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Title: Dell'Emancipazione civile degl'Israeliti
Author: D'Azeglio, Massimo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Dell'Emancipazione civile degl'Israeliti" ***


​


                           SULL'EMANCIPAZIONE
                                CIVILE
                           *DEGLI ISRAELITI:*

                                  DI
                          *MASSIMO D'AZEGLIO.*

                      *_Prezzo: una Lira italiana._*

​


                            DELL'EMANCIPAZIONE
                                  CIVILE
                             DEGL'ISRAELITI,

                                    DI

                            *MASSIMO D'AZEGLIO*.

                                   _D._ Chi è il nostro prossimo?

                                   _R._ Tutti gli uomini del mondo,
                                        anche quelli che non sono nè
                                        Cattolici, nè Cristiani.

                                   _D._ Per qual motivo dobbiamo amare
                                        tutti gli uomini del mondo
                                        ancorchè fossero Turchi, Ebrei
                                        ec. ec.

                                   _R._ Perchè Dio ce lo comanda; perchè
                                        tutti sono creature ragionevoli,
                                        fatte a immagine di Dio.

                                        (Dottrina Cristiana ad uso della
                                         diocesi di Torino.)


                                   FIRENZE.
                              FELICE LE MONNIER.
                                     ——
                                    1848.

​
​

                         A MIO FRATELLO ROBERTO.


_Tu ti adopri in Piemonte onde ottenere l'emancipazione degli Israeliti,
scopo a cui tende questo mio opuscolo: m'è caro perciò porvi in fronte il
tuo nome, già benedetto da altri derelitti; ed altrettanto lo tengo a
felice presagio. Siccome ad avverarlo non verrà meno certamente l'opera
tua, possa così concorrervi quella più potente de' Principi Italiani che
già han posto mano ad abbattere altre non meno anticristiane ingiustizie._

                                                       Tuo di cuore
                                                    *MASSIMO D'AZEGLIO*.

        _Roma, 8 Decembre 1847._

​
​

                          PENSIERI PRELIMINARI.


Io interrogo il mio lettore, sia egli debole o potente, grande o piccolo,
principe o suddito, cattolico o protestante, e dico: crede egli vero o
falso, utile o dannoso all'umana società il precetto di carità universale,
d'amor del prossimo, racchiuso nell'epigrafe che ho posta in fronte del
presente opuscolo?

Se lo crede falso e dannoso, chiuda il mio libretto; non ho altro da
aggiungere.

Se lo crede utile e vero, gli domando se gli è avviso che questo precetto,
nel modo istesso che è insegnato dal Vangelo ed accettato egualmente dalla
fede e dalla ragione, sia stato preso per norma, ne' diciotto secoli che
conta il Cristianesimo, dai legislatori, dai principi, dai potenti, dalle
moltitudini, da quanti infine ebbero o si tolsero potestà di scriver
leggi, e stabilire ordini che reggessero l'umana famiglia?

La carità, l'amor del prossimo, il non fare agli altri quel che non si
vorrebbe fosse fatto a noi, primo fra i precetti de' popoli cristiani dopo
quello che si riferisce alla divinità, ha esso esistito ed esiste in
parole, o è applicato ai fatti?

E se più che altrimenti esistesse in parole, quali ne sono le cause? quali
le conseguenze?

​E se queste conseguenze fossero tristi e dolorose per tutti, non è egli
egualmente dovere ed interesse di tutti il cercare di sottrarvisi,
combattendo le loro cause?

Queste interrogazioni che dirigo al lettore, le ho fatte soventi volte a
me medesimo: e guardando al passato ed al presente, alle leggi, alle
consuetudini, agli usi della civiltà cristiana in tutta la sua durata, m'è
sembrato trovarvi una frequente e flagrante violazione del suo principio;
di vederla travagliarsi, soffrire, lacerarsi, ed andar a rischio di
perdersi per un sillogismo falsato, del quale la maggiore e la minore non
avean che fare praticamente colla conseguenza.

E lasciando molti altri casi che non fanno alla questione che intendo
trattare, ho trovato, a cagion d'esempio, che sul fatto degli Israeliti la
civiltà cristiana faceva questo strano sillogismo.

La fede cristiana mi ordina di amare senza distinzione tutti gli uomini.

Gli Ebrei sono uomini.

Dunque io li odio, li perseguito e li tormento.

Lo scopo del breve scritto che offro al pubblico, è diretto a cooperare,
per quanto me lo concedono le mie povere forze, alla restaurazione del
detto sillogismo; a rimetterne i termini nella loro vera e razionale
relazione.

Non avendo potestà di far molto, mi è sembrato dovere l'adoprarmi almeno
come potevo, onde fra le tante applicazioni che rimangono a farsi del
principio cristiano, si venisse intanto a questa. Quanto alle altre,
facciamoci animo: le menti ed i cuori vengono ogni dì più sentendone
l'importanza e il bisogno.

La civiltà cristiana presenta nel lasso degli ultimi cent'anni un fatto
che apre il campo a gravi meditazioni. Nell'ultima metà del secolo scorso,
essa parve rinnegare ​ in massa il suo principio, e mettersi incerta ed
anelante in traccia di principj nuovi.

La rivoluzione, le sue guerre, quelle di Napoleone, l'abuso della vittoria
che l'avea prostrato, il dispotismo senza esempio stabilito dai vincitori,
la reazione ora aperta ora segreta e sempre travagliosa de' popoli, un
mal'essere, un'irritazione generale; ecco ciò che essa trovava.

Sotto fallaci apparenze d'una civiltà superficiale, non era forse mai
stato tempo in cui la politica avesse più intimamente rinnegato il
principio cristiano.

Ma la dura lezione non è stata senza frutto.

Sembra che la Società si venga avvedendo che il mondo morale come il
materiale è retto da grandi ed elementari leggi, e che in esse soltanto
può trovar ordine e riposo; che il travagliarsi per trovar modi di
reggimento, istituzioni, sistemi ec., è opera gettata, se gli uomini non
si convincono dell'importanza ed utilità di dette leggi, e non le seguono;
e fra queste, la prima è quella della carità e dell'amor del prossimo.
Questo convincimento già trionfa nella teoria. Quindi la tendenza alla
restituzione delle nazionalità.

Perchè una nazione non deve imporre ad un'altra quel giogo che non
vorrebbe per sè.

Quindi lo sviluppo del principio del diritto comune, le istituzioni, le
leggi d'uguaglianza civile.

Perchè un principe non deve torre ad altri il suo diritto, come non
amerebbe che gli fosse tolto il suo ec. ec.

Accettato sinceramente il principio in teoria, si può argomentare che non
siam molto discosti della sua applicazione.

Affrettiamola coi voti e coll'opera, e noi Cristiani intanto che ci
travagliamo onde ottener giustizia per noi, rendiamola agli altri; e non
tormentiamo gl'Israeliti come non vorremmo esser noi tormentati ed
oppressi. ​ A chi, sorridendo, m'interrogasse, se io intendo rifare il
catechismo pe' fanciulli; io risponderei che, se mi bastassero le forze,
vorrei non tanto far questo, quanto trovar modo onde quel catechismo che
gli uomini appresero quand'eran fanciulli, lo rammentassero talvolta
allorchè, fatti adulti, vien loro data potestà di promulgar leggi e farle
eseguire, e sta in essi il condurre gli uomini alla felicità, come
l'immergerli nella sventura.

L'emancipazione degli Israeliti, il termine di quella lunga e dolorosa
serie di patimenti, d'oltraggi e d'ingiustizie che ebbero a soffrire per
tanti secoli, non in vista del principio cristiano ma invece colla
manifesta sua violazione, in conseguenza della cecità, de' pregiudizi,
dell'ignoranza, e talvolta, purtroppo! in virtù di cause alle quali una
scusa è ancor più irreperibile; l'emancipazione degli Israeliti è un fatto
oramai incominciato, e che per la condizione de' tempi si può virtualmente
tener per compiuto.

A Pio IX era serbata questa santa e sapiente manifestazione di giustizia e
di carità, che si deve certamente annoverare fra i più importanti e
benefici atti del suo pontificato, come quello che consacra il principio
atto più d'ogni altro a mantenere la concordia e la pace tra gli uomini, e
condurre al trionfo della verità: il principio della tolleranza.

La tolleranza, come tutte le massime vere, utili e sante, ha avuto ed ha
purtroppo ancora i suoi oppugnatori; perchè essa non serve nè la superbia,
nè gli odj, nè la violenza, nè la cupidigia, e toglie anzi agli uomini il
poter dare sfogo a questi loro perversi appetiti: e coloro che appunto
vollero aver piena libertà di sfogarli, conobbero non aver altro modo onde
coonestarli e nasconderne la bruttezza, se non col coonestare le loro ​
passioni coll'apparenza dell'amore del vero e dello zelo per la religione,
e professare l'intolleranza.

E questi furono tra i nemici della tolleranza i più perversi. Altri ve ne
furono di meno perversi, e forse talvolta (tanto è inscrutabile l'umana
coscienza!) incolpabili; quelli dico, che opprimendo, perseguitando ed
usando violenza a chi nella fede e nel culto dissentisse da loro, non lo
fecero per nessuna rea passione, ma per la falsa opinione che fosse questa
la miglior via onde procurare il trionfo ed il regno delle loro opinioni e
della verità, ed opera meritoria e grata all'Onnipotente, il punire coloro
che non la professassero.

Gli uni e gli altri poi combatterono i loro Avversari, amici e cultori
della tolleranza, coll'accusa d'essere o nemici o indifferenti alla fede
che pure apparentemente professavano; ed ebbero spesso sovr'essi il
vantaggio che procura presso le moltitudini una fervente e clamorosa
espressione di zelo per le cose più sante ed auguste, e spesso li
ridussero a ritirarsi dal campo e tacere, pel timore d'essere creduti
appunto nemici o indifferenti a queste sante ed auguste cose.

Ciò è accaduto sempre in tutte le età, tanto nelle cose sacre come nelle
profane, nelle religioni, nelle sette, nelle scuole, nelle parti
politiche; ed ha ottenebrato il mondo di calamità infinite.

A coloro che coonestano l'intolleranza col pretesto di zelo per la
religione, guidati da interessi e passioni private, col fine d'ottener
potenza o ricchezza ad una setta, o rendere prepotente un partito, è
inutile addurre ragionamenti. Codesti motivi hanno radice nella perversità
del cuore, ed a ciò le ragioni non possono rimediare. A quelli invece che
sono intolleranti per difetto di raziocinio, conservando tuttavia cuor
retto e virtuose intenzioni, non è difficile dimostrare ch'essi sono in
errore, ​ e che quest'errore li conduce inevitabilmente al termine opposto
a quello cui tendono i loro disegni.

La tolleranza può essere applicata in due modi: o alle opinioni, o agli
uomini che la professano.

La tolleranza applicata alle opinioni, è giusta e razionale ove queste
sieno non pienamente fondate sopr'una certezza, e perciò disputabile. Ove
invece si tratti d'opinioni certe, o tenute per tali, e perciò incapaci di
controversia, la tolleranza non tanto non è conveniente, ma sarebbe la
cosa più irrazionale del mondo, sarebbe sciocchezza e puerilità.

Chi mai, per cagion d'esempio, potrebbe, per quanto professasse la
tolleranza, applicarla ad un conteggio aritmetico? E se si pretendesse che
un abile computista, dopo aver fissata la cifra finale che risulta da un
conto esatto, ammettesse che è cosa indifferente l'aggiungervi o il
sottrarne una sola unità; non sarebbe stravaganza o pazzia?

E non sarebbe, dall'altro canto, uguale stravaganza o pazzia il pretendere
che intorno a tante questioni non definite nè dimostrate ancora circa il
mondo materiale ed il metafisico, altri dovesse irremissibilmente seguire
la nostra opinione?

Circa le opinioni, dunque, o indubitatamente certe, o che un profondo e
sincero convincimento ci fa considerar come tali, la tolleranza è
irrazionale, ripugnante, ed assurda.

Ma per quello che spetta agli uomini che le professano, la tolleranza è
stretto dovere di giustizia, e condizione indispensabile al trionfo della
verità; siccome al contrario, l'intolleranza è assolutamente ingiusta, e
mantenitrice ostinata dell'errore.

La tolleranza è dovere di stretta giustizia, perchè non è concesso a
nessun occhio umano lo scrutare l'intimo ​ del cuore e della coscienza
dell'altro uomo; pesarne le virtù e le colpe, giudicarne gli effetti,
conoscerne le forze e le reticenze, gl'impulsi e le inerzie; definire
dove, se, quanto e sino a che punto operino i pregiudizi, le sensazioni,
le idee preconcette, fonti d'ignoranza invincibile; e dove invece
incominci l'azione delle passioni, degli affetti interessati, della
resistenza volontaria, calcolata e viziosa, alle manifestazioni
dell'intelletto e della ragione, fonti d'un'ignoranza o d'una negazione
colpevole.

Non essendo, dunque, dato agli uomini di far questa distinzione, nè di
conoscere perciò o la colpa, o il grado di colpa, in che sia caduto
chicchessia in materia d'opinioni, non possono aver modo nè regola per
conoscere se meriti punizione, ed in qual grado la meriti.

Da ciò ne viene, per necessaria conseguenza, che ogni qualvolta
oltraggiano, tormentano o contristano in qualsivoglia modo gli uomini per
il solo motivo delle loro opinioni, o sono assolutamente ingiusti e
crudeli, se codesti uomini al cospetto di Dio e della propria coscienza
non sono colpevoli: ove poi tali realmente fossero, sono ingiusti e
crudeli egualmente, perchè il dare un gastigo alla cieca, senza avere un
criterio certo per poter conoscerne l'opportunità e la misura, è non
minore nè meno pericolosa ingiustizia.

Se queste deduzioni sono vere (e, quanto a me, le tengo per irrecusabili),
ne nasce la necessaria conseguenza, che al solo occhio divino essendo
chiari ed aperti i misteri del cuore umano, a Dio solo è riservato il
giudizio, la punizione o la ricompensa in fatto di credenza. Egli solo
saprà giudicare se fu sincera o finta, virtuosa o colpevole, la sua fede;
e, pel contrario, che ogniqualvolta gli uomini vogliono esercitare
l'ufficio riserbato e possibile al solo Iddio, e farsi interpreti del suo
giudizio, usurpano un'autorità ​ che non hanno, occupano e violano i
diritti degli altri uomini: e questo modo d'agire, che con un solo
vocabolo vien detto intolleranza, è assolutamente contrario alla
giustizia, agli esempi ed ai comandamenti di Gesù Cristo, e conducente non
al trionfo del vero, ma all'ostinata diuturnità dell'errore.

Eppure, questo è precisamente il modo tenuto da secoli cogli Israeliti;
non dirò a nostra vergogna, perchè la generazione presente lo detesta
generalmente oramai; e Pio IX, con quella sapienza resa cotanto vigile ed
operosa dalla carità evangelica che lo infiamma, lo ha solennemente
condannato, stendendo la mano a quei poveri afflitti, come l'ha stesa a
tanti altri: ma a vergogna certamente delle generazioni passate, che così
crudelmente ed ostinatamente lo tennero.

Per quanto l'oppressione del popolo d'Israele sia fatto noto ed
incontestato; per quanto l'universale aborra oggidì dalle antiche sevizie;
non è tuttavia fuor di proposito il farne conoscere brevemente alcuni
particolari, ignorati per avventura dai più: e dando uno sguardo alla
dolorosa storia dei loro patimenti, mostrare quale sia stata la loro
condizione sino al momento presente.


                                    I.

Non credo necessario entrare nella narrazione di fatti anteriori all'epoca
delle Crociate. Basterà l'accennare che sin dai tempi degl'imperatori,
vennero spesso avvolti gli Israeliti nelle persecuzioni medesime dei
Cristiani, ed ebbero al paro di essi ad incontrare le torture e la morte.
Quando poi l'Europa uscì da quello stadio che comprende l'invasione de'
barbari ed il dominio delle prime dinastie ​ dei loro re (stadio nel quale
l'umana società era scesa al punto più basso al quale forse potesse
arrivare), essendosi addensate allora più che in verun altro tempo le
tenebre dell'ignoranza, e dilatato in ogni parte il regno della violenza
la piena dell'iniquità e de' più atroci delitti; uscita, dico, l'Europa da
quest'epoca funesta, parve sentisse generalmente il bisogno d'una grande
espiazione d'una penitenza dura e travagliosa, non inferiore al cumulo dei
delitti commessi, che pesasse ugualmente su tutta la vivente generazione:
e l'Europa s'offriva spontanea alle due più gravi pene che si conoscano,
l'esilio e la morte; e presa la Croce, si moveva verso Oriente.

Ma quel sentimento bollente di rimorso e di pentimento, quel grande atto
di fede di tanti popoli, ebbe un carattere rozzo, ed anzi feroce, come gli
uomini e l'età che lo professava: non si stimò poter fare abbastanza in
onore di Cristo e della sua Religione, nè in esterminio e vituperio di
tutti i suoi nemici: e s'incominciò dai più vicini, e che meno si potevan
difendere; dagl'Israeliti: e quasi ogni partenza di Crociati ebbe a
funesto preludio una popolare e tumultuaria strage di quegl'infelici.

La causa medesima produsse effetti, purtroppo! simili ed ugualmente atroci
anche fuori dell'occasione delle Crociate. La Francia, la Germania, la
Spagna, il Portogallo, l'Inghilterra, la Polonia, la Prussia, la Boemia,
in diversi tempi ebbero le loro proscrizioni; ed il sangue degli Israeliti
fu sparso, in onta del nome e del principio cristiano. Memorabili rimasero
le stragi del 1096, 1146, 1306, 1389; alle quali sempre andarono unite
taglie, espulsioni violente, ed ogni maniera di persecuzione.

L'Italia, culla di civiltà, sede di coltura, d'industria e d'ogni
bell'arte nel medio evo, ebbe in que' remoti secoli men rozzo e feroce
costume, e quindi non si macchiava, o in minor grado, delle crudeltà
sopraddette; e ​ le pagine della sua storia non vengono (salvo rare
eccezioni) attristate dal racconto di stragi d'Israeliti. Bensì da molti
suoi Stati vennero banditi, poscia riammessi. In Napoli soltanto il bando
non ebbe nè revoca nè fine.

Roma, che generalmente fu pur la più mite delle città Italiane verso
gl'Israeliti, ne fece tuttavia uccisione nel 1321. Ma il popolo, non i
Papi, ne furono autori. Sedeva in Avignone Giovanni XXII, il quale, ad
esempio di San Gregorio Magno, Innocenzo III, Innocenzo IV, Alessandro II,
Alessandro III, d'Onorio III e d'Urbano V, scrisse e s'adoperò in favor
degli Ebrei manomessi, vilipesi, taglieggiati e straziati generalmente
allora da Principi e da Popoli. Altrettanta benignità usò cogli Israeliti,
un secolo di poi, Martino V.

Ma la persecuzione violenta della spada e del fuoco dona spesso, e non
toglie, vigore ed energia alle nazioni: bensì toglie ad esse queste nobili
qualità l'astuta ed abbietta persecuzione della corruzione lenta, e della
vessazione continua ed oscura, che dissecca ogni fonte di vita, tronca i
nervi d'ogni virtù; contamina, onde aver pretesto di calpestare; e toglie
così alle sue vittime non solo la difesa, ma persino il compianto.

Di cotali persecuzioni ne offrirono esempi, e ne provaron gli effetti,
anco popoli non circoncisi.

Le progressive modificazioni di quello d'Israele, del suo costume,
dell'insieme delle sue condizioni sociali, servon di prova alle suddette
verità.

Avvolto nelle sanguinose vicende che abbiamo accennate nel medio evo,
straziato, proscritto, cacciato di terra in terra come un gregge immondo,
si temprava al fuoco della persecuzione; non perdeva, anzi fecondava e
nutriva nel suo seno, il germe delle scienze, delle arti e di ogni sapere.
La filosofia, l'astronomia, la medicina, la matematica, ebbero fra
gl'Israeliti ardenti seguaci; e lo ​ spazio compreso tra l'XI ed il XVI
secolo, fu per essi l'epoca più luminosa della scienza e della
letteratura. In Ispagna fiorirono sommi ingegni di codesta nazione; ed
ebbe scrittori, siccome nota Ritter nella sua Storia, i quali furono parte
importante degli studi filosofici del medio evo. Le famose tavole
Alfonsine ebbero per autori dotti Israeliti; molti di loro per lunga serie
furono archiattri pontificj; ed altri, adoperati da vari Principi in cose
di Stato ed in ambascerie (fra' quali l'esule Abarbanel, dotto e nominato
scrittore), corrisposero all'accordata fiducia con retto operare ed
intemerata fede.

Il regno di Ferdinando ed Isabella, durante il quale fu decisa in Ispagna
la lotta ostinata che da tanti secoli durava tra l'Islamismo e la
Cristianità, vide la maggiore e la più tremenda di quante calamità
avessero percosso il popolo d'Israele. Il grande Inquisitore Cardinal
Torquemada imprese e condusse a fine l'enorme fatto di strappare 150 mila
famiglie (circa 80,000 individui) alla terra ov'eran nate e vissute, e
cacciarle alla ventura fuor de' confini del regno; e ciò col breve termine
di tre mesi, senza concedere a quegli sbanditi di portar con loro oro nè
argento. Fu veduto in quell'occasione «darsi una casa per un giumento, una
vigna per una misura di panno o di tela»; ed un tanto numero d'infelici
spogliati d'ogni bene, si sparse per i regni d'Europa, ove l'attendevano
non men dure fortune. Parte veleggiò per Italia. Giunti a Genova, fu loro
appena concesso di sbarcare al molo, ed ivi rimanere. Molti vi perirono di
stento e di fame. Altri, confidatisi a scellerati padroni di nave, che
piuttosto si mostrarono poi assassini o pirati, vennero traviati a spiagge
lontane, e venduti come schiavi. Alcuni furon lasciati nudi sopra aridi
scogli; ed i più, preferendo una pronta fine alla lenta agonia che li
aspettava, si sommersero volontarj nel mare.

Quegli Israeliti invece, che per sottrarsi all'esilio ed a tutti i mali
suddetti, aveano abbracciata la religione cristiana, erano vigilati dalle
spie dell'Inquisizione, ed ove cadessero in sospetto di _giudaizzare_,
tratti nelle carceri del tremendo tribunale. Ognun sa de' suoi roghi e de'
suoi tormenti: ma non sanno tutti che in quel tempo si giunse (a Siviglia)
persino a violare la santità de' sepolcri, col pretesto di disperdere anco
le ceneri degli Israeliti, e col fine di rubare quanto di prezioso era
stato sepolto coi loro cadaveri.

L'agitazione religiosa del secolo XVI, che tanti mali addusse all'Europa
cristiana, fu cagione agli Israeliti di nuove e non minori sventure.
Persecuzioni ed eccidi li colpirono negli anni 1541, 1554, 1559, 1574: nè
il susseguente secolo sorse ad essi più mite; ma gli anni 1614, 23, 34,
48, 53, ricondussero su loro rinnovate le medesime crudeltà. Sino a un'età
assai vicina alla nostra, al cominciare del secolo scorso, occorsero
esempi di persecuzione brutale e violenta; e sotto il regno di Carlo I di
Borbone, quegli Israeliti che, senza formar corpo o società separata,
trovavansi in Napoli, ne furono per decreto del re interamente sbanditi.


                                   II.

Con questo fatto si poneva finalmente un termine alla violenta
persecuzione informata della ferocia del medio evo; ma ne sottentrava
un'altra più o meno aperta ed ostile, secondo il diverso carattere degli
Stati e dei Governi Europei: persecuzione, come abbiamo osservato, assai
più fatale ad un popolo, e più efficace a condurlo ad una morale e
materiale dissoluzione.

Questa persecuzione non è però generale ora in Europa, ​ ed anzi è quasi
cancellata dalle leggi e dalle tradizioni popolari in molti Stati.

In Inghilterra gl'Israeliti hanno superato ormai ogni difficoltà. Essi
ottennero la facoltà di venir nominati alla carica d'_Alderman_ e di
Sceriffo, e la pienezza del diritto municipale. Il primo collegio
elettorale del regno ha ora presentato uno di loro alla camera de' Comuni:
fatto gravissimo, se si consideri il vincolo che stringe la Chiesa
stabilita col potere sovrano.

L'Olanda appena sottrattasi alla dura dominazione spagnuola, era stata
agli Israeliti larga de' suoi favori. Mentre ancora durava nel resto
d'Europa la loro oppressione, ottennero quivi gradi, uffici e titoli di
nobiltà; e all'occasione si mostrarono buoni cittadini, ponendo le
sostanze e la vita in difesa di quella terra che tanto s'era loro mostrata
ospitale. Il nuovo regno de' Paesi Bassi si attenne riguardo ad essi alla
medesima politica.

In Francia, dalla Rivoluzione in qua, agli Israeliti sono concessi que'
diritti medesimi che possiede ogni altro cittadino.

La Spagna ed il Portogallo, che più d'ogni altro Stato si mostraron
crudeli contro gl'Israeliti, seguono ora l'esempio de' più civili popoli
dell'Europa occidentale; ed è fatto curioso il vedere l'Ordine d'Isabella
la Cattolica, di quella regina che tanto inesorabile si mostrò contro
gl'Israeliti del suo tempo, appeso ora sul petto d'un Toscano di loro
fede.

Il resto dell'Europa, che pur finalmente anch'essa si veste di più giusto
e mite animo verso gli Israeliti, offre nonostante ancor molti esempi
d'oppressione e d'ingiuste esclusioni.

In Prussia, al tempo della guerra sostenuta con tanto onore per
l'indipendenza contro Napoleone, gl'Israeliti al par de' Cristiani
adempirono al primo fra i doveri del ​ cittadino, combattendo
virtuosamente l'invasione. I principi germanici, ed il re di Prussia in
particolare, ebbero grandemente a lodarsi di loro; e con editti ad essi
favorevoli, ne premiarono i portamenti, e vieppiù ne accesero lo zelo.

Ma venuta la pace, ristabilito l'antico stato, si mancò a questa come ad
altre promesse: si tolse agli Israeliti il poter occupare altri uffici
oltre quelli ottenuti nell'ora del pericolo, e il venire ammessi come
professori nell'università. Queste esclusioni si vennero tuttavia a mano a
mano temperando; ed ora, combattute dalla stampa e dall'opinione, posson
tenersi come totalmente cessate.

Negli Stati ereditari austriaci, ed in alcune delle parti che compongono
l'impero, le condizioni degl'Israeliti son sempre poco liete. Il marchese
di Saint-Aulaire dovette interporsi per liberare i sudditi francesi dalla
tassa di soggiorno in Vienna, e dalla giurisdizione del _Judem-Bureau_. In
Gallizia soggiacciono a molte vessatorie restrizioni, qual è l'antico
balzello posto sovra ciascuna famiglia in ragione del numero de' lumi
accesi da essa sulla lampada Sabatica.

Gl'Israeliti di Cracovia hanno inutilmente implorata dal Consiglio Aulico
la continuazione di quelle leggi che li reggevano sotto la spenta
repubblica; e si trovan ridotti a circostanze peggiori.

In Boemia, contro il voto dell'alta cittadinanza, il governo rese più miti
le leggi sugli Israeliti, che poteron persino acquistare titoli di
nobiltà, e vennero liberati dalle imposte eccezionali che gli aggravavano.
Una cattedra di lingua e letteratura Rabbinica venne istituita in Praga.

In Ungheria invece, ha opposto il _veto_ al desiderio della Dieta di
accordar loro l'emancipazione.

Il re di Baviera si mostra avverso alla rigenerazione degli Israeliti: la
qual cosa è cagione di numerose emigrazioni.

In Sassonia vengon loro concessi molti diritti civili. Nell'università di
Lipsia non occorre abiurare l'Ebraismo per occupare una cattedra.

I granduchi di Sassonia-Weimar e di Mecklemburgo hanno francato
gl'Israeliti dalle tasse eccezionali.

Nel Wurtemberg sono pressochè emancipati: possono esser eletti deputati, e
divenire anco ministri.

Nel Ducato di Baden si sta consultando e discutendo sulla loro intera
emancipazione. La città d'Amburgo si dispone anch'essa ad ammetterli nel
diritto comune: e nel regno di Annover vennero accettati al servizio
militare.

La Svezia e la Norvegia si vengono disponendo ad una riforma delle leggi
sugli Israeliti. Il ministero ha ordinata un'inchiesta sulla loro
condizione; e lo Storthing di Norvegia, sovra 81 voti, n'ebbe 58 (fra'
quali ve n'eran tre di Vescovi) in favor loro. A questi atti d'ammenda e
di riconciliazione in Boemia, in Svezia ed in Amburgo, corrisposero tosto
gli Israeliti. Zeda Kaucer, Heim e Benedictus, disposero per testamento di
varj milioni in favore delle città alle quali appartenevano; e vollero che
fossero applicati ad istituzioni utili, senza differenza di fede.

Il partito preso dall'imperatore Niccolò sul fatto degli Israeliti, mentre
per un lato appare enorme e crudele, mostra per l'altro l'intento di
toglierli ai traffici ed all'usure che esercitarono da tempi antichissimi
in quelle regioni, e ne furono un grave flagello, onde renderli invece
agricoltori e possidenti. Non ho dati bastanti per farmi un'idea chiara
della questione; ed il darne anche un breve, ma determinato cenno, come ho
procurato trattando d'altri Stati, sarebbe avventato, e perciò me ne
astengo.

Il Sultano Abdul Medjid si mostra favorevole agli Israeliti, ​ e tende ad
assimilarli ai Cristiani di tutte le comunioni, in ogni loro contatto col
Governo. Essi sono ammessi nel nuovo istituto di pubblica istruzione.

Venendo ora all'Italia, dobbiam riconoscere che se essa si mostrò meno
avversa delle altre nazioni agli Israeliti nel medio evo, non si può darle
il medesimo vanto ne' tempi moderni; ed ora soltanto, grazie al Pontefice
riformatore, spunta per quel popolo perseguitato un primo albore di
miglior avvenire.

Ciò mostra che i modi tenuti cogli Israeliti furono e sono in ragione
della maggior o minore civiltà de' popoli. L'Italia perchè più civile
delle altre nazioni nel medio evo, fu con essi meno crudele; rimasta in
seguito addietro, giunse più tarda a sentire la giustizia e il dovere
della loro emancipazione.

In Piemonte la più antica legge che si conosca risguardante gli Israeliti,
è del 1430. Si vede però dal suo contesto, che doveano esistere
provvedimenti anteriori. Nel 1551 gli statuti permisero agl'Israeliti di
prestar denaro sovra stabili, che alla scadenza potevano anco ritenere in
pagamento, soddisfacendo alle tasse comuni. Nel 1576 Emanuele Filiberto
permetteva di più; ed era loro lecito esercitar medicina e chirurgia, col
consenso dell'Arcivescovo e del protomedicato. _(Editto 5 Giugno 1576.)_

Carlo Emanuele confermava le dette concessioni nel 1603; e sin qui la
condizione degli Israeliti era in Piemonte assai più comportabile che in
altre parti d'Europa.

Le regie costituzioni promulgate nel 1723-29-70, toglievano le concessioni
di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele, e stabilivano vessazioni non
usate sino a quel tempo. Divieto di fondare od ingrandir sinagoghe, e
soltanto licenza di racconciar le esistenti. Divieto di posseder beni
stabili, salvo quelli ad uso di propria dimora, e di cimiterj. ​ Ove un
Israelita venisse ad occupare stabili in estinzione d'un debito, dovea
venderli dopo un anno.

La Repubblica e l'Impero francese restituirono agli Israeliti i diritti
civili, e li resero eguali agli altri cittadini.

La Restaurazione del 1814 richiamò in vita le antiche costituzioni, e le
loro condizioni divennero più che mai triste. Gli studenti vennero espulsi
dalle università e dalle scuole; i laureati dovettero scegliere tra l'ozio
e l'esilio; i possidenti ebbero cinque anni di tempo a vendere i loro
stabili; ed ogni ufficio, sì comunale che governativo o militare, fu
negato agli Israeliti, che vennero di nuovo rinserrati nel Ghetto. Quivi
ridotti, per campar la vita, al più abbietto commercio, vennero al tempo
stesso esclusi da ogni pubblica beneficenza: dovettero da sè pensare ai
loro poveri, validi od infermi che fossero; all'educazione de' loro
fanciulli, limitata alla più elementare istruzione; poichè, esclusi dalle
università e dall'esercizio d'ogni professione, non avean nè modi nè
scopo, onde divenir esperti in scienza od arte veruna.

Alcuni possidenti ottennero però, per grazia del re Carlo Alberto, una
proroga al termine fissato per la vendita de' loro stabili; nè venne loro
mai negato di fondar nuove sinagoghe, quando ne occorse il bisogno.

Credo si possa affermare, essere gl'Israeliti del Piemonte al momento
presente in peggior condizione di tutti gli altri loro correligionarj
Italiani; ma l'esempio di Pio IX, ed il nobile assunto preso dal re Carlo
Alberto di rinnovare e riformare lo Stato, promette prossimo il termine
d'una tanto vecchia ed anticristiana ingiustizia.

In Toscana sino dal 1593 venne concesso agli Israeliti di poter
liberamente esercitare il traffico, le arti ed ogni industria; e vennero
fatti sicuri nella libera osservanza del loro culto, e ne' sacri diritti
di famiglia.

Nello scorso secolo ebbero da Leopoldo I di poter godere dei diritti
municipali.

Nel 1814 Ferdinando III abolì le loro giurisdizioni eccezionali, e li
sottopose agli ordini ed alle leggi comuni, tutelandoli con speciali
provvedimenti nell'esercizio del loro culto.

Leopoldo II gli ammise alla milizia cittadina.

Essi, ciò nondimeno, sono ancora soggetti alle seguenti esclusioni.

Non sono accettati nell'esercito; e nella _tratta_ estraendo un numero
_marciante_, debbono mandare un altro in vece loro.

Sono esclusi dalla professione forense; ed è da notarsi che la Laurea che
vien loro concessa, non è però punto eccezionale nè limitata.

Sono parimenti esclusi dagli impieghi governativi; quantunque neppur in
ciò vi sia legge espressa che lo vieti, come per quegli uffici ove è
espressamente voluta la condizione di professare la religion cattolica.

Non pertanto, il Governo in alcuni casi ha introdotte eccezioni a questa
consuetudine.

La nuova vita data ora all'Italia da' suoi Principi riformatori, s'è anco
manifestata nel fatto degli Israeliti, rendendo generale tra' Cristiani il
desiderio della loro rigenerazione, e più viva tra' primi la speranza e
l'operosità per ottenerla. Il giorno 3 novembre una loro deputazione,
presieduta dal signor Pardo-Roques, presentò all'ottimo Principe una
domanda d'assoluta emancipazione, accolta paternamente dal Gran Duca, e
confortata di buone speranze, che non saranno certamente vuote ed
illusorie lusinghe.

Nel Regno Lombardo-Veneto e nel Ducato di Parma assai mite è la condizione
degli Israeliti. Essi sono ammessi nella milizia, all'esercizio di molti
pubblici impieghi, ​ alla professione legale, e ne' consigli municipali.
Ad un dipresso, le medesime leggi li reggono nel Ducato di Modena.

Nel Regno delle Due Sicilie non sono Comunità Israelitiche.

Passo ora agli Israeliti di Roma, che furono principale ed immediata
cagione che io dessi opera a questo breve cenno; e dai quali, condotto
dall'argomento e dalle attuali tendenze dell'opinione, mi son poscia
esteso a parlare anco degli altri, tanto esteri che Italiani, e a trattare
con qualche maggior larghezza la questione di principio, che si connette
alla loro causa.


                                   III.

Sotto il Pontificato di Paolo IV, nel 1554, furono gli Israeliti rinchiusi
nel Ghetto.

Che cosa sia il Ghetto di Roma, lo sanno i Romani, e coloro che l'hanno
veduto. Ma chi non l'ha visitato, sappia che presso il ponte a Quattro
Capi s'estende lungo il Tevere un quartiere, o piuttosto ammasso informe
di case e tugurj mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti (chè ai
padroni per la tenuità delle pigioni, che non possono soffrir variazioni
in virtù del jus Gazagà,^[1] non mette conto spendervi se non il pretto
indispensabile), nei quali si stipa una popolazione di 3900 persone, dove
invece ve ne potrebbe capire una metà malvolentieri. Le strade strette,
immonde, la mancanza d'aria, il sudiciume che è conseguenza inevitabile
dell'agglomerazione sforzata di troppa popolazione quasi tutta miserabile,
rende quel soggiorno tristo, puzzolente e malsano. Famiglie di que'
disgraziati ​ vivono, e più d'una per locale, ammucchiate senza
distinzioni di sessi, d'età, di condizioni, di salute, a ogni piano, nelle
soffitte e perfino nelle buche sotterranee, che in più felici abitazioni
servono di cantine.

Questa non è la descrizione del Ghetto, nè d'un millesimo delle dolorose
condizioni che, nel silenzio e nell'abbandono d'una miseria ignorata, si
verificano fra le sue mura; ma vi è appena un cenno: chè a farne una
giusta relazione, troppo ci vorrebbe.

Così per capi principali verrò toccando delle maggiori miserie che
soffriva e soffre quest'infelice popolo.

Anticamente (si conosce per tradizione) gli Israeliti dovevano nell'agosto
dare di sè turpe spettacolo alla plebe ne' così detti giuochi d'Agone e
Testaccio; dovevano parimente precedere a piedi, fra gli oltraggi del
popolo, la cavalcata del Magistrato Romano. Clemente IX li assolse da
questa dolorosa cerimonia, mediante una prestazione di 300 scudi; e dai
giuochi predetti, mediante un'altra di scudi 531. 17. a beneficio della
Camera Capitolina.

Una deputazione de' Maggiorenti della Comunità Israelitica doveva
presentarsi, il primo sabato di carnevale, al Magistrato Capitolino
radunato in seduta pubblica, e fargli una prestazione in denaro, ed una
umile allocuzione. Il Magistrato rispondeva brevemente, ed il suo capo
congedava i Deputati con una parola di disprezzo. Ma questa cerimonia
vergognosa poteva ella sussistere sotto un Pio IX? Egli l'abolì appena
giunto al pontificato.

È vietato agli Israeliti il possedere beni stabili, professare arti
liberali e che richiedano pubblica fiducia, come avvocati, notai, medici;
e neppure i mestieri più comuni, di fabbro, scalpellino ec.: e per una
strana e capricciosa eccezione, venne loro concesso, son pochi anni, di
poter esser falegnami, tessitori di cotonine, ed ebanisti.

Alla casa de' Catecumeni sono pagati annualmente dagli Israeliti scudi
1100, e scudi 300 al monastero delle Convertite; e questo tributo non si
appoggia ad altro titolo salvo la volontà di chi lo impose. Quando noi ci
lagnamo che il Governo Inglese costringa i Cattolici d'Irlanda a far le
spese ad un culto che non professano, ci lagnamo a ragione. Perchè,
dunque, fare agli Israeliti quel medesimo che non vogliamo sia fatto a
noi?

Molti pesi sono inoltre imposti agli Israeliti, a cui non soggiacciono gli
altri sudditi; mentre a questi sono aperte tutte le vie dell'industria e
d'un onesto guadagno, che ai primi sono chiuse.

Una tassa detta d'Industria e Capitali, attualmente pagata da 113
individui, di cui l'infima cifra è di sc. 4, la massima di sc. 150.

Alla Camera Capitolina, per ispesa de' pali ed apparature del Carnevale,
scudi 831. 57. 1/2. Ora però la Commissione incaricata da Sua Santità di
compilare lo Statuto del Municipio, e che così onoratamente e con tanta
soddisfazione dell'universale ha saputo adempiere la sua missione,
proponeva l'abolizione della prestazione suddetta.

Al Segretario del Vicariato, per la sua presenza alla predica alla quale
debbono assistere gli Israeliti in Sant'Angelo in Pescheria,
coll'accompagno altresì de' Carabinieri, scudi 73. 60.

Quanto questa predica, udita a forza e con tale apparato, conferisca a
disporre gli animi ed aprire i cuori a quegli affetti che preparano le vie
alla persuasione, ognuno lo può immaginare.

Al portinajo cui è commesso la guardia delle porte del Ghetto, scudi 163.
60.

Ai Parrochi delle circonvicine parrocchie, onde compensarli della
popolazione cristiana che potrebbe occupare l'area tenuta dagli Israeliti,
scudi 123.

Mancie prescritte di Natale e Agosto, scudi 205.

Apparati e palchi pel carnevale ad uso di pubbliche deputazioni d'ufficio,
scudi 109. 92.

Legale, Computista, Esattore dell'Università israelitica, che debbon esser
Cristiani, scudi 360.

Una tassa d'un bajocco sopra ogni libbra di carne. A ciò s'aggiunga, che
non essendo gli Israeliti ammessi a partecipare della pubblica carità, del
beneficio degli ospedali, dei lavori a sollievo de' poveri, ed essendo
essi (e come sarebbero altrimenti?) la massima parte poverissimi, tantochè
si calcola gli individui privi all'atto d'ogni proprietà ascendere a 2000;
ne avviene necessariamente, che la loro sussistenza in istato di validità,
e la loro cura in caso di malattia o di vecchiaja, ricade sui più
facoltosi, i quali sopportano così un peso di soprappiù, che per gli altri
sudditi rimane incluso ne' comuni balzelli e nelle generali imposizioni.
Tantochè, una terza parte degli Israeliti Romani è costretta provvedere al
mantenimento dell'altre due!

E dobbiamo aggiungere, in lode ed onore dell'Università Israelitica, che
non ostante le strettezze cagionate da tanti ostacoli posti allo sviluppo
della sua industria ed al fruttato de' suoi capitali, i poveri sono
ajutati o col lavoro o coll'elemosine; gli ammalati, i vecchi,
gl'impotenti, soccorsi di pietose assistenze e di medicine: cosicchè a
quella misera e conculcata plebe sono prestati tutti quegli ajuti che
comportano le angustie e le difficoltà d'ogni genere in che trovasi la
loro piccola repubblica.

A questa carità che s'esercita sui bisogni materiali, s'aggiunga l'altra,
anco più importante, che s'adopra a supplire ai morali: della quale si
vedono i frutti nella conosciuta incolpabilità degli abitanti del Ghetto,
che giammai, o rarissime volte, vengono in mano della Giustizia, ed è cosa
inaudita siano accusati e presi per ladri.

​
                                   IV.

Da questo breve discorso, e dai pochi fatti accennati, che non dipingono
se non una porzione di ciò che fu fatto patire agli Israeliti, ne emerge,
dunque: che, mentre in principio religioso e razionale è evidentemente
ingiusto il tormentar gli uomini pel solo fatto della fede che professano,
gli Israeliti sono stati lungamente tormentati per questo solo fatto, e
non per altro.

Ma qual può essere stata la cagione plausibile d'una così lunga e strana e
dolorosa contradizione? Dire che essa sia nata da fierezza e crudeltà
d'animo, dall'intenzione deliberata di far soffrire, e vendicare il
Cristianesimo delle offese fatte dagli antichi Israeliti al suo
istitutore, non si può ammettere; chè troppo ripugna il macchiare con
queste accuse, tante nobili e generose nature d'uomini, quali sorsero,
vissero ed ebbero autorità nelle generazioni passate. Accusarne l'umana
cupidigia? Ciò forse sarebbe possibile, trattando d'età remote; ma alle
più vicine alla nostra, non è adattabile: poichè i profitti che si
ricavano dalle tasse arbitrarie sovraccennate, se sono importanti quando
escono dalle mani di chi ha troncata presso che ogni via di guadagno, sono
però di poco momento quando si versano nel tesoro dello Stato. Tuttavia la
cupidigia, non della parte alta del Governo ma di bassi subordinati, è
forse cagione, in parte, che si mantenga in Roma l'antica oppressione
degli Israeliti.

Dunque, una sola spiegazione resta accettabile: vale a dire, che
l'oppressione in che si sono tenuti gli Israeliti sia stata ordinata allo
scopo di condurli ad abbracciare la fede di Cristo; e che le persone rozze
ed ignoranti vi abbiano applaudito e cooperato, con animo di punire di ​
giunta sulle generazioni presenti la colpa degli antichi suoi padri.

Nello stabilire e nel dimostrare che l'intolleranza è ingiustizia; ed è lo
stesso che dire, contraria all'indole ed alla lettera del Cristianesimo;
aggiunsi che è insieme conducente non al trionfo della verità, ma
all'ostinata diuturnità dell'errore.

Chi mai, interrogando se stesso ed il profondo senso del cuore, non
riconosce che il convincimento è la più incoercibile, la più
essenzialmente libera di tutte le operazioni dell'anima umana; quella che
più si sottrae alla violenza, più si sdegna contro ogni giogo forzato, e
più ostinatamente lo ricusa e lo scuote? Ed in prova, qual è il
convincimento considerato complessivamente in una società d'uomini che si
sia piegato o mutato sotto un'azione violenta? Quale la fede che si sia
spenta nel sangue de' suoi martiri? Quale la setta, l'opinione sociale o
politica, che sia stata convinta, convertita, e perciò abbattuta coi
patiboli e colle torture? Piccole società unite dal vincolo d'una fede, si
potrebbero spegnere uccidendone tutti i singoli individui, come s'usò coi
Templari. Ma chi potrebbe fermar pure il pensiero oggidì sopra simile
enormità?

Una fede, dunque, che non si possa o non si voglia combattere con queste
scellerate armi, non sarà mai mutata e spenta con quelle che, quantunque
in più temperato modo, vengono pure dallo stesso principio; vale a dire le
persecuzioni, le oppressioni, le vessazioni.

Gl'Irlandesi rimasti cattolici, i protestanti francesi rimasti
protestanti, lo dimostrano; ed è inutile citare altri somiglianti esempi,
che a tutti ricorrono per loro stessi alla memoria ove si parli di
persecuzioni religiose. E ciò che è accaduto pel passato, accadrà
costantemente sino alla fine dei secoli; perchè non si mutano le
condizioni ​ dell'umana natura, e non possono perciò mutarsi gli effetti
che ne derivano.

Le passioni, gli affetti, gli istinti che hanno più profonde e tenaci
radici nel cuore umano, concorrono tutti a rendere invincibile la
resistenza contro la persecuzione, anco quando detta resistenza non è
mantenuta ed afforzata da soprannaturali pensieri. L'orgoglio offeso, la
libertà conculcata, l'ingiuria sofferta, e la sete d'averne in qualche
modo vendetta, bastano ad infondere nel debole quell'ostinata e lunganime
energia di resistenza, che non si spaventa della morte o del supplizio,
non si stanca della sistematica persecuzione, ma giunge a stancarla, e ne
trionfa sempre alla fine. L'uomo posto in balía d'una forza prepotente,
contro la quale non ha difesa, che lo calca sotto i piedi, lo tormenta, lo
strazia in mille modi per aver vittoria della sua volontà, si riduce alla
disperata voluttà che sola rimanga all'oppresso, di non voler dare
all'oppressore il gusto della vittoria; e gli dice, o lo pensa, se dirlo
non osa: «Tu sei di tanto più forte di me; ma con tutta la tua forza non
otterrai di sottomettere la mia volontà.» Questa soddisfazione d'un
orgoglio sdegnato si compra con ineffabili dolori, è vero; ma l'amaro
patto è accettato dagli uomini quasi sempre, ce l'insegna la storia: chè
tale è la nostra natura.

E ciò può avvenire, ed avviene, per effetto soltanto di passioni o
colpevoli, o almeno non virtuose, del cuore umano.

Ma se alla forza che queste imprimono, s'aggiunga quella prodotta da'
sentimenti e credenze sincere; quanto più vigorosa non ne diverrà la
resistenza, quanto più arduo l'ottenerne vittoria per le vie del terrore e
della violenza? E quante volte l'errore non è egli sinceramente creduto
verità, e come tale generosamente propugnato?

Nobili cagioni, ovvero passioni colpevoli, o non lodevoli per lo meno,
possono dunque egualmente, secondo i casi, render vane e deridere tutte le
furie della persecuzione. Siccome è assai raro che le cause moventi delle
nostre azioni siano assolutamente buone o assolutamente cattive, ed hanno
quasi sempre un'indole complessa e composta di bene e di male; perciò
quasi sempre la resistenza alla persecuzione fondandosi sui più nobili
affetti come sui più appassionati istinti del cuore umano, ne acquista
forza doppiamente invincibile: e perciò chi conosce una verità, ne è
convinto e vuol convincere altri, dee (se pur è sincero, e se lo zelo per
la verità non gli serve di coperta ad ignobili fini) usar riguardo
grandissimo onde non raddoppiare i motivi di resistenza, destando nei
cuori le anzidette passioni, e non ridurre una questione di principj ad
una questione d'orgoglio, di puntiglio o di vendetta.

Chi vuol persuadere, deve conciliarsi il cuore, prima di dar l'assalto
alla ragione: chè (persuadiamocene) la simpatia, l'affetto che sa ispirare
il persuasore, forma sempre i tre quarti della persuasione. E in qual modo
s'ispira amore e simpatia? colla violenza, coll'oltraggio, col tormentare?
ovvero colla mansuetudine, colla carità e col beneficio? E quegli che la
Chiesa ci presenta qual tipo e modello in terra della sapienza divina,
quale de' due modi teneva? Quale ci comandava, e c'insegnava coll'esempio?
C'insegnava quello che è solo utile, solo accettabile, perchè solo
profittevole. E perchè, dunque, all'atto pratico teniamo il modo
contrario?

A voler ridurre gl'Israeliti ad abbracciar la fede di Cristo, dovevamo, ad
esser razionali, porre invece immensa cura onde non potessero tenersi nè
offesi, nè oltraggiati da noi: dovevamo comprenderli ed abbracciarli in
quella carità universale che è un precetto, non un ​ consiglio, affinchè
la passione dell'ingiuria sofferta non sorgesse mai qual argine
insuperabile, tra la persuasione e la volontà, tra la fede ed il cuore,
che doveva amarla per poterla accettare: dovevamo tenerci cari, chiamar
fratelli, colmar di beneficj coloro che volevamo ridurre nelle nostre vie,
come fecero Gesù Cristo e gli Apostoli. E se tenendo altri modi non ci
fosse venuto fatto il convincerli, non avremmo almeno a sentir rimorso del
nostro operato; nè saremmo ridotti a riconoscere, che se la fede nostra
non è entrata in que' cuori, la colpa è assai più nostra che loro.

Gran meraviglia veramente che uomini sottoposti ad ogni momento della loro
dolorosa vita a qualche oltraggio, a qualche strapazzo od angheria, non
abbiano il cuore aperto per chi è ministro del loro soffrire! come non
trovino desiderabile e da amarsi la legge che questi loro tormentatori
professano!


                                    V.

Figuriamoci (chè alla fine bisogna internarsi nelle cose e venirne al
concreto) lo squallore d'una delle povere famiglie di Ghetto, radunata in
quell'oscura ed immonda tana, ove nasce, ove cresce e vegeta la sua povera
vita, e sempre soffrendo si spegne ignorata nelle malattie e nella
miseria. Ma, Dio buono! sotto que' cenci, in quel sudiciume, in quella
privazione d'ogni bene morale e fisico, vi sono uomini come noi, uomini e
non animali, non cose: uomini che la nostra legge, che le leggi più
elementari dell'umanità ci comandano di avere in conto di fratelli; vi
sono cuori che eran da Dio destinati a goder le ineffabili letizie
dell'infanzia, le gioje della giovinezza, le forti passioni della
virilità, e gli estremi e ​ placidi conforti della vecchiaja; vi sono
cuori di figli, di mariti, di spose, di padri; qual diritto v'era di
conculcare tanti affetti, di spegnere tante gioje, di deturpare tanti doni
di Dio, calpestar tanti germi utili e generosi, di infrangere tante vite,
di contristare tanti spiriti immortali?

Figuriamoci quel povero Israelita che è padre e sostegno di questa
famiglia, che avrebbe avuto da Dio forza ed intelletto onde esercitare
un'arte o un mestiere, divenire un buon operajo, veder la famigliuola
crescere e fiorire nella competente agiatezza della povertà industre,
partecipare a que' beni, a que' misurati spassi che la Dio grazia sono
ottenibili anco dal povero, purchè non gli sia tolto il lavoro; vediamolo
ritornare nella sua trista buca dopo un giorno speso a correr le vie della
città pel suo lurido commercio di cenci, arrecando con sè o nullo o
scarsissima frutto di sua fatica; entriamo in quel cuore, e pensiamo quale
debba essere, mentre considera la crudele violenza che toglie dal sangue
suo non gli agi, le delizie de' ricchi, ma il pane, ma l'aria, l'aria
salubre, la luce, il sole, que' tesori tanto largamente profusi da Dio,
onde sian comuni al debole come al forte, al ricco come al mendico! Qual
ira, qual odio disperato non deve rodere il cuore di quell'infelice? Qual
orrenda maledizione non deve egli scagliare contro coloro che sono cagione
della sua miseria, del lento strazio della sua famigliuola, contro la
Legge che seguono? Chè la disperazione rende ingiusto, nè rimane in
potestà del disperato entrare in distinzioni, e dare la ragione od il
torto con giusta misura.

Figuriamoci che, deposto appena il fastello di cenci che ha riportato
dalla sua cerca, sia appunto il giorno in che è costretto andar sotto la
scorta de' carabinieri in S. Angelo a sentir la sua predica; pensiamo qual
animo ​ debb'essere il suo nell'avviarsi, nel sedere in Chiesa, nell'udire
quella parola di Carità e di Pace, che per lui si volge in un tanto atroce
dileggio! Quali disposizioni può avere per cavarne frutto? Non è forse
connaturale alla struttura del cuore umano, ch'egli invece, a sfogo d'uno
sdegno, d'un odio così forzatamente represso, e che non ha altre vie di
soddisfarsi, dica in cuor suo: «Tu puoi bene costringermi ad udirti, ma il
gusto di vedermi persuaso non l'avrai in eterno!»

E quest'uomo, preso all'opposto per le vie della giustizia, della carità,
dell'amore, aveva forse un'anima generosa, un cuore accessibile a verità,
a speranze auguste ed ineffabili; non avrebbe passata la vita nella
maggiore tra le miserie del corpo, l'impossibilità del lavoro; e nella più
amara tra le miserie dell'anima, la necessità dell'odiare. E come è stato
spogliato di que' beni che eran suoi, perchè avuti da Dio? come è stato
sepolto in un abisso di guai, ai quali non l'aveva Iddio condannato? chi
ha spenta per esso l'ardente fiaccola della carità e della fede? chi l'ha
respinto, rigettato dal Cristianesimo; da quella legge che anco i non
credenti rispettano ed ammirano qual simbolo d'unione tra gli uomini, di
concordia, di civiltà universale?

L'ha respinto la cieca intolleranza. V'è chi ardisca negarlo? v'è chi
possa dire che non son vere le mie parole, non reali le cause, e
conseguenti gli effetti che ne ho desunti?

Se la teoria dell'intolleranza è oramai esclusa dall'opinione delle classi
colte, ha però ancora molti seguaci tra il popolo: ed è triste e doloroso
spettacolo veder talora, cagione gli antichi pregiudizj, il popolano
povero e condannato a molti stenti, a molte miserie, e che dovrebbe perciò
aver viscere di compassione per chi gli cammina al fianco in questa
dolorosa via, render invece ​ più duro ed acerbo il viaggio del suo
compagno, perchè non professa la sua medesima legge!

Cerchino le classi colte, nel contatto che hanno colle inferiori e più
rozze, di cancellare questi odj, questi pregiudizi, queste ruggini
antiche, contrarie alla carità evangelica e ad ogni viver civile. La
repulsione che ancora sussiste fra il popolo contro gli Israeliti, nasce
principalmente dall'idea che la loro razza sia maledetta. Ma Gesù Cristo
spirante in sulla Croce, non perdonava forse persino a coloro che ve
l'avevano confitto? non pregava forse per loro? Si dovrà dunque cercare
appello da una sentenza d'assoluzione, d'amore e d'oblio, pronunziata dal
Redentore? Ma vi fosse anco, e fosse aperta ed esplicita una maledizione
su quell'infelice popolo; chi potrà mostrarmi egualmente aperto ed
esplicito il comando a noi d'esserne esecutori? Dove sta scritto che i
Cristiani debbano farsi i carnefici degli Israeliti? Io vedo scolpita in
ogni pagina del Vangelo l'idea d'una carità che non distingue nè
individui, nè nazioni; che stringe nel suo abbraccio fraterno tutti i
popoli della terra, e li chiama fratelli: ma non trovo una sola parola che
ne dia autorità di respingere, d'aver in odio e disprezzare o tormentare
nessuno.


                                   VI.

Di un'accusa mi rimane ora a tener discorso; la quale creduta giusta e
fondata da molti, è fonte di ripulsione e d'ostilità contro gl'Israeliti.

Molti stimano che la morale da essi professata li guidi e li freni
soltanto nelle loro relazioni scambievoli, e si muti o si rallenti ove
abbiano a trattare con uomini di diversa fede. Se ciò fosse vero, la loro
Comunità sarebbe certo barbara, selvaggia, e da combattersi e
distruggersi, ​ o almeno conculcarsi tanto che non potesse nuocere: ma ciò
invece è assolutamente falso.

Che talvolta, ove il potessero a man salva (e certo fu raro), uno o più
Israeliti si siano macchiati d'atti violenti o crudeli contro i Cristiani,
non so se debba affermarsi; perchè questo, come ogni altro delitto, vuol
prove ond'esser tenuto certo. Ma poniamo siano realmente accaduti cotali
fatti. È forse maraviglia che uno sdegno, un odio generato da ingiuste ed
atroci persecuzioni, e lungamente impotente d'ogni vendetta o difesa, si
sia alla fine sfogato con atti anco scellerati? Di siffatti delitti la
prima colpa ne sarebbe dovuta ai Cristiani ed alle loro persecuzioni; la
seconda a quegli Israeliti, che, anco eccitati, avrebbero pur dovuto
astenersi dal mal fare. Ma per darne la colpa alla morale ad essi
insegnata da' loro maestri, converrebbe che di tale infamia si trovasse
traccia ne' loro scritti, nelle tradizioni, nell'insegnamento orale; e
niuno può dire che vi si trovi.

Arte vecchia della frode è dire altrui:—Tu pensi ed insegni e predichi la
tale enormità;—e chiuder l'orecchio alle proteste contrarie; chiuder gli
occhi alle prove, ai fatti che dimostran falsa l'accusa, onde aver diritto
di sevire, odiare, perseguitare; e poter mostrar di farlo per zelo del
vero e del giusto, per tante e virtuose cagioni.

In ogni età fu usata quest'arme contro coloro che si volean conculcare.

Fu usata contro i primi Cristiani, ed ognun sa come le loro Agape fosser
tenute tenebrose assemblee ove si commettessero oscene ed atroci enormità,
si scannassero fanciulli, si violasse ogni legge d'umanità e di natura. In
tempi meno remoti, non la pratica soltanto d'alcuni Cattolici, ma
l'insegnamento della Chiesa Cattolica, fu accusato d'idolatria, e non
valse mostrare scritto, predicare, ​ dichiarare il contrario. L'accusa fu
mantenuta, pretesa vera, innegabile dai più.

Il modo, invece, equo e razionale nel giudicar la fede, le opinioni, la
morale d'un individuo o d'una società, è lo stare alle sue dichiarazioni,
alla professione ch'esso od essa ne presenta e riconosce per sua. Se poi
non vi corrisponde la pratica, questa s'accusi, si giudichi, si condanni;
e si condannino gli uomini che la seguono, falsando le opinioni da essi
dichiarate utili e vere: ma non si condanni, nè si tenga iniquo corruttore
il precetto, mentre esso invece insegnerebbe il contrario.

Le accuse di atti crudeli, d'uccisioni di bambini, di stregonerie, mosse
in tempi più rozzi contro gl'Israeliti, sono omai fole che non posson
metter radice nella civiltà e nella coltura presente; e il doloroso fatto
di Damasco nel 1840, del quale fu scoperta la verità ed ottenuta giustizia
da Sir Moisè Montefiore e dal giurisperito Cremieux, mostra appunto che
soltanto in una società rozza ed ignorante possono trovar fede somiglianti
stravaganze.

Ma un'altra taccia, più conforme al costume ed all'uso del tempo, e perciò
più credibile, s'appone agli Israeliti: quella d'una mala fede non solo
sistematicamente praticata nelle loro contrattazioni co' Cristiani, ma
permessa dalle loro leggi, e dalla loro morale.

Se la mala fede ne' traffici, se l'usure imbrattino più gli Israeliti o
più i Cristiani nel consorzio civile della società moderna, è questione
che non intendo sciogliere, e non importa al mio assunto. Ma la suppongo
per un momento decisa in favor nostro: ammetto che l'usura, la frode nel
traffico sia special pecca degli Israeliti. Ma viva Dio, essi non possono
possedere, nè farsi perciò agricoltori; non possono studiare, esser
avvocati, notai, medici, chirurgi; non possono occupare impieghi pubblici;
respinti dalla Società, non ne ottengono amministrazioni private, ​ non
possono esercitar arti o mestieri se non pochissimi, ed incontrano anche
in questi ogni difficoltà per farvisi esperti: tutte le vie son chiuse per
loro, tutti i modi negati onde campare onestamente la vita; ed a queste
legali esclusive s'aggiunge, o almeno s'è aggiunta sin qui, l'altra più
tremenda, dell'anatema del disprezzo, più o meno aperto ed esplicito, de'
loro concittadini; contro il quale non è natura d'uomo o di popolo tanto
ferrea, tanto intera ed ardita, che non ne fosse fiaccata, resa inerte,
incapace d'ogni qual cosa richieda virtù, prontezza ed energia. E dopo
che, per colpa nostra, sono gli Israeliti ridotti a queste tristi ed
abbiette condizioni; dopo che, per non morir letteralmente di fame, una
sola via vien loro lasciata, quella del commercio e del giro del denaro;
ci vorremmo stupire che non fossero intemerati e scrupolosi fautori della
più rigida onestà, che non avessero gelosa cura di non ledere i nostri
interessi ne' contratti stretti coi loro persecutori?

Ma la verità del fatto che nelle contrattazioni sieno più sleali gli
Israeliti dei Cristiani, è per lo meno molto dubbio. È certo ad ogni modo,
ch'essi sono meno onesti ne' paesi ove essendo più tormentati, caddero
necessariamente in una maggior degradazione morale: ne' luoghi invece ove
ebbero più miti gli uomini e le leggi, d'altrettanto divennero migliori e
più morali, trovandosi liberati dall'ingiustizia e dallo sprezzo, che
corrompe ed invilisce; e sorretti invece dall'equità e dalla benevolenza,
che guida alla virtù, rende l'uomo confidente e giusto estimatore di se
stesso, e perciò capace di nobile ed onesto operare. ^[2]

Alla fine poi, qualunque fossero i loro modi coi non Israeliti, non se ne
può incolpare le loro leggi e la loro morale.

Esaminando ambedue dai primi tempi fino ad oggi, io non trovo se non
precetti che tendono alla carità ed all'amore del prossimo, senza
distinzione di culto o di fede.

Eviterei al lettore il fastidio delle citazioni se non fosse egualmente
giusto ed importante il chiarire la verità, e purgarla da pregiudizj tanto
radicati.

Comincio dalla legge di Mosè, e scelgo pochi esempi tra moltissimi.

La Legge di Mosè condanna a morte il padrone che percuote lo schiavo anche
Cananeo, sino ad ucciderlo (_Esodo_ XXI, 20).

Comanda di non abborrire gli Egizii, in grazia dell'ospitalità da essi
accordata un tempo agli Ebrei (_Deut._ XXIII, 8).

Esprime una distinzione tra l'Israelita ed il non Israelita (_Nocri_, la
quale voce significa uomini di nazione straniera, e non d'altra religione,
che convivessero cogli Israeliti), non trattandosi di leggi d'onestà
universale, ma solo trattandosi di speciali disposizioni di fraternità e
benevolenza; verbigrazia:.

1° Di non domandar censo per denari prestati (_Deut._ XIII, 20, 21).

2° Di non esigere crediti anco recenti spirato l'anno sabatico (_Deut._
XV, 1. 3.); ec. ec.

Nella Storia Sacra, Giacobbe maledice l'ira di Simeone e Levi, e l'eccidio
de' Sichemiti, il cui principe avea pure sforzata la loro sorella.

Giosuè rispetta il giuramento fatto ai Gabaoniti, benchè ​ dannati da Dio
all'esterminio, e sebbene il giuramento fosse stato dolosamente carpito.

I Talmudisti danno il precetto _ama il prossimo tuo come te stesso_, quale
epilogo di tutta la legge; e la voce ebraica Neang (prossimo) esprime ogni
uomo, e non il solo Israelita, poichè trovasi ancora usata per esprimere
Egiziano. Vietano di fare altrui illusione, anco al non Israelita.
_Vœtitum fallere homines etiam gentiles._^[3] Verbigrazia, di presentarlo
di cosa alcuna facendogliela credere di maggior valuta che non è in
effetto (_Talm._ Bab. Chollin, fol. 94.)

Condannano alla restituzione chi ruba il _Goi_ (infedele); e tengono anzi
maggior colpa derubarlo, che non l'Israelita, poichè ne rimane profanato
il nome di Dio (_Josaftà_, _Kamà_, cap. 10.)

Maimonide, uno dei più autorevoli Talmudisti, vivente in Spagna nel secolo
XV, dice espressamente: «Chi trafficando coll'Israelita, come
coll'Idolatra, usasse falso peso o falsa misura, contravviene ad un divino
precetto, ed è tenuto alla restituzione etc. . . . . _Calcolerai col tuo
compratore_.—Il qual testo tratta di un non Israelita tuo suddito...:
quanto più dovrai osservare tal legge con chi non è a te soggetto?
D'altronde la Scrittura dice: È in abbominazione all'Eterno chi tali cose
commette..., ognuno che commette ingiustizia. Proposizione assoluta e
senza alcuna condizione.» _(Trattato Ghenevà, cap. 7.)_

Affermano che quando il Salmista (Sal. XV. 5) encomia chi presta il denaro
senza interesse, intende quando si faccia anche col Goi (_Talmud bab.
Maccoth. fog._ 24.)

Potrei aggiungere molti altri testi dello stesso tenore, ma lo stimo
superfluo.

In opposizione a queste massime tendenti a stringer vieppiù fra gli uomini
i vincoli sociali, ve ne sono, è vero, ne' codici Talmudici e nei libri
Rabbinici alcune invece che spirano odio ed intolleranza: ma è da
considerarsi essere i due codici Talmudici, tanto il Gerosolimitano che il
Babilonese, stati compilati mentre ancora vigeva il Paganesimo, il quale
si rendeva doppiamente odioso agli Israeliti col peccato d'idolatria, il
più abborrito da essi, e colla crudeltà della persecuzione. I libri degli
antichi Rabbini furono anch'essi scritti sotto l'impressione dell'odio e
dello spavento che dovevan destare le orribili sevizie del medio evo: ma
nessuna di queste autorità è accettata o riconosciuta dai Rabbini, o dagli
Israeliti presenti;^[4] e tenerli capaci di porre in pratica massime
unicamente derivate da passioni e da circostanze straordinarie, sarebbe lo
stesso che creder capaci i Cristiani del secolo XIX di riaccendere i roghi
dell'Inquisizione.


                                   VII.

Ora dunque, riassumendo il mio discorso, mi sembra dimostrato che
l'intolleranza e le persecuzioni che ne derivano, non solo sono ingiuste,
contrarie alla ragione, ai comandamenti dell'Evangelo ed agli esempj di
Gesù Cristo e degli Apostoli; non solo sono inefficaci ad ottenere lo
scopo cui sembran dirette: ma gli sono contrarie, conducono all'effetto
diametralmente opposto; e nel caso degli Israeliti, l'appoggiarle ad una
maledizione che pesi sulla loro schiatta, o al desiderio della loro
conversione, ​ o alla corruttela della loro morale, non è nè da Cristiano,
nè da uomo retto e razionale. E mi sembra egualmente provato, che la
tolleranza non è indifferenza per la fede e la religione; ma è anzi zelo
pel suo trionfo, e il miglior modo di procurarlo.

Ma a questo punto ringrazio di cuore Iddio, che tutto il detto sin qui si
riferisca oramai assai più al passato che al tempo presente.
L'emancipazione civile degli Israeliti è stata incominciata, e sarà
immancabilmente compiuta da quel Pontefice che ha saputo cogliere e
riunire nella sua mano benedetta tutte le palme della virtù e della carità
evangelica.

Ad istanza e per opera di Don Michele Caetani, Principe di Teano, fattosi
virtuoso ed illuminato promotore della causa degli Israeliti, Pio IX ha
confidato ad una Commissione l'esame de' loro giusti reclami, e la cura
dei modi atti a render loro piena giustizia. Primi effetti di queste
disposizioni sono stati la permissione d'allargarsi ne' Rioni adiacenti al
Ghetto; con che ne verrà spazio ed agio maggiore a coloro che vi
rimangono.

La vergognosa cerimonia del sabato di carnevale in Campidoglio, ed il
tributo che v'era annesso, furono, come accennammo, l'una e l'altro
aboliti. A questi primi passi terranno dietro certamente tutti gli altri,
finchè sia completo questo grande atto di giustizia. Un nuovo passo sta
intanto per muoversi; l'ammissione degli Israeliti nei ruoli della Guardia
cittadina. Pio IX vi ha dato il suo consenso; onde si può tenere la cosa
giudicata irrevocabilmente in principio. Quanto alla pratica, sembra
s'incontri qualche difficoltà: sembra vi sia il timore, forse non
interamente fuor di proposito, che nel Rione ove dovrebbero gli Israeliti
concorrere al servizio cittadino, non siano del tutto spente le vecchie
repulsioni, e potesse col contatto tra essi ed i Cristiani nascere qualche
scandalo.

Se per una parte è prudente tener quelle vie che possono antivenirlo, per
l'altra è giusto e conveniente cercar un ripiego, onde non sia loro tolto
il poter partecipare agli effetti di quella onorata e leale fiducia che
dimostrò il Pontefice al Popolo dello Stato e di Roma. Ripensando il lungo
patire di quella sventurata nazione, respinta per tanto tempo da tutti i
beni e i vantaggi del viver civile, del quale bensì dovea sostenere
raddoppiato ogni peso; ripensando l'ingiusto disprezzo onde fu segno, le
dolorose umiliazioni delle quali ebbe a bere il calice sino alla feccia;
come non sentire il desiderio, il bisogno di una riparazione pronta ed
aperta quanto è possibile?

Come non provare quel senso di rispetto e di premura sollecita che desta
una sventura immeritata e sostenuta con longanimità e fortezza?

Qual gioja, qual soddisfazione può immaginarsi al mondo maggiore e più
pura di quella di poter farsi istrumento di giustizia e di misericordia?

Chi mai potrebbe, ove fosse scelto al dolce ufficio di spalancare
all'innocente prigioniero le porte del carcere, di restituire il suo a chi
n'era stato violentemente spogliato, di ridonar l'onore a chi ha patita
immeritata ignominia? chi potrebbe non sentire una fretta smaniosa
d'adempiere l'augusto incarico? Certamente questi virtuosi sensi albergano
in cuore di coloro che sono ordinatori e guida della Guardia cittadina; e
sapranno trovar modo onde conciliare la prudenza colla giustizia, e col
desiderio che provano senza dubbio di stender senza ritardi una mano amica
a chi sinora non ebbe se non scherni e ripulse.

Per quanto non creda ufficio mio il dar consigli a cui compete l'ordinare
il servizio della Guardia, stimo però mi sia lecito esporre modestamente
un mio pensiero.

Se lo scrivere ne' Ruoli tutti gli Israeliti che a norma ​ della legge e
dell'età vi sarebbero compresi, può esser origine di qualche
inconveniente, non si potrebbe ristringersi ad un minor numero, e
scegliere da una nota presentata dall'Università stessa degli Israeliti,
quegli individui che pel loro stato, il loro costume, i modi, la coltura,
fossero atti a conciliarsi gli animi, e rimuovere ogni idea scortese, ogni
senso di repulsione?

E se ciò non fosse stimato bastevole, non si potrebbe provvisoriamente
dividerli in modo che prestassero l'opera loro ne' varj Rioni
separatamente; e si trovassero così frammisti a coloro che per idee più
giuste, e per civile educazione, stimerebbero dovere e sentirebbero gioja
d'accoglierli come amici e fratelli?

La Guardia cittadina di Roma presa nel suo insieme non potrebbe certamente
aver altri sensi che questi. Formata con magica rapidità in un momento di
pericolo, essa ha mostrato vigore, energia, prontezza e prudenza degna
d'un corpo che contasse lunghi anni di esperienza e di vita. La vista di
que' cittadini che pel passato, e sino a pochi mesi fa, attendevano
soltanto ai diversi uffici della vita civile così disformi da ogni idea ed
esercizio della milizia, posti ora in fila, ed esperti così presto
dell'atteggiarsi, del muoversi militare, del maneggio delle armi, de'
doveri del soldato, lo sa Iddio qual profondo senso di gioja mi abbia
destato in cuore. Qual dote di nobili e generosi sentimenti non è
accennata e sottintesa da questi fatti? Il solo pensare che uomini di così
eletta natura potessero non dico ripugnare ad accogliere tra loro chi
sinora fu così a torto proscritto, ma non sentir pienamente quanto sia
degno ed onorato l'atto che li ritorna alla esistenza, all'onore di
cittadini, sarebbe imperdonabile ingiuria; chè i più avversi ed ostinati
detrattori del popolo Romano non osarono mai dargli taccia di basso e poco
generoso sentire. Nè tempo, nè servitù, ​ nè traversie di fortuna,
bastarono a cancellare quel suggello di generosità e di grandezza che gli
fu impresso dall'antica sua virtù, ed è ancora allo straniero cagion di
stupore e di meraviglia: tutto si può sperare da un tal popolo; e stare in
dubbio, all'opposto, ch'egli non senta quanto sia bello il riparare
l'ingiustizia e l'onorar la sventura, sarebbe, lo ripeto, fargli ingiuria,
ch'egli è ben lungi dal meritare.

Questa giustizia che trova, come ogni atto virtuoso, il suo premio in se
stessa, avrà poi altro prezioso guiderdone; la gratitudine, le benedizioni
di chi n'è fatto segno. Quanto esse possano esser calde e vivaci, lo
vediamo da ciò che accade in Toscana. I redattori del giornale di Pisa
_L'Italia_, uomini eletti, di nobil cuore, onore di quello Studio e
d'Italia, come sa ognuno, e come appare dal loro giornale, hanno presa a
difendere la causa degli Israeliti. Quelli di Livorno hanno tosto
pubblicata una lettera, nella quale è il passo seguente:

«Voi ci chiamate fratelli! Questa parola varrebbe essa sola a cancellare
la ricordanza di tanti secoli di umiliazioni e di dolori. Questo dolce e
santo nome noi lo accettiamo colla coscienza di meritarlo, perchè noi pure
intendiamo di cooperare al bene d'Italia nostra, che fu sempre in cima de'
nostri pensieri; perchè ci sentiamo nell'anima fratelli a quanti per essa
patirono, a quanti s'allegrano all'idea del suo prossimo risorgimento, a
quanti son pronti sagrificare per lei gli agi, le sostanze e la vita.»

Queste semplici parole, quando le lessi, mi penetrarono il cuore, mi
commossero profondamente; tanto è l'affetto, tanta è l'effusione di
sincerità che da esse traluce: e pensai fra me stesso, quali nobili e
preziose soddisfazioni rifiutano e sprecano gli uomini coll'amara e
superba pazzia dell'intolleranza e delle persecuzioni! ​ E qual fonte di
gioje, di felicità, di profitti scambievoli, potrebbero all'opposto
trovare nel rispetto de' diritti di tutti, nell'onorarsi ed amarsi gli uni
cogli altri; come c'insegna quel Codice che più di tutti mostra la via per
la quale abbia l'uomo a cercare la sua vera e stabile felicità!

Ma se questa via, la civiltà cristiana l'aveva in parte smarrita; se,
purtroppo! in molte parti ed in molti casi, professando una dottrina in
parole, la rinnegavano nei fatti; e chiudendo gli occhi all'eterno sole
della giustizia e della verità, concludeva invece ed operava a norma
dell'errore e dell'iniquità: ora Iddio, pietoso delle sue creature, ci ha
mandato chi ci rimetta sul buon cammino, e ci sia guida e sostegno onde
non ismarrirlo per l'avvenire.

I primi operai dell'Evangelio conquistarono il mondo colla mansuetudine,
colla giustizia e col sacrificio: coll'armi medesime l'ha conquistato Pio
IX. Egli ha conosciuto quali siano le vere ed inconcusse basi sulle quali
si fonda quella religione ond'egli è Capo e difensore in Terra; e
conoscendo del pari, quali cagioni le avessero smosse, ponendo l'edificio
in puntelli, spegnendo nel cuor degli uomini l'affetto, il desiderio di
tutelarlo e sorreggerlo, ha saputo scoprire la vera radice del male e
mettervi risolutamente la scure: e quali effetti egli abbia ottenuto, lo
vediam tutti; lo vede il mondo, che attonito e riverente assiste al grande
spettacolo d'una trasmutazione sospirata tanto e così poco sperata,
eseguita senza violenza, senza sangue, senza una lagrima; ed anzi col
bene, col profitto di tutti, coi soli istrumenti e le sole potenze della
giustizia, della mansuetudine e della carità.

Questa trasmutazione si sta operando al tempo stesso nel mondo materiale e
nell'intelligenza del mondo soprannaturale; e quella virtù che opera
beneficamente sul primo, ​ agisce per propagata potenza anche sulla
seconda. Se la legge cristiana ammonisce gli uomini che il loro passaggio
sulla terra è tempo di prova, e preparamento ad un futuro migliore, e
perciò soltanto epoca di transizione; offre però nello stesso tempo la
formula, per dir così, del maggior bene e della minore infelicità
possibile in questo loro passaggio. Nè porge i precetti che frenano e
dirigono i loro intelletti ed i loro cuori, quali capricciose prove
imposte all'uomo nella sola considerazione della vita futura, de' gastighi
da evitarsi o de' premj da conseguirsi; ma insieme li presenta come una
manifestazione delle condizioni necessarie all'uomo onde viva meno
infelice; come tesoro di sapienza offerto innanzi tratto all'umana specie;
come un'anticipazione sull'esperienza: e gli uomini trovano ne' semplici
ed angusti precetti dell'Evangelio un insieme di leggi morali, che,
accettate quali fondamenti delle sociali e delle politiche, li
condurrebbero a tutta quella libertà e quell'eguaglianza che può ottenersi
onestamente e ragionevolmente nell'umana società: leggi che applicate alla
pratica rendono gli uomini giusti, mansueti, generosi, amorevoli
scambievolmente: gli impediscono perciò d'opprimersi a vicenda, e
d'accrescere per opera e volontà loro quella misura d'infelicità e di
miserie, delle quali Iddio per gli arcani suoi fini dispose sopportassero
il triste retaggio.

Gli pone, per conseguenza, in quella condizione che porta con sè la minor
dose d'infelicità, o la felicità maggiore che sia ottenibile sulla terra.

Quindi ne seguì sempre, e sempre ne seguirà l'effetto, che più la legge
evangelica sarà applicata ed osservata, più sarà generale la giustizia, la
carità, la vera libertà fra gli uomini; i quali, per conseguenza, più si
troveranno felici, e più saranno devoti ed amanti di quella legge che è
per loro origine di tanti beni: e questo ​ bello e fortunato ordine del
mondo materiale, sarà come un allettamento, un'introduzione al mondo
soprannaturale, alle idee che lo dominano e lo dirigono. In altre parole,
i benefici effetti dei precetti evangelici, essendo fonte di bene e di
felicità terrena, saranno argomento agli uomini della loro divina origine;
la civiltà sarà prova, sostegno ed allettamento alla Religione. Mentre
invece, ove la Religione si faccia setta ed istrumento politico, pretesto
o coperchio d'oppressioni e d'ingiustizie, nemica della civiltà; verrà
rigettata dalle moltitudini, che da' suoi mali effetti trarranno argomento
per negarle un'origine divina.

In questa forma stabiliva Iddio le cose di quaggiù; e nella forma medesima
fonda e stabilisce Pio IX il rinnovato e ricco edificio del quale si è
fatto architetto.

Suo primo ufficio, come Pontefice e Vicario di Gesù Cristo, è certamente
l'aver cura alla fede ed alla religione, procurarne il trionfo, raffermare
chi crede, confortar chi vacilla, persuadere chi non crede.

E quali modi ha egli giudicato opportuni all'adempimento dell'augusto suo
ufficio? Quelli che accennavamo dianzi, tenuti da Gesù Cristo; i soli
giusti e razionali, perchè i soli veramente atti ad ottenere lo scopo, i
soli profittevoli all'umanità.

Pio IX, col rinnovare ordini e leggi, col ristabilire diritti conculcati,
coll'introdurre riforme utili e spontanee, s'è mostrato giusto e stretto
osservatore di quel precetto evangelico, che rende il debole e l'infimo
rispettabile al grande, al potente; che difende il derelitto dalla
violenza del forte, collo scudo della fede e della carità: e i deboli e i
derelitti hanno benedetta quella fede che prima maledivano.

Pio IX, coll'obblio del passato, coll'amnistia, s'è mostrato
misericordioso e religioso seguace del precetto ​ che impone di concedere
perdono, perchè tutti ci troveremo all'occasione di doverlo un giorno
implorare. E quelli che rivedevan la famiglia e la patria, hanno benedetta
la religione del perdono.

Pio IX, coll'aprire le braccia a tutti gli afflitti, coll'accogliere le
loro preghiere, ascoltarne i lamenti, tergerne le lacrime; col ripetere
quelle divine parole: «Venite a me voi tutti che siete nell'afflizione, ed
io vi consolerò;» segui il grande esempio del Redentore; fa modello e vero
ritratto di quella carità che è il compendio di tutta la legge, e ne forma
il massimo de' precetti: e tutti i consolati hanno detto:—Questa è
veramente religione divina.

Eppure tutto ciò non versava se non sovra interessi terreni, miglioramenti
sociali, sovra mutazioni negli ordini dello Stato; tutto ciò non era se
non cura e rimedio di mali che affliggevano il mondo materiale: non s'è
udito che nel morale egli abbia promossa mutazione veruna, ch'esso abbia
desiderate o prescritte maggiori pratiche nel culto, nuovi o più frequenti
atti di religione: egli non ha moltiplicate cerimonie, non ha spedito
predicatori o missionarj, non ha suscitato apologisti, non ha ordinato si
pubblicassero nuovi libri a difesa della Cattolica fede.

Ma egli ha fatto assai meglio, ed assai più. Egli ha saputo renderla
amabile, desiderabile agli uomini: ha saputo mostrarla all'opera, e far
vedere quanto sia utile, quanto sia benefica ne' suoi effetti: ha saputo
rendere evidente la calunnia di chi la diceva nemica al viver civile;
nemica a quella onesta ed ordinata libertà, a quella giusta eguaglianza
de' dritti sociali, che è invece il più distinto carattere dell'Evangelio.
Ha provato che il più religioso, veramente religioso, de' Pontefici, è
necessariamente ad un tempo l'ottimo de' Principi.

E perchè tutto ciò? Perchè Pio IX non è l'uomo del partito, ma è l'uomo di
Dio.

Ecco la spiegazione e la chiave de' suoi trionfi; della sua immensa
potenza morale, della venerazione che ispira, della sottomissione che
trova in tutte le volontà, dell'ardente amore di che è fatto segno: ecco
perchè in tutto il mondo il suo nome è la speranza de' deboli e degli
afflitti, e l'invocazione di tutti gli oppressi, e suona come l'annuncio
di tempi migliori, di giustizia e di rigenerazione. Ecco perchè a
Pietroburgo, a Vienna, come a Londra e Parigi, l'inno di Pio IX è cantato
e udito con passione ed applauso, quasi canto nazionale; ed anzi più che
se fosse canto nazionale: poichè è tenuto qual culto reso ad un principio
che tutti produce e domina quanti sono al mondo principj utili e grandi;
che è la base inconcussa, il germe fecondo del bene non d'una nazione ma
di tutti i popoli, dell'intera civiltà cristiana: il principio che prostra
infrante le armi caduche della violenza; ed altre ne pone, sante ed
immortali, nelle mani della giustizia, del diritto e della vera libertà,
affrettandone il trionfo e la nuova e generale ristaurazione.^[5]

Perchè Pio IX non è l'uomo del partito ma l'uomo di Dio, s'è sparso fra
tutti i popoli quel fremito che sorge ​ all'appressarsi delle grandi
manifestazioni della potenza divina, e scoppiato quel concorde grido di
lodi e d'allegrezza, che nessuna umana forza, nessun concerto, nessun'arte
potrebbe produrre, e che s'alza spontaneo quando tutte le menti sono ad un
tratto colpite dall'istesso pensiero, vedono la medesima verità, quando
tutti i cuori provano l'effetto medesimo. Popoli diversi di lingua, di
clima, di costumi, di leggi, di fede, hanno avuto un solo ed identico
affetto; hanno concordi alzato il grido, per proclamar Pio IX il
restauratore del senso religioso: l'uomo della civiltà, l'uomo da tanto
tempo aspettato e sospirato sull'alto seggio che rimaneva vedovo e
deserto; l'uomo che soddisfacesse all'intimo senso delle nazioni,
dell'opinioni, de' culti tutti del globo; che innalzando la fiaccola della
fede, gli ammonisse al tempo stesso a spegner gli odj, conciliar
gl'interessi, transigere sin all'ultimo limite ove lo concede una sincera
ed illibata coscienza; a tollerarsi a vicenda gli uni e gli altri, come ci
tollera quel Dio che muove il sole e ne dona calore ed il raggio
ugualmente a tutti gli uomini; ad amarsi come debbono i figli d'uno stesso
padre avviati al medesimo viaggio, e ad una meta comune. Non son forse
questi i cardini su cui stanno inconcussi que' principj che tutelano e
collegano ​ tutti i popoli? Perciò tutti i popoli si son volti a Pio IX,
tutte le menti l'hanno proclamato arbitro della civiltà, tutti i cuori
l'hanno benedetto.

La più dichiarata nemica del papato, l'Inghilterra, ha reso omaggio
all'uomo di Dio, nel più augusto de' consessi, per bocca degli uomini di
Stato, che ne sono guide e moderatori. Le loro nobili ed elevate
intelligenze si sono commosse all'apparire di quella inaspettata luce sul
Vaticano. Si sono volte amiche e riverenti per benedirla e avvicinarsele.
Un nuovo senso, per dir così, di pudore si desta ne' Protestanti per le
ostilità dirette contro i Cattolici. La coscienza pubblica rifugge
spontanea dal contristare ed affliggere, mentre Pio IX benefica e consola.
Il principio cattolico è riabilitato: l'antico grido _No Popery_ suona
come un anacronismo.^[6]

Io non dico per questo che sia prossima o certa la fusione de' due
principj, cattolico e protestante; ma dico e tengo per certo, che Pio IX
ha abbattuto il maggiore ostacolo che le si opponesse; e, se non altro, ha
coi suoi atti e col suo esempio insegnata la mansuetudine e la tolleranza,
ha disarmata la persecuzione del suo flagello, e l'ha costretta almeno a
vergognarsene.

In Germania, in Francia, sotto forme diverse, conseguenti alle diverse
condizioni ed ai varj caratteri nazionali, succedono analoghi effetti: ed
il principio cattolico, immedesimato, grazie a Pio IX, colla giustizia e
la carità nella sua applicazione al mondo materiale, immedesimato colla
tolleranza rispetto al mondo morale, si presenta sotto una nuova luce,
purgato delle antiche macchie, ​ assolto dalle vecchie accuse e da lunghi
sospetti. Potrà ben darsi che non sia accettato, che la sua fede non venga
accolta; ma non potrà oramai eccitare odio o disprezzo, e dovrà essere
invece oggetto di rispetto e d'amore, come lo è già infatti nell'augusto
suo Capo.

E tuttociò (non possiamo abbastanza ripeterlo) perchè Pio IX non è l'uomo
del partito, ma l'uomo del cuor retto, l'uomo di Dio.

E perchè accadeva, pel passato, tutto all'opposto?—Perchè non uomini di
Dio, ma del partito, eran coloro che per tanti anni vollero persuadere al
mondo, che essi non avevano altri pensieri, altri interessi se non quelli
della Religione, del Cattolicismo; anzi erano esso e loro una cosa
medesima: inganno così mirabilmente smascherato, e reso palpabile ora ai
meno veggenti. Inganno che, appena palesato e fatto noto agli uomini,
dovea cadere; come cadde, divenendo inutile e deriso istrumento. Inganno
che, tratto a forza dalle sue tenebre, ed esposto al vivo raggio della
stella che splende sul Vaticano, giacque sotto il tremendo confronto, e
divenne chiaro e patente argomento di verità; apparendo aperto e chiaro
chi veramente e sinceramente sia nuncio della parola Evangelica, e chi ne
faccia invece sacrilego strumento d'insaziabilità, di violenze e
d'ambizione.

Ma l'insistere su queste verità è oramai, la Dio grazia, opera superflua;
mentre le loro logiche e pratiche applicazioni appaiono, più o meno,
dappertutto in via di venire adottate.

Quel Pontefice che, nel porre rimedio ai mali del suo popolo, aveva
mostrata tanta sete di giustizia, tanto ardore di carità, non poteva non
commuoversi delle miserie degli Israeliti; che son pure anch'essi suoi
figli, che quantunque divisi di fede e di culto, sentono il desiderio, il
bisogno di cercare in esso un padre; che in lui già lo trovarono, ​ e
piegano ad esso riverenti se non sinora le intelligenze, certo gli affetti
e le volontà.

Egli fece per essi assai, poichè stabilì giusta in principio la loro
assimilazione agli altri cittadini, con quell'autorità che è certo la più
competente in tal materia, di quante sieno autorità al mondo; che invocata
a torto, e male usata dall'ignoranza, dallo spirito di setta, dalle
passioni, dall'intolleranza, s'è ora sciolta da così turpe sodalità.

Ed il primo passo mosso da Pio IX per guidare gli Israeliti ad una
completa emancipazione, sarebbe già forse stato seguito da un secondo e da
molti altri, s'egli avesse trovato più unanime il consenso dell'universale
nell'accogliere questo grande atto di giustizia, e nell'applicarlo alla
pratica colla cooperazione pronta e spontanea di tutti gli individui e di
tutti i ceti.

Ma, siccome al dissodarsi delle terre lasciate da lungo tempo incolte e
selvagge, danno minor impaccio i fusti delle piante sorgenti sulla
superficie del suolo, che non le loro radici, e quelle innumerabili e
tenui barbe che serpono e si perdono nelle viscere della terra, e che non
si giunge a sterpare se non con lunga e perdurante fatica; così avviene
che, nella società umana, potenti e benefici riformatori ebbero più di
tutto a travagliarsi in ogni tempo intorno i pregiudizi plebei, diramati
nelle moltitudini dalla malizia e dalla ignoranza; e dovettero spesso
arrestare o sospendere il loro generoso corso a fronte di questo ignobile
ostacolo.

A torlo di mezzo, e sgombrare così al gran Pontefice la via, molti si
adoprarono e s'adoprano volenterosi in molti punti d'Italia. È da
desiderarsi che il loro esempio venga imitato, e che più di tutto si
lavori a vincere i pregiudizj che ancor rimangono fra il volgo (ed il
volgo, persuadiamocene, è composto talvolta di signori e di ​ ricchi,
quanto di poveri e popolani), mostrando loro, che la causa della
Rigenerazione Israelitica è strettamente unita con quella della
Rigenerazione Italiana; perchè la giustizia è una sola, ed è la medesima
per tutti; ed è forte ed invincibile soltanto quando è imparzialmente
domandata a chi ci sta sopra ed è più potente di noi, come imparzialmente
fatta a chi si trova nella nostra dipendenza.

Il concorde ed alto grido messo dall'opinion pubblica in Italia onde
chiedere Riforme, e domandare ai Principi che franchi si mettessero alla
testa della Nazione e la guidassero all'indipendenza ed alla libertà, fu
ascoltato perchè potente, e potente perchè sommamente giusto. Ma se
negheremo agli altri quella giustizia che per noi stessi invochiamo,
questa potenza verrà indebolita, quel santo grido di rigenerazione non
suonerà verità, giustizia per tutti; ma privilegio, egoismo e privato
interesse: e verrà per noi rinnovato il fatto della parabola del Vangelo,
di quel servo che implorò ed ottenne dal suo signore tempo ed agio a
pagare la grossa moneta di che gli era debitore, ed uscito dalla sua
presenza ed incontrato quel suo compagno che di piccola cosa l'aveva a
soddisfare, l'afferrò pel collo, e gli negava ogni compassione.

Esser giusti, imparzialmente, rigorosamente giusti, è il miglior modo onde
esser potenti; perchè gli uomini senza volerlo e saperlo talvolta rendono
culto alla giustizia, e ne rispettano i decreti: ed anco tra i violenti e
gli iniqui, non v'è cuore tanto in se stesso sicuro che non vacilli al
cospetto della giustizia, quando si appalesa per opera delle moltitudini
piena, luminosa, irrecusabile; ed appare, qual è veramente, emanazione
divina, e certa manifestazione della volontà dell'Onnipotente.

Ognuno di noi, dunque, tenda la mano ai nostri fratelli Israeliti: li
ristori de' dolori, de' danni, degl'ingiusti ​ schemi che fecero loro
soffrire non dirò i Cristiani (chè un tal nome non si conviene a chi
rinnega o falsa il sommo tra precetti di Cristo, la Carità), ma coloro che
avevano, e, pel fatto delle riferite persecuzioni, non meritavano il
titolo di Cristiani.

Io, per la mia parte, in ammenda del passato, in pegno dell'avvenire, non
ho altro da offrire agli Israeliti se non queste povere pagine, ed il buon
volere. Accettino il tenue dono con quel cuore medesimo con che vien loro
dato: e se a quest'atto, ch'io tengo stretto adempimento d'un dovere di
giustizia, volessero essi attribuire pregio maggiore e farlo degno di
guiderdone, scordino il passato, e tengano me e tutti gli uomini della mia
fede, come noi terremo loro, in conto di fratelli; e sarà questo il più
accetto ed onorato di quanti premj io potessi immaginare o desiderare.

                                  FINE.



                                  NOTE.


[1] Diritto accordato agli Israeliti di non dover esser soggetti ad
aumenti di pigione.

[2] Durante il tumulto avvenuto in Firenze all'occasione de' birri, sul
finir d'ottobre, il cav. Basevi, israelita, capitano della Civica, si
trovò avere il comando d'un posto, ebbe a dar ordini, prender
disposizioni, e si portò, a detta di tutti, con prudenza e vigore. Egli,
parlandomi di questo fatto, mi diceva: Se io ho potuto far nulla di buono,
è stato perchè mi vedevo secondato, non incontravo visi e sguardi di
disprezzo, _non mi sentivo sulla spalle l'anatema dell'Ebreo_!—Qual
dolorosa verità, e qual giusto ed amaro rimprovero sta scolpito in queste
parole!

[3] L'autore del _Chassidim_, vivente circa il 1200 in Francia, dichiara
peccatore chi, nel salutare il non Israelita, gli dice sottovoce villania,
che l'altro suppone parole amorevoli.

[4] Ciò appare dagli atti dell'assemblea degli Israeliti di Francia, e del
regno d'Italia, convocata in Parigi da Napoleone con decreto del 30 maggio
1806.

[5] In una delle ultime Sedute della Camera dei Pari, una voce rispettata
proclamava Roma centro della libertà: e non intendeva certo parlare di
quella del 93. E qui accade l'osservare, che molti i quali amano e
vorrebbero veder rinnovati gli antichi sistemi perchè facevan loro pro,
rappresentano il grido e l'Inno di Pio IX quale istrumento di sedizione o
rivoluzione. Sappiano costoro, come sa l'intera Europa, e sanno coloro che
non hanno interesse a chiuder gli occhi al vero, che quel grido o
quell'Inno invocano non il disordine ma la sua fine; invocano giustizia,
perchè il nome del gran Pontefice n'è divenuto sinonimo. E siccome v'è
stato un tempo in Italia (e questo tempo non è, purtroppo, finito in ogni
sua parte) nel quale il chieder ordine e giustizia, era delitto da punirsi
colla prigione, col patibolo o colla mitraglia; i popoli hanno cercato
modo di presentar la medesima domanda facendosi scudo col nome del
Pontefice, il quale così s'è trovato scelto dagli afflitti quale rifugio e
protettore: e certo nessuna scelta potea immaginarsi più gloriosa e degna
del Vicario di Gesù Cristo. E sfido costoro a citare un sol caso nel quale
il grido e l'Inno di Pio IX si siano fatti segnale di disordini, o
rivoluzione violenta. Chi vuole il disordine e spinge alla rivoluzione,
sono quelli i quali, temendo la luce che scuopre le opere loro, tentano
persuadere al Pontefice che la via in che s'è messo, è dannosa alla fede
ed alla religione: mentre invece il senso religioso intiepidito e quasi
assiderato per l'addietro, perchè il Cattolicismo, fattosi setta politica,
una cosa prometteva in parole, un'altra ne atteneva in fatti; perchè
Cattolicismo voleva dire dipendenza dallo straniero, sperpero della cosa
pubblica, commissioni speciali, giandarmi e spie; il senso religioso,
dico, s'è ad un tratto riacceso, appunto perchè, grazie a Pio IX,
_Cattolicismo_, Papato, vuol dire ora indipendenza al di fuori, ordine,
giustizia, onesta libertà in casa. Quella setta che per trent'anni ha
travagliata l'Italia, ha interesse a confondere i termini, le cause, gli
effetti; spezzar quel nuovo e santo vincolo che lega insieme popoli e
principi; e dopo avere eccitato disordini, e tentate trame di violenza,
visti falliti i primi disegni, ne tenta ora de' nuovi più coperti, e
vieppiù pericolosi; ed è dovere di tutti gridare all'erta e mettersi in
guardia contro essa. Popoli e Principi ne sono minacciati egualmente. La
loro concordia, sola tavola di salute all'Italia, potrebbe venir meno; ed
in Roma è maggiore il pericolo, perchè in Roma, come in luogo ove sta il
palladio delle sorti italiane, più lavora e fa ogni suo potere tentando
stillare nel santo ed illibato cuore di Pio il sospetto più atto a
turbarlo: quello (non so saziarmi di ripeterlo) che il liberalismo
italiano abbia mire avverse alla Religione.

Ma egualmente ripeto, e non dobbiamo stancarci di dichiararlo,
quest'accusa è menzogna e pretta frode.

Tra i liberali italiani, che sono non una setta, ma la moltitudine, come
s'è veduto nelle dimostrazioni di Roma, Firenze, Genova e Torino, saranno
uomini più o meno convinti in fatto di religione; e di tali se ne trovano
non solo in ogni massa, ma in ogni ceto, e perfino nel clericale.
Qualunque sia però la loro opinione personale, nessuno è avverso alla
religione, e molto meno ha disegni ostili contr'essa; e si può dimostrarlo
in modo che non ammette dubbio o sospetto. La moltitudine è composta di
credenti, di vacillanti o indifferenti, e di non credenti: i primi per
coscienza e convincimento sono amici e fautori della Religione; gli altri
non le sono ostili, anzi la rispettano, e la promuovono, perchè la
religione, il papato, il clericato (non parlo della setta che vuol farsi
credere una cosa sola con loro) sono alleati, sono forza necessaria al
trionfo della Causa Italiana; perchè si sono avveduti del grand'errore
commesso pel passato coll'inimicarsi il Sacerdozio, e quella tanto
numerosa e potente clientela che sta con lui.

Perchè conoscono qual immensa potenza aggiunga all'Italia il pontificato,
e l'autorità del suo grado: e certo non occorre gran perspicacia per
conoscere, verbigrazia, che se gli Austriaci non sono venuti avanti dopo
l'occupazion di Ferrara, e se anzi l'hanno evacuata, ciò non è accaduto in
virtù del campo di Forlì.

Questi son motivi senza replica, perchè motivi d'interesse; si aggiungono
poi, e si verranno aggiungendo sempre più, motivi di coscienza, d'affetto
e di convincimento, quanto più i non credenti o i vacillanti si faranno
sicuri che la Religione, il papato, è amico e protettore
dell'indipendenza, dell'ordine, dell'onesta libertà; e non è per riporre
nuovamente le sue forze a' servigi di quella setta che fu cagione si
smarrissero tutti questi beni, e perciò rese odiosa agli uomini la
Religione, che scambiaron con essa.

Per essa, pe' suoi continui sforzi, per le sue frodi che non mai vengon
meno, il Pontificato è posto a rischio di perdere la luminosa occasione
che gli è posta innanzi; la Religione, di venir calunniata di nuovo come
nemica all'indipendenza, alla libertà, e ad ogni viver civile. Ma la
Provvidenza ha troppo chiaramente mostrato ch'essa vuol salva l'Italia;
essa ci salverà dalle costoro frodi. Se tale non fosse il suo disegno, ci
avrebbe essa dato Pio IX?

[6] Queste linee furono scritte prima del fatto de' Collegi Irlandesi, e
forse ora non sono più l'esatta espressione della verità. Non intendo
entrare nella discussione dei respettivi diritti; e mi contento
d'esprimere il voto, senza dubbio egualmente sentito dagli uomini
illuminati ed imparziali d'ambedue le nazioni, che queste differenze
abbiano una saggia ed amichevole soluzione.

​
​

                        _*Recente Pubblicazione.*_

                          PROPOSTA D'UN PROGRAMMA
                                    PER
                          *L'OPINIONE NAZIONALE*
                                 ITALIANA:

                                    DI
                           *MASSIMO D'AZEGLIO.*

                    _Un Volumetto. Una Lira Italiana._

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                          _*Sotto il Torchio.*_

                              *DELLE NUOVE*
                            SPERANZE D'ITALIA,

                             *PRESENTIMENTI*
                               DA UN'OPERA
                                   DI
                            *NICCOLÒ TOMMASÉO.*

   _Firenze. Gennaio 1848._



                           Nota di trascrizione


I seguenti refusi sono stati corretti:

  + p.21 r.-5: _Emanuel Filiberto_ → _Emanuele Filiberto_
  + p.30 r.-11: _chè tale e_ → _chè tale è_

Sono state mantenute fedeli all'originale trascrizioni errate di parole e
nomi stranieri come _Neang_ [Rea'], _Josaftà_ [Toseftà], _Judem-Bureau_,
_Wurtemberg_ [Württemberg], così come l'incongruo _150 mila famiglie
(circa 80,000 individui)_.





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