenta volte il tempo della
loro contumacia, si puniva in quelle anime un’accidia, o negligenza, o
pigrizia; un’accidia analoga a quella che impediva il passaggio
d’Acheronte agli sciaurati dell’Antinferno e il passaggio di Stige alle
genti fangose dell’Antidite. Di questi accidiosi negligenti o pigri o
meno valenti erano i gran regi della Valletta, non ostante che d’uno
d’essi, Sordello, dica che ‛D’ogni valor portò cinta la corda’. Ma
perchè nella Valletta questi Principi? Il perchè tralasciavo di
scrutare, sebbene mi paresse chiaro che questa valle fiorita era in
relazione sì del brago, in cui dovevano essere tuffati altri, sì della
Giovial facella, dove altri volitavano; ma correvo subito a un altro
luogo di Dante, dove era il medesimo concetto di segregazione e d’onore,
e dove Dante, come qui da un balzo, vedeva da un luogo aperto luminoso
ed alto, nobili spiriti. La valle insomma dell’Antipurgatorio mi
condusse al nobile castello del Limbo. E allora sentii come il ventare
nuovo e interrotto della terra lontana, che volevo scoprire; e per molti
segni capii che tra poco ella sarebbe stata in vista dell’ardito
navigatore. E l’oscura Minerva mi dimostrò un lampeggiar di riso.



XXXI.


Altri spiriti erano in Inferno, di cui avrei detto fossero puniti per
accidia, sentendo uno di loro dire: ‛Non per far, ma per non fare
(_Purg._ VII 25)’. E questi sono in luogo

              non tristo da martiri,
    Ma di tenebre solo, ove i lamenti
    Non suonan come guai, ma son sospiri;[52]

  [52] _Purg._ VII 28 e segg.

sospiri di desiderio senza speranza (_Inf._ IV 42); ‛di desiderio
Ch’eternalmente è dato lor per lutto (_Purg._ III 42)’. Essi tardi
conobbero l’alto sole e per un difetto (_Inf._ IV 40), non per una
colpa, sono perduti, perchè essi non peccarono, sebbene i loro meriti
non bastino, e tra loro, oltre parvoli innocenti, sono onrevol gente e
spiriti magni (_Inf._ IV 72 e 119). Sono nel primo cerchio dell’abisso;
prima di loro, separati dall’Acheronte, sopra loro, appena di un
gradino, sono solo gli ignavi per cui inutile dono fu quello della
libera volontà. Ora io pensavo che altro luogo era in inferno, dove
Dante avrebbe trovato il primo di quelli che a ben far poser gl’ingegni,
di quelli che egli tanto desiderava vedere: Farinata (_Inf._ IX e X).
Anche d’essi peccatori poteva dirsi che erano in quelle arche non per
altro rio che per non avere adorato o riconosciuto il Creatore e per
aver fatta morta l’anima col corpo. E poi anche qui sonavano sospir
dolenti, certo più intensi dei sospiri che nel Limbo facevano tremare
l’aura eterna perchè quello era duol senza martiri e qui erano sì i
martiri (IX 133, X 2) e rio il tormento e i lamenti duri (IX 111, 121).
Nè il Poeta trascura qui, come non ha trascurato nel Limbo (IV 25) di
notare l’oscurità del luogo; poi che Cavalcante chiama cieco il carcere,
come Virgilio del Limbo dice che è tristo di tenebre. E dal Limbo i
Poeti s’affacciano a luogo oscurissimo e tempestosissimo, come dal
cimitero degli Epicurei vengono sopra più crudele stipa. Un tristo fiato
è la novità che sentono qua, l’oscurità perfetta e i guai, quella che
sentono là. Sono gli epicurei dentro Dite, sebbene agli spaldi, come i
sospesi del Limbo dentro l’inferno, sebbene ‛Nel primo cerchio che
l’abisso cinge’. E Dite è nella valle, in un avvallamento della palude
Stigia, quindi quasi allo stesso piano, come il Limbo è quasi allo
stesso piano di Acheronte. E nella palude Stigia sono anime sdegnate da
Dite, come oltre Acheronte sono altre anime sdegnate dall’Inferno quanto
egli è: accidiosi gli uni e gli altri, sebbene in diverso modo, essendo
respinti questi di qua dal cielo, di là dall’inferno, e quelli, di qua
dall’inferno dell’incontinenza e di là da quello della malizia. Io
vedevo queste corrispondenze e dicevo che una somiglianza era in verità
tra i sepolti nelle arche e i sospesi nel Limbo. E notavo un’altra
somiglianza, tra quelli di là d’Acheronte e quelli di qua; la quale
consisteva in questo, che i sospesi erano tali in quanto avevano, per il
primo peccato, perduto il libero arbitrio, almeno secondo la restrizione
di Tomaso (1ª LXXXIII 2), _non quantum ad libertatem naturalem, quae est
a coactione, sed quantum ad libertatem, quae est a culpa et a miseria_;
e gli sciaurati, che mai non fur vivi, ne erano stati come privi,
essendo vissuti come bestie, che libero arbitrio non hanno, e non come
uomini o angeli. Che anzi considerando questi ultimi, meglio si giunge
al concetto di Dante; poi che gli angeli nel primo istante in che furono
creati in grazia, meritarono bensì, ma poi alcuni mortificarono subito
il loro precedente merito (_S._ 1ª LXIII 5 e 6); e ‛il loro libero
arbitrio essendo inflessibile dopo l’elezione, se dopo il primo istante,
in cui ebbe un naturale movimento al bene, non avesse posto impedimento
alla sua beatitudine, sarebbe stato confermato nel bene’. Si tratta
dunque d’un atto solo e istantaneo di libero arbitrio, nel quale
“proruppero„ gli angeli, scegliendo quali il bene, quali il male. Ma
Dante, non seguendo in questo i teologi, pone una terza schiera d’angeli
che in atto di libero arbitrio non proruppero e non scelsero nè il bene
nè il male: respingendo il dono che Dio loro faceva, del libero
arbitrio. E così gli uomini che con loro sono punti da mosconi e da
vespe. Or dunque in questo difetto di libero arbitrio assomigliano
quelli del vestibolo infernale e quelli del primo cerchio; ma
differiscono in quanto nei primi volontario fu il rifiuto dell’atto
della volontà, e involontario nei secondi, non ostante che anch’essi
potessero essere salvi credendo, come altri crederono, e si salvarono,
in Cristo venturo. Ma in ciò è un mistero che per Dante resta mistero
anche in Paradiso, come alcuni fossero predestinati e altri no; peraltro
noi possiamo intendere come egli non giudichi al tutto involontaria la
mancanza di fede e in quelli che vissero avanti il Cristianesimo e in
quelli che morirono prima d’essere battezzati. E così possiamo renderci
ragione del fatto che egli pone il Limbo dentro l’Inferno, al che del
resto era invitato dalla dottrina dei teologi (_S. suppl._ LXIX 5).
Adunque gli ignavi e i non battezzati assomigliano per una parte e per
l’altra differiscono: in che, ora chiedevo, differiscono quelli delle
arche e quelli del Limbo? poi che avevo veduto in che assomigliavano. E
rispondevo che differivano i non credenti dai non battezzati, in ciò in
cui i non battezzati differivano dai non mai vivi, nella volontà.
Volontaria al tutto era stata la mancanza della fede negli uni; quasi
involontaria negli altri; gli uni, anche dopo Cristo, non crederono; gli
altri, benchè prima di Cristo, adorarono, sebbene non debitamente,
Iddio; e tennero certe cristiane credenze, come quella dell’anima
immortale. E i primi erano rei di malizia poi che erano puniti dentro
Dite. Ma sebbene mala fosse adunque negli eresiarchi la volontà, pure,
umanamente parlando, posero gl’ingegni a ben fare, e perciò non furono
messi più sotto, come non ebbero luogo più sopra perchè la volontà era
mala. In fine io pensavo che sola la vista della verità fa libero dritto
sano l’arbitrio (_Purg._ XXVII 140) e che l’ignoranza è quella che
l’offende e lo travia; e che si può dire che tutti i peccati che da
ignoranza provengono, si possono ridurre ad accidia (_S_. 1ª 2ae LXXXIV
4). Accidiosi erano dunque, in certo modo, e quelli del Limbo e quelli
delle arche. Perchè, come espressamente dice Dante (_Purg._ XVII 130),
l’amore del bene può essere lento sì ad acquistarlo sì a vederlo.
Accidiosi tutti quelli dell’Antinferno e quelli dell’Antidite, e, degli
uni e degli altri, quelli di là del fiume e immersi nella palude pingue,
accidiosi rispetto alla vita attiva; quelli di qua dall’Acheronte e
lungo gli spaldi di Dite, accidiosi rispetto alla vita contemplativa o
intellettuale. Or come della vita attiva la più alta virtù e che assomma
le altre è la giustizia, che Dante (_Conv_. I 12) dice la più propria
dell’uomo e perciò la più amabile, e dichiara ottimamente disposto il
mondo (_De Mon_. I 13), _cum iustitia in eo potissima est_; così
l’ingiustizia è il peggior male. Ma si può omettere la giustizia e fare
l’ingiustizia; il che specialmente nei Principi, ministri di giustizia,
è viltà o delitto. Ora nel brago dello Stige come tutti stanno per
difetto nella vita attiva, così tutti ma specialmente i re sono puniti
per non essere stati giusti, il che vale quanto essere stati ingiusti,
sebbene ingiustizia non avessero commesso altra che questa, di non fare
giustizia, ossia non essere stati quello che deve essere un re o più in
generale l’uomo, drittamente attivo, ciò è giusto. E qui mi occorreva
una nuova causa di meraviglia, vedendo non tutti i commentatori, che
anzi sono pochissimi, avere accolta un’opinione di chi nel miro gurge
del Poema Dantesco consunse la sua veduta.[53] Questi aveva rettamente
nel Messo del Cielo, che apriva con una verghetta le porte di Dite,
veduto Enea, e ne aveva date ragioni ottime e chiarissime, che non sto a
ripetere. Ma a me queste ragioni apparivano indubitabili, quando io
consideravo che nessuno poteva essere scelto da Dante ad attraversare
Stige, la palude della non attività o non giustizia o viltà o ignobilità
o disordine nell’irascibile; dove avevano a essere immersi gran regi;
meglio di chi da Dante stesso è preso a modello (_Conv._ IV 26) del buon
cavalcatore che frena e sprona il concupiscibile e l’irascibile con la
temperanza e la fortezza: con la prima avendo egli vinto di lasciare il
piacere e la dilettazione di Didone; con la seconda essendo riuscito
solo con Sibilla a entrare nello Inferno; meglio di chi da Dante (_De_
Mon._ II 3) è dichiarato esempio della nobiltà, sì propria, sì avita,
con ricordo di versi Virgiliani, tra i quali: _Rex erat Aeneas nobis,
quo_ iustior _alter Nec pietate fuit nec bello maior et armis_ (_Aen._ I
544 e seg.). Il Messo del cielo era veramente Enea, e passava Stige con
le piante asciutte, come i Poeti nel Limbo passano il bel fiumicello
come terra dura, chè se il rio che segrega dal volgo il nobile castello
della sapienza, non è difesa contro i sapienti, la palude
dell’ignobilità non può ritardare e affondare chi è supremamente nobile.

  [53] Michelangelo Caetani.



XXXII.


Il Poeta ha il sole in fronte: è tornato a libertà. Avanti lui è una
foresta tutta odore, tepore, gorgheggi. Otto giorni prima vedeva pure il
sole su un colle. Allora un’altra selva era dietro lui. L’una era la
selva oscura, poco meno amara che morte; l’altra è la divina foresta
spessa e viva: l’una il vizio e l’ignoranza, l’altra l’innocenza e la
luce. Dante è ora nello stato dell’anima prima avanti il peccato. La
ragione illumina la volontà, e questa cavalca agevolmente, come franco
cavaliere, il docile appetito sensitivo. Può così scegliere la sua via.
Ma non poteva in quell’altro mattino già così lontano; chè prima la
lonza, fiera alla gaietta pelle, poi un leone ‛Con la test’alta e con
rabbiosa fame’, e una lupa, ‛che di tutte brame Sembiava carca nella sua
magrezza’, lo costrinsero a tenere altro viaggio. In quest’altro viaggio
Dante contemplò gli effetti di tre disposizioni che il ciel non vuole:
incontinenza, bestialità e malizia. Probabile mi pareva che le tre fiere
simboleggiassero appunto queste tre disposizioni; la lonza
l’incontinenza, il leone (Boezio scrive nel IV: ‛Lo stemperato d’ira
fremisce? animo di leone aver si creda’) la bestialità o violenza o ira;
la lupa, che s’ammoglia a molti animali e dall’invidia di Lucifero fu
scatenata nel mondo, la malizia propria dell’uomo o frode, cui aveva
veduto germinare in tante specie di peccati e che fu il primo peccato
del primo Angelo e del primo Uomo. Duplice era in verità la malizia,
così come Dante interpretava Aristotele: malizia con forza e malizia con
frode; bestialità matta e malizia propriamente detta: così che a piè del
colle con due figure veniva incontro a Dante. Ma triplice era,
teologicamente dividendola; malizia con forza o violenza o ira, malizia
con frode in chi non si fida o invidia, malizia, con frode
necessariamente congiunta a sè, in chi si fida, o superbia. E la
malizia, così triplice, era forse simboleggiata su l’alta torre di Dite
nelle tre furie infernali di sangue tinte. Delle quali Aletto (_Si tibi
bacchatur mens, tunc Alecto vocatur_: dice uno dei versi citati da
Pietro di Dante), che piange (si ricordi: ‛E piange là dove esser dee
giocondo’, detto dei violenti o iracondi con ingiuria consumata in
_Inf._ XI 45), è certamente la violenza o ira, e Tesifone nel mezzo sarà
il tradimento o superbia, e Megera la frode o invidia. Ora queste tre
Furie impietrano l’uomo col Gorgon, come le due Fiere che in due
comprendono quelle tre e sono tra loro due simili nella ‛fame’, cioè
nella cupidità, hanno un consimile effetto, a differenza della lonza,
che fa sì volgere per tornare a quando a quando, ma non toglie la
speranza di andare e vincere l’ostacolo: il leone dà ‛paura’, la lupa
porge ‛tanto di gravezza Con la paura che uscia di sua vista’, che il
Poeta perde la speranza. E ciò mi faceva credere che veramente le due
Fiere equivalessero alle tre Furie, e che Fiere e Furie simboleggiassero
quello che ho detto e che quello che è Gorgon nelle Furie, fosse nelle
Fiere la ‛paura’. Or dunque Dante o, meglio, l’Uomo non è libero; e
torna addietro nella selva dell’ignoranza e del vizio, ciò della
servitù. Come è lontana l’altra foresta, quella della libertà! lontana e
opposta. La Ragione si fa a lui sentire, fiocamente sulle prime, si
rivela per quel che è, gli propone l’altro viaggio. E l’Uomo la segue,
ma dubita: onde la Ragione gli rivela che ella è consigliata dalla Fede
o scienza divina, e questa fu richiesta da Lucia e questa da Maria.
Allora l’uomo si appaga. Deve dunque visitare, per riacquistare la
libertà del suo volere, il regno dei morti. Entra nell’inferno e nel
vestibolo trova quelli per cui fu dono vano tale libertà, poi nel primo
cerchio, oltre Acheronte, quelli cui tale libertà fu tolta dal peccato
primo e non restituita dalla fede in Cristo venuto o venturo. Scende al
secondo, al terzo, al quarto cerchio, dove sono quelli in cui il volere
fu sommesso all’appetito sensitivo, anzi a quella sua parte che si dice
il concupiscibile: lussuriosi, golosi, avari e prodighi. Poi si trova in
un quinto ripiano, in una gora che si profonda, nel cui mezzo è la città
di Dite, il vero Inferno. Nei fossati e nel pantano intorno alla città
rissano e gorgogliano quelli il cui volere fu bensì rivolto al male, per
soverchio d’irascibile, ma non lo fece, e quelli il cui volere, per
difetto d’irascibile, non rintuzzò il male e vi si quetò tristamente. Di
là dalle mura di Dite, sospirano duramente dentro tombe, quelli che per
mal volere respinsero la fede che rende la libertà. Dentro Dite, a mano
a mano più giù, sono puniti quelli il cui volere si volse al male e lo
fece: prima quelli che lo fecero senza concorso di ragione, ma con la
sola volontà soggiogata dall’appetito; e lo fecero al Prossimo, a sè
stessi, a Dio in sè e nella Natura e nell’Arte; poi quelli che lo
commisero contro gli uomini col concorso della ragione insieme alla
volontà e all’appetito; infine quelli che lo commisero, col concorso
detto, contro Dio e chi di Dio più tiene. Dentro Dite è dunque
l’ingiustizia, o l’offesa alla Giustizia, la quale avendo due parti più
alte e sacre, la Religione e la Pietà, anche l’ingiustizia che le
offende, più propriamente si avrebbe a chiamare empietà e irreligione.
All’orlo di Dite, dentro e fuori, è la nongiustizia, per così dire: sono
ciò è quelli che operarono bene, ma misconobbero Dio, quelli che non
operarono male, ma misconobbero la giustizia. Sopra loro sono quelli che
trovarono il loro bene nell’appagamento dei sensi. All’orlo
dell’inferno, di qua e di là d’Acheronte, sono quelli che operarono bene
ma non conobbero Dio vero, quelli che non operarono male, ma non
operarono nemmeno bene, non avendo scelto tra bene e male. Tutti sono
aversi da Dio. La Ragione, illuminata dalla Filosofia, spiega all’uomo
questo ordine di peccati e di punizioni, e dice, poi che Aristotele
stabilì tre disposizioni cattive, l’incontinenza, la bestialità, la
malizia; che incontinenza è quella punita nei cerchi secondo, terzo,
quarto e parte del quinto, e Malizia e Bestialità nell’altra parte del
quinto, ossia nel sesto, e nel settimo, ottavo e nono. E più
indugiandosi sulle colpe di questi gironi dichiara che la malizia (di
bestialità non parla ancora) ha per fine l’ingiuria, che è quanto dire
che ella è una cosa con l’ingiustizia, e questo fine adempie o con la
forza, e allora si chiama Violenza, o con la frode in chi non si fida o
con la frode in chi si fida: distinzione, in parte, di Tullio. Nella
frode è l’intelletto, che non è nella violenza, onde questa è poi
Aristotelicamente chiamata matta bestialità. La frode in chi non si fida
rompe solo i vincoli che ci uniscono agli altri uomini, offende
l’_Humanitas_, come dice Tullio; quella in chi si fida, rompe anche
quelli più stretti e più sacri che sono in custodia della _Pietas_,
secondo Tullio, o della _Pietas_, e _Religio_, secondo i teologi, che
sdoppiarono la parola unica che comprendeva le due idee. Questa la
esposizione filosofica o Aristotelica. L’Uomo però ha appreso
sicuramente il proprio nome degli speciali peccati puniti nei cerchi
secondo, terzo e quarto, e un poco oscuramente e confusamente ha sentito
accennare quello della colpa punita nel quinto; con le parole _peccator
carnali, vizio di lussuria, colpa della gola, nullo spendio con misura,
avarizia, mal dare e mal tenere, l’anime di color cui vinse l’ira,
tristi... portando dentro accidioso fummo_: peccati questi, con più
l’eresia, che l’Uomo aveva già veduti quando la Ragione dichiara a lui
il sistema delle pene nell’inferno.



XXXIII.


E il Poeta è fermo sull’ingresso del quarto scaglione del purgatorio,
quando domanda e ottiene una nuova dichiarazione sugli speciali Peccati
che si purgano nel girone che è avanti lui e negli altri tre che sono
sopra lui. Che cosa ha veduto sin allora? Ha veduto anime tutte converse
a Dio, su per il monte che è sotto l’emisferio contrapposto a quello che
si inarca sulla terra e sul centro di essa che è Gerusalemme. Ma prima
d’entrare la porta del Purgatorio egli vide andar lentamente o sedersi
stanche anime che si conversero bensì a Dio, ma tardivamente, per
difetto nella Volontà. Queste anime sono di quattro ragioni: di
scomunicati, di altri che indugiarono il pentimento al punto di morte,
di altri a cui il pentimento fu in certo modo estorto dalla morte
violenta, di altri, che sono re e principi, che hanno negletto ciò che
dovevano fare (_Purg._ VII 92). Tutti sono negligenti, quanto a dire
accidiosi in certo modo; e possono ridursi a due specie: dei negligenti
che avevano, se non perduto, almeno smarrito l’eterno amore per
maledizione ecclesiastica, e, segregati dalla comunione dei fedeli,
erano stati posti nella condizione degli infedeli; e questi
corrispondono sì ai sospesi nel Limbo che hanno perduto il cielo per non
aver fè; salvo che i primi potevano e vollero tornare a Dio, e i secondi
meno potevano e meno vollero riconoscer la fede; e sì agli eresiarchi
che potevano e non vollero; e dei negligenti che, pur non essendo in
istato d’infedeltà, vissero _aversi_ e si conversero solo all’ultimo; e
questi corrispondono come agli ignavi dell’Antinferno così agli altri
accidiosi dello Stige, che vissero e morirono aversi, pur non avendo
fatta ingiuria propria. Come tra questi staranno, quali porci in brago,
gran regi, perchè in loro il valore è maggior dovere e più facile ad
essi e più utile agli altri, così tra questi negligenti stanno in una
Valletta amena imperatori, re e principi, puniti per qualche loro
negligenza, che non grave in sè come quella degli altri aspettanti, è
pure con simile indugio punita, perchè di tali che meno la dovevano
avere. E la Valletta amena corrisponde tuttavia al nobile Castello, in
quanto qui e lì sono segregati nobili e magni spiriti, cui acquisti
grazia nel cielo l’onrata nominanza che hanno nella terra (_Inf._ IV 76
e segg.). E sebbene la corrispondenza non sembri così esatta, da fare
che le quattro specie di accidiosi dell’Antinferno e Antidite siano
richiamate dalle quattro sorte di negligenti dell’Antipurgatorio, pure
si vede in Dante lo studio d’una simmetria esterna, suddividendo in
quattro queste sorte che sarebbero veramente due. Ma egli volle che la
corrispondenza fosse doppia: di Antipurgatorio con Antinferno e
Antidite, come è ragionevole avesse a essere, essendo l’Antipurgatorio
di aversi per tutta la vita, conversi solo all’ultimo (salvo forse i
principi, la cui negligenza fu d’altra parte più grave); e di
Antipurgatorio con Antinferno e Limbo soltanto, nella quale
corrispondenza la Valletta richiama il Castello; e del quarto girone del
purgatorio col quinto e sesto cerchio dell’Inferno. Dante salì per li
tre gradi, sull’ultimo dei quali stava l’Angelo, ed entra coi sette _P_
in fronte nella porta serrata, a cui indietro volgersi non deve chi a
Dio si converse, ed è, d’allora soltanto, da lui ricevuto in penitenza.
Sale faticosamente di cornice in cornice (poi che solo quando avrà
purgate le sue colpe, il suo volere sarà libero e i piedi non sentiranno
più fatica: _Purg._ XII 124), e vede pagare il fio prima la superbia,
così più volte nominata e qualificata già disio dell’eccellenza (XI 86);
poi la colpa dell’invidia, per la quale si è più lieti degli altrui
danni che di ventura sua (XIII 110); per la quale si appuntano i desiri
dove per compagnia parte si scema (XV 50); poi il foco d’ira o
l’iracondia, che dagli esempi e di virtù contraria e di colpa punita,
riesce chiaramente un desiderio di vendetta. Notevole anzi che i tre
esempi di colpa punita, sono un’_empiezza_ di madre che uccide il suo
pargolo, una non riuscita vendetta d’uomo contro uomo, e un suicidio.
Appena il Poeta ha visitate queste tre cornici ed è salito alla quarta,
sente dalla Ragione dichiarare che ciò che ha veduto piangere di sotto,
è il triforme amor del male; del mal del Prossimo; del Prossimo, non di
Dio, non di sè, chè non si può odiar Dio, se si vede _secundum seipsum_
o _per essentiam_ (_S._ 2ª 2ae XXXIV 1), nè sè medesimi, se il bene che
uno vuole a sè è bene, e non male appreso come bene, e se uno ama sè per
quello che è principalmente, e non per quello che stima di
principalmente essere, _secundum naturam corporalem et sensitivam_ (_S._
1ª 2ae XXIX 4). Si parla dunque, a questo punto del Purgatorio,
dell’Uomo che sia quello che veramente ha da essere: _converso_ al bene
ciò è a Dio, che _convertit omnia ad seipsum_; ma solo _in quantum est
essendi principium, per essentiam, per seipsum_, non per certi suoi
effetti: che allora l’Uomo può odiarlo; e l’odio _est aversio quaedam_
(_S._ 2ª 2ae XXXIV 1). L’odio di Dio e di sè è dunque là nel baratro
contrapposto, non quassù per il santo monte. Quassù si sconta l’amore
del male del Prossimo appreso come un bene: colpa dell’errante Amore. E
il male del Prossimo si amò dai peccatori mediatamente: che
immediatamente essi amarono l’eccellenza, il podere, grazia, onore e
fama, la vendetta o il soddisfacimento della loro ira; ma per aggiungere
questi fini, bramarono la soppressione e il male, in somma, del
Prossimo. Se il Prossimo l’avessero veramente soppresso e in qualunque
modo ingiuriato, sarebbero i peccatori nelle tre cornici del purgatorio?
Dante deve credere di no, perchè essi allora sarebbero rei di malizia,
di cui ingiuria è il fine, per il quale, o raggiunto con forza o con
frode, essi sarebbero _aversi_ da Dio, nell’inferno. E quando se ne
fossero pentiti? Ecco: per certe colpe, non avrebbero già fatto a tempo;
se avessero soppresso il benefattore o l’ospite; e poi, per Dante, certi
peccati portano un accecamento e indurimento (_excaecatio et
obduratio... animi humani inhaerentis malo et aversi a divino lumine_:
_S._ 1ª 2ae LXXIX 3), simboleggiato nel Gorgon che è in mano alle tre
Furie, che rende se non impossibile il pentimento, almeno così tardivo
da costringere i pentiti a lungo indugio nell’Antipurgatorio. E solo
l’avessero bramato, questo male, e non fatto, non avevano perciò bisogno
di volgersi a Dio col pentimento per essere ammessi al Purgatorio?
Avevano: altrimenti, _conversi_ come sarebbero stati a un bene secondo
loro, che non solo non è il vero bene ma il male secondo verità,
sarebbero stati pur sempre _aversi_ da Dio; e avrebbero avuto luogo tra
quelli cui vinse l’ira e quietarono nel male. L’Uomo adunque, giunto
alla quarta cornice, apprende che i superbi, gl’invidi e gl’iracondi dei
tre primi gironi del Purgatorio, amarono il mal del Prossimo, e
comprende subito che quelli dei tre ultimi cerchi dell’Inferno, che il
male fecero, nè al Prossimo solo, sono iracondi, invidi e superbi. Nel
Purgatorio sono a mano a mano qualificati con detti nomi, e solo dopo
lasciati, nel girone dell’accidia, all’ingresso, dichiarati con un
ragionamento filosofico Tomistico; nell’inferno sono dichiarati con un
ragionamento filosofico Aristotelico, prima di essere visitati,
all’uscire dal ripiano dell’accidia. Quindi l’Uomo sente la definizione
di detta accidia che è lentezza dell’Amore in vedere o acquistare il
bene che è vero bene; nella quale definizione è compresa l’accidia sì
della vita pratica e sì della vita intellettuale. E comprende che questa
accidia è di _conversi_ a Dio, chè quella di _aversi_ non può consistere
che in un odio, ciò è aversione, scemo però di effetto, o lento, se si
vuole, di questo medesimo bene. E visita sì questa cornice, sì le altre
tre, nelle quali si espiano le colpe di avarizia e suo contrario, di
gola e di lussuria, che la Ragione a lui non nomina per loro proprio
nome, ma dichiara come amore che si abbandona troppo a un bene che non è
il vero bene, quasi pensando che il suo discepolo questi nomi li sa già
dall’Inferno. E giunge alla foresta viva. Da selva a foresta:
dall’impedimento del vizio alla libertà, dalle tenebre alla luce.



XXXIV.


Sopra lui è il Paradiso, al quale solo guardando negli occhi a Beatrice,
ciò è alla Scienza Divina, ascende dopo essere stato immerso nei fiumi
di Letè ed Eunoè. Vede prima il cielo della Luna, un pianeta con
macchie, i cui santi appaiono come a traverso vetri tersi o acque
nitide, un poco appannati; poi il cielo di Mercurio, spera che si vela
a’ mortai con gli altrui raggi, nel quale i beati traspaiono come pesci
in peschiera tranquilla e pura. Difettiva era stata la virtù sì di
quelli e sì di questi. Quelli avevano fatto olocausto della loro volontà
a Dio; poi la loro volontà era stata forzata. Ma la volontà, se non
vuol, non s’ammorza, e in questo dunque patì difetto la loro virtù.
Così, per un mistero, anche la mancanza di fede e perciò di libero
arbitrio nei non credenti del Limbo, non era stata del tutto
involontaria. Chiara è di questi beati preganti la corrispondenza con
quei dannati sospirosi. Quelli la volontà loro avevano, per il peccato
originale, decisa da Dio; questi a Dio l’avevano unita per il voto.
Quella a Dio non si congiunse, questa in Dio non si fermò: nè per loro
colpa: in vero nè sono veramente quelli compresi nell’Inferno delle
pene, nè questi esclusi dal Paradiso dei premi; e tuttavia per loro
difetto, così che quelli sono dell’inferno nel primo cerchio e questi
del cielo nella sfera più tarda. E corrispondono pure in qualche modo
questi beati con gl’ignavi d’oltre Acheronte: nel fatto che gli uni e
gli altri annullarono la loro volontà, ma gli uni in sè e gli altri in
Dio. Nel secondo regno sono spiriti, attivi bensì ma perchè onore e fama
gli succeda. Quindi la loro attività ebbe meno meriti, perchè i loro
desiri deviarono da Dio. In quale spera avrebbe avuto il suo premio
Farinata, che a ben far pose l’ingegno, se non avesse misconosciuto Dio?
In quale i rissosi dello Stige, che non furono attivi, ma erano pure
spinti, sebbene in vano, dall’irascibile che ha di mira l’arduo? In
questa; la quale perciò corrisponde all’altro ripiano della accidia
aversa o infernale. Il pianeta macchiato e la stella velata sono come un
Antiparadiso, corrispondente all’Antinferno e all’Antidite. Corrisponde
esso all’Antipurgatorio? Chiaramente: poi che in questo indugiano quelli
la cui volontà fu tarda nel volgersi a Dio e i disiri più disviarono dal
vero amore. E così può tenersi per certo, che purgati dai sette _P_, i
principi della Valletta nella spera velata luceranno un giorno, con
Giustiniano e Romeo. E l’Uomo sale al cielo di Venere, dove sono i pien
d’amore, cui l’influsso di quella stella avrebbe potuto trarre in mezzo
alla bufera infernale o al fuoco del Purgatorio. E in questo cielo è
notevole come Carlo Martello ricordi Francesca, e il parlare di quello
(‛E sem sì pien d’amor che, per piacerti, Non fia men dolce un poco di
quiete’) richiami il parlare di questa (‛Di quel che udire e che parlar
ti piace, Noi udiremo e parleremo a vui Mentre che il vento, come fa, si
tace’), e la voce di grande affetto impressa faccia ripensare
all’affettuoso grido; e il muoversi in giro delle anime amanti e tutto
in somma riproduca la rapina delle ombre dipartite da nostra vita per
via d’amore.



XXXV.


Ascende l’uomo nella spera del Sole, dove sono i santi dottori, quelli
che amarono la verace manna (_Par._ XII 84), che ben s’impinguarono
(_cfr._ XI 139), che si nutrirono della vera vivanda, di cui il gregge
umano deve nutrirsi (_cfr._ XI 124); e che nel sole si trovano, perchè,
come lo Ministro maggior della Natura (X 28) fa che avvengano le
generazioni nelle cose inferiori, e senza esso sarebbe morta nella terra
quasi ogni potenza (X 18), così il Sol degli angeli dà il solo
nutrimento vitale all’anima e sempre la sazia (_cfr._ X 50). Quanto
diversi da questi dotti, nutriti di luce e di verità, quelli, laggiù
laggiù, che sotto la pioggia eterna, maledetta, fredda e greve urlano
come cani! come opposto quell’aer tenebroso alla spera del sole! E
laggiù Dante sente parlare della risurrezione della carne, come se quel
cerchio dove urlano tali che furono solo corpo, anzi carne da impinguare
col cibo, fosse opportuno luogo a parlarne:

    Ciascun ritroverà la trista tomba,
      Ripiglierà sua carne e sua figura,
      Udirà quel che in eterno rimbomba.[54]

  [54] _Inf._ VI 97 e segg.

E quassù, tra i famelici di manna spirituale, tra quelli che furono in
certo modo solo anima, anzi intelletto da nutrire con la scienza divina,
sente parlare dello stesso mistero (_Par._ XIV): e come nell’Inferno
così nel Paradiso si solve lo stesso nodo, che, ripigliata la carne, i
beati avranno più gaudio e più dolore i dannati:

    Tutto che questa gente maledetta
      In vera perfezion giammai non vada,
      Di là, più che di qua, essere aspetta.[55]

  [55] l. c. 109 e segg.

Così nell’Inferno; e nel Paradiso:

    Come la carne gloriosa e santa
      Fia rivestita, la nostra persona
      Più grata fia per esser tutta quanta,[56]

  [56] _Par._ XIV 44 e segg.

con quel che segue e precede. Nè forse è vano il cenno ad Eva:

                        la bella guancia,
    Il cui palato a tutto il mondo costa;[57]

  [57] _Par._ XIII 38 e segg.

per richiamare la pianta che nel cerchio dei golosi nel purgatorio tanti
prieghi e lagrime rifiuta:

    Legno è più su, che fu morso da Eva,
    E questa pianta si levò da esso.[58]

  [58] _Purg._ XXIV 116 e seg.

Il che mostra come potesse rampollare l’idea di opporre la scienza
divina al vizio della gola; rampollare dal primo drama del paradiso
deliziano; poi che quel legno era buono a mangiare e bello agli occhi e
all’aspetto dilettevole; e il Tentatore aveva detto a Eva: ‛in qualunque
dì ne mangerete, si apriranno gli occhi vostri e sarete come Iddii,
sapendo il bene e il male (_Gen._ III)’. L’Uomo sale ancora, e si trova
nel cielo di Marte, dove gioiscono i guerrieri della Fede, i liberali
del loro sangue: dove appena giunto, l’uomo fa olocausto a Dio, ossia
sacrifizio di tutto sè. I lumi cantano una melode santa: Risurgi e
vinci. Il Poeta esclama:

    Ben è che senza termine si doglia
      Chi, per amor di cosa che non duri
      Eternalmente, quell’amor si spoglia![59]

  [59] _Par._ XV 10 e segg.

Certo egli ricorda quell’anima espiante, che dice contrita:

    Vidi che lì non si quetava il core;[60]

  [60] _Purg._ XIX 109.

quell’anima che con le altre, che furono avare, giace a terra supina e
distesa, aderendo al pavimento, sì come il loro occhio non si volse in
alto, fisso come era alle cose terrene, alle cose che non durano. E sono
immobili e legate, quell’anime, come queste del paradiso sono
supremamente mobili per la figurata croce, segno del sacrificio supremo:

    Di corno in corno e tra la cima e il basso
      .... scintillando forte
      Nel congiungersi insieme e nel trapasso.[61]

  [61] _Par._ XIV 109 e segg.

Nè vane sono le parole di Cacciaguida, sì quando descrive il riposato
vivere di Fiorenza dentro della cerchia antica, senza lusso, senza
smisurato spendio, sì quando parla di Can della Scala, che, impresso
nascendo dalla forte stella di Marte, mostrerà i primi segni di tale
influsso in non curar d’argento e farà tali magnificenze da vincere
l’invido silenzio dei nemici. E l’Uomo è in Giove, nella spera della
giustizia, nel cielo dei giusti re; i quali fanno ricordare i gran regi
che hanno a essere tuffati nel brago di Stige e sì con loro parole li
ricordano. Rilucono colassù nell’occhio dell’Aquila due spiriti, Traiano
e Rifeo, che furono cristiani sotto apparenza di gentili, e la loro
presenza è un rimprovero a quei cristiani che per non essere giusti o
per non aver fede resero a sè inutile il sacrificio della Croce. E
questo, delle spere di Venere, del Sole, di Marte e di Giove, è come un
paradiso medio, assegnato alle virtù, per cui esercitare l’uso della
nostra nobilissima parte che è l’animo, patisce ‛mistura alcuna’
dell’appetito, che non ha luogo nell’uso più pieno di beatitudine, che è
lo speculativo (_cfr. Conv._ IV 22). Parrebbe dunque cessasse a questo
punto la corrispondenza delle virtù premiate coi vizi puniti o purgati,
e nel cielo della giustizia fosse il contrapposto a tutti i peccati
d’ingiustizia; e così cessa e così è. Pure, formalmente, la
corrispondenza continua. Contrapposto al cerchietto e alla cornice della
violenza e dell’ira, è certo il cielo di Saturno; di Saturno, il re mite
della pace; splendore,

    Che sotto il petto del Leone ardente
    Raggia mo misto giù del suo valore,[62]

  [62] _Par._ XXI 14 e seg.

il che è forse notato a significare che può da questo pianeta, secondo
sua congiunzione, scendere influsso di foco d’ira. A ogni modo Saturno è
l’astro degli uomini rustici e pacifici, non che dei contemplanti. E
contrapposto a Malebolge e alla cornice dell’invidia sembra il regno dei
Gemini, dal quale riconosce Dante il suo ingegno, Dante che pure nel
Purgatorio (XIII 133) professa d’aver poco offeso Dio con l’invidia. Da
quella spera delle stelle fisse volgendosi Dante con gli eterni Gemelli
abbassa gli occhi e vede

    L’aiuola che ci fa tanto feroci,[63]

  [63] _Par._ XXII 151.

e nella cornice dell’invidia sentì dire a Virgilio:

    Chiamavi il cielo e intorno vi si gira,
      Mostrandovi le sue bellezze eterne,
      E l’occhio vostro pure a terra mira.[64]

  [64] _Purg._ XIV 148 e seg.

E al centro della fossa è contrapposto il primo Mobile, da cui comincia
il moto che là quieta. E quivi Beatrice pronunzia l’anatema contro la
cupidigia che è causa di corrompersi al volere umano, sì che la Fede e
l’Innocenza non si trovano più che nei parvoli in cui l’appetito non
muove ancora guerra alla ragione e alla volontà; e quivi la medesima,
ragionando della creazione degli angeli e dell’universo, dichiara:

    Principio del cader fu il maledetto
      Superbir di colui, che tu vedesti
      Da tutti i pesi del mondo costretto.[65]

  [65] _Par._ XXIX 55 e segg.

In fine è l’Empireo e nell’Empireo è Dio uno e trino: per cui
contemplare bisogna essere sciolti da ogni nube di mortalità e per
questo bisogna rivolgersi a Maria

    Umile ed alta più che creatura.[66]

  [66] _Par._ XXXIII 2.

Il disegno di Dante io già lo vedeva. I contorni della visione mi erano
chiari.



XXXVI.


Del Poema di Dante io posso dunque ora dire di conoscere un punto che
era poco o mal conosciuto: la costruzione morale. Il soggetto ne è
l’Uomo, secondo che bene o mal meritando è esposto al premio o alla
pena. Ma non può meritare bene o male se non chi libera ha la volontà;
sì che il Poema può dirsi il drama della volontà umana e della divina
giustizia. Questa è imperscrutabile (_Par._ XIX), libera è quella
(_Par._ V 19 e passim), sempre e a ogni modo. Nè gl’influssi celesti
hanno tanto potere da annullare o menomare la libertà di questa e perciò
la ragione di quella: la mente soggiace solo a Dio e in essa la volontà
ha suo lume; tanto più che in terra da Dio fu destinata agli uomini la
condotta o guida de’ due Soli per mostrare le due strade, del mondo e di
Dio (_Purg._ XVI). Libero creò Dio l’Uomo, come libero aveva prima
creato l’Angelo. Gli Angeli furono creati col mondo, e tosto creati
fecero atto di elezione tra il bene e il male, e al bene e al male, una
volta eletto, aderirono poi con piena e ferma volontate (_Par._ XXIX).
Tra essi alcuni non elessero tra il bene e il male e non profittarono
del dono più grande che Dio potesse fare, e ‛non furon ribelli Nè fur
fedeli a Dio, ma per sè foro’. Gli Angeli fedeli cominciarono subito la
loro arte di aggirarsi intorno al loro Creatore, e gl’infedeli e i
neutri, nell’atto stesso d’inalzarsi sopra Dio, furono travolti in giù.
Nel momento stesso che i cieli presero a muoversi, si apriva il baratro
dell’Inferno a ricevere Lucifero e i suoi compagni e sorgeva il monte
del Purgatorio (_Inf._ XXXIV 121 e segg.). Libero fu creato l’Uomo e
posto in cima di questo monte, nel paradiso terrestre. Ora anch’egli
poco dopo la sua creazione, dopo sette ore, potè fare atto di elezione,
e, sedotto dall’Angelo malo, elesse il male (_Par._ XXVI 139). Così
l’uomo imparò la morte, e nell’atto stesso di elevarsi sopra Dio fu
reietto e popolò di sè vivo la Terra e di sè morto l’Inferno. Senza voci
di abitatori, nell’emisperio australe usciva alta dalle acque la
montagna, sulla cui cima verdeggiava la foresta della vita e
dell’innocenza. Non più libera era la volontà dell’Uomo; pure non era,
come quella degli Angeli rei, ferma immobilmente al male: chè Dio voleva
redimere l’Uomo incarnandosi e versando il suo sangue per lui, e chi già
aveva fede in questa misteriosa promessa, attendeva, nell’Inferno bensì
ma in luogo secreto, nel primo cerchio di esso, che quella si adempiesse
ed egli si potesse ricongiungere a Dio. E la promessa si adempiè e in un
monte opposto e contrario alla montagna deserta penzolò a un legno
l’Uomo-Dio; e le porte d’Inferno furono rotte e si popolarono le spere
del Cielo. Da allora la volontà umana, che anche prima non era stata del
tutto decisa da Dio perchè poteva a lui rivolgersi con la fede in Cristo
venturo, tornò, dopo il battesimo e con la fede in Cristo venuto, al
tutto libera; e ognuno potè bene o male meritare. E l’Inferno continuò
ad accogliere quanti a Dio volgevano il tergo, e il Cielo quanti a Dio
volgevano la faccia; e la montagna del Purgatorio vide salire per li
scaglioni suoi quanti a Dio si convertivano dopo essere stati volti o al
male, o al bene che non è vero bene. Ora Dante volle descrivere questo
triplice regno dei morti. Gliene parlavano la Filosofia e la Teologia.
Egli volle mostrare che non si contradicevano, pur che la seconda
movesse la prima e questa si dirizzasse a quella. Il Poeta, dall’una e
dall’altra e ora dall’una ora dall’altra, sapeva che i cieli erano nove
con decimo l’Empireo che è pura luce; che il male che l’Uomo può fare si
riduce a sette peccati capitali; che tre sono le disposizioni che il
cielo non vuole. Egli pensò che le tre disposizioni Aristoteliche
dovevano comprendere i sette peccati Gregoriani. Egli disegnò i regni
dove erano puniti con pena eterna o temporale i sette peccati, in modo
che essi tra loro rispondessero a parte a parte e rispondessero a parte
a parte con le nove spere del Cielo.



XXXVII.


Dante adunque pensò:

Le tre disposizioni mostrate dal Filosofo sono incontinenza, bestialità
e malizia. Incontinenza è sottomettere la ragione all’appetito.
L’appetito ha due parti: il concupiscibile e l’irascibile. Vi è dunque
incontinenza di concupiscibile e d’irascibile. Non frenare il
concupiscibile è detto peccato di lussuria e gola; e, da molti se non da
tutti, di avarizia. Ma incontinenza di irascibile che cosa è? ira?
L’ira, dicono i Teologi (_S._ 2ª 2ae LXXIII 2), si conviene con quei
peccati che mirano al male del prossimo; dunque è peccato di malizia.
Invero malizia è fare ingiuria, ciò è peccare contro la giustizia; e
ingiuria, come si legge in Tullio, in due modi si può commettere: con la
forza e con la frode. Ira dunque sarà l’ingiuria fatta con la forza. Ma
alla giustizia, si legge pure (_cfr._ _Moralium dogma_ in Sundby,
_Brunetto Latini_, pp. 401 e 426), si oppone come la _Truculentia_ che
si divide in _Vis_ e _Fraus_, così la _Negligentia_, e la _Negligentia_
vale _non propulsare iniuriam_. Questa _negligentia_ a quale dei sette
peccati assomiglia più che all’accidia? Nel fatto l’accidia è _Tristitia
quaedam_; e, dice il Dottore (1ª 2ae XLVI 1), quando molto alta fu la
persona che recò ingiuria, non ne segue _Ira_ ma _Tristitia_. Ora questi
tristi, questi negligenti, questi accidiosi sarebbero forse incontinenti
di irascibile? Tutto al contrario: perchè l’irascibile ci è dato per
superare e vincere ciò che può portarci nocumento; e questi tali, non
che averne soverchio, ciò è esserne incontinenti, di irascibile ne hanno
poco o punto. Ma, per tornare indietro, se rettamente incontinenti
nell’amore delle ricchezze, concepite come un bene corporale, sono gli
avari, si potranno chiamare incontinenti con altrettanto diritto i
prodighi? Non sembra: eppure i prodighi hanno a essere puniti
nell’Inferno e nel Purgatorio nello stesso luogo che gli avari. Ora coi
tristi che dissi, quali peccatori si convengono nello stesso modo che i
prodighi con gli avari? Chiaro, che gl’incontinenti di irascibile, ossia
quelli che non seppero frenare questa parte del loro appetito sensitivo;
e come incontinenti sono considerati i mali spenditori, sì avari e sì
prodighi, così incontinenti si devono considerare i disordinati
nell’irascibile, sì quelli che ne ebbero troppo e sì quelli che ne
ebbero troppo poco. Ma tristi sono, ciò è negligenti e accidiosi questi:
a qual diritto si potranno chiamare accidiosi anche quelli? A questo:
ingiuria non fecero, perchè così sarebbero rei di malizia. Non furono
dunque maliziosi. Furono essi buoni? No; perchè furono incontinenti.
Dunque non furono nè buoni nè cattivi, appunto come gli accidiosi;
perchè l’accidia è _taedium operandi_. Ma se proprio non avessero fatto
nè il bene nè il male, vano al tutto sarebbe stato per loro il dono
divino della libertà, ed essi sarebbero stati simili agli Angeli che non
furono nè ribelli nè fedeli. E di sì fatti il mondo ha gran numero, che
si può dire che non siano vivi. Ora di questi non si può dire che
offendano la giustizia, mentre di quelli che sono incontinenti
d’irascibile si può dire, poi che ingiuria non fecero bensì ma vollero
fare, o l’ingiuria non respinsero chiudendosi nell’ignava Tristizia. Vi
è dunque accidia di chi non elegge tra bene e male, e di chi elesse o il
bene o il male, ma non lo fece per viltà o per tedio di operare. Ma è
solo tedio di operare l’accidia? No, chè oltre quella la quale si può
definire un lento amore a conseguire il sommo Bene, vi è l’altra che si
può chiamare un lento amore a vederlo: quella a cui si riduce tutta
ignoranza. Accidiosi dunque sono quelli che non conobbero o misconobbero
Dio: Virgilio, per esempio, e Farinata. Nello stesso grado? No: chè,
sebbene non involontaria sia al tutto (e come Dio solo sa) l’ignoranza
sì d’un antico spirito magno, sì d’un parvolo innocente morto avanti il
battesimo; maliziosa, oltre che volontaria, è quella degli antichi e
recenti epicurei, che fanno morta l’anima col corpo. Maliziosa: ma con
male del Prossimo? poi che malizia ha ingiuria per fine. Ora fecero
ingiuria, fecero il male al Prossimo questi epicurei? Se avessero fatto
ingiuria o male, essi non sarebbero accidiosi o ignoranti volontari
soltanto, ma avendo veramente contristato altrui con l’opera, si
avrebbero a chiamare altrimenti: seminatori, ad esempio, di scandalo e
di scisma. Così quelli che non solo amarono soverchiamente le ricchezze,
ma per oro o per argento adulterarono le cose di Dio, non sono solo
incontinenti nè si hanno a dire semplicemente avari, ma poi che fecero
male al Prossimo, calcando i buoni e sollevando i pravi, si devono
comprendere tra quelli che usarono malizia, e, anzi, malizia con frode.
E così i lussuriosi, che respinsero la generazione della prole, e gli
avari che rifiutarono il lavoro della terra, non sono lussuriosi e avari
semplici. Ma quali sono essi?



XXXVIII.


E Dante disse:

Del Poema non questo o quell’uomo, ma l’Uomo è il soggetto. Leggiamo
dell’Uomo le prime istorie, che sono nello Genesi. Di che peccò egli,
dannando in sè tutta la sua gente? Peccò di superbia, come l’Angelo reo.
Perchè? Perchè si volle sopraporre a Dio, trasgredendo il suo precetto,
che era l’unico e in cui era l’unico segno della soggezione dell’Uomo a
Dio. Appena commesso il peccato, egli decadde e per sempre, come
l’Angelo; perchè quell’inalzarsi era un abbassarsi, e la superbia trae
in giù, come l’umiltà conduce in su, come oltre che in S. Agostino è in
S. Gregorio (_Mor._ XVI 35, XVII 37, XXXIV 16). Ora nei figli di Adamo
ha luogo questa superbia che si estrinseca col volere inalzarsi sopra
Dio e che è seguita dal subito cadere? Quando i figli di Adamo
commettono uno di quei peccati per il quale disconoscono ogni legge e
perciò ogni superiorità di Dio, nulla lasciando intatto della divina
regola, essi al certo sono rei di superbia, ed è ragionevole credere che
siano puniti senza mezzo. E non misconosce Dio e annulla tutta la sua
regola, chi viola il precetto più semplice e ricusa di fare il meno che
Dio domandi agli uomini? E i precetti più semplici sono i tre primi del
Decalogo, ai quali si deve aggiungere, secondo i teologi, il quarto. In
essi è il meno che Dio chieda agli uomini; e chi ricusa di farlo è reo
di superbia. Ma i precetti del Decalogo sono tutti comandamenti di
giustizia, e i tre primi di quella parte della giustizia che si chiama
religione, e il quarto di quell’altra che è detta pietà; di giustizia
però tutti; onde chi li viola fa contro la giustizia, commette ciò è
ingiuria. Ora ingiuria è il fine della malizia; sì che si può dire che
superbia è peccato di malizia. Ma la malizia contrista altrui o con
forza o con frode: con quale delle due contrista altrui questo peccato
di malizia che si chiama superbia? La frode è proprio male dell’uomo,
perchè si compie con l’intelletto, e l’intelletto non è delle bestie ma
solo dell’uomo. Ora l’intelletto entrò al certo nel peccato di Lucifero,
in quello di Adamo, in quello dei Giganti, tutti superbi. E oltre
l’intelletto, vi ebbe parte la volontà volta al male, e, sebbene in
Lucifero solo _metaphorice_, l’appetito sensitivo. È dunque possibile
che la superbia sia malizia con frode, poichè in essa superbia è
l’intelletto, e la frode senza intelletto non può essere. Ma vi è
veramente? Poi che violare i primi quattro comandamenti è rompere il
vincolo speciale che ci unisce a Dio e a chi di Dio più tiene, in quella
violazione è sempre frode, perchè dal benefizio deriva la fiducia, di
cui abusare per commettere ingiuria tanto vale quanto usare frode. Anzi
perchè dal vincolo più stretto si genera una fiducia più grande, la
frode ancora sarà più grave. Dunque superbia è malizia con frode, e con
frode più grave che altra malizia pur fraudolenta. Quale quest’altra
malizia fraudolenta men grave di quella che si può chiamare _tradere_
dal fatto di Giuda che con un bacio consegnò (_tradidit_: _cfr._ gli
Evangeli) il Dio-Uomo ai Giudei? quale? Torniamo allo Genesi. Il diavolo
superbo, e perciò invido, fu il pravo consigliere dell’Uomo. La sua
invidia si estrinsecò in quel pravo consigliare. Si mutò in serpente,
usò melate parole, sedusse, mentì, ingannò, scisse l’uomo da Dio. Anche
dei figli di Adamo è invido chi compie sì fatte operazioni; chi insomma
fa ingiuria al suo prossimo, agli altri uomini; poi che l’invidia è tra
pari. E poi i teologi pongono grande somiglianza tra la superbia e
l’invidia, facendo che dal male altrui, che tutti e due vogliono,
sperino il superbo di guadagnare eccellenza o primato, l’invido di
cessare il timore che ha di perdere quello che possiede di bene. Ora
anche alla malizia con frode più grave è simile quella con frode meno
grave, come la superbia all’invidia; e differiscono in questo che la
prima malizia abusa di una fiducia speciale, che da uno speciale vincolo
deriva, mentre la seconda deve sopraffare quella tanto languida, che non
si può nemmeno chiamare fiducia, che deriva dal vincolo più largo e più
lasso che lega gli uomini agli uomini. Onde si può affermare che come i
maliziosi con frode speciale sono più tristi peccatori, gli altri
debbano essere più scaltri ingannatori; e che, mentre i primi possono
parere a volte più violenti che fraudolenti, come l’Angelo ribelle e i
fieri Giganti, i secondi appaiono sempre nella forma vile del serpente
che cauto striscia. E anche l’invidia, che teme, in ciò differisce dalla
superbia che spera. Invidia è dunque malizia che ingiuria il Prossimo
come superbia è malizia che ingiuria Dio e chi più a Dio somiglia; e
offendono la prima l’umanità, la seconda la pietà, come dice Tullio, o
la religione e la pietà, come specificano i teologi. E con frode sono
tutte e due, e perciò con intelletto, e hanno a essere significate con
simboli tricorpori e tricipiti: Gerione e Lucifero. Ma l’intelletto
manca in altra malizia che ingiurii altrui, sì il Prossimo e sì Dio, con
forza. Poi che vi manca l’intelletto, essa malizia con forza o violenza
si può chiamare matta; si può chiamare bestialità, perchè non vi è
l’elemento precipuo che distingue l’uomo dalle bestie, e vi è bensì la
volontà, ma asservita all’appetito e per ciò è quasi non ci fosse, come
nelle bestie; e perchè dell’appetito solo e della volontà a quello
asservita consta tale peccato, essa avrà simboli di due nature, una
bestiale, una umana: Minotauro, Centauri, Arpie. Ora tale peccato dai
teologi è chiamato ira, che è breve pazzia, in cui l’intelletto entra
appena per illuminare d’un lampo una offesa e un nemico, e poi di subito
si spenge, lasciando compiere al buio una vendetta. Questa cieca
cupidigia ci spinge anche contro noi stessi; a uccidere la nostra vita,
quando è ira proprio, ciò è quando è malizia; come a offendere coi denti
le nostre carni, quando è accidia volta al male, ciò è quando è
incontinenza d’irascibile; contro noi stessi oltre che contro il
Prossimo e contro Dio. Il che significa un autore, che molto è da
seguire in tali speculazioni (_Hugo de Sancto Victore_: _Alleg. in
Matth._ II xvi), dicendo: _Superbia... aufert homini Deum, Invidia
aufert ei Proximum, Ira aufert ei seipsum._ Senza intelletto, a
differenza dell’invidia e della superbia, opera l’ira folle: contro il
Prossimo, danneggiandolo con vendette spietate e ingiuste; contro Dio,
bestemmiandolo e spregiandolo, ma solamente col cuore ossia sotto il
dominio dell’irascibile. Perciò irosi contro Dio sono quelli, non che
abusano d’un suo benefizio, come i superbi, ma che si ribellano contro
una sua condanna che essi ritengono ingiusta o un suo benefizio che essi
apprendono come malefizio. E così intende l’autore sopra detto (_Hug. de
S. V. l. c._): _Superbia... dicit, Deum non bonum esse, Invidia et Ira
dicunt non benefecisse: illa, quia alii bonum contulit, ista, quia sibi
malum intulit._ Perciò coi bestemmiatori che rinnegano Dio in un empito
di dolore, vanno uniti quelli che rifiutano di generare e di lavorare,
respingendo due dolci comandi che fatti da Dio nella sua bontà al primo
Uomo prima del peccato, sonarono poi, dopo il peccato, lugubri come una
condanna pronunziata da lui nella sua giustizia, e parvero una ingiuria
di cui quei peccatori vollero vendicarsi. E su questo ancora è necessità
leggere il santo libro, lo Genesi. In tanto con esso libro si accordava
la Fisica di Aristotele, come l’Etica rispondeva, quasi esattamente, ai
libri teologici riguardo alla divisione delle colpe. Poi che nella
malizia sono compresi i tre peccati spirituali, con questo che l’ira è
più propriamente quella che Aristotele (non rettamente interpretato)
chiama bestialità; e di questa trigemina malizia, di cui l’idea è negli
Uffici di Tullio, sono simboli le tre Furie che hanno con sè il Gorgon
che accieca e indura; e nell’incontinenza i tre peccati carnali. Resta
il peccato medio, l’accidia, la quale è dell’operare e del contemplare,
e dipende o da mancanza di volontà o da volontà volta al male. La prima
è, nelle sue due specie operativa e contemplativa, sdegnata sì dalla
misericordia e sì dalla giustizia di Dio; la seconda è punita dalla
giustizia di Dio perchè è contro la giustizia. Ora questa seconda
accidia per la sua specie operativa è incontinenza d’irascibile, per la
sua specie contemplativa è malizia. Gli accidiosi per manco di volontà,
volontario o meno, non sono compresi nelle tre disposizioni, come invero
non devono essere compresi nell’inferno. Queste tre disposizioni sono
simboleggiate nelle tre Fiere, rappresentando: la lonza l’incontinenza,
il leone la bestialità, la lupa la malizia fraudolenta. E come la
bestialità e la malizia fraudolenta hanno due cose, tra altro, in
comune, la cupidità che affonda i mortali, presa in quel largo senso di
cui è parola nei teologi (_S._ 1ª 2ae LXXXIV 1 e passim); la cupidità
che ne è il principio, sia essa di eccellenza o di altri beni temporali
o di vendetta; e l’accecamento e indurimento simboleggiati nel Gorgon,
che ne sono l’effetto, tanto che per il più grave di essi peccati la
pena segue subito la colpa; così il leone e la lupa sono tutti e due
rabbiosamente famelici e dalla vista sprigionano la paura, e in
particolare la lupa fa perdere la speranza.



XXXIX.


E Dante disegnò:

Nove sono i cieli del paradiso più l’empireo: nove siano i gironi
dell’inferno, più la superficie terrestre con la selva selvaggia. Poi
che i peccati sono sette, uno d’essi, l’accidia, sia punita in tre
gironi nelle sue differenti specie. Vi è di essa una quarta specie,
quella degli sciaurati che mai non fur vivi, e quelli restino al
vestibolo, nella Terra dove essi vennero invano; vi restino a correre e
correre perpetualmente in pena della loro ignavia. Così all’una riva e
all’altra dell’Acheronte, sebbene non proprio allo stesso piano, stiano
le due specie di accidiosi per manco di volontà, cui la misericordia e
giustizia o sdegna addirittura, o nè può l’una accogliere nè deve
l’altra punire. Nello stesso modo, fuori e dentro Dite, che è l’inferno
della malizia, siano altre due specie di accidiosi rispondenti alle due
prime, di rei nell’operare e di rei nel contemplare; differenti dalle
due prime in quanto qui la volontà non manca, ma fu volta al male e
offese la giustizia, senza però commettere ingiuria. Così gli accidiosi
intorno a Dite corrispondono a quelli intorno Acheronte, nè forse per
altro che per questa corrispondenza, corrono gl’ignavi fuori
dell’inferno, e dentro l’inferno sospirano i non credenti e i non
battezzati; nè forse per altra cagione caddero dal cielo gli angeli nè
ribelli nè fedeli. Sotto le due coppie di accidiosi siano i peccatori,
nell’inferno superiore, d’incontinenza, in tre gironi; nell’inferiore,
di malizia (di cui la bestialità è la prima specie), pure in tre gironi.
Ad Acheronte somigli Stige, a Caron Flegias, agli ignavi che mai non
passano il fiume, i fangosi che mai non escono dal pantano: non degni
quelli di passare, questi di uscire, perchè gli uni non fecero nè bene
nè male e gli altri aderirono bensì al male, ma non lo fecero, o
riconobbero bensì il bene, ma non lo operarono. Somigli al nobile
Castello dove sospirano mestamente gli Spiriti magni, la città di Dite,
lungo i cui spaldi sospirano duramente pur uomini che posero gl’ingegni
a ben fare, uomini, come Farinata e lo secondo Federico, per molta e
grande parte degni d’ammirazione e di rispetto. Le due specie di accidia
comprese tra il ternario dell’incontinenza e quello della malizia,
appartengano la prima all’incontinenza come di tali che non frenarono o
non ebbero l’irascibile, e la seconda alla malizia come di tali che
maliziosamente disconobbero Dio. Nè dei primi si abbia a raccontare
alcun bene, nè dei secondi alcun male. E il Paradiso con le sue nove
spere ricordi l’Inferno coi suoi nove gironi; i beati del cielo della
Luna e di quello di Mercurio richiamino gli accidiosi per manco di
volontà e quelli che ebbero la volontà volta al male; i pieni d’amore
del cielo di Venere richiamino i lussuriosi del secondo girone, e Carlo
Martello ripeta Francesca; i famelici di verace manna che godono nella
spera del sole, facciano ripensare ai golosi battuti dalla pioggia
nell’aer tenebroso del girone terzo, e in quel cielo come in questo
girone si parli di risurrezione della carne; i combattenti per Dio del
cielo di Marte rammemorino quelli del quarto girone, che perdettero Dio
per amore di cosa che non dura, e lodino, per contrasto ai prodighi e
agli avari, la parsimonia e la liberalità; e il cielo della giustizia
conduca il pensiero alla palude e alla città dell’ingiustizia, e i
giusti re ricordino i gran regi che giustizia temerono di fare e
lasciarono dispregi di sè; e il mite Saturno sia contrapposto al cerchio
dei violenti e dai Gemelli l’occhio si abbassi all’aiuola nostra,
dominata dall’invidia; e nel Cielo Cristallino risuoni la maledizione
alla cupidigia che è la radice di ogni peccato e alla superbia che fu il
principio del cadere dell’Angelo e del dannarsi dell’Uomo. Il Purgatorio
riproduca, come monte può riprodurre baratro, l’Inferno. Abbia sette
scaglioni per i sette peccati nello stesso ordine dell’Inferno, ma il
quarto dell’uno combaci col quinto e sesto dell’altro, comprendendo
l’accidia come lento amore sì a vedere e sì a conseguire il Bene. Per
questa corrispondenza il quinto e sesto girone dell’Inferno siano quasi
allo stesso piano e come tutt’uno. Poi che converse a Dio salgono agli
scaglioni del Purgatorio le anime, dai loro peccati sia cancellata
l’aversione, e così esse purghino la sola conversione a un bene
commutevole nel luogo a quella destinato. Poi che nove hanno a essere
anche nel Purgatorio, le partizioni, si aggiunga ai sette scaglioni un
Antipurgatorio di aversi da Dio sino a poco prima della morte, di
acciecati temporaneamente (_S._ 1ª 2ae LXXIX 4); e siano questi di due
specie, una di scomunicati, l’altra di non scomunicati; anzi perchè
ricordino che quattro sono le sorti di accidia nell’inferno, la seconda
specie di esse si sterzi; e perchè sia richiamato, per analogia, il
nobile Castello degli Spiriti magni, e, per contrasto, il brago dei gran
regi, sia in esso Antipurgatorio la Valletta amena dove serenano
principi che non furono forse pari al grande officio loro, ma non ne
furono nemmeno immemori, o, meglio, che pur negligenti della loro salute
eterna, lasciarono tuttavia di sè onrata nominanza; e l’Antipurgatorio
risponda anche all’Antiparadiso e Manfredi faccia pensare a Piccarda e i
principi della Valletta agli Spiriti attivi di Mercurio. E
all’Antipurgatorio presieda Catone che mostrò ciò che poteva,
nell’infermità sua necessaria del volere, fare un pagano, irraggiato
dalle sole quattro virtù umane, per la libertà di esso volere: rifiutare
la vita. Un credente invece, movendo dalla selva selvaggia della
servitù, salvando il suo volere dalle male disposizioni che il cielo non
vuole, e purgandole dall’amore del male, dal lento amore del bene, dal
soverchio amore del bene che non è bene, può salire di grado in grado il
santo monte e giungere alla divina foresta, e avere libero dritto sano
il suo arbitrio; e ascendere all’Empireo. Selva, foresta, Empireo:
complementi del nove nelle tre Cantiche.



EPILOGO.


Una faccia adunque della oscura Minerva si è illuminata. Il lume che
batte su quella è certo che rischiarerà ciò che nel Poema resta ancora
d’ombra e di penombra. Ed è lecito sperare sin d’ora che essendo
determinato il pensiero di Dante in una parte principale ed essenziale
quale è la costruzione etica della più grande, anzi divina,
estrinsecazione della sua mente, la mente di Dante quanto ella è vasta e
profonda si rivelerà a noi. Potremo in tanto noi con la detta
determinazione circoscrivere, e perciò giudicare e conoscere, il
complesso de’ suoi studi e delle sue fonti. E questa conoscenza sarà
tale un passo, che poco più spazio ci resterà alla meta.



APPENDICE

SCHIARIMENTI E AGGIUNTE



I.

Il Messo del Cielo.


Nessuna dichiarazione di luoghi controversi della _Divina Commedia_ è
più felice di quella di Michelangiolo Caetani duca di Sermoneta, che
dice essere Enea il messo del cielo che apre le porte di Dite. Egli
(_Tre chiose di Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, nella Divina
Commedia, di D. A._, terza edizione. Roma, Salviucci, 1881) dimostra
prima che angelo non può essere perchè non può un angelo del Paradiso
discendere entro l’inferno; perchè il primo angelo descritto da Dante
nel _Purgatorio_ ben altrimenti si mostra, e con altri segni di rispetto
deve essere accolto. E che sia il primo angelo veduto mai da Dante nel
suo andare si rileva da quelle parole dette nel _Purgatorio: Omai vedrai
di sì fatti ufiziali_. Nè ad angelo, che _sdegna gli argomenti umani_,
si conviene la verghetta, nè la comparazione col vento impetuoso e con
la biscia, nè il menar la sinistra mano, nè il parlar coi demoni di fati
e di Cerbero, nè il partirsi come uomo stretto da altra cura. Escluso
poi che il messo sia Mercurio o il Redentore (opinioni di per sè
assurde), rintraccia chi possa egli essere. Già nel primo colloquio,
Virgilio dice a Dante d’essere stato il cantore di quel giusto figliuolo
di Anchise, e Dante risponde a Virgilio ricordando pure Enea che andò
vivente negl’inferi e concludendo: _Io non Enea, io non Paolo sono_. Poi
avanti le porte di Dite, Virgilio dice che Tale gli si fu offerto, il
quale non poteva essere certamente che nel Limbo, luogo di sua dimora,
non potea essere che Enea che già altre volte era disceso per _umbram
perque domos Ditis_, avendo in mano il _venerabile donum fatalis
Virgae_. Ciò conferma Virgilio dicendo: che _di qua_ dalla prima porta
d’Inferno era un tale che discendeva l’erta. “La domanda, che a Virgilio
fece Dante: Se alcuno di loro dal primo cerchio del Limbo discendeva mai
in quel fondo infernale, fu conseguente alle parole di Virgilio, che
aveagli detto: un Tale esserglisi offerto per l’apertura di Dite; non
altri potendo questi essere che alcun suo consorte di Limbo, che con
quella apertura e con Virgilio avesse relazione: e questi dovea essere
Enea senza meno„.

La dottrina nascosta sotto il velame de’ versi strani è “che Enea
dovesse servire come strumento provvidenziale all’apertura di Dite...
per significare tutti gli avvenimenti i quali prepararono la vera
apertura fatta per Colui che la gran preda levò a Dite del cerchio
superno„. E ciò è confermato da passi del _Convito_ e del _De
Monarchia_. All’obbiezione che Dante non riconobbe Enea, allorquando
giunse ad aprire le porte di Dite, mentre lo aveva già visto tra gli
spiriti magni, risponde il Duca non male dicendo dell’oscurità fumosa
del luogo; ma meglio, a parer mio, avrebbe risposto negando che Dante
dica di non lo avere riconosciuto e che anzi nel verso

    ben m’accorsi ch’egli era del ciel messo,

è forse più il senso: Vidi a quella prova che Enea era veramente messo
della provvidenza; di quello che: Mi accorsi che quel tale ignoto era un
mandato celeste. E il volgersi al Maestro, al cantore dell’_Eneide_,
indica appunto la subita voglia di riconfermare a lui cosa da lui
affermata:

                        E quei fe’ segno
    ch’io stessi cheto ed inchinassi ad esso;

chè Dante voleva parlare e dire: Ora vedo....

Ora, con questa rettifica e con ogni riserva quanto al significato
simbolico dell’episodio, io domando come mai questa dimostrazione così
evidente non sia passata nella scienza dantesca e nei commenti vulgati.
Per questo che soggiungo. Virgilio dice:

    già di qua da lei discende l’erta,
      passando per li cerchi senza scorta,
      tal che per lui ne fia la porta aperta;

poi aggiunge:

                       Tal ne s’offerse!
    Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga!

e Dante esprime il suo dubitare domandando se dal Limbo può scendere
alcuno. I commentatori intendono qui che Dante dubiti non già che sia
per venire dal Limbo un ausiliatore, ma che a Virgilio sia concesso
passare in Dite. Il vero è che Virgilio mostra d’interpretare così il
dubbio domandare di Dante, concludendo la sua risposta:

    Ben so il cammin: però ti fa securo.

Ma prima di tutto, interpretiamo rettamente il sospeso parlare di
Virgilio:

    Pure a noi converrà vincer la punga,
      cominciò ei, se non... tal ne s’offerse!
      oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga!

Ciò dice dopo avere attentamente ascoltato, perchè nella nebbia poco
lontano poteva vedere. Ora il senso delle parole mi pare questo:
“Converrà che noi pugnamo e vinciamo da noi soli (v. per es. _Inf._
XXXV, 39: _Ed intendemmo pure ad essi poi_), se non... giunge quegli che
ne s’offerse; che però è tale da non mancare. Ma come tarda!„ Dante ebbe
paura di questo dire, perchè

                   traeva la parola tronca
    forse a peggior sentenza ch’ei non tenne;

cioè intendeva che la condizionale _se non_... esprimesse una reale
negazione, e non si rassicurava

    con l’altro che poi venne,

ossia con _Tal ne s’offerse_. Quindi naturale la domanda di Dante, se
alcuno _del primo grado_ potesse discendere

    in questo fondo della trista conca.

Ma Virgilio dunque finge di fraintendere la questione?

Può essere. Egli vuole forse riservare a lui la sorpresa
dell’ausiliatore, quando verrà, e delude il discepolo. Sì, sì, so la
strada: questa palude è intorno a Dite. Cosa che Dante presso a poco
sapeva già:

    Lo buon maestro disse: Omai, figliuolo,
      s’appressa la città che ha nome Dite,
      co’ gravi cittadin, col grande stuolo.
    Ed io: Maestro, già le sue meschite
      là entro certo nella valle cerno
      vermiglie, come se di foco uscite
      fossero.....
    Noi pur giugnemmo dentro all’alte fosse,
      che vallan quella terra sconsolata:
      . . . . . . . . . . . . . . . .
    Non senza prima far grande aggirata,
      venimmo in parte.....

Altra volta Virgilio risponde su per giù a questo modo; quando Dante
volentieri saprebbe quanto ha ad andare su per il poggio del Purgatorio,
cioè quanto il poggio è alto; che egli dice: Non so altro se non che
quando il tuo andare ti sarà leggero, sarai in cima (_Purg._ IV, 85 e
segg.) Ma se anche non si volesse ammettere questa finzione, che non
sarebbe se non una nota di più nella varietà ingegnosa con cui il
Maestro parla al suo discente, si dovrebbe sempre convenire che il
Maestro aveva inteso che la domanda si riferiva all’aspettato salvatore;

                          Di rado
    incontra, mi rispose, che di noi
    faccia il cammino alcun, pel quale io vado;

ma che ciò che segue, _vero è_, significhi: A ogni modo di me posso
affermarti che ci sono stato e che so il cammino. Solo in questo
Virgilio sembra non accontentare Dante; chè il secondo non spera se non
nell’aiuto d’altri e dubita già, e il primo dice, che c’è anch’esso e
che esso potrà, anche senz’altro aiuto, guidarlo e farlo entrare nella
città dolente. Solo a ciò è necessaria l’_ira_.

A questo punto posso aggiungere, a quelle del duca di Sermoneta, le mie
argomentazioni, che sono più che la riprova delle sue. Non si può
entrare senz’IRA; il messo del cielo pare PIEN DI DISDEGNO, e così
parla. Si rivolge poi senza far motto, facendo sembiante

    d’uomo cui altra cura stringa e morda,
    che quella di colui che gli è davante.

Sono oziosi questi tre particolari? A sentire i commentatori, sarebbero.
E invece hanno un senso profondo. Il Poeta simboleggia. Egli continua il
suo mirabile trattato sull’_ira_ o sull’_irascibile_. Senz’esso o essa
l’arduo è inaccessibile. Virgilio tenta prima d’entrare con le buone,
usando l’intelletto:

    Così sen va e quivi m’abbandona
      lo dolce padre, ed io rimango in forse,
      chè ’l sì e ’l no nel capo mi tenzona.
    Udir non pote’ quel ch’a lor si porse:
      ma ei non stette là con essi guari,
      che ciascun dentro a prova si ricorse.
    Chiuser le porte que’ nostri avversari
      nel petto al mio signor, che fuor rimase,
      e rivolsesi a me con passi rari.
    Gli occhi alla terra e le ciglia avea rase
      d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri:
      chi m’ha negate le dolenti case?

Dante, sempre inteso alla sua filosofia, qui presenta Virgilio come
tentato dall’accidia, dalla tristizia, che è un acquetarsi nel male. Ma
è un momento.

    Ed a me disse: Tu, perch’io m’_adiri_,
      non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
      qual ch’alla difension dentro s’aggiri.

Dove è da notare che _perchè_ non significa proprio _benchè_, ma _per il
fatto che_; e poi un’altra cosa: che più probabile si fa delle mie
interpretazioni precedenti della risposta a Dante, la seconda, per la
quale Virgilio prometterebbe a Dante la vittoria e il passaggio, anche
se il messo non venisse.

Dunque non tema Dante per il fatto che Virgilio deve _adirarsi_; cioè
usare l’irascibile contro l’arduo: ira buona, senza la quale si è vili.
Non ce n’è bisogno però: Dante introduce a significare questa necessaria
contemperanza d’irascibile l’eroe che già altra volta gli servì
d’esempio sì per raffrenare il concupiscibile, sì per spronare
l’irascibile. “Questo spronare fu quello quando esso Enea sostenne _solo
con Sibilla_ a entrare nello Inferno a cercare dell’anima del suo padre
Anchise _contro a tanti pericoli_ (_Conv._ IV 26)„. Nel che non isfugga
la singolare rispondenza del

    passando per li cerchi senza scorta

con quel _solo con Sibilla_. Al solito, non fu la necessità di rimare o
d’empire il verso quello che suggerì _senza scorta_. Nè è da
dimenticarsi che la frase contro a tanti pericoli è suggerita
probabilmente da questi due passi del sesto libro _della detta storia_.

Il primo è delle parole di Sibilla:

    _Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo_:           261

dove _animi, pectus_ sono, per Dante, l’irascibile, il θυμός,
il ‛cuore’. L’altro è:

    _Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes_      286
    _Et centumgeminus Briareus ac belua Lernae_
    _Horrendum stridens flammisque armata Chimaera,_
    _Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae._
    _Corripit hic subita trepidus formidine ferrum_          290
    _Aeneas strictamque aciem venientibus offert._

I quali passi erano avanti al Poeta anche a questo punto della Comedia.

Da queste considerazioni è singolarmente confermato (o io m’inganno),
primo che il messo è Enea; secondo che la palude, donde sì i fangosi con
sembiante offeso, e sì i fitti nel fango non possono uscire, sebbene de’
primi uno si provi a voler passare nella barca di Flegias, contiene
quelli che peccarono nell’irascibile, o acquetandosi nel male come i
_tristi_ e probabilmente i _gran regi_, o non usando il soprabbondevole
irascibile sino all’azione, ma volgendosi in sè coi denti, rodendosi
insomma d’ira e non peccando altro che d’ira interna, senza correre alla
vendetta; accidia anche questa e tristizia. E per incidenza, a proposito
dei _gran regi_, ricordo la novella 9ª della giornata prima del
_Decameron_. Ecco un re, che senza la ventura della donna di Guascogna,
avrebbe meritato di essere come _porco in brago_. Si notino le parole
del Boccaccio: ‛egli di _cattivo, valoroso_ diviene’; ‛il re, infino
allora stato _tardo_ e _pigro_‛. Si meditino queste altre: ‛egli era di
sì rimessa vita e da sì poco bene, che, non che egli l’altrui onte con
_giustizia_ vendicasse, anzi infinite con vituperevole _viltà_ a lui
fattene sosteneva... io non vengo nella tua presenza per _vendetta_ che
io attenda della _ingiuria_ che m’è stata fatta’. Il concetto di Dante è
bene illustrato da questo esempio. Nella palude si punisce la viltà o
manco d’attività, la quale deve essere _giustizia_ in tutti e
specialmente nei re, la _negligentia_ insomma, e l’ingiustizia che non
si è commessa se non per manco di attività. La varca a piedi asciutti,
come per lui fosse terra dura, chi è supremamente _attivo_ e _giusto_,
ben contemperato a frenare e spronare l’appetito. Per Dante, questi era
Enea, che già nel primo colloquio Virgilio dice _giusto_:

              cantai di quel _giusto_
    figliuol d’Anchise;

che ora significa _attivo_, oltre che con l’azione stessa che compie,
con quelle di cui si mostra occupato:

                      fe’ sembiante
    d’uomo cui altra cura stringa e morda
    che quella di colui che gli è davante;

Enea, l’eroe del suo Maestro, che gli serviva d’esempio sin dal
Convivio.



II.

Il Conte Ugolino.


Mi domando con un valentuomo, critico arguto se mai altri, il d’Ovidio:
Per qual colpa il conte Ugolino è in inferno, nella ghiaccia? Ma non mi
appago della sua risposta la quale è che egli è dannato per i suoi
tradimenti contro il nepote Ugolino Visconti. Perchè allora non è nella
Caina? Nella Caina, dove è Sassol Mascheroni, uccisore d’un giovinetto
cugino, dove è il Camicion de’ Pazzi, pure uccisore d’un congiunto?
Nella Caina, dove sono puniti quelli che ruppero il vincolo d’amore che
congiunge, non solo figli a genitori, ma parenti in genere a parenti?
Quelli, come a me pare d’aver dimostrato, che violarono il quarto
comandamento?

A questa obbiezione, per dire il vero, io ho una risposta, e altri ne
avrà cento; ma io espongo la mia, la quale, mentre solve il nodo che è
in quella domanda, rende probabile un’altra, non dirò ipotesi, ma
conclusione. Perchè sarà, all’ultimo, tenzone tra due credenze, una del
tutto congetturale, che non ha alcun rinfianco dalla lettera di Dante,
l’altra che dalla lettera di Dante riceve grandissima verisimiglianza.
Invero altri sono posti nell’inferno e pur nella ghiaccia, senza che il
Poeta dica il perchè, tanto il perchè doveva essere ed era noto; e così
può darsi che sia posto il conte Ugolino; ma se il perchè risultasse da
un più attento esame del testo? da una più ragionevole interpretazione?

Il Bartoli; caro e illustre nome, non più ahimè! che nome, pur _molta
parte_ di lui; il Bartoli trova nel racconto di Ugolino un cenno alla
colpa del tradimento contro Nin gentile e contro i Guelfi. Egli dice
(_Storia della letteratura italiana_, IV, parte II, p. 111): “Nel Poema
c’è una frase che conferma tale supposizione, quel “fidandomi di lui„
(v. 17), che altrimenti, se non ci fosse stato un accordo tra il conte e
l’arcivescovo, non avrebbe senso. Ma il fidarsi dell’Ubaldini volea dir
necessariamente essersi stretto in lega colla parte ghibellina, e questo
non poteva essere che a danno del nepote. Doppio tradimento quindi...„
Ma io non credo che quel _fidandomi di lui_ valga ad altro, se non a
richiamare la definizione del tradimento (_Inf._ XI 52 e seg.):

    La frode, ond’ogni coscienza è morsa,
      può l’uomo usare in colui che ’n lui fida.

Dante fa dire ad Ugolino il perchè della condanna non sua ma
dell’arcivescovo. Dice anzi: “Tu sai il tradimento che mi fece, quindi
sai perchè sia in questa ghiaccia; non sai però come cruda fosse la
morte che soffrii per il suo tradimento, quindi non sai perchè io me gli
mangi il capo„. Non è dunque il cenno che dice il Bartoli quello, che
del resto è ben più che cenno, che dico io essere nel testo, della colpa
di Ugolino. O quale è dunque?

Rispondo prima all’obbiezione fatta all’avviso del d’Ovidio: come
Ugolino non è nella Caina, se ha rotto il vincolo che lega parente a
parente? Rispondo: Ugolino è in vero nella Caina.

Sento un _oh lungo e roco_... Spieghiamoci meglio. Non è nella Caina, mi
riprendo; ma _ci sarebbe_ se fosse al suo posto. Ma al suo posto, dove
la sua colpa l’avrebbe balestrato, non c’è. Egli è... Leggete:

    vidi _due_ ghiacciati in _una_ buca;

dove _una_ ha il suo valor numerale di _una sola_, e non
l’indeterminato, dal contrapposto con _due_. La buca era fatta per uno
solo. Se due rei vi sono, uno vi sta fuor dell’ordinario. Chi ponga
mente poi, come in questa ghiaccia i rei sono, secondo la reità loro,
non solo collocati a mano a mano più _in ver lo mezzo_, ma più meno
sporgenti dal ghiaccio, poichè nella Caina:

    livide insin là dove appar vergogna
    eran l’ombre dolenti nella ghiaccia,

e nell’Antenora si vedono i _visi, cagnazzi fatti per freddo_, onde nel
passeggiare Dante dà col piede nelle _gote_ a Bocca, e nella Tolomea la
gente è

    non volta in giù ma tutta riversata,

e nella Giudecca

    l’ombre eran tutte coperte,
    e trasparean come festuca in vetro;

chi ponga mente a questa gradazione, vedrà o, diciamo meglio, sospetterà
subito che i due ghiacciati in una buca non sono puniti per colpa del
tutto uguale, perchè

    l’un capo all’altro era cappello.

Il che non è ozioso. Dante avrebbe potuto porre questi due peccatori
l’uno lungo l’altro, come i due tragici fratelli Alberti. Ma no. Quelli
erano

                        sì stretti
    che il pel del capo aveano insieme misto;

questi,

    sì che l’un capo all’altro era cappello.

Dante ci ha messo in guardia, facendo risaltare la differenza in
espressioni che hanno del simile tra loro: _pel del capo misto, capo
cappello._

Rispondo adunque: il conte Ugolino non è al suo posto nell’Antenora,
poichè è nella buca destinata a un altro, a un solo che già c’è. L’aver
egli il capo tutto fuori della ghiaccia, sì che con esso sopravanza
quello dell’altro, fa comprendere ch’egli dovrebbe essere nella Caina,
dove i rei sporgono col capo, sì che con esse possono cozzare insieme
come becchi. E ciò è confermato da un’altra osservazione. I dannati
della ghiaccia, nella loro qualità di _superbi_ e perciò supremamente
vaghi, in vita, di fama, sono in morte descritti dal Poeta come
fieramente avversi ad essa. Così Dante dice a Bocca:

    Vivo son io, e caro esser ti puote,
      fu mia risposta, se domandi fama,
      ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.
    Ed egli a me: Del contrario ho io brama:
      levati quinci, e non mi dar più lagna,
      che mal sai lusingar per questa lama.

Il che poi si riscontra nel resto della ghiaccia, e propriamente nella
Tolomea, nella quale frate Alberigo si noma sì, ma perchè i due
visitatori egli li stima anime crudeli cui sia data l’ultima posta. Or
bene, non veramente tutti i dannati della ghiaccia sono così nemici di
nomarsi e d’essere nomati; poichè quelli della prima circuizione si
nomano, si noma, cioè, di loro l’unico che parli:

    E perchè non mi metti in più sermoni,
      sappi ch’io fui il Camicion de’ Pazzi,
      ed aspetto Carlin che mi scagioni;

e si preparano a nomarsi i due fratelli, poichè ergono li visi, se non
che

    gli occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
      gocciar su per le labbra, e il gelo strinse
      le lagrime tra essi e riserrolli:
    con legno legno mai spranga non cinse
      forte così; ond’ei, come due becchi,
      cozzaro insieme, tant’ira li vinse.

Pensando quanto atroci siano i delitti commessi dai rei della Caina,
ricordando, per esempio, Sassol Mascheroni assassino d’un fanciullo, mal
si può spiegare questa differenza nel ribrezzo della fama tra essi e i
rei più ver lo mezzo, non più feroci di loro, se non si crede a ciò che
io ho esposto: che la Caina punisce un peccato che è sì superbia, ma è
finitimo all’invidia; un peccato che non è contro al principio
universale dell’essere come gli altri tre, ma contro quello particolare;
un peccato che offende non direttamente Dio, benchè offenda chi di Dio
più tiene; un peccato che fa contro il quarto comandamento, che non è
della prima tavola sebbene le sia molto vicino e affine. Ma di ciò ho
parlato altrove. Qui osservo che il conte Ugolino si noma e subito:

    Tu dei saper ch’io fui Conte Ugolino.

Per qual ragione se non _principalmente_ per questa, che egli è della
Caina?

E riprendiamo la questione: di qual colpa reo? Certo che di peccato
contro congiunti. Non di _tradimento_ contro congiunti? Mi periterei a
dire, tradimento. Secondo Dante, _tradimento_ sì, ma senz’altro, senza
quelle parole _contro congiunti_. _Tradere_ è in Dante obliare l’amore

    che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
    di che la fede spezial si cria.

Ora per il mo’ di _tradere_, che è punito nella Caina, si oblìa
quell’amore naturale e aggiunto, anche se non interviene frode raggiro
agguato, anche se non interviene il tradimento quale noi lo concepiamo.
Il marito di Francesca, per aver ucciso il fratello e la moglie, è
atteso da Caina, sebbene il traditore non fosse lui, pover’uomo!

E in vero anche nelle altre tre specie di frode in chi si fida, la frode
quale noi intendiamo non è necessario che ci sia; e Bruto e Cassio non
sono così puniti perchè di sorpresa colsero Cesare nella curia, ma
perchè lo uccisero, perchè in lui violarono Dio. Tuttavia in queste tre
specie è pur sempre il corrompimento d’un patto, quando non è a
dirittura un giuramento, d’un patto che non par sempre a noi così tacito
e naturale come pareva a Dante per tutte e quattro, e come pare a noi
per la prima. Diciamo dunque, che la colpa di Ugolino, pur degna della
Caina, non è necessario che fosse offesa fraudolenta del vincolo di
sangue, sì offesa senz’altro; ciò che si può dire, più o meno, delle
altre colpe punite nelle tre circuizioni interne della ghiaccia, ma
sempre meno che della esterna, specialmente considerando gli uccisori di
commensali, sempre spergiuri. Non è necessario, anzi non è probabile.
Un’aggravante qualunque, di agguato, di spergiuro, di società violata,
di parte abbandonata avrebbe indotto il Poeta a porre più _in ver lo
mezzo_ il conte.

Probabile dunque mi pare che la colpa di Ugolino fosse un’offesa al
vincolo del sangue, non complicata d’insidia. Ma qui può dire alcuno:
L’obbiezione che da prima facesti al d’Ovidio, non occorreva che tu la
facessi e che tu rispondessi, poichè, se Ugolino è nell’Antenora, si
deve comprendere che c’è perchè offese bensì un parente, ma violando,
oltre il vincolo familiare, anche i legami di parte o di patria. No,
rispondo ancora: egli è nell’Antenora, ma non è dell’Antenora. Comunque
sia cominciato il mio ragionamento, certo è che il conte appartiene alla
Caina, per tre argomenti che stanno saldi: l’essere egli nella buca d’un
altro, lo sporgere col capo, il nomarsi senz’orrore per la fama. Ma a
proposito di quest’ultimo argomento, prevengo un’opposizione nuova. È
tale: anche in Malebolge si ha orrore alla fama, in Malebolge dove è
punita l’invidia, e ciò per la somiglianza che vi è tra invidia e
superbia; onde derivano effetti somiglianti; sì che venendo l’invidia
dal timore di perdere

    podere, grazia, onore e fama,

come la superbia viene dalla speranza di eccellenza, tutte e due sono
punite con l’odio di ciò che le fece nascere e crescere. Or bene questa
opposizione nuova altro non porta se non la conferma a ciò che io
affermo: che la Caina punisce un peccato mezzo tra la superbia e la
invidia, perchè ha pur questa nota comune a Malebolge, che tanto in
Malebolge quanto nella Caina la posta regola di non nomarsi soffre
eccezioni, e le soffre per due motivi, tutti e due derivanti dall’essere
l’invidia peccato contro gli uomini, mentre la superbia è contro Dio:
motivo primo, che gl’invidi mostrano con ciò di tenersi, come sono, non
pessimi; secondo, che il desiderio di fare il male al prossimo in loro,
non così stolti come i superbi che alzarono le ciglia contro Dio,
persiste ancora, o subdolo come in Capocchio e in maestro Adamo, o
feroce come in Ugolino. Questa differenza tra invidi e superbi è
significata, come esposi, da Anteo, che, non essendo stato coi suoi
fratelli all’alta guerra, non solo è disciolto e parla, ma è sensibile
allo scongiuro della fama. Del resto nella ghiaccia è tipico per il
primo motivo che dicemmo, Camicion de’ Pazzi che esclama:

    Sappi ch’io fui il Camicion de’ Pazzi
    ed aspetto Carlin che mi scagioni;

e per il secondo Ugolino che dichiara:

    Ma se le mie parole esser den seme
      che frutti infamia al traditor ch’io rodo,
      parlare e lagrimar vedrai insieme.

Ora in Malebolge questi due tipi si riscontrano qua e là. Coloro in esse
che si nomano o accennano, nomano poi e accennano qualcuno più reo di
loro, a lor credenza, e fanno loro o dicono il peggio che possono:
Ciampolo noma frate Gomita e Michel Zanche; Catalano Caifasso; Pier da
Medicina predice sventura

    A messer Guido ed anco ad Angiolello,

il Mosca accenna a peggioramento della gente tosca, Bertram del Bornio
ricorda Achitofel, Capocchio, con ironìa propria degl’invidi che
vogliono dir male senza parere, enumera Stricca e Niccolò e Caccia
d’Asciano e l’Abbagliato, e Griffolino rivela Gianni Schicchi e Mirra.
Nè si dimentichi l’orribile mischia dei ladri, nè si tralasci la sconcia
contesa di Maestr’Adamo con Sinone, nella quale è compendiato tutto il
pensiero di Dante intorno agl’invidi dell’inferno. Di Vanni Fucci dissi
già assai.

Concludo adunque per la seconda volta che il conte Ugolino è dannato da
Caina, se non di Caina. Quale la sua offesa al vincolo di sangue? quale?
Una, stimo, a cui lo spingesse appunto il traditore ch’ei rode per
vendicarsene. Perchè non della _prima_ morte, ma della _seconda_ è
ragionevole che si vendichi un dannato nell’inferno. Chi e di che accusa
Pier della Vigna? Si è ucciso: sua colpa e suo danno! Ma no: Pier della
Vigna accusa:

    La meretrice che mai dall’ospizio
      di Cesare non torse gli occhi putti,
      morte comune e delle corti vizio,
    infiammò contra me gli animi tutti;
      e gl’infiammati infiammar sì Augusto
      che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
    L’animo mio per disdegnoso gusto
      credendo col morir fuggir disdegno
      ingiusto fece me contra me giusto.

È stato l’_animo_, l’irascibile cioè, che lo spinse al suicidio, ma
questo era stato eccitato dagl’invidi della corte. Nè della sua morte
accusa questi, ma dell’essere stato fatto ingiusto; come a dire, della
sua dannazione. Ed esso, come colui che fu ingiusto in quell’unico
fatto e sotto gli stimoli del θυμός, parla misurato ed equo,
accusando l’_invidia_ piuttosto che gl’invidi e affermando _degno
d’onore_ colui che era stata la causa più diretta della sua morte. Ma
pensiamo a Guido di Montefeltro:

    Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
      credendomi, sì cinto, fare ammenda;
      e certo il creder mio veniva intero,
    se non fosse il gran prete, a cui mal prenda,
      che mi rimise nelle prime colpe:
      e come e quare voglio che m’intenda.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
      e pentuto e confesso mi rendei:
      ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
    Lo principe de’ nuovi farisei

con quel che segue. Egli accusa dunque Bonifazio della sua morte; morte
s’intende, spirituale, non corporale: _seconda_, non _prima_. Oh! non
Manfredi accusa alcuno, sebbene morisse con

                      rotta la persona
    di due punte mortali,

poichè non quella è vera morte per cui non si perde l’eterno amore, anzi
si ha inspirazione a riacquistarlo; non Buonconte, poichè potè finire la
parola nel nome di Maria; non la Pia cui non disfece Maremma sì da
dannare la sua anima soave. La Pia non accusa

                        colui che inanellata pria,
    disposando, l‛avea con la sua gemma,

come non accusa Piccarda gli uomini _a mal più ch’a ben usi_ che la
rapirono dal convento, poichè vana riuscì la loro opera o quasi vana, ed
ella canta lassù _Ave Maria_; ma un’altra accusa bensì e si duole e
impreca, Francesca, sebbene rea:

    Amor, che al cor gentil ratto s’apprende,
      prese costui della bella persona
      che mi fu tolta, _e il modo ancor m’offende_,...
    Amor condusse noi ad una morte:
      Caina attende chi vita ci spense.

Perchè impreca, o mal predice, Francesca? Perchè la vita che le fu
spenta non è solo quella temporale, ma la eterna; perchè la bella
persona le fu tolta in un modo che _ancor l’offende_, cioè, le è di
danno per sempre, perchè non lasciò luogo al pentimento. Sì che
_offense_ chiama Dante quelle anime rimaste vittime dell’amore, d’un
_punto solo_. Ora non dice Ugolino ciò appunto che Francesca? Ugolino e
Francesca piangono nel raccontare, come chi faccia larga parte ad altri
della colpa che pur non disconoscono.

    Farò come colui che piange e dice,

sospira l’una; e l’altro:

    Parlar e lagrimar vedrai insieme.

Or questi dolenti chiaramente si dichiarano _lesi_, l’una dicendo

    e il modo ancor m’offende;

e l’altro esclamando:

    e vedrai se m’ha offeso.

In che Ugolino si dichiara _offeso_?

    Però quel che non puoi avere inteso,
      ciò è _come_ la morte mia fu cruda,
      udirai, e saprai se m’ha offeso.

(_come_ = _quomodo_). So bene: tutti interpretano:

I particolari della mia morte di fame, avvenuta dopo quella dei figli e
nepoti, non li sai: quindi non sai come io abbia diritto di odiare
questo traditore. Ma a tale interpretazione io oppongo questa che mi
pare in tutto e per tutto più ragionevole ed espressiva:

Tu non puoi però avere inteso il modo della mia morte: solo allora
saprai che non mi ha solo data la morte corporale, ma anche la
spirituale: poichè fu un _modo_ che _ancor mi offende_. Astragga il
lettore un momento dal senso che ha per abitudine più, si può dire,
nell’orecchio che nell’intelletto. Astragga... e dica se non è quasi
ridicolo, quel

    saprai se m’ha offeso.

Ah! tu dubiti che a ragione io mi pianga di lui? Puoi dubitarne, sapendo
solo, come sai, che io fui tradito da lui, preso e morto — morto nella
muda, di fame, coi miei figli (anche questo Ugolino sa che Dante deve
sapere:

    Breve pertugio dentro dalla muda
      _la qual per me ha il titol della fame_;

erano cose notorie, e come di tali, ne parla il conte senza preamboli) —
: sapendo solo ciò, puoi dubitarne: ma potrai dubitare _che m’abbia
offeso_, quando saprai che sentii piangere nel sonno i figlioli; che
Anselmuccio mi disse: Tu guardi sì, padre che hai?; che mi morsi le
mani, e vai dicendo? No no no: che l’arcivescovo avesse offeso e in
gravissimo modo Ugolino, Dante lo sapeva già, perchè sapeva la presura e
la morte nella Muda. Alla sua domanda:

    O tu che mostri per sì bestial segno
      odio sopra colui che tu ti mangi,
      dimmi il perchè, diss’io, per tal convegno
    che, se tu a ragion di lui ti piangi,
      sappiendo chi voi siete, e la sua pecca,
      nel mondo suso ancor io te ne cangi
    se quella con ch’io parlo non si secca;

a questa domanda, alle parole, _se tu a ragion di lui ti piangi_, è
risposto adeguatamente con

    Tu dei saper che io fui conte Ugolino
      e questi l’arcivescovo Ruggieri.

Perchè Ugolino continua:

    Or ti dirò perchè i son tal vicino,

ossia — _me lo mangio_ — ? Perchè Ugolino ha inteso meglio dei
commentatori; ha inteso che a ragione non può piangersi del suo
traditore, egli morto di lui morto, se non per un danno, un’_offensione_
(_Purg._ XVII 82) secondo il senso che Dante pare attribuire a questo
verbo _offendere_ e _ledere_ in più luoghi; un’_offensione_ e un danno
che duri tuttavia. E questo danno non è la morte, sebben crudelissima,
ma l’esser morto in peccato.

Qui si può dire: E bene è codesto e nessuno lo nega, anche se nessuno
l’afferma. L’arcivescovo ha offeso il conte nel farlo morire così
crudelmente, che egli non pensò a pentirsi de’ suoi peccati o disperò
della salute eterna.... Vedete, che ciò è inverosimile _dantescamente_
parlando. Dante era giusto; e un padre, così martoriato, non lo avrebbe
poi così condannato, tanto più che un cronista racconta che questo padre
urlava dalla Muda: Penitenza! penitenza! E poi c’è altro. Dante, come
viaggiatore di così strano paese, al suo ritorno dà contezza di cose che
non altrimenti che con simile viaggio si sarebbero sapute. Appaga, o fa
prova di appagare, le curiosità inappagabili, solvendo i problemi
insolubili. Buonconte dove andò a morire? Che ne fu della Pia? Manfredi
morì pentito o contumace? E nel caso nostro, il conte Ugolino... Sì;
poteva alcuno chiedere in che ordine morirono i figli e i nipoti e lui,
quali parole pronunziassero, quali sentimenti provassero, che sogni, che
terrori, che angoscie, che strazi; ma da tutti, a quei tempi, si doveva
chiedere a un reduce dal mondo dei morti, e come di Manfredi così della
Pia, come di Buonconte così di Ugolino: Si pentirono? sono in luogo di
salute? Ora di Manfredi e di Buonconte e di Pia, nessuno sapeva nulla,
se si fossero o no pentiti, e tutti, di due almeno di loro, dovevano
pendere a credere che no: di Ugolino, di cui si affermava che sì, aveva
domandato penitenza, ed era morto alla presenza dei figli morti prima di
lui, Dante avrebbe risposto: “Naturalmente è nell’inferno, per
traditore, non però per aver tradito Pisa _delle castella_, ma per un
altro tradimento, che non importa accennare„? Ciò ripugna. Ma egli è
poeta, si soggiungerà; e il dramma de’ due nella buca, che l’uno rode il
capo all’altro, doveva singolarmente piacergli, piacergli più della
giustizia. Già: solo quell’esser due in una buca e quell’uno mangiar
l’altro, se mai; chè il racconto di Ugolino egli l’avrebbe potuto
mettere anche nel Purgatorio, con quello di Manfredi, con quello di
Buonconte; anche nel Paradiso, sto per dire... Possibile che si creda
che quel particolare preso a Stazio tanto valesse nell’anima di Dante,
da fargli obliare la pietà, che pur tanta dimostra, per l’infelicissimo
padre?

Ma concludiamo. Pare verosimile che Ugolino sia nella ghiaccia per un
peccato che egli commise proprio là nella muda, nella morte, in
relazione colla crudeltà di essa morte. Quale? Dante lo accenna quando
dice — _colui che tu ti mangi_. Ugolino dice di rodere, ma Dante dice
che _mangiava_. Tideo si rose le tempie a Menalippo, ma Ugolino lavorava
_nel teschio e l’altre cose_. Dante lo accenna anche meglio con lo
scrosciare delle ossa sotto i denti di cane, col quale atto il dannato
sottolinea e commenta il misterioso verso:

    Poscia più che il dolor potè il digiuno.

Il padre e avo violò coi denti le carni, forse il teschio, di alcuno de’
suoi figli e nepoti. Fu ciò vero? Non è raccontato; ma a Dante potè
essere fatto credere, vero o non vero che fosse. O potè imaginarlo e
inventarlo. E ciò sarebbe degno del poeta giusto? Non sarebbe indegno;
chè la giustizia di lui vuol mostrare che chi fallò è punito e chi si
pentì e bene operò è premiato; non pretende già di essere creduto in
proposito del fallo e della pena, della opera buona e del premio, e
specialmente in certi particolari, che è chiaro che egli inventa, come
la conversione di Manfredi e la morte di Buonconte e il fiero ultimo
pasto di Ugolino. Ma inventare cose contrarie alla verità conosciuta?
poichè c’è chi racconta che vide i cadaveri e li vide senza segni che
facessero sospettare. Ma bisognerebbe provare che Dante sapesse di tal
riconoscimento, o non piuttosto avesse della tragedia pisana notizie
incerte, quali si scorgono in questo passo del Bargigi: “fiera crudeltà
usarono in lasciarli morire in prigione: _per certo si tiene che
morirono di fame_„. E si metta a confronto questo altro luogo di un
cronista pisano: “gli autri tre morinno quella medesima septimana;
_anco_ per distretta di fame, perchè non pagonno„. E che Dante non
sapesse il dramma proprio come andò in tutto e per tutto, si può
rilevare dal fatto che egli chiama _figliuoli_ tutti e quattro i
compagni di prigionia e di morte del conte, e lo fa chiamar _padre_ da
Anselmuccio, e dice _età novella_, tale da fare _innocenti_, quella di
Gaddo e di Uguccione. Se inventò, è ben certo ch’egli inventò in un
campo, dirò così, libero all’invenzione, come per Buonconte e Manfredi,
e non pretendeva di esser creduto; ma volle per l’ultimo episodio del
suo inferno, dopo tanti altri pietosi, orridi, atroci, il pietosissimo,
l’orridissimo, l’atrocissimo.

Ma così l’episodio non è bello! Tante belle osservazioni, che vogliono
ora puntellare, ora rintonacare la poesia di Dante, si sgretolano e
cadono! Adagio. Provatevi. Non voglio qui ripetere osservazioni d’altri,
belle e giuste, specialmente di Antonio Dall’Acqua Giusti, nè qui tento
di ricostruire il dramma, che ben più efficace riesce con tale più
ragionevole interpretazione. Qui mi contento di qualche cenno.

Meditate questo passo:

                        Ed Anselmuccio mio
    disse: Tu guardi sì, padre, che hai?

Quando il padre divenne _cieco_, che gli fece egli a quel povero
Anselmuccio?

    Ed ei, pensando ch’io il fessi per voglia
      di manicar, di subito levorsi,
    e disser: Padre....

ahimè essi non avevano pensiero che di lui, si offrivano a lui come
pasto; ed esso... dopo... quando fu cieco...

    Ahi, dura terra perchè non t’apristi?

a che, se non a impedire l’orribile fatto, l’accoglimento nefandissimo
della pietosissima offerta? Ma questo è il pensiero più tragico, più
_indicibile_:

    due dì li chiamai....

Nessuno creda che.... Oh! no: non si può dire: Erano _morti_, intendete?
_Non erano ancora vivi_, nemmeno un poco, un poco da sentire... quel
lavorio di denti, quel rodere, quel mordere. E colui che brancolava
sopra loro, il _padre, era già cieco_... Il digiuno fu che potè. Oh!
come suona a questo punto, pieno e intero, lasciando che i denti ci si
ritrovino e cozzino a traverso, l’osso del teschio! Come giusta prorompe
l’imprecazione alla _novella Tebe_! Tebe novella, perchè ella fece che
Ugolino rinnovasse Tideo, _effracti perfusum tabe cerebri, e vivo
scelerantem sanguine fauces_ (Theb. VIII 761 e seg.) Non altro aveva in
mente il poeta, che appunto comincia il racconto col ricordo di Tideo, e
lo finisce con quella esclamazione, in cui le parole: “Poichè i vicini,
etc.„ sono derivate dal principio del IX libro della Tebaide: _Asperat
Aonios rabies audita cruenti Tydeos_; e le altre: “che se il conte etc.„
sembrano il commento alla forte espressione di Stazio (IX 3 e seg.)
_rupisse fas odii_. Anche: per concludere, è in Stazio un’espressione
che sola può insegnare qual sia il senso d’un verso di Dante:

                        _io scorsi_
    _per quattro visi il mio aspetto stesso._

Stazio racconta:

    _Erigitur Tydeus vultuque occurrit et amens_
    _Laetitiaque iraque, ut singultantia vidit_
    _Ora trahique oculos_, seseque agnovit in illo;
    _Imperat abscisum porgi...._

Tideo nel trovare la _sua morte_ nel viso del suo uccisore concepisce il
suo atto atroce: fa tagliare quella testa, se la fa porgere, la rode, la
mangia. Ugolino... si morde le mani, ma _per furore_, in tanto. Pure, da
quel gesto i figli presentiscono; dalle parole dei figli che in quel
gesto avevano veduto la voglia di _manicare_ (l’avevano intraveduta come
in un lampo perchè

    _di subito_ levorsi;)

egli, l’infelice, forse presentisce la conclusione ferina, anzi
_canina_, della tragedia.

Oh! chi ha già pianto sull’ultimo episodio dell’Inferno, come pianse sul
primo (i due amanti, i due nemici: quanto si assomigliano!), non ha
pianto assai, se non interpretava come interpreto io. Guardi i suoi
figliuoli, se è padre; e pensi che Dante ha osato imaginare e
rappresentare un padre ridotto da una disperazione enorme e infame a
mettere i denti nel teschio di essi, di essi, di essi!



III.

Le difficoltà del Bartoli e di altri commentatori e critici.


I.

Prendiamo il tomo sesto della storia della letteratura italiana del
Bartoli, e di esso tomo la parte prima, dove è riassunto e giudicato ciò
che si era pensato sino allora (1887) intorno al concepimento
fondamentale della _D. C._ e alla costruzione morale dei tre regni.
Fermiamoci ai punti nei quali il critico illustre si ferma dubitando, e
vediamo, se dopo lo studio mio, ci sia più ragione a dubitare.

Manca, purtroppo, il sottile ingegno che meglio avrebbe giudicato; il
nobile cuore che più lealmente avrebbe riconosciuto il vero e il falso
di queste ricerche!

Pag. 36-37: “Il concepimento della _Divina Commedia_ è senza dubbio
etico-religioso; l’esecuzione è in gran parte politica. Teniamo
rapidamente dietro a quest’uomo che dalla selva del vizio vuol salire il
monte della perfezione cristiana. Tra i primi dannati che egli incontra
sono i carnali; a due di questi egli parla, ma non gli esce dal labbro
una sola parola di abominazione per il loro peccato: tutt’altro: sembra
quasi invidiare la felicità del loro amore, se a Virgilio, che dopo il
racconto di Francesca gli domanda: “che pensi?,„ ei risponde:

    Quanti dolci pensier, quanto disio
    Menò costoro al doloroso passo!

E non pago di ciò, vuol sapere, è curioso di sapere tutto il dramma di
quella sciagurata passione, e domanda:

    Ma dimmi, al tempo de’ dolci sospiri,
      A che e come concedette Amore
      Che conosceste i dubbiosi disiri?

C’è qui il banditore della verità e della morale, o c’è l’uomo, il
vecchio uomo che forse si ricordava degli amori suoi, che forse
ripensava con desiderio ai suoi _dolci sospiri_?„

O anima gentile, c’è sì l’uomo e c’è il poeta, ma non c’è meno il
filosofo o teologo che esprime, senza farne le viste, sue verità
teologiche e filosofiche. Per Dante ci sono lussuriosi semplicemente rei
d’_incontinenza_ e altri rei di _malizia_ o ingiustizia che si voglia
dire. Francesca e Dido, Semiramis e Cleopatras sono dei primi. Brunetto
e Giasone e Mirra dei secondi. Ma Francesca è adultera, Semiramis
incestuosa, Dido e Cleopatras suicide.... Sì, ma per Dante fu la loro
incontinenza che produsse quelli altri guai; non fu l’amor del male che
ebbe tali effetti o strumenti d’incontinenza. Egli parla chiaro.
Semiramis

    A vizio di lussuria fu sì rotta
      Che libito fe’ licito in sua legge,
      Per torre il biasmo, in che era condotta.

Fu dunque il vizio di lussuria, l’incontinenza _causa mali tanti_. E
Dido

    _s’ancise_

sì, ma

    _amorosa,_

e Cleopatras è detta non oziosamente _lussuriosa_. Brunetto invece volle
il male, ribellandosi a Dio che aveva detto, _Crescite_, e impedendo per
parte sua la generazione della prole; e Giasone ingannò Issipile e Mirra
scellerata falsò se stessa; onde sono puniti l’uno come reo d’ira contro
il buon Dio, cioè come stolto agognatore di vendetta contro la sua
giustizia; il secondo e la terza come rei d’invidia, cioè finti e
coperti desideratori e artefici del mal del prossimo. Ma Francesca, oh!
Dante ci s’indugia a bella posta, per dichiararla colpevole solo di
smodato amore al bene che non è vero bene. Fu _Amor, che al cor gentil
ratto s’apprende_, fu _Amor che a nullo amato amar perdona_, fu _Amor_
che _condusse_ lei e lui _a una morte_. Furono _dolci pensier_, fu
_disìo_, fu _solo un punto_ che li _vinse_. Pensiamo: _solo un punto!_

Diciamo pure che nell’apprezzare il fatto si ricordasse degli amori suoi
e ripensasse con desiderio ai suoi _dolci sospiri_; ma aggiungiamo che
una volta apprezzatolo come conseguenza d’_amore_, cioè come
incontinenza, egli era obbligato dalla sua finzione stessa, dalla sua
filosofia e teologia, a non mostrare per que’ rei, i quali pure piangono
laggiù e accennano mestamente a Dio e alla preghiera, l’abbominazione
che doveva crescere di grado in grado per i cerchi dell’inferno, sino
alla maledizione contro Bocca, sino alla villania verso frate Alberigo.
Incontinenza offende Dio meno, dice teoricamente Virgilio; e già prima
Dante lo dimostra col fatto. E sì, in proposito a lussuria, quella che è
una vittoria d’amore, nel caso di Francesca e di Dido, e sì quella che è
émpito di lussuria, come nel caso di Semiramis, rotta a vizio di
lussuria, e di Cleopatras lussuriosa. Perchè le genti gastigate nell’aer
nero sembrano veramente di due ragioni: quelle rotte a vizio, quelle
vinte da un desio. Semiramis conduce la prima schiera:

    La prima di color di cui novelle
      Tu vuoi saper....;

Dido la seconda:

    la schiera ov’è Dido.

E forse la prima schiera è assimigliata al branco largo e scomposto
degli stornelli e l’altra alla lunga riga dei gru che vanno _cantando
lor lai_, e alle colombe; ma le anime sì dell’una e sì dell’altra sono
figurate come ratte da una forza maggior di loro, _portate_ (v. 49), e
_gli stornei ne portan l’ali_ (l’_ali_, soggetto: v. 40) e le _colombe
dal disio chiamate... vengon per l’aer... portate_... sì, forse dal
_voler_, ma meglio, forse meglio, dal _volare_ (cfr. _fertur in arva
volans_; Aen. V 215; _illam fert impetus ipse volantem_, ib. 219). Pur
c’è tra queste e quelle una differenza. Quale? Ecco:

    Nulla speranza gli conforta mai,
    Non che di posa, ma di minor pena.

Poichè due della schiera ov’è Dido, hanno un momento di tregua,

    mentre che il vento, come fa, si tace;

si deve necessariamente intendere che la disperazione di posa e di minor
pena sia propria solo dei peccatori assomigliati agli stornelli, cioè
dei lussuriosi, dei rotti a vizio, di quelli di cui la prima è
Semiramis. Ed è ben naturale che soli gli altri, quelli presi e vinti
d’amore, quelli che _amor... mena_, obbediscano allo scongiuro d’amore
espresso con l’affettuoso grido: _O anime affannate!_


II.

E passiamo ad altro. Leggiamo ancora:

Pag. 37-38: “Lo stesso può dirsi della famosa scena con Filippo Argenti.
Che se qui Dante grida a lui:

    .... con piangere e con lutto
    Spirito maledetto ti rimani,

e se si fa abbracciare e baciare da Virgilio, e si fa chiamare “alma
sdegnosa,„ noi non possiamo già supporre che tutto ciò esprima la
repulsione del Poeta per il peccato ond’è punito l’Argenti, ma dobbiamo
di necessità credere o che Dante avesse ragioni personali, a noi ignote,
di odiare quel “pien di fango„; o che, piuttosto, come qualcheduno ha
supposto, nel “fiorentino spirito bizzarro,„ che “in sè medesmo si
volgea co’ denti,„ egli abbia voluto rappresentare la discorde e rissosa
cittadinanza fiorentina dilaniatrice di sè medesima. A ogni modo è
sempre il pensiero della terra che lo accompagna in mezzo alla morta
gente„.

O anima gentile, con cui mi è dolce conversare non di là da molto cielo
e terra e mare, ma di là dalla vita stessa; può essere che Dante avesse
ragioni personali di odiare quel “pien di fango,„ e anche che egli
volesse in lui rappresentare la cittadinanza fiorentina. Ma il certo è
che Dante volle rappresentare in sè stesso l’uomo che respinge il male e
il malvagio, che ha nell’_irascibile_ la forza di _propulsare iniuriam_,
di odiare l’_ingiustizia_ anche quando si estrinsecò col rifiuto della
giustizia, anche quando ingiuria non commise, ma si volse in sè coi
denti. Traversando in barca (egli non è Enea, il perfettamente temprato,
che varca a piedi asciutti; Enea cui la Sibilla dice: _invade viam
vaginaque eripe ferrum; Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo!_)
la palude dell’ignavia malvagia, egli dà di sè mostra come _d’alma
sdegnosa_, cioè di tale che ha, e volto al giusto, ciò che i fitti nel
fango e gli altri dal sembiante offeso, o non ebbero, o troppo ebbero,
con effetto consimile d’inattività; che ha, insomma, l’irascibile. E
mostra di aver profittato dell’insegnamento che Virgilio gli aveva dato
avanti gl’ignavi assoluti, avanti quelli che nemmeno scelsero tra il
bene e il male. Virgilio gli aveva detto allora:

    Misericordia e Giustizia li sdegna.
    Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Di quelli non doveva curare, come di tali di cui, privi di volontà di
concupiscibile e d’irascibile, il mondo non lasciava essere _fama_;
questi della palude, tra cui sono o devono venire gran regi che
lasciarono di sè non l’oblio solo ma il disprezzo, tra cui è _persona
orgogliosa_, una maschera di forte e di bravo, della quale pure non è
bontà che fregi la memoria, egli li deve maledire e respingere: _Spirito
maledetto!_ E il Poeta conclude l’episodio con parole che ricordano quel
_Non ragioniamo_ di Virgilio: Quivi il lasciammo, _chè più non ne
narro_. La mira del Poeta, nè solo rispetto all’Argenti, ma in tutto
l’episodio della palude sino all’entrata in Dite, è di mostrare oltre
l’incontinenza dell’irascibile e oltre il suo difetto, il giusto
temperamento di esso.

E lo mostra in sè, in Virgilio e in Enea, compiutamente.

Come gl’ignavi di oltre Acheronte si figurano dal Poeta condannati a una
vana e dolorosa attività, correndo essi perpetualmente e soffrendo le
punture di mosconi e di vespe, e piangendo; come essi si figurano
_invidiosi d’ogni altra sorte_, non solo del Paradiso, che sdegnosa loro
interdice la Misericordia; ma anche dell’Inferno, di cui li tiene al
vestibolo pure sdegnosa la Giustizia; così gl’ignavi del male,
gl’incontinenti dell’irascibile, sono figurati non solo rissosi e con
sembiante offeso e tristi, ma anche avvolontati _di altra sorte_, anche
delle peggiori pene di Dite. Ma anche loro sdegna la Giustizia! _Via di
qua con gli altri cani!_ Perchè evidentemente l’Argenti vorrebbe passare
di là, e stende le mani al legno per salirvi e fare la traversata. _Vedi
che son un che piango!_ aveva detto esso, come Palinuro si chiama
_misero_ pregando Enea:

    _Da dextram misero et tecum me tolle per undas!_

E nell’atto e nelle parole di Virgilio vive, con la naturale
trasformazione, il solenne monito della Sibilla:

    _Unde haec o Palinure, tibi tam dira cupido?_
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    _Desine fata deum flecti sperare precando._


III.

E passiamo ancora ad altro, e propriamente alla costruzione morale dei
tre Regni, argomento che forma il Capitolo II del citato volume di A.
Bartoli.

Pag. 48-49: “....perchè, se soffrono eternamente come si soffre
nell’Inferno, porli (gli sciagurati che mai non fur vivi) fuori di esso?
— Appunto — dice il Todeschini — questa dissonanza tra l’apparenza e la
realtà ci dà diritto a riprendere l’ordine che fu dal Poeta seguito.
Niuno si lagnerà, perchè ai nove cerchi dell’Inferno, Dante abbia
preposto un vestibolo, ma questa lodevole idea doveva condurlo all’altra
di collocare quivi il Limbo de’ sospesi. — Nella costruzione morale
dell’Inferno questo è senza dubbio un errore, o almeno, come fu detto
dal Tommaseo — un giudizio non assai teologico. — Ma è un errore, però,
che ha le sue ragioni, le sue alte ragioni, nella sdegnosa anima del
Poeta„.

E un errore sia, se si vuole, ma che ha invero le sue ragioni, più alte
o meno, non tanto nella sdegnosa anima del Poeta, quanto nel disegno che
egli delineò già prima di por mano al poema sacro. Gli ignavi che mai
non furono vivi, sono non solo fuori dell’Inferno, ma di là di
Acheronte, e i sospesi non solo dentro, ma di qua. Perchè? Perchè anche
quelli della palude pingue sono di là della porta di Dite, e quelli che
l’anima col corpo morta fanno, di qua.

Ora gl’ignavi e i fangosi sono accidiosi, in diverso grado, ma gli uni e
gli altri rispetto alla vita attiva; i non battezzati e gli eresiarchi
sono accidiosi, in diverso grado, ma gli uni e gli altri rispetto alla
vita contemplativa. Come la vita contemplativa è più degna dell’attiva,
così il manco nella prima è maggior torto che quello nella seconda.
Dante che, oltre teologo, è uomo, corregge da par suo ciò che nella
applicazione pratica di questo giusto principio urtava lui come offende
noi, aggiungendo le vespe e i mosconi agli ignavi di fuori, togliendo
ogni martiro ai non battezzati di dentro, facendo per gli spiriti magni
un nobile castello, buttando miseramente nel fango gli accidiosi del
male, elevando con la figura di Farinata e con il di lui non memorare se
non anime di grandi, _lo secondo Federico e il Cardinale_, tutte le
anime seppellite nelle arche roventi, e sopra tutto rappresentando
quelli di fuori, gli esclusi da Acheronte e da Dite, desiderosi invano
di passar dentro.

Ora le difficoltà si moltiplicano. Le risposte mie le seguano passo
passo.

Pag. 50: “....le prime colpe punite sono quelle d’incontinenza. Nel
cerchio secondo i lussuriosi, nel terzo i golosi, nel quarto gli avari e
i prodighi, nel quinto gl’iracondi„.

Non propriamente “gl’iracondi,„ ma gl’incontinenti d’irascibile, coloro
“cui vinse l’ira„ e coloro che furono “tristi,„ coloro che, per usare le
parole del Convivio (IV 26) non furono _temperati_ o _forti_, non
usarono con l’appetito nè _lo freno_ nè _lo sprone_; accomunati, sebbene
con pena e atteggiamenti diversi, nella stessa palude; come gli avari e
i prodighi nel quarto cerchio. Vinti dall’ira e tristi dunque; ma non
rei d’ira, per così dire, consumata; poichè non fecero ingiuria se non a
sè stessi, o l’ingiuria tollerarono a sè o ad altrui fatta. E sono gli
uni e gli altri, per il difetto d’attività, _accidiosi_.

Il che, come è naturalissimo dire dei fitti nel fango (ed è
indubitabile, secondo il luogo di Gregorio Nysseno, _Accidia est
tristitia quaedam vocem amputans_, che io da me trovai nella _Somma_ e
che dopo ritrovai nel _Commento_ del Tommaseo, dal quale nessun
commentatore recente, ch’io sappia, lo trasse), così può parere strano
detto dei rissosi, di quelli cui vinse l’ira. Oh! non paia! L’ira
_impedì_ questi dall’azione, secondo un procedimento che il Poeta
descrive nel Minotauro che è appunto simbolo dell’ira:

    _quando vide noi, sè stesso morse_

(come l’Argenti volge in sè stesso i denti),

    _sì come quei cui l’ira dentro fiacca,_

cui toglie, cioè, la forza per agire. Dal che si comprende agevolmente
come questi cui l’irascibile dominava, mentre essi lo dovevano dominare
col freno della temperanza, siano pure inattivi ed accidiosi come gli
altri che non sollecitarono il medesimo irascibile con lo sprone della
fortezza. Di tale effetto dell’ira è parola nella _Somma_ (1ª 2ae,
XLVIII 2, 3, 4): _ira maxime facit perturbationem circa cor, ita ut
etiam ad exteriora membra derivetur_. E uno stato d’anima è comune
all’accidia e all’ira: la _tristitia_. _Motus irae insurgit ex aliqua
illata iniuria contristante, cui quidem tristitiae remedium adhibetur
per vindictam_ (S. 1ª 2ae XLVIII 1). Chiaro che se la vendetta non si
fa, resta la _tristitia_. Or Dante si cava ben d’impaccio, e non
considera rei d’ira propria se non quelli che compierono la vendetta:
gli altri, incontinenti bensì d’irascibile, ma che la vendetta non
fecero, accomuna cogli accidiosi.


IV.

Pag. 50: “Da ciò parrebbe che Dante avesse distinti i peccatori dei
cerchi dell’_Inferno_, come quelli dei cerchi del _Purgatorio_, secondo
l’ordine dei peccati mortali, ma, naturalmente, in senso inverso...„

Benissimo.

Pag. 51: “Ma giunti al sesto cerchio si ha un cambiamento„.

Come mai Dante, il sistema cambiato nell’_Inferno_ a questo punto,
l’avrebbe ripreso poi nel _Purgatorio_ interamente e perfettamente?

Pag. 51: “Non si parla più di peccati mortali, e invece le colpe sono
divise secondo un concetto affatto diverso, del quale il poeta crede di
dover render conto, e lo fa coi versi 70-83 del canto XI; versi dai
quali apparisce aver egli seguito la divisione di Aristotele, che
nell’_Etica_ a Nicomaco (Lib. VII c. I) dice esservi tre specie di cose
che intorno ai costumi sono da fuggire, l’incontinenza, il vizio e la
bestialità„.

Ma se l’aver detto che le colpe punite nei cerchi secondo, terzo,
quarto, quinto, sono d’incontinenza, non impedisce che queste colpe
siano pure dichiarate lussuria, gola, avarizia e soggiacimento all’ira e
tristizia (chiamiamole così; ma sono l’accidia); perchè non credere che
anche le altre due partizioni aristoteliche racchiudano gli altri tre
peccati mortali? Tanto più che appunto tre distinzioni Dante fa, nè più
nè meno, delle altre colpe che si riducono a bestialità e malizia; cioè
violenza, frode in chi non si fida, frode in chi si fida o tradimento.
Tre e non più, come i peccati che mancano. O non è cosa da far pensare?
Si attenda. Anche nel trattato delle colpe nel _Purgatorio_ si dà una
definizione e denominazione filosofica di certe colpe già appellate coi
loro nomi di peccati. Si dice (XVII 112 e segg.):

    Resta, se dividendo bene estimo,
      che il mal che s’ama è del prossimo, ed esso
      amor nasce in tre modi in vostro limo.
    È chi per esser suo vicin soppresso,
      spera eccellenza, e sol per questo brama
      ch’e’ sia di sua grandezza in basso messo.
    È chi podere, grazia, onore e fama
      teme di perder perch’altri sormonti,
      onde s’attrista sì, che il contrario ama;
    ed è chi per ingiuria par ch’adonti
      sì, che si fa della vendetta ghiotto;
      e tal convien che il male altrui impronti.
    Questo triforme amor quaggiù di sotto
      si piange.

Si riduce dunque questo triforme amore alla superbia, invidia e ira, con
questi nomi chiamate via via (_superbi cristian_, X 121; _la cervice mia
superba_, XI 53; _superbia_, ib. 68; _di tal superbia_, ib. 88; _or
superbite_, XII 70; _la colpa della invidia_, ib. 135; _d’invidia_, XIV
82; _invidia_, XV 51; _in foco d’ira_, ib. 106; _d’iracondia_, XVI 24;
_per ira_, XVII 36; _senza ira mala_, ib. 69). Dell’accidia si parla
così (XVII 82 e segg.):

    Dolce mio padre, dì, quale offensione
      Si purga qui nel giro, dove semo?
      Se i pie’ si stanno, non stea tuo sermone.
    Ed egli a me: l’amor del bene, scemo
      Di suo dover, quiritta si ristora.
      Qui si ribatte il mal tardato remo:
    Ma perchè più aperto intendi ancora...

Virgilio comincia la esposizione dell’amore principio d’ogni bene e mal
fare;

    Se lento amore in lui veder vi tira,
      O a lui acquistar, questa cornice
      Dopo giusto penter, ve ne martira.

Così Virgilio ha risposto alla domanda del discepolo: quale offensione
si purga qui nel giro, dove semo? E il discepolo intenderà meglio alle
parole (XVIII 107):

                  negligenza e indugio
    .... per tepidezza in ben far messo,

e meglio anche alle altre (ib. 132):

    dando all’accidia di morso.

Ma il cenno dell’_amor del bene scemo di suo dover_, l’altro del _mal
tardato remo_, il terzo del _lento amore in lui veder o a lui
acquistare_, poteva bastare. Non così è determinato nelle sue tre specie
e appellazioni l’amore che s’abbandona troppo al bene che non è
felicità. Noi intendiamo subito di che si tratta; ma nella finzione
poetica, Dante doveva, e perciò noi dovremmo, a intendere provare
difficoltà.

    Altro ben è che non fa l’uom felice;
      non è felicità, non è la buona
      essenza, d’ogni ben frutto e radice.
    L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
      di sopra noi si piange per tre cerchi,
      ma, come tripartito si ragiona,
    tacciolo, acciocchè tu per te ne cerchi.

Che dobbiamo dire? dobbiamo dire che Dante ha cambiato sistema? dobbiamo
dire che questo amore del bene che non è felicità, vale a dire
l’incontinenza, non comprende i tre peccati che avanzano, cioè
l’avarizia, la gola e la lussuria?

Dante stesso ci mostra chiaramente che diremmo male, se ciò dicessimo,
poichè a mano a mano apprende il nome delle tre colpe (_del tutto
avara_, XIX 113; _avarizia_, ib. 121; _d’avarizia_, XX 82; _avaro Mida_,
XX 106; _avarizia_, XXII 23; _avaro_, ib. 32: _avarizia_, ib. 34;
_dismisura_ — (nullo spendio con misura ferci _Inf._ VII 42) — ib. 35;
_l’avarizia_, ib. 53; _la gola oltra misura_, XXIII 65; _colpe della
gola_, XXIV 128; _lussuria_, XXVI 42; _Soddoma_, ib. 40, ib. 79). Allo
stesso modo, nell’Inferno Virgilio lascia tre peccati con la sola
definizione filosofica: tre peccati nell’Inferno, tre nel Purgatorio; là
di bestialità e malizia, anzi siccome ho provato che la bestialità è una
delle tre specie di malizia, di malizia là, qua d’incontinenza, mentre
altri tre già dichiarati coi loro propri nomi, hanno anche il loro
aggruppamento teorico: tre nell’Inferno, lussuria, gola, avarizia
aggruppate sotto il nome d’incontinenza; tre nel Purgatorio, superbia,
invidia e ira, aggruppate sotto il nome di triforme amor del male o
malizia.

In mezzo a questi due ternari è nell’Inferno e nel Purgatorio, un
peccato meno nettamente espresso che però al v. 132 del XVIII _Purg._ è
finalmente detto: _accidia_.

Ma prima oltre che _negligenza e indugio_ nati da _tepidezza_, quasi a
comprendere l’accidia punita nell’anti-purgatorio, è dichiarata lento
amore _a lui vedere e a lui acquistare_, il che mostra la distinzione
dell’accidia punita nell’Inferno nella vita attiva e nella vita
contemplativa.

Concludendo, ripetiamo che come nel Purgatorio l’aver chiamato _Amor
ch’ad esso troppo s’abbandona_, l’incontinenza, e l’aver detto che si
partisce in tre peccati non però nominati, non impedisce che questi tre
peccati sieno appunto avarizia e il suo contrario, gola e lussuria, così
nell’Inferno, il non avere detto della malizia se non che si divide in
tre peccati, senza dire il nome di questi, non vieta che questi peccati
siano appunto l’ira, l’invidia e la superbia.

Ma nel Purgatorio i tre peccati senza nome sono poi nominati. E
nell’Inferno? Nell’Inferno non sono poi nominati, no; salvo qualche
accenno più o meno chiaro. Uno chiarissimo:

    _O cieca cupidigia, o ira folle,_

detto appunto della violenza o bestialità (_Inf._ XII 49); al quale
cenno molti altri aggiunsi a suo luogo. Ma si direbbe che Dante qui si
finga confuso e voglia confondere il lettore, chiamando, per esempio,
superbo Vanni Fucci e Capaneo, che pur son rei, d’invidia oltre che
d’ira, il primo, e d’ira il secondo. E noi dobbiamo qui supporre, e del
tacere e del parlare equivoco, qualche profonda ragione, perchè qui è
sopra tutto, io credo, l’originalità del sistema teologico-penale di
Dante. Certo i simboli dei tre peccati sono evidenti; il bicorpore
Minotauro è ben l’ira folle, senza ragione, e i tricorpori Gerione e
Lucifero sono i due peccati in cui sono i tre elementi, cioè oltre la
volontà e l’appetito, anche la ragione. Lucifero è ben la superbia: come
non Gerione l’invidia? Ma non mi voglio ripetere. Questo sopra tutto si
tenga avanti che Dante, a concepire e definire i peccati, ha avanti a sè
oltre Aristotele, oltre S. Tommaso, _lo Genesi_. Superbo è per lui chi
assomiglia a Lucifero ribelle a Dio, a Adamo disubbidiente a Dio, a
Caino uccisore del fratello; invido chi ricorda Caino non nell’ambito
della famiglia, ma nel cerchio più largo dell’umanità; reo d’ira
l’Adamo, il Caino, l’_Uomo_ che solo col _cuore_, cioè l’appetito
(_l’una parte chiamo cuore, ciò è l’appetito_: Vita Nova cap. XXXVIII),
senza concorso di ragione, se la prende con gli uomini, con sè stesso, e
con Dio che gli fece il benefizio, il quale egli apprende come condanna,
della vita, e gli diede la condanna, la quale egli apprende come
ingiusta, della generazione e del lavoro.


V.

Riassumo dal libro del Bartoli. Il Minich ritiene che Dante nei primi 7
canti avesse _abbozzato_ un sistema di punizione, che poi all’ottavo
abbandonò, dando in tal modo alla Divina Commedia _quelle vaste
proporzioni_ che vi si ammirano. Il Todeschini confuta questa ipotesi
_come poco onorevole alla reputazione letteraria dell’Alighieri_. Il
Bartoli ammette che _anche dopo quella confutazione, certe difficoltà
permangono_.

Pag. 53: “In tanta abbondanza di peccati, noi sentiamo qui che manca
qualche cosa: mancano tre dei vizi capitali, la superbia, l’invidia e
l’accidia.

Incominciamo dall’accidia...„

Riassumo ancora. Il Bartoli non crede che accidiosi siano nel vestibolo
dell’Inferno, nè che il Poeta confonda _l’accidia coll’ignavia, colla
viltà d’animo_.

Pag. 55: “Sebbene non possa nascondere che un argomento in favore
dell’opinione del Daniello e degli altri che ho citati, sarebbe questo,
che l’accidia è punita nel Purgatorio Dantesco in modo analogo a quello
onde sono puniti i vili dell’Antinferno. Questi son condannati a correre
perpetuamente dietro l’insegna; ed anche coloro che si purgano del
peccato dell’accidia hanno il correre per punizione:

                 ....... correndo
    Si movea tutta quella turba magna

                          _Purg._ XVIII 97-8

    Noi siam di voglia a muoverci sì pieni
    che ristar non potem....

                               _ivi_ 115-16„.

L’argomento qui esposto, è per me decisivo; ma bisogna compierlo e
chiarirlo. L’accidia, che è lento amore in vedere o a acquistare il
bene; che è, con altre parole, nella vita contemplativa e nell’attiva
(anche questo ordine, prima la contemplativa, poi l’attiva, non è senza
perchè, e lo vedremo); la duplice accidia adunque, spirituale e carnale,
si punisce da Dante in due modi, con la forzata mobilità di chi volle e
vorrebbe posare, con la forzata immobilità di chi vorrebbe invece ora
muoversi. Anzi il Poeta trova la maniera di unire questi due castighi in
uno. Diciamo partitamente il tutto.

Gl’ignavi dell’Antinferno corrono perpetuamente, ma nel vestibolo
dell’Inferno dove pure vorrebbero entrare: _invidiosi son d’ogni altra
sorte!_ Nella palude Stigia alcuni rissano continuamente, altri sono
fitti nel fango: gli uni e gli altri, _piangono e s’attristano_ e
vorrebbero pure uscir di lì, a costo anche di passare in Dite. Gli
accidiosi spirituali del Limbo posano bensì ma sospirano, sebbene i loro
lamenti non suonino come guai; e vivono in un continuo desiderio senza
speranza. Gli accidiosi spirituali del _cimitero_ sugli spalti di Dite;
che assomigliano tanto alla _gente di molto valore che in quel limbo
eran sospesi_, poichè in quel cimitero è gente _magnanima_, cui voler
parlare e cui intendere è giusto desio; questi altri accidiosi che
invece di sospiri gettano duri lamenti,

    che ben parean di miseri e d’offesi,

sono sepolti in arche che si chiuderanno per sempre nel giorno del
Giudizio Universale. Questi sono i castighi dell’accidia dell’Inferno. E
nel Purgatorio gli accidiosi in parte sono

      ... anime che movieno i piè..
      e non parevan, sì venivan lente;
                             .... persone
      che si stavano all’ombra dietro al sasso,
      com’uom per negligenza a star si pone.
    ed un di lor, che mi sembrava lasso,
      sedeva ed abbracciava le ginocchia,
      tenendo il viso giù tra esse basso;

sono _genti_ che

    venivan... innanzi a noi un poco,
    cantando _Miserere_ a verso a verso,

sono anime che _siedono_ cantando nella valletta amena. E non è desio
che manca loro; ma la speranza, senza pure essere annullata come nei
sospesi del Limbo cui assomigliano (là parvoli innocenti, che morirono
sulla soglia della vita, qua uomini rei, che si pentirono sulla soglia
della morte; là _spiriti magni_ in un nobile castello, qua un _esercito
gentile_ in una amena valletta), la speranza è in loro circoscritta.
Colui che mostrava

                       sé più negligente
    che se pigrizia fosse sua sirocchia,

che ha gli _atti_ così _pigri_ e le _parole_ così _corte_, dice:

    ... Frate, l’andare in su che porta?
      chè non mi lascerebbe ire ai martiri
      l’uccel di Dio che siede in su la porta;

che se così non fosse, oh! correrebbero ben esse anime, come fa la
_masnada fresca_:

    Come quando, cogliendo biada o loglio,
      li colombi adunati alla pastura,
      queti senza mostrar l’usato orgoglio,
    se cosa appare ond’elli abbian paura,
      subitamente lasciano star l’esca
      perchè assaliti son da maggior cura.

Nè è senza perchè, l’impossibilità, di salire di notte:

    non però che altra cosa desse briga,
      che la notturna tenebra ad ir suso;
      quella col non poter la voglia intriga.

Il che ricorda, con la conveniente differenza e proporzione da Inferno a
Purgatorio, le tenebre del Limbo:

    Loco è laggiù non tristo da martiri
      ma di tenebre solo.

Sono, come i commentatori annotano, le tenebre evangeliche (Giovanni XII
35) nelle quali chi cammina non sa dove si vada. Ora, continuando, nel
Purgatorio oltre questi accidiosi — lenti, pigri, sedentarii — ci sono
quelli, di cui parla il Bartoli, che corrono e sono pieni di voglia a
muoversi; sono immobilità dunque e mobilità forzate, nel Purgatorio,
come nell’Inferno mobilità e immobilità pur forzate, nell’ordine proprio
che dico, inverso; come il lento amore è partito da Virgilio così — _in
lui vedere o a lui acquistare_ — inversamente cioè alla collocazione
dell’accidia nell’Inferno; dov’è prima la carnale degli ignavi e poi la
spirituale dei sospesi, prima la carnale dei rissosi e dei fitti nel
fango e poi la spirituale di coloro che l’anima col corpo morta fanno.
Nulla a caso, e tutto mirabile, come nelle opere di Dio!

Ho ampliato dunque e chiarito e compiuto l’argomento del Bartoli. Sì:
accidiosi sono gli sciaurati del vestibolo dell’Inferno perchè
condannati al contrappasso del correre perpetuamente, come gli accidiosi
della quarta cornice del Purgatorio; nello stesso modo che accidiosi
sono gli altri perpetuamente mobili dell’Inferno, ossia quelli che

    si percotean, non pur con mano
      ma con la testa, col petto e co’ piedi,
      troncandosi coi denti a brano a brano.

Ai quali sono pure accomunati nel castigo altri pure accidiosi, che però
sono condannati all’immobilità, così come all’immobilità assoluta e
relativa, senza speranza o con speranza limitata, con desio o
inadempibile o adempibile dopo certo tempo, ma ardente desio, con
tenebre totali o parziali, reali e simboliche, sono condannati una
ragion diversa di accidiosi, quelli che tali furono rispetto alla vita
spirituale: i sospesi nel Limbo, i sepolti nelle arche, i lenti e pigri
del monte, i seduti nella valletta.

Pag. 56: “Quanto poi a credere gli accidiosi puniti nella belletta
negra, io direi recisamente che è impossibile„.

Di ciò il Bartoli assegna alcune ragioni che è inutile combattere con
altri argomenti. Basta il già riferito.

Dante dice:

    sotto l’acqua ha gente che _sospira_,
      e fanno pullular quest’acqua al summo
      come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
    Fitti nel limo dicon: “_Tristi_ fummo
      nell’aer dolce che del sol s’allegra,
      portando dentro _accidioso_ fummo:
    or ci _attristiam_ nella belletta negra.
      Quest’inno _si gorgoglian nella strozza,
      chè dir nol posson con parola integra_„.

Dice Gregorio Nysseno citato nella Somma di S. Tomaso (1ª 2ae XXXV 8)
_Accidia est tristitia vocem amputans_. Che altro si cerca? E si noti
che anche questa gente _sospira_, come quella del Limbo e come quella
delle arche da cui escono però sospir _dolenti_.

Pag. 59: “Questo cerchio (il 5º) dell’Inferno dantesco è il luogo dove
molti interpreti pongono tutti i peccati che non riescono a trovare
altrove. Manca la pena dell’accidia, dell’invidia, della superbia:
ebbene, siccome, dicono, queste _devono esserci_, troviamole nel quinto
cerchio„.

In verità DEVONO ESSERCI. Ma via: ammettiamo la _possibilità_ che Dante
se ne dimenticasse o che dopo il 7º canto avendo cambiato sistema
trascurasse nientemeno che i peccati capitali più gravi, l’invidia e la
superbia (l’accidia è fuor di questione). Ammettiamo questa possibilità;
ma ammettiamo anche la possibilità che superbia e invidia ci siano.
Gl’indagatori della Divina Commedia hanno avuto ragione di ricercarle,
ma hanno avuto due torti:

1º di averle cercate nella palude pingue;

2º di non aver cercato un terzo peccato che manca con gli altri due, e
che non è l’accidia, e che con gli altri due è detto _spirituale_, che
con gli altri due è strettamente unito, che con gli altri due è da Dante
nel Purgatorio fatto discendere dall’_amor del male_ e che perciò con
gli altri due dovevano cercare. Furono due parolette — _vinse l’ira_ —
quelle che tennero tutti i commentatori di qua dal vero modo di
interpretare la costruzione morale della Comedia.

L’anime di color cui vinse l’ira, come non sono d’iracondi? Così
pensarono tutti e s’ingannarono. E certo Dante propose a noi un nodo, un
_enigma forte_; ma ci dette ancora come solverlo e spiegarlo. Chi frena
l’_ira_, è per lui continente o temperato; chi non la frena, se ne
lascia prendere la mano, chi ne è _vinto_, è incontinente o
intemperante: d’irascibile, s’intende. Ora incontinenza non è malizia. E
l’ira peccato capitale è peccato di malizia, come Dante si fa dichiarar
nel Purgatorio:

                      esso
    amor

(del male)

    nasce in tre modi in vostro limo,

nel modo dell’ira, dell’invidia e della superbia. Dunque in Dante
incontinenza d’ira non è il proprio peccato d’ira. Questo va unito col
mal del prossimo, del prossimo almeno: dico almeno, perchè nella colpa
d’ira quale si purga nel secondo regno, non può essere l’odio _proprio_
e l’odio dell’_esser primo_: col male, dunque, d’altrui. Ora Dante
espressamente dice di Filippo Argenti:

    _in sé medesmo_ si volgea co’ denti.

E suo misfatto non ha a raccontarci, ma dice solo:

    Quei fu al mondo persona orgogliosa;
    _Bontà non è_ che sua memoria fregi.

Una mala disposizione quindi e un peccato negativo, un difetto assoluto
di opere buone. Rassomiglia quindi questo peccatore agl’ignavi

    che visser senz’infamia e senza lodo,

di cui

    fama... il mondo esser non lassa;

che

    mai non fur vivi.

Quelli non ebbero volontà, questi l’asservirono all’appetito, cioè alla
parte d’esso che è detta irascibile; ma nè quelli nè questi fecero il
male, come nè il bene. Sono accidiosi e questi e quelli. Così gli
interpreti avrebbero concluso, se non si fossero lasciati traviare dalla
parola _ira_, che Dante pose bene a malizia! Così gli interpreti
avrebbero concluso, pensando che, come l’ira è peccato di malizia, Dante
d’uno punito per ira avrebbe riferito il male che fece, come lo
riferisce per gli altri puniti per malizia. Mentre de’ rei
d’incontinenza può bensì narrare o far narrare un particolare peccato,
come per Francesca, ma può solamente accennare a un loro vizio abituale,
come per Cleopatras e Ciacco e gli avari. Per gli accidiosi poi, ossia
incontinenti e privi d’irascibile (sono di due ragioni, rissosi e fitti
nel fango: l’abbiamo detto molte volte), a più forte ragione doveva
astenersi da riferire fatti concreti. Essi sono puniti _per non fare_;
cioè per non aver fatto sono accidiosi, per non avere dominato o usato
l’ira cioè l’irascibile, sono incontinenti. Non sono rei dunque di male
fatto al prossimo nè a sè, nè voluto fare a Dio: e perciò non sono rei
d’ira. E gl’interpreti avrebbero, dopo questo, fatto un altro passo. Non
avrebbero cercato più gli altri due peccati, invidia e superbia, nella
palude, poichè, secondo la dichiarazione del Purgatorio, essi non sono
mai scompagnati dal male del prossimo. Vengono l’uno da timor di perdere
podere, grazia, onore e fama, e l’altro da desiderio d’eccellenza, ma
l’uno per quel timore, l’altro per questa speranza, hanno bisogno che il
_vicino_ sia soppresso e _altri_ non sormonti. Avrebbero dunque
gl’interpreti esaminato di chi e in qual luogo Dante raccontasse o
accennasse un fatto o fatti di soppressione del _vicino_ o d’_altri_, e
avrebbero detto che in quel luogo si puniva la superbia e l’invidia;
come certo avrebbero concluso che si puniva l’ira dove erano raccontate
vendette. Si sarebbero, a ogni modo, lasciati a tergo la palude pingue,
perchè loro sarebbe parso impossibile che dei tre peccati che nascono
dall’amor del male e si estrinsecano col male del prossimo (almeno, del
prossimo), non fosse detto se non che:

    Bontà non è che _lor_ memoria fregi.

E qui prevengo un’obbiezione.

— La gente fangosa si strazia come è raccontato in Dante e si fa quanto
male può. Ciò è in contradizione con quanto si vorrebbe inferire dal
verso:

    in sè medesmo si volgea co’ denti. —

Rispondo, prima, che quel male che essi si fanno è come inteso fatto da
sè a sè ed è significazione della mala volontà che essi ebbero in vita,
la quale pure non trascese ad ingiurie, in vita. In morte, sì,
trascende, a lor punizione. Quello che agli ignavi sono i mosconi e le
vespe, stimoli all’attività ad essi morti i quali vivi non la ebbero,
sono a questi altri ignavi del male, tali cioè che furono portati
continuamente al mal del prossimo, gli strazi de’ loro compagni. Con
quanta accortezza e profondità ciò fosse pensato da Dante, vede ognuno.

Un’ultima osservazione. Degli interpreti di Dante sono alcuni dottissimi
e acutissimi; primo di tutti, oserei dire, Isidoro Del Lungo. Ebbene
egli, pure abbagliato con gli altri dalle parole _cui vinse l’ira_, si
può dire che convenga con me, sebbene nella palude Stigia egli cerchi e
creda di aver trovato, oltre l’ira e l’accidia, la invidia e la
superbia. Ci sono infatti, in un certo modo, ci sono. Si può dire (e già
l’ho detto) che nella palude pingue sia punito l’_amor del male scemo di
suo dovere_. Ora l’amor del male è pur triplice e, quando spinge
all’ingiuria, diventa non ira soltanto, ma pur invidia e superbia. Sì
che si può concludere che veramente nel brago sia l’ira, l’invidia e la
superbia, ma senza effetto: mala volontà, ma accidiosa.

Pag. 70: “Dunque nè accidiosi, nè superbi, nè invidiosi, per me, nello
Stige, ma soli iracondi„.

Dunque nè iracondi nello Stige, propriamente, nè invidiosi, nè superbi,
ma soli accidiosi, accidiosi come quelli immediatamente dentro Dite:
nella vita attiva quelli dello Stige, nella vita contemplativa quelli
dentro Dite; quelli messi con altri peccator carnali, d’incontinenza,
questi con altri peccatori spirituali, di malizia: accidiosi come quelli
di qua e di là d’Acheronte: nella vita attiva gli ignavi, nella vita
contemplativa i sospesi; e accidiosi come quelli bensì, ma con una
differenza; poichè quelli intorno Dite sono accidiosi con mala volontà,
quelli intorno Acheronte, sono tali o senza o contro volontà. Contro
volontà, i sospesi, ma sino a un certo punto. Dice Virgilio nel _Purg._
(III 40 e segg.)

    E disiar vedeste senza frutto
      tai, che sarebbe lor disio quetato
      ch’eternalmente è dato lor per lutto.
    Io dico d’Aristotile e di Plato
      e di molti altri. E qui chinò la fronte,
      e più non disse, e rimase turbato.

Rimase turbato, pensando non solo all’eterno lutto del vano desiderio,
ma ancora riconoscendo che il loro difetto di fede fu volontario. Essi
avrebbero potuto credere in Cristo venturo, e salvarsi.


VI.

Dalla pagina 70 alla 75 il Bartoli riferisce e confuta i sistemi del
Todeschini e del Witte, per i quali i peccatori non sono distinti
“secondo le diverse passioni che spingono gli uomini al peccato, ma
prescelse invece il disegno di trarne la distinzione dalla effettiva e a
così dire materiale natura de’ peccati da loro commessi ecc. ecc.„ È
inutile seguire il Todeschini nell’esposizione del suo sistema, perchè,
all’evidenza, è esatto l’altro: che Dante ha diviso i peccatori secondo
le diverse passioni che spingono gli uomini al peccato.

Didone e Cleopatras non sono punite come suicide, nè Semiramis come
incestuosa, nè Francesca come adultera, perchè la passione che le spinse
al peccato fu _amore_ e _lussuria_, amor cioè soverchio del bene che non
è bene. Brunetto non è punito come lussurioso, perchè la passione che
spingeva lui e i suoi compagni, era non la detta lussuria o il detto
amor del bene, ma l’amor del male per il quale si ribellava a Dio
creatore che comanda di generare. E così non sono puniti per avarizia
gli usurai, perchè la passione che li spingeva era pur sì fatto amor del
male, per cui si ribellavano a Dio creatore e vendicatore, che aveva
ingiunto agli uomini di lavorare e di pascersi nel sudore della loro
fronte. E così via dicendo.

Pag. 72: “Anche il Witte è di opinione che Dante abbia nell’Inferno
punito il delitto, non la passione che è stata causa del delitto...„

Diciamo che a quando a quando è punito un vizio o un peccato,
un’abitudine o un fatto. Senza cercar oltre, Francesca è punita per un
fatto, d’amore; Semiramis per un’abitudine, vizio di lussuria. Ma
diciamo ancora che questi o vizi o peccati sono puniti secondo la
passione che li mosse. Tanto il vizio di Semiramis quanto l’adulterio di
Francesca, furono causati dall’_amor ch’ad esso_ (al bene che non è
bene) troppo s’abbandona; non dall’amor del male, e, si può ben
intendere, niente affatto dal _lento_ amore. Dunque sono tutte e due
collocate tra gl’incontinenti e tra quella specie di essi che è detta
dei peccator carnali.

Ib.: “e cita l’esempio di Caino, che è nell’Inferno profondo non per
l’invidia, ma perchè ha ammazzato il fratello...„

Caino è esempio d’invidia nel Purgatorio e dà, nell’Inferno, il nome
alla estrema circuizione della ghiaccia. È per Dante reo di superbia e
d’invidia, ossia mezzo tra la superbia e l’invidia. Caino offese il suo
prossimo, che era anche e solo suo fratello. Come offensore del
prossimo, viola il comandamento di Dio della seconda tavola — non
ammazzare — ; come offensore del fratello, l’altro, pur della seconda,
ma il primo, sì che è considerato dai teologi come affine a quelli della
prima; quello che ingiunge la riverenza, come ai genitori, così a tutti
i consanguinei. Come offensore del prossimo è invido; come offensore del
fratello è superbo; ma, ripeto, il prossimo si riduceva al fratello e il
fratello era il solo suo prossimo.

Ib.: “e l’esempio di Capaneo, non punito come orgoglioso, ma come
violento contro Dio„.

Ma Capaneo è punito come violento contro Dio, che è quanto dire, per
vendetta voluta fare contro Dio stesso, col _cuore_ soltanto, cioè senza
intelletto e col solo appetito irascibile, oltre il _mal volere_. Egli è
reo d’ira, d’ira folle, di quella che possiede

    chi spregiando Dio col _cuor_ favella.

Pag. 73: “E da questo nostro lungo discorrere, intanto quale conclusione
può trarsi? Questa sola a mio avviso: che l’ordinamento morale della
prima parte dell’Inferno presenta delle difficoltà (qualunque ne sia la
ragione) insormontabili„.

Insormontabili davvero, se si continuasse a ritenere _color cui vinse
l’ira_ essere rei d’ira.

Pag. 74: “O sia, in parte almeno, vera l’ipotesi del Minich, o sia
altro, noi non vediamo ben chiaro come Dante abbia concepita la
distribuzione de’ peccati puniti dal secondo al quinto cerchio, nè
pienamente intendiamo il legame tra il sistema seguito nei primi sette
canti e quello dei successivi„.

Chiaro a me pare di vedere come Dante abbia concepita quella
distribuzione, e intendo il legame tra il sistema dei primi e quello dei
successivi canti, che sono appunto un sistema solo.

Ib.: “Sta in fatto che nei primi sette canti è punita la rea passione
che spinse gli uomini al peccato, ma che tra queste ree passioni, ne
mancano tre, e delle più fondamentali„.

Le passioni impellenti al peccato sono in Dante tre: amor del bene che
non è bene, lento amore di esso bene, amor del male. Al primo
corrisponde l’incontinenza, all’ultimo la malizia e la bestialità.
Quanto alla passione di mezzo, negativa, Dante la pone per metà con
l’incontinenza, per metà con la malizia, se si osserva che le genti
fangose (accidiose nella vita attiva) sono fuori di Dite, cioè
incontinenti, incontinenti d’irascibile; e gli eresiarchi (accidiosi
nella vita contemplativa) sono dentro Dite, cioè maliziosi.

Ib.: “Sta in fatto che nei canti successivi più che la passione
speciale, impellente al peccato, si punisce il peccato in sè stesso„.

Ma no: Brunetto e gli altri non sono tra i lussuriosi, sebbene il
peccato _in sè stesso_ sia di lussuria; gli usurai e i simoniaci non son
tra gli avari, sebbene il peccato in sè stesso sia d’avarizia, come per
i simoniaci nota poi il Bartoli. Ma per questi ultimi, per non ripetermi
intorno agli usurai, ricordo che la passione impellente non fu
l’avarizia, checchè possiamo pensare noi: Dante pensava che fosse il
disegno di _calcare i buoni e sollevare i pravi_: invidia.

Ib.: “E quando siamo per entrare nel settimo cerchio, dove sono puniti i
tiranni e gli omicidi, il Poeta esclama:

    Oh cieca cupidigia, oh ira folle
      Che sì ci sproni nella vita corta,
      E nell’eterna poi sì mal c’immolle!

Dunque la cupidigia e l’ira furono le passioni che mossero gli omicidi e
i tiranni, ma questi non sono però puniti nel cerchio quarto e quinto,
sibbene nel settimo„.

Lasciando che la cupidigia qui non è, evidentemente, di denaro, ma di
vendetta, o in generale di _male_, noi qui dobbiamo rendere un omaggio
di ammirazione al sottile e profondo ingegno del grande uomo estinto.
Sì: egli intuiva la verità e senza l’intoppo dell’aver assegnato il
quinto cerchio all’ira, egli avrebbe scoperto il segreto della
costruzione morale della _Comedia_. Perchè in vero d’ira sono puniti gli
omicidi e i tiranni, e con loro i suicidi, i bestemmiatori, i soddomiti
e gli usurieri: d’ira che è _folle_, poichè essi peccarono solo col
_cuore_ o appetito irascibile, oltre il _mal volere_, ma senza
l’intervento della ragione.

Pag. 82: “La seconda parte dell’Inferno si apre colla città di Dite,
attorno alla quale sta la palude Stigia, al di fuori; al di dentro
stanno le arche infuocate degli epicurei e degli eretici; ed è questo il
sesto cerchio, ed il primo dei quattro compresi dentro la città di
Dite„.

È il sesto cerchio, ma appena d’un poco più basso del quinto, seppure
non è allo stesso livello. In fatti Dante ha in mente gli spaldi d’una
vera città, rappresentandosi quelli di Dite; e le arche sono ai piedi di
essi in grandi campagne; e queste campagne interne sono certo più
elevate del fondo e anche dell’orlo delle _alte fosse_ esterne. La terra
sconsolata è bensì _entro nella valle_, ma la domina. Or Dante così
volle, perchè gli eresiarchi volle bensì rei di malizia, e perciò li
pose dentro Dite, ma li fece pure rei d’accidia collocandoli allo
stesso, o quasi, livello delle genti fangose. Non è da tralasciare che
il Todeschini, che il Bartoli cita in nota a questo punto, bene intuì
scrivendo che Dante per vaghezza “di serbare nell’opera sua certe
corrispondenze superficiali, e quasi direi materiali,„ ha collocate “le
anime perdute pel mancamento non malizioso della fede, nel primo cerchio
dell’Inferno superiore, perchè stessero in corrispondenza coi reprobi
che mancarono di retta fede per propria malizia, i quali vennero da lui
collocati nel primo cerchio dell’Inferno profondo„. Donde il Del Lungo
ricavò questa corrispondenza:

                 { ignavi e angeli neutrali (nel vestibolo)
  meno colpevoli {
                 { non battezzati e pagani virtuosi (nel 1º cerchio).

                 { epicurei ed eresiarchi (nel 6º cerchio)
  più colpevoli  {
                 { giganti (tra l’8º e il 9º).

Ma certamente è in tutti e due imperfetta l’osservazione e la
distribuzione. Il che riuscirà evidente a chi ponga mente a questa
corrispondenza che io sottopongo:

                                                 {dell’inferno tutto —
                                                 { accidiosi totalmente
          { involontaria { attiva   }   fuori  { {dell’inf. tutto — non
          {  nella vita  { contemp. } }        { { battezzati
  Accidia {                         } }        { {dell’infer. profondo
          { volontaria   { attiva   } } dentro {   — accidiosi del male
          { nella vita   { contemp.   }        {  dell’inferno prof. —
                                               {   eresiarche.

Ora queste non sono “corrispondenze superficiali e quasi direi
materiali,„ ma si riferiscono a dogmi teologici per i quali il disordine
circa le cose dello spirito è più grave che quello intorno le cose del
corpo. Nè si dimentichi che la colpa, non maliziosa e maliziosa, dei non
battezzati e di coloro che l’anima col corpo morta fanno, è di accidia,
perchè ad accidia si riduce ogni ignoranza. E si ricordi che la colpa
dei non battezzati è involontaria, ma sino a un certo punto.

Questo esame può bastare. Certo non m’indugio più sull’argomento della
bestialità, che ho provato essere la violenza. Solo esporrò
un’obbiezione che prevedo. È questa: come mai i peccati dei primi 7
canti non hanno divisioni, e quelli dei rimanenti ne hanno tante,
dividendosi la bestialità o violenza o ira in tre peccati, e di questi i
due primi ognuno in due, e il terzo in tre; la frode semplice o invidia
in dieci, la frode complessa o tradimento o superbia in quattro?
Rispondo che già anche nei 4 primi peccati sono divisioni; l’accidia
essendo di quattro ragioni, carnale e spirituale, senza o contro (in
parte) volontà e volontaria; la lussuria essendo punita come amore
(s’intende soverchio) o vizio; l’avarizia essendo mal dare e mal tenere.
Ma è chiaro, anche dalla proporzione dei canti che trattano degli uni e
quelli che descrivono gli altri, che questa ragione non basta. La
ragione vera è nella natura dei principii posti da Dante dietro
Aristotele a tutti i peccati: dell’incontinenza cioè e malizia. Non mi
dilungo: a tutti che accettino per un momento la sovrapposizione che
Dante fece della triplice divisione Aristotelica sulla settemplice
distinzione teologica, appare l’omogeneità, per così dire, e uniformità
dei peccati d’incontinenza a confronto di quelli di malizia. Tanto più
che Dante prendendo a modello e tipo il primo drama umano raccontato
nella Bibbia, sottrasse alla lussuria e all’avarizia alcune loro forme,
le quali però si rifondono nel peccato stesso d’incontinenza, quando la
penitenza ne ha cancellata _l’ingiuria_ o il fine malizioso.



IV.

Moralium Dogma.


Per l’importanza straordinaria che ha quest’operetta rispetto all’etica
di Dante, ricordo qui, più distintamente che nel testo de’ Prolegomeni,
qualche suo tratto dal “Brunetto Latini„ del Sundby (Firenze 1884). A p.
401 giova meditare questo prospettino:

                     IUSTITIAE

                  opponuntur duo

  Negligentia                        Truculentia

                               Vis. Fraus.

E questo prospetto è illustrato a p. 426 e seg. con parole derivate
imperfettamente dal _De Officiis_ (1, 7, 23):

Duobus praefatis iustitiae generibus totidem sunt opposita iniustitiae
genera, quae summopere cavere oportet, scilicet truculentia et
negligentia. Est truculentia iniustitia iniustam inferens iniuriam.
Negligentia vero est non propulsare iniuriam quum possis et debeas. Est
autem negligentia severitati contraria, contra ponuntur enim defendere
et defensionem contemnere. Similiter truculentia liberalitati repugnat:
repugnant enim beneficium dare et iniuriam irrogare... Dividitur autem
truculentia in vim et fraudem: fraus quasi vulpeculae, vis quasi leonis
videtur: utrumque ab homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore...

È chiaro perchè nella palude pingue Dante abbia destinati _gran regi_.
Erano rei di _negligentia_. E chiaro anche è perchè i giusti re
dell’Aquila in Giove rimbrottino i re per i loro _dispregi_, per il
_viver molle_, per il manco di _valore_, per la _viltate_.

Leggiamo nel libretto queste parole, pur prese da Cicerone:

p. 411. Dividitur autem iustitia in severitatem et liberalitatem.
Severitas est virtus debito supplicio cohibens iniuriam....

Cavenda tamen est maxime ira in puniendo, cum qua nemo tenebit
mediocritatem quae est inter nimium et parum.

Nella riviera del sangue sono tali re che non si guardarono dall’_ira in
puniendo_.

Giova ancora meditare quest’altro passo, che illustra luoghi sì della
Comedia e sì del Convivio e sì di Epistole: Huius (magnanimitatis)
officium sic monstrat Philosophus (Cic. 1, 19, 65): Magnanimi sunt
habendi, non qui faciunt, sed qui propulsant iniuriam. Idcirco (1, 20,
68) ista fit in hac virtute cautela avaritiae. Non enim est
consentaneum, qui metu non potest frangi, eum frangi cupiditate, nec qui
invictum se a labore praestiterit, eum vinci a voluptate...

E per illustrare la frase capitale _cui vinse l’ira_, ricordiamo che
sono riportati nel libretto questi versi di Orazio _Satiro_, a proposito
della temperanza (p. 441):

      Qui non moderabitur _irae_
    Infectum volet esse, dolor quod suaserit et mens.
    _Ira furor brevis_ est: _animum_ rege, qui nisi paret,
    Imperat: hunc frenis, hunc tu compesce catenis.

L’_animus_ è pur quello che Dante chiama _appetito_ nel Convivio e nella
Comedia: quello che l’uomo ben temperato deve francamente cavalcare
usando freno e sprone.

E in questo libretto trovò Dante un verso e mezzo di Giovenale, che gli
diedero, forse o senza forse, qualche tratto della sua figurazione di
Gerione, simbolo dell’Invidia. Riporto anche qualche passo più su di
questo verso, perchè importante al pari:

Totius enim iniustitiae nulla pestis capitalior quam eorum qui tunc,
maxime quum fallunt, id agunt, ut viri boni videantur (gli ipocriti
tristi).

Horatius idcirco dicit:

Numquam te fallant animi sub vulpe latentes.

Iuvenalis:

    _Hispida_ membra quidem et _durae per brachia setae_
    Promittunt atrocem animum.

id. _Fronti nulla fides_.

Superfluo ricordare le branche pilose e la faccia d’uom giusto, di
Gerione.



V.

Corrispondenze.


I. — NELL’INFERNO.

1

                               carnale       {
  _Acheronte. Confine          (nella vita   {
    dell’Inferno. Caron._      attiva)       { involontaria }
                               spirituale    {              }
                               (nella vita   {              }
          {        {lussuria   contemplativa){              }
          {carnali {gola                                    } Accidia
          {        {avarizia                                }
          {                    carnale       {              }
  Peccati {_Stige. Confine     (nella vita   {              }
          { dell’Inferno inf.  attiva)       { volontaria   }
          { Flegias._          spirituale    {
          {                    (nella vita   {
          {                    contemplativa){
          {
          {           {ira (violenza o bestialità)
          {spirituali {invidia (frode in chi non si
                      {          fida)
                      {superbia (frode in chi si
                      {          fida)

2

                               {nella vita  ignavi  {      non vivi mai.
                   {manchevole {attiva              {
                   {           {                    {accid.
                   {           {nella vita  non     {
                   {           {contempl.   battez. {
                   {
                   {                          {lussuriosi }
          {inetta, {          {concupiscibile {golosi     }
          {perchè  {annullata {               {avari      }con solo app.
          {        {dall’app. {irascibile     {           }
          {                    — fangosi      {accidiosi  }
          {                                   {
  Volontà {           {nella vita contempl.   {
          {           {— sepolti              {
          {           {
          {   attiva  {       {senza intelletto — irosi     con volontà
          {e corrotta {       {                              e appetito
                      {nella  {           {rei in parte { con vol.
                      {vita   {con        {— invid.     { app.
                      {attiva {intelletto {             { e
                              {           {rei in tutto { intelletto
                                          { — sup.      {

I non battezzati ed eresiarche ebbero ed usarono rettamente (s’intende,
meglio i primi che i secondi) appetito, volontà e ragione, ma, gli uni
involontariamente (quasi), gli altri volontariamente e maliziosamente,
ebbero un manco che annullava la loro umanità, sì che i primi sono
contermini a quelli che, in apparenza, sono tanto lontani dagli spiriti
magni, ossia agli sciaurati che mai non fur vivi; e gli altri a quelli
che pure in apparenza sono così disformi da tali che a ben far poser
gl’ingegni, da principi d’onor sì degni, come Federigo secondo; a
quelli, cioè, di cui non è bontà che la memoria fregi e a quei gran regi
che vivranno come porci in brago.

Da questo prospetto si vede anche chiaramente e brevemente in che
differiscano gli accidiosi dell’ira (chiamiamoli così) e i rei
propriamente d’ira: in quelli la volontà è inetta, in questi è attiva; e
poichè la volontà è volta al male e si chiama malizia, in quelli non c’è
malizia, in questi sì: quello è un peccato _unicorpore_, questo
_bicorpore_. In quelli non c’è malizia, cioè da essi non fu commessa
ingiuria; non c’è malizia, e come negl’ignavi non c’è colpa da Inferno,
così in essi non c’è reità da Dite.

3

                                 [Accidia]

        (a. non volontà nella vita attiva )
        (b. non volontà o ignoranza nella vita contemplativa)

      =Incontinenza=                       =Malizia=
  1. Lussuria (amore e vizio)         5. Ira (bestialità o violenza)
  2. Gola                             6. Invidia (frode in chi non si
                                         fida: peccato contro il
                                         prossimo)
  3. Avarizia (mal dare e mal         7. Superbia (frode in chi si
     tenere)                             fida: peccato contro Dio e
                                         chi di Dio più tiene)

            [Accidia]                            [Accidia]
  4. a. mala volontà nella vita       4. b. mala volontà o ignoranza
     attiva.                             maliziosa nella vita
                                         contemplativa.


II. — DELL’INFERNO COL PURGATORIO.

1

         _Inferno_                              _Purgatorio_
  Selva Selvaggia.               {   {Foresta viva:
  Accidia d’opera, involontaria  {   {Stato d’innocenza con Matelda e
  Accidia di pensiero, involont. {   {   Beatrice
  Lussuria                            Lussuria
  Gola                                Gola
  Avarizia (duplice)                  Avarizia (duplice)
  Accidia volontaria d’opera     {    Accidia in _vedere_ e
  Accidia volontaria di pensiero {    _operare_
  Ira                                 Ira
  Invidia                             Invidia
  Superbia                            Superbia
                                          _Antipurgatorio_

2

  Accidiosi di là e di qua {         {Accidiosi dell’Antipurgatorio
    d’Acheronte            {         {  scomunicati e non scomunicati

  nobile castello.                    valletta amena.

  I tre peccati                       I tre peccati
    carnali                             spirituali

  Accidia 1º nella vita attiva {  {Accidia 1º nel vedere e 2º
  2º nella contemp.            {  {  nell’acquistare il vero bene

  I tre peccati                       I tre peccati
    spirituali                          carnali

3

Virgilio nelle sue dichiarazioni del sistema penale oltremondano
accenna, includendoli in una sua sintesi filosofica, alcuni peccati già
denominati a suo luogo col loro nome vulgato; altri dichiara solo
filosoficamente, lasciando che Dante cerchi da sè.

         _Nell’Inferno_                        _Nel Purgatorio_

  1. Peccator carnali, amore, vizio    7. {
    di lussuria                           { L’amor che al bene troppo
                                          {   s’abbandona: di cui
  2. Colpa della gola                  6. {   Virgilio tace come
                                          {   tripartito si ragiona.
  3. Mal dare e mal tenere,            5. {
   avarizia etc.

  4. Color cui vinse l’ira, e tristi   4. Amor del bene scemo di suo
   che non possono parlare con parola     dovere; lento amore in lui
   intera                                 vedere(rispondente a quelli
                                          che hanno _mala luce_) o
                                          a lui acquistare.

  (Eresiarche etc. [coloro che hanno
     _mala luce_])

  =Spiegazione di Virgilio=:             =Spiegazione di Virgilio=:
  _quei della palude pingue, che         _disotto si piange il
  mena il vento e che batte la           triforme_ AMOR DEL MALE
  pioggia e che s’incontran con sì
  aspre lingue_, sono rei
  d’INCONTINENZA

  5. Rei di MALIZIA, con               3. Fuoco d’ira etc.
     forza, violenti etc.

  6. Rei di malizia, con frode         2. La colpa dell’invidia etc.
    dell’uom proprio male, in quello
    che fidanza non imborsa

  7. Rei di malizia con frode in chi   1. Superbia etc.
    si fida, qualunque trade.

4

       _Inferno_                     _Purgatorio_

                      _selva selvaggia_         _divina foresta_
  -------------------------------------------------------------------
                    /vestibolo {manco di     /|
                               {volontà       | con Metelda e
                               {corporale     | Beatrice: stato
                   primo       {e             | d’innocenza
                   cerchio     {spirituale    |
  ---------------/--------------------------/-+----------------------
                 lussuria                     | lussuria
  -------------/--------------------------/---+----------------------
               gola                           | gola
  -----------/--------------------------/-----+----------------------
             avari e prodighi                 | avari e prodighi
  ---------/--------------------------/--------+---------------------
           accidiosi nella vita               | lento amore a lui
           attiva                             | _acquistare_
  -------/--------------------------/---------+----------------------
         accidiosi nella vita                 | _o a lui vedere_
         contemplativa                        |
  -----/--------------------------/-----------+----------------------
       violenza o bestialità                  | ira
       o ira                                  |
  ---/--------------------------/-------------+----------------------
     frode o invidia                          | invidia
  -/--------------------------/---------------+----------------------
   tradimento o superbia                      | superbia


III. — DEL PARADISO CON L’INFERNO E IL PURGATORIO.

1

          _Inferno_                           _Paradiso_

  Non volontà                          [Luna: Volontà che si ammorza

  Sol per non aver fè: per non fare    [Mercurio: Solo per la fama e
                                         per gli uomini

  Lussuria                             [Venere: Pieni d’amore

  Gola: solo corpo: aer tenebroso e    [Sole: Solo spirito
  pioggia

                : si parla della risurrezione della carne:

  avarizia [amor di cosa che non dura] [Marte: benigna volontà opposta
                                         alla cupidità: parsimonia,
                                         liberalità, martirio

  gran regi negligenti e cattivi:     {[Giove: la giustizia, i giusti
                                      {  re; maledizione
                                      {  ai re ingiusti
                                      {
  cristiani che chiusero              {
  volontariamente                     { Rifeo e Traiano,
  gli occhi alla verità               {  pagani

  Ira o violenza o bestialità          [Saturno mansueto: contemplaz.ne

  Invidia o frode                      [Stelle fisse; a Dante appare
                                         l’_aiuola che ci fa tanto
                                         feroci_

  Superbia o tradimento: Lucifero      [Cielo cristallino: maledizione
                                         alla cupidigia (principio del
                                         male), e al superbire di
                                         Lucifero.

2

        _Paradiso_                           _Purgatorio_

      _Antiparadiso:_                      _Antipurgatorio:_

  Manco di voto                        Scomunicati

  Attivi per la fama                   Pigri e indugiatori

Per il resto bisogna capovolgere.



      *      *      *      *      *



ERRATA-CORRIGE.

  p.  15 r. 13  discende            discendesse
  p.  57 r. 17  Nessuno             Nessun
  p.  67 r. 21  poi                 poi dare
  p.  94 r. 8   XXX 8               XXXV 8
  p.  99 r. 12  Dante               Dante (_Conv._ IV 26)
  p. 185 r. 4   il di lui memorare  il di lui non memorare.

Prego in fine il candido lettore di prendere (a p. 176 r. 25 e 26) le
parole _ultimo_ e _primo_ non alla lettera e di condirle _cum mica
salis_, la qual _mica_ può essere l’aggiunta di _grande_ o simili.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (lavorio/lavorìo e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 217
("Errata corrige") sono state riportate nel testo.





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