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Title: Nuove "Paesane"
Author: Capuana, Luigi, 1839-1915
Language: Italian
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Note: Images of the original pages are available through
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      https://archive.org/details/nuovepaesane00capuuoft



LUIGI CAPUANA

NUOVE "PAESANE"



1898
ROUX FRASSATI E C.o EDITORI
TORINO

PROPRIETÀ LETTERARIA



                                 A

                      Eugenio Torelli-Viollier

                        con animo gratissimo


                                              Luigi Capuana.

          _Roma, 15 agosto 1898._



INDICE


  Il Barone di Fontane Asciutte                 _Pag_.   1
  Un Tipo                                               53
  Il Mulo di Rosa                                       63
  Un Eccentrico                                         83
  Il Fascio del Cavaliere                               97
  Le verginelle                                        119
  Donna Stràula                                        139
  Zi' Gamella                                          157
  La casa nuova                                        175



IL BARONE DI FONTANE ASCIUTTE


Il procuratore legale don Emanuele Cerrotta apriva il suo studio assai
prima dell'alba pei clienti provinciali, mattinieri e solleciti, che
avevano pure altre faccende da sbrigare durante la giornata in Catania.
Don Calogero, lo scrivano, veniva a svegliare il portinaio, accendeva,
salendo, il lume a petrolio per le scale ed entrava nello studio dove il
suo principale già lavorava da qualche ora.

Nell'anticamera, mezza dozzina di seggiole e un lumino, con tubo
affumicato e riflessore di latta, alla parete. Nello studio, due
scaffali zeppi di scritture e di memorie legali, tre seggiole compagne a
quelle dell'anticamera e una a bracciuoli; un tavolino di abete, tinto a
uso mogano, ingombro di carte, con accanto al calamaio un fazzoletto di
cotone azzurro e la tabacchiera di cartone verniciato, mezza aperta per
poter prendere più facilmente il rapè di cui don Emanuele si riempiva di
tratto in tratto il naso, spargendo metà d'ogni presa su lo sparato
della camicia da notte e su le carte che aveva davanti.

Il lume a olio, a tre becchi, illuminava appena il tavolino e le due
persone che vi erano sedute attorno, cioè: don Emanuele col berretto di
astrakan calcato fin su gli occhi, il fazzoletto di seta nera
attorcigliato al collo a guisa di cravatta (le punte del colletto della
camicia si affacciavano una dalla parte di sopra, l'altra dalla parte di
sotto) e un vecchio scialletto di lana buttato su le spalle; a destra,
don Calogero che copiava o scriveva sotto dettatura, senza mai alzare
gli occhi e mostrare di accorgersi delle persone che dall'alba alle nove
entravano nello studio, ragionavano, discutevano, urlavano, secondo il
carattere di ognuna fino a che il principale non tagliava corto le
parole in bocca ai clienti noiosi, dicendo bruscamente:

-- Va bene; ne riparleremo un'altra volta; oggi ho da fare. Buon
giorno!...

E riprendeva a dettare allo scrivano:

«Dunque... In fatto e in diritto...»

Quella mattina, vedendo entrare in punta di piedi don Pietro-Paolo
Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa (da un anno e mezzo,
tutte le mattine egli era il primo cliente che si presentava nello
studio) don Emanuele non si era dato, al solito, neppur la pena
d'interrompere un momento la lettura della memoria legale che egli
andava annotando; e continuò un buon pezzo, quasi su la seggiola di
rimpetto a lui non si fosse seduto nessuno. All'ultimo, dopo aver
affondato l'indice e il pollice della mano destra nella tabacchiera e
aver tirato su un'enorme presa di rapè, dopo di aver dato col fazzoletto
due colpetti di ripulitura al naso, uno da dritta e l'altro da sinistra,
don Emanuele alzò su la fronte gli occhiali a capestro e brontolò:

-- Buon giorno, barone!... Novità?

Il barone, accostata premurosamente la seggiola al tavolino, posate le
braccia su le scritture e riunite le mani quasi in atto di preghiera,
con sorriso umile, insinuante, e con tono di voce più insinuante e più
umile ancora, balbettò:

-- Ecco: ho pensato...

-- No, non voglio sapere quel che voi avete pensato o non pensato;
domando soltanto se avete qualche carta, qualche documento nuovo... Ne
scavate uno al giorno!...

-- Ho scritto certe postille, per rischiarare meglio... il punto
importantissimo...

E il barone, cavato premurosamente dalla tasca interna del soprabito
mezzo foglio di carta, coperto di scritturina rotonda, fitta fitta, con
richiami ai margini, lo presentava al suo procuratore.

-- Leggerò, con comodo... Capisco di che si tratta... Nient'altro?

-- ... Sei tarì, lo sapete! -- rispose il barone abbassando gli occhi.

Don Emanuele tirò il cassetto del tavolino e presa una manciata di
monete di rame, carlini, pezzi di sei grani e di due grani, contava, --
uno, due, tre... Sei tarì vi bastano?

-- Per due settimane. Prendetene nota.

-- Campate di vento! -- esclamò don Emanuele, crollando
compassionevolmente la testa.

E mentre il barone ritirava con mano tremula i quattrini, prendendo una
dopo l'altra le pilette di ogni tarì e mettendole in tasca, egli faceva
quattro rapidi sgorbi sur un quadernetto dove si allineavano filze di
cifre significanti altri e altri tarì somministrati al barone durante la
lite, e tutte le spese anticipate per lui, da riprendere assieme con gli
onorari a lite vinta e finita.

Questo, insomma, voleva dire che il procuratore legale era sicurissimo
del buon esito di essa; ma voleva anche dire che quel povero vecchio gli
ispirava profonda pietà, ridotto quasi a mendicare dalla cattiveria
della moglie e dei figli.

Moglie e figli si erano ribellati contro il barone appunto per quella
lite, che durava da dieci anni, e nessuno poteva prevedere quando
sarebbe terminata. Il marchese di Camutello, cugino del barone e suo
avversario, prima gli aveva messo l'inferno in famiglia per mezzo del
confessore della baronessa, facendole dipingere a nerissimi colori
l'avvenire della casa; poi aveva proposto, con lo stesso mezzo, una
transazione.

-- Un'infamia! -- diceva il barone. -- Piuttosto farsi tagliare le mani,
che sottoscrivere quell'attentato ai sacrosanti diritti della baronia di
Fontane Asciutte e Cantorìa. Finchè campo io!...

Ma dopo sei mesi di terribile lotta, un giorno per le silenziose stanze
del palazzo Zingàli erano risuonati urli di voci maschili, strilli di
voci di donne che si udivano fin dalla via e facevano fermare la gente.

                                  *
                                 * *

La facciata di pietra dura intagliata, col vasto portone e i terrazzini
e l'alto cornicione in cima, davano a quel palazzo l'aria di fortezza
tra le meschine casette da cui era circondato. Bastava però cominciare a
salire le scale per accorgersi subito che l'interno poteva dirsi una
rovina. Scalini sbocconcellati; muri senza intonaco; pavimenti senza
mattoni; finestroni, metà con vecchie tavole malamente inchiodate e
murate in luogo di imposte e di ringhiere; vôlte reali macchiate di
umido per l'acqua che vi stillava dal tetto nei giorni di pioggia;
stanzoni squallidi, polverosi, e pieni di ragnateli, parecchi con un
tavolino o un baule in un angolo e poche seggiole sgangherate attorno
per mobilia, qualcuno con grandi quadri senza cornici alle pareti --
quadri sacri, ritratti di famiglia anneriti dal tempo, scorticati,
sfondati -- e nient'altro.

Bisognava attraversare quattro o cinque di questi stanzoni, rischiarati
dalla poca luce che penetrava dalle fessure delle tavole, infisse ai
finestroni trent'anni addietro come imposte provvisorie -- e che si erano
infracidite là senza che nessuno avesse mai pensato di aggiungervi un
chiodo -- bisognava attraversare quattro o cinque di questi stanzoni
prima di arrivare alle stanze dove la famiglia del barone si era ridotta
ad abitare.

La baronessa e le due figlie vivevano segregate, in fondo in fondo,
nelle stanze che davano sul vicolo della parte di levante. In una
camera, divisa in mezzo da un paravento coperto di damasco rosso,
stracciato e sfilaccicante, dormivano le due sorelle; in quella accanto,
la baronessa. Ella passava le giornate facendo calza, rammendando
biancheria, filando lino nelle serate invernali, recitando assieme con
le figlie interminabili rosari, seduta sul massiccio seggiolone di noce
con spalliera di cuoio che si accartocciava agli angoli da dove le
bollette erano andate via. Colà ella riceveva le rare visite di qualche
amica e le contadine che le portavano panieri di frutta, cestini di uova
fresche, mazzi di asparagi o di cicoria, secondo le stagioni; colà ella
si confessava, il primo e il quindici di ogni mese, col vecchio canonico
Rametta, che veniva pure a raccontarle in quell'occasione le notiziole e
i pettegolezzi del paese, prima o dopo di averla confessata, come
piaceva alla signora baronessa, che non era sempre dello stesso umore.

I figli, Ercole, Marco e Feliciano, dormivano in quello che avrebbe
dovuto essere il gran salone di ricevimento se il palazzo fosse stato
compiuto. Attorno ai tre lettini addossati agli angoli (quelli di Ercole
e Marco l'uno di faccia all'altro, quello di Feliciano in uno degli
angoli opposti tra due finestroni) stavano appiccati alle pareti diversi
arnesi che rivelavano le inclinazioni e le occupazioni di ognuno di
loro. Fucili, carniere, reti da conigli e da quaglie; gabbietta di legno
pel furetto; stivaloni alla scudiera, con grosse bullette alle suole;
due cappelloni a larghe tese, uno di feltro bigio, l'altro di paglia;
casacca, panciotto con molte tasche, e pantaloni di velluto grigio, di
cotone, facevano sùbito indovinare in Ercole il cacciatore che si curava
soltanto di fucili, di furetti e di bracchi. Seghe, pialle, martelli,
tenaglie, succhielli, saldatori, scalpelli, forbici, lime, raspe,
tornio, tavole, legnetti, soffietto, un trapano, un'incudinetta, un
fornello indicavano in Marco il meccanico. Dal tavolino con su uno
scaffaletto pieno di libri moderni, di fascicoli di opere in corso di
pubblicazione, di quaderni di sunti e di appunti, si capiva
l'inclinazione allo studio del fratello minore Feliciano.

Il barone occupava la stanza a sinistra del salone dove dormivano i tre
maschi. Di faccia all'uscio, un gran scaffale rustico, senza vetri nè
sportelli, pieno di mazzi di scritture antiche, che raccontavano le
compre, le vendite, le trasmissioni di possesso, le liti, le sentenze,
insomma tutta la complicatissima storia dei feudi di Fontane Asciutte,
Cantorìa, Barchino, Tumminello, Cento-Salme, Canneto, una volta
patrimonio della famiglia Zingàli, ora parte alienati, parte ceduti,
parte perduti per la leggendaria storditaggine del barone don
Calcedonio, padre di don Pietro-Paolo. Le scritture erano disposte per
ordine di data, e da ogni mazzo, da ogni fascicolo veniva fuori una
linguetta di carta che ne indicava il contenuto. Prima della morte del
barone don Calcedonio, tutte quelle carte giacevano alla rinfusa in due
vecchi cassoni senza coperchio, assieme con altre carte ammonticchiate,
in uno stanzino buio, fra seggiole rotte, arnesi inservibili e stracci
di ogni genere buttati là da anni ed anni. Don Pietro-Paolo, che si era
trovato da un giorno all'altro barone di Fontane Asciutte e Cantorìa, si
era anche sentito gravare addosso da un giorno all'altro il disordine
dell'amministrazione di casa, intorno alla quale non aveva potuto neppur
fiatare vivente il padre che si credeva Domineddio in persona, autorità
indiscutibile su la moglie, sul figlio, su la nuora e sui nipoti.

Appena la cassa del morto era uscita di casa, il barone don Pietro-Paolo
aveva fatto cavar fuori dallo stanzino quelle altre casse da morto, come
egli disse, dove giacevano tesori di documenti, atti importantissimi per
le liti in pendenza e per quelle da iniziare; dalla mattina del giorno
dopo si era chiuso nel suo stanzone, studio, camera da letto e da
ricevimento in una, e in tre mesi di diabolico lavoro, che lo aveva
fatto incanutire, era finalmente riuscito a riordinare, classificare,
annotare quell'immenso ammasso di carte ingiallite, ammuffite e qua e là
rôse dai topi. Per fortuna, avendo trovato tanta altra roba da
rosicchiare, i topi avevano risparmiato un po' le scritture dei cassoni.

La baronessa donna Fidenzia, triste e sfiduciata, gli aveva detto più
volte:

-- Perchè ammattite con quelle cartaccie? Oramai, quel che è andato è
andato...

-- Non vuol dire! E poi... c'è ancora una rivendicazione da fare.
Cento-Salme è nostro, non del marchese di Camutello!

-- Volete rovinarvi con le liti anche voi, peggio di vostro padre?

-- Mio padre era pazzo da legare. Dio gli perdoni nell'altro mondo dove
ora si trova!

E il povero barone don Pietro-Paolo, che già aveva potuto scandagliare
l'abisso in cui per colpa del barone don Calcedonio era sprofondato il
patrimonio di famiglia, non esagerava punto, per indignazione, chiamando
suo padre: Pazzo da legare!

Basta rammentare le burlette che il barone don Calcedonio avea fatto ai
suoi avvocati di Catania, di Palermo, di Messina, di Siracusa (giacchè
egli aveva liti da per tutto, con privati, con Comuni, col Governo, con
conventi, con Opere pie) per qualificarlo a quel modo.

Da Catania, gli avvocati che gli strappavano a stento gli onorari e
volevano far le viste di guadagnarseli, lo tempestavano di lettere: _La
sua presenza è necessaria, urgentissima; così non si va avanti_.

Il vecchio barone li avea lasciati cantare. Un bel giorno, fa
inattesamente scrivere dal suo segretario: «Arriverò domani l'altro».

E si mette in viaggio, con gran scampanìo di lettighe, una per sè e una
pel suo cameriere, da quel gran signore che doveva mostrare di essere il
barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.

Durante una settimana, i suoi avvocati e quelli della parte contraria
non erano riusciti a mettersi di accordo con lui e tra loro intorno al
giorno, all'ora e al luogo del convegno per la transazione da discutere.
In casa del suo avvocato principale non volevano intervenire, per
orgoglio di dignità, gli avvocati avversari. Nell'albergo, no; egli non
amava far sapere agli altri gli affari di casa sua. Si era stabilito
finalmente un posto neutrale, e il giorno e l'ora. Ma la mattina di quel
giorno, prima della levata del sole, il barone aveva dato ordine ai suoi
lettighieri di mettere ai muli i basti coi sonagli, ed era partito
contorcendosi dalle risa per la sua graziosa burletta a quegli
imbroglioni di avvocati:

-- Rimarranno con tanto di naso! Ah! Ah!

Lungo il viaggio si era affacciato più volte allo sportello della
lettiga, chiamando:

-- _'Nzulu!_ Eh? Aspettano ancora! Ah! Ah!

E vedendo che il vecchio cameriere crollava la testa, disapprovando:

-- Ridi anche tu, bestia! -- aveva soggiunto. -- Ripeteremo la burla a
quelli di Palermo! Ah! Ah!

Infatti l'aveva spensieratamente ripetuta ai suoi avvocati di Palermo,
poi a quelli di Messina, poi a quelli di Siracusa, ridendone con
_'Nzulu_, che gli rispondeva crollando la testa, sospirando:

-- Ah, signor barone! Ah, signor barone!

-- Zitto, bestia!... Li pago; posso divertirmi con loro!

E si era tanto divertito, che avea dovuto abbandonare la costruzione del
palazzo, darsi in mano agli strozzini, troncare, di nascosto dagli
avvocati e con enorme suo danno, liti che non si potevano perdere, pur
di raccappezzare alla lesta, a furia di transatti, i quattrini che gli
occorrevano per un viaggio a Napoli, per una apparizione da Cavaliere
d'onore alle Corti di Ferdinando I e di Francesco I, per una ballerina
del _Bellini_ di Palermo o del _San Carlo_ di Napoli; riducendosi, negli
ultimi anni, ad abitare in quel paesetto, in quel palazzo che già
rovinava prima di essere finito, dopo aver visto vendere all'asta i due
bei palazzi e la loro ricca mobilia -- uno in Palermo, l'altro in Catania
-- che l'avolo di lui s'era fatto fabbricare verso la fine del 1600, ed
erano passati intatti di padre in figlio, fino al suo matto pronipote!

Per questo la baronessa donna Fidenzia osservava con una specie di
terrore tutto quel rimescolìo di cartacce che teneva occupato suo
marito, e si era sentita stringere il cuore alla risposta di lui:

-- Cento-Salme è nostro, non del marchese di Camutello!

                                  *
                                 * *

Il barone don Pietro-Paolo non si era mostrato in famiglia meno despota
del barone don Calcedonio. Come egli era rimasto zitto e quasi tremante
davanti a l'assoluta autorità del padre, così ora la baronessa, le
figlie e i tre maschi tacevano e tremavano davanti a lui. Purchè non
pretendessero di mescolarsi negli affari, egli però lasciava che tutti
facessero il comodo loro; e la famiglia viveva in una specie di
anarchia; la mamma e le due ragazze segregate in fondo al palazzo,
assorte in pratiche devote; i tre fratelli nel salone, ciascuno occupato
delle faccende proprie: Ercole, badando a ripulire fucili, a rammendare
reti; Marco a tornire, a saldare, a picchiare su l'incudinetta, tutto
intento alle sue strane invenzioni meccaniche; Feliciano, immerso negli
studi legali, muto e chiuso, ruminando non si sapeva quali progetti che
gli luccicavano di tanto in tanto nelle pupille nere sotto le folti
sopracciglia.

Il barone, quando non era via per affari, cioè per la lite di
rivendicazione di Cento-Salme, da lui iniziata subito appena messi
insieme i documenti, passava le intere giornate, e spesso spesso metà
delle nottate, a decifrare le vecchie scritture latine in cui si
imprometteva di ritrovare diritti per altre rivendicazioni. Voleva far
ritornare i baroni di Fontane Asciutte e Cantorìa, se non all'antica
opulenza, per lo meno a una ricchezza e a un fasto che avrebbero rimesso
in onore il nome dei Zingàli. Questa illusione egli era arrivato a
trasfonderla, dopo qualche anno, nella baronessa Fidenzia, nelle figlie,
e in Feliciano che lo avrebbe aiutato volentieri nelle ricerche delle
vecchie scritture, se il barone non avesse avuto la pretensione di far
tutto da sè.

Da principio la lite era andata a vele gonfie; il marchese di Camutello,
che non s'attendeva quell'attacco, sbalordito e sconcertato, era andato
avanti a furia di cavilli, di intrighi e di alte protezioni; poi, tutt'a
un colpo, si era messo a litigare per davvero, opponendo documenti a
documenti, procedure a procedure, perizie a perizie, sfoggiando insomma
tutte le armi più affilate, tutti gli strattagemmi più astuti per
stancare l'avversario, che non poteva buttar via i quattrini a manciate,
come era cosa facile per lui, amministratore meticoloso, un po' avaro, e
uomo abile e rotto al gran maneggio degli affari. Il giorno che il
Tribunale civile di Catania gli aveva dato torto, incontrato il cugino
che usciva raggiante di contentezza dalla sala di udienza, dopo averlo
salutato sorridendo, gli disse:

-- A rivederci davanti a la Gran Corte! Ride bene chi ride l'ultimo!

E là, nella Gran Corte, la lite era rimasta arrenata otto anni! Pareva
che gli avvocati delle due parti contendenti, preso gusto a quella
battaglia di atti, di procedure, di rinvii, si divertissero a
prolungarla. Il barone dimagriva e ingialliva dalla bile. Passava lunghe
nottate riassumendo documenti, scrivendo brevi memorie da sottoporre al
giudizio degli avvocati; e impediva alla figlia Mariangela, la
primogenita e sua prediletta, anche di entrare nella stanza di lui per
rassettarla e rifare il letto.

-- No, mi arruffaresti ogni cosa; faccio tutto da me!

E avea voluto fin una fiasca di latta per l'olio del lume, che egli
metteva fuori dell'uscio quando era vuota e dovevano riempirgliela.

Mariangela, che badava alle faccende di casa sotto gli ordini della
madre, ogni volta che trovava accanto all'uscio della camera del padre
la fiasca vuota, si presentava con essa in mano alla baronessa.

-- In tre sole nottate, una fiasca!

-- Olio e tempo sciupato! -- esclamava dolorosamente la baronessa. -- Dio
lo faccia ravvedere! La Madonna lo illumini!

Ma nessuna di esse e nessuno dei tre maschi avrebbe osato ripetere in
faccia al padre: «Olio e tempo sciupato!».

Poi, una sera, durante la cena, la baronessa Fidenzia aveva chiesto,
insolitamente, al barone notizie della lite per Cento-Salme. Il barone
l'avea guardata in viso, meravigliato del tono un po' ironico della voce
di lei, e aveva risposto seccamente:

-- Tutto va bene!

La baronessa avea replicato:

-- Dobbiamo ridurci all'elemosina? Non parlo pei maschi, che potranno
pensar loro a cavarsi d'impaccio; parlo per queste due sante creature,
sacrificate qui...

-- Penso per tutti! Ho pensato sempre per tutti! Consumo la mia vita per
tutti!... Non mi diverto a caccia io!... Non mi spasso col tornio io!...
Non sto a leggiucchiare libricciatoli io!... Lavoro giorno e notte, per
tutti! E, per ora, il padrone qui sono io e comando io... Voglio che si
sappia e si tenga a mente!

Il barone aveva pronunciato queste parole con voce repressa, alzandosi
lentamente da sedere mentre parlava; e voltate le spalle alla tavola,
era uscito dalla sala da pranzo accigliato, un po' pallido, ma convinto
che quella dispiacevole scena non si sarebbe più ripetuta.

                                  *
                                 * *

Il fuoco covava sotto la cenere, e il canonico Rametta s'incaricava, a
fin di bene, di tenerlo vivo. Buona pasta d'uomo, un po' corto di
cervello, pieno di scrupoli religiosi, si era lasciato abbindolare dal
marchese di Camutello, che un giorno lo aveva mandato a chiamare per
parlargli di una cappellania di famiglia, il cui cappellano era in punto
di morte.

-- Ho pensato a voi, signor canonico!

-- Grazie, grazie!... Non posso accettare -- rispose umilmente il
canonico.

-- Perchè, signor canonico?

-- Non saprei come soddisfare gli obblighi, signor marchese. Non si può
dire più d'una messa al giorno, ed io ho già appena qualche settimana
vuota nell'anno.

-- Ah, io non vi farei ressa! Non vorrei vedere il vostro _celebravit_...
Non l'ho mai chiesto al cappellano che il Signore ora sta per portarsi
in paradiso.

-- E la mia coscienza, signor marchese?

-- C'è il Papa, infine! Una _sanatoria_ non costa troppo...

-- Niente! Grazie, signor marchese. Grazie!

E il marchese, mutando sùbito discorso, gli avea parlato della povera
cugina baronessa e delle ragazze che vivevano da monache, di quei tre
nipoti, uno più matto dell'altro, di schietta razza dei Zingàli, e del
barone, che già finiva di ridurli tutti in miseria.

-- Io, signor canonico, voi lo sapete bene, ci sono stato tirato pei
capelli. Ero tranquillo, nel mio possesso; e lui è venuto a dirmi: Ti
voglio cacciar via di lì!... Le parole non bastano, caro signor
canonico!... Allora -- che volete? Uomini siamo! -- io gli ho risposto per
le rime -- Cantorìa una volta era dei marchesi di Camutello... Vediamo un
po'. -- Così mi son messo a intorbidargli le acque pure io... Che volete?
Uomini siamo!... I santi soltanto porgono l'altra guancia quando hanno
ricevuto uno schiaffo... Me ne dispiace per la cugina baronessa e per
quelle due buone creature delle sue figlie... Che pensano di fare?
Chiudersi in un convento? E quei tre matti?... Marco, è vero che vuol
trovare il moto perpetuo?...

-- Pensa a un mulino di sua invenzione.

-- Un mulino?... Un Fontane Asciutte mugnaio! Mi piange l'animo... Ma che
fare con quella testa di mulo di mio cugino il barone?... Io, credetemi,
mi stimo saldo, ben saldo nel mio diritto... Se così non fosse, non
spenderei tanti quattrini per litigare... Eppure, se mi si proponesse un
accomodamento alla buona... Capite... Non posso essere il primo io... Mi
pregiudicherei. Sono stato attaccato e mi difendo... Ma è inutile
ragionarne... Mi dispiace intanto per la cappellania. Non prevedevo il
vostro rifiuto. Via! riflettete un po'...

-- Grazie, signor marchese; è impossibile! Il canonico Rametta, riferito
alla baronessa quel colloquio, le aveva involontariamente introdotto
nell'animo il lievito della ribellione contro il dispotismo del marito.
Per la baronessa il suo confessore era un santo; se non operava miracoli
da vivo, ella credeva fermamente che li avrebbe operati appena morto.
Una sera, infatti, parlando di lui con le figlie, aveva esclamato:

-- Vedrete; se lo salasseranno otto giorni dopo morto, egli darà sangue
come persona viva.

E nell'attesa di questo infallibile segno di santità, che però la
baronessa si augurava di vedere quanto più tardi possibile, ella
abbandonava ciecamente al canonico la direzione della sua coscienza e di
quella delle due figlie, e lo aiutava in qualche opera buona, con
elemosine che erano proprio atti di eroismo da parte di lei; giacchè le
strettezze diventavano ogni giorno maggiori in famiglia; le spese della
lite assorbivano ogni risorsa; e i figli, chi per un conto, chi per un
altro, si rivolgevano alla baronessa per ottenere il po' di danaro che
loro occorreva.

-- Mi smungono da tutte le parti! -- ella si lamentava col confessore.

Il canonico Rametta, quantunque fosse pallido e magro anche un po' per
le penitenze e le macerazioni a cui si sottometteva, dei santi aveva
specialmente la testardaggine che li fa perseverare in quel che loro
sembra una buona e giusta cosa. Convintosi che le intenzioni del
marchese di Camutello erano ottime e che i fatti gli davano ragione
(nessuno poteva attestarlo meglio di lui, confessore della baronessa, la
quale spesso spesso, non avendo peccati suoi da confessare, gli versava
nell'orecchio quelli del marito, e al povero barone non si poteva
addebitare altro torto all'infuori di pensare giorno e notte alla lite);
convintosi dunque che le parole del marchese: «Se mi proponessero un
accomodamento alla buona» fossero sincere, e che questo accomodamento
poteva evitare alla famiglia del barone e a lui l'estrema rovina, il
canonico Rametta, dopo averne accennato qualcosa velatamente, visto che
alla baronessa e ai suoi figli mancava il coraggio di opporsi alla
volontà dei barone, avea creduto opportuno mutar tono, e parlare non più
in nome proprio, ma in nome di quel Dio di cui durante la confessione
egli era, secondo la sua espressione, indegno, sì, ma vero ministro.

-- Tocca a voi, signora baronessa; ve l'ordina Dio per mio mezzo!

La baronessa, che a quattr'occhi con lui, da penitente a confessore, si
era espressa talvolta un po' arditamente, udite queste tremende parole,
diventò piccina piccina sul seggiolone di noce dov'era seduta accanto al
canonico. La voce le si arrestò in gola, le lagrime le sgorgarono dagli
occhi e potè a stento balbettare:

-- A me? Tocca a me? Ma vostra paternità sa benissimo...

-- So che questo è il vostro dovere di moglie e di madre di famiglia; so
che voi non dovete accaparrarvi l'inferno per tutta l'eternità,
disobbedendo al comando di Dio, che v'ha fatto baronessa e madre forse
unicamente per salvare dall'estremo disastro questa famiglia. Altro non
devo sapere. Pensateci bene, e pregate Dio e la Madonna perchè vi diano
forza e coraggio!

E finita la confessione, egli prese a ragionare dello stesso argomento
in presenza delle signorine.

Mariangela approvò sùbito. La sua faccia squallida, dove gli occhi
parevano assonnati in una specie di nausea del mondo e delle sue vanità,
si animò tutt'a un tratto, si colorò, e le pupille le lampeggiarono,
quando disse con profonda amarezza:

-- Non vuole che io più entri nella sua camera neppure per rifargli il
letto!

Rosaria, la sorella minore, bruna, dal viso duro, dalle labbra carnose,
stata un pezzo ad ascoltare, si era alzata con uno scatto da sedere:

-- Dove vai? -- le domandò la baronessa.

-- Vo' a chiamare i fratelli; debbono essere d'accordo anche loro.

                                  *
                                 * *

Dapprima il barone avea crollato le spalle, sorridendo di compassione
alle osservazioni della baronessa che gli manifestava timidamente i suoi
terrori dell'avvenire; poi aveva risposto calmo e dignitoso:

-- Baronessa, le liti non sono cose di cui deve occuparsi una donna!

Mariangela, che un giorno aveva osato aggiungere qualche parola alle
insistenze della madre, si era sentita rispondere un: -- Zitta, sciocca!
-- che la fece piangere mezza giornata.

Rosaria invece pensava che era inutile tentar di persuadere il barone e
indurlo a proporre un accomodamento; e perciò andava spesso nel camerone
dai fratelli, quando sapeva che tutti e tre erano là, e li scoteva dalla
inerte indifferenza, li incitava:

-- Che uomini siete? Ora più non siete ragazzi!

Ercole bestemmiava:

-- Corpo di...! Che debbo fare? Prendere questo fucile e far fare una
vampata al cugino marchese?

Marco non rispondeva. Aveva già terminato il modellino in legno e in
latta del suo mulino, e lo faceva funzionare, soddisfatto che andasse
meglio di quel ch'egli non aveva sperato. La gran ruota, che doveva dare
il movimento alla tramoggia e alle macine, sarebbe stata così enorme che
occorrevano due piani del palazzo per farle posto. Avrebbe voluto
spiegare alla sorella l'intero meccanismo, smontarle sotto gli occhi e
rimontare il modellino; ma Rosaria gli avea voltato le spalle per
avvicinarsi a Feliciano che studiava coi gomiti appoggiati sul tavolino
e la testa sui pugni.

-- Insomma, te ne lavi le mani anche tu?

Feliciano alzò gli occhi e fissò in faccia la sorella:

-- C'è un solo mezzo -- disse; -- ma noi non vorremo mai servircene.

-- Quale?

-- L'interdizione.

-- Che significa?

-- Significa...

Ercole, il cacciatore, lo interruppe ridendo.

-- Significa -- egli spiegò -- che noi siamo come i topi che volevano
attaccare il campanello al collo del gatto.

-- Venite di là, dalla mamma.

Rosaria parlò così imperiosamente, che i tre fratelli la seguirono uno
dietro all'altro, zitti zitti.

Nella camera della baronessa, seduti attorno al seggiolone di noce
dov'ella stava quasi su un trono, vestita di tela grigia d'Artega, con
un fazzoletto di seta nera che le contornava il viso grasso e floscio e
i capelli canuti spartiti in due bande su la fronte, i figli attendevano
che la madre parlasse.

La camera era in disordine; il letto non ancora rifatto. Sul canterale,
su le seggiole, sul tavolino davanti la finestra, una confusione di
oggetti disparati: capi di biancheria, ceste con frutta, ferri da calze,
forbici, ditali, una corona di cocco, una conocchia, due fusi, e tra il
canterale e il tavolino l'arcolaio con una matassa di cotone azzurro da
dipanare. Se non che il canterale era finamente incrostato di tartaruga
e madreperla, e la conocchia e l'arcolaio erano prezioso lavoro di un
antico pecoraio di famiglia, che vi aveva scolpito con la punta del
coltellino strane fantasie di ornati complicatissimi. Marco era andato
ad ammirarli anche ora, prima di prender posto accanto alla sorella
Mariangela.

La baronessa portò il fazzoletto agli occhi.

Ercole ruppe il silenzio, ripetendo la sua facezia:

-- Ecco il consiglio dei topi!

Rosaria lo sgridò duramente:

-- Taci, villanaccio!

E rivolgendosi a Feliciano gli disse:

-- Dunque? Questa interdizione?

La baronessa singhiozzava.

-- Non c'è altra via! -- confermò Feliciano.

-- Proviamo prima... come minaccia... -- insinuò la baronessa.

-- Inutile. Si faccia la domanda al tribunale senza perdere più tempo.

-- Uno scandalo? -- esclamò spaventata la baronessa.

-- Mamma!... Se non c'è altra via!...

Tutti guardarono Rosaria. Come mai quella ragazza, che stava sempre
zitta, mostrava tutt'a un tratto tanta violenza e tanta audacia? Ella
arrossì, quasi quegli sguardi di maraviglia e di stupore avessero voluto
leggerle in fondo all'animo. E in quell'istante, due terribili anni
della sua giovane vita chiusa e nascosta le balenarono davanti a gli
occhi, le accesero il viso e la fecero tremare. Ma si rimise sùbito.

-- Parla, spiègati meglio -- disse al fratello con gesto vibrato.

                                  *
                                 * *

Saputo che quella mattina l'usciere era venuto a rilasciare al barone la
citazione del tribunale, tutti i figli si erano radunati in camera della
baronessa, quasi a rifugiarsi sotto le ali di lei e ripararsi dalla
tempesta che stava lì lì per scoppiare.

Il barone comparve su la soglia, pallido, con gli occhi stralunati,
agitando convulsamente il foglio della citazione, senza riuscire a
parlare. Lo sdegno e l'ira lo soffocavano, Mariangela fece un passo
verso di lui, ma un suo gesto l'arrestò.

-- Vipere! Ingrati!... -- cominciò a balbettare. -- Questa, questa è la
ricompensa?... Potrei... stracciarvi la vostra carta in faccia,
sbattervela sul muso; farvi vedere chi... chi è da interdire qua...
Vipere!... Ingrati!...

-- Barone!... per carità!... -- supplicava la baronessa.

-- Voi, signora, avete ragione... per la vostra dote. Ma ho già dato
ipoteche, ho vincolate rendite... non l'ho sciupata, no, la vostra dote.
Darò sùbito altre guarentigie, se occorrono... Ho abusato della vostra
bontà, è vero; ho sperperato il fruttato dotale... per la lite; e voi,
signora baronessa, da eccellente madre di famiglia, non volete che quel
fruttato serva ancora alla rovina delle vostre buone figliuole...
Vipere!... dei vostri bravi figliuoli... Ingrati!... Questa, questa è
dunque la ricompensa? Nessuno ha il coraggio di guardarmi in viso!...
Nessuno osa di rispondermi una parola!

Infatti, tutti stavano là, zitti, a capo chino, come tanti rei davanti
al lor giudice. Soltanto la baronessa, a mani giunte, con gli occhi
rivolti al cielo, pareva implorasse aiuto da lassù. Il barone rizzò
minacciosamente la persona:

-- Potrei prendervi a uno a uno per le spalle... e farvi ruzzolare le
scale fin da questo momento. Il palazzo è mio; ed io, almeno per ora,
sono qui padrone assoluto... Ma vi gastigherò diversamente; voglio
risparmiarvi l'empio tentativo di farmi interdire... Esco io dal mio
palazzo!... Fuggo via io da questo covo di vipere e di ingrati!
Lotterò... povero, solo; morrò di crepacuore e di fame forse; non
importa!... Intanto vi abbandono tutti alla maledizione di Dio!...
Giacchè io credo in Dio più di voi, signora baronessa che vi confessate
due volte al mese e date questo bell'esempio ai figli vostri! Figli?...
Figlie?... Io non ho più nessuno!... Nè moglie!... Nessuno!... Esco di
qui coi soli vestiti che ho indosso... Non voglio altro!... E il giorno
che mi porteranno la notizia: -- Il vostro palazzo è crollato; Dio lo ha
scosso dalle fondamenta e vi ha seppellito tutti -- quel giorno farò
cantare un _Te Deum_!... Non metterò il lutto!...

-- Barone, per carità! -- tornò a supplicare la baronessa.

-- _Voscenza_ scusi; non si ragiona in tal modo!...

Feliciano aveva pronunciato queste parole con tono dimesso ma così
ironico, che il barone fece atto di slanciarglisi contro per
schiaffeggiarlo come un ragazzo. Mariangela dètte uno strillo, la
baronessa si mise a gridare, quasi la minacciata fosse lei; Rosaria si
piantò davanti al fratello per fargli scudo col corpo, alzando la bruna
testa dai lineamenti duri, aggrottando le sopracciglia, stringendo le
labbra carnose. E fu il segnale della gran rivolta! Parlavano,
strillavano, urlavano assieme, aggirandosi per la stanza, senza sapere
quel che volessero, nè quel che facessero, mentre il barone in mezzo a
loro continuava a ripetere frasi scomposte, con le braccia in alto,
sventolando il foglio della citazione come segnale di minaccia e di
gastigo; e la baronessa in piedi su la predella del seggiolone di noce,
piangente, sperduta, urlava:

-- Barone! Figli miei!... Figli miei!

Tutta la pazzia dei Zingàli parve si fosse scatenata improvvisamente,
rompendo la lunga compressione, sconvolgendo quei cervelli, squarciando
quelle gole con orride grida, agitando quei corpi in una terribile
convulsione di atteggiamenti, di mosse, di gesti furibondi, che
avrebbero fatto scappare le persone fermatesi nella via ad ascoltare
meravigliate, se fossero salite su, spinte dalla curiosità o dal
desiderio di dar soccorso, giacchè si capiva che lassù accadeva qualcosa
d'insolito e di triste.

Poco dopo, le grida cessarono, la gente si disperse; e gli scarsi
rimasti videro uscire il barone don Pietro-Paolo, vestito di nero, con
l'abito abbottonato e un gran mazzo di carte sotto braccio. Nessuno osò
domandargli che cosa era stato. Si scoprirono rispettosamente, e il
barone rispose al saluto con la consueta sua affabilità.

                                  *
                                 * *

Da due anni e mezzo egli viveva nel bugigattolo buio che dava su la
scala dell'albergo Sant'Anna in Catania, specie di canile che neppur
Tina, la serva sporca e sboccata, voleva ravviare e ripulire per via del
tanfo di rinchiuso che toglieva il respiro.

Egli non sentiva più quel tanfo; vi si era abituato, lo portava attorno
immedesimato con la dubbia biancheria, con l'unico abito nero che
indossava tutto l'anno. Di quel tanfo si impregnava fin quel po' di pane
che serviva a sostentarlo -- assieme con qualche frutto, l'estate, e con
un po' di formaggio, l'inverno -- e ch'egli mangiava a mezzogiorno e la
sera, prima di mettersi a letto, stanco del vagabondaggio della
giornata.

La mattina, all'alba, andava dal procuratore Cerrotta, a portargli
riflessioni e appunti, scritti nella nottata al lume di una candela di
sego, riguardanti la lite per Cento-Salme. Di sè, della miseria a cui si
era volontariamente condannato, delle umiliazioni che soffriva vedendosi
guardato come una bestia strana e quasi evitato nelle sale di udienza
del Tribunale o della Gran Corte, dove passava parecchie ore della
giornata seguendo le discussioni per trarne profitto, ormai egli non si
curava più. Nessun sacrifizio, nessuna sofferenza gli sembrava tale da
non doverla affrontare, da non doverla sopportare in vista della
vittoria della lite, che di giorno in giorno gli appariva sempre più
certa e sicura. E quando don Emanuele Cerrotta, pur ammirandolo per la
tenacità, gli rispondeva bruscamente, seccato di quegli appunti, di
quelle riflessioni o note che il barone andava a presentargli ogni
mattina e che avrebbe voluti esaminati e discussi assieme, egli non si
sentiva offeso; sorrideva umilmente, chiedeva scusa, e il giorno dopo
tornava ad insistere... e la vinceva. Don Emanuele tirava su una gran
presa di rapè, dava due stizzosi colpi di ripulita al naso col
fazzoletto di cotone azzurro, socchiudeva gli occhi e stava ad
ascoltare, interrompendolo di tanto in tanto:

-- Ma di questo abbiamo già ragionato avant'ieri!

-- Sì, sì, dal punto di vista...

E spiegava da qual punto di vista; ora però egli guardava la questione
dal lato opposto.

-- Capisco; andiamo avanti!

Una lesta presa di rapè, una nuova stizzosa ripulita al naso col gran
fazzoletto di cotone azzurro tenuto a portata di mano sur una coscia,
indicava la crescente impazienza di don Emanuele. Ma il barone non si
scoraggiava. Tutta la sua persona pareva curvarsi, ridursi piccina; le
braccia accostavano i gomiti ai fianchi per attenuare i gesti, le spalle
si stringevano, la voce si affievoliva in un mormorìo, perchè il suono
delle parole penetrasse negli orecchi senza recar disturbo. Egli sapeva
di non essere più uno di quei clienti che possono imporsi ai loro
avvocati, ai loro procuratori legali in virtù dei ben pagati onorari e
dei futuri vistosi palmari dopo vinta una lite; era invece un cliente
che doveva farsi ascoltare quasi per carità, per tolleranza, facendosi
far credito su l'avvenire, giacchè la signora baronessa e i suoi figli
avevano voluto così!

Non li nominava mai: ma in certi momenti, quando una circostanza lo
costringeva a guardare, non ostante il suo stoicismo, alla miserabile
condizione a cui era stato ridotto, lui, don Pietro-Paolo Zingàli,
barone di Fontane Asciutte e Cantorìa, un impeto selvaggio gli saliva
dalla pianta dei piedi su su per tutto il corpo fino al cervello, quasi
fiamma che lo avvolgesse rapidamente e volesse riversarsi attorno per
distruggere gli ingrati! Oh, essi non si rammentavano più se egli
esistesse! E non potevano ignorare che egli viveva di carità, quasi
soffrendo la fame, tra privazioni e umiliazioni di ogni sorta! Eppure
non facevano nemmeno la ipocrita finzione di sottomettersi, di chiedere
perdono, di volerlo strappare alla puzzolente tana che lo ricoverava la
notte... Nemmeno quella ipocrita finzione! Sapevano benissimo che egli
li avrebbe scacciati via, che non avrebbe accettato mai niente da loro,
che non li avrebbe mai perdonati!... Ormai egli lasciava che la
maledizione di Dio si aggravasse su coloro che un giorno avea chiamati
col dolce nome di moglie, e di figli! Il terreno si sarebbe sprofondato
sotto i loro piedi sacrileghi, presto o tardi, e li avrebbe inghiottiti!
E in questi momenti di impeto selvaggio il vecchio, già curvo,
dimagrito, sfigurato, si trasfigurava in quella putrida tana illuminata
dalla fumosa candela di sego; rizzava orgogliosamente la testa, levava
in alto le braccia invocanti il terribile gastigo di Dio, che non poteva
fallire; ed egli stesso talvolta aveva sgomento della grand'ombra della
sua persona che si agitava su la parete squallida e nuda, quasi
apparizione evocata dal terribile scongiuro di lui!

Un giorno -- oh, finalmente! -- un giorno egli sarebbe riapparso in quei
desolati stanzoni del suo palazzo, ma vittorioso, con pieno diritto di
autorità e di comando, padrone di Cento-Salme strappato al marchese di
Camutello; e senza una parola, con un solo gesto, avrebbe scacciato via,
anzi spazzato via tutti coloro che non erano degni di portare l'onorato
e altero nome dei Zingàli; e vi si sarebbe rinchiuso, solo, come in una
fortezza; e avrebbe trasformato quella desolazione in una reggia, quasi
con un colpo di bacchetta fatata!... Non avrebbe avuto soltanto
Cento-Salme, ma cinquantamila onze di rendite mal percepite dal marchese
di Camutello! Cinquantamila onze, in oro, in argento!... Un fiume di
denaro sonante, che egli avrebbe potuto spendere sùbito, a dispetto di
tutti, senza che più nessuno potesse avere la tentazione di farlo
interdire... Ecco se era stato pazzo! Ecco se aveva farneticato
intentando la lite, adoprando tutte le risorse di casa per questo scopo
supremo!

E si stendeva sotto le coperte del misero lettino, spegnendo la candela
di sego, continuando nel buio il fantastico sogno che gli aveva fatto
assaporare con gusto, come cena squisita, quel po' di pane e di
formaggio risparmiato da quello avrebbe dovuto essere il suo pranzo a
mezzogiorno!

                                  *
                                 * *

La baronessa e le figlie, quando il barone più non comparve in casa,
erano rimaste atterrite del loro audace tentativo e avevano abbandonato
la domanda d'interdizione.

Ercole riprendeva le sue caccie; Marco non lasciava in pace la baronessa
perchè gli desse i mezzi di costruire in casa loro il gran mulino di sua
invenzione; Feliciano avea sostituito il padre nell'amministrazione,
duro e inesorabile coi fittaioli della dote della madre, fissato anche
lui nell'idea di liberare tutte le proprietà di famiglia dalle onerose
ipoteche che assorbivano il fruttato. Si rivelava della pura razza dei
Zingàli, ostinato, testardo, imperioso fin colla madre, che non osava di
resistergli.

-- Egli sa meglio di noi quel che fa! -- diceva la baronessa a Rosaria che
spesso borbottava contro il fratello.

Una schietta Zingàli anche lei, muta, impenetrabile, con quegli occhi
che mettevano sgomento quando restavano fissati nel vuoto, quasi
attratti da paurose visioni che gli altri non potevano vedere.

Da che il barone aveva abbandonato la casa, ella aveva voluto occupare
la stanza di lui.

-- Non hai dunque paura di dormir sola colà? -- le disse la madre.

-- No.

Durante la giornata, la madre la voleva in camera, anche pel rosario e
per le altre preghiere in comune, quando il canonico Rametta veniva a
confessare, al solito, la signora baronessa, e a discorrer di cose sante
e di pettegolezzi. Il canonico avea creduto che l'assenza del barone
avrebbe vivificato un po' l'aspetto triste e opprimente di quella casa;
e il santo prete vedeva ora quasi con rimorso che la tristezza si era
piuttosto aumentata. Quell'uomo che stava rinchiuso nella sua stanza,
sepolto fra le vecchie scritture, di nient'altro occupato all'infuori di
esse, avea lasciato un gran vuoto nel vasto palazzo, di cui il povero
canonico non si sapeva rendere ragione.

-- Nessuna notizia? -- domandava timidamente alla baronessa.

-- Nessuna!

-- Nessuna! -- ripeteva Mariangela, alzando al cielo le pupille stanche e
trasognate.

-- Il Signore gli aprirà gli occhi, gli rammollirà il cuore! Preghiamo
per lui! -- replicava il canonico.

Rosaria aggrottava le sopracciglia, si mordeva le labbra carnose, e non
si capiva se per isdegno o per rimpianto dell'assente. Spesso, durante
la conversazione, si alzava tutt'a un tratto da sedere e andava a
rinchiudersi nella sua nuova stanza.

Una mattina Mariangela l'aveva sorpresa bocconi a traverso il letto,
soffocata da' singhiozzi. Le mani brancicavano convulsamente le coperte,
e nell'agitarsi scomposto della testa le nere e lunghe treccie le si
erano disciolte ed arruffate.

-- Oh, Dio!... Che hai? Rosaria!...

Al grido della sorella, ella si era rizzata rapidamente, buttando
indietro con le mani i capelli che le ricadevano su la faccia e su le
spalle; e spalancando gli occhi, avea portato l'indice alla bocca,
imponendo silenzio.

-- Non dir nulla alla mamma!... Non è niente!... Manda a chiamare il
canonico Rametta... Ho bisogno di lui... Voglio confessarmi... non dir
nulla alla mamma! Bada; non dirle nulla!

Mariangela, sbalordita, spaventata, aveva atteso il canonico in cima
alla scala, e lo aveva fatto entrare in punta di piedi, perchè la
baronessa non si accorgesse della venuta di lui.

-- Lasciaci; va di là, -- Rosaria aveva ordinato alla sorella.

-- Cattive notizie? -- domandò allora il canonico.

Rosaria, chiuso l'uscio e messo il paletto interno, si fermò in faccia
al sacerdote, che la guardava aspettando ansioso la risposta.

-- Sono dannata! -- ella esclamò portando le mani attorno alla bocca, a
fin di reprimere il suono della voce e renderlo nello stesso tempo più
vibrante.

-- Dannata? Figliuola mia! Dannata?

Ella lo spinse su la seggiola a bracciuoli presso il tavolino e gli
cadde davanti in ginocchio.

-- Dannata?... Non è possibile!... Che hai fatto da dover disperare del
perdono di Dio? Oh, figliuola mia!...

China con la testa rovesciata in giù, coprendosi la faccia con le mani,
Rosaria ripeteva straziante:

-- Dannata!... Dannata!

Il confessore le accarezzava i capelli, tentava di confortarla.

-- Parla, figliuola mia! Ora sei davanti al cospetto di Dio... Dimentica
la miserabile persona del suo indegnissimo servo... Parla!

Mai il canonico Rametta, da che era stato autorizzato ad amministrare il
Sacramento della penitenza, mai si era trovato davanti a una scena
simile; e tremante, smarrito, non sapeva in che maniera indurre quella
figliuola a calmarsi.

Terribili, incredibili cose aveva poi udito.

-- Tu, figliuola mia?... Tu hai invocato il diavolo?... Perchè? Come?

E Rosaria, a testa china, con la faccia tra le mani che a stento
lasciavano passar libera la parola, aveva rivelato il segreto che da due
anni le gravava sul cuore, e che aveva formato la sua felicità e la sua
disperazione nello stesso tempo; quel terribile segreto che più volte le
era parso avessero indovinato o volessero indagare la madre, la sorella,
i fratelli, e che ella aveva per ciò più rabbiosamente calcato in fondo
al petto!... Ma ora... ora non ne poteva più!

E così dentro quella buia sepoltura della loro casa era penetrato un
raggio di sole. Ella aveva amato, riamata!... Perchè, perchè il Signore
l'aveva fatta nascere una Zingàli? Per questo, colui non aveva mai osato
farle sapere direttamente... E forse anche per lo stato della loro
famiglia!

-- Come lo hai dunque saputo, figliuola mia?

-- Un accenno, due parole dettemi da una povera donna...

-- Quali, figliuola mia?

E udendo l'ingenuo racconto, l'esperto confessore capiva a poco o poco
quale pertinace lavorìo della giovanile immaginazione aveva potuto
intessere la fallace lusinga di quell'amore nel silenzio, nella
penombra, nella solitudine di quei malinconici stanzoni, dove i suoni
della vita che ferveva fuori giungevano ammortiti, affievoliti o non
arrivavano affatto. E per ciò ella si era ribellata al destino; per ciò
avea protestato contro la tirannia di Gesù Cristo che la condannava a
essere una Zingàli, cioè un'ombra, un fantasma, un nome e nient'altro.

-- Sì, sì padre!... Ho maledetto Gesù!... Ho maledetto la Madonna!

-- E hai mentito nella confessione? E ti sei cibata sacrilegamente delle
carni immacolate del Redentore?

-- Sì, sì padre!...

Un giorno, rovistando uno scaffale di vecchi libri, dietro i volumi in
foglio legati in pergamena, aveva trovato un libro involtato in un
foglio di carta e sigillato. Ingiallito, squadernato, senza
frontispizio, con strane figure quasi a ogni pagina, quel volumetto
aveva tentato la sua curiosità. Sigillato con cinque larghi sigilli,
nascosto colà, dietro agli altri libri, era dunque qualcosa di vietato?
E se lo era portato in camera, e lo aveva nascosto tra le materassa del
suo lettino, sotto il capezzale... E la notte, fingendo di dir le
preghiere, si era messa a leggere...

-- Diceva: _Modo di far apparire nella propria camera la persona amata_.
Si doveva recitare per tre notti consecutive una lunga preghiera
latina... _Adonai, onnipotens sempiterne Deus_... La so tutta a memoria!

-- Il demonio, figliuola mia!... Il demonio!...

-- Che m'importava? Abbandonata da Dio, mi rivolgevo al diavolo che
almeno mi prometteva quella felicità... Ah! sono stata ingannata anche
da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella
preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di
sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che
mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella
stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio,
portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè
occorreva una candela benedetta... E poi ho continuato per mesi e mesi,
qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva,
che non è apparso mai! Mai!...

-- _Domine, ignosce illae!_ -- balbettava il canonico, alzando
pietosamente gli occhi. E soggiungeva: -- Dio è misericordioso... Tu,
povera figliuola, non sapevi quel che facevi.

-- Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!...

-- Ma era un'aberrazione, un suggerimento del diavolo!... Ora che ti
accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono...

-- Sono dannata!... Sono dannata! -- tornava a singhiozzare Rosaria
desolatamente.

-- Ah, figliuola! Questo, questo è peccato ancora più grande: disperare
della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me
n'ha dato potestà, _ego te absolvo_!... E ora che intendi fare,
figliuola mia?

-- Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito...
sùbito!...

                                  *
                                 * *

Il barone aveva ricevuto una lettera di Rosaria che gli domandava
perdono e gli annunziava la sua partenza per Siracusa, dove era la casa
delle Suore di Carità che dovevano ricevere i primi voti di lei. Egli
aveva tentennato cupamente il capo leggendo; poi, stracciato il foglio,
ne aveva buttato i pezzetti in un angolo; e non aveva risposto.

Due mesi dopo, Ercole, in una partita di caccia, veniva colpito per
sbaglio da un amico. Era rimasto accecato, e forse non sarebbe
sopravvissuto alla disgrazia!

-- È la mano di Dio! -- aveva risposto il barone a don Emanuele Cerrotta,
incaricato di partecipargli cautamente la notizia. -- Dovrò vedere ben
altro!... La mano di Dio è lenta nel colpire, ma infallibile!...

Da due notti egli non chiudeva occhio, agitato dal pensiero della
prossima discussione della lite davanti a la Gran Corte. Finalmente il
gran giorno arrivava! Bisognava correre da un giudice all'altro e dal
presidente, per dare _informazioni_ assieme con l'avvocato e col
procuratore legale. E il presidente della Gran Corte, udendolo parlare e
parlare -- già lo conosceva benissimo; chi non lo conosceva ormai nei
tribunali e nella Gran Corte? -- quella mattina gli disse nel suo
schietto napoletano:

-- Ma caro barone, 'a Corte v'avarrìa da dà ragione pe levasse na mala
pimmicia da cuollo!

E il giorno dopo, nella sala di udienza, il barone piangeva di
consolazione durante la splendida arringa dell'avvocato De Paolis, e
sorrideva tra le lagrime, approvando con la testa, con le mani, col
busto, applaudendo sotto voce con frequenti _bravo! bene! benissimo!_
che avevano infastidito il celebre avvocato, perchè lo distraevano dalla
complicata argomentazione del suo ragionamento.

-- Ma, barone mio!... -- gli si rivoltò all'ultimo.

Il barone parve volesse sparire sotto terra, tanto fu visto
rannicchiarsi su la seggiola al rimprovero dell'avvocato.

Ma poi drizzò il capo, fulminò con uno sguardo l'avvocato della parte
contraria, appena questi cominciò ad arringare con voce sonora ed ampi
gesti.

-- Storie!... Sciocchezze!... E l'atto di permuta? Ah! Ah!... Bravo!
Bene!... Benissimo!...

Si contorceva, alzava le spalle, approvava con ironico accento; si
stringeva la testa tra le mani; si turava le orecchie per non udire quei
cavilli anticipatamente sfatati dalla insuperabile arringa del De
Paolis... Un Dio!... Aveva parlato come un Dio!... E colui faceva
sbadigliare i giudici!... E il cugino marchese stava ad ascoltarselo
chiudendo gli occhi. -- Ed ecco, caro cugino!... Ci siamo riveduti in
Gran Corte!... E riderà bene chi ride l'ultimo! Ah! Ah! -- Che diceva ora
quell'avvocato arruffone?... -- Ma sì, ma sì... Col matrimonio di donna
Querinta Soldano... appunto!... baronessa di Cantorìa!... -- Lo confutava
balbettando appena le parole, e stentava a contenersi...

Tutt'a un tratto impallidì, si piegò in avanti e cadde bocconi per
terra, con un fievole rantolo.

                                  *
                                 * *

L'avevano creduto colpito da apoplessia; invece si era semplicemente
svenuto per stanchezza, per eccessive commozioni e per debolezza; da due
giorni aveva mangiato soltanto un po' di pane!

-- Che fate più qui, barone? -- gli aveva detto don Emanuele Cerrotta. --
Ora aspettiamo la sentenza... favorevole... ve lo confido in un
orecchio... l'ho saputo poco fa. Sarà pubblicata fra un mese. Ci si dà
ragione in tutto e per tutto... Come se ce la fossimo scritta da noi.
Tornate a casa vostra; caro barone; volete ammazzarvi con questa
vitaccia? Perdonate e non ci pensate più. Siate generoso!

-- I Zingàli non perdonano mai! Vanno all'inferno, ma non perdonano! Mai!
-- aveva risposto il barone.

-- Non siete cristiano dunque?

-- Cristiano battezzato; ma Gesù Cristo, che perdonò a tutti ed era
figlio di Dio, Gesù Cristo non perdonò a Giuda!

-- Andate a confessarvi!... Non sapete che vostro figlio Marco...

-- Il mugnaio?... So! So!

-- C'è mancato poco che la gran ruota del suo mulino non lo abbia
sbalzato per aria e sfragellato!

-- La mano di Dio!... E ancora!... Ancora!...

-- Me l'ha raccontato uno del vostro paese. E, in pochi minuti, ogni cosa
si è sfasciata, è andata in frantumi per troppa violenza di moto. Son
crollati due solai...

-- Crollerà l'intero palazzo! Vedrete!

-- Non fate il profeta del malaugurio! Infine sono figli vostri. E quella
povera baronessa! È malata, quasi moribonda... Andate colà, perdonate a
tutti, siate generoso! Vi occorre danaro? Due oncie? Sono le ultime. Fra
qualche mese avrete le casse piene di scudi; non saprete che farne... E
in gennaio non dimenticate di mandarmi le ulive nere salate, quelle di
Cento-Salme.

-- Non c'è ulivi a Cento-Salme. So io dove trovarle.

-- E perdonate. Perdonare è dei grandi -- conchiuse don Emanuele.

No, non poteva perdonare! Ora che la lite era vinta, ora che la
ricchezza tornava a far rifiorire il nome dei Zingàli, tutte le
sofferenze, tutte le umiliazioni patite gli risalivano in gola, gli
attossicavano la bocca, quasi gli fossero rimaste indigeste da più di
due anni. E quel tanfo di cui più non si accorgeva, e quel sudiciume
della biancheria e del vestito a cui più non badava, e dei quali aveva
spesso tratta materia di orgoglio pel suo carattere, ora, soltanto ora,
quel tanfo gli mozzava il fiato; ora, soltanto ora, quel sudiciume che
portava addosso gli dava nausea!

E la mattina dopo montò sul carretto di un compaesano, come un
miserabile portato per carità, e si sfamò assieme col carrettiere in una
osteriaccia di campagna. Il sole lo cuoceva, le scosse del carretto gli
indolenzivano le ossa. Ma, steso quasi bocconi su le dure tavole di
abete di cui il carretto era carico, egli pensava al giorno che sarebbe
rientrato nel suo palazzo da vero padrone, da vero barone di Fontane
Asciutte e Cantorìa; lui che n'era uscito con quattro piastre in tasca e
un mazzo di scritture sotto braccio! Lui che volevano far interdire
perchè rovinava la famiglia! Lui che era stato abbandonato dalla moglie,
dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato!

-- Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che
non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora
che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si
umilieranno, commetteranno tutte le viltà... C'è Cento-Salme in vista.
Ci sono diecimila onze per colui del mulino... e dieci per l'avvocatino
don Felicianino... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più
marito!... Non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro Paolo
Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa... no, anzi, barone di
Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo!...

Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone
polveroso. Il carrettiere cantava.

Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo
rossiccio, i campanili, le cupole del paesetto da cui mancava da tre
anni e un'inattesa forte commozione lo invase.

Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in
quel punto sentì bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo.

-- Che dicono di me?

-- Dicono che _voscenza_ ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più
al mulino...

-- Forse...

-- È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono
un carrettiere il carrettiere; dico bene, _voscenza_?

-- Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato.

-- Come vuole voscenza.

E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la
collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal
ciglione:

-- Zitto! -- gli disse -- Sono stanco; la salita è ripida.

                                  *
                                 * *

Le febbri lo avevano sfinito. Dormiva sur un po' di strame; non c'era
neppure un pagliericcio in quell'antico frantoio di ulive che non
serviva più da anni ed anni. I contadini ogni sera tornavano in paese,
ed egli restava solo colà, aspettando il plico del procuratore Cerrotta,
che dovea portargli la copia legale della sentenza della Gran Corte.

-- Come si sente, _voscenza_?

-- Meglio! Meglio. Non è niente! Ho la pelle dura io.

Passava la giornata e parte della serata seduto sur un gran sasso
davanti al portone, con una specie di coma che gli faceva socchiudere
gli occhi e abbandonare la testa sul petto. Il vecchio contadino, che
era stato antico fittaiuolo di casa Zingàli, una sera finalmente era
andato dalla baronessa, non ostante il divieto del barone.

-- Dovrà morire colà, come un cane?

-- Che possiamo farci?... Ha parlato di noi?

-- Mai, mai! Dice che aspetta una lettera dell'avvocato. Mandino almeno
un dottore... e un letto. Dorme vestito su la paglia, in un canto del
_trappítu_... Fa pietà!

Una mattina stava seduto su quel sasso fin dall'alba, ostinato a restare
in quell'edifizio dalle mura spaccate, dal tetto sconquassato, su quel
po' di paglia, che gli serviva da giaciglio, fino al giorno in cui
avrebbe avuto in mano la copia legale della sentenza. Aveva sbattuto i
denti pel ribrezzo della febbre durante la nottata; ora si sentiva
scoppiar la testa dal calore, quasi il sangue gli si fosse mutato in
liquido ardente dentro le vene, quantunque l'aria mattutina fosse
fresca. Sentendo uno scalpitío di vetture, volse la testa.

-- Ah, signor barone!... Ah, signor barone!...

Il canonico Rametta gli stendeva da lontano le braccia, il dottor La
Barba lo salutava cavandosi il cappello. Egli fece uno sforzo per
rizzarsi ed evitar di riceverli, ma ricadde sul sasso, appoggiandosi con
le spalle al muro, mentre essi scendevano da cavallo.

-- Non ho bisogno di medico; non sono in punto di morte da dovermi
confessare, signor canonico. Siete venuti come i corvi all'odor del
cadavere? No, no... Sono più vivo di tutti coloro che vi mandano...
Andate a dirglielo.

-- Siamo venuti per conto nostro, signor barone; pel bene che vi
vogliamo, pel rispetto che vi dobbiamo...

-- Ho qui un plico per lei, da Catania. L'ha portato ieri sera mio
cognato...

-- Grazie! Date qua... Grazie!

Gli occhi torbidi e stanchi gli si rianimarono un poco. Le mani
palpavano con un tremito di carezza il plico, ma non tentavano di
aprirlo. La commozione gli aveva tolto ogni forza... Sorrideva, agitava
le labbra, ma non poteva parlare. Accennò al dottore che lo aprisse lui
e leggesse...

-- Che cosa è, dottore? -- lo interruppe -- Qui!... Qui!...

Accennava al cuore. Soffriva una smania dolorosa, una puntura
acutissima.

-- Non voglio morire!... Non debbo morire! -- balbettava.

Il dottore e il canonico si guardarono in viso.

Mentre il dottore lo sosteneva per le spalle, il canonico, chinatosi
premurosamente su lui, gli susurrò con voce compunta:

-- Faccia la volontà di Dio, signor barone! Dio è padrone della vita e
della morte!...

Il barone spalancò gli occhi.

-- Non voglio morire! Non voglio morire!... Soffoco!... Dottore!

Implorava disperatamente aiuto.

-- Si rassegni, faccia la volontà di Dio! -- ripeteva il canonico
inginocchiato davanti a lui.

Il povero moribondo scosse la testa, raccolse le forze:

-- Ah!... Questa, no, Cristo non doveva farmela!

E portando le mani al cuore e tentando di strapparsi il vestito, con le
sopracciglia corrugate e l'espressione dura e orgogliosa dei Zingàli
nello sguardo, soggiunse, balbettando quasi con minaccia:

-- Ma... ce la vedremo lassù!... Non... doveva... far...

E il rantolo dell'agonia gli troncò la parola su le labbra convulse.



UN TIPO


Lo chiamavano don Pietro il _Gobbo_, ma il gobbo veramente era stato suo
padre che, pur avendo due gobbe, una davanti e l'altra di dietro, aveva
trovato una coraggiosissima donna la quale si era rassegnata a sposarlo
e gli aveva regalato due figli diritti come fusi. Il nomignolo però era
rimasto appiccicato alla famiglia e probabilmente i D'Accurso saranno
chiamati i _Gobbi_ fino all'ultima generazione.

Don Pietro D'Accurso, diceva la gente, non era gobbo ma meritava di
esser tale. La gobba, aggiungevano, l'aveva nel cuore. In vita sua non
aveva mai dato a un poveretto una buccia di fava, nè una stilla d'acqua,
mai, mai! Se un poveretto andava a chiedergli l'elemosina e per
intenerirlo gli diceva: -- Da due giorni non metto niente dentro lo
stomaco! -- egli aveva la sfacciataggine di rispondergli:

-- Beato te, che puoi vivere due giorni senza mangiare! Io, vedi, ho
fatto colazione due ore fa e già mi sento lo stomaco vuoto.

A sentir lui, non c'era peggiore miseria di quella di esser ricchi.
Quanti pensieri! Quanti grattacapi! E come invidiava quegli straccioni
che non avevano un soldo in tasca, nè un palmo di terreno al sole, nè un
tetto sotto cui ricoverarsi! Per loro non c'era Esattori, nè Agenti
delle Tasse, nè Ricevitori del Registro, nè focatico, nè dazio di
consumo, nè ruolo di vetture! Essi potevano ridere allegramente in
faccia al governo e alla morte, mentre lui, disgraziato! non rifiatava
da mattina a sera, sempre in giro di qua e di là, per pagare, pagare,
pagare; e, appena aveva finito, dovea ricominciare daccapo! Il Signore
gli aveva caricato su le spalle questa pesantissima croce, e gli toccava
di portarla, peggio di Gesù Cristo quando lo conducevano al Calvario.

Il suo Calvario era il _Puddaru_, con gli uliveti che coprivano le
colline, con le vigne da un lato, i vasti terreni seminativi dall'altro,
fino a piè della Montagna, e il gran casamento nel centro, metà villa,
metà masseria, con frantoio per estrar l'olio, palmento, cantina, stalle
pei buoi, rimesse per la paglia e pel fieno e tanti e tanti altri
impicci!

Ah! Che non ci voleva pel raccolto delle ulive?

Una ventina di bacchiatori, una cinquantina di raccoglitrici, e, più,
dieci o dodici mangiapane che lavoravano, sì, giorno e notte nel
frantoio, sporchi, unti di olio, ingialliti per la perdita del sonno, ma
che però divoravano come lupi anche quando non avevano fame. Dove la
mettevano tutta quella robbaccia indigesta che egli doveva far cucinare
dalla massaia?... Un mese e mezzo d'inferno!

I coppi, è vero, si riempivano d'olio, ma gli toccava ogni volta
scendere giù in cantina col pericolo di rompersi la noce del collo con
quegli scalini sdruciti, e sorvegliare gli uomini perchè non
sbagliassero nel versare l'olio di prima qualità in un coppo, e l'olio
di sanza in un altro. Se non apriva tanto d'occhi lui, chi sa che
pasticci gli avrebbero fatti!

E così, alla fine, quei mangiapane si beccavano fazzolettate di pezzi da
cinque lire, si ripulivano, si rivestivano a nuovo; e lui, poveretto,
che aveva dormito appena due, tre ore ogni notte, per un mese e mezzo di
fila, si sentiva tutto rotto, con la nausea dell'odor dell'olio nelle
narici e nella gola... E non era finita!

Quel benedettissimo olio poteva restar in cantina, nei coppi? Bisognava
venderlo. Ma prima!... Travasarlo due, tre volte, cavar la morga di
fondo ai coppi, e poi attendere che il prezzo salisse, salisse!...
Sicuro, attendere, mentre i poveretti, che ne avevano tre, quattro
_cafisi_ soltanto, se ne sbarazzavano subito e non ci pensavano più!

E che discussioni, che còllere, nei giorni di vendita, con quei ladri
dei misuratori che recavano la misura falsa e tenevano la spugna attorno
il collo del _cafiso_, per farla impregnare di olio nel riempirlo col
boccale! E che arrabbiature coi compratori più ladri di loro, che
cercavano di appioppargli falsi pezzi di cinque lire nuovi fiammanti che
lo avrebbero rovinato, se lui non avesse avuto la santa pazienza di
osservarli bene, voltandoli e rivoltandoli e facendoli ballare sul marmo
a uno a uno per sentirne il suono! Se li era proprio guadagnati sudando,
arrabbiandosi, perdendoci la voce... E da lì a due giorni dov'erano
tutte quelle pile di pezzi da cinque lire?

In mano dell'Esattore, dell'Agente delle Tasse, del Ricevitore del
Registro!

-- Tu non hai queste seccature! -- egli diceva a Cannizzu, povero diavolo
che lo serviva come un cane, magro e allampanato tra tutto quel ben di
Dio del suo padrone.

-- E _voscenza_ dia ogni cosa a me! Così non avrà più seccature! -- gli
rispondeva ridendo Cannizzu.

-- Ti farei un bel regalo! Mi malediresti notte e giorno! Sta' zitto!
Pensiamo alle semente piuttosto!

Laggiù, al _Puddaru_, venti, trenta aratri preparavano il terreno; e in
paese, nel magazzino del grano, il crivellatore ripassava il farro, la
timimia, la francese, l'orzo fra un nugolo di polvere che faceva tossire
don Pietro, quasi stesse per sputar fuori i polmoni. Ma era quella la
sua croce! Aver l'occhio a tutto, guardarsi di tutti, per non farsi
spogliar vivo, ora che non c'era più moralità in questo mondo, e dei
galantuomini si era già perso lo stampo.

Era forse sicuro che tutto quel grano da sementa andasse tra i solchi
aperti? Non poteva avere cento occhi, non poteva essere, come
Domineddio, presente in ogni luogo! Faceva quel che poteva; e si
logorava la vita; ci perdeva la salute e l'appetito.

-- Beato te, Cannizzu! Pane e cipolla eh? Fai bocconi grossi! Io,
intanto, se non ho un buon brodo di manzo, un po' di fritto, un po' di
pesce, una bistecca e un pezzo di rosbiffe, un po' di cacio svizzero, e
dolce e frutta e caffè...! Mi reggo in piedi così!... Ah se avessi il
tuo stomaco di struzzo, che digerisce fino il ferro! E tu puoi bere
anche quella specie di aceto, e leccartene i baffi. Io, invece...
miseria!... senza due dita di marsala, di moscato, di calabrese! I
nostri vini mi riescono indisgesti... Mi tornano a gola... Ci vuole pure
un po' di Chianti, un po' di Bordò... Miseria! Ma bisogna fare la
volontà di Dio!

Cannizzu qualche volta rispondeva:

-- La farei anch'io cotesta volontà di Dio!

Don Pietro gli dava su la voce:

-- Bestia! Bestia! Pane e cipolla! Ringrazia Gesù Cristo che non ti ha
dato altro! Guarda mio fratello. Non ha niente, e fa il signore. È
guardia campestre; e va a cavallo da mattina a sera. Che deve guardare?
I caprai che pascolano per le strade di campagna comunali! Non ha voluto
fare mai nulla, si è giocato e mangiato e bevuto tutto il suo... ed è
felice! Ma siccome è più bestia di te, non mi può vedere, mi odia perchè
non ho fatto come lui. Che colpa ci ho io? E stata la mia disgrazia. Ho
fatto come la formica; tutto mi è andato bene, tutto mi va bene; se
mettessi acqua nei lumi, credo che arderebbe come petrolio. Che colpa ci
ho io?... E devo sfacchinare il giorno e pensare la notte; pensare a
questo, a quello, a cento cose...! La testa mi va per aria... E vorrei
dormire il sonno pieno che dormi tu, sul tuo pagliericcio duro! Che vale
che il mio letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben
sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi rivolto di qua e di là... Sì,
sì!... Guai se dormissi come te, russando, la grossa! Chi penserebbe
alla mietitura, alla trebbia? Chi alla vendemmia? Rifiato forse? Tu
ridi, bestione, quasi io dica delle sciocchezze... Ed io ti dico che
cambierei volentieri il tuo stato col mio!

-- Cambiamolo, eccellenza!

-- Mi malediresti l'anima cento volte al giorno!

-- Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto
nell'altro mondo. Per chi lavora?

-- Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta
questa ricchezza?... Perchè, tu lo sai bene, ce n'è grazia di Dio, ce
n'è! Il magazzino del grano è pieno come un uovo; la cantina non ha una
botte vuota; la dispensa ha quaranta coppi ricolmi fino all'orlo... E
poi, e poi!... Se ti dicessi quel che mi deve il barone Pitulla? Con
belle ipoteche... Eh! Eh!... Ma che vale? Lui se la spassa a Napoli, a
Roma, a Torino, a Parigi con le donne... Ed io sono stato a Roma, una
volta sola, col pellegrinaggio, per vedere il Papa!... E se non tornavo
subito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?... Niente,
niente! La mia croce è questa. Sia fatta la volontà di Dio!

E don Pietro d'Accurso, detto il _Gobbo_, era invecchiato, mangiando
bene, bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo col suo eterno lamento su
le labbra, predicando sempre che non c'è peggiore miseria di quella di
esser ricchi; non facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello
che aveva otto figli e non sapeva come sfamarli col suo misero soldo di
guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando
puntualmente tutti fino all'ultimo centesimo, mai però un centesimo di
più, come neppure uno di meno. Egoista, sì, ma sincero nei suoi lamenti
e nel suo aforisma prediletto: Non c'è peggiore miseria della ricchezza!

E questo si vide benissimo nell'ultima sua malattia.

Quando si avvide che l'ora sua era arrivata, mandò a chiamare il
fratello:

-- Senti, Nanni; ti càpita una gran disgrazia: stai per diventare ricco,
ricco assai. Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai
costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I
quattrini sono là, in quel cassetto. I poveretti vanno all'altro mondo
senza torce e preti e concerto; io sono ricco e debbo pensare a queste
miserie anche in punto di morte!... Senti, Nanni: una bella cassa di
noce scura, foderata di raso... Ti costerà parecchio... Ma che vuoi
farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti
della cassa del comune... Te la saresti cavata, senza darti nessun
pensiero, senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace di
averti procurato questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti
ricco... Fa' la volontà di Dio, come l'ho fatta io!... Io vò a rendere i
conti lassù!... Chi sa come andrà? Speriamo bene. Pensa a quel che ti ho
detto di provvedere: cassa, funerale, concerto... E... spicciati,
spicciati... Mandami qui il confessore!



IL «MULO» DI ROSA


-- Se prendessimo un trovatello?

La moglie aveva detto questo con le lagrime agli occhi. E il marito avea
risposto rassegnatamente:

-- Prendiamolo.

Così una mattina marito e moglie erano montati su un carretto che
portava a Caltagirone un carico di _quartare_ e di _carrati_, le solide
terracotte che sono una specialità di Mineo, e si erano presentati alla
Commissione dei trovatelli:

-- Vogliamo un bambino spoppato; lo terremo meglio che se fosse nostro
figlio.

In un gran stanzone con lettini e culle, la suora che li guidava mostrò
due bambini addormentati:

-- Questi ha un anno e due mesi; si chiama Angelo, ed è bello come il suo
nome. Quest'altro, ventidue mesi; si chiama Nino.

-- Come te -- disse la donna al marito. -- Prendiamo questo; sia fatta la
volontà di Dio!

Il bambino, svegliato nel meglio del sonno, si mise a piangere. La
donna, baciandolo, accarezzandolo e facendolo baciare dal marito, riuscì
quasi sùbito ad acchetarlo.

La poveretta che, dopo sei anni di matrimonio, aveva perduto ogni
illusione di poter avere, un giorno o l'altro, figliuoli, teneva stretto
stretto il bambino tra le braccia, mentre i signori della Commissione
non finivano più di scrivere in quei loro libroni grossi quanto un
messale: nome e cognome del marito; nome e cognome di lei...
Fortunatamente le loro carte, fatte dal sindaco, erano in regola; e
verso mezzogiorno, marito e moglie, raggianti di gioia, scendevano le
scale di quel vecchio palazzo che sembrava una prigione, con quelle
povere creaturine abbandonate là in mano di balie mercenarie, e di suore
che non potevano intendere niente della maternità, poichè vi avevano
volontariamente rinunciato.

-- Figlio mio, sono la tua mamma! E questo è tuo padre! -- diceva la donna
al bambino che li guardava sbalordito, quasi diffidente di quei visi
nuovi.

Ed erano stati davvero padre e mamma per lui.

La loro casetta silenziosa ora risuonava allegramente di grida e di
strilli infantili.

La povera donna, che non aveva mai sentito il sussulto delle viscere per
una creatura sangue suo, sembrava pazza di gioia alla vista di quel
bambino di origine ignota, fino di lineamenti, biondo di capelli, con
occhioni così azzurri da parere quasi neri, gracilino ma ben fatto; e,
in certi momenti, ella credeva le fosse piovuto dal cielo per speciale
grazia di Dio, in ricompensa delle tante preghiere da lei fatte, delle
tante elemosine date ai poveri perchè glielo impetrassero con le
preghiere loro, forse più efficaci delle sue. Ispirazione della Madonna,
s'ella aveva detto al marito:

-- Prendiamo un trovatello!

                                  *
                                 * *

Le sere di estate, appena l'omo tornava dalla campagna, marito e moglie
si sedevano davanti l'uscio, col bambino su le ginocchia, orgogliosi di
lui, così delicato e così bello, assai più che se fosse stato davvero
figlio loro.

-- È un angelo, zi' Cola!

Il vecchio zi' Cola, dall'uscio di rimpetto, crollava il capo,
accigliato e musone.

-- Non è vero, forse? -- insisteva la donna.

E allora lo zi' Cola rispondeva sentenziosamente:

-- Tutti i figli di male femmine sono fortunati!

-- Perchè di mala femmina questo qui? Che ne sapete?

-- Altrimenti non sarebbe voluto bene così! Se volevate fare una santa
carità, dovevate prendere uno dei bambini di comare Stella, che non sa
come sfamarli. Ai muli deve pensare il re.

-- Ma che _muli_! Sono creature di Dio, disgraziate, abbandonate.

-- Ai _muli_ deve pensare il re!

Lo zi' Cola appoggiava il mento su le mani sovrapposte al suo bastone di
ciliegio e socchiudeva gli occhi, aggrottando le sopraciglia. Pensava
all'antica: per lui i trovatelli erano _muli_; e a loro doveva
provvedere soltanto il re, che voleva dire: il governo.

Ma Rosa, in risposta, baciava forte il bambino, dicendo:

-- Questo è barone, principe, re di casa mia!

E suo marito, grave, con le mani su le ginocchia, guardava lei e il
bambino e non diceva niente.

Le vicine, invidiose e maligne, vedendo quel trovatello vestito come un
signorino, lo chiamavano, per dispetto: il _mulo_ di Rosa. E Rosa, se le
udiva, lasciando d'impastare il pane, si affacciava su l'uscio con le
braccia nude intrise di pasta, e cominciava a sbraitare:

-- Femminacce senza educazione e senza cuore! Muli saranno i figliacci
vostri, se non avete carità per una povera creatura che non vi fa nessun
male!

-- Con chi parli, pettegola?

-- Parlo con tutte! Romperò il muso a qualcuna!

E quando il ragazzo, già cresciuto, nel fare il chiasso con gli altri
suoi pari, si bisticciava e si azzuffava con essi, e tutti gli
gridavano:-_-Mulo! Mulo!_ -- ed egli si metteva a piangere perchè lo
chiamavano come la sua mamma non voleva. Rosa diventava una furia, e
correva addosso ai ragazzacci dando spintoni e scapaccioni.

-- Se non ne storpio uno, non sarò più Rosa Zoccu!

Suo marito, arrivando dalla campagna la trovava in lagrime per questo.

-- Lasciali dire! -- la confortava. -- Gli tolgono forse il pane di bocca?
Il pane lo avrà meglio assai dei figli loro. È tutta invidia! Lasciale
dire. Ora lo manderemo a scuola.

                                  *
                                 * *

Rosa diventava rossa dalla contentezza quando vedeva tornare dalla
scuola il bambino, con la tasca d'incerata a tracolla; e stava a
guardarlo sbalordita mentre quegli scarabocchiava i quaderni seduto al
tavolinetto fatto fare a posta per lui.

Lo vedeva già cresciuto, bel giovane, serio... Avvocato? Dottore? Prete?
Non sapeva decidersi intorno alla professione da dargli... Lei ne
avrebbe fatto volentieri un prete, canonico, poi parroco..... Sarebbe
andata ad ascoltare la messa di lui, le prediche di lui...! Ma suo
marito diceva:

-- Meglio dottore.

-- Sarà quel che Dio vorrà! -- conchiudeva lei.

E si divertiva a interrogare il ragazzo.

-- Che cosa vuoi tu diventare? Avvocato? Dottore?

-- Brigadiere, mamma; con la sciabola e il pennacchio! -- aveva risposto
un giorno il bambino.

E Rosa si era indignata. Soldato, no! Il re ne aveva tanti altri figli
di mamma da prendersi. Suo figlio doveva restar sempre con lei; essere
il bastone della sua vecchiaia, la colonna della sua casa, la palma del
suo giardino, il suo stendardo... Tutte le immagini dei canti popolari
le venivano su le labbra, le accendevano la fantasia. La povera donna
aveva quasi dimenticato che quel ragazzo era un trovatello; forse gli
voleva più bene appunto per questo; intendeva di essergli doppiamente
mamma, in modo da compensarlo della cattiva sorte che lo aveva fatto
buttare alla ruota, come una bestiolina, in mano di estranei, solo solo
al mondo...

Per ciò si sentì trafiggere il cuore, e pianse un'intera giornata, la
volta che il bambino tornato da scuola le domandò:

-- È vero che voi non siete la mia mamma?

-- Chi ti ha detto questo?

-- De Marco, il figlio del pastaio.

-- Digli...

Ma si fermò; e le parolacce che voleva fargli rispondere le borbottò lei
tutta la giornata, bevendosi le lagrime, mordendosi le labbra dalla
rabbia. E andò a fare una scenata al pastaio, perchè insegnasse
l'educazione al figlio.

-- Lasciali dire! -- le ripeteva il marito. È tutta invidia... Lo
vestiremo da angiolo per la Festa dei Pastori, la prossima domenica di
maggio. Don Antonio, il poeta, mi ha detto che gli darà una bella parte
da recitare.

E quel giorno marito e moglie credettero di toccare il cielo col dito.
Don Carmine, il sagrestano, vestito il ragazzo con la corazza di carta
argentata e appiccicategli alle spalle due belle ali di cartone dipinto,
gli metteva in testa l'elmo dorato.

-- Guardate qui, zi' Cola!

Rosa lo mostrava, tenendolo in braccio, al vecchio contadino brontolone
che passava le giornate seduto davanti la porta di casa sua, dicendo
male di questo e di quello, non stando zitto un solo momento; per ciò lo
chiamavano: Zi' Parla-Parla!

-- Guardate qui, zi' Cola!

-- Tutti i figli di male femmine sono fortunati! -- le rispose, al solito,
il vecchio.

-- E voi siete uno stupido! -- replicò Rosa, voltandogli le spalle.

                                  *
                                 * *

Per Rosa e suo marito, il giorno della loro andata a Caltagirone a
prendere il bambino, il giorno in cui lo avevano menato a scuola, e
l'altro che gli avevano udito recitare di sul palco, tra figli di
signori ed altri compagni di scuola, la parte da angelo nella Festa dei
Pastori, erano date indimenticabili, di cui essi ragionavano spesso,
ringraziando Dio e la Madonna.

-- Vedi? Da quell'anno tutto ci è andato bene. Col bambino è entrata in
casa nostra la buona fortuna. Domani comprerò un altro bue; avremo due
aratri. Prenderò un'altra mezzadria.

-- E la bella tela? E la chioccia coi pulcini? E il maiale da vendere a
Natale? Tutto per lui! Non sembra un bambino, tanto è assennato!

-- Il maestro mi ha detto: Avrà il primo premio. Ora dovete fare uno
sforzo maggiore, mandarlo a Caltagirone per le altre scuole.

-- Solo?

-- Come gli altri.

-- Andrò io con lui. Che farà altrimenti? Si troverà sperduto.

-- Ha tredici anni; farà come gli altri -- conchiuse il marito. -- Ho un
compare a Caltagirone; lo affideremo a lui.

Sognavano la felicità futura, la prossima premiazione. Rosa voleva fare
un bel pranzo quel giorno, e invitare anche qualche vicina, e mandare
pane, vino e carne alla povera comare Stella che periva di fame con
tanti figliuoli; non dovevano esser felici loro soli.

Ma fu appunto quel giorno che il postino venne a dirle:

-- C'è una lettera raccomandata per vostro marito. Venite all'ufficio con
qualcuno che possa far la firma per lui che non sa scrivere.

-- Una lettera?... Di chi?

-- Che volete che ne sappia?

Il caso era così insolito, che la povera donna pensò subito a qualcosa
di cattivo. E si buttò lo scialle indosso e corse all'ufficio postale
mezza stralunata.

-- Una lettera? Di chi? Non abbiamo parenti, nè prossimi, nè lontani!

E quando l'ufficiale postale gliela consegnò, ella la voltava e
rivoltava; quei cinque sigilli di ceralacca rossa le sembravano una
stregoneria.

-- L'apra, la legga lei -- disse all'ufficiale postale.

Le tremavano mano e voce nel porgergliela. Se lo divorava con gli occhi,
ansiosa, con un groppo alla gola senza sapere perchè, mentre colui
scorreva le quattro pagine fitte del foglio, scotendo la testa quasi
leggesse cose strane.

-- È del padre -- disse finalmente l'ufficiale postale, supponendo ch'ella
dovesse sùbito capire.

-- Quale padre?

-- Del padre del vostro trovatello. Dice che viene a riprenderlo. Sposa
la madre, lo riconosce... È Giudice di Tribunale... Vi compenserà di
tutte le spese... Arriverà fra otto giorni!...

Rosa gli spalancava gli occhi in viso, pallida come un cencio lavato,
incredula, aspettando che colui le dicesse: Vi ho fatto un brutto
scherzo. Ma quegli insisteva, ripetendo:

-- Vi compenserà di tutte le spese.

Ella era istupidita; aveva una gran confusione nella mente, e il cuore
le batteva violentissimo nel petto, quasi stesse lì lì per scoppiarle.
Possibile? Riprendere il bambino? Fra otto giorni?... E la legge? E la
giustizia? No, non era possibile!

-- Ha letto bene, _voscenza_? -- balbettò.

-- Fatevela leggere da un altro!

E andò via barcollando, con la fatale lettera in tasca. Ma lungo la
strada cominciò a capire. La cosa però le sembrava così enorme, che non
voleva crederla. Come? Si poteva dunque buttar via la propria creatura,
e poi, quando altri l'aveva allevata, cresciuta, educata, quando altri
le voleva più bene dei parenti sciagurati che se n'erano sbarazzati
appena mèssala al mondo, questi potevano presentarsi e dire: -- Dateci
quel bambino; è nostro! -- E la legge lo permetteva? Ah, voleva vederla!
Voleva vederla! Non c'era Dio in cielo, nè Madonna, nè santi, se questa
mostruosità poteva accadere! Ah, voleva vederla, se i carabinieri
sarebbero venuti a strapparle di fra le braccia la creatura ora sua!

Le lagrime le inondavano il viso, ed ella non pensava ad asciugarselo;
non si accorgeva di strascinare lo scialle cascatole dalle spalle;
gesticolava, mostrava i pugni a colui che doveva arrivare fra otto
giorni...

-- Che vi è accaduto, comare Rosa?

-- Niente! Niente!

Andava quasi di corsa, e davanti a casa sua, visto Nino che faceva il
chiasso con gli altri ragazzi, lo prese per un braccio e lo trascinò
dentro e chiuse la porta con tanto di stanga.

-- Perchè, mamma?

-- Niente! Niente!

Lo baciava, tenendolo stretto stretto tra le braccia, su le ginocchia,
quasi dietro l'uscio ci fosse già colui che doveva venire a
riprenderglielo. E lo tenne così fino a sera; e quando suo marito
picchiò all'uscio, chiamando: Rosa! Rosa! -- ella impose al ragazzo:

-- Non ti muovere di lì!

E scese la scala, rivolgendosi indietro più volte, per timore che il
ragazzo non la seguisse.

-- Vogliono levarci il figlio! -- disse al marito, scoppiando in pianto
dirotto.

-- Chi?

-- Suo padre! Ha scritto una lettera!

Dapprima il pover'uomo credette che sua moglie fosse impazzita. E alzò
le spalle, dicendole:

-- Sciocca! E tu ti figuri che è facile?

Guardava anche lui, diffidente e irritato, la lettera che sua moglie
avea cavata di tasca. E stava a sentire a bocca aperta, come un ebete,
quel che Rosa gli riferiva, interrotta da singhiozzi, strappandosi di
tratto in tratto i capelli:

-- Verrà fra otto giorni... È Giudice di Tribunale... Sposa la madre!

-- Zitta! Zitta, pel ragazzo! Dammi quella lettera; vò a consultare
mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sa più di un avvocato.

                                  *
                                 * *

-- Non vi potete opporre; i figli sono dei padri; la legge vuole così! --
aveva detto mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sapeva più di un
avvocato.

Ed era stata per quei due poveretti una sentenza di morte.

-- Lo ammazzo, giudice qual è! Voglio andare in galera, prima di
rendergli il figlio!

-- Gesù Cristo, riprendetevelo voi!

Nei primi giorni, l'uno rimuginava propositi feroci; l'altra, nel suo
furore di madre delusa, invocava la morte su la creatura amata come
sangue proprio, piuttosto che saperla viva in mano altrui. E tutti e due
torturavano con domande il ragazzo, che non capiva e non sapeva che cosa
rispondere:

-- Se ti volessero dare un altro padre?

-- Se ti volessero dare un'altra mamma?

-- Anderesti con loro?

-- Avresti cuore di lasciarci?

Il ragazzo rispondeva soltanto:

-- Voglio restar qui....... Perchè mi tenete chiuso in casa?

Avevano paura che venissero a rapirlo all'improvviso per non trovare
opposizione da parte loro. Un Giudice di Tribunale, immaginavano, poteva
comandare ai carabinieri, fare qualunque prepotenza. Invano l'avvocato,
da cui erano andati a ricorrere per consigli e per difesa, li aveva
rassicurati che tutto doveva procedere legalmente e che il padre non
poteva reclamare il figlio messo ai trovatelli, senza prima aver fatto
tutti gli atti occorrenti. Tenevano chiuso il ragazzo in casa, non gli
permettevano neppure di affacciarsi alla finestra.

E ora il marito, che non aveva più animo di andare in campagna, ora
Rosa, che non poteva ingoiare l'amara pillola, correvano più volte al
giorno dall'avvocato:

-- Trovi un mezzo _voscenza_, un'opposizione!...

-- Ma che mezzi? Che opposizione? Il padre ha diritto di riprendere il
figlio.

-- Facciamo una causa; tiriamola a lungo. Da cosa nasce cosa. La legge
dovrebbe dirgli: -- Ah, tu non hai voluto il bambino quando è nato? Lo
hai messo ai trovatelli, senza curarti se sarebbe morto di freddo e di
fame in mano di quelle donnacce che fanno il mestiere di balie?... Non
hai pensato, per tredici anni, ad informarti se il tuo figliuolo era
vivo o morto, voluto bene o maltrattato?... Ed ora che ti fa comodo
pretendi di riaverlo?... Niente affatto. Anzi, ora che so l'infamia da
te commessa, ti afferro e ti metto in carcere! -- Ecco quel che dovrebbe
dire la legge!... Chi l'ha fatta cotesta legge? È legge da turchi, non
da cristiani. Chi l'ha fatta? Il re? Non ha figli il re?

La povera donna diventava eloquente, e si meravigliava che l'avvocato
non sapesse trovare nessun appiglio per una lunga causa, da andare in
Tribunale, e poi in Gran Corte, e poi in Cassazione... Chi l'avea fatta
dunque quella legge da turchi?

-- Certamente non l'ho fatta io! -- rispondeva l'avvocato ridendo.

-- Ma come? Gli abbiamo dato il sangue nostro; lo abbiamo tirato su con
tante cure, con tanti stenti; lo abbiamo mandato a scuola... Se fosse
stato figlio mio lo avrei condotto a zappare e ad arare con me, a fare
il contadino come me... A questo, invece, libri, quaderni, penne!... Che
non avremmo speso per lui?... E ora?...

-- E ora il padre vi darà un compenso per tutte le spese da voi fatte;
non volete capirlo? -- ripeteva l'avvocato un po' stizzito che il
contadino dalla testa dura gli ripetesse sempre le stesse cose.

E, tornati a casa, la moglie si dava una nuova pelata, dalla
disperazione; il marito, buttatosi sur una seggiola, coi gomiti su la
tavola e la testa fra le mani, borbottava:

-- Com'è vero Dio, lo ammazzo questo infame! Il figliuolo ora è nostro!

Ma alla vigilia dell'arrivo di colui che avea distrutto con un foglio di
carta tutta la loro felicità, marito e moglie erano talmente accasciati
sotto il peso della convinzione di non potere far niente, poichè la
legge voleva così, che pensavano di buttarsi ai piedi di quel Giudice di
Tribunale, appena fosse comparso, e pregarlo e scongiurarlo!... Chi sa?
Forse, sapendo che il ragazzo era ben collocato, si sarebbe lasciato
intenerire. Tanto, che bene poteva volergli lui a un bambino non veduto
neppure una volta?

-- E se il ragazzo non volesse andare col padre sconosciuto? Se volesse
restare per forza con noi?

Per un istante credettero che questa era la soluzione più giusta. --
S'interroghi il ragazzo: scelga lui! -- Parlavano a voce alta, quasi il
Giudice di Tribunale fosse davanti a loro. E Rosa attirava Nino tra le
gambe, gli lisciava i capelli, lo prendeva pel mento e gli domandava:

-- Chi vuoi per padre e madre, noi o... altre persone?

-- No, non può capire. Glielo dico io.

Il ragazzo, un po' stupito, serrato tra le gambe di colui che egli
credeva suo padre, stava a udire, intento.

-- Se venisse uno e ti dicesse: -- Sono tuo padre io, tuo padre davvero;
vieni con me; lascia questi qui!... -- tu che faresti?...

-- Sto qui, con voi! Chi deve venire?

-- Nessuno! Angelo santo, parla Gesù Cristo con la tua bocca!

Rosa se lo mangiava dai baci.

Ecco: così! S'interroghi il ragazzo; scelga lui! E la mattina dopo
andarono a ripeterlo anche all'avvocato.

E dall'avvocato chi c'era? Colui, il Giudice di Tribunale, vestito tutto
di nero, alto, magro, con la barbetta rossa e gli occhiali!... Un
tradimento! C'era da attenderselo! Giudici? Avvocati? Farina dello
stesso sacco.

Ma Rosa non si perdette d'animo; scattò:

-- Figlio vostro? Chi lo dice? Ve ne siete mai ricordato in tredici anni?
Siete venuto solo, perchè avete la faccia più tosta di quella di vostra
moglie. Perchè non è venuta anche lei, la mammaccia snaturata?... Ora
che si fa sposare, ora soltanto si ricorda che c'era una sua creaturina
buttata alla ventura pel mondo!...

L'avvocato tentava di farla tacere, di calmarla.

-- Ebbene, no; non ve lo voglio dare il ragazzo! Che potrete farmi? Mi
manderete in carcere? Ci dovreste essere già voi e da un pezzo!... E
invece è lui che manda in carcere la gente! Ecco la giustizia! No, non
glielo voglio dare! È inutile, signor avvocato!...

-- Ma non vedete che piange? -- le disse l'avvocato.

Infatti quel signore biondo, vestito di nero, piangeva, coprendosi la
faccia con le mani, singhiozzando:

-- Avete ragione!... Avete ragione!... Ma le circostanze!... Ah, se
sapeste!...

Rosa, a quella vista, rimase interdetta, e diede un'occhiata al marito.

-- Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio!

E prèsala per mano, la conduceva via più morta che viva, senza un
singhiozzo, senza una lagrima, ripetendole con voce grave:

-- Sia fatta la volontà di Dio, Rosa! Sia fatta la volontà di Dio!

Dal loro dolore misuravano il dolore di quel padre che veniva in cerca
di suo figlio dopo tredici anni! E si sentivano messi alla pari, e
riconoscevano finalmente che era giustizia che il figlio fosse reso al
padre.

Come sarebbero rimasti loro due?

Come voleva Dio! Se il ragazzo fosse morto, non sarebbe stato peggio?

-- Sublimi! sublimi! -- diceva l'avvocato, raccontando la scena. -- Glielo
condussero lì, glielo spinsero tra le braccia. -- Purchè qualche volta si
ricordi di noi! -- Non chiesero altro, poveretti. Parevano gente a cui
venisse strappato il cuore! -- Ve lo manderò una volta all'anno, per la
villeggiatura! -- Ah! -- esclamarono marito e moglie. -- Non ho mai visto
espressione di gratitudine più viva e più intensa negli occhi di
creature umane. Sublimi! Sublimi!



UN ECCENTRICO


Probabilmente l'albergatore voleva impedire che io badassi alla misera
camera assegnatami pei quindici giorni delle mie funzioni da giurato;
per ciò, magnificando la posizione del suo albergo e fattomi affacciare
al terrazzino, mi diceva:

-- Vede? Posto centralissimo, su la via maestra, che è anche strada
provinciale. Questa qui è una torre del tempo dei Saraceni. L'avevano
ridotta a campanile della chiesa accanto; ma ora è vietato suonare le
campane, per paura che non crolli... Bella! è vero?... Di rimpetto, il
palazzo del barone Saccaro, tutto in pietra intagliata... Guardi, ecco
il barone... Un milionario. Non sa nemmeno lui quel che possiede in
contanti... Ha una stanza piena di pezzi da dodici tarì; li ammucchia
con la pala... dicono; io non li ho visti. Brava persona, però,
caritatevole, quantunque un po' matto...

Avevo data appena un'occhiata al barone e al suo palazzo tutto in pietra
intagliata. Mentre l'albergatore parlava, osservavo la strana manovra
del farmacista là incontro, che, aperta la farmacia e uscito su la
piccola spianata davanti la porta, si era piantato ritto su le esili
gambe, con le mani dietro la schiena, nel breve spazio dove arrivava, a
traverso le case vicine, una striscia di sole. Rimasto immobile un
pezzetto, cambiava lentamente di posizione girando come sur un pernio.
Lo avevo visto di faccia, poi di tre quarti, poi di profilo, poi con le
spalle voltate all'albergo, poi di profilo dal lato opposto, poi di tre
quarti e finalmente di nuovo di faccia.

L'albergatore intanto continuava a parlarmi del barone:

-- Mezzo matto, se si vuole, a casa sua; ma fuori non fa male a nessuno.
Come dovrebbe spendere i quattrini? E si cava parecchi capricci. Ha
tanti vestiti quanti i giorni dell'anno.

-- Trecento sessantacinque?... Mi paiono un po' troppi! -- risposi, senza
perdere d'occhio il farmacista che seguitava a cambiare di posizione,
girando su sè stesso, lentamente, quasi mosso da un ordegno di
orologeria.

-- Forse qualcuno di più! -- soggiunse l'albergatore. -- Ne indossa uno al
giorno. Li ho visti, li ho contati io stesso l'anno scorso. Vedesse!
Quattro stanze con attaccapanni fino al tetto, con cartellini numerati,
e il nome di ogni mese. Un servitore è addetto unicamente a batterli e
spazzolarli. Trecento sessantacinque calzoni, trecento sessantacinque
corpetti, trecento sessantacinque giacchette; vestiti da casa, soltanto
da casa. Per andare a passeggio poi...

-- Ma che diamine fa -- lo interruppi -- quel farmacista che si gira e
rigira al sole?...

-- Ahi... fa annerire la tintura che s'è data ai capelli e alla barba.
Non se n'è accorto? Poco fa, quando ha aperto la farmacia, era grigio;
ora ha barba e capelli più neri del carbone.

Infatti mi pareva ringiovanito sotto i miei occhi.

-- Stia a sentire; riderà.

E chiamò:

-- Ehi! Don Carmelo! Va benissimo; l'operazione è finita, potete
scansarvi dal sole; se no, vi buscherete un mal di capo! Perfetto! Nero
lustro!

Il farmacista gli rivolse un'occhiataccia facendo una spallucciata, ed
entrò in farmacia lisciandosi la barba e i capelli con tutte e due le
mani, soddisfatto, incurante delle risate dell'albergatore.

-- Oggi, gran pulizia! -- esclamò il mio cicerone.

E col gomito e con la testa m'incitava a guardare il barone Saccaro
riapparso sul terrazzino centrale del palazzo. Il vecchietto, in nitido
costume a righe bianche e azzurre, aveva in mano una granata; e,
osservato attentamente per terra, si era messo a spazzare il piano del
terrazzino, spingendo su la via due o tre pezzettini di carta e poca
polvere. Poi, sporgendosi dalla ringhiera di ferro, seguiva con lo
sguardo i pezzettini di carta che giravano, giravano, tremolanti come
farfalline bianche dal volo incerto. Attratti forse dal vuoto o spinti
da lieve alito d'aria, essi erano andati a cascare dentro il sottostante
portone.

-- Vedrà che scende giù a raccattarli! -- disse l'albergatore al gesto di
stizza del barone.

-- È matto anche per la pulizia.

Infatti, di lì a poco, il barone, sceso a raccogliere i pezzettini di
carta, fattane una pallottolina, la buttava lontano, in mezzo alla via.

-- Ci sono parecchi matti in questo paese! -- esclamai ridendo.

-- Gran signore! Galantuomo!... -- si entusiasmava l'albergatore. -- Se un
amico va a chiedergli mille lire, non lo guarda in viso, gliele dà
sùbito... purchè ci vada con le scarpe pulite. Già il portinaio ha
ordine di non far salire nessuno, prima di avergli spazzolato i calzoni
e nettato le scarpe... Matto, cioè strano, ma galantuomo, gran signore!

E appena si accorse che il barone, riaffacciatosi al terrazzino,
guardava verso l'albergo, si cavò il berretto e gli fece una profonda
riverenza.

-- Brava persona! -- conchiuse. -- Peccato che il figlio... Basta; Dio lo
aiuti!

-- È un cattivo soggetto?

-- Un prepotente, signore mio!... L'opposto di suo padre!

Quel vecchietto, bianco di capelli, sbarbato, magro, con tanta aria di
bontà nell'aspetto, e tanta dignità nei modi, che aveva spazzato poco
prima il terrazzino e che un'ora dopo vedevo vestito di nero con
elegante ricercatezza, in tuba e guanti, pronto per la passeggiata, era
sùbito diventato un interessante soggetto di studio per me.

L'albergatore mi aveva raccontato altri particolari intorno alle strane
abitudini di lui. Non avendo niente da fare in tutta la giornata, volli
divertirmi a osservarlo da vicino, andandogli dietro.

Usciva di casa a ora fissa, alle dieci. Lo attesi sul marciapiedi
davanti a l'albergo. Prima di varcare la soglia del portone di casa,
egli si era fermato per guardare l'orologio. Io guardai il mio;
mancavano due minuti alle dieci. Si mise a passeggiare su e giù per
l'androne, cavando di tratto in tratto l'orologio di tasca; poi si fermò
su la soglia con l'orologio in mano, e, alle dieci precise, scattò
fuori, lesto, diritto su la persona, andando quasi a sbalzi.

Da più di quarant'anni, tirasse vento, piovesse, nevicasse, faceva ogni
mattina, dalle dieci alle dodici, quella passeggiata pel sentiero fuori
mano che serpeggia su la roccia fino alla cima di essa, dov'è piantata
una chiesetta.

Quando si accorse di me che lo seguivo a breve distanza, parve
contrariato. Era abituato ad arrampicarsi solo su per quel sentiero da
capre, e perciò si voltava e rivoltava a ogni dieci o venti passi, quasi
volesse dirmi: -- Mi faccia il piacere di tornarsene addietro! È un
importuno! -- E non si voltò più dopo che mi vide fermare a mezza strada,
e mettermi a sedere su un rialzo. Ammiravo il paesaggio.

La cittaduzza, incastrata fra quella cerchia di rocce acuminate, era
inondata di sole. I tetti delle case, coperti di borracina verde,
rossiccia, giallognola, sembravano tinti a posta perchè risaltassero tra
il colore uniforme delle masse calcaree attorno, qua dure, là schistose.
Le straducole erte, a scalinate, contorte, col selciato di lava nera, di
lassù pareva formicolassero tra le case ammucchiate contro la roccia e
quasi confuse con essa. E dietro le rocce e lontano, colline
verdeggianti, boschetti di ulivi, vigne, campi di seminati cosparsi di
papaveri, campi listati di lino in fiore, e altre colline e altri campi,
come in un scenario, velati di azzurro, sfamanti in fondo, sul bianco
delle montagne, ancora coperte di neve.

-- Strano paese e strana gente! -- esclamai, pensando al farmacista, che
avea fatto annerire al sole la tinta dei capelli e della barba, e al
barone Saccaro co' suoi trecento sessantacinque vestiti di casa e le
altre sue manìe. Lo vedevo ritto in cima alla roccia davanti la
chiesetta, profilato sul cielo azzurro, con la tuba che straluccicava.
Aspettava per discendere che io me ne fossi andato? Avrebbe ritardato
insolitamente la sua rientrata in casa alle dodici precise? Da lì a poco
mi passò davanti, serio, con le sopracciglia aggrottate, senza
guardarmi, e, questa volta, senza neppure voltarsi per vedere se lo
seguivo. Più in là, osservato l'orologio, affrettava il passo; alle
dodici meno un minuto era davanti al suo portone, con l'orologio in
mano, aspettando che passasse quel minuto fatale; varcava la soglia
quasi con un salto.

Vent'anni addietro, mi aveva raccontato l'albergatore, era morta la
baronessa, santa donna a cui il barone voleva un gran bene. Il cadavere
giaceva ancora caldo sul letto e il barone piangeva. Ma verso le nove e
mezzo, frenate le lagrime, egli cominciava la sua toeletta ordinaria,
alle dieci precise usciva dal portone di casa, asciugandosi di tratto in
tratto gli occhi, e montava solo solo pel ripido sentiero della roccia,
come se niente di nuovo fosse accaduto. Al ritorno, entrato nella camera
mortuaria, col cappello in mano e la faccia inondata di lagrime, diceva
alla morta: -- Baronessa, ho pregato per voi lassù! Ho pregato per voi! --
E fece lo stesso la mattina dopo, appena il cadavere fu portato via,
prima delle nove secondo gli ordini da lui dati, perchè la sua solita
passeggiata non soffrisse un minuto di ritardo.

-- Come era fatto quel cervello?

Ruminai questo problema per quindici giorni, senza riuscire a
risolverlo. Oggi che ci ripenso, dopo tanti anni, non so risolverlo
ancora.

Ogni mattina vedevo affacciare il barone al terrazzino con un vestito da
casa diverso da quello del giorno precedente. Lo vedevo uscire e
rientrare, a ora fissa, con esattezza meravigliosa.

-- Era felice quell'uomo?

No, non era felice; me lo disse egli stesso una sera.

La sua passeggiata delle ore pomeridiane superava per la stranezza
quella della mattina. Andava fuori di città, in un convento abbandonato
e in rovina, e passeggiava per ore intere da un capo all'altro del
corridoio centrale, sempre solo, in abito nero, guanti, tuba e canna
d'India con pomo d'oro cesellato. I topi, ormai abituati alla sua
innocua presenza, gli ballavano sotto gli occhi; le rondini, che avevano
coperto di nidi la vôlta, gli svolazzavano attorno stridendogli agli
orecchi, quasi si divertissero a dargli un po' di noia. Il vento
sbatteva paurosamente gli usci delle celle deserte, parte senza tetto,
parte senza solai; scoteva i vetri, polverosi e coperti di ragnateli,
della finestra di fondo e l'imposta tarlata del terrazzino al capo
opposto del corridoio; l'ombra della sera invadeva il luogo, accrescendo
la tristezza di quella desolata solitudine; e il barone andava su e giù
picchiando con la punta della canna d'India i mattoni sdrusciti del
pavimento, contando i giri di passeggiata che dovevano essere, non
ricordo bene, se dugento venti o dugento cinquanta, non uno di più non
uno di meno, in due ore.

Non sapeva neppur lui da quanti anni facesse quella passeggiata, tutti i
giorni, tirasse vento, piovesse, nevicasse. Una volta lo aveva sorpreso
colà una forte scossa di terremoto. Erano crollati dei muri nelle celle
accanto, erano cascati calcinacci dalla vôlta del corridoio dov'egli
passeggiava. Un altro sarebbe scappato via di corsa; ma egli era
arrivato a non so quale centesimo giro; glie ne mancavano ancora
parecchi per formare il numero sacramentale. Arrestatosi un momento, un
po' sbalordito e impaurito, aveva sùbito ripreso ad andare in su e in
giù, affrettando il passo per compensare il po' di tempo perduto.

Una sera, dunque, non mi ero limitato a seguirlo fino alla porta del
convento in rovina, da me visitato nei giorni precedenti. A costo di
riuscire indiscreto, avevo montato le scale sdrucite, e mi ero trovato
faccia a faccia col barone nel lungo e vasto corridoio.

-- Scusi -- dissi, salutandolo.

-- È forestiero? Giurato, credo -- egli mi domandò dopo di avermi reso
gentilmente il saluto. -- In questo paese vediamo meno di rado faccie
nuove dacchè vi è il Circolo delle Assise.

-- Disturbo, forse, -- balbettai un po' imbarazzato.

-- Niente affatto. Questo convento è mio -- riprese -- nessuno ha il
diritto di entrarvi, quantunque esso non abbia uscio alla porta...
Perchè dovrei mettercelo? La gente ha paura di venire fra queste rovine.
Io..... Oh, per me è un'altra cosa! Sono uomo di abitudini, e non ho mai
voluto mutare il posto della mia passeggiata pomeridiana di ogni
giorno... Devono averglielo detto. Mi credono un po' matto. Eh! eh!
Faccio il comodo mio, faccio quel che mi pare e piace, senza curarmi di
quel che pensano e dicono gli altri. Lei, probabilmente, è venuto qui
per accertarsi coi propri occhi..... Vede? Passeggio. Il luogo ha una
grande e speciale attrattiva; non saprei però spiegargliela.....
Abitudine. Ho dovuto comprarlo. Volevano farne una specie di caserma pel
caso di arrivo di soldati in certe circostanze. Non avrei più potuto
farvi la mia passeggiata... Per ciò questo mucchio di macerie mi costa
seimila lire; male spese, dirà lei. Ma una sera io l'ho trovato invaso
dalla truppa arrivata la notte avanti. La sentinella non voleva farmi
entrare. Dovetti parlamentare col tenente che aveva il comando, dare
spiegazioni, pregare, insistere. Il corridoio era ingombro di paglia, di
soldati sdraiati per terra, di soldati che ripulivano armi; il fumo dei
fornelli del rancio toglieva il respiro. E passeggiai quella sera e le
due sere seguenti, sotto gli occhi dei soldati che mi guardavano stupiti
e motteggiavano, e ridevano. Ma la settimana dopo il convento era mio.

-- Se avessi saputo... -- dissi.

-- Non importa. Soltanto mi permetta di continuare.

E m'invitò con la mano ad imitarlo.

Aveva non so quanti altri giri da compire; li compì seguitando a
parlare. Mi accorsi che li contava, aprendo e chiudendo i diti di una
mano.

-- Ah, lei è felice! -- lo interruppi. -- Può cavarsi qualunque capriccio.

-- Felice? La mia vita è un continuo tormento, caro signore. L'idea che
qualche incidente possa disturbare anche per un istante la regolarità,
l'ordine che mi sono imposti, non mi dà pace un momento. Sto sempre come
in attesa... Ecco, sono le sette meno tre minuti; se dovessi rimanere
qui fino alle sette e un minuto... lei non può immaginar quel che
soffrirei; così se arrivassi a casa mia dopo le otto. È ridicolo, è
assurdo; ma che farci?... Ho trecento sessantacinque vestiti da casa,
numerati, per ogni giorno dell'anno. Ho provato due o tre volte a
indossarne uno diverso da quello destinato per quel giorno; ero come tra
le fiamme; ho dovuto svestirmi. Io invidio, creda, gli sporcaccioni; ma
se scopro un granellino di polvere sopra un mobile....... Rida pure;
invece dovrebbe compiangermi. Darei tutte le mie ricchezze per fare
l'opposto di quel che fo...

-- Chi la costringe?

-- Io, io stesso! Qualche cosa che è nel mio sangue, ne' miei nervi, nel
mio cervello..... Il mio destino! Sono solo; ho un figlio che
fortunatamente... o disgraziatamente -- si corresse -- non mi somiglia
affatto. Chi lo sa? Forse è bene che io sia come sono; sarei, forse, più
infelice di quanto sono adesso. Mio figlio...

S'interruppe, guardò l'orologio e si avviò:

-- Buona sera, signore! Rimane?

-- No; se mi permette, l'accompagno.

-- Grazie; io vado di fretta. Buona sera!

Doveva essere davvero un grande infelice colui, se due giorni dopo,
quando gli riportarono morto, ucciso da uno de' suoi _campieri_ in
campagna, l'unico figlio, invece di indossare un abito di lutto, dovette
indossare un abito di filo bianco, candidissimo, perchè il calendario
dei suoi vestiti gl'imponeva così!



IL FASCIO DEL CAVALIERE


Il cavaliere don Mimmo Li 'Nguanti era tornato a casa con un diavol per
capello, accompagnato da tre o quattro dei suoi più fidi partigiani che
tentavano invano di calmarlo. Anche questa volta la lista del cavaliere,
lista di opposizione al Municipio, era stata sopraffatta in modo
indegno. Sfido io! Esattore, Ricevitore del registro, Agente delle
Tasse, Sindaco, Assessori, tutti legati a refe doppio! E minaccie, e
promesse e quattrini!... Chi avrebbe potuto resistere? E lui intanto
voleva vincere onestamente, far trionfare la moralità, la giustizia, e
così spazzar via dal Municipio quella congrega di ladri che manometteva
ogni cosa senza neppur rispettare le apparenze! Sfido io! Protetti dal
Sottoprefetto e dal Prefetto, che erano in mano del Deputato del
Collegio e avevano paura di lui, mentre il deputato aveva paura del
sindaco e degli assessori, ora che si avvicinavano le elezioni generali!

Don Mimmo Li 'Nguanti però non se la prendeva tanto col Deputato e col
Prefetto, quanto con quella canaglia di elettori che lo aveva tradito
all'ultim'ora... Senza l'incredibile tradimento!...

Il notaio Pitarra, rifatti i calcoli con la lista elettorale in mano,
per provare che questa volta la vittoria del partito era sicura,
esclamò:

-- Ma voi, caro cavaliere, voi non volete capirla. Quattrini ci vogliono,
quattrini!

Il cavaliere, in risposta, fece un energico gesto che significava:

-- Mi dovranno tagliare le mani prima che io metta fuori due soldi!

E non lo diceva per tirchieria o altro, ma per la dignità della cosa.

-- E allora non ne parliamo più! -- conchiuse il notaio. -- Moralizzare il
popolo, sì, è una bella idea; la vera morale però, -- egli soggiunse
quasi subito, strofinando l'indice e il pollice -- per molti, pei più,
consiste soltanto in questi qui!

-- Vedrete, notaio!... Vedrete!

Don Mimmo, rizzatosi tutt'un tratto dalla seggiola su cui si era buttato
entrando in casa, aveva pronunziato quelle parole, alzando
minacciosamente il braccio, in tono quasi profetico.

Un'idea, una grande idea gli era balenata tutt'a un tratto nella mente,
e se n'era sentito sùbito invasare. E sorrideva, crollando il capo,
stropicciandosi le mani, andando su e giù per la stanza; e si accendeva
sempre più, di mano in mano che l'improvvisa rivelazione gli si
schiariva davanti.

Il notaio Pitarra e gli altri stavano a guardarlo, muti, meravigliati,
aspettando che il cavaliere parlasse.

-- Chiamatemi Cipolla! -- egli disse finalmente.

E Cipolla, _factotum_ di casa Li 'Nguanti, che era di là a raccontare, a
modo suo, alla signora e alla signorina le peripezie di quella giornata
campale, accorse sùbito e si fermò su l'uscio, facendo, per abitudine,
il saluto militare:

-- Comandi.

-- Tu che sei stato caporale... Ecco... Io penso... Quanti siete in paese
i militari in congedo?

-- Centinaia, eccellenza.

-- Bene. Sappi dunque che dobbiamo fare _Il Fascio dei Reduci_...
Capisci?

Il notaio Pitarra e gli altri applaudirono.

-- Sì, un _Fascio_ tutto cosa nostra, come sono del partito avverso il
_Circolo degli Agricoltori_ e il _Circolo degli Operai_...

-- Mah... -- fece Cipolla,

-- Che ma?

-- I reduci, eccellenza, sono più poveri di me; e pel _Fascio_ ci
vogliono quattrini e di molti... Il locale, le trombe...

-- Le trombe?

-- Sicuro, le trombe; un fascio militare senza trombe farebbe ridere i
polli... Ne ho visti parecchi _Fasci di Reduci_; tutti con le trombe,
eccellenza.

-- E avrà le trombe anche il nostro! -- esclamò il cavaliere, picchiando
con una mano su l'altra, in segno di viva soddisfazione.

Così fu concepito il famoso _Fascio dei reduci_ che doveva poi dare
tanto travaglio al municipio di Doguara. --

                                  *
                                 * *

La cosa era stata organizzata alla chetichella, perchè il Sindaco e il
suo partito non prendessero ombra e non cercassero d'impedirne
l'attuazione. Lo stesso Cipolla si era tenuto apparentemente in
disparte, servito bene da mezza dozzina di giovanotti ai quali l'idea
delle trombe aveva fatto girare la testa.

Dal _Circolo degli Agricoltori_, il Sindaco che n'era presidente
onorario e i suoi partigiani osservavano, sorridendo, i lavori di
riattamento che venivano allestiti là di faccia per trasformare le due
botteghe di erbaiuoli destinate a sede del _Fascio dei Reduci_. Ma il
Sindaco e gli altri risero male il giorno dell'inaugurazione, quando in
coda a quelle due centinaia di reduci, che marciavano con in testa otto
trombe assordanti, videro il cavaliere, il notaio Pitarra e tutti gli
altri del partito di opposizione.

Quella novità delle trombe aveva messo sossopra Doguara. La piazza era
gremita di gente per vedere i militari. Su le due porte del Circolo,
fasci di alloro e di bandiere. Le sale non bastavano a contenere tutti i
membri. Le trombe, rimaste fuori, di tratto in tratto, a capriccio,
scoppiavano in segnali militari, dalla diana al saluto reale. E la gente
applaudiva. Dentro, in fondo alla seconda sala, sur una predella, seduto
a un tavolino, il cavaliere spiegava ai socii lo scopo di quel
santissimo fascio che raccoglieva le forze vive del paese, le più
giovani, le più disciplinate per cooperare al bene di...

-- _Tatà, taratatà!_ -- le trombe, da fuori, coprivano la voce
dell'oratore. Invano qualcuno, affacciandosi alla porta, imponeva
silenzio. Nei punti migliori, quando il cavaliere avea voluto destar nei
socii il sentimento militare per combattere incruente battaglie civili,
-- _Tatà, taratatà!_ -- le trombe lo avevano interrotto, facendogli
perdere il filo delle idee.

Ma già, per un'inaugurazione, egli avea parlato troppo. Ed era uscito
dalla sala fra un subisso di applausi, lasciando libera l'assemblea che
doveva eleggere il Presidente e il Comitato esecutivo; le trombe gli
avevano fatto il saluto reale.

                                  *
                                 * *

Cipolla, da _factotum_ di casa Li 'Nguanti, era diventato in pochi mesi
_factotum_ del _Fascio_ di cui il cavaliere era presidente, cassiere,
conferenziere e istruttore, coadiuvato in questo ufficio dal fido
ex-caporale di fanteria. Col pretesto di aprire, la mattina, e chiudere,
la sera, le stanze del _Fascio_, di spazzarle, di spolverare i pochi
mobili e custodire le otto trombe, Cipolla se la spassava in paese.

Si poteva dire che durante la settimana il locale servisse soltanto per
lui e per due o tre degli indispensabili trombettieri sempre pronti ai
suoi ordini. Quasi fossero stati in quartiere, le trombe suonavano la
diana all'alba, e poi il rancio e poi tutti gli altri segnali del
regolamento. Verso le undici, Cipolla si appostava davanti all'uscio per
scoprire da lontano il cavaliere che veniva a fare una visita alle due
dozzine di seggiole, ai quattro tavolini, all'armadio delle trombe,
perchè i reduci nei giorni di lavoro avevano ben altro da fare che
venire al _Fascio_, a conversare o a fumare qualche sigaro; e appena il
cavaliere era a venti passi di distanza, i trombettieri si schieravano
fuori, e _tatà taratatà_, quasi don Mimmo fosse stato Re Umberto in
persona. Egli si accostava impettito, serio, con cert'aria militaresca
di circostanza, salutava, portando la mano destra alla falda del
cappello, ed entrava.

I socii del _Circolo degli Agricoltori_, quelli del _Circolo degli
Operai_, gli sfaccendati, i disoccupati che ingombravano la Piazza
Grande gli ridevano dietro. Ma egli o non se ne accorgeva o non se ne
curava.

E spasseggiando su e giù per le due stanze, approvava con lievi mosse
del capo i progetti di Cipolla: esercizii, passeggiate, scampagnate.
Bisognava tener vivo il fuoco, altrimenti addio _Fascio_! Scampagnate
soprattutto!

In quella circostanza, dei socii del _Fascio_ neppur uno mancava. Si
sapeva che il cavaliere faceva le cose alla grande: carne, pane, vino,
noci, fichi secchi. Si passava una giornata allegra, si mangiava a ufo,
e si tornava a casa lieti e contenti, con le trombe che assordavano. --
Viva il cavaliere! Viva! -- E anche: -- Viva Cipolla! -- Le grida e gli
schiamazzi si udivano di lontano un miglio. È vero che la sera poi i
reduci sbadigliavano alla conferenza del cavaliere; ma non voleva dir
niente. Capivano poco, perchè egli soleva parlare _con la lingua di
fuori_, in punta di forchetta, spiegando lo Statuto egli la Legge
Comunale e i Diritti del cittadino; qualcosa però capivano, specialmente
quando lasciandosi prender la mano dal soggetto, e parlava di
rivendicazioni e di tante altre belle cose che aguzzavano l'avidità di
quell'udienza di contadini; o quando li incensava e li esaltava:

-- Voi soli siete buoni; voi soli siete degni, voi lavoratori della
terra, voi sfruttati e malmenati! E voi dovete prendere nella società il
posto che vi spetta! E lo prenderete, per Dio!

-- Viva il cavaliere! Viva il cavaliere!

E le trombe suonavano la ritirata: _Tatà, taratatà!_

                                  *
                                 * *

Fino a che si era trattato di non spendere nulla, la signora Li 'Nguanti
non solamente non aveva fiatato, ma aveva preso parte attiva
all'agitazione elettorale in favore di suo marito. Lo avrebbe visto
volentieri assessore e anche sindaco; perchè no? Quei cosi del municipio
valevano forse meglio di lui? Suo marito, il cavaliere, come ella lo
chiamava parlando con certe persone, era galantuomo provato e aveva le
mani nette. Non si poteva dire altrettanto di tutti quei signori. E poi,
essere assessoressa o sindachessa non le sarebbe dispiaciuto, per far
arrabbiare quella malcreata della moglie del sindaco che una volta si
era permessa di dire del signor Li 'Nguanti: _Cavaliere di che_. Ah! Chi
lo aveva fatto cavaliere? Ma c'era nato, e non erano occorsi decreti
reali per dirsi tale!... Sicuro, del sindaco, marito della screanzata,
non si poteva dire: _Carrettiere per caso_; era figlio di carrettiere e
si vedeva. E... e... Quando entrava in quest'argomento, la signora Li
'Nguanti non la finiva più.

Per ciò nell'ultima lotta elettorale ella era andata di qua e di là, di
giorno e anche di notte, convinta che le donne in certe occasioni
valgono meglio degli uomini. Ora però che si trattava di buttar via
quattrini a palate, la questione diventava un'altra.

-- Siete ammattito? -- ella gridava al cavaliere. -- Non sapete che
farvene, se li spendete così?

-- Zitta! -- rispondeva il cavaliere dignitosamente.

-- Zitta un corno! Lo vedo io quel che si sciupa in questa casa da che vi
è saltata in testa la maledettissima idea del _Fascio_.

-- Zitta!

-- Perchè vi suonano le trombe? Bella cosa! Ma quando si tratta di
sganasciare, pane, vino, salami, formaggio, tutto deve uscire di qui!...
Il notaio Pitarra e gli altri non si scomodano. -- Viva il cavaliere! -- E
il _Fascio_... Dio non voglia!... farà andare questa casa a catafascio!
Già, non è il _Fascio_ l'abitazione vostra? Mattina e sera là. Credete
che ve ne saranno grati? Alle elezioni vi aspetto!

Il cavaliere la lasciava dire.

-- Benedette donne! Vogliono metter becco in tutto e non capiscono nulla!

-- E queste trombe che rompono i timpani alla gente, non potreste farle
tacere? Il padre di Vincenzino non ne può più; vi manda tanti accidenti
quante volte suonano... Ci volevano appunto le trombe per irritarlo
peggio! E vedrete che il matrimonio di vostra figlia, a cagione anche
delle trombe, andrà per aria!

-- Il padre di Vincenzino è un asino! Ora gli danno noia le trombe! Si
turi le orecchiaccie, si turi! Scuse, pretesti! C'erano forse le trombe
quando ha votato contro di me? E anche il signor Vincenzino...

-- Si è astenuto!

Il cavaliere, appena si toccava questo tasto, tagliava corto. Quel
matrimonio della figliuola rimasto in asso un po' per questioni
d'interessi ma più per dispetti elettorali, gli era una spina al cuore.
Ormai non se ne poteva ragionare, finchè le cose duravano così; ed era
inutile pensarci. La ragazza, che aveva più intelligenza della mamma,
non ne parlava mai, povera figliuola! Ma l'anno prossimo... dopo le
elezioni!...

E perciò il cavaliere si era dato anima e corpo al _Fascio_, al suo
Fascio, che infatti non veniva chiamato _dei Reduci_, ma il _Fascio del
cavaliere_. Egli aveva istituito anche la scuola serale domenicale, pei
soci che non sapevano leggere e scrivere. Metà dei reduci erano già
iscritti nella lista e, secondo lui, facevano fare cattivi sogni ai
signori del Municipio.

Ah!... Le trombe davano noia? Ma sarebbero state le trombe del giudizio
universale, in luglio, il giorno delle elezioni!

E con l'immaginazione egli si vedeva alla testa del suo piccolo
esercito, che correva a votare a suon di trombe, come a un assalto... E
sbaraglio!

Intanto, marce domenicali, e scampagnate; e vino e pane, e capretti al
forno e noci e fichi secchi, per tenere allegro e ben compatto il
_Fascio_, con gran disperazione di donna Beatrice che se la prendeva
anche con Cipolla, quando veniva a dirle:

-- Dice il signor cavaliere che il pane lo comprerà da Severino. Il vino,
di quello della botte piccola; lo battezzerò io, padrona mia!

E siccome scendeva in cantina lui, non lo battezzava affatto.

-- Andate a farvi benedire, tutti! -- esclamava donna Beatrice,
quantunque, ora che le elezioni erano vicine, sbraitasse meno. Voleva
star a vedere!

Uno spettacolo, quel giorno!

Le trombe del _Fascio dei Reduci_ parevano davvero le trombe del
giudizio finale, andando attorno per le vie del paese sin dalle prime
ore del mattino: _Tatà-Taratatà!_ E così tutta la giornata, e la sera,
dopo la vittoria del cavaliere, fino a tarda notte, come se il paesetto
fosse stato preso di assalto. -- Viva il cavaliere! Viva il cavaliere! --
E _Tatà-Taratatà_!

                                  *
                                 * *

La vittoria non era poi stata splendidissima; della lista del cavaliere,
due soltanto erano riusciti eletti, lui e il notaio Pitarra. E il
cavaliere, modestamente, aveva detto ai soci del _Fascio_:

-- Questa è vittoria vostra! Vittoria dei vostri diritti! Vittoria delle
vostre rivendicazioni! Io sarò la vostra voce in Consiglio, nient'altro!

Il sindaco che, quantunque nipote di carrettiere (e non figlio come
diceva donna Beatrice nei momenti di stizza), era un furbo di tre cotte,
alla prima seduta del Consiglio, appena il cavaliere entrò nella sala,
gli andò incontro, gli strinse la mano, si rallegrò di vederlo colà; e,
trattolo in disparte, gli disse:

-- Caro cavaliere, noi non abbiamo mai combattuto voi, ma le persone che
vi stavano attorno. Ed oggi infatti il Consiglio saprà darvi il posto
che meritate.

Quella domenica sera nelle sale del _Fascio_ ci fu gran baldoria per la
nomina del cavaliere ad assessore. Donna Beatrice avrebbe vuotato non
una ma due botti, e finito anche le provviste di fichi secchi e di noci,
tanto era contenta. Ma la mattina dopo disse al marito:

-- Ora basta; siete assessore! Pensate a vostra figlia piuttosto.

Don Mimmo volle fare l'assessore davvero. Poteva servire due padroni? E
dovette per forza trascurare il _Fascio_. Cipolla n'era dispiacente più
di tutti. Non più marce, non più scampagnate; e il cavaliere spesso
spesso ora lo mandava in campagna a lavorare come prima.

I Reduci borbottavano:

Come? Ancora fuocatico? Ancora dazio consumo? Il cavaliere aveva
promesso che entrando in Consiglio avrebbe detto, avrebbe fatto! E che
diceva? Niente. E che faceva? Peggio degli altri. Ora si era messo a
perseguitare la povera gente con la scusa che avevano usurpato qualche
palmo delle strade comunali di campagna! Perchè non cominciava dai
_galantuomini_?

E c'era il _Bracco_ che soffiava nel fuoco. Il _Bracco_ si era iscritto
nel _Fascio_ da pochi mesi, appena tornato dal reggimento, e parlava
come un libro stampato col _lei_, col _mica_, col _ciao_, e bestemmiava
alla toscana, alla piemontese, alla romana, da far rizzare i capelli.
Raccontava, a quattr'occhi, ora in questo, ora in quel crocchio, che a
Palermo stavano per fare il comunismo e dividersi le terre e i quattrini
dei signori tanto per uno, com'era giustizia.

-- Domineddio ci ha fatti tutti eguali; perchè i ricchi debbono mangiare
come porci e noi morire di fame? Giustizia? Non ce n'è: dobbiamo farcela
con le nostre mani.

_Fascio dei Reduci_, _Circolo degli Agricoltori_, _Circolo degli Operai_
avevano fraternizzato dopo che il cavaliere era entrato a far parte
della Giunta comunale.

E il _Bracco_, che aveva poco da lavorare col suo mestiere di sellaio,
passava le giornate nei locali del _Fascio_ e dei _Circoli_, a fumare, a
sputacchiare, a far prediche; ascoltato meglio di un predicatore, perchè
col predicatore non si discorre e con lui si poteva chiedere
schiarimenti, fare obbiezioni, e gridargli bravo, quando esclamava, col
rinforzo di una bestemmia delle sue:

-- Faremo il comunismo anche noi! _Fascio?_ _Circoli?_ -- ripeteva
ironico. -- Ma li hanno messi su per comodo loro, per avere i voti. Che
siamo? Pecore? Schiavi? I consiglieri dovremmo esser noi, non loro. Ora,
lo avete inteso? aggravano il dazio consumo. Dicono: Ci vogliono
quattrini!... Ma che ne fanno? Si bevono il sangue di noi poveretti!...
Faremo il comunismo!

Dapprima lo avevano ascoltato con diffidenza, quasi con terrore; ma ora
aveva fatto scuola, e Cipolla si era legato con lui, e soffiava,
sottomano, anche lui nel fuoco del malumore che covava covava e già
mandava fuori un po' di fumo.

Il cavaliere se n'accorse la sera che, dopo tanto tempo, volle fare una
delle sue solite conferenze nel locale del _Fascio_. Correvano attorno
voci paurose, minacciose. I contadini facevano capannelli nella Piazza
Grande, e quando il sindaco passava tra i crocchi, non si cavavano più
il berretto per salutarlo, non si voltavano nemmeno; e le trombe non
erano più là pronte agli ordini del Cipolla per fare il saluto reale al
cavaliere, che passava davanti al _Fascio_, senza fermarsi, andando al
municipio anche lui. Cipolla soltanto gli faceva il saluto militare, per
abitudine; Cipolla che pensava notte e giorno a qual pezzo di terreno
gli sarebbe toccato in sorte, quando avrebbero fatto il comunismo o la
repubblica, che per lui volevano dire la stessa cosa.

Il cavaliere dunque quella sera si trovò davanti a una trentina di
persone, scarso uditorio, e non tutte del _Fascio_, ma del _Circolo
degli Agricoltori_ e del _Circolo degli Operai_, venuti colà più per
curiosità che per altro. Voleva appunto parlare di quelle voci paurose e
minacciose, ma ebbe la sorpresa di sentirsi interrompere dal _Bracco_:

-- Non vogliamo più dazii!

E tutti e trenta gli uditori erano scoppiati a parlare assieme, facendo
una gran confusione, senza nessun rispetto dell'oratore che avea dovuto
abbassarsi a discutere con loro.

-- Non più dazii? È presto detto! Ma...

-- Non vogliamo più dazii!

Il cavaliere, indignato, avea risposto:

-- Il municipio saprà fare il suo dovere!

Ed era andato via. Neppur Cipolla lo aveva accompagnato fino a casa.

                                  *
                                 * *

E da lì a due giorni le trombe del _Fascio_, tutte e otto, suonavano
sinistramente mentre la folla tumultuava nella Piazza Grande, e il
_Bracco_ sbraitava:

-- Ai casotti! Ai casotti!

E quando i casotti del dazio furono atterrati e arsi:

-- Al municipio! Al municipio!

Una fiumana di gente, uomini, donne, ragazzi! E dalle finestre del
municipio volavano giù nella strada seggiole, tavolini, divani,
scrivanie per fare il falò; e volavano registri e carte, che si
spandevano per l'aria come tanti uccelli di malaugurio, fra grida,
schiamazzi e urli feroci! La folla, ubbriacata da quel puzzo di arso,
ballava attorno al falò che mandava alte fiamme e grosse nuvole di fumo.
-- Abbasso i dazii! Le terre! Le terre! Vogliamo le terre!

Chi aveva gridato: Dal sindaco?

Chi aveva gridato: Dal cavaliere?

Non se ne seppe mai nulla. La folla irruppe per diverse vie, gli uomini
con le accette, le donne coi tizzi accesi!... Il sindaco non li aveva
aizzati contro il cavaliere? Il cavaliere contro il sindaco? Il
cavaliere non aveva predicato ai reduci: Voi soli siete buoni, voi soli
siete degni di rispetto, voi sfruttati e malmenati?

E la folla ora rispondeva: -- Lasciatemi fare! Farò giustizia di tutti! --
E le case fumavano! e il sangue correva! Voleva i loro palazzi, i loro
beni, le loro donne, si, sì, anche queste! E le trombe del _Fascio_ non
cessavano gli squilli sinistri; e dal nascondiglio dove si era rifugiato
per scampare la vita, con la moglie e la figliuola scappate di casa come
si trovavano, il cavaliere, pallido, tremante, incapace di dire una
parola, si turava invano gli orecchi per non sentire gli squilli!

                                  *
                                 * *

Don Mimmo Li 'Nguanti sembrava un reo davanti al Giudice Istruttore, al
Delegato e al capitano della truppa, mandati dal governo per fare il
processo agli incendiari, agli assassini, e ripristinare l'ordine
pubblico.

-- Quel Cipolla era persona di sua fiducia? -- gli domandò il giudice
istruttore bruscamente.

-- Ma, lei capisce bene... Traviato da cattivi consigli...

-- Lo difende?

-- No, no, non lo difendo; spiego... Io stesso non avrei mai creduto...

-- E le trombe? Le trombe le ha fornito lei...

-- Fornito!..... Lei sa come vanno queste cose... Il presidente... non lo
fanno presidente per nulla... anticipa la spesa...

-- Il _Bracco_, quel sellaio...

-- Lei deve figurarsi...

-- Lei capisce! Lei sa! Lei deve figurarsi! Ma io non capisco, non so,
non voglio figurarmi niente; chiedo una deposizione, fatti,
schiarimenti. È assessore, è presidente del _Fascio dei Reduci_... e non
gli si cava nulla di bocca. Ha paura? Prima fanno il male; per le loro
gare, per le loro ambizioni, soffiano nel fuoco... e quando il fuoco è
divampato e l'autorità accorre e vuole indagare, e vuol scoprire i rei,
lor signori stanno zitti, non illuminano la giustizia, e poi se la
prendono con le autorità, col governo!

-- Mi hanno bruciato la casa, mi hanno rovinato!... Sono vivo per
miracolo! -- balbettò il cavaliere.

-- Parli dunque, nomini qualcuno! Ha paura?

Sicuro, aveva paura, come tutti gli altri signori!

Donna Beatrice gli aveva raccomandato:

-- Non vi compromettete! I soldati all'ultimo se ne vanno, e noi restiamo
nelle peste!

E davanti al giudice istruttore egli si ripeteva mentalmente il
consiglio di sua moglie: Non vi compromettete!

Pensava anche alla figliuola. La paura avea riuniti tutti i _cavalieri_
in un vero fascio, e il padre di Vincenzino non si curava più
dell'opposizione, del Municipio, nè delle trombe che già erano state
sequestrate; il matrimonio, da lui osteggiato fin a poche settimane fa,
ora egli voleva affrettarlo, e il cavaliere e donna Beatrice n'erano
contenti. Appena restaurata la casa, appena rifatti i mobili, quelle
nozze, senza sfoggi e senza inviti, avrebbero messo una pietra sul
passato, a patto che il cavaliere non si fosse più mescolato di
elezioni, nè di nulla!

-- Questi sopraccapi bisogna abbandonarli ai minchioni, o a coloro che
vogliono mestare e che -- lo vedete? -- in qualunque circostanza cascano
ritti in piedi. Tanto, è inutile voler raddrizzare le gambe ai cani.
Cose del Comune, cose di nessuno!

-- Bravo! Siamo di accordo! -- rispondeva il cavaliere, quantunque in
fondo in fondo non fosse affatto di accordo.

Passata la paura, dopo che le condanne dei tribunali erano fioccate
peggio della grandine, colpendo un po' alla cieca, come sempre avviene
in simili casi, i furfanti rimettevano fuori le corna, si davano l'aria
di sacrificarsi riprendendo in mano le redini del Municipio.

-- Volete scommettere che il _carrettiere_ sarà di nuovo sindaco? --
diceva con rancore donna Beatrice.

-- Per me, possono farlo re, imperatore, papa!

Il cavaliere si segnava, quasi per cacciar via la diabolica tentazione
di mescolarsi di affari comunali.

Ma ragionandone col padre di Vincenzino, l'amarezza gli tornava a gola:

-- Volete scommettere che colui sarà di nuovo sindaco? -- egli ripeteva
come sua moglie.

E tutti i bei propositi andarono a gambe per aria, quando quel _figlio
di carrettiere_ si rifiutò di andare a sposare in casa la figlia del
cavaliere, come si era fatto sempre coi _civili_ fino a pochi mesi
addietro.

-- Caro cavaliere, la legge è uguale per tutti: il municipio è la gran
casa di tutti; non dobbiamo vergognarci di venir qui.

Ah! Ora predicava: La legge è uguale per tutti? Bravo, benissimo!

-- Lo vedete? -- disse il cavaliere al suocero di sua figlia. -- Ci tirano
pei capelli a fare quel che non vorremmo!

E il padre di Vincenzino assentì stringendo le labbra, strizzando gli
occhi, crollando il capo. E finita la cerimonia nuziale, salutò con gran
sussiego il sindaco, ripetendo un: -- Grazie! Grazie! -- che voleva
significare:

-- Arrivederci alle prossime elezioni!

E rimpiangeva fin le sonore trombe del _Fascio dei Reduci_ e il loro bel
_Taratatà_ che gli aveva fatto prendere tante arrabbiature due anni
addietro!



LE VERGINELLE


Da più di un anno c'era l'inferno in casa dell'usciere di pretura Don
Franco Lo Carmine, per via della figlia che s'era incapricciata di quel
bel mobile di Santi Zitu, guardia municipale, e non voleva intendere
ragione.

Don Franco, dalla rabbia, era diventato più magro e più giallo
dell'ordinario, e non sapeva discorrere d'altro con le persone a cui
portava le citazioni e gli atti uscerili, quasi che tutti dovessero
interessarsi di quella sua disgrazia, di quel suo castigo di Dio,
com'egli diceva, esaltandosi:

-- Vedrete: qualche giorno farò un gran sproposito! Vedrete!

Ma il gran sproposito non lo faceva mai, perchè Zitu portava sempre la
daga al fianco, ed era protetto dal Sindaco. Si sfogava però contro la
figliuola e anche contro la moglie, che gli pareva tenesse il sacco a
quella pazza, a quella sciagurata.

-- Che volete che io faccia? -- gli rispondeva donna Sara piagnucolando.

-- Dovreste spaccarle la testa, quando s'affaccia alla finestra!

-- Le finestre le tengo sempre chiuse; non sentite che tanfo? Manca
l'aria; non si respira qui dentro.

-- Le finestre devono anzi restare aperte, spalancate notte e giorno, e
costei non deve affacciarsi!

Urlava perchè Benigna, la figlia, lo sentisse dall'altra stanza dov'era
andata a chiudersi a fine di evitare la solita scenata, prima che suo
padre si avviasse per la Pretura.

-- Ah, Signore, Signore! Com'è svampato questo fuoco in casa mia? Come
mai?

Donna Sara si picchiava con le mani la testa spettinata, buttandosi sur
una seggiola, e portando una cocca del grembiule agli occhi per
asciugarsi le lagrime.

Don Franco però stava sempre sul chi vive: e al minimo momento di largo,
scappava dalla Pretura e piombava in casa all'improvviso, per
sorprendere la figliuola e Zitu, se mai per caso...

E nei giorni che gli toccava di assistere alle udienze pareva una mosca
senza capo; specialmente se Zitu stava là a disposizione della giustizia
assieme con due carabinieri, e lui doveva rivolgergli la parola e
partecipargli un ordine del pretore per qualche testimone che mancava.

Zitu gli sorrideva con aria ossequiosa, rispondendo:

-- Va bene, caro Don Franco!

E appena egli usciva dalla sala, Don Franco perdeva la testa peggio di
prima.

Gli pareva che Zitu dovesse approfittare della bella occasione di
saperlo incatenato là, dall'ufficio di usciere, per dare liberamente una
capatina laggiù e fare lo smorfioso con la ragazza che forse lo
aspettava alla finestra. Per ciò egli regalava qualche soldo al figlio
del falegname che aveva la bottega di faccia a casa sua:

-- Sta' a vedere se passa Zitu! C'è due soldi per te; vieni a dirmelo
sùbito in pretura.

Siccome i soldi glieli dava soltanto quando il ragazzo gli andava a
dire: -- È passato! -- così costui, dopo parecchie volte, per guadagnarsi
la mancia, gli riferiva: -- È passato! -- anche quando non era vero.

-- E lei, lei era alla finestra?

-- Era alla finestra.

-- E gli ha fatto dei segnali?

-- Gli ha fatto dei segnali, col fazzoletto bianco!

Don Franco si strizzava le mani, si mordeva le labbra, smaniava. Ma
doveva star là, a chiamare i testimoni, fino alla fine dell'udienza; e
poi accompagnare a casa il Pretore, che si divertiva a interrogarlo,
avendo indovinato di che si trattasse, perchè sapeva la cosa.

-- Che avete, Don Franco?

-- Ho il castigo di Dio, signor Pretore!

-- Infine, se la ragazza lo vuole...

-- Piuttosto l'ammazzo con le mie mani, signor Pretore!

-- Ma prima con Zitu eravate stretti amici, mi pare.

-- È stato un tradimento, signor Pretore!

Quel che Don Franco chiamava tradimento, era avvenuto la sera della
processione del giovedì santo, mentre sparavano i mortaretti, appena la
statua del Cristo alla Colonna era uscita dalla porta della chiesa, tra
il salmodiare dei canonici e le grida dei devoti: Viva il Santissimo
Cristo alla Colonna!

Tra la folla, qualcuno aveva osato di dare un pizzicotto a una donna,
che s'era rivoltata e aveva fatto nascere una zuffa. Pugni, schiaffi,
bastoni per aria, fuggi fuggi, donne svenute, bambini travolti,
accorrere di guardie e carabinieri, tumulto!

E Zitu aveva raccolto Benigna, bianca come un cencio lavato, inerte,
svenuta anche lei per lo spavento; e avea dovuto prenderla in collo e
portarla fino a casa, nel vicolo vicino; e aiutare donna Sara che
strillava e piangeva, e non riesciva a sganciare il busto della
figliuola stesa quant'era lunga sul letto, come una morta.

-- Un po' d'aceto, donna Sara! Non è niente.

Si era dato un gran da fare. Da un pezzo, egli avea posto gli occhi
addosso alla ragazza, e voleva approfittare di quell'occasione per
diventare amico di famiglia. E aveva spruzzato d'acqua fresca il viso
della svenuta, e le avea prodigato frizioni di aceto alle narici e alla
fronte, e frizioni alle mani per rimettere il sangue in circolazione,
consolando la mamma che non sapeva fare altro che piangere e disperarsi:

-- Non è niente, donna Sara!

Don Franco era sopravvenuto quando Benigna aveva potuto metterei a
sedere sul letto, ancora pallida e sbalordita, e Zitu le stava attorno
premuroso, insistente:

-- Un dito di vino; vi farà bene.

E le reggeva la testa e le accostava il bicchiere alle labbra.

Don Franco ansimava per la corsa e per la fretta con cui aveva montato
gli scalini a quattro a quattro, appena gli avevano detto:

-- Accorrete; vostra figlia è ferita!

E non poteva parlare, e tastava la figliuola, per indovinare dove fosse
ferita. Poi balbettò;

-- Dove? dove?

Zitu, capito l'equivoco, rise, e versò un bicchiere di vino anche a lui,
dicendo:

-- Si sa; _tempo di guerra, bugie terra terra_.

-- Ah!... Se non c'era lui!

Donna Sara si profondeva in elogi e ringraziamenti, ricominciando a
singhiozzare per gratitudine, per tenerezza.

-- Come vi sentite ora? -- domandava Zitu alla ragazza.

Benigna gli sorrideva, facendo una mossettina con la testa significante:
Sto meglio!

-- Un altro sorso di vino?

-- No, grazie!

-- Allora lo bevo io alla vostra salute!

-- È stato un miracolo del santissimo Cristo alla Colonna! -- conchiuse
donna Sara.

E Zitu approvò, e Don Franco pure.

-- La moglie di Titta il _Sordo_ ha la testa spaccata -- egli soggiunse in
conferma dell'esclamazione della moglie.

E uscì di casa assieme con Zitu, che lo invitò a bere un bicchiere di
vino nell'osteria di Patacca, perchè passando davanti la porta lo zi'
Patacca li aveva salutati.

Volevano raggiungere la processione. Intanto, nella Piazza dei Vespri,
Zitu replicò l'invito davanti all'osteria di Scatà.

-- Un dito solo, vi farà bene; qui il vino è assai migliore di
quell'altro: sentirete.

A Don Franco parve male rifiutare.

-- Eh? Che ne dite?

-- Si, sì; questo non è battezzato.

-- Un altro bicchiere!

Quando arrivarono nel piano di Santa Maria, la processione era già
lontana. All'angolo c'era la rivendita della Guadagna, con la frasca di
alloro su la porta e il lanternino acceso.

-- Qui si trova quello di Vittoria, schietto schietto.

-- No, grazie, compare Santi.

Ma compare Santi, prèsolo per un braccio, lo spinse dentro.

-- L'ultimo bicchiere, caro Don Franco!

Quell'ultimo bicchiere gli sciolse la parlantina, lo mise in allegria.
Don Franco volle raccontare all'ostessa il fatto della processione, il
miracolo del Santissimo Cristo alla Colonna! S'imbrogliava, si
riprendeva, tornava a imbrogliarsi, e a ogni po' batteva su una spalla
di Zitu: -- Bravo figliuolo! -- guardandolo con gli occhi rimpicciniti,
ammamolati: -- Bravo figliuolo!

Donna Sara e Benigna, quando lo videro rientrare barcollante, col
cappello su la nuca, esclamarono sbalordite:

-- Oh Dio!... Che avete fatto?

-- Bravo figliuolo, quello Zitu! Fior di galantuomo! Viva il Santissimo
Cristo alla Colonna!

E si lasciò cascare su la seggiola vicina, ridendo in modo strano.

                                  *
                                 * *

Così s'introdusse Zitu nella famiglia Lo Carmine, e potè far visite
anche quando non c'era Don Franco. E un giorno che donna Sara lo aveva
lasciato solo con la figliuola per andare un istante in cucina, Zitu
potè facilmente dire alla ragazza quel che già le aveva fatto intendere
con le occhiate, con le premure, con le barzellette:

-- Sono pazzo di voi! Se c'è la vostra volontà...

E s'era spinto oltre, visto che la ragazza, improvvisamente arrossita,
abbassava il capo; afferratala per la vita, voleva darle un bacio su la
nuca.

-- La mamma! -- esclamò Benigna, che non se lo aspettava. -- Per carità,
santo cristiano!

Ma al blando rimprovero, Zitu che aveva perduto la testa, le diede un
altro bacio, e questa volta su la bocca.

E a quel bacio il cuore della povera Benigna aveva dato una vampata;
giacchè il fuoco le si era appiccato sin dal primo istante, quella sera
che, rinvenendo, aveva visto Zitu davanti il letto e aveva saputo che
era stata portata da lui in collo, fino a casa, come una bambina malata!

Donna Sara si era sùbito accorta di qualcosa, ma era stata zitta.

-- Guardia municipale non è un bel mestiere -- ella pensava. -- Ma, se il
patriarca San Giuseppe vuole così!...

Anche lei era abbagliata dalla divisa e dai luccicanti bottoni di rame e
dalla daga e dal kepì che Zitu portava con aria spavalda. E stava ad
osservare sottecchi, fingendo di non essersi accorta di niente. Tanto
più che Don Franco, a cui Zitu continuava di tratto in tratto a regalare
buoni bicchieri di vino, ora dal Patacca e ora dallo Scatà, si espandeva
in grandi elogi di quel bravo figliuolo, fior di galantuomo, che
rispettava tutti e si faceva rispettare da tutti!

Per ciò Benigna e donna Sara cascarono dalle nuvole la sera che Don
Franco, tornato a casa tutto accigliato, prima di cavarsi il cappello e
di posare la mazza al solito angolo, esclamò quasi con un grugnito:

-- Qui non ci deve più venire nessuno! Quel nessuno, si capiva, era Zitu.

-- Perchè? Che significa? -- osò domandare donna Sara.

-- Significa che voi siete una stupida e costei una civetta! Significa
che io non voglio gente tra' piedi in casa mia. Non sono padrone, forse?

E sbatacchiò all'angolo la mazza, che cadde per terra.

                                  *
                                 * *

Un anno d'inferno! In quella casa più non si mangiava nè si dormiva in
pace, da che la signorina Maligna (don Franco ora non chiamava
altrimenti la figlia) resisteva ai consigli, alle minaccie, e fin alle
bastonate, stregata da quell'infame (non diceva più bravo figliuolo) che
voleva disonorargli la famiglia. Birri non ce n'era mai stati tra i Lo
Carmine, e lui non voleva parenti birri, nè vicini nè lontani! La
signorina Maligna poteva mettersi il cuore in pace! Nè lei, nè il suo
birro l'avrebbero spuntata!

E le grida e le minaccie e gli schiaffi (don Franco era diventato troppo
manesco) mettevano a rumore il vicinato ogni volta che il ragazzo del
falegname; per buscarsi i due soldi, andava a dirgli in pretura: -- È
passato Zitu! -- e non era vero.

Zitu anzi non si faceva più vedere da quelle parti; non ne aveva
bisogno. Andava, invece, in casa d'un suo amico, entrando dalla via là
dietro, senza che nessuno potesse sospettare che l'amico gli dèsse
l'agio di salire su la terrazza per parlare comodamente con Benigna da
la finestra di cucina.

-- Non ne posso più! Vuol dire che non c'è la volontà di Dio! --
balbettava Benigna.

-- Vuol dire che non mi vuoi bene! Mi ammazzo con questa daga; tu mi vuoi
morto, lo capisco!

-- No, Santi!...

-- Decìditi dunque, se mi vuoi bene davvero!

-- Sì, Santi; ma... questo, no! Questo, no!

Zitu insisteva per la fuga; non c'era altro rimedio, secondo lui.
Benigna però non ne voleva sapere. E scappava dalla finestra a ogni
piccolo rumore, e Zitu si buttava per terra su la terrazza per non
essere scoperto da Don Franco o da donna Sara, o da qualche vicina
ciarliera.

-- Ora è tranquilla, -- diceva donna Sara al marito. -- Lasciatela in pace,
date tempo al tempo. Sant'Agrippina farà il miracolo...

-- Si, come quello del santissimo Cristo alla Colonna! -- ringhiava don
Franco.

-- Non dite eresie! -- lo rimbrottava la moglie. -- Il confessore mi ha
consigliato: --

Fate le Verginelle a Santa Agrippina. -- Faremo le Verginelle, col
pellegrinaggio alla Làmia. Il confessore verrà a dire la messa laggiù...

-- Per guadagnarsi cinque lire!

                                  *
                                 * *

Malgrado l'opposizione del marito, donna Sara aveva già fatto l'invito
delle Verginelle, cioè di tutte le ragazze del vicinato, una trentina.

Sarebbero andate in processione al santuario della Làmia, nelle grotte
d'onde Santa Agrippina avea scacciato i diavoli al suo arrivo da Roma in
Mineo; se ne vedevano ancora i segni nelle grotte annerite dal fumo
infernale.

La santa miracolosa, che aveva scacciato i diavoli di là, avrebbe
scacciato così dalla testa della ragazza la cattiva tentazione di quella
passionaccia che manteneva l'inferno in casa loro.

-- Figliuola mia, proviamo. Se poi c'è la volontà di Dio!...

E tutta la settimana era passata in preparativi; non si parlava d'altro
nel vicinato.

Donna Sara aveva impastato le lasagne che Benigna tagliava nella madia;
e ora spennava il gallo e le tre galline da fare in stufato; il pane, lo
avrebbero infornato la sera avanti per averlo fresco fresco.

-- Sant'Agrippina, vedrete, farà il miracolo, -- ripeteva donna Sara.

-- Sì, come quello del santissimo Cristo alla Colonna!

Don Franco teneva rancore al santissimo Cristo alla Colonna, quantunque
egli fosse buon cristiano.

E il mercoledì appresso, il pellegrinaggio s'avviò. Le Verginelle,
vestite a festa, si erano radunate in casa di donna Sara. Ce n'era
voluto per indurre Benigna ad andare anche lei; infatti quella mattina
ella s'aggirava attorno per la casa, con gli occhi rossi dal pianto,
squallida per la nottata passata senza dormire, a discorrere con Zitu
dalla finestra di cucina...

Zitu le aveva fatto fare un giuramento: Laggiù, alla Làmia, mentre le
verginelle stavano a cantare il rosario nella grotta grande, ella doveva
andare a raggiungerlo nella grotticina in fondo al santuario; voleva
parlarle a quattr'occhi. Nessuno se ne sarebbe accorto; ci si vedeva
così poco in quelle grotte affumicate! Egli era amico dell'eremita che
custodiva il santuario; sarebbe andato là la sera avanti:

-- Giura che verrai!...

-- Giuro, se posso senza dare sospetto!

-- Se vorrai, potrai! Giura un'altra volta!

E la poverina aveva giurato. Per questo aveva gli occhi rossi, per
questo tremava.

Per la via c'era folla; tutte le comari alle finestre o su gli usci. E
quando il sagrestano venne a dar l'avviso che il prete era già partito
avanti perchè andava a cavallo, la processione delle verginelle
s'istradò recitando il rosario, e fu presto in piena campagna.

La giornata era splendida; la campagna, bionda di seminati; i contadini
che andavano al lavoro si fermavano, si tiravano da parte nei punti dove
la strada era larga, per lasciar passare le Verginelle che, finito il
rosario, procedevano a gruppi, ridendo, ciarlando, cantando anche delle
canzoni di amore.

Una delle ragazze presa a braccetto Benigna, le confidava le sue pene.
Era innamorata anche lei, e i parenti la osteggiavano:

-- I parenti fanno sempre così! Ma io, se essi tengono ancora duro...

E con la mano accennava che avrebbe preso la fuga col suo innamorato.

-- No, queste cose non si fanno! -- esclamò Benigna.

-- Mia zia ha fatto così, -- rispose la ragazza. -- Ed ora sono tutti in
pace in famiglia.

La strada era diventata viottolo scosceso; già si vedevano le roccie
rossastre e la vallata; il santuario si trovava là in fondo. E come più
si avvicinava, Benigna si sentiva piegare le gambe sotto, tremava tutta.
No, non avrebbe saputo sfuggire alle compagne e alla sorveglianza della
mamma; non sarebbe riuscita a trovare la grotticina indicata quantunque
avesse giurato. Oh Dio! Perchè aveva giurato?

                                  *
                                 * *

Il prete era a piè della gradinata scavata nel vivo masso, col
sagrestano e l'eremita. La cavalcatura del prete, legata a un albero,
mangiava tranquillamente l'erba fresca.

Che pace, che tranquillità nella valle! Le tàccole e i falchetti
volavano, gracidavano, squittivano su per la roccia; tra i pioppi che
fiancheggiavano il ruscello, un usignolo gorgheggiava. Le grotte
echeggiavano sordamente di canti, di risate.

Le verginelle si disposero in fila, intonarono il rosario e cominciarono
a salire la scala strettissima, chinandosi per entrare nel santuario da
quella porta o piuttosto buca.

Nella seconda grotta, vastissima e nera, le quattro candele accese
sull'altare pareva addensassero l'oscurità attorno. Il prete indossava i
paramenti sacri aiutato dal sagrestano. L'eremita andava disponendo le
verginelle a sei a sei, in tante file davanti l'altare, scartando questa
o quella, indicando il posto a donna Sara, prendendo per mano Benigna e
collocandola in coda a tutte. Benigna si sentì morire quando l'eremita,
sfiorandole il viso con la lunga e ispida barba, le susurrò in orecchio:

-- È là; vi darò io il segnale.

E le s'inginocchiò a lato, rispondendo ad alta voce al rosario, intanto
che il prete diceva l'_introibo_.

Poco dopo infatti egli la prese per mano, la sollevò, la spinse
indietro. Benigna vide, in fondo in fondo, un po' di luce e un fantasma
che le veniva innanzi. Sudava freddo, non respirava; e tra le voci del
rosario, udiva soltanto quella dell'eremita che rispondeva più forte di
tutte:

-- Santa Maria, madre di Dio!

Dopo la messa, su lo spianato, mentre le verginelle, fatta la refezione,
ballavano al suono del cembalo che una di loro aveva portato, donna Sara
si era accostata alla figlia.

Benigna pareva stralunata, aveva le lagrime agli occhi, e non badava al
prete che, raccontando il miracolo della scacciata dei diavoli operato
colà dalla Santa, additava le buche della roccia donde i diavoli erano
scappati alla vista della croce.

-- Che hai?

-- Niente.

-- Il miracolo è fatto! -- disse l'eremita, sorridendo e lisciandosi la
barba.

                                  *
                                 * *

Ma donna Sara capì molto tardi che la Santa benedetta non c'era entrata
per niente.

E Don Franco, che dovette piegare la testa e cascò malato dal
dispiacere, oltre al Santissimo Cristo alla Colonna, tenne broncio anche
a Santa Agrippina che lo aveva costretto in quel bel modo a imparentarsi
con un birro!



DONNA STRÀULA


Quando non aveva con chi prendersela, donna Mita se la prendeva con suo
marito buon'anima, che se n'era andato in Paradiso, lasciando lei e le
figliuole in un mare di guai. Non aveva mai fatto niente di bene in
questo mondo, e non ne faceva neppure nell'altro, pover'uomo!

-- Che gli costerebbe dire a Domeneddio -- lo ha tutti i giorni, come suol
dirsi, tra piedi: -- Signore, rivelatemi tre numeri, tre soli, di quelli
che usciranno sabato prossimo al lotto, perchè io vada a indicarli in
sogno a mia moglie? Non vedete come stenta con tutti quei debiti e con
le liti che le ho lasciato su le braccia? -- Uh! non si rammenta neppure
nè di me, nè delle tre orfanelle che già spighiscono in casa gialle e
magre, e non trovano un cane che le voglia. Forse che lui in Paradiso ha
più bisogno di mangiare, di vestirsi, di pensare ai debiti, alle liti,
alla moglie, alle figliuole? Pensò in fine di vita, alle sante messe, al
rosario: -- Mita mia, figliuole mie, pregate per me, io pregherò per voi
lassù!

E da tre anni ch'era lassù, non le era venuto in sogno nemmeno una
volta, tanto da mostrare che si ricordasse di loro!

Perciò donna Mita, la sera, recitando il rosario con le figliuole, da un
pezzo non diceva più un'avemmaria per l'anima del marito. Invece diceva
paternostri e avemmarie per l'avvocato, pel procuratore legale e pei
giudici, affinchè il Signore schiarisse loro la mente, e difendessero
bene i diritti delle orfane e facessero giustizia nelle tre liti che non
finivano mai con quell'animaccia storta di don Basilio Cuti.

Ora toccava a lei agire da uomo: sollecitare gli avvocati, dare
schiarimenti al Tribunale, alla Corte, buttarsi ai piedi di questo e di
quello per una buona raccomandazione, e sventare gli intrighi
dell'avversario che ne inventava sempre uno più infernale dell'altro e
non dava requie, e voleva ridurle all'elemosina, quasi non fossero state
parenti e non si chiamassero Cuti anche loro!

In poco tempo era invecchiata di dieci anni col pensiero fisso di quelle
liti. Già aveva tutto il codice a memoria meglio degli avvocati e del
procuratore legale, quantunque sapesse appena leggere e scarabocchiare
la propria firma. Ah, il Signore chi sa dove aveva il capo nel momento
che stava impastando lei e suo marito! Avrebbe dovuto dare i calzoni a
lei e la gonna a lui, e allora le cose di famiglia sarebbero andate
altrimenti!

Ma non si perdeva d'animo. E quando qualcuno le diceva:

-- Fate una transazione; sarà meglio! -- lei agitava violentemente le mani
e la testa, socchiudendo gli occhi, strizzando le labbra, per
significare: -- No! No! -- Non voleva lasciar spogliare le tre povere
orfane. Finchè lei aveva fiato, avrebbe dato filo da torcere a quel
brigante di don Basilio. E l'avrebbe spuntata, n'era sicura,
sicurissima! E il giorno in cui avrebbe vinto le liti, avrebbe fatto
dire una solenne messa cantata al patriarca San Giuseppe, con cento
torce nuove all'altare e gran scampanìo e mortaretti e banda musicale,
dall'alba alla sera, per far crepare di rabbia don Basilio e tutti
coloro che le volevano male.

E poi, nozze, subito subito; perchè le figliuole allora avrebbero una
grossa dote, duemila e più onze ognuna, e i mariti piomberebbero da
tutte le parti. Quando c'è il miele le mosche accorrono a torme. E così
lei farebbe la gran vendetta! La gran vendetta era quella di maritare le
figliuole fuori del paese, a Caltagirone a Vizzini, a Militello, in capo
al mondo, ma non in quel suo paesaccio di tangheri, che ora non le
degnavano d'uno sguardo perchè, se non vincevano le liti, sarebbero
rimaste con la sola camicia indosso.

-- E le virtù domestiche non contavano niente dunque?

Parlandone con gli altri, donna Mita non rifiniva di esaltare le virtù
domestiche di quelle tre ragazze, di quelle angiole, come aggiungeva
sempre; ma in famiglia era un'altra cosa. Le sgridava tutta la santa
giornata, ogni volta che gli affari non la sballottavano di qua e di là,
dall'avvocato, dal notaio, dal sindaco, dall'Agente delle tasse, o a
Caltagirone, in Tribunale, o a Catania, in Corte di appello o dagli
avvocati o dal procuratore di colà, gente che se la mangiava viva e se
ne stava con le mani in mano, secondo lei, nè avrebbe fatto fare un
passo alle liti senza il pungiglione di lei.

Quelle tre grulle frattanto pensavano forse un momento ai casi loro?
Attendevano la manna del cielo, come gli ebrei.

E se la manna non veniva? E se le liti, Dio ne scampi, si perdevano?

Meno male Rosa, la mezzana, che si era fatta monaca di casa! S'era data
a Dio, e del mondo non voleva saperne. Le monache del Monastero Vecchio
le davano da cucire, da ricamare, e l'abbadessa le diceva spesso: Se
accadrà una disgrazia, ti prenderò con me!

Ma quelle altre due? Rita, la maggiore, per esempio, o non s'era messa
in testa di sposare un massaio? Una Cuti, una figlia di don Paolo Cuti,
che, se era stato uno sciocco e si era fatto mettere in mezzo da
quell'arpia di don Basilio, era stato però un galantuomo, agrimensore e
anche consigliere comunale! Sì, sì; quel massaio era ricco: fondi, muli,
carrette, e ogni ben di Dio. Che è per questo? E quando avrebbero vinto
le liti, le due mila e più onze della dote avrebbe dovuto godersele quel
villanaccio? Giacchè costui non la sposava pei begli occhi di lei, ma in
vista della dote futura. E colei osava dire: Intanto muoio di fame!

Non moriva di fame anche lei, ch'era stata avvezzata a vivere da signora
in casa sua? Non si rassegnava anche lei a portare addosso quegli
stracci stinti, lei che aveva avuto vesti di lana e di seta, e le dita
piene di anelli, e le mani sempre pulite, giacchè in casa sua ci erano
due serve, e un servitore?

-- E perchè poi un massaio? Non esistevano altri uomini al mondo?

-- Debbo andar a cercarli io? -- rispondeva Rita, con le labbra spumanti
tossico.

-- Se tu sapessi fare!

-- Ora farò la civetta, starò alla finestra tutto il giorno, a uccellare!

E donna Mita, travolta dallo sdegno contro il massaio che insidiava la
futura dote della figliuola, si lasciava scappare di bocca:

-- Le civette, prima o poi, se lo beccano sempre un tocco di marito.

Rosa era bruttina, aveva già trentadue anni; donna Mita, in cor suo, la
compativa. Ma quell'altra sciocchina di Quarinta, chè non voleva dar
retta al figlio del notaio Carcò? Povero ragazzo, stava per ore e ore
alla finestra di cucina, suonando il flauto; e lei, non c'era caso che
si affacciasse o che gli dèsse un'occhiata se si trovava al balcone;
come se quell'_Oh Dio, morir sì giovane!_ che il flauto piangeva dieci
volte il giorno non fosse stato diretto a lei! Quello là, almeno, era
figlio di notaio. E la grulla non voleva saperne! Chi mai si figurava
che dovesse sposarla? Un barone? Un principe?... Vittorio Emanuele?

E per tenere in fresco quel povero giovane, che doveva essere proprio
cotto di Quarinta se non si era scoraggiato dopo tanto tempo, donna Mita
correva lei al balcone appena sentiva le prime note dell'eterno _Oh Dio,
morir sì giovane!_ e sorrideva al ragazzo e gli diceva:

-- Suoni come un serafino, figliuolo mio! Quarinta, certe volte, ha le
lagrime agli occhi!

Il ragazzo arrossiva, ringraziava e tornava a soffiare nel flauto,
allungando le labbra, gonfiando le gote, col capo chinato da una parte,
contento di sapere che la figlia di donna Mita si commovesse tanto al
suono del flauto di lui, a quel pezzo della _Traviata_. E non cambiava
pezzo mai.

Era un sacrificio per donna Mita far quasi all'amore per conto della
figliuola; ma il destino voleva così, e bisognava adattarsi alle
circostanze.

Ella si adattava a fare ben altro, quando venivano al pettine certi nodi
per tirare innanzi le liti.

Una volta le posate d'argento, un'altra gli orecchini e gli anelli, poi
gl'istrumenti da agrimensore del marito, poi la lana delle materassa,
sostituita con crine vegetale o con paglia; tutto era andato via di
casa, in mano degli usurai.

Chi sa se la bella argenteria vecchia ella l'avrebbe riveduta mai più?

E gli orecchini e gli anelli, chi sa se sarebbero tornati a splendere
agli orecchi e alle dita di lei e delle figliuole?

Ora le toccava qualche volta andare da un'amica, da un conoscente, e
raccontare tutti i suoi guai per intenerire quei cuori, senza far le
viste di chiedere in elemosina vestiti smessi, legna o carbone, un
fiasco di aceto od una bottiglia d'olio, da rendere, s'intendeva, appena
vinte le liti; per le quali mandava accidenti all'animaccia storta di
don Basilio che la costringeva ad essere importuna.

E quando le liti gliene lasciavano il tempo, faceva visite, assisteva
malati e partorienti, correndo dal medico, dalla levatrice, dando una
mano alla serva in cucina, rassettando, ripulendo, facendo insomma in
casa altrui quel che era inutile facesse in casa propria, dove non c'era
più quasi nulla da ripulire e rassettare; manovrando finamente perchè
all'ora del pranzo la invitassero a restare, o perchè dopo pranzo
potesse portar via qualche cosa per le figliuole, che mangiavano
soltanto qualche uovo delle galline di casa e un po' di verdura condita
con due goccie d'olio.

Appena la serva dava mano ad apparecchiare la tavola, e dalla sala da
pranzo si udiva l'acciottolìo dei piatti e il rimescolìo delle posate,
donna Mita si alzava da sedere, fingeva di cercare attorno, su per le
seggiole, o sul letto -- dove l'aveva mai riposto? -- il suo scialle nero
ritinto con la frangia a sbrendoli.

-- Come? Andate via? Fate penitenza con noi.

-- No, no! Sarà troppo incomodo. E poi le figlie m'aspettano per mettere
giù la minestra nel brodo.

-- Manderemo ad avvisarle.

Faceva un gesto di rassegnazione; non aggiungeva una sola sillaba, per
timore che non la prendessero in parola.

-- Allora darò una mano in cucina.

E la serva la vedeva apparire davanti ai fornelli, quasi la padrona
fosse stata lei.

-- Da' qua! Hai messo il sale?

E assaggiava il brodo.

-- Da' qua!

E tagliava una fettina di carne, per vedere se l'arrosto era a punto.

E a tavola si vantava della bontà del brodo e dell'arrosto.

Aveva dovuto mettere il sale lei, e lei far cuocere bene l'arrosto.

-- Non ne fanno una diritta queste serve! E dopo pranzato, scappava.

-- Vado dal sindaco. Debbo andare dall'avvocato!

Oppure:

-- Parto per Caltagirone, per Catania.

Faceva questi viaggi come se niente fosse stato. Andava ad appostarsi
fuori le mura, lungo lo stradone, con un fagottino sotto braccio, e al
primo carrettiere che passava di là, domandava:

-- Dove vai?

-- A Caltagirone.

-- Portami; ti dò mezza lira, una lira.

Viaggiava così al sole, al vento e alla pioggia, come merce, sbalordendo
il carrettiere col racconto delle peripezie delle liti.

-- Potrei avere carrozze e cavalli, e intanto debbo andare in carretta!

A Caltagirone, a Catania, gli avvocati e i procuratori avevano quasi
terrore di lei; non se la potevano levare d'addosso.

-- Dunque, a che stato siamo? E le citazioni? E le comparse?

Voleva sapere tutto, discuteva tutto; dava suggerimenti, consigli,
citava articoli del codice, con una parlantina che dava il capogiro,
gesticolando, alzandosi dalla seggiola, rimettendosi a sedere,
scompigliando le carte ch'ella riconosceva a occhio:

-- La prima sentenza? È questa. Questa la citazione di appello.

E le tirava fuori dal voluminoso incartamento, senza sbagliare mai,
mettendole sotto il naso del procuratore o dell'avvocato perchè
riscontrassero un particolare, un punto interessante da non perdere di
vista.

E così, col sole, con la pioggia e col vento, viaggiando come merce su
questa o quella carretta, tornava a casa, intronando gli orecchi alle
figlie di tutti i discorsi fatti col procuratore e con l'avvocato,
ricominciando da capo con le vicine, dal terrazzino che dava su la via
maestra, perchè andassero a riferire ogni cosa a quell'animaccia storta
che teneva là le spie.

Le liti, a sentir lei, erano belle e vinte; ella aveva le sentenze in
tasca. E se qualcuno le rispondeva: -- Don Basilio dice che, all'ultimo,
c'è la Cassazione -- donna Mita diventava smorta smorta dalla collera:

-- Perchè ha quattrini, lo stortaccio? Ma io litigo senza dolori di capo,
e lui deve metter fuori più pezzi di dodici tarì, che non abbia capelli
in testa.

Intendeva dire che lei aveva ottenuto il gratuito patrocinio e che non
le importava niente di andare fino in Cassazione.

Quel gratuito patrocinio era stato un affaraccio. Il sindaco la menava
per le lunghe; non voleva farle la fede di povertà. Povero sindaco! Don
Basilio lo spauriva con la minaccia di abbandonarlo nelle prossime
elezioni municipali; donna Mita lo minacciava di ricorrere al
Sotto-prefetto, al Prefetto, al Ministro, a Vittorio Emanuele in
persona. E temporeggiava: domani, domani l'altro. Ora mancava il
segretario, ora la Giunta non s'era potuta riunire. E i giorni, le
settimane, i mesi passavano, tra le imprecazioni di donna Mita che
andava a sbraitare al Municipio, e i brontolii di don Basilio che andava
a fargli ressa di tener duro, a casa, ad ora tarda, per non essere
veduto.

Ma un giorno, donna Mita s'era buttata su la prima carretta che andava a
Caltagirone, per ricorrere dal Sotto-prefetto. Per via le era capitata
addosso una pioggia torrenziale che l'aveva inzuppata fino alle ossa. Il
Sotto-prefetto, spaventato dalla vista di quella figura di strega che
spandeva acqua dalle vesti e allagava il tappeto della stanza, e che
strillava e imprecava contro il sindaco, rispose che avrebbe scritto a
quel funzionario una lettera un po' aspra. Donna Mita avrebbe voluto
portarla lei, e già aveva cavato fuori il fazzoletto da involtarla per
mettersela in seno, e già si sganciava il corpetto sotto gli occhi del
regio funzionario che la guardava stupito.

Ed era ripartita con la pioggia, senza curarsi di prendere un malanno.
Infatti fu ad un pelo di andarsene all'altro mondo; ma, mezza morta, a
chi veniva a farle visita, ripeteva:

-- Dite a don Basilio che debbo prima seppellire lui e vederlo
all'inferno!

E cercava con lo sguardo le figliuole. Non vedeva Rita.

-- Dov'è Rita?

-- È malata anche lei.

Le risposero così finchè stette a letto. Ma quando si levò e volle
vedere la figlia, non fu possibile nasconderle che Rita era in casa del
massaio, e che mancava solo il consenso della madre perchè quei due si
mettessero in grazia di Dio. Donna Mita allibì. Il suo consenso? Mai e
poi mai! Già potevano farne a meno. Se quella disgraziata aveva
disonorato la famiglia, lei, moglie di don Paolo Cuti, figlia del dottor
Rinaldi, lei non si sarebbe prestata, mai, a legittimare quel disonore!

E s'ingolfò nelle liti, nel codice, nelle procedure, ora che le cause
erano già mèsse a ruolo, come dicono i curiali, e bisognava scaldare i
ferri e non lasciar dormire gli avvocati, e spalancare tanto d'occhi per
sorvegliare le mosse di quel ladro di don Basilio, che il Signore
gastigava, quasi per darle ragione: Debbo seppellire prima lui!

Ma no, non voleva rallegrarsi perchè lo sapeva in pericolo di vita. No,
lei non desiderava la morte di nessuno.

-- Se il Signore lo leva da questo mondo, sia fatta la sua santa volontà!
Lo perdoni ed anche se lo porti in paradiso; io non voglio entrarvi per
niente.

Le pareva che se si fosse rallegrata della disgrazia del suo avversario,
Domineddio avrebbe dovuto punirla. Non desiderare agli altri il male che
non vuoi fatto a te stesso. Non si è cristiani battezzati per niente. Se
il Signore però voleva levarlo via da questo mondo, poteva lei forse
dirgli: Signore, lasciatelo stare qui? Doveva lei dar consigli a Chi sa
benissimo quel che fa e che è il padrone della vita e della morte?

Questi buoni sentimenti intanto non le impedirono di sentirsi un po'
seccata e di mordersi leggermente le labbra il giorno che si vide
davanti, in Tribunale e poi in Corte di Appello, don Basilio grasso e
roseo, quasi non fosse mai stato malato, che portava sottobraccio un
fascio di carte, accompagnato da tre avvocati, tanto doveva essere
convinto anche lui che uno solo non sarebbe bastato a dare apparenza di
ragione alle sue storte pretese!

-- E la sentenza? -- ella domandò all'avvocato, dopo la discussione.

-- Fra otto, dieci giorni. Potete andarvene. Vi spedirò un telegramma.

Il telegramma invece arrivò quella stessa sera dal paese:

«Quarinta sta molto male, con una polmonite! Venite subito».

-- Ah! queste benedette figlie! -- esclamò donna Mita, torcendosi le mani,
quasi la povera Quarinta si fosse ammalata a posta per farle un dispetto
in quel punto.

Fu un gran colpo! Le parve che la casa si fosse vuotata, che con
Quarinta le fosse venuta meno l'aria, la luce, tutto! E non poteva
guardare nè sentire Rosa che la esortava a rassegnarsi alla volontà di
Dio! In quei primi giorni di dolore si sentiva diventata turca, com'ella
diceva: Non c'erano più per lei nè Madonna, nè santi. Aveva pregato,
aveva fatto dire tre messe, aveva promesso una collana d'oro alla
Madonna degli Ammalati, un paio di orecchini a Santa Agrippina!...
Niente! La Madonna era rimasta sorda; Sant'Agrippina più sorda ancora!

Rosa si turava gli orecchi udendola parlare a quel modo e scappava per
chiudersi nella sua cameretta.

Ma c'era da occuparsi degli affari: notificare a quello scellerato di
don Basilio la sentenza, spogliarlo, come si meritava, di tutto il mal
tolto; donna Mita così si rabboniva, riprendeva la sua attività. E
parlando con Rosa si dichiarava più rassegnata alla volontà di Dio;
doveva però rassegnarvisi anche lei. Rosa non la intendeva a quel modo,
e glielo fece capire col silenzio.

Povera donna Mita! Che le importava ora di aver vinto le liti e
d'essersi messa in possesso del palazzo Cuti, delle terre, dei giardini
di aranci? Per chi aveva lavorato, stentato? Per la scellerata, disonore
della famiglia e pel villano di suo marito, poichè quella stupida di
Rosa si ostinava a rimanere monaca di casa e non pensava più al mondo?

-- Non voleva saperne delle persone di questa terra! Si era sposata con
Gesù!

Dove? Quando? Chi era stato il sindaco che li aveva sposati, chi era
stato il parroco che li aveva benedetti? Se il Signore si era presa
Quarinta -- la migliore, la più buona delle figlie! -- voleva dire che
destinava tutto per lei, Rosa: palazzo, terre, giardini! Era dunque
d'accordo con la scellerata, e col villano, per riempire la pancia a
loro con tutte le sostanze dei Cuti? Era dunque d'accordo?

Rosa, che aveva preso il nome di suor Veronica, non rispondeva niente; e
usciva di casa per la messa o pel vespro, e andava a raccomandarla al
Signore, o a raccontare tutto al confessore e a pregarlo di parlare lui
con la madre perchè la lasciasse tranquilla.

Donna Mita lo interruppe prima che finisse di spiegarle il motivo della
sua visita:

-- Di che vi mescolate, signor canonico? Vorreste forse papparvi voi le
duemila onze? Già, finchè campo, l'usufrutto è mio; e non sono disposta
a morir presto. E poi bisogna levar via la mia dote e quel che mi spetta
per successione, articolo 753... E disporrò della roba mia come mi pare
e piace; la darò ai poveri, al diavolo anche, ma non alla scellerata!

Urlava, gesticolava come un'ossessa, sciatta e mal vestita, quasi se non
avesse vinto le liti. Il povero canonico era andato via balbettando
scuse.

Scena peggiore accadde la mattina che il notaio Crisanti, notaio di
famiglia, venne a farle l'imbasciata che Rita e suo marito volevano
venire a baciarle la mano e chiederle perdono del mal fatto:

-- Ormai, cara donna Mita!

-- Oramai un corno!

-- Anche perchè voi avete bisogno di un braccio pratico delle cose di
campagna!

No, non aveva bisogno di nessuno! Dopo aver fatto dieci anni la
litigante, ora si metteva a fare la massaia meglio dell'assassino che le
aveva rubato la figlia! Non gli dava altro nome a massaio Cudduzzu.

Infatti, ella andava in campagna a sorvegliare i contadini, nel tempo
delle messi, con un cappellaccio di paglia, tra i seminati, dietro i
mietitori; durante la trebbia, per l'aia notte e giorno, come un
campaio, perchè quei ladri dei contadini non le rubassero il grano; in
novembre, sotto gli ulivi, tra le donne che raccoglievano le ulive
bacchiate, risparmiando una coglitrice, facendo per due; o nel frantoio,
quando cavavano l'olio. Oggi qua, domani là, a cavallo della mula
morella, piombando addosso ai contadini quando meno se l'aspettavano,
facendo miglia e miglia sotto la sferza del sole, per valli e pianure,
come una tregghia che va scavizzolando tirata dai buoi; e per ciò i
contadini le avevano appiccicato il nomignolo di donna _Stràula_, che
significava la stessa cosa e le stava a cappello.

Ma una sera, tornando dal giardino di aranci, dove aveva intascato
cinquecento lire dagli aranciai messinesi venuti a incassare la
produzione, aveva trovato in casa Rita e Cudduzzu che le si buttarono ai
piedi.

Si sentì vinta, tutt'a un tratto. Era la volontà di Dio! Brontolò, però,
ripetè cento volte che la padrona assoluta era lei, e citò solennemente
l'articolo 753 del codice civile.

Una settimana dopo, massaio Cudduzzu cavalcava allato di lei, per
accompagnarla in campagna come un garzone, rispondendo sempre
dimessamente: Eccellenza, sì; Eccellenza, no! Era il meno che potesse
fare, dopo di essersi imparentato per violenza, per tranello, con la
nobilissima famiglia Cuti.

Donna Mita, lo trattava d'alto in basso, per fargli intendere che non
era diventato con questo un _galantuomo_, e che c'era una bella distanza
fra lei e lui, quantunque suo genero. Gli teneva broncio specialmente
perchè, dopo tre anni, non era riuscito ad avere un figliuolo. Non
sarebbe stato un Cuti -- ahimè, pur troppo, no! -- ma un po' del sangue
dei Cuti, insomma, la avrebbe avuto nelle vene, giacchè il Signore aveva
voluto così!

-- Che fate dunque, se non fate un figliuolo? -- gli diceva spesso.

E massaio Cudduzzu una volta le rispose:

-- Ah, voscenza, se sapesse con che buona volontà...!

Donna Mita gli avea rotto la frase tra le labbra:

-- Non dite porcherie, villano che siete!

E siccome un giorno, lagnandosi con suor Veronica di quel figliuolo di
Cudduzzu che non veniva al mondo, e tornando ad assalirla perchè si
decidesse finalmente a prender marito lei, che era ancora in tempo, suor
Veronica le aveva detto: -- Gesù Cristo vuole così; sia fatta la sua
santa volontà! -- Donna Mita perdette la pazienza:

-- Gesù Cristo! Gesù Cristo! Qualche volta nemmeno lui sa quel che fa!...
M'è scappata!



Zi' Gamella


Dopo il quarantotto, s'era lasciato crescere la barba come protesta
contro i Borboni. A lui la polizia non dava noia perchè lo sapeva
innocuo, quantunque fosse andato ad arruolarsi nel battaglione dei Corsi
e avesse combattuto contro gli svizzeri nell'assalto di Catania.
Soltanto una volta quel capo birro di don Giovanni lo aveva afferrato
pel mento e tra minaccioso e irrisorio, gli aveva detto:

-- Questi peli, compare Croce, questi peli!...

-- Se avessi due grani mi farei radere, -- aveva egli risposto
tranquillamente, soggiungendo in cuor suo: -- Ti raderò io birraccio,
quando faremo l'altra rivoluzione; voglio succhiarmi il tuo sangue!

Pensava giorno e notte a quest'altra rivoluzione, ma non ne parlava mai
con nessuno. E la rivoluzione, per lui, consisteva tutta nell'abolizione
del macinato e del colèra. Che il colèra fosse buttato dai birri, per
ordine di Ferdinando II, egli lo credeva più del vangelo; e gli pareva
una grande scelleratezza avvelenare tanti cristiani battezzati per
diradare la popolazione e così impedire le rivolte! Perchè, Sua Maestà
non aboliva il macinato?

Invece ora aveva scatenato addosso alla povera gente quei mastini dei
pesatori, affinchè non sfugisse al dazio neppure un pugno di grano!

Si doveva dunque crepar di fame? O aspettare di essere mietuti dal
colèra?

Per ciò in un momento di entusiasmo, nel quarantotto, s'era lasciato
trascinare ad arruolarsi, il giorno della partenza di una decina di
giovanotti con a capo don Pietro il capitano, venuto a posta per far
reclute.

Vistili scendere dal poggio, cantando a squarciagola, gridando: -- Viva
Pio IX! Viva la costituzione! -- si era avvicinato al viottolo per
curiosità, interrompendo il solco nel terreno che arava dall'alba per
conto del padrone, e seguito dal pecoro addestrato ad andargli dietro
come un cagnolino.

-- Vieni anche tu, -- gli gridò il capitano -- se poi non vuoi morire di
colèra!

E lo zi' Croce, che allora aveva trent'anni, non se lo fece dire due
volte.

-- Aspettate; torno subito, -- rispose.

E corse alla casetta lassù, dove sua moglie preparava una buona minestra
di fave sul focolare posticcio, davanti la porta.

-- Ti raccomando il pecoro!

-- Perchè?

-- Vado soldato.

La poveretta si mise a strillare e a piangere, e gli corse dietro per la
china, insieme col pecoro che le ruzzava tra le gambe e le impediva i
passi. E lo seguì fino a Catania, strappandosi i capelli, credendolo
ammattito tutt'a un tratto, scongiurando il capitano di non portarle via
il marito per condurlo al macello.

-- E noi, al macello non andiamo pure noi?

Ma degli altri non le importava; e bisognò proprio farle violenza,
davanti la caserma, e strapparla d'addosso allo zi' Croce, che ormai,
data la sua parola, non voleva recedere.

-- Ti raccomando il pecoro!

Non aveva aggiunto altro, quando era ricomparso nel portone della
caserma infagottato nei pantaloni militari e nel cappotto, col cinturino
di cuoio, con la daga al fianco e il chepì troppo largo che gli scendeva
su gli occhi.

La vita di soldato, nel battaglione detto dei Corsi, non gli era parsa
cattiva. Per lui abituato ai lavori campestri, quelle poche ore
d'esercizi riuscivano un divertimento, non una fatica; e il rancio aveva
miglior gusto delle fave e dell'erbe selvatiche, lessate e condite con
un po' di sale e d'olio, ch'egli mangiava a casa sua. Non bazzicando per
le taverne, come quasi tutti i compagni, non fumando, non correndo
dietro a le donnacce, e facendo il suo dovere di sentinella quando gli
toccava, la paga settimanale egli poteva metterla intera da parte.

Durante le lunghe ore d'ozio, si sdraiava al sole nel cortile della
caserma e fantasticava della moglie, poverina, a cui i pochi tarì,
ch'egli le mandava di tanto in tanto, dovevano arrivare come un
refrigerio alle anime sante del purgatorio; e fantasticava del pecoro,
che doveva correre di qua e di là per la campagna, chiamandolo invano
coi belati, povero pecoro!

E ogni volta che ricorreva dal caporale perchè gli scrivesse una lettera
per la moglie, il caporale lo canzonava:

-- Debbo mettere: Ti raccomando il pecoro?

-- Eccellenza, sì.

Gli dava dell'eccellenza, com'egli usava con le persone da più di lui,
quantunque il capitano lo avesse sgridato:

-- Stupido, l'eccellenza è abolito! Si dice: Sì, caporale.

Sarebbe stato felice senza quella forca d'Ingo, il leprino, suo
compaesano, che gli stava sempre attorno:

-- Prestatemi quattro grani, zi' Croce; prestatemi un carlino, un tarì!

Diceva: prestatemi, ma non rendeva mai.

-- E della vostra paga che ne fate? -- rispondeva lo zi' Croce.

-- Non mi basta neppure per la pipa! Intanto voi ci avete la tacca.

Che valeva che lo zi' Croce ci avesse la tacca, dove segnava di mano in
mano i tarì, poichè non sapeva scrivere, se il leprino si fumava e si
beveva la paga sua e quella di lui? Ma per non sentirlo bestemmiare
peggio d'un turco, spesso egli veniva a patti:

-- Vi do cinque grani; non ho altro.

-- Gli altri cinque me li darete domani, per fare il carlino.

Quasi glieli dovesse! Ed era inutile nasconderli in seno, avvolti in uno
straccio di pezzuola. Se lo zi' Croce teneva un po' duro, giurando anche
che non aveva neppure un grano, quel leprinaccio lo frugava tutto,
bestemmiando Dio, la Madonna, i Santi del Paradiso:

-- Tanto, se gli svizzeri ci ammazzano, se li prenderanno loro, zi'
Pecoro!

Soleva chiamarlo così.

In caserma già si parlava degli svizzeri del Borbone che stavano per
sbarcare a Messina. Le cose si mettevano male: ordini e contr'ordini,
marce di notte su per la Montagna, allarmi.

Lo zi' Croce si raccomandava a Dio e a Santa Agrippina, patrona del suo
paese; e ripuliva il fucile e contava le cartucce che gli avevano
consegnato.

-- Ora si balla, zi' Pecoro! Messina è presa! -- gli disse Ingo una
mattina -- E per strappargli più facilmente qualche tarì, aggiunse: --
Nella mischia, tenetevi sempre accanto a me, caso mai!

E si ballò davvero, da lì a qualche giorno, prima tra i boschi
dell'Etna, poi al Tondo del Gioieni, con quei diavoli scatenati degli
svizzeri che bruciavano le case come niente fosse, rompendo contro i
muri certe bottiglie piene di un liquido che prendeva subito fuoco. Il
povero zi' Croce aveva sparato una diecina di colpi, appostato a una
cantonata delle prime case di Catania, lassù. E tra una fucilata e
l'altra, si era raccomandata l'anima, atterrito degli svizzeri che non
avevano paura di morire perchè -- gli avevano detto così -- erano sicuri
di rinascere subito al loro paese, e non credevano nè in Dio nè nella
Madonna.

-- Zi' Pecoro, fuoco! -- gli urlava il leprino, che tirava come un
demonio.

-- Sant'Agrippina!

E lo zi' Pecoro sparava senza saper dove, tra il fumo, abbassando la
testa a ogni fischio di palla.

Ed ecco, dai fianchi, cannonate, fucilate! E uno sbandarsi improvviso:
gente che scappa quasi impazzita, urli, bestemmie, uomini che cadono
come mosche, e il leprino, sanguinante, che grida:

-- Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate!

Essere scampati vivi da quell'inferno gli era parso un miracolo.

-- Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate!

Il leprino aveva una palla nella coscia; e lo zi' Croce ora lo reggeva
col braccio, ora lo prendeva su le spalle: così si erano trovati alla
riva del Fiume Grande, tra una gran calca di fuggiaschi, con un immane
ingombro di carri, di carrozze, di animali, e uomini, donne, vecchi,
fanciulli, d'ogni condizione, tutti col terrore del massacro nel viso,
tutti con gli occhi rivolti verso Catania che bruciava e fumava
sinistramente nella notte serena, lontano, quasi l'Etna, squarciati i
suoi fianchi, riversasse sulla città fiumi di lava.

                                  *
                                 * *

Quell'angosciosa nottata egli non l'aveva dimenticata più; il riverbero
di quegli incendii gli era rimasto davanti agli occhi, e negli orecchi i
pianti e le grida dei fuggiaschi che si spingevano, si urtavano per
passare i primi nella barca di tragitto e mettere almeno l'acqua del
fiume tra loro e gli svizzeri creduti alle spalle.

E la rivoluzione era finita.

Il Borbone era ritornato e con esso il macinato; e sarebbe tornato anche
il colèra, quantunque ci fosse stato indulto per tutti.

Rassegnato alla volontà di Dio, lo zi' Croce, ripreso l'aratro e la
zappa, aveva pure comprato un agnello, poichè sua moglie aveva già
dovuto vendere il pecoro per non morire di fame. E tornava di rado in
città, pur di non vedere quei brutti ceffi dei birri che si credevano
tanti Ferdinandi Secondi, e non rispettavano nessuno.

Infatti don Pietro, il capitano, se ne stava chiuso in casa sua,
prigioniero volontario, e passeggiava su e giù per la terrazza a testa
bassa, con le braccia dietro la schiena, raso, senza un pelo su la
faccia, perchè la polizia gli aveva imposto così. Lo zi' Croce però, in
campagna, s'era lasciato crescere la barba; i birri dovevano venire fin
là e condurre con loro il barbiere, se avevano paura dei peli di lui!
Intanto, le poche volte che egli si era avventurato in città, l'aveva
passata liscia.

La rivoluzione era finita da un pezzo, non se ne fiatava nemmeno; ma la
testa dello zi' Croce lavorava, lavorava, componendo certe poesie, con
versi o troppo lunghi o troppo corti, e immagini così oscure che non ne
avrebbe cavato il senso egli stesso: sempre un'aquila forte che sfidava
il leone; sempre draghi e serpenti, seguiti da fulmini e da tempeste,
finchè non arrivava, all'ultimo, Santa Agrippina, con in pugno la croce
e il braccio levato in alto per disperdere i saraceni, come nel gran
quadro dipinto su la volta della bella chiesa della santa:

    _Santa Irpina ccu la cruci in manu,_
    _La negghia si squagghiau e piriu lu saracinu!_

La nebbia si sciolse, e il saraceno perì! Quel saraceno, si capiva,
significava il Borbone.

E canticchiava le sue canzoni, con voce stonata, facendo tornare i versi
sbagliati con la scorta della melodia, mangiandosi mezze le sillabe,
intanto che _scatenava_ il terreno sodo a colpi di zappa, o reggeva con
una mano l'aratro e coll'altra il pugnolo per aizzare i buoi lenti,
nella lieta solitudine della campagna.

-- Zi' Croce, che cantate? -- gli domandavano i vicini.

-- Canzoni di sdegno.

E per lui erano tali davvero.

Gli anni passavano senza novità, ma egli sperava sempre. Le domeniche,
tornando al paese per la santa messa, andava a sedersi sul muricciuolo
del viale fuori Porta, di faccia alla terrazza dove don Pietro
passeggiava su e giù con la testa bassa e le mani dietro la schiena, ma
ora con tanto di barba perchè la polizia non badava più ai peli. Ed egli
guardava quel volontario prigioniero, aspettando che gli facesse un
cenno di saluto, nient'altro; cenno che lo zi' Croce interpretava a modo
suo, perchè don Pietro, il capitano, rappresentava agli occhi di lui la
rivoluzione in persona.

-- Quello lì, sì, quello solo era un uomo!

E dopo di essere stato un paio d'ore a guardarlo andare su e giù, con la
testa bassa e le mani dietro la schiena, egli tornava in campagna
consolato, col cuore riboccante di speranza, quasi che con quel cenno di
saluto don Pietro gli avesse assicurato: -- La rivoluzione? Domani.

Dal colèra del cinquantacinque egli era scampato per caso. I birri erano
venuti, nella notte, a spargergli la maledetta polvere bianca davanti la
porta di casa. Ma dal letto, egli aveva uditi i loro passi cautelosi e
aveva udito borbottare non so che parole. Chi poteva andare attorno a
quell'ora, all'infuori dei birri che avevano il contraveleno? E aveva
svegliato sua moglie:

-- Rosa, Rosa, hai sentito! Buttano il colèra!

-- Ah, Vergine santissima!

-- Zitta! Sapevano che dovevo andare, all'alba, in campagna.

E il giorno dopo raccontava il caso ai vicini, che ascoltavano
spaventati. Aveva visto i birri dal buco della serratura, dove era
incollato un vetro per impedire l'accesso all'aria infetta e poter
spiare: e aveva visto la polverina bianca bianca, che gl'infami
spargevano con un soffietto, imbavagliati fino agli occhi per non
prendere essi il veleno. E raccontando, credeva proprio di aver visto i
birri imbavagliati e la polvere bianca bianca e il soffietto. Pruff!
Pruff! Due sbruffettini! E se, per disgrazia, egli avesse posto il piede
fuori la soglia prima del levarsi del sole, a quell'ora già sarebbe
stato laggiù, nel carnaio dei Cappuccini! Gli veniva la pelle d'oca.

Ma dunque non ci pensavano più alla rivoluzione?

E una sera, molto tardi, andò picchiare alla porta di don Pietro.

-- Capitate a proposito!

Don Pietro lo condusse in uno stanzino, in fondo in fondo. Ci si vedeva
appena con quel lumicino.

-- Questa lettera, in Catania, al tal dei tali. Mi fido soltanto di voi.
Lo troverete nella farmacia Borello. Direte queste precise parole: Mi
manda vostro compare. Avete capito?

-- Mi manda vostro compare.

Non chiese spiegazioni; andò, portò la risposta: ripartì, ritornò. E una
sera finalmente, don Pietro gli confidò:

-- Quelli del Comitato Segreto sono di là.

Lo zi' Croce si prese tra il police e l'indice le labbra e le tenne
strette un momento; voleva dire: Silenzio di tomba!

E riprese a cantare le sue strambe canzoni.

-- Zi' Croce, che cantate?

-- Canzoni di amore!

E bisognava vederlo la mattina che il Comitato affissò il gran proclama
della rivoluzione accanto al quale lo zi' Croce si appostò col fucile in
ispalla, come quando aveva fatto da sentinella davanti la caserma del
battaglione dei Corsi, nel quarantotto, a Catania.

-- Chi ruba, fucilato! -- egli ripeteva ai contadini che stavano a
guardare diffidenti e balordi. -- È scritto qui, se non sapete leggere.

E stiè in sentinella fino a tardi, serio serio, impettito, quasi la
rivoluzione l'avesse fatta lui. E non pensava più ai birri che gli
avevano buttato la polverina bianca bianca davanti a la porta di casa;
anzi, la mattina che don Pietro e gli altri del Comitato condussero in
piazza quei poveri birri, smorti e tremanti, per dire al popolo: -- Chi
gli torce un capello, va fucilato; -- lo zi' Croce si sentì intenerire,
ed esclamò:

-- Poveretti! Erano comandati. Che potevano fare?

E partì di nuovo per arruolarsi con Garibaldi, e di nuovo disse alla
moglie:

-- Ti raccomando il pecoro!

Questa volta sua moglie non strillò, lo lasciò andare, rimpiangendo il
bel fazzoletto di seta rosso che zi' Croce si era annodato al collo, col
pizzo dietro, da vero garibaldino. Brontolò soltanto:

-- Ora siete quasi vecchio; che andate a fare?

Infatti, dagli stenti e dal lavoro, egli pareva più vecchio che non
fosse, bruciato dal sole, tutte rughe e coi capelli brizzolati.

Era capitato a Messina il giorno dell'entrata di Garibaldi, dopo la
battaglia di Milazzo; e si era inginocchiato, a capo scoperto, come
davanti al santissimo Sacramento, mentre il generale passava a cavallo
col gran mantello bianco su la camicia rossa, bello e biondo, tutto Gesù
Cristo. E non aveva potuto frenare le lagrime di commozione che gli
velavano gli occhi.

Ma anche lì, in caserma, c'era con lui quel maledetto leprino dell'Ingo
che non lo lasciava tranquillo:

-- Prestatemi due palanche, zi' Pecoro!

Tornava a chiamarlo così, insistente, importuno, insaziabile; oggi due,
domani quattro palanche, quasi egli fosse stato il cassiere di lui, che
poi andava a ubbriacarsi per le taverne dei vicoli e avrebbe voluto
trascinarlo con sè.

E diè oggi due, domani quattro palanche, finchè un giorno non gli vide
commettere un sacrilegio che lo fece inorridire.

Il leprino lo aveva fermato davanti una bettola:

-- Datemi due soldi; mi son giocato il rancio e l'ho perduto; due soldi
perchè mi comperi un panino. Non ci veggo dalla fame.

-- Due soldi di pane, sì; ma niente vino.

-- E un soldo di formaggio!

-- No!

-- Allora il mio companatico sarà questo!

E lo scomunicato, che aveva già spaccato in due la pagnottella uscita
allora allora dal forno, strappato, bestemmiando, il Gesù bambino di
cera appeso al muro sul banco, e schiacciatolo tra le due fette, s'era
messo ad addentare la pagnotta fumante da cui colava la cera sciolta.

Da quel giorno, lo zi' Croce non aveva più dato un soldo al leprino.

                                  *
                                 * *

Nuovo re, nuova legge. Questa volta lo zi' Croce era tornato a casa
senza aver veduto neppure da lontano il fumo delle fucilate. Aveva preso
le febbri tra i pantani del Faro, e Garibaldi era partito lasciandolo
all'ospedale, quasi moribondo.

Nuovo re, nuova legge. Per lui però il vero re non era Vittorio
Emanuele, ma Garibaldi, anzi San Garibaldi come egli lo chiamava,
scoprendosi il capo quando gli capitava di nominarlo. E andava a
lavorare in camicia rossa, con la gamella a tracolla per la minestra di
fave di cicoria: e per ciò gli altri contadini lo chiamavano Zi'
Gamella.

Egli ci teneva a questo nomignolo. Loro erano rimasti a casa, quando
egli, vecchio e acciaccato, era accorso al richiamo di San Garibaldi. E
n'era stato compensato: aveva visto con quei suoi occhi, da vicino, il
generale col gran mantello bianco su la camicia rossa; poteva morire
contento.

Voleva pure un po' di bene a Vittorio Emanuele; tanto, che invece della
barba intera, ora portava baffi e pizzo come lui, solo fra i contadini
tutti sbarbati. Ma tra Vittorio -- egli lo chiamava famigliarmente così --
tra Vittorio e Garibaldi, oh, ci correva! E il giorno di San Giuseppe,
lo zi' Gamella -- se lo diceva da sè con un senso di orgoglio -- non
voleva mancare a far da sentinella al ritratto del generale, appeso
sotto al baldacchino e con le torce accese torno torno, mentre la banda
musicale suonava l'inno.

-- Viva San Garibaldi!

E qualcuno, irridendolo, gli rispondeva:

-- Viva lo zi' Gamella!

Anche sua moglie gli diceva:

-- Non dite così; è peccato! Andate a confessarvi piuttosto, ora che
s'avvicina la Santa Pasqua.

Andò a confessarsi parecchi anni dopo, già malandato, curvo, coi reumi
alle gambe, che gli rodevano le osse.

-- Non posso assolvervi, -- gli disse brusco brusco il confessore.

-- Perchè?

-- Avete spogliato il Santo Padre!

-- Se non lo conosco neppur di vista!

E aveva dovuto andarsene senza assoluzione, perchè non aveva voluto
rinnegare Garibaldi e Vittorio Emanuele.

Aveva spogliato il Santo Padre, lui, lui che non lo conosceva neppur di
vista?

Non sapeva capacitarsene, stupito e nello stesso tempo spaventato di
quell'accusa.

-- Senza assoluzione e senza il santo precetto? Doveva morire come un
ebreo dunque, lui che era stato sempre un buon cristiano?

Ma una sera, entrato nella chiesa della Mercede per la benedizione, vide
in un angolo il canonico Bellinello che spacciava in fretta e furia i
_galantuomini_ accorsi a confessarsi da lui.

Inginocchiato a pochi passi di distanza, lo sentiva brontolare: Avanti!
Avanti! e poi gli vedeva alzare la mano e fare il segno
dell'assoluzione.

-- Come? -- pensava lo zi' Gamella, dando un'occhiata in giro: -- quello lì
è un marcio usuraio, ed è stato assolto! Quell'altro se la dice con la
nipote che tiene in casa e dà scandalo a tutti; ed ecco assolto anche
lui..... Ed io, che non conosco il Santo Padre neppur di vista, io non
posso essere assolto, col pretesto che l'ho spogliato! Ma di che l'ho
spogliato?

E buttatosi a piè del canonico, cominciò da capo la sua confessione.

-- Avanti! Avanti!

Quel prete non gli dava tempo di raccapezzarsi. All'ultimo, lo zi'
Gamella, esitante, raccontò il caso occorsogli:

-- Avanti! -- brontolò il canonico, tirando su una presa di tabacco. -- Il
poter temporale, figlio mio? Quistione di pagnotta. Avanti! Questione di
pagnotta! _Ego te absolvo in nomine_.....

E gli trinciò sul capo l'assoluzione.



LA CASA NUOVA


Da qualche tempo in qua le passeggiate estive del notaio Barreca col
dottor Ballocco non erano più assolutamente silenziose come da
tant'anni.

Da anni ed anni, ogni giorno, ad ora fissa, verso le cinque pomeridiane,
il notaio deponeva la penna, chiudeva nell'armadio atti, registri,
minute, staccava dal chiodo infisso al muro la tuba, prendeva
dall'angolo dell'anticamera, dove l'avea riposta entrando, la sua mazza
di sorbo; e, scesi cautamente gli scalini sbocconcellati del suo studio
notarile, si fermava su la soglia della porta, col pomo della mazza
sotto il mento, zufolando sommessamente in attesa dell'amico dottor
Ballocco. Poco dopo, puntualissimo, il dottore appariva dalla Via della
Spera, lungo lungo, magro magro, camminando come un palo che stenti a
reggersi ritto, dando una spallata a destra ed una a sinistra, quasi non
potesse altrimenti mettere in moto le gambe sottili. Allora il notaio si
staccava dalla soglia avviandosi; il dottore gli veniva incontro; e,
messisi l'uno a fianco dell'altro, senza salutarsi, senza scambiare una
sola parola -- il notaio continuando a zufolare sommessamente la sua aria
favorita, il dottore dondolandosi su le gambe sottili -- partivano per la
loro passeggiata fuori le mura, quasi fossero state due persone che
andavano assieme per caso, senza badarsi, sovrappensiero, ognuna pei
fatti suoi.

Usciti fuori Porta Vecchia, infilavano il gran viale alberato a passi
gravi e lenti, come si addiceva a persone serie e che non avevano
fretta, il notaio non smettendo un istante il suo monotono zufolìo, il
dottore svagandosi a buttar di lato, con la punta della sua canna
d'India, i sassolini e gli sterpi che gli capitavano tra i piedi; e così
percorrevano tutto lo stradone, girando torno torno il paese, fino ai
forni di mattoni fumiganti laggiù, sotto la spianata, che pareva una
terrazza fatta a posta per godervi comodamente la vista dell'immenso e
incantevole paesaggio.

Ma nè il notaio nè il dottore si curavano mai di dargli un'occhiata;
anzi gli voltavano le spalle, sedendosi sul muricciolo, l'uno
continuando il sommesso monotono zufolìo -- fìchiti-fon! fìchiti-fon! --
l'altro armeggiando coi sassolini e gli sterpi o tracciando linee e
ghirigori sul suolo polveroso, fino al momento che scattavano, tutti e
due, quasi spinti da una molla. E tornavano addietro, a passi gravi e
lenti, rifacendo la strada allo stesso modo, ripassando sotto gli alberi
del gran viale, rientrando per la Porta Vecchia; e, arrivati al posto
dove si erano incontrati un'ora avanti, si staccavano l'uno dall'altro,
senza scambiarsi una parola, senza farsi un cenno di saluto; il notaio,
per andar a chiudere le finestre e la porta del suo studio e licenziare
lo scrivano che l'attendeva; il dottore, per risalire la via della Spera
e mettersi a sedere nella farmacia dello Storto, come chiamavano il
farmacista, perchè aveva una gamba un po' storta e zoppicava.

Nei giorni di pioggia, assai rari, il notaio ed il dottor Ballocco
sembravano due anime in pena, coi nasi all'aria sotto gli ombrelli,
davanti a la porta dello studio notarile. Il notaio scendeva giù, quasi
non si fosse accorto che pioveva, e stava ad aspettare il dottor
Ballocco, che non tardava a spuntare dalla cantonata, con l'ombrello
aperto, col solito passo, quasi non si fosse accorto della pioggia
nemmeno lui. E tutti e due si fermavano accosto al muro, spiando il
cielo, lanciando occhiatacce alle nuvole, scotendo la testa contro il
cattivo tempo, che avrebbe potuto attendere almeno un'altra ora prima di
rovesciarsi giù e guastargli la passeggiata!

Non dicevano una parola; s'intendevano con gli sguardi, con cenni del
capo: -- Spiove! -- Non spiove! -- Spiove! -- E occhiatacce al cielo, e
spallucciate d'indignazione contro la pioggia che non smetteva e
minacciava di inzupparli. -- Spiove! -- Non spiove! -- Spiove! -- Poi,
tutt'ad un tratto, il notaio chiudeva l'ombrello e si ficcava dentro la
porta dello studio notarile; e il dottor Ballocco si spiccava dal muro e
andava via, balenando, quasi la pioggia gli avesse rammollite le gambe.
Nè una parola, nè un saluto, come nelle passeggiate.

Da qualche tempo in qua però le loro passeggiate non erano più
assolutamente silenziose. Arrivato a un punto dello stradone, una sera,
il notaio si era fermato per guardare in alto verso il ciglione a
destra; e, dopo una muta contemplazione di qualche minuto (il dottore si
era fermato pure lui, messo in curiosità dall'insolito caso) aveva
esclamato con un sospiro:

-- Ecco quel che mi ci vorrebbe!

-- Che cosa? -- avea domandato il dottore.

-- Quella rovina lì, quelle quattro mura crollanti, quello spazio!

-- Per che fare?

-- Per fabbricarmi una casa. Nella mia già stiamo come tante sardelle nel
barile!

-- Sfido io! Con una moglie come quella!...

Ed il dottore, pronunciate queste parole con tutta la più acre sua
ironia di scapolo impenitente, aveva ripreso la passeggiata, senza
curarsi di vedere se l'amico lo seguiva.

Alludeva alla straordinaria prolificità della signora Barreca, che tre
volte di seguito avea fatto al marito il bel regalo di due figliuole
alla volta, dopo altre due regalategli prima; e quando ella usciva di
casa, pareva la chioccia coi pulcini, con quelle otto ragazze a canne
d'organo, da Lisa, la maggiore, spilungona di quindici anni, a Rosina
che avea tre anni ed era alta quanto una forma di cacio.

Il dottore non sapeva perdonare al suo amico la corbelleria di aver
preso moglie passata la quarantina.

All'annunzio del primo parto gemello, si era messo a ridere
compassionevolmente, crollando la testa. All'annunzio del secondo, era
balzato, guardando in faccia il povero notaio che si grattava la nuca
imbarazzatissimo. Al terzo, prima era scoppiato a ridere
sgangheratamente, poi, con un grande sdegno negli occhi, lo aveva
sgridato:

-- Ma che diavolo! Sei ammattito?

Quasi il povero notaio ci avesse colpa lui.

Certamente era stata una corbelleria prender moglie a quarantadue anni e
prenderla così giovane, che avrebbe potuto essergli piuttosto figlia. Ma
la ragazza aveva una buona dote; ma egli era rimasto solo al mondo e gli
affari gli andavano a gonfie vele. Aveva calcolato che due, tre figli
non sarebbero stati troppi, e si era lasciato lusingare dalla dolce
prospettiva di avere una famigliuola e morire circondato da persone che
gli avrebbero dovuto voler bene. Invece!... Troppa grazia, Sant'Antonio!
come diceva quello. Otto ragazze, e non un solo maschio per far vivere
il nome dei Barreca, che si sarebbe estinto con lui, ultimo rampollo di
una lunga progenie di avvocati, di canonici e di notai.

Egli perciò portava rancore alla moglie; e ad ogni nuova gravidanza di
lei diventava cupo, intrattabile, sfogando anche in casa il suo malumore
con quel sommesso zufolìo -- fìchiti-fon! fìchiti-fon! -- che voleva
significare: Vediamo se anche questa volta!... -- Ormai non sperava più
che colei smettesse il vizio, come egli soleva dire, di far due
figliuole a ogni parto.

Per fortuna gli affari prosperavano tuttavia; e un lontano parente della
moglie era morto, lasciandole in eredità una bella sostanza.

Ma in quella casa, portatagli in dote da donna Rita, tutto quel popolo
di ragazze non si poteva più raggirare. Le stanze sembravano camere da
ospedale con due, tre letti ognuna, secondo lo spazio. Per ricevere
qualche cliente che veniva a trovarlo di buon'ora, il notaio avea dovuto
rannicchiare un tavolino e due seggiole in un bugigattolo che serviva da
salotto e da anticamera.

La casa dei Barreca, comoda ed ampia, era toccata al fratello maggiore,
morto lasciando un figlio che gli era andato dietro, l'anno dopo,
nell'altro mondo. La vedova, che aveva ereditato, si era subito
rimaritata; e la casa era passata, con gran cordoglio del notaio, in
mano di un avvocato suo avversario nelle elezioni municipali, il quale
forse aveva sposato la vedova soltanto per fargli un dispetto.

Così ora si trovavano, in quella ristretta casa dotale, moglie,
figliuole e lui, pigiati come tante sardelle nel barile, secondo la sua
espressione. Si sentivano mancar l'aria.

Le finestre di quattro stanze davano in un cortile ingombro di macerie,
appartenente a un vicino che non voleva farlo mai ripulire.

Un solo terrazzino su la via; e la signora Barreca aveva pensato
d'ingombrarlo talmente di vasi di basilico, prezzemolo e menta, utili
erbette per la cucina, che vi si poteva affacciare uno per volta; e poi
era quasi proprietà assoluta delle bambine minori, che non avevano posto
migliore per farvi i loro giuochi infantili un po' all'aria aperta.

È vero che il notaio stava pochissimo in casa, ma in quelle poche ore
del pranzo e della cena, vedendosi sempre davanti e dattorno le otto
figliuole che crescevano a vista d'occhio, e che fra qualche anno
avrebbero voluto un po' più di luce e d'aria per non morire di anemia,
sentiva una sorda irritazione contro sè stesso e contro tutti; e per un
nonnulla montava in bestia, urlava, dava scapaccioni alle figliuole,
trattava male fino i clienti se non si capacitavano, di primo acchito,
delle ragioni e dei consigli da lui dati per menare a buon porto un
negozio.

Ormai l'idea di trovare un'altra casa da affittare da comprare era
divenuta, a poco a poco, una fissazione per lui. Ma non era come dirlo!
Chi aveva una bella casa, in quel suo paesetto, se la teneva per sè;
v'era nato e voleva morirvi; e in quanto ad affittare, si trattava di
catapecchie per contadini soltanto.

Fabbricarsela! Non c'era altro verso. Fabbricarsela di sana pianta,
spaziosa e pulita..... Un convento!..... Non ci voleva meno di un
convento per tutti loro! Fabbricarsela, o pure avere la virtù miracolosa
di S. Francesco di Paola che, tira, tira, lui da un capo ed il falegname
dall'altro, aveva allungato fino alla giusta misura una trave troppo
corta pel tetto della chiesa in costruzione. Ah! Allora il notaio si
sarebbe appoggiato con le spalle a uno dei muri della casa, e, ponza,
ponza, l'avrebbe allargata quanto occorreva, in modo da potervi stare
comodamente anche con una dozzina di figliuoli! E così fantasticando,
una volta gli era accaduto di appoggiare le spalle al muro e puntare i
piedi al suolo e far forza, quasi San Francesco di Paola avesse dovuto
comunicargli la sua virtù miracolosa.

Avea tastato qua e là, questa e quella persona, e incaricato un certo
faccendiere; avea promesso mance a parecchi se gli trovavano una casa da
comprare o da affittare: niente! Alla fine uno gli aveva suggerito:

-- Perchè non comprate i casalini del palazzo Collotta?

-- Il barone non li vuol vendere.

-- Chi ve l'ha detto?

-- Il suo procuratore.

-- È un mascalzone; lo dice per farvi dispiacere.

-- Dispiacere a me? Che gli ho fatto?

-- Non so.

-- Ma bisogna buttar giù tutto e cominciare dalle fondamenta!

-- I quattrini li avete; metteteli fuori.

Entratagli questa pulce nell'orecchio, aveva scritto direttamente al
barone in Palermo ed attendeva la risposta. E per ciò quella volta si
era insolitamente fermato a guardare i casalini sul ciglione, a destra
della passeggiata; e ripeteva l'atto ogni sera, interrompendo lo
zufolìo, ripetendo, con gran dispetto del dottore:

-- Ecco quel che mi ci vorrebbe!

Il dottore alzava le spalle, non si fermava neppure, e con la punta
della sua mazza colpiva sassi e sterpoli, mandandoli da questa o da
quella parte dello stradone, rabbiosamente.

-- Commetterai una seconda corbelleria, più grossa di quella di prender
moglie! -- profetizzò una sera all'amico.

-- Che debbo fare dunque? -- rispose il notaio stizzito.

-- Crepare là dove stai. Tanto, siamo vecchi. Non te ne accorgi?

                                  *
                                 * *

Un mese dopo, una mattina, di buon'ora, ecco uscire di casa del notaio
la chioccia coi pulcini, e lui dietro; andavano a vedere il posto della
casa nuova, come già la chiamavano.

Uno sfacelo. Muri crollati o crollanti; scale rimaste per aria,
pavimenti sfondati; e, tra le macerie, erbacce parassite e ortiche alte
così, che parevano alberelli. Donna Rita non sapeva dove mettere i
piedi, atterrita di vedere le bambine sguinzagliate sotto gli archi, su
i mucchi di pietre e calcinaccio, col pericolo di rompersi il collo. Il
notaio gongolava, zufolando allegramente il suo eterno fìchiti-fon!
fìchiti-fon! che ora significava: Finalmente ci son riuscito! Egli non
badava alle bambine, non si curava degli strilli delle due minori che
avevano abbrancato le ortiche e si sentivano frizzare le mani quasi
avessero toccato carboni roventi. Eretto sur un grosso pezzo d'intaglio
rimasto ritto come un cippo funerario in mezzo alle macerie, trinciava
con la sua mazza di sorbo fantastiche linee, elevava piani, divideva
stanze: qui l'anticamera, là il salotto, qua la camera matrimoniale, là
la sala da pranzo; e ad oriente, dalla parte dello stradone, la fila
delle stanze da dormire per le ragazze, una per ognuna; e sotto, a
pianterreno, l'orto o giardinetto, fiori e frutta..., _miscuit utile
dulci_. Dalla gioia, parlava latino a Lisa che gli stava a lato e
insisteva per avere una cameretta con l'alcova.

-- Perchè con l'alcova?

-- Mi piacerebbe così!

-- Vedremo! Vedremo! Ma che aria, eh? E che sole!

-- E che vento, non lo dite? -- lo interruppe sua moglie.

-- Vento? Quando tira, tira da per tutto. Non dire sciocchezze!

La signora Barreca contraddiva raramente suo marito.

Era donnina calma, rassegnata, che sopportava come gastigo de' suoi
peccati i tre parti di gemelle e tutta quella figliolanza femminile.
Bionda, smorta, vestita sempre di scuro, badava alle faccende di casa,
che non erano poche, alle bambine che dovevano andare a scuola e
facevano i compiti su la tavola da pranzo senza tappeto, per paura dei
calamai frequentemente rovesciati; e sorvegliava Lisa, la spilungona (il
nomignolo glielo aveva appiccato il notaio, per compiacenza della
statura di lei, e le sorelle glielo ripetevano spesso sapendo che ella
ci si arrabbiava). La sorvegliava all'insaputa del marito, per evitare
scene e guai; le aveva trovato in un cassetto una letterina amorosa di
uno studente in vacanza, e poi aveva intercettato la risposta in mano
della serva, che era stata mandata sùbito via.

-- Che ha fatto, da mandarla via? -- voleva sapere il notaio.

-- Questa è faccenda che mi riguarda! -- avea risposto donna Rita. -- Vi ho
forse domandato perchè avete preso un nuovo scrivano?

Ed il notaio la guardò meravigliato di quella risposta che gli era parsa
straordinaria arditezza. Egli l'aveva abituata a non aver volontà, a non
interrogare, a non ragionare di niente. In casa era un despota
silenzioso -- fìchiti-fon! fìchiti-fon -- e bastava; meno le non rare
volte che montava in furia, spesso per un nonnulla, e buttava tutto per
aria, piatti, bottiglie, bicchieri, facendo tremare gli usci e le
imposte dagli urli, minacciando di legnare mamma e figlie! Qualche
vicino accorreva. Le ragazze si erano già rinchiuse nelle loro
camerette; donna Rita piangeva zitta zitta in un canto; e il notaio, con
gli occhi rossi e la faccia congestionata, se la prendeva con le
seggiole, con la tavola da pranzo, con gli usci, dando un pugno qua, un
calcio là, fino a che la presenza di quell'estraneo non lo faceva
rientrare in sè.

-- Andiamo! Che è questo, signor notaio!

-- Non sono padrone in casa mia? Non posso fare quel che mi piace?
Comando io, sì o no? Voglio essere obbedito!

-- Ha ragione! Sta bene... Ma si calmi!

Brontolava ancora un poco, poi si calcava sul capo la tuba, prendeva la
mazza di sorbo, e andava via zufolando.

Dal giorno però che aveva firmato il contratto di compera dei casalini
del barone Collotta -- non si poteva più dire: _del palazzo_, perchè non
c'era in piedi neppur la facciata -- il notaio parve cambiato di punto in
bianco; moglie e figlie quasi non lo riconoscevano più, udendolo
chiacchierare a tavola, specialmente dopo cena, della futura meraviglia
della casa nuova.

Voleva fare le cose in grande; far crepare di rabbia certa gente. I
quattrini erano lì pronti, in bei biglietti da cento e da mille, messi
da parte a posta, accumulati l'uno su l'altro. Non doveva cavarsi il
cappello a nessuno.

E tirava fuori da una cassetta della scrivania la pianta della casa, e
la stendeva su la tovaglia, lieto che le bambine piccine gli montassero
su le ginocchia per guardare, e si leticassero le camere quasi fossero
già allestite di tutto punto, ed esse dovessero andare a dormirvi fra un
quarto d'ora.

Invece, appena da una settimana i manovali lavoravano a sgombrare il
terreno dalle macerie, a buttar giù i muri crollanti, ad ammucchiare le
pietre ancora servibili per la prossima costruzione. Il notaio passava
lunghe ore colà, fra nugoli di polvere, stimolando gli operai,
sollecitando i ragazzi che coi corbelli di vimini portavano lo
sterriccio sui carretti, segnando nel taccuino i viaggi dei carrettieri
per non farsi rubare da quella canaglia. Lo scrivano veniva di tratto in
tratto a chiamarlo per un testamento, per un contratto di matrimonio,
per un _brevetto_; e il notaio si staccava a malincuore da quelle
macerie, da quello sterriccio, da quello spazio che di mano in mano
sgombrato, pareva ingrandirglisi davanti agli occhi. Ma intascando i
diritti notarili, sorrideva pensando che anch'essi avrebbero aiutato a
murare qualche sasso di più. E, all'ora solita, era sempre sulla soglia
dello studio notarile, col pomo della mazza di sorbo appoggiato sotto il
mento, zufolando sommessamente in attesa del dottor Ballocco; e
avviandosi assieme con lui per la passeggiata, ora affrettava un po' il
passo fino al punto dello stradone, a cavaliere del quale doveva sorgere
fra un paio di mesi la facciata della sua casa. Non si fermava più, ma
si voltava a guardare, e interrompeva lo zufolìo per dire al dottore:

-- Sei finestre e un balcone in mezzo.

O pure:

-- La cucina, dalla parte di là.

O pure:

-- Nell'orto ho già piantato le viti!

Brevi parole, accenni che continuavano un suo ragionamento interiore,
quasi l'amico avesse potuto vederlo pensare, e per ciò capire che cosa
egli volesse dirgli.

Il dottore crollava il capo, faceva una spallucciata. Per lui il _mal
della pietra_ era la peggiore delle malattie; si sa quando si comincia,
ma non si sa quando si finisce. Gli architetti sono furbi; vi dicono: --
Spenderete mille; nè un soldo di più, nè un soldo di meno! -- Avrete
speso venti mila e sarete appena a metà dell'opra!... Vah! se il notaio
non gli aveva voluto dar retta, peggio per lui. -- Tutto questo il
dottore lo pensava, ma non lo diceva; o lo diceva a modo suo, con la
punta della mazza, spingendo di qua e di là i sassolini, i pezzetti di
carta, gli sterpi, qualunque cosa gli capitava tra i piedi; stizzito che
ora quella passeggiata, prima così bellamente silenziosa, avesse mutato
carattere con queste interruzioni. E respirava, appena il notaio non
poteva più avere il pretesto di voltarsi perchè il ciglione, nella
curva, non lasciava scorgere il posto dove una volta sorgeva il palazzo
del barone Collotta. Infatti il notaio poco dopo riprendeva il suo
zufolìo, e i due strani amici continuavano la singolare passeggiata. Le
persone che li incontravano sorridevano, fermandosi per vederli passare,
udire il fìchiti-fon! fìchiti-fon! del notaio già divenuto leggendario
in paese, e osservare il dottore che pareva incaricato di tener netto lo
stradone dai sassolini e dagli sterpi. Parecchi già avevano notato che
il notaio ora si lasciava scappar di bocca qualche parola; e la cosa
sembrava sorprendente a dirittura!

Mentre i muratori scavavano le fondamenta, il notaio faceva zappare e
piantar l'orto da uno dei suoi contadini. Due piante di peschi, tre di
nespoli del Giappone; le viti, già legate al palo, indicavano dove fra
un anno si sarebbe visto il pergolato. Poi, lungo il muro a secco che
calava a piombo su lo stradone, in attesa della balaustrata di legno,
una bella fila di vasi da fiori, conici, panciuti, di tutte le
dimensioni, parte già pieni di terra, parte vuoti; sarebbero stati lo
spasso delle figliuole. Ai peschi, ai nespoli e all'uva avrebbe badato
lui. Con la fantasia, li vedeva carichi di frutta dorate dal sole;
pesche grosse così, con la gota rossa e la bella peluria fresca; nespole
succose, acidule, che gli facevano venir l'acquolina in bocca al solo
pensarci; e uva bianca e nera pendente in grossi grappoli, da cogliere
lì per lì all'ora del pranzo con le sue proprie mani! E il fresco da
godersi l'estate, in maniche di camicia, in pantoffole, come un papa,
con le bambine attorno! Quasi le figliuole dovessero rimanere sempre
bambine e Lisa non fosse già una donnina.

E perciò gli pareva che i muratori andassero a rilento, e le fondamenta
stentassero a uscire a fior di terra. E sorrise quando vide salire su, a
poco a poco, la facciata, coi pilastri delle porte che parevano
germogliassero, e vide porre i davanzali delle finestre e poi gl'intagli
e poi il cornicione, in cima. Seduto sotto un vecchio ombrellone di seta
rossa per non arrostirsi al sole, il notaio zufolava, mentre i muratori
cantavano accompagnandosi a colpi di cazzuola. Pensava a certe persone
che dovevano diventare più verdi dell'aglio e masticar tossico, passando
per lo stradone, ora che di laggiù la casa poteva sembrare compiuta col
tetto e con le imposte alle finestre! Fìchiti-fon! Fìchiti-fon!

Pareva un altro, sempre di buon umore, quantunque vedesse di giorno in
giorno diminuire i biglietti di banca, non ostante che ogni settimana ve
ne aggiungesse parecchi! Andavano via come l'acqua! Ma non voleva dir
niente, se la casa nuova sorrideva, fresca come una rosa, al sole, col
bel portoncino dalla parte di Via Lunga, di faccia alla chiesetta di San
Cosimo; bella comodità anche questa, per andarvi a udir messa le
domeniche senza attendere troppo.

Era di buon umore, e non sapeva persuadersi perchè mai ora Lisa stesse
sempre imbroncita, e fosse divenuta un po' aspra nelle risposte alla
madre.

-- Che ha Lisa? -- egli domandava alla moglie.

-- Niente.

-- Ha i nervi, mi pare.

-- Ragazze!

Donna Rita non avrebbe mai detto quel che era accaduto una mattina,
quando ella avea sorpreso la figliuola mentre parlava dalla finestra col
suo studentello. L'aveva afferrata per le spalle, tirandola dentro; e
allo studentello che scappava avea fatto intendere che lo avrebbe fatto
prendere a calci dal notaio; e alla serva del proprietario del cortile,
che si era affacciata alla finestra e rideva, aveva detto che ci avrebbe
avuto poco gusto a praticare quel bel mestiere all'insaputa dei suoi
padroni; doveva essere stata lei a dar agio di penetrare nel cortile
allo sbarbatello screanzato! E siccome la serva aveva risposto
malamente, n'era nato un putiferio...

Lisa stava in broncio; la mamma la trattava con modi assai bruschi. E il
notaio, alla spiegazione della moglie -- Ragazze! -- pensava che i nervi
Lisa non li avrebbe più avuti lassù, nella casa nuova, con tutta
quell'aria, con tutta quella luce!

E per svagarla, la mattina dopo condusse colà tutti, la chioccia coi
pulcini. E le mura umide e il tetto risonarono degli allegri strilli
delle ragazze che si rincorrevano per le stanze senza usci e coi
pavimenti di gesso. Madonna Rita diè un pizzicotto alla figliuola,
facendola ritirare dal terrazzino, perchè laggiù nello stradone
passeggiava lo sbarbatello malcreato, col sigaro in bocca, con le mani
nelle tasche dei calzoni e il naso per aria, verso il terrazzino,
impertinente sfacciato!

                                  *
                                 * *

Ah! quel dottor Ballocco era stato un uccellaccio di malo augurio.

Sì, sì, nella casa nuova si stava larghi e comodi; ma quell'inverno il
povero notaio, che cominciava a sentire gli acciacchi della vecchiaia,
aveva passato terribili nottate e bruttissime giornate col vento di
levante che urlava e fischiava e pareva volesse schiantar la casa dalle
fondamenta. Due, tre inverni di quella sorta, ed essa sarebbe stata
sconquassata peggio di prima. I due peschi, stroncati; i nespoli,
sfrondati; il pergolato buttato giù a catafascio; i vasi dei fiori, la
più parte ruzzolati per terra come se durante la nottata ci fosse stato
qualcuno che avea giocato alle bocce con essi; parecchi ridotti in
frantumi. Miracolo che le imposte avessero resistito e che soltanto
pochi tegoli fossero stati portati via, come foglietti di carta, e
buttati sul selciato di Via Lunga!

Quella mattina il povero notaio, imbacuccato nel vecchio ferraiuolo, col
berretto da casa calcato fin su gli orecchi, per poco non pianse vedendo
tanta distruzione. Le figlie e donna Rita gli andavano dietro, rizzando
i vasi, sollevando i sostegni del pergolato, raccontandosi le paure
della nottata, perchè esse, nate e cresciute in quell'altra casetta
incastrata fra case più alte che la proteggevano da ogni lato, non
avevano nessuna idea delle ventate di levante. Colà avevano dormito come
tra la bambagia; qui invece, la notte avanti, avevano avuto tanta paura
che erano saltate giù dai letti; e il notaio e donna Rita, che
recitavano paternostri e avemmarie, se le erano viste comparire in
camera, mezze vestite, a piedi scalzi, atterrite, piagnucolanti. C'era
voluta tutta la severa autorità del notaio per indurle a tornare nelle
loro camerette.

Ora ridevano tra loro, rammentando certi gesti, certe parole di questa e
di quella, durante il terrore del vento; facevano un chiacchiericcio
allegro che indispettiva il notaio; parevano divertirsi in mezzo a tutta
quella rovina che dava loro tanto da fare lì dove il babbo non voleva
che mettessero le mani e quasi quasi neppure i piedi, perchè la cura
dell'orto doveva essere tutta sua. Ma ecco: il danno che egli temeva
venisse fatto dalla sbadataggine delle ragazze, il vento glielo aveva
fatto, e centuplicato, in poche ore!

E stava a guardare, divagando, dando incoraggiamenti; soltanto si
meravigliava che Lisa se ne stesse zitta in un canto, e che donna Rita
brontolasse sotto voce rivolgendosi a lei.

-- Ma che hai -- le domandò -- con quella figliuola?

-- Niente!

La solita risposta. Non poteva dirgli: Guardate lì, quello sbarbatello
che fa l'asino con lei!

Lo studentino, seduto sul muricciolo dello stradone lì sotto, fumava,
dondolando le gambe, guardando lassù, fingendo di cavar di tasca il
fazzoletto per soffiarsi il naso, e agitandolo un po' in segno di
saluto, lo smorfioso!

Ed erano passati due anni, due anni cattivi. I fondi avevano fruttato
poco, ora perchè le piogge non erano venute a tempo, ora perchè i
seminati erano stati invasi dalla ruggine, e gli ulivi malmenati dalla
nebbia sul punto della fioritura. Anche gli affari cominciavano a
scarseggiare; le tasse si mangiavan tutto. Chi aveva quattrini se li
teneva in tasca! E poi c'era la concorrenza del nuovo notaio,
giovinastro che si dava l'aria di pezzo grosso, perchè aveva messo su
uno studio con bei mobili e faceva aspettare i clienti in anticamera,
quasi fosse stato un ministro. E i babbei abboccavano; accorrevano da
lui che li spennacchiava senza farli stridere, buttando loro negli occhi
la polvere delle belle maniere, dei salamelecchi, come se il codice e la
procedura consistessero nei salamelecchi e nelle belle maniere! Ah che
tempi! Veniva in uso la moda anche pei notai! Si doveva giungere a
questo con l'_Italia una e pagnotte cento_! Basta! Egli era vecchio
ormai! E senza quel nugolo di figlie, avrebbe chiuso lo studio notarile;
e chi avrebbe voluto l'opera sua, avrebbe dovuto venire a pregarlo in
casa, col cappello in mano, quasi per ottenere una grazia!

Passava lunghe ore nell'orto, a covare con gli occhi le nespole del
Giappone che pendevano a grappoli dai rami, e covare l'uva del pergolato
che ingrossava al sole... cento, dugento, trecento grappoli... non
riusciva a contarli esattamente; li avrebbe colti con le sue mani fra
qualche mese: intanto bisognava difenderli con la zolfatura
dall'_oidium_, e anche dal barbaro gusto delle ragazze a cui piaceva
l'agresto!

Soltanto a Lisa egli permetteva di accompagnarlo laggiù certe mattine, a
Lisa che era savia, seria, e che gli ispirava una particolar tenerezza
scorgendola, inesplicabilmente, avversata dalla mamma in ogni cosa.

Visto che donna Rita non gli dava nessuna plausibile spiegazione di quel
suo strano contegno, egli si era rivolto alla figlia, un po' acre anche
lei nelle risposte e nei modi:

-- Ma insomma, che avete tutte e due?

-- Niente.

Se la faceva sedere accanto, sul muricciolo; ragionava con lei delle
piante, delle faccende di casa; e di mano in mano che passavano per lo
stradone persone di sua conoscenza, si metteva a sparlar di loro
ricordando il passato: -- Quello lì è un gran ladro! Quell'altro un
usuraio! Questo qui un ipocrita, che va a messa tutti giorni, ed ha
spogliato i pupilli di suo fratello!

E una mattina che scorse laggiù lo studentino col sigaro in bocca e il
naso per aria, disse:

-- È della razza! Poveri e superbi! Suo padre era usciere di pretura, ma
si è messo a fare lo strascina-faccende davanti al conciliatore, dopo
che è stato cacciato via dall'ufficio! Sua madre... lasciamola stare!...
Suo fratello maggiore è andato a far la guardia di finanza! Costui vuol
diventare... che cosa? Non lo sa neppur lui! Finge di studiare!...
Invece del sigaro, comprati due soldi di pane, morto di fame!...

Lisa si faceva di mille colori, udendolo parlare così.

-- Che ve ne importa? -- esclamò stizzita. -- Ognuno deve badare ai fatti
propri.

E lei infatti badava, zitta zitta, sorniona, ai fatti propri, con la
testina sconvolta e il cuore in fiamme per lo studentello; e resisteva
alla guerra sorda della mamma che la minacciava di accusarla al notaio,
com'ella chiamava abitualmente suo marito.

-- Accusatemi!

-- Ti spaccherà la testa! Ti farà uscir dal cervello il sangue pazzo!

-- Lasciate che me la spacchi!

-- Te la spaccherò io prima di lui!

-- Spaccatemela!

Intanto il cattivo esempio di Lisa noceva alle altre sorelle che
venivano immediatamente dietro a lei.

Con quelle finestre su lo stradone, era un via vai di ragazzacci. Donna
Rita non poteva aver occhi per tutte. E quelle testoline sventate si
aiutavano a vicenda.

Un'amica avea avvertita donna Rita dello _scandalo_ che dava tanto da
ciarlare in paese; e la poveretta ci perdeva la salute dalla gran bile
che inghiottiva. Un giorno o l'altro, se la cosa arrivava agli orecchi
del _notaio_, sarebbe stato il finimondo in casa loro; quando il
_notaio_ imbestialiva... Dio ne scampi! Tanto più ora che gli affari
andavano male e le spese aumentavano di giorno in giorno. Solamente a
pensare ai vestiti e alle scarpe per tutte, c'era da sentirsi prendere
dalle vertigini! Donna Rita malediceva la casa nuova e chi l'aveva
consigliata a suo marito. Nell'altra, le ragazze stavano un po'
ristrette, sì, ma come in un convento. Qui, con tutte quelle
finestre!... Se lei badava alla parte di via Lunga, le ragazze _facevano
il telegrafo_ dal lato opposto. E poi, con quella nuova diavoleria del
saper leggere e scrivere! Prima almeno non c'era da temere che le
vecchie povere venissero a picchiare all'uscio per l'elemosina e per
portare biglietti amorosi! Viveva per ciò in continua ansietà; e ogni
volta che il notaio tornava a casa più abbuiato del solito, ella tremava
di veder scoppiare l'uragano paventato.

Scoppiò una sera, quando meno donna Rita se l'aspettava.

Quel giorno il notaio era stato più allegro dell'ordinario. Aveva
condotto giù nell'orto le figlie con panieri e canestri per cogliere
l'uva. Montato su la scaletta, con una mano afferrava delicatamente il
grappolo e tagliava il gambo con l'altra, armato di una forbice arrotata
a posta per non fare strappi alla vite. Prima l'uva bianca, poi la nera;
e le ragazze erano salite in casa in processione, coi panieri e coi
canestri su la testa come tante vendemmiatrici. Poi il notaio, che non
aveva mai loro permesso di assagiarne un chicco, ne aveva distribuito un
grappolo a ognuna, dando su la voce alle scontente che volevano i
grappoli più belli e più grossi. I più grossi voleva mandarli in regalo
al dottor Ballocco; glielo avrebbe annunziato durante la passeggiata.

E fu allora, bel ringraziamento! che il dottore gli disse a bruciapelo:

-- Tu rimbambisci con l'uva, e intanto c'è chi vuol coglierti l'altra
uva, assai più saporita!

-- Quale? che intendi?

-- Le ragazze! Non avete occhi dunque, tu e tua moglie?

-- Bada a quel che dici!

-- Dico la verità!

E siccome il notaio, sbalordito dall'incredibile rivelazione, si era
rimesso inavvertitamente a zufolare, il dottore, per dovere di amico, si
capisce, continuò:

-- Ecco il bel profitto della casa nuova!

E raccontò quel che sapeva. Non avevano occhi dunque, lui e sua moglie?

-- Anche Lisa? -- balbettò il notaio.

-- Sì, sì, peggio delle sorelle; col figlio dell'usciere Caniglia!

Nominò pure gli altri; una filza! Il povero notaio non zufolava più; il
sangue gli era salito al capo.

Arrivò a casa con gli occhi iniettati di bile, con la schiuma alle
labbra; e sbatacchiato l'uscio dietro a sè, cominciò a distribuire
schiaffi e pugni come un pazzo furioso.

-- Ah! te lo do io il figlio di Caniglia! Te lo do io Bacarella! Te lo do
io Rumasuglia! Civette! Screanzate! Ah! Ah!

Inseguiva per le stanze le figlie che tentavano di salvarsi, urlando e
piangendo. E quando non poteva colpir loro, buttava per aria seggiole,
tavolini, dava calci agli usci delle camere dove le ragazze erano corse
a rinchiudersi mettendo i paletti. Trovatosi faccia a faccia con sua
moglie che piangeva e strillava con le mani fra i capelli, le si piantò
dinanzi agitando in alto i pugni convulsi:

-- E voi, signora donna Rita, non sapevate niente, non vi accorgevate di
niente!

-- Ho fatto tanto! -- esclamò la disgraziata per scusarsi.

E fu peggio. Il notaio le mise brutalmente le mani al collo, e forse
l'avrebbe mezza strozzata, se donna Rita, fatto un falso movimento per
scansarsi, non fosse cascata per terra.

-- Donna Rita!

Il notaio, che infine non era una bestiaccia senza cuore, diè un grido e
l'aiutò a rialzarsi. E accertatosi che sua moglie non si era fatta male,
un po' meno irritato, cominciò a rimproverarla:

-- Perchè non me n'hai detto mai niente? Perchè!

-- Per non farvi prender collera, Gesùmmaria!

-- Brava!... Brava davvero!... Bravissima!...

Le faceva profondi inchini, torceva la bocca, gestiva con ironica
approvazione, tornava a farle sarcastiche riverenze, girandole attorno
con vivacità giovanile. Poi tutt'a un tratto, si lanciava a chiudere gli
scuri della finestra, sbatacchiandoli, spingendo rabbiosamente i
lucchetti.

-- Così!... Così!... Tutte le finestre! Saranno anzi inchiodate con
chiodoni da ottanta!

E picchiava agli usci delle camere delle ragazze.

-- Aprite; se no, sfondo l'uscio a calci! Aprite!

Mezza giornata d'inferno; col gran guaio che qui non c'erano vicini da
poter accorrere per calmare il notaio e condurlo via. Tutte le finestre
chiuse; le ragazze tremanti attorno alla tavola da pranzo, coi lumi
accesi quasi fosse notte, ognuna col suo lavoro in mano, zitte zitte, a
testa bassa, sotto il roteare furibondo degli occhi del notaio che, a
intervalli, si rivolgeva a questa o a quella, a Lisa sopratutte:

-- Te lo do io il figlio di Caniglia! A quel morto di fame fa gola la
casa, la dote! Sì! Sì!

Uno, due, tre giorni, va bene, poteva durare. Con le finestre
ermeticamente chiuse la casa sembrava disabitata, o la famiglia colpita
da lutto. Il dottor Ballocco, che se n'era accorto durante la solita
passeggiata e nel passar da Via Lunga andando attorno per le sue visite,
disse al notaio, scherzando:

-- Fate gli esercizi spirituali in casa?

Il notaio grugnì. Il dottore, indovinato quel che doveva essere
accaduto, soggiunse:

-- Non andare in eccessi! Infine... le ragazze...

Sentendosi quasi dar torto da colui che primo gli aveva aperto gli
occhi, il notaio perdè la pazienza e rispose:

-- Tu bada ad ammazzare i tuoi clienti!

Risposta che fece ridere il dottore, quantunque avesse davvero su la
coscienza parecchi e parecchi dei suoi clienti in tant'anni di pratica.

                                  *
                                 * *

Il notaio Barreca, pareva incredibile! non aveva mai pensato che un
giorno o l'altro quelle otto ragazze doveva maritarle, dotarle, se non
voleva vedersele spighire in casa. E perciò dava ragione a sua moglie
che timidamente gli diceva: Bisogna pensarci!

Ma in che modo? Conducendole alla fiera, forse? O mettendole all'asta?
Bisognava raccomandarsi a Dio, al Patriarca San Giuseppe e a San
Francesco di Paola! Se non provvedevano loro che sono santi
misericordiosi!...

E aspettando, intanto mutava tattica. Spalancava le finestre, tentava di
prender le figlie con le buone:

-- Ci penseremo io e vostra madre! Vogliamo il bene vostro; non vogliamo
infelicitarvi! Qui vivete da regine. Che vi manca? Una casa che è un
palazzo! Un orto! E aria e luce!

La casa era il suo orgoglio. Magnificava anche l'orto con le ragazze,
dimenticando che se stendevano un dito alle pesche, alle nespole o
all'uva, le sgridava quasi avessero commesso un sacrilegio.

E si figurava di esser riuscito nell'intento, perchè vedeva e Lisa e
Rosa e Clementina e Paolina assorte nel cucire, nel ricamare, nel far di
calza quando il babbo stava in casa; perchè non levavano gli occhi dal
libriccino delle preghiere, le domeniche in chiesa, ora che egli le
accompagnava come un cane da guardia, e i mosconi che ronzavano là
attorno, alla vista di lui, prendevano il largo; eccettuato
quell'impertinente del Caniglia! Egli, al contrario, andava a piantarsi
vicino a una colonna, imperterrito, col petto dell'abito infiorato,
dando occhiate di fuoco a Lisa, sfidando lo sdegno del notaio, che non
sapeva chi lo trattenesse dal rompergli su la testa la mazza di sorbo, e
si rodeva il fegato per non fare uno scandalo. Frenarsi gli costava uno
sforzo immenso; tanto che una volta, invece di dir le devozioni durante
la messa, dimenticò di essere in chiesa, e si mise così sbadatamente a
zufolare, -- fìchiti-fon! fìchiti-fon! -- che donna Rita dovette tirarlo
per la falda dell'abito e rammentargli che si trovava nella casa di Dio!

E cascò dalle nuvole il giorno che il canonico Tasca, confessore di
Lisa, dopo avergli offerto una presa di ottimo rapè, con molte
circonlocuzioni, per dovere del suo santo ministero, venne a dirgli
nello studio notarile:

-- Fate la volontà di Dio! Date la vostra benedizione!

Il notaio lo guardò in viso, stralunato, senza poter profferire una
parola.

-- Si sa, matrimoni e vescovati dal ciel son destinati! -- conchiuse il
canonico.

E offerse una seconda presa di rapè.

-- Sentite, signor canonico -- gli disse, scattando, il notaio --
Ringraziate prima Dio e poi l'abito sacro che portate addosso. Qualunque
altro...

-- Non ne parliamo più; voi siete il padre. Io ho fatto il mio dovere di
confessore. _Benedicite!_ E scusate! -- replicò secco secco il canonico,
levandosi da sedere per andar via.

Il notaio corse a casa.

-- Dov'è Lisa?

Ansava, balbettava.

-- Dio mio! Che è accaduto? -- esclamò donna Rita.

-- Niente. Dov'è Lisa? Chiamatela.

E quando dava del voi, voleva dire tempesta!

Appunto Lisa usciva di camera sua, tranquilla, a testa alta, più
spilungona dell'ordinario, tanto si teneva ritta sul busto e su le
gambe, fermatasi, dopo aver fatto pochi passi, alla vista del padre che
la fulminava con lo sguardo.

-- Ah, tu mi mandi il confessore!

Lisa accennò di sì con la testa.

Il notaio allibì.

-- Ed hai la faccia tosta di volere la mia benedizione?

Lisa fece una mossa con la testa per significare: Se volete darmela!

-- Ti maledico! -- urlò il notaio.

Donna Rita gli turò la bocca:

-- No, no!... È peccato mortale!

-- La maledico!... -- replicò il notaio, scansando la mano della moglie. --
Dalla testa ai piedi!...

E si avanzò coi pugni stretti, levati in alto, contro la figlia che
rimase là, impassibile, pallida come un cencio, mordendosi le labbra.
Donna Rita la prese per le spalle e la spinse in camera gridandole:

-- Pazza! Pazza! Farai morire di crepacuore tuo padre!

Infatti, fu proprio miracolo che il notaio non morisse di un accidente
la mattina che donna Rita -- quasi il cuore glielo presagisse -- alzatasi
per tempo, andò difilata nella cameretta di Lisa. Visto il letto intatto
e non trovata lei colà, cominciò a correre per la casa, dandosi pugni su
la testa, chiamando sottovoce: Lisa! Lisa! svegliando le altre figlie,
perchè l'aiutassero a cercare dappertutto, prima che il notaio potesse
capire di che si trattava. Fortunatamente il notaio dormiva, russando; e
il dottor Ballocco, mandato a chiamare in fretta e in furia con la
serva, potè arrivare in tempo per dargli lui la trista nuova. Donna Rita
si raccomandava.

-- Lasciate fare a me! -- la rassicurò il dottore.

-- Sarà un terribile colpo!

-- Lasciate fare a me!

Ed entrò nella camera del notaio, che aperse gli occhi allo
scricchiolare dell'uscio, meravigliato di veder lì, a quell'ora, il suo
amico che soleva venire da lui soltanto per qualche visita da medico.

-- Chi sta male?

-- Nessuno. Non ti spaventare... Cose che accadono!... -- si lasciò
scappar di bocca il dottore.

-- Quali cose?

E il notaio, tossendo, si rizzò a sedere sul letto.

-- Quali cose!... Quali cose! Niente... Lisa... è scappata... ecco!...
Col figlio di Caniglia!... Giacchè vuoi saperlo! Ecco! Meglio che tu lo
apprenda subito. Eh? Eh? Non fare il ragazzo!

Il povero notaio si era rovesciato, smorto smorto, sui cuscini.

Il colpo era stato così forte e così inatteso che lo aveva istupidito.

-- Benissimo! -- egli diceva (la voce però gli tremava). -- Una di meno! Si
starà più larghi!... Con la scala di legno? Dalla parte dell'orto?
Benissimo!... Io le avrei aperto il portone a due battenti, se avessi
saputo... Si starà più larghi!... E la sua camera rimarrà chiusa per
sempre... Quella figlia è morta! Nessuno qui deve nominarmela! È morta;
per me e per tutte, capite? Ora si chiama Caniglia, non più Barreca! Già
l'avevo maledetta!... E torno a maledirla!... Vi dispiace? (S'era
rivoltato contro la moglie, a un gesto di orrore di lei). È morta e
sepolta... Che si credono? Che mi lascierò intenerire? Che darò la dote?
Ha fatto male i suoi conti il signor Caniglia!... Chi vuole andarsene,
se ne vada! Tu, donna Rosa, col tuo Bacarella! Tu, donna Clementina, col
tuo Rumasuglia!... Mie figlie sono soltanto quelle che mi rispettano e
mi vogliono bene. Chi vuole andarsene, se ne vada; l'uscio è lì.
Chiamatemi un prete; voglio far ribenedire la casa! Questa è casa
maledetta!...

Donna Rita e le figlie piangevano zitte zitte, col fazzoletto agli
occhi, come se davvero fosse morto qualcuno in quella casa nuova che
aveva sconvolto le teste delle ragazze, prima così timide e così
savie!... Donna Rita se la prendeva con la casa anche lei; anche lei
stimava necessario farla ribenedire da cima a fondo!

In pochi mesi, il notaio sembrava invecchiato di dieci anni; donna Rita,
peggio. Ora egli passava lunghe ore nell'orto, badando alle zucchine che
vi aveva piantate in un angolo e che venivano a meraviglia; al pergolato
che metteva tralci nuovi e pampini da coprire l'incannucciata e non
lasciar passare un raggio di sole; alle nespole del Giappone, che
ingrossavano penzolanti a gruppi dai rami. E donna Rita badava a recitar
rosari e a raccomandarsi alla Madonna e a tutti i santi del paradiso,
perchè guardassero loro le sue figliuole, mentre invece avrebbe dovuto
guardarle lei e avvedersi che Rosa e Clementina avevano già ripreso a
civettare più accanitamente di prima.

Pareva volessero protestare in quel modo contro la vita da monache a cui
erano condannate. Dopo la fuga di Lisa, casa e chiesa, chiesa e casa;
messa tutte le mattine; mai una passeggiata, mai visite ad amiche. E le
ragazze si sfogavano telegrafando disperatamente dalle finestre,
scendendo giù nell'orto prima dell'alba per trovarvi qualche biglietto
lanciato su dallo stradone con un sasso avvolto in un pezzo di giornale,
e lanciando allo stesso modo le risposte dalla finestra, con
meravigliosa destrezza.

Rumasuglia insisteva con Clementina:

-- Facciamo come tua sorella e Caniglia! Non c'è altro verso!

-- Se mi vuoi bene, non parlarmi più di questa cosa! -- ella rispondeva.

-- Facciamo come tua sorella e Caniglia! -- ripigliava l'innamorato.

E visto che non c'era proprio altro verso!...

Fu dopo quasi diciotto mesi dalla fuga di Lisa. Stavano per andare a
cena. Donna Rita condiva l'insalata in cucina; il notaio già seduto a
tavola, in maniche di camicia pel gran caldo, affettava anticipatamente
un bel cocomero grondante ancora dell'acqua del pozzo dov'era stato
immerso mezza giornata per rinfrescarlo. Ed egli era sul punto di
assagiarne una fettina, quando rizzò le orecchie al parlottìo sommesso
che si udiva in cucina, all'andare e venire frettoloso delle ragazze da
una stanza all'altra... Paolina, la minore di tutte, s'era affacciata
all'uscio della sala da pranzo, aveva guardato il babbo ed era scappata
via. Egli chiamò, per sapere che diamine era accaduto, nessuno rispose,
nessuno accorse. Tornò a chiamare più forte:

-- Clementina! Clementina!

Il primo nome che gli era venuto alle labbra.

Gli risposero strilli e singhiozzi dalla cucina. Allora il pover'uomo,
con la fettina di cocomero in mano corse colà.

-- Che è stato? Che è stato?

Le ragazze erano scappate via. Donna Rita lo prese pei polsi:

-- Notaio mio! Notaio mio! -- balbettava, guardandolo negli occhi
atterrita.

Il notaio si lasciò cascar di mano la fetta di cocomero; aveva capito!

-- Chi? -- domandò.

-- Clementina!... Scellerata!... Scellerata!

-- Non è niente!... Zitta! Non è niente!... Morrà di fame, come
l'altra!... Non è niente!... Ma darò querela... Ratto di minorenne! C'è
la giustizia! Ratto di minorenne, ti dico! -- replicò calcando la voce,
al gesto di negazione fatto da donna Rita:

-- Ha compiuto ieri i ventun anni!

Il notaio non seppe che rispondere, avvilito:

-- Andiamo a tavola! -- disse tutt'a un tratto.

Donna Rita credette che dal gran dolore, egli fosse impazzito.

-- È destino! Andiamo a tavola!

E uscì di cucina, e andò a picchiare agli usci delle camere delle
figlie:

-- A tavola! A tavola!

E tutte dovettero sedersi a tavola, come se niente fosse accaduto; e
dovettero mangiare l'insalata e il pesce fritto. Mentre egli faceva, al
suo solito, le parti, la forchetta però gli tremava in mano e tintinnava
su l'orlo del piatto. Silenzio funebre. Sottecchi, di tanto in tanto,
alla sfuggita, le figlie guardavano il padre che stentava a inghiottire.

E siccome l'altra volta non aveva più pensato a far ribenedire la casa,
il notaio rifletteva:

-- Qui c'è qualche spirito diabolico! Non può essere diversamente!

                                  *
                                 * *

La casa fu ribenedetta; le sorveglianze e i rigori aumentati. Ma era
davvero destino, come aveva detto il notaio. All'anno preciso, una bella
mattina, senza dire nè ai, nè bai, Rosa, scendendo lesta lesta le scale,
si buttava su le spalle lo scialle nero di seta, regalatole dal padre
due giorni avanti, e filava via con Bacarella, il giovane merciaio che
aveva messo su bottega nella Piazza Piccola, con rivendita di sigari e
di liquori. L'avevano vista attraversare la via sola sola. Bacarella,
che l'attendeva alla cantonata, le era andato incontro, e tutti e due si
erano avviati verso la bottega, quasi fossero stati marito e moglie.

La gente rideva, e si affollava davanti la porta della merceria per
godersi lo spettacolo.

Bacarella si affacciò su la soglia, con aria spavalda:

-- Che state a guardare? C'è l'_opera dei pupi_ forse?

E chiuse la porta in faccia agl'indiscreti.

Questa volta il notaio sentì darsi una mazzata alla testa quando lo
scrivano corse con la cattiva notizia in casa del principale, dove
nessuno s'era ancora accorto della mancanza di Rosa; la credevano chiusa
in camera a pettinarsi!

La vera pettinata fu quella che si diè donna Rita alla vista del marito
steso per terra come morto, che lei e lo scrivano non riuscivano a
rialzare.

Fortunatamente era stato uno svenimento un po' forte; nient'altro.

E otto giorni dopo, i facchini di piazza, _Beppe del Cancelliere_, il
_Pantano_, il _Macchinista_, come li chiamavano, e don _Piddu_ il
palermitano, andavano e venivano dalla casa nuova alla casa antica del
notaio, trasportando materasse, tavole da letto, trespoli di ferro,
tavolini, arnesi di cucina, mobili di ogni sorta. La processione era
durata un'intera giornata, tra i commenti degli sfaccendati e le risate
dei maldicenti. Il notaio aveva pagato un'indennità agl'inquilini a cui
aveva affittato la casa vecchia, purchè se n'andassero subito; ma non ne
aveva detto niente nè alla moglie, nè alle figlie: talchè quando i
facchini si presentarono per lo sgombero, donna Rita non voleva
lasciarli entrare; li avea creduti ubbriachi.

-- Chi cangia la vecchia per la nuova, peggio trova! -- ripeteva il
notaio. -- Ora che siamo pochi, qui staremo comodamente... L'altra, la
casa maledetta, la prenderà l'Agente delle Tasse... Gli ho detto: Per
quest'anno però le zucchine dell'orto spettano a me! Ed ha acconsentito.

Si sforzava di parere allegro. E mentre i facchini aiutati dalle
ragazze, mettevano a posto gli ultimi mobili, egli si aggirava per le
stanze, con le mani dietro la schiena, scotendo, in segno di
approvazione, la testa, zufolando -- fìchiti-fon! fìchiti-fon! -- Ma il
cuore gli si spezzava, pensando sopratutto alle zucchine, ultima sua
passione, poveretto!


  FINE.



  DELLO STESSO AUTORE:

  _Giacinta_, romanzo, 3ª edizione.
  _Le Appassionate_, novelle.
  _Le Paesane_, novelle.
  _Fausto Bragia_, novelle.
  _Il Braccialetto_, novelle.
  _La Sfinge_, romanzo.
  _C'era una volta....._, fiabe.
  _Il Racconta fiabe_, seguito al _C'era una volta....._
  _Il Drago_, novelle e novelline per fanciulli.
  _Schiaccianoci_, novelle per giovinetti.
  _Gli Ismi contemporanei_, saggi di critica letteraria.

  Prossime pubblicazioni.

  _Idillio provinciale_, romanzo.
  _Scurpiddu_, racconto.
  _Rassegnazione_, romanzo.



      *      *      *      *      *



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Sottoprefetto/Sotto-prefetto, subito/sùbito e
simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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