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Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 8
Author: Sismondi, J.C.L. Simondo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 8" ***


                           STORIA DELLE
                        REPUBBLICHE ITALIANE
                                DEI
                          SECOLI DI MEZZO


                                DI
                      J. C. L. SIMONDO SISMONDI

           DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
                   DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

                     _Traduzione dal francese._


                            _TOMO VIII._



                              ITALIA
                               1818.



STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE



CAPITOLO LVII.

      _Considerazioni intorno al carattere ed alle rivoluzioni del
      quattordicesimo secolo._


Abbiamo guidati i nostri lettori fino alla fine dei XIV secolo, in
quest'importante periodo facendoci una costante legge di tener dietro
non solo alle rivoluzioni dei diversi popoli dell'Italia, ma ancora alla
generale politica dell'Europa, ed ai rapporti di tutte le nazioni
d'oltremonti cogl'Italiani. Chiederemo adesso licenza ai lettori, come
abbiamo chiesto in fine del precedente secolo, di trattenerci alquanto
con noi per dare un'occhiata allo spazio percorso.

Queste considerazioni sui decorsi tempi non ci saranno cagione di
perfetta soddisfazione. Grandi imprese si condussero a fine in questo
secolo da uomini sommi che si presentano sulla scena; grandi virtù,
grandi delitti, ed in particolar modo un grande sviluppamento dell'umano
ingegno occuparono alternativamente la nostra attenzione. Per altro un
solo pensiero non si vede riempire ed animare tutti gli spiriti; nè si
sente che le rivoluzioni degli stati e le passioni degli uomini tendano
verso un solo scopo; ed il secolo per avventura più ricco d'Italia in
grandi scrittori, in pensatori profondi, in uomini d'ogni maniera
grandissimi, non ha un determinato carattere. Non è già così che si
presentano alla nostra memoria gli uomini del secolo dodicesimo e
tredicesimo, con quella loro energia di libertà, con quell'ardente
desiderio di possanza e di gloria. La storia di tutte le città era in
allora quasi la medesima, la vita d'ogni uomo rassomigliava in allora
alla vita del suo concittadino, non per un eguale riposo, ma per una
attività della stessa natura; tutti tendevano con forza allo stesso
scopo, tutti rapidamente avanzavano sulla stessa via, e l'intera nazione
aveva un grande carattere, non già solamente perchè contava molti egregi
uomini, ma perchè ogni uomo, dal più grande fino al più oscuro, aveva
ricevuto dalla natura una doviziosa eredità.

Nel secolo quattordicesimo gl'individui si staccano molto più dalla
folla, e richiamando sopra di sè l'universale attenzione la
signoreggiano colle loro grandi intraprese, col loro ingegno, coi loro
delitti; ma intanto la nazione, cui appartengono, non si vede avanzare
di pari passo, e mentre essi risplendono come fuochi erranti e
s'aggirano per ogni lato, i varj popoli, cui dovrebbero servire di
guida, si smarriscono ne' tortuosi sentieri della politica, s'avanzano e
ritrocedono, e mentre alcuni tendono alla libertà, altri s'accostano al
dispotismo: l'immoralità e la religione, la superstizione e la
filosofia, il coraggio e la pusillanimità, sono dominanti a vicenda,
onde giunti al fine dell'intero secolo mal saprebbesi dire quali
progressi siansi fatti.

I primi capi d'opera della lingua italiana appartengono al
quattordicesimo secolo; ella nacque, per così dire, con lui, ed il poema
di Dante cominciò nel primo anno del secolo: il Petrarca ed il
Boccaccio, ed altri gentili poeti di minor nome appartengono interamente
a questo secolo[1]. Pure la recente scuola perde tutt'ad un tratto la
sua fecondità; la letteratura italiana si ferma, l'invenzione pare
proscritta, l'immaginazione viene incatenata dall'erudizione, nojosi
copisti subentrano ai poeti originali, e non sanno produrre che sonetti,
canzoni e fredde allegorie modellate sui trionfi del Petrarca; la
difficoltà del metro da loro adoperato agghiaccia ogni ispirazione, il
pensiere ricusa d'annicchiarsi nell'angusta periferia cui vuole ridursi,
niuno tratta la poesia epica o drammatica, e coloro che si occupano
della lirica, non hanno nè immaginazione, nè entusiasmo, nè sensibilità.
Finalmente le muse italiane ammutoliscono affatto, ed in sul declinare
del secolo più omai non rimane un solo ingegno che onori la lingua
volgare, che di già esaurita e corrotta deve dormire un altro secolo
prima che venga richiamata a creare nuove cose.

  [1] Citansi particolarmente Bosone da Gubbio, Francesco da
  Barberino, Benuccio Salimbeni, Bindo Bonichi, Fazio degli Uberti,
  Marco Barbato, Giovanni Barili, Sennuccio del Bene, Lancellotto
  Anguissola, Zenone Zenoni e Franco Sacchetti.

L'antichità era stata scoperta; e compresi da santo rispetto per la
medesima gl'Italiani tentarono di farle occupare il posto de' tempi
presenti. Lo studio delle lingue morte aveva tutt'ad un tratto sospesa
la vita presso una nazione così proclive a prendere nuove forme.
Coll'idioma de' passati secoli, e ponendosi a lato agli estinti, si
pretese di acquistar gloria; come se l'inspirazione potesse giammai
animare una lingua che non risuonò mai in fondo del cuore nella intimità
delle domestiche relazioni, una lingua che il figlio non udì uscir dalla
bocca della madre, l'amante da quella dell'amica; una lingua che non
eccita la commozione del popolo, e che non può sollevare, nè affascinare
la moltitudine. Molti uomini di alto ingegno impararono a pensare, a
sentire, a parlare come Cicerone, Tito Livio e Virgilio. Ottennero di
apparire ombre dei corpi dell'antichità; ma i presenti tempi non erano
che l'immagine d'un passato che invano cercavasi di richiamare; e questa
vita di riverbero, ove nulla poteva sentirsi di spontaneo, aveva la
triste freddezza della morte ch'ella imitava[2].

  [2] I più celebri poeti latini, dopo il Petrarca e Zenobio da
  Strada, sono Albertino Mussato, Ferreto di Vicenza, Convennolo di
  Prato, Andrea di Mantova, Francesco Landini e Coluccio Salutato. Tra
  i prosatori ricorderemo prima d'ogni altro gli storici di cui ci
  siamo valuti. In sul declinare del secolo si videro comparire
  Leonardo Bruno detto l'Aretino, Poggio Bracciolini e Coluccio
  Salutato, che quali scrittori latini dovevano superare tutti i loro
  predecessori.

Questo zelo dell'erudizione ebbe se non altro il vantaggio di
raccogliere i ricchi monumenti dell'antichità, che fino a tale epoca
erano rimasti affatto negletti. L'arte di fabbricare la carta, che
sembra essersi inventata a Fabriano, nella Marca d'Ancona, in sul finire
del precedente secolo[3], permise di moltiplicare le copie de' preziosi
manoscritti; Roberto, re di Napoli, il marchese d'Este, Giovanni
Galeazzo, duca di Milano, Lodovico Gonzaga, Pandolfo Malatesta, ed
alcuni altri sovrani raccolsero con enorme spesa libri d'ogni sorta,
accordando a tutti i dotti l'uso de' medesimi. I privati imitarono la
loro magnificenza, e l'Italia possedette in breve più biblioteche che
tutta l'Europa.

  [3] _Tiraboschi Stor. della Letter., t. V, l. I, c. 4, § 4, p. 90._

Lo zelo esagerato e pedantesco della erudizione non poteva riuscire
vantaggioso alla letteratura; ma era forse necessario agli avanzamenti
di altri studj, e gl'Italiani in questo secolo sostennero la gloria
delle loro università con i dotti lavori de' loro teologi[4], de'
canonisti[5], de' giurisperiti[6]. Fu già un tempo nel quale i nomi di
Giovanni d'Andrea, di Bartolo e di Baldo sembravano consacrati ad
un'eterna celebrità; ma l'erudizione non può dare che una gloria
passaggiera: il solo genio, e non l'immensità del sapere, può solo
rendere le opere degli uomini trionfatrici del tempo.

  [4] Roberto di Bardi, Dionigi di Borgo san Sepolcro, Guglielmo di
  Cremona, Ugolino Malabranca, Bonaventura di Peraga, Luigi Marsigli
  ec.

  [5] Guido di Balso, Giovanni d'Andrea, Giovanni Calderini, Paolo de'
  Liazari, Giovanni di Legnano, Pietro d'Ancarano, Lapo di
  Castiglionchio, Francesco Tabarella ec.

  [6] Cino da Pistoja, Bartolo di Sasso Ferrato, Niccolò Spinelli,
  Andrea Rampini d'Isernia, Baldo, Gian Pietro Ferrari, Riccardo da
  Saliceto ec.

Ad eccezione del Poema di Dante, dei Sonetti del Petrarca e delle
Novelle del Boccaccio, verun'altra opera di questo secolo è conosciuta
dalla comune dei lettori. Gli è dunque meno nelle scritture che nelle
azioni che cercare dobbiamo il carattere degli uomini di questo periodo
di tempo. Nel corso di questa storia ci siamo proposti di legare gli
avvenimenti gli uni cogli altri, dando loro un centro di comune
interesse e movimento. Mi sono perciò studiato di schivare le
transizioni troppo subitanee dalla storia d'un popolo a quella d'un
altro, e mi sono preso quasi sempre la penosa cura di trovare il
rapporto ed il punto d'unione che lega quegli avvenimenti che al primo
aspetto sembrano isolati. Non pertanto mi è pur forza di confessarlo,
deve rimanere ancora qualche confusione nella mente del lettore travolto
fra mille narrazioni che s'incrocicchiano. Per disporre con ordine le
nostre ricordanze tentiamo di seguire le rivoluzioni di un secolo in
tutti gli stati ond'era in allora divisa l'Italia, e cerchiamo in pari
tempo di vedere cosa essi fossero e cosa diventarono.

L'autorità imperiale, ristaurata in Germania dall'ingegno e dall'energia
di Rodolfo d'Apsburgo, e da suo figliuolo Alberto, non si era di nuovo
stesa fino all'Italia. Enrico di Lussemburgo tentò di fare in principio
del secolo ciò che la casa d'Austria non aveva fatto; portò le
vittoriose sue armi a traverso la Lombardia, fece sentire al Piemonte,
al Milanese, alla Marca Trivigiana un'autorità già da molto tempo
trascurata o disprezzata, lottò con gloria in Toscana contro la non meno
gloriosa resistenza della repubblica fiorentina, cinse a Roma la corona
imperiale, malgrado il potente avversario che voleva vietargli
l'ingresso in quella capitale, mostrossi non meno grande nella povertà e
nella privazione, che in mezzo alle vittorie, e l'immatura sua morte fu
forse il solo ostacolo che si opponesse al suo progetto di unire con
saldi legami l'Italia all'impero germanico.

Ma dopo la morte di questo principe passò lungo tempo prima che un uomo
degno di succedergli salisse sul trono imperiale. La guerra civile tra
Luigi di Baviera e Federico d'Austria contribuì forse meno a distruggere
l'autorità del monarca in Italia, che l'incoerente, l'ingrato ed avido
contegno di Luigi, dopo ch'ebbe trionfato di Federico. I discendenti di
Enrico VII, che occuparono in appresso il trono, pare che andassero di
generazione in generazione perdendo alcuna delle virtù o delle qualità
di questo gran principe, finchè caddero in una assoluta nullità. Suo
figliuolo Giovanni, re di Boemia, non aveva avuto in retaggio che il suo
valore cavalleresco, la sua attività, la sua lealtà; mentre l'incostanza
di Giovanni nel proseguimento de' vasti progetti, che appena ideati
abbandonava, doveva rovesciare la sua autorità colla celerità medesima
con cui era stata innalzata dalla sua attività. Carlo IV, suo figliuolo,
imperatore dopo Luigi di Baviera, era inferiore non meno al padre che
all'avo. Timido, egoista, avaro, corse due volte l'Italia piuttosto come
mercante che come sovrano, e due volte si espose ad affronti, di cui in
appresso vendeva il perdono, ivi dove i suoi antenati avevano colti
degli allori. Pose all'incanto l'onore dell'impero e il suo, e sagrificò
gli antichi amici di sua famiglia e la prosperità delle città, che gli
si erano mostrate più affezionate. Wencislao, suo figliuolo, mostrò che
si poteva scendere anche più a basso, e degenerare ancora da così fatto
padre. Probabilmente per altro la sua vita oziosa e dissoluta avrebbe in
Italia recato minore pregiudizio all'onore della corona, che i viaggi di
Carlo IV, perchè veniva volentieri dimenticato un uomo che non
ricordavasi d'alcuno; ma l'impazienza e la rivoluzione della Germania
risvegliarono l'attenzione del pubblico, e Wencislao colla vergognosa
sua caduta dal trono imperiale diede a conoscere tutto il disprezzo che
meritava.

E per tal modo in sul declinare del XIV secolo l'autorità
degl'imperatori in Italia, era nulla, come nulla era stata nel principio
dello stesso secolo. Le campagne d'Enrico VII, di Lodovico il Bavaro e
di Carlo IV non avevano loro procurata che un'efimera conquista; e se
pure ravvisavasi qualche differenza nella posizione dell'impero in
queste due epoche, stava tutta nella disposizione dei popoli. Eransi
questi liberati da tutte le illusioni; avevano affatto perduto l'antico
loro rispetto pel nome di monarca e spezzato ogni legame d'affetto e di
partito; perciocchè sebbene le fazioni guelfa e ghibellina non avessero
per anco deposti gli antichi odj, e dovessero bentosto azzuffarsi di
nuovo, eransi totalmente svincolate dagl'interessi dell'impero e della
chiesa. Niuno si maravigliò vedendo l'imperatore Roberto alleato dei
Guelfi di Firenze e di Padova per fare la guerra ai Ghibellini di
Lombardia; ma la mala riuscita di questa spedizione fece apertamente
conoscere quanto fosse debole l'impero anche quando era governato da un
savio e coraggioso principe.

La rivoluzione d'un secolo aveva portati ancora più notabili cambiamenti
nella potenza del papa. In sul finire del XIII secolo Bonifacio VIII era
tuttavia un potente sovrano in Italia, un pontefice ubbidito e temuto da
tutti i Cristiani. Bonifacio IX alla fine del XIV secolo aveva omai
perduta ogni temporale e spirituale autorità. Ma questo periodo era
stato per la Chiesa insignito da una lunga serie di calamità, ed è cosa
maravigliosa, non già il vederla caduta in così basso stato, ma bensì
che tali avvenimenti non l'abbiano privata d'ogni considerazione e
potenza. Gli oltraggi cui Bonifacio VIII fu esposto nel 1303, e la
violenta sua morte, sembravano presagire ciò che la dignità papale
soffrire doveva in questo secolo. Quando Clemente V rinunciò alla
naturale sua residenza ed acconsentì di starsi in qualità d'ostaggio tra
le mani di un re, cui davasi colpa d'aver fatti morire i due suoi
predecessori, si spogliò nello stesso tempo dell'autorità che veniva
accordata prima di tale epoca al comun padre de' Cristiani, e della
sovranità che i successori di san Pietro avevano lentamente innalzata
colla loro politica. Mentre il capo dei fedeli abbassavasi fino ad
essere lo strumento ed il ludibrio di una corte ambiziosa e
dissimulatrice, mentre dimenticava nella sensualità e ne' piaceri le
lezioni di morale dovute ai Cristiani, mentre la pompa della sua corte
non era che un velo del suo real servigio, mentre le sue ricchezze ne
accusavano la simoniaca venalità, gli abitanti di Roma e degli stati
della Chiesa scuotevano l'autorità dei legati e de' vicarj mandati da
Avignone per governarli. Gli uni riacquistavano la libertà, o una
burrascosa indipendenza; altri si assoggettavano a nuovi padroni, ma a
padroni guerrieri scelti da loro medesimi; e tutti omai si vergognavano
di ubbidire a deboli preti, mandatarj di un pontefice che più non
meritava rispetto[7].

  [7] Intendasi del rispetto dovuto alle qualità personali di qualche
  meno costumato pontefice, non del rispetto dovutogli come al
  legittimo successore di san Pietro. _N. d. T._

I papi, dopo avere col lungo loro soggiorno in Francia cagionata la
rivoluzione de' loro stati, non rinunciarono perciò alla sovranità che
avevano in Italia; che anzi, trovandosi colla loro corte al sicuro da
ogni sinistro avvenimento, e non vedendo i mali del popoli ch'essi
esponevano alla guerra, ponevano ogni cura nel ricuperare la perduta
autorità con una perseveranza ed un egoismo non comune agli altri
governi. Eterne erano le guerre ch'essi suscitavano in Italia, perchè
giammai essi non potevano essere compiutamente vinti, nè mai prendevano
bastanti misure per vincere, nè mai erano abbastanza commossi dai
patimenti dei popoli per metter fine all'effusione del sangue. Gli altri
sovrani cercavano la pace dopo alcune disfatte, sia perchè temevano per
la loro medesima residenza, sia perchè la perdita di parte de' loro
stati li privava delle entrate necessarie al mantenimento delle armate.
Ma i papi per fare la guerra ritraevano le loro entrate da tutta la
Cristianità; e le disfatte che soffrivano, loro somministravano pretesti
per imporre nuove decime o contribuzioni sul clero. I tesori che in tal
modo raccoglievano in tutta l'Europa, venivano in parte dissipati dalle
prodigalità della lor corte, ed i suoi generali, lasciati senza danaro,
perdevano tutt'ad un tratto i vantaggi che avevano acquistati. Quando
ancora avessero potuto terminare la guerra, la riaccendevano a bella
posta per saziare con nuovi sussidj del clero l'avidità de' cortigiani.

Giovanni XXII, successore di Clemente V, fu quello che diede
cominciamento alle lunghe guerre della Chiesa in Italia. Per servire
Roberto, re di Napoli, di cui era creatura, nel 1317, attaccò i
Visconti; e dopo tale epoca fino alla fine del secolo la guerra tra la
Chiesa ed i signori di Milano non ebbe che brevi intervalli di tregue.
Pochi anni dopo, lo stesso papa dichiarossi nemico di Lodovico di
Baviera; ed in sull'esempio de' suoi predecessori, rifiutò fino alla
morte di questo monarca ogni progetto di pace e qualunque atto di
sommissione del suo avversario.

Finalmente Giovanni XXII diede principio ad una terza guerra, non più
contro stranieri sovrani, ma contro i proprj stati. Spedì il legato
Bertrando del Pogetto per ispogliare de' loro privilegi i popoli che
dipendevano dall'abituale signoria della Chiesa, per abbassare
l'indipendenza dei grandi, e scacciare dalle loro signorie i vicarj
pontificj. Questa terza guerra non fu meno lunga delle altre. In sul
declinare del 14.º secolo il papa combatteva ancora contro i feudatarj
ribelli, e lo stato della Chiesa non era nè più sottomesso, nè più
indipendente di quello che lo fosse settanta anni avanti quando cominciò
questa guerra; era solamente più spopolato e più povero.

In tempo di queste lunghe ostilità la Chiesa ottenne in due diverse
epoche brillanti successi, de' quali andava debitrice ai due legati
Bertrando del Pogetto ed Egidio Albornoz, che nella distanza di
venticinque anni l'uno dall'altro ricuperarono quasi tutto il patrimonio
ecclesiastico. Due gloriosi periodi contò pure il partito del popolo,
l'amministrazione di Cola da Rienzo in Roma, e la guerra della lega
della libertà intrapresa sotto la protezione de' Fiorentini. Ma le
conquiste dei legati erano in breve perdute per l'incapacità de' loro
successori, o per l'intempestiva avarizia della corte, siccome i
privilegi ricuperati dalle città venivano bentosto o abbandonati per
l'incostanza de' popoli, o invasi da nuovi usurpatori, non sapendo nè il
partito della Chiesa, nè quello della libertà fare durevoli conquiste.

Questa guerra mutò carattere all'epoca del grande scisma l'anno 1378.
Uno dei pontefici soggiornò in Italia, e trovossi tra le mani de' suoi
sudditi, dai quali i suoi predecessori eransi costantemente tenuti
lontani; stabilì la sua dimora a portata de' suoi nemici che fu
costretto di accarezzare; e venne privato della maggior parte delle sue
entrate, che i suoi predecessori ritraevano dal rimanente dell'Europa;
finalmente si trovò pure spogliato di quella considerazione in addietro
attaccata al suo carattere. L'inconseguenza d'Urbano VI, e le accuse
fattegli dal suo rivale d'Avignone, lo avevano renduto un oggetto di
scandalo per la Cristianità. Se a quest'epoca la lega delle città avesse
voluto valersi della sua superiorità, avrebbe distrutta l'autorità
temporale dei successori di san Pietro. Quando le città non ebbero più
timore del papa, nuovi signori, sorti nelle medesime, cercarono la sua
alleanza, e Bonifacio IX regnò sotto la protezione dei Malatesti.

Alla terza monarchia d'Italia, al regno di Napoli, funestissima riuscì
pure la rivoluzione del quattordicesimo secolo. Sotto i primi principi
della casa d'Angiò pareva che questa grande e ricca sovranità dovesse
stendersi su tutta la penisola ed in cambio i suoi successori la
lasciarono ruinare. Ella più non aggiugneva verun peso alla bilancia
politica; più non sapeva resistere ad alcun nemico; e le più belle
province dell'Europa omai non erano che un'arena in cui tutti gli
ambiziosi e gli avventurieri scendevano a combattere per rubarsi le
spoglie dei popoli.

Le calamità che perseguitarono i figli del savio re Roberto, potrebbero
rendere dubbiosa la tanto vantata prudenza di questo monarca. Si
potrebbe accusarlo della cattiva educazione data a suo figliuolo il duca
di Calabria, e dalla nipote la regina Giovanna, degli esempj di
corruzione ond'era circondata questa principessa, e della dissolutezza
di tutta la corte. Ma non è giusto di rimproverare ai re l'inevitabile
disgrazia della loro situazione. I loro sforzi per ispirare virtuosi
sentimenti ai figliuoli non possono giammai superare quelli de'
cortigiani nell'insegnar loro il vizio. Questi non s'innalzano mai che
lusingando le passioni de' loro padroni; ne guadagnano l'amicizia
servendoli nelle loro debolezze, e, tutti pieni di questa speranza,
osservano le loro prime inclinazioni per eccitarle, i primi loro
desiderj per renderli soddisfatti. Perchè un principe resister possa a
tanta seduzione conviene che sia dotato di una rarissima virtù, o che
circostanze affatto straordinarie non lo lascino esposto ai lacci tesi
alla sua inesperienza. Roberto ebbe ne' suoi figli la sorte comune dei
re; tutta la casa di Angiò degradò costantemente di generazione in
generazione. Il fondatore Carlo I riuniva solo le qualità tutte che
innalzano e consolidano le monarchie. Era valoroso, attivo, risoluto;
sapeva farsi amare dai soldati e temere dai popoli; la sua durezza
trovava scusa nel fanatismo che l'accompagnava; la sua crudeltà verso i
vinti veniva coperta dalle sue prodigalità a favore dei vincitori; la
stessa sua politica pareva che andasse d'accordo co' suoi sentimenti, e
fosse più ispirata che calcolata. Suo figliuolo, Carlo II, era più
umano, più dolce, più benefico, ma possedeva in minor grado del padre le
qualità per cui si regna. La sua carriera militare non fu luminosa, ed è
perfino dubbioso il suo valore. Roberto poi era più effemminato del
padre e dell'avo, ed andò debitore di quasi tutti i suoi prosperi
avvenimenti, non al suo coraggio, ma ad una prudenza che si accostava
alla dissimulazione. Il duca di Calabria, suo figliuolo, che morì prima
di lui, era affatto perduto nelle dissolutezze, e la condotta tenuta in
Firenze, quando vi fu chiamato a governarla, svelò apertamente la sua
incapacità. Finalmente Giovanna, che cominciò coll'assassinio del marito
una lunga serie di delitti e di debolezze, e che doveva terminarla con
una vergognosa morte, era a quell'estremo di degradamento pervenuta, che
è cagione della ruina delle case reali. Giovanna occupa, tra i
discendenti di Carlo d'Angiò, lo stesso luogo che Wencislao tra quelli
d'Enrico VII.

Dopo la guerra del re d'Ungheria, il regno di Napoli rimase
costantemente in preda ai saccheggi, e le compagnie di ventura
subentrarono ai semibarbari soldati del conquistatore. Più non
rimanevano nè flotte, nè armate sotto gli ordini del sovrano, niuna
stabile guarnigione nelle città, niuna ben conservata fortificazione, e
quando alcuna città difendevasi contro gli aggressori, faceva uso delle
proprie forze e non di quelle del governo. Le contribuzioni delle
province levavansi quasi sempre da straniere armate, e se qualche rara
volta giugnevano a Napoli, erano dalla corte dissipate nel lusso e ne'
piaceri, onde il pubblico tesoro trovavasi sempre esausto. Per ultimo
mentre la guerra guastava tutto il regno dai confini degli Abruzzi al
Faro di Messina, la nazione perdeva ogni abitudine militare, e non
interveniva alle battaglie che per essere spogliata: creduta incapace di
ogni resistenza, nulla da lei esigevano nè i suoi padroni, nè i suoi
nemici; essa medesima credeva che più non le restasse nè onore da
perdere, nè carattere da conservare; erasi finalmente rassegnata alle
sofferenze ed alla vergogna.

In tale stato ritrovò il regno Carlo III di Durazzo quando lo conquistò.
Egli diede prove all'istante dell'educazione guerriera che aveva
ricevuta in Ungheria. I suoi costumi, il suo carattere niente avevano di
comune con quelli dei mariti e degli amanti della regina, che avevano
prima di lui governato il regno. In poco tempo vi ristabilì la pace
nell'interno, e l'avrebbe ancora bentosto reso rispettabile anche al di
fuori, se la sua spedizione in Ungheria e l'immatura sua morte, non
avessero impedita l'esecuzione de' suoi progetti. Dopo di lui ricominciò
l'anarchia, ed alle cagioni di ruina che precedettero il suo regno
s'aggiunsero la guerra civile tra le due case di Durazzo e d'Angiò, e la
minorità dei due pretendenti al trono.

Durante lo stesso periodo, nuovi principi avevano cercato di acquistare
in Italia quell'autorità che gl'imperatori, i papi ed i re di Napoli
andavano ogni giorno perdendo. La casa della Scala a Verona e quella de'
Visconti a Milano, hanno potuto lusingarsi di condurre a termine questo
progetto, e l'una e l'altra portarono alcun tempo le loro speranze fino
alla corona d'Italia.

La casa della Scala fu la prima a formare così ambiziosi disegni, che
nutrì in tutta la prima metà del secolo, e due volte, sotto Can Grande e
sotto Mastino II, fece tremare l'Italia per la sua libertà.

Tra le nuove case che non possedevano feudi ereditarj, e coi maneggi
sollevate si erano ad una sovranità che chiamavasi ancora tirannide, la
casa della Scala era la più antica. Fino dal 1260 era succeduta alla
potenza che il feroce Ezelino aveva in Verona, e da quell'epoca questa
città ubbidì alla sua famiglia fino presso agli ultimi anni del
quattordicesimo secolo. Ne' tempi in cui l'ambizione di Roberto, re di
Napoli, e l'implacabile odio di Giovanni XXII, muovevano acerba guerra a
tutti i Ghibellini, questa fazione rimasta priva di protettori per la
rivalità dei due imperatori eletti, scelse per suo capo Cane della
Scala, chiamato il grande. Colla sua abilità e collo straordinario suo
coraggio fece Cane prosperare le armi ghibelline, ed in pochi anni
occupò Padova, Vicenza, Treviso, e gran parte della Marca Trivigiana.
Egli fu il solo del suo partito che non isperimentasse l'ingratitudine
di Luigi di Baviera, e di già soprastava in ricchezze ed in potenza a
tutti gli altri signori italiani, quando morì nel vigore dell'età, in
mezzo alle sue conquiste. Mastino secondo, suo nipote, che gli successe
nella signoria, lo pareggiò in accortezza ed in coraggio, e fu più di
lui ambizioso; onde alla forza delle armi aggiunse la frode e la mala
fede. Le circostanze lo favorirono. Giovanni di Boemia, che era comparso
in Italia come il liberatore dei popoli, parve che non accettasse la
volontaria sommissione delle città che per renderle più facile preda di
Mastino della Scala. Questi unì all'eredità di suo zio Brescia, Parma,
Modena e Lucca: le sue entrate superavano quelle di quasi tutti i
sovrani d'Europa, e sembrava vicino l'istante da lui destinato a
cingersi il diadema reale che aveva di già fatto apparecchiare. Ma il
coraggio e l'energia de' Fiorentini fecero argine alle sue conquiste:
sollevarono contro di lui Venezia e tutta la Lombardia; fecero ribellare
Padova, conquistarono Treviso e Brescia, e non accordarono la pace a
Mastino, che quando ebbe cessato d'essere formidabile.

In fatti, dopo la pace, Mastino, obbligato dalla rivoluzione di Parma a
vendere ancora la signoria di Lucca, vide egli medesimo l'abbassamento
della sua famiglia. Dopo la di lui morte i suoi figliuoli più non ebbero
influenza in Italia, e se ottennero qualche celebrità non la dovettero
che ai loro delitti. Si videro i due minori far assassinare il
primogenito, cospirare in appresso l'uno contro l'altro, ed il più
debole, tratto in prigione, esservi strozzato, dopo alcuni anni, per
ordine del fratello che voleva assicurare ai proprj bastardi la paterna
eredità. I medesimi delitti si rinnovarono nella seguente generazione.
Un fratello, per regnare solo, fece uccidere l'altro, ma l'assassino
scontò la pena dovuta a questa colpevole stirpe, quando, spogliato de'
suoi stati da Giovan Galeazzo Visconti, fuggiasco, oppresso dalla
miseria, morì di veleno.

La seconda casa che aspirò all'impero d'Italia, si rese egualmente
odiosa con non minori delitti; ma più lungo tempo conservò i talenti ed
alcune di quelle virtù che ingrandiscono e conservano gli stati.
L'arcivescovo Ottone aveva il primo, in sul declinare del precedente
secolo, innalzata la dinastia de' Visconti alla sovranità di Milano; e
quand'egli venne a morte nel 1295, trasmise il suo potere al nipote
Matteo, cui gl'Italiani diedero il soprannome di grande. Questo signore
fu uno de' più risoluti campioni del partito ghibellino in Italia, e de'
più formidabili nemici dei papi. Sperimentò in principio del secolo la
volubilità della fortuna, e suo figliuolo Galeazzo, che gli successe,
fu, vent'anni dopo, vittima dell'ingratitudine di Lodovico il Bavaro. Ma
i Visconti appresero nelle disgrazie a trovare in sè medesimi maggiori
sussidi: Azzone, figlio di Galeazzo, allevato come il padre nella scuola
dell'avversità, si mostrò più virtuoso che tutti gli altri principi
della sua famiglia. Riebbe la signoria di Milano dall'imperatore
medesimo che l'aveva tolta a suo padre, vi aggiunse varie altre città,
che fino allora avevano ubbidito a parziali signori, e consolidò il suo
dominio fondandolo sulla stabile base dell'amore dei popoli. Il regno
d'Azzone fu veramente glorioso, poichè questo principe rese cari colle
virtù i suoi talenti, e non ismentì la sua moderazione in mezzo alle
conquiste.

In mezzo della sua gloriosa carriera Azzone morì inaspettatamente, ed i
due suoi zii, Lucchino e Giovanni, che gli succedettero, non seppero,
gli è vero, meritarsi l'affetto de' sudditi, ma loro non mancarono i
suoi talenti ed il suo coraggio. Questa dinastia ebbe il rarissimo
vantaggio d'avere consecutivamente sei capi egualmente distinti. Tutti
dovettero lottare contro l'avversa fortuna, e l'arcivescovo Giovanni
Visconti, che morì l'ultimo nel 1354 aveva appreso, come i suoi
predecessori, a conoscere gli uomini quand'era perseguitato ed esiliato.
Egli assoggettò al suo potere Genova, Bologna e gran parte della
Lombardia; tentò d'invadere la Toscana e lo stato della Chiesa, e forse,
più che verun altro principe del 14.º secolo, trovossi vicino ad
ottenere la sovranità dell'Italia. Per altro egli risvegliò la
diffidenza de' suoi vicini colla dissimulazione e colla perfidia assai
più che colle conquiste, ed i vizj medesimi per mezzo de' quali credeva
di vincere, preclusero la strada alle sue vittorie, ed opposero un
argine insormontabile alla di lui grandezza.

L'arcivescovo Giovanni fu l'ultimo della famiglia Visconti ch'ebbe
qualche magnanimità di carattere; ma la passione delle conquiste,
l'insaziabile desiderio di estendere il suo dominio, passò nei suoi
successori, che non avevano le più brillanti qualità del suo carattere.
La casa Visconti fino al suo ultimo rampollo, mai non rinunciò a'
progetti ideati dai primi suoi capi per assoggettarsi l'Italia; in
ultimo adoperò le arti della debolezza invece della forza, la perfidia
ed i maneggi piuttosto che le armi; ma mirò costantemente allo stesso
scopo.

Barnabò, Galeazzo suo fratello, e Giovanni Galeazzo, figliuolo
dell'ultimo, che tutta raccolse la loro eredità, erano uomini non meno
timidi che ambiziosi, che si resero esosi ai loro sudditi colla
crudeltà, coll'avarizia, colle gabelle, e ruinarono le soggette province
colle continue guerre. Sotto di loro fu distrutto il commercio,
abbandonate le manifatture, trascurata l'agricoltura medesima, e molte
fertili campagne della Lombardia che promettono al lavoro così ricche
ricompense, rimasero deserte. I guasti de' soldati, ed il peso delle
imposte soffocarono ogni industria. Per altro Barnabò e Giovanni
Galeazzo, così cattivi economi della fortuna de' loro popoli, sapevano
mantenere l'ordine nell'amministrazione delle proprie finanze; e fu
questa la causa principale de' loro prosperi avvenimenti. Essi hanno
potuto in ogni tempo erogare nelle guerre più vasti redditi che tutti i
loro avversarj, e gl'impiegarono con mano liberale nel ricompensare i
fedeli servitori, nel tenersi affezionati i piccoli stati deditizj, in
fine nel procurarsi partigiani e traditori ne' consigli de' lori vicini
o de' loro nemici. Mentre non risparmiavano l'oro per giugnere alla meta
della loro politica, prendevansi cura di non dissiparli con insensate
prodigalità; perciò trovavansi apparecchiati alla guerra quando i loro
avversarj avevano di già esaurite le proprie forze, e sentivansi
pressochè sicuri della vittoria qualunque volta giugnevano ad acquistar
tempo.

Finchè era vissuto Galeazzo ed avea diviso con Barnabò l'amministrazione
degli affari, i suoi particolari vizj avevano ritardati i progressi
delle armi di Barnabò, non conoscendo egli l'economia del fratello e del
figliuolo: l'amore del fasto e di un'apparente grandezza distruggeva le
reali sue forze; erogò prodigiose somme nell'innalzare sontuosi edificj;
e fu prodigo de' suoi tesori per unire la sua famiglia per mezzo
d'illustri matrimonj ai monarchi d'Europa. Ma quando Giovanni Galeazzo,
suo figliuolo, dopo avere aggiunti ai proprj stati quelli di Barnabò,
ebbe ristaurate le finanze, dilatò in tutti i sensi i limiti del suo
dominio, ed avrebbe indubitatamente fatta schiava tutta l'Italia, che
omai più non aveva forza per resistergli, se un'immatura morte non lo
sorprendeva nel colmo del suo ingrandimento.

Tali furono nel quattordicesimo secolo le principali rivoluzioni della
Lombardia, le quali non hanno potuto condursi a termine che colla ruina
di molti piccoli principi o tiranni, che ne' primi tempi di questo
periodo regnavano in ogni città. Eransi successivamente veduti i Ponzoni
ed i Cavalcabò spogliati della sovranità di Cremona, i Tornielli di
Novara, i Fisiraga di Lodi, i Maggi ed i Brusati di Brescia, i Langusco
ed i Beccaria di Pavia, gli Scotti ed i Landi di Piacenza, i Pelavicini
di san Donnino, i Correggi ed i Rossi di Parma, ed intorno allo stato
de' Visconti omai non rimanevano signori indipendenti, che i conti di
Savoja ed i marchesi di Monferrato a ponente, e dalla banda di levante i
Gonzaga, successori dei Bonaccorsi, i marchesi d'Este di Ferrara, ed i
Carrara di Padova.

Gli stati del papa, non meno che quelli della Lombardia, fertili di
tiranni, avevano veduto nella medesima età sorgere e perire molte case
sovrane. Quella dei Polenta a Ravenna erasi sola sottratta alle generali
rivoluzioni, e da lungo tempo signoreggiava quella città senza merito e
senza gloria, dimenticata dalla storia, come dai conquistatori che mai
non l'attaccarono. Tale non era la sorte de' Malatesti, signori di
Rimini: la fama del piccolo loro stato non era in verun modo
proporzionata alla di lui estensione, popolazione, o ricchezze, ma bensì
al numero de' grandi capitani usciti da questa sola famiglia, che tanta
gloria procacciarono al nome de' Malatesti. Vero è che non si
sottrassero al contagio della falsità e della perfidia; vizj comuni ai
piccoli tiranni; vizj di cui la pubblica voce accusava specialmente i
Romagnoli. Ma se talvolta rassomigliarono agli altri signori, mostrarono
ancora le virtù che gli altri non avevano; innalzarono la loro
riputazione al di sopra di tutti i principi del loro paese, e
s'apparecchiarono per tal modo ad essere nel susseguente periodo i
protettori delle scienze e delle arti.

Dopo avere riepilogate le rivoluzioni delle case principesche nel
quattordicesimo secolo, vediamo adesso quale fu la sorte delle
repubbliche. Venezia, la più antica e la più illustre, aveva data nuova
forma al suo governo. Tutti i diritti del popolo erano stati trasmessi
ad un consiglio, prima rappresentativo, e poco dopo ereditario. La
nobiltà, sola sovrana dello stato, aveva con estrema gelosia allontanato
il popolo da tutti i pubblici affari, e, non meno che del popolo, gelosa
del capo della nazione, in ogni nuova elezione del doge aveva sempre più
ristretti i limiti dell'autorità ducale. Una rigorosa aristocrazia
amministrava la repubblica colle virtù dei grandi principi piuttosto che
con quelle de' popoli liberi. Un'immutabile costanza ne' suoi progetti,
una fermezza superiore ai più grandi rovesci, una saggia economia in
mezzo a grandi ricchezze, un impenetrabile segreto, ed una politica non
traviata dalle passioni, erano le distintive qualità del senato di
Venezia. Ma presso di lui non vedevansi i generosi movimenti de' popoli
liberi, la giusta indignazione contro la falsità, la clemenza verso il
vinto nemico, il sagrificio de' proprj vantaggi alla speranza, e
talvolta al lusinghiero sogno di un bene generale. La repubblica di
Venezia, circondata da tiranni, lottava contro di loro colle loro armi.

Venezia non ebbe parte alle guerre eccitate da Enrico VII e da Lodovico
di Baviera, e non cominciò ad immischiarsi negli affari del continente
d'Italia, che quando Mastino della Scala dilatò i suoi confini fino alle
lagune, e spinse ancora più in là le sue pretese. La repubblica si
associò allora ai Fiorentini per umiliare questo signore, ma quand'ebbe
conquistato Treviso, ristabiliti in Padova i Carrara, ed allontanati gli
Scaligeri da' suoi confini, fece con questi la pace senza curarsi che i
Fiorentini avessero il debito compenso.

Malgrado questa prima guerra continentale e l'acquisto di Treviso, i
Veneziani non s'interessavano ancora che assai debolmente per quel paese
che dal campanile di san Marco avevano sempre sotto gli occhi. Il mare
era il loro elemento, ed oltre i suoi confini andavano essi a cercare
alleati e nemici. Il commercio della Tartaria accese, circa nella metà
del secolo, la guerra tra essi ed i Genovesi: era questa la terza
ch'essi sostenevano contro quest'emula nazione; strascinarono nella
medesima i Greci e gli Arragonesi, e fiumi di sangue furono versati dai
due popoli sulle coste della Grecia e della Sardegna; ma parve che i
Genovesi fossero in complesso i vincitori. Una guerra continentale tenne
dietro immediatamente alla marittima, e fu ancora meno fortunata: gli
Ungari privarono Venezia di tutta la Dalmazia.

Pareva che la repubblica si fosse rincorata in vent'anni di pace quasi
costante, quando una rivoluzione, accaduta nell'impero greco, riaccese
una quarta guerra marittima coi Genovesi. Le forze di Venezia si
esaurirono intorno alle mura di Chiozza, e la pace di Torino privò
Venezia di quanto possedeva nel continente d'Italia. Ma venuto a morte
Luigi d'Ungheria, di cui ne avevano sperimentata la potenza, si vide in
istato di rialzarsi. Allora si vendicò degli alleati di questo monarca,
assecondando l'ambizione di Giovanni Galeazzo, invece di porvi ostacolo;
ricuperò col di lui ajuto il territorio di Treviso, ed aspettò dallo
spirito pubblico, e dal coraggio de' Fiorentini i sagrificj ch'ella
doveva fare.

Allora sembrò che Venezia si allontanasse dalla sua consueta saviezza;
ma la sua fortuna la servì meglio contro Giovanni Galeazzo, di quel che
avrebbe potuto farlo la sua prudenza. Questo pericoloso vicino morì
nell'istante in cui forse non poteva più essere vinto, ed i Veneziani si
trovarono ne' primi anni del seguente secolo più potenti contro i suoi
eredi, perchè non avevano consumate le loro forze contro di lui
medesimo.

L'eterna rivale di Venezia, la repubblica di Genova, era animata da uno
spirito affatto diverso, e sperimentava un'affatto diversa fortuna. I
nobili di questo stato, non meno ambiziosi di quelli di Venezia, non
avevano non pertanto pensato a stabilire nella loro patria una regolare
aristocrazia, ma piuttosto ad esercitare sopra la medesima un'influenza
oligarchica. Le loro fortezze, i loro vassalli, i numerosi loro clienti,
loro ispiravano il sentimento delle proprie forze ed il desiderio
dell'indipendenza. Sentivansi troppo forti isolatamente per voler essere
confusi in un senato, ove l'individuo scompariva fa faccia
all'universalità. L'ambizione non era la sola passione che turbasse la
repubblica, che le gelosie ed i privati odj provocavano ogni giorno
nuove guerre civili. Uomini di uguale carattere sorgevano tra i borghesi
per essere loro rivali. Il governo in mezzo alle loro animosità ed alle
loro zuffe non poteva acquistare stabilità, ed era forzato a cambiare
ogni giorno partito, forma e piano di condotta. Le più violenti e
repentine rivoluzioni toglievano alla repubblica l'influenza che avrebbe
potuto acquistare sul rimanente dell'Italia, e la nazione consumava
contro di sè medesima tutte le proprie forze. La sua popolazione, le sue
ricchezze venivano distrutte dalla guerra civile; s'incenerivano i
palazzi della capitale, si guastavano le campagne, ed il commercio era
incagliato o distrutto. Ma questo popolo, che sembrava animato per la
propria ruina, non lasciava di essere formidabile quando volgeva le sue
forze contro esterni nemici. L'impetuoso valore de' Genovesi rimaneva
vittorioso in ogni lotta a fronte della politica de' Veneziani.

In principio del quattordicesimo secolo una violenta guerra civile era
stata calmata dalla venuta d'Enrico VII, e per la prima volta la
repubblica si era sottomessa ad uno straniero sovrano. Dopo la morte
d'Enrico VII un partito contrario a quello che lo aveva chiamato diede
Genova in mano di Roberto, re di Napoli, ed una nuova guerra civile, una
guerra che avrebbe potuto ruinare il più potente impero, ebbe origine da
questo cambiamento. Genova in mezzo alle sue burrasche ricuperò la
perduta indipendenza, ma nel 1339 una nuova lite successe alle antiche,
il popolo scacciò i nobili, creduti cagione delle precedenti turbolenze;
si diede un capo col titolo di doge, e sotto la di lui condotta mostrò
un nuovo vigore.

Un fiorente commercio riparò ben tosto i disastri della guerra civile. I
Genovesi fecero rispettare il nome latino sul mar Nero; posero in salvo
contro i Greci l'indipendenza della loro colonia di Pera; umiliarono i
Veneziani ed i Catalani nella terza guerra marittima: ma nel mezzo di
questa guerra si lasciarono scoraggiare da una disfatta, da cui seppero
rifarsi da sè stessi; sagrificarono per la terza volta la loro
indipendenza sottomettendosi volontariamente all'arcivescovo Visconti,
il più potente signore dell'Italia.

La loro sommissione era condizionata, ed i nipoti dell'arcivescovo, suoi
successori, violando le condizioni del contratto, diedero giusto motivo
ai Genovesi di sottrarsi alla loro dipendenza. Godettero alcun tempo
moderatamente della ricuperata libertà, illustrarono la loro domestica
pace con una gloriosa guerra in Cipro; ma poco dopo, strascinati nella
guerra di Chiozza, provarono i rovesci prodotti dai loro prosperi
avvenimenti e dall'imprudente loro ardire. Dopo la pace coi Veneziani le
interne fazioni vennero alle mani con nuovo accanimento: le rivalità tra
i popolani avevano preso il luogo di quelle dei grandi, si riaccesero
sanguinose guerre, subite rivoluzioni distrussero la forza del governo,
ed il popolo snervato dalle fatiche, chiamò per la quarta volta un
padrone straniero, e si assoggettò volontariamente alla Francia.

Fiorenza, non meno potente di Venezia e di Genova, figurò ancora più
nobilmente nella storia dell'Italia, perchè questa repubblica
continentale era attaccata da tutte le sue relazioni alla contrada nel
di cui centro trovavasi collocata, mentre le due repubbliche marittime
portavano quasi sempre al di là dei mari tutta la loro attenzione ed i
loro sforzi. L'intera politica dell'Italia si disaminava ne' consiglj di
Firenze, e questo popolo, tanto zelante per la libertà, manteneva colla
sua quella dell'intera nazione di cui era parte. Sembra essere stato il
solo a concepire l'importanza dell'equilibrio politico, ed a calcolare i
pericoli di una monarchia universale.

Firenze in tutto il quattordicesimo secolo ebbe un governo veramente
democratico; non perchè il popolo avesse tutto il potere nelle sue mani,
o perchè potesse a posta sua cambiare la costituzione; ma perchè aveva
tutta la possibile influenza nell'amministrazione, e forse ancora più
che non conviene di lasciargliene. La maggior parte de' cittadini di
tutti gli ordini era chiamata a vicenda alle prime cariche; i consiglj,
numerosi e popolarmente composti, rappresentavano costantemente il voto
della nazione; e se trovavasi nel popolo un partito contrario al
governo, è perchè in tutte le libere discussioni vi debbe essere una
minorità, e che l'intera nazione deliberava come un consiglio di stato
intorno ai pubblici affari.

Gli storici fiorentini, le nostre più sicure guide nella storia
d'Italia, ci hanno talmente iniziati in tutte le più minute circostanze
dell'amministrazione e della politica di questa repubblica, ci fecero
così ben conoscere tutte le passioni del popolo e tutti i sentimenti
degl'individui, che nel corso d'un secolo abbiamo dovuto vedere più
volte i colpevoli attentati di alcuni cittadini, o gli errori dei capi
della nazione. Ma volgendo al presente uno sguardo su tutto il secolo, e
riunendo le nostre memorie, troveremo senza dubbio la condotta dei
Fiorentini giusta, nobile e generosa in tutto il corso di questo periodo
più che quella di verun altro stato, e saremo costretti di convenire che
il più libero popolo dell'Italia, complessivamente considerato, era pure
il più saviamente governato.

Cominciando il quattordicesimo secolo scoppiò in Firenze la sciagurata
lite de' Bianchi e de' Neri, e l'esilio de' Bianchi fu una profonda
ferita fatta alla repubblica. Non pertanto quando Enrico VII entrò in
Toscana, la sola Firenze non si lasciò intimidire dall'autorità
imperiale; formò una lega guelfa contro il tedesco monarca, gli creò
nemici in Lombardia ed in Roma, sfidò la sua potenza quand'erasi
accampato alle di lei porte, e se l'Italia non fu di nuovo ridotta alla
condizione di provincia dell'impero germanico, se non fu privata della
sua libertà e sottomessa ad uno straniero padrone, alla sola Firenze
devesene tutta la gloria.

Due anni dopo la morte d'Enrico VII, tutte le forze dei Fiorentini e dei
loro alleati furono disfatte a Montecatini da un generale Ghibellino; ma
lungi dall'essere ridotti ad una vergognosa pace da così gran lotta, gli
sforzi fatti da loro per vendicarsene fecero tremare i loro nemici.

Castruccio, il più formidabile avversario della repubblica fiorentina,
attaccò in appresso Firenze: i soldati da lui formati lo risguardavano
come il più grande generale del secolo, ed erano da lui condotti sempre
a nuove vittorie. Nel suo regno di dieci anni, Castruccio, appoggiato
dai Visconti e da Lodovico di Baviera, espose Firenze a grandi rischi, e
le cagionò grandi perdite. Ma la fortuna delle monarchie è appoggiata
alla vita d'un uomo, e quella delle repubbliche non si spegne mai.
Castruccio morì, e le conquiste da lui fatte caddero in potere de'
Fiorentini.

Mentre l'Italia era lacerata dalle fazioni e dalle guerre civili, due
uomini, che s'annunciavano come pacificatori, fecero una rapida fortuna.
Il legato Bertrando del Pogetto e Giovanni re di Boemia adunarono i
Guelfi ed i Ghibellini, i partigiani dell'impero e quelli della chiesa,
e fondarono un nuovo dominio che pareva doversi stendere su tutta
l'Italia. I soli Fiorentini non furono sedotti dalle promesse e dalle
interessate negoziazioni di questi due uomini; essi svelarono i loro
segreti progetti; chiamarono a prendere le armi gli stati minacciati; si
collegarono coi principi ghibellini, loro ereditari nemici, dimenticando
un antico odio per un interesse presente e pubblico, e rovesciarono la
nuova signoria innalzata in pochi anni.

Mastino della Scala erasi arricchito colle spoglie del re Giovanni; ma
l'ingratitudine di questo signore costrinse i Fiorentini a venire contro
di lui alla via delle armi; formarono per superarlo una nuova lega,
spogliandolo di parte de' suoi stati, ed incaricando la dinastia guelfa
dei Carrara, cui restituirono Padova, di tenere gli occhi aperti sugli
ambiziosi disegni del signore di Verona.

Mastino vendicossi de' Fiorentini quando offrì loro di vender Lucca. La
guerra che dovettero sostenere contro i Pisani pel possedimento di
questa città, la disfatta delle loro truppe, e la perdita di Lucca
quando ne avevano di già pagato il prezzo, furono i minori disastri di
questa guerra, la quale precipitò i Fiorentini sotto la tirannide del
duca d'Atene. Altra volta avevano essi dato un capo, o protettore alla
loro repubblica, col titolo di signore; ma questa fu la prima volta che
si assoggettarono ad un padrone. Per altro non gli rimasero lungo tempo
soggetti: una tirannide di undici mesi bastò a stancare la pazienza del
popolo ed a riunire tutti gli ordini dello stato contro il tiranno, che
venne rovesciato quando fu unanime il voto della nazione.

Indebolita dal governo del duca, sotto il quale perdette tutte le sue
conquiste, dalla carestia, in tempo della quale diede così luminose
prove di generosità, e più ancora dalla terribil peste del 1348, pure la
repubblica fu la prima che potesse frenare l'ambizione dell'arcivescovo
di Milano. Tutte le forze di questo signore vennero nel 1351 a coprirsi
di vergogna innanzi a Scarperia.

Negli anni successivi Firenze conchiuse coll'imperatore Carlo IV un
trattato non meno onorevole che vantaggioso. Sola di tutti gli stati
d'Italia ebbe il coraggio di ricusare ogni accomodamento colla grande
compagnia de' soldati avventurieri, e due volte li costrinse ad uscire
dal suo territorio. Senza porti e senza marina protesse la libertà dei
mari e fece rispettare la bandiera adottata dai suoi mercanti;
finalmente in mezzo agli orrori della peste sostenne contro Pisa una
gloriosa guerra, che terminò dettando essa le condizioni di una giusta
ed onorevole pace.

Un'odiosa intrapresa dei legati della santa sede contro Firenze gettò
questa repubblica nel partito opposto alle sue antiche alleanze. Doveva
gastigare i luogotenenti del papa di un atto della più nera
ingratitudine, della più rivoltante perfidia; e lo fece con una
grandezza di lei degna, abbracciando la causa di tutti i popoli che gli
stessi uomini avevano traditi od oppressi. Proclamò la libertà delle
città vassalle della Chiesa, ed in pochi mesi rovesciò la potenza di
coloro che l'avevano offesa, e restituì a trenta popolazioni quella
medesima libertà di cui essa godeva.

Appena ultimata questa guerra, una congiura pose per alcun tempo il
governo in mano del popolaccio, e sospese per tutto quel tempo il suo
vigore e la sua energia; ma in breve si rialzò da questo assopimento, e
fu il solo in Italia che avesse il coraggio e la forza d'entrare in
guerra contro Giovanni Galeazzo Visconti, e di porre con un'ostinata
resistenza insormontabili confini alla sua ambizione.

In un secolo abbondante di rivoluzioni, in un secolo in cui l'ambizione,
scatenata in tutti gli altri stati, adoperava senza scrupolo gli
artificj della viltà e della frode per ingrandirsi, tale fu la condotta
sempre aperta, sempre giusta, sempre coraggiosa, e nel tempo medesimo
sempre savia di una prudente repubblica, in cui la prima magistratura
non durava che due mesi ed ove un migliajo di cittadini disaminavano
sempre i pubblici affari. La gloria nazionale è veramente la proprietà
d'un popolo, quando è, come a Firenze, il frutto delle virtù di tutti
piuttosto che la ricompensa dell'abilità del governo, e questa nazione
può di pieno diritto andar superba della sua condotta, allorchè mutando
continuamente capi, pure conservasi sempre ferma ed irremovibile in una
sempre gloriosa carriera.

La repubblica di Firenze trovò una fedele alleata in quella di Bologna,
per tutto il tempo che questa si mantenne indipendente; ma i Bolognesi
erano meno attaccati che i Fiorentini alla loro libertà, o furono meno
fortunati nel difenderla. Erano indeboliti da più violenti fazioni, ed i
loro capi manifestavano mire più personali nell'uso della vittoria, e
una più implacabile vendetta verso i vinti.

I vantaggi ottenuti dai Ghibellini sui Guelfi, quando i primi erano
diretti da Castruccio e da Azzone Visconti, persuasero l'anno 1327 i
Bolognesi a porsi sotto la protezione di Bertrando del Pogetto, legato
del papa, siccome i Fiorentini avevano implorata quella del duca di
Calabria. Ma la tirannide del legato durò sette anni, ed ebbe tutto il
tempo d'introdurre la corruzione in tutte le parti della repubblica.
Invano i Fiorentini ajutarono Bologna a scuotere il giogo, che non
ottennero di renderle quello spirito fiero ed indipendente che l'avrebbe
conservata libera.

Questa repubblica, snervata da uno straniero padrone, più non ebbe mezzi
di difendersi contro l'ambizione di uno de' suoi cittadini, reso
pericoloso dalle sue immense ricchezze. Nel 1337 si pose sotto la
sovranità di Taddeo de' Pepoli, ed i suoi figliuoli la vendettero l'anno
1350 all'arcivescovo di Milano. Un tiranno più crudele, Giovanni
Visconti d'Oleggio, gli successe nel 1355. I Fiorentini tentarono
inutilmente, in varie circostanze di liberare i loro fratelli, ma i
Bolognesi non ebbero bastante coraggio per assecondarli; essi altro non
ambivano che di passare sotto il dominio della Chiesa, e vi tornarono in
fatti, ma dopo avere perduta la loro popolazione, le ricchezze loro, e
ciò che più non potevano riacquistare, l'antico loro carattere. Furono
essi gli ultimi ad unirsi a' Fiorentini in tempo della generale
rivoluzione degli stati della Chiesa, ed i primi a firmare una pace
parziale colla medesima. In appresso lo scisma rese loro quella libertà
che per sè soli non erano capaci di riavere; rientrarono in allora
nell'alleanza de' Fiorentini, e li secondarono contro Giovanni Galeazzo,
ma verso la fine del secolo soggiacquero un'altra volta agl'intrighi ed
all'ambizione di un loro concittadino; e la tirannide di Giovanni
Bentivoglio aprì la via al duca di Milano per occupare di nuovo la loro
città.

Nel precedente secolo, Lucca era stata la costante alleata di Firenze;
ma nel quattordicesimo questa città addetta ad una fazione nemica, pagò
pochi anni di gloria con una lunga infelicità. Fino al 1314 i Lucchesi
eransi conservati fedeli al partito guelfo ed agli antichi loro alleati.
Castruccio, richiamato quest'anno da' suoi concittadini, aprì le porte
della sua patria ad Uguccione, capo dei Ghibellini, al quale dopo due
anni successe egli medesimo. Innalzato al supremo potere dalla
confidenza meritata dal suo partito, creò la gloria delle armi lucchesi,
che poi si spense alla di lui morte. Egli estese le sue conquiste al di
là di Sarzana, nella riviera del Levante; sottomise Pistoja, Volterra e
Pisa, e corse tutto il territorio fiorentino, ove niuno ardì
resistergli. Lodovico di Baviera, che in lui riconosceva il più valoroso
campione dell'impero, lo creò senatore di Roma, e volle, quando fu
coronato imperatore, che Castruccio gli cingesse la spada imperiale. Per
ricompensarlo eresse i suoi stati in ducato, distinzione che
gl'imperatori non avevano ancora accordata ad alcun altro: ma tanta
grandezza, tanta gloria svanirono all'istante alla morte di Castruccio.
I suoi figliuoli furono spogliati della paterna eredità e mandati in
esilio, tutte le città da lui soggiogate vennero in potere de' suoi
nemici, e la stessa Lucca, venduta e rivenduta dai Tedeschi, rimase
successivamente soggetta a Gherardino Spinola, a Giovanni di Boemia, a
Mastino della Scala, ai Fiorentini ed ai Pisani. Dopo cinquantacinque
anni di servitù, nel 1369, i Lucchesi riacquistarono finalmente la
libertà dall'imperatore Carlo IV. Negli ultimi trent'anni del secolo
cercarono di rimediare in silenzio ai mali che avevano sofferti. Troppo
deboli e troppo poveri per figurare nella lega guelfa, cui si erano di
nuovo attaccati, non richiamarono la nostra attenzione, che quando,
soccombendo alla peste che desolava la loro città, ebbero la sventura,
l'ultimo anno del secolo, di essere ridotti in servitù da un usurpatore
senza talenti.

Siena che nel XIII secolo era stata la rivale di Firenze, che aveva
offerto un asilo agli emigrati ghibellini, e gli aveva in seguito
ristabiliti trionfanti nella loro patria, Siena fu nel quattordicesimo
secolo quasi costantemente fedele alla fazione guelfa e quasi sempre
alleata de' Fiorentini. Ma i Sienesi in tutto questo periodo di tempo
ebbero pochissima influenza sugli altri paesi d'Italia, e se talvolta
richiamarono la nostra attenzione, non fu che per le passioni politiche
onde furono agitati, e che vestirono nella loro città un particolare
carattere. Ogni partito sembrava che avesse in Siena una più pronunciata
tendenza verso l'oligarchia, ed una più ingiusta gelosia contro tutti
gli altri ordini de' cittadini. L'oligarchia mercantile, che fu la prima
ad avere le redini del governo dal 1283 al 1355, inspirò forse questo
carattere alla nazione colle cure che si prese per escludere il popolo
da ogni potere. L'ordine dei nove fu trattato ingiustamente dopo la sua
espulsione, perch'egli stesso aveva ingiustamente trattati tutti gli
altri ordini. I dodici, che subentrarono nel luogo dei nove, i
riformatori e l'ordine del popolo, che altro più non erano che una
fazione, vollero tutti governare soli. Frattanto la repubblica era
diventata il patrimonio delle ultime classi della società; i vizj del
popolaccio, il suo inconsiderato impeto, la sua credulità, la sua
indifferenza per le leggi dell'onore, si comunicarono al governo, il
quale si staccò per i suoi falli medesimi da tutti i suoi alleati
naturali, e, confidando piuttosto in un tiranno che in un popolo libero,
cadde in sul finire del secolo ne' lacci che gli aveva tesi il duca di
Milano.

La libertà di Perugia soggiacque nella stessa epoca agli stessi
artificj, e nel modo medesimo che quella di Siena. Avanti la metà del
quattordicesimo secolo, questa città erasi sordamente fatta ricca in
seno della libertà. La sua alleanza con Firenze le fece alcun tempo
occupare un distinto rango tra le città guelfe d'Italia, che si univano
per difendere la libertà. Ma una certa ferocia che i Perugini
manifestarono nelle loro fazioni, esaurì ben presto con torrenti di
sangue le forze della repubblica. Un nuovo Catilina cospirò non contro
la libertà, ma contro l'esistenza della sua patria. Dopo di lui, altri
faziosi cercarono nelle guerre civili piuttosto la vendetta che il
potere. I Perugini vennero violentemente staccati dall'alleanza dei
Fiorentini, e subito dopo oppressi e snervati dalla stanchezza del loro
furore si assoggettarono volontariamente a Giovanni Galeazzo.

Tutte queste repubbliche toscane avevano abbracciata la parte guelfa, e
da questa riconobbero lungo tempo il mantenimento della loro libertà. Ma
il 14.º secolo fu testimonio del lungo decadimento di un'altra
repubblica addetta alla parte ghibellina fino da' più remoti tempi, e
che prima d'ogni altra aveva additata ai Toscani la libertà e la gloria.
La repubblica di Pisa non aveva mai cambiato partito; i capi delle sue
diverse fazioni lo seguivano con più o minore accanimento; ma il popolo
mantenevasi costantemente fedele agli stessi principj. Questa costanza
doveva conservare tra Pisa e Firenze una costante opposizione, e l'odio
di questi due popoli, ch'ebbe tanta parte nel destino de' Pisani e fu
cagione della sua ruina ne' primi anni del quindicesimo secolo, non è
affatto spento ancora nell'età presente.

La grande disfatta della Meloria, e le leggi dettate dai Genovesi ai
Pisani, avevano allontanati gli ultimi dal mare verso il fine del
tredicesimo secolo. Colla distruzione della marina guerriera, il
commercio aveva perduta la sua attività, le lontane colonie erano state
abbandonate, e le coste marittime, altre volte popolate di marinaj,
rimasero deserte quando più non furono difese dalle galere della
repubblica. Ma i Pisani si erano volti a cercare un'altra gloria, che
tenesse luogo di quella delle conquiste d'oltremare. Sforzaronsi di
compensare cogli acquisti di terra ferma le perdite che avevano sofferte
in altre parti, ed il loro valore che si sostenne luminosamente quando
gli altri popoli d'Italia avevano quasi abbandonato l'uso delle armi,
giustificò i loro titoli a questa novella gloria.

Pisa era dunque la più militare repubblica della Toscana; onde, più che
alcun'altra, ebbe bisogno di affidare le forze dello stato ad un solo
uomo. Il suo governo ebbe quasi sempre un capo che d'ordinario era un
grande capitano. Ma se l'ambizione di questi tendeva ad occupare il
supremo potere, i suoi desiderj non ebbero mai pieno soddisfacimento,
perchè la nazione, tenendo sempre aperti gli occhi sopra di lui e sopra
i proprj diritti, si abbandonò assai meno alle fazioni in presenza del
supremo magistrato che poteva proporsi d'opprimerle tutte.

Il conte Fazio di Donoratico era capitano del popolo e capo della
repubblica di Pisa, quando Enrico VII entrò in Italia. L'attaccamento
de' Pisani al partito imperiale, li determinò a rompere la pace loro
procurata dalle vittorie di Guido di Montefeltro nel 1293; essi
sprezzarono le forze riunite di tutti i Guelfi della Toscana, le tennero
occupate essi soli mentre Enrico VII andava a cercare a Roma la corona
imperiale; essi versarono spontaneamente il proprio sangue, e
prodigarono i loro tesori per servigio di questo monarca, il di cui
cuore generoso non potè ricompensare tanto attaccamento che con una
inefficace riconoscenza. Enrico morì quando Pisa riponeva in lui le sue
più alte speranze; tutti i suoi nemici, ch'egli aveva fatti tremare, si
unirono contro la repubblica, mentre niuno de' suoi alleati osò di
abbracciare le difese d'una città, che offrivasi spontaneamente in
premio a' suoi liberatori. I Pisani, abbandonati alle proprie forze,
ruppero, sotto il comando d'Uguccione della Fagiuola, l'armata guelfa di
tutta l'Italia il doppio più forte della loro; seppero allontanare il
generale cui dovevano i loro prosperi avvenimenti, tosto che lo videro
abusare della sua autorità per giugnere alla tirannide, e terminarono
una gloriosa guerra con una moderata pace.

Pisa conservava ancora oltremare una potente colonia; la Sardegna era
feudataria della repubblica, quando, la notte dell'undici aprile 1323,
tutti i Pisani furono uccisi in quasi tutte le parti della Sardegna per
una perfidia del giudice d'Arborea e d'Oristagni, e questa parte
dell'isola venne abbandonata agli Arragonesi. Malgrado le forze di lunga
mano superiori del nemico monarca, malgrado l'abbandono in cui erano
rimasti i Pisani, opposero una vigorosa resistenza all'invasione.
Manfredo della Gherardesca, che li comandava, fece perdere quindici mila
uomini agli Arragonesi in una serie di battaglie, e finalmente incontrò
egli medesimo una gloriosa morte sul campo di battaglia. La repubblica
perdette per sempre la Sardegna, e colla Sardegna gli ultimi avanzi
della sua potenza marittima.

Era appena ultimata questa guerra quando la smisurata ambizione di
Castruccio, e la perfidia di Lodovico di Baviera ne sollevarono un'altra
contro i Pisani per parte del monarca e del partito medesimo di cui
eransi meritata la riconoscenza con tanti sagrificj. I Pisani furono
assediati da Lodovico, e dopo avere con lui capitolato, la capitolazione
fu violata, e per lo spazio di dieci anni rimasero a lui soggetti.

Frattanto dodici anni di pace rifecero le forze dei Pisani, e quando
seppero che Mastino della Scala stava per vendere Lucca al migliore
offerente, risolsero di acquistare colle armi una città cui non avevano
abbastanza denaro per comperare. Assediarono i Fiorentini nella
fortezza, di cui questi avevano allora pagato il prezzo, gli
scacciarono, e si fecero bentosto assicurare la loro conquista con un
trattato fatto col duca d'Atene, in allora signore di Firenze.

La repubblica di Pisa, diventata più potente coll'acquisto di Lucca,
pensò a riparare le perdite che la peste e le precedenti guerre le
avevano cagionate. Il primo flagello avendo distrutta la famiglia
Gherardesca, che lungo tempo occupò il primo rango nello stato, prese le
redini del governo un'altra famiglia arricchitasi colla mercatura. I
Gambacorti, meno appassionati pel partito ghibellino, conoscevano meglio
i vantaggi della pace, onde conservarono molti anni l'alleanza de'
Fiorentini: ma il contrario partito, favoreggiato prima da Carlo IV, e
verso il finire del secolo, da Giovanni Galeazzo, fu due volte
vittorioso, due volte trasse i Pisani in una pericolosa guerra coi
Fiorentini, e due volte le disgrazie della guerra si trassero dietro lo
stabilimento d'una tirannide; da prima quella di Giovanni dell'Agnello,
poi l'altra di Giacomo d'Appiano.

I due partiti de Guelfi e de' Ghibellini non eransi conservati, come nei
precedenti secoli, egualmente favorevoli alla libertà. Ovunque, fuorchè
a Pisa, i Ghibellini avevano fondata la tirannide: onde i Pisani,
sebbene liberi, essendo Ghibellini, trovaronsi in tutte le guerre di
partito uniti ai nemici di tutti i popoli liberi. Essi pagarono a caro
prezzo la loro confidenza in que' perfidi alleati; i tiranni di
Lombardia si presero la cura di assoggettare Pisa ad un signore; e
quando i Visconti ebbero consegnata la repubblica ad un padrone, non
dovettero fare che un passo per succedere a questo signore,
approfittando della confidenza de' Pisani per ridurli in servitù.

Tali furono nel corso del quattordicesimo secolo le vicende de'
principali stati d'Italia. L'esplosione di tante rivali passioni, la
complicazione di tanti opposti interessi, che gettarono la storia in una
quasi inevitabile confusione, influirono potentemente sullo spirito e
sul carattere di coloro che vissero in mezzo a questo turbine.

Nelle corti lombarde potevasi imparare quali erano i misterj della più
tortuosa politica, e fin dove giugnevano le feroci passioni, sciolte da
qualunque legame della morale e dell'onore; l'occhio penetrava negli
abissi del delitto fino alla più spaventosa profondità. Assai diversi
erano questi mostruosi governi da quelli talora benefici, spesso viziosi
e quasi sempre effemminati, tra i quali era divisa l'Italia a' nostri
giorni. Ma il delitto dà alcuna volta terribili ammaestramenti, niuno
può darne la corruzione. Un grande carattere poteva svilupparsi sotto
Giovanni Galeazzo per giudicarlo e prevenire i suoi colpi, per
combatterlo o per odiarlo; ma il sonno della morte aveva oppressi tutti
i sudditi de' piccoli principi, che in età di molto posteriore a
Giovanni Galeazzo, caddero vittima di maggiore potenza.

Nel quattordicesimo secolo le repubbliche formavano in Italia un'altra
scuola, e permettevano di fare un più nobile studio dell'uomo. Le rare
qualità di alcuni individui, ed il grande carattere di tutto un popolo,
presentavansi simultaneamente all'osservatore. La virtù era tuttavia
onorata, la fedeltà delle promesse era ancora risguardata come un dovere
delle nazioni, ed i grandi sagrificj dell'interesse personale al bene
della patria non erano affatto rari. Vero è che i costumi più non erano
semplici ed illibati, e la conoscenza del male aveva sparsi in ogni
luogo troppo famosi esempj: i popoli non eransi mantenuti fedeli al solo
amore di libertà, al solo amore di patria; troppe passioni personali
avevano trovato il mezzo di soddisfarsi: ma l'umana natura conservava
ancora sufficienti tracce della primitiva sua grandezza per insegnare al
filosofo, al vero politico tutto ciò ch'ella avrebbe potuto e dovuto
essere, onde lo studio dell'uomo poteva essere compiuto così nel bene
come nel male.



CAPITOLO LVIII.

      _Arte militare degl'Italiani in principio del quindicesimo
      secolo. — Anarchia della Lombardia. — Nuovi tiranni si dividono
      gli stati di Giovanni Galeazzo. — Bologna e Perugia restituite
      alla Chiesa. — Siena torna in libertà._

1402 = 1404.


Il modo con cui guerreggiavasi in Italia in sul finire del
quattordicesimo secolo e ne' primi anni del quindicesimo è talmente
diverso dal presente, che le determinazioni de' generali parranno spesse
volte inconcepibili ai nostri lettori, ed inesplicabili i risultamenti
delle campagne. La presente arte della guerra differisce meno da quella
dei Greci o dei Romani, che non da quella del quindicesimo secolo,
sebbene in allora la moderna artiglieria fosse universalmente adoperata;
e la tattica di Filippo o quella di Scipione sarebbe più applicabile ai
nostri eserciti che quella di Giovanni Acuto, o di Alberico da Barbiano.

L'essenziale differenza, e quella che determina tutte le altre, è che la
cavalleria pesante formava in allora il nervo delle armate, mentre
adesso, siccome ai tempi romani, è l'infanteria. Quest'ultima era stata
lungo tempo composta di contadini, o di borghesi mal disciplinati, che
combattevano senz'arte e senza coraggio, e che d'ordinario non
sostenevano la prima carica della cavalleria. Altronde sprezzavansi
troppo i pedoni per prendersi cura di perfezionare le loro ordinanze,
tutti gli sforzi del genio militare si ristrinsero al miglioramento de'
corazzieri. Credevasi in fatto d'averli resi superiori alla cavalleria
di tutti i popoli dell'antichità, e tenevasi per indubitato che la
migliore infanteria non potesse sostenerne l'urto.

Non pertanto questi cavalieri, affatto coperti di ferro, che
combattevano con lunghe lance, con pesanti spade, e con armi affatto
gigantesche, non potevano venire alle mani quando alcun ostacolo poteva
contrariare o ritardare il corso de' loro cavalli; la più debole
fortezza li tratteneva; un piccolo fiume, una fossa, bastavano a rompere
le loro ordinanze; non potevasi combattere nelle montagne, e nè pure
nelle pianure, quando un generale stava trincerato nel suo campo, ove
d'ordinario non si poteva senza somma temerità tentare di forzarlo. Per
lo più conveniva per venire a battaglia, che i due generali fossero
d'accordo, e che, dopo avere mandato ed accettato il guanto della pugna,
ognuno dal canto suo facesse appianare il terreno ove dovevasi
combattere. Ma nulla è tanto raro quanto una battaglia volontaria da
ambedue le parti, perciocchè l'un generale o l'altro ha sempre a temere
qualche svantaggio, o ha qualche mezzo per giugnere a' suoi fini senza
battersi. Altronde i condottieri facevano di que' tempi la guerra per
speculazione, di modo che risparmiavano il più che potevano il sangue
de' loro soldati ed il loro proprio, i loro cavalli, le loro munizioni,
i loro equipaggi.

Il più delle volte in tutto il corso di una guerra non accadeva alcuna
vera battaglia e talvolta non accadevano nemmeno zuffe: in tal caso
tutte le ostilità si limitavano ad una o più _cavalcate_, chiamandosi
con tal nome le spedizioni ne' paesi nemici. Un generale invadeva una
provincia con intenzione di bruciare le case, di distruggere le messi,
di rubare le mandre; tutti gli abitanti fuggivano innanzi a lui e si
chiudevano entro le terre murate. Siccome egli non poteva trattenersi
per assediarle, proseguiva il cammino guastando tutto quanto trovavasi
sul di lui passaggio. Intanto il generale nemico provvedeva i castelli
di truppe, seguiva l'armata a qualche distanza, spiava l'opportunità di
sorprenderla, piombava addosso ai cacciatori, li forzava a non
allontanarsi dal campo, ed in pochi giorni obbligava quasi sempre
l'aggressore a dare a dietro ed a rientrare nel proprio paese per
mancanza di vittovaglie.

La guerra facevasi al popolo e non all'armata; tutto il corpo della
nazione risguardavasi come nemico; i soldati consideravano tutte le
proprietà dei popoli presso i quali guerreggiavano come una legittima
preda; facevano prigionieri i proprietarj ed i contadini, e non li
rilasciavano senza taglia. Perciò niuno poteva tenersi neutrale nella
lite del suo paese, niuno serviva il nemico, niuno gli somministrava
munizioni o vittovaglie, ma tutti ponevansi in su le difese, e cercavano
di sottrarre le loro proprietà ai soldati, onde non fossero rapite.
Coloro che non riuscivano a porre in sicuro i proprj effetti, andavano
forse soggetti a più grandi perdite che ai nostri giorni; ma d'altra
parte non potevasi stabilire un metodo regolare di angariare un paese;
nè allora sapevasi togliere ai vinti senza violenza, non solo tutto
quanto possedono, ma tutto ciò che devono avere un giorno, e far loro
impegnare i loro beni futuri, nella speranza di salvare quelle
proprietà, che poi vengono loro tolte.

A que' tempi non eravi quasi veruna casa sparsa ne' campi, abitando
tutti gli agricoltori borghi o villaggi posti d'ordinario sopra qualche
colle o eminenza suscettibile di difesa. Circondavansi questi villaggi
di mura, e si munivano di robuste porte, ond'ebbero poi il nome di
castelli. In ogni tempo le proprietà mobiliari più preziose de'
contadini erano lasciate in questi castelli, e quando veniva dichiarata
la guerra, il governo ordinava di trasportarvi tutte le messi che si
erano lasciate in mezzo ai campi, e di chiudervi tutto il bestiame.
Accordava quasi sempre l'esenzione delle gabelle a coloro i di cui
castelli non credevansi capaci di lunga difesa, e che perciò
trasportavano i loro effetti in città. Per tal modo la campagna restava
affatto spogliata in pochi giorni, ed il nemico, che proponevasi di
vivere col saccheggio, non trovava di che mantenersi.

Veruno stato avrebbe avuto abbastanza soldati per guarnire tutte le
fortezze onde era coperto il suo territorio, perchè ogni bicocca era
fortificata; ma, sebbene si fosse trascurato di alimentare il genio
militare tra i popoli, i contadini erano sempre attissimi a difendere le
piazze forti e le donne, i fanciulli, i vecchi concorrevano a respingere
gli assalitori, gettando sopra di loro dall'alto delle mura pietre o
materie infiammate. I difensori erano difficilmente colpiti dai dardi o
da altre armi del nemico, ed il pericolo non cominciava per loro che
nell'istante in cui cessava la resistenza; allora venivano saccheggiate
le loro proprietà, violate le donne, e gli uomini tratti in ischiavitù.

Perciò tutta la popolazione d'un paese combatteva per la propria difesa;
non potevasi occupare una vallata della lunghezza di sei miglia che dopo
avere superati otto o dieci castelli con altrettanti diversi assedj.
Così il piccolo territorio di Samminiato contava ventotto castelli
dipendenti da questa borgata[8]; così lo stato fiorentino, nel quale
oggi non trovasi una piazza capace di lunga resistenza, non avrebbe
potuto essere conquistato che dopo tre in quattrocento assedj. Se il
nemico non trovava viveri nel paese in cui guerreggiava, non poteva nè
meno tirarne dal proprio, perchè tutto lo spazio che si lasciava
addietro, non essendo sottomesso, i suol convogli erano ad ogni passo
esposti ad essergli tolti.

  [8] _Bonincontrii Miniatensis Annales, t. XXI, p. 70._

Noi siamo talmente accostumati a calcolare la potenza distruttiva del
cannone, che non sappiamo concepire come si potesse non temere il nemico
dietro una semplice muraglia, che il più delle volte serviva ancora di
parete esterna alle case che le erano addossate. Per altro ancora
presentemente queste fortificazioni, usate dai nostri antenati,
potrebbero difendersi finchè l'artiglieria non vi avesse praticata una
larga breccia, e le rapidissime operazioni delle armate verrebbero
stranamente ritardate se fosse d'uopo piantare batterie innanzi ad ogni
villaggio. Ma come ispirerebbesi ora mai ai contadini la coraggiosa
ostinazione che opponevano negli andati tempi al nemico? Invincibile era
in allora la loro resistenza, oggi l'istante della sommissione è
preveduto e prossimo; la certezza d'essere vinti un giorno, li fa
ubbidienti nell'ora medesima, e tutto il popolo è diventato neutrale
nelle guerre, delle quali lascia ogni cura ai soldati.

L'artiglieria, all'epoca cui siamo giunti, era in uso già da un mezzo
secolo, ma l'arte degli assedj non aveva ancora fatti che debolissimi
progressi. Le bombarde e le spingarde venivano adoperate contro i
combattenti, non contro le mura, e non erasi ancora trovata l'arte di
battere regolarmente una fortezza in breccia, e di demolirla con una
serie di colpi che non possono ripararsi. L'artiglieria di lunga mano
superiore a tutte le invenzioni degli antichi per rovesciare i ripari,
non lo è ugualmente per combattere gli uomini. Oggi ancora le battaglie
si decidono spesso colla bajonetta, che per altro è molto inferiore alle
picche o lance de' nostri antenati; le balle non facevano maggior guasto
d'assai che le frecce, e spesso non passavano una pesante armatura. In
allora per caricare le armi a fuoco dovevasi impiegare molto tempo, e
riponevasi il loro principale vantaggio nello spaventare i cavalli
coll'esplosione loro e colla fiamma. Non fu che dugent'anni dopo
l'invenzione dell'artiglieria, ch'ebbe compimento la rivoluzione che
doveva fare nell'arte della guerra.

Un'altra non meno strana rivoluzione si operò più prontamente. Alla metà
del quattordicesimo secolo tutti i soldati che militavano in Italia
erano stranieri; ed alla fine dello stesso secolo tutti o quasi tutti
erano Italiani; l'esperimento che fecero delle forze loro contro i
Tedeschi dell'imperatore Roberto, mostrò che non cedevano nè in valore,
nè in talenti militari alle più bellicose nazioni.

I Catalani e gli Almogavari, introdotti in Sicilia ed in Calabria dal re
Federico, erano stati i primi soldati stranieri che avessero fatto della
guerra un mestiere. Dopo la pace di Sicilia una parte di queste truppe
mercenarie passò in Grecia sotto il nome di grande compagnia; il
rimanente si pose al soldo dei principi o delle repubbliche d'Italia, ed
in principio del quattordicesimo secolo il nome di Catalani era comune
ai mercenarj di tutte le nazioni.

Enrico VII, Lodovico di Baviera, Giovanni di Boemia e Carlo IV
condussero molti Tedeschi in Italia. Quasi tutti, poco affezionati ai
principi che gli avevano condotti, presero servigio presso i loro
avversarj. Così i sovrani si confermarono nell'abitudine di confidare a
braccia mercenarie la difesa de' loro stati. Pure fu nella stessa epoca
ed in mezzo al quattordicesimo secolo, che le formidabili compagnie di
ventura del duca Guarnieri, del conte Lando, d'Anichino Bongartm, fecero
conoscere agl'Italiani tutto quanto dovevano temere da queste terribili
bande. Somiglianti truppe, formate nelle guerre di Francia e
d'Inghilterra, passarono pure in Italia nella seconda metà del
quattordicesimo secolo. Fra Moriale, i capi della compagnia Bianca e
della compagnia della Rosa, Giovanni Acuto ed il cardinale di Ginevra
discesero consecutivamente dalle Alpi alla testa di soldati francesi,
inglesi, provenzali, guasconi e bretoni. Finalmente Lodovico d'Ungheria
in tempo del suo glorioso regno aprì a' suoi sudditi la strada
dell'Italia, e tutta la cavalleria leggiera delle armate italiane più
non fu composta che di soli Ungheri.

I governi trovavansi in ogni tempo apparecchiati alla guerra, senza aver
avuto bisogno d'inreggimentare da prima, o d'istruire le loro truppe: in
pochi giorni potevano ristaurare col danaro un esercito nel momento in
cui un altro era disfatto; potevano in fine far cessare ogni spesa
militare nel giorno medesimo in cui soscrivevano la pace. E per tal modo
l'indisciplina delle truppe mercenarie, le loro perfidie, le loro
pretese, quando si formavano in compagnie di ventura, non poterono per
lungo tempo persuadere gli stati d'Italia a rinunciare al loro servigio.
Altronde nè i principi, nè le repubbliche si erano ancora arrogato il
diritto d'ordinare forzati arrolamenti; i cittadini non erano obbligati
a servire lo stato che in tempo di pressante bisogno; le milizie non
erano pagate, e non erano giammai obbligate ad allontanarsi per lungo
tempo dai loro affari domestici, dai loro focolari. Non avevasi avuto il
tempo di esercitarle, e qualunque volta si ponevano a fronte a truppe
disciplinate, provavano tali rovesci, che più non osavasi riporre in
loro alcuna fiducia.

Per altro quando il nemico penetrava nel territorio d'una città,
facevasi ancora talvolta prendere le armi all'intera nazione; ognuno
doveva porsi sotto il comando de' suoi ufficiali di quartiere, ed il
podestà aveva il supremo comando della milizia. Dava ordine a tutti i
cittadini, sotto pena d'ammenda o di corporale castigo, di uscire dalla
città per passare al campo intanto che la maggior campana martellava, ed
avanti che una candela accesa sotto le porte avesse terminato di
bruciare. Il timore del castigo faceva in fatti marciare tutti i
cittadini, ma non dava perciò loro l'attitudine di maneggiare le armi,
nè il coraggio di battersi. Nella stessa epoca coloro che facevano il
mestiere del soldato erano sempre in guerra: nell'istante che un
principe li licenziava per avere fatta la pace, gli assoldava un altro
per cominciare nuove guerre. In verun tempo la diversità tra le milizie
e le truppe di linea era stata così grande, imperciocchè i primi non
sapevano cosa fosse la guerra, gli altri non avevano mai vissuto in
pace.

Questa diversità inspirava un'alta opinione per un mestiere che poche
persone credevansi in istato d'esercitare; la paga di qualunque operajo
nelle più lucrose professioni non uguagliava quella del soldato[9]; e
questi riceveva ancora frequentemente straordinarie ricompense; si
chiudevano gli occhi sulle sue ruberie, e gli si usava indulgenza per
ogni eccesso.

  [9] Pagavansi ad ogni lancia dai tredici ai sedici fiorini al mese,
  ciò che ammonta, peso per peso, a circa sessanta franchi per uomo,
  ed avuto riguardo alla rarità del numerario che valeva quattro volte
  più che adesso, circa dieci luigi al mese. Vero è che spettavano ai
  cavalieri il cavallo e le armi. _Cron. di Jacopo Salviati, t. XVIII,
  Deliz. degli Erud., p. 201. — Marin Sanuto Vite dei Duchi di
  Venezia, p. 807, t. XXII._

La guerra è una passione così naturale all'uomo, che non abbisognano
tante ricompense per affezionare i soldati al loro mestiere. Si vedono
oggi accontentarsi della paga assai minore di quella dell'ultimo
operajo, e non pertanto assoggettarsi a fatiche assai maggiori. Rispetto
al pericoli cui devono esporsi, lungi dal pensare a farseli pagare, vi
trovano in qualche modo la loro ricompensa; imperciocchè la battaglia,
siccome la caccia, ha i suoi piaceri, ed il godimento della vittoria è
tanto più vivo quanto il pericolo è stato più grande. Ma questo gusto
della guerra non è facilmente creduto dalle persone pacifiche, per
essere una conseguenza di emozioni che non conoscono e che non hanno
prevedute. Per persuadere gl'Italiani a rientrare nella professione
delle armi da loro abbandonata, rendevasi necessario un allettamento più
generalmente sentito. L'amore del danaro, il desiderio di menare una
vita licenziosa che in allora permettevasi alle truppe, fecero
impressione sulla comune degli uomini, e gli spiriti ardenti ed inquieti
portarono più in là la loro ambizione e le speranze. Il più grande
potere, la più smisurata ricchezza, la sovranità medesima poteva
acquistarsi da un soldato di fortuna. Tra i condottieri tedeschi,
francesi ed inglesi ch'eransi veduti in Italia giugnere ai primi gradi,
molti erano usciti dalle più povere classi della società. Gl'Italiani
fecero ancora più sorprendenti fortune quando si posero in su la stessa
carriera.

Molti principi di questa nazione si erano innalzati circa la metà del
quattordicesimo secolo alla riputazione di buoni capitani, ma le armate
ch'essi comandavano erano composte soltanto di stranieri. Francesco
degli Ordelaffi, signore di Forlì, i Malatesti di Rimini, Ridolfo di
Varano, signore di Camerino, e molti altri vennero successivamente
chiamati in qualità di generali dalla repubblica fiorentina, dal papa e
da altri sovrani. Ambrogio Visconti, figliuolo naturale di Barnabò,
formò pure una compagnia di ventura, colla quale corse più volte
l'Italia per guastarla. Ma non è per altro a costoro che spetti la
gloria d'avere rinnovata la milizia italiana. Essi combattevano con
un'armata straniera in mezzo alla loro patria. Alberico conte di
Barbiano, che successe a costoro, formò il primo un'armata nazionale,
che servì di scuola a tutti i capitani italiani.

Alberico da Barbiano era signore di alcuni castelli nelle vicinanze di
Bologna; cominciò nel 1377 a farsi conoscere in un modo che fece più
onore a' suoi talenti militari che alla sua umanità. Nell'attacco di
Cesena aveva sotto i suoi ordini duecento lance, e molto contribuì alla
presa di questa città[10]; ma ebbe altresì parte all'orrendo massacro
comandato dal cardinale di Ginevra ed eseguito dai Bretoni. Non molto
dopo levò un corpo, tutto formato d'Italiani, che intitolò la compagnia
di san Giorgio. In tempo dello scisma servì con questa Urbano VI, mentre
i Bretoni erano sotto gli ordini di Clemente VII. Il 28 aprile del 1379
osò di attaccarli innanzi a Marino, ed i suoi avventurieri italiani, che
fin allora avevano militato divisi in corpi stranieri, ebbero la gloria
di vincere la più temuta truppa dell'Europa.

  [10] _Cronica di Bologna, t. XVIII, p. 510._

La riputazione del Barbiano andò sempre crescendo dopo questa vittoria.
La compagnia di san Giorgio venne risguardata come la gran scuola
dell'arte militare in Italia; i fratelli ed i parenti d'Alberico vi
entrarono prima degli altri; tutti coloro che dovevano in appresso
illustrare il proprio nome nella carriera militare, si associarono a
Barbiano. Ugolotto Biancardo, Jacopo del Verme, Facino Cane, Otto Bon
Terzo, Broglio, Braccio da Montone, Biordo e Ceccolino dei Michelotti si
formarono sotto di lui. Sforza attendendolo, mentre stava lavorando la
terra presso al suo villaggio di Cotignola, fu da alcuni soldati
invitato ad entrare nello stesso servigio. Gettò la sua zappa sopra una
quercia dichiarando che s'ella ricadeva rimarrebbe contadino, e se
restava appesa all'albero, risguarderebbe tale presagio come quello di
futura grandezza: la zappa non ricadde e Sforza si fece soldato; e suo
nipote, duca di Milano, diceva a Paolo Giovio: «tutte queste grandezze
di cui tu mi vedi circondato, questi soldati e tante ricchezze, le devo
ai rami d'una quercia, che sostennero la zappa di mio avo[11].»

  [11] _Paul. Jov. Elog., l. III, c. 2, e nella prefaz. Murat., t.
  XIX, p. 624._

La maniera con cui arrolavansi le truppe, per lancia rotta, dava ad un
molto maggior numero di soldati i mezzi di farsi conoscere. Un
gentiluomo si affezionava alcuni de' suoi vassalli, un abile
avventuriere si associava alcuni compagni di servigio, e queste piccole
compagnie erano indissolubili: anzi andavano sempre ingrossando, e
quando il capitano disponeva di venti lance, ossia di sessanta uomini di
cavalleria, cominciava a trattare separatamente e con indipendenza coi
sovrani che volevano prenderlo al loro servigio.

Le continue guerre del regno di Napoli, sempre lacerato, dopo la morte
di Giovanna, dalle fazioni d'Angiò e di Durazzo e dalle rivalità de'
signori feudatarj, offrivano impiego a tutti i capitani. Alberico da
Barbiano vi militò con distinzione sotto Carlo III, e nel 1384 ottenne
da questo monarca il titolo di gran contestabile del regno, che conservò
finchè visse[12]. Per altro non si attaccò esclusivamente al servigio
dei reali di Napoli; più frequentemente guerreggiò in Lombardia; ottenne
la confidenza di Giovanni Galeazzo, e divise quasi sempre con Jacopo del
Verme di Verona, capitano a lui non secondo, il comando delle armate
ducali.

  [12] _Giornal. Napol., t. XXI, p. 1051._

Giovanni Galeazzo, che mai non comandava le sue armate, che non esponeva
la sua persona ad alcun pericolo, e che nell'interno del suo palazzo
viveva con sospetto e con diffidenza, aveva saputo accordare a questi
generali quel grado di confidenza di cui erano degni. Questo principe
aggiugneva ai vizj che lo resero odioso, alcune qualità che hanno
l'apparenza della grandezza. Amava e proteggeva le lettere, aveva gusto
per le arti, ed innalzò gloriosi monumenti della sua magnificenza; ma
sopra tutto sapeva distinguere il merito che poteva essergli più utile.
Penetrava con infallibile perspicacia il talento politico e militare,
avanzava senza gelosia gli uomini distinti, e loro accordava in appresso
una inalterabile confidenza; perciò ebbe sempre ne' suoi consigli ed
alla testa delle armate i più destri negoziatori, i migliori generali
d'Italia.

Giovanni Galeazzo credette, morendo, di potere mostrare ancora la
medesima confidenza ad uomini, che aveva lungo tempo lasciati depositarj
di tutte le sue forze, e li nominò custodi de' suoi stati e de'
figliuoli che lasciava in tenera età. Ma i capitani, che meglio lo
avevano servito, fecero ben presto vedere, che fin ch'egli visse gli si
erano conservati fedeli per timore, non per amore.

Il testamento di Giovanni Galeazzo divise i suoi stati tra i figli. A
Giovanni Maria, il primogenito, che non aveva che tredici anni, diede il
ducato di Milano dal Ticino fino al Mincio[13]; ed al secondo, Filippo
Maria, che dichiarò conte di Pavia, assegnò le città poste a ponente del
Ticino, o al levante del Mincio[14]. Aveva pure un bastardo, detto
Gabriele Maria, cui lasciò le signorie di Crema e di Pisa[15].

  [13] Le città di Cremona, Como, Lodi, Piacenza, Parma, Reggio,
  Bergamo e Brescia. — Ebbe pure le città di Bologna, Siena e Perugia.

  [14] Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Verona, Vicenza,
  Feltre, Belluno e Bassano.

  [15] _And. Bilii Hist. rer. Mediol., l. I, p. 12, Scrip. Rer. Ital.,
  t. XIX. — Bern. Corio Hist. Milan., p. IV, p. 286._

Questi principi, troppo giovani per governare da sè stessi, furono dal
padre lasciati sotto la tutela d'un consiglio di diecisette personaggi,
de' quali doveva essere capo Francesco Barbavara di Novara, già
cameriere di Giovan Galeazzo. La duchessa madre, Catarina, figlia di
Barnabò Visconti, doveva avere la presidenza del governo. Jacopo del
Verme, Alberico da Barbiano, Antonio, conte d'Urbino, Pandolfo
Malatesta, Francesco dei Gonzaga e Paolo Savelli erano membri del
consiglio di reggenza. E per tal modo tutti i migliori generali d'Italia
trovavansi al soldo dei giovanetti principi, e tutti i vicini stati
erano in pace con loro, tranne i Fiorentini e Francesco da Carrara.

Ma nel 1402, i Fiorentini che non avevano potuto trovare verun alleato,
quando la salute e la libertà dell'Italia dipendevano dalla loro
resistenza, formarono facilmente una potente lega per attaccare e
spogliare gli eredi di Giovan Galeazzo. Si volsero prima che ad ogni
altro, al papa Bonifacio IX, che aveva giusti motivi di malcontento
contro il duca di Milano. Le città di Perugia, di Bologna e di Assisi
erano state sottratte al suo alto dominio; il Visconti aveva persuasi
molti feudatarj della santa sede a fargli la guerra; e di concerto coi
Colonna, cercava perfino di togliergli la sovranità di Roma[16]. Non
pertanto finchè Giovan Galeazzo visse, Bonifacio non osò farne lagnanza,
nè porsi in istato di difesa. La prima notizia dell'infermità del duca
rese il papa coraggioso, e gli fece rinnovare un trattato coi
Fiorentini, poi, quando ebbe certezza della sua morte, soscrisse un
trattato di alleanza colla repubblica, in forza del quale prometteva di
aggiugnere cinque mila cavalli ai sei mila che darebbero i Fiorentini,
onde muover guerra agli eredi Visconti, e ritoglier loro tutti gli stati
ingiustamente occupati dal loro genitore[17].

  [16] _Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. IV, p. 291._

  [17] _Piero Minerbetti, 1402, c. 15, p. 465. — Scipione Ammirato, l.
  XVII, p. 894._

Era appena soscritto il trattato, quando Giannello Tommacelli, fratello
del papa, s'avanzò contro Perugia con mille cinquecento lance, onde
sostenere gli emigrati che volevano rientrare nella loro patria: di già
gli si erano arresi quattordici castelli, e la città chiedeva di
capitolare, quando Otto Bon Terzo si avanzò per liberarla, e costrinse
alla ritirata il fratello del papa, che mancava egualmente di coraggio e
di cognizioni militari[18]. Dal canto loro i Fiorentini guastarono
alcune parti dei territorj di Siena e di Pisa, ma non impedirono a
Gabriele Maria Visconti di recarsi in quest'ultima città con Agnese
Mentegatti, sua madre, per prendere possesso della signoria che gli era
stata data da Giovanni Galeazzo, e difenderla dai nemici[19].

  [18] _Piero Minerbetti, c. 17, p. 467. — Pompeo Pellini Istoria di
  Perugia, p. II, l. XI, p. 132._

  [19] _Marangoni Croniche di Pisa, p. 825._

In gennajo del 1403 i Fiorentini rinnovarono i decemviri della guerra,
onde spingere le operazioni ostili con maggior vigore. Malgrado la loro
democratica gelosia non solo affidavano questa carica per un anno, ma
d'anno in anno riconfermavano nell'impiego que' decemviri che ben
meritavano della patria[20]. Questi magistrati, formando un nuovo
esercito, riuscirono ad avere al loro soldo alcuni di que' capitani, i
quali essendo stati da Giovanni Galeazzo nominati nel consiglio di
Reggenza, sembravano interamente addetti al duca di Milano. Ma di già
una segreta gelosia divideva questo consiglio, ed i generali erano
ansiosi di portare le armi contro coloro che avevano lungo tempo
serviti. Alberico da Barbiano accettò il comando dell'esercito
fiorentino, ed il marchese d'Este, Malatesti di Rimini e Pietro da
Polenta, signore di Ravenna, presero servigio sotto le sue insegne ed
abbandonarono i Visconti[21].

  [20] _Piero Minerbetti 1402, c. 10, p. 469. — Scip. Ammirato, l.
  XVII, p. 896._

  [21] _Piero Minerbetti 1403, c. 1, p. 470. — Cron. di Bologna, t.
  XVIII, p. 578._

Carlo Malatesti di Rimini e Paolo Orsini comandavano le truppe del papa,
e Baldassare di sant'Eustachio, che fu poi Giovanni XXIII, dirigeva le
loro operazioni come legato di Romagna[22]. Quest'esercito si adunò
lentamente in giugno e luglio, attaccò Bologna, difesa da Facino Cane e
da Galeazzo Porro, e costrinse Lodovico degli Alidosi, signore d'Imola,
a lasciare l'alleanza dei Visconti[23].

  [22] _Poggio Bracciolini, l. IV, p. 292._

  [23] _Piero Minerbetti, c. 13, p. 478. — Bern. Corio Ist. Milan., p.
  IV, p. 291. — Jacobi de Delayto An. Esten., t. XVIII, p. 982._

Francesco Barbavara, che Giovanni Galeazzo aveva nel suo testamento
nominato presidente del consiglio di reggenza, aveva cominciata la sua
carriera come cameriere del duca, onde i signori, che facevano parte del
consiglio, non sapevano perdonargli la bassezza de' suoi natali, nè
riconoscerlo per loro superiore[24]. Quanto più lo vedevano onorato
della confidenza della duchessa, maggiormente si disgustavano del
governo, e nell'istante che avrebbero dovuto provvedere gagliardamente
contro gli attacchi de' Fiorentini, del papa e di Francesco da Carrara,
non pensavano che ai mezzi di nuocere al Barbavara, che credevano
l'amante di Catarina[25]. Due Visconti, lontani parenti dell'estinto
duca, si posero alla testa dei malcontenti, ed accusarono il Barbavara e
la duchessa di favorire i Guelfi[26]. Essi persuasero i due Porri,
Antonio e Galeazzo, e Galeazzo Aliprandi, gentiluomini milanesi e
ghibellini, ai quali Giovanni Galeazzo avea mostrata molta confidenza,
ad unirsi con loro per sollevare il popolo. Tutta la città risuonò di
grida sediziose del popolaccio che domandava la morte del Barbavara, e
molti de' suoi amici furono uccisi[27]. La duchessa spaventata si chiuse
con lui nel castello, e gli ammutinati nominarono senza la
partecipazione di lei un nuovo consiglio di reggenza.

  [24] _Andrea Biglia Histor. Mediol. l. I, p. 12._

  [25] _Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, t. XIX, p. 809._

  [26] _Bernard. Corio Ist. Milan., p. IV, p. 297._

  [27] _Piero Minerbetti, 1403, c. 6, p. 472._

Frattanto Catarina, come talvolta accade alle donne, confondeva la
violenza e l'impetuosità colla fermezza; credeva di agire come si
conviene a uomo ed a principe, quando più s'allontanava dal carattere
del suo sesso e dal proprio, e commetteva azioni barbare per ostentare
una virile condotta. Dopo di avere ammessi nella reggenza i nuovi
consiglieri datile dal popolo, li fece un giorno chiamare per deliberare
seco nel castello di Milano[28], e fattili circondare dai suo satelliti,
fece decapitare i due Porri e l'Aliprandi, indi esporre sulla pubblica
piazza i loro sfigurati corpi. Antonio Visconti e gli altri arrestati
con loro vennero chiusi in prigione[29].

  [28] Il 7 gennajo 1404.

  [29] _Piero Minerbetti, 1403, c. 28, p. 492. — Castello di Castello
  Chron. Bergom., t. XVI, p. 946. — Andrea Gataro Stor. Padov., p.
  873. — Ser Cambi Cron. di Lucca, t. XVIII, p. 838._

Nè meno crudelmente aveva la duchessa trattate alcune città ammutinate.
I cittadini d'Alessandria avevano prese le armi in ottobre, e scacciati
dalla loro città i ministri dei Visconti: ordinò Catarina a Facino Cane,
uno de' suoi generali, di punirli. La città fu presa ed abbandonata ad
orribile sacco, dopo il quale Facino Cane[30] se ne fece signore, e più
non depose la sovranità[31]. Non molto dopo i Guelfi di Como furono in
una sollevazione cacciati dalla loro patria dai Ghibellini; implorarono
la protezione della duchessa, la quale mandò a Como Pandolfo Malatesti,
altro suo generale, cui andava debitrice de' soldi arretrati. Gli
permise di pagarsi col saccheggio de' Ghibellini di Como, ma il
Malatesti saccheggiò tutta la città, ed in appresso se ne appropriò il
governo[32].

  [30] Questo generale era oriondo di Castel sant'Evasio nel
  Monferrato. _Redusius de Quero Chron. Tarvis., p. 809._

  [31] _Piero Minerbetti, c. 18, p. 487._

  [32] _Iv., c. 23, p. 487._

Tutte le città ch'erano state assoggettate al dominio dei Visconti
trovavansi in preda alla più violenta anarchia. In cadauna eravi qualche
famiglia, che ne aveva in altri tempi avuta la signoria, o che almeno
aveva primeggiato sugli altri col favore dello spirito di parte; queste
famiglie sentivano assai più vivamente il desiderio di ricuperare
l'antica loro autorità, che i popoli quello di riporsi in libertà: ogni
piccolo stato sentiva meno il peso di un giogo dispotico, che
l'avvilimento di vedersi ridotto alla condizione di città di provincia,
e si lusingavano tutti di veder rinascere la loro prosperità passata,
tornando ad essere capitali di una piccola sovranità; perciò favorirono
le famiglie che cercarono di sottrarsi all'autorità dei Visconti per
sostituirvi la propria. Cremona fu la prima a ribellarsi. Giovanni
Ponzoni, i di cui antenati erano stati capi del partito ghibellino,
trovavasi esiliato dalla sua patria, e vi rientrò il 30 maggio alla
testa di un branco di gente armata, cacciandone Giovanni da Castione,
commissario della duchessa, e rendendo la libertà a tutti i prigionieri.
Trovavasi tra costoro Luigi Cavalcabò, antico capo dei Guelfi cremonesi.
Quest'uomo ambizioso ed inquieto non fu appena fuori di prigione che
cercò di risvegliare in Lombardia la parte guelfa; nome omai dimenticato
sotto la lunga oppressione dei Visconti.

Più non trattavasi tra Guelfi e Ghibellini della contesa così lungamente
agitata tra gl'imperatori ed i papi, come più non trattavasi, siccome in
Toscana, dell'opposizione tra il partito della libertà e quello
dell'assoluto potere; imperciocchè i Guelfi lombardi, non meno che i
Ghibellini, avevano perduto ogni spirito d'indipendenza. Ma restavano
tuttavia antichi odj da soddisfare, antiche vendette da fare; restava
più che tutt'altro un'inquieta ambizione, ed il sempre rinascente
desiderio di ricuperare un potere già da tanti anni perduto. Tutti i
Guelfi nelle città, ne' castelli, ne' villaggi si posero in moto per
rialzarzi dall'oppressione in cui gli avevano così lungo tempo tenuti i
Visconti, trattarono coi Fiorentini, capi in Italia di tutta la parte
guelfa, e formarono una lega generale, alla direzione della quale
nominarono Ugolino Cavalcabò, marchese di Viadana, e Gabrino Fondolo,
suo amico e suo luogotenente[33].

  [33] _Lodov. Cavitellius Ann. Cremon. apud Graevium., t. III, p.
  1396. — Campi Cremona Fedele, l. III, p. 107._

Nel mese di luglio Cavalcabò cacciò i Ghibellini fuor di Cremona, e
cadde in sospetto d'avere fatto avvelenare Giovanni Ponzone suo rivale e
suo liberatore, ma in un'adunanza del popolo fu nominato signore di
Cremona[34]. Poco dopo persuase la città di Crema a scacciare coi
Ghibellini gli ufficiali del duca di Milano ed a sottomettersi alla
signoria dei Benzeni. A Brescia i Guelfi, sostenuti dagli abitanti di
piè dell'Alpi, riportarono una compiuta vittoria; a Como per lo
contrario i vittoriosi furono i Ghibellini. Franchino Rusca cacciò i
Guelfi dalla città e dai villaggi posti in sul lago, ma si ribellò ai
Visconti, le di cui truppe lo avevano servito nel condurre a fine questa
rivoluzione[35]. Bergamo rimase in potere della famiglia ghibellina dei
Suardi, dopo avere scacciati i Coleoni coi Guelfi. A Lodi Giovanni da
Vignate, capo dei Guelfi, scacciò i Vestarini ed i Ghibellini. Gli
Scotti a Piacenza ed i Landi a Bobbio ricuperarono l'antica loro
autorità, mentre la famiglia ghibellina degli Anguisoli veniva esiliata
dalle due città. E per tal modo dall'una all'altra estremità della
Lombardia un universale fermento rinnovò gli antichi odj da tanto tempo
sopiti. Un solo stato spezzavasi in venti separate sovranità, governate
da piccoli tiranni; una guerra universale scoppiava ai confini di tutte
le province; la guerra civile esauriva ogni comunità; e quel dominio che
i Visconti avevano innalzato con tante fatiche, con tante pratiche, con
tanti delitti, pareva spegnersi per sempre.

  [34] _Jacobi de Delayto, Ann. Estens., t. XVIII, p. 990._

  [35] _Bernard. Corio Ist. Mil., p. IV, p. 292._

I Fiorentini, volendo approfittare dell'abbassamento dei loro avversarj,
avevano unite nel Bolognese le loro armate a quella del papa. Avevano
invitato Francesco da Carrara ad unirsi a loro sotto le mura di Milano,
e mentre questi occupava Brescia e ne cingeva d'assedio il castello,
Alberico da Barbiano conduceva l'esercito della lega nello stato di
Parma. Eravi in allora per comandante Otto Bon Terzo, uno de' migliori
generali de' Visconti, parmigiano egli medesimo e di famiglia
ghibellina, il quale da Giovanni Galeazzo era stato investito di tutti i
beni che appartenevano ai Correggieschi, ed aveva nella sua patria la
doppia autorità di comandante militare e di capo di parte[36]. Per
assicurarsi la conservazione della città ne cacciò i Rossi con più di
due mila Guelfi che si recarono al campo de' Fiorentini[37], e loro
fecero aprire volontariamente le porte di molte terre murate. Alberico
da Barbiano, dopo avere soggiogata una parte di questa provincia,
apparecchiavasi a passare il Po per portarsi sopra Milano; ma Carlo
Malatesti che comandava sotto i di lui ordini le truppe del papa lo
trattenne inaspettatamente, dando pubblicità ad un trattato che andava
maneggiando da lungo tempo.

  [36] _Ann. Mediol., c. 164, p. 838._

  [37] _Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 983._

Il Malatesti aveva sposata una sorella della duchessa Catarina, figlia
di Barnabò Visconti. Finchè visse Giovanni Galeazzo questa parentela
poteva essere pel signore di Rimini un altro motivo per odiare colui che
aveva fatto perire suo suocero: ma morto il duca, il Malatesti non
poteva vedere con fredda indifferenza i pericoli che moltiplicavansi
intorno alla duchessa di Milano; tenne segrete conferenze con Francesco
dei Gonzaga, comune cognato, il quale erasi conservato fedele a
Catarina, e fu pure ammesso a tali conferenze Baldassare Cossa, legato
del papa, senza che il Barbiano, il marchese d'Este, o Vanni Castellani,
ambasciatore fiorentino, avessero sentore di queste pratiche; ed il 25
agosto del 1403, con estrema maraviglia degli alleati del papa, si
pubblicò la pace tra i Visconti e la Chiesa, che raccolse tutto il
frutto degli sforzi fatti dai popoli cui erasi associata, facendosi
restituire Bologna, Perugia e tutte le città che Giovanni Galeazzo aveva
tolte allo stato ecclesiastico, senza nulla domandare a vantaggio dei
Fiorentini[38].

  [38] _Piero Minerbetti, 1403, c. 7, p. 474; e c. 14, p. 479. — Cron.
  di Bolog., t. XVIII, p. 580. — Scip. Ammirato, l. XVII, p. 901._

Il legato ricondusse immediatamente l'armata presso Bologna, e questa
città, impaziente di ritornare sotto il governo della Chiesa, non
aspettò che Facino Cane, che vi comandava, aprisse le porte. I cittadini
presero le armi il 2 settembre, e scacciarono il generale, facendo
subito entrare in città le truppe pontificie[39]. Nel seguente ottobre i
Perugini, dopo avere avuta una lettera della duchessa di Milano, che
loro rendeva la libertà[40]; aprirono egualmente le porte a Giannello
Tommacelli, fratello del papa, e richiamarono i fuorusciti[41].

  [39] _Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 581._

  [40] _Pompeo Pellini Storia di Perugia, p. II, t. XI, p. 137._

  [41] _Piero Minerbetti, 1403, c. 17, p. 483. — Sozomeni Pistor.
  Histor., t. XVI, p. 1178._

I Fiorentini spedirono a Roma ambasciatori per dissuadere il papa dal
ratificare un trattato contrario a' suoi primi impegni[42]. L'oggetto
dell'alleanza era di ricuperare le città della Chiesa, e di liberare
quelle della Toscana. Niuna di queste ultime era per anco sottratta al
giogo de' Visconti, ed il papa non ignorava che gli sforzi de'
Fiorentini non tendevano che a rendere la libertà alla Toscana, onde non
poteva senza taccia di mala fede abbandonarli, dopo aver egli raccolti i
frutti dell'alleanza; tanto più che veruna disfatta non dava vero nè
apparente motivo alla sua _defezione_[43]. Ma Bonifacio IX, dopo avere
calmata con affettati indugi l'indignazione eccitata dalla sua condotta,
ratificò, senza nulla cambiare, il trattato conchiuso dal legato[44].

  [42] Jacopo Salviati che ci lasciò alcune memorie de' suoi tempi,
  era uno degli ambasciatori. _Delizie degli Eruditi Toscani, t.
  XVIII, p. 214._

  [43] _Piero Minerbetti, c. 16, p. 481. — Poggio Bracciolini, l. IV,
  p. 293. — Scip. Ammirato l. XVII, p. 902._

  [44] _Piero Minerbetti, c. 19, p. 484._

I Fiorentini abbandonati a sè medesimi non però rinunciarono ai progetti
che avevano formati, e continuarono coraggiosamente la guerra. Spedirono
due mila cavalli e mille cinquecento fanti ad Ugolino Cavalcabò, il
nuovo signore di Cremona[45]. Presero al loro soldo Guido da Fogliano di
Reggio, Pietro de' Rossi di Parma ed altri gentiluomini lombardi, ad
ognuno dei quali pagarono mille fiorini d'oro al mese, per ajutarli a
sostenere la guerra che questi signori facevano intorno ai loro
castelli[46]. Ma sopra tutto sforzaronsi di tornare in libertà le due
repubbliche toscane che avevano mostrato così accanito odio contro di
loro, che avevano fatto loro tanto male, e che per farne loro ancora di
più, eransi volontariamente date in mano a Giovanni Galeazzo.

  [45] _Ivi, c. 22, p. 486._

  [46] _Ivi, c. 30, p. 493._

Il primo tentativo dei Fiorentini per rendere la libertà a Siena non
ottenne il desiderato effetto. Francesco Salimbeni e Cocco di Cione,
dopo avere tentato coi loro discorsi di risvegliare nel popolo l'amore
della patria, erano rimasti d'accordo di prendere le armi coi loro
associati il 26 di novembre del 1403, d'attaccare il palazzo pubblico, e
di scacciarne san Giorgio di Carreto, governatore della città. Ma i
Salimbeni, i Malavolti ed il monte dei dodici erano entrati soli nella
congiura, onde la gelosia degli altri ordini la fece mancare. Venne
avvisato il governatore di ciò che contro di lui si tramava, e questi
avendo tratto Francesco Salimbeni presso al palazzo, intrattenendosi con
lui amichevolmente, colà lo fece uccidere dalle sue guardie[47]. I
dodici che si armavano per difenderlo furono attaccati e rotti, e molti
di loro presi e mandati al supplicio, o in esilio. Il monte dei dodici
fu in allora dichiarato escluso da ogni partecipazione al governo, e
questo decreto si mantenne in vigore per lo spazio di quasi
ottant'anni[48].

  [47] _Bernardino Corio Storie Milan., p. IV, p. 294. — Andreae
  Biglii Histor. Mediol., l. I, p. 14._

  [48] _Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. X, p. 194. — Joh. Bandini
  de Bartholomeis Senensis suorum temporum hist., t. XX, Rer. It., p.
  I._

Per altro i Sienesi, che non avevano voluto ricevere la libertà per
opera dei dodici o dei Salimbeni, non tardarono a procurarsela da sè
medesimi. Alla fine di marzo del 1404 spedirono a Firenze ambasciatori a
chiedere pace. Quando cominciò questa negoziazione, il governatore san
Giorgio di Carreto, conoscendo di avere perduta in modo l'autorità sua,
che non chiedevasi pure il di lui assenso per trattare coi nemici del
suo principe, uscì di città spontaneamente, avanti di esserne scacciato.
I magistrati ordinarono all'istante che si levasse la biscia dei
Visconti da tutti i luoghi pubblici e dalle monete che faceva coniare la
repubblica; ed in tal modo fu in Siena, senza rivoluzione, abolita
l'autorità del duca di Milano[49].

  [49] _Malavolti Stor. di Siena, p. II, l. X, p. 195. — Scip.
  Ammirato, l. XVII, p. 906._

I Fiorentini accolsero lietamente gli ambasciatori Sienesi, restituirono
alla loro repubblica tutte le terre che avevano occupate nel di lei
territorio, riservandosi soltanto la giurisdizione di Montepulciano,
ch'era stata la prima cagione della guerra. Vollero invece che gli
esiliati di Siena fossero richiamati in patria, ammettendoli al
godimento de' loro beni e diritti. Questo trattato di pace si pubblicò
in mezzo al tripudio de' cittadini nelle due città il 4 aprile del
1404[50].

  [50] _Piero Minerbetti, 1404, c. 1, p. 497. — Bandini Hist.
  Senensis, t. XX, p. 7. — Ser. Cambi Cron. di Lucca, t. XVIII, p.
  846._

I Fiorentini lusingavansi di giugnere più facilmente a sottrarre i
Pisani alla tirannide di Gabriele Maria Visconti. Questo nuovo signore,
che non poteva nè proteggere i suoi sudditi, nè nuocere ai suoi nemici,
andava non pertanto accrescendo le imposte per supplire alle spese della
sua piccola corte, e per sostenere una guerra, cui il popolo non
prendeva veruna parte[51]. Quando vide che le imposte ordinarie non
bastavano, pretese d'avere scoperta una cospirazione de' Bergolini, e
sotto questo colore fece morire un Agliate, un Bonconti ed altri
rispettati cittadini, confiscando i loro beni.

  [51] _Piero Minerbetti, 1403, c. 24, p. 487. — Scip. Ammirato, l.
  XVII, p. 903._

Per approfittare del malcontento del popolo, in gennajo del 1404, i
Fiorentini mandarono sotto Pisa un grosso corpo di cavalleria, con
alcuni ingegneri e poche compagnie d'infanteria. Erano stati avvisati
che le mura della città erano mezzo ruinate in vicinanza di un'antica
porta ch'era stata chiusa, e che potevano facilmente superarsi[52]. Ma
giunti innanzi a Pisa trovarono una nuova fortificazione innalzata nel
luogo ch'essi pensavano di attaccare, il nemico informato de' loro
progetti, e le mura coperte di soldati e di macchine. Risolsero perciò
di ritirarsi dopo avere guastate le campagne.

  [52] _Piero Minerbetti, 1403, c. 26, p. 489. — Sozomeni Pistor.
  Hist., t. XVI, p. 1179._

Questo tentativo invece di nuocere a Gabriele Maria Visconti servì per
lo contrario a consolidare il di lui potere, perchè lo determinò ad
implorare la protezione di Boucicault, maresciallo di Francia, che in
allora teneva il comando di Genova. Quest'illustre generale, che
desiderava di vendicarsi sugl'infedeli della schiavitù sofferta tra le
catene di Bajazet, cercava modo di trattare con Emmanuele II Paleologo
per soccorrerlo nelle sue avversità; onde avea avidamente accettato il
vicariato di Genova, di cui ne aveva prese le redini il 31 ottobre del
1401, perchè il popolo che possedeva Pera aveva più d'ogni altro mezzi
ed interesse di difendere Costantinopoli[53]. Boucicault era entrato in
tutti gl'interessi de' Genovesi e per conto loro si adombrava di tutti
gli acquisti che potrebbero fare i Fiorentini; ed in particolare non
voleva permettere che questo popolo di mercanti possedesse
gl'importantissimi porti di Pisa e di Livorno. Accolse adunque con
piacere le proposizioni del Visconti; si fece dare Livorno e le sue
fortezze, richiese per conto della signoria di Pisa l'annuo tributo d'un
cavallo e d'un falcone pellegrino, ed a tali condizioni avendo
riconosciuto Gabriele Maria Visconti come feudatario del re di Francia,
intimò ai Fiorentini di non arrecare ulteriore molestia a lui o al suo
territorio, se non volevano provocare la collera di Carlo VI. Quando
Boucicault vide che questa minaccia non bastava, fece arrestare tutti i
negozianti fiorentini che si trovavano in Genova, e porre sequestro
sulle loro mercanzie, e non li rilasciò che dopo avere forzata la
signoria a segnare una tregua di quattro anni col Visconti, e colla
comunità di Pisa[54].

  [53] _Georgii Stellae Ann. Genuens., p. 1187._

  [54] _Piero Minerbetti, 1403, c. 27, p. 490. — Cron. di Lucca di
  Gio. Ser Cambi, p. 845. — Sozomeni Pistor. Hist., p. 1180. — Scip.
  Ammirato, l. XVII, p. 904._

Ad eccezione di Pisa, la Toscana trovavasi liberata da ogni straniera
influenza, ed i Fiorentini avevano ad ogni modo ottenuto lo scopo che si
erano proposti nella presente guerra. Siena aveva ricuperata la sua
libertà; Perugia e Bologna avevano cambiata la tirannide de' Visconti
contro il paterno e più pacato dominio della Chiesa; Riccardo
Cancellieri di Pistoja aveva fatte proposizioni di pace in settembre del
1403, e per ricuperare i suoi beni aveva ceduto alla repubblica il
castello della Sambuca, che chiudeva uno de' più importanti passaggi
degli Appennini[55]. Altro adunque a far non le rimaneva per soddisfare
a' suoi desiderj, che di punire i signori feudatarj, che avevano
abbandonati i Fiorentini per unirsi ai Visconti, onde i dieci della
guerra gli attaccarono vigorosamente. Giacomo Salviati, che comandò
questa spedizione, tolse agli Ubertini tutti i castelli che possedevano
nella val d'Ambra, s'innoltrò dopo contro i conti Guidi ed i conti del
Bagno, ed occupò tutte le fortezze che avevano questi gentiluomini ai
confini della Romagna, e per ultimo ricondusse all'ubbidienza della
repubblica tutta la nobiltà feudataria degli Appennini[56].

  [55] _Sozomeni Pistor. Hist., p. 1179._

  [56] _Jac. Salviati Mem., Deliz. degli Erud. Tosc., t. XVIII, p.
  221. — Piero Minerbetti, 1404, c. 2 e 6, p. 495 e 501. — Poggio
  Bracciolini Hist. Flor., t. IV, p. 295._

Al di là di queste montagne i Fiorentini non volevano nè fare acquisti,
nè obbligarsi a lunghe alleanze per timore di trovarsi avviluppati in
perpetue ostilità. Nondimeno mandarono soccorsi di danaro e di gente ad
Ugolino Cavalcabò, signore di Cremona. Pietro de Rossi, uno de' loro
alleati, erasi riconciliato in principio dell'anno con Otto Bon Terzo,
che governava Parma piuttosto come tiranno che come luogotenente del
duca di Milano; avevano convenuto di dividere la sovranità di questa
città, ed Otto Bon Terzo aveva offerto di passare al soldo dei
Fiorentini contro i Visconti; ma improvvisamente assalì i Guelfi di
Pietro de' Rossi che con lui erano di guarnigione nella cittadella di
Parma, e li disarmò; poi scagliandosi contro i pacifici borghesi ch'egli
credeva affezionati al suo rivale, ne fece un orribile carnificina, e
lasciò che fossero saccheggiate le loro case[57]. Pietro de Rossi,
scacciato dalla sua patria, venne a Firenze per implorare i soccorsi
della repubblica. I decemviri posero sotto i suoi ordini quasi mille
cinquecento corazzieri e lo provvidero di danaro e di munizioni da
guerra. Ma contuttociò essi più non agivano in Lombardia che come
ausiliari degli antichi loro amici; senza venire a trattati di pace, più
non maneggiavano la guerra col vigore di prima, e lasciavano che i
Visconti lottassero contro le difficoltà in cui trovavansi
avviluppati[58].

  [57] _Jacob. de Delayto An. Estens., t. XVIII, p. 1001. — Piero
  Minerbetti, 1404, c. 11 e 12, p. 508. — Redusius de Quero Chron.
  Tarvis., t. XIX, p. 809._

  [58] _Poggio Bracciolini Hist. Flor., l. IV, p. 294._

Il popolo milanese, approfittando della debolezza del governo, s'andava
agitando per ricuperare la libertà; ma l'ambizione de' grandi, o
l'inquietudine de' cittadini non si appoggiavano a nobili desiderj; i
primi non cercavano che a soppiantarsi con intrighi di corte, i secondi
turbavano l'amministrazione con movimenti insignificanti senza verun
progetto determinato, senza verun costante desiderio. Se i Milanesi
avessero rimossa dalla sovranità la famiglia Visconti, resa veramente
dai suoi delitti indegna di regnare, essi avrebbero riposta la loro
repubblica alla testa della lega lombarda, e le avrebbero per lo meno
ottenuto lo stesso rango che Firenze occupava in Toscana. Se per lo
contrario avessero cercato di consolidare la sovranità innalzata dagli
ultimi principi, dando una costituzione alla monarchia, ed assicurando
la felicità del popolo sotto la circoscritta autorità d'un capo, la
città loro sarebbe rimasta la capitale della Lombardia, e le venticinque
città, che Giovanni Galeazzo aveva governate, sarebbero rientrate sotto
la loro dipendenza; ma tutte le ribellioni di Milano venivano eccitate
da persone faziose, non da virtuosi patriotti. Cercavano essi di
strapparsi l'un l'altro di mano il potere, e non pensavano a riclamare o
a far valere i loro diritti.

Dal canto suo la duchessa Catarina colla sua imprudente e crudele
condotta andava perdendo ogni diritto all'affetto ed alla stima del
popolo. La morte dei due Porri e dell'Aliprandi aveva in principio
dell'anno eccitato in Milano un grandissimo fermento. Nel mese di
aprile, il popolo trovò una mattina cinque cadaveri vestiti di nero e
senza testa, che stavano esposti per ordine della duchessa avanti alla
porta di sant'Ambrogio. Pensava Catarina che questa misteriosa
esecuzione assicurerebbe il suo potere spaventando i faziosi. Ma
tutt'all'opposto, sebbene i Milanesi non conoscessero i decapitati, si
abbandonarono ai sentimenti di sdegno e di rabbia. Presero le armi ed
obbligarono la duchessa a dare in mano ai borghesi le sue fortezze,
dalle quali sloggiarono i soldati; il giovane duca Giovan Maria venne
affidato a consiglieri ghibellini eletti dal popolo; la casa di
Francesco Barbavara fu abbandonata al saccheggio; ed egli si ricoverò in
Val Siccida posta sopra Novara, mentre la duchessa andò a chiudersi in
Monza, sperando di rimanervi sicura sotto la protezione di Pandolfo
Malatesti[59].

  [59] _Andreae Biglii Hist. Mediol., l. II, p. 27, t. XIX. — Piero
  Minerbetti, 1404, c. 8, p. 503. — Sozomeni Pistor. Hist., t. XVI, p,
  1181._

Ma quando il duca più non trovossi custodito dalla duchessa sua madre, i
faziosi abusarono del suo nome per muovere guerra alla reggente.
Vedevansi in ogni città il partito del duca e quello della duchessa
azzuffarsi frequentemente[60]; l'ultima fu improvvisamente sorpresa a
Monza da Francesco Visconti e gittata in prigione, ove, se può darsi
fede alla pubblica voce, morì avvelenata il 16 ottobre del 1404[61].
Pandolfo Malatesti, che trovavasi presso di lei, fuggì a piedi e scalzo,
com'egli era, alla volta di Trezzo, e di là passando immediatamente a
Brescia, ottenne di avere in sua mano la città e le fortezze, e se ne
fece proclamare signore[62].

  [60] _Piero Minerbetti, 1404, c. 13, p. 509._

  [61] _Ivi, c. 14, p. 510, e c. 25, p. 519. — Poggio Bracciolini
  Hist. Flor., l. IV, p. 294. — Sozomeni Pistor., p. 1183._

  [62] _Andreae Biglii Hist., l. II, p. 27._

Per tal modo tutta la Lombardia trovossi divisa tra nuovi tiranni.
Filippo Maria, il più giovane de' fratelli Visconti, risedeva in Pavia,
ma l'autorità sopra questa città era stata nuovamente usurpata dai
Beccaria, che l'avevano in altri tempi signoreggiata. Facino Cane
regnava in Alessandria, Giorgio Benzoni a Crema, Giovanni da Vignate,
figliuolo d'un macellajo, a Lodi, i Suardi a Bergamo, i Coleoni a
Trezzo, Cavalcabò a Cremona, Francesco Rusca a Como; ed i popoli
calpestati dai nuovi padroni, e dai loro soldati, erano omai ridotti a
desiderare il giogo più uniforme dei Visconti.



CAPITOLO LIX.

      _Conquiste di Francesco da Carrara in Lombardia. — Gelosia de'
      Veneziani; gli dichiarano la guerra; vigorosa resistenza del
      Carrara, che perde successivamente Verona e le sue principali
      fortezze; egli è forzato ad arrendersi, ed il consiglio dei
      dieci lo fa morire co' suoi figliuoli._

1404 = 1406.


Quando cominciarono le turbolenze eccitate in Lombardia dalla morte di
Giovanni Galeazzo, la duchessa di Milano aveva offerta la pace a
Francesco da Carrara, signore di Padova, di cui temeva il risentimento
ed il valore. Il Carrara vi acconsentiva a condizione che gli fossero
restituite Vicenza, Feltre e Belluno, onde potesse, com'egli diceva,
lasciare la signoria d'una città a ciascuno de' suoi figliuoli. Non
pertanto dietro l'interposizione de' Veneziani si era accontentato di
Feltre e di Belluno, e la duchessa aveva promesso di dargli queste due
città nel giugno del 1403[63]. L'odio che Jacopo del Verme e Francesco
Barbavara, consiglieri di Catarina, portavano al signore di Padova, fece
rompere questo trattato all'atto che doveva eseguirsi; onde il Carrara,
dopo avere riclamata la guarenzia de' Veneziani, che gli diedero una
risposta insignificante, entrò il 12 agosto nel territorio di Verona con
una formidabile armata. Non avendo potuto riportare alcun vantaggio
sopra Ugolotto Biancardo, che comandava le truppe de' Visconti, passò
nello stato di Brescia, ed i Guelfi gli aprirono le porte di quella
città[64]. Ma le truppe del duca eransi chiuse nella cittadella, ed
avanti che il Carrara potesse forzarle ad arrendersi, sopraggiunsero
Otto Bon Terzo e Galeazzo di Mantova con mille lance, che costrinsero il
signore di Padova a ritirarsi[65].

  [63] _Andrea Gataro Stor. Padov., p. 865._

  [64] _Andrea Gataro Stor. di Padov. p. 867. — Bern. Corio Stor.
  Milan., p. IV, p. 294._

  [65] _Andrea Gataro, p. 868. — Piero Minerbetti, 1403, c. 11, p.
  475._

In principio del 1404 Facino Cane fu mandato a Vicenza dalla duchessa
con un ragguardevole corpo d'armata per portare la guerra nel padovano;
ma il Carrara, appostando le sue milizie dietro i canali ed i fiumi che
attraversano e circondano i suoi stati, rispinse le truppe milanesi, e
determinò finalmente Facino Cane a condurre altrove i suoi soldati, onde
approfittare per sè medesimo dell'anarchia in cui trovavasi la
Lombardia[66].

  [66] _Andrea Gataro, p. 872._

Lo stesso giorno in cui ritiravasi Facino Cane, Guglielmo della Scala
entrò in Padova per domandare a Francesco Carrara di prendere parte in
un'intrapresa che egli meditava intorno a Verona. Guglielmo era figlio
d'Antonio, l'ultimo signore della Scala; nel suo esilio era stato
beneficato assai dal Carrara[67]. Sperava che fosse giunto l'istante in
cui potrebbe ricuperare la sovranità de' suoi maggiori, ed assicurava il
signore di Padova che gli antichi sudditi della sua famiglia
desideravano di ritornare sotto il suo dominio, e convenne con lui, che
qualora col suo ajuto rientrasse in Verona, egli lo assisterebbe poi con
tutte le sue forze per ricuperare Vicenza. I due principi soscrissero le
condizioni di questo trattato il 27 marzo del 1404[68].

  [67] _Ivi, p. 873._

  [68] _Andrea Gataro, p. 874._

Il 30 di marzo l'armata del Carrara si mosse sotto gli ordini di Filippo
da Pisa. Niccolò, marchese d'Este, genero del signore di Padova,
sopraggiunse ad ingrossarla con cinquecento corazzieri[69], e questi
generali cinsero d'assedio il castello di Cologna. Mentre richiamavano
colà l'attenzione de' nemici, tenevano vive segrete corrispondenze coi
malcontenti di Verona, sotto le di cui mura recossi improvvisamente
l'armata che assediava Cologna la notte del 7 aprile, ed ajutata da'
partigiani de' suoi antichi signori, vi penetrò scalando le mura, onde
Ugolotto Biancardo, che vi comandava a nome del duca di Milano, dovette
ritirarsi nella fortezza[70].

  [69] _Gio. Battista Pigna Stor. dei Princ. d'Este, l. V, p. 465._

  [70] _Andrea Gataro, p. 877. — Jacobi de Delayto Ann. Estens., t.
  XVIII, p. 995._

Ma nel momento medesimo che acquistava la sua capitale, Guglielmo della
Scala era troppo infermo per poter sostenere il movimento del cavallo.
Se dobbiamo dar fede a Gataro, storico che, malgrado la sua parzialità
pei Carrara, inspira confidenza per tutte le minute circostanze che egli
riferisce, Guglielmo della Scala era travagliato da dissenteria
accompagnata da continua febbre, e fino dal 20 marzo, in cui giunse a
Padova, era stato curato dai medici del principe, e la sua malattia
aveva di già per alcuni giorni fatta ritardare l'esecuzione de' suoi
progetti[71]. Redusio da Quero, autore contemporaneo, capitale nemico
del signore di Padova, pretende invece che questi, allorchè Guglielmo
entrò in Padova, gli avesse fatto dare un lento veleno[72]. Frattanto lo
Scala venne riconosciuto per signore di Verona, e tutti i suoi
concittadini si presentarono a rendergli omaggio. La fatica
dell'inaugurazione faceva peggiorare il di lui male; e la gioja d'essere
rientrato in patria e risalito sul trono de' suoi padri veniva funestata
da' suoi crescenti dolori. Dopo quindici giorni di signoria Guglielmo
morì il 21 d'aprile. Il popolo, e quasi tutti gli scrittori
contemporanei accusarono Francesco da Carrara d'aver fatto avvelenare
questo signore[73]. Vuolsi per altro osservare, che la frequenza di tali
delitti li faceva agevolmente credere; e noi dobbiamo andare guardinghi
nel macchiare la memoria d'un principe, che in tutta la sua condotta ci
sembra nobile e generoso; altronde questo delitto era inutile, perchè
Guglielmo della Scala lasciava due figli, Antonio e Brunoro, che Carrara
investì immediatamente dell'eredità del loro padre[74].

  [71] _Andrea Gataro, p. 873._

  [72] _Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, p. 813._

  [73] _Andreæ Bilii Hist., l. I, c. XIX, p. 18. — Piero Minerbetti,
  1404, c. 3, p. 499. — Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 997. —
  Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venez., p. 807. — Gio. Battista Pigna
  Stor. dei Princ. d'Este, l. IV, p. 467._

  [74] Corio, lo storico di Milano, mentre accusa Guglielmo di avere
  circa questi tempi fatto avvelenare Carlo Visconti, suo commilitone,
  ascrive la morte di Guglielmo a fatica ed a naturale malattia.
  _Stor. di Milan., p. IV, p. 296._

Il 29 aprile Ugolotto Biancardo, assediato nella fortezza di Verona, fu
forzato di cederla agli assalitori, e Francesco da Carrara vi pose
guarnigione. Intanto Francesco Terzo, figliuolo primogenito del signore
di Padova, assediava Vicenza con un'altra armata. Da lungo tempo i
Vicentini ed i Padovani erano animati da vicendevole odio, onde i primi
si ostinavano a difendersi. Dal canto suo la reggenza di Milano tutto
poneva in opera per soccorrere il Biancardo, e mentre Facino Cane
cercava di gettare rinforzi nella città assediata, gli ambasciatori
della duchessa cercavano di persuadere la repubblica di Venezia a
dichiararsi contro il Carrara.

I Veneziani eransi mostrati indifferenti sui progressi di Giovanni
Galeazzo Visconti, e non avevano presa parte contro di lui quando questo
principe minacciava di occupare tutta l'Italia. Ma il doge Michele
Steno, e Francesco Foscari, capo della quarantia, fingevano adesso di
essere inquieti per l'ingrandimento di Francesco Carrara, principe
bellicoso, ambizioso, non meno accorto politico che grande capitano, il
quale, sebbene si mostrasse affezionato alla signoria, pensava
indubitatamente a vendicare i mali che quindici anni prima aveva questa
procurati a lui ed al di lui padre[75]. La duchessa di Milano aveva
mandati a Venezia come ambasciatori, il vescovo di Feltre, il generale
Jacopo del Verme, cui Francesco da Carrara aveva confiscati i beni a
Verona[76], ed Ugo Scrovegno, emigrato padovano, le di cui sostanze
erano pure state poste sotto sequestro; il personale loro odio seppe
risvegliare l'ambizione del doge e dei Veneziani. Offrirono da principio
di cedere alla signoria Feltre e Belluno come prezzo della loro
alleanza[77]; vi aggiunsero poco dopo Vicenza, e tutto quanto possedeva
la casa Visconti oltre l'Adige[78]. Il doge che desiderava la guerra per
illustrare colle conquiste il suo principato, adoperò qualche artificio
per allontanare dal consiglio dei _Pregadi_ tutti i favorevoli alla casa
da Carrara, e non pertanto non vinse la parte che per un solo
suffragio[79]. La guerra fu dunque decisa, e Giacomo Soriano, gentiluomo
veneziano, venne spedito a Vicenza per prendere possesso di quella
città, i di cui abitanti avevano direttamente implorata la protezione
della signoria.

  [75] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, t. XXII, p. 794._

  [76] _Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 998._

  [77] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 806. — Sandi Storia Civile
  Veneta, l. VI, c. 3, p. 358._

  [78] Ser Cambi assicura che i Veneziani pagarono dugento mila
  fiorini per le città loro cedute, _Cron. di Lucca, p. 841._

  [79] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 794._

Il 25 aprile 1404 la bandiera di san Marco fu posta sulla gran torre di
Vicenza, e spedito un trombetta a Francesco Terzo da Carrara per
ordinargli di togliere l'assedio da una città che apparteneva alla
repubblica. Il trombetta, avendo in qualche maniera provocata la collera
del giovane signore, fu ucciso in sua presenza; e questa violazione del
diritto delle genti venne ben tosto severamente punita su tutta la casa
da Carrara[80].

  [80] _Andrea Gataro, p. 883. — Redusius de Quero Chron. Tarvis., p.
  814. — Jacobi de Delayto Ann. Est., p. 1005. — Piero Minerbetti,
  1404, c. 7, p. 502. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 807._

Francesco da Carrara recossi nel campo del figliuolo con intenzione di
dare il 1.º maggio un assalto alle mura di Vicenza; ma avendo ricevuta
una lettera della signoria, che altamente lo minacciava se non levava
l'assedio, il Carrara si contenne, sperando di evitare a tal prezzo la
guerra colla repubblica; abbandonò i suoi progetti, e ricondusse le
truppe a Padova[81].

  [81] _Andrea Gataro, p. 885._

Mentre le cose trovavansi in questo stato fu avvisato che Brunoro ed
Antonio della Scala negoziavano dal canto loro con Venezia, per
guadagnarsi contro di lui medesimo la protezione della signoria, e
sottrarsi alla guerra, onde lo vedevano minacciato. Di già questi
principi gli avevano date altre cagioni di malcontento, forse ingrandite
dalla propria ambizione. Si credette autorizzato dalla loro
ingratitudine a spogliarli di quanto egli medesimo loro aveva dato. Li
fece arrestare il 17 maggio, e suo figliuolo, Giacomo da Carrara,
partecipò al popolo veronese, adunato nella pubblica piazza, i motivi di
tale determinazione[82]. Il 24 dello stesso mese Francesco da Carrara si
fece proclamare signore di Verona[83].

  [82] _Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 999._

  [83] _And. Gattaro, p. 887. — Andrea Navagero Stor. Veneziana, p.
  1076._

Frattanto gli ambasciatori di Firenze e quelli della Chiesa cercavano
d'accordo col marchese d'Este di ristabilire la pace[84], ma tanto erano
eccessive le domande de' Veneziani che non potevasi aprire alcuna
negoziazione. Questi avevano di già persuaso Francesco di Gonzaga,
signore di Mantova, ad invadere il territorio di Verona[85]. Jacopo del
Verme aveva preso possesso in loro nome delle città di Feltre e di
Belluno[86], ed il 18 giugno, ruppe a mano armata le dighe della Brenta
presso all'Anguillara, onde inondare il territorio di Padova[87]. Per
altro la guerra non ancora era stata formalmente dichiarata. Francesco
da Carrara, avvisato di tali ostilità, adunò il consiglio del popolo,
che aveva conservato o ristabilito a Padova, ad oggetto di assicurarsi
l'affetto de' suoi sudditi. Gli manifestò le ingiurie che aveva ricevute
dalla repubblica, dicendo come avesse sempre cercato di contenersi in
faccia alla medesima come un figliuolo rispettoso, piuttosto che come un
buon vicino; ma soggiunse che vedevasi ora costretto a prendere le armi
per difendere i suoi legittimi diritti, e, dietro il parere del suo
popolo, dichiarò la guerra ai Veneziani il 23 giugno del 1404[88].

  [84] _Ann. Estens. Jacob. de Delayto, p. 1006. — Piero Minerbetti,
  c. 9, p. 506. — Marin Sanuto, p. 808. — Giovanni Battista Pigna, l.
  V, p. 469._

  [85] _Platina Hist. Mantuana, l. V, p. 795._

  [86] _Redusius de Quero Chr. Tarvis., p. 814. — And. Navagero, p.
  1077._

  [87] _Jacobi de Delayto, p. 1009_.

  [88] _Andrea Gataro, p. 890._

Il senato veneto erasi fatto una regola di non adoprare che armi
straniere e mercenarie. Non voleva affidare ad un cittadino un'autorità
di cui poteva essere tentato di abusare; nè voleva pure dargli occasione
d'acquistare troppa gloria, o permettere al popolo di accostumarsi alla
milizia. I condottieri, che la repubblica prendeva al suo servigio, non
ottenevano mai d'introdurre i loro soldati in Venezia, di modo che gli
stessi loro tradimenti non potevano esporre la capitale ad alcun
pericolo; e lo stato in allora più ricco dell'Europa poteva
intraprendere senza verun timore una guerra, per sostenere la quale non
esponeva che danaro.

Si raccolse adunque al soldo della repubblica, sotto il comando di
Malatesta da Pesaro, un'armata di nove mila corazzieri. Militavano sotto
il Malatesta Paolo Savelli, Taddeo del Verme, i Polenta da Ravenna, il
conte dell'Aquila ed altri celebri capitani[89]. Francesco da Carrara,
che non aveva tanta gente, compensò colla sua attività la disuguaglianza
del numero; persuase Francesco di Gonzaga ad accettare una tregua, che
doveva durare fino al 27 agosto, e ridusse suo genero, il marchese
Niccolò d'Este, ad unirsi a lui contro i Veneziani. Niccolò riacquistò
in pochi giorni il Polesine di Rovigo, antico dominio di sua famiglia,
ch'egli aveva precedentemente ceduto alla repubblica per guarenzia di un
debito[90]. Finalmente il Carrara, approfittando de' profondi canali che
attraversano tutta la Venezia, fortificò i confini del suo territorio,
con fosse e ridotti, e li difese come una fortezza. Col suo bravo
generale, Filippo di Pisa, si appostò presso Pieve di Sacco, dietro le
linee da lui formate, ed il 20 agosto rispinse valorosamente un attacco
generale dei Veneziani su tutto il confine dello stato di Padova[91].

  [89] _Andrea Gataro, p. 891. — Jacobi de Delayto Annales Esten. p.
  1009. — Piero Minerbetti, c. 9, p. 505._

  [90] _Marin Sanuto, p. 810. — Piero Minerbetti c. 16, p. 511. — Gio.
  B. Pigna, l. V, 476._

  [91] _Andrea Gataro, p. 892. — Jacobi de Delayto, p. 1010. — Marin
  Sanuto, p. 809. — Piero Minerbetti, c. 10, p. 506._

Spirava il 27 agosto la tregua conchiusa col Gonzaga, onde il Carrara fu
forzato di dividere le sue forze per resistere ad un nuovo attacco. Una
violenta burrasca disperse in tempo di sua assenza le truppe che
custodivano le linee di Pieve di Sacco. Mentre le sentinelle medesime
cercavano di sottrarsi alla dirotta pioggia che cadeva, alcuni soldati
veneziani trovarono nella casa di un contadino, che stavano
saccheggiando, un trave abbastanza lungo per fare un ponte che
attraversasse il canale; lo gettarono senz'essere osservati; i più
arditi passarono il canale, ed agevolarono agli altri il modo di rendere
questo ponte più solido e più largo, di modo che quando furono scoperti
trovavansi omai in sufficiente numero per conservare il posto; onde il 6
di settembre l'armata veneziana entrò tutta nel primo circondario
fortificato del territorio di Padova[92].

  [92] _Andr. Gataro, p. 899. — Jacobi de Delayto, p. 1010._

Accorse ben tosto il Carrara per salvare le sue campagne dalla ruinosa
invasione de' nemici; si ritirò dietro una seconda linea di canali che
si affrettò di fortificare; indi, stendendo le sue truppe tra Oriago,
Stra e Vico d'Aggere, coprì almeno tutto il paese che restava alle sue
spalle. Frattanto a cagione di una contesa insorta tra il Malatesta e
Paolo Savelli l'armata veneziana si divise fra questi due generali: il
Carrara approfittò di questo avvenimento per battere separatamente
l'ultimo, e per togliere all'esercito nemico un convoglio di vittovaglie
che conduceva Taddeo del Verme[93].

  [93] _Andrea Gataro, p. 902. — Jacobi de Delayto, p. 1016._

Ma il signore di Padova, malgrado i suoi talenti ed il suo coraggio, non
era abbastanza forte per lottar solo contro i Veneziani. Avevano questi
richiamato da Candia il marchese Azzo d'Este, che alcuni anni prima
aveva eccitata una guerra civile nello stato di Ferrara, e gli facevano
rimontare il Po colla loro flotta per attaccare il marchese Niccolò[94].
D'altra banda Jacopo del Verme aveva condotti a Francesco Gonzaga
potenti rinforzi, e tutti due assieme attaccavano il territorio di
Verona, ove successivamente prendevano molti castelli. Gli abitanti di
questo paese non erano in verun modo affezionati alla casa di Carrara, e
non mostravano veruno zelo per difenderla. Finalmente i Veneziani
avevano congedato il Malatesta, e riunita la loro terza armata sotto
Paolo Savelli. Era quest'armata la più ragguardevole che si fosse veduta
servire in Italia, e costava ogni mese cento venti mila ducati alla
signoria, la quale, abbastanza ricca per nulla risparmiare di tutto
quanto poteva tornar utile al buon successo, consumò due milioni di
ducati nella sola guerra di Padova[95].

  [94] _Andrea Gataro, p. 905. — Marin Sanuto p. 811._

  [95] _Navagero Stor. Venez., p. 1079._

Paolo Savelli, non avendo potuto forzare il ricinto che difendeva i
Padovani, in sul finire di novembre diede al suo esercito i quartieri
d'inverno nello stato di Treviso. Il Carrara, che temeva di perdere
l'amore del suo popolo, se lo affaticava con un troppo aspro servigio
militare, si affrettò dal canto suo di rimandare gli abitanti di Padova
alle loro case. Ma la ritirata del Savelli non era che uno stratagemma;
erasi egli comperati dei traditori a Stra, i quali gli aprirono un
passaggio a traverso alle linee così lungamente difese. Il 2 dicembre
egli attraversò la Brenta, ed entrò nel cantone di Pieve di Sacco il più
ricco ed il più fertile del territorio padovano. Francesco da Carrara,
accorso per respingerli, fu ferito in una mano, le sue truppe dovettero
ritirarsi, e tutte le campagne de' suoi stati vennero miseramente
saccheggiate[96].

  [96] _Andrea Gataro, p. 907. — Jacob. de Delayto, p. 1021. — Piero
  Minerbetti, c. 28, p. 520. — Marin Sanuto, p. 813._

Il principio del 1405 non fu meno della fine del precedente anno funesto
al Carrara. Il marchese di Ferrara, suo genero, ed il solo suo alleato,
lo abbandonò. Minacciato dalle flotte veneziane, mancante di
vittovaglie, e circondato da un popolo malcontento, egli soscrisse una
separata pace, e cedette ai Veneziani il Polesine di Rovigo, e le
fortezze che aveva innalzate lungo il Po[97].

  [97] _Jacob. de Delayto, p. 1024. — Redusius de Quero, p. 816. —
  Piero Minerbetti, 1405, c. 1, p. 522. — Marin Sanuto, p. 814. — And.
  Navagero, p. 1077. — Gio. B. Pigna, l. V, p. 483._

Francesco da Carrara aveva chiesto inutilmente soccorso ai Fiorentini,
in allora occupati nelle negoziazioni di Pisa. Egli non riceveva
soccorso nè da loro nè da verun altro suo antico amico, molti de' suoi
sudditi cominciavano a scoraggiarsi, altri a manifestare qualche
malcontento, e pareva che Giacomo di Carrara, suo fratello naturale,
avesse preso parte in una congiura contro di lui[98]. Francesco cercò in
allora di porre in sicuro da ogni pericolo i suoi più giovani figli, e
parte de' suoi beni. Il primogenito, Francesco Terzo, era in Padova il
suo più fermo sostegno, ed il secondo, Giacomo, comandava per lui in
Verona. Il Carrara non volle allontanare da sè questi due valorosi
guerrieri, che dovevano avere con lui comuni l'estrema sua fortuna ed i
pericoli delle battaglie; ma fece passare a Firenze i più giovani figli,
Ubertino e Marsiglio, i suoi figli naturali, quelli de' suoi fratelli e
di suo figlio. Colà mandò pure tutti i giojelli di maggior valore ed
ottanta mila fiorini in danaro[99]. Avendo in tal modo provveduto alla
sorte di questa parte della sua famiglia, aspettò con tranquillità e con
inalterabile costanza l'aggressione d'un nemico, che aveva forze assai
maggiori delle sue.

  [98] _And. Gataro, p. 914. — Jac. de Delayto, p. 1026._

  [99] _And. Gataro, p. 915. — Jacob. de Delayto, p. 1037. — Cronica
  di Lucca di Ser Cambi, p. 849._

Il 25 maggio del 1405 Castelcaro fu contemporaneamente attaccato dalla
flotta veneziana e dall'armata di terra. Dopo una vigorosa ma breve
resistenza il Castello fu reso, onde, il territorio di Padova trovandosi
aperto da ogni banda, Paolo Savelli condusse le sue truppe sotto la
capitale, di cui intraprese l'assedio il 12 giugno[100].

  [100] _And. Gataro, p. 916. — Jac. de Delayto, p. 1027._

Da un altro lato Jacopo del Verme e Francesco Gonzaga stringevano
Verona. Que' cittadini non erano da verun affetto ereditario attaccati
ai Carrara, e di mal animo soggiacevano ai sagrificj resi necessarj da
una guerra cui essi non prendevano veruno interesse, e quando videro
attaccate dal nemico le loro mura, risolsero di far cessare la
resistenza di Giacomo da Carrara, ed occupata il 22 giugno la gran
piazza, domandarono di trattare con Gabriello Emo, provveditore
veneziano, che seguiva l'armata. Ottennero per altro un salvacondotto
per Giacomo da Carrara, di cui rispettavano le virtù, un salvacondotto,
affinchè potesse ritirarsi ove meglio credesse colla sua moglie e co'
suoi effetti preziosi[101]. Venne accordata a Verona una vantaggiosa
capitolazione, promettendo inoltre la signoria di conservarne ed
accrescerne i privilegi. Il 23 giugno l'armata di Jacopo del Verme entrò
in questa città e vi spiegò lo stendardo di san Marco[102]. Giacomo da
Carrara, ritenuto alcun tempo prigioniero contro il tenore della
convenzione, avendo tentato di fuggire, fu ripreso e mandato nelle
prigioni di Venezia[103].

  [101] _Andrea Gataro, p. 918. — Piero Minerbetti, c. 4, p. 525._

  [102] _Marin Sanuto, p. 820. — Andrea Navagero, p. 1078._

  [103] _Andrea Gataro, p. 920. — Piero Minerbetti, c. 6, p. 526. —
  Redusius de Quero, p. 816. — Jac. de Delayto, p. 1027._

L'armata che aveva presa Verona venne poco dopo ad unirsi a quella che
assediava Padova. Il primo luglio Paolo Savelli stabilì il suo campo a
Bassanello, ove fu mandato Carlo Zeno, come provveditore, dalla
repubblica. Il Gonzaga e Jacopo del Verme vi giunsero dopo pochi giorni.
Francesco da Carrara aveva divisa con suo figlio, Francesco Terzo, la
difesa della sua patria; egli vegliava la notte con una metà de'
cittadini, e Terzo coll'altra metà la custodiva di giorno[104].

  [104] _Andrea Gataro, p. 921._

I contadini si erano ritirati in città coi loro bestiami e coi migliori
effetti; ogni borghese ne aveva ricevuti molti nella sua casa, altri
erano alloggiati nelle chiese e nei conventi, altri finalmente eransi
ridotti a dormire sotto i portici delle strade. In breve l'unione di
tanti uomini e di tanti animali, il cattivo nutrimento, le immondezze di
cui riempivasi la città, produssero l'ordinario loro effetto: una
terribile peste manifestossi in Padova coi medesimi sintomi che alla
metà del precedente secolo avevano cagionato tanto spavento. Quasi tutti
gli ammalati morivano il secondo o il terzo giorno. Alcuni carri
attraversavano ogni mattina la città per raccogliere i morti; sul loro
timone era stata posta una croce, sotto alla quale ardeva sempre una
piccola lucerna, invece delle candele che in altri tempi accompagnavano
tutti i feretri. Un solo prete seguiva il carro funebre, che portava ad
un tratto dai quindici ai venti cadaveri; cadevano vittime del contagio
quattro in cinquecento persone al giorno. In ogni cimitero eransi cavate
vaste e profonde fosse, ove ponevansi i cadaveri a strati fino alla loro
superficie. Dopo che un padre aveva deposto il figliuolo sul carro
funebre, un figlio il genitore, uno sposo la consorte, era d'uopo che
cogli occhi ancora bagnati di lagrime riprendesse sollecitamente le sue
armi per rintuzzare gli attacchi de' suoi nemici[105].

  [105] Andrea Gataro, che perdette suo padre nella peste, assicura,
  che rapì quaranta mila persone. _Ist. Padov., p. 921._ — Andrea
  Biglia dà lo stesso numero. _Histor. Med., l. I, p. 20._ — Giacomo
  di Delayto riduce le perdita a ventotto mila. _Ann. Est., p. 1029. —
  Marin Sanuto, p. 817 e 827._

I castelli del territorio di Padova non avendo più comunicazione colla
capitale, nè sperando di essere soccorsi, si sottraevano gli uni dopo
gli altri all'autorità del Carrara, per fare più sollecitamente ed a
migliori condizioni la pace coi Veneziani. Este si arrese il 14
d'agosto, e Montagnana il 15. Il provveditore Zeno cercò di guadagnare
con larghe offerte Luca di Lione, nobile padovano, che comandava a
Monselice: questi ricusò con orrore le vergognose offerte; ma prese
occasione da questa comunicazione per entrare in trattato a nome dello
stesso Francesco da Carrara, e si recò espressamente a Padova per sapere
a quali condizioni accetterebbe di capitolare. Francesco dichiarò, che
consentirebbe di cedere la capitale e di rinunciare alla sovranità,
purchè fosse posto in libertà Giacomo suo figlio; che la signoria gli
pagasse cento cinquanta mila fiorini per indennizzazione; che
ratificasse le donazioni da lui fatte in tempo del suo governo, e
guarentisse i privilegj e le antiche consuetudini di Padova[106].

  [106] _Gataro Stor. Padov., p. 923. — Jac. de Delayto, p. 1030._

Mentre che Carlo Zeno era a Venezia per consultare la signoria intorno a
queste condizioni, Francesco da Carrara approfittò dell'arrogante
confidenza de' suoi nemici per batterli. Adunò le milizie della città,
che trovavansi ridotte a quattro mila settecento individui, sebbene vi
fossero incorporati i contadini rifugiati, quando nel precedente anno
oltrepassavano i dodici mila. Alla testa di questa gente sorprese il 18
agosto il campo di Paolo Savelli, che la Brenta separava da quello di
Galeazzo di Mantova: ne bruciò gli alloggiamenti, atterrò la bandiera di
san Marco e quella del capitano, ed arrecò alla repubblica il danno
d'oltre cento mila fiorini[107].

  [107] _And. Gataro, p. 924. — Jac. de Delayto, p. 1030. — And.
  Billia, l. I, p. 19. — Marin Sanuto, p. 821._

Di ritorno al campo Carlo Zeno comunicò le offerte della signoria al
Carrara: questa rendeva la libertà a suo figlio, gli permetteva di
condurre con lui trenta carri coperti, e gli dava sessanta mila fiorini.
Carrara, di consentimento del suo consiglio, era disposto ad accettare
queste condizioni, quando per sua sventura ricevette la stessa notte una
lettera di Bartolommeo dell'Armi, governatore de' suoi figli a Firenze,
la quale lo avvisava che i Fiorentini avevano comperata Pisa, e che,
cessata l'inquietudine loro per questo lato, non indugierebbero a
soccorrerlo. Alcuni priori di Firenze avevano avvalorata questa speranza
coi loro discorsi, ed il signore di Padova, credendosi omai certo dei
loro soccorsi, dichiarò che si difenderebbe fino all'ultima
estremità[108].

  [108] _Andrea Gataro, p. 926. — Navagero Stor. Ven., p. 1078._

La lunga resistenza dei castelli del territorio di Padova aveva divise
le forze degli assedianti. Posti sopra isolate colline in mezzo a vaste
campagne, avevano lungo tempo resa vana l'industria degl'ingegneri
veneziani: ma Campo san Piero si arrese l'undici di settembre, e
Monselice, ch'era stato provveduto di vittovaglie per sette anni,
perdette nello stesso giorno per un fortuito incendio i suoi magazzini,
e dovette capitolare tre giorni dopo Campo san Piero. Nel seguente
ottobre vennero l'un dopo l'altro occupati dai Veneziani Stra, san
Martino, Arlenga, Cittadella e Castel Baldo. La Brenta più non
attraversava Padova avendola gl'ingegneri deviata per altro canale, onde
i mulini della città non avevano più acqua. Paolo Savelli era morto di
malattia, ma Galeazzo di Mantova, che gli era succeduto nel comando
dell'armata veneziana, stringeva vigorosamente l'assedio[109].

  [109] _Andrea Gataro, p. 928. — Jacob. de Delayto, p. 1029. — Marin
  Sanuto, p. 818-821._

Il 2 di novembre i Veneziani, che avevano nel loro campo otto mila
cavalli e più di sedici mila pedoni, diedero un generale assalto alla
città che attaccarono su quattro punti diversi; ma furono dovunque
gagliardamente respinti. Il loro capitano, Galeazzo di Mantova, venne
rovesciato dal muro con un colpo di lancia da Francesco da Carrara; fu
pure ferito il provveditore veneziano Francesco Bembo; e la battaglia
che aveva durato dalle due ore avanti giorno fino alla notte, finì senza
che gli assedianti avessero ottenuto verun vantaggio[110].

  [110] _Andrea Gataro, p. 929. — Jacob. de Delayto, p. 1030_.

Per riempire la città di terrore gli assedianti attaccarono alle loro
frecce viglietti, coi quali minacciavano per parte della signoria di
mettere Padova a ferro ed a fuoco trattandola come Zara e Candia, se gli
assediati non si arrendevano prima che passassero dieci giorni[111].
Francesco Terzo medesimo eccitava suo padre ad arrendersi, ed a
preservare la patria dagli orrori ond'era minacciata; ma il Carrara
ricordavasi del passato esilio, non voleva nuovamente gustare l'amarezza
del pane straniero, e sforzavasi di rianimare il coraggio de' suoi
concittadini colla speranza di vicino soccorso. Assicurava di averne
avuta la promessa dal re di Francia, dal re d'Ungheria, da suo fratello
il conte di Carrara che serviva con mille lance sotto gli ordini di
Ladislao re di Napoli, e che scordava le loro private nimistà per
salvare la sua patria[112]. Per altro egli medesimo non faceva
fondamento sulle speranze che cercava d'ispirare agli altri, e solo
credeva di poter lusingarsi di qualche ajuto per parte dei Fiorentini;
ma questi, impegnati trovandosi in una pericolosa guerra per la
conquista di Pisa, non volevano dividere le loro forze, nè tirarsi
addosso la potente inimicizia de' Veneziani[113].

  [111] _And. Gataro, p. 931._

  [112] _Jacob. de Delayto, p. 1007._

  [113] _And. Gataro, p. 931._

Finalmente le guardie delle porte di santa Croce lasciaronsi sedurre da
un Vicentino detto Giovanni di Beltramino, e lo fecero entrare la notte
del 17 novembre con cinquanta fanti. Egli cominciò ad uccidere i
traditori che gli avevano aperta la città, indi fece avanzare le truppe
veneziane[114]. Francesco da Carrara si portò quasi subito contro ai
nemici, e dopo inutili sforzi per ricuperare la porta, cercò almeno di
trattenere tanto tempo i nemici, finchè gli abitanti del sobborgo si
ritirassero coi loro più preziosi effetti nel ricinto interno,
perciocchè la città ne aveva ancora due, ossia ogni quartiere di Padova
era circondato di mura, e poteva separatamente difendersi. Ma sebbene da
pertutto si suonasse campana a martello e che gli amici del principe
chiamassero i cittadini a difendere con lui il loro onore ed i loro
beni, la maggior parte invece di prendere le armi non pensava più che a
nascondere i più cari effetti, onde salvarli dall'imminente sacco.
Francesco da Carrara, quasi abbandonato, domandò un armistizio ed un
salvacondotto per recarsi al campo veneziano. Vi fu accompagnato da
Paolo Crivelli e da Michele di Rabatta, gentiluomo del Friuli, la di cui
fedeltà non erasi giammai smentita. Dichiarò ai provveditori veneziani
ed a Galeazzo di Mantova, che recavasi presso di loro per rendere la
città ad onorevoli condizioni; e che quando non potesse ottenerle, era
risoluto di difendere fino alle ultime estremità i due ricinti di mura
che ancora gli restavano[115].

  [114] _Marin Sanuto, p. 828._

  [115] _Andrea Gataro, p. 934. — Jacob. de Delayto, p. 1031._

Risposero i provveditori di non avere sufficienti poteri per trattare
col Carrara; ma lo invitarono a dare la città nelle loro mani, ed a
passare in seguito a Venezia per trattare direttamente colla signoria.
Credette il Carrara di dover preferire alla loro parola quella di un
rispettato militare. «Capitano, disse egli a Galeazzo di Mantova
rivolgendosi a lui, a voi io affido senza timore la mia città e le mie
fortezze. Promettetemi soltanto sull'onor vostro, che se io non anderò
d'accordo colla signoria voi me le ritornerete nello stato in cui vi
saranno consegnate.» Dopo averne avuta la parola, Francesco tornò in
Padova per fare dal consiglio della comunità eleggere otto deputati, ed
eleggerne due egli medesimo, onde trattare a Venezia intorno alle
condizioni della resa della piazza[116].

  [116] _Andrea Gataro, p. 934. — Jacobi de Delayto, p. 1031. — Marin
  Sanuto, p. 828. — Piero Minerbetti, c. 21, p. 541._

Il doge e la signoria ricusarono di ascoltare gli ambasciatori del
signore di Padova, ma ricevettero cortesemente quelli della città, e
loro promisero di conservare a Padova tutti i suoi privilegj, purchè i
cittadini si arrendessero essi medesimi senz'aspettare che i Carrara
trattassero per loro. Fu all'istante convenuto che due degli
ambasciatori tornerebbero a Padova, e che persuaderebbero il popolo ed i
consigli a riporsi in possesso della sovranità. Per facilitare questa
rivoluzione Galeazzo di Mantova invitò Francesco da Carrara e suo figlio
ad una conferenza nel suo campo. Li trattò in seguito a cena, ed
all'indomani li mandò parte volontariamente e parte per forza, prima ad
Oriago ed in seguito a Mestre.

Durante questo tempo, i due ambasciatori tornati a Padova, vi avevano
spiegato l'antico stendardo della comunità, la croce rossa in campo
d'argento. Una ventina di sediziosi tentarono di eccitare un tumulto
colle grida di _viva san Marco! viva il popolo! morte ai Carrara!_ Ma i
cittadini non vi presero parte, e non cercarono nè di rovesciare, nè di
difendere la di già distrutta autorità dei loro signori. Un podestà,
nominato dai sediziosi, aprì nel medesimo giorno, 19 novembre 1405, le
porte di Padova a Galeazzo ed ai provveditori, che presero possesso
della città a nome della repubblica di Venezia[117].

  [117] _Andrea Gataro, p. 937. — And. Billii Hist., l. I, p. 21._

Quando il Carrara seppe che la sua capitale era stata ceduta ai
Veneziani invitò Galeazzo di Mantova a mantenergli la data fede. In
particolare Francesco Terzo insisteva per rientrare in possesso del
castello, determinato com'egli era di difenderlo fino all'ultima
estremità, ed a seppellirsi sotto le sue ruine. Invano attestava il
generale, che la signoria tratterebbe i due principi generosamente,
poichè ciò era smentito dal rifiuto di ricevere i loro ambasciatori.
Frattanto Francesco da Carrara non tardò a conoscere che l'entusiasmo
de' suoi compagni d'armi era spento, e che più non troverebbe chi
volesse con lui consacrarsi a sicura morte. Conobbe pure che Galeazzo
non vorrebbe o non potrebbe mantenere la data fede, e che insistendo
sull'esecuzione d'una ineseguibile condizione si farebbe d'un protettore
un nemico. Acconsentì adunque d'imbarcarsi con suo figlio per rendersi a
Venezia scortato da Galeazzo e da Francesco di Molino. Al loro arrivo
nel quartiere di san Giorgio furono accolti dalle terribili grida del
popolo _a morte i Carrara!_ all'indomani, 30 novembre, Galeazzo lasciò i
suoi prigionieri per andare ad interporre a loro favore i suoi buoni
ufficj; ma quando vide l'animosità della signoria, più non osò di
rivederli. Egli risentì e manifestò fors'anche in un modo troppo
veemente la sua profonda indignazione pel colpevole abuso che si faceva
della sua parola: il senato non sapeva soffrire i rimproveri de' suoi
militari, e Galeazzo morì dopo poche settimane[118].

  [118] _Jacobi de Delayto, p. 1031. — Andrea Gataro, p. 938. — Marin
  Sanuto p. 829._

All'indomani i due principi di Carrara furono introdotti avanti alla
signoria; essi gittaronsi alle ginocchia del doge Michele Steno, che li
rialzò e li fece sedere uno alla sua destra e l'altro a sinistra. Il
doge ricordò loro che la repubblica gli aveva ajutati a ricuperare
Padova da Giovan Galeazzo, e rimproverò loro la propria ingratitudine,
ma senza amarezza. I Carrara non risposero a questi rimproveri che
chiedendo grazia e misericordia[119]. Furono non pertanto mandati in
prigione, ove trovarono Giacomo da Carrara il secondo figlio di
Francesco, il quale dopo essere stato arrestato a Verona cinque mesi
prima, nulla aveva potuto sapere intorno alla sorte della sua famiglia,
e che non aspettavasi di vederla riunita in così funesto soggiorno.
L'istante in cui gli sventurati principi si riconobbero, cavò le lagrime
agli stessi carcerieri.

  [119] _Marin Sanuto, p. 830._

La signoria non si affrettò di decidere la sorte dei principi da
Carrara. Il consiglio dei pregadi aveva nominato il 24 dicembre cinque
commissari per formare il loro processo e per rilegarli nel luogo che
troverebbero più conveniente. Ma Jacopo del Verme, che trovavasi in
allora al servigio dei Visconti, e che odiava mortalmente i Carrara,
recossi espressamente a Venezia per isvegliare contro di loro la
diffidenza del consiglio dei dieci. «I Carrara, egli disse, furono
un'altra volta spogliati dei loro stati, e furono un'altra volta
prigionieri presso i loro vincitori; ma si rialzarono da questo
abbassamento per diventare più che mai formidabili ai loro vicini. La
loro attività, i loro talenti, e più di tutto l'odio implacabile onde
erano animati loro procacciarono alleati, armi e soldati. I loro antichi
sudditi si ribellarono nel 1390 per riporli sul trono. È facile lo
scorgere che quest'amore de' Padovani pei loro principi vive ancora,
allorchè si considerano tutti i patimenti che soffrirono senza
lagnarsene nell'ultima guerra. L'odio ereditario del Carrara contro
Venezia è d'assai anteriore alla guerra di Chiozza; trent'anni di
nimistà e di vicendevoli ingiurie lo cimentarono in modo da farne la
loro dominante passione. Per tenere in dovere uomini animati da un così
fatto odio, da un tale desiderio di vendetta, non havvi altra sicura
prigione che quella del sepolcro.»

Il consiglio dei dieci chiamò il processo al suo tribunale e decretò la
morte dei Carrara. Il 16 gennajo del 1406 il confessore del signore di
Padova andò ad annunciargli in prigione la sua sentenza ed a disporlo
alla morte. Francesco, dopo avere dato un primo sfogo al suo sdegno,
gittossi a' piedi del monaco per confessare divotamente i suoi falli, e
ricevere da lui la comunione. Si fu appena ritirato il confessore, che
due capi del consiglio dei dieci e due capi della quarantia entrarono
nella prigione con venti carnefici. Francesco da Carrara, che non voleva
riconoscere l'autorità del tribunale che lo condannava, nè lasciarsi
scannare come una vittima, preso il suo sgabello di legno, il solo
mobile che si trovasse in quella prigione, s'avventò contro i suoi
uccisori. Oppresso da tanta gente si difese alcun tempo valorosamente,
ma all'ultimo rovesciato al suolo, e tenuto per le mani e pei piedi
venne strozzato da Bernardo Priuli colla corda d'una balestra[120].
All'indomani fu sepolto onorevolmente nella chiesa di santo Stefano
degli Eremitani. Francesco Novello (dice il Gataro, suo storico e suo
amico) era di mediocre grandezza e di belle proporzioni, sebbene
alquanto grosso. Bruno era il suo volto e piuttosto severo, elegante il
suo discorso, il suo carattere dolce e misericordioso, vaste le sue
cognizioni, ed eroico il suo coraggio[121].»

  [120] _Redusius de Quero, p. 818._

  [121] _Andrea Gataro, p. 940._

Il giorno seguente lo stesso confessore andò a portare ai figliuoli
Carrara l'ordine di prepararsi alla morte. Teneramente si abbracciarono,
e ricevettero assieme la comunione; indi Francesco Terzo fu condotto il
primo al luogo ov'era stato strozzato suo padre, e vi perì nella stessa
maniera per mano di Bernardo Priuli; vi fu poi condotto Giacomo, il
quale dopo avere raccomandato a Dio l'anima di suo padre, del fratello e
la propria, scrisse a sua moglie Belfiore da Camerino per consolarla
nella sua disgrazia, e tese la testa al laccio.

Francesco, che al battesimo aveva ricevuto il nome di Terzo perchè era
destinato ad essere di quel nome il terzo signore di Padova, aveva
quando morì trentun'anni. Era grande della persona, ma portava la testa
bassa; era bruno ed alquanto losco dell'occhio destro. Era, secondo
Gataro, un valoroso e saggio cavaliere, ma inclinato alla crudeltà, alla
collera, alla vendetta. Suo fratello Giacomo contava ventisei anni;
aveva un'elegante figura, una dolce fisonomia, un cuore dolce e
compassionevole, e il suo discorso gli acquistava gli animi. A queste
qualità, che lo rendevano a tutti caro, aggiugneva l'ereditario valore
della sua famiglia[122].

  [122] Redusio da Quero, nemico di tutta la famiglia dei Carrara,
  parla con tenerezza di Giacomo. _Chron. Tarvis., p. 819. — Jacob. de
  Delayto, p. 1036._

Restavano tuttavia in Firenze due legittimi figli di Francesco da
Carrara. La signoria di Venezia fece pubblicare a suono di tromba che
accorderebbe un premio di quattro mila fiorini a colui che le darebbe in
mano vivi l'uno o l'altro di questi principi, e tre mila a colui che gli
ucciderebbe. Questo premio promesso al delitto non sedusse verun
assassino. Ma i figli legittimi della casa di Carrara perirono senza
prole. Ubertino il primogenito morì a Firenze di naturale malattia, il 7
dicembre del 1407, in età di diciott'anni[123]. Suo fratello Marsiglio
dopo avere molti anni servito Filippo Maria duca di Milano, il 6 marzo
del 1435 fece un tentativo per rientrare in Padova e ricuperare la
sovranità de' suoi maggiori. Ma la trama formata dai suoi partigiani
venne scoperta, e mentre Marsiglio fuggiva con piccolo seguito, fu
fermato e condotto a Venezia, ove il consiglio dei dieci lo fece
decapitare il 24 marzo del 1435[124].

  [123] _Redusius de Quero, p. 820._

  [124] _Andrea Gataro, p. 942._ Questo storico finisce la sua
  narrazione alla morte dei principi da Carrara, e spesso fa scordare
  la sua prolissità con interessanti particolarità.

  Rodolfo, fratello naturale di Francesco Novello, fu ritenuto in
  prigione a Venezia fino al 1417. In tale anno fuggì, ma fu ben tosto
  ripreso, e probabilmente condannato a morte. _Cronica di Bologna, p.
  590. — Navagero Stor. Veneziana, p. 1099._

Se l'antico odio tra la casa dei Carrara e la repubblica di Venezia
scema l'orrore che devono ispirare questi giuridici assassinj; veruno
somigliante motivo poteva scusare la crudeltà del senato verso gli eredi
della casa della Scala. Antonio, loro avo, aveva perduti i suoi stati
per essere entrato, come alleato della repubblica, in una sgraziata
guerra. Guglielmo visse sotto la protezione dei Veneziani, e la di lui
morte, attribuita al Carrara, era stato il pretesto dell'ultima guerra.
Per ultimo i figli di Guglielmo, Antonio e Brunoro, avevano perduta la
protezione del signore di Padova, ed erano in oltre stati da lui posti
in prigione a motivo delle loro negoziazioni colla repubblica.
Trovavansi allora nel territorio di Trento; imperciocchè Francesco da
Carrara aveva loro data la libertà, prima di perdere i suoi stati.
Fecero chiedere di essere rimessi in possesso di Verona, e la signoria
invece di rispondere pose una taglia sulle loro teste. Allora i due
fratelli si separarono, e Brunoro passò ai servigi dell'imperatore, e vi
si tenne molti anni[125].

  [125] Eravi ancora l'anno 1423 quando Andrea Biglia scriveva la sua
  storia, _l. I, p. 18. — Marin Sanuto, p. 832._ — Brunoro seguì
  Sigismondo nella sua spedizione d'Italia l'anno 1432. — _Petri
  Russii Fragm. Hist. Senens., t. XX, p. 41._ — L'odiosa politica del
  consiglio dei dieci non può essere paragonata che al suo atroce
  sistema di procedura criminale. Nel dubbio, credeva di dover punire;
  e sopra l'indizio d'un delitto facevasi l'assurdo dovere di
  condannare un accusato malgrado l'intimo convincimento della sua
  innocenza. Carlo Zeno, il più virtuoso cittadino, il più grand'uomo
  di Venezia, venne accusato al consiglio dei dieci d'avere ricevuto
  da Francesco da Carrara quattrocento ducati d'oro; i libri del
  signore di Padova, ch'erano stati sorpresi, attestavano questo
  pagamento senza indicarne il titolo. Zeno riconobbe immediatamente
  d'avere ricevuta tale somma all'epoca indicata. Era, diceva lo Zeno,
  il pagamento di eguale somma ch'egli aveva prestata al Carrara
  quando era fuggito da Asti. Tutte le circostanze appoggiavano
  quest'asserzione, che avrebbe dovuto implicitamente credersi in
  vista del conosciuto carattere dello Zeno. Veruno de' suoi giudici
  osava solamente sospettarlo di corruzione; pure lo privarono di
  tutti gl'impieghi e lo condannarono alla prigionia di due anni,
  disonorando, per quanto dipendeva da loro, l'uomo che aveva coperto
  di maggiore gloria il nome Veneziano. _Caroli Zeni vita, l. IX, p.
  345._

Tutte le province possedute dalle famiglie delle Scala, e da Carrara, e
tutta la Marca Trivigiana erano ridotte all'ubbidienza della repubblica
di Venezia. Lo stendardo di san Marco volteggiava a Treviso, a Feltre, a
Belluno, a Verona, a Vicenza ed a Padova. Il senato mandò in tutte
questa città due senatori, che presedessero al loro governo, l'uno come
podestà, l'altro come capitano del popolo.

La repubblica superava in potenza tutti i più vasti stati d'Italia, se
per altro la potenza può acquistarsi coi delitti, e se, ancora agli
occhi della politica mondana, l'odio e la diffidenza che eccita la
perfidia, non compensano tutto il vantaggio degli acquisti ch'ella
procura. Poichè Venezia ebbe acquistati degli stati in terra ferma, andò
trascurando le province d'oltre mare, il commercio, la marina, vere basi
della sua potenza, per avvilupparsi nella politica del continente; ella
prese parte in tutte le guerre ed in tutte le rivoluzioni, ed eccitò
contro di sè quella gelosia, quel profondo universale odio che, dopo un
intero secolo di politici maneggi e di guerre, scoppiò finalmente colla
lega di Cambray[126].

  [126] Terminando la storia dei principi da Carrara e della Scala,
  tornerà forse comodo al lettore di avere qui una tavola cronologica
  di queste due dinastie. Quella dei Carrara aveva dominato in Padova
  ottantasette anni, cominciando nel 1318.

  Giacomo Grande da Carrara nominato dal popolo principe
  di Padova.             _an._  1318                   _mort._ 1324.

  Nicolò, fratello di Giacomo }                              { 1326
                              } 1324                         {
  Marsilio, nipote di Giacomo }                              {
    e di Nicolò               }                              { 1338

  Ubertino, nipote di
    Marsilio                    1338                           1345

  Marsilietto Pappafava                 _assassinato dal
    da Carrara                  1345    seguente_              1345

  Giacomo II, figlio di              }
    Nicolò detto qui sopra      1345 } _assassinato da un
                                     } bastardo da Carrara_    1350

  Giacomino, fratello del     }        _arrestato da suo_
    precedente                }        nipote 1357_            1372
                              }  insieme 1350.
  Francesco I, loro nipote    }        _prigioniero di Giovanni
                              }        Galeazzo 1389_          1393

  Francesco II o Novello        1390   _giustiziato a Venezia_ 1406

  Francesco Terzo      }
                       }               _strozzati con lui_     1406
  Giacomo              }
                       }  figli di Francesco II.
  Ubertino             }               _morto a Firenze_       1407
  Marsilio             }               _decapitato a Venezia_  1435

  La casa della Scala aveva cominciato a regnare a Verona per

  Mastino della Scala nominato signore l'anno 1260,
    _ucciso_ li 17 ottobre                                     1277

  Alberto, suo fratello, 1277, _morto naturalmente_            1301

  Bartolomeo, figlio d'Alberto, 1301, _mort. nat._             1304

  Alboino, frat. del preced., 1304, _mort. nat._ in dic.       1311

  Can Grande, frat. del prec., 1312, _mort. nat._ in lug.      1329

  Alberto II. } figli d'Alboino,       { _mort._ 13 settembre  1352
              } ma Alberto prese       {
              } poca parte al governo, {
  Mastino II. } 1329.                  { _mort._ 3 giugno      1351

  Can Grande II. } figli di Mastino,   { _ucciso dai fratelli_ 1354
  Can Signore.   } insieme             { _mort. natur._        1375
  Paolo Alboino. } 1351.               { _ucciso in prigione
                                       { dal fratel. morib._   1374

  Bartolommeo II. }                      { _assassin. dal
                  } figli naturali di    { fratello_           1380
                  } Can Signore, insieme { _fuggitivo nel_     1388
  Antonio         } 1375.                { _avvelenat. nel_    1390

  Guglielmo figlio d'Antonio ristabilito l'anno 1404,
    _morto_ pochi giorni dopo.

  Antonio.    }
              } suoi figli, _fuggitivi e proscritti_.
  Brunoro.    }



CAPITOLO LX.

      _I Fiorentini conquistano Pisa. — Seguito dello scisma, che
      viene mantenuto da Ladislao re di Napoli. — Concilio di Pisa. —
      Deposizione di Gregorio XII e di Benedetto XIII. — Elezione di
      Alessandro V._

1405 = 1409.


Quando Francesco da Carrara ricevette nelle prigioni di Venezia l'ordine
di apparecchiarsi alla morte, rifletteva con amarezza all'abbandono in
cui lo avevano lasciato i suoi amici, ed alla ingratitudine di coloro
ch'egli aveva colmati di beneficj. Alcuno de' suoi alleati non aveva
fatto un passo per salvarlo: eppure in quell'epoca medesima i Guelfi
trionfavano in tutte le parti dell'Italia, i quali, associati alla sua
fortuna per una alleanza ereditaria, sembravano chiamati dalla loro
affezione, dalla politica stessa a difenderlo, se apprezzavano una volta
i loro doveri, ed i veri loro interessi.

Tre nuovi signori guelfi erano sorti in Lombardia coll'assistenza di
Francesco da Carrara sopra le ruine della casa Visconti. Ugolino
Cavalcabò era sovrano di Cremona, Giorgio Benzoni di Crema, e Giovanni
da Vignate di Lodi. Veruno di costoro prese parte alla guerra di Padova.
Vero è che Cavalcabò aveva già ceduto il suo luogo ad un altro
usurpatore. Egli aveva di già sagrificati alla sua gelosia molti
rispettati cittadini, quando fu sorpreso a Manerbio il 14 dicembre del
1404, e fatto prigioniere da Astorre Visconti dopo la perdita di una
battaglia. Il suo favorito, Gabrino Fondolo, soldato di fortuna, da lui
fatto suo generale e suo primo ministro, continuò la guerra per
liberarlo o per vendicarlo, e rimase padrone della fortezza di Cremona,
e de' principali castelli, mentre che un altro Cavalcabò, chiamato
Carlo, fu dichiarato signore della città. Ma intanto Ugolino approfittò
delle turbolenze di Milano, e fuggì di prigione l'anno 1406. Stava per
iscoppiare in Cremona una guerra civile tra i due Cavalcabò, che
ugualmente volevano essere soli signori della loro patria, quando
Gabrino Fondolo più potente che i due Cavalcabò si offrì come mediatore.
Gl'invitò ad adunarsi nella sua fortezza con tutti i membri della
famiglia Cavalcabò, ove il 26 luglio 1406 aveva loro imbandito un lauto
pranzo, dopo il quale doveva regolarsi tra i convitati la divisione
della sovranità. Ma quando Fondolo vide tra le mani de' suoi satelliti
tutti i capi di parte, tutti i grandi, tutti coloro che potevano opporsi
ai suoi disegni, terminato il banchetto, diede il segno d'una orribile
carnificina: le sue guardie precipitaronsi sui convitati, ed uccisero
Ugolino e Carlo Cavalcabò con settanta de' principali cittadini di
Cremona, quasi tutti della casa Cavalcabò. Gabrino Fondolo, dopo
quest'orribile uccisione, venne riconosciuto signore di Cremona, e si
collocò senza trovare opposizione tra i principi d'Italia[127].

  [127] _And. Billii Hist. Mediol., l. II, p, 28. — Redusii de Quero
  Chron. Tarvis., p. 805. — Campi Crem. fedele, l. III, p. 109._

Pandolfo Malatesti, uno dei generali di Giovanni Galeazzo, fondò circa
lo stesso tempo un quarto principato guelfo in Lombardia. La sua
famiglia regnava da lungo tempo in Rimini col favore del partito della
Chiesa; ma Pandolfo pareva indifferente tra le fazioni, che oramai non
avevano più scopo, e consultava nella sua condotta la propria ambizione,
e non lo spirito di partito. Abbiamo di già osservato, che mandato a
Como dalla duchessa di Milano per ritornare la pace a questa città,
l'aveva abbandonata al saccheggio. Como era l'emporio del commercio tra
l'Italia e la Svizzera[128], e questo assassinio, che precipitò la
caduta della duchessa di Milano, a nome della quale erasi eseguito, rese
Pandolfo più caro ai soldati. Quando fuggì da Monza mezzo vestito e con
un solo piede calzato, venne assai ben accolto dalle guarnigioni di
Trezzo e di Brescia, e fu proclamato signore di quest'ultima città,
tostocchè si ebbe avviso della morte della duchessa.

  [128] _And. Billii, l. I, p. 26._

Vero è che il signore di Padova non poteva lusingarsi che uomini di tale
carattere gli rimanessero fedeli nella sventura, perciocchè non erano
diretti da altro principio che dall'ambizione, e dovevano il loro
innalzamento soltanto ai delitti; ma egli aveva riposte le sue speranze
nella costante amicizia della repubblica fiorentina, che già da quindici
anni era associata alla di lui fortuna ed alle sue battaglie, ed
attaccata alla sua famiglia da un'alleanza ereditaria. Nè il Carrara
sarebbe rimasto deluso se non fossero stati strascinati i Fiorentini
dalla più violenta tentazione che potesse agire sopra di loro, e non
avessero impiegate tutte le forze nell'importante acquisto di Pisa.

Abbiamo osservato che Gabriele Visconti, signore di Pisa, erasi
procurata la protezione di Giovanni le Meingre, detto Boucicault,
maresciallo di Francia, che comandava in Genova a nome di Carlo VI; e
che col mezzo suo aveva dai Fiorentini ottenuta una tregua di quattro
anni. Boucicault col suo coraggio e colla sua severità aveva ristabilito
l'ordine in Genova, aveva obbligati i Genovesi a deporre le armi, e
fatto dichiarare il suo governo irrevocabile dietro inchiesta dei
medesimi Genovesi[129]. Ma di già un generale malcontento cominciava a
manifestarsi contro di lui in quella città, a motivo che le accuse di
lesa maestà ch'egli aveva fomentate, portavano la desolazione nelle
famiglie, e che le gabelle oppressive ruinavano il popolo; onde
Boucicault, temendo un ammutinamento[130], volle acquistarsi al di fuori
più potenti amici che non era il signore di Pisa. Persuase perciò il
Visconti a vendere la sua signoria per dividere con lui il prezzo che ne
otterrebbe, ed in giugno del 1405 diede commissione ad un fiorentino,
che allora trovavasi in Genova, di proporre segretamente alla sua
repubblica questo acquisto[131].

  [129] _Uberti Folietae Genuensis Hist., l. IX, p. 523._

  [130] _Ivi, 527._

  [131] La proposizione venne fatta a Gino Capponi, di cui abbiamo
  alcune memorie. _Coment. dell'acquisto di Pisa, t. XVIII, Rer.
  Ital., p. 1127. — Scip. Ammirato, l. XVII, p, 914. — Paolo Tronci
  Annali Pisani, p. 493._

Per prezzo della vendita di Pisa, Boucicault domandò prima quattrocento
mila fiorini, promettendo di erogare per altro parte di questa somma nel
soccorrere Francesco da Carrara, amico dei Fiorentini e suo. La
negoziazione cominciata a Genova si continuò a Vico Pisano, ov'erasi
recato Gabriele Visconti. Sentiva questi che la sua autorità in Pisa
stava per isfuggirgli di mano, ma d'altra parte egli temeva che
Boucicault si appropriasse tutto il danaro che ricaverebbe dalla vendita
de' suoi stati.

Mentre egli stava ancora deliberando, i Pisani ebbero sentore delle
cominciate negoziazioni, e per non essere venduti ai Fiorentini, loro
eterni rivali, presero le armi il 21 luglio del 1405, attaccarono le
truppe del Visconti ovunque le incontrarono, e costrinsero questo
signore a ripararsi nella sua fortezza con duecento corazzieri, ed
alcuni arcieri che teneva al suo soldo[132].

  [132] _Piero Minerbetti, 1405 c. 7, p. 527._

Nel tempo che questa rivoluzione faceva più vivamente sentire al signore
di Pisa il bisogno di fedele consiglio, perdette la madre, che fino a
tale epoca aveva con lui divise le cure del governo. Mentre essa
attraversava un angusto ponte per visitare le mura della fortezza,
atterrita dal subito scoppio d'un pezzo d'artiglieria si lasciò cadere e
morì. Il Visconti pochi giorni dopo strinse il mercato coi Fiorentini,
cedendo loro la cittadella di Pisa ed i castelli di Librafratta e di
santa Maria in Castello pel prezzo di dugentosei mila fiorini, pagabili
in diverse epoche[133].

  [133] _Gino Capponi Comment., p. 1129. — Piero Minerbetti, c. 8, p.
  530._

Ma non solamente Gabriele Maria Visconti fu costretto di dividere col
Boucicault il prezzo della sua eredità, ma fu in appresso spogliato dal
maresciallo della parte che gli era rimasta, e perì in Genova in
settembre del 1408, condannato a perdere la testa per una calunniosa
accusa di tradimento.

La cittadella di Pisa fu consegnata al Fiorentini il 31 agosto del 1405,
e Lorenzo Raffacani ne prese il comando. Ma sebbene i Pisani
stringessero vigorosamente l'assedio di questa fortezza, e che avessero
stabiliti alcuni pezzi d'artiglieria dalla parte della città per
batterla in breccia, Raffacani non volle prendere seco che alcune
compagnie di milizia e congedò i corazzieri del Visconti che vi trovò di
guardia. La cittadella era legata alle mura della città da una torre
detta di sant'Agnese, contro la quale erano tutte dirette le bombarde
dei Pisani. Impiegavansi a que' tempi parecchie ore nel caricarle; e nel
momento in cui le milizie le vedevano disposte a tirare, uscivano tutte
dal suo ricinto, aspettando in luogo più sicuro l'effetto
dell'esplosione. Avendo i Pisani notata questa pratica, apparecchiarono
tutto quanto abbisognava per una scalata, e tosto che i Fiorentini, per
timore d'una scarica, abbandonarono la torre, essi montarono
all'assalto, e se ne impadronirono senza trovare resistenza. La fortezza
fu presa il 6 di settembre due ore prima di notte con tutti coloro che
vi stavano di guardia, e fu subito dal popolo spianata fino ai
fondamenti[134].

  [134] _Gino Capponi Com. p. 1131. — Piero Minerbetti, c. 9, p. 531.
  — Bonincontrii Miniat. Ann., t. XXI, p. 93. — Cron. di Jacopo
  Salviati Del. degli Erud., t. XVIII, p. 243._

Non erasi appena saputo a Firenze che la fortezza di Pisa era perduta,
quando si videro giugnere cinque ambasciatori pisani incaricati di
domandare la pace. Essi rappresentarono l'occupazione della loro
cittadella come una violazione della tregua conchiusa nel precedente
anno. Il cielo, soggiugnevano, si era di già dichiarato in loro favore,
e loro aveva resa in una maniera quasi miracolosa questa parte della
loro città; ma essi non volevano abusare dell'accaduto, e mediante la
restituzione di Librafratta e di santa Maria erano pronti a rendere ai
Fiorentini tutto quanto avevano pagato a Boucicault e a Gabriele
Visconti[135].

  [135] _Gino Capponi Com., p. 1131. — Scip. Ammirato, l. XVII, p.
  919._

Ma i Fiorentini erano troppo alieni dal voler rinunciare ad
un'intrapresa cui credevano attaccato il loro onore. Malgrado i consigli
di alcuni più moderati cittadini[136] rifiutarono le offerte dei Pisani;
ordinarono a Jacopo Salviati, loro capitano, di cominciare subito le
ostilità[137], e fecero venire il conte Bertoldo Orsini, cui affidarono
il 5 ottobre il bastone del comando[138].

  [136] _Poggio Bracciolini, l. IV, p. 297._

  [137] _Cron. di Jacopo Salviati, p. 243._

  [138] _Piero Minerbetti, c. 15, p. 537. — Gino Capponi, p. 1132._

I Pisani per resistere a quest'attacco, cercarono avanti ogni altra cosa
di riconciliare in città le contrarie fazioni. I Raspanti erano stati
posti in possesso dell'autorità da Giacomo d'Appiano, e v'erano stati
conservati dal Visconti, i Bergolini trovavansi esclusi dal governo e la
famiglia Gambacorti era esiliata. Il partito perseguitato fu di nuovo
ammesso a dividere i diritti della sovranità; l'obblio delle passate
ingiurie ed una riconciliazione senza riserva vennero giurate sugli
altari; i capi delle due fazioni fecero colare il proprio sangue nella
coppa consecrata prima di bevere in comune, e numerosi matrimoni
suggellarono la pace tra le due parti. Ma Giovanni Gambacorti, nipote di
Pietro e capo della sua famiglia, seco non portava dal suo esilio che il
desiderio di regnare nella sua patria; onde a forza d'intrighi si fece
proclamare capitano del popolo, come lo era stato suo zio, ed approfittò
dell'ottenuta autorità per opprimere i suoi antichi nemici, per
ispogliarli, e spesso ancora per farli perire[139].

  [139] _Piero Minerbetti, c. 17, p. 538. — Poggio Bracciolini, l. IV,
  p. 298._

I Pisani si erano lusingati che il Gambacorti, in forza della sua
ereditaria alleanza coi Fiorentini, potrebbe riconciliarli con questi
formidabili nemici, ed in fatti il nuovo capitano non fu appena
installato che mandò a chiedere pace; ma i Fiorentini ricusarono di
trattare, pretendendo di avere comperata Pisa dal suo legittimo signore,
e dichiarando che vedevano ne' suoi abitanti non un popolo indipendente,
ma sudditi ribelli[140].

  [140] _Poggio Bracciolini, l. IV, p. 299._

I Fiorentini non credevano quasi possibile cosa l'aprire una breccia
nelle mura di Pisa, di modo che proposero di ridurre la città colla
fame, mentre la loro armata attaccherebbe successivamente i diversi
castelli del territorio. I Pisani dal canto loro sforzavansi di
provvedersi di vittovaglie, al quale oggetto spedirono alcune galere a
cercare frumento in Sicilia; una di queste, sorpresa nel suo ritorno dai
vascelli che i Fiorentini avevano fatti armare a Genova, rifugiossi
sotto la torre di Vado. Un fiorentino, detto Pietro Marenghi, profugo
dalla patria perchè colpito da sentenza capitale, colse questa
circostanza per rendere a' suoi concittadini un segnalato servigio. Egli
lanciossi dalla riva con una fiaccola in mano, avvicinandosi a nuoto
alle galere, malgrado le saette che lanciavansi contro di lui. Sebbene
ferito in tre luoghi continuò molto tempo a sostenersi sotto la prora
finchè vide il fuoco appiccato in modo alla galera nemica da non potersi
più spegnere. Ella bruciò in faccia alla torre di Vado; mentre Pietro
Marenghi riguadagnava la costa. Egli fu perciò richiamato con onore in
patria[141].

  [141] _Matth. Palmerii de Captivitate Pisarum t. XIX, p. 176._

I Pisani cercavano di avere al loro soldo qualche condottiere che
potesse formare per loro un'armata. I loro deputati avevano trattato con
Agnello della Pergola, che con sei cento cavalli trovavasi allora negli
stati della Chiesa. Questo capitano si mosse per venire a Pisa
attraversando lo stato di Siena. Ma i dieci della guerra di Firenze,
avuto avviso della sua marcia, lo fecero attaccare, nell'istante ch'egli
meno se lo credeva, dal nipote del papa, che avevano preso di fresco al
loro soldo, e distrussero o dissiparono la piccola armata di
Agnello[142].

  [142] _Piero Minerbetti, c. 22, p. 542. — Scip. Ammirato, l. XVII,
  p. 920. — Paolo Tronci Ann. Pisani, p. 497._

Gaspare dei Pazzi, altro capitano che conduceva ai Pisani sei cento
cavalli dai contorni di Perugia, venne disfatto il 24 settembre da
Sforza da Cotignola al passo della Cornia; ed i suoi soldati, inseguiti
fino a Massa di Maremma, non si sottrassero alla prigionia che
abbandonando i loro cavalli e le armi, e promettendo di non servir più
contro i Fiorentini[143].

  [143] _Piero Minerbetti, c. 26, p. 544. — Leodrisii Cribellii de
  vita Sfortiæ Vicecomitis, t. XIX, l. I, p. 642._

Invano i Pisani offrirono la loro signoria a Ladislao l'ambizioso re di
Napoli, il quale non sentivasi ancora abbastanza sicuro ne' proprj stati
per estendere sulla Toscana i suoi progetti di conquista. Egli ottenne
dai Fiorentini l'assicurazione che non si opporrebbero alla sua
spedizione di Roma, e viceversa promise di non agire contro di loro
avanti a Pisa[144]. Otto Bon Terzo, che alla testa del partito
ghibellino erasi fatto signore di Parma e di Reggio e che adunava
un'armata in queste due città, accettò dai Fiorentini una grossa somma,
per la quale promise di non dare soccorso ai Pisani[145].

  [144] _Piero Minerbetti, c. 23, p. 543._

  [145] _Gino Capponi, p. 1133._

In principio del 1406 l'armata fiorentina occupò la val d'Era, la
Maremma, la contea di Monte Scudajo, e quasi tutti i castelli che
avevano in sul principio abbracciato il partito di Pisa[146]. In
appresso quest'armata si divise; un corpo formò l'assedio di Vico
Pisano, ragguardevole castello posto dieci miglia sopra Pisa, alla
destra dell'Arno, mentre l'altro corpo s'avvicinò a questa città per
istringerne il blocco. Occuparono la foce dell'Arno sette galere ed una
galeotta, che i Fiorentini avevano fatte armare a Genova; s'alzarono due
ridotti presso san Pietro in Grado sulle due rive del fiume, e fu fatto
tra i medesimi un ponte fortificato, privandosi in tal modo Pisa di ogni
comunicazione col mare[147]: onde i vascelli che i Pisani avevano
mandati in Sicilia a cercare vittovaglie furono presi dai Fiorentini il
22 di maggio, quando tornarono ne' mari della Toscana[148].

  [146] _Piero Minerbetti, c. 28, 29 e 30, p. 545. — Scipione
  Ammirato, l. XVII, p. 923._

  [147] _Piero Minerbetti, 1406, c. 2, p. 549. — Paolo Tronci Ann.
  Pisani, p. 499._

  [148] _Gino Capponi, p. 1134. — Scip. Ammirato, l. XVII, p. 928._

Pareva che la fortuna congiurasse contro i Pisani, e gli stessi
avvenimenti da loro più desiderati tornavano tutti a loro svantaggio.
L'Arno, ingrossato il giorno dell'Ascensione da violenti piogge, ruppe
il ponte che univa i due ridotti; gli assediati non furono lenti ad
approfittarne per attaccare il più debole. Ma Sforza e Tartaglia, i due
generali dei Fiorentini, che trovavansi sull'opposta riva, spinsero i
loro cavalli nel fiume, e con estremo pericolo guadagnarono l'opposta
sponda, onde i Pisani fuggirono atterriti quasi senza combattere[149].

  [149] _Gino Capponi, p. 1135. — Poggio Bracciolini, l. IV, p. 302._

Questi due capitani erano de' più riputati che allora contasse l'Italia.
Fino a tal punto la loro rivalità aveva giovato all'impresa; ma una
crescente gelosia, una oramai scoperta animosità, cominciavano a turbare
le operazioni dell'armata ed a rianimare le speranze dei Pisani. Gino
Capponi, uno dei dieci della guerra, si recò da Firenze al campo per
riconciliarli, e vi riuscì; ma credendo pericolosa la loro vicinanza,
prepose un di loro al corpo d'armata che cingeva la parte superiore di
Pisa, l'altro a quella che stava al di sotto, e la città trovossi per
questo divisamento bloccata più strettamente che mai[150].

  [150] _Gino Capponi, p. 1137._

L'ardore del sole in quelle campagne insalubri, la cattiva aria e le
malattie delle armate parvero finalmente venire in soccorso degli
assediati. I soldati erano assaliti da nojosi insetti, febbri
pestilenziali si manifestavano nel campo, e cominciavano a spargervi lo
scoraggiamento. I dieci della guerra ne conobbero appena i primi
sintomi, che mutarono gli accantonamenti de' soldati; posero gli uni ne'
castelli perchè si ristorassero dalle sostenute fatiche, e tennero gli
altri in un continuo movimento, persuasi che l'ozio, in cui languisce il
soldato, sia la prima causa delle sue malattie[151].

  [151] _Math. Palmerii de capt. Pisarum, p. 183._

D'altra parte la fatica, la miseria, la fame, esponevano i Pisani alle
stesse malattie, senza che questi avessero mezzo di ripararvi. Avevano
voluto liberarsi delle bocche inutili, ma i Fiorentini le facevano
rientrare in città[152]. Improvvisamente a mezzo luglio i Pisani
spiegarono lo stendardo del duca di Borgogna, e spedirono araldi d'armi
ad avvisare i Fiorentini che si erano dati a questo potente signore, ed
erano stati ricevuti sotto la di lui protezione. Ma perchè il duca non
aveva armata per liberarli, i Fiorentini continuarono l'assedio e
spedirono un'ambasciata a questo principe[153].

  [152] _Marangoni Croniche di Pisa, p. 833._

  [153] _Jacopo Salviati, p. 249._ Fu egli medesimo uno degli
  ambasciatori. — _Gino Capponi, p. 1138._

Giovanni Gambacorti aveva diretta la difesa dei Pisani con una quasi
assoluta autorità, ma quando vide il popolo in preda agli orrori della
fame, disperando di potersi più lungamente difendere, prese a trattare
segretamente coi Fiorentini. Le condizioni ch'egli domandava, e che
studiosamente nascondeva ai suoi compatriotti, riferivansi tutte al suo
particolare vantaggio. Voleva il diritto di cittadinanza a Firenze colla
proprietà di tre case, il vicariato di Bagno, molti castelli nelle sue
vicinanze, ed un'indennità di cinquanta mila fiorini[154]. Queste
condizioni vennero accettate, ed il Gambacorti aprì la porta di san
Marco all'armata fiorentina nella notte dell'8 al 9 ottobre 1406, e
nella stessa notte le truppe occuparono pure il quartiere del Borgo.
All'indomani avanzaronsi in città, precedute da carri pieni di pane e di
altri viveri, che i soldati medesimi distribuivano al popolo[155]. Tutte
le provigioni erano consunte, e più non trovaronsi in città nè grani, nè
farine, ma soltanto alcuni magazzini pieni di zuccaro e di cassia, e tre
vacche magre. Gli abitanti si erano nutriti di erbe, che coglievano
nelle strade e lungo le mura; sarebbe loro stato impossibile di
sostenersi ancora molti giorni; ma non pertanto non pensavano ad
arrendersi. Intesero con indignazione il vergognoso mercato con cui il
Gambacorti gli aveva venduti, ed il loro ultimo sentimento, perdendo
l'antica loro indipendenza, fu il desiderio della vendetta e l'odio
contro il tiranno che li tradiva[156].

  [154] Il trattato diviso in 36 articoli termina la cronica del
  Marangoni, p. 835-842. Contiene pure un gran numero d'esenzioni
  personali e di privilegj per diversi membri della famiglia
  Gambacorti.

  [155] _Gino Capponi, p. 1139. — Poggio Bracciolini, l. IV, p. 303. —
  Scip. Ammirato, l. XVII, p. 930._

  [156] _Gino Capponi, p. 1142. — Poggio Bracciolini, l. IV, p. 304. —
  Bern. Marangoni, p. 834. — Scip. Ammirato, l. XVII, p. 933. — Paolo
  Tronci An. Pis., p. 501. — Cron. di Pisa, t. XV, p. 1088._ — Tutte
  le croniche di Pisa finiscono a questo avvenimento. Il Tronci per
  altro riferisce ancora in quattro o cinque pagine alcuni fatti
  insignificanti fino al 1440.

Gino Capponi, commissario de' Fiorentini presso l'armata ed uno dei
dieci della guerra, fu nominato governatore di Pisa col titolo di
capitano del popolo. Quando entrò in città adunò i cittadini a
parlamento sulla pubblica piazza; loro promise che Firenze li
tratterebbe dolcemente e li risguarderebbe come fedeli sudditi. Cercò
infatti di affezionarli alla loro sorte colla dolcezza e colla giustizia
della sua amministrazione, non trascurando ad un tempo i più vigorosi
provvedimenti per assicurarsi della loro sommissione. Mandò a Firenze
tutti i Gambacorti con duecento capi delle più nobili famiglie di Pisa,
che colà furono tenuti dalla repubblica in qualità di ostaggi[157].
Molti gentiluomini pisani abbracciarono in tale occasione la milizia, o
vi fecero inscrivere i loro figli, onde trovare nell'indipendenza degli
accampamenti la libertà che perdevano nella loro patria, e combattere
ancora come soldati avventurieri i loro oppressori, contro ai quali più
non potevano impugnare le armi come cittadini. Dopo un lungo esilio fra
gli stranieri, dopo frequenti e sempre inutili tentativi per liberare la
loro patria, dopo una rivoluzione eccitata in Pisa quando era già da un
secolo sottomessa, e dopo uno sgraziato assedio che i Pisani sostennero
con tutta l'energia de' loro antenati, alcuni finalmente abbandonarono
l'Italia, e tramandarono ai loro discendenti, come una preziosa eredità,
l'amore del sacro nome di patria e l'odio dell'oppressione. Coloro che
rimasero in Pisa conservarono più lungo tempo che verun altro popolo
sottomesso un'energia che quasi sempre viene distrutta dalla servitù. La
città che pel corso di cinque secoli aveva dominato il mar Tirreno con
tanta gloria, più non ebbe dopo tale epoca esistenza politica, nè
influenza, nè storia[158]; ma i cuori de' suoi abitanti non erano ancora
sottomessi; ed i Fiorentini non furono sicuri della sommissione di Pisa
che quando videro coperte di erba le sue deserte strade.

  [157] _Piero Minerbetti, c. 7, p. 561. — Poggio Bracciolini, l. IV,
  p. 305._

  [158] Alcun Pisano non volle scrivere la storia di questi
  infelicissimi tempi. Il Marangoni ed il Tronci che sono di molto
  inferiori a quest'epoca, pare che ne ignorino perfino le minute
  circostanze; verun nome venne conservato dalla storia, veruna
  famiglia, veruno individuo si distinse in questa comune sciagura.

I Fiorentini non giunsero a conquistare Pisa, che adottando essi stessi,
e facendo adottare agli altri stati una politica contraria agli antichi
loro principj; quella d'isolare tutte le guerre, e lasciare che ognuno
si misurasse col suo particolare nemico, senza che i forti si alleassero
ai deboli; e senza che il mantenimento dell'equilibrio in Italia
assicurasse l'esistenza di tutti.

Nel corso d'un intero secolo i Fiorentini avevano tenuta una più
generosa politica. Invece d'ingrandirsi colle loro vittorie essi mai
cercato non avevano che l'altrui vantaggio, e sempre dopo le loro
perdite si erano veduti abbandonati dagli alleati. Si vergognarono
finalmente d'essere stati ingannati, come se la buona fede
dell'ingannato non fosse più gloriosa che la destrezza dell'ingannatore.
Essi non si lasciarono distogliere dalla loro intrapresa da niuna
rivoluzione d'Italia, e nel tempo che spingevano le loro conquiste fino
al mare, Milano prese una nuova forma, Venezia acquistò stati in terra
ferma, e Ladislao di Napoli sollevossi repentinamente sopra le abbattute
fazioni del suo regno, di modo che si andò a stabilire in Italia un
nuovo equilibrio fra meno numerosi ma più potenti stati. Per farne
conoscere le basi più non ci rimangono a descrivere che le rivoluzioni
degli stati della Chiesa e della Puglia.

Lo scisma che divideva la Chiesa dopo il 1378 sembrava che più terminare
non potesse. I pontefici rivali, che lo avevano cominciato, erano
ambidue morti, ma l'uno e l'altro avevano avuto un successore nominato
dalla propria fazione. I nuovi papi più non si battevano con tanta
violenza di scomuniche come i loro predecessori; ma malgrado l'apparente
loro moderazione, sforzavansi di conservare la loro dignità senza
prendersi pensiero del riposo e dell'unione della Chiesa. Conoscevano
l'uno e l'altro che non giugnerebbero giammai ad avere l'universale
dominio del cristianesimo, ma preferivano di regnare sulla metà de'
fedeli piuttosto che discendere dal trono; e tutti i segreti loro sforzi
miravano a prolungare lo scisma che la cristianità voleva terminare.

Roberto di Ginevra, o Clemente VII, era morto in Avignone il 16
settembre 1394, ed all'istante i re di Francia, d'Inghilterra e
d'Arragona, l'università di Parigi, gli elettori di Magonza e di
Colonia, e papa Bonifacio IX, avevano scritto ai cardinali francesi
pregandoli a non nominare il successore dell'estinto pontefice, ed a
cogliere quest'occasione per terminare lo scisma. Ma i cardinali
temevano di essere costretti a porsi presso il vivente pontefice in
qualità di colpevoli e di ribelli ridotti a chiedere grazia, non come
eguali che si riconciliano. Affrettaronsi perciò di chiudersi in
conclave, ed il dodicesimo giorno nominarono papa il cardinale
d'Arragona Pietro di Luna, che prese il nome di Benedetto XIII[159].
Sebbene questo cardinale avesse avuto parte nell'elezione di Clemente
VII aveva lungo tempo tentati tutti i mezzi di conciliazione; aveva
altamente biasimato il rigore del papa, che vi si rifiutava, ed aveva
riputazione d'essere il più moderato della fazione, ed il più proprio a
ristabilire la pace della Chiesa.

  [159] _Lenfant, Histoire du Concile de Pise, l. I, p. 61._

Prima dell'elezione tutti i cardinali si erano obbligati a non ricusare
di prestarsi a qualunque sagrificio, e nominativamente alla cessione del
papato, per ottenere l'unione della Chiesa; Benedetto ratificò questa
promessa con giuramento dopo essere stato proclamato[160]; ma invano la
cristianità volle fargli eseguire questa promessa, ch'egli opponeva
sempre scrupoli a scrupoli, e considerandosi come vero papa, non voleva,
diceva egli, privare la Chiesa del suo legittimo capo, per sottometterla
forse ad uno scismatico scomunicato. I Francesi mostravansi più che ogni
altra nazione zelanti per la riunione, perchè la corte d'Avignone stava
interamente a carico loro, e non si manteneva che con una scandalosa
simonia. Carlo VI adunò un concilio generale a Parigi il 12 febbrajo del
1395; ma quest'assemblea intimò senza effetto ai due papi di abdicare
per la pace della Chiesa. Un secondo concilio nazionale venne adunato
nel 1398, e questi determinò di sottrarre la Chiesa all'ubbidienza dei
due papi, per obbligarli alla riunione; e perchè Benedetto XIII vi si
rifiutava Boucicault venne ad assediarlo nel castello d'Avignone, ove lo
costrinse a capitolare il 14 aprile del 1399[161]. Questi promise di
deporre la tiara tostochè farebbe lo stesso ancora Bonifacio, o che la
di lui morte aprirebbe un'altra strada alla riconciliazione della
Chiesa.

  [160] _Dachery Spicilegium, t. VI. — Lenfant, Histoire du Concile de
  Pise, l. I, p. 62._

  [161] _Lenfant, Histoire da Concile de Pise, l. II, p. 96._

Intanto Wencislao aveva annunciato a Carlo VI che l'Allemagna e l'Italia
si leverebbero dall'ubbidienza di Bonifacio IX, quando la Francia più
non ubbidisse a Benedetto, ma tale promessa non ebbe esecuzione.
Wencislao erasi impegnato al di là delle sue forze, e la di lui
deposizione, e l'elezione di Roberto mutarono tulle le disposizioni
della Germania. I Francesi addolcirono la loro severità verso Benedetto,
ch'essi avevano tenuto prigioniere nel suo palazzo d'Avignone, e questo
papa coll'ajuto del duca d'Orleans fuggì il 12 marzo 1403 attraversando
le guardie normanne che lo circondavano. Tosto che trovossi libero, i
suoi cardinali lo raggiunsero, e tutta la Francia rientrò sotto la di
lui ubbidienza[162].

  [162] _Lenfant, Hist. du Concile de Pise, l. II, p. 114._

Benedetto, ch'era stato ristabilito soltanto dopo di avere promesso di
cooperare all'estinzione dello scisma, mandò quattro ambasciatori a Roma
nel 1404 per trattare con Bonifacio IX; ma questi non proponevano
vicendevoli cessioni, ma soltanto assemblee dei due papi e dei loro
cardinali per riformare la Chiesa[163]. Mentre gli ambasciatori di
Benedetto trattenevansi in Roma aspettando i riscontri di Bonifacio,
questi morì il 29 settembre del 1404.

  [163] _Piero Minerbetti, 1404, c. 17 e 18, p. 315._

Bonifacio era stato piuttosto guerriero che ecclesiastico; aveva
assoggettata Roma alla sua autorità, e durante il suo regno di quindici
anni, l'aveva conservata ubbidiente col supplicio di tutti coloro che
avevano cercato di scuotere il giogo. Ma quando fu morto, il popolo
prese le armi sotto la direzione dei Colonna e dei Savelli; le voci di
_viva la libertà_ risuonarono in tutti i quartieri della città, e
gl'insorgenti occuparono la chiesa di santa Maria d'Araceli, ove si
fortificarono, mentre i cardinali erano rinchiusi nel palazzo quasi
contiguo al Campidoglio[164]; in mezzo a tanto tumulto elessero Gusmano
di Sulmona, cardinale di Bologna, che prese il nome d'Innocenzo VII.
Prima di procedere all'elezione ogni cardinale aveva giurato di non
rifiutarsi quando fosse nominato papa, a verun sagrificio, non escluso
quello dell'abdicazione della sua dignità per mettere fine allo
scisma[165].

  [164] _Ivi, c. 20, p. 517. — Diario di Stefano Infessura, t. III, p.
  II, p. 1115._

  [165] _Piero Minerbetti, c. 21, p. 517._

Innocenzo VII, prima di pensare alla pace della Chiesa, dovette
occuparsi di quella di Roma, ove tutte le strade erano chiuse da
steccati, ed ove il popolo armato faceva in ogni lato risuonare la voce
di libertà. L'ambizioso Ladislao di Napoli eravi accorso per
approfittare di questo disordine, ma la diffidenza che eccitava questo
principe riconciliò il popolo col suo pontefice: castel sant'Angelo e
città Leonina, ossia il Vaticano, vennero confidati alla guardia
d'Innocenzo VII, il Campidoglio fu restituito al popolo, e le sue
fortificazioni distrutte. Si convenne che il senatore verrebbe nominato
dal papa fra i tre candidati presentati dal popolo, ed il governo della
repubblica romana fu dato ad una magistratura che doveva rinnovarsi ogni
due mesi, e che chiamossi _i dieci della libertà_[166].

  [166] _Ivi, 1404, c. 22, p. 518._

Innocenzo VII era vecchio, savio e moderato; il suo carattere e gli
scrupoli della sua coscienza parevano guarentire l'esecuzione delle
convenzioni che aveva stipulate, sia coi cardinali, sia coi Romani; ma
la cupidigia della sua famiglia non tardò a farlo agire contro il
proprio disinteresse, ed i maneggi di Ladislao gl'inimicarono nuovamente
il popolo.

Ladislao, figlio di Carlo III, aveva cominciato nel 1392 a rialzare dal
suo profondo avvilimento il partito di Durazzo. Faceva in allora le sue
prime campagne, e quando uscì di Gaeta, la regina Margarita sua madre lo
raccomandò affettuosamente ai baroni che componevano la sua armata.
Educato in mezzo ai pericoli, circondato nella sua fanciullezza da
guerre civili e da congiure, mentre colle forze fisiche s'era sviluppato
in lui il coraggio, il suo spirito s'era pure avvezzato all'intrigo ed
alla dissimulazione. Il suo valore e quello delle sue truppe, sempre da
lui condotte, erano superiori ad ogni pericolo; nè rispetti d'onore o di
probità mettevano ostacolo all'esecuzione de' suoi progetti. Frattanto
la virtù cominciava ad essere tenuta in minor pregio che la destrezza. I
talenti ed il valore di Ladislao gli andavano sempre acquistando nuovi
partigiani; i popoli più in lui non vedevano che l'unico rampollo del
sangue de' loro re; Bonifacio IX lo rappresentava come il solo figlio
legittimo della Chiesa, mentre il suo rivale trovavasi avvolto nello
scisma[167]. Nel 1399, grandi baroni, che fino a tale epoca eransi
mostrati i più zelanti per la casa d'Angiò, Raimondo di Balzo degli
Orsini, ed i Sanseverini, passarono sotto le di lui insegne; Napoli gli
aprì le porte, Carlo d'Angiò, fratello del re Lodovico II, ritirossi in
castel nuovo dove fu assediato, mentre lo stesso re Lodovico lo era in
Taranto; onde questi principi, dopo una lunga resistenza, furono forzati
a consegnare le fortezze ai loro nemici, ed a ritirarsi in
Provenza[168].

  [167] _Leon. Aretinus Comment. de suo tempore, t. XIX, p. 921._

  [168] _Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1066. — Giannone Ist. Civ.
  del Regno di Napoli, l. XXIV, c. 5, p. 388._

Ladislao ne' susseguenti anni assodò la propria autorità sul regno, di
fresco abbandonato dal suo rivale; e dopo avere, successivamente prese
tutte le fortezze che trovavansi in mano de' Francesi, si fece a punire
i partigiani che questi avevano avuti tra la nobiltà. Egli estese le sue
vendette a tutti coloro che avevano appartenuto alla fazione Angioina,
sebbene avessero in appresso fatta la loro pace, e l'avessero
corroborata con importanti servigj: i Sanseverini, la casa da Marzano,
ed il duca di Venosa, ai quali doveva le sue ultime vittorie, provarono
ancor essi la memoria ch'egli conservava della passata loro nimicizia.

Vedevasi appena assicurato sul trono di Napoli, che fu chiamato come suo
padre Carlo III, al trono d'Ungheria. Sigismondo aveva disgustata tutta
la nobiltà colle sue dissolutezze e colle sue crudeltà; fu arrestato, in
tempo d'una religiosa ceremonia, in mezzo alla sua corte, nella
primavera del 1401, ed affidato ai due fratelli Gara, figli del palatino
Niccola ch'egli aveva fatto perire, i quali lo tennero in prigione nel
castello di Soklos, mentre i deputati della nobiltà invitavano Ladislao
ad attraversare l'Adriatico per ricevere la corona di santo
Stefano[169].

  [169] _Joh. de Thwrockz Chron. Hung., l. IV, c. 9, p. 223._

Ma Ladislao, occupato trovandosi in tale epoca nel suo secondo
matrimonio colla principessa Maria di Cipro[170], non potè passare
personalmente in Ungheria, e vi mandò soltanto Luigi Aldemari, suo
ammiraglio, che con cinque galere ricevette nel 1402 la sommissione di
Zara, Vrana, Spalatro, Traù, Sebenico e di altre città, che in addietro
appartenevano ai Veneziani[171]. L'anno susseguente soltanto Ladislao
passò a Zara, e vi si fece coronare il 5 agosto come re d'Ungheria. Ma
frattanto avendo Sigismondo guadagnato l'amore della palatina di Gara,
era stato da lei liberato dalla sua prigione[172]; aveva ricuperato il
regno d'Ungheria, e minacciava la Dalmazia. Ladislao, invece di pensare
a contrastargliene la corona, tornò a Napoli, e dopo alcuni anni
vendette ai Veneziani per cento mila fiorini Zara e tutte le piazze che
gli erano rimaste in Dalmazia, rinunciando per tal modo definitivamente
a tutti i suoi diritti sull'Ungheria, e ritornando alla repubblica la
sua antica sovranità[173].

  [170] Ladislao, in età soltanto di quattordici anni, aveva sposata
  nel 1389 Costanza di Clermont, figlia del conte Manfredi, il più
  grande signore della Sicilia. Costanza aveva portato al suo sposo
  una ricca dote, di cui si era valso nelle sue prime intraprese. La
  sua bellezza e le sue virtù l'avevano resa l'idolo della sua corte.
  Frattanto essendo stata abbattuta in Sicilia la fazione de'
  Clermont, Ladislao, annojato di sua moglie, dimandò una dispensa a
  Bonifacio IX per ripudiarla. Costanza, che passionatamente amava suo
  marito, udì con sorpresa, mentre ascoltava con lui la messa (l'anno
  1392), il vescovo di Gaeta leggere una bolla del papa che annullava
  il suo matrimonio e lo vide innoltrarsi verso di lei per toglierle
  l'anello nuziale. La Chiesa non ammetteva allora il divorzio, e lo
  scandalo accresceva il dolore di questa sventurata regina, che venne
  relegata in un'oscura casa, sotto la custodia di due vecchie. Dopo
  due anni Ladislao la fece di là uscire perchè sposasse, il 26
  dicembre del 1395, Andrea di Capoa, figlio del conte d'Altavilla,
  uno de' suoi favoriti. Costanza, mentre veniva dal novello sposo
  strascinata all'altare, gli disse in presenza di tutto il popolo:
  «Conte Andrea, puoi tu crederti il più felice cavaliere del regno,
  poichè avrai per tua amante la legittima sposa del re Ladislao, tuo
  signore.» _Bonin. Miniat. Ann. t. XXI, p. 61 e 67. — Giannone Ist.
  Civile, l. V, c. 4 e 5._

  [171] _Jo. Lucii de Regno Dalmat. et Croat., l. V, c. 4, p. 420._

  [172] _Joh. Thwrockz Chron. Ung., l. IV, c. 10, p. 224._

  [173] _Jo. Lucii de Regno Dalmat., l. V, c. 5, p. 424._ — L'atto di
  vendita è del giorno 9 giugno, 1409.

Ladislao, abbandonando la corona di Ungheria, meditava nuove conquiste
di province a lui più vicine. Lo stato ecclesiastico pareva posto in sua
balìa. La morte di Bonifacio IX e le turbolenze che accompagnarono
l'elezione del suo successore, potevano agevolare al re di Napoli la
conquista di Roma, senza che avesse bisogno di portare apertamente le
armi contro la santa sede, cui andava debitore della sua corona. Egli
limitossi ad incoraggiare i Romani nel loro spirito d'indipendenza, e
d'inasprirli contro il papa, onde ridurlo ad allontanarsi dalla città,
affine di potersi poi presentare egli medesimo come protettore del
popolo[174].

  [174] _Leon. Aretin. Comment., p. 921._

«Circa quest'epoca, scrive Leonardo Aretino nelle memorie de' suoi
tempi, io fui chiamato a Roma da Innocenzo VII, venni accolto con bontà
dal pontefice, e n'ebbi onorificenze ed impieghi, che mi distinsero tra
i suoi più intimi famigliari. Parvemi allora che il popolo romano
abusasse assai della libertà che aveva ricuperata. Delle famiglie
principesche quelle de' Colonna e de' Savelli erano le più potenti; e
gli Orsini non avevano allora autorità, perchè sospetti di favorire il
pontefice. Ricca e numerosa era la corte, avendo molti cardinali in gran
parte di alta condizione. Il papa risedeva nella basilica del Vaticano;
era desideroso di riposo, e sarebbesi accontentato della sua situazione,
se gli si fosse permesso di goderne; ma la malvagità di alcuni uomini,
che avevano grandissima influenza sul popolo, doveva alla fine impedire
la continuazione della pace. Ogni giorno andavano crescendo i sospetti,
e perchè il re faceva passare a Roma la sua cavalleria, il papa fu pure
costretto ad adunare soldati; questa fu la cagione delle turbolenze.

«Fuori di Roma, lungo la strada che dalla Toscana conduce nel Lazio,
avvi un ponte sul Tevere detto Milvio, o Ponte Molle. È questo
fortificato, ed il papa vi teneva guarnigione; ma i Romani pretendevano
d'averlo essi in guardia, affinchè venisse chiusa questa strada a chi
tentar volesse d'invadere il Lazio. L'attaccarono una notte
all'impensata, ma la guardia si difese; e la zuffa fu ostinata da
ambedue le parti. Sopraggiunse finalmente la cavalleria del papa in sul
fare del giorno, e ruppe gli assalitori, molti de' quali furono feriti,
altri uccisi. I fuggitivi entrati in città si fermarono al Campidoglio
adunandovi la moltitudine. Era un giorno festivo, ed il popolaccio
ozioso e riscaldato dal vino diede mano alle armi, e spiegate le insegne
s'avanzò affollato ad attaccare la dimora del pontefice. Dal canto loro
i nostri soldati s'apparecchiano alla pugna, dispongono le armi loro, si
fanno a vicenda coraggio, si serrano nelle loro file e mettono castel
sant'Angelo nel migliore stato di difesa. La notte sospese l'attacco del
popolo, ma i due partiti si tennero sotto le armi. Il Tevere li
separava, ed assicurava le due parti da ogni improvviso assalto. Ne'
susseguenti giorni si trattò di ristabilire la pace, ed a tale oggetto
molti cittadini romani si presentarono al pontefice. Mentre questi,
usciti da una conferenza, tornavano a casa loro, furono attaccati avanti
alla mole Adriana; undici furono presi e gli altri salvaronsi colla
fuga. I primi furono condotti a Luigi dei Migliorotti, nipote del
pontefice, per ordine del quale erano stati presi, e furono crudelmente
uccisi. Trovavansi tra costoro due de' signori che il popolo romano
aveva scelti per governare la repubblica; erano gli altri distinti
cittadini, alcuni de' quali avevano mostrato di essere parziali per la
Chiesa.»

Il Migliorotti era rimasto offeso dall'alterigia che i deputati romani
avevano manifestato nelle loro conferenze, ed era uscito di concistoro
per apparecchiare questa sanguinosa scena, quand'appunto i deputati
proponevano più moderate condizioni e che le due parti parevano
ravvicinarsi[175].

  [175] _Piero Minerbetti, 1405, c. 11, p. 532. — Jacobi de Delayto
  Annales Estenses, t. XVIII, p. 1034. — Ann. Bonincontrii Miniat., t.
  XXI, p. 93._

«Quando la notizia di quest'avvenimento si sparse per Roma, prosiegue
Leonardo Aretino, si corse alle armi; le strade si affollarono di
popolo, e tutta la città risuonava di clamori e d'imprecazioni. Corsi io
medesimo in quel giorno grandissimo pericolo, perchè, credendo le
ostilità sospese, mentre la deputazione romana trovavasi presso il
pontefice, io aveva passato il fiume ed era entrato in città. Tosto che
intesi il tumulto volli ritirarmi alla mia abitazione, ma trovai il
ponte Adriano occupato da gente armata: erano i parenti e gli amici
degli uccisi che si apparecchiavano a vendicarli. Gli ebbi appena
riconosciuti, che diedi a dietro fuggendo a briglia sciolta, finchè
giunto in una rimota strada, scesi di cavallo, mi avviluppai nel
mantello del mio servitore e mi misi di nuovo tra la folla. Passai così,
senz'essere riconosciuto, in mezzo agli armati, e giunsi presso i
nastri. Il primo oggetto che ferì i miei occhi fu il mucchio de'
cadaveri di coloro che erano stati uccisi, lasciati in mezzo alla strada
lordi del proprio sangue, e coperti di larghe ferite. Mi fermai,
compreso di orrore, ed osservando i loro volti, riconobbi tra questi
alcuni de' miei amici, che mi cavarono le lagrime. Mi recai in appresso
all'appartamento del pontefice, e lo trovai immerso nella più crudele
afflizione. Egli non aveva la menoma parte in questa carnificina; era
uomo dolce e pacifico e niente più ripugnava al suo carattere ed alla
sua bontà quanto lo spargimento del sangue umano. Egli si lagnava della
sua sorte, ed alzava gli occhi al cielo in atto di chiamare Dio in
testimonio della sua innocenza[176].»

  [176] _Leon. Aretini Comment., t. XIX, p. 922._

Frattanto colui che comandava per il papa in Castel sant'Angelo,
sembrava vacillante nel suo partito. Luigi dei Migliorotti non aveva
bastanti truppe per difendere il Vaticano; onde nella medesima notte
Innocenzo VII fu costretto di fuggire a Viterbo. Erasi di poco
allontanato, quando Ladislao, chiamato dai Colonna e dai Savelli, entrò
in Roma con una piccola armata, e chiese al popolo la signoria. Ma i
Romani non avevano scacciato un pacifico sovrano per darsene uno affatto
militare. Accusarono i Colonna ed i Savelli d'avere tradita la patria,
ed altamente manifestarono la loro avversione al giogo de' Napolitani.
Un cittadina ricusò ostinatamente di ricevere in sua casa i soldati che
vi dovevano avere il loro quartiere, onde volendo questi entrarvi a viva
forza, prima i vicini, poi tutti i Romani presero le sue difese.
Un'accanita zuffa cominciò allora tra i Romani ed i Napolitani, che si
prolungò fino alla notte; ma infine Ladislao dovette uscire di Roma, ed
altro non potendo fare, fece appiccare il fuoco in quattro diversi
quartieri[177].

  [177] _Piero Minerbetti, 1405, c. 12, p. 534. — Diario della città
  di Roma di Stefano Infessura, t. III, p. II, p. 1177. — Giannoni
  Istor. Civile, l. XXIV, c. 6, p. 373_.

L'attentato di Ladislao per impadronirsi di Roma riuscì vantaggioso ad
Innocenzo VII. I Romani cercarono di riconciliarsi con lui; gli
mandarono ambasciatori, i quali, dopo una lunga conferenza, lo
persuasero, il 13 marzo 1406, a rientrare nella sua capitale[178].
Questo papa morì il 5 novembre dello stesso anno; potendosi un'altra
volta terminare lo scisma, si sagrificò di bel nuovo il vantaggio della
Chiesa al personale interesse dei cardinali. Dichiararono questi di
volere, piuttosto che un papa, eleggere un procuratore del loro partito,
per deporre il pontificato[179]. Ma, malgrado il giuramento d'abdicare
prestato da cadaun di loro, essi sperare non potevano che il papa, che
verrebbe eletto, mostrasse all'occasione maggiore disinteressamento
ch'essi medesimi.

  [178] _Piero Minerbetti, 1405, c. 32, p. 547._

  [179] _Leon. Aretinus Comment., p. 925. — Ann. Bonincontrii Miniat.,
  p. 96._

I suffragi si riunirono a favore d'Angelo Corrario, veneziano, cardinale
di Aquilea e patriarca di Costantinopoli, il quale prese il nome di
Gregorio XII. Contava allora settant'anni, ed aveva opinione d'essere un
sant'uomo e di antica severità. Quando fu appena consacrato, rinnovò,
con apparente premura, le già fatte promesse, di tutto sagrificare per
metter fine allo scisma della Chiesa[180].

  [180] _Piero Minerbetti, 1406, c. 20, p. 563. — Leon. Aret. Comm.,
  p. 925._

Gregorio scrisse a Benedetto XIII per invitarlo alla pace, proponendogli
una vicendevole abdicazione. Rispose Benedetto da Marsiglia, il 22
gennajo 1407; quasi ne' medesimi termini: era lo stesso invito, la
medesima esortazione, le stesse promesse[181]. Carlo VI aveva proposto
ai due pontefici di abdicare, ciascuno in presenza del suo proprio
collegio; ed i cardinali delle due ubbidienze si sarebbero in appresso
riuniti per nominare un nuovo papa. Ma Benedetto e Gregorio rigettarono
d'accordo questa proposizione e chiesero egualmente una conferenza nella
quale abdicherebbero insieme innanzi ai due collegi riuniti[182].

  [181] _Raynald. Ann. Eccl., t. XVIII, p. 305. — Annales Estens.
  Jacobi de Delayto, p. 1040._

  [182] _Raynald. Ann. Eccl., § 3, p. 306._

I deputati che Gregorio XII aveva mandati a Marsiglia scelsero,
d'accordo con Benedetto XIII, la città di Savona per la proposta
conferenza. Fu steso un lungo trattato tra i due cleri ed il re di
Francia, in allora sovrano dello stato di Genova. Acconsentì Carlo VI,
che la signoria di Savona fosse trasferita ai due papi, e rispetto alla
divisione della città fra i due emuli, che ognuno possedesse un castello
ed un quartiere fortificato: ogni papa doveva recarsi a Savona con otto
galere, ed una guardia di dugent'uomini. Questo trattato venne accettato
e ratificato da Gregorio XII, che lo partecipò a tutti i principi
cristiani[183].

  [183] _Rayn. Ann. Eccl. § 3, p. 308._

Ma questo pontefice era ben lontano dal pensare di dare esecuzione a ciò
che aveva promesso: i suoi parenti ed i consiglieri, che gli stavano
intorno, tutto mettevano in opera per dissuaderlo dall'abdicazione[184].
In conseguenza delle clandestine pratiche della sua famiglia, i
Veneziani, suoi compatriotti, ricusarono di somministrargli le galere;
onde dichiarò che non poteva intervenire con sicurezza nè a Savona, nè
in verun'altra città marittima, poichè troverebbesi esposto agl'insulti
delle flotte del suo emulo[185]. I rimproveri e le dicerie di tutte le
persone desinteressate costrinsero, gli è vero, Gregorio XII a lasciar
Roma; ma si fermò di nuovo a Siena[186], e ricominciò le negoziazioni.
Chiedeva o che si scegliesse un'altra città per le conferenze, o che
Benedetto rimandasse a dietro le sue galere; che Boucicault partisse da
Genova; in fine che la sicurezza del suo emulo fosse interamente
sagrificata alla sua.

  [184] _Leon. Aret. Comment., p. 926._

  [185] _Lenfant, Hist. du Concile de Pise, l. II, p. 179._

  [186] _Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. I, p. 3._

Benedetto XIII non era più sincero, ma sapeva più destramente
contenersi, e mentre che il suo avversario sembrava fuggire, pareva
ch'egli si avanzasse per incontrarlo. Era giunto a Savona nello
stabilito termine, e perchè Gregorio erasi recato da Siena a Lucca,
Benedetto si trasferì fino a porto Venere, ed in appresso fino alla
Spezia, di modo che i due pontefici trovavansi soltanto quarantacinque
miglia distanti l'uno dall'altro. Ma mentre i loro negoziatori
sforzavansi di riunirli, _l'uno_, dice Leonardo Aretino, _come animale
acquatico, non voleva mai abbandonare la costa; l'altro, come un animale
terrestre, non vi si voleva avvicinare_[187].

  [187] _Leon. Aret. Comment., p. 926. — Ann. Estens. Jacobi de
  Delayto, p. 1043._

Quasi tutta la cristianità pareva desiderare la cessazione dello scisma,
ma il re di Napoli, Ladislao, cercava di farlo durare. Temeva egli
l'ascendente che la corte di Francia aveva preso sulla Chiesa per i
costanti e coraggiosi sforzi ch'ella aveva fatti per la riunione; temeva
che un francese potesse nuovamente essere innalzato sulla cattedra di
san Pietro dai cardinali d'Avignone, e che questi non spalleggiasse
Luigi d'Angiò; e desiderava più di tutto che il papa suo vicino, e suo
abituale signore, invece di tenerlo sotto tutela, come avevano fatto i
suoi predecessori, continuasse a lasciarlo dominare nelle sue province e
nella sua capitale.

In principio del seguente anno Ladislao intraprese apertamente a
sottomettere colle armi gli stati della Chiesa ed ebbe l'accortezza di
far approvare le sue conquiste dai parenti di Gregorio XII. Questi
preferivano ogni cosa alla abdicazione del loro padrone, e presero
occasione da questi movimenti del re di Napoli per rompere le
negoziazioni con Benedetto XIII.

Ladislao si avanzò contro Roma in marzo del 1408 con dodici mila uomini
di cavalleria, e con altrettanta infanteria; e nello stesso tempo mandò
quattro galere ad occupare la foce del Tevere, perchè non si potessero
introdurre vittovaglie in città[188]. Attaccò in appresso Ostia, e si
rese in aprile padrone di questa città, che gli aveva opposta una
vigorosa resistenza[189]. Pochi giorni dopo Paolo Orsini, che comandava
in Roma, aprì per tradimento una porta all'armata del re; ed allora
soltanto i cittadini accettarono una capitolazione che loro offriva il
nemico di già entrato nelle loro mura[190]. Perugia, attaccata nello
stesso tempo dai Napolitani, loro aprì pure le porte.

  [188] _Piero Minerbetti, 1407, c. 13, p. 576. — Scip. Ammirato, l.
  XVII, p. 941._

  [189] _Piero Minerbetti, 1408, c. 1, p. 577. — Ann. Estens. Jacobi
  de Delayto, p. 1048._

  [190] _Piero Minerbetti, c. 2, p. 577. — Cron. di Bologna, t. XXIII,
  p. 594. — Diario Romano di Stefano Infessura, p. 1118. — Giornali
  Napoletani, p. 1071._

Gregorio XII, quando intese la perdita di Roma, lasciò travedere una
gioja che tradiva i suoi segreti maneggi[191]. Benedetto per lo
contrario aveva cercato di difendere questa città, sperando forse di
ricondurla in tal modo alla sua ubbidienza. Boucicault dietro sua
istanza armò tredici galere per mandarle nel Tevere, ma un contrario
vento le ritenne a Porto Venere finchè più non erano in tempo a
difendere Roma.

  [191] _Piero Minerbetti, c. 4, p. 579._

Questo supposto atto d'ostilità servì di pretesto a Gregorio XII per
rompere ogni negoziato col suo competitore, vietò alla sua corte di
mantenere comunicazione alcuna con quella dell'antipapa, e proibì ai
suoi cardinali di uscire da Lucca, ove in allora si trovava. Poco dopo
fece conoscere la sua intenzione di fare una promozione al sacro
collegio, lo che era direttamente contrario alle convenzioni fatte per
la riunione della Chiesa. I cardinali credevano di avere sempre il
diritto di regolare Gregorio XII, ch'essi avevano condizionatamente
eletto, e si opposero vigorosamente ad una promozione, che doveva
perpetuare lo scisma; nel mese di maggio uscirono di concistoro quando
Gregorio volle proclamare i suoi quattro nuovi cardinali; pretesero che
il papa pensasse a gettarli in prigione o a farli morire, ed invitarono
Paolo Guinigi, signore di Lucca, a garantire la loro libertà, siccome
aveva promesso di fare; ed uscirono da quella città per passare a Pisa.
Erano essi allora nove; tre dei loro colleghi rimasero ammalati in
Lucca[192].

  [192] _Piero Minerbetti, c. 7, p. 580. — Poggio Bracciolini Hist.
  Flor., l. IV, p. 306. — Scip. Ammirato, l. XVII, p. 942. — Lenfant,
  Hist. du Concile de Pise, l. II, p. 190._

La repubblica fiorentina era, come il rimanente della cristianità,
sdegnata con Gregorio XII, ed attribuiva alla sua ostinazione ed ai suoi
artificj il prolungamento dello scisma, onde favorevolmente accoglieva i
cardinali rifugiati a Pisa, e loro prometteva la sua protezione. Questi
spedirono una rispettosa protesta a Gregorio XII contro gli ultimi suoi
atti, ed un appello a lui medesimo, a Gesù Cristo, e ad un concilio
generale[193].

  [193] _Apud Raynald. Ann. Eccl., p. 327. — Annal. Estens. Jacobi de
  Delayto, p. 1407. — Lenfant, Hist. du Concile de Pise, l. II, p.
  196._

Nell'altro partito il papa non era pure ben d'accordo coi suoi
cardinali, nè tutti gli sforzi di Benedetto XIII per addossare al suo
rivale il delitto d'avere prolungato lo scisma toglieva affatto di
scorgere nel suo contegno la più fina dissimulazione. In gennajo il re
di Francia aveva pubblicato un editto per obbligare i suoi sudditi a
ritirare l'ubbidienza loro all'uno ed all'altro de' due papi, qualora
l'unione della Chiesa non avesse luogo avanti l'Ascensione[194].
Benedetto rispose colle minacce di scomunica, ed il re,
coll'approvazione del suo parlamento e della Sorbona, dichiarò, che
Pietro de Luna, che facevasi nominare Benedetto XIII, era uno scismatico
ostinato, un eretico, un perturbatore della pace della Chiesa, cui era
proibito d'ubbidire più lungamente. Carlo VI scrisse nel tempo stesso ai
cardinali del partito di Roma, ed a quelli del partito d'Avignone per
esortarli a non essere più oltre il giuoco di due uomini, che mancavano
a tutti i loro giuramenti, e che nel corso di un anno non avevano saputo
trovare in tutto il mondo un luogo ove riunirsi in conformità delle loro
promesse[195].

  [194] _Lenfant, Histoire du Concile de Pise, l. II, p. 201._

  [195] _Raynald. Ann. Eccles., t. XVII, p. 331. — Lenfant, Hist. du
  Concile de Pise, l. II, p. 206._

I cardinali di Benedetto abbandonarono in fatti il loro capo, e
passarono a Livorno, ove andarono a trovarli quelli di Gregorio. Questo
collegio, composto dei primi dignitarj delle due chiese, mandò lettere
encicliche a tutta la cristianità, nelle quali la condotta dei due
pontefici veniva rappresentata con molta moderazione ed
imparzialità[196].

  [196] _Lenfant, Hist. du Concile de Pise, l. III, p. 213._

I frivoli pretesti che i papi allegavano a vicenda per ricusare ogni
luogo di riunione loro proposto erano chiaramente dimostrati, e resa
evidente l'impossibilità di riunire la Chiesa di concerto con due uomini
che tendevano segretamente a dividerla. Ciò nulla meno, dicevano i
cardinali, i sacri canoni hanno permesso in certi casi la convocazione
di un concilio senza l'autorità del capo della Chiesa. Giammai la
cristianità fu in maggiore bisogno di fare uso di tale prerogativa. Nè
l'un papa nè l'altro potrebbe adunare un concilio ecumenico, poichè nè
l'uno nè l'altro è riconosciuto da tutti i fedeli, ma i cardinali dei
due collegi, rappresentanti della cristianità, hanno senza dubbio il
potere, anzi l'obbligo di convocare questo supremo consiglio della
religione, che può solo, colla sua autorità, rendere la pace alla
Chiesa. I cardinali perciò ordinavano a tutti i vescovi e prelati delle
due ubbidienze di trovarsi a Pisa in marzo del 1409 per formarvi un
concilio ecumenico; ordinavano pure d'intervenirvi ai due papi,
avvisandoli nello stesso tempo, che la loro assenza non impedirebbe
l'unione del concilio[197].

  [197] Osservinsi le lettere presso _Raynald. Ann. Eccl., p. 332_.

Quand'ebbero notizia di questa convocazione, i due papi, invece di
ravvicinarsi, partirono ambidue dai luoghi in cui si trovavano, per
allontanarsi di più. Benedetto XIII con tre cardinali che gli erano
rimasti fedeli, montò sulle galere a Porto Venere, e fece vela verso
l'Arragona, ove fu ricevuto con infinita difficoltà[198]. Dal canto suo
Gregorio XII abbandonò Lucca coi quattro cardinali di fresco creati, e
dopo essersi trattenuto qualche tempo a Siena, si pose sotto la
protezione di Carlo Malatesti, signore di Rimini. Frattanto Gregorio XII
adunò un concilio nella provincia di Ravenna, e Benedetto XIII in quella
di Perpignano. L'un papa e l'altro sperava in tal modo di sottrarsi ai
rimproveri d'ostinazione che loro faceva la cristianità per non avere
assoggettata la loro causa al supremo consiglio della Chiesa[199].

  [198] _Piero Minerbetti, 1408, c. 12, p. 584._

  [199] _Raynald. Ann. Eccl., p. 335. — Lenfant, Hist. du Concile de
  Pise, l. III, p. 221._

I cardinali dei due partiti, il re ed il clero di Francia, le
repubbliche di Firenze e di Venezia, tutti coloro finalmente che
determinarono la convocazione del concilio di Pisa, pare che agissero di
buona fede, e mossi da ardente desiderio di ristabilire la pace della
Chiesa. Non pertanto il Raynaldi, organo della corte di Roma, dichiarasi
costantemente, dopo il cominciamento dello scisma, contro la Chiesa in
favore del suo capo, condanna egualmente le intenzioni e la condotta di
tutti i cardinali che si pronunciarono contro Urbano VI ed elessero
Clemente VII, di tutti quelli che nel nuovo collegio formato da Urbano
si separarono in seguito da lui e furono da questo sanguinario pontefice
trattati così barbaramente, di tutti quelli che seguirono Benedetto XIII
nella sua fuga, e di tutti coloro che aderirono al concilio di Pisa.
Egli non si avvede che avviluppa così nelle sue condanne tutti i
ministri degli altari, tutti coloro dai quali deve derivare l'autorità
dei papi posteriori allo scisma, e che per evitare il rimprovero
d'inconseguenza, d'ambizione, di sfrenata collera a due o tre prelati
che si sono succeduti nel pontificato, è obbligato di accusare tutto il
clero, tutta la Chiesa cattolica di calunnia, d'eresia e di ribellione
contro il suo capo.

Frattanto il carattere del personaggio che ben tosto si acquistò la più
grande influenza sui cardinali e su tutto il concilio di Pisa,
giustifica forse fino ad un certo punto le accuse date al suo partito.
Era questi Baldassar Cossa, cardinale di sant'Eustacchio e legato di
Bologna. Fu veduto, con una ambizione affatto mondana, non ad altro
pensare che a fondare un principato sulle ruine degli stati della
chiesa. Dopo il 1403 egli governava Bologna[200], e, per consolidare il
proprio potere su questa città, era sceso alle più basse pratiche, alle
più perfide trame; aveva progressivamente soggiogate le città della
Romagna; ma aveva acquistato il dominio di Faenza e di Forlì con una
lunga serie di tradimenti[201]. Pure il suo indipendente potere e la sua
destrezza gli procacciarono una grandissima influenza sopra i cardinali
suoi colleghi: e da che il concilio fu adunato, parve che Baldassar
Cossa ne fosse il capo.

  [200] _Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXVIII, p. 547. — Math. de
  Griffonibus. Mem. Hist., t. XVIII, p. 211. — Cronica Miscella di
  Bologna, p. 582._

  [201] _Piero Minerbetti, 1404, c. 15, p. 511; al 1405, c. 20, p.
  540. — Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXVIII, p. 568. — Chron.
  Foroliv., t. XIX, p. 877. — Jacobi de Delayto Ann. Est., p. 1039._

Ventidue cardinali delle due ubbidienze, quattro patriarchi, dodici
arcivescovi, ottanta vescovi, quarant'uno priori ed ottantasette abati
di monasteri, si erano adunati a Pisa per il concilio. Vi si trovavano
pure i deputati di quattordici arcivescovi e di cento due vescovi
assenti, i generali di molti ordini di monaci, gli ambasciatori dei re
di Francia, d'Inghilterra, di Polonia, di Portogallo, di Cipro e di
Boemia, quelli di Wencislao, che pretendeva di essere re de' Romani, e
quelli di Luigi d'Angiò, che pretendeva d'essere re di Napoli. Roberto,
l'altro re de' Romani, e Ladislao, l'altro re di Napoli, spedirono pure
ambasciatori a Pisa, ma solo per sostenere contro il concilio la causa
di Gregorio XII. D'altra parte vi si recarono gli ambasciatori di
Castiglia e d'Arragona per difendere quella di Benedetto XIII[202]: onde
si calcolò che più di dieci mila forestieri venissero a stabilirsi in
Pisa in tempo del concilio.

  [202] _Rayn. Ann. Eccl., p. 368. — Lenfant, Hist. du Concile de
  Pise, l. III, p. 239. — Jacobi de Delayto Annales Est., p. 1086._

I prelati adunati dichiararono nell'ottava loro sessione, ch'erano
costituiti in concilio ecumenico, e che perciò erano giudici supremi dei
due papi. I processi di questi vennero subito cominciati, e dopo
lunghissime discussioni furono ambidue condannati il 5 giugno del 1409,
nella quindicesima sessione, come colpevoli di scisma e di eresia; tutti
due vennero esclusi dalla comunione de' fedeli, e fu dichiarato vacante
il papato[203].

  [203] _Rayn. Ann. Eccl., p. 369-382. — Piero Minerbetti, 1409, c.
  11, p. 604. — Lenfant Hist. du Concile de Pise, l. III, p. 277._

I cardinali delle due ubbidienze, riuniti in un solo corpo, entrarono in
conclave il 15 di giugno. Il cardinale Cossa ricusò l'offertagli tiara,
ed indicò, quale soggetto più degno di portarla, Pietro di Candia,
arcivescovo di Milano, che raccolse tutti i suffragi. Questo cardinale
fu consacrato a Pisa il 7 luglio del 1409 sotto il nome d'Alessandro V;
ed il primo atto del suo pontificalo fu quello di tranquillare le
coscienze intorno a tutto quanto erasi fatto in tempo dello scisma, e di
ratificare tutte le nomine ai beneficj, e tutte le dispense ottenute
dall'una e dall'altra parte, tutte abolendo le censure e le scomuniche
che erano state pronunciate in occasione delle divisioni della
Chiesa[204].

  [204] _Rayn. Ann. Eccl., p. 384. — Lenfant, Hist. du Concile de
  Pise, l. III, p. 285. — Delayto Annales Estens., p. 1087._

Nella XXIVma ed ultima sessione, tenuta il 7 agosto 1409, il concilio di
Pisa impose al nuovo papa l'obbligo di convocare sollecitamente un altro
concilio per riformare la Chiesa nel suo capo e nelle sue membra[205].
Un papa quasi universale era stato renduto alla Cristianità; la maggior
parte dell'Europa gli ubbidiva, e soltanto la Spagna riconosceva ancora
Benedetto XIII, come il Malatesti in Romagna, Ladislao a Napoli e
Roberto di Baviera in Germania difendevano tuttavia Gregorio XII: e
questo avanzo di divisione nella Chiesa diede motivo al concilio di
Costanza. Ma se quello di Pisa non conseguì intero lo scopo per cui si
era adunato, cominciò per lo meno una nuova epoca per la Chiesa. In
quest'assemblea fu visto svilupparsi uno spirito repubblicano ed
aristocratico, che limitava l'autorità dei papi, e che voleva mettere
limiti al loro potere monarchico: il consiglio della Chiesa si appropriò
il diritto di giudicare il suo capo, di condannarlo e di deporlo;
manifestò le pretensioni che dovevano dirigere la condotta dei padri di
Costanza e di Basilea, e diede principio a quella lunga contesa che dopo
un secolo di vicissitudini doveva terminarsi colla riforma[206].

  [205] _Lenfant, Hist. du Concile de Pise, l. III, p. 300._

  [206] Ricordo che l'autore è protestante. _N. d. T._



CAPITOLO LXI.

      _Ladislao, re di Napoli, occupa gli stati della Chiesa; minaccia
      Firenze; muore. — Sigismondo d'Ungheria, eletto imperatore,
      muove guerra ai Veneziani; sue conferenze con Giovanni XXIII in
      Lombardia; deplorabile stato di questo paese._

1409 = 1414.


Erano pochi anni passati da che la repubblica fiorentina era stata
liberata dai timori che le ispirava Giovanni Galeazzo, quando un nuovo
avversario, ancora più formidabile, si dichiarò contro di lei. Educato
in mezzo alle guerre civili, avvezzato a lottare contro accanite
fazioni, in un paese in cui la stessa amicizia era senza buona fede,
Ladislao riuniva la politica perfida di Giovan Galeazzo ad un valore
personale, che questo principe non conobbe mai, e ad un'ambizione ancora
più smisurata che quella del duca di Milano. Ladislao spingeva le sue
mire al di là del regno d'Italia, cui aspirava il suo predecessore ed
ambiva la corona imperiale, sperando di toglierla a Wencislao ed a
Roberto, che l'uno e l'altro non potevano farsi ubbidire dai loro grandi
vassalli, ed aveva preso per divisa: _Aut Cæsar aut nihil_[207]. Di già
quest'orgogliosa iscrizione leggevasi sulle bandiere quando s'impadronì
della maggior parte dello stato ecclesiastico. Le città di Roma, Ascoli,
Fermo, Perugia, Todi, Assisi, ed altre ancora, eransi a lui sottomesse;
non pertanto egli pretendeva sempre di essere il protettore e l'amico di
Gregorio XII, ed aveva convenuto di pagargli venti mila fiorini all'anno
in compenso dell'entrate degli stati che gli toglieva. Con questa modica
somma il papa fuggiasco doveva mantenere tutta la sua corte[208].

  [207] _Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 1088._

  [208] _Bonincontrii Miniat., Ann., t. XXI, p. 100._

Ladislao aveva domandato che i Fiorentini lo riconoscessero per
legittimo sovrano degli stati della Chiesa, e a tale prezzo loro offriva
la sua alleanza. I Fiorentini non vollero acconsentirvi, perchè
riguardavano le province usurpate dal re come parte del patrimonio del
legittimo successore di san Pietro, ed erano risoluti di darle ancora in
sua mano. «Quali truppe avete voi dunque da oppormi?» domandò Ladislao
sorpreso, ai loro ambasciatori. «Le tue,» rispose audacemente Bartolomeo
Valori[209].

  [209] _Poggio Bracciolini Hist. Florent., l. IV, p. 307._

In fatti i Fiorentini erano sicuri di attirare nel loro campo tutti i
condottieri del re di Napoli coll'offerta di maggior soldo. Nè tale
diserzione sarebbesi riputata vergognosa o sleale, perchè i capitani non
prendevano servigio che per un termine assai breve, passavano senza
scrupolo sotto le nemiche insegne quando giugneva il termine stabilito
nel contratto. Il solo Alberico da Barbiano, grande contestabile del
regno, non sarebbesi dato al migliore offerente, perchè una personale
animosità contro Baldassar Cossa, legato di Bologna, lo teneva unito al
partito di Ladislao. Ma questo grande ristauratore della milizia
italiana morì appunto in quest'epoca nel castello di Pieve, presso
Perugia[210]. Il 17 maggio dello stesso anno, Otto Bon Terzo, ch'era
stato suo allievo e suo compagno d'armi, e che dopo erasi innalzato con
una mescolanza di valore e di perfidia alla signoria di Parma e di
Reggio, venne assassinato da Sforza di Cotignola, suo rivale, per ordine
del marchese Nicolò d'Este in una conferenza che tennero in
Ribiera[211]. Ladislao aveva da sè alienato per sempre un terzo
condottiere, non meno illustre dei due precedenti; era questi Braccio di
Montone, gentiluomo emigrato di Perugia, capo del partito dei nobili e
dei Ghibellini in questa città. In tempo del suo esilio aveva fedelmente
servito il re di Napoli, ed aveva sperato, col di lui ajuto, d'essere
richiamato in patria. Ma i Perugini offrirono a Ladislao di aprirgli le
loro porte, purchè rinunciasse alla protezione dei loro emigrati. Il re
non esitò punto a sagrificare i suoi alleati per rendersi padrone di
Perugia; promise di più di far assassinare Braccio, e questi non si
sottrasse alle insidie che gli vennero tese, che per esserne stato
avvisato da uno de' suoi amici[212].

  [210] _Ann. Estens. Jacobi de Delayto, p. 1089._

  [211] _Math. de Griffon. Memor. Hist., t. XVIII, p. 217. — Platina
  Hist. Mant., t. XX, l. V, p. 796. — Ann. Placent. Ant. de Ripalta,
  t. XX, p. 873. — And. Bilii Hist. Med., l. III, p. 48, t. XIX._

  [212] _Vita Brachii Perusini a Joh. Campano, l. II, t. XIX, p. 468._

I dieci della guerra di Firenze si affrettarono di prendere Braccio al
loro servigio; si assicurarono altresì dell'alleanza de' Sienesi, che a
seconda del partito che abbraccerebbero potevano decidere della sorte
della Toscana. I gentiluomini e la fazione dei dodici erano sospetti di
favorire Ladislao, ma il governo s'attaccò ai Fiorentini, e promise di
non separare la propria dalla loro fortuna[213]. I due popoli mandarono
a Ladislao ambasciatori per persuaderlo a rinunciare alla sua
intrapresa, mentre che il re spedì dal canto suo negoziatori a queste
due città per separare l'una dall'altra, ed offrire le più vantaggiose
condizioni a quella che s'unirebbe a lui[214].

  [213] _Joh. Bandini de Bartholomæis Hist., Senens., t. XX, p. 9. —
  Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. I, p. 5._

  [214] _Piero Minerbetti 1409, c. 1-5, p. 593-599. — Poggio
  Bracciolini Hist. Flor., l. IV, p. 308._

Ladislao aveva adunati dodici in quindici mila uomini di cavalleria; ed
i Fiorentini quando scoppiò la guerra non ne avevano più di mille
duecento[215]. Si affrettarono di prendere al loro soldo Malatesta di
Pesaro ed altri capitani, ed in breve riunirono due mila quattro cento
lancie, ognuna di tre corazzieri, e si trovarono a portata di assicurare
tutti i luoghi forti del loro territorio[216]. Il re di Napoli guastò da
principio tutto il circondario di Siena fino sotto le mura delle città;
si avanzò poi dalla banda di Arezzo, per la valle di Chiana sperando di
sorprendere questa città, o Monte Sansovino, ch'eragli stato promesso da
alcuni traditori. Ma, sebbene la grande superiorità delle sue forze lo
rendesse padrone della campagna, non ottenne di prendere una sola terra
fortificata, e le sue intraprese si limitarono a distruggere le vigne,
ed a bruciare le messi[217]. Nello stesso tempo dodici galere napoletane
infestavano i mari di Pisa, ruinando il commercio de' Fiorentini, e
togliendo l'isola dell'Elba a Gherardo Appiano, signore di Piombino, e
vassallo della repubblica[218].

  [215] In maggio non avevano che trecento novantasei lance, delle
  quali ne spedirono la metà a Siena. — _Cron. di Jacopo Salviati, t.
  XVIII, Deliz. degli Erud., p. 313._

  [216] _Piero Minerbetti, 1408, c. 29, p. 592, 1409, c. 7, p. 601. —
  Scip. Ammirato Stor. Fior., l. XVII, p. 946. — Giorn. Napoletani, t.
  XXI, p. 1071._

  [217] I contadini lo chiamarono irrisoriamente _re guastagrani_. —
  _Piero Minerbetti, 1409, c. 6-8, p. 600-602. — Poggio Bracciolini
  Hist. Flor., l. IX, p. 311. — Vita Brachii Perus. a Joh. Campano, t.
  XIX, l. II, p. 471._

  [218] _Jacobi de Delayto Ann. Estens., p. 1090._

In appresso Ladislao volse le sue armi contro Luigi di Casale, signore
di Cortona ed alleato de' Fiorentini. Questo piccolo principe aveva
pochi diritti all'affetto de' suoi sudditi. L'anno precedente aveva
colla vita rapito il sovrano potere a Francesco di Casale, suo cugino ed
amico[219]. I Cortonesi non vollero esporsi ai mali della guerra pel
vantaggio del loro tiranno, e quando videro il nemico guastare i loro
campi, bruciare gli ulivi, sradicare le viti, aprirono le porte della
città a Ladislao, e Luigi di Casale fu condotto nelle prigioni di Napoli
coll'ambasciatore fiorentino che trovavasi presso di lui[220].

  [219] _Piero Minerbetti, l. II, p. 575._

  [220] _Piero Minerbetti, c. 9, p. 602. — Poggio Bracciolini, l. IV,
  p. 1312. — Memorie di Jacopo Salviati. Deliz. degli Erud., t. XVIII,
  p. 314._

In questo tempo Braccio di Montone, chiudendo la sua piccola armata ne'
castelli vicini a Cortona, teneva aperti gli occhi sui movimenti di
Ladislao, per approfittare d'ogni suo fallo. Non voleva esporsi ad una
battaglia, ma sorprendeva i distaccamenti napolitani, loro intercettava
i convogli, tagliava a pezzi i foraggieri[221], e togliendo loro in tal
modo i mezzi di provvedersi di vittovaglie li ridusse in breve a tali
strettezze, che Ladislao fu costretto di ricondurre le sue truppe a
Roma, dopo di avere lasciate grosse guarnigioni in Perugia, Cortona, e
nelle città della Marca e del ducato di Spoleti[222].

  [221] _Vita Brachii Perusini, l. II, p. 472._

  [222] _Piero Minerbetti, c. 12, p. 606. — Scip. Amm., l. XVII, p.
  949._

I Fiorentini erano impazienti di portare a vicenda le armi loro negli
stati del nemico. Avevano chiamato in Italia Luigi II d'Angiò, figlio
del principe adottato dalla regina Giovanna, e che perciò pretendeva
avere dei diritti sul regno di Napoli. Speravano i Fiorentini di
riaccendere in suo favore la fazione degli Angioini, e fecero
riconoscere Luigi come re di Napoli dal concilio di Pisa e da papa
Alessandro V. Luigi d'Angiò, che giunse a Pisa in sul finire di luglio
del 1409 con cinque galere e mille cinquecento cavalli, ricevette ad un
tempo dal papa l'investitura dei regni di Sicilia e di Gerusalemme, ed
il gonfalone della Chiesa[223]. Si unì poco dopo a Malatesta di Pesaro,
generale de' Fiorentini, a Braccio di Montone, ad Agnello della Pergola
ed alle truppe di Siena e di Bologna, ed entrò nello stato della Chiesa.
Orvieto, Viterbo, Montefiascone, e non poche altre città del patrimonio
gli aprirono le loro porte senza opporre resistenza[224]. Paolo Orsini,
che comandava in Roma a nome di Ladislao, passò dalla banda dei nemici,
e si pose al soldo dei Fiorentini con due mila uomini di
cavalleria[225]. Egli si era tenuto in possesso di Castel sant'Angelo e
del Vaticano; ma il conte di Troja, comandante di Perugia, aveva
ricondotte a Roma tutte le guarnigioni lasciate in Toscana da Ladislao
con due mila cavalli, e difendeva il passaggio del Tevere e le mura
d'Aureliano[226].

  [223] _Piero Minerbetti, c. 13 e 14, p. 606-608. — Scip. Ammirato,
  l. XVIII, p. 952. — Joh. Bandini de Barthol. Hist. Senens., t. XX,
  p. 10._

  [224] _Piero Minerbetti, c. 15, p. 608._

  [225] _Ivi, c. 21, p. 613. — Cron. di Jacopo Salviani, t. XVIII, p.
  317._

  [226] _Piero Minerbetti, c. 22, p. 613._

L'armata della lega attaccò da prima il quartiere di Transtevere che è
posto dalla stessa banda del fiume che il Vaticano; ma non avendo potuto
forzarne i trinceramenti, passò il fiume a guazzo presso a Monte rotondo
ed attaccò Roma dalla parte della Sabina egualmente con infelice esito.
Luigi d'Angiò, scoraggiato da questi infruttuosi esperimenti, lasciata
l'armata, tornò a Pisa, di dove ripassò colle sue galere in Provenza. Il
legato di Bologna, Baldassar Cossa, venne a Firenze ed in seguito
raggiunse a Pistoja papa Alessandro V, che colà aveva stabilita la sua
corte[227]. Ma Malatesta, il generale fiorentino, rimase avanti a Roma
con Paolo Orsini e Braccio da Montone[228]; stancheggiò la guarnigione
napolitana con frequenti attacchi, incoraggiò gli amici della libertà, e
quelli dell'unione della Chiesa, ed il 2 gennajo del 1410 gli furono
aperte le porte della capitale della cristianità.

  [227] _Piero Minerbetti, c. 24, p. 615._

  [228] Il suo storico ascrive al proprio eroe tutto l'onore
  dell'acquisto di Roma; ma il suo racconto, sebbene molto
  circostanziato, merita minor fede che quello del Minerbetti, che
  nemmeno nomina Braccio. _Vita Brachii Perus., l. II, p. 480._

La bandiera di Firenze coi gigli d'oro spiegavasi innanzi all'armata; le
grida di libertà eccheggiavano nelle strade, e mentre i vincitori
prendevano possesso della loro conquista, il loro trionfo non venne
macchiato da verun disordine. Gli ambasciatori romani vennero a Firenze
a ringraziare la signoria della buona disciplina osservata dalle sue
truppe; e la signoria rispose esortando il popolo romano a conservare la
libertà della sua patria con non minore zelo che la purità della
fede[229].

  [229] _Piero Minerb., 1409, c. 26-35, p. 616-628._ Qui finisce il
  racconto di questo storico, che abbandoniamo con rincrescimento.
  Egli lascia dietro di sè un vuoto di dieci anni nella storia
  fiorentina fino al cominciamento dei Commentarj di Nero Capponi,
  l'anno 1419. D'uopo è riempire questo vuoto per mezzo dei _Morelli,
  t. XIX. Deliz. degli Erud._, e d'alcuni altri incompleti giornali.
  _Poggio Bracciol., l. IV, p. 313. — Scip. Ammirato, l. XVIII, p.
  955._

Luigi d'Angiò non era tornato in Provenza che per adunarvi una nuova
armata, onde spingere la guerra con maggior vigore. I Fiorentini, che lo
stavano di giorno in giorno aspettando, desideravano che il papa andasse
a soggiornare in Roma, onde meglio assicurarsi dello stato della Chiesa,
ed agevolare per l'entrante primavera l'impresa del regno. Il Malatesta
e Paolo Orsini occupavano Ostia, Tivoli e le fortezze che in Roma erano
rimaste in potere de' Napolitani[230]. Braccio di Montone pizzicava gli
abitanti di Perugia, e papa Alessandro sotto la protezione de' suoi tre
generali, sarebbesi trovato in Roma sicurissimo. Ma Baldassar Cossa
voleva persuaderlo a recarsi a Bologna, di cui egli aveva usurpata la
sovranità, e malgrado le più calde istanze de' Fiorentini, il papa segui
i consigli dell'ambizioso legato. Colà ben tosto cadde infermo, e morì
il 3 di maggio del 1410[231]. Baldassar Cossa, che gli successe sotto
nome di Giovanni XXIII, per un'elezione che si racconta non essere stata
libera, venne accusato d'aver avvelenato il suo predecessore per
essergli surrogato; e questo papa, diffamato e deposto dal concilio di
Costanza, non si è mai interamente purgato dal sospetto di tale
delitto[232].

  [230] _Diarium Roman. Anton. Petri, t. XXIV, p. 1015._

  [231] Il carattere di papa Alessandro è tutt'ora equivoco. Vantansi
  il suo sapere, la sua carità ed il suo amore della pace; ma viene
  accusato di una insensata prodigalità, di cieca confidenza ne' suoi
  adulatori, di sfrenato lusso, e di tanta ghiottoneria, che si
  racconta avere passati degli interi giorni a mensa. In alcuni
  conventi di Bologna è venerato come un santo; oggi la corte romana
  lo considera come scismatico. _Andreæ Billii Histor., l. III, p. 41.
  — Math. de Griffonibus, p. 218. — Cron. di Bologna, p. 598._

  [232] _Ricordi di Gio. Morelli. Deliz. degli Erud., t. XIX, p. 26. —
  Cherub. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 581. — Ann. Bonincontrii Miniat.,
  p. 103._

  La vita di Giovanni XXIII è stata scritta da Teodorico di Niem, uno
  de' suoi segretarj e l'autore della Storia dello Scisma. _Mei bomii
  Rer. German. Scriptorum, t. I, p. 5-52._ Ma l'odio di questo
  scrittore contro il papa e le sue invettive rendono sospetta la sua
  veracità.

  Non pertanto Teodorico di Niem non ascrive la morte di Alessandro a
  veleno, nè l'elezione del suo successore alla violenza. _De Vita
  Johannis XXIII, p. 13._

Finchè Boucicault governò Genova a nome del re di Francia, la
comunicazione tra la Provenza e la Toscana era stata facile e sicura, ed
il re Luigi d'Angiò aveva potuto senza inquietudine far attraversare il
mar ligure ai suoi soldati. Ma i Genovesi erano omai impazienti del
giogo francese, perchè ogni giorno vedevano usurpati ora l'uno ora
l'altro de' loro privilegi; onde, malgrado la solenne loro
capitolazione, la Liguria veniva quasi trattata come paese di conquista.
In sul finire del 1409 fu chiamato dalle fazioni di Milano a prendere
parte nelle turbolenze della Lombardia. Raccolse quanto aveva di truppe
per recarsi presso il duca di Milano Giovanni Maria Visconti; ma quando
stava per porsi in viaggio, il marchese di Monferrato e Facino Cane
attraversavano gli Appennini e giugnevano presso le mura di Genova, uno
dalla banda della Polsevera, l'altro per la valle di Bisagno. Questi due
generali, in guerra colla Francia e con Boucicault, rappresentarono ai
Genovesi l'opportunità dell'occasione per iscuotere il giogo che gli
opprimeva. Infatti il popolo prese le armi il 6 di settembre del 1409,
uccidendo, o cacciando fuori di città tutti i Francesi, e nominando il
marchese di Monferrato, capitano della repubblica, colla stessa autorità
attribuita in altri tempi al doge[233].

  [233] _Georg. Stellæ Ann. Genuens., t. XVII, p. 1223. — Ubertus
  Folietæ Histor. Genuens., l. IX, p. 532._

Dopo questa rivoluzione i Genovesi abbracciarono caldamente il partito
opposto alla Francia, strinsero alleanza con Ladislao, ed armarono una
flotta per sorprendere nel passaggio Luigi d'Angiò, ed impedire in tal
modo l'impresa del regno.

Il re Luigi era partito dalla Provenza con quattordici galere, due
grandi vascelli ed altri molti più piccoli; egli trasportava su questa
flotta molti cavalieri colle loro armi, cavalli ed il denaro necessario
per pagarli. Quando avvicinavasi alle coste della Toscana fece forza di
vele con parte della sua flotta ed entrò in Porto Pisano. Ma rimasero a
dietro sei delle sue galere, che furono non lungi dalla Meloria
incontrate il 6 maggio 1410 da cinque vascelli genovesi. Mentre durava
un'accanita zuffa tra queste due squadre s'avvicinarono nove vascelli di
Ladislao, onde le galere provenzali dovettero soggiacere alla
superiorità del numero; due furono colate a fondo, tre prese e condotte
a Porto Venere, ed una sola potè salvarsi a Piombino[234]. I Genovesi,
approfittando della vittoria, s'impadronirono in appresso del porto di
Telamone che apparteneva alla repubblica di Siena. Cominciarono altresì
alcune ostilità contro quella di Firenze, ch'ebbero fine soltanto il 27
aprile del 1413, in forza d'una pace conchiusa a Lucca[235].

  [234] _Memor. di Jacopo Salviati, Deliz. degli Erud., t. XVIII, p.
  338. — Joh. Stellæ Ann. Genuens., t. XVII, p. 1220. — Ubert. Folieta
  Genuens. Hist., l. IX, p. 534. — Diario Ferrar., t. XXIV, p. 176. —
  Scip. Ammirato Istor. Fior., l. XVIII, p. 957._

  [235] _Joh. Bandini de Barthol. Hist. Senen., p. 12. — Scip.
  Ammirato, l. XVIII, p. 966._

La flotta provenzale, dopo avere sbarcati a Piombino i corazzieri, fece
vela alla volta di Napoli; levò contribuzioni nelle isole d'Ischia e di
Procida, e dopo avere sparso il terrore in tutte le coste, e preso
Policastro, secondò le operazioni di Niccola Ruffo, che sollevava la
Calabria in favore di Luigi d'Angiò[236].

  [236] _Ann. Bonincontrii Miniat., p. 103._

Era il principe medesimo arrivato a Roma il 24 di settembre con
un'armata che sembrava formidabile, ed aveva sotto i suoi ordini i
Provenzali; ed inoltre Gentile di Monterano cogli emigrati di Napoli del
partito angioino, e Braccio di Montone colla sua compagnia: lo Sforza,
assoldato dai Fiorentini, Angelo della Pergola dai Sienesi e Paolo
Orsino dal papa, facevano altresì parte dell'armata del re[237]. Ma
quest'armata mancava di danaro e di munizioni. I Provenzali più non
avevano ricevuto soldo da che avevano abbandonata la Francia; a Paolo
Orsini erano dovuti quattro mesi; lo Sforza aveva dissipato tutto il
danaro che aveva ricevuto; Braccio da Montone riclamava dal canto suo
alcuni arretrati; e sebbene i Fiorentini dessero delle anticipazioni ai
soldati a nome di tutti i loro alleati, essi soli supplire non potevano
a tanta spesa, e l'armata non trovossi in istato di muoversi. E per tal
modo questa campagna, che aveva costato prodigiose somme, terminò senza
che la lega ottenesse un solo vantaggio. Luigi, dopo avere consumato
molto tempo nel riconciliare i suoi capitani sempre apparecchiati ad
azzuffarsi gli uni contro gli altri, venne a Bologna in sul finire
dell'anno per concertare con Giovanni XXIII le operazioni della futura
campagna[238]. I Fiorentini, scoraggiati dalla non curanza de' loro
alleati, e vedendo che lasciavasi cadere tutto sopra di loro il peso
della guerra, diedero orecchio alle proposizioni di pace che faceva loro
Ladislao. Egli offriva la cessione di Cortona coi castelli di Pierli e
Mercatale in compenso delle mercanzie, ch'egli aveva tolte ai mercanti
fiorentini quando erano cominciate le ostilità. Queste proposizioni
furono accettate, ed il trattato fu soscritto il 7 gennaio del 1411,
comprendendovi i Sienesi; e Luigi d'Angiò, e Giovanni XXIII, che
restavano in guerra con Ladislao, furono costretti di approvare essi
pure la condotta dei Fiorentini[239].

  [237] _Memorie di Jacopo Salviati, t. XVIII, p. 343._

  [238] _Diarium Roman., Anton. Petri. t. XXIV, p. 1020._

  [239] _Scip. Ammirato, l. XVIII, p. 960. — Poggio Bracciolini Hist.
  Flor., l. IV, p. 314. — Memor. di Jacopo Salviati, l. XVIII, p. 352.
  — And. Bilii Hist. Mediol., l. III, p. 42. — Joh. Bandini de
  Barthol. Hist. Senens., t. XX, p. 12. — Orlando Malavolti, p. III,
  l. I, p. 8._

Non pertanto Giovanni XXIII risolse di andare a stabilirsi in Roma, onde
potere più vivamente trattare la guerra che oramai doveva sostenere
quasi colle sue forze. Entrò nella sua capitale l'11 aprile del 1411, e
fu ricevuto dal popolo con acclamazioni e festevoli voci[240]. Ma nello
stesso tempo la città ove aveva fin allora dimorato, e di cui aveva
acquistata la sovranità molto tempo prima d'essere papa, scuoteva il suo
giogo per tornare in libertà. Gli artigiani ed il popolo di Bologna
presero le armi il giorno 11 di maggio, opprimendo d'imprecazioni la
nobiltà e la chiesa, che gli avevano ridotti in servitù. Occuparono e
spianarono la fortezza ove il legato aveva lasciata guarnigione; ma
respinsero il Malatesti che voleva approfittare della rivoluzione per
togliere loro diversi castelli, e colla mediazione della repubblica
fiorentina conservarono a Giovanni XXIII la loro ubbidienza spirituale,
spogliandolo però della sovranità[241].

  [240] _Diarium Roman. Anton. Petri, p. 1023._

  [241] _Memor. di Jacopo Salviati, t. XVIII, p. 357._ — Egli vi fu
  spedito in qualità d'ambasciatore dalla signoria di Firenze il 10
  giugno 1411. — _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 600. — Math. de
  Griffonibus Memor. Hist., p. 218. — Cherub. Ghirardacci Stor. di
  Bol., l. XXVIII, p. 586._

Era pure andato a Roma Luigi d'Angiò, ed aveva riuniti sotto le sue
insegne i medesimi condottieri che nella precedente campagna erano stati
dati dai diversi stati della lega. Egli seppe persuaderli a seguirlo
contro il suo nemico, sebbene non avesse abbastanza danaro per pagare il
loro soldo, e che non si fosse veduta mai un'armata della sua più
povera. Era per altro composta di dodici mila corazzieri, i migliori
soldati che avesse l'Italia[242]. Luigi condusse quest'armata a
Ceperano; Ladislao lo stava aspettando a Rocca Secca con un'armata
press'a poco d'eguali forze. Luigi d'Angiò passò il fiume il 19 di marzo
del 1411, ed attaccò impetuosamente il nemico, e così fattamente lo
ruppe, che quasi tutti i Baroni, che servivano nell'armata di Ladislao,
furono fatti prigionieri, e vennero in potere del vincitore gli
equipaggi, e lo stesso vassellame del re. Ladislao fuggì a Rocca Secca,
e di là verso san Germano; e sarebbe stato facile il raggiugnerlo e
farlo prigioniere, se i vincitori non fossero stati trattenuti dal
saccheggio del campo nemico[243]. «Il primo giorno dopo la mia disfatta,
diceva egli medesimo, il mio regno e la mia persona erano egualmente in
potere de' nemici; il secondo giorno la mia persona era in salvo, ma se
lo volevano, erano tuttavia padroni del mio regno; il terzo giorno tutti
i frutti della loro vittoria erano perduti»[244]. In fatti i soldati
vittoriosi, premurosi di procurarsi un poco di danaro, vendevano ai loro
prigionieri per pochi ducati e libertà ed armi. Ladislao avvisato di
ciò, mandò da san Germano trombetti con danaro, ed in tal modo riebbe in
poche ore quasi tutta la sua armata[245].

  [242] _Scip. Ammirato, l. XVIII, p. 962. — Giorn. Napoletani, t.
  XXI, p. 1073._

  [243] _Theodoricus Niem. in Vita Johan. XXIII. — Raynald. Ann.
  Eccles, 1411, § 4, p. 413. t. XVII. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p.
  180. — Ricordi di Gio. Morelli. Deliz. degli Erud., t. XIX, p. 17,
  ec._

  [244] _S. Antonini Archiep. Florent. Chron., p. III, t. XXII, c. 6,
  fol. 156. — Leon. Aret. Comment. de suo tempore, p. 927._

  [245] _Giannone Hist. Civile, l. XXIV, c. 7, t. III, p. 402._

Quando Luigi d'Angiò volle finalmente approfittare della vittoria trovò
occupati dai soldati di Ladislao tutti i passi del regno di Napoli. Le
sue truppe mancarono bentosto di vittovaglie, e molte caddero ammalate;
la preda che avevano fatta non le rendeva punto più docili, nè loro
teneva luogo degli arretrati che avanzavano; onde il 12 di luglio Luigi
fu obbligato di tornare a Roma[246]. In principio del susseguente mese
imbarcossi sul Tevere per tornare in Francia, ove morì in agosto del
1417, senza aver fatti nuovi tentativi per conseguire il suo regno di
Napoli[247].

  [246] _Diar. Roman., t. XXIV, p. 1026._

  [247] _Giannone Istoria Civile, l. XXIV, c. 7, p. 402. — Mezeray
  Abrégé Chronol. de l'Histoire de France, t. III, p. 198. — Ann.
  Bonincontrii Miniata., t. XXI, p. 113._

Giovanni XXIII, successivamente abbandonato dai suoi alleati, restava
solo esposto agli attacchi di Ladislao. Il 19 maggio del 1412 perdette
ancora uno de' suoi più valorosi capitani, Sforza da Cotignola, che gli
domandò il suo congedo per passare sotto le insegne del re di Napoli,
perchè non voleva più servire insieme a Paolo Orsino suo nemico[248]. Ma
Ladislao a quest'epoca, sia che non avesse danaro per continuare la
guerra, o che fosse stanco di sostenere solo la causa di Gregorio XII
ch'erasi rifugiato ne' suoi stati, desiderava di riconciliarsi con
Giovanni XXIII. Alcuni negoziatori fiorentini s'intromisero per trattare
la pace, ed offrirono per parte del papa grosse somme di danaro ed altri
considerabili vantaggi al re di Napoli, pur ch'egli volesse sottrarsi
all'ubbidienza di Gregorio XII, riconoscere il concilio di Pisa, ed il
papa che succedeva ne' suoi diritti; il trattato fu conchiuso il 15
giugno del 1412; in forza di questo furono da Giovanni XXIII pagati al
re di Napoli cento mila fiorini sonanti, l'investitura del regno di
Sicilia accordata a Ladislao coll'abolizione di tutti i diritti di Luigi
d'Angiò, oltre la rinuncia agli arretrati di dieci anni dei tributi
dovuti dal regno alla santa sede[249]. Allora Ladislao, convocando
un'assemblea del clero de' suoi stati, riconobbe la sovranità in materia
di fede del concilio di Pisa, il diritto ch'egli aveva di deporre
Gregorio, e la legittimità dell'elezione di Giovanni XXIII. Ordinò a
Gregorio, che aveva stabilita la sua piccola corte a Gaeta, di uscire
da' suoi stati avanti che terminasse ottobre. Questo papa fu costretto
d'imbarcarsi coi tre cardinali, che gli si erano conservati fedeli,
sopra navi veneziane che trovavansi nel porto, e costeggiando l'Italia
diede prima fondo in Dalmazia, indi a Porto Cesenatico. Di là passò a
Rimini, ove si trattenne sotto la protezione di Paolo Malatesti, signore
di quella città, finchè accondiscese a dare la sua abdicazione[250].

  [248] _Leodrisii Cribellii De Vita Sfortiæ Vicecomitis, t. XIX, p.
  654. — Diarium Roman. Anton. Petri, t. XXIV, p. 1030._

  [249] _Rayn. Ann. Eccles., an. 1412, § 3, t. XVII, p. 419. — Gio.
  Battista Pigna Storia de' Principi d'Este, l. VI, p. 526._

  [250] _Rayn. Ann. Eccles., an. 1412, § 4, p. 420. — Theodoricus
  Niemensis De Vita Papæ Johan. XXIII, p. 17, ap. Meibomium._

Il trattato di pace tra Ladislao e Giovanni XXIII non fu pubblicato a
Roma che il 19 ottobre del 1412[251]; non vi era stato dal papa compreso
Paolo Orsini, perchè Giovanni XXIII conservava un segreto odio contro
questo capitano, per non avere approfittato della vittoria di Rocca
Secca; e fece inoltre sentire a Ladislao che vedrebbe con piacere
spogliato l'Orsini delle terre che possedeva nella Marca d'Ancona.
Perciò il re di Napoli ordinò allo Sforza, che sapeva essere personale
nemico dell'Orsini, di attaccarlo all'aprirsi della nuova stagione.
L'Orsini, sorpreso all'impensata, si rifugiò in Rocca Contratta, ove
sostenne un ostinato assedio[252].

  [251] _Diarium Rom. Antonii Petrii, p. 1032._

  [252] _Leodrisius Cribellius Vita Sfortiæ Vicecomitis, p. 656._

Ladislao, che aveva adunata una ragguardevole armata, si avanzò in
appresso per sostenere il suo generale; ma improvvisamente prese la
strada di Roma, ed il 31 maggio presentossi alle porte della città,
mentre alcune galere napolitane occupavano la foce del Tevere, ed alcune
barche armate rimontavano il fiume. Per la quale improvvisa comparsa il
papa chiamò i Romani, e loro avendo domandato di unirsi per difesa della
città, tutti promisero di combattere e di morire per il papa e per la
chiesa. Non pertanto il settimo giorno alcuni di loro atterrarono il
muro presso la porta Capena, e fecero entrare in città colla sua
cavalleria il Tartaglia, uno de' capitani del re, e Giovanni XXIII
appena ebbe tempo di fuggire alla volta di Firenze[253].

  [253] _Diarium Rom., t. XXIV, p. 1034. — Joh. Stellæ Ann. Genuens.,
  t. XVII, p. 1249. — Memor. Histor. Math. de Griffonibus, t. XVIII,
  p. 221._

Tostochè il re si vide padrone di Roma, abbandonò al saccheggio de'
soldati le proprietà di tutti i mercanti fiorentini che vi si erano
stabiliti; ed inoltre annunciò alla sua armata, che bentosto
l'arricchirebbe col sacco della stessa Firenze[254]. La repubblica,
intimorita da tale procedere, nominò il 14 maggio del 1413 i dieci della
guerra per porsi in su le difese; e fe' capo di questi magistrati
Niccolò da Uzzano, il più riputato uomo di questi tempi. Malatesta da
Pesaro fu preso come capitano di guerra, e molti signori dello stato
ecclesiastico si posero sotto la protezione de' Fiorentini con trattato
di genere affatto nuovo, che in allora chiamavasi di _raccomandazione_.
Guido Antonio, conte di Montefeltro e di Urbino, si obbligò ad essere
per dieci anni alleato de' Fiorentini, Luigi degli Alidosi, signore
d'Imola, per sei, Ugolino dei Trinci, signore di Foligno, per cinque, e
Jacopo d'Appiano, signore di Piombino, ancora fanciullo, fu posto dalla
madre per sei anni sotto la tutela dei Fiorentini[255].

  [254] _Scip. Ammirato, l. XVIII, p. 968._

  [255] _Ivi, p. 969._

Questi per altro vollero evitare, se era possibile, di provocare
Ladislao alla guerra, e mentre trattavano con lui, ricusarono di
ricevere nella loro città Giovanni XXIII, assegnandogli per sua dimora
la casa di campagna del loro vescovo: ma dopo tre mesi il papa venne
finalmente accolto in Firenze, ove si trattenne fino al principio di
novembre[256]. Passò quindi a Bologna, che nel precedente anno era
tornata sotto la sua dipendenza. I plebei, che avevano contro di lui
eccitata la rivoluzione, eransi bentosto resi col loro governo odiosi;
onde i nobili che avevano congiurato contro di loro, il 14 agosto 1412
presero le armi ed occuparono il palazzo e la piazza pubblica;
spiegarono di nuovo lo stendardo della chiesa, e chiesero a Giovanni
XXIII un vicario per governare la loro patria[257].

  [256] _Theodoricus Niem. Vita Johannis XXIII, p. 23, ap. Meibomium.
  — Raynal. Ann. Eccles. 1413, § 19, t. XVII, p. 430._

  [257] _Cherub. Ghirardacci, l. XXVIII, p. 592. — Math. de
  Griffonibus Memor. Histor., p. 220. — Cron. di Bol., t. XVIII, p.
  601._

Mentre i Fiorentini andavano temporeggiando, Ladislao soggiogava colle
sue armi tutte le città del patrimonio di san Pietro fino ai confini di
Siena e di Firenze: Sutri, Viterbo, Todi, Perugia e tutte le altre città
della provincia gli aprirono le porte[258]. Egli aveva intenzione, prima
d'attaccare i Fiorentini, di persuadere il marchese Niccolò d'Este ad
entrare nello stato di Bologna per dividere le forze de' suoi nemici,
minacciando il papa. Sforza, suo generale, il di cui figliuolo, che fu
poi duca di Milano, era stato educato nella corte del marchese d'Este,
s'incaricò di questa negoziazione, ed aveva già determinato il marchese
ad assumere il titolo di generale di Ladislao al di là degli Appennini,
ed a ricevere lo stendardo del re, ed il danaro necessario per assoldare
un'armata; ma i Fiorentini, colla mediazione dell'imperatore, ridussero
Niccolò a rimandare a Ladislao il suo stendardo, ed a farsi alleato
della chiesa[259]. Il re di Napoli non potendo dare esecuzione al
progetto che aveva formato, non s'innoltrò al di là dei confini dello
stato della chiesa, ed avvicinandosi l'inverno rientrò nel suo regno.

  [258] _Rayn. Ann. Eccles., t. XVII, p. 430._

  [259] _Bonincontrii Miniat. Ann., t. XXI, p. 106. — Gio. Battista
  Pigna Stor. de' Principi d'Este, l. VI, p. 533._

In principio del 1414, avendo Ladislao ammassate ragguardevoli somme con
forzate esazioni, e colla vendita di molti titoli di nobiltà, di dominj
della corona e di feudi confiscati a danno de' gentiluomini del partito
d'Angiò[260], egli mise insieme un'armata di circa quindici mila
corazzieri, che condusse subito a Roma. Egli andava riscaldando il
coraggio de' suoi soldati colla promessa del sacco di Firenze e delle
più ricche città della Toscana; ed udivasi frequentemente accusare
d'insolenza i Fiorentini, che osavano tenergli testa; pure quando gli
ambasciatori fiorentini gli si presentarono per sapere se da lui
dovevano aspettarsi la guerra o la pace, protestossi attaccato alla
signoria, giurò d'avere intera fiducia nella giustizia de' Fiorentini,
ed offrì di prenderli per arbitri delle differenze che aveva con
Giovanni XXIII. Egli domandava di essere dal papa riconosciuto come
vicario della chiesa nelle città che aveva di già conquistate,
offrendosi di pagare un adeguato tributo[261]. Ma Giovanni in
quest'epoca trovavasi avvolto in critiche negoziazioni per la
convocazione del concilio di Costanza; vedeva mal ferma la sua autorità
spirituale; era forzato ad udire i rimproveri e spesso ancora le minacce
di que' medesimi che eransi fin allora dichiarati suoi partigiani, e
poco curavasi della difesa di Roma e delle sue province, finchè non era
sicuro della medesima tiara.

  [260] _Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1075._

  [261] _Scip. Ammirato, l. XVIII, p. 970._

I Fiorentini, non potendo soli proteggere gli stati della chiesa, nè
ridurre a buon fine il trattato tra il papa ed il re, tanto più che
vedevano l'uno e l'altro agire di poca buona fede, accettarono
finalmente la proposizione loro più volte fatta da Ladislao, e
separarono i loro interessi da quelli della chiesa. Vero è ch'essi non
davano fede alle parole del re di Napoli, e ben sapevano che una tregua
con lui, equivaleva tutt'al più ad un armistizio; ma credettero
conveniente di legarlo quanto più possibil fosse co' suoi giuramenti,
senza perciò lasciare di star sempre in guardia contro di lui; e
soscrissero nel suo campo presso ad Assisi, il 22 giugno del 1414, un
nuovo trattato di pace, nel quale vennero comprese la città di Bologna,
residenza del papa, la repubblica di Siena, ed il generale Braccio di
Montone[262].

  [262] _Scip. Ammirato, l. XVIII, p. 971._

Il popolo non sapeva adottare veruna dissimulazione in politica, ed
altamente disapprovò un trattato con un nemico che non cessava di voler
nuocere, ed avrebbe con lui preferita la guerra aperta; onde fu d'uopo
che la signoria in certo modo facesse forza ai due consigli, per
persuaderli a ratificare la pace d'Assisi[263]. Infatti Ladislao
meditava sempre qualche nuovo tradimento. Dopo che Paolo Orsini erasi
sottratto allo Sforza, ed uscito vincitore dall'assedio di Rocca
Contratta, il re aveva cercato di riconciliarsi con questo generale, e
lo aveva di nuovo richiamato al suo servigio[264]. L'Orsini e lo Sforza
servivano di nuovo nella stessa armata, e tutti due si trovavano pressa
Ladislao a Perugia, allorchè questi fe' subitamente arrestare e caricare
di catene Paolo Orsini, Orso di Monte Rotondo, e molti altri baroni
romani, che vivevano sicuri sulla fede dei trattati. Il re mostrava
contro di loro la più violenta collera, e più non dubitavasi che il
supplicio di cui spesso li minacciava non fosse principio di qualche
nuova guerra, quando Ladislao fu colpito da una malattia probabilmente
cagionata dalle eccessive sue dissolutezze. Ancora non era noto il
flagello vendicatore dell'incontinenza, che meno di un secolo dopo fece
tanto danno a tutta l'Europa; ma il re fu preso da un male della stessa
natura, i di cui sintomi fecero credere che un nuovo veleno gli fosse
stato avvertitamente comunicato da una delle sue amanti; e si vide
bentosto una di queste, che era figlia di un medico di Perugia, morire
per la violenza degli stessi dolori[265]. Il re, i di cui patimenti
rendevansi insopportabili, fecesi da prima trasportare in ceste a Roma,
e colà s'imbarcò sul Tevere per passare a Napoli, ma appena giunto in
questa città vi morì il 6 agosto del 1414[266].

  [263] _Istorie Anon. di Firenze, t. XIX, p. 955._

  [264] _Leodrisii Cribellii Vita Sfortiæ Vicecom., t. XIX, p. 657. —
  Joh. Campani Vita Brachii Perusini, l. III, p. 501._

  [265] _Theod. Niemensis Vita Joh. XXIII, p. 24, ap. Meibom. — Rayn.
  Ann. Eccles. 1414, § 6, p. 436. — Giannone Ist. Civile del regno di
  Napoli, l. XXIV, c. 8, p. 405. — Guern. Bernio Storia d'Agobbio, t.
  XXI, p. 957. — Redusii de Quero Chron. Tarvisinum, p. 821. —
  Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Vicecom., p. 659._

  [266] _Diarium Roman. Anton. Petri, t. XXIV, p. 1045. — Giorn.
  Napolit., p. 1076. — Joh._ _Bandini de Barthol. Hist. Senen., t. XX,
  p. 15. — And. Bilii Hist. Mediol, l. III, p. 42. — Ann. Bonincontrii
  Miniat., t. XXI, p. 107._

Tali furono le rivoluzioni dell'Italia meridionale ne' sei anni che
passarono tra il concilio di Pisa e quello di Costanza. Nello stesso
tempo il settentrione dell'Italia e della Germania trovavasi pure in
balìa di convulsioni politiche che colmavano la misura delle disgrazie
di questo periodo di turbolenze e di anarchia.

Invano l'imperatore Roberto erasi sforzato di ristabilire la pace della
Germania e della Chiesa; infruttuose riuscirono tutte le sue pratiche;
gli elettori ed i principi dell'impero gli avevano fatte provare, colle
loro orgogliose ed arroganti pretese, quasi non minori umiliazioni di
quelle date a Wencislao suo predecessore. L'elettore di Magonza, il
margravio di Baden, ed il conte di Virtemberga avevano del 1405 formata
una lega colle città libere della Svevia e del Reno. Questa lega, detta
di Marbac, aveva dettate leggi all'imperatore, e si era mantenuta
malgrado i suoi ordini e le sue preghiere. Le più ingiuste lagnanze
formavansi contro l'imperatore; ognuno spogliava il fisco imperiale, ed
ognuno rimproverava poi all'imperatore la debolezza cui era ridotto per
le usurpazioni de' suoi vassalli. Era accusato dell'accordata
indipendenza al ducato di Milano, e della trasmissione di quello del
Brabante alla casa di Borgogna; ma non gli era stata accordata veruna
assistenza per riunire questi feudi al dominio imperiale; finalmente lo
volevano risponsabile per non avere il concilio di Pisa ristabilita la
pace della chiesa, perchè egli stesso aveva ricusato di sottomettervisi,
conservandosi fedele al partito di Gregorio XII[267]. Forse i Tedeschi
non sarebbersi limitati a lagnanze ed a rimostranze; forse Roberto
correva pericolo di essere deposto come lo era stato il suo
predecessore, se la morte non lo avesse il 19 maggio 1410 sottratto a
nuove umiliazioni[268].

  [267] _Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. 11, p. 60._

  [268] _Ivi, t. V, p. 80. — Joh. Adlzreitter Ann. Boicæ Gentis, p.
  II, l. VII, p. 134. A Leibnitzio editum. Francofurti 1710, in fol._

Wencislao, dopo di avere perduta la corona dell'impero, continuava a
regnare in Boemia; ma la Germania non voleva di nuovo ubbidire a questo
monarca indolente e dedito alla crapula. Si convocò una dieta a
Francoforte per nominare un nuovo re de' Romani; i suffragi si divisero
tra Jossa, marchese di Moravia, e Sigismondo, re d'Ungheria, fratello di
Wencislao. L'uno e l'altro vennero proclamati dai loro partigiani il 28
ottobre del 1410, e la Germania ebbe per pochi mesi tre imperatori,
siccome la cristianità aveva tre papi; ma fortunatamente pel riposo
dell'Europa Jossa morì l'8 gennajo del 1411, ed in allora tutti gli
elettori aderirono a Sigismondo, onde lo stesso Wencislao gli diede il
proprio voto come re di Boemia[269].

  [269] _Schmidt Hist. des Allemands, l. VII, c. 12, p. 85. —
  Theodoricus Niemensis de Vita Papæ Johan. XXIII, p. 20._

Sigismondo aveva più volte colle sue crudeltà e colla mala fede eccitate
ribellioni in Ungheria: appassionato per i piaceri poco meno di suo
fratello, aveva più volte perduto nell'intemperanza, o in amorose
pratiche un prezioso tempo, mentre i suoi nemici disprezzavano la sua
autorità. Tutt'ad un tratto usciva da tanta inerzia, ed in allora la sua
vendetta era tanto più terribile, in quanto che veruna considerazione di
rango o di gloria, verun trattato, verun giuramento gli poneva limiti.
Quand'aveva una volta formato un progetto, gli dava esecuzione con
grandissima attività. Affatto non curante della fatica e dei pericoli,
egli scorreva l'Europa colla rapidità del suo avo Giovanni di Boemia,
quello che venne risguardato come un corriere tra i re. Sigismondo,
sovrano ad un tempo del Brandeburgo e dell'Ungheria era stato chiamato
dalle rivoluzioni de' suoi stati, lontani l'uno dall'altro, ad
attraversare più volte tutta la Germania. Disfatto a Nicopoli, fuggì a
Costantinopoli, e tornò per la Grecia e per la Schiavonia nei suoi
stati. Finalmente per terminare lo scisma, visitò la Polonia, la
Francia, l'Italia, la Spagna, e lo zelo disinteressato ch'egli manifestò
in quest'ultima circostanza gli meritò una gloria di cui fin allora
sarebbesi creduto incapace[270].

  [270] _Joh. Adlzreitter Annal. Boicæ gentis, p. II, l. VII, p. 139._

Quando Sigismondo fu eletto imperatore, trovavasi in aperto dissidio
colla repubblica di Venezia per cagione di Zara e di altre città della
Dalmazia che questa aveva comperate da Ladislao[271]. Perciò prima
d'andare a prendere la corona imperiale volle aprirsi la strada d'Italia
per il patriarcato d'Aquilea e per il Friuli. In dicembre del 1411 vi
mandò sei mila cavalli ungari sotto la condotta di Pipo Scolari
fiorentino[272], cui egli aveva tutta accordata la sua confidenza, ed
aveva innalzato al titolo di Ban[273]. Subito dopo un secondo corpo di
altri sei mila Ungari venne a raggiugnere questo generale; onde il
patriarca si vide costretto a ricoverarsi in Venezia, lasciando che
tutta la provincia fosse occupata dalle truppe del re; e Taddeo del
Verme, capitano delle truppe della repubblica, si riputò fortunato di
aver potuto impedire l'invasione della provincia di Treviso.

  [271] _Laugier Hist. de Venise, t. V, l. XIX, p. 332._

  [272] Detto comunemente _Pippo Spano_. _N. d. T._

  [273] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, t. XXII, p. 857. — Chron.
  Tarvis. Redusii de Quero, t. XIX, p. 834. — Hist. d'Agobbio di
  Guernieri Bernio, t. XXI, p. 957. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p.
  177._ — Il titolo di _ban_ equivaleva in Ungheria press'a poco a
  quello di conte. Joh. de Thwrockz non accenna questa spedizione.

Ma dopo questi prosperi avvenimenti gli Ungari non ottennero ulteriori
vantaggi. Carlo Malatesti, signore di Rimini, fu posto alla testa
dell'armata veneziana; questi, sebbene si lasciasse sorprendere il 9
agosto 1412 presso alla Motta al passaggio della Livenza, fece pentire
gli Ungari del loro attacco, e li costrinse a ritirarsi con perdita.
Egli medesimo ricevette in tale occasione tre ferite, che l'obbligarono
a rinunciare al comando dell'armata. La signoria gli diede per
successore suo fratello, Pandolfo Malatesti, signore di Brescia[274]. Le
due armate ricevevano vicendevoli rinforzi, e lo stesso Sigismondo aveva
raggiunta la sua; ma non poteva avanzare in un paese tagliato da molti
fiumi, e dove tutti i villaggi erano cinti di mura. La guerra si
mantenne due anni ai confini senza che una parte si trovasse più
avvantaggiata dell'altra. Tutte le operazioni di Sigismondo si ridussero
adunque a prese e riprese di castelli, che snervavano le armate
avversarie, senza che ottenessero lo scopo che si erano proposto[275].

  [274] Redusio di Quero, che militò in questa guerra, la descrive
  circostanziatamente assai. _Chron. Tarvis., t. XIX, p. 837._

  [275] _Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venez., p. 857-867. — Andrea
  Navagero Stor. Venez., t. XXIII, p. 1079. — Platina Hist. Mantuana,
  l. V, p. 798. — Laugier Hist. de Venise, l. XIX, p. 358-372._

Sigismondo era impaziente di superare l'ostacolo che i Veneziani
opponevano al suo ingresso in Italia; perciocchè ardentemente desiderava
di spegnere lo scisma, e per giugnere a quest'intento voleva avere in
Lombardia una conferenza con Giovanni XXIII. Voleva prendere a Milano la
corona di ferro, onde non presentarsi ai principi della Germania che
dopo di avere ottenuto ciò che invano i suoi predecessori avevano
cercato di ottenere. Ma perchè non faceva verun avanzamento nè nella
Marca Trivigiana, nè nell'Istria, ove assediò molti castelli, diede
finalmente orecchio a proposizioni di pace. Giovanni XXIII si offrì
mediatore tra Sigismondo e la repubblica, senza che potesse conciliare
le loro pretese; in appresso vi si intromise, ma vanamente ancor esso,
il re di Polonia; e per ultimo il conte di Cilly, suocero di Sigismondo,
ottenne di intavolare un trattato. Le negoziazioni s'aprirono a Trieste
il 26 febbrajo 1413, il di cui risultato fu una tregua di cinque anni
fra l'imperatore ed i Veneziani firmata il 18 aprile dello stesso
anno[276].

  [276] _Marin Sanuto Vite dei Dogi di Venezia, p. 879. — Redusii de
  Quero Chron. Tarvis., p. 844. — Laugier Hist. de Venise, l. XIX, t.
  V, p. 372._

Sigismondo approfittò subito della tregua per passare in Lombardia.
Questa contrada era stata in preda alle più funeste rivoluzioni; i
generali dei due fratelli Visconti non si erano accontentati d'usurpare
la tirannide nelle città loro date in custodia, che volevano ancora
regnare sui loro antichi padroni, e si disputavano colle armi alla mano
il favore del duca di Milano o del conte di Pavia, e gl'impieghi che
questi due principi potevano ancora accordare. Qualunque si fosse il
capitano vittorioso, ogni vittoria era sempre seguita dal sacco di una
città, ed i cittadini, indifferenti a tutte le contese dei generali,
erano abbandonati ai soldati come una ricompensa dovuta al loro valore;
ogni eccesso era permesso ai condottieri, e gli uomini brutali e feroci,
che militavano sotto di loro, costringevano spesse volte con orribili
tormenti i borghesi, che avevano arrestati, a liberarsi con enormi
taglie.

La storia non presenta forse verun periodo più infelice di quello che
tenne dietro alla morte di Giovan Galeazzo. I soldati superavano in
crudeltà tutto quanto si racconta dei popoli più barbari; non animati da
verun entusiasmo, non erano pure suscettibili di sentimenti generosi.
Essi non conoscevano altra passione militare che quella delle ricchezze,
della licenza, della carnificina; questa aveva loro poste le armi in
mano, non già il patriotismo, non lo spirito di partito, non lo zelo
religioso, onde nè pietà nè rispetto divino od umano li potevano
persuadere a deporle. I popoli esposti alla loro barbarie soffrivano
tanto più quanto erano ridotti a maggiore civiltà. Uomini avvezzi a non
soffrire privazioni, che non conoscevano nè pericoli, nè dolori, uomini
che vivevano nell'agiatezza e nel riposo, che conoscevano le arti e gli
allettamenti della vita socievole, passavano in un istante senza propria
colpa, senza motivo, dall'opulenza all'estrema miseria, da una vita
delicata al cavalletto dei carnefici[277]. Giovanni Maria, figliuolo
primogenito di Giovanni Galeazzo, e duca di Milano, non si era riservata
altra parte nel governo che quella di ordinare i supplicj. Fino
dall'infanzia circondato dai delitti, egli aveva contratte le più feroci
passioni. Egli non vedeva nelle formalità della giustizia che
un'occasione di soddisfare la sua infernale sete del sangue. Si faceva
cedere i delinquenti per cacciarli coi cani da corsa. Il suo
cavallerizzo, Squarcia Giramo, che aveva nudriti i suoi mastini di carne
umana, per avvezzarli a questa caccia reale, era il suo principale
favorito. Siccome gli mancavano le vittime, dichiarò che vendicherebbe
la morte di sua madre, alla quale per altro egli stesso aveva
contribuito più d'ogni altro, e fece squarciare dai cani Giovanni da
Pusterla, Antonio Visconti, suo fratello Francesco, e molti altri
gentiluomini ghibellini. Diede pure in preda ai suoi mastini il
figliuolo di Giovanni da Pusterla in età di soli dodici anni, e perchè
questo fanciullo gittavasi ginocchioni domandando grazia, i cani si
fermarono e non vollero toccarlo. Squarcia Giramo col suo coltello da
caccia lo scannò, ed i cani ricusarono tuttavia di gustare il suo sangue
o le sue viscere[278].

  [277] _Andreæ Billii Hist. Mediol., l. II, p. 31. — Leon. Aretini
  Comment., t. XIX, p. 928. — Platina Hist. Mant., t. XX, l. V, p.
  797. — Josephi Ripamontii Histor. Urbis Mediol., l. IV, p. 590. Ap.
  Grævium, t. II._

  [278] _Andr. Billii Hist. Mediol., l. II, p. 32. — Josephi
  Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. IV, p. 591. — Lud. Cavitellius
  Crem. Ann., p. 1402. — Pauli Jovi Vicecomit. Hist. p. XI, p. 327._

Frattanto Facino Cane, tiranno d'Alessandria, dopo essersi impadronito
della reggenza degli stati di Filippo Maria conte di Pavia, costrinse
pure colle armi alla mano Giovanni Maria ad ammetterlo nel suo
consiglio. Spogliò ben tosto i due fratelli di tutta la loro autorità,
li privò della libera disposizione delle loro entrate, e li ridusse a
tale ristrettezza, che mancavano talvolta di vesti e di cibo. Facino non
aveva figliuoli e lasciò vivere i due Visconti soltanto perchè non aveva
alcun interesse di disporre della loro eredità. Ma egli stesso nel 1412
venne sorpreso da malattia mortale. I Milanesi videro con orrore che
Giovanni Maria, liberato dal giogo di Facino, tornerebbe a regnare con
maggiore ferocia di prima; i Posterla, Biagio Trivulzi, Mantegazzi ed
altri gentiluomini milanesi, determinati di non aspettare il
rinnovamento della tirannide, attaccarono il duca il 16 maggio del 1412
mentre si recava alla chiesa di san Gottardo, e lo uccisero. Facino Cane
morì poche ore dopo, giurando che se avesse vissuto, avrebbe vendicata
la morte del figlio del suo signore[279].

  [279] _And. Billii Hist. Mediol., l. II, p. 36. — Joh. Stellæ Ann.
  Gen., t. XVII, p. 1242. — Josephi Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l.
  IV, p. 594._

Si crede che i congiurati avessero determinato di far morire ancora
Filippo Maria, e dare l'eredità dei Visconti ad Ettore, figliuolo
naturale di Barnabò, ed a Giovanni Piccinino figliuolo di Carlo
Visconti. Ambidue entrarono in Milano con una dozzina d'amici tostochè
ebbero avviso della morte di Giovanni Maria; ed Ettore, che chiamavasi
il soldato senza paura, venne immediatamente proclamato duca di Milano.
Ma Filippo Maria, udita la morte del fratello e di Facino, dispiegò
tutt'ad un tratto un'attività che da lui non si sperava. Egli si
assicurò della guardia del castello di Pavia, ove trovavasi rinchiuso,
incusse timore ai Beccaria che lo avevano lungo tempo oppresso, e li
costrinse a ricevere i suoi ordini, si affezionò i partigiani di Facino
Cane, e per raccogliere l'eredità di questo generale, e dare ai suoi
soldati un pegno del suo affetto, sposò la di lui vedova, Beatrice
Tenda, sebbene in età di quarant'anni, mentr'egli ne aveva appena
venti[280].

  [280] _And. Billii Hist. Mediol., l. III, p. 37._

Vincenzo Marliano, che aveva il comando della cittadella di Milano,
ricusava di aprirla ad Ettore, dichiarando che riconosceva Filippo quale
erede legittimo dell'ultimo duca; ma le truppe di Facino, che trovavansi
acquartierate in città, non sapevano a quale partito appigliarsi;
chiedevano nuovi saccheggi e nuovi doni, e davano orecchio alle
proposizioni di Ettore ed a quelle di Pandolfo Malatesti che volevano
prenderle al loro soldo. Inaspettatamente seppero che la vedova del loro
generale si era immediatamente rimaritata col nuovo duca, e che questa
offriva loro tutte le grazie ch'esse potevano pretendere; a tale notizia
si affollarono sotto le sue insegne, le aprirono le porte di Milano, di
dove Ettore dovette fuggire, e Filippo Maria, che fece il suo ingresso
nella capitale il 16 giugno del 1412, consolidò ben tosto la sua
autorità sopra la Lombardia, e vendicò la morte del fratello sopra i di
lui uccisori[281].

  [281] _And. Billii Hist., l. III, p. 40. — Joh. Stellæ Ann.
  Genuens., p. 1242. — Vita Phil. Mar. Vicecom. a P. C. Decembrio, t.
  XX, c. 8, p. 988. — Josephi Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. IV, p.
  595._

Qualunque fosse il desiderio che nudriva Sigismondo di unire
immediatamente all'impero le città della Lombardia a norma degli
obblighi imposti ai suoi predecessori, non si trovò abbastanza forte per
attaccare il duca Filippo Maria, ed entrato in Italia, si ristrinse a
trattare i soli affari della Chiesa. Recossi a Lodi, che in allora
dipendeva da Giovanni di Vignate, e colà si scontrò in tre ambasciatori
di papa Giovanni XXIII coi quali doveva fissare il luogo in cui sarebbe
convocato il nuovo concilio. Il papa, stretto dalle armi di Ladislao,
abbandonato dai suoi alleati, e temendo il biasimo della cristianità,
non osava rifiutarsi ad adunare un concilio, sebbene temesse di essere
da lui giudicato. Aveva prima data commissione ai suoi legati
d'insistere perchè l'assemblea si tenesse in qualche città d'Italia; ma
quando ebbero l'ultima udienza di congedo, stracciò le sue istruzioni, e
loro diede facoltà piene ed assolute[282]. L'imperatore ed i Tedeschi
temevano l'influenza della politica di Roma sopra il concilio, e la
corruzione del clero italiano. Volevano un'assemblea affatto libera per
procedere alla riforma della Chiesa, che stava loro a cuore forse più
che l'unione, e scelsero la città imperiale di Costanza, che, posta
quasi nel centro della cristianità, sembrava opportunissima a tenervi un
concilio ecumenico. I legati di Giovanni XXIII approvarono questa
scelta, ma quando il papa ebbe notizia di tale risoluzione, ne fu
profondamente afflitto. Previde l'indipendenza e la severità di
un'assemblea, cui non si mancherebbe di denunciare la sua condotta, e
che, composta essendo in gran parte di oltramontani, poco avrebbe a
sperare o a temere da lui. Non pertanto ratificò quanto avevano fatto i
suoi legati, e recossi presso Sigismondo per concertare preventivamente
tutto ciò che rendevasi necessario per il concilio[283].

  [282] _Leon. Aretini Comment. de suo tempore, p. 928. — Storia
  d'Agobbio di Guernieri Bernio, t. XXI, p. 936._

  [283] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. I, p. 9. — Joh.
  Stellæ Ann. Genuen., XVII, p. 1250. — Cron. di Bologna, t. XVIII, p.
  603._

I due capi della cristianità si trattennero lungamente insieme nelle due
città di Piacenza e di Lodi, che l'una e l'altra appartenevano a
Giovanni di Vignate[284]. Visitarono ancora Cremona, e l'imperatore
accordò alcune grazie a Gabrino Fondolo tiranno di questa città[285].
Essendo ambidue saliti alla sommità del campanile della cattedrale, di
dove scopresi quasi l'intera Lombardia ed il maestoso corso del Po,
Gabrino Fondolo, che aveva di già ottenuto colla più nera perfidia la
sovranità di cui godeva, ebbe un istante il pensiero di precipitare
l'imperatore ed il papa dall'alto di quel campanile per cagionare nella
cristianità una inaspettata rivoluzione, di cui egli avrebbe
approfittato. Quando, undici anni dopo, questo tiranno era vicino a
perdere la testa in Milano per ordine di Filippo Maria, dichiarò di non
essere d'altro pentito che del non aver dato esecuzione a tale
pensiero[286].

  [284] Questo signore ricevette in tale occasione da Sigismondo il
  titolo di vicario imperiale. _Joh. Bap. Villanovæ Laudis Pompeiæ
  Hist., l. III, p. 916. Ap. Grævium._

  [285] _Campi Cremona Fedele, l. III, p. 110._

  [286] _Campi Cremona Fedele, l. III, p. 114._

Frattanto l'imperatore ed il papa avendo concepito qualche sospetto
intorno alla fedeltà del loro ospite, abbandonarono subito Cremona[287].
L'imperatore rendendosi a Como ebbe una conferenza con Filippo Maria
duca di Milano; il papa prese la strada di Ferrara per tornare a
Bologna; ma tutti e due prima di separarsi avevano pubblicati d'accordo
editti e bolle per invitare il clero della cristianità ad unirsi a
Costanza il 1.º novembre del 1414, e tutta la Chiesa aspettava con
impazienza l'apertura di quest'augusta assemblea dalla quale sperava il
ristabilimento della sua antica purità ed il ritorno della pace[288].

  [287] _Redusii de Quero Chron. Tarvisin., p. 827. — Ann. Genuens.,
  p. 1251._

  [288] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. I, p. 12. — Idem,
  Hist. du Concile de Pise, l. VII, c. 16, p. 190._



CAPITOLO LXII.

      _Concilio di Costanza; termina il grande scisma d'Occidente. —
      Giovanna II di Napoli, e suo marito Giacomo, conte della Marca.
      — Grandezza e rivalità dei due condottieri, Braccio di Montone e
      Sforza di Cotignola._

1414 = 1418.


In principio del quindicesimo secolo il rispetto lungamente accordato ai
capi del clero aveva dato luogo a sentimenti di odio e di dispetto: lo
scisma aveva scosse tutte le credenze; e nella sua durata, eransi
distrutte tutte le illusioni vantaggiose ai pastori della Chiesa. I papi
ed i cardinali d'ogni partito attaccavano i loro avversarj con una
violenza, che tutti rendevali egualmente odiosi. Essi sforzavansi di
accreditare gli uni contro gli altri le più vergognose accuse, e
s'intentavano reciprocamente i più scandalosi processi. Si andavano per
tal modo accumulando agli occhi del popolo le pretese prove delle
iniquità del clero, e si terminava per dar fede a tutti gli accusatori.
Coloro che i santi maledivano, ed i concilj coprivano d'anatemi,
risguardavansi quali uomini macchiati di tutti i delitti. Non potrebbe
farsi una più sanguinosa satira dei capi della Chiesa, che raccogliendo
ciò che gli scrittori ecclesiastici più riputati hanno lasciato scritto
intorno al clero. Ma quanto i loro panegirici ci si resero sospetti in
altre circostanze, altrettanto dobbiamo in questa diffidare dei loro
libelli. Il clero ha virtù e vizj che gli sono ugualmente proprj; si
comprende come il disordine s'introduca in un corpo che fa professione
di santità; ma non saprebbesi nè comprendere, nè credere che le sue
scelte cadano sempre sopra i più vili uomini, e che faccia esso per suoi
capi coloro la di cui condotta è più propria a disonorarli[289]. Se
Giovanni XXIII, come ci viene dipinto, fosse stato un avaro e tiranno,
un avvelenatore educato in mezzo ai pirati ed un mostro di
lascivia[290], nè il concilio di Pisa avrebbe seguiti i suoi consigli,
nè Alessandro V sarebbesi affidato alla di lui amicizia, nè un conclave
l'avrebbe fatto capo della cristianità.

  [289] Queste osservazioni applicate ai tempi dello scisma sono
  verissime, e quanto soggiugne in appresso dimostra che non volle
  parlare che di quell'infelicissima epoca. _N. d. T._

  [290] Tale è il ritratto che ci lasciò Teodorico di Niem, uno de'
  suoi segretarj. _Vita Johannis XXIII, p. 5, apud Meibomium Scrip.
  Germ., t. I._ — Viene confermato dall'atto d'accusa ricevuto contro
  di lui nel concilio di Costanza.

Non pertanto devesi accordare che tra i padri della Chiesa non erano
cosa rara l'ambizione, la venalità, i disonesti costumi e la mondana
politica; e questo può giustificare, non dirò già le amare invettive
degli scrittori, ma per lo meno l'universale malcontento. Bonifacio IX
aveva cominciato a fare quello scandaloso commercio delle indulgenze,
che doveva più tardi essere cagione in Germania di tanti sconvolgimenti.
I suoi nunzj, arrivando in una città, appendevano alle finestre della
casa, in cui abitavano, un'insegna collo stemma del papa e colle chiavi
della Chiesa; ergevano nella cattedrale, a canto all'altar maggiore,
tavole coperte di magnifici tappeti, simili a quelle de' banchieri, per
ricevere il danaro di coloro che venivano a comperare indulgenze; essi
annunciavano al popolo l'assoluta autorità loro data dal papa di
liberare dal purgatorio le anime degli estinti, e di accordare il più
compiuto perdono di tutti i delitti a coloro che volevano farne
acquisto. Il clero tedesco riclamava invano contro questo vergognoso
traffico di grazie spirituali; perciocchè quelli che osavano
disapprovarlo venivano scomunicati e perseguitati come ribelli dalla
corte di Roma[291]; di modo che i più religiosi uomini dell'Europa, i
più illuminati filosofi d'ogni ubbidienza chiedevano d'accordo la
riforma della Chiesa nel suo capo e ne' suoi membri.

  [291] _Theod. Niemensis vita Johannis XXIII, p. 7. Apud Meibomium,
  t. I, Scrip. German._

Ma mentre che il settentrione e l'occidente dell'Europa volevano
scuotere il giogo della superstizione e dell'anarchia romana,
gl'Italiani più omai non risguardavano il cristianesimo che come una
invenzione politica di cui approfittavano, e presero a difendere con
zelo opinioni e pregiudizi, cui essi più non davano fede[292].

  [292] A torto qui l'autore mette a fascio i furbi, che risguardavano
  la religione come uno stromento di temporale guadagno, ed i buoni e
  veri cattolici, che veramente erano allora pochissimi, i quali,
  deplorando gli abusi de' suoi ministri, amavano di buon cuore e di
  buona fede la Chiesa e la sua dottrina, che non può essere macchiata
  dalle prevaricazioni di alcuni de' suoi ministri. _N. d. T._

Quando i tre concilj, di Pisa, di Costanza e di Basilea, attaccarono
successivamente l'autorità dei papi, gl'Italiani si sforzarono di
sostenerla come una proprietà nazionale. Essi vedevano la corte di Roma
distribuire con prodigalità temporali grazie, cui desideravano di
partecipare, lusingandosi tutti di godere un giorno della benefica
influenza che un semplice prete esercitava su tutta l'Europa. Vedevansi
attaccati come nazione, perchè venivano accusati d'avere comunicati al
clero tutti i vizj ond'era accusato; quindi si difesero nazionalmente, e
questa contesa diede loro uno spirito di corpo, che prima non
conoscevano. Bastava che un prelato fosse italiano, perchè riuscisse
sospetto a coloro che bramavano la riforma, e bastava che fosse loro
sospetto perchè questi si attaccasse al papa e facesse con lui causa
comune. Altronde gl'Italiani non erano legati alla Chiesa, nè da caldo
entusiasmo, nè da viva fede, nè da un sentimento religioso o da un
bisogno del loro cuore. Appena la credenza loro influiva sulla propria
condotta; e se essi conservavano tale credenza, devesi attribuire alla
niuna cura che si prendevano di esaminarla. Vedevansi pochissimi
Italiani abbracciare con fervore le pratiche di divozione che
s'indicavano quali sicuri mezzi per giugnere al cielo. Il secolo più non
produceva santi, tranne alcune donne interamente separate dal mondo. Più
non vedevansi dottori approfondire i misterj della fede, muovere nuove
dispute intorno al domma, e richiamare a sè l'attenzione universale coi
loro talenti per la controversia, colla scienza teologica, o
coll'arditezza de' loro sistemi. Più non vedevansi eretici in Italia,
perchè la religione cattolica più non era l'oggetto delle meditazioni
de' pensatori. Tutti coloro che aspiravano ad acquistarsi credito in
filosofia, coloro che collo studio degli antichi volevano innalzarsi a
qualche gloria, prendevano i sapienti dell'antichità, Aristotile e
Platone come fiaccole della loro fede; questi consultavano essi e non i
padri della Chiesa intorno a quanto dovevano credere[293]. Tutti gli
uomini di stato non avevano omai altra religione che la loro politica;
per ultimo, il popolo, sempre allettato dai grandi spettacoli, sempre
entusiasta per le belle arti ed affezionato alle feste, mantenevasi
attaccato al culto de' suoi padri non per proprio convincimento, ma per
immaginazione. Osservando l'ordinaria sua condotta non sarebbesi pur
sospettato che fosse cristiano; ma una grande calamità, o la pompa d'una
festa lo richiamava nelle chiese; non vi portava affetto ma abitudine,
nè credeva che di più si richiedesse per la salute.

  [293] Il lettore cattolico vedrà in tutto questo lungo tratto
  ripetuta l'apologia che i protestanti sogliono fare alla loro
  separazione dalla vera Chiesa. Intorno a ciò vuol leggersi _Bossuet,
  Storia dalle variazioni delle chiese protestanti_. _N. d. T._

In Italia il clero era numerosissimo, ma nè troppo ricco, nè troppo
potente. Il solo papa era sovrano temporale, mentre tutti i vescovi ed
abati de' monasteri erano rientrati nell'ordine di semplici cittadini.
Le loro entrate d'ordinario non eccedevano i bisogni del loro rango, e
siccom'essi non erano esposti alle seduzioni del potere e della
ricchezza, la condotta loro era per lo più esemplare. I soli depositarj
dell'autorità del papa, i legati ed i cardinali, erano talvolta cagione
di scandalo. In Germania ed in Inghilterra per lo contrario le ricchezze
del clero risvegliavano la cupidigia del governo, mentre in Italia i
preti soggiacevano in comune cogli altri cittadini alle pubbliche tasse,
e spesso ancora pagavano in proporzione più che i laici; perciò niuno
pensava a spogliarli, ed alcuna gelosia non favoriva i progetti dei
riformatori.

Perciò l'Italia si rimase indifferente alla riforma della Chiesa;
quell'Italia, che aveva dato l'esempio dell'indipendenza religiosa, e
che sola aveva disprezzate le minacce e le scomuniche dei papi, quando
questi facevano tremare tutta l'Europa, non rivolse contro il culto
stabilito la letteratura e la filosofia che coltivava con tanto impegno;
ed il clero italiano si collegò tutto a favore del papa. Nel
quindicesimo secolo cominciò un'accanita disputa tra i riformatori del
settentrione ed il clero del mezzodì, e si andò invigorendo, e
ravvivando più volte fino al susseguente secolo. I paesi settentrionali
si separarono finalmente dalla Chiesa romana, mentre questa, resa
inespugnabile dalle stesse sue battaglie, ne' paesi che le si
conservarono fedeli, ricuperò l'impero sopra gli spiriti e le coscienze
che pareva avere affatto perduto. E per tal modo la superstizione e
l'ignoranza subentrarono all'incredulità ed allo scetticismo.

Giovanni XXIII convocando il concilio a Costanza non ignorava, che colla
scelta di questa città veniva ad accordare un grandissimo vantaggio ai
Tedeschi, i più caldi avversarj dell'autorità pontificia. Il suo
assentimento gli era stato strappato nell'epoca in cui le conquiste di
Ladislao omai più non gli lasciavano alcun ricovero in Italia; ma la
morte di questo principe, cui era succeduta Giovanna II, sua sorella,
variava affatto la situazione del papa ne' suoi stati. Egli credeva non
avere di che temere da una donna debole ed inclinata ai piaceri; mentre
l'assemblea della Chiesa, innanzi alla quale egli doveva comparire,
gl'ispirava un terrore che non sapeva dissimulare. Ma invano cercava
egli di eludere la sua promessa; l'intiera cristianità era convocata; i
più potenti monarchi volevano ad ogni modo mettere fine allo scisma, ed
i cortigiani medesimi di Giovanni XXIII lo supplicavano caldamente a
recarsi a Costanza[294].

  [294] _Leon. Aretini Comment. de suo tempore, t. XIX, p. 929. — Ann.
  Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 109._

Assai difficile è il dare imparziale giudizio di Giovanni XXIII, non
essendosi quasi conservati che i libelli ingiuriosi de' suoi
nemici[295], e la scandalosa accusa, per altro approvata da lui
medesimo, e ratificata da un concilio. Non pertanto il costante alleato
de' Fiorentini, l'ospite e l'amico di tutta la famiglia dei Medici, il
protetto di Luigi II d'Angiò, che adoperò tutta la propria influenza per
fargli ottenere la tiara, non può essersi macchiato di tutti i delitti
onde venne imputato. Se fosse stato quale ci viene dipinto, niuno
avrebbe osato mostrarsi suo amico. La sua condotta ci fa piuttosto
conoscere un uomo destro ma debole, che accortamente sapeva giudicare
gli altri, e prevedeva con sottile accorgimento l'esito degli
avvenimenti, ma che non aveva la necessaria fermezza per evitare i
pericoli dai quali sentivasi minacciato, e che in seguito si
assoggettava alle calamità con cristiana umiltà e con una dolcezza degna
di compassione.

  [295] Un solo biografo di Giovanni XXIII parla della sua
  beneficenza, della sua carità e del buon governo di Bologna ne' nove
  anni che vi presiedette. _Additam. ad Ptolomeum Lucensem, t. III, p.
  II, p. 854._

Esposto agli attacchi di un formidabile conquistatore che gli aveva
tolti quasi tutti gli stati, fece uso per avere danaro de' mezzi
inventati dai suoi predecessori, ma perfezionò forse questo traffico
spirituale, ed accrebbe in modo le entrate di santa chiesa, da meritarsi
l'accusa di simonia che gli fu data. Impiegò poi il danaro che aveva con
tali mezzi raccolto, e si pretese che lo moltiplicasse colla più
scandalosa usura[296]. Rispetto ai suoi costumi furono certo poco
severi, come quelli di tutta la sua corte; ma non deve facilmente
credersi che nella sola Bologna abbia avuto dugento amiche, come lo
attestò Teodorico di Niem[297], o che abbia sedotte trecento religiose,
come leggevasi in uno degli articoli dell'accusa datagli innanzi al
concilio[298].

  [296] Teodorico di Niem assicura che i suoi commessi, prestando
  sopra pegno quattrocento fiorini rimborsabili entro quattro mesi,
  facevansi fare una ricevuta di cinquecento. _Vita Johan. XXIII, p.
  8._

  [297] _Ivi, p. 6._

  [298] _In Codice Vindobon. Elstrawiano. Ap. von der Hardt, t. IV, p.
  228. — Lenfant Hist. du Concile de Const., l. II, p. 184._

Avendo Giovanni XXIII deputato il cardinale Isolani a prendere possesso
di Roma, partì egli medesimo da Bologna il primo ottobre, prendendo la
strada di Costanza. Desiderava di procurarsi in vicinanza di questa
città qualche potente protettore, e lo trovò: Federico, duca d'Austria,
gli si fece incontro fino a Trento, l'accompagnò a traverso al Tirolo, e
fece con lui stretta alleanza, promettendo di dargli sicuri mezzi per
allontanarsi da Costanza, qualunque volta lo desiderasse[299]. Giovanni
XXIII entrò in questa città il 28 ottobre con nove cardinali di sua
ubbidienza, ed il 5 di novembre fece l'apertura del concilio. A tale
epoca l'assemblea non era ancora molto numerosa, perchè l'imperatore
Sigismondo era stato a ricevere la corona germanica ad Aquisgrana, ed i
prelati dell'ubbidienza di Giovanni XXIII, che recaronsi i primi al
concilio, non erano per anco tutti riuniti; ma la politica, la
divozione, la curiosità chiamavano ogni giorno nuovi viaggiatori a
Costanza, e vi si contarono in certi tempi fino a cento mila forastieri,
tra i quali trovavansi i più distinti personaggi di tutto il
cristianesimo[300].

  [299] _Thomæ Ebendorfferi de Haselbach Chron. Aust. Ap. Her. Pez
  Scrip. Aust., t. II, p. 845. — Jo. Muller Geschichte der Schweiz.
  III Buch, 1 capitel, p. 25. — Lenfant Hist. du Concile de Constance,
  l. I, p. 16._

  [300] _Lenfant Hist. du Conc. de Constance, p. 50._

Oltre i cardinali, gli arcivescovi e vescovi, molte altre persone,
ecclesiastiche e laiche, dovevano prendere parte alle deliberazioni;
molti abati, semplici preti e dottori di teologia eranvi stati chiamati,
come pure i deputati degli ordini religiosi e militari, e gli
ambasciatori dei re, dei principi e delle repubbliche. Tra i subalterni
grandissimo era il numero di coloro ch'erano addetti alla corte di Roma;
e se si fossero presi i suffragi per teste, ritenendoli tutti come
eguali, gli uditori, gli scrittori ed i procuratori del papa e dei
cardinali avrebbero reso padrone delle deliberazioni Giovanni XXIII. Per
evitare tale inconveniente risolse il concilio di prendere i suffragi
non per testa ma per nazioni. Si divise così il concilio in quattro
camere, tedesca, italiana, francese ed inglese, e più tardi vi si
aggiunse la spagnuola. Ogni nazione deliberava a parte, ed il suo
presidente nelle pubbliche sessioni dava in nome di tutti il suo assenso
ai decreti della Chiesa[301].

  [301] _Vita Joh. XXIII ex MS. Vaticano, t. III, p. II, R. Ital., p.
  847. — Hist. du Concile de Constance, l. I, p. 71, Lenfant. —
  Gobelinus Persona Cosmodrom. Aetas VI, c. 94, p. 339. Apud Meibomium
  Script. Germ., t. I._

Il concilio di Costanza era stato indicato come una continuazione di
quello di Pisa, ed avendo quest'ultimo deposti Benedetto XIII e Gregorio
XII, sperava Giovanni XXIII, che la cristianità in una più numerosa e
più solenne adunanza confermerebbe la deposizione de' suoi rivali, e lo
riconoscerebbe pel solo pastore della Chiesa. Ma non tardò ad avvedersi,
che i deputati del concilio e l'imperatore Sigismondo, suo protettore,
erano da tutt'altro sentimento animati. Erasi la Spagna conservata sotto
l'obbedienza di Benedetto XIII, ed alcune province dell'Italia e della
Germania ubbidivano a Gregorio XII, onde lo scisma non trovavasi affatto
spento, e non poteva esserlo che col mezzo di mutui sagrificj. I padri
adunati domandarono che i tre concorrenti abdicassero la loro dignità, e
Giovanni XXIII, che trovavasi nel loro seno, fu costretto, il primo
marzo del 1415, a promettere che ne darebbe l'esempio ai suoi
rivali[302]. Si trovò per altro ben tosto, che la sua dichiarazione non
era abbastanza esplicita, si andò sofisticando intorno alle condizioni
ed all'epoca della cessione, in modo che sentendo tutta l'estensione
della dipendenza cui era ridotto, invitò il duca d'Austria a mantenergli
la data fede, e ad ajutarlo a ritirarsi. In fatti fuggì il 21 marzo del
1415 sotto mentito abito di palafreniere, mentre tutta la città era
intervenuta ad un torneo in cui l'arciduca d'Austria combatteva col
conte di Cilley. Quando il duca fu avvisato della partenza del papa, gli
tenne dietro e lo raggiunse a Sciaffusa[303].

  [302] _Theodorici Niemensis Vita Johan. XXIII, p. 26._

  [303] _Joh. Muller Geschichte der Schweiz. B. III. c. 1, p. 35._

Il concilio fu per pochi giorni dubbioso, se per tale fuga dovesse
sciogliersi. Tutti i cardinali seguirono il papa, e Giovanni di Nassau,
elettore di Magonza, ed il Margravio Bernardo di Baden ed il potente
duca d'Austria erano apparecchiati a prendere le sue difese. Un
movimento repubblicano nel concilio, il quale dichiarò, che poichè
trovavasi costituito, era indipendente dal papa; il vigore di
Sigismondo, che mise subito Federico d'Austria al bando dell'impero; e
più di tutto l'animosità de' Bernesi, che avidamente colsero
quest'occasione per muovere guerra al loro ereditario nemico,
assicurarono la vittoria del concilio contro il capo della Chiesa.
Giovanni XXIII all'intimazione di tornare a Costanza rispose che
conservavasi disposto a rendere la pace alla Chiesa rinunciando al
pontificato[304]; ma intanto tentò con varie lettere di eccitare la
diffidenza contro l'imperatore, e di seminare la dissensione fra le
nazioni. I cardinali, che l'avevano seguito, ubbidirono tutti al
concilio, e tornarono a Costanza; ogni piccolo signore del vicinato,
ogni città del Reno o della Svevia dichiararono la guerra a Federico, ed
in poco tempo furono tolte alla casa d'Austria settanta tra città e
castelli[305]. I Bernesi conquistarono l'Argovia; la lega elvetica,
cedendo alle istanze dell'imperatore, mosse ancor essa le armi contro
Federico, ed in breve Federico, ch'erasi rifugiato col papa a Friburgo
nella Brisgovia, si smarrì di coraggio, e tornò a Costanza per
sottomettersi a Sigismondo ed al concilio[306].

  [304] _Leon. Aret. Comm. de suo tempore, t. XIX, p. 929. — Theod.
  Niem. Vita Joh. XXIII, p. 27._

  [305] _Thomæ Ebendorfferi de Haselbach Chron. Aust. 845._

  [306] _Jo. v. Muller Geschichte der Schweiz B. III, c. 1, p. 68._

Il nuovo elettore di Brandeburgo, Federico, burgravio di Norimberga, cui
l'imperatore aveva di fresco promesso il cappello elettorale[307], andò
a cercare il papa, e lo ricondusse a Rodolfzell, presso Costanza: tre
giorni prima, cioè il 14 maggio, Giovanni era stato con decreto
conciliare sospeso da tutte le sue funzioni[308]. Intanto era stata
contro di lui formata una scrittura d'accusa divisa in settanta
articoli, nella quale venivano ad uno ad uno epilogati tutti gli errori
della sua prima gioventù, appoggiandoli alle deposizioni di molti
cardinali, arcivescovi e vescovi, e così grande era il numero delle
subornazioni, delle violenze, degli adulterj, degli incesti ed altri più
odiosi vizj, che la vita d'un solo uomo non sembra poter bastare a tanta
corruzione[309]. Giovanni XXIII non volle nè meno vedere l'atto
d'accusa; dichiarò di sottomettersi interamente al concilio, di ricevere
con rispetto ed ubbidienza la sentenza della sua deposizione, e che si
riputerebbe felice, se poteva rendere la pace alla Chiesa col sagrificio
della libertà e dell'onor suo. In fatti fu deposto il 29 maggio nella
12.ma sessione del concilio e chiuso nel castello di Gottleben, posto
nelle vicinanze di Costanza[310].

  [307] Fu investito il 18 aprile del 1417. Lenfant_ Hist. du Concile
  de Constance, l_. V, p. 466. — Questo principe è lo stipite della
  reale casa di Prussia.

  [308] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. II, p. 165. —
  Gobelinus persona Cosmodromi Aetas VI, c. 94, p. 340._

  [309] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. II, p. 193._

  [310] _Vita Joh. XXIII a Theod. Niemen., p. 30. — Ejusdem vita ex
  MS. Vaticano, t. III, p. II, p. 848. — Additamenta ad Ptolomeum
  Lucens., p. 855. — Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. II, p.
  188._

La deposizione di Giovanni XXIII era un gran passo fatto per la riunione
della Chiesa: Gregorio XII, che aveva ostinatamente resistito al
concilio di Pisa, pensava finalmente a sottomettersi a quello di
Costanza, perciocchè il piccolo numero de' settatori che gli si erano
conservati fedeli dopo l'elezione d'Alessandro V, si andavano riunendo
al concilio, e mostravansi al tutto disposti ad abbandonarlo. Spedì
dunque Carlo Malatesta, signore di Rimini, suo principale protettore, a
Costanza, con facoltà d'abdicare per lui il pontificato, ma senza
riconoscere i due pontefici ed i due concilj, contro i quali aveva fin
allora lottato. Nella 14.ma sessione, tenuta il 14 luglio 1415, e
preseduta dall'imperatore, il vescovo di Ragusi, legato di Gregorio XII,
convocò di nuovo l'assemblea, onde darle in nome del suo papa
l'esistenza e l'autorità d'un concilio[311]. In appresso Carlo Malatesta
lesse una bolla colla quale Gregorio XII rinunciava al pontificato.
Questi riprese in allora da sè medesimo il nome d'Angelo Corario, ed i
titoli di cardinale e di vescovo di Porto, e morì in Recanati il 18
ottobre del 1417 in età di novant'anni[312].

  [311] _Raynald. Ann. Eccles. an. 1415, § 26, t. XVII, p. 457._

  [312] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. III, p. 262. — Vita
  Johannis XXIII, ex MS. Cod. Vatich., t. III, p. II, p. 848. —
  Teodor. Niem. Vita Joh. XXIII, p. 31. — Chron. Foroliviense fratris
  Hieronimis, t. XIX, p. 887._

Per ispegnere affatto lo scisma altro più non restava a farsi, che
ridurre Benedetto XIII a fare una simile cessione; ma questo ostinato
vecchio veniva ancora riconosciuto come papa dai re di Arragona, di
Castiglia, di Navarra e di Scozia, e dai conti di Foix e d'Armagnacco.
Altronde egli pretendeva che il suo diritto al pontificato si fosse omai
reso incontrastabile, poichè egli era il solo di tutti i cardinali,
creati avanti l'origine dello scisma, che ancora vivesse, di modo che se
illegittimi erano tutti coloro che succedettero a Gregorio XI, e s'egli
non era papa, aveva solo il diritto di eleggerlo. Sigismondo, ch'era
vago di viaggiare, partì alla metà di luglio alla volta di Perpignano,
ov'era aspettato dal re d'Arragona e da Benedetto XIII. Ma quest'ultimo,
dopo aver parlato sette ore continue per dimostrare i suoi diritti e le
sue pretese, offrì di rinunciare al papato sotto inammissibili
condizioni, perciocchè non chiedeva meno che di annullare il concilio di
Pisa, di chiudere quello di Costanza, adunandone un altro in un luogo di
sua ubbidienza, nel quale darebbe la sua dimissione dopo avere egli
medesimo eletto un altro papa[313]. Bentosto temette o finse temere di
essere arrestato, e fuggì coi suoi cardinali a Collioure, di dove passò
a chiudersi nella fortezza di Paniscola, protestando essere questo
castello l'arca di Noè, ove solo contenevasi la vera chiesa, mentre che
il rimanente del mondo era caduto nello scisma[314].

  [313] _Hist. du concile de Constance, Lenfant, l. IV, p. 354. — Vita
  Joh. XXIII ex Ms. Vaticano, t. III. p. II, p. 849. — Rayn. Ann.
  Eccl. 1415, § 47, p. 468._

  [314] _Hist. du concile de Constance, l. IV, p. 356. — Theodor.
  Niemensis in vita papae Johan. XXIII, p. 36. — Ejusdem vita ex Ms.
  Vaticano, p. 851._

Vedendo tanta ostinazione la chiesa di Spagna si separò da Benedetto
XIII, e risolse finalmente di riunirsi al concilio di Costanza, ma a
condizioni non dissimili da quelle che aveva proposte Gregorio XII. Gli
Spagnuoli convocarono il concilio di Costanza come se fino alla loro
unione non avesse mai esistito, e quest'assemblea ricevette in tale
maniera l'adesione de' cristiani conservatisi sotto l'ubbidienza di
Benedetto XIII, come aveva ricevuta quella degli altri due papi[315].

  [315] _Hist. du Concile de Constance, l. IV, p. 361. — Raynald. Ann.
  Eccl. 1415, § 53, p. 472._ — La capitolazione, firmata a Narbona il
  13 dicembre del 1415, non venne eseguita che il 15 ottobre del 1516.
  — Da quest'epoca in poi gli Spagnuoli formarono nel concilio una
  quinta nazione con una voce eguale agli altri.

La morte di Ferdinando, re d'Arragona, le pratiche di Benedetto XIII, ed
il viaggio di Sigismondo in Inghilterra per pacificare questo regno
colla Francia, ritardarono il processo che il concilio voleva intentare
contro Benedetto XIII; e soltanto nella 37.ma sessione, tenuta il 26
luglio del 1417, questo vecchio fu dichiarato non antipapa, ma deposto
per avere colla sua ostinazione prolungato lo scisma con grave danno
della cristianità. E per tal modo la santa sede si rese all'ultimo
vacante per la deposizione di due papi, e per la volontaria abdicazione
del terzo[316].

  [316] _Histoire du concile de Constance, l. V, p. 491. — Raynald.
  Ann. Eccl. 1417, § 12, p. 495._

Ma il concilio non si era soltanto adunato per riunire la Chiesa, ma
ancora per riformarla; voleva mettere freno all'arroganza della corte di
Roma, impedire la venalità delle grazie spirituali, e far cessare il
commercio delle sacre cose, indicato col nome di simonia, ma che per
altro formava la principale entrata del papa. Lo scopo di quasi tutte le
prediche fatte innanzi al concilio era quello di ricordare ai padri
adunati il dovere di riformare la Chiesa; e gli abusi introdottisi in
tutto il clero venivano rappresentati con sì odiosi colori, che non
sappiamo se più debba ammirarsi l'ardire de' predicatori o la pazienza
de' loro uditori. Frattanto altri uomini, che con quasi uguali discorsi
avevano preso a riformare la chiesa, furono da questo stesso concilio
con tanto accanimento puniti e con crudeltà sì grande, da far sempre
torto alla memoria del concilio[317].

  [317] Gli oratori conciliarj esponevano al concilio, che solo aveva
  diritto di riformarli, gli abusi del clero; i novatori ne facevano
  mostra in faccia al pubblico per creare odio alla chiesa. Lodevole
  era lo zelo de' primi, pernicioso lo scopo degli altri. _N. d. T._

Prima ancora che cominciasse lo scisma, Giovanni Vicleffo, parroco o
rettore di Lutterworth, nel contado di Leicester, aveva in Inghilterra
sparse intorno all'usurpato potere della corte di Roma, all'abuso che il
clero faceva delle ricchezze, ed ai nuovi dommi che andava nella
religione introducendo, alcune opinioni, che la corte romana si affrettò
di condannare[318]. Gregorio XI aveva incaricato l'arcivescovo di
Cantorberì di esaminare 19 proposizioni eretiche contenute nelle
scritture di Vicleffo. Ma questo dottore, intraprendendo una riforma,
pare che avesse cercato di evitare i giudizj della Chiesa. Aveva
veramente attaccati i dommi della transostanziazione, del purgatorio,
dell'invocazione dei santi[319], ma l'aveva fatto in un modo oscuro;
onde colle spiegazioni che ne diede in appresso, seppe sottrarsi alla
persecuzione, quantunque si andasse più volte rinnovando[320]; e potè
morire in pace nella sua parrochia di Lutterworth l'anno 1385. A tale
epoca egli aveva di già formata in Inghilterra una numerosissima setta,
detta dei Lollardi; e le sue scritture, replicatamente proibite, erano
commentate dai nuovi riformatori.

  [318] _Hume's History of England, c. 17, t. IV, p. 56. — Histoire
  d'Angleterre de Rapin Thoiras., l. X, t. III, p. 252._

  [319] _Fleury, Hist. eccles., l. XCVII, c. 44, l. XIV, p. 247._

  [320] L'ordine di perseguitarlo spedito nel 1382 all'università
  d'Oxford trovasi in _Rymer: conventiones et acta pub.ª, t. VII, p.
  363._

Un gentiluomo, che aveva studiato in Oxford, portò in principio del XV
secolo i libri di Vicleffo in Boemia[321]. L'università di Praga, che di
que' tempi aveva acquistato grandissimo nome, doveva principalmente la
presente fama ad alcuni professori tedeschi, che venivano guardati con
occhio di gelosia dai Boemi, dacchè questi avevano cominciato a
coltivare con buon successo le lettere: Giovanni Huss, Girolamo da
Praga, e Giacobello da Meissen, tre dei più illustri teologi della
Boemia, abbracciarono le opinioni di Vicleffo, e le divulgarono colle
lezioni e colle prediche. Il non curante Wencislao lasciava ai novatori
un'assoluta libertà, ed era inoltre propenso a favorire i suoi Boemi
contro i Tedeschi, de' quali aveva motivo di essere scontento.
Distinguevasi Giovanni Huss colla severità de' costumi, colla dolcezza
del carattere, colla penetrazione dello spirito, e colla sua
eloquenza[322]. Era inoltre confessore di Sofia di Baviera, regina di
Boemia; e le sue prediche nella chiesa di Betlemme, cui intervenivano
egualmente i grandi ed il popolo, gli avevano guadagnati moltissimi
partigiani[323].

  [321] _Aeneae Silvii Hist. Bohemica, c. 35, p. 102. — Opera Aeneae
  Silvii vol. I in fol. Basilea, 1551._

  [322] _Bohuslai Balbini Epitome rerum Bohem., l. IV, c. 5, p. 431._

  [323] _Lenfant Hist. du concile de Constance, l. I, p. 19._

Nel 1410 Giovanni Huss era di già stato citato da Giovanni XXIII per
rendere conto nella corte di Roma della sua dottrina. Aveva in allora
fatta trattare la sua causa per mezzo di procuratori; e riconoscendo
sempre la suprema autorità della Chiesa, si era appellato al giudizio
del prossimo concilio, e si recò a Costanza il 3 novembre del 1414,
munito di raccomandazione del re e dei grandi della Boemia, e di un
salvacondotto dell'imperatore Sigismondo[324].

  [324] _Lenfant, Hist. du concile de Constance, l. I, p. 23._

Malgrado il salvacondotto, Giovanni fu arrestato il 28 novembre del
1414, e rinchiuso in duro carcere, ov'ebbe alcun tempo per compagno di
disgrazia lo stesso papa Giovanni XXIII. Venne rigorosamente esaminato
intorno alle proposizioni che trovavansi condannabili nelle sue opere;
ed in pubblico interrogatorio, fattogli in pieno concilio, fu l'oggetto
degli amari sarcasmi di qua' medesimi teologi che dovevano pronunciare
la sua sentenza. Ma egli, senza lasciarsi sconcertare dalla parzialità
de' suoi giudici, nè dall'odio de' suoi persecutori, cercò modestamente
di conciliare la sua dottrina con quella professata dalla chiesa romana,
ma rigettò con modesta costanza la formola di ritrattazione propostagli
il 6 luglio del 1415, onde fu dal concilio condannato ad essere bruciato
vivo, e la sentenza si eseguì nello stesso giorno. In mezzo alle guardie
ed ai carnefici, coperto di oltraggi e di maledizioni, colle vesti
coperte d'immagini del diavolo, cui la sua anima era stata data dal
concilio, Giovanni Huss mostrò fino alla fine il coraggio, la serenità e
la rassegnazione d'un eroe cristiano[325].

  [325] _Lenfant, Hist. du concile de Costance, l. III, p. 275. —
  Raynald. Ann. Eccl. 1415, § 42, t. XVII, p. 465. — Theodoricus
  Niemensis vita Johannis XXIII, p. 32._

Girolamo da Praga aveva studiata la teologia a Parigi, ad Eidelberga, a
Colonia e ad Oxford. Più giovane di Giovanni Huss mostrava maggiori
talenti ed eloquenza; ma non pertanto lo risguardava piuttosto come suo
maestro che come suo eguale; con lui dividendo le fatiche
dell'apostolato senza aspirare a dividerne la gloria, altra corona non
voleva aver comune col maestro e coll'amico che quella del martirio.
Arrestato il 25 aprile del 1415 nelle vicinanze di Costanza, si lasciò
ridurre, dopo una lunga serie di cattivi trattamenti, a soscrivere l'11
settembre dello stesso anno una ritrattazione della sua dottrina, che
poi rivocò il 29 di settembre, e più solennemente poco dopo in una
generale congregazione del concilio[326].

  [326] _Lenfant, Hist. du concile de Constance, l. IV, p. 390._

Il 23 maggio del 1416 venne tradotto innanzi a quest'assemblea, che
doveva giudicarlo. Ma non gli veniva permesso di parlare, che per
rispondere strettamente articolo per articolo alle fattegli accuse. «E
che dunque! (gridò egli finalmente) dopo avermi tenuto tre cento
quaranta giorni nel fango e nel fetore di orribile carcere, ov'ero
carico di catene, mentre i miei accusatori venivano ogni giorno ammessi
alle vostre adunanze, mi ricuserete voi una sola ora per difendermi? Di
già vi si è fatto credere ch'io sono un eretico, un nemico della fede,
un persecutore della chiesa, e voi non vorrete accordarmi una sola
occasione di farmi conoscere per quello che veramente sono? E non
pertanto voi siete uomini e non divinità, esposti all'errore, alla
frode, alla seduzione. Qui trattasi della mia vita, ma trattasi ancora
dell'onore di un'assemblea, ove si suppongono riuniti tutti i più
illustri personaggi del mondo, tutti gli ecclesiastici più illuminati.»
Passò in appresso ai testimonj che avevano deposto contro di lui;
dimostrò le deposizioni loro dettate dall'odio, dalla malevolenza o
dall'invidia, e mostrò con tanta evidenza i motivi di quest'odio, che in
tutt'altra materia questi testimonj non avrebbero meritata veruna fede.
«Gli uomini, egli soggiunse, più dotti e più santi dell'antica chiesa
hanno talvolta opinato diversamente in materia di domma, non per
distruggere la religione, ma per far meglio risplendere la verità. Così
sant'Agostino e san Girolamo furono discordi, senza che nessuno di loro
cadesse in sospetto d'eresia. Altri uomini per altro, e più santi e più
giusti ch'io non sono, furono al par di me accusati di turbare l'ordine
stabilito, ed oppressi da false testimonianze; molti eroi, molti
sapienti dell'antichità, molti apostoli e padri della chiesa, e lo
stesso fondatore della nostra divina religione, perirono di crudel morte
per giudizio degli uomini, e poc'anzi ancora ed in questo medesimo luogo
Giovanni Huss, un uomo di tanta bontà, così giusto, così santo, così
indegno di tal morte, fu bruciato! S'avvicina pure il mio supplicio, ed
io l'incontrerò con un'anima forte e costante.» Più volte, mentre
parlava, venne interrotto da violenti vociferazioni; allora Girolamo
taceva, o talvolta faceva tacere la moltitudine, indi ripigliava il filo
del suo discorso, supplicando che gli fosse permesso di parlare, poichè
era l'ultima volta che avrebbe potuto farlo. La sua anima costante ed
intrepida mostrossi sempre imperturbabile in mezzo ai tumulti
dell'uditorio. Dolce, modulata, sonora era la sua voce, il suo gestire
dignitoso esprimeva la sua indignazione, e moveva a commiserazione,
sebbene egli nè la chiedesse, nè cercasse di eccitarla. La sua memoria
gli somministrava a proposito tutte le citazioni de' padri, della sacra
scrittura, e degli altri autori ecclesiastici e profani, che potevano
giovare alla sua causa, come se avesse passati i trecento quaranta
giorni della sua prigionìa non entro una fetida ed oscura torre ma in
una ricca biblioteca. Avendo ricusato di ritrattare le sue opinioni fu
dal concilio condannato alle fiamme. S'avviò al supplicio con volto
sereno e soddisfatto, e giunto in su la piazza, ove il suo maestro ed
amico era perito della medesima morte a lui destinata, fece la sua
preghiera, e spogliossi egli medesimo delle proprie vesti; quando la
fiamma cominciava a sollevarsi, intuonò un inno, che fu udito proseguire
fino all'istante in cui rese l'anima al creatore[327].

  [327] Tutto ciò rilevasi da una lettera di Poggio Bracciolini a
  Leonardo Aretino. Il primo di questi due storici fiorentini
  assisteva al concilio e fu presente al supplicio. Il suo racconto è
  perfettamente conforme agli atti conciliarj. _Hist. du Concile de
  Constance, l. IV, p. 397._ La lettera del Poggio stampata in diverse
  raccolte, venne pure riportata da Redusio da Quero nella sua Cronaca
  di Treviso, _t. XIX, Rer. Ital., p. 829. — Liber Epistol. Poggii,
  Argentoraci edit. 1512 editum, fol. 114._

Quando in Boemia si ebbe notizia della morte di Giovanni Huss e di
Girolamo da Praga i loro discepoli, rimasti orfani, s'intitolarono dal
primo, ed invece di lasciarsi scoraggiare, non pensarono che alla
vendetta: trenta mila settarj si adunarono sul monte Tabor, e dopo
essersi a trecento mense comunicati sotto le due specie, si mossero
contro i loro persecutori, condotti alla vittoria da Giovanni di
Trockznow, detto Ziska, e dai due Procopj: bruciarono cinquecento
chiese: furono profanati i conventi ed i sepolcri dei re, e per la prima
volta un regno cristiano scosse interamente il giogo della chiesa
romana[328].

  [328] _Adlzreitter Ann. Boicæ Gentis, p. II, l. VII, p. 143. —
  Bohuslai Balbini epitome rerum Bohemicarum, p. 421. — Aeneæ Silvii
  Hist. Bohemica, c. 356, p. 105. — Ejusdem epistola 130, l. I, p.
  660_, in cui parla del suo soggiorno sul monte Tabor. — _Thomæ
  Ebendorff de Haselbach Chr. Aust., t. II, p. 847._

Il concilio di Costanza, che aveva con tanto rigore proceduto contro i
riformatori, non lasciava peraltro d'annunciare la sua determinazione di
riformare la chiesa; e Sigismondo stringeva i padri adunati a procedere
a così importante opera prima di dare un nuovo capo alla cristianità. La
simonia eccitava universali lagnanze, e sotto questo nome contenevasi la
riserva di quasi tutte le entrate del clero; perciò tutti coloro che
dipendevano dalla corte di Roma opponevansi con tutte le loro forze ad
una riforma che doveva ruinarli. La più zelante per la riforma era la
nazione tedesca, la più contraria l'italiana. I Francesi per gelosia
dell'imperatore abbandonavano spesso la causa comune, e non la
difendevano gl'Inglesi per timore che loro si contrastasse il diritto di
formare soli una nazione.

Nel secondo e nel terzo anno la divisione andò sempre nel concilio
crescendo: quasi tutte le pubbliche sessioni erano turbate da amari
vicendevoli rimproveri; spesso la confusione ed il tumulto impedivano
d'intendersi, e di continuare la disamina degli oggetti proposti, ed
oramai cominciavasi a temere che qualche più violenta scena non
dividesse l'assemblea, e non gettasse la Chiesa in uno scisma più
difficile a distruggersi che il precedente. Mossi da tali considerazioni
i cardinali chiedevano caldamente, che loro si permettesse di procedere
all'elezione di un nuovo papa. Favorivano la loro domanda gl'Italiani, i
Francesi e gli Spagnuoli, e vi si opponevano l'imperatore, i Tedeschi e
gl'Inglesi[329]; i quali in ultimo dovettero pur cedere. Per questa
volta soltanto l'elezione del capo della Chiesa venne affidata ad un
doppio collegio, l'uno formato da trenta deputati eletti dalle cinque
nazioni, l'altro dai ventitre cardinali riuniti delle tre ubbidienze, ed
il candidato per essere eletto doveva riportare i due terzi dei suffragj
dell'uno e dell'altro collegio. Questi cinquantatre elettori furono, il
sette novembre del 1417, chiusi nello stesso conclave, e l'undici dello
stesso mese ne uscirono per proclamare Ottone Colonna, cardinale di san
Gregorio al Velo d'oro, che prese il nome di Martino V. Aveva il Colonna
ricevuto il cappello cardinalizio da Innocenzo VII l'anno 1405, ed era
stato addetto ai pontefici di Roma fino all'epoca del concilio di Pisa;
dopo la quale epoca aveva abbracciata la causa di Alessandro V, e del
suo successore Giovanni XXIII, che prima d'ogni altro cardinale egli
aveva seguito nella sua fuga, e cui più lungo tempo d'ogni altro si era
conservato fedele[330].

  [329] _Gobelinus Persona Cosmodromii Aetas VI, c. 96, p. 344._

  [330] _Lenfant Hist. du Concile de Constance, l. V, p. 529. — Vita
  Johannis XXIII ex MS. Codice Vaticano, t. III, p. II, p. 852. —
  Additam. ad Ptolom. Luc., t. III, p. II, p. 856 e 856. — Muller
  Geschichte der Schweiz, III, Buch. c. 1, p. 100._

Non fu appena eletto il papa, che subito, abbracciando gl'interessi
della chiesa romana, tentò di mandare a vuoto tutti i progetti di
riforma. Fece con ogni nazione parziali concordati, onde sopprimere gli
abusi che davano motivo a più gagliardi lagnanze, ed ottenere per tal
via la continuazione degli altri: tali concordati o regolamenti quasi ad
altro non si riferivano che ai diritti della corte romana nella
promozione dei beneficj, ed alle vesti del clero. Dopo la pubblicazione
de' medesimi, pronunciò lo scioglimento del concilio nella
quarantacinquesima sua sessione, il 22 aprile del 1418[331].

  [331] _Lenfant, Hist. du concile de Constance, l. VI, p. 609. —
  Gobelinus Persona, Cosmodromii Æctas VI, c. 96, p. 345._

Si era sperato che il concilio avrebbe ristabilita la pace tra la
Francia e l'Inghilterra, onde portare le armi della cristianità contro i
Turchi, approfittando della divisione scoppiata nella casa Ottomana dopo
la morte di Solimano; ma il secondo anno del concilio la battaglia
d'Azincourt distrusse le forze de' Francesi[332]; e nel susseguente anno
il duca di Borgogna riconobbe Enrico V d'Inghilterra per re di Francia.
Sebbene il concilio non pronunciasse sentenza intorno alle vertenze
ereditarie tra Giovanna di Napoli e Sigismondo rispetto all'Ungheria,
come tra la stessa Giovanna e Luigi d'Angiò rispetto al regno di Napoli
ed alla Provenza, pure ogni guerra, finchè i padri della Chiesa si
tennero adunati, rimase sospesa tra questi principi, e quantunque
Giovanna assumesse i titoli di regina d'Ungheria e di contessa di
Provenza, non pensò a portare le sue armi fuori delle province ereditate
da suo fratello.

  [332] Il 25 ottobre 1415. — _Hist. de France par Villaret, t. VII,
  p. 173._

Giovanna II era vedova di Guglielmo, figliuolo di Leopoldo III duca
d'Austria, e dopo la morte del marito era tornata a Napoli, ove si
abbandonava senza ritegno ai vizj che avevano precipitato nel sepolcro
suo fratello. Appena salita sul trono fu veduta circondarsi da
indegnissimi favoriti; il più screditato dei quali era Pandolfello
Alopo, che aveva nominato suo siniscalco, ed in appresso decorato dei
titoli di conte e di camerlingo. Egli non aveva più di venticinque anni,
e la regina quarantacinque; ed il primo non era raccomandato da altro
merito che da quello della sua bella persona[333]. Questo principale
favorito e gli altri cortigiani tenevano continuamente occupata la
regina in licenziose feste, allontanandola da tutte le cure del governo.

  [333] _Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1076. — Annales Bonin.
  Miniat., t. XXI, p. 107._

Intanto la notizia della morte di Ladislao era stata annunciata a Roma
l'otto agosto del 1414; il 10 tutta la città prese le armi, e gli
ufficiali furono cacciati di città a nome della Chiesa e del
popolo[334]. Lo Sforza, che Ladislao aveva lasciato all'assedio di Todi,
lo levò quando intese la morte del re, e dopo di avere cercato invano di
ricondurre i Romani all'ubbidienza, continuò il cammino verso Napoli,
onde approfittare del credito che gli davano le sue truppe per avere
molta parte nel governo; ma appena vi giunse, che Pandolfello Alopo lo
fece sostenere, e custodire nella stessa prigione in cui trovavasi da
qualche tempo Paolo Orsini[335].

  [334] _Antonii Petri Diarium Roman., t. XXIV, p. 1045._

  [335] _Leodrisii Cribellii Vita Sfortiæ Vicecom., t. XIX, p. 660. —
  Giorn. Napoletani, t. XXI, p. 1076._

Molti principi chiedevano le nozze della regina, la quale sentiva il
bisogno di un possente appoggio per mantenersi sul vacillante trono su
cui era salita. Si decise all'ultimo nel 1415 per Giacomo di Borbone,
conte della Marca, sperando ohe la sua unione con un principe della real
casa di Francia non la lascierebbe esposta a nuovi attacchi di Luigi
d'Angiò, suo competitore. Convenne per altro che suo marito non avrebbe
che il titolo di conte e di governatore generale del regno, a sè sola
riservando la dignità ed il potere reale[336].

  [336] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Vicecomitis, t. XIX, p.
  664. — Ann. Bonincontrii Miniatensis, t. XXI, p. 110._

Pandolfello Alopo, ch'era stato costretto di acconsentire a questo
matrimonio, volle, prima che avesse effetto, assicurarsi in corte un
partito abbastanza forte per mettersi al coperto da ogni timore per
parte dello sposo di Giovanna. Andò a trovare in prigione Sforza
Attendolo, gli offrì la sua parentela, la mano di Catarina sua sorella,
e l'intero favore della regina[337].

  [337] Il matrimonio celebrossi il 16 luglio del 1415. _Gior.
  Napolet., t. XXI, p, 1076. — Ann. Bonincontrii Miniatensis, t. XXI,
  p. 109._

Il valoroso contadino di Cotignola erasi di già innalzalo al rango de'
principi feudatarj; e Ladislao nominandolo grande contestabile del
regno, gli aveva dati sette castelli o piccole città nel patrimonio di
san Pietro, delle quali le più importanti erano Marta, Cività di Penna e
Piano Castagnaro[338]. Inoltre lo Sforza possedeva alcuni altri
castelli, come tributario della repubblica di Siena[339]; e siccome
colui che non lasciava fuggire occasione alcuna di accrescere i suoi
feudi, ch'egli risguardava come base della sua potenza, sposando la
sorella del favorito della regina, si fece cedere altri castelli vicini
a quelli che di già possedeva[340].

  [338] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Vicecomitis, t. XIX, p.
  660._

  [339] _Bandini de Bartholomæis Hist. Senens., t. XX, p. 15._

  [340] _Leodrisius Cribellius de Vita Sfortiæ, p. 664. — Ann.
  Bonincontrii Miniatensis, p. 110._

Ma l'appoggio principale dello Sforza era una compagnia d'avventurieri,
che gli era molto più affezionata di quello che lo fisse mai stato verso
i suoi condottieri verun altro di questi corpi. Lo Sforza aveva chiamati
presso di sè tutti i suoi parenti; aveva a tutti dato qualche comando
nell'armata, e tra questa gente, educata come lui nella povertà e nella
fatica, aveva trovati non pochi valorosi guerrieri, ufficiali intrepidi
e fedeli, che altra ambizione non nudrivano che quella di rendere
potente il capo della loro famiglia, d'eseguire i suoi progetti, e di
essere gli stromenti del suo sublime ingegno[341]. L'armata di Sforza
era il suo regno, egli l'aveva formata, egli l'alimentava; era l'arbitro
assoluto de' suoi movimenti, facendole a vicenda abbracciare i più
opposti partiti, sicuro che giammai un solo ufficiale, un solo soldato
preferirebbe lo stato, cui temporariamente serviva, al suo generale. Lo
Sforza, che conosceva la sua potenza, non poneva limiti alla propria
ambizione. Non si proponeva già, come il duca Guarnieri, o come il conte
Lando, di arricchire i suoi soldati a spese dei popoli, levando sulle
città e sulle province grosse contribuzioni. Egli voleva regnare, e di
già aveva veduti altri avventurieri innalzarsi col loro valore al rango
di principi. Pandolfo Malatesti governava Brescia, Facino Cane ed Otto
Bon Terzo avevano regnato in Alessandria ed in Parma: la debolezza di
Giovanna e la lontananza del papa, aprivano al primo conquistatore tutte
le province dell'Italia meridionale; e lo Sforza accolse avidamente
l'alleanza di Pandolfo Alopo, che pareva sgombrargli la strada a nuove
grandezze.

  [341] I più rinomati di questi capitani erano Michelino e Michelotto
  Attendolo, Lorenzo. Santo-Parente, Luigi, Bosio, Foschino, ec. _Ann.
  Boninc. Miniat., p. 111._

Premeva al favorito ed al suo alleato che lo sposo della regina non
s'innalzasse oltre il rango assegnatogli nel contratto nuziale; e quando
Giacomo della Marca arrivò da Venezia a Manfredonia, lo Sforza gli si
fece incontro, determinato di non permettergli che prendesse altro
titolo che quello di conte. Ma i cortigiani dell'estinto re, invidiando
Alopo e lo Sforza, eransi recati in folla presso allo sposo della
regina, per prevenirlo contro i di lei favoriti. Giulio Cesare di Capoa,
uno de' conti d'Altavilla, che aveva raccolti molti de' soldati di
Ladislao, e che aspirava al comando delle armate, fu quello che si
adoperò con maggiore zelo contro lo Sforza; e col suo esempio trasse
tutti gli altri cortigiani a salutarlo col titolo di re. Di concerto con
questo principe, quando giunsero a Benevento, si azzuffò col
contestabile, onde furono ambidue arrestati per avere sguainate le spade
nel palazzo del monarca; ma Giulio Cesare venne subito rilasciato, e lo
Sforza gettato in oscuro carcere[342].

  [342] In agosto del 1415. — _Leodrisii de Vita Sfortiæ Vicecomitis,
  p. 666. — Giornali Napoletani, p. 1077._

Il 10 agosto si celebrò il matrimonio di Giacomo della Marca e di
Giovanna II, la quale, intimidita dal caso dello Sforza, acconsentì che
il marito prendesse il titolo di re. Questi infatti, determinato avendo
di voler regnare e riformare i costumi della consorte e della sua corte
coi più severi provvedimenti, fece carcerare Pandolfo Alopo, e
sottoporre alla tortura, per istrappare dalla sua bocca la confessione
delle debolezze della regina; dopo di che lo fece perire con crudele ed
ignominioso supplicio[343]. Lo Sforza pure, posto alla tortura, non
sarebbesi sottratto alla morte, se sua sorella Margarita, moglie di
Michelino Attendolo, non faceva arrestare quattro ambasciatori
napoletani che passavano presso al suo campo, e non dichiarava che gli
avrebbe trattati nello stesso modo che sarebbe stato trattato suo
fratello[344].

  [343] _Leodrisius Cribellius de Vita Sfortiae, p. 667. — Giornali
  Napoletani, p. 1077._

  [344] _Ann. Bonincontrii Miniatensis, p. 110._

Il re, per indole diffidente e crudele, superati aveva i consigli e
l'aspettazione de' cortigiani; teneva la regina gelosamente custodita
quasi prigioniera nel suo palazzo, dandola in guardia ad un cavaliere
francese che mai non l'abbandonava. Giulio Cesare di Capoa però
ingannando quest'argo, ottenne di parlarle senza testimonj. «Io ero ben
lontano, diss'egli alla regina, di prevedere la schiavitù in cui vi vedo
precipitata dall'imprudente consiglio da me dato al re; ero ben lontano
dal supporre che Alopo e Sforza non sarebbero allontanati dalla corte
che per cedere il loro luogo ai Francesi, e che tutti gl'impieghi dello
stato caderebbero nelle loro mani. Ma se ho commesso questo primo fallo,
dipende altresì da me il porvi riparo. Io posso trarvi dalla vostra
prigione e rendervi lo scettro, che vi fugge di mano; basta che voi
giuriate soltanto di avere per ben fatto quanto io sono per operare in
vostro vantaggio.» La regina promise quanto voleva Giulio Cesare, e
seppe allora che questi voleva uccidere suo marito. Per altro bentosto,
o perchè spaventata fosse da tale attentato, o perchè diffidasse di
Giulio Cesare, o perchè volesse di lui vendicarsi, la regina palesò al
re Giacomo l'offerta fattagli da questo signore. Il re si nascose nel
gabinetto di Giovanna, per udire, senz'essere veduto, ciò che il conte
d'Altavilla le direbbe in una seconda conferenza; e dopo di avere udite
le sue proposte, lo fece prendere, e lo mandò al supplicio con tutti i
congiurati che aveva nominati[345].

  [345] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ, p. 672. — Ann.
  Bonincontrii Miniat., p. 112. — Gior. Napoletani, p. 1078. —
  Giannone Stor. Civile, l. XXV, c. 1, p. 419._

Colla rivelazione di questo segreto avendo la regina alquanto ricuperata
la confidenza del marito, ottenne dopo un anno di riclusione la licenza
di assistere ad una festa che un mercante fiorentino le aveva preparato
nel suo giardino il 13 settembre del 1416. Il popolo, che sempre detesta
un governo straniero, non sapeva tollerare l'autorità che si arrogavano
il re Giacomo, ed i suoi Francesi. Fu vivamente commosso allorchè vide
comparire la regina sopra un cocchio scoperto, triste, scolorita, e
simile ad una prigionera; i nobili invitarono i borghesi a
spalleggiarli, e tutt'insieme diedero mano alle armi per liberare dalla
prigionia la loro sovrana. Costrinsero le sue guardie a condurre il
cocchio all'arcivescovado, indi le fecero aprire il palazzo della
Capuana, mentre il re minacciato fuggì al castello dell'Uovo. Colà non
potendo sostenere un assedio, trattò sotto la guarenzia della città
cogl'insorgenti, rinviò quasi tutti i Francesi che aveva seco condotti,
e restituì alla regina la suprema amministrazione degli affari ch'egli
si era usurpata[346].

  [346] _Giornali Napoletani, p. 1078. — Leodrisii Cribellii de Vita
  Sfortiæ Vicecomitis, p. 673. — Ann. Bonin. Miniat., t. XXI, p. 112.
  — Ist. Civile di Napoli, l. XXV, c. 1, p. 420._

La regina non poteva far a meno d'un favorito, onde non ebbe appena
ricuperata la libertà che s'affezionò a ser Gianni Caraccioli, cui diede
la carica di gran siniscalco già occupata da Pandolfello Alopo. Tale
scelta era meno indegna della prima; perciocchè alle qualità fatte per
piacere a Giovanna, univa il Caraccioli somma prudenza; onde l'amante
della regina potè acquistarsi l'amore della nobiltà e del popolo. Nello
stesso tempo era stato liberato di carcere lo Sforza, e ristabilito
nella carica di gran contestabile: ottenne in feudo la città di Troja ed
altre ragguardevoli terre nel suo vicinato col titolo di conte[347]; e
subito dopo venne incaricato di combattere contro un rivale degno di
lui.

  [347] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Vicecomitis, p. 674. —
  Giannone Storia Civile, l. XXV, c. 2, p. 423._

Un altro capitano di ventura, che non meno dello Sforza era amato dai
proprj soldati, prese nello stesso tempo a fondare in Toscana un nuovo
principato. Braccio di Montone era stato incaricato da Giovanni XXIII di
mantenergli fedele lo stato di Bologna, allorchè questo pontefice era
partito alla volta di Costanza; Braccio illustrò la sua dimora in
Toscana con brillanti spedizioni contro i signori di Forlì, di Ravenna e
di Rimini, ch'erano nemici del pontefice, e che volevano approfittare
della sua lontananza per ingrandirsi[348]. Per altro ogni volta che
Braccio lasciava Bologna, que' cittadini prendevano le armi per riavere
la libertà; ma il suo sollecito ritorno gli sforzava a soggiacere
nuovamente al giogo che detestavano[349]. Frattanto Giovanni XXIII fu
deposto e chiuso in carcere, onde gli stessi suoi partigiani perdettero
la speranza di vederlo giammai ricuperare la tiara; i Bolognesi
incoraggiati da Antonio e da Battista Bentivoglio, e da Matteo de'
Canedoli, presero un'altra volta le armi il 5 gennajo del 1416 per
sottrarsi ad un giogo straniero[350]. Ossia che Braccio non isperasse di
potere vincere la resistenza degli abitanti, o che più non si credesse
in debito di mantenerli ubbidienti a Giovanni XXIII, si accontentò di
trattare con loro. Il papa gli aveva accordati in feudo alcuni castelli
del territorio bolognese, che Braccio vendette alla città per trenta
mila fiorini; si fece pure rendere cinquantadue mila fiorini di soldi
arretrati a lui dovuti, ed a tali condizioni consegnò ai Bolognesi la
loro cittadella, ed il godimento dell'antica libertà. Tutti coloro che
erano stati esiliati sotto il governo di Baldassar Cossa, vennero
richiamati e ristabiliti in tutti i diritti di cittadinanza[351].

  [348] _Vita Brachii Perusini a J. Campano, t. XIX, l. III, p. 502. —
  Chron. Foroliviense Fratr. Hieronimi, t. XIX, p. 884. — Annales
  Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 108._

  [349] _Vita Brachii Perus., p. 505._

  [350] _Cherubino Ghirardacci Storia di Bologna, l. XXIX, t. II, p.
  603._

  [351] Il trattato fatto con Braccio è riferito dal Ghirardacci, _l.
  XXIX, p. 606_. Il fiorino viene valutato 39 soldi bolognini. _Cron.
  di Bologna, t. XVIII, p. 606. — Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ
  Vicecomitis, t. XIX, p. 670. — Chron. Foroliviense Frat. Hieronimi,
  t. XIX, p. 885. — Mathei de Griffonibus Memor. Hist., t. XVIII, p.
  223. — Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 111._

Braccio, che aveva arricchiti i suoi soldati colle spedizioni di
Romagna, e che riceveva dai Bolognesi una ragguardevole somma di danaro,
determinò di condurre la sua armata ad un'intrapresa ch'egli aveva da
lungo tempo meditata, e che sempre per diversi motivi aveva dovuto
differire. I Perugini che avevano esiliato Braccio, e che da
ventiquattro anni si trovavano in guerra colla nobiltà e col partito de'
Baglioni, più non pensavano all'inimicizia di quest'illustre emigrato
perchè lontano. Essi avevano riavuta la loro libertà dopo la morte di
Ladislao, e se la godevano così tranquillamente dopo la deposizione di
Giovanni XXIII, che avevano perfino licenziato Ceccolino dei Michelotti,
loro compatriotto, che aveva lungo tempo avuto il comando de' loro
soldati. Braccio per addormentarli nella piena loro sicurezza trattava
di mettersi ai servigi del duca di Milano, e mandava perfino parte de'
suoi equipaggi in Lombardia: ma frattanto aveva celatamente preso al suo
soldo il Tartaglia, che allora trovavasi in Frascati con sei cento
cavalli; promettendogli d'ajutarlo a conquistare i feudi dello Sforza,
che di quei tempi trovavasi in carcere a Napoli. Questa fu la prima
origine delle nimicizie tra questi due capitani, inimicizia che divise
tutte le truppe d'Italia in due scuole ed in due fazioni rivali[352].
Braccio, attraversando rapidamente la Romagna, valicò gli Appennini e
presentossi innanzi a Perugia affatto inaspettato. Aveva di già occupati
i ponti del Tevere e spinte le sue pattuglie fino alle porte della città
prima che i Perugini sapessero da quale nemico erano attaccati[353].

  [352] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Vicecomitis, p. 670. —
  Ann. Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 113._

  [353] _Vita Brachii Perus., t. XIX, p. 506._

Braccio per approfittare della loro sorpresa diede più assalti alle
mura, ma venne sempre respinto con perdita: i suoi soldati penetravano
facilmente nei sobborghi, di dove era d'uopo salire il pendio per
giugnere alla città, ed una grandine di pietre e di tegole, che venivano
scagliate da tutte le finestre e da tutti i tetti, li forzavano a
rinculare[354]. I Perugini avevano chiesto soccorso a Paolo Orsini ed a
Carlo Malatesta; e mentre questi andavano adunando i loro soldati,
invocarono ancora la mediazione dei Fiorentini. Questi, siccome antichi
amici ed alleati di Braccio, lo avevano assistito nelle precedenti sue
guerre contro Perugia, in allora soggetta a Ladislao; ma dopo che i
Perugini ebbero ricuperata la libertà, i Fiorentini desiderarono di
proteggerli, e mandarono deputati a Braccio intromettendosi a loro
favore; non credettero però di venire ad aperta rottura con un alleato
per difendere contro di lui la causa dei proprj nemici[355].

  [354] _Vita Brachii Perus., t. XIX, p. 508, 505._.

  [355] _Ivi, p. 514._

Frattanto tutto il territorio di Perugia era stato successivamente
sottomesso dalle armi di Braccio, avendo riconosciuta la sua autorità
cento venti castelli ed ottanta villaggi[356]. La città trovavasi
assediata; ed i magistrati per risparmiare il sangue de' cittadini
avevano severamente vietato di uscire dalle mura e di combattere;
avevano inoltre fatto murare quasi tutte le porte; ma i Perugini erano i
più bellicosi popoli dell'Italia, e quando i soldati di Braccio venivano
a provocarli, saltavano armati giù dalle mura, o si facevano calare con
una fune al basso, per non parere di soverchiare i loro nemici
conservando il vantaggio del terreno[357].

  [356] _Ivi, p. 517._

  [357] _Vita Brachii Perus., t. XIX, p. 518._

Carlo Malatesta, avendo messi insieme a Rimini due mila settecento
cavalli, avanzava dalla banda di Assisi, ed aveva sotto i suoi ordini
Agnolo della Pergola, che aveva opinione di essere uno de' più valorosi
capitani del suo tempo. Ceccolino dei Michelotti aveva adunati mille
cavalli a Spello, nell'Umbria, e Paolo Orsini era partito da Roma per
soccorrere Perugia, e di già credevasi vicino a Narni. Braccio attaccò
bruscamente l'armata di Ceccolino, a Spello; ma non potè forzarla ne'
suoi trinceramenti, nè impedirle in seguito di unirsi al Malatesta.
Tentò almeno di venire a battaglia con questi due generali prima che
loro si aggiugnesse ancora l'Orsini, ed il 7 luglio del 1416 si schierò
in un angusto piano fra sant'Egidio ed il Tevere in sulla strada
d'Assisi.

I più celebri generali ed i migliori soldati d'Italia trovaronsi gli uni
contro gli altri in quasi egual numero da ambo le parti; ma la
condizione di Braccio era più pericolosa, perchè i Perugini potevano
fare una sortita ed attaccarlo alle spalle, o poteva sopraggiugnere
Paolo Orsini e raddoppiare il numero de' suoi nemici. Le due armate,
della medesima nazione, del carattere medesimo, non avevano nè più
impetuoso, nè maggiore accanimento l'una dell'altra. Braccio divise la
sua armata in piccoli corpi assolutamente indipendenti gli uni dagli
altri, che attaccavano isolatamente, ed in appresso ritiravansi per
rifare i loro ranghi, indi tornar di nuovo all'attacco; il Malatesta,
secondo l'antica tattica, non fece che tre corpi della sua armata, cioè
le due ali ed il centro. Da una parte la battaglia rinnovavasi senza
interrompimento, dall'altra una parziale vittoria non decideva della
giornata. Inoltre Braccio aveva fatto apparecchiare moltissimi
recipienti pieni d'acqua per abbeverare i suoi cavalli e rinfrescare i
soldati dopo ogni scaramuccia, senza che per ciò fare fossero costretti
di rompere i loro ranghi. La pugna durò sette ore nel mese di luglio,
sotto un ardente sole, e in mezzo ad un aere tutto ingombro di polvere.
I soldati del Malatesta, che vedevano scorrere il Tevere in distanza di
soli cinquecento passi non potevano resistere alla tentazione di andare
colà a dissetarsi, e ruppero le loro ordinanze. Braccio approfittò di
quest'istante per piombare impetuosamente sopra di loro[358]. Il
Tartaglia da una banda, e gli emigrati perugini dall'altra ne
rovesciarono moltissimi nel fiume; ed il solo Agnolo della Pergola
riuscì ad aprirsi un passaggio con circa quattrocento cavalli, restando
Carlo Malatesta prigioniere con due nipoti e circa tre mila cavalieri.
Ceccolino dei Michelotti, che aveva avuta la stessa disgrazia, perchè
era l'oggetto del personale odio di Braccio, siccome colui ch'era capo
in Perugia d'un partito da lungo tempo a Braccio nemico, fu, per quanto
comunemente si crede, ucciso in carcere[359]. I Perugini, scoraggiati
della disfatta dei loro ausiliarj, otto giorni dopo aprirono le loro
porte a Braccio di Montone, riconoscendolo per loro signore e
richiamando tutti i fuorusciti. Il 19 luglio Braccio fece il suo solenne
ingresso nella conquistata città, seguito dalla nobiltà emigrata già da
24 anni e dalle vittoriose sue truppe. Accettando la sovranità della sua
patria, promise di conservare le sue antiche leggi e parte della sua
libertà[360].

  [358] _Vita Brachii Perus., l. III, p. 521. — Leodrisii Cribellius
  Vita Sfortiæ Vicecomitis, p. 672. — Andreæ Billii Hist. Mediol., l.
  III, p. 52. — Cron. Foroliviense Fratris Hieronymi, t. XIX, p. 886._

  [359] _Ann. Bonincontrii Miniatensis, t. XXI, p. 111._

  [360] _Vita Brachii Perus., l. IV, p. 539. — Ann. Sanesi Anonimi, t.
  XIX, p. 426. — Scip. Ammirato Stor. Fior., l. XVIII, p. 976._

E veramente Perugia non si era assoggettata ad un tiranno simile ai
Visconti o agli altri usurpatori di Lombardia. Braccio di Montone era un
grande capitano; e se dobbiamo prestar fede al suo biografo, era pure un
grand'uomo ed un buon sovrano. Durante l'assedio di Perugia aveva
occupato Todi; non molto dopo si diedero a lui spontaneamente Rieti,
Narni ed altri castelli dell'Umbria. Paolo Orsini, sorpreso a Colle
Fiorito da Tartaglia e da Luigi Colonna, fu ucciso combattendo o forse
assassinato il 5 agosto del 1416, e la sua armata dispersa[361]. Carlo
Malatesta ed i suoi nipoti dopo cinque mesi di prigionia si riscattarono
pel prezzo di ottanta mila fiorini; Spoleti e Norcia pagarono
contribuzioni al loro potente vicino, e tutta l'Umbria riconobbe
l'autorità di Braccio di Montone[362].

  [361] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 542. — Ann. Bonincontrii
  Miniat., t., XXI, p. 111._

  [362] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 545. — Chron. Foroliviense
  Frat. Hieron., p. 886. — Annales Foroliv., t. XXI, p. 210._

Per attaccare il popolo alla sua gloria, volle Braccio che tutte le
città da lui conquistate mandassero a Perugia, il giorno dell'apertura
de' gran giuochi, un tributo con una bandiera portante il loro stemma.
Erano questi giuochi una specie di torneo proprio agli abitanti di
questa città, che Braccio ristabilì in tutta la sua pompa, persuaso che
nulla era più proprio a mantenere il bellicoso carattere de' suoi
concittadini. L'alta e la bassa città formavano due affatto separati
quartieri, che in primavera periodicamente combattevano tutti i giorni
di festa per solo amore di gloria e non per ispirito di partito. La
battaglia si cominciava da due corpi di truppa leggermente armati, e
lanciavansi pietre, e cercavano di pararne i colpi con un largo
mantello, che i veliti ravvolgevano intorno al sinistro braccio. In
appresso due falangi di più pesanti armature coperte entravano in
piazza. Sotto ad una compiuta armatura di ferro i combattenti portavano
cuscinetti pieni di cottone o di stoppa per ammorzare i colpi. Ogni
corazziere teneva una lancia senza ferro colla mano destra, e colla
sinistra uno scudo, servendosene a vicenda per ferire e per parare i
colpi. La vittoria era di coloro che giugnevano ad occupare il mezzo
della piazza, e quand'era terminato il tempo assegnato alla battaglia un
araldo d'armi divideva i combattenti abbassando tra di loro uno
steccato, e proclamava il vincitore. Talvolta ancora una delle due parti
si dava per vinta e mandava a chiedere pace. Due ore venivano destinate
alla battaglia de' fanciulli, onde renderli bellicosi fino
dall'infanzia; tre ore a quella dei giovinetti ed il rimanente del
giorno a quella degli uomini fatti. Malgrado la forza, delle armi
difensive e la debolezza delle offensive, non terminava mai il giorno
senza che si spargesse sangue. Ogni giorno dieci in venti uomini
cadevano morti o feriti; ma non perciò fra le due parti conservavasi
verun rancore; e quando la festa era finita, tutte le vicendevoli
ingiurie venivano scordate[363]. Così a Pisa, ov'erano in uso
somiglianti mischie sul ponte di marmo, abbiamo veduto ancora nel 1807
le parti di santa Maria e di sant'Antonio combattere con un accanimento,
che ricordava i tempi di emulazione, d'energia e di gloria della
repubblica.

  [363] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 547._

Braccio aveva sotto i suoi ordini molti illustri capitani attaccati alla
sua fortuna; Niccolò Piccinino, che cominciò a militare come semplice
soldato sotto le sue insegne, aveva date tali prove d'ingegno e di
valore, che di già gli era affidato un importante comando[364]; il
Tartaglia, buon soldato e mediocre generale, era miglior esecutore degli
altrui progetti, che capace di formarne egli medesimo; finalmente
Michele Attendolo, fratello dello Sforza, che in tempo che questi
trovavasi in carcere a Napoli, venne a porsi al soldo di Braccio. Ma
quando volle questi dare al Tartaglia i feudi di casa Sforza, Michele
abbandonò Braccio per andare a difendere il patrimonio della propria
famiglia; e, sagrificato dal suo capo, trovò soccorsi nell'amicizia di
suo fratello d'armi Niccolò Piccinino, che gli prestò danaro per armare
la sua piccola truppa[365].

  [364] _Petti Candidi Decembrii Vita Nicolai Piccinini, t. XX, p.
  1053._

  [365] _Leodrisii Cribellii Vita Sfortiæ Vicecom., p. 671. — Ann.
  Boninc. Miniat., t. XXI, p. 113._

Nella vegnente campagna Braccio si avanzò verso Roma, che durante la
vacanza della santa sede non aveva sovrano. Presentossi innanzi alla
città il 3 giugno del 1417 chiedendo che fosse affidata alla sua
custodia, finchè un nuovo papa venisse personalmente a prendere possesso
della sua capitale. Giacomo Isolani, cardinale di sant'Eustachio e
legato di Roma persuase i Romani a chiudere le porte ed a difendersi.
Vero è che fu presto forzato di ritirarsi in Castel sant'Angelo, ed a
permettere a Braccio l'ingresso in città, il quale prese il titolo di
difensore di Roma, e nominò un nuovo senatore[366].

  [366] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 545. — Leodrisii Cribellii
  de Vita Sfortiæ Vicecomitis, p. 672. — Diarium Romanum, t. XXIV, p.
  1061._

Frattanto lo Sforza non era più prigioniero a Napoli, e trovavasi ancora
alla testa delle truppe del regno e delle proprie. Desiderava
l'occasione di vendicarsi di Braccio, che accusava di avere vilmente
approfittato della sua disgrazia per ispogliarlo. Dietro gli ordini
della regina Giovanna, si pose in marcia con un grosso esercito per
iscacciare il suo rivale da Roma, e liberare il cardinale Isolani. Una
malattia, che cominciava a dilatarsi tra i soldati, consigliò Braccio
alla ritirata prima di venire alle mani col suo nemico. Ma l'odio che
questi due capi si erano giurato parve raddoppiarsi, in Braccio perchè
costretto di fuggire, nello Sforza perchè non poteva mandare ad effetto
la vendetta che aveva sperato di fare[367].

  [367] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ, p. 679. — Diarium
  Romanum Antonii Petri, t. XXIV, p. 1064._



CAPITOLO LXIII.

      _Papa Martino V viene a stabilire la sua dimora in Firenze; di
      concerto collo Sforza vuole rilevare in Napoli il partito
      d'Angiò, mentre Giovanna II adotta Alfonso d'Arragona. —
      Conquiste del duca di Milano in Lombardia; guerra degli
      Svizzeri._

1418 = 1422.


Dopo la morte del re Ladislao la repubblica fiorentina godeva una
costante tranquillità. Il partito dell'oligarchia guelfa, che aveva
ripresa la superiorità nel 1382, mantenevasi in possesso dell'autorità
suprema col credito che gli avevano dato le brillanti sue conquiste.
Mentre egli governava lo stato, Pisa, Arezzo e Cortona erano state
assoggettate ai Fiorentini, ed i confini della repubblica si erano
allargati da ogni lato molto al di là de' suoi antichi limiti. La metà
della Toscana ubbidiva alla signoria; e mentre che gli stati vicini
erano oppressi dalle calamità della guerra, i soli Fiorentini vivevano
felici sotto una potente protezione; l'agricoltura faceva prosperare le
campagne; le città erano animate da numerose manifatture; ed i capi
dello stato, quasi tutti dediti al commercio, accumulavano immense
ricchezze, che l'eguaglianza repubblicana loro non permetteva di erogare
senza pubblico vantaggio. Le leggi sontuarie reprimevano il lusso e
permettevano la magnificenza. I principali cittadini, le loro spose e
figlie andavano per la città a piedi; frugale era la loro mensa;
semplici e modeste le vesti, e sempre le medesime; non era loro permessa
nè l'insolente pompa de' servitori, nè vistosi cavalli e carrozze, nè
vesti di porpora, nè ricami, nè giojelli; ma potevano bensì a voglia
loro consacrare al divin culto sontuosi templi, o innalzare palazzi la
di cui magnificenza ne paraggiasse il buon gusto; e la scuola
d'architettura di Firenze si lasciò bentosto a dietro tutte le sue
rivali. I cittadini erano in libertà di ornare questi palazzi di
sculture e di quadri, e di raccogliervi preziose biblioteche; bentosto
artisti, che forse non saranno mai superati, rinnovarono la gloria de'
pittori e scultori d'Atene, e bentosto i dotti recarono a Firenze
preziosi manoscritti dall'Oriente, dal Ponente e dal Settentrione. Lo
stesso commercio rese utili servigi alle scienze; perciocchè le navi che
si spedivano a Costantinopoli, ad Alessandria, ec. con istoffe di
Firenze, tornavano frequentemente cariche delle opere di Omero, di
Tucidide, o di Platone.

Dopo l'espulsione dei Ciompi, Maso degli Albizzi era sempre stato alla
direzione della repubblica. Mentre trionfava la fazione nemica, egli
aveva sofferta una lunga serie di disgrazie. Suo zio aveva perduta la
testa sul patibolo, siccome molti de' suoi amici, le sue case erano
state incendiate, ed egli medesimo cacciato in esilio. Ma dopo il suo
ritorno la fortuna volle compensarlo delle sofferte calamità con
trentacinque anni di prosperità e di gloria. Egli era l'anima di tutti i
consigli della repubblica; amici di lui degni lo circondavano, e lo
ajutavano, e conoscendo la penetrazione del suo ingegno ed il vigore del
suo carattere, mai non osarono di venire in concorrenza con lui. Durante
la sua amministrazione la repubblica aveva fiorito; i nemici degli
Albizzi erano stati severamente puniti per i mali che gli avevano fatto;
gli Alberti e tutti i loro partigiani erano stati esiliati, ammoniti, o
spogliati d'ogni autorità; e per ultimo le private ricchezze di Maso
eransi accresciute di pari passo colla pubblica fortuna, quand'egli morì
del 1417 in età di 70 anni, carico di beni e di onori[368].

  [368] _Scipione Ammirato Stor. Fior., l. XVIII, p. 977._

Niccola d'Uzzano, suo amico e contemporaneo, gli successe nell'opinione
di cui godeva presso la repubblica, e la conservò fino al tempo in cui
Rinaldo, figliuolo di Maso Albizzi, potè occupare ne' consigli il posto
di suo padre. Contavansi inoltre tra i capi dello stato, Bartolommeo
Valori, Nerone de' Nigi Diotisalvi, Neri di Gino Capponi, e Lapo
Niccolini[369]. Vero è che nelle liste dei priori punto non vedonsi i
loro nomi occupare distinte cariche, perchè le popolari elezioni e la
sorte uguagliavano tutti i cittadini, ma qualunque volta i pericoli
dello stato facevano nominare i decemviri della guerra, i capi del
partito degli Albizzi occupavano i primi posti in quest'importante
magistratura[370]. Inoltre qualunque volta ancora con autorizzazione del
parlamento nominavasi una balia per formare di nuovo le borse d'elezione
della magistratura, i capi del partito Albizzi presiedevano allo
scrutinio, ed avevano cura di chiamare i loro amici alla signoria,
escludendo tutte le persone della contraria parte; ed in particolare
ricusarono ostinatamente di ammettere agli ufficj pubblici le tre
famiglie degli Alberti, dei Ricci, de' Medici. Gli Albizzi, nel
principio della loro amministrazione e finchè la memoria del tumulto de'
Ciompi ispirava ancora lo spavento, avevano approfittato della pubblica
animosità, per ispogliare queste famiglie di parte dei loro beni, per
esiliare i più distinti loro capi, e per privare gli altri membri degli
onori dello stato. Ma di mano in mano che andavasi dileguando la memoria
di quella rivoluzione, il favore pubblico si attaccava di nuovo agli
antichi difensori del partito popolare. I progressi della generale
prosperità avevano procurata l'agiatezza ed una signorile educazione ai
figliuoli di coloro che nel 1378 formavano l'ultima classe del popolo; e
questi vantaggi si erano guadagnata la pubblica considerazione, di modo
che non vedevansi senza risentimento persone distinte per ricchezze e
per istruzione escluse dalle cariche, che avevano occupate i loro padri
quando altro non erano che poveri artigiani. E come è della natura delle
oligarchie di andarsi sempre più ristringendo, così è proprio loro
carattere l'andar sempre eccitando una più viva gelosia.

  [369] _Macchiavelli Istor. Fior., l. IV, p. 5. — Vita Nerii Capponii
  a Barthol. Platina, t. XX, p. 479._

  [370] Osservinsi le liste dei dieci della guerra dell'anno 1363
  all'anno 1478, t. XIV. _Delizie degli Eruditi Toscani, p. 284.
  Monumenti._

In mezzo alle sofferte persecuzioni, la famiglia de' Medici non aveva
mai abbandonata la mercatura, onde aveva adunate immense ricchezze. Il
più distinto uomo di questa famiglia era Giovanni di Bicci. Ai talenti
amministrativi aggiugneva Giovanni tanta dolcezza e moderazione, che si
era guadagnato l'amore perfino de' nemici della sua famiglia. Tre volte
dopo il 1402 aveva seduto come priore nella signoria[371], e suo figlio
Cosimo, cui era serbato maggior lustro, ottenne pure lo stesso onore
l'anno 1416[372]. Giovanni aveva inoltre fatto parte della magistratura
dei dieci della guerra[373]; ma fu lungo tempo tenuto lontano dal
supremo rango di gonfaloniere di giustizia. Finalmente ottenne anche
questa carica in settembre del 1421[374], e tale condiscendenza del
partito aristocratico, eccitò trasporti di gioja nel popolaccio, il
quale credeva d'aver ricuperato il suo vindice.

  [371] L'anno 1402, 1408 e 1411. — Vedansi le liste dei priori.
  _Deliz. degli Erud., t. XVIII, p. 210, 310, t. XIX, p. 20._

  [372] _Ivi, t. XIX, p. 36._

  [373] L'anno 1414. _Monumenti, t. XIV, p. 296._

  [374] _Priorato, t. XIX, p. 56._

Ma Giovanni, invece di cercare di farsi un partito nell'opposizione,
secondò le politiche viste del governo in tutte le diverse cariche
ch'egli occupò. Erano di que' tempi tutte pacifiche, ed i Fiorentini
erano determinati a non prendere parte nelle diverse guerre che
squarciavano l'Italia. Lasciavano che la Lombardia andasse agitandosi in
una spaventosa anarchia fra i tiranni che si erano divisi gli stati di
Giovanni Galeazzo ed il figliuolo di questo duca, Filippo Maria, che
cercava di ricuperarli. Dopo la morte di Ladislao i Fiorentini avevano
rinnovate con Giovanna di Napoli le antiche alleanze che avevano coi re
delle due Sicilie. Erano uniti con istretta amicizia a Braccio di
Montone, il valoroso capitano che si era formato uno stato ai loro
confini, e che aveva promesso di venire a comandare al primo invito le
loro truppe. Trovarono inoltre conveniente d'assicurarsi altresì
dell'amicizia del papa, tostocchè l'elezione del concilio di Costanza
rese un capo alla Chiesa universale; e perchè nel lungo tempo dello
scisma, Roma e tutto lo stato ecclesiastico avevano scossa l'autorità
pontificia, i Fiorentini offrirono a Martino V un asilo nella loro città
finchè gli riuscisse di far valere i diritti de' suoi predecessori, e
finchè si credesse sicuro della ubbidienza de' suoi sudditi.

Martino V era partito da Costanza fino dal 16 di maggio del 1418; ma
egli viaggiava lentamente assai onde avere il tempo di negoziare in
tutti i paesi che attraversava, e di riunire alla santa sede i popoli
che in tempo dello scisma eransi accostumati ad una grandissima
indipendenza religiosa. Si trattenne in fatti a Berna, a Ginevra, a
Torino, a Milano, a Brescia, a Mantova, e non giunse a Firenze che il 26
febbrajo del 1419. Non volle tenere la strada di Bologna, perchè
risguardava questa città come ribelle[375].

  [375] _Vita Martini V ex Codice Vaticano, t. III, p. II, Rer. Ital.,
  p. 857-862._

Il principale oggetto delle sollecitudini del papa era quello di
assicurare i suoi diritti alla cattedra di san Pietro contro i due
rivali che ancora gli restavano. Benedetto XIII, chiuso nella fortezza
di Paniscola e protetto dal re d'Arragona, lo teneva sempre inquieto;
Giovanni XXIII, prigioniere in Baviera, aveva ancor esso de' segreti
partigiani, che risguardavano come calunniose le accuse presentate al
concilio contro di lui, e perciò violenta ed illegale la sua
deposizione. Altronde i Tedeschi, trattando colla Chiesa, avevano
mostrato un cotale spirito d'indipendenza, che Martino stava in timore
che non rendessero la tiara al suo rivale qualunque volta credessero
aver motivo di dolersi di lui[376]. Ottenne adunque colle sue istanze,
che Giovanni XXIII fosse trasportato in Italia, avendo intenzione di
farlo custodire in Mantova in un perpetuo carcere. Ma Giovanni,
viaggiando, trovò modo di fuggire; dall'asilo che aveva ottenuto nella
Liguria, si affrettò di scrivere al papa che riconosceva legittima la
sua elezione e la propria deposizione; ed la pari tempo implorava la
clemenza del suo successore. Gli amici che il fuggitivo teneva in
Firenze, ed in particolare Giovanni de' Medici, s'interposero presso
Martino affinchè si riconciliasse con un uomo, cui doveva il proprio
innalzamento, e di cui aveva difesa la causa fino all'istante in cui lo
aveva sagrificato alla propria grandezza. Gli rappresentarono che
l'unità della chiesa era meglio assicurata colla volontaria abdicazione
di Giovanni XXIII, che colla sua prigionia, e lo persuasero a promettere
al deposto papa un favorevole accoglimento in Firenze. Giovanni XXIII,
avendo ripreso il nome di Baldassar Cossa, venne il 13 maggio a gettarsi
ai piedi di Martino V, e dopo averlo pubblicamente riconosciuto per
legittimo papa, da lui ricevette nuovamente, dopo pochi giorni, il
cappello cardinalizio, e fu dichiarato il primo del sacro collegio. Ma
poco tempo si vide onorare la corte del suo successore, essendo morto,
alcuni mesi dopo la sua abdicazione, in Firenze, ov'ebbe dalla signoria
magnifici funerali[377].

  [376] _Leonardi Aretini Comment. de suo tempore, t. XIX, p. 930._

  [377] _Istor. Anon. di Firenze, t. XIV, p. 962. — Ann. Bonincontrii
  Miniat., t. XXI, p. 119. — Scip. Ammirato Stor. Fior., l. XVIII, p.
  983. — Vita Martini V ex additam. ad Ptolomeum Lucens., p. 863._

Martino V, mentre trovavasi ancora a Costanza, aveva accolti gli
ambasciatori della regina Giovanna di Napoli, venuti a prestargli
omaggio come ad abituale signore del regno; ed aveva mandato a questa
principessa suo nipote, Antonio Colonna, per affrettare la liberazione
del conte Giacomo della Marca, che la regina di lui consorte teneva
tuttavia in prigione. Il Colonna aveva contratta stretta dimestichezza
col nuovo amante della regina, ser Gianni Caraccioli, che ben più di
Giovanna regnava in Napoli; egli non ottenne che fosse liberato il conte
della Marca, ma un trattato assai vantaggioso per il papa e per la di
lui famiglia fu conchiuso col favorito. Obbligavasi la regina ad
assistere Martino con tutte le sue forze per fargli ricuperare lo stato
della Chiesa; prometteva al fratello ed al nipote del papa considerabili
feudi nel regno[378], ed ordinava allo Sforza, che a suo nome comandava
in Roma, di consegnare la città con Castel sant'Angelo, Civitavecchia,
Ostia e tutte le altre conquiste di Ladislao a Giordano Colonna,
fratello del papa, che ne prese possesso in di lui nome[379]. Questo
stesso Giordano con suo nipote Antonio e due cardinali recossi poi a
Napoli, ove dopo lunghi indugi, il 28 ottobre del 1419, coronò in nome
del papa la regina[380]. Antonio Colonna ebbe in ricompensa il
principato di Salerno, il ducato d'Amalfi, e fu ancora creduto, che la
regina lo lusingasse colla speranza di dichiararlo suo successore.

  [378] _Giannone Istor. Civile, l. XXV, c. 2, p. 427._

  [379] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ Attenduli, l. I, p. 682._

  [380] _Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1083._

Questa regina, che il papa aveva in tal modo solennemente riconosciuta,
aveva ben poca parte nel governo del suo regno. I suoi amanti ed i suoi
generali se ne disputavano il supremo potere, mentre essa non viveva che
per abbandonarsi alle sue licenziose passioni. Giacomo della Marca, suo
marito, ottenne alla fine, per l'intromissione del papa, d'essere
rilasciato dal carcere, ma per vivere in palazzo senza credito e
considerazione alcuna, e si può dire sotto la dipendenza di ser Gianni
Caraccioli, grande siniscalco e favorito di sua moglie. Egli vide con
piacere lo Sforza ed il Caraccioli armare l'uno contro l'altro le loro
antiche schiere e disputarsi colle armi in mano il possedimento della
regina. La nobiltà di Napoli, omai stanca di portare un vergognoso
giogo, sforzò i due rivali a rappacificarsi, e di già cominciava a dar
legge alla stessa Giovanna nel suo palazzo[381]. Giacomo si lusingò
d'interessare a suo favore quei popoli che per alcun tempo lo avevano
riconosciuto per loro re, e che parevano scontenti del presente governo.
Egli fuggì sotto mentite vesti in una galera genovese e recossi a
Taranto intenzionato di far ribellare alla regina le province
meridionali del regno; ma la regina Maria, vedova di Ladislao, che
trovavasi a poca distanza da questa città, venne ad assediarvi il
fuggitivo re. Giacomo si vide costretto ad imbarcarsi di nuovo; e,
tornato in Francia, vestì l'abito di san Francesco, e morì nel suo
convento l'anno 1438[382].

  [381] _Leodrisii Cribellii, l. II, p. 692. — Ann. Bonincontrii
  Miniat., p. 117._

  [382] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ, l. II, p. 693. — Istoria
  Civile del Regno di Napoli, l. XXV, c. 2, p. 429._

Giovanna, liberata di suo marito; avrebbe voluto disfarsi egualmente del
suo gran contestabile Sforza Attendolo, riuscendole molesta la di lui
rivalità col Caracciolo; onde acconsentì di buon grado che passasse
colla propria armata ai servigi di Martino V. Lo Sforza andò a Roma coi
valorosi che si erano a lui interamente affezionati; ricevette il titolo
di gonfaloniere della Chiesa, e si apparecchiò ad attaccare Braccio di
Montone, suo antico rivale, che il papa voleva ad ogni modo spogliare
del principato ch'egli si era formato con pregiudizio della Chiesa[383].

  [383] _Leodrisii Cribellii, l. II, p. 693. — Ann. Bonincontrii
  Miniat., t. XXI, p. 120._

Ma malgrado il sommo suo valore ed abilità poco poteva lo Sforza
guadagnare contro un uomo che poteva essergli maestro nell'arte delle
battaglie. Braccio, amato da' suoi soldati, temuto da' suoi vicini,
fedelmente ubbidito da' suoi sudditi, trovavasi sempre come in propria
casa in qualunque paese facesse la guerra. Egli conosceva e prevedeva
tutti i movimenti de' suoi nemici, mentre che i suoi erano da loro
ignorati: pareva ch'egli tutto vedesse senz'essere veduto. Seppe trarre
lo Sforza tra la propria e l'armata di Tartaglia, suo luogotenente, e
dopo avergli tolto un corpo d'infanteria, che i magistrati di Viterbo
mandarono al gonfaloniere del papa[384], lo attaccò in un angusto passo
tra Montefiascone e Viterbo, gli prese due mila trecento cavalieri e lo
inseguì fino alle porte di Viterbo, ove a stento potè lo Sforza
salvarsi[385].

  [384] _Leodrisius Cribellius Vita Sfortiæ Attenduli, p. 694._

  [385] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 555._

Martino V sollecitava la regina di Napoli a somministrare al suo
contestabile danaro e munizioni per rifare l'armata: ma il Caraccioli,
che aveva udita con piacere la disfatta del suo rivale, e che aveva
nuove cagioni di odiarlo, lungi dal permettere a Giovanna di soccorrere
lo Sforza, prese le opportune cautele per perderlo interamente[386]. Il
papa, adirato di vedersi sagrificato alle private vendette di un amante
della regina, nudriva altro segreto motivo d'odio, vedendo senza effetto
le speranze che aveva concepite per l'innalzamento della propria
famiglia, perchè rifiutavasi la regina di adottare, com'erasene
lusingato, per suo figlio Antonio Colonna, di lui nipote. Per vendicarsi
di Giovanna, risolse di cambiare tutte le sue alleanze e di favorire le
pretese di Luigi III d'Angiò sopra il regno di Napoli. Il malcontento
della nobiltà, l'odio dello Sforza, che voleva vendicarsi di Caracciolo,
e l'inquietudine del popolo, che vedeva la sua regina di già avanzata in
età senza eredi naturali, sembravano dover ravvivare le speranze della
casa d'Angiò ed annunciare la prossima caduta di quella di Durazzo.
Martino V, prima d'inoltrarsi in così delicati negoziati, risolse di
sbarazzarsi della guerra che aveva in su le braccia, ed accettò la
mediazione de' Fiorentini per riconciliarsi con Braccio di Montone[387].

  [386] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ, p. 699. — Giannone
  Istor. Civile, l. XXV, c. 3, p. 430._

  [387] _Poggio Bracciolini Hist. Florent., l. V, p. 322._

La signoria di Firenze nudriva la più alta stima per questo capitano,
che una antica alleanza attaccava alla repubblica, e la di cui fedeltà
non erasi giammai smentita; ella invitò Braccio a passare egli stesso a
Firenze per trattare col papa. Il viaggio del signore di Perugia, fatto
negli ultimi giorni di febbrajo del 1420, ebbe tutta l'apparenza di un
viaggio trionfale. I suoi compagni d'armi lo seguivano sopra magnifici
cavalli, ed erano riccamente vestiti di drappi di seta ricamati d'oro;
quattrocento cavalieri coperti di forbitissime corazze, quasi fossero
apparecchiati per un torneo lo accompagnavano: seguivano il loro signore
i deputati di Perugia, di Todi, d'Orvieto, di Narni, di Rieti e
d'Assisi, cercando a gara di superarsi l'un l'altro nella magnificenza
degli equipaggi; e camminavano a lato di Braccio i principi di Foligno e
di Camerino. La repubblica aveva apparecchiati lungo la strada alloggi e
vittovaglie per tutto questo sontuoso corteggio[388]; il popolo si
affollava sul di lui passaggio, ed applaudiva con trasporto all'eroe
sempre vittorioso, che aveva di fresco acquistata nuova gloria colla
rotta dello Sforza.

  [388] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 562._

Martino V nel suo lungo soggiorno in Firenze non aveva data alla
repubblica che una sola testimonianza della sua riconoscenza, innalzando
la sua chiesa alla dignità arcivescovile[389]. Altronde mostravasi
sempre severo e scontento, faceva conoscere un'abilità nel trattare gli
affari ed un egoismo, che stranamente contrastavano colla bontà e colla
semplicità, che gli si erano supposte quand'era cardinale[390]. Braccio
per lo contrario mostravasi pieno di riconoscenza per la città e per gli
ultimi cittadini che lo avvicinavano; il popolo ne ammirava l'affabilità
e la cortesia, e paragonando i due illustri ospiti, che Firenze
accoglieva nello stesso tempo entro le sue mura, preferiva altamente il
guerriero al prete; si deliziava nel vedere i tornei e le feste militari
che Braccio celebrava alle porte della città, e manifestava il proprio
sentimento con poesie lusinghiere pel generale, e piene di sarcasmo pel
papa, le quali questi mai non seppe perdonare ai Fiorentini. Due
sgraziati versi, ripetuti sotto le finestre di Martino V da alcuni
fanciulli, cancellarono la memoria di tatto quanto la signoria aveva
fatto per lui, e lo trassero a cercare nuovi amici e nuove
alleanze[391].

  [389] _Raynald. Ann. Eccles. an. 1420, § 2, t. XVIII, p. 26._

  [390] _Leon. Aretini Commenta de suo tempore, p. 930._

  [391]

    _Papa Martino_
    _Non vale un quattrino._

  _Leon. Aretini Comment., t. XIX, p. 931. — Scipione Ammirato Stor.
  Fiorent., l. XVIII, p. 987._

Per altro il pontefice accolse con bontà Braccio di Montone; accettò la
sua apologia per le passate ostilità, e ricevette il giuramento di
fedeltà per l'avvenire. Braccio restituì al papa le città di Narni,
Terni, Orvieto ed Orta, e ritenne in feudo sotto l'alto dominio della
Chiesa quelle di Perugia, d'Assisi, di Cannaria, di Spello, di Jesi, di
Gualdo e di Todi. Promise inoltre di condurre le sue truppe contro
Bologna, e di costringere questa città a tornare all'ubbidienza della
santa sede[392].

  [392] _Vita Brachii Perusini, l. IV, p. 566. — Vita Sfortiæ, p.
  699._

Il papa, dopo il suo ritorno in Italia, aveva trattato coi Bolognesi, ed
aveva acconsentito che conservassero la libertà[393]; ma quando potè
volgere contro di loro le armi di Braccio, colorì la sua aggressione col
pretesto d'una rivoluzione accaduta nella repubblica. Antonio Galeazzo
Bentivoglio, figlio di quel Giovanni, che aveva usurpata la signoria in
principio del secolo, aveva, come il padre, usurpata la signoria della
sua patria, scacciandone i Canedoli suoi rivali. Ma il di lui dominio
non ebbe lunga durata; il 26 di gennajo del 1420 aveva approfittato
d'una sedizione per usurpare la sovrana autorità[394], e prima che
terminasse il giugno dello stesso anno, era di già stato spogliato da
Braccio di tutti i suoi castelli, e ridotto ad abdicare la signoria,
aprendo le porte della sua capitale alle truppe del papa[395].

  [393] _Cherubino Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXIX, p. 623. —
  Cron. Miscella di Bologna, t. XVIII, p. 608._

  [394] _Cherubino Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXIX, p. 631. —
  Cron. Miscella di Bologna, t. XVIII, p. 609._

  [395] _Brachii Perus. Vita, l. V, p. 566. — Ghirardacci, l. XXIX, p.
  635. — Cron. di Bologna, p. 611. — Math. de Griffonibus Memoriale
  Historic., p. 227._

Circa lo stesso tempo Sforza Attendolo erasi pure recato a Firenze per
trattare con Martino V. A questo generale il pontefice affidò tutti i
suoi segreti, sperando colla di lui assistenza di vendicarsi della
regina Giovanna e del Caracciolo. Incontrò non pertanto qualche
difficoltà a persuaderlo ad abbandonare il partito di Durazzo, cui aveva
giurata fedeltà; per abbracciare quello d'Angiò[396]; ma gli
ambasciatori di Lodovico III, che trovavansi presso il pontefice,
ridussero lo Sforza a promettere i suoi servigi al loro padrone,
anticipandogli ragguardevoli somme, colle quali, messa insieme una nuova
armata, questo generale si avviò alla volta di Napoli. Quando giunse a
poca distanza di questa città restituì alla regina il bastone di gran
contestabile che aveva da lei ricevuto, dichiarandole, che per sottrarsi
ai capricci del Caraccioli, rinunciava a qualunque legame verso di lei,
e rivocava i giuramenti che le aveva prestati. Dopo tale dichiarazione,
credendosi sciolto da qualunque obbligo verso la medesima, proclamò
Lodovico III d'Angiò, re di Napoli, ricordando il suo ereditario
diritto, fondato nell'adozione di Giovanna I; invitò i baroni angioini e
tutti i partigiani dei re francesi ad unirsi a lui ed investì Napoli nel
mese di giugno dalla banda di porta Capuana[397].

  [396] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiæ, t. XIX, p. 700._

  [397] _Leodrisii Cribellii, t. XIX, p. 702. — Vita Brachii Perusini,
  l. V, p. 571._

Fa veramente sorpresa il vedere Lodovico d'Angiò scegliere per la
conquista d'un regno lontano il tempo in cui la sua patria era quasi
soggiogata da uno straniero. Il 21 maggio del 1420, Carlo VI, o
piuttosto il duca di Borgogna, in suo nome, aveva soscritto il trattato
di Trojes, col quale diseredava il Delfino, e trasferiva ad Enrico V
d'Inghilterra il diritto di successione alla corona di Francia. Di già
l'Inglese regnava omai in Parigi invece del monarca imbecille, di cui
aveva sposata la figlia; il Delfino erasi ritirato a Poitiers, e più non
veniva ubbidito che da alcune province poste al mezzodì della Loira,
quando Lodovico d'Angiò lo abbandonò, seco conducendo tutti i cavalieri
e soldati attaccati alla sua sorte, ed adunando tutto il danaro che potè
avere in mezzo alla miseria universale, per andare a far prova di sua
fortuna in un paese, in cui suo padre e suo avo non avevano provate che
sventure[398].

  [398] _Rymer conventiones litteræ et acta publica, t. IX, p. 894. —
  Histoire de France par Villaret, in 4.º, t. VII, p. 280._

Lodovico aveva armata, parte in Provenza e parte a Genova, una flotta di
nove galere e di cinque navi da trasporto; con questa flotta presentossi
in faccia a Napoli il 15 agosto, sorprendendo Castell'a Mare, mentre lo
Sforza occupava Aversa, che diventò il quartiere generale della parte
d'Angiò[399]. Il papa, ch'era l'anima di quest'intrapresa, e che colle
sue istigagioni aveva persuasi lo Sforza e Lodovico a cominciarla,
affettava ancora di mantenersi neutrale; e si offriva in qualità di
arbitro e di conciliatore, e ridusse Lodovico e Giovanna a mandargli
ambasciatori a Firenze per giustificare innanzi a lui i loro titoli.

  [399] _Leodrisii Cribelli de Vita Sfortiæ, p. 703._

Il deputato di Giovanna era Antonio Caraffa, cui lo spirito versuto e
dissimulato aveva fatto dare il soprannome di Malizia. All'istante
costui conobbe quali erano le vere disposizioni del pontefice, e ciò che
doveva da lui aspettarsi; ma nella sua corte medesima, e quasi sotto i
suoi occhi seppe trovare nuovi alleati alla sua sovrana, e suscitare a
Martino ed a Lodovico un avversario pericoloso.

Don Garzia Cavaniglia, gentiluomo valenziano era ambasciatore d'Alfonso
V, re d'Arragona, di Majorica, di Sicilia e di Sardegna, presso il papa.
Cercava di ottenere dalla corte di Roma la cessione dell'isola di
Corsica, che nello stesso tempo il suo padrone cercava di togliere colle
armi ai Genovesi. Il Malizia offrì all'Arragonese una corona più degna
della sua ambizione. Fece sentire a quest'ambasciatore, che Giovanna,
ultimo rampollo della prima casa d'Angiò, era padrona di disporre del
suo regno a favore di colui che adotterebbe per suo figliuolo; ch'era
disposta di dare così magnifica ricompensa a quegli che l'assisterebbe
nelle presenti circostanze, e che la politica e l'interesse de' suoi
popoli la consigliavano a cercare di preferenza l'amicizia del suo più
prossimo vicino. In forza della sua alleanza con Alfonso, le due Sicilie
sarebbero di nuovo riunite, e due popoli fratelli, divisi dopo i vesperi
siciliani, tornerebbero sotto un solo sovrano, disceso dal canto di
donna dagli eroi svevi e normanni, che prima avevano regnato nella
Puglia. Cavaniglia abbracciò avidamente il progetto di Malizia,
somministrò a quest'inviato della regina i mezzi di recarsi segretamente
presso Alfonso, in allora occupato nell'assedio del forte castello di
Bonifazio in Corsica. Il re d'Arragona, omai stanco della resistenza dei
Corsi, rinunciò volentieri ad una guerra senza gloria, per un'intrapresa
che annuciavasi sotto così favorevoli auspicj. Fece immediatamente
partire alla volta di Napoli diciotto galere con tre de' suoi migliori
generali, promettendo di seguirli egli stesso tra non molto[400].

  [400] _Leod. Cribellii Vita Sfortiæ, p. 705. — Ann. Bonincontrii
  Miniatensis, t. XXI, p. 122. — Giannone Ist. Civile, l. XXV, c. 3,
  p. 436._

Già da lungo tempo non si ebbe più occasione di parlare del regno di
Sicilia, che, perdendo le sue ricchezze e le sue forze sotto una serie
di deboli re, minori o insensati, più non aveva parte all'equilibrio
d'Italia. Federico II, il sesto re della razza arragonese dopo i vesperi
siciliani, era morto del 1368, lasciando sua sola erede la figlia Maria.
Questa portò la corona a Martino II, figliuolo del re d'Arragona, il
quale era morto senza prole l'anno 1409, onde suo padre, chiamato pure
Martino, riunì i due regni. Dopo di lui passarono nel 1410 a Ferdinando,
figliuolo di sua sorella e di Giovanni, re di Castiglia. Alfonso era
figliuolo di questo Ferdinando, ed aveva cominciato a regnare nel
1416[401]. Per una singolare fortuna questo principe ambizioso e
destinato a tanta gloria, era per così dire straniero a tutti i regni da
lui governati. In Arragona vedevasi con gelosia circondato dai
Castigliani che suo padre aveva con lui condotti, ed il desiderio di
sottrarli agli occhi del popolo e delle Cortès, non fu uno degli ultimi
motivi, che gli fecero intraprendere la spedizione di Corsica, ed in
appresso quella di Napoli[402].

  [401] _Tabulæ genealogicae ex Hieronymo Blanca. Hispania illustrata,
  t. III, tav. 4, 5, 6._

  [402] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 701._

Così cominciava nel regno di Napoli quella sanguinosa accanita contesa
fra i Francesi e gli Spagnuoli, che, inutilmente assopita, doveva di
quando in quando rinascere, comunicarsi all'intera Italia in sul finire
del quindicesimo secolo, ed essere cagione della ruina de' suoi stati
indipendenti. La rivalità tra le due case d'Arragona e d'Angiò doveva
più tardi coprire il regno di Napoli di soldati stranieri; ma da
principio i due pretendenti alla corona sostennero i loro diritti colle
armi italiane, approfittando della rivalità dei due grandi capitani,
Braccio di Montone e Sforza.

I luogotenenti di Alfonso si presentarono il 6 di settembre in faccia a
Napoli; ed al loro arrivo la flotta di Lodovico d'Angiò, trovandosi più
debole, si ritirò. Lo Sforza, che assediava Napoli col duca d'Angiò,
fece inutili sforzi per impedire lo sbarco degli Arragonesi, ma fu
costretto a ritirarsi; e Raimondo Periglios, comandante dell'armata
d'Alfonso, fu ricevuto da Giovanna colle più distinte dimostrazioni
d'onore, gli si affidarono Castel Nuovo, e Castello dell'Ovo, perchè li
tenesse in deposito pel suo padrone, ed il re d'Arragona venne
proclamato figliuolo adottivo della regina di Napoli, ed erede
presuntivo del regno[403].

  [403] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 705. — Giannone Ist.
  Civile, l. XXV, c. 3, p. 436. — Giornali Napoletani, t. XXI, p.
  1084. — Mariana Historia de las Españas, l. XX, c. II._

Giovanna ed Alfonso mandarono persone di comune confidenza a Braccio da
Montone per averlo con onorate condizioni al loro servigio; lo trovarono
già tornato a Perugia, intento ad abbellire quella città con sontuosi
edificj, mentre i suoi soldati erano distribuiti ne' quartieri d'inverno
nelle vicine borgate. Braccio, che aveva di fresco sposata la sorella
del signore di Camerino, non potè mettersi in campagna che nella
vegnente primavera (1421); ma si valse intanto del danaro rimessogli da
Alfonso per adunare nuovi soldati, ed in marzo, prendendo la strada
degli Abruzzi, entrò nel regno di Napoli[404].

  [404] _Vita Brachii Perusini a J. Campano, p. 576._

La Calabria e quasi tutta la costa orientale del regno aveva abbracciato
il partito d'Angiò; ma le battaglie che avevano luogo nelle province
erano di non molta importanza, limitandosi i signori feudatarj a
guastare di quando in quando il paese de' loro nemici. Intanto le truppe
vivevano a discrezione nelle campagne che attraversavano, e gravissimi
disordini tenevano dietro alle più leggeri scaramucce. La somma della
guerra riducevasi alle porte di Napoli, e colà recossi Braccio per
iscacciare d'Aversa lo Sforza e Lodovico d'Angiò. Fu accolto con mille
dimostrazioni d'onore da Alfonso, ch'era poc'anzi giunto ancor esso a
Napoli; ed essendo creato principe di Capoa, conte di Foggia e grande
contestabile del regno, si rese in breve padrone delle fortezze del suo
nuovo principato, la maggior parte delle quali trovavansi in potere del
nemico[405].

  [405] _Vita Brachii Perusini a J. Campano, l. V, p. 582. — Vita
  Sfortiae Vicecomitis, p 707._

Per altro l'avvicinamento dei due emuli re e di due grandi generali, in
così circoscritto spazio, non produsse quegli importanti avvenimenti che
si aspettavano. Lodovico III, stanco della sua inazione, passò a Roma
presso Martino V, ch'era venuto a soggiornare nella sua capitale in sul
finire del precedente anno. Braccio cercava di sedurre i generali dello
Sforza, e gli riuscì di staccare da lui Giacomo Caldora, gentiluomo
napolitano, che aveva mostrato estrema avversione alla regina. Tentò in
appresso il Tartaglia, che aveva altra volta militato sotto di lui, e
che lo aveva abbandonato per seguire lo Sforza; ma questi diffidando del
Tartaglia, lo fece arrestare; e dopo averlo assoggettato alla tortura,
lo condannò alla morte, alienando con tale crudele atto la metà de' suoi
soldati che amavano il Tartaglia[406].

  [406] _Leodrisii Cribellii Vita Sfortiae, p. 709._

Mentre la guerra più omai non si faceva che colla seduzione e
cogl'intrighi, la corte di Giovanna veniva agitata dalle segrete
pratiche del grande siniscalco Caraccioli. Vedeva questi con estrema
diffidenza il crescente potere di Alfonso, e temeva che questo principe
non lo trattasse un giorno come Giacomo della Marca aveva trattati altri
amanti della regina. Palesò parte delle sue gelosie a Giovanna, e
persuase questa principessa a trattare con Lodovico d'Angiò; e di già
parlavasi di rivocare l'adozione d'Alfonso, per sostituirgli il principe
francese[407]. Queste pratiche non rimasero lungamente ignote al
principe arragonese; e, nella universale diffidenza, questi pensava
soltanto ad assicurarsi delle avute fortezze contro la regina, Braccio a
dilatare i confini del suo principato di Capoa, lo Sforza a far vivere
le sue truppe a spese dei Napolitani; e l'anarchia poteva durar lungo
tempo, se Martino V non si stancava di sussidiare Lodovico d'Angiò.
L'armata dello Sforza era omai quasi affatto distrutta, e richiedevansi
ragguardevoli spese per rifarla. Alfonso minacciava di ricominciare lo
scisma facendo in tutti i suoi regni riconoscere Benedetto XIII, che
ancora viveva a Peniscola sempre pretendendo di essere il pontefice.
Lodovico, cedendo alle istanze del papa consegnò alla Chiesa le due
città d'Aversa e di Castellamare, le sole che gli si fossero conservate
fedeli. Poco dopo (1322) il papa le restituì alla regina, la quale
riprese ai suoi servigi lo Sforza, di cui voleva formarsi un appoggio
contro suo figlio adottivo, e che attaccandosi di nuovo alla regina non
lasciava di favorire segretamente la casa d'Angiò[408].

  [407] _Annales Bonincontrii, t. XXI, p. 124. — Giornali Napoletani,
  p. 1085._

  [408] _Vita Brachii Perusini, l. VI, p. 605. — Leodrisii Cribellii
  Vita Sfortiae, p. 713. — Ann. Bonincontrii, t. XXI, p. 126._

In questi quattro anni la Lombardia non era stata meno travagliata dalle
rivoluzioni di quel che lo fosse il regno di Napoli. Filippo Maria
Visconti, duca di Milano, era tutto intento a ricuperare le province che
ubbidivano a suo padre, e che si erano ribellate in tempo della minorità
sua e di suo fratello. Egli allora non prevedeva che lavorava pel figlio
di quello Sforza che aveva avuta tanta parte nelle rivoluzioni di
Napoli, e che in questo medesimo tempo, costretto a mutar partito,
perdeva quasi affatto il suo credito e la sua armata.

Il duca Filippo Maria conservava con un carattere più debole alcuni
tratti di Giovanni Galeazzo suo padre. Era la medesima effeminata
ambizione che facevagli sempre desiderare nuove conquiste, senza avere
il coraggio di avvicinarsi al suo esercito, o di mirare in faccia il
soldato nemico. Colla stessa perfida politica, colla stessa tortuosa
condotta ingannava i nemici e gli amici; aveva la stessa arte di
nascondere sotto ogni sua azione un secondo fine contrario a quello che
mostrava d'essersi proposto; finalmente al suo carattere basso e crudele
era, come in suo padre, congiunta una inaspettata generosità. Ma
distinguevano Filippo Maria dal padre una minore forza di volontà,
minore arte nella condotta de' suoi progetti e nella scelta de' mezzi,
minor conoscenza della amministrazione, minori talenti per sorprendere
il popolo e per farsi amare[409].

  [409] _Petri Candidi Decembrii vita Philippi Vicecomitis, c. 38 e
  seg., t. XX, p. 999._

Il primo uso che fece il duca di Milano delle forze, che andava
ricuperando, fu quello di liberarsi della sua benefattrice con non
minore crudeltà che ingratitudine. Beatrice Tenda, vedova di Facino
Cane, aveva portato al duca, sposandolo in seconde nozze, la sovranità
di Tortona, Novara, Vercelli ed Alessandria, ed il comando d'un numeroso
e ben disciplinato esercito, che aveva ristabiliti gli affari dei
Visconti. Se la dolcezza, la generosità, la pazienza, la nobiltà del
carattere, possono supplire in una donna alla gioventù ed alla bellezza,
Beatrice meritava d'essere amata; ma ella contava vent'anni più del
marito, il quale, oppresso dalla ricordanza dei beneficj della consorte,
stanco delle sue virtù, irritato dalla pazienza medesima ch'ella
opponeva ai suoi sregolamenti, l'accusò d'avere violata la fede
conjugale con uno de' più giovani cortigiani, cui strappò di bocca colla
tortura una falsa confessione. Il timore d'un atroce supplicio, o la
speranza d'acquistarsi il favore del sovrano con una calunnia,
persuasero questo giovane a rinnovare la sua confessione ai piedi del
palco, ove fu condotto colla duchessa in presenza della corte e del
popolo. «Siamo noi dunque in un luogo (soggiunse allora Beatrice con
fierezza) ove gli umani timori debbano superare il timore del Dio
vivente, innanzi al quale siamo vicini a comparire? Ho sofferti come
voi, Michele Orombelli, i tormenti coi quali vi è stata estorta quella
vergognosa confessione; ma quegli atroci dolori non ridussero la mia
lingua a calunniarmi. Un giusto orgoglio avrebbe preservata la mia
castità, quand'anche la mia virtù non avesse potuto farlo; per altro,
per quanta distanza passi tra di noi, non vi credeva tanto vile da
disonorarvi in quell'unico istante che vi si presentava per rendervi
glorioso. Frattanto il mondo mi abbandona; il solo testimonio della mia
innocenza depone contro di me: dunque più non mi resta, o mio Dio, che
ricorrere a te. Tu vedi ch'io sono senza colpa, e che ne vado debitrice
alla tua grazia; tu preservasti i miei pensieri come la mia condotta da
ogni impudicizia. Oggi forse tu mi castighi d'avere violato con seconde
nozze il rispetto da me dovuto alle ceneri del primo sposo. Accetto con
sommissione la prova che mi viene dalla tua mano; raccomando alla tua
misericordia quello, la di cui grandezza volesti che fosse opera mia, e
spero dalla tua bontà, che, come tu conservasti l'innocenza della mia
vita, tu conserverai ancora agli occhi degli uomini pura ed
incontaminata la mia memoria.» Beatrice e Michele Orombelli perdettero
all'istante la testa sul palco[410].

  [410] _Andreae Billii Hist., l. III, p. 51._

Giovanni Galeazzo, senza essere egli stesso militare, aveva avuta una
rara felicità, o un singolare talento nello scegliere i suoi generali;
Filippo Maria non fu meno di lui fortunato. Seppe distinguere Francesco
Carmagnola ed accordargli una confidenza proporzionata ai suoi talenti.
Francesco Carmagnola era stato dal duca notato all'assedio di Monza, in
quel delicato momento, in cui Filippo, vedendosi perduto se non
conseguiva l'eredità di suo fratello, erasi posto alla testa
dell'armata. Osservò un semplice soldato che inseguiva Ettore Visconti
fino tra le file nemiche, e che indubitatamente l'avrebbe fatto
prigioniere, se il suo cavallo correndo non cadeva. Filippo diede a
questo soldato il comando di un piccolo corpo di truppe, ed ebbe in
breve novelle prove del suo ardire e d'una intelligenza ancor più grande
del suo valore. Lo creò in allora capo del suo esercito, ed i più
strepitosi avvenimenti giustificarono una così felice scelta[411].

  [411] _Andreae Billii Hist. Mediol., l. III, p. 39._

Il Carmagnola si dispose a conquistare tutto il paese posto tra l'Adda,
il Ticino e le Alpi. I più forti castelli di questa provincia Trezzo,
Lecco e Castel d'Adda, gli aprirono le porte nel 1416. Nello stesso anno
il duca, contro la fede dei trattati, fece arrestare Giovanni da
Vignate, signore di Lodi, che aveva chiamato a Milano sotto pretesto
d'avere con lui una conferenza. Il figlio di questo signore venne pure
arrestato nella stessa Lodi dalle truppe del Visconti, che scalarono le
mura di questa città il 19 agosto del 1416, e Giovanni da Vignate e suo
figliuolo perirono in Milano sul patibolo[412].

  [412] _Andreae Billii Hist. Mediol., l. III, p. 44._

Filippo Araceli, gentiluomo di Piacenza, aveva consegnata la sua patria
al duca di Milano in principio del 1415. Ma avendo poco dopo avuta
cagione di lagnarsi del Visconti, gli aveva di nuovo fatto ribellare i
suoi concittadini, ed aveva il 25 ottobre dello stesso anno preso il
titolo di signore di Piacenza. Araceli contavasi tra i più valorosi ed
esperti guerrieri del suo tempo. Adunò tutti i signori della Lombardia,
che si erano divisa l'eredità di Giovanni Galeazzo; fece loro sentire,
che comune era la causa di ognuno di loro, poichè il duca di Milano
pensava a spogliarli tutti. Pandolfo Malatesti, signore di Brescia,
Gabrino Fondolo di Cremona, Lotiero Rusca di Como, i Coleoni di Bergamo,
i Beccaria di Pavia e Tomaso di Campo Fregoso, doge di Genova, si
obbligarono alla vicendevole difesa. Il Visconti mandò nel 1417 il
Carmagnola nella bassa Lombardia. È noto che questo generale e Filippo
Araceli si fecero un'accanita guerra, e che le principali città di
questa provincia furono più volte prese e riprese; ma confuse o perdute
sono le memorie di tali avvenimenti, ed incerte le epoche. Il Carmagnola
occupò Piacenza, ma non la sua cittadella; onde conoscendo di non poter
difendere questa città contro Pandolfo Malatesti che si avvicinava per
attaccarla, obbligò tutti gli abitanti ad uscirne coi loro più preziosi
effetti, che fece imbarcare sul Po. L'Araceli e Pandolfo Malatesti,
quando entrarono in quelle deserte strade, furono sbalorditi da tanta
desolazione; i loro soldati, che si erano sparsi nelle case per
saccheggiarle, ne uscirono come spaventati non avendovi trovati che
vecchi arredi di niun valore. Per lo spazio d'un anno questa grande
città rimase deserta, essendovi rimasti nascosti tre soli abitanti in
tre diversi quartieri. Frattanto l'erba andava crescendo in tutte le
strade fino all'altezza del ginocchio, e la cicuta si alzava innanzi
alle porte delle case quasi per vietarne l'ingresso[413].

  [413] _Ann. Placentini Antonii de Ripalta, t. XX, p. 874. — Andreae
  Billii Hist. Mediol., t. XIX, p. 47._

Finalmente Filippo nel 1418 trionfò di tutti i suoi nemici, parte per le
proprie perfidie e parte pel valore del suo generale. Filippo Araceli fu
scacciato da tutte le terre murate che occupava nel territorio di
Piacenza, e costretto a salvarsi in Venezia. Ottenne in allora dalla
repubblica il comando di un'armata che fu mandata contro il patriarca
d'Aquilea, ed ebbe maggior fortuna sostenendo una causa straniera che la
propria. Castellino Beccaria era stato arrestato a Pavia, indi ucciso in
carcere per ordine del duca di Milano. Suo fratello Lancellotto, che si
era salvato ne' castelli che possedeva fra Tortona ed Alessandria, venne
assediato in quello di Serravalle, ed essendosi reso a discrezione,
venne appiccato nella pubblica piazza di Pavia[414]. Lotiero Rusca,
tiranno di Como, disperando di potersi a lungo difendere in questa
città, la consegnò volontariamente al duca, conservando per sè Lugano
col titolo di conte[415]. Finalmente il Carmagnola penetrò nella riviera
di Genova per ridurre all'ubbidienza ancora Tomaso di Campo Fregoso.

  [414] _Andreae Billii Hist. Mediol., l. III, p. 46._

  [415] _Vita Phil. M. Vicecom. a Decembrio, t. XX, c. 11, p. 989._

I Genovesi credevano d'avere ricuperata la libertà, allorchè scacciarono
fuori dalle loro mura i Francesi l'anno 1411, ed il marchese di
Monferrato nel 1413. Ma sebbene Genova non avesse un padrone però non
era più repubblica. Invano i suoi cittadini avevano cercato di dare
consistenza alla loro costituzione, e di assoggettare l'elezione del
loro doge alle formalità osservate in Venezia[416]. L'odio che divideva
le più potenti famiglie era così violento, ed ogni capo di partito aveva
sotto di sè tanti clienti e vassalli, che la città era trasformata in un
campo di battaglia, ove le parti nemiche guerreggiavano continuamente.
Più non trattavasi tra le opposte fazioni dell'interesse de' Guelfi o
dei Ghibellini, della nobiltà o del popolo, della libertà o del
servaggio, ma di distruggersi a vicenda perchè si odiavano. Nell'istante
medesimo in cui, per le cure de' magistrati e del clero, si
riconciliavano le parti, e si giuravano pace, un'occhiata orgogliosa, un
motto piccante, un gesto talvolta sinistramente interpretato, erano
sufficienti motivi per far di nuovo sguainare le spade, e ritornare in
duolo tutta la città. Abbandonata era la navigazione, languiva il
commercio, devastate vedevansi le campagne, le terre incendiate, ed ogni
giorno alcuno de' più magnifici palazzi della città veniva spianato.

  [416] _Uberti Folietae Hist. Genuensis, l. X, p. 539._

In tempo di tali civili guerre, Giorgio Adorno, Barnabò Goano e Tomaso
di Campo Fregoso vennero successivamente innalzati alla dignità ducale.
L'ultimo sembrava più d'ogni altro proprio a rendere la pace alla
repubblica; egli godeva dell'amicizia e della stima di Giorgio Adorno,
suo antico rivale, cui doveva la propria elezione; aveva date ai suoi
concittadini non dubbie prove della sua moderazione, del suo
disinteresse, del suo valore; aveva pagato col proprio danaro i debiti
del pubblico tesoro, che ammontavano a sessanta mila fiorini[417]; ed
era ajutato nella sua amministrazione dallo sperimentato valore e dai
varj talenti de' suoi cinque fratelli nel fiore dell'età, a lui
egualmente tutti affezionatissimi. Ma non era dato a niun uomo di poter
lungo tempo comprimere odj tenuti vivi da troppo mortali ingiurie. I
Guarci, i Montalti e gli Adorni abbandonarono la città nel 1417 e si
rifugiarono presso il duca di Milano. Nel 1418 i marchesi di Monferrato
e del Carreto abbracciarono l'alleanza di Filippo Maria, e le foci delle
montagne furono aperte a Francesco Carmagnola dagli emigrati o dai
traditori. Tre mila cavalli ed otto mila pedoni saccheggiarono, durante
tutta l'estate, le valli della Polsevera e di Bisannio; la fortezza di
Gavi, creduta inespugnabile, venne consegnata ai nemici, ed i Genovesi
perdettero tutti i loro possedimenti posti nella parte settentrionale
delle montagne[418].

  [417] _Ubertus Folietae Genuen. Hist., l. X, p. 545. — Johan.
  Stellae Ann. Genuenses, t. XVII, p. 1264._

  [418] _Uberti Folieteae, l. X, p. 547. — Johan. Stellae Ann.
  Genuens., p. 1277._

Mentre questa repubblica lottava con tanto svantaggio contro il duca di
Milano, i Fiorentini, che avevano di già veduti soggiacere altri
avversarj di questo principe, avrebbero dovuto ajutare un popolo libero,
che non poteva essere soggiogato senza che ne sentisse danno
l'equilibrio dell'Italia, e senza che l'ambizioso Visconti portasse le
sue viste sulla Toscana. Verun trattato di pace tra la repubblica
fiorentina ed il duca di Milano avevano terminata la guerra accesa da
Giovanni Galeazzo; ma la signoria, vedendo tanti nemici congiurati
contro il duca, aveva da lungo tempo cessato di fargli guerra. Mentre,
del 1419, i Genovesi domandavano caldamente soccorsi per difendersi, il
duca sollecitava i Fiorentini a terminare con onorevole pace le loro
contese. La signoria ondeggiava indecisa tra i suoi timori
dell'avvenire, ed una vicina speranza. Desiderava di ridurre i Genovesi
in necessità di venderle il castello di Livorno, che signoreggiava le
foci dell'Arno e Porto Pisani, e che pareva inceppare il commercio di
Pisa. Livorno era stato ceduto a Boucicault da Gabriele Maria Visconti,
signore di Pisa, e quando il maresciallo francese era stato scacciato da
Genova, quel porto ed il suo castello erano venuti in mano dei Genovesi.
La signoria fiorentina, che ardentemente desiderava di fare
quest'acquisto, si rallegrava dell'imbarazzo in cui trovavansi i
Genovesi, e rifiutavasi di soccorrerli senza la cessione di Livorno.

Niccola d'Uzzano ed i suol amici si opponevano ne' consigli di Firenze
all'opinione di coloro che volevano che la repubblica trattasse col duca
di Milano, loro sembrando che col fare seco la pace si venissero a
sanzionare le di lui usurpazioni, e si facesse conoscere ai Genovesi ed
al signore di Brescia che si abbandonavano alla loro sorte. Ma il popolo
accusava l'aristocrazia e l'antico partito guelfo d'inquieta ambizione;
non vedeva nella sua politica che desiderio d'ingrandirsi colla guerra,
e mostrava un così aperto malcontento, che la signoria si vide forzata a
sottoscrivere, in gennajo del 1419, un trattato con Filippo Maria. I
Fiorentini si obbligavano a non prendere parte in tutte le rivoluzioni
della Lombardia oltre i fiumi della Magra e del Panaro, ed il duca
prometteva di non immischiarsi di tutto quanto accaderebbe al levante di
questi due fiumi, il primo de' quali divide la Lunigiana dallo stato di
Genova, l'altro il Bolognese dal Modanese[419].

  [419] _Poggio Bracciolini Hist. Florent., l. V, p. 319. — Commentarj
  di Neri di Gino Capponi, t. XVIII, p. 1157. — Scipione Ammirato
  Stor. Fiorent., l. XVIII, p. 986._

Ma i Fiorentini, quando supponevano che i Genovesi potrebbero difendersi
colle proprie loro forze, non avevano preveduto che sarebbero ben tosto
attaccati da un nuovo avversario. Alfonso d'Arragona, prima che Malizia
venisse ad invitarlo a nome della regina Giovanna di recarsi a Napoli,
aveva di già fatto vela dalle coste della Catalogna con tredici vascelli
rotondi e ventitre galere. Impaziente di sottrarsi alle rimostranze
delle sue cortes ed alla gelosia de' suoi sudditi, andava a cercar
conquiste in lontane parti. Attaccò, senza esserne provocato, la
Corsica, che dipendeva da Genova; per tradimento occupò Calvi, e molti
gentiluomini corsi, sedotti dalle sue offerte, spiegarono le sue
insegne, ed il solo castello di Bonifazio, posto all'estremità
meridionale dell'isola sopra uno scosceso promontorio, conservossi
fedele ai Genovesi. Alfonso lo attaccò, e stette nove mesi ostinato
intorno a quest'assedio. In ultimo Giovanni Fregoso, fratello del doge,
penetrando a traverso della flotta catalana, riuscì a vittovagliare
Bonifazio. Il re d'Arragona perdette allora ogni speranza di averlo;
abbandonò la Corsica per passare a Napoli, ov'era aspettato, ed altro
non ottenne dalla sua impresa contro quell'isola che la vergogna d'avere
violato un trattato di pace[420].

  [420] _Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. X, p. 549. — Joh. Stellae
  Ann. Genuens., p. 1280. — Petri Cyrnei de rebus Corsicis, t. XXIV,
  p. 444._

Le grandi spese che la guerra contro gli Arragonesi aveva cagionata alla
repubblica determinarono finalmente i Genovesi a vendere Livorno ai
Fiorentini. Il contratto fu convenuto il 30 giugno 1421 pel prezzo di
cento mila fiorini[421]. Ma i Genovesi desideravano ben più di
vendicarsi degli Arragonesi che di conservare la loro libertà; il
Carmagnola avea rinnovati ogni anno i guasti nel loro territorio, e
tutti gli alleati loro erano stati soggiogati dalle armi del duca, e
ridotti ad alienarsi da loro. Tomaso di Campo Fregoso sentì egli stesso
la necessità di terminare una guerra ruinosa per la sua patria, quando
vide Filippo Maria fare alleanza coi Catalani ed attaccare Genova per
mare e per terra. Le stesse condizioni sotto le quali la repubblica
erasi data al re di Francia, vent'anni prima, vennero offerte ed
accettate; ed il duca di Milano guarantì le costituzioni della città e
la libertà interna; il conte Carmagnola, come luogotenente del Visconti,
venne surrogato al doge; ed a Fregoso, che abdicò la sua dignità, fu
data in ricompensa la signoria di Sarzana. Ma siccome questa città è
posta al di là della Magra, il duca di Milano, disponendone in tal modo,
veniva a violare il trattato che aveva recentemente fatto coi
Fiorentini[422].

  [421] _Scipione Ammirato, l. XVIII, p. 991._

  [422] _Ubertus Folietea Genuen. Hist., l. X, p. 554. — Johan.
  Stellae Ann. Genuens., p. 1284._

I Guelfi di Lombardia ed i piccoli principi di questa contrada eransi
pure lusingati di trovare rifugio sotto la protezione dei Veneziani, più
ancora che i Fiorentini interessati ad opporsi agli ambiziosi progetti
di conquista del duca di Milano. Ma il senato di Venezia, invece di
prendere di mira il prossimo danno onde era minacciato, lasciavasi
illudere dalla propria ambizione. Vedeva Sigismondo imbarazzato in una
doppia guerra, in Boemia contro gli Ussiti, ed ai confini dell'Ungheria
contro i Turchi. Il patriarca d'Aquilea, Luigi II di Teschen, alleato
dell'imperatore, non poteva da lui sperare soccorsi; ed i Veneziani,
tostocchè videro spirata la tregua di cinque anni che avevano fatta con
Sigismondo, attaccarono (1418) il patriarca. Cividale, Sacile e Porto
Gruaro loro si arresero nella prima campagna, e nella susseguente
Filippo Araceli, generale delle truppe veneziane, occupò Feltre e
Belluno. Finalmente Udine, capitale del patriarcato, si arrese alla
repubblica il 7 giugno del 1420, e nella stessa campagna s'arrese pure
tutta la provincia, come anche la parte dell'Istria, che dipendeva
dall'alta signoria dei patriarchi. Il conte di Gorizia prestò omaggio al
doge pei feudi dipendenti dalla chiesa d'Aquilea, ed in tal modo tutto
il Friuli venne aggregato per sempre agli stati della repubblica[423].

  [423] _Stor. civile Veneziana, l. VI, p. 489, p. II, v. I. — Maria
  Sanato vite dei duchi di Venezia, p. 921._

Ma così prosperi avvenimenti non permisero per altro ai Veneziani di
posare le armi: essi continuarono la guerra nell'Istria, nella Dalmazia,
nell'Albania contro i feudatarj del re d'Ungheria, e non ottennero che
conquiste comperate a caro prezzo. Vero è che di quando in quando
concepivano qualche gelosia degli acquisti che Filippo Maria andava ogni
giorno facendo ai loro confini; ma si lasciavano bentosto addormentare
dalle proteste di amicizia che questi loro faceva, e lasciavano vilmente
in sua balia i più fedeli amici e servitori della repubblica.

Poichè Filippo Araceli ebbe abbandonato lo stato di Piacenza, Rinaldo
Palavicini, che vedeva avvicinarsi le armi del duca, volontariamente
cedette san Donnino di cui era signore. I Rossi, i Pellegrini,
gentiluomini di Parma, si sottomisero da se medesimi[424]; e Niccolò,
marchese d'Este, temendo di perdere tutt'ad un tratto le due città di
Parma e di Reggio, che già avevano appartenute a Giovanni Galeazzo,
cedette volontariamente la prima per ottenere da Filippo Maria
l'adesione al possedimento della seconda. Questo trattato venne
sottoscritto dai due sovrani l'8 aprile del 1321[425].

  [424] _Andreæ Billii Hist., l. III, p. 48._

  [425] _Gio. Batt. Pigna stor. de' Princ. d'Este, l. VI, p. 541. —
  Leodrisii Cribellii de vita Sfortiae Vicecom., p. 707. — Annales
  Estens. Fratris Johan., t. XX, p. 449. — Platinae Histor. Mantuana,
  l. V, p. 801._

Intanto Francesco Carmagnola attaccò Pandolfo Malatesti, signore di
Brescia e di Bergamo. In pochi giorni gli tolse quasi tutte le terre
murate del Bergamasco, e bentosto trovò modo d'entrare in Bergamo dalla
banda della montagna, che non credevasi esposta a verun attacco; le
valli di san Martino e molte terre della campagna bresciana s'arresero
volontariamente a Filippo Maria Visconti[426].

  [426] _Andreae Billii Hist., l. III, p. 50. — Marin Sanuto vite de'
  duchi di Venezia, p. 908._

Tali conquiste vennero alcun tempo sospese da una tregua trattata in
nome di Martino V tra Filippo Maria e Pandolfo Malatesti; ma il duca di
Milano approfittò della sospensione delle ostilità per attaccare Cabrino
Fondolo, tiranno di Cremona. I castelli di Pizzighettone e di Soncino
s'arresero ai Milanesi quasi senza fare resistenza[427]: onde Gabrino
offrì ai Veneziani la cessione di Cremona, e quanto ancora gli restava
nel suo territorio, contro un equitativo compenso; così pure fece di
Brescia Pandolfo Malatesti; ma queste due profferte furono
rigettate[428]; ed il signore di Cremona fu sforzato a trattare col
duca, cui cedette il suo principato ad eccezione del castello di
Castiglione, ove si ritirò co' suoi tesori.

  [427] _Andreae Billii Hist. Mediol. l. III, p. 53._

  [428] _Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, p. 846._

In quest'epoca medesima in cui i Veneziani dovevano essere adombrati
dalla ambizione del duca di Milano, conchiusero con lui un trattato di
pace per dieci anni, onde potere, senza impedimenti, terminare le loro
conquiste in Dalmazia, lasciando in balìa alle preponderanti forze del
duca Pandolfo Malatesti, loro antico alleato, che aveva inoltre lungo
tempo comandate le armate della repubblica, e non guarantendo che gli
stati di Francesco Gonzaga, signore di Mantova e di Peschiera, perchè
queste due fortezze, formando un'importante linea di difesa alle
province veneziane di terra ferma, non potevano, senza una estrema
imprudenza, lasciarle esposte alle invasioni del Visconti[429].

  [429] _Andreae Billii Hist., l. III, p. 53._

A Pandolfo non restava altro appoggio che quello di suo fratello Carlo,
signore di Rimini, che in fatti gli mandò un ragguardevole corpo di
truppe sotto gli ordini di Luigi di Fermo: ma questo generale fu
sorpreso e fatto prigioniero dal Carmagnola, il quale ruppe affatto la
di lui armata, onde Pandolfo costretto di venire a trattato di pace, non
l'ottenne dal duca che colla cessione di Brescia e di tutto il suo
territorio, ricoverandosi egli a Rimini presso al fratello[430].

  [430] _Andreae Billii Hist., l. III, p. 54. — Platina Hist.
  Mantuana, l. V, t. XX, p. 801. — Cronica d'Agobbio di G. Bernio, t.
  XXI, p. 960._

Subito dopo Giorgio Benzone, signore di Crema, venne ridotto alla stessa
necessità, onde cedendo questa città a Filippo Maria, egli compì la
sommissione della Lombardia[431]; più non rimaneva un solo di quanti
tiranni eransi divisi le spoglie di Giovan Galeazzo Visconti, ed avevano
per lo spazio di vent'anni renduto misero così bel paese. Essi non
avevano potuto opporre agli artificj ed alle armi del duca di Milano nè
la coscienza di una buona causa, nè l'amore de' loro sudditi, nè la
costanza degli alleati, ed erano caduti l'uno appresso l'altro quasi
senza combattere. Ma le vittorie di Filippo Maria, avvicinandolo a due
popoli liberi, gli fecero sperimentare un altro genere di resistenza.
Vedremo nei susseguenti capitoli quale lunga lotta ebbe a sostenere
contro i Fiorentini; quale perseveranza ne' suoi progetti, quale
costanza nelle sventure, quale moderazione nelle vittorie, questa
virtuosa repubblica seppe opporre alla di lui ambizione. Aveva pure da
prima provato ciò che poteva fare contro i suoi mercenarj soldati il
valore impetuoso degli Svizzeri.

  [431] _Redusius de Quero Chron. Tarvisinum, p. 846._

Dopo la sommissione di Como, la famiglia Rusca, che aveva governata
questa città, erasi ritirata a piè delle Alpi. Avevale lungamente
ubbidito Bellinzona, ma la sovranità di questa piccola città era adesso
cagione di lite tra molti pretendenti, e gli Svizzeri del cantone d'Uri
vi tenevano guarnigione per difendere l'ingresso della valle Levantina
ed i passaggi del san Gottardo. Antonio Rusca e Giovanni, barone di Sax,
vendettero i diritti che avevano sulla medesima città a Filippo Maria,
il quale in marzo del 1422 fece sorprendere la guarnigione svizzera da
Angelo della Pergola, suo condottiere, ed occupò Bellinzona. Nello
stesso tempo occupò Domodossola, altra piccola città posta all'apertura
del passaggio del Sempione, di dove s'innoltrò fino ai piedi del san
Gottardo, occupando tutta la valle Levantina[432].

  [432] _Andreae Billii Hist. Mediol., l. III, p. 55. — Geschichte der
  Schweiz, B. III, c. 2, t. III, p. 195._

In altra circostanza questa violazione de' trattati e dei diritti di
buona vicinanza avrebbe sollevata tutta la Svizzera. Ma molti semi di
discordia eransi sparsi tra i confederati dopo la guerra mossa
all'Austria dietro eccitamento del concilio di Costanza. Molti cantoni
ricusarono lungo tempo di prendere le armi per una lite che credevano
loro straniera; e quando finalmente mandarono le loro truppe oltre il
san Gottardo, una segreta gelosia teneva le une in modo separate dalle
altre, che la retroguardia, composta dei soldati del cantone di Schwitz,
era distante un giorno di viaggio dalle altre.

Non pertanto l'armata svizzera, composta di quattrocento arcieri e di
tre mila fanti armati d'alabarde, scese nella valle Levantina, senza
prendersi cura di sapere quanti soldati avevano a Bellinzona Francesco
Carmagnola ed Angelo della Pergola. Questi due generali avevano sei mila
scelti corazzieri e diciotto mila fanti[433], ed a tanta superiorità di
numero aggiugnevano il vantaggio d'avere occupati i passaggi delle valli
vicine, d'avere sorpresi i magazzini de' loro vicini e posta guarnigione
in Bellinzona, ove tenevano in sicuro le loro munizioni.

  [433] _Jo. Muller Geschichte der Schweiz, B. III, c. 11, p. 201._

Mentre i soldati di Schwitz aspettavano a Poleggio quelli di Glaritz,
che quelli di Zurigo, Appenzel e san Gallo erano ancora in cima al san
Gottardo, le quattro bandiere di Lucerna, Undervald, Uri e Zug, sotto le
quali non si contavano più di tre mila alabardieri, presentarono
battaglia nel campo d'Arbedo presso Bellinzona alla migliore cavalleria
dei due più famosi condottieri d'Italia.

I corazzieri di Pergola, vedendo gli Svizzeri, piombarono loro addosso
tenendosi sicuri di rovesciarli e di tagliarli a pezzi; ma questi gli
stavano aspettando di piè fermo, opponendo l'insuperabile loro forza
all'impeto della cavalleria. Furono spesso osservati tagliare con un
colpo di spada le gambe ai cavalli che venivano sopra di loro, o
prenderli per i piedi e strascinarli a terra col cavaliere[434]. Erano
di già caduti quattrocento cavalli, senza che i corazzieri italiani
avessero ancora guadagnato un palmo di terreno; onde Pergola e
Carmagnola ordinarono ai loro cavalieri di mettere piede a terra,
opponendo in tal modo una infanteria quasi invulnerabile alle alabarde
degli Svizzeri. La battaglia si rinnovò allora con accanimento, e molti
valorosi perirono da ambidue le parti. Lo _Schultheiss_ di Lucerna si
dispose alla resa, e ne diede il segno piantando la sua alabarda in
terra; ma il Carmagnola, riscaldato dalla pugna e dalla perdita
sofferta, non volle dar quartiere. Rinnovò l'attacco, che gli Svizzeri
sostennero col coraggio fin allora dimostrato. Improvvisamente seicento
Svizzeri, che si erano avanzati per foraggiare nella valle di Misocco,
piombarono sulla retroguardia italiana con orribili grida. Credette il
Carmagnola, che la seconda armata degli Svizzeri, rimasta a Poleggio,
avesse rifatti i ponti ch'egli aveva distrutti, e lo caricasse, onde si
ritirò verso Bellinzona, lasciando che gli Svizzeri rientrassero nelle
loro montagne[435][436].

  [434] _Andreae Billii Histor., l. III, p. 55._

  [435] _J. Muller Geschichte der Schweiz, B. III, c. 11, p. 210._

  [436] Ci è spiacevole il dover osservare che le truppe svizzere,
  prima che terminasse il secolo XV, non erano nè meno perfide di
  Filippo Maria Visconti, nè meno venali delle milizie mercenarie
  italiane. Vendendo i loro servigi a straniere potenze, le tradirono
  quando credettero utile di farlo, e continuarono ad esercitare fino
  all'età presente la professione di milizie mercenarie. La loro
  patria è tuttavia indipendente; ma è triste cosa il dover confessare
  che le principali salvaguardie dell'indipendenza svizzera più non
  sono il valore o l'amore di patria, ma la povertà del loro suolo, e
  l'interesse che hanno le grandi potenze d'Europa di lasciarla nello
  stato attuale. _N. d. T._

Avevano gli Svizzeri perduti trecento novantasei uomini; gl'Italiani un
numero tre volte maggiore, e ciò che più monta, i loro soldati erano
atterriti, avendo conosciuto con quali uomini avevano combattuto; con
uomini che prima di andare alla guerra giuravano di non ritirarsi dal
campo di battaglia, di non arrendersi e di non abusare della vittoria
disonorando le spose o le figlie dei vinti[437]. Per altro la valle
Levantina venne conquistata dal Carmagnola: gli Svizzeri, distratti
dalle proprie dissensioni, perdettero più anni, avanti che si
vendicassero della sofferta perdita; e Filippo Maria Visconti; più
potente di qualunque altro principe che mai regnasse in Italia dopo la
caduta del regno dei Longobardi, era ubbidito dalla sommità del san
Gottardo fino al mar Ligure, e dai confini del Piemonte fino a quelli
degli stati del papa.

  [437] _Andreae Billii Histor. Mediol., l. III, p. 56._



CAPITOLO LXIV.

      _La regina Giovanna II, irritata contro Alfonso d'Arragona,
      adotta Lodovico d'Angiò. — Morte dello Sforza e di Braccio;
      disastrosa guerra dei Fiorentini col duca di Milano; alleanza
      dei Veneziani; presa di Brescia._

1422 = 1426


I due generali che più d'ogni altro avevano contribuito alla gloria
delle armi italiane, Braccio di Montone e Sforza di Cotignola,
trovavansi uniti ai servigi della corte di Napoli. Allievi ambidue del
grande Alberico da Barbiano, il ristauratore dell'arte della guerra in
Italia, erano stati in gioventù amicissimi; l'ambizione gli aveva
divisi; l'emulazione tra le due compagnie d'avventurieri da loro formate
gli aveva determinati quasi sempre ad abbracciare contrarie parti; e
nelle contese, cui d'ordinario erano essi affatto stranieri, mai non
avevano, da oltre venti anni, cessato di combattere, ora in nome dei re
di Napoli e delle repubbliche della Toscana, ora dei signori di
Lombardia e della Chiesa. I soldati da loro formati contrassero perciò
una tal quale abitudine di rivalità, che si mantenne viva lungo tempo
dopo la morte dei due generali.

Per altro quando la superiorità dei talenti di Giovanni di Montone, o la
superiorità delle ricchezze della corte che lo aveva preso al suo soldo,
gli ebbero dato un incontestabile vantaggio sopra il suo emulo, parve
che si rinnovasse l'antica amicizia tra questi illustri generali.
All'epoca in cui papa Martino V restituì alla regina Giovanna il piccolo
numero di castelli che il partito d'Angiò possedeva ancora nel regno,
mentre Lodovico III ritiravasi in Roma per condurvi una vita oscura, lo
Sforza si presentò nel campo di Braccio con quindici de' suoi soldati
senz'armi, chiedendogli consiglio ed assistenza per rimontare la sua
armata quasi affatto distrutta. I due generali, dimenticato ogni antico
rancore, e senza veruna diffidenza, cercarono di giustificare la
vicendevole condotta, ed i loro piani di campagna; si manifestarono
perfino le segrete intelligenze che avevano avute l'uno nel campo
dell'altro, e perfino le congiure cui avevano preso parte. Parlarono in
appresso senza riserva de' loro futuri progetti, e Braccio, che
desiderava di tornare in Toscana per dilatare i confini del suo
principato di Perugia, persuase lo Sforza a riconciliarsi colla regina
Giovanna, incaricandosi egli medesimo di trattare l'accordo[438].

  [438] _Vita Brachii a J. Campano, l. VI, p. 604. — Leodrisii
  Cribellii vita Sfortiae, p. 710._

Giovanna non ricusò di rendere la sua grazia all'antico suo
contestabile, e promise a Braccio di accoglierlo graziosamente. Pure
quando Sforza, nell'atto di ricevere il bastone del comando, doveva
prestare il giuramento d'ubbidienza, non essendo i ministri d'accordo
intorno alla formola, disse la regina: «Chiedetelo a Sforza medesimo;
egli ha dati tanti giuramenti a me ed ai miei nemici, che niuno sa
meglio di lui come uno si obbliga, e come si scioglie dalle
promesse[439].»

  [439] _Annales Bonincontrii, p. 127._

Malgrado questo rimprovero la regina desiderava l'amicizia dello Sforza,
e subito conferì con lui per affezionarselo più strettamente. Ella
cominciava ad avere qualche gelosia di Alfonso, suo figliuolo adottivo,
che non trascurava veruna occasione per rendersi da lei indipendente, e
per affidare le fortezze del regno ai suoi soldati. Il grande
siniscalco, ser Gianni Caraccioli, teneva gli occhi aperti sulla
condotta del re d'Arragona; temeva di vedersi trattato da questo
principe, come Pandolfello Aloppo lo era stato dal conte della Marca, e
doveva aspettarsi di trovare il figliuolo di Giovanna non meno geloso
del marito. In fatti Alfonso, re d'Arragona e di Sicilia, non poteva
piegarsi agli ordini del grande siniscalco colla docilità degli altri
cortigiani: vedeva con dispiacere quest'amante di una vecchia regina
pretendere di governare i suoi stati e le sue armate con un titolo così
vergognoso; voleva consolidare la propria indipendenza, e si era
acquistato l'affetto e l'intera devozione di Braccio di Montone. Sebbene
il Caraccioli avesse antichi motivi di odio contro lo Sforza, conobbe
che niuno poteva meglio di lui provvedere alla sicurezza della regina, e
mantenere l'equilibrio tra i due sovrani. Una segreta alleanza si
strinse perciò fra di loro: il generale promise di difendere Giovanna
contro tutti i suoi nemici, senza eccettuare il figlio adottivo. Dopo di
ciò, per dare una specie di pubblica sanzione a questo nuovo contratto,
lo Sforza giurò d'ubbidire agli ordini tanto della regina e del re
riuniti, come di quello dei due che avrebbe il primo chiesta la sua
assistenza[440].

  [440] _Joh. Simonetae Rer. Gestar. Fran. Sfortiae, t. XXI, l. I, p.
  177. — Ann. Bonincontrii Miniat., p. 127._

L'alleanza che lo Sforza aveva contratta con Lodovico d'Angiò più non
era agli occhi della regina un motivo per diffidare del suo generale;
anzi godeva di potere adoperare lo Sforza per trattare con questo
principe; perciocchè si era oramai pentita di non avere accolte le
profferte del papa, e di non avere piuttosto adottato Lodovico che
Alfonso, per riunire in tal modo i diritti delle due case di Durazzo e
d'Angiò, e terminare tutte le guerre civili di Napoli[441].

  [441] _Leodrisii Cribellii de vita Sfortiae, p. 716. — Giorn.
  Napoletani, t. XXII, p. 1086. — Giannone Istoria civile del regno,
  l. XXV, c. 4, p. 438. — Jo. Mariana Historia de las Españas, l. XX,
  c. 13, p. 793._

Avendo Braccio di Montone ricondotte le sue truppe in Toscana, assediò
Città di Castello, città che in allora governavasi a comune sotto la
protezione del papa, e malgrado l'ostinata resistenza degli abitanti la
costrinse a capitolare. Ricondusse poi i suoi soldati a Perugia, e li
tenne occupati tutto l'inverno nel cavare un canale, che regolava lo
scolo delle acque del lago di Trasimeno[442]. In primavera del 1428,
recossi negli Abruzzi per assumere il governo di quella provincia che la
regina Giovanna gli aveva confidata; ma Aquila, capitale degli Abruzzi,
chiuse le porte in faccia al generale che veniva a comandarvi, e risolse
di difendersi[443].

  [442] _J. Campani vita Brachii, l. VI, p. 609._

  [443] _Ivi, p. 612._

Martino V non vedeva senza timore questo capitano stendere i suoi dominj
tutt'all'intorno di Roma, e bloccare in certo modo la corte pontificia
nella capitale de' suoi stati. Di già Braccio di Montone possedeva al
nord di Roma quasi tutta l'Ombria, e parte della Marca, ed al
mezzogiorno il principato di Capoa coi feudi che gli erano stati dati
dalla regina Giovanna. Altro non gli mancava per chiudere Roma da ogni
lato che la conquista degli Abruzzi, ed egli vi si accingeva con tre
mila duecento cavalli e mille fanti di truppe ben agguerrite. Martino
con promesse di soccorsi e con pressanti esortazioni incoraggiò gli
abitanti dell'Aquila a difendersi. Esortò la regina a togliere il
comando a Braccio, ed a promettere la sua protezione agli assediati: e,
siccome ella era di già titubante, un inaspettato avvenimento la
costrinse immediatamente a decidersi[444].

  [444] _Vita Brachii a J. Campano, l. VI, p. 613._

Giovanna ed Alfonso nella vicendevole loro diffidenza avevano scelte due
delle fortezze di Napoli per loro abitazione. La regina occupava il
castello di Capuano, e suo figlio adottivo Castelnuovo. L'uno e l'altro
erano circondati da guardie e da un apparecchio militare. I ministri
d'un sovrano non andavano mai presso l'altro senza timore, ed un
consiglio di stato era omai diventato una spedizione pericolosa. Il
Caraccioli aveva ricusato di passare a Castelnuovo senza un
salvacondotto scritto da Alfonso, e munito del suo suggello[445].
Malgrado questo salvacondotto, Alfonso, che abborriva questo favorito,
lo fece arrestare il 22 maggio del 1423 mentre entrava in consiglio;
egli aveva, dicesi, intenzione di arrestare ancora la regina per
mandarla prigioniera in Catalogna, e presentossi immediatamente alla
porta del suo castello. Ma le guardie di Giovanna, vedendolo
accompagnato da maggior quantità di gente che non era solito d'avere,
ricusarono di lasciarlo entrare; e perchè insisteva e minacciava, la
guardia tirò sopra di lui per allontanarlo[446]. Bentosto si vociferò in
palazzo che Caraccioli era stato arrestato; onde Giovanna, di già
assediata nel castello di Capuano, spedì sollecitamente a chiamare lo
Sforza in suo soccorso. Sforza, le di cui truppe si trovavano accampate
nella Campania, si pose in cammino il 25 di maggio per liberare la sua
sovrana.

  [445] _Giornali Napoletani, t. XXI, p. 1087._

  [446] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 716. — Joh.
  Simonetae de Gest. Fran. Sfortiae, l. I, p. 178. — Giornali
  Napoletani, p. 1087. — Frammento di Storia sicula in lingua
  siciliana, t. XXIV, p. 1093. — Giannone Istoria civile, l. XXV, e.
  4, p. 440._

Questo generale, che da una lunga serie di rovesci era stato ridotto,
come ancora la sua armata, in estrema povertà, era seguito solamente da
un migliajo di cavalieri mal equipaggiati. Giunto sotto al castello di
Capuano, incontrò in un luogo detto alle Formelle, le truppe arragonesi
riccamente vestite. «Miei figliuoli (disse, volgendosi ai suoi soldati),
ecco gli abiti ed i cavalli che vi ho destinati.» All'istante la
battaglia cominciò, e si mantenne sei ore con molta intrepidezza da
ambidue le parti. Finalmente essendo riuscito allo Sforza di atterrare
un muro che gli chiudeva il passaggio, potè circondare i nemici con
parte della sua infanteria. Allora furono rotti gli Arragonesi, fatti
prigionieri quasi tutti i loro capitani, saccheggiato il loro quartiere,
ed i soldati dello Sforza arricchiti colle spoglie della corte. Alfonso
si chiuse in Castelnuovo, preparandovisi a sostenere un assedio. Ma per
compiere la rivoluzione ch'egli aveva cercato d'operare in Napoli aveva
ordinato che si allestisse una flotta in Catalogna, la quale, composta
di ventidue galere con otto grossi vascelli e con truppe da sbarco,
giunse in faccia a Napoli l'undici giugno del 1423, quindici giorni dopo
la battaglia delle Formelle. Lo Sforza tentò invano d'impedire lo sbarco
de' soldati; egli fu a poco a poco respinto fuori di Napoli, e costretto
di condurre la regina ad Aversa nel castello ch'erasi a lui reso[447].

  [447] _Leodrisii Cribellii Vita Sfortiae, p. 719. — Joh. Simonetae,
  l. I, p. 180. — Ann. Bonincontrii Miniat., p. 129. — Giornali
  Napoletani, p. 1088. — Frammento Siciliano, t. XXIV, p. 1094. — J.
  Mariana Hist. de las Españas, l. XX, c. 13, p. 793._

La regina divisa da Caraccioli abbandonavasi alla disperazione, ed
avrebbe sacrificate le migliori province, e tutto il regno per la
libertà dell'amante. Malgrado la lunga nimicizia dello Sforza col gran
siniscalco, il primo acconsentì per ricuperarlo a dare in cambio ad
Alfonso i venti più distinti prigionieri, che aveva fatti alla battaglia
delle Formelle. In allora il siniscalco ed il contestabile, riuniti
presso la regina, la persuasero ad appoggiarsi per sua difesa al partito
di Angiò; Lodovico, che viveva povero a Roma, fu invitato ad Aversa
presso Giovanna, la quale scrisse a tutte le corti d'Europa per
dichiarare che essendosi Alfonso demeritato colla sua ingratitudine il
favore accordatogli, ella rivocava la fatta adozione, e gli sostituiva
Lodovico III, duca d'Angiò, che dichiarava duca di Calabria e presuntivo
erede del regno; oltre di che gli permise di conservare il titolo di re,
che già portava, onde non fosse d'inferiore rango al suo rivale.
Lodovico, ch'era di carattere dolce e probabilmente debole, non ispinse
mai le sue pretese al di là di quanto compiacevasi la regina di
accordargli; poco tempo si trattenne in corte, ed essendosi recato nella
Calabria, seppe rendere caro il proprio governo a' suoi sudditi[448].

  [448] _Giornali Napoletani, p. 1089. — Giannone Istor. civile, l.
  XXV, c. 4; p. 442. — Raynald, Ann. Eccl. 1423; § 13, t. XVIII, p.
  57._

Frattanto Alfonso vide con grandissima pena riunirsi contro di lui le
due antiche fazioni di Durazzo e d'Angiò, ed il papa appoggiare con
tutte le sue forze le misure che per escluderlo dalla sua eredità
prendeva la regina. Egli invitò Braccio di Montone ad accorrere in suo
soccorso, ma Braccio, che in pari tempo era in forza de' suoi obblighi
chiamato a difendere i Fiorentini contro il duca di Milano, non sapeva
risolversi a levare l'assedio dall'Aquila; perciocchè questa città
l'aveva irritato colla sua resistenza; egli credeva il suo onore
compromesso, aveva in questa guerra praticati atti di crudeltà di cui
non erasi mai inaddietro macchiato[449], e gli abitanti dell'Aquila
opponevano a' suoi attacchi una gagliarda ostinazione resa maggiore
dalle sue crudeltà. Inoltre erano essi stati assicurati della più
efficace protezione per parte della regina e del papa; ed accostumati in
mezzo alle montagne, alla più dura e laboriosa vita, più pazientemente
che ogni altro popolo d'Italia sopportavano i disagi e le privazioni
della guerra. Alfonso, vedendo che non poteva persuadere Braccio a
levare quell'assedio, non si trovò abbastanza forte per sostenersi solo
contro la regina e lo Sforza. Altronde lo richiamavano in Ispagna gli
affari di quel regno, ove voleva ottenere la libertà di suo fratello,
prigioniere del re di Castiglia. Partì adunque colla sua flotta per le
coste della Catalogna, e lasciò don Pedro d'Arragona, altro suo
fratello, a Napoli con alcuni condottieri italiani[450]. Viaggio facendo
sorprese Marsiglia, che saccheggiò per tre giorni, per vendicarsi di
Lodovico d'Angiò, cui apparteneva questa città.

  [449] _Vita Brachii Perus., l. VI, p. 613._

  [450] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 722. — Ann.
  Bonincontrii, p. 1 29. — J. Simonetae, l. I, c. 183. — Ubertus
  Folieta Gen. Histor., l. X, p. 556. — J. Mariana Historia de las
  Españas, l. XX, c. 14, p. 796._

Dopo la partenza d'Alfonso, la regina Giovanna, più non si vedendo
minacciata da immediato pericolo, volse il pensiero a liberare gli
abitanti dell'Aquila, che in undici mesi d'assedio avevano consumate le
loro munizioni ed i viveri, e che caldamente chiedevanle soccorso.
Ordinò dunque allo Sforza d'aiutarli; e questi si pose in cammino nel
cuore dell'inverno con suo figliuolo Francesco, ed il 4 gennajo del 1424
giunse in riva al fiume Pescara. Alcuni soldati di Braccio occupavano la
città di tal nome, i quali avevano afforzate le rive del fiume con
palafitte, dietro le quali si erano appostati alcuni arcieri. Ma lo
Sforza tenendo dietro alla riva volle guadare il fiume presso alla sua
foce, persuaso di trovare un facile passaggio nelle acque del mare. Vi
entrò armato di tutto punto col caschetto in testa e colla lancia in
mano, seguìto da quattrocento corazzieri che con lui giunsero sull'altra
riva, di dove scacciarono i nemici. Intanto i venti di mezzodì,
essendosi rinforzati, spinsero nel fiume le acque del mare, che lo
gonfiarono a dismisura, rendendone il guado assai pericoloso. Il
rimanente de' corazzieri, che trovavasi ancora sull'opposta riva,
ricusava d'ubbidire allo Sforza che gli accennava d'avanzare: egli,
impaziente della loro tardanza, spinse di nuovo il suo cavallo in mezzo
alle acque per condurre egli stesso i suoi soldati; ma giunto in mezzo
al fiume, vedendo uno de' suoi paggi in balia delle acque vicino ad
annegarsi, egli s'abbassò per prenderlo, e nello stesso istante
mancarono i piedi di dietro al suo cavallo. Lo Sforza cadde di sella, e
scomparve sotto le acque, mentre il cavallo cercava di salvarsi a nuoto.
Due volte fu veduto questo guerriero, coperto di troppo pesanti armi per
poter nuotare, alzare fuori delle acque le mani coperte di guanti di
ferro, e giugnerle in atto supplichevole; ma l'onda lo strascinò senza
che si potesse ajutarlo, ed il suo cadavere non fu mai trovato. Così
morì in età di cinquantaquattro anni uno de' più intraprendenti ed
intrepidi, uno de' più valorosi generali e de' più esperti politici che
avesse fino allora prodotti l'Italia[451].

  [451] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 725. — J. Simonetae
  R. G. Francisci Sfortiae, l. I, p. 186. — Ann. Bonincontrii Miniat.,
  p. 131. — Giornali Napoletani, p. 1090._

L'armata che lo Sforza aveva creata, e che teneva riunita
coll'ascendente del suo genio, e colla confidenza che ispirava ai
compagni della sua fortuna, poteva essere disciolta nello stesso istante
della sua morte. Verun legame di dovere o d'onore stringevano gli uomini
che avevano servito sotto le sue insegne; tutti risguardavano con
perfetta indifferenza la lite tra Alfonso e Giovanna, e non cercavano
nella guerra che il soldo ed il saccheggio. Perciò poteva temersi che
offrissero i loro servigj a Braccio, cui erano tanto vicini; e di già
pochi mesi prima alcuni di loro avevano congiurato contro Francesco,
figliuolo dello Sforza, che aveano accompagnato in Calabria[452].
L'armata dello Sforza non era soltanto la più importante parte della sua
eredità, ma inoltre la garanzia di tutto il rimanente. La regina gli
aveva accordati ragguardevoli feudi, meno come ricompensa de' passati
servigi, che come prezzo di quelli che da lui si riprometteva in
avvenire; ed avrebbe indubitatamente spogliato di molti beneficj il di
lui figliuolo, quando non avesse sperato qualche compenso. Il figliuolo
dello Sforza non diede mai prova maggiore di forza d'animo e di presenza
di spirito quanto in questa difficile circostanza, nella quale, malgrado
il turbamento e il dolore che gli cagionava la morte del padre, seppe
tener uniti sotto le stesse insegne i suoi soldati, farli giurare di non
abbandonarlo, ridurli a promettergli ubbidienza, sebbene fosse il più
giovane dei capitani che avevano militato sotto suo padre, e finalmente
togliere loro con una sorprendente attività il tempo di riflettere e la
tentazione di rendersi indipendenti. Visitò alla testa delle sue truppe
tutti i feudi donati a suo padre, e che formavano la sua eredità; si
assicurò della ubbidienza de' suoi vassalli, indi tornò ad Aversa, ove
la regina, a lui grata per avere saputo conservarle un'armata, gli
confermò il comando delle sue truppe, ordinando a lui ed a' suoi
fratelli di prendere il nome di Sforza, reso famoso dal padre, ma che
fin allora non era stato che un suo soprannome[453].

  [452] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 721._

  [453] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 728. — Joh.
  Simonetae de G. Fr. Sfortiae, l. I, p. 188._

Prima che Francesco Sforza tornasse in Aversa una flotta genovese di
quattordici grandi vascelli, e di ventidue galere era giunta nelle acque
di Napoli sotto gli ordini di Guido Torello, generale al servizio del
duca di Milano. Filippo Maria Visconti aveva recentemente conchiusa
un'alleanza colla regina Giovanna e col papa contro il re d'Arragona, ed
aveva facilmente determinati i Genovesi, suoi nuovi sudditi, a fare i
più grandi sforzi per combattere con lui i Catalani loro perpetui
rivali. Per altro i Genovesi avevano creduto di servire sotto gli ordini
di Francesco Carmagnola, governatore della loro città, nel quale avevano
intera confidenza, e non furono meno indispettiti di questo generale
medesimo, quando un nuovo favorito del duca venne a soppiantare
quest'illustre guerriero, ed a prendere il comando di una flotta, che
poteva dirsi creata dal nome del Carmagnola [454]. Peraltro Guido
Torello ottenne nella spedizione molti vantaggi: prese Gaeta, Procida,
Castell'a Mare, Sorrento e Massa, indi condusse la sua flotta in faccia
a Napoli. Nello stesso tempo Francesco Sforza attaccava la città dalla
banda di terra. L'infante don Pedro di Arragona non aveva che pochi
Spagnuoli sotto i suoi ordini; i condottieri italiani lo servivano
senz'amore; Bernardino della Carda degli Ubaldini lo abbandonò per
raggiugnere Braccio da Montone suo antico generale, e Giacomo di
Caldora, dopo aver trattato coi nemici, aprì finalmente le porte di
Napoli a Francesco Sforza. L'armata della regina, ricuperando la sua
capitale, non commise violenze contro gli abitanti: don Pedro si chiuse
in Castelnuovo cogli Arragonesi, ed il Caraccioli non volle che si
assediasse, per tenere Lodovico d'Angiò più sommesso col timore del suo
rivale[455].

  [454] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 729. — Joh. Stellae
  Ann. Genuens., p. 1288. — Ubertus Folieta Genuens. Hist., l. X, p.
  557. — Giornali Napoletani, p. 1090._

  [455] _Leodrisii Cribellii de Vita Sfortiae, p. 729. — J. Simonetae
  Vita Francisci Sfortiae, l. I, p. 190. — Giornali Napoletani, p.
  1091. — Frammento Siciliano, p. 1095. — Giannone Ist. civile, l.
  XXV, c. 5, p. 446._

Intanto Braccio di Montone trovavasi sempre all'assedio dell'Aquila.
Allorchè fu avvisato che l'armata dello Sforza avanzavasi contro di lui,
che un distaccamento aveva di già passato il fiume di Pescara, e battute
le truppe che lo difendevano, aveva determinato di levare l'assedio, e
già si era allontanato poche miglia dall'Aquila, quando tre corrieri,
speditigli uno dopo l'altro, gli annunciarono la morte del suo rivale,
altre volte suo compagno d'armi e suo amico. Allorchè seppe l'accaduto
dimenticò l'accanimento con cui aveva contro di lui combattuto, il
pericolo che gli sovrastò, ed il timore che gli aveva fatto abbandonare
un assedio continuato undici mesi con tanta ostinazione; pianse il
grand'uomo che l'Italia aveva perduto, e si credette egli stesso
minacciato di vicina morte; quasi che fosse tempo di ritirarsi
dall'arena, quando il suo rivale non poteva più combattervi. I
sentimenti degli eroi del quindicesimo secolo erano quasi sempre sotto
l'influenza degli astrologhi e degl'indovini, e questi avevano dato
maggior valore ai presentimenti di Braccio. Si dice che precedentemente
essi avevano annunciate le circostanze della morte di questi due
capitani, che avevano raccomandato allo Sforza di non esporsi ai fiumi,
e di risguardare il lunedì come giorno infausto; che la vigilia del
passaggio del fiume un sogno gli aveva prenunciata la sorte che lo
aspettava; che il suo stendardo era caduto innanzi a lui, mentre entrava
nelle acque, e che i suoi ufficiali lo avevano inutilmente supplicato a
non disprezzare tanti funesti presagi. Dall'altro canto gl'indovini
avevano annunciato a Braccio, che non sarebbe sopravvissuto al suo
emulo, e l'avveramento delle prime loro predizioni dava maggior peso
alla seconda[456].

  [456] _Joh. Simonetae de Reb. G. Fran. Sfortiae, l. I, p. 188. —
  Leod. Cribellii de Vita Sfortiae, p. 724._

Qualunque si fosse l'impressione che tali presagi avevano fatto sulla
mente di Braccio, non lasciò di spingere con tutto l'ardore l'assedio
dell'Aquila. Dal canto loro gli abitanti di questa città, privi de'
soccorsi che aspettavano dallo Sforza, non perciò si scoraggiarono; non
s'arresero alle intimazioni di Braccio; distribuirono le vittovaglie con
maggiore economia, e fecero sapere alla regina che credevansi in istato
di potersi difendere fino al primo giorno di giugno, supplicandola a non
differire dopo tale epoca a soccorrerli[457].

  [457] _Vita Brachii a J. Campano, l. VI, p. 616._

Tostocchè Giovanna si vide in possesso della sua capitale, pensò a
liberare una città fedele, che da sì lungo tempo, per cagion sua,
soffriva tanti patimenti, e ad allontanare dai confini del regno il solo
nemico che poteva darle timore. Martino V prometteva di assecondarla con
tutte le sue forze, ed il duca di Milano le spedì ajuti, onde impedire
Braccio di soccorrere i Fiorentini. L'armata combinata di questi tre
sovrani si adunò sotto Giacomo di Caldora, il più attempato de'
condottieri che militavano nel regno di Napoli; e Francesco Sforza con
tutta la sua valorosa gente si pose sotto il di lui comando.

L'armata del Caldora era del doppio o del terzo più numerosa di quella
di Braccio; ma questi invece aveva il vantaggio del terreno,
imperciocchè i suoi nemici, per giugnere al piano in cui era accampato,
dovevano attraversare le scoscese montagne di san Lorenzo; e la
cavalleria pesante non poteva, senza grandissimo pericolo, scendere per
que' tortuosi sentieri in faccia al nemico. Ma Braccio, troppo
impaziente per rimanere lungo tempo in tanta incertezza, volle affidare
la sorte della guerra ad una sola battaglia. Opponeva al numero de'
nemici la fiducia ne' proprj talenti, e lo sperimentato valore de' suoi
soldati. Egli null'altro temeva che di vedere il Caldora procrastinare
la guerra, a cagione delle difficoltà del passaggio della montagna; onde
gli spedì un araldo per invitarlo ad una battaglia, promettendogli di
aspettarlo nella pianura e di non attaccarlo nelle gole della montagna,
di cui gli dava il libero passaggio. Il Caldera risguardò tale disfida
come una rodomontata, e credendo di non si dover fidare alla promessa
che l'accompagnava, non volle accettarla e rispose ancor esso con altra
braveria. Ma Braccio, che credevasi legato dalla fatta offerta, non
trascurò in ogni modo di trarre vantaggio dai luoghi che occupava.
Chiuse il canale del piccolo fiume che scorre presso l'Aquila, facendo
che le sue acque inondassero la pianura dove aspettava i nemici, e si
tenne sicuro che quando i loro cavalli scenderebbero stanchi dalla
montagna, ed entrerebbero in uno sconosciuto pantano, gli sarebbe
agevole il tirar profitto dal loro disordine[458].

  [458] _Vita Brachii a J. Campano, l. VI, p. 617._

Il Caldora, dopo avere inutilmente tentato di soccorrere la città senza
dare battaglia, o senza aprirsi altrove un passaggio per giugnere
all'Aquila, si trovò costretto di prendere la strada della montagna di
san Lorenzo. Tremavano i cavalieri scendendo per quegli angusti e
sinuosi sentieri, ove trovavansi in balìa de' nemici. Osservavano al di
sopra di loro l'infanteria occupare le strette per le quali passavano.
Ma Braccio l'aveva colà posta per tagliare la ritirata alle truppe della
Chiesa, non per impedire che si avvicinasse, e malgrado le istanze de'
suoi ufficiali, non volle dare cominciamento alla battaglia prima che il
Caldora fosse giunto in sul piano con tutti i suoi corazzieri.

Aveva Braccio incaricato Niccolò Piccinino, il migliore de' suoi
capitani, di custodire con quattro compagnie di sessanta corazzieri la
porta dell'Aquila, e di non abbandonare quel posto, per qualsiasi
motivo. Aveva mandata tutta l'infanteria sulle alture, perchè attaccasse
i nemici alle spalle, tostocchè fossero dalla cavalleria disordinati. Il
2 giugno del 1424 diede cominciamento alla battaglia alla testa de' suoi
corazzieri tre volte meno numerosi che quelli del Caldora; e col
consueto suo impeto spinse bentosto il nemico alle falde della montagna,
e lo sgominò affatto. Michelotto Attendolo, uno dei parenti dello
Sforza, fece allora avanzare l'infanteria, con ordine di approfittare
della mischia per cacciarsi sotto i cavalli, e ferirli di fianco; ed
infatti i pedoni dello Sforza smontarono in poco tempo molte compagnie
de' corazzieri di Braccio, e sparsero il disordine nel rimanente. In
questo istante Niccolò Piccinino, volendo riordinare i suoi commilitoni,
abbandonò la guardia della porta che gli era stata affidata, malgrado il
contrario ordine di Braccio, e mentre questi non aveva potuto dare i
convenuti segni all'infanteria, quando aveva appunto bisogno di farla
scendere dalle alture che occupava; la battaglia fu perduta, perchè i
primi abbandonarono la loro posizione ed i secondi si ostinarono a
restare ove si trovavano. Quando gli abitanti dell'Aquila videro che le
loro porte erano libere, uscirono in numero di sei mila e piombarono
alle spalle dell'armata di Braccio, il quale mentre scorreva le file per
incoraggiare i suoi soldati, fu ferito nella gola da un colpo di spada,
e rovesciato da cavallo. I suoi guerrieri, sentendo che era caduto, si
posero tutti in fuga. Braccio, rialzato dai suoi nemici, venne condotto
alla tenda del Calodra: ma egli non volle mai nè rispondere, nè fare
segno alle generose offerte ed ai conforti che gli davano i suoi nemici.
A molti de' suoi soldati, ch'erano con lui prigionieri, venne permesso
di recarsi presso al loro generale e di parlargli senza testimonj, ma
non ottennero giammai da quell'anima alteramente feroce alcun segno
d'aggradimento delle loro cure, nè mai volle prendere cibo. Sebbene i
medici avessero dichiarato che la ferita non era mortale, dopo avere
passati tre giorni senza mangiare o bevere o pronunciare una sola
parola, morì di cinquanta sei anni il 5 giugno del 1424. I gemiti ed i
singhiozzi de' suoi soldati risuonarono nel campo de' vincitori; ed una
vittoria conseguita colla morte di così grand'uomo riuscì rincrescevole
agli stessi suoi nemici. Il suo cadavere fu mandato a Roma, ove il papa
lo fece seppellire in luogo profano, siccome scomunicato[459].

  [459] _Vita Brachii Perusini a J. Campano, l. VI, p. 620. — Joh.
  Simonetae de R. G. a Franc. Sfortiae, l. I, p. 192-200. — Leodrisii
  Cribellii de Vita Sfortiae, p. 729-732. — Ann. Bonincontrii Miniat.,
  p. 133. — Giornali Napoletani, p. 1092. — Lettre de Martin V, au roi
  de Castille. Ann. Eccl. 1424, § 16, t. XVIII, p. 69._

La morte di Braccio distrusse in un istante il principato ch'egli aveva
formato. Perugia il 19 di luglio aprì le porte al papa, a condizione che
gli emigrati del partito de' Raspanti non sarebbero richiamati in città,
e che il castello di Montone, patrimonio degli antenati di Braccio,
verrebbe consegnato al conte Oddo suo figliuolo. Le altre città dello
stato della Chiesa seguirono l'esempio di Perugia, e Martino V rivocò la
scomunica pronunciata contro di loro[460]. Capoa ed i varj feudi,
ch'erano stati accordati a Braccio nel regno di Napoli, tornarono alla
regina. Il conte Oddo, figliuolo di Braccio, coll'ajuto di Niccolò
Piccinino, raccolse una parte dell'armata paterna, ed i Fiorentini, che
di quest'epoca avevano estremo bisogno di truppe, presero questi due
generali al loro soldo con quattrocento lance, ossiano mille due cento
corazzieri[461].

  [460] _Annales Eccl. Rayn. 1424, § 16, p. 69. — Vita Martini V ex
  additamentis ad Ptolom., p. 866. — Math. de Griffon. Memor. Hist.,
  p. 230. — Cher. Ghirardacci Stor. di Bologna, l. XXIX, t. II, p.
  646._

  [461] _Commentari di Neri di Gino Capponi, p. 1163._

Il duca di Milano, non contento di avere violato il trattato conchiuso
coi Fiorentini, disponendo di Sarzana, città posta al di là della Magra
e dei confini ch'egli medesimo aveva stabiliti ne' trattati alle sue
conquiste, aveva pure mandate, dietro domanda del legato, truppe a
Bologna per attaccare Castel Bolognese, ove si erano rifugiati gli eredi
della casa Bentivoglio[462]. Da ogni lato le sue armate s'andavano
avvicinando alla Toscana, ove cercava di ravvivare il partito che in
addietro vi aveva avuto suo padre. Dopo la morte di Giorgio degli
Ordelaffi, signore di Forlì, accaduta il 25 gennajo del 1422, la di lui
vedova Lucrezia degli Alidosi, figlia del signore d'Imola, era rimasta
tutrice di suo figlio, Teobaldo degli Ordelaffi, in età di soli nove
anni, e governava il suo piccolo stato sotto la protezione dei
Fiorentini. Ma sua cognata, Catarina degli Ordelaffi, erasi posta alla
testa del partito ghibellino di Forlì. Incoraggiata dalle segrete
offerte del duca di Milano, eccitò il popolo a prendere le armi ed il 14
maggio del 1423 fece arrestare sua cognata Lucrezia, e scacciare tutti
gli Imolesi e tutti i Fiorentini che questa aveva chiamati a Forlì,
introducendo in loro vece in città una guarnigione milanese[463]. Questa
era dal canto del duca di Milano un'espressa violazione del trattato di
pace; perciocchè aveva riconosciuto che tutta la Romagna fosse sotto la
protezione dei Fiorentini, ed erasi obbligato a non prendere parte nelle
rivoluzioni di questa provincia. I Fiorentini mandarono a Forlì Pandolfo
Malatesti, per liberare la fortezza assediata dai Milanesi; ma questo
principe fu battuto il 6 settembre 1423 a ponte a Ronco dal generale del
duca di Milano, e da quell'istante la guerra si accese in Romagna[464].

  [462] _Math. de Griffon. Memor. Histor., p. 229. — Cron. di Bologna,
  t. XVIII, p. 612. — Poggio Bracciolini Hist. Flor. l. V, p. 324._

  [463] _Chron. Foroliv. Frat. Hieronimi, t. XIX, p. 890. — Ann.
  Foroliv., t. XXII, p. 212. — Chron. Tarvisinum Redusii de Quero, p.
  851. — Poggio Bracciolini Hist., l. V, p. 323._

  [464] _Andrea Biglia Histor. Mediol. l. IV, p. 63. — Commentarj di
  Neri di Gino Capponi, p. 1162._

Filippo Maria più non si tenendo obbligato da alcun rispetto, fece
entrare in Romagna Agnolo della Pergola con una più numerosa armata.
Questo generale, passando a canto ad Imola, sorprese questa città il 10
febbrajo del 1424, approfittando del gelo che aveva agghiacciate l'acque
delle fosse in modo da potervi camminar sopra[465]. Luigi degli Alidosi,
preso nella sua capitale, fu mandato nelle prigioni di Milano; pochi
giorni dopo Guid'Antonio di Manfredi, signore di Faenza, dichiarossi a
favore del duca, ed il papa, favoreggiando lo stesso partito, richiamò
da Bologna il legato Condolmieri perchè creduto amico dei
Fiorentini[466].

  [465] _Chron. Foroliviense Frat. Hieron., p. 891. — Math. de
  Griffon. Memor. Histor., p. 229. — Cron. di Bologna, p. 613._

  [466] _Poggio Bracciolini Histor., l. V, p. 328. — Cronica di
  Bologna, p. 614._

La guerra per questi ultimi ricominciava sotto i più svantaggiosi
auspicj; Braccio, che doveva essere il loro principale difensore, e che
riceveva un'annua pensione come prezzo de' servigj che doveva prestare
ad ogni inchiesta, dopo avere lungo tempo deluse le loro istanze era
stato rotto con tutta la sua armata. I deputati fiorentini erano stati
spogliati dai vincitori nel suo campo, ov'eransi recati per portargli
sessanta mila fiorini pel soldo delle truppe[467]. Per rimpiazzarlo i
dieci della guerra avevano assoldato Carlo Malatesti, signore di Rimini,
ed avevano adunata sotto i di lui ordini un'armata di dieci mila cavalli
e di tre mila pedoni, i di cui principali capi erano Pandolfo Malatesti,
Orso Orsini, Luigi degli Obizzi, e Niccolò di Tolentino[468]. Ma Carlo,
avendo voluto soccorrere il conte Alberico da Barbiano, alleato della
repubblica, che trovavasi assediato da Pergola nel suo castello di
Zagonara, il 27 luglio venne a battaglia col generale milanese, dopo
avere con una lunga marcia in disastrose strade e sotto una violenta
pioggia stancata la sua gente ed i cavalli, onde fu compiutamente rotto
e fatto prigioniero con molti suoi ufficiali. Il duca di Milano, che
talvolta lasciava la sua bassa e perfida condotta per agire con
cavalleresca generosità, accolse il Malatesti colle più vive
dimostrazioni di affetto e di rispetto, quando gli fu condotto
prigioniero a Milano; dimenticò la sua nimicizia, per non risguardarlo
che come uno degli amici di suo padre ed uno de' suoi tutori, e dopo
averlo trattenuto alcun tempo tra le feste ed i piaceri della sua
capitale, lo rimandò libero senza taglia con tutti i prigionieri. Da
quest'istante il Malatesti, vinto dalle cortesie del duca, abbandonò i
Fiorentini per attaccarsi a questo principe[469].

  [467] _Joh. Simonetæ, l. I, p. 197._

  [468] _Poggio Bracciolini Hist., l. V, p. 329. — Andreæ Billii
  Histor. Mediol., l. IV, p. 67._

  [469] _Poggio Bracciolini, l. V, p. 332. — Comment. di Neri di Gino
  Capponi, p. 1163. — Andreæ Billii Hist. Mediol., l. IV, p. 68. —
  Ann. Bonincontrii Miniat., p. 133. — Cron. di Bologna, p. 615. —
  Chron. Foroliv., t. XIX, p. 894._

Il conte Oddo, figliuolo di Braccio da Montone, e Niccolò Piccinino
giunsero in appresso a Firenze cogli avanzi dell'armata disfatta innanzi
all'Aquila. Il Piccinino, dopo avere raccolti i soldati fuggiti alla
rotta di Zagonara, tenne in dovere alcuni castelli dello stato d'Arezzo
che di già apparecchiavansi alla ribellione; ma quando volle in appresso
passare in Romagna cadde, mentre attraversava la valle di Lamone, il 1.º
febbrajo del 1425, in un'imboscata di contadini; cadde morto il conte
Oddo, egli stesso venne fatto prigioniero, e dispersa per la terza volta
tutta l'armata fiorentina[470]. Vero è che il Piccinino prigioniere
venne condotto presso Guid'Antonio Manfredi, signore di Faenza, il quale
aveva motivo d'essere scontento del duca. Ammesso alla sua confidenza,
gli fece sentire quanto più vantaggiosa gli sarebbe l'alleanza de'
Fiorentini che non quella del Visconti, e lo persuase a cambiare
partito. Il signore di Faenza dichiarò la guerra al duca di Milano il 29
marzo del 1425 e rese la libertà al generale suo prigioniero[471].

  [470] _Comment. di Neri di Gino Capponi, p. 1163. — Macchiavelli
  delle Istor. Fiorent., l. IV, p. 26. — Math. de Griffonibus Memor.
  Histor., p. 230._

  [471] _Chron. Tarvis. Redusii de Quero, p. 852. — Poggio Bracciolini
  Histor. Florent., l. V, p. 332._

Nello stesso tempo i Fiorentini fecero avanzare un'altra armata nella
Liguria, mentre che di concerto con Alfonso d'Arragona avevano armata
una flotta di ventiquattro galere catalane, che presentossi in faccia al
porto di Genova il 10 aprile del 1425. L'antico doge, Tomaso di Campo
Fregoso, era a bordo di questa flotta, sperando di ridestare lo zelo de'
partigiani di sua famiglia, dei Fieschi e di tutto il partito guelfo. Ma
invano egli chiamò i Genovesi a scuotere il giogo di Filippo e dei
Ghibellini; l'odio del popolo contro i Catalani era più forte che l'odio
per la tirannide; e la flotta arragonese dovette ritirarsi, e l'armata
fiorentina in cui trovasi un fratello del doge, fu battuta a
Rapallo[472].

  [472] _Poggio Bracciolini, l. V, p. 330. — Joh. Simonetæ, l. II, p.
  203. — Joh. Stellæ Ann. Genuens., p. 1292. — Ubertus Folieta
  Genuens. Histor., l. X, p. 558. — Ricordi di Giovanni Morelli.
  Deliz. degli Erud., t. XIX, p. 65._

Niccolò Piccinino, che la repubblica risguardava come il suo più fedele
capitano, avendo avuto qualche diverbio coi dieci della guerra, lasciò
il servigio dei Fiorentini per passare a quello del duca di Milano, che
di già aveva preso al suo soldo Francesco Sforza con due mila
cavalli[473]. Poco dopo Bernardino della Carda degli Ubaldini, nuovo
generale della repubblica, fu battuto ad Anghiari il 9 di ottobre da
Guido Torello: e per ultimo il 17 dello stesso mese i Fiorentini
provarono un'eguale disfatta alla Fagiuola; era questa la sesta, dopo
cominciata la guerra, senza che in mezzo a tante perdite ottenessero
nulla di prospero[474].

  [473] _Poggio Bracciolini, l. V, p. 335. — And. Billii, l. IV, p.
  70. — Simoneta, l. II, p. 203. — Ann. Bonincontrii, p. 134. —
  Capponi Comment., p. 1164. — Leon. Aretini Com. de suo temp., p.
  933._

  [474] _Ricordi di Gio. Morelli, p. 68._

A questa serie di sciagure i Fiorentini opposero un indomabile coraggio.
Adunarono per la settima volta la loro armata, e si posero in su le
difese. Intanto andavano affrettando ad unirsi a loro tutte le potenze
interessate a mantenere l'equilibrio dell'Italia, e spedirono
ambasciatori all'imperatore Sigismondo, al papa ed ai Veneziani. Il
primo troppo occupato dai Turchi e dagli Ussiti, ed il secondo accecato
dalla sua collera, non le promisero verun soccorso[475]; ma i Veneziani
parvero commossi, onde la repubblica mandò loro tre successive
ambasciate per affrettarli a dichiararsi; ed i signori di Mantova, di
Ferrara e di Ravenna, che cominciavano a temere per sè medesimi
l'ambizione del Visconti, appoggiarono le istanze de' Fiorentini[476].

  [475] _Poggio Bracciolini, l. V, p. 336. — Gio. Battista Pigna Stor.
  de Principi d'Este, l. VI, p. 546._

  [476] _And. Navagero Stor. Venez., p. 1086. — Marin Sanato Vite dei
  Duchi di Venezia, p. 976. — Platina Histor. Mant., l. V, p. 802._

Un trattato di pace legava ancora per cinque anni il duca di Milano e la
repubblica di Venezia; ma il duca non mostravasi scrupoloso osservatore
di tali obblighi, ed erano palesi le sue pretensioni sulle città di
Verona, di Vicenza ed ancora di Padova e di Treviso, perchè suo padre le
aveva possedute prima che venissero in potere della repubblica. Bentosto
un uomo, rifugiatosi a Venezia dopo essere stato ne' consigli del duca,
fece sentire alla repubblica che invano differirebbe una guerra, cui in
verun modo non avrebbe potuto sottrarsi.

Era questi il conte Francesco Carmagnola, lungo tempo il favorito del
duca di Milano, di cui aveva per così dire creata la potenza. Per
compensarlo de' suoi meriti il duca lo aveva ricevuto nella propria
famiglia, e datogli il nome di Visconti; ma dopo qualche tempo era
caduto in disgrazia del suo signore, cui davano grandissima cagione di
gelosia le immense sue ricchezze, l'affetto de' soldati, e perfino la
memoria de' suoi servigj, troppo importanti per un principe ingrato. Di
già il comando della flotta Genovese, destinata all'impresa di Napoli,
era stato tolto al Carmagnola per esser dato a Guido Torello[477]. Non
molto dopo Filippo volle privare il Carmagnola del comando di trecento
cavalli, che questi conservava unitamente al governo di Genova, onde il
generale scrisse al duca supplicandolo di non allontanare dai soldati un
uomo come lui, nato e cresciuto tra le armi; ma egli non ebbe risposta.
Partì in allora per Abbiate Grasso, ove trovavasi la corte; e per la
prima volta il Carmagnola si vide negato l'ingresso agli appartamenti
del sovrano, sotto pretesto che il duca era occupato in affari:
insistette, e non gli fu risposto; alzò la voce in maniera di farsi
sentire da Filippo, protestando la propria innocenza, accusando
gl'invidiosi, e giurando in fine che si farebbe desiderare, e che quello
che gli chiudeva la porta, si pentirebbe un giorno di non averlo
ascoltato. Subito dopo partì co' suoi cavalieri, e più non fermossi,
finchè non giunse ad Ivrea sul territorio del duca di Savoja.
Presentossi ad Amedeo, di cui era nato vassallo; gli appalesò i progetti
del Visconti contro di lui, lo esortò a prendere le armi fin ch'era in
tempo, ed a prevenire l'attacco del suo nemico, poichè non poteva
schivarlo[478]. Attraversò in appresso la Savoja e la Svizzera per
recarsi a Venezia, ove giunse il 23 febbraio del 1425, ed operò ancora
con maggior calore presso il senato di questa repubblica, che non aveva
fatto presso il duca di Savoja per vendicarsi di un principe che
dimenticava i suoi beneficj, lusingandosi di abbassarlo come lo aveva
innalzato. Dal canto suo Filippo, informato delle pratiche del
Carmagnola, gli fece confiscare tutti i suoi beni, che in allora davano
il reddito di quaranta mila fiorini[479].

  [477] _Joh. Stellæ Ann. Genuens., p. 1289._

  [478] _And. Billii Histor. Mediol., l. IV, p. 72. — Joh. Simonetæ,
  de R. G. Francisci Sfortiæ, l. II, p. 201._

  [479] _Redusii de Quero, Chron. Tarvis., p. 854. — Marin Sanuto Vite
  de' Duchi di Venezia, p. 978. — Gio. Battista Pigna Stor. de' Princ.
  d'Este, l. VI, p. 549._

Subito dopo il suo arrivo in Venezia era stato il Carmagnola preso al
servizio della repubblica con trecento lance; ma il senato non si
riduceva ad accordargli intera confidenza, dubitando che potesse essere
simulata la sua contesa col duca, e sapendosi che altri ministri del
duca si erano rifugiati presso i suoi nemici per averne il segreto, e
per tradirli. La signoria tardava ancora a dare una soddisfacente
risposta agli ambasciatori fiorentini: temeva di venire in aperta
rottura col duca e voleva prendere consiglio dagli avvenimenti.
Frattanto ogni mese sentivansi accaduti nuovi disastri alla repubblica
fiorentina, e Lorenzo Ridolfi, uno dei dieci della guerra, ch'era venuto
in qualità d'ambasciatore a Venezia, gridò nel consiglio con impazienza:
«Signori, i vostri indugi hanno di già reso Filippo Visconti e duca di
Milano, e signore di Genova, e sagrificando noi, voi andate a farlo re
d'Italia; ma noi pure, se saremo forzati di assoggettarci a lui, lo
faremo imperatore[480].»

  [480] _Gio. Batt. Pigna Stor. de' Principi d'Este, l. VI, p. 550. —
  Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venez., p. 979. — Poggio Bracciolini
  Histor. Flor., l. V, p. 336._

Un tentativo del duca di Milano per far avvelenare a Treviso il
Carmagnola dissipò tutti i dubbj che i Veneziani avevano sul reciproco
odio del principe e del suo generale[481]; e ciò diede maggior peso alle
rimostranze del Carmagnola. Il senato si adunò finalmente il 14 dicembre
del 1425, per prendere una finale risoluzione; e gli ambasciatori di
Firenze, quelli di Milano, ed il Carmagnola furono ammessi a parlare
innanzi a così augusta assemblea.

  [481] _And. Billii Hist. Mediol., l. V, p. 81. — Poggio Bracciolini
  Hist., l. V, p. 338._

Lorenzo Ridolfi, dopo avere ricordato l'odio che costantemente si
mantenne tra i tiranni e le città libere, odio che può rimanersi
coperto, ma non mai spento in fondo dei cuori; dopo avere dimostrato
quale era stata la costante politica della casa Visconti, e la serie
delle sue usurpazioni; finalmente dopo avere dimostrato che il duca
aveva violati tutti gli obblighi contratti con Firenze, chiamò i
Veneziani a pensare al proprio pericolo. «Di già, egli disse, noi ci
siamo spogliati con questa guerra; abbiamo sparse per tutta l'Italia le
gemme ed i giojelli delle nostre spose e delle nostre figlie; e tutto
abbiamo venduto quanto avevamo di prezioso per combattere. Le nostre
spese ammontano a più di due milioni di fiorini d'oro, che quando si
fosse venduta l'intera Firenze non sarebbesi avuta così gran somma. Ma
dopo di noi voi sarete i primi ad essere schiacciati. Se voi amate
quella libertà di cui si gloria a ragione la vostra città, finchè siete
ancora liberi, unite le vostre armi a quelle degli uomini liberi.
Dividete con noi la cura della salvezza pubblica, finchè ci resta la
forza ed il coraggio di difendere la nostra dignità; imperciocchè noi
cerchiamo alleati per dividere con loro il peso della guerra, non per
gettarlo addosso a loro: per pesante ch'egli sia noi ne sopporteremo
ancora la maggior parte»[482].

  [482] _Andreæ Billii Hist. Mediol., l. V, p. 78._

L'ambasciatore milanese purgò il suo padrone dalle imputazioni dei
Fiorentini; diede plausibili motivi alla guerra che egli sosteneva
contro di loro; e per provare la moderazione dei Visconti, ricordò la
lunga amicizia che gli aveva legati ai Veneziani, sebbene dopo le
conquiste di Giovanni Galeazzo i due stati fossero diventati
limitrofi[483]. Ma Francesco Carmagnola, che parlò l'ultimo, fece
evidentemente conoscere quanto il duca fosse alieno dal voler mantenere
i trattati che aveva giurati. Palesò i suoi macchinamenti ed i segreti
intrighi; soprattutto dipinse il di lui carattere; la sua segreta
ambizione, non proporzionata alle forze del suo stato, non al vigore
della sua anima, non ai talenti del suo spirito. Mentre i suoi tesori
erano esausti, e che l'odio de' suoi popoli era esacerbato, lo
rappresentò chiuso ne' suoi giardini ascoltando i vani ragionamenti de'
suoi cacciatori, e parlando soltanto di feste e di piaceri coi suoi
favoriti. Intanto i suoi generali non potevano ottenere di vederlo,
quando ancora per lui si esponevano ai rischi delle battaglie; onde i
suoi ministri, contro de' quali niuno era ammesso a parlare, erano in
libertà di opprimere il popolo colle imposte. «Egli tiene in prigione
(soggiunse egli) mia moglie e le mie figlie, credendo d'essere con ciò
ancora mio padrone; ma dovunque io mi sentirò libero, crederò d'avere
trovata una patria. Questa città, che apre un asilo ai mercanti di tutte
le nazioni e di tutte le religioni, non ne ricuserà certo uno al
Carmagnola. Io reco pure tra le vostre mura il mio mestiere, quello
della guerra. Datemi delle armi, datemele contro quello che mi ha
ridotto a questa dura necessità, e voi allora vedrete se io saprò
difendere voi e vendicare me stesso[484].»

  [483] _Ivi, p. 79._

  [484] _Andreæ Billii Hist., l. V, p. 82. — Poggio Bracciolini, l. V,
  p. 337._

Il senato di Venezia era di già scosso da questo ragionamento e da
quello di Giovan Francesco di Gonzaga, signore di Mantova, che invocava
la protezione della repubblica contro il Milanese[485]: il doge
Francesco Foscari terminò di strascinare gli spiriti. «Ajutiamo i
Fiorentini, gridò egli, mentre che Dio gli ajuta, mentre s'ajutano pure
da sè medesimi: sappia tutto il mondo che i nostri amici ed i nostri
veri alleati sono quelli che, come noi, si sagrificano per la libertà;
che, ovunque la libertà spiega le sue insegne, venga altresì ripetuto il
nome veneziano[486].» Il trattato d'alleanza tra Firenze e Venezia fu
sottoscritto. Le due repubbliche si obbligarono a mettere in campo a
spese comuni sedici mila cavalli ed otto mila fanti. Promettevano i
Fiorentini di equipaggiare una flotta sul mare di Genova, ed i Veneziani
di farne rimontare una per il Po. Finalmente tutte le conquiste che
colle loro armi potrebbero essere fatte in Lombardia dovevano
appartenere ai Veneziani[487]. Il marchese di Ferrara, il signore di
Mantova, i Sienesi, il duca Amedeo di Savoja ed il re d'Arragona
entrarono successivamente in quest'alleanza, e la guerra fu dai
confederati dichiarata al duca di Milano il 27 gennajo del 1426[488].

  [485] _Platina Hist. Mant., l. V, p. 802. — Gio. Batt. Pigna Stor.
  de' Principi d'Este, l. VI, p. 550._

  [486] _Andreæ Billii Hist., l. V, p. 85._

  [487] _Poggio Bracciolini, l. V, p. 339. — Andr. Navagero Stor.
  Ven., p. 1086._

  [488] _Andreæ Billii Hist. Mediol., l. V, p. 85. — J. Simonetae, l.
  II, p. 205. — Istor. Anon. di Firenze, t. XIX, p. 973. — Marin
  Sanuto Vite dei duchi, p. 982._

Il Carmagnola adunò le sue truppe nello stato di Mantova, mentre il
marchese d'Este formava un'armata sul Panaro, ed i Fiorentini
ingrossavano quella che Niccolò di Tolentino, loro generale, comandava
in Toscana. Il Carmagnola voleva aprire la campagna colla sorpresa di
Brescia. Aveva molti partigiani in quella città, ch'egli aveva di già
tolta a Pandolfo Malatesti, e di cui si era fin d'allora dichiarato il
protettore. Tutti i Guelfi che abitavano in un separato quartiere
circondato di mura, erano malcontenti della casa Visconti che gli
opprimeva; alcuni soldati avevano pure promesso d'aprire la cittadella
ai Veneziani; ma si suppone che il duca di Milano, dopo avere scoperta
la loro trama, prendesse le opportune misure per conservare le fortezze,
e chiudesse gli occhi sulle pratiche de' Guelfi, che pure gli erano
note, onde prendere motivo, tostocchè si manifestassero, d'infierire
contro quella fazione e di confiscarne i beni[489].

  [489] _Andreae Billii Histor., l. V, p. 86._

La città di Brescia era in allora formata di molti quartieri difesi da
separate fortificazioni. Eravi sulla montagna che la signoreggia una
fortezza circondata da doppie mura, e sostenuta da torri, le une alle
altre assai vicine. Un secondo giro di mura formava sotto alla prima una
seconda fortezza, abitata dai Ghibellini; al di sotto, in sulla diritta,
trovavasi la terza, detta la cittadella nuova, spettante alla Porta
Filaria; ed era a mano manca l'altro quartiere, che stendesi nel piano,
formante la più bassa parte di Brescia, che chiamavasi città guelfa. In
questo solo quartiere fu introdotto il Carmagnola il 17 marzo del 1426,
senza che gli fosse pur data la porta di Garzetta, che trovasi in fondo
alla città, perchè custodita dalla guarnigione milanese[490].

  [490] _J. Simonetae, l. II, p. 205. — Poggio Bracciolini Hist., l.
  V, p. 340. — Platina Hist. Mant., l. V, p. 804. — Redusius de Quero
  Chron. Tarvis., p. 855._

La prima notizia dell'occupazione di Brescia cagionò molta gioja in
Venezia ed in Firenze; ma quando seppesi che il Carmagnola non era
padrone che di alcune strade e di poche piazze, mentre tutti i luoghi
forti della città si conservavano pel duca di Milano, si perdette la
speranza ch'egli vi si potesse mantenere, tanto più che Guido Torello,
Francesco Sforza, Niccolò Piccinino ed altri illustri capitani si
avanzavano per riprendere così importante città. Per altro il Carmagnola
supplì colla sua attività al pericolo della propria situazione; separò
con una fossa larga e profonda il quartiere ch'egli occupava dalla più
vicina fortezza, ed intraprese nel tempo medesimo l'assedio di porta
Garzetta. Quando Niccolò di Tolentino, generale dei Fiorentini, giunse
nel suo campo, cominciò pure l'assedio di due cittadelle; e perchè non
potessero ricevere esterni soccorsi, le chiuse con una fossa lunga più
di due miglia, e larga venti piedi sopra dodici di profondità. In questi
diversi assedj si rinnovavano le zuffe senza interrompimento; e
l'artiglieria, che cominciava in allora ad essere comunemente adoperata,
essendo più micidiale che per l'addietro, distruggeva facilmente quelle
fortificazioni che non erano state fatte per resistere alla sua furia.
La porta di Garzetta fu la prima ad arrendersi, e poco dopo la
cittadella nuova. Angelo della Pergola ricondusse dalla Romagna per
ordine del duca l'armata con cui vi aveva sostenuta la guerra e passò il
Panaro per negligenza, o per connivenza del marchese d'Este, che aveva
sopra di sè la difesa di quel passaggio. Per tal modo tutti i
condottieri del duca si trovavano riuniti in vicinanza di Brescia,
formando un esercito di oltre quindici mila corazzieri con un
proporzionato numero d'infanteria: ma la gelosia de' capi e la loro
insubordinazione posero ostacolo ai profitti che tirar potevano da così
ragguardevoli forze. Essi non attaccarono le linee del Carmagnola che
quand'era troppo tardi per poterle superare, e furono respinti con
perdita; indi i Bresciani, assediati nelle diverse loro fortezze,
dovettero successivamente arrendersi. Cinque diverse capitolazioni
cedettero a lunghi intervalli i diversi quartieri della città ai
Veneziani: la cittadella vecchia ultima si arrese il 20 novembre del
1426, e compì la conquista di Brescia[491].

  [491] _Poggio Bracciolini Hist., l. V, p. 341. — Redusius de Quero
  Chron. Tarvis., p. 856. — Navagero Stor. Venez., p. 1089. — Marin
  Sanuto vite de' duchi di Venezia, p. 896. — Andreae Billii, l. V, p.
  91. — Joh. Simonetae, l. II, p. 208. — Comment. di Neri di Gino
  Capponi, p. 1164._

Quando Agnolo della Pergola evacuò la Romagna per ordine del suo
signore, restituì al papa le due città d'Imola e di Forlì, che aveva
occupate un anno prima. Nello stesso tempo il duca dichiarò di non avere
intrapresa la guerra che pel vantaggio della Chiesa, spogliata de' suoi
stati dai tiranni[492]. Perciò Martino V offrì subito la sua
interposizione per riconciliare le due repubbliche col duca. Mandò il
cardinale di Bologna a Ferrara per invitare ad un congresso le potenze
belligeranti. Colà infatti si recarono i loro deputati, e quelli del
duca di Milano mostravansi disposti a fare tutte le cessioni che
potessero essere chieste. Le città della Romagna, il di cui possedimento
era il principale motivo della guerra, erano restituite al papa, i
castelli conquistati da Agnolo della Pergola erano stati ripresi dai
Fiorentini; il duca non chiedeva d'essere messo in possesso di Brescia,
come nè pure di alcuni villaggi occupati dal duca di Savoja in Piemonte;
anzi acconsentiva di cedere ai Veneziani il restante del territorio
bresciano. La pace venne dunque firmata il 30 dicembre del 1526. Ma il
duca non aveva maggiore costanza nel sottomettersi alle privazioni, di
quel che avesse coraggio nel sopportare i rovesci; quindi aveva appena
sottoscritto questo trattato, che non seppe tollerarne le condizioni; e
riprese subito le armi per vendicarsi di coloro, che lo avevano ridotto
ad accettare una vergognosa pace[493].

  [492] _Math. de Griffonibus Memor. Histor., p. 231._ È questa
  l'ultima volta che noi citiamo questo storico, il quale morì poco
  dopo, il 3 luglio del 1426. — _Annales Forolivienses, t. XXII, p.
  214._

  [493] _Leonardi Aretini Comment., p, 934. — Navagero Stor. Venez.,
  p. 1090. — Marin Sanuto Vite dei duchi, p. 990. — And. Billii
  Histor., l. V, p. 92. — J. Simonetae, l. II, p. 209. — Poggio
  Bracciolini, l. V, p. 344._



CAPITOLO LXV.

      _Seconda guerra de' Fiorentini col duca di Milano. — Rivoluzioni
      nello stato della Chiesa. — Tentativi dei Fiorentini sopra
      Lucca; questa città ricupera la libertà. — Terza guerra col duca
      di Milano. — Morte del Carmagnola._

1427 = 1432.


I Milanesi si erano accostumati al dominio della casa Visconti: una
lunga serie di principi, molti de' quali dotati di non comuni talenti,
taluni ancora di virtù, avevano attaccato a questa dinastia l'onore
nazionale; la sua autorità veniva risguardata come legittima, ed il
diploma che innalzava Giovanni Galeazzo alla dignità ducale aveva
dissipati gli ultimi scrupoli di coloro che ancora condannavano
l'originaria usurpazione di Ottone Visconti. Gli uomini vorrebbero
sempre rispettare coloro cui sono forzati di ubbidire, e ne soffre il
personale orgoglio, quando debbono arrossire pei loro padroni. Perciò
tutto quanto poteva esservi di spregevole nel carattere di Filippo
Maria, veniva avvedutamente dissimulato. Si evitava di giudicare questo
principe intorno ai molti atti di perfidia, intorno alla sua condotta
verso la sua prima consorte, alla sua ingratitudine verso i più fedeli
servitori. Mentre i suoi popoli gemevano sotto il peso delle
contribuzioni, e che i suoi stati venivano guastati da continue guerre,
cercavansi pretesti per giustificare queste medesime guerre, nelle quali
veniva strascinato da insaziabile ambizione, ed ascrivevasi a saggia
politica la pusillanimità con cui nascondevasi agli occhi del pubblico,
come davasi il nome di filosofia alla effeminata sua mollezza, ed alla
sua ricercatezza de' piaceri[494].

  [494] Pietro Candido Decembrio, scrivendo la di lui vita, rese conto
  de' suoi costumi, delle sue abitudini del suo vestire, del suo vitto
  così circostanziatamente, come se l'uomo di cui faceva il ritratto
  avesse meritato d'essere il modello de' principi. Vedansi in
  particolare i trenta ultimi capitoli, _t. XX, p. 1000 e seguenti_.

Non pertanto quando a Milano s'intese a quali condizioni aveva il duca
accettata la pace che gli era stata offerta dai confederati, il popolo
mostrossi scontento che il suo sovrano si fosse sottomesso a tanta
umiliazione. Non sapevasi comprendere come si fosse scoraggiato per la
perdita di una sola città, quando la sua armata numerosa di quindici
mila corazzieri non aveva ancora combattuto; mentre i Fiorentini erano
stati, nel precedente anno, disfatti in sei grandi battaglie, senza che
le loro perdite gli avessero ridotti alla più leggiera umiliazione. I
gentiluomini milanesi credettero compromesso l'onor loro e quello dello
stato dal trattato che il duca aveva accettato; ascrissero a
pusillanimità le cessioni che aveva fatte, ed afferrarono questa
circostanza per domandare che la nazione avesse qualche parte nel
proprio governo.

Una deputazione della nobiltà di Milano supplicò il duca a rompere un
trattato contrario all'onor suo ed alla sua sicurezza; a non evacuare
otto fortezze dello stato di Brescia ch'egli si era obbligato di dare ai
Veneziani, ma che servivano di antimurale ai suoi stati; di non
permettere ai suoi nemici di fortificare una testa del ponte sulla riva
destra dell'Oglio; e per ultimo di non accordare al timore ciò che la
forza non aveva potuto togliergli. Soggiugnevano che se il duca voleva
affidarsi allo zelo ed alla lealtà de' suoi sudditi, i Milanesi lo
renderebbero in breve vittorioso di tutti i suoi nemici. Quando Filippo
Maria volle più partitamente sapere ciò che poteva da loro
ripromettersi, i nobili Milanesi risposero che si obbligavano a
mantenere dieci mila cavalli ed altrettanti fanti sotto le armi, purchè
il duca lasciasse loro l'amministrazione delle entrate della città di
Milano, e rivocasse le regalie usurpate dai suoi cortigiani. Filippo,
dopo di avere discussa questa proposizione nel consiglio de' suoi
favoriti, ricusò di dare motivo al popolo d'immischiarsi negli affari
dello stato, onde non far rigermogliare tra i Milanesi quelle abitudini
repubblicane che i suoi antenati avevano avuto cura di estirpare; ma per
altro risolse di ricominciare la guerra, onde approfittare dei sussidj
indicatigli dalla municipalità di Milano. Di mano in mano che i
Veneziani licenziavano alcune compagnie di corazzieri, egli andava
assoldandole, ed in sul cominciare della primavera, invece di evacuare
le fortezze, in conformità del trattato, spinse improvvisamente le sue
truppe nello stato di Mantova[495].

  [495] _Andreae Billii Hist. Mediol., l. V, p. 92-94. — Poggio
  Bracciolini Hist. Fior. l. V, p. 345._

Il Carmagnola aveva abbandonata l'armata veneziana per rimettersi in
salute, avendo molto sofferto per una caduta da cavallo; e durante la di
lui assenza, i Milanesi avevano ottenuto qualche vantaggio sopra i suoi
luogotenenti. Una flotta, che il duca aveva fatta costruire sul Po,
scese questo fiume senza trovare opposizione, ed occupò Casal Maggiore,
mentre Niccolò Piccinino assediò Brescello. Ma i Veneziani armarono ben
tosto una flotta di trenta galere, che rimontava il Po sotto gli ordini
di Francesco Bembo. Questa giunse fino a breve distanza da Cremona; ove
il 21 maggio incontrò Pacino Eustacchio, l'ammiraglio dei Milanesi.
Niccolò Piccinino ed Agnolo della Pergola trovavansi sulla sponda
meridionale del fiume con sette mila cavalli ed otto mila fanti, e
credevansi a portata di proteggere la loro marina, o per lo meno
d'intimidire i loro nemici, onde confortarono Paccino Eustachio, che
diffidava delle proprie forze, ad entrare in battaglia, lasciandosi
portare dalla corrente del fiume contro i Veneziani che stavano al di
sotto di lui. Quattro galere milanesi, ajutate dalla rapidità della
corrente, attraversarono combattendo tutta la flotta nemica, ma le altre
non osarono seguirle, e Francesco Bembo, approfittando della loro
oscitanza, le andò cacciando contro la riva settentrionale per separarle
dall'armata di terra, e dopo un'accanita battaglia, che non terminò che
il secondo giorno, prese o bruciò tutta la flotta milanese[496].

  [496] _Andreae Billii Hist., l. VI, p. 96. — Poggio Bracciolini
  Hist., l. V, p. 346. — Redusii de Quero Chron. Tarvis., p. 861. —
  Platinae Hist. Mant., l. V, p. 806. — Marin Sanuto vite del duchi di
  Venezia, p. 995._

Per altro l'ammiraglio veneziano non potè trarre molto vantaggio da così
segnalata vittoria, non avendo truppe da sbarco per tentare veruna
conquista in su gli occhi del Piccinino, che lo seguiva a poca distanza.
Bensì bruciò avanti a Cremona tre ridotti che il duca aveva fatto
innalzare per signoreggiare la navigazione del Po, e si avanzò fino alla
foce del Ticino a poca distanza da Pavia; ma qualunque volta misero
piede a terra i suoi soldati, vennero battuti o dispersi, e bentosto
tornò alla volta di Venezia senza tentare colla sua flotta verun altra
impresa[497].

  [497] _Andreae Billii Hist., l. VI, p. 97. — Joh. Simonetae vita F.
  Sfortiae, l. II, p. 210. — Platinae Histor. Mant., l. V, p. 807._

Il Carmagnola, tornato alla sua armata in allora numerosa di dodici mila
cavalli, si fece a trattare con vari castellani delle fortezze del duca,
che cercava di guadagnare col danaro. Il Piccinino, avuto di ciò
sentore, seppe ridurlo con fallaci promesse innanzi a Gottolengo, e colà
lo sorprese il giorno della Ascensione, facendogli mille cinquecento
prigionieri[498]. Fu questo pel Carmagnola un ammaestramento, che in
appresso più non si espose in presenza ai nemici senza avere fortificato
il proprio campo con doppio ricinto di carri, sul quali era solito di
collocare costantemente numerose scolte. Due mila buoi aggiogati ai
carri seguivano ovunque la sua armata e facevano intorno alla medesima
una linea difficilmente superabile.

  [498] _Andreae Billii, l. VI, p. 98. — Poggio Bracciolini, l. V, p.
  348. — Joh. Simonetae, l. II, p. 210. — Gio. Batt. Pigna Stor. de'
  princ. d'Este, p. 560._

Intanto il Carmagnola si portò alla volta di Cremona con intenzione di
assediarla. Dal canto suo credette il duca Filippo Maria di dovere, per
la prima volta dacchè faceva la guerra, incoraggiare le sue truppe colla
propria presenza. Venne a soggiornare in Cremona, mentre il suo campo
trovavasi distante tre miglia da questa città. All'una ed all'altra
armata nuovi corpi e nuovi capitani giugnevano ogni giorno. Gli stati,
diventati più potenti e più ricchi, impiegavano maggiori forze per
combattersi. Assicurasi che a quest'epoca si contarono nel solo
territorio di Cremona circa settanta mila combattenti componenti i due
eserciti[499]; lo che sembrava cosa prodigiosa in tempi, ne' quali si
aveva memoria che tre in quattro mila corazzieri spargevano il terrore
dall'una all'altra estremità dell'Italia. Omai la moltiplicità dei
soldati sforzava a mutare il sistema militare, e ad estendere il piano
della campagna sopra più vaste contrade; mentre in addietro le armate
quasi stazionarie in un solo luogo, senza avanzare o rinculare,
difendevano tutto un anno il passaggio d'un piccolo fiume o il
possedimento di un villaggio.

  [499] _Andreae Billii Hist. Mediol. l. VI, p. 100. — Joh. Simonetae
  de G. F. Sfortiae, l. II, p. 211. — Platinae Hist. Mant., l. V, p.
  808._

Il campo del Carmagnola a Casal Secco era da un largo fosso separato da
quello dei Milanesi. Ognuna delle due parti temeva di passarlo, e
preferiva di essere attaccata piuttosto che d'attaccare. Pure il 12 di
luglio, i generali milanesi, che bramavano di distinguersi in presenza
del loro sovrano, cominciarono l'attacco, e penetrarono perfino nel
campo del Carmagnola. Ma l'estremo calore della stagione rendeva il
terreno polveroso, e tostocchè la cavalleria cominciò la carica, si
trovò ravvolta in così densa nube di polvere, che ad ogni corpo riusciva
impossibile il conoscere o il seguire la stessa direzione. Quando dopo
un'ostinata zuffa si suonò dalle due parti la ritirata, molti cavalieri,
credendo di recarsi al loro quartiere, entrarono in quelli de' loro
nemici. Il Carmagnola, rovesciato da cavallo, fu veduto combattere lungo
tempo a piedi; Giovanni Francesco Gonzaga fu alcun tempo in mezzo ai
nemici; e Francesco Sforza penetrò senza compagni fino nel centro del
campo veneziano; e tutti tre sarebbero rimasti prigionieri se alcuno dei
combattenti avesse potuto vedere a pochi passi di distanza; ma
all'ultimo le due armate si separarono senza sensibile vantaggio
dall'una o dall'altra parte[500].

  [500] _Platinæ Hist., Mant., l. V, p. 808. — Navagero Stor. Venez.,
  p. 1091. — Redusii de Quero Chron. Tarvis. p. 862. — Gio. Batt.
  Pigna Stor. de' principi d'Este, l. VI, p. 562. — Scip. Ammirato, t.
  II, l. XIX, p. 1038. — J. Simonetae, l. II, p. 112._

Intanto dalla banda d'occidente erano contemporaneamente entrati nello
stato di Milano Amedeo, duca di Savoja, Gian Giacomo, marchese di
Monferrato, e Rinaldo Pallavicini. Il duca tornò nella sua capitale per
opporsi ai loro guasti, e spedì contro di loro Ladislao Guinigi, figlio
del signore di Lucca, che dopo di essere stato alcun tempo incerto tra
la lega ed il duca, erasi finalmente attaccato a questi. Ladislao
obbligò i Piemontesi a ritirarsi; ma i Fiorentini non perdonarono a suo
padre quest'atto d'ostilità contro i loro alleati[501].

  [501] _Andreae Billii Histor., l. VI, p. 100. — Joh. Simonetae de
  Gestis Francisci Sfortiae, l. II, p. 213._

Filippo, allontanandosi dalla sua armata di Cremona la lasciò sotto il
comando di quattro generali rivestiti di uguale autorità. Niccolò
Piccinino aveva adunati quasi tutti i soldati di Braccio da Montone, e
ritornato l'essere a quelle bande lungo tempo famose. Lo Sforza
comandava la truppa rivale ch'era stata formata da suo padre. Guido
Torello era stato dal duca posto alla testa delle truppe che aveva messe
insieme il Carmagnola e più volte condotte alla vittoria. Per ultimo
Agnolo della Pergola, invecchiato nelle battaglie, aveva egli medesimo
formata la propria armata. Questi capi, eguali di rango, di reputazione,
di abilità, nudrivano gli uni verso gli altri tanta gelosia, che
comunicavasi ancora ai loro soldati. Perciò il Carmagnola, la di cui
autorità era riconosciuta da tutta la sua armata, aveva un grandissimo
vantaggio sopra i suoi nemici tanto pel segreto che per la rapidità dei
movimenti. Prese quasi in sui loro occhi Bina e Casal maggiore, ed
ognuno di tali acquisti fu cagione di nuova contesa nel campo de' suoi
nemici. Non è già che tra le sue genti non si trovassero di quegli
uomini fieri ed indipendenti, che a stento sanno ubbidire, perciocchè
formavano parte della sua armata i tre principi sovrani di Mantova, di
Faenza e di Camerino, i due parenti dello Sforza Michelotto e Lorenzo
Attendolo, i commissarj dei Fiorentini e de' Veneziani, e finalmente
Paolo Orsini, che più d'ogni altro voleva essere emulo del suo
generale[502]. Ma il Carmagnola aveva tanta dignità; era così risoluto e
tranquillo ne' pericoli, che que' medesimi che più degli altri lo
accusavano d'arroganza, non esitavano mai, quando dovevano ubbidirgli.

  [502] _Andreae Billii Histor., l. VI, p. 101._

A Filippo Maria era nota la gelosia dei suoi generali, ma egli la
fomentava invece di apporvi rimedio; non volendo farne alcuno tanto
grande, che lo potesse adombrare; nè voleva favorire uno di loro in modo
da scontentare gli altri sicchè lo abbandonassero. E quando si vide
finalmente costretto a sottoporre ad una sola la volontà di tanti capi,
volle che il suo generalissimo fosse a tutti superiore per natali e per
grado, più che per riputazione militare, di cui gli altri sarebbero
invidiosi. Fece venire Carlo Malatesti, figlio del signore di Pesaro e
nipote dell'altro Carlo Malatesti, signore di Rimini, e gli affidò il
supremo comando dell'armata[503].

  [503] _Joh. Simonetae de R. G. a Franc. Sfortiae, l. II, p. 213._

Il Carmagnola cercò di provocare il nuovo generale e di metterlo in
opposizione co' suoi luogotenenti, che ben sapeva più di lui esperti. Lo
andava dunque bersagliando, affettava disprezzarlo, senza per altro
offrirgli la battaglia che quando aveva a suo favore il vantaggio del
terreno. Andò finalmente il 10 di ottobre ad attaccare il villaggio di
Macalò poco discosto dall'Oglio, e due in tre miglia dall'armata
milanese, ma in luogo circondato da pantani. Il calore della state gli
aveva in parte asciugati di modo che la superficie più dura, che copriva
il fango, poteva ben sostenere i pedoni, ma non la cavalleria. Il
Carmagnola aveva diligentemente fatto riconoscere questo pantano; onde
ne sapeva ogni sentiere praticabile, e dietro ogni macchia, sopra ogni
tratto di più solido terreno, aveva posto dei soldati, mentre
apparentemente lasciava senza guardie l'_argine_ tortuoso che
attraversava il pantano. I soldati milanesi domandavano altamente la
battaglia, e si consideravano come insultati dalla presa di Macalò fatta
in sui loro occhi. Il Malatesti prendeva parte al loro risentimento,
mentre nel consiglio di guerra molti de' capitani rappresentavano il
pericolo dell'attacco[504]. Ma la vinse il partito più azzardoso,
allorchè coloro che lo proponevano diedero ad intendere che i loro
avversarj mancavano di coraggio. Pochi capitani, valorosi nel pericolo,
hanno avuto il coraggio più nobile e più virtuoso di sprezzare una così
fatta imputazione, quando lo chiedeva l'interesse della loro armata e
della patria.

  [504] Tutti i biografi dello Sforza, del Piccinino, del Malatesti
  ec., assicurano che il rispettivo eroe s'oppose alla battaglia
  voluta dagli altri capi.

L'armata milanese si pose dunque tutta intera sulla stretta strada che
attraversava il pantano, ed improvvisamente, quando più non poteva dare
a dietro, fu assalita a destra ed a sinistra dagli arcieri. Allora la
cavalleria leggiere e l'infanteria del Carmagnola comparvero ai due
lati; e quando i Milanesi uscivano dall'argine per respingere il nemico,
cadevano nel fango, e non potevano più muoversi. Tostocchè la colonna fu
posta in disordine, i fanti del Carmagnola si avanzarono verso l'argine,
e cacciando le spade nel ventre de' cavalli milanesi, rovesciarono i
cavalieri, che, oppressi dal peso delle loro armi, più non potevano
levarsi in piedi. Guido Torello trovò mezzo di salvarsi con suo figlio
per un sentiere che gli venne fatto di scoprire a traverso al pantano;
il Piccinino scorrendo tutto l'argine si aprì una via in mezzo ai
nemici, e Francesco Sforza tornò a dietro; ma Carlo Malatesta fu fatto
prigioniere con otto mila corazzieri, senza che, per quanto vien detto,
ne sia rimasto morto un solo. Tutti gli equipaggi ed immense ricchezze
caddero in potere del vincitore[505].

  [505] _Andreae Billii Hist., l. VI, p. 103. — Poggio Bracciolini
  Hist., l. VI, p. 351. — Gio. Batt. Pigna stor. de' Princ. d'Este, l.
  VI, p. 563. — Platinae Hist. Mantuana, l. V, p. 809. — Jo.
  Simonetae, l. II, p. 213. — Redusii de Quero Chron. Tarvisin., p.
  863. — Marin Sanuto vite dei duchi di Venez., p. 998._

Ma era spento ogni odio tra i soldati de' campi nemici, e quando la
battaglia non aveva costato sangue, terminavasi senza che i combattenti
conservassero risentimento gli uni contro gli altri. I vincitori altro
omai non vedevano ne' loro prigionieri che fratelli d'armi, gran parte
de' quali avevano servito insieme nelle precedenti guerre; quindi
trovavansi vincolati d'amicizia e da guerresca ospitalità con uomini
diventati loro avversarj. Quasi tutti coloro ch'erano stati presi a
Macalò avevano militato sotto il Carmagnola, e nel corso della campagna
avevano più volte mostrato di conservare l'antico amore per questo
generale. Nella notte successiva alla battaglia i soldati di Carmagnola
accordarono quasi tutti la libertà ai soldati nemici da loro presi; onde
i commissarj veneziani recaronsi la mattina alla tenda del generale,
rimproverandogli di perdere tutto il frutto della vittoria con tale
imprudente liberalità. Il Carmagnola ordinò allora che fossero innanzi a
lui tradotti tutti i prigionieri che ancora si trovavano nel campo, e
non se ne rinvennero che quattrocento. «Poichè i miei soldati, disse
egli a questi, hanno data la libertà ai vostri fratelli d'armi; io non
voglio essere meno generoso; andate voi pure, siete liberi.»[506] I
Veneziani non mostrarono verun risentimento per questa mancanza di
deferenza alla loro rimostranza; anzi il consiglio dei dieci mostravasi
affezionatissimo verso il Carmagnola; aveva di già cominciato a
diffidare di questo generale, e di già lo trattava come un uomo che
aveva determinato di sagrificare.

  [506] _Andreae Billii Histor., l. VI, p. 104. — Navagero Stor.
  Venez., p. 1092._

La perdita di una battaglia altro omai non era che una perdita di
danaro. Il duca di Milano dovette somministrare nuovi cavalli e nuove
armi ai soldati rilasciati dal Carmagnola: due soli armajuoli di Milano
gli vendettero cinque mila corazze, ed in breve si rimontò una nuova
armata. Il Carmagnola ricusò di spingere le sue truppe fin presso alle
porte di Milano, come volevano i commissarj veneziani. Forse sentiva
ancora qualche compassione per l'antico suo padrone dopo averlo
bastantemente umiliato, e fors'anco temeva di avventurarsi in un paese
nemico, ove numerose milizie avrebbero supplito alla mancanza di truppe
di linea; ma invece attaccò e sottomise Montechiaro, Orci e Pontoglio, e
presso quest'ultimo castello ebbe luogo l'ultimo fatto d'armi di questa
campagna, nel quale fu rotto di nuovo Niccolò Piccinino[507]. Nello
stesso tempo Angelo della Pergola morì improvvisamente a Bergamo per uno
sbocco di sangue; Ericio, segretario del duca, ch'era stato cagione
della disgrazia del Carmagnola, morì ancor esso con tre altri capitani
di Filippo; onde questi, indebolito da tante perdite, pensò di nuovo a
fare la pace. Trattò prima con Amedeo, duca di Savoja, che staccò dalla
lega delle due repubbliche, lasciandogli Vercelli che questi aveva
conquistata. Sposò sua figlia Maria, ed il 2 di dicembre del 1427
soscrisse una pace separata[508].

  [507] _Andreæ Billii Hist., l. VI, p. 105._

  [508] _Poggio Bracciolini Hist. l. VI, p. 352. — Jo. Simonetae, l.
  II, p. 215._

Durante l'inverno il papa spedì di bel nuovo a Ferrara il cardinale
Nicolò Albergati per riprendere le negoziazioni; era quello stesso
cardinale che aveva conchiuso il trattato del precedente anno. Ad
eccezione dei Veneziani, tutti desideravano la pace. Firenze soccombeva
sotto gli sforzi che aveva fatti in cinque anni continui, senz'avere
acquistato un solo villaggio, o raccolto verun altro frutto da tanti
sagrificj; i signori di Ferrara e di Mantova, il Palavicini ed il
marchese di Monferrato erano ruinati dalla guerra; il duca di Milano
perdeva coraggio, perchè da lungo tempo l'imperatore Sigismondo, cui
chiedeva soccorsi, non gli dava che vane speranze. Lo stesso Carmagnola
aveva soddisfatto alla sua vendetta, ed il di lui carattere altero ed
impetuoso era continuamente offeso dal cupo e sospettoso contegno dei
procuratori di san Marco, che mai non lo abbandonavano, e spiavano tutti
i suoi andamenti. Egli desiderava che la pace col duca gli facesse
ricuperare i suoi beni, e riporre in libertà la consorte e le figlie. Ma
egli stesso aveva fatto conoscere ai Veneziani il piacere delle
conquiste; ed omai la loro ambizione era più attiva ed insaziabile che
quella di verun monarca. In questa medesima epoca essi trovavansi in
quasi continua guerra coi Turchi; il loro commercio veniva disturbato
dai pirati; erano bloccate le piazze marittime che possedevano nella
Grecia, talvolta uccise le loro guarnigioni, e passati a fil di spada
dai Barbari tutti gli abitanti che s'erano posti sotto la loro
protezione[509]. Ma il consiglio dei dieci più omai non riguardava le
sue fortezze del Levante che come banchi di commercio, che contribuivano
bensì alla ricchezza ma non alla grandezza dello stato; si consolava
delle perdite cogli acquisti che andava facendo in terra ferma, e
trascurava la marina, che in altri tempi avea formata la gloria di
Venezia, per impiegare tutte le entrate dello stato nel mantenere
soldati, aspirando a conquistare tutta la Lombardia.

  [509] Così il 13 marzo del 1430 fu tolta ai Veneziani la città di
  Tessalonica. — _Marin Sanuto vite dei duchi di Venezia, p. 1000._

I Fiorentini, in forza del loro trattato coi Veneziani, eransi obbligati
a continuare la guerra, finchè fosse piaciuto di continuarla a questi
ambiziosi alleati. Per altro sollecitavano il senato a dichiarare su di
ciò le sue intenzioni, e tutti gli altri confederati sembravano
apparecchiati a staccarsi dalla lega. Alfonso d'Arragona, in
sull'esempio d'Amedeo di Savoja, aveva fatta una pace particolare col
Visconti, il quale gli aveva fatta sperare la cessione dell'isola di
Corsica; e finchè potesse ottenerne l'assenso dai Genovesi, aveva dato
in mano all'Arragonese Lerici e porto Venere[510]. I Veneziani, che
prima avevano domandato la cessione di Brescia, Bergamo e Cremona con
tutto il loro territorio, si accontentavano adesso delle due prime città
con parte del distretto della terza. Fu loro accordata l'Adda per
confine dalla banda di Milano, ed il duca rese al Carmagnola i suoi beni
e la sua famiglia. Gli altri confederati non ottennero alcun vantaggio
dalla pace; soltanto Filippo Maria si obbligò, come aveva
precedentemente fatto, a non immischiarsi negli affari di Toscana e di
Romagna. Riconobbe per alleati de' Veneziani i signori di Ferrara, di
Mantova e di Monferrato, ed i conti Palavicino e san Pellegrino nello
stato di Parma. Riconobbe pure, quali alleati de' Fiorentini, i Sienesi,
i Fregosi, gli Adorni ed i Fieschi di Genova, i signori di Romagna e
Paolo Guinigi di Lucca: quest'ultimo, che si era posto tra i nemici de'
Fiorentini, venne avvertitamente annoverato tra i loro alleati per
privarlo della protezione del duca di Milano. Il trattato di pace fu
soscritto il 18 di aprile del 1428[511].

  [510] _Jo. Stellae Annales Genuens., l. XVII, p. 1300. — Marin
  Sanuto vite dei duchi di Venez., p. 1000._

  [511] _And. Billii, l. VI, p. 107. — Poggio Bracciolini, l. VI, p.
  352. — Marin Sanuto vite dei duchi di Venezia, p. 1000. — Gio. Batt.
  Pigna, l. VI, p. 564._ — Redusio di Quero finisce a quest'epoca la
  sua cronaca di Treviso, _t. XIX, p. 866_.

Sebbene l'Italia sentisse estremo bisogno di godere alcuni anni di
riposo, onde riparare le perdite fatte in tante guerre, pure dopo pochi
mesi ricominciarono nel suo seno le ostilità. Il segno di una nuova
guerra fu dato negli stati della Chiesa, quasicchè questa provincia si
dolesse d'essere stata risparmiata nelle precedenti turbolenze. Ma
sebbene sembrasse che Martino V avesse fatto prosperare i paesi riuniti
sotto il suo dominio, non era altrimenti amato o stimato dai suoi
popoli. Le imposte da lui moltiplicate non in ragione de' suoi bisogni,
ma dell'avidità d'accumulare tesori, eccitavano universali lagnanze; e
le sue smoderate liberalità verso i parenti che colmava d'onori e di
ricchezze, dividendo con loro le entrate, le fortezze, i soldati,
risvegliavano la gelosia della nobiltà e del clero. Finalmente le città,
subordinate per lo innanzi a' rispettivi signori, sospiravano tuttavia
lo splendore delle piccole loro corti, l'emulazione che esse eccitavano,
le ricompense, le distinzioni, gli onori che accordavano al merito, le
ricchezze che mantenevano in paese. Imola, Forlì, Ascoli e Fermo
parevano deserte dopo avere perduti gli Alidosi, gli Ordelaffi, i
Migliorotti. Bologna, più potente e più ricca, ed accostumata ad una più
intera libertà, sospirava la costituzione della sua antica
repubblica[512]. Il papa teneva in Roma, può dirsi come ostaggio,
Antonio Bentivoglio, figlio di quel Giovanni, che in principio del
secolo aveva usurpata la signoria di Bologna. Egli credeva di dover meno
diffidare della contraria fazione, alla testa della quale vedevasi la
famiglia Canedoli; pure si formò appunto una congiura tra questi per
tornare la patria in libertà.

  [512] _And. Billii Hist. Mediol., l. VII, p. 113._

Si conservò un profondo segreto dai congiurati, tra i quali trovavansi i
capi delle principali famiglie di Bologna[513]. Una comune impazienza di
scuotere il giogo dei preti, un disprezzo universale per la loro debole
e languida amministrazione, erano i legami che univano i congiurati, e
loro assicuravano l'ajuto del popolo. Infatti, il 1.º agosto del 1428,
quando presentaronsi armati sulla pubblica piazza, si udirono da ogni
banda le grida di _vivano le arti e la libertà!_ Furono atterrate le
porte del palazzo pubblico, che venne abbandonato al saccheggio, mentre
il legato si vide costretto a fuggire. Si elessero il gonfaloniere e gli
anziani per governare la repubblica di Bologna secondo le antiche sue
costumanze, e Luigi di Sanseverino fu preso al soldo dalla nuova
signoria con una compagnia di ventura, ch'egli aveva avuto sotto i suoi
ordini nella guerra di Milano[514].

  [513] Oltre i Canedoli, vi si contavano i Zambeccari, i Pepoli, i
  Ramponi, i Griffoni, i Ghisilieri, i Gozzadini ec.

  [514] _Andr. Billii Hist., l. VII, p. 112. — Cron., di Bologna, l.
  XVIII; p. 617._

Ma i Bolognesi non potevano scegliere un più sfavorevole momento per
ristabilire l'antica loro libertà. Tutti i loro vicini, spossati da
lunghe guerre, temevano troppo di entrare in nuovi litigi. I Fiorentini,
ereditarj alleati di Bologna, e protettori di tutte le città libere,
ricusarono di riconoscere il nuovo governo. I vicini signori,
accostumati a ricercare un soldo straniero, offrirono i loro servigi al
papa, il solo sovrano che allora fosse in caso di pagarli. Ladislao
Guinigi, figlio del signore di Lucca, venne spontaneamente ad attaccare
i Bolognesi, prima d'averne avuta commissione da Martino V[515]. Fece
subito lo stesso Carlo Malatesti, signore di Rimini, mentre Giacomo
Caldora, scelto dal papa per suo generale, adunava le sue truppe nello
stato di Modena. Antonio Bentivoglio, per gelosia dei Canedoli, si
avvicinò a Bologna, facendo in tutti i castelli, nei quali aveva qualche
influenza, spiegare le insegne della Chiesa; di modochè la nuova
repubblica fu bentosto bloccata da ogni banda, e privata d'ogni esterno
soccorso.

  [515] _Cronica di Bologna, p. 619._

La guerra di Bologna si trattò con quel misto di mollezza e di
ostinazione che forma il carattere delle guerre ecclesiastiche. I
soldati, come se fossero stati capitanati da preti, non cercavano di
acquistar gloria con verun atto di vigore o di coraggio; non accadevano
nè fatti d'armi di qualche importanza, nè sanguinose zuffe, nè notabili
assedj, ma altronde le armate non si annojavano per la lentezza delle
operazioni, quasi sapessero che il tempo nulla importava alla Chiesa, e
che l'ostinazione è la più sicura guarenzia del buon successo per colui
che può aspettare. Dopo un anno di scaramucce, il 30 agosto del 1429, si
fece una convenzione, in forza della quale l'esercizio della sovranità
venne diviso tra il legato del papa e la signoria[516].

  [516] _Andr. Billii Hist., l. VII, p. 115. — Ann. Bononienses.
  Hieron. de Bursellis, p. 870. — Cron. Miscella di Bologna, p. 623._

Ma la guerra aveva esacerbato l'odio delle due fazioni. La signoria per
le spese della guerra era stata costretta di ricorrere a straordinarie
oppressive imposte. Essa erasi difesa contro le cospirazioni dei
partigiani della Chiesa con una sospettosa vigilanza, ed aveva più volte
puniti i loro attentati con una crudele severità. Era stato versato del
sangue dalle due fazioni, ed i trattati di pace non erano sufficienti a
soffocare tanto odio. L'abate Zambeccari fece inumanamente assassinare
nella sala del consiglio cinque amici dei Bentivoglio, che accusò di
voler far trionfare la loro fazione[517]. Bentosto il legato si vide
costretto ad uscire di città, e le ostilità ricominciarono alla metà di
luglio del 1430, continuando colla stessa mollezza che aveva
caratterizzato la precedente guerra; e malgrado gli sforzi fatti dai
Bolognesi per ottenere la pace, ed i diversi mediatori da loro
adoperati, si protrasse la guerra fino al 22 aprile del 1431. A tale
epoca si terminò con un trattato conchiuso con Eugenio IV, ch'era
succeduto il 3 di marzo a Martino V[518].

  [517] Il 2 aprile del 1430. _Cron. di Bologna, p. 624._

  [518] Martino V era morto il 22 febbrajo 1431. _Cron. di Bol., p.
  632._

Il più potente vassallo della Chiesa, Carlo Malatesti, signore di
Rimini, era morto nell'intervallo delle due guerre il 14 settembre del
1429. Esperto generale, sebbene spesse volte sventurato, egli godeva in
Italia di una considerazione assai maggiore della sua potenza; era
riguardato come il più virtuoso principe del secolo; sapevasi che aveva
presi per suoi modelli i più illustri uomini dell'antichità, de' quali
studiava attentamente la storia; ed in fatti frequentemente scorgevasi
nella sua condotta una generosità ed una grandezza romana, da lungo
tempo affatto sconosciuta agli altri signori d'Italia. La di lui morte
riuscì fatale alla sua casa. Egli non aveva prole, ma Pandolfo
Malatesti, suo fratello, morto un anno prima, aveva lasciati tre
figliuoli legittimati, tra i quali si divise l'eredità dei signori di
Rimini. Un terzo fratello, Malatesta, signore di Pesaro, riclamò contro
una legittimazione, che dava ai bastardi un'eredità cui credeva avere
diritto egli solo. Ricorse al papa, il quale avidamente accolse
l'occasione di regolare la successione del più potente de' suoi
vassalli, o piuttosto di spogliarlo. Martino V diede molti castelli, che
appartenevano ai Malatesti, a Guido di Montefeltro suo parente; riunì al
diretto dominio della santa sede Borgo san Sepolcro, Bertinoro, Osimo,
Cervia, la Pergola e Sinigaglia, non lasciando ai tre nipoti di Carlo
che le tre città di Rimini, Fano e Cesena, delle quali formò a favor
loro tre piccole sovranità feudatarie della Chiesa[519].

  [519] _Andr. Billii Hist. Mediol, l. VII, p. 116. — Ann. Foroliv.
  Anon., t. XXII, p. 215._

Mentre ciò accadeva negli stati della Chiesa, la Toscana non era
tranquilla. L'esaurimento delle loro finanze aveva costretti i
Fiorentini ad accrescere le imposte per pagare gli enormi debiti
contratti nell'ultima guerra; essi fissarono allora una nuova maniera di
percezione, che chiamarono _catasto_[520]. Era una stima di tutte le
private proprietà, mobili ed immobili, dietro la quale ognuno era tenuto
al pagamento della mezza per cento sul suo capitale. Dopo che il catasto
fu terminato a Firenze, la signoria volle pure estenderlo alle città
suddite della repubblica; ma quasi tutte ostinatamente ricusarono
d'assoggettarvisi, ed i cittadini si lasciarono piuttosto mettere in
prigione che fare la dichiarazione dei proprj beni. In particolare la
città di Volterra riclamò i privilegj che le erano stati accordati nel
trattato d'unione, e la promessa fattale di non accrescere i tributi che
pagava _ab immemorabili._ Un Volterrano, chiamato Giusto d'Antonio, dopo
essere stato tradotto in prigione a Firenze, fu rilasciato dietro
promessa di dare la chiesta dichiarazione; ma appena giunto a Volterra
invitò i suoi concittadini alle armi in nome della libertà. Il popolo
furibondo si sollevò, e non essendovi guarnigione in città, occupò
subito le porte e la cittadella. Estremo fu il terrore a Firenze quando
si ebbe avviso di questa sedizione, perchè la causa che aveva fatti
sollevare i Volterrani era comune a tutte le città suddite, e sapevasi
che grandissimo in tutte era il malcontento e la gelosia. I popoli
soggetti ad una repubblica sono più bramosi della libertà, che vedono
vicina senza parteciparne, di quello che lo sieno i popoli sottoposti ad
un signore; ed è veramente cosa assai umiliante d'essere sudditi in
mezzo a cittadini. Pure la prontezza con cui le milizie fiorentine
marciarono contro Volterra spense la ribellione, prima che potesse
dilatarsi. Palla Strozzi, spedito dalla signoria per offrire il perdono
ai Volterrani, e far loro comprendere i pericoli cui si esponevano,
ottenne in pochi giorni di cambiare le loro disposizioni; Giusto
d'Antonio, il capo de' sollevati, fu ucciso dai suoi compagni, e la
città venne aperta senza condizioni ai Fiorentini[521].

  [520] _Catasto_, da cui ci è fatto _Catastro_, significa mucchio,
  _Accatastare_, è un ammucchiare ciò che si vuol misurare, come la
  legna, ec.

  [521] _Macchiavelli Ist. Fior., l. IV, p. 28-35. — And. Billii Hist.
  Med., l. VII, p. 117. — Comment. di Neri di Gino Capponi, p. 1165._

Niccolò Fortebraccio, figlio d'una sorella di Braccio di Montone, ed uno
de' capitani più addetti ai Fiorentini che serviva da più anni, era
stato spedito contro Volterra; e quando questa città fu sottomessa ai
Fiorentini, eccitarono sotto mano Fortebraccio ad invadere il territorio
lucchese. Desideravano vendicarsi di Paolo Guinigi, signore di Lucca,
che nell'ultima guerra si era accostato al duca di Milano contro di
loro; ma prima di attaccarlo apertamente volevano conoscere le
disposizioni de' suoi sudditi a suo riguardo, ed i suoi mezzi di difesa.
Effettivamente Fortebraccio cominciò il 22 di novembre a guastare il
territorio di Lucca, ove si presentò come condottiere e capo di
avventurieri armati per conto proprio[522].

  [522] _Comment. di Gino Capponi, p. 1166. — Petrii Russii senens.
  Hist. Fragm., p. 27. — Leon. Aretin. Comment., p. 934._ —
  Quest'ultimo assicura che Fortebraccio operava spontaneamente, e
  senza partecipazione del governo fiorentino.

Paolo Guinigi aveva regnato in Lucca trent'anni con minore splendore di
Castruccio, ma in un modo meno ruinoso per la sua patria; aveva
utilmente studiata la scienza dell'amministrazione, e la città di Lucca
gli fu debitrice di molte savie leggi e di molte economiche istituzioni,
che conservò fino all'età nostra. Durante il lungo suo regno egli
mantenne quel piccolo stato sempre in pace, e quasi si sottrasse alla
storia, che nulla ebbe a dire sul conto di Lucca in tale spazio di
tempo. Pure Guinigi non ottenne d'essere amato, non possedendo alcuna di
quelle luminose qualità che eccitano l'entusiasmo, e che possono
talvolta far dimenticare al popolo la perduta libertà. Aveva un
carattere negativo, senza generosità, senza grandezza, senza genio,
senza valore, come pure senza vergognosi vizj e senza crudeli passioni.
I suoi sudditi, vedendo sul loro territorio Niccolò Fortebraccio, lo
ritennero mandato dai Fiorentini, e risguardarono il loro signore come
perduto. Tutti i castelli ai confini, ed in particolare quelli di Val di
Pescia, mandarono a prendere dai vicarj più vicini dello stato
fiorentino gli stendardi della repubblica, che spiegarono sulle loro
torri. Quando la signoria fu informata di tali movimenti, adunò i tre
consiglj, e quasi di comune assenso fu decretata la guerra il 14
dicembre 1429 contro il signore di Lucca[523].

  [523] _Comment. di Neri di Gino Capponi, p. 1167._

In quest'occasione si vide con sorpresa che il partito che aveva fatta
più gagliarda opposizione alla precedente guerra, quando trattavasi di
salvare la libertà della repubblica e dell'Italia, votò a favore di
questa, sebbene non avesse altro fondamento che l'ambizione e la sete
delle conquiste. Niccolò di Uzzano l'antico capo del partito guelfo,
fece quanto poteva per impedirla, ma molti giovani influivano più di lui
ne' consiglj della repubblica. Rinaldo degli Albizzi era giunto all'età
necessaria per poter dirigere il partito in addietro formato da suo
padre, e fu in tale occasione secondato da Cosimo e da Lorenzo, figli di
Giovanni de' Medici. L'ultimo era morto in questo stesso anno dopo di
avere colla moderazione, colla dolcezza, colla saviezza, spinta la sua
famiglia ad un altissimo grado di potenza[524].

  [524] _Macchiav. Stor. Fior., l. IV, p. 35 e 39. — Poggio
  Bracciolini Hist. Flor., l. VI, p. 354._

I Fiorentini assoldarono Nicolò Fortebraccio colla di lui armata, ed in
pari tempo spedirono nello stato di Lucca Bernardino della Carda con
ottocento cavalli. Erano talmente spossati dall'ultima guerra, che non
ottennero mai d'avere più di due mila corazzieri. Per l'infanteria non
impiegarono che le proprie milizie; ma il signore di Lucca, da tutti
abbandonato, era così debole che ben prevedevasi che non avrebbe fatta
lunga resistenza. I commissarj della repubblica fiorentina furono i
primi a venire in di lui soccorso colla cattiva loro condotta. Astorre
Gianni, che aveva avuto il carico di sottomettere la Garfagnana, si
portò nella valle di Serravezza, presso Pietrasanta, e sebbene gli
abitanti affezionati al partito guelfo ed ai Fiorentini fossero
spontaneamente andati ad incontrarlo per porsi sotto la protezione della
repubblica, egli abbandonò il loro paese al saccheggio e le persone loro
agl'insulti de' soldati. Così brutta slealtà eccitò l'universale
indignazione, e gli abitanti di Serravezza, ridotti alla mendicità,
riempirono la Toscana di amare lagnanze. Invano la signoria richiamò e
degradò Astorre Gianni, invano restituì i loro beni agli abitanti di
Serravezza, e cercò di compensarli de' sofferti danni; i delitti di cui
i brutali guerrieri disonorano le armi di un popolo, conservansi nella
memoria degli uomini come macchie indelebili; l'odio che ispirano
prepara anticipatamente i loro disastri, e le stesse vittorie arrecano
vergogna alla nazione che gli adopera[525]. Inoltre altri commissarj
fiorentini non si mostrarono gran cosa meno avidi. Pareva che Rinaldo
degli Albizzi si fosse scordato lo scopo della guerra per non occuparsi
che della preda; egli seguiva il campo meno per dirigere l'armata, che
per comperare a basso prezzo dai soldati gli effetti ed i bestiami che
predavano. Gli abitanti della campagna, che avevano prese le armi,
perchè attaccati al partito guelfo, abbandonavano con dispiacere
quest'armata di ladri; i castelli tornavano all'ubbidienza di Lucca, da
cui si erano sottratti; i medesimi soldati fiorentini concepivano
disprezzo pei loro commissarj, che operavano così bassamente, e
ricusavano d'ubbidire. I dieci della guerra avevano ordinato l'assedio
di Lucca; ma l'armata ricusò di stare accampata in tempo delle piogge
dell'inverno, e prese quartiere a Cappannola, tre miglia lontana dalle
mura, dando così tempo agli assediati d'apparecchiarsi alla difesa[526].

  [525] _Macchiavelli Ist. Fiorent., l. IV, p. 45._

  [526] _Comm. di Neri di Gino Capponi, p. 1168. — Nicolò
  Macchiavelli, l. IV, p. 51._

Filippo Brunelleschi, uno de' più grandi architetti che producesse
Firenze, propose di approfittare delle medesime piogge, che impedivano
le operazioni militari, per attaccare la città. Il Serchio, che
attraversa il piano in cui è posta Lucca, soverchiava le sponde
ingrossate dalle lunghe piogge, e Brunelleschi propose di dirigerne la
corrente contro le mura per aprirvi una breccia colla violenza delle
acque. Ma i Lucchesi, dopo avergli permesso di condurre quasi a termine
questo lavoro lungo e dispendiosissimo, ch'egli aveva intrapreso,
ruppero di notte l'argine da lui innalzato, ed inondarono talmente il
piano, che i Fiorentini dovettero allontanarsi da Lucca[527].

  [527] _Comm. di Neri di Gino Capponi, p. 1169. — And. Billii Hist.,
  l. VIII, p. 128. — Poggii Bracciolini Hist., l. VI, p. 303._

Nello stesso tempo gli assediati facevano frequenti sortite sotto la
condotta di Guinigi e de' suoi figli; due de' quali avevano militato in
Lombardia, e sapevano distinguere i valorosi e premiarli; onde ottennero
sui Fiorentini frequenti vantaggi, e rialzarono il coraggio dei loro
sudditi. Pare che fossero i primi in Italia ad armare i loro soldati di
fucili, la di cui invenzione è posteriore d'assai a quella delle
bombarde e della grossa artiglieria[528]. L'anno susseguente
l'imperatore Sigismondo fece ancora maravigliare gl'Italiani con un
corpo di cinquecento fucilieri che lo accompagnava, quando recossi a
Roma per esservi coronato[529].

  [528] _And. Billii Histor., l. VIII, p. 127._

  [529] _Petri Russii Hist. Senens., p. 41._

Paolo Guinigi chiamava da ogni banda truppe al suo soldo, ed invocava
l'ajuto di Filippo Maria, de' Veneziani e de' Sienesi. Pareva in
particolare che gli ultimi prendessero grandissimo interessamento a di
lui favore, risguardando l'attacco contro i Lucchesi come un
incamminamento all'acquisto di tutta la Toscana che i Fiorentini
meditavano, e temendo di essere in breve privati ancor essi della
libertà loro da questa ambiziosa repubblica.

Non pertanto i Sienesi tardavano a decidersi apertamente, ma Antonio
Petrucci, uno de' loro concittadini, che professava la milizia, portò
egli solo ai Lucchesi que' soccorsi che avrebbe voluto dalla sua
repubblica. In principio di questa guerra era stato mandato ambasciatore
a Firenze, e vi era stato insultato dal popolaccio. Il desiderio della
vendetta aggiugnevasi in lui al desiderio di mantenere l'equilibrio
della Toscana, e d'impedire l'oppressione di un popolo alleato della sua
patria[530]. Adunò un corpo d'armata ragguardevole assai, ed
attraversando il Pisano, lo condusse a Lucca. Passò in appresso alla
corte di Filippo Maria, e lo eccitò a soccorrere celatamente l'assediata
città, quando non volesse farlo alla scoperta[531].

  [530] _Petrii Russi Hist. Senens., p. 28._

  [531] _Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. II, p. 20. —
  Macchiavelli Istor. Fior., l. IV, p. 52._

Il duca di Milano poteva in allora facilmente soccorrere il Guinigi,
perchè teneva nella Lumellina la compagnia di ventura di Francesco
Sforza, che da oltre un anno più non sembrava al suo soldo. Filippo non
aveva perdonata allo Sforza una rotta che questo generale aveva avuta
nelle montagne della Liguria combattendo contro i ribelli genovesi, e lo
aveva accantonato al confluente del Ticino e del Po in una specie di
relegazione ove tenevalo d'occhio. Assicurasi inoltre che due volte era
stato in sul punto di farlo morire[532]. Quando il duca si riconciliò
realmente con lui, diede ancora maggiore pubblicità alla precedente loro
discordia; annunciò a tutte le potenze d'Italia che lo Sforza avevagli
chiesto il congedo per recarsi nel regno di Napoli, e ch'egli più non
rispondeva per questo generale che più non era al suo servigio. Lo
Sforza, avendo adunati tre mila cavalli ed altrettanti pedoni, entrò in
Toscana nel luglio del 1430 per la strada della Lunigiana e di
Pietrasanta. Costrinse il campo fiorentino, che assediava Lucca, a
ritirarsi; prese Buggiano, minacciò Pescia, e portò la guerra nel paese
stesso degli aggressori[533].

  [532] _Jo. Simonetae de Rebus Gest. Franc. Sfor., l. II, p. 215._

  [533] _And. Billii Hist., l. VIII, p. 130. — Poggio Bracciolini
  Hist., l. VI, p. 364. — J. Simon., l. II, p. 217._

Frattanto, ossia che Paolo Guinigi cominciasse a trovare che la difesa
di Lucca gli costava più che non valeva il possedimento della stessa
città, sia che i Fiorentini riuscissero con uno stratagemma a spargere
la diffidenza tra di lui ed i suoi sudditi, fatte è che Pandolfo
Petrucci, il Sienese che gli aveva procurati i suoi soccorsi, Pietro
Cinnami e Giovanni di Chivizzano, magistrati di Lucca, sorpresero alcune
lettere dirette dai commissarj fiorentini ed Guinigi: pareva da queste
che i commissarj continuassero un trattato incominciato da lungo tempo,
promettendogli due cento mila fiorini da pagarsi in più termini, ed il
possedimento di alcuni castelli, come un equivalente della città di
Lucca, che sembrava avere il Guinigi promesso di dare nelle loro
mani[534]. Antonio Petrucci non aveva nè amore nè stima per Guinigi;
soccorrendolo, aveva ascoltato il suo odio verso Firenze, non l'amicizia
per quegli che difendeva; e se aveva voluto sottrarre Lucca ai
Fiorentini prima di prendere le armi contro di loro, lo voleva ancora
più caldamente ora che gli aveva irritati colla sua resistenza. Dopo
avere cercato di conoscere le disposizioni di Guinigi ed essersi meglio
confermato ne' suoi sospetti, concertò con Francesco Sforza i mezzi
d'arrestare il signore di Lucca coi suoi figliuoli. Cennami e Chivizzano
adunarono una quarentina di congiurati, e Petrucci, che aveva sempre
libero l'ingresso degli appartamenti del principe, condusse nel cuore
della notte i suoi complici fino alle porte di Guinigi che stava a
letto. Questi, alzandosi precipitosamente, gli chiese il motivo di tale
visita. «È già lungo tempo, gli rispose Cennami, che avendo usurpato il
governo, tu hai attirati alle nostre porte i nostri nemici che ci fanno
perire col ferro e colla fame. Noi siamo oramai determinati di
governarci da noi medesimi, e siamo venuti a chiederti le chiavi della
nostra città ed il tesoro che le appartiene.» — »Il tesoro, rispose
Guinigi, raccolto colla mia economia, io lo erogai interamente per
allontanare da voi un'ingiusta aggressione; per ciò che risguarda le
porte, esse sono in poter vostro, come la mia persona e la mia famiglia:
ricordatevi soltanto che io ottenni la signoria e la conservai
trent'anni senza spargere sangue; e fate che il fine del mio potere
risponda al principio ed al mezzo[535].»

  [534] _And. Billii Hist. Mediol., l. VIII, p. 130. — Poggio
  Bracciolini Hist., l. VI, p. 364._

  [535] _Macchiavelli Stor. Fior., l. IV, p. 54._

Guinigi venne in fatti arrestato dai congiurati con quattro de' suoi
figliuoli che trovavansi presso di lui. Il maggiore di tutti, Ladislao,
era nel campo presso Francesco Sforza, il quale lo fece arrestare nella
stessa ora. Furono tutti insieme mandati al duca di Milano, che li fece
custodire nelle prigioni di Pavia: Guinigi in capo a due anni morì,
senza che accusar si possa veruno della sua morte[536]. I cittadini di
Lucca cedettero ad Antonio Petrucci per sua ricompensa tutti gli effetti
degli appartamenti del principe; le sue armi e cavalli furono dati allo
Sforza, e portato nel pubblico tesoro tutto l'oro e l'argento. Nello
stesso tempo un gonfaloniere e gli anziani furono nominati dal popolo, e
la repubblica venne di nuovo governata a seconda delle antiche
leggi[537].

  [536] _J. Stellae Ann. Gen., t. XVII, p. 1304. — Petri Russii Hist.
  Sen., t. XX, p. 31. — Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. II,
  p. 20._

  [537] Questa rivoluzione accadde in settembre del 1450. — _Comm. di
  Neri di Gino Capponi, p. 1170. — Andreae Billii Hist. Med., l. VIII,
  p. 131._

I Fiorentini non avevano cominciata la guerra che per l'odio che
nudrivano contro Paolo Guinigi; la sicurezza loro richiedeva, dicevano
essi, di non soffrire un tiranno nemico così vicino: sembrava dunque
tolta ogni cagione di continuare le ostilità dopo la prigionia del
signore di Lucca. Infatti i Lucchesi spedirono immediatamente a
domandare la pace a Firenze; rappresentarono che il solo nemico dei
Fiorentini era già bastantemente punito del suo fallo; che rispetto a
loro, tornati in libertà, erano quello che sempre erano stati, i più
fedeli amici della repubblica, i più irremovibili partigiani della causa
guelfa. Ma la signoria non ascoltava che la sua ambizione, renduta più
ardente dall'esempio delle conquiste dei Veneziani; voleva ad ogni modo
avere il possedimento di Lucca, e sebbene da principio offrisse la pace
a condizione di cederle Montecarlo e Pietrasanta, ruppe bentosto ogni
trattato[538].

  [538] _Comm. di Neri di Gino Capponi, p. 1170._

I commissarj fiorentini avevano approfittato di queste prime aperture
per intavolare col conte Francesco Sforza un trattato di altra natura.
Essi lo persuasero pel prezzo di cinquanta mila fiorini ad abbandonare
Lucca, ed a tornare in Lombardia. Lo Sforza ricevette questa somma come
il residuo pagamento di un debito contratto dalla repubblica verso suo
padre, e ricusò di passare al servigio dei Fiorentini, come n'era
richiesto[539].

  [539] _Comm. di Neri di Gino Capponi, p. 1170. — Jo. Simonetae de
  vita Sfortiae, l. II, p. 218. — Poggio Bracciolini Hist., l. VI, p.
  365._

I Fiorentini ripresero con nuovo vigore l'assedio di Lucca dopo la
partenza dello Sforza; ma il duca di Milano non acconsentì che facessero
un acquisto così importante; persuase sotto mano i Genovesi a far valere
un trattato particolare ch'essi avevano con Lucca; a domandare ai
Fiorentini che levassero l'assedio di questa città, e dietro il loro
rifiuto, a spedire verso il Serchio Nicolò Piccinino, cui il duca aveva
per questa cagione permesso che andasse ai loro servigj[540].

  [540] _Poggio Bracciolini, l. VI, p. 366. — And. Billii Hist., l.
  VIII, p. 134. — Petri Russii Hist. Senens., t. XX, p. 32._

Guid'Antonio di Montefeltro, conte d'Urbino, comandava l'armata
fiorentina, composta di sei mila cavalli e tre mila fanti. Il Piccinino
non aveva tanta gente, ma le sue truppe erano fresche e provvedute del
bisognevole, mentre le fiorentine avevano sofferto assai dalla cattiva
stagione e dalle inondazioni del Serchio. I due campi sulle opposte rive
del fiume si osservavano senza poter venire alle mani, quando un corpo
della cavalleria fiorentina, avendo scoperto un guado, ne approfittò per
attaccare il Piccinino alle spalle. Questi respinse caldamente i nemici,
gl'inseguì entro il fiume, ed attraversando il guado ch'essi gli avevano
fatto conoscere, piombò addosso all'armata fiorentina, che sgominò
interamente, facendola quasi tutta prigioniera. Tutta l'artiglieria,
tutte le munizioni e quasi quattro mila cavalli vennero in potere del
vincitore[541].

  [541] _Poggio Bracciolini, l. VI, p. 367. — And. Billii, l. VIII, p.
  127. — Macch. Stor. Fior., l. IV, c. 55. — Orlando Malavolti Stor.
  di Siena, p. III, l. II, p. 21. — Comm. di Neri di Gino Capponi, p.
  1171. — Vita di Niccolò Piccinino, t. XX, p. 1059._

E per tal modo la guerra, in cui erano entrati i Fiorentini colla
speranza di conquistare Lucca, poteva di nuovo compromettere la propria
loro indipendenza; e se Niccolò Piccinino, per ordine del suo padrone,
non si fosse ritirato in mezzo alle sue vittorie, gli sarebbe stata
facil cosa il prendere Pisa, che sospirava un'occasione di scuotere il
giogo, e di mettere sossopra tutta la Toscana. I Sienesi, ognora più
atterriti dagli ambiziosi progetti dei Fiorentini, avevano contratta
alleanza coi Genovesi per la difesa di Lucca, ed avevano innalzato al
rango di capitano del popolo con pieni voti quello stesso Antonio
Petrucci, che aveva con tanta attività recato soccorso ai Lucchesi[542].
Un solo avvenimento parve ai Fiorentini meno sfavorevole, e fu la morte
di papa Martino V, accaduta nella notte del 19 al 20 febbrajo del 1431.
La sua parzialità pel duca di Milano, e l'odio suo contro la repubblica,
avevano pressochè rovesciato l'equilibrio d'Italia. Ebbe per successore
il cardinale Gabriello Condolmieri, Veneziano, che fu consacrato
l'undici di marzo e prese il nome d'Eugenio IV. Il nuovo pontefice non
tardò a far conoscere quanto i suoi affetti fossero contrarj a quelli
del suo predecessore. In Roma cercò di tornare in credito gli Orsini, e
di spogliare i Colonna smisuratamente arricchiti da Martino V; in Italia
parve attaccato alle repubbliche, e fece con loro causa comune contro la
casa Visconti[543].

  [542] _Il 1.º gennajo del 1431. — And. Billii Hist., l. VIII, p.
  140. — Petri Russii Hist. Senensis, t. XX, p. 33._

  [543] _Vita Martin. V ex Codice Vaticano, t. III, p. II, p. 868. —
  Andreae Billii Hist., l. VIII, p. 141._

Non è già che l'ambizione de' Veneziani non fosse eccessiva come quella
del duca di Milano. Questi non aveva loro dato alcun giusto motivo di
lagnanza, aveva giustificata la sua condotta in Toscana non in modo di
purgarsi affatto da ogni cattiva intenzione, ma abbastanza per altro
onde dimostrare che si era uniformato ai trattati ed al diritto pubblico
allora in vigore. Non pertanto i Fiorentini facevano ai Veneziani
vantaggiosissime offerte per muoverli a ripigliare le armi; obbligavansi
a mantenere in Lombardia due mila corazzieri, ed a pagare ogni mese
venti mila ducati per le spese della guerra, indipendentemente dagli
sforzi che farebbero in Toscana contro il comune nemico. I Veneziani,
allettati dalla speranza di aggiugnere Cremona alle altre conquiste,
accettarono queste proposizioni. Rinaldo Palavicino prometteva di
attaccare Parma e Piacenza; Gian Giacomo, marchese di Monferrato, doveva
fare un tentativo sopra Asti o sopra Alessandria; il marchese d'Este ed
il signore di Mantova erano al soldo dei Veneziani; per ultimo i
singolari talenti del Carmagnola promettevano il migliore successo[544].
Dall'altro canto il duca di Milano aveva al suo servizio due non meno
formidabili generali, Niccolò Piccinino ed il conte Francesco Sforza.
Aveva inoltre resa più intima la sua alleanza coll'ultimo promettendogli
in isposa Bianca, sua figliuola naturale, che in allora aveva soltanto
sette anni[545]. Sotto questi due generali il duca aveva più di dieci
mila corazzieri, i migliori soldati che allora avesse l'Italia.

  [544] _And. Billii Hist., l. IX, p. 145. — Petri Russii Hist.
  Senensis, t. XX, p. 33._

  [545] _And. Billii Hist., l. VIII, p. 141. — Simonetae, l. II, p.
  218._

Per belle che fossero le speranze concepite dai Veneziani la campagna fu
loro da principio in ogni luogo sfavorevole. Il Carmagnola credeva di
avere sedotto il comandante di Soncino, ed il 17 maggio avanzavasi poco
cautamente per prendere possesso di quel castello. Ma quel comandante
aveva dato avviso a Filippo del trattato; Francesco Sforza e Niccolò di
Tolentino avevano tesa un'imboscata per sorprendere il nemico. L'armata
del Carmagnola fu rotta, presi mille sei cento cavalieri, ed egli stesso
non andò debitore della propria salvezza che alla velocità del suo
cavallo[546]. Luigi Colonna ebbe pure un notabile vantaggio presso
Cremona, ove comandava a nome del duca, e Cristoforo Lavello guastò il
Monferrato. Niccolò Piccinino, dopo avere occupati nelle alpi Liguri più
di sessanta castelli appartenenti ai Fieschi o ad altri gentiluomini di
parte guelfa, e lasciatili saccheggiare dai suoi soldati, entrò in
Toscana attraversando i territorj di Lucca e di Pisa.

  [546] _Andreae Billii, l. IX, p. 146. — Poggio Bracciolini, l. VI,
  p. 370. — J. Simonetae, l. II, p. 218. — Marin Sanuto vite dei duchi
  di Venezia, p. 1013._

Genova, Siena, Lucca, e Giacomo d'Appiano signore di Piombino, erano
pure entrati nella lega contro i Fiorentini. La gelosia e l'odio loro
raddoppiavano le calamità della guerra, rendendola più nazionale. I
Pisani, che sempre sospiravano l'istante di scuotere il detestato giogo
dei Fiorentini, mostrarono più apertamente la loro impazienza quando
videro avvicinarsi il Piccinino, e furono in sul punto di prendere le
armi. Il governo fiorentino non trovò altro espediente per salvare la
città, che quello di farne uscire tutti gli uomini abili alle armi dai
quindici fino ai sessant'anni, ritenendo come ostaggi le loro mogli e
figli. Pure la maggior parte di coloro che furono costretti ad
abbandonare la patria andarono ad ingrossare l'armata del
Piccinino[547]. Quest'armata passò in appresso sul territorio di
Volterra, ove non meno che a Pisa poteva temersi di qualche ribellione:
quasi tutti i castelli del volterrano aprirono le porte al Piccinino,
che saccheggiò tutta la val d'Elsa di concerto con Niccolò da Tolentino,
e con Alberico di Zagonara, generale dei Sienesi. Minacciò pure Arezzo,
e quando fu poi dal duca richiamato in Lombardia, lo Zagonara, che gli
successe nel comando, proseguì ad impadronirsi de' castelli de'
Fiorentini, che coprivano i loro confini dal lato di Siena[548].

  [547] _And. Billii Hist., l. IX, p. 148. — Petri Rusii Hist.
  Senens., p. 34. — Jo. Stellae Annales Genuenses, p. 1305._

  [548] _Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. II, p. 22-28. —
  And. Billii, l. IX, p. 150. — Poggio Bracciolini, l. VI, p. 371. —
  Petri Russii Hist. Senens., p. 40. — Comm. di Neri di Gino Capponi,
  p. 1177._

Mentre ciò accadeva in Toscana, il Carmagnola avvicinavasi alle sponde
del Po con un'armata di dodici mila corazzieri ed altrettanti pedoni.
S'avanzava su questo fiume Niccolò Pisani con una flotta veneziana di
trentasette grandi navi e circa altre cento minori[549]. Il senato
veneto aveva risolto di volgere tutte queste forze contro Cremona che
ardentemente desiderava di acquistare, e di già la flotta aveva
rimontato il Po fino a tre miglia al di sotto di questa città. Dal canto
suo il duca di Milano aveva fatta allestire una flotta al di sopra di
Cremona sotto gli ordini di Pacino Eustachio: i suoi vascelli erano
maggiori in numero, ma più piccoli di quelli de' nemici. Giovanni
Grimaldi di Genova era stato chiamato su questa flotta con molti de'
suoi compatriotti, per opporre ai Veneziani i soli rivali che potessero
disputar loro l'impero delle acque.

  [549] _Jo. Simonetae, l. II, p. 219._

Il 22 di maggio, Pacino Eustachio e Grimaldi avevano tentato di
approfittare d'una escrescenza di acqua per attaccare coll'ajuto della
corrente la flotta veneziana stazionata al di sotto di loro. Ma malgrado
questo vantaggio cinque de' più grandi vascelli del duca di Milano,
troppo essendosi avanzati, trovaronsi in mezzo ai Veneziani, e costretti
ad arrendersi. In tempo di questa battaglia il Piccinino e Francesco
Sforza con tutte le truppe del duca di Milano eransi avvicinati al
Carmagnola e l'avevano tirato verso loro scostandolo dalle rive del
fiume. La vegnente notte gli fecero intendere per mezzo di false spie le
disposizioni ch'essi davano per attaccarlo all'indomani, e riuscirono in
tal modo ad occupare tutta la sua attenzione. Frattanto essi salivano
segretamente coi loro migliori corazzieri sopra le galere di Pacino
Eustachio. Nella battaglia navale ch'essi volevano rinnovare
all'indomani, le galere serrate nel letto del fiume non potevano
battersi che all'arrembaggio; ed in tale stato di cose il coraggio, la
forza del corpo e l'armatura impenetrabile dei corazzieri dovevano
essere di maggiore vantaggio che le più abili _manovre_ de' marinaj
veneziani. Il Trevisani fece indarno chiedere al Carmagnola di spedirgli
dei corazzieri, perciocchè credendosi questi sicuro di combattere
all'indomani, non voleva indebolire la sua armata.

Finalmente la mattina del 23 di maggio s'avvide il Carmagnola che i
generali nemici l'avevano ingannato, e che più non erano in vicinanza.
Allora si ravvicinò al Po; ma oramai più non era possibile di far
imbarcare i suoi soldati; perciocchè egli occupava la sponda sinistra
del fiume, e Pacino Eustachio aveva, in principio dell'attacco,
approfittato della violenza delle acque, cresciute per lo scioglimento
delle nevi, per ispingere il Pisani sull'opposta riva. Colà continuavasi
con indicibile accanimento la battaglia tra le galere. I Milanesi
afferravano cogli uncini i vascelli veneziani, e subito i corazzieri
dello Sforza e del Piccinino lanciavansi sul ponte dei loro nemici;
invulnerabili sotto il ferro ond'erano coperti, combattevano contro
uomini che non avevano che una mezza armatura, i quali cadevano sotto i
loro colpi. La carnificina era tanto più spaventosa in quanto che i
Veneziani non sapevano risolversi a rinunciare alla vittoria sul loro
proprio elemento; altronde vedevano sull'altra sponda il Carmagnola che
li confortava, e che disponevasi coll'intera sua armata ad ajutarli,
tostocchè potessero approssimarsi a lui. Ma finalmente dovettero cedere
dopo avere perdute ventotto galere e quarantadue navi da trasporto, che
caddero in mano del nemico. Perirono due mila cinque cento uomini, ed un
ricco bottino venne in potere dei vincitori. Assicurasi che l'armamento
de' Veneziani, distrutto in tal modo in un solo giorno, aveva costato
alla repubblica seicento mila fiorini[550].

  [550] _And. Billii, l. IX, p. 152. — Jo. Simonetae, l. II, p. 220. —
  Poggio Bracciolini, l. VI, p. 372. — Ubertus Folieta Genuens. Hist.,
  l. X, p. 562. — Navagero Stor. Venez., p. 1095. — Marin Sanuto vite
  dei duchi di Venez., p. 1016._

Di così luminosa vittoria il duca di Milano non approfittò come avrebbe
potuto a danno de' Veneziani. Le armate principali rimasero per più mesi
come stazionarie, mentre Niccolò Piccinino guastava il Monferrato, e
prendendo, uno dopo l'altro, tutti i castelli di quello stato,
costringeva il marchese a fuggire nella Svizzera, di dove passò a
Venezia. Vero è che i Veneziani lavarono in parte l'affronto sofferto
dalla loro marina sul Po. Una piccola flotta, comandata da Pietro
Loredano, incontrò il 27 agosto in vicinanza di Portofino, nel golfo di
Rapallo, Francesco Spinola con dodici galere genovesi, e dopo una calda
battaglia prese quest'ammiraglio con otto vascelli[551]. Ma intanto il
Carmagnola rimanevasi in una inazione tanto più strana, quanto più
universale era l'aspettazione che sarebbesi affrettato di riparare una
disfatta avuta per colpa sua. Il 15 ottobre un distaccamento de' suoi
soldati, avuto avviso che a Cremona non si faceva buona guardia,
sorprese il ponte di san Lucca, e vi si mantenne due giorni, senza che
il Carmagnola, per timore di un'imboscata in sulla strada, si avanzasse
per approfittare di così felice avvenimento.

  [551] _Poggio Bracciolini, l. VI, p. 373. — J. Stellae Ann.
  Genuens., p. 1306. — Uberti Folietae Gen. Hist., l. X, p. 563. —
  Marin Sanuto vite de' duchi di Venezia, p. 1019. — Andreae Billii
  Hist., l. IX, p. 153._ Colla narrazione di tale avvenimento questo
  grazioso autore termina la sua storia.

Il gran capitano, ch'era stato l'artefice della potenza di Filippo ed in
appresso de' suoi rovesci, non aveva potuto cessare di essere
vittorioso, senza che il sospettoso e crudele senato di Venezia non lo
credesse traditore. Anche nella precedente guerra gli si era
rimproverato d'avere renduti tutti i prigionieri dopo la battaglia di
Macalò. In questa gli si dava colpa del disastro della flotta, del
cattivo successo dell'impresa di Cremona, e della ruina del marchese di
Monferrato, mentre ch'egli rimanevasi nell'inazione. Per altro il
Carmagnola rendeva ragione dello sforzato riposo in cui era rimasto;
un'epizoozia infierì tutta l'estate tra i cavalli, onde la metà de' suoi
cavalieri erano senza, ed i nemici che provavano lo stesso flagello
erano rimasti egualmente oziosi per l'impossibilità in cui erano di
procurarsi cavalli.

Ma senza degnarsi di far note le sue accuse, senza dar luogo a
giustificazioni, volle vendicarsi sopra un uomo dei capricci della
fortuna; e lo fece con un profondo segreto. Il consiglio dei dieci in
principio del 1432 invitò il Carmagnola a recarsi a Venezia per trattare
intorno alla pace, cui la repubblica aveva di nuovo rivolto il pensiero.
L'accompagnava Giovanni Francesco Gonzaga, signore di Mantova, ed
ambidue vennero ricevuti coi più grandi onori. I più illustri personaggi
dello stato andarono ad incontrare il Carmagnola e lo condussero con
magnifico corteggio fino al palazzo del doge. Il senato era adunato ed
il Carmagnola venne introdotto e fatto sedere nel seggio d'onore, e gli
furono prodigate dimostrazioni di affetto e di stima. Frattanto la
deliberazione cui assisteva, ed intorno alla quale mostravano desiderare
i suoi consiglj, si protrasse fino a notte avanzata, onde fu pregato di
far ritirare le persone del suo seguito stanche dal viaggio. Tostocchè
il Carmagnola si trovò solo in mezzo ai senatori, questi fecero entrare
le loro guardie che lo arrestarono e caricarono di ferri. All'indomani
il generale fu assoggettato ai tormenti ed alla tortura, per lui tanto
più dolorosa in quanto che aveva una ferita in un braccio, ricevuta in
servigio di quella stessa repubblica che lo aveva dato in mano ai suoi
carnefici[552]. Si assicura che in mezzo a tali tormenti confessasse il
tradimento che gli veniva imputato; ma veruna prova non fu prodotta agli
occhi del pubblico o dell'Italia, cui apparteneva questo grand'uomo, e
non si pubblicò alcuna sua deposizione. Non si calunniano i giudici,
credendoli falsarj e prevaricatori, quando si avvolgono entro un infame
mistero. Il 5 maggio del 1432, venti giorni dopo il suo arresto,
Carmagnola fu condotto sulla piazza di san Marco e gli otturarono la
bocca per impedirgli di chiamare Venezia in testimonio della sua
innocenza, e di svelare tutta l'ingratitudine de' suoi oppressori, e
colà fu decapitato tra le due colonne che stanno innanzi al
palazzo[553].

  [552] _Marin Sanuto vite de' duchi di Venezia, p. 1028._

  [553] _Poggio Bracciolini Hist. Fior., l. VI, p. 376. — Platina
  Hist. Mant., l. V, p. 810. — Cron. di Bologna, p. 645. — Navagero
  Stor. Venez., p. 1097. — Marin Sanuto vite de' duchi di Venezia, p.
  1028._


FINE DEL TOMO VIII.



TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO VIII.


  CAPITOLO LVII. _Considerazioni intorno al carattere
  ed alle rivoluzioni del quattordicesimo secolo_        _pag._ 3

            Il quattordicesimo secolo non ha
              un carattere determinato                          4
            Primi capi d'opera nella lingua italiana            5
            Lo studio delle lingue morte inceppa tutt'ad
              un tratto lo slancio della fantasia               6
            Ricerche di manuscritti: erudizione                 7
            Rivista intorno alla storia politica del secolo     9
            L'autorità imperiale rialzata da Enrico VII        10
            Progressivo degradamento dei suoi successori       11
            La fazione ghibellina si stacca dagl'imperatori    13
            Caduta nel XIV secolo della potenza papale         14
            Corruzione della corte pontificia in Francia       15
            Carattere delle guerre promosse
              dai papi in Italia                               16
            Gran scisma d'Occidente                            16
            Indebolimento graduale del regno di Napoli         19
            Degenerazione dei re angioini da
              Carlo I fino a Giovanna                          20
            Carlo di Durazzo rialza momentaneamente
              il regno                                         23
            Ambizione delle case de' principi
              di Lombardia                                     24
            Grandezza di Cane e di Mastino della Scala         25
            Delitti e debolezza de' successori di Mastino      26
            Dinastia de' Visconti innalzati
              nella scuola delle avversità                     27
            Gli ultimi principi di questa
              casa aggiungono l'ambizione alla pusillanimità   29
            Eccessiva potenza di Giovanni Galeazzo             31
            Ruina di tutte le altre case principesche          31
            I Malatesta nello stato del papa                   32
            Carattere della repubblica di Venezia              33
            Guerre dei Veneziani coi Genovesi                  35
            Carattere della repubblica di Genova               36
            Le guerre civili riducono quattro
            volte i Genovesi a darsi un padrone                38
            Firenze nel centro di tutta la
              politica italiana                                39
            Saviezza e virtù del governo fiorentino            40
            Sua opposizione successiva a
              tutti gli usurpatori                             42
            L'intero popolo di Firenze deliberava
              come un consiglio di stato                       42
            Bologna perde il suo spirito
              indipendente sotto la tirannide                  47
            Lucca, potente sotto Castruccio,
              sconta la sua gloria con una lunga schiavitù     49
            Siena fatta schiava alternativamente
              da diverse oligarchie artigiane                  50
            Perugia vittima della ferocia delle sue fazioni    52
            Pisa la sola attaccata alla parte
              ghibellina. Suo carattere                        53
            Pisa la sola repubblica militare della Toscana     54
            Uccisione dei Pisani in Sardegna                   55
            Funesti effetti che i Pisani risentono
              dalla loro unione coi Ghibellini                 58
            Studio dell'uomo, compiuto in
              Italia, tanto nel bene come nel male             59

  CAPITOLO LVIII. _Arte militare degli Italiani
  in principio del quindicesimo secolo. — Anarchia
  della Lombardia. — Nuovi tiranni si dividono gli
  stati di Giovanni Galeazzo. — Bologna e Perugia
  restituite alla Chiesa. — Siena torna in libertà._
  1402-1404                                                    61

            La forza delle armate era posta
              nella cavalleria pesante                         62
            Le battaglie erano assai rare, perchè non
              vi si potevano sforzare i corazzieri             62
            Le guerre si facevano più ai
              popoli che ai soldati                            64
            I popoli, avvicinandosi il nemico, chiudevansi
              co' loro effetti ne' luoghi murati               65
            Prodigioso numero delle fortezze
              difese dagli abitanti                            66
            L'artiglieria adoperavasi soltanto
              negli assedj                                     67
            I condottieri italiani subentrano ai forestieri    69
            Vantaggi trovati dai governi ne' condottieri       70
            Quale uso facevasi ancora della milizia            71
            Ricompense offerte ai soldati                      72
            Fortune fatte dai condottieri                      74
            Alberico da Barbiano e la compagnia
              di san Giorgio                                   75
            Grandi capitani formati a questa scuola            76
            Carattere di Giovan Galeazzo,
              confidenza accordata ai suoi capitani            78
            Divisioni de' suoi stati tra i di lui figli        79
       1402 Alleanza dei Fiorentini col papa
              contro i Visconti                                80
            Tentativo infruttuoso del papa sopra Perugia       81
       1405 I capitani di Giovan Galeazzo entrano al
              servigio de' nemici de' suoi figliuoli           82
       1403 Gelosia nel consiglio di reggenza dei Visconti     84
            Violenta e crudele condotta della
              duchessa Catarina Visconti                       85
            Ribellione di Cremona. Signoria
              d'Ugolino Cavalcabò                              87
            Movimenti sediziosi in tutte le
              città di Lombardia                               88
            L'armata de' Fiorentini si avanza contro Parma     90
            Il papa fa una pace separata coi Visconti          91
            2 settembre. Bologna torna sotto la Chiesa         92
            I Fiorentini soccorrono i Guelfi di Lombardia      94
            Cercano di rendere la libertà a Siena              95
       1404 Marzo. I Sienesi ricuperano da sè la libertà       96
            I Fiorentini vogliono liberare Pisa dalla
              tirannide di Gabriele Maria Visconti             97
            Il Visconti si pone sotto la protezione
              di Boucicault, governatore di Genova             98
            I Fiorentini puniscono i gentiluomini
              ghibellini degli Appennini                      100
            Loro alleato, Pietro de' Rossi, tradito da
              Otto Bon Terzo                                  101
            Sedizioni in Milano contro la duchessa            104
            Il Barbavara e la duchessa costretti
              a fuggire                                       104
            16 ottobre. La duchessa, posta in prigione,
              muore avvelenata                                105

  CAPITOLO LIX. _Conquiste di Francesco da Carrara in
  Lombardia. — Gelosia de' Veneziani; gli dichiarano
  la guerra; vigorosa resistenza del Carrara, che perde
  successivamente Verona e le sue principali fortezze;
  egli è forzato ad arrendersi, ed il consiglio dei
  dieci lo fa morire co' suoi figliuoli._ 1404-1406           107

       1403 Negoziati del Carrara colla duchessa di Milano    107
            Agosto. Si rende padrone di
              Brescia che poi abbandona                       108
       1404 Guglielmo della Scala gli chiede
              soccorso, e tratta con lui                      109
            7 aprile. Il Carrara e della Scala
              occupano Verona                                 110
            21 aprile. Morte di Guglielmo
              della Scala. Si sospetta di veleno              111
            29 aprile. La fortezza di Verona
              ceduta al Carrara                               112
            La repubblica di Venezia prende parte colla
              duchessa contro il Carrara                      114
            25 aprile. Vicenza chiama i Veneziani,
              e spiega l'insegna di san Marco                 115
            17 maggio. Il Carrara fa arrestare i due
              principi della Scala che intrigano
              contro di lui                                   116
            18 giugno. Prime ostilità della repubblica
              veneta contra il Carrara                        117
       1404 23 giugno. Il Carrara dichiara
              la guerra ai Veneziani                          118
            Il Carrara difende i suoi confini contro
              un'armata d'assai superiore alla sua            119
            6 settembre. L'armata veneziana
              entra nello stato padovano                      120
            Nuovi nemici assalgono il Carrara                 121
            2 dicembre. Paolo Savelli attraversa la
              Brenta, e guasta il Padovano                    122
       1405 Francesco di Carrara manda a Firenze i
              suoi figli più giovani                          124
            12 giugno. Viene assediato nella sua capitale     125
            25 giugno. Verona s'arrende ai Veneziani          126
            Giacomo da Carrara prigioniere                    126
            In Padova si manifesta la peste                   127
            I castelli del Padovano si arrendono
              ai Veneziani                                    128
            Infruttuosi trattati del Carrara con Carlo Zeno   129
            2 novembre. Assalto generale respinto             132
            Costanza di Francesco Carrara                     133
            17 novembre. Una porta di Padova aperta
              per tradimento ai Veneziani                     133
            Francesco Carrara dà le sue fortezze
              in deposito a Galeazzo                          135
            19 novembre. Sedizione eccitata dai Veneziani
              in Padova contro il Carrara                     137
       1405 29 novembre. Il Carrara e suo
              figlio giungono a Venezia                       138
            Accoglimento loro fatto dalla signoria            139
            Discorso di Giacomo del Verme
              contro il Carrara                               140
       1406 16 gennajo. Il Carrara strozzato per
              ordine del consiglio dei dieci                  141
            I suoi due figli uccisi il giorno
              dopo nello stesso modo                          142
            Morte di due figli del Carrara
              ch'erano a Firenze                              143
            Il consiglio dei dieci pubblica una taglia
              sulla testa dei principi della Scala            145
            Crudele politica dei Veneziani;
              odio che eccita                                 147
            Tavole genealogiche della casa
              di Carrara e della Scala                        147

  CAPITOLO LX. _I Fiorentini conquistano Pisa. — Seguito
  dello scisma, che viene mantenuto da Ladislao re di
  Napoli. — Concilio di Pisa. — Deposizione di Gregorio
  XII e di Benedetto XIII. — Elezione di Alessandro
  V._ 1405-1409                                               149

  1403-1406 Rivoluzioni di Cremona. Ugolino
              Cavalcabò, e Gabrino Fondolo                    150
       1404 Pandolfo Malatesti si fa signore di Brescia       152
            Alleanza dei Pisani con Boucicault,
              governatore di Genova                           153
       1405 Boucicault persuade Gabriele Visconti
              a vendere Pisa ai Fiorentini                    154
       1405 31 agosto. La cittadella di Pisa
              ceduta ai Fiorentini                            155
            6 settembre. Viene loro ritolta
              dal popolo di Pisa                              156
            I Pisani domandano la pace
              ed offrono compensi                             157
            Giovanni Gambacorti, richiamato dall'esilio,
              viene nominato capitano del popolo              158
            I Fiorentini risolvono d'affamar
              Pisa; ardire di Pietro Marenghi                 160
            Angelo della Pergola e Gaspare dei Pazzi
              disfatti, mentre accorrevano in
              soccorso di Pisa                                161
            Ladislao ed Otto Bon Terzo ricusano
              di soccorrerli                                  162
       1406 I Pisani bloccati da ogni banda                   162
            Rivalità dello Sforza e del Tartaglia
              acquietata da Gino Capponi                      164
            Angustie dei Pisani                               164
            9 ottobre. Giovanni Gambacorti
              cede Pisa ai Fiorentini                         166
            Governo dei Fiorentini; frequenti
              emigrazioni dei Pisani                          168
            Cambiamento nella politica dei Fiorentini         169
  1394-1406 Progressi dello scisma                            171
       1394 16 settembre. Morte di Clemente VII;
              gli succede Benedetto XIII                      171
       1395 Concilio Nazionale in Francia
              per la riunione della Chiesa                    173
       1399 14 aprile. Benedetto XIII, costretto
              a capitolare con Boucicault                     173
       1404 29 settembre. Morte di Bonifacio IX               175
            17 ottobre. Gusmano di Sulmona eletto papa
              sotto nome d'Innocenzo VII                      175
            Carattere di Ladislao re di Napoli                171
  1399-1400 Ladislao costringe Luigi e Carlo
              d'Angiò ad uscire dal suo regno                 178
       1401 Viene chiamato in Ungheria dai
              nemici di Sigismondo                            179
       1402 5 agosto. È coronato a Zara
              come re d'Ungheria                              180
  1402-1409 Abbandona l'Ungheria e vende ai Veneziani
              le piazze da lui occupate                       181
            Sue pratiche in Roma contro
              papa Innocenzo VII                              182
       1405 Sedizione de' Romani contro il papa               183
            I deputati de' Romani uccisi da
              un nipote del papa                              184
            Afflizione del papa per questa
              violenza; è costretto a fuggire                 186
            Ladislao vuole occupare Roma
              e n'è scacciato dal popolo                      187
       1406 5 novembre. Morte d'Innocenzo VII;
              gli succede Gregorio XII                        188
            Negoziazioni tra i due papi per
              la vicendevole abdicazione                      189
            Convengono di adunarsi a Savona                   190
       1407 Gregorio XII s'inoltra fino a Lucca, e
              Benedetto XIII fino alla Spezia                 191
            Pratiche di Ladislao per continuare lo scisma     192
       1408 Aprile. Occupa Roma e le città vicine             193
            Gregorio XII vuole rompere ogni
              trattato col suo competitore                    194
            I suoi cardinali lo abbandonano
              e si ritirano a Pisa                            195
            I cardinali di Benedetto XIII vengono a
              Pisa e si uniscono a quelli di Gregorio         196
            I cardinali delle due ubbidienze
              convocano un concilio a Pisa                    197
            I due papi a tale notizia si allontanano
              l'uno dall'altro                                198
            Lodevole zelo dei due cleri,
              cattiva fede dei due papi                       199
            Baldassar Cossa acquista grandissima
              influenza sui cardinali riuniti                 200
       1409 I capi del clero e gli ambasciatori degli
              stati cristiani si adunano a Pisa               201
            5 giugno. Nella sua quindicesima sessione
              il concilio condanna i due papi                 202
            7 luglio. Il cardinale di Candia,
              eletto sotto nome di Alessandro V               203
            7 agosto. Viene imposto l'obbligo al papa di
              convocare un nuovo concilio per la riforma
              della Chiesa                                    204

  CAPITOLO LXI. _Ladislao, re di Napoli, occupa lo stato
  della Chiesa; minaccia Firenze; muore. — Sigismondo
  d'Ungheria, eletto imperatore, muove guerra ai Veneziani;
  sue conferenze con Giovanni XXIII in Lombardia. —
  Deplorabile stato di questa contrada._ 1409-1414            205

            Ambizione e perfidia di Ladislao;
              egli minaccia i Fiorentini                      205
            Morte d'Alberico da Barbiano e
              di Otto Bon Terzo                               207
            Braccio di Montone, scontento di Ladislao,
              passa al servigio dei Fiorentini                209
       1409 I Fiorentini prendono al loro soldo
              Malatesta da Pesaro con due
              mila quattrocento lance                         210
            Ladislao occupa Cortona                           211
            Braccio di Montone costringe
              Ladislao a ritirarsi                            212
            Luglio. Luigi II d'Angiò coll'ajuto de'
              Fiorentini entra negli stati della Chiesa       213
            Attacca Roma inutilmente                          214
       1410 2 gennajo. Dopo la sua ritirata
              i Fiorentini occupano Roma                      215
            3 maggio. Morte d'Alessandro V; gli succede
              Baldassar Cossa sotto il nome di Giovanni
              XXIII                                           216
       1409 6 settembre. I Genovesi scuotono il giogo
              della Francia e si uniscono a Ladislao          217
       1410 16 maggio. Rompono presso alla Meloria
              parte della flotta di Luigi d'Angiò             219
            Seconda campagna infruttuosa
              di Luigi d'Angiò contro Ladislao                220
       1411 7 gennajo. I Fiorentini fanno la pace con
              Ladislao che loro cede Cortona                  222
            11 aprile. Giovanni XXIII passa
              a Roma, e perde Bologna                         222
            Terza campagna di Luigi d'Angiò. Battaglia
              di Rocca secca, 19 maggio                       223
            Luigi d'Angiò non approfitta della vittoria       224
       1412 15 giugno. Trattato di pace tra
              Ladislao e Giovanni XXIII                       224
            Ladislao minaccia Paolo Orsini                    228
       1415 31 maggio. Sorprende Roma;
              il papa fugge a Firenze                         229
            Alleanza dei Fiorentini coi loro vicini           230
            Conquiste di Ladislao nello stato ecclesiastico   231
       1414 Ladislao minaccia la Toscana                      232
            22 giugno. I Fiorentini trattano di nuovo
              con lui                                         232
            Ladislao, sorpreso da sconosciuta
              malattia, frutto delle sue dissolutezze         236
            6 agosto. Muore a Napoli                          236
  1405-1410 Scontento della Germania contro
              l'imperatore Roberto                            237
       1410 19 maggio. Morte di Roberto. Sigismondo e
              Jossa concorrono all'impero                     238
       1410 Carattere di Sigismondo, che
              resta solo imperatore                           239
  1411-1413 Guerra di Sigismondo contro
              la repubblica di Venezia                        241
       1412 9 agosto. Carlo Malatesti batte
              gli Ungari alla Motta                           242
       1413 18 aprile. Tregua di cinque anni fra
              l'imperatore ed i Veneziani                     244
            Sigismondo scende in Lombardia;
              deplorabile stato di questo paese               244
            Ferocia di Giovan Maria, duca di Milano           245
            Caccia gli uomini con cani da corsa               246
            Facino Cane si rende subordinati
              i due figli di Giovanni Galeazzo                247
       1412 16 maggio. Morte di Facino Cane e di
              Giovanni Maria Visconti                         247
            Filippo Maria sposa la vedova di Facino
              Cane, e si fa riconoscere duca di Milano        249
       1413 Trattati di Sigismondo con Giovanni
              XXIII per tenere un concilio generale           250
            Congresso dell'imperatore e del
              papa in Cremona                                 252
            Concilio generale convocato a Costanza
              pel giorno 1.º novembre del 1414               253

  CAPITOLO LXII. _Concilio di Costanza; termina il grande
  scisma d'Occidente. — Giovanna II di Napoli e suo marito
  Giacomo, conte della Marca. — Grandezza e rivalità
  dei due condottieri Braccio di Montone e Sforza di
  Cotignola._ 1414-1418                                       254

            Disprezzo in cui erano caduti i capi della
              chiesa in conseguenza dello scisma              254
            Traffico delle indulgenze                         256
            Gl'Italiani si fanno a difendere
              la potenza papale                               257
            Indifferenza degl'Italiani per le
              opinioni religiose                              258
            Il clero Italiano rimasto povero in
              confronto di quello d'Inghilterra
              e di Germania                                   260
            Gl'Italiani attaccati alla loro
              religione dalla politica                        261
       1414 Giovanni XXIII va a suo malgrado
              a Costanza per aprire il concilio               262
            Carattere di Giovanni XXIII                       262
            Si guadagna la protezione di
              Federico, duca d'Austria                        264
            5 novembre. Fa l'apertura del
              concilio di Costanza                            265
            Deliberazioni del concilio per
              nazioni e non per testa                         266
       1415 1 marzo. Giovanni XXIII promette
              di rinunciare al papato                         267
            21 marzo. Fugge travestito da Costanza            268
            Il duca d'Austria, protettore del
              papa, attaccato dagli Svizzeri                  268
            17 maggio. Il papa ricondotto
              prigioniere a Radolfzell                        270
            29 maggio. Giovanni XXIII deposto,
              e chiuso a Gottleben                            271
       1415 4 luglio. Il concilio di Costanza viene
              riconosciuto da Gregorio XII, che abdica        271
            Ostinazione di Benedetto XIII, che Sigismondo
              va a ricercare a Perpignano                     272
            La chiesa Spagnuola si distacca da Benedetto
              XIII, che viene deposto il 26 luglio 1417       274
            Il concilio si propone la riforma
              della chiesa; ardire dei predicatori            275
  1372-1385 Dottrina di Giovanni Wickleff.
              I Lollardi in Inghilterra                       276
            I libri di Wickleff portati in
              Boemia; progressi della riforma                 277
            Carattere di Giovanni Huss; va
              a Costanza ed è posto in prigione               279
       1415 6 luglio, Giovanni Huss condannato a morte
              dal concilio, ed abbruciato                     280
            Carattere di Girolamo da Praga;
              sua ritrattazione e suo pentimento
              d'essersi ritrattato                            280
       1416 23 maggio. Suo discorso innanzi al concilio       281
            Sua condanna e suo supplicio                      283
  1419-1460 Rivoluzione della Boemia; accanita
              guerra degli Ussiti                             284
            Il concilio prende a riformare la simonia
              della corte di Roma                             285
  1416-1417 Violente dispute ed anarchia nel concilio         286
       1417 11 novembre. Ottone Colonna eletto papa
              sotto il nome di Martino V                      287
       1418 22 aprile. Il papa scioglie il concilio
              senza avere fatta alcuna riforma                288
            Stato dell'Europa in tempo del
              concilio. Giovanna II di Napoli                 288
       1414 10 agosto. Lo stato della Chiesa
              scuote il giogo de' Napolitani                  290
            Pratiche di Pandolfello Alopo, favorito
              di Giovanna, con Francesco Sforza               291
            Lo Sforza vuole formarsi un principato;
              suoi feudi, sua armata                          292
       1415 Agosto. Lo Sforza posto in prigione da Giacomo,
              conte della Marca, sposo della regina           294
            10 agosto. Giovanna II sposa di Giacomo
              conte della Marca, che la maltratta             295
       1416 Congiura di Giulio Cesare di
              Capoa contro il nuovo re                        296
            13 settembre. Ribellione de' Napolitani
              contro il re, in favore della regina            297
            Ser Gianni Carracioli, nuovo
              favorito della regina                           298
            Braccio di Montone, capitano di ventura,
              rivale dello Sforza                             299
  1414-1416 Braccio governa Bologna pel
              papa Giovanni XXIII                             299
       1416 5 gennajo. Vende ai Bolognesi la loro libertà     300
       1416 Attacca improvvisamente Perugia                   302
            Coraggiosa resistenza di Perugia                  302
            Carlo Malatesti s'avvicina per difenderla         303
            7 luglio. Battaglia di san Egidio, ove il
              Malatesti viene disfatto da Braccio             305
            14 luglio. Perugia si assoggetta a
              Braccio, e lo elegge suo signore                307
            Giostre di Perugia, rendute più
              brillanti da Braccio                            308
            Luogotenenti di Braccio, Tartaglia
              e Niccolò Piccinino                             310
       1417 3 giugno. Braccio occupa Roma                     311
            È costretto a ritirarsi per l'avvicinamento
              dello Sforza                                    312

  CAPITOLO LXIII. _Papa Martino V va a stabilirsi in
  Firenze; di concerto collo Sforza vuole rialzare in
  Napoli il partito angioino, mentre che Giovanna II
  adotta Alfonso d'Arragona. — Conquiste del duca di
  Milano in Lombardia; guerra degli Svizzeri._ 1418-1422      313

  1382-1418 Prosperità di Firenze sotto il
              governo dell'oligarchia guelfa                  313
            Maso degli Albizzi capo del governo               315
            Alla di lui morte accaduta nel 1417, gli
              succede Niccola d'Uzzano                        316
            Gli Alberti, Ricci e Medici
              allontanati dal governo                         317
            Giovanni di Bice dei Medici ammesso di nuovo
              nella magistratura                              318
            Politica pacifica dei Fiorentini                  319
       1418 Invitano Martino V a stabilirsi in Firenze        320
            Giovanni XXIII fugge di prigione, e viene
              ad assoggettarsi personalmente a Martino        321
            Negoziazioni di Martino V con Giovanna II         323
       1419 28 ottobre. Giovanna viene coronata
            in nome del papa                                  324
            Giacomo della Marca non potendo farsi un
              partito, si ritira in Francia, ove muore
              in un convento                                  325
            Lo Sforza spedito a combattere contro
              Braccio nello stato della Chiesa                326
            Viene disfatto tra Montefiascone e Viterbo        327
            Martino V vuole riconciliarsi con Braccio         328
       1420 febbrajo. Braccio a Firenze. Accoglimento
              che gli viene fatto dal popolo                  329
            Martino irritato dalle canzoni nelle quali
              viene posto in confronto di Braccio             330
            Braccio per prezzo della sua riconciliazione
              assoggetta Bologna al papa                      331
            Martino fa passare lo Sforza dal partito
              della regina a quello di Luigi III d'Angiò      333
            Intraprese di Luigi III d'Angiò
              sul regno di Napoli                             333
            Negoziati di Giovanna con Alfonso
              re d'Arragona                                   336
       1409 Successione della casa d'Arragona
              alla corona di Sicilia                          337
            Rivalità tra le case d'Arragona e d'Angiò         338
       1420 6 settembre. I luogotenenti di Alfonso
              prendono possesso dei castelli di Napoli        339
       1421 Braccio chiamato nel regno di Napoli da
              Giovanna e da Alfonso                           339
            Intrighi alla corte di Napoli contro Alfonso      342
       1422 Pace fatta colla mediazione del
              papa; Luigi d'Angiò si ritira                   343
  1418-1422 Rivoluzioni di Lombardia; carattere
              di Filippo Maria                                344
       1418 Processo e giudizio di Beatrice
              Tenda duchessa di Milano                        345
            Principj di Francesco Carmagnola;
              suo favore presso il duca                       348
            Conquista della Lombardia fino
              all'Adda; sorpresa di Lodi                      348
            Lega formata contro il duca da Filippo
              Araceli e disciolta dal Carmagnola              349
            Piacenza resta deserta un anno                    350
            Ruina degli Araceli, dei Beccaria
              e di Lotterio Rusca                             351
            Anarchia di Genova attaccata
              ancor essa dal Carmagnola                       353
            Governo e patriottismo di Tomaso
              da Campofregoso                                 353
            Vantaggi del Carmagnola contro i Genovesi         354
            I Fiorentini ricusano di soccorrere
              Genova per forzare questa repubblica
              a vender loro Livorno                           355
       1419 Gennajo. Trattato di pace tra i
              Fiorentini ed il duca di Milano                 356
       1420 Alfonso d'Arragona attacca la
              Corsica, ed è respinto da Bonifazio             357
       1421 Genova si dà al duca di Milano                    358
  1418-1420 I Veneziani acquistano il patriarcato
              d'Aquilea                                       360
       1421 Nuovi acquisti del duca di Milano,
              San Donnino, Parma, Bergamo                     361
            Gabrino Fondolo cede Cremona
              al duca di Milano                               362
            Pandolfo Malatesta fa lo stesso
              di Brescia, e Giorgio Benzone di Crema          364
       1422 Il duca toglie agli Svizzeri Bellinzona,
              Domodossola e la valle Levantina                365
            Un'armata svizzera passa il san
              Gottardo per attaccare il duca                  366
            30 giugno. Battaglia d'Arbedo fra
              tre mila Svizzeri e ventiquattro
              mila Italiani                                   367
            Ritirata degli Svizzeri; la valle
              Levantina conquistata dal Carmagnola            368

  CAPITOLO LXIV. _La regina Giovanna II, irritata contro
  Alfonso d'Arragona, adotta Luigi d'Angiò. — Morte di
  Sforza e di Braccio; disastrosa guerra dei Fiorentini
  col duca di Milano; alleanza dei Veneziani; presa di
  Brescia._ 1422-1426                                         371

       1422 Rivalità di Sforza e di Braccio di Montone        371
            Loro riconciliazione chiesta dallo Sforza         372
            Lo Sforza per mezzo di Braccio
              riconciliato colla regina                       373
            Alfonso d'Arragona geloso del Caraccioli          374
            Braccio nominato da Alfonso governatore
              degli Abbruzzi                                  376
            Assedia l'Aquila che gli chiude le porte          376
       1423 22 maggio. Alfonso arresta Caraccioli,
              e vuole anche la regina                         377
            Lo Sforza chiamato in soccorso della
              regina; sua vittoria alle Formelle              379
            Lo Sforza e la regina si ritirano ad Aversa       380
            La regina revoca l'adozione di Alfonso, e
              gli sostituisce Luigi III d'Angiò               380
            Alfonso chiama Braccio in suo soccorso,
              ch'è ritenuto dall'assedio dell'Aquila          381
            Alfonso torna in Arragona, lasciando
              suo fratello a Napoli                           382
            Lo Sforza marcia verso l'Aquila
              per costringere Braccio a levare l'assedio      383
       1424 4 gennajo. Lo Sforza si annega,
              passando il fiume Pescara                       384
            Francesco Sforza contiene la sua armata,
              ed assicurasi della sua eredità                 385
       1424 Guido Torello spedito dal duca di Milano
              in soccorso della regina Giovanna               387
            La regina Giovanna riprende Napoli
              all'infante di Arragona                         388
            Effetto che produce sopra Braccio la notizia
              della morte dello Sforza                        389
            Giovanna manda Giacomo di Caldora in soccorso
              degli abitanti dell'Aquila                      391
            Braccio permette a Caldora di passare
              la montagna di san Lorenzo                      392
            2 giugno. Battaglia dell'Aquila
              tra Braccio e Caldora                           393
            Braccio disfatto per errore di Niccolò Piccinino  394
            Braccio muore in conseguenza delle sue ferite     395
            Il principato formato da Braccio
              viene distrutto                                 396
            Intrighi del duca di Milano in Romagna,
              che riaccendono la guerra                       397
       1423 6 settembre. Pandolfo Malatesta, generale
              dei Fiorentini battuto a Ponte a Ronco          398
       1424 1.º febbrajo, Imola sorpresa da
              Angelo della Pergola                            399
            Carlo Malatesta disfatto e prigioniero
              a Zagonara, il 27 luglio                        400
       1425 1.º febbrajo. Terza rotta dei Fiorentini
              in val di Lamone                                401
            Aprile. Quarta rotta dei Fiorentini a Rapallo     402
       1425 9 ottobre. Quinta rotta dei Fiorentini
              ad Anghieri                                     403
            17 ottobre. Sesta rotta dei Fiorentini
              alla Fagiuola                                   404
            I Fiorentini affrettano i Veneziani
              in loro soccorso                                404
            Francesco Carmagnola incorre nella disgrazia
              del duca di Milano                              405
            23 febbrajo. Va a Venezia ed eccita quella
              repubblica alla guerra                          407
            Apostrofe di Lorenzo Ridolfi al
              senato di Venezia                               408
            14 dicembre. Suo discorso in senato
              intorno alla guerra                             409
            Discorso del Carmagnola per eccitare
              i Veneziani alla guerra                         411
       1426 27 gennajo. I Veneziani ed i loro confederati
              dichiarano la guerra al duca di Milano          412
            Pratiche del Carmagnola per sorprendere
              Brescia                                         413
            17 marzo. Viene introdotto nel
              quartiere de' Guelfi                            415
            Assedia successivamente gli altri
              quartieri e le fortezze                         415
            20 novembre. Brescia interamente
              sottomessa dal Carmagnola                       417
            30 dicembre. Pace di Ferrara tra il duca
              di Milano e le repubbliche                      418

  CAPITOLO LXV. _Seconda guerra dei Fiorentini col duca
  di Milano. — Rivoluzioni nello stato della Chiesa. —
  Tentativi dei Fiorentini sopra Lucca; questa città
  ricupera la libertà; terza guerra col duca di Milano. —
  Morte del Carmagnola._ 1427-1432                            420

            Attaccamento dei Milanesi alla
              casa Visconti                                   420
       1426 Loro riesce dispiacevole la notizia
              della pace di Ferrara                           421
            La nobiltà di Milano offre al
              duca di mantenere un'armata                     422
       1427 Il duca rinnova le ostilità                       423
            21 maggio. Disfatta d'una flotta
              milanese sul Po                                 425
            Il Carmagnola sorpreso a Gottolengo
              dal Piccinino                                   426
            Numerose armate adunate presso Cremona            427
            12 luglio. Battaglia di Casal
              Secco, di cui resta la vittoria indecisa        428
            Il duca di Savoja ed il marchese di Monferrato
              respinti da Ladislao Guinigi                    429
            Insubordinazione nell'armata del
              duca di Milano                                  430
            Ne dà il comando a Carlo Malatesta di Pesaro      431
            11 ottobre. Battaglia di Macalò;
              disfatta dell'armata milanese                   433
            Il Carmagnola dà la libertà a
              tutti i prigionieri                             435
            Nuove negoziazioni; pace separata
              del duca di Savoja. 2 dicembre                  437
       1428 Ambizione de' Veneziani, che vogliono
              continuare la guerra                            438
            18 aprile. Seconda pace di Ferrara
              tra le repubbliche ed il duca                   439
       1428 Malcontento negli stati della
              Chiesa contro Martino V                         441
            1.º agosto. Congiura a Bologna
              che ricupera la libertà                         442
  1428-1431 La guerra tra la Chiesa e Bologna
              trattata mollemente                             444
            Uccisione degli amici dei Bentivoglio
              a Bologna                                       445
       1429 14 settembre. Morte di Carlo
              Malatesta; suo carattere                        446
            Indebolimento della sua casa;
              divisione de' suoi stati fra i nipoti           447
            Turbolenze in Toscana prodotte
              dallo stabilimento del Catastro                 448
            Sedizione di Volterra                             449
            22 novembre. Niccolò Fortebraccio
              attacca lo stato di Lucca                       450
            14 dicembre. I Fiorentini dichiarano la guerra
              a Paolo Guinigi, signore di Lucca               452
            Vergognosa condotta d'Astorre
              Gianni a Serravezza                             453
       1430 Filippo Brunelleschi intraprende
              invano d'inondare Lucca                         455
            Valorosa difesa di Paolo Guinigi
              e de' suoi figli                                456
            Zelo d'Antonio Petrucci, sienese,
              per la difesa di Lucca                          457
            Luglio. Francesco Sforza, mandato dal duca
              di Milano, allontana i Fiorentini               458
            Paolo Guinigi reso sospetto di avere voluto
              vendere Lucca ai Fiorentini                     459
       1430 Settembre. Paolo Guinigi arrestato
              e tradotto a Milano                             461
            I Lucchesi dopo ricuperata la libertà non
              possono ottenere la pace dai Fiorentini         462
            Niccolò Piccinino mandato dal
              duca in soccorso di Lucca                       463
            2 dicembre. I Fiorentini disfatti
              dal Piccinino in riva al Serchio                464
       1431 10 febbrajo. Morte di Martino V;
              gli succede Eugenio IV                          465
            I Fiorentini persuadono i Veneziani
              a ricominciare la guerra                        466
            17 maggio. Il Carmagnola sorpreso
              e rotto presso Soncino                          468
            Il Piccinino minaccia Pisa e
              guasta la Toscana                               468
            I Veneziani fanno rimontare il
              Po ad una grossa flotta                         470
            22 maggio. Primo attacco tra le
              flotte veneziana e milanese                     471
            23 maggio. La flotta veneziana battuta e
              quasi distrutta dai Milanesi                    472
            27 agosto. Vittoria d'una flotta veneziana
              sopra una flotta genovese a Rapallo             474
       1432 Il Carmagnola chiamato a Venezia
              per dare consigli                               476
            Viene arrestato in mezzo al senato
              e posto alla tortura                            476
            5 maggio. Il consiglio dei dieci
              lo fa decapitare, come un traditore             477


FINE DELLA TAVOLA.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (seguito/seguìto e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





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