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Title: Alessandro Manzoni, Studio Biografico - Letture fatte alla Taylorian Institution di Oxford nel maggio dell'anno 1878, notevolmente ampliate
Author: De Gubernatis, Angelo, 1840-1913
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Alessandro Manzoni, Studio Biografico - Letture fatte alla Taylorian Institution di Oxford nel maggio dell'anno 1878, notevolmente ampliate" ***


by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at
http://gallica.bnf.fr.



ALESSANDRO MANZONI

STUDIO BIOGRAFICO
DI
ANGELO DE GUBERNATIS.


Letture fatte alla _Taylorian Institution_ di Oxford nel maggio
dell'anno 1878

NOTEVOLMENTE AMPLIATE.



FIRENZE.

1879.



  INDICE DEL VOLUME.
  A FEDERICO MAX MULLER
  Proemio del Libro
  I. Prologo
  II. La nobiltà del Manzoni
  III. Il Manzoni a scuola
  IV. Primi versi
  V. Il Manzoni ed il Parini
  VI. Il _Trionfo della Libertà_
  VII. Il Manzoni Poeta satirico
  VIII. Il Manzoni e Vincenzo Monti
  IX. I primi amici
  X. Carme autobiografico
  XI. Il Manzoni a Parigi
  XII. L'_Urania_.--L'Idillio manzoniano
  XIII. La Conversione
  XIV. Il Manzoni a Brusuglio.--Gl'_Inni Sacri_ e la _Morale cattolica_
  XV. Il Manzoni Poeta drammatico
  XVI. Il Manzoni unitario
  XVII. Intermezzo lirico: Le strofe del _Marzo 1821_--Il _Cinque Maggio_
  XVIII. I _Promossi Sposi_
  XIX. Il Manzoni e la critica



A FEDERICO MAX MÜLLER

Professore nella Università di Oxford e Curatore della _Taylorian
Institution_


_Illustre Amico_,

_Nessuno meglio di Voi potrebbe dire in qual modo sia nato
inaspettatamente questo mio nuovo tenue volume. Chè, se mia fu la
scelta del tèma, Vostro fu il merito, posto che il libro non accresca
i miei torti verso le lettere, se mi venne fornita l'occasione di
scriverlo. E quale occasione! La più solenne che amor proprio di
autore potesse ambire. Nè contento di avermi coi vostri insigni
colleghi, i Curatori di codesta illustre _Tayloriana Istituzione_
intesa a promuovere fra gli Inglesi lo studio delle lingue e delle
letterature moderne, messo in condizione di ragionare per tre volte,
innanzi ad un pubblico veramente eletto, intorno al sommo fra i nostri
scrittori contemporanei, la vostra bontà e cortesia volle non pure
che, tra le agiatezze della vostra casa ospitale, io dimenticassi in
Inghilterra la mia condizione di straniero, ma ancora che, nelle
vostre domestiche contentezze, se pure visibilmente contristate da un
amaro ricordo, io vedessi, in alcune parte, l'immagine di quelle
vivissime che mi attendevano al mio ritorno in patria. A Voi, illustre
concittadino ed ammiratore di quel Goethe che diede al Manzoni nostro
il vero battesimo della gloria, a Voi avvezzo, dal cielo olimpico e
luminoso in cui spaziate, a contemplar le cime più ardue di
quell'_açvattha_ infinito, ch'è l'albero della scienza, non
increscerà, io spero, dopo avere, con la vostra costante benevolenza
accresciuto coraggio al vostro amico lettore, se io sono in qualche
modo riuscito a presentarvi del Manzoni un ritratto abbastanza fedele,
ritrovacelo nuovamente innanzi come figura degna di Voi; questo
ritratto, in ogni maniera, nel mio desiderio Vi appartiene, se non
altro come ricordo di quegli obblighi di sentita gratitudine, per i
quali sono lieto io medesimo di non esservi più interamente straniero.
Con questi sentimenti, gradite, illustre amico, il libro che Vi invio
con la fiducia, non vorrei dire solamente speranza, che ne durasse
lungamente in Voi la memoria, se non per alcun merito particolare del
biografo, almeno sicuramente per la nobiltà della vita intellettuale
che impresi a descrivere, dalla quale, fin che le nuove generazioni
deriveranno luce ed esempio, le lettere continueranno sempre a
sostenere il loro desiderabile e necessario ufficio d'instauratrici
amabili e generose di ogni civile sapienza._

Il vostro

ANGELO DE GUBERNATIS.



PROEMIO DEL LIBRO


Il Discorso che segue, col quale tentai di studiare la vita del primo
fra i nostri moderni scrittori, fu letto in tre giorni consecutivi
dello scorso maggio in una sala della _Taylorian Institution_ di
Oxford, innanzi ad eletto uditorio che mi è venuto intorno, fino
all'ultimo, crescendo per numero e benevolenza. Dovendo ogni lettura
restringersi al breve giro di un'ora, dovetti pure, per non abusare
della pazienta de' miei cortesi uditori, sopprimere parecchie parti
del Discorso che io avea preparato per la importante & splendida
occasione, e che un'ora non avrebbe bastato a svolgere. Desidero ora
dunque ricolmare nella stampa le inevitabili lacune di que' discorsi,
lieto d'offrire, per intiero, ai dotti e gentili Curatori
dell'Istituto Oxoniano e a' miei proprii concittadini il frutto di
que' pochi studii da me fatti sopra lo scrittore italiano, che ho più
ammirato nell'età nostra e dal nome del quale tolse pure il proprio il
carissimo fanciullo nel quale io ho riposto le mie migliori speranze.
Mi sia ora indulgente la critica, com'io sono sicuro che furono onesti
tutti gl'intendimenti che mi hanno mosso a scrivere; e chi ha poi
qualche cosa di meglio e di più da dire intorno al Manzoni lo dica,
che non troverà, per un tèma così simpatico, alcun lettore più attento
di me e più desideroso d'imparare. Io non sono, e lo dichiaro subito,
idolatra d'alcun nome; ma è pure tanto in me il sentimento della
grandezza dell'uomo che ha chiuso in Italia tutto un secolo di storia
letteraria, che spero di non essere accusato per falsa modestia, s'io
confesso ingenuamente che il tèma altissimo mi sgomenta, e ch'io lo
riconosco, pur troppo, superiore ad ogni mia virtù. S'io dovessi qui
solamente discorrere degli scritti di Alessandro Manzoni, mi farei
animo a ragionarne, reso forte ed illuminato dal consenso ammirativo
dell'universo che legge; ma quando un uomo s'inalza alla grandezza del
Manzoni, quando, dopo avere contemplato questo mirabile gigante
dell'arte nostra, è necessità persuadersi che la sua originalità è
specialmente riposta nel suo modo particolare di sentire, e questo
modo di sentire non si può bene comprendere e non si ha quindi il
diritto di giudicarlo, se non fa germogliare insieme il proponimento
virtuoso di conformare la propria vita a que' sentimenti medesimi, io
mi domando con piena sincerità: "Sono io degno di parlare di
Alessandro Manzoni?" Io non voglio inalzarmi qui come critico sopra di
esso; voglio anch'io guardare in su, e con tanto maggior obbligo di
Giuseppe Giusti che pure avrebbe avuto per la qualità dell'ingegno il
diritto di guardare il Manzoni in faccia; ma le parole verrebbero a
morirmi sopra le labbra, se io non sapessi ammirare il Manzoni
altrimenti che come un altro uomo che sia stato più grande di noi
tutti, per sè stesso soltanto, e non ancora per lasciarci alcun
memorabile esempio. Ora io che ho sempre desiderato richiamare molta
gioventù della mia terra a ristudiarlo con me, io che lo propongo
sicuramente ad esempio[1] non lo potrei, non dovrei poterlo fare, se
prima non avessi fatto promessa a me medesimo di seguire docilmente i
principii di quella filosofia letteraria che ammiro sovra ogni altra.
E, pur troppo, per quanto sia grande in me il desiderio, sento povere
le forze ed insufficienti all'uopo; e ripeto, pieno di confusione e di
sincerità, il _domine, non sum dignus_. Ma io prevedo, pur troppo, a
questo punto il moto impaziente di alcuni lettori, i quali prima di
proseguire avranno già sentenziato presso a poco così: "Abbiamo
capito, l'Autore ci promette un panegirico, invece d'uno studio
critico; invece d'un Manzoni diminuito e fatto minutamente, come ora
si deve, in pezzi, avremo un Manzoni altissimo, iperbolico, messo
sugli altari ed idealeggiato, per edificazione de' buoni." Chi ha di
tali impazienze non legga più oltre. Io voglio sì, io spero provare
come il Manzoni fu grande, com'egli è stato, e sarà forse ancora per
molto tempo, il massimo de' nostri scrittori; ma chi teme una tale
dimostrazione, chi non la permette, chiuda il libro; che, in verità,
io non lo scrivo con la speranza di convertire alcun profano, ma nel
desiderio, il quale può ingannarmi, ma è onesto, di delineare il
Manzoni quale mi apparve, dopo averlo ricercato attentamente ne' suoi
scritti e nelle memorie del nostro tempo; e, poichè ne verrà fuori,
come io spero, non solo la figura di un grande scrittore, ma ancora
quella di un grand'uomo, sì mi tenta anche la speranza che alcuno già
ben disposto, innamorandosi più forte della sua figura, si giovi
dell'esempio che sotto di essa si cela, come tento io stesso di
cavarne come posso alcun profitto non solo per l'arte dello scrivere,
ma per quella assai più difficile del vivere. Da queste stesse parole
si deve, parmi, capire che io non mi propongo di scrivere la vita d'un
Santo; se il Manzoni fosse stato un uomo perfetto in ogni cosa, non ci
rimarrebbe altro che adorarlo. Ma poich'egli era mortale come noi e
soggetto ad errare ed alcuna volta può avere anch'esso umanamente
errato, sarà utile a noi l'apprendere in qual modo egli vincesse le
sue battaglie ideali, e quale ostinazione virtuosa egli abbia messo
per vincere. "Ma noi non vogliamo più la noia di libri siffatti, che
ci diano la biografia d'uno scrittore, con l'intendimento dichiarato
di offrirci un modello virtuoso. Dateci l'uomo come l'avete visto.
Penseremo noi alla conclusione, se ce ne sarà da farne alcuna, o non
ne faremo, che sarà il meglio. Risparmiateci dunque i vostri
fervorini." Sento già correre in aria queste parole più di minaccia
che di consiglio; e, mettendomene in pensiero, prometto, fin d'ora,
che risparmierò i fervorini, quanto mi sarà possibile, ma non prometto
poi nulla di più: perchè, se, nello scrivere, mi accadrà, in qualche
momento, che il cuore mi batta un poco più rapido, e mi esca per
avventura una parola più calda, io non sacrificherà quel po' di fuoco
che m'accende ancora, ad alcun domma della nuova critica; poichè io
non ammetto, e lo dichiaro subito, in alcuna opera d'arte, principii,
i quali escludano il principale, anzi il solo creatore d'ogni arte
grande, che è il sentimento.

  [1] Che la mia venerazione pel Manzoni sia óramai antica, ne recherò
    qui un breve documento. Ero studente nella Università di Torino;
    nella Facoltà di lettere si era disegnata la fondazione di un
    giornale letterario; io doveva esserne il direttore e proporne il
    titolo. Posi innanzi il nome di _Alessandro Manzoni_. Ma, temendo
    pure che al Manzoni potesse non piacere che da lui s'intitolasse
    un giornale di studenti, il quale avrebbe potuto riuscir
    battagliero, gli scrissi, in nome de' miei compagni, per domandare
    un permesso che alla nostra fiera, ma pur delicata, baldanza
    giovanile pareva necessario. Il venerando uomo si turbò all'idea
    che il suo nome potesse diventar simbolo di una battaglia di
    giovani, e c'indirizzò la lettera seguente, finqui inedita,
    l'autografo della quale trovasi ora nelle mani dell'egregio
    Antonio Ghislanzoni a Lecco: "Pregiatissimi Signori, Non ho mai
    avuto nell'animo un conflitto d'opposti sentimenti, come quello
    d'una profonda riconoscenza e d'un vivo dispiacere che m'ha fatto
    nascere la troppo cortese lettera, di cui m'hanno voluto onorare.
    Ma la benevolenza che attesta in ogni sua parte, mi da la certezza
    che di que' sentimenti non mi rimarrà che il primo. Per codesta
    così spontanea e per me preziosa benevolenza, Vi prego dunque, o
    Signori, di non dare al giornale, l'annunzio del quale mi
    rallegra, il titolo che v'eravate proposto. Sarebbe una cagione di
    vero e continuo turbamento alla mia vecchiezza, che, per quaggiù,
    non aspira ad altro che alla quiete. L'indulgentissimo vostro
    giudizio è già una gran ricompensa per de' lavori che non hanno
    altro merito, che d'esser fatti in coscienza. Confido, anzi mi
    tengo sicuro che non me la vorrete cambiare in un castigo, e che
    potrò goder subito in pace la speranza de' frutti che mi promette
    il saggio del vostro ingegno e del vostro cuore. Chiudo in fretta
    la lettera, perchè arrivi a tempo, come desidero ardentemente, e
    mi rassegno

    _Milano, 1 novembre 1859_.

    Dev.mo obbl.mo ALESSANDRO MANZONI."

    Ricevuta questa lettera stimammo debito nostro, per rispetto alla
    volontà del Manzoni, rinunciare tosto al primo titolo desiderato di
    _Alessandro Manzoni_, e lo sostituimmo perciò un altro che, nel
    nostro pensiero, doveva riuscire equivalente. Il nuovo giornale
    s'intitolò per tanto: _La Letteratura civile_; ebbe, tuttavia, la
    vita solita de' giornali compilati da studenti.



I.

Prologo.


Se bene a molti rechi oramai gran tedio che si parli ancora nel mondo
del Manzoni, e tra i molti i più siano persuasi che sopra un tale
argomento, da essi chiamato giustamente _eterno_, non ci sia più nulla
di nuovo da dire, dovendo io tener discorso intorno ad un nostro
moderno scrittore, innanzi ad un'eletta d'Inglesi, presso i quali da
Giuseppe Baretti ad Ugo Foscolo, da Ugo Foscolo a Gabriele Rossetti,
da Gabriele Rossetti a Giuseppe Mazzini, per tacere degli onorati
viventi che hanno insegnato od insegnano tuttora la letteratura
italiana in Inghilterra, le nostre lettere da un secolo in qua furono
sempre coltivate con amore, io non ho saputo trovare alcun tèma non
solo più nobile, ma più _nuovo_ del Manzoni. Non sorridete, o Signori.
Io so bene che gli stranieri, i quali hanno fatto i loro primi, in
verità, non molto divertenti esercizii d'italiano sopra i _Promessi
Sposi_ e sopra le _Mie Prigioni_, riguardano come stranamente
idolatrico il nostro culto manzoniano. Lo so, e se credessi che la
loro opinione avesse buon fondamento, me ne turberei; poichè, in
verità, se il Manzoni fosse per noi un idolo, innanzi ad un idolo lo
vedrei solamente possibile una di queste due altitudini: adorare
tacendo con gli occhi chiusi, che non è il miglior modo per veder
bene; o passargli accanto sdegnosi, sprezzanti, correndo via, che non
è, di certo, un modo di veder meglio. Io ammiro grandemente il
Manzoni, ma non l'adoro, e però, quantunque pieno di riverenza a tanta
umana grandezza, oserò accostarmele e studiarla, anco perchè stimo che
giovi il vedere come un uomo non solo sia nato, ch'è merito di natura,
ma come abbia saputo egli stesso divenire e mantenersi grande. Ogni
vanto di priorità in lavori simili al presente mi parrebbe, o Signori,
intieramente oziosa e puerile; e però, prima d'accennare ad un fatto
singolare che mi riguarda, debbo dichiararvi candidamente che non solo
io non me ne faccio merito alcuno, ma che mi vergognerei se alcuno
attribuisse a me un merito ch'è stato del caso. Ora sono più di sei
anni, quando il Manzoni era pur sempre vivo, avendo io la debolezza di
credere che la letteratura abbia alcuna virtù educatrice, tentai, come
potei meglio, rinfrescare nella mente de' giovani il ricordo, e nel
cuore di essi la riconoscenza per gli scrittori italiani, i quali
avevano, a parer mio, più efficacemente cooperato non solo a mantenere
vivo il decoro delle nostre lettere, ma a farle operative di virtù
domestica e civile. Io m'era detto e persuaso che la loro modestia
avrebbe loro vietato di parlare prima di scendere nel sepolcro;
intanto i giovani che vengono su, poichè, ad uno ad uno, i nostri
buoni vecchi se ne vanno, poco o nulla ne potranno sapere, onde
mancheranno ad essi quei nobili esempi ed eccitamenti che in parte
servirono, in parte avrebbero dovuto servire a noi per animarci nel
sentimento del nostro dovere e per educarci alla virtù del sacrificio.
Era dunque, o almeno parevami, che fosse debito nostro servire
d'anello ideale fra la generazione che passa e quella che viene,
portare virilmente ai giovani la parola de' vecchi; e, non credendo di
potere far meglio, incominciai da Alessandro Manzoni. Ma quale non fu
il mio stupore, quando, messomi intorno a cercare se esistessero
biografie italiane del nostro primo scrittore vivente, in un secolo
pur così prodigo di biografie, dovetti, con molta confusione,
rinunciare alla speranza di trovarne alcuna e provarmi a tentar da me
solo con le notizie del Fauriel e del Loménie, con gli sparsi articoli
di critica letteraria, con le onorevoli disperse testimonianze degli
amici a ammiratori del Manzoni, e con una nuova lettura delle sue
opere, la prima biografia del grande Poeta milanese! La cosa parrebbe
incredibile, se non fosse vera. Morto il Manzoni, il 22 maggio
dell'anno 1873, in età di ottantotto anni, quel primo saggio
biografico ebbe naturalmente la buona fortuna di servire come
addentellato ad altri, che lo resero presto insufficiente; seguirono!
pertanto nuove spigolature e nuove biografie, tra le quali convien
ricordare quelle di Vittorio Bersezio, Giulio Carcano, B. Prina, F.
Galanti, Antonio Stoppani, A. Buccellati, Cario Magenta, Carlo
Romussi, Giovanni Sforza, Salvatore De Benedetti, Felice Venosta,
Nunzio Rocca, Antonio Vismara; Carlo Morbio e Cesare Cantù tutte
diversamente pregevoli per la nuova luce che recarono alla biografia
manzoniana. Ma è cosa singolare che non sia ancora comparso fin qui
alcun discorso critico un po' largo sopra tanta novità di materia
biografica. Non ci si è pensato, pur troppo; onde è ancora veramente
un caso per me felice, ma non lieto per l'Italia, che, dopo oltre sei
anni dal mio primo saggio biografico, io abbia ancora, senza alcun
merito e senz'alcuna pretesa, ad essere per ordine cronologico, il
primo che tenti una biografia ragionata di Alessandro Manzoni. Chè, se
io mi sono, ora volge il sest'anno, messo nell'impegno difficile di
lodare il Manzoni vivo, senza tradire la maestà di quel _santo vero_
che fu la sua prima e vorrebb'essere la mia religione, ognuno
intenderà facilmente come una parte delle indagini, le quali son
divenute possibili, sarebbero state sconvenienti, quando il grand'uomo
era vivo e potea provarne pena; ognuno si persuaderà dunque come un
nuovo studio biografico intrapreso in così diversa, e, per rispetto
alla critica, migliorata condizione, deve necessariamente riuscire
alquanto più ricco e più dimostrativo del primo. Queste dichiarazioni
scuseranno pure il tono alquanto dimesso del mio presente Discorso.
Non si tratta qui, invero, di giudicare dall'alto, che sarebbe sempre
una impertinenza, nè da lontano, che non si potrebbe senza molta
imprudenza, un Manzoni già ben cognito, o supposto tale, per farne,
con pochi vivaci tratti di penna, un nuovo e splendido ritratto
ideale. Il mio ufficio vuol essere, almeno per questa volta, assai più
modesto. Si tratta, cioè, semplicemente di ristudiare da capo il
nostro Poeta, di seguirne passo passo la vita, i pensieri, i
sentimenti, prendendo per guida principalissima i suoi proprii
scritti. Questo esercizio minuto richiede naturalmente un po' di
pazienza, tanto in chi lo intraprende, quanto in chi conviene ad
osservarlo; ma, s'io non erro, poichè avremo, voi ed io, fatto prova
insieme di questa necessaria virtù, ci troveremo finalmente innanzi,
quasi senz'accorgercene, vivo ed in piedi, un nuovo Manzoni, che nè
voi nè io ci eravamo, prima di ristudiarlo, immaginato fosse per
riescire così grande, per quanto lo ingrandisse già la nostra
ammirazione, nè così importante, per quanto fosse già molto viva la
nostra curiosità di conoscere tutto ciò che lo riguardava.



II.

La nobiltà del Manzoni.


In una delle sue lettere alla propria moglie, Massimo d'Azegiio le
narrava una visita fatta al paese originario di casa Manzoni: "Ci
hanno detto (egli scrive) che i vecchi della famiglia, ai tempi
feudali, avevano un certo cane grosso, che quando andava per il paese
i contadini erano obbligati a levargli il cappello, e dirgli:
_Reverissi, sur can _(La riverisco, signor cane)." Un proverbio della
Valsássina, ove i Manzoni una volta spadroneggiavano come signori del
luogo insieme con la famiglia de' Cuzzi, suona ancora così:

     Cuzzi, Pioverna e Manzòn
     Minga intenden de resòn.

Cioè, le famiglie Cuzzi e Manzoni ed il torrente Pioverna, quando
straripa, non intendono punto la ragione. Dalla Valsássina la famiglia
Manzoni passò ad abitare in quel di Lecco, dove il signor Pietro
Manzoni, padre del nostro Poeta, possedeva molte terre ed una bella
palazzina detta _Il Caleotto_, che nell'anno 1818 Alessandro Manzoni
fu costretto a vendere, insieme con gli altri beni per la mala
amministrazione di chi aveva tenuto, per oltre un decennio, la procura
ed il governo di quelle terre, una parte delle quali si trovava nel
Comune di Lecco, altre in Castello, altre in Acquate, il villaggio per
l'appunto de' _Promessi Sposi_. Come Renzo si trova obbligato a
lasciare il proprio villaggio ed a vendere la propria vigna per
recarsi ad abitare nel Bergamasco; così il nostro Poeta dovette, per
salvar la villa di Brusuglio, abbandonar luoghi che gli erano cari,
dove aveva passata una parte della sua infanzia, dov'era tornato a
villeggiare tra gli anni 1815 e 1818, onde non è meraviglia
l'intendere dallo Stoppani che in quegli anni, per l'appunto,
Alessandro Manzoni si trovasse pure a capo dell'amministrazione del
Comune di Lecco; meno ancora ci meraviglieremo, dopo di ciò, che la
scena de' _Promessi Sposi_ sia stata posta dall'Autore nel villaggio
di Acquate, nel territorio di Lecco, nei luoghi ove lo riportavano le
prime e le più care sue reminiscenze e dai quali egli s'era dovuto
staccare per sempre con un vivo dolore, tre anni e mezzo soltanto
innanzi ch'egli incominciasse a scrivere il proprio romanzo. I Manzoni
erano dunque nobili, ma nobili decaduti dai loro titoli di nobiltà e
dalla loro antica potenza. Avevano dominato una volta con la forza. La
fortuna d'Italia volle che col sangue del Manzoni, che la tradizione
ci rappresenta quali uomini violenti, si mescolasse un giorno un
sangue più gentile, e che, per gli ufficii dell'economista Pietro
Verri e, come vuolsi, del poeta Giuseppe Parini, l'illustre marchese
Cesare Beccaria sposasse un giorno la non ricca, ma bella, giovine ed
intelligente sua figlia Giulia al proprietario del _Caleotto_, a Don
Pietro Manzoni, uomo intorno alla cinquantina; e che da quelle nozze
fra una nobile fanciulla milanese ed un grosso signorotto di
provincia, il 7 marzo dell'anno 1785, nella città di Milano, nascesse
un figlio. Se mi si domandasse ora qual conto il nostro Poeta facesse
della sua origine nobilesca, mi troverei alquanto imbarazzato a
rispondere. Nel suo discorso, nel suo contegno, tutto pareva in lui
signorile; ma, nel tempo stesso, egli si adoprava a riuscir uomo
semplice ed alla mano.[1] Forse in gioventù aveano desiderato dargli
una educazione più aristocratica che la sua vera condizione di nobile
decaduto non comportasse; Don Pietro Manzoni, uomo alquanto materiale,
venuto dalla provincia a stabilirsi in Milano[2], dovea, fra i
nobili milanesi, trovarsi alquanto spostato e l'arguta intelligenza
del figlio potè sentire, per tempo, ciò che v'era di falso in quella
condizione della propria famiglia fra l'alto patriziato lombardo. Se è
vero che, nella educazione del giovane Ludovico, divenuto poi Fra
Cristoforo, il Manzoni abbia inteso, in qualche modo, rappresentare la
propria gioventù, convien dire ch'egli non avesse della propria
nobiltà gentilizia, per la stima che se ne faceva a Milano, una
opinione superlativa; ma, come discendente dagli antichi signori di
Barzio nella Valsássina, come antico proprietario del _Caleotto_ egli
dovea pure ricordare che i suoi padri erano stati una volta il terrore
delle terre da loro dominate e persuadersi che, se la sua nobiltà
contava poco a Milano, avea contato troppo dalle parti di Lecco.
Questa speciale contradizione nella stima ch'egli potea fare della
propria nobiltà, lo tirava ora a farsi piccino con Renzo, ora a
immaginarsi grande con l'Innominato, ora a collocarsi ragionevolmente
fra i due con la figura di Fra Cristoforo. Ma quali fossero i panni,
di cui gli piacesse vestirsi, o rivestirsi, egli doveva sentir sempre
l'altezza del proprio ingegno sovrano, la quale poi si dimostrava
altrui molto più nella modestia che ne' vanti volgari. Poichè uno de'
privilegi degli uomini grandi (un privilegio che talora può anche
divenire una loro debolezza) è quello di trovar compiacenza nel farsi
piccini. Crediamo, dice, con molto garbo, il conte Carlo Belgioioso,
che una squisita modestia convivesse coi Manzoni con una ben misurata
stima di sè. Egli riconobbe di certo i privilegi della propria
intelligenza, e ne ringraziò Dio; ma li scordò davanti agli uomini.
Della nobiltà del Manzoni altri si occuparono, non lui; quando il
signor Samuele Cattaneo di Primaluna[3] pensò fargli cosa grata,
inviandogli l'antico stemma de' Manzoni ch'egli avea ritrovato nella
casa di Barzio, il Poeta ringraziò tosto del pensiero amorevole, ma
non aggiunse altro. Gli pareva sul serio di offender qualcheduno,
quando avesse lasciato capire ch'egli sapesse o sentisse, e, peggio
ancora, si compiacesse d'appartenere ad una casta privilegiata. Ma
tanto fa, egli era un signore; e, quando s'accostava al popolo per
fargli del bene, mosso da un sentimento di umanità, di giustizia, di
carità cristiana e da una gentilezza squisita, quando, nella vendita
del _Caleotto_ e delle sue terre ereditate dal padre in quel di Lecco,
egli tirava un frego sopra i debiti de' suoi contadini e affittaioli e
li perdonava tutti, si mostrava generoso ed umile al modo di
quell'ottimo suo marchese erede di Don Rodrigo de' _Promessi Sposi_:
quel marchese, se vi ricordate, volendo far del bene a Renzo ed a
Lucia e riparare verso di essi i gravi torti del suo predecessore,
compra la vigna di Renzo pagandola il doppio del prezzo richiesto; poi
invita i due fidanzati al suo palazzotto, fa loro imbandire un buon
desinare ed ordina che venga servito bene, anzi lo serve, in parte, da
sè, ma non si mette addirittura a tavola coi villani. A questo punto
il Manzoni entra direttamente in iscena, ed osserva: "A nessuno verrà,
spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare
addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per
un originale, come si direbbe ora; vi ha detto ch'era umile, non già
che fosse un portento di umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per
mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in
pari." Questo brano mi pare abbastanza eloquente per sè, nè mi obbliga
ad aggiugnere altro intorno al modo con cui il Manzoni sentiva la
propria signoria,[4]

  [1] Quanto alla fisionomia del Manzoni, non si potrebbe tuttavia dire
    che essa avesse un carattere diverso da quello de' popolani di
    Lecco, ove, come me ne assicura il prof. Stoppani, s'incontrano
    spesso contadini, alla vista de' quali vien voglia di
    gridare:--Ecco il Manzoni.--Cade quindi l'indiscreta ciarla nata
    in Milano, per cui si suppose possibile che il Manzoni fosse
    figlio dell'Imbonati, ciarla, alla quale alludeva forse il verso
    del noto Carme giovanile, _In morte dell'Imbonati: Contro il mio
    nome armaro L'operosa calunnia_.

  [2] Don Pietro Manzoni abitava allora nella Via San Damiano, nella
    casa che porta ora il numero venti, e il battesimo venne celebrato
    nella chiesa di Santo Babila dal prete Alessio Nava; al fanciullo
    furono imposti i nomi di Alessandro, Francesco, Tommaso, Antonio.
    Il primo nome era quello del padre di Don Pietro, ossia del nonno
    del Manzoni, allora già morto; il secondo il nome del padrino Don
    Francesco Arrigoni. Il nome di Tommaso gli fu imposto, senza
    dubbio, perchè la Chiesa il dì 7 marzo festeggia San Tommaso.
    Antonio era il nome di un cugino canonico in San Nazaro; ma
    potrebbe pure esser venuto al Manzoni da una madrina Antonietta,
    intorno alla quale tuttavia, per ora, non sappiamo proprio nulla.
    Poichè si è qui ricordata la prima abitazione del Manzoni
    (l'ultima in Via del Morone, ove egli morì, è ben nota), ricorderò
    ancora col Morbio le altre case abitate dal Manzoni in Milano:
    "Altra casa, già abitata precedentemente da Manzoni, col padre,
    oltre l'accennata a San Damiano, fu quella segnata col N, 134, in
    Via Santa Prassede, ora Via Fontana, N. 44. Manzoni fu molto
    instabile nelle sue dimore. Nel 1808 abitava in Via Cavenaghi al
    N. 2528, ora N. 5. Sul declinare dell'anno 1810 scelse un'altra
    dimora; e colla madre, la sposa e la figlia Giulia, recossi ad
    abitare in Via San Vito al Carrobbio, al vecchio N. 3883, ora N.
    27. Ponete un'iscrizione su quella casa. Ivi cominciò ad ideare
    gli _Inni Sacri_; ma essi furono ultimati e perfezionati nella sua
    Villa di Brusuglio, e precisamente in una capannuccia del
    giardino."

  [3] Cfr. il volume delle _Lettere_ pubblicato da Giovanni Sforza.

  [4] Intorno alla nobiltà della famiglia Manzoni, ecco quanto scrisse
    l'erudito Carlo Morbio nella Rivista Europea dell'anno 1874 "Fu
    creduto da quasi tutti i biografi di Manzoni che Egli fosse
    stretto in parentela colla Francesca, celebre poetessa e
    letterata, della quale lungamente scrisse l'Argelati, che morì nel
    1743 alla Cerreda sua villetta presso Lecco, nella ancor fresca
    età di 33 anni. Ma io già provai con lettera, direttami dallo
    stesso grande Poeta, nel 25 gennaio 1844, che Egli colla Francesca
    non aveva di comune che il cognome, comunissimo del resto,
    com'Egli m'osserva, nei territorio di Lecco e della Valsássina. Il
    grande Poeta fu egli di nobile casato? I Manzoni ebbero, è vero,
    feudi e onoranze in quei paesi, ma la loro nobiltà non venne mai
    ufficialmente riconosciuta. Don Pietro, padre di Alessandro, ed i
    suoi fratelli, presentarono bensì nel 1794 un'istanza documentata
    al Consiglio Generale della città di Milano, onde essere ammessi
    agli onori del Patriziato Milanese; ma prima che il Consiglio si
    pronunciasse in proposito, i supplicanti in causa d'urgenti affari
    di famiglia chiesero ed ottennero la restituzione de' loro
    documenti, obbligandosi però a riprodurli a tempo opportuno. Ma
    non mi consta che la famiglia Manzoni riproducesse più tardi la
    sua istanza. È poi assolutamente erroneo che la sua nobiltà
    venisse riconosciuta dal Tribunale Araldico, con sentenza del 10
    luglio dell'anno 1771, perchè i Manzoni non si trovano accennati
    in nessuno degli elenchi dei nobili cittadini, proclamati come
    tali dal Tribunale Araldico e dal Consiglio Generale della città
    di Milano.--Manzoni non ha mai fatto uso di stemma gentilizio,
    neppure nelle lettere; il suo sigillo porta semplicemente le sue
    iniziali, entro un cerchietto a linee concentriche.



III.

Il Manzoni a scuola.


Io non mi fermerò ora a darvi notizie della culla del Manzoni, che fu
ritrovata e si conserva in una villa del signor Rosinelli a Mozzana
sopra Galbiate; nè della cascina detta _La Costa_, ove il grand'uomo
fu allattato da Caterina Zanzeri, nè di questa nutrice, la quale
vogliono che fosse svelta, vivace e piacevolona.[1]. Ma non è senza
importanza il fatto che a soli sei anni il fanciullo Manzoni fu
allontanato da casa sua e chiuso nel Collegio de' Frati Somaschi di
Merate, ove rimase dall'anno 1791 all'anno 1796.[2] La mamma ve
l'accompagnò, ma scomparve intanto che il fanciullo era tenuto a bada
da un frate maestro. Si possono facilmente immaginare gli strilli del
povero fanciullo non appena egli s'accorse che la mamma sua l'aveva
lasciato; ma, poichè ad uno de' prefetti parve pure che il pianto
durasse troppo, il fanciullo ricevette un colpo sulla guancia
accompagnato da queste parole: "E quando la finirete di piangere?"
Quello fu il primo dolore provato dal grand'uomo, che se ne rammentava
anche negli ultimi anni della sua vita. "Buona gente (del resto egli
concludeva, parlando di que' suoi primi istitutori), quantunque, come
educatori, lasciassero troppo a desiderare che fossero prima un po'
più educati loro stessi." I frati di Merate lo avvezzarono dunque ai
primi castighi. Ad undici anni, Alessandro Manzoni passò nel Collegio
di Lugano, ove gli toccò la buona fortuna di avere tra i suoi maestri
il buon padre Francesco Soave,[3] onesto letterato e, per quei tempi,
educatore assai liberale, sebbene s'indispettisse contro il nostro
piccolo scolaro, che s'ostinava a scrivere le parole _Re, Imperatore e
Papa_ con la prima lettera minuscola. Il Manzoni parlando un giorno
del Soave a Cesare Cantù gli disse, tra l'altre cose: "Teneva nella
manica della tonaca una sottile bacchetta, presso a poco come quella
che fa i miracoli dei giocolieri; e quando alcuno di noi gli facesse
scappare la pazienza, egli la impugnava, e la vibrava _terque
quaterque_ verso la testa o le spalle del monello, senza toccarlo; poi
la riponeva e tornava in calma." Al Manzoni rincresceva d'avere
talvolta inquietato quel Padre, che tanto fece, sebbene non sempre il
meglio, per l'istruzione della gioventù. Narrava pure il Manzoni come
una volta gli scappasse detto in iscuola "ne faremo anche a meno,"
quando il Padre Soave annunziò che fra poco ci sarebbe stata la
lezione d'aritmetica. Il Padre maestro si levò allora dalla cattedra,
e si mosse gravemente verso il piccolo ribelle, che si sentiva già
agghiacciare per lo sgomento il sangue nelle vene; gli si accostò, gli
pose sulla guancia legermente due dita, come per carezzarlo, ma
dicendogli con voce grossa: "E di queste ne farete a meno?" come se lo
avesse percosso ferocemente. Il Manzoni, come assicura lo Stoppani e
come si può ben credere, rimase "profondamente colpito da tanta
mitezza, e ne parlava ancora con vera compiacenza quasi 70 anni più
tardi." Ma la _via crucis_ de' collegi non era ancora finita pel
nostro piccolo proscritto. Verso il suo tredicesimo anno, lasciati i
Somaschi di Lugano, egli veniva raccomandato ai Barnabiti del Collegio
di Castellazzo, poscia a quelli del Collegio de' Nobili di Milano; e
qui sebbene egli n'abbia poi detto un gran male nei noti versi _In
morte di Carlo Imbonati_, nacque e si rivelò fra il tredicesimo e il
quindicesimo anno il suo genio poetico, o per lo meno, la sua felice
attitudine al poetare.[4]

  [1] Cfr. _I primi anni di Alessandro Manzoni_, spigolature di Antonio
    Stoppani.

  [2] La poca armonia che dovea regnare in casa di Don Pietro Manzoni
    fra moglie e marito, onde sappiamo che, alcuni anni dopo, la
    signora Giulia Beccaria si trasferiva con l'Imbonati a Parigi,
    dovette essere una delle principali cagioni, per le quali il
    Manzoni, in così tenera età, fu rinchiuso in collegio. Il Manzoni
    concepì poi per la vita di collegio una tale avversione, che, al
    dire del Loménie, egli non volle mandare in collegio alcuno de'
    suoi figli, ch'egli educò, invece, presso di sè. "On dit (aggiunge
    il Laménie) que, par suite de son excessive tendresse de père,
    l'expérience de l'éducation domestique ne lui a pas parfaitement
    réussi." Ed è vero, pur troppo, per quello che riguarda i maschi,
    i quali, ad eccezione forse del primogenito Pietro, che gli fece
    almeno buona compagnia negli ultimi anni della vita, non
    risparmiarono al grand'uomo noie e dolori.

  [3] Francesco Soave era nato in Lugano nel giugno dell'anno 1743; avea
    fatto i suoi primi studii a Milano, quindi a Pavia, finalmente a
    Roma nel Collegio Clementino. Soppressa la Compagnia di Gesù,
    della quale faceva parte, andò nel 1767 ad insegnare poesia a
    Parma; fu allora che pubblicò la sua _Grammatica ragionata_ della
    lingua italiana. Non è inutile avvertire che il primo impulso agli
    studii di lingua, che poi l'occuparono tanto, può esser venuto al
    Manzoni dai primi insegnamenti del Soave. Avendo, dice un biografo
    del Soave, la Reale Accademia di Berlino proposto il quesito: "Se
    gli uomini abbandonati alle loro facoltà naturali sieno in grado
    per sè medesimi d'istituire un linguaggio, e in qual modo
    potrebbero pervenirvi," il Soave vi mandò una dissertazione latina
    che ottenne il primo _Accessit_. Lo stesso Padre Soave la tradusse
    poi in italiano e la pubblicò in Milano nel 1772; quantunque
    Gesuita, il Padre Soave vi sosteneva arditamente il concetto poco
    ortodosso, che l'uomo può da sè stesso istituire il proprio
    linguaggio. Nello stesso anno 1772, il conte Firmian elesse il
    Padre Soave a leggere nel Collegio di Brera la filosofia morale,
    quindi la logica e la metafisica; nel tempo stesso egli coltivava
    le scienze fisiche e adopravasi a divulgare le nuove scoperte
    scientifiche; alcune delle sue osservazioni parvero anzi vere
    invenzioni. Per eccitamento del conte Carlo Bettoni di Brescia, il
    Padre Soave scrisse pure le _Novelle morali per la Gioventù_, e ne
    ottenne un premio di cento zecchini. Un altro riscontro curioso si
    può notare fra la vita del maestro Soave e quella del discepolo
    Manzoni. Il primo, inorridito nell'anno 1789 e ne' successivi per
    i rivolgimenti di Francia, imprese a scrivere un libro storico,
    sotto l'anagramma grecizzato di _Glice Coresiano _(Soave
    Luganese), col titolo: _La vera idea della rivoluzione di
    Francia_; il secondo termina la sua vita scrivendo per l'appunto
    un libro sopra la rivoluzione di Francia, per disapprovarla
    (sebbene in modo e per motivi assai diversi) come il suo primo
    vero maestro. Quando il Soave riparò nel 1796 in Lugano e vi
    ammaestrò il nostro piccolo Manzoni, era fuggiasco da Milano, ove
    spadroneggiavano vittoriosi i Sanculotti. Si capisce pertanto qual
    animo fosse allora il suo contro i repubblicani e come li dovesse
    rappresentare a' suoi piccoli alunni del Collegio di Lugano. Da
    Lugano lo richiamava poi in Napoli il principe d'Angri per
    affidargli l'educazione del proprio figliuolo. Il Manzoni dovette
    rivedere il Soave nel 1803 a Pavia, ove il buon Padre insegnava
    l'analisi delle idee; chi sa che il Manzoni non abbia pure
    frequentate le sue nuove lezioni di logica. Accennerò finalmente
    come, a promuovere le idee del giovine stoico Manzoni, può avere
    pure conferito alcun poco l'esempio del Soave che ci è
    rappresentato come uomo "d'ingenui e sinceri costumi, dal parlare
    lento e grave, dal viso alquanto austero, dal far contegnoso, non
    ostante il quale, la bontà sua lo rendea caro e venerato."

  [4] "I locali del _sozzo ovile_ (scrive Carlo Morbio, che fu egli pure
    alunno nel Collegio de' Nobili) non avevano subìto cambiamento
    importante dall'epoca in cui fuvvi Manzoni; così almeno
    assicuravano i vecchi del Collegio, che si ricordavano benissimo
    del vispo e caro Don Alessandro o Lisandrino. Verso la seconda
    corte ed i giardini, il Collegio spiegava un aspetto grandioso, ma
    melanconico e severo. Nell'interno, ampi eranvi i corridoi e le
    camerate. Era, per dir così, la fronte d'un vasto caseggiato, che
    non venne poi condotto a compimento. Verso il Naviglio poi
    l'Imperiale Collegio presentava una fronte ignobile e bassa. Gli
    alti pioppi di quella seconda corte già avevano ombreggiato il
    capo del giovane Poeta, il cui ritratto ad olio, grande al vero,
    stava appeso fra quelli dei più distinti allievi (Principi) del
    Collegio. È quindi troppo assoluta la sentenza della signora Dupin
    che i ritratti di Manzoni giovane sarebbero apocrifi. Questo
    all'incontro è bene autentico e genuino. È anche fama che a
    vent'anni Manzoni si facesse ritrarre a Parigi, a guisa
    d'inspirato, colle chiome sciolte e collo sguardo volto al cielo.
    (Con gli occhi rivolti in su lo rappresentava pure nella virilità
    il pittore Molteni in un quadro ad olio, che si conserva presso la
    marchesa Alessandrina Ricci D'Azeglio.) Fu scritto da quasi tutti
    i biografi di Manzoni, che egli da giovinetto fosse di tardo
    ingegno, e punto non istudiasse. Non ignoro che il grande Poeta,
    forse burlando, lasciò creder ciò; ma io combatto Manzoni colle
    stesse sue anni, coi bellissimi suoi _Versi giovanili_ alla mano;
    ma io cito l'onoranza del ritratto, certamente non sospetta, che
    egli ottenne nello stesso Collegio Longone, ove fu alunno dal 1796
    all'anno 1800."



IV.

Primi versi.


Invero, ch'egli amasse molto i versi e ne scrivesse fin dal tempo, nel
quale sedeva ancora sui banchi della scuola, ce lo dice egli medesimo
in un sermone giovanile diretto al suo compagno Giambattista Pagani di
Brescia,[1] onde rileviamo ch'egli prediligeva già, fra tutti i
metri, il verso sciolto, e che non gli toccarono mai, per cagione di
poeti, quali Orazio, Virgilio e il Petrarca, quelle battiture che non
gli saranno certamente mancate per altre ragioni. Ma, ingegno
precocemente riflessivo, egli dovette accorgersi assai presto della
vanità degli esercizii rettorici, ne' quali i frati maestri del
Collegio de' Nobili in Milano costringevano allora, e così non li
costringessero più ora, frati e non frati, nelle scuole d'Italia, i
giovinetti ingegni. Nel suo sermone al Pagani egli si burla delle
gonfie orazioni che, giovinetto, gli toccava comporre nella scuola,
travestito, com'ei dice satiricamente, da moglie di Coriolano, e
dell'arte rettorica, per la quale si chiude "in parole molte, poco
senso," precisamente l'opposto di quello ch'egli fece dipoi, dicendo
sempre molto in poco:

   Pensier null'altro io m'ebbi infin dal tempo
     Che a me tremante il precettor severo
     Segnava l'arte, onde in parole molte
     Poco senso si chiuda; ed io, vestita
     La gonna di Volunnia, al figlio irato
     Persüadea, coi gonfii sillogismi,
     Ch'umil tornasse disarmato in Roma,
     Allor sol degno del materno amplesso.
     Me dalla palla spesso e dalle noci
     Chiamava Euterpe al pollice percosso
     Undici volte, nè giammai di verga
     Mi rosseggiò la man, perchè di Flacco
     Recitar non sapessi i vaghi scherzi,
     O le gare di Mopso o quel dolente
     "Voi che ascoltate in rime sparse il suono."

Ma vi ha di più: io sono lieto di potervi oggi recare una nuova prova
meravigliosa della precoce potenza, con la quale Alessandro Manzoni
sentì sè stesso. Uno de' più geniali amici della sua vecchiaia, il
professor Giovanni Rizzi, poeta gentile e sapiente educatore,
conservava inedito presso di sè un mirabile Sonetto, composto dal
Manzoni nell'anno 1801, il che vuol dire sul fine del suo quindicesimo
o sul principio del sedicesimo anno della sua vita. Egli mi permise,
per tratto di grande amorevolezza, in questa occasione a me tanto
solenne, di levarlo dall'oblio immeritato, in cui rimaneva da
settantasette anni. È, come vedrete, un ritratto fisico e morale che
lo stupendo giovinetto faceva di sè stesso; vi è qualche cosa
d'ingenuo nell'espressione, ma nel tempo stesso vi si ammira, insieme
con una grande e preziosa sincerità, il felice presentimento di una
vita lunga e gloriosa.

   Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
     Naso non grande e non soverchio umìle,
     Tonda la gota e di color vivace,
     Stretto labbro e vermiglio, e bocca esìle.
   Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
     Che il ver favella apertamente o tace;
     Giovin d'anni e di senno, non audace,
     Duro di modi, ma di cor gentile.
   La gloria amo e le selve e il biondo Iddio.[2]
     Spregio, non odio mai; m'attristo spesso,
     Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
   All'ira presto, e più presto al perdono,
     Poco noto ad altrui, poco a me stesso,
     Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

Quest'ultimo verso profetico mi scioglie dall'obbligo di qualsiasi
commento. Vi è qui tutto l'afflato del genio potente, che doveva
rivelare al suo secolo ed alla sua terra una nuova poesia.

  [1] Anche nell'_Urania_, il Manzoni dice ch'egli ambì la fama di
    poeta italiano fin _dai passi primi nel terrestre viaggio_:

                              Da' passi primi
         Nel terrestre viaggio, ove il desio
         Crudel compagno è della via, profondo
         Mi sollecita amor che Italia un giorno
         _Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga._

  [2]  Variante: "Di riposo e di gloria insiem desìo."



V.

Il Manzoni ed il Parini.


Nella sua prima maniera satirica il Manzoni parineggia; il Parini,
egli non avea conosciuto di persona, se bene lo potesse per le
relazioni che il poeta di Bosisio avea avute con la famiglia Beccarla.
Quando il Parini morì, il Manzoni, quattordicenne, incominciava già a
sentire la poesia e ad ammirare veramente i poeti; si narra anzi
ch'egli leggesse per l'appunto la celebre Ode _La caduta_, quando gli
venne annunciato che il Parini era morto.[1] Il Manzoni vecchio
dolevasi con Giovanni Rizzi di non averlo cercato, e scusavasi
malamente col dire che allora egli era "un ragazzaccio che non sapeva
nulla di nulla." Il vero è che non ci avrà pensato, che non avrà, come
accade, creduto il Parini già così vicino a morire, e che la vita di
collegio gli avrà pure diminuite le occasioni d'incontrarlo. Che se,
al dire di Giulio Carcano, quando, nel Collegio de' Nobili, il
giovinetto Manzoni fu, la prima volta, presentato al Monti come nipote
di Cesare Beccarla, il Monti gli parve un Dio, è probabile che il
vecchio Parini, quantunque non bello, gli avrebbe lasciata nell'animo
una impressione più soave e più durevole. Ricordano gli amici del
Manzoni che egli sapeva a memoria tutto il _Giorno_ e che, sul fine
della propria vita, quando sentiva affievolirsi la memoria, per
assicurarsi di non averla perduta tutta, soleva trascrivere a mente
qualche verso del suo Parini.[2] Quando, nel settembre dell'anno
1803, il diciottenne Manzoni mandava al suo maestro Monti un Idillio
allegorico intitolato: _L'Adda_, egli lo accompagnava con una lettera,
di cui, perchè si vegga quanta destrezza e causticità d'ingegno era
già nel giovine Poeta, riporterò qui le prime parole: "Voi mi avete
più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi
vedere che non sono nè l'uno nè l'altro, vi mando questi versi."[3]
Il discepolo domanda al maestro un parere sopra i suoi nuovi versi,
per limarli, ed, intanto, invita il Monti alla propria villa.
Nell'Idillio, il fiume Adda personificato in una Dea si volge così al
Monti:

   Te, come piacque al ciel, nato a le grandi
     De l'Eridano sponde, a questi ameni
     Cheti recessi e a tacit'ombra invito.

L'Adda sa bene di non poter contendere col Po, presso il quale il
Monti è nato, e prima di lui Lodovico Ariosto ed il Guarini, ma pur si
gloria che presso le sue rive abbia cantato un giorno Giuseppe Parini,
l'Orazio lombardo. L'Adda dice:

   Quivi sovente il buon cantor vid'io
     Venir trattando con la man secura
     Il plettro di Venosa e il suo flagello,
     O traendo l'inerte fianco a stento,
     Invocar la salute e la ritrosa
     Erato bella, che di lui temea
     L'irato ciglio e il satiresco ghigno;
     Ma alfin seguïalo e su le tempie antiche
     Fêa di sua mano rinverdire il mirto.
     Qui spesso udillo rammentar piangendo,
     Come si fa di cosa amata e tolta,
     Il dolce tempo della prima etade,
     O de' potenti maledir l'orgoglio,
     Come il genio natìo movealo al canto
     E l'indomata gioventù dell'alma.
     Or tace il plettro arguto e ne' miei boschi
     È silenzio ed orror. Te dunque invito,
     Canoro spirto, a risvegliar col canto
     Novo rumor Cirreo. A te concesse
     Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi
     E le imagini e l'estro e il furor sacro
     E l'estasi soavi e l'auree voci
     Già di sua man rinchiuse. A te venturo
     Fiorisce il dorso brïanteo; le poma
     Mostra Vertunno e con la man ti chiama,
     Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
     Già mi preparo a salutar da lunge
     L'alto Eridano tuo, che, al nuovo suono,
     Trarrà meravigliando il capo algoso,
     E tra gl'invidi plausi de le Ninfe,
     Bella d'un inno tuo corrergli in seno.

Nonostante la grazia di questo voluttuoso invito, il Monti non può
muoversi, e se ne scusa con una lettera, la quale incomincia
cerimoniosamente col _voi_ e prosegue affettuosamente col _tu_. Loda
moltissimo i versi, e conchiude: "Dopo tutto, sempre più mi confermo
che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa
carriera; e se al bello e vigoroso colorito che già possiedi,
mischierai un po' più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile
acquisterà tutti i caratteri originali." Nell'amore del Parini fu
ancora confermato il Manzoni dall'affetto che lo legò poco dopo alla
memoria del più caro discepolo dell'Autore del _Giorno_, l'Imbonati,
dall'ombra del quale, nel noto Carme, ei si fa dire:

     ......Quei che sul plettro immacolato
     Cantò per me: _torna a fiorir la rosa_,[4]
     Cui, di maestro a me poi fatto amico,
     Con reverente affetto ammirai sempre,
     Scola e palestra di virtù.

E i consigli dell'Imbonati non sono altro, in somma, se non quelli che
si trovano già espressi nei versi sentenziosi del Parini. Il Manzoni
sentì che erano veri, e li fece suoi proprii, per seguirne i precetti.
Scegliere il vero per farne argomento e fondamento di alta poesia è
virtù di pochi ingegni potenti. Il Manzoni non solamente sceglie bene,
ma quello ch'egli ha scelto, perfeziona e migliora. Spoglia, a poco a
poco, di una parte del loro apparato classico e mitologico i nobili
pensieri del Parini e li rifeconda col proprio sentimento, per
esprimerli con un linguaggio più caldo e più semplice.

  [1] Tutti ricordano il principio commovente dell'Ode pariniana:

       Quando Orïon dal cielo
         Declinando imperversa,
         E pioggia e nevi e gelo
         Sopra la terra ottenebrata versa,
       Me, spinto nella iniqua
         Stagione, infermo il piede,
         Tra il fango e tra l'obliqua
         Furia de' carri la città gir vede;
       E per avverso sasso
         Mal fra gli altri sorgente
         O per lubrico passo
         Lungo il cammino stramazzar sovente, ec.

    Il Manzoni vecchio che, per timore di cadere, soleva sempre,
    quando usciva, farsi accompagnare, dovette spesso pensare al suo
    Parini. "Una volta (mi scrive il Rizzi), quando egli andava a
    passeggio, una carrozza signorile passò così accosto a una povera
    donna che quasi la schiacciava. Avessi veduto che occhi fece, in
    quel momento! E pazienza gli occhi! Gli scappò nientemeno che
    questa frase: _porchi de sciori!_ (porci signori!). E tutti
    intorno la sentirono."

  [2] Le ultime parole trascritte dal Manzoni, per quanto me ne
    assicura il professor Giovanni Rizzi, furono versi del _Giorno_.

  [3] Cfr. il libro del signor Romussi, _Il Trionfo della libertà._

  [4] Allude all'Ode _La educazione_, che il Parini scrisse pel giorno
    natalizio del suo allievo undicenne Carlo Imbonati all'uscire da
    una malattia, e che incomincia:

       Torna a fiorir la rosa
         Che pur dianzi languia
         E molle si riposa
         Sopra i gigli di pria.
         Brillano le pupille
         Di vivaci scintille.

    Questi versi sentenziosi del Parini dovettero far pensar molto il
    Manzoni, e persuaderlo; il Carme _In morte dell'Imbonati_ ha
    perfetto riscontro di pensieri ed anche di parole con essi:

       Dall'alma origin solo
         Han le lodevol opre.
         Mal giova illustre sangue
         Ad animo che langue.
    --Chi della gloria è vago
         Sol di virtù sia pago.
    --Giustizia entro il tuo seno
         Sieda e sul labbro il vero.--
    --Perchè sì pronti affetti
         Nel core il ciel ti pose?
         Questi a Ragion commetti,
         E tu vedrai gran cose.
    --Sì bei doni del cielo,
         No, non celar, garzone,
         Con ipocrito velo,
         Che alla virtù si oppone.
         Il marchio, ond'è il cor scolto,
         Lascia apparir nel volto.
       Dalla lor mèta han lode,
         Figlio, gli affetti umani.

    Si può, si deve combattere per la patria, ma chi vince

                Pietà non nieghi
         Al debole che cade.

    Soccorriamo il povero, e l'uomo si mostri _fido amante_ e
    _indomabile amico._ Il Giusti, nell'_Elogio_ del Parini, scriveva:
    "La Lombardia perdè il suo poeta e non poteva cadere in mente ai
    cittadini, che lo piangevano, di consolarsene nel caro aspetto di
    un fanciullo di tredici anni ch'era allora in Milano e che di lì a
    poco fu quell'uomo che tutti sanno." Il Manzoni avrebbe pure
    potuto far propria la famosa strofa dell'Ode pariniana, _La vita
    rustica_:

       Me non nato a percotere
         Le dure illustri porte,
         Nudo accorrà, ma libero,
         Il regno della morte.
       No, ricchezza nè onore
         Con frode o con viltà
         Il secol venditore
         Mercar non mi vedrà.

    Il Manzoni vide pure, come il Parini, nell'educazione un mezzo per
    rialzare non solo i costumi, ma la patria infelice ed oppressa.
    Nella Canzone: _Per l'innesto del vaiuolo_, il Parini intese anco
    a preparar fanciulli sani, perchè potessero un giorno dar prova

    D'industria in pace o di coraggio in guerra.

    Nell'Ode: _L'educazione_, facendo apostrofare da Chirone il giovinetto
    Achille

       Nato al soccorso Di Grecia,

    il Parini rammenta al giovine Conte lombardo che può intraprendere
    ogni più ardua impresa per la patria

       Un'alma ardita, Se in forti membra ha vita.

    Così la poesia pariniana non è un vano giuoco, come non saranno
    mai pel Manzoni le lettore; tutta la sua letteratura è civile,
    anche dove scopre meno direttamente il suo intento educativo.



VI.

Il _Trionfo della Libertà_.


Il Manzoni, per sua natura, s'accostava, invero, più al fare un po'
rigido del Parini che a quello pieno ed ampio, ma un po' reboante del
Monti; quindi il Monti, che pur lo lodava tanto, desiderava in lui
alcuna maggiore larghezza e rotondità di frase, ossia, come diceva,
"un po' più di virgiliana mollezza," che si sarebbe ancora definita
convenientemente "pastosità lombarda." Nel Sonetto giovanile che vi ho
già riferito, il Manzoni si accusa da sè stesso come "duro di modi."
Questa durezza è pure un poco nella sua poesia, quando alcun
sentimento specialmente soave e vivace non viene a commuoverlo,
obbligando il critico arcigno a tacere innanzi al poeta commosso.
Tuttavia il Manzoni, negli anni de' suoi studii a Pavia, più tosto che
un alunno e un ammiratore del discreto, austero e _parco di versi
tessitor_, ci si dimostra un seguace dell'impetuoso Monti,
verseggiatore facile, ad un tempo, e solenne ed altitonante, dal quale
egli dovette pure avere appreso a studiare e ad imitar la _Divina
Commedia_.[1] Dall'_Autobiografia_ del medico inglese Granville, il
quale nell'anno 1802 studiava la Medicina nell'Università di Pavia,
rilevo che, in quell'anno medesimo, egli vi conobbe il Manzoni, il
quale doveva esservisi recato per frequentare specialmente le lezioni
di eloquenza italiana di Vincenzo Monti. Sappiamo ancora che il Monti,
dalla sua cattedra di Pavia, fulminava dantescamente il governo
temporale de' preti, parlava alto dell'amore di Dante per la patria e
per la libertà. Le impressioni ricevute a quella scuola si rivelano
chiaramente nel primo componimento manzoniano che si conosca, un poema
in terza rima, diviso in quattro canti, intitolato: _Il Trionfo della
libertà_, scritto ad imitazione dei _Trionfi_ del Petrarca, e con
molte reminiscenze della _Divina Commedia_, della _Bassvilliana_ e
della _Mascheroniana_ del maestro Monti; il Manzoni lo concepì e lo
scrisse fra il 1800 e il 1801, il che vuol dire tra il fine del suo
quindicesimo e il principio del suo sedicesimo anno. Rileggendo
alquanto più tardi il suo lavoro giovanile, il Manzoni, che lo poteva
fare, poichè non s'era pubblicato, non lo distrusse; ma si contentò di
porvi su la seguente Avvertenza: "Questi versi scriveva io Alessandro
Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza e
presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e
forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non
menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i
sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile
ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo." L'Avvertenza
manca di quella lucidità e naturalezza che divenne, specialmente nella
prosa, uno de' privilegi dello stile manzoniano, il che mi fa
naturalmente sospettare che risalga essa stessa ad un tempo, nel quale
il Manzoni, non più giovinetto, ma pur sempre giovanissimo, non era
ancora interamente padrone di sè come prosatore, e probabilmente
all'anno, in cui egli scriveva la faticata _Urania_. Il Manzoni
parlando di un ritratto che gli aveano fatto in gioventù (forse quello
di Parigi), con gli occhi rivolti al cielo, diceva: "Io era in
quell'età, nella quale chi si lascia fare un ritratto, si crede in
obbligo di prendere l'attitudine di un uomo ispirato." In quell'età
soltanto il Manzoni poteva, dunque, parlando di sè, scrivere "io,
Alessandro Manzoni," e vantarsi del suo "puro e virile animo." Il
Manzoni, divenuto cattolico convinto, avrebbe della propria persona e
delle proprie virtù parlato con molto maggiore umiltà. Il Manzoni
vecchio poi non solo avrebbe scritta altrimenti quell'Avvertenza, non
solo vi avrebbe condannati molti de' sentimenti sdegnosi espressi in
quel poema; ma, cosa più probabile, ei non l'avrebbe scritta affatto,
che, invece di scriverla, egli avrebbe semplicemente distrutti, con
uno spietato _auto-da-fè_, i versi giovanili che rifiutava. Quando,
assai più tardi, egli disapprovò pure ed anzi ripudiò, per molte gravi
ragioni, i versi _In morte dell'Imbonati_, non era più in suo potere
il distruggerli, perchè già troppo divulgati. È cosa certa poi, o
almeno può tenersi come probabile fino alla certezza, che il Manzoni,
dall'anno 1818 in qua, non avrebbe mai scritta in prosa la parola
_laude_, invece di _lode_, la sintassi finalmente dell'Avvertenza
rivela ancora l'impaccio del periodo classico, dal quale il Manzoni
pose dipoi tanto studio a liberarsi. Il prosatore Manzoni, che
conosciamo come maestro di mirabile naturalezza ed evidenza, non
avrebbe mai detto, per esempio: _non cosa di me indegna esservi
alcuna_; ma semplicemente: _non esservi alcuna cosa indegna di me_.
Sono minuzie, lo vedo, delle quali parrà forse superfluo che si pigli
nota in un breve discorso biografico. Ma, se io ammettessi che il
Manzoni non pur vecchio, ma dopo il suo anno ventesimoterzo, avesse
potuto scrivere quella singolare Avvertenza, non comprenderei più il
Manzoni e sarebbe un cattivo principio per chi ha impreso a parlarne
con la pretesa, la quale vedrete voi stessi in qual misura sia
legittima, di farlo meglio conoscere agli altri. Il Manzoni tra i
venti e i ventidue anni, non ancora risoluto di credere
cattolicamente, ma già seguace di Zenone lo Stoico ed avido insieme di
gloria poetica, poteva benissimo, nella fiducia di aver fatto qualche
progresso nell'arte sua, ripudiare la forma letteraria del suo primo
componimento per impedirne la stampa e, in pari tempo, compiacersi
nella manifestazione di sentimenti, ai quali non aveva ancora
rinunciato, nè poteva facilmente rinunciare fin che si trovava in
mezzo ai liberi ragionari degli atei o deisti, dei materialisti o
ideologi, dei rivoluzionarii, in ogni modo, e in pari tempo,
galantuomini suoi amici, i quali frequentavano la _Maisonnette_. Il
Manzoni vecchio sarebbe stato forse alquanto più indulgente, per
quella serenità olimpica ch'è la bontà de' vecchi, ai difetti
letterarii del suo componimento giovanile; ma egli ne avrebbe, senza
dubbio, deplorato i sentimenti che vi si esprimono in modo violento,
contro la Madre Chiesa, e contro quella povera Maria Antonietta, la
quale, appena che il Manzoni incominciò a studiare criticamente la
storia della prima rivoluzione francese, diventò una delle sue più
forti simpatie storiche. Io so bene che a molti deve piacere il poter
affermare che il Manzoni, riconoscendo come proprii i sentimenti
espressi nel suo poema giovanile, si schierò addirittura contro il
Papato e coi repubblicani; ma per un tale riconoscimento la questione
cronologica è di capitale importanza, quando noi non vogliamo, per
seguire le nostre fantasie o le nostre passioni, foggiarci, ad inganno
di noi medesimi, in un discorso biografico sopra il Manzoni, un
Manzoni diverso dal vero. Il quindicenne Manzoni, nel suo poemetto
intitolato: _Il Trionfo della libertà_, ci dà l'aspetto di un generoso
aquilotto che vuol tentare il primo suo volo. Egli sente già le ali
che gli battono i fianchi generosi, ma ignora ancora quale via terrà.
Si capisce già che egli ambisce volar alto, quando invoca la sua Musa,
perchè rinfranchi la cadente poesia italiana, perchè sostenga la virtù
che vien meno:

   Tu la cadente poesia rinfranca,
     Tu la rivesti d'armonia beata,
     E tu sostieni la virtù che manca;

mirabili versi per un poeta di quindici anni che esce dalle scuole de'
frati e da un secolo cicisbeo educato fra le canzonette del Metastasio
e del Frugoni; ma il giovinetto non ha ancora potuto pensare a crearsi
una propria forma letteraria. Noi vediamo nel suo _Trionfo_ piuttosto
la destrezza di un forte ingegno imitatore, nutrito di buoni studii,
che gl'indizii del più originale fra i nostri scrittori moderni. Egli
ha già studiato molto, e incomincia a sentire gagliardamente, ma gli
manca ancora l'abitudine, che fa grande l'artista, di meditare
lungamente sopra i suoi sentimenti ed il proposito virile di
esprimerli con naturalezza. Si sente già in parecchi versi il fremito
di un'anima ardente, ma il paludamento del poeta è ancora tutto
classico. Qualche indizio di originalità lo troviamo, appena, in que'
passi, ove il poeta abbassa la tonante terzina ad uno stile più umile,
vinto dalla propria urgente natura satirica. Egli incomincia allora ad
esercitare la più difficile e la più utile di tutte le critiche,
quella che uno scrittore intraprende sopra sè stesso, temperando
talora l'iperbole di alcune immagini sproporzionate. Dopo avere, per
esempio, dantescamente imprecato contro la città di Catania, onde era
partito l'ordine regio delle stragi napoletane, dopo aver fatto invito
tremendo all'Etna, perchè getti fuoco e cenere sopra tutta la città,
il Poeta s'accorge da sè stesso che sarebbe troppo castigo, e che non
si può per un solo reo punire tutto un popolo innocente; dominato però
da quel sentimento della giusta misura così raro nell'arte, e pel
quale appunto egli divenne poi artista così eccellente, modera e
corregge l'imprecazione, trasportandola sopra il solo capo della
regina Carolina:

   Deh! vomiti l'acceso Etna l'ultrice
     Fiamma, che la città fetente copra
     E la penetri fino a la radice.
   Ma no; sol pèra il delinquente; sopra
     Lei cada il divo sdegno, e sui diademi,
     Autori infami de l'orribil'opra.
   E fin da lunge e nei recessi estremi,
     Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti
     L'oda l'empia tiranna, odalo e tremi.

In altri passi del poema pare affacciarsi direttamente il poeta
satirico, ossia incominciarsi a rivelare uno de' caratteri più
specifici dell'ingegno manzoniano. L'attitudine de' Lombardi innanzi
al Francese arrivato come liberatore, e dominante come padrone, non
contenta il giovine Poeta, anzi gli muove la bile; rivolto pertanto
all'Italia, egli le domanda che cosa facciano i suoi figli, per
rispondere tosto:

     ...... I tuoi figli abbietti e ligi
     Strisciangli intorno in atto umile e chino;
     E tal, di risse amante e di litigi,
   D'invido morso addenta il suo vicino,
     Contra il nemico timido e vigliacco,
     Ma coraggioso incontro al cittadino.
   Tal ne' vizii s'avvolge, come Ciacco
     Nel lordo loto fa; soldato esperto
     Ne' conflitti di Venere e di Bacco.
   E tal di mirto al vergognoso serto
     Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
     Ricco d'audacia e povero di merto.
   Tal pasce il volgo di sonanti fole,
     Vile, di patrio amor par tutto accenso,
     E liberal non è che di parole.

Un giovinetto capace di scrivere tali versi annunzia non solo un
ingegno precoce, ma ancora una precoce e formidabile esperienza della
vita.

  [1] Cfr. il _Trionfo della libertà_, e il Carme: _In morte
    dell'Imbonati._



VII.

Il Manzoni poeta satirico.


In questi versi vi è già la forza, ma non ancora la finezza
dell'umorismo manzoniano. Egli li apprese troppo di fresco nelle
scuole, per poterli già smettere, quell'accento rettorico, quel fare
magniloquente che presto sdegnò ed evitò poi sempre negli altri suoi
scritti. La rima stessa doveva inceppargli il pensiero; la terzina
imporgli quasi l'obbligo d'imitare ora il Dante ora il Monti, quando,
non imitando alcuno, egli avrebbe già, fin d'allora, potuto rivelarsi
come Manzoni. Negli anni seguenti, sebbene egli ricordasse ancora
altri modelli poetici, avendo preferito il verso sciolto e quella
forma di sermone pedestre che, nel secolo passato, il veneziano
Gaspare Gozzi avea messo in qualche voga, il Manzoni potè sfogar
meglio il suo umore satirico. I suoi _Sermoni giovanili_ che si
conoscono, pubblicati dal professore Antonio Stoppani, risalgono agli
anni 1803 e 1804. Il terzo Sermone, diretto all'amico Pagani, fu
scritto dalla patria stessa del Gozzi, nel marzo dell'anno
1804.[Veggasi la lettera diretta da Venezia al Pagani, pubblicata dal
signor Carlo Romussi] Il Poeta sente d'avere un po' malato il
cervello; egli s'era innamorato in quel tempo, egli, diciottenne
studente, di una ragazza veneziana sulla trentina, ed era andato tanto
in là ne' desiderii e nelle speranze da chiederle la mano. "All'età
vostra (gli fu risposto) si pensa ad andare alla scuola, non a fare
all'amore."--"Sotto quella doccia a freddo (scrive lo Stoppani) la
guarigione fu istantanea, nè di quell'aneddoto altro rimase al Manzoni
che la memoria per riderne piacevolmente coi famigliari negli anni più
tardi." Egli si consola dunque della disgrazia amorosa nella gioconda
vita e nei versi; non ha ardori belligeri, nè smania di divenire un
gran filosofo, od un legislatore e uomo di Stato potente; la sua cura
solenne sono i versi:

   Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
     Non chiegga di Galen; men sano alquanto
     Il frammento di Giove, e non è rado
     Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
     O la febbre d'onor, mi giovin l'erbe
     Dell'orto epicureo. Chè se mi chiedi:
     "A che l'ingegno giovinetto educhi?"
     Non a cercar come si possa in campo
     Mandar più vivi a Dite, o, con la forza
     Del robusto cerèbro, ad un volere
     Ridur le mille volontà del volgo,
     E i feroci domar; ma freno imporre
     Agli indocili versi, e i miei pensieri
     Chiuder con certo piè; questa è la febbre,
     Di cui virtù di farmaco o di voto
     Non ho speranza che sanar mi possa.

A scuola, noi lo abbiamo già detto, i versi gli erano sempre piaciuti;
ora che egli, avendo il primo pelo sul mento, potrebbe quasi già venir
coscritto fra le milizie del Regno, risolve consacrar tutto il suo
tempo alla poesia:

  Ed or di pel già sparso il mento e quasi
     Fra i coscritti censito, in quella mente
     Vivo, e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
     A me concederanno, ho stabilito
     Consacrarlo alle Muse. Or come il mio
     Furor difenda, dolce amico, ascolta.

Egli, discepolo ideale del Parini, non cura le ricchezze, nè
l'illustre discendenza, nè i palazzi, nè la gran signoria, nè il
rumore di eccelsi fatti, perchè ne parlino i tardi nepoti; Giove, a
lui più mite, lo obbliga ai versi. Ma quali versi? Oramai gli vennero
a noia i sonanti, e però, prendendo nota di ciò che vede intorno a sè,
che non è degno di poema, egli prosegue a scrivere umili sermoni, ad
occuparsi di quella povera plebe, che sarà pure primissima cura
dell'Autore de _Promessi Sposi_:

   Or ti dirò perchè piuttosto io scelga
     _Notar la plebe con sermon pedestre_,
     Che far soggetto ai numeri sonanti
     Detti e gesta d'eroi. Fatti e costumi
     Altri da quei ch'io veggio a me ritrosa
     Nega esprimer Talìa.

Egli avrebbe bisogno, per rappresentar degli eroi, di vederne intorno
a sè; ma non ne vede pur troppo; quelli che vorrebbero passare per
eroi, invece di destare in lui ammirazione, lo fanno più tosto ridere.
Quando la fantasia lo porta fra gli antichi, _al fervido pensiero_, ei
dice:

   Mi s'attraversa Ubaldo, il qual pur ieri
     Pitocco, oggi pretor, poco si stima
     Minor di Giove e spaventar mi crede
     Con la novella maestà del guardo.

Se anche il nostro tempo, ei dice, opera cose grandi, lo tentano poco
le odierne guerre e le paci, e i nuovi Greci e Quiriti, e la
ghigliottina nuovamente inventata per affrettar la morte che finqui
pareva venire all'uomo troppo lenta:

                     ... quella cieca
     Famosa falce, che trovò l'acuto
     Gallico ingegno, onde accorciar con arte
     La troppo lunga in pria strada di Lete.

Un altro Sermone dello stesso anno 1804 fu diretto ad un autore di
cattivi versi per nozze. Il giovine Poeta si sdegna che si mettano a
far versi i medici e gli avvocati, come se fosse cosa facile il
frenare

     Di questa plebe indocile i tumulti.

Si burla il poeta dell'uso di scrivere versi per ogni matrimonio che
si celebra, onde vengono fuori tanti cattivi poeti e tanti versi
scellerati; ognuno deve fare l'arte sua; ma ogni arte ha bisogno
d'essere appresa; egli non crede che la poesia sia un'arte sacra e
necessaria; ride anzi volentieri di chi lo pensa e lo dice; necessaria
è l'agricoltura, che insegna all'uomo il modo di alimentarsi,
necessaria la scienza della legislazione; ma è un'arte, insomma, anche
la poesia e domanda molto studio. I versaiuoli che cantano sopra ogni
cantante, e scrivono per ispassarsi, quelli certamente non sudano. Ma
sudava invece il divino Parini nel tornire i suoi versi oraziani:

   Quando sull'orme dell'immenso Flacco
     Con italico piè correr volevi,
     E dei potenti maledir l'orgoglio,
     Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
   Al crin mentito ed a la calva nuca
     Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
     E cento lustri, il postero fanciullo
     Con balba cantilena al pedagogo
     Reciterà: _Torna a fiorir la rosa_.

Dopo il Parini, il giovine Poeta rende uno splendido omaggio
all'Alfieri morto Fanno innanzi,[1] per condannare con esso i poeti
Metastasiani; quindi, come pensa Paolo Ferrari, il poeta viene pure a
condannare il melodramma grottesco con le maschere, la tragi-commedia,
il dramma semi-serio che ottenne favore sulle scene italiane e
francesi nel principio di questo secolo:

   Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
     Alto minaccia, e la viril sua fiamma
     Ad Antigone svela, o con l'armata
     Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
     Odi sclamar dai palchi: "Oh duri versi!
     O duro amante! Dal tuo fero labbro
     Un _ben mio_! non s'ascolta. Oh quanto meglio
     Megacle ad Aristea, Giulia ad Orazio!"
     Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
     Primo signor dell'italo coturno?
     Te ad imparar come si faccia il verso,
     Degli itali aristarchi il popol manda.
     Mirabil mostro in su le ausonie scene
     Or giganteggia. Al destro piè si calza
     l'alto coturno e l'umil socco al manco;
     Quindi va zoppicando. Informe al volto
     Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
     Grondan lagrime e sangue. Allor che al denso
     Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
     Di voci e palme un suon, che per le cave
     Vôlte rumoreggiando, i lati fianchi
     Scote al teatro e fa sostar per via
     Maravigliato il passeggier notturno.

Qui il verso è già intieramente sicuro; l'artista appare padrone della
sua materia e la domina; il fanciullo sembra intieramente scomparso.
Il Manzoni a diciannove anni è uomo. I compagni di scuola del Manzoni,
Giambattista Pagani, Ignazio Calderari, Luigi Arese, incominciano a
mescolare all'affetto un po' di ammirazione; il Foscolo gli diviene
amico,[2] il Monti incomincia a temerne i giudizii. Poco prima, egli
aveva sul giovinetto autorità di maestro e quasi di padre.

  [1] Vittorio Alfieri era molto ammirato dal giovine Manzoni; dubito
    tuttavia assai che il Manzoni abbia conservato sempre la stessa
    ammirazione per l'illustre Astigiano. Tra i due poeti erano alcune
    conformità nel comune disdegno della poesia vana e servile, e
    della mitologia, {Il Manzoni non doveva ignorare la terzina
    alfieriana: Certo in un Dio fatt'uom creder vorrei A salvar l'uman
    genere, piuttosto Che in Giove fatt'un tauro ai furti rei.} nel
    sentimento comune dell'ufficio civile delle lettere, nello studio
    posto da entrambi gli scrittori a scrivere non pure italianamente,
    ma toscanamente: il Manzoni adorò tuttavia quella Francia che
    l'Alfieri odiò fino all'oltraggio; il Manzoni pose ogni cura a
    scrivere con naturalezza, l'Alfieri volle esser duro ed aspro,
    sperando riuscire più efficace. Nella gioventù accade tuttavia che
    s'ammira ingenuamente tutto ciò ch'è grande, senza domandarsi
    troppo se l'ammirazione abbia fondamento in alcuna viva simpatia,
    il giovane ammira talora con entusiasmo un grande per una sola
    qualità principale che lo tenta; l'età matura vuole rendersi
    maggior conto della stima che concede agli uomini; quindi accade
    che l'uomo ammiri tanto meno, ma ami poi e stimi molto più
    profondamente del giovane. Il Manzoni giovine aveva ammirato
    l'Alfieri che il Parini e l'Imbonati ammiravano; l'Imbonati è
    perciò dal Manzoni fatto parlare, nel modo seguente, intorno
    all'Alfieri:

                              Venerando il nome
         Fummi di lui, che nelle reggie primo
         L'orma stampò dell'italo coturno;
         E l'aureo manto lacerato, ai grandi
         Mostrò lor piaghe e vendicò gli umìli.

    Quando poi l'amico Pagani fece al Manzoni la poco piacevole
    sorpresa di dedicare a Vincenzo Monti, in nome del poeta, in modo
    alquanto infelice, il Carme per l'Imbonati, il Manzoni gli scrisse
    in termini abbastanza vivaci e risentiti. In quella lettera del 18
    aprile 1806 che il signor Romussi ci ha fatta conoscere, son
    notevoli queste parole relative all'Astigiano: "Tu mi parli di
    Alfieri, la cui vita è una prova del suo pazzo orgoglioso furore
    per l'indipendenza, secondo il tuo modo di pensare, e secondo il
    mio un modello di pura, incontaminata, vera virtù di un uomo che
    sente la sua dignità, e che non fa un passo, di cui debba
    arrossire. Ebbene, Alfieri dedicò. Ma a chi e perchè dedicò?
    Dedicò a sua madre, al suo amico del cuore, a Washington, al
    popolo italiano futuro, ec." Nella lettera francese al Chauvet
    sopra l'unità di tempo e di luogo, pubblicata nell'anno 1820, il
    Manzoni, che combatteva come poeta drammatico le unità alfieriane,
    poneva pure una parola di biasimo contro l'Autore del _Misogallo_:
    "Un uomo celebre, cui l'Italia era avvezza ad ascoltare con
    riverenza, aveva annunziato ch'egli avrebbe lasciato postumo uno
    scritto, al quale erano confidati i suoi più intimi sentimenti.
    Vide la luce il _Misogallo_, e la voce d'Alfieri, la sua voce che
    usciva dalla tomba, non levò alcun rumore in Italia, perchè una
    voce più potente si levava in ogni cuore contro un risentimento
    che mirava a fondare il patriottismo sull'odio. L'odio per la
    Francia! per la Francia illustrata da tanti genii e da tante
    virtù, donde sono sorte tante verità e tanti esempi! per la
    Francia che non si può vedere senza provare un'affezione
    somigliante ad amore di patria, e che non si può lasciare senza
    che al ricordo d'averla abitata non si mescoli qualche cosa di
    malinconico e di profondo simile all'impressione di un esiglio."

  [2] Il Manzoni dovette conoscere il Foscolo, quando ritornò studente
    da Pavia. Gliene dovette conciliar la simpatia, oltre l'ingegno
    fervido, il culto che il Foscolo professava al Parini e il suo
    amore dell'indipendenza che lo rese forte contro l'adulato
    Buonaparte. Il Manzoni dovea essere tornato da Pavia meno
    entusiasta del Monti che non fosse quando vi si era recato: ne'
    litigi letterarii che il Monti ebbe col Foscolo, il Manzoni non
    parteggiò forse per alcuno, ma probabilmente ascoltò più
    volentieri il poeta più indipendente. Il Foscolo venerava
    l'Alfieri; al Monti, invece, parlando un giorno dell'Alfieri in
    casa del conte Venéri, scappò detto: "Un'arietta del Metastasio
    val più di tutte le sue opere insieme." Nel passo citato del
    Sermone manzoniano, ove si difende l'Alfieri contro i
    Metastasiani, è forse un'eco dei battibecchi letterarii fra il
    Monti ed il Foscolo: il Monti chiamò poi sacrilegio epico la
    traduzione alfieriana dell'_Eneide_, e non ebbe tutti i torti. Il
    Foscolo faceva credere che il Monti lo evitasse per timore di
    compromettersi, a motivo del suo carattere indipendente; è dunque
    assai possibile che ne' suoi colloquii degli anni 1804 e 1805 col
    Foscolo il Manzoni abbia udito più volte giudicare il Monti
    severamente. Il Foscolo parlando di sè dice: "Il Foscolo, figlio
    della Repubblica veneta che Buonaparte distrusse, si nutrì nel
    sentimento dei più, i quali considerano l'indipendenza de'
    rispettivi Stati d'Italia come la sola causa necessaria che può
    essere produttrice della intera sua rigenerazione. Coerente dunque
    a tali principii, egli non volle mai intervenire nelle adunanze
    dei Collegi elettorali di cui era membro, per non trovarsi
    nell'obbligo di prestare il solito giuramento di obbedienza." Per
    quanto una parte della condotta del Foscolo sotto l'impero non sia
    stata conforme a queste parole, non è dubbio che l'animo del
    Foscolo era piuttosto alieno dalla signoria napoleonica in Italia;
    e il Manzoni che aveva frequentata la contessa Cicognara e appreso
    da essa a giudicare il Buonaparte, dovette assai naturalmente
    accostarsi più volentieri al Foscolo dopo avere conosciuto il
    Monti. Dico più oltre come mi sembri pure scorgere un'allusione
    contraria al Monti nel Carme _In morte dell'Imbonati_. Se io non
    mi sono ingannato in tale congettura, si spiega forse meglio come,
    pubblicando i _Sepolcri_ a Brescia nell'anno 1807, il Foscolo
    provasse una certa maliziosa compiacenza nel citare, per segno
    d'onore, in una nota i versi del Manzoni, relativi ad Omero
    libero, che non adulava i potenti, ad Omero, di cui il Monti e il
    Foscolo rivali traducevano allora l'Iliade, I versi citati sono
    questi per l'appunto:

                    Non ombra di possente amico,
         nè lodator comprati avea quel sommo
         D'occhi cieco e divin raggio di mente
         Che per la Grecia mendicò cantando.

    Il Foscolo che non avea perdonato al vecchio Cesarotti la
    _Pronea_, di cui diceva: "Misera concezione, frasi grottesche,
    verseggiatura di dramma per musica e per giunta gran lezzo
    d'adulazione, infame ad ogni scrittore, ma più infame ad un
    ottuagenario che non ha bisogno di pane o poco omai può temere
    dalla fortuna," non dovea perdonare più tardi al Monti la
    dedicazione servile della sua _Iliade_ al Beauharnais. È giusto
    tuttavia avvertire che il Monti divenne aperto nemico dell'Autore
    dei _Sepolcri_, la _polvere_ dei quali minacciava di scuotere,
    solo tre anni dopo. Ma poichè il motivo primo della guerra fu la
    rivalità per la versione dell'_Iliade_, il primo saggio pubblico
    della quale comparve insieme coi _Sepolcri_ nel 1807, non mi pare
    improbabile che, quantunque per tre anni nelle loro esterne
    relazioni i due poeti siansi mostrati amici, in privato avessero
    già incominciato a lacerarsi. Checchè ne sia, per altro,
    dell'intendimento, col quale fu scritta la nota de' _Sepolcri_,
    essa basta in ogni modo a provare l'amicizia e la stima che il
    Foscolo nutriva pel giovine Manzoni; come il Parini aveva
    pronosticata la gloria poetica del Foscolo, così il Foscolo augurò
    bene di quella nascente del Manzoni. Quando poi questi si convertì
    al Cattolicismo, e diede motivo a molti commenti maligni, tra i
    quali non doveano mancare quelli dei mitologisti Montiani, il
    Foscolo, che aveva potuto pregiare la sincerità de' sentimenti del
    suo giovane amico, no prese apertamente in Milano le difese, come
    rileviamo da una nota lettera di Silvio Pellico a Nicomede
    Bianchi.



VIII.

Il Manzoni e Vincenzo Monti.[1]


Il professore Stoppani narra un aneddoto, secondo il quale il
giovinetto Manzoni sarebbe stato corretto dal vizio del giuoco, per un
solo affettuoso rimprovero che gli fece Vincenzo Monti. "Il così detto
_Ridotto_ del Teatro alla Scala" era allora precisamente un ridotto di
biscaiuoli. L'inesperto Alessandrino si era lasciato prendere
all'esca, confessando egli stesso più tardi che si sentiva già
fortemente invasato da quella terribile passione, che può in brev'ora
trasformare un amoroso padre di famiglia in un parricida, e in suicida
un giovine morigerato. Una sera Alessandro Manzoni sedeva al banco dei
giuocatori. Tutto a un tratto si sente leggermente battere sopra la
spalla. Voltosi indietro, si trovò in faccia lo sguardo affascinante
di Vincenzo Monti, il quale gli disse queste semplici, ma gravi
parole: "Se andate avanti così, bei versi che faremo in avvenire!"
Dopo di quella sera il Manzoni, quantunque, per avvezzarsi a
contemplare lo spettacolo del vizio, senza lasciarsene signoreggiare,
abbia continuato di proposito, per un altro mese, a frequentare ogni
sera il _Ridotto_, non giuocò più. Ma il giovinetto che nel bollore
degli anni primi aveva potuto cedere egli stesso all'impeto di qualche
passione infelice, non tardò ad acquistare non pure tra' suoi
compagni, ma presso il proprio maestro, una singolare e veramente
straordinaria autorità come consigliere sapiente. Onde, per esempio,
quando il Monti, che apparteneva forse più di ogni altro poeta
all'_irritabile genus_, entrò in lunga briga col mediocre letterato e
poeta De Coureil e sostenne contro di lui un'acerba polemica
letteraria, gravemente ammonito per lettera dal giovine suo discepolo
che quello scandalo gli avrebbe fatto gran torto e diminuito quel
prestigio che il Monti aveva sperato invece di accrescere rispondendo
al De Coureil, il maestro ne rimase così colpito, che ne fece motto in
una sua lettera del 6 febbraio 1805, diretta ad Andrea Mustoxidi,
dandogli facoltà di pubblicare, se lo credeva utile, la lettera del
Manzoni consigliatrice del partito più ragionevole, se pure non era il
più piacevole all'amor proprio ferito del poeta-storiografo delle
Alfonsine.[2] Ma nel 1805, conviene pur dirlo, il Manzoni era già
lontano da quel primo entusiasmo, col quale quindicenne, nel _Trionfo
della libertà_, ammirando più che altro la gloria di colui che
chiamavano allora il Dante ringentilito, egli aveva glorificato e
difeso contro i suoi detrattori il suo maestro Vincenzo Monti. Questo
magnifico ed enfatico elogio del Monti fatto dal giovinetto Manzoni
merita di venir riscontrato col famoso iperbolico epigramma, col quale
ei lo piangeva morto, dopo ventott'anni:

   Salve, o Divino, cui largì natura
     Il cor di Dante e del suo Duca il canto;
     Questo fia 'l grido dell'età ventura,
     Ma l'età che fu tua tel dice in pianto.

Piacque al giovine Manzoni la gloria del suo maestro, ed è ben chiaro
dal fine del saluto del nostro mirabile giovinetto al Monti, ch'egli
sperava già o ardeva, almeno, del desiderio di acquistarne una simile:

   Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
     Fai de' tuoi carmi e trapassando pungi
     La vil ciurmaglia che ti striscia ai piedi.
   Tu il gran cantor di Beatrice aggiungi
     E l'avanzi talor; d'invidia piene
     Ti rimirali le felle alme da lungi,
   Che non bagnâr le labbia in Ippocrene,
     Ma le tuffâr ne le Stinfalie fogne,
     Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
   Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
     De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
     Cigni non già, ma corvi da carogne.
   Ma tu l'invida turba addietro lassi
     E, le robuste penne ergendo, come
     Aquila altera, li compiangi e passi.
   Invano atro velen sovra il tuo nome
     Sparge l'invidia, al proprio danno industre,
     Da le inquiete sibilanti chiome;
   Ed io puranco, ed io, vate trilustre,
     Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
     A me fo scorta ne l'arringo illustre.
   E te veggendo su l'erto cacume
     Ascender di Parnaso, alma spedita,
     Già sento al volo mio crescer le piume.
   Forse, ah che spero? io la seconda vita
     Vivrò, se alle mie forze inferme e frali
     Le nove suore porgeranno aita.

Notiamo presso quell'ambizioso _io, vate trilustre_, quel prudente, ma
non meno ambizioso forse tutto manzoniano, messo innanzi al _vivrò_
immortale che ci prenunzia già l'Autore del _Cinque Maggio_
predestinato a sciogliere all'urna del primo Napoleone un cantico

     Che _forse_ non morrà.

Quando il Manzoni scrive, nell'anno 1803, al Monti, lo fa già in un
tuono di una certa famigliare baldanza che rivela la poca soggezione,
e gli dà del _voi_. Il Monti invitato a dir la sua opinione sopra
l'Idillio del Manzoni, gli risponde lodandolo sinceramente, facendo i
migliori augurii al giovinetto e dicendogli finalmente: "Io non sono
da tanto da poterti fare il dottore." Fra maestro e discepolo un tale
linguaggio colpisce. Nella risposta del Monti, il maestro dice che
egli ha incominciata la stampa del _Persio_. Nel marzo dell'anno 1804,
il Manzoni si trovava a Venezia e scriveva di là al suo amico Pagani,
studente di giurisprudenza a Pavia; nella sua lettera è una parola
impaziente contro il Monti, che può già dimostrare la scaduta
riverenza del discepolo. "Se Monti (egli scrive) vuol mandarmi il
_Persio_, lo faccia avere, nel nome di Dio, a mio padre, a Milano."
Questi indizii mi bisognava raccogliere per ispiegare non pure la
vivacità del battibecco letterario che nacque dipoi fra i Manzoniani e
i Montiani sopra l'argomento della mitologia nella poesia moderna, ma
ancora per illustrare qualche passo del Carme _In morte
dell'Imbonati_. Il giovine Poeta rammentando l'indegna educazione ed
istruzione ch'egli avea ricevuta specialmente nel Collegio de' Nobili,
non rattiene, com'è ben noto, il proprio sdegno, e lo sfoga in una
forma intemperante che non si trova poi più in alcun altro suo
scritto; ed accennando in particolare ad un maestro di poesia che lo
disgustò, dice che da lui si rivolse, invece, agli antichi poeti:
                                              Questa
     Qual sia favilla, che mia mente alluma,
     Custodii com'io valgo e tenni viva
     Finor. Nè ti dirò com'io, nodrito
     In sozzo ovil di mercenario armento,
     Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto
     Dell'insipida stoppia, il viso torsi
     Dalla fetente mangiatoia, e franco
     M'addussi al sorso dell'ascrea fontana;
     Come, talor, discepolo di tale,
     Cui mi sarìa vergogna esser maestro,
     Mi volsi ai prischi sommi, e ne fui preso
     Di tanto amor, che mi parea vederli
     Veracemente e ragionar con loro.

Qui mi arresta un dubbio assai penoso. Chi fu mai codesto maestro, da
cui il Manzoni, sentendo vergogna di lui, si diparte per correre ad
inspirarsi direttamente presso i poeti antichi? Io so bene che, a
questo punto, qualche amico discreto mi raccomanderà discrezione,
invitandomi a passar oltre, a non arrischiar congetture che potrebbero
riuscir vane ed ingiuriose. Ma passar oltre vuol dire o non capire o
non voler capire. E se noi contemporanei ci contentiamo di leggere
così il primo fra i nostri scrittori viventi, come potranno sperare
d'intenderlo meglio quelli che verranno dopo di noi? So bene che il
vivente discepolo del vecchio Vincenzo Monti, l'illustre Andrea
Maffei, il quale ricorda pur sempre come, dopo l'anno 1820, il Manzoni
visitasse spesso il Monti infermo, come nel mandargli la _cantafera_
de' suoi _Promessi Sposi_ glieli raccomandasse affettuosamente,[3]
come lo encomiasse morto con lodi iperboliche, non farà buon viso alla
nostra congettura; ed essa ripugna pure vivamente a me stesso, come
ripugna, per dire il vero, ogni maniera o specie d'ingratitudine. Ma
io non posso tacere che corsero parecchi anni, ne' quali il Manzoni ed
il Monti apparvero veramente come avversarii; la storia letteraria ha
i suoi diritti, e, per quanto c'incresca vedere il Manzoni, che aveva
egli stesso fatto grande abuso, ne' primi suoi studii poetici, della
mitologia, divenirci aperto derisore del Monti che volea mantenerla in
onore, e colpirlo direttamente con l'Ode satirica intitolata: _L'ira
d'Apollo_, ove, con nuova malizia, s'imita pure lo stile cancelleresco
della Polizia austriaca, quale era adoprato allora da un poeta da
strapazzo, Pietro Stoppani di Beroldinghen, e da un giornalista
venduto, il Pezzi, grandi lodatori entrambi di Vincenzo Monti divenuto
buon servitore dell'Austria, il Manzoni, che giovinetto avea molto
ammirato e lodato, come sappiamo, il suo maestro Monti, divenuto amico
di Ugo Foscolo, imparò forse da lui a giudicarne con minore indulgenza
la condotta politica; e nella diminuzione di stima per l'uomo è assai
probabile che siasi pure diminuito il concetto che il Manzoni si
formava del Monti poeta. Recatosi poi a Parigi, in mezzo a una
società, per la massima parte repubblicana, anzi che pietà, parve
ch'egli concepisse un vero disprezzo pel Monti. Il Manzoni dice che
tra i _prischi sommi_, egli cercò prima di Omero, per la traduzione
del quale specialmente nacque tra il Foscolo ed il Monti così fiero
dissenso, e, nominando Omero, sembra volerne, per antitesi, ferire il
traduttore:

       .... Non ombra di possente amico,
     Nè lodator comprati avea quel sommo
     D'occhi cieco e divin raggio di mente
     Che per la Grecia mendicò cantando.

Nè era, io debbo pur ripeterlo, forse intieramente innocente e fuor
d'ogni intendimento malizioso Ugo Foscolo, quando in una nota al suo
Carme de' _Sepolcri_, volendo nominare il Manzoni, per mostrargli il
conto ch'ei ne faceva e com'ei fosse memore di lui lontano, citava
precisamente que' versi relativi ad Omero, ove si dice più tosto
quello che non era stato Omero e quello ch'era invece qualche altro
moderno poeta. L'amico Pagani, che ristampava a Milano il Carme per
l'Imbonati, desiderava egli forse distruggere il sospetto che si
alludesse con que' versi al Monti, quando, senza averne avuto
l'incarico, dedicava, anche a nome dell'Autore, il poemetto a Vincenzo
Monti? Lo ignoriamo; ma ci è noto intanto che l'imprudenza e
l'arbitrio del Pagani maravigliarono ed irritarono grandemente il
giovine Poeta, e furono per guastare l'amicizia di que' due buoni
compagni di scuola. Il Manzoni voleva, invero, obbligare il Pagani a
pubblicar subito una protesta che disdicesse la dedicatoria. Il Pagani
gli opponeva che il dedicare non è un avvilirsi; che anche l'Alfieri
avea fatto delle dedicatorie, e nessuno potrebbe negarlo uomo libero
ed indipendente. Il Manzoni rispondeva esser vero, ma l'Alfieri essere
stato "un modello di pura, incontaminata, vera virtù, di un uomo che
sente la sua dignità e che non fa un passo, di cui debba
arrossire."--"Ebbene (soggiungeva ancora da Parigi il nostro giovine
Poeta), Alfieri dedicò; ma a chi, e perchè dedicò? Dedicò a sua madre,
al suo amico del cuore, a Washington, al popolo italiano futuro." Ci è
noto finalmente come il Manzoni deplorava il Carme per l'Imbonati per
altre ragioni più gravi che non fossero le allusioni al Collegio de'
Nobili. Una di queste ragioni può essere stato il tacito biasimo del
Monti, e l'altra ragione la vedremo in breve. Fu detto da qualche
biografo che, quando nel 1801 il Manzoni pubblicò l'_Urania_, il Monti
abbia esclamato: "Questo giovine incomincia dove vorrei finire." È
possibile che un giorno il Monti abbia reso un tale omaggio al suo
discepolo; ma a questo detto suppongo che siasi attribuita un'origine
troppo recente. Il Manzoni non incominciava più con l'_Urania_; da ben
sette anni egli scriveva, ed i primi suoi componimenti il Monti aveva
letti e lodati; è assai probabile quindi che il complimento, di cui si
tratta, siasi fatto veramente dal Monti, ma nel 1801, poich'egli ebbe
conosciuto il _Trionfo della libertà_, poema che il discepolo avea
scritto per imitare, forse per emulare il maestro, e che termina in
ogni modo, come abbiamo già udito, con la esaltazione del Monti sopra
lo stesso Dante.

  [1]  Cfr. il paragrafo VI.

  [2] La lettera è questa; il Manzoni era ancora in Milano, onde partì
    soltanto nella primavera, dopo la morte dell'Imbonati:

    Ad Andrea Mustoxidi.

    "In appendice alla mia del passato ordinario ve ne acchiudo
    un'altra del nostro amico Manzoni. Egli ha voluto farla passare
    per le mie mani, perchè mi risguarda direttamente e contiene una
    sua onesta disapprovazione dell'essermi io avvilito a parlare di
    De Coureil. Del quale mio errore io non meriterei veramente
    perdono, se non mi scusasse il fatto di quelli che hanno confuso
    il reverendo lor nome con quello d'un pazzo, e si sono condotti
    peggio di me, e non veggo che abbiano ancor redenta questa
    ignominia, separandosi da così vile e disonesta compagnia. Vera è
    pur troppo la riflessione di Manzoni che, prendendo briga col De
    Coureil, è _forza che i buoni si scordino di quella gentilezza che
    pure è il primo frutto delle lettere,_ vero per conseguenza che in
    quella mia nota sono corsi dei termini non gentili. Ma se un
    facchino imbriaco, mentre io vado per la mia strada, mi viene
    addosso con villanìa, e mi lorda di fango, dovrò io
    dirgli:--Signore, siate più rispettoso coi galantuomini; signore,
    maltrattatemi con più discrezione; considerate, vi prego, che mi
    si deve un poco più di rispetto--e altre simili gentilezze? Chi
    può dunque incolparmi d'aver dato al mio critico i nomi ch'ei
    merita? Le creanze si usano con chi le pratica, e il bastone con
    gli asini mal educati. Ma parlerò con altro linguaggio, se avverrà
    che io sia forzato a drizzare più alto il mio giusto risentimento.
    Il contegno che così si usa con me, ha ormai irritata tutta
    l'Italia, e la sana porzione dei letterati, anche stranieri, ha
    già manifestato il suo sdegno su queste vili e scandalose
    ingiustizie. Della lettera di Manzoni fate l'uso che più vi piace,
    anche pubblico. Milano, 6 febbraio 1805"

  [3] Il Monti non fu, tuttavia, a quanto pare, de' lettori più
    solleciti de' _Promessi Sposi_, secondo quanto trovo scritto nelle
    _Memorie autografe di un ribelle_, di Giuseppe Ricciardi (Milano,
    1873): "Recatici a visitare l'Osservatorio astronomico posto nel
    Palazzo di Brera, trovammo quivi l'Oriani e il Carlini. Altri
    uomini, più o meno illustri, conoscemmo indi a poco, fra cui
    nominerò primo il Manzoni. Il quale io vidi la prima volta in
    Milano, nel giugno del 1827. Sedeva in mezzo alla sua bella e
    numerosa famiglia e ad un nobile crocchio d'amici, in cui tenevano
    il primo luogo Ermes Visconti, Tommaso Grossi e Giovanni Torti,
    cioè, quasi tutta la così detta Scuola romantica. Ci fu
    introduttore in casa Manzoni il Rosmini, giovanissimo allora, ed
    il quale avevo conosciuto per mezzo di un assai colto e gentil
    veneziano, per nome Antonio Papadopoli. I _Promessi Sposi_ erano
    usciti in luce pochi dì prima, ed io li avevo divorati con un
    piacere infinito, tanto più poi in quanto che m'avevo sott'occhio
    i luoghi, dei quali parla quel mirabile libro. Desiderosi
    oltremodo di salutare il decano dei poeti allora viventi, Vincenzo
    Monti, n'andammo a Monza col Papadopoli. Trovammo il povero
    vecchio adagiato, o, per dir meglio, giacente in un seggiolone.
    Teneva gli occhiali inforcati sul naso, e leggicchiava non so qual
    commedia di Goldoni. Scorta sur un tavolino una copia dei
    _Promessi Sposi_, mio padre chiese al buon vecchio che ne
    pensasse, e quegli rispose aver provato alquanto fastidio nel
    leggere il primo capitolo, ma pur voler trapassare al secondo. Ne
    mostrò poi una bella lettera scrittagli dal Manzoni nell'inviargli
    in dono il suo libro."



IX.

I primi amici.


Il libro del signor Romussi ci ha recata in quest'anno una grata
sorpresa, ponendoci sott'occhio alcune lettere o frammenti di lettere
giovanili del Bianconi, dalle quali ricaviamo il nome de' suoi tre
primi amici. Il più intimo tra questi fu Giambattista Pagani di
Brescia, col quale il Manzoni avea studiato a Pavia; le lettere del
Manzoni ce lo mostrano affettuoso, devoto, pronto a render servigii,
alcuna volta anche troppo, come quando volle dedicar di suo capo, in
nome del Manzoni, a Vincenzo Monti il Carme _In morte dell'Imbonati_,
che si ristampava in Milano dal De Stefanis.[1] Veniva secondo
Ignazio Calderari, che il Manzoni stesso chiamava _aureo_, _amabile_ e
_rispettabile_; e pure doveva essere un giovine ardente e pieno di
entusiasmo, a giudicarne dalla lettera, in cui egli descrive il
proprio viaggio a Brusuglio, la nuova villa manzoniana, per conoscere
la madre dell'amico e per vedere se l'amico era sempre il medesimo.
Pare che il Manzoni fin d'allora scrivesse lettere mal volentieri, e
preferisse, stando a Milano, incaricare l'amico Calderari di mandare i
suoi saluti al Pagani, anzi che scrivere egli stesso. "Aggiungi (egli
scriveva al Pagani) che nel mio soggiorno a Milano la facilità di aver
tue nuove per mezzo del nostro Calderari favoriva e scusava la mia
pigrizia, la quale, a dir vero, non era scossa da alcuna tua
sollecitudine a scrivermi." Il terzo amico, Luigi Arese, morì tisico
nel 1806, intorno a' suoi vent'anni; gli amici lo chiamavano: "caro e
adorabile."[2]

Non è raro il caso che le amicizie fatte nella scuola si raffreddino e
si dileguino nella lontananza, per tornare a ravvivarsi nella
vecchiaia. Il Calderari non accompagnò altrimenti la vita del Manzoni;
la loro corrispondenza parve cessare quasi intieramente nell'anno
1808, quando il Manzoni, sposata Enrichetta Blondel, si ritrasse a
vivere per alcuni anni isolato In Brusuglio; ed anche l'amicizia col
Pagani cessò, dopo quell'anno, dall'essere attiva. Così non sappiamo
altro dell'amicizia che il Manzoni parve avere con Antonio Buttura,
letterato amico di sua madre,[3] e con Francesco Lomonaco.

  [1] Mi giova qui intorno al Pagani riferire per intiero la nota che
    trovasi nell'importante volume del Romussi; "Giambattista Pagani
    fu condiscepolo di Manzoni nel Collegio dei Nobili (Longone) di
    Milano, e gli conservò sempre un'amicizia che molti anni di
    lontananza non riescirono nè a spegnere, nè ad indebolire. Fino ai
    loro ultimi giorni si scambiarono con schietta cordialità proteste
    di affetto; e la ritrosia di Manzoni in questi ultimi anni a
    scriver lettere non lo fece mai tardo nel rispondere all'antico
    amico. Il Pagani era nato nel 1784 in Lonato: era quindi maggiore
    di un anno di Manzoni. Terminati gli studii del Collegio, il
    Pagani passò a Pavia a studiar giurisprudenza, e colà conobbe
    Vincenzo Monti, che teneva cattedra d'eloquenza, e che lo accolse
    fra i suoi famigliari. In quel tempo Manzoni erasi recato a
    Venezia, e di là mandava all'amico i versi che man mano scriveva,
    fra cui un Sermone allo stesso Pagani indirizzato, e nel quale
    parla dapprima della vocazione ch'ebbe fin dall'infanzia di essere
    poeta e giustifica il genere satirico di poesia, cui intendeva
    consacrarsi. Questo Sermone rimase ignoto fino al 1874, in cui fu
    pubblicato dall'abate Antonio Stoppani nel suo bel libro: _I primi
    anni di Alessandro Manzoni_. Il Pagani aveva ingegno da
    comprendere l'amico, egli pure scrisse reputati lavori: opere
    giuridiche, perchè avea per la severa scienza del diritto una vera
    passione, e opere letterarie, cui si applicava per diletto, ma con
    molta intelligenza. Fra queste ultime si ricorda un _Discorso
    intorno all'Adelchi_ letto all'Ateneo di Brescia, in difesa
    dell'opera dell'amico che era allora da molti, con indegna guerra,
    combattuto. Fra le giuridiche sono lodati il _Repertorio legale
    pei diritti reali_ ed un _Trattato sulle Rendite giuridiche_.
    Durante il primo Regno d'Italia era stato eletto Conservatore
    delle Ipoteche in Brescia. Nei dolorosi anni della dominazione
    straniera conservò, con dignitosa fermezza, la fede e l'affetto
    per la patria, che ebbe la gioia di vedere risorta. Morì nel 19
    febbraio 1874, e fu pianto da tutti i buoni, che perdevano un
    vivente esempio d'integrità e di modestia."

  [2] Le due lettere del Manzoni al Calderari e la lettera intermedia
    al Pagani, pubblicate dal Romossi, volgono intorno alla malattia
    ed alla morte dell'Arese; le riproduco, perchè rivelano bene
    l'animo ed i pensieri del giovine Manzoni, il preteso ateo che
    dovea fare il miracolo di convertirsi:

    "Parigi, 7 settembre 1806,

    "Mio Calderari,

    L'amara novella che mi hai data mi ha riempito di dolore e di
    melanconia. Io era per iscrivere a te, a Pagani, al povero Arese
    per annunciarvi il mio ritorno a Parigi, e per chiedere di voi
    tutti. Non puoi credere quanto m'abbia colpito l'annuncio della
    grave malattia del nostro Arese. La speranza che tu conservi,
    rianima la mia; ma le circostanze che tocchi, la indeboliscono pur
    troppo (_In questo passo si vede già l'amore speciale del Manzoni
    per le antitesi, amore che si può pure avvertire nella lettera del
    1803 al Monti già citata._) L'apparato della morte è quello che la
    accelera. Chi ha avuto il cuore di dargli la sentenza finale? Di
    farlo soffrire nei forse ultimi suoi momenti? Oh piaccia a Dio che
    io possa avere da te nuova del suo rivivere! Quando un malato ha
    presso di sè dei veri amici che gli nascondono il suo stato, egli
    muore senza avvedersene; la morte non è terribile che per quelli
    che rimangono a piangere. Ma quando gli amici sono allontanati,
    quando vi sentite intronare all'orecchio: Tu devi morire! allora
    la morte appare nel suo aspetto più deforme. Povero Arese! Ho
    sempre davanti gli occhi quella sua camera deserta degli amici,
    senza te, senza Pagani che potreste sollevarlo. Alcuni sono morti
    che sarebbero guariti, pel timore solo cagionato loro dalla
    sentenza che fu data al povero nostro Arese. Ti prego di scrivermi
    presto e senza interruzione; non ho bisogno di raccomandartelo.
    Mia madre divide la mia afflizione, e freme parlando della fredda
    crudeltà che è tanto comune nei nostri paesi. Scrivimi, ti prego,
    a lungo ogni minuzia che riguarda Arese. Povero Arese! nel fiore
    dell'età! Ti prego di scrivere a Pagani che io non ho ora testa nè
    tempo di scrivergli, ma che, al primo ordinario, lo farò
    sicuramente. Se mai il mio silenzio gli fosse dispiacente, digli
    che io sono sempre il suo Manzoni; al mio Pagani ciò deve bastare.
    Tu amami, Calderari, e sii certo che io ti amo e ti riverisco
    veramente, e scrivimi presto. Addio; dammi nuove di Arese.

    Il tuo MANZONI B.a"

    "Mio Pagani,

    M'hai tu dimenticato davvero? Sono tre mesi che non ho tue nuove;
    e l'ultima mia lettera, nella quale ti annunciava la mia partita
    da Parigi, è rimasta senza risposta. Non posso dubitare della tua
    salute, giacchè il nostro aureo Calderari che mi scrive, me ne
    avrebbe senza dubbio fatto cenno. Io sperava che Zinammi, col
    quale ci siamo abboccati, avesse qualche tua lettera a
    consegnarmi; ma, non vedendone ed aspettandone di giorno in
    giorno, tardai a scriverti fino al mio ritorno. Scrivimi al più
    presto, dimmi se sei ancora il mio Pagani, com'io sarò sempre il
    tuo Manzoni; dammi nuove di te, e di tutto quello che ti è a
    cuore. Non puoi credere quanta pena mi abbia fatto la nuova della
    grave malattia del nostro povero Arese; e mia madre, che divide
    ogni mio affetto, ne fu pure assai triste ed in timore. Calderari
    mi annunciò qualche miglioramento che mi riempì di gioia e di
    speranza. Duolmi amaramente che gli amici non abbiano adito al suo
    letto, e che invece egli debba aver dinanzi agli occhi l'orribile
    figura di un prete. Nè puoi figurarti quanto dolore ed
    indignazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari che ad
    Arese era stata annunciata la fatale sentenza (spero, per Dio! che
    sarà vana). Crudeli, così se egli schiva la morte, avrà dovuto
    nullameno assaporare tutte le sue angosce! E quante volte
    l'annunzio della morte ha ridotto agli estremi dei malati che,
    ignorando il loro stato, sarebbero guariti? Basta: i mali del caro
    ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi
    allontanano sempre più da un paese, in cui non si può nè vivere nè
    morire come si vuole. (_Qui vi sono accenti intieramente
    foscoliani._) Io preferisco l'indifferenza naturale dei Francesi,
    che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei
    nostri, che s'impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura
    della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro
    maniera di pensare, come se chi ha una testa, un cuore, due gambe
    e una pancia, e cammina da sè, non potesse disporre di sè e di
    tutto quello che è in lui a suo piacimento. Mi accorgo di aver
    fatto un pasticcio di parole, pazienza! Il mio Pagani è buono. Due
    parole di me. Io continuo il ben cominciato modo di vivere, senza
    cangiamento, senza interruzione. Se tu rileggi le mie passate
    lettere, ti farà ben maraviglia l'udire da me che mia madre,
    quest'unica madre e donna, ha aumentato il suo amore e le sue
    premure per me. Eppure la cosa è così. Io sono più felice che mai,
    e non mi manca che d'esserlo vicino a te e ai pochi scelti nostri
    amici, che si riducono ad Arese che vorrei risanato, e a Calderari
    che vorrei felice come egli merita. Ho vergogna di dirti che, dopo
    i versi stampati, non ne ho fatto più uno: ora però voglio
    mettermi il capo tra le mani, e lavorare, massime che mia madre
    non ha mai lasciato di punzecchiarmi, perchè io cacci la mia
    pigrizia. A proposito di versi, devo parlarti di un affare che mi
    è a cuore assai assai, e che in conseguenza premerà anche a te. Io
    non ho avuto dal libraio un soldo per l'edizione, e mi sono messo
    in puntiglio di non rilasciargli niente niente, perchè non voglio
    essere lo zimbello di nessuno e massime d'un libraio. La sua
    renitenza o noncuranza è veramente stomachevole. Nè ha alcun
    appiglio per eludere le mie richieste e per evitare di rendermi il
    mio. Perchè o le copie sono vendute e mi dia il danaro, o sono
    invendute e me le renda. Arese si era impegnato di parlargli.
    Rispose che egli aveva ottocento copie non vendute: io scrissi a
    Zinammi quello che doveva fargli dire da Arese, ma il povero Arese
    cadde malato. Ecco la mia risposta: rendere al signor Zinammi,
    procuratore di mia madre, il prezzo delle 200 vendute e le 800
    copie invendute. E veramente mi fa maraviglia che il numero di
    quelle che sono in bottega sia così grande, non già perchè io
    credessi che dovessero avere grande spaccio (giacchè v'è un
    ostacolo a ciò, non so se per colpa dell'opera o dei lettori), ma
    perchè tu mi avevi annunziato che si vendevano a furia. Come tu
    facesti il negozio col libraio, così spero che vorrai ora ridurlo
    a fine, e te ne prego caldamente. Ho veduto su un giornale di Roma
    un giudizio di quei versi, con una lode tanto esagerata, che non
    ardisco riportarlo. "Caro Pagani, scrivimi ed amami, anzi amaci,
    giacchè tu sai che mia madre non ha mediocre stima di te e
    desiderio della tua amicizia. Scrivi a lungo e vale."

    Il tuo MANZONI B.a"

    "Parigi, 30 ottobre 1806."

    "Caro il mio Calderari,

    O Arese, giovine buono, amico vero della virtù e degli amici,
    giovine che in tempi migliori saresti stato perfetto, ma che nella
    nostra infame corruttela ti conservasti incontaminato, ricevi un
    vale da quelli che ti amarono caldamente in vita, e che ora
    amaramente ti desiderano. Povero Calderari, tu lo amasti, tu lo
    desideri e tu non hai potuto vederlo, consolarlo! Egli è morto nel
    fiore degli anni, nella stagione delle speranze, e l'ultimo
    oggetto che i suoi occhi hanno veduto non è stato un amico. Egli
    che era degno di amici! Povero Calderari! Mia madre ed io
    piangiamo sopra di Arese e sopra di te. Seppi da Buttura che tu
    eri assiduo alla sua porta, che le tue lagrime mostravano la forza
    del tuo affetto, ma invano. Noi rileggiamo le lettere di Arese,
    quel che ci resta di lui, quello che rimane in questo mondaccio di
    quell'anima fervida e pura. Odi quello che egli ci scrisse
    nell'ultima lettera, dove traspira quasi un presentimento della
    sua separazione. Egli parla con mia madre e con me, e par ch'egli
    non abbia voluto darmi l'ultimo addio, se non unendomi con Lei che
    tutto divide con me, e che abbia voluto così render più sacre per
    me le ultime sue parole. La lettera è del mese di giugno o di
    luglio al più tardi: "Ho veduto con sommo dolore partire il mio
    Pagani. Mi rimane Calderari, che è un angelo. È veramente degno di
    miglior sorte e di.... Le sue disgrazie, che egli soffre con animo
    veramente forte, mi stringono a lui più fortemente, e mi servono
    di un grande esempio. Oh Giulia, Giulia! non è così rara in Italia
    la virtù come tu pensi!" E finisce con queste parole che mai non
    rileggiamo senza un fremito di dolore e di speranza: "Giulia,
    Alessandro, ci rivedremo certamente. Un giorno, superiori
    all'umano orgoglio, beati e puri ragioneremo sorridendo delle
    passate nostre debolezze. Addio." Oh sì! ci rivedremo. Se questa
    speranza non raddolcisse il desiderio dei buoni e l'orrore della
    presenza dei perversi, che sarebbe la vita? Calderari, noi siamo
    afflitti di non poter essere con te. Tu sei degno d'aver degli
    amici, e in noi troveresti del cuore, quello di cui tu hai
    bisogno. Non posso scrivere a Pagani. Egli pure deve essere
    conturbato. In verità la morte di un amico nel fior degli anni vi
    lascia, oltre il dolore, un certo risentimento; pare un'orribile
    ingiustizia. Addio, caro ed infelice Calderari, amami e scrivi.
    Addio.

    Il tuo MANZONI B.a"

  [3] "Buttura Antonio (scrive il Romussi) buon critico e poeta, nato a
    Malcesine sul Lago di Garda nel 1771, partigiano della Repubblica
    francese a Venezia, epperciò favorito da Napoleone, si trasferì,
    dopo il Trattato di Campoformio, a Parigi, dove morì nel 1832. Fu
    professore al Pritaneo di San Ciro ed all'Ateneo, dove successe al
    Ginguené; la traduzione del Boileau, di cui parla il Manzoni (in
    una sua lettera del 1806), fu pubblicata nel 1816.



X

Carme autobiografico.


Quantunque già pubblicato a Lugano in fronte alle _Vite degli illustri
italiani_ di Francesco Lomonaco, fino a pochi anni innanzi era
pochissimo noto il Sonetto giovanile di Alessandro Manzoni, ove si
muove lamento, perchè l'Italia trascuri i suoi migliori ingegni, fin
che son vivi, per piangerli morti:

   Tal premii, Italia, i tuoi migliori; e poi,
     Che pro se piangi e 'l cener freddo adori,
     E al nome vôto onor divini fai?
   Sì, da' barbari oppressa, opprimi i tuoi,
     E ognor tuoi danni e tue colpe deplori
     Pentita sempre, e non cangiata mai.

Nel principio del Sonetto, diretto a Francesco Lomonaco, si compiange
la sorte di questo giovine e già illustre esule napoletano, obbligato
a condur vita misera e raminga come Dante, l'antico esule gloriosa
fiorentino, del quale il Lomonaco aveva narrata la vita. Due anni
innanzi, in una nota al terzo canto del _Trionfo_, ove si descrivono
le stragi di Napoli, il Manzoni raccomandava già "l'energico e
veramente vesuviano rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriotta
napoletano". Vogliono che il Manzoni vecchio dicesse avere in gioventù
concepite del Lomonaco grandi speranze, che non furono poi mantenute;
ma chi riferì quelle parole del Manzoni dovette frantendere; il
Lomonaco non ebbe tempo d'acquistar maggior gloria, poichè nell'anno
1810 che era, a pena, il trentesimoprimo della sua vita, egli
miseramente s'uccise. L'ingratitudine è cosa mostruosa in tutti, ma
più nei grandi ingegni. Ora io non posso credere che il Manzoni degli
scrittori che lo fecero maggiormente pensare, e quello che importa,
pensar giusto. Io ho voluto rileggere la _Vita di Dante_ scritta dal
Lomonaco. Ora, udite quali parole si leggono in fine di quella _Vita_:
"I benemeriti della repubblica letteraria non sono i pedanti, o i
servili imitatori, bensì quei che informati di una qualche potenza
vivificativa sanno altamente e profondamente pensare. Un filosofo
interrogò una volta l'Oracolo: quai mezzi praticar dovesse per divenir
immortale, e l'Oracolo gli rispose: _Segui il tuo genio_." Ci sono
simpatici quegli scrittori che esprimono meglio i nostri proprii
sentimenti; il Manzoni deve aver detto leggendo tali parole: esse
furono scritte per me; ed averle presenti quando, due o tre anni dopo,
scriveva in Parigi il suo programma civile e poetico, ossia il Carme
per l'Imbonati.[1] È vera fortuna per l'Italia che, nella primavera
dell'anno 1805, Alessandro Manzoni abbia dovuto recarsi in Francia. È
possibile, invero che proseguendo a rimanere in Milano, a respirar
l'aria delle scuole letterarie d'Italia, a vivere tra le maldicenze
puerili e pettegole de' nostri letterati, egli, a malgrado di tutta
l'originalità del proprio ingegno, non avrebbe trovato così presto
quella forma chiara, schietta, popolare di linguaggio, pel quale
veramente col Carme dell'Imbonati per la nostra poesia _incipit vita
nova_. A Parigi egli si trovò libero d'ogni impaccio scolastico, ed il
suo genio, per la prima volta, potè spaziare per vie proprie e non
ancora battute. _Sentir_ e _meditar_: ecco la sua gran formola
poetica; in Francia egli trovò pure il modo di esprimere naturalmente
questi _sedimenti meditati_, per l'esempio che gli offrivano gli
scrittori francesi. Il Carme per l'Imbonati è una prova eloquente che
il Manzoni ha sentito, meditato e imparato a scrivere con semplicità e
naturalezza. Esaminiamo ora dunque quali forti sentimenti dovessero
agitarlo e commuoverlo, quali pensieri governarlo, quando egli scrisse
a vent'anni, in Parigi, il bellissimo Carme. Che cosa sia veramente
avvenuto nella famiglia Manzoni, nel principio dell'anno 1805, quando
la signora Giulia Beccaria s'indusse a lasciare precipitosamente
Milano in compagnia del figlio Alessandro, non si può fino ad ora bene
affermare. Che il giovine Alessandro avesse avuto in Milano de' grossi
dispiaceri, si può argomentare dai versi stessi del Carme, ov'egli si
sfoga contro i vili che armarono contro il suo _nome_ l'operosa
calunnia. Carlo Imbonati era morto il 15 marzo dell'anno 1805, in
Parigi, assistito dalla signora Giulia Beccaria, madre del Manzoni. La
Giulia accompagnò le spoglie dell'amico a Brusuglio: villa, di cui
egli, sebbene avesse parecchie sorelle, l'aveva fatta erede. La madre
ed il figlio, dopo quella morte, partirono per Parigi, lasciando solo
Don Pietro in Milano; l'eredità lasciata alla Giulia Beccaria diede
occasione a molte ciarle; ora le ciarle, nelle quali anche gli uomini
eletti che vi si abbandonano, diventano volgo, le nove volte su dieci,
come sono figlie dell'ozio, sono madri di maldicenza. La signora
Giulia Beccaria non dovette essere risparmiata. Che fece allora il
figlio? Prima di tutto, egli non l'abbandonò più, e poi si preparò a
vendicarne, come potè, la fama oltraggiata. Del padre che morì
settantenne in Milano, due anni dopo la morte dell'Imbonati, e a cui
il figlio, avvertito troppo tardi in Parigi, non arrivò in tempo a
chiudere gli occhi, non troviamo se non un rapido cenno, abbastanza
freddo, per annunciarne la morte, in una lettera che il Manzoni
diresse nel marzo del 1807 all'amico Pagani da Brusuglio, ov'egli
s'era per pochi giorni condotto con la madre a mettervi in ordine i
suoi affari più urgenti. Nella stessa lettera, invece, il Manzoni
rappresenta all'amico la propria "felicità di avere per madre ed amica
una donna, parlando della quale, egli dice, troverò sempre più ogni
espressione debole e monca."[2] Ignazio Calderari, comune amico del
Manzoni e del Pagani, avendo poi, allora per l'appunto passato, com'ei
diceva: "due mezze giornate in paradiso," o sia, nella villa
dell'amico Manzoni a Brusuglio, scrivendo nel giorno stesso al Pagani,
gli fa il ritratto della signora Beccaria: "Che dirotti di sua madre?
Mi palpitava il cuore nel viaggio pel desiderio di conoscere una tal
donna, che io già amava e venerava come quella che forma la felicità
del nostro Manzoni, e da quanto vidi non posso ingannarmi che l'uno
formi la contentezza dell'altro, perchè nulla è tra loro di segreto:
l'uno a vicenda ambisce di prevenire i desiderii dell'altro, e si
protestano l'un dell'altro indivisibili. Tu trovi in lei una donna,
cui, non mancando alcuna delle vere grazie che adornano una donna, è
dato un senno maschio ed una facile quanto soave ed affettuosa parola;
è poi nel discorso tutta sentimento; ma quel che più attrae
l'ammirazione, è il vedere queste prerogative d'ingegno e di cuore
accompagnate da modestissimo contegno e spoglie affatto d'ogni
donnesco, benchè minimo pettegolezzo; mi pare insomma che essa si
assomigli perfettamente a quello che ce la rappresentavano le sue
lettere a te e al sempre caro e adorabile Arese, quando le leggevamo
insieme. Che bella coppia è mai quella! In verità, io credo non si
possa pregare miglior cosa ad un uomo che di avere una tal madre o un
simile padre!" Ma è pure unica la fortuna di una donna, la quale abbia
avuto per padre un Cesare Beccaria[3] e per figlio un Alessandro
Manzoni.[4] La madre del Manzoni, quando si recò a Parigi, non si
faceva chiamare altrimenti che la signora Giulia Beccaria; il nome del
Beccaria servì di passaporto e di commendatizia anche al nostro
giovine Alessandro presso la più eletta e la più colta società
parigina, ov'egli ebbe pure occasione di conoscere, fra gli altri
valentuomini, lo storico piemontese Carlo Botta, il quale, non potendo
ancora presagire in lui il futuro caposcuola del romanticismo in
Italia, gli divenne amico.[5] Il Manzoni stesso, in quel tempo, un
poco per farsi meglio conoscere, ma molto più forse per compiacere
alla propria madre, firmava le proprie lettere col doppio nome di
Manzoni-Beccaria; quando poi l'amico suo Pagani fece ristampare in
Milano, per conto dell'Autore,[6] il Carme _In morte dell'Imbonati_,
egli lo pregò di aggiungere pure sul frontispizio il nome del
Beccaria, specialmente dopochè il poeta Lebrun, allora molto in voga,
inviandogli un suo nuovo componimento stampato, lo avea, senz'altro,
salutato col nome di Beccaria, soggiungendo nella dedicatoria
manoscritta queste parole: "C'est un nom trop honorable pour ne pas
saisir l'occasion de le porter. Je veux que le nom de Lebrun choque
avec celui de Beccaria."[7] Il Pagani o dimenticò o finse o volle
dimenticare il singolare desiderio espressogli dall'amico, il quale
dovette contentarsi di sentirsi chiamare semplicemente: Alessandro
Manzoni. I versi per l'Imbonati non furono dunque scritti, come
sembrami siasi creduto fin qui, immediatamente dopo la morte di colui,
che, discepolo del Parini, dovea, se avesse vissuto, divenire la guida
spirituale del Manzoni; ma parecchi mesi dopo, nel febbraio dell'anno
1806, quando s'appressava l'anniversario della sua morte, ed assai
probabilmente per dare, in quel giorno funebre, una consolazione alla
nobile amica derelitta dell'Imbonati. Noi sappiamo ora intanto dal
signor Romussi che, per quell'anniversario funebre, il Manzoni faceva
ristampare i suoi versi in Milano, per mezzo del suo amico Pagani, al
quale soggiungeva il seguente poscritto: "Il 15 corrente è il fatale
giorno anniversario della morte del virtuoso Imbonati. Mia madre dice
che un tuo sospiro per lui sarà a lui un omaggio, una consolazione a
lei, e che in quel momento le nostre anime saranno unite."[8] Nel
Carme commemorativo, ove si esalta la virtù dell'Imbonati, ove si
confessa pubblicamente l'amicizia che lo legava a Giulia Beccaria, ove
si promette dal poeta all'ombra dell'Imbonati ch'egli avrebbe seguito
i sapienti consigli dell'amico di sua madre, si esalta insieme e si
consola la virtù e il dolore della madre. Sotto questo aspetto
speciale, parmi che il Carme, sebbene già notissimo, _In morte
dell'Imbonati_, possa ora venir riletto dagli ammiratori del Manzoni,
con più viva, se pure non nuova, curiosità, poichè insieme col genio
nascente del poeta ci mostra il coraggioso ed eloquente affetto del
figlio vendicatore dell'onore materno.[9] Incomincia il Poeta
accortamente col rivolgersi alla madre, rammentando com'egli fosse
solito a scusarsi presso di lei, per avere fino a quel di coltivata
solamente la poesia satirica, poichè non gli era apparso sopra la
terra un solo raggio di virtù, al quale potesse consacrare l'ingegno
poetico. Ma, dopo avere inteso come la madre rimpiangesse la rara
virtù dell'amico che le era stato tolto, gli parve almeno che il
ricordo di quelle virtù potesse destare in alcuno il proposito di
farle rivivere in sè. Il giovine Poeta vede veramente o immagina
d'avere veduto in sogno il conte Carlo Imbonati, ma in figura di
malato già consunto dal proprio male. Egli serba tuttavia sempre molta
calma nell'aperto volto e nell'aspetto, i quali inspirano pronta
fiducia anche agl'ignoti. Pensosa è la fronte di lui, mite e sereno lo
sguardo, il labbro sorridente. Il Poeta ventenne fa prontamente atto
di volerlo abbracciare e di favellargli:

                         ma irrigidita
     Da timor, da stupor, da reverenza
     Stette la lingua.

Allora l'Imbonati stesso prende a parlare, e dice come un affetto
imperioso lo muova a ritornar presso di lui, che, nel fine di sua
vita, era stato oggetto dei suoi più vivi desiderii:

                          E sai se, quando
     Il mio cor nelle membra ancor battea,
     Di te fu pieno, e quanta parte avesti
     Degli estremi suoi moti.--Or, poi che dato
     Non m'è, com'io bramava, a passo a passo,
     Per man guidarti su la via scoscesa,
     Che, anelando, ho fornita, e tu cominci,
     Volli almeno una volta confortarti
     Di mia presenza.

L'Imbonati, non credendo forse ancora imminente l'ultimo suo giorno,
avea diretta al giovine Manzoni che, in quel tempo, dovea condurre fra
la gioventù milanese una vita alquanto dissipata, una prima ed ultima
lettera eloquente, dove gli dava alcuni suoi consigli amorosi,
fiducioso certamente di deporre il buon seme in ottimo terreno. Il
Manzoni, alla sua volta, rispose con una lettera caldissima; ma la
risposta arrivò all'Imbonati, quand'egli avea già chiusi gli occhi
alla luce. Mi si domanderà: Come sapete voi questo? In quale biografia
l'avete voi letto? Avreste, per avventura, vedute quelle preziose
lettere? No: lo non le ho vedute; ma ho semplicemente letto, con
intento biografico, i versi stessi del Manzoni. Gli abbiamo letti
anche noi, e sono chiari abbastanza da non abbisognare di commenti. Io
ne convengo perfettamente, e vi prego dunque soltanto di rileggerli
ancora una volta:

        .... Allor ch'io l'amorose e vere
     Note leggea, che a me dettasti prime,
     E novissime fôro, e la dolcezza
     Dell'esser teco presentìa, chi detto
     M'avrìa che tolto m'eri! E quando in caldo
     Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
     Che non sarìa dagli occhi tuoi veduto,
     Chiusi per sempre! Or quanto e come acerbo
     Di te nutrissi desiderio, il pensa.

Il Manzoni non pare dunque aver conosciuto l'Imbonati, ma essersene
solamente innamorato per la fama delle sue molte virtù e per l'affetto
sincero e profondo che egli aveva inspirato alla signora Beccaria; il
che è intieramente regolare, poichè sappiamo dal Fauriel che la
Beccaria s'era recata a Parigi con l'Imbonati fin dai primi anni del
Consolato. Si spiega quindi pure come, per un certo periodo della vita
giovanile di Alessandro Manzoni, appaia educatrice di lui non già la
madre, ma una zia uscita da uno de' conventi soppressi, nel tempo in
cui i Manzoni abitavano nella Via di Santa Prassede.[10] Essa aveva
l'incarico di accompagnare in chiesa il giovinetto, e di fargli dare
lezioni di musica e di danza, forse pure di scherma. Come spiegarsi
altrimenti che l'Imbonati fosse così poco noto al figlio di colei, per
la quale egli era tutto, e che, invece di parlare al Manzoni, egli si
risolvesse a scrivergli? Un giorno qualche altra lettera inedita ci
darà forse la chiave di questo enigma biografico; intanto proseguiamo
la nostra lettura:

   Io sentìa le tue lodi; e qual tu fosti
     Di retto, acuto senno, d'incolpato
     Costume e d'alte voglie, ugual, sincero,
     Non vantator di probità, ma probo,
     Com'oggi, al mondo, al par di te nessuno
     Gusti il sapor del beneficio, e senta
     Dolor dell'altrui danno. Egli ascoltava
     Con volto nè superbo, nè modesto.
     Io, rincorato, proseguia: se cura,
     Se pensier di qua giù vince l'avello,
     Certo so ben che il duol t'aggiugne e il pianto
     Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
     Te perdendo, ha perduto.

L'Imbonati sorride mestamente, e risponde:

                                  Se non fosse
     Ch'io l'amo tanto, io pregherei che ratto
     Quell'anima gentil fuor delle membra
     Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
     Di Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
     Che, fin ch'io non la veggo, e ch'io son certo
     Di mai più non lasciarla, esser felice
     Pienamente non posso. A questi accenti
     Chinammo il volto, e taciti ristemmo;
     Ma, per gli occhi d'entrambi, il cor parlava.

Dopo questo omaggio che il giovine Poeta, preteso ateo, rende per le
parole dell'Imbonati alla credenza in Dio e nella immortalità
dell'anima umana, egli domanda all'ombra dell'Imbonati quale
impressione essa abbia provato nel punto della morte.[11] Essa
risponde evasivamente che non provò alcun dolore, che le parve
liberarsi da un breve sonno; ma poi, ridesta alla vita eterna, le
increbbe non ritrovarsi più vicina la cara donna che vegliava, con
amorosa pietà, al fianco di lui infermo. Altro l'Imbonati non può
rimpiangere di questa vita mortale, nè il tristo mondo ch'egli
abbandonò. Anima virtuosamente stoica e scettica ad un tempo, comunica
il proprio scetticismo all'amica diletta ed al carissimo alunno:

   Che dolermi dovea? forse il partirmi
     Da questa terra, ov'è il ben far portento,
     E somma lode il non aver peccato?
     Dove il pensier dalla parola è sempre
     Altro, è virtù per ogni labbro ad alta
     Voce lodata, ma ne' cor derisa;
     Dov'è spento il pudor, dove sagace
     Usura è fatto il beneficio, e frutta
     Lussuria amor; dove sol reo si stima
     Chi non compie il delitto; ove il delitto
     Turpe non è, se fortunato; dove
     Sempre in alto i ribaldi e i buoni in fondo.
     Dura è pel giusto solitario, il credi,
     Dura e, pur troppo, disugual la guerra
     Contro i perversi affratellati e molti.
     _Tu, cui non piacque su la via più trita
     La folla urtar che dietro al piacer corre
     E all'onor vano e al lucro, e delle sale
     Al gracchiar vôto, e del censito volgo
     Al petulante cinguettìo, d'amici
     Ceto preponi intemerati e pochi,
     E la pacata compagnia di quelli
     Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
     Segui tua strada; e dal viril proposto
     Noti ti partir, se sai._

Qui, dove torna pure ad affacciarsi in parte il poeta de' _Sermoni_
che si mostra alieno dai pubblici affidi, appaiono chiare le ragioni,
per le quali il Manzoni, disgustato della società milanese, si recò in
Francia con la madre. Segue il già citato ricordo dell'educazione
ricevuta in collegio, quindi l'allusione allo innominato maestro
ch'egli disprezza; viene infine l'alunno sdegnoso alle calunnie dei
vili che assalirono il _nome_ del giovine poeta in Italia, alle quali
egli non diede risposta, unico modo savio per farle cadere; e caddero
infatti così bene, che non si potrebbe oggi più argomentare con
qualche fondamenta di qual natura veramente esse fossero e onde
partissero. È possibile tuttavia, se è vero che il Manzoni abbia, in
qualche modo, nella gioventù di Lodovico, voluto raffigurar la propria
ch'egli, non ignaro, per averle particolarmente studiate, delle leggi
cavalleresche, invece di sfidare il suo avversario calunniatore
l'abbia disprezzato, per mostrare poi in età più matura, con tutta la
forza stringente della sua logica poderosa, e per l'esempio del duello
di Lodovico, come un tal partito, tragico insieme e ridicolo, non
risolva mai alcuna questione d'onore. I versi giovanili del Manzoni ci
dicono, in somma, in modo indiretto, che egli nè entrò in polemica
letteraria, nè chiese a' suoi calunniatori alcuna riparazione di
sangue:

   Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome
     Macchiar de' vili che, ozïosi sempre,
     Fuor che in mal far, contra il mio nome armâro
     L'operosa calunnia. Alle lor grida
     Silenzio opposi, e all'odio lor disprezzo;
     Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
     Ond'io lieve men vado a mia salita
     Non li curando:

non curanza che, ricordando il disdegnoso verso dantesco,

     Non ti curar di lor, ma guarda e passa,

conferma pure il verso del Manzoni giovinetto:

     Spregio, non odio mai.

Per quale intima associazione d'idee non si potrebbe ora ben dire, il
giovine Manzoni domanda quindi all'Imbonati, se sia vero quello che di
lui si va dicendo, ch'egli abbia, cioè, disprezzato i poeti e le Muse.
Ma l'Imbonati è pronto a soggiungere che gli furono venerandi e cari
Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini, ma ch'egli disprezza, invece, i
poeti triviali, arroganti, viziosi, di perduta fama, i quali fanno un
vergognoso mercato di lodi e di strapazzi, e dai quali si attende una
vecchiaia oscura e ignominiosa; e qui forse il Manzoni mirava ancora
al cavaliere storiografo Vincenzo Monti od all'improvvisatore
Francesco Gianni che viveva a Parigi, e metteva in verso i bollettini
delle vittorie napoleoniche. La vecchiaia dell'Autore della
_Bassvilliana_ e della _Mascheroniana_ fu, pur troppo, quale il
Manzoni la pronosticava ai venali poeti, dai quali egli abborriva; al
Gianni fu invece, dopo la caduta di Napoleone, conservata la sua lauta
pensione. Udite, pertanto, le generose parole dell'Imbonati, il
Manzoni prorompe egli stesso e conchiude stupendamente il Canto:

   Gioia il suo dir mi prese, e _non ignota_[12]
     Bile destommi; e replicai: deh! vogli
     La via segnarmi, onde toccar la cima
     Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
     Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
     _Sentir, riprese, e meditar; di poco
     Esser contento; dalla mèta mai
     Non torcer gli occhi; conservar la mano
     Pura e la mente; delle umane cose
     Tanto sperimentar, quanto ti basti
     Per non curarle; non ti far mai servo;
     Non far tregua coi vili; il santo vero
     Mai non tradir; nè proferir mai verbo,
     Che plauda al vizio, o la virtù derida._
     O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
     Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
     Non mi sia spento, a governar rimani
     Me, cui natura e gioventù fa cieco
     L'ingegno e serva la ragion del core.
     Così parlava e lagrimava; al mio
     Pianto ei compianse, E, non è questa, disse,
     Quella città, dove sarem compagni
     Eternamente. Ora colei, cui figlio
     Se' per natura e, per eletta, amico,
     Ama ed ascolta, e di figlial dolcezza
     L'intensa amaritudine le molci;
     Dille ch'io so ch'ella sol cerca il piede
     Metter su l'orme mie; dille che i fiori
     Che sul mio cener spande, io li raccolgo,
     E li rendo immortali; e tal ne tesso
     Serto che sol non temerà nè bruma,
     Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
     Delle sue belle lagrime irrorato.
     Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
     Turba m'assalse; e, da seder levato,
     Ambo le braccia con voler tendea
     Alla cara cervice. A quella scossa,
     Quasi al partir di sonno, io mi rimasi;
     E con l'acume del veder tentando
     E con la man, solo mi vidi; e calda
     Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.

Qui tutto è vero e caldo come fiamma viva; qui spira l'alito di una
poesia originale e potente. L'ombra dell'Imbonati, in conformità delle
idee svolte nell'Ode pariniana _Sull'Educazione_ e di quelle del
Fauriel (il prediletto tra _i pochi ed intemerati_ amici del Manzoni
in Parigi), il quale, intorno a quel tempo, stava, per l'appunto,
meditando una storia dello Stoicismo, traccia al discepolo e, per
mezzo di esso, a noi, un intiero bellissimo programma di Filosofia
stoica. Con un tale espediente, non saprei dire se più ingegnoso o
affettuoso, avendo l'Imbonati parlato per mezzo del figlio all'amico,
la signora Giulia Beccaria dovette persuadersi come, per la virtù
dell'amor figliale, divenuta poesia sovrana, la madre non solamente
potea consolarsi, ma avesse ogni ragione di inorgoglirsi, nella lieta
certezza di aver fatto all'Italia il dono celeste di un nuovo grande
poeta.[13]

  [1] È giusto tuttavia l'avvertire che consigli simili il Manzoni
    dovea averli talora intesi dallo stesso Monti. Questi, in una sua
    lettera di risposta al Tedaldi-Fores, ringraziando il giovine
    Poeta romantico per un _Inno all'Aurora_, gli scriveva come lo
    potrebbe ora fare un manzoniano: "Perchè in avvenire trionfi ne'
    vostri versi l'affetto, innamoratevi, fate che le vostre idee
    prima di andar sulla carta passino per mezzo il fuoco del cuore;
    in una parola, _sentite_."

  [2] In una lettera del marzo 1806 diretta da Parigi al Pagani, il
    Manzoni si esprime così. "Scrivimi presto, te ne prego per me e
    per mia madre, che legge le tue lettere coi miei occhi. Ella t'ama
    quanto io t'amo. Ella è continuamente occupata.... ad amarmi e a
    fare la mia felicità."

  [3] Quando, nel 1793, il Beccaria morì, il Manzoni si trovava in
    collegio, e contava appena otto anni. Non pare ch'egli abbia
    ricevute altre impressioni del nonno, fuori di quelle che gli
    furono comunicate dalla madre e dalla lettura delle opere,
    specialmente dei due libretti, _Intorno ai Delitti e alle Pene_, e
    _Intorno alla Natura dello stile_. In quest'ultima opera,
    quantunque scritta assai male, trovansi parecchi pensieri, che
    devono aver servito di base ai primi discorsi che il Manzoni tenne
    in Parigi col Fauriel intorno allo stile. Io ne accennerò alcuni
    che mi sembrano particolarmente essere divenuti manzoniani:
    "Un'eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare
    in sè stesso l'indolente ed indeterminata sensibilità, che facesse
    scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli
    produssero piacere o dolore. Sono le osservazioni sopra le interne
    operazioni dello spirito, non sulle esterne manifestazioni di
    esso, che formano le vere istituzioni.--Io parlo solamente a
    quegli animi pronti e penetranti che sanno ripiegarsi in sè
    medesimi e sentir profondamente, ed a quegl'ingegni arditi e
    liberi che si formano una scienza de' loro pensieri e non degli
    scritti altrui." Il sensismo del Condillac adoperato nella
    statistica è il fondamento della dottrina del Beccarla, che il
    Manzoni tradusse in pratica. "Il principal artificio (conchiudeva
    il Beccaria) di chi vuole riuscire eccellente scrittore sarà
    quello di ridurre a tutte le idee sensibili, componenti, tutto il
    corredo delle parole, delle quali egli, conversando e studiando,
    carica la memoria, il che finalmente si riduce al principio
    medesimo esposto nella prima parte di queste ricerche; se
    l'eccellenza dello stile consiste nell'esprimere immediatamente il
    massimo numero di sensazioni unibili colle idee principali, per
    mettersi in istato appunto di esprimere questo massimo numero, il
    miglior mezzo sarà quello di averne ricca l'immaginazione. Ora
    come mai ciò potrà aversi se tre quarti dell'istituzione nostra si
    fa per mezzo delle parole, ed è necessario di farlo attesa la
    complicata coltura de' nostri costumi? non certamente in altra
    maniera, infuori che in quella di studiosamente e ad ogni
    occasione portare l'unione delle generali ed indeterminate
    espressioni alle sensibili, precise e determinate.

  [4] Così l'Imbonati che ebbe per discepolo il Manzoni, aveva avuto
    per maestro il Parini. Il Manzoni stesso dovea avere per maestro
    un Monti, per amici un Foscolo ed un Fauriel, un Rosmini ed un
    Grossi, per critico un Goethe, per genero un Azeglio, per
    discepolo ideale un Giusti! Le visite del Mazzini e del Garibaldi,
    di Vittorio Emanuele e del Principe Umberto, di Don Pedro
    d'Alcantara e del Granduca Alessandro di Weimar, erano
    dimostrazioni particolari di quel consenso universale
    d'ammirazione, pel quale la gloria letteraria del Manzoni fu
    insuperata ed insuperabile.

  [5] Il Botta dava a leggere al giovine Manzoni il manoscritto della
    sua _Storia della Indipendenza degli Stati Uniti_, della quale il
    Manzoni scriveva con entusiasmo all'amico Pagani, dicendogli, tra
    l'altre cose: "Credi che, dopo i nostri storici vecchi, nulla
    d'eguale è mai comparso in Italia," e gli raccomandava di
    trovargli un editore in Italia. L'editore non si potè trovare. Il
    Botta stampò il libro a sue spese; poi, avendo la moglie malata, e
    bisogno urgente di far danaro, vendette tutta l'edizione a peso di
    carta!--È noto come, dopo la pubblicazione de' _Promessi Sposi_,
    il Botta classicheggiante si schierò tra gli avversarii della
    Scuola manzoniana.

  [6] La prima edizione de' soli cento esemplari, uscita nel febbraio
    del 1806, non fu messa in vendita; l'edizione di Milano fu di 1000
    esemplari, ed uscì nel marzo di quello stesso anno.

  [7] Fra i poeti che destarono maggior entusiasmo nel giovine Manzoni
    vuol essere ricordato, per l'appunto, questo Lebrun. {P. D. E., da
    non confondersi con un altro poeta Lebrun (P. A.) nato nello
    stesso anno, in cui nacque il Manzoni, morto membro dell'Accademia
    Francese, di cui il Dumas figlio ebbe a tessere l'elogio insieme
    col D'Haussonville. Questo Lebrun ebbe pure una gloria precoce,
    cantò pure le vittorie napoleoniche, e ottenne perciò anch'esso
    una pensione annua, ma di soli 1200 franchi.} Egli era nato nel
    1729, e s'era acquistato fra i suoi contemporanei il nome di
    _Pindare francais_. A quattordici anni aveva già fatta un'Ode che
    prometteva un poeta insigne. Nato nella casa del principe di
    Conti, che lo prese a proteggere e lo adoperò poi per molti anni
    come suo segretario, vogliono che egli potesse esserne figlio. Il
    figlio del grande tragico Racine, poeta egli stesso, innamorò il
    giovane Lebrun della poesia; naufragato il Racine presso Cadice,
    il Lebrun lo pianse con un'Ode tenerissima. Sopra il suo quinto
    lustro, il Lebrun noveravasi già fra i primi Lirici francesi.
    L'indole satirica del poeta gli fece molti nemici; ma vuolsi pure
    ricordare che la figlia del grande Corneille ebbe dote per un'Ode
    famosa, nella quale il Lebrun supplicava in favore di lei il
    Voltaire. E quando il Voltaire morì, il Lebrun lo onorò con questa
    strofe efficace:

         O Parnasse! frémis de douleur et d'effroi!
         Pleurez, Muses, brisez vos lyres immortelles
         Toi dont il fatigua les cent voix et les ailes,
         Dis que Voltaire est mort, pleure et repose-toi.

    Ma gli epigrammi pungenti del Lebrun sono molto più numerosi. La
    morte del prìncipe di Conti, la sua separazione dalla moglie, il
    fallimento del principe di Guémenée, presso il quale il Lebrun
    avea collocati i suoi risparmii, ne amareggiarono la vita. Per la
    intercessione del conte di Vaudreuil e del Calonne, impietosito il
    re Luigi XVI concesse al povero Lebrun una pensione annua di
    duemila franchi, il che non impedì, allo scoppiar della
    rivoluzione, che il Pindaro francese scrivesse le più ardenti odi
    rivoluzionarie. Ma il regno del Terrore lo spaventò; il Lebrun
    lamentò allora la libertà perduta e l'umanità oltraggiata. Passata
    la tempesta rivoluzionaria, creato l'_Institut National_, ei fu
    de' primi ad esservi accolto. Sotto il Direttorio, gli fu dato
    quartiere nel Louvre, con una pensione annua di mille scudi;
    Napoleone, primo console, la portò nel 1804 a seimila franchi.
    Negli ultimi anni della sua vita, il poeta perdette la vista; ma
    la ricuperò, in parte, per le cure del dottor Forlenze, onde il
    Cournand componeva la graziosa strofa seguente:

         D'un nuage fatal tes yeux étaient voilés;
         Forlenze, par son art, te rendit la lumière.
         En des siècles plus reculés
         Ce qu'il fit pour Pindare, il l'eût fait pour Homère.

    Ma del beneficio della luce il Lebrun godette per poco tempo,
    poichè morì nel mese di settembre dell'anno 1807. I critici
    contemporanei del Lebrun non lo stimavano inferiore al lirico
    Giambattista Rousseau, specialmente per le due Odi al Buffon, per
    l'Ode sopra il vascello _Le Vengeur_, e per le sue traduzioni e
    imitazioni delle _Odi_ d'Orazio. Ebbi sotto gli occhi un ritratto
    del poeta Lebrun, una figura nervosa, un profilo sottile, che non
    doveva inspirar molta simpatia; il Manzoni era tuttavia in
    quell'età, in cui tutti gli scrittori celebri sembrano degni
    d'essere amati, quando incontrò il Lebrun; e però il 17 marzo
    dell'anno 1806 scriveva da Parigi al suo amico Pagani: "Ieri ebbi
    l'onore di pranzare con un grande uomo, con un poeta sommo, con un
    lirico trascendente, con Lebrun. Avendomi onorato di un suo
    componimento stampato, volle assolutamente scrivere
    sull'esemplare, che conserverò per sempre: _A. M. Beccaria_. Ho
    avuto l'onore di imprimere due baci sulle sue smunte e scarnate
    guancie; e sono stati per me più saporiti che se gli avessi colti
    sulle labbra di Venere. È un grande uomo, per Dio! Spiacemi che le
    sue _Odi_ sieno sparse e non riunite in un volume per potertele
    far conoscere; il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che
    noi Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non
    vi è poesia francese. Io credo e creder credo il vero, che noi non
    abbiamo (all'orecchio), che noi non abbiamo un lirico da
    contrapporre a Lebrun per quello che si chiama forza lirica. E
    perciò qui lo chiamano comunemente _Pindare Lebrun_, e non dicono
    forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi mi domina, e
    per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche verso qua
    e là delle sue _Odi_. In una imitata dall'_Exegi monumentum_ di
    Orazio, egli dice che il suo monumento è più ardito della piramide
    e più durevole del bronzo. E poi (ascolta, per Dio!):

         Qu'atteste leur masse insensée?
         Rien qu'un néant ambitieux:
         Mais l'ouvrage de la pensée
         Est immortel comme les Dieux.

    Eh? e nella medesima Ode:

         Comme l'encens qui s'évapore
         Et des Dieux parfume l'autel,
         Le feu sacré qui me dévore
         Brûle ce que j'ai de mortel.

    E nella stessa ancora:

         J'échappe à ce globe de fange:
         Quel triomphe plus solennel!
         C'est la mort même qui me venge;
         Je commence un jour éternel.

    E, in un'Ode a Bonaparte, due anni fa:

         Le peuple souverain qu'un Héros sent défendre
         N'obéira qu'aux Lois;
         Et l'heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
         Jusqu'au trône des Rois.

    In un'Ode per la famosa notte del 10 agosto,--attento bene:

         O Nuit, dont le voile imposteur
         Servit un roi conspirateur,
         Je te dénonce à la mémoire!
         ors de ta lâche obscurité,
         Parais dans ton affreuse gloire,
         Subis ton immortalité!

    Se questi non sono versi, quelli d'Orazio e di Pindaro sono
    cavoli!--E parlando di Dio in un poema;

         Au-delà du soleil, au-delà de l'espace,
         Il n'est rien qu'il ne voie, il n'est rien qu'il n'embrasse,
         Et la création respire dans son sein.

  [8] Una lettera del maggio 1806 diretta in poscritto dalla Giulia
    Beccaria al Pagani lo pregava di visitare in Milano la tomba
    dell'Imbonati: "Un vostro puro _vale_ (scriveva essa), sarà
    aggradito da Lui, sarà accetto dal mio povero cuore."

  [9] L'Autore della _Biografia_ del Manzoni che si legge ora nel_
    Supplemento all'Enciclopedia popolare_ del Pomba, preferisce
    invece far credere che il Manzoni abbia scritto il Carme per
    l'Imbonati, per riconoscenza della pingue eredità ricevuta!

  [10] "Il Manzoni (scrive lo Stoppani) si ricordava fin negli ultimi
    suoi anni della buona zia, la quale gli aveva lasciato delle
    impressioni vivissime, che egli ricordava agli amici, come fossero
    ancora quei giorni. Ritornata ai patrii lari, l'ex-monaca si era
    assunta lei una parte dell'educazione di Lisandrino, a cui aveva
    preso a volere un gran bene, e questa parte era di farne un
    giovinotto... se vi par troppo il dire galante, diremo brillante,
    chè non daremo così occasione di pensar male a nessuno. Non pare
    che per una coltivazione di questo genere il terreno fosse così
    facile, come avrebbe desiderato la coltivatrice. Anche il Manzoni
    dovette subire il supplizio inevitabile delle lezioni di musica e
    di danza.... Non vi cadesse mai in mente che l'ex-monaca fosse una
    donna meno che ammodo, anzi meno che pia; ella non mancava mai di
    condur seco Lisandrino alla benedizione nella chiesa detta _alla
    Pace_. Vuol dire che lungo la via c'era tempo di discorrere
    d'altre cose.--Vede lei,--diceva un giorno il Manzoni, in uno
    degli ultimi anni della sua vita, ad un amico, mentre passavano
    per la Via di Santa Prassede,--vede lei quella finestra? Un giorno
    ero là colla zia che m'insegnava il viver del mondo. D'un tratto
    eccoci alle spalle lo zio monsignore; e la zia svelta a
    regalargli, come si dice, una buona cavatina, cambiando discorso
    con tale disinvoltura, da fare invidia al comico più
    provetto.--Dove mai aveva la zia appreso una tattica così
    sorprendente? Ma!... La cosa aveva fatto un gran senso al
    giovinetto, e gli avrà dato certamente da pensare. Talvolta
    certamente nella conversazione il discorso cadeva sulla
    soppressione, con tutti quei pro e contro che udiamo anche noi a'
    nostri giorni. La zia a questo proposito non si lasciava mai
    cogliere nelle spire di un ragionamento qualsiasi. Con quel suo
    fare spigliato e disinvolto saltava a piè pari alla
    conclusione.--Io per me--diceva--sono del parere di Giuseppe II.
    Aria: Aria!--soggiungeva, trinciando nell'aria di gran cerchi
    colla mano destra, quasi avesse voluto farsi largo, e sgombrarsi
    dattorno quel non so che, da cui aveva impedito per tant'anni il
    respiro."

  [11] Questa pareva una preoccupazione forte nel Manzoni: noi abbiamo
    veduto nelle lettere che scrive intorno all'Arese moribondo
    com'egli si sdegni contro il sacerdote che viene a crescere il
    terrore della morte; è noto poi come l'estrema agonia del Manzoni
    sia stata dolorosa, pel terrore che lo invase nell'ultimo momento.

  [12] Egli ricordava senza dubbio, in quel punto, il proprio già citato
    Sermone contro i cattivi poeti.

  [13] L'indole intieramente soggettiva del Carme, le lodi date
    all'Imbonati amico di sua madre, quando il padre ancora viveva, e
    la possibilità che alcuno venisse un giorno, come venne pur
    troppo, a sospettare ch'egli cantasse l'Imbonati per riconoscenza
    venale, dopo che il Conte aveva diseredato i proprii parenti per
    lasciare le proprie sostanze alla bella ed intelligente amica,
    furono, senza dubbiò, i motivi gravissimi, per i quali il Canzoni
    ebbe più tardi a dolersi d'avere scritto quel Carme giovanile.



XI.

Il Manzoni a Parigi.


Il nome che portava la madre del Manzoni l'avea fatta accogliere in
tutte le conversazioni più eleganti e più dotte del Consolato e del
Primo Impero. Ad Auteuil, presso Parigi, viveva la vedova
dell'Helvetius, in una casa già frequentata dai famosi Holbach,
Franklin, Jefferson, Condillac, Diderot, D'Alembert, Condorcet,
Laplace, Volney, Garat, Chenier, Ginguenè, Daunou, Thurot, Tracy
l'ideologo e Cabanis. Ma il Cabanis frequentava specialmente la
Maisonnette ove viveva la vedova del Condorcet, sorella del
maresciallo Grouchy e della moglie di Giorgio Cabanis. Fu alla
Maisonnette, ove la signora Beccarla si recava con particolare
frequenza, che il Manzoni dovette conoscere il grande medico filosofo
di Auteuil. Dal Sainte-Beuve apprendiamo che il Manzoni, parlandone
col Fauriel, lo chiamava _cet angélique Cabanis_. Il Cabanis era nato
nel 1757 a Cosnac e morì nel 1808 presso Meulan. Il Manzoni lo conobbe
dunque negli ultimi tre anni della sua vita, e al colmo della sua
gloria. Nell'anno 1806 il Cabanis aveva indirizzata al Fauriel una
bella lettera sopra le cause prime, che fu pubblicata solo parecchi
anni dopo la sua morte; probabilmente il Manzoni la lesse manoscritta
presso il Fauriel. Il Sainte-Beuve riportò un passo eloquente della
lettera del Cabanis; io ne riferirò qui, invece, la conclusione, nella
quale il medico filosofo si rivolgeva allo storico sperato dello
Stoicismo: "C'est a vous, mon ami, qu'il appartient de nous offrir les
images des grandes âmes formées par ces maximes, de retracer dignement
des souvenirs si touchants et si majestueux. Sans doute il est
toujours utile de proposer aux hommes de semblables modèles; mais, aux
époques des révolutions politiques, le bon sens et la vertu n'ont de
garantie que dans la constance des principes, dans l'inébranlable
fermeté des habitudes. Le débordement de toutes les folies, de toutes
les fureurs, les excès de tous genres, inséparables de ces grands
bouleversements, troublent les tètes faibles, leur rendent
problématique ce qu'elles ont regardé comme le plus certain; les
exemples corrupteurs, les succès momentanés du crime, les malheurs,
les persécutions qui s'attachent si souvent aux gens de bien,
ébranlent la morale des âmes flottantes; le ressort des plus
énergiques s'affaiblit lui-même quelquefois, et toutes celles qui ne
sont affermies dans la pratique des actions honnêtes que par le
respect de l'opinion publique, voyant cette opinion toujours équitable
à la longue dans les temps calmes, alors incertaine, égarée et souvent
criminelle dans ses jugements, s'habituent à mépriser une voix qui
leur tenait lieu de conscience; et si elles ne finissent bientôt par
traiter de vaines illusions les devoirs les plus sacrés, il ne leur
reste plus du moins assez de courage pour les faire triompher, dans le
secret de leurs pensées, des impressions de terreur dont elles sont
environnées de toutes parts. Poursuivez donc, mon ami, cet utile et
noble travail: si la plus grande partie des temps historiques vers
lesquels il vous ramène doivent remettre sous vos yeux les plus
horribles et les plus hideux tableaux, vous y trouverez aussi celui
des plus admirables et des plus touchantes vertus; leur aspect
reposera votre coeur, révolté et fatigué de tant de scènes d'horreur
et de bassesse. Jouissez, en le retraçant avec complaissance, des
encouragements qu'il peut donner à tous les hommes en qui vit quelque
étincelle du feu sacré, surtout _à cette bonne jeunesse, qui entre
toujours dans la carrière de la vie avec tous les sentiments élevés et
généreux;_ et ne craignez pas d'embrasser une ombre vaine, en
jouissant d'avance encore de la reconnaissance des vrais amis de
l'humanité." A me pare tra le cose probabili che il Cabanis, quando
scriveva queste parole, scritte, prima del Manzoni, un poco _alla
manzoniana_, per le quali insieme col Fauriel si confortava nella
speranza che la nuova gioventù avrebbe raccolto l'esempio delle virtù
stoiche, di cui il Fauriel dovea scrivere la storia, sebbene fosse
avvezzo a terminare i suoi scritti con una generosa perorazione ai
giovani, pensasse questa volta, particolarmente, al giovine amico del
Fauriel, al Manzoni, che, nel suo Carme _in morte di Carlo Imbonati_,
fin dal mese di febbraio dello stesso anno 1806 si era fatto un vero
programma poetico di Filosofia stoica. In parecchi scritti poi del
Cabanis trovo traccie di quello stile modestamente arguto, un po' vago
d'antitesi e di paralleli, che piaceva pur tanto al Manzoni e che gli
divenne proprio, ma ch'egli potè forse sentirsi capace di rinnovare
leggendo alcuno degli scrittori francesi. Non vorrei ingannarmi,
innanzi ai professori di stilistica, dicendo che riconosco, per
esempio, anticipato in parte il fare manzoniano in queste parole, con
le quali si termina la prefazione del _Coup-d'oeil sur les révolutions
et sur la réforme de la Médecine_, del Cabanis: "Cette introduction
est la seule partie que j'aie pu terminer. Je m'étais refusé jusqu'à
ce moment à la rendre publique, dans l'espoir de compléter un jour
l'ouvrage entier tel que je l'avais conçu. Mais le dépérissement total
de ma santé ne me permet plus de nourrir cet espoir, qui fut toujours
peut-ètre beaucoup trop ambitieux pour moi. Je finis donc par céder
aux voeux de quelques amis, et par livrer au public cette faible
esquisse. J'aurais voulu la rendre plus digne de lui et d'eux, mais la
même raison qui m'engage à la tirer de mon portefeuille, m'ôte le
courage et les moyens de la perfectionner. Telle qu'elle est, elle
renferme, je crois, des idées utiles, c'est assez pour écarter les
conseils de mon amour-propre, qui peut-ètre la condamneraient a
l'oubli; et si nos jeunes élèves, auxquels elle est particulièrement
destinée, retirent quelque fruit de cette lecture, l'avantage de les
avoir aidés dans leurs travaux sera pour mon coeur bien au-dessus de
tous les succes les plus glorieux." Io non dico che qui dentro ci sia
il Manzoni; ma mi pare di ritrovarci, fino ad un certo segno, il suo
modo di dire, e però non ho creduto di doverlo tacere. Nel Cabanis,
oltre al medico filosofo, vi era l'apostolo, un bisogno continuo di
comunicarsi vivamente ed utilmente agli altri; questo bisogno il
Manzoni non l'ha sentito in pari grado, anzi, per dire il vero, egli
mi pare averlo sentito pochissimo. Il Cabanis non si contentava che il
medico fosse dotto; lo voleva principalmente buono; e tutti i suoi
migliori scritti riescono ad una tale conclusione. Ma, se il Manzoni
non provava la stessa impazienza nel manifestare i proprii sentimenti
e nel farli attivi leggendo gli scritti e ascoltando i discorsi di
colui che gli parve _angelico_, dovette provare più volte una viva
simpatia, e, approvando in cuor suo i pensieri del sapiente di
Auteuil, trarne qualche profitto per la regola della propria vita, ed
in parte, anche, in quanto il Cabanis gli parve scrittore efficace,
giovarsene per dare, ad un tempo, rilievo singolare e disinvoltura
alla propria prosa. Il Manzoni entrò nella vita con un programma etico
ben determinato. Così il Cabanis, quando, nel 1783, ottenne il
dottorato, avea proferito innanzi a' suoi giudici un generoso
giuramento in versi non molto eleganti, ma, in compenso, molto
sinceri, onde rilevo questi brani:

   Je jure qu'à mon art obstinément livrée
     Ma vie aux passions n'offrirà nulle entrée;
     Qu'il remplira mes jours; que, pour l'approfondir,
     L'embrasser tout entier, peut-être l'agrandir,
     Mon âme à cet objet sans repos attachée,
     Poursuivant sans repos la vérité cachée,
     Formera, nourrira, par des efforts constants,
     Sa lente expérience et ses trésors savants.
     Je jure que jamais l'intérêt ni l'envie
     Par leurs lâches conseils ne souilleront ma vie;
     Que partout mes respects chercheront les talents;
     Que ma tendre pitié, que mes soins consolants
     Appartiendront surtout au malheur solitaire,
     Et du pauvre d'abord trouveront la chaumière;
     Que mes jours, dont mon coeur lui réserve l'emploi,
     Pour conserver les siens ne seront rien pour moi
     ......................................
     ......................................
     Libre de vains égards ou d'un orgueil coupable,
     Je jure que ma voix, de détours incapable,
     Montrera sans faiblesse, ainsi qu'avec candeur,
     Et l'erreur étrangère et surtout mon erreur.
     Je jure encor, fidèle à mon saint ministère,
     Je jure, au nom des moeurs, que mon respect austère
     Ne laissera jamais mes désirs ni mon coeur
     S'égarer hors des lois que chérit la pudeur.
     ......................................
     ......................................
     Ah! si mon coeur jamais, dans de honteux moments,
     Abjurait sans puàeur ses vertueux serments,
     Attache à tous mes pas les remords et le blâme,
     Dieu vengeur qui m'entends! qu'en me fermant son âme,
     La sévère amitié me laisse en un désert!
     Dans ce coeur maintenant aux goûts simples ouvert
     Flétris les vrais désirs, étouffe la nature,
     Frappe-le des terreurs que nourrit l'imposture;
     Et que plein de l'effroi d'un obscur avenir,
     Je meure sans laisser aucun doux souvenir!
     Mais, si de la vertu dont l'image m'enflamme
     La sévère beauté toujours parle à mon âme;
     Si, malgré tant de maux dont les assauts constants
     Ont flétri mes beaux jours et glacé mon printemps,
     À mes devoirs livré, moi-même je m'oublie,
     Pour ne songer qu'aux maux qu'un autre me confie;
     Si toujours mes serments sont présents a mon coeur,
     Dieu juste, sur mes jours répands quelque douceur;
     Veille sur les amis qui consolent ma vie;
     Nourris les sentiments dont tu l'as embellie!
     Chéri du malheureux, du puissant révéré,
     Que mon nom soit béni plutôt que célébré!

Il Cabanis, come più tardi il Manzoni, tenne fede al suo programma
giovanile. E, se fu caso che due uomini come il Cabanis ed il Manzoni,
l'uno al tramonto, l'altro al principio della vita, s'incontrassero e
si amassero, quel caso almeno non si potè dir cieco, poichè, se il
temperamento dei due scrittori era diverso, non potevano incontrarsi
due uomini che si somigliassero di più nel desiderio del bene. Il
ritratto del Cabanis che accompagna il primo volume della edizione
delle sue opere fatta nell'anno 1823 a Parigi dal Didot, ci offre la
figura d'uomo pensoso e malinconico, ma benevolo e dall'espressione
soave. La gioventù del Cabanis era stata molto agitata; giovinetto,
egli aveva seguito, in qualità di segretario, un signore polacco a
Varsavia; tornato a diciott'anni a Parigi, vi aveva atteso per alcuni
anni a lavori letterarii, tra gli altri, a una versione dell'_Iliade_;
ma non trovandosi abbastanza incoraggiato, elesse infine di studiar la
medicina; laureato dopo sei anni di studio, si stabilì ad Auteuil,
dove ebbe la ventura di conoscere la vedova del celebre Helvetius, che
lo trattò come proprio figlio e gli fece conoscere gli uomini illustri
che ne frequentavano la casa, tra i quali quel Beniamino Franklin, di
cui il Cabanis ci ha poi raccontata così bene e con tanta efficacia
morale la vita. Per mezzo dell'Holbach, divenne amico del Diderot, del
D'Alembert e del Voltaire. All'arrivo della rivoluzione, il Cabanis ne
approvò i principii e ne deplorò gli eccessi. Amico intimo del
Mirabeau, ne descrisse la malattia e la morte. Assistette fino
all'ultima ora il Condorcet, ne raccolse gli scritti, ne consolò la
vedova; poco dopo, si congiunse in matrimonio con una cognata di lei,
sorella del generale Grouchy. Nominato quindi professore, membro
dell'Istituto, membro del Senato, la sua fama d'allora in poi andò
sempre crescendo e la sua vita potè dirsi relativamente felice. Tutti
gli scrittori francesi contemporanei s'accordarono nel chiamare il
Cabanis non solo un gran medico, professore e filosofo, ma _un homme
de bien_. Questa lode ch'egli ambiva sopra ogni altra, gli meritò pure
la gloria di essere amato ed ammirato dal nostro Manzoni; ora, poichè
nessuna delle ammirazioni del Manzoni rimase sterile per la sua vita,
noi non possiamo tacere che, se il Manzoni tornò in Italia migliore
che non ne fosse partito, una parte del merito vuole pure riferirsi
all'_angelico Cabanis_. Quando il Cabanis morì, nel 1808, il suo posto
nell'Accademia francese fu occupato da un altro filosofo, un amico,
una conoscenza intima anch'esso del Fauriel e del Manzoni, l'ideologo
Destutt de Tracy, l'autore dei celebri _Élements d'idéologie_, nato
nel 1751, morto nel 1836.[1] Sebbene, per l'età, il Tracy potesse
essere padre al Fauriel, sappiamo tuttavia che egli avea tanta fiducia
nel criterio di lui, che gli dava ad esaminare e giudicare i proprii
scritti prima di pubblicarli. Scrivendo poi al Fauriel, il Tracy gli
diceva, citando un bell'adagio orientale, che l'albero dell'amicizia
"est le seul qui porte des fruits toujours doux." Ma il grande amico,
l'anima gemella, nella gioventù del Manzoni, fu Claudio Fauriel. La
signora di Staël, scrivendo al Fauriel, fra le altre cose gli diceva:
"Ce n'est pas assurément que votre esprit aussi ne me plaise, mais il
me semble qu'il tire son originalité de vos sentiments." Queste parole
ci possono dare la ragione della profonda simpatia, della viva
amicizia che il Manzoni sentì pel Fauriel. La forza, la grandezza
originale del Manzoni consiste pure nella sua capacità di sentire
vivacemente e di tradurre sinceramente il proprio sentimento.
Ammiratore del Parini e di Carlo Imbonati, due stoici, il giovine
Manzoni arrivava a Parigi e vi incontrava lo stoico Fauriel, nel 1805,
cioè nell'anno in cui questi preparava una storia dello Stoicismo ed
attirava alle dottrine stoichei suoi migliori amici. Ma lo stoicismo
del Fauriel non si scompagnava da un sentimento filantropico, più
moderno che lo raddolciva. Amico del vero, e persuaso che il vero si
può conciliar sempre col buono, per amor del vero egli amava pure
nell'arte la naturalezza. Il Manzoni trovò dunque nel Fauriel più
tosto un consenso che un ammaestramento; i due amici confermarono a
vicenda, ne' loro lunghi e geniali discorsi, e determinarono meglio a
sè stessi la loro poetica letteraria che riusciva al tempo stesso una
poetica della vita. Anche al Manzoni si sarebbero forse potute
rivolgere le parole che la Stael indirizzava al Fauriel: "Vous aimez
les sentiments exaltés, et, quoique vous n'ayez pas, du moins je le
crois, un caractère passionné, comme votre âme est pure, elle jouit de
tout ce qui est noble avec délices." Ingegni critici entrambi, ossia
correttivi, erano impediti essi stessi da una clamorosa e tumultuosa
dimostrazione de' loro sentimenti; poeti entrambi, non potevano
tuttavia guardare con freddezza alcun oggetto della loro critica;
moderavano dunque la passione e scaldavano la riflessione con una
specie di compenso euritmico che le metteva quasi sempre fra loro in
perfetta armonia. Il Fauriel sarebbe stato amato con ardore dalla
Stael, se egli lo avesse voluto; ma preferì una soddisfazione più
viva, quella di essere ammirato da lei, che, deposta oramai ogni
speranza di una corrispondenza amorosa, poteva quindi scrivergli: "Je
croirai moins de mal de la nature humaine quand votre âme noble et
pure me fera sentir au moins tout le charme et tout le mérite des
ètres privilégiés." Si comprende il fascino che un tal uomo dovette
esercitare sopra il giovane Manzoni al suo arrivo in Parigi, e si
capisce ancora come il Fauriel dovesse fortificarsi ne' suoi virtuosi
convincimenti, trovando adesione ad essi nell'animo di un Manzoni.
Vuolsi egli da ciò argomentare che il Fauriel fosse, nella sua qualità
di stoico, insensibile all'amore, e fargli quasi un merito di una tale
insensibilità? Non è questo il mio pensiero. Pare, invece, che l'animo
del Fauriel fosse preso, più ancora che dalle grazie, dalle virtù
della vedova del Condorcet. Essa era nata sei anni prima di lui, ma,
se egli amò alcuna donna, fu quella; ed amando fortemente quella, non
ne poteva onestamente amare un'altra; perciò Beniamino Constant,
scrivendo al Fauriel, dopo avere chiamata la Stael "la meilleure et la
plus spirituelle des femmes," si scusa, soggiungendo queste altre
parole significanti: "Je m'aperçois que le superlatif est malhonnête,
et je le rétracte pour l'habitante de la _Maisonnette_." Il Fauriel
era nato per sentire fortemente l'amicizia, degno quindi d'incontrarsi
col Manzoni che si mostrò anch'esso affettuoso e costante nelle sue
amicizie. E si può ancora riferire al Manzoni quello che il
Sainte-Beuve scrisse del Fauriel: "En lui les extrémités, les
terminaisons de l'âge précédent se confondent, se combinent à petit
bruit avec les origines de l'autre; il y a de ces intermédiaires
cachés qui font qu'ainsi deux époques, en divorce et en rupture à la
surface, se tiennent comme par les entrailles." Come il Fauriel
comunicò al Cabanis, ad un ideologo, ad un filosofo, che era pure non
grande, ma neppure infimo poeta, il proprio amore delle indagini
storiche, così ne innamorò un altro poeta più grande e più originale,
il nostro Manzoni. Il dramma _storico_, il romanzo _storico_, il
discorso _storico_, la _Storia della Colonna infame_, riconoscono per
loro padre legittimo, effettivo, il Manzoni; ma se il Manzoni ne fu il
padre, il Fauriel ne vuol essere tenuto come l'amoroso padrino. Alla
sua volta, il Manzoni, rapito da un nuovo profondo sentimento
religioso, dovea forse contribuire ad animare di nuova poesia
cristiana il sentimento stoico, quasi pagano, del Fauriel, e
aggiungere a' pensieri virili dello storico una maggior soavità di
espressione poetica. Il Fauriel poi ed il Manzoni erano di quegli
uomini, in compagnia del quali, anche non volendo, si diventa
migliore: il poeta danese Bággesen, per esempio, che era temuto da'
suoi avversarii per i suoi frizzi e per le sue invettive, presso il
sereno e virtuoso Fauriel diveniva o voleva almeno apparire un
agnello: i frammenti delle sue lettere al Fauriel pubblicati dal
Sainte-Beuve lo dimostrano. Lo stoico Fauriel, amico della vedova del
Condorcet, ma, senza dubbio, amico nel più nobile senso della parola,
dovea tenere il posto presso il Manzoni di quel Carlo Imbonati, lo
stoico discepolo del Parini, ed amico della signora Giulia Beccaria.
Quando la signora Condorcet morì nel 1822, il Fauriel venne a cercare
conforto al suo vivo, irreparabile dolore, presso il suo Manzoni, a
Brusuglio. Premesse queste poche parole intorno alle ragioni profonde
della simpatia ed amicizia che legò insieme il Manzoni ed il Fauriel,
mi giova ora, con la guida del Sainte-Beuve, seguire i discorsi che i
due grandi scrittori tennero in Parigi sull'arte loro. Ma io
discorderei tosto dall'illustre critico francese, il quale attribuiva
al Fauriel il merito d'avere, dopo la lettura del noto Carme _In morte
dell'Imbonati_, non pure consigliato al Manzoni di perfezionarsi nel
verso sciolto, ma indicatigli "les modèles qu'il préférait." Per
quanto il Fauriel fosse intelligente di poesia italiana, conviene
ammettere che il Manzoni se ne intendesse un poco più: il Fauriel
provavasi egli pure a scrivere sonetti italiani e li leggeva al
Manzoni; ma, se que' sonetti avessero avuto un vero valore, è assai
probabile che gli avrebbero sopravvissuto. Il Fauriel deve avere
semplicemente ammirato i bei versi del Manzoni, e convenuto con lui
che il miglior modello di verso sciolto italiano era quello del
Parini, che molto probabilmente il Manzoni fece conoscere al Fauriel e
non, di certo, viceversa. Il Sainte-Beuve scrive, del rimanente, egli
stesso parlando del Manzoni: "Le divin Parini, comme il l'appelait
quelquefois, fut son premier maître; mais, en avançant, son vers
tendit de plus en plus à se dégager de toute imitation prochaine, à se
retremper directement dans la vérité et la nature." Il che è vero
soltanto, se si confronti lo sciolto della tragedia con quello del
Carme per l'Imbonati, ma non potrebbe stare se si volesse riguardare
come un progresso l'_Urania_ ed altri componimenti lirici
immediatamente successivi, rispetto a quel primo Carme mirabile per
verità e naturalezza. Ma a questo punta non mi giova più citare; mi
conviene invece riferire, per intiero, quanto il Sainte-Beuve ci
lasciò scritta intorno ai discorsi principali che si tennero su
argomenti letterarii fra il Manzoni ed il Fauriel, dall'anno 1806
all'anno 1808. "Quante volte (scrive il Sainte-Beuve), correndo
l'estate del 1806 o alcuno degli anni dipoi, nel giardino della
_Maisonnette_ e fuori, per le colline di Saint-Avoie, sul pendio di
quella vetta, onde si scorge sì bello il corso della Senna, e
l'isoletta coperta di salici e di cipressi, da cui l'occhio si allarga
contento su quella fresca e tranquilla vallata, quante volte i due
amici andavano ragionando tra loro sul fine supremo d'ogni poesia,
sulle false immagini di che conveniva spogliarla, sull'arte bella e
semplice che bisognava richiamare alla vita! Certo, il Cartesio non fu
tanto insistente nel raccomandare al filosofo di deporre le idee della
scuola e i pregiudizii dell'educazione, quanto il Fauriel nel
raccomandare al poeta di liberarsi intieramente da quelle false
immagini che sogliono ricevere nome di poetiche. Bisogna che la poesia
sia cavata dall'intimo del cuore, bisogna sentire e saper esprimere i
proprii sentimenti con sincerità. Quest'era il primo articolo della
riforma poetica meditata dal Fauriel e dal Manzoni. Non è però che di
mezzo alle speranze questi non sentisse un'amarezza nel cuore. Ben
intendendo che la poesia non può corrispondere nè alle sue origini nè
al suo fine, se non opera sulla vita del popolo e della società,
scorgeva facilmente, che, per mille titoli, l'Italia non poteva
arrivare a tanto. La divisione degli Stati, il difetto d'un centro
comune, l'ozio, l'ignoranza, le pretensioni locali avevano arrecato
differenze troppo profonde tra la lingua scritta e le parlate. Quella
divenne addirittura una lingua morta. Non potè quindi prendere ed
esercitare sulle varie popolazioni un'azione diretta, immediata,
universale. E così, per una contradizione veramente singolare, la
prima condizione in Italia d'una lingua poetica, pura e semplice, era
di fondarsi sull'artificio. Il Manzoni sentì assai presto la gravità
di questo inconveniente. Egli non poteva contemplare senza un certo
piacere, misto d'invidia, il pubblico di Parigi tutto plaudente alla
commedia del Molière. Quel vedere un popolo intero che gustava e
intendeva in tutte le loro parti i capolavori del genio, come cosa
sua, quasi ponendosi in comunicazione con esso, gli pareva un sintomo
di quella vita attiva che temeva fosse divietata a una nazione divisa
In tanti dialetti. Egli ch'era destinato a riunire un giorno i più
eletti ingegni del suo paese in un concorde sentimento d'ammirazione,
egli allora non credeva possibile siffatta unanimità, o almeno
dolevasi che non potesse partire dal maggior numero. Il Fauriel lo
incoraggiava con autorità, e ponevagli sott'occhio molti illustri
esempi, anche di scrittori italiani, ricordandogli che tutti, più o
meno, ebbero a lottare con difficoltà della stessa specie." Il
soggiorno in Francia non valse di certo al Manzoni per fargli imparar
meglio quella lingua italiana, allo studio della quale egli si
appassionò poi tanto dopo il suo ritorno in Italia. Ma gli diede,
quanto allo stile, quella naturalezza, quell'agevolezza e disinvoltura
che le nostre scuole e le nostre Accademie non ci hanno mai insegnate,
avendo anzi mirato molto spesso a nascondere con la frase elegante i
pensieri, o il vuoto de' pensieri, più tosto che ad esprimerli. Il
Manzoni ammirava grandemente e sovra tutti i prosatori il Voltaire, le
opere del quale egli citava spesso, avendole fino al suo trentesimo
anno 1820 avute sempre fra le mani! Se ne privò poi, per farne dono al
proprio confessore monsignor Tosi, canonico del Duomo, poi vescovo di
Pavia, e togliersi così la tentazione di ascoltare il Voltaire
altrimenti che come scrittore, e di sorbire con l'ambrosia delle belle
parole il veleno di pensieri che quella fede cattolica, della quale
egli aveva assunta la difesa, gli comandava di riprovare.[2]

  [1] L'Elogio del Cabanis recitato dal Tracy fu tradotto in italiano
    da Defendente Sacchi sopra il manoscritto dell'Autore e pubblicato
    nel 1834 a Piacenza.

  [2] Il fatto ci è affermato dal professor Magenta, il quale aggiunge
    che il Voltaire appartenuto al Manzoni "era un magnifico esemplare
    parigino del 1785, di circa 100 volumi in-8°, legati in marocchino
    col labbro dorato. L'egregio Carlo Tosi ne tiene quattro soltanto,
    che degli altri alla morte del Vescovo non si trova che i
    cartoni."



XII.

L'_Urania. _--L'Idillio manzoniano.


Fu scritto molto e forse troppo sopra gli amori molteplici e non tutti
egualmente ammirabili e confessabili di Volfango Goethe. Il capitolo
che tratta degli amori del Manzoni sarà assai più breve e più
discreto, ma, come parmi, non privo d'importanza per chi s'occupi di
psicologia letteraria. Io non piglio molto sul serio e però non dovrei
curar qui il breve disgraziato amoretto di Venezia, del quale ho già
fatto un breve cenno, perchè non sembra aver lasciata alcuna traccia
profonda nell'arte manzoniana. Ma non posso, tuttavia, passare sotto
silenzio che Niccolò Tommaseo aveva veduto un Sonetto giovanile del
Manzoni, ov'era un verso molto espressivo. Il nostro Poeta, fin da
giovinetto, aveva fermata la sua mente ad un alto ideale, e
rivolgendosi alla sua Musa inspiratrice le prometteva di serbar fede
al virtuoso ideale, arrecandone in pegno una ragione stupenda per la
sua naturalezza:

     Perch'io non posso tralasciar d'amarti!

Questo bel verso ci assicura già che per Alessandro Manzoni l'amore
non sarà una debolezza, ma una sola grande virtù, e che dalla donna
egli avrebbe ricevuto soltanto inspirazioni gentili e benefiche. Dopo
avere pubblicato il Carme _In morte dell'Imbonati,_ e ricevute per
esso magnifiche lodi in Italia ed in Francia,[1] il Manzoni che, in
una variante del suo Sonetto _Ritratto giovanile,_ aveva scritto
questo verso singolarissimo:

     Di riposo e di gloria insiem desìo,

contento di quel primo saggio della propria gloria, si riposò, e trovò
in quel riposo una specie di voluttà, della quale, mi si perdoni la
confusione di parole che sembrano farsi guerra, pensando prima da
stoico, poi da cristiano, godette molte volte, nella sua vita, con una
squisita compiacenza, non vorrei dire da epicureo. Di questa sua beata
pigrizia poetica egli fu più volte piacevolmente rimproverato e
canzonato da' suoi amici, uno de' quali, il poeta Giovanni Torti, lo
raffigurava, anzi, sotto il nome di

                           Cleon nostro
     Di beato far nulla inclito speglio.[2]

Dicono che il Manzoni vecchio si compiacesse molto di quella
canzonatura dell'amico, e non mi parrebbe niente improbabile, che
quelle famose parole de' _Promessi Sposi,_ le quali si pigliano
generalmente come un complimento puro e semplice al poeta Giovanni
Torti, fossero pure un'amabile vendetta intima di Cleone. L'Innominato
una volta avea intorno a sè molti bravi, e tra questi, come si
capisce, pochi galantuomini; dopo la conversione del padrone si
dispersero, e rimasero soltanto presso l'Innominato alcuni fidati
amici, _pochi e valenti come i versi del Torti_, il quale
probabilmente ne aveva pure anch'esso dispersi e distrutti molti
cattivi, prima di far grazia ai pochi che gli parevano riusciti
secondo il suo cuore.[3] Ad ogni modo, per molti mesi dopo la
pubblicazione del Carme _In morte dell'Imbonati_, il Manzoni non
iscrisse più versi; nè gli valse "il dolce sprone" materno a toglierlo
da quella specie di letargia. Quale fu dunque l'occasione, o, per
dirla con Massimo d'Azeglio, la _tentazione tentante_ che mosse il
giovine Poeta, nell'anno seguente, a comporre il nuovo poemetto
_Urania_? A me pare di non ingannarmi dicendo semplicemente che il
Manzoni, in quell'anno, s'era innamorato della fanciulla, che divenne
poi sua moglie, Enrichetta Blondel, e che l'_Urania_ fu scritta
specialmente per piacerle. Il Poeta incomincia ad invocare le Grazie
per cantare un nuovo inno, il quale sia ascoltato, non solo all'ombra
de' pioppi lombardi, ma anco presso i sacri colli dell'Arno, ai quali
il Carme foscoliano _De' Sepolcri_, uscito nella primavera di
quell'anno, dovea più fortemente tentarlo. Anch'egli desidera venire
ascritto, non alla turba, ma "al drappel sacro" de' poeti d'Italia
"antico ospizio delle Muse." La recrudescenza nel desiderio della
gloria presso i poeti risponde quasi sempre ad una recrudescenza
d'amore; le donne amanti di poeti furono quasi sempre o autrici o
principali collaboratrici della loro gloria; anche il Manzoni, il meno
erotico forse di tutti i nostri grandi poeti, sentì crescere l'ardore
poetico all'improvviso sollevarsi nel suo petto di una fiamma gentile.
Ma, dopo ch'egli s'era scostato dagl'imitatori per accostarsi,
com'egli canta, "ai prischi sommi," la poca gloria poetica non bastava
più alla sua giovanile ambizione, _aut Caesar, aut nihil_; anche il
nostro pensava dunque fra sè, dopo avere conosciuto il Pindaro Lebrun,
o Pindaro, o Dante, o Manzoni; e, dopo avere lodato il primo, si
velava sotto la figura del secondo; per avere il diritto di ascoltare
il glorioso discorso delle Muse. Dante vien celebrato per aver primo
dato le bende ed il manto alla poesia italiana, per averla, primo,
condotta a fonti illibate, per averla, maestro dell'ira nell'_Inferno_
e del sorriso nel _Purgatorio_ e nel _Paradiso_, creata degna di
emular la madre latina:

          .... e nelle stanze sacre
     Tu le insegnasti ad emular la madre,
     Tu dolce maestro e del sorriso,
     Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
     Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
     Tu nostra.

Quanta maestà e virgiliana soavità di affetto In quel _nostro_!--A
questo punto, nondimeno, il Poeta che non ha per anco rinunciato a
tutte le reminiscenze della scuola, si ricorda troppo d'avervi
studiata la Mitologia greca; onde quello stesso Manzoni che, pochi
anni dopo, scriverà l'Ode satirica intitolata: _L'ira d'Apollo_, nella
quale, in pena d'aver posto da banda le vecchie ciarpe mitologiche, il
poeta riformato si farà giocosamente condannare da Apollo a non più
bere l'onda Castalia, a non cingersi più la fronte d'alloro, a non più
salire sul Pegaso, a non più volare, a cantar sempre in umile stile
quello ch'egli sentirà e nulla più:

     Rada il basso terren del vostro mondo,
     Non spiri aura di Pindo in sua parola;
     Tutto ei deggia da l'intimo
     Suo petto trarre e dal pensier profondo;

quello stesso poeta, per rappresentare gli antichi beneficii che le
nove Muse recarono un giorno ai mortali, immagina che, discesa dal
cielo, la stessa dea Urania gli abbia un giorno cantati al poeta
Pindaro. Non sono da sperare stupendi effetti poetici da una tale
intonazione mitologica, e però tutto l'Inno, nel tutt'insieme, riesce
manierato e freddo. Pure qua e là la natura potente vince l'arte delle
scuole, e ne vien fuori qualche verso di calore, di colore e di sapore
tutto manzoniano, ove l'effetto è proprio cavato, come in molte delle
immagini dantesche, dalla potenza di meditar sopra lo impressioni:
questi, per esempio:

     Fra il romor del plauso,
     Chinò la bella gota, ove salìa
     Del gaudio mista e del pudor la fiamma.

Sono versi pittoreschi; ma il Manzoni ricordava senza dubbio, nel
comporli una impressione propria, essendo ben noto agli amici del
Poeta, com'egli soleva, innanzi a lodi che gli facevano piacere,
arrossire come fanciullo. In questi altri versi, il primo è da notare
per l'equivoco della parola _amanti_, la quale si può riferire alla
Gloria, come a tutte le donne amate in genere; ed è vero pur troppo,
che di mille innamorati, i quali sognano la gloria, uno solo riesce,
con pena, a conseguirla; parecchi de' versi che seguono, sentono come
un soave afflato virgiliano:

     V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
     Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
     Ivi il trasse la Diva. All'appressarsi,
     Dell'aura sacra all'aspirar, di lieto
     Orror compreso in ogni vena il sangue
     Sentìa l'eletto, ed una fiamma lieve
     Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
     Poi che nell'alto della selva il pose
     Non conscio passo, abbandonò l'altezza
     Del solitario trono, e nel segreto
     Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
     Come talvolta ad uom rassembra in sogno
     Su lunga scala, o per dirupo, lieve
     Scorrer col piè non alternato all'imo,
     Nè mai grado calcar, nè offender sasso;
     Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
     Discendea la Celeste.

L'immagine seguente ci ricorda un'analoga similitudine dantesca;
quella che vien dopo ha pure per noi qualche importanza biografica,
perchè, sotto la impressione provata dal poeta Pindaro, reso
improvvisamente dubitoso delle sue forze, dopo aver fatto concepire di
sè solenni speranze, sono da riconoscersi i sentimenti particolari che
dovea provare il Manzoni divenuto quasi inerte, dopo le lodi forse più
ambite che sperate, onde fu coronato il Carme per l'Imbonati; ed anco
questi versi, ove l'Autore trae l'espressione dal proprio modo di
sentire, riescono pieni di poetica efficacia:

     Come la madre al fantolin caduto,
     Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
     Che guata impaurito e già sul ciglio
     Turgida appar la lagrimetta, ed ella
     Nel suo trepido cor contiene il grido,
     E blandamente gli sorride in volto
     Per ch'ei non pianga; un tal divino riso
     Con questi detti a lui la Musa aperse:
     "A confortarti io vegno. Onde sì ratto
     L'anima tua è da viltade offesa?
     Non senza il nume delle Muse, o figlio,
     Di te tant'alto io promettea."--"Deh! come,
     Pindaro rispondea, cura dei vati
     Aver le Muse io crederò? Se culto
     Placabil mai degl'Immortali alcuno
     Rendesse all'uom, chi mai d'ostie e di lodi,
     Chi più di me, di pregi e di cor puro,
     Venerò le Camene?[4]  Or, se del mio
     Dolor ti duoli, proseguir, deh! vogli
     L'egro mio spirto consolar col canto"
     Tacque il labbro, ma il volto ancor pregava,
     Qual d'uom che d'udir arda, e fra sè tema
     Di far, parlando, alla risposta indugio.
     Allor su l'erba s'adagiàro, il plettro
     Urania prese; e gli accordò quest'inno
     Che, in minor suono, il canto mio ripete.

Ma spogliando il Carme del suo apparato mitologico, noi troviamo in
esso i sentimenti particolari del poeta e però un nuovo elemento
biografico, del quale ci giova tener conto. Il poeta Pindaro, dopo
aver dato prove del suo valore poetico ed onorate le Muse, riesce
improvvisamente dubitoso delle proprie forze; onde la Musa discende a
rimproverarlo insieme ed aggiungergli coraggio. Il Manzoni, quantunque
vago di riposo, quando s'accingeva all'opera non s'arrestava
facilmente innanzi alle cose difficili; anzi, metteva più forte
impegno per riuscire; il modo con cui tormentò sè stesso negli _Inni
Sacri_, lo sforzo giovanile per frenare i versi volubili e ribelli, il
lungo, ostinato studio ch'egli, lombardo, pose nella parlata
fiorentina, possono servire di commento a questi versi dell'_Urania_:

      .... Baldanza a quel voler non tolse
     Difficoltà, che all'impotente è freno,
     Stimolo al forte.

Le Muse e le Grazie discendono sulla terra e recano i loro benefici ai
mortali, cioè la pace, la concordia, la pietà. I versi seguenti del
Manzoni, non ancora cattolico, concordano perfettamente col fine
dell'Inno sulla _Pentecoste_, e col precetto evangelico che la mano
sinistra non deve sapere quello che fa la destra, e ci dimostrano
insomma ch'è una poco pia menzogna il miracolo della conversione
dall'ateismo, dal materialismo e dal cinismo del Manzoni, che non fu
mai nè ateo, nè materialista, nè cinico. Ma su questo argomento avremo
occasione di ritornare; intanto, spogliando della loro veste
classico-mitologica i versi che seguono, compiacciamoci di veder già
vivo sotto di essa un Manzoni cristiano. Scrivendo nel 1805 al Monti,
il giovine Manzoni gli ricordava già che le lettere non sono buone a
nulla, se non servono a ringentilire i costumi; nell'_Urania_, le Muse
devono fare qualche cosa di più, insegnarci la pietà ed il perdono
delle offese, e la carità benefica e modesta:

     Così dal sangue e dal ferino istinto
     Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
     Di lor, che a terra ancor tenea il costume
     Che del passato l'avvenir fa servo.
     Levâr di nuova forza avvalorato.
     E quei gli occhi giraro, e vider tutta
     La compagnia degli stranier divini,
     Che alle Dive fea guerra. Ove furente
     Imperversar la Crudeltà solea
     Orribil mostro che ferisce e ride,
     Viver pietà che mollemente intorno
     Ai cor fremendo, dei veduti mali
     Dolor chiedea: Pietà, degl'infelici
     Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
     Con alta fronte passeggiar l'Offesa
     Vider, gl'ingegni provocando, e mite
     Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
     _Lo spontaneo Perdon che con la destra
     Cancella il torto e nella manca reca
     Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia._

Per virtù delle Muse nasce nell'uomo l'amor della fatica industre, il
sentimento dell'onore, della fedeltà, dell'umana ospitale fratellanza,

         .... che gl'ignoti astringe
     Di fraterna catena; e tutta in fine
     La schiera pia nell'opra affaticarsi
     Videro, e nuovo di pietà, d'amore
     Negli attoniti sorse animi un senso,
     Che infiammando occupolli.

I poeti si destano e cantano alla turba le _vedute bellezze_, la terra
non più squallida, ride; al discendere dell'armonia nel cuore dei
mortali, l'ira tace e sii sveglia un secreto ardente desiderio di
carità e di pace, onde la vita si fa bella e riposata:

                                       L'ira
     V'ammorzava quel canto, e dolce, invece,
     Di carità, di pace vi destava
     Ignota brama.

Dopo aver'cantato, le Muse risalgono all'Olimpo e ne ricevono le lodi
di Giove, ma per tornar sollecite presso Pindaro, a que' luoghi che un
gentile ricordo rende cari,

        .... chè ameno
     Oltre ogni loco a rivedersi è quello
     Che un gentil fatto ti rimembri.

Le Muse spiegano a Pindaro che, se egli, a malgrado dell'amor delle
Muse, non potè ancora sciogliere canti immortali, ciò accade per la
vendetta d'un Nume, poich'egli, fino ad ora, negò il canto alle
Grazie; senza le quali nè pure gli Dei

                           .... son usi
     Mover mai danza o moderar convito.
     Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
     E di gentile, e sol qua giù quel canto
     Vivrà che lingua dal pensier profondo
     Con la fortuna delle Grazie attinga.
     Queste implora coi voti, ed al perdono
     Facili or piega. E la rapita lode
     Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
     Talor felce orgogliosa il suolo usurpa;
     E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
     Col breve onor delle digiune frondi:
     Ed ecco il verno le dissipa; e intanto
     Tacitamente il solidario arbusto
     Gran parte abbranca di terreno, e mille
     Rami nutrendo nel felice tronco
     Al grato pellegrin l'ombra prepara.
     Signor così degl'inni eterni, _un giorno,
     Solo in Olimpia regnerai_: compagna
     Questa lira al tuo canto, a te sovente
     Il tuo destino e l'amor mio rimembri.

Qui il Manzoni sembra certamente voler fare qualche allusione
personale. È evidente ch'egli lascia rivolger la parola a Pindaro,
perchè gli parrebbe cosa troppo vana ed orgogliosa obbligar le Muse a
discendere dall'Olimpo per lui e augurargli di regnar solo in Olimpia.
Se così è, noi dobbiamo riconoscere in questa giovine quercia
olimpica, che un giorno regnerà sola, il Manzoni stesso, e domandargli
chi possa nascondersi sotto la felce orgogliosa che ingombra intanto
la via alla giovine quercia, ma che, in pena della sua temerità, vivrà
un anno solo. Gl'indizii precisi od anco probabili ci mancano per
arrischiarci a qualsiasi congettura. Osservo, invece, come una potente
ragione segreta dovette determinare il Manzoni a compiere la sua prima
formola poetica _sentir e meditare_, con un nuovo elemento che le
mancava, _la grazia_. Il Manzoni vecchio diceva che l'arte deve aver
per oggetto il _vero_, per fine _l'utile_, per mezzo _l'interessante_,
ossia il bello. Il senso dei versi dell'_Urania_ è il medesimo:

             .... sol qua giù quel canto
     Vivrà che lingua dal pensier profondo
     Con la fortuna delle Grazie attinga.

Io dubito che l'amore abbia dettato que' versi, e che nell'anno 1807
il Poeta avesse già veduta la giovinetta che dovea l'anno seguente
sposare. L'_Urania_, a malgrado della bellezza di alcune parti,
riesce, tuttavia, un componimento freddo e stentato, a motivo
specialmente della morta Mitologia evocata a velare più che a
significare i sentimenti vivi e contemporanei del Poeta. Lo studio
ch'e' fece per nascondersi, dopo essersi molto e forse troppo scoperto
nel Carme per l'Imbonati, gli fece parer buoni quegli stessi mezzi
mitologici, sopra i quali, pochi anni dopo, egli medesimo dovea gettar
tanto ridicolo. Ed è a dolersi che l'amico Fauriel non abbia
sconsigliato il Manzoni dal ritentar quella vana forma poetica. È da
dolersi, ma non da stupire; poichè, in quel tempo medesimo, il Fauriel
traduceva la _Parteneide_, poema alpestre del poeta danese Jens
Bággesen,[5] ove non solamente si rimettono in iscena gli Dei ma si
crea una nuova dea della _Vertigine_, dove la _Jungfrau_ o la
_Vergine_ è allegoricamente rappresentata come una poetica persona
viva. Nè pago il Fauriel di tradurre in francese il poema che il
Bággesen avea composto in tedesco, invitava il Manzoni a tradurlo in
italiano. Ma il Manzoni, che intanto avea già fatto, con la madre, nel
1806 il suo viaggio in Isvizzera e ammirato dappresso le montagne, che
vi ritornò forse nel 1807, invece di tradurre, si provò a comporre un
poema originale sopra le montagne, accompagnandone l'invio al Fauriel
suo _secondo duca_ alpestre, come il Bággesen era stato il primo, con
una epistola in versi, della quale il Sainte-Beuve ci ha fatto
conoscere un frammento "Alla Vergine ideale" del Danese egli opponeva
nell'epistola e nel poema una Vergine che le somigliava, da lui
conosciuta _sui colli orobii_, in una villa del Bergamasco: siamo, ove
precisamente egli conobbe la sua Enrichetta Blondel. Il suo matrimonio
con essa si celebrò in Milano il 6 febbraio dell'anno 1808 innanzi
all'ufficiale civile. Enrichetta Blondel aveva sedici anni, era nata a
Casirate, apparteneva ad una famiglia di origine ginevrina, di
confessione evangelica riformata, onde nel giorno stesso in cui
celebravasi il matrimonio civile, veniva in Milano da Bergamo il
pastore protestante Giovanni Gaspare Degli Orelli a benedire quelle
nozze evangelicamente; testimone dello sposo era non solo un
cattolico, ma un prete, il sacerdote Francesco Zinammi (o Zinamini?).
Dopo le nozze, gli sposi partirono per Parigi, ov'era rimasta la
signora Beccaria. Il 31 agosto dell'anno 1808, il Manzoni scriveva da
Parigi al suo amico Pagani: "Ho trovato una compagna che riunisce
veramente tutti i pregi che possono rendere veramente felice un uomo e
me particolarmente; mia madre è guarita affatto, e non regna fra di
noi che un amore ed un volere." In Parigi nasce al Manzoni una figlia;
vien battezzata secondo il rito cattolico e le s'impone il nome di
Giulia, in onore della madrina ch'era la nonna, e di Claudina, in
onore del padrino Claudio Fauriel.

  [1] Per la Francia bastavano in ogni modo quelle del Fauriel, per
    l'Italia quelle del Foscolo.

  [2] Il signor Romussi crede pure che il Torti nella _Torre di Capua_
    raffigurasse il Manzoni convertito in Fra Calisto da Firenze:

    ......rifuggissi alla Scrittura, o quando
         S'avvenne al loco, ove il Maestro disse
         Che stretto è in quel d'amare ogni comando,
         Fu come gli occhi della mente aprisse:
         Tutto qui sta (diss'ei) vivere amando,
         E amar fu sua scienza fin ch'ei visse;
         Di che pur reso in suo sermon potente
         Innamorava di ben far la gente.

  [3] Anche il Monti, del resto, scrivendo nel 1818 a Giovanni Torti,
    gli avea detto: "Da chi avete voi imparata l'arte di far versi
    così corretti, così belli? _Fatene di più spessi _e crescete la
    gloria degl'Italiani, il più caldo lodatore della vostra Musa sarà
    sempre il vostro Monti."

  [4] In quell'anno medesimo il Manzoni aveva composto una Canzone di
    tessitura classica, in onore delle Nove Muse. Ne ho veduto un
    frammento non molto felice. Ogni strofa dovea descrivere una Musa.

  [5] L'incontro del Manzoni in Parigi con questo illustre poeta danese
    non fu, di certo, senza risultamenti. Il Bággesen era nato nel
    1761 da una povera famiglia; ricevuto gratuitamente all'Università
    di Copenhagen, diede tosto parecchi saggi del suo valore nel
    poetare. In età di ventun anno avea pubblicata la prima raccolta
    de' suoi versi, alla quale, dopo sette anni, era serbato l'onore
    di una versione tedesca; a ventiquattro anni, usciva il suo dramma
    _Uggiero il Danese_, che cadde intieramente dopo la parodia che ne
    fece l'Heiberg intitolata: _Uggiero il Tedesco_. Allora il giovine
    poeta disgustato desiderò lasciare il proprio paese e visitare la
    Germania, la Svizzera e la Francia; il Duca di Augustemborgo, suo
    protettore, gliene fornì i mezzi. Il Bággesen viaggiò così fuori
    di patria per quattro anni, e s'addestrò in questo tempo
    specialmente nella lingua tedesca, la quale divenne per lui come
    una seconda lingua. Impromessosi a Berna con una nipote
    dell'Haller, rientrò per poco in patria, per ripartirne nell'anno
    1793 e visitare nuovamente la Svizzera, Vienna e l'Italia. Lo
    ritroviamo nel 1796 a Copenhagen, aggregato a quel Corpo
    universitario; ma l'anno dipoi egli s'era già rimesso in viaggio,
    avea perduto la moglie a Kiel e sposava, in seconde nozze, a
    Parigi, come più tardi il Manzoni, la figlia di un pastore di
    Ginevra, con la quale, nell'anno 1798, ritornava in Danimarca.
    Chiamato a prender parte nella direzione di quel Teatro reale, vi
    rappresentava un proprio dramma, che fu molto applaudito. Ma, nel
    1800, tornava a chiedere un congedo per recarsi a Parigi, dove,
    dopo avere pubblicato in Amburgo due volumi di poesie tedesche
    assai maltrattate dai giornali di quel tempo, e il suo poema della
    _Parteneide_, scritto pure in tedesco, nell'anno 1806 faceva
    ritorno a Copenhagen, dove intanto il Rahbez e l'Oehlenschlaeger,
    coi giovani ammiratori del Goethe e della scuola romantica di
    Weimar, avevano preso il posto del Bággesen nella simpatia del
    pubblico. Il nostro poeta ne sentì pena. Volle col suo _Labirinto_
    provare di esser anch'esso capace di trattare quel genere di
    poesia che piaceva ai romantici, ma intanto non si rattenne dallo
    scrivere una satira contro la moderna scuola, dal pubblicare
    epigrammi contro i capi romantici, e specialmente contro il Goethe
    che avea ammirato e certamente molto studiato, come lo prova lo
    stesso suo dramma _Il perfetto Faust_, e contro l'Oehlenschlaeger
    da lui prima molto onorato. Non potendo più esser riguardato come
    primo fra i poeti della Danimarca, il Bággesen lasciava nuovamente
    il suo paese nell'anno 1807, e soggiornava ora in Francia, ora in
    Germania, fino all'anno 1814, scrivendo ora satire ed epigrammi,
    ora inni d'amore pel suo paese, secondo il suo vario umore
    poetico. Natura mobile, egli subiva facilmente e mutava
    impressioni ed idee, in contradizione e lotta continua fra lo
    spirito romantico ed il classico, fra la fede e lo scetticismo. Il
    nostro giovane Manzoni, per mezzo del Fauriel, conobbe il Bággesen
    in Parigi fra gli anni 1806 e 1808, e fu tra i suoi più caldi
    ammiratori. Il Fauriel non fu amico inutile dei letterati e
    filosofi, dei quali divenne famigliare; com'egli rivedeva, prima
    della stampa, gli scritti del Tracy, attirava il Cabanis alle
    ricerche storiche, come più tardi traduceva e raccomandava ai
    Francesi le tragedie del suo Manzoni, così, innamoratosi della
    _Parteneide_ del Bággesen, imprese a tradurla e quasi a rifarla,
    facendola precedere da una introduzione, ove scriveva il
    Sainte-Beuve: "A la définition délicate qu'il donne de l'idylle, à
    la peinture complaisante et suave qu'il en retrace, je crois
    retrouverà travers l'écrivain didactique l'homme heureux et
    sensible, l'hôte de la _Maisonnette_ et l'amant de la nature." Il
    Fauriel confessava poi che, primo il Bággesen, nella _Parteneide_,
    gli aveva dato: "le sentiment des Alpes," e per questo pregio gli
    perdonava molte stranezze; il Botta ed il Manzoni parteciparono a
    quell'ammirazione. Quando nel 1810 il Fauriel pubblicò finalmente
    la _Parteneide_ in francese, il primo gli scriveva: "Vous avez
    rencontré des beautés pures et presque angéliques, vous avez été
    attiré vers elles, vous les avez saisies, vous en avez été pénétré
    et nous les avez rendues avec le ton et le style qui leur
    conviennent;" il secondo, come scrive il Sainte-Beuve, "réinstallé
    à Milan, adressait _A Parteneide_ une pièce de vers allégoriques
    dans le genre de son _Urania_, et il semblait se promettre de
    faire en italien une traduction, ou quelque poème analogue sur ses
    montagnes. Voici" prosegue il Sainte-Beuve "un passage dans lequel
    il exprime l'impression vive qu'il ressentit lorsque la belle
    _Vierge_ lui fut présentée par son second guide, par ce cher
    Fauriel, qui la lui amenait par la main. Manzoni nous pardonnera
    d'arracher à l'oubli ces quelques vers de sa jeunesse, ce premier
    jet non corrigé (_non corretto_, est-il dit en marge); il nous le
    pardonnera en faveur du témoignage qu'il y rend a son ami:"

         ......... Col tuo secondo duca
         Te vidi io prima, e de lo sacre danze
         O dimentica o schiva; e pur sì franco.
         Sì numeroso il portamento, e tanto
         Di rosea luce ti fioriva il volto,
         Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
         Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
         D'amor primiero ti porgea la destra,
         Di sì fidata compagnia, che primo
         Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
         Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
         Affrontasse del Tuna, e tremebondo
         Da la mobil Vertigo e da l'ardente
         Confusïon battuto in sul petroso
         Orlo giacesse. Entro il mio cor fêan lite
         Quegli avversarii che van sempre insieme,
         Riverenza ed Amor; ma pur sì pio
         Aprivi il riso, e non so che di noto
         Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
         E m'appressai sicuro. E quel cortese,
         Di cui cara l'immago ed onorata
         Sarammi, infin che la purpurea vita
         M'irrigherà le vene, a me rivolto,
         Con gentil piglio la tua man levando,
         Fêa d'offrirmela cenno. Ond'io più baldo
         La man ti stesi.

    Mi piace ora aggiungere che _Parteneide_ rispose al Manzoni, in
    lingua tedesca, per bocca dello stesso Bággesen in una poesia
    intitolata precisamente: _Parthenais au Manzoni_, la quale si
    legge nella quinta parte delle Poesie del Bággesen pubblicate dal
    figlio del poeta a Lipsia nell'anno 1836. Una nota dice: "Questa
    poesia si fonda sul fatto che dopo che il Fauriel ebbe tradotta la
    _Parteneide_ in francese, il Bággesen ricevette dal Mansioni la
    promessa ch'egli l'avrebbe tradotta in italiano. La traduzione
    francese è in prosa; il Manzoni si proponeva di adoperare la terza
    rima. Non sappiamo per quali motivi il lavoro non sia poi stato
    seguito." Debbo questa notizia alla cortesia del signor Kr.
    Arentzen, autore di un pregiato lavoro biografico sopra il
    Bággesen pubblicatosi di recente in lingua danese. Il signor
    Arentzen ebbe pure la bontà di trascrivermi gli esametri tedeschi
    del Bággesen diretti al Manzoni. Anche in essi come nel poema
    della _Parteneide_, egli si cela sotto il nome di _Nordfrank_, il
    poeta viaggiatore._ Parteneide_ parla e dice come, guidata dal
    Bággesen, ella visitò la regione del Nord, guidata dal Fauriel la
    regione dell'Occidente; l'amicizia del Fauriel, essa dice, mi è
    cara, come quella di _Nordfrank_. Si compiace in tale compagnia,
    quando sente un dolce richiamo verso il Mezzogiorno; le par di
    sognare, le par di viaggiare verso un mondo incantato, e stende la
    mano al nipote di Dante, del Tasso e del Petrarca, all'amico del
    Fauriel e del Bággesen, al simpatico Manzoni:

         Ach! und ich ahne dass mildere Duft and sanftere Tüne
         Wonniger noch mit der blühenden Gluth lebhafterer Farben
         Würden umwehn und vollenden den Schmück, wenn irgend ein Enkel
         Dantes', Tasso's oder Petratk's mit gönnte der Bildung
         Blümenkron, geflückt in des jungfraubeiligen Maro's
         Muttergefild. O reichte die Hand mir Fauriel's Freund und
         Nordfranks! _Liebe zuletzt noch lernte, holder Manzoni!
         Hold sunt Erröthen Dir schon die freundschaftseliger Jungfrau_.

    Questi due versi sembrano lasciar capire che al Bággesen fosse
    noto che nel tempo in cui il Manzoni tornato in Lombardia si
    preparava a tradurre la _Parteneide_ (1807), per la prima volta
    conoscesse veramente l'amore, nel suo incontro con un'altra
    Vergine, la giovinetta Blondel, che divenne, poco dopo, sua moglie
    e che ciò possa essere, lo confermerebbe pure la seguente nota che
    troviamo nel caro libriccino dello Stoppani: _I primi anni di
    Alessandro Manzoni_, pag. 234: "I versi pubblicati di preferenza
    dal Sainte-Beuve, perchè gli tornavano bene ad illustrare il suo
    soggetto, sento ora con piacere che esistono fra le carte del
    Manzoni, preceduti da pochi altri che formano il principio del
    Carme, e seguiti da un numero maggiore che ne costituiscono come
    il corpo, sia questo o non sia del tutto compiuto." Chi mi dà
    questa notizia aggiunge che, dopo aver letti quei versi, glien'è
    rimasta l'impressione che il Manzoni abbia cominciato il suo Carme
    col richiamo della Vergine ideale della _Parteneide_, per dire in
    seguito, come infatti dice, che egli ha trovato in Italia, sul
    _colli orobii_, una Vergine a lei somigliante. Sarebbe poi sua
    opinione che questa seconda Vergine del Manzoni non fosse ideale,
    ma reale, molto probabilmente la stessa Enrichetta Blondel, che fu
    poi sua sposa, o che egli deve aver conosciuta la prima volta da
    vicino, o presso i di lei zii Mariton in una lor villa, nelle
    vicinanze di Bergamo. Ad ogni modo non sarebbe questo Carme,
    secondo lui, quel lavoro, a cui allude il Sainte-Beuve, che il
    Manzoni sembrava _promettersi di fare in italiano_, perchè un
    poemetto _sul gusto di quello di Bággesen_ il Manzoni diceva di
    averlo fatto realmente_ in ottava_ rima, e alcune stanze le
    recitava, anche in questi ultimi anni, a chi l'accompagnava nella
    passeggiata. Sfortunatamente questo poemetto non si trovò fra i
    suoi scritti, e pare indubitato che egli l'abbia consegnato alle
    fiamme. La stessa Vergine ci descrive finalmente il Poeta in
    un'Ode giovanile, della quale citerò te strofe più espressive. Il
    Poeta, ancora irretito nelle immagini mitologiche, ci assicura che
    la sua fanciulla gli apparve la prima volta in forma somigliante a
    quella della dea Cinzia. Crediamogli sulla parola, e
    compiacciamoci ora nel veder partitamente descritte le qualità
    esteriori della sedicenne sposa sperata dal Manzoni, la quale
    dovea poi aver tanta parte, per quanto destramente dissimulata,
    nell'arte sua:

       Tal prima agli occhi miei,
         Non ancor dotti d'amorose lagrime,
         Appariva costei,
         Vincendo di splendor l'emule vergini
         Per mover d'occhi dolcemente grave
         E per voce soave.
       Dagl'innocenti sguardi,
         Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,
         Escono accesi dardi;
         Non certi men, nè di più lieve incendio,
         Se dal fronte scendendo il crine avaro
         Lor fa lene riparo;
       Oh qual tutta di nuove
         Fatali grazie ride allor che l'invido
         Crin col dito rimove:
         E doppio appresta di beltà spettacolo
         Sul fronte schietto, trascorrendo lieve
         Con la destra di neve.
       Nè tacerò la bella
         Bocca gentil, fonte di riso ingenuo
         E di cara favella;
         E in cui prepara, ahi, per chi dunque! Venere
         I casti baci e le punture ardite
         E le dolci ferite.

    Non giova al Poeta il suo proposito, fatto nel Carme per
    l'Imbonati, di voler seguire la dottrina di Zenone; l'Amore lo
    ferì; egli è invitato ad amare e a cantare d'amore, quando per
    l'appunto ben più alti soggetti e più fieri gli occupavano la
    mente; Amore non vuole, egli esclama:

    ..........ch'io canti rossa
         Di sangue Italia, onde ancor pochi godano;
         Nè di plebe commossa
         Le feroci vendette ed i terribili
         Brevi furori, e i rovesciati scanni
         Dei tremanti tiranni.

    Il Poeta, come nell'Urania, cede alle grazie di Venere, e, per
    essa, lascia le cure della politica. Notiamo ora questa sua prima
    confessione poetica, perchè essa ci potrà aiutare, in appresso, a
    comprender meglio le sue tragedie ed il suo romanzo, e a scusare,
    in parte, il Manzoni della poca parte attiva ch'egli prese con la
    sua persona alle vicende politiche Italiane, alle quali diede pure
    co' suoi proprii scritti pieni d'efficacia educativa una spinta
    così gagliarda.



XIII.

La Conversione.


A questo punto si colloca dal biografi quella che si chiamò la
meravigliosa conversione del Manzoni, e si raccontano storielle forse
tutte veridiche, ma ove si dia loro una soverchia ed esclusiva
importanza, poco credibili. Alcuni vogliono che un semplice "io ci
credo" opposto risolutamente dal piemontese conte Somis di Chiavrie
alle invettive lanciate contro la religione cattolica in una
conversazione di Parigi, abbia persuaso il giovine miscredente, e
indottolo a cercar consigli edificanti presso il medesimo conte Somis,
presso l'abate Grègoire e presso il giansenista genovese Padre Degola,
che allora si trovava a Parigi e col quale entrò quindi in
corrispondenza letteraria; altri che, smarrita un giorno la giovine
sposa in mezzo alla folla delle vie di Parigi, attiratovi da un canto
religioso, sia entrato nella chiesa di San Rocco, e abbia mormorato in
ginocchio questa semplice preghiera: "O Dio, se tu ci sei, fammiti
palese." Egli ritrovò, dicesi, tosto la sposa, e divenne credente.
Qualche piccolo fatto deve, senza dubbio, essere intervenuto per
risolvere in un dato momento il Manzoni a fissare un po' meglio quelle
idee vaghe ch'egli aveva intorno al Cattolicismo.[1] Ma egli era
nato cattolico, la sua educazione di collegio era stata tutta
cattolica; uscito di collegio, sappiamo ch'egli frequentava ancora le
chiese; le scene orrende del cardinal Ruffo a Napoli, quelle di
Binasco e di Pavia stavano presenti alla memoria del Manzoni; e però
il _Trionfo della Libertà_ esce in frequenti imprecazioni contro la
Chiesa, ma a quel modo stesso con cui Dante cattolico imprecava contro
la Lupa, e il canonico Petrarca contro l'avara Babilonia. Se il
giovine Manzoni amava poco i preti ed i frati, se la lettura delle
opere del Voltaire lo aveva anche maggiormente alienato da essi, se
quando morì il suo giovine compagno di scuola Luigi Arese, ei si
doleva che tenendosi lontani dal letto dell'infermo gli amici, gli si
fosse accostata soltanto "l'orribile figura del prete" per
accrescergli il terrore della morte, se, in somma, il Manzoni, pur
credendo nella immortalità dell'anima, nell'esistenza di un Dio che
premia "eternando ciò che a lui somiglia," nei doveri cristiani della
pietà e della carità, e pure adempiendo alcuno de' riti religiosi
prescritti dalla sua condizione di cattolico, fra i quindici ed i
ventitrè anni non fu un cattolico profondamente convinto, devoto e
zelante, in un pariniano, in uno stoico suo pari doveva riuscir molto
agevole l'innestare un po' di devozione cattolica. Ma i preti furono
solleciti a levarne soverchio romore e a trarne troppo grande
profitto. Parlando, nel 1806, dei preti italiani che assediano il
letto de' moribondi, in una lettera diretta all'amico Pagani, il
ventenne Manzoni usciva in un fiero lamento, dichiarando ch'egli
voleva rimaner lontano "da un paese, in cui non si può nè vivere nè
morire come si vuole. Io preferisco, proseguiva egli, l'indifferenza
naturale dei Francesi che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo
zelo crudele dei nostri che s'impadroniscono di voi, che vogliono
prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la
loro maniera di pensare." Due anni dopo aver levato questo vivo
lamento, Alessandro Manzoni doveva egli stesso cadere in cura d'anima,
ed il tristo frutto di questo stato di forzata docilità, alla quale
egli si sottomise, fu una sterilità intellettuale che durò quasi dieci
anni, 1808-1818, e, per l'appunto i dieci anni più belli della sua
vita, ne' quali con molto stento, con molti pentimenti, il Manzoni
riuscì a pena a mettere insieme quattro Inni sacri, due Parodie
letterarie e due povere e stentate Canzoni politiche di genere
classico. Si dirà: in quegli anni, egli si godette le sue prime gioie
domestiche, ed attese a' suoi affari un po' imbrogliati ed alle cure
agrarie, ed è vero; ma nè le une nè le altre hanno mai impedita la
manifestazione del genio. Il Manzoni ebbe, pur troppo, in quegli anni
un'idea fissa, che non era la sua, un'idea che gli aveano messa; e
quando v'ha un'idea fissa, tutte le altre idee, per quante siano, e
per quanto originali, non trovano l'opportunità e l'agevolezza di
manifestarsi. L'idea fissa era ch'egli dovesse come scrittore
diventare il poeta e l'apologista della religione cattolica, o non
iscrivere più.

  [1] "L'histoire de la conversion de Manzoni (scrive il compianto
    Loménie) est diversement racontée; suivant quelques-uns, la
    première pensée en serait venue au poëte dans le voyage à Paris
    dont je viens de parler. Au milieu d'une conversation où le
    Catholicisme n'était pas épargné, une personne se serait
    tout-à-coup écriée "Et moi, je crois!" Et ce cri d'un homme
    avouant sa foi au milieu des sarcasmes de l'incrédulité aurait été
    pour Manzoni le signal d'une révolution intellectuelle. Suivant
    d'autres, l'écrivain milanais, marié avec une protestante en haine
    de la croyance catholique, aurait été conduit par elle et avec
    elle au Catholicisme. Un écrivain (M. Didier) qui a publié, dans
    la _Revue des Deux Mondes_ de 1831, un article sur Manzoni, et qui
    raconte ce dernier fait, ajoute: "On aimerait que de telles
    démarches fussent spontanées et procédassent moins de
    circonstances accidentelles que d'une volonté libre et solitaire."
    Le même écrivain semble reprocher a la détermination de Manzoni
    d'être l'effet "d'une influence de foyer beaucoup plus que le
    résultat logique et volontaire d'une argumentation personnelle et
    indépendante." Je crois ce reproche mal fondé, et le fait sur
    lequel il repose inexact. Je ne sais pas au juste toutes les
    circonstances qui ont précède et occasionné, de près ou de loin,
    la conversion de Manzoni, mais je sais que ce fait est bien le
    résultat logique et volontaire d'une argumentation personnelle et
    indépendante; car, durant la temps où Manzoni, revenu de Paris à
    Milan, flottait avec inquiétude entre le scepticisme et la foi, il
    écrivait à Paris, à un ami, des lettres où il peint l'état de son
    esprit, et où il s'annonce comme absorbé par l'examen d'une
    question à ses yeux la plus importante de toutes. Cette situation
    de doute et d'examen se prolonge fort longtemps; il est naturel de
    penser que cette résolution a été prise en connaissance de cause.
    Il n'est pas exact non plus que Manzoni ait épousé une protestante
    en haine de la croyance catholique. A son retour a Milan il se
    maria, très-jeune lui-même, avec une jeune personne de seize ans,
    mademoiselle Henriette Blondel, fille d'un Génevois établi à
    Milan, et qui était en effet protestante; mais il l'épousa, non
    parce qu'elle était protestante, mais parce quelle était fort
    intéressante, parce qu'il l'aimait beaucoup, et que sa mère
    désirait qu'il n'épousât pas une Milanaise. De plus, si mes
    renseignements sont exacts, loin d'avoir été conduit au
    Catholicisme par sa femme, ce serait lui au contraire qui aurait
    décidé l'abjuration de cette dernière." Vogliono, come dissi, che
    il Padre Degola giansenista, ed il Padre Grégoire abbiano avuto il
    primo merito come catechisti del neo-cattolico; venuto poi ad
    abitar nuovamente in Lombardia, il giansenista monsignor Tosi,
    divenuto confessore del giovino Poeta, compì, a poco a poco, il
    preteso miracolo, con tanto maggiore efficacia, in quanto egli
    conformava intèramente la propria vita ai precetti religiosi che
    insegnava.--Tra le opere che formavano parte della libreria del
    Manzoni a Brusuglio, vi era un magnifico _Sant'Agostino_ in undici
    volumi, con qualche postilla autografa. _Le Confessioni_ di
    Sant'Agostino dovettero offrire materia di lunga meditazione al
    neo-cattolico Manzoni. Il professor Magenta è persuaso che la vera
    conversione del Manzoni sia stata operata dal Tosi, e noi lo
    crediamo tanto più facilmente, in quanto riconoscendo che nel Tosi
    vi erano le doti d'un santo, e che dal lato morale egli dovette
    fare un gran bene al Manzoni, pel rigore del suo Giansenismo, per
    l'angustia de' suoi sillogismi religiosi minacciò pure di
    soffocarne l'alto ingegno creatore. Il professor Magenta, al quale
    avevo domandato qualche schiarimento sul contenuto di certe
    lettere confidenziali da lui omesse nella stampa dell'importante
    suo libro relativo al Tosi, egli, dichiarando di non potermene
    dare, si distende nuovamente nelle lodi di monsignor Tosi, ed io
    credo mio dovere riferir qui le sue proprie parole: "Non s'esagera
    dicendo che (il Tosi) dominava l'animo del grande scrittore. Non
    pare vero che nessuno del biografi del Manzoni abbia mai parlato
    del vescovo Tosi, vero tipo di sacerdote, al quale il Manzoni
    professava una venerazione che non aveva limiti. Lo Sclopis, il
    Ferrucci e lo Zoncada, per citare alcuni nomi, mi scrissero che,
    dopo il mio libriccino, l'origine del ritorno del Manzoni al
    Cattolicismo non è più dubbia per loro; nè so se a lei paia così.
    In quanto a me le dirò che la mia persuasione è profondissima,
    persuasione che cavai anche dai tenore di talune lettere della
    Blondel che io aveva già stampate, e che, per ragioni che debbo
    tacere, levai dai torchi. L'eccesso delle dottrine volteriane, gli
    avvenimenti politici, la nativa temperanza e la grande dirittura
    di mente del Manzoni, tutto cospirava ad apparecchiare
    un'atmosfera morale, in cui fosse a lui facile di ricevere
    l'influenza d'un uomo ch'era altrettanto pio, quanto largo d'idee.
    Ho ragione di credere che la Curia Romana avesse ingiunto al Tosi
    di stampare una ritrattazione dell'illustre Tamburini, quando
    questi si trovava sul letto di morte; ma il venerando Vescovo di
    Pavia, pigliando tempo, riuscì a sottrarsi all'odioso ufficio. Una
    vita così immacolata, così caritatevole, così forte, umile e
    liberale ad un tempo, doveva esercitare un fascino sullo spirito
    del Manzoni, spirito de' più larghi anche in fatto di religione
    che sieno mai stati al mondo." Noi conveniamo solamente in parte
    in questa ammirazione; noi crediamo che il Tosi ed il Manzoni, per
    natura, avessero ingegno ed animo largo; ma in quanto si
    proponevano di voler riuscire cattolici, esclusivamente cattolici,
    divenivano intolleranti. Quando giudicavano senza preconcetti
    cattolici, giudicavano bene, e liberalmente. Nella bella è lunga
    lettera che il Manzoni diresse da Parigi al Tosi sopra la
    questione religiosa, si trovano alcuni giudizii larghi che fanno
    onore a chi li proferiva e a chi gli ascoltava. La conclusione
    tuttavia è che noi in Italia dobbiamo essere contenti del nostro
    buon clero e della credulità del nostro volgo, ed una tale
    conclusione agghiaccia tutto il nostro entusiasmo: "Chi può
    dissimularsi gl'inconvenienti che esistono fra di noi? ma non v'è
    stato di guerra, perchè non ci son quasi protestanti; ma v'è una
    classe di buoni preti, i più dei quali potrebbero, è vero, senza
    danno, essere un po' più dotti, ma i quali per lo più hanno uno
    zelo sincero per la religione non mista di altre teorie, e una
    buona classe di fedeli che sono cristiani di cuore, e che non
    credono ad altri dogmi che ai rivelati."



XIV.

Il Manzoni a Brusuglio. Gl'_Inni Sacri_ e la _Morale cattolica_.


Sopra la luna di miele manzoniana noi non abbiamo altre notizie, oltre
quelle che il Sainte-Beuve e il Loménie avevano potuto raccogliere dai
ricordi del Cousin e del Fauriel. Il Manzoni,[1] già convertito alla
fede cattolica, tediato delle ciarle, alle quali quella conversione
avea dato motivo, in compagnia della madre e della giovine sposa,
ch'egli adorava, si ritrasse alla sua villa di Brusuglio, e parve
nelle cure agresti dimenticare ogni tumulto della vita mondana. Il
Loménie trova un'analogia fra il Manzoni ed il Ràcine,[2]
rapportandosi per l'appunto ai primi anni del soggiorno di Alessandro
Manzoni in Brusuglio, e la sua comparazione non è priva d'ogni
fondamento; non ispiega tuttavia come il nostro Poeta, in mezzo agli
splendori della natura ed alle contentezze domestiche trovasse così
scarse occasioni d'ispirazione poetica. Mi duole dover ripetere che
nello sforzo lungo e doloroso che il Manzoni dovette fare per credere,
isterilì per alcuni anni il proprio ingegno, costretto a lavoro che
dovette riuscirgli ingrato dall'autorità riverita del proprio
confessore. Il Tosi volendo fare del Manzoni un poeta cattolico, gli
aveva ordinato di comporre gl'_Inni Sacri_ e le _Osservazioni in
difesa della Religione cattolica_ rivolte contro il Sismondi. Gli
_Inni Sacri_ doveano, nel primo intendimento, riuscir dodici come i
dodici Apostoli o come i dodici mesi dell'anno;[3] ma il Manzoni
stentò tanto a comporli, che in sette anni ne terminò a fatica cinque.
L'Inno della _Risurrezione_ fu incominciato nell'aprile del 1812, e
compiuto soltanto i l 23 giugno; anzi l'ultima lima ricevette più
tardi; il Manzoni vi notò di suo pugno, che era ancora da correggersi;
nel vero, l'autografo e la stampa differiscono notevolmente. Il 6
novembre del 1812, il Manzoni si accinse a comporre l'inno, _Il Nome
di Maria_; durò sei mesi in quel breve lavoro, e vi si affaticò
grandemente; Io stento appare ora grandissimo anche nel leggerlo: fu
terminato il 19 aprile 1813. Il _Natale_, pieno di cancellature, costò
più di quattro mesi di lavoro: incominciato il 15 luglio 1813, ebbe
compimento il 29 novembre dello stesso anno, ma con poca soddisfazione
dell'Autore che vi appose questa nota: _explicit infeliciter_. L'Inno
della _Passione_ costò un anno e mezzo di lavoro; fu ripreso in
quattro volte: la prima nel 3 marzo dell'anno 1814, la seconda nel di
11 luglio dello stesso anno, la terza nel 5 gennaio del 1815, la
quarta nell'ottobre di quell'anno. _La Pentecoste_, ch'è il più bello,
il più inspirato, il più caldo degli _Inni Sacri_, fu bensì
incominciato nel giugno 1817, ma abbandonato nel suo primo disegno dal
Manzoni che vi scrisse sopra _rifiutato_, e ripreso soltanto il 17
aprile del 1819 e terminato, fra molte soste e cancellature, il 2
ottobre di quell'anno. Esso appartiene dunque già al nuovo periodo più
agitato e più operoso della vita poetica manzoniana. Queste note
cronologiche sopra la composizione degl'_Inni Sacri_ devono avere per
la critica la loro importanza. La lentezza del comporre non accenna a
una troppo grande vivezza del sentire, ma l'ostinazione che il Manzoni
pose per finirli, anche a dispetto delle Muse, provano la sua ferma
volontà di credere, e la sua persuasione che fosse necessario
comunicare altrui la propria fede; ma questa maniera di fede, pur
troppo, male si comunica. Vivo il Manzoni, osai fare sopra gl'_Inni
Sacri_ il seguente giudizio, ove nel rendere un omaggio riverente
all'Autore intendevo lasciare aperto un adito alla critica dell'opera.
"Gl'_Inni Sacri_, io diceva, hanno creato in Italia una nuova forma di
poesia, il contenuto della quale che si giudicò, da prima, romantico,
era semplicemente biblico, li Manzoni ha il gran merito d'avere
liberato in Italia la poesia cristiana dalle forme convenzionali
ereditate dal Paganesimo; forme convenzionali per noi moderni, che ci
studiamo d'imitarle, mentrechè, invece, per gli antichi erano proprie,
naturali, e frutto spontaneo e necessario di quella civiltà. Egli
restituì ai poeti d'Italia la loro libertà, e col proprio esempio
disse loro: essendo cristiani, inspiratevi da Cristo; essendo moderni,
diffondete la parola di Cristo con la lingua vostra ch'è la lingua del
cuore. Per questo rispetto gli _Inni Sacri_ segnano nella storia della
nostra poesia una vera rivoluzione letteraria, della quale saranno
sentiti per sempre, ed invano si dissimulerebbero, i benefici effetti.
Io non chiamo, senza dubbio, tali i numerosi inni nati dipoi in varie
parti d'Italia ad imitazione di que' primi che avean fatto, se bene
lentamente, fortuna; gl'imitatori avevano ne' loro esercizii
dimenticato l'essenziale, cioè che per cantare la religione bisogna
almeno portarla un poco, anzi molto nell'anima; essi lavoravano a
soggetto come gli antichi istrioni, sul modello degl'_Inni Sacri_, ma
per istemperare i primi colori, stancare le prime immagini, e dir poco
in molto, come il Manzoni avea detto molto in poco. E questo carattere
distintivo della poesia manzoniana parmi pure creare il suo difetto
principale; poichè lo studio di restringere un gran senso in brevi
parole fa sì che talora queste brevi parole siano adoperate ad
esprimere più che naturalmente esse non potrebbero, e a diventare
talora semplici formole astratte: il che se prova la potenza del poeta
del concentrare le sue idee, impedisce per altro che la sua poesia
riesca popolare, e le toglie molta parte di quell'impeto lirico e di
quel calore che si comunica, tanto necessario ad ogni poesia, ma alla
lirica religiosa in modo specialissimo. Il Manzoni giovine fece opera
da vecchio, costringendo in linguaggio matematico le verità della
religione che gli eran nuovamente apparse in modo luminoso, quasi egli
volesse porsele innanzi, ed estrinsecarsele in una forma più precisa
per potersi meglio persuadere della loro realtà e più durevolmente
contemplarle ed adorarle. Ma ci sembra di non rischiar troppo, dicendo
come il Manzoni vecchio, innamorato com'egli è e maestro nelle
bellezza del linguaggio popolare, se dovesse oggi cantar la religione,
sceglierebbe una via opposta a quella ch'ei tenne in gioventù,
escludendo ogni parola equivoca che il popolo non potesse comprendere
da sè ed ogni trasposizione men naturale di parole, per riuscire
subito al desiderato effetto di dare al popolo un canto che non muoia
appena recitato, che si diffonda senza bisogno d'interpreti, e che
consoli veramente chi si muove a cantarlo." Ma, nell'ordine
specialmente de' pensieri religiosi volendo sollevare l'espressione
all'altezza del pensiero e chiudere quest'ultimo in una forma sacra ed
immobile, che non gli permetta di deviare ad alcun senso profano, o
l'espressione manca od assume un carattere mistico che non può riuscir
popolare. L'età nostra non è punto mistica; il Manzoni dovea sentirlo
più d'ogni altro. Per un verso egli voleva credere, e per rendersi
degno della propria fede si adoprava ad esprimerla per infonderla in
altri. Ma il lungo meditare sopra un sentimento religioso, più tosto
che accrescerlo, lo diminuisce. In un'Ode sopra l'_Innesto del
vaiuolo_, rimasta inedita, e forse incompiuta, dominato, senza dubbio,
da un sentimento religioso, e riflettendovi lungamente sopra, per
trovargli una espressione corrispondente, il Manzoni sentendo che egli
usciva dal vero, e che fuori del vero fortemente amato non può più
essere vera poesia, si scusava con due bellissimi versi, che sono pure
una eccellente scappatoia:


          come il più divin s'invola,
    Nè può il giogo patir della parola.

Quanto più il pensiero del poeta s'innalza, tanto più la materia
fonica diviene inerte e incapace di farsene messaggiera; ma è vero
ancora che, lanciando imprudentemente il pensiero in un campo, ove
esso non può prender radice, invece di fecondarvisi, muore di
sterilità. Il Manzoni parafrasando spiritosamente in prosa il pensiero
dissimulato ne' due versi citati, accompagnava l'invio di un frammento
d'Inno sacro inedito alla signora Louise Colet con questa scusa per
non averlo finito: "Je me suis aperçu (diceva egli) que ce n'était
plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m'essoufflais a
courir après elle." Ed i pochi versi erano questi, che celebravano la
presenza, l'onnipotenza, l'onnisapienza di Dio nella natura:

   A lui che nell'erba del campo
     La spiga vitale nascose,
     Il fil di tue vesti compose,
     Di farmachi il succo temprò,
   Che il pino inflessibile agli austri,
     Che docile il salcio alla mano.
     Che il larice ai verni, e l'ontano
     Durevole all'acque creò;
   A quello domanda, o sdegnoso,
     Perchè sull'inospite piagge,
     Al tremito d'aure selvagge,
     Fa sorgere il tacito fior,
   Che spiega davanti a lui solo
     La pompa del pinto suo velo,
     Che spande ai deserti del cielo
     Gli olezzi del calice e muor.

Il Manzoni, per propria confessione, voleva dimostrare che non vi è
nulla e nessuno inutile a questo mondo; che come Dio ha le sue ragioni
per far crescere il fiore nel deserto, così anche i monaci, anche gli
eremiti sebbene apparentemente inutili alla società, avranno qualche
merito, per le loro solitarie e segrete virtù, innanzi al Creatore. Ma
ancora qui il ragionamento vince ed ammazza il sentimento. Il Manzoni
ha pensato molto più che sentito gl'_Inni Sacri_. Non gli uscirono dal
cuore per impeto di una fede ardente, ma dalla testa, per disciplina
della propria ragione piegata e costretta a quell'esercizio letterario
dai consigli, dagli eccitamenti, anzi dai precetti di monsignor Luigi
Tosi suo confessore. Egli obbedì, ma era evidente che l'obbedienza gli
costava molta fatica. Si voleva fare dell'ode Pariniana un'ode
Cattolica, e si toglieva alla lirica il principale dei suoi caratteri,
la spontaneità. Nello sforzo per riuscir sublime, molte volte il
Manzoni negl'_Inni Sacri_ riuscì oscuro; una tale oscurità non si
dissimulava egli medesimo, e, anzi che scusarsene a chi gli domandava
schiarimento di qualche passo ambiguo, rispondeva su per giù come a
Luigi Frati, il quale aveva assunta l'apologia degl'_Inni Sacri_
contro il sacerdote Salvagnoli-Marchetti, autore di un opuscolo che li
bistrattava: "Si contenti ch'io non dica nulla sul passo, dove Ella
incontra difficoltà, e che, del rimanente, non porta il prezzo che
Ella se ne occupi, appunto perchè v'incontra difficoltà; giacchè le
parole hanno a dire da sè, a prima giunta, quel che voglion dire; e
quelle che hanno bisogno d'interpretazione, non la meritano."[4] .
L'Inno sacro del Manzoni è assai dotto, grave, solenne, elevato, quasi
epico; è evidente che, dopa essersi immerso nella lettura della Sacra
Scrittura per derivarne immagini, e tradurle in un linguaggio più
moderno, il Manzoni fece quanto poteva per inalzarle. Ma in questo
sforzo egli tolse un po' di naturalezza e di evidenza al sentimento;
volle fare un commento poetico, anzi un compendio della leggenda
biblica, e in questo lavoro tutto sintetico arrivò talvolta ad
interpretarla in modo grandioso, ma non mai, o quasi che non mai, in
modo popolare. L'Inno sacro manzoniano è buono per l'artista che vuol
credere, ma non pel popolo che crede. Cristo col suo mondo storico
appare, negl'_Inni Sacri_, come qualche cosa d'antico, di lontano da
noi, che la sola immaginazione storica può ritrovare, non già
presente, non già vivo, che nasce, che soffre, che risorge. Le
immagini degl'_Inni Sacri_, quasi tutte bibliche, non sono più vive
per la nostra moderna poesia, e non corrispondono quasi mai
all'altezza de' pensieri e de' fatti che dovrebbero esprimere e far
più evidenti. Tutti hanno a memoria le due prime strofe del _Natale_
cioè l'immagine d'una valanga che ci ricorda il Manzoni alpinista,
tornato di fresco da un viaggio nella Svizzera e dall'ammirazione
della _Parteneide_ del Bággesen; la valanga è stupendamente descritta:

   Qual masso, che dal vertice;
     Di lunga erta montana,
     Abbandonato all'impeto;
     Di romorosa frana,
     Per lo scheggiato calle,
     Precipitando a valle,
     Batte sul fondo e sta;
   Là dove cadde, immobile
     Giace in sua lenta mole,
     Nè per mutar di secoli
     Fia che riveggia il Sole
     Della sua cima antica,
     Se una virtude amica
     In alto nol trarrà;

a questo punto il lettore s'arresta, perchè ha bisogno di ripigliar
fiato, come l'avrà di certo ripreso assai lungo il Manzoni scrivendo,
e questo riposo che l'autore ed il lettore sono obbligati a prendere
dopo due strofe, non è atto troppo ad agevolare l'intelligenza di
quello che deve seguire. Lasciando poi stare che non è mai venuto in
mente ad alcuno, e al Manzoni meno che ad altri, che _alcuna virtù
amica_ possa immaginarsi di far risalire in cima d'un monte quel
macigno che n'è precipitato, nessuno si sentirà disposto a commuoversi
al pensiero poco dopo espresso che l'uomo, per il peccato originale,
sia caduto nella condizione medesima di quel macigno che non può da sè
risorgere a quell'altezza, onde la giustizia o la vendetta di Dio lo
precipitò. La comparazione dal maggior numero de' lettori che
declamano l'Inno del _Natale_, non è, per fortuna, intesa; si guarda
alla similitudine e non all'oggetto comparato; se fosse intesa, più
tosto che commuovere, quasi offenderebbe. Ed il Manzoni non era di
certo commosso, quando intonava il suo Inno. Proseguendo, il Poeta
s'infiamma nel suo canto mistico e trova parole eloquenti per
esprimere alcuni alti concetti; ma il Bambino Gesù si vede poco, quel
Bambino che nei rozzi canti popolari di Natale, i quali si sentono in
Italia, in Francia, in Ispagna, si ode veramente piangere, ha freddo,
è povero, è accarezzato, è venerato. Io mi ricordo essermi intenerito,
da fanciullo, cantando in coro con ingenua fede uno di que' rozzi
idillii natalizii innanzi al Presepio; nessuno potrebbe innanzi al
Presepio cantare ora tutto il _Natale_ del Manzoni, perchè troppi
versi vi sono, i quali avrebbero bisogno di commento per venire
intesi, atti benissimo a significare alle persone colte (che pur
troppo, in Italia almeno, non vanno più in chiesa a cantar inni) la
grandezza del mistero che si vela nel nascimento di Cristo, ma non già
a rappresentarlo in forma viva al popolo, al quale la poesia sacra è
specialmente destinata. Il fine dell'Inno manzoniano sul _Natale_
assume il tono del canto popolare; tuttavia qua e là occorrono ancora
versi o immagini troppo sapienti. Il popolo capirà, per esempio,
perfettamente il principio di questa strofa:

   Dormi, o Fanciul non piangere,
     Dormi, o Fanciul celeste;
     Sovra il tuo capo stridere
     Non osin le tempeste.

Il popolo capisce questa specie di tenerezza; ma essa non avrebbe mai
aggiunto di suo i tre versi rettorici che seguono, i quali descrivono
le tempeste:

     Use su l'empia terra,
     Come cavalli in guerra,
     Correr dinanzi a te;

oltre che al nostro popolo l'idea che la _terra_ sia _empia_ non può
entrare. Il popolo intenderà i due primi versi della strofa che segue:

   Dormi, o Celeste, i popoli
     Chi nato sia non sanno;

e non più i seguenti:

     Ma il dì verrà che nobile
     Retaggio tuo saranno;
     Che in quell'umil riposo,
     Che nella polve ascoso
     Conosceranno il Re.

Per il popolo il Bambino nasce ogni anno. Il Manzoni si riporta col
suo pensiero all'anno storico della nascita del Redentore, per
profetare che un giorno il Bambino sarà adorato "in quell'umil riposo"
come il Re. Ma il popolo che canta il Bambino che nasce, e però la
poesia del _Natale_, non si cura di quello che ne penseranno i
posteri; il Bambino è nato a posta per esso, esso lo canta, lo adora,
come suo proprio Dio, che crescerà per lui, che per lui farà miracoli
e si lascerà un giorno ammazzare. Il Manzoni volle, nel suo Inno,
abbracciare il passato e l'avvenire, cantare ad un tempo come un
antico cristiano, e come un cattolico del secolo XIX, quasi da Dio
mandato a spiegare con la poesia i misteri del Cristianesimo. Egli
compose parecchi bei versi, espresse alcuni alti e nobili concetti;
come poeta, sostenne e forse accrebbe la propria fama, ma, sebbene
gl'_Inni Sacri_ si leggano, si spieghino e si raccomandino nelle
scuole e nei seminarii d'Italia, nessuno è riuscito fin qui a farli
imparare a memoria e cantare dal nostro popolo. Il Manzoni credette
talora con immagini popolari render più chiari i suoi concetti morali;
ma l'immagine, senza dubbio, chiarissima ed in Manzoni quasi sempre
pittoresca, per la sua troppa luce abbaglia, e c'impedisce di veder
bene quello che è destinata ad illuminare. Nella _Passione_ ci si
descrive, per esempio, l'altare della chiesa parato a bruno:

     Qual di donna che piange il marito.

Ecco l'immagine di una realtà ben viva; ma bisogna andare a pensare
che la Chiesa ha chiamato sè stessa la Sposa di Cristo, per intenderne
il motivo; onde, per capire l'immagine bisogna presupporre nel popolo
una nozione che gli manca. Nella _Risurrezione_, per dirci che Cristo
non durò alcuna fatica a rovesciare il marmo del suo sepolcro, il
Manzoni ricorre ad una similitudine, per la quale il Redentore ci
appare in figura di uno di que' poderosi Giganti della leggenda
popolare indoeuropea, che senza alcuna fatica operano prodigiosi
_tours de force_; e la lenta cura che pone il Poeta nel rappresentarci
la similitudine, diminuisce l'efficacia dell'atto taumaturgico
attribuito al Cristo:

   Come, a mezzo del cammino,
     Riposato, alla foresta,
     Si risente il pellegrino
     E si scote dalla testa
     Una foglia inaridita,
     Che dal ramo dipartita
     Lenta lenta vi ristè;
   Tale il marmo inoperoso,
     Che premea l'arca scavata,
     Gittò via quel Vigoroso,
     Quando l'anima tornata
     Dalla squallida vallea
     Al Divino che tacea:
     Sorgi, disse, io son con te.

Ma quando il Manzoni, nell'Inno medesimo, lascia stare i dogmi od i
miti, per tornare a predicar semplicemente quella carità cristiana
ch'egli sentiva già fortemente anche prima di mettersi nelle mani del
suo confessore, quella carità ch'è principio, fonte, alimento d'ogni
religione, il suo linguaggio torna semplice, naturale, eloquente.
Nella festa della Pasqua, ossia nella risurrezione primaverile, tutto
il mondo si rallegra e sorride, ed i Cristiani si danno il bacio
fraterno del perdono, e siedono democraticamente ad una mensa comune;
ma perchè tutti mangino, il ricco non deve mangiar troppo; onde il
Manzoni ci canta:

   Sia frugal del ricco il pasto;
     Ogni mensa abbia i suoi doni;
     E il tesor negato al fasto
     Di superbe imbandigioni
     Scorra amico all'umil tetto;
     Faccia il desco poveretto
     Più ridente oggi apparir.

Nel _Nome di Maria_ notasi non pure lo stento dei pensieri, ma ancora
un certo stento di parole, non di rado antiquate;[5] il Manzoni si
ricordò forse troppo delle nostre antiche _Laudi spirituali_, e questo
riuscì certamente l'Inno più cattolico del Manzoni. Ma il puro
Cattolicismo non seppe mai inspirar nulla di grande; e se non si
sapesse che il Manzoni non ischerzava mai con le cose sacre, si
direbbe in alcune strofe ch'egli, anzi che scrivere un inno originale,
volesse parodiare certi poeti classicheggianti. È strano infatti il
trovare in una sola poesia manzoniana forme come queste: _quando cade
il die, invita ad onorarte, d'oblianza il copra, se ne parla e plora,
d'ogni laudato esser la prima, in onor tanto avémo, vostri antiqui
Vati, i verginal trofei, nosco invocate_. Conviene invece a tutti i
Cristiani, siano cattolici, sian protestanti, l'Inno manzoniano della
_Pentecoste_, ossia l'inno dell'amore, l'inno della carità. Il Manzoni
sta per uscir dalla tutela troppo opprimente della sua guida
spirituale. Egli è arrivato finalmente a riposare non più nel genere,
ma in una sua propria specie di fede; ma egli vuole poi esser libero
di cantarla come la sente, non vuol più traccie, la traccia egli se la
darà questa volta da sè; non teme oramai più il ridicolo, che da
principio lo disturbava ed irritava, è arrivato alla calma, anzi a
quella pace che _il mondo irride_, ma _non può rapire_, e chi ha la
pace nell'anima è libero e padrone di sè. Perciò, nel suo Canto della
_Pentecoste_, che appartiene già ad un nuovo ciclo della vita
manzoniana, il Poeta ritrova nuovamente sè stesso, tutta la sua
originalità, tutta la sua potenza; noi sentiamo risorgere il Manzoni
dell'Imbonati, ma rinvigorito, ma più eloquente, ma più sereno e più
grande; noi recitiamo commossi la sua magnifica invocazione lirica
all'_Amore cristiano_, perchè si diffonda e si comunichi a tutte le
vite, a tutte le età della vita:

   Noi t'imploriam; nei languidi
     Pensier dell'infelice
     Scendi, piacevol Alito,
     Aura consolatrice;
     Scendi bufera ai tumidi
     Pensier del vïolento;
     Vi spira uno sgomento,
     Che insegni la pietà.
   Per te sollevi il povero
     Al ciel ch'è suo, le ciglia;
     Volga i lamenti in giubilo,
     Pensando a Cui somiglia;
     Cui fu donato in copia,
     Doni con volto amico,
     Con quel tacer pudìco,
     Che accetto il don ti fa.
   Spira dei nostri bamboli
     Nell'innocente riso;
     Spargi la casta porpora
     Alle donzelle in viso;
     Manda alle ascose vergini
     Le pure gioie ascose;
     Consacra delle spose
     Il verecondo amor.
   Tempra dei baldi giovani
     Il confidente ingegno;
     Reggi il viril proposito
     Ad infallibil segno;
     Adorna la canizie
     Di liete voglie sante;
     Brilla nel guardo errante
     Di chi sperando muor.

Dopo queste strofe sacre il Manzoni non ne scrisse altre; egli sentì
che non si poteva andare più in su, tutti i dogmi religiosi si
riducono finalmente ad una sola parola: _amate_. Dopo aver cantato
l'amore, dopo averlo probabilmente sentito nella sua maggior veemenza,
e sotto le varie forme, con le quali nella vita si può amare, il
Manzoni stava per espandere liberamente il suo genio giovanile già
temprato, e per drizzare il suo proposito virile a segno infallibile.
Ma il confessore gli stava ancora presso per ricordargli ch'egli avea
dato di sè pubblico scandalo, e che come pubblico era statolo
scandalo, pubblica dovea essere la riparazione.[6] Non bastava che
ci fosse diventato cattolico, e che egli avesse composto inni
intieramente ortodossi; doveva adoprare tutto il suo ingegno in difesa
della religione cattolica. La Chiesa sapeva bene quanto quell'ingegno
valesse, e se lo volle appropriare. Al Manzoni fu imposto come
penitenza da monsignor Tosi l'obbligo di scrivere le _Osservazioni
sopra la Morale cattolica_. Noi leggiamo con ammirazione nella _Vita_
dell'Alfieri che il grande Astigiano ordinava al suo servitore di
legarlo fortemente alla sedia per obbligarsi al lavoro; ma non abbiamo
letto senza una grande pietà e confusione, che monsignor Tosi chiudeva
in camera Alessandro Manzoni, perchè mandasse innanzi il libro sulla
_Morale cattolica_ che non voleva andare avanti. Il fatto ci è
assicurato dall'egregio biografo del Tosi, professor Carlo Magenta, il
quale scrive precisamente: "Il Tosi, vedendo che quel lavoro procedeva
lento, perchè l'Autore era occupato in altri studii, trovandosi a
Brusuglio, ad una cert'ora del giorno andava a chiudere il Manzoni nel
suo studio, dichiarandogli che non l'avrebbe lasciato escire, finchè
non avesse scritto un certo numero di pagine." Dallo stesso biografo
abbiamo appreso con una specie di terrore che il Tosi consigliava il
Manzoni a mettere in versi la storia di Mosè ed un lavoro ascetico, di
cui ci è rimasta una traccia. Basterà per saggio che io ne riporti
l'introduzione: "L'uomo aspira a riposare nella contentezza, ed è
agitato dal desiderio di sapere; e, pur troppo, abbandonato a sè
stesso cerca la soddisfazione in vani diletti ed in una scienza vana.
Oggi ci è dato un Consolatore che insegna. Felici noi, se sappiamo
comprendere che l'unica vera gioia e l'unico vero sapere vengono dallo
Spirito che il Padre ci manda, nel nome di Gesù Cristo." Come non
fremere al pensiero che, se il Manzoni s'imbecilliva in un'opera di
tal natura, l'Italia non avrebbe forse mai avuto i _Promessi Sposi_? E
chi sa quante belle pagine de' _Promessi Sposi_ sono andate perdute
per la condanna di quel bravo e sant'uomo, che era monsignor Tosi! Il
signor Magenta ci dice che il Tosi "avrebbe voluto togliere quel brano
bellissimo dei _Promessi Sposi_, in cui il Padre Cristoforo, dopo
avere sciolta Lucia, soggiunge quelle commoventi parole che tutti
sanno: _Peccato, figliuola? peccato il ricorrere alla Chiesa, e
chiedere al suo ministro che faccia uso dell'autorità che ha ricevuta
da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera
voi due siete stati condotti ad unirvi; certo, se mai m'è parso che
due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli; ora non vedo
perchè Dio v'abbia a voler separati;_" parrebbe che questo passo fosso
abbastanza religioso: ma al Tosi non bastava; ei si faceva ancora
scrupolo, non avrebbe prosciolto Lucia dai voti, e da cattolico
conseguente non poteva permettere che l'Autore del romanzo, posto che
Lucia avea fatto voto alla Madonna di non isposar Renzo, li mandasse
finalmente insieme all'altare. Ma si trovò, per fortuna, in Milano un
altro prete di manica più larga, un altro amico, Don Gaetono Giudici,
al quale il Manzoni dava a leggere gli stamponi dei _Promessi Sposi_,
e Don Giudici vedendo che il Manzoni, per obbedienza al confessore,
stava già per dar di frego a quelle parole e a parecchie altre pagine,
vi si oppose energicamente. Il Manzoni lavorava dunque sotto una
duplice censura, l'austriaca e l'ecclesiastica; ed abbiamo tutte le
ragioni di credere che, se la prima sacrificò qualche parola, la
seconda ci privò di molte belle pagine e chi sa forse d'intieri volumi
manzoniani. Non apprendiamo forse dalle lettere del Manzoni al Tosi
che questi cercava pure distoglierlo, nel 1824, dal lavoro sulla
lingua italiana, al quale il Manzoni fin da quel tempo attendeva,
temendo ch'egli vi si affaticasse troppo ed entrasse in polemiche
letterarie? Polemiche contro il Sismondi per la difesa del
Cattolicismo si potevano fare, e non erano da temersi; il Manzoni
dovea invece più tosto riposarsi in un ozio beato ed infingardo, che
correre il pericolo di agitare in Italia alcuna nuova questione
letteraria che poteva divenir nazionale. Ma io qui mi fermo, per
timore di cambiare il mio studio biografico sopra il Manzoni in una
specie di processo contro il suo confessore, che, lo ripeto, era uomo
di santi costumi, ed aggiungerò ancora di svegliato ingegno e d'animo
liberale ed amantissimo della patria; ma i sillogismi cattolici sono
terribili e fatali per la loro angustia; chi si rassegna a ragionare
in quel dato modo, come l'esemplare delle opere del Voltaire già
possedute dal Manzoni, avrebbe potuto indifferentemente sopprimere il
genio del Manzoni. Alcune delle lettere di lui al Tosi ci fanno paura;
questa per esempio:--"Veneratissimo e Carissimo Signor Canonico. Le
rispondo immediatamente, perchè Ella possa assicurare la nota persona
che tutto sarà saldato. Io intanto ringrazio vivamente il Signore che
ci ha offerto questo fortunato mezzo di propiziazione per noi
peccatori, e ringrazio pure di cuore la carità di Lei, del cui Santo
Ministero Dio si vale per tutto quel bene ch'io possa fare. Dico senza
esitare questa parola, perchè malgrado la mia profonda indegnità sento
quanto possa in me operare la Onnipotenza della Divina Grazia. Si
compiaccia di pregare il buon Gesù che non si stanchi di farne
risplendere i miracoli in un cuore che ne ha tanto bisogno. È inutile
raccomandarle il segreto. Si ricordi intanto d'una famiglia che tanto
la venera ed ama, e mi tenga sempre Suo umilissimo e affezionatissimo
Figlio in Gesù Cristo, ALESSANDRO MANZONI."--Questo eccesso di umiltà
cristiana ci atterra. La lettera allude, senza dubbio, ad una buona
azione, a qualche opera di carità, per la quale il futuro Autore di
quei bei versi, in cui si raccomanderà di far l'elemosina:

     Con quel tacer pudìco
     Che accetto il don ti fa,

domanda il segreto. Ma il linguaggio di quella lettera, pur troppo, ci
umilia. Per fortuna, il Manzoni stesso reagì da sè medesimo contro
quella servitù e contro quell'unzione di linguaggio, per tornare uomo
anche col proprio confessore. Si trovano perciò con piacere molte
altre lettere, nelle quali il Manzoni scrive al Tosi con molta
naturalezza, e si rivela bonariamente qual è, senza prendere ad
imprestito alcuno stile d'occasione e di convenienza o di obbedienza;
che se il Manzoni _solamente cattolico_ ci faceva l'effetto di un uomo
asfissiato, noi ci sentiamo in esse inondare da un aere più spirabile
che ci rinfresca e ci rasserena. Il Manzoni stesso temette, del resto,
egli medesimo d'esser preso per più cattolico ch'egli veramente non
fosse e non si sentisse, e in un momento di molta, se non ancora di
perfetta, sincerità, nei primi giorni dell'anno 1828, se ne confessava
candidamente ad una donna, alla poetessa piemontese Diodata Saluzzo
Roero, la quale rallegravasi con lui, perch'egli fosse apparso al
prete Lamennais di allora "religieux et catholique jusqu'au profond de
l'ame." Quell'opinione lo spaventava come eccessiva, e però egli le
scriveva: "Egli è vero che l'evidenza della religione cattolica
riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di
tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde
è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta,
non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono
ricondotte ad essa ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua
dottrina. Un tale convincimento dee trasparire naturalmente da tutti i
miei scritti, se non fosse altro, perciocchè, scrivendo, si vorrebbe
esser forti e una tale forza non si trova che nella propria
persuasione. Ma l'espressione sincera di questa può, nel mio caso,
indurre un'idea pur troppo falsa, l'idea di una fede custodita sempre
con amore, e in cui l'aumento sia un premio di una continua
riconoscenza; mentre invece questa fede io l'ho altre volte ripudiata
e contraddetta col pensiero, coi discorsi e colla condotta; e
dappoichè, per un eccesso di misericordia, mi fu _restituita_
(avvertasi la parola _restituzione_, la quale implica soltanto che vi
furono anni, in cui il Manzoni negò o più tosto non custodì bene la
fede cattolica, in cui era stato allevato, e diminuisce perciò il
merito taumaturgico degli operatori della conversione di lui), troppo
ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come
soggioga il mio raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non
sentirla mai così vivamente, come quando si tratta di cavarne delle
frasi; ma almeno non ho il proposito d'ingannare, e col dubbio d'aver
potuto anche involontariamente dar di me un concetto non giusto, mi
nasce un timore cristiano d'essere stato ipocrita, e un timore mondano
di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio." Questa
preziosa confessione può ridursi ad una sola formola: dal Manzoni
cattolico uscirono, in somma, sole voci di testa; ed ora udremo, se vi
piace, le sue più gagliarde e spontanee voci di petto, e vedremo
finalmente spiegarsi tutta la singolare originalità del genio
manzoniano.

  [1] La vita del Manzoni in quegli anni ci è così descritta dal
    Sainte-Beuve: "Nel 1808 si ammogliava. Occupavasi d'agricoltura e
    d'abbellire la sua villa di Brusuglio presso Milano; poi tornava
    in Francia a rivedere gli amici della _Maisonnette_: e dava il
    Fauriel per padrino alla sua primonata, imponendole i nomi di
    Giulietta-Claudina. Così passava i giorni tra la famiglia, le
    piante ed i versi; e questi tenean forse l'ultimo posto. Il
    Mustoxidi scriveva da Milano al Fauriel: "Alessandro e gli altri
    della famiglia godono salute, e spesso vi ricordano. Tutto dedito
    alle cure domestiche, mi pare che s'allontani troppo di frequente
    dalle Muse, le quali pur gli furono liberali di santi favori (20
    dicembre 1811)." Ma il Manzoni non s'allontanava forse dalla
    poesia quanto pareva; essa doveva tornare a lui, di lì a qualche
    tempo, ricca di nuovi e più santi gaudii. Dato alla famiglia come
    il Racine, sebbene forse un po' troppo presto convertito verso il
    1810 alle idee religiose e alla pratica cristiana, padre, sposo,
    amico, davasi tutto, con animo pacato, ai più ordinati sentimenti,
    prendeva i costumi e gli abiti più puri e naturali; pareva vi si
    seppellisse. Non temete! L'immaginazione saprà trovar la sua
    strada; essa rimane sempre viva in certe anime ardenti insieme e
    delicate. Egli era di quelli, nel quali dovea verificarsi il bel
    motto proferito dal Fauriel nei loro primi colloquii:
    "L'immaginazione, quando s'applica alle idee morali, cogli anni,
    anzichè raffreddarsi, si fortifica e raddoppia d'energia." Il
    Manzoni adunque in que' tempi occupavasi pur sempre di poesia, se
    non per farne, almeno per godere di tutto ciò che ne forma
    l'oggetto, e la parte migliore. Se l'architettura e i disegni di
    ville degni del Palladio parevan qualche volta dominare
    soverchiamente nelle sue fantasie, l'agricoltura e i suoi piaceri
    innocenti gli sorridevano più tranquillamente in mezzo a quella
    quiete. Il Fauriel inviavagli di Francia gran copia di scelte
    semenze, che riempivano i desiderii dell'amico cadendo su terra
    ubertosa; e i bachi da seta soprattutto e i gelsi erano la sua
    grande faccenda sul fine di maggio, come la trattura della seta.
    Un giorno, nei primi momenti della sua andata in campagna, uno
    sciame di api venne a stabilirsi nel suo giardino, proprio sotto i
    suoi occhi, quasi per dar pascolo di piaceri e studii classici a
    questo figliuol di Virgilio. Erano gioie sì pure, che la poesia
    non poteva esser lontana." Fin qui il Sainte-Beuve.--Ho veduto due
    opere d'agricoltura, del Re e del Lastri, con postille autografe
    del Manzoni. La lettera del Manzoni al Grossi che pubblicai nella
    _Rivista Europea_, ed uno scritto pubblicato dai signor Galanti
    nella Perseveranza sopra il Manzoni agronomo, provano chiaramente
    che egli era non solo molto appassionato, ma anche
    intelligentissimo delle cose agrarie. Sappiamo pure ch'egli
    s'occupava a Brusuglio di bachicoltura; e non ci deve perciò recar
    meraviglia" sebbene possa parere un po' tirata, la similitudine
    che troviamo ne' _Promessi Sposi_, quando Don Gonzalo, per
    risovvenirsi dell'affare di Lorenzo Tramaglino, un filatore di
    seta come il Manzoni, che ha dimenticato "al campo sopra Casale,
    dov'era tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò
    la testa, _come un baco da seta, che cerchi la foglia_."--Poichè
    abbiamo ora sorpreso il Manzoni in casa sua, dirò pure che egli
    non solo leggeva i proprii libri, ma che li postillava quasi
    sempre, mettendosi volentieri in dialogo con l'autore da lui
    letto; ebbi in mano alcuni de' suoi libri postillati: uno di essi
    che posseggo è il seguente; _La théorie del'Economie politique
    fondée sur les faits résultants des statistiques de la France et
    da l'Angleterre_, par M. Ch. Ganilh: Paris, 1815. Nel secondo
    volume si trovano sei postille. Credo che possa destare qualche
    curiosità il vedere in qual modo il Manzoni leggeva e intendeva e
    criticava un libro di economia politica. Alla pag. 249 l'Autore
    scrive: "Comme l'on ne peut consommer habituellement les produits
    de l'étranger, qu'autant qu'on peut en payer la valeur en produits
    indigènes, il s'ensuit évidement que la consommation des produits
    indigènes est de la même valeur; et ce qu'il ne faut pas perdre de
    vue, c'est que, sans la consommation des produits exotiques,
    l'équivalent en produits indigènes n'aurait pas existé. L'effet
    nécessaire de la circulation des produits étrangers dans un pays,
    quand ils sont d'une nature différente de celle des produits
    nationaux, est donc d'accroître ces produits, de favoriser
    l'industrie particulière de chaque peuple, etc." Il lettore
    Manzoni riproduce in margine lo stesso passo con una breve
    omissione e con alcune proprie aggiunte, che segneremo in corsivo:
    "Comme l'on ne peut consommer, habituellement _ou non_, les
    produits de l'étranger (_qu'ils soient ou non d'une nature
    differente de celle des produits nationaux_) qu'autant qu'on peut
    en payer la valeur en produits nationaux, il s'ensuit évidemment
    que la consommation des produits exotiques, quelle _que soit leur
    nature_, nécessite la production d'une quantité de produits
    indigènes de la même valeur. L'effet nécessaire de la circulation
    des produits étrangers dans un pays, _même quand ils sont de même
    nature que les produits nationaux_, est donc d'accroître ces
    produits, de favoriser l'industrie particulière de chaque peuple,
    etc." L'Autore ripiglia: "Enfin les peuples, en se refusant à la
    circulation de leurs produits identiques, me semblent avoir rempli
    parfaitement les intentions de la nature, et s'être conformés
    strictement à ses lois bienfaisantes. La circulation des produits
    identiques ne peut s'établir et se maintenir que par la
    concurrence, qui excite parmi les concurrens l'envie, la haine, et
    toutes les passions anti-sociales". Il Manzoni è pronto a
    ribattere: "_Oh prodige d'irréflexion! Il ne s'est pas souvenu que
    la concurrence est tout naturellement établie entre les fabricants
    et les débitants de produits identiques dans un même pays. Pour la
    prévenir, il faudrait qu'il n'y eût, par exemple, qu'un seul
    cordonnier en France_." Alla pag. 221, il Ganilh scriveva; "On
    chercherait inutilement, par la pensée, un seul cas où un individu
    quelconque pût être offensé ou affligé de voir, dans le marché de
    sa localité, des produits différens de ceux de son sol et de son
    industrie." Il Manzoni, che ama la precisione, scrive in margine,
    con la solita arguzia: "_Il n'a pas observé qu'il y a des produits
    de nature différente, et qui servent aux mêmes usages. Ainsi_ un
    individu quelconque_ qui fabriquerait des étoffes de laine ou de
    fil, pourrait être fort bien _offensé_ ou _affligé_ de voir
    apparaître pour la première fois sur son marché des étoffes de
    soie; un fruitier de voir pour la première fois arriver des
    oranges, etc."_ A pag. 222, l'Autore dice d'un'imposta che è a
    danno dei produttori e dei consumatori, ma torna a beneficio dello
    Stato: il Manzoni annota maliziosamente: _"Il faut donc entendre
    un État duquel sont exclus les consommateurs et les producteurs."_
    A pagina 224, il Ganilh si pronuncia contro la libertà sconfinata
    del cambio, che "tend a soumettre toutes les industries
    particulières a l'industrie du peuple le plus industrieux, toutes
    les aisances nationales a la richesse du peuple le plus riche." Il
    Manzoni, logico implacabile, interrompe questo slancio di
    eloquenza protezionista, osservando che il popolo più ricco vende
    _"mais a condition que ceux qui lui achètent ne s'appauvriront
    pas; car autrement il ne pourrait plus leur vendre."_ Alla pag.
    292, l'Autore sconsiglia i trattati di commercio con la Cocincina;
    l'Europa comprerebbe dalla Cina che, alla sua volta, non farebbe
    acquisto dei prodotti dell'Europa. Il Manzoni obbietta:
    _"Inconcevable! Il ne voit pas que si l'Europe achetait le sucre
    de la Cochinchine, celle-ci aurait le moyen d'acheter les produits
    du sol et de l'industrie de l'Europe: car, sans cela que
    ferait-elle des 125 millions (supposés} que l'Europe lui
    enverrait? Il ne voit pas que 125,000,000 importés tous les ans et
    jamais rendus embarrasseraient autant un pays que la même somme
    exportée annuellement et jamais remplacée. Au reste, il suppose
    que la Cochinchine pourrait fournir du sucre pour la consommation
    entière de l'Europe, etc., etc."_

  [2] "Au sortir (scrive il Loménie) d'une conversation avec une
    personne fort distinguée qui a vécu dans l'intimité de Manzoni, et
    qui, après m'avoir raconté en quelques mots sa vie assez dénuée
    d'incidents pittoresques, avait excité au plus haut point mon
    intérêt en me parlant longuement du caractère et des habitudes du
    poëte milanais, dans le but de me prouver que Manzoni était,
    suivant l'expression du narrateur, _tout ce qu'ily a de moins
    homme de lettres,_ je m'en allais cherchant parmi les _hommes de
    lettres_ de notre pays et de notre temps quelque poëte célèbre,
    douè d'une modestie plus grande encore que son talent, d'une piété
    aussi sincère qu'éclairée, sans affectation comme sans
    intolérance; quelque nature riche à la fois d'élévation, de
    finesse, d'ingénuité et d'abandon; quelque caractère reste simple,
    honnête et bon, malgré les séductions du génie et les corruptions
    de la gloire; quelque chose enfin qui pût m'aider à comprendre et
    faire comprendre Manzoni au lecteur par la comparaison. J'étais un
    peu embarrassé, quand j'eus l'idée de rétrograder de deux siècles,
    et de relire les Mémoires que le fils de Racine nous a laissés sur
    la vie de son père. J'avais trouvé mon affaire.--Et ce n'est pas
    seulement par le côté moral qu'il (Manzoni} ressemble á Racine; ce
    n'est pas seulement parce qu'il s'est renfermé très-jeune encore
    dans ces jouissances paisibles et pures d'époux, de père et de
    chrétien, qui firent le bonheur de Racine après _Phèdre,_ depuis
    son mariage jusqu'à sa mort; ce n'est pas seulement parce qu'il a
    de Racine, avec la simplicité des goûts, une légère teinte de
    causticité tempérée par le sentiment religieux qui charme dans
    maintes pages du beau roman des _Fiancés,_ comme elle se fait jour
    dans la comédie des _Plaideurs;_ ce n'est pas seulement parce
    qu'il abhorre franchement, comme Racine, tout entretien relatif à
    lui-même et à ses productions littéraires, que l'auteur de
    _Carmagnola_ et d'_Adelchi_ peut, sous plusieurs rapports, être
    comparé à l'auteur d'_Esther_ et d'_Athalie._ Ces deux hommes
    représentent à la vérité dans l'art dramatique deux systèmes bien
    différents; mais, de tous les dramaturges de l'école dite
    _romantique,_ je n'en connais point qui, par la délicatesse du
    sentiment moral, le fini et la distinction de la forme, se
    rapproche autant que Manzoni du plus pur, du plus élégant, du plus
    harmonieux représentant de la tragédie classique. Offrant dans
    leur caractère, dans le tour de leur inspiration, et dans la
    physionomie générale de leurs oeuvres, je ne sais quel air de
    famille qui perce à travers la différence des idées, des pays et
    des temps, ces deux poëtes présentent encore une certaine analogie
    au point de vue biographique. Des deux côtés c'est la même vie
    honnête et simple, plus calme, plus solitaire, plus indépendante
    chez Manzoni, garantie plus tôt des orages du coeur par la
    croyance religieuse et les chastes douceurs d'un mariage heureux,
    moins affairée que celle de Racine, moins mélangée de soucis
    mondains et de devoirs de cour, mais également marquée par une
    double période d'inquiétude dans le doute et de repos dans la
    foi."

  [3] Gli argomenti dovevano esser questi: Il Natale, L'Epifania, La
    Passione, La Risurrezione, L'Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo
    del Signore, La Cattedra di San Pietro, L'Assunzione, Il Nome di
    Maria, Ognissanti, I Morti.

  [4] Il pubblico italiano non s'accorse degl'_Inni Sacri, _se non dopo
    pubblicato il_ Cinque Maggio_. Quando, nel 1817, Carlo Mazzoleni
    indirizzava per essi complimenti al Manzoni, questi gli
    rispondeva: "Io non so quali grazie rendervi per le lodi, colle
    quali mi fate animo a proseguire questi lavori. Se io non dovessi
    attribuirle in gran parte alla indulgente vostra amicizia, mi
    leverei davvero in superbia; ma ad ogni modo _l'indifferenza del
    pubblico_ mi farà stare a segno." Quando il Manzoni era forse
    ancora contento degl'_Inni Sacri_ usciti di fresco da un parto
    molto laborioso, il pubblico non se ne volle accorgere; quando il
    pubblico se ne accorse e se ne contentò, chi non era più contento
    degl'_Inni Sacri_ era il Manzoni stesso

  [5] In Milano si conservano alcune strofe dello stesso componimento,
    non più felici, che lo stesso Poeta tolse via, nel momento di
    stamparlo.

  [6] Dopo la morte del Manzoni, fu raccontato che il grand'uomo un
    giorno a chi lo ringraziava del bene ch'egli avea fatto, rispose
    commosso: "Senta, se c'è un nome che non meriti autorità, questo
    nome è il mio. Lei forse non sa che io fui un incredulo e un
    propagatore d'incredulità e con una vita conforme alla dottrina,
    che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è
    perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo." Il
    Manzoni evidentemente, per eccesso di umiltà cattolica e
    d'immaginazione, si calunniava, esagerando la propria giovanile
    empietà e gli stravizii della sua vita di studente.



XV.

Il Manzoni Poeta drammatico.


Un psicologo troverebbe argomento di uno studio molto importante,
esaminando in qual modo la mente del Manzoni abbia potuto, nel 1815,
scrivere, dopo il Carme _In morte dell'Imbonati_, una Canzone stentata
e rettorica, e poi rivelarsi di nuovo, con insolito splendore, nei
_Cori del Carmagnola_. Ma converrebbe pure che fosse aiutato, in
questa indagine, da qualche indizio biografico. Ora la biografia
manzoniana dal 1810 al 1818, o tace intieramente, o ci dice soltanto
che il Manzoni in quel tempo rimase sotto la disciplina religiosa di
monsignor Tosi, scrisse alcuni _Inni Sacri_ e s'occupò d'agricoltura.
È troppo poco per ispiegarci la singolare, quasi febbrile e potente
operosità dell'ingegno manzoniano che muove dall'anno 1818 e va fino
al termine dell'anno 1824, sei anni preziosi, ne' quali veramente si è
rivelato tutto il genio poetico del Manzoni. Le lettere di quel tempo
dirette dalla Giulia Beccarla e dal Manzoni al Tosi ci mostrano Don
Alessandro molto malato di nervi; ebbene, erano forse le insonnie del
genio agitato da una specie di furore divino. Nel 1818, il Manzoni
aveva pure avuto uno de' più grossi dispiaceri della sua vita; era
stato costretto a vendere il _Caleotto_, la casa, le terre di suo
padre, presso Lecco. In mezzo a que' disastri economici cercò forse
sollievo nella poesia; il dramma che si compieva nella sua vita, gli
fece forse eleggere la forma drammatica. Studiando una volta la storia
di Venezia con l'intendimento di scrivere un poema sopra la fondazione
della città delle Lagune, si era probabilmente innamorato della figura
del Carmagnola; ma il momento non era più per lui da poemi; l'animo
del Manzoni agitato, non più contenuto dalla pietà e dalla
rassegnazione, che monsignor Tosi non si stancava di raccomandargli,
avea bisogno di sfogarsi, mettendo fra loro in poetico contrasto
drammatico diversi affetti. Forse la vendita del _Caleotto_ avea dato
occasione in Milano a nuove chiacchiere che lo avevano disgustato; la
madre, la moglie, il Tosi, forse pure il Fauriel, a cui, dopo alcuni
anni di silenzio, egli era tornato con più vivace affetto, aveano
cercato di calmarlo; e vi erano, senza dubbio, riusciti in parte: ma
il maggior conforto egli avea dovuto provarlo, ritirandosi in sè
stesso, e creandosi, come avveniva in casi simili al Goethe, a sua
immagine un proprio mondo poetico. In quel mondo tutto ideale egli
poteva liberamente sfogare i suoi sentimenti, in quella finzione
storica esprimere ad un tempo e nascondere i proprii dolori. E coi
proprii il Manzoni sentiva pure profondamente i dolori della patria
avvilita ed oppressa sotto l'ignominia d'un Governo straniero. Nella
Prefazione del _Conte di Carmagnola_ il Manzoni stesso dichiarò che
una delle ragioni che lo determinarono a introdurvi i Cori, fu questa,
che "riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in
persona propria, (essi) gli diminuiranno la tentazione d'introdursi
nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi proprii sentimenti,
difetto dei più noti negli scrittori drammatici." Ma, quando leggiamo
uno scrittore come il Manzoni, dobbiamo guardar sempre al senso
preciso che vogliono aver le parole; egli non dice già che i Cori
_toglieranno_, ma solamente che essi _diminuiranno_ all'autore la
tentazione di mettersi in iscena. Approfittiamo dunque di questa mezza
negazione, che implica necessariamente una mezza affermazione. In una
bella lettera che il Manzoni scrisse nel febbraio dell'anno 1820 al
suo amico abate Gaetano Giudici di Milano, rimasta fino ad oggi
inedita, trovo, fra le altre, queste parole: "Io aveva sentito che le
circostanze e le azioni del Carmagnola non erano in proporzione
coll'animo suo e coi suoi disegni; ma questa dissonanza appunto è
quella che io ho voluto rappresentare. Un uomo di animo forte ed
elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza
e colla perfidia de' suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide,
irragionevoli, ma astute e già fortificate dall'abitudine e dal
rispetto, e dagl'interessi di quelli che hanno iniziativa della forza,
è egli un personaggio drammatico?"[1] Quest'uomo potrebbe essere
così bene il Manzoni posto fra gli uomini del suo tempo, con un
Governo come quello di Lombardia, posto a rischio continuo di perdere,
nell'adempimento dei suoi doveri civili, la pace domestica e la vita,
come il Conte di Carmagnola. In ogni modo, nelle parole della tragedia
che s'intitola dal _Conte di Carmagnola_, più che i sensi di un
capitano di ventura del Medio Evo, noi ritroviamo spesso l'animo, i
pensieri, i dubbii, gl'interni combattimenti del Manzoni, geloso del
suo buon nome, timido nell'opera, ardito ne' concepimenti, pio,
delicato, amante della patria e della famiglia. Queste parole messe in
bocca al Conte di Carmagnola non istonerebbero, per esempio, ove si
collocassero nel Carme _In morte dell'Imbonati:_

   Oh! beato colui, cui la fortuna;
     Così distinte in suo cammin presenta
     Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
     Correr certo del plauso e non dar mai
     Passo, ove trovi a malignar l'intento
     Sguardo del suo nemico. Un altro campo
     Correr degg'io, dove in periglio sono
     Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
     Nome d'ingrato, l'insoffribil nome
     Di traditor. So che de' grandi è l'uso
     Valersi d'opra ch'essi stiman rea;
     E profondere a quel che l'ha compita
     Premi e disprezzo, il so; ma io non sono
     Nato a questo; e il maggior premio che bramo,
     Il solo, egli è la vostra stima, e quella
     D'ogni cortese; e, arditamente il dico,
     Sento di meritarla.

Così avrebbe parlato, così forse parlava allora il Manzoni a' suoi
proprii accusatori. Noi sappiamo già che prima della pubblicazione del
Carme _In morte dell'Imbonati_, ossia nell'anno 1805, si era ciarlato
molto in Milano contro il Manzoni, e che si tornò a ciarlare contro di
lui, quando, nel 1819, egli malato di nervi ritornò con la madre e con
la moglie a Parigi. La madre del Manzoni, nell'aprile dell'anno 1820,
scriveva a monsignor Tosi che il Manzoni preferiva "il soggiorno di
Parigi a quello di Milano, per il gran ribrezzo che gli produce quella
benedetta mania che si ha di parlare degli affari degli altri. Si
ricorda di tante ciarle e di tante supposizioni fatte sul nostro
viaggio; e qualche volta questa idea lo mette di cattivo umore:" Il
malumore, o almeno un po' di malumore, penetra pure in alcuni versi
del _Conte di Carmagnola_. Ma il sentimento cristiano e l'amor patrio
vincono finalmente ogni altra cura. Il Manzoni assai più che il suo
Conte di Carmagnola esplorava il suo tempo e cercava persuadersi ora
che la salute d'Italia sarebbe venuta dalla Toscana, ora dal Piemonte.
Il Carmagnola, infatti, alludendo ai Fiorentini, dice:

                               A molti in mente
     Dura il pensier del glorïoso, antico
     Viver civile; e subito uno sguardo
     Rivolgon di desìo, là dove appena
     D'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
     Frementi del presente e vergognosi;

e al suo Piemonte belligero fida, con la propria, la vendetta
d'Italia:

     Voi provocate la milizia. Or sono
     In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
     Ch'io non ci nacqui; che tra gente io nacqui
     Belligera, concorde; usa gran tempo
     A guardar come sua questa qualunque
     Gloria d'un suo concittadin, non fia
     Che straniera all'oltraggio ella si tenga.

Ma, in pari tempo, nelle parole che Marco rivolge all'amico suo il
Conte di Carmagnola, ritroviamo la prudenza manzoniana; si direbbe che
Marco sostiene presso il Conte quella parte medesima che il Fauriel
presso il Manzoni; è l'amico Fauriel, al quale la tragedia è per
l'appunto dedicata:

                         ...... Consiglio
     Di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
     Io non ti do, nè tal da me l'aspetti;
     Ma tra la noncuranza e la servile
     Cautela avvi una via; v'ha una prudenza
     Anche pei cor più nobili e più schivi;
     V'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
     Senza discender fino ad esse; e questa
     Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

Il Conte, ossia forse il Manzoni, vorrebbe fidarsi al suo destino, e
non curar troppo le male arti de' nemici; Marco, ossia ancora, come si
può sottintendere, il Fauriel gli pone innanzi l'immagine della
moglie e della figlia amatissime, ma forse in qualche momento
dimenticate per alcun'altra più forte attrattiva, per l'amore della
patria:

                          Vuoi che una corda io tocchi
     Che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
     Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia,
     A cui tu se' sola speranza; il cielo
     Diè loro un'alma per sentir la gioia,
     Un'alma che sospira i dì sereni,
     Ma che nulla può far per conquistarli.
     Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
     Che il tuo destin ti porta; allor che il forte
     Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
     Signor di sè che non pensava in prima.

Il Manzoni poeta cristiano detta ancora queste pie parole al fiero
Conte condannato a morte:

     E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
     Io le provai quest'empie gioie anch'io;
     Quel che vagliano or so.

E quest'altre affettuose alla moglie Antonietta paiono suggerite al
Conte da Enrichetta Blondel, la moglie del Manzoni:

                             ......O sposo
     De' miei bei dì, tu che li fêsti, il core
     Vedimi; io moio di dolor, ma pure
     Bramar non posso di non esser tua.

Vi è finalmente tutta la pietà cristiana del Manzoni, molto più che il
carattere storico del Carmagnola, in queste parole del Conte:

                       Allor che Dio sui buoni
     Fa cader la sventura, ei dona ancora
     Il cor di sostenerla.... Oh! pari il vostro
     Alla sventura or sia. Godiam di questo
     Abbracciamento; è un don del cielo anch'esso.
                 .... Il torto è grande,
     Ma perdona; e vedrai che in mezzo ai mali
     Un'alta gioia anco riman.
         ... Oh gli uomini non hanno
     Inventata la morte; ella sarìa
     Rabbiosa, insopportabile, dal cielo
     Essa ci viene, e l'accompagna il cielo
     Con tal conforto, che nè dar nè tòrre
     Gli uomini ponno.

Così sono uscite dal cuore di un marito credente, del Manzoni, in
somma, queste belle e solenni ultime parole, con le quali il Conte
raccomanda la moglie e la figlia al Gonzaga:

     Quando rivedran la luce,
     Di' lor.... che nulla da temer più resta.

Poco, lo ripeto, sappiamo, pur troppo, della vita del Manzoni in
quegli anni che corsero dal suo matrimonio alla pubblicazione del
_Conte di Carmagnola_ e dell'_Adelchi_; ma forse non andremmo troppo
lontani dal vero, supponendo che alcun grande dolore abbia agitato
l'animo del Manzoni nel tempo, in cui, venduto il _Caleotto_, egli
scrisse le sue tragedie[2] ed incominciò il proprio romanzo. Vi sono
versi che non si possono scrivere altrimenti che sotto una impressione
molto viva e dolorosa; ed i versi che ho citati, mi fanno dubitare che
il Manzoni abbia desiderato in quegli anni prender parte a qualche
congiura politica, che, per una recrudescenza d'amor patrio, abbia
corso qualche gran rischio e temuto assai per la propria famiglia e
siasi poi sentito accusare di qualche debolezza: la malattia nervosa
che lo visitò, appena terminata la sua tragedia, le varie ciarle alle
quali diede occasione il suo ritorno a Parigi, hanno forse qualche
relazione con alcun fatto che ignoriamo, ma del quale potrebbe darsi
che si trovassero indizii ne' suoi scritti di quel tempo. Fu caso
fortunato che i componimenti del Manzoni cadessero sotto gli occhi del
Goethe, ma non già caso che il Goethe se ne compiacesse. Vi era
naturale simpatia fra que' due ingegni olimpici; anche il Goethe in
quasi tutte le sue opere poetiche ha rivelato sè stesso in modo che la
biografia di lui può farsi quasi che tutta sopra la sola guida de'
suoi scritti. Il Manzoni sfogò meno le sue passioni, si frenò di più,
tenne più fermo ad un solo alto segno il proprio ideale; ma sotto la
sua calma apparente, sotto quella mirabile temperanza di linguaggio, è
ancora possibile scorgere le tempeste d'un animo agitato, in continua
lotta con sè medesimo, e più ancora che lottante fra il dovere e il
piacere, contrastato fra due doveri diversi. I due doveri diversi, fra
i quali il Manzoni lottò, dovettero essere la patria e la famiglia,
come per un altro verso la libertà del pensiero e la fede. Il Goethe,
come il Manzoni, mirava alla perfezione; ma io credo che, senza alcuna
esagerazione, si possa dire che il primo mirava particolarmente ad una
perfezione intellettuale, il secondo alla perfezione morale, che costa
qualche cosa di più, poichè obbliga pure a qualche maggior sacrificio.
Nell'_Adelchi_ si palesa generalmente assai meno il sentimento
individuale dell'autore; tuttavia è lecito in più d'un passo, ove
parla il giovine eroe longobardo, riconoscere i privati sentimenti del
Manzoni. La tragedia fu terminata, quando, fallita la rivoluzione
piemontese, parecchi de' migliori amici del Manzoni dovettero andare o
in esigilo, o al carcere duro. Il Nostro si dolse, certamente, seco
stesso di non aver potuto far nulla per la patria e di dovere
nascondere il suo potente ed inspirato Inno rivoluzionario dedicato a
Teodoro Koerner, e, per amore della famiglia, evitare ogni imprudenza.
S'io non m'inganno, è il Manzoni del 1821 che parla in questi versi
posti in bocca ad Adelchi:

     Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda
     Alte e nobili cose; e la fortuna
     Mi condanna ad inique: e, strascinato,
     Vo per la via che non mi scelsi, oscura,
     Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
     Come il germe caduto in rio terreno
     E balzato dal vento.

Il Manzoni fu sempre un po' repubblicano; se ne lagnavano nel 1848 il
Giusti e l'Azeglio, quando lo vedevano diffidar troppo delle promesse
del re Carlo Alberto. E da repubblicano, con poca verosimiglianza
storica, egli faceva parlare il moribondo Adelchi al re Desiderio suo
padre:

     Gran segreto è la vita; e noi comprende
     Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno;
     Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
     Ora tu stesso appresserai, giocondi
     Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
     Gli anni, in cui re non sarai stato, in cui
     Nè una lagrima pur notata in cielo
     Fia contra te, nè il nome tuo saravvi
     Con l'imprecar de' tribolati asceso.
     Godi che re non sei, godi che chiusa
     All'oprar t'è ogni via; loco a gentile,
     Ad innocente opra non v'è; non resta
     Che far torto, o patirlo. Una feroce
     Forza il mondo possiede e fa nomarsi
     Dritto; la man degli avi insanguinata
     Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
     Coltivata col sangue; e omai la terra
     Altra mèsse non dà.

Tutto ciò è grande, è vero, è degno del Manzoni, e si capisce che
dovesse piacere al Mazzini, ma stona nel linguaggio di un Principe
longobardo del IX secolo. Come tragedie storiche, il _Carmagnola_ e
l'_Adelchi_, mi paiono, sia detto con tutto il rispetto de' loro pregi
letterarii, lavori sbagliati; ma essi, oltre all'importanza che hanno
per le novità che introducono nella drammatica italiana, obbligando le
persone tragiche a parlare un linguaggio umano e a muoversi
naturalmente, senza l'impaccio delle regole così dette aristoteliche
intorno alle unità, contengono un gran numero di particolari poetici
manzoniani, il che vuol dire nuovissimi, per i quali se non vi si
andrà a cercare la verità storica e se essi non si potranno
rappresentare sulle scene, vi si troveranno sempre affetti
eloquentemente espressi, pensieri elevati, caratteri bene scolpiti,
descrizioni pittoresche, intendimenti civili e patriottici che li
faranno ammirare. Il Manzoni dedicava l'_Adelchi_, dodici anni dopo il
suo matrimonio, a sua moglie Enrichetta Blondel, e non senza un motivo
particolare, oltre i motivi generali che egli dovea parer di avere per
dare un pubblico segno d'onore e d'affetto alla sua compagna. Come m'è
parso di sentire nell'amicizia di Marco pel Conte di Carmagnola quella
del Fauriel pel Manzoni, onde, perciò forse, veniva particolarmente
dedicata al Fauriel la prima tragedia manzoniana; così mi paiono da
ricercarsi nella tragedia stessa le ragioni particolari, per le quali
Enrichetta Blondel fu onorata della dedicazione dell'_Adelchi_. "Il
signor marchese Capponi (scrive il Tommaseo), nel conoscere la prima
moglie, non bella e di poche parole, a quello appunto e al portamento
sentì che la vera ispiratrice del Manzoni era lei." Disse il simile
qualche anno dopo un giornale di Francia, che, recando i versi di
Ermengarda morente: _Amor tremendo è il mio_, ec., soggiunge: _Ah
questa, signor Manzoni, non è roba vostra; ve l'ha dettata una donna._
Rileggiamoli dunque insieme questi bei versi che il Manzoni avrebbe
rubati a sua moglie. Ermengarda, in amoroso delirio, si rivolge col
memore pensiero allo sposo che la tradì:

                        ......O Carlo,
     Farmi morire di dolor tu il puoi;
     Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
     Dolor ne avresti. _Amor tremendo è il mio;
     Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
     Non tel mostrai; tu eri mio; secura
     Nel mio gaudio io tacea, nè tutta mai
     Questo labbro pudico osato avria
     Dirti l'ebbrezza del mio cor segreto._

Nel personaggio di Adelchi, il Manzoni stesso confessò d'aver voluto
foggiare un suo ideale; il medesimo si può dire dell'Ermengarda, sopra
i sentimenti della quale la storia non ci dice nulla; ora gl'ideali
che si coloriscono al di fuori della storia e che riescono
caratteristici come questo di Ermengarda, non si possono concepire
altrimenti che supponendoli determinati dagli stessi sentimenti più
vivi del Poeta nell'ora in cui egli scrisse. Io non posso insistere di
più sopra un argomento così delicato come le relazioni di Alessandro
Manzoni con Enrichetta Blondel; ma parmi che un rimorso gentile
dell'Autore verso la sua compagna che egli potè forse turbare co' suoi
ardimenti patriottici o con alcun'altra sua imprudenza, abbia fatto
parlare Ermengarda in quel modo straordinariamente appassionato, e che
la dedica solenne dell'_Adelchi_ alla sua compagna sia stata come una
pubblica riparazione di qualche segreta lacrima domestica. S'io mi
sono ingannato, ne domando perdono alla memoria del Manzoni; ma come
ai critici del Goethe fu lecito de tracciare sopra i suoi versi la
storia de' suoi amori, non ho potuto spiegarmi altrimenti, come in un
dramma, dove l'amore non entrava, sia apparso l'unico tipo veramente
poetico di una moglie ideale che ci presenti la poesia italiana, e che
il Dramma stesso porti la seguente dedicazione glorificatrice:

  ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE
  ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
  LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI CONIUGALI
  E CON LA SAPIENZA MATERNA
  POTÈ SERBARE UN ANIMO VERGINALE
  CONSACRA QUESTO ADELCHI
  L'AUTORE
  DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO
  E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
  RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA MEMORIA
  DI TANTE VIRTÙ.[3]

  [1] Poichè il professor Giovanni Rizzi, dalla cortesia del quale io
    l'ho ricevuta, mi permette di valermene, io me ne valgo nel solo
    modo che mi sembri conveniente, cioè stampandola tutta:

    "Parigi, 7 febbraio 1820. Cariss. e Pregiat. Amico,

    Sarei impacciato a ringraziarvi degnamente non solo dell'amabile
    pensiero che avete avuto di scrivermi, ma anche della pazienza che
    avete posta a regolare la vostra penna in modo che nulla per me fosse
    perduto dei preziosi sentimenti vostri, se non sapessi da lungo tempo
    quanto sia facile saldare con voi questi conti, e che voi vi tenete
    pagato d'ogni cosa, quando sappiate che con essa abbiate fatto piacere
    altrui. Sappiate dunque che la vostra lettera me ne ha cagionato uno
    dei più vivi e durevoli che per me si potessero provare, e che
    letta e riletta fra noi ha fatto una specie di festa di famiglia. Io
    non dubitava della continuazione della preziosa vostra amicizia,
    sapendo che è questo un dono che voi non prodigate nè ritirate
    leggermente, all'uso del mondo; ma le assicurazioni e le espressioni
    di essa, nutrendo le più care memorie dell'animo mio, l'hanno
    giocondamente e profondamente occupato. Già sufficentemente
    stabiliti in questa peregrinazione provvisoria, noi ci siamo ormai
    avvezzati alla nostra nuova situazione, ed io principalmente mi trovo
    in uno stato di quiete d'animo, e talvolta direi quasi di contentezza,
    della quale non saprei forse dare le ragioni io stesso; ma una
    mancanza, alla quale nulla può supplire, uno spazio che null'altra
    cosa può occupare, è sempre per me l'assenza di alcuni pochi
    amici, e quella singolarmente di uno, il quale mi ama, come merita
    egli d'esser amato. Non saprei altrimenti esprimere l'idea che ho
    dell'amicizia vostra, e se il riconoscere la mia fortuna può darmi
    taccia d'orgoglio, preferisco quest'accusa a quella d'ingratitudine.
    La venerazione e l'affetto ch'io nutro per voi, sarà, spero, un
    sentimento ereditario nella mia famiglia, e Giulietta, che ha più
    memoria nel cuore che nella mente, me ne ha già dato un segno,
    contandomi di essersi più volte rallegrata qui alla domenica dal
    pensiero che si andrebbe in casa Giudici: nè l'interruzione, nè
    la mutazione degli oggetti hanno potuto impedire che nascesse in lei
    questo pensiero così dissociato da tutte le sue attuali abitudini.
    Serbando la legge del silenzio così ragionevolmente imposta agli
    scrittori in ciò che riguarda i loro _parti_, io non vi avrei certo
    fatto parola di quel povero Carmagnola; ma voi mi avete aperto un
    adito, e addio silenzio! Lasciate adunque che io vi ringrazii
    dell'avermi voi dato il più bel premio, e nello stesso tempo la
    più utile scuola che un manufatturiere di poesie possa desiderare,
    cioè la cognizione dell'impressione che un suo lavoro ha prodotta
    su un animo elevato e su un ingegno grande ed esercitato. Benchè
    voi abbiate alla fine ritirate le prime vostre obbiezioni, non vi
    maravigliate se io mi tengo pienamente assoluto da una seconda
    sentenza, che posso forse attribuire alla vittoria dell'amicizia
    sull'imparzialità. Vi esporrò quindi brevemente i motivi che mi
    hanno condotto nei passi che vi urtarono dapprima, acciocchè voi
    giudichiate anche la mie intenzioni, e mi sia il giudizio vostro una
    norma per l'avvenire. Io aveva sentito che le circostanze e le azioni
    del Carmagnola non erano in proporzione coll'animo suo e coi suoi
    disegni, ma questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto
    rappresentare. V'erano due difficoltà, una di diritto per così
    dire. Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi
    imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia dei suoi
    tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute
    e già fortificate dall'abitudine e dal rispetto, e dagli interessi
    di quelli che hanno l'iniziativa della forza, è egli un personaggio
    drammatico? Su questa quistione che può spiegare tutto un sistema
    drammatico, io aspetto da voi, quando vi piacerà occuparvene, la
    soluzione la più ragionata ed autorevole. L'altra difficoltà era
    per me il ridurre questa idea, quando sia plausibile" ad una lodevole
    pratica; ma in questo il vostro giudizio non mi sarà tanto sicuro,
    poichè si esercita sopra un amico. Il Coro era fatto certamente
    coll'intenzione di avvilire quelle stesse guerre, a cui io voleva pure
    interessare il lettore: vi è contradizione fra questi due intenti?
    Io non saprei certo affermare nè il sì nè il no--ma vi
    sottometto brevemente i motivi che mi hanno fatto credere possibile di
    eccitare questi due sentimenti. Mi sembra che lo spettatore o il
    lettore possa portare ad un dramma la disposizione a due generi
    d'interesse. Il primo è quello che nasce dal vedere rappresentati
    gli uomini e le cose in un modo conforme a quel tipo di perfezione e
    di desiderio che tutti abbiamo in noi: e questo è con infiniti
    gradi di mezzo, l'interesse ammirativo che eccitano molti personaggi
    di Corneille--di Metastasio--e d'infiniti romanzi. L'altro interesse
    è creato dalla rappresentazione più vicina al vero di quel misto
    di grande e di meschino, di ragionevole e di pazzo, che si vede negli
    avvenimenti di grandi e piccioli di questo mondo: e questo interesse
    tiene ad una parte importante ed eterna dell'animo umano, il desiderio
    di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può
    in noi e nel nostro destino su questa terra. Di questi due generi
    d'interesse io credo che il più profondo, ed il più utile ad
    eccitarsi, sia il secondo; credo che si possano anche riunire in
    un'azione e in un personaggio, purchè si trovino uniti spesso nel
    fatto, e tengo poi fermamente che sia metodo vizioso quello di
    trasportare negli avvenimenti la perfezione che non è che
    nell'idea, e che quando sia rappresentata in idea o veramente poetica
    e morale.--Voi vedete che ho voluto tentare di conservare entrambi
    questi mezzi di commozione e di riflessione, impiegandone uno nella
    tragedia e l'altro nel Coro.--A persuadermi di non aver riuscito ci
    vuol poco, perchè sento anch'io quanto l'esecuzione sia lontana
    dall'idea: ma a provarmi la falsità dell'idea sarebbero necessario
    molte ragioni, che spero di non sentire da voi, perchè amo credere
    che penserete in questo com'io.--Ben inteso che voi supplirete a
    questi cenni confusi e scritti alla _sciamannata_. La carta mi manca,
    e quel che è peggio il tempo. Non voglio ritardare a domani questa
    lettera per ridarla in più ragionevole figura intrinseca ed
    estrinseca. Dacchè ho perduta la speranza di divenire un giorno
    Accademico della Crusca, mi sono lasciato andare agli eccessi i più
    straordinarii della licenza: il peggio si è che la più parte di
    queste mie ciarle peccano contro il senso, ma a questo supplirà il
    vostro e a tutto l'indulgente vostra amicizia. Vorrei arrabbiarmi
    contro Torti che non mi scrive, ma con che diritto? Non tocca a me di
    negare! privilegi della pigrizia; ma se voi lo spingete, chi sa che
    non sia generoso! Ricordatemi alla Domenica e al Venerdì,
    ringraziate Mario dei cari saluti che gli rendo ben cordialmente. Alla
    degnissima vostra famiglia poi presentate l'espressioni della mia
    stima e della riconoscente mia amicizia coi più affettuosi
    complimenti di mia madre, di Enrichetta e di Giulietta. Chi sa che il
    signor Castillia non mi porti qualche altra vostra lettera! Questo
    pensiero mi tiene allegro. Scriverò al Canonico fra pochi giorni;
    intanto vi prego di fargli i miei più teneri e rispettosi saluti. E
    voi accogliete le assicurazioni della profonda stima e della
    inalterabile affezione del vostro

    _Amico vero_ A. MANZONI"

  [2] Sopra la lentezza relativa del Manzoni nel preparare le sue
    tragedie il Sainte-Beuve ci diede questi schiarimenti: "Il
    Manzoni, tutti lo sanno, lavorava le sue tragedie lentissimamente.
    Questa lentezza, che può dipendere da diverse cagioni, come per
    esempio dalla delicatezza di un'organizzazione nervosa, la quale
    si può trovare impedita a tener sempre dietro alla fantasia e
    all'intelletto, questa lentezza considerata in sè stessa non sarà
    forse cosa lodevole. Ma ciò che sicuramente merita lode, e vuolsi
    anzi proporre ad esempio, è la coscienza adoperata da lui nel
    preparare i materiali, e nello studiare gli argomenti delle sue
    composizioni. Sarebbe difficile il dire quel ch'abbia fatto per
    l'_Adelchi_, di cui cominciò ad occuparsi sul serio, dopo il suo
    ritorno da Parigi a Milano, negli ultimi mesi del 1820. Egli si
    accinse a studiare da storico, emulando gli uomini, coi quali
    aveva fin'allora conferito, tutto ciò che potè trovare nelle
    cronache sulle circostanze della dominazione e dello stato de'
    Lombardi in Italia. Non leggeva superficialmente tanto da poter
    riuscire a dare un qualche colore locale, una tinta qualsiasi del
    Medio Evo ad un'opera di fantasia. No davvero, egli volle vedervi
    il fondo; si seppellì nella collezione _Rerum Italicarum_ del
    Muratori, e prese anche famigliarità, com'egli dicea sorridendo,
    _con qualcuno dei 49 grossi complici_ di Agostino Thierry."

  [3] Il prof. Corrado Gargiolli mi fa noto che una signora, nel
    dividersi da un giovane che era da lei amato e che si era sposato
    ad un'altra donna, riaperse l'_Adelchi_ alla scena di Ermengarda
    morente, e bagnandola delle sue lacrime scrisse all'amante una
    lettera commovente d'addio. Il Manzoni, cui venne dal Gargiolli
    riferito il caso, se ne compiacque soggiungendo: "Quelle erano
    davvero preziose postille," alludendo certamente alle lacrime, e
    al commento vivo che ne faceva il dolore di quell'abbandonata.



XVI.

Il Manzoni unitario.


Noi abbiamo fin qui toccato del Manzoni come riformatore dello stile
poetico italiano, come scrittore religioso e come autore di tragedie
storiche ed autobiografiche. Vediamo direttamente e particolarmente lo
scrittore politico. Le opinioni politiche espresse in verso da un
giovinetto di quindici anni non sembrano doversi pigliare molto sul
serio. Quella spontaneità che appare, per lo più, nella manifestazione
de' sentimenti di un giovine, è solo apparente; il giovine prima dei
trent'anni sposa con ardore e difende con impetuosa eloquenza quelli
che crede i suoi principii inviolabili e santi; ma egli non gli ha,
gl'impara, li sposa, li riceve, gli accetta; rado accade che essi
siano il prodotto di un intimo proprio convincimento. Il giovine, con
tutta la sua furia simpatica che lo spinge a concepire i disegni più
arditi e più vasti, a intraprendere le opere più pericolose, e con la
felice illusione in cui vive che tutto il mondo sia suo, è meno libero
assai dell'uomo maturo, tanto più composto e regolato nel suo modo di
pensare, di sentire e di operare. Il giovine si crede libero, quando
segue tutti i suoi istinti più diversi; l'uomo invece sente la libertà
solamente dal punto, in cui egli incomincia a governare questa
tumultuosa varietà d'istinti, a reggere la propria volontà, a dominare
sè stesso. Non è quindi da chiedersi ad un giovine conto troppo severo
di quel ch'egli abbia pensato politicamente fra i quindici ed i
trent'anni; ma è poi tanto più mirabile il caso, in cui, come avvenne
nella vita del Manzoni, si abbia a notare fra la giovinezza, la
virilità e la vecchiaia d'un uomo una continuità progressiva di quei
pensieri, che sono il fondamento e la regola della sua condotta
civile. Del Manzoni si può dire che egli temperò con l'età il modo di
manifestare i proprii pensieri; ma la somma di questi rimase costante
e si confermò con la vita. Incominciò, come già sappiamo, a cantare il
trionfo della libertà a quindici anni. Nel primo Canto del _Trionfo_
incontriamo l'immagine dell'uccello che esce di gabbia e gode della
sua libertà, adoprata a significare la gioia del prigioniero italiano
ritornato libero:

   E a color che fuggir l'aspra catena,
     Prorompea sugli occhi e su le labbia
     Impetüosa del piacer la piena,
   Come augel che fuggì l'antica gabbia,
     Or vola irrequieto tra le frondi,
     Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

È singolare il vedere come le prime immagini della giovinezza
manzoniana rifioriscono vive nella sua tarda vecchiaia. Il Manzoni,
più che ottantenne, passeggiando ne' Giardini Pubblici di Milano, alla
vista di uccellini chiusi in gabbia, compose alcuni eleganti distici,
nei quali gli uccelli prigionieri, ai quali è contesa la vista del
cielo, si lamentano per invidiare la sorte delle anitre che si
diguazzano liberamente negli stagni:

   _Fortunatæ anates quibus æther ridet apertus,
     Liberaque in lato margine stagna patent.
   Nos hic intexto concludunt retia ferro
     Et superum prohibent invida tecta diem.
   Cernimus heu! frondes et non adeunda vireta
     Et queis misceri non datur alitibus.
   Si quando immemores auris expandimus alas,
     Tristibus a clathris penna repulsa cadit.
   Nullos ver lusus dulcesve reducit amores,
     Nulli nos nidi, garrula turba, cient.
   Pro latice irriguo, læto pro murmure fontis
     Exhibet ignavas alveus arctus aquas.
   Crudeles escæ, vestra dulcedine captae
     Ducimus æternis otia carceribus._

L'Austria ricevette pure i primi colpi dal giovinetto Manzoni, nel
_Trionfo della Libertà_:

   S'alzò tre volte e tre ricadde al suolo
     Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
     Che l'arse penne ricusâro il volo.
   Alfin, strisciando dietro a la campagna
     Le mozze ali e le tronche ugne, fuggìo
     Agl'intimi recessi di Lamagna.

Non ci meravigliamo dunque che tra i Martiri dello Spielberg il conte
Confalonieri sapesse a memoria e recitasse parecchie terzine del poema
giovanile d'Alessandro Manzoni. L'anima gloriosa del francese Desaix
caduto a Marengo combattendo contro gli Austriaci per quella che si
sperava potesse divenire la libertà d'Italia, appare in una specie di
Olimpo al giovine Poeta, il quale, pure imitando il noto incontro di
Virgilio con Sordello, sa ancora trovare e produrre un nuovo effetto
poetico:

   Allor ch'egli me vide il piè ramingo
     Traggere incerto per l'ignota riva,
     Meditabondo, tacito e solingo,
   A me corse gridando: "Anima viva,
     Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
     E per amor di libertà s'arriva.
   Italia mia che fa? di sue ferute
     È sana alfine? è in libertate? è in calma?
     O guerra ancor la strazia e servitute?
   Io prodigo le fui di non vil'alma."

Dicono che il Manzoni ed il Mazzini, ritrovandosi insieme un giorno
dell'anno 1860, si rallegrassero insieme d'essere stati, per lungo
tempo, i soli veri unitarii d'Italia. Nel vero, entrambi misero una
specie di ostinazione nel desiderare e nel predicare in tutti i modi
ed in ogni occasione l'unità italiana. Anche il Monti, per dire il
vero, nella _Musogonia_ aveva collocata la seguente strofa:

   E voi di tanta madre incliti figli,
     Fratelli, i preghi della madre udite:
     Di sentenza disgiunti e di consigli,
     Che pensate, infelici, e chi tradite?
     Una deh sia la patria, e ne' perigli
     Uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite.
     Del discorde voler che vi scompagna,
     Deh non rida, per Dio! Roma e Lamagna.

Si può anche ammettere che il Monti fosse in quel momento sincero, ed
esprimesse con tali versi il proprio intimo sentimento; ma egli cantò
tante volte idoli diversi, dal Braschi a Napoleone, dal Suvaroff
all'Imperatore d'Austria, che una sua strofa unitaria non può far di
lui un poeta unitario. Prima dell'anno 1860 gli unitarii in Italia si
potevano contare; tra i liberali d'idee più avanzate prevaleva
generalmente l'idea della federazione. Il professor De Benedetti
racconta in questo modo il colloquio che il Mazzini avrebbe avuto col
Manzoni: "Vede, Don Alessandro (avrebbe detto il Mazzini), durante un
pezzo siamo stati noi _due soli_ a credere all'unità di quest'Italia.
Ora possiamo dire che avevamo ragione." Al che il Manzoni volendo
mostrare che egli vi aveva avuto poco merito, perchè l'unità era
inevitabile, con un malizioso sorriso avrebbe risposto: "Il padre del
nostro amico Torti, che aveva sempre freddo, cominciava al primo
fresco di settembre a dire: _Vuol nevicare_. A ottobre e novembre
sentiva crescere il freddo e ripeteva: _Nevica di sicuro_. Finalmente,
a gennaio o febbraio s'aveva una gran nevicata, e il buon Torti
esclamava: _L'avevo detto io che doveva nevicare_." Ma, un anno
innanzi, prima che il Mazzini gli facesse visita, egli, che era sempre
stato un po' repubblicano e molto unitario, compiacevasi, in somma, di
avere indovinato giusto giusto come il padre del Torti. "Alla fede
dell'unità d'Italia (egli diceva) ho fatto il più grande dei
sacrificii che un poeta potesse fare: quello di scrivere
_scientemente_ un brutto verso." Questo brutto verso si trova in un
frammento di Canzone petrarchesca composta dal Manzoni nell'aprile
dell'anno 1815, quando Gioachino Murat bandiva il suo famoso Proclama
di Rimini, col quale chiamava alle armi gli Italiani, in nome
dell'_Unità italiana_. Ma intanto che il Manzoni scriveva, la rotta di
Tolentino, con tutti gli ambiziosi disegni del Murat, faceva cadere la
penna di mano al nostro giovine Poeta, che, a mezzo della quinta
strofa, si arrestava. Il frammento, più che quattro strofe finite, ci
presenta un solo abbozzo, ove conviene tener molto conto de' pensieri
ed usar qualche indulgenza alla inelegante povertà del verso. Nello
stesso anno il giovinetto Leopardi componeva una specie di Orazione
rettorica e reazionaria, della quale mi fece vedere una copia il
marchese Ferrajoli di Roma. Quando verrà pubblicata, se pure a
quest'ora non è già pubblica, sarà utile il riscontrare la Canzone del
_reazionario_ Manzoni con la prosa del Leopardi, il quale, per quanto
intesi, era, alcuni anni dopo, col Nicolini tra quelli che si
sdegnavano più forte contro il pietismo manzoniano e contro la sua
teoria del perdono delle ingiurie. Il Manzoni nei versi del frammento,
per la forma, classicheggia un po' pedestremente; ma ne' concetti egli
si rivela moderno, e libero e coraggioso profeta d'un avvenire,
intuito e sperato per l'Italia da pochi sapienti:

   O delle imprese alla più degna accinto,
     Signor, che la parola hai proferita,
     Che tante etadi indarno Italia attese;
     Ah! quando un braccio le teneano avvinto
     Genti che non vorrìan toccarla unita,
     E da lor scissa la pascean d'offese;
     E l'ingorde udivam lunghe contese
     Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
     In te sol uno un raggio
     Di nostra speme ancor vivea, pensando
     Ch'era in Italia un suol senza servaggio,
     Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
   Sonava intanto d'ogni parte un grido,
     Libertà delle genti e gloria e pace,
     Ed aperto d'Europa era il convito;
     E questa donna di cotanto lido,
     Questa antica, gentil, donna pugnace,
     Degna non la tenean dell'alto invito;
     Essa in disparte, e posto al labbro il dito,
     Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
     Come siede il mendìco
     Alla porta del ricco in sulla via;
     Alcun non passa che lo chiami amico,
     E non gli far dispetto è cortesia.
   Forse infecondo di tal madre or langue
     Il glorïoso fianco? o forse ch'ella
     Del latte antico oggi le vene ha scarse?
     O figli or nutre, a cui per essa il sangue
     Donar sia grave? o tali, a cui più bella
     Pugna sembri tra lor ingiuria forse?
     Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
     E non le voglie; e quasi in ogni petto
     Vivea questo concetto:
     Liberi non sarem se non siamo uni;
     Ai men forti di noi gregge dispetto,
     Fin che non sorga un uom che ci raduni.
   Egli è sorto per Dio! Sì, per Colui
     Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
     Che del fratello il percussor percosse;
     E fattol duce e salvator de' sui,
     Degli avari ladron sul capo reo
     L'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
     Per quel Dio che talora a stranie posse,
     Certo in pena, il valor d'un popol trade;
     Ma che l'inique spade
     Frange una volta, e gli oppressor confonde,
     E all'uom che pugna per le sue contrade
     L'ira e la gioia de' perigli infonde.
     Con Lui, signor, dell'itala fortuna
     Le sparse verghe raccorrai da terra,
     E un fascio ne farai nella tua mano...

I versi non belli, in questo frammento, sono parecchi; ma il Manzoni
alludeva, nel suo discorso, a questo:

     Liberi non sarem se non siamo uni.

Per questa unità da lui voluta, sperata, predicata, fin da giovinetto,
il Manzoni aveva il coraggio di combattere apertamente, quantunque
così devoto al Capo spirituale della Chiesa, il potere temporale de'
Papi. Per questo riguardo, il Manzoni s'accordava perfettamente con
l'antico e col nuovo poeta Ghibellino, con l'Alighieri e col
Niccolini; il Poeta quindicenne, nel _Trionfo della Libertà_, e però
prima della sua pretesa conversione, mentrechè egli mostra come Dio,
ossia la religione, insegni soltanto l'amore:

   Ei, con la voce di natura, chiama
     Tutti ad armarsi, e gli uomini accompagna
     E va d'ognuno al cor ripetendo: _ama!_

si rivolge dantescamente a Roma:

   Ahi! de la libertà l'ampia ruina
     Tutto si trasse ne la notte eterna,
     Ed or serva sei fatta di reina.
   Che il celibe Levita ti governa
     Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
     Chiuder la porta e disserrar superna.
   E i Druidi porporati, oh casta, oh santa
     Turba di lupi mansüeti in mostra
     Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta,
   E il popol riverente a lor si prostra
     In vile atto sommesso, e quasi Dei
     Gli adora e cole, oh sua vergogna e nostra!

Si offendeva il giovinetto Manzoni nel vedere che in Italia molto più
che Cristo si adorasse il suo Vicario; egli presentiva già il giorno,
in cui il Papa avrebbe finito per dichiararsi infallibile; perciò
arditamente cantava:

     Infallibil divino a le devote
     Genti s'infinse, che a la putta astuta
     Prestâro omaggio e le fornîr la dote.

Si dirà facilmente da alcuno di que' devoti che si preparavano alla
beatificazione di Alessandro Manzoni, che non è da tenersi conto del
linguaggio intemperante di un giovine studente traviato; ma il guaio è
che il Manzoni, quantunque ossequente alla Chiesa, in tutto ciò che
riguarda la materia dommatica del Cattolicismo, non s'immaginava mai
che verrebbe un giorno, in cui l'infallibilità e il potere temporale
de' Papi diventerebbero due nuovi dommi, due nuovi articoli del
_Credo_ cattolico! Nell'_Adelchi_, lo stesso Desiderio re de'
Longobardi, a cui l'Autore impresta pure i suoi proprii sentimenti
religiosi, tanto da fargli dire vinto da Carlo Magno queste parole di
sommissione, per le quali si riconosce nel vincitore la potenza del
dito divino:

     In te del cielo
     Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
     Dio m'inchinò, m'inchino,

quando si tratta di definire quali possano essere le relazioni di un
Re che ambisce la piena signoria d'Italia col Papa, esclama:

        .... Roma fia nostra; e, tardi accorto,
     Supplice invan, delle terrene spade
     Disarmato per sempre, ai santi studii
     Adrian tornerà; re delle preci,
     Signor del Sacrifizio, il soglio a noi
     Sgombro darà.

In queste poche parole viene espresso, dodici anni prima, il concetto
fondamentale dell'_Arnaldo_ del Niccolini. Il Manzoni perciò non
poteva in nessun modo accordarsi coi Gesuiti, i quali volevano che la
Chiesa s'impacciasse nel governo politico del mondo; e fin dall'anno
1819, scrivendo da Parigi al suo proprio confessore Tosi un po'
giansenista, esprimeva chiaramente il suo pensiero in proposito: "A
malgrado (egli diceva) degli sforzi di alcuni buoni ed illuminati
Cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni
del secolo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a
riconoscere questa separazione, e a lasciare la religione almeno in
pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono
assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi
hanno aggiunto al _Simbolo_. Quando la Fede si presenta al popolo così
accompagnata, si può mai sperare che egli si darà la pena di
distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è l'immaginazione degli
uomini? I solitarii di Porto Reale l'hanno fatto, ma erano pochi,
erano dotti, erano separati dal mondo, assistiti da quella grazia che
non cessarono d'implorare." Ciò che è nuovo nel carattere religioso
della letteratura manzoniana è, per l'appunto, questo richiamo della
religione a' suoi principii fondamentali di carità e di libertà,
questo accordo dei principii umanitarii del Vangelo coi principii
umanitarii proclamati dalla Rivoluzione francese, la quale non gli
osservò poi sempre essa medesima, ma intanto gli ha come consacrati
nella società moderna. Gli scrittori cattolici francesi più venerati,
come il Chateaubriand ed il Montalembert, rimasero, per questo
riguardo, molto più indietro del Nostro. Il Montalembert, per esempio,
che conobbe il Manzoni a Brusuglio nel 1836, discorreva un giorno con
esso intorno all'assetto politico che si poteva sperare o disperare di
dare all'Italia. Il Manzoni disse tosto che il suo ideale sarebbe
stata l'unità d'Italia con un Principe di casa Savoia. Sperava il
Francese che il Manzoni avebbe fatta un'eccezione pel dominio
temporale del Papa, non potendo ammettere che un cattolico supponesse
possibile qualsiasi attentato contro di esso; e però strinse i panni
al Manzoni, chiedendogli quello che contasse di fare del Papa-Re.
"Quando vi ho detto (rispose il Manzoni senza scomporsi) che voglio
l'unità con un Principe che non è il Papa, mi par d'avere già risposto
in anticipazione alla vostra dimanda." Nell'anno 1848, quando tutta
l'Italia delirava per Pio IX e in casa dello stesso Manzoni il suo
primogenito si faceva bello con la medaglia del Papa, il Manzoni fu
de' pochissimi che non si lasciarono sedurre da un entusiasmo, che a
lui pareva più funesto che utile all'unità italiana. Egli non si
lasciava trasportare dalle opinioni volgari, quando non gli pareva che
il senso volgare fosse il buon senso; ma voleva camminare co' suoi
tempi, e progredire; anche nel modo di vestire, desiderando evitare
ogni ridicola stranezza, fino agli ultimi anni di sua vita desiderava
sempre mostrarsi uomo moderno. Di ogni ritorno al passato, di ogni
passo che si dèsse per andare indietro, si doleva. Venerava i dommi
cattolici, ma non trovava certamente che fossero pochi; e però quando
intese che se ne voleva aggiungere uno nuovissimo, quello
dell'infallibilità papale, il vecchio Manzoni si trovò intieramente
d'accordo col giovinetto protestante del _Trionfo della Libertà_, si
schierò dunque animosamente tra gli antinfallibilisti più risoluti e
più rigorosi; "ma quando (scrive il Rizzi) egli, cattolico, seppe che
in Vaticano era passata, come si direbbe noi laici, la nuova legge,
non fece che esclamare: _pazienza!_, e non ne parlò più. E forse in
questa sua sottomissione della ragione alla fede c'entrava per molto
l'esempio del suo dottore e maestro l'abate Rosmini, il quale pure
avea dichiarato di sottomettersi alla censura inflitta al suo libro
delle _Cinque Piaghe_." Ma, in somma, egli si rallegrò che Roma fosse
tolta al governo del Papa, ed accettò con piacere l'onore di venire
ascritto nell'albo de' cittadini di Roma capitale, dove il Papa
infallibile si era rintanato a fare il broncio a quell'Italia, che,
come ben disse lo stesso Manzoni, egli benedisse prima del
Quarantotto, per mandarla, dopo il Quarantotto, a farsi benedire. Egli
conosceva il pregio di certi onori, i quali ricevono importanza
dall'occasione e dalla qualità speciale di chi li riceve e di chi li
concede; perciò egli che, a malgrado dell'intercessione del conte
Andrea Cittadella e di Alessandro Humboldt, non avea temuto offendere
l'Imperatore d'Austria ed il Re di Prussia, ricusando le loro
decorazioni, gradiva poi una stretta di mano del re Vittorio Emanuele,
una rosa del generale Garibaldi, ed un ben tornito complimento del più
dotto fra i coronati viventi, Don Pedro d'Alcantara. Un tempo, quando
pubblicò i _Promessi Sposi_, egli avea pure gradito le cortesie del
Granduca di Toscana; ma non dimentichiamo ch'era quello il decennio
glorioso, in cui nella piccola ospitale Toscanina riparavano gli esuli
delle altre provincie d'Italia, il Pepe, il Colletta, il Poerio, il
Leopardi, il Tommaseo, il Giordani ed altri più che venivano a
riscaldare le loro speranze intorno alla più coraggiosa ed importante
delle Riviste letterarie italiane, l'_Antologia_, e nel Gabinetto
letterario del ginevrino Giampietro Vieusseux. Ed il Manzoni di
nessuno faceva maggiore stima che di quegli Italiani, che aveano avuto
la fortuna non solo di scrivere, ma di patire e di combattere per
l'Italia; quando il Settembrini si dimenticò pertanto a segno da
paragonare il Manzoni _al vecchio Priamo che scagliava il suo telo
senile_, egli, sebbene sentisse tutta l'indegna acerbità dell'offesa,
la voleva perdonare, non tanto perchè come cristiano egli lo avrebbe
dovuto, ma perchè egli pensava che si dovesse perdonar molto ad un
uomo, il quale era stato in prigione per la patria. È noto che il
Manzoni, negli ultimi anni della sua vita, lavorava intorno ad un
_Saggio comparativo fra la Rivoluzione francese del 1789 e la
Rivoluzione italiana del 1859_. L'opera, tuttora inedita, non potè
venir terminata; nella parte che riguarda la Rivoluzione francese,
egli ammira l'Ottantanove e deplora e condanna il Novantatrè, che non
gli pare sia stato nè utile nè, in alcun modo, necessario; trova, in
somma, che il Novantatrè era un Ottantanove peggiorato; sono rimasti
intatti di questa parte ben 286 fogli. La parte italiana, quale rimane
fra le carte inedite del Manzoni, si compone di soli diciotto fogli;
al nostro scopo, che è quello di mostrare quale concetto civile e
politico il Manzoni si faceva della letteratura, basterà qui il
riferirne, poichè la gentilezza e la memoria di un amico ci aiuta,
alcuni saggi che il Manzoni stesso veniva leggendo ai più intimi ed
assidui suoi frequentatori. Di Dante che voleva l'unità con Arrigo di
Lussemburgo, il Manzoni scriveva: "Dante, il grande e infelice
Italiano, che cercava in una qualche forza viva il mezzo di ottenere
l'unità, credette di poterlo trovare nell'Impero. Ma, per verità,
sarebbe difficile il decidere se questo sarebbe stato meno atto a
crearla davvero o a mantenerla." Il Manzoni ammirava il Piemonte e
sperava molto da esso; perciò lasciò scritto: "La concordia nata nel
1849 tra il giovane Re di codesta estrema parte della patria comune e
il suo popolo ristretto d'allora, fu la prima cagione di una tale
indipendenza; poichè fu essa, e essa sola, che rese possibile anche il
generoso e non mai abbastanza riconosciuto aiuto straniero; e essa
sola che fece rimaner privi d'effetto gli sforzi opposti della Potenza
allora prevalente in Italia, e fatalmente avversa a questa
indipendenza." Ma il Manzoni voleva il Piemonte italiano, non già
l'Italia piemontese, e ancora meno l'Italia esclusa dal Piemonte o il
Piemonte dall'Italia. Perciò quando il Piemonte formava con la
Sardegna un regno separato, e l'Accademia delle Scienze, la quale
soleva aggregarsi come _Accademici stranieri_ gl'illustri Italiani
delle altre provincie, nel 1833 eleggeva _Accademico straniero_ il
Manzoni, questi, rifiutando un tale onore, rispondeva al Presidente
dell'Accademia conte Prospero Balbo in questi termini: "Un tanto onore
sarebbe caramente pagato, se io non lo potessi ottenere che col titolo
di _Accademico straniero_; standomi più a cuore l'esser compatriotta
di Lei e degli altri uomini insigni, di cui codesta Accademia si
vanta, che d'esser loro collega; chè, se questo è un effetto della
degnazione loro, quello è un dono di Dio, che mi ha fatto nascere in
questa Italia, che è superba di chiamarli suoi." L'ultime sue parole
d'affetto furono pure per la città di Torino. Egli le scrisse
nell'anno 1873, poco prima di morire, e suonano così: "Trista
condizione di cose, in cui anche gli uomini di alta mente e amici
della patria non potevano far altro che disperare o sognare." Vittorio
Emanuele gli pare: "Un Re che al coraggio e alla costanza della sua
stirpe univa un sentimento per l'Italia, che in questo caso non
consentiremmo di chiamare ambizione, perchè la parte di vanità e
d'interesse personale sottintesa in un tale vocabolo scompare nella
grandezza e nella nobiltà del fine." Riconosce l'antica forza di
resistenza opposta allo straniero invasore dall'esercito del piccolo
Piemonte, con una felice similitudine: "L'esercito piemontese aveva
saputo tener addietro, da quella parte, per ben tre anni, il novo
invasore, come quel valente ragazzo olandese aveva opposta all'acqua
che stava per prorompere da un punto dell'argine la sua piccola, ma
tenace schiena, aspettando soccorso." Riconosce l'importanza del
soccorso, che ci diedero i Francesi nel 1859; ma, nello stesso tempo,
osserva che l'Italia si è pure un poco aiutata da sè: "La vita d'una
nazione non può essere un dono d'altri. È bensì vero che una nazione
divisa in brani, inerme nella massima parte, e compressa da una
preponderante, ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da
sè rivendicare il suo diritto di essere; e questa è la sua infelicità
e un ricordo di modestia. Ma è anche vero che non lo potrebbe nemmeno
con qualunque più poderoso aiuto esterno senza un forte volere e uno
sforzo corrispondente dalla sua parte. Un braccio vigoroso può bensì
levar dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di
camminare." Per la stessa ragione il Manzoni ammirava la grande
impresa compiuta dal generale Garibaldi; ma, quanto più gli appariva
meravigliosa, tanto più ei vi riconosceva l'opera del popolo italiano
che la secondò: "E mille valorosi condotti, come a una festa, da un
valorosissimo a conquistare a questa patria comune un vasto e
magnifico tratto del suo territorio, da principio con l'armi, a
un'immensa disuguaglianza di numero, come a prova dell'ardire, e poi
con la sola forza del nome e della presenza, come a prova della
spontaneità dell'assenso." Questa pare a me e deve parere a molti
bella e buona sapienza politica; si chiama pure (a dispetto di certe
sottigliezze e squisitezze di stile che possono talora apparir
soverchie) un parlar chiaro e sicuro, come d'uomo profondamente
convinto. Il Manzoni ebbe pure la grande fortuna che gli eventi gli
diedero ragione. Nel 1848 egli voleva essere più tosto repubblicano
con l'unitario Mazzini, che federalista col re Carlo Alberto; del che
dolevansi i suoi amici piemontesi, in ispecie il Balbo e l'Azeglio.
Quest'ultimo, perciò, scrivendo a sua moglie sfogava un po' di
risentimento politico contro il Manzoni ed i suoi amici:[1]
"Salutami gli amici, Grossi, Manzoni, e di' a tutti che io, a forza di
girare, conosco l'Italia più di loro; che non si fan repubbliche senza
repubblicani; e di questi non ne ho quasi incontrati in Italia. Di' a
Manzoni che, se riesce a far repubblicano Carlo Alberto, non riescirà
a far Pio IX. Sarebbe metter in seno all'Italia due serpi che si
combatterebbero e lacererebbero loro e lei. Per amor di Dio,
contentiamoci di fare uno Stato forte sul Po, costituzionale; e
preghiamo Dio di trovare un venti per cento che capisca _de quoi il
s'agit_. A star sempre in una camera, parlar cogli stessi uomini, si
giudica male un paese e il mondo pratico. Lasciamo andar la donna del
giudizio di Salomone e il suo bambino; a lei Salomone dava la scelta,
a noi la necessità la nega. Giudizio, cose possibili, e non poesia,
per carità!" Pare che il Manzoni opinasse allora che chi amava
l'Italia dovea piuttosto come, nel giudizio di Salomone, imitar la
vera madre, la quale preferiva piuttosto saper viva ed intatta in mano
altrui la propria creatura, che riscattarla dalle altrui mani per
farla in pezzi, L'Azeglio dava al Manzoni del poeta, altri, con parola
che vorrebbe significare il medesimo, lo qualificavano, a motivo delle
sue idee unitarie, per un utopista; al che egli rispondeva: "Eh! ben
anche la vostra federazione è un'utopia; poniamo pure che l'unità sia
un'utopia; la federazione è un'utopia brutta, come l'unità è invece
un'utopia bella." Dolevasi, invero, che i Francesi avessero chiesto un
compenso del sangue versato in Lombardia, col privare l'Italia
occidentale di due suoi antichi baluardi; ma, dominato dal suo
concetto unitario, egli provava a consolarsi della dolorosa iattura
con una similitudine: "Se la culla del Regno d'Italia (egli pensava) è
stata la Savoia, come il fanciullo cresciuto in età, non avendo più
bisogno della culla, la può dar via, così fece il Regno d'Italia
cedendo la Savoia alla Francia." Ma la Savoia era all'Italia, più
ancora che una culla, una fortezza poderosa; chi la ricevette, invece,
non si rallegrò forse di un acquisto proporzionato alla gravità della
nostra perdita. Ma in Savoia non si parlava italiano, e uno de' più
forti elementi per costituire fortemente l'unità della patria pareva
al Manzoni l'unificarla in un solo linguaggio. Quindi il sacrificio
nazionale, per la perdita di Nizza e Savoia, ma specialmente della
Savoia, al Manzoni dovette parer minimo. Essa non poteva, secondo il
concetto manzoniano, convergere al centro comune della patria, non
poteva associarsi e partecipare all'opera vivificatrice del
linguaggio, che doveva aver sede unica e base fondamentale in Firenze.
Poichè ogni unità, ma specialmente ogni unità organica, ha il suo
centro di attrazione e di gravità, poichè ogni albero ha la sua
radice, la radice dell'albero della lingua italiana, ond'essa dovea
ricevere succo e forza vitale, era pel Manzoni in Firenze, nella
parlata fiorentina, come quella che in Toscana appare meno incerta, e,
come più ricca di storia civile, necessariamente anco più ricca di
parole adatte per esprimere un maggior numero di pensieri. "In fatto
di lingua (diceva egli con vivacità a' suoi amici), in fatto di lingua
non c'è un più o un meno; non c'è che il tutto o il niente." Egli
voleva il tutto; e non ammetteva alcuna diminuzione di questo concetto
ch'ei si era fatto dell'unica base stabile e conveniente alla lingua
italiana.[2] Chi, dicendosi manzoniano, cercava l'italiano in altre
parti della Toscana, fuori del Contado fiorentino, spostava la sua
questione, mostrava di frantenderla e irritava il valentuomo che
l'aveva proposta, forse più degli avversarii aperti, i quali volevano
che la lingua si pigliasse dove tornava più comodo. La questione della
lingua non è punto nuova in Italia; essa è nata, si può dire, con la
nostra letteratura. Merito principale del Manzoni fu d'avere
ricominciato a trattarla _nazionalmente_, con quella stessa serietà,
con la quale l'aveano posta nel Trecento e nel Cinquecento il primo
poeta e il primo prosatore d'Italia, Dante e il Machiavelli. Il merito
dovea parere tanto maggiore nell'anno 1824, quando il Manzoni
s'accinse la prima volta di proposito allo studio della lingua
italiana, poichè Vincenzo Monti con la _Proposta_ e gli Accademici
della Crusca coi loro illustri e minuti battibecchi facevano anzi
nuova mostra infelice, con meschini dispetti provinciali, dell'antica
e funesta discordia italiana. Il Manzoni poi, lasciando stare le
questioni minori, prese, come suol dirsi, il toro per le corna, si
domandò se lingua c'era, dov'essa era migliore, e quando la fiorentina
si riconoscesse migliore, richiese che quella sola si studiasse e
adottasse per farne la lingua di tutti gl'Italiani. Il ragionamento
pareva molto ovvio e semplice; il Manzoni aveva rinnovato il miracolo
dell'uovo di Colombo. Ma quando tutti ebbero capito quello che prima
non capivano, pur volendo mostrare di saperne di più, invece di
convenire che egli avea ragionato bene, si voltarono contro di lui
come contro un sofista che, invece d'allargare la questione, l'avea
ristretta troppo. Ma egli aveva ragionato anche questa volta da
unitario. Egli ammirava forse nella storia più Firenze che Roma, e si
sarebbe contentato che la sede del Regno d'Italia rimanesse in Firenze
anzi che trasferirsi a Roma, la quale in ogni modo desiderava di gran
cuore ridonata all'Italia libera dal dominio temporale de' Papi. I
Fiorentini doveano parere al Manzoni gli Ateniesi d'Italia, la lingua
fiorentina la nostra lingua attica. Ma, perch'egli potesse avere
pienamente ragione, era prima necessario ascoltarlo; ora l'Italia non
convenne a Firenze, per avvivarne l'antica floridezza, per mettervi
dentro tutto il suo sapere, tutta la sua civiltà e per farne veramente
la prima città d'Italia, com'era un tempo Atene per la Grecia;
l'Italia vi si attendò per cinque anni, non vi pose stabile radice e,
migrando nel 1870 ad altra riva, la lasciò più povera e più negletta
di prima. La teoria manzoniana quindi ci pare ora più che mai
eccessiva, poichè in Firenze non s'accentra più, com'era sperato dal
Manzoni e dall'Azeglio, il fiore della civiltà, il nerbo della vita
italiana; ed una lingua per ottenere il consenso universale d'una
nazione ha bisogno di derivar la sua forza da una vita locale più
gagliarda delle altre. Questa vita privilegiata potrebbe esistere, ma
non può dirsi, pur troppo, che esista ora in Firenze; quindi la
necessità di ammettere la ragionevolezza di que' temperamenti che il
Fauriel proponeva già al Manzoni fino dal loro primi colloquii intorno
alla lingua italiana. "Il Fauriel (scriveva il Sainte-Beuve), udendo
le ingegnose ragioni del Manzoni, non ardiva contradirle in tutto, ma
nondimeno aveva qualche cosa da ridire. L'Italia ebbe pure in tutti i
tempi i suoi grandi scrittori; perchè dunque non potrà averne anche
oggi? È poi un male così grande ed irrimediabile, alla fin fine,
d'esser costretto a scegliere, ed anche, in un certo senso, a comporsi
la lingua, a tenerla sollevata dalle trivialità, a cercare
d'indirizzarla verso un tipo superiore, che s'appoggia direttamente,
ma in modo larghissimo, all'esempio degli antichi maestri? È vero che,
superate le difficoltà, ci vuole poi l'ingegno per far bene. Ma il
Fauriel mostrava che qui il campo era assai vasto e glorioso. E
ardiva, per certo, rimandare all'amico un rimprovero che ne avea
ricevuto sovente; e incitarlo a non voler prendere per regola del suo
lavoro un ideale di perfezione, a cui non è dato giungere interamente,
neppure a coloro che ne hanno in sè il sentimento. E rifacevagli
quella guerra che spesso il Manzoni compiacevasi fare a lui, per
troppa incontentabilità. Il Fauriel era infatti incontentabile in ciò
che componeva, ma sulle cose; il Manzoni sullo stile." Noi possiamo
ora trovar ragionevoli i temperamenti del Fauriel, ma dobbiamo essere
persuasi ch'essi non convincevano il Manzoni, il quale mirava ad ogni
specie di perfezione, e riconosceva come un elemento di perfezione
l'unità. Bisognava in Italia scrivere popolarmente per essere intesi
da tutti, bisognava parlare una sola lingua, avere una sola fede
religiosa, una sola fede politica; senza di ciò non vi è armonia e
vera grandezza italiana. Il centro dell'unità del linguaggio doveva
esser Firenze, quello dell'unità della fede Dio, come lo intende e lo
spiega la Chiesa cattolica. Voleva pure unità di stirpe nel popolo
italiano, e però nel suo celebre _Discorso sopra la Storia de'
Longobardi_ che ebbe il merito di promuovere in Italia una nuova serie
d'indagini storiche molto importanti,[3] escludeva i Longobardi
conquistatori da quel popolo italiano che aveano vinto ed oppresso e
derubato, ma in nessun modo, potuto assimilarsi. Voleva bontà ed unità
di leggi, liberate dal capriccio; quindi la critica legislativa della
sua storia della _Colonna Infame_, ove, col pretesto di biasimar le
antiche leggi, colpisce nella stessa condanna le nuove sommamente
arbitrarie dell'Austria. Anche le idee avevano il loro principio, il
loro centro d'unità; nel _Dialogo sull'Invenzione_ egli sostiene la
dottrina rosminiana delle idee innate, e le fa, per conseguenza, anche
se non lo dice, risalire a Dio. Per lo stesso sentimento d'armonia
universale, il Manzoni sente l'alto dominio della poesia, che
abbraccia in sè l'universalità delle cose sentite e pensate, e la
superiorità della poesia alla storia. "È una parte (egli esclama nel
suo _Discorso sul Romanzo storico_) della miseria dell'uomo il non
poter conoscere se non qualcosa di ciò ch'è stato, anche nel suo
piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il
poter congetturare al di là di quello che può sapere." La realtà per
lui era la base, l'ideale, la corona di ogni edificio poetico; perciò
il suo edificio piantato sopra la terra poteva facilmente salire fino
al cielo. Per questi supremi diritti concessi alla poesia, il Manzoni,
sebbene confessi che ad ogni uomo d'ingegno giova il consenso altrui
per assicurarsi delle proprie forze, sentendo sè stesso tanto
superiore al volgo da poter talvolta osare di andar contro le opinioni
volgari, lasciò pure scritto: "La maggior parte de' poeti, le cui
opere sopravvissero a loro, ebbero qualche pregiudizio da vincere, e
non divennero immortali se non con l'affrontare il loro secolo in
qualche cosa." Ma non frantendiamo: il Manzoni, per quanto grande
rivoluzionario egli fosse in letteratura, non ha già voluto dire ai
giovani che, per riuscire originali, essi hanno ad urtare i sentimenti
più squisiti e più delicati del loro tempo; lo strano ed il grottesco
non vogliono già dire l'originale; il Manzoni è sempre ragionevole
anche quando egli è maggiormente poeta, ossia quando il suo ingegno si
alza di più; egli ha definito una volta la poesia _l'esaltazione del
buon senso_, e basta questa definizione per farci intendere quello
ch'egli crede si possa dire o non dire in poesia. Il reale e l'ideale
devono essere fusi insieme; l'ideale deve alzare il reale, non
abbassarlo, non abbassarsi ad esso; l'uno fuori dell'altro non istà
nella poesia; e con uno solo di questi elementi non c'è vera poesia.
Il Manzoni, in questo come in altri casi, vuole tutto o niente. Egli,
così destro e fine nel cogliere i particolari accidenti delle cose, li
nota soltanto per le loro attinenze con quell'armonia generale che,
nell'età nostra, nessuno ha sentita più del Goethe. E quantunque assai
lontano il Nostro dal possedere quelle profonde conoscenze nelle
scienze fisiche e naturali, che il Tedesco aveva acquistate, è
mirabile la loro concordia nell'alto concetto dell'unità ideale della
scienza, o, se vogliam meglio, delle scienze. "Questo esser costretti
(scriveva il Manzoni) a spezzar lo scibile in tante questioni, questo
vedere come tante verità nella verità ch'è una, e in tutte vedere la
mancanza e insieme la possibilità, anzi la necessità d'un compimento,
questo spingerci che fa ognuna di queste verità verso dell'altre,
questo ignorare che pullula dal sapere, questa curiosità che nasce
dalla scoperta, com'è l'effetto naturale della nostra limitazione, è
anche il mezzo, per cui arriviamo a riconoscere quell'unità che non
possiamo abbracciare." Io mi sono forse troppo dilungato a parlare
d'un Manzoni diverso da quello che gli stranieri si figurano. Ma tante
volte mi è accaduto di sorprendere sulle labbra di gentili forestiere
un sorriso ironico perchè richiesto d'indicar loro uno scrittore
italiano da leggersi, io raccomandavo a tutte ostinatamente il
Manzoni, tante volte mi sentii rispondere: sono pur noiosi que' suoi
_Promessi Sposi_ ch'io ho voluto dimostrare dapprima: che il Manzoni
sarebbe per noi un grande uomo anche senza i _Promessi Sposi_; ed ora
mi proverò a dichiarare le ragioni, per le quali i _Promessi Sposi_
non possono parer noiosi a noi, e, se non mi lusingo troppo da me
stesso, non dovranno parer più noiosi ai forestieri, pur che
s'avvezzino a leggerli a quel modo con cui siam soliti a leggerli in
Italia da un mezzo secolo e specialmente da alcuni anni in qua, la
guida costante di un _rationabile obsequium_.

  [1] Nell'anno 1832 (il Camerini afferma nel 1831) troviamo l'Azeglio
    stabilito in propria casa con la figlia primogenita di Alessandro
    Manzoni, la Giulia, che ebbe per padrino il Fauriel, divenuta sua
    moglie, intento a dipinger quadri e a limare il _Fieramosca_. "Le
    lettere (egli scrive ne' _Miei Ricordi_) erano rappresentate in
    Milano da Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Torti, Pompeo Litta,
    ec. Vivevano fresche memorie dell'epoca del Monti, Parini,
    Foscolo, Porta, Pellico, di Verri, di Beccaria; e per quanto gli
    eruditi od i letterati viventi menassero quella vita da sè,
    trincerata in casa ed un po' selvaggia, di chi non ama d'esser
    seccato, pure a volerli, e con un po' di saper fare, c'erano, e si
    poteano vedere, Io mi trovavo portato in mezzo a loro come genero
    di Alessandro Manzoni; conoscevo tutti, ma mi ero specialmente
    dimesticato con Tommaso Grossi, col quale ebbi stretta ed
    inalterata amicizia sino alla sua pur troppo precoce morte. A lui
    ed a Manzoni specialmente, desideravo di mostrare il mio scritto e
    chiedere consigli, ma di nuovo mi era presa la tremarella, non più
    pittorica, ma letteraria. Pure bisognava risolversi, e mi risolsi;
    svelai il mio segreto, implorando pazienza, consiglio e _non
    indulgenza_. Volevo la verità vera. Fischiata per fischiata,
    meglio quella d'un paio d'amici che quella del pubblico. Ambidue
    credo che si aspettavano peggio di quello che trovarono, a vedere
    il viso approvativo, ma un po' stupito, che mi fecero, quando
    lessi loro il mio romanzo. Diceva sorridendo Manzoni: "Strano
    mestiere il nostro di letterato; lo fa chi vuole dall'oggi al
    domani! Ecco qui Massimo: gli salta il grillo di scrivere un
    romanzo, ed eccolo lì che non se la sbriga poi tanto male." Pare
    che il Manzoni abbia detto invece: "Eccolo lì che ci riesce alla
    prima."--Lo stupore del Manzoni e del Grossi, del resto, aveva il
    suo fondamento, se è vero, come pare verissimo, quello che il
    signor Gaspare Barbèra disse aver inteso dalle stesso D'Azeglio:
    "Quando io scrissi (avrebbe detto l'Azeglio) la prima volta per
    illustrare la _Sacra di San Michele_ (che fu stampata nel 1829),
    mi posi al lavoro dopo aver fatto raccolta di modi italiani, i
    quali mi pareva che dovessero fare un grande effetto sui lettori,
    e ne riempii più che potei il mio scritto. Andato in quei giorni a
    Milano, offrii a Manzoni una copia della _Sacra_, e lo pregai di
    notarmi ciò che gli fosse parso errore o difetto nello stile.
    Assunse di buon grado l'incarico; e dopo alquanti giorni essendomi
    fatto rivedere, il Manzoni mi fece per l'appunto notare quei passi
    che a me parevano i più belli e studiati, richiamandomi alla
    maggiore semplicità del dire. E coteste note accompagnate dalle
    sue osservazioni verbali mi aprirono un nuovo orizzonte nell'arte
    della scrivere e del dipingere."--Il Camerini lasciò pure scritto
    che il Grossi ed il Manzoni aiutarono l'Azeglio a correggere le
    bozze di stampa del _Fieramosca_. Quando poi si pubblicò il
    _Niccolò de' Lapi_, l'opinione che premeva di più all'Azeglio,
    ch'egli temeva di più, era quella del Manzoni, ond'egli, nel
    dicembre dell'anno 1840, scriveva alla sua seconda moglie, Luisa
    Blondel (la prima moglie, la figlia del Manzoni, di cui è figlia
    la vivente egregia marchesa Alessandrina Ricci, gli era morta dopo
    quattro anni di matrimonio): "Se puoi sapere che cosa dice Manzoni
    del mio lavoro, scrivimene qualche cosa; chè, confesso, desidero
    di uscir d'incertezza. Già sai che da lui mi basta sentire un:
    _Tanto può passare_." Col suo matrimonio con la Blondel l'Azeglio
    era diventato una seconda volta parente del Manzoni; tuttavia non
    può dirsi che i loro caratteri, le loro idee, i loro sentimenti si
    convenissero. La marchesa Alessandrina Ricci, figlia dell'Azeglio,
    nipotina del Manzoni, mi rappresenta in questo modo espressivo il
    contrasto morale che impediva ai due grandi di avere fra loro più
    intime relazioni: "Erano (ella scrive) di troppo diversa natura,
    dissentivano troppo in alcuni punti religiosi e politici. Mio
    nonno, fosse carattere o maggior filosofia, vedeva, per esempio,
    tutto _color di rosa_, prendeva le cose come venivano, sapeva
    insomma passar sopra facilmente a quelle che più lo contrariavano;
    ciò che, unito alla sua robusta costituzione, gli permise di
    campare fino ad ottantotto anni. Mio padre, invece, non prendeva,
    pur troppo, le cose come venivano; e di lui si può veramente dire
    ciò che io rimpiango continuamente, _que la lame avait usé le
    fourreau_."--I dissensi politici fra l'Azeglio ed il Balbo da una
    parte e il Manzoni dall'altra si rivelarono specialmente nell'anno
    1848, nel quale il Manzoni, nella terza giornata, dopo aver quasi
    rischiato il capo, firmando l'indirizzo dei Milanesi a Carlo
    Alberto, invocato in soccorso dei Lombardi, appena Carlo Alberto
    fu entrato in Lombardia, vide in lui più tosto un usurpatore che
    un liberatore; e si associò pertanto alla parte repubblicana che
    voleva una Lombardia indipendente. Tuttavia, i due grandi
    trattavano ad un modo le questioni di civile decoro. Un giorno il
    conte Andrea Cittadella, insigne e coltissimo gentiluomo di
    Padova, ciambellano dell'Imperatore d'Austria, si presentò al
    Manzoni per offrirgli col miglior garbo possibile una decorazione
    austriaca. Il Manzoni rifiutò non solo con fermezza, ma persino
    con una certa durezza, anzi non permise altrimenti che si
    continuasse un tale discorso. La Blondel aveva annunciato il caso
    all'Azeglio, e questi rispondeva: "La condotta di Manzoni porterà
    un ribasso almeno del 25% alla partita croci; e lo vado dicendo a
    tutti. Un giovane assai caldo mi parlava di questo fatto in modo
    che avrei avuto una terribile tentazione di dire: anch'io nel mio
    piccolo, eccetera; ma son uscito vittorioso dal conflitto, e spero
    che il mio avvocato difensore potrà giovarsi di questo fatto
    nell'assise della valle di Giosafat." Questi uomini dunque, che
    forse non si amavano molto, erano invincibilmente legati l'uno
    all'altro da un mutuo rispetto, fondato sopra la stima leale delle
    loro reciproche eccellenti qualità morali. È noto poi come siano
    state le premure dell'Azeglio governatore a Milano che fecero
    ottenere al Manzoni, presidente dell'Istituto Lombardo, quella
    pensione di dodicimila lire annue, con le quali il grand'uomo potè
    passar meno angustiati gii ultimi anni della sua vita.

  [2] La questione della lingua (mi scrive il Rizzi) fu, come tutti
    sanno, una delle passioni della sua vita. Ne parlava quanto più
    poteva, e con tutti; e si può dire che, dopo l'unità politica, era
    la cosa che gli stava più a cuore di tutte. Negli ultimi giorni
    della sua vita, le idee gli si erano confuse, ed egli tratto
    tratto diceva cose che non avevano senso, o, per lo meno, legame;
    ma, se si tirava il discorso sulla questione della lingua, parlava
    ancor sempre con quella maravigliosa lucidità, che fu uno de' suoi
    pregi più notevoli in tale questione; lui, così mite, così pieno
    di riguardi con tutti, diventava insofferente, s'irritava e
    qualche volta anche si sfogava. E non era già la contradizione che
    gli désse noia; era il modo con cui gli avversarii ponevano la
    questione, era il vedere che le sue ragioni non erano, anche dai
    migliori, combattute con altre ragioni, o negate così
    all'ingrosso, o trascurate, come se non meritassero nemmeno
    attenzione. E anche in questa, come nelle altre questioni, egli
    non era uomo da accontentarsi di un'adesione parziale. O tutto, o
    niente; la sua logica non gli permetteva di fermarsi e di
    acquetarsi in un punto intermedio."

  [3] Sopra l'importanza vera del _Discorso storico_ del Manzoni
    intorno alla storia dei Longobardi abbiamo l'opinione stessa
    dell'Autore, quale egli dovette esprimerla al Fauriel ed al
    Cousin. Parlando di quel Discorso, il Sainte-Beuve diceva: "Vorrei
    quasi paragonarlo ad alcuna di quelle argutissime lettere critiche
    di Agostino Thierry sulla nostra storia di Francia. Senza aver la
    pretesa di schiarire quella del Settentrione d'Italia nel IX
    secolo, questo Discorso produce l'effetto di rendere _visibile
    l'oscurità_, dimostrando come quella che pareva esser luce, non
    era. Quel che impazientava il Manzoni sovra ogni cosa e lo
    impazientava al pari del suo _confratello_ Thierry (ch'egli
    chiamava con questo nome), erano le formole vaghe, volgari,
    vigliacche, con le quali gli storici moderni avevano nascoste e
    quasi soffocate le questioni che essi non intendevano. Egli era
    solito epilogare, scherzando, il senso del suo _Discorso_ storico
    in questi termini a un dipresso:--Ho fatto sapere ad essi che non
    sapevano nulla; ho detto loro che non avevo nulla da dire; dopo di
    che li saluto, pregandoli di far lunghi studii, affine di
    sapercene dir qualche cosa. E mi pare che anche questo si chiami
    aver fatto un passo."--Sopra il valore del Manzoni come storico ci
    promette un saggio critico importante l'illustre storico lombardo
    Cesare Cantù.



XVII.

Intermezzo lirico: Le strofe del _Marzo 1821_. Il _Cinque Maggio_.


Ho promesso di discorrere finalmente de' _Promessi Sposi_; ma, cosa
che parrà alquanto singolare, questi non s'intendono bene se prima non
rileggiamo insieme le strofe del _Marzo 1821_ ed il _Cinque Maggio_.
Ho detto rileggiamo, ma io temo pur troppo che le prime non solo alla
maggior parte de' lettori stranieri, ma ad un gran numero di lettori
italiani non siano note affatto; e le doveva ignorare il Settembrini,
quando, con improvvida leggerezza, lanciava al Manzoni l'accusa di
essere stato il _poeta della reazione_. Le conosceva invece benissimo
e le faceva gustare vivamente al pubblico affollato di Zurigo
nell'anno 1856 l'illustre critico Francesco De Sanctis, conchiudendone
la lettura concitata con queste belle parole: "Non è una
_Marsigliese_, neppure una poesia del Berchet, potentissimo de' nostri
poeti patriottici. Ne' versi di costui sentite una certa profondità di
odio che spaventa, la tristezza dell'esigilo, l'impazienza del
riscatto, ed un tale impeto e caldo di azione che talora vi par di
sentire l'odore della polvere ed il fragore degli scoppi; qui è il suo
genio. La poesia del Manzoni non è solo un inno di guerra
agl'Italiani, ma un richiamo a tutte le nazioni civili; la parola del
poeta è indirizzata agl'Italiani ed ai Tedeschi insieme. In tanta
concitazione di animi non gli esce una sola parola di odio, di
vendetta, di bassa passione; lontano parimente da ogni iattanza, non
vi è il fremito e la spuma della collera, ma la quieta temperanza di
un'anima virile." Ma questa bellissima tra le liriche manzoniane fu il
meno fortunato de' suoi componimenti; nato nel marzo del 1821, alto
scoppiar della rivoluzione torinese, quando s'attendeva da un giorno
all'altro che l'esercito liberatore piemontese varcasse il Ticino,
compresso dalle armi del Bubna e del Latour ogni moto rivoluzionario
in Piemonte, rimase nascosto fino al giugno dell'anno 1848, quando la
rivoluzione lombarda non solo era già scoppiata, ma ferveva calda e
vivissima la pugna fra gl'Italiani e gli Austriaci. Prostrata
nuovamente ogni speranza italiana, tornò a nascondersi in Lombardia
fino all'anno 1859, e solo fece capolino nella _Rivista Contemporanea_
dell'anno 1856, dopo che il De Sanctis l'ebbe recitata a Zurigo. Nel
1859 si ristampò, ma oramai come una poesia già vecchia, divenuta
rara, non già come una lirica viva, eloquente, e piena di affetti
vigorosamente italiani. Così essa tornò a dimenticarsi, e non si trova
ancora, ch'io sappia, in alcuna nelle nostre antologie poetiche.

[1] E pure mancò poco che per essa il Manzoni non rischiasse il capo,
quando si pensi che per assai meno si empirono di generosi patriotti
italiani le carceri di Gradisca e dello Spielberg. È noto come il
Confalonieri, quando in attesa de' Piemontesi si ponevano già dai
congiurati lombardi del 1821 le prime basi di un Governo provvisorio,
abbia pregato l'amico suo Manzoni di adoprare i suoi buoni amici
presso il canonico Sozzi di Bergamo, affinchè questi si disponesse a
prendervi parte; il Sozzi fu abbastanza avveduto per rispondere:
"Vengano prima e allora ci troveranno tutti pronti." Nel processo, il
Confalonieri ebbe il torto di parlar troppo e nominò pure, quasi a
propria scusa, il Sozzi fra i membri designati al futuro Governo
provvisorio; un commissario di Polizia si recò prontamente presso il
canonico; ma questi, evitando a studio di nominare il Manzoni, si
strinse soltanto nelle spalle, dichiarando semplicemente che al
Confalonieri egli non avea parlato mai e che non era mai nè pure
passata fra loro alcuna lettera; il che era vero; così il Manzoni per
quella volta fu salvo, ma il pericolo corso fu assai grande e gli
dovette porre nell'animo un vivo sgomento. Il Confalonieri, che aveva
il difetto di parlar troppo, sapeva a memoria le tremende strofe
manzoniane per la rivoluzione piemontese del marzo e, se avesse
parlato, il Manzoni era perduto. Quindi il Manzoni si ritrasse, in
que' giorni pieni di sospetti e di denuncie, da Milano a Brusuglio,
ove per tutto il tempo che durarono i processi politici, non cessò di
temere. Non mai la poesia politica italiana aveva spiccato il suo volo
così alto. Vi è una grande serenità e tranquillità in tutto l'Inno; ma
quella pace sarebbe stata tanto più minacciosa ai tedeschi dominatori,
se allora essi avessero potuto prenderne notizia. Col dedicarla poi
nell'anno 1848 a Teodoro Koerner, il Manzoni che, come s'è detto, avea
avuto la fortuna d'essere stato compreso e consacrato dal Goethe[2]
volle fare intendere alla Germania che egli sapeva distinguere il
popolo tedesco da' suoi Governi tirannici; ben disse dunque il Carcano
che quella dedicatoria era omaggio insieme e rimprovero alla nobile
nazione che ci calpestava. Il ritrarsi del Manzoni a Brusuglio, se fu
consiglio di prudenza domestica, non fu già una viltà civile. Egli non
faceva all'Austria alcuna concessione. Egli non le abbandonava nulla.
Egli avea cessato di sperare nell'opera immediata della rivoluzione,
quindi ritirava il suo Inno per riserbarlo a tempi migliori. Ma
intanto continuava a protestare, e dolersi del presente, a custodire
tutte le sue speranze patriottiche dell'avvenire. La rivoluzione
piemontese era fallita; di là dunque per il momento non c'era da
attendere altro. Ma nessuno ebbe una fede più viva del Manzoni
nell'opera del tempo. Ed egli continuò a scrivere anche ne' giorni più
desolati come un uomo che spera. Sentì e si persuase che egli non era
fatto per cospirare, che la parte anche piccolissima da lui,
quantunque inettissimo, presa alla congiura del Confalonieri non era
adatta al suo temperamento; ma sentì che come scrittore, col permesso
della Censura, la quale non avrebbe capito ogni cosa e approvato molte
cose che non capiva, egli avrebbe ancora potuto fare un gran bene.
Egli mostravasi ossequente alla censura; ne accettava tutti i tagli,
bene persuaso che ciò che sarebbe rimasto sarebbe bastato a far
penetrare il suo pensiero. Così sappiamo ora che la Censura austriaca
fece parecchi tagli nell'_Adelchi_. Il Manzoni, specialmente quando
egli scriveva il _Discorso storico_, ne' Longobardi raffigurava non
già i Lombardi, ma la stirpe germanica, i Tedeschi, gli Austriaci. Il
Giannone avea scritto che la signoria de' Longobardi doveva ormai
risguardarsi come una signoria nazionale, perchè dominante in Italia
da oltre due secoli; il Manzoni, in quegli anni, ne' quali la Grecia
si agitava per la sua guerra d'indipendenza, demandava semplicemente
se non fossero pure stranieri i Turchi in Grecia, benchè vi
dominassero da tre secoli. La Censura soppresse quel brano. Quattro
altri bei versi, ne' quali il giovine Adelchi, supplicando il padre a
far la pace con papa Adriano, parlava dell'attitudine degli oppressi
Latini, ossia degli oppressi Italiani:

   Di questa plebe che divisa in branchi,
     Numerata col brando, al suol ricurva,
     Ancor dopo tre secoli, siccome
     Il primo dì, tace, ricorda o spera,

furono pure sacrificati. Così, nel Coro dell'_Adelchi_, scritto dopo
che fallì la rivoluzione piemontese del 1821, tra gli altri versi
vennero soppressi questi, ove l'Autore si rivolgeva agl'Italiani:

   Stringetevi insieme l'oppresso all'oppresso,
     Di vostre speranze parlate sommesso.

Ma il censore che si credeva furbo, lasciò passare nello stesso Coro
questi altri versi, ove il volgo latino vedendo arrivare i Franchi
guerrieri (si legga Buonaparte coi Francesi),

                      rapito d'ignoto contento,
     Con l'agile speme precorre l'evento,
     E sogna la fine del duro servir.

I Franchi, ossia i Francesi, arrivano contro i Longobardi, ossia
contro i Tedeschi di Lombardia, contro gli Austriaci; ma, invece di
liberare, portano in Italia una nuova tirannide, la tirannide
napoleonica; e il censore si contenta che l'ultima strofa del Coro
manzoniano dica così:

   Il forte si mesce col vinto nemico,
     Col novo signore rimane l'antico;
     L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
     Dividono i servi, dividon gli armenti,
     Si posano insieme su i campi cruenti
     D'un volgo disperso che nome non ha.

Era un canto di dolore, che dovea seguire naturalmente a quello tutto
fiducioso che, nel marzo 1821, il Manzoni stesso avea composto, quando
i congiurati lombardi aspettavano con ansia le novelle che l'esercito
rivoluzionario piemontese avea passato il Ticino. Ma il censore non
capì intanto che era l'Austria _la rea progenie_,

     Cui fu prodezza il numero,
     Cui fu ragion l'offesa,
     E dritto il sangue, e gloria
     Il non aver pietà,

e che con quelle parole il Manzoni vendicava finalmente nel 1822 i
martiri piemontesi e lombardi della libertà italiana. Dopo il 1821, il
Manzoni fece della Censura austriaca la propria alleata, per divulgare
i suoi pensieri patriottici; prima di quel tempo, aveva, invece,
anch'esso, se bene inutilmente, cospirato un poco. Ne' _Cento Giorni_,
quando si temeva in Italia una nuova ristorazione della tirannide
napoleonica, il Manzoni aveva, fra il 23 aprile e il 12 maggio 1814,
composta una Canzone che si conserva inedita a Milano, diretta contro
la signoria francese in Italia. Ne reco qui, per saggio, la prima
strofa, la quale mi pare abbastanza significante pel suo particolare
sapore manzoniano:

   Fin che il ver fu delitto, e la menzogna
     Corse gridando, minacciosa il ciglio,
     Io son sola che parlo, io sono il vero,
     Tacque il mio verso e non mi fu vergogna.
     Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
     Che non è sola lode esser sincero,
     Nè rischio è bello senza nobil fine.
     Or che il superbo morso
     Ad onesta parola è tolto alfine,
     Ogni compresso affetto al labro è corso;
     Or si udrà ciò che sotto il giogo antico
     Sommesso appena esser potea discorso
     Al cauto orecchio di provato amico.

Dopo il 1822, il Manzoni giudicò cosa più prudente e più pratica il
confidarsi tutto all'ignoranza de' suoi censori. Quando il 5 maggio
1821 morì Napoleone, il nostro Poeta si trovava a Brusuglio. Parve a
sua madre che quella morte sarebbe stata degno soggetto di un suo
canto. Il Manzoni si raccolse brevemente in sè stesso, e bastarono
sole ventiquattro ore ad ispirargli una delle più belle liriche del
nostro secolo, nella quale il soggetto epico trae pure calore lirico
dalle impressioni stesse che il poeta aveva ricevute nella sua
gioventù alla vista di Napoleone. Lo Stoppani ci ha fatto noto che il
verso del _Cinque Maggio_, ove si rappresenta il modo terribile, con
cui il primo Napoleone poteva talora guardare:

     Chinati i rai fulminei,

risale ad una impressione ricevuta dal Manzoni giovinetto al _Teatro
della Scala_. Dopo la battaglia di Marengo il Buonaparte era venuto a
Milano più da padrone che da liberatore: entrò una sera in teatro, e
scorse in un palco la contessa Cicognara, nemica implacabile che non
gli perdonava l'ignobile mercato di Venezia. Incominciò a puntare gli
occhi sopra di lei, quasi per fulminarla, e per tutta la sera non si
rimosse. "Che occhi! (diceva il Manzoni, il quale stava nel palco
della Contessa), che occhi aveva quell'uomo!" e richiesto se potesse
esser vero che quegli occhi gli avessero suggerito il noto verso,
rispose: "Proprio così, proprio così." Il Buonaparte gli aveva
lasciato certamente per questo ricordo e per altri consimili una
forte, viva e profonda impressione. Al poeta Longfellow, che, in una
sua visita al Manzoni, avvertiva la Impossibilità, nella quale egli si
era trovato di render convenientemente in inglese tutte le bellezze di
quell'Inno straordinario, il Manzoni con la sua solita originalità ed
arguzia, pur facendosi tutto rosso in viso, rispondeva: "Dio buono!
Era il morto che portava il vivo!" Il Manzoni era, del resto,
sinceramente persuaso che si fosse un poco esagerato il merito del
proprio componimento, a cui fu senza dubbio non piccola gloria e pari
fortuna l'essere stato proibito dalla Polizia austriaca, tradotto in
tedesco dal Goethe, imitato in francese dal Lamartine.[3] L'Austria
aveva tosto riconosciuto nel _Cinque Maggio_ del Manzoni un omaggio
troppo splendido al suo temuto nemico, che pareva come evocato dal suo
sepolcro, in quelle strofe potenti. Non ne permise la stampa; ma il
Manzoni ebbe l'accorgimento di presentarne alla Censura due esemplari:
un esemplare il censore tenne gelosamente presso di sè; dell'altro
esemplare non prese alcuna cura; ed il caso volle che andasse smarrito
negli stessi ufficii di Polizia, o sia che qualche impiegato lo
trafugasse e trafugato lo divulgasse; onde il Manzoni poteva poi dire
con la sua consueta maliziosa bonarietà, ch'egli il _Cinque Maggio_
non l'aveva proprio stampato mai, non avendone mai avuto il tempo,
poichè quella Polizia che ne avea proibita la stampa, si era essa data
briga di farlo divulgare, tanto che usci la versione tedesca del
Goethe prima che ne fosse conosciuta alcuna edizione italiana. Ogni
grande scrittore ha nella sua vita il suo momento epico; il Manzoni
lodato dal Goethe che canta Napoleone, dovette sentire tutta la
potenza del suo genio poetico, e ch'egli, in quel punto, dominava
veramente le altezze:

     Lui sfolgorante in soglio
     Vide il mio genio e tacque.

L'_io_ Manzoniano qui appare potente come in quei _forse_ già da me
notato, forse più ambizioso di qualsiasi più audace affermazione:

     E scioglie all'urna un cantico
     Che forse non morrà.

Il _Cinque Maggio_ è il degno epilogo poetico di una grande epopea
storica, tanto più grande e più eloquente in bocca d'un poeta che
poteva, con fiero e legittimo orgoglio, quasi unico tra i poeti
italiani e francesi del suo tempo, dirsi innanzi alla memoria di
Napoleone

     Vergin di servo encomio,
     E di codardo oltraggio,

quantunque la notizia che abbiamo ora di una Canzone antinapoleonica,
non codarda certamente e non oltraggiosa, ma pure scritta dal Manzoni,
quando il colosso napoleonico non lo poteva più ferire, scemi una
parte dell'efficacia potente che avevano que' due mirabili versi.[4]

  [1] Mi giova qui pertanto rimetterla sotto gli occhi de' lettori
    nella sua integrità:

      MARZO 1821
      --
      ALL'ILLUSTRE MEMORIA
      DI TEODORO KOERNER
      POETA E SOLDATO
      DELLA INDIPENDENZA GERMANICA,
      MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA
      IL GIORNO XVIII D'OTTOBRE MDCCCXIII
      NOME CARO A TUTTI I POPOLI
      CHE COMBATTONO PER DIFENDERE O PER RICONQUISTARE
      UNA PATRIA
      ---------
      ODE

       Soffermati sull'arida sponda,
         Volti i guardi al varcato Ticino,
         Tulti assorti nel novo destino,
         Certi in cor dell'antica virtù,
              Han giurato: non fia che quest'onda
         Scorra più tra due rive straniere;
         Non fia loco, ove sorgan barriere
         Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
       L'han giurato; altri forti a quel giuro
         Rispondean da fraterne contrade,
         Affilando nell'ombra le spade
         Che or levate scintillano al Sol.
              Già le destre hanno strette le destre;
         Già le sacre parole son porte:
         O compagni sul letto di morte,
         O fratelli su libero suol!
       Chi potrà della gemina Dora,
         Della Bormida al Tanaro sposa,
         Del Ticino e dell'Orba selvosa
         Scerner l'onde confuse nel Po;
              Chi stornargli del rapido Mella,
         E dell'Oglio le miste correnti,
         Chi ritogliergli i mille torrenti
         Che la foce dell'Adda versò;
       Quello ancora una gente risorta
         Potrà scindere in volghi spregiati,
         E a ritroso degli anni e dei fati
         Risospingerla ai prischi dolor:
              Una gente che libera tutta,
       O fia serva tra l'Alpe ed il mare,
         Una d'arme, di lingua, d'altare,
         Di memorie, di sangue e di cor.
       Con quel volto sfidato e dimesso,
         Con quel guardo atterrato ed incerto,
         Con che stassi un mendìco sofferto
         Per mercede nel suolo stranier,
              Star doveva in sua terra il Lombardo;
         L'altrui voglia era legge per lui;
         Il suo fato un segreto d'altrui;
         La sua parte servire e tacer.
       O stranieri, nel proprio retaggio
         Torna Italia, e il suo suolo riprende;
         O stranieri, strappate le tende
         Da una terra che madre non v'è.
              Non vedete che tutta si scote
         Dal Cenisio alla balza di Scilla?
         Non sentite che infida vacilla
         Sotto il peso de' barbari piè?
       O stranieri! sui vostri stendardi
         Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito:
         Un giudizio da voi proferito
         V'accompagna all'iniqua tenzon:
              Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
         "Dio rigetta la forza straniera;
         Ogni gente sia libera, e pêra
         Della spada l'iniqua ragion."
       Se la terra, ove oppressi gemeste,
         Preme i corpi de' vostri oppressori,
         Se la faccia d'estranei signori
         Tanto amara vi parve in quei dì;
              Chi v'ha detto, che sterile, eterno
         Sarìa il lutto dell'itale genti?
         Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
         Sarìa sordo quel Dio che v'udì?
       Sì, quel Dio, che nell'onda vermiglia
         Chiuse il rio che inseguiva Israele,
         Quel che in pugno alla maschia Giaele
         Pose il maglio ed il colpo guidò;
              Quel che è Padre di tutte le genti,
         Che non disse al Germano giammai:
         "Va, raccogli ove arato non hai;
         Spiega l'ugne, l'Italia ti do."
       Cara Italia! dovunque il dolente
         Grido uscì del tuo lungo servaggio,
         Dove ancor dell'umano lignaggio
         Ogni speme deserta non è;
              Dove già libertade è fiorita,
         Dove ancor col segreto matura,
         Dove ha lagrime un'alta sventura,
         Non c'è cor che non batta per te.
       Quante volte sull'Alpi spiasti
         L'apparir d'un amico stendardo!
         Quante volte intendesti lo sguardo
         Ne' deserti del duplice mar!
              Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
         Stretti intorno a' tuoi santi colori,
         Forti, armati de' propri dolori,
         I tuoi figli son sorti a pugnar.
       Oggi, o forti, sui volti baleni
         Il furor delle menti segrete;
         Per l'Italia si pugna, vincete!
         Il suo fato sui brandi vi sta.
              O risorta per voi la vedremo
         Al convito de' popoli assisa,
         O più serva, più vil, più derisa
         Sotto l'orrida verga starà.
       O giornate del nostro riscatto!
         O dolente per sempre colui
         Che da lunge, dal labbro d'altrui,
         Come un uomo straniero le udrà!
              Che a' suoi figli narrandolo un giorno
         Dovrà dir, sospirando: "Io non v'era;"
         Che la santa vittrice bandiera
         Salutata in quel dì non avrà.

    Notiamo, tuttavia, come ci sembri molto probabile che l'ultima strofa
    sia stuta composta dal Manzoni tra il poetico furore delle Cinque
    gloriose Giornate di Milano.

  [2] Un opuscolo tedesco intitolato: _Interesse di Goethe per Manzoni_
    fu tradotto per cura dell'Ugoni in italiano. Ma alle notizie
    contenute in quell'opuscolo conviene premettere le poche parole
    che si trovano negli _Annalen_ del Goethe, le quali non mi ricordo
    che siansi finqui citate dai biografi del Manzoni, neppure del
    Sauer. Raccogliendo dunque il Goethe nella memoria i casi
    principali della sua vita, nell'anno 1820, scriveva: "Quanto alla
    letteratura straniera, io m'occupai del _Conte di Carmagnola_.
    L'amabilissimo autore Alessandro Manzoni, un poeta nato, per avere
    infranta la legge di unità di luogo, fu da' suoi concittadini
    accusato di romanticismo, sebbene de' vizii di questo non se ne
    sia appigliato alcuno a lui. Egli s'attenne al procedimento
    storico; la sua poesia prese un carattere interamente umano; e
    sebbene egli indugi poco nelle metafore, i suoi voli lirici
    divennero gloriosi come gli stessi critici malevoli furono
    costretti a riconoscere. I nostri buoni giovani tedeschi
    potrebbero vedere in lui un esempio per mantenersi naturalmente in
    una semplice grandezza; ciò servirebbe forse a trattenerli da ogni
    falso trascendentalismo." L'anno seguente, negli stessi _Annalen_,
    il Goethe scriveva che dall'Italia aveva ricevuta l'_Ildegonda_
    del Grossi, ove doveva ammirare molte cose, senza essersi tuttavia
    potuto formare un concetto pieno e preciso del lavoro; e
    soggiungeva: "Perciò tanto più gradito mi riesce il _Conte di
    Carmagnola_, tragedia del Manzoni, un vero e schietto poeta, che
    concepisce chiaramente, che va a fondo delle cose, e che sente
    umanamente." L'articolo del Goethe nel giornale: _Ueber Kunst und
    Alterthum_, si compendiava in queste parole: "Noi non abbiamo
    trovato nel suo dramma un solo passo, ove avremmo desiderata una
    parola di più o di meno. La semplicità, la forza e la chiarezza
    sono nel suo stile fuse indissolubilmente, e, per questo riguardo,
    non ci periteremo di definire come _classico_ il suo lavoro."

  [3] Dopo aver letto il _Cinque Maggio_, il Lamartine ne aveva scritto
    così al suo amico De Virieu: "J'ai été bien plus satisfait que je
    ne m'y attendais de l'ode de Manzoni; je faisais peu de cas de sa
    tragédie (_Il Conte di Carmagnola_); son ode est parfaite. Il n'y
    manque rien de tous ce qui est pensée, style et sentiment; il n'y
    manque qu'une plume plus riche et plus éclatante en poésie. Car,
    remarque une chose, c'est qu'elle est tout aussi belle en prose et
    peut-être plus; mais n'importe; je voudrais l'avoir faite."
    Quest'ultima confessione, in bocca del Lamartine, vale quanto il
    più splendido elogio.

  [4] In un articolo intitolato: _Storia dei maneggi letterarii in
    tempo del dominio di Buonaparte_, inserito, alla caduta del primo
    Impero, nel secondo numero del giornale _Lo Spettatore_, leggiamo
    che parecchi del così detto _partito filosofico_ che manteneva
    idee repubblicane e però avverse a qualsiasi tirannide, finirono
    con far la corte al primo Console e poi all'Imperatore. Il poeta
    Lebrun riguardava come soverchia degnazione, come una discesa, il
    sedersi del Buonaparte sul trono dei re:

         Et l'heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
         Jusqu'au trône des rois.

    Il poeta Chènier, pel suo _Ciro_, riceveva una pensione di seimila
    franchi. Non mancarono i poeti genealogisti. L'Esmenard, per
    esempio, faceva discendere il Buonaparte da un Baldus re degli
    Ostrogoti, e lo fingeva parente del re di Svezia Gustavo IV. "Il
    padrone disgradò la ridicola adulazione, non fece alcun caso di
    quell'ostrogoto lignaggio, e nobilmente dichiarò che la famiglia
    Buonaparte incominciava dal 18 brumaio, êra di salute per la
    Francia. Pure il poeta genealogista, sulle prime fischiato, dopo
    due o tre anni ricavò frutto dalla sua cortigianeria." Nell'elogio
    del Viennet proferito all'Accademia francese dal conte di
    Haussonville, troviamo che il Viennet repubblicano avea risposto
    all'Esmenard con un'Epistola, ov'era questa strofa:

         J'estime tes aïeux, mais j'aime mieux te voir
         Être grand par toi-même, et ne leur rien devoir.
         La France, en t'elevant au trône de ses maîtres,
         A compté tes hauts faits, et non pas tes ancêtres.

    Dicono che l'Imperatore, pur ignorandone l'autore, abbia molto
    gradito l'Epistola, e siasi esso stesso preso la briga di
    divulgarla. Quanti fatti consimili avrà avuto occasione di notare
    e però di ricordare il giovine Manzoni in Francia ed in Italia, e
    quanto disgusto deve egli aver provato alla caduta di quel Grande,
    nel vederlo indegnamente insultato da quegli stessi che l'avevano
    maggiormente esaltato! Il Rosini, ne' suoi _Cenni di Storia
    contemporanea_ (Pisa, 1851), dice del Buonaparte console com'egli
    "nelle sue prime campagne in Italia onorò gl'ingegni dei viventi e
    dei trapassati, come una festa solenne celebrar fece per Virgilio,
    come un'altra egli ne promosse pel trasporto delle Ceneri
    dell'Ariosto, come una Iscrizione ordinò d'apporre sulla porta
    della casa, dove abitò Corilla in Firenze, come fondar fece una
    cattedra di Letteratura dalla Nazione israelitica, per farne
    grazia al loro poeta (Salomone Fiorentino), e come finalmente,
    volendo conoscer di persona l'Alfieri, e ributtato da lui, gli
    rispondesse non già come appare dalla _Vita_ di quello (anno 1800,
    cap. 28), ma, per quanto allor se ne disse, precisamente
    così:--Aveva letto le vostre opere, e aveva desiderato di
    conoscervi; ho letto il vostro biglietto e me n'è passata la
    voglia.--" Ma il Buonaparte fece destituire il Cicognara,
    consigliere di Stato in Milano, per aver accettata la dedicazione
    de' versi del poeta Ceroni Mantovano, il quale sotto il nome di
    _Timone Cimbro_ lamentava la caduta e il destino della Repubblica
    di Venezia. Secondo il Cantù (_Cronistoria dell'Indipendenza
    italiana_) deve attribuirsi al Ceroni il Sonetto che incomincia:

       Tinse nel sangue de' Capeti il dito
         Il ladron Franco; e, di sue fraudi forte,
         Vincitor scese nell'ausonio lito,
         Ebbro gridando: Libertade o morte.

    E finisce:

       Che più? fra noi seder dee un Gallo in trono?
         Ahi! se cangiar tiranno e libertade,
         O terra, ingoia il donatore e il dono.

    In un breve scritto di Giovanni Rosini: _Sugli Epistolari del
    Cesarotti e del Monti_, trovo intorno al Cicognara questa notizia:
    "Tornato in questo tempo in Milano e creato Consigliere di Stato,
    co' nobili suoi modi e col suo bell'ingegno a sè attirava gli
    sguardi dell'universale il conte Leopoldo Cicognara, e insieme con
    lui, anzi, come è più naturale, al disopra di lui, la bella, colta
    ed animosa sua consorte. Col cuore sempre vòlto a compiangere la
    caduta e il destino della veneta Repubblica, sua cara patria, ella
    fece gran plauso a certi versi del poeta Ceroni Mantovano, che
    trattavano quell'argomento e che furon letti, per quanto mi venne
    riferito, tra un gran numero di convitati, a pranzo da lei. Per
    l'arditezza dei sentimenti levaron grido, e mentre alcuni se ne
    ripetevano imparati a memoria, pochi giorni appresso comparvero
    stampati colla intitolazione: _Versi di Timone Cimbro a
    Cicognara_. Colui che comandava in Milano le armi francesi, partir
    fece un giandarme, che, cambiatosi di brigata in brigata, recò
    velocissimamente i _Versi_ a Napoleone, il quale colla stessa
    sollecitudine ordinò la destituzione del Cicognara, e la sua
    cacciata da Milano. Allora fu che riparossi in Toscana, dove si
    diede a continuar lo studio delle Belle Arti, che gli affari
    politici gli avevano fatto interrompere. Ma la Contessa rimase in
    Milano." Il Monti, invece, del primo Console cantava:

                                         L'anima altera,
         Che nel gran cor di Bonaparte brilla,
         Fu dell'italo Sole una scintilla;

    poi volgendosi al Console stesso per rappresentargli le miserie
    d'Italia, aggiungeva:

                                              Vedi che, _priva
         Del Creator tuo sguardo_, appena è viva.

    Il poeta Lodovico Savioli, nel 1803, salutava in Napoleone "il
    guerrier della vittoria alunno;" Luigi Lamberti "l'eroe dei Numi
    amor," e infine esclamava:

         Fondar popoli e far con sante leggi
         La virtute reina e il vizio domo,
         Impresa è sol d'immortal Nume, o d'uomo
                                     Che a Nume si pareggi.

    Il poeta Veneto Buttura diceva da Venezia a Napoleone:

         Sull'indegne mio piaghe affisa il ciglio,
         Vien, vinci, abbatti i coronati mostri;
         E rendi a te la gloria, a me la vita.

    Son note le basse adulazioni del Cesarotti, autore della
    _Pronea_, che parlava in versi a Napoleone, dicendo:

         Parlo in prosa ai mortali, in versi ai Numi.

    Il Foscolo non inneggiò a Napoleone, ma non fu insensibile alle
    grazie della vice-regina Beauharnais:

                                          Novella speme
         Di nostra patria, e di sue nuove grazie
         Madre e del popol suo, bella fra tutte,
         Figlia di regi, e agli Immortali amica.

    Un'Ode del Crocco scritta per la _Nascita del Re di Roma_ e citata
    dal Cantù, cantava:

         Si scosse il Tebro, lo squallor depose
         Roma, rinata allo splendor dal soglio,
         Ed alla maestà si ricompose
                                     Del prisco orgoglio.
         Brillò limpido il Sol, di repentina
         Gioia su i sette Colli alzossi un grido,
         E più superba l'aquila latina
                                     Uscì dal nido.

    Il Gagliuffi voltava in distici latini il Codice napoleonico. Il
    Monti aveva celebrato nel vincitore di Marengo il liberatore
    d'Italia:

         Il giardino di Natura
         No, pei barbari non è.

    Ma nella sua visione presentendo in Napoleone l'ambizione di
    diventar Sovrano, gli fa consigliar da Dante d'impadronirsi della
    signoria:

                                      Vate non vile
         Scrissi allor la veduta meraviglia
         E fido al fianco mi reggea lo stile
         Il patrio amor che solo mi consiglia.

    Nel tempo stesso scriveva al Cesarotti: "Il Governo mi ha
    comandato e m'è forza obbedire. Batto un sentiero, ove il voto
    della Nazione non va molto d'accordo colla politica, e temo
    rovinare. Sant'Apollo m'aiuti, e voi pregatemi senno e prudenza."
    Lo stesso Monti dedicando la traduzione dall'_Iliade_ al
    Beauharnais che gli avea ottenuto il posto di storiografo del
    Regno d'Italia, scriveva nella dedicazione: "Se il cielo,
    invidiandovi ai nostri giorni, vi avesse concesso agli eroici,
    Omero vi avrebbe collocato vicino ad Achille fra Patroclo e
    Diomede. Noi, testimoni delle vostre alte virtù, vi collochiamo in
    grado più d'assai eminente; tra Minerva ed Astrea, vicino al
    massimo vostro Padre." Napoleone tuttavia si doleva di avere per
    sè tutta la piccola e contro di sè tutta la grande letteratura.
    Non mancò a Napoleone il suo improvvisatore imperiale, Francesco
    Gianni, che, pensionato con seimila franchi l'anno, cantava:

         Quell'eroe terribil tanto,
         Onde Ettor di vita uscì,
         In due lustri non fe' quanto
         Bonaparte in un sol dì.

    Il Mascheroni prima di morire scriveva al Serbelloni: "Vi prego
    dire a Buonaparte ch'egli è in cima di tutti i miei pensieri," e
    gli dedicò la _Geometria del Compasso_. "Egidio Patroni, perugino
    (scrive il Cantù nella _Cronistoria_), oltre altri componimenti,
    fece la _Napoleonide_, collezione di cento Odi, ciascuna preceduta
    da una medaglia incisa, celebranti i fasti dell'Eroe." Tra i
    lodatori del Buonaparte, il Cantù ricorda ancora Quirico Viviani,
    Giulio Perticari, Carlo Porta, Saverio Bettinelli, Paolo Costa,
    Cesare Arici, Felice Romani, Davide Bertolotti, Mario Pieri che
    d'aver lodato si pentì troppo tardi, Angelo Mazza. "Il divinizzare
    Napoleone (scrive ancora il Cantù) fu un luogo comune dei nostri
    retori. Nell'Università di Padova, dinanzi al suo busto, il
    Rettore magnifico conchiuse l'orazione;--Veneriamo, o signori, la
    presenza del Nume. -" Il Giordani nel _Panegirico_, dove si vanta
    di "altamente sentire la dignità del secolo," ribocca di
    espressioni simili a queste: "Il mondo è venuto in potestà di
    tale, non oso dir uomo. Invitando gl'Italiani a considerare le
    grandezze de' tuoi benefizii, augusto Principe, in cui la nostra
    nazione adora il più caro benefizio che riconosca dall'Imperatore
    in Italia. Quale altro che Iddio, o virtù somiglievole agli Dii,
    poteva fare sì stupenda consonanza? La virtù di questo divino
    spirito non ci lascia sembrar temeraria qualunque speranza." Nello
    stesso _Panegirico_ il Giordani chiama Napoleone "l'Ottimo e
    Massimo," e loda Cesena di fare ogni anno riaprire l'Accademia con
    le lodi del Buonaparte, egli che più tardi biasimò poi l'uso
    dell'Università di Torino di lodare ogni anno il Re di Sardegna.



XVIII

I _Promessi Sposi_.


I _Promessi Sposi_ furono qualche cosa d'impreveduto e di singolare,
non pure nella letteratura italiana, ma nella vita stessa del Manzoni.
Per quanto i Cattolici abbiano desiderato farne il loro proprio
romanzo, nessuno avrebbe mai immaginato che dalle mani dell'Autore
degl'_Inni Sacri_ e delle _Osservazioni sulla Morale cattolica_
sarebbero usciti i tipi di Don Abbondio e della Signora di Monza. Come
intorno alla conversione religiosa, furono fatte e scritte parecchie
congetture intorno alla vera origine dei _Promessi Sposi_. Pare che,
nel primo concetto, il soggetto principale del romanzo dovesse essere
la conversione dell'Innominato; e ci vuol poca fatica a indovinare da
quella scelta, che il Manzoni voleva ancora col proprio romanzo
adombrarci un episodio della propria vita. Secondo il Sainte-Beuve,
l'idea di eleggere la forma del romanzo sarebbe venuta al Manzoni
dall'intendere che in quel tempo il Fauriel meditava anch'esso un
romanzo storico, del quale pare che la scena dovesse collocarsi in
Provenza.[1] Ma poichè l'affermazione del Sainte-Beuve mi pare
alquanto vaga o non è probabile che il Manzoni abbia fatto un romanzo
solamente perchè il Fauriel ne volea fare un altro, ma più tosto si
crederebbe vero il contrario, cioè che il Fauriel trovandosi a
Brusuglio, quando il Manzoni avea già terminato e stava correggendo i
_Promessi Sposi_, potesse pensare esso a qualche cosa di simile,
gioverà ricorrere ad altre spiegazioni. Camillo Ugoni, che poteva
forse averne avuto alcun sentore in casa stessa del Manzoni che lo
amava e stimava moltissimo, lasciò scritto nella sua _Biografia del
Filangieri_, che l'idea di eleggere ad un suo lavoro educativo la
forma di romanzo venne al Manzoni dal leggere un passo della _Scienza
detta Legislazione_ del Filangieri, ove si raccomanda come ottima
lettura educatrice ai fanciulli, che entravano nel decimo anno, i
romanzi storici.[2] La congettura dell'Ugoni mi pare avere qualche
grado probabile, in quanto che, nell'anno in cui il Manzoni incominciò
a scrivere i _Promessi Sposi_ cioè nel 1821 (e non dopo pubblicato
l'_Adelchi_, come afferma il Sainte-Beuve), la sua figlia primogenita
Giulia avea per l'appunto undici anni, e il figlio Pietro dieci.
Alieno com'egli era dal mandare i figli a scuola, dopo il duro
esperimento che della scuola aveva fatto egli medesimo, il Manzoni
dovette, senza dubbio, desiderare di potere scrivere, se gli riusciva,
prima d'ogni cosa, un buon romanzo storico, che in Italia non esisteva
pur troppo, per i suoi proprii figliuoli. E mi reca meraviglia che tra
le tante cagioni astruse che s'andarono a cercare per chiarirsi come
il Manzoni si fosse indotto a scrivere un romanzo, quest'una così
ovvia, così semplice, non siasi ancora indicata. Il Manzoni, come ho
già avvertito, era un lettore e un postillatore di libri infaticabile;
la biblioteca di Don Ferrante dovea, per la varietà, somigliare alcun
poco alla sua. Egli era dell'opinione non molto comune, o almeno poco
ascoltata, che i libri si stampassero per venir letti; e leggeva di
tutto; di storia e di poesia, di teologia e di filosofia, di agronomia
e di giurisprudenza; e di tutto facea tesoro nella sua memoria
prodigiosa, e succo di vera sapienza più ancora che di semplice
dottrina. Egli discorreva volentieri coi libri che leggeva come se
fossero persone vive, ed entrava volentieri con essi in segreta e
minuta polemica, quando gli pareva che sragionassero. Altre volte egli
se ne lasciava inspirare, e questo fu appunto il caso che gli dovette
occorrere prima di scrivere i _Promessi Sposi_. Quando il Manzoni ebbe
letto in uno Studio biografico del tedesco Sauer, per quali ragioni
artistiche, politiche, religiose, egli si fosse condotto a scrivere i
_Promessi Sposi_, accompagnando le parole con un arguto sorriso,
sclamò: _Cospetto! questo signore deve essere un gran dotto, perchè di
me e delle cose mie ne sa assai più che non ne sappia io_. E, dopo
aver dichiarato che di quelle intenzioni _sotterranee_, sintetiche,
subbiettive o che so io egli non ne avea avute mai, raccontò per la
centesima volta ad uno de' suoi amici presenti come l'idea del romanzo
gli fosse nata a Brusuglio, dove egli avea per qualche tempo creduto
cosa prudente il ritirarsi con Tommaso Grossi e con la famiglia,
quando a Milano erano incominciati gli arresti de' Carbonari. Egli
s'era portato in campagna due libri: la _Storia milanese_ del
Ripamonti, scritta, com'è noto, in latino, ed un'opera del Gioia:
_Economia e Statistica_. Il Ripamonti gli suggerì l'episodio che,
fin dal principio, fissò in particolar modo la sua attenzione e
poco mancò non diventasse il pernio di tutta l'opera; l'episodio
dell'_Innominato_. Dal Gioia gli venne l'idea della inutilità delle
leggi, quando queste non siano in armonia coi costumi, ed i
legistatori rimangano stranieri al paese.[3] È lecito il supporre
che, prima di accingersi a scrivere i _Promessi Sposi_, il Manzoni
siasi consigliato col suo confessore canonico Tosi; è lecito il
supporre che, nel primo disegno, annunziando il Manzoni di voler
narrare la conversione d'un reprobo alla fede, egli abbia incontrato
un'approvazione piena ed assoluta. L'Innominato che si convertiva
pubblicamente nel cospetto del cardinal Federigo, era il Manzoni
stesso che, dopo avere per dodici anni lottato per credere, annunziava
finalmente che il canonico Tosi gli avea toccato il cuore, lo avea
vinto e fatto cosa di Dio; era il Manzoni stesso che confessava, anzi
esagerava ai proprii occhi ed agli altrui la sua antica empietà, per
far più grande il miracolo della Chiesa, la quale avea avuto la virtù
di attirarlo nel proprio seno. Chi cerca ora in qual modo il Manzoni
siasi condotto a credere, non ha da fantasticar molto, ma
semplicemente da rileggere con un po' d'attenzione la scena commovente
dell'incontro dell'Innominato col cardinal Federigo. Con pochissime
mutazioni, si può sostituire al nome dell'Innominato quello del
Manzoni, al nome del cardinal Borromeo quello di monsignor Tosi, con
la sicurezza d'avere scritta ne' _Promessi Sposi_ la propria
confessione autentica, ma trasformata, dissimulata ed ingrandita in
opera d'arte, del poeta convertito.[4] Aggiungiamo che, quando i
_Promessi Sposi_ si pubblicarono, il Tosi era già vescovo, e sarebbe
forse stato assunto all'onore del cappello cardinalizio, senza quel
po' di giansenismo ch'era rimasto nella sua dottrina, e che dovea
dispiacere alla Curia Romana quanto piaceva, invece, al Manzoni.
Ciascuno che rilegga que' capitoli de' _Promessi Sposi_, e li
confronti con la diligente biografia che di Luigi Tosi scrisse il
professor Magenta, si persuaderà facilmente che il Manzoni innestò la
figura del cardinal Federigo sopra quella del proprio santo
confessore. Ma ciò che da principio doveva essere l'intiero libro,
diventò poi un semplice episodio di esso. Il Manzoni, riuscito, di
giorno in giorno più, realista o verista nell'arte sua, desideroso di
fare sopra il suo tempo, sopra la gioventù che doveva educarsi per
mezzo della lettura, una impressione durevole e profonda, dopo aver
concepito un alto e vasto poema, disegnò di scriverlo in prosa. Nel
tempo in cui l'amico suo Tommaso Grossi venuto con lui a Brusuglio si
provava a vestire di forme più popolari l'ottava epica, scrivendo il
poema de' _Lombardi alla prima Crociata_, il Manzoni intraprendeva una
riforma più radicale. Egli era d'avviso che si dovesse pensare e
sentir alto, ma scriver piano; e come Dante avea creata la lingua
poetica italiana, il Manzoni, anco se non vi pretendeva, riuscì a
fondare veramente la nuova prosa italiana. Si dirà; ma come? Il
Foscolo ed il Monti non avevano forse preceduto il Manzoni? Sì, ma
oltre che nessuno de' due ha presentato all'Italia una prosa così
ricca di fatti, di osservazioni, d'idee originali, di affetti veri e
di tipi scolpiti come i _Promessi Sposi_, l'uno e l'altro scrisse
sempre con un po' di enfasi rettorica, con un po' di pompa teatrale,
che ad ogni lettore di buon senso, per poca che sia, deve sempre
apparire soverchia. Il Manzoni dovea fin da giovinetto aver meditato
il libretto del suo nonno Beccaria sopra lo _Stile_, un libretto
scritto male, ma pensato bene;[5] l'articolo del Verri intitolato:
"Ai giovani d'ingegno che temono i Pedanti," e i discorsi che si
facevano contro l'Arcadia e contro la Crusca nell'Accademia, della
quale l'Imbonati era stato presidente; ma, trovando poi giusto tutto
ciò che si scriveva contro i parolai, gli Aristotelici della
letteratura, i pedanti, i retori, egli credeva pure che si dovesse far
qualche sforzo per mostrare che lo stile poteva acquistar nuova
nobiltà dalla sua stessa naturalezza. Il Manzoni contribuì ad
innamorare più fortemente l'odierna Italia della sua lingua, con
l'occuparsene egli stesso per un mezzo secolo, col tornare
pazientemente per tre lustri sopra la lingua de' _Promessi Sposi_, col
fine di purgarla dalle sue voci improprie; l'efficacia che per tale
riguardo egli esercitò col proprio esempio, si sente ancora e non può
venir disconosciuta. Ma la letteratura italiana gli deve molto più,
per avere il Manzoni con l'autorità del suo nome e con la prova
vivente ed immortale d'un capolavoro avvezzata la lingua ad uno stile
così facile, così chiaro, e, ad un tempo, così virile e sostenuto, da
rendere impossibile il ritorno alle viete forme accademiche e
scolastiche, alla nostra stilistica tradizionale e così detta
classica, senza pericolo di cadere nel ridicolo. Dalla descrizione che
il Manzoni ci fa della libreria di Don Ferrante ne' _Promessi Sposi_,
rileviamo che quest'uomo enciclopedico (mettendogli solamente
dappresso il piemontese Botero) prediligeva sovra tutti un autore
"mariuolo sì, ma profondo," il Machiavelli, di cui non si stancava di
leggere e di ammirare il _Principe_ e i _Discorsi sopra la Prima Deca
di Tito Livio_. C'è da scommettere che una parte dell'ammirazione di
Don Ferrante non andava al pensatore ed al politico unitario,[6] ma
allo scrittore, il quale nella prosa non fu superato fin qui da
alcuno, ma emulato dal solo Manzoni, il quale partecipava senza dubbio
in proposito dell'opinione di Don Ferrante. Qual merito maggiore per
uno scrittore che la sua virtù non solo di dir molto in poco, ma di
dire facilmente le cosa difficili, l'arte di far diventare universali
le idee più elevate ed originali? E bene questa virtù, quest'arte il
Manzoni possedette, come autore de' _Promessi Sposi_? in grado supremo
e singolarissimo. Sotto questo aspetto, la sua prosa è la più
democratica che sia stata scritta in Italia. Ma il Manzoni dovette ben
presto accorgersi che, ov'egli avesse fatto l'Innominato il centro di
tutto il suo poema o romanzo, oltre allo scoprir troppo sè medesimo,
non avrebbe mancato di dare al suo romanzo un'aria reazionaria che
veramente non ha e che ingiustamente gli fu attribuita dal
Settembrini. Chè se nell'_Innominato_ che potremmo chiamare della
prima maniera, come già nel _Carmagnola_, vi è qualche cosa del
_Wallenstein_ dello Schiller e del _Goetz von Berlichingen_ del
Goethe, cioè uno spirito ribelle a leggi che gli paiono ingiuste, del
secondo Innominato, dell'Innominato convertito, proposto a modello, i
Gesuiti non avrebbero mancato di fare il loro uomo-tipo, il loro
modello ideale; e tutto il buon effetto della conversione molto più
morale che religiosa operata dal cardinal Federigo si sarebbe
guastato, col mettere sul volto dell'Innominato la brutta maschera di
Tartufo. Consoliamoci dunque che il Manzoni abbia voluto egli stesso
allargare il proprio soggetto, opporre al cardinal Federigo Don
Abbondio e la Monaca di Monza, e fra questi due mettere quella brava
Donna Prassede che si proponeva di far l'educazione di Lucia, su per
giù a quel modo con cui credono di potere educare le famose Dame del
Sacro Cuore. Il Manzoni doveva aver conosciuto qualche Donna Prassede;
quindi fa vivezza e finitezza del suo malizioso ritratto: "Era Donna
Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene;
mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che
pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene,
bisogna conoscerlo; e, al pari d'ogni altra cosa, non possiamo
conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de' nostri
giudizii, con le nostre idee, le quali bene spesso stanno come
possono. Con l'idee Donna Prassede si regolava come dicono che si deve
far con gli amici; n'aveva poche, ma a quelle poche era molto
affezionata. Tra le poche ce n'era, per disgrazia, molte delle storte;
e non eran quelle che lo fossero meno care. Le accadeva quindi, o di
proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi cose
che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di
crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa
supposizione in confuso che chi fa più del suo dovere possa far più di
quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che
ci era di reale, o di vederci ciò che non ci era; e molte altre cose
simili, che possono accadere, e che accadono a tutti senza eccettuarne
i migliori; ma a Donna Prassede troppo spesso e, non di rado, tutte in
una volta."--"... Fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di
Lucia, s'era subito persuasa che una giovine, la quale aveva potuto
promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca, in
somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi
chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata
quella persuasione. Non che, in fondo, non le paresse una buona
giovine; ma c'era molto da ridire. Quella testina bassa col mento
inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o
risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma
denotavano sicuramente molta caparbietà; non ci voleva molto a
indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell'arrossire
ogni momento, e quel rattenere i sospiri.... Due occhioni poi, che a
una Donna Prassede non piacevano punto. Teneva essa per certo, come se
lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una
punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un
avviso per far che se ne staccasse affatto; e, stante questa, si
proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacchè, come diceva
spesso agli altri e a sè stessa, tatto il suo studio era di secondare
i voleri del cielo; ma taceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di
prender per cielo il suo cervello." Qui metteremo un punto
d'interrogazione. Quando si pensi che il Manzoni avea corso rischio
nella primavera del 1821, di andare a morire sulle forche, a motivo
del suo Inno rivoluzionario e della sua amicizia pel Confalonieri, non
è egli probabile che sotto quel "_poco di buono_, quel _sedizioso_"
quello _scampaforca_ di Renzo sia da ravvisarsi per un momento il
Manzoni stesso, in Lucia che avrebbe dovuto staccarsi da lui la
signora Blondel, in Donna Prassede qualche sua bigottissima amica, a
cui il Manzoni non dovea parere convertito abbastanza e in ogni modo

     Un di que' capi un po' pericolosi,

come il poeta Giusti nel _Sant'Ambrogio_ definiva per l'appunto
l'Autore de' _Promessi Sposi_? Mi provo a indovinare, e malgrado
dell'industria grande del Manzoni a mescolar bene le sue carte, mi
studio di capire la malizia del suo giuoco. La Blondel, com'è noto,
era nella sua nuova fede cattolica molto più ardente dello stesso
Manzoni, ed avrà, senza dubbio, cercato o trovato fra le sue nuove
amiche qualche consigliera del tipo di Donna Prassede. Noi non
sapremmo essere attratti molto, per dire il vero, dalle idee di una
povera e rozza contadina come Lucia; ma se si fosse, per un'ipotesi,
travestita, anche un solo momento, da Lucia la signora Blondel, quando
il Manzoni ci assicura che "quella testina aveva le sue idee," non ne
faremmo più le meraviglie. Non dimentichiamo poi che il Manzoni si
lagnava spesso della cura d'anime che i così detti amici, e con gli
amici si comprendano pure l'amiche, si erano assunta presso la
famiglia Manzoni, gli uni per fare di Don Alessandro un santo, gli
altri per salvare in lui il liberale, e troveremo, senza dubbio, molto
più gustoso il ritratto di Donna Prassede, che, per dire tutta la
verità, collocato nel secolo decimosettimo, presso quello di una
semplice contadinella, ci riesce quasi strano, ed in ogni modo,
indifferente. Il Manzoni voleva bensì credere, ma non passare per un
ipocrita; egli si sentiva capace e volonteroso di far del bene, di
farne molto, ma anche debole all'occasione e soggetto a cadere; nè
desiderava infingersi agli occhi altrui migliore di ciò che egli
poteva essere. Ricordiamo il principio del ventesimosesto capitolo dei
_Promessi Sposi_: quanta delicatezza in quel suo interrompersi, quando
il cardinal Federigo rimprovera Don Abbondio di non aver resistito a
Don Rodrigo, d'avere avuto paura, d'avere preferito al dovere la sua
tranquillità; Don Abbondio, confuso, non sa che rispondere e rimane
senza articolare parola; l'Autore è preso da uno scrupolo personale, e
soggiunge: "Per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto
davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le
frasi, nè altro da temere che le critiche dei nostri lettori, anche
noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire, troviamo un non
so che di strano in questo mettere in campo con così poca fatica tanti
bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli
altri, di sacrifizio illimitato di sè. Ma pensando che quello cose
erano dette da uno che poi le faceva (il Manzoni alludeva, senza
dubbio, a monsignor Tosi), tiriamo avanti con coraggio." Ciò che nel
libro del Manzoni piace è il Manzoni stesso. Inconsapevolmente que'
passi, ove egli entra, più o meno dissimulato, in iscena, ove passano
i suoi pensieri, le sue impressioni, ci attirano e ci seducono
piacevolmente; con quanto maggior diletto li rileggeremo noi dunque
ora sapendo che egli, come il Goethe, si è diviso un poco fra tutti i
suoi personaggi! Il forestiero ha cercato tutta l'attrattiva del
Romanzo manzoniano nella semplice storia dei due fidanzati; ed ha
ragione di conchiudere che l'attrattiva è piccola, che il libro si
distende troppo a raccontarla; ha ragione ancora s'egli sente qualche
po' di dispetto contro l'Autore, il quale, invece di farlo correre
speditamente verso lo scioglimento, lo interrompe con descrizioni
infinite, e con la citazione di documenti legali poco intelligibili.
Se Aristotile avesse dato le regole del romanzo storico, è probabile
che il Romanzo manzoniano si troverebbe scritto contro tutte le
regole; vi mancano le giuste proporzioni: vi manca pure quel
_crescendo_ d'attrattiva che si vuol trovare in quasi tutti i romanzi;
l'azione principale è poco importante, od almeno pare di piccola
importanza, considerata in sè e non negl'intendimenti sociali
dell'Autore, il quale, per mezzo d'un caso minuto e specialissimo,
volle rappresentare l'eterna lotta fra oppressori ed oppressi, fra
padroni e servi, fra grandi e popolo, aggruppando intorno a questa
lotta alcune gravi questioni sociali, come quella del caro dei viveri,
della salute pubblica, della legislazione penale, dell'amministrazione
delle Opere Pie, de' mali che reca con sè la guerra, del clero, de'
conventi, ed altre più, ciascuna delle quali potrebbe dar materia,
anco più che a nuovi libri, a nuove ed opportunissime leggi, che,
quando fossero veramente buone ed osservate, varrebbero meglio di
qualsiasi libro pure ottimo, poichè la più difficile di tutte le
traduzioni umane è quella delle idee nei fatti, della teoria nella
pratica, della sapienza intellettuale in tanta eccellenza di virtù
operativa. Il Romanzo manzoniano di per sè, come invenzione di casi,
dice poco; di grandi e forti passioni non vi è quasi traccia; il
lettore non rimane stordito e sorpreso da alcuna grande novità; ma è
singolare, che in questo solo romanzo si cerchi meno quello che piace
di più negli altri, l'elemento romanzesco, e molto più singolare che,
privandosi quasi di questo elemento che pare così necessario negli
altri romanzi, l'Autore de' _Promessi Sposi_ trovi fuori di esso tanta
materia di lettura viva ed attraente. Egli trattò il romanzo come
l'Autore comico la commedia; vi rappresentò la società nella sua vita
solita ed ordinaria, per mostrare che questa vita stessa è una
commedia che si rinnova di secolo in secolo, eternamente. L'ingegno
satirico che tentava naturalmente il Manzoni giovinetto, gli giovò
mirabilmente nella commedia, o nel dramma, o nel poema, o nel romanzo
che si voglia chiamare, de' _Promessi_ _Sposi_, i quali sono tutte
queste cose insieme, ora molto, ora poco, ed entrano nella condizione
privilegiata, e disperante, più che disperata, di tutti i grandi
capolavori letterarii, che non si lasciano classificare in verun
genere, perchè hanno essi stessi creato un genere nuovo, di cui, per
lo più, non essendo l'originalità cosa molto imitabile, rimangono poi
soli rappresentanti. Ciò che nella _Divina Commedia_ attrae più non è
il suo soggetto, ma la maniera con cui l'Autore lo pensa, lo sente e
lo tratta; il medesimo si può ripetere de' _Promessi Sposi_: nel
primo, cerchiamo la poesia di Dante, l'anima e la mente di Dante; nel
secondo; la poesia del Manzoni, l'anima e la mente del Manzoni, e il
modo con cui il reale e l'ideale gli appaiono. Chi legge i _Promessi
Sposi_ come un libro ordinario, non può gustarli se non mediocremente;
chi vi cerca tutto ciò che l'Autore ha voluto mettervi, non può
mancare di trovarvelo, e di ammirare, senza fine, l'Autore che, con
mezzi quasi umili, seppe ottenere effetti massimi. Si, Renzo e Lucia
sono povera e zotica gente, e se il Manzoni ce li figurasse soltanto
come tale, senz'altre sue malizie, comprenderemmo poco i motivi che
spinsero un così alto ingegno a raccogliersi tutto negli anni più
vigorosi e potenti della sua vita sopra una materia così scarsa
d'inspirazione. Ma il Manzoni ha voluto appunto l'opposto di quello
che si vuole generalmente, non inalzare sè sopra un soggetto nobile,
ma inalzare e nobilitare un soggetto quasi ignobile, col versarvi
dentro la miglior parte di sè. Egli adopera i suoi poveri contadini
con quella stessa malizia, con la quale egli si serve talora di
similitudini volgari per dichiarare meglio certi pensieri che, alla
prima, non appaiono nella loro piena evidenza. Sotto i grossi panni
del villano di Lecco si trova sempre il cervello sottile del Manzoni.
Se la fine ironia che vi è dentro non si coglie, il racconto può
talora riuscire insipido, e le riflessioni che lo accompagnano
sembrare superflue. Quando l'Autore intraprende, per esempio, a
descriverci quello che sia propriamente un carteggio fra contadini, i
quali sogliono ricorrere ad un letterato della loro condizione per far
sapere i loro negozii ai lontani, osserva: "al letterato suddetto non
gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe, qualche volta gli
accade di dire tutt'altro; accade anche a noi altri, che scriviamo per
la stampa;" questa specie di prima punta maliziosa c'incomincia ad
avvertire di che veramente si tratta; e il fine della descrizione
riesce a persuadercene del tutto: "Quando la lettera così composta
arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica
dell'abbicci, la porta a un altro dotto dello stesso calibro, il quale
gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo
d'intendere: perchè l'interessato, fondandosi sulla cognizione dei
fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il
lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che
ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta
nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale,
fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione
simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po'
geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar
capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per
questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di non dire le
cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le
parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due
scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia; per non
prendere una similitudine di cose vive, che ci avesse poi a toccare
qualche scappellotto." Le cose vive, alle quali il Manzoni faceva
allusione, potevano essere benissimo le famose polemiche sorte in quel
tempo, da una parte fra Classici e Romantici, dall'altra fra il Monti
e gli Accademici della Crusca: polemiche, le quali sembravano fatte
molto più per imbrogliare le idee che per renderle più chiare e
popolari. Così non s'intenderebbe come il Manzoni, dopo aver lasciato
fare a Lucia quell'imprudente suo voto di non più sposare Renzo, si
désse poi tanta pena per rappresentare l'immagine di un Renzo ideale
che le tornava, malgrado del voto, nella mente, se non fosse lecito il
supporre che in quelle immagini entrasse la reminiscenza di qualche
scena domestica manzoniana. "Lucia, quando la madre ebbe potuto, non
so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e
avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non
che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino,
che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al
giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni
mezzo per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava
d'occuparsi tutta in quello, quando l'immagine di Renzo le si
presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Quell'immagine,
proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più così alla
scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, in modo che la
mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo
che la c'era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre; come non
ci sarebbe stato! e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in
terzo, come il reale avea fatto tante volte. Così con tutte le
persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si
veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a
fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se
non altro: io, a buon conto, non ci sarò. Però, se il non pensare a
lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il
cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno; ci
sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era
Donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle
dall'animo colui, non aveva trovato migliore espediente che di
parlargliene spesso. "Ebbene?" le diceva, "non ci pensiam più a
colui?"--"Io non penso a nessuno," rispondeva Lucia. Donna Prassede
non s'appagava d'una risposta simile, replicava che ci volevan fatti e
non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, "le
quali," diceva, "quando hanno nel cuore uno scapestrato, ed è lì che
inclinano sempre, noa se lo staccan più. Un partito onesto,
ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche
accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è
piaga incurabile." E allora principiava il panegirico del povero
assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva
far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte,
anche al suo paese. Lucia con la voce tremante di vergogna, di dolore,
e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella
sua umile fortuna, assicurava e attestava che, al suo paese, quel
poveretto non aveva mai fatto parlar di sè altro che in bene; avrebbe
voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far
testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era ben
informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e
de' suoi portamenti fin dalla fanciullezza. Lo difendeva o si
proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del
vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sè stessa il
suo sentimento, come prossimo. Ma da questa apologia Donna Prassede
ricavava nuovi argomenti per convincere Lucia, che il suo cuore era
ancora perso dietro a colui. E, per verità, in que' momenti, non
saprei ben dire come la cosa stésse. L'indegno ritratto che la vecchia
faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più
distinta che mai nella mente della giovine l'idea che vi si era
formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze, compresse a
forza, si svolgevano in folla; l'avversione e il disprezzo
richiamavano tanti antichi motivi di stima; l'odio cieco e violento
faceva sorger più forte la pietà; e con questi affetti, chi sa quanto
ci potesse essere o non essere quell'altro che dietro ad essi
s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in
quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il
discorso per la parte di Lucia non sarebbe mai andato molto in lungo;
che le parole finivan presto in pianto." Io mi potrei facilmente
ingannare; ma queste parole che mi parrebbero troppe se fossero dette
per ispiegare i sentimenti d'una rozza contadina lombarda, hanno tutto
il loro senso se Lucia deve in questo caso nascondere un'altra persona
che ci sta a cuore assai più, la quale poteva benissimo trovar qualche
piccola imperfezione nel Manzoni, reale e vicino, salvo a sognarlo
come un ideale, quand'egli stava lontano, quando lo sapeva
perseguitato ed in pericolo, quando, peggiore di tutte le malvagità
umane, essa sentiva che la calunnia voleva indegnamente colpirlo.
Renzo è compromesso anch'esso quasi involontariamente come il Manzoni
ne' casi politici di Milano; e se non ci fosse stato per l'Autore il
proposito di mettersi un poco in iscena, ma di farsi povero contadino,
per lasciarsi scorgere meno, avrebbero avuto ragione que' primi
critici de' _Promessi Sposi_, quando biasimavano l'Autore d'aver fatto
andare Renzo a Milano solamente per avere un'occasione di fare nuovo
sfoggio d'ingegno nelle descrizioni del tumulto, della fame e della
peste di Milano. E qui prevedo un'obbiezione: non ci diceste che il
Manzoni ha forse voluto rappresentare nella conversione
dell'Innominato la propria? Ora se egli è l'Innominato, come potrebbe
essere ancora Renzo? Egli è l'Innominato, per un verso, Renzo per un
altro, Don Ferrante, Fra Cristoforo in altri momenti. I lettori del
Goethe conoscono bene questa specie di _avatar_ del genio, questa
potenza tutta divina di staccar da sè un attributo per farne un nuovo
tipo umano vivente, come nell'Olimpo dalla testa di Giove esce una
Minerva, come dagli attributi di un solo Dio vien fuori la pluralità
degli Dei. Il Manzoni si moltiplica e si riproduce quasi senza fine
ne' _Promessi Sposi_, non meno che il Goethe nel _Faust_, nel _Wilhelm
Meister_, nel _Werner_, nell'_Egmont_, nel _Tasso_ e in altri suoi
drammi, per tacere delle _Elegie Romane_, ov'egli entra direttamente e
quasi furiosamente in iscena. L'aver condensato ad un tempo e
distribuito ed esaurito quasi tutto sè stesso in un solo capolavoro è
gloria maggiore nel Manzoni, e principal fascino, quasi misterioso,
de' _Promessi Sposi_. Il centro simpatico di tutto il libro è l'Autore
stesso, come accade pure nel _Don Chisciotte_. Tra i due lavori vi è
anzi qualche affinità di tóno umoristico; ma nel libro italiano la
varietà è molto maggiore, ed i pensieri e i sentimenti si levano più
alto. S'io li riscontro qui è perchè oramai stimo necessario che ci
avvezziamo a studiare i _Promessi Sposi_, come si studiano i libri già
divenuti classici, i quali si pigliano come sono, senza pretendere,
che dovessero riuscire diversi da quelli che i loro grandi Autori gli
hanno voluti. Noi non possiamo volere che in questi classici si
approvi e si ammiri tutto; crediamo invece che tutto meriti di venire
studiato, e che la conclusione di un tale studio sia sempre, per un
verso, una somma di maggiore ammirazione, per l'altro, una somma di
maggior profitto. Fra le tante cose che s'ammirano nei _Promessi
Sposi_, la più mirabile, se si consideri la difficoltà artistica della
composizione, pare a me e ad altri la grande varietà, con la quale
l'Autore ci presenta quadri e tipi paralleli, che sono simili senza
monotonia, e dissimili senza stonatura. Presso la conversione di Fra
Cristoforo noi troviamo quella dell'Innominato, presso la descrizione
della fame quella della peste, presso il cardinal Federigo Fra
Cristoforo, presso Don Rodrigo il conte Attilio e l'Innominato, presso
Don Abbondio Fra Galdino, presso il conte zio il Ferter, Renzo presso
Bortolo, e così di seguito, si riproducono ne' _Promessi Sposi_ casi e
tipi analoghi, con caratteri distintivi che scusano pienamente, anzi
glorificano l'Autore d'averli immaginati. Non vi è nulla di più facile
in arte che il creare de' contrasti forti; mettendo dall'un lato chi è
tutto buono, dall'altro chi è tutto tristo, la maggior parte degli
autori ha combinato rumorosi e stupendi effetti drammatici; il Manzoni
sentiva che le proprie forze bastavano a superare maggiori difficoltà;
se le creò e le vinse. Nell'arte de' chiaroscuri, delle mezze tinte,
nessuno lo supera; ad egli tira ogni linea con mano tanto sicura, che
anche i suoi personaggi secondarii diventano tipi popolari, non
escluso quel buon sarto di villaggio che pizzicava del letterato
perchè sapeva leggere ne' _Reali di Francia_, divenuti suo Vangelo.
S'io non erro, il professore Stoppani fu il primo a cercare ne' tipi
de' _Promessi Sposi_ le persone reali, delle quali il Manzoni,
avendole conosciute, si ricordava nell'immaginarli. Egli credette
ravvisarne alcune; così dalla Caterina Panzeri contadina di Galbiate
suppose che s'inspirasse per disegnare la figura della Lucia. Ma la
Lucia Mondella, in quanto è contadina, non dice nulla; in quanto dice
qualche cosa, noi l'abbiamo già accennato, nasconde la signora
Blondel. Il Manzoni andò a cercarsi la sposa in un paesello del
Bergamasco, come Renzo va nel Bergamasco a metter su casa. Come la
Edmengarda dell'_Adelchi_, anche la Lucia è pudica con lo sposo e
parca di parole; ma le poche parole che essa dice a lui, valgono più
delle molte dette ad altri. Quando Lucia, uscita dal Lazzeretto,
rivede Renzo, non sa dirgli altro che questo: "Vi saluto. Come state?"
L'Autore soggiunge: "E non crediate che Renzo trovasse quel fare
asciutto, e se l'avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo
verso; e come tra gente educata si sa far la tara ai complimenti, così
lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che
passava nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva
due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un'altra per tutta la
gente che potesse conoscere." Quando Renzo passa in rassegna, al fine
della sua storia, tutti i brutti casi che gli sono intervenuti e
gl'insegnamenti che gliene rimasero, onde egli non si mescolerà più
nei tumulti, non si lascerà più andare a bere oltre il bisogno,
eviterà di dar sospetto di sè come testa calda, fuggirà, in somma, con
una maggior prudenza e moderazione ogni maniera d'impicci, sentiamo
ch'è presente il Manzoni; come abbiamo il Manzoni in questo
proponimento finale di Renzo: "Prima d'allora era stato un po' lesto
nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticare la donna
d'altri, e ogni cosa. Allora s'accorse che le parole fanno un effetto
in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po' più d'abitudine
d'ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle. Il Manzoni, in
verità, pubblicati i _Promessi Sposi_, si mostrò nel suo contegno
pubblico e nei suoi discorsi che potevano esser riferiti, d'un riserbo
ebe parve eccessivo; anche le sue lettere, dopo quel tempo, prendono
quasi tutte un carattere uniforme di convenienza, in qualche modo,
diplomatico e stereotipato; nella lettera straordinariamente sincera
ch'egli scrisse venti e più anni dopo a Giorgio Briano, per iscusarsi
di non poter fare il deputato, se il Collegio di Arona, come gli
veniva scritto, si fosse ostinato a volerlo eleggere, troviamo parole
che consuonano perfettamente con gli ultimi propositi pacifici di
Renzo, e li dichiarano, "Quel senso pratico delle opportunità, quel
saper discernere il punto o un punto, dove il desiderabile s'incontri
col riuscibile, e attenercisi, sacrificando il primo, con
rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario (salvo
il diritto, s'intende) è un dono che mi manca, a un segno singolare. E
per una singolarità opposta, ma che non è nemmeno un rimedio, perchè
riesce non a temperare, ma impedire ciò che mi pare desiderabile, mi
guarderei bene dal proporlo, non che dal sostenerlo. Ardito, finchè si
tratta di chiacchierare tra amici, nel mettere in campo proposizioni
che paiono, e saranno, paradossi; e tenace non meno nel difenderle,
tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato quando le parole possono
condurre a una deliberazione. Un utopista e un irresoluto sono due
soggetti inutili per lo meno in una riunione, dove si parla per
concludere; io sarei l'uno e l'altro nello stesso tempo. Il fattibile
le più volte non mi piace. E dirò anzi, mi ripugna; ciò che mi piace,
non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri, ma
sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo o
di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto, d'aver poi
sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze. Di maniera che,
in molti casi, e singolarmente ne' più importanti, il costrutto del
mio parlare sarebbe questo: nego tutto, e non propongo nulla. Chi
desse un tal saggio di sè, è cosa evidente che anco i più benevoli gli
direbbero: ma voi non siete un uomo pratico, un uomo positivo; come
diamine non vi conoscevate? dovevate conoscervi; quando è così, si sta
fuori degli affari. È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi
inutile a una causa che è stata il sospiro di tutta la mia vita. Ma
_Ipse fecit nos et non ipsi nos_; e non ci chiederà conto
dell'omissione, se non nelle cose, alle quali ci ha data attitudine.
Scampato al gravissimo pericolo dell'anno 1821 al Manzoni non dovette
parer vero, quando pubblicò i _Promessi Sposi_, di potersi finalmente
riguardare al sicuro; quella specie di bando che esisteva contro di
lui pareva levato; ed egli vi alluse, come parmi, quando nel fine
della storia di Renzo già compromesso ne' tumulti di Milano, si
domandò; "Come andava col bando? L'andava benone; lui non ci pensava
quasi più, supponendo che quelli, i quali avrebbero potuto eseguirlo,
non ci pensassero più nè anche loro; e non s'ingannava. E questo non
nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era,
come s'è potuto vedere anche in varii luoghi di questa storia, cosa
comune a que' tempi che i decreti tanto generali, quanto speciali
contro le persone _se non c'era qualche animosità privata e potente
che li tenesse vivi e li facesse valere_, rimanevano spesso senza
effetto, quando non l'avesse avuto sul primo momento." Il Manzoni non
ebbe di questi nemici privati e potenti che lo volessero perdere ad
ogni costo; e però tenuto fuori dai primi processi, quando i processi
si chiusero, non si parlò altro di lui; non già per questo ch'egli
fosse contento dell'andamento delle cose, e rassegnato al Governo
straniero; vi è anzi un passo dei _Promessi Sposi_, che potrebbe anche
essere di Tacito o del Machiavelli, ov'è chiaro che l'Autore intende
muover rimprovero agl'Italiani, i quali dopo aver levato alte grida
pel supplizio di pochi generosi tollerano poi in pace l'ignominia
d'oltraggio di una lunga servitù. "Noi uomini siamo, in generale,
fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e
ci curviamo in silenzio sotto gli estremi, e sopportiamo, non
rassegnati, ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo
chiamato insopportabile." Altrove l'Autore, nel tempo stesso che gli
scusa, sembra rivolgere un biasimo delicato a que' patrioti, i quali
espatriavano senza una vera necessità; naturalmente l'Autore vuole
aver aria di parlare soltanto di Renzo e di Lucia, che lasciano il
loro villaggio per recarsi nell'ospitale e laborioso Bergamasco; ma il
Bergamasco potrebbe assai bene nel caso nostro nascondere
l'Inghilterra ed il Belgio. "Chi domandasse se non ci fu anche del
dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne, ce ne fu
sicuro; chè del dolore ce n'è, sto per dire, un po' per tutto. Bisogna
però che non fosse molto forte, giacchè avrebbero potuto
risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand'inciampi, Don
Rodrigo e il bando, eran levati. Ma già da qualche tempo erano avvezzi
tutt'e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l'aveva
fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l'agevolezze che ci
trovavano gli operai; e cento cose della bella vita che si faceva là.
Del resto, avevan tutti passato de' momenti ben amari in quello, a cui
voltavan le spalle; e le memorie tristi, alla lunga, guastan sempre
nella mente i luoghi che le richiamano. E se que' luoghi son quelli,
dove siam nati, c'è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e
pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul
seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l'ha
dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la
bagna d'assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma
finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca." Renzo, che
cessa di essere un eroe di romanzo, rimane alcun tempo incerto sul
modo d'impiegare quel po' di danaro ch'egli ha, se nell'agricoltura o
nell'industria; il Manzoni, che ha rinunciato alla vita politica, si
ritira a Brusuglio per darsi tutto all'agricoltura ed a' suoi studii
di lingua, lieto di trovarsi fuori delle tempeste. Quando Renzo dice
alla sua Lucia ch'egli dai molti guai ha imparato almeno molte cose
che non sapeva, Lucia, assai dotta e fine e intelligente per una
contadina, risponde al suo moralista: "E io cosa volete che abbia
imparato? Io non sono andata a cercare i guai; son loro che son venuti
a cercar me. Quando non voleste dire" aggiunge soavemente sorridendo
"che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di
promettermi a voi."--"Renzo (prosegue il Manzoni) alla prima rimase
impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che
i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la
condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani e che
quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li
raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa
conclusione, benchè trovata da povera gente, ci è parsa così giusta,
che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia."
Questa conclusione del libro riesce un vero accento acuto; ed è
meraviglia che, invece di accusare, come fecero alcuni critici, il
Manzoni di aver talora imprestato a "povera gente" sentimenti troppo
elevati, non siasi capito alla prima che, da profondo umorista, il
Manzoni avea voluto far passare sè stesso per un povero diavolo che
s'impicciò da poeta in avventure troppo romanzesche, per le quali non
si sentiva nato, riserbandosi poi il diritto di burlarsene come
critico, su per giù come il Cervantes avea fatto prima di lui, ma con
maggior caricatura, nel suo immortale _Don Chisciotte_. In ciascuno di
noi vi è un lato comico e un lato drammatico; il proprio lato comico
il Manzoni rappresentò talora in Renzo, talora in quel Don Ferrante
che in casa sua non voleva nè _comandare nè ubbidire_, proprio come il
Manzoni, ma era _despota in fatto di ortografia_; è noto lo scrupolo
che il Manzoni metteva nella punteggiatura; nessun autore forse fece
un maggior consumo di virgole; e nell'ortografia italiana tanto più
legittimamente poteva egli comandare in una casa, ove la padrona, come
la signora Blondel, era forestiera; il lato drammatico lo abbiamo
personificato in Fra Cristoforo e nell'Innominato. Nella Prefazione un
po' stramba ai _Promessi Sposi_, il Manzoni mette già da sè stesso il
lettore sull'avviso che nel preteso vecchio manoscritto da lui
ritrovato e rimaneggiato s'incontrano casi e persone ch'egli credeva
ricordarsi unicamente da esso, quando invece gli accadde poi di
riscontrarli con casi e persone che le storie rammentano. "Taluni di
que' fatti (egli dice) certi costumi descritti dal nostro Autore,
c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che prima
di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci
siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo per chiarirci se
veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine
dissipò tutti i nostri dubbii; a ogni passo ci abbattevamo in cose
consimili, e in cose più forti e, quello che ci parve più decisivo,
abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, dei quali non avendo mai
avuto notizie fuor che dal nostro manoscritto eravamo in dubbio se
fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di
quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per
la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla." Con
questa sua malizia l'Autore vuole lasciarci intendere che egli, dopo
aver messo in scena sè stesso o persone da lui conosciute, ha voluto
cercare se, per caso, esse potessero avere qualche riscontro con
persone vissute nella stessa Lombardia due secoli innanzi; e poichè,
in tal sorta d'investigazioni, si trova quasi sempre quello che si
cerca, poichè gli uomini si modificano nelle forme, ma nel fondo sono
sempre gli stessi, egli non dovette troppo meravigliarsi nel trovare
ch'egli ed i suoi conoscenti presentavano sotto parecchi aspetti
caratteri di molta somiglianza con alcuni veri ed autentici personaggi
storici. Così l'Innominato egli non l'inventò tutto; era Bernardino
Visconti, a proposito del quale la duchessa Visconti rallegravasi un
giorno che il Manzoni le avesse messo in casa "prima un gran birbante,
ma poi un gran santo;" il poeta Giusti soleva _e converso_ chiamare il
Manaoni "un santo birbone," alludendo alla santità della sua vita e
della sua fede e all'infinita malizia del suo ingegno. L'Innominato
aveva dunque esistito; ma il Manzoni lo riscaldò coi proprii
sentimenti e ne fece un gran tipo.[7] Chi dubita dell'esistenza del
cardinal Federigo? ma il Manzoni si ricordava la nobile condotta di
monsignor Opizzoni innanzi al Buonaparte, e il suo confessore Tosi e
il vicario Sozzi, e delle loro virtù riunite animava anco più la bella
figura del Borromeo, ed in parte ancora quella di Fra Cristoforo. Si
trovò poi che un Fra Cristoforo da Cremona avea realmente sacrificato
la propria vita per gli appestati di Milano; ma, in quanto il Manzoni
se ne servì per farne un tipo immortale, oltre alla sua particolare
simpatia per i Padri Cappuccini, che risaliva alle prime vivaci
impressioni d'infanzia, ci doveva entrare lo studio dell'Autore a
rappresentarci la vittoria riportata sopra sè stesso dal violento
Lodovico che diventa un monaco piissimo, per meglio persuadere sè
stesso che nella prima gioventù non avea sempre dovuto essere moderato
e temperato, della necessità di domare gl'istinti e di vincere le
passioni. Qualche cosa del giovine Manzoni, qualche pagina della sua
prima vita è lecito argomentare che si trovi accennata nel racconto
della gioventù di Lodovico. Noi non sappiamo se il Manzoni abbia avuto
duelli nella sua gioventù; delle cosidette leggi cavalleresche egli ne
parla come un uomo che le conosce, meglio che dai libri di cavalleria,
i quali si trovano nella biblioteca di Don Ferrante, per un po' di
pratica; ed è possibile che qualche caso di provarsi alla scherma, se
non di un serio duello, gli sia occorso in Milano innanzi al suo primo
viaggio di Parigi; ma non abbiamo per ora alcuno indizio per
affermarlo.[8] In ogni modo, Lodovico convertito in Fra Cristoforo
rassomiglia tanto all'Autore che par proprio lui, eccetto il tono di
predica che non era del Manzoni. "Il suo linguaggio, è detto, era
abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di
verità combattuta, l'uomo s'animava, a un tratto, dell'impeto antico,
che, secondato e modificato da un'enfasi solenne, venutagli dall'uso
di predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il
suo contegno, come l'aspetto, annunciava una lunga guerra, tra
un'indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente
vittoriosa, sempre all'erta, e diretta da motivi e da ispirazioni
superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l'aveva
una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro
forma naturale, che alcuni anche ben educati pronunziano, quando la
passione trabocca, smozzicate con qualche lettera mutata: parole che
in quel travisamento fanno però ricordare della loro energia
primitiva." Il professore Stoppani dice aver conosciuto da fanciullo
il parroco, che dovette servire al Manzoni come tipo del suo Don
Abbondio. Il Manzoni era ancora giovinetto, quando conobbe quel
curato, il quale gli raccontava in qual modo avesse preso gli ordini:
"Quando mi presentai all'esame, l'esaminatore mi domandò se i parroci
erano d'istituzione umana o divina. Io sapeva benissimo che loro
volevano si rispondesse che erano d'istituzione umana, e, furbo,
risposi tosto: d'istituzione umana, d'istituzione umana!" Il giovine
Manzoni si permise domandargli se fosse quello il suo convincimento;
il parroco ripose: "Oh! giusto! a me avevano insegnato ben
diversamente a Pavia. Ma se avessi risposto come la pensava io, non mi
lasciavano dir Messa." Il Manzoni voleva fare qualche obbiezione; ma
il curato troncò il discorso con questa sentenza: "Quando i superiori
domandano, bisogna saper rispondere a seconda del come la pensano
loro." Questo aneddoto è autentico; il Manzoni stesso lo fece
conoscere a' suoi amici, e dalla bocca di questi lo Stoppani lo
raccolse. È evidente la rassomiglianza di questo curato con Don
Abbondio;[9] ma per formarne quel tipo che riuscì, occorreva il
concorso di un genio, e la conoscenza de' materiali, dei quali il
Manzoni si servì, giova soltanto a mostrare che i grandi poeti son
quasi come Domeneddio, poichè, con l'attenuazione di un quasi, creano
anch'essi opere divine, _ex nihilo._ Storico è pur troppo il
personaggio della Geltrude, la Monaca di Monza; ma quando il Manzoni
ne lesse la storia, per tornare a colorirla potentemente gli giovò il
ricordarsi la zia ex-monaca, già da me ricordata, la quale ebbe cura
ch'egli imparasse la musica, il ballo, forse pure la scherma, su per
giù come quel Lodovico, a cui il padre fece dare un'educazione
"secondo la condizione de' tempi e per quanto gli era concesso dalle
leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere ed esercizii
cavallereschi, e morì, lasciandolo ricco e giovinetto." Ma, senza i
frequenti richiami de' tipi manzoniani alla vita dell'Autore e a' suoi
conoscenti, che accrescono vivacità o naturalezza alle sue mirabili
ipotiposi, per tacere de' casi, ne' quali egli nomina direttamente o
sottintende troppo chiaramente i suoi amici Giovanni Torti e Tommaso
Grossi, di cui loda i versi "pochi e valenti" di cui raccomanda, con
molta industria, la diavoleria ch'egli stava scrivendo a Brusuglio,
ossia il poema de' _Lombardi alla prima Crociata_, i _Promessi Sposi_
sono pieni zeppi di osservazioni maliziose tutte manzoniane, traendone
talora materia dalle occasioni più impensate. Tutti ricordano il
viaggio di Renzo allo studio del dottor Azzeccagarbugli, coi quattro
capponi che doveano servirgli di commendatizia. Renzo, agitato dalla
viva passione, "dava loro di fiere scosse e faceva balzare quelle
quattro teste spenzolate," al qual punto l'Autore soggiunge: "le quali
intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una coll'altra, come accade troppo
sovente tra compagni di sventura." Quest'osservazione messa lì, come
per sotterfugio, è forse più potente, pel suo effetto, di tutto il
bellissimo Coro della battaglia di Maclodio, che lamenta le discordie
italiane, più potente perchè meno enfatico, e più opportuno, più
speciale. Gli esuli italiani che si laceravano, talora, senza pietà,
da quelle poche parole erano invitati a pensare. Ed il pensare, in
simili casi, è, quasi sempre, un rimediare. Quanta forza satirica in
una sola frase manzoniana! La serva del dottor Azzeccagarbugli, per un
esempio, sa bene che il suo padrone è così abile, così destro avvocato
da far parere galantuomo qualsiasi birbante che si raccomandi a lui;
non vi è causa spallata che nelle sue mani non sia diventata buona;
perciò, dopo ch'ella serve il dottore, non ha mai visto tornar via il
ricorrente co' suoi doni rifiutati; il primo caso è quello di Renzo
venuto dal dottore a domandar giustizia contro un prepotente; ma alla
serva non può venire in capo che si tratti d'un innocente
perseguitato; nel restituirgli dunque le quattro bestie per ordine del
padrone, le dà a Renzo "con un'occhiata di compassione sprezzante, che
pareva volesse dire: _bisogna che tu l'abbia fatta bella_." Bisogna
che Renzo sia più birba di tutte le altre birbe che il dottore ha
rivendicate all'onore del mondo, perch'egli si decida a lasciarlo
partire col suo vistoso regalo. Il torto che la serva fa a Renzo,
pensando così male di lui, è men grave della condanna del dottore e di
tutti i dottori di legge che gli somigliano, sottintesa in quel
giudizio temerario. Renzo torna a casa indignato, e non sa dir altro
col cuore in tempesta, se non queste parole: "Saprò farmi ragione, o
farmela fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente." Al che il
Manzoni è pronto a soggiungere: "Tant'è vero che un uomo sopraffatto
dal dolore non sa più quel che si dica." Quanta profonda ironia in
questa frase! Renzo torna da una spedizione, nella quale ha pur troppo
potuto accorgersi che giustizia nel mondo proprio non ce n'è; ma vi
sono parole che si dicono senza alcun perchè; Renzo vuole la
giustizia, e non la trova; per rendere questo suo sentimento usa
un'espressione popolare, e dice che la giustizia finalmente c'è,
quando ha proprio fatto esperimento del contrario; il Manzoni, da quel
fine umorista che è, nota la contradizione che esiste talora fra le
cose che si dicono e quelle che si pensano, e come nel dolore si
ragioni meno e si dica qualche volta precisamente l'opposto di quello
che si pensa. E, in somma, la conclusione vera del terzo capitolo è,
che non c'è da fare assegnamento di sorta su quella che si chiama
giustizia umana, in genere, ma che nel caso nostro, nell'intendimento
manzoniano; dovea chiamarsi giustizia straniera, giustizia de' signori
in Lombardia, ossia nessuna giustizia, arbitrio, violenza, che le
leggi in parte mantenevano e l'abuso delle leggi accresceva a
dismisura. Talora incontriamo qualche passo che appare una stonatura.
Renzo non ha ancora avuto il tempo di far chiasso in paese pel caso di
Don Rodrigo; anzi il caso è tale, che non se ne può parlare con alcuno
senza grave pericolo di guastarlo. Non è verosimile dunque che Renzo
ne abbia fatto rumore nel villaggio; e pure, malgrado della
inverosimiglianza, il Manzoni ci lascia credere che Renzo siasi
sfogato con gli amici, e che questi, invece di prestargli una mano al
bisogno, siansi ritirati tutti; onde Renzo se ne sfoga con Fra
Cristoforo: "Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi
avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo;
eh! eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m'avrebbero sostenuto
contro il diavolo. S'io avessi avuto un nemico? Bastava che mi
lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se
vedesse come si ritirano!" Per Renzo e pel caso suo queste parole ci
paiono troppe e sproporzionate e strane; ma se il Manzoni si nasconde
sotto Renzo, alludono a qualche abbandono simile da lui patito, e
poich'egli ci preme, in verità, molto più di Renzo, prendiamo a cuore
il suo caso. Vi è una scenetta domestica fra Renzo e Lucia, che il
Manzoni deve aver colta proprio sul vivo, Renzo va in collera,
vorrebbe uccidere Don Rodrigo, rovinarsi, se Lucia non consente a
recarsi con lui dal curato per sorprenderlo. Lucia si spaventa e gli
si butta in ginocchi, e promette che farà tutto quel che egli vorrà,
pur che diventi più trattabile, più umano, pur che torni buono.
L'Autore a questo punto si fa una domanda, che obbliga molto
naturalmente un lettore intelligente a farsene un'altra. Siamo noi in
casa Mondella, od in casa Manzoni? E la domanda è questa: In mezzo a
quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva
esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po' di
artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro Autore
protesta di non saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo
sapesse bene. Il fatto sta che era realmente infuriato contro Don
Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due
forti passioni schiamazzano insieme nel cuor di un uomo, nessuno,
neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce
dall'altra, e dire con sicurezza qual sia quella che predomini, "Ve
l'ho promesso," rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e
affettuoso; "ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di
rimettervene al padre...."--"Oh via! per amor di chi vado in furia?
Volete tornare indietro ora? e farmi fare uno sproposito?"--"No, no,"
disse Lucia, cominciando a rispaventarsi, "Ho promesso e non mi
ritiro. Ma vedete come mi avete fatto promettere. Dio non
voglia...."--"Perchè volete far de' cattivi augurii, Lucia? Dio sa che
non facciam male a nessuno."--"Promettetemi almeno che questa sarà
l'ultima."--"Ve lo prometto, da povero figliuolo."--"Ma questa volta,
mantenete poi," disse Agnese.--Qui l'Autore confessa di non sapere
un'altra cosa; se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta
d'essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa
in dubbio.[10] La persona dell'Autore viene, per lo più, ad
accrescere la forza de' sentimenti de' suoi personaggi; a colorirli
più gagliardamente; occorreva un grande poeta per far così commovente
l'addio di Lucia ai suoi monti, occorreva un buon patriotta per far
sentire con tanta tenerezza il dolore di chi si stacca dalla patria.
Ma talora i sentimenti dell'Autore che si mettono fra quelli de' suoi
personaggi appaiono soverchianti e guastano una parte dell'effetto
artistico. Chi è rimasto veramente commosso, per un esempio,
dall'addio di Lucia, desidera rimanere in quella commozione, e non
vorrebbe accogliere nell'animo alcun sentimento diverso da quello. Ma
il Manzoni vuole ad ogni costo che prevalga ne' dolori umani il
sentimento della rassegnazione cattolica; quindi, senza pure
accorgersi che la commettitura o la toppa cattolica riesce troppo
evidente, non badando ad alcuna regola di transizione, dopo l'ultimo
addio di Lucia, soggiunge senz'altro: "Chi dava a voi tanta giocondità
è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli se non per
prepararne loro una più certa e più grande." Per arrivare a un tal
sentimento, Lucia avea bisogno di un po' di preparazione; e il
Manzoni, da quel profondo psicologo che era, lo dovea sentire meglio
d'ogni altro. Ma è assai possibile che nella prima composizione del
romanzo quella pia appendice non esistesse, e che per solo
suggerimento di alcuno dei suoi revisori egli l'abbia introdotta nel
secondo manoscritto o sulle prove di stampa. Sappiamo invero che il
Manzoni avendo incominciato il romanzo il 24 aprile dell'anno 1821,
cioè appena fallita la rivoluzione piemontese, e dopo i primi arresti
de' patriotti lombardi, lo avea terminato nel 1823, e precisamente il
17 settembre. Il Grossi ch'era con lui a Brusuglio dovette essere il
primo a leggerlo, _in camera charitatis_; ma il Grossi, l'amico e
collaboratore di Carlo Porta, poteva al Manzoni parere un confessore
di manica larga. Un lettore più difficile fu di certo l'amico critico
e filosofo Ermes Visconti, al quale il Manzoni passò la sua prima
minuta de' _Promessi Sposi_; il Visconti la copri di note, appunti,
correzioni; il Manzoni ne tenne buon conto nella nuova trascrizione
del proprio lavoro ch'egli fece nell'anno 1824; la diede quindi a
ricopiare per passarla ad altri amici; il Fauriel, il Tosi, Gaetano
Giudici, il Tommaseo, furono nel numero de' lettori privilegiati;
ricevute le osservazioni, egli corresse nuovamente di proprio pugno
tutta la copia, che passò quindi alla Censura, e finalmente alla
Tipografia; sulle prove di stampa che si conservano, il Manzoni fece
nuove correzioni; la stampa del primo volume incominciò nell'anno
1825, quella del secondo nel 1826, il terzo ed ultimo volume si finì
di stampare nella primavera dell'anno 1827.[11] L'aspettativa del
romanzo era grande; il Fauriel ne parlava a' suoi amici in Francia;
Victor Cousin che avea visitato il Manzoni a Brusuglio ne recava
notizie al vecchio Goethe a Weimar. In Italia, alla sola notizia che
il Manzoni stava scrivendo un romanzo storico, parecchi letterati si
misero a scrivere romanzi storici, confondendo la speranza di far più
presto con quella di far meglio.[12] Non sapevano, non pensavano che
il Romanzo manzoniano avrebbe tratto tutta la sua gloria non
dall'essere storico, ma dall'averlo immaginato, sentito e scritto a
modo suo, e come sapeva farlo egli solo, il Manzoni. Il 12 marzo
dell'anno 1827, ad una domanda della contessa Diodata Saluzzo relativa
al romanzo il Manzoni rispondeva: "La filastrocca, della quale Ella ha
la bontà di richiedermi, è bensì stampata in gran parte, ma nulla ne è
ancor pubblicato, nè sarà che ad opera compiuta. Del quando non posso
fare alcuna congettura un po' precisa; perchè di quel che manca alla
stampa, una parte manca ancora allo scritto; e il compimento di questo
dipende da una salute incerta e bisbetica, la quale spesso mi fa
andare assai lento, e talvolta cessare affatto per buon numero di
giorni. Dell'essersi poi, come Ella mi accenna, veduto costi il già
stampato, io non so che mi dire nè che pensare, non ve ne avendo io
spedita certamente copia, nè in altra parte d'Italia. Nè anche posso
tacere che, siccome l'aspettazione di alcuni mi aveva già posto in
gran pensiero, così in grandissimo mi pone codesta ch'Ella si degna
mostrarmi: che, riguardando al mio lavoro, sento troppo vivamente
quanto sia immeritevole di una sua curiosità; e troppo certamente
prevedo quanto questa sia per essere mal soddisfatta. Ma, ad ogni
modo, la prova non sarà terribile che per la vanità; e io confido
ch'Ella si contenterà di dimenticare il libro noioso, senza cacciar
per questo l'autore dal posto accordatogli nella sua benevolenza." Da
questa lettera rileviamo che nel marzo 1827 il libro era al suo fine,
ma che il Manzoni doveva ancora scriverne gli ultimi fogli. È potuto
parere strano ai lettori de' _Promessi Sposi_ che il Manzoni fissasse
il numero de' suoi lettori a soli venticinque; o eran troppi, o troppo
pochi; si disse che in quel caso il Manzoni affettava soverchia
modestia; ma è difficile il cogliere il Manzoni in fallo; il buon
senso è stato forse più vicino a lui che a qualsiasi altro mortale.
Ora noi sappiamo che, prima di venir pubblicati, i _Promessi Sposi_
furono veramente letti e talora molto criticati da un numero scelto di
amici, che potrebbero per l'appunto sommare insieme al numero di
venticinque. Essi furono, dal 1823 in cui i _Promessi Sposi_ furono
finiti di comporsi, al 1827, ossia per ben quattro anni, per un caso
singolare, il solo vero pubblico de' _Promessi Sposi_; e, per quanto
nel trovarsi così limitato ci fosse da sperare che usasse discrezione
e riserbo, non pare che una tal regola siasi osservata da tutti;
sembra anzi che alcuno de' venticinque lettori parlasse troppo e che
si permettesse un genere di censure irritante per ogni autore, ma
specialmente per un autore come il Manzoni; ond'egli preparò per la
stampa e pubblicazione definitiva del libro, destinato da prima ai
soli amici fidati, una frecciata delle sue, e la lanciò in modo che il
pubblico potesse non capire, e la dovessero sicuramente sentire gli
amici indiscreti, ai quali essa era diretta.[13] Non sarà troppa
temerità la nostra il supporre che una delle persone più colpite
doveva essere Niccolò Tommaseo: l'articolo critico ch'egli pubblicò
nel fascicolo di ottobre del 1827 nell'_Antologia_, è forse, fra tutti
gli articoli che si scrissero allora sopra i _Promessi Sposi_, il più
malizioso, Il Tommaseo parla della "degnazione," con la quale il
Manzoni "si è abbassato a voler fare un romanzo," e si domanda: "Chi
mi sa dire per quali pensieri e sentimenti passasse lo spirito di
quest'uomo singolare nel corso del suo lavoro? Chi mi sa dire se egli
non l'abbia compiuto in uno stato di opinione molto diverso da quello,
in cui l'ha cominciato?" Dopo aver censurato i caratteri de' _Promessi
Sposi_, trovato Renzo, per un villano, troppo gentile, Lucia priva di
carattere, troppo poco villana, Agnese pesante, avvertito che il
cardinal Federigo compare troppo tardi, che l'Innominato si converte
troppo presto, dice: "Quel della Signora sarebbe più individuale e più
vivo, se l'Autore, _come la pubblica voce afferma_, non avesse per
eccesso di delicatezza troncata la parte de' suoi traviamenti;" trova
Don Abbondio quasi noioso, perchè troppo simile a sè stesso; il lepore
manzoniano gli sa talvolta "del mendicato e del picciolo." E qui, nel
tempo stesso che l'accusa, vuole parer di scusarlo, accusandolo un po'
di più: "Se non che (scrive il Tommaseo) da un uomo che segue con
amabile semplicità i miti impulsi del suo bel cuore e del suo raro
ingegno, non è poi da esigere un freddo rigore in seguire quella certa
convenienza di tuono, ch'è così facile a degenerare in sistema, ed a
farsi monotonia. Egli è lecito però l'affermare, che nel tuono di
questo libro domina insieme col vasto non so che di vago, che alla fin
fine potrebbe essere il difetto di chi si abbassa a soggetti minori
della propria grandezza. Perchè se quel libro è fatto pel volgo, è
tropp'alto; se per gli uomini colti, è tropp'umile. In questo libro
sarebbe a desiderare un far più svelto e più franco. La modestia
dell'Autore si spinge, se è lecito dire, talvolta sino a diventare
orgogliosa. Egli teme di non iscolpire abbastanza i caratteri, di non
fare abbastanza impressione; perciò si ferma su tutto. Se invece di
mostrarsi conoscitore degli uomini in genere, Manzoni avesse voluto
spiegarci solamente i misteri di quel pezzo d'uomo che è l'uomo
morale, allora egli sarebbe stato sempre grande; ma allora non avrebbe
fatto un romanzo. Manzoni talvolta lascia immaginar troppo al lettore,
talvolta nulla; il suo tuono è il tuono d'un uomo superiore che si
abbassa per giovare altrui, ma talvolta par non si abbassi che per
piacere; e questo lo fa troppo lepido. La sua naturalezza è quasi
sempre artifiziata, ma di un'arte sublime; le sue intenzioni vanno
sempre al di là delle sue parole; e per gustare molte espressioni,
molti tratti, e lo spirito dominante dell'opera, bisognerebbe aver
conosciuto l'Autore, dappresso. Si conosce più il libro dall'Autore,
che non l'Autore dal libro." A malgrado del bisticcio, si capisce
quello che il Tommaseo voleva dire; egli era stato in casa Manzoni,
avea letto in casa sua i _Promessi Sposi_ prima che si pubblicassero,
ed era di quelli che potevano legger molto fra le linee. L'articolo
che il Tommaseo amico osò stampare in Firenze, quando il Manzoni si
trovava con la sua famiglia festeggiato, ammirato, invidiato forse
anco, non è punto simpatico, e ci lascia facilmente supporre quali
altri giudizii il Tommaseo dovesse permettersi contro il romanzo nei
privati discorsi, prima che si pubblicasse. Quelle censure anticipate,
per la maggior parte ingiuste e piene di sofisticherie, irritarono,
senza dubbio, il Manzoni, al quale vennero riportate; perciò,
nell'ultimo foglio del suo romanzo, poco prima di mandarlo in giro,
egli volle inserire una sua pagina tutta significativa: il lettore di
romanzi che arriva al fine de' _Promessi Sposi_ ed intende che quella
Lucia e quel Renzo, ai quali o poco o molto s'è affezionato, vanno a
finire in un paese, dove non sono poi bene accolti, ha un po' ragione
di mettersi di malumore contro l'Autore, che non seppe immaginare
alcun'altra miglior conclusione; ma, se il lettore di romanzi è
persona intelligente, la quale più de' casi straordinarii di un eroe o
di un'eroina sappia ammirar l'arte, con la quale l'Autore crea, egli
passerà invece, tosto, dal breve malumore ad una viva e durevole
ammirazione. Dopo il cenno che ho qui fatto sopra il modo singolare
con cui si preparò in Milano la stampa de' _Promessi Sposi_, tutti
possono intendere la finezza di questa pagina, che si può pertanto
tornare a rileggere: "Il parlare che, in quel paese, s'era fatto di
Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse, il saper che Renzo aveva
avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse
qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose
sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e
una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è
l'aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile,
schizzinosa; non trova mai tanto che le basti, perchè, in sostanza,
non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce
che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti, i
quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d'oro, e le
gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro". e che
so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciare il naso, e a
dire: "Eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi,
s'aspettava qualche cosa di meglio. Cos'è poi? Una contadina come
tant'altre. Eh! di queste e delle meglio ce n'è per tutto." Venendo
poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro;
e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto. Siccome però
nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste cose, così non c'era
gran male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliene
rapportarono; e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a
ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e
più a lungo tra sè "E cosa v'importa a voi altri? E chi v'ha detto
d'aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse
bella? E quando me lo dicevate voi altri, v'ho mai risposto altro, se
non che era una buona giovine? È una contadina! V'ho detto mai che
v'avrei menato qui una principessa? Non vi piace? non la guardate.
N'avete delle belle donne? guardate quelle." E vedete un poco come
alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato di un uomo per
tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese,
secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A
forza d'esser disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato
con tutti, perchè ognuno poteva essere uno de' critici di Lucia. Non
già che trattasse proprio contro il Galateo; ma sapete quante belle
cose si possono fare senza offender le regole della buona creanza;
fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola;
in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva
cattivo tempo due giorni di seguito diceva: "Eh già, in questo paese!"
[14] Vi dico che non eran pochi quelli che l'avevan già preso a noia,
e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d'una cosa
nell'altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi
tutta la popolazione, senza poter forse nè anche lui conoscer la prima
cagione di un così gran male." Così il Manzoni pigliava non due, ma
tre colombi ad una fava; conchiudeva la sua storia in un modo
certamente insolito, per quanto sia sembrato umile; alludeva forse ai
discorsi che si fecero in Milano intorno alla sua sposa, quando egli
la menò dal contado bergamasco in Milano; e dava una sferzata allegra
a que' critici impazienti, che si preparavano a gettare il discredito
sul libro prima che venisse pubblicato. Io potrei ora proseguire
questa indagine biografica manzoniana sopra i _Promessi Sposi_, ma
temerei recarvi tedio. Non terminerò tuttavia senza avvertire come
l'ottimo commento ai _Promessi Sposi_ si possa fare soltanto a Lecco.
Chi voglia ammirare veramente tutta la potenza artistica dell'ingegno
manzoniano deve recarsi sopra la scena stessa del romanzo. Non mai si
è rivelata meglio la virtù d'uno scrittore a idealeggiare il reale.
Quello che il Manzoni aveva fatto degli uomini, lo fece pure de'
luoghi; col suo genio plastico gli espresse, con la sua fantasia
poetica li sollevò, col suo proprio sentimento diede loro una tinta
calda ed un calore simpatico. Il Manzoni, io l'ho già detto, aveva
dovuto con suo grave dolore vendere la propria palazzina detta il
_Caleotto_ che sorge presso Lecco (ove il Manzoni possedeva pure
alcune terre, come il suo Renzo un orto), in faccia ad Acquate ed al
bel Resegone, e sovrasta all'Adda. V'è una leggenda a Lecco, che io vi
ripeto come la intesi: secondo essa, dopo la vendita dolorosa de' beni
paterni, il Manzoni non sarebbe più tornato a Lecco, ma a ricordo de'
vecchi, un giorno, nel tempo in cui egli scriveva i _Promessi Sposi_,
una vettura si sarebbe fermata in vista del _Caleotto_ e di Acquate;
in quella vettura vogliono che si trovasse il Manzoni, e che alla
vista de' cari luoghi della sua infanzia abbia dato in uno scoppio di
pianto, e mancatogli il coraggio di scendere, egli sia invece
ripartito prontamente per Milano, per sottrarsi alla vivezza del
dolore subitamente provato. Sia storia o storiella, questo racconto
esprime, in ogni modo, il sentimento vivissimo che il Manzoni aveva,
senza dubbio, del panorama incantevole ch'egli aveva più volte,
essendo fanciullo, ammirato dal suo _Caleotto_. Si direbbe che di là
tutti i luoghi principali de' _Promessi Sposi_ non solo s'abbracciano
con gli occhi, ma si pigliano, per così dire, con le mani. La
viottola, per la quale passeggiava Don Abbondio, la chiesa d'Acquate,
la casa di Agnese e di Lucia, la palazzina di Don Rodrigo, il
Resegone, il convento di Pescarenico, il passo del Bione, le rovine
del supposto castello dell'Innominato, tutto si spiana alla vista di
chi contempli la scena ridente e svariata dal _Caleotto_. Chi visita
ora que' luoghi li trova certamente bellissimi; ma bisogna proprio
visitarli per vedere coi proprii occhi, con piena evidenza, quale
meraviglioso artista, quale stupendo poeta anche scrivendo in prosa
siasi rivelato il Manzoni.[15] Nessuno che legga i _Promessi Sposi_
in vista d'Acquate troverà una sola linea che si discosti dal vero; ma
la poesia di quel vero prima di lui l'aveva forse sentita in parte
qualcuno, egli la sentì e la espresse tutta; ecco dunque, in qual modo
il Manzoni è stato verista; ecco in qual modo io vorrei pure che lo
diventassimo noi tutti, imparando nel tempo stesso da lui a fare molto
con assai poco e non viceversa assai poco con molto. Di montagne come
il Resegone se ne trovano certamente in Italia parecchie altre; ma
quella è la montagna d'Acquate, cioè del villaggio, ove Renzo e Lucia
son nati e cresciuti; tutti i loro ricordi, tutti i loro affetti sono
là, ma un signore prepotente viene a cacciare dal loro tetto, dal loro
nido e disperde nell'esiglio i giovani fidanzati; allora il Resegone
appare più bello, più grande, più poetico di tutti gli altri monti,
perchè quel monte vuol dire ai fuggiaschi la patria; ed ecco, in qual
modo naturale, il Manzoni converte l'addio di una povera contadina al
suo villaggio in un vero inno commovente dell'esule italiano alla
patria.

  [1] Il Fauriel, scrive il Sainte-Beuve, s'andava proponendo, circa
    quel tempo, di comporre un romanzo storico, di cui avrebbe
    certamente collocata la storia nel Mezzodì della Francia, in una
    di quelle epoche ch'egli conosceva così bene. Dopo aver finito
    l'_Adelchi_, il Manzoni, abbandonata l'idea di una tragedia
    _Spartaco_, si mise anch'egli a pensare di comporre il romanzo
    _Promessi Sposi_. Circa lo stesso tempo, il suo amico Grossi
    s'occupava intorno ad un grande poema storico: _I Lombardi atta
    prima Crociata_. Era il tempo del grande ardore per l'_Ivanhoe_.
    Di qui nuove attivissime discussioni, e nuovo moto alle idee, sia
    per lettera, sia a voce, nel soggiorno del Fauriel in Italia (la
    Prefazione che precede il supplemento al secondo volume dei _Canti
    popolari della Grecia_ del Fauriel reca la data di _Brusuglio
    vicin di Milano_) dal 1823 al 1825. Discutevasi, per esempio, come
    questione principale, tra i due amici, intorno al modo d'innestare
    la storia con la poesia, senza che l'una noccia all'altra. Il
    Fauriel inclinava a credere che, quindi in poi, la lotta
    condurrebbe la poesia propriamente detta a rimanere ogni dì più
    soccombente. Il Manzoni pensava altrimenti, e sosteneva contro le
    apparenze e i cattivi pronostici che _la poesia non ha volontà di
    morire_. E tutti due s'accordarono a dire che, in un certo sistema
    di romanzo, "c'è posto per l'invenzione de' fatti nella
    rappresentazione di costumi storici." Ebbene, la è questa appunto,
    replicava il Manzoni, una di quelle forze potentissime che restano
    tuttavia alla poesia, la quale, com'io vi diceva, non ha volontà
    di morire. La narrazione storica non è fatta per lei; giacchè il
    racconto de' fatti ha virtù di svegliare nell'uomo, naturalmente e
    ragionevolmente curioso, una tale attrattiva da disgustarci delle
    invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare fino a farle
    parere puerili. Ma riunire i caratteri distintivi di un'epoca
    della società, rischiararli o porli in moto con un'azione,
    profittar della storia senza mettersi in concorrenza con essa,
    senza pretender di fare quel che esse sa far meglio sicuramente,
    ecco ciò che mi sembra tuttavia riservato alla poesia; che anzi
    essa sola può fare. "Non crediamo ingannarci (soggiunge il
    Sainte-Beuve), epilogando per tal modo l'opinione del poeta."

  [2] Ecco le parole proprie del Filangieri, quali si possono leggere
    nel libro IV, capo 40, art. 3°, della _Scienza della
    Legislazione_: "Io propongo la lettura de' romanzi pe' fanciulli
    che sono giunti all'età che si richiede secondo l'ordine da noi
    esposto (cioè l'età di nove anni compiuti), per assistere ai
    morali discorsi. Ma quali debbono essere questi romanzi? quali i
    soggetti, sui quali formar si dovrebbero? Ogni condizione può
    avere i suoi eroi, può avere i suoi mostri. Presso tutte le
    nazioni, in tutte l'età, in tutti i Governi, se ne trovano in
    tutte le classi dello Stato. I cenci dell'ultimo cittadino e la
    toga del primo magistrato nascondono spesso le più grandi virtù e
    i vizii più vili. L'occhio del filosofo penetra a traverso di
    questo velo, nel mentre che il volgare non vi vede che cenci e
    toga. Su questi fatti che l'istorie di tutti i tempi ci
    manifestano, formar si dovrebbero i romanzi, de' quali io parlo.
    L'eroe esser dovrebbe della classe, della quale son coloro, a'
    quali ne vien destinata la lettura. L'agricoltore dunque, il
    fabbro, il semplice soldato, o il duce che ha cominciato
    dall'esserlo, e che ha condotto l'aratro prima di condurre la
    legione, somministrar dovrebbero il soggetto e l'eroe dei romanzi
    che pe' fanciulli di questa classe io propongo. L'arte dello
    scrittore esser dovrebbe di mettere nel maggior aspetto quelle
    virtù così civili come guerriere che sono più alla portata
    degl'individui di questa classe; di dipingere co' colori più neri
    que' vizii, ai quali sono più esposti; di fecondare que' semi
    dell'amor della patria o della gloria, che si van gittando in
    tanti modi nel cuore de' nostri allievi, e d'ispirare
    quell'elevazione di animo, ch'è altrettanto più gloriosa, quanto
    meno si combina colla ricchezza delle fortune e coll'originaria
    dignità della condizione. _Io vorrei che il soggetto del romanzi
    fosse per lo più un fatto vero, e non interamente immaginato, e
    vorrei che l'autore ne assicurasse colui che legge. È incredibile
    quanto questa prevenzione ne renderebbe più efficace la lettura_.
    La moltiplicità e l'eccellenza delle opere che son comparse in
    questo genere presso tutte le nazioni, ed in tutte le lingue
    dell'Europa, renderebbe molto facile la collezione di questi
    romanzi d'educazione che io propongo. Gli effetti e i vantaggi,
    che ne produrrebbe la lettura, sono noti a chiunque conosca la
    forza dei sentimenti e l'influenza che questi aver possono sulla
    formazion del carattere e sullo sviluppo delle passioni."

  [3] Questa notizia ch'io rilevo da una lettera del professore
    Giovanni Rizzi, trova pure conferma nelle seguenti parole del
    Buccellati: "Rattristato, per i rovesci del 1821, la morte e la
    prigionia degli amici, (il Manzoni} disse a Grossi ch'egli non
    potendo più vivere a Milano, intendeva ritirarsi colla famiglia a
    Brusuglio. Grossi trovò savio il pensiero di Manzoni, e se ne
    valse anche per suo conto, seguendo l'amico nel suo eremitaggio.
    Tra i libri che Manzoni portava seco da Milano eravi la _Storia_
    del Ripamonti e l'_Economia e Statistica_ del Gioia, in cui si
    trovano citate le Gride contro i Bravi e gl'inconsulti Decreti
    annonarii. Oh! che tempi, diceva Manzoni a Grossi, segnando
    specialmente le pagine del Ripamonti che alludono all'Innominato.
    Sarebbe bene porre sottocchio in modo evidente queste istorie...."

  [4] Lo riferisco, quantunque notissimo, perchè nella biografia
    manzoniana sembrami avere una importanza speciale: ".... La
    presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una
    superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente
    composto, e quasi involontariamente maestoso; non incurvato, nè
    impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace, la fronte
    serena e pensierosa; con la canizie nel pallore, tra i segni
    dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di
    floridezza verginale; tutte le forme del volto indicavano che, in
    altra età, c'era stata quella che più propriamente si chiama
    bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni e benevoli, la pace
    interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia continua
    d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi,
    bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica
    semplicità della porpora. Tenne anche lui, qualche momento, fisso
    nell'aspetto dell'Innominato il suo sguardo penetrante; ed
    esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e,
    sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre
    più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo
    annunzio d'una tal visita, tutt'animato; "Oh!" disse, "che
    preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d'una sì
    buona risoluzione: quantunque per me abbia un po' del rimprovero!"
    "Rimprovero!" esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da
    quelle parole e quel fare, e contento che il Cardinale avesse
    rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. "Certo, m'è un
    rimprovero," riprese questo, "ch'io mi sia lasciato prevenir da
    voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da
    voi io." "Da me voi! sapete chi sono? V'han detto bene il mio
    nome?" "E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si
    manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla
    all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Siete voi che me la
    fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi, che almeno
    ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi de' miei
    figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più
    desiderato d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di
    poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le meraviglie, e
    supplisce alla debolezza, alla lentezza, de' suoi poveri servi."
    L'Innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle
    parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva
    ancor detto, nè era ben determinato di dire; e commosso, ma
    sbalordito, stava in silenzio. "E che?" riprese ancor più
    affettuosamente Federigo: "voi avete una buona nuova da darmi, e
    me la fate tanto sospirare?" "Una buona nuova, io? Ho l'inferno
    nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete,
    qual'è questa buona nuova che aspettate da un par mio." "Che Dio
    v'ha toccato il cuore e vuol farvi suo," rispose pacatamente il
    Cardinale. "Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è
    questo Dio?" "Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha
    vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v'opprime, che v'agita,
    che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira, vi fa
    presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una
    consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo
    riconosciate, lo confessiate, l'imploriate?" "Oh, certo! ho qui
    qualche cosa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo
    Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?" Queste
    parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un
    tono solenne, come di placida ispirazione, rispose; "Cosa può far
    Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della
    sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli
    potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi,
    che mille e mille voci detestino le vostre opere...."
    (l'Innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir
    quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non
    provare sdegno, anzi quasi un sollievo): "Che gloria," proseguiva
    Federigo, "ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci
    d'interesse, voci forse anche di giustizia, ma d'una giustizia
    così facile, così naturale! Alcune forse, pur troppo, d'invidia di
    codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi,
    deplorabile sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a
    condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora....
    Allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di
    voi? Chi son io, pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che
    profitto possa ricavar da voi un tal signore? Cosa possa fare di
    codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza,
    quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza, di
    sentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate d'aver
    saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio
    non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di
    voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l'opera della
    redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? O pensate! se
    io omiciattolo, io miserabile e pur così pieno di me stesso, io
    qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per
    essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni
    che mi rimangono, oh pensate! quanta, quale debba esser la carità
    di Colui che m'infonde questa, così imperfetta, ma così viva, come
    vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m'ispira un amore
    per voi che mi divora!" A misura che queste parole uscivan dal suo
    labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La
    faccia del suo ascoltatore, di stravolta e confusa, si fece da
    principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più
    profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall'infanzia più non
    conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon
    cessate si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto
    pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta."

  [5] "Nell'Italia nostra (vi si diceva) vi sono tuttavia gli
    Aristotelici delle Lettere, come vi furono della Filosofia; e sono
    quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro
    sguardi sul conio di una moneta, senza mai valutare la bontà
    intrinseca del metallo e corron dietro e preferiscono nel loro
    commercio un pezzo d'inutile rame, ben improntato e liscio, a un
    pezzo d'oro perfettissimo, di cui l'impronta sia fatta con minor
    cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non
    v'annuncino che idee inutili o volgarissime, ma sieno le parole ad
    una ad una trascelte, e tutte insieme armoniosamente collocate nei
    loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro
    una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi,
    grandi ancora, se una voce, se un vocabolo, una sconciatura
    risuona al loro piccolissimo orgtano, ve la ributtano come cosa
    degna di quella."

  [6] "Due però (scrive il Manzoni) erano i libri che Don Ferrante
    anteponeva a tutti e di gran lunga in questa materia; due che,
    fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai
    potersi risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel grado:
    l'uno, il _Principe_ e i _Discorsi_ del celebre Segretario
    fiorentino; mariuolo sì, diceva Don Ferrante, ma profondo: l'altro
    la _Ragion di Stato_ del non men celebre Giovanni Botero;
    galantuomo sì, diceva pure, ma acuto." Il Manzoni dovea pensare
    ne' suoi studii storici un po' come il suo Don Ferrante: "Ma cos'è
    mai la storia senza la politica? Una guida che cammina, cammina,
    con nessuno dietro che impari la strada, e, per conseguenza, butta
    via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che
    cammina senza guida." L'Autore entra spesso in iscena anche come
    attore. Così dopo aver fatto una descrizione, forse un po' troppo
    minuta della biblioteca di Don Ferrante, soggiunge: "Noi
    cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran
    voglia di andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a tornerò
    di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e
    quello di seccatore da dividorsi con l'anonimo sullodato, per
    averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto
    principale, e nella quale probabilmente non s'è tanto disteso, che
    per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo
    secolo. Però lasciando scritto quel che è scritto per non perder
    la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in
    istrada."

  [7] È il Manzoni stesso che ce lo fa sapere in una sua lelterina a
    Cesare Cantù, il quale, valendosi, com'è noto, in gran parte dei
    materiali di studio dei _Promessi Sposi_ che avevano servito al
    Manzoni, compose il suo _Commento storico_ ai _Promess Sposi_:
    "L'Innominato (scriveva il Manzoni) è certamente Bernardino
    Visconti. Per l'_aequa potestas quidlibet audendi_ ho trasportato
    il suo castello nella Valsássina. La duchessa Visconti si lamenta
    che le ho messo in casa un gran birbante, ma poi un gran santo."
    Nella Valsássina aveva avuto signorìa, nel tempo in cui è
    collocata l'azione del romanzo, la casa Manzoni. L'aver fatto
    l'Innominato il signore della Valsássina parmi un altro segno
    evidente che il Manzoni voleva, in qualche modo, rappresentar sè
    stesso nell'Innominato, per l'_aequa potestas quidlibet audendi_.
    Vogliono che il Manzoni un giorno a chi lo ringraziava del bene
    ch'egli avea fatto co' suoi scritti, rispondesse; "Senta, se c'è
    un nome che non meriti autorità, questo nome è il mio. Lei forse
    non sa che io fui un incredulo e un propagatore d'incredulità e
    _con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio_. E se la
    Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è perchè mi ricordi sempre
    che fui _una bestia e un cattivo_."

  [8] "Lodovico (scrive il Manzoni) aveva contratte abitudini
    signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l'aveano
    avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle
    mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben
    diverso da quello, a cui era accostumato; e vide che a voler esser
    della loro compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare
    una nuova scuola di pazienza o di sommissione, star sempre al di
    sotto e ingozzarne una ogni momento. Una tal maniera di vivere non
    s'accordava, nè con l'educazione, nè con la natura di Lodovico.
    S'allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con
    rammarico, perchè gli pareva che questi veramente avrebber dovuto
    essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più
    trattabili."

  [9] Forse vi è pure qualche cosa delle idee di quel parroco
    conosciuto dal Manzoni, nel battibecco fra Agnese e Don Abbondio
    sul titolo da darsi al cardinal Federigo "illustrissimo" o
    "monsignore" o "eminenza," ove Don Abbondio prova che il Papa ha
    decretato che i Cardinali si chiamino eminenze, perchè troppi si
    appropriarono il titolo d'illustrissimi. Un giorno, è vero, si
    chiameranno tutti eminenze, gli abati, i proposti, ma intanto per
    un po' di tempo, perchè gli uomini son fatti così, sempre voglion
    salire, sempre salire, i soli curati a tirar la carretta, e a
    pigliarsi del reverendo fino alla fine del mondo. Piuttosto, non
    mi meraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a
    sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati come i
    Cardinali, un giorno volessero dell'eminenza anche loro. E se lo
    vogliono, vedete, troveranno ehi gliene darà. E allora il Papa che
    ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali.

  [10] Enrichetta Blondel, moglie del Manzoni, morì cinque anni dopo la
    pubblicazione dei _Promessi Sposi_ nel 1833, e il Manzoni ne
    rimase per lungo tempo inconsolabile. Il Tommaseo ricordava, in
    proposito; un aneddoto commovente: "Il Manzoni era a Stresa per
    assistere all'agonìa dell'amico Antonio Rosmini; e fu soggetto
    d'ammirazione agli astanti la venerazione figliale di lui più
    vecchio ed il cordoglio di quella morte; e io posso dire quanto
    profondamente (non parendo ai profani) egli sentisse i dolori.
    Rincontratomi seco a Stresa, a caduto il discorso su Virgilio
    {religione dell'anima sua) rammentando io quel sovrano concetto
    d'Evandro; _Tuque o santissima coniux, felix morte tua_, egli
    continuava la citazione: _neque in hunc servata dolorem_,
    accompagnandola coll'atto del viso e della mano abbandonata sul
    ginocchio, e sentì la _diletta e venerata sua moglie_, la sua
    ispiratrice, della quale consunta da lento languore ei diceva con
    parole degne di chi ci ritrasse Ermengarda morente:,--Tutti i dì
    la offro a Dio, e tutti i dì gliela chieggo.--Veggasi pure quanto
    scrive in proposito il professor Prina nel suo diligente _Studio
    biografico sopra il Manzoni._

  [11] Il Tommaseo, scrivendo al signor Giovanni Sforza, gli diceva:
    "Nel marzo (1827) egli (Manzoni) stava scrivendo gli ultimi fogli,
    e io sul principio di quell'anno o sulla fine del precedente lessi
    buona parte del terzo volume all'abate Rosmini che, passeggiando
    la sua stanza, sorrideva e ammirava. Un giorno che Don Alessandro
    correggeva le bozze e le metteva al sole che s'asciugassero: _vede
    che ho qualcosa anch'io al sole_, coll'arguzia solita, nel vedermi
    entrare, sorridendo egli disse."

  [12] Del rumore che fecero al loro apparire, i Promessi Sposi, possiam
    prendere argomento dalle seguenti parole di Paride Zajotti, il
    critico detta _Biblioteca Italiana_: "Alessandro Manzoni conduce
    in Italia la scuola romantica; nè la placidezza della sua vita, nè
    la dignitosa temperanza dell'alto suo ingegno valsero a liberarlo
    da questo onore pericoloso, cui necessariamente lo solleva la fama
    universale delle sue opere, e il bisogno riconosciuto da' suoi
    seguaci di ripararsi sotto un gran nome. Non è quindi a
    maravigllare, se le sue scritture al primo venire in luce destano
    una commozione sì viva, e chiamano tosto i partiti a sdegnose e
    gareggianti parole; i classicisti non gli vogliono permettere
    d'acquistar tanta gloria violando i loro antichi precetti, e i
    romantici menano un romoroso trionfo, attribuendo alla bontà de'
    nuovi principii le lodi unicamente debite all'eccellenza del loro
    maestro." Più volgarmente il prete Giuseppe Salvagnoli Marchetti,
    il quale nell'anno 1829 pubblicava in Roma un opuscolo contro
    gl'_Inni Sacri_ di Alessandro Manzoni, per far dispetto al Borghi
    che gli ammirava, gl'imitava e non volea le lodi del Salvagnoli se
    quelle lodi doveano tacitamente contenere un biasimo agl'Inni
    manzoniani, confessa la popolarità, di cui godevano fin da
    quell'anno i _Promessi Sposi_. Dicendo egli al proprio libraio che
    non avea ancora letto il romanzo del Manzoni, fa poi che il
    libraio malignamente gli soggiunga: "Si tollererebbe più
    volentierl il non aver letto Dante che i _Promessi Sposi_ oggidì."
    Il libraio gli offre venticinque zecchini, a patto ch'ei scriva
    contro i _Promessi Sposi_; il Salvagnoli finge ricusare il
    compenso larghissimo, per questa sola ragione, ch'egli non suol
    leggere nè insegnare "una storia _corretta e rifatta_ in un
    romanzo." Che se consente a scrivere contro gl'_Inni Sacri_,
    l'invidia non c'entra. "Non invidio (egli scrive) il Manzoni,
    perchè non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di
    vero." La critica dell'opera manzoniana fu in parte pubblica, in
    parte privata. Lo stesso critico della _Biblioteca Italiana_ fin
    dall'anno 1827 ce ne avverte: "I varii giudizii, che diedero di
    quest'opera le pubbliche stampe e i privati discorsi, cominciarono
    a dividersi già sul principio di essa, dove si venne a disputare
    se le convenisse il nome di romanzo che l'Autore non le aveva
    assegnato.... troppo oziosa è la disputazione de' nomi, quando il
    giudizio della cosa stessa non ne dipende. Non manca mai chi
    voglia seguire l'esempio dell'Addison, il quale, negandosi il
    titolo di poema epico al _Paradiso perduto_, solea chiamarlo poema
    divino; e noi medesimi, quando veggiamo per un sì tenue soggetto
    così accese battaglie, amiamo ripetere sotto voce la sentenza del
    poeta persiano: _che importa alla rosa che le si cambi il nome, se
    le rimane il suo usato profumo?_ E pure lo stesso critico, da
    principio al fine del suo esame, si mostra incontentabile, fin che
    conchiude lagnandosi che il Manzoni non abbia frammischiato al suo
    racconto qualche lirica potente sacra o guerresca o cittadina. Il
    critico non dovette esser solo a muover questo lamento, e chi sa
    che non gli tenesse bordone in quell'anno lo stesso Grossi, il
    quale nel _Marco Visconti_ introdusse poi le sue due più belle
    liriche. Lo stesso critico Zajotti, dopo aver notato come, per
    cagione dell'abate Chiari, fosse caduto in basso il romanzo
    italiano, avverte quello che occorreva per farlo vivere onorato:
    "A cancellare quella macchia, a rimettere nella vera sua sede
    l'onesto romanzo, era necessario che sorgesse un uomo ricco di
    qualità rarissime, e troppo difficili ad essere congiunte in un
    solo. Ei doveva aver bollente l'ingegno ed il cuore, ma saperli
    tenere a freno, chè la fantasia non gli avesse a travolgere; dovea
    conoscere gli uomini, e tuttavia poterli amare, conoscere le
    passioni, ma, coll'averne trionfato, sapere come si vincano.
    All'antica erudizione gli era d'uopo unire la nuova sapienza, e
    l'una e l'altra ravvivare col fuoco d'una splendida immaginativa.
    Nè questo ancora gli poteva bastare. Bisognava che la sua fama
    fosse superiore non all'invidia, ch'è impossibile, ma sì alla
    calunniai bisognava che, circondato da bellissima gloria
    acquistata con opere di alta letteratura, non avesse a temere la
    taccia di frivolità impressa da noi agli Studii del romanziere;
    bisognava finalmente che il suo nome amato dai buoni e riverito
    anche dai malvagi presentasse l'idea delle più insigni virtù
    religiose e morali, e solo bastasse colla sua dignità a liberare
    da ogni sospetto i romanzi. Ma dove rinvenire quest'uomo e come
    sperarlo? La fortuna ha prosperato l'Italia, e quest'uomo è
    Alessandro Manzoni. La sola notizia che l'Autore dell'_Adelchi_,
    il Poeta degl'_Inni Sacri_ scriveva un romanzo, nobilitò la
    carriera, e trasse alcuni chiari intelletti ad entrarvi. {Camillo
    Laderchi, traducendo nel 1846 il giudizio del Sainte-Beuve sopra
    il Fauriel e il Manzoni, scriveva: "Allorquando Manzoni sta per
    dar fuori uno scritto, possiam esser sicuri che n'escono in
    precedenza cento altri a trattare l'argomento che deve essere
    oggetto della sua pubblicazione, quasi intendendo prevenirlo e
    torgli la materia di mano. Ciò avvenne per la _Storia degli
    Untori_, quando si seppe vicina la stampa del suo libro sulla
    _Colonna infame_. Ma poi, tostachè il suo lavoro comparisce, si
    trova che siffatti tentativi non valsero a impedirgli di
    conquistare una nuova gloria, camminando per vie prima intentate,
    e nondimeno sempre sul vero, lontano lontanissimo da tutto ciò che
    può sapere d'esagerato e di stravagante.") "Il vero ostacolo, il
    solo che l'ingegno abbandonato a sè stesso non potea vincere, fu
    pienamente atterrato; gli altri impedimenti, che sarebbe troppo
    facile annoverare, cadranno di leggieri innanzi al passo animoso
    degl'Italiani. Nei due secoli della nostra gloria noi avemmo
    romanzi eccellenti: perchè dovrebbero mancarci nel terzo, ora ch'è
    sgombra la strada a raccor questa palma? Tutta la terra è scena
    conveniente ai racconti del romanziere; ma se, com'è desiderio
    giusto comune, gl'Italiani vorranno rimanersi in Italia, chi potrà
    sorpassarli nella varia descrizione dei costumi e dei luoghi? Ov'è
    il paese più favorito dalla natura e del cielo? Ove sono i campi
    guardati con più amore dal sole? Ed infinita è la diversità delle
    costumanze e degli usi. Ogni montagna, quasi ogni fiume, divide
    due popoli vicini, e tuttavia fra loro distinti come due
    lontanissime genti. Roma, Napoli, Firenze, Milano, Venezia,
    sembrano altrettante nazioni, che risalendo fino alle loro origini
    si trovano sempre uguali a sè medesime, ma sempre differenti nelle
    pratiche della vita civile. L'indole e perfino il modo di pensare
    n'è diverso, come la storia. Quale mèsse ricchissima pel
    romanziere che ha da descrivere una tanta delizia, un tanto orrore
    di luoghi, e può rappresentare sì svariati costumi e con sì facili
    combinazioni metterli insieme a contrasto! Non ci rimane alcun
    dubbio, la vittoria in corto volgere d'anni sarà nostra, se il mal
    augurato _romanzo storico_ non affascina gl'ingegni." Imprende
    quindi il critico a biasimare l'uso di mescolare il romanzo con la
    storia, e il biasimo suo conforta di molte buone ragioni,
    parecchie delle quali dovettero far pensare e persuadere il
    Manzoni, che s'accinse quindi egli medesimo a giudicare il
    _romanzo storico_, per condannarlo senza riguardo.

  [13] Il Manzoni si destreggiava contro i suoi critici e contro gli
    amici dissidenti press'a poco come quel giudice di pace, di cui
    egli stesso ci ha parlato nel suo ingegnoso e formidabile
    _Discorso sul Romanzo storico_: "Un mio amico, di cara e onorata
    memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato
    presente in casa di un giudice di pace in Milano, val a dire
    molt'anni fa. L'aveva trovato tra due litiganti, uno de' quali
    perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il
    giudice gli disse: Avete ragione. Ma, signor giudice, disse subito
    l'altro, lei mi deve sentire anche me, prima di decidere. È troppo
    giusto, rispose il giudice, dite pure su, che v'ascolto
    attentamente. Allora quello si mise con tanto più impegno a far
    valere la sua causa; e ci riuscì così bene, che il giudice gli
    disse: Avete ragione anche voi. C'era lì accanto un suo bambino di
    sette od ott'anni, il quale, giocando pian piano con non so qual
    balocco, non aveva lasciato di stare anche attento al
    contradittorio; e a quel punto alzando un visino stupefatto, non
    senza un certo che d'autorevole, esclamò: Ma babbo! non può essere
    che abbiano ragione tutt'e due! Hai ragione anche tu, gli disse il
    giudice. Come poi sia finita, o l'amico non lo raccontava, o m'è
    uscito di mente; ma è da credere che il giudice avrà conciliate
    tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio, quanto a
    Sempronio, che se aveva ragione per una parte, aveva torto per
    un'altra."

  [14] Si confronti quello che fin da giovine il Manzoni scriveva da
    Parigi a' suoi amici lombardi, e ciò che la moglie scriveva di lui
    nel 1820 al Tosi. Probabilmente il Manzoni avrà parecchie volte
    prima della pubblicazione de' _Promessi Sposi_ lamentata la
    indifferenza, la malignità italiana, la quale doveva rincrescergli
    tanto più dopo essere stato ammirato dal Fauriel e dal Goethe.

  [15] Colgo l'occasion per ringraziare l'egregio Antonio Ghislanzoni
    che mi fu guida intelligente e simpatica nel mio pellegrinaggio
    artistico ai luoghi manzoniani.



XIX.

IL MANZONI E LA CRITICA.


Appena che i _Promessi Sposi_ si pubblicarono, il pubblico li comprò e
li lesse avidamente:[1] se ne fecero subito in tutte le provincie
d'Italia ristampe, in Francia, in Germania, in Inghilterra traduzioni.
Il pubblico lesse ed ammirò; parecchi nobilissimi ingegni sacrarono
tosto con parole di vero entusiasmo il capolavoro della moderna prosa
italiana; i soli letterati di professione, facendo il loro solito
invido mestiere, criticarono indegnamente. Ma il pubblico, come spesso
accade, non gli ascoltò; i _Promessi Sposi_ diventarono, in poco
tempo, classici; i luoghi descritti nel romanzo parvero degna mèta di
nuovi pellegrinaggi ideali; i tipi de' _Promessi Sposi_ diventarono
tutti popolari; il romanzo parve così poetico, che un Del Nobolo si
provò pure a mettere quella storia in versi; la pittura, la musica
s'impadronirono di quel tèma popolare, reso illustre da una mente
sovrana; fino ad oggi le edizioni italiane del romanzo superano le
centocinquanta. Nessun libro italiano è forse mai stato letto di più;
e pure è singolare che oggi, dopo oltre cinquant'anni, ci siano ancora
da scoprire ne' _Promessi Sposi_ tante finezze, tante bellezze che
erano passate intieramente inosservate. Un commento ai _Promessi
Sposi_ rimane ancora da farsi e non può mancare. Il libro è assai
piano, e non sembra abbisognarne: e pure confido che quanto ne sono
venuto dicendo fin qui, abbia già convinto alcuno di voi che in questa
come in tutte le opere del genio si può sempre scoprire qualche abisso
inesplorato. L'antico bisticcio del Tommaseo avrebbe potuto da lungo
tempo spingere i lettori a questa maniera d'indagini; ma, o non vi si
pose mente, non vedendosi altro in quel giuoco di parole che il giuoco
stesso e non l'occasione che gli avea dato mouvo, o, vivo Manzoni,
nessuno osò andare a cercar l'Autore nel libro. Dopo la sua morte, si
raccolsero parecchi de' suoi motti, si ricordò qualche suo discorso,
si pubblicarono alcune sue lettere; ma a rileggere criticamente tutto
intiero il libro de' _Promessi Sposi_, dico a rileggerlo per il
pubblico, non s'è pensato ancora; ed è cosa assai strana, fra tanto
consenso di ammirazione, che non solo dura, ma cresce sopra la tomba
del grande Milanese. I _Promessi Sposi_ li rileggiamo volentieri,
perchè ad ogni nuova lettura ci pare d'intenderli e di gustarli
meglio; ma, quanto maggiore sarà questo nostro diletto, se noi potremo
d'ora in poi leggere quelle tante altre belle cose che il Manzoni
nascose prudentemente fra riga e riga, ed alle quali non avevamo fin
qui posto mente! Ricordiamoci ch'è del Manzoni e che si trova per
l'appunto ne' _Promessi Sposi_ quella similitudine fra i segni del
vasto saccheggio fatto nella parrocchia di Don Abbondio accozzati
insieme nel focolare e "molte idee sottintese, in un periodo steso da
un uomo di garbo." Dicono che Walter Scoti, venuto a Milano, cercasse
tosto del Manzoni, per rallegrarsi con lui del suo bel romanzo, e che
il Manzoni, il quale definì un giorno lo Scott "l'Omero del romanzo
storico," con modestia rispondesse ai primi complimenti: "Se i miei
_Promessi Sposi_ hanno qualche pregio, sono opera vostra, tanto sono
il frutto del lungo mio studio sui vostri capolavori." Il grande
Romanziere scozzese sentì tosto ciò che vi era di eccessivo in quella
modestia, e tagliò corto, a quanto si narra (il Carducci pone in
dubbio il racconto stesso), con una risposta non meno spiritosa che
eloquente, la quale non ammetteva replica: "Or bene, in questo caso
dichiaro che i _Promessi Sposi_ sono il mio più bel romanzo." Carlo
Cattaneo, forte ingegno lombardo, che non partecipava punto delle idee
della scuola manzoniana, anzi le combatteva, parlando un giorno col
professor De Benedetti, dichiarava ch'egli non conosceva alcuno
scrittore più originale del Manzoni, perchè in nessun altro scrittore
si vedono come nel Manzoni armonizzate due qualità che di consueto si
escludono, la pietà e la satira. Ho riferito l'opinione d'un rivale e
quella d'un dissidente; gioverà ancora ascoltare quella di un nobile
avversario. Il Sismondi, contro il quale il Manzoni avea composto il
suo libro sopra la _Morale cattolica_, scrivendo nel 1829, da Ginevra,
a Camillo Ugoni, esprimevasi in questi termini sopra il Manzoni: "Je
suis enchanté d'apprendre que vous préparez une novelle édition de ses
oeuvres; c'est un homme d'un beau talent et d'un noble caractère.
J'apprends avec bien de chagrin qu'au lieu de préparer quelque nouvel
ouvrage dans le genre du roman historique dont il a fait un présent a
l'Italie, il écrit au contraire un grand livre contre ce genre
d'ouvrages. Il y avait da génie dans ses _Promessi Sposi_, il y avait
en même temps l'exemple da genre de lecture qui peut, en dépit de la
censure, faire l'impression la plus générale et la plus utile sur le
public italien."[2] Ma il Manzoni doveva essere originale in tutto;
egli avea promesso a vent'anni di mirar sempre alla _salita_, ma che
egli sarebbe caduto sopra una via propria, sulla sua propria orma,
quando avesse dovuto cadere. Appena composti i _Promessi Sposi_,
vedendo il pericolo che si correva a passare per creatore del romanzo
storico in Italia, e ad esser tenuto complice di tutti i pretesi
romanzi storici che si sarebbero pubblicati dopo il suo, ebbe un'idea
_poetica_. Adopero la parola _poetica_ nel modo, in cui piaceva
adoprarla a Renzo. Vi ricordate la scena dell'osteria? Un giuocatore
dice che le penne d'oca, con le quali si scrive, sono in mano de'
signori, perchè sono essi che mangiano le oche, ed è giusto che
s'ingegnino a far qualche cosa anche delle penne. Si ride, e Renzo
esclama: "To' è un poeta costui. Ce n'è anche qui de' poeti; già ne
nasce per tutto. N'ho una vena anch'io, e qualche volta ne dico delle
curiose..., ma quando le cose vanno bene." L'Autore soggiunge: "Per
capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso
il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già,
come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo,
un allievo delle Muse, vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano
che, ne' discorsi e ne' fatti, abbia più dell'arguto e del singolare
che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a
manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro
legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare
poeta con cervello balzano?" Il Manzoni dovette sentirsi dare a quel
modo del poeta, e non da sole persone del volgo. Quando egli stava
correggendo i _Promessi Sposi_, cioè nel luglio del 1824, dopo avere
scritto una bella lettera scherzosa a monsignor Tosi, conchiude: "Ma
io m'accorgo che lo scherzo eccede e che la mia pensata di non dirle
seriamente quello che io sento, per timore d'essere poco rispettoso, è
stata veramente, com'Ella dice qualche volta, _poetica_. Perdoni Ella
davvero questa scappata d'un _cervello_ che Ella conosce per
_balzano_, la perdoni alla vivezza d'un sentimento che aveva proprio
bisogno di sfogo." Queste parole sono il commento più autentico che si
possa desiderare a quel brano veramente _poetico_ dei _Promessi
Sposi_. Il Manzoni dovea temere i suoi pedissequi, non meno forse che
il pericolo d'esser preso egli stesso per un pedante che camminasse
sulle traccie altrui. Per i grandi egli aveva un _rationabile
obsequium_; Virgilio, Dante, lo Shakespeare, il Voltaire, il Goethe
ammirava, ma sentendosi abbondanza d'ingegno originale, non si provò
mai, dopo il Carme per l'Imbonati e l'_Uranio_, ad imitarli. Concepì
il romanzo come un lavoro nuovo e _sui generis_, anzi, tutto proprio,
e nell'anno medesimo in cui l'ebbe terminato, che fu, come s'è già
detto, il 1823, diresse al marchese Alfieri una lunga lettera sul
_romanticismo_, la quale rimase allora inedita, ma che ci pare molto
eloquente. Compiuto un lavoro destinato a diventar classico, ecco in
qual modo egli ragionava intorno ai Classici: "Gli antichi, o almeno i
più lodati di essi, sono stati appunto eccellenti, perchè cercavano la
perfezione nel soggetto stesso che trattavano, e non nel rassomigliare
a chi ne aveva trattati di simili; e quindi per imitarli nel senso più
ragionevole e più degno del vocabolo, bisognava appunto non cercare
d'imitarli nelll'altro senso servile. Chè molte cose de' Classici
erano piaciute, perchè avevano trovato negl'intelletti una
disposizione a gustarle, nata da circostanze, da idee, da usi
particolari che più non sono. Che, fra i moderni stessi, più vantati
son quelli che non imitarono, ma crearono; o, per parlare un po' più
ragionevolmente, seppero scoprire ed esprimere i caratteri speciali,
originali, degli argomenti che presero a trattare; vi è un po' di
contradizione nel dire: prendete a modelli quegli scrittori che furono
sommi, perchè non presero alcun modello." Egli non può tollerare
l'impero delle leggi stabilite, con molto arbitrio, dai retori.
"Ricevere (egli esclama) senza esame; senza richiami, leggi di tali, e
così create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale infatti
(aggiungeva) è l'effetto più naturale del dominio di queste regole? Di
distrarre l'ingegno inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla
ricerca de' caratteri proprii ed organici di quello, per rivolgerlo e
legarlo alla ricerca e all'adempimento di alcune condizioni talvolta
affatto estranee al soggetto, e quindi d'impedimento a ben trattarlo.
Una delle lodi che noi Italiani in ispecie diamo ai poeti che più
siamo in uso di lodare, non è ella forse dell'aver eglino abbandonate
le norme comuni, dell'essersi resi superiori a quelle, dell'avere
scelta una via non tracciata, non preveduta, nella quale la critica
non aveva ancor posti i suoi termini, perchè non la conosceva, e il
genio solo doveva scoprirla? Se essi dunque hanno fatto così bene,
prescindendo dalle regole, perchè ripeteremo sempre che le regole sono
la condizione essenziale del far bene?" E sopra questo argomento della
ragionevolezza nell'ammirazione egli ritorna ancora con altre parole:
"L'ammirazione pe' sommi lavori dell'ingegno è certamente un
sentimento dolce e nobile; una forza non so se ragionevole, ma
tuttavia universale, ci porta a gustare più ancora un tal sentimento,
quando gl'ingegni che lo fanno nascere sono nostri concittadini. Ma
l'ammirazione non deve mai essere un pretesto alla pigrizia, voglio
dire che non deve mai inchiudere l'idea di una perfezione che non
lasci più nulla da desiderare nè da fare. Nessun uomo è tale da
chiudere la serie delle idee in nessuna materia; e come nelle opere
della produzione materiale, così in quelle dell'ingegno, ogni
generazione deve vivere del suo lavoro, e risguardarsi il già fatto
come un capitale da far fruttare con nuovi trovati, non come una
ricchezza che dispensi dall'occupazione." Egli scrive dunque a suo
modo un libro che si battezza come un _romanzo storico_; così tuttavia
non l'ha battezzato egli; egli ha fatto un libro originale che fu
ascritto tra i romanzi originali; ma _il suo_ romanzo storico è tale
che si può dire di esso:

     _Manzoni_ il fece e poi ruppe lo stampo.

Vennero numerosi imitatori: nessuno, non esclusi i migliori, come il
Varese, il Bazzoni, l'Azeglio, il Grossi, il Cantù, riuscirono a darci
un romanzo _manzoniano_; chi si avvicinò di più, per alcune parti, al
tipo, fu Giulio Carcano con la sua _Angiola Maria_; ma questa, più
ancora che i _Promessi Sposi_, arieggia il _Vicario di Wakefield_ del
Goldsmith. Il Manzoni previde il caso, e col suo bravo discorso contro
il Romanzo storico mise, come suol dirsi, le mani innanzi, per non
venire confuso co' suoi probabilmente numerosi seguaci, che si
credettero e non furono e non potevano essere imitatori. Egli non può
naturalmente, per modestia, parlare di sè; ricorre quindi ad un altro
esempio illustre, ed esclama: "Mi sapreste indicare, tra le opere
moderne e antiche, molte opere più lette e con più piacere e
ammirazione dei romanzi storici di un certo Walter Scott? Voi volete
dimostrare, con questo e con quell'argomento, che non doveano poter
produrre un tal effetto. Ma se lo producono!--Che quei romanzi siano
piaciuti, e non senza di gran perchè, è un fatto innegabile, ma è un
fatto di quei romanzi, non il fatto del romanzo storico." Con questo
argomento egli salva il proprio libro dal naufragio, in cui si accorge
che tutti i romanzi storici devono andare perduti; e meglio ancora da
questo argomento, che richiede sempre il sussidio della prova, lo
salva, fuor di ogni dubbio, la creazione di alcuni tipi; il poeta
creatore di tipi salva il romanziere. Non si domanda, invero, nè
importa sapere in qual secolo, in qual villaggio precisamente, Don
Abbondio abbia vissuto; ciò che rileva è che si abbia in lui
rappresentato al vivo un certo carattere umano, un certo tipo di
parroco italiano. Il romanzo può perire; Don Abbondio e l'artista che
lo scolpì, vivranno immortali. Ma il genere, insomma, è proprio falso.
"Un gran poeta e un gran storico (disse con ragione il Manzoni
sentendo sè stesso) possono trovarsi, senzo far confusione, nell'uomo
medesimo, ma non nel medesimo componimento.--Il positivo non è,
riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; o non si conosce
se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui; e quindi
l'ingrandirlo con del verosimile non è altro, in quanto all'effetto di
rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire. Ho
sentito parlare di un uomo più economo che acuto, il quale si era
immaginato di poter raddoppiare l'olio da bruciare, aggiungendoci
altrettanta acqua. Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra,
l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse
immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un
liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento. Dibatti, dibatti,
riuscì a farne un non so che di brizzolato, di picchiettato che
scorreva insieme, ed empiva la lucerna. Ma era più roba, non era olio
di più; anzi, riguardo all'effetto di far lume, era molto meno. E
l'amico se ne avvide, quando volle accendere lo stoppino." Quando il
Manzoni ebbe pubblicato il suo Discorso contro il Romanzo
storico--_Siamo fritti!_--scriveva Tommaso Grossi a Cesare Cantù. E si
capisce che, dopo avere pensato e scritto un tale discorso, ove ogni
pagina, anzi ogni parola rivela una profonda persuasione, egli non si
sarebbe mai accinto a scrivere un secondo libro sul tipo dei _Promessi
Sposi_. Prima di tutto, un libro simile non può essere altrimenti che
unico per uno scrittore e per una letteratura. Concepite, se vi
riesce, due _Iliadi_ per la Grecia, due _Divine Commedie_ per
l'Italia, due _Amleti_ per l'Inghilterra, due _Faust _per la Germania,
due _Don Chisciotti_ per la Spagna; l'uno dei due deve essere una
freddura o una caricatura. Così non si può dare in Italia un altro
libro simile ai _Promessi Sposi_, e il Manzoni avea troppo buon senso
per immaginarsi di poterlo scrivere; egli non era, per dire il vero,
un grande ammiratore del Tasso; anzi è strano il disprezzo che mostrò
a questo nostro grande e infelice ingegno; ma, se ammirava qualche
cosa in lui, la _Gerusalemme Conquistata_ dovea parergli una grande
miseria nel confronto della _Gerusalemme Liberata_. Egli dunque non
avrebbe mai commesso lo sbaglio di comporre un secondo poema, o sia un
secondo romanzo; ma nel capitolo 22 del suo romanzo si era letto
questo passo, relativo alla storia della Colonna infame ed agli
Untori: "È parso che la storia potesse esser materia di un nuovo
lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il
luogo di trattarla con l'estensione che merita. E, oltre di ciò, dopo
essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più
certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando
però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli, torneremo
finalmente ai nostri personaggi." Fu uno sbaglio quella pubblica
promessa; poichè si trovarono subito, non so se speculatori o
spigolatori, o l'uno e l'altro insieme, che gli sfiorarono
l'argomento, così chiaramente indicato alla curiosità del pubblico, di
maniera che quando il Manzoni ebbe pronta la sua _Storia della Colonna
infame_, troppi dei documenti ch'egli aveva esaminati il primo, aveano
già vista la luce. E poi il pubblico s'era immaginato da quella aperta
promessa, e dalla lunga aspettativa, che sarebbe uscito un nuovo
racconto; quando, invece, s'accorse di che si trattava, esso si
credette burlato, e mormorò, quantunque il Manzoni l'avesse, con
onesta previdenza, messo subito sull'avviso, scusandosi da sè stesso
della soverchia curiosità, con cui s'era attesa la _Storia della
Colonna infame_. "In una parte (egli scrive) dello scritto precedente
(_I Promessi Sposi_), l'Autore aveva manifestata l'intenzione di
pubblicare la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza
vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta
materia, se non altro, e di mole corrispondente. Ma, se il ridicolo
del disinganno deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno di
protestare che nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un
topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti." Il
Manzoni, proseguendo l'opera di Pietro Verri che nel secolo innanzi
aveva scritto le _Osservazioni sulla Tortura_, voleva fare inorridire
per le iniquità dei sistemi di procedura, insistendo sui processi
degli Untori, non tanto per far prendere in odio la tortura già
scomparsa, quanto per rendere odiosi i processi che l'ignoranza rende
ancora sempre arbitrarii e fallaci. "Noi (egli scrive), proponendo a
lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra errori già
conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile
frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni
volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che
non si posson bandire come falsi sistemi, nè abolire come cattive
istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle
ne' loro effetti e detestarle." Si meraviglia il Manzoni e si duole e
s'arrabbia ad una volta che, per un secolo e mezzo, non pur dal volgo,
ma da uomini dotti ed onesti siasi non pur creduto agli Untori, ma
diffusa per gli scritti l'opinione che gli Untori esistessero, e che
fosse carità e giustizia il perseguitarli. "Se non che (osserva il
Manzoni) anche quella indegnazione alla rovescia, anche il dispiacere
che si deve provare nel riconoscerla, porta con sè il suo vantaggio,
accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica e non
mai abbastanza screditata di ripetere senza esaminare, e se ci si
lascia passar quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino
medesimo, alle volte quello che gli ha già dato alla testa." I
processi erano condotti con la ferma intenzione di trovare materia di
condanna, e di provare ad ogni costo la reità dell'accusato. A
proposito del Mora, il quale sotto la tortura si confessa reo, il
Manzoni osserva: "Così eran riusciti a far confermare al Mora le
congetture del birro, come al Piazza le immaginazioni della
donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale come
nel primo con un'illegale impunità. L'armi eran prese dall'arsenale
della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio e a
tradimento." Il Manzoni mirava evidentemente a colpire con queste
parole la pretesa legalità dei processi politici austriaci, ai quali
premeva provare la reità degli accusati; sopra questi processi si
dovea poi scrivere la storia. Ora noi vediamo quale opinione avesse il
Manzoni degli storici ufficiali, quando leggiamo quello che egli
scriveva intorno al Ripamonti: "Il Ripamonti era istoriografo della
città, cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può esser
comandato e proibito di scriver la storia." Così egli fa una critica
degli storici, quando giustifica sè d'aver fatto la storia di povera
gente: "I giudizii criminali e la povera gente, quand'è poca, non si
riguardano come materia propriamente della storia." Nella seconda
parte del suo scritto, il Manzoni cogliendo l'occasione che gli si
offre di cercare quello che gli storici avean detto degli Untori,
intraprende pure una critica eruditamente demolitrice di Pietro
Giannone, storico audacemente plagiario, e la conchiude con queste
parole: "Chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe
scoprire chi ne facesse ricerea; ma quel tanto che abbiam veduto d'un
tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de'
fatti, non dico giudizii, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i
capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel
che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente,
fu certamente rara, come fu raro il coraggio, ma unica la felicità di
restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grande uomo. E questa
circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci
faccia perdonare dal benigno lettore una digressione, lunga, per dir
la verità, in una parte accessoria di un piccolo scritto." Dopo aver
citato i versi del Parini, che fanno eco alla tradizione popolare
degli Untori e della Colonna infame:

     O buoni cittadin, lungi, che il suolo
     Miserabile infame non v'infetti,

Il Manzoni soggiunge. "Era questa veramente l'opinione del Parini? Non
si sa; e l'averla espressa così affermativamente bensì, ma in versi,
non ne sarebbe un argomento; perchè allora era massima ricevuta che i
poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere
o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione o forte o
piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini
nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal
inconveniente non poteva nascere, perchè i poeti, nessun credeva che
dicessero davvero. Non c'è da replicare; solo può parere strano che i
poeti fossero contenti del permesso e del motivo." Noi abbiamo qui un
Manzoni intieramente critico; il poeta creatore è scomparso. Ma quanta
novità ed originalità pure in questa critica! quanta onestà e
profondità d'intendimenti! quanta efficacia, quanta poesia, se si può
dire, in questa stessa critica! Noi dobbiamo tuttavia, a nostra
confusione, confessare che la _Storia della Colonna infame_ come, in
generale, tutte le prose critiche del Manzoni, in Italia fu letta da
pochi e meditata da pochissimi; e che il Manzoni dovette anche una
volta convenire che egli era stato meglio capito, in ogni modo, meglio
apprezzato da un forestiero che dai proprii concittadini. In una
lettera di ringraziamento ch'egli diresse, nell'anno 1843, al conte
Adolfo di Circourt, noi leggiamo queste parole scritte in francese,
lingua della quale egli aveva già dato splendido saggio nella sua
bella lettera al Chauvet sopra le Unità drammatiche, pubblicata dopo
una rispettosa critica del suo _Conte di Carmagnola_: "J'avais, effet,
en travaillant au petit ouvrage que vous avez jugé avec tant
d'indulgence, les intentions que vous exprimez si bien. Evènement
isolé et sana relation avec les grands faits de l'histoire; acteurs
obscurs, les puissants autant que les faibles; erreur sur laquelle il
n'y a plus personne à détromper parmi ceux qui lisent; institutions
contre lesquelles on n'a plus a se défendre: il m'avait semblé que
sons tout cela il y avait pourtant encore un point qui touchait aux
dangers toujours vivants de l'humanité, a ses intèrèts les plus
nobles, comme aux plus matériels, a sa lutte perpétuelle sur la terre.
Mais comme on aime beaucoup à viser, on se fait facilement des buts;
et la persuasion la plus vive, qui par cela même pourrait n'être
qu'engouement, le témoignage même de quelques amis dont le jugement,
de grande autorité en toute autre occasion, pourrait être égaré par la
sympathie, ne peuvent rassurer que faiblement contre la crainte de
s'être trompé. C'est du public que l'on attend une assurance, non pas
entière, mais plus ferme; et cette épreuve m'a été complètement
défavorable. Quand ma petite histoire a paru, le silence
(permettez-moi de ramener à un sens plus réel une expression que vous
avez employée d'une manière trop bienveillante) le silence s'est fait;
et la curiosité qui s'était assez éveillée dans l'attente a cessé tout
d'un coup, non comme satisfaite, mais comme déçue. Jugez après cela,
Monsieur, quel plaisir a dû me faire une voix inattendue et éloquente,
qui a bien voulu me dire que je ne m'étais pas tout a fait trompé."
Dopo la pubblicazione della _Storia della Colonna infame_, fuori de'
suoi scritti sull'unità della lingua, il Manzoni non pubblicò altro. E
pure il suo robusto e vivace ingegno si mantenne vegeto fino agli
ultimi giorni della sua lunga vita, Egli non iscrisse quasi più per la
stampa; ma ogni giorno riceveva vecchi e nuovi amici, discorrendo coi
quali il suo ingegno, simile a molla che scattasse, gittava luminose
faville, e diffondeva idee così originali, che avrebbero, ciascuna per
sè, potuto formar la fortuna di un libro e di un autore. Ed è
veramente peccato che il Manzoni non abbia avuto presso di sè un
Eckermann come il Goethe, per trascriverci i suoi quotidiani discorsi;
se Carlo Porta, il Torti, il Grossi, il Tosi, il Giudici, il Sozzi, il
Rosmini, il Cantù, il Carcano, il Rossari, il Ceroli, il Bonghi, il
Rizzi e gli altri più intimi amici del Manzoni (non parlo della
signora Blondel) avessero pensato a notare tutti i motti che uscirono
dalla bocca del Manzoni, nessun libro più originale e più sapiente di
quello che riunisse tutti quegli appunti sarebbe forse mai stato
immaginato e composto. Le uscite manzoniane erano tutte impensate e
quasi sempre felici. Lo stesso imbarazzo che il Manzoni provava talora
nell'esprimersi, poichè qualche volta e ne' momenti per l'appunto che
egli aveva una maggior fretta di parlare, gli accadeva di balbettare,
aggiungeva una nuova forza alle parole che uscivano poi come palle
esplodenti. E sopra quel suo difetto organico egli avea preso la buona
abitudine di ridere il primo, per toglierne la volontà ed il pretesto
agli altri. "La balbuzie di Alessandro Manzoni (scrive Antonio
Stoppani) non era una balbuzie di genere comune come sarebbe quella,
per esempio, consistente in una specie di sincope momentanea
dell'organo vocale.... Il Manzoni non era nemmeno di quelli che vanno
soggetti a quella specie di paralisi mentale momentanea, per cui la
parola, benchè comunissima, rifiuta di presentarsi nell'istante, in
cui si ha bisogno di proferirla. "Io, diceva il Manzoni, la parola la
vedo; essa è lì; ma non vuole uscirmi dalla bocca;" quando era in
questo caso, troncava improvvisamente il discorso. "Se la si lascerà
dire," soggiungeva l'illustre paziente: e dopo questa specie di
scongiuro, pronunciava senza difficoltà quella parola che prima s'era
rifiutata assolutamente a pigliar forma sensibile nella sua bocca.
Avendo Don Giovanni Béttega, ora parroco di Anzano, avuto occasione di
presentargli, Alessandro Manzoni, giocando di parole sul cognome di
quel bravo ecclesiastico che, pronunciato lungo, in dialetto lombardo
vuol dire _balbetta_: "Lei, disse, ha il _nomen_ ed io l'_omen_."
Nella lettera che scrisse al Briano per rinunciare alla deputazione,
il Manzoni fece pure allusione alla sua balbuzie; ad un amico poi che
gli domandava perchè non avea voluto esser deputato, egli, scherzando,
rispondeva: "Poniamo il caso che io volessi parlare e mi volgessi al
presidente per domandargli la parola, il presidente dovrebbe
rispondermi:--Scusi, onorevole Manzoni, ma a lei la parola io non la
posso dare.--" Ma non è qui il luogo di raccogliere aneddoti, tanto
più che il loro numero, se gli amici del Manzoni superstiti vorranno
ricordarli e parlare, può divenire infinito. Ho qui solamente toccato
di un difetto fisico del Manzoni solamente per mostrare come anche da
esso il Manzoni abbia saputo trovar nuovo alimento alle sue
inesauribili arguzie. Molti venivano a domandargli pareri letterarii
in iscritto, ma inutilmente. Un parere scritto gli era pure stato
chiesto, prima ch'esso pubblicasse le sue _Novelle_, dall'illustre
poetessa piemontese Diodata Saluzzo, ed egli allora s'era schermito
con queste parole: "Ella dee dunque sapere che io ho un'avversione
estrema, come una specie di terrore, all'esprimere giudizio su cose
letterarie, massime in iscritto, e a ridurre in breve i motivi; questa
avversione nasce in me dall'incertezza o, dirò meglio, dalla
improbabilità di farlo bene, e dalla difficoltà del farlo comunque. Il
giudizio di una parola può essere, ed è sovente, derivato da principii
di una grande generalità; di modo che non sia possibile motivarlo, nè
quasi esprimerlo, senza espor quelli, cioè senza scarabocchiar molte
pagine. Nel che sovente il lavoro materiale sarebbe ancora la più
piccola faccenda; vi è questo di più che tali principii ponno essere,
e sono sovente (parlo del fatto mio) tutt'altro che connessi, che
certi, che distinti, puri e riducibili a formole precise e
invariabili; e l'applicazione che pur se ne fa, è un tal quale
intravvedimento; è quel che Dio vuole; ma pur lo si fa. E siccome
questa incertezza o confusione è anche, per men male, riconosciuta
sovente dall'intelletto, in cui è, così dove si vorrebbe un giudizio,
spesso non si presenta che un dubbio, più difficile assai a mettere in
parole, che non un giudizio. Queste difficoltà e altre congeneri
(giacchè non voglio abusar troppo della licenza che le ho chiesta di
riuscirle seccatore) si trovano a cento doppi più nello scritto che
nella conversazione. Qui hanno luogo le espressioni più indeterminate,
i periodi non formati, le parole in aria, formole cioè proporzionate a
quella incertitudine e imperfezione d'idee; e tali formole hanno però
un effetto, giacchè la parte stessa che si degna volere il giudizio
altrui, viene in aiuto a chi ha da formarlo, dando mezzo, colle
spiegazioni, colle risposte, a porre in forma il dubbio, a svolgere il
giudizio che non era nella mente del giudicante che un germe confuso.
Questa parolona di _giudicante_ basta poi a farle ricordare gli alti
motivi di avversione che ha e dee avere per un tale uffizio chi
conosce la propria debolezza. Contuttociò non voglio dire che io non
mi conduca a farlo qualche volta a viva voce con persone, a cui mi
lega una vecchia famigliarità; nè ch'io non ardisca pur di farlo,
comandato, con persona, per cui sento la più rispettosa stima; dandomi
animo da una parte questa stima medesima che dall'altra mi
tratterrebbe; che, quanto al pericolo di dire sproposito o di non
saper bene cosa si dica, è poca cosa per chi protesta e avvisa innanzi
tratto che probabilmente gli accadrà l'uno e l'altro." Così, quando
accadeva al Manzoni di dover giudicare di una contesa letteraria e non
averne voglia, egli dovea ricorrere press'a poco a quel famoso
espediente, a cui, come dicemmo, si riferiva un suo amico di cara e
onorata memoria, che gli raccontava una scena curiosa, della quale era
stato spettatore molt'anni innanzi in casa d'un giudice di pace. Il
Manzoni imitò spesso la tattica di quel giudice di pace, ne' giudizii
che gli toccò proferire, sedendo in tribunale; ma, a quattr'occhi, coi
più intimi amici, diede sempre torto o ragione a chi l'aveva. Grande
coraggio personale egli non ebbe forse mai; ma la sua mente ardita non
si arrestò innanzi ad alcuna difficoltà, anzi le dominò sempre tutte
come sovrana. Egli non avrebbe, per un esempio, mai scritta una riga
da pubblicarsi in favore d'un libro del Tommaseo, o contro di esso;
ma, quando egli pubblicava in Francia il romanzo _Fede e Bellezza_,
ove l'eroe passa per molte avventure erotiche per arrivare poi ad una
specie di gesuitica compunzione, il Manzoni lo definiva, in un
crocchio d'amici, con due parole: _metà Giovedì grasso, metà Venerdì
santo_. Al Borghi imitatore degl'_Inni Sacri_ egli era stato, per
lettere, generoso di lodi soverchie; se ne pentì in appresso, e ne'
discorsi famigliari con gli amici temperò il soverchio in modo che il
povero innaiuolo toscano ne rimaneva annientato. Fu invece largo
sempre di lodi sincere al Grossi, al Rosmini, al Torti, al Giusti, a
proposito del quale rispondeva a chi gli faceva osservare che anche in
Toscana la lingua si va corrompendo, col parafrasare le parole della
_Bibbia_ relative a Sodoma e Gomorra: "Dieci Giusti bastano a salvare
la città." Nel _Dialogo dell'Invenzione_, il Manzoni mette senza
dubbio in iscena sè ed il Rosmini, sebbene non lo dica: anzi egli dà
il nome di _Primo_ all'uno, di _Secondo_ all'altro, dicendo: "Guai a
me se mettessi in piazza i loro nomi veri." Il primo è senza dubbio,
il Rosmini; il secondo, il Manzoni. Il secondo dice che l'artista
crea, poi corregge che l'artista inventa. Il primo dimostra che nè
crea nè inventa, poichè l'idea essendo semplice, non si compone, ma
esiste per sè, è anteriore all'opera dell'artista e conduce il secondo
per una serie di sillogismi stringenti, al fine de' quali il secondo
deve darsi per vinto, ma domanda altro. Il primo osserva: "Tanto
meglio se queste nostre chiacchiere vi lasciano la curiosità di
conoscere più di quello che richiede la nostra questione, e
soprattutto di quello che potrei dirvi. Vuol dire che studieremo
filosofia insieme." Il secondo conviene: "Insomma, bisogna studiarla
questa filosofia." Il primo soggiunge: "Fate di meno ora, se potete,
con quelle poche curiosità che vi sono venute. Non fosse altro che
l'ultima, quella che non v'ho nemmeno lasciata finir d'esprimere.
Tutte queste idee.... avevate intonato; e infatti tante idee, tanti
esseri eterni, necessarii, immutabili, aventi cioè gli attributi che
non possono convenire se non a un Essere solo, non è certamente un
punto, dove l'intelletto si possa acquietare. E nello stesso tempo,
come negare all'idee questi attributi? E non v'è, di certo, uscito
dalla mente neppure quell'altro fatto altrettanto innegabile, e
altrettanto poco soddisfacente, dell'esser tante di queste idee
comprese in una, che pure riman semplice e che potete fare entrare
anch'essa in un'altra più estesa, più complessa; come potete da una di
quelle farne uscire dell'altre moltiplicando, per dir così, e
diminuendo, a piacer vostro, questi esseri singolari, senza potere né
distruggerne nè predarne uno. Ora, quando il tornare indietro è
impossibile, e il fermarsi insopportabile, non c'è altro ripiego che
d'andare avanti. Non è poi un così tristo ripiego! È con l'andare
avanti che si passa dalla moltiplicità all'unità, nella quale solo
l'intelletto può acquietarsi fondatamente e stabilmente." E in questo
concetto sovrano dell'unità che balenò alla mente manzoniana e la
contenne, m'acquieterò anch'io per conchiudere che uno scrittore che
bandi a vent'anni la formola poetica: "sentir e meditar", e le serbò
fede costante nell'arte sua, non può venir letto superficialmente;
egli conduceva tutte le forme del bello alla suprema unità del vero, o
più tosto poneva il vero come base fondamentale di tutti i suoi
edifizii poetici. Quanto a' suoi intendimenti civili e religiosi, essi
non hanno propriamente che fare con l'arte sua; essi non le sono
inerenti. Si può credere diversamente dal Manzoni; ma non si dovrebbe
oramai concepire l'arte in modo diverso da quello, con cui egli l'ha
trattata in modo non superabile ne' _Promessi Sposi_. Il Manzoni
scrisse il suo capolavoro fra le discussioni dei Classici e dei
Romantici che lo riconoscevano come loro caposcuola; la comparsa del
capolavoro manzoniano troncò le discussioni; così le recenti battaglie
combattute in Italia fra i così detti Veristi e Idealisti potranno
aver fine, se nelle file degli uni o degli altri apparirà un altro
genio capace di risolvere il problema con un altro capolavoro.
Auguriamoci che questo genio nasca presto, e, intanto che s'aspetta,
studiamo il Manzoni.

  [1] Milleseicento erano stali i soscrittori; in pochi giorni nella
    sola Milano se ne spacciarono oltre seicento copie. Dalla
    _Bibliografia Manzoniana_ del Vismara (Milano, Paravia) rileviamo
    che fino all'anno 1875 erano state fatte ben 118 edizioni italiane
    separate de' _Promessi Sposi_, 17 edizioni tedesche, 19 edizioni
    francesi, 10 edizioni inglesi; esistono inoltre traduzioni
    spagnuole, greche, olandesi, svedesi, russe, ungheresi, ec. Non si
    contano qui 86 edizioni italiane delle opere varie del Manzoni,
    nelle quali si comprendono pure i _Promessi Sposi_.

  [2] Il poeta Niccolini che lagnavasi di essere santamente abborrito
    dal Manzoni, cosa non vera, poichè il Manzoni non odiava alcuno e
    faceva invece grande stima del Niccolini, {Parlando il Manzoni
    delle tragedie del Niccolini al professor Corrado Gargialli che
    gli dedicava un volume delle tragedie niccoliniane, gli scriveva:
    "La minore delle mia inferiorità rispetto al Niccolini come autore
    di tragedie è nel numero."} confessava pur tuttavia che un solo
    scrittore italiano avea potenza di farlo pensare, e che questo
    solo era il Manzoni. In bocca d'un rivale una tale confessione è
    preziosa e dice molto. Ma il Manzoni faceva pensare, perchè
    pensava sempre, prima di dire o di fare checchessia; anzi egli
    pensava troppo. Le sue parole avevano tutte un gran senso: ond'è
    veramente a dolersi che tante siano volate via, senza che alcuno
    abbia provveduto a raccoglierle ed a metterle insieme. Una vita di
    ottantotto anni, de' quali più di settanta vissuti con una piena
    coscienza di sè, con una ferma volontà diretta ad un alto segno,
    piena di alti pensieri, quanto sarebbe istruttiva se si potesse
    conoscere intimamente!





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Alessandro Manzoni, Studio Biografico - Letture fatte alla Taylorian Institution di Oxford nel maggio dell'anno 1878, notevolmente ampliate" ***

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