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Title: Napoleone - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero
Author: Barrili, Anton Giulio, 1836-1908
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Napoleone - La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero" ***


                                  LA
                            VITA ITALIANA

                              DURANTE LA
                   Rivoluzione francese e l'Impero


                _Conferenze tenute a Firenze nel 1896_

                                  DA

        Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili,
          Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti,
       E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi,
        Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi,
                           Enrico Panzacchi.



                                MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI

                                 1897.



                        PROPRIETÀ LETTERARIA

                     _Riservati tutti i diritti_.

                        Tip. Fratelli Treves.



                              NAPOLEONE


                             CONFERENZA
                                 DI

                        ANTON GIULIO BARRILI.



I.


La notte dopo il 12 aprile del 1796, un giovane comandante d'esercito,
passata la Bormida con una vanguardia di ottomila Francesi, veniva
ragionando in certa sua forma tra imperiosa e familiare con uno di quei
valligiani, tolto poc'anzi per guida fino alla gola di Plodio. Tra
l'altro ch'egli disse, queste parole rimasero scolpite nella mente
dell'ascoltatore, preso di molta ammirazione e già disposto a gran fede:
“Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li impiegherò.„ Parlava
facilmente italiano, il generale francese, perchè era nato italiano di
terra e di stirpe; parlava volentieri italiano in quell'ora, perchè,
girate appena le Alpi sul primo nodo dell'Appennino, amava trarne il
buon augurio con suoi fratelli di sangue, sperati amici e cooperatori di
vittoria. Diceva ancora di non esser venuto a guerreggiare i popoli, ma
i re, nemici dei popoli; non l'Italia schiava, ma l'Austria, tiranna in
casa altrui, secondo il mal uso degli stranieri, sempre calati sulla
bella penisola, come in campo aperto alle loro contese di primato
europeo.

Duecentomila poltroni da impiegare! A non vederci altro che tanti
infingardi, contenti dell'ozio a cui si sentivano condannati, i poltroni
d'Italia erano certamente di più. Ma egli, giunto tra noi a capo di
trentaseimila combattenti, egli che più tardi, nel colmo della potenza
sua, non doveva averne più di cinquecentomila, nè mai, di tal numero,
oltre i due terzi raccolti sotto la mano, poteva bene restringersi
allora in quei modesti confini, e non chiedere all'Italia, sua madre,
più di duecentomila soldati. Era già molto, e per il tempo e per l'uomo.
Ancora egli non aveva fatto altro che vincere, dodici ore innanzi, sulle
alture di Montenotte; e Montenotte non doveva essere una giornata
decisiva se non dopo i felici combattimenti di Dego e di Millesimo.
Pure, sceso da quelle vette onde non era spazzato intieramente il
nemico, e dal ponte di Càrcare conducendo all'ostacolo di Cosseria la
divisione Augereau, egli si sentiva già tutto compreso del suo alto
destino. Un colpo di fortuna lo aveva innalzato a Tolone; un altro gli
aveva fruttato il favore del Direttorio, per le nozze con la vedova
Beauharnais, amica della Tallien, la bella onnipotente del giorno. Il
caso è uno stupendo artefice di eventi; ma a patto che dove passa
l'occasione, sua frettolosa figliuola, si trovi in agguato chi sappia
afferrarla pel ciuffo. E molti aspettano, che non la vedranno passare;
alcuni l'acciuffano, che non sapranno tenerla. Audaci, ma senza il
valore che giustifichi l'audacia: e meglio per essi che non fossero
usciti dalla oscurità; tanto è vergogna aver tentato e non vinto.

Non così egli, venuto alla sua ora in quell'esercito d'Italia che da
quattro anni facendo pochi fatti romoreggiava sempre intorno ai confini.
A Nizza, trovò laceri e scalzi, senza cavalli, senza vettovaglie,
trentaseimila Francesi; nè egli portava più che duemila luigi con sè.
Averne quattro per testa, fu gala a giovani generali, ch'egli doveva far
poi marescialli, principi e duchi, caricandoli d'oro, di feudi, perfin
di corone. Ai soldati nulla; ma prometteva un paradiso terrestre,
disteso sotto i loro occhi nella gran valle del Po, passando, già
s'intendeva, sui ventiduemila piemontesi del Colli e sui trentaseimila
Austriaci del Beaulieu. L'obbedirono; e passarono ancora sui
sessantamila del Wurmser, poscia sui sessantamila dell'Alvinzy, vincendo
dal Tanaro al Tagliamento, dissipando tutte le resistenze, suscitando
repubbliche, abbattendo principati, o ricevendoli in alleanza, che era
principio di soggezione. A questo vincitore, che non in tre mesi, come
aveva promesso nel partir da Parigi, ma in due era giunto a Milano, e in
dieci aveva cacciata l'Austria dalla penisola italiana, mandando alla
Repubblica francese il primo tributo ch'ella avesse ancor ricevuto di
milioni e d'opere d'arte; a questo vincitore, costretto a perder gente
in ogni vittoria, non si spedivano aiuti se non di poche migliaia
d'uomini, non si consentiva il chiesto collegamento dell'esercito del
Reno: ond'egli, a non arrisicare il guadagnato, e tuttavia con audaci
mosse sulle Alpi Noriche minacciando di correr su Vienna, costrinse il
nemico ai patti preliminari di Leoben; e il 17 ottobre 1797, a
Campoformio, con larghezza inaudita, all'Austria vinta in quindici
giornate campali e in più di sessanta fazioni minori, cedeva lo Stato
Veneto, dai confini della Dalmazia alla linea dell'Adige. Il 9 dicembre
era a Parigi, per rientrare nella vita privata. Già troppo grande, e
troppo fortunato, lo mandarono presto in Egitto, per colpir
l'Inghilterra sulla via delle Indie, o piuttosto per disfarsi di lui. Fu
sorte che non gli lesinassero gente, nè sussidii navali. Ebbe
quarantamila combattenti, tredici vascelli di linea, a cui potè unirne
due veneti da sessantaquattro cannoni, sei fregate pur venete, e otto
francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti, con
diecimila marinai. Così, mentre la Francia rimasta senza di lui si
disponeva a perdere quanto aveva per lui guadagnato di qua dalle Alpi,
egli andava a vincere, come Cesare, in Egitto, e con la molteplice
operosità del velocissimo ingegno ordinava quella famosa spedizione
scientifica, onde ancora il suo nome è collegato al rifiorire degli
studi orientali. Se l'armata del Brueys vinceva ad Aboukir, com'egli
alle Piramidi e al monte Tabor, qual mutamento nel mondo! Segno che
l'occasione era passata anche laggiù, lungo le foci del Nilo; e
l'ammiraglio non ebbe, come il generale, la virtù di afferrarla.

Perduto il buon punto sul mare, tornava inutile, o quasi, proseguir
l'impresa per terra. Risoluto il ritorno dopo le tristi nuove del
continente (e fu altra fortuna che l'ammiraglio nemico gli mandasse,
quasi a scherno, i pubblici fogli), trafugatosi per prodigio alla
crociera inglese, giunto inaspettato a Parigi, fatto il colpo del 18
brumale contro l'Assemblea dei Cinquecento, non più servitore ma arbitro
e console, lascia ai due colleghi del triumvirato il governo, e con
arditezza di concepimento non altrimenti superata che dalla celerità
dell'atto, si difila dalle Alpi a capo di sessantamila combattenti,
piomba su Milano, si volge su Marengo, e in un colpo fulmineo restaura
le sorti della guerra. A quel colpo l'Italia inferiore, come la
superiore, si costituisce tutta in repubbliche. Troppe, e fu errore,
ond'egli pure partecipò; scusabile, nondimeno, poichè non era
stabilmente il padrone. Quando lo fu, come primo console, poi come
imperatore, non vide opportuno nè maturo il consiglio di uno Stato solo
dalle Alpi alla Sicilia; aspettava un'altra occasione, la preparava:
frattanto l'Italia dava a lui ben più di duecentomila spoltroniti, per
le sue guerre d'Austria, di Germania e di Russia. E questa Italia mostrò
di sentire tutta la grandezza dell'eroe, che in Francia non aveva
destato estri di poeti inneggianti, nè meditazioni di cospiranti
intelletti. Il _Genio del Cristianesimo_ e il Concordato con Roma furono
due opere affini; ma i loro autori non s'intesero, e il visconte di
Chateaubriand, ingegno e stile mirabilmente adatto a magnificare, rimase
malcontento, si trasse in disparte. Quanto alla signora di Stael, la
dotta Corinna non diede altro all'Impero se non un libro avverso,
l'_Allemagne_, glorificazione del genio d'un popolo nemico. Ed egli, che
amava i vasti concepimenti dell'epica, vedendo già un altro Omero in
quello smilzo Ossian del Macpherson, rimpolpato e rimpannucciato
dall'arte del Cesarotti, egli che amava i forti contrasti della tragedia
e volentieri avrebbe fatto principe dell'Impero il Corneille, se
l'autore del _Cinna_ si fosse degnato di nascere un secolo e mezzo più
tardi, non ebbe un grande artista della parola che celebrasse le sue
grandi imprese e i suoi vasti disegni. Il suo prosatore Fontanes tesseva
discorsi accademicamente laudatorii, ma gli guastava i concetti
universitarii, per vantarsene poscia ai ritornati Borboni. Più fortunato
di qua dalle Alpi, ebbe dal Monti il _Prometeo_ e il _Bardo della Selva
Nera_, classiche e romantiche costruzioni di un ingegno poderoso, ma non
condotte a termine; e forse avrebbe meritato assai più di rimanere in
tronco la senile _Pronea_ tra le stanche mani del traduttore e
ricreatore di Ossian. Abbondavano, è vero, da noi le cantate cortigiane;
ma non fu di cortigiano il panegirico di Pietro Giordani, o fu di tale
che intese nel potentissimo uomo l'altissimo spirito, e perchè lo
intese, e come lo intese, non dubitò di esaltarlo. Ugo Foscolo volle e
non volle; sentiva il grand'uomo, ma ricordava Campoformio: e chi,
riconducendosi col pensiero a quel tempo e ai giudizi d'allora, vorrebbe
dargliene biasimo? Serviva intanto colla spada; restò in forse colla
penna; ad ogni modo, irrigidendo davanti al re dei re i nervi della sua
prosa, solo assai tardi uscì nelle mal celate ostilità dell'_Ajace_.
Taccio dei minori, che il favore del trono accomunava allora, ed anche
preponeva ai maggiori, come il Paradisi e il Lamberti. Se gl'ingegni
italiani non fecero di più, pensiamo che si dolevano non avesse fatto
anch'egli di più per la fortuna d'Italia, dond'era così lietamente
incominciata la sua.



II.


Poteva? Non così presto, certamente, come avrebbe voluto. Gli fu
mestieri crescere in autorità, ed anche volgersi ad altro, legato egli
stesso al carro della sua grandezza; uomo e simbolo ad un tempo, uomo
nella personale ambizione, simbolo della rivoluzione in lui espressa e
non del tutto soffocata sotto l'ermellino imperiale; costretto a seguire
il destino, che lo lasciò vincer molto, senza concedergli interamente i
frutti e gli arbitrii della vittoria. Così un ghiacciaio si avanza,
prepotente nel suo volume, e con apparenza di onnipotente nella enormità
del suo peso; ma stanno sott'esso le spine montuose e le insenature
profonde che governano inavvertite i suoi moti. Pensate ancora ch'ebbe
triste la vita, nella miseria del cominciare, nella difficoltà del
giungere, nella necessità di vincer sempre, non riposando mai la
fortuna; tra tanti sforzi d'ingegno e di volontà solo avendo un istante
degno di sè, sulle rive del Niemen, in quella mirabil visione di potenza
universale, ahimè spartita con un interlocutore non capace d'intenderla.
Per tutto l'altro, infelice; infelice nelle prime nozze, quantunque
abbia voluto concedere a sè come altrui l'illusione del contrario;
infelice nelle nuove, e più nella facilità con che gli fu consentito di
scioglier le antiche; infelice nella famiglia, tutta ambizioni ed
appetiti insaziabili; infelice nei cooperatori, colmi di benefizi ed
ingrati, onde la più felice sua nomina parrà ancora quella che non fece,
di Pietro Corneille principe dell'Impero. E questa figura, epica nel
colmo della potenza, divien tragica nell'eccesso della sventura. È un
Prometeo, che non avrà rapita alla vôlta del cielo, ma bene ha potuto
assicurare agli uomini la scintilla delle libertà civili; un Prometeo a
cui non è mancata la rupe, Sant'Elena, nè l'avvoltoio, Hudson Lowe. Tale
l'ha inteso il popolo, che raro s'inganna; il popolo, che ingrandisce
qualche volta le immagini, ma solo per renderle a sè stesso più chiare.
Così crebbe nelle fantasie popolari l'immagine di Carlomagno; il quale
fu tanto grande per ciò ch'egli fece, più grande per ciò che disegnava
di fare, grandissimo poi per il sogno che aveva ardito sognare. E non
paia fuor di luogo il paragone, se tra due imperi quasi mondiali, eretti
appena e sfasciati, si è aggruppata come intorno a due poli magnetici
tutta la poesia della leggenda europea. Men fortunato Napoleone, apparso
in tempi di luce così meridiana, che la leggenda, amica delle brume, non
poteva più fiorire ed espandersi; e a lui s'imputarono tutte le cose che
non aveva potute, come se non le avesse volute; laddove a Carlomagno non
si fe' colpa di ciò che il suo impero aveva di caduco e il suo disegno
di errato. È storia che vinti in tante guerre i Sassoni, gli Avari, i
Turingi, gli Slavi, i Danesi e i Longobardi, padrone di tanta parte del
mondo conosciuto, senz'altro competitore di gloria che il lontano
signore di Bagdad, tremasse di sgomento al veder giungere una scorreria
di pirati Normanni alle rive della Gallia Narbonese. Pianse, il potente
imperatore; e ne aveva ben d'onde, per l'opera sua minacciata. I padroni
del mare hanno sempre fatto piangere i signori della terra.

Ma perchè nella compiuta maestà dell'edifizio si mostra la crepa? Forse
ha errato l'artefice, e nell'error suo sta la ragione della caduta? O
non c'è piuttosto una forza superiore agli uomini ed alle loro faticose
costruzioni? Di rado la vogliamo riconoscere, procedendo con cieca
logica nelle nostre deduzioni sistematiche. Ma quando ci siamo spinti
troppo innanzi, intravvediamo qualche volta il pauroso abisso, e in
quell'abisso un disegno più largo, che comprende i nostri e li confonde,
una volontà più grande, tanto più grande quanto più oscura, che
soverchia la nostra e l'annienta. Nè giova essere stati al posto del
sole, e nella sua dignità. Anch'egli, l'astro maggiore, centro del
nostro sistema planetario, che ci fa palpitar d'amore e tremare di
reverenza, obbedisce ad una forza più lontana, attratto, come un povero
pianeta, nelle vicissitudini ignorate di un sistema più vasto. E allora
s'intende, confusamente s'intende quel che tanto dispiace alla nostra
superbia, quello che tanto volentieri si dimentica dalla nostra
iattanza.

Pure, mai nato di donna fu più grande e in tal condizione di smisurata
potenza. Alessandro, forse, Annibale e Cesare, furono più eccelsi
capitani di lui, sulla cui strategia, sulla cui tattica, cercando in che
veramente consistessero, e se obbedissero a costanti principii, si
disputa ancora. Ma di quei tre, il primo nacque padrone, gli altri due
cominciarono legittimi adoperatori di forze patrie. Non così l'uomo che
tornava all'ozio impotente della vita privata dopo la più avventurosa
delle sue guerre, e doveva chiedere il segreto della fortuna ai rischi
del 18 brumale. Console e imperatore, ebbe ingegno e volontà di far
tutto, nella guerra e nella pace; e tutto han cominciato da allora a
negargli, con critica minuta, arcigna, implacabile, l'ingegno militare e
il valor personale, il cuore ed il senno, la magnanimità, la prudenza.
Le passioni, accese lui vivo, erano scusabili ancora; meno s'intendono,
lui morto, divampanti nei posteri. Onestissimi giudici ne han fatto un
mostro, tale da infamare non solamente sè stesso, ma il quarto di secolo
che lo ha tollerato acclamandolo. Altri che in lui videro il pazzo,
hanno perfino giudicata la sua mano di scritto, osservando la follìa
dilagante nelle variazioni e nei mancamenti progressivi di quella firma,
ch'egli era costretto a vergare sempre più frettoloso, diecine da prima,
poi centinaia di volte in un giorno. E questi ha conquistata la sua fama
negandogli il genio delle armi; e quegli ha saputo scusare la
mostruosità del fenomeno umano ritrovandoci benignamente un caso di
atavismo, una riapparizione fatale di venturieri italiani. Un grande!
esclama ironico un altro; sì, perchè l'ha strombazzato tale dall'alto di
dieci volumi un piccolo uomo. Ma ecco, il piccolo uomo è morto; e durano
e si vanno moltiplicando gli studiosi di quella grandezza; duravano,
mezzo ignorati, e tornano in luce i primi saggi del severo ingegno
precoce, onde amorosi indagatori hanno ricavata la genesi degli eccelsi
pensieri; nè manca d'altra parte, come per dare risalto a quella luce,
l'ombra del Direttorio, uscita dal suo sepolcro, o dal limbo dei
bambini, con le memorie del Barras, per contendergli invano i primi
lauri di Tolone. Quella grandezza cresce, di mezzo agli stessi tentativi
che si fanno per atterrarla. Se è una macchia, come pare a qualche
coscienza sonnambula, l'Europa, lady Macbeth novella, è impossente a
cancellar quella macchia; le acque istesse dell'Oceano l'hanno fatta più
vivida. Lui spento appena, si chiese: “fu vera gloria?„ Ai posteri
furono anche lasciati gli elementi del giudizio, scolpiti in istrofe
immortali. E i posteri possono risponder oggi, a tanta distanza da quel
giorno, giudicando la lontana figura dallo spazio ch'ella occupa ancora.
Quella figura campeggia immane, anche agli occhi del popolo che le fu
più severo. Quanto a noi Italiani, cui già più volte han rimandato il
nostro “Buonaparte„, saremmo felici di tenerlo, come un grand'uomo di
più; il che in una galleria di duemilaseicento anni e di centoquattro
generazioni non guasta. Se pensiamo al bene ed al male che ha fatto,
tirando le somme e facendo le proporzioni, volgeremmo al panegirico. Con
lui e per lui le idee giovani non perirono più; “uscite dalla tribuna
francese, cementate dal sangue delle battaglie, decorate dai lauri della
vittoria, salutate dalle acclamazioni dei popoli, sancite da trattati e
alleanze di principi, rese familiari agli orecchi come alle labbra dei
re„ non potevano più dare indietro; checchè facesse la reazione,
imperversando da capo trent'anni, dovevano essere la fede, la religione,
la coscienza dei popoli. Quest'êra memorabile si collegò alla persona di
lui; ed egli poteva ne' suoi ultimi giorni vantarsene. È giusto il
vanto? domandano i più miti. Non fu egli inconsapevole autore di tanta
fortuna, alla maniera degli antichi re, cui le storie del vecchio stile
usavano ascrivere tutti gli eventi occorsi nei loro anni di regno? Anche
questo si è tentato di provare, dicendo: l'Europa andava da un pezzo
incontro alle novità; onde, nello stesso modo che le idee liberali
potevano far cammino senza le violenze della rivoluzione francese,
avrebbero anche potuto trionfare senza le ambizioni del Bonaparte. Ma
quasi a sfatare in anticipazione il comodo ragionamento, esse andavano a
naufragio con quelle istesse violenze, e parvero sepolte con le
ambizioni di lui sotto il salice di Longwood. Aggiungete non potersi
escludere dal problema storico il personaggio che ne è il dato
principale e quasi tutto lo riempie. Noi non possiamo giurare che, messo
fuori quel dato, sarebbero andate egualmente le cose; possiamo creder
piuttosto che avrebbero preso un altro indirizzo, muovendo ad un altro e
non più riparabil naufragio. Lui assente dall'Europa, non si riperdeva
forse nel Novantanove il conquistato del Novantasette? Lui sparito dalla
scena del mondo, non fu la Santa Alleanza? e non ne durarono gli effetti
in Europa, quantunque in Francia la rivoluzione, forzatamente attenuata,
scoppiasse ancora due volte, nel Trenta e nel Quarantotto? Diciamo
dunque, per comporre la lite, e senza sicurezza di dir tutto il vero,
che la filosofia del Settecento avrebbe temperato il dispotismo senza
distruggerlo, e tenuto l'individuo, la famiglia, la società, in quelle
povere condizioni, in quelle disgraziate relazioni di cui sentivano la
noia innanzi la promulgazione del codice Napoleonico. La gran
rivoluzione francese, per contro, avrebbe instaurati in casa propria e
per sempre i diritti dell'uomo? o non sarebbe caduta piuttosto sotto i
colpi della coalizione europea? Notate che, spenti i Girondini, ella non
aveva più un contrappeso salutare; ucciso il re, la regina, l'erede, i
nobili a migliaia, uomini e donne, aveva offeso l'umanità, non riuscendo
a conservarsi tra le viziose debolezze del Direttorio, se non per le
gelosie, le discordie, le inerzie dei potentati d'Europa.

Comparve allora l'ingegno sovrano. Fu un audace, sicuramente; ma
l'audace poteva essere un soldataccio, e fu un legislatore, quasi un
profeta armato, per dirlo nel maraviglioso stile di messer Nicolò. Ah,
perchè non si trattenne egli al titolo e all'ufficio di console, il
guerriero legista? Ce ne dorremmo, sì, ma pensando ancora che egli,
console a tempo, e non solo, accompagnato e contenuto da mediocri, non
avrebbe fatto nulla. Console unico, a vita, sarebbe stato con altro nome
un imperatore. Ma forse la modestia del titolo poteva esser buon freno
all'orgoglio; e la dignità sua poteva contentarsene, come al tempo loro
se ne contentavano le civiche virtù di Valerio Publicola e di Quinzio
Cincinnato. Ma non erriamo noi, rievocando quei nomi? e non trasformiamo
un pochino nella nostra immaginazione gli uomini che li hanno portati?
Erano uomini semplici, in semplici età; possidenti agricoltori, amavano
i loro quattro jugeri di terra; si sarebbe fatto poco cammino con tali
consoli e dittatori, che volevano essere ogni sera di ritorno al
focolare domestico. Felici gli Stati che possono contentarsi di tali
uomini e commetter loro le proprie sorti. Ma se ne sarebbe contentata la
Francia moderna? Non se ne contentò l'istessa Roma antica, che con altri
uomini e più vaste ambizioni domò Cartagine, aperse al suo pensiero,
alle sue leggi, la Spagna, la Grecia, la Siria, l'Egitto, le Gallie e le
terre settentrionali dall'Istro alla Mosa. E si fosse pur contentata la
Francia; sarebbe stata quieta l'Europa monarchica, l'Europa dispotica,
con sotto gli occhi uno stato senza re? Non gliene avrebbero imposto
uno, da Coblenza o da Vienna, da Londra o da Pietroburgo, per cessare il
mal esempio, tanto più pericoloso quanto era più nuovo? Dunque?...
Dunque, storicamente fatale il despota della libertà, che fu il
rinnovatore della carta e del diritto d'Europa, il turbatore di tutta la
vecchia compagine d'interessi, di privilegi e di pregiudizi, tessuta al
finire del Medio Evo per danno universale. Che se, infrenatagli
l'ambizione, quell'uomo portò la pena del troppo che aveva voluto
essere, noi non dovremo credere per ciò che senza quella sua ambizione
si sarebbe ottenuto il meglio. Bene il mondo credette di respirare,
quando egli cadde; e prime respiraron le madri. _Bellaque matribus
detestata_: è verissimo. Ma come respirassimo noi Italiani, stimandoci
tanto felici di quella caduta, lo seppe il più manifestamente felice di
tutti, Federigo Confalonieri, sepolto quindici anni nelle segrete dello
Spielberg, e non trattone fuori se non per languire undici anni ancora,
fantasma di sè stesso, condannato a morire esule sconsolato dalla terra
dei padri.



III.


Tutto bene, adunque? No, non ho detto questo, non voglio dir questo. Non
si rimescola il mondo, senza commettere errori; e non tutti i giorni
della sua vita terrena quella grande anima ebbe presente la misura
prescritta alle umane ambizioni. Il colosso aveva il piede di creta; ma
era un colosso, e solo poichè fu caduto, prosteso a terra, i pigmei
poterono dalla lunghezza misurata argomentarne l'altezza. È anche
giustizia il riconoscere com'egli fosse trascinato di continuo alla
guerra, e dalla guerra continua istigato alle crescenti ambizioni. N'è
un cenno evidente in ciò ch'egli scriveva al ministro di Francia a
Londra, poichè l'Inghilterra ebbe rotta la pace d'Amiens, che fu il mal
seme della gente Europea: “l'Inghilterra mi obbligherà a conquistare
l'Europa. Il primo Console non ha che trentatrè anni, e non ha distrutto
ancor altro che stati di second'ordine; chi sa quanto tempo gli
occorrerà per risuscitare l'impero d'Occidente?„ Eccovi Carlomagno, col
suo tentativo di rinnovare la potenza d'Augusto: e franca la spesa di
vedere in che differissero le due forme del tentativo, come si
diportassero rispetto a quella Roma ch'era stata capo dell'Impero, e che
Costantino aveva, se non donata, lasciata prendere al Papa, secondo la
curiosa espressione di Giuseppe De Maistre. Carlomagno v'andò a cinger
corona: era un credente; al tempo suo non si discuteva il diritto
temporale dei Papi, non bene uscito netto dalle pretensioni di Bisanzio:
se ne tornò, bastandogli d'essere stato il salvatore dei Papi, contro
Longobardi e Greci, in vario grado scismatici. Napoleone certamente
sognò un'altra cosa, poichè in materia di religione pensava altrimenti.
L'autore del Concordato, il restauratore del culto cattolico in Francia,
non era un ateo, ma si ricusava tuttavia alla dogmatica del
Cattolicismo; in quella sua specie d'incredulità razionale vedeva anzi
un benefizio pei popoli, una guarentigia di tolleranza per tutte le
sètte, non essendo egli dominato da alcuna. E l'uomo che a Sant'Elena
leggeva nel Vangelo il discorso della Montagna, confessandosi “rapito
dalla purezza, dalla sublimità, dalla bellezza di quella morale„, dopo
aver detto: “tutto proclama l'esistenza d'un Dio„, soggiungeva ancora:
“ma tutte le religioni sono evidentemente figliuole degli uomini„. E
nondimeno, giunto al consolato, s'affrettava a ristabilire quella dei
padri, che era per lui “l'appoggio della sana morale, dei veri
principii, dei buoni costumi„. Un altro argomento gli soccorreva, in
materia di religioni: “L'inquietudine degli uomini è tale, che lor
bisogna il vago, il maraviglioso, offerto da esse„. E qualcuno avendo
osato dirgli che sarebbe potuto finire devoto, “no, rispondeva, e me ne
duole, perchè sarebbe un grande conforto.... Il sentimento religioso è
così consolante, che il possederlo è un benefizio celeste. Di quale
aiuto non mi sarebbe egli qui? Che potere avrebbero più uomini e cose su
me, se, accettando da Dio i miei rovesci, i miei dolori, ne attendessi
ricompensa in una vita futura?„

Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i
conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero,
intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella
solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni
della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del
Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui
si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e
il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno
suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora
che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di
Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato
davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo
VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente,
attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà
temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col
trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso
pensiero gli suggeriva di chiamarlo “re di Roma„, quasi complemento a
quel titolo di “re d'Italia„ ch'egli stesso riteneva da cinque anni,
dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno
italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di
Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò
soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità,
di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle
vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la
Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo
Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto
l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio
1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria “primo
teatro delle _sue_ vittorie„ era annessa all'Impero, col Piemonte, con
Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la
sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la
Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo
Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito
cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello
Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina
creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui
s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi
mutamenti, a tutta prima indispensabili, come la cessione del Veneto
all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel
trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli
stesso nelle _Memorie_, dettate al maresciallo Bertrand. “Dacchè la
prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di
creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie
parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano
solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la
loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso
l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.„

Il “quasi intiera„ apparisce sacrifizio ad interessi politici, o
concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non
s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di
tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti
di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e
senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio
la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati,
con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re
d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del “re di Roma„ fa
intender meglio l'abbozzo della politica sua. Che forse pensò egli
un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col
centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa
tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una
combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi
ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma,
per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via
s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice
straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il
colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di
Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per
regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella
presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo
procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale
di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero
medievale non aveva fatto mica un mal sogno!



IV.


E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un
pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: “Non
crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah
Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era
fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore
del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico
nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma
Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua
cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la
ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il
Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione
dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.„

Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non
dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di
Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni
in tal forma: “L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono
scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece
considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei
successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da
per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da
gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva sostenuta una gran
parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia
italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina
al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella
famiglia e tra le sue alleate: _sta bene, è cosa fatta tra noi, è una
delle nostre casate_. Più tardi, quando si trattò della mia
incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo
come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito
austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito
italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola
considerazione d'amor proprio nazionale: “dopo tutto è una famiglia
italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo
così vendicati dei Galli...„ Dubito che ciò sia stato detto o pensato in
Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da
Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era
stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è
importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità
Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della _toilette pour la
postérité_.

Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma
i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate di
maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e
spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di
quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine
un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a
consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle
sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non
recidendole tutte d'un colpo. Ma quello era un semidio, e il tempo dei
semidei è passato; Napoleone fu costretto a colpirle una dopo l'altra, e
rinascevano tutte. A noi sia debito ricordare com'egli ci lasciasse il
benefizio inenarrabile d'uno stimolo virile all'inerzia lunga e
pericolosa, d'un mutamento profondo nella nostra compagine politica,
onde furon troncate le radici alle vecchie antipatie regionali, onde un
lievito possente a nuove e non più frenabili sollevazioni del sentimento
patrio. “Ci sono in Italia duecentomila poltroni: ma io li impiegherò.„
E furono assai più di quel numero i valorosi che trasse d'Italia a tante
guerre; la sua famosa ritirata, non dal nemico vinto, ma da un inverno
invincibile, fu coperta dai nostri soldati.

    Morian per le Rutene
    Squallide piagge, ahi d'altra morte degni
    Gl'Itali prodi....

e sia pure, come il Leopardi cantò; ma ancora ne rimasero tanti da fare
tre rivoluzioni sulla terra nostra, da esser maestri alla generazione
che l'ha composta in un regno. Ond'io posso applicare a noi ciò ch'egli
diceva per tutti: “Qual gioventù lascio io dopo di me! Ed è opera mia.
Essa mi vendicherà abbastanza, con tutto quello che saprà volere. Veduta
l'opera, converrà bene render giustizia all'artefice.„ Il quale, non lo
dimentichiamo, fu colpito dal fato nella pienezza degli anni virili.
Dapprima confinato all'Elba, fra le tre culle della sua gente, San
Miniato, Sarzana ed Aiaccio, tacque, sperando sempre di fare; poi quasi
fuori del mondo, sopra uno scoglio dell'Oceano, come un eroe antico,
disperando di fare, ha detto il segreto dell'anima sua, epico
nell'opera, tragico nella contemplazione che ne ha fatta, rivivendola
intiera. E si assiste a quella evocazione, come alla recita di un
dramma, con tutte le ansie dell'affetto commosso, con tutti i dubbi
della mente turbata, sapendo la catastrofe, e pure desiderando, quasi
sperando il miracolo ch'ella riesca diversa. E là non più un uomo; è
tutto un simbolo; il simbolo della nuova Europa che sorge, combatte e
cade, lasciando ferito a morte il nemico. Dopo di lui, è bene l'Europa
contemporanea; il passato può dar guizzi di serpe troncato; son guizzi
d'agonia, mentre tutte le cose vitali rinascono; la patria nostra, ad
esempio.... Ma io non farò un inno, qui. So bene che tutto non è andato
secondo le sapienti preparazioni e le giuste speranze dei migliori; che
i pericoli non son tutti stornati da noi, se ancora ne durano in noi;
che bisogna pensare, provvedere, meritare con forza e con senno una
grande fortuna. Sia dunque l'inno riserbato alla Italia futura, se la
dovremo davvero a noi stessi, savia, operosa, concorde, soprattutto
concorde; e Dante e il Machiavello, grandi anime fiorentine,
l'assistano.



V.


È a Milano, nell'atrio di Brera, un Napoleone di bronzo, colossale; non
lui, veramente, ma il suo genio, come l'ha ideato Antonio Canova.
Vedendolo, senza quegli indumenti ond'è caratteristica l'immagine
dell'Imperatore, intendo la verità profonda di ciò che l'artista di
Possagno diceva spesso e volentieri intorno alla significazione del nudo
nell'arte. Così, fatto genio, Napoleone è il capolavoro del Canova.
Altri lodi Ebe, e Psiche e le Grazie abbracciate; altri si compiaccia di
Paolina giacente, o ammiri papa Rezzonico orante tra i suoi leoni
pensosi. Nell'atrio di Brera penso io, davanti al colosso. Foggiato per
andare all'aperto, con la vittoria alata nel cavo della mano, egli muove
allo stretto, là dentro, e si pensa che in men di due passi avrà finito
il suo corso. Perchè là dentro? All'aperto non lo vollero i potenti, che
approfittavano della sventura sua; e fu ancora lodevol pudore che lo
lasciassero intatto, come fu buon consiglio negli ultimi successori
concederlo alla ammirazione sminuita dei tempi nuovi confinato in quel
chiuso, che è pur sempre un tempio della scienza e dell'arte. E va,
senza muoversi dal suo piedestallo di granito, fremente nella sua
grandezza, che ha ancora ed avrà sempre alcun che di segreto. E più
torreggia allo stretto, e più sembra che cammini, mentre a noi par di
comprendere tutto ciò ch'egli non fu, avendo la potenza di essere, e
intorno a lui, irta di ostacoli, serrandosi la congiura del mondo.

Veduto quello, muovo a cercarne il riscontro, in un altro cortile, di là
dal Naviglio, ove si raccoglievano i Senatori di quello che Ugo Foscolo
chiamò “il bello italo regno„. Non più un genio, là dentro, ma un uomo,
un cavaliere salutante; in atto di muoversi anch'egli, caracollando, e
anch'egli rinchiuso! Ragioni d'ordine vario han fatti prigionieri i due
bronzi, non volendoli in piazza; dove infine, piacendo meno alle
moltitudini, riuscirebbero meno eloquenti. Lampi di genio inconsapevole;
ne siano perdonate (quasi direi benedette) le cause, per il gaudio
estetico che destano in noi. Vedo quell'altro, e penso.... penso una
grande giornata e un indimenticabil servizio. Quel cavaliere che saluta,
levandosi sul cavallo di mezzo al fogliame d'una aiuola fiorita, un po'
sfinge nella immobilità dello sguardo, ma gentiluomo nel sorriso e nel
gesto cortese, si associa nel mio pensiero al rifiorimento di una
leggenda di gloria che Roma ha cantata nei secoli. E rammentando quante
ombre circondino certe figure storiche, sento anche meglio la solenne
grandezza onde sono privilegiate. Nell'atrio del Senato vedo la
continuazione ideale dell'atrio di Brera. Solferino procede da
Sant'Elena; il discendente degli antichi condottieri italiani (piace a
me pure di chiamarlo così) è stato il liberatore della patria schiava,
per aver dato il primo crollo, e come vigoroso! alle mura istesse del
suo carcere quindici volte secolare; onde il mio panegirico, se parrà
tale, è sentenza di storia. Infine, odio la storia che non illumina i
fatti con luce viva d'amore.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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