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Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, Tomo II
Author: Sismondi, J.-C.-L. Simonde (Jean-Charles-Léonard Simonde) de
Language: Italian
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DEI SECOLI DI MEZZO, TOMO II***


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STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO

DI

J. C. L. SIMONDO SISMONDI

DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

Traduzione dal francese.

TOMO II.



Italia
1817.



STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE



CAPITOLO VII.

      _Ambizione dei Milanesi, e loro conquiste in Lombardia ne' primi
      cinquant'anni del secolo XII. — Regni di Lottario III, e di
      Corrado II. — Rivoluzioni di Roma._

1100 = 1152.


Le passioni religiose rese vive dalla lite delle investiture, dopo avere
violentemente agitati l'Impero e la Chiesa, s'andarono da sè medesime
calmando in conseguenza dello spossamento prodotto dalla lunghezza e
dall'acerbità degli odj; poichè quelle calunnie, quelle ingiurie, quelle
invettive, che prima commovevano i popoli, erano, per il fattone abuso,
divenute indifferenti. Vedendo le nazioni, dopo sì lunga lotta, i due
partiti ugualmente forti, conobbero che non dovevasi prestar fede nè
alle grandi promesse degli unì, nè temere le minacce degli altri; che
ogni virtù non è da una sola banda, nè tutt'i vizj dall'altro lato, e
che niun partito poteva ripromettersi la parziale protezione del cielo.
Le private mire degli agitatori del popolo sono finalmente palesi, cessa
l'illusione, e quella spaventosa macchina, che aveva sommossa tutta la
società, non poteva più raddrizzarsi, nè ingannarla.

Anche assai prima della pace di Worms apparivano manifesti indizj della
stanchezza degli opposti partiti, dell'Impero e del Sacerdozio. Intanto
vedevansi rinascere, e ciò direttamente risguarda l'oggetto della
presente storia, le gelosie tra le vicine città, le guerre private, e lo
sviluppo delle passioni repubblicane prender luogo nel cuor degli
uomini, invece del fanatismo religioso.

Durante il torbido regno d'Enrico IV, le città lombarde avevano
sordamente adottato il governo municipale; e già ai tempi d'Enrico V,
oltre l'amore di libertà, incominciavano a nutrire pensieri ambiziosi di
conquista. Ogni città era libera, ma disuguale la popolazione di tutte
le città. L'estensione e la fecondità del territorio, il vantaggio della
posizione, le antiche prerogative civili ed ecclesiastiche, rendevano le
une più ricche e potenti delle altre. Milano e Pavia primeggiavano su
tutte le città lombarde, ed i loro cittadini, divisi da una pianura di
sole venti miglia non attraversata da verun fiume, avevano in tanta
vicinanza frequenti motivi di disgusti; perciocchè, oltre la rivalità di
gloria e di potenza, davan loro cagione di acerbe guerre i confini delle
diocesi non divise dalla natura, ed i dispareri sul corso delle acque
destinate alla irrigazione de' terreni.

Da principio si offesero indirettamente, cercando di ridurre in podestà
loro le città vicine più deboli; lo che divise tutta la Lombardia in due
fazioni, delle quali eran capo Milano e Pavia. Cremona, che dopo queste
era la più potente repubblica, tentò del 1100 d'impadronirsi di
Crema[1]. Pavia moveva guerra a Tortona nel 1107, e Milano attaccava
Lodi e Novara; le quali per timore di servitù chiedevano ajuto alla
metropoli amica. E per tali cagioni Crema e Tortona si posero sotto la
tutela de' Milanesi, mentre Pavia, Cremona, Lodi e Novara si collegarono
per far testa alla potenza de' Milanesi. I Bresciani, antichi rivali di
Cremona, si collegarono con Milano, siccome gli Astigiani, nemici dei
Tortonesi, s'unirono a Pavia. E tra le città più lontane, Parma e Modena
seguivano d'ordinario la parte milanese; Piacenza e Reggio l'opposta
lega.

  [1] _Campi, Istoria di Cremona l. I, p. 17. — Ludov. Cavitelli
  Cremon. Annales apud Graevium t. III, p. 1293._

Le loro guerre incominciarono sempre con leggieri scaramucce tra le
popolazioni vicine, che in tempo delle messi danneggiavano le campagne
nemiche. Riscaldati dalle fresche offese gli antichi odi, solevano
sfidarsi a battaglia in un luogo e giorno determinati, in cui gli uomini
de' due Stati atti alle armi andavano tutti col loro carroccio contro al
nemico. Presso questi repubblicani la bravura teneva sola luogo d'ogni
arte militare, ed una sola battaglia chiudeva d'ordinario la campagna e
la guerra. Siccome le due parti non aspiravano che all'onore del
trionfo, cercavan meno d'esterminare il nemico, che d'insultarlo e
d'avvilirlo. I Milanesi avendo del 1108 battuti i Pavesi, e fatti loro
moltissimi prigionieri, li condussero nella pubblica piazza, ove, poichè
ebber loro legate le mani al di dietro, ed appesovi un lumicino,
permisero loro di tornare alle proprie città, accompagnandoli per breve
tratto di strada colle fischiate[2].

  [2] _Galvan. Fiamma Manip. Florum c. 159. Rer. Ital. t. XI. p. 628._

Non però tutte le guerre terminavano con sì poco danno. Milano era
chiuso dai territorj di sette repubbliche; Como, Novara, Pavia, Lodi,
Cremona, Crema e Bergamo: delle quali la più lontana, Cremona, trovavasi
a sole cinquanta miglia di distanza. Crema più debole delle altre erasi
posta sotto la protezione de' Milanesi, e formava, per così dire, parte
del loro Stato. La comune sicurezza riuniva le altre contro Milano, la
quale, quando potesse momentaneamente disunirle, era sicura di opprimere
le più deboli: e siccome veruna stabile alleanza legava le sei città, e
la pace e la guerra erano ugualmente cagione di frequenti separazioni, i
Milanesi ebbero ben tosto opportunità di combatterle separatamente, ed
incominciarono col dichiarar guerra a Lodi l'anno 1107[3].

  [3] _Johan. Bap. Villanove Laudis Pomp. Hist. ap. Craevium t. III,
  l. I, p. 856. — Landulphi Junior. Hist. Mediol. c. 16, p. 486._

(1107 = 1111) Questa guerra durò quattr'anni, dal 1107 al 1111, nel qual
tempo, se dobbiam credere agli storici lodigiani, i loro concittadini
furono più volte in aperta campagna vittoriosi. Non pertanto perdettero
molta parte del loro raccolto, e dovettero soffrire le ingiurie de'
nemici che avanzavansi ad insultarli fin presso alle mura della città. A
que' tempi, non conoscevasi quasi miglior modo di far gli assedj:
perciocchè quando gli assalitori non riducevano il nemico ad uscir dalle
porte per vendicarsi dei dileggi battendosi in aperta campagna, erano
ben tosto costretti di ritirarsi. Gli artigiani che formavano il grosso
dell'armata, e non erano pagati, mal potevano tenersi lungo tempo
lontani dalle loro officine. I Milanesi rinnovavano ogni anno la guerra,
ed ogni anno abbruciarono la messe de' Lodigiani, o la trasportarono nel
proprio territorio, malgrado i soccorsi de' Cremonesi e de' Pavesi.
Finalmente nel giugno del 1111 presero d'assalto le muraglie delle
città, che le milizie lodigiane, spossate dalle lunghe vigilie e dalla
fame, non ebbero forza di difendere[4]. I Milanesi diedero allora libero
corso al concepito odio, atterrarono le mura di Lodi, e ne incendiarono
le case, ripartendone gli abitanti in sei borgate, che sottoposero a
severissime condizioni, alle più odiose leggi; di modo che di
quell'infelice città non rimasero che le miserabili ruine nel luogo che
poi chiamossi Lodi vecchio. Quarantasett'anni dopo quegli abitanti
rifabbricarono una nuova città a qualche distanza dalla distrutta.

  [4] _Galvan. Flam. Manipulus Florum c. 163. t. XI. R. It. p. 629. —
  Trist. Calchi Hist. Patriæ l. VII, p. 208._

(1118) Una guerra di maggior considerazione intrapresero i Milanesi
contro la città di Como l'anno 1118, la quale fu descritta da un poeta
comasco assai vicino a que' tempi. Il suo poema è quasi la sola memoria
che ci resta di quella sanguinosa contesa[5].

  [5] _Cumanus, seu de Bello comensi anonimum Poema ap. Scr. Rer. Ital
  t. V. p. 399. Cum notis Jo. Mariæ Stampæ._

In principio del poema il cantore comasco paragona le sventure della sua
patria a quelle di Troja[6]: e quantunque egli non si rassomigli in
veruna cosa ad Omero, i descritti avvenimenti ci ricordano vivamente le
generali circostanze della guerra trojana. L'assedio di Como dura dieci
anni, e combattono contro gl'infelici Comaschi tutte le piccole
repubbliche lombarde. In questa lunga lotta le milizie loro fecero i
primi esperimenti del proprio valore, e s'agguerrirono in modo da potere
in appresso resistere a Federico Barbarossa, lo Zerse de' secoli di
mezzo.

  [6]

    _Testantur montes, testatur, et hoc Baradellus._
    _Troja suis ducibus defenditur; Hector in illis_
    _Affuit, Æneas, nec non Paris, Hectoris omnes_
    _Pugnabant fratres, pugnat fortissimus Adam_
    _Deque Piro dictus, duros deverberat hostes,_
    _Hortatur socios, in pugna recreat omnes._
                            _Cuman. V. 38. p. 414._

Le opinioni religiose non furono da principio straniere a tale contesa.
Mentre i Lombardi seguivano generalmente la parte imperiale, Como stava
per il Papa, che gli aveva dato un vescovo di loro piena
soddisfazione[7]. L'antipapa Burdino, ossia Gregorio VIII, aveva
nominato vescovo di Como un diacono della chiesa milanese, chiamato
Landolfo, della nobile famiglia di Carcano. Sperando costui di
approfittare della dimora d'Enrico V in Italia, erasi recato fino al
castello di s. Gregorio, di dove co' suoi maneggi disturbava la diocesi
del suo rivale. Una notte il legittimo vescovo Guido, sortito dalla
città coi due consoli Adamo di Pirro e Gaudenzio Fontanella, sorprese il
castello di s. Gregorio, facendo prigione Landolfo, ed uccidendo molti
suoi parenti, e partigiani che cercarono di difenderlo. Coloro che
poterono sottrarsi al massacro, fuggirono a Milano, portando con loro le
insanguinate vesti degli uccisi, che stesero sulla pubblica piazza,
sedendosi taciturni a canto alle medesime, mentre le vedove ed i figli
degli estinti colle lagrime e coi gemiti invocavano i passeggieri, e
supplicavano il popolo di vendicare tanta ingiuria. Intanto le campane
chiamano i fedeli ai divini ufficj. L'arcivescovo Giordano fermò il
popolo all'ingresso del tempio, ordinando al clero che lo seguiva di
chiuderne le porte; e dichiarò che non si riaprirebbero che a coloro che
prendessero le armi per vendicare la chiesa e la patria[8]. Ne' paesi
liberi si commovono ed agitano le menti colla sorpresa dello spettacolo;
mentre dove la volontà d'un solo decide della pace e della guerra, tutto
ciò rendesi inutile.

  [7] Guido Grimoldi di Galavesca. Gli storici milanesi risguardano
  come una cosa vergognosa per la loro patria l'avere sostenuto lo
  scisma, onde o non ne fanno parola, o cercano di darne colpa ai
  Comaschi loro nemici; e per tal modo resero oscura assai questa
  parte del loro racconto: ma ciò che non è dubbioso, si è che
  Landolfo Carcano, difeso dai Milanesi, era un vescovo scismatico
  eletto da Enrico V (_Scheda Antiqu. ap. Jos. Mariam Stampam præfatio
  ad Cumanum p. 407._); e che il poeta comasco dà ad Anselmo da
  Clivio, uno degli arcivescovi di Milano, l'aggiunto di _male
  pactus_, che pare corrispondere al vocabolo di simoniaco. Veggasi
  _Cumanus v. 686_, p. 428.; la prefazione premessa al Poema dal
  Muratori _p. 402_, e Landolfo di s. Paolo _c. 37, t. V, p. 507_.

  [8] _Landulph. Junior Hist. Mediol. c. 34, p. 504. Notæ Saxii ad
  eundem. — Trist. Calcus Hist. pat. l. VII, p. 210._

I Milanesi corsero alle armi, e dietro ad un araldo mandato a sfidare i
Comaschi, uscirono pomposamente col carroccio e colle bandiere spiegate
dalla città loro, prendendo la strada di Como. Trovarono a' piedi del
monte Baradello le milizie comasche, con cui attaccarono una battaglia,
che senza alcun vantaggio degli uni o degli altri si prolungò fino alla
notte. I Milanesi approfittarono dell'oscurità per discendere
inosservati sulle ghiaje del torrente Aperto, lungo il quale
s'accostarono fino alle mura di Como, i di cui abitanti abili alle armi
trovandosi tutti nel campo presso Baradello, fu facile ai primi di
rompere le porte della città non difesa, ed abbandonarla alle fiamme. In
sul far del giorno vedendo i Comaschi che i nemici eransi allontanati,
s'avviarono alla città loro a traverso la montagna; e quando giunsero
alla sommità la videro, atterriti, coperta da denso fumo illuminato
dalla fiamma divoratrice. Scesero impetuosamente dalla cima del
Baradello, e fattisi addosso ai Milanesi intenti al saccheggio, gli
oppressero e fugarono in modo, che, rimasti all'istante padroni della
città, ebber tempo di estinguere l'incendio, e di rimettere le abbattute
porte[9].

  [9] _Cum. v. 63.-114, p. 415. — Trist. Cal. Hist. Patriæ l. VII, p.
  211. — Bern. Corio Stor. Mil. p. I, p. 28._

Sembra che a quest'epoca i Comaschi fossero i più valorosi soldati
d'Italia. Forse la vicinanza della Svizzera, l'abitudine di viaggiare
per le alte montagne e di navigare sopra un lago assai burrascoso, gli
aveva agguerriti prima degli altri. I ricchi e potenti villaggi situati
sul pendìo delle Alpi erano tutti soggetti a Como; ma non tutti erano
contenti di tale onerosa dipendenza. Quello d'Isola posto presso al lago
in faccia ad un'isoletta da cui prese il nome[10], volendo affatto
emanciparsi da Como, (1119) spedì deputati a Milano, che segnarono un
trattato d'alleanza colla repubblica. Allora gli abitanti d'Isola
equipaggiarono una flotta di battelli, e nella susseguente primavera
osarono di sfidare i Comaschi; i quali, sortiti colla loro flotta, li
ruppero e dispersero, senza poter approfittare della vittoria, costretti
di rientrare in città per opporsi a più temuti nemici che s'avanzavano
dalla parte di terra.

  [10] Quest'isoletta, a sedici miglia al nord di Como, e cinquanta
  passi solamente lontana dalla spiaggia, può avere un miglio di
  circuito. Ebbe un castello assai forte fabbricato dai Lombardi.

Non si sa comprendere la cagione che consigliò tutte le città lombarde
ad abbracciare le parti della città, di cui erano a ragione più gelose,
contro una repubblica che mai le aveva offese, e da cui non avevano che
temere; e cresce la sorpresa vedendole prender parte a tale
confederazione, in tempo che non potevano ignorare che il principale
motivo della guerra era quello di appoggiare un vescovo scismatico
contro il legittimo pastore. Lo che è una aperta prova, che in tale
epoca la parte d'Enrico e dell'antipapa Burdino prevaleva in Lombardia;
attestando il poeta comasco[11] che i Milanesi avevano spediti deputati
a tutte le città vicine, ed ottenuti soccorsi da Cremona, Pavia,
Brescia, Bergamo, Vercelli, Asti, Novara, Verona, Bologna, Ferrara,
Mantova e Guastalla. La contessa di Biandrate, che aveva il suo feudo
tra Milano e Novara, andò al campo dei Milanesi portando in braccio il
figliuolo ancora bambino, ed i gentiluomini della Garfagnana, alpestre
contrada degli Appennini, mandarono ai confederati un corpo di
cavalleria.

  [11] Cumano v. 200.-215. Malgrado la positiva testimonianza del
  poeta comasco, seguito poi da tutti gli storici lombardi, io dubito
  tuttavia di questa lega fra tante città, che non avevano verun
  motivo di nimicizia verso i Comaschi, ed erano anzi fra di loro
  rivali. Forse eransi soltanto arrolati all'armata milanese pochi
  volontarj di quelle città; forse il poeta ne accrebbe il numero per
  render più gloriosa la lunga resistenza e la caduta della sua
  patria.

Non osarono i Comaschi di affrontare in aperta campagna tanti nemici, e
gli aspettarono entro le loro mura. La città di Como presenta la
configurazione d'un gambero; la sua bocca è rivolta all'estremità del
lago, e ne forma il porto. Due sobborghi, Vico e Colognola, stendonsi
lungo le spiaggie opposte come le chele del gambero, il di cui corpo si
allunga in sul piano chiuso da tre colline tutte difese da una rocca,
cioè Castelnuovo a levante, Baradello a mezzodì, e Carnesino a ponente;
per ultimo un terzo sobborgo, che, ripiegandosi, si prolunga tra levante
e mezzogiorno, raffigura la coda del gambero[12]. I Milanesi coi loro
confederati attaccarono i sobborghi di Vico e di Colognola; ma non
avendoli ottenuti d'assalto, dopo aver perduta molta gente, ed uccisa
quasi altrettanta agli assediati, fecero proclamare da un araldo, che in
agosto del susseguente anno riprenderebbero l'assedio della città.
Questa costumanza d'annunciare l'epoca d'una nuova spedizione[13] era un
impegno d'onore che guarentiva i nemici da ogni sorpresa, e che tra
tanti e così acerbi odj procurava lunghi intervalli di tregua alle
rivali popolazioni.

  [12] Piano di Como presso Alessandro Ducker. _Grœvius t. III, p.
  1199._

  [13] Cumanus v. 263. Trovansene altri esempi ne' successivi anni
  _v._ 271 e 313.

(1120-1127) Negli otto anni susseguenti dal 1120 al 1127, i Milanesi
rinnovarono ogni estate le ostilità loro contro i Comaschi, ma sempre
meno vigorosamente. Spedivano soccorsi ai villaggi che avevano fatti
ribellare a Como, e la guerra omai non si faceva che sulle rive dei
laghi Maggiore, di Lugano e di Como, ov'eran posti i paesi ribelli. I
Comaschi furono lungo tempo vittoriosi, castigarono sul proprio lago gli
abitanti d'Isola e di Menaggio, ed equipaggiarono una flotta su quello
di Lugano per contenere le popolazioni ancora fedeli, e far rientrare
nell'ubbidienza loro i sollevati. E perchè i nemici dominavano il fiume
Tresa, per cui il lago di Lugano comunica con il lago Maggiore,
trasportarono le navi della flotta coi carri da uno all'altro lago,
benchè distanti otto miglia; ed avendo di buon mattino lanciate in acqua
le loro barche, corsero trionfanti le coste del Verbano, rassicurando i
loro alleati, e saccheggiando i sorpresi nemici.

(1125) La perdita del vescovo Guido, che fu l'anima di tutte le loro
intraprese, accaduta del 1125, riuscì oltremodo dannosa ai Comaschi. Una
così lunga guerra gli aveva impoveriti di gente e di danaro: ogni anno
parte del raccolto era stato distrutto, molti paesi eransi sottratti al
loro dominio, e le stesse vittorie avevano distrutti i più valorosi
guerrieri. Ma la campagna del 1126 riuscì loro costantemente
svantaggiosa, onde i Milanesi poterono accorgersi che, raddoppiando i
loro sforzi, otterrebbero nel susseguente anno intera vittoria.

(1127) In primavera del 1127 i Milanesi avanzaronsi di fatto verso Como
con un'armata assai più numerosa che negli antecedenti anni, avendo
avuto modo d'interessare nella loro lite quasi tutte le repubbliche che
vi avevano presa parte del 1119. Se prestiamo fede al poeta comasco,
vedevansi nell'armata milanese gli stendardi di Pavia, di Novara, di
Vercelli, del giovane conte di Biandrate, d'Asti, d'Alba, d'Albenga, di
Cremona, di Piacenza, di Parma, di Mantova, di Ferrara, di Bologna, di
Modena, di Vicenza e dei cavalieri della Garfagnana[14]. Nè i Milanesi
accontentaronsi al presente d'attaccare i castelli che difendevano la
città, ma s'avanzarono sul piano ov'è fabbricata, ed accamparonsi presso
alle sue mura. Avevano ordinato agli abitanti della borgata di Lecco,
posta all'estremità d'un golfo del lago di Como[15], di condurli legnami
di costruzione; ed avevano assoldati a Pisa ed a Genova alcuni
ingegneri. Quelli di Pisa erano specialmente esercitati nell'arte di
dirigere le mine, ed i Genovesi in quella di costruire macchine
militari[16]. Fabbricarono gli ultimi a non molta distanza dalle mura
quattro torri con parapetto coperto di pelli di bue, onde preservarle
dal fuoco. Posero fra le torri due gatti, specie di montoni, in ciò solo
diversi da quelli usati dagli Antichi che erano armati d'un uncino
destinato a cavar le pietre smosse dal loro urto. Formarono inoltre
quattro baliste per lanciare massi di pietra al di là delle mura: e
quando tali macchine trovaronsi terminate, furono dall'armata a suono di
trombe strascinate presso le mura in mezzo alle grida di gioja.

  [14] _Cum. V. 1834 e segu. p. 452._ — Veggasi la nota a _p. 15_.

  [15] Lecco è posto all'estremità del Golfo a Levante, dove le acque
  del lago tornano a formare l'Adda.

  [16] _Cum. v. 1815, e segu. p. 452._

Dal canto loro i Comaschi non trascuravano verun mezzo di difesa.
Avevano cavate le loro fosse, aggiunti speroni alle mura, coperte le
parti più deboli di cuoi e d'altre materie cedenti. Avevano in pari
tempo equipaggiata la loro flotta, destinata ad attaccare
all'opportunità gli abitanti dell'Isola che bloccavano la città dalla
banda del lago. Malgrado il numero infinitamente maggiore de' loro
nemici, tentarono con una sortita d'incendiare le macchine degli
assedianti; ma furono respinti dopo aver dato sorprendenti prove di
valore.

Intanto a fronte della vigorosa resistenza degli assediati, le macchine
erano state spinte fino alle mura: il montone aveva squarciata parte
della muraglia, e si continuava a batterla, onde allargarne la breccia
per renderla praticabile alla cavalleria, di cui i Milanesi volevano
prevalersi nell'assalto del susseguente giorno. I Comaschi tentarono di
chiudere durante la notte l'apertura della breccia colle palafitte, ma
s'avvidero allora che la maggior parte de' loro guerrieri eran periti in
così lunga guerra, non restando omai che vecchi spossati dalle fatiche e
fanciulli inabili alle armi[17]. Ridotti vedendosi a tali estremità,
piuttosto che arrendersi, presero la disperata risoluzione d'abbandonare
la patria e cercare altrove la pace e la libertà. Per primo luogo di
rifugio prescelsero il castello di Vico; e mentre caricavano sulle loro
barche le donne ed i fanciulli con quanto avevano di prezioso, fecero
nel cuore della notte una disperata sortita per tenere i Milanesi
occupati intorno alla breccia, onde non s'accorgessero della fuga.
L'evento corrispose ai loro voti: dopo avere con un subito attacco
sparso il terrore nel campo nemico, s'imbarcarono anco i soldati, e
giunsero al castello di Vico senz'essere molestati nel loro tragitto.

  [17] _Cumanus v. 1900, e segu. p. 454._

I Milanesi, rinvenuti da quella subita sorpresa, s'accostarono alle
porte che trovarono aperte ed abbandonate[18], vi appiccarono il fuoco,
ma non ardirono d'avanzarsi più in là finchè il nuovo giorno non li
rassicurò dal timore d'un'imboscata. Crebbe la loro sorpresa quando
videro la città spogliata di gente e di roba, ed il castello di Vico
provveduto di soldati e di macchine, e disposto a sostenere un nuovo
assedio ancora più lungo di quello di Como, perciocchè gli scogli su cui
Vico era fabbricato, lo assicuravano dai danni della zappa e del
montone. I Milanesi mandarono allora una deputazione di ecclesiastici ad
offrire ai Comaschi una vantaggiosa capitolazione, che fu ben tosto
accettata. Venivano conservate ai vinti tutte le proprietà a condizione
che prendessero parte in tutte le guerre dei Milanesi, che soggiacessero
alle tasse comuni, ed atterrassero le mura di Como, di Vico, di
Colognola[19]. In tal modo ebbe fine la guerra comasca; e questa città,
ormai incapace di difendersi, rimase lungo tempo in podestà dei
Milanesi, e non riebbe la libertà che ai tempi della lega lombarda
formatasi sotto gli auspicj di Federico Barbarossa, di cui Como seguì le
parti.

  [18] _Cum. v. 1953 p. 455._

  [19] _Id. v. 1974 ad finem p. 455._

La sommissione di Lodi e di Como rese Milano più potente delle sue
rivali e di lunga mano più potente, non essendovene altre che avessero
città soggette. L'ambizione de' Milanesi crebbe per sì prosperi
successi, che li trassero ben tosto in nuove guerre. Abbiamo altrove
veduto che avevan preso a proteggere Crema, più borgata che città,
dipendente rispetto alle cose spirituali e nelle temporali dal vescovo o
dalla città di Cremona. Del 1129 i Cremaschi tentarono di sottrarsi
dalla dipendenza di Cremona, ed invocarono il braccio dei Milanesi
siccome garanti de' loro privilegi. I Cremonesi invece si rivolsero ai
Pavesi, ai Piacentini, ai Novaresi, ai Bresciani, i quali gelosi
dell'ingrandimento di Milano, cui avevano essi medesimi contribuito,
colsero con ardore questo pretesto per attaccare così potenti rivali.

Questa nuova guerra tra popolazioni di forze quasi pari rimase
secondaria a liti di più alto rango, cui avea dato luogo la successione
dell'impero. Enrico V era morto senza lasciar figliuoli l'anno 1125. La
dieta de' principi tedeschi, riunitasi a Magonza per dargli un
successore, erasi divisa fra due Case da lungo tempo rivali, le di cui
gare agitarono la Germania e l'Italia, ed i di cui nomi divennero in
appresso i distintivi di due opposti partiti. I quattro ultimi
imperatori erano usciti da una famiglia che governava la Franconia
quando fu fatto imperatore Corrado; famiglia talvolta distinta col nome
di Salica, e talora con quello di _Gueibelinga_ o _Waiblinga_, castello
della diocesi d'Augusta nelle montagne dell'Hertfeld[20], dove forse
ebbero origine i suoi primi ascendenti; ed i suoi partigiani chiamaronsi
poi Ghibellini. Un'altra potente famiglia originaria d'Altdorf possedeva
in questi tempi la Baviera, e perchè progressivamente ebbe più principi
chiamati Guelfo o Welfo, fu alla medesima ed ai suoi partigiani dato il
nome di Guelfi[21]. Gli ultimi due Enrichi e la casa de' Ghibellini
avevano sostenute lunghe guerre contro la Chiesa, di cui i Guelfi eransi
dichiarati protettori. Quando morì Enrico V, suo nipote Federico
d'Hohenstauffen duca di Svevia, che aveva avuta la miglior parte della
sua eredità, lusingavasi pure che la corona imperiale non uscirebbe
dalla propria casa. Pure la Dieta, dietro i consigli dell'arcivescovo di
Magonza nemico della Casa Salica, ne dispose diversamente, proclamando
imperatore Lotario, duca di Sassonia, nemico della famiglia
Ghibellina[22]. Questo monarca non tardò a stringersi con nuovi legami
ai Guelfi, accordando in isposa al loro capo Enrico IV duca di Baviera
l'unica sua figlia ed erede che gli portava in dote il ducato di
Sassonia[23].

  [20] _Otto Frising. de Gest. Friderici I lib. II c. 2. Rer. Ital. t.
  VI pag. 699. — Mascovius Commen. de Reb. Imp. sub Conrado III lib.
  III p. 141._

  [21] _Chron. Weingartense de Guelfis ap. Leibn. t. I. p. 781._
  Stando ad una cronaca bavara citata da Mascovio lib. III, p. 141,
  tali nomi furono dati alle parti dopo la battaglia di Winsberg tra
  Corrado III e Guelfo il 21 dicembre del 1140.

  [22] _Otto Fris. in Chr. l. VII, c. 17, p. 137. — Mascov. Comment.
  de Reb. Imp. sub Lothario II l. I, p. 1._

  [23] L'anno 1127 alla Dieta di Mersburgo. _Mascov. p. 12._

Quantunque Lotario fosse il legittimo successore di Enrico, il passaggio
dell'autorità sovrana ad una casa nemica dovea essere cagione di
violenti convulsioni allo stato. Nella primavera del 1126 il principe
Ghibellino prese le armi, e ridusse la guerra in Alsazia ove possedeva
molti castelli; ma in questa prima campagna si trattò la guerra con poco
vigore[24].

  [24] _Mascov. Comment. l. I, § 6, p. 9._

(1127) Nel 1127 Corrado duca di Franconia e fratello di Federico,
tornato di terra santa dove aveva combattuto contro gl'infedeli, rialzò
colla sua presenza il partito che d'ora innanzi chiameremo ghibellino:
forzò Lotario a levar l'assedio a Norimberga; prese, trovandosi a Spira,
il titolo di re, e passò di là in Italia, sperando di prevenire Lotario,
e di guadagnare i Lombardi al suo partito[25].

  [25] _Otto Frising. Chron. l. VII c. 17, p. 137._

(1128) Di fatti i Milanesi nel 1128 ricevettero magnificamente Corrado
qual successore d'Enrico e legittimo monarca. Il clero ed il popolo
furon chiamati a parlamento sulla pubblica piazza, in cui Ruggiero
Clivelli cavaliere, e Landolfo da s. Paolo, lo storico, deputati
dell'arcivescovo, discussero le ragioni dei due competitori innanzi al
popolo, il quale chiese concordemente che venisse l'arcivescovo ad
incoronare il principe. Questa ceremonia si eseguì in Monza il 29 giugno
del 1128, e rinnovossi poi a Milano nella basilica di s. Ambrogio[26].

  [26] _Landulphus Tun. l. I § 23, p. 37._

Frattanto papa Onorio, e le città di Pavia, Cremona, Novara, Brescia e
Piacenza eransi dichiarate in favore di Lotario: onde queste città
aprirono una Dieta in Pavia per trattare intorno alla guerra da farsi a
Corrado; ed i loro vescovi scomunicarono Anselmo, arcivescovo di Milano,
colpevole d'aver posta la corona sul capo dell'usurpatore; il quale,
indebolito da questa opposizione del clero, non potè dare esecuzione
all'impresa che meditava contro Roma, e gli fu forza consumare in Parma
un tempo troppo prezioso, aspettando l'esito della guerra che le città
lombarde facevansi in apparenza per cagion sua, ma infatti per i
particolari loro interessi. Nè in Germania si proseguiva la guerra più
vigorosamente, opponendovisi l'indipendenza de' principi e de' prelati
dell'Impero, come in Italia, quella della città. Perciò Lotario, che nel
1131 attaccò nuovamente Federico nella Svevia e nell'Alsazia, non
ottenne che la distruzione di alcuni castelli (1131) di poca
importanza[27]; e quando nel susseguente anno (1132) scese in Italia per
le alpi trentine, condusse una così debole armata, che veniva insultata
e derisa dagl'Italiani; perchè non s'attentando d'avvicinarsi a Milano,
dovette fare un vizioso giro per portarsi a Roncaglia, ove aprì
l'assemblea de' giudizj del regno. Il suo emulo Corrado, dopo essere
lungo tempo rimasto a carico dei Milanesi e dei Parmigiani suoi alleati,
trovandosi sprovveduto di soldati e di danaro, prevenne l'arrivo di
Lotario, e si ridusse vilmente, e quasi profugo in Germania[28].

  [27] _Mascov. Comment. l. I § 23, p. 37._

  [28] _Otto Fris. Chron. l. VII, c. 18, p. 138._

(1133) Pure Lotario colla piccola sua armata si avanzò fino a Roma, ed
ebbe la corona imperiale dalle mani di Papa Innocenzo II il giorno 4
giugno del 1133. Ma questa ceremonia, contro l'antica consuetudine, si
eseguì nella chiesa di s. Giovanni di Laterano, a motivo che la basilica
del Vaticano era occupata dai soldati di Ruggiero re di Sicilia, e
dall'antipapa Anacleto, più assai potenti di Lotario[29]: onde, appena
incoronato, si affrettò d'abbandonar Roma e l'Italia.

  [29] _Fulconis Benev. Chron. t. V, p. 115._ Se crediamo a
  quest'autore, Lotario non aveva con lui più di duemila soldati.

Mentre la lite di questi due sovrani ugualmente deboli, e la debole
guerra che si facevano, avvezzava le repubbliche italiane a disprezzare
l'autorità imperiale, lo scisma della Chiesa distruggeva il rispetto
dovuto ai Pontefici, ed incoraggiava il popolo romano a rendersi
indipendente dalla loro autorità.

Questo scisma aveva origine dalla rivalità di due potenti famiglie di
Roma dei Frangipane e dei Pietro Leone, le quali s'erano usurpati tutti
i diritti della nazione e della Chiesa. Fino da quando mancò nel 1118
papa Pasquale II, queste due famiglie avevano fatto nascere uno scisma;
essendosi Pietro Leone dichiarato protettore di Gelasio II, che la
Chiesa riconobbe legittimo, ed i Frangipane, coll'ajuto d'Enrico V,
fatto consacrare Gregorio VIII conosciuto sotto nome di antipapa
Burdino. Lo stesso partito divise del 1130 i Cardinali, che dopo il
decreto di Niccolò II eransi arrogati la più essenzial parte delle
elezioni. I partigiani di Pietro Leone elessero un suo figlio, che prese
il nome d'Anacleto II, mentre l'opposto partito dichiarossi per il
Cardinale di sant'Angelo che si fece chiamare Innocenzo II. Ma in questo
recente scisma, in cui le ragioni delle parti sembravano bilanciate, la
Chiesa[30] si decise a favore della fazione contraria a quella, alla
quale dodici anni prima aveva data la vittoria. L'avo di Pietro Leone
protettore di Gelasio II era un ebreo convertito; e per questa ragione
furono profusi a suo figliuolo Anacleto i nomi d'empio e di sacrilego
giudeo, e proclamati difensori della fede quei Frangipane medesimi che
dodici anni prima furono dichiarati gli oppressori della Chiesa[31]. Gli
scrittori ecclesiastici dimenticaronsi che in questa elezione non era
riconoscibile la buona causa, di modo che i due competitori dovevan
essere giudicati ugualmente colpevoli, o innocenti. È bastantemente
provato che nella elezione del 1130 la maggior parte dei suffragi fu per
Anacleto[32]; ma i più _rispettabili_, ci si dice, riunironsi in favor
d'Innocenzo, in ciò più _rispettabili_ che non si associarono agli
scismatici[33]. E per tal modo il più grossolano circolo vizioso, il più
assurdo sofisma viene adottato come incontrastabile ragione nelle
dispute di tale natura.

  [30] Stando anche alla relazione del Fleury, _Stor. Eccles. lib.
  LXVIII, c. 1 e 2_, qualunque uomo imparziale giudicherà illegale
  l'elezione d'Innocente.

  [31] _Baron. Ann. Eccl. ad ann. 1130, p. 183._

  [32] Ventisette contro diecinove. Tra i primi contavasi il vescovo
  di Porto decano del sacro Collegio ed il più vecchio Cardinale, che
  godeva del favore del popolo e della nobiltà.

  [33] _Anonimus apud Baronium ann. 1130, § 2, t. XII, p. 184._

Ma in sostegno delle ragioni i due partiti non tardarono a prendere le
armi. Innocenzo erasi reso forte nel palazzo di Laterano posto in
un'estremità di Roma, e lontano da ogni abitazione; e non credendo
questo luogo abbastanza sicuro, non tardò a ritirarsi coi cardinali del
suo partito ne' rovinati monumenti di Roma, di cui i Frangipani avevano
fatte altrettante fortezze. Dall'altra banda Anacleto s'impadroniva
colle armi alla mano delle basiliche di s. Pietro, di Santa Maria
Maggiore, e di tutte le chiese di Roma. Onde Innocenzo, cedendo a forze
tanto superiori, fuggiva a Pisa, di dove visitò in seguito la Francia e
la Germania. Aveva egli determinato Lotario ad intraprendere il viaggio
di Roma per ricevervi la corona imperiale, sperando poi col di lui
soccorso di potersi a forza impadronire della sede pontificia: ma
l'estrema debolezza cui Lotario era stato ridotto dalla guerra civile,
fece conoscere ad Innocenzo che doveasi prima dar la pace all'Impero che
alla Chiesa (1132).

(1134) Nel 1134, tornato Lotario in Germania, vi fu finalmente
riconosciuto imperatore. I due fratelli di Hohenstauffen, avviliti per
la perdita di Ulma, risolvettero di domandare la pace. Il primo a
tornare in grazia dell'imperatore fu Federico di Svevia, riconciliatosi
(1135) in marzo del 1135, e seguìto poco dopo da Corrado, il quale,
avendo rinunciato alla dignità reale, fu ammesso da Lotario a comandare
di conserva l'armata che meditava di portare in Italia[34].

  [34] _Mascovius l. II, § 7 et 9, p. 59-64._

(1136) Abbiamo già parlato nel quarto capitolo di questa nuova discesa
in Italia, nella quale Lotario e Corrado si mostrarono agl'Italiani più
onorevolmente che non avevan fatto tre anni prima. I Milanesi ed i
Parmigiani accolsero l'imperatore come si conveniva alla sua dignità, ed
alla loro ricchezza; onde Lotario li trattò più amichevolmente dei
Pavesi e dei Cremonesi, che, quantunque suoi alleati, lo avevano in
addietro così freddamente soccorso. Dopo alcuni mesi passò dalla
Lombardia a Roma, di dove la sua armata, scacciato l'antipapa Anacleto,
s'avanzò verso Napoli, e costrinse Ruggiero re di Sicilia ad abbandonare
l'assedio di quella città. Ma i vantaggi di così fortunata campagna,
come abbiamo altrove osservato, non ebbero lunga durata; Lotario,
tornando in Germania, morì in Trento il 3 di dicembre del 1137, e papa
Innocenzo, rimasto solo contro Ruggiero, fu da questo re fatto
prigioniero a Gallazzo il 22 luglio del 1139.

(1139) Dalla guerra tra i due papi, e dalla subita morte di Lotario e
d'Innocenzo ebbe origine una lunga e scandalosa anarchia. Il popolo
romano, approfittando dello scisma e dell'abbassamento del potere
pontificio, ricuperò le prerogative perdute sotto la vigorosa
amministrazione di Gregorio VII e de' suoi successori, quando il
fanatismo non permetteva d'aprir gli occhi sulle usurpazioni della santa
sede: e le prediche del monaco Arnaldo da Brescia cooperarono
potentemente in sul finire del pontificato d'Innocenzo II a far
risorgere le spente forme del governo repubblicano.

Arnaldo, di ritorno dallo studio di Parigi, ebbe coraggio di predicare
in Brescia contro le iniquità, l'ambizione ed il despotismo del
clero[35]. I severi costumi e l'ortodossa fede di Arnaldo non
permettevano ai suoi avversarj di calunniarlo. La sua erudizione e la
robusta eloquenza gli davano l'assoluto predominio di tutte le adunanze,
nelle quali erano ordinario soggetto de' suoi ragionamenti i vizj del
clero e le pericolose conseguenze del suo potere temporale. E perchè
tale argomento solleticava la comune degli uditori, l'eresia de'
_politici_, nome espressivo che allora si diede alle sue dottrine,
faceva rapidissimi progressi[36].

  [35] _Otto Fris. de Gest, Frid. I, l. II, c. 21, p. 719._

  [36] _Gunt. in Ligur. l. III, v. 170, p. 41 apud Pitheum Scrip.
  Germ. Basileæ 1569._

Arnaldo conservava per Pietro Abaelardo suo maestro la più tenera
amicizia; e non è affatto improbabile che le persecuzioni e
l'imputazione d'eresia, ond'ebbe tanto a soffrire Abaelardo nel 1140,
derivassero dall'odio del clero contro il suo discepolo Arnaldo. Si
vollero ambedue colpevoli di oscuri ed inintelligibili errori intorno
alla Trinità: Abaelardo ebbe la modestia di abiurare tutto ciò che
poteva trovarsi di erroneo nelle sue scritture, e morì compianto dai
monaci di Clugnì, presso i quali aveva trovato asilo e generosa
ospitalità[37]. Arnaldo fu perseguitato prima del maestro; ed i suoi
nemici ottennero dopo una lunga ed ostinata guerra di farlo condannare
alla morte ed all'infamia[38]. Nel 1139 Arnaldo fu condannato nel
concilio di Laterano, e costretto ad abbandonare l'Italia[39]. La
persecuzione di s. Bernardo lo seguì a Costanza, ov'erasi riparato
presso quel vescovo[40]: di dove salvatosi prodigiosamente (1139) passò
intrepido a predicare la libertà ai Zurigani, come l'aveva predicata in
Italia: e dopo cinque o sei anni tornò in trionfo a dar le leggi alla
repubblica romana.

  [37] _Bar. ad an. 1140, § 4-19._ — _Fleury St. Eccl. l. LXVII._

  [38] Intorno ad Arnaldo da Brescia merita di esserne letta
  l'_Apologia_ pubblicatasi in Pavia l'anno 1790 in due volumi in 8.º,
  e dedicata al Patrizio veneto Andrea Quirini. Oltre l'apologia
  trovasi nel secondo volume la di lui vita, nella quale il dottissimo
  autore raccolse ed illustrò tutto ciò che intorno a questo celebre
  teologo era stato scritto nel suo secolo, o nel susseguente. _N. d.
  T._

  [39] _Baron. Ann. Eccl. an. 1199, § 10 et 11._

  [40] _Sancti Bernardi Epist. 195, 196._ Questo Santo così scriveva
  al vescovo di Costanza: «Voi scorgerete in costui un uomo che
  apertamente si ribella contro il clero, confidando nel tirannico
  potere della gente di spada; un uomo che insorge contro i medesimi
  vescovi, ed inveisce contro tutto l'ordine ecclesiastico. Sapendo io
  ciò, non saprei in tanto pericolo meglio consigliarvi e più
  sanamente, che a seguire il precetto apostolico, di allontanare il
  male che vi sta vicino. Un amico della Chiesa vorrebbe piuttosto che
  fosse legato, che posto in fuga, onde pellegrinando di più non
  faccia danno ad altri. Il Papa nostro Signore, quand'era ancora con
  noi, ne aveva dato l'ordine in iscritto, dietro le informazioni
  avute del male che quest'uomo andava facendo; ma sgraziatamente non
  trovossi alcuno che volesse fare una così buona azione.»

Mentre trovavasi Arnaldo in esiglio, i Romani mantenevano viva la guerra
coi Tivolesi, cui aveva dato apparente motivo il precedente scisma
(1140). Ridotta per così dire alla sua prima infanzia, e chiusa negli
antichi confini, Roma appena sosteneva la rivalità di Tivoli, città
formata dalle case di campagna de' suoi antichi cittadini. Finchè i
Romani seguirono le parti d'Innocenzo II, i Tivolesi appoggiarono lo
scisma d'Anacleto (1141). Nel 1141 un'armata romana, preceduta dalla
scomunica, andò ad assediare quella piccola città; ma i Tivolesi con una
improvvisa sortita la ruppero in modo, che si diede ad una vergognosa
fuga, lasciando nel campo ragguardevoli ricchezze. Nel susseguente anno
vollero i Romani riparare la loro perdita, e, ricominciato l'assedio
della città nemica, la ridussero alle ultime estremità. Animati dalla
memoria del sofferto disastro pensavano di distruggerla, e ripartire gli
abitanti ne' vicini villaggi; ma il papa, ascoltando più moderati
consigli, accordò ai Tivolesi la pace ad oneste condizioni,
costringendoli a giurar fedeltà alla Chiesa, come se gli avesse vinti
colle proprie armi, non con quelle de' Romani[41].

  [41] _Otto Fris. in Chron. lib. VII, p. 143._

(1143) Intanto i discepoli d'Arnaldo, e tutti coloro che avevano un
cuore libero e romano, mal soffrendo il dominio teocratico,
approfittarono dell'indignazione del popolo per la pace di Tivoli. I
nobili sparsi per le pubbliche piazze rappresentavano ai cittadini la
condotta d'Innocenzo come la conseguenza d'un piano da lui formato per
annientare il loro onore ed i loro privilegi; invocavano la seducente
memoria dell'antica grandezza; e paragonando il governo de' Cesari e la
maestà dell'antico senato con quello de' preti, scossero in modo il
popolo già esacerbato dalla fresca ingiuria, che lo trassero dietro loro
al Campidoglio, ove ristabilirono il senato come caparra del
ristabilimento della repubblica. Su questo monte sacro all'antica
libertà dimora anche al presente il senatore di Roma, troppo debole
immagine de' padroni del mondo. Posto tra l'antica e la moderna città,
pare che il senatore appartenga ancora agli antichi gloriosi tempi, e
faccia parte delle sue ruine; siccome la colonna isolata che vedesi
innanzi al suo palazzo, ricorda la grandezza e la maestà del tempio di
Giove, cui appartenne[42].

  [42] Si suppone che questa colonna appartenesse al tempio di Giove
  conservatore. È di marmo greco d'ordine corinzio di sessantaquattro
  palmi d'altezza. _Vast. Itin. t. I, p. 110._

Innocenzo II sentì tanto vivamente questa sommossa del popolo, che cadde
infermo, e morì pochi giorni dopo (1144). Il breve papato di Celestino
II suo successore non gli permise di porre limiti al sempre crescente
potere de' cittadini, i quali sotto il pontificato di Lucio II posero
l'ultima mano alla loro costituzione, sostituendo al prefetto della
città, nominato dal papa, un nuovo magistrato incaricato della
presidenza del senato e della rappresentanza della repubblica, col
titolo di patrizio di Roma. I Romani nominarono a così grande dignità
Giordano, figliuolo del celebre Pietro Leone, e fratello del defunto
antipapa Anacleto[43].

  [43] _Otto in Frisin. Chron. l. VII, c. 31, p. 145._

La città dividevasi in tredici rioni; ed i cittadini di ogni rione
nominavano tutti gli anni dieci elettori, i quali avevano la facoltà di
scegliere i cinquantasei membri che componevano il senato. Se dobbiamo
giudicarne dall'interessamento che la nobiltà prendeva a favore del
governo repubblicano, pare che i senatori fossero gentiluomini. E
siccome i più ragguardevoli aggiungevano al titolo di senatore quello di
consigliere, è da credersi che il patrizio avesse un consiglio privato,
forse formato per turno di tutti i membri del senato.

Anche il papa aveva un ragguardevole partito di nobili e di popolani,
alla testa de' quali trovavansi i Frangipani, e, cosa difficile a
credersi, i fratelli del patrizio Giordano gelosi della sua autorità. Il
pontefice, che aveva di fresco contratta alleanza con Ruggiero re di
Sicilia, aveva ragione di sperare assai da così potente alleato. Intanto
il senato per assicurarsi dagli interni nemici fece attaccare le torri
dei Frangipani e dei loro aderenti; i quali però ne rifecero ben tosto
delle altre, conservando pure gli antichi monumenti quasi tutti
fortificati, onde i nobili possedettero lungo tempo entro Roma degli
asili sicuri, ove sottrarsi al potere de' magistrati. Il senato, per
opporsi con vantaggio alla potenza di Ruggiero, spedì una deputazione al
monarca Allemanno, invitandolo a venire a Roma a prendere la corona
imperiale.

Questo monarca era Corrado III[44], ch'era stato incoronato a Milano nel
1128, ed aveva poi abdicata la corona del 1135. Allorchè morì Lotario,
Corrado ebbe un rivale in Enrico il superbo, genero di quest'imperatore,
erede della casa Guelfa, duca di Sassonia e di Baviera, e marchese della
Toscana; ma presso la dieta di Coblenz del 1138 aveva prevaluto la casa
Ghibellina, o di Hohenstauffen, a fronte d'Enrico, reso dal suo orgoglio
esoso ai principi; e Corrado fu consacrato il sei marzo dello stesso
anno in Aquisgrana. Ma i Sassoni ed i Guelfi non riconobbero legittima
tale elezione, ed avendo prese le armi, non permisero mai a Corrado di
venire a farsi incoronare in Italia[45].

  [44] Corrado II per l'Italia è III per la Germania.

  [45] _Mascov. Com. de rebus Imp. sub Corrado III, l. III, pag. 114.
  — Otto Fris. Chron., l. VII, c. 22, p. 140. — Id. de gestis Frid. I.
  l. I, c. 22, p. 656._

Ottone di Frisinga ci conservò una delle lettere del senato e del popolo
romano all'imperatore Corrado. «Se fedeli figliuoli, gli scrivono,
possono permettersi di giudicare le azioni del loro signore e padre,
siamo sorpresi che l'eccellenza vostra non rispondesse alle lettere
colle quali le davamo parte del nostro operato, che dalla nostra fedeltà
è sempre diretto all'onor vostro. Il senato fu colla grazia di Dio
ristabilito; col vigor del quale e del popolo romano, Costantino e
Giustiniano ressero gloriosamente tutto l'Impero, onde noi facciamo ogni
sforzo e desideriamo che voi possiate fare altrettanto, e ricuperiate
tutti gli onori che vi appartengono, e furonvi rapiti.... Noi abbiamo
posti i fondamenti di questo nuovo ordine di cose, perchè manteniamo la
pace e la giustizia a vantaggio di tutti quelli che l'amano: ci siamo
impadroniti delle torri, delle fortezze e delle case di que' signori che
di concerto col Siciliano e col papa si dispongono a resistere al vostro
impero; alcune le conserviamo fedelmente in vostro nome, altre furono
spianate. La vostra prudenza rammenti tutti i torti che la corte dei
papi ed i signori di cui parliamo, fecero ai vostri predecessori. Le
stesse persone collegate col Siciliano stanno preparandovene di ancora
più grandi.....»[46].

  [46] _De gestis Friderici I, l. I, c. 27 et 28, p. 662._

Corrado che non ignorava nascondersi sotto quest'apparente sommissione
lo spirito d'indipendenza, non trovò opportuno di prender parte in
questa lite, non riscontrando il senato, onde non disgustare il papa che
in pari tempo erasi a lui diretto.

Intanto Lucio II lusingossi che i Romani, scoraggiati dall'abbandono di
Corrado, e dall'alleanza ch'egli aveva contratta col re di Sicilia,
rinuncierebbero alla nuova magistratura tostochè si vedessero
vigorosamente attaccati (1145). In tale persuasione circondato dal clero
e da tutta la pompa pontificia, e seguìto da' suoi partigiani armati di
tutto punto, marciò un giorno verso il Campidoglio per scacciarne il
senato. Il popolo sorpreso da questa mescolanza di armi spirituali e
temporali, non sapeva in sull'istante a qual partito appigliarsi, e
lasciò che la processione s'avvicinasse al sacro colle. Ma tutt'ad un
tratto vergognandosi di abbandonare i suoi magistrati, che risguardava
come i soli campioni della romana libertà, fece piovere un diluvio di
sassi sui soldati pontificj. Lucio medesimo, gravemente ferito, morì
pochi giorni dopo, ed i suoi satelliti dovettero abbandonare
l'impresa[47].

  [47] _Godef. Viterb. in Pant. pars XVII, t. VII. R. It. p. 461._

Eugenio III discepolo di s. Bernardo eletto in suo luogo abbandonò
immediatamente Roma per non essere costretto a dare la sua approvazione
al ristabilimento del senato. Però dopo pochi mesi disponevasi a
riconoscerlo a condizione che i Romani riconoscessero pure il suo
prefetto; ed a tali patti ritornò in Roma in mezzo alle più vive
dimostrazioni di allegrezza: ma essendosene poco dopo allontanato,
mentre viaggiava in Italia ed in Francia, tornò a Roma trionfante
Arnaldo da Brescia[48], il quale si sforzò di dare ai Romani più giuste
nozioni intorno alle cause della grandezza della loro antica repubblica.
Persuaso che la più durevole di tutte le riforme è quella che, invece di
distruggere le antiche costumanze, cerca anzi di ravvicinarvisi,
rendendole più vigorose, consigliò i Romani a formare un ordine equestre
che fosse intermediario tra i senatori e la plebe, di ristabilire i
consoli per presiedere al senato, i tribuni per difendere il popolo; di
escludere affatto i pontefici dall'amministrazione politica, e di
limitare i poteri ch'erano forzati di conservare all'imperatore. Ma
l'assoluto silenzio degli storici italiani intorno alle cose accadute in
tale epoca, e la brevità delle storie tedesche cui dobbiamo attenerci,
non ci fanno conoscere quale esecuzione avessero le riforme proposte da
Arnaldo[49][50]. Sembra soltanto che durante tutto il non breve
pontificato d'Eugenio III i Romani fossero sempre in guerra col papa, e
che Arnaldo andasse loro rammentando l'esempio de' loro antenati, e ciò
che far dovevano per mantenere la patria libera. Vedremo nel susseguente
capitolo l'infelice fine di quest'uomo martire della libertà in quella
medesima città che aveva cercato di rendere libera.

  [48] _J. de Muller_ scrive che, stando ad una cronaca di Corbia,
  duemila Svizzeri delle montagne accompagnarono Arnaldo a Roma, e lo
  assistettero a ristabilirvi la libertà. _B. I, c. 14, p. 410._

  [49] _Gunt. in Ligurino, lib. III, p. 43. — Otto Fris. de gestis
  Frid. I, l. II, c. 21, p. 719_. — Le vite dei papi scritte da
  Bernardo Guidoni, e dal Cardinale di Arragona, _t. III, p. 437_ 439,
  quasi niente contengono d'importante.

  [50] A torto si è tentato di attribuire ad Arnaldo da Brescia
  opinioni troppo libere in punto di religione e di governo. Lasciando
  da banda le prime perchè affatto straniere alla presente storia, non
  credo inutile il dare qualche schiarimento rispetto alle seconde,
  trattandosi di un uomo ch'ebbe tanta parte ne' movimenti popolari di
  Roma e di Brescia; e vedremo che tutta la sua colpa si riduce
  all'aver predicato contro il dominio secolare del clero. Lunga fu la
  lotta che sostenne nella sua patria contro il vescovo Mainfredo, il
  quale faceva ogni sforzo per rialzare in Brescia il prostrato
  edificio della signoria episcopale, onde andava accarezzando i
  nobili, mirando a valersi delle forze loro per distruggere i
  consoli, e farsi egli principe. Lo che conoscendo Arnaldo contrario
  allo spirito, alle leggi ed all'utilità della Chiesa, animò i
  consoli ed il popolo ad opporsi agli attentati dell'ambizioso
  vescovo. Colle scritture e coi sacri canoni mostrava al popolo che i
  vescovi, siccome descritti in capo alla milizia di Dio, non devono
  prender parte nelle faccende secolaresche; che come successori degli
  apostoli debbono esserne gl'imitatori; _non essendo giusto che
  abbandonino la parola di Dio_ per occuparsi di governi temporali, di
  milizie, ec. Queste spiacevoli verità annunciate da Arnaldo al
  popolo con robusta eloquenza, e confermate dalla santità de' suoi
  costumi, riunirono contro di lui il vescovo, tutto il clero, gli
  abati ed i monaci, i quali accusando Arnaldo di eresia al concilio
  lateranese, ottennero, colla calunnia, di farlo condannare. S.
  Bernardo chiama pessimo scisma, non eresia il titolo d'accusa dato
  ad Arnaldo. E tale doveva veramente essere in faccia alla corte
  pontificia la dottrina d'Arnaldo, che non solo non concedeva agli
  ecclesiastici la superiorità da loro pretesa sopra il temporale dei
  principi, ma accordava ai principi una piena autorità sopra i beni
  ecclesiastici per regolarne l'uso a tenore dei canoni.

  Obbligato di abbandonare la patria per sottrarsi alle calde
  persecuzioni del clero, fu alcun tempo a Costanza, e nella Svizzera,
  di dove passò in Francia per difendere il suo maestro Abaelardo
  accusato da s. Bernardo. Ma sul principio del pontificato d'Eugenio
  III si ridusse a Roma per appoggiare colla sua eloquenza e co' suoi
  consigli la fazione de' Romani, che contrastavano al papa la
  temporale signoria. E forse vi fu chiamato dai Romani medesimi,
  conoscendo quanto poteva esser utile al loro partito. Nè Arnaldo
  mancò alle loro speranze, perchè distinguendo accuratamente le
  incumbenze ecclesiastiche dalle secolari, persuase al popolo, che il
  Papa doveva accontentarsi della cura spirituale di tutta la
  cristianità, ma non addossarsi ancora il peso del governo temporale,
  la di cui alta ispezione doveva lasciare all'imperator de' Romani
  suo sovrano, e l'immediata amministrazione al senato ed al popolo
  romano. A tal fine confortava i Romani non solo a conservare il
  senato, ma a repristinare ancora tutti gli antichi ordini e
  costumanze, l'ordine equestre, i tribuni, i censori, i consoli, e
  l'antica forma de' giudizj e delle milizie. _N. d. T._



CAPITOLO VIII.

      _Federico Barbarossa imperatore. — Sua prima spedizione contro
      le città libere d'Italia._

1152 = 1155.


Corrado III, che regnò quattordici anni in Germania, s'intitolava pure
re d'Italia senza aver avuta mai la più leggiera influenza sopra questo
paese. La guerra che faceva ai principi guelfi Enrico il superbo, e
Guelfo VI, duchi di Baviera e di Sassonia, lo tennero molti anni in
Germania. Del 1147 cesse, siccome Luigi VII di Francia, alle eloquenti
esortazioni di s. Bernardo, e passò in Oriente con una potente armata di
crociati; e di ritorno ne' suoi stati, dopo tre anni di sgraziata
guerra, fu sorpreso dalla morte il 15 febbrajo del 1152 mentre
disponevasi a discendere in Italia per ricevere la corona imperiale[51].

  [51] Vedasi intorno a questo regno, _Mascovius Comment. de rebus
  Imp. sub Corrado III lib. IV et V._

Quantunque lasciasse un figliuolo in tenera età, la dieta del regno
riunitasi in Francoforte, seguendo i consigli di Corrado medesimo, dava
la corona a suo nipote Federico Barbarossa, duca di Svevia, allora nel
fiore della gioventù. Potevano i principi lusingarsi che il nuovo
monarca farebbe cessare le sanguinose divisioni delle due più potenti
famiglie dell'Impero, i Ghibellini, ossia la casa di Svevia in
Franconia, ed i Guelfi, ossia la casa di Baviera in Sassonia. Federico
era l'erede della casa ghibellina, siccome nipote di una sorella di
Enrico V; e d'altra parte era alleato della famiglia guelfa per essere
figliuolo d'una figlia di Enrico il nero, duca di Baviera: di modo che,
dal lato della madre, veniva ad essere nipote di Guelfo VI, duca di
Baviera, e cugino d'Enrico il Leone, duca di Sassonia, i due capi della
casa guelfa[52].

  [52] _Otto Frisin. de Gestis Frid. I. l. II, cap. 2. Scrip. Rer.
  Ital. tom. VI, p. 699._

Le speranze dell'Allemagna non andarono deluse; e, quasi durante tutto
il lungo regno di Federico, le dissensioni di queste due famiglie che
avevano cagionati tanti travagli ai suoi predecessori, rimasero sopite.
Le forze de' Tedeschi rese maggiori dall'abitudine delle guerre civili,
si riunirono sotto le bandiere di Federico. Vero è che questa concordia
ebbe fine colla sua vita; quando le due famiglie, separandosi nuovamente
sotto il regno del suo successore, comunicarono il loro odio ai popoli,
i quali confondendo le contese di queste famiglie con quelle del
sacerdozio e dell'Impero, fecero nascere in Italia le troppo famose
parti de' Guelfi e de' Ghibellini, che, siccome vedremo, furono cagione
che essi spargessero torrenti di sangue per più secoli.

Lo stesso giorno dell'incoronazione, il nuovo sovrano lasciò travedere
il severo ed inflessibile carattere che portava sul trono. Uno de' suoi
cortigiani, che avendo avuto la disgrazia di spiacergli, era stato per
suo ordine allontanato dalla corte, credette che in questo giorno
d'allegrezza gli sarebbe stato facile d'ottenere il perdono. In tempo
della cerimonia si gittò ai piedi del nuovo re; e gli chiese grazia. Le
guardie che udirono le sue preghiere, benchè non sapessero quale fosse
il suo delitto, aggiunsero alle sue le loro suppliche, e tutta la
moltitudine, commossa a tale spettacolo, chiamò grazia per il
supplicante. Federico impose a tutti silenzio, e nell'istante in cui
andava a ricevere la sacra unzione, dichiarò con alta e severa voce, che
la giustizia, e non l'odio aveva dettato il suo giudizio, e che niuna
cosa al mondo potrebbe farglielo rivocare[53]. Tal era l'uomo che si
preparava ad armare la Germania contro la libertà italiana.

  [53] _Ibid. — Gunteri Ligurinus lib. I, p. 12. ap. Pitheum._

Federico era stato eletto nella dieta di Francoforte dai soli principi
tedeschi; onde l'Italia veniva, siccome una provincia soggetta, data ad
un nuovo sovrano dall'altrui suffragio. Vero è però che alcuni pochi
gentiluomini toscani, lombardi e genovesi avevano assistito alla dieta,
ma ciò fu per caso, e senza missione[54]. Essi non pretesero di
conferire coi loro suffragi le due corone italiche; ma i loro
concittadini, contenti, se non della dominazione allemanna, almeno del
modo con cui la loro patria veniva amministrata, e della libertà di cui
godevano sotto stranieri sovrani, invece di opporsi, applaudirono
all'elezione di Federico.

  [54] _Gunt. Ligur. lib. I, p. 6._ — È anche dubbioso che vi fossero
  Genovesi, perciocchè il nome di _Ligures_ viene dato da Guntero a
  tutti i Lombardi.

Fu nella dieta convocata il mese d'ottobre in Wurtzburgo, che i deputati
mandati da Federico in Italia resero conto della loro missione,
ritornando accompagnati dai delegati di papa Eugenio III per affrettare
i soccorsi del nuovo monarca contro i Romani diretti sempre da Arnaldo
da Brescia. Roberto principe di Capua, quello stesso che con tanto
coraggio aveva sussidiati i Napoletani nella guerra che loro tolse la
libertà, si presentò alla stessa dieta, implorando insieme ad altri
baroni della Puglia esigliati anch'essi, dal re e dalla nazione tedesca
di restituir loro il perduto patrimonio e di metter fine alle
usurpazioni del re di Sicilia ugualmente nemico suo, come
dell'Impero[55].

  [55] _Otto Frisin. Frid. I. lib. II, cap. 7, p. 703._

Federico, giovane valoroso ed avido di gloria, vedeva quanto la riunione
delle fazioni allemanne accresceva le sue forze, ed era impaziente di
usarne. L'Italia era la sola provincia in cui potesse far conoscere la
sua attività ed i suoi talenti militari, e dove avrebbe dovuto essere
incoronato imperatore e re; ma sapeva pure che in Italia non avrebbe
trovato nè ubbidienza, nè sudditi, nè tesori, nè armate; ed egli
risguardava l'indipendenza d'Italia come uno stato di rivolta, i
privilegi, come ingiuste usurpazioni. Promise perciò soccorso a Roberto
ed ai baroni pugliesi, e segnò un trattato d'alleanza col papa, nel
quale Eugenio prometteva la corona imperiale, e Federico di ristabilire
in Roma l'autorità papale. In sul finire della dieta intimò a tutti i
vassalli del regno germanico di disporsi ad accompagnarlo in Italia
entro due anni al più tardi; e tutti i signori che assistettero alle
deliberazioni della dieta, giurarono di seguirlo in tale impresa[56].

  [56] _Otto Frising. I. II, cap. 7._

In marzo del 1153 tenendo Federico un'altra dieta a Costanza, due
Lodigiani portando delle croci in mano, attraversarono la folla de'
principi, e gittandosi ai piedi dell'imperatore, domandarono colle
lagrime la libertà della loro patria, che i Milanesi avevano ridotta
nella più dura servitù. Erano omai quarant'anni da che la repubblica di
Lodi era stata sottomessa ed incorporata al territorio milanese; e la
generazione che aveva potuto aver parte in un governo libero, ed
esercitare nelle pubbliche adunanze i diritti della popolare sovranità,
era forse tutta discesa nel sepolcro: ma la dolce ad un tempo e trista
memoria della perduta indipendenza è una eredità che i repubblicani
lasciano ai loro figliuoli coll'obbligo di trasmetterla d'una in altra
generazione, per farla rivivere qualunque volta ne avranno la forza. I
cittadini lodigiani, senz'esserne autorizzati dai loro compatriotti,
condotti dal caso a Costanza, trovarono nel proprio cuore le parole che
potevano destare la compassione di persone che non intendevano il loro
idioma. I loro singhiozzi e le lagrime della rimembranza d'una patria
che più non avevano, si fecero strada al cuore di Federico, il quale
fece subito dal suo cancelliere spedire un ordine ai Milanesi di
ristabilire i Lodigiani negli antichi privilegi, e di rinunciare alla
giurisdizione che si erano usurpata. Sicherio suo ufficiale di corte fu
incaricato di portare all'istante quest'ordine ai consoli del popolo di
Milano[57].

  [57] _Otto Morena Hist. Land. t. VI. Rer. Ital. p. 957. — Galvan.
  Flamma Manip. Flor. c. 173, t. XI, p. 634._

Da prima recossi Sicherio a Lodi, ove partecipò ai magistrati delle
borgate, tristi avanzi della distrutta città, la missione di cui era
incaricato. Erano i Lodigiani troppo persuasi che una semplice lettera
non farebbe loro rendere la perduta libertà, e tremarono in vista del
pericolo cui gli esponeva l'inconsiderata procedura de' loro
concittadini. La loro città era stata distrutta dal fuoco, ed essi
ridotti ad abitare in villaggi aperti da ogni banda. Sapevano che la
possente cittadinanza milanese poteva, provocata dalla risentita lettera
di Federico, distruggere in poche ore le loro case, ed i loro raccolti,
quando i soccorsi di Germania tarderebbero almeno un anno. Federico li
proteggeva come usano i grandi di fare: essi credono d'aver tutto fatto
pei loro clienti, quando si prendono la cura di vendicarli. Invano i
magistrati di Lodi rappresentarono a Sicherio i loro pericoli; che non
ottennero di sopprimere la lettera imperiale, o di differirne la
consegna fino all'epoca in cui Federico entrasse in Italia.

I consoli milanesi ricevettero Sicherio in presenza dell'assemblea del
popolo, che ascoltò la lettura del dispaccio. L'indignazione eccitata da
una lettera così imperiosa fu universale; fu strappata di mano
all'araldo, e posta sotto i piedi; mentre tutti giuravano ad alta voce
di difendersi, e caricavano d'imprecazioni il despota. Sicherio si
sottrasse a stento alla moltitudine furibonda[58].

  [58] _Otto Morena Rerum Laudensium p. 965._

Intanto i Lodigiani trovavansi in preda a mortali terrori: essi
mandavano le mogli ed i figli coi più preziosi effetti a Cremona ed a
Pavia; e gli uomini restavano di giorno nelle proprie abitazioni, che
abbandonavano la notte, disperdendosi ne' borghi e nelle campagne, per
timore d'essere ad ogni istante sorpresi dall'armata milanese, che
volesse punirli d'aver osato desiderare la libertà. Ma il popolo
milanese, prevenuto dell'imminente arrivo dell'imperatore, non volle,
attaccando i Lodigiani, che aveva presi a proteggere, provocare
maggiormente il suo sdegno; che anzi unitamente agli altri Lombardi
mandarono a Federico i regali che le città avevano costume di spedire al
nuovo sovrano. I deputati di Pavia e di Cremona portarono in tale
occasione al trono imperiale le loro lagnanze contro la crescente
ambizione dei Milanesi i quali conobbero ben tosto l'aggravio loro fatto
dalle vicine città, ed alla nuova stagione tentarono di vendicarsene con
alcune scorrerie sui territorj di Pavia e di Cremona[59].

  [59] _Otto Morena p. 971._

La Lombardia era ancora in armi nell'ottobre del 1154 in cui v'entrò
l'imperatore. Scendeva egli le Alpi per la vallata di Trento, e marciava
alla testa di tutti i suoi vassalli, e di un'armata maggiore assai di
quante ne avevano i suoi predecessori condotte in Italia. Fermossi alcun
tempo in riva al lago di Garda per aspettarvi i suoi feudatarj; poi
s'avanzò fino a Roncaglia in vicinanza di Piacenza; segnò il suo campo
sulla pianura in riva del Po, e, secondo l'antica costumanza, vi aperse
i comizj del regno d'Italia[60].

  [60] _Otto Fris. lib. II, cap. 12. 15, p. 706. — Otto Morena p. 969.
  — Sire Raul, seu Radulphus Mediol. De gestis Frid. I. p. 1175, t.
  VI. — Ligurinus l. II, p. 24._

Il primo atto de' comizj fu quello di privare de' loro feudi coloro che
non erano intervenuti; poi l'imperatore si dichiarò disposto a giudicare
le cause de' suoi sudditi italiani, ed a soddisfare alle loro lagnanze.
Il primo che domandasse giustizia fu Guglielmo, marchese di Monferrato,
il quale accusò la città d'Asti ed il borgo di Chieri. Questi due popoli
eransi costituiti in governi liberi, e non avendo potuto ridurre il
marchese a porsi sotto la loro protezione, facevano la guerra ai suoi
vassalli. Il vescovo d'Asti s'unì al marchese contro la sua greggia.
Tutte le nascenti repubbliche eccitavano la diffidenza o la collera di
Federico, onde prometteva al prelato ed al marchese di castigare
esemplarmente i popoli che gli avevano offesi.

Presentaronsi in appresso i consoli lodigiani e comaschi, rinnovando le
lagnanze che i Lodigiani avevano già fatte a Costanza contro i Milanesi.
I consoli di Milano trovavansi presenti e preparati a rispondere, onde
si discussero le rispettive ragioni innanzi all'imperatore, e tutte le
città manifestarono le loro inclinazioni. Si conobbero amici dei
Milanesi i Cremaschi, i Bresciani, i Piacentini, gli Astigiani, i
Tortonesi; dei Pavesi soltanto le città di Cremona e di Novara, poichè
quelle di Como e di Lodi erano soggette a Milano. Il partito pavese era
dunque evidentemente il più debole: per cui Federico chiamato a favorire
una delle due leghe, si dichiarò per quella che in appresso potrebbe
sempre facilmente opprimere; mentre quando avesse appoggiati i Milanesi,
questi non avrebbero in breve più avuto bisogno del suo favore[61].

  [61] _Sire Raul p. 1175._

Ordinava intanto alle due parti di deporre le armi, e faceva che i
Milanesi lasciassero liberi i prigionieri pavesi: in appresso avendo
manifestata la sua intenzione di avvicinarsi a Novara prima di nulla
decidere intorno alle lagnanze di Como e di Lodi, chiese ai consoli di
Milano di condurlo essi medesimi a traverso al loro territorio.

La strada che naturalmente doveva tenere l'armata, fu quella che i
consoli di Milano avevano indicata, la quale attraversava, in linea
quasi retta per lo spazio di circa cinquanta miglia, Landriano, Rosate e
Trecate, ov'era il ponte sul Ticino. Ma su questa medesima linea appunto
eransi pochi mesi prima battuti in più riprese i Milanesi ed i Pavesi;
di modo che la campagna era stata rovinata: e perchè i Tedeschi
prendevano, senza pagare, non solo gli oggetti di cui abbisognavano, ma
gli animali ed i mobili, i paesani fuggivano innanzi a loro, e
lasciavano deserti i paesi per cui l'armata doveva passare. La prima
notte l'esercito di Federico s'accampò innanzi a Landriano, ove trovò
appena di che nutrirsi. Arrivò il susseguente giorno a Rosate, e perchè
le dirotte piogge ne rendevano difficile la marcia, fece alto
quarantott'ore presso a quel castello. I Milanesi non avevano calcolato
tale ritardo, e le provvisioni colà preparate essendosi consumate il
primo giorno, l'armata trovossi senza viveri. Lo stesso Ottone di
Frisinga osserva che il principe ed i soldati, travagliati dalle non
interrotte piogge, erano insofferenti e di cattivo umore, ed incolpavano
perciò i Milanesi dell'avversa stagione[62]. La sera del secondo giorno
Federico ordinò ai loro consoli d'allontanarsi dal campo e di sottrarsi
alla reale indignazione; soggiungendo di far subito evacuare il castello
di Rosate, ove trovavansi cinquecento soldati, onde la sua truppa
potesse valersi dei viveri della guarnigione. I consoli ubbidirono: nè
la guarnigione solamente, ma ancora tutti gli abitanti uscirono dal
castello conducendo di notte già innoltrata, e sotto una pioggia
freddissima e continuata, le loro mogli e figli; lo che rendeva
quest'esecuzione militare più odiosa e crudele. Presero la strada di
Milano da cui erano lontani dodici miglia, lasciando, com'era loro stato
ordinato, tutti gli effetti nel castello. V'entrò in sul far del giorno
l'armata tedesca, e, dopo averlo saccheggiato, lo spianò da cima in
fondo[63].

  [62] _De rebus gestis Frid. I. l. II, cap. 14, p. 710._

  [63] _Otto Morena p. 973._

Quando i fuorusciti di Rosate giunsero a Milano, volendo pure dar colpa
della loro sventura a qualcuno esposto alla loro vendetta, ripetevano le
lagnanze de' Tedeschi, rimproverando ai consoli milanesi d'aver dato
motivo della collera di Federico e della sua armata. Que' magistrati
avevano torto in faccia a quegli abitanti dell'aver condotta l'armata
presso al loro castello. Il popolo milanese era incapace di resistere
all'affascinamento d'un grande spettacolo; le lagrime delle donne di
Rosate, la miseria de' fanciulli che portavano in collo lordi di fango
ed assiderati da una pioggia gelata, lo scoraggiamento dei capi di casa
che avevano tutto perduto, facevano sui Milanesi un'impressione assai
più profonda che non la ferma e misurata eloquenza dei consoli, Oberto
dall'Orto, e di Gherardo Negro, che rendevano ragione della propria
condotta. La plebe tumultuante si portò contro la casa dell'ultimo, e la
demolì interamente. Pure questo magistrato dimenticò l'ingratitudine del
popolo, e non lasciò di servire con zelo e fedeltà la patria[64].

  [64] _Otto Fris. de gest. Frid. I, l. II, cap. 13, e 15._

Altri deputati furono mandati a Federico, i quali rappresentarongli il
castigo inflitto al console, siccome una luminosa soddisfazione che il
popolo di Milano aveva voluto dargli: tentarono pure di calmarlo
offerendogli una ragguardevole ammenda, a condizione per altro di
lasciare la loro repubblica nel tranquillo possesso di Como e di Lodi.
Ma il leone che aveva assaporato il sangue, rifiutava tutt'altro
nutrimento. Federico si crucciò fieramente dell'offerta di un tributo,
quasi si fosse cercato di corromperlo col danaro[65]; e menando i suoi
soldati nelle più fertili campagne del Milanese, le lasciò a discrezione
loro. S'avanzò poscia verso i due ponti fortificati che i Milanesi
avevano costrutti sul Ticino per passare quando il volessero nel
territorio novarese, e dopo averli attraversati egli e l'armata, li fece
abbruciare. Milano possedeva pure sull'opposta riva due castelli
risguardati come chiavi del Novarese, Trecate e Galliate, ne' quali
teneva sempre guarnigione. Federico li prese d'assalto, e dopo averli
saccheggiati li fece spianare[66].

  [65] _Ibid. Cap. 14._

  [66] _Epist. Frid. ad Ottonem Frisin. ap. Scrip. Rer. Ital. t. VI,
  p. 635._

I Milanesi osservavano attoniti le rovine fatte da questa barbara
armata, che a guisa di turbine aveva attraversato il loro territorio.
Essa ne era finalmente uscita, ma non potevano prevedersi i suoi
ulteriori movimenti; e dopo varj inutili tentativi, si era abbandonato
il progetto di calmare coi doni la cieca sua collera. Rinvenuti da
quella prima sorpresa, i magistrati pensarono a porsi in sicuro contro
nuovi attacchi. Introdussero in città abbondanti provvigioni, ne
rinforzarono con estrema cura le fortificazioni, e misero i castelli del
territorio nel migliore stato di difesa. Mandarono in pari tempo
ambasciatori alle città alleate per rinnovare gli antichi patti,
domandare ed offerire reciproco soccorso in caso d'attacco[67].

  [67] _Tristani Calchi Hist. Patriæ, l. VIII, p. 222._

Nel 1154 Federico celebrò il Natale nelle vicinanze di Novara, ed al
principio del susseguente anno 1155 attraversò i territori di Vercelli e
di Torino[68]. Benchè queste due città si governassero a comune, ebbero
la sorte di trovar quel monarca loro propenso, per cui nella guerra,
ch'egli fece in seguito ai Lombardi, l'ultima fu sempre a lui attaccata.
Dopo avere passato il Po, riprese, attraversando la pianura posta a
diritta, la strada di Pavia. Guglielmo di Monferrato che seguiva
l'armata imperiale, gli rammentò le ingiurie fattegli dagli abitanti di
Chieri e d'Asti, chiedendogli il castigo di que' popoli così superbi e
gelosi della loro indipendenza. Questi spaventati dall'avvicinamento di
tanto formidabile armata, e non si fidando abbastanza delle loro torri e
delle loro mura, eransi salvati colla fuga. L'imperatore trovò affatto
deserto ed abbandonato Chieri, e la città di Asti[69]; le quali dopo il
saccheggio de' soldati furono incendiate.

  [68] _Otto Fris. de Gest. Frid. I. l. II, cap. 15._

  [69] Tutti gli storici contemporanei chiamano questa borgata Cairo,
  ed il Muratori suppone che si parli d'un castello di tal nome posto
  alle falde delle Alpi liguri quaranta miglia lontano da Asti. Ma
  ponendo mente alla strada tenuta da Federico, non può essere che
  Chieri. Questa borgata, ch'egli attraversò passando da Torino ad
  Asti, ebbe governo repubblicano fino alla fine del tredicesimo
  secolo.

S'avvicinò quindi a Tortona, città alleata di Milano, che l'aveva
soccorsa nella guerra contro Pavia. Gli fece il re intimare che
rinunciasse all'alleanza de' Milanesi, e si unisse ai Pavesi: e perchè
il Governo di Tortona rispose non essere sua costumanza di abbandonare
gli amici quand'erano nella sventura, fu la città posta al bando
dell'Impero con solenne decreto; ed il giorno 13 febbrajo il re ne
intraprese l'assedio[70].

  [70] _Otto Fris. l. II, c. 17. p. 712. — Trist. Calchi l. VIII, p.
  222._

È posta Tortona sopra un monticello che domina le pianure alla destra
del Po, a non molta distanza dalle falde delle Alpi liguri. Terre basse
e profonde la circondano da ogni banda, dividendola pure da Novi che
trovasi ove comincia la catena delle Alpi. La collina di Tortona non si
riunisce a questa catena che per mezzo di alcune alture che prolungansi
a levante. Su questa dirupata collina è fabbricata la fortezza, e più
abbasso un sobborgo, che, quantunque circondato di mura, non è capace di
lunga resistenza; onde il re non tardò ad impadronirsi del sobborgo, o
della bassa città, che gli abitanti avevano abbandonato, ritirandosi con
tutti i loro effetti nella città superiore.

Quando i Milanesi conobbero il pericolo dei loro amici, spedirono loro
all'istante duecento de' loro più valorosi soldati, e persuasero molti
gentiluomini delle montagne liguri, i quali eransi posti sotto la
protezione della repubblica milanese, e tra questi Obizzo Malaspina, a
ridursi nella città assediata[71].

  [71] Tristano Calco ci diede i nomi de' capi di questi valorosi.

Aveva Federico fissato il suo quartiere all'occidente della città verso
il Tanaro; il duca Enrico di Sassonia occupava a mezzogiorno il
sobborgo, e le milizie pavesi eransi accampate dalla banda della loro
città. Gli assedianti aprirono tra questi diversi quartieri una fossa
che toglieva ogni comunicazione fra Tortona e la campagna. Si
fabbricarono macchine d'ogni sorta, altre per nettare i merli gettando
pietre contro i soldati, altre per rompere le mura. E tali erano i
progressi ch'eransi fatti dagl'ingegneri in quest'arte, che raccontasi
avere un gran macigno, gettato da una balista avanti al portico della
cattedrale, ucciso, spezzandosi, tre de' principali cittadini che
stavano colà deliberando intorno al modo di difendere la città. Per
ordine di Federico erano state innalzate alcune forche in faccia alle
mura, per appendervi coloro che si facessero prigionieri, siccome
colpevoli di ribellione.

Intanto i Tortonesi venivano resi forti, per così dire, dalla
disperazione, ed insultavano gli assedianti con frequenti sortite, e
specialmente il campo de' Pavesi, perchè tra i posti avanzati di questi
ed i loro era situata la sola fonte cui gli assediati potessero attinger
acqua; ma il re rinforzò questo quartiere mandandovi colle sue truppe il
marchese di Monferrato. Cercò pure di abbattere la torre, chiamata
_Rubea_, la sola che non fosse fondata sulla rupe; ma i minatori reali
furono scontrati dagli assediati che scavavano delle contromine, e li
fecero perire soffocati nelle loro gallerie[72].

  [72] _Otto Fris. de gestis Frid. I. l. II, c. 17._

Non potendo i Pavesi allontanare affatto dalla fonte affidata alla loro
custodia gli assediati, vi gettarono cadaveri d'uomini, e d'animali per
corrompere le acque; ma la sete vincendo ogni ribrezzo, non lasciavano
per questo di beverne con avidità. Giunsero in fine a renderla affatto
inservibile gittandovi solfo infiammato e pece. Tale assedio si
protrasse fino alle feste di Pasqua; per celebrare le quali Federico
accordò alla sua armata una tregua di quattro giorni; tregua di cui
pochissimo approfittarono gli assediati travagliati dalla fame e dalla
sete.

Il clero di Tortona sortì processionalmente per chiedere al re la grazia
di non accomunarlo al gastigo di una città colpevole ch'egli abbandonava
alla sua collera; ma Federico non ascoltò le vili preghiere d'una
corporazione che abbandonava i suoi fratelli in tanta calamità, ed
avendo costretto quegli ecclesiastici a rientrare in città, fece
ricominciare l'attacco[73].

  [73] _Ibid. cap. 19._

Intanto la sete rendevasi ai Tortonesi insopportabile, i quali avendo
esauriti tutti i soccorsi della pazienza e del coraggio, dopo
sessantadue giorni di trincea aperta, non potendo ottenere migliori
condizioni, si arresero a patto di sortire dalla città portando sulle
spalle gli effetti di cui potrebbero caricarsi una sola volta, lasciando
tutto il restante all'armata vittoriosa. Così sortirono in fatto da
Tortona, ma dimagrati e sfiniti in modo, che più gloriosa rendevasi la
lunga resistenza. Presero la strada di Milano, e mentre si scostavano
dalla loro patria, vedevano innalzarsi le fiamme che la
distruggevano[74].

  [74] _Otto Morena, p. 981. — Otto Fris. l. II, c. 20 e 21, p. 718. —
  Abbas Usp. in Chron., p. 283. — Godafr. Viterbiensis in Pantheo.
  pars XVIII, t. VII, p. 464. — Sicardi Ep. Crem. Chron., p. 599, tom.
  VII Rer. Ital._

Qual che si fosse l'infelice fine dell'assedio di Tortona, i
repubblicani lombardi prendevano buon augurio dal vedere che una sola,
ed una delle meno popolose e potenti loro città, avesse fermata due mesi
la marcia della più formidabile armata che il re tedesco potesse
condurre contro di loro, e gli fosse costata più sangue e sudore che ad
Ottone la conquista di tutta l'Italia. Un grandissimo esempio di
costanza e di coraggio era stato dato per la libertà; i Tortonesi ne
erano i martiri, e furono posti sotto la protezione delle repubbliche
per la di cui causa avevano tanto sofferto. Furono ripartiti tra le
famiglie milanesi con cui avevano formati legami di ospitalità, ed i
consoli promisero di rialzare le mura di Tortona tosto che partirebbe
l'armata tedesca.

Mentre questi valorosi fuorusciti colle loro mogli e figli, portando i
miseri avanzi di loro fortune, entravano in Milano tra le acclamazioni
del popolo ammiratore della loro virtù, Federico entrava trionfalmente
in Pavia, ove facevasi coronare nella chiesa di S. Michele presso
all'antico palazzo dei re lombardi[75].

  [75] _Otto Fris. l. II c. 21. p. 718._

Impaziente di associare a quello di re il titolo d'imperatore
s'incamminava ben tosto alla volta di Roma, passando in vicinanza di
Piacenza e di Bologna, ed attraversando la Toscana senza provocare, nè
provare ostacoli.

Papa Eugenio III era morto del 1153; Anastasio IV suo successore non
aveva regnato più di un anno; e quando Federico s'avvicinava a Roma era
salito sulla cattedra di S. Pietro Adriano IV. In questa città viveva da
più anni in pace Arnaldo da Brescia, protetto dal senato, ed applaudito
dal popolo, cui denunciava le ambiziose usurpazioni del clero. In
principio dell'anno, Adriano IV aveva fulminato l'interdetto contro di
Roma[76], che fino al presente non soggiacque mai a così fatto castigo
spirituale; e siccome il popolo incominciava a lagnarsi d'essere,
all'avvicinarsi della Pasqua, privo delle sacre cose, il senato,
consigliandosi colla prudenza, non volle compromettere la pubblica
tranquillità, ponendola in urto colle usanze religiose, e persuase
Arnaldo ad allontanarsi da Roma, condizione richiesta dal papa per
riconciliarsi colla città. Arnaldo si rifugiò presso un gentiluomo della
Campania, aspettando le determinazioni che prenderebbe Federico.

  [76] _Bar. Ann. Ecc. ad ann. 1155, §. 2, 3, e 4. Card. Aragonius in
  Vit. Ad. IV. p. 442. Sc. Rer. Ital T. III. P. 1._

I due partiti forzavansi ugualmente di guadagnarsi il favore del
monarca. Aveva Adriano mandati a riceverlo a S. Quirico tre cardinali, i
quali ottenevano in compenso della promessa della corona imperiale, che
Federico lo ajuterebbe a soggiogare i Romani. Il re per dargli una
caparra della sua protezione fece arrestare il conte Campano che aveva
dato asilo ad Arnaldo, e non lo rilasciò finchè non ebbe consegnato
quell'eloquente nemico de' papi al Prefetto di Roma, magistrato eletto
da Adriano, ed a lui devoto. Il popolo atterrito ugualmente dai fulmini
della Chiesa e dalle minacce dell'esercito Allemanno, non si mosse a
favore dell'apostolo della libertà, dichiarato eretico da un concilio;
ed avanti che i Romani avessero tempo di rinvenire da questa prima
sorpresa, la vendetta papale era compiuta. Il Prefetto teneva il
prigioniero nella sua abitazione in castel s. Angelo; di dove in sul far
del giorno lo fece tradurre alla piazza del Popolo, destinata alle
esecuzioni de' delinquenti. Dal rogo, su cui si fece salire per
abbruciarlo, Arnaldo potè vedere a perdita di vista le tre lunghissime
strade che facevan capo innanzi al patibolo, e che formano quasi la metà
di Roma. Colà, ignorando l'estremo pericolo del loro legislatore,
giacevano ancora immersi nel sonno quegli uomini, che tante volte aveva
chiamati alla libertà. Il fracasso dell'esecuzione, e le fiamme del rogo
risvegliarono i Romani, che si armarono ed accorsero, ma troppo tardi,
per salvarlo. Le coorti del papa rispinsero colle loro lance coloro che
desideravano di raccogliere come preziose reliquie le ceneri
d'Arnaldo[77].

  [77] _Vita ad Pap. — Otto Fris. l. II, c. 21, p. 721._

Dopo tale esecuzione, Adriano accompagnato da' suoi cardinali s'avanzò
fino a Viterbo all'incontro di Federico. Qualunque fosse il bisogno
ch'egli aveva di lui, voleva, in sull'esempio de' suoi predecessori,
ridurre l'imperatore ad umiliarsi innanzi al capo della Chiesa prima
d'essere da lui esaltato. Federico, vedendolo avvicinarsi, non si mosse
per tenergli la staffa ed ajutarlo a discendere dal mulo: tanto bastò
perchè il papa si rifiutasse di dargli e di ricevere il bacio di pace
finchè l'orgoglioso monarca, alle persuasioni de' suoi cortigiani che
avevano veduto Lotario nella medesima circostanza, si piegò a così
umiliante ceremoniale. Si ebbe le destrezza d'assicurarlo che tale
condiscendenza non comprometteva in verun modo la sua dignità, giacche
non al papa, ma all'apostolo da questi rappresentato, riferivasi tale
omaggio[78].

  [78] _Mur. Ant. It. Dis. IV. vol. I, p. 117._

Venti miglia più lontano tra Nepi e Sutri presentaronsi a Federico i
deputati del senato romano. Ottone di Frisinga ci conservò per intero il
discorso che diressero all'imperatore[79]. Rammentarono l'antica gloria
di Roma, che era debito dell'imperatore di ripristinare; parlarono del
dominio che la loro città ebbe lungo tempo di tutto il mondo; dominio
cui poteva ancora aspirare dopo avere scosso l'ingiusto giogo de' preti;
richiedevano da Federico che, prima d'entrare nella loro città, giurasse
di rispettare le costumanze e le antiche leggi di Roma riconfermate coi
loro diplomi da tutti gl'imperatori; finalmente di assicurare i
cittadini dalla licenza dei Barbari, e di pagare cinque mila libbre
d'argento agli ufficiali che, in nome del popolo romano, dovevano
coronarlo in Campidoglio.

  [79] _Otto Fris. l. II, cap. 22._

Quantunque l'orgoglio di Federico fosse rimasto ferito dall'altero
carattere d'Adriano, aveva sagrificato alla dignità della religione, ed
all'età del pontefice l'amor proprio, ma nulla aveva potuto prevenirlo
per l'alterezza del senato romano. Que' sentimenti repubblicani che
combattuti aveva in Lombardia, non gl'ispiravano punto di stima e di
rispetto; onde rispose in tal modo da despota: non essere egli fatto per
ricevere condizioni, ma per darle al popolo: che quando fa il bene de'
suoi sudditi, non segue che gl'impulsi del proprio cuore senz'esservi
obbligato da veruna legge o giuramento. Dopo ciò rimbrottando ai
deputati romani la degenerazione loro dagli antenati, e la debolezza
attuale in confronto dell'antico valore, li rimandò con disprezzo.
Mentre i deputati si ritiravano, li fece inseguire da un corpo di mille
cavalieri che occuparono la città Leonina. È questa una parte di Roma
posta sul monte Vaticano al di là del Tevere intorno alla basilica di s.
Pietro. Era stata fortificata dell'848 da Papa Leone IV, dopo che i
Saraceni avevano spogliata quella basilica, e perciò portava il suo
nome[80]. La città Leonina non comunica colla città principale che per
mezzo di un ponte fabbricato a lato di Castel sant'Angelo[81], il quale
fu preso dai Tedeschi, e barricato. Dopo tali precauzioni Federico ed
Adriano poterono all'indomani entrare senza pericolo e senza incontrar
resistenza in quelle deserte strade, e celebrare la ceremonia
dell'incoronazione in onta de' Romani che, ritenuti al di là delle
barricate, fremevano di sdegno, vedendo che il nuovo imperatore credeva
di non abbisognare dei loro suffragi. Poichè Federico ricevette dalle
mani di Adriano IV nella basilica di S. Pietro la corona d'oro, si
ritirò co' suoi soldati nel campo formato fuori delle mura[82].

  [80] _Anast. Bibl. de vita Leonis IV, p. 240. Sc. Rer. It., t. III._

  [81] Si chiama oggi Ponte S. Angiolo, prima _Pons Aelii Adriani_.

  [82] _Otto Fris. L. II, c. 23, p. 724._

Tosto che i Romani videro levarsi le guardie che difendevano il ponte
sul Tevere, si precipitarono entro la città Leonina, e massacrarono
tutti coloro del seguito dell'imperatore che rimasti erano presso al
Vaticano. All'avviso di questa sommossa popolare, riunì all'istante
Federico i suoi soldati, e si portò nella città Leonina contro gli
ammutinati. La battaglia s'impegnò innanzi a castel sant'Angelo alla
testa del ponte, e tra il Gianicolo ed il fiume presso ad una fonte di
cui ora non rimane verun avanzo: nel primo luogo combattevano gli
abitanti della città, nell'altro i transteverini. Tale era già l'effetto
della disciplina repubblicana, che i Romani sostennero tutto il giorno
lo sforzo dell'armata imperiale benchè composta delle migliori truppe
tedesche. Furono però alla fine respinti, lasciando sul campo di
battaglia mille morti e duecento prigionieri. All'indomani l'imperatore,
che incominciava a mancar di viveri, s'allontanò da Roma col papa e
s'accampò presso Tivoli. Colà celebrò la festa di S. Pietro e Paolo,
nella quale il papa, dopo la messa, assolse tutti i soldati che avevano
massacrate le sue pecore, dichiarando, _non essere delitto il versare il
sangue umano per sostenere il potere de' principi, e vendicare i diritti
dell'impero_[83].

  [83] _Otto Frising. Lib. II, c. 24, p. 725._ — Se l'imperatore aveva
  realmente diritto di sovranità sovra di Roma, non è meraviglia che
  il papa facesse la surriferita dichiarazione. _N. d. T._

Intanto l'avvicinamento della canicola moltiplicava nell'armata le
febbri pestilenziali; onde, per evitare la fatale influenza
dell'eccessivo caldo, Federico condusse le sue truppe nelle montagne del
ducato di Spoleti, la di cui capitale, siccome tutte le altre città
italiane, reggendosi a comune, ebbe la sventura di muover la bile
dell'imperatore. Il fisco pretendeva dalla città di Spoleti un residuo
pagamento di ottocento lire per diritto di fodero, e per questo titolo
veniva imputata d'aver defraudati i diritti reali. Inoltre i consoli di
Spoleti avevano arrestato il conte Guido Guerra, uno de' più potenti
gentiluomini toscani, che, di ritorno da una legazione, voleva
raggiungere l'armata. Federico adunque spinse le sue truppe contro gli
Spoletini, che coraggiosamente affrontarono gli assalitori; ma attaccati
dalla cavalleria tedesca, non ne sostennero l'urto, e fuggirono verso la
città inseguiti dai vincitori, che, entrandovi coi fuggiaschi, la misero
a fuoco prima d'averla interamente spogliata. Due giorni rimasero i
Tedeschi in quelle vicinanze per dividere le spoglie degl'infelici
Spoletini, sottratte alle fiamme[84].

  [84] _Idem. Ibid. p. 726._

I baroni pugliesi ch'eransi rifugiati presso l'imperatore, lo andavano
esortando a portare le sue armi negli stati del re di Sicilia. Ruggeri
il primo dei re normanni era morto a Palermo il 26 febbrajo del 1153 in
età di 56 anni, dopo un regno glorioso, ma in sul finire infelicissimo;
perciò che nell'ultimo anno di sua vita perdette i suoi due maggiori
figliuoli Ruggeri ed Alfonso, le di cui virtù mostravangli degni
successori degli eroi normanni. Guglielmo I, il terzo de' suoi figli,
uomo pusillanime ed incapace di governare, erasi perciò abbandonato alla
direzione di un oscuro cittadino di Bari, chiamato Mago, ch'era stato da
lui nominato cancelliere e grande ammiraglio, per cui aveva indisposta
la nobiltà, e dato occasione ad una sommossa popolare in Puglia[85].
Roberto, principe di Capoa, alla testa degli esuli era entrato nella
Campania, per farla ribellare; e tutte le città gli avevano aperte le
porte, tranne Napoli, Amalfi, Salerno, Troja e Melfi. Emmanuele Comneno,
imperatore di Costantinopoli, faceva nello stesso tempo attaccare da una
flotta Brindisi e Bari, che gli opponevano una leggiere resistenza.
Tutto il regno di qua dal Faro credevasi perduto dal monarca normanno,
se Federico, come ne aveva dato voce, si fosse avanzato per terminarne
la conquista: ma i Tedeschi impazienti di restituirsi alla loro patria,
onde rimettersi dalle fatiche e dalle malattie di così micidiale
campagna, non permisero all'imperatore di prolungare la guerra. Fu
dunque costretto di licenziare la sua armata in Ancona, ove molti de'
signori che l'avevano seguito, s'imbarcarono per Venezia; altri,
attraversando la Lombardia ed il Piemonte, valicarono le Alpi della
Savoja. Federico ch'erasi conservato un considerabile corpo di truppa
passando per la Romagna, il Bolognese ed il Mantovano, si ridusse nel
territorio veronese[86].

  [85] _Romualdi Salernit. Chron. p. 197. t. VII._

  [86] _Otto Frising. l. II, cap. 25._

Era costumanza de' Veronesi di non accordare alle truppe imperiali il
passaggio per la loro città. Per non esservi obbligati usavano perciò di
fabbricare fuori delle mura un ponte sull'Adige. Quando Federico entrò
sul loro territorio cogli avanzi d'un'armata che aveva portato la
desolazione in tutta l'Italia, e che da Asti fino a Spoleti aveva
segnata la sua marcia cogl'incendj e coi massacri, lusingavansi, se
riusciti fossero a dividerli, di distruggerli affatto, e vendicare essi
soli la Lombardia. Il ponte di battelli costrutto al di sopra della
città, era, dice Ottone di Frisinga[87], un laccio teso ai Tedeschi
piuttosto che un ponte, perchè le barche che lo formavano erano legate
soltanto quanto bastava per resistere alla forza della corrente; e
mentre l'armata lo attraversava, enormi masse di legnami, che facevansi
scendere lungo il fiume, dovevano urtarlo e romperlo. Un leggiere errore
di calcolo sul tempo necessario perchè dal luogo in cui venivano posti
nel fiume giungessero i legni fino al ponte, fece andar a vuoto il
progetto. Gl'imperiali avendo affrettata la marcia onde sottrarsi al
furore dei paesani che gl'inseguivano per vendicarsi delle loro rapine,
non solo ebbero tempo di passare il ponte prima che si rompesse, ma lo
avevano di già attraversato molti degl'insorgenti che tenevano lor
dietro, i quali, rimasti poi separati alcuni istanti dai loro patriotti,
furono tutti massacrati. Pure l'imperatore non si trovò abbastanza forte
per vendicarsi di coloro che gli avevano preparata tale insidia; onde
proseguendo il suo viaggio verso le montagne, rientrò in Baviera per
Trento e Bolzano un anno dopo la sua partenza.

  [87] _De Gestis Frid. I, l. II, c. 26._



CAPITOLO IX.

      _Continuazione della guerra di Federico Barbarossa colle città
      lombarde. — Primo assedio di Milano; assedio di Crema; presa e
      rovina di Milano._

1155 = 1162.


I consoli milanesi non avevano aspettato che Federico licenziasse le sue
truppe per mandare ad effetto le promesse fatte agli abitanti di
Tortona. Quando aveva di poco abbandonato Pavia per recarsi a Roma, essi
presentarono al popolo quegl'infelici fuorusciti, vittime onorate del
loro attaccamento alla causa della libertà lombarda, ed ottennero dal
parlamento, o consiglio generale, il decreto per rifabbricar Tortona a
spese del pubblico. Il tesoro era esausto, ma i cittadini erano avvezzi
a soccorrerlo. Coloro che non potevano dar danaro, offrivano le loro
braccia allo stato. Gli abitanti di due porte della città, che ne
formavano il terzo, furono incaricati di tale spedizione. Gentiluomini e
plebei, cavalieri e pedoni, tutti partirono assieme, e nello spazio di
tre settimane in cui rimasero a Tortona, a vicenda soldati e muratori,
respinsero i Pavesi che volevano impedire il rifacimento della città, e
nel medesimo tempo rialzarono le mura e le rovinate case[88]. Alle porte
Ticinese e Vercellina furono surrogate la Renza e la Romana; e mentre
toccava a quest'ultima la guardia, i Milanesi accantonati nel sobborgo
di Tortona, furono sorpresi dalle milizie di Pavia, e costretti di
salvarsi nella città alta, abbandonando la maggior parte dei loro
effetti e munizioni. Altri rifugiaronsi nella chiesa mentre i loro
fratelli d'armi rispingevano dalle mura non ancora ultimate gli
assalitori. Dopo la battaglia i consoli fecero scrivere sulla porta
della medesima chiesa i nomi di coloro che disperando della salute
pubblica vi avevano cercato un rifugio con dispendio del proprio
onore[89].

  [88] _Otto Mor. Hist. Ver. Land. p. 983. — Trist. Calchi Hist.
  Patriæ l. VIII, p. 223._

  [89] _Sire Raul de Gest. Frid. I, p. 1176._

I Milanesi non si limitarono a ristabilire Tortona, ed a richiamarvi i
loro abitanti, ma si disposero inoltre a punire coloro che, comunque
ugualmente interessati alla libertà d'Italia, eransi uniti
all'oppressore di quella. Essi ristabilirono e fortificarono il ponte
sul Ticino presso Abbiategrasso, che era stato abbruciato da Federico:
per il qual ponte, aprendo loro i territorj della Lomellina e di
Vigevano da loro sottomesse, potevano, quando gli piaceva, attaccare i
paesi del Pavese, del Novarese, del Monferrato. E per tal modo,
minacciando ad un tempo tutti i loro nemici, seppero approfittare di
così eccellente posizione per costringere i Pavesi ad una pace
umiliante, per battere il marchese di Monferrato, per impadronirsi di
molti castelli del Novarese, e ristabilire interamente la riputazione
delle loro armi, che dalle vittorie di Federico parevano messe in
fondo[90].

  [90] _Carol. Sigon. de Regn. It. l. XII, p. 293. — Sire Raul p.
  1179. — Trist. Calch. l. VIII, p. 225._

Nel tempo medesimo all'altra estremità del territorio erano entrati
nella vallata di Lugano ed avevano occupati circa venti castelli che
seguirono la parte imperiale. Avevano ristabiliti e fortificati i ponti
sull'Adda, fugati i Cremonesi che venivano ad attaccarli, ed assicurata
la subordinazione de' Lodigiani, di cui diffidavano con ragione[91].

  [91] _Ibid._

Dopo la guerra disastrosa che loro aveva fatta Federico, chi avrebbe
creduto che le loro armi potessero trionfare in ogni lato della
Lombardia, ed i loro consoli impiegare cinquanta mila marche d'argento
nel fortificare la città ed i castelli dello stato?

L'energia dei Milanesi si comunicò ancora agli altri popoli attaccati
alla causa della libertà. I Bresciani ed i Piacentini resero più intima
l'antica alleanza, ed accrebbero le difese delle loro città. Tutta la
Lombardia prese contro i Tedeschi un aspetto imponente, e Federico non
tardò ad accorgersi che lungi dall'avere assicurata sul suo capo la
corona d'Italia, non aveva la sua prima discesa ad altro giovato che a
renderlo più odioso, e meno rispettato de' suoi predecessori.

Il mezzogiorno d'Italia era stato il teatro di traversie ancora più
umilianti. Il principe Roberto di Capoa tradito dal suo vassallo
Riccardo dall'Aquila, conte di Fondi, era stato dato in mano di
Guglielmo re di Sicilia, che, dopo averlo barbaramente privato della
vista, lo aveva fatto perire nelle prigioni di Palermo[92]. I Greci che
sostenevano il suo partito, ed erano alleati dell'imperatore d'Occidente
e del papa, furono battuti a Brindisi[93], e quasi tutti i baroni
ribelli della Puglia presi e mandati al supplizio, o posti in ferri: per
ultimo papa Adriano, spaventato dai prosperi successi d'un nemico così
vicino e tanto potente, aveva fatto pace con Guglielmo, ed abbandonati
alla sgraziata loro sorte tutti coloro che per suo ordine, e per i suoi
vantaggi, eransi esposti a tanti travagli e pericoli[94]. Accordò al re
Guglielmo l'investitura della Sicilia, del ducato di Puglia, del contado
di Capoa, di Napoli, di Salerno, d'Amalfi, e della Marca. Il trattato
venne segnato a Benevento nella state del 1156, meno d'un anno dopo che
Federico aveva ricevuto la corona imperiale a Roma dalle mani del
papa[95].

  [92] _Romualdi Salernit. Chronicon p. 198._

  [93] _Willelmus Tyrius l. XVIII, c. 8. p. 937, Gesta Dei per
  Francos._

  [94] _Baronius Annales an. 1166, § 1._

  [95] _Ibid. § 4.-9._

Questo monarca doveva bensì prevedere che il Pontefice dopo una pace,
forzatamente fatta, conserverebbe qualche riconoscenza per il principe
che lo aveva protetto; ma non già che Adriano, dopo essersi riconciliato
col re normanno, non meno potente alleato, che temuto nemico,
cercherebbe pretesti di umiliarlo. Alcuni signori tedeschi avendo
arrestato un arcivescovo di Svevia, il papa scrisse all'imperatore per
ottenere giustizia dell'oltraggio fatto alla Chiesa. In questa lettera
egli spiegava tutto l'orgoglio d'un successore d'Ildebrando avvezzo a
creare e deporre i re. I suoi nunzj presentandosi a Federico nella dieta
di Bezanzone, tennero un contegno che annunciava le pretese e
l'alterigia della corte papale. «Il beatissimo papa Adriano vostro padre
e nostro, ed i cardinali vostri fratelli, vi salutano,» dissero costoro:
indi lessero le lettere di cui erano apportatori, nelle quali fu
principalmente notata la seguente frase: «Noi ti abbiamo accordata la
corona imperiale e tutta la pienezza delle dignità mondane, nè avremmo
avuto difficoltà di accordarti altri maggiori beneficj se potevan
esservene di maggiori[96].» Così superbe parole eccitarono
maravigliosamente lo sdegno dell'altero monarca; più fortemente
inasprito dall'equivoco vocabolo di beneficio, _beneficium_, che usavasi
per indicare i feudi, o _beneficj conferiti_ dal signore, _Suserain_;
dimodochè il papa attribuivasi in alcun modo la supremazia sopra la
corona imperiale. Tutti i signori tedeschi presenti alla dieta
parteciparono del risentimento di Federico; onde senza degnarsi di
rispondere al papa, fu ordinato ai legati di sortire all'istante dal
regno di Germania.

  [96] _Radevicus Frisingensis, Appendix ad Ottonem de rebus gestis
  Friderici I. l. I, cap. 8. tom. VI. Rer. Ital._ Radevico fu canonico
  di Frisinga che continuò l'istoria incominciata dal suo vescovo
  Ottone. Noi siamo per congedarci da costui che pure è uno de' più
  eleganti storici, illuminati ed imparziali de' mezzi tempi. Ottone
  di Frisinga aveva sortiti illustri natali, essendo figliuolo di
  Leopoldo marchese d'Austria e di Agnese sorella dell'imperatore
  Enrico V: era fratello di Corrado III, re dei Romani, e zio di
  Federico Barbarossa. Ci rimangono di lui due opere: una cronaca dal
  principio del mondo fino a' suoi tempi pubblicata a Basilea in fog.
  nel 1569, da Pitteo, divisa in otto libri. Noi abbiamo più volte
  citato il settimo, che contiene il secolo precedente al suo.
  L'ottavo è consacrato alla storia religiosa. L'altra sua opera è
  ancora più interessante, contenendo il racconto della prima discesa
  di Federico in Italia, ed è divisa in due libri. Fu pubblicato nel
  t. VI, Rer. Ital. Ottone morì del 1158. Benchè il suo continuatore
  Radevico non sia senza merito, non compensa la perdita d'Ottone, che
  è quasi il solo autore che sparga qualche luce sopra un secolo
  barbaro ed oscuro.

L'imperatore sentiva la necessità di tornare quanto prima potesse in
Italia, e nella primavera del 1157 invitava tutti i principi a recarsi
alla dieta d'Ulma coi loro vassalli per la festa di pentecoste del
susseguente anno 1158, a fine di passare di là in Italia, onde forzare i
Milanesi a sottomettersi all'Impero[97]. Furono in pari tempo mandati
deputati ai feudatari d'Italia per annunciar loro questa spedizione[98].

  [97] _Otto Fris. l. II, c. 31._

  [98] _Radevic. Fris. l. I, c. 19._

S'avvide allora il papa che Federico non era in modo lontano, che non
fosse più a temersi. Aveva già cercato di farsi favorevole il clero di
Germania, ma non aveva potuto staccarlo dagl'interessi dell'Impero:
(1158) scrisse quindi all'imperatore del 1158, e frammischiando
accortamente le più lusinghiere espressioni ai sentimenti di tenerezza e
di paterna affezione, spiegava la frase che aveva più adombrato quel
sovrano: «_beneficium_, scriveva, è un favore, e non un beneficio:
_conferire_ la corona non altro significa che l'averla posta sul vostro
capo: altro senso non venne da noi attaccato a questo vocabolo, ed in
tale occasione voi medesimo non potete negare che non abbiamo operato
verso di voi con amore.» Tale lettera calmò l'imperatore, che
riscontrandolo, assicurò il papa della sua amicizia e del desiderio che
nutriva di conservarsi amico della Chiesa[99].

  [99] _Radev. Frisin. l. I, c. 22._

Intanto, all'avvicinarsi della Pasqua, la città di Ulma si andava
riempiendo di soldati, di modo che molti principi tedeschi, vedendo che
l'armata sarebbe troppo numerosa per tenere la stessa strada,
s'incamminarono di consenso dell'imperatore per diversi passaggi delle
Alpi, sicchè dal Friuli fino al grande s. Bernardo uscivano in Lombardia
da tutte le valli battaglioni tedeschi. Il duca d'Austria, quello di
Carinzia e gli Ungaresi tennero le strade di Canale, del Friuli e della
marca veronese; il duca di Zevingen valicò il s. Bernardo coi Lorenesi
ed i Borgognoni; gli abitanti della Franconia e della Svevia passarono
per Chiavenna e per il lago di Como; finalmente lo stesso Federico,
accompagnato dal re di Boemia, da Federico duca di Svevia e figliuolo di
Corrado, dal fratello di questo duca Corrado, conte palatino del Reno, e
dal fiore della nobiltà tedesca, discese in Italia per la valle
dell'Adige[100].

  [100] _Idem cap. 25._

I Milanesi informati dell'avvicinamento di quest'armata, destinata a
soggiogarli, avevano tutto disposto per una vigorosa resistenza. Avevano
in particolare cercato d'assicurarsi della fedeltà e dell'ubbidienza de'
Lodigiani, di cui avevano ragione di temere. Le precauzioni prese a tale
oggetto sono una luminosa prova della buona fede degl'Italiani nel
dodicesimo secolo. Non chiesero ostaggi, nè posero guernigioni nei loro
castelli, ma andati a Lodi i consoli di Milano nel mese di gennajo,
chiesero che tutti gli abitanti del distretto, senza eccezione,
giurassero di ubbidire in ogni cosa agli ordini del comune di Milano. I
Lodigiani che avevano nel loro cuore stabilito di sottrarsi a quella
città, non vollero giammai prestare un giuramento che ne avrebbe loro
tolti i mezzi; si lagnarono che nella formola del giuramento non era
espressa la condizione, _salva la fedeltà dovuta all'imperatore_, lo che
essi ritenevano necessario per la tranquillità della loro coscienza,
essendo da precedente giuramento legati a questo monarca[101]. I consoli
per ridurli all'ubbidienza marciarono contro di loro alla testa delle
milizie milanesi, e gli tolsero i loro mobili, senza che questi
opponessero la più piccola resistenza. Passati due giorni, ultimo
termine loro accordato, i Milanesi presentaronsi di nuovo innanzi alle
borgate di Lodi; ma tutti gli abitanti, uomini, donne, fanciulli,
avevano abbandonate le proprie case, ed eransi rifugiati a
Pizzighettone. I Milanesi, dopo averle saccheggiate, le
incendiarono[102].

  [101] _Otto Morena Hist. Laud. p. 995._

  [102] _Ibid._

Benchè travagliati da questa guerra civile nell'istante della più
pericolosa invasione, i Milanesi non si scoraggiarono. Essi
ripromettevansi assai de' loro alleati i Bresciani, e sperarono che
avrebbero lungo tempo trattenuti i nemici. Furono infatti attaccati
dall'armata imperiale ne' primi giorni di luglio, ma dopo aver resistito
quindici giorni, spaventati dall'imminente loro pericolo, offrirono
ostaggi ed una grossa somma di danaro per prezzo della pace[103].

  [103] _Radev. Frigius. l. I, c. 25._

Federico in mezzo al proprio campo tenne sul loro territorio una specie
di dieta, in cui proclamò un regolamento intorno alla disciplina
militare, il quale, non meno de' fatti storici, può farci conoscere la
maniera con cui di que' tempi si guerreggiava, ed i costumi del secolo
dodicesimo. Tale regolamento fu chiamato _la pace del principe_, perchè
destinato a prevenire le querele nel campo.

Per impedire le battaglie private, conviene offrire un mezzo di
reprimere e punire legalmente le ingiurie; e questo infatti è lo scopo
del primo articolo del regolamento, che proporzionando la pena alla
qualità dell'insulto, sulla deposizione di due testimoni non parenti
dell'istante, ordina, a seconda dei casi, la confisca dell'equipaggio,
il castigo delle verghe, il taglio de' capelli e della scottatura della
mascella, infine per gli omicidj, della morte. Ma in mancanza di
testimoni dovevano le cause d'ingiurie essere decise da un combattimento
giudiziario; oppure, se due schiavi avevano parte nel processo, colla
prova del ferro caldo.

Alcuni altri articoli sono destinati a proteggere i popoli ne' di cui
territorj l'imperatore aveva destinato di condurre l'armata. «Che il
soldato che spoglia un mercante, sarà obbligato di restituire il doppio,
e di giurare che ignorava che il derubato fosse mercante:» onde pare che
la mercatura fosse particolarmente protetta. «Quello che abbrucerà una
casa in città o in campagna, sarà battuto colle verghe, tosato e
scottato alla mascella. Colui che troverà vasi pieni di vino, non li
romperà nè taglierà i cerchi della botte, e si contenterà di prendere il
vino. Quando l'armata s'impadronirà d'un castello, i soldati porteranno
via tutto quanto vi si trova, ma non lo abbruceranno senz'ordine del
maresciallo. Quando un Tedesco avrà ferito un Italiano, se questi potrà
provare con due testimoni d'aver giurata la pace, il Tedesco sarà
castigato.» I ventiquattro articoli ond'è composto questo regolamento,
presentano tutti l'impronta dell'indisciplina e della barbarie; e se fu
noto ai Lombardi, non dovette ispirar loro troppa fiducia nell'armata
ch'entrava in paese[104].

  [104] Tale regolamento viene riferito per intero da Radevico, lib.
  I, c. 26. Un Tedesco contemporaneo, e suddito di Federico, chiamato
  Guntero, fece un poema di 12 canti dei quattro libri d'Ottone di
  Frisinga, e del continuatore Radevico. Gli ha quasi sempre
  servilmente parafrasati ne' suoi versi, che pure sono i meno cattivi
  dei poeti storici di questo secolo. Egli tradusse perfino questo
  regolamento, lib. VII, p. 101, ciò che forma una strana sorte di
  poesia. Il suo _Ligurinus_ si stampò in Basilea del 1569 in seguito
  alla storia di Ottone di Frisinga per cura di Pitteo.

Nella stessa dieta furono citati i Milanesi a comparire per
giustificarsi della loro ribellione; i quali non avendo scosso ancora in
modo il giogo dell'Impero da non riconoscere certa tal quale
subordinazione al suo capo, ubbidirono alla citazione. I loro deputati,
dopo aver giustificata la condotta dei Milanesi, offrirono per taglia
una ragguardevole somma di danaro, che fu dall'imperatore rifiutata. La
dieta li dichiarò nemici dell'Impero, e l'armata ebbe ordine di
prepararsi all'assedio di Milano. I Milanesi avevano posti mille cavalli
al ponte di Cassano, il solo che avevano lasciato sull'Adda, che,
ingrossata dallo scioglimento delle nevi, sembrava sufficiente a
difendere il loro territorio, come l'aveva altre volte difeso contro le
incursioni de' Cremonesi. Ma il re boemo, scendendo lungo l'Adda fino a
Carnaliano, ove il fiume è più largo, lanciossi in acqua alla testa
della sua cavalleria, ed ora guadando, ora nuotando giugne all'opposta
riva perdendo in questo tragitto duecento uomini sopraffatti dalla
corrente[105]. Alcuni distaccamenti di Milanesi che marciavano lungo il
fiume incontrarono il re di Boemia che si avanzava verso Cassano.
Diedero questi il segno d'allarme alla cavalleria destinata alla difesa
del ponte, e che, trovandosi esposta ad essere presa alle spalle, non
poteva senza pericolo restare in quella posizione: onde ripiegò subito
verso Milano lontano poco più di dodici miglia dal fiume; e gli abitanti
della campagna, sentendo che i nemici erano penetrati nel loro
territorio, s'affrettarono di ripararsi entro le mura della città,
cacciandosi avanti i loro bestiami, e trasportando i più preziosi
effetti: e, come suole accadere, per iscusare la loro paura, esagerando
il numero de' nemici, accrebbero quella de' loro concittadini.

  [105] _Otto Morena, p. 1007. — Sire Raul, p. 1180. — Radevic.
  Frising. l. I, c. 29. — Gunterus in Ligurino, l. VII, p. 105._

Poi ch'ebbe passato il ponte di Cassano col rimanente dell'armata,
Federico, invece d'avanzarsi sopra Milano, attaccò e prese il castello
di Trezzo, indi quello di Melegnano, poi andò fino al fiume Lambro sulle
di cui rive era posta l'antica città di Lodi. Mentre stava accampato su
quelle rovine, i Lodigiani, che forzati ad abbandonare l'incenerita loro
patria, eransi rifugiati a Pizzighettone, si presentarono a lui,
portando delle croci in mano, siccome costumavano dì fare i
supplichevoli, e chiedendo un nuovo ricinto per fabbricarvi la loro
città distrutta dai Milanesi. Federico accordò loro quello di
Monteghezzone in riva all'Adda quattro miglia distante dalle ruine
dell'antica Lodi; e su questo rialto, che alquanto signoreggia il piano,
fece porre in sua presenza la prima pietra della città che tuttora
sussiste[106].

  [106] _Otto Morena, p. 1009. — Joh. Bapt. Villanovæ, Laudis Pomp.
  hist. ap. Grœvium, t. III, lib. II, p. 863._

Intanto eransi recati al campo imperiale quasi tutti i feudatarj
italiani, e le milizie della maggior parte delle città; onde trovavansi
colà riuniti più di quindici mila cavalli, e cento mila pedoni. Un
gentiluomo tedesco, lusingandosi che i Milanesi, spaventati da tanto
esercito, non oserebbero uscire dalle loro mura, partì da Lodi con circa
mille cavalli per segnalarsi con uno strepitoso fatto d'armi, insultando
i nemici dell'imperatore fino sulle loro porte; ma fu ricevuto in modo
dalle milizie milanesi, che, dopo un ostinato combattimento, rimase sul
campo di battaglia egli e quasi tutti i suoi soldati[107].

  [107] _Radev. Frising. l. I, c. 31._

Due giorni dopo tale fatto d'armi, il sei o l'otto agosto, come alcuni
vogliono, l'imperatore andò ad accamparsi nel _Broglio_ di Milano
situato fuori di P. Romana[108]. Immenso essendo il circondario delle
mura, fortificate esternamente da larga fossa piena d'acqua[109],
conobbe Federico che non era possibile d'attaccar la città col montone,
le torri mobili, ed altri ingegni militari, che impiegavansi allora
negli assedj, e credette più prudente cosa di aspettare che l'immensa
popolazione di Milano venisse dalla fame costretta ad arrendersi; lo che
doveva accadere tra non molto, perchè que' cittadini, credendo
impossibile il chiuderli da ogni banda, non avevan fatti grandissimi
approvvigionamenti. Perciò l'imperatore divise l'armata in sette corpi
che pose innanzi alle porte, ordinando loro di coprirsi subito colle
trincee.

  [108] _Idem l. I, c. 32. — Sire Raul, p. 1180._

  [109] Radevico dice che la città aveva cento stadj di circuito.
  Questa misura greca ugualmente straniera allo storico tedesco ed
  agli assediati, non ci dà che un'idea assai inesatta. Le mura
  presenti hanno circa sei mila tese di lunghezza.

Quello di questi corpi che più difficilmente poteva comunicare cogli
altri, era capitanato dal conte Palatino del Reno e dal duca di Svevia.
I Milanesi non tardarono ad accorgersi ch'era quasi isolato, ed avendolo
attaccato la prima notte, lo posero in disordine. Ma il re boemo,
accorso in ajuto de' suoi alleati, forzò i Milanesi a ritirarsi con
perdita. Pochi giorni dopo gli assediati attaccarono il corpo comandato
da Enrico duca d'Austria, ma furono ugualmente respinti.

A due o trecento passi fuori della P. Romana eravi un antico monumento
chiamato l'Arco de' Romani; quattro arcate massicce di marmo formavano
una specie di portico[110], al di sopra del quale ergevasi un'altissima
torre ugualmente di marmo. Quaranta soldati milanesi eransi in questa
rinchiusi, i quali, quantunque non avessero comunicazione colla città,
vi sostennero otto giorni d'assedio, finchè i Tedeschi essendosi
appostati sotto il portico medesimo, ov'erano al sicuro dalle frecce e
dalle pietre che si gittavano dall'alto, ruppero la volta dell'edificio
e forzarono gli assediati ad arrendersi[111]. Federico fece porre sulla
sommità di questa torre una petriera che, signoreggiando le mura della
città, faceva grandissimo danno agli assediati.

  [110] Eranvi altravolta in tutte le piazze di Roma, e probabilmente
  in tutte le colonie romane, di tali portici chiamati _archi di
  Giano_, destinati a difendere i mercanti dal sole e dalla pioggia.
  L'arco di Giano quadriforme nel Velabro di Roma è il solo che siasi
  conservato fino ai nostri giorni. La torre posta sull'uno e
  sull'altro erano opere posteriori de' tempi barbari.

  [111] _Rad. Fris. l. I, c. 38. — Otto Morena, p. 1013._

D'altra parte i Milanesi, in alcune scaramucce di non molta importanza,
sorpresero i Tedeschi, e tolsero loro sì grande quantità di cavalli che
vendevasi cadauno per quattro soldi di terzuoli[112]; ma non ebbero
ulteriori vantaggi. Fino dal cominciare della guerra provarono la
fortuna contraria, e tutto loro riusciva male: nè solamente erano stati
abbandonati dai loro alleati, ma li vedevano servire nel campo nemico. I
Cremonesi ed i Pavesi abusavano del favore imperiale per rovinare le
campagne, estirpando e bruciando i vigneti, i fichi, gli ulivi[113];
atterravano le case, scannavano i prigionieri; e per dirlo in una
parola, facevano la guerra con quella feroce barbarie cui s'abbandonano
spesso i deboli esacerbati da lunga oppressione, ed inebriati dalla
presente prosperità[114]. I Milanesi miravano dall'alto delle mura la
rovina delle loro campagne, e soffrivano nell'interno la fame e la
mortalità; e molti del popolo che risguardavano siccome un sacro dovere
l'ubbidienza all'imperatore, attribuivano alla vendetta del cielo
queste, per essi, nuove calamità. Altri, e specialmente la gioventù,
mostravano maggior costanza; e nelle loro assemblee obbligavansi gli uni
verso gli altri a sacrificare la vita per la salvezza della patria, e
per l'onore della città.

  [112] Tre franchi. Le monete de' tempi d'Ottone erano state alterate
  assai: Federico le ristabilì. Il suo danaro d'argento pesava un
  danaro ed un grano; ma lasciò ugualmente in corso il danaro di
  terzuolo pesante 18 grani con un terzo di fino e due di rame. Venti
  di questi grani formavano il soldo in discorso. Devo al conte Luigi
  Castiglione di Milano, ed alla sua ricca collezione di monete
  milanesi, tutte le mie teorie intorno alla storia monetaria di
  Lombardia, che gli antiquarj hanno lasciata nella più profonda
  oscurità.

  [113] Forse alcuno l'avrà scritto, ma non so che nemmeno a que'
  tempi potessero provare gli ulivi presso Milano. _N. d. T._

  [114] _Radev. Frising. L. II, c. 39._

Mentre i cittadini divisi di sentimento rimanevano indecisi sul partito
da prendersi, il conte di Biandrate, il principale e più potente
gentiluomo di Milano, aveva saputo acquistarsi la confidenza dei due
opposti partiti, e, senza perdere il favore popolare, conservare il suo
credito alla corte. Poi ch'ebbe scandagliato l'animo dell'imperatore,
chiese ed ottenne dai consoli di adunare il popolo nella piazza
pubblica. Allora rammentando ai suoi concittadini quanto aveva fatto
egli medesimo per difesa della patria, ed il suo conosciuto attaccamento
alla causa della libertà, il più grande dei beni, il solo per cui
s'acquisti gloria combattendo, gli scongiurò a non prolungare una
resistenza che omai non lasciava veruna speranza di felice fine, di
cedere, non alle armi, ma alla fame, alla peste, più assai terribili
nemici di Federico; di cedere a coloro cui i loro antenati non avevano
sdegnato di sottomettersi, avendo malgrado il valore e la virtù loro
ubbidito ai re transalpini, a Carlo Magno, al grande Ottone; di cedere
perchè instabile è la fortuna, onde conservando illesa la loro patria
potevano pure sperare di vederla un giorno ricuperare l'antico suo
splendore[115].

  [115] _Rad. Fris. t. I, c. 40 — Ligur. l. VIII, p. 114._

Ai Lombardi mancava quella ferma confidenza nel destino della loro
repubblica, che avevano gli antichi Romani; quella impossibilità di
concepire altra esistenza fuori dell'indipendenza e della libertà;
quella forza d'animo che si ostina contro le sventure per un sentimento
superiore al freddo calcolo dei vantaggi e dei pericoli. La repubblica
era ancora giovane, e la ricordanza della passata dipendenza indeboliva
l'energia de' cittadini; le loro istituzioni non erano proprie a
sostenere e formare le virtù pubbliche; e non andavano debitori del
valor loro, qual che si fosse, che alla natura ed alla libertà, non
all'avvedutezza dei legislatori. Essi cedettero alle persuasioni del
conte, e spedirono deputati a Federico, il quale accordò loro tali
vantaggiose condizioni cui ben potevano sottoporvisi senza vergogna:
obbligavansi i Milanesi di rendere la libertà a Como ed a Lodi, a
giurare fedeltà all'imperatore, a fabbricargli un palazzo a spese del
Comune, a pagargli in tre termini entro un anno nove mila marche
d'argento, per guarentire la quale somma dovevano dare alcuni ostaggi;
finalmente a rinunciare ai diritti reali ch'essi possedevano.
L'imperatore dal suo canto prometteva che, tre giorni dopo aver ricevuti
gli ostaggi, allontanerebbe l'armata dalle mura di Milano, senza
permettergliene l'ingresso. Venivan compresi nel trattato gli alleati di
Milano, i Tortonesi, i Cremaschi, e gl'Isolani del Lago di Como,
sanzionando colla sua autorità la continuazione della loro alleanza, e
permettendo ai Milanesi l'elezione dei Consoli nella pubblica assemblea
del popolo, a condizione che gli eletti gli giurassero fedeltà, e che
altri deputati si presenterebbero a lui nelle seguenti calende di
febbrajo a rinnovare il giuramento de' Consoli. Per ultimo offerse la
sua mediazione per trattar la pace tra Milano ed i suoi alleati da un
lato, e dall'altra parte le città di Cremona, Pavia, Novara, Como, Lodi
e Vercelli, con patto che fossero dalle due parti rilasciati i
prigionieri: sul quale ultimo articolo acconsentì che nel caso che non
potessero aver felice esito le trattative di pace, gl'Italiani potessero
ritenere i rispettivi prigionieri, senza ch'egli avesse diritto di
lagnarsene[116].

  [116] Questo trattato viene fedelmente riportato da Radevico
  Frisingense. _L. II, c. 41._

Ben lungi che la costituzione repubblicana di Milano e delle altre città
dipendenti dall'alta signoria dell'Impero fosse riconosciuta dalle
leggi, queste città non aspiravano nemmeno apertamente all'indipendenza,
ritenendo che il giuramento di fedeltà all'imperatore era una formalità
di obbligo, e che per antico costume dovevasi pagare al medesimo una
somma di danaro qualunque volta veniva in Italia; onde la tassa di nove
mila marche imposta in quest'occasione ai Milanesi non doveva sembrar
loro esorbitante. La liberazione di Lodi e di Como era il solo articolo
oneroso di questo trattato, sembrando gli altri convenuti tra uguali
potentati[117]; di modo che il trattato smentisce in parte il racconto
degli storici imperiali, i quali mostrano Federico in quest'impresa
sempre accompagnato dalla vittoria. Se i successi non fossero stati
compensati dalle perdite non è supponibile che i Milanesi avessero
potuto ottenere così vantaggiose condizioni. Ma in tutto questo periodo
non possono consultarsi che scrittori parziali di Federico[118].

  [117] Il preambolo di questo trattato non ricorda nè l'umiliazione
  dei Milanesi d'implorare perdono, nè la clemenza dell'imperatore di
  accordarla. Niente ritrovasi nella sua forma che sia più duro delle
  condizioni. Comincia con semplicità in tal modo. «In nomine Domini
  nostri Jesu Christi, haec est conventio per quam Mediolanenses in
  gratiam imperatoris redituri sunt et permansuri.»

  [118] Le nostre guide in questa parte di Storia fino alla conquista
  di Milano sono tre scrittori contemporanei. Radevico Canonico di
  Frisinga di cui ho già parlato, è il primo. Allievo di Ottone di
  Frisinga di cui ne continuò la storia, adotta i suoi pregiudizj di
  famiglia, ed è come il maestro, appassionato ammiratore di Federico
  cui dedicò la sua Storia, cercando ad ogni modo di dar risalto alla
  sua gloria, a spese de' suoi nemici. Pure non era insensibile
  all'entusiasmo della libertà, e siccome d'ordinario riporta
  estesamente gli atti originali, la verità traspira dalla sua
  narrazione ancora quando non è favorevole al suo Eroe. Il secondo è
  Ottone Morena: magistrato lodigiano, ed impiegato da Federico
  nell'ufficio di giudice, scrisse una storia de' suoi tempi,
  intitolata _Historia rerum laudensium_ assai voluminosa, ed
  abbondante di curiose particolarità, ma marcata dell'impronta di
  quella servilità che io rimprovero ai legisti italiani, e piena
  d'invettive contro Milano. Abbiamo finalmente uno storico milanese
  Sire Raul, o Rodolfo milanese, la di cui storia di Federico I sempre
  abbreviatissima, e probabilmente interpolata in più luoghi,
  c'istruisce assai più delle passioni de' Lombardi, che de' fatti.
  Qualunque ella siasi, ci è pertanto preziosa, perchè Rodolfo è il
  solo scrittore repubblicano di questo mezzo secolo, di cui siasi
  conservata l'opera, col di cui sussidio si possano rettificare gli
  esagerati racconti degli scrittori del contrario partito. Lessi
  pure, ma con pochissimo profitto, due scrittori tedeschi
  contemporanei _Otto de Sancto Biasio_, ed _Abbas Uspergensis
  Chronicon_.

Tale convenzione fu sottoscritta il giorno 7 di settembre, e non molto
dopo l'imperatore si trasferì a Roncaglia per presiedere la dieta del
regno d'Italia, alla quale intervennero ventitrè tra arcivescovi e
vescovi delle principali diocesi, molti principi, duchi, marchesi, e
conti, i consoli ed i giudici di tutte le città. L'imperatore aveva con
lui quattro legisti bolognesi, discepoli di Guarnieri, che in sul
cominciar del secolo aveva introdotto nello studio di Bologna la scuola
di giurisprudenza.

In niuna precedente dieta italiana eransi, come nella presente, vilipesi
i diritti del popolo. L'arcivescovo di Milano in un discorso di
consuetudine, rispondendo a quello pronunciato da Federico, diede il
primo esempio di vile adulazione. I vescovi che due secoli prima,
dominando le città, erano così caldi per l'indipendenza, furono i
principali nemici della libertà dei popoli, dopo che le città ebbero
scosso il giogo vescovile. «Spetta a voi (diceva il prelato milanese a
Federico) spetta a voi a statuire intorno alle leggi, alla giustizia, ed
all'onore dell'Impero; sappiate che vi fu accordato pieno diritto sui
popoli per istabilire novelle leggi, e che la vostra volontà sola è la
regola della giustizia: una lettera, una sentenza, un editto da voi
emanati, diventano all'istante leggi del popolo. E per verità, non è
forse doveroso, che il lavoro abbia la sua ricompensa? che colui che ha
l'incarico di proteggerci, goda invece le dolcezze del comando[119]?»

  [119] _Rad. Fris. lib. II, c. 4. p. 786. — Gunther. Ligurinus, l.
  XVIII, p. 124._

Tale press'a poco era il linguaggio de' legisti, approvando tutto quanto
di basso e di vile si contiene nella giurisprudenza de' romani
imperatori; accostumati a risguardare i libri di Giustiniano come la
ragione scritta, e non altro conoscendo delle cose romane, che i suoi
padroni, univano le massime del dispotismo all'amore che professavano
alla loro scienza, da cui riconoscevano la propria riputazione e la loro
gloria. I legisti infatti fino alla fine delle repubbliche italiane
ebbero sempre opinioni poco liberali.

Federico fece rivendicare dai suoi giureconsulti in faccia alla dieta i
reali diritti di cui erasi a poco a poco spogliata la sua corona. Le
prerogative imperiali riclamate da un principe vittorioso, alla testa di
una potente armata, furono spiegate e difese con tutte le sottigliezze
scolastiche e legali. I proprietari dei diritti signorili scoraggiati
dalle nuove opinioni del clero, e trovandosi ugualmente incapaci di far
fronte agli argomenti de' dottori bolognesi ed alle armi tedesche,
s'appigliarono al partito di rassegnare tutti i loro privilegi al
monarca. La dieta dichiarò che le _regalie_ spettavano a lui solo, e che
sotto il nome di regalia erano compresi i ducati, i marchesati, le
contee, il diritto di coniar monete, i pedaggi, il diritto del _fodero_,
ossia, approvvigionamento, i tributi, i porti, i mulini, le pesche, e
tutti i redditi provenienti dai fiumi. Per ultimo aggiunse a tutto
questo che i sudditi dell'Impero dovevano pagare un testatico al suo
capo[120].

  [120] _Otto Mor., p. 1019. — Radev. Fris., l. II, c. 7._

Per altro Federico non fece uso di così vaste concessioni, nè forse era
prudente il farlo. Confermò a tutti i diritti di cui erano possessori,
mercè un'annua corresponsione indicante l'alta signoria dell'Impero. E
per tal modo con apparente generosità aggiunse trenta mila talenti, dice
Radevico, che non suole impiegare che frasi classiche, all'entrate
dell'Impero. Furono verosimilmente trenta mila marche, o trenta mila
libbre d'argento, trovandosi queste valutazioni impiegate negli editti
della stessa epoca.

La medesima Dieta dichiarò pure di pertinenza dell'imperatore la nomina
dei consoli e dei giudici, ma coll'assenso del popolo. Federico
introdusse in quest'occasione un importante cambiamento
nell'amministrazione della giustizia. Durante la dieta erano state
prodotte, secondo l'antica consuetudine del regno, moltissime cause
private, affinchè venissero giudicate dall'imperatore. Egli si lagnò
d'essere sollecitato a pronunciare i suoi giudizj, dicendo che l'intera
sua vita non basterebbe a ciò; ed in conseguenza incaricava in ogni
diocesi delle incumbenze giudiziarie alcuni nuovi magistrati, detti
_podestà_, ch'egli obbligavasi di nominare sempre stranieri alle città
che dovevano reggere[121].

  [121] _Radev. Fris. l. II, c. 6._

Tale innovazione apparentemente provocata dal solo amor di giustizia,
poteva riuscir fatale alla libertà, ed ebbe infatti il preveduto
effetto. I podestà trovaronsi bentosto in opposizione coi consoli. I
primi, siccome persone scelte dall'imperatore nella classe de'
gentiluomini a lui più affezionati, o in quella de' legisti, mostravansi
sempre favorevoli al potere arbitrario; i secondi, nominati dal popolo,
erano i campioni della libertà cui dovevano la propria esistenza. Quando
l'imperatore conobbe questa rivalità, si prese cura d'abolire i consoli,
onde rimanessero più potenti i podestà. Ciò diede luogo a quasi tutte le
guerre che si accesero in appresso, ma è cosa notabile che, avendo il
popolo ottenuta intera libertà, non abolisse un'istituzione straniera,
che aveva ricevuta dalle mani d'un sovrano. Rispettando l'ordine
stabilito, conservò i podestà ch'egli stesso nominava, e coi podestà
tenne vivo nel comune un lievito del potere arbitrario; e
quest'abitudine di riclamare l'autorità d'un solo, costò in progresso a
molte repubbliche la libertà.

Nella stessa dieta fu ratificata una legge intorno alla conservazione
della pace, affatto opposta alle prerogative dei comuni, perciocchè a
questi, siccome ai duchi, marchesi, conti, capitani, valvasori, si
toglieva il diritto di far la guerra e la pace, di cui erano in possesso
da tanto tempo: ma perchè tutti erano a parte dei disordini inseparabili
dalle guerre private, niuno ardì opporsi ad una legge tanto favorevole
all'umanità[122].

  [122] _Radev. Frisin. l. II, c. 7._

Questa notabile dieta fu chiusa con un giudizio dell'imperatore intorno
alla contesa che da lungo tempo agitavasi tra Piacenza e Cremona. La
prima fu alleata dei Milanesi, l'altra aveva mandate le sue milizie
sotto le insegne di Federico; e ciò bastò a determinare il favore del
principe, che fece atterrare le mura di Piacenza e le torri, e riempirne
le fosse.

Tutto omai piegava ai voleri di Federico, il quale approfittando di
tanta prosperità, faceva ansiosamente ricercare se nelle antiche
provincie romane eravi alcun diritto da rivendicare all'Impero:
nell'antica divisione del quale erano toccate all'imperatore d'Occidente
le isole di Corsica e di Sardegna. Mancando di miglior titolo egli pensò
di valersi di questo, e spedì i suoi commissari ai Pisani ed ai
Genovesi, ingiungendo loro di trasportarli in quelle isole. E perchè sì
gli uni, che gli altri non si prestarono alle sue domande, arse di
sdegno contro di loro, e minacciò di sfogarlo sopra Genova[123]. I
Genovesi dal canto loro non erano contenti della legge emanata dalla
Dieta intorno ai diritti reali; appoggiandosi ad antichi privilegi
degl'imperatori, che li dispensavano da ogni tassa e da ogni servizio, a
motivo della povertà delle loro montagne, e per ricompensarli della cura
che si prendevano di difendere le coste dagl'infedeli. Temendo che
Federico facesse tener dietro i fatti alle minacce, uomini, donne,
fanciulli, lavoravano notte e giorno con instancabile zelo per mettere
la loro città in istato di vigorosa difesa, rinforzando le mura,
coprendole di macchine da guerra, e facendo delle _piatta-forme_ con
alberi ed antenne di navi. Non trascurarono intanto di mandare una
onorata deputazione di magistrati all'imperatore, tra i quali trovavasi
pure lo storico Caffaro. Seppero questi così opportunamente impiegare
l'accortezza e le ragioni, e mostrarsi ad un tempo sommessi e
coraggiosi, che Federico si accontentò di ricevere dodici mila marche
d'argento in tacitazione d'ogni sua pretesa[124].

  [123] _Idem, l. II, c. 9._

  [124] _Caffari Annal. Gen. l. I, p. 270 et 271._

Supponeva l'imperatore che le decisioni della Dieta di Roncaglia lo
assolvessero dall'osservanza del trattato fatto coi Milanesi, e quindi
sottrasse Monza alla loro giurisdizione, quantunque gli avesse
assicurato il possedimento di tutto il territorio, tranne Lodi e Como.
Poco dopo li privò pure dei contadi della Martesana e del Seprio,
investendone un nuovo Signore; pose guarnigione tedesca nel castello di
Trezzo, e, per far cosa grata ai Cremonesi, ordinò che si distruggessero
le mura di Crema. Mandava in pari tempo a Milano il suo cancelliere per
sostituire il podestà ai consoli in onta alla letterale convenzione del
trattato di pace[125]; perchè il popolo risguardando quest'atto come un
aperto oltraggio, prese furibondo le armi, e sforzò il cancelliere a
sortire all'istante dalla città: nè i Cremaschi avevano diversamente
trattato il messo che loro recava l'ordine di atterrare le mura.

  [125] _Sire Raul p. 1181, 1182. — Otto Morena p. 1021. — Radev.
  Frisin. l. II. c 21._

Prima che ciò accadesse, gran parte de' signori tedeschi che avevano
accompagnato l'imperatore, eransi, dopo la sommissione di Milano,
ritirati alle loro case, ed al cominciare dell'inverno l'armata di
Federico trovavasi molto indebolita; oltre che erasi avanzata in parte
verso Bologna per sostenere i deputati, che dovevano far eseguire nel
territorio della Chiesa i decreti della dieta di Roncaglia. I Milanesi,
convinti che il sovrano credevasi disobbligato dall'osservanza dei
trattati fatti coi sudditi; i Milanesi che sapevano d'averlo offeso, e
non ignoravano quanto fosse proclive alla vendetta, credettero di
prevenirlo, e si prepararono subito alla guerra. L'imperatore teneva
guarnigione nel castello di Trezzo, posto in riva all'Adda, quattro
miglia al di sopra del ponte di Cassano; lo che aprivagli sempre la
strada del territorio milanese, e toglieva a quegli abitanti il
vantaggio di difendersi dietro i fiumi che da due lati cingono la loro
diocesi. I Milanesi attaccarono perciò Trezzo, e se ne impadronirono in
tre giorni, ma non furono ugualmente felici nell'attacco di Lodi che
difende un altro passaggio dell'Adda[126].

  [126] _Radev. Fris. l. II. c. 32. — Otto Morena p. 1023. — Sire Raul
  p. 1182._

L'imperatore conoscendosi troppo debole per punire all'istante tanti
oltraggi, si limitò a denunciarli ad una corte plenaria che adunò ad
Antimiaco presso Bologna. Il vescovo di Piacenza, quantunque città da
lungo tempo alleata coi Milanesi, si diffuse in invettive contro di
questi provocando un decreto della Corte che metteva Milano al bando
dell'Impero, ed ordinava ai principi di riunirsi di nuovo per muovergli
guerra.

Questa corte o dieta si occupò inoltre di altre gravissime cause.
Adriano IV si lagnò della condotta de' messaggieri reali venuti a
visitare il patrimonio della Chiesa. Sosteneva il papa, che l'imperatore
senza sua intelligenza non poteva mandare deputati a Roma, perchè quella
non era subordinata che alla Chiesa, che l'imperatore non poteva
pretendere il diritto del _fodero_ dal patrimonio di s. Pietro che in
occasione di recarsi a Roma per ricevere la corona dalle mani del papa;
che i vescovi d'Italia sono bensì tenuti a prestargli il giuramento di
fedeltà, ma non di vassallaggio; siccome non erano tenuti a ricevere i
messaggieri imperiali ne' loro palazzi; per ultimo, che tutti i
possedimenti della contessa Matilde essendo devoluti alla santa Sede,
spettavano al papa i tributi di Ferrara, di Massa, di tutto il
territorio posto tra Acqua pendente e Roma, del ducato di Spoleti e
delle isole di Sardegna e di Corsica. A queste gravi contestazioni
un'altra se n'aggiunse assai più frivola, ma forse più calda rispetto
allo stile adoperato dalla cancelleria imperiale nello scrivere al
papa[127].

  [127] _Radev. Fris. l. II, c. 18.-20, et 30, 31. — Baron. ad ann.
  1159, § 1.-19._

Rispondeva Federico, che i suoi messaggieri, abitando ne' palazzi
vescovili, abitavano in propria casa, perchè fabbricati sul suolo
imperiale; che i vescovi non potevano dispensarsi dal dichiararsi suoi
vassalli finchè rimanevano in possesso dei feudi dell'Impero; per ultimo
essere affatto insussistente la pretesa sovranità del papa nella città
di Roma, mentre egli aveva il titolo di re dei Romani.

La guerra di questo monarca coi Milanesi, e la vicina morte d'Adriano,
non permisero, è vero, che questa lite s'inasprisse troppo, ma fu
cagione che il senato romano, che ancora mantenevasi nemico de' papi, si
rappacificasse coll'imperatore.

Nella disuguale contesa che i Milanesi rinnovavano coll'imperatore, non
contavano altri alleati che i Cremaschi, popolo valoroso ma debole, ed i
Bresciani che nella precedente campagna non avevano dato prove di molta
fermezza. I Tortonesi o non osarono, o non hanno potuto soccorrerli.
Federico aveva costretti gli abitanti di Piacenza e dell'Isola sul lago
di Como, a rinunciare all'alleanza de' Milanesi per unirsi a lui; e le
città di Como e di Lodi, già soggette ai Milanesi, avevan prese le armi
contro di loro. Lodi nuovamente fortificata con un ponte sull'Adda,
apriva il territorio milanese ai nemici, padroni di quella città.
Aggiungevasi a tali ristrettezze, le campagne rovinate nella precedente
guerra, il tesoro esausto, la morte de' più bravi cittadini per cui
trovavansi in peggiori circostanze che all'epoca della prima invasione:
di modo che la risoluzione ardita di dichiarar la guerra, potrebbe
chiamarsi stoltezza, se generosi motivi non l'avessero provocata. È
nobile orgoglio il poter dire: siamo deboli, siamo abbandonati, saremo
sterminati, chè non è in nostro potere il soggiogar la fortuna, ma
questo residuo di ricchezze che possiamo sagrificare alla patria; questa
rimanenza di vigore che sentiamo nelle nostre braccia, questo sangue
libero che bolle ancora nelle nostre vene, dobbiamo pur consacrarli ad
un nobile oggetto; noi non possediamo tutto ciò che per combattere il
dispotismo; e noi non ci sottometteremo che quando, oltre aver perduta
ogni speranza di vincere, ci sarà tolto ogni mezzo di resistenza[128].
Con tali sentimenti, con tanta costanza, l'entusiasmo si perpetua, la
seguente generazione rivendica quella che soggiace, i despoti si
snervano a forza di vincere, e sulle rovine delle città libere s'innalza
di nuovo lo stendardo della libertà.

  [128] Ho riportata fedelmente questa declamazione più da retore che
  da storico, perchè non è in facoltà d'un traduttore di mutilare il
  testo. Il discreto lettore darà quel peso che merita a quest'uscita
  dell'autore, non perdonabile che in un lungo lavoro pregevole per
  infinite bellezze. _N. d. T._

Federico non intraprese la seconda volta l'assedio di Milano, ma usando
destramente di tutti gli avvantaggi che gli dava la facilità di entrare
all'improvviso nel territorio milanese, di porsi in sicuro nel caso di
sinistro evento, e la superiorità della sua cavalleria tanto pel numero
che per la disciplina, si limitò in quella estate a devastare le
campagne de' suoi nemici, bruciando le messi, facendo atterrare o
scorzare gli alberi fruttiferi, distruggendo ogni sorta di commestibili,
e vietando sotto severissime pene il recar vittovaglie a Milano, al qual
oggetto faceva continuamente battere dalla cavalleria tutte le
strade[129]. I Milanesi per altro ch'eransi anticipatamente provveduti,
ed inoltre avevano stabilita una saggia economia nella distribuzione de'
viveri, osservarono con apparente non curanza la desolazione delle loro
campagne.

  [129] _Radev. Fris. l. II, c. 23._

In questo frattempo i Cremonesi, avendo avuto qualche considerabile
vantaggio sui Bresciani, determinarono l'imperatore a far l'assedio di
Crema. Essi furono i primi ad accamparsi presso questa città il giorno 3
o 4 di luglio, raggiunti otto giorni dopo dall'imperatore con rinforzi
che aveva ricevuto di Germania.

Crema è posta sulla riva del Serio in una paludosa pianura tra l'Adda e
l'Oglio, ventiquattro miglia distante da Milano, ed altrettante dalle
montagne. Questa piuttosto borgata che città, che borgata allora si
chiamava, era cinta di doppio muro, e d'una fossa piena d'acqua larga e
profonda assai. I Cremaschi, che non senza pena eransi sottratti alla
dipendenza de' Cremonesi, conservavano per Milano una fedeltà a tutta
prova. Avvertiti del pericolo de' loro alleati, i Milanesi destinarono
Manfredo di Dugnano, uno de' loro consoli, a recarvisi con quattrocento
pedoni ed alcuni cavalli, che promettevano di mantenere finchè durasse
l'assedio, quantunque a tale epoca, avendo Federico divisa la sua
armata, danneggiasse già il territorio milanese[130]. Anche i Bresciani
mandarono a Crema alcuni soccorsi.

  [130] _Sire Raul, p. 1182._

Intanto gl'imperiali avevano, secondo l'antico costume, incominciato a
lavorare intorno ad una linea di circonvallazione, per togliere alla
città ogni comunicazione colla campagna, ed assicurarsi ad un tempo
dalle sortite degli assediati. Ma questi non cessavano di molestarli; ed
in un attacco che fecero mentre l'imperatore era lontano, combatterono
con tanto valore, che si mantennero superiori fino a notte, quantunque
non avessero più di cento cavalli. Allorchè Federico tornò al campo,
indispettito fieramente perchè i Cremaschi avessero osato di battere le
sue truppe, come avesse giusto motivo di farlo, ordinò che si
appiccassero alcuni prigionieri in faccia alle mura. Gli assediati,
credendosi in dovere di far uso del barbaro e talvolta impolitico
diritto di rappresaglia, esposero sulle mura allo stesso supplicio un
egual numero di Tedeschi[131].

  [131] _Radev. Fris. l. II, c. 45, p. 823._

Allora Federico fece loro intimare da un araldo, che ad alcun patto non
farebbe loro grazia, essendo determinato di trattarli coll'estremo
rigore: e per darne una barbara prova fece morire quattro ostaggi presi
a Crema prima della guerra, e sei deputati che i Milanesi mandavano a
Piacenza, tra i quali un nipote dell'arcivescovo.

Alcuni giovanetti cremaschi trovavansi ancora come ostaggi in potere di
Federico. Egli li fece attaccare ad una torre che doveva spingersi
contro la città, mentre gli assediati, con nuovi mangani o catapulte,
sforzavansi di tenerla lontana. Sperava così Federico di costringere i
Cremaschi a non adoperare le loro macchine, che minacciavano di spezzare
la sua torre; pure non lasciava loro veruna speranza di salute, avendo
fatti morire altri ostaggi; onde quand'anche i Cremaschi per salvare
quegl'infelici avessero sagrificata la città, non erano perciò lusingati
di avere sopportabili condizioni. I padri di quelle sventurate vittime,
armati sulle mura, mettevano lamentevoli grida, ma non lasciavano di
combattere e di dirizzare le catapulte contro la torre che avanzavasi
contro la città; ed uno di loro, secondo lo attesta Radevico di
Frisinga, gridava ad alta voce ai suoi figliuoli[132]: «Fortunati coloro
che muojono per la patria e per la libertà! Non temete la morte che può
sola oramai rendervi liberi. Se foste giunti all'età nostra, non
l'avreste voi disprezzata come noi facciamo? voi felici, che morite
avanti di temere come noi altri l'infamia delle nostre spose, e non
udite le grida de' vostri figli che implorano pietà. Oh ci sia dato di
seguirvi ben tosto! e non rimanga veruno de' nostri vecchi seduto sopra
le ceneri della città. Possano chiudersi i nostri occhi prima di vedere
la santa nostra patria caduta tra l'empie mani de' Cremonesi e de'
Pavesi!»

  [132] _Radev. Fris. l. II, c. 47. — Gunt. Lig. l. X, p. 146._

La torre intanto, colpita dagli enormi sassi lanciati dalle catapulte,
minacciava rovina, e l'imperatore aveva ragione di temere che, prima
d'arrivare a' piè delle mura, schiaccerebbe, cadendo, i guerrieri che
portava. La fece perciò ritrocedere e staccarne gli ostaggi che la
ricoprivano coi loro corpi; de' quali ne furono trovati nove morti,
quattro milanesi e cinque cremaschi, e tra i primi uno de' Posterla, ed
un Landriano, due delle principali famiglie di quella città; tra gli
ultimi un giovane ecclesiastico. Altri due ostaggi erano gravemente
feriti; molti erano tuttavia illesi[133].

  [133] _Otto Mor. p. 1037, 1139. — Sire Raul p. 1183. — Trist. Calchi
  Hist. patr. l. II, c. 48, et 49._

Nè queste furono le sole atroci azioni che infamassero l'assedio di
Crema; ma il dovere di storico non mi forza ad intrattenermi più
lungamente in mezzo a così ributtanti memorie.

I Milanesi che desideravano divertire dall'assedio di Crema parte delle
forze imperiali, assediarono il castello di Manerbio, che possedevano i
Tedeschi sul lago di Como; ma furono costretti a ritirarsi da certo
conte Goswino che con un corpo di truppe era stato spedito
dall'imperatore in soccorso di Manerbio, e vi perdettero molti uomini.
In pari tempo furono posti al bando dell'impero i Piacentini per avere
approvigionato di viveri Milano e Crema[134].

  [134] _Radev. Frising. l. II, c. 48, et 49._

Erano più di sei mesi che quest'ultima città era stata cinta d'assedio,
nè l'imperatore si lasciava muovere dall'asprezza dell'inverno a
renderlo men vivo. Fece riparare la torre mobile che gli assediati
avevano rispinta, e costruirne un'altra, che, a fronte della più
ostinata resistenza, furono portate in tanta vicinanza della muraglia,
che i balestrieri soprastavano agli assediati. (1160) Ma ciò che gli
diede maggior speranza di condurre l'impresa a felice fine, fu il
tradimento di Marchese, principale ingegnere de' Cremaschi, il quale,
passato essendo nel campo imperiale, presiedette alla costruzione di
nuove macchine contro quella città, che aveva fin allora lungo tempo
difesa[135]. Egli consigliò l'imperatore a mettere sulle torri i
migliori soldati, ed i balestrai nella parte più elevata, perchè,
dominando le mura, facessero ritrarre gli assediati dalle difese, mentre
il fior de' guerrieri getterebbe dal primo piano i ponti sulle mura. Il
rimanente dell'armata avanzavasi all'assalto tra l'una torre e l'altra,
disposta a valersi della zappa e della scala, secondo che tornerebbe più
in acconcio, tosto che vedessero abbassati i ponti levatoj. Dal canto
loro gli assediati si ordinavano sulle mura, e coperti di mantelletti
sforzavansi coi loro gatti o montoni adunchi d'impadronirsi, o di
rovesciare i ponti che dalle torri facevansi cadere sulle loro mura.
Respinti più volte da queste, altre tante le ricuperarono, ributtando
sempre valorosamente gli assalitori, tra i quali facevasi distinguere
Attone conte palatino di Baviera, il primo a lanciarsi sulle mura,
l'ultimo ad abbandonarle. Dopo aver perduto assai gente esposta alle
freccie degli arcieri, senza che potessero nè difendersi nè vendicarsi,
in sul cadere del giorno furono costretti d'abbandonare le mura
esteriori e di ripiegarsi entro i secondi ripari, disposti in tutto di
voler sostenere con egual vigore un secondo assedio[136].

  [135] _Otto Morena p. 1046._

  [136] _Radev. Fris. l. II, c. 59. — Otto Moren. 1045, 1047. —
  Guntheri Ligurinus l. X. p. 148, 150._

Ma quando, durante la notte, riconobbero le poche forze che loro
rimanevano, e numerarono i valorosi soldati che avevano perduti, quando
videro le fosse colmate, ed osservarono la debolezza del muro interno,
abbandonaronsi alla disperazione. All'indomani proposero al patriarca
d'Aquilea ed al duca di Baviera di entrare in trattato per la resa colla
loro mediazione. Il patriarca assicurò i consoli, che il solo mezzo di
calmare la collera dell'imperatore era quello di darsi a discrezione.

Uno di loro, comprimendo il suo dolore, rispose non aver essi prese le
armi contro Federico, ma bensì contro i Cremonesi, risoluti di non
servire che a Dio ed all'imperatore: che credevano d'aver fatto
conoscere che preferivano la morte ad una ingiusta schiavitù: che la
loro alleanza coi Milanesi non aveva avuto altro oggetto, che quello di
liberarsi dalla servitù: che l'avevano mantenuta fin che Dio lo permise,
ma che ora erano sforzati di risguardare come un segno della celeste
collera la disperata situazione cui trovavansi ridotti. Ed in fatti essi
avevano ancora armi e viveri senza poterne far uso per salvezza della
loro libertà. Il console pose fine al suo parlare, chiedendo che, poichè
il vittorioso imperatore era pur determinato di castigare i suoi
concittadini, non volesse almeno darli in mano ai loro più feroci
nemici, i Cremonesi.

Finalmente Federico si lasciò piegare ad offrir loro alcune condizioni,
che vennero subito accettate. Permetteva loro di sortire dalla città
colle mogli e figli, portando in una sol volta sulle proprie spalle
quanti effetti potevano. Rispetto alle milizie sussidiarie di Milano e
di Brescia, volle che sortissero senz'armi e senza salmeria; ma permise
a tutti senza riserva di recarsi dove più loro piacesse.

In forza di tale convenzione il giorno 22 gennaro del 1160, gli abitanti
di Crema, uomini, donne e fanciulli in numero di circa ventimila
sortirono da questa sventurata città, avviandosi verso Milano.
L'imperatore abbandonò Crema al saccheggio, dopo il quale i suoi soldati
appiccaronvi il fuoco, ed i Cremonesi atterrarono poi fino alle
fondamenta tutto quanto aveva resistito all'incendio[137][138].

  [137] _Radev. Fris, l. II, c. 62._

  [138] Quantunque le repubbliche lombarde impugnassero le armi per
  difendersi contro le armate imperiali, non cessarono però mai, anche
  in tempo che trovaronsi vittoriose, di riconoscere le prerogative
  dell'Impero e di rispettare l'imperatore, che non avrebbe facilmente
  trovato veruna città ribelle, se loro avesse lasciati i privilegi
  accordati da Ottone il grande, e non si fosse collegato, per
  opprimerne alcune, colle città rivali, le di cui milizie sfogavano
  sotto il di lui nome i loro odj privati sui vinti. Del resto quante
  lagrime e quanto sangue dovettero versare quelle semi-repubbliche
  per una larva di libertà, ed in sostanza mancanti di vera
  indipendenza, di unione fra loro e per conseguenza di quiete e di
  ogni civile felicità! _N. d. T._

Il settembre del precedente anno era morto papa Adriano IV, quando la
sua lite coll'imperatore incominciava a farsi viva. Il collegio de'
cardinali, riunitosi per dargli un successore, si divise fra due rivali;
Rollando originario di Siena, canonico di Pisa, cardinale del titolo di
san Marco, e cancelliere della Chiesa, fu eletto dagli uni, mentre
dall'opposta fazione fu nominato Ottaviano nobile romano, cardinale del
titolo di santa Cecilia. Il primo ch'ebbe maggiori suffragi, ed aveva il
favor popolare, fu consacrato sotto nome di Alessandro III, e dalla
Chiesa riconosciuto pur per legittimo papa. Il secondo, che prese il
nome di Vittore III, era spalleggiato dal senato e dalla nobiltà romana;
ma è verosimile che fosse egli medesimo persuaso della illegittimità di
sua elezione, poichè cercò il favore degli antagonisti dei papi e della
libertà romana, in Germania ed in Lombardia. Sperando Federico che
questa doppia elezione indebolirebbe la corte pontificia, convocò di sua
propria autorità un concilio a Pavia, intimando ai due pontefici di
presentarsi. Alessandro era stato fatto prigioniere dal suo rivale; e,
quantunque liberato dalla fazione popolare, non trovandosi abbastanza
forte per sostenersi in Roma, dimorava ora in una ed ora in altra città
a guisa di fuoruscito: pure rispose con fierezza, che il legittimo
successore di s. Pietro non era subordinato al giudizio dell'imperatore,
o dei concili. All'opposto Vittore passò a Pavia, e si guadagnò i
suffragi di Federico e de' suoi vescovi, onde, nell'atto che fu
confermata la di lui elezione, fulminò la scomunica contro Rollando o
Alessandro III, il quale dal canto suo scagliò tutti i fulmini della
Chiesa sul capo di Federico e dichiarò i suoi sudditi sciolti dal
giuramento di fedeltà[139][140].

  [139] _Barron. ad ann. 1159, § 70, et sequ. — Vita Alexan. papæ III
  a Card. Arragon. t. III, Rer. Ital. p. 448.-450._

  Qui incominciamo a far uso della storia di Alessandro III, scritta
  da un autore contemporaneo e raccolta con alcune altre dal cardinale
  di Arragona. Questa preziosa opera ci compensa di quella di Radevico
  che termina poco dopo quest'epoca. Essa devesi piuttosto risguardare
  come la storia della guerra di Lombardia, che come quella del
  pontefice. Questa storia, ordinatamente scritta, è particolarizzata
  in modo che ben si conosce dettata da un testimonio oculare; e vi si
  trova tutta quella imparzialità che può pretendersi da una storia
  scritta in mezzo alle guerre civili. Sembra probabile che l'autore
  morisse prima di papa Alessandro, poichè il racconto non arriva che
  fino al 1178. Le altre due vite, quasi contemporanee, dello stesso
  papa raccolte da Amalrico Augerio e da Bernardo Guidone, non
  meritano pure di essere ricordate.

  [140] L'elogio che il nostro autore fa alla vita anonima di papa
  Alessandro III, non deve farci dimenticare dell'epoca in cui fu
  scritta, nè l'autore di essa, quantunque assai diligente, s'innalza
  però sopra il livello del suo secolo. _N. d. T._

La caduta di Crema non aveva scoraggiati i Milanesi, i quali, per
l'alleanza che contratta avevano col legittimo pontefice, univano la
loro causa a quella di mezza l'Europa, ed ammorzavano lo zelo de' loro
nemici. Inoltre i Tedeschi, dopo aver sostenuta una così lunga e penosa
campagna, sospiravano pel ritorno alla loro patria; onde Federico,
quantunque rimasto in Lombardia per continuar la guerra, si trovò
obbligato di licenziare la maggior parte della sua armata[141], non
ritenendo presso di se che suo cugino il duca Federico, figliuolo di
Corrado, i due conti palatini Corrado ed Ottone coi loro vassalli, i
vassalli proprj, e gl'Italiani della sua fazione. Conoscendo di non
avere forze superiori a quelle de' nemici, nel 1160 si limitò a fare la
piccola guerra.

  [141] _Otto Mor. p. 1061. — Radev. Fris. l. II, c. 75._ Questa è
  l'ultima notizia che prendiamo da così pregevole scrittore, il quale
  dettò la sua storia lo stesso anno 1160, e la terminò allorchè
  furono licenziate le truppe allemanne. Alla stessa epoca termina
  Guntero il suo poema; onde dei Tedeschi non ci rimangono che Ottone
  da s. Biagio e l'abate Uspergense. Sussidio assai debole.

Il fatto di Cassano fu il più importante di questa campagna. I Milanesi
avendo posto l'assedio a quel castello occupato dalle truppe imperiali,
Federico marciò il nove agosto per soccorrere gli assediati con alcune
milizie pavesi, tutte quelle di Novara, di Vercelli e di Como, i
vassalli di Seprio e della Martesana, il marchese di Monferrato, ed il
conte di Biandrate. Un rinforzo condotto dal duca di Boemia lo raggiunse
quando già trovavasi in faccia all'armata repubblicana, ch'egli circondò
da ogni banda, togliendole la comunicazione con Milano. Allorchè i
consoli s'avvidero della difficile situazione cui erano ridotti, non
volendo dar tempo ai soldati di conoscere il comune pericolo, e non
esporli a soffrire la fame, ordinarono di attaccare all'istante i
nemici. Opposero ai Tedeschi ed all'imperatore i battaglioni di porta
Romana e di porta Orientale, confidando loro la guardia del Carroccio,
perchè l'ardore con cui difenderebbero quel sacro deposito, gli
uguaglierebbe per lo meno ai Tedeschi, più di loro esperti nell'arte
militare. Collocarono i battaglioni delle altre due porte e gli
ausiliari bresciani contro gl'Italiani. Il valor personale di Federico,
sormontando ogni ostacolo, penetrò fino al Carroccio, uccise i buoi che
lo conducevano, atterrò la croce dorata ond'era ornato, e prese lo
stendardo del comune. Ma intanto l'altr'ala dei Milanesi trionfava
compiutamente degl'imperiali, di modo che le due armate credevano
ugualmente d'aver guadagnata la battaglia, quando una violenta pioggia
obbligò i combattenti a separarsi. Rientrando nel campo l'ala vittoriosa
dei Milanesi, conobbero la rotta avuta dall'altra; perchè insofferenti
dell'affronto fatto al Carroccio, uscirono tutti di nuovo per attaccare
l'imperatore, il quale, avendo perduto molti suoi valorosi soldati e
trovandosi separato dai Novaresi ch'erano fuggiti, abbandonò
precipitosamente i prigionieri ed i suoi equipaggi. I repubblicani,
paghi d'aver veduto l'imperatore fuggire innanzi a loro, rientrarono
trionfanti in Milano carichi delle sue spoglie[142].

  [142] _Otto Morena Hist. Laud. p. 1087._

Il susseguente giorno furono ugualmente rotte le milizie cremonesi e
lodigiane, che marciavano con un convoglio d'approvigionamenti in
soccorso dell'imperatore: ed in pari tempo gli assediati del castello di
Cassano piombarono improvvisamente addosso alle poche truppe rimaste nel
campo, e, bruciate le macchine dei Milanesi, gli sforzarono a levar
l'assedio malgrado tutti i vantaggi riportati il precedente giorno.

Prima di porsi ai quartieri d'inverno in Pavia, Federico radunò i
feudatari italiani, e gli obbligò sotto la santità del giuramento di
raggiungere con tutte le loro forze i suoi stendardi nella vegnente
primavera. Si annoverano con dispiacere fra costoro il marchese Obizzo
Malaspina ed il conte di Biandrate, che in principio della guerra
avevano combattuto per una causa più nobile[143].

  [143] _Otto Morena Hist. Laud. p. 1087._

(1161) Alcune scaramuccie di veruna importanza aprirono la campagna del
1161. Il giorno 16 di marzo i Lodigiani ed i Piacentini, senza che gli
uni sapessero degli altri, andarono nel bosco di Bulchignano posto al
confine dei loro territorj per sorprendersi reciprocamente con
un'imboscata, e vi stettero tutta la notte senz'avvedersi della
prossimità del nemico; ma essendosene in sul far del giorno accorti i
Piacentini, approfittarono della sorpresa de' Lodigiani e li fecero
quasi tutti prigionieri.

Intanto vergognandosi i Tedeschi che l'imperatore rimanesse come
abbandonato in mezzo ai Lombardi, verso la metà di giugno passarono le
Alpi per venire in suo soccorso. La loro armata di quasi cento mila
uomini si congiunse a Federico avanti il raccolto, ond'egli postosi alla
loro testa potè avanzarsi nel territorio milanese e bruciarne le biade
ancora immature fino alla distanza di dodici in quindici miglia dalla
città. I Milanesi tentarono più volte inutilmente di scacciare il nemico
dal loro territorio, ma rimasero perdenti in quasi tutti
gl'incontri[144].

  [144] _Otto de Sancto Blasio in Chron. c. 16. Scrip. Rer. Ital. t.
  VI, p. 874._

Quando poi in settembre s'avvicinavano a maturità i secondi raccolti, il
miglio e le fave[145][146], Federico invase di nuovo il territorio
milanese e consumò queste derrate col fuoco, come aveva prima distrutte
le biade. In tutto il rimanente della campagna i vantaggi e le perdite
si compensarono da ambe le parti; di modo che i soli fatti notabili sono
le crudeltà dell'imperatore verso i prigionieri cui faceva tagliar le
mani o appiccare.

  [145] Morena nel suo barbaro latino li chiamava blava, che è la
  biada degl'Italiani, vocabolo adoperato per indicare il raccolto
  d'autunno e sopra tutto la biada di Turchia e la sagina, che io
  credo non ancora coltivata in Italia nel dodicesimo secolo. Si
  potrebbe per altro risguardare questo passo come una prova del
  contrario.

  [146] Anticamente il nome generico di biava usavasi in Lombardia per
  indicare qualunque specie di granaglie, ma il grano turco
  s'incominciò a coltivare alcuni secoli dopo l'epoca di Federico
  Barbarossa. _N. d. T._

Al cominciar dell'inverno, Federico stabilì il suo quartiere a Lodi,
facendo in pari tempo fortificare Rivalta Secca e s. Gervasio per
tagliare la comunicazione tra Milano, Brescia e Piacenza, di maniera che
i Milanesi non potevano procacciarsi le vittovaglie da queste due città.
Ad accrescere le angustie di questi, oltre la ruina quasi totale delle
loro campagne, s'aggiunse un fatale incendio che consumò due quartieri
della città ov'erano posti quasi tutti i granai, talchè in sul cominciar
dell'inverno mancavano già i viveri. (1162) L'imperatore, che non
ignorava le sventure de' suoi nemici, faceva crudelmente punire coloro
che si attentavano d'introdurre vittovaglie in Milano, cosicchè in un
solo giorno rimasero senza mani venticinque paesani, che i suoi soldati
avevano trovati carichi di munizioni[147]. Perchè conobbero i Milanesi
essere loro impossibile di giungere con sì scarse provvisioni fino al
nuovo raccolto, che pure dovevano credere che verrebbe, siccome il
precedente, distrutto dai nemici, di modo che ciò che la forza delle
armi non ottenne, si consegui dall'onnipotenza della fame. I consoli
spedirono all'imperatore, che in allora soggiornava a Lodi, deputati ad
offrire umili condizioni di pace; cioè di demolire, in attestato di
sommissione, le mura in sei luoghi, e di ricevere in avvenire i podestà
che vorrà mandarli. Ma Federico rispose ai loro deputati, che non
isperassero grazia finchè non gli s'arrendessero senza condizione,
abbandonandosi affatto alla sua clemenza. Allorchè si ebbe in Milano
tale risposta, i magistrati protestarono invano di non voler rinunciare
alla libertà che perdendo la vita, perciocchè il popolo ammutinato
trionfò della loro resistenza e gli obbligò a sottomettersi[148].

  [147] _Sire Raul p. 1186._

  [148] _Otto Morena p. 1099._ È vero che l'imperatore lasciava in
  loro arbitrio di arrendersi a discrezione o sotto così dure
  condizioni, che i suoi medesimi cortigiani non credevano eseguibili;
  e perciò s'applicarono al primo partito. _Burchardi Ep. de Excid.
  Med. t. VI, Rer. Ital. p. 915._

Cedendo al volere del popolo gli otto consoli con altri otto cavalieri
si presentarono il giorno primo di marzo al palazzo dell'imperatore in
Lodi, e tenendo la spada nuda in mano si arresero a discrezione in nome
della città. Giurarono nello stesso tempo d'essere disposti ad ubbidire
a tutti gli ordini imperiali; giuramento che verrebbe rinnovato da tutti
i Milanesi. Tre giorni dopo, richiese l'imperatore che trecento
cavalieri venissero a deporre ai suoi piedi le loro spade e trentasei
stendardi del comune. In tal occasione Guintellino, capo degl'ingegneri,
gli portò pure le chiavi della città. Allora l'imperatore, senza per
altro far conoscere le sue intenzioni, domandò che venissero al suo
quartiere tutti quelli che furono consoli, negli ultimi tre anni, e gli
si recassero tutti gli stendardi della città; umiliante cerimonia cui i
Milanesi si sottomisero il susseguente martedì.

I cittadini di tre quartieri della città andavano avanti al Carroccio
portando in mano supplichevoli croci, e quelli degli altri tre
chiudevano la processione. Quando il sacro carro fu a vista
dell'imperatore, i trombetti della signoria fecero per l'ultima volta
eccheggiar l'aria del loro clangore; l'albero su cui sventolava lo
stendardo s'abbassò come spontaneamente innanzi al trono, e non fu
rialzato senz'ordine di Federico. Il Carroccio con novantaquattro
stendardi furono in seguito dati ai Tedeschi. Allora uno de' consoli
milanesi si fece ad arringare l'imperatore, supplicandolo d'usare
misericordia alla sua patria. Tutto il popolo si gettò subito
ginocchione, domandando perdono in nome delle croci che portavano. Il
conte di Biandrate che militava sotto Federico, prendendo una croce di
mano a quelli contro cui aveva poc'anzi combattuto e che per lo innanzi
servì, si prostrò innanzi al trono domandando grazia per loro. Tutta la
corte, tutta l'armata piangeva a così compassionevole spettacolo; e
soltanto non iscorgevasi verun indizio di commozione sul volto
dell'imperatore. Diffidando della sensibilità della consorte, non aveale
permesso di assistere a questa ceremonia; perchè i Milanesi, non potendo
avvicinarsele, gettavano verso le sue finestre le croci che erano
portate e che dovevano parlare per loro. Federico poi ch'ebbe ricevuto
il giuramento di fedeltà da tutti quelli che accompagnavano il
Carroccio, e scelti quattrocento ostaggi, ordinò al popolo di tornare a
Milano, di demolire le sei porte della città ed i muri attigui e di
riempire la fossa, ond'egli potesse liberamente entrare colla sua
armata. Dietro loro mandò pure sei gentiluomini tedeschi e sei lombardi,
tra i quali lo storico Morena, per ricevere il giuramento di fedeltà da
coloro ch'erano rimasti in Milano, e rivocò la sentenza che aveva posti
i Milanesi al bando dell'impero.

Erano omai dieci giorni passati dopo la resa della città, ed il
vincitore in cambio di occuparla colle sue truppe conduceva l'armata da
Lodi a Pavia, ove rimaneva otto giorni, senza manifestare le sue
intenzioni. Finalmente il 16 di marzo ordinò ai consoli di Milano di far
sortire tutti gli abitanti dal circondario delle mura: misteriosi ordini
che i magistrati eseguirono tremando. Molti cittadini rifugiaronsi in
Pavia, in Lodi, in Bergamo, in Como e nelle altre città lombarde; ma la
maggior parte della popolazione aspettò l'imperatore fuori delle mura,
avendo tutti, uomini, donne e fanciulli abbandonato le proprie case, che
non sapevano se avrebbero più rivedute, e Milano rimase affatto deserto.

L'imperatore comparve alla testa delle sue truppe il giorno 25 di marzo,
e pubblicò finalmente la sentenza da lungo tempo sospesa: che Milano
doveva atterrarsi fino alle fondamenta, ed il nome dei Milanesi
cancellarsi dalla nota delle nazioni lombarde. All'istante i quartieri
della città furono consegnati ai più caldi nemici con ordine di
distruggerli; porta Orientale ai Lodigiani, la Romana ai Cremonesi, la
Ticinese ai Pavesi, la Vercellina ai Novaresi, la Comacina ai Comaschi,
e porta Nuova ai vassalli del Seprio e della Martesana. L'armata
imperiale si occupò con tanto ardore della distruzione di Milano, che
dopo sei giorni di travaglio non rimaneva in piedi la cinquantesima
parte delle case. L'imperatore ritornò a Pavia la domenica delle
palme[149][150].

  [149] _Otto Mor. p. 1103, 1105. — Sire Raul p. 1187. — Otto de
  Sancto Blasio c. 16, p. 875. — Trist. Calchi Hist. patr. l. X, p.
  253. — Galv. Flamma Manip. Flor. c. 189, p. 642._ — Veggasi sopra
  tutto, _Epist. Burchardi Notarii Imp. ad Nicol. Sigebergensem
  abbatem t. VI, Rer. Ital. p. 915.-918_. Abbiamo in questa lettera un
  assai circostanziato racconto della ruina di Milano e
  dell'impressione che fece sui Tedeschi la vittoria dell'imperatore.

  [150] Queste sono piuttosto crudeltà dei tempi che di Federico, cui
  il nostro autore rende più sotto la debita giustizia, dicendo che se
  incrudelì nel caldo della guerra, mostrossi poi umano coi nemici
  sottomessi, non infierendo che contro le insensibili mura. Nè ai
  Milanesi doveva riuscire inaspettato l'ordine di atterrare la loro
  città, dopo ch'essi avevano usato lo stesso trattamento ai
  Lodigiani. _N. d. T._



CAPITOLO X.

      _Oppressione dell'Italia. — Lega lombarda. — Sua resistenza
      all'Imperatore. — Fondazione di Alessandria._

1162 = 1168.


LA vittoria ottenuta da Federico contro la prima città d'Italia e la
punizione inflittale, si celebrarono dai partigiani dell'Impero come un
nobile e glorioso trionfo, come un luminoso atto di giustizia di un
grande monarca: i deputati delle Provincie, i vescovi, i conti, i
marchesi, i podestà, i consoli delle città s'affrettarono di recarsi a
Pavia per felicitare l'imperatore di così glorioso avvenimento; e quando
si presentò loro coll'imperatrice ornato dell'imperiale diadema, ch'egli
aveva giurato di non portare finchè non avesse soggiogati i Milanesi, fu
accolto coi più caldi applausi[151]. I Bresciani ed i Piacentini, che
vedevano nella perdita di Milano la total rovina della libertà,
cercarono, sottomettendosi alle più odiose condizioni, di calmare la
collera di Federico. Essi atterrarono le torri e le muraglie delle loro
città, ne colmarono le fosse, pagarono enormi tributi, e ricevettero il
podestà mandatogli dall'imperatore. Tutto piegava innanzi a lui, ed
universale era il terrore; sicchè poteva omai lusingarsi d'aver
assicurato il suo trono contro qualunque avvenimento. Ma il potere
fondato sul terrore non è stabile, finchè la nazione non sia
compiutamente avvilita: e quantunque in que' primi istanti estremo fosse
il terrore, il carattere lombardo non aveva ancora perduta tutta la sua
elasticità; e se piegò alcun tempo sotto l'oppressione, non fu che per
rialzarsi con maggior forza. I fuorusciti milanesi, passando d'una in
altra città, raccontavano agli uomini, com'essi una volta liberi, la
deplorabile ruina della loro patria, la caduta di quelle mura difese con
tanta bravura, l'incendio e la profanazione delle chiese, la rapina o la
dispersione delle reliquie e delle sacre immagini, e le vessazioni
d'ogni maniera che, dopo distrutta la loro città, facevansi soffrire
agli sventurati loro concittadini. Non saziavansi di andar replicando
come il vescovo di Liegi e Pietro de' Cunin, che successivamente li
governarono, non contenti di averli divisi in quattro borgate, che per
loro ordine avean dovuto fabbricare due miglia lontano dalla città,
pigliavansi le loro messi, s'appropriavano i poderi, accrescevano i
tributi, e gli sforzavano a trasportare essi medesimi i materiali della
distrutta città per innalzare castelli e palagi all'imperatore[152].
Generose lagrime cadevano loro dagli occhi quando descrivevano le
battaglie che sostennero, e que' gloriosi giorni ne' quali, in mezzo ai
pericoli e mancanti d'ogni cosa, pure credevansi ancora felici finchè
vedevansi armati per difesa della patria.

  [151] _Otto Mor. p. 1105, 1107. — Trist. Calc. Hist. Patr. l. X, p.
  256. — Joh. Bapt. Villan. Hist. Laud. Pomp. l. II, p. 875._

  [152] _Sire Raul p. 1188. — Galv. Flam. Manip. Flor. c. 192. p. 644.
  — Bern. Corio Stor. Milanesi p. I, p. 54._

Le grandi sventure sogliono soffocare le antiche nimistà: Pavia,
Cremona, Lodi, Bergamo, Como, avevano aperte le loro porte ai rifugiati.
Anche in mezzo alle guerre nazionali i legami dell'ospitalità riunivano
le famiglie delle vicine città, ed accoglievansi cordialmente a tavola
coloro contro i quali poc'anzi per onore della propria città avevano
combattuto. I racconti de' Milanesi s'imprimevano più profondamente
nell'animo degli uditori dopo che i partigiani dell'Impero
incominciarono ad esperimentare ancor essi i funesti effetti della loro
vittoria. Aveva bensì Federico permesso ai Cremonesi, ai Pavesi, ai
Lodigiani di eleggersi i loro consoli; ma aveva mandati podestà a
Ferrara, a Bologna, a Faenza, ad Imola, a Parma, a Como, a Novara, città
che pur non erano alleate ai Milanesi, o che anzi avevano mandate le
loro milizie in soccorso dell'imperatore: e quando in sul finire
dell'estate questi passò in Germania, lasciava in Italia Rainaldo
cancelliere dell'Impero, ed arcivescovo eletto di Colonia, in qualità di
suo luogotenente generale, il quale rese indistintamente più grave a
tutti i Lombardi il giogo loro imposto.

Ninna scrittura ci fa meglio conoscere il terrore da cui erano compresi
gl'Italiani, quanto gli Annali genovesi. Siccome lo storico Caffaro gli
andava dettando anno per anno, conservarono dopo tanti secoli
l'impressione del momento. Perciò lo stesso scrittore che con tanto
entusiasmo aveva descritto l'universale ardore dimostrato dai Genovesi,
quando, nel 1158, temendo d'essere attaccati dall'imperatore, rialzarono
e rinforzarono le loro mura[153], parlando adesso delle fresche vittorie
di Federico adopera le più lusinghiere frasi, chiamandolo _l'imperatore
sempre augusto, sempre trionfante, quello che innalzò l'impero al più
elevato grado di gloria_[154]. Infatti i Genovesi spedirono una
deputazione a Federico per felicitarlo della sua vittoria, ed
assicurarlo della loro sommissione. E perchè nel tempo medesimo gli
offrirono una flotta per valersene nella sua guerra di Sicilia,
ottennero da lui un atto che ci fu conservato, col quale accorda ai
consoli di Genova il diritto di chiamare sotto le loro bandiere in tempo
di guerra gli abitanti della costa ligure da Monaco fino a porto Venere,
vale a dire di quasi tutto l'attual territorio della repubblica, salva
però sempre la fedeltà che questi vassalli di second'ordine dovevano
all'Impero, ed il diritto di giustizia de' conti e dei marchesi.
Riconfermò al popolo il diritto di eleggere i suoi consoli, ed accordò
in feudo ai Genovesi Siracusa ed altri duecento cinquanta feudi nella
valle di Noto, promettendogliene loro il possesso all'istante che col
loro ajuto sarebbesi impadronito della Sicilia. Gli concesse inoltre,
con pregiudizio de' Provenzali, il privilegio esclusivo di commerciare
in tutti i luoghi marittimi, non escluso lo stato di Venezia, qualora i
Veneziani non riacquistassero la sua grazia. Li dispensò pure dal
militare per lui, tranne sulle coste della Provenza e delle due Sicilie;
e per ultimo si obbligava a non far la pace con Guglielmo re di Napoli,
o con i suoi successori senza il libero assenso de' consoli
genovesi[155].

  [153] _Caffari Ann. Genuenses l. I, p. 271._

  [154] _Idem. p. 278._

  [155] Questo trattato viene riportato per intero dal Muratori.
  _Antiqu. Ital. Diss. XLVIII. t. IV, p. 253._

Mentre con questi speciosi privilegi pareva che Federico esentasse i
soli Genovesi dal giogo che aveva posto alle altre città, si offerse
arbitro delle contese che avevano coi Pisani, perchè desiderava di
rendere la pace a due popoli, onde valersi a proprio vantaggio delle
loro armi. La guerra che al presente facevansi le due repubbliche ebbe
principio in Costantinopoli, ove ambedue avevano stabilita una colonia.
I Pisani trovandosi colà in numero di due mila, mal soffrivano nel
commercio di quella capitale la concorrenza de' Genovesi, la di cui
colonia non contava più di trecento uomini; perciò gli attaccarono, e,
senza che il governo greco, testimonio di tanta violenza, osasse
d'immischiarsi nella contesa di commercianti bellicosissimi ch'egli
accarezzava e temeva, gli spogliarono affatto e cacciarono dalla città.
I Genovesi disponevansi appunto a vendicare sul mar tirreno l'affronto
fatto ai loro concittadini quando Federico usò della sua autorità per
far loro deporre le armi. I deputati delle due città rivali dovettero
firmare in Torino una tregua colla quale s'obbligavano di non riprendere
le armi, finchè l'imperatore non pronunciasse la sua sentenza dopo
tornato dalla Germania[156].

  [156] _Caffari Ann. Gen. p. 280.-283. — Breviarium Pisanæ Hist. p.
  173.-174. — Uber. Fol. Gen. Hist. l. II, p. 268. — Marang. Cronache
  di Pisa. Scrip. Etr. t. I, p. 387._

(1163) Quando l'imperatore tornò in Italia in sul finire del 1163, non
più come conquistatore, ma come padrone, trovò queste due città
sommamente inasprite da un nuovo motivo di discordia. Avevano i Pisani,
come si disse a suo luogo, conquistata già da un secolo l'isola di
Sardegna, e ne avevano dato in feudo le signorie a molti loro
gentiluomini. Ma questi feudatari, trovandosi lontani dalla metropoli,
eransi quasi emancipati da ogni dipendenza e resi sovrani indipendenti,
appoggiati dall'alleanza de' Genovesi che possedevano alcune fortezze in
Sardegna. Quest'isola era allora caduta quasi tutta in potere dei
quattro signori di Sallura, di Logodoro, di Arborea e di Cagliari, i
quali col titolo di giudici affettavano un fasto reale. Barisone giudice
d'Arborea che discendeva dall'antica famiglia Sardi di Pisa (posta in
possesso d'Arborea quando i Pisani conquistarono la Sardegna), essendo
di questi tempi andato a Genova, trovò che due suoi compatriotti erano
stati innalzati alle principali magistrature della repubblica. Corso
Sismondi era console del comune, e Sismondi Muscula console delle
liti[157]. Propose loro di riporre tutta l'isola sotto l'alta signoria
di Genova, a condizione d'ajutarlo ad allargare la propria autorità. A
Federico che, sempre avido di riconquistare gli antichi dominj
dell'impero romano, non aveva potuto far valere (1164) i suoi pretesi
diritti sulla Sardegna, si presentò a Fano Barisone, offerendogli di
fargli omaggio dell'isola di Sardegna e di pagargli a titolo di tributo
un canone di quattro mila marche, a condizione che l'imperatore volesse
riconoscere i suoi diritti, o piuttosto le sue orgogliose pretese, ed
investirlo del regno sardo. I consoli genovesi Corso Sismondi e Baldizzo
Ususmari, deputati del comune presso Federico, dovevano dare guarentia
per Barisone e promettere l'assistenza della loro flotta per metterlo al
possesso del nuovo regno, ch'egli doveva poi sempre mantenere ligio e
devoto alla repubblica di Genova.

  [157] _Obertus Cancel. Ann. Gen. l. II. p. 292._

Tosto che i consoli pisani, che pure trovavansi alla corte di Federico,
ebbero sentore di questo trattato, riclamarono altamente contro la
concessione che l'imperatore era per fargli, rimostrando che la Sardegna
era una proprietà di Pisa e che Barisone, il quale aveva la sciocca
vanità di aspirare allo splendore della corona, era vassallo e
livellario della loro repubblica. I consoli genovesi che fino allora non
eransi più che tanto interessati alle proposizioni fatte dal giudice
d'Arborea, abbracciarono subito la sua difesa per dar peso alle loro
pretese sulla Sardegna, ed impedire che non fossero dall'imperatore
riconosciuti i titoli dei loro rivali. Ma questi, senza prendersi troppa
cura di scandagliare il merito della causa, s'affrettò d'accettare il
danaro che venivagli offerto per una corona che non gli apparteneva; e
fece stendere dai suoi notai un diploma col quale dichiarava Barisone re
di Sardegna; dopo di che domandavagli le quattro mila marche
promesse[158].

  [158] _Obertus Cancel. Ann. Genuens. p. 293, 294. — Breviar. Pisanæ
  Hist. p. 175, 176. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 394._

Il giudice d'Arborea, costretto d'imitare il fasto della corte e
largamente spendendo, aveva omai consunti que' tesori che il ristretto
vivere tra i suoi rustici vassalli gli faceva credere inesauribili. Di
modo che quando Federico gli accordò il diploma sì lungo tempo
desiderato, il nuovo re non aveva la somma convenuta. Vero è ch'egli
disponevasi a stabilire nella sua isola le imposte di cui vedeva
aggravati i popoli del continente, e protestando che i suoi sudditi,
abbagliati dallo splendore della nuova dignità, s'addosserebbero con
piacere le spese del trono, chiedeva a Federico di rientrare nella sua
isola ond'essere in grado di soddisfare in breve al suo debito; ma
l'imperatore dichiarò che non gli avrebbe permesso di allontanarsi dalla
sua corte senza aver prima mantenute le sue promesse.

I consoli genovesi che avevano favoreggiata la sua causa più per
soddisfare al loro odio contro di Pisa, che per affetto che portassero a
Barisone, si risolsero di soccorrerlo. Nè pagarono soltanto le quattro
mila marche dovute all'imperatore; che vi aggiunsero altre più
ragguardevoli somme per accompagnarlo con un'armata in Sardegna; ma
perchè risguardavano la sua persona come la sola cauzione del loro
credito, non gli permisero mai di sbarcare nella sua isola; e dopo
essere rimasto alcun tempo in faccia ad Arborea, sospettando che li
tradisse e si accomodasse di nuovo coi Pisani, lo ricondussero a Genova,
ove lo tennero prigioniero per i suoi debiti[159].

  [159] _Obert. Can. p. 295.-298. — B. Maran. Cron. di Pisa p. 398._

Intanto i giudici di Gallura e di Logodora, avendo rinnovato il loro
giuramento di fedeltà ai Pisani, avevano coi soccorsi della repubblica
occupato il distretto d'Arborea e postolo a fuoco ed a sangue, di modo
che il nuovo re di Sardegna, lungi dall'assoggettarsi i suoi uguali,
aveva inoltre perduto l'antico suo patrimonio. Non però, quantunque
dimenticato più anni in prigione, lasciarono le rivali repubbliche di
battersi in mare e di distruggere i vascelli nemici e le fortezze poste
lungo le loro spiaggie.

Ma in tempo di queste guerre con Pisa erano i Genovesi interamente
travagliati da una civile discordia, di cui lo storico pubblico non ne
trascrisse le particolarità per timore di disonorare la sua patria[160].
Racconta solo che le nobili famiglie degli Avogadi e de' marchesi della
Volta, forse rivali in credito ed in potenza, eransi offese, ed avevano
strascinati gli amici nella loro contesa. Un marchese della Volta era
stato ucciso del 1165, quantunque fosse allora console; e furono
ugualmente uccisi nel susseguente anno Rubaldo Barattieri, Sismondo
Sismondi, Juscello e Scotto. E perchè l'odio delle due famiglie,
rendendosi ogni giorno più vivo, toglieva ogni speranza di
accomodamento, i consoli del 1169, per ristabilire la pace tra fazioni
sorde alle loro voci, e più del governo potenti, furono costretti di
ordire in certo qual modo una cospirazione.

  [160] _Obertus Canc. p. 310._

Cominciarono dall'assicurarsi segretamente delle pacifiche disposizioni
di molti cittadini che la parentela colle famiglie rivali strascinava
loro mal grado nella lite; indi consigliatisi con Ugo, venerabile
vecchio loro arcivescovo, fecero avanti giorno chiamare dalle campane
del comune i cittadini a parlamento, sperando che la sorpresa e
l'allarme di così improvvisa chiamata, in mezzo all'oscurità della
notte, renderebbe l'adunanza e più numerosa e più tranquilla. I
cittadini nel recarsi a parlamento videro in mezzo alla piazza il loro
vecchio arcivescovo circondato da' suoi clerici in abito di cerimonia e
con torchie accese in mano, mentre che le reliquie del protettore di
Genova s. Giovanni Battista stavano colà esposte, ed i più ragguardevoli
cittadini tenevano tra le loro mani le croci supplichevoli.

Quando l'assemblea fu riunita, alzossi il vecchio prelato, e colla mal
ferma sua voce scongiurò i capi di fazione in nome del Dio della pace,
per la salute delle anime loro, in nome della patria e della libertà,
che le loro discordie menavano ad aperta ruina, a giurare sul vangelo
intera dimenticanza delle loro contese, e stabil pace. Poich'ebbe
terminato di parlare, gli araldi si presentarono a Rolando Avogado, l'un
de' capi d'una fazione che trovavasi presente all'assemblea, ed
assecondati dalle acclamazioni del popolo e dalle preghiere de' suoi
parenti medesimi, gl'intimarono di accedere al voto dei consoli e della
nazione.

Rolando stracciavasi gli abiti da dosso, e, sedutosi in sulla terra e
piangendo, chiamava ad alta voce i morti parenti che aveva giurato di
vendicare, e che non gli acconsentivano di perdonare le loro antiche
offese. E perchè non potevano ridurlo ad appressarsi al luogo ove stava
il libro de' vangeli, gli s'avvicinarono i consoli stessi, l'arcivescovo
ed il clero, i quali a forza di preghiere lo fecero finalmente giurare
sul vangelo obblio delle passate inimicizie.

Folco e Castro ed Ingo della Volta, capi della contraria parte, non
erano intervenuti all'adunanza, onde il popolo ed il clero recaronsi in
folla alle loro case, e trovaronli già commossi da quanto era stato loro
raccontato; perchè, approfittando delle loro disposizioni, li fecero
giurare una sincera riconciliazione, e dare il bacio della pace ai capi
dell'opposta fazione. In segno di allegrezza per così lieto avvenimento,
si suonarono le campane della città, e l'arcivescovo ritornato sulla
pubblica piazza intuonò il _Tedeum_ in onore del Dio della pace che
aveva salvata la patria[161].

  [161] _Obertus Canc. Ann. Genuens. p. 324-327. Uberti Foliettæ
  Genuensis Hist. l. II, p. 278._

Abbiamo detto che Federico era tornato in Italia del 1163 conducendo
seco la sposa, una splendida corte, ma non truppe. I Pavesi,
approfittando del terrore del di lui nome, mossi da vecchia gelosia,
vollero distruggere Tortona, onde rappresentarono all'imperatore che i
Milanesi non l'avevano rifabbricata che per mostrar disprezzo delle sue
vendette, e che una città, da lui ruinata e rifatta dai suoi più acerbi
nemici, cospirerebbe sempre coi faziosi: a queste ragioni aggiunsero
l'offerta di ragguardevole somma, ed ottennero dall'imperatore la
facoltà di atterrare fino alle fondamenta le mura della già ruinata
città. Nell'eseguire quest'imperiale rescritto non solo distrussero le
mura che potevano dare agli abitanti di Tortona un mezzo di difesa, ma
ne demolirono ancora le case[162].

  [162] _Otto Mor. Hist. Laud. p. 1123._

(1164) Questo fu per altro l'ultimo atto violento che la fazione
vittoriosa si permettesse per soddisfare ad un'antica rivalità che omai
andava calmandosi. Durante la lontananza dell'imperatore, i podestà da
lui posti al governo delle diocesi avevano bruttamente abusato della
loro autorità, esigendo contribuzioni sei volte più gravi di quelle che
portavano le antiche consuetudini, e non lasciando agli abitanti del
Milanese e del Cremasco che il terzo del raccolto. Lo stesso Morena,
tanto affezionato storico dell'imperatore, depose che non eravi alcun
Lombardo il quale, rammentando l'antica libertà della sua patria, non
riguardasse come un obbrobrio le tasse cui vedevasi esposto, e non
desiderasse di vendicarsi[163]. Pure gl'Italiani avevano atteso il
ritorno dell'imperatore, lusingandosi che in allora avrebbe posto riparo
agli abusi d'ogni maniera sotto cui gemevano.

  [163] Id. Ibid. p. 1127-1129. Non sappiamo per altro se Otto Morena
  sia sempre l'autore di questa parte della storia, o se abbia a
  quest'epoca incominciato la continuazione scritta da suo figliuolo
  Acerbo. La narrazione dal padre viene senza interrompimento
  continuata dal figliuolo e da uno sconosciuto, senza che possa
  sapersi ove termina l'uno, ed incomincia l'altro. Acerbo Morena
  militò sotto l'imperatore, e morì nella spedizione di Roma l'anno
  1167. Acerbo manifesta sentimenti più generosi e più liberali del
  padre.

Difatti, avvertiti i Milanesi che Federico recavasi da Lodi a Monza ove
faceva fabbricare un palazzo, presentaronsi affollati lungo la strada
che doveva tenere, ed in tempo di notte, in mezzo al fango e sotto una
dirotta pioggia, lo pregavano colle ginocchia a terra e con profondi
gemiti a trattarli con maggior dolcezza. Federico si mostrò commosso, ed
ordinò che si rilasciassero i loro ostaggi, ma avendo rimesso ai suoi
ministri l'esame delle loro lagnanze, questi ne presero anzi motivo per
aggravare di nuove tasse gli sgraziati che avevano osato di
lamentarsi[164].

  [164] _Sire Raul p. 1189._

Gli abitanti della Marca veronese che non avevano quasi presa parte
alcuna nelle guerre di Lombardia, presentarono pure le loro istanze
contro queste vessazioni tanto più odiose, quanto che i ministri regi
non avevano alcun motivo di trattarli ostilmente. Pure non furono
ascoltati. Intanto essendosi l'imperatore innoltrato nell'Emilia dalla
banda di Fano, le città lombarde approfittarono del suo allontanamento
per tenere un'adunanza. Verona, Vicenza, Padova e Treviso giurarono di
sussidiarsi vicendevolmente ne' tentativi che farebbero per minorare i
diritti dell'Impero, riducendoli alla misura praticata dagl'imperatori
ortodossi predecessori di Federico. Convennero inoltre di opporsi ad
ogni usurpo del monarca, e di esaminare le prerogative che gli
appartenessero per diritto[165].

  [165] Vita Alex. III a Card. Arragonio p. 456 — Se può darsi fede
  allo storico greco Cinnamo (L. V, c. 13. p. 103. Bisan. t. XI),
  quest'alleanza fu conchiusa ad istigazione dell'imperatore Manuele
  Comneno geloso del crescente potere di Federico. Egli contestavagli
  il titolo d'imperatore, e mandò Niceforo Calufi a Venezia, ed altri
  agenti di minor conto nelle altre città con ragguardevoli somme di
  danaro per eccitare alle armi i Lombardi in difesa della loro
  libertà.

Anco i Veneziani, che da lungo tempo erano diventati odiosi a Federico,
presero parte in questa lega, che allora si credette abbastanza forte
per metter fine alle vessazioni de' governatori tedeschi: attaccò nella
Marca trivigiana que' gentiluomini ch'eransi rifiutati d'entrare nella
lega, e scacciò gli ufficiali dell'imperatore più odiosi al popolo.

Tosto che Federico ebbe notizia di tali movimenti, tornò a Pavia, ed
avendo riuniti de' Lombardi in cui più si fidava, le milizie di Pavia,
di Novara, di Cremona, di Lodi e di Como, s'avanzò alla volta di Verona
per devastarne il territorio; ma la lega veronese trasse in campagna la
sua armata, che marciò coraggiosamente contro l'imperatore. Non tardò
Federico ad avvedersi che le milizie lombarde lo seguivano di mala
voglia; e spaventato di trovarsi in loro balìa, abbandonò
precipitosamente il campo, e fuggì innanzi ai Veronesi[166]. Dopo tal
epoca tutte le città gli diventarono sospette, e perchè i marchesi, i
conti, i capitani dovevano essere naturali nemici delle città libere,
contrasse alleanza con questi, e ripartì nelle loro fortezze i suoi
migliori soldati tedeschi[167].

  [166] _Acerbus Morena p. 1123._

  [167] _Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456._

Dopo così umiliante esperimento della sua debolezza, Federico non poteva
prolungare il suo soggiorno in Italia senza esporsi a grandissimi
rischi. Passò dunque in Germania poco dopo essersi ritirato dal
Veronese, assicurando però i suoi alleati, che sarebbe in breve tornato
con un'armata capace di mettere a dovere i sudditi ribelli.

Comunque insopportabil peso dovesse riuscire a così impetuoso carattere,
come era quello di Federico, il ritardo della vendetta, fu non pertanto
obbligato di lasciare ai Lombardi che lo avevano offeso, abbastanza di
tempo per esercitare le truppe, fortificare le città, e contrarre nuove
alleanze. L'antipapa Vittore III, che l'imperatore aveva opposto a papa
Alessandro, era morto in principio di quest'anno; ed il successore
ch'egli aveva fatto nominare, Guido da Cremona, che faceva chiamarsi
Pasquale III, non era riconosciuto da verun altro sovrano, onde Federico
trovavasi avviluppato in continui negoziati coi re di Francia e
d'Inghilterra, che lo andavano eccitando a dar la pace alla Chiesa, e
coi propri sudditi di Germania che non erano sempre disposti a
riconoscere vescovi scismatici. A tali ostacoli s'aggiunse in Germania
la guerra che rinnovossi tra le case guelfa e ghibellina, cui Federico
non poteva essere indifferente[168].

  [168] _Otto de Sancto Blasio Chron. c. 18. et 19. t. VI. Rer. It. p.
  875 — Conradi ab. Usper. Chron. p. 293. apud Pithaeum._

(1165) Intanto essendo morto il Vicario di Roma, papa Alessandro nominò
suo successore il cardinale di S. Giovanni e Paolo, il quale s'adoperò
per ridurre i Romani all'ubbidienza del legittimo pontefice. Per
riuscire nell'intento seppe opportunamente spargere il danaro tra il
popolo; fece entrare in Senato persone a lui affezionate, escludendone
gli scismatici; ottenne la restituzione della chiesa di S. Pietro e del
contado della Sabina ove il partito dell'antipapa aveva lungo tempo
dominato, e finalmente, a fronte dell'opposizione d'alcuni cittadini,
ottenne dalla maggioranza del popolo romano l'atto con cui spediva una
deputazione ad Alessandro per invitarlo a tornare alla sua greggia[169].
Alessandro, così consigliato dai re di Francia e d'Inghilterra, partì da
Sens ove aveva stabilita la sua dimora, e s'imbarcò a Monpellier. Spinto
dai venti a Messina, si valse di tale opportunità per rinfrescare
l'antica alleanza con Guglielmo re di Sicilia, e di là venne a sbarcare
ad Ostia. I nobili, i senatori, il clero ed il popolo gli si fecero
incontro in processione, e lo accolsero come loro pastore con
dimostrazioni sincere di rispettosa ubbidienza[170].

  [169] _Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456._

  [170] _Ibid. p. 457. — Romuald. Saler. Chron. p. 205._

Dall'altro canto Cristiano arcivescovo eletto di Magonza, il quale era
luogotenente dell'imperatore in Toscana, erasi con un'armata tedesca
avanzato nella campagna di Roma sottomettendo Viterbo e quasi tutte le
altre città all'antipapa Pasquale; ma appena s'allontanò dalle sue
conquiste, i Romani sussidiati dalle truppe del re Guglielmo fecero
rientrare nell'ubbidienza della Chiesa quasi tutte le piazze occupate
dagli scismatici.

(1166) Guglielmo I, soprannominato il cattivo, dopo avere giovato alla
Chiesa ed alla causa della libertà, morì[171], lasciando un fanciullo
per suo successore, che fu poi chiamato Guglielmo il buono, il quale
rimase lungo tempo sotto la tutela di Margarita sua madre. Benchè
distinti da opposti nomi il padre ed il figlio tennero la stessa
condotta rispetto all'Italia, per mantenere libera la quale, siccome
richiedeva la sicurezza del loro regno, fecero causa comune col papa,
coll'imperatore d'Oriente, e colle città libere.

  [171] Guglielmo I, coronato ancora vivente il padre l'anno 1150,
  morì del 1166. _Romual. Saler._ p. 205. Questo storico che dopo la
  congiura di Matteo Bonella fu il principale liberatore del re, fu
  pure uno de' principali suoi ministri, uno dei più ricchi prelati
  del regno, suo confessore, e suo medico. La sua storia di questo
  assai curioso regno merita d'essere letta.

Quelle della Marca veronese facevano grandi preparativi per difendere la
propria e la libertà della Chiesa. I Veronesi ed i Padovani attaccarono
il castel di Rivoli ed il forte d'Appendoli che chiudevano i passaggi
delle montagne per cui poteva scendere Federico in Italia: ma questi,
dopo aver raccolta una potente armata, prese in autunno la strada della
Valcamonica, ed entrò in Lombardia a traverso il territorio bresciano.
Benchè ugualmente irritato contro tutte le città, che sapeva tutte a se
malaffezionate, non s'attentò di attaccarle finchè non ottenne di
dividerle con segrete pratiche. Ne' comizi adunati in Lodi nel mese di
novembre, promise di far giustizia dei torti che formavano l'argomento
delle lagnanze dei comuni, e dopo averne favorevolmente accolti i
deputati, e pacificamente congedati, s'avviò senza dar battaglia alla
volta di Ferrara e di Bologna[172].

  [172] _Vita Alex. III. a Card. Arragonio p. 457._ — _Acerbus Morena
  Hist. Laud. p. 1131._ — _Otto de Sancto Blasio c. 20. p. 876._

(1167) Federico per cagioni a noi ignote rallentava la sua marcia verso
l'Italia meridionale, e consumava sei mesi tra Bologna ed Ancona[173],
senza aver castigati i Lombardi che lasciavasi alle spalle, e senza
avanzarsi verso Roma che si era ribellata. I Veronesi, sempre più
vessati dai ministri imperiali, mandarono deputati a tutte le città
ugualmente maltrattate, facendole risolvere a tenere una dieta il giorno
settimo degl'idi d'aprile nel monastero di Pontida posto tra Milano e
Bergamo[174], per risolvere sul modo di provvedere alla comune
difesa[175]. Intervennero a questa dieta i deputati di Cremona, di
Bergamo, di Brescia, di Mantova e di Ferrara. I Milanesi sempre divisi
nelle loro quattro borgate vi spedirono alcuni primarj cittadini, i
quali domandarono caldamente che la dieta facesse precedere ad ogni
altra risoluzione quella di render loro la patria, affinchè non
rimanendo più esposti alle continue incursioni de' loro nemici,
potessero di nuovo unirsi alle milizie confederate per difendere la
libertà d'Italia. I deputati di tutte le città, sovvenendosi della
valorosa resistenza fatta dai Milanesi, promisero d'impegnare i loro
concittadini a rifabbricare le mura di Milano, ed a proteggere quel
popolo finchè fosse messo in situazione di potersi da se medesimo
difendere. Dopo ciò convennero intorno alla forma del giuramento
federativo, che cadaun deputato riportò alla sua patria perchè fosse
adottato dai proprj concittadini. Approvato che fosse dall'assemblea
generale d'ogni città, doveva essere ripetuto da tutti gl'individui che
la componevano. Con tale giuramento le città contraevano un'alleanza di
vent'anni, durante la quale erano tenute di ajutarsi reciprocamente
contro chiunque osasse attaccare i privilegi di cui erano in possesso
dopo il regno d'Enrico IV fino all'assunzione al trono di Federico:
promettevano pure di concorrere a compensare i danni cui potessero
andare soggetti i membri della lega nel difendere la libertà.

  [173] Federico partì da Lodi l'undici gennajo ed intraprese
  l'assedio d'Ancona ai primi di luglio.

  [174] Pontida è posta tra Bergamo e Lecco quasi ad uguale distanza,
  ed è celebre il suo monastero per questa dieta della federazione
  lombarda.

  [175] _Sigon. de Regn. It. l. XIV. p. 320_ — _Acerbus Mor. p. 1133_
  — _Trist. Calchi Hist. Pat. l. XI, p. 268._

In tempo che i consoli delle città ed i loro deputati ritornati alle
proprie case, assoggettavano alle deliberazioni dei parlamenti generali
l'alleanza conchiusa in Pontida, i Milanesi disarmati, e divisi in
aperte borgate, temevano di essere ad ogni istante assaliti dalle
milizie pavesi, cui non erano in grado di far resistenza. Sapevano
essersi resa affatto pubblica l'inchiesta fatta all'assemblea di
Pontida, ed ogni notte poteva essere anticipatamente stata destinata dai
loro nemici per il massacro e l'incendio, e l'avvicinarsi delle tenebre
gli stringeva il cuore di spavento. Circondati da città nemiche che in
meno d'un giorno potevano mandare le loro milizie a sorprenderli, erano
pure continuamente atterriti dagli amichevoli avvisi che i Pavesi davano
ai loro ospiti milanesi[176]. Estrema era la costernazione, quando la
mattina del giorno 27 aprile del 1167 comparvero all'ingresso della
borgata di S. Dionigi dieci cavalieri di Bergamo cogli stendardi del
loro comune; e tenevan loro dietro altrettanti stendardi di Brescia, di
Cremona, di Mantova, di Verona e di Treviso. Venivano dopo loro le
milizie che portavano le armi da distribuirsi ai Milanesi[177]. Gli
abitanti delle quattro borgate riunitisi all'istante, s'avanzarono,
mettendo grida di gioja, verso la distrutta città: colà distribuironsi
tra di loro il lavoro dello sgombramento della fossa e della
ricostruzione delle mura, prima di metter mano alle loro case. Le truppe
della _lega lombarda_, che allora presero tal nome, non ritiraronsi da
Milano finchè que' cittadini non furono a portata di respingere
gl'insulti de' loro nemici, e di non temere un colpo di mano[178].

  [176] _Sire Raul p. 1191._

  [177] _Acta Sancti Galdini apud Bolland. 18 april. p. 594. No. 5.
  notæ ad Morenam p. 1134._

  [178] _Acer. Morena p. 1135_ — _Trist. Cal. Hist. pat. l. XI. p.
  268_ — _Galv. Flam. man. Flor. c. 198, 201. p. 648_ — _Jacobi
  Malvetii Chron. Brix. dist. VII. c. 46, p. 879, t. XIV._

La città di Pavia era così ligia all'imperatore, che niuno lusingavasi
di poterla staccare dai suoi interessi; ma la lega lombarda risguardava
come cosa di somma importanza il guadagnare alla confederazione la città
di Lodi. Questa città posta tra Cremona e Milano diventava in mano
all'imperatore una piazza d'armi troppo dannosa; perchè, occupandola
egli, potrebbe sempre a sua posta intercettare i viveri ai Milanesi, le
di cui campagne erano state in modo ruinate, che lungo tempo dovrebbero
ancora provvedersi di viveri fuori del loro territorio. I Cremonesi che
in ogni tempo furono gli alleati ed i protettori di Lodi, vennero
incaricati del trattato con que' cittadini.

I loro deputati ammessi nel consiglio di Credenza salutarono, com'era di
costumanza, a nome de' loro consoli e di tutto il popolo cremonese, i
consoli ed il popolo lodigiano; indi narrarono ordinatamente quanto essi
avevano fatto fino allora in servigio dell'imperatore, e le ricompense
che ne avevano ricevuto; giustificarono poi i progetti della lega
formata per difendere i comuni diritti, e conchiusero supplicando i
Lodigiani ad unirsi con loro per l'onore della nazione lombarda e per
riclamare unitamente il ristabilimento degli antichi loro privilegi.
Risposero concordemente i Lodigiani, che più tosto che mancar di
riconoscenza al loro liberatore, a colui che aveva rialzate le loro
mura, erano tutti disposti a sacrificare i loro beni e le loro vite.

I Cremonesi gli mandarono una seconda ambasciata, che non ebbe miglior
successo; onde esposero ai deputati riuniti, di Milano, di Bergamo, di
Brescia e di Mantova, il cattivo esito delle loro pratiche. La lega
lombarda, e specialmente queste quattro città rimanevano sommamente
esposte finchè Lodi teneva le parti dell'imperatore, onde i confederati
risolsero di ottenere colla forza ciò che le amichevoli insinuazioni non
avevano ottenuto. Allora riunirono le loro milizie, che furono precedute
da una terza deputazione de' Cremonesi, i quali aggiungendo le minacce
alle preghiere, avvertirono gli antichi loro alleati che una inevitabile
ruina terrebbe dietro all'inconsiderata opposizione ai voti de'
Lombardi.

Risposero i Lodigiani che non potevano credere che i Cremonesi, i quali
a proprie spese e colle loro mani medesime rialzate avevano le loro
mura, volessero oggi assediarle e distruggerle; che volessero massacrare
coloro che gli erano affezionati, amici, ospiti, perchè mantenevansi
costanti nel partito che anch'essi avevano fin allora sostenuto; che
Cremona era sempre stata l'alleata dell'antica Lodi fino all'epoca della
sua ruina; che aveva con tutte le sue forze protette le borgate
ov'eransi riparati i Lodigiani ne' quarant'anni della loro servitù; che
lo stesso affetto aveva fino al presente conservato alla novella Lodi.
Ma che se adesso volevano opprimere i loro antichi amici, i Lodigiani si
esporrebbero al pericolo ond'erano minacciati, piuttosto che mancare ai
giuramenti che li legavano all'imperatore loro benefattore[179].

  [179] _Acerbus Morena Hist. Laud. p. 1135.-1136._

Non consentendo la comune salvezza di lasciarsi smuovere da così
toccanti preghiere, l'armata confederata intraprese l'assedio di Lodi,
facendo ben tosto soffrire agli abitanti una crudel fame. Abbandonati
dall'imperatore che, in luogo di soccorrerli, aveva seco condotta verso
il mezzo dì dell'Italia buona parte delle loro milizie, dopo avere
difesa con tutte le loro forze la sua causa, finirono coll'emettere il
giuramento della lega, ed unirsi ai confederati. Ritirandosi l'armata
che aveva assediato Lodi, attaccò il castello di Trezzo posto tra Milano
e Bergamo, ove l'imperatore aveva lasciati i suoi tesori sotto la
guardia d'una guarnigione tedesca, e presolo dopo lungo assedio, lo
distrussero fino ai fondamenti.

Così prosperi successi aggiungevano ogni giorno nuovi associati alla
confederazione, di modo che avanti che si chiudesse la campagna, la lega
lombarda comprendeva Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara,
Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e
Bologna[180].

  [180] Giuramento dei confederati in decembre del 1167, _ap. Murat.
  Diss. XLVIII, t. IV, p. 261_.

L'imperatore erasi poco prima fatti dare trenta ostaggi da quest'ultima
città, e l'aveva forzata a pagare una grossa contribuzione; ma quando
l'armata tedesca ebbe appena abbandonato il suo territorio, i cittadini
scacciarono il podestà imperiale, ed entrarono nella lega lombarda[181].
Le città d'Imola, Faenza e Forlì che i Tedeschi occuparono nel loro
passaggio, non poterono sottrarsi all'istante al loro giogo.

  [181] _Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 320._

Intanto Federico era giunto ad Ancona. L'imperatore di Costantinopoli,
Manuele Comneno, adombrato dall'ambizione del monarca tedesco, aveva
stretta alleanza cogli Anconitani che facevano ne' suoi stati un
commercio assai vivo. Per ajutarli a difendersi aveva loro mandata una
guarnigione greca e molto danaro. Federico dal canto suo desiderava di
scacciare i Greci da quella città, ma perchè interessi di molta
importanza chiamavanlo a Roma, dopo alcuni infruttuosi tentativi,
vendette per una grossa taglia la libertà alla repubblica d'Ancona[182].

  [182] _Vita Alex. III; a Card. Arag. p. 457._

Gli abitanti d'Albano e di Tuscolo, dichiaratisi a favor
dell'imperatore, negavano di pagare ai Romani i tributi da loro pretesi.
Un'antica animosità nutrivano i Romani contro queste due città, per
soddisfare la quale, più tosto che per vendicare la Chiesa, marciarono
alla fine di maggio contro i Tuscolani, attaccandone le mura, dopo avere
abbruciate le messi e le viti. Rayno conte di Tuscolo, troppo debole per
difenderlo, aveva implorato l'ajuto di Federico, il quale mandò in suo
soccorso Rinaldo arcivescovo eletto di Colonia, che si chiuse nella
città assediata. Non molto dopo Cristiano, arcivescovo eletto di
Magonza, ed il conte di Basville ebbero ordine di avanzarsi con mille
cavalli per obbligare i Romani a levare l'assedio; ma le milizie romane
osarono di marciare contro questa truppa che, quantunque assai minore di
numero, le superava di lunga mano per disciplina e per valore. I
repubblicani non sostennero il primo attacco, ed essendosi posti in
fuga, perdettero circa cinque mila uomini parte uccisi e parte
prigionieri. Giammai, dice lo storico di papa Alessandro che sognava
d'essere ai tempi delle guerre puniche, giammai i Romani, dopo la fatale
disfatta di Canne, avevano perduto tanta gente[183].

  [183] _Vita Alex. III, a Card. Arag. p. 458._

Le milizie romane, vedendo di non poter tenere la campagna, si
affrettarono di riparare le mura della loro città, che si prepararono a
difendere; mentre il papa implorava i soccorsi del re Guglielmo, le di
cui truppe avevano già presa la strada di Roma. Questi furono gli
avvenimenti che determinarono Federico a levar l'assedio d'Ancona,
sentendo quanto importante fosse di arrivare sotto le mura di Roma prima
che venisse fortificata in modo di non temerlo. Il 24 di luglio giunse
avanti la città Leonina, e ne intraprese subito l'attacco. L'imperatore
occupò ben tosto questo quartiere della città debolmente difeso; se non
che trovò una più lunga resistenza nelle guardie del papa che guardavano
la basilica Vaticana trasformata in fortezza, che più volte resero vani
gli attacchi delle truppe tedesche. Riuscendo vana l'opera delle baliste
e delle altre macchine di guerra, Federico ordinò di dar fuoco alla
vicina chiesa di santa Maria[184], le di cui fiamme alzaronsi con tanta
violenza, che coloro che difendevano la basilica Vaticana, temendo di
vederla ad ogni istante investita, convennero di arrendersi. Il papa
spaventato abbandonò il palazzo Laterano, e si rinchiuse nel Coliseo coi
Frangipani, i quali sopra alle grandi volte di questo imponente
monumento avevano formata una fortezza che tenevasi come inespugnabile.

  [184] Sonovi in Roma cinquanta chiese di questo titolo. Questa
  doveva probabilmente essere quella di santa Maria della pietà in
  Campo Santo, eretta da Leone IV. _Vasi Itiner. di Roma, p. 656._

Mentre Federico spingeva caldamente l'assedio di Roma, cercava di
alienare i cittadini da papa Alessandro, offrendo loro moderate
condizioni; cioè che i due competitori rinunciassero alla dignità,
incaricandosi egli di ottenere l'abdicazione di Pasquale, purchè anche i
Romani riducessero a fare tale sacrificio lo stesso Alessandro;
promettendo inoltre di lasciare poi alla Chiesa la piena libertà
d'eleggere il nuovo pontefice. A queste condizioni offriva di levare
l'assedio e di restituire ai Romani tutto quanto aveva fin allora
occupato. Nello stato in cui trovavansi gli assediati, erano queste
troppo vantaggiose condizioni per essere rifiutate; onde pregavano il
papa a fare un sacrificio reso necessario dalle circostanze. Ma
Alessandro fece rispondere dai suoi cardinali, che il sommo pontefice
non era subordinato ad alcun tribunale della terra, nè a quello dei re,
nè a quello de' popoli, nè a quello della Chiesa; e che niuna cosa lo
farebbe scendere dall'alto rango in cui Dio lo aveva collocato. E perchè
temeva che, ammutinandosi il popolo, non lo forzasse ad abdicare il
papato, fuggì segretamente dal Coliseo de' Frangipani, di dove scendendo
per il Tevere fino al mare, andò prima a Terracina, indi a Gaeta, poi a
Benevento. Come i Romani seppero la fuga d'Alessandro, trattarono di
pace coll'imperatore, ammettendo nella loro città i suoi deputati, uno
de' quali fu lo storico Acerbo Morena, ai quali prestarono giuramento
d'essere fedeli a Federico, che dal canto suo confermò i privilegi del
loro senato[185].

  [185] _Vita Alex. III, p. 458. — Ann. Eccles. Baronis. an. 1167, §
  11. — Acerbus Morena p. 1151, 1153. — Romualdus Salern. Chron. p.
  208._

L'armata imperiale aveva incominciato l'assedio di Roma in sul finire di
luglio, quando l'eccessivo ardore dell'estate rende quel clima insalubre
ancora agli abitanti, non che agli uomini del settentrione. Perchè
mentre trovavasi accampata fuori della città, la _febbre maremmana_,
terribile malattia, la di cui violenza non è tutti gli anni uguale, si
manifestò tra i soldati, accompagnata dai più spaventosi caratteri, resi
ancora più terribili dalla loro immaginazione che raddoppiò ben tosto le
stragi della malattia: essi vedevansi sempre avanti agli occhi la chiesa
di santa Maria incenerita dalle sacrileghe loro mani, la basilica
Vaticana sottratta per caso alla medesima sorte, sulla di cui faccia
erano state distrutte dalla violenza del fuoco le miracolose immagini di
Gesù Cristo e di s. Pietro. I preti continuavano a minacciar loro le
vendette del cielo, di cui credevansi già vittima: lo scoraggiamento ed
il terrore erano i primi sintomi della malattia: uguale alla peste per
la prontezza e l'estensione de' suoi guasti, la superava nella durata
del pericolo e per lo stato di debolezza e di spossamento cui trovavansi
ridotti coloro che non morivano. Alcuni perivano lo stesso giorno in cui
cadevano infermi, altri, come accadde allo storico Morena, dopo lunghe
sofferenze. Morena si sentì assalito dalla febbre, ottenne di ritirarsi
dall'armata, e si fece trasportare in lettiga nelle vicinanze di Siena,
ove morì dopo due mesi di languore. I più distinti personaggi
dell'armata e dell'Impero caddero vittime di tanto infortunio.
L'imperatore perdette suo cugino Federico duca di Rotemburgo figliuolo
di Corrado, Guelfo duca di Baviera, Rinaldo suo arcicancelliere
arcivescovo eletto di Baviera, i vescovi di Spira, di Liegi, di
Ratisbona, di Verden, i conti di Nassau, d'Altemont, di Lippa, di
Sultzbach, di Tubinga, più di due mila gentiluomini, ed un numero di
soldati proporzionato a così illustri vittime[186].

  [186] _Contin. Acerbi Morenae p. 1153, 1155. — Vita Alex. III, p.
  459. — Otto de Sancto Blasio Chron. c. 20, p. 878. — Conrad. Abbas
  Usperg. Chron. p. 294._

Questa terribile epidemia fu il colpo più funesto alla causa
dell'imperatore. La perdita di una floridissima armata senza combattere
lo affliggeva assai meno dello scoraggiamento universale de' suoi
sudditi, del giudizio celeste che sembrava aver rovesciato sopra di lui
e sopra i suoi partigiani le disgrazie provocate dalle scomuniche di
Alessandro. I suoi antichi commilitoni, che l'onore e l'affetto verso la
sua persona tenevano sempre a lui vicini, quelli che del 1161
vergognaronsi di lasciarlo in mano degl'Italiani e spontaneamente
vennero a soccorrerlo con una potente armata, erano periti: i due capi
delle case guelfa e ghibellina, ch'egli sapeva mantenere amici al campo,
erano caduti ugualmente vittime della fatal malattia, come pure
l'arcivescovo di Colonia che da molti anni governava per lui la Toscana
e teneva in dovere gl'Italiani. Tutto perdeva in un istante.

Federico oppose il suo coraggio a tante sventure: confidava gli ammalati
della sua armata ai Romani, che, per assicurarlo delle loro cure verso
quegl'infelici, gli davano alcuni ostaggi. Dopo di che, radunando tutti
gli uomini capaci di portar l'armi, s'incamminò verso più salubri climi.
Attraversò egli la Toscana e lo stato lucchese, e penetrando le Alpi
Apuane, condusse gli avanzi della sua armata in val di Magra. Non aveva
in questo viaggio toccato il territorio della confederazione lombarda,
ed era lontano da Pavia soltanto sessanta miglia, ove poteva recarsi
senza avvicinarsi ad alcuna città. Quella di Pontremoli che non aveva
preso parte nella guerra e che non troviamo dopo unita alla lega, gli
rifiutò il passaggio. Quantunque mal fortificata, Federico non credette
di poter ottenere colla forza ciò che veniva negato alle sue preghiere.
Chiuso tra il mare e le montagne omai disperava di poter sottrarsi a
tanto pericolo, quando gli venne incontro il marchese Malaspina, il
quale conducendolo per le strette gole delle montagne de' suoi feudi, lo
ridusse senza incontrar nemici fino a Pavia, ove giunse alla metà di
settembre.

Colà Federico convocò subito una dieta, ordinando ai suoi vassalli
d'andarvi con tutte le milizie di cui potevano disporre; ma il piccolo
numero degl'intervenuti lo convinse dell'abbassamento della pubblica
opinione. I deputati di Pavia, di Novara, di Vercelli e di Como, il
marchese Obizzo Malaspina, il conte di Biandrate, Guglielmo marchese di
Monferrato ed i signori di Belfort, del Seprio e della Martesana,
formarono soli l'assemblea. L'imperatore dipinse nel discorso d'apertura
la condotta delle città federate come un'odiosa ribellione, che non
poteva lasciare impunita senza pregiudizio del suo onore; e, gettando il
guanto in mezzo all'assemblea, giurò di castigare la loro insolenza.
Pose quindi al bando dell'Impero tutte le città confederate, ad
eccezione di Cremona e di Lodi, rispetto alle quali, in vista de' grandi
servigi prestatigli in addietro, non volle giudicarne severamente
l'attuale condotta[187].

  [187] _Continuator Acerbi Morenae p. 1137._

Nel sortire dall'assemblea marciò, alla testa delle truppe de' vassalli
intervenuti, sulle terre di Milano, devastando quella parte di
territorio che confinava con quello di Pavia, cioè i distretti di
Rosate, d'Abbiategrasso, di Corbetta, di Magenta, ed i paesi posti sulla
riva sinistra del Ticino. Le città confederate, prevenute del decreto di
proscrizione, radunarono ancor esse un'assemblea, nella quale si
obbligarono vicendevolmente a scacciar dall'Italia colui che aveva
voluto ridurle a vergognosa servitù. Fissarono in Lodi un corpo di
cavalleria bresciana e bergamasca; un altro in Piacenza di Cremonesi e
Parmigiani; i quali tosto che seppero invaso dalla truppa imperiale il
territorio milanese si avanzarono di concerto colle milizie di Milano
per attaccarla[188]. Ma Federico non osò di avventurare una battaglia
con gente inferiore di numero ai nemici e di dubbia fede. Egli non aveva
che pochissimi soldati tedeschi, perchè quelli che sopravvissero
all'epidemia, credendo d'essere stati salvati per particolare favore del
cielo, o avevano rinunciato al mondo ed abbracciata la vita monastica, o
languivano ancora negli spedali, o vivevano dispersi nella Germania.
Colle milizie pavesi e comasche non altro proponendosi l'imperatore, che
d'arricchire i suoi partigiani colle spoglie de' villaggi nemici, si
ritirò all'avvicinarsi delle truppe della lega al di là dei ponti che i
Pavesi avevano gettati sul Ticino e sul Po, ed andò a foraggiare sul
territorio piacentino.

  [188] _Vita Alex. III, p. 460. — Contin. Acerbi Mor. 1155.-1159. —
  Trist. Calchi Hist. l. XI, p. 271._

Continuando lo stesso metodo di guerreggiare tutto l'inverno, non tardò
ad accorgersi che, invece d'agguerrire con queste piccole scaramuccie i
suoi soldati, andava perdendo in faccia ai medesimi tutta la sua
riputazione, non essendo permesso ad un imperatore il retrocedere ad
ogni istante in presenza di coloro ch'egli trattava da ribelli. (1168)
Risolse perciò di passare in Germania nel mese di marzo 1168, ed eseguì
con tanta segretezza la presa risoluzione, che i Lombardi stessi che
militavano sotto di lui, non ebbero sentore della sua partenza che
quando trovavasi già fuori d'Italia nelle terre del conte Umberto di
Savoja. Passando per Susa quegli abitanti lo sforzarono a rilasciare
tutti gli ostaggi che aveva seco presi, e non gli permisero
d'innoltrarsi sulle montagne finchè non ebbero piena contezza, che niuno
dei trenta cavalieri o poco più che lo accompagnavano, apparteneva
all'Italia[189].

  [189] _Baron. An. 1168, § 75.-78. Epist. Johannis Saresberensis ad
  Sanctum Thomam l. II, ep. 62. In Codice Vaticano._

Il partito imperiale tenuto in piedi soltanto dal coraggio e dai talenti
militari di Federico, cadde affatto dopo la sua partenza. I confederati
ne approfittarono per attaccare il castello di Biandrate, che presero e
distrussero, dopo aver liberati molti ostaggi che v'erano detenuti.
Allora gli abitanti di Novara, di Vercelli, di Como, i feudatarj di
Belforte e del Seprio domandarono caldamente d'essere ammessi nella lega
lombarda, abiurando il partito imperiale[190]. Fecero lo stesso Asti e
Tortona: ed il marchese Obizzo Malaspina, che in principio della guerra
aveva combattuto per la libertà, approfittò della ricordanza degli
antichi servigi, per far dimenticare quelli che aveva di fresco prestati
a Federico, ed entrò anch'esso nella lega lombarda[191].

  [190] _Contin. Acerbi Mor. p. 1139._ Qui termina il racconto di
  questo storico, che malgrado la sua parzialità ci riusciva molto
  utile.

  [191] Questo trattato viene riportato dal Muratori nella _diss.
  XLVIII, t. IV, p. 263_.

E per tal modo non si mantenevano fedeli al partito imperiale che la
città di Pavia ed il marchese Guglielmo di Monferrato. O sia che i
confederati non si credessero abbastanza forti per ridurli colla forza,
o che le vecchie alleanze di molti di loro ne arrestassero le armi, i
confederati si astennero dall'usare la violenza per sottometterli, e si
limitarono a ridurli in istato di non poter nuocere ai federati,
fabbricando fra loro una città soggetta alla lega, che tagliasse la
comunicazione fra i due territorj. Per colorire questo progetto tutte le
truppe di Cremona, Milano e Piacenza portaronsi al confine dei due stati
tra l'alto Monferrato ed il territorio pavese oltre Po, ed in quella
vasta e magnifica pianura scelsero un luogo fortificato dalla natura al
confluente del Tanaro e della Bormida, due de' più grossi fiumi che
scendono dalle montagne poste alla destra del Po. Questi torrenti di un
andamento affatto irregolare, non presentano da per tutto una linea
insormontabile alle armate, perchè non ugualmente profondi, pure i loro
_guadi_ non essendo frequenti nè stabili, e l'ingrossamento delle loro
acque accadendo ogni anno nella stagione in cui i Tedeschi sogliono
stare in campagna, potevano formare una bastante difesa. Altronde la
terra argillosa di quel territorio e profondamente penetrata dall'acqua,
si oppone in tempo d'inverno alla marcia de' soldati, ed al collocamento
del campo; e nella state gl'immensi strati di ghiaja che i fiumi
lasciano scoperti, privi affatto di cespugli e d'arbusti, oltre
l'insoffribile calore che tramandano quando sono percossi dal sole,
espongono da pertutto ai dardi lanciati dalle mura le truppe che
osassero d'avvicinarsi. In questo luogo distante venticinque miglia
all'ovest-sud-ovest da Pavia, quindici miglia al nord da Acqui,
venticinque al sud da Novara, quindici all'oriente da Asti e quaranta da
Milano, i Lombardi fondarono una città destinata a perpetuare la memoria
del loro coraggio e del loro zelo per la causa della religione e della
libertà; la quale città dal nome del capo della lega, e padre dei fedeli
fu chiamata Alessandria. Per renderla più sicura fu circondata di larga
fossa in cui si fecero entrare le acque dei vicini fiumi; e per farla ad
un tempo potente per ricchezze e per gente, vi traslocarono gli abitanti
de' vicini villaggi di Marengo, Garaundia, Berguglio, Unilla e Solestia;
ai quali costruirono sufficienti case, e permisero di darsi un governo
libero e repubblicano. Gli ammisero inoltre a partecipare di tutti i
privilegi per cui i Lombardi avevano prese le armi, e determinarono il
papa a fondare in favor loro un nuovo vescovado. Dopo un anno gli
Alessandrini misero in campagna quindici mila combattenti di ogni
arma[192].

  [192] _Vita Alex. III, a card. Arag. p. 460. — Otto de s. Blas. c.
  22, p. 880. — Benv. de s. Georg. Hist. Montifter. p. 345. t. XXIII,
  Rer. Ital. — Trist. Calchi Hist. Patr. l. XI, p. 272. — Oberti
  Cancel. Ann. Genuenses l. II, p. 324._



CAPITOLO XI.

      _Natura della lega lombarda. — Guerre dell'arcivescovo Cristiano
      luogotenente dell'imperatore contro le città libere. — Assedio
      d'Ancona. — Federico respinto avanti Alessandria, e battuto a
      Lignago; tregua di Venezia; pace di Costanza._

1168 = 1183.


Tutti gli affari della lega lombarda prosperavano; l'imperatore era
stato vergognosamente scacciato dall'Italia ed abbassati i suoi
partigiani, e tranne una sola città, ed un solo gentiluomo, avevano
tutti dovuto abbandonare il partito reale ed abbracciar quello delle
repubbliche. Milano e Tortona, che Federico aveva voluto distruggere,
rialzavansi più floride che mai dalle loro ruine; ed una nuova città,
fondata in onta del suo potere, gli chiudeva la marca del Piemonte, la
sola che, dopo la lega della marca veronese, gli rimaneva aperta:
finalmente quantunque egli dividesse tra i suoi figli l'eredità de'
commilitoni che aveva perduti nella fatale impresa di Roma, infiniti
ostacoli incontrava nell'allestimento d'una nuova armata che lo
mettevano fuor di speranza di vincere la triplice alleanza che gli
opponevano la religione, la libertà ed il clima.

Da ambo le parti consumaronsi sei anni in approvigionamenti per nuove
guerre. Momento importante, momento unico nella successione de' secoli,
in cui l'Italia poteva fondare una repubblica federativa; momento
sgraziatamente perduto perchè non produsse che una lega passaggiera, una
semplice coalizione.

La circostanza singolarmente favorevole per formare un governo
federativo è quella di popoli liberi minacciati da potente invasione.
Dove regna la libertà, il principio della forza è l'amor di patria; e
quest'amore non è mai così appassionato, nè ricerca l'anima più
profondamente che allorquando la patria trovasi chiusa entro stretti
limiti, ed entro il ricinto delle stesse mura vi presenta la culla della
vostra infanzia, i testimonj, i compagni, i rivali tra i quali dovete
distinguervi nella carriera che unica vi è aperta, infine l'intero
stato, di cui voi ne dividete la sovranità coi vostri concittadini.
Nelle piccole repubbliche ognuno si sforza di elevarsi fino al più alto
grado cui può giungere l'uomo; e nelle repubbliche federate finchè la
libertà è minacciata da potente nemico, ogni piccolo stato che la
compone spiega tutta l'energia di cui è suscettibile. Non lentezza nelle
deliberazioni, non esitanza nelle misure, perchè un sommo interesse
maggiore d'ogni altro riunisce tutti gli animi. È forza difendersi,
vincere, rispingere l'invasione, spezzare il giogo del dispotismo.
L'entusiasmo, la di cui potenza è sempre superiore a quella d'un
governo, comunque forte si creda, riunisce gli stati separati, e dà un
centro d'azione, un centro di potenza a quell'ammasso di repubbliche che
risguardavasi come sì debole. Le fazioni che sovente dividono le città,
si calmano quando possono riuscir dannose alla indipendenza nazionale; o
se si agitano ancora, i loro movimenti rimangono stranieri
all'amministrazione generale, ed allora poco importa che trionfi l'una
fazione o l'altra, perchè la massa del popolo si dirigerà sempre verso
lo stesso scopo. Le federazioni che mancano d'unione e di forza allorchè
trattasi di conquistare lontane province, fino dalla loro nascita sono
eminentemente energiche per difendere la loro libertà[193].

  [193] Il nostro autore avrebbe dovuto avvertire l'enorme
  disuguaglianza delle città componenti la lega e la ricchezza del
  loro territorio, potentissimi ostacoli al mantenimento di un governo
  federativo. _N. d. T._

Se diamo un'occhiata alla storia di tutte le federazioni, non ne
incontreremo una sola che nata non sia nell'istante di dover respingere
l'attacco d'un oppressore; niuna che non abbia trionfato di nemici
infinitamente superiori in numero ed in forze. I re macedoni furono
vinti dagli Ateniesi, il duca d'Austria dagli Svizzeri, Filippo re di
Spagna dagli Olandesi, Giorgio III d'Inghilterra dagli Americani.
L'esempio de' Lombardi è ancora più notabile; non ebbero bisogno d'una
federazione, ma bastò loro una semplice lega mal organizzata per
iscuotere il giogo del più valoroso e potente imperator d'Occidente.
Tanto è vero che ne' piccoli stati in cui il sentimento della patria ha
tutto il suo vigore, l'amore della libertà è un'arma vittoriosa contro
il despotismo.

Una repubblica federativa in Lombardia non poteva trionfare di Federico
Barbarossa che nel modo medesimo con cui trionfò la _società lombarda_;
ma la prima dopo il suo trionfo avrebbe saputo meglio preservarsi dalle
fazioni, dalle guerre senz'oggetto, dalla corruzione, o dalla tirannia:
con una costituzione federativa l'Italia sarebbesi mantenuta libera, e
le sue porte non sarebbero rimaste sempre aperte ai conquistatori che si
fan giuoco della felicità de' popoli.

Ma il concepimento d'una costituzione federativa è una delle più elevate
ed astratte idee che possa produrre lo studio delle combinazioni
politiche. Non è quindi maraviglia che uomini appena civilizzati non
abbiano potuto afferrarla; che uomini che abborrivano il legame sociale
cui erano stati subordinati, uomini che confondevano l'idea della loro
salvezza con quella dell'indipendenza della propria città, non volessero
ad alcun patto limitare questa indipendenza e rigettassero il pensiero
di subordinare alle decisioni di un congresso straniero la pace, la
guerra, le imposte, le spese, nel tempo stesso che ricuperavano appunto
il diritto di regolare da se medesimi tutti questi oggetti. Dobbiamo
compiangerli che non abbiano saputo approfittare più vantaggiosamente
della loro situazione, ma dobbiamo ancora scusarli se non seppero
innalzarsi a quelle idee che sfuggono talvolta alle meditazioni de'
popoli assai più illuminati.

Troppo mancò alla lega lombarda perchè possa risguardarsi come una
repubblica federativa, il di cui governo centrale dirizza le relazioni
esterne, e ne mantiene la dignità; che anzi si troverà mancante,
considerandola solamente come semplice coalizione. Da alcuni atti
originali di adesione alla società lombarda, che ci sono stati
conservati, vediamo che i confederati promettevano soltanto di non far
pace o tregua coll'imperadore e suoi partigiani e di non rallentare la
guerra contro di lui senza l'assenso di tutti[194]; promettendo, se
Federico scendesse ancora in Italia, d'impugnare le armi contro di lui e
contro i suoi aderenti finchè venisse forzato a ripassar in Germania.

  [194] _Murat. Diss. XLVIII, p. 265, 266._ — Nella formola del
  giuramento trovansi queste parole: _neque pacem, neque treguam,
  neque guerram recruditam cum imperatore faciam_.

Niuna convenzione determinava il numero de' soldati che ogni città
doveva all'armata confederata, perchè si suppose che ciascuna
adoprerebbe tutte le sue forze per respingere il comune nemico; che
quando una delle città più esposte agli attentati del nemico chiederebbe
il soccorso delle altre, e si manderebbero tutti i soldati di cui
potrebbero disporre senza pericolo. La lega non pensò pure a formare un
tesoro pubblico, ed i federati non si obbligavano che all'eventuale
contribuzione destinata a rifare i danni della guerra, nel caso che
qualche città, soggiacesse alle armi imperiali.

La lega mancava pure di adunanze regolari, alle quali supplivano
accidentali unioni dei consoli e dei podestà delle città, che adunavansi
per prendere qualche deliberazione in comune, che poi, ritornando alla
rispettiva città, assoggettavano all'approvazione de' loro concittadini.
I membri del congresso avevano il titolo di rettori dell'associazione
delle città, e sceglievano tra di loro un presidente[195].

  [195] Giuramento del reggente dell'associazione delle città in
  gennajo 1176. _Murat. Ant. It. Diss. XLVIII, p. 269._

Nell'assenza dell'imperatore la lega acquistò maggior consistenza, e
stendendosi al mezzogiorno d'Italia ricevette i giuramenti delle città
della Romagna, Ravenna, Rimini, Imola e Forlì; le quali per altro non
sostennero mai con molto zelo la guerra della libertà.

L'imperatore intanto non rimaneva affatto inerte; e, mentre andava
allestendo una nuova armata per invadere la Lombardia, cercava con
segrete pratiche di separare gli alleati che voleva attaccare. Si provò
pure d'entrare in privati trattati col papa, o con Guglielmo re di
Sicilia, o con ciascuna delle città; ma tutte le proposizioni che
miravano ad isolar gli alleati, furono costantemente rigettate. (1171)
Spedì in appresso ai suoi aderenti in Italia, per tenerli a se devoti,
Cristiano arcivescovo eletto di Magonza e cancelliere dell'Impero.
Questo prelato guerriero attraversò la Lombardia con tanta rapidità, che
non si pensò pure ad impedirne la marcia; e giunto in Toscana prese
parte nelle guerre di quelle città, strettamente collegandosi con quelle
del partito imperiale; ed in tal modo ottenne di formarsi colle loro
milizie una ragguardevole armata dipendente da' suoi voleri.

Intanto i Pisani ed i Genovesi continuavano a farsi un'arrabbiata
guerra, e la loro discordia aveva divisa tutta la Toscana. Fino del 1169
i Genovesi avevano guadagnata Lucca al loro partito, ed in appresso
contrassero pure alleanza con Siena e Pistoja e col conte Guido Guerra
il più potente feudatario della Toscana[196]. I Pisani invece eransi
collegati con Fiorenza e con Prato, ed essendosi avveduti che
l'arcivescovo Cristiano, rappresentante dell'imperatore d'Occidente in
Italia, stava per i loro nemici, si rivolsero a Manuele Comneno
imperatore d'Oriente, che abbracciava con piacere tutte le occasioni di
acquistar credito presso i Latini. Essi spedirono deputati a
Costantinopoli, e Manuele ne spedì a loro; ed un'alleanza onorevole e
vantaggiosa alla repubblica fu il frutto delle loro pratiche.
L'imperator Greco rese ai Pisani le franchigie di cui godevano ne' porti
del suo impero, e si obbligò per quindici anni a pagare ogni anno alla
città di Pisa cinquecento bisanti d'oro, e due tappeti di seta e
quaranta bisanti ed un tappeto al suo arcivescovo[197]. Poteva
risguardarsi il danaro come una pensione pagata da uno stato potente ad
un debole, ma quella del tappeto, o stoffa di seta è una condizione più
straordinaria, un tributo in apparenza umiliante per chi lo dà, glorioso
per chi lo riceve; e reca sorpresa che i ministri imperiali lo
accordassero. Pure gli ambasciatori greci che dimoravano in Pisa,
ammessi in piena adunanza del popolo, convalidarono col loro giuramento
questa nuova alleanza.

  [196] Intorno ai dominj ed alla successione dei conti Guido veggansi
  le _ricerche di Fr. Idelfonso da s. Luigi. Delizie degli eruditi
  toscani t. VIII, p. 89 e 195_.

  [197] _Breviar. Pisanae Hist. Rer. Ital. t. VI, p. 186._

Quando Cristiano seppe che i Pisani avevano fatto questo trattato,
s'indispose più che prima contro di loro; pure, dissimulando il suo mal
contento, visitò come ambasciatore di Federico la città di Pisa, siccome
quelle di Genova e di Lucca offrendo (1172) l'arbitramento del suo
padrone per decidere le loro liti; ma i Pisani che dovevano aver
sospetta la sua imparzialità, ricusarono l'offerta, onde l'arcivescovo
adirato li pose al bando dell'Impero, spogliandoli in pari tempo del
diritto di battere danaro e della sovranità dell'isola di Sardegna.

(1178) In luglio del susseguente anno, Cristiano finse di voler
ristabilire la concordia tra le comuni toscane, onde levò il bando
pubblicato contro di Pisa, ed essendosi portato in questa città, stabilì
avanti al di lei parlamento, ed alla presenza dei consoli delle città
rivali, i preliminari di una pace, della quale fece giurare l'osservanza
a tutti i consoli presenti. Non molto dopo convocò un'altra dieta a s.
Ginasio in Val d'Arno inferiore, ad oggetto, dicev'egli, di dar l'ultima
mano al trattato; ma quando v'arrivarono i magistrati di Pisa e di
Fiorenza, lì fece arrestare e chiudere in una carcere[198].

  [198] _Cron. di Bern. Marangoni p. 436. Brev. Pis. Hist. t. VI, p.
  187._

Siccome Pisa e Fiorenza non eransi ancora dichiarate contro
l'imperatore, nè avevano presa parte alla lega lombarda, avrebbe dovuto
risguardarsi come ingiusta ed impolitica la condotta di Cristiano, il
quale moltiplicava senza necessità i nemici del suo padrone[199]; pure
ottenne l'intento che si era proposto, perchè obbligò gli alleati
dell'Impero a porsi senza riserva sotto la sua dipendenza, ed a
sostenere più vigorosamente ciò che prima non era che una privata
contesa. S'egli si fosse limitato all'ufficio di mediatore, sarebbe
rimasto senza credito e senza forze: fatto capo di partito, fu posto
alla testa d'una potente armata, che allestirono i Pistojesi, i Sienesi,
i Lucchesi ed i gentiluomini della Toscana, dell'Ombria e della Romagna;
e con quest'armata si fece a devastare il territorio fiorentino.

  [199] Le Cronache di Pisa accusano Cristiano d'essersi lasciato
  guadagnare dall'oro de' Lucchesi.

Non tardarono i Pisani a spedire in soccorso dei loro alleati duecento
venticinque cavalli sotto il comando di due consoli; e facendo ad un
tempo una gagliarda diversione nel territorio lucchese, richiamarono i
Lucchesi a difendere il loro paese. Il 17 agosto a Ponte fosco, ed il 28
a Monte calvoli furono i Pisani vittoriosi dei loro nemici: ma non
furono ugualmente fortunati in mare, ove perdettero in un incontro avuto
colla flotta genovese più galere che i loro nemici[200].

  [200] _Brev. Pisanae Hist. p. 188. An. Genuens. t. II, p. 347. e
  seguenti._

Quantunque in questa prima campagna l'arcivescovo Cristiano non
riportasse alcun segnalato vantaggio, disciplinò la sua armata e la
rinforzò assoldando molti soldati tedeschi che, rimasti in Italia dopo
la ritirata di Federico, non tardarono a raggiungere gli stendardi
imperiali. In principio del susseguente anno Cristiano condusse le sue
truppe ad un'impresa di maggiore importanza.

Quantunque la città d'Ancona non avesse presa parte nella lega lombarda,
era diventata esosa all'imperatore Federico ponendosi sotto la
protezione di Manuele Comneno. Possessori del miglior porto che forse
abbia la costa orientale d'Italia, eransi gli Anconitani dedicati con
tanto profitto al commercio di Levante, che i Veneziani, i quali
pretendevano d'avere l'esclusivo dominio dell'Adriatico, eransi
ingelositi della loro concorrenza. Vero è che la repubblica veneta aveva
da principio dato il suo nome alla federazione lombarda, nè finora erasi
riconciliata coll'imperatore d'Occidente[201]: ma ad ogni modo
preponendo Cristiano a queste considerazioni l'interesse del suo
padrone, allorchè risolse d'intraprendere l'assedio d'Ancona, approfittò
della gelosia de' Veneziani, e fu potentemente soccorso[202].

  [201] Eransi i Veneziani disgustati nel 1171 con Manuele Comneno, il
  quale prima di dichiarar loro la guerra aveva fatto arrestare tutti
  i negozianti veneti, e porre sotto custodia le loro mercanzie.
  Questa nuova lite li consigliò a cercar l'alleanza di Federico,
  abbandonando la lega lombarda amica di Manuele. _Jo. Cinnami Hist.
  l. VI, c. 10. p. 128._

  [202] Boncompagno dotto Fiorentino, che fu il primo professore di
  belle lettere nell'università di Bologna, scrisse cinquant'anni più
  tardi una elegante relazione di quest'assedio. Probabilmente è
  questi lo scrittore indicato dal Sigonio col nome di Beno
  Fiorentino. _L. V, anno 1218._ Tale relazione trovasi nel _tom. VI,
  R. Ital. del Murat. p. 921_. sotto il titolo _Liber de obsidione
  Anconae auctore Magistro Boncompagno Florentino_.

Il primo giorno d'aprile del 1174 una flotta veneziana provveduta di
baliste e di altre macchine guerresche entrò nel porto d'Ancona per
assediar la città dalla banda del mare, mentre l'arcivescovo di Magonza
s'avvicinava dall'altra parte alla testa di un'armata, che aveva
ingrossata in Toscana nel precedente anno con reclute tedesche e
recentemente colle milizie d'Osimo e dei feudatari della marca[203].

  [203] _Boncomp. de obsid. Anconae p. 929._

Una diramazione delle montagne del Piceno forma il promontorio su cui è
fabbricata la città d'Ancona. Questo promontorio s'avanza nell'Adriatico
da ponente a levante, e ripiegandosi presso all'estremità verso
settentrione forma un vasto seno intorno al quale s'alza la città a
guisa d'anfiteatro lungo un ripido pendìo dal livello del mare fino alla
bipartita sommità della montagna. Una delle sommità trovasi adesso
occupata da un convento di cappuccini, l'altra dalla chiesa cattedrale,
dal di cui porticato vedonsi a destra le nevose montagne della Dalmazia,
a sinistra la ridente svariata costa dell'Emilia, mentre il sole sembra
nascere e coricarsi nelle onde. Il rovescio della montagna dalla banda
dell'alto mare è tanto scosceso, che rende inutili le fortificazioni
dell'arte. Di verso terra la città è accessibile da un solo lato; e la
stessa porta conduce a Sinigaglia posta a settentrione, come a Recanati
che trovasi a mezzogiorno, ed oggi a Loreto che allora non esisteva.
Apresi questa porta sopra un angusto piano fra il porto e le montagne,
colle quali si comunica per mezzo di una seconda porta. L'apertura del
porto verso settentrione viene in parte chiuso da un antico molo, lavoro
romano, ornato da un arco trionfale eretto in onore di Trajano; ma la
bocca del porto è tuttavia troppo larga tanto per assicurare le navi dai
colpi di vento, che la città dalle aggressioni nemiche. Le galee
veneziane ne approfittarono e vennero a dar fondo in faccia allo sbarco
della città.

La prima operazione che facesse l'arcivescovo di Magonza tostochè
s'avvicinò ad Ancona, fu quella di devastarne il territorio, facendo
svellere le viti, gli ulivi, ed ogni altro albero fruttifero, e
distruggendo tutto quanto poteva servire d'alimento agli uomini. Da
principio cercarono gli Anconitani di opporsi a tanta ruina, ma non
sentendosi abbastanza forti per mantenersi in campagna, perchè era assai
limitata la popolazione della città, e di questa ancora parte trovavasi
lontana per oggetti di commercio, si videro costretti a ridursi entro le
mura, dopo aver sofferto qualche perdita.

Ancona era mal provveduta di vittovaglie, sì perchè il raccolto del
precedente anno non fu abbondante, come perchè gli abitanti non
credendosi minacciati d'assedio vicino, aspettavano il prossimo raccolto
per riempire i loro granai. Ma la presente messe fu distrutta dal fuoco
nemico senza che gli Anconitani potessero mettere nulla in salvo, ed il
porto era chiuso dalla flotta veneziana, onde a mezza estate
incominciarono a soffrire la fame. N'ebbe avviso l'arcivescovo, il
quale, quantunque avesse già accostato alle mura e baliste e torri
movibili, aveva però evitato ogni incontro, nè tentato verun assalto
contro la città. Supponendo adesso di trovare i cittadini indeboliti
dalla fame, fece suonare la carica, ed avanzar l'armata fin sotto le
mura per dare un generale assalto. I cittadini riuniti dal martellare
delle campane uscirono contro ai nemici combattendo valorosamente. La
flotta veneziana approfittando del tumulto s'accostò alla città per
isbarcare la truppa sulla spiaggia; ma avendo i consoli opposte loro le
compagnie del porto, continuarono col rimanente della milizia a
combattere contro gl'imperiali, che furono respinti fino al di là delle
loro macchine, senza che però ardissero incendiarle, venendo difese
dagli arcieri che gettavano una grandine di freccie e di sassi. Ciò
vedendo una vedova nominata Stamura, prese un legno acceso, e
lanciandosi verso le torri in mezzo alle freccie, non si ritirò finchè
non fu sicura che il fuoco appiccato alle macchine non poteva più essere
spento. Incendiate tutte le macchine d'assedio, i Tedeschi battuti
allontanaronsi dalla città, e gli Anconitani levarono dal campo molti
cavalli, di cui nutrironsi alcun tempo. Anche i Veneziani furono
costretti di ritirarsi colla perdita di molti uomini, resa più grande
pochi giorni dopo. Gli Anconitani, approfittando di un vento di mare
gagliardissimo, fecero tagliare da alcuni palombari le gomene delle
ancore, e s'impadronirono di sette navi portate dal vento sulla spiaggia
della città[204].

  [204] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 4. p. 931._

Malgrado questi passaggieri avvenimenti, la situazione degli Anconitani
diventava ogni giorno peggiore. Cercarono perciò di far la pace coi loro
nemici; e fecero offrire a Cristiano una grossa somma d'oro perchè
levasse l'assedio; ma questi rispose che aveva giurato di non accordare
capitolazione, e che non rimaneva loro verun altro partito che di darsi
essi e la città a discrezione.

Il deputato fu ammesso a render conto della sua missione in presenza dei
consoli e del consiglio generale; i quali avanti di nulla risolvere
incaricarono dodici uomini probi di prender conoscenza in tutta la città
de' viveri che ancora rimanevano e di darne conto all'assemblea. A
fronte dell'estrema diligenza adoperata dai delegati non solo nelle case
dei cittadini, ma ancora ne' ripostigli delle chiese, non trovarono che
sei sacchi di frumento e nove sacchi di grano primaticcio[205]. Pochi
giorni avanti erasi fatta ricerca di uovi per medicare le ferite, e non
se ne trovarono dodici in tutta la città, che allora aveva dodici mila
abitanti d'ambo i sessi.

  [205] L'autore dice due, e tre moggia. La misura attuale d'Ancona si
  chiama rubbia, e pesa seicento quaranta libbre di dodici once. Ho
  supposto che sia l'antico moggio.

All'indomani i dodici delegati esposero all'assemblea il risultato delle
loro ricerche, cui i cittadini non risposero che coi gemiti. Sembrava
omai impossibile a tutti il poter sottrarsi all'infelice loro destino; e
molti proponevano d'arrendersi, altri esser meglio morire combattendo
che sopravvivere alla ruina della patria, quando un vecchio cieco di
quasi cent'anni, appoggiandosi al suo bastone, si levò in mezzo
dell'assemblea e disse: «Cittadini d'Ancona, io ero console di questa
città quando il re Lotario l'assediò con una potente armata. Pretendeva
ridurci in servitù; ma fu forzato di ritirarsi vergognosamente. Prima e
dopo di lui altri re ed imperatori che assalirono la nostra patria, non
ebbero miglior successo. Qual vergogna per noi se questa città che
resistette alla loro potenza, cedesse ora ad un prete, ed un vescovo
trionfasse dei nostri soldati? Rammentate, o cittadini, la mala fede de'
nemici e l'odio de' Tedeschi contro il nome latino: non vi sovviene più
di Milano che Federico ha poc'anzi distrutto malgrado le contrarie
promesse? e tenete per fermo che la vostra dedizione all'arcivescovo di
Magonza sarebbe il maggiore de' vostri mali. Fate adunque un estremo
sforzo per ottener soccorso dai vostri alleati; e, se non riesce,
gettiamo in mare colle nostre mani tutte le nostre ricchezze per
toglierle al vincitore, ed andiamo a morire combattendo valorosamente
contro di lui[206].»

  [206] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 10. p. 933._ I discorsi che si
  attribuiscono ai personaggi storici sogliono considerarsi come
  verosimili invenzioni dello scrittore: ma quand'anche il presente
  fosse di Buoncompagni e non del vecchio cui viene attribuito,
  l'avversione che l'autore manifesta per la servitù dei preti non
  sarebbe meno notabile in un professore guelfo di Bologna, che in un
  abitante d'Ancona. Sono in un modo o nell'altro le opinioni di quel
  secolo, e poco monta il sapere chi le manifestasse. Ho abbreviato
  alquanto il discorso, senza farvi verun altro cambiamento.

Degli alleati d'Ancona che potessero soccorrerla in così pressanti
strettezze, non eranvi che la contessa di Bertinoro della nobile
famiglia de' Frangipani di Roma, padrona del ricco feudo di Bertinoro in
Romagna[207], e Guglielmo degli Aderaldi di Marchesella, uno de' capi
del partito guelfo in Ferrara. I cittadini d'Ancona scelsero tre
gentiluomini, i quali montati sopra una barca con quanto danaro poteron
raccogliere, furono abbastanza avveduti o fortunati per uscir dal porto
bloccato dalla flotta veneziana.

  [207] Il castello di Bertinoro, che già appartenne alla contessa
  Matilde, è posto tra Forlì e Cesena vicino a Forlimpopoli.

Intanto la fame non era omai più sopportabile; e consumati tutti i cibi
salubri gli si sostituivano carni infette, cuoi, erbe selvatiche,
ortiche di mare che strappavansi sotto agli scogli benchè si credessero
velenose. Erano gli Anconitani in così misero stato ridotti che appena
potevan reggersi in piedi e portar le armi, e soltanto quando erano
chiamati dal martellar della campana, l'amor di patria e di libertà
rendeva loro lo smarrito vigore, e lanciavansi tra i nemici con tanta
forza ed ardire, che questi ne rimanevano sorpresi ed avviliti. Una
gentildonna giovane e bella, recandosi con un fanciullo in braccio
ch'ella allattava, presso a porta Balista, vide uno de' soldati di
guardia giacente in terra, al quale chiedendo la nobil donna perchè
rimanesse inattivo, risposele trovarsi in modo consumato dalla fame, che
non credeva poter vivere più d'un'ora. «Sono già quindici giorni,
soggiunse l'altra, che io non mangio che cuojo bollito, ed il latte
incomincia a scemarsi; pure alzati, e se il mio seno ne contiene ancora,
avvicina le tue labbra e ristorati per difendere la patria.» Il soldato
scosso da queste parole alzò il capo e vergognandosi della generosa
offerta della conosciuta gentildonna, presa la rotella e la spada si
lanciò con tanto furore tra gli assedianti, che ne uccise quattro avanti
di cadere sotto i loro colpi[208].

  [208] _Boncomp. Obsidio Anconae c. 11, p. 37._

Gli Anconitani sostennero tante miserie con una costanza senza esempio,
perchè da più giorni non avevano veruna notizia de' loro deputati.
Giunti questi a Ferrara trovarono in Guglielmo Marchesella e nella
contessa di Bertinoro due fedeli e zelanti amici. Il primo, non bastando
il danaro portato dagli Anconitani per assoldare la truppa che credeva
necessaria all'impresa, obbligò tutto il suo patrimonio ed il suo
credito per una grossa somma presa a censo. Alle truppe di Marchesella
la contessa aggiunse tutti i suoi vassalli; in modo che si formò
un'armata di dodici coorti di cavalleria, cadauna di duecento uomini, e
d'un corpo ancora più numeroso di pedoni; la quale s'avanzò all'istante
per il territorio di Ravenna, da cui con uno stratagemma eransi fatti
allontanare i nemici, che ne occupavano la strada. Il quarto giorno
s'accampò sul monte di Falcognara, dalla di cui sommità scoprivasi in
distanza di quattro miglia Ancona ed il magnifico suo golfo. Quando fu
notte Guglielmo Marchesella ordinò ad ogni soldato di attaccare alla sua
lancia due o tre lumi; poi discese alla loro testa il rovescio della
montagna, facendo occupare alle sue genti la maggiore estensione
possibile. Gli avamposti dell'arcivescovo, ingannati dalla quantità dei
lumi, credettero l'armata più numerosa di quel ch'era veramente.
L'arcivescovo stesso, spaventato dalle grida di gioja dei soldati, che
facevan eco alle esortazioni di Guglielmo e della contessa, e dalle
grida degli Anconitani che dal portico della cattedrale vedevano
avanzarsi i loro liberatori, diede ordine di ritirarsi. La medesima
notte trasportò il campo sulla prima montagna del Piceno, di dove, dopo
poche ore di riposo, si rimise in cammino per entrare nel ducato di
Spoleti. I Veneziani, vedendosi abbandonati dall'armata di terra,
s'allontanarono dalla liberata città, i di cui cittadini, soccorsi dai
loro fedeli alleati, approfittarono di quel subito terrore ch'erasi
impadronito dei loro nemici, per introdurre in città tanta quantità di
viveri che non avessero ad essere affamati da più lungo assedio.
Guglielmo Marchesella lasciò presto Ancona per recarsi a Costantinopoli,
ove da Manuele Comneno fu magnificamente ricevuto e splendidamente
regalato per i soccorsi dati ai suoi protetti[209].

  [209] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 24. p. 944. — Joan. Cinnami
  Hist. l. VI, c. 12. p. 131. Bisan. Ven. t. XI._ — Il Cinnamo non
  parla che della contessa, e le attribuisce una compiuta vittoria
  sull'armata del prelato. — _Romuald. Salernit. Chron, p. 214._

In quest'anno finalmente furono ridotti a termine i grandi apparecchi di
cui occupossi Federico nella lunga sua permanenza in Germania; ed i
Lombardi seppero in ottobre, che l'imperatore attraversava le Alpi con
un'armata non meno potente di quelle che aveva altre volte condotte
contro di loro. Dopo aver superate le Alpi della Savoja, calò in Italia
dal monte Cenisio e diede alle fiamme Susa posta a piè dell'Alpi per
vendicarsi dell'umiliazione che vi aveva sofferta sei anni prima quando
vi passò fuggiasco. Si diresse in seguito contro d'Asti, città da lungo
tempo associata alla lega lombarda[210].

  [210] _Vita Alex. III, a Card. Arrag. p. 463._

I confederati preferivano all'incertezza di una battaglia generale nella
quale tutte le probabilità della vittoria erano per Federico, la
lentezza degli assedj in cui le truppe allemanne spossavansi e
s'annoiavano. Si ristrinsero perciò a mandare alcuni deputati ai
cittadini d'Asti, esortandoli a difendersi coraggiosamente e promettendo
loro che, quando stringesse il pericolo, farebbero avanzare un'armata in
loro soccorso. Ma gli abitanti d'Asti, spaventati dal numero e dalla
ferocia delle truppe condotte da Federico, e soprattutto temendo i
Fiamminghi che formavano il nerbo della sua armata, si arresero,
recandogli le chiave della città senza combattere.

Allora l'imperatore si mosse verso Alessandria, ove dovevano
raggiungerlo le milizie pavesi e quelle del marchese di Monferrato.
Intanto le piogge autunnali avevano a dismisura ingrossati i fiumi e
ritardata la marcia dell'armata imperiale; lo che accrebbe il coraggio
degli Alessandrini, che risguardarono quest'avvenimento come un soccorso
del cielo.

Ma a fronte delle piogge, delle nevi e dei rigori dell'imminente
inverno, malgrado il terreno fangoso, Federico s'accampò avanti
Alessandria. Conobbe a colpo d'occhio che la sola difesa della città
dopo il Tanaro, era la fossa che la circondava; non essendosi ancora
innalzate nè mura nè torri per sostenere i baluardi, che formati essendo
di fango e legati colla paglia, gli fecero dare il nome, che gli è
rimasto fino ai nostri giorni di _Alessandria della paglia_[211].
Lusingavasi per ciò di poterla prendere d'assalto, sicchè dopo aver
distribuite le macchine da guerra lungo i baluardi, fece suonar la
carica: ma gli Alessandrini si difesero così valorosamente, che
rispinsero gli assalitori fino al di là delle loro baliste, che furono
prese ed abbruciate, mentre i tedeschi fuggivano disordinati verso il
campo.

  [211] _Romualdi Salern. Chron. p. 213._

Federico non si lasciò ributtare da questa perdita, risoluto di
continuare fino all'estremo l'assedio d'una città fabbricata in onta
sua. Invano cercarono i suoi generali di sconsigliarlo da un'impresa in
cui dovevasi più combattere contro gli elementi che contro gli uomini:
il freddo crebbe ben tosto a dismisura, mancarono i viveri al campo, e
la diserzione facevasi ogni giorno maggiore. (1175) Egli solo non si
scoraggiava, e quattro mesi continui di rigoroso inverno, sempre
contrariato dalle inondazioni, dalla fame, dalle malattie, non lo
rimossero dall'assedio che andava stringendo sempre più con maggior
ardore. Niuno dei mezzi praticati per vincere le città fu da lui
trascurato, e l'ultimo fu la mina. Egli fece aprire una galleria che
avanzavasi sotto la città: questo lavoro assai malagevole in una
stagione piovosa e più in un terreno pantanoso, fu malgrado l'estrema
sua lunghezza continuato con tanto segreto, che gli Alessandrini non se
ne avvidero che all'istante in cui le truppe imperiali uscivano dalla
galleria nella pubblica piazza. Ma prima di questo avvenimento, gli
Alessandrini, dopo un assedio di quattro mesi, avevano chiesto soccorso
alla lega lombarda.

La dieta erasi adunata in Modena, ove fu appena informata dello stato
d'Alessandria, che determinò di far levare l'assedio e di
approvvisionarla. Ordinò pertanto di far marciare tutte le truppe delle
repubbliche alleate, facendo tener dietro all'armata un convoglio di
vittovaglie. Il contingente di tutte le città in cavalleria, in fanteria
e danaro per far acquisto di viveri, fu tosto stabilito, ed i consoli di
tutti i comuni ne giurarono l'esecuzione. A mezza quaresima l'armata
alleata trovossi unita presso Piacenza, di dove si pose in cammino
accompagnata da un convoglio di carri, mentre un altro convoglio di
battelli rimontava le acque par raggiungerlo sulle rive del Tanaro. La
domenica delle palme i confederati s'accamparono presso Tortona in
distanza di sole dieci miglia dal quartier generale di Federico; il
quale, avvertito del loro arrivo, e disperato[212] di veder andata a
vuoto un'impresa cui sembrava attaccato il suo onore e la sua potenza,
scese fino al tradimento. Egli offrì agli assediati una tregua per
celebrare il venerdì santo, e mentre questi riposavansi sicuri sulla
santità del giuramento, fece entrare a notte non molto innoltrata i suoi
soldati nella città per la mina che aveva fatto aprire[213]. Per buona
sorte le scolte repubblicane s'accorsero del tradimento, e chiamarono
all'armi i cittadini. Lo sdegno accresceva le forze degli assediati.
Tutti i Tedeschi entrati in città furono uccisi o forzati di
precipitarsi dai bastioni, e coloro che trovavansi nella galleria della
mina soffocati dal terreno che si fece smottare. Gli Alessandrini
aprirono in seguito le porte, e gettandosi furibondi sulle truppe
imperiali le fugarono, ed incenerirono la torre di legno preparata per
attaccare le loro fortificazioni.

  [212] _Sigonius de Regno Ital. Lib. XIV, p. 326._

  [213] _Vita Alex. III p. 464 — Sire Raul p. 1292 — Romualdi Saler.
  Chron. p. 213 — Trist. Calchi Hist. patr. Lib. XII, p. 227 — Ottob.
  Scribæ Annal. Genuens. l. III, p. 552 — Olio de Sancto Blasio c. 25.
  p. 881._

Federico respinto dagli assediati, e minacciato dall'armata lombarda,
non poteva più lusingarsi di ridurre Alessandria in suo potere; onde la
susseguente notte fece metter fuoco al suo campo, ed il giorno di Pasqua
s'avviò verso Pavia. I confederati erano accampati in luogo di poter
impedirgli il passaggio, e la loro armata assai più numerosa
dell'imperiale ne assicurava la disfatta ove fosse stata costretta di
venire a battaglia. Ma Federico si credette guarentito dal rispetto che
imprimeva ancora la dignità imperiale sull'animo di nemici poc'anzi suoi
sudditi, persuadendosi che non lo avrebbero attaccato i primi, e
l'avvenimento giustificò i suoi calcoli.

Quando i Lombardi videro le truppe imperiali avvicinarsi a bandiere
spiegate, si disposero a sostenere l'urto de' Tedeschi, ma mentre
credevano d'essere attaccati, videro i Tedeschi far alto, ed occuparsi
come fossero amici a piantare il loro campo. I Lombardi esitarono un
istante, e dubitando di farsi colpevoli di lesa maestà, se attaccavano
il loro imperatore che s'avanzava confidentemente in mezzo a loro,
lasciarono passare la giornata senza decidersi.

La susseguente mattina alcuni nobili, che non erano sospetti ad alcuna
parte, si fecero a trattar di pace. L'imperatore rispose alle proposte
loro, «che, salvi i diritti dell'Impero, era disposto di porre in
arbitrio di giudici scelti dalle parti le contese che aveva co' suoi
sudditi.» L'armata lombarda rispose dal canto suo, «che, salva la
devozione dovuta alla chiesa romana, e la libertà per cui le città
confederate avevano prese le armi, era disposta a sottomettersi al
giudizio degli arbitri.» Furono in conseguenza nominati sei commissarj,
ai quali le parti affidarono la decisione della loro contesa. I più
principali dei Lombardi furono in seguito presentati all'imperatore, che
li ricevette in un modo assai lusinghiero. Si convenne da ambo le parti
di licenziare le armate; e l'imperatore s'affrettò di congedare la sua,
ritirandosi col seguito delle sole guardie e della famiglia a Pavia ove
si riposò dalle fatiche sostenute in una campagna d'inverno. I Lombardi
presero la strada di Piacenza per restituirsi alle proprie case, e
quando giunsero presso questa città si scontrarono nei Cremonesi che
preceduti dai loro consoli s'avanzavano per raggiungerli[214].

  [214] _Vita Alex. III, p. 465._

Erano i Cremonesi da lungo tempo rimproverati di lentezza negli affari
della lega, e l'antica amicizia ch'ebbero coi Pavesi li ritraeva
dall'entrare in battaglia contro di loro. Non pertanto quando seppero
essersi conchiuso l'accordo senza di loro, vergognaronsi della propria
lentezza; ed il popolo in particolare, temendo di essere a parte della
vergogna del proprio governo, in un movimento di furore corse alle case
dei consoli, e le smantellò, affidando a nuovi magistrati le redini del
governo.

L'imperatore parve che si studiasse di accrescere i sospetti che la
condotta dei Cremonesi poteva far nascere nell'animo de' confederati,
indicando i loro consoli come _sopr'arbitri_, promettendo di rimettersi
alla loro decisione quando non andassero d'accordo i sei conciliatori
scelti nel campo di Tortona. I rettori che segnarono a nome della lega
lombarda il compromesso fatto coll'imperatore, furono Ezzelino da Romano
padre del feroce Ezzelino, ed Anselmo da Dovara, padre di Buoso, emulo e
compagno di questo tiranno. È cosa veramente notabile che il primo
trattato fatto coll'imperatore per guarentia della libertà dei comuni
sia stato firmato a nome di questi dai genitori dei due più famosi capi
del partito imperiale, dei due più feroci oppressori delle
repubbliche[215].

  [215] _Compromissum Federici I. et civitatum ap. Murat. Ant. Ital.
  Dissert. XLVIII, p. 275._

E perchè lo stesso trattato che doveva ristabilire la concordia tra
l'Impero e le città lombarde rendesse altresì la pace alla Chiesa,
Federico scrisse al papa di mandargli tre legati per trattare con lui,
designandoglieli egli medesimo. Furono questi il vescovo di Porto,
quello d'Ostia ed il cardinale di san Pietro _ad vincula_[216]. I quali
prelati, muniti dei pieni poteri della Santa Sede, si portarono a Lodi
ov'erasi adunata una dieta de' rettori delle città lombarde; ed in
seguito passarono a Piacenza. Quando l'imperatore seppe ch'erano giunti
nelle vicinanze di Pavia, gli fece invitare alla sua corte, ove
onorevolmente li ricevette.

  [216] _Romualdi Salern. Chronic. p. 214._

La prima loro udienza fu pubblica. Federico aveva fatto innalzare il suo
trono sulla gran piazza di Pavia, ove, circondato da' suoi principi,
rivolse la parola ai legati in lingua tedesca, invitandoli con gentili
maniere ad esporre i motivi della loro missione. Intanto i Pavesi
trovavansi riuniti in parlamento. Allorchè l'interprete ebbe tradotto il
discorso dell'imperatore, il vescovo d'Ostia, avanzatosi in mezzo
dell'assemblea, con aspri e duri modi non sempre stranieri agli
ecclesiastici, dichiarò di non poter rendere all'imperatore il saluto
finchè lo vedeva ostinarsi nello scisma e nell'impenitenza; quindi
riandò tutta l'istoria delle sue persecuzioni verso la Chiesa,
impiegando a vicenda le minacce e le preghiere per ridurlo a mutar
condotta. Il popolo adunato applaudì questo discorso, e lo stesso
Federico assicurò il legato, che, mosso dai patimenti de' fedeli, era
disposto a grandi sagrificj per mettervi fine[217].

  [217] _Vita Alex. II, a Card. Arrag. p. 466._

Dopo questa pubblica udienza, i legati ed i deputati lombardi ebbero
frequenti conferenze collo stesso imperatore e co' suoi ministri, il
cancelliere, il vescovo eletto di Colonia, ed il protonotaro. Essi
dovevano procurare i vantaggi ancora del re di Sicilia e dell'imperatore
di Costantinopoli; ma in fatto furono gli affari della Chiesa intorno ai
quali rendevasi difficile ogni accomodamento, e che finalmente furon
cagione che si rompessero i trattati. Lo storico d'Alessandro III
assicura che Federico chiedeva alcune prerogative che non erano state
mai accordate a verun laico, nè pure a Carlo Magno, o al grande Ottone:
ma le pretese del papa erano a dismisura cresciute dopo questi due
imperatori, e Federico non ridomandava nè meno tutti i privilegi di cui
godettero i suoi predecessori. Ad ogni modo i legati protestarono che la
loro coscienza e le leggi della Chiesa s'opponevano ai chiesti
privilegi. Il congresso si ruppe bruscamente, e gli alleati ritornando
alle loro case guastarono le campagne de' Pavesi, de' Comaschi e dei
marchesi feudatarj. L'imperatore invece fece alcune incursioni nel
territorio alessandrino, ma senza intraprendere colle sole milizie
italiane l'assedio d'una città, innanzi alla quale le armate tedesche
avevano perduta l'antica gloria.

Mentre ancora duravano le trattative, Federico aveva ordinata in
Germania la leva d'una nuova armata, ed aveva pure invitato a prendere
le armi Cristiano arcivescovo di Magonza suo vicario nella Toscana e
nella Marca. Questo prelato alla testa delle truppe che lo avevano
servito nell'assedio d'Ancona, investì il castello di san Casciano ove
tenevano una guarnigione i Bolognesi composta di trecento cavalli, ed
altrettanti fanti sotto il comando di Prendiparte, uno de' loro consoli.
Due altri consoli, Bernardo Vediani e Pietro Garisendi, s'avanzarono
contro Cristiano colle milizie bolognesi ed ausiliarie per costringerlo
a levar l'assedio. Lo forzarono in fatti ad allontanarsi, ma caddero
poco dopo in un'imboscata, e nel corso della campagna ebbero più volte
la peggio.

(1176) Intanto Wicman arcivescovo di Maddeburgo, Filippo arcivescovo di
Colonia, e tutti i vescovi e principi di Germania cui Federico erasi
diretto, avevano adunati i loro vassalli, ed erano preparati a
soccorrerlo. Si mossero nella seguente primavera, e perchè la strada
dell'Adige era guardata dai Veronesi, s'avanzavano attraversando il
paese dei Grigioni per l'Engadina e la contea di Chiavenna fino al lago
di Como. Quando l'imperatore fu avvisato del loro arrivo in Italia,
partì segretamente da Pavia, ed attraversando sconosciuto il territorio
milanese, venne a riceverli a Como. Postosi alla loro testa in sul
finire di maggio, andò contro il castello di Legnano nel contado del
Seprio. I Comaschi militavano sotto le sue bandiere, e le milizie dei
Pavesi e del marchese di Monferrato disponevansi a raggiungerlo.

I Milanesi che trovavansi i primi esposti alle offese, mostravano una
straordinaria energia. Fino in gennajo avevano fatto rinnovare il
giuramento che gli univa alle altre città lombarde, ed assicurava loro i
comuni soccorsi. Avevano formate alcune coorti di cavalleria scelta, una
delle quali chiamata _della morte_ era composta di novecento soldati che
avevano giurato di morire per la patria piuttosto che ritirarsi; l'altra
detta del _Carroccio_ era formata di trecento giovani delle principali
famiglie, i quali con uguale giuramento eransi vincolati alla difesa del
palladio della loro patria. Gli altri cittadini divisi in sei
battaglioni seguivano le bandiere delle sei porte, e dovevano combattere
sotto gli ufficiali del proprio quartiere[218].

  [218] _Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 330. — Galv. Flamma Manip.
  Flor. c. 205, p. 650. — Romualdi Salern. Chron. t. VII, p. 215._

Il sabato 29 maggio i Milanesi ebbero avviso che l'imperatore non era
più di quindici miglia lontano dalla loro città. Benchè dei soccorsi che
aspettavano dai confederati non avessero avuto ancora che le milizie
piacentine ed alcune centurie scelte di Verona, di Brescia, di Novara e
di Vercelli, fecero sortire il carroccio dalla città e si mossero contro
di Federico prendendo la strada che da Milano conduce al Lago maggiore.
Fermatisi presso Barano nella pianura che divide l'Olona dal Ticino,
staccarono settecento cavalli per riconoscere il nemico; i quali non
tardarono a scontrarsi in trecento Tedeschi seguiti a poca distanza dal
grosso dell'armata. Essi li caricarono con vigore, ma dovettero
ripiegare bruscamente verso il loro Carroccio trovandosi addosso tutta
l'armata di Federico. I Milanesi vedendo avanzarsi contro di loro a
galoppo la cavalleria tedesca, gittaronsi in ginocchio e fecero la loro
preghiera ad alla voce a Dio, a s. Pietro, ed a s. Ambrogio; indi
spiegando i loro stendardi si mossero arditamente contro i nemici. La
compagnia del carroccio piegò un istante, e le truppe imperiali vi
s'avvicinarono tanto, che s'incominciò a temere che cadesse nelle loro
mani: perchè vedendolo la compagnia della morte, ripetendo ad alta voce
e con entusiasmo il giuramento fatto di morire per la patria, gettaronsi
con tanto impeto sulle truppe allemanne che atterrarono lo stendardo
imperiale. Federico stesso che combatteva nella prima linea fu
rovesciato da cavallo, e posta in fuga la colonna da lui comandata ed
inseguita dai Lombardi per lo spazio d'otto miglia. I fuggiaschi che non
caddero sotto le loro spade, dovettero precipitarsi nel Ticino, o
rendersi prigionieri. Quasi tutti i Comaschi perirono sul campo, o
perdettero la libertà per essere contro di loro più vivo l'odio de'
Lombardi, che li risguardavano quali traditori della causa comune. Tutte
le più ricche spoglie del campo rimasero ai vincitori, i quali per colmo
della loro gloria seppero ben tosto, che Federico non trovavasi coi
soldati fuggiaschi, che i suoi fedeli avevano cercata in vano la sua
persona o il suo cadavere, e che l'imperatrice rimasta a Pavia, omai più
non dubitando della di lui perdita, aveva vestito il corrotto[219].

  [219] _Vita Alex. III, a Car. Ar. 467. — Sire Raul p. 1192. — Otto
  de Sancto Blas. Chron. c. 13. p. 882. — Corradi Abbatis Usperg.
  Chron. p. 297. Edit. Basil. 1569. — Baron. ad an. § 17. — Trist.
  Calchi Hist. Patr. l. XII, p. 278._

Ma Federico non era stato ucciso nella battaglia di Legnano, come
supponevasi, e dopo pochi giorni ricomparve a Pavia, solo, avvilito,
diviso da quella florida armata con cui credeva di soggiogare l'Italia,
e che ora valicava disordinata le Alpi per salvarsi dal ferro italiano.
Abbandonato sul campo di battaglia tra i suoi nemici, sottraendosi alle
loro ricerche, ottenne dopo molti stenti di ricoverarsi nella sola città
ancora fedele.

Erano già decorsi ventidue anni da che questo monarca aveva la prima
volta devastato il territorio milanese, e, durante questo lungo
intervallo, aveva successivamente condotte o chiamate in Italia sette
formidabili armate dal fondo della Germania[220]. Per lo meno un mezzo
milione d'uomini aveva prese le armi a suo favore e sparsi torrenti di
sangue; ma dopo vittorie più strepitose che utili terminò coll'essere
disfatto in distanza di poche miglia dal luogo in cui ottenne le prime
vittorie. I pontefici romani avevano contro di lui provocate le vendette
del cielo; ed i suoi partigiani vedevano nelle proprie e nelle sue
sventure la mano di Dio. Non gli rimaneva dunque altro partito che
quello della pace, e Federico la ricercò di buona fede.

  [220] Federico fece la prima impresa d'Italia in ottobre del 1154,
  la seconda in luglio del 1158. L'imperatrice gli condusse una terza
  armata per l'assedio di Crema in luglio del 1159. I principi
  allemanni scesero in Italia colla quarta l'anno 1161, che fu quella
  che distrusse Milano. Del 1166 Federico alla testa d'una quinta
  armata s'avanzò fino a Roma e perdette le sue truppe per la febbre
  _maremmana_, si consumò quasi tutta la sesta armata nell'assedio
  d'Alessandria, e la settima finalmente fu battuta dai Milanesi a
  Legnano l'anno 1176.

Spedì dunque al papa gli arcivescovi di Maddeburgo, di Magonza e di
Worms, per entrare con lui in negoziazioni. Giunti alla città d'Anagni,
ove allora risiedeva il pontefice, vennero ammessi in pieno concistoro.
In questa prima udienza Alessandro dichiarò loro in termini positivi,
ch'egli non separerebbe giammai la sua causa da quella dei Lombardi, del
re di Sicilia e dell'imperatore d'Oriente. Non pertanto nelle segreta
conferenze isolò poc'a poco i suoi interessi da quelli de' confederati.

Siccome Federico non pretendeva più dal papa nuovi privilegi, le
trattative diventavano semplicissime, nè ammettevano ulteriori
difficoltà. Gli si chiedeva che abiurasse lo scisma e gli antipapi da
lui nominati; e rispetto a ciò Federico chiedeva che dopo l'abiura anche
i prelati addetti alla sua fazione fossero ammessi in grazia della Santa
Sede e riconfermati nelle loro cariche. Tali articoli furono ben tosto
accettati dalle parti[221]. Non era così facile l'accordare gl'interessi
dell'imperatore con quelli de' Lombardi; per discutere i quali il papa
prometteva di passare in Lombardia, ove avrebbe presieduto all'adunanza
delle città confederate. Ed in pendenza di queste trattative le parti
stipularono una tregua generale per tutta l'Italia.

  [221] _Vita Alex. III, p. 467._

Se l'imperatore avesse prima adottata la via delle amichevoli
trattative, non avrebbe sofferte le ultime traversie, nè perduta quella
somma influenza che poteva esercitare sulle repubbliche italiane. Si può
vederne la prova nell'apertura delle conferenze. I repubblicani non
ardivano negare gli antichi diritti dell'Impero; ed erano contenuti da
un natural rispetto verso le persone e verso le leggi, che loro
vietavano di segnare i confini dell'autorità di colui contro il quale
avevano però osato di combattere e di sconfiggerlo. Quando Federico
cessò d'essere il loro nemico, fu ancora il loro monarca. Aveva in ogni
città dei partigiani e specialmente tra i gentiluomini, che
dichiaravansi i protettori delle prerogative imperiali; e la vanità,
l'ambizione, l'avarizia non erano pienamente soddisfatte che coi favori
della corte. I partigiani di Federico adoperavansi destramente per
risvegliare fra i popoli le sopite gelosie che in addietro dividevano le
città, onde staccare alcune comuni dalla confederazione.

I Cremonesi furono i primi a sciogliersi da quel legame che aveva
salvata la Lombardia. Erano stati in ogni tempo nemici dei Milanesi, ed
alleati dei Pavesi: arbitrarie vessazioni gli avevano staccati dal
partito imperiale, ed uniti alla lega, ma col tempo indebolitasi la
memoria delle ricevute offese, il loro odio si spense: all'epoca
dell'assedio d'Alessandria i Cremonesi erano già stati notati di poco
zelo. Federico offerse loro la riconferma dei loro privilegi, di non
prender parte all'elezione de' consoli e di accordar loro parzialmente
tutto ciò che i confederati chiedevano per tutte le città, a condizione
che ritornassero all'antico partito, fidandosi al loro protettore, al
loro amico che loro stendeva le braccia[222].

  [222] _Vita Alex. III, p. 469. — Istoria di Cremona d'Ant. Campi
  pittore ed archit. Cremon. dedicata a Filippo IV d'Austria verso il
  fine del I libro, p. 24. — Romual. Salern. Chron. p. 217._

I Cremonesi accettarono le offerte di Federico e soscrissero un atto
d'alleanza, che il loro storico Campi estrasse dagli archivj della
città. Dichiararono subito ai Lombardi che rinunciavano alla
federazione, essendo garantiti dal loro nuovo alleato di essere
potentemente soccorsi qualunque volta la lega tentasse di punire la loro
mala fede. I Tortonesi ne seguirono l'esempio; onde le altre città ed il
papa se ne sdegnarono e temettero a ragione che potesse avere le più
triste conseguenze.

(1177) Intanto il papa erasi imbarcato sulle galere del re di Sicilia
coll'arcivescovo di Salerno e col conte d'Andria che questo monarca
spediva in qualità di ambasciatori al congresso[223]. La tempesta gli
spinse sulle coste della Dalmazia a Zara[224], città non ancora visitata
da verun papa, per cui non isbarcarono a Venezia che il giorno 24 di
marzo. Il papa fu alloggiato nel monastero di san Nicolò _del Lido_.
Benchè non a Venezia, ma in Bologna dovesse tenersi il congresso, ciò
null'ostante quando l'imperatore, che trovandosi a Cesena, seppe
l'arrivo del papa a Venezia, gli rimandò i medesimi commissarj, che
avevano già trattato con lui, ad oggetto di fargli sentire come avendo
Cristiano arcivescovo di Magonza suo arcicancelliere fatta una
sanguinosa guerra ai Bolognesi, non potrebbe fermarsi in quelle città
per i maneggi di pace, senza risvegliare la loro animosità contro di
lui.

  [223] Uno degli ambasciatori, Romualdo arcivescovo di Salerno,
  storico da noi rammentato più volte con lode, ci ha lasciata una
  assai circostanziata ed interessantissima relazione del suo viaggio
  e della sua missione. Siamo ben fortunati d'averla, perchè all'epoca
  presente ci abbandonano quasi tutte le guide che fin qui diressero
  la nostra narrazione. Questa relazione che comincia nella cronaca di
  Romualdo _t. VII, p. 217_, viene ancora riportata negli Annali del
  Baronio all'anno 1177.

  [224] Il soggiorno del pontefice a Zara risguardato senza dubbio
  come una specie d'esiglio, diede motivo cento cinquant'anni più
  tardi all'invenzione d'un favoloso racconto, ripetuto poi ciecamente
  da tutti gli storici del quattordicesimo e quindicesimo secolo. Si
  disse che il papa, salvandosi sul mare adriatico dallo sdegno di
  Federico, venne travestito a procacciarsi un asilo in Venezia; dove,
  dopo alcuni mesi che vi esercitava in un'isoletta la professione di
  giardiniere, fu riconosciuto. Allora il doge ed il senato si
  affrettarono di rendergli i più grandi onori; e venuto a riclamarlo
  con una potente flotta Ottone figliuolo di Federico, i Veneziani lo
  sconfissero e fecero prigioniero. Che per tale avvenimento Federico
  risolse di far la pace; e che ricevuto in Venezia, quando s'accostò
  per baciare il piede al papa, questi glielo pose bruscamente sul
  capo, pronunciando queste parole: _Ambulabis super aspidem et
  basiliscum et conculcabis leonem et draconem_: cui l'imperatore
  rispose: _non tibi sed Petro_, ed il papa replicò: _et mihi, et
  Petro_. — _Vita Alex. III, ex Amalrico Augerio Scrip. Rer. It. t.
  III, p. II, p. 373. — Gio. Villani l. V, c. III. — Malavolti Istoria
  di Siena p. I, l. III, p. 34. — Corio storia di Milano p. I, p. 60.
  — Il Baronio che smentisce questo racconto ad an. § 4 e segu._
  Questo romanzo caro ai Veneziani fu illustrato dai più celebri
  pittori, che ne fecero l'argomento dei quadri che adornano la
  magnifica sala del gran consiglio della repubblica. Si mostravano
  non senza orgoglio agli imperatori che visitavano il palazzo di san
  Marco.

La scelta del luogo in cui si aprirebbero le conferenze, era difficile e
diede argomento a lunghe discussioni. I Lombardi offerivano
l'alternativa tra Bologna, Piacenza, Ferrara e Padova, tutte città della
lega, e perciò sospette agl'imperiali. I Tedeschi invece proponevano
Pavia o Ravenna per lo stesso titolo di parzialità sospette ai Lombardi,
perchè la prima era sempre stata loro nemica, e l'altra aveva di fresco
rinunciato alla lega per fare separatamente la pace coll'imperatore.
Finalmente fu proposta Venezia i di cui interessi erano affatto separati
da quelli della lega lombarda. Vero è che da principio aveva presa parte
alla confederazione, e in appresso, senz'essersi formalmente
rappacificata coll'imperatore, aveva di concerto colle truppe imperiali
spedita una flotta all'assedio d'Ancona. Poteva perciò risguardarsi come
naturale, onde i Lombardi furono contenti di aprirvi le conferenze coi
deputati imperiali, a condizione per altro che il doge ed il popolo di
Venezia prometterebbero con giuramento di non ricevere nella loro città
l'imperatore avanti che fosse segnata la pace. Temevasi che assistendo
questo principe ad una dieta, rispetto alle persone che la componevano,
rassomigliante a quella di Roncaglia, vi ricuperasse colla sua presenza
tutte le prerogative ch'egli si era colà usurpate; e che in cambio di
ricever la legge, terminasse col darla egli all'assemblea[225].

  [225] Il Muratori ne conservò, disser. XLVIII, p. 277, il documento
  intorno al quale aprirono questa discussione intitolata: _Petizione
  preliminare indirizzata a nostro signore l'imperatore dai rettori di
  Lombardia, Marca, Venezia e Romagna_.

Il congresso s'aprì dunque in Venezia verso la metà di maggio. I
principi tedeschi, i principali prelati di Lombardia, i rettori delle
città, i marchesi ed i conti si radunarono in presenza del popolo. I
confederati vollero che s'incominciassero le trattative colla difficile
quistione dei diritti signorili controversi tra le città ed il monarca.
Essi domandavano che i diritti dell'Impero sulle città fossero stabiliti
in conformità di quelli ch'erano in uso ai tempi d'Enrico V, e volevano
in oltre che nel caso di disparere in ordine alla loro estensione si
stesse al giuramento che darebbero i consoli d'ogni città rispetto alla
pratica locale. D'altra parte convenivano espressamente intorno alla
prestazione del _fodero_ reale, o diritto di approvigionamento per
l'imperatore e suo seguito in occasione del suo passaggio; alla _pavata_
o tributo per rifar le strade quando l'imperatore andava a Roma a
prendere la corona imperiale, al diritto di _spedizione_ ossia marcia
dei vassalli sotto le bandiere imperiali. Domandavano in compenso, che
l'imperatore riconoscesse formalmente il diritto d'essere governati dai
consoli da loro scelti, che annullasse qualunque carta accordata in
pregiudizio dei loro privilegi, che sanzionasse la prerogativa di
mantenere ed accrescere le fortificazioni della propria città, che
accordasse un'assoluta amnistia del passato, che gli autorizzasse a
mantenere la confederazione lombarda, lasciando in loro arbitrio il
riconfermarla con mutui giuramenti quando loro piacesse, non escluso
pure il giuramento di difendersi contro l'imperatore o suoi successori,
qualunque volta il monarca movesse guerra alla Chiesa, o ad alcuna delle
città federate. Chiedevano ancora che l'imperatore confermasse le
sentenze pronunciate dai giudici durante la guerra, che i prigionieri
fossero vicendevolmente restituiti senza prezzo, e per ultimo che le
possessioni feudali e regali fossero mantenute _in statu quo_ secondo le
antiche costumanze attestate dai consoli.

Ben diverse erano le pretese dell'imperatore nel modo che furono
proposte a Venezia da Cristiano arcivescovo di Magonza. Lasciava in
arbitrio de' Lombardi lo scegliere una di queste proposizioni: cioè di
stare alla sentenza pronunciata contro di loro in Roncaglia l'anno 1158
dai giudici di Bologna, o di prendere per regola dei diritti rispettivi
quelli ch'erano in vigore sotto il regno d'Enrico IV[226].

  [226] _Baron. ad an. §. 78. — Romuald. Archiep. Saler. Chron. p.
  225._

Il console di Milano Gherardo de' Pesci che assisteva alle conferenze, e
che aveva presa la parola per i Lombardi, protestò a nome de'
confederati contro la sentenza dei giudici bolognesi, che era, com'egli
diceva, un editto dell'imperatore, e non un giudizio tra le due parti.
Rispetto alla seconda proposizione oppose, che Enrico IV, il fautore
d'uno scisma, ed il nemico dei più illustri pontefici, non era
altrimenti un re, ma un tiranno; talchè non potevansi distinguere tra le
sue azioni quelle che procedevano dalla violenza del suo carattere da
quelle che erano conformi alle reali prerogative. Dopo ciò discese alla
proposizione che avevano già fatta i Lombardi, val a dire, di regolare i
reciproci diritti dietro le costumanze ricevute duranti i regni di
Enrico V, di Lotario, e di Corrado[227].

  [227] _Sire Raul p. 1192, 1193 — Baron. ad an. 1177, §. 82, 85 —
  Romualdus Salernit. Chron. p. 225._ — Abbiamo, è vero, uno storico
  lombardo contemporaneo, Sicardo vescovo di Cremona, ma egli parlò di
  questo negoziato, e della guerra che lo precedette, senza
  circostanziare i fatti particolari che non avremo motivo di citarlo
  altra volta. Intorno a questo trattato veggasi _Sic. Chron. t. VII
  p. 602_.

Tutti gli storici lombardi, tranne Sire Raul, ci mancano a quest'epoca,
ed anche questo non consacrò più di dieci linee intorno alle conferenze
di Venezia, dimodochè siamo costretti di consultare gli scrittori
ecclesiastici, nei quali era ben naturale che venissero ommesse tutte le
ragioni delle lagnanze accennate da Sire Raul contro Alessandro per aver
mancato alla fede data ai Lombardi, ed essersi riconciliato
coll'imperatore senza provvedere alla loro sicurezza. Per lo contrario,
se dobbiamo dar fede a Romualdo di Salerno che assistette a queste
conferenze come ambasciatore del re di Sicilia, Federico non acconsentì
alla tregua che il papa proponeva per accomodamento, se non quando il
papa gli accordò il godimento per quindici anni dell'eredità della
contessa Matilde[228].

  [228] _Sire Raul, p. 1192-1193 — Romualdus Salernit., p. 223 —
  Baron. §. 82, 85._

Ad ogni modo sembrava che una tregua potesse essere il solo mezzo di dar
la pace all'Italia, poichè non era possibile di convenire intorno alle
opposte pretese e conchiudere un trattato definitivo. Alessandro propose
perciò una tregua di quindici anni col re di Sicilia, e soltanto di sei
coi Lombardi. Federico, senza rifiutarvisi positivamente, chiedeva
d'avvicinarsi al congresso per facilitarne i trattati. Di consenso del
papa abbandonò la Pomposa, delizioso palazzo in cui faceva la sua dimora
presso Ravenna, per istabilirsi a Chiozza; ma quando si seppe essere
arrivato in questa città posta nella laguna alla distanza di sole
quindici miglia da Venezia, quei Veneziani che favorivano la sua parte,
importunavano il Doge perchè lo ricevesse nella capitale; rimostrando
non potersi senza indecenza lasciare il capo dell'Impero esigliato in
una miserabile bicocca; che avendo Alessandro acconsentito che venisse
fin là, non aveva più ragione d'impedire ch'essi soddisfacessero al
dover loro, accogliendolo in una maniera conforme alla sua dignità[229].
Federico, avvisato di questi movimenti, ricusò a bella prima di
sottoscrivere i due trattati che gli si presentarono; ma quando seppe
che il papa e gli ambasciatori siciliani per timore della sua venuta
disponevansi ad abbandonare Venezia, approvò gli articoli convenuti dai
suoi plenipotenziari. Il giorno 6 luglio, il conte Enrico di Dessau
giurò, per parte dell'imperatore ed in suo nome, una pace perpetua colla
Chiesa, una pace di quindici anni col re di Sicilia, ed una tregua di
sei anni da incominciarsi il primo agosto seguente coi Lombardi[230].
Durante questa tregua, i beni e le persone dei membri della lega
dovevano godere ne' domini imperiali di una piena sicurezza e degli
avvantaggi che vi si godono in tempo di pace; ed a vicenda le stesse
immunità venivano accordate ai sudditi dell'imperatore nelle terre de'
Lombardi. I consoli ed i consigli di credenza così delle città
confederate, come di quelle che stavano per l'imperatore, dovettero
giurare nella pubblica assemblea, ed a nome del popolo, che
osserverebbero la tregua, e non farebbero ingiuria nè alle persone nè
alle proprietà.

  [229] _Romualdi Salern. Chron. p. 226._

  [230] _Baron. Ann. §. 29 — Instrumentum treguæ apud. Murat. Antiq.
  Ital. disser. XLVIII, p. 283._

Fu ancora convenuto che ogni città dei due partiti nominerebbe due
arbitri _Treguari_, ossia difensori della tregua, che avrebbero il
carico di terminare le contese che potessero aver luogo tra i membri
delle opposte parti, cosicchè per particolari ingiurie niuna persona
potrebbe avanti che siano terminati sei anni di tregua farsi ragione
colle armi.

Finalmente l'imperatore rinunciava in tal tempo al diritto di chiedere
il giuramento di fedeltà da verun membro della lega[231].

  [231] La tregua si dichiarò comune, da una parte a Federico ed al
  suo partito, cioè Cremona, Pavia Genova, Tortona, Asti, Alba,
  Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casal sant'Evaso,
  Monvelio, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena,
  Rimini, Castrocaro, i marchesi di Monferrato, Vasto e Bosco, ed i
  conti di Biandrate e di Lomellina. Dall'altra parte alla società dei
  Lombardi, composta a quest'epoca di Venezia, Treviso, Padova,
  Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano,
  Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Carnesino, Belmonte, Piacenza,
  Bobbio, Reggio, Modena, Bologna, il marchese Malaspina e gli uomini
  di S. Cassano e di Doccia.

Poichè dal conte di Dessau fu emesso il giuramento di pacificamento in
nome di Federico, e che un simile giuramento venne pronunciato dal
cappellano dell'arcivescovo di Colonia a nome de' principi del suo
partito, Alessandro sciolse dal giuramento il doge ed il popolo di
Venezia, ed acconsentì che l'imperatore entrasse in città. Sei galere
veneziane andarono subito a prenderlo a Chiozza, ed il sabato di sera 23
giugno lo condussero a S. Nicolò di Lido ove la Signoria avevagli fatto
allestire un alloggio. All'indomani mattina il papa montò sulle galere
siciliane, e coll'accompagnamento degli ambasciatori di quella corte, e
dei rettori delle città lombarde, venne a sbarcare sulla piazza di S.
Marco. Nel tempo stesso il doge Ziani, il patriarca, il clero ed il
popolo di Venezia condussero colle loro galee sulla stessa piazza
l'imperator Federico, il quale, vedendo il pontefice, si sciolse il suo
mantello, e prostratosegli avanti gli baciò i piedi. Dopo quest'atto
ricevette il bacio di pace, e quindi entrarono insieme in chiesa, ove il
popolo intuonò il _Te Deum_[232]. Terminato il divino ufficio, e
rivocata la scomunica fulminata contro il monarca ed i suoi sudditi,
Federico condusse il papa al suo cavallo, e gli tenne la staffa; indi
ricevette la briglia dallo scudiere, e preparavasi a far le veci di
questo, ufficiale in conformità del ceremoniale cui eransi sottomessi i
suoi predecessori; ma il papa vedendo che la strada che doveva ancora
fare non era breve, lo dispensò da così umiliante formalità[233]. In una
privata visita ch'egli ricevette il successivo giorno, i due capi
dell'Impero e della Chiesa felicitaronsi a vicenda della loro
riconciliazione[234].

  [232] _Baron. §. 98 et 99 — Romual. Saler. Chron. t. VII, p. 231._

  [233] _Vita Alexan. III. a Card. Arag., p. 471._

  [234] Tra i prelati scismatici ch'entravano in tal epoca in seno
  della Chiesa, contavansi i vescovi di Padova, Pavia, Piacenza,
  Cremona, Brescia, Novara, Acqui, Mantova e Fano, che quasi tutti
  tenevano le parti dell'imperatore, perchè le loro gregge, con cui
  erano poche volte d'accordo, seguivano il partito della Chiesa.

Resa per tal modo la pace all'Italia, si sciolse il congresso di
Venezia, ed il papa si ritirò nella piccola città d'Anagni ove dopo le
turbolenze di Roma aveva stabilita la sua residenza. Ne' primi mesi del
1178, ricevette una deputazione di quel senato che lo invitava a
riprendere il governo della sua greggia, ed a rientrare nella sua
capitale. Ma perchè il papa non ardiva darsi in mano del popolo senza
che la sua persona venisse assicurata da ogni molestia, si convenne che
i senatori giurerebbero in mano del papa fedeltà alla chiesa di S.
Pietro, pel consueto omaggio; che gli ritornerebbero i diritti di
suprema signoria, e prometterebbero di non attentare alla sua libertà,
nè a quella de' cardinali suoi fratelli. Poichè queste condizioni furono
accettate da ambo le parti, i senatori si presentarono al pontefice con
tutti i magistrati di Roma, e lo accompagnarono pomposamente in
città[235].

  [235] _Vita Alex. III, p. 475._

Anche Federico aveva abbandonata Venezia, e, dopo aver visitate le città
toscane che avevano per lui combattuto con tanta fedeltà, passò a
Genova, e di là per il Monte Cenisio ne' suoi stati di Germania e di
Borgogna.

I sei anni della tregua si consumarono in trattati di più stabile pace,
i quali per altro non distoglievano Federico dal tentar la fede dei
popoli confederati, staccandoli dalla lega l'un dopo l'altro, e facendo
separate paci. Poco dopo proclamata la tregua, ammise a segrete
conferenze alcuni gentiluomini trivigiani legati alla confederazione,
da' quali ricevette un giuramento di cui rimase segreto l'oggetto. Il
popolo di Treviso n'ebbe sentore, e prese le armi contro di loro quando
tornavano in città, volendo che come traditori della patria e spergiuri
fossero condannati ad ignominiosa morte. I consoli trovaron modo di
conoscere il trattato stipulato da questi gentiluomini, e ne diedero
parte alla dieta della lega, la quale avendo dichiarato manifesto il
tradimento, condannò i colpevoli a severo castigo, e pensò a
precauzionarsi contro i maneggi della fazione imperiale[236].

  [236] _Vita Alexan. III. p. 473._

Non perciò ottenne di sventarne tutte le trame. In febbrajo del 1183,
Federico rinnovò il trattato che aveva precedentemente conchiuso col
popolo di Tortona, dandogli la più grande pubblicità, onde avvertire le
altre città confederate che, prevenendo la pace generale, potevano da
lui sperare vantaggiose condizioni. Con questa carta, che tuttavia
conservasi, Federico promette di non pretendere dai Tortonesi tasse
maggiori di quelle imposte ai Pavesi proporzionatamente alle ricchezze
delle due città; promette d'annullare le infeudazioni accordate in
pregiudizio del popolo, di rinovare la pace tra lui ed i suoi vicini; di
lasciare i castellani del suo territorio dipendenti dal comune,
conservandogli il privilegio del consolato e dei diritti feudali,
siccome lo conserva al popolo di Pavia[237].

  [237] _Charta reconciliationis Federici I Aug. cum populo
  Dertonensis Urbis. Murat, dissert. XLVIII, p. 289._

Videsi allora staccarsi dalla lega una città che doveva alla lega la
propria esistenza, e che più di tutt'altre doveva esserle fedele.
Alessandria temeva la particolare animosità di Federico contro di lei,
perciocchè discacciato vergognosamente innanzi alle sue mura, egli
risguardava quest'avvenimento siccome un testimonio dell'odio del
popolo, e sembrava risoluto di far abbattere le fortificazioni della
città tosto che terminasse la tregua, e di rimandare i suoi abitanti
negli otto villaggi da cui erano usciti. Per mettersi in salvo dalla sua
collera, e procurarsi anticipatamente i privilegi pei quali gli altri
confederati erano ancora in disputa, i cittadini d'Alessandria
acconsentirono di sottomettersi ad una ceremonia umiliante che doveva
appagare l'orgoglio di Federico. Il quinto giorno degl'idi di marzo del
1183 promisero di sortire tutti dalla città per aspettare al di fuori
delle mura il deputato dell'imperatore che doveva introdurli di nuovo in
città, quasi loro dando una nuova patria, la quale d'allora in poi
chiamerebbesi _Cesarea_. A tali condizioni prometteva loro il diritto
d'eleggere i consoli, di averli sotto la sua protezione, e difenderli
dalle aggressioni dei loro vicini[238].

  [238] _Sigonius de Regno, p. 340._ Vero è ch'egli riferisce
  quest'avvenimento all'anno 1184 con manifesto errore, imperciocchè
  l'anno 1183 la città d'Alessandria fu compresa nel trattato di
  Costanza tra le città alleate dell'imperatore sotto il nome di
  Cesarea.

Appressavasi intanto il fine della tregua senza che il trattato
definitivo fosse ancora conchiuso. Fortunatamente per la lega, che il
principe che in appresso regnò sotto il nome d'Enrico VI, desiderava che
suo padre nella vicina dieta convocata a Costanza lo associasse alle due
corone di Germania e d'Italia. Rinnovandosi la guerra in Lombardia
temeva che potesse mettersi ostacolo alla promessagli associazione, onde
si adoperò perchè si riprendessero i trattati, ed ottenne
dall'imperatore di far partire per l'Italia quattro plenipotenziari,
Guglielmo vescovo d'Asti, il marchese Enrico Guercio, il fratello
Teodorico e Rodolfo suo gran cameriere[239]. Questi deputati andarono a
Piacenza ov'erasi unita la dieta delle città e convennero intorno ai
preliminari della pace[240]. Dopo ciò indussero i consoli ed i rettori
della lega a seguirli a Costanza, ove in presenza dell'imperatore fa
data l'ultima mano al celebre trattato che porta il nome di questa
città; trattato che per lungo tempo fu la base del diritto pubblico
italiano, ed in conseguenza inserito nel corpo del diritto romano di cui
forma l'ultima parte[241]. Fu firmato dalle due parti il giorno 7 delle
calende di luglio, ossia il 26 giugno del 1183[242].

  [239] _Sigonius l. XIV, p. 338._ — Il loro pieno potere presso
  _Murat, dissert. XLVIII, p. 291_.

  [240] Questi preliminari conservati nell'archivio di Modena furono
  impressi dal Muratori nella dissertazione XLVIII, _p. 295. Antiq.
  Ital._

  [241] _Corpus Juris Civilis ad calcem, liber de pace Constantiæ._

  [242] L'imperatore dichiara nel preambolo di questo trattato che la
  sua dolcezza e la sua clemenza sono tali, che, quantunque avesse il
  potere di castigare i colpevoli, ha voluto perdonar loro e far loro
  del bene; che per conseguenza accoglie nell'ampiezza della sua
  grazia la società dei Lombardi ed i loro fautori che una volta
  offesero il suo impero. Questo è un prendere ben dall'alto le mosse
  per accordar poi così importanti concessioni.

L'imperatore cedeva col trattato di Costanza alle città senza eccezione
tutti i diritti di suprema signoria ch'egli possedeva nell'interno delle
loro mura. Loro cedeva ugualmente nel rispettivo distretto tutti i
diritti signorili ch'esse avevano acquistato coll'uso o colla
prescrizione; e nominatamente accordava loro il diritto di levare
armate, fortificare le città e di esercitare nel loro circondario ogni
giurisdizione civile e criminale.

Quando si facesse luogo a contestazioni intorno ai diritti regali
riclamati dai comuni in virtù d'una prescrizione, si convenne che il
vescovo d'ogni città avrebbe l'autorità di nominare gli arbitri da
scegliersi tra i cittadini e gli abitanti del distretto, scevri da
parzialità tanto per l'imperatore che per la città. E qualora questi
arbitri non credessero di poter sentenziare intorno alle controverse
pretese portate al loro giudizio, venivano autorizzati a mutare le
prestazioni contestate contro l'annuo censo di due mila marche
d'argento, che, volendolo l'equità, potrebb'essere dall'imperatore
ridotto a minor somma.

Furono annullate tutte le infeudazioni fatte dopo la guerra in
pregiudizio delle città, e restituite senza frutti e danni tutte le
possessioni apprese. Prometteva l'imperatore di non soggiornare troppo
lungamente in una città o nel suo territorio, onde non arrecarle
pregiudizio; ed acconsentì che le città conservassero la loro
confederazione e la rinnovassero a loro beneplacito.

D'altra parte furono conservate alcune prerogative all'Impero ancora
nell'interno delle nuove repubbliche. Il consolato fu riconosciuto, ma i
consoli dovevano ricevere, bensì gratuitamente, l'investitura della loro
carica da un legato dell'imperatore, quando però in forza di una
costumanza locale non la ricevessero dal vescovo conte della città.
L'imperatore venne autorizzato a stabilire in ogni città un giudice
d'appello, cui potrebbero deferirsi le cause civili per somma maggiore
di venticinque lire imperiali[243]. Questo giudice, entrando in carica,
doveva giurare di conformarsi alle costumanze della città e di non
permettere che una causa rimanesse indecisa più di due mesi.

  [243] La lira allora valeva circa lire 63 peso per peso, e lire 25
  equivalevano a lir. 1575 d'Italia.

Ogni città doveva giurare di sostenere in Italia i diritti imperiali
rispetto a coloro che non erano membri della lega. Prometteva
all'imperatore di corrispondergli il _fodero_ reale quando entrava in
Lombardia, di ristabilire i ponti e riparar le strade, tanto in
occasione del suo arrivo, che del ritorno, e di preparargli un
sufficiente mercato per l'approvigionamento della sua casa e
dell'armata. Finalmente promettevano tutte le città di rinnovare ogni
dieci anni il giuramento di fedeltà[244].

  [244] In questo trattato furono comprese come confederate le città
  di Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova,
  Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio,
  Parma e Piacenza. L'imperadore dichiarava sue alleate Pavia,
  Cremona, Como, Tortona, Asti, Cesarea ossia Alessandria, Genova ed
  Alba. Si lasciò Ferrara in libertà di dichiarare entro due mesi se
  accedeva al trattato, dal qual favore furono escluse Imola, Castro,
  san Cassiano, Bobbio, Gravedona, Feltre, Belluno e Ceneda. Venezia
  non fu nominata perchè, risguardandosi affatto indipendente
  dall'Impero, non volle con questo trattato sottoporsi alla più
  leggiere dipendenza.

In tale maniera ebbe fine la lunga contesa della libertà d'Italia; e le
repubbliche lombarde, ch'ebbero fino a tal epoca una precaria esistenza,
furono legalmente riconosciute e costituite.



CAPITOLO XII.

      _Ultimi anni di Federico Barbarossa. — Suo figliuolo Enrico VI
      riunisce all'Impero il regno delle due Sicilie. — Tumulti
      eccitati dalla nobiltà nelle repubbliche italiane._

1183 = 1200.


Dopo la lunga e pericolosa guerra che con tanto valore avevano le
repubbliche italiane sostenuta per la libertà, non gustarono i vantaggi
che loro assicurava la pace di Costanza. Le civili discordie e le
rivalità fra gli altri stati vicini sconvolsero ben tosto la pubblica
tranquillità; l'autorità nazionale cadde in mano di una nobiltà
prepotente, o di sanguinarj tiranni; e più d'una volta il furore delle
fazioni ricondusse volontariamente le città a quella dipendenza, per
sottrarsi dalla quale avevano versato torrenti di sangue.

Un popolo non può vantare una libera costituzione quando il suo governo
non sia contenuto entro giusti limiti da un potere qualunque, che possa
continuamente richiamarlo e sottometterlo al tribunale della pubblica
opinione. D'uopo è che un sentimento di timore comprima le passioni del
governante qualunque volta s'oppongono all'interesse dei governati; ma
l'istituzione di un potere repressivo e forse la più difficil parte
della legislazione repubblicana. Perciocchè se si stabilisce nello stato
un nuovo potere d'un'autorità abbastanza grande per frenare il governo e
per giudicarlo, questo stesso potere diventerà la molla principale del
governo, onde sarà poi necessario di comprimerlo ugualmente perchè non
degeneri in aperta tirannia. Se poi si vuol rendere il popolo
depositario di questo poter compressivo, tostochè avrà l'autorità di
mutare il governo, o di deporre i suoi magistrati, ridurrà la
costituzione ad un'assoluta democrazia, la sua potenza diventerà
tirannica, ed egli sarà il principal nemico della libertà.

Ma in tempo che le politiche combinazioni riescono d'ordinario inutili
per istabilire un equilibrio manutentore della libertà, accade talvolta
che quest'equilibrio sia il risultato d'estranee circostanze, e, per
così dire, l'opera dell'accidente. E per tal modo un sommo pericolo
nazionale, un eminente interesse comune ai governanti ed ai governati ha
potuto alcune volte riunire i loro sforzi per il conseguimento del ben
pubblico. In faccia a questo tacciono le private passioni, le rivalità
non hanno occasione di manifestarsi, il popolo conosce il bisogno di
essere governato da persone che uniscano ai talenti la virtù, e non
accorda la sua confidenza che agli ottimi. Gli amministratori della
repubblica sentono allora il bisogno di meritarsi questa confidenza onde
poter mettere in opera tutta la forza nazionale contro l'imminente
pericolo; allora la più grossolana ed imperfetta costituzione basta per
contenere ne' giusti limiti i governanti e per rendere i cittadini
docili, zelanti, disinteressati. I repubblicani italiani ebbero questi
vantaggi finchè durò la guerra di Lombardia, e li perdettero dopo la
pace di Costanza. Tosto che l'indipendenza delle città fu riconosciuta
dall'imperatore, credette il popolo che fosse venuto il tempo di farsi
render conto del potere dei gentiluomini che avevano fino a tal epoca
amministrati i suoi affari con sommo patriottismo, valore ed
avvedutezza: e quantunque questa nuova diffidenza cadesse sopra uomini
cui tanto dovevano le repubbliche, non si deve però attribuirlo soltanto
allo sviluppo dell'ambizione e della vanità dei plebei, nè accusarli
d'ingratitudine. Cessati i pericoli che minacciavano le città,
gl'interessi de' nobili e del popolo si separarono. I primi non avendo
più di mira la pubblica difesa, eransi di nuovo abbandonati a progetti
d'ingrandimento e d'ambizione. Ad una libertà divisa cogl'ignobili
dovevano preferire un'indipendenza solitaria nei loro castelli; e
desiderando procacciarsi il favore d'una potenza cui non volevano essere
ubbidienti, preferivano l'imperatore al popolo. La quasi assoluta
mancanza di storici contemporanei che scrivessero degli ultimi anni del
secolo dodicesimo, non ci permette di sapere se prima si manifestasse la
gelosia de' plebei, o l'ambizione de' nobili; tanto più che diversi
furono in ogni città i motivi delle prime dissensioni, comechè per altro
in ogni città queste passioni armassero l'un contro l'altro gli opposti
partiti.

Quantunque ne sia incerta l'epoca, sappiamo che dopo la pace di Costanza
i Milanesi fecero alcune mutazioni alla loro costituzione, separando con
maggior precisione i suoi diversi poteri. Nel 1185, Federico Barbarossa
aveva loro accordato il privilegio di nominare il podestà e di
conferirgli coi soli suffragi del popolo il titolo e le prerogative di
conte della loro città[245]. Privarono perciò degli attributi giudiziarj
i loro consoli, dandogli allo straniero podestà, che nominavano ogni
anno per essere nel tempo medesimo il depositario della forza pubblica.
A questo magistrato spettava esclusivamente il diritto d'ordinare
l'esecuzioni capitali, e per insegna di questo _poter di sangue_, che
così allora si chiamava, il podestà era preceduto da un uomo che portava
una spada sguainata. Dopo tal epoca v'ebbero in Milano tre diversi
poteri, dell'arcivescovo, del podestà e dei consoli. Perchè il primo fu
anticamente conte della città, venivano in suo nome pronunciate ancora
tutte le sentenze, benchè attualmente non vi prendesse alcuna parte;
erasi pure conservato all'arcivescovo il diritto di coniare le monete,
di fissare ed alterare il valore della specie; come pure in suo nome e
per suo conto esigevasi un pedaggio alle porte di Milano[246].
Quantunque gli fossero dalle leggi conservate queste prerogative, il
popolo teneva aperti gli occhi sul suo prelato, pronto a scacciarlo
dalla città qualunque volta s'accorgesse che avesse oltrepassati i
limiti dei diritti conservatigli. Il podestà era, più che giudice, il
generale del popolo, in di cui nome faceva la guerra ai nemici
dell'ordine pubblico; ed anco l'amministrazione della giustizia era in
sua mano affatto militare. Per ultimo i consoli erano depositari di
tutti gli altri diritti governativi. In Milano erano dodici, e la loro
adunanza formava il _consiglio di confidenza_[247], cui erano attribuite
tutte le relazioni esteriori dello stato, le nomine degl'impiegati,
l'amministrazione delle finanze, tutte in somma le più importanti
attribuzioni della sovranità. Pretendevano i nobili che il consiglio
avesse il diritto di nominare i consoli dell'anno seguente; e questa
prerogativa fu la prima a risvegliare la gelosia de' plebei, onde si
alterò la buona armonia dei due ordini. Il popolo emanò una legge che
affidava il diritto di eleggere i consoli a cento elettori scelti dal
consiglio generale tra gli artigiani della città, obbligando però questi
elettori a prendere tutti i consoli nel corpo della nobiltà. Non
era dunque ancora il possedimento delle magistrature che si
contrastasse ai gentiluomini; si voleva solamente, che fossero
gl'immediati rappresentanti della nazione. Ma più volte a dispetto
dell'incontrastabile diritto dei cittadini i consoli regnanti
s'arrogarono l'elezione dei loro successori.

  [245] _Galv. Flam. Man. Flor. c. 215. Scr. Rer. Ital. XI, p. 655._

  [246] _Galv. Flam. Man. Flor. c. 223. Scr. Rer. It. t. XI, p. 657._

  [247] _Il consiglio di credenza._

Forse in un modo più preciso e conveniente aveva la repubblica di
Bologna divisi i suoi poteri, comechè non sia facile il precisar l'epoca
della costituzione di cui ci danno notizia i suoi storici[248].
L'autorità sovrana era in Bologna divisa fra tre consigli, i consoli ed
il podestà. La città dividevasi in quattro tribù e quaranta elettori,
scelti a sorte dieci in ogni tribù, eleggevano ogni anno,
rispettivamente nella propria, i cittadini degni di formare i tre
consigli. Tutti i cittadini giunti all'età di diciott'anni erano ammessi
al consiglio generale, esclusi però i bassi artigiani e quelli
ch'esercitavano una vile professione; il consiglio speciale era composto
di seicento cittadini; e quello di confidenza, nel quale avevano luogo
di pieno diritto tutti i giureconsulti di Bologna, di un numero assai
minore. Tutte le decisioni di qualche importanza dovevano ricevere la
sanzione da questi consigli, ma ne era riservata l'iniziativa ai soli
consoli ed al podestà, o per lo meno un cittadino non poteva senza il
loro assenso proporre un progetto e prender parte alla discussione. Il
più delle volte le proposizioni fatte dai consoli si discutevano
soltanto da quattro oratori che avevano l'incarico di parlare a nome del
popolo; e gli altri consiglieri non avevano la parola e davano il loro
voto con palle bianche e nere. A questa influenza dei magistrati sulle
deliberazioni, la nobiltà, in onta d'una costituzione quasi democratica,
andò lungo tempo debitrice della conservazione del suo potere. Il
Ghirardacci, lo storico migliore di Bologna, non ritrovò sicure notizie
intorno al modo con cui eleggevansi i consoli: il podestà nominavasi
ogni anno in settembre in tal maniera. Fra i membri del consiglio
generale e speciale estraevansi a sorte quaranta cittadini, che venivano
rinchiusi assieme, e sotto pena di perdere il diritto d'elezione
dovevano entro ventiquattr'ore aver fatta la nomina colla maggiorità di
ventisette voti. Spesse volte i consigli indicavano agli elettori la
città in cui dovevano prendere il podestà. Questo magistrato non poteva
scegliersi tra i parenti di verun elettore fino al terzo grado, non
poteva possedere beni stabili nel territorio della repubblica, doveva
esser nobile, d'età non minore di trentasei anni, ed avere buon nome.
Fatta la scelta, scrivevasi a nome del comune all'eletto per invitarlo a
venire a prendere possesso della carica che gli era offerta, ed
accettare l'onore che la repubblica gli faceva[249].

  [248] _Il Sigonio de Reb. op. omn. t. III, ad an. ed il Ghirardacci
  l. II, p. 63_, riportano questa costituzione all'anno 1128. Tale
  epoca parmi anteriore assai all'origine di quasi tutte le
  istituzioni di cui parlano.

  [249] Il Ghirardacci scrive che i consoli ed i pretori governavano a
  vicenda la repubblica e talvolta congiuntamente, e che l'ultimo
  aveva la stessa autorità dei consoli, ed inoltre le insegne del
  potere, cioè il cappello, lo stocco e lo scettro, e che dall'usare
  queste insegne di podestà venne ai pretori il nome di podestà. _N.
  d. T._

Somiglianti leggi press'a poco erano state fatte dalle altre città
libere: in ogni luogo la costituzione aveva sofferto qualche
cambiamento, e le contrarie pretese dei due opposti partiti che
desideravano introdurvene di più grandi, eransi già apertamente
manifestate. Le generali rivoluzioni dell'Impero tennero alcuni anni
sospesi questi umori, che si svilupparono nuovamente con terribili
sintomi quando gl'imperatori ed i papi, venuti tra loro a nuove contese,
si procacciarono in tutte le città il favore delle fazioni da loro
tenute vive.

Queste rivoluzioni dell'Impero diventano adesso l'argomento delle nostre
indagini; ma è d'uopo ricordarsi che nel campo della storia incontransi
vasti deserti: sono questi i tempi in cui verun sentimento generalmente
diffuso anima i popoli, in cui nessun personaggio d'alta riputazione a
se richiama l'interesse generale; i tempi inoltre ne' quali nessuno
scrittore mediocre lasciò ne' suoi racconti l'impressione di questi
sentimenti, nessuno comunicò alle sue scritture il carattere del secolo.
Dalla pace di Costanza al regno di Federico II, abbiamo uno spazio di
quindici anni affatto deserto. In questo tempo presentaronsi sulla scena
per iscomparire all'istante alcuni personaggi affatto nuovi senza far
sugli animi veruna impressione; uomini inetti che non potevano fissare
l'attenzione de' popoli. Guglielmo II e Federico, Tancredi e suo figlio
Ruggiero, Sibilla vedova del primo, Guglielmo III fratello del secondo;
Enrico IV e Costanza; Lucio III, Urbano III, Gregorio VIII, Clemente
III, Celestino III, si mostrarono un istante per ricadere in una
perpetua oscurità. Il dodicesimo secolo pareva che, terminando,
strascinasse con se tutti i nomi che gli appartenevano, per non lasciare
al nuovo che personaggi nuovi.

Quest'epoca novella ricevette il suo carattere dall'interregno
dell'Impero con cui incominciò: allora fu che le fazioni impiegarono
tutta la loro energia; che i nomi dei Guelfi e dei Ghibellini
diventarono motivi di proscrizione; che le città toscane fin allora
subordinate all'Impero posero i fondamenti della loro libertà,
riunendosi al partito della Chiesa; e che molte di quelle della
Lombardia e della Marca Trivigiana, abbracciando l'opposto, caddero la
prima volta sotto il giogo d'alcuni piccoli ma feroci tiranni.

Dobbiamo perciò chiedere l'indulgenza del leggitore intorno ad aride
ricerche e la sua attenzione sopra fatti complicati che mal si legano
gli uni cogli altri, e che non ci furono tramandati con sufficienti
particolarità per interessarci; ma che non pertanto è necessario di
conoscere, perchè spiegano le rivoluzioni cui diedero origine nel
susseguente secolo.

La storia della casa di Svevia e dei diritti ch'ella acquistò sul regno
delle due Sicilie trovasi essenzialmente legata ai destini di tutte le
repubbliche italiane, perchè alcune atterrite da tanta grandezza
diventarono implacabili nemiche degl'imperatori, mentre le altre, memori
de' ricevuti beneficj, consacrarono i loro tesori, le armi, i cittadini
in difesa del vacillante trono dei monarchi di Germania e di Sicilia.

La storia di certe nobili famiglie che ne' quindici anni che abbraccia
questo capitolo incominciarono a sortire dall'oscurità, minacciando
colle loro querele perfino l'esistenza delle vicine repubbliche, è forse
ugualmente arida, ma ugualmente ancora importante per le conseguenze che
ebbe, essendo usciti più tardi da queste famiglie i tiranni di tante
illustri città.

Questi due oggetti fisseranno dunque pressochè soli la nostra attenzione
fino alla fine del secolo dodicesimo: omettendo di fermarci intorno alle
animosità di alcune città rivali ed alle passeggieri guerre di alcuni
popoli quando non influirono sulla loro sorte, o non furono illustrate
da avvenimenti degni della nostra curiosità.

L'anno dopo la pace di Costanza, venendo Federico in Italia con il
figliuolo Enrico, cui destinava la corona dell'Impero, quelle città, che
avevano più valorosamente contro di lui combattuto, rivalizzarono
nell'onorarlo. I Milanesi tra gli altri nulla omisero per guadagnarsi la
sua affezione, e l'imperatore dal canto suo, dopo avere sperimentata la
debolezza delle comuni già sue amiche, credette di appoggiarsi sopra una
lega più potente procacciandosi l'amicizia de' Milanesi, a' quali
accordava perciò nuovi privilegi e permetteva di rifare la città di
Crema, le di cui mura non eransi più rialzate dopo ch'egli,
ventiquattr'anni prima, le aveva spianate. I Cremonesi che vi si erano
opposti quando la lega lombarda dispiegava tutta la sua potenza, si
offesero gravemente e diedero così aperti segni del loro malcontento
verso l'imperatore per avere, mosso dalle preghiere dei Milanesi,
perdonato agl'infelici Cremaschi, che Federico irritato si pose alla
testa delle milizie di Milano, e, facendo marciare innanzi il Carroccio
del comune, entrò nel territorio cremonese, bruciò molti castelli di
quel popolo ammutinato, e lo forzò ad implorare la sua clemenza[250].

  [250] _Sicard. Ep. Crem. Chron. t. VII, p. 602._

Federico era venuto in Italia per trattare il matrimonio di suo figlio
Enrico con Costanza, la più prossima erede della casa normanna che
regnava a Palermo. Questa principessa, figliuola postuma di Ruggiero
primo re di Sicilia, quantunque in età di soli trent'anni, era zia di
Guglielmo II allora regnante. Prevedevasi che questi, benchè ammogliato,
non lascerebbe figli, onde lo sposo di Costanza, Enrico, sarebbe
chiamato alla corona delle due Sicilie ed a quella di Lombardia.
Sembrava con ciò che la casa di Svevia acquistar dovesse una
preponderanza tale, cui non potrebbero resistere nè la Santa Sede, nè le
città libere, nè i grandi feudatarj.

Il regno normanno, nato nel precedente secolo, aveva nel corso di due
sole generazioni cambiato natura e governo. Ruggiero, primo re di
Sicilia, e figliuolo del gran conte dello stesso nome, aveva steso il
suo dominio non solo su tutte le province che formano oggi il regno di
Napoli, ma inoltre sopra molte città d'Affrica e della Grecia. Temuto
dai suoi vicini, veniva in pari tempo servito con zelo da' suoi sudditi
malgrado la durezza della sua amministrazione, credendo di essere
compensati dei mali che loro faceva soffrire la sua ambizione, dalla
gloria delle sue armi vittoriose. I nobili de' suoi stati, parte
compressi dalla severità de' castighi, parte guadagnati dai suoi favori,
avevano quasi deposto il fiero ed indipendente carattere normanno. Due
figliuoli degni di tanto padre, che promettevano alla famiglia
accrescimento di gloria, ed un governo vigoroso alla nazione, morirono
in fresca età, onde il terzo figlio Guglielmo, di cui il padre ne
compiangeva l'imbecillità, si vide inaspettatamente chiamato a
succedergli.

Questo principe, detto Guglielmo il cattivo, appena occupato il trono
paterno, abbandonossi così ciecamente ai più indegni favoriti, che la
nobiltà della corte, per salvargli la vita, dovette congiurare contro le
creature del suo re. Majone, oscuro cittadino di Bari, nominato grande
ammiraglio, aveva progettato di far morire Guglielmo per montar egli sul
di lui trono; progetto che avrebbe avuto intera esecuzione se il pugnale
de' cospiratori non veniva in soccorso del re[251]. Durante la debole e
burrascosa amministrazione di Guglielmo I, e la lunga minorità di
Guglielmo II, l'edificio sociale innalzato con tanta fatica dai
conquistatori normanni fu quasi totalmente distrutto. Nelle province di
qua dal Faro i Lombardi avevano introdotto il sistema feudale, onde
quando pubblicaronsi le loro leggi i signori riebbero un'indipendenza
che sarebbe stata assoluta, se la loro ambizione non gli avesse
avvicinati alla corte; e le città medesime si eressero in corpi politici
talvolta indocili, liberi mai. La Sicilia presentava un aspetto affatto
differente. Governata lungo tempo dagli Arabi e prima dai Greci, non
conosceva che le costumanze e la politica degli Orientali. Guglielmo era
per quest'isola uno di quegli effeminati sultani che tosto o tardi
disonorarono tutte le dinastie dell'Asia: circondato d'eunuchi, di
donne, di preti corrotti, di vilissimi servi, governava il suo regno
come volevano i piccoli intrighi del serraglio di Palermo. Intanto i
Saraceni, ridottisi nelle montagne, occupavano ancora la maggior parte
dell'interno dell'isola; essi non ubbidivano che ai loro capi, e la fede
di questi verso il re era assai sospetta. Altri Saraceni più inciviliti
esercitavano la mercatura nelle città, altri avevano il favore della
corte e vi occupavano spesso le prime cariche; tutti gli eunuchi erano
musulmani e favorivano presso al re col proprio credito i loro
compatriotti. I signori cristiani possedevano nell'isola contee e
baronie tanto nelle città, che sulle coste, ma questi piccoli governi
rassomigliavansi molto più ai _pachalicks_ de' Turchi, che ai feudi
dell'Occidente: in ogni luogo vedevasi cadere il despotismo in
dissoluzione, dando luogo ad una generale insubordinazione, senza verun
principio di libertà. Pure lo storico Ugo Falcando, dietro al quale
abbiamo giudicata quest'epoca, parla enfaticamente della prosperità e
della pace di cui godeva la Sicilia in sul finire del regno di Guglielmo
II, senza però ch'egli abbia scritta la storia di questi tempi di tanta
felicità; e siccome le nazioni non passano mai rapidamente dall'estrema
dissoluzione d'ogni ordine sociale a tanta prosperità e gloria, così ci
dev'essere permesso di credere che lo storico abbia voluto col
contrapposto di questa imaginaria felicità, dare maggior risalto alla
tirannide da lui descritta sotto il regno di Guglielmo, ed a quella che
prevedeva sotto il dominio de' Tedeschi. Vero è intanto e cosa assai
notabile, che la Sicilia dopo essere stata tolta agli Arabi non ebbe mai
più regolare governo; e che anche il brigantaggio cui trovasi oggi
abbandonata è la conseguenza della sua antica anarchia, da cui non si è
mai potuta interamente liberare[252].

  [251] _Hugo Falcandus historia sicula t. VII, Rer. Ital. p. 272_, e
  seguenti.

  [252] Ugo Falcando viene risguardato siccome il più eloquente
  storico del suo secolo, ed ancora del seguente. Fu detto il Tacito
  della Sicilia; e nel quadro che fece dei delitti della corte di
  Guglielmo, si possono in fatti ravvisare molti tratti che ci
  rammentano Claudio e Tiberio quali furono dipinti dal grande storico
  di Roma: ma Falcando, volendo far pompa d'eloquenza, distrugge
  l'impressione che vorrebbe fare, e rende sospetta la sua veracità.
  La sua storia non abbraccia, strettamente parlando, che il regno di
  Guglielmo il malvagio ed i primi anni della minorità del suo
  successore, cioè dal 1154 al 1169. Questa storia fu dal Muratori
  inserita nel _t. VII, Rer. Ital._

Qualunque si fosse la debolezza e la dissoluzione del regno sul quale la
casa di Svevia acquistava nuovi diritti, Federico ed i suoi successori
rinunciarono, per conquistare la Sicilia, ai progetti che il primo aveva
formati contro la libertà della Lombardia, e resero perciò la pace alle
repubbliche. Di fatti in luogo di alimentare le discordie tra le città,
come praticò fin allora, e di sostenere i più deboli contro i potenti,
l'imperatore s'adoperava adesso per riunirli onde valersi delle loro
forze quando riclamerebbe l'eredità di sua nuora Costanza. E siccome i
suoi sforzi per conservar la pace tra le città lombarde erano sinceri,
così furono sempre coronati da prospero successo. L'opera di Federico fu
potentemente assecondata dalle prediche della religione e dalla profonda
impressione che fece sopra tutta l'Europa un avvenimento risguardato dai
cristiani come una generale calamità.

Il nuovo regno latino di Gerusalemme aveva nello spazio d'ottant'anni
toccati gli estremi della forza e della debolezza. Fondato dalle più
potenti armate che militassero giammai sotto lo stesso stendardo, era
stato in seguito abbandonato quasi senza difesa alla gelosia ed alla
vendetta degli Asiatici che lo circondavano. Talvolta poteva opporgli i
formidabili ausiliari che arrivavano dall'Europa; ma ridotto non di rado
alle sole sue deboli forze, non poteva riunire che pochi soldati, e
questi ancora segreti nemici gli uni degli altri a cagione della diversa
loro origine, snervati dal clima e dalle delizie dell'Asia, ed
indisciplinati in forza di quelle stesse leggi che avevano portate
dall'Europa[253]. I crociati trapiantando in Siria il sistema feudale,
ne avevano conservata l'insubordinazione, e perduta l'energia. Intanto
dimenticavansi in Europa i pericoli cui trovavasi esposta la santa
città, quando nel 1187 si ebbe notizia che Saladino se n'era
impadronito, che il re Gui di Lusignano era prigioniere, e che, tranne
le città di Tripoli, di Tiro e d'Antiochia, tutta la terra santa era
ricaduta in potere degli infedeli[254].

  [253] Veggasi il quadro fatto da Giacomo di Vitrì dei costumi de'
  Latini orientali che in Oriente chiamavansi _Pullani_: sono questi i
  creoli delle nostre isole d'America. _Historia Hierosol. l. I, c.
  72. Gesta Dei per Franc. p. 1088._

  [254] Il venerabile Guglielmo arcivescovo di Tiro non potè
  risolversi a terminar la storia delle sventure della sua patria. Non
  ci rimangono che la prefazione e poche linee del suo ventesimo terzo
  libro, che doveva contenere il racconto di Gui di Lusignano e della
  presa di Gerusalemme. _Gesta Dei per Francos, p. 1042._ — Veggasi
  adunque Giacomo di Vitrì. _Hist. Hierosolim. l. I. c. 94, e 95. —
  Gesta Dei per Franc. p. 1119. — Bernardus Thesaurarius de
  Acquisitione terræ sanctæ c. 148. — 166. t. VII, Rer. Ital. p. 783._
  ec.

Qualunque sia la nostra opinione intorno al primo motivo delle crociate,
poichè fu stabilito il regno di Gerusalemme, e che, confidando
nell'appoggio degli Occidentali, tanti coloni di tutte le nazioni
d'Europa erano venuti a popolare la Siria, restandovi come ostaggi e
come mallevadori della volontà dei Latini di mantenere indipendente la
Terra santa, l'onore, il dovere, le più assolute promesse obbligavano
gli Occidentali a soccorrere i loro compatriotti, i campioni da loro
stessi posti nel territorio nemico. Estrema fu perciò la costernazione
cagionata dalla perdita di Gerusalemme, profonda, universale. Gregorio
VIII, allora eletto papa[255], impiegò i brevi giorni del suo
pontificato a predicare ai cristiani la pace fra di loro e la lega
contro gl'infedeli. Spedì lettere circolari a tutti i re, a tutte le
repubbliche d'Europa, pregando di deporre le private nimistà e di
riunirsi per la causa di Dio, perchè, com'egli diceva, i vizj de'
cristiani e le pazze loro discordie avevano loro procurato sì grande
calamità e tanta vergogna[256].

  [255] Venne universalmente attribuita la morte d'Urbano III al
  dolore concepito per la perdita di Gerusalemme. La città si rese a
  Saladino il 2 ottobre, ed Urbano morì a Ferrara il 19 dello stesso
  mese; cosicchè egli non poteva aver ricevuta la notizia dell'ultima
  catastrofe, ma soltanto delle precedenti disavventure. _Murat. Ann.
  t. X, p. 139._

  [256] Veggansi queste lettere presso Baronio _ad ann. § 18. t. XII,
  p. 780_.

Le guerre d'Italia erano allora prodotte dalle passioni dei popoli e non
dagli ambiziosi calcoli de' sovrani. Un profondo e doloroso sentimento
de' loro errori occupò all'istante l'animo de' cittadini, e l'entusiasmo
distrusse le inquiete loro rivalità. Cremona era in guerra con Brescia,
Parma con Piacenza, Milano e Pavia si disponevano a nuove battaglie: ma
fu loro predicata la pace di Dio, e tutte le repubbliche
l'abbracciarono. I più valorosi soldati delle armate nemiche presero la
croce, e giurarono di militare assieme. Una sola città diede due mila
soldati per questa santa impresa; e perchè gli uomini più caldi ed
impetuosi furono i primi ad arrolarsi per la guerra sacra, la loro
lontananza riuscì, non v'ha dubbio, utilissima alla tranquillità della
loro patria. Due repubbliche rivali, che seppero soltanto per brevissimo
tempo comprimere l'odio nazionale, s'incaricarono in ispecial modo di
predicar la pace ai cristiani. Furon queste Genova e Pisa, le di cui
milizie per un fortunato accidente trovandosi riunite sotto gli
stendardi del giovane Corradino marchese di Monferrato, salvarono la
città di Tiro nell'istante che Saladino era in procinto d'assediarla con
una potente armata[257]. I Pisani sconfissero due volte la flotta
musulmana, ed i Genovesi trasportarono gli ambasciatori mandati da
Corrado a tutti i sovrani per implorare i loro soccorsi: e se alcuni
porti di Terra santa rimasero aperti ai Cristiani, ne andarono soltanto
debitori alla potente assistenza di queste due repubbliche.

  [257] _Ottobonus Scriba, contin. Caffari, Ann. Genuen. l. III, p.
  359, t. VI. — Breviar. Pisanæ hist. p. 191._

Clemente III, che del 1188 succedeva a Gregorio VIII, morto dopo due
mesi di papato, spedì nuovi deputati a tutti i potentati con prospero
successo. I Veneziani ed il re d'Ungheria, che disputavansi la Dalmazia,
fecero la pace, come ancora i re di Francia e d'Inghilterra, che ambedue
promisero di andare in Oriente alla testa de' loro sudditi. Per ultimo
due deputati del pontefice si presentarono alla dieta di Germania
preseduta da Federico a Magonza[258], e seppero coi loro sermoni toccare
in modo gli uditori, che lo stesso vecchio monarca prese la croce con
suo figliuolo Federico, consacrando al servizio di Dio gli ultimi anni
d'una vita lungo tempo agitata dall'ambizione, ma resa gloriosa dal suo
valore e dai militari talenti.

  [258] _Otto de Sancto Blasio Chron. c. 31. p. 887. t. VI. — Annal.
  Ecclesiast. ann. 1188._

Di fatti Federico perdette la vita nella guerra santa. Egli condusse in
Asia una armata di novanta mila uomini, benchè licenziasse tutti coloro
che non avevano del proprio almeno tre marche d'argento per supplire
alle spese del viaggio. La sola cavalleria formava un corpo di trenta
mila uomini. Aveva attraversata l'Ungheria e la Bulgaria e resi vani
gl'intrighi dei Greci che non potevano vederlo senza diffidenza
avanzarsi nel cuore della Romania. Nell'inverno del 1189 rimase in
Grecia, ed attraversò lo stretto di Gallipoli soltanto in marzo del
1190. Soggiogò in seguito il sultano d'_Iconium_, che gli si era
opposto, e ne bruciò la capitale; e già l'armata crociata era giunta
nelle campagne dell'Armenia abitata dagli amici de' Cristiani, quando il
10 giugno Federico perì nel piccolo fiume chiamato _Salef_ annegato, o
tocco d'apoplessia a cagione della soverchia freddezza delle acque[259].

  [259] _Annal. Eccles. 1190. § 9. t. XII, p. 804. — Jacob. de
  Vitriaco Hist. Hieros. l. I, c. 99. p. 1121 — Bernard. Thesaurar. de
  acquis. Terræ sanctæ c. 169. p. 804. — Sicardi Episc. Cremon. Chron.
  p. 611, t. VII, Rer. Ital. — Marini Sanuti Secreta Fidelium Crucis
  l. III, p. X, c. 2. Gesta Dei per Francos t. II, p. 196._

La morte di Federico fu compianta da tutte le città che pure furono
lungo tempo esposte alla potente sua collera ed alla sua vendetta. I
Lombardi e gli stessi Milanesi non potevano non ammirare il suo raro
coraggio, la sua costanza nelle avversità, la sua generosità. L'intima
convinzione della giustizia della sua causa l'aveva talvolta reso
crudele fino alla ferocia contro coloro che gli resistevano; ma dopo la
vittoria dissetava la sua vendetta coll'atterrare le insensibili mura; e
per quanto fosse irritato contro i Tortonesi, i Cremaschi, i Milanesi,
per quanto sangue spargesse finchè combatteva, non lordò il suo trionfo
con odiosi supplicj. Malgrado il tradimento cui discese una sola volta a
danno degli Alessandrini, in generale fu fedele manutentore della data
fede; e quando l'anno dopo la pace di Costanza fu ammesso entro le loro
mura dalle città che gli avevano fatta la più ostinata guerra, non
dovettero porsi in guardia contro alcun suo attentato ai privilegi da
lui riconosciuti. Il suo carattere meritò ancora maggior rispetto quando
si potè farne confronto con quello d'Enrico VI suo figliuolo e
successore.

Questo principe, siccome aveva desiderato il padre, portava già da
cinque anni le corone di Germania e d'Italia. Valoroso come il padre,
non ebbe i suoi grandi talenti. Fu nella guerra brutalmente feroce,
perfido in pace ed impudente mancator di fede. Ugo Falcando, che
scriveva nel tempo ch'Enrico sosteneva la prima volta colle armi i suoi
diritti alla corona di Sicilia, dipinse gli Allemanni come la più feroce
popolazione; ma senza dubbio aveva preso dal loro re i principali tratti
del carattere attribuito alla nazione. «La rabbia tedesca, dic'egli, non
è repressa dagli ordini della ragione, mai non piegasi a misericordia,
non è sospesa dal terrore della religione. Un innato furore agita sempre
questo popolo, eccitato dalla rapacità e strascinato nel delitto dalla
dissolutezza[260].»

  [260] _Hugo Falcandus Hist. Sicula p. 252._

Pure l'assunzione d'Enrico al trono imperiale non influì direttamente
sulla sorte delle repubbliche italiane. Trovavasi colla sposa in
Germania quand'ebbe avviso della morte di Guglielmo II in Palermo[261],
ed alcuni mesi dopo di quella di suo padre in Asia. Il primo non erasi
determinato a maritare Costanza che per assicurare l'ordine della
successione e preservare il regno da una guerra civile; onde l'aveva
dichiarata sua erede, facendo che i più principali baroni de' suoi stati
le giurassero fedeltà. Ma i Siciliani vedevano con orrore trasferirsi in
un principe straniero la sovranità della loro isola, quando eravi un
principe normanno, di non legittimi natali bensì, ma per altro illustri.
Era questi Tancredi conte di Lecce, figlio d'una contessa di Lecce e di
Ruggiero figliuolo primogenito del primo re di Sicilia. Il di lui
matrimonio non era stato legittimato dall'approvazione paterna, nè
consacrato dalla Chiesa. Pure l'unione di questo principe con una dama
d'alto rango, cui era stato fedele fino alla morte, non sembrava tale
agli occhi de' Siciliani, che dovesse degradare il figliuolo e privarlo
della sua eredità. Tancredi fu quindi chiamato a Palermo in principio
del 1190 dalla nobiltà dei due regni e proclamato re[262].

  [261] Guglielmo morì il 16 novembre del 1189.

  [262] _Richardi a sanct. Germano Chron. t. VII, Rer. It. p. 970. —
  Chron. Monast. Fossae novae t. VII, p. 877._

Il primo pensiere d'Enrico dovette essere quello di riconquistare un
regno che gli veniva tolto nell'istante in cui verificavasi il suo
diritto alla successione. Per ricuperare l'eredità della sposa chiese
ajuto alle repubbliche italiane e specialmente alle marittime. Ci furono
conservate le parole stesse da lui dirette ai Genovesi quando pochi anni
dopo bramava averli sussidiarj in una seconda spedizione: egli non
faceva che ripetere le prime offerte. «Se dopo Dio, col vostro ajuto io
posso ricuperare il mio regno di Sicilia, l'onore sarà mio, ma tutto
vostro il profitto. Difatti io non devo soggiornarvi coi miei Tedeschi,
ma vi soggiornerete voi ed i vostri discendenti, ed il regno per ogni
rispetto sarà piuttosto vostro che mio[263].» Oltre i privilegi e le
esenzioni più vantaggiose in tutti i porti, aveva loro promessa la città
di Siracusa con tutte le sue dipendenze e duecento cinquanta feudi di
cavaliere in val di Noto, per guarentia delle quali promesse aveva fatto
spedire in loro favore un atto autenticato col suo suggello[264]. Tanto
i Genovesi che i Pisani, allestito avendo una ragguardevole flotta in
soccorso di Enrico, andarono in traccia di quella di Tancredi a
Castelmare di Sicilia, poi all'isola d'Ischia per attaccarla. Ma in pari
tempo l'imperatore medesimo, dopo qualche effimero avvantaggio, vide la
sua armata distrutta dalle malattie; onde fu costretto di ritirarsi
precipitosamente, perdendo l'imperatrice, rimasta prigioniera de' suoi
nemici[265]. Dopo la ritirata d'Enrico le flotte repubblicane, non
credendosi più sicure in quei mari, furono costrette di abbandonarli.

  [263] _Ottobonis Scribæ Ann. Genuen. l. III, p. 367._

  [264] _Ibid._

  [265] _Richardi de san. Germano Chron. p. 971._

Scoraggiato Enrico da queste disavventure, e forse sorpreso dalla
generosità di Tancredi, che senza taglia e senza condizioni gli aveva
rimandata la sposa[266], non avrebbe probabilmente ricominciate così
presto le ostilità: ma parve che a quest'epoca una generale sentenza di
morte fosse pronunciata contro tutti i sovrani d'Italia. Il figlio
primogenito di Tancredi, che il padre aveva già associato alla corona
per assicurargli la successione, fu la prima vittima; e ben tosto gli
tenne dietro il padre nel 1194, morto di dolore per la perdita del
figlio[267]. Dopo tali avvenimenti, quantunque non incontrasse più
ostacolo nell'occupare il regno di Sicilia, Enrico trattò le città
sottomesse con quella severità che appena sarebbesi usata verso città
conquistate colla vittoria. Egli spogliò la Sicilia de' suoi tesori che
mandò in Germania, e con insolita crudeltà si rese odioso non solo ai
sudditi, ma perfino alla propria sposa Costanza, che, ultima erede del
sangue normanno di Sicilia, risguardava come proprie le sventure de'
suoi compatriotti; onde fu comune opinione che, per metter fine a tanti
furori, cospirasse contro al marito[268]. E perchè i suoi alleati non
fossero meglio trattati de' suoi sudditi e de' suoi parenti, mancò a
tutte le promesse fatte ai Genovesi, annullando tutti i privilegi di cui
godevano nei porti del regno di Napoli. Nè di ciò contento, volle pur
rendersi esoso agl'Italiani durante il breve soggiorno che fece due
volte nel loro paese[269]; se non che nella seconda sua spedizione morì
inaspettatamente nell'assedio d'un castello ribellatosi contro di
lui[270]. Morì pure tre anni dopo papa Celestino III che, durante il suo
regno di sett'anni, ebbe con Enrico diverse contese[271]. Anche
Costanza, che dopo la morte del marito aveva prese le redini del regno,
lo raggiunse un anno dopo nel sepolcro, lasciando unico erede delle case
di Svevia e di Sicilia un fanciullo di quattr'anni già incoronato sotto
nome di Federico II, ma sprovveduto d'amici e circondato di rivali[272].

  [266] _Ibid. p. 973._

  [267] _Ibid. p. 975._

  [268] _Murat. Ann. d'Ital. t. X, p. 183. ad ann._

  [269] _Richard. de san. Germano Chron. p. 976. — Chron. Fossae Novae
  p. 880. — Anon. Cassin. Chron. t. V, p. 143. — Otto de san. Blasio
  c. 39 et 40, p. 893._

  [270] Il 28 settembre 1197.

  [271] _Richard. de san. Germano Chron. t. VII, p. 977. — Johan. de
  Ceccano Chron. Fossae Novae p. 883. — Conradus Abbas Usperg. Chron.
  p. 304._

  [272] Federico II, o Federico Rogero nacque a Iesi nel dicembre del
  1194. Sua madre morì il 27 novembre dell'anno 1198.

Una sola guerra di qualche importanza disturbò l'alta Lombardia durante
il regno d'Enrico VI, e fu quella delle repubbliche di Brescia e di
Cremona. Avevano i Bresciani accordata la loro protezione a molti conti
del territorio di Bergamo e con un trattato fatto del 1191 avevano
riunito al territorio di Brescia i castelli di Merlo, Calepio e Sarnico.
I Bergamaschi spedirono deputati ai Cremonesi loro alleati partecipando
loro la ricevuta ingiuria, ed in pari tempo ricordando a' medesimi che
ancor eglino quand'ebbero a dolersi de' Bresciani rispetto al corso ed
alla navigazione dell'Oglio, non ottennero giustizia da questa
repubblica; e perciò gli eccitavano a prendere le armi contro
l'ambiziosa città. Prima però di dichiarar la guerra, cercarono di
rendersi più forti con nuove alleanze, e mandarono deputati alle città
che potevano prender parte al loro malcontento, procurando di
guadagnarle sia con eloquenti lagnanze, ora offrendo soccorsi ai
principali magistrati. Con tali mezzi ottennero di unire alla loro lega
Pavia, Lodi, Como, Parma, Ferrara, Regio, Bologna, Mantova, Verona,
Piacenza e Modena. I primi ad aprire la campagna furono i Bergamaschi,
assediando in sul cominciar di luglio i castelli di Telgato e di
Paulusco. I Cremonesi avanzaronsi pochi giorni dopo con tutti i
confederati, e dopo avere il 7 luglio gettato un ponte sull'Oglio,
entrarono col Carroccio nel territorio bresciano. Un valoroso capitano
bresciano, Biatta di Palazzo, comandava la guarnigione, composta di
pochi ma bravi soldati, del castello di Rudiano posto lungo la strada
dell'armata nemica. I Milanesi soli alleati di Brescia avevano fatte
avanzare le loro truppe fino alle rive del Serio.

I Bresciani avanti l'arrivo dei loro alleati vollero impedire il
devastamento del loro territorio, e sortirono contro ai nemici
caricandoli vigorosamente. Il loro urto fu ricevuto con intrepidezza
almeno uguale, onde i Bresciani sopraffatti dalla superiorità del
numero, e non vedendo arrivare il promesso soccorso de' Milanesi,
incominciavano a perdere coraggio, quando Biatta di Palazzo, sortendo
dal castello di Rudiano colla sua poca truppa, le fece gridare ad alta
voce: _le nostre spie ci hanno ben serviti, tutto si avverò, viva la
milizia di Rudiano!_ Prima dell'invenzione della presente romorosa
artiglieria, e quando i soldati battevansi corpo a corpo, i gridi
d'un'armata non erano senza effetto sull'armata nemica. I Bresciani,
incoraggiati da questo inaspettato soccorso, ripreser fiato; i Cremonesi
si credettero traditi, ed in quel primo momento di confusione, caricati
avanti ed alle spalle, furono agevolmente sgominati e posti in piena
ritirata[273]. I fuggitivi affollandosi sul ponte volante, fatto il
precedente giorno, lo fecero crollare col loro peso e cadere nell'Oglio,
ove s'affogarono tutti coloro che l'occupavano allorchè cadde. Questo
funesto accidente accrebbe il terrore dell'armata in modo, che i
soldati, malgrado il peso dell'armatura, gettavansi nel fiume per
attraversarlo a nuoto, ma vi rimasero tutti affogati nella melma, o via
trasportati dalla violenza della corrente; mentre perivano sotto le
spade nemiche gli altri che non si esposero al pericolo del fiume[274].
Pochi salvaronsi di così bella armata, che si credette aver perduti
dieci mila uomini. Questa battaglia, ed il luogo in cui si fece si
chiamarono negli annali lombardi _mala mort_e. Gli effetti di tale
disfatta non influirono per altro sulla sorte dei vinti come poteva
temersi, perchè Enrico VI, ritornando allora dalla sua prima impresa
della Puglia, volle che le città nemiche si rappacificassero, e si
rilasciassero vicendevolmente i prigionieri.

  [273] _Jacobi Malvecii Chron. Brixian. dist. VII. c. 62. 63. t. XIV.
  p. 883 — Sicardi Epis. Cremon. Chron. t. VII. p. 615 — Chron. breve
  Cremon. t. VII. p. 636 — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 222. t. XI.
  p. 656._

  [274] Si pretende che i Cremonesi, gettandosi nel fiume, gridassero:
  _è meglio annegarsi che morire_. Così l'ironia s'attacca spesso alle
  più funeste memorie; e facile è il passaggio dal ridicolo al
  terrore.

A questa guerra, ed all'altra che si fecero con quasi ugual furore Parma
e Piacenza[275], tennero dietro alcune mal conosciute liti fra i Comuni
ed i gentiluomini del distretto, ma che forse ebbero più importanti
conseguenze, perchè furono cagione di fare successivamente cadere tutte
le repubbliche dell'Italia settentrionale, per un tempo più o meno
lungo, sotto il giogo di alcuni signori che crudelmente abusarono
dell'usurpato potere. Dobbiamo perciò risalire all'origine di questi
usurpi nella provincia della Marca trivigiana o veneziana, di dove il
contagio parve che si diffondesse ancora nelle altre.

  [275] Negli anni 1198 e 1199.

Questa provincia è in parte montuosa, e nei secoli di mezzo
l'ingrandimento o il decadimento della nobiltà parve cagionata dalla
natura del paese in cui abitava. I gentiluomini trovavansi dovunque
esposti ugualmente alla gelosia delle città, ma quelli che abitavano
nella parte piana, non potendo giovarsi della natura del suolo per
fortificarsi, furono forzati di sottomettersi più presto alle
repubbliche, domandando il diritto di cittadinanza, e formando una
classe separata, è vero, ma però di cittadini. Altronde quelli che
trovavansi nelle montagne, essendo lontani dalle repubbliche, divisero i
loro interessi dagli altri che vivevano nelle città, e si disposero a
mantenere indipendenti i piccoli loro principati. Alcuni sopravvissero
agli ultimi comuni liberi, come i Malaspina che conservarono in
Lunigiana la loro sovranità fino agli ultimi anni del decorso secolo, e
come i feudi imperiali nelle alpi liguri che furono anche più tardi
proprietà d'una nobiltà immediata, rimasta indipendente[276]. Nello
stesso modo i gentiluomini degli Appennini chiudevano le repubbliche
toscane entro una linea di piccoli principati, che Fiorenza soggiogò
soltanto poichè giunta fu al suo maggior grado di potenza. Ma nella
Marca trivigiana i Monti euganei e le basi delle Alpi, prolungandosi in
mezzo alle fertili pianure ed alle più floride città, presentavano
montagnuole rese forti dalla natura, che i nobili non tardarono a
coprire di castelli e di ridotti fortissimi. Colà mantenendosi in tutto
il loro splendore, e resi potenti dal numero de' vassalli e dalle
accumulate ricchezze, conservarono tra le repubbliche della Marca
un'influenza che non avevano i nobili d'altri paesi, e si appropriarono
il godimento e l'elezione di tutte le magistrature, non lasciando tempo
al popolo di misurare le proprie forze e di scuotere il giogo.

  [276] Tanto i Malaspina, che i feudatari imperiali della Liguria
  erano dipendenti dall'Impero, da cui ricevevano l'investitura del
  rispettivo feudo; come pure il duca di Massa ed il principe di
  Carrara. Tutti avevano nella loro giurisdizione il _jus sanguinis_,
  ma il solo duca di Massa aveva ancora quello di battere monete,
  ottenuto dall'Impero circa due secoli sono. _N. d. T._

Non perchè fossero vinti e sottomessi agli ordini delle repubbliche, ma
solo per approfittare de' servigi de' loro subalterni, e per aprire alla
loro ambizione una più vasta carriera, i nobili vennero a stabilirsi
nelle città della Venezia. Perciò fissandovi la loro dimora non vollero
esporsi alle tumultuose passioni di un popolo incostante, e
fabbricandosi case in seno alle città diedero loro, se non la forma, la
solidità delle fortezze. Grosse mura porte e barricate di ferro,
aperture assai più appropriate alla difesa che al comodo assicuravano al
nobile nella propria casa un'assoluta indipendenza in mezzo ad una città
nemica. E quand'ancora queste prime difese venivano superate, una torre
quadrata, formata di enormi masse di pietra, offriva in ogni casa nobile
un impenetrabile asilo, che non poteva forzarsi senza un lungo assedio;
poichè sull'alto della torre conservavansi abbondanti provvisioni, e le
armi necessarie alla difesa[277][278].

  [277] A quest'epoca eranvi a Ferrara trentaquattro famiglie nobili,
  e trentadue torri. _Cron. Parva Ferrar. t. VIII, p. 480-482_.

  [278] Pavia chiamossi la città dalle cento torri, delle quali
  rimangono in piedi non poche anco a' dì nostri. _N. d. T._

La potenza de' gentiluomini in tutte le repubbliche della Marca non
avrebbe crollato giammai, se fossero rimasti uniti; ma l'assoluta
indipendenza di cui godevano, incoraggiando ognuno ad appagare tutte le
passioni, fece nascere fra di loro le più sanguinose liti. Fin verso la
metà del XII secolo niuno storico si prese cura di tramandare alle
posterità gli avvenimenti di quella contrada; ma dopo tale epoca molti
sono gli scrittori che ci lasciarono d'ogni cosa racconti minutamente
circostanziati. Sappiamo da questi che alla morte d'Enrico VI tenevansi
vive in ogni città le antiche fazioni, e che, se in alcune repubbliche
regnava la pace, ciò dovevasi alle pattuite divisioni delle pubbliche
funzioni e di tutte le dignità dello stato tra le famiglie rivali.

Quasi tutte le repubbliche Italiane avevano abolita la magistratura
consolare per rimpiazzarla con quella dei podestà, quali avevali
istituiti Federico Barbarossa. Ogni città chiamava per un determinato
tempo un capo straniero, gentiluomo e militare, che seco conduceva
arcieri e soldati, ed era depositario non meno del potere giudiziario,
che della forza pubblica cui rivolgeva, a seconda del bisogno, contro
gl'interni nemici dell'ordine, e contro quelli dello stato.

Benchè la plebe avesse una parte più immediata nell'elezione de' consoli
che in quella dei podestà, approvò questa innovazione, e la trovò utile,
perchè non richiedevasi meno d'una forza militare per metter freno alle
turbolenti fazioni de' nobili.

Quando il podestà veniva informato di qualche pubblico delitto, faceva
appendere alle finestre del palazzo il gonfalone di giustizia; e facendo
colle trombette avvisare tutti i cittadini di prendere le armi, usciva
egli stesso a cavallo dalla sua residenza, circondato dalle sue guardie
e seguito dal popolo. La casa del colpevole era all'istante assediata, e
venuta in mano della forza pubblica si spianava fino alle fondamenta. In
questa esecuzione, quantunque talora si punissero i colpevoli
coll'ultimo supplicio, non conservavansi altrimenti le forme del foro,
nè si aveva verun riguardo alla libertà d'una ben ordinata repubblica.
In mezzo ad uomini indipendenti e quasi sempre in guerra gli uni contro
gli altri, lo stesso capo dello stato moveva guerra ai cittadini
ribelli, e coll'apparato della sedizione intratteneva nella repubblica
una tal quale subordinazione. Ognuno ripromettevasi la sua libertà dalla
propria energia e non chiedeva al governo che la repressione d'un
grandissimo disordine.

Non erasi ancora supposto che un podestà potesse usurparsi il supremo
potere, e perciò non si era cercato che di porsi in guardia contro la
loro parzialità. Per prevenirla, ogni repubblica della Marca trivigiana
aveva divisa l'elezione tra i due partiti che dominavano in ogni città.
A Vicenza la nobiltà formava due fazioni, i conti di Vicenza, ed i
signori del Vivario. Ogni fazione nominava il suo commissario, ed i due
commissarj riuniti eleggevano ogni anno il podestà. A Verona le due
famiglie di Montecchio, o Monticulo, e di S. Bonifazio, seguite dal
rimanente della nobiltà, eransi ugualmente diviso il diritto d'eleggere
il podestà[279]. Altrettanto facevano in Ferrara le fazioni dei
Salinguerra e degli Adelardi equilibrate coll'attributo della stessa
prerogativa.

  [279] _Gerardi Maurisii Vicentini Historia Scrip. It. T. VIII, p
  II._ — Dalla casa di Montecchio prese Shakespear Montagu in Romeo e
  Giulietta — _Ricardi Comit. de S. Bonifatio vita, t. VIII, p. 121 —
  Chron. Veronen. p. 623._

Non era supponibile che questa divisione di potere elettivo permettesse
lunga pace a repubbliche male ordinate che contavano tra i loro
cittadini i nobili, sovrani nei proprj castelli e quasi di forze uguali
allo stato di cui erano membri, ed avvezzi a sbramare con aperto
disprezzo dell'ordine pubblico tutte le loro passioni. Prima che
terminasse il XII secolo la violenza d'alcuni gentiluomini risvegliò la
sopita animosità delle fazioni, e riaccese la guerra in tutta la
Venezia.

Sotto il regno di Corrado II un gentiluomo tedesco, chiamato Ezzelino,
aveva accompagnato quest'imperatore in Italia con un solo cavallo, ed in
ricompensa di questi servigi aveva da lui ricevuta la terra d'Onara e di
Romano nella Marca trivigiana[280]. A questo primo fondatore d'una
potente casa, resa famosa dai delitti, era succeduto un Alberico, ed in
seguito un Ezzelino che pure porta il nome del primo, e viene
soprannominato il balbo. Avevano questi signori accresciuto assai il
patrimonio della loro casa coll'acquisto di Bassano, di Marostica, e di
altre terre poste al nord di Vicenza e di Padova, in guisa che il loro
feudo formava già un piccolo principato, non inferiore di forze alle
repubbliche confinanti; e siccome le interne fazioni delle città
ambivano l'alleanza delle fazioni imperiali, i signori da Romano erano
omai risguardati in tutta la Venezia quai capi del partito ghibellino.

  [280] _Rolandini de factis in Mar. Trivis. Chron. l. I, c. 7, p.
  176._

Ezzelino il balbo e Tisolino di Campo Sampiero, il primo nobile
vicentino, padovano l'altro, erano congiunti d'amicizia e di alleanza,
avendo il secondo sposata una figlia d'Ezzelino, da cui aveva avuto più
figli, de' quali alcuni erano già usciti di fanciullezza. Accadde che al
primogenito di costoro si offrisse in matrimonio l'erede d'una potente
famiglia padovana chiamata Cecilia, che Manfredi, ricco signore d'Abano,
aveva, morendo, lasciata orfana. Tisolino volle, prima di conchiudere
tali nozze, avere l'assenso dell'amico e del suocero Ezzelino; il quale
trovando che questo accasamento utilissimo sarebbe al proprio figliuolo
Ezzelino II, senza lasciar travedere il suo pensamento al genero, si
addirizzò segretamente ai tutori della donzella, che vinti dall'oro,
rotta ogni trattativa con Tisolino, l'accordarono al signore da Romano;
il quale la fece onorevolmente tradurre nel suo castello di Bassano e la
maritò al figliuolo.

Questo tradimento eccitò la più viva indignazione nella famiglia di
Campo Sampiero, che giurò di farne vendetta, nè dovette lungo tempo
aspettarne l'opportunità. Alcuni mesi dopo il suo matrimonio, la sposa
d'Ezzelino recavasi a vedere i suoi poderi nello stato di Padova oltre
la Brenta con un accompagnamento più magnifico che forte. Gherardo
figliuolo di Tisolino che doveva essere suo sposo e che invece era
diventato suo nipote, postosi in agguato presso al castello di s.
Andrea, la tolse alle sue genti e la disonorò. Cecilia, tornata a
Bassano, non celò al marito la sua sventura; perchè ripudiata, passò in
seguito a seconde nozze con un nobile veneziano[281]. Ma le due
famiglie, irritate dai vicendevoli insulti, giuraronsi un odio che si
propagò di padre in figlio e che non s'estinse che col sangue.

  [281] Rolandino ricorda nello stesso tempo tre divorzi accaduti in
  questa famiglia. Egli ne parla come di avvenimenti allora comuni,
  senza farvi alcuna osservazione. Erano forse allora permessi dalla
  Chiesa? o soltanto dissimulati?

Erasi intanto accresciuta la potenza d'Ezzelino II e per questo
matrimonio e per l'altro contratto dopo il divorzio. Alleato delle
repubbliche di Verona e di Padova, ebbe in breve bisogno dei loro
soccorsi; perciocchè essendo stato del 1194 nominato podestà di Vicenza
uno de' suoi nemici, questi lo fece esiliare con tutta la sua famiglia e
tutti i suoi partigiani indicati col nome di _Vivario_. Prima
d'assoggettarsi a tale sentenza, cercò di difendersi incendiando le più
vicine case; e gran parte della città fu in questo ammutinamento
consunta dalle fiamme. Tali furono le prime scene di disordine e di
sangue ch'ebbe sotto gli occhi appena nato il figlio del signore di
Romano, il feroce Ezzelino[282].

  [282] Nacque il 4 aprile del 1194.

Non era per i signori da Romano troppo grave punizione l'esiglio da
Vicenza. Ritiratisi a Bassano in mezzo ai loro sudditi, si circondavano
dei loro partigiani ugualmente perseguitati, ma sprovveduti delle loro
risorse; e perciò costretti, approfittando delle beneficenze di così
potente famiglia, di rendersi, di uguali che erano, loro mercenarj.
L'esiglio non poteva durar sempre, e le disgrazie non meno che le
prosperità accrescevano il credito dei Romano presso la repubblica. I
Veronesi interpostisi per rimettere la pace in Vicenza, ottennero il
richiamo dei signori di Romano e de' suoi aderenti, ed autorizzarono le
due fazioni a nominare un podestà[283]. Così strana divisione
dell'autorità giudiziaria affidata a passioni nemiche, non era senza
esempio, e, ciò che più è notabile, praticato con felice successo pel
mantenimento della pace: senza dubbio per la ragione medesima, che due
armate nemiche comandate da esperti capitani possono stare a fronte
lungo tempo senza combattersi.

  [283] _Girardi Maurisii Hist. p. 11._

Del 1197 i Vicentini elessero ancora un podestà contrario alla fazione
Ezzelina; ed allora non solo la comune esiliò un'altra volta questo capo
di parte, ma gli dichiarò guerra e mandò le sue milizie ad assediare
Marostica[284]. I signori di Romano, situati tra il territorio di tre
repubbliche, erano in libertà di allearsi con quella che credessero più
utile ai loro interessi. Ezzelino impegnò ai Padovani per una
considerabile somma la terra d'Onara posta nella loro diocesi, e stipulò
con loro un atto di alleanza offensiva e difensiva, in virtù della quale
i suoi nuovi alleati attaccarono i Vicentini innanzi a Carmignano e
fecero loro due mila prigionieri[285]. Ciò accadde nel 1198, onde i
Vicentini, chiamati i Veronesi in loro soccorso, avanzaronsi uniti nella
campagna padovana per guastarla, spingendo le loro avanguardie fin sotto
le mura di Padova, a segno che si videro volare sulla città le scintille
degli incendj delle vicine case. Di che spaventati i Padovani,
rilasciarono tutti i prigionieri, senza il consenso d'Ezzelino, ed
ebbero a tale condizione la pace. Ma questi approfittò di tale pretesto
per separarsi dalla cadente loro fortuna. Offerse ai Vicentini di porsi
per le loro contese in arbitrio de' Veronesi; e diede loro in ostaggio
suo figlio, ed i più forti castelli Bassano ed Angarani: colla quale
assoluta confidenza si conciliò in modo l'affetto loro, che al podestà
di Verona riuscì facile l'ottenergli la pace dalla repubblica di Vicenza
e da tutta la fazione guelfa, facendogli restituire i castelli ed il
figliuolo. I Padovani non tardarono a punirlo dell'essersi riconciliato
coi loro nemici, e confiscarono a loro profitto la terra d'Onara di cui
trovavansi in possesso, e che altra volta aveva dato il suo nome alla
casa da Romano[286].

  [284] _Roland. l. I, c. 7. p. 176._

  [285] _Id. l. I, c. 7. p. 176._

  [286] _Gerar. Maur. p. 14._ — _Ant. Godii Nob. Vicentini Chron. p.
  74._

Mentre l'innalzamento d'una famiglia che doveva dominare tutto il
partito ghibellino, dava motivo a frequenti guerre nell'alta Venezia, al
mezzogiorno di questa provincia la crescente potenza d'un'altra casa,
posta alla testa de' Guelfi, veniva accompagnata da sommosse e da civili
discordie. Fra i territorj di Padova, di Ferrara, di Verona e di Vicenza
possedeva il marchese d'Este le borgate d'Este, Montagnana, Badia, ed il
Polesine di Rovigo. Alcune sono poste sopra colline isolate che
soprastanno alle ricche pianure della Venezia, ed il Polesine è difeso
dal corso di due gran fiumi, l'Adige ed il Po. Il marchese d'Este erasi
giovato della vantaggiosa situazione delle sue terre per conservarsi
indipendente in mezzo alle potenti repubbliche che lo circondavano;
erasi inoltre guadagnato l'amore de' suoi vassalli con un giusto e
moderato governo; ed aveva loro permesso di partecipare del favore
d'un'amministrazione repubblicana, eleggendosi i loro consoli[287]. La
casa d'Este alleata di quella de' Guelfi duchi di Baviera e Sassonia,
poi di Brunswik, sempre rivale della casa di Svevia, aveva già dato
prove del suo attaccamento alla causa dei papi in occasione delle
vertenze loro con Federico Barbarossa, quand'ella fu impensatamente
chiamata all'eredità d'un altro capo dello stesso partito.

  [287] Veggansi diversi trattati tra il marchese ed i suoi sudditi,
  _Antiquit. Ital. Dissert. XLV, t. IV, p. 42. 45._ e seguenti _ad
  ann. 1198_, e 1204.

Guglielmo Marchesella degli Adelardi capo della parte guelfa in Ferrara,
quello stesso che abbiamo veduto salvare Ancona, poco dopo questa
gloriosa impresa, ebbe la sventura di vedere successivamente perire gli
ultimi eredi maschi di sua famiglia, suo fratello con tutti i suoi
figliuoli. Di questo fratello sopravvivea però una fanciulla in ancor
tenera età chiamata Marchesella: egli lasciolla erede di tutti i suoi
averi, sostituendole, in caso che morisse senza prole, i figliuoli di
sua sorella. Credette poscia che le sventure di sua famiglia potrebbero
consolidare almeno la pace della patria, riavvicinando con istretti
vincoli i capi delle contrarie parti. Salinguerra, figliuolo di
Torrello, era allora capo dei Ghibellini di Ferrara; e Guglielmo non
contento di destinargli sposa sua nipote, allora in età di sette anni,
la pose nelle sue mani, lasciando allo sposo la cura della di lei
educazione; poi spirò[288]. Ma i Guelfi non acconsentirono che l'unico
rampollo d'un sangue loro tanto caro si dasse in balìa ad una famiglia
nemica: nè sapendo risolversi ad affezionarsi a coloro, contro i quali
eransi lungo tempo battuti, trovaron modo di rapire all'improvviso
Marchesella dalla casa de' Salinguerra, e di condurla in quella dei
marchesi d'Este, offrendola in isposa ad Obizzo d'Este, cui diedero
anticipatamente il possesso dei beni di Adelardo. Allora fu che la
famiglia estense si stabilì in Ferrara e che accettò la prima volta i
diritti di cittadinanza in un comune: ma il favore de' Guelfi di Ferrara
giovò assai più alla sua grandezza, che la passata indipendenza. Dopo
tal epoca la casa d'Este fu così universalmente riconosciuta capo della
parte guelfa, che in tutta la Venezia si chiamò _fazione del marchese_.

  [288] _Chronica parva ferrariensis, t. VIII, p. 481. — Chronic.
  Fratr. Francisci Pipini, l. I, c. 46. t. IX, p. 628._

L'interesse particolare taceva in faccia allo spirito di partito.
Marchesella morì avanti che si effettuasse il suo matrimonio, ma non
pertanto i nipoti di Guglielmo, che le erano stati sostituiti, non
riclamarono l'eredità di Adelardo per timore che, spogliando la casa
d'Este di tanta parte delle sue ricchezze, non s'allontanassero da
Ferrara con gravissimo pregiudizio della parte guelfa. Dall'altro canto
i Salinguerra avevano vivamente sentita l'ingiuria loro fatta; e dal
1180 in cui fu loro tolta la giovanetta sposa, fino al 1220, mantennero
viva la guerra civile entro le mura di Ferrara. Dieci volte in tale
periodo di tempo una parte cacciò l'altra di città, dieci volte le
proprietà dei vinti furono preda dei vincitori e le case distrutte fino
ai fondamenti[289].

  [289] _Chron. parva Ferrar. p. 481._ Di queste guerre civili scrisse
  estesamente Gio. Battista Pigna nella sua _storia de principi
  d'Este. Venez. 1572. in 4.º l. II, p. 161, e segu._ Ma il suo
  racconto abbonda di così grossolani errori, che non si può
  prestargli veruna fede.

Mentre la libertà delle repubbliche della Venezia, o Marca trivigiana,
veniva così crudelmente compromessa dalle torbide passioni dei loro
gentiluomini, ed il loro governo declinava in oligarchia irregolare, le
repubbliche transpadane di Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza
consolidavano ogni giorno più la loro indipendenza ed acquistavano una
assoluta superiorità sulla nobiltà castellana del loro territorio. Negli
annali di Reggio, che di quest'epoca sono più circostanziati di quelli
delle altre città, trovasi ogni anno accennato alcun trattato fra
qualche gentiluomo ed il podestà, con cui sottomettonsi castelli alla
repubblica[290]. Il gentiluomo obbligavasi con simile atto a consegnare
la sua terra alla città di Reggio, a vivere almeno due mesi in città,
adempiendo a tutti i doveri di cittadino, sia coll'ubbidire ai
magistrati della repubblica, che contribuendo con tutte le forze alla
difesa delle persone, dei diritti e delle proprietà de' suoi nuovi
concittadini. Gli annali di Bologna contengono un ancora maggior numero
di somiglianti sommissioni, ed oramai queste repubbliche non avevano più
nel proprio territorio gentiluomini da loro indipendenti. I loro stati
confinavano tutti con quelli di altre repubbliche, ed i nobili associati
alla sorte loro, invece d'esser rivali, formavano un nuovo ordine di
cittadini. Vero è che quest'ordine addossandosi le prerogative onerose a
tutta la nazione, eccitava già la gelosia del popolo. I Bolognesi
avevano nel 1192 nominato il proprio vescovo Gerardo de' Scannabecchi in
pretore ossia podestà, il quale prelato li governò nel corso di un anno
con tanta saviezza e moderazione, che tutte le parti ne rimasero
egualmente soddisfatte[291]. Il susseguente anno fu perciò riconfermato
nell'impiego; del che i nobili non tardarono a dolersene, dicendo che i
soli plebei erano da lui favoriti, e che, per poco che ancora durasse il
suo governo, l'autorità dei gentiluomini riducevasi a nulla[292]. Prese
perciò le armi, lo cacciarono fuori della città, nominando in sua vece
due consoli. Questo primo segno della loro gelosia, questa prima
chiamata alla decisione delle armi sui diritti dei due ordini rivali
poteva essere per i nobili, che non erano i più forti, di troppo
pericoloso esempio. Poteva il popolo a vicenda riacquistare coi mezzi
medesimi quell'influenza che di presente gli si toglieva, poteva
cacciare i nobili stessi dalla città; ed infatti quest'esempio fu
cagione che in un'altra repubblica si facesse ciò che i Bolognesi
potevano fare.

  [290] _Memoriale Potestatum Regiensium t. VIII, p. 1077 et seguent._
  Negli _Annales Veteres Mutinenses_, e nel _Chronicon Parmense_ non
  trovansi rispetto al XII secolo che i nomi dei consoli e dei
  podestà: ma il Muratori diede nella prefazione al Malvezzi _t. XIV,
  p. 774_, due carte di gentiluomini che in tale epoca sottomettonsi
  alla repubblica di Modena.

  [291] Uno storico di Bologna riferisce sotto l'amministrazione di
  Gerardo una leggenda che mi sono fatto lecito di riferire in questo
  luogo, come prova dei costumi e della credulità di que' tempi.

  Una giovane vergine chiamata Lucia, non meno bella che nobile, erasi
  chiusa nel monastero di santa Catterina di Bologna. Un Bolognese di
  lei innamorato prendeva posto ogni giorno sotto la finestra cui ella
  s'affacciava per udire la messa nella chiesa del suo convento. Lucia
  osservò l'emozione del giovane nell'istante in cui ella
  s'avvicinava; e rammentò le parole dettele dal vescovo nell'atto di
  darle il velo: «ch'ella disgiunga per sempre i suoi occhi da quelli
  degli uomini;» onde si credette obbligata a Dio di nascondersi
  interamente agli sguardi del suo amante, il quale il susseguente
  giorno vide la finestra chiusa da una gelosia che toglieva
  assolutamente Lucia a' suoi sguardi. Era questo l'istante in cui
  erano i Cristiani tuttavia costernati dalla perdita di Gerusalemme
  ed in cui chiamavansi tutti i cuori generosi a prendere la croce.
  Giurò il giovane di consacrarsi a Dio, come la sua diletta, partì
  per terra santa, e nel primo incontro, spingendosi nelle prime linee
  degl'infedeli, vi cercò piuttosto la morte che la vittoria.
  Atterrato e fatto prigioniero, fu dai Saraceni sottoposto a crudeli
  tormenti perchè rinegasse la fede. Trovandosi tra le mani dei
  carnefici, gridò: «O vergine santa, o casta Lucia! Se tu vivi ancora
  sostieni colle tue preghiere quello che tanto ti amò; e se ti trovi
  in cielo, rendimi propizio il mio Signore!» Ebbe appena dette queste
  parole, che cadde in profondissimo sonno, e quando svegliossi, si
  trovò ancora carico di ferri presso al monastero di santa Cristina.
  Lucia lo stava aspettando risplendente di gloria e di bellezza. —
  «Lucia vivi tu ancora?» gridò egli. «Io vivo, ma della vera vita;
  va, deponi i tuoi ferri sul mio sepolcro e ringrazia Iddio del
  favore che ti ha fatto.» Ella era morta lo stesso giorno in cui egli
  aveva abbandonato l'Europa. — _Cherubino Ghirardacci istoria di
  Bologna. Lib. IV, p. 106._

  [292] _Ibid. p. 102._

Il governo di Brescia era tutt'affatto nelle mani dei nobili, che
avevano successivamente strascinato il comune in varie guerre contro le
vicine città di Cremona e di Bergamo. Istigati dai Milanesi, questi
nobili vollero di nuovo, l'anno 1200, fargli prendere le armi contro i
Bergamaschi; ma il popolo, spossato da frequenti guerre, si rifiutò di
assecondare i loro ambiziosi pensieri senza suo profitto, ed invece
prese le armi per cacciare dalla città coloro che volevano costringerli
a servire; e dopo un sanguinoso combattimento, dato in mezzo alle
strade, gli obbligarono a fuggire. Rifugiatisi nel territorio cremonese
i gentiluomini bresciani formarono tra di loro una compagnia militare,
cui diedero il nome di società di san Fausto. I plebei dal canto loro
formarono pure una compagnia chiamata _Bruzella_[293]: il qual nome di
Bruzella o Brighella si conservò fino a' dì nostri, ed un plebeo
bresciano insolente coraggioso e furbo è pure una delle mascare del
teatro italiano. I nobili si collegarono colle città di Cremona, Bergamo
e Mantova, già da molto tempo nemiche della loro patria. D'altra parte
il popolo si unì ai Veronesi, e si continuò la guerra tra loro con
estremo accanimento. Anche in Padova ebbe luogo lo stesso anno una quasi
simile rivoluzione, di cui la cronaca di quella città non ci dà che la
seguente notizia. «L'anno 1200, vi si dice, i plebei tolsero ai
magistrati l'amministrazione della città e presero essi soli le redini
del governo[294].» E per tal modo le rivoluzioni dell'ultimo anno del
secolo XII parvero presagire quelle che nel corso di tutto il secolo
XIII sconvolsero l'Italia.

  [293] _Jacob. Malvecii Chron. Brixian. Dist. VII, c. 81.-84, p. 894.
  t. XIV._

  [294] _Additam. ad Roland. Regiminum Paduæ t. VIII, p. 368._



CAPITOLO XIII.

      _Pontificato di Innocenzo III. — Stabilimento del potere
      temporale della Chiesa. — Abbassamento della fazione
      ghibellina._

1197 = 1216.


La quasi simultanea morte di tutti i sovrani d'Italia lasciò nel
dodicesimo secolo libero corso all'ambizione di uno de' loro successori,
il pontefice Innocenzo III. Questo papa fu uno de' fondatori della
temporale monarchia della Chiesa; monarchia quattro volte ristabilita
dai pontefici, perchè quattro volte, malgrado l'appoggio delle opinioni
religiose, i papi lasciaronsi spogliare da quello stesso poter militare
ch'essi avevano istituito per propria difesa. I papi sollevati a tanta
potenza da Carlo Magno e dai suoi successori, furono chiamati
nell'undecimo, tredicesimo e sedicesimo secolo a nuova tenzone per
ricuperare la perduta dominazione: Gregorio VII, Innocenzo III e Giulio
II, sono gli uomini che in queste tre diverse epoche riconquistarono
l'autorità temporale e diedero uno stato alla Chiesa. Lo stabilimento
d'una potenza di primo ordine, che spesso cercò l'alleanza delle città
libere, che talvolta le oppresse e che sempre s'immischiò in tutte le
loro rivoluzioni, deve formare una parte essenziale della storia delle
repubbliche italiane.

Tra i papi e gl'imperatori doveva mantenersi una costante opposizione,
necessaria conseguenza del supremo rango di questi due capi del
cristianesimo, delle loro prerogative, delle pretensioni loro. Potevano
ben segnare fra di loro alcune tregue, ma sincera pace non mai, finchè i
papi non rinunciavano al dominio su tutti i troni della terra, finchè
gl'imperatori non si spogliavano de' più importanti diritti. Quando la
lite rimaneva sopita, non era tale tranquillità che l'effetto della
soverchia preponderanza che un partito acquistava sull'altro;
l'equilibrio riapriva sempre la guerra.

Dopo la pace di Costanza il partito imperiale aveva ricuperata in Italia
grandissima preponderanza. Alla potenza ed alla gloria di Federico I
aggiungevasi il matrimonio di suo figlio coll'erede di Napoli, che
privava il pontefice d'un antico e fedele alleato, ed accresceva le
forze del suo avversario. Lo stato ecclesiastico circondato e diviso
dalle possessioni del monarca trovavasi debole ed incapace di
resistergli, per cui i papi da Lucio III fino a Celestino III trovaronsi
sforzati di coprire con apparente moderazione la debolezza e dipendenza
loro. L'ultimo specialmente dovette opporsi agli attacchi d'Enrico VI,
che parevano compromettere la sua esistenza; e per quanto fosse grande
l'importanza della disputa ch'egli ebbe con questo monarca, non ardì mai
di far causa comune coi suoi nemici, o d'impiegare contro di lui le armi
spirituali, di cui i suoi predecessori avevano fatto così frequente
abuso[295]. Intanto Enrico aveva in ogni maniera ristretti i limiti, o,
a meglio dire, le pretensioni del papa. Dopo le investiture accordate ai
Normanni, la santa sede veniva considerata come abituale sovrana del
regno di Napoli; ma a fronte di ciò, Enrico, per impadronirsi di quel
regno, non erasi giovato che del suo diritto ereditario, senza curarsi
dell'assenso del papa. Egli aveva continuato a godere i beni della
contessa Matilde malgrado le rimostranze della santa sede, e gli aveva
accordati in feudo ai suoi parenti, o ai suoi generali; aveva richiamati
in vigore gli antichi diritti dell'Impero sulle province vicine a Roma,
il ducato di Spoleti, la Marca d'Ancona e la Romagna; e non erasi fatto
carico della pretesa sovranità de' papi su queste province; finalmente
aveva perfino entro la stessa Roma doppiamente ristretta l'autorità
ecclesiastica e coi poteri ch'egli erasi riservati e con quelli che
accordati aveva alle istanze del governo repubblicano.

  [295] Innocenzo III pretese in seguito, egli è vero, ch'Enrico era
  stato scomunicato per avere arrestato Ricardo I d'Inghilterra:
  effettivamente egli era incorso nelle generali scomuniche fulminate
  contro tutti coloro che attaccheranno i crociati; ma questa
  formidabile sentenza non era mai stata contro di lui fulminata.

Enrico VI e Celestino III morirono l'anno 1197, e la loro morte cambiò
sì fattamente i rapporti e le proporzioni delle forze dei due partiti,
che il pontefice ebbe la volta sua per ispogliare di alcuni diritti
l'autorità reale senza incontrare resistenza e senza che i suoi
avversarj riclamassero contro la sua ambizione. Immediatamente dopo la
morte di Celestino, Innocenzo III, nobile romano, conte di Signa, fu
nella fresca età di trentasett'anni nominato papa. Egli portava sulla
santa sede una profonda conoscenza degl'interessi della sua patria e di
quelli della Chiesa, il coraggio e l'ambizione d'un giovane gentiluomo,
e la fama di santità e di sapere che gli avevano procacciato la
regolarità dei costumi ed alcune opere a que' tempi assai pregiate[296].
Dall'altro canto Federico II, il successore d'Enrico, era ancora
fanciullo di due anni, la di cui madre Costanza in quell'anno che
sopravvisse al marito, erasi data al partito del papa per averne il suo
appoggio; divideva co' suoi sudditi l'odio concepito contro i Tedeschi
ministri della tirannide del marito, ed aveva dichiarato nemico del suo
regno il generale Marcovaldo allora duca di Ravenna e marchese d'Ancona.
Poi quando venne a morte, scelse Innocenzo III per tutore del figliuolo
e per amministratore del suo regno; e come potesse temere che il papa si
rifiutasse a tale ufficio, gli assegnava un canone per allettarlo ad
incaricarsene.

  [296] Egli aveva scritto intorno alla miseria dell'umana condizione
  e sopra alcuni punti di disciplina. _Vita Innoc. III, ex anonim.
  Synchrono a Balutio edita, et rursus Scrip. Ital. t. III, p. I, p.
  486, § 2._

Enrico VI aveva prima di morire ottenuto dai principi di Germania
l'elezione del figliuolo Federico I in re dei Romani, onde assicurargli
con tale atto la successione all'Impero; pure, morto Enrico, niuno si
prese cura dei diritti che poteva aver acquistati all'Impero questo
fanciullo; e la corona non fu contrastata che tra due pretendenti,
Filippo, duca di Svevia, il maggiore de' fratelli d'Enrico VI, ed Ottone
allora duca d'Aquitania, figliuolo d'Enrico il leone, già duca di
Baviera e Sassonia[297]. Filippo Augusto, re di Francia, si dichiarò a
favore del primo; e Riccardo cuor di leone, re d'Inghilterra, per
l'altro; ed amendue sostennero il loro protetto con tutti i loro tesori
e tutte le loro forze, sicchè l'uno e l'altro furono dichiarati
imperatori dal proprio partito; Filippo di Svevia dal ghibellino, ed
Ottone dal guelfo; ciò che accrebbe a dismisura l'animosità delle due
parti; le quali riputando legittima l'elezione dei proprio capo, presero
a difenderla con lunghe e sanguinose guerre, che tutte occuparono le
forze della Germania. Finchè queste durarono, i diritti degl'imperatori
in Italia non ebbero chi li difendesse.

  [297] Innocenzo, tutore del giovinetto principe, si credette
  obbligato di porre sulla bilancia ancora i diritti del suo pupillo.
  Abbiamo di lui uno scritto intitolato: _Deliberatio Domini papæ
  super facto de tribus Electis_; e conchiude in favore d'Ottone.
  _Annales Eccles. Oderici Raynaldi ad an. 1290. § 26_, e seguenti _p.
  51. t. XIII_.

Innocenzo non tardò a conoscere i vantaggi della presente sua
situazione, e tutto si ripromise dal suo coraggio in così favorevoli
circostanze.

Le prime sue cure furono rivolte all'interna amministrazione di Roma:
sotto il pontificato di Celestino III, l'autorità del senato era stata
dai papi definitivamente riconosciuta e fissatane la costituzione con un
atto da noi altrove indicato[298]; ma i Romani non ebbero appena
ottenuto il privilegio per cui avevano tanto tempo combattuto, che se ne
mostrarono disgustati, e vollero dopo un anno imitare ciò che vedevano
praticarsi dalle altre città: soppressero allora l'autorità nazionale
del loro nuovo consiglio, per surrogargli un magistrato straniero e
militare, che sapesse con maggior vigore frenare le sediziose passioni
de' nobili: diedero a questo magistrato il titolo di senatore; e lo
collocarono nel palazzo medesimo che occupava il senato in Campidoglio,
attribuendogli tutti i poteri del soppresso corpo[299]. Benedetto
Carissimo fu il primo senatore di Roma, cui succedette Giovanni
Capoccio; e ne' quattro anni della loro amministrazione, i Romani
s'impadronirono della città di Tusculano, lungo tempo oggetto della loro
gelosia, e la distrussero interamente[300]; sottomisero tutta la
campagna marittima e tutta la Sabina, e costrinsero le piccole città di
queste due province a ricevere i giudici ed i podestà dalle loro mani.
Ma quando fu creato papa Innocenzo, il popolo incominciava ad essere
geloso dell'autorità sovrana esercitata sopra di lui da un magistrato
straniero, ed aveva chiesta al nuovo pontefice una distribuzione di
danaro. Era questa come prezzo del giuramento d'ubbidienza a san Pietro,
che il popolo era contento di dare in occasione di una nuova elezione.
Innocenzo accondiscese alla domanda, ma rese il giuramento più
obbligatorio di quello che si usava in uguale circostanza, ed
approfittando della momentanea avidità de' cittadini, fece nominare un
nuovo senatore scelto tra le persone a lui ben affette[301]; obbligò il
prefetto della città, ufficiale dell'imperatore, a prestargli
vassallaggio, ed a ricevere da lui una nuova investitura della sua
carica; finalmente scacciò da tutte le città del patrimonio di san
Pietro i giudici e podestà nominati dal popolo, nominando altri in loro
luogo; e per tal modo s'arrogò la sovranità di una provincia conquistata
colle armi de' Romani.

  [298] Fu l'anno 1191. La carta trovasi nella _Diss. XLV, Antiqu.
  Ital. M. Ae. t. IV, p. 35_.

  [299] _Storia diplomatica dei senatori di Roma di Antonio Vitale,
  Roma 1791 2 vol in 4.º t. I, p. 76. — Michel Conrigio Curtius
  Comment. de senatu Rom. post tempora reip. liberæ l. VII, c. 4. §
  187. p. 282. Genevæ 1769. — Vita Innoc. III, p. 487. ubi per errorem
  nuncupatur Benedictus Cariscus vice Carissimi._

  [300] _Corrad. Ab. Usperg. Chron. p. 303._ Gli abitanti di Tusculano
  si riunirono ancora sotto capanne fatte di frasche e formarono una
  borgata al disotto dell'antica loro patria, cui rimase poi sempre il
  nome di Frascati.

  [301] _Vita Innocent. III, § 8. p. 487._

Durante il regno d'Innocenzo, l'amministrazione di Roma provò qualche
altra rivoluzione: i Romani alternarono a vicenda il governo d'un solo e
di più senatori, come i loro antenati avevano alternato tra i consoli ed
i tribuni dei soldati; ma del 1207 fissarono definitivamente colla
mediazione d'Innocenzo quegli attributi del senatore, che fino all'età
nostra sonosi con leggerissime modificazioni conservati[302]. Supremo
capo della giustizia, della polizia e del poter militare, aveva egli
solo la rappresentanza del governo; ed uguale ai podestà delle altre
città, altro non mancavagli per diventar tiranno, che maggior durata
nell'impiego e l'appoggio di una delle due fazioni, cui la sua nascita
rendevalo quasi sempre straniero. Intanto il pontefice occupavasi della
compilazione del giuramento che questo primo magistrato doveva prestare
in sue mani; nel quale, per non disgustare i Romani, non si faceva alcun
cenno di quella sovranità cui sordamente aspirava, ma che ben sapeva che
il popolo non avrebbe voluto riconoscere; e altresì non permise che tale
giuramento potesse allegarsi in pregiudizio de' suoi diritti[303]. Il
senatore s'obbligò adunque soltanto verso il papa «a non attentare nè
coi fatti, nè coi consigli alla di lui vita o all'amputazione delle sue
membra, promettevagli di manifestargli le trame contro di lui ordite, di
cui avesse conoscenza, di mantenerlo con tutte le sue forze in possesso
del papato e dei diritti regali che si trovassero effettivamente
appartenere a san Pietro; finalmente di provvedere alla sicurezza de'
cardinali e delle loro famiglie in tutte le parti di Roma e della sua
giurisdizione.»

  [302] _Storia de' senatori di Roma d'Antonio Vitale._

  [303] Questa formola di giuramento è testualmente riportata nella
  storia diplomatica dei senatori di Roma, _p. 82_.

Enrico VI aveva ristabiliti molti de' principali feudi dell'Impero in
Italia: aveva dato a Marcovaldo, suo grande siniscalco, il marchesato
d'Ancona ed il contado di Molise; a Filippo, duca di Svevia, suo
fratello, cui aveva fatto sposare la vedova del figlio del re Tancredi,
figlia dell'imperator Greco[304], aveva accordato il marchesato di
Toscana, ed a Corrado di Svevia, soprannominato _mosca in cervello_, il
marchesato di Spoleti. Porzione di queste province trovavasi compresa
nella pretesa donazione di Carlo Magno, un'altra nell'eredità della
contessa Matilde; e questi due titoli si fortificavano l'un l'altro,
quantunque fino allora non avessero procurato alla santa sede la pretesa
sovranità. Per far valere le sue ragioni, Innocenzo approfittò della
debolezza del partito imperiale in Italia, ed imitando l'esempio
dell'antica Roma che commetteva ai consoli la conquista delle province,
mandò due cardinali preti a sottomettere la Marca, e due altri prelati a
soggiogare il duca di Spoleti[305].

  [304] _Otto de Sancto Blasio Chron. c. 41. v. 898._ — _Conrad. Abb.
  Usperg. Chron. p. 304._

  [305] _Vita Innocentii III, § 9 e 10._

I signori tedeschi che da Enrico VI ricevettero questi feudi, avevano
talmente abusato del loro potere, che i loro vassalli erano tutti
proclivi alla ribellione. Le città che trovavansi comprese nei loro
governi, più piccole e più deboli di quelle di Lombardia, non avevano
ancora osato di aspirare all'indipendenza; e la loro amministrazione
municipale era ancora presso a poco quale si formò nel decimo secolo,
onde lusingavansi di trovare più libertà sotto il governo della Chiesa,
che sotto il dominio di soldati stranieri; e tutte aprirono le porte ai
prelati spediti a ricevere il loro giuramento di fedeltà. Nella prima
provincia, senza per altro rinunciare ai loro governi municipali,
riconobbero la sovranità del papa, Ancona, Fermo, Osimo, Camerino, Fano,
Iesi, Sinigaglia e Pesaro; nella seconda Rieti, Spoleto, Assisi,
Foligno, Nocera, Perugia, Agubbio, Todi e città di Castello.

Il papa non avrebbe ottenuto di ridurre sotto la sua dipendenza
immediata le città della Toscana: vero è che fino allora ubbidirono
sempre agl'imperatori, ma conoscevano troppo le proprie forze per non
cambiare il presente loro stato con verun altro, quando non si trattasse
di passare a quello di repubblica. Ciò conoscendo il papa,
addirizzandosi loro, dichiarossi il protettore della loro libertà; e
lungi dal riclamare sulle città principali i diritti della contessa
Matilde, il di cui solo nome avrebbe risvegliata la loro gelosia, si
limitò a chiedere la loro assistenza come amiche della religione
ugualmente che della libertà, e protettrici della Chiesa. Di così
dilicato negoziato incaricò Pandolfo e Bernardo.

Questi cardinali s'addirizzarono prima alle città di Fiorenza, Lucca e
Siena, poi al vescovo di Volterra, allora signore temporale di quella
città, ed agli abitanti di Prato e di Samminiato. Loro rappresentarono
che la morte dell'imperatore gli aveva sciolti da ogni obbligazione
verso l'Impero[306], e che avrebbero mancato alla propria saviezza, se
non approfittavano del presente interregno per impedire che un nuovo
imperatore, strascinandole in nuove liti colla Chiesa, non
compromettesse la loro coscienza, e non mettesse in opposizione i loro
doveri verso gli uomini con i loro doveri verso Dio. Sotto il regno
d'Enrico VI, le città toscane avevano avuto cagione di lagnarsi
dell'accrescimento delle imposte e delle concussioni de' suoi ministri
tedeschi; onde acconsentirono di formare un'assemblea dei loro deputati
a san Ginnasio, borgata posta alle falde del monte di Samminiato; ove
cedendo agli stimoli dei due cardinali, s'associarono alla lega toscana
o guelfa, che si rinnovò poi tra di loro un mezzo secolo dopo[307].
Obbligavansi gli alleati di non riconoscere imperatore, re, principe,
duca, o marchese, senza l'espressa e speciale approvazione della Chiesa
romana: promettevano inoltre la vicendevole difesa e la difesa della
santa sede qualunque volta ne venissero richiesti; e di più impegnavansi
di darle ajuto perchè potesse riprendere tutte le parti del suo
patrimonio e tutti i paesi sui quali credesse avere delle ragioni,
tranne quelli che trovavansi di presente occupati da qualcuno degli
alleati.

  [306] _Scipione Ammirato Istorie fiorentine l. I, p. 63. anno 1197._

  [307] _Dissertaz. sopra l'istoria pisana del cavalier Flaminio del
  Borgo. Diss. IV, p. 157. — Vita Innoc. III, § 12, p. 488._

L'atto originale della lega toscana conservato nell'archivio di Fiorenza
venne pubblicato da due storici moderni[308]; ma è cosa sorprendente che
niuno degli storici contemporanei, ad eccezione del biografo d'Innocenzo
III, ricordasse questa lega, per cui ne conosciamo imperfettamente le
condizioni e gli effetti. Pare che le città toscane si fossero
accostumate a considerarsi come un solo corpo dopo che gl'imperatori
stabilirono a san Miniato un commissario[309] destinato a raccogliere le
imposte di tutta la provincia; ebbero dopo tale epoca frequenti adunanze
provinciali, cui ogni città spediva un rettore o deputato. Se crediamo
allo storico di Siena Malavolti[310], questo rettore non aveva alcuna
autorità nella sua patria, ma veniva obbligato da un giuramento a
cooperare nell'adunanza al ristabilimento della pace in Toscana ed al
ben comune di tutta la provincia. Quando i rettori toscani sapevano
esser nata qualche querela tra due città, riunivansi all'istante, e,
quantunque le rispettive comuni fossero impegnate in opposti partiti,
non iscioglievasi l'assemblea, finchè non avesse fatta ogni pratica per
ristabilire la pace; e non riuscendovi, non lasciavano, anche durante la
guerra, di riunirsi i deputati a certi determinati tempi, onde valersi
di ogni nuovo accidente per metter fine alla guerra. La dieta medesima
eleggeva i rettori che dovevano rimpiazzare quelli che cessavano,
ponendo sempre gli occhi sopra persone conosciute le più capaci di
contribuire al mantenimento della pace[311]. Questa continuazione
aristocratica non era pericolosa alla libertà delle repubbliche, da che
i rettori non godevano di alcuna autorità nella loro patria; ed aveva
invece l'avvantaggio grandissimo di conservare, anche in mezzo alle
passioni popolari ed alle rivoluzioni dalle medesime eccitate, l'amore
della pace nell'assemblea, siccome principio vitale della sua esistenza.
Ma l'ambizione delle più potenti città, che risguardava questa
istituzione come un ostacolo alle sue viste d'ingrandimento, non permise
che sussistesse lungo tempo; ed appena una incerta e confusa memoria ce
ne fa conservata da alcuni storici.

  [308] Scipione Ammirato è l'autore anonimo _De Libertate civitatis
  Florent. ejusque dominii 1722 p. 69_. Io non ho letto l'ultima
  opera.

  [309] Di là in nome di san Miniato al _Tedesco_, o _dell'allemanno_.

  [310] È questi uno de' migliori scrittori di second'ordine, e tra i
  non originali. Egli scrisse in sul finire del sedicesimo secolo.

  [311] _Malavolti Ist. di Siena. Venez. 1599. p. I. l. IV, p. 44._

La sola città di Pisa rifiutossi di prender parte alla lega proposta dai
deputati pontificj, forse perchè non poteva sperare verun nuovo
privilegio prendendo le armi contro gl'imperatori, da' quali aveva già
ricevute le più ampie prerogative: ed in varie circostanze assai
disastrose mostrò apertamente che la riconoscenza d'un popolo libero è
più potente e durevole di quella dei popoli subordinati al governo di un
solo. Nel 1192 Enrico VI aveva con un memorabile diploma accordato ai
Pisani tutti i diritti regali non solo entro la loro città, ma sopra un
vasto territorio popolato da sessantaquattro tra borgate e
castelli[312]. Aveva inoltre loro cedute in feudo la Corsica colle isole
dell'Elba, di Capraja e di Pianozza; riconfermato il privilegio, di cui
godevano da lungo tempo, di eleggere i proprj consoli e magistrati, ed
espressamente dichiarato essere sua intenzione che i Pisani fossero e
rimanessero liberi, e perciò gli esentava da ogni contributo e
dall'alloggio militare. I Cardinali passarono a Pisa per ridurre que'
magistrati ad entrare nella lega fatta per difendere la Chiesa,
chiedendo loro per primo pegno di sommissione alla santa sede di
rappacificarsi coi Genovesi; ma i Pisani vi si rifiutarono
costantemente[313], e da quest'epoca fino alla caduta della loro
repubblica furono sempre capi della parte ghibellina in Toscana.

  [312] Flaminio del Borgo, _Dissertaz. IV, p. 159_, prometteva di
  dare per disteso questo atto nell'appendice n.º 10, ma io credo che
  quest'appendice non siasi più pubblicata. Del rimanente il diploma
  trovasi impresso nella _Diss. L, p. 473, delle antich. ital._

  [313] _Croniche di Pisa di Bernardo Marangoni, Supplement. Florent.
  ad Script. Ital. t. L, p. 479._

Mentre Innocenzo III dilatava la sua influenza sulle città libere, non
trascurava i maggiori vantaggi che poteva ottenere nelle due Sicilie,
quasi affatto abbandonate a se medesime. Costanza aveva, morendo,
lasciata al papa la tutela di suo figlio, e poc'anni dopo, avendo le
truppe ai servigi d'Innocenzo battuto un generale tedesco[314],
l'accorto pontefice diede pubblicità ad un testamento d'Enrico VI, che
riconosceva tutti i diritti della santa sede sul regno di Napoli e
poneva il giovinetto Federico sotto la sua protezione. Innocenzo
conosceva tutto il profitto che gli dava la tutela di quel principe che
voleva spogliare. Quando Costanza era ancora viva, egli non aveva
accordata a lei ed al figlio l'investitura della corona di Sicilia, che
dopo averli privati di molte prerogative annesse alla medesima. In forza
del trattato di pace stipulato tra Guglielmo I ed Adriano IV, i beneficj
ecclesiastici del regno non potevano conferirsi dalla corte di Roma
senza l'approvazione del sovrano. Innocenzo rese illusoria tale riserva,
togliendo al nuovo re il diritto di rifiutare l'approvazione che gli
sarebbe chiesta[315]. Dopo ciò diede principio alla tutela del pupillo
unitamente agli arcivescovi di Capoa, di Palermo, di Monreale, ed al
vescovo di Troja, amministratori del regno, dirigendo tutte le loro
operazioni colle lettere che scriveva ogni giorno. Il generale delle
truppe tedesche Marcovaldo, grande siniscalco d'Enrico VI, era rientrato
nel regno quando ebbe avviso della morte di Costanza, sostenendo egli
solo apertamente il partito ghibellino contro il papa[316]. Coll'ajuto
de' Saraceni di Sicilia e de' baroni malcontenti della corte di Roma,
aveva messo insieme un potente partito, che poteva tenere inquieto il
pontefice; il quale, malgrado l'orgoglio con cui comandava ai Siciliani,
aveva poche forze ai suoi ordini. Spedì una volta seicento soldati
all'abbate di Montecassino, perchè potesse difendersi, e duecento ne
mandò un'altra volta in Sicilia, credendola esposta ad essere occupata
da Marcovaldo: a ciò si ridussero i diretti sforzi del pontefice per la
difesa del suo pupillo.

  [314] _Vita Innoc. III, § 28. p. 494._

  [315] _Pietro Giannone istoria civile del regno di Napoli, l. XIV,
  c. 3._

  [316] _Ib. l. XV. — Ricardi de s. Germano Chron. p. 977._

Dopo aver osservato questa debolezza, i suoi maneggi da capo di partito
nelle città d'Italia, e le armate pontificie che riducevansi a poche
compagnie, fa maraviglia il vedere lo stesso Innocenzo ingrandirsi a
misura che s'allontana dalla sua sede, e parlar da sovrano al rimanente
dell'Europa; ordinare ad Andrea, duca d'Ungheria, di andare in Terra
santa perchè la sua presenza non turbasse il riposo del re suo
fratello[317]; forzare questi a dichiarare la guerra a Culino, signore
della Bosnia per castigarlo d'avere protetti gli eretici[318]; eccitare
i re di Danimarca e di Svezia ad attaccar Suero, re di Norvegia, ed a
spogliarlo della corona[319]; intimare a Filippo Augusto di ritirare dal
monastero, e di ristabilire nei diritti di sposa Ingeburga di Danimarca,
ch'egli aveva ripudiato, sottoponendo all'interdetto tutto il regno
perchè Filippo non l'ubbidiva. Fu questo medesimo pontefice che obbligò
a dichiararsi tributarj della santa sede prima il re di Portogallo[320],
poi il re d'Arragona[321], più tardi il re ed il regno di Polonia[322],
e finalmente quel Giovanni, re d'Inghilterra, che gli giurò
fedeltà[323]. Le scomuniche e gl'interdetti non si resero mai tanto
comuni quanto sotto Innocenzo III; nè altro papa si arrogò mai tanta
parte nel governo temporale dell'Europa. Ma per grandi che fossero i
talenti di questo pontefice, e l'arte sua nel risvegliare e tirar
partito dalla superstizione del secolo, non era certamente in Italia
dove la superstizione potesse renderlo potente; e per questo paese gli
abbisognavano altre armi: non tardò ad avvedersene, e prese ben tosto
miglior partito per fermare i progressi della fazione ghibellina,
cercando in Francia un rivale che potesse un giorno opporre allo stesso
Federico, quando il bisogno lo richiedesse.

  [317] _Oderic. Raynald. Ann. Eccles. 1200. § 46, p. 57. — Innocent.
  Epist. l. III, ep. 2._

  [318] _Ib. 1198, § 71. p. 18. Annalium Raynaldi._

  [319] _Ib. 1200. § 9. p. 45._

  [320] _Ib. 1198. § 35._

  [321] _Ib. 1204. § 72, 73. p. 121._

  [322] _Ib. 1207. § 15. p. 155. et Innoc. Epist. l. IX. ep. 217._

  [323] _Ib. 1213. § 73.-79. p. 210._

Gualtieri, conte di Brienne, gentiluomo francese, aveva sposata la prima
figlia di Tancredi, ultimo re della razza normanna. Sibilla, vedova di
questo sfortunato monarca, dopo una lunga prigionia in Germania, durante
la quale era morto suo figliuolo Guglielmo, era stata messa in libertà
colle due figlie in conseguenza dei buoni uffici della santa sede.
Questi sgraziati fanciulli erano stati arrestati contro la fede di un
trattato quando Enrico VI conquistò la Sicilia: essi avevano rinunciato
bensì al diritto ereditario della corona, ma a condizione che Enrico VI
loro assicurasse i possessi che aveva il loro padre prima d'essere re,
cioè la contea di Lecce ed il principato di Taranto. In vista di tale
promessa avendo aperte al nemico le porte del palazzo e della rocca di
Palermo, furono posti in prigione[324]. Gualtieri sposo della maggior
figliuola di Tancredi, e suo immediato rappresentante, poteva vantare lo
stesso diritto d'Enrico alla corona di Sicilia; e quando pure per
l'illegittimità di Tancredi si volesse escludere da tale diritto,
Gualtieri domandava almeno d'avere la contea di Lecce ed il principato
di Taranto da Enrico promessi ai figliuoli di Tancredi, come prezzo
della loro rinuncia alla corona. Innocenzo III accolse questa domanda, e
la riconobbe legittima. Persuase Gualtieri a ripassare in Francia per
assoldare una piccola armata; e quando fu di ritorno l'oppose a
Marcovaldo; e così introdusse la prima volta i Francesi nel regno di
Napoli. Non pertanto, quai che si fossero i progetti del pontefice, non
sortirono il desiderato effetto. Gualtieri, dopo aver avuto alcuni
vantaggi, perì in una scaramuccia l'anno 1205[325].

  [324] _Richardus de s. Germano Chron. I, p. 975. — Chron. Monast.
  Fossae novae, p. 830._

  [325] _Chron. Fossae Novae 884. — Richardi de s. Germano Chron. p.
  980._

Non trascurava Innocenzo di rialzare anche in Germania il partito
guelfo. Ottone, uno de' pretendenti al trono, apparteneva ad una
famiglia d'ogni tempo ligia dei papi, mentre Filippo di Svevia era d'una
famiglia loro contraria; e però Innocenzo dichiarossi a favore del
primo, e fece osservare che Filippo precedentemente scomunicato per
alcune violenze commesse contro la Chiesa, non aveva potuto senza
scandolo essere considerato eleggibile[326]. Non pertanto dopo alcuni
anni la fortuna della guerra dichiarossi contraria al protetto del papa,
il quale, cacciato di Colonia dal suo rivale, fu forzato d'andare in
Inghilterra a mendicar soccorsi, onde il papa, anteponendo il proprio al
vantaggio d'Ottone, non si vergognò d'entrare in trattative con quel
Filippo medesimo che aveva lungo tempo perseguitato. Per confessione
dello storico ecclesiastico, egli incominciò a riconciliarlo colla
Chiesa[327]. Aggiunge Arnaldo di Lubecca, che Filippo offrì sua figlia
in isposa a Riccardo fratello del papa, dandole in dote la Toscana,
Spoleti e la Marca d'Ancona; finalmente promise di acconsentire che
Ottone venisse designato suo successore, ed eletto re de' Romani[328].
Le trattative quasi a termine ridotte, furono rese inutili dalla morte
di Filippo, ucciso del 1208 nel proprio palazzo da un suo particolar
nemico. Benchè Ottone non avesse alcuna parte in tale attentato, seppe
accortamente approfittarne. Due cose fece egli che gli guadagnarono
l'affetto de' principi di Germania d'ambedue i partiti, e lo fecero di
nuovo proclamare re de' Romani e di Germania dai voti unanimi della
dieta d'Alberstat; sposò la figlia di Filippo, che gli portò un titolo
ai diritti ereditarj della casa di Svevia, e rinunciò formalmente a
tutte le pretensioni sui ducati di Baviera e di Sassonia, de' quali era
stato spogliato suo padre[329].

  [326] _Odericus Raynald. Annal. Eccles. 1200. § 26. e seg. p. 51.
  1201. § 5. e seg. Otto de sancto Blasio c. 48. p. 905. — Conradus
  Abbas Uspergensis p. 305._

  [327] _Oderic. Raynald. 1206. § 15. p. 142. et 1207. § 7. p. 154._

  [328] _Arnold. Lubec. l. VII, c. 6. — Abbas Usperg. in Chron. p.
  310._ L'abbate d'Usperg, contemporaneo e partigiano di Filippo,
  scrisse la storia del suo regno con più calore ed interessamento che
  non suole trovarsi in altra parte della sua cronaca.

  [329] _Id. p. 312. — Otto de sancto Blasio c. 50._

Quando Innocenzo vide Ottone favorito dalla fortuna, non tardò a
cercarne l'amicizia, e con un trattato d'alleanza conchiuso a Spira
prometteva di dare all'imperatore eletto la corona imperiale; ed Ottone
accondiscendeva a tutte le domande che il papa gli faceva a vantaggio
della Chiesa. In tal modo ebbe fine la guerra di Germania dopo un
interregno di dieci anni, di cui il partito guelfo in Italia seppe
valersi utilmente per liberarsi quasi affatto dal dominio dei monarchi
alemanni.

L'incoronazione d'Ottone IV, e la sua discesa in Italia sembravano
promettere nuovi trionfi alla parte guelfa; e certo non aveva mai
regnato altro imperatore più favorevole alla Chiesa romana: ma
gl'interessi della corona erano troppo contrarj a quelli della santa
sede perchè potessero andare lungo tempo d'accordo. In fatti, appena
entrato in Italia, vide Ottone la convenienza di affezionarsi gli
antichi partigiani dell'autorità imperiale; e ben tosto il capo della
casa guelfa, diventato imperatore, si circondò di capitani ghibellini,
mentre il papa opponevagli il giovane Federico, ultimo rampollo del
sangue dei Ghibellini, assistito dai soldati dei Guelfi.

Ottone entrò in Italia del 1209 per la vallata di Trento, ed arrivò in
riva all'Adige ad Orsanigo, territorio veronese, ove aveva ordinato di
raggiungerlo ai principali signori della Venezia, ed in particolare ad
Ezzelino II da Romano, e ad Azzo VI, marchese d'Este[330]. Questi due
gentiluomini che durante l'interregno avevano accresciuta a dismisura la
loro influenza nella Marca, perchè le nemiche fazioni essendo più che
mai riscaldate l'una contro l'altra, i loro capi avevano avuto la
destrezza o la fortuna di far assolutamente dimenticare l'interesse dei
comuni, facendo che le guerre civili si trattassero in loro nome. Le
fazioni nate in ogni città dalla gelosia dei gentiluomini, e dalle mutue
loro violenze, avevano tante cause diverse quante erano le offese che
questi uomini appassionati potevano farsi: ma i due nomi di fresco
introdotti di Guelfi e di Ghibellini legavano le fazioni delle città
vicine. I Salinguerra di Ferrara, ed i Montecchi di Verona dal solo nome
di Ghibellini trovaronsi uniti con Ezzelino; nella stessa alleanza erano
le città di Treviso e di Padova, allora governate dalla medesima
fazione; mentre stavano per l'opposta gli amici d'Adelardo a Ferrara, il
Conte di san Bonifacio a Verona ed a Mantova, i dal Vivario a Vicenza,
ed i nobili di Campo San-Pietro a Padova, tutti alleati del marchese
d'Este.

  [330] _Gerardi Maurisii civis vicentini Historia p. 18. Scrip. Rer.
  Ital. t. VIII._

Dopo un non lungo esiglio, l'anno precedente era rientrato in Ferrara il
marchese d'Este, e col favore de' suoi partigiani era stato dichiarato
signore di quella città; primo esempio di un popolo italiano che
abbandona i suoi diritti per sottomettersi al potere di un solo[331].
Presso a poco nella stessa epoca, Azzo aveva avuto un'importantissima
vittoria sopra Ezzelino ed il suo partito, e le truppe delle due fazioni
trovavansi nuovamente a fronte quando Ottone scese in Italia. Ezzelino
aveva ottenuto qualche vantaggio sui Vicentini, e sperava d'impadronirsi
ben tosto della loro città; e mentre Azzo era uscito di Ferrara per
soccorrerli, eravi entrato coi Ghibellini Salinguerra, e cacciatine
tutti gli amici del Marchese[332]. L'ordine dato ai due capi di
presentarsi alla corte d'Ottone risparmiò alle città collegate una
sanguinosa battaglia ed un inutile massacro, giacchè un cieco odio, più
assai che i motivi politici, poneva loro le armi in mano.

  [331] _Antichità Estensi del Muratori, p. I, c. 39._

  [332] _Gerardi Maurisii civis Vincent. His. p. 18, Sc. Rer. It. t.
  VIII._

Questi due capi non potevano dubitare del favorevole accoglimento che
loro farebbe l'imperatore. O direttamente o per mezzo de' loro
partigiani, essi governavano tutta la Marca; e sì l'uno che l'altro,
oltre il potere, avevano altri titoli che li raccomandavano a quel
sovrano. Il marchese d'Este era suo parente, siccome discendente da Azzo
III, tronco comune delle due linee che fino all'età nostra regnarono a
Brunswich ed a Modena: d'altra parte Ezzelino era il più caldo
partigiano delle prerogative imperiali; e quantunque fino al presente
tali prerogative avessero servito ad umiliare la famiglia d'Ottone, da
che si trovò in possesso della corona, rivolse il suo favore ai loro
difensori. Per tali motivi accolse con eguale dimostrazione i due capi
di partito, e cercò di porli in pace tra di loro.

Uno de' più zelanti partigiani d'Ezzelino, che a quanto sembra dovette
esser presente a tale accoglimento, ce ne lasciò una relazione nella sua
storia[333]. Quando Ezzelino si trovò in faccia al marchese in presenza
di tutta la corte, alzossi per accusare il suo rivale di tradimento e di
fellonia. «Noi, diss'egli, fummo compagni nella nostra fanciullezza, e
lo credetti amico; ci trovammo insieme a Venezia, e passeggiavo con lui
nella piazza di S. Marco, quando alcuni assassini mi si avventarono
contro per pugnalarmi, e nel medesimo istante il marchese mi prese il
braccio per impedire di difendermi; e se con uno sforzo violento non mi
fossi da lui svincolato, sarei stato infallibilmente ucciso, come lo fu
un mio soldato che stavami ai fianchi. Perciò io lo denuncio a
quest'assemblea quale traditore; e chiedo a vostra maestà di permettermi
ch'io provi in singolare battaglia i tradimenti orditi a me, a
Salinguerra, ed al podestà di Vicenza».

  [333] _Gerard. Maurisius, p. 19._

Poco dopo arrivò Salinguerra seguìto da cento uomini d'arme, il quale
gittandosi a' piedi dell'imperatore rinnovò contro il marchese l'accusa
d'Ezzelino, e domandò egualmente la prova della battaglia singolare.
Azzo rispose che aveva ne' suoi dominj molti gentiluomini più nobili di
Salinguerra, che sarebbero pronti a battersi con lui, se aveva tanta
sete di battaglie. Allora Ottone dichiarò a tutti tre che per le passate
contese non permetterà loro di battersi.

Ottone, che ad ogni modo voleva mettere in pace questi due capi di
parte, dai quali sperava d'avere più importanti servigi che da tutti gli
altri signori italiani, sortì il giorno dopo a cavallo con loro, e,
avendone uno alla diritta, alla sinistra l'altro (m'attengo sempre allo
storico Maurisio partigiano d'Ezzelino), volse da prima il discorso in
lingua francese ad Ezzelino: _Sire Ycelin, saluons le marquis_,
diss'egli; onde Ezzelino levandosi il cappello e piegando il corpo,
disse ad Azzo: Signor Marchese che Dio vi salvi; e perchè questi rispose
senza scoprirsi il capo, Ottone rivoltossi a lui ugualmente: _Sire
marquis, saluons Ycelin_, ed il marchese soggiunse, _que Dieu vous
sauve_. La loro riconciliazione non pareva ancora troppo avanzata,
quando ristringendosi la strada, Ottone passò avanti, lasciando i due
rivali ai fianchi l'uno dell'altro; perchè voltosi a dietro vide che si
parlavano affettuosamente, come avessero dimenticate affatto le vecchie
offese. Quest'amichevole conversazione durò quanto la corsa che fu di
oltre due miglia, e finì col dare qualche inquietudine all'imperatore,
il quale poichè rientrò nella sua tenda, fatto a se chiamare Ezzelino,
gli chiese quale fosse stato il soggetto della sua conversazione col
marchese: «i giorni della nostra fanciullezza, rispose Ezzelino; e noi
eravamo rientrati nell'antica nostra amicizia.»

Dopo di aver riconciliati i due capi di partito, volle Ottone
assicurarsi ancora del loro attaccamento alla propria causa,
coll'accordare a' medesimi dei beneficj. Innocenzo III dubitando, dopo
aver conquistata la Marca, della validità del suo titolo, conobbe che
assai difficilmente avrebbe potuto conservarla, e perciò l'anno 1208 ne
investì il marchese d'Este[334]. Ottone quando giunse in Italia riclamò
la Marca come proprietà dell'Impero, ma ne lasciò l'amministrazione al
marchese d'Este con patto che la ricevesse da lui, e gliene fece spedire
il diploma in sul cominciare del susseguente anno[335]. E per essere
parimenti generoso verso di Ezzelino dichiarò la città di Vicenza
colpevole di ribellione, gl'impose una tassa di sessanta mila lire, e
nominò Ezzelino podestà, rettore, e deputato dell'Impero in Vicenza. Con
questi titoli riuniti Ezzelino richiese da tutti gli abitanti di Vicenza
il giuramento di fedeltà; e perchè il partito che gli era contrario,
piuttosto che prestare il giuramento, si ritirò a Verona o presso il
conte di S. Bonifacio, egli confiscò i beni di tutti i fuorusciti.

  [334] _Rolandini de factis in Marchia Tarvisana, l. I. c. 10, t.
  VIII, p. 178._

  [335] In data di Foligno il 5 gennajo 1210. _Ant. Esten._

Intanto, dopo essersi assicurato dei partigiani dell'alta Italia, Ottone
IV s'avanzò alla volta di Roma, ove dalle mani d'Innocenzo III ricevette
la corona dell'Impero, ma la buona intelligenza tra di loro fu di breve
durata[336]: un ammutinamento dei Romani incominciato in tempo
dell'incoronazione fu seguìto dal massacro di molti soldati tedeschi:
l'imperatore non volle cedere al papa l'eredità della contessa Matilde e
le vaste province che la santa sede credeva a se devolute, allegando il
giuramento prestato all'atto della sua elezione, di mantenere le
prerogative dell'Impero, e di non alienarne le possessioni; onde i due
capi della cristianità separaronsi dopo pochi giorni scontenti l'uno
dell'altro, e disposti a farsi la guerra.

  [336] Il 4 ottobre 1209.

Ottone incaricato di difendere le prerogative per cui i Ghibellini
avevano combattuto, si volse ai capi di questo partito. Sotto pretesto
che il senatore era soggetto al papa, e che il popolo non sarebbe libero
fin tanto che non fosse ristabilito il senato di cinquantasei membri,
eccitò in Roma delle sedizioni dirette dalla famiglia Pietro Leone[337].
Accordò ai Pisani un amplissimo privilegio in conferma di quello
d'Enrico VI, assicurandosi con tale beneficio del loro affetto[338];
contrasse alleanza coi generali tedeschi ch'erano rimasti nel regno di
Napoli dopo la conquista dello stesso Enrico, ed investì del ducato di
Spoleti il conte Diopoldo, uno de' più principali fra di loro[339]; per
ultimo, di ritorno in Lombardia, fece ogni sforzo per rappacificare le
città ed i partiti diversi che laceravano con private guerre quelle
contrade, e si assicurò l'appoggio dei Milanesi, dei Parmigiani, dei
Bolognesi, e di molti altri popoli[340]. Bonifacio d'Este si unì in suo
favore ad Ezzelino ed a Salinguerra; ma per lo contrario il marchese
Azzo d'Este, staccandosi dal primo imperatore che onorasse la sua
famiglia, strinse alleanza col papa, e ricominciò nella Venezia la
guerra contro il partito ghibellino.

  [337] _Vita Innoc. III, §. 134. e seg. p. 562_ — Queste sedizioni
  incominciarono l'anno 1208; ma ci assicura Raynaldo, che furono pure
  eccitate da Ottone. _An. Eccles. 1208 §. 7. p. 158._

  [338] Datato a Poggibonzi l'otto delle calende di novembre 1209.
  _Istoria Pisana di Flaminio del Borgo, diss. IV, p. 170._

  [339] _Ricardus de sancto Germano Chron. p. 983._

  [340] _Ant. Ital. med. ævi, dissert. LI, t. IV, p. 608_.

Dal canto suo non trovò Innocenzo nella lega guelfa di Toscana tutto
quell'appoggio che ne sperava, ma fu invece soccorso dai Genovesi, dai
Pavesi, dai Cremonesi e dal marchese di Monferrato; ma più che in
tutt'altro sperava in Federico II, di cui non aveva accettata la tutela
che per avere in mano un principe da opporre qualunque volta lo credesse
agl'imperatori che avrebbero la sventura di spiacergli per la troppo
loro potenza, senza aver bisogno di prendersi cura de' suoi reali
interessi. In quest'anno medesimo trattò un matrimonio tra questo
giovane re, e Costanza figliuola del re d'Arragona, assicurandone in tal
modo l'alleanza[341]; entrò poi in trattative con Filippo re di Francia,
e con altri signori tedeschi per fare eleggere imperatore Federico,
rappresentandoglielo come ingiustamente spogliato de' suoi diritti.

  [341] Sembra che tale matrimonio si proponesse l'anno 1201 dal re
  d'Arragona. _Innoc. Epist. l. V. ep. 51 — Od. Rayn. 1202. §. 6. p.
  73._

Informato Ottone di queste pratiche, pensò che il nemico da abbattere
prima d'ogni altro era Federico, il quale già disponevasi a disputargli
la corona. Gli dichiarava perciò la guerra ed invadeva il regno di
Napoli, ove incontrava pochissima resistenza. Monte Cassino, Capoa,
Salerno, Napoli gli s'arresero ben tosto; e, malgrado le scomuniche del
papa, non perdette alcuno de' suoi partigiani[342]. Le cose di Ottone
procedevano con tanta prosperità, che poteva sperare di balzare in breve
dal trono il giovane Federico, che dai soldati era chiamato il re dei
preti; quando le notizie d'una generale sommossa in Germania
l'obbligarono ad abbandonare l'Italia. Siffredo, arcivescovo di Magonza,
aveva pubblicato contro l'imperatore una bolla di scomunica,
dichiarandolo decaduto dalla dignità imperiale. E perchè la bolla avesse
effetto, eransi contro di lui collegati l'arcivescovo di Treveri, il
langravio di Turingia, il re di Boemia, il duca di Baviera ed il duca di
Zeringuen, a ciò specialmente istigati da Filippo Augusto di Francia,
personale nemico d'Ottone. Questi lasciò l'Italia dopo avere in due
generali assemblee esortati i baroni del Regno di Napoli, poi quelli
delle città libere di Lombardia, a conservarsi fedeli, e passò in
Germania a sostenervi una sfortunata guerra, nella quale ebbe ben tosto
a fronte il suo antagonista Federico II[343].

  [342] _Richardus de sancto Germano Chron. p. 983. — Abbas Usperg.
  Chron. p. 313._

  [343] _Abbas Uspergensis Chron. p. 313._

Benchè si fosse variato l'oggetto della lite tra le fazioni guelfa e
ghibellina, e che i Ghibellini si trovassero momentaneamente uniti al
papa, mentre molti Guelfi, diretti da un imperatore guelfo, eransi
dichiarati i difensori dei diritti dell'Impero[344], i Lombardi furono
generalmente fedeli non ai rispettivi principi, ma alle persone ed al
nome della loro fazione. Nella guerra della lega lombarda, Pavia,
Cremona ed il marchese di Monferrato avevano combattuto per la famiglia
ghibellina; l'istesse città s'impegnarono pure di difendere Federico II,
l'erede di questa famiglia. Questo giovane re, allora in età di
dieciotto anni, essendone richiesto dai principi tedeschi suoi
partigiani, s'avviò verso la Germania per riclamare la corona imperiale.
Passando per Roma, ricevette la benedizione del papa, indi s'imbarcò e
giunse a Genova in aprile del 1212 con quattro galere. Colà seppe che
tutto il partito guelfo di Lombardia aveva prese le armi per chiudergli
il passaggio; onde gli fu forza di rimanere in Genova tre mesi,
aspettando l'opportunità di attraversare il paese nemico, e dar tempo ai
suoi partigiani di riunire le loro forze[345]. Soltanto il 15 giugno
partiva da Genova alla volta di Pavia, dopo aver ricevuti dai Genovesi
considerabili soccorsi. Il partito ghibellino ne' paesi che doveva
attraversare, era assai debole. Le città d'Alessandria, Tortona,
Vercelli, Acqui, Alba ed il marchese Malaspina eransi uniti ad
attraversargli il passaggio avanti che arrivasse a Pavia[346]; ma egli
giunse a Pavia per la strada d'Asti senza incontrarli, e senza che gli
accadesse alcun sinistro. I Guelfi vollero vendicarsene avanzandosi sul
territorio pavese, ma ne furono respinti con grave perdita. Restavagli
da attraversare la Lombardia superiore, lo che rendevasi ancora più
difficile, poichè per passare da Pavia a Cremona, prima città a lui
favorevole, doveva toccare il territorio piacentino, o il milanese, i di
cui passaggi erano attentamente custoditi da quei repubblicani[347]. Il
marchese Azzo d'Este erasi avanzato fino a Cremona per incontrarlo, e
teneva disposta una scorta che doveva unirsi a quella dei Pavesi; ma nè
gli uni nè gli altri avevano bastanti forze per attaccare il corpo dei
Milanesi appostato sulle rive del Lambro. Federico, cui ogni ritardo
poteva diventar fatale, credette di dover tutto arrischiare, ed
approfittando delle dense tenebre d'una notte tentò il passaggio del
fiume, e giunse felicemente a Cremona; e soltanto la scorta pavese fu
assalita, retrocedendo, dai Milanesi, e fatta quasi tutta
prigioniera[348]. Da Cremona avanzandosi Federico coll'assistenza del
marchese d'Este non era più esposto a grandi rischi, sicchè per la
strada di Mantova, Verona[349] e Trento giunse a Coria nei Grigioni, ove
incontrò i suoi primi partigiani tedeschi, ed in numero assai maggiore
gli si fecero in contro a Costanza; e finalmente quando arrivò ad
Aquisgrana, vi fu coronato re de' Romani, mentre il suo competitore
Ottone essendo stato battuto presso Brisacco, fu forzato di rivolgere le
sue armi contro Filippo Augusto, dal quale disfatto in vicinanza di
Bouvines, non ebbe più forze bastanti per affrontare il suo rivale[350].

  [344] Il nome di Guelfi e di Ghibellini fu in questi tempi più
  universalmente adottato; perchè l'antica denominazione di partito
  dell'Impero e di partito della Chiesa era divenuta un controsenso.

  [345] _Annal. Genuens. Continuat. Caffari l. IV, p. 403._

  [346] _Ann. Genuens. Contin. Caffari l. IV, p. 403._

  [347] _Galvan. Flam. c. 244, p. 664, t. XI._

  [348] _Sicardi Epis. Cremon. Chron. p. 623, t. VII._

  [349] _Chronic. Veronense t. VIII, p. 623._

  [350] _Il 27 luglio 1214 — Conradus Abbas Usperg. Chronicon p. 319._

Tocchiamo finalmente l'epoca in cui la più illustre, e, per lungo tempo,
la più potente repubblica de' secoli di mezzo, Fiorenza, incomincia a
chiamare a se lo sguardo dello storico colla prima scissura ch'ebbe
luogo nel suo seno l'anno 1215.

Firenze non fu da principio probabilmente che un sobborgo di Fiesole,
antica città degli Etruschi, e per tale cagione l'epoca precisa della
sua fondazione trovasi avviluppata in qualche difficoltà[351]. Il
dittatore Lucio Silla la fece colonia romana, e segnò il primo le mura
della nuova città lungo le ridenti rive dell'Arno, ai piedi degli
Appennini in mezzo a colline coperte d'ulivi, di fichi, e di tutti gli
alberi de' climi più caldi.

  [351] _Istorie Fiorent. di Leonardo Aretino, traduzione
  dell'Acciajuoli lib. I, p. 4. Ediz. veneta 1476._

Poche città furono dalla natura più avvantaggiate di Fiorenza. Malgrado
il calore spesso grandissimo, l'aria è sana, limpide acque scendono
dall'Appennino, che la magnificenza dei cittadini fiorentini impiegò ne'
secoli di mezzo ad ornare e rinfrescare la città con sontuose fontane.
La pianura che dalle porte della città si stende nella val d'Arno
inferiore, è coperta di gelsi e di viti maritate agli alberi, ed è
feconda di grani d'ogni genere, facendovisi cinque diversi raccolti
nello spazio di tre anni[352]. Dalla banda degli Appennini innalzasi un
anfiteatro di ridenti colli sui quali raccogliesi il più squisito olio,
ed i più squisiti vini d'Italia; più a dietro le alte montagne coperte
di vaste foreste di castagni offrono alla povertà un nutrimento, che non
domanda che il lavoro di raccogliere i frutti che maturano ogni anno.

  [352] Veggasi il _Quadro dell'Agricoltura toscana_ dell'autore di
  questa istoria. Un _Vol. in 8.º, Ginevra 1802._

Il Mugnone ed altri ruscelli arricchiscono le terre da loro inaffiate; e
l'agricoltore deriva dall'Arno medesimo una parte delle sue acque.
Questo fiume che nella più calda estate lascia quasi all'asciutto il suo
letto, lo riempie di nuovo nella stagione piovosa, ed apre una facile e
pronta comunicazione con Pisa e col mare per mezzo di leggieri barche.

Firenze ornata, fino ne' tempi di Silla, di terme, di teatri,
d'acquedotti, fu quasi affatto rovinata da Totila, re dei Goti, nella
guerra che questi dovette sostenere contro i generali di
Giustiniano[353]. Fu in seguito rifabbricata da Carlo Magno, ed impiegò
i quattro secoli posteriori al regno del suo nuovo fondatore nel
perfezionamento della sua amministrazione municipale; nel qual tempo
obbligò tutti i gentiluomini del vicinato a farsi cittadini fiorentini
sottomettendo i loro piccoli feudi alla sua giurisdizione. Fino al 1207
fu governata da consoli scelti tra i migliori cittadini, e da un senato
di cento membri. I consoli rimanevano in carica un anno, e ne veniva
nominato uno prima dai quattro, poi dai sei quartieri; ma del 1207 i
Fiorentini imitarono ciò che vedevano praticarsi da tutte le altre
città, e chiamarono un podestà straniero e gentiluomo[354][355], al
quale affidarono il carico d'eseguire gli ordini del comune, di far
decidere dai suoi giudici i processi civili, di pronunciare egli e di
far eseguire le sentenze criminali, affinchè, dicono gli storici
fiorentini, verun cittadino non incontrasse l'odio cui poteva dar luogo
la pubblica vendetta, ed affinchè non si lasciasse alcuno sedurre dalle
preghiere, dall'affetto di famiglia, o da timore, a trascurare il
mantenimento dell'ordine pubblico. Gualfredotto di Milano fu il primo
podestà di Fiorenza, cui fu dato per sua abitazione il palazzo del
vescovo, conservando in pari tempo i consoli incaricati di tutti gli
altri rami della pubblica amministrazione.

  [353] _Leonardo Aret. l. I, p. 30_ — _Procopii Cæsariensis de Bello
  Gotico l. III, c. 5. p. 117. Edit. Veneta._

  [354] _Istoria fiorentina di Ricordano Malespini c. 99. Scrip. Rer.
  Ital. t. VIII. p. 942_ — Giovanni Villani _l. V. c. 32. t. XIII. p.
  146_.

  [355] A questi autori del secolo decimoquarto, oltre le storie
  fiorentine di Niccolò Machiavelli, possono aggiungersi quelle di
  Lorenzo Pignotti pubblicate nel decorso anno. _N. d. T._

Quantunque la nobiltà fiorentina, che fino a tale epoca aveva
esclusivamente governata la repubblica, non potesse rimanersi del tutto
imparziale nelle contese degl'imperatori e dei papi, e specialmente in
quella di Ottone IV con Innocenzo III, nulla però accadde che ne
alterasse la pace interna. La repubblica aveva presa parte alla lega
toscana, ma in appresso non si curò troppo di sostenere una
confederazione ben tosto dimenticata: e malgrado le divergenti opinioni
de' gentiluomini, i magistrati erano determinati di tenersi neutrali,
quando una particolare contesa di famiglia, riscaldando tutt'ad un
tratto lo spirito di partito, strascinò i Fiorentini in sanguinose
risse, che dopo essersi tenute vive, senza deciso vantaggio dell'una o
dell'altra parte, trentatre anni, ebbero fine coll'esiglio dalla città
d'un intero partito, e coll'obbligare la repubblica a figurare
eminentemente nelle successive guerre d'Italia.

Tra le famiglie che manifestavano attaccamento alla causa del papa
primeggiava quella dei Buondelmonti, altra volta signori di Montebuono
in val d'Arno di sopra. Messer Bondelmonte de' Buondelmonti aveva
promesso di sposare una fanciulla degli Amedei, famiglia alleata agli
Uberti, e di conosciuto attaccamento al partito imperiale[356]. Un
giorno Bondelmonte cavalcando per la città fu chiamato da una
gentildonna della casa Donati, la quale, rimbrottatolo d'essersi alleato
con una famiglia a lui sconveniente, passò a deridere la figura della
sposa. «Io ne aveva, gli soggiunse, tenuta una in serbo per voi, che
avreste certamente preferita;» e presolo per la mano lo condusse
nell'appartamento di sua figlia, ch'era sopra ogni credere bellissima.
Bondelmonte invaghito e infiammato d'amore, non riflettendo alla data
fede, la chiese e l'ottenne in isposa; e gli Amedei non seppero ch'egli
mancava alla convenzione fatta con loro se non quando era già sposo
d'un'altra. Invitarono subito tutti i parenti a riunirsi presso di loro,
gli Uberti, i Fifanti, i Lamberti ed i Gangalandi, ed esposero
l'affronto che avevano ricevuto, chiedendo consiglio intorno alla
vendetta che più si converrebbe al presente caso. Mosca Lamberti osò
dire il primo, ma con parole equivoche, che solo la morte poteva lavare
tanta offesa[357]; perchè la mattina di Pasqua mentre Bondelmonte
attraversava sopra un cavallo bianco Ponte Vecchio fu assalito dai capi
di queste famiglie, unite non solo dalla recente ingiuria, ma ancora
dall'attaccamento alla causa imperiale, ed ucciso presso alla statua di
Marte protettore di Fiorenza pagana, che ancora rimaneva in piedi.

  [356] _Ricordano Malesp. Istor. fiorent. c. 104, p. 945 — Gio.
  Villani l. V, c. 38, p. 150 — Coppo de Stefani l. II. — Delizie
  degli eruditi toscani t. VII_ — Questi tre scrittori si copiavano
  l'un l'altro quasi senza variazione di vocaboli; e Machiavelli in
  principio del II. _lib. delle sue storie fiorent._ replicò il loro
  racconto. _Ediz. del 1796. p. 90._

  [357] La sua risposta fu il proverbio, _cosa fatta capo ha_, che
  diventò poi parola di sangue, la quale non poteva pronunciarsi senza
  far fremere i repubblicani di Fiorenza.

Poichè fu sparso il primo sangue, tutte le nobili famiglie si
pronunciarono per gli aggressori, o per il contrario partito, adottando
a un tempo una fazione nella gran lite della Cristianità, che s'aggiunse
a questa rissa di famiglia. Si dichiararono pei Bondelmonti e per il
partito guelfo quarantadue principali famiglie[358], di cui gli antichi
storici ci diedero i nomi: e ventiquattro uguali famiglie si associarono
agli Uberti ed alla causa dei Ghibellini. Così, fatti nemici gli uni
degli altri, tanti potenti cittadini battevansi continuamente, e comechè
tutti innalzassero torri e fortificassero i loro palazzi, rimasero
trentatre anni nella medesima città senza aver mai fatto verun accordo.
Ma la notte della Candelora del 1248 la parte guelfa fu costretta per la
prima volta di abbandonare la città, che, ritirandosi, fu esigliata
dalla pubblica autorità, la quale fino a tale epoca aveva mostrato di
volere con mano imparziale comprimere le due fazioni castigando
indistintamente i perturbatori del pubblico riposo.

  [358] _Ricordano Malespini, c. 105, p. 946._

Trentatre anni di non interrotta guerra entro le mura di Firenze non
solo produssero l'effetto di avvezzare alle armi la nazione, e di
prepararla in tal maniera alle sue future conquiste, ma diedero altresì
un particolare carattere all'architettura della città, carattere non
affatto perduto al presente, perchè i nuovi architetti, senza rendersi
ragione dello stile nazionale, lo imitarono nei loro edificj. I palazzi
fiorentini sono masse quadrate pesanti, il di cui principale ornamento
consiste nella solidità[359]. Sono grosse muraglie bugnate, porte alzate
sopra il livello del suolo, larghe anella di ferro e di bronzo in cui
collocavansi i fanali all'occasione di pubbliche illuminazioni, o
destinate a portare gli stendardi d'una fazione: altronde non vi si
vedevano nè colonne, nè peristili, o cosa alcuna ove l'architettura
possa mostrar grazia e leggerezza. Firenze si fa conoscere all'aspetto
suo per la città dei nobili, la città della forza individuale, la città
ove l'autorità pubblica era talvolta debole, ma dove ognuno era padrone
e signore nella propria casa.

  [359] Il palazzo Strozzi in _piazza dell'Erbe_ ed il palazzo
  Ricardi, altra volta dei Medici, sono monumenti di questo genere
  d'architettura. Sono opere ambedue fatte in sul declinare del secolo
  XV; ma il gusto de' loro fondatori erasi formato sopra più antichi
  modelli.

Nel lungo regno di diciott'anni Innocenzo III aveva forse ottenuto più
che non isperava a favore dell'autorità ecclesiastica accresciuta con
dispendio di quella degl'imperatori. Il regno di Sicilia omai le era
affatto subordinato. Federico aveva un figlio della novella sua sposa, e
quando partì per andare in Germania, Innocenzo pretese che questi fosse
allora coronato re di Sicilia, e che a lui cedesse il padre
l'amministrazione del regno sotto la protezione della santa sede, da cui
avrebb'egli poi ottenuta la corona imperiale.

La città di Roma, dopo avere tentato invano di cambiare la propria
amministrazione, erasi trovata in preda a tante estorsioni sotto il
governo d'un senato repubblicano, che spontaneamente si sottomise ad un
senatore nominato dal pontefice. Tutte le città vicine a Roma erano
state conquistate da Innocenzo, e gli si conservavano subordinate.
Sembrava inoltre che ricaderebbe sotto il suo dominio la Marca d'Ancona,
poichè Azzo VI d'Este che n'era stato da lui investito[360], era morto
poco dopo avere condotto Federico in Germania, e del 1215 era pur morto
il suo maggior figliuolo Aldobrandino, nel fiore della gioventù. Il
secondogenito Azzo VII, marchese d'Este, poteva a stento conservare il
patrimonio de' suoi maggiori, non che pensar potesse a tener in dovere
gli Anconitani che si dichiaravano indipendenti. Malgrado le intestine
loro discordie, le città toscane mostravansi tutte, ad eccezione di
Pisa, più affezionate al partito della Chiesa che a quello dell'Impero;
e se nella Lombardia le più potenti repubbliche avevano abbracciata la
causa d'Ottone, aveva la fortuna favorite in modo le più deboli
attaccate alla Chiesa, che i Cremonesi avevano disfatta interamente
l'armata milanese, tolto loro il carroccio, e fatti prigionieri più
migliaja di soldati[361].

  [360] Azzo VI morì in novembre del 1212.

  [361] Ciò accadde nel giorno di Pentecoste del 1213. _Sicardi Chron.
  p. 624 — Campi Istoria di Cre. l. II. p. 39 — Manip. Flor. Galvanei
  Flam. c. 246. p. 655._

Ma se l'amministrazione di questo grande fondatore della monarchia
pontificale ottenne portentosi successi, la sua condotta non andò esente
da rimproveri. Benchè avesse soccorso Federico nelle prime sue imprese
contro Ottone, poichè questi fu sconfitto, non accordò mai al suo
protetto la corona imperiale onde non farlo troppo potente.
Nell'amministrazione del regno di Sicilia non andò senza taccia
d'infedeltà, avendo usurpati in pregiudizio del re suo pupillo i
privilegi della corona di conferire i beneficj ecclesiastici[362],
disponendo dei feudi del regno a vantaggio de' suoi favoriti, e tra gli
altri di suo nipote, cui regalò la contea di Sora[363]; trattando coi
ribelli in proprio nome, e non riclamando per il suo augusto pupillo i
diritti che aveva all'elezione di re dei Romani, se non dopo essersi
successivamente alleato con Filippo e con Ottone IV, in pregiudizio di
Federico, di cui ne cedette loro i diritti a fronte dei proprj vantaggi.
Nè più dilicata fu la condotta di questo papa verso gl'imperatori
d'Oriente, siccome avremo opportunità di osservarlo nel seguente
capitolo. Abbiamo già parlato dell'insultante alterigia con cui trattò i
monarchi d'Occidente, e del frequente scandaloso abuso da lui fatto
degl'interdetti e delle scomuniche. Viene inoltre accusato d'avere il
primo fatta predicare la crociata contro i Pagani della Livonia, e
d'avere accordato a coloro che avevano fatto voto di andare in soccorso
di Terra santa, di portare invece le armi nella Livonia per farvi una
guerra inutile; dimenticando l'affezione dei luoghi santi, la difesa
della cristianità contro l'aggressione nemica, e la protezione dovuta ai
fratelli d'armi esposti ai più grandi pericoli. Innocenzo acconsentì a
questa crociata motivata da sola cieca e crudele voglia di
persecuzione[364]. Ma la più vergognosa macchia che disonori la memoria
di questo pontefice, è l'istituzione dell'inquisizione, e la sanguinaria
predicazione dei monaci di S. Domenico per la più atroce delle crociate,
quella contro gli sventurati Albigesi[365].

  [362] _Giannone Istoria civile l. XIV. c. 3._

  [363] _Ibid. Lib. XV. c. 14 — Rich. de sancto Germano Chron. p.
  982._

  [364] _Annales Eccles. Oderici Rainaldi ann. 1204, § 56 p. 117._

  [365] Il Lettore Cattolico si ricordi che le presenti osservazioni
  sono scritte da un Protestante. Del resto i sudditi Austriaci sanno
  che l'Augusta Imperatrice Maria Teresa, la di cui memoria sarà
  sempre cara agli amici della religione e della clemenza, abolì ne'
  suoi stati di Lombardia il tribunale dell'inquisizione,
  repristinando i Vescovi nei naturali loro diritti di giudici e di
  conservatori della fede, e dissoggettando i suoi sudditi da
  qualunque tribunale non dipendente dalla legittima sovrana autorità.
  _N. d. T._

A me non s'apparterrebbe il parlare della venuta in Europa de'
Pauliciani[366], setta di Manichei, che scacciati dall'Asia dalle
persecuzioni degl'imperatori d'Oriente e trapiantatisi nelle vicinanze
del monte _Haemus_, s'avanzarono lentamente verso l'Occidente, e
sparsero tra i Latini i primi semi della riforma; ma perchè questi
settarj, cui Raimondo, conte di Tolosa, accordò ricovero in Linguadocca
presso Albi, s'andarono moltiplicando ancora in Italia, ov'ebbero il
nome di _Paterini_, non sarà inutile il dirne alcuna cosa[367].

  [366] Si ha ragione di sperare che il sig. Muller celebre storico
  tedesco, darà sulla migrazione delle sette riformate grandissimi
  schiarimenti, essendo l'argomento delle sue più erudite indagini.

  [367] Quasi si dicesse, che si consacrano a soffrire: _pati_. Pietro
  dalle Vigne e Federico II danno questa etimologia al loro nome in
  una legge pubblica contro i medesimi.

I persecutori dei Pauliciani e degli Albigesi sostennero costantemente
che il fondamento della loro dottrina era il domma dei due principj, che
in ogni tempo ebbe partigiani moltissimi in Oriente; nè sembra affatto
straniero alla religione de' giudei, nè a quella dei cattolici[368]. I
difensori degli Albigesi e sopra tutto i riformatori negarono che i
Pauliciani professassero mai questo domma, ma sarebbe forse assai
difficile lo scolparli da tale errore. I cattolici loro contemporanei,
parlando della loro dottrina, mostrano una troppo raffinata filosofia
orientale, perchè possa credersi inventata da Pietro Valiserniense o da
san Domenico. Gli Albigesi, dicono essi, riconoscono nell'universo due
potenze creatrici, quella del mondo invisibile, ch'essi chiamano il _Dio
buono_, e quella del mondo visibile che chiamano il _Dio cattivo_. E
questo non è altro che il sistema di Manete intorno all'eternità dello
spirito e della materia. Attribuivano al primo il nuovo testamento,
l'antico al secondo; e per provare che l'ultimo era effettivamente
l'opera del Dio del male, davano risalto a tutti i delitti che sono nel
medesimo accennati, e a quelle qualità di Dio geloso, vendicatore e
terribile che gli Ebrei credevano vedere nell'Essere supremo. Non
ammettevano l'incarnazione del salvatore, insegnando che era disceso
soltanto spiritualmente, senza giammai investire un corpo; credevano gli
uomini essere angioli decaduti dalla primitiva loro grandezza, le di cui
anime dopo alcune trasmigrazioni dovevano poi rientrare nell'antica loro
gloria[369]. Tali erano almeno le opinioni di un piccol numero, giacchè
non sembra che la credenza loro fosse uniforme; dal che deve
conchiudersi che lasciavano a tutti la libertà di esaminare la propria
fede.

  [368] Forse il nostro autore deferì ad alcune frasi della scrittura
  — _Non potestis duobus dominis servire_ ec. — _Spiritus promtus,
  caro autem infirma_ ec. — ed alle opinioni volgari intorno agli
  spiriti cattivi e simili: ma gli era troppo facile il convincersi
  del contrario.

  [369] _Duchesne Historiæ Franc. Scriptores t. V. — Petrus
  Vallisernensis Hist. Albigensium c. 2. p. 556. — Odericus Raynald.
  ann. 1206. § 59., e seguenti p. 118._ Il cattolico anche non
  istrutto riconosce e la concupiscenza, sottomessa alla grazia, ed i
  demonj creature incapaci di nuocere senza la divina permissione.

Nello stato di corruzione in cui a que' tempi trovavasi la Chiesa
romana, avrebbela esposta a gravi pericoli il permesso di entrare in
troppo minute discussioni. I capi di setta smarriti negli andirivieni di
un'oscura metafisica, ammettevano probabilmente sistemi che derogavano
alla maestà dell'Essere supremo: ma quando volgevano lo sguardo verso la
Chiesa cattolica trovavano troppo aperti abusi da attaccare e troppe
contraddizioni nelle pratiche de' grandi prelati e nelle cose
disciplinari da rivelare. Negando l'autorità de' vescovi, le indulgenze,
il fuoco del purgatorio, i miracoli della Chiesa, la transustanziazione,
il culto della Vergine, la dannazione de' bambini morti senza battesimo,
prepararono la strada alla riforma[370].

  [370] _Guido Elnensis Episc. de Haeret. comment. apud Oder. Rayn. §
  64. p. 119. ann. 1204._

Grande era il numero de' Patarini o Pauliciani in tutte le città
d'Italia, perciocchè questa era la parte d'Europa meno predominata dalla
superstizione; e perchè i governi popolari non avevano fino allora
permesso che si perseguitassero i cittadini per le loro opinioni. Il
codice Teodosiano aveva bensì decretata la pena di morte contro certi
eretici risguardati come più colpevoli degli altri[371]; ma ne' tempi in
cui tal legge fu tenuta in vigore, i vescovi avevano costantemente
riclamato contro l'applicazione della pena. S. Agostino scriveva a
Donato, proconsole d'Affrica, che s'egli non cessava dal punire gli
eretici colla morte, i vescovi lascerebbero di denunciarli. E quando i
vescovi mostraronsi proclivi allo spargimento del sangue, i principi non
erano più persecutori; e non fu che del 1220, che il successore
d'Innocenzo ottenne da Federico II la prima legge di morte contro gli
eretici, come prezzo della corona che gli aveva data[372].

  [371] _Cod. Teod. de Haeret. Lex 9, 34, 36, 38, 43, 44._

  [372] _Frid. II, Authenticae Constit. Tit. I, Lex 5.-8._

Non trascurava per altro Innocenzo d'eccitare con calde lettere i
vescovi di Fiorenza, di Prato, di Faenza, di Bologna, a cacciare gli
eretici fuori delle mura; e quando le sue lettere ottenevano l'intento,
non lasciava di felicitarli d'essere entrati sul buon sentiere
dell'eterna salute[373]. Avendo saputo trovarsi alcuni Paterini in
Viterbo, città del dominio della Chiesa, vi si recò egli medesimo, e
fece abbruciare le case degli eretici che avevano colla fuga prevenuto
il suo arrivo. Promulgò in seguito una legge intorno alla pena da
infliggersi a costoro: era la morte[374], che per altro enunciò
copertamente colla frase _che la loro persona sia abbandonata al braccio
secolare_. Dichiarava poi che le loro case si distruggessero, ed i loro
beni divisi tra il delatore, il comune, ed il tribunale che
pronuncierebbe la condanna; e per ultimo che dovessero pure atterrarsi
le case di coloro che osavano dar ricovero agli eretici.

  [373] _Innoc. III, Epist. l. IX, ec. — Oder. Ray. ad ann. 1206._

  [374] _Dat. Viterb. 9. cal. act. Pontif. an. X. — Ray. ad an. 1207._

E temendo di non bastar solo a contenere la piena dell'eresia, chiamò
due collaboratori in suo ajuto: il primo, italiano, doveva adoperare la
dolcezza e l'esempio; spagnuolo l'altro, lo spionaggio ed i supplicj:
erano questi san Francesco e san Domenico[375][376]. Protestò il papa
d'averli veduti in sogno sostenere sulle loro spalle san Giovanni di
Laterano, e perciò diede loro il carico d'associarsi dei fratelli che
gli ajutassero a sostenere la pericolante fede. San Francesco
raccomandava ai suoi discepoli, allora chiamati fratelli minori, di
ricondurre gli eretici in seno della Chiesa coll'esempio della loro
povertà ed ubbidienza[377]; e san Domenico ordinava più espressamente ai
suoi di predicare contro gli eretici, d'informarsi del loro numero,
della loro credenza e dello zelo de' vescovi nel reprimerli; indi
riferire a Roma tutto quanto verrebbe a loro notizia; ed eccitare i
principi cristiani a prendere le armi contro gli eretici. Un tribunale,
che condannasse direttamente a morte gli eretici, non fu accordato ai
Domenicani che parecchi anni dopo da Innocenzo IV; ma fino dalla prima
loro istituzione si presero il titolo d'inquisitori, val a dire delatori
della fede[378].

  [375] _Giovanni Villani Lib. V, c. 24, e 25. p. 143._

  [376] L'autore rovescia sopra san Domenico tutta la fierezza de'
  meno moderati inquisitori che vennero dopo di lui. Intorno a
  quest'argomento possono leggersi la storia dell'inquisizione di F.
  Paolo Sarpi, che pure non può cadere in sospetto di parzialità. N.
  d. T.

  [377] _Antiq. Ital. Maed. Aevi Dissert. LXV._ — Leggasi intorno alla
  fondazione di questi due ordini la Cronaca dell'abb. Uspergense a p.
  318. Dice che questi due ordini rivalizzavano con quello degli
  umiliati, coi poveri di Lione e con altri entusiasti, che pure
  avevano tentato di formare anch'essi un ordine religioso sotto la
  protezione del papa; ma che, vittime di questa gelosia, furono
  perseguitati e bruciati come eretici.

  [378] _Istoria civile del regno di Napoli l. XV, c. 4._

L'anno 1203 san Domenico prese per impulso proprio a predicare contro
gli Albigesi; e l'anno 1206 fu spedito dal papa nella Gallia Narbonese,
con ampie facoltà di promettere a coloro che prenderebbero la croce per
l'esterminio degli eretici, tutte le indulgenze riserbate fin allora ai
soli liberatori di Terra santa[379]. Del 1209 Simone di Monfort, sempre
accompagnato dai Domenicani, entrò ne' dominj del conte di Tolosa alla
testa de' crocesegnati. Gli scrittori ecclesiastici di que' tempi ne
esaltano la condotta; tacciono i posteriori ed arrossiscono. Pochi
estratti dei primi non devono sembrare stranieri alla storia delle
nostre repubbliche; facendo chiaramente conoscere l'impulso che il papa
voleva dare alla religione del suo secolo, e gli orrori risparmiati
all'Italia dal libero governo delle sue città.

  [379] Vedasi la lettera d'Innocenzo III, per eccitare alla crociata
  contro Raimondo conte di Tolosa, presso Oderico Rainaldo all'anno
  1208. § 15. p. 161.

«L'anno del Signore 1209, dice Bernardo Guidone[380], il giorno di santa
Maria Maddalena, l'armata crociata contro gli eretici d'Albi, Tolosa e
Carcassona, entrò nelle terre soggette al conte di Tolosa, prese la
città di Bezier e la diede alle fiamme. Nella chiesa di santa Maria
Maddalena, ov'eransi rifugiati i cittadini che prima eransi opposti
all'armata vittoriosa, furono uccise sette mila persone. E ciò era
troppo giusto, perchè avevano ricusato al proprio vescovo di consegnare
all'armata tutti gli eretici che trovavansi nelle loro mura.» Di fatti
la più parte di coloro che venivano trucidati in tal maniera, erano
cattolici. In un consiglio di guerra i crociati avevano domandato come
sarebbersi potuti distinguere i cattolici dagli eretici, onde
risparmiarli. Rispose Arnoldo, abate di _Citeaux_: «Colpite tutti, il
Signore conoscerà bene i suoi fedeli!» ed il massacro fu
universale[381].

  [380] _Vita Innocentii III, ex MS. Bernardi Guid. Scrip. Rer. Ital.
  t. III, p. I. p. 480._ — Lo stesso racconto viene confermato da
  Amalrico Augerio. _Vita Innoc. III, t. III. p. II. p. 379._

  [381] _Cæsarius l. V, c. 21. ap. Raynald. ad ann. 1209._

«L'anno del Signore 1211, il conte di Monfort, l'atleta di Cristo,
assediò coll'armata crociata il forte castello di _Vaure_ nella diocesi
di Tolosa, ove si erano rinchiusi molti eretici; e l'ebbe a patti, dopo
essersi coraggiosamente battuti d'ambe le parti. Avendovi trovati circa
quattrocento eretici perfetti che non vollero convertirsi, il principe
cattolico li fece consumare il giorno dell'Invenzione di Santa Croce col
fuoco materiale, destinandoli così all'eterno che deve divorarli.
Aymerico, nobile signore di Monreale e di Lauriat, che con altri
gentiluomini aveva presa la difesa di questo castello, fu condannato ad
essere appiccato dallo stesso conte, che fece morire sotto la scure più
di novanta gentiluomini, e gettare in un pozzo e ricoprire di sassi
Geralda signora del castello, eretica, e sorella d'Aymerico[382].»

  [382] _Vita Innoc. III, ex MS. Bern. Guid. p. 482. Vedasi pure Petri
  Monoeci Vallium Cernaii, seu Vallisernensis Hist. Alb. apud Duchesne
  Hist. Franc. Sc. t. V, c. 52._

In mezzo a tali massacri che rinnovavansi ogni giorno, col di cui
racconto non rattristerò più a lungo i miei lettori, san Domenico spiegò
più manifestamente il suo carattere. Passava egli senza guardia a
traverso di un paese abitato dagli eretici, e dove aveva fatto spargere
molto sangue. Tutto ad un tratto vien colto in mezzo da costoro: «non
hai tu timore della morte? gli dissero: che farai tu allorchè noi ti
avremo preso? Allora l'atleta del Signore (tale è il racconto fattone
dal Beato Giordano suo compagno, che ne scrisse la vita), infiammato
d'ardore per il martirio, gli rispose: in tal caso vi pregherei di non
terminare troppo presto il mio supplizio; di non uccidermi subito sotto
i vostri colpi, ma poc'a poco e successivamente; di mutilare ad uno ad
uno i miei membri e pormeli innanzi agli occhi; vi pregherei inoltre di
cavarmi gli occhi, e di permettere allora che il mio corpo così mutilato
si ravvolgesse entro il proprio sangue fino all'istante in cui
credereste di uccidermi[383].» In tal modo quest'uomo intrepido
rivolgeva la sua feroce immaginazione sopra di se medesimo,
compiacendosi dell'aspetto del proprio dolore, come di quello degli
altri. Pure una così strana inchiesta parve atto di mirabile costanza
agli stessi Albigesi, e lo lasciarono in libertà di proseguire il suo
viaggio.

  [383] _Vita san. Dom. a B. Jordano l. I, c. 8. — Ray. ad ann. 1209.
  § 3. p. 152._

L'ultimo più notabile avvenimento del pontificato d'Innocenzo III fu
l'assemblea del quarto Concilio ecumenico di Laterano. L'anno 1215, nel
mese di novembre, settant'uno metropolitani e quattrocento vescovi, più
di ottocento abati e priori di monasteri, adunaronsi in Roma sotto la
sua presidenza per deliberare intorno agl'interessi della Chiesa.
Quest'adunanza parve che adottasse tutte le viste ed i sentimenti del
pontefice che la presedeva. Si condannarono gli errori de' Pauliciani e
quelli d'altri oscuri eretici che disputavano intorno alla Trinità; fu
confermata la preferenza data da Innocenzo a Federico II, sopra Ottone
IV, e per ultimo sanzionò questo concilio la recente obbligazione
imposta ai fedeli dell'uno e dell'altro sesso di confessare almeno una
volta all'anno i proprj peccati ad un sacerdote[384][385].

  [384] _In Canon. 21 e 22. Concil. Labbei. — Ray. 1215. § I, p.
  219.-222._

  [385] Leggansi intorno a quest'argomento gli autori cattolici, e tra
  questi Fleury _stor. Eccles._ all'anno 1216. _N. d. T._

Terminato il concilio, Innocenzo III si mosse del 1216 alla volta della
Toscana per rappacificare i Pisani ed i Genovesi, onde valersi di loro
nella difesa di Terra santa; ma giunto a Perugia, s'infermò gravemente,
e nel giorno 6 luglio cessò di vivere. Siccome gli scrittori
ecclesiastici hanno il privilegio di seguire oltre la tomba i loro eroi,
possiamo prendere da loro un curioso aneddoto, che malgrado il sommo
rispetto che gli professavano, ci hanno conservato d'Innocenzo III. Era
appena morto quando la sua anima, circondata da una orrenda fascia di
fuoco, apparve a santa Liutgarde. «Io sono papa Innocenzo, le disse, e
per tre motivi avrei meritata l'eterna dannazione, se l'intercessione
della Beata Vergine, in onore della quale ho fabbricato un monastero,
non me n'avesse liberato: soffrirò invece il tormento che tu vedi fino
al giorno del giudizio: per raccomandarmi alle benefiche tue preghiere e
delle tue sorelle in Gesù Cristo, io sono apparso a te:» dette queste
parole, scomparve. «Sappia il lettore, soggiunge Tomaso Cantipratense,
biografo della Santa, che Liutgarde ci ha rivelati questi tre titoli: ma
che per il rispetto dovuto a così grande pontefice, non abbiamo voluto
indicarli[386].» Forse il lettore troverà Innocenzo colpevole ben più
che di tre delitti in faccia alla divina Maestà; che più misericordiosa
di santa Liutgarde e di san Domenico, non lo avrà per la sua grazia
condannato alle pene di molte migliaja d'anni.

  [386] _Thom. Cantip. Vita Liutgardæ Virginis l. II, c. 7. apud
  Surium, t. III, die 16. Jun. — Rayn., 1216. § II._



CAPITOLO XIV.

      _Digressione intorno alla quarta crociata[387]. — Conquiste
      delle repubbliche italiane in Oriente._

  [387] La prima crociata è quella di Gotifredo di Bouillon l'anno
  1096; la seconda quella dell'Imp. Corrado e di Luigi VII, l'anno
  1148; la terza quella di Federico Barbarossa, Filippo Augusto e
  Riccardo cuor di leone l'anno 1189: ma di mezzo a queste grandi
  spedizioni, altre armate crociate passarono in Oriente, motivo per
  il quale alcuni storici chiamano la presente la quinta crociata. _N.
  d. T._


Il pontificato d'Innocenzo III è famoso per le guerre sacre ch'egli
provocò, facendole promulgare dai predicatori. Mentre alcune armate
cattoliche soffocavano nelle province occidentali e presso gli Albigesi
i primi germogli dell'eresia e dello spirito d'indipendenza, altre
ugualmente condotte da predicatori cristiani sottomettevano al poter
papale il patriarca dell'Oriente, il più antico rivale della sede
romana, e la chiesa greca, che fino dalla metà del secolo XI i Latini
avevano colpita d'anatema siccome infetta d'eresia[388].

  [388] Sentenza pronunciata contro i Greci il 16 luglio del 1054.
  Vedi Collectio concil. _t. XI, p. 1457.-1460_.

Se la prima di queste guerre religiose richiamò a se un istante la
nostra attenzione, soltanto perchè Innocenzo III l'adoperò come
stromento per istabilire la sua monarchia temporale, e quel potere de'
papi che doveva alternativamente appoggiare le repubbliche ed
opprimerle; la seconda appartiene assai più, e direi quasi
essenzialmente alla nostra storia, poichè l'acquisto di Costantinopoli
non fu meno l'opera di Venezia, che degli altri Latini assieme riuniti;
e mentre questa fiera signora dell'Adriatico attaccava i Greci, Pisa li
difendeva, e finalmente le tre repubbliche marittime d'Italia ebbero
parte nella divisione dell'impero d'Oriente.

Ma questa spedizione di tanta importanza è stata già descritta da tutti
gli storici delle crociate, e da tutti quelli di Costantinopoli; e ciò
che più monta, da Gibbon[389]: e dopo che questo ammirabile scrittore ha
presentato drammaticamente, ma con tutta verità e con profonda
erudizione, il quadro di un'epoca della storia, difficile riesce, senza
dubbio, il richiamare sugli stessi avvenimenti l'attenzione del lettore.
Ciò null'ostante ho seguito l'esempio di Gibbon, attingendo, com'egli ha
fatto, agli scrittori originali, e non copiandoli: e la conquista di
Costantinopoli considerata sotto i rapporti che la legano alla storia
veneziana, si mostrerà in parte sotto un punto di veduta affatto nuovo.

  [389] _Decline and fall of the Roman Empire c. 60.-61._

Dopo la fondazione di Costantinopoli il governo di questa capitale e del
suo impero era sempre stato puramente dispotico e non monarchico,
secondo il liberale significato dato dalle moderne nazioni a questo
vocabolo. Giammai veruno spirito di libertà, o nazionale o di corpo,
aveva per un solo istante fatto ostacolo ai criminosi arbitrj del poter
reale, nè pensato forse che si potesse tener in bilico il solo
onnipotente volere del governo. Abbiamo già osservato come gl'Italiani,
dopo avere scosso un'eguale potere, avevano fatto acquisto di nobili e
generose idee; mentre ai tempi d'Innocenzo III, un governo invariabile,
sempre regolare ed apparentemente incivilito esercitava già da otto
secoli l'uniforme sua influenza sui Greci. Il despotismo degl'imperatori
di Costantinopoli, sempre intero e sempre favorito da tutte le
circostanze, è una compiuta incontrastabile prova dei naturali e
necessarj effetti del più pessimo governo.

Infatti potrebbersi impugnare gli esempj delle torbide dinastie fondate
colla forza delle armi, perchè la violenza della loro origine trae
sempre seco un'eguale violenza, che l'accompagna finchè dura; perchè i
soldati che fecero il loro monarca possono ancora disfarlo; e perchè
finalmente la sovranità confidata una volta alla forza brutale, non può
giammai impiegarsi con discernimento al comune beneficio. L'autorità di
Cesare in Roma fu tutta militare; ma Costantino trasportando la sede
dell'impero nella sua nuova città, tolse lo scettro di mano ai soldati;
il despotismo greco fu una costituzione civile; e quando la corona fu
trasferita dall'una all'altra famiglia, lo fu per gl'intrighi del
palazzo, e non col mezzo de' clamori e dell'ammutinamento delle armate.

Potrebbesi pure impugnare l'esperienza d'una nazione barbara ed
ignorante, che giammai non avesse riflettuto intorno allo scopo delle
civili società, ed il di cui capo non avesse mai pensato che il suo
interesse è legato a quello del popolo. Ma i Bizantini avevano raccolta
la sapienza di tutto l'universo, l'immensa eredità della esperienza di
tutte le antiche repubbliche, di tutte le antiche monarchie. Erano tra
le loro mani i libri di tutti i filosofi greci e romani, e quelli delle
più moderne scuole apertesi ai tempi di Adriano e degli Antonini, colle
memorie delle dinastie dell'Asia e dell'Egitto, ch'ebbero regno nelle
stesse province del loro impero. Giammai altri despoti montarono sul
trono con maggiore facilità di riunire una più grande quantità di lumi.

Nè tutte queste cognizioni pratiche andarono neglette o perdute; il
dispotismo greco, per mezzo di felici e rare circostanze, si trovò al
possesso di un bel sistema di giustizia, di un bel sistema
d'imposizioni, i quali risparmiarono ai sudditi dell'impero molte
private sofferenze. La giurisprudenza di Giustiniano è forse, fino a'
nostri giorni, la più equa e meglio ordinata legislazione. Il sistema
delle imposte stendevasi a tutti i ranghi, ad ogni genere di ricchezze,
e procurava allo stato le maggiori entrate possibili, proporzionatamente
alle somme che pagavansi dai sudditi.

Niun governo può esistere indipendente dalle circostanze esteriori o
accidentali della nazione, ed i partigiani del despotismo potrebbero
confutare le conclusioni che si deducessero contro di loro coll'esempio
dell'impero greco, se questo impero fosse stato così vasto da non
permettere alcun legame tra i suoi abitanti, ristretto in modo di non
avere bastanti forze per difendersi; se fosse stato circondato da troppo
bellicose o troppo potenti nazioni per poter loro resistere; se i
cittadini avessero affatto perduto ogni carattere militare; se fossero
stati poveri in modo di non poter pagare le imposte; finalmente se una
nazionale inimicizia gli avesse alienati dal loro proprio governo. Ma
l'impero greco, quando si divise dall'occidentale, era più vasto, più
ricco e più popolato di quel che lo sia mai stato l'impero di Carlo
Magno, ed essendo le antiche conquiste di cui era formato andate in
dimenticanza, il corpo intero della nazione parlava lo stesso idioma, e
l'abitante della Siria risguardavasi come un cittadino della Tracia. I
successi ottenuti dalle barbare nazioni che lo attaccarono non devono
illuderci intorno alle loro forze, che tutte insieme non pareggiavano la
popolazione o la ricchezza del solo impero greco; la loro arte militare,
la loro disciplina, le loro armi non erano altrimenti paragonabili a
quelle de' Romani; tra le varie orde di barbari che uscirono dalla
Tartaria, dalla Persia, o dall'Arabia per movere guerra ai Greci, non
eravi alcun popolo che possedesse quel valore fermo ed ostinato, che i
Galli ed i Germani opposero invano alle romane legioni. Non eravi alcun
popolo abbastanza istrutto delle cose politiche per sapere trattare
alleanze, e combinare contro Costantinopoli una pericolosa colleganza;
veruno che tentasse di corrompere i sudditi dell'Impero e di eccitare la
ribellione nel suo seno; veruno che coll'esempio di un prospero governo,
o per mezzo de' principj sui quali si fondasse, facesse crollare i
fondamenti dell'autorità de' Cesari. Il valore militare era, a dir vero,
quando si divise lo stato di Roma, già venuto meno per la lunga durata
del precedente despotismo; ma in sul cominciare di questo despotismo,
era ancora nel suo pieno vigore; ed anche dopo Costantino, le legioni
romane, capitanate da Giuliano, mostrarono che l'antico valore non era
spento. Finalmente il ritorno della sovrana autorità tra le mani dei
Greci, era per essi come una vittoria nazionale, che doveva attaccarli
al loro monarca. Tutto prometteva all'Impero greco una costante
prosperità, se il despotismo era mai capace di renderla stabile.

Non è qui bisogno di tener dietro alla vergognosa storia de' monarchi di
Costantinopoli ed ai deboli intrighi della loro corte, per sapere a qual
punto di avvilimento questo governo, tanto favorito dalle circostanze,
aveva ridotta la razza umana: basta osservare cosa fosse l'Impero greco
quando i crociati risolsero di conquistarlo; senza armate, senza flotte,
senza tesori, senza coraggio, senza talenti; non contava un solo
generale che avesse saputo meritarsi la stima de' soldati, quantunque
l'Impero si trovasse sempre impegnato in guerre civili e straniere. Nel
lungo corso di dieci secoli non produsse una sola opera scientifica o
letteraria che s'innalzasse al di sopra della mediocrità, sebbene siansi
sempre più o meno coltivate le lettere, e che i Greci fossero
intimamente persuasi d'essere i soli al mondo capaci di scrivere, e che
senza di loro tutti i popoli da essi chiamati barbari sarebbero
condannati a perpetua obblivione[390]. Ogni energia era talmente spenta
ch'erano perfino cessate le dispute religiose; ed i sofisti greci non si
occupavano più delle interminabili loro controversie; e dopo l'ottavo
secolo niuna nuova eresia aveva turbata la tranquillità di quella
Chiesa[391]. Un'altra prova di questo indebolimento è che i Greci
avevano rinunciato ad ogni commercio straniero, malgrado la superiorità
delle loro ricchezze, malgrado i sommi vantaggi de' loro porti e delle
loro posizioni, e malgrado l'esclusivo possesso lungo tempo conservato:
erano i repubblicani d'Italia, che stabilitisi tra di loro, ne facevano
tutto il traffico. I Greci contenti del commercio spicciolato e delle
manifatture che non richiedevano l'occupazione d'alcuna facoltà
dell'anima, e dove gli uomini potevano agire come semplici macchine,
abbandonavansi ad una profonda mollizie. I piaceri sensuali ed il riposo
erano i soli oggetti dei loro desiderj: essi ignoravano perfino
l'esistenza del punto d'onore, ed erano diventati insensibili alla
vergogna[392]. Questo carattere nazionale verrà bastantemente sviluppato
quando li vedremo alle mani coi Latini.

  [390] Niceta quando fu presa Costantinopoli non volle più scrivere
  la storia, per vendicare la sua patria offesa dai barbari, e perchè
  il loro nome non passasse alla posterità. _Nicetas Choniates in
  Murzuflum, c. 6. Edit. Venet. p. 307. a_

  [391] _Gibbon decline and fall, c. 54. ad init._

  [392] _Nicetas Chron. Constant. status. p. 309. a b_

Le cronache delle città marittime d'Italia ci somministrano poche
notizie intorno alle colonie stabilite dai loro cittadini in
Costantinopoli o in altre città dell'Oriente: queste colonie
governavansi da se medesime, nominavano i propri ufficiali senza
riceverli dalla metropoli; e qualunque si fossero la popolazione e la
ricchezza loro, non potevano ritenersi appartenenti allo stato. Quindi
gli storici nazionali diedero pochissima importanza alle guerre de'
privati veneziani e pisani nell'altra estremità dell'Europa, comechè le
conseguenze che ne derivarono siano ai nostri tempi risguardate con
sorpresa; mentre le continue guerre de' Pisani e dei Genovesi, che hanno
più che altro l'aria di pirateria, attiravano potentemente tutta
l'attenzione delle loro città.

Già da molto tempo, i Veneziani, siccome più vicini alla Grecia, avevano
ottenuti grandissimi vantaggi commerciando colla medesima; e per
compensare i beneficj di cui godevano, somministravano le loro flotte
agl'imperatori di Costantinopoli per valersene nelle guerre di mare; ma
da cinquant'anni in qua questa buona armonia erasi non poco alterata. I
Veneziani troppo fidando al proprio coraggio, non dissimulavano il loro
disprezzo per la viltà greca, e vendicavansi colle armi alla mano de'
più leggeri insulti che loro fossero fatti.

Dopo l'assedio di Corcira, nel quale i Greci ed i Veneziani avevano
combattuto assieme sotto gli stessi stendardi, Manuele Comneno fu
costretto di calmare la subita collera degli ultimi con umilianti
sommissioni[393]. Ciò era accaduto del 1152, ma nel 1169 lo stesso
imperatore, irritato senza dubbio da recenti offese, li fece tutti
imprigionare nel medesimo giorno, assicurandosi delle loro proprietà in
tutti i porti de' suoi stati. Non furono tardi i Veneziani a
vendicarsene, devastando con una flotta di cinquanta galee l'Eubea, Chio
ed altre isole, e forzando l'imperatore a domandare la pace, ed a
promettere in compenso de' beni confiscati che non poteva restituire, il
pagamento di ragguardevole somma. Una grande popolazione umiliata da un
pugno di gente non può non sentire per questi valorosi un odio eguale al
terrore che la comprese. Quantunque i Veneziani, stabiliti a
Costantinopoli ed in tutto l'Impero, avessero stretti legami di famiglia
coi Greci, e sembrassero diventati loro concittadini, il solo loro nome
li rendeva in faccia al popolo un oggetto di odio; talchè ogni
rivoluzione di corte, ogni sedizione popolare, poteva essere il segno
d'un massacro. Quando Andronico, l'anno 1183, cacciò dal trono Alessio
Comneno, figliuolo di Manuele[394], i Veneziani furono attaccati
all'impensata, saccheggiati e costretti a salvarsi colla fuga: del 1187
sotto il regno d'Isacco Angelo[395] furono nuovamente attaccati; e da
quest'epoca fino al 1201 gl'insulti del popolo e le violenti esazioni
degli ufficiali del governo moltiplicarono ogni giorno i titoli di
malcontento e l'odio reciproco delle due nazioni. I negozianti pisani
seppero approfittare delle disposizioni in cui trovavansi i Greci verso
i Veneziani, per soppiantarli nel commercio di Costantinopoli; e la loro
colonia fu in breve la più ricca perchè non si rifiutarono di venire
frequentemente alle mani coi Veneziani onde mantenersi cari al governo
greco che li ricolmava di favori[396].

  [393] _Nicetas Chron. in Manuel. Comment. l. II, c. 5. Edit. Venet.
  Scrip. Byzant. p. 45. — Joan. Cinnami Hist. l. VI, c. 10, p. 128. t.
  XI._

  [394] _Nicet. in Alex. Manuel. Comnen. filium c. 11. p. 138._

  [395] _Id. in Isaacium Angelum l. II, c. 10. p. 203._

  [396] _Nicetas in Alexium lib. III, cap. 8. et 9. p. 280._

Il trono di Costantinopoli era a quest'epoca occupato da un usurpatore.
Dopo i principi della casa Comnena ch'eransi fatti ammirare come
superiori assai ed ai loro predecessori ed ai loro sudditi, la Grecia
era stata da prima governata da un debole fanciullo, ultimo erede di
questa stirpe; poi da un feroce tiranno, Andronico; e dopo questi dal
debole Isacco Angelo, ch'era stato in fine balzato dal trono da suo
fratello, privato della vista e posto in carcere: ma ciò che facilmente
non accaderà giammai altrove, l'usurpatore non aveva nè maggiori talenti
ne più coraggio di quello ch'egli aveva spogliato della porpora; ed il
secondo Alessio Angelo, nelle delizie del suo palazzo, non occupavasi,
in sull'esempio di suo fratello, che de' suoi piaceri e delle assurde
predizioni degli astrologi.

Tale era, l'anno 1198, lo stato dell'Oriente quando Innocenzo III
facendo predicare la crociata da Folco di Nuelly pose in moto la maggior
parte de' baroni francesi per riconquistare il santo Sepolcro. Tebaldo,
conte di Champagne, Luigi, conte di Blois, Baldovino, conte di Fiandra,
Ugo, conte di san Paolo, Simone, conte di Monfort, e Goffredo, conte di
Perche, potevano risguardarsi come i capi dell'intrapresa[397]. Essendo
morto Tebaldo avanti che la loro armata potesse porsi in cammino, i
crociati, in un'assemblea tenuta a Soissons, nominarono loro condottiero
Bonifacio di Monferrato, fratello di quel marchese Corrado che aveva
così valorosamente difeso Tiro contro Saladino.

  [397] _Geoffroy de Villehardovin_, Della conquista di
  Costantinopoli, _in Script. Byzant. Edit. Venet. t. XX, p. 1_. —
  Doutreman, _Costantinopolis Belgica, lib. II, p. 88_, dà un catalogo
  di tutti i più illustri crociati. Rispetto agl'Italiani per altro è
  assai mancante.

Dopo ciò i crociati risolvettero l'anno 1201 di passare in Palestina o
in Egitto per la via di mare, e cercarono di fare coi Veneziani un
trattato di sussidio e d'alleanza. Enrico Dandolo allora duca, o doge di
Venezia, offrì ai loro ambasciatori in nome della repubblica di fornire
tanti bastimenti da trasporto, chiamati _usceri_ o _palandre_, quanti
bastassero per quattro mila cinquecento cavalli, e nove mila scudieri;
vascelli per quattro mila cinquecento cavalieri, e venti mila uomini
d'infanteria; le provvigioni per tutte queste truppe per nove mesi, e
cinquanta galee armate per iscortarli su quelle coste in cui il servizio
di Dio e della cristianità li chiamerebbe[398]. Domandavano in compenso,
che i crociati avanti d'imbarcarsi pagassero ottantacinque mila marche
d'argento e dividessero coi Veneziani a parti eguali tutte le conquiste
che farebbero.

  [398] _Villehard. c. 13 e 14, p. 4. — Andreæ Danduli Chron. Venet.
  l. X, c. 3, p. 28. Scrip. Rer. It. t. XII, p. 320. — Ibid. in
  instrumentum Conventionis p. 323._

Ma prima che queste condizioni, accettate dai crociati, potessero
risguardarsi come convenute, era necessario d'avere l'assenso, prima di
sei savj e della quarantia, consigli fin a que' tempi stabiliti in
Venezia per temperare l'autorità dei dogi; poi del popolo medesimo che
non aveva per anco rinunciato ad ogni ingerenza governativa. Polche
Dandolo ebbe il parere de' suoi consiglieri, e preparati gli animi del
popolo, riunendo per sezioni, prima duecento, poi fino mila cittadini,
adunò l'assemblea generale composta di due mila e più persone nella
chiesa di san Marco, e sulla vicina piazza. Colà dovevano essere
introdotti sei deputati della più alta nobiltà francese che venivano ad
umiliarsi innanzi ad un popolo di mercanti per implorarne l'assistenza.
Uno di loro, Goffredo di Villehardovin, maresciallo di Champagne, lasciò
scritta in vecchio francese una relazione di quest'ambasceria e di tutta
la spedizione; eccone il racconto[399]:

  [399] Non è questo il testo medesimo di Villehardovin, e nemmeno può
  dirsi una traduzione; devo dunque render conto delle fatte
  mutazioni. Villehardovin terminò la sua storia avanti il 1213. Per
  la maggior parte de' Francesi il linguaggio di quel tempo non è più
  intelligibile; non pertanto non sarebbe stato prezzo dell'opera il
  citarlo se non ne conservavo il gusto originale, ed il suo
  andamento. Credetti di poter farlo intendere senza mutarlo, e
  sostituendo la moderna all'antica ortografia, le presenti desinenze
  e conjugazioni alle sue, che avvicinano egualmente l'italiano ed il
  gallese; conservando per altro tutti i medesimi vocaboli, a meno di
  pochi affatto inintelligibili, e lo stesso ordine nelle frasi.

«Il doge, poi ch'ebbe riuniti i suoi concittadini, disse loro, che
ascoltassero la messa dello Spirito Santo, e pregassero Dio a
consigliarli sull'inchiesta loro fatta dai messaggieri; e ciò fecero
assai di buon grado. Finita la messa, il doge invitò i messaggieri
affinchè pregassero il popolo umilmente ad approvare questa convenzione.
Vennero i messaggieri alla chiesa, e furono curiosamente osservati assai
da molta gente che prima non gli avevano così veduti. Goffredo di
Villehardovin prese a parlare, com'era concertato ed assentito dagli
altri messaggieri, e disse: Signori, i più alti e potenti baroni di
Francia ne spedirono a voi; essi vi chiedono mercè: abbiate compassione
di Gerusalemme caduta in servitù de' Turchi; e vogliate in onore di Dio
accompagnarli, e vendicare la vergogna di Gesù Cristo. Essi fecero
scelta di voi, perchè sanno che verun altro popolo marittimo è potente
come voi ed il vostro popolo: c'imposero di gettarci ai vostri piedi, e
di non rialzarci che allorquando avrete determinato d'avere pietà di
Terra santa oltre mare. — Intanto i sei messaggieri inginocchiavansi ai
loro piedi piangendo; ed il doge e tutti gli altri gridarono ad una
voce, stendendoci le mani: noi l'approviamo, noi l'approviamo[400].

  [400] _Villehard. c. 16-17, p. 5._

»Nel susseguente anno i crociati ottennero da Innocenzo III
l'approvazione di questa convenzione fatta coi Veneziani[401]; ma mentre
la repubblica soddisfece dal canto suo scrupolosamente agli obblighi
suoi, molti de' crociati vi mancarono vergognosamente. I sudditi del
conte di Fiandra, invece di seguirlo, presero la strada del mare, e,
passando in Siria colle loro proprie navi, non si unirono più all'armata
crociata; il vescovo d'Autun, Guiche conte di Forest, ed altri molti
andarono a Marsiglia per procurarsi il passaggio sopra vascelli
mercantili[402]; di modo che i crociati, che incominciarono ad arrivare
a Venezia dopo la Pentecoste, ed ai quali fu ceduta l'isola di san
Nicola di Lido, non arrivarono al numero che si era supposto, e quando
si venne a riscuotere da cadauno di loro la capitazione convenuta, cioè
due marche per uomo, e quattro per ogni cavallo[403], si fu ancora assai
lontani dal compire le ottanta mila marche convenute, tanto più che
molti dicevano di non poter pagare il loro passaggio, sicchè i loro
baroni ricevevano di costoro quello che potevano averne. I conti di
Fiandra, di Blois, di san Paolo, il marchese Bonifacio, ed i loro amici
vollero sagrificare quanto avevano, e mandarono al doge tutto il loro
vasellame; ma malgrado questo generoso sagrificio mancavano tuttavia
trentaquattro mila marche al compimento del pattuito prezzo[404].

  [401] _Vita Innocentii III, c. 84, apud Script. Rer. Ital t. III, p.
  526._

  [402] _Villehard. § 25-26, p. 9._ — _Rhamnusius de Bello Costante l.
  I, p. 27._

[403]

    I Veneziani avevano domandato per 4500 cavalli,
      4 marchi                                         lir. 18,000
    Per i loro cavalieri, 2 marchi                      »    9,000
    Per due scudieri per cavallo, nove mila scudieri,
      2 marchi                                          »   18,000
    Per venti mila pedoni, 2 marchi                     »   40,000
                                                        ——————————
                                                 Totale N.  85,000

Perchè i Veneziani fecero sempre le loro monete con argento purissimo,
valuto il marco cinquanta lire, e la totale somma lir. 4,250,000 lire
francesi, lo che è ben lontano dal formare un prezzo esorbitante.

  [404] _Villehard. § 30._

»Allora il duca parlò ai suoi popoli, e disse loro: Signori, queste
genti non possono pagarci: quanto hanno fin qui pagato, noi l'abbiamo
tutto guadagnato in forza della convenzioni cui essi non sono in istato
di soddisfare; ma il nostro diritto rigorosamente voluto non sarebbe di
loro aggradimento, e noi ed il nostro paese ne saremmo biasimati assai.
E bene invitiamoli dunque ad un nuovo accordo. Il re d'Ungheria si tiene
a torto Zara in Schiavonia, che è una delle più forti città del mondo, e
che, per quanto noi faremo, non potremo mai riavere senza l'ajuto di
questa gente. Ricerchiamoli di andare a conquistarla per noi, e noi
faremo loro rilascio delle 34,000 marche di cui ci vanno debitori,
finchè Dio permetta a noi ed a loro di guadagnarle insieme. L'accordo
venne proposto in questi termini; e fu impugnato assai da coloro che
desideravano che l'armata si disperdesse: ma infine l'accordo fu fatto
ed approvato.

»S'adunarono allora, in un giorno di domenica, nella chiesa di san Marco
tutto il popolo della città e la maggior parte de' baroni e dei
pellegrini. Avanti che incominciasse la messa solenne, il duca di
Venezia, che avea nome Andrea Dandolo, montò in pulpito, e parlò al
popolo in questo modo: Signori, voi siete associati alla miglior gente
del mondo, e pel più importante affare che altri uomini intraprendessero
mai: io sono ormai vecchio e debole, ed avrei bisogno di riposo, essendo
mal disposto di corpo; ma vedo che niuno saprebbe governarvi e condurre
al par di me, che sono il vostro doge. Se volete acconsentire ch'io
prenda l'insegna della croce per custodirvi e dirigervi, e che mio
figlio faccia le mie veci, e custodisca la terra, anderò a vivere ed a
morire con voi e coi pellegrini.

»E quand'ebbero ciò udito; Sì, gridarono tutti ad una sola voce, noi vi
preghiamo da parte di Dio che la prendiate, e che venghiate con noi.

»Ebbero allora grande compassione il popolo della terra, ed i
pellegrini, e furono versate molte lagrime perchè quest'uomo prode aveva
sì grande motivo di rimanersene, perchè vecchio, perchè, quantunque
avesse begli occhi in testa, non perciò vedeva egli punto, avendo
perduta la vista per una ferita avuta nel capo[405]. Mostrava egli gran
cuore. Ah quanto male gli rassomigliavano coloro ch'eransi diretti ad
altri porti per sottrarsi al pericolo. Così scese egli dal pulpito, ed
andò avanti all'altare, e postosi in ginocchio, versando molte lagrime,
gli fu cucita la croce sul suo grande cappello di cotone, perchè voleva
che tutti la vedessero. Ed i Veneziani cominciarono a crociarsi questo
giorno in molta abbondanza»[406].

  [405] Lo storico Andrea Dandolo, uno de' suoi discendenti, dice
  soltanto che aveva la vista debole, _et visu debilis. Lib. X, c. 3,
  p. XXX, p. 322_. Ducange nelle sue _Osservazioni sopra
  Villehardovin_, N.º 204, assicura che a tal epoca aveva
  novantaquattro anni, e novantasette quando morì l'anno 1205. Nè
  Villehardovin, nè Andrea Dandolo non indicano, parlando della sua
  vecchiaja, una così straordinaria età.

  [406] _Villehard. § 32-33._ È questo il vocabolo inglese _plenty_,
  abbondanza, che trovasi frequentemente in Villehardovin; e ne
  abbiamo fatto _pluralità_.

In questo frattempo il figlio del detronizzato imperatore Isacco, che
chiamavasi Alessio, avendo avuto modo di fuggire da Costantinopoli sopra
una nave pisana, e di salvarsi in Italia, mandò i suoi deputati a
Venezia per sollecitare i crociati ad ajutarlo a risalire sul trono de'
suoi padri. Questo giovane principe aveva già visitata la corte di Roma,
ed aveva cercato il favore del papa, ma questi era stato prevenuto
dall'imperatore Alessio suo zio, il quale aveva spediti ad Innocenzo III
ambasciatori di alto rango con grandiosi regali, e pregatolo a mandare
alcuni legati a visitare il suo Impero[407]. Era stato intavolato un
trattato tra Alessio, il patriarca di Costantinopoli e Roma, ed il papa
aveva potuto lusingarsi di ricondurre i Greci all'ubbidienza, cui questi
avevano già ridotti i Latini. Perciò quando da una parte il giovane
Alessio gli chiese protezione, e dall'altra il vecchio Alessio gli
scrisse nuovamente per pregarlo a non dare ajuto al fuggiasco che non
era assistito da verun titolo ereditario, perchè non era porfirogeneta,
ossia nato in tempo che suo padre era sul trono, e perchè l'impero era
elettivo: Innocenzo rispose in modo di richiamare a sè medesimo la
decisione di questo affare, credendo di potere con una sentenza disporre
a modo suo dell'Impero d'Oriente: quindi ordinò che i crociati non
prendessero veruna parte nelle contese de' Cristiani, ed incaricò il
cardinale di san Marcello di assumere in nome del sacro Collegio le
informazioni relative a questa nuova causa[408]. Il giovane Alessio che
non tardò ad avvedersi che poco poteva ripromettersi dalla mediazione
del papa, passò in Germania presso il re Filippo di Svevia, competitore
di Ottone IV, il quale avendo sposata sua sorella, cercò con tutti i
mezzi di raccomandarlo caldamente ai crociati[409].

  [407] _Gesta Innocentii III, c. 61. p. 507 e seguenti._

  [408] _Ib._

  [409] La moglie di Filippo era quella principessa greca ch'era stata
  promessa a Guglielmo, figlio di Tancredi, e caduta in mano di Enrico
  IV nella presa di Palermo. _Conrad. Ab. Usperg. Ch. p. 304._

Intanto la flotta, poi ch'ebbe caricate tutte le macchine di guerra
necessarie ad un assedio, fece vela da Venezia il giorno 8 di ottobre, e
giunse in faccia a Zara il 10 novembre, vigilia di san Martino[410].
Quantunque assai forte questa città si lasciò sgomentare dalla potenza
dell'armata che veniva per intraprenderne l'assedio, e dopo cinque
giorni i cittadini si arresero al doge salve le vite, ed il saccheggio
della città fu diviso tra i confederati. Ma la stagione era ormai troppo
avanzata, perchè una flotta di crociati potesse giugnere sicura in
Egitto, e prese a Zara i quartieri d'inverno.

  [410] _Villehardovin c. 39-44, p, 13-14. — Dandolus in Chron. lib.
  X, c. 3, p. XXVII, p. 321._ Stando a Ramnusio questa flotta era
  composta di 420 vascelli, cioè 50 galee armate, 240 navi da
  trasporto a vela quadrata, e cariche di truppe, 70 vascelli carichi
  di viveri e di macchine, e 120 uscieri pei cavalli. _De Bello Const.
  l. I, p. 33._

Durante tale dimora i baroni francesi ricevettero lettere del pontefice,
colle quali loro rinfacciava aspramente la presa d'una città cristiana,
ed il profano uso che avevano fatto delle loro armi, mentre che in forza
de' voti emessi omai non appartenevano che a Gesù Cristo: gli avvertiva
poi, che se non si pentivano e non si affrettavano di restituire al re
d'Ungheria tutto quanto avevano tolto ai suoi sudditi, sarebbero colpiti
dalla scomunica già sospesa sul loro capo[411].

  [411] _Vita Innocentii III, c. 87, p. 529._

I Veneziani avevano fino da que' tempi adottata, rispetto alla santa
sede, quella ferma ma rispettosa politica, colla quale seppero
conservare verso la medesima una indipendenza che non conobbero le altre
potenze cattoliche. Anche prima quando il cardinale Marcello erasi
portato a Venezia per prendere, col titolo di legato, il comando della
flotta crociata, gli avevano fatto sapere che, se era venuto come
predicatore cristiano, si farebbero gloria di riceverlo; ma che, se
intendeva di esercitare sopra di loro un'autorità temporale, non
potevano accoglierlo sulla flotta[412]. Dopo aver avuta quest'ambasciata
il cardinale erasene tornato a Roma. Le nuove minacce del papa non gli
smossero punto, e piuttosto che sottomettersi, lasciaronsi scomunicare.
I baroni francesi erano più spaventati per le minacce del papa; onde
spedirongli quattro deputati per ottenere d'essere riconciliati colla
Chiesa[413]. Ma mentre cercavano di calmarlo colla loro sommissione,
impegnavansi, contro l'espresso suo divieto, in un trattato col giovane
Alessio, che per più lungo tempo ancora doveva tener lontane le loro
armi dalla guerra sacra.

  [412] _Ib._

  [413] _Villehardovin c. 53-54, p. 17._

L'anno 1203 il principe greco erasi portato a Zara presso i crociati;
gli aveva commossi col racconto delle proprie sventure e di quelle di
suo padre, e più ancora colle offerte onde seppe abbellire la sua
narrazione. Prometteva di ridurre l'Impero di Costantinopoli
all'ubbidienza della Chiesa romana, di dividere tra crociati duecento
venti mila marche d'argento, di mandare a sue spese in Egitto dieci mila
uomini[414] (che _Villehardovin_ chiama sempre terra di Babilonia[415])
quando egli non possa recarvisi personalmente, e di mantenere
perpetuamente cinquecento cavalieri alla custodia di Terra santa.

  [414] _Villehard. c. 46, p. 15. — Dandol. l. X, c. 3, p. 28._

  [415] Dal nome di Babilonia d'Egitto, una delle tre città che
  formano riunite il Cairo. Veggasi Guglielmo di Tiro _l. XIX, c. 13,
  p. 963_, che sempre, da buon critico, e da buon geografo, esamina i
  nomi de' paesi.

I Francesi erano già ben disposti a favore del giovane principe, che
invocava, presso di loro, l'alleanza di sua famiglia con quella di Luigi
il giovane[416]. I Veneziani d'altra parte abbracciavano con piacere
un'occasione di vendicarsi dei torti ricevuti dai Greci, e di far loro
provare il proprio potere: e gli uni e gli altri poi parvero sopra tutto
mossi dalla considerazione che per conquistare la Siria era prima
necessario d'essere padroni delle coste di uno dei due paesi limitrofi,
l'Egitto, o l'Asia minore[417]. I più principali signori dell'armata, il
marchese Bonifacio di Montferrat, il conte Baldovino di Fiandra, il
conte Luigi di Blois, ed il conte Ugo di san Paolo, accettarono,
d'accordo col doge, le condizioni loro offerte dal giovane Alessio; ma i
cardinali legati del papa abbandonarono i crociati, e passarono in
Cipro, poi nella Siria, piuttosto che prendere parte alla spedizione
contro la Grecia[418]; ed un gran numero di baroni, tra i quali il conte
di Monforte, dopo aver dichiarato di non volere imbarazzarsi in
un'intrapresa che offendeva il papa, si separarono dall'armata.

  [416] Agnese figlia di Luigi VII aveva sposato Alessio Comneno, ed
  in seguito Andronico imperatore di Costantinopoli: non era questi un
  parentado assai vicino.

  [417] _Villehardovin c. 47._

  [418] _Epist. Inn. III l. VI, epist 47. — Oderic. Rayn. 1203, § 9,
  p. 87._

Già da lungo tempo sapevansi a Costantinopoli i maneggi del giovane
Alessio, ed inoltre la risoluzione dei crociati, onde ebbero tempo di
prepararsi a respingere il loro attacco. Di tutti i paesi d'Europa la
Grecia è quella che invita più fortemente i suoi abitanti alla
navigazione. In ogni tempo le numerose sue isole gli somministrarono
esperti marinaj; ed anco a quest'epoca Costantinopoli divideva con
Venezia l'impero del mare: era dunque a supporsi che una flotta greca
venisse ad aspettare i crociati alla bocca dell'Adriatico, per
impedirgli di avvicinarsi alle coste dell'Impero. Ma l'imperatore aveva
affidato il comando delle sue flotte a Michele Strufuos suo cognato,
uomo bassamente avido, che aveva venduto perfino le ancore, i cordaggi e
le vele dell'arsenale della marina; talchè nell'istante della guerra non
trovaronsi sui cantieri vascelli lunghi proprj alla guerra[419]. Per
farne di nuovi, le vaste foreste delle due coste della Propontide
avrebbero somministrato il legname necessario; ma gli eunuchi del
palazzo avevano prese in custodia quelle foreste, e non permettevano che
si atterrassero le piante dei boschi consacrati alla caccia ed ai
piaceri del loro signore[420].

  [419] Si assicura che i Greci avevano avuto poco prima sui cantieri
  di Costantinopoli 1,600 vascelli di guerra. _Constant. Belg. l. II,
  c. 9, p. 145._

  [420] _Nicetas Choniates in Alexio l. III, c. 9, p. 286._

Si sarebbero pure potuti prendere altri mezzi di difesa; perciocchè ai
crociati, ritardati dalla quantità delle palandre, vascelli necessarj al
trasporto d'un'intera armata, era impossibile di giugnere a
Costantinopoli senza dar fondo più volte per procurarsi i viveri e
rifare i cavalli dagl'incomodi del mare. Se le coste dell'Impero fossero
state preparate ad una vigorosa resistenza; se le munizioni ed i viveri
fossero stati trasportati nell'interno, l'attacco sarebbesi reso così
difficile, che il grosso partito de' crociati contrarj a
quest'intrapresa sarebbero in più occasioni stati ascoltati ed avrebbero
fatto rivolgere la flotta verso Terra santa, primo oggetto della loro
spedizione. Ma i crociati approdarono ad Epidamno o Durazzo, ove invece
d'incontrare opposizione, vi furono amichevolmente accolti dagli
abitanti, che giurarono fedeltà al giovane Alessio[421]; approdarono di
nuovo a Corcira, e vi riposarono tre settimane, non travagliati da altra
opposizione che da quella di molti crociati che volevano ad ogni modo
prendere la strada di Terra santa, ma che furono alla fine contenuti.
Ebbero eguale accoglimento a Capo Maleo, a Negroponte, ad Andros, ad
Abido, ed ovunque presero terra: l'imperatore non aveva preparata veruna
resistenza; ed il popolo mancava di energia per supplire all'inerzia del
sovrano.

  [421] _Villehard. c. 56 e seguenti._

Finalmente i Latini, sempre secondati da un vento favorevole, arrivarono
il giorno 23 giugno, vigilia di san Giovanni, a tre leghe da
Costantinopoli in faccia ad un'abbazia di santo Stefano, di dove la
città mostravasi tutta intera al loro sguardo[422]. «La gente de'
navigli, galee ed usceri presero porto, ed ancorarono i loro vascelli.
Ora potete ben credere che molti, che mai non lo avevano veduto,
guardavano Costantinopoli, e non potevano credere trovarsi più ricca
città in tutto il mondo. Quando videro le alte sue mura, e le ricche
torri che tutta la chiudevano all'intorno, e que' ricchi palazzi e
quelle alte chiese, delle quali ve n'erano tante che niuno avrebbelo
creduto se non le avesse vedute cogli occhi proprj in tutta la lunghezza
e larghezza della città, che di tutte le altre era sovrana; sappiate che
non eravi persona tanto ardita cui non battesse il cuore; nè ciò deve
recare maraviglia, giacchè non fu mai fatta sì grande impresa....
Ciascuno osservava le proprie armi, pensando che ogni soldato ne avrebbe
in breve avuto bisogno.»

  [422] _Villehard. c. 66, p. 22._

Colà dove il Bosforo di Tracia sbocca nella Propontide o mar di Marmora,
apresi un golfo profondo e s'allarga dalle coste d'Europa: i Greci danno
a questo golfo il nome di Chrysocheras, o pure di corno di Bisanzo. Tra
questo golfo e la Propontide è posto Costantinopoli sopra un triangolo
bagnato da due bande dal mare. Il muro settentrionale della città
stendesi lungo la riva del mare di Marmora sopra uno spazio di tre mila
tese; un altro muro presso a poco della stessa lunghezza va a nord-ovest
lungo il golfo Chrysocheras che tien luogo di porto: là dove si
riuniscono questi due muri e dove il triangolo si termina in punta
all'imboccatura del Bosforo di Tracia, è oggi posto il serraglio; ed
all'altra estremità del muro settentrionale verso il fondo del porto era
fabbricato il palazzo di _Blacherna_ degl'imperatori greci. Un doppio
muro che scende dal nord a mezzogiorno, chiude la città all'ovest, e
taglia la sola comunicazione che ha colla terra. Dall'altra banda del
golfo trovansi al nord della città e sempre sulle coste d'Europa i
sobborghi di Pera e di Galata: e sotto di questo il golfo non ha più di
cento tese di larghezza; nel qual luogo appunto è chiuso con una catena
onde assicurare i vascelli che trovansi nell'interno del porto. Di
faccia alla punta di Costantinopoli sull'altra costa del Bosforo
appartenente all'Asia trovasi la piccola città di Crisopoli, oggi
chiamata Scutari; più a mezzogiorno, e sulla stessa Propontide quella di
Calcedonia[423].

  [423] Veggansi le piante ed i disegni di Costantinopoli, della
  Propontide e del Bosforo in _Banduri Imperium Orientale, t. II, p.
  I_.

I crociati sbarcarono prima a Calcedonia; poi passarono a Scutari, e si
riposarono nove giorni nei giardini e palazzi dell'imperatore[424].
Intanto i Greci spiegarono la loro cavalleria sulla spiaggia di Pera in
faccia a quella dei Latini. I crociati, poi ch'ebbero rinfrescate le
loro truppe e cavalli, unironsi a parlamento a cavallo in mezzo al campo
per risolvere intorno al modo che terrebbero nell'attacco: divisero la
loro piccola armata in sei corpi, o battaglie, e quando i vescovi ebbero
esortati i soldati a confessarsi ed a fare testamento, perchè non
potevano sapere quando Iddio disporrebbe delle loro vite, i cavalieri
salirono sulle loro palandre a canto ai loro cavalli sellati e disposti
alla battaglia. Le galee rimorchiarono le palandre fino alla spiaggia
d'Europa, e quando furono vicine alla riva, i cavalieri lanciaronsi in
mare col caschetto in testa e la sciabla in mano, stando nell'acqua fino
alla cintura; e loro tennero dietro i loro sergenti ed arcieri. Tostochè
i Greci armati ed a cavallo sulla riva se li videro vicini[425], benchè
di numero superiori assai, fuggirono a briglia sciolta, senza abbassare
la lancia, di modo che i Latini non incontrarono più difficoltà per fare
scendere a terra i loro cavalli.

  [424] _Villehard. c. 69-81, p. 22 e seg._

  [425] _Villehard. c. 82, p. 24._

La testa della catena che chiudeva il porto, era difesa dalla torre di
Galata[426], di cui i Latini intrapresero l'assedio. Nella vegnente
notte i Greci fecero una sortita per sorprendere gli assedianti; ma
coll'ordinaria loro viltà si posero in fuga tostochè i Latini dieder
mano alle armi: alcuni s'annegarono volendo gettarsi nelle loro barche,
altri rincularono con tanto precipizio nella torre di Galata, che non si
avvisarono di chiudere le porte, e la fortezza fu presa da coloro che
gl'inseguivano. La catena venne rotta all'istante, e la flotta veneziana
entrò trionfante in porto. Alcune delle galee greche che vi si erano
poste in sicuro furono prese; altre si mandarono a picco sulla riva
opposta a Costantinopoli, ove i marinai le abbandonarono e si diedero
alla fuga.

  [426] _Nicetas Choniates in Alexium l. III, c. 10, p. 287._

Alla estremità del porto due fiumi, il Barbisse ed il Cidaro, riuniti in
un solo letto, passano sotto un ponte detto Pietra forata, che poteva
essere lungo tempo difeso; i Greci lo tagliarono, non lasciando
sull'opposta riva alcuna guardia. Per accostarsi dalla banda di terra
alle mura delle città, l'armata doveva fare un giro del golfo, ed
attraversare il ponte. S'impiegò un giorno ed una notte a rifare il
ponte, e grandissima fu la maraviglia de' crociati nel vedere che niuno
veniva ad impedirne il lavoro; ben sapendo che ad ogni crociato la città
poteva opporre venti uomini abili alle armi[427]. Rifatto il ponte, i
crociati vennero ad accamparsi in faccia al palazzo di Blancherna.
Strana maniera di formare un assedio, non potendo guardare che una sola
porta della città.

  [427] Villehardovin dice duecento, ciò che deve credersi assai
  esagerato. Dice altrove che v'erano quattrocento mila uomini in
  Costantinopoli, d'altra parte l'armata crociata sembra che fosse
  ridotta alla metà del suo primitivo numero, e per l'assenza di
  coloro che mai non giunsero a Venezia, e non pagarono il prezzo
  convenuto, e per la diserzione di molti. Può dunque ritenersi di
  sedici mila uomini, cioè dieci mila fanti, due mila cavalli e
  quattro mila sergenti, senza contare i Veneziani. Tre mesi dopo
  Villehardovin fa montare i crociati a 200,000 uomini compresi i
  Veneziani, _c. 153. p. 42_.

I Veneziani desideravano che s'attaccasse la città dalla banda del mare
per mezzo di scale e ponti levatoj posti sui loro vascelli: ma i
Francesi rappresentarono che «non saprebbero così bene adoperarsi in
mare, come in terra quando avevano i loro cavalli e le loro armi[428]» e
fu convenuto che si attaccherebbe la città dalla banda di terra e di
mare, combattendo le due nazioni sopra l'elemento a ciascuno più
confacente per mostrarvi il proprio valore. Frattanto la posizione de'
Francesi era assai pericolosa: non passava notte che non fossero cinque
o sei volte obbligati di prendere le armi; e quantunque respingessero
ogni volta con vantaggio gli attacchi dei Greci, non osavano
allontanarsi quattro tiri d'arco dal campo per procurarsi le vittovaglie
che incominciavano a mancare; avevano bensì farine e carni salate per
tre settimane, ma non avevano di carni fresche che quelle de' cavalli
che ammazzavano.

  [428] _Villehard. c. 84, p. 26._

In così difficile posizione ogni ritardo diventava fatale. I preparativi
per l'attacco trovaronsi ultimati il decimo giorno, e fu tosto risoluto
l'assalto[429]. I Francesi avevano sei battaglioni: a due affidarono la
custodia del campo, e condussero gli altri quattro all'assalto. Da una
parte cercarono di rompere la muraglia percuotendola col montone,
dall'altra applicarono due scale ad un barbacane o ridotto avanzato
posto presso al mare, col mezzo delle quali salirono sulle mura circa
quindici cavalieri nel luogo detto la scala imperiale; ma furono colà
incontrati dai Varangiani armati di scuri, che Villehardovin dice
Inglesi e Danesi, e dagli ausiliarj Pisani, che la loro rivalità coi
Veneziani teneva attaccati all'imperatore[430], e furono respinti con
perdita. In questo frattempo il doge di Venezia aveva disposta la sua
flotta sopra una sola linea lungo le mura, da cui scacciava i difensori
con frequenti scariche delle sue petriere e colle frecce degli arcieri,
che posti sui ponti in mezzo all'alberatura dominavano le mura. Pure
«sappiate che le galee non osavano prender terra. Ora potete udire le
strane prodezze. Il duca di Venezia vecchio, gottoso, cieco, venne tutto
armato sulla prora della sua galea, facendo portare innanzi a lui il
gonfalone di san Marco, e gridava ai suoi di porlo a terra, o ch'egli
farebbe giustizia dei loro corpi. Allora fecero che la galea prendesse
terra, e saltando fuori, portano innanzi a lui il gonfalone di san Marco
verso la città.» Tutti i Veneziani vedendo la manovra della galea del
doge, slanciansi dietro a lui; piantano sulle mura il gonfalone di san
Marco, e venticinque torri cadono in loro potere.

  [429] Il 17 luglio 1203. _Nicet. in Alex. l. III, p. 228._

  [430] Εἰ καί προς τῶν ἐπικȣρων Ρωμαίοις Πίσσάτων, καί των
  πελεκύρων Βαρβάρων γεοναιότερον ἀπεκρούθησαν. _Nicet. Choniates
  ann. l. III, p. 288._

La città sembrava omai presa, ed il doge aveva già mandato ad avvisare
l'armata francese ch'era padrone di un gran numero di torri da cui non
poteva essere sloggiato. Ma quando tentò d'avanzarsi nel soggetto
quartiere, un vasto incendio che i Latini attribuiscono ai Greci, i
Greci ai Latini, lo fermò, obbligandolo a rinchiudersi in quella parte
delle fortificazioni di cui erasi prima impadronito. Intanto
l'imperatore Alessio spinto dai rimproveri del popolo che lo accusava di
avere aspettato il nemico presso le mura, fece sortire da tre porte le
sue truppe ad un miglio e mezzo da quella di Blancherna; e s'avanzò alla
loro testa contro l'armata francese, con intenzione d'avvilupparla. I
Francesi disposero i sei battaglioni innanzi alle fortificazioni del
loro campo; i sergenti ed i scudieri a piedi si posero dietro la groppa
de' cavalli, gli arcieri e frombolieri in sul davanti. Eravi un
battaglione composto di più di duecento cavalieri, che avendo perduto il
loro cavallo erano forzati di combattere a piedi. L'armata francese era
collocata in maniera che non poteva attaccarsi che di fronte; ed ebbe
l'avvedutezza di non moversi, giacchè avanzandosi nel piano, sarebbe
stata avviluppata dalla infinita gente contro cui doveva battersi.
Avevano i Greci per lo meno sessanta battaglioni, ognuno de' quali era
più numeroso di quelli dei Francesi, i quali avanzaronsi lentamente in
ben disposta ordinanza fino a tiro di freccia. Quando il doge Dandolo fu
avvertito che i suoi alleati erano impegnati in così disuguale
battaglia[431], ordinò alla sua gente di ritirarsi e di abbandonare le
torri che avevano prese, dichiarando di voler vivere o morire coi
crociati. Fece dunque avvicinare le sue galee all'armata, e scese egli
stesso il primo alla testa di tutti i Veneziani non necessari al
servigio de' vascelli. Malgrado questo rinforzo, se Alessio avesse avuto
il coraggio di attaccare i Latini, o avesse permesso di farlo a Lascari
suo genero che gliene faceva istanza, probabilmente gli avrebbe
oppressi[432]; ma tosto che gli arcieri ebbero scaramucciato un poco di
tempo, Alessio fece suonare la ritirata, e tornò verso la città senza
battersi, con grandissima maraviglia de' Latini. «E sappiate che Dio non
liberò mai da maggior pericolo niuno, come in questo giorno l'armata de'
crociati; e sappiate che non vi fu alcuno tanto ardito che non ne
risentisse estrema gioja.»

  [431] _Villehard. 93, p. 29._

  [432] _Nicetas Choniates in Alexium l. III., p. 289._

La notte del giorno medesimo in cui Alessio aveva mostrata la sua
potenza e la sua viltà, risolse di fuggire. Di che datane parte ad
alcuni de' suoi più fedeli, e facendo portare sopra un vascello una
ragguardevole somma in oro, le pietre preziose, le perle e gli ornamenti
della corona, vi si recò egli stesso con sua figlia Irene, e nella prima
vigilia della notte si fece trasportare a Debeltos[433]. E per tal modo
questo principe perdette per viltà se stesso e la patria. La Grecia
aveva avuto altri tiranni, a petto ai quali Alessio era un buon re.
Niceta terminando la storia del suo regno gli accorda ancora qualche
elogio, facendone il paralello coi suoi predecessori. «Grandi erano,
egli dice, la sua dolcezza e la sua clemenza; egli non faceva cavar gli
occhi, non mutilare le membra, nè compiacevasi della carnificina degli
uomini, e durante il suo regno nessuna matrona vestì per sua colpa
l'abito di lutto.»

  [433] _Nicetas Choniates in Alexium l. III, p. 289._

Tosto che seppesi in palazzo la fuga dell'imperatore, l'eunuco
Costantino, prefetto del tesoro, riunì i Varangiani e gli ausiliari per
impegnarli a salutare imperatore Isacco suo fratello che si trasse
allora di prigione per rimetterlo sul trono[434]. Nella mattina vegnente
Alessio ed i crociati ricevettero gli ambasciatori del nuovo imperatore,
che invitava il giovane principe a tornare in Costantinopoli,
manifestandogli la rivoluzione accaduta in favore di suo padre. A tale
notizia riunironsi il doge di Venezia ed i baroni, e prima di lasciar
partire il loro protetto, spedirono quattro messaggieri, uno de' quali
fu il nostro storico Villehardovin, onde ottenere da Isacco la conferma
del trattato convenuto con suo figliuolo[435].

  [434] _Nicet. in Isaacum, et Alex. Angelos § 1. p. 291._

  [435] _Villehard c. 95.-96, p. 30._

Allorchè il vecchio imperatore conobbe le promesse del figliuolo, si
pose a gridare dolorosamente essere tanto considerabili, che non sapeva
come soddisfarvi. Pure, soggiunse, i servigi che voi ci rendeste sono
ancora più grandi, e quando vi donassimo tutto il nostro impero, non
sareste meglio compensati di quello che meritiate. Dopo breve disamina
confermò con una carta autenticata col suo suggello le promesse del
giovane Alessio. Dopo ciò questo principe, accompagnato dai baroni
latini, entrò con magnifico apparato in città; e coloro che il giorno
innanzi si risguardavano come i più fieri nemici di Costantinopoli,
furono festeggiati quali suoi liberatori.

L'imperatore assegnò gli alloggi all'armata crociata ne' due sobborghi
di Pera e di Galata, pregando i Latini di voler tenere le loro truppe
dall'altro lato del golfo di[436] Chrysocheras, onde evitare che
l'animosità nazionale si risvegliasse e che qualche contesa tra i suoi
sudditi ed i suoi alleati non ponesse in pericolo la capitale o i suoi
ospiti.

  [436] _Nicetas Choniates in Isaac. et Alex. § I. pag. 292._

Infatti la collera de' Greci contro i Latini non poteva rimanere lungo
tempo nascosta; esauriti erano i tesori dell'Impero, ed il pagamento di
duecento mila marche promesse dal giovine Alessio non poteva eseguirsi
senza inudite vessazioni. Si confiscarono i beni dei partigiani
dell'ultimo imperatore; l'imperatrice Eufrosina sua moglie, ch'egli,
fuggendo, aveva dimenticata in palazzo, fu spogliata; si spogliarono le
chiese e le stesse immagini de' santi delle argenterie[437]; ma a fronte
di questi sacrilegi che rivoltavano il popolo, l'argento raccolto non
bastava per soddisfare i Latini. Pure si fece un primo pagamento, ed i
baroni diedero ad ogni soldato crociato quanto aveva sborsato pel suo
passaggio.

  [437] _Ib. p. 293._

L'insubordinazione de' Latini era un secondo motivo di odio ancora più
potente che le estorsioni cagionate dalla loro avarizia. I Pisani, per
l'intromessione del giovane Alessio, eransi riconciliati coi Veneziani,
ed i Fiamminghi, altro popolo commerciante, strinsero più intrinseca
amicizia coi cittadini delle due città. Unendo uno spirito di mercantile
gelosia ai loro pregiudizj religiosi, risolsero insieme di saccheggiare
il quartiere de' Saraceni in Costantinopoli, e discacciare questi
mercadanti infedeli da una città che volevano intieramente sottomettere
alla Chiesa. Attraversarono lo stretto senza difficoltà, non essendovi
guardia che avesse ordine d'impedirlo, ed attaccarono improvvisamente i
Saraceni, che, malgrado la sorpresa, si difesero valorosamente,
assistiti dai Greci delle vicine contrade. Per forzarli a cedere, i
Fiamminghi posero fuoco alle case più vicine[438], e ben tosto un
secondo incendio più terribile del primo divorò un terzo della città,
attraversandola da un mare all'altro. Otto giorni le fiamme si andarono
dilatando, occupando talvolta quasi un miglio di larghezza. Dopo tale
disastro tutti i Latini che da lungo tempo erano domiciliati in
Costantinopoli, ed erano più di quindici mila, abbandonarono le antiche
loro abitazioni e si salvarono presso i crociati in Galata.

  [438] _Villehard. § 107.-108, p. 33._

L'odio de' Greci attaccavasi pure al giovane Alessio, che veniva
risguardato come l'autore di tanti disastri, e caduto in sospetto di
volere, giusta le sue promesse, atterrare la religione, e ridarli sotto
il giogo del pontefice di Roma[439]. Gli rinfacciarono come una viltà la
sua domestichezza coi Latini, dicendo che questo principe macchiava
l'illustre e glorioso nome d'imperatore romano quando entrava nelle
tende dei barbari con poco seguito, quando partecipava ai loro giuochi,
alle loro crapule, e quando permetteva a mercadanti insolenti di porre
sul suo capo la berretta di lana, mentre essi a vicenda ornavansi del
suo diadema fregiato d'oro e di pietre.

  [439] _Nicetas, § 3. p. 295._

Infatti Alessio niente ometteva di tutto ciò che poteva conciliargli
l'affetto dei Latini; egli aveva da loro ottenuta la promessa di
prolungare il loro soggiorno a Costantinopoli fino al prossimo mese di
marzo, ed a tale condizione erasi obbligato di tenere l'armata
provveduta di viveri, e di pagare le spese de' vascelli veneti.
All'epoca del grande incendio di Costantinopoli, il giovane Alessio
erasi avanzato nella Tracia, accompagnato dal marchese di Monferrato e
da Enrico fratello del conte di Fiandra[440] per ricevere il giuramento
di fedeltà dalle città poste lungo la costa del Bosforo, e per
sottomettere quelle che si ostinassero a riconoscere l'autorità di suo
zio il vecchio Alessio. Quando il principe ritornò per la festa di san
Martino, dopo una campagna abbastanza gloriosa, trovò l'odio de' Greci
cresciuto a dismisura per il recente infortunio. D'altra parte i Latini
diventavano diffidenti; lagnavansi che il pagamento loro promesso non si
facesse più sollecitamente, nè volevano ammettere per iscusa del ritardo
i troppo legittimi motivi dell'incendio della città e della guerra
manifestatasi coi Valacchi e coi Bulgari. Trovarono che l'imperatore
affettava con loro un orgoglio che prima non manifestava; e prendendo
improvvisamente un partito violento, spedirono sei deputati, tre baroni
e tre veneziani per isfidarlo nel suo palazzo.

  [440] _Villehard. § 105.-106. p. 33._

Villehardovin fu anche in questa occasione del numero dei messaggieri,
ma fu Coesnon di Bethuns, che giunto alla presenza dei due imperatori,
dell'imperatrice e di tutta la corte, portò la parola; «Sire, egli
disse, siamo venuti a voi per parte dei baroni dell'armata, e per parte
del duca di Venezia: sappiate ch'essi vi rinfacciano il bene che vi
hanno fatto... Voi gli avete giurato, voi e vostro padre, di osservare
le convenzioni; essi hanno la vostra carta; ma voi non la osservaste
come avevate obbligo di fare. Noi vi abbiamo più volte domandato, e vi
domandiamo oggi in presenza di tutti i vostri baroni..... Se voi lo
fate, ne sarete allora stimato assai; se non lo fate, sappiate che d'ora
innanzi non vi tengono più nè per signore nè per amico. Al contrario
essi procacceranno in ogni maniera il loro vantaggio, e ve lo mandano
essi a dire, imperciocchè non faranno male nè a voi, nè ad altri finchè
v'abbiano sfidato; ch'essi non commisero giammai tradimento, e ne' paesi
loro non sì costuma di farlo. Voi avete ben inteso quanto v'abbiamo
detto, e voi vi consiglierete come vi piacerà[441].»

  [441] _Villehard. § 112 p. 35._

Dopo tale sfida che parve ai Greci il colmo dell'audacia, i sei
messaggieri saltarono sui loro cavalli e sortirono dalla città,
senz'essere fermati, quantunque poco mancasse che non venissero
massacrati dal popolo. Dopo ciò accaddero varie scaramucce tra le due
nazioni; i Greci tentarono invano di metter fuoco alla flotta latina,
spingendole in mezzo diciassette navi incendiarie, che furono
allontanate dal coraggio e dalla destrezza de' marinaj veneziani.

Una guerra di scaramucce facevasi non pertanto quasi contro la volontà
dei due imperatori, che temevano i Latini, e cercavano di mitigarne il
malcontento. Alcune bande di cittadini andavano a battersi coi crociati,
ma senza capo, o senza che la corte permettesse che verun personaggio di
riguardo vi prendesse parte. Il solo Alessio duca, di soprannome
Mourzoufle, che aveva sposata una figlia del vecchio Alessio Angelo, e
ch'era decorato della dignità di protovestiario, eccitava i cittadini a
vendicare il vilipeso onor greco, e mettevasi alla loro testa. In un
incontro sulle rive del Balbissè, e presso al ponte di pietra forata, di
cui voleva vietarne il passaggio ai Latini, diede prove di grandissimo
valore, e corse pericolo d'essere fatto prigioniero. Il confronto della
sua condotta con quella dei due imperatori riscaldava sempre più contro
di loro lo sdegno del popolo. Il figlio, malgrado le offese de' Latini,
mostravasi ancora ligio ai medesimi, e veniva accusato di volere
introdurre in palazzo le loro truppe. Stando ad una lettera di Baldovino
a suo padre[442], sembra infatti che fosse entrato in trattati su
quest'oggetto. Il padre non aveva presso di se che astrologi e monaci
impostori che promettevangli di fargli in breve ricuperare la vista, e
di rendere il suo regno più glorioso che quello d'ogni altro imperatore
d'Oriente. Infine la nazione si risolve a scuotere il vergognoso giogo
che l'opprime.

  [442] _Gesta Innoc. III, § 92. p. 534._ Villehardovin non pertanto
  non parla di questi trattati.

Il 25 gennajo del 1204 il senato fu costretto di radunarsi coi
principali del clero nel tempio di santa Sofia, e per ubbidire al popolo
decretò l'elezione di un nuovo imperatore; ma tutti gli uomini d'una
rispettabile famiglia rifiutavano questo pericoloso onore di mano in
mano che veniva loro presentato; il popolaccio, affollato alle porte,
domandò furibondo un nuovo monarca per rimpiazzare questa famiglia
avvilita che più non sapeva sopportare, e fece successivamente designare
coloro che vedeva più riccamente vestiti; e volevansi forzare ad
accettare colla spada alla mano, ma tutti si rifiutavano. Pure mentre in
mezzo a tanto tumulto un patrizio più degli altri ardito osava
d'accettare la corona, Mourzoufle, corrotto l'eunuco prefetto del
tesoro[443], persuase col di lui mezzo ai Varangiani che formavano la
guardia, che il marchese Bonifacio stava per introdurre i Latini nel
palazzo per rimpiazzarli, e si assicurò in tal modo del loro
attaccamento; in seguito persuase i due imperatori a nascondersi per
sottrarsi ai rivoltosi; ed avendoli egli stesso mostrato un
nascondiglio, li fece colà incatenare, e ben tosto uccidere.

  [443] _Nicetas Chon. in Isaac. et Alex. § 4.-5._

Il ritratto di Mourzoufle non fu fatto che dai suoi nemici. Egli spogliò
lo storico Niceta della carica di grande _logotheta_ per darla ad un suo
parente. Villehardovin divise le passioni dei crociati che si eressero
in vendicatori dei detronizzati imperatori; e Baldovino, nella sua
lettera ad Innocenzo III, ingrandisce i delitti dell'usurpatore per
giustificarsi d'averlo spogliato. Ad ogni modo Mourzoufle mostrò nella
sua breve e penosa amministrazione più talenti ed energia de' suoi
predecessori. Per rifare il tesoro, ch'egli aveva affatto spogliato,
fece rendere conto dell'amministrazione loro a quelli ch'erano stati
decorati della dignità di sebastocratoro, o di Cesaro, ed impiegò il
danaro che ne ritrasse a far costruire degli appoggi interni alle mura,
ed a guarnire le torri di gallerie di legno. Armato di sciabla e di
mazza, risvegliava il coraggio dei soldati, conducendoli egli stesso ai
combattimenti, e sorprendendo i nemici che si allontanavano dal campo
per foraggiare[444]. Ma quella troppo avvilita nazione non era più
capace, a fronte del suo esempio, di sentire patriottismo. Gli stessi
parenti di Mourzoufle non sapevano perdonargli il pensiero di volerli
togliere alla loro vita molle ed effeminata, i grandi lo detestavano
come un soldato rozzo e mezzo barbaro, ed il popolo che mostrava
d'amarlo, l'abbandonava vilmente nel pericolo. Baldovino, conte di
Fiandra, erasi reso padrone di Filea sul mar nero, ov'erasi recato per
procurar viveri all'armata: Mourzoufle l'attese all'uscita d'un bosco
con un corpo di truppe assai superiore; ma quando i suoi soldati videro
avvicinarsi i Latini, fuggirono, lasciando il loro generale quasi
solo[445]. In questa circostanza una miracolosa immagine della Vergine
che serviva di stendardo agl'imperatori, ed alla quale credevasi
attaccata la salute dello stato, cadde in potere de' nemici.

  [444] _Nicetas Choniat. in Murzuflum § I, 299.-300._

  [445] _Villehard. § 118, 119. p. 37._

Se dobbiamo prestar fede a Niceta, Mourzoufle cercò allora di venire a
trattati; e così consigliati dal doge, i crociati offrirono la pace a
condizione di pagare loro una ragguardevole taglia. Mourzoufle non
accettò l'offerta, e l'improvviso attacco d'un corpo di cavalleria
latina ruppe la conferenza[446].

  [446] Essi domandarono cinquanta centinaja d'oro, che dietro il
  calcolo di Gibbon sono 50,000 libbre pesanti d'oro, ossiano
  48,000,000 di franchi.

I Francesi non vollero esporsi soli ad attaccare la città dalla banda di
terra, come avevan fatto nel primo assedio, conoscendo che avevano a
fare con un nemico assai più attivo d'Alessio; accettarono quindi di
battersi sulle galere veneziane, che si disposero nuovamente per
l'assalto, collocando le scale lungo le antenne. Le due armate
consumarono il rimanente dell'inverno nel prepararsi all'attacco ed alla
difesa: finalmente il giovedì 8 aprile del 1104 i Latini fecer salire i
cavalli sopra le palandre, che divisero in sei flottiglie, assegnandone
una ad ogni battaglione francese: le galere erano poste tra i vascelli
di trasporto e le palandre, e la linea di battaglia occupava quasi un
mezzo miglio in faccia al quartiere che stendevasi dal palazzo di
Blancherna fino al monastero d'Evergete; ed era questa la parte della
città ch'era stata consumata dall'incendio. L'imperatore fece alzare il
suo padiglione in mezzo alle rovine, ed aspettò l'attacco.

Il venerdì mattina la flotta attraversò il canale, e diede principio
all'attacco: i vascelli s'avvicinarono tanto alle mura, che quelli che
stavano sui ponti potevano ferire colle loro spade le guardie delle
torri. I Latini gettaronsi sulle mura in più luoghi, ma ogni torre era
superiore di forze alla galera che l'attaccava; altronde tutte le galee
che formavano la linea, non essendo ugualmente avanzate, le pietre e i
dardi lanciati da quelle sul di dietro riuscivano egualmente dannosi ai
nemici ed agli amici, onde furono costretti a ritirarsi dopo aver
perduta assai gente.

La sera i crociati unironsi in una chiesa per deliberare sul modo di
continuare l'assedio. Molti Francesi proposero di uscire dal porto, e di
attaccare la città dalla parte di mezzogiorno per il Bosforo, o la
Propontide, perchè da questo lato Mourzoufle non aveva fiancheggiate le
mura di torri, nè assicurate con sostegni per di dentro; ma i Veneziani
che conoscevano meglio il mare, opposero che la corrente del Bosforo
batteva contro le mura a mezzogiorno, e respingeva tutti i vascelli che
vogliono avvicinarsi da quella banda[447]. Fu perciò seguito il
consiglio del doge di differire l'attacco fino al lunedì seguente; di
legare intanto i vascelli due a due, affinchè ogni torre venisse
assalita da due navi, e che si rinnovasse l'attacco nello stesso luogo.

  [447] _Villehard. § 126. p. 39._

Il lunedì mattina 12 aprile, la flotta crociata attraversò nuovamente il
canale, ed attaccò le mura. Durante il mattino i Greci resistettero con
coraggio; ma a mezzogiorno un gagliardo vento del nord spingeva i
vascelli crociati contro il muro, e ne facilitò l'abbordaggio. I
vascelli dei vescovi di Troies e di Soissons chiamati il _Paradiso_ ed
il _Pellegrino_[448], ch'erano legati assieme, abbassarono i primi le
loro scale sulla torre ch'essi combattevano; e nello stesso tempo un
Francese ed un Veneziano lanciaronsi sulle mura[449]: e ben tosto gli
altri vascelli accostaronsi egualmente. Furono all'istante prese quattro
torri, ed atterrate tre porte, ed i Latini non solo s'impadronirono di
questa parte delle mura, ma ancora di tutto il quartiere ch'era stato
incendiato, e dello stesso padiglione di Mourzoufle; il quale, obbligato
di fuggire, si rinchiuse nel palazzo di Boucolèon. In seguito
approfittando dell'oscurità della notte vicina corse tutto il rimanente
della città eccitando gli abitanti a prendere le armi[450]. Egli loro
rappresentava che i Latini chiusi entro le loro mura, in mezzo a strade
di cui non conoscevano le sinuosità, potevano facilmente essere oppressi
dall'immensa superiorità del loro numero; che l'intera loro fortuna,
l'onore delle consorti, la vita stessa cadevano in potere del nemico, se
non facevano un generoso sforzo per metterle in sicuro; che si
ricordassero che andavano ad incontrare minori pericoli combattendo, di
quelli che li minacciavano sottomessi che si fossero al nemico. Ma
Mourzoufle parlava a gente che un lunghissimo despotismo aveva privata
d'ogni energia, a gente cui la certezza della morte non bastava a
rendere valorosa. Essi erano almeno quattrocento mila, ed i crociati
francesi e veneziani non arrivavano ai trenta mila. Pure rifiutarono di
combattere, e Mourzoufle, disperato, rientrò nel suo palazzo di
Blancherna[451], e prese con lui Eudossia sua moglie, ed Eufrosina sua
cognata, moglie del vecchio Alessio, montò sopra una barca, e
s'allontanò da una città che voleva la propria ruina.

  [448] _Balduin. Ep. ad pontif. De Gestis Innoc. III, p. 535._

  [449] _Villehard. § 128. p. 40._

  [450] _Bald. ad pont. Inn. III, § 92. p. 535._

  [451] _Nicetas Chon. in Murzuflum, c. 2. p. 301._

Due nobili greci, Teodoro Lascari e Teodoro Duca, il primo de' quali era
destinato a far risorgere l'Impero d'Oriente, sforzaronsi ancora, dopo
la partenza di Mourzoufle, di riunire in diversi quartieri della città
le truppe scoraggiate, e di condurle alla battaglia; ma non vi
riuscirono, e furono anch'essi costretti a procacciarsi salvezza colla
fuga. Durante la notte i Latini per assicurarsi dagli attacchi, cui
vedevano d'essere esposti, avevano posto fuoco ai più vicini quartieri;
e questo terzo incendio dilatandosi con furore distruggeva un'altra
parte della città. La vegnente mattina, quando aspettavansi di dover
combattere, e che dietro i loro calcoli supponevano doversi impiegare
almeno un mese per sottomettere tutti i palazzi e tutte le chiese che
potevano essere facilmente ridotti in fortezze, si videro venire
all'incontro processioni di preti e di donne, che, portando innanzi a
loro croci ed immagini, domandavano grazia per la loro città.
Costantinopoli era presa, ed un pugno di crociati aveva atterrato il
trono dei padroni dell'Oriente.

Per sorprendente che fosse questa vittoria, non superava però
l'ambizione e le speranze de' Latini. Mentre trovavansi ancora nel
sobborgo di Galata, avanti al primo assalto, avevano di già tra di loro
fatto un trattato di divisione di tutto l'Impero d'Oriente[452]. Il
saccheggio della città di Costantinopoli formava il primo articolo del
trattato. Avevano convenuto di mettere in comune tutto il bottino che
farebbero sui Greci, di prendere prima su quest'ammasso le somme ancora
dovute ai Veneziani, ed i sussidj loro promessi dal giovane Alessio;
indi di dividere il rimanente in parti eguali tra i crociati e le truppe
della repubblica. Erasi inoltre convenuto che i Veneziani
conserverebbero in tutte le province dell'Impero, che omai ritenevansi
per conquistate, tutti i privilegi di cui godevano in tempo de' monarchi
greci: convennero di conservare il titolo ed il potere imperiale, e di
decorarne un principe latino, assegnandogli però soltanto per patrimonio
un quarto dell'Impero, ed un quarto della capitale; riservandosi di
dividere tra di loro gli altri tre quarti: che l'elezione
dell'imperatore farebbesi nel seguente modo; sei baroni francesi e sei
veneziani dovevano essere nominati dall'armata, e questi farebbero la
scelta di un successore ad Augusto ed a Costantino.

  [452] Veggasi questo trattato nelle note alla cronaca di Dandolo, p.
  326.

La presa di Costantinopoli chiamò ben tosto i crociati a realizzare così
vasto progetto. Incominciarono da quello del saccheggio, e la città fu
senza riserva abbandonata alla brutalità de' soldati vincitori. Le
lagnanze di Niceta, e l'esultanza di Villehardovin ci danno tutta
l'estensione di questo disastro. La profanazione e l'insulto
accompagnarono il saccheggio; e mentre i Latini si vantavano che _dopo
il cominciamento de' secoli non fu mai tanto guadagnato in una città_,
la capitale dell'Oriente fu ridotta in tale stato di avvilimento e di
miseria da cui non si potè mai più rilevare. I templi non furono più
risparmiati delle case private; i calici, i crocifissi, le teche delle
reliquie furono levate e divise da mani barbare, e s'introdussero nelle
chiese i cavalli ed i muli per caricarne le spoglie. Le stesse passioni
religiose incitavano alla profanazione delle chiese scismatiche[453].
Una prostituta ebbe l'impudenza di porsi a sedere sulla sede del
patriarca, e danzava e cantava in mezzo ai soldati ubbriachi per
insultare il culto de' Greci. Questi stessi soldati scorrevano in
seguito la città conquistata, vestiti d'abiti pomposi, che avevano tolti
a uomini o a donne della corte, e portando sulle loro teste penne
d'airone, le sole armi dei vinti Greci.

  [453] _Nicetas Choniates in Murzuflum. § 4. p. 303._

Mentre i Latini esalavano con pubblici insulti il loro sdegno, che i
soldati svergognavano le matrone, le fanciulle e perfino le vergini
consacrate agli altari; la loro condotta nell'interno delle case non era
meno odiosa. «Lo stesso giorno, dice Niceta, in cui fu presa la città, i
soldati errando per le strade incominciarono ad introdursi nelle case,
ove, dopo essersi impadroniti di tutto quanto loro veniva alle mani, si
facevano ad interpellare i padroni sul conto delle ricchezze che
potessero avere nascoste: agli uni strappavano il segreto a forza di
percosse, ad altri ingannandoli colle promesse, a tutti spaventandoli
colle minacce. Ma tutto ciò che i Greci possedevano, tutto quello che
manifestavano, tutto quello che presentavano ai loro ospiti, era preso:
giammai non si ebbe di loro compassione; giammai non si permetteva di
dividere l'alloggio, i viveri, i beni che pur erano poc'anzi suoi. Erano
senza umanità scacciati dalle loro case[454].»

  [454] _Nicetas Choniates Constantini status, § 2. p. 310._

In fatti quasi tutti i nobili, i ricchi, coperti di miseri cenci,
smagrati e deboli, coll'impronta in volto de' sofferti patimenti,
sortirono a piedi dalla città piangendo la loro patria, la loro fortuna
e spesso una figlia nubile, o una giovane sposa loro rapita; e perchè la
condizione loro fosse ancora più crudele, trovavansi sulla strada
esposti agl'insulti de' più abbietti loro concittadini; e questo era
pure un altro indizio della _disorganizzazione_ sociale. Il popolaccio
di Costantinopoli, geloso dei senatori e dei ricchi, invece di unirsi
con loro per difendere la patria, compiacevasi di vederli sventurati; e
la gente di contado, ugualmente cieca, si rallegrava della rovina d'una
capitale che gli aveva dominati tanti secoli[455]. «A noi, scrive
Niceta, altra volta membri del senato, attribuiscono la perdita della
città; essi non temono l'occhio perspicace del Signore; essi che
tradirono noi e la patria, non si vergognano di tanta falsità. Qual vi
può essere oggetto più compassionevole che il delirio e la sventura di
questi uomini stupidi, che non solo non pregano per il ristabilimento
della città, ma che accusano Dio di lentezza, perchè non abbia
sovvertiti assai più presto e noi e la città ed in maniera ancor più
terribile, perchè abbia dilazionata la nostra morte, e mostrato ne' suoi
giudizj il suo amore per gli uomini? Questo popolo non dovrebb'essere
commosso per simpatia de' nostri mali? Noi più non abbiamo città, non
case, non alimenti per vivere; noi che prima eravamo illustrati dalle
nostre ricchezze e dal nostro potere.» Difatti Niceta, sortendo colla
sua famiglia da Costantinopoli, aveva trovato nella Tracia le stesse
disposizioni; di già i paesani riandando le passate memorie, che ne'
lontani secoli in differente governo dava alla Grecia maggior gloria,
volgevano in ridicolo la nudità e la mendicità de' fuorusciti,
chiamandola eguaglianza repubblicana[456].

  [455] _Nicetas Choniates in Balduin. Flandrum § II. p. 340._

  [456] Ισοπολιτειαν. _Nicetas Const. Status, § 5. p. 313._

Quantunque siavi luogo a credere che molta parte del bottino si mettesse
in comune, pure quando coll'ammasso totale furono pagati i Veneziani, e
che questi ebbero la metà loro spettante, rimase pei Francesi la somma
di 500,000 marche d'argento. Era questo ben più di quanto sarebbe
abbisognato per dissipare la burrasca che da lungo tempo minacciava
Costantinopoli[457].

  [457] _Villehard. § 135. p. 42._ In un'altra edizione leggesi
  400,000; la maggiore delle due somme equivale a ventiquattro
  milioni, con cinquanta mila marche, o due milioni quattrocento mila
  dovute ai Veneziani, e la parte di questi, fa montare a 50,400,000
  il valor totale del bottino diviso. Altrettanto probabilmente era
  andato a profitto particolare. I tre incendj che avevano consumata
  più di mezza la città, avevano distrutte altrettante e più
  ricchezze, e nella profusione che seguiva il saccheggio, i più
  preziosi effetti avevano talmente perduto di valore, che il profitto
  de' Latini non equivaleva forse al quarto di quanto costava ai
  Greci. E per tal modo Costantinopoli avanti di essere attaccata
  possedeva probabilmente per 690,000,0000 di ricchezze.

L'armata crociata passò in seguito ad eleggere l'imperatore. Sei baroni
francesi e sei veneziani furono scelti per farla a norma della
precedente convenzione. Assicurasi che uno de' Francesi indicò come
degno dell'impero il doge Dandolo, di cui ricordò le imprese; ma un
vecchio veneziano, Pantaleone Barbo, prese subito la parola, e facendo
sentire che il primo magistrato di una repubblica libera non poteva
essere nello stesso tempo capo d'una monarchia, diede il suo voto a
Baldovino conte di Fiandra, ed ottenne subito per lui il voto de' suoi
colleghi[458].

  [458] _Rhamnusius l. III, p. 136 citato nelle osservazioni
  sull'istoria di Villehard. p. 155_, nomina i Veneziani, Vitale
  Dandolo, Ottone Querini, Bertuccio Contarini, Pantaleone Barbo e
  Giovanni Baseggio. _Dand. in Chron. l. X, c. 3. p. 35. p. 330._

La sola capitale era stata sottomessa, e la debole armata de' crociati,
perduta in mezzo d'un vasto Impero, lungi dal potersi lusingare di
conquistarlo, doveva aspettarsi d'essere oppressa tosto che si
dividerebbe. Pure il consiglio dei Latini si occupò della divisione
delle province fra i conquistatori, ed assegnò in feudo ad ogni
guerriero città di cui appena sapeva il nome. Si eressero in regno per
il marchese di Monferrato Tessalonica e la Tessaglia; l'Acaja fu divisa
in ducati e principati, nomi feudali che feriscono l'orecchio associati
a vocaboli greci; le province dell'Asia furono egualmente assegnate a
coloro che dovevano conquistarle; ma i Latini non vi ottennero mai uno
stabilimento. Malgrado l'anarchia cui la caduta di Costantinopoli dava
in preda tutto l'Oriente, e quantunque i Greci, in cambio di sostenersi,
si trovassero divisi tra sette oppure otto piccoli tiranni, che tutti
pretendevano alla dominazione dell'Impero[459], i crociati non erano
certo in istato di fare conquiste, meno poi di conservarle: le loro
spedizioni nella Tracia e nella Grecia non ad altro servirono che a
disvelarne la debolezza; e la guerra che loro dichiarò Giovaniccio re
de' Bulgari[460] e de' Valacchi li ridusse ben tosto alle ultime
estremità, accrescendo in pari tempo le sofferenze e la miseria de'
sudditi greci. Ma dopo l'assedio così gloriosamente condotto dai
Veneziani, l'Oriente diviene straniero alla nostra storia; e la rapida
decadenza e la totale caduta dell'Impero de' Latini rientrano nella
storia di Costantinopoli. Ciò che soltanto deve ancora occuparci è il
frutto che i Veneziani ottennero dalle loro conquiste.

  [459] _Gregor. Arcopolita Hist. c. 4.-9.-etc. Hist. Byzant._

  [460] Il nome di Bulgari leggermente alterato da Villehardovin
  coll'ommissione d'una sola vocale, ne disvela l'origine d'un epiteto
  ingiurioso, che ai tempi delle crociate era nome d'una nazione, ma
  d'una nazione rispettabile e feroce.

Il trattato di divisione che doveva farli padroni d'un quarto e mezzo
dell'Impero, giusta il titolo che lungo tempo portarono, è pervenuto
fino a noi[461]; ma i nomi greci sfigurati da barbari geografi, sono a
stento riconoscibili; nè il possesso fu abbastanza lungo perchè tale
geografia potesse rettificarsi[462]. Distinguiamo però tra le province e
le città date loro in dominio Lacedemone, Diracchio, Rodosto, Agios,
Potamos, Gallipoli, Egine, Zacinto, Cefalonia; ma pare che molte città e
province fossero dimenticate dai redattori del trattato di divisione,
che non le conoscevano. L'isola di Candia era stata assegnata al
marchese di Monferrato, Bonifacio, re di Tessalonica; ma egli la cambiò
coi Veneziani con terre più vicine alla sua capitale; e quest'isola che
prese il titolo di regno, diventò in appresso uno de' più importanti
possedimenti della repubblica[463].

  [461] _In notis ad Chron. And. Danduli p. 328._

  [462] Rannusio, _De Bello Constan. l. IV, p. 162_, si sforza di
  rettificare e spiegare questa divisione dell'Impero.

  [463] Il cambio fu convenuto il 12 agosto 1204. _Hist. de Costant.
  sous les emp. Franc. par Dufresne Ducange, l. I._

Giammai alcuna nazione aveva intraprese conquiste meno proporzionate
alle sue forze. La repubblica di Venezia non possedeva propriamente
allora che la città ed il dogado, e la sua popolazione non doveva
oltrepassare le 200,000 anime. Vero è che da più anni aveva fatte alcune
conquiste in Dalmazia ed in Istria; ma non aveva mai incorporate alla
nazione queste province suddite; e lungi dal potervi trovare generali e
soldati per le sue armate, era in necessità di spedirvi magistrati e
guarnigioni veneziane per contenerli. Frattanto la recente divisione gli
accordava per lo meno sette in otto mila leghe quadrate di territorio e
sette in otto milioni di sudditi. Venezia che ancora non aveva potuto
stendere la sua autorità sulla vicina Padova, ebbe il carico non solo di
sottomettere un paese che poteva solo formare un potente regno, ma
inoltre di difenderlo contro i Turchi, i Bulgari, i Valacchi, e forse
contro i medesimi Latini di Costantinopoli e di Tessalonica, se veniva a
nascere tra loro qualche gelosia.

Dopo una breve deliberazione, la repubblica provò il vivo e profondo
sentimento della sua debolezza. Il senato dichiarò che rinunciava a
conquiste lontane che avrebbero esaurita la nazione, e che non avrebbe
in verun modo potuto conservare; e del 1207 pubblicò un editto che
accordava a tutti i cittadini veneziani il permesso di armare a proprie
spese vascelli di guerra, e di sottomettere per loro conto le isole
dell'Arcipelago e le città greche poste sulle spiagge[464]. Con
quest'editto cedeva loro la proprietà delle conquiste in feudo perpetuo,
riservandosene soltanto la protezione. I mercanti veneziani ne
approfittarono, ed aprendo il loro cuore a nuova ambizione, intrapresero
la conquista delle terre abbandonate. Nella storia di queste guerre
private si mostrano sempre il piccolo numero degli assalitori e la viltà
de' Greci vinti. Con questo titolo Marco Dandolo e Giacomo Viaro
fondarono il ducato di Gallipoli, Marco Sannuto quello di Nasso, il
quale era composto delle isole di Nasso, Paros, Melos ed Erinea, e si
conservò fino al 1570 in cui fu tolto dai Turchi al XXI duca. Marino
Dandolo sottomise l'isola d'Andros; Andrea e Gerolamo Ghisi quelle di
Teone, Micone e Soiros; Pietro Zustinian e Domenico Micheli quelle di
Ceos, Filocolo Navagero quella di Lemnos ch'ebbe il titolo di gran
ducato.

  [464] _Dufresne du Cange Hist. de Costant. l. II. — Rhamnus. de
  Bello Costant. l. VI, p. 272._

D'altra parte i Genovesi vollero pur fare qualche conquista in paesi
quasi abbandonati al primo occupante. Armarono cinque vascelli rotondi e
venti galee, ed andarono a fondare uno stabilimento nell'isola di Creta
o Candia[465]; ma ne furono ben tosto scacciati dai Veneziani.
S'impadronirono ancora di Modone e Corone nella Morea, poi dell'isola di
Corfù. Pareva che la Grecia bastar dovesse a saziare i desiderj delle
repubbliche marittime d'Italia; ma non potendo i Veneziani soffrire che
i loro emuli vi avessero alcun principato, le spogliarono delle loro
conquiste.

  [465] _Nicet. Choniat. in Bald. Flandrum § 10. p. 337._ Gli Annali
  di Genova parlano di tali conquiste, come di affari privati d'Enrico
  conte di Malta, cittadino genovese, ch'erasi reso padrone di Malta,
  che gli serviva per esercitare la pirateria. _Ogerius Panis Contin.
  Caffari An. Genuen. l. IV, ad an. 1206, 1209, p. 394.-400._

Se la divisione dell'Impero greco, distruggendo le ricchezze, la
popolazione, ed ogni avanzo della potenza di queste province, le diede
in preda alle invasioni di tutti i barbari del Nord e dell'Oriente; se
dobbiamo considerarla come la principal cagione della distruzione di
quest'Impero operata dai Turchi due secoli e mezzo dopo, ed accusarla
perciò di aver distrutta la civiltà, le lettere e la filosofia in un
paese, che, malgrado la sua corruzione, dava loro asilo; troveremo che
tanti mali non furono compensati dalla limitata potenza reale aggiunta
alla repubblica di Venezia. La saviezza e la moderazione del senato
impedirono che i tesori e la popolazione dello stato andassero a
seppellirsi in lontane province, come vi si perdettero tanti battaglioni
di crociati, e tante nobili famiglie francesi. Ma l'ambizione de'
particolari, cui si abbandonò così vasto campo, costò pure alla nazione
una parte importante de' suoi capitali, e le braccia di molti soldati.
Il commercio e la navigazione che formavano la principale forza dello
stato, furono da molti abbandonati per dedicarsi ad intraprese
cavalleresche; e poco mancò che la divisione di questa preda non mutasse
il carattere nazionale. Probabilmente il governo dispotico delle
province conquistate riuscì dannoso alla capitale, che non tardò a
sentirne gli effetti; per ultimo Venezia perdette ne' Greci utili
alleati che formavano una barriera contro i Musulmani, la di cui
vicinanza costò poscia a Venezia tante ricchezze e tanto sangue. Essa
non conservò lungo tempo le città e province di terra ferma; ma tenne le
isole quattro secoli, che furono cagione di continue guerre coi Turchi.
In tal maniera adunque tutta la gloria acquistata in questa maravigliosa
impresa fu a caro prezzo comperata colle lagrime e la miseria de' popoli
sottomessi, e coll'indebolimento e la corruzione de' vincitori[466].

  [466] Congedandomi per lungo tempo dagli storici bizantini,
  soggiugnerò alcune osservazioni intorno a quelli di cui ho fatto uso
  in questo capitolo. Abbiamo avuta la fortuna di poter esaminare
  quattro ragguardevoli autori, quasi tutti contemporanei, cadauno de'
  quali scrisse con opposte mire per quattro differenti nazioni.
  Niceta, senatore di Costantinopoli, e _grande logoteta_ dell'Impero,
  rifugiatosi a Nicea dopo la ruina della sua patria, scrisse la
  storia degl'imperatori de' suoi tempi dalla morte d'Alessio Comneno
  fino al Baldoino di Fiandra. A fronte della inopportuna sua
  eloquenza, della ricercatezza dello stile, e forse anco delle sue
  esagerazioni, vuol essere annoverato tra i buoni storici di
  Costantinopoli. Le particolari sue sventure, aggiunte a quelle della
  sua patria, rendono ancora più interessante la sua storia. Rispetto
  a questo storico, ed agli altri che hanno scritto in altre lingue,
  mi sono fatto un preciso dovere di esaminare il testo originale, e
  di non citare che le mie traduzioni. I miei lettori conoscono oramai
  sufficientemente le azioni, il carattere e lo stile di Goffredo
  _Villehardovin_, lo storico francese della crociata. Questo valoroso
  soldato, l'amico del venerabile Dandolo, e del marchese-re
  Bonifacio, nella spartizione dell'Impero orientale fu fatto
  maniscalco della Romelia, come prima lo era della Sciampagna: ebbe
  in feudo Messinopoli e Masianopoli nel regno di Tessaglia, e suo
  nipote dello stesso nome, giunto in Grecia dopo la presa di
  Costantinopoli, conquistò il principato dell'Acaja che trasmise alla
  sua discendenza. Anche i Veneziani hanno in quest'epoca il loro
  storico. È questi Andrea Dandolo discendente del vincitore di
  Costantinopoli, e doge anch'egli due secoli dopo. Non abbagliato
  dalla gloria della sua patria o della famiglia, riferisce
  imparzialmente i più importanti avvenimenti: ma questa sua scipita
  imparzialità, che ne fa essere forastieri in Venezia come nella
  Grecia, è un difetto forse più spiacevole che le appassionate
  esagerazioni di Niceta. La storia di Dandolo viene arricchita da
  importanti note, da diplomi e trattati riferiti per intero. Per
  ultimo, rispetto alla storia della crociata, l'anonimo autore della
  vita d'Innocenzo III ci mette sott'occhio tutto quanto può favorire
  gl'interessi degli ecclesiastici. Nel precedente capitolo ci siamo
  frequentemente valsi di questa vita, pubblicata la prima volta da
  Stefano Baluzio, la quale non arriva che all'anno undecimo
  d'Innocenzo. Forse l'autore morì prima del suo eroe: ad ogni modo
  sparse molta luce su questo pontificato, e contiene molti documenti
  originali, e fra gli altri le lunghe lettere che Baldovino
  imperatore di Costantinopoli scrisse al papa per giustificare la sua
  conquista e la sua elezione.

  Ho citati pochi altri scrittori greci e latini, dai quali ho presi
  vari fatti, poichè non volli abusare della sofferenza de' miei
  lettori citando nomi di scrittori affatto inutili alla mia storia.

  Nel quinto tomo della storia di Francia del Duchesne trovansi
  riportate alcune lettere scritte da Costantinopoli dal conte Ugo di
  san Paolo e dallo stesso Baldovino, le quali, sebbene nulla
  aggiungano di particolare ai fatti raccontati da altri storici, ne
  interessano per rispetto di coloro che le scrissero. _Histor.
  Francor. Script. t. V, p. 272.-283._ Due moderni scrittori
  Rahmnusius, _de Bello Constantinopolitano_, e d'Outreman,
  _Constantinopolis Belgica_, cercarono nelle voluminose loro opere di
  dare maggiore risalto, il primo alla gloria veneta, l'altro alla
  fiamminga.



CAPITOLO XV.

      _Stato delle repubbliche italiane. — Guerre civili. —
      Rinnovamento della Lega lombarda._

1216 = 1233.


Ottone IV e Federico II disputavansi ancora la corona imperiale quando
venne a mancare Innocenzo III. Federico aveva già sperimentato il
potente patrocinio della santa sede, la quale, finchè Ottone fu il più
forte, lo favoreggiò caldamente; ma dopo la battaglia di Bouvines,
Ottone non essendo più in grado di tenere contro alla crescente potenza
del giovane rivale, il papa dichiarossi nemico del suo protetto, e tanto
Innocenzo III, che Onorio III, rifiutarono, vivente Ottone, anzi fino al
1220, di accordare a Federico il titolo d'imperatore, e di porre sul di
lui capo la corona d'oro, che pure gli avevano promessa.

Se l'interregno che precedette l'elezione di Ottone, aveva resa malferma
l'autorità imperiale in Italia, la lotta tra le fazioni guelfa e
ghibellina, tenuta viva dal papa, opponendo un imperatore all'altro, le
diede l'ultimo colpo. Dall'una all'altra estremità d'Italia tutto era
discordia e guerra civile.

Abbiamo già mentovate in più luoghi le guerre di Lombardia senza per
altro entrare in circostanziati racconti, perchè abbiamo diffidato di
poter dare interesse a guerre sempre simili in ogni loro particolare,
che cominciavano col saccheggio di alcune campagne, e terminavano dopo
pochi giorni con una battaglia tra gli abitanti delle due città nemiche;
guerre nelle quali l'arte era affatto sconosciuta, e nelle quali il solo
valore, sempre adoperato nello stesso modo, decideva della vittoria.

Per quanto si voglia attentamente studiare la storia delle città
lombarde, non si otterrà mai di togliere quella confusione che producono
nella nostra memoria le loro rivalità, le alleanze, le guerre, nelle
quali i soli nomi diversificano gli avvenimenti. Se ci fosse dato di
penetrare nell'interno di queste città, conoscere le passioni che
agitavano i popoli, i loro desiderj, le loro speranze, la politica delle
loro assemblee e dei loro magistrati; potremmo forse indentificarci coi
cittadini di queste repubbliche; ma sgraziatamente dopo la metà del XII
secolo fino alla fine del XIII, dobbiamo sormontare un lungo spazio di
tempo, nel quale veruna città dell'Italia settentrionale, tranne
Venezia, ebbe storici contemporanei. Abbiamo bensì alcune informi
cronache nelle quali qualche monaco segnò il nome del podestà d'ogni
anno, ed indicò il luogo in cui seguì la tale o tal altra importante
battaglia. Nel tale anno, dicono, v'ebbe pace tra Cremona e Piacenza;
nel tale altro vi fu guerra; senza però mai riferire i motivi delle
guerre o le condizioni delle paci. In ventuna cronache lombarde ch'io
lessi rapidamente e con tedio estremo, per cercarvi i materiali di
questo capitolo, non trovai un solo pezzo che mi facesse conoscere le
opinioni del secolo in quelle dello scrittore. Non per questo possiamo
omettere di dare un'occhiata agl'interessi di queste città, che tanto
essenzialmente appartengono alla nostra storia; onde soffermandoci un
istante nelle principali, cercheremo almeno di conoscere le loro
alleanze e le loro inimicizie.

Poichè Milano venne rifabbricato dagli sforzi generosi della lega
lombarda, Milano aveva costantemente prosperato. Numerosa erane la
popolazione, ricco e fertile il territorio, le milizie agguerrite, e le
sue fortificazioni potevano sfidare le più potenti armate. Dall'epoca
della battaglia di Legnano che aveva consolidata la libertà lombarda,
erano fino al presente passati quarantacinque anni, ed i capi dei
consigli della repubblica, i vecchi ne' quali riponeva la sua maggiore
confidenza, erano facilmente stati portati tra le braccia de' fuggitivi
genitori, quando quindici anni prima di quella battaglia, la loro città
venne spianata; e forse s'erano anch'essi strascinati nel fango, quando
gli esiliati Milanesi si recarono sul luogo per cui doveva passare
Federico Barbarossa, per chiedere grazia.

In seguito quando si rifabbricò la città, tutti furono testimonj dei
nobili sforzi dei loro concittadini, e delle riportate vittorie. Erano
le memorie dell'infanzia e della gioventù, di que' tempi ne' quali
l'immaginazione più vivace riceve le più profonde impressioni. Perciò i
Milanesi non seppero mai perdonare ai figliuoli di Barbarossa le
battaglie e la severità del loro padre; e mentre i cittadini che avevano
combattuto contro Federico I, aprivangli essi medesimi le porte della
loro città dopo la pace di Costanza, e celebravano la perfetta loro
riconciliazione con isplendide feste, le due susseguenti generazioni non
istancaronsi di eccitare nemici al suo nipote Federico II, e di fargli
guerra.

A questo sentimento di vendetta nazionale deve attribuirsi la costanza
colla quale i Milanesi rimasero attaccati alle parti d'Ottone IV,
malgrado che il capo del partito guelfo si fosse dichiarato il difensore
delle prerogative dell'Impero, malgrado che Ottone fosse il nemico della
santa sede, e che i fulmini della Chiesa piovessero contro i suoi
partigiani.

Mentre viveva ancora Innocenzo, i Milanesi erano stati citati a
presentarsi al concilio di Laterano e ad abbandonare un imperatore
scomunicato: e nel susseguente anno s'erano portati a Milano due
cardinali, ed avevano da parte del papa ordinato alla repubblica di
soccorrere Federico contro Ottone suo antico alleato[467]. In questo
secolo le corti dei re obbedivano tremando a tali intimazioni; ma le
repubbliche italiane erano più indipendenti; onde i due cardinali non
tardarono ad accorgersi che non solo non avrebbero ottenuti i chiesti
soccorsi, ma nemmeno avrebbero ridotti i Milanesi a lasciare l'alleanza
di Ottone, onde si ritirarono fulminando l'interdetto contro la città.

  [467] _Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 248, e 249. t. XI, p. 666._

(1217) Di quest'epoca i Milanesi avevano fatta alleanza con Tomaso,
conte di Savoja: le loro città confederate erano, in quest'epoca, Crema,
Piacenza, Lodi, Vercelli, Novara, Tortona, Como ed Alessandria.
L'interdetto del papa parve che in vece di sciogliere questa lega, ne
riserrasse più strettamente i legami. Le città di Pavia, Cremona, Parma,
Reggio, Modena ed Asti avevano abbracciato il contrario partito, ossia
quello de' Ghibellini; e Brescia, d'ordinario alleata di Milano, dovette
a quest'epoca conservarsi indifferente nelle contese delle altre
città[468], perchè indebolita da una lunga guerra civile, e ruinata dal
tremuoto che aveva atterrati i suoi più nobili edificj, doveva cercare
di rifarsi con un lungo riposo. Bergamo non è pur rammentata dagli
storici di questi tempi.

  [468] _Jacobi Malvecii Chron. Brix. distinct. VII, c. 96, p. 900_.

Ogni città si ascrive nelle proprie cronache qualche vittoria nella
guerra quasi generale che tenne dietro all'interdetto papale; onde può
conchiudersi che i successi furono presso a poco compensati. Pare non
pertanto che la città di Pavia soffrisse una continuata serie di
perdite, che la Lomellina fosse saccheggiata ed incendiati molti
castelli sulla destra del Po; per cui questa repubblica si risolvesse di
abbandonare le antiche alleanze, unendosi ai Milanesi[469]. La città
d'Asti non fu meno maltrattata di Pavia, prima dagli Alessandrini da lei
provocati, poi dagli stessi Milanesi[470]; ma Cremona assalita dalla
stessa lega, le oppose una più ferma resistenza. Il sei giugno del 1218
le armate delle due leghe vennero a battaglia avanti a Ghibello: i
Pavesi erano stati forzati di unirsi ai Milanesi, coi quali trovavansi
pure i Vercellesi, Novaresi, Tortonesi, Comaschi, Alessandrini,
Lodigiani e Cremaschi: i Cremonesi avevano con loro le milizie di Parma,
di Reggio e di Modena. La battaglia si protrasse dal mezzogiorno fino a
notte innoltrata, e terminò colla rotta totale dei Milanesi[471].

  [469] _Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 250. p. 667._

  [470] _Chron. Astense, ab Ogerio Alferio edit. t. XI, p. 142._

  [471] _Chron. Breve Cremon. t. VII, p. 640. — Joh. de Musis Chron.
  Plac. t. XVI, p. 458. — Chron. Parm. t. IX, p. 764._

Oltre queste guerre tra le città, altre se ne manifestavano ancora
nell'interno di ogni repubblica, cui davano motivo l'insolenza dei
nobili, o la gelosia dei cittadini. I primi, dopo essere stati forzati
ad abbandonare i loro castelli per farsi abitatori delle città che gli
avevano ammessi alla loro cittadinanza, trovaronsi resi più potenti
dalla loro sconfitta. Essi non erano più, come per lo innanzi, dispersi
e senza relazione gli uni cogli altri; anzi per l'opposto trovavansi
uniti coi loro uguali, e più a portata di contrarre nuove alleanze;
quindi maggiore erasi fatto il loro disprezzo pei borghesi, ai quali
momentaneamente avevano dovuto cedere, e si credevano destinati a
dominarli. Attribuivansi esclusivamente il nome di soldati (_milites_);
e, quantunque a quest'epoca il valore fosse comune a tutti gl'Italiani,
è probabile che superassero in virtù militari i loro concittadini, pei
quali la guerra non era il principale affare. La rivoluzione che si fece
in tutte le repubbliche, allorchè fu confidato ai podestà il supremo
potere, era riuscita favorevole ai nobili. Un popolo geloso poteva bensì
volere esclusi dagl'impieghi i suoi proprj gentiluomini; ma qualunque
volta passava a scegliere in paese straniero un uomo sconosciuto per
sottomettersi al suo governo, non sapeva liberarsi dall'antica
prevenzione di tutti gli uomini in favore della nascita; prevenzione che
tanto naturalmente decide delle scelte, quando non conosconsi le altre
qualità. Fu legge fondamentale di tutte le repubbliche italiane di non
iscegliersi per podestà che un gentiluomo; e questa legge non fu pure
violata quando, nel calore delle guerre civili, i nobili appartenenti ad
ogni repubblica vennero degradati ed esclusi da ogni diritto di
cittadinanza. Intanto i podestà gentiluomini cercavano d'avere ne'
consiglj persone del loro ordine; quando terminate le loro funzioni
tornavano in patria, vi portavano l'attitudine ai pubblici affari,
talenti esercitati, ed il sentimento della loro superiorità sui borghesi
e gli artigiani, che occupavano le principali cariche. Provavano allora,
colle minacce e con un procedere arrogante, di ricuperare quelle
prerogative ch'essi credevano usurpate al loro ordine. Per l'opposto i
borghesi avevano fatta conoscenza degli affari nelle deliberazioni della
piazza pubblica; erano armati; avverano combattuto per essere liberi, e
non per passare sotto un diverso giogo. Protetti da un governo benefico
avevano veduto prosperare il loro commercio e le loro manifatture,
avevano appreso ad apprezzarsi più assai che per lo innanzi, perchè la
loro fortuna era quasi affatto indipendente. Erano perciò troppo alieni
dal voler rinunciare a tutti i pubblici affari, e dal permettere che i
soli nobili rappresentassero lo stato nelle più singolari occasioni, ne'
consigli, nelle ambascerie.

(1221) A Milano i nobili erano spalleggiati dall'arcivescovo, il quale
non poteva senza gelosia vedersi spogliato di ogni parte del governo. La
contesa tra i due ordini si fece più viva l'anno 1221[472]. I
gentiluomini furono forzati ad uscire di città, e ad afforzarsi nei loro
castelli, ove furono ben tosto inseguiti dal popolo, che, dopo più o men
lunghi assedj, gli obbligò ad arrendersi, e gli spianò; onde nel termine
d'un anno la nobiltà fu ridotta a chiedere la pace. La numerosa
popolazione di Milano doveva far trionfare il partito democratico. A
Piacenza la fortuna delle armi si dichiarò per i gentiluomini: avevano
anch'essi adottata la determinazione di uscire dalla città; ma quando
furono in campagna aperta, trovandosi circondati dai loro vassalli,
ricuperarono quella superiorità che avevano perduta nell'interno della
mura. Finalmente il papa li mandò come mediatore il cardinale d'Ostia,
il quale nel 1221 terminò le loro guerre con un trattato di pace, in
forza del quale la metà delle magistrature ed i due terzi delle
ambascerie venivano riservate alla nobiltà, rimanendo al popolo tutti
gli altri pubblici impieghi[473]. Cremona era stata agitata da eguali
discordie, ed andò debitrice della pace all'immediato intervento di papa
Onorio III, il di cui breve ci fu conservato da uno storico
cremonese[474]. Una parola dell'annalista di Modena ne fa conoscere che
la sua patria non andava esente da tali sedizioni[475]: abbiamo altrove
accennate quelle di Brescia, e pare che tutte le città lombarde fossero
più o meno agitate da tale discordia.

  [472] _Chron. Placent. p. 459._

  [473] _Campi Cremona Fedele l. II, p. 42._

  [474] _Annales Veteres Mutinensium t. XI, p. 58, ad ann. 1224._

  [475] _Denina, Muratori, Tiraboschi ec._

Molti storici moderni, parlando delle continue guerre tra le città,
delle rinascenti dissensioni tra i loro diversi ordini, dipingono
l'antico stato d'Italia come affatto infelice, ed accordano la
preferenza ai tempi loro. Nel _calcolare_ la felicità di una nazione,
noi oggi trascuriamo affatto di porre a calcolo quella d'una
numerosissima classe di uomini, destinati dalla società ad affrontare
tutte le vicende della guerra e della sventura. Questi è il loro
mestiere, si suol dire, quando ci si parla dei patimenti dei soldati,
come se il patimento fosse un mestiere. Allora la guerra non era un
mestiere, nè era abbandonata a soldati mercenari, stranieri di cuore
alla causa che sostenevano, e che, per avvezzarsi alla loro condizione,
debbono chiudere gli occhi sulla sproporzione del pericolo cui vengono
esposti e lo scopo che si propongono. Il soldato italiano combatteva
sempre presso alle mura della propria città, non solo per la salvezza
della patria, ma ancora per la propria, per ottenere un fine ch'egli
conosceva, e per servire ad una passione che divideva coi suoi
concittadini. Se aveva la disgrazia di essere ferito, non languiva negli
ospedali, abbandonato alla dura indifferenza di subalterni chirurgi; ma
ricondotto la stessa sera alla propria casa, l'amorosa cura che di lui
si prendevano la consorte, la madre, le sorelle, gli facevano quasi
dimenticare i suoi dolori. Se periva sul campo di battaglia, periva
nell'entusiasmo d'un patriotta per una cagione creduta sacra, tra le
braccia de' suoi amici e de' suoi concittadini; non era contato tra i
morti come un semplice soldato, come un essere ideale destinato soltanto
ad aver luogo nel ragguaglio d'una battaglia in mezzo ad una colonna di
numeri. Si sapeva d'aver perduto un uomo ed un cittadino, ed era pianto
come uomo e come cittadino. La stessa sera della battaglia, se la
notizia della sua perdita non era portata alla famiglia, doveva egli
stesso tornare ad abbracciare i suoi figli.

Quindi per mettere a numero le armate non abbisognavano arrolamenti
forzati; la guerra era un dovere passaggiero, e direi quasi il
dilettevole trattenimento d'ogni cittadino; la guerra, cui dovevansi
consacrare soltanto pochi giorni dell'anno, per riprendere in appresso
le proprie occupazioni; la guerra che il cittadino non faceva giammai
senza un vivo sentimento della sua importanza e della gloria della sua
patria; la guerra che in lui manteneva l'abitudine di quel valore, che
tanto dannoso sarebbe il lasciar perdere alla massa del popolo;
quell'abitudine che da lungo tempo non esisterebbe presso i moderni
popoli, senza l'abuso d'una guerra privata, allora affatto sconosciuta,
il duello.

In questa età le battaglie sono meno micidiali che le malattie; meno
micidiali che la memoria crudele del paese natale, della memoria d'un
bene perduto, che ogni anno fa perire di dolore tante reclute. Nelle
guerre d'Italia tutto incominciava e finiva colla battaglia; niun
soldato cadeva che sotto il ferro, ed inoltre le battaglie erano meno
micidiali che a' nostri giorni. Calcolando anche tutta l'Europa,
quantunque la guerra si facesse fino alla porta d'ogni cittadino,
distruggeva assai meno gente nel tredicesimo che nel decimottavo secolo;
ed inoltre non cadevano che vittime volontarie.

E convien dire che le interne discordie e le guerre esterne non fossero
troppo dannose all'accrescimento della popolazione e delle ricchezze
delle città, poichè in quell'epoca tutte le cronache parlano della
necessità di dilatare le mura[476], dei pubblici edificj innalzati in
ogni città, delle rocche fortificate e di molti altri oggetti che
attestano indubitatamente le sue forze e le sue ricchezze. Troviamo
negli annali di Asti un indice insigne dell'accrescimento delle sue
ricchezze. Ci dicono che l'anno 1226 gli abitanti d'Asti incominciarono
a dar danaro ad usura in Francia ed in altri paesi d'oltremonti; dal
qual genere di traffico ottennero da prima ragguardevoli profitti, poi
gravi perdite[477]. In fatti il primo giorno di settembre del 1256 il re
di Francia fece sostenere ne' suoi stati tutti i banchieri d'Asti in
numero di circa cento cinquanta, e ne confiscò i beni del valore di più
di ottocento mila lire. Senza accordare che Asti abbia potuto allora
perdere così ragguardevole somma, che risponde a più di ventisette
milioni di franchi[478], non può dubitarsi che i capitali non si fossero
accresciuti in Lombardia a dismisura, poichè le manifatture e
l'agricoltura del paese permettevano che si sovvenissero alle straniere
nazioni così egregie somme. È noto che in conseguenza di questo
traffico, cui presero parte tutte le città occidentali d'Italia, fu in
Francia indistintamente detto Lombardo l'usurajo ed il banchiere.

  [476] Vedansi _Annales Mutinenses ad an. 1188, 1200, 1211, 1214,
  1226 ec. p. 55.-58. — Malvecius Chron. Brixianus, c. 100, 102. ann.
  1223. p. 901. — Chron. Parmense ad ann. 1221. p. 764. — Memoriale
  Potestat. Regiensium, ann. 1229. t. VIII, p. 1106, ec._

  [477] _Chron. Astense Agerii Alferii t. XI, p. 142, 143._

  [478] Se si trattasse di lire milanesi calcolando dietro il peso de'
  terzaruoli del 1250, sessanta de' quali facevano una lira, questa
  valerebbe trentaquattro lire, diecissette soldi, sei denari; e le
  800,000 lire farebbero più di ventisette milioni e mezzo della
  nostra moneta. Confesso di non avere a quest'epoca verun dato sicuro
  intorno ed valore preciso della moneta d'Asti.

Bologna, nell'Emilia, era in allora, come Milano in Lombardia, un centro
d'interesse intorno al quale dirigevansi tutti i negozianti delle vicine
repubbliche. Bologna che pretendeva avere tra le prime conosciuta
l'indipendenza nazionale, e che fa rimontare i suoi privilegi di città
libera fino ai tempi d'Ottone I, non aveva, fino a tale epoca, occupato
un luogo nella storia per causa di strepitose rivoluzioni, o di grandi
sventure: la sua celebrità procedeva da più onorevole titolo. Bologna
aveva, prima di tale epoca, ottenuto l'aggiunto di _Dotta_, che seppe
conservare fino all'età nostra; era stata la prima città in cui si
leggesse il diritto romano; la prima d'Italia ad avere una università.

In sul finire dell'undecimo secolo, una libera società di dotti, quali
almeno potevano aversi in quel tempo, avevano posto i fondamenti
dell'università di Bologna[479]. Aprirono prima una scuola di logica e
di grammatica, e poco dopo, ne' primi anni del secolo dodicesimo,
Irnerio o Warnierio, aveva portate le leggi di Giustiniano, e per la
prima volta preso ad interpretarle in faccia a numerosa udienza. Dopo
Irnerio, altri celebri giureconsulti continuarono le stesse lezioni, e
la scuola del diritto, più d'ogni altra, diede riputazione a Bologna. Fu
questa scuola che gli ottenne i primi privilegi che un imperatore,
Federico Barbarossa, accordasse alle lettere; ed i primi contrassegni
del favore che un papa, Alessandro III, diede ad una università.

  [479] _Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital. t. III. l. 2, c. 7, §
  10 e seguenti._

Nel susseguente secolo, l'università di Bologna aveva acquistata
maggiore considerazione: era la principale e più famosa d'Europa per il
diritto civile e canonico, e tutte le altre scienze vi prosperavano;
grandissimo era il numero degli scolari, famosi i professori; e la città
riponeva la sua gloria nel possedimento di così rinomata università.
Perciò voleva che i suoi professori giurassero di non aprire scuola in
verun'altra città, e niente ometteva di quanto contribuir potesse a
trattenerli presso di sè; mentre, invidiando tanta prosperità, Vicenza,
Padova, Modena, Arezzo e Napoli, ove le scuole avevano incominciato più
tardi, sforzavansi di togliere a Bologna i professori coll'allettamento
di più ampli privilegi e generosi stipendi, onde aver parte anch'esse al
rinnovamento delle lettere in Italia[480]. Forse i Bolognesi si
rifiutarono lungo tempo dall'abbracciare le parti del papa o
dell'imperatore, per non recar pregiudizio all'università; desiderando
di conservare la benevolenza di tutti i governi, e riputandosi obbligati
ad avere questi riguardi agli stranieri riuniti presso di loro per
cagione degli studj. Vero è che inclinavano alla parte guelfa; ma lungo
tempo non pertanto mostraronsi rispettosi verso Federico, e non si
dichiararono contro di lui che quando furono da lui medesimo forzati a
farlo.

  [480] _Tiraboschi t. IV, l. 1, c. 3._

Il territorio bolognese, dalla banda degli Appennini, confinava con
quello di Pistoja e di Fiorenza, ma le montagne erano un forte steccato
per risparmiare alle confinanti repubbliche troppo frequenti querele;
tanto più che i loro distretti erano sparsi di feudi indipendenti,
posseduti dai conti Guidi, dagli Ubaldini, Ubertini e Tarlati. Questi
gentiluomini non avevano ancora riconosciuta la sovranità di veruna
repubblica, e procuravano di essere dimenticati da tutte, mantenendo la
pace sulle loro montagne. Al nord i Bolognesi avevano confinanti i
Ferraresi, sempre divisi da calde fazioni e dominati a vicenda da Azzo
d'Este, di parte guelfa, e da Salinguerra, di parte ghibellina. I
Modenesi, a ponente, e gl'Imolesi, a levante, stavano costantemente pel
partito ghibellino, e con questi Bologna ebbe spesse volte guerra. La
Romagna e la Lombardia erano divise in due leghe. Faenza, Cesena e Forlì
avevano stretta alleanza con Bologna; mentre Rimini, Fano, Pesaro,
Urbino ed i conti di Montefeltro tenevano la contraria parte. Ma se noi
abbiamo omesso il circostanziato racconto delle guerre di Lombardia, a
più forte ragione dobbiamo fare lo stesso rispetto a quelle della
Romagna[481], ove le popolazioni erano meno potenti, le città più
povere; onde i prosperi o i sinistri avvenimenti avevano minore
influenza sulla sorte d'Italia. Altronde la protezione che i Bolognesi
accordarono, del 1216, ai loro alleati di Cesena, e la guerra che, del
1228, sostennero contro i Modenesi, non produssero alcuno notabile
avvenimento[482]. Più importante fu un'altra guerra degli stessi
Bolognesi contro Imola; aveano, nel 1222, saccheggiato quattro volte il
territorio di questa città e ridotti gli abitanti in così misero stato,
che per ottenere la pace acconsentirono a distruggere le loro mura, a
cedere ai vincitori le porte della città che furono portate
trionfalmente a Bologna; e per ultimo a ricevere un podestà
bolognese[483]. Fu in occasione di così umiliante convenzione che
l'imperatore Federico, dichiarandosi protettore dell'oppressa città,
sforzò, colle sue minacce, i Bolognesi ed il loro pretore a gettarsi
scopertamente nel contrario partito.

  [481] Cronica di Bologn. di F. Bartol. della Pugliola _l. XVIII, p.
  251_. — _Annales Cæsenatens. t. XIV, p. 1093._

  [482] _Chron. Mutinense t. XV, p. 559._

  [483] _B. della Pugliola, Cronica di Bologna p. 253. — Mattei de
  Griffonibus Memoriale historicum de rebus bononien. t. XVIII, p.
  109. — Ghirardacci, Istoria di Bologna, l. V, p. 140._

Federico II, ossia Federico Ruggero, siccome chiamavasi avanti che fosse
imperatore, trovavasi in Germania quando gli fu data notizia della morte
d'Innocenzo III e della elezione di Onorio III, ch'era stato quattro
anni, sotto i suoi ordini, governatore di Palermo. Federico fece due
volte il fatale esperimento, che un suo ministro non potev'essere fatto
papa senza diventare suo nemico[484]. Il subalterno, diventato
superiore, rare volte sa difendersi dalla tentazione di far conoscere al
suo antico padrone, che può anch'esso umiliarlo e farlo soffrire. Benchè
Federico non fosse allora il campione della santa sede contro
l'imperatore Ottone IV, il nuovo papa gli scrisse arrogantemente,
ordinandogli di rassegnare al principe Enrico, suo figliuolo, il regno
di Sicilia, onde non rimanesse unito a quello di Germania. Ottone mori
poco dopa il 19 maggio del 1218, e lo stesso papa propose nuove
condizioni a Federico, prima di riconfermargli la promessa della corona
imperiale. Voleva che si obbligasse ad andar subito in Terra santa per
riprenderla ai Saraceni che ne occupavano la maggior parte; e che
cedesse alla Chiesa il contado di Fondi, posto al mezzodì di Terracina e
delle paludi Pontine.

  [484] _Giannoni, Historia Civile di Napoli, l. XVI. Introd._

Riuniva Federico il carattere delle sovrane famiglie di cui era erede, e
delle nazioni tra le quali aveva vissuto. Aveva ereditato dai principi
della casa di Svevia l'inclinazione alla guerra, ed un valore talvolta
brutale; ma in sull'esempio dell'avo materno, Roberto Guiscardo, e come
i Normanni cui succedeva, sapeva alla bravura associare un'astuta
politica, una profonda dissimulazione. Educato sotto la sferza della
corte romana, erasi avvezzato ad adoperare quelle armi della debolezza,
che forse sdegnò in più matura età. Sapeva opporre alle insidie de'
pontefici, che avevano lungo tempo preteso d'essere suoi amici,
l'astuzia, e spesse volte la mala fede; le sue parole non erano giammai
conformi ai suoi pensieri, e le promesse poche volte guarentivano le sue
future azioni[485].

  [485] Vedasi la sua lettera ad Onorio III datata il 16 degl'Idi di
  giugno del 1219, _apud Oder. Raynald. 1219, § 7 e 8, p. 264_.

Federico non era probabilmente determinato a passare in Terra santa
allorchè lo promise ad Onorio III. Egli non aveva ancora recata
interamente la Germania alla sua obbedienza, e dopo la morte di Ottone
trovò necessario di rimanervi ancora due anni prima di venire a Roma a
ricevere la corona imperiale; nel qual tempo (1220) fece coronare suo
figliuolo Enrico re de' Romani. Erasi Federico ammogliato così giovane,
che questo figlio aveva omai dieci anni, benchè egli stesso non
oltrepassasse i ventisei. Venne in seguito a Roma con una riguardevole
armata, evitando in cammino di avvicinarsi alle città lombarde che
stavano pel contrario partito; ed il giorno 22 novembre del 1220
ricevette la corona imperiale, dopo aver rifatte le promesse di
portarsi, senza ritardo, al soccorso di Terra santa[486].

  [486] _Raynaldus, 1220, § 21, p. 275._

Ma il regno di Puglia aveva, più che quello di Germania, estremo bisogno
delle cure e delle riforme del monarca. Dopo il regno di Guglielmo il
cattivo, era sempre stato in preda delle guerre civili, e
l'amministrazione trattata dai papi ne aveva a dismisura accresciuta
l'anarchia. Tutti i conti, proprietarj d'una città o d'un castello,
avevano quasi scosso del tutto il giogo dell'autorità reale; e Federico,
per ristabilirla, non si fece scrupolo di adoperare la frode ed il
tradimento. In mezzo alle feste che gli davano i suoi feudatari per
onorare il suo ingresso nel regno, si fece rendere, in passando per san
Germano, i diritti regali che l'abbate di questo monastero aveva
usurpati[487]; prese possesso di molte rocche che il conte dell'Aquila
si era appropriato; ed in Capoa istituì un tribunale destinato a
riconoscere i titoli di tutti i feudatarj ed a riunire ai reali dominj i
feudi di cui gli attuali possessori non sapessero giustificare il
titolo. Dopo un'ostinata guerra, costrinse i conti di Celano e di Molise
a sottomettersi[488]; e fece spianare molte delle loro rocche.
Finalmente fece imprigionare i conti dell'Aquila, di Caserta, di san
Severino e di Tricarico, accusati di non essere andati in suo ajuto
contro i Saraceni della Sicilia con quel numero di truppe che dovevansi
dai loro feudi; ed in tal modo terminò d'abbattere l'indipendenza
feudale de' suoi baroni l'anno 1222.

  [487] _Richardi de S. Germano Chron. t. VIII, p. 992._

  [488] _Ibid. p. 996._

Lo stato della Sicilia era ridotto in assai peggiore condizione. I
Saraceni e per l'odio che portavano ai Cristiani, e perchè oppressi da
insopportabili contribuzioni, eransi ribellati: occupavano essi le
montagne del centro dell'isola, e sotto la condotta d'un loro patriotta,
detto Mirabet, saccheggiavano la valle di Mazara. La vicinanza
dell'Africa facilitava loro i soccorsi de' patriotti, che, accostumati
ne' deserti di Barbaria a vivere di ladroneccio, s'affrettavano di
venire nella Sicilia a dividerne le spoglie. Federico gli attaccò
vigorosamente; e, dopo averli più volte battuti (1223), offri loro nuove
terre ne' suoi stati e campagne fertili, ma lontane dal mare, a
condizione che gli rinnovassero il giuramento di fedeltà e servissero
nelle sue armate. Più migliaja di Saraceni accettarono l'offerta, mentre
altri ostinaronsi nella difesa delle loro montagne. Federico trasportò i
primi nella Puglia, ove diede loro la città di Lucera colle belle
campagne della Capitanata[489]. Si pretese che questa prima colonia
potesse, al bisogno, somministrargli venti mila soldati. Ventiquattro
anni dopo ridusse gli altri Saraceni di Sicilia a stabilirsi ad eguali
condizioni in una ricca valle tra Napoli e Salerno, ove occuparono la
città di Nocera, che di poi conservò sempre l'aggiunto di Nocera dei
Pagani.

  [489] _Giann. Ist. Civile del Regno di Napoli l. XVII, c. 2, p. I. —
  Richardi de s. Germ. Chron. p. 996. — Gio. Villani l. VI, c. 14, t.
  XIII, p. 162._ — Gli storici italiani confondono spesso Lucera con
  Nocera.

Mentre Federico assicuravasi della dipendenza de' feudatarj, facendo
smantellare le loro fortezze, andava in cambio fabbricandone di nuove
nelle principali città della Sicilia e della Puglia, e stabiliva nella
prima una guardia fedele che doveva rispondere di tutta l'isola. Tra le
rocche innalzate da Federico, quella di Capuano posta nel centro di
Napoli, ed oggi ridotta a palazzo dei re, sarà lungo tempo un nobile
monumento della sua magnificenza[490]. La bellezza di questo palazzo
determinò probabilmente i suoi successori a stabilirvi la loro dimora
quando Napoli diventò la capitale del regno. Federico aveva di questi
tempi accordato a Napoli un più importante favore, fondandovi
un'accademia, e chiamando a professarvi il diritto, la teologia, la
medicina e la grammatica i più distinti letterati d'Italia[491]. E per
riunire in Napoli tutta la gioventù de' suoi regni che voleva applicarsi
allo studio, oltre i molti privilegi accordati all'accademia, prescrisse
che le professioni letterarie non potessero esercitarsi che da coloro
che riceverebbero i gradì nella medesima. Attribuì pure ai professori di
questa Università il diritto di giudicare tutte le controversie che
avrebbero luogo tra gli scolari; ed ordinò ai professori ed agli scolari
di Bologna di recarsi a Napoli quando quella città aveva provocata la
sua collera; ma l'università repubblicana non fece verun conto de' suoi
comandi o delle sue minacce.

  [490] _Giov. Villani Stor. Fior. l. VI, c. 1, p. 155._

  [491] _Petri de Vineis Epistolae, l. III, ep. 10, 11, 12, 13,
  edizione di Basilea del 1566, p. 411 e seguenti._

Mentre Federico andava ordinando i suoi regni, gli affari de' Cristiani
in Terra santa erano estremamente peggiorati. Un legato pontificio si
era arrogato il diritto di comandare le truppe crociate, e la sua
ignoranza ed ostinazione erano state cagione della perdita di Damietta e
di una florida armata[492]. Qualunque volta il papa aveva sinistre
notizie delle truppe di Terra santa, scriveva nuove lettere a Federico
perchè si affrettasse di soccorrerla: e per determinarvelo più
facilmente, gli offriva la successione al trono di Gerusalemme. Questo
principe perdeva allora la consorte Costanza di Arragona; e Giovanni di
Brienne, ch'era re titolare di Gerusalemme pei diritti della moglie,
aveva una sola figliuola detta Yolante, legittima erede di questo regno
posseduto dai Saraceni: e questa, dietro gl'inviti del papa, fu la
seconda consorte di Federico. Dopo tali nozze celebrate l'anno 1225
aggiunse a' suoi stemmi la croce, ed a' suoi titoli quello di re di
Gerusalemme.

  [492] _Raynaldi Annales Eccles. 1218, § 11, pag. 1219, § 12 e seg.,
  p. 265, 1220, § 55, p. 281 e 1221, § 10, p. 283._ — Era questa la
  quinta crociata, condotta dai re di Cipro, di Gerusalemme e
  d'Ungheria, dal duca d'Austria, da quello di Bavier, ec. Si riunì in
  Acri l'anno 1217. La storia di questa infelice crociata fu scritta
  da Giacomo di Vitry, _l. III, p. 1119 e seg._, e da _Oliverius
  Scholast. Coloniens. p. 1188. — Gesta Dei per Francos_.

Se fino a tale epoca le sue intenzioni furono non senza ragione
dubbiose, certo è intanto che dopo mandò più volte soccorsi ai confini
di Terra santa, e fece grandi apparecchi per recarvisi egli medesimo con
un'armata. I crociati di Germania, d'Inghilterra e d'Italia adunaronsi a
Brindisi: Federico fece equipaggiare i bastimenti di trasporto, ed il
giorno otto settembre del 1227 andò egli stesso a bordo della flotta col
landgravio Luigi di Turingia, il principale de' crociati tedeschi. Ma le
truppe de' popoli settentrionali, che nel cuor dell'estate soggiornavano
in così caldo clima, trovaronsi attaccate da malattie epidemiche, che
fecero perire molta gente, e scoraggiarono i superstiti. In tali
frangenti cadde infermo e morì il landgravio; e lo stesso Federico non
andò esente dal dominante contagio. L'imperatore dovette suo malgrado
abbandonare un'impresa incominciata con sì fortunati auspicj; e
scendendo dal suo vascello protrasse l'impresa fino al vegnente
anno[493].

  [493] _Richardi de S. Germano Chron. p. 1002. — Petri de Vineis
  Epistol. l. I, Lettera 21, p. 142._

(1227) In quest'anno moriva ancora Onorio III, cui veniva surrogato
Gregorio IX, della famiglia de' conti di Segna, e nipote d'Innocenzo
III. Il nuovo pontefice che lusingavasi di vedere illustrato il primo
anno del suo regno dalle vittorie di una crociata, s'abbandonò agli
eccessi della collera quando seppe svanite tutte le sue speranze. Avea
d'uopo di trovare un colpevole per potere in lui punire le avversità
della fortuna, e senza monitorj, senza precedenti citazioni, il 29 del
mese di settembre fulminò contro Federico la scomunica, perchè non era
partito, come aveva promesso, all'epoca stabilita[494].

  [494] Lettera di Gregorio IX ai vescovi del Regno presso _Raynald.
  an. 1227, § 30, p. 341_.

Nelle lettere che il papa diresse al clero del regno di Napoli, per
giustificare una così strana procedura, accusa l'imperatore d'avere
volontariamente dato i crociati in preda all'epidemia col riunirli nella
stagione più calda ne' luoghi più insalubri, e coll'avere in seguito
supposta una malattia ch'egli non ebbe mai, onde abbandonarsi senza
ostacolo ai piaceri ed ai vizj.

Federico dal suo canto inviò i suoi reclami a tutti i sovrani
d'Europa[495]. Da Pozzuolo, ov'erasi recato per ricuperare la sanità in
que' bagni resi così celebri dagli antichi poeti di Roma, scrisse ai
cardinali, al clero de' suoi stati ed a tutti i re della Cristianità.
Ordinò in pari tempo agli ecclesiastici di Napoli e della Sicilia di non
fare verun conto dell'interdetto inflitto a tutti i luoghi in cui egli
fosse per soggiornare e di continuare la celebrazione dei divini
uffici[496]: finalmente per togliere ogni dubbio alla fatta promessa ed
alla realtà della sua malattia che aveva sospesa l'esecuzione della
crociata, faceva ogni cosa apparecchiare con grande sollecitudine per il
passaggio di Terra santa nel susseguente anno.

  [495] _Conradus Abb. Usperg. Chron. p. 234._

  [496] _Petri de Vineis epist. l. I, c. 23, p. 175._

(1228) In agosto del 1228 gli apparecchi erano terminati, e Federico
partì infatti alla volta della Palestina, ma con un'armata assai meno
numerosa che quella dell'anno addietro, perciocchè, a riserva di alcuni
Tedeschi, non aveva oltramontani sotto i suoi ordini. S'imbarcò anche
quest'anno a Brindisi, e dopo un felice tragitto diede fondo a san
Giovanni d'Acri[497].

  [497] _Marini Sanuti Secreta Fidel. crucis l. III, p. XI, c. 11, p.
  211._

Quest'impresa fatta, per quanto sembrava, soltanto per provare
l'ingiustizia della scomunica, si risguardò dal papa come una nuova
offesa, anzichè quale soddisfacimento del passato; ed arse di tanta ira,
che, quantunque il popolo romano, sdegnato per così scandalosa
parzialità, prendesse le armi contro di lui sotto la direzione dei
Frangipani, e lo forzasse a ritirarsi a Perugia, non solo rinnovò contro
di Federico la sentenza di scomunica, ma gli dichiarò la guerra,
promulgò contro di lui una crociata, e sotto il comando di Giovanni di
Brienne, re titolare di Gerusalemme e suocero dell'imperatore, mandò
un'armata a saccheggiare la Puglia[498].

  [498] _Rayn. An. Eccles, 1228, § 5, p. 349. — Vita Greg. IX ex card.
  Arr. coll. p. 576. Sc. Rer. Ist. — Chron. Richar. de san. Germano,
  p. 1004._

In quest'armata, oltre i sudditi del papa, trovaronsi i suoi alleati
lombardi, ed i vescovi di Clermont e di Beauvais: e nel susseguente anno
furono inoltre chiamati dal papa a prender parte in questa guerra gli
arcivescovi di Parigi e di Lione. Federico, partendo, aveva mandati
ambasciatori al papa per ottenere un riconciliamento[499]; ma Gregorio
non volle ascoltarli; ed invece incaricò i Francescani ed i Domenicani
di far ribellare i sudditi di Federico e di pubblicare la falsa notizia
della sua morte onde agevolare le conquiste di Giovanni di Brienne.

  [499] _Raynaldi, 1228, § 18, p. 352._

In Terra santa tutte le operazioni di Federico furono egualmente
contrariate dai ministri del papa, e la sentenza di scomunica
solennemente pubblicata in tutta la Palestina. Il patriarca di
Gerusalemme sottopose all'interdetto tutti i luoghi che occuperebbe
Federico, ed il gran maestro del tempio e di san Giovanni dichiararono
di non poter servire sotto di lui; per cui l'imperatore fu forzato di
acconsentire che nel suo proprio campo gli ordini non fossero dati in
suo nome, ma in quello di Dio e della repubblica cristiana[500]. Mal si
può concepire come in mezzo a tanti svantaggi Federico abbia potuto
ottenere dal soldano d'Egitto un onorevole trattato per la Cristianità.
A quest'epoca il soldano era padrone di Gerusalemme; e perchè i
Musulmani, come i Cristiani, attaccavano a questo luogo un'idea di
santità, credevasi in coscienza obbligato di conservare ai primi la
libertà di poter fare questo pellegrinaggio cui si obbligavano
frequentemente. Ma non erano i medesimi sacri edifici che eccitavano la
divozione delle due sette. I Cristiani veneravano soprattutto il santo
sepolcro e la chiesa fabbricata sopra il medesimo; ed i Musulmani erano
in ispecial modo devoti del tempio de' Giudei innalzato sopra le ruine
di quello di Salomone; tempio che nelle visioni di Maometto era stato
una delle visioni del profeta, quando fece il suo viaggio in cielo.
Federico, conoscendo questi estremi, proponeva del 1229 di lasciare il
tempio ebraico ed il suo circondario sotto la custodia de' Musulmani, a
condizione che il soldano gli cedesse il rimanente della città e parte
del suo territorio[501]. Riservava per altro ai pellegrini, quando la
proposta venisse accettata, il diritto di visitare lo stesso tempio,
purchè mantenessero il debito rispetto[502]: e d'altra parte accordava
ai Musulmani il diritto di entrare nella città di Gerusalemme; adottando
prudenti misure per conservare la buona armonia tra le due nazioni e le
due credenze[503].

  [500] _Bernardi Thesaurarii de acquisit. Terræ sanctæ t. VII. Rer.
  Ital. c. 207, p. 846. — Giannone l. XVI, c. 7. — Secreta. Fidelium
  Crucis Marini Sanuti l. III, p. XI, c. 12, p. 212._

  [501] Questo trattato viene riportato da Oderico Raynaldo all'anno
  1229, § 15 e seg. _p. 359_.

  [502] § quarto del trattato.

  [503] Il papa cercò di confondere il tempio lasciato ai Musulmani
  con quello del santo sepolcro riservato ai Cristiani. In conseguenza
  di ciò accusò Federico d'avere acconsentito ad una profanazione; e
  tutti i posteriori storici, non eccettuati Muratori e Giannoni,
  furono tratti in errore dalle invettive degli ecclesiastici. Pure
  chiarissimi sono i termini del trattato; non lo sono meno quelli di
  Riccardo da san Germano: e l'interdetto pubblicatosi nella stessa
  chiesa del santo sepolcro, e l'incoronazione celebratasi nella
  stessa chiesa, provano evidentemente che trovavasi in potere dei
  Cristiani. Gibbon fu quello che avvertì questo volontario errore
  degli scrittori ecclesiastici.

La città di Gerusalemme essendo stata effettivamente ceduta agli
ufficiali di Federico, questi alla testa delle sue truppe vi entrò come
nella capitale del nuovo suo regno. Ma il patriarca avendolo prevenuto,
sottopose all'interdetto la città e la stessa chiesa del santo sepolcro,
quai luoghi profanati dalla presenza dì uno scomunicato. Niun prete
volle celebrarvi la messa, e Federico che doveva ricevervi la corona del
nuovo suo regno, fu obbligato di prenderla dall'altare colle proprie
mani e porsela in capo.

Gregorio IX, quando ebbe notizia di questo trattato, scrisse a tutti i
principi d'Europa per informarli dell'intera sua disapprovazione,
chiamando questa pace[504] _un esecrabile delitto che ispirava orrore e
sorpresa_. Ma Federico che colla sua armata tenne dietro immediatamente
alle lettere colle quali aveva annunciato il riacquisto di Gerusalemme,
costrinse ben tosto il papa a mutar linguaggio. Riprese a forza tutte le
città e fortezze che gli erano state tolte dalle truppe della Chiesa;
atterrì in modo l'armata di Giovanni di Brienne, che si sbandò in pochi
giorni, lasciando quasi solo questo guerriero veterano; ricevette le
felicitazioni del senato e del popolo di Roma; ed ispirò abbastanza di
spavento al papa per farlo acconsentire ad entrare in trattati co' suoi
ministri[505]: in conseguenza de' quali il papa soppresse le censure
pronunciate contro l'imperatore, e lo riconciliò colla Chiesa, a
condizione soltanto che questi accorderebbe un perdono generale a tutti
i feudatarj ribelli.

  [504] _Oder. Rayn. ad annum._

  [505] _Chronic. Richardi de sancto Germano, p. 1007-1021._

Mentre Federico occupavasi interamente degli affari del suo regno di
Puglia e di quelli di Terra santa; mentre si batteva ad un tempo contro
i Saraceni, contro i crociati, contro i baroni ribelli e contro
gl'intrighi degli ecclesiastici, il Settentrione dell'Italia, sotto la
protezione della Chiesa, formava una lega assai più dannosa all'autorità
imperiale, una lega che dava maggior consistenza alle repubbliche
lombarde, rendendole affatto indipendenti.

Tutti i predecessori di Federico II avevano portato il titolo di re di
Lombardia, o d'Italia; titolo loro conferito col porgli sul capo la
corona ferrea conservata in Monza. Federico solo non avea ancora
ottenuto dai Milanesi questa corona, quantunque non lasciassero di
riguardarlo quale legittimo imperatore[506]. Federico aveva fin allora
dissimulato il suo risentimento; ma i Milanesi non ignoravano quanto un
simile rifiuto doveva offendere la sua vanità; e per mettersi al coperto
dalla sua collera, entrarono in trattati con quelle città che da più
anni avevano mostrato attaccamento al partito guelfo. Proposero di dare
maggior durata e consistenza alla loro alleanza, approfittando perciò
dell'espressa concessione di Federico Barbarossa stipulata nel trattato
di Costanza. Con questo trattato veniva alle città conservato il diritto
di allearsi fra di loro per difendere la propria libertà, ed in ispecie
di rinnovare, quando lo credessero conveniente, la confederazione o
società lombarda.

  [506] _Galvan. Flamma Manip. Florum t. XI, c. 253, p. 668._

Queste negoziazioni eransi incominciate l'anno 1226 quando i Lombardi
ebbero avviso che Federico si disponeva di passare a Cremona, ove apriva
una dieta del suo regno d'Italia[507]. Sentirono il bisogno di
affrettare il trattato, onde il giorno due di marzo, in una chiesa del
distretto di Mantova detta san Zenone di Mozio, i deputati di Milano,
Bologna, Piacenza, Verona, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi,
Bergamo, Torino, Alessandria, Vicenza, Padova e Treviso, rinnovarono per
venticinque anni l'antica lega lombarda. I deputati obbligaronsi a far
giurare quest'alleanza a tutti i cittadini di ogni città, e si promisero
i vicendevoli soccorsi in caso che l'una o l'altra delle città fosse
attaccata da qualsiasi nemico. Fin allora i termini del trattato non
indicavano verun oggetto ostile; ma intanto si era formata una dieta
delle repubbliche lombarde; i deputati a questa dieta, detti rettori, si
obbligavano di mantenere con tutte le loro forze libere le città e la
pace fra di loro; si adunavano assai spesso; e non potevano uscir di
carica senza aver prima nominati i loro successori. E per tal modo si
formava una nuova potenza atta di sua natura a tenere inquieto
l'imperatore.

  [507] _Memorie della città e della campagna di Milano ne' secoli
  bassi del conte Giorgio Giulini vol. VII, l. I, p. 404. — Corio
  delle Istorie Milan. p. II, p. 88._

Infatti Federico fece di tutto per isciogliere questa lega; ma il papa,
sotto i di cui auspicj erasi formata, si affrettò di entrare mediatore
tra le città e l'imperatore, quale pacificatore dei fedeli. Del 1226
regnava ancora Onorio, il quale andava affrettando Federico a fare
l'impresa di Terra santa; e quando ottenne di essere arbitro tra i
confederati e l'imperatore, non aggravò i primi di altre condizioni, se
non che darebbero un determinato numero di soldati per la crociata, e
non farebbero ulteriore opposizione al castigo degli eretici che si
scoprissero fra i loro concittadini[508]. In forza di tali concessioni,
ch'egli chiedeva per sè medesimo, non per Federico, lo ridusse a
riconoscere la lega lombarda ed a lasciarla in pace.

  [508] _Ann. Eccles. Raynaldi an. 1226, § 26, p. 329._

Quando Gregorio IX, che succedeva ad Onorio, si trovò impegnato in una
inconsiderata guerra coll'imperatore, angustiato dalle armi vittoriose
de' Tedeschi, ricorse alla lega lombarda. E perchè i chiesti soccorsi
non giugnevano abbastanza in tempo per riparare le sue perdite, accusava
la lentezza de' suoi alleati, e minacciava di abbandonarli ne' loro
bisogni[509]. Frattanto gli abitanti di Milano e di Piacenza avevano già
spedite le loro truppe; e perchè contro ogni aspettazione vedevansi
strascinati in una guerra offensiva, avevano in pari tempo cercato di
ristringere la lega nella Lombardia, che formava la loro sicurezza.
Molte città lombarde erano governate dai Ghibellini, le quali formavano
come una seconda lega opposta a quella delle città guelfe; e le
repubbliche di Parma, Cremona e Modena erano principalmente cagione di
gelosia e d'inquietudine. In una dieta guelfa, adunata in Mantova, si
stabilì che niuna repubblica confederata riceverebbe per podestà o
giudice un cittadino di città ghibellina[510], o un suddito
dell'imperatore; che non sarebbe permesso a verun cittadino lombardo
l'accettare pensioni, regali, feudi dall'imperatore o da' suoi aderenti;
che i danni che venisse a soffrire taluna delle città della lega per
cagione della guerra che intraprendevano, sarebbero proporzionatamente
compensati dalle altre. Ma i prosperi successi di Federico, già di
ritorno da Terra santa, furono tanto rapidi, che Gregorio IX si trovò
forzato ad entrare in trattative di pace: e perchè il pontefice non
ignorava che la lega lombarda era necessaria alla propria sicurezza,
l'anno 1230 la fece comprendere nel trattato di pace convenuto
coll'imperatore.

  [509] _Ibid. 1229, § 33, p. 362._

  [510] _Bernard. Corio Storia di Milano, p. II, d. 90._

Le città alleate avevano comperata a caro prezzo la protezione del papa,
perciocchè ogni città aveva acconsentito a pubblicare contro gli eretici
i sanguinarj editti dell'imperatore e della chiesa. Già da oltre
vent'anni aveva cominciato in Francia la persecuzione contro gli
Albigesi[511]: il racconto di queste crudeli spedizioni rendeva i popoli
feroci; lo zelo, allora nel colmo del fervore, dei due nuovi ordini
francescano e domenicano comunicavasi a tutte le classi dei cittadini, e
le repubbliche italiane non opponevano più un'insormontabile ripugnanza
allo stabilimento dell'inquisizione. Il 13 gennajo 1228 l'assemblea del
popolo, adunata in Milano, pronunciò sentenza di esigilo e di confisca
dei beni contro gli eretici[512]. Nel 1231 pubblicò un altro più severo
editto mandato a nome comune del papa e dell'imperatore. Finalmente due
anni dopo fu per la prima volta alzato il rogo in Milano, ed il podestà
Oldrado di Tresseno, che fabbricò nella Piazza de' Mercanti il palazzo
pubblico in cui oggi conservansi gli archivj, fece porre sulla facciata
di questo palazzo, sotto al basso rilievo che lo rappresenta a cavallo,
una iscrizione in suo onore onde perpetuare la memoria ch'egli aveva il
primo, siccome era doveroso, fatti abbruciare gli eretici[513].

  [511] In Italia, ove questi settarj erano numerosi, chiamavansi
  Cathari, vocabolo che avevano preso essi medesimi dal Greco,
  corrispondente a quello di Puritani, che altri novatori presero
  alcuni secoli dopo.

  [512] _Corio p. II, p. 94._

  [513] _Qui solium struxit, catharos, ut debuit, uxit. — Memorie
  della città di Milano l. II, p. 469._

Non dobbiamo per altro risguardare i persecutori degli eretici quali
uomini essenzialmente feroci che facciano il male conoscendo di far
male; nè è possibile di farsi ammirare dal proprio secolo a cagione di
opere assolutamente malvage: e siccome a quest'epoca i Domenicani
acquistarono grandissima opinione di santità, devono riconoscersi in
loro grandi virtù associate a quella ardente sete di sangue che fa torto
alla causa cui essi servivano. Una religione mistica è un culto reso al
dolore[514]; ed i divoti trovano un certo che di divino nella violenta
scossa dell'anima pel tormento del corpo; il dolore diventa per loro
stessi l'unico mezzo di purificazione, il solo sacrifizio che piacer
possa alla divinità; inoltre si formarono un Dio che si assoggetta ai
patimenti; un Dio il di cui sacrificio rinnovasi ogni giorno, ogni ora,
in tutte le parti del mondo sull'altare ove il sacerdote celebra i
misterj; un Dio che creò l'inferno ed i tormenti eterni; che in questa
vita innalza l'uomo colle sofferenze; che dopo morte lo purifica colle
fiamme del purgatorio[515]. Tutto è concatenato in questo sistema
fondato sul dolore, e non se gli può rifiutare una specie d'ammirazione
mista di ribrezzo, non solo a motivo della bella connessione delle sue
parti, ma ancora per il disinteressamento e pel sacrifizio di sè
medesimo, di cui forma l'essenziale carattere dell'uomo; e per quel cupo
e poetico dolore che attribuisce a tutti i grandi caratteri. Appunto
perchè questo sistema non è incompatibile colle più nobili idee, sarà
prezzo dell'opera lo svilupparlo. La persecuzione ne forma la sua
essenza, considerandovisi i supplicj dei reprobi come un'offerta
espiatoria dovuta alla divinità e come una salutare penitenza per que'
medesimi che li dirigono: imperciocchè gl'inquisitori di mezzo alla
gioja infernale di cui facevano mostra nelle esecuzioni, non lasciavano
d'essere uomini, e fors'anco assai sensibili; sentivano profondamente
l'offesa che facevano alla natura, e compiacevansi del tormento che
provavano essi medesimi vedendo le pene che facevano soffrire, come
compiacevansi dell'altrui dolore espiatorio. Tengasi ben in guardia la
debole umanità dall'ammettere contraddizioni ne' sistemi che servono di
base alla morale, dal rendere schiava la sua ragione, e di ammettere
misteri assurdi sotto lo specioso pretesto di cose recondite; tengasi in
guardia di non separare giammai dalla idea di Dio quella della bontà. —
Questo carattere è quello per cui solo dobbiamo riconoscere il Padrone
dell'universo; giacchè dal momento in cui le basi del pensiero si
troveranno smosse, il delitto potrà associarsi ai più nobili sentimenti,
e quegli uomini che il cielo aveva formati per la virtù, saranno
egualmente disposti a diventare i carnefici de' loro fratelli, o a
maltrattare le proprie membra colle discipline.

  [514] Devo parte delle idee che qui espongo all'eloquente Storia del
  Politeismo di B. Constant, che mi fu comunicata manoscritta dalla
  amicizia dell'autore.

  [515] Convien dire che il sig. Sismondi sentisse l'esagerazione
  delle presenti osservazioni, onde per non farsene garante, indicò
  l'opera da cui le aveva prese. Il lettore cattolico darà loro il
  peso che meritano. _N. d. T._

Tre Domenicani, ne' tempi in cui parliamo, acquistarono un'alta
riputazione di santità colla felice riuscita delle loro prediche contro
gli eretici e colle crudeli leggi che fecero adottare a quelle stesse
città, che molto tempo protessero la libertà di coscienza: erano questi
frate Filippo di Verona, detto poi san Pietro martire, frate Rolando di
Cremona, e frate Leone di Perego, in appresso arcivescovo di Milano.
Andavano costoro d'una in altra città predicando nelle pubbliche piazze,
per eccitare il popolo a vendicare col sangue l'offesa divinità; ed uno
di loro ottenne di formare in Milano una privata società che adunavasi
per l'estirpazione dell'eresia[516]. Vero è che i frati predicatori non
avevano il solo scopo di mantenere colle loro esortazioni la purità
della fede, scagliandosi ancora frequentemente contro la scostumatezza e
contro i progressi del lusso. Non pertanto, se dobbiamo credere agli
storici della susseguente generazione, i costumi non erano mai stati
così puri, ed il lusso non aveva mai chiesti minori sacrifici[517]. Le
donne non vestivano che una stoffa di lino semplicissima; ed una tela
bianca che loro avvolgeva il capo, si riuniva sotto il collo; l'oro e
l'argento non brillavano sulle loro vesti; le loro mense non
s'imbandivano di delicate vivande, bastandone una sola ad ogni famiglia;
una fiaccola di legno resinoso illuminava l'interno delle case; e tutto
il lusso di quel secolo ristringevasi alle armi, ai cavalli, alle torri,
alle fortezze.

  [516] _Memorie della città e campagna di Milano, an. 1233, l. LI, p.
  478-483._

  [517] _Ricobaldi Ferrariensis Hist. Imperat. t. XI, p. 128._

Un altro importantissimo argomento delle prediche dei monaci, argomento
più degno della religione cristiana e di una divina missione, era quello
di ricondurre la pace tra le private famiglie e tra città e città.
Gl'Italiani non ne avevano giammai avuto così grande bisogno; tutte le
città trovavansi in armi contro le vicine città, e tutte le famiglie
erano divise dalle funeste fazioni guelfe e ghibelline; tutti gli ordini
de' cittadini battevansi tra di loro per togliersi a vicenda il potere e
le magistrature. Queste semi-private guerre, queste rivalità del popolo
colla nobiltà rendono tanto confusa, tanto oscura la storia del periodo
di tempo di cui parliamo, che abbiamo preso consiglio di non entrare
nella circostanziata narrazione dei diversi avvenimenti. Con quello
stesso zelo con cui poc'anni prima avevano i preti predicata dall'altare
la crociata e la distruzione degl'infedeli, si videro adesso nuovi
missionarj passare d'una in altra città, predicando ai popoli, e loro
ordinando in nome d'un Dio di pace il riconciliamento ed il perdono
delle ingiurie.

Un uomo di gran lunga superiore agli altri si distinse in questa nobile
carriera; fu questi fra Giovanni di Vicenza dell'ordine dei Domenicani.
Diede cominciamento alle sue prediche in Bologna l'anno 1233[518]; e ben
tosto i cittadini, i paesani delle vicine campagne, e soprattutto le
persone addette alla professione delle armi, trascinati dalla sua
eloquenza, unironsi intorno a lui. Portavano essi croci e bandiere in
mano, disposti non solo ad ubbidire alla voce del religioso, ma ancora
ad eseguirne gli ordini. In mezzo a questa folla ch'egli aveva scossa
co' suoi sermoni, vedeva tutti coloro, che in Bologna nutrivano antiche
nimistà, venire a deporle a' suoi piedi, e giurar pace coi loro vecchi
rivali. Gli stessi magistrati presentarongli gli statuti della città
perchè li riformasse come meglio credeva, togliendo tutto quanto poteva
essere cagione di nuove dissensioni.

  [518] _Cronica di Bologna di F. Bartolameo della Pugliola t. XVIII,
  p. 257._

Frate Giovanni passò in seguito a Padova precedutovi dalla sua fama.
Vennero ad incontrarlo fino a Monselice i magistrati col carroccio[519];
e fattolo salire su questo sacro carro, l'introdussero in trionfo nella
loro città, che di que' tempi era la più potente della Marca Trivigiana.
Tutto il popolo, affollato nella piazza della _valle_, ascoltò la
predica della pace, applaudì alle riconciliazioni che distrussero
all'istante le passate nimistà, e fece istanza a frate Giovanni di
riformare i loro statuti, ciò che praticò in tutte le città. Passò in
appresso a Treviso, a Feltre, a Belluno, ed ottenne gli stessi successi;
visitò i signori di Camino, di Conegliano, di Romano, di san Bonifacio;
ed i signori, come le città, lo fecero arbitro delle loro contese[520]:
le repubbliche di Vicenza, Verona, Mantova e Brescia, ove recossi
successivamente, accordarongli le medesime facoltà: ovunque potè
riformare gli statuti municipali, alterarli a modo suo, aggiugnendo o
levando tutto quanto credeva: finalmente gli fu in ogni luogo promesso
d'intervenire alla solenne assemblea dei popoli lombardi, ch'egli
convocò pel giorno 28 agosto susseguente nella campagna della Paquara,
in riva all'Adige, lontana tre miglia da Verona.

  [519] _Rolandinus de factis in Marchia Tarvisana, t. VIII, l. III,
  c. 7, p. 203._

  [520] _Gerardi Maurisii Vicentini Hist. t. VIII, p. 30._

Niuna così nobile impresa erasi giammai tentata come quella di
pacificare venti popolazioni nemiche col solo suggerimento de'
sentimenti religiosi, coi soli motivi del cristianesimo, col solo impero
della parola: giammai un così grande spettacolo si presentò agli occhi
degli uomini[521]. L'intera popolazione di Verona, Mantova, Brescia,
Padova e Vicenza trovavasi adunata nella campagna di Paquara, ed i
cittadini di queste repubbliche avevano alla loro testa i proprj
magistrati col carroccio. Gli abitanti di Treviso, Venezia, Ferrara,
Modena, Reggio, Parma e Bologna vi erano altresì coi loro stendardi; i
vescovi di Verona, Brescia, Mantova Bologna, Modena, Reggio, Treviso,
Vicenza, Padova, il patriarca d'Aquilea, il marchese d'Este, i signori
da Romano, e quelli della Venezia, vi erano intervenuti coi loro
vassalli[522].

  [521] Parisio da Cereta, autore coetaneo, dice che si trovarono a
  quest'assemblea più di 400,000 persone. _Chron. Veron. t. VIII, p.
  627._ Il Tiraboschi che in un modo assai interessante trattò la
  storia di fra Giovanni, risguarda questo numero come esagerato.
  _Stor. della Lett. d'Ital. t. IV, l. II, c. 4, § 6, p. 233._ Ma io
  non trovo ragione per renderlo dubbioso.

  [522] _Antonii Ledi Chron. Vicent. t. VIII, p. 80. — Riccardi
  Comitis s. Bonifacii vita t. VIII, p. 128. — Monachus Patav. Chron.
  t. VIII, p. 674._

Frate Giovanni si era fatto preparare in mezzo alla pianura un pulpito
altissimo, dal quale, se crediamo agli storici contemporanei, la canora
sua voce, che sembrava venire dal cielo, fu miracolosamente udita da
tutti gli astanti. Prese per testo le parole della Scrittura, _io vi
dono la mia pace, io vi lascio la mia pace_; e dopo avere con una
eloquenza fin allora senza esempio fatto uno spaventoso quadro dei mali
della guerra; dopo avere dimostrato che lo spirito del cristianesimo era
uno spirito di pace; facendo valere l'autorità della santa sede di cui
era rivestito[523], in nome di Dio e della Chiesa ordinò a' Lombardi di
rinunciare alle loro inimicizie; dettò loro un trattato di pacificazione
universale, per assicurare la quale fece sposare al marchese d'Este una
figliuola d'Alberico da Romano; destinò all'eterna maledizione coloro
che romperebbero questa pace; chiamò le distruggitrici pestilenze sulle
loro greggia, e dannò le loro messi, i loro giardini, le loro vigne ad
una perpetua sterilità[524].

  [523] Lettera di Gregorio IX a frate Giovanni _ap. Raynald. an.
  1233, § 37 e 37, p. 405_.

  [524] L'atto stesso della pace, o a dir meglio quello di una delle
  paci dettate questo giorno da fra Giovanni, ci fu conservato da
  Muratori: _Antiq. Ital. Diss. XLI, t. IV. p. 641_. Quasi non
  contiene altra condizione, che il perdono delle ingiurie.

Fin qui la condotta di frate Giovanni andava esente da ogni sospetto,
vista ambiziosa o interessata; sembrando che il suo zelo non avesse
altro motivo che la gloria di Dio, e l'amore degli uomini; ma
l'assemblea di Paquara pose fine alla gloriosa sua carriera.
L'entusiasmo ch'egli aveva eccitato, la pace universale che aveva
conchiusa, gli fecero concepire troppo alta opinione di se medesimo,
onde si credette fatto non solo per pacificare, ma ancora per governare
gli uomini. Tornato a Vicenza, subito dopo l'assemblea, entrò nel
consiglio del comune, e chiese che gli fosse affidato un illimitato
potere nella repubblica, coi titoli di duca e di conte[525]. Erasi
vociferato che questo santo uomo aveva colle sue preghiere tornati in
vita molti morti, e risanati infiniti infermi; ed il popolo, ben lontano
dal nodrire sospetti intorno alle intenzioni del santo, gli confidò
tutta la sua autorità, sperando di vedere con perfetta eguaglianza
divise tra i cittadini le cariche e gli onori. Di fatti fra Giovanni
prese a riformare gli statuti della città, ma il suo lavoro non
soddisfece all'universale. Da Vicenza passò a Verona, ove ugualmente
chiese ed ottenne la suprema signoria, in forza della quale fece tornare
in città il conte di san Bonifacio, allora esiliato; chiese ostaggi alle
fazioni nemiche, mise guarnigioni nei castelli di san Bonifacio,
d'Ilasio e d'Astiglia, fece abbruciare sulla pubblica piazza, dopo
averli egli stesso sentenziati, sessanta eretici che appartenevano alle
principali famiglie di Verona, e per ultimo pubblicò molte leggi e
regolamenti[526].

  [525] _Gerardi Maurisii Hist. Vicent. p. 38._

  [526] _Chron. Veron. Parisii de Cereta p. 627._

Intanto i Vicentini non tardarono ad accorgersi che il nuovo signore,
invece di accrescere i privilegi del popolo, andava consolidando la
propria sovranità: perchè aggiugnendosi ai loro timori i conforti de'
Padovani che li consigliavano a scuotere così vergognoso giogo, mentre
fra Giovanni trovavasi a Verona, il podestà di Vicenza, Uguzio Pilio,
introdusse in città i nemici dei signori da Romano, e le milizie
padovane per fortificarsi contro il nuovo sovrano. Un altro
ecclesiastico, frate Giordano, priore di san Benedetto a Padova, che
grandissima influenza aveva sul governo di questa città[527], geloso
della gloria del suo confratello, gli aveva probabilmente fatta
ribellare Vicenza. Tosto che frate Giovanni fu avvisato dell'accaduto,
accorse con alcuni soldati per reprimere i sediziosi, e già occupava il
palazzo del podestà, che abbandonava al saccheggio, quando giungendo a
Vicenza le milizie padovane, scacciarono i soldati di frate Giovanni,
che rimase prigioniere. Sebbene per l'intromessione del papa fosse ben
tosto rimesso in libertà, la sua prigionia aveva distrutto il suo potere
in Verona come a Vicenza; onde trovossi costretto di restituire gli
ostaggi che aveva ricevuti e le fortezze occupate dalle sue guarnigioni,
ritirandosi a Bologna, dopo avere perduta ogni sua gloria, e lasciata la
Lombardia in preda a tante guerre, quante la laceravano prima che desse
principio alle sue predicazioni.

  [527] Intorno all'influenza di Giordano, vedasi: _Rolandini ad an.
  1228, l. II, c. 17, p. 197_.

Il potere dell'eloquenza in questo secolo, quell'impero della parola con
cui il frate di Vicenza si traeva dietro i popoli, e ne regolava i
destini, fu il primo effetto del rinascimento delle lettere, o forse al
contrario il primo motivo dell'importanza che si diede allora allo
studio delle lettere, e dei rapidi avanzamenti che poi fecero. Non deve
sempre giudicarsi del merito d'un oratore dietro l'impressione che
produce nel popolo; imperciocchè assai più che l'eloquenza influiscono
sulla buona riuscita le disposizioni degli uomini, e quel rapido slancio
sull'immaginazione del popolo, ancora nuovo ai prestigi ed ai piaceri
della parola. Nè Demostene, nè Cicerone, nè Bossuet, scossero giammai
così profondamente i loro uditori, quanto i frati predicatori di san
Domenico, quanto san Francesco d'Assisi e sant'Antonio da Padova. Le
repentine conversioni de' principali personaggi del secolo, i dotti che
abbandonavano i loro studj, i principi che abdicavano il loro potere
ascoltando un discorso di taluno di questi oratori religiosi, la
facilità con cui le più gelose e turbolenti repubbliche rendevanli
arbitri dei proprj destini, lo zelo dei soldati e de' contadini che
seguivano il loro predicatore di città in città, e perfino ne' deserti,
ne ricordano i favolosi effetti della poesia d'Orfeo e la magica forza
della parola sui Greci, sopra una nazione troppo simile all'italiana,
egualmente nuova, egualmente entusiasta, egualmente dalla natura
destinata ad aprire la nuova strada della poesia e dell'eloquenza.

Di tanti celebri oratori di questo secolo non abbiamo che i discorsi di
sant'Antonio, dei quali il Tiraboschi, che era cattolico, ne parlò col
rispetto da lui dovuto alle opere d'un santo di primo ordine[528]; pure
non lasciò di osservare che questi discorsi, a fronte de' maravigliosi
effetti attestati dagli storici contemporanei, non sono che un tessuto
di passi scritturali e de' ss. Padri, con alcune riflessioni morali,
senza ornamenti di stile, senza forza o profondità, senza varietà di
figure, e per dirlo in una parola senza niente di tutto quanto forma il
carattere d'un eloquente oratore. Ma ciò che sembrerà ancora più strano,
si è che questi discorsi facevansi in latino. Vero è che, come l'osserva
Tiraboschi, in tal epoca la lingua latina era più vicina alla volgare
che si parlava comunemente, di quel che lo sia adesso la toscana ai
dialetti delle diverse province d'Italia, ove gli oratori e gli avvocati
non adoperano pure che questa elegante lingua[529]: e pure sono intesi
dalle ultime classi del popolo, che pur non sanno parlare lo stesso
linguaggio[530].

  [528] _Stor. della Letter. Ital. t. IV, l. III, c. 5, § 24._

  [529] Talvolta i predicatori parlavano al popolo in latino, ossia
  _litteraliter et sapienter_: indi lo spiegavano in italiano, ossia
  _maternaliter_. Veggansi le _Antich. Estensi ad an. 1189, t. I, c.
  36_.

  [530] Ciò s'intende facilmente ammettendo che la lingua dotta
  d'Italia non è il dialetto toscano, comechè di tutti il migliore, ma
  una lingua universale, a formare la quale concorsero più o meno
  tutti i dialetti. Veggansi tra gli altri Dante _De vulgari eloquio_,
  ed il bel dialogo di Pierio Valeriano da me pubblicato
  nell'Appendice del primo Tomo della _Storia letteraria della Piave_.

Per altro in quest'epoca cominciavasi appunto a coltivare la lingua
italiana non più come un barbaro dialetto, ma come una lingua adattata
ad esprimere i sentimenti del cuore e le sottigliezze dell'ingegno; ed
in quest'epoca i primi poeti siciliani prepararono colle loro rime e
canzoni quella dotta lingua di cui Dante doveva bentosto usar sì
nobilmente. Fino nella prima sua gioventù, Federico II, gli andava
incoraggiando; era poeta egli medesimo, ed i pochi versi ch'egli scrisse
probabilmente avanti il 1212, sono forse i più antichi che siansi
conservati in lingua italiana. I suoi figli, il suo ministro Pietro
delle Vigne[531], e tutti i più riputati personaggi della sua corte,
nutrivano lo stesso amore per la poesia, e l'incoraggiavano non meno col
loro esempio, che colla loro splendida munificenza[532]. E per tal modo
questa nuova poesia fu trattata soltanto dai sudditi del regno di
Napoli, ed anche vivente Dante, la lingua volgare, ed in particolare
quella de' poeti, chiamavasi siciliana[533].

  [531] Lodovico Castelvetro in una sua erudita lettera, che sarà in
  breve pubblicata con molte altre tuttavia inedite, prova che Pietro
  delle Vigne, ed il giudice Colonna di Messina ec. scrissero poesie
  in provenzale ed in siciliano, niente in lingua italiana. _N. d. T._

  [532] _Tiraboschi p. IV, l. III, c. 3, § 5, p. 360._

  [533] _Dantes Aligh. de vulgari eloquio c. 12._

La poesia italiana deve perciò in qualche modo la sua origine ai re
siciliani ed ai loro sudditi. Conviene ascrivere questo vantaggio
ch'ebbero sopra le repubbliche italiane, in gran parte all'amore dei
piaceri e della effeminatezza pur troppo comune ai poeti, e che fece
loro quasi sempre preferire il lusso e l'adulazione delle corti alla
severità ed all'eguaglianza repubblicana: pure un'altra ragione
giustifica i Lombardi assai meglio, vale a dire il gusto che a
quest'epoca avevano preso per la lingua provenzale, che coltivavasi già
da oltre due secoli da diversi gentili poeti, e che perciò furon quasi
tentati di adottare come lingua nazionale[534].

  [534] Scrisse Dante che a' suoi tempi, cioè verso il 1300, non erano
  ancora passati 150 anni da che si era incominciato a scrivere in
  lingua italiana _In vita nova_. L'anno 1158 regnava ancora Ruggeri
  I, re di Sicilia. Pare che a' suoi tempi e ne' suoi stati si
  tentasse per la prima volta di far versi italiani. Suo nipote,
  Guglielmo II, accordò la sua protezione ai poeti: la sola azione che
  gli procurò il soprannome di _buono_.

La Lombardia non ebbe mai, e nè pure ha presentemente una lingua
scritta[535]; e vi si parlano informi dialetti diversi in ogni città, in
ogni villaggio. Il dialetto lombardo era egualmente lontano dal
provenzale e dal siciliano; e prima che Dante facesse adottare la lingua
cortigiana, com'egli la chiama, di cui può risguardarsi come il
creatore, era ancora indecisa la scelta tra le due lingue, egualmente
poetiche, egualmente coltivate, egualmente prossime al dialetto del
popolo. I marchesi d'Este, ed in ispecial modo Azzo VII[536], il
marchese di Monferrato, i signori da Romano e da Camino, intrattenevano
alle piccole loro corti molti trovatori (Troubadours) della Provenza; i
quali eran contenti di tenervi il rango di adulatori ed anche di
buffoni, ed il nome che davansi spesse volte di _giullari_, ossia uomini
festosi, non è atto ad indicare più alte pretensioni. Pure perchè le
invenzioni cavalleresche erano allora di moda, più assai che i costumi
della cavalleria, fingevano sempre ne' loro versi amori romanzeschi,
pericoli, battaglie, unione in somma di valore e di galanteria. Devonsi
riconoscere da questo gusto del secolo le stravaganti avventure che si
raccontarono come parte della loro storia, ma che vengono smentite dalle
deposizioni di tutti gli autori contemporanei.

  [535] Anche questo è detto poco cautamente perchè molti dialetti
  lombardi possono mostrare diverse opere stampate da qualche secolo,
  ed assai ne' tempi a noi più vicini. _N. d. T._

  [536] Azzo VII regnò dal 1215 al 1264. — Rimangono tuttavia molti
  poemi de' trovatori italiani e provenzali fatti in onore delle dame
  di casa d'Este in principio del secolo XIII. — _Tirab. l. III, c. 3.
  Muratori Ant. Est. t. II, p. 20. — Millot Hist. des Troubadours t.
  I, p. 278. t. III, p. 431_, ec.

Fra i Trovatori si resero famosi molti Italiani colle loro poesie
provenzali. Nicoletto di Torino, Bonifacio Calvi di Genova, Bartolomeo
Giorgi di Venezia, quantunque adesso affatto dimenticati, formarono
allora le delizie delle società. Due uomini pel loro carattere superiori
a questi adulatori delle corti, acquistavansi in pari tempo somma
riputazione tra le repubbliche lombarde coi loro canti provenzali. Ugo
Catola consacrò i suoi poetici talenti contro la tirannia e la
corruzione de' principi[537]; ma non ci rimase un solo de' suoi versi: e
Sordello di Mantova giace nascosto entro una misteriosa oscurità. Gli
scrittori del susseguente secolo ne parlano con profondo rispetto, senza
entrare ne' particolari della sua vita: quelli che vennero più tardi, lo
encomiarono quale generoso guerriero, qual difensore della sua patria:
nè mancò chi lo facesse principe di Mantova[538]. La nobiltà de' suoi
natali, il suo matrimonio, le sue galanterie con una sorella d'Ezzelino
da Romano, sono attestate dagli scrittori coetanei[539]; la violenta sua
morte viene oscuramente indicata da Dante, e ciò che rende soltanto
Sordello immortale è quanto di lui ne scrisse il poeta fiorentino, che
dice d'averlo veduto nell'atto che con Virgilio stava per entrare nel
purgatorio[540].

  [537] _Tiraboschi t. IV, l. III, c. 2. p. 334._

  [538] _Historia Urbis Mant. a Batt. Platina l. I, p. 680. Scr. Rer.
  It. t. XX. — Tirab, loc. cit. § 15, p. 342._

  [539] _Roland. de factis in Marchia l. I, c. 3, p. 173._

  [540] _Purgat. c. 6. v. 61._ Nel libro _de vulgari eloquio_ così
  parla di Sordello: _ut Sordellus de Mantua qui tantus eloquentiæ vir
  existens non solum in poetando s sed quomodolibet loquendo patrium
  vulgare deseruit. c. 15._

    Venimmo a lei: o anima lombarda
      Come ti stavi altera e disdegnosa,
      E nel muover degli occhi onesta e tarda.
    Ella non ci diceva alcuna cosa:
      Ma lasciavane gir, solo guardando
      A guisa di leon quando si posa.

Pure quando Sordello seppe che il compagno di Dante era di Mantova,
senza ancor sapere che fosse Virgilio;

    Surse ver lui del luogo ove pria stava,
      Dicendo, o Mantovano, Io son Sordello
      Della tua terra: e l'un l'altro abbracciava.

Ed all'occasione di questo tenero amore che avevano altra volta tutti
gli uomini generosi pei loro compatriotti, Dante rimprovera alle
repubbliche italiane le loro discordie con tanta eloquenza, che questo
pezzo viene tenuto uno de' più belli del poema[541].

  [541] Non si può non desiderare di conoscere qualche saggio delle
  poesie di Sordello, non fosse altro che per confrontare il
  provenzale coll'italiano. Molti pezzi da me non veduti si
  conservarono in un MS. dell'anno 1254 nella libreria di Modena, ove
  dimenticai di farne ricerca. Eccone uno assai breve riportato dal
  Lambeccio nelle sue note alla storia di Platina, _t. XX. Rer. It.
  681_. È intitolato: _Tensa de Sordel et de Peyre Guilhem_; ossia
  sfida di Sordello e di Pietro Gulielmo.

  GUILHEM.

    _En Sordel que vas en semblan_
    _De la pros contessa preysan?_
    _Car tout dison et van parlan_
    _Que per s'amar etz ia vengnutz,_
    _E quen cujatz esser sos drutz_
    _En blanchatz etz por ley canutz._

  SORDEL.

    _Peyre Guilhem, tot sot son affan_
    _Mist Dieu in ley far per mon dan._
    _Les beautatz que las autraz an_
    _En menz, et el pres son menutz._
    _Ans fos ab emblanchatz perdutz_
    _Che esso non fos advegnutz._

  GUGLIELMO.

  E ben, Sordello, che ve ne pare di quest'amabile contessa sì
  pregiata? perchè tutti dicono che il suo amore vi tien qui, che voi
  credeste poter essere il suo amante, e che per lei vi s'imbiancano i
  capelli e vi abbandonano le forze.

  SORDELLO.

  Pietro Guglielmo, Dio pose in lei ogni suo studio per farne il mio
  tormento. Le beltà delle altre non sono nulla, piccolo ne è il
  prezzo. Foss'io piuttosto sorpreso dalla vecchiaja, che provar quel
  ch'io provo.


  Il rimanente del poema manca: ma basta questo per dare un saggio
  della lingua, e delle prime regole che adottarono i poeti per la
  forma delle stroffe, e per la struttura dei versi. Ne feci la
  traduzione in grazia di coloro che non hanno troppa pratica de'
  nostri antichi autori.


FINE DEL TOMO II.



TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO II


  CAPITOLO VII. _Ambizione dei Milanesi; loro
  conquiste in Lombardia nella prima metà
  del secolo XII. — Regni di Lottario III e
  di Corrado II. — Rivoluzione di Roma._
  1110-1152                                         _pag._ 3

  _Anno_

            Stanchezza dei due partiti dell'impero
              e della Chiesa.                               _ivi_
            Il governo municipale della città si
              rinforza sotto il regno d'Enrico IV               4
            Rivalità di Milano e di Pavia                       5
  1100-1107 Guerre tra le città alleate delle due
              metropoli                                     _ivi_
  1107-1111 I Milanesi attaccano e distruggono Lodi             8
       1118 I Milanesi attaccano Como                           9
            Motivi religiosi e politici di tale guerra         10
            Battaglia sul monte Baradello                      12
       1119 Lega formata dai Milanesi contro i Comaschi        15
            Descrizione della città di Como                 _ivi_
  1118-1127 Assedio di Como che dura dieci anni                16
  1125-1126 I Comaschi oppressi dal numero de' loro nemici     18
       1127 I Milanesi attaccano le mura di Como               20
            Disperata difesa dei Comaschi                   _ivi_
            Si ritirano nel castello di Vico                   21
            Capitolano                                         22
       1129 Guerra de' Milanesi contro Cremona                 23
       1125 Enrico V muore senza figli                      _ivi_
            Rivalità tra le due case guelfa e
              ghibellina in Germania                        _ivi_
            Lottario II, duca di Sassonia, alleato
              de' Guelfi eletto imperatore                     25
       1127 Corrado III di Franconia della casa di
              Hohenstauffen eletto imperatore del
              partito opposto de' Ghibellini                   26
       1128 I Milanesi si dichiarano per Corrado III
              che passa in Italia                           _ivi_
  1127-1132 Guerra civile vilmente sostenuta                   27
       1133 4 giugno. Lottario II coronato dal papa in Roma    28
  1130-1139 Scisma d'Innocenzo II, ed Anacleto II           _ivi_
       1130 Civil guerra in Roma tra i due papi                31
       1134 I due fratelli d'Hohenstauffen si
              sottomettono a Lottario                          32
       1136 Seconda spedizione di Lottario in Italia        _ivi_
       1137 Il 3 dicembre. Morte di Lottario nelle
              montagne di Trento                               33
       1139 Predicazioni repubblicane di Arnaldo da
              Brescia                                       _ivi_
            Amicizia d'Arnaldo da Brescia e di Abaelardo       34
            Arnaldo perseguitato si rifugia nel vescovado
              di Costanza                                      35
  1140-1141 Guerra dei Romani contro Tivoli                    36
       1143 I Romani rivoltati contro Innocenzo II
              ristabiliscono il senato                         38
       1144 Governo di Roma. Un patrizio e cinquantasei
              senatori                                         39
            Le torri dei partigiani del papa atterrate         40
            Lettere del senato a Corrado III eletto
              imperatore                                       41
            L'imperatore rifiuta di rispondere al senato
              di Roma                                          42
       1145 Lucio II volendo abolire il senato viene ucciso    43
            Eugenio III approva la costituzione del senato     44
            Arnaldo da Brescia chiamato a Roma viene
              ricevuto trionfante                           _ivi_
  1143-1152 Nuova forma ch'egli dà alla costituzione
              romana                                        _ivi_

  CAPITOLO VIII. _Federico Barbarossa imperatore. — Sua
  prima spedizione contro le città d'Italia._
  1152-1155                                                    48

       1152 Morte di Corrado III eletto imperatore
              il 15 febbrajo                                   48
            Suo nipote Federico Barbarossa eletto suo
              successore                                       49
            Severità inflessibile di Federico                  50
            Federico chiamato dal papa in Italia               52
            S'impegna in tale spedizione nella dieta di
              Vurtzbourg                                       53
       1153 Presentansi alla dieta di Costanza due
              Lodigiani                                     _ivi_
            Federico ordina ai Milanesi di rimetterlo
              in libertà                                       54
            Sdegno dei Milanesi nell'udire quest'ordine        55
            Lagnanze di Pavia e Cremona contro i Milanesi      56
       1154 Federico entra in Lombardia, ed apre i Comizj
              in Roncaglia nel mese di ottobre                 57
            Ascolta le accuse contro Chieri, Asti e Milano     58
            Conduce la sua armata dalla parte di Novara        59
            Saccheggio e distruzione di Rosate                 61
            I Milanesi puniscono il loro console per la
              collera di Federico                              62
            Cercano invano di calmarlo                      _ivi_
            Federico abbrucia il ponte del Ticino e
              distrugge Trecate e Galiate                      63
       1155 Abbandona all'incendio Chieri ed Asti              65
            Intraprende il 13 febbrajo l'assedio di Tortona    65
            I Milanesi soccorrono Tortona                      66
            Federico condanna a morte i prigionieri quali
              ribelli                                          67
            Fa corrompere l'acqua degli assediati              68
            Tortona s'arrende, e gli abitanti vanno a Milano   69
            Federico s'incammina verso Roma                    70
            Papa Adriano IV aveva posto Roma sotto
              l'interdetto, per allontanarne Arnaldo           71
            Federico si fa dare Arnaldo, che consegna
              al papa, che lo fa morire                        72
            Federico sforzato a tenere la staffa al papa       73
            Rimanda con disprezzo i deputati del senato
              di Roma                                          75
            Fa occupare dalla cavalleria la città leonina   _ivi_
            Vien coronato in Vaticano senz'entrare in Roma     76
            Batte le milizie romane poi si ritira a Tivoli     77
            Passa nel ducato di Spoleti, e ne abbrucia la
              capitale                                         78
            Nulla osa intraprendere contro Guglielmo I
              succeduto a Ruggero di Napoli morto in
              febbrajo 1153                                    80
            Federico licenzia l'armata in Ancona            _ivi_
            Si sottrae a stento all'imboscata dei
              Veronesi e rientra in Baviera                    81

  CAPITOLO IX. _Continuazione della guerra di
  Federico Barbarossa colle città lombarde. — Primo
  assedio di Milano, assedio di Cremona,
  presa e ruina di Milano._
  1155-1162                                                    83

       1155 I Milanesi rifabbricano Tortona                 _ivi_
       1156 Puniscono i loro vicini dichiaratisi per
              l'imperatore                                     84
            Il principe Roberto di Capoa perisce in prigione   86
            Papa Adriano si riconcilia col re Guglielmo        87
       1157 Offende l'imperatore colle sue orgogliose pretese  88
            Federico annuncia una seconda discesa in Italia    90
       1158 Assemblea dell'armata dell'imperatore ad Ulma      91
            I Milanesi vogliono forzare i Lodigiani a
              giurar loro fedeltà                              92
            Questi per non prestarsi lasciano le loro borgate  93
            Federico sottomette Brescia                     _ivi_
            Leggi militari intorno alla disciplina
              dell'armata                                      94
            Passa l'Adda e s'impadronisce di Cassano,
              Trezzo, Melegnano                                97
            Rifabbrica Lodi quattro miglia distante dal
              vecchio                                          98
            Conduce la sua armata sotto Milano                 99
            Sortite dei Milanesi                              100
            Assedio e presa dell'Arco dei Romani              101
            Barbarie dei soldati pavesi e cremonesi           102
            Il conte di Biandrate si offre ai Milanesi
              per trattare la pace                            103
            Vantaggiose condizioni ottenute dall'imperatore   105
            Seconda dieta a Roncaglia                         108
            Il clero ed i legisti d'Italia partigiani
              del despotismo                                  109
            Federico si fa attribuire dalla dieta tutte
              le regalie                                      110
            La dieta gli dà il diritto di creare i giudici    112
            Istituzione dei podestà                         _ivi_
            Il diritto di guerra privata tolto alle città     113
            La città di Piacenza condannata                   114
            Federico domanda la Corsica e la Sardegna       _ivi_
       1159 Federico viola il trattato conchiuso coi
              Milanesi                                        116
            I Milanesi s'impadroniscono di Trezzo             117
            Federico mette Milano al bando dell'impero        118
            Contese di Federico con papa Adriano            _ivi_
            Coraggio dei Milanesi                             120
            Federico guasta il territorio di Milano           121
            Intraprende il 4 luglio l'assedio di Crema        122
            I Milanesi mandano soccorso ai Cremaschi          123
            Crudeltà di Federico contro i Cremaschi         _ivi_
            Ne attacca gli ostaggi alle macchine              124
            Lunga resistenza dei Cremaschi                    126
       1160 Gli assedianti prendono le mura esteriori
              di Crema                                        128
            Capitolazione de' Cremaschi il 22 gennajo         130
       1159 Settembre. Morte d'Adriano IV. Scisma
              d'Alessandro III e di Vittore III               131
            Federico, favorevole a Vittore, è
              scomunicato da Alessandro                       132
       1160 Federico licenzia l'armata e si riduce
              alla piccola guerra                             134
            Combattimento di Cassano favorevole ai Milanesi   135
       1161 Combattimento di Bulchignano collo stesso esito   157
            Una nuova armata tedesca s'unisce a Federico,
              che abbrucia la messe dei Milanesi            _ivi_
            Intraprende il blocco di Milano                   139
       1162 I Milanesi forzati dalla fame a capitolare        140
            Si rendono a discrezione il primo marzo         _ivi_
            Portano a Federico tutti i loro stendardi,
              e gli danno giuramento di fedeltà               141
            Federico fa sortire il 16 marzo tutti gli
              abitanti dalla città                            143
            Ordina il 25 marzo di spianare Milano.
              Esecuzione di tale sentenza                   _ivi_

  CAPITOLO X. _Oppressione dell'Italia. — Lega
  lombarda e sua resistenza all'imperatore. — Fondazione
  d'Alessandria._
  1162-1168                                                   145

       1162 Federico riceve a Pavia le felicitazioni
              dei principi                                  _ivi_
            Compassione eccitata dagli emigrati milanesi      147
            Le città già rivali gli danno asilo             _ivi_
            Terrore di tutti gl'Italiani. Sommissione
              de' Genovesi                                    148
            Federico riconcilia i Pisani ed i Genovesi        150
       1163 I feudatarj pisani in Sardegna ricorrono
              all'imperatore                                  152
       1164 Barisone, giudice d'Arborea, accetta il
              titolo di re                                    153
            Opposizione dei consoli pisani al nuovo
              titolo                                        _ivi_
            Barisone viene arrestato per debiti dai
              Genovesi                                        155
            La guerra tra Pisa e Genova si rinnova per
              le cose della Sardegna                          156
  1165-1169 Guerre civili a Genova                          _ivi_
       1169 Conciliazione delle parti in un'assemblea         157
       1163 Federico fa demolire le mura di Tortona           159
       1164 I podestà dell'imperatore opprimono le province   160
            I Milanesi domandano grazia all'imperatore        161
            Malcontento dei Veronesi                        _ivi_
            Confederazione di Verona, Vicenza, Padova
              e Treviso                                       162
            Federico torna in Germania a rifare l'armata      163
            Vi è trattenuto da una guerra                     164
       1165 I Romani si sottomettono ad Alessandro III,
              che torna in Roma                               165
       1166 Morte di Guglielmo il malvagio re di Napoli.
              Gli succede Guglielmo il buono                  166
            L'imperatore rientra in Italia alla fine
              d'autunno                                       167
       1167 Marcia verso l'Italia meridionale                 168
            Dieta dei deputati delle città a Pontida per
              trattare della comune difesa                  _ivi_
            27 aprile. I Milanesi ricondotti nella città,
              e rifatte le loro mura                          170
            I Cremonesi vogliono far entrare nella lega
              i Lodigiani                                     172
            Vengonvi costretti colle armi                     174
            Quindici città s'impegnano nella lega lombarda    175
            Alleanza di Manuele Comneno con Ancona          _ivi_
            Il conte di Tuscolo batte le milizie romane       177
            Federico si presenta in faccia alla città
              leonina                                         177
            I suoi soldati mettono il fuoco alla chiesa di
              santa Maria in Campo Santo                      178
            Papa Alessandro III fugge da Roma                 179
            I Romani trattano coll'imperatore               _ivi_
            Un'epidemia si manifesta nell'armata tedesca      180
            Federico obbligato di ritirarsi col resto
              dell'armata                                     182
            In una dieta a Pavia sfida la lega lombarda       184
            La lega s'impegna di scacciar l'imperatore
              d'Italia                                      _ivi_
       1168 Federico fugge segretamente d'Italia              186
            Nuovi confederati ingrossano la lega              187
            La lega prende a fabbricare Alessandria         _ivi_

  CAPITOLO XI. _Natura della lega lombarda. — Guerre
  dell'arcivescovo Cristiano luogotenente
  dell'imperatore contro le città libere. — Assedio
  d'Ancona. — Federico respinto sotto Alessandria,
  battuto a Legnano, tregua di Venezia, pace di Costanza._
  1168-1183                                                   191

            Prosperità della lega lombarda                  _ivi_
            Vero momento per istabilire il governo
              federativo                                      192
            I Lombardi non ebbero l'idea di questo governo    195
            Condizioni della loro alleanza                    196
  1168-1171 L'imperatore tenta di disunire gli alleati        198
       1171 Manda in Toscana l'arcivescovo Cristiano        _ivi_
            Alleanze de' Pisani coll'imperatore d'Oriente     199
       1172 L'arcivescovo vuol pure il pacificatore di
              Toscana                                         200
       1173 Fa imprigionare i consoli di Pisa e Fiorenza      201
            Forma un'armata di Sienesi, Pistolesi e Lucchesi  202
            Nel primo anno fa la guerra in Toscana          _ivi_
       1174 Conduce la sua armata sotto Ancona                203
            L'assedia di concerto coi Veneziani               204
            Gli assediati mancano di viveri                   206
            Eroismo di Stamura                                207
            Un vecchio impedisce agli Anconitani
              d'arrendersi                                    209
            Gli Anconitani mandano a domandar soccorsi
              in Romagna                                      211
            Generosità d'una dama d'Ancona                    212
            Un'armata romagnola ne fa levare l'assedio        213
            Federico rientra in Italia in ottobre             215
            Forza Asti a sottomettersi                      _ivi_
            Intraprende l'assedio d'Alessandria               216
            Lo continua per quattro mesi d'inverno            217
       1175 La dieta de' Lombardi a Modena leva un'armata
              per soccorrere Alessandria                      218
            Federico, durante una tregua, tenta sorprenderla  219
            Leva l'assedio e marcia verso Pavia             _ivi_
            L'incontrano i Lombardi e per rispetto non
              lo attaccano                                    220
            Conferenza per la pace e sospensione d'armi       221
            L'imperatore eccita sospetti nella lega           222
       1175 I legati del papa vanno a Pavia da Federico       223
            Romponsi i trattati e ricomincia la guerra        225
            Cristiano attacca i Bolognesi                   _ivi_
       1176 Federico riceve il soccorso di una nuova armata   226
            Preparativi de' Milanesi per difendersi           227
            Vittoria de' Milanesi a Legnano                   228
            Federico abbandonato cerca di far pace            231
            Manda ambasciatori a chiederla ad
              Alessandro III                                _ivi_
            Il papa promette di venire al congresso
              lombardo                                        232
            L'imperatore trova partigiani tra i Lombardi    _ivi_
            Cremona e Tortona segnano la pace                 233
       1177 Il papa e gli ambasciatori di Napoli arrivano
              a Venezia                                       235
            Discussioni intorno al luogo delle conferenze     236
            Si sceglie Venezia                                237
            Pretensioni delle città                           238
            Pretensioni dell'imperatore                       239
            Condotta ambigua del papa                         242
            Propone una tregua di più anni                  _ivi_
            La tregua vien segnata il 6 luglio              _ivi_
            Federico ricevuto in Venezia, e riconciliato
              col papa                                        245
       1178 Il papa tornato a Roma si riconcilia col senato   246
  1178-1183 Trattati per una pace definitiva                  247
       1183 Defezione di Tortona e di Alessandria             248
            Dieta a Costanza per trattare la pace             250
            Trattato di Costanza il 25 giugno 1183            251

  CAPITOLO XII. _Ultimi anni di Federico
  Barbarossa. — Enrico VI suo figlio riunisce all'impero
  il regno delle due Sicilie. — Torbidi eccitati nelle
  repubbliche italiane dalla nobiltà._
  1183-1200                                                   255

            Le dissensioni civili compresse in tempo di
              guerra si rinnovano dopo la pace nelle
              città libere                                  _ivi_
       1183 I Milanesi cambiano la costituzione               258
            Prime gelosie tra i nobili ed il popolo           260
            Costituzione di Bologna                           261
            Nuove leggi nelle altre repubbliche               263
  1183-1197 Rapida successione de' sovrani in quindici
              secoli                                          264
       1184 Ritorno pacifico di Federico in Italia            267
            Fa sposare l'erede dei re di Sicilia ad Enrico    268
            Decadimento del regno delle Due Sicilie           270
            Federico per averlo mantiene la pace in Italia    272
       1187 Gerusalemme presa da Saladino il 2 ottobre        274
       1187 Terza crociata                                    275
            Gl'Italiani vi s'impegnano con calore             276
       1188 Pace de' Cristiani per far guerra a
              gl'infedeli                                   _ivi_
       1189 Federico prende la croce                          278
       1190 S'annega nel fiume Salef in Armenia               279
            Enrico VI paragonato a suo padre                  280
       1189 Guglielmo II muore a Palermo                      281
       1190 Tancredi, figlio naturale di Ruggero, gli
              succede                                       _ivi_
            Enrico VI cerca ajuto dai Genovesi e dai
              Pisani per conquistare la Sicilia               282
            È forzato a fuggire, e sua moglie è fatta
              prigioniera                                     283
       1194 Morte di Tancredi e di suo figlio                 284
            Gli succede Enrico VI e si rende odioso
              ai popoli                                     _ivi_
       1197 Muore improvvisamente l'otto settembre            285
            Gli succede Federico II di quattr'anni          _ivi_
       1191 Guerra tra Brescia e Cremona                      286
            Vittoria de' Bresciani sui Cremonesi              288
  1198-1199 Guerra tra Parma e Piacenza                       289
            Potenza dei Gentiluomini della Venezia            290
            Fortezze nell'interno delle città                 292
            Discordia tra i gentiluomini                      293
            Potere dei podestà nelle città                    294
            L'elezione dei podestà divisa spesso tra due
              famiglie rivali                                 295
            Casa da Romano nella Marca Trivigiana             297
            Inimicizia d'Ezzelino e di Tisolino               298
       1194 Ezzelino II in guerra con Vicenza                 299
            Nascita d'Ezzelino III                            300
       1197 Seconda guerra d'Ezzelino II con Vicenza          301
       1198 Si riconcilia con Vicenza e si disgusta
              con Padova                                      302
            Antico patrimonio dei marchesi d'Este             303
            Obizzo d'Este sposa la figlia d'Adelaide
              di Ferrara                                      305
  1180-1220 Guerre civili a Ferrara                           306
            Le repubbliche transpadane sottomettono
              i nobili                                        307
  1192-1193 Gerardo Scannabecchi, pretore di Bologna          308
       1200 Guerra civile a Brescia tra i nobili ed
              il popolo                                       310

  CAPITOLO XIII. _Pontificato d'Innocenzo
  III. — Stabilimento del potere temporale della
  Chiesa. — Abbassamento del partito ghibellino._
  1197-1216                                                   313

            Preponderanza del partito imperiale sotto
              Enrico VI                                       315
       1197 Innocenzo III eletto papa di 37 anni              316
            Rivalità fra due contendenti al trono imperiale   318
       1192 Il senatore in Roma sostituito al senato          320
       1197 Innocenzo III ne limita l'autorità                321
       1207 Attribuzioni del senatore fissate nel 1207        322
       1197 Innocenzo III ordina ai suoi cardinali di
              togliere ai generali d'Enrico VI le
              province loro infeudate                         324
            Tutte le città dichiaransi per il papa            325
            Lega Guelfa di Toscana sotto la protezione
              del papa                                        326
            Costituzione di questa lega                       327
            Fedeltà all'impero della repubblica di Pisa       329
            Innocenzo III reclama la tutela di Federico II    331
       1198 Fa la guerra al generale Marcovaldo               332
            Debolezza del papa in Sicilia, sua potenza
              altrove                                         333
            Gualtieri, conte di Brienna, reclama la
              sua eredità                                     335
       1205 Gualtieri ucciso in una battaglia coi Tedeschi    336
       1206 Ottone IV battuto da Filippo. Il papa tratta
              con questo                                      337
       1208 Assassinio di Filippo. Enrico IV riconosciuto
              imperatore                                      338
       1209 Viene in Italia a prendere la corona imperiale    339
            Vuole riconciliare i nobili della Marca
              Trivigiana                                      341
            Ezzelino II sfida Azzo VI d'Este; lo stesso
              fa Salinguerra                                  343
            Riconciliazione di questi gentiluomini            344
            Ottone IV coronato a Roma                         346
            Si avvicina ai capi del partito ghibellino      _ivi_
            Innocenzo III gli oppone Federico II              348
       1210 Ottone muove guerra a Federico, ed invade
              il regno                                        349
       1212 Viene chiamato in Allemagna da' nuovi torbidi     350
            Federico II va a Genova per passare in Allemagna  351
            Viene secondato dalle città ghibelline            352
            Attraversa la Lombardia ed i Grigioni             352
       1214 Ottone IV disfatto a Bouvines da Filippo Augusto  353
       1215 Prime dissensioni di Firenze                      357
            Governo di questa città fino al 1207            _ivi_
            Bondelmonti offende le famiglie ghibelline        358
            Bondelmonti ucciso presso alla statua di Marte    359
            Tutta la nobiltà divisa tra i Bondelmonti
              ed Uberti                                     _ivi_
  1215-1248 La guerra si continua in Fiorenza                 360
            Successi delle intraprese d'Innocenzo III         361
            Sua smisurata ambizione, ingiustizia ed orgoglio  363
            Fonda l'inquisizione. Crociata contro gli
              Albigesi                                        365
            Dottrina de' Pauliciani ed Albigesi               366
            Moltiplicazione de' Pauliciani e Paterini
              nelle città d'Italia                            569
            Ardore del papa nel perseguitarli                 370
            Chiama in suo ajuto san Francesco e san Domenico  371
       1203 San Domenico comincia a predicare contro gli
              eretici                                         372
  1206-1211 Crociata contro gli Albigesi. Sue crudeltà        373
            Costanza di san Domenico arrestato dagli
              Albigesi                                        375
       1214 Quarto concilio ecumenico di Laterano             376
       1216 Morte d'Innocenzo III a Perugia                   377

  CAPITOLO XIV. _Digressione sulla quarta
  crociata. — Conquiste delle repubbliche italiane
  in Oriente._
  1198-1207                                                   379

            La conquista di Costantinopoli è opera dei
              Veneziani e dei Francesi                        380
            L'impero greco snervato dal despotismo            381
            Tutti i suoi vantaggi resi nulli dal despotismo   384
            Impotenza e sterilità de' Greci per dieci secoli  387
            Colonie de' Latini a Costantinopoli               388
  1152-1201 Contese de' Veneziani coi Greci                   389
            Alessio Angelo imperatore d'Oriente               391
       1198 Quarta crociata predicata da Folco di Neuilly     392
       1201 I crociati domandano vascelli a Venezia         _ivi_
            I deputati dell'alta nobiltà di Francia
              mandano deputati a Venezia                      393
       1202 I crociati fuor di stato di mantener la
              promessa ai Veneziani                           397
            Il doge Dandolo propone per prezzo de'
              vascelli di ajutarlo nella presa di Zara        398
            Prende anch'egli la croce per marciare coi
              crociati                                        399
            Il figlio d'Isacco Angelo implora il soccorso
              de' crociati                                    401
            Prendono Zara                                     403
            Il papa rimprovera ai crociati la presa
              di Zara                                       _ivi_
       1203 I crociati promettono protezione al
              principe greco                                  405
            I legati del papa, e più baroni si separano
              dalla crociata                                  407
            I crociati arrivano innanzi a Costantinopoli      410
            Descrizione della città e porto                   411
            Dopo essersi riposati a Scutari attraversano
              il golfo                                        412
            Viltà de' Greci che fuggono innanzi ai crociati   413
            Galata presa dai Latini, ed il porto aperto
              ai Veneziani                                  _ivi_
            I crociati s'accampano al palazzo di Blancherna   415
            Primo assalto di Costantinopoli il 17 luglio      416
            Andrea Dandolo padrone del Muro, fermato da
              un incendio                                     417
            Rinuncia al suo vantaggio per soccorrere
              i Francesi                                      419
            Alessio Angelo fugge la seguente notte
              co' suoi tesori                                 420
            Il deposto Isacco Angelo viene tolto di
              prigione e rimesso sul trono                    421
            Promette ai crociati di mantener le promesse
              di suo figlio                                 _ivi_
            I crociati stabiliti ne' sobborghi di Pera
              e Galata                                        422
            La rapacità de' Latini eccita l'odio de' Greci    423
            Il giovane Alessio cerca di tenerseli amici       425
            Lagnanze de' Latini pei ritardati sussidj       _ivi_
            Mandano a sfidare l'imperatore                    426
            Si ricomincia la guerra e si fa debolmente        427
       1204 Il 25 gennajo. Rivolta dei Greci                  429
            Alessio duca proclamato imperatore                430
            Suoi vani sforzi per destare il coraggio
              dei Greci                                       431
            I crociati ricominciano l'assedio di
              Costantinopoli                                  432
            Sono respinti dalla parte del porto               433
            Il 12 aprile s'impadroniscono delle mura          434
            Alessio duca fugge                                436
            I Latini mettono il fuoco alla città
              che s'arrende                                 _ivi_
            Convenzione dei Latini per dividere la conquista  437
            Saccheggio di Costantinopoli                      438
            Oppressione e patimenti dei Greci                 439
            Il popolaccio insulta i senatori fuggitivi        440
            Baldovino di Fiandra eletto imperatore            443
            Divisioni delle province tra Francesi
              e Veneziani                                     444
            L'isola di Candia è ceduta ai Veneziani           446
            I Veneziani rendono diviso in tanti feudi
              il territorio ai loro cittadini                 447
            Tentativi dei Genovesi per partecipare allo
              spoglio dei Greci                               448
            La conquista della Grecia più nociva che
              utile ai Veneziani                              449

  CAPITOLO XV. _Stato delle repubbliche italiane
  ne' primi tempi del regno di Federico II. — Guerre
  civili. — Rinnovamento della lega
  lombarda._
  1216-1234                                                   453

            Guerre causate dalla rivalità di Federico II
              e di Ottone                                   _ivi_
            Non possono darsi circostanziate notizie
              delle guerre di quest'epoca                     454
       1216 Odio ereditario dei Milanesi verso la
              casa di Hohenstauffen                           456
            Rimangono costantemente attaccati al partito
              d'Ottone                                        457
       1217 Loro alleanza con Tomaso di Savoja e con
              molte città lombarde                            458
            Pavia ed Asti forzate di seguire le loro parti    459
            I Cremonesi li battono il 6 giugno a Ghibello   _ivi_
       1218 Gelosie eccitate dai gentiluomini nelle città
              lombarde                                        460
            Occupano esclusivamente la carica di podestà      461
       1221 I nobili esiliati da Milano e da Piacenza         462
            Confronto delle guerre dell'età di mezzo con
              quelle de' nostri giorni                        464
            Aumento di popolazione e di ricchezze malgrado
              le frequenti guerre                             466
            Potenza di Bologna                                468
  1080-1100 Cominciamento dell'università di Bologna          469
            Alcune altre università rivali                    470
            Guerre dei Bolognesi coi loro vicini              472
       1222 Forzano gli abitanti d'Imola a ceder loro le
              porte della città                             _ivi_
       1218 Ottone IV muore il 19 maggio. Federico II fa
              prova dell'ingratitudine del papa               474
            Carattere di Federico II                        _ivi_
       1220 Il 22 novembre. Riceve da Onorio III la
              corona imperiale                                475
       1222 Costringe ad ubbidirgli i grandi signori
              della Puglia                                    476
       1223 Trasporta a Lucera i Saraceni di Sicilia          478
       1224 Fabbrica fortezze nelle principali sue città    _ivi_
            Fonda l'università di Napoli                      479
       1226 Sposa Yolante di Lusignano erede del regno
              di Gerusalemme                                  480
       1227 Si dispone a partire crociato, e n'è impedito
              da una malattia                                 481
            Il 29 settembre viene dal papa scomunicato,
              per non essere partito all'epoca che
              avea fissata                                    482
            Federico riclama contro questa scomunica          483
       1228 Passa in Terra santa ove lo seguono le
              scomuniche papali                               484
       1229 Ottiene dal Sultano d'Egitto una pace
              vantaggiosa e la restituzione di Gerusalemme    486
            Torna in Italia e disperde le crociate armate
              dal papa contro di lui                          488
       1226 2 marzo. La lega lombarda rinnovata contro
              l'imperatore                                    489
            Il papa la prende sotto la sua protezione       _ivi_
       1230 La fa comprendere in un trattato di pace
              coll'imperatore                                 491
       1238 Persecuzioni contro i Paterini in Lombardia       494
            Carattere de' persecutori; mescolanza di
              religione e di ferocia                          495
            Predicazione di tre celebri domenicani            498
            Predicazione della pace                           499
            Frate Giovanni, di Vicenza, predicatore della
              pace                                            500
       1233 18 agosto. Assemblea di Paquara in cui fra
              Giovanni predica la pace a dodici popoli
              adunati per udirlo                              503
            Autorità di cui si fa investire in Vicenza
              ed in Verona                                    505
            Potere dell'eloquenza de' Monaci                  507
            Predicano in latino al popolo                     509
  1212-1233 Cominciamento della poesia italiana in Sicilia    510
            La lingua provenzale allora coltivata
              in Lombardia                                    512
            Trovatori italiani che scrivono in provenzale     514
            Sordello mantovano di tutti il più celebre      _ivi_

FINE DELLA TAVOLA.



      *      *      *      *      *      *



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Brunswich/Brunswik e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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