Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 10
Author: Sismondi, J. C. L. Simondo
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 10" ***


                           STORIA DELLE
                        REPUBBLICHE ITALIANE
                                DEI
                          SECOLI DI MEZZO


                                DI
                      J. C. L. SIMONDO SISMONDI

           DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
                   DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

                     _Traduzione dal francese._


                             _TOMO X._



                              ITALIA
                               1818.



STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE



CAPITOLO LXXV.

      _Pontificato di Niccolò V; congiura di Stefano Porcari. —
      Campagna di Giacomo Piccinino nello stato di Siena. — Disgrazie
      e deposizione di Francesco Foscari a Venezia._

1447 = 1457.


Nel 15.º secolo la storia politica dell'Italia presenta un maraviglloso
contrapposto colla sua storia letteraria; imperciocchè, mentre ogni
giorno s'andava sempre più accostando colla ruina della libertà, quella
pure de' costumi, dell'energia, e di ogni virtù pubblica e privata,
vedevasi per lo contrario nascere ed aggrandirsi la passione per la
poesia, l'ammirazione per l'eloquenza, ed in particolare per
l'erudizione, che sembravano indicare qualche cosa di più nobile e di
più elevato nel carattere del secolo. Ad ogni modo quando si fissano più
a lungo gli sguardi sopra i celebri letterati che fiorirono in
quest'epoca, per quanto ci sorprenda la loro laboriosa attività, per
quanta riconoscenza c'inspirino i capi d'opera dell'antichità ch'essi ci
conservarono, ed i capi d'opera de' moderni tempi ch'essi ci
apparecchiarono, si scorgono però nel loro carattere e nel loro spirito
gli effetti del disordine sociale, e scorgesi la ragione per cui non
potevasi niente sperare dal loro lavoro che fosse degno di que' tempi
che erano oggetto della loro ammirazione. In fatti i progressi dei lumi
nel quindicesimo secolo non erano uno sviluppamento nazionale; non erano
la riflessione, la meditazione, l'immaginazione italiana, che avevano
fatti nascere i Guarini, i Valla, i Filelfo, i Poggio, ed i Ficino, ma
l'ostinato studio di un'antichità che non aveva relazione col tempo
presente, ma l'adozione dei pensieri, delle formole di ragionamento,
d'immagini e di leggi poetiche, ch'erano state fatte per altre nazioni,
per altre lingue, per altri costumi, ed un'assoluta preferenza accordata
alla memoria in pregiudizio di tutte le altre facoltà, una servile
sommissione del gusto individuale ai modelli ed all'autorità letteraria.
Forse quest'assoluto abbandono delle naturali e vere impressioni, del
pensiero originale, del gusto particolare d'ogni individuo in una nuova
nazione, fu di maggior danno alle lettere in Italia ed in tutta
l'Europa, che non furono loro di vantaggio i modelli, greci e romani,
malgrado la loro sublime bellezza. Ma soprattutto nella politica del
secolo presentemente vedremo come sia stato servile il carattere dato
dall'erudizione al pensiero. La storia ci conduce a cercare le pubbliche
virtù negli scrittori del quindicesimo secolo, e li troviamo mancanti di
elevazione, di nobiltà, di amore di patria, di sentimenti politici.

Le repubbliche ed i piccioli principati produssero dei filologi; la sola
Firenze coi suoi Leonardo Bruno, Poggio, Ambrogio Camaldolese e
Marzuppini poteva a quest'epoca avere la palma sopra tutti gli altri
paesi: ma quantunque tre di questi siano stati un dopo l'altro
cancellieri della repubblica, non si videro acquistare nello stato
un'influenza proporzionata ai vasti loro studj, nè adoperare utilmente
in servigio della patria i sommi loro talenti, nè introdurre ne'
consigli e nel foro un'eloquenza persuasiva, nè ricordare colle virtù e
coi talenti degli antichi l'antichità che essi imitavano.

Il passaggio a Firenze dell'imperatore Federico III pose al cimento i
talenti di questi pretesi oratori e politici. Carlo Marzuppini, ch'era
succeduto a Leonardo Bruno d'Arezzo nell'ufficio di segretario della
repubblica, venne incaricato di complimentare l'imperatore. Gli
addirizzò un discorso in lingua latina, che compose in due giorni; la
sacra e profana erudizione, onde l'aveva arricchito, e l'eleganza dello
stile eccitarono, l'ammirazione degli uditori. Ma nè i consiglj, nè lo
stesso oratore avevano pure pensato allo scopo politico di questo
discorso d'etichetta. L'imperatore fece rispondere al Marzuppini dal suo
segretario, Enea Silvio Piccolomini, che fu poi Pio II. Questi, ch'era
ben più politico che filologo e ch'erasi accostumato nelle deliberazioni
del consiglio di Basilea a parlare con uno scopo determinato, fece nella
sua risposta alcune domande alla repubblica, ed alcune osservazioni, che
richiedevano una replica; ma il Marzuppini, che non vi si era
apparecchiato, si trovò incapace di dire una sola parola, e Giannozzo
Manetti dovette prendere la parola invece del Marzuppini[1].

  [1] _Roscoe Life of Lorenzo the Magnificent, t. I. p, 22._

Questi uomini che non sapevano pensare che dietro gli altri, e che,
sempre parlando al pubblico d'eloquenza, lasciarono il loro secolo così
sterile nelle cose di quell'arte oratoria, che pure avrebbe dovuto
esercitare il suo impero nelle repubbliche; questi uomini avevano più
vanità che amore di gloria, più cupidigia che ambizione, e preferivano
le corti dei principi nelle quali l'erudizione teorica era più stimata
che la scienza applicata. Nelle repubbliche si sentivano umiliati,
qualunque volta venivano paragonati a magistrati di fermo carattere,
d'idee giuste, quali erano Neri Capponi, Maso degli Albizzi, o Cosimo
de' Medici, che, sebbene ignorassero le _eleganze del parlare latino_ e
l'arte di prendere a prestito dagli antichi dei falsi ornamenti, pure
sapevano muovere le menti colla forza dei loro pensieri. Si trovavano in
migliori acque presso d'un Alfonso, d'uno Sforza, d'un Gonzaga, d'un
marchese d'Este, di un Montefeltro; la loro vita era totalmente
consacrata ad un genere d'erudizione, che non poteva adombrare il più
sospettoso principe, nè turbarne lo stato. Quand'erano chiamati a
qualche pubblica incumbenza, non richiedevasi che i loro discorsi
d'etichetta fossero l'espressione dell'interno loro convincimento;
perciò essi giustificavano senza scrupolo quegli atti tirannici, cui non
avevano preso parte. Le incumbenze loro non erano quelle d'analizzare o
di giudicare le azioni, ma di velarle con belle frasi ciceroniane;
impiegavansi non come pubblici magistrati, ma come retori; non si
tenevano responsabili nemmeno agli occhi del mondo de' loro pensieri o
dei loro giudizj, ma soltanto del loro stile; e quando avevano
l'opportunità di sostenere il pro ed il contro, di parlare
successivamente in due opposti sensi, vi ravvisavano una doppia gloria,
avendo con ciò occasione di mostrare in tutto il suo lume il loro merito
d'oratore e di sofista.

Per avere in tal modo separata la scienza dall'azione, l'eloquenza dalla
politica, lo stile dal pensiero, gli eruditi del quindicesimo secolo non
procurarono ai tempi in cui fiorirono nè maggiori virtù pubbliche, nè
nuovi lumi intorno alle scienze che hanno relazione col governo. Non
pertanto alcuni di loro s'innalzarono alle più sublimi cariche della
repubblica cristiana. Uno de' più illustri ad un tempo e de' più
fortunati fu forse Tommaso da Sarzana, che sotto il nome di Niccolò V
occupò la cattedra pontificia nel periodo da noi percorso. Protettore
zelante degli eruditi, ai di cui lavori aveva avuta tanta parte,
splendido rimuneratore delle belle arti, di cui ne moltiplicò in Roma i
capi d'opera, non si mostrò egualmente favorevole alle opinioni liberali
come alle arti liberali. Egli aveva presa nella società dei clienti e
dei protetti di Cosimo de' Medici quell'indifferenza per la libertà, che
rimpicciolì la loro anima; e segnalò il suo regno mandando al patibolo
l'ultimo patriotta romano, e rendendo vano l'ultimo sforzo fatto per la
libertà di Roma.

Niccolò, allora chiamato Tommaso, era figlio di Bartolomeo Parentucelli,
medico pisano, ammogliato a Sarzana, ed era nato nel 1398. Aveva
ricevuto i primi ordini in età di dieci anni, poi era stato mandato a
Bologna per continuarvi i suoi studj[2]. Essendo egli affatto povero,
era stato costretto a tenersi lontano da questa università dai diciotto
fino ai ventidue anni, onde venire a Firenze a tenere scuola ai
figliuoli di Rinaldo degli Albizzi e di Palla Strozzi[3]. Quando tornò a
Bologna, il cardinale Niccola Albergati lo prese al suo servigio e lo
nominò suo maggiordomo. Tommaso lo accompagnò da principio a Roma, poi
nelle sue legazioni in Francia, in Inghilterra, in Germania, supplendo
presso di lui, per lo spazio di vent'anni, le incombenze d'intendente,
di segretario e di medico[4]. Il cardinale Albergati avendolo ricondotto
a Firenze presso Eugenio IV, ebbe Tommaso opportunità di legare
domestichezza coi più illustri letterati colà riuniti, quali erano
Leonardo Bruno d'Arezzo, Giannozzo Manetti, Poggio, Carlo Marzuppini,
Giovanni Aurispa, Guasparro di Bologna, ed altri molti. Usavano questi
di adunarsi ogni mattino sull'angolo del palazzo, e di disputare, sola
maniera in allora praticata dai dotti per far mostra del loro ingegno.
Tostocchè Tommaso aveva accompagnato in palazzo il suo padrone,
raggiugneva quest'adunanza, vestito con una semplice tonaca turchina, e
con una berretta da prete; e prendeva caldamente parte nella disputa[5].

  [2] _Janotti Manetti vita Nicolai V., Script. Rer. Ital., t. III, p.
  II, p. 907-911. — Barth., Facii, l. IX, p. 141._

  [3] _Comment. della vita di P. Niccolò composto da Vespasiano, e
  mandato a Luca degli Albizzi, t. XXV, R. I. p. 270._

  [4] _Vita Niccolai V a Janottio Manetti, p. 915. — Vespasiano, vita
  di Niccolò, p. 271._

  [5] _Vespasiano vita di Niccolò, p. 271._

Tommaso di Sarzana aveva di già fatto vantaggiosamente conoscere il suo
gusto per i classici, avendo arricchiti con giudiziose note i
manoscritti copiati di suo pugno[6]; perciò quando Cosimo dei Medici
aprì al pubblico nel convento di san Marco la collezione dei manoscritti
di Niccolò Niccoli, chiese a Tommaso istruzioni intorno al modo di
distribuire una biblioteca, intorno alla divisione dei libri ed alla
formazione del catalogo. La scrittura dettata per soddisfare a tali
inchieste, non servì soltanto di norma per la distribuzione della
biblioteca di san Marco, ma inoltre per quella della Badìa a Fiesole,
del conte di Montefeltro ad Urbino, e di Alessandro Sforza a Pesaro[7].
Il cardinale Albergati aveva generosamente provveduto al mantenimento di
Tommaso, procurandogli due beneficj semplici, uno de' quali fruttava
trecento scudi; e morendo gli avea lasciato altri beni. Ma la generosità
di Tommaso, e più ancora le sue spese in libri ed in copisti superavano
di molto le sue entrate[8]. Dopo la morte del cardinale Albergati,
Eugenio IV chiamò alla sua corte questo dotto ecclesiastico col titolo
di vicecameriere apostolico, e lo mandò di nuovo in Germania col
cardinale di sant'Angelo per persuadere i Tedeschi a rinunciare alla
loro neutralità tra il concilio di Basilea e la corte di Roma. Di
ritorno da questa missione lo fece vescovo di Bologna, e poi cardinale
nell'anno medesimo che non doveva terminare, prima che il nuovo prelato
salisse sulla cattedra di san Pietro[9].

  [6] _Roscoe life of Lorenzo, t. I, p. 42. — Vespas. vita di Niccolò,
  p. 273._

  [7] _Vespasiano vita di Niccolò V, t. XXV, p. 274._

  [8] _Vespasiano vita di Niccolò V, t. XXV, p. 275._

  [9] _Janottii Manetti vita Nicolai V, p. 916. — Platina vite de'
  Pontefici in Niccolò V, p. 416. Edit. Ven. 1730._

Eugenio IV essendo morto il 23 febbrajo del 1447, vennero consacrati
nove giorni alle pompe funebri, prima che i cardinali entrassero in
conclave. Durante quest'interregno Alfonso s'avvicinò a Roma, e stabilì
il suo soggiorno in Tivoli onde dare maggior peso al suo partito. Tutti
i baroni romani cercavano di far valere i loro diritti; Battista Savelli
pretendeva di avere quello di custodire le chiavi del conclave, ma i
cardinali non vollero riconoscerlo. D'altra parte il consiglio della
città di Roma, adunato nella chiesa d'Araceli, riclamava tutti i
privilegj anche recentemente esercitati dal popolo; fu propriamente in
questo consiglio che Stefano Porcari, gentiluomo romano d'incontaminata
riputazione, cominciò a farsi conoscere. Il pontefice or ora morto aveva
disgustati i Romani colla sua incostanza e col disprezzo di tutte le
leggi; la tirannide del patriarca Vitelleschi, che fu lungo tempo il suo
favorito, aveva eccitata l'indignazione. Il Porcari che sospirava dietro
la libertà, e che voleva imitare le virtù dell'antica Roma più che il
suo idioma, esortò i cittadini adunati ad approfittare di quest'unica
circostanza per consolidare la loro costituzione. «Non trovasi, loro
disse, in tutti gli stati della Chiesa così piccola e misera città, che
non abbia leggi e statuto, e che contro un annuo tributo non goda della
sua libertà: dovrà la sola Roma esser priva d'un beneficio comune? Non
si trova così piccola e misera terra, che, quando la morte la rende
libera dal suo tiranno, non approfitti dell'interregno per ricuperare i
suoi diritti, o almeno per porre un limite alle prerogative de' suoi
oppressori; alla sola Roma mancherà l'energia, che hanno i più oscuri
popoli[10]?» Ma l'arcivescovo di Benevento, che presiedeva a
quest'assemblea, vietò a Porcari di continuare, e lo denunciò in
appresso al nuovo papa come un uomo pericoloso.

  [10] _Diario Rom. di Stef. Infessura, t. III, p. II, p. 1131. —
  Platina vita di Niccolò V, p. 417. — Leonis Bapt. Alberti de
  Porcaria conjuratione, t. XXV, p. 309._

I cardinali, che entrarono in conclave nella chiesa di santa Maria sopra
Minerva, erano diciotto. Rendevasi dunque necessaria per la nomina del
papa l'unione di dodici voci. Il cardinale Prospero Colonna in due
differenti scrutinj, tenuti in diversi giorni, ebbe solo dieci voci; gli
altri erano divisi, e Tommaso di Sarzana veniva appena indicato. Dopo il
secondo scrutinio il cardinale di Maurienne alzossi e disse: «Miei
padri, non prodigare il tempo, niente può riuscire tanto pericoloso alla
Chiesa quanto questo ritardo: Roma è agitata; il re d'Arragona trovasi
alle nostre porte; Amedeo di Savoja ci tende delle imboscate; il conte
Francesco Sforza è in guerra con noi; qui noi soffriamo mille disagi
nella nostra reclusione; affrettiamoci adunque di nominare un pontefice.
Ecco un angelo di Dio, un agnello innocente che di già riunì dieci
suffragj, non gliene mancano che due; un solo di voi si alzi e gli dia
il suo, e la cosa sarà fatta, che un'altra voce non gli mancherà.» Tutti
rimasero immobili; finalmente alzossi Tommaso di Sarzana per andare a
dare la sua voce al Colonna; ma il cardinale di Taranto, trattenendolo
per la sua veste, lo supplicò ad aspettare ancora, a pensare a ciò che
andava a fare, a ricordarsi che nominando un papa, dava un Dio alla
terra, un uomo che avrebbe il potere di legare e di sciogliere, d'aprire
e di chiudere il cielo, che questa scelta domandava mature
considerazioni. «Tutti questi ritardi (ripigliò il cardinale di Aquilea)
non sono chiesti che per impedire l'elezione di Prospero Colonna; ma
dimmi tu stesso, quale papa vorresti fare?» — «Il cardinale di Bologna,
Tommaso di Sarzana» (rispose il cardinale di Taranto) — «Piace a me pure
(rispose quello di Maurienne)» e gli altri furono subito dello stesso
parere, e si riunirono in un istante i dodici suffragj. Era il 6 marzo
del 1447; e Prospero Colonna, il decano del sacro collegio, annunziò
allora al popolo adunato, che il papa era stato nominato[11].

  [11] _Orat. Aeneae Silvii de Creat. Nicolai V, t. III, p. II, p.
  894._

Il pontefice, assistito dalla sua personale considerazione, e
dall'appoggio dell'imperatore e del re di Francia, riuscì in aprile del
1449 a far cessare lo scisma prodotto dal concilio di Basilea, e ottenne
l'abdicazione di Felice V. Amedeo di Savoja ripigliò l'antico suo nome,
ma venne dalla corte di Roma riconosciuto come cardinale e legato della
santa sede in Germania, e tutti i cardinali da lui creati furono ammessi
nel sacro collegio[12].

  [12] _Platina vita di Niccolò V, p. 420._

Le antiche lettere approfittarono bentosto dell'innalzamento del più
zelante loro ammiratore. Egli chiamò alla sua corte moltissimi copisti e
traduttori dal greco e dal latino. Mandò dei dotti in traccia di
manoscritti, che faceva loro comperare per conto suo in ogni parte
dell'Italia, della Germania, dell'Inghilterra, della Grecia e del
Levante. Negli otto anni del suo regno furono tradotti in latino più
autori greci che non eransene tradotti in cinque secoli prima di lui e
sotto cento diversi papi. Strabone, Erodoto, Tucidide, Zenofonte,
Polibio, Diodoro, Appiano, Filone giudeo, vennero sotto il regno di
Niccolò V posti in mano di coloro che non intendevano il greco. Molte
opere di Platone, d'Aristotile, di Teofrasto si aggiunsero a quelle che
di già si avevano. I padri ed i teologi dei primi secoli della Chiesa
non furono dimenticati, e si tradussero le opere di Eusebio di Cesarea,
di Dionigi Areopagita, di Basilio, di Gregorio Nazianzeno, di Giovanni
Grisostomo, di Cirillo: nello stesso tempo si studiarono con ardore le
lingue orientali, e lo stesso Giannozzo Manetti venne incaricato dal
pontefice di fare una traduzione della sacra scrittura sul testo
ebraico; lavoro rimasto imperfetto per la morte di Niccolò V[13], il
quale non era meno sollecito dei progressi dell'erudizione che di quelli
dell'architettura. In tutte le città de' suoi stati riparò o edificò
chiese; ingrandì, decorò e cinse di sontuosi edificj le pubbliche
piazze, e rialzò le distrutte mura. Assisi, Cività Vecchia, Cività
Castellana riconoscono da lui ornamenti che sorprendono in così piccole
città. Fabbricò magnifici palazzi in Orvieto ed in Spoleti; costrusse in
Viterbo bagni per gl'infermi, degni di ricevere non solo private
persone, ma principi. Intorno alla stessa Roma rialzò le mura mezzo
ruinate, ristaurò la maggior parte delle chiese, che di que' tempi erano
quaranta, e profuse particolarmente le splendide sue cure alle sette
principali basiliche. Quella di san Pietro in Vaticano cadeva in ruina;
Niccolò vi fece cominciare sopra i disegni di Bernardo Rosellini e di
Gio. Battista Alberti una nuova tribuna più vasta dell'antica. Egli
voleva innalzare nella capitale de' Cristiani un tempio, la di cui
magnificenza non avesse esempio, di già n'erano gettati i vasti
fondamenti, ma i muri non avevano ancora tre gomiti d'altezza sopra il
suolo, quando la morte di Niccolò V fece sospendere questo prodigioso
edificio, che non si ripigliò che mezzo secolo dopo da Giulio II
coll'opera di Bramante[14]. Per supplire a queste regie spese aveva nel
1450 accordato un giubileo, che riempì i tesori della Chiesa, e passar
fece in pochi giorni ne' forzieri de' Medici, banchieri della santa
sede, parecchie centinaja di migliaja di fiorini[15].

  [13] _Vita Nicolai V a Jan. Manetto, t. III, p. II. Rer. Ital., p.
  926-927. — Vespas. Vita, t. XXV, p. 282._ — Aggiugne i nomi di tutti
  i dotti incaricati da Niccolò delle varie traduzioni, e l'ammontare
  dei premj loro dati.

  [14] _Jannozio Manetti, t. III, p. II. Rer. Ital., p. 934-940._

  [15] _Vespasiani Comment., t. XXV, p. 279._

Nello stesso tempo Niccolò V soddisfece pure al suo gusto per le arti,
fondando la biblioteca del Vaticano; egli adunò cinque mila volumi in
quel palazzo pontificio, ed allora non credevasi che dopo i tempi di
Tolomeo altra biblioteca avesse mai avuta così gran copia di libri[16].
I dotti, cui era destinata, e coi quali viveva familiarmente, lo amavano
teneramente, e lo apprezzavano e rispettavano. Pare che Niccolò V fosse
di carattere faceto, semplice, ingenuo. Quando il Vespasiano andò a
trovarlo dopo l'elezione, il papa gli disse sorridendo: «Ebbene i vostri
compatriotti di Firenze avrebbero creduto che un povero prete, fatto per
suonare le campane, fosse nominato pontefice?» Il Vespasiano rispose,
che quel popolo, che lo conosceva, erasene rallegrato, perchè da lui
sperava la pace; ed il papa replicò subito, che se Dio gli dava grazia
di soddisfare il suo desiderio, altr'arma mai non adoprerebbe in sua
difesa che la croce di Gesù Cristo[17].

  [16] _Ivi, p. 282._

  [17] _Vespasiani Comment., p. 279._

In fatti non era altrimenti l'ambizione di accrescere il dominio papale,
meno ancora quella di rendere potente la sua famiglia, che potevano far
trascurare a Niccolò V i suoi doveri di comune pastore dei fedeli. Ma
nella sua amministrazione temporale, che per lui non era che un
interesse affatto secondario, non sapeva soffrire opposizione. I
privilegj riclamati dai suoi sudditi gli facevano perdere quel tempo
ch'egli avrebbe voluto consacrare alla Chiesa, alle lettere ed alle
arti, e si sbrigava con sollecite decisioni. Altronde, avendo vissuto
tanti anni nell'altrui dipendenza, non conosceva che le relazioni di
padrone e di servitore, e chiedeva quell'illimitata ubbidienza ch'egli
aveva tanto tempo prestata ad altri. I magistrati romani continuavano a
considerarsi come rappresentanti del popolo e della repubblica, ed egli
voleva ridurli al rango di semplici agenti del sovrano pontefice. Il
Porcari, che di buon'ora aveva manifestato il suo amore di libertà, che
coi suoi discorsi cercava sempre di tener viva nel popolo quell'antica
fiamma, era in particolar modo sospetto al papa. Ciò non impedì che
Porcari fosse nominato Podestà d'Anagni; ma questa carica veniva
probabilmente conferita dalla città, come costumavasi universalmente in
Italia[18]. Al suo ritorno, dopo avere terminate le incumbenze della sua
carica, il Porcari non perdette di vista il suo favorito progetto di
rendere la libertà a Roma. Un tumulto, eccitatosi pei giuochi di piazza
Navona, parvegli una propizia occasione di tentare qualche cosa; in
questa circostanza si compromise di nuovo, e venne esiliato a Bologna,
con ordine di presentarsi ogni giorno al cardinale Bessarione, allora
governatore di quella città[19].

  [18] _Vespasiani Comment., p. 309._

  [19] Leon Battista Alberto vorrebbe far intendere che il Porcari
  avrebbe dovuto essere riconoscente per tal favore; ma quand'anche vi
  avesse avuta qualche parte Niccolò, la carica di podestà di così
  piccola terra poco utile e poco onorifica poteva essere per un uomo
  della condizione del Porcari. _De Porcaria Conjurat. Comm., t. XXV,
  R. I. p. 309._

Fu in tempo di quest'esilio, che Stefano Porcari concepì il progetto di
far scuotere ai suoi compatriotti un giogo, ch'essi risguardavano come
ignominioso. Il governo era omai tutto tra le mani degli ecclesiastici,
la maggior parte di oscuri natali, forastieri, ed innalzati dall'intrigo
ad una potenza, cui non erano stati preparati dalla loro educazione. Ma
i Romani si vergognavano di dovere ubbidire a cotal gente; riguardavano
come una usurpazione il potere dei papi, che ne' suoi cominciamenti, tre
in quattro secoli prima, era stato limitato da quello dei caporioni,
veri rappresentanti dello stato, e che in appresso aveva fatto luogo a
quello della repubblica finchè la corte si era tenuta in Avignone, ed
avea durato lo scisma. La temporale autorità dei pontefici, ristabilita
da Martino V nel 1420, appena era stata riconosciuta quindici anni di
seguito. Eugenio IV ne fu nuovamente spogliato nel 1434, e fu costretto
ad esiliarsi da una città, in cui i legittimi magistrati non volevano
permettergli di risiedere. Dopo la sua tornata, continui abusi di
potere, sanguinose esecuzioni, non precedute da regolare giudizio,
guerre e ribellioni sempre rinascenti nelle vicinanze di Roma, non
avevano che fatto troppo conoscere, che il governo de' prelati
aggiugneva tutti i vizj dell'anarchia a quelli del despotismo. Durante
il regno di Niccolò il malcontento era diventato estremo tanto nella
nobiltà che nel popolo. La protezione delle lettere e delle arti non
dev'essere pel governo che un oggetto secondario; ed i Romani potevano
essere mal governati da quello stesso papa, che ristaurava i manoscritti
e gli edificj dell'antichità. I prelati erano vinti dall'ebbrezza del
potere, dal lusso, dalle ricchezze, da tutti i vizj de' principi, mentre
richiedevasi dal loro ordine un contegno ed una decenza, di cui più
alcuno non dava l'esempio.

A questi motivi, che incoraggiavano il Porcari nella sua intrapresa, un
altro degno di osservazione ne aggiugne il Machiavelli, che ci fa
conoscere le opinioni del secolo. Il Porcari leggeva con trasporto la
canzone del Petrarca: _Spirto gentil, che quelle membra reggi_; nella
quale l'antica capitale del mondo viene chiamata dal poeta a nuova
libertà. Non solo in essa vedeva ch'egli in ogni tempo le anime sublimi
si erano proposte uno stesso scopo; ma inoltre risguardava quest'ode
come uno slancio profetico. Parevagli che il Petrarca per la superiorità
dei suoi lumi avesse acquistato il privilegio di leggere nell'avvenire,
e credevasi dal poeta chiamato egli medesimo avanti il suo nascere sotto
l'indicazione di cavaliere:

    _Un cavalier, che Italia tutta onora,_
    _Pensoso più d'altrui che di sè stesso._
    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    _Dice che Roma ognora_
    _Cogli occhi di dolor bagnati e molli_
    _Ti chier mercè da tutti i sette colli[20]._

  [20] _Machiavelli Istorie, l. VI, p. 246._

La credenza dei doni profetici non era inallora risguardata come indegna
de' più filosofici ingegni; non era straniera allo stesso Machiavelli, e
nelle pericolose imprese somministrava agli eroi soprannaturali forze.

Il Porcari risolvette adunque di arrischiare la propria vita per rendere
a Roma la libertà; si concertò con Battista Sciarra, suo nipote, che
aveva iniziato ne' suoi progetti, e che lo assecondava con ardore. Gli
ordinò d'invitare a casa sua tutti coloro di cui conosceva il
patriottismo. Trecento soldati e quattrocento esiliati furono
segretamente raccolti nelle case del Porcari, dello Sciarra e di Angelo
Mascio, cognato del Porcari[21]. Tutti i congiurati furono invitati ad
un gran pranzo pel 5 gennajo del 1453, vigilia della Epifanìa. Il
Porcari, che aveva finto di essere ammalato, e che con tale pretesto
erasi sottratto alla vigilanza del cardinale di Bologna, comparve tra i
convitati con una veste di porpora e di oro. La pompa di tali abiti non
era tanto destinata ad abbagliare i congiurati, come ad agevolargli
all'indomani l'ingresso della basilica. Sapeva che i guardiani delle
porte giudicavano del rango dei personaggi dal loro abito, e che non
ricuserebbero di lasciar passare chi vestiva la porpora e l'oro. Alcuni
de' suoi complici, in abito di capitani della guardia notturna, dovevano
condurre un sufficiente numero di congiurati alle prigioni del
Campidoglio, e presentarli come sediziosi che avevano arrestati; e
questi dovevano occupare quell'importante luogo nell'atto che ne
sarebbero state aperte le porte[22].

  [21] _Diario Romano di Stefano Infessura, p. 1134._

  [22] _Leo Baptista Alberti de Conjur. Porcaria, p. 312._

Il Porcari, trovandosi in mezzo ai congiurati ricordò loro con
quell'eloquenza, che l'aveva già renduto celebre, i diritti dei Romani e
la presente loro oppressione; fece vedere i loro statuti violati, e la
crescente corruzione de' loro padroni[23]. Espose il suo progetto di
sorprendere il papa ed i cardinali avanti alla porta della basilica di
san Pietro, in occasione che vi si recherebbero all'indomani per
celebrare la Epifanìa. Con tali ostaggi in mano egli contava di farsi
dare Castel sant'Angelo e le porte di Roma, di suonare in appresso la
campana del Campidoglio, e di ricostituire la repubblica coll'autorità
di quest'assemblea del popolo romano, cui un secolo prima Cola da Rienzo
aveva inspirato il suo entusiasmo. Tutti gli uditori di Porcari
mostravansi apparecchiati a seguirlo ed a sagrificarsi per così nobile
cagione. Ma stava ancora arringando, che di già era tradito. Il
senatore, avvisato dell'adunanza che tenevasi in questa casa, l'aveva
fatta circondare dai suoi soldati, che l'attaccarono bruscamente; i
satelliti dei congiurati, separati da loro, e senza avere ricevuto alcun
ordine, non poterono soccorrerli. Il Porcari volle fuggire, ma fu
trovato presso sua sorella nascosto in un cofano; furono inoltre
arrestati i principali complici, tranne il nipote, che battendosi ebbe
il coraggio di aprirsi una via alla fuga[24]. Non si fecero esami, non
si confrontarono gli accusati, non s'intraprese un regolare processo; i
loro progetti e la colpa loro non possono perciò essere conosciuti che
vagamente; e lo stesso giorno Stefano Porcari fu appiccato con nove
complici ai merli di Castel sant'Angelo. Si ricusò loro, prima di
morire, la confessione e la comunione, sebbene ne facessero caldissima
istanza; perciocchè la loro intrapresa contro la temporale autorità dei
papi non li rendeva meno zelanti cattolici[25].

  [23] _Ivi, p. 310._

  [24] _Leo Bapt. Alberti de Conjur. Porcaria, p. 312._

  [25] _Diario Romano dì Stefano Infessura, p. 1134. — Plat. Vita di
  Niccolò V, p. 422. — Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 700. — Ann.
  Bonincontrii Miniat., t. XXI, p. 157_. Giannozzo Manetti ed il
  Vespasiano, nelle loro biografie, non dicono che una sola parola di
  questa congiura, p. 943 e 314. — Era la parte meno onorifica della
  vita del loro benefattore e del loro eroe.

Niccolò V, persuaso che si era voluto assassinarlo, sebbene la sua morte
avrebbe evidentemente troncati i progetti del Porcari, diventò timido e
feroce, mentre prima era confidentissimo e di facile accesso. Altre
esecuzioni tennero dietro alle prime quasi senza intervallo; il 12
gennajo fece appiccare un dottore ed un cittadino romano, che avevano
accompagnato il Porcari nella sua evasione da Bologna; lo stesso giorno
fece promettere mille ducati di premio a colui che darebbe in mano della
giustizia due parenti del Porcari che si erano nascosti, e cinquecento
ducati a colui che gli assassinasse. Trattò con tutti i governi d'Italia
per avere coloro che si erano salvati; e molti vennero infatti arrestati
a Venezia ed a Padova, tra i quali Battista Sciarra, nipote del Porcari,
che tutti furono condannati a morte. Dietro le calde preghiere del
cardinale di Metz Niccolò fece grazia della vita ad uno dei prevenuti,
detto Battista di Persona, ch'era, dicevasi, assolutamente innocente; ma
all'indomani lo fece arrestare di nuovo, ed appiccare senza processo. Nè
i soli congiurati furono lo scopo delle sue crudeltà: un gentiluomo,
detto Angelo Ronconi, che aveva ajutato il conte Averso dell'Anguillara
a nascondersi per sottrarsi alla giustizia che lo inseguiva, fu dal papa
chiamato a Roma, ove recossi munito di un salvacondotto soscritto di
proprio pugno di sua santità; ciò non ostante egli fu preso per ordine
di Niccolò il 13 ottobre del 1454, giorno susseguente al suo arrivo, ed
immediatamente decapitato. Vero è che il giorno dopo Niccolò lo fece
chiedere al capitano di giustizia, e che mostrossi maravigliato assai ed
afflitto oltre modo, quando gli fu detto ch'egli medesimo ne aveva
ordinato il supplicio. Aggiugne Stefano Infessura, che fu detto che il
papa era ubbriaco quando condannò il Ronconi, perciocchè aveva fama di
bever molto[26]. Per lo contrario il Vespasiano ci assicura, che
l'accusa d'intemperanza sparsa contro Niccolò V era soltanto fondata
sulle compre ch'egli faceva di squisiti vini, i quali poi donava agli
amici[27].

  [26] _Diario Romano di Stefano Infessura, p. 1135._

  [27] _Vespasiani Comment., t. XXV. p. 276._

Niccolò V non sopravvisse lungamente a queste esecuzioni. Era
crudelmente tormentato dalla gotta; e si accerta che il dolore
cagionatogli dalla presa di Costantinopoli, ed i mali della Cristianità,
che ne furono la conseguenza, terminarono di distruggere la sua mal
ferma salute. Nell'ultimo anno di vita, prevedendo vicino il suo fine,
chiamò presso di sè due religiosi che godevano opinione grandissima di
dottrina e di santità, Niccola da Tortona e Lorenzo di Mantova, e gli
alloggiò in palazzo. Andò un giorno nella loro camera, e sedutosi a
canto a loro, lagnossi d'essere il più sventurato uomo del mondo.
«Giammai, egli disse, io non vedo un uomo passare la soglia della mia
porta, che mi dica una parola di vero. Io sono così confuso dalle
finzioni di coloro che mi circondano, che, se non mi trattenesse il
timore dello scandalo, rinuncierei al pontificato per ritornare ad
essere Tommaso di Sarzana. Io aveva sotto questo nome più soddisfazioni
in un sol giorno, che non posso omai sperarne in un anno.» Allora questo
pontefice, il di cui regno era stato così glorioso ed in apparenza così
felice, s'intenerì fino a versar lagrime[28]. Chi sa se tra gli errori
in cui lo avevano strascinato gl'intrighi della sua corte, i suoi
rimorsi non gli facevano dare il primo luogo alla credenza ch'egli aveva
data alla trama di Porcari contro la sua vita, ed alla precipitazione ed
al rigore delle sentenze che avevano tenuto dietro alla scoperta di tale
congiura?

  [28] _Vespasiani Comment., t. XXV, p. 286._

Durante la sua malattia, sebbene soffrisse acerbissimi dolori, Niccolò
non fu mai udito lagnarsi; ma i suoi amici piangevano intorno al suo
letto. Gli venne tra questi veduto Giovanni, vescovo d'Arras, dotto
teologo, tutto bagnato di lagrime. «Presenta queste lagrime, mio caro
Giovanni, gli diss'egli, al Dio onnipossente che noi serviamo, e
domandagli con umili e devote preghiere di perdonarmi i miei peccati; ma
ricordati che tu vedi oggi morire in papa Niccolò un vero e buono
amico.» Allora il vescovo d'Arras, più non potendo frenare i suoi
singhiozzi, fu costretto ad uscire di camera[29].

  [29] _Vespasiani Comment., t. XXV, p. 287._

Niccolò V morì il 24 marzo del 1455[30]. Il giorno 8 aprile il conclave
gli diede per successore Alfonso Borgia, nato in Valenza e vescovo della
stessa città, il quale prese il nome di Calisto III. Questo pontefice,
di già assai vecchio nell'istante della sua elezione[31], parve da
principio che d'altro occupare non si volesse che d'una crociata contro
i Turchi, ai quali dichiarò la guerra; ma i favori che andò accumulando
sopra i suoi nipoti in tempo del breve suo regno, aprirono la strada
delle grandezze a quella casa Borgia, che Alessandro VI e Cesare, suo
figliuolo, dovevano rendere così vergognosamente famosa. La perdita
delle ultime speranze di libertà per Roma, e la morte di Stefano Porcari
dovevano tirarsi dietro assai da vicino il regno dei più odiosi tiranni.

  [30] _Stef. Infessura Diario di Roma, p, 1136. — Plat. Vita di
  Niccolò V, p. 424. — Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 716._

  [31] Il Bonincontri di Samminiato dice che aveva 80 anni, _t. XXI,
  p. 158_, e Cristoforo da Soldo dice che ne aveva 85. _Stor di
  Bresc., p. 892._

Uno degli ultimi atti del pontificato di Niccolò V era stato quello di
ridurre Alfonso a ratificare il trattato di Lodi; e l'accessione di
questo monarca alla pace sembrava guarantire il riposo dell'Italia. In
fatti il nuovo duca di Milano non aveva portata sul trono l'inquietudine
d'un condottiere; egli voleva guarire le piaghe che così lunghe guerre
avevano fatto al commercio ed all'industria de' suoi stati, e cercava
ogni mezzo di ravvicinarsi a que' medesimi che aveva combattuti.
Sottoscrisse una lega di venticinque anni coi Fiorentini, i Veneziani ed
il re di Napoli; e l'oggetto di questo nuovo trattato, di cui era
garante il papa, era il mantenimento della pace. Bentosto lo Sforza
contrasse più intime relazioni con Alfonso. Malgrado l'accanito odio che
gli aveva lungamente divisi, malgrado la perdita de' suoi stati nella
Puglia, negli Abbruzzi, nella Marca d'Ancona, che Alfonso gli aveva
tolti, egli preferì l'unione di questo potente re all'amicizia della
casa d'Angiò, perchè que' medesimi Francesi, che altra volta egli aveva
chiamati in Italia per la conquista di Napoli, avevano pure delle
pretensioni sopra i suoi stati. Alfonso dal canto suo sentiva egli pure,
come lo avea già insegnato a Filippo Maria Visconti, quanto importasse
alla sicurezza d'Italia, che il sovrano di Milano si unisse a quello di
Napoli per chiudere la strada delle Alpi alla Francia, di cui vedevasi
crescere la potenza a dismisura. La venuta del re Renato d'Angiò in
Lombardia nell'anno 1453, e nel susseguente anno la venuta in Toscana di
suo figlio Giovanni, che portava il titolo di duca di Calabria, avevano
fatto sentire ad Alfonso che una nuova guerra poteva compromettere la
stessa sua esistenza. Trattò dunque con Francesco Sforza un doppio
matrimonio, onde assicurare con un'intima alleanza la successione di suo
figlio naturale Ferdinando, intorno alla quale poteva avere qualche
dubbio, e la superiorità del partito d'Arragona sopra l'Angioino. Nel
1456 egli fece promettere per isposa ad Alfonso, figlio di Ferdinando,
Ippolita Maria, figlia di Francesco Sforza, mentre che Sforza Maria,
terzo figlio dello Sforza, fu promesso ad Isabella Eleonora, figliuola
di Ferdinando. Il duca di Milano, che voleva consolidare il suo regno
unendo la sua famiglia per mezzo di matrimonj a tutti i principi
d'Italia, aveva promesso suo figlio maggiore alla figliuola del marchese
di Mantova, il secondo alla figlia del duca di Savoja, e sua nipote,
figlia d'Alessandro, signore di Pesaro, a Santi Bentivoglio capo ed
amministratore della repubblica di Bologna[32].

  [32] _Jo. Simonetae, l. XXV, p. 677. — Cron. di Bologna, t. XVIII,
  p. 706._

Ma le guerre, sostenute con soldati mercenarj e stranieri ai paesi
ch'essi difendevano, non erano necessariamente terminate colla pace
segnata dai sovrani. Giacomo Piccinino, erede ad un tempo dell'armata e
della riputazione di Niccolò suo padre e di Braccio, fondatore della sua
scuola militare, perdeva colla pace d'Italia la sua esistenza ed il suo
asilo. I Veneziani non volevano conservare al loro soldo che il solo
Bartolommeo Coleoni, cui corrispondevano cento mila ducati all'anno pel
mantenimento dell'armata. Giacomo Piccinino offrì ai soldati licenziati
di condurli in un paese, ove potrebbero vivere col saccheggio in
mancanza del soldo ch'egli non era in grado di poter loro corrispondere.
Tutti accettarono, e l'armata del Piccinino, composta in principio di
tre mila cavalli e di mille fanti, parve tanto più formidabile in quanto
che il danaro fin allora creduto sì necessario alla guerra gli mancava
assolutamente. Il Piccinino partì dalle vicinanze di Brescia con questa
gente accostumata al disordine ed al saccheggio, ed omai incapace di
tornare alla mal abbandonata agricoltura, o alle arti della pace.
Attraversò gli stati del duca di Modena, che, lungi dall'opporgli
resistenza, s'affrettò di somministrargli viveri per conciliarsi il di
lui favore. Fu egualmente bene accolto da Malatesta Novello nella stessa
città di Cesena. Passando per Bologna, tentò dal 2 al 9 maggio di
rianimare la fazione che aveva altra volta data la sovranità di quella
città a suo padre ed a suo fratello; ma il duca di Milano aveva mandati
quattro mila cavalli nello stato di Bologna, per difesa del partito
dominante; onde il contrario non si mosse, ed il Piccinino,
senz'artiglieria e senza danaro, non potè trattenersi, o pensare ad
intraprendere un assedio, durante il quale gli sarebbero in breve
mancate le vittovaglie[33]. Non osando attaccare potenti stati, egli
attraversò l'Appennino e scese in Toscana tra san Sepolcro ed Anghiari.
Mostrò maggiori riguardi ai Fiorentini che agli altri stati; pagò
scrupolosamente tutti i viveri che prese nel loro territorio, e giunse
così ai confini dello stato di Siena. Nell'ultima guerra questa
repubblica avea egualmente scontentati i Fiorentini, aprendo le sue
fortezze al re Alfonso, e questo re, ricusando di darsi a lui. Pareva
che niun sovrano si prendesse pensiero di difendere i Sienesi, ma
Francesco Sforza e papa Calisto mandarono le loro armate dietro a quella
del Piccinino per chiuderlo nel ritiro che si era scelto. Il Piccinino
aveva prese Setona, Sartiani e pochi altri villaggi, col di cui sacco
aveva arricchito i soldati. Corrado Foliano e Roberto di Sanseverino,
generali del duca di Milano, si unirono al conte di Ventimiglia,
generale del papa, e vennero ad accamparsi in Valle d'Inferno presso al
fiume Fiora ed a Pitigliano; eglino si erano portati a sole tre miglia
dal Piccinino, senza essere per altro determinati d'attaccarlo. Questi
li prevenne, e li sorprese in sul bel mezzodì nel loro campo. Da
principio sgominò la loro armata; ma avendo Roberto da Sanseverino
adunati i suoi soldati, giunse finalmente a respingerlo[34].

  [33] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 716._

  [34] _Jo. Simonetae, l. XXV, p. 679. — Niccolò Machiavelli Ist.
  Fior., l. VI, p. 257._

Nelle situazioni in cui trovavasi il Piccinino, bisognava vincere; ed
una battaglia indecisa equivaleva per lui ad una sconfitta. Dopo la
battaglia della Valle d'Inferno egli ritirossi a Castiglione della
Pescaja, castello che Alfonso aveva conquistato nella precedente guerra,
e ch'era rimasto in suo potere. Il Piccinino sperava colà soccorsi dal
re di Napoli; ma questa fortezza posta tra un lago paludoso ed il mare,
nella più malsana parte della Maremma, non aveva abbastanza viveri per
alimentare un'armata. I soldati non trovavano in que' deserti altri
alimenti che frutti selvaggi; corrotte erano le acque, ed i contrarj
venti, che dominavano sul mare, tenevano a dietro i vascelli di Napoli
che loro recavano il biscotto. La febbre maremmana non tardò ad
attaccare quest'armata, poc'anzi tanto formidabile, e vi cagionò
grandissima mortalità. I generali dello Sforza, secondati da Pietro
Brunoro, capitano de' Veneziani, e da Simonetta, capitano de'
Fiorentini, tenevano il Piccinino senz'attaccarlo in questa fatale
prigione. La metà de' soldati, che sotto diverse bandiere avevano
combattuto in Italia negli ultimi dieci anni, perivano vittime del
clima, mentre Alfonso negoziava invano per loro. Questi voleva che la
lega italiana, nella quale egli era entrato, acconsentisse a tener
sempre sul piede di guerra un'armata comune, di cui sarebbe capo il
Piccinino. Voleva che fosse sempre pronta per opporsi ai Turchi, le di
cui conquiste facevano tremare l'Europa, e domandava che le potenze
d'Italia s'accordassero ad assicurare a quest'armata cento mila fiorini
all'anno, ed i quartieri ai suoi soldati. Francesco Sforza rifiutò
sdegnosamente la proposizione di rendere l'Italia tributaria di colui,
ch'egli chiamava un capo d'assassini. Ma mentre si prolungavano questi
trattati, la febbre aveva distrutta quell'armata che volevasi opporre ai
Turchi; ed in sul finire della campagna non contavansi più di mille
cavalieri[35], e le armate incaricate di tenerla d'occhio non erano
state molto meno maltrattate. Non pertanto nel seguente inverno il
Piccinino sorprese ancora il porto sienese d'Ortobello, col di cui sacco
provvide alla sussistenza dell'armata. Lo restituì in primavera, colle
altre sue conquiste pel prezzo di venticinque mila fiorini, che gli pagò
la repubblica di Siena. Fu il re Alfonso che gli procurò questa
capitolazione, e che, ritirandolo da questo disastroso accantonamento,
lo ricevette colle sue truppe negli Abbruzzi, ove cercò di
ristabilirsi[36].

  [35] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 716._

  [36] _Jo. Simonetae, l. XXV, p. 682. — Comm. Pii Papae II sub nomine
  Gobellini, l. I, p. 26. Edit. in fol. Francof. 1614._

La presa di Costantinopoli, che avrebbe dovuto far accogliere
favorevolmente la proposizione d'Alfonso, di provvedere alla comune
difesa con un'armata mantenuta a comuni spese, aveva ispirato maggior
terrore ai Veneziani che a tutto il rimanente dell'Italia. La loro
repubblica, confinante co' Turchi, e proprietaria in Levante di molte
isole e colonie, aveva più strette relazioni di commercio e d'amicizia
colla Grecia e coi deboli avanzi dell'impero orientale. Ma dopo che le
armate dei Turchi si erano stese in Europa, lo stato di Costantinopoli,
chiuso da ogni banda dalla potenza musulmana, più non comunicava che
difficilmente coll'Italia; appena aveva esso qualche parte nelle guerre
degl'Italiani, e più non faceva parte della bilancia politica; perciò
era pressocchè dimenticato da loro, qualunque volta qualche grande
calamità non richiamava sovr'esso l'attenzione e la compassione.
Costantinopoli, sebbene nel quindicesimo secolo sempre cristiana,
effettivamente più non apparteneva alla cristianità; era un mondo a
parte, sul quale l'altro più non esercitava veruna influenza, nè egli
n'esercitava alcun'altra a vicenda. Per altro lo spavento della presa di
Costantinopoli, l'uccisione e la schiavitù di tante migliaja di
Cristiani, toccarono vivamente tutti gli spiriti. I due papi, Niccolò V
e Calisto III, vollero risvegliare lo zelo delle crociate; ed infatti si
fecero in Italia molte offerte per sostenere la guerra sacra, e molti
vestirono il segno de' crociati; ma l'infingardaggine di Federico III
dissuase i Tedeschi di sceglierlo per capo d'una spedizione pericolosa.
Carlo VII non volle permettere che in Francia si predicasse la crociata;
la politica d'Italia assorbì bentosto compiutamente l'attenzione degli
stati italiani, e nel 1456 la vigorosa resistenza di Giovanni Unniade a
Belgrado, che si dice essere costata ai Turchi quaranta mila uomini,
intiepidì ancora lo zelo della Cristianità, e persuase a persone che
altro non chiedevano che di fermarsi, che la potenza dei Musulmani era
bastantemente rintuzzata[37].

  [37] _Niccolò Machiavelli Stor. Fior., l. VI, p. 259. — Cronica di
  Bologna, t. XVIII, p. 721_ con una copia di lettera scritta da
  Belgrado e comunicata dalla Signoria di Venezia. _Cron. d'Enguer. de
  Monstrelet, v. III, f. 68._

I Veneziani furono i primi a spedire ambasciatori a Maometto II dopo la
presa di Costantinopoli. Bartolomeo Marcello venne particolarmente
incaricato di trattare coi Turchi per la liberazione degli schiavi; nel
che riuscì al di là di quanto sperava, perciocchè non solo riscattò i
prigionieri veneziani, ma il 18 aprile del 1454 conchiuse in nome della
sua repubblica un trattato di pace e di buona vicinanza col sultano, in
virtù del quale I Veneziani continuarono, come sotto gli imperatori
greci, a mandare un Bailo a Costantinopoli, per essere ad un tempo il
loro ministro ed il giudice di tutte le liti de' loro sudditi negli
stati del gran signore. Lo stesso Bartolomeo Marcello, che aveva
sottoscritto il trattato, fu il primo Bailo di Venezia nella capitale
dell'impero turco[38].

  [38] _Marin Sanuto Vite de' duchi di Venezia p. 1154. — M. A.
  Sabellicus dec. III, l. VII, f. 200. — Cron. di Bol., t. XVIII, p.
  709_, col testo del trattato. — _Navagero Stor. Venez., t. XXIII, p.
  1118._

Il doge di Venezia, che con questo trattato aveva prevenuta una guerra
non meno pericolosa di quella che aveva terminata quasi nello stesso
tempo col trattato di Lodi, era in allora giunto ad una estrema
vecchiaja. Francesco Foscari occupava questa prima dignità dello stato
dal 15 aprile 1423. Sebbene avesse più di cinquantun anni quando fu
eletto, era non pertanto il più giovane dei quarantuno elettori. Aveva
ottenuto con molta difficoltà la carica che desiderava, e la sua
elezione era stata condotta con molta destrezza. Per molti giri di
scrutinio i suoi più zelanti amici non gli avevano dato il loro voto,
perchè non fosse dagli altri considerato come un concorrente
formidabile[39]. Il consiglio dei dieci temeva il di lui credito tra la
nobiltà povera, perchè egli aveva cercato di guadagnarla mentre era
procuratore di san Marco, facendo impiegare più di trenta mila ducati
nel dotare fanciulle di buone case, o nello stabilire giovani
gentiluomini. Temevasi inoltre la numerosa di lui famiglia, perciocchè
in allora era padre di quattro figli, ed ammogliati di fresco;
finalmente temeva la sua ambizione, e la sua inclinazione per la guerra.
L'opinione che i di lui avversarj eransi di lui formata si verificò
cogli avvenimenti: ne' trentaquattro anni che il Foscari fu capo della
repubblica, ella fu sempre in guerra. Se le ostilità venivano sospese
per alcuni mesi, non era che per ricominciarle in breve con maggior
vigore. Fu questa l'epoca in cui Venezia stese il suo impero sopra
Brescia, Bergamo, Ravenna e Crema, in cui fondò il suo dominio di
Lombardia, e parve più volte a portata d'occupare tutta questa
provincia. Profondo, coraggioso, irremovibile, il Foscari comunicò ai
consiglj il proprio carattere, ed i suoi talenti gli procacciarono
maggiore influenza sopra la sua repubblica di quella che avessero
esercitata la maggior parte de' suoi predecessori. Ma se la sua
ambizione aveva avuto per iscopo l'ingrandimento della sua famiglia,
egli dovette trovarsi crudelmente deluso. Tre de' suoi figliuoli
morirono ne' primi otto anni del suo ducato; il quarto, Giacomo, pel
quale si perpetuò la famiglia Foscari, fu vittima della gelosia del
consiglio dei dieci, ed avvelenò colle sue disgrazie la vita di suo
padre[40].

  [39] _Marin Sanuto Vite dei duchi di Ven., p. 967._

  [40] _Marin Sanuto vite dei duchi di Ven., p. 968._

Il consiglio de' dieci, diventando sempre più diffidente verso il capo
dello stato, quando lo vedeva più forte pei suoi talenti e per la sua
popolarità, teneva aperti gli occhi sopra Foscari, per punire in lui il
suo credito e la sua gloria. In febbrajo del 1445 Michele Bevilacqua,
fiorentino, esiliato a Venezia, accusò segretamente Giacomo Foscari
presso gl'inquisitori di stato d'avere ricevuto dal duca Filippo
Visconti dei regali consistenti in danaro e gioje per mezzo di persone
della sua casa. Tale era l'odiosa processura adottata in Venezia, che su
questa segreta accusa il figlio del doge, del rappresentante della
maestà della repubblica, fu assoggettato alla tortura. Gli si
strapparono coi tormenti la confessione delle accuse portate contro di
lui, e lo relegarono a vita a Napoli di Romania, con obbligo di
presentarsi ogni mattina al comandante della Piazza[41]. Per altro il
vascello che lo portava avendo dato fondo a Trieste, Giacomo, gravemente
ammalato in conseguenza della tortura, e più ancora per la sofferta
umiliazione, chiese in grazia al consiglio dei dieci di non essere
mandato più lontano. Ottenne questo favore in forza di una deliberazione
del 28 dicembre del 1446: fu quindi richiamato a Treviso, ed ebbe la
libertà d'abitare indifferentemente tutto il territorio Trevigiano[42].

  [41] _Marin Sanuto, p. 968._

  [42] _Ivi, p. 1123._

Viveva in pace a Treviso, e la figlia di Leonardo Contarini, ch'egli
aveva sposata il 10 febbrajo del 1441, era venuta a raggiugnerlo nel suo
esilio, quando il 5 novembre del 1450 Almoro Donato, capo del consiglio
dei dieci, fu assassinato. Gli altri due inquisitori di stato, Triadano
Gritti ed Antonio Venieri, portarono i loro sospetti sopra Giacomo
Foscari, perchè un di lui servitore, detto Olivieri, era stato veduto
quella stessa sera in Venezia, ed era stato uno dei primi a spargere la
notizia dell'assassinio. Olivieri fu posto alla tortura, ma negò fino
alla fine con irremovibile coraggio il delitto ond'era accusato, sebbene
i suoi giudici spingessero la barbarie fino a fargli dare ottanta colpi
di corda. Non pertanto, siccome Giacomo Foscari aveva potenti motivi di
nimicizia contro il consiglio dei dieci, che lo aveva condannato, e che
mostrava odio verso il doge suo padre, si tentò di porre anche Giacomo
alla tortura, prolungando contro di lui questo terribile tormento senza
poterne avere veruna confessione. Malgrado la sua negativa il consiglio
dei dieci lo condannò ad essere trasportato alla Canea, ed accordò un
premio al suo delatore. Ma gli atroci dolori, sofferti da Giacomo
Foscari, avevano turbata la sua mente. I suoi persecutori, commossi da
quest'ultima disgrazia, acconsentirono che fosse ricondotto a Venezia il
26 maggio del 1451. Egli abbracciò suo padre, ricevette dai suoi
conforti qualche coraggio e qualche calma, e fu immediatamente
ricondotto alla Canea[43]. In questo tempo Niccolò Erizzo, uomo di già
noto per un precedente delitto, confessò morendo che egli era stato
l'uccisore d'Almoro Donato[44].

  [43] _Marin Sanuto, p. 1138. — M. A. Sabellico, dec. III, l. VI, f.
  187._

  [44] _Marin Sanuto, p. 1139._

Lo graziato doge, Francesco Foscari, avea di già più volte cercato di
abdicare una dignità a sè ed alla sua famiglia così funesta. Parevagli,
che tornato nel rango di semplice cittadino, più non inspirando timore
nè gelosia, non si continuerebbe ad opprimere suo figlio con sì acerbe
persecuzioni. Abbattuto dalla morte de' primi figliuoli, aveva voluto
fino dal 26 giugno del 1433 deporre una dignità, nell'esercizio della
quale la sua patria era stata tormentata dalla guerra, dalla peste, e da
disgrazie d'ogni sorta[45]. Rinnovò questa proposizione dopo i giudizj
renduti contro suo figlio; ma il consiglio dei dieci lo riteneva
forzatamente sul trono, come teneva il di lui figliuolo tra le catene.

  [45] _Ivi, p. 1032._

Invano Giacomo Foscari, obbligato di presentarsi ogni giorno al
governatore della Canea, riclamava contro l'ingiustizia dell'ultima
sentenza, intorno alla quale la confessione dell'Erizzo aveva tolto ogni
dubbio. Invano chiedeva grazia al feroce consiglio dei dieci, che non
gli dava mai risposta. Il desiderio di rivedere il padre e la madre,
giunti l'uno e l'altra ad estrema vecchiezza, il desiderio di rivedere
una patria la di cui crudeltà non meritava un così tenero amore, si
cambiarono in lui in vero furore, e non potendo tornare a Venezia per
vivervi libero, volle almeno cercarvi un supplicio. Scrisse al duca di
Milano in sul finire di maggio del 1456 per implorare la sua protezione
presso al senato: e sapendo che una tal lettera verrebbe risguardata
come un delitto l'espose egli medesimo in un luogo, in cui era sicuro
che sarebbe raccolta dalle spie che lo circondavano. In fatti, essendo
stata portata la lettera al consiglio dei dieci, egli fu subito mandato
a prendere e ricondotto a Venezia il 19 luglio del 1456[46].

  [46] _Marin Sanuto, p. 1162._

Giacomo Foscari non negò la lettera, e raccontò nello stesso tempo a
quale oggetto l'aveva scritta, e come l'aveva fatta venire in mano del
suo delatore. Malgrado questa confessione, il Foscari fu assoggettato
alla tortura e gli furono dati trenta colpi di corda, per vedere se
confermerebbe in appresso le sue deposizioni. Quando fu staccato dalla
corda, fu trovato tutto lacerato da quelle orribili scosse. I giudici
allora permisero a suo padre, a sua madre, a sua moglie ed a' suoi figli
di andare a trovarlo nella sua prigione. Il vecchio Foscari, appoggiato
sul suo bastone, si strascinò a stento nella camera, ove a l'unico suo
figlio si medicavano le ferite. Egli chiedeva ancora la grazia di morire
in casa sua. «Torna al tuo esilio, mio figliuolo, poichè l'ordina la tua
patria (gli disse il doge), e ti sottometti alla sua volontà.» Ma
rientrando nel suo palazzo, questo sventurato vecchio cadde svenuto,
spossato dalla violenza che si era fatto. Giacomo doveva ancora passare
un anno di prigione alla Canea, prima che gli si rendesse la stessa
limitata libertà che gli era stata accordata avanti quest'avvenimento;
ma egli non fu appena sbarcato nella terra del suo esilio che morì di
dolore[47].

  [47] _Marin Sanuto, p. 1163. — Navagero, p. 1118._

Dopo tale epoca il vecchio doge, e per quindici mesi, carico d'anni e di
disgusti, più non riebbe nè la forza del corpo, nè quella della sua
anima; egli più non assisteva a verun consiglio, nè poteva soddisfare ad
alcuna incumbenza della sua carica. Era entrato nell'anno ottantasei
della sua vita, e se il consiglio dei dieci fosse stato capace di
qualche pietà avrebbe aspettato in silenzio il fine, sicuramente vicino,
d'una vita insignita da tanta gloria e da tante calamità. Ma inallora il
capo del consiglio dei dieci era Giacomo Loredano, figlio di Marco, e
nipote di Pietro, il grande ammiraglio, ch'erano stati in tutta la loro
vita gli accaniti nemici del vecchio doge. Essi avevano trasmesso per
diritto ereditario il loro odio ai proprj figli, e quest'antica rivalità
non era per anco soddisfatta[48]. Ad istigazione del Loredano Gerolamo
Barbarigo, inquisitore di stato, propose al consiglio de' dieci, in
ottobre del 1457, d'assoggettare il Foscari ad una nuova umiliazione.
Poichè questo magistrato più supplire non poteva alle sue incumbenze,
Barbarigo domandò che si nominasse un altro doge. Il consiglio, che
aveva due volte rifiutata l'abdicazione di Foscari perchè la
costituzione non lo permetteva, esitò prima di porsi in contraddizione
co' proprj decreti. Le discussioni nel consiglio e nella giunta ai
protrassero otto giorni fino a notte molto innoltrata. Allora si fece
entrare nell'assemblea Marco Foscari, procuratore di san Marco e
fratello del doge, onde fosse vincolato dal terribile giuramento del
segreto, e non potesse impedire le pratiche de' suoi nemici. Finalmente
il consiglio si recò presso il doge, chiedendogli d'abdicare
volontariamente un impiego che più non poteva esercitare. «Ho giurato
(rispose il vecchio) di soddisfare fino alla morte alle incumbenze cui
mi ha chiamato la patria, come richiede l'onor mio e la mia coscienza.
Io non posso da me stesso sciogliermi dal mio giuramento; che un ordine
del consiglio disponga di me, ch'io mi sottometterò; ma non lo preverrò
giammai.» Allora una nuova deliberazione del consiglio sciolse Francesco
Foscari dal suo giuramento ducale, gli assegnò una pensione vitalizia di
due mila ducati, gli ordinò dì uscire entro tre giorni dal palazzo, e di
deporre le insegne della sua dignità. Il doge, avendo veduto tra i
consiglieri che gli arrecarono quest'ordine un capo della quarantia
ch'egli non conosceva, chiese il suo nome. «Io sono figlio di Marco
Memmo (disse il consigliere). — Ah! tuo padre era mio amico (rispose il
vecchio doge sospirando).» Ordinò all'istante che si trasportassero i
suoi effetti in una casa di sua ragione, ed all'indomani, 23 ottobre, fu
veduto, reggendosi a stento ed appoggiato al suo vecchio fratello,
scendere quelle stesse scale, sulle quali trentaquattro anni avanti era
stato installato con tanta pompa, ed attraversare quelle sale in cui la
repubblica aveva ricevuti i suoi giuramenti. Tutto il popolo parve
commosso da tanta durezza esercitata contro un vecchio che egli
rispettava ed amava, ma il consiglio dei dieci fece pubblicare un ordine
di non parlare di questa rivoluzione sotto pena d'essere tradotto
innanzi agl'inquisitori di stato. Il 20 ottobre Pasquale Malipieri,
procuratore di san Marco, fu eletto invece di Foscari, il quale non ebbe
almeno l'umiliazione di vivere subordinato là dove aveva regnato. Udendo
il suono delle campane che celebravano tale elezione, morì subitamente
per l'emorragia d'una vena, che gli scoppiò nel petto[49].

  [48] _Vettor Sandi Stor. Civile Venez., p. II, l. VIII, p. 715-717._

  [49] _Marin Sanuto, p. 1164. — Chron. Eugubinum, t. XXI, p. 992. —
  Crist. da Soldo Stor. di Brescia, t. XI, p. 891. — Navagero Stor.
  Venez., t. XXIII, p. 1120. — M. A. Sabellico, dec. III, l. VIII, f.
  201._



CAPITOLO LXXVI.

      _Guerre d'Alfonso, re di Napoli, contro Malatesta di Rimini e
      contro i Genovesi. — Rivoluzioni di Genova; accanimento di
      Alfonso contro il doge Pietro di Campo Fregoso. — Morte di
      questo monarca e suo carattere_.

1455 = 1458.


Più non restavano in tutta l'Italia altri semi di nuove guerre che
quelli che Alfonso di Napoli non aveva acconsentito di soffocare col
trattato di Lodi e colla lega formata nel susseguente anno. Egli aveva
domandato che Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, che Astorre
Manfredi, signore di Faenza, e che i Genovesi, in allora governati dalla
famiglia di Campo Fregoso, venissero esclusi dalla pace generale. Pure
Alfonso non attaccò immediatamente coloro cui erasi riservato di poter
fare la guerra; volle dare un poco di riposo ai suoi popoli, che dopo la
morte di Giovanna II erano stati a vicenda in preda a civili discordie
ed a straniere invasioni.

Sigismondo Malatesta si era procacciato l'odio di Alfonso con una
mancanza di fede, cui poteva darsi il nome di truffa. Egli si era fatti
dal re pagare trenta mila fiorini a conto di un armamento che doveva
fare in suo favore, e dopo avere ricevuto il danaro si era unito ai di
lui nemici. Forse Alfonso sarebbesi accontentato di forzarlo alla
restituzione colle minacce o colle negoziazioni, se Sigismondo colla sua
inquieta attività, colla sua violenza, colla sua rapacità, non si fosse
attirato l'odio di tutti i suoi vicini. Federico di Montefeltro, conte
d'Urbino, era particolarmente irritato per cagione della sua mala fede.
Sigismondo vessava sotto mille pretesti i vassalli d'Urbino; rompeva a
voglia sua i trattati, e ne faceva di nuovi per romperli ancora. Le
restituzioni che faceva dopo non erano mai un adequato compenso del
danno cagionato[50].

  [50] _Guernieri de Bernio Cron. d'Agobbio, t. XXI, p. 990._

Federico di Montefeltro era stato, come i Gonzaga, allievo di Vittorino
da Feltre, e fu il più caro, il più distinto di tutti gli scolari di
così celebre precettore; si acquistò in Italia altrettanto nome colla
sua lealtà, colla sua aperta condotta, colla sua dilicatezza sul punto
d'onore, quanto pei suoi talenti militari. Coperto da ogni genere di
gloria, egli era nello stesso tempo l'amico ed il protettore dei dotti
coi quali lavorava, ed il mecenate delle belle arti che faceva fiorire
in Urbino. Questa piccola città si andava adornando sotto il di lui
governo co' più bei monumenti d'architettura[51]. Federico, che
occupavasi con molto zelo della prosperità de' suoi sudditi, non sapeva
soffrire di vederla turbata dagli assassinj del principe suo rivale e
suo vicino. Pure, prima di riaccendere la guerra in Italia, voleva avere
il consentimento degli stati che si erano obbligati a mantenere la pace.
Nella state del 1467 egli visitò Firenze, Bologna, Milano e Ferrara;
ovunque fu ricevuto coi riguardi dovuti ben più al suo carattere che al
suo rango. Il duca di Modena, Borso, lo fece in Ferrara scontrare in
Sigismondo Malatesta, sperando che si riconcilierebbero; ma
quest'incontro non servì che ad inasprirli di più e si separarono con
motti ingiuriosi. Federico, dopo avere inutilmente cercata la pace,
passò a Napoli per associare il suo risentimento a quello di Alfonso. Fu
di ritorno in novembre con Giacomo Piccinino, che aveva avuto il tempo
di rifare la sua armata a Città di Chieti nell'Abbruzzo, ov'erasi
trattenuto un anno. Prima che le nevi obbligassero questi due generali a
prendere i quartieri d'inverno, essi tolsero al Malatesta Reforzato,
Montalto, e quattro in cinque altri castelli[52].

  [51] _Tiraboschi Storia Letteraria, t. VI, l. I, c. II, § 22-49._

  [52] _Guernieri Bernio Cron. d'Agobbio, p. 992. — Jo. Simonetae
  Hist., l. XXVI, p. 685. — Cron. di Bol., l. XVIII, p. 724._

Ma la guerra di Romagna, che limitavasi a piccoli assedj fatti con
piccole armate, non era che un giuoco che appena turbava la tranquillità
d'Italia. L'altra guerra, che Alfonso erasi riservato il diritto di
continuare, era molto più importante, e gli stava molto più a cuore.
Mantenevasi vivo un odio ereditario tra i Catalani ed i Genovesi, e
quest'odio aveva sempre fatto avidamente abbracciare alla repubblica di
Genova le parti di tutti i nemici d'Alfonso. Questo monarca non aveva
dimenticato l'affronto ricevuto a Ponza l'anno 1435, nè la battaglia in
cui era stato fatto prigioniero coi suoi fratelli e colla sua nobiltà, e
dove aveva potuto credere rovesciata per sempre la sua fortuna. Nuove
offese erano state aggiunte a questo primo insulto; alleanze da lui
contratte coi ribelli della repubblica gli avevano fatto abbracciare un
partito nelle sue guerre civili, ed Alfonso credeva interessato l'onor
suo a cacciare di Genova Piero di Campo Fregoso.

Questa repubblica, separata dalle montagne dalla Lombardia, più occupata
del suo commercio del Levante che delle rivoluzioni degli stati vicini,
era inoltre talmente indebolita dalle sue civili dissensioni, talmente
concentrata ne' suoi domestici affari, che veniva dimenticata nel
sistema politico d'Italia; e negli ultimi vent'anni erasi appena veduto
il suo nome o le sue armi prendere parte ai grandi avvenimenti di questa
contrada.

Potevasi a Genova osservare che la potenza de' grandi nomi e delle
memorie istoriche non è meno durevole nelle repubbliche che nelle
monarchie. Ma questa potenza non era stata ben legata alla costituzione
dello stato, ed invece di essere una delle basi su cui riposavano
l'ordine e le leggi, essa diventava per lo contrario un fomite di
rivoluzione e di anarchia. Un popolo non conserva con sicurezza la sua
libertà che quando l'aristocrazia costituzionale si unisce intimamente
all'aristocrazia naturale, e si prestano a vicenda le forze loro, e
reciprocamente si garantiscono, e non pertanto sono ambedue contenute
ne' giusti limiti dal potere popolare. Ma se per lo contrario la potenza
conservatrice nella repubblica deve continuamente lottare contro i
pregiudizj che mantengono la nobiltà, lo stato non può sottrarsi a
violenti convulsioni.

Quanto più un popolo è libero, tanto più ogni cittadino s'interessa
vivamente alle grandi azioni operate per la patria, e tanto più allora
la gloria ereditaria, che si attacca alle imprese ed alle virtù
pubbliche, è sicura. Il suddito di un despota altro non vede nel
generale vittorioso che l'istrione d'un magnifico spettacolo; il
cittadino vede in lui il suo difensore, il suo salvatore, l'autore della
propria sua gloria. Il nome, reso illustre da una nobile azione, è una
proprietà nazionale, che in una patria libera fa brillare di gioja tutti
i cuori. Niun popolo mostrò maggior entusiasmo del genovese per le sue
famiglie nobili; ogni erede dei nomi dei Doria, degli Spinola, dei
Fieschi, dei Grimaldi, o dei nomi plebei ma illustri, degli Adorni e dei
Fregosi, disponeva di una tale forza d'opinione che la nobiltà mai non
esercitò in alcuna monarchia. Quest'aristocrazia di fatto aveva eccitata
la gelosia della magistratura, e le leggi, che avrebbero dovuto
appoggiarsi alla medesima come ad una áncora, tendevano per lo contrario
a distruggerla.

Perchè un popolo sia liberamente governato, un elemento d'aristocrazia
deve esistere nella sua costituzione; imperciocchè la libertà è
l'equilibrio; il peso che nella bilancia reprime gli eccessi del popolo
è essenziale all'equilibrio, siccome il peso che comprime la cupidigia
dei grandi. Sopra tutto d'uopo è che trovinsi in una repubblica i
rappresentanti del tempo passato, come quelli del tempo presente; che si
veda un potere conservatore, come un potere rinnovatore. Conviene che
trovisi in qualche parte del governo uno spirito aristocratico che sia
il difensore delle antiche instituzioni, e l'áncora della repubblica per
tenerla ferma contro le agitazioni democratiche. I progressi del
pensiero ed il cammino dei secoli devono fare sperare un perfezionamento
progressivo nelle politiche instituzioni; ma quelle che hanno di già la
sanzione di una lunga durata, che riposano sul consentimento di molte
generazioni non devono essere leggermente abbandonate. Dunque le leggi
non devono respingere alcune innovazioni, ma devono renderle tutte
difficili, per dare a tutte le quistioni la maturità della disamina.
Tale è il bisogno aristocratico di tutti gli stati liberi; è un bene che
trovisi sempre in loro un elemento aristocratico proprio a soddisfarlo.

I pregiudizj, le passioni, gl'interessi della nobiltà, vale a dire delle
famiglie rese illustri dalla pubblica riconoscenza, la rendono propria
in tutti gli stati a questo ufficio conservatore. La sua potenza sta
interamente nella durata e nelle memorie. Le passioni del momento
attuale hanno agli occhi suoi minor valore che l'eredità dei secoli; le
fanno paura le innovazioni, perchè l'antichità è l'unica sua garanzia:
applaude al superstizioso rispetto per le forme, pei costumi, pei
pregiudizj, perchè la disamina di questi può nuocere a lei medesima, e
perchè l'opinione di cui gode è associata ai pregiudizj. Per tal modo
gl'interessi proprj della nobiltà, e le sue private passioni
guarentiscono il suo zelo conservatore, qualora non le si accordino
altre funzioni nello stato; mentre che questi stessi interessi, queste
medesime passioni schiaccerebbero tutte le altre classi, se
esercitassero esclusivamente la sovranità.

Genova conservata avrebbe la sua libertà, la sua gloria e l'interna sua
prosperità, se le nobili famiglie, i di cui nomi si associavano sempre
nel cuore d'ogni marinajo, d'ogni soldato ligure, alle vittorie che
insanguinarono le coste della Sardegna, della Sicilia, dell'Italia,
della Grecia, avessero legalmente goduto di un rango che potesse
soddisfarle; se fossero state interessate a mantenere la costituzione e
la gloria nazionale; se le leggi, invece di castigare la loro celebrità,
l'avessero ammessa, e si fossero ristrette a limitarne la potenza. Ma
l'imprudenza del legislatore non aveva prese in considerazione la
celebrità dei discendenti di Paganino Doria e la somma influenza loro
sul popolo, che per escluderli con tutti i nobili dalla principale
dignità dello stato. Egli non aveva meglio associato gli Adorni ed i
Fregosi alla difesa della costituzione, quantunque li riconoscesse
plebei; non aveva voluto avere riguardo alcuno al favore popolare, ed
aveva affidata la difesa dell'ordine stabilito a nuovi personaggi,
opposti a coloro che invocavano la potenza dei secoli. Da ciò nacque che
Genova fu forse di tutte le repubbliche la più infelice, quella che fu
esposta alle più violenti convulsioni, quella che volontariamente
soggiacque più volte al giogo straniero, perchè coloro che la natura
aveva chiamati a difendere le sue leggi, s'armarono sempre per
rovesciarle; perchè i custodi dell'onore nazionale lo resero dipendente
dai loro capricci; perchè l'opinione rimase sovra di loro senza forza,
tostocchè si furono una volta accertati che i numerosi loro partigiani
non gli abbandonassero, quand'ancora tratterebbero coi nemici della
patria; per ultimo perchè in tutte le occasioni l'aristocrazia del
governo si trovò in opposizione coll'aristocrazia che aveva creata la
pubblica opinione.

Abbiamo descritta la maniera con cui Genova riebbe la sua libertà in sul
finire del 1435, ed in qual modo i cittadini occuparono in principio del
susseguente anno il Castelletto, la sola fortezza che il duca di Milano
avesse conservata entro le loro mura. Dopo tale epoca non avremmo quasi
più opportunità di trattare di questa città, poichè le turbolenze che
pel corso di venti anni seguirono quella rivoluzione si operarono quasi
affatto internamente. I cittadini, adunati nel tempio di san Siro,
avevano scelto per loro doge Isnardo di Guarco, figliuolo di quel
Niccola ch'era stato capo della repubblica in tutto il tempo della
guerra di Chiozza dal 1378 al 1383. Ma due famiglie potenti in Genova,
due famiglie proprietarie di molti feudi nelle due Riviere, ed
imparentate con tutta l'antica nobiltà esclusa dalla legge dalla suprema
magistratura, non acconsentiva giammai che la corona ducale si trovasse
fuor dell'una casa o dell'altra. Era appena stato posto sul trono
Isnardo di Guarco, quando Tommaso Fregoso rientrò in città con una
truppa di faziosi, lo attaccò il settimo giorno della sua magistratura,
lo cacciò dal palazzo pubblico, e adunò il consiglio degli elettori.
Tommaso Fregoso rappresentò loro ch'egli stesso era doge di Genova,
ch'era stato legittimamente eletto il 4 luglio del 1415; che dopo tale
epoca nulla aveva fatto che potesse fargli perdere la carica
accordatagli dalla sua patria; che veramente egli si era assoggettato al
trattato con cui la repubblica, per godere qualche riposo, aveva, il 2
novembre del 1421, chiamato il duca di Milano alla signoria, ma che nel
1425 egli era stato il primo ad accorrere in soccorso dell'oppressa
libertà, che il suo tentativo, sebbene non coronato da felice riuscita,
doveva averlo renduto benemerito dei suoi concittadini, che altronde
egli perduti non aveva i suoi diritti, e che, la repubblica trovandosi
finalmente riconstituita, doveva rientrare egli stesso nel godimento
della sua prima dignità. Questo discorso, sostenuto dalla presenza di
Battista Fregoso, il valoroso fratello di Tommaso, dalla ricordanza
della di lui vittoria sopra i Catalani a Bonifazio, e da un partito
audace ed armato, persuase il consiglio a riconoscere Tommaso per doge
in forza della precedente elezione[53].

  [53] _Uberti Folietae Genuens. Hist., l. X, p. 591. — Jacobi
  Bracelli de Bello Hispano, l. IV, f. k. 11. — Agost. Giustiniani
  Ann. di Genova, l. V, f. 199. Edit. in fol. 1537. Genoa Senat.
  popul. Genuen. Hist. atque Ann. auct. Petro Bizzarro, l. XII, p.
  257. Edit. in fol. Antuerp. 1579._

I Genovesi, dopo le lunghe loro guerre civili, avevano la sventura di
non riputare delitto nè turpe cosa il prendere le armi contro la patria,
o l'arrogarsi violentemente una contrastata autorità. I principi loro
vicini che volevano signoreggiarli, coglievano avidamente tutte le
occasioni per prendere parte nelle interne loro discordie, seducendo i
capi di fazione con offerte di soccorsi, e loro suggerendo ambiziosi
progetti che mai non avrebbero osato di formare essendo soli. Il duca di
Milano fece insinuare a Battista Fregoso, che postocchè il popolo di
Genova non aveva eletto suo fratello che per cagion sua, era cosa da
stolto il lasciare il fratello sopra un trono ch'era destinato a lui
medesimo, lasciando altrui raccogliere i frutti di quel favore popolare,
che tutto dirigevasi verso di lui. Gli offrì soldati, danaro e la sua
alleanza. Battista non seppe resistere a tanta seduzione; si assicurò
l'assistenza de' soldati, che gli erano affezionatissimi, occupò il
pubblico palazzo mentre suo fratello assisteva ai divini ufficj, e si
fece riconoscere doge l'anno 1437. Per altro i migliori cittadini,
sdegnati da questo attentato contro le leggi, e da questo domestico
tradimento, accorsero in ajuto di Tommaso Fregoso, attaccarono con lui
il palazzo, fecero prigioniere Battista; e lo consegnarono al fratello.
Tommaso, lungi dall'acconsentire che fosse condannato a pena capitale,
come ne facevano istanza i tribunali, gli perdonò, e nel susseguente
anno gli affidò il comando delle galere accordate dalla repubblica al re
Renato per combattere Alfonso nel regno di Napoli[54].

  [54] _Uberti Folietae Genuens. Hist., l. X, p. 592. — P. Bizzarro
  Hist. S. P. Q. Genuens., l. XII, p. 259. — Agost. Giustiniani Annali
  di Genova, l. V, f. 200._

La nomina di Giovanni Fregoso, altro fratello di Tommaso, al comando di
una seconda flotta destinata nel 1441 a soccorrere lo stesso re, fu
cagione di un'altra guerra civile. I nobili, quantunque con
rincrescimento, si erano assoggettati alla legge che gli escludeva dalla
suprema magistratura; ma conservavano la pretensione di comandare le
flotte e le armate della repubblica, ed i Doria, gli Spinola, i Fieschi,
i Grimaldi, avevano troppo ben dimostrato con infinite intraprese di
esserne degni. Pretendevano essi che il senato fosse obbligato di
scegliere alternativamente gli ammiragli tra i patrizj ed i plebei; non
pertanto di già quattro popolani erano stati incaricati del comando
delle ultime quattro flotte. La nomina del quinto era un'ingiuria
ch'essi non volevano in verun modo soffrire. Giovan Antonio del Fiesco,
cui i talenti non meno che l'alta opinione di cui godeva, e le sue
ricchezze, davano giusti titoli alla carica accordata ad altri,
accompagnò le sue rimostranze con maggiore alterigia e risentimento. Non
avendo potuto ottenere giustizia ritirossi ne' suoi feudi nelle
montagne, ove non tardarono a raggiugnerlo gli emissarj del duca di
Milano sempre apparecchiato ad offrire soccorsi a tutti i ribelli; il
Fiesco si era di già rivolto ad Alfonso d'Arragona. La guerra cominciò
nello stesso tempo in tre luoghi. Il Fiesco co' suoi Alpigiani e coi
Milanesi era sceso fino alle porte della città e guastava la Polsevera;
Galeotto del Carretto, marchese di Finale, aprì i suoi porti e le sue
fortezze ai nemici della repubblica, i quali in ogni tempo avevano
trovato asilo nel suo feudo; i Catalani colla loro flotta ruinavano le
due riviere[55]. Malgrado il pericolo e la ruina di questa guerra
civile, i Genovesi, infiammati dal loro odio contro i Catalani, e dalla
persuasione di non ottenere giammai perdono da Alfonso, continuarono a
consacrare le loro forze, i loro vascelli, il loro danaro in soccorso
del re Renato: ma la guerra di Napoli era un vortice che la repubblica
non poteva colmare, sebbene vi gettasse tutti i suoi tesori. La generosa
assistenza de' Genovesi sostenne Renato nella sua miseria, e non si
ritrasse dal soccorrerlo nè pure quando Alfonso ebbe occupato Napoli;
essi vittovagliarono ancora Castelnuovo; ed all'ultimo trasportarono nel
1442 colle loro galere il re Renato prima a Firenze, poi a
Marsiglia[56].

  [55] _Uberti Folietae Gen. Hist., l. X, p. 596. — Agost. Giustiniani
  Ann. di Genova, l. V, f. 202. — P. Bizzarro Hist. S. P. Q. Genuens.,
  l. XII, p. 266._

  [56] _Uberti Folietae, l. X, p. 597. — Agost. Giust., l. V, f. 202.
  — P. Bizz., l. XII, p. 267._

Ma questa guerra, che tanto aveva accresciuta la collera d'Alfonso
contro i Genovesi, era appena terminata colla totale ruina del partito
d'Angiò, che Tommaso Fregoso, che l'aveva diretta, fu ancor esso levato
di carica. Suo fratello Battista era morto nel 1442, ed i funerali di
questo valoroso capitano erano stati celebrati con un fasto che aveva
offeso i cittadini di uno stato libero. Giovann'Antonio del Fiesco,
informato nel suo esilio del loro malcontento, si rese più audace,
persuadendosi che i suoi concittadini lo seconderebbero; perciò avendo
ricevuto soccorsi da Alfonso e da Filippo, si apparecchiò a fare uno
sbarco, la notte del 15 dicembre del 1442, fra le chiese di san Nazaro e
di san Celso. Il suo progetto era stato preveduto, e collocate delle
guardie nel medesimo luogo per impedirne l'esecuzione; ma il rigore del
freddo e la violenza di un vento contrario sembrando custodire
bastantemente la costa, i soldati si ritirarono dopo la mezza notte. Il
vento improvvisamente cambiò, e Giovanni Antonio del Fiesco, avendo
saputo approfittarne, entrò in Genova senza incontrare resistenza.

I Genovesi, incoraggiati dalla presenza di questo capo di partito, si
sollevarono per cambiare il governo. Invece di un solo magistrato, che
sempre faceva temere lo stabilimento di un potere dispotico, pensarono
di nominare otto cittadini, che col titolo di capitani della libertà
amministrassero la repubblica. Tommaso Fregoso, da tutti abbandonato,
erasi renduto prigioniero a Giovanni Antonio del Fiesco ed a Raffaello
Adorno, i quali furono del numero de' nuovi magistrati con un Doria ed
uno Spinola. Ma le fazioni di Genova erano troppo fra di loro accanite,
e troppo inflessibili i capi delle opposte fazioni, perchè mantenere si
potesse un consiglio in cui si erano voluti riunire. Non era ancora
passato un mese, quando la scissura tra le due parti sempre
irreconciliabili obbligò a sopprimere il consiglio, ed a nominare di
nuovo un doge. Raffaello Adorno, che fu in allora scelto, era figlio di
Giorgio e nipote d'Antoniotto, che avevano pure occupata la stessa
carica. Giovanni Antonio del Fiesco, fieramente irritato nel vedere che
una rivoluzione da lui condotta a fine altro non aveva fatto che
traslocare l'autorità ducale da una famiglia popolare ad un'altra
egualmente popolare, senza che i nobili ne sentissero alcun vantaggio,
uscì di città, occupò Recco e Porto Fino, e ricominciò la guerra civile.
D'altra parte Pietro Fregoso, nipote di Tommaso, giovane audace ed
ambizioso, esiliato dal nuovo governo cogli altri Fregosi, erasi
ritirato a Novi, di cui il duca di Milano gli aveva dato la fortezza;
indi cominciò dal canto suo le ostilità contro i Genovesi[57].

  [57] _Uberti Folietae Hist., l. X, p. 599. — P. Bizzarro Hist.
  Genuens., l. XII, p. 269. — Agost. Giustiniani Ann. di Genova, l. V,
  f. 203._

La famiglia Adorno era stata quasi continuamente esiliata da Genova
durante la guerra che i Genovesi avevano fatta ad Alfonso nel regno di
Napoli, ond'era meno odiata da questo monarca; ciò le agevolò il modo
d'intavolare con lui un trattato di pace, che fu non senza molta
difficoltà accettato dalla repubblica. Questa finalmente si obbligò nel
1444, a mandare al re di Napoli, in forma di tributo, un piatto
d'oro[58]. Nel susseguente anno Alfonso, invece di ricevere
quest'offerta senz'apparato, volle ostentare la sua gloria e far
conoscere l'umiliazione de' nuovi tributarj. Fece entrare i loro
ambasciatori in mezzo alla sua corte; tutti i grandi del regno erano
stati chiamati per essere testimonj del suo trionfo, ed i Genovesi,
sorpresi da questa impreveduta pompa, conservarono un implacabile
risentimento per la vergognosa parte che avevano dovuto sostenere[59].
Alfonso, che andava debitore di questo trionfo alla famiglia Adorno,
cominciò a considerarla come sua alleata, e la eccepì dal suo odio
contro i Genovesi. Ma questa famiglia andava perdendo la considerazione
de' suoi concittadini in ragione di quella che acquistava presso un
monarca nemico.

  [58] _Barth. Facii, l. VIII, p. 127._ — Egli medesimo fu uno de'
  negoziatori del trattato per parte dei Genovesi.

  [59] _Uberti Folietae Gen., l. X, p. 600. — P. Bizzarro, l. XII, p.
  271. — Agost. Giustiniani, l. V, f. 203._ Con questo trattato di
  pace, e coll'umiliazione dei deputati genovesi incaricati di portare
  il tributo, Giovanni Bracelli di Sarzana termina la sua storia: _De
  Bello Hispano Libri quinque_. Comprende gli avvenimenti dal 1412 al
  1444, de' quali l'autore, cancelliere della repubblica di Genova,
  era stato non solo testimonio, ma autore. È scritta in latino con
  maggiore eleganza, sebbene con minore ostentazione, che la più gran
  parte delle storie latine della stessa epoca. Invece di supposti
  discorsi, di pompose descrizioni, vi si trovano verità ne'
  sentimenti, aggiustatezza e precisione. Dicesi che il Bracelli si
  fosse proposto d'imitare i commentarj di Cesare; ma questa pretesa
  imitazione lo condusse ad una naturale maniera di scrivere. Ho
  seguita l'edizione d'Hagneau del 1530, in 4.º; ma fu ristampata nel
  Tesoro di Grevio, _t. I, p. 1267-1320_.

Gli Adorni non trovavano che Raffaello, loro capo, li facesse abbastanza
partecipare della sua potenza, ed avrebbero voluto alla testa della
repubblica un uomo che tenesse la bilancia meno eguale tra le fazioni, e
che, invece di riconciliarle colla dolcezza, arricchisse l'una colle
spoglie dell'altra. Persuasero a Raffaello che per calmare gli spiriti,
agitati dal contegno di Alfonso verso i loro ambasciatori, conveniva che
l'autore del trattato non fosse più capo dello stato. Raffaello, pieno
di moderazione e di confidenza ne' suoi consiglieri, rinunciò il giorno
4 di gennajo del 1447 ad una carica, che aveva cercata per giovare alla
sua patria, non a sè medesimo. Gli Adorni, approfittando di
quest'inconsiderata moderazione, lo stesso giorno gli sostituirono
Barnabò Adorno, che loro prometteva una parte assai più ricca delle
spoglie de' loro avversarj[60].

  [60] _Uberti Folietae Hist. Gen., l. X, p. 600. — P. Bizarro, l.
  XII, p. 272. — Agost. Giust., l. V, f. 204. X._

Per porre in sicuro la propria autorità, Barnabò accettò da Alfonso una
guardia di seicento Catalani. E siccome era questa la sola truppa
assoldata della repubblica, si vide quello stato medesimo, che in guerra
aveva fatto crollare il trono di un gran re, tremare in pace innanzi ad
un branco di soldati ammessi tra le sue mura. Non eravi violenza che non
dovesse aspettarsi da un primo magistrato, capo di partito, che in una
libera città si era circondato di una guardia straniera. Ma Barnabò non
era appena da oltre un mese salito sul trono ducale, quando Giano
Fregoso osò entrare in porto nel cuor della notte con una sola galera,
sbarcare ottantacinque valorosi giovani, che erano il fiore de' suoi
partigiani e determinati di tentare una rivoluzione, ed attaccare il
palazzo pubblico difeso dalla guardia del doge. Un'ostinata zuffa si
attaccò nelle anguste strade di Genova, che rendevano meno sensibile il
vantaggio del numero. Molti compagni del Fregoso caddero estinti, tutti
furono feriti, ma nessuno di loro, finchè potè sostenersi, abbandonò la
battaglia. La guardia fu rotta, Barnabò cacciato fuori dal palazzo, e
Giano Fregoso innalzato in sua vece sul trono ducale il 30 gennajo dei
1447. Pietro Fregoso venne richiamato dal suo esilio, e nominato
comandante della città[61].

  [61] _Uberti Folietae Hist. Genuens., l. X, p. 601. — Pietro
  Bizarro, S. P. Q. Genuens. Hist., l. XII, p. 273. — Agost.
  Giustiniani Ann. di Gen., l. V, f. 204. Y. — Chroniques d'Enguerrand
  de Monstrelet, vol. III, p. 3._

Giano dichiarò la guerra a Galeotto del Carreto, marchese di Finale, che
sempre alleato con tutti i nemici della repubblica, aveva approfittato
delle lunghe turbolenze di Genova per esercitare insoffribili
soverchierie sopra i suoi vicini. Per odio del marchese di Finale i
Genovesi si rendettero colpevoli di una mancanza di fede fin allora
senza esempio negli annali della loro città, appropriandosi gl'interessi
a lui dovuti dalla banca di san Giorgio. Giammai, nè prima, nè dopo, si
fecero lecito di non pagare ai loro nemici un debito legalmente
contratto. Finale fu preso nel 1449, saccheggiati furono i sobborghi
della città, e spianata la fortezza; ma sebbene avessero i Genovesi
prima determinato di distruggere questa città da cima a fondo, fecero
poi grazia agli abitanti; anzi restituirono ancora un terzo del
marchesato a Marco del Carreto, parente dell'ultimo feudatario, che non
aveva abbracciato il di lui partito[62].

  [62] _Uberti Folietae Hist., l. X, p. 602. — P. Bizarro, l. XII, p.
  275. — Agost. Giustiniani, l. V, f. 204. P._

Questa guerra non venne condotta a fine da Giano, morto in sul declinare
del 1448, ma da Luigi Fregoso, suo fratello, che gli era stato
sostituito. Per altro non corrispondendo questi all'universale
aspettazione, venne deposto in luglio 1450. I consiglieri offrirono la
corona ducale a quel Tommaso Fregoso ch'era stato doge nel 1415 e nel
1436; ma questi, trovandosi allora ritirato nella sua signoria di
Sarzana, rispose di essere troppo indebolito dall'età, dai travagli e
dalle inquietudini per governare lo stato in tempi così difficili, e
consigliò di preferire suo nipote Pietro Fregoso, in allora comandante
della città, il di cui carattere e talenti si meritavano la pubblica
confidenza. Infatti Pietro venne di comune assenso eletto il giorno 8
dicembre del 1450[63].

  [63] _Uberti Folietae, l. X, p. 602. — P. Bizarro, l. XII, p. 275. —
  Agostino Giustiniani l. V, f. 205. E._

Di quest'epoca la difesa di Costantinopoli era ciò che più importava ai
Genovesi, e doveva credersi che occuperebbe un lungo spazio negli annali
di Genova. Infatti la colonia genovese di Pera, rapidamente crescendo in
ricchezze ed in potenza, pareva che un giorno dovesse eguagliare la
città imperiale, di cui inaddietro non era che un sobborgo. Nel 1452 la
repubblica vi aveva mandati novecento tra arcieri e corazzieri per
difenderla contro i Turchi. Giovanni Giustiniani, che li comandava,
partecipò valorosamente a tutte le fatiche ed a tutti i pericoli
dell'ultimo Costantino; ma costretto da una ferita ad abbandonare la
battaglia, parve che tutt'ad un tratto perdesse la presenza di spirito
ed il coraggio. Egli abbandonò il suo posto, come se tutto fosse
perduto, e la ritirata della piccola sua truppa aprì la città ai
Musulmani. Pera s'arrese immediatamente dopo Costantinopoli, e la
perdita di così fiorente colonia fu una delle più funeste sventure
provate dalla repubblica di Genova. Gli storici genovesi appena
accennano avvenimenti di tanta importanza, e pare che non siano stati
informati delle particolari circostanze dai loro compatriotti;
perciocchè niente aggiungono ai racconti degli storici Greci, cui
strettamente si attengono, e non accennano veruna parziale cronaca di
Pera. Pure i loro mercanti furono in Oriente testimonj di rivoluzioni
troppo meritevoli di ricordanza, e l'esistenza medesima ed il governo
della loro colonia offrivano uno straordinario fenomeno politico e
mercantile degno della loro attenzione[64]. Dopo la perdita di Pera,
temendo i Genovesi di perdere ancora gli altri stabilimenti del Levante,
ed in particolare Caffa, ossia Teodosia, sul mar Nero, ne trasferirono
la sovranità alla banca di san Giorgio, che sempre ferma in mezzo alle
loro rivoluzioni, sempre saggia in mezzo alla follia ed all'ebbrezza
delle fazioni, più che il doge ed i suoi consiglj pareva capace di
salvare una colonia tanto difficile a custodirsi[65].

  [64] I tre storici genovesi che noi seguiamo sono quasi posteriori
  di un secolo a tale epoca. Tra questi il solo P. Bizarro racconta la
  presa di Costantinopoli alquanto circostanziatamente, _l. XII, p.
  279-282_. Ma non fa che copiare i Greci; e la stessa descrizione di
  Pera è tolta dalla Topografia Costantinopolitana di Pietro Gillio. —
  _Ubert. Folietae, l. X, p. 603, ed Agost. Giustin., l. V, f. 205_,
  ne danno conto con poche linee.

  [65] _Uberti Folietae Hist. Genuens., l. X, p. 203. — P. Bizarro, l.
  XII, p. 285. — Agost. Giust., l. V, f. 205. A._

Nello stesso anno 1453 i Genovesi cedettero la sovranità dell'isola di
Corsica alla stessa banca di san Giorgio, perchè Alfonso aveva loro
tolta la città di san Fiorentino, e minacciava il rimanente dell'isola.
Questo monarca aveva risguardato il ristabilimento dei Fregosi in Genova
come una dichiarazione di guerra; e senza dubbio dopo tale epoca più non
gli si pagò il tributo del piatto d'oro. Il papa, spaventato dalle
conquiste dei Turchi, intromise la sua mediazione, ed ottenne da
Alfonso, ancor esso inquieto e spossato, una tregua di sei mesi. Ma i
vascelli catalani, che ne avevano approfittato per vittovagliarsi nel
porto di Genova, violarono la tregua nell'istante che uscivano dal
porto. Pietro Fregoso scrisse al re con molta nobiltà per chiedere conto
di queste ostilità, quando tutti i sovrani d'Italia avrebbero dovuto
riunire le loro forze contro i Turchi, veri nemici del nome cristiano;
gli proponeva di porre le loro liti in arbitrio del papa, o di chiunque
altro credesse Alfonso di nominare[66]. Questi non si curò punto di
questa rimostranza; ed il suo ammiraglio, Bernardo di Villa Marina, dopo
essersi concertato cogli Adorni e coi Fieschi, stese le sue piraterie
sulle coste delle due Riviere[67].

  [66] La lettera di Pietro Fregoso in data del 27 luglio del 1455
  viene riportata dal _Raynal. Ann. Eccles., t. XVIII, p. 444, § 35._

  [67] _Uberti Folietae, l. X, p. 603. — P. Bizarro, l. XII, p. 285. —
  Agost. Giust., l. V, f. 206._

Pietro Fregoso non oppose una flotta a quella dell'Arragonese, ma dopo
avere provvedute del bisognevole tutte le fortezze, e postosi ovunque in
istato di difesa, lasciò che Villa Marina si andasse consumando in vani
sforzi. Egli temeva, assai più che l'ammiraglio, i nemici che poteva
avere nella stessa città, e piuttosto che esporsi ad essere sorpreso
all'impensata, volle dar loro egli medesimo una occasione di manifestare
le loro trame. Dopo avere lasciata in palazzo una numerosa guardia, e
prese tutte le convenienti misure per la sicurezza della città, pubblicò
di voler fare un viaggio nelle due Riviere per provvedere alla loro
sicurezza in qualunque caso d'attacco. Invece di partire, il 28 di
luglio andò segretamente nella fortezza, ove teneva una grossa
guarnigione di cui potevasi pienamente fidare. Accadde ciò ch'egli aveva
preveduto; tosto che i faziosi lo credettero lontano, presero le armi, e
proclamando i nomi di Adorno e del re d'Arragona, vennero ad attaccare
il palazzo pubblico. Il Fregoso aspettò che tutti i suoi segreti nemici
si fossero palesati, ed allora sortendo dalla cittadella colle sue
truppe, prese alle spalle coloro che attaccavano il palazzo, e ne fece
orribile carnificina; scacciò i vinti fuori di città, e punì alcuni de'
loro capi con pena capitale[68].

  [68] _Uberti Folietae Hist., l. X, p. 604. — P. Bizarro S. P. Q.
  Genuens. Hist., l. XII, p. 286. — Agost. Giustiniani, l. V, f. 206._
  Ma il Fregoso, probabilmente vergognandosi d'uno stratagemma poco
  leale, scrisse il 4 di agosto ad Alfonso, ch'egli si era
  effettivamente imbarcato il 28 di luglio, e ch'era giunto fino a
  Sestri; che al suo ritorno, il terzo giorno, aveva acquietata con
  poco spargimento di sangue una rivoluzione scoppiata in tempo della
  sua lontananza. _Raynal. Ann. Eccl. 1433, § 36, t. XVIII, p. 444._

Durante la cattiva stagione la flotta arragonese erasi ritirata noi
porti del regno di Napoli; tornò in primavera del 1456 a minacciare le
coste della Liguria, e ad intercettare il commercio, occupando inoltre
Albenga, che peraltro fu bentosto ripresa. In così difficili circostanze
Pietro Fregoso ricorreva alternativamente al duca di Milano, ai
Fiorentini, ai Veneziani, che tutti avevano legate le mani dalla lega
fatta con Alfonso, e dalla quale avevano avuto la debolezza di escludere
i Genovesi, loro antichi alleati. Papa Calisto III, che risguardava il
popolo genovese come il solo di cui potesse far capitale per difesa del
cristianesimo in Levante, interponeva per loro i suoi buoni ufficj. I
continui soccorsi di vittovaglie, di armi e di danaro, che la repubblica
mandava a Caffa e nelle sue isole della Grecia, la snervavano affatto,
non lasciandole nè vascelli, nè soldati da opporre ad Alfonso. Pietro
Fregoso ed il consiglio della repubblica si erano, sempre di concerto
con Calisto, rivolti ai più lontani principi, per ridurli a mandare
ajuti ai Cristiani del Levante; le loro lettere ai re d'Inghilterra e di
Portogallo fanno ad un tempo vedere quanti sagrificj avevano fatti essi
medesimi, quanto erano innoltrati i loro trattati con questi principi, e
quanto la guerra, che loro faceva Alfonso, riusciva dannosa alla difesa
della cristianità[69].

  [69] La lettera del doge al re d'Inghilterra è del 7 aprile del
  1456, quella al re di Portogallo è del 3 di settembre dello stesso
  anno, e sono riferite dal _Raynald. Ann. Eccles, ad annum., § 5 e 9,
  p. 454, 455._

Finalmente il re di Napoli, cedendo alle istanze di Calisto III, alle
esortazioni di tutti i principi cristiani, che non sembravano occuparsi
d'altra cosa che della crociata, e forse per timore d'essere attaccato
il primo, quando i Turchi continuassero le loro conquiste, promise di
unire quindici galere a quelle del papa; manifestò inoltre l'intenzione
di porsi alla testa dell'armata de' principi cristiani, e sotto questo
pretesto fece levare grossi sussidj in tutti i suoi stati. Ma qualche
tentativo fatto dai Genovesi per ricuperare i loro possedimenti in
Corsica riaccese subitamente la di lui collera. Egli rigettò con amaro
insulto le istanze che gli faceva il doge di armarsi contro i Turchi; e
rinfacciò ai Genovesi d'avere i primi trasportati in Europa gli Osmanli.
«Gli è contro di voi, che siete i veri Turchi dell'Europa, disse
Alfonso, che ci facciamo un dovere di volgere i nostri primi sforzi, e
non ci tratterremo finchè, coll'ajuto di Cristo, non vi avremo ridotti
supplichevoli ai nostri piedi. Allora soltanto noi termineremo, a
dispetto vostro, la spedizione contro i Turchi dell'Asia, cui ci siamo
obbligati.» La lettera scritta con quest'insultante amarezza era lavoro
d'uno dei molti dotti addetti alla corte d'Alfonso, e forse di Antonio
di Palermo, il quale la scrisse con quel tuono oltraggiante, che
caratterizza le contese letterarie del quindicesimo secolo. La risposta
della repubblica, scritta dal suo cancelliere Bracelli, è per lo
contrario altrettanto nobile che misurata[70].

  [70] La lettera d'Alfonso è del 23 luglio del 1456, e trovasi colla
  risposta negli _Ann. Miniatenses Bonincontrii, t. XXI, p. 159. — P.
  Bizarro, l. XII, p. 287-291. — Agost. Giustiniani, l. V, f. 206-210,
  e gli Ann. Eccles., t._

In questa stessa epoca i Genovesi avevano mandate due galere a Chio con
cinquecento uomini di guarnigione, armi d'ogni sorta, e sufficiente
quantità di granaglie per approvvigionare non solo quest'isola, ma
ancora quella di Rodi. Avevano mandato un vascello, armi, e
dugent'uomini di guarnigione a Mitilene, e finalmente due vascelli a
Caffa, uno dei quali, il più grande che si fosse fin allora veduto sul
Mediterraneo, fu colato a fondo da un fulmine[71].

  [71] Lettera di Pietro Fregoso e del consiglio a Calisto III in data
  dell'11 luglio del 1456. _Ann. Eccl., t. XVIII, p. 458._

Nel susseguente anno Calisto, che aveva rinnovate le sue offerte di
mediatore, lusingossi qualche tempo d'avere persuaso Alfonso a fare la
pace coi Genovesi; i loro ambasciatori dovevano scontrarsi in Roma con
quelli del re di Napoli, ed il trattato pareva ridotto a buon termine,
quando un vascello d'Alfonso fu preso dai Genovesi. Sebbene non vi fosse
armistizio, il re mostrossi irritato da quest'atto ostile, come se non
lo avesse provocato. Gli ambasciatori genovesi abbandonarono Roma senza
aver nulla convenuto, e Pietro Fregoso, disperando di trovare soccorso
altrove, s'addirizzò al solo nemico che ancora potesse farsi temere da
Alfonso, a Carlo VII, re di Francia, protettore e parente di Renato
d'Angiò[72].

  [72] Lettera di Calisto III al doge. _Ann. Eccl. 1457, § 46, p.
  499_, e lettera d'Alfonso al papa. _Ann. Miniat., p. 160._

Malgrado l'inconsiderata maniera con cui Renato erasi nel 1458 ritirato
dalla guerra di Lombardia, egli non aveva rinunciato ai suoi diritti sul
regno di Napoli. Di conformità alla fatta promessa egli aveva mandato ai
Fiorentini suo figlio Giovanni, duca di Calabria, per assumere il
comando delle loro truppe. Giovanni era giunto a Firenze il 7 febbrajo
del 1454, e dopo le più onorifiche accoglienze, gli era stato consegnato
in mezzo a splendide feste il bastona del comando[73]. Pure i trattati
di pace avevano di già avuto cominciamento, e la pace si pubblicò in
Firenze il 14 aprile seguente, senza che il duca Angiovino di Calabria
avesse potuto prestare alcun servigio ai suoi alleati. Ma sebbene gli
dovesse spiacere il vedere la repubblica fiorentina contrarre
un'alleanza col suo competitore, non manifestò verun malcontento per una
condotta renduta necessaria dalla presente posizione degli affari; egli
si trattenne un anno in Toscana, come portava il suo trattato, e quando
partì, accettò un regalo di venti mila fiorini oltre ciò che gli era
dovuto; e tornò in Francia nel maggio del 1455[74].

  [73] _Scip. Ammirato, l. XXII, p. 78._

  [74] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 81. — Istor. di Gio. Cambi,
  delizie degli Erud., t. XX, p. 333._

A questo stesso principe ed a Carlo VII ricorse Pietro Fregoso, il quale
sentiva che i patimenti di così lunga guerra avevano resa la sua
autorità odiosa ai suoi concittadini; circondato da aperti e da segreti
nemici, più non sapeva come loro resistere, e non pertanto era
deliberato di non cedere loro la vittoria. Propose adunque di porre la
repubblica sotto la salvaguardia di un potente protettore, e con un
trattato, conchiuso in febbrajo del 1458, trasferì a Carlo VII la
signoria di Genova, riservando alla sua patria i diritti ed i privilegj
di città libera, quali erano di già stati enumerati in somigliante
concessione fatta a Carlo VII, il 25 ottobre del 1396[75]. Propriamente
parlando altro non era che l'autorità del doge che veniva in tal modo
accordata ad un sovrano straniero, ed almeno, secondo l'intenzione del
consiglio, la repubblica doveva sussistere colla stessa libertà e
giurisdizione sotto la temporaria magistratura di un delegato del re di
Francia, come sotto quella di un Fregoso o di un Adorno. Giovanni
d'Angiò, duca titolare di Calabria, venne, in conformità di questo
trattato, ad assumere il comando dei soli nemici che il suo rivale
avesse ancora in Italia. Giunse a Genova l'undici maggio del 1458, ed i
magistrati vennero a giurargli fedeltà a nome del popolo ne' giardini
Fregoso posti nel sobborgo di san Tommaso. Dal canto suo il duca di
Calabria, prima di essere ammesso entro le mura, giurò di rispettare le
leggi ed i privilegj dei Genovesi, gli statuti e l'indipendenza della
banca di san Giorgio; e dopo ciò divise con Pietro Fregoso la cura della
difesa della città[76].

  [75] Veggasi nel tomo VII la p. 406.

  [76] _ Uberti Folietae, l. X, p. 604. — Machiavelli Ist. Fior., l.
  VI, p. 263. — P. Bizarro, l. XIII, p. 291. — Agost. Giustiniani, l.
  V, f. 211. O._ — Fregoso aveva convenuto per sè medesimo la cessione
  di quattro castelli presso Avignone, e 30,000 ducati in danaro.
  _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 725._

Giovanni d'Angiò aveva seco condotte dieci galere francesi e molte
truppe per metterle di guarnigione in Genova ed in Savona[77]. Credeva
perciò il Fregoso che il re di Napoli non avrebbe ardito di attaccare un
così potente protettore; ma parve per lo contrario che Alfonso
raddoppiasse i suoi sforzi per sottomettere i suoi avversarj, in ragione
della loro ostinazione. Bernardo di Villa Marina, suo ammiraglio, aveva
svernato con venticinque navi a Porto Fino; in primavera Alfonso gliene
mandò altre dieci, che avevano a bordo armi, munizioni, e truppe da
sbarco, prese tra le scelte della sua armata. Questa flotta venne a
bloccare il porto di Genova quasi subito dopo l'arrivo di Giovanni
d'Angiò. Giovanni Antonio del Fiesco, Raffaello e Bartolommeo Adorno,
scesero dal canto loro dalle montagne per assediare la città; e Pietro
Spinola, egualmente esiliato, fece prendere le armi ai suoi vassalli e
partigiani. D'altra parte Giovanni d'Angiò aveva fatti entrare nel porto
tutti i vascelli genovesi, e lo aveva poi chiuso con forti catene e con
tarroloni galleggianti; aveva posto di guarnigione i suoi Francesi in
tutte le fortezze insieme ai soldati del Fregoso, ed aspettava con
coraggio un prossimo assalto, quando il primo di luglio l'una e l'altra
armata ricevette con eguale sorpresa la notizia della morte d'Alfonso,
accaduta il 27 di giugno. La flotta degli assedianti si disperse
all'istante, alcuni de' vascelli entrarono ne' porti della Catalogna,
altri in quello di Napoli, di dove erano usciti, e l'armata de'
malcontenti ritirossi in pari tempo nelle montagne; Barnabò e Raffaello
Adorno morirono dopo pochi giorni, o per le sostenute fatiche, cui non
erano accostumati, o per dolore di vedersi strappata di mano una
vittoria, che credevano sicura. I Genovesi, maravigliati di così
improvvisa liberazione, appena potevano goderne essi medesimi, perchè la
carezza e la cattiva qualità delle vittovaglie di cui eransi alimentati
in tempo dell'assedio, la miseria, le fatiche e le cure della guerra,
avevano generata entro le loro mura una malattia contagiosa, che uccise
più gente assai che non il nemico che si era di fresco ritirato[78].

  [77] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 683._

  [78] _Jo. Simonetae vita Franc. Sfortiae, l. XXVI, p. 684. — Uberti
  Folietae Genuensis Hist., l. XI, p. 605. — P. Bizarro S. P. Q.
  Genuens. Hist., l. XIII, p. 292. — Agostino Giustiniani Ann. di
  Genova, l. V, f. 211. P. — Pandolfo Collenuzio Ist. di Napoli, l.
  VI, f. 201-206._

Alfonso, allorchè morì in età di sessantatre anni otto mesi e ventisette
giorni[79], regnava in Arragona dal 1416 in avanti; ma soltanto dopo
avere portata la guerra in Corsica del 1420, e sopra tutto dopo essere
stato adottato da Giovanna II di Napoli, aveva acquistata in Italia una
potenza preponderante. Credeva di avere assicurata la successione di suo
figliuolo naturale Ferdinando coi suoi trattati con quasi tutti i
principi d'Italia, e coll'investitura successivamente ottenuta da due
papi. L'ordine da lui posto in questa successione sembravagli conforme
alla giustizia, poichè non disponeva a favore del suo bastardo che del
regna di Napoli, conquistato da lui medesimo, mentre lasciava tutti i
suoi stati ereditarj al fratello Giovanni, re di Navarra. Costui
trovavasi allora in lite con suo figliuolo del primo letto, don Carlo,
che portava il titolo di conte di Viana, ed era venuto a cercare asilo
alla corte di Napoli. Il conte di Viana era in Roma nel principio di
maggio del 1458 quando Alfonso infermò, ed avutane notizia si affrettò
di restituirsi a Napoli. Era meritamente amato dal popolo e dalla
nobiltà; ed Alfonso non lo vide ritornare senza inquietudine, temendo,
qualora egli morisse a Castelnovo, che gli Arragonesi ed i Catalani, di
guarnigione in quel castello, non si dichiarassero per il conte di Viana
figlio ed erede presuntivo del nuovo loro re. Ammalato com'egli era
gravemente, fece spargere voce della sua convalescenza; si fece
trasportare a Castel dell'Ovo sotto pretesto di mutar aria, e nello
stesso tempo diede il comando del castello, che abbandonava, a suo
figlio Ferdinando. Lo stesso giorno sottoscrisse il testamento con cui
chiamava Ferdinando suo figlio legittimato alla corona di Napoli, e
lasciava la corona d'Arragona, di Catalogna, di Valenza, delle isole
Baleari, di Sardegna e di Sicilia, a suo fratello, il re di Navarra, in
conformità delle costituzioni degli stessi regni. Ventiquattr'ore dopo
morì[80].

  [79] Secondo il _Bonincontri Ann. Miniatens., t. XXI, p. 162_. —
  Colla morte di Alfonso finiscono questi annali di un merito assai
  disuguale: pure contengono importantissime notizie intorno ad alcune
  parti della storia del regno di Napoli. Le cose di Samminiato non
  occupano che la minor parte del libro.

  [80] _Giannone Istor. civ. del regno di Napoli, l. XXVI, c. VII, p.
  540._

La posterità conservò ad Alfonso il soprannome di _magnanimo_, di cui
questo principe andò debitore ad una quasi illimitata liberalità. In
questo secolo, in cui tutti i sovrani d'Italia rivalizzavano nell'amore
per le lettere, egli pareggiò o superò tutti col suo entusiasmo per
l'antichità, col suo zelo per gli studj, colle sue beneficenze verso i
dotti, che da ogni banda chiamava con ogni maniera di allettamenti alla
sua corte. Aveva tolto per sua impresa un libro aperto; e niun sovrano,
non accettuati coloro che non furono come lui amministratori e
guerrieri, consacrò tanto tempo alla lettura. Seco portava sempre Tito
Livio ed i Commentarj di Cesare; aveva sempre libri sotto il suo
origliere, onde valersene nelle ore che poteva rubare al sonno. Il suo
segretario e panegirista, Antonio Beccadelli di Palermo, conosciuto
sotto il nome di _Panormitano_, pretende di averlo a Capoa risanato da
una malattia, leggendogli la vita di Alessandro scritta da Quinto
Curzio. Si dice che Cosimo dei Medici ottenne di calmarlo dopo il torto
fattogli dal trattato di Lodi, e di farlo entrare nella lega dell'Italia
superiore, regalandogli un bel manoscritto di Tito Livio[81].

  [81] _Guinguenè, Hist. litter. d'Italie, chap. XVIII, t. III, p.
  268. — Tiraboschi stor. della letter., t. VI, l. I, c. 2, § 17, p.
  40._

I letterati ed in particolar modo gli eruditi sono troppe volte
stranieri allo spirito del loro secolo, perchè si possa prestare intera
fede ai loro elogj intorno alle virtù di un re; ma è una sicura riprova
del nobile carattere d'Alfonso la piena confidenza ch'egli aveva
nell'amore del popolo da lui conquistato. Passeggiava spesso a piedi e
senza seguito per le strade di Napoli, e rispondeva a coloro che
credevano questa sua abitudine pericolosa: «che può temere un padre
passeggiando in mezzo ai suoi figliuoli?» In fatti Alfonso era amato dal
popolo per le sue virtù, e dirò ancora pei suoi difetti. La sua
eloquenza, la sua affabilità, le sue nobili maniere, il suo cavalleresco
valore, affascinavano tutti coloro che avevano il vantaggio di
avvicinarlo. Loro piaceva pure per una tal quale simpatia che trovasi
nel popolo, per la tenerezza e la tendenza all'amore, che questo sovrano
conservò fino agli ultimi suoi giorni. Il suo romanzesco carattere
influì notabilmente sul suo destino. La nascita di suo figliuolo,
Ferdinando, era stata accompagnata da misteriose circostanze. Assicurano
alcuni storici, ch'egli era nato da un incesto con Catarina, moglie
d'Enrico, fratello d'Alfonso; che per salvare la riputazione di questa
principessa, Margarita de Hijar acconsentì che gli si attribuisse questo
fanciullo, onde fu poi vittima della gelosia della regina, che la fece
soffocare[82]. Alfonso più non seppe condonare alla moglie tanta
barbarie; più non volle vederla; ma restò, finchè visse vincolato da un
matrimonio che detestava, e non poteva sciogliere. L'oggetto dell'ultima
sua passione fu Lucrezia d'Alagna, figlia di un gentiluomo napolitano.
Pio II, di già papa quando scriveva i suoi commentarj, li vide assieme,
e si sentì commosso dal loro amore e dalla loro virtù. «Stava, egli
dice, a Torre del Greco, Lucrezia, donna, o piuttosto vergine
gentilissima, nata di nobili ma poveri parenti napolitani. Amolla il re
perdutamente, a segno di sembrare fuori di sè alla di lei presenza.
Altro egli non vedeva, altro non udiva che Lucrezia; i suoi occhi
stavano sempre fissi sopra di lei; ne lodava le parole, ne ammirava la
saviezza, ed applaudiva a tutto quanto ella faceva. Soleva colmarla di
doni, e voleva che venisse onorata come una regina; e talmente a lei si
abbandonava che niuno poteva ottenere udienza senza il di lei
assenso..... Pure, se dobbiamo prestar fede alla pubblica voce, essa mai
non accondiscese ai di lui desiderj. Si assicura aver ella detto più
volte, che mai non sagrificherebbe al re la sua verginità, e che, s'egli
tentasse far uso della forza, saprebbe prevenire la propria vergogna
colla morte, invece di punirsi troppo tardi come l'antica Lucrezia[83]».
Alfonso erasi lusingato di sposare Lucrezia d'Alagna, ed aveva perciò
domandato a Calisto III un divorzio con Maria di Castiglia a cagione
della sua sterilità; ma sebbene questo papa fosse prima stato suo
ambasciatore, governatore di suo figlio, e suo confidente, mai non volle
accordare al re questa domanda[84].

  [82] _Surita Annales del reyño de Aragon, l. XIV, c. 35. — Rocchi
  Pirri Chronologia Regum Siciliae apud Burmannum, Thesaur. Antiqu.
  Ital., t. X, p. V, p. 96_. — Altronde il Pontano, che fu segretario
  di Ferdinando, chiama sua madre Vilardona Carolina, ed aggiugne che
  molte persone lo dicevano supposto da questa donna, e figlio di un
  calzolajo di Valenza, maomettano come lo era quasi tutto il popolo
  in quel regno. _Pontan. Napol. belli, l. II. Y._

  [83] _Comment. Pii Papae secundi, l. I, p. 27._

  [84] _Platina vita di Calisto III, p. 426. — Ann. Eccles. Raynal.
  1455, § 36, p. 444, e 1456, § 12, p. 457. — Giannone stor. civ., l.
  XXVI, c. VII, p. 536. — Rocchi Pirri Chronol. reg. Siciliae,
  Thesaur. Burmanni, t. X, p. V, p. 96. — Jo. Marianæ. de Reb.
  Hispan., l. XXII, c. 18, p. 55._

Grandi avvenimenti militari, la conquista di un regno, luminose vittorie
sopra Caldora, sopra Renato d'Angiò, sopra Francesco Sforza, davano ad
Alfonso uno splendore che abbagliava le persone volgari. La prosperità
delle due Sicilie, e la pace ristabilita dopo una lunga anarchia, gli
davano posto tra i più saggi amministratori; ma ad ogni modo la virtù
che gli guadagnò maggiori elogj, la sua liberalità, fu quasi sempre
imprudente ed eccessiva; le sue profusioni lo tenevano costantemente in
mezzo alle ristrettezze; bentosto riprendeva con una mano ciò che aveva
donato coll'altra: era forzato di opprimere i suoi sudditi con
gravissime gabelle, o di vendere loro grazie contrarie all'ordine ed
alla buona amministrazione del regno. Il danaro mancando alle sue
prodigalità, egli distribuì nella sua monarchia con profusione nuovi
titoli, dignità e signorie feudali; colla medesima liberalità allargò le
prerogative dei signori, accordando loro una quasi assoluta sovranità
sui loro vassalli, ed in tal modo aggravò la sudditanza di questi,
togliendo loro la protezione della corona; indebolì l'autorità sovrana;
nocque alla pronta esecuzione della giustizia, e moltiplicò i mezzi di
resistenza dei grandi feudatarj nelle successive guerre civili. Può
dunque muoversi dubbio se il regno d'Alfonso sia stato favorevole ai
progressi dell'incivilimento nel regno di Napoli, ma non si può ricusare
di annoverar lui tra i più grandi e generosi monarchi che illustrarono
il quindicesimo secolo[85].

  [85] _Giannone Ist. civile, t. III, l. XXVI, c. V, VI e VII. —
  Giornali Napolitani, t. XXI, Rer. Ital., p. 1132._



CAPITOLO LXXVII.

      _Sforzi di Calisto III e dei baroni napolitani per impedire
      Ferdinando d'Arragona di succedere a suo padre. — S'addirizzano
      a Giovanni d'Angiò, signore di Genova. — Pietro Fregoso rimane
      ucciso in un attacco contro Genova. — Giovanni d'Angiò abbandona
      Genova pel regno di Napoli. — Guerra civile; battaglie di Sarno
      e di san Fabbiano tra gli Angiovini e gli Arragonesi_.

1458 = 1460.


Dacchè Alfonso era salito sul trono di Napoli fino alla morte, pareva
che la sua politica altro scopo non avesse che quello di assicurare
questo regno a suo figliuolo naturale Ferdinando. Tostocchè il re Renato
d'Angiò ebbe abbandonato Napoli, Alfonso pensò a fare riconoscere dal
parlamento, come abile a succedere alla corona questo figliuolo, ch'egli
aveva di già legittimato. Il parlamento di Napoli era la grande dieta
nazionale del regno, ed era composto soltanto di due camere. In quella
della nobiltà sedevano coi principi e coi baroni alcuni prelati nella
loro qualità di feudatarj, come l'abate di Monte Cassino, riconosciuto
pel primo barone del regno, l'arcivescovo di Reggio, ed altri: in quella
dei deputati delle città venivano chiamati, l'eletto del popolo di
Napoli, ed i sindaci delle principali comunità. Questo parlamento aveva
il diritto di regolare in concorso del re l'amministrazione della
giustizia e le finanze dello stato[86]; ma non era bastantemente
guarantita la sua esistenza, ed i monarchi napolitani trascurarono
spesso di adunarlo. Alfonso lo convocò nel 1443, ed i suoi confidenti
s'incaricarono di far sentire alla nobiltà il bisogno di fissare
l'ordine della successione al trono. Se il figliuolo naturale vi è
chiamato, essi dissero, siccome non avrà verun altro stato, e tutto
aspettar dovrà dai Napoletani, sentirà viemmeglio la necessità di
rispettare i loro privilegj; che se per lo contrario, in difetto di
legittimi figli d'Alfonso, si lasciasse passare la corona a suo fratello
il re di Navarra, non potrebbesi da questi sperare che preferisse
l'Italia alla sua patria; onde la capitale rimarrebbe senza sovrano,
Napoli sarebbe tutt'al più la residenza di un vicerè, e dovrebbe
aspettare gli ordini da una corte straniera, che non avrebbe contezza nè
dei costumi, ne dell'idioma del popolo a lei subordinato. Altronde,
soggiugnevano, essendo stato Alfonso innalzato egli medesimo sul trono
dalle armi de' Napolitani, poteva risguardarsi come un monarca eletto
dal suo popolo. Egli non aveva altri diritti alla corona che quelli che
derivavano da quest'elezione, a meno che valere non facesse i diritti di
conquista. Verun patto non obbligava o i suoi sudditi, o lui medesimo a
far partecipare suo fratello e la casa d'Arragona ad un acquisto che gli
era personale. L'adozione di Ferdinando fatta dalla nazione era dunque
altrettanto legittima, quanto conveniente. I baroni adunati in
parlamento parvero gustare questi diversi motivi; e dopo la loro
deliberazione, onorato Gaetano, conte di Fondi, venne a prostrarsi alle
ginocchia del re, supplicandolo, a nome della nobiltà adunata, di
accordare a suo figlio Ferdinando, allora in età di diciannove anni, il
titolo di duca di Calabria, e di designarlo per successore alla corona.
Alfonso, nel colmo della sua gioja per avere ottenuto quanto desiderava,
accordò quello che si era fatto chiedere; investì suo figliuolo, nella
chiesa di san Ligorio, del ducato di Calabria, gli passò la corona, lo
stendardo e la spada, e gli fece prestare il giuramento dalla nobiltà e
dai deputati delle città del regno[87].

  [86] _Giannone, l. XX, c. IV, t. III, p. 51-53._

  [87] _Giannone Ist. civile del regno, l. XXVI, c. I, p. 489._

Ma perchè i papi pretendevano di essere signori abituali del regno di
Napoli, la pacifica successione di Ferdinando non era assicurata finchè
la corte di Roma, in allora attaccata al partito angiovino, non
riconoscesse il nuovo re, ed il diritto ereditario di suo figliuolo
naturale. Il monarca affidò la propria riconciliazione col pontefice ad
Alfonso Borgia, vescovo di Valenza, quello stesso che poi trovossi
innalzato sulla cattedra di san Pietro sotto il nome di Calisto III,
quando si fece luogo a questa stessa successione. In fatti Eugenio
riconobbe Alfonso col trattato di pace soscritto a Terracina il 14
giugno del 1443, e gli spedì nello stesso anno delle bolle, colle quali
accordava la successione ai figli maschi d'Alfonso, senza aggiugnervi la
clausola, _legittimi_, ed in loro mancanza alla linea transversale[88].
Il 14 luglio del susseguente anno Eugenio IV legittimò Ferdinando,
dichiarandolo abile ad occupare le più alte dignità del regno, come pure
a succedere alla corona[89]. Per altro la nuova bolla d'investitura,
pubblicata in Napoli il 2 giugno del 1445, ristringeva ancora la
successione ai figli nati da legittimo matrimonio[90]. Pare che Eugenio
IV pensasse a riservarsi la possibilità di contrastare la successione di
Ferdinando quand'ella s'aprirebbe, e che in virtù di questo segreto
motivo ricusasse di spiegarsi così chiaramente come il re avrebbe
desiderato. Niccolò V, di più pacifico carattere, si prestò in un modo
più aperto ai voti d'Alfonso; confermò con una bolla del 14 gennajo del
1448 tutte le grazie dalla Chiesa accordate al re di Sicilia; nuovamente
riconobbe e sanzionò il diritto di successione di Ferdinando con una
bolla del 27 aprile del 1449; e finalmente il 26 gennajo del 1455 entrò
nella lega di venticinque anni tra Venezia, Firenze, il duca di Milano
ed il re di Napoli; uno degli oggetti della quale lega era il
mantenimento di questa successione di già sanzionata da tanti
trattati[91]. Pareva dunque stabilito il diritto di Ferdinando dal
consentimento del popolo, da quello del signore abituale e da quello di
tutti gli stati d'Italia.

  [88] _Rayn. An. Eccl. 1445, § 1, 2-9, t. XVIII, p. 273-279._

  [89] La bolla riportata da Raynaldo parla delle più alte dignità, ma
  non della corona. È per altro probabile che sia mancante, poichè non
  solo il Giannone, ma papa Pio II, dicono espressamente, che Eugenio
  abilitò Ferdinando a succedere al padre. _Raynal. An. 1444, § 20, p.
  304. — Giannone, l. XXVI, c. 2, p. 496. — Pii PP. II, comment., l.
  I, p. 29._

  [90] _Ann. Eccl. 1445, § 1-11, p. 305-310._

  [91] _Giannone, l. XXVI, c. 3, p. 499._ — L'annalista della Chiesa,
  per non mettere Calisto III in troppo aperta contraddizione cogli
  atti dei suoi predecessori, travisò una parte di questi fatti.
  Soppresse le prime due bolle di Niccolò V, ma perchè riferisce la
  terza (_1445, § 3 e 4, p. 427_) colla quale il papa guarentisce la
  successione di Ferdinando, il diritto di questo principe al trono di
  Napoli resta, ancora per suo conto, bastantemente stabilito.

Non pertanto Alfonso per meglio provvedere alla sicurezza di suo
figliuolo volle procurargli una potente alleanza ne' suoi proprj stati.
Il più grande e ricco dei feudatarj del regno era Giovanni Antonio
Orsini, principe di Taranto. I suoi tesori, l'estensione de' suoi feudi,
il numero dei vassalli e de' soldati che teneva sempre sotto le armi, lo
mettevano quasi in istato di dare o di togliere la corona al suo
padrone. L'Orsini teneva presso di sè a Lecce Isabella di Clermont,
figlia della contessa di Copertino, sua sorella; Alfonso la domandò per
suo figliuolo, e gliela fece sposare nel 1444. Maritò nello stesso tempo
una delle sue figlie naturali a Martino di Marzano, figlio unico del
duca di Suessa, ed un'altra la diede a Lionello, marchese d'Este[92].

  [92] _Giannone Ist. civile, l. XXVI, c. 3, p. 496._

Ma quando morì Alfonso, si videro dichiararsi contro il suo figlio
quegli uomini medesimi che il monarca credeva di avergli guadagnati. Il
primo ed il più accanito di tutti i suoi nemici fu Calisto III, lo
stesso ch'era stato suo ministro a Roma, quando non era che vescovo di
Valenza, che aveva ottenuta dal suo predecessore la legittimazione di
Ferdinando, ed accompagnato lo stesso Ferdinando ne' suoi viaggi.
Tostocchè seppe la morte d'Alfonso, pubblicò il 12 luglio del 1458 una
bolla, colla quale dichiarava il suo regno devoluto alla santa sede per
l'estinzione della linea legittima dell'ultimo feudatario; quasichè la
corte di Roma non avesse preventivamente riconosciuti i diritti di
Ferdinando, figlio di Alfonso, quelli di Giovanni suo fratello, e quelli
di Renato d'Angiò suo rivale. Vietò ai sudditi napolitani di prestare il
giuramento di fedeltà a veruno dei pretendenti alla corona; sciolse
dagli obblighi loro quelli che già lo avevano prestato; ed invitò tutti
coloro che credevano di avere qualche diritto a tale successione, a
dedurre i loro titoli innanzi ai tribunali ecclesiastici[93].

  [93] _Raynald. An. Eccl., 1458, § 32, 33, p. 517. — Jov. Pontanus de
  bello Neapolitano, l. I._ Il Pontano, uno de' più illustri letterati
  del quindicesimo secolo, era segretario di Ferdinando I, quando
  scriveva questa storia. Lo fu in appresso d'Alfonso II, e di
  Ferdinando II. Adoperato nelle più onorevoli missioni diplomatiche,
  ne' più importanti trattati, fu inoltre il maestro di Alfonso II.
  Successe ad Antonio Beccadelli, conosciuto sotto il soprannome di
  _Panormitano_, nella presidenza dell'accademia di Napoli, e le sue
  poesie latine, più che gli altri suoi scritti, formarono la di lui
  fama. (_Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., t. VI, l. III, c. 4, §
  29-30, p. 886._) La sua storia della guerra di Napoli divisa in sei
  libri è scritta con molta eleganza. L'autore ebbe grandissima cura
  di dipingere i luoghi e gli uomini, indicando con un colpo d'occhio
  sicuro ciò che caratterizza ogni governo, e mostrando una
  straordinaria accortezza nell'introdurre ne' suoi racconti il
  ritratto de' popoli stranieri, o il racconto delle rivoluzioni che
  si legano ai tempi di cui tratta. L'edizione in 4.º di cui mi sono
  valso (_Haganovae 1530_) non ha numerate le pagine, onde indicai i
  fogli per le lettere d'impressione. Fu ristampato nel _Thesaur.
  Antiq. Ital., t. IX, p. III._

Non contento d'impiegare le armi e le minacce della chiesa per
sottomettere il regno di Napoli, cercò Calisto di persuadere il duca di
Milano ad assecondare le ambiziose sue viste. Lo Sforza aveva perduti i
suoi feudi negli Abbruzzi e nella Puglia, primi frutti delle vittorie di
suo padre. Calisto gliene offriva la restituzione, aggiugnendovi nuovi
stati, se coll'assistenza sua riduceva il regno sotto il suo dominio, e
poteva disporne a favore di Pietro Luigi Borgia, suo favorita nipote. Ma
Francesco Sforza, lungi dal dare orecchio a queste proposizioni, si
dichiarò fedele all'alleanza contratta colla casa d'Arragona, e disse
che ajuterebbe Ferdinando con tutte le sue forze[94]. Del resto Calisto
III, che formava così vasti progetti, non ebbe troppo tempo per condurli
a maturità; perciocchè quando morì, Alfonso egli era di già oppresso
dalla vecchiaja, ed affetto dalla malattia che doveva condurlo al
sepolcro. Tenne subito dietro ad Alfonso, e spirò il 6 di agosto[95].
Calisto III, salendo sul trono, aveva annunciate benefiche intenzioni, e
fatto sperare un regno virtuoso, ma non tardò a smentirsi; egli non ebbe
altra cura che quella d'arricchire i suoi nipoti, niuno de' quali
facevasi stimare per talenti o per virtù. Uno di loro, Roderico
Lenzuoli, che in questo stesso anno fu fatto dal papa vescovo di
Valenza, prendendo il nome di Borgia, diede a questo nome una troppo
odiosa celebrità, e fece riverberare sul benefattore la vergogna di cui
ricoprì sè medesimo.

  [94] _Jo. Simonetae Hist., l. XXVI, p. 685._

  [95] _Ann. Eccles. 1458, § 40, p. 520. — Stefano Infessura Diar.
  Rom., t. III, p. II, p. 1138._

I cardinali diedero per successore a Calisto III Enea Silvio
Piccolomini, nato a Corsignano, borgata lontana ventidue miglia da
Siena, che poi prese il nome di Pienza, perchè il nuovo papa si fece
chiamare Pio II. Era questi uno de' più dotti, de' più penetranti, de'
più attivi uomini dei suo secolo. Aveva cominciato a rendersi celebre
nel concilio di Basilea, ove si distinse tra gli oppositori della corte
di Roma. L'antipapa Felice V lo creò suo segretario, e lo spedì per
trattare le cose sue presso Federico III. Questi lo annoverò pure tra i
suoi segretari, ed in appresso tra i consultori dell'impero[96].
L'imperatore lo incaricò d'una importante commissione presso Eugenio IV,
ed in tale circostanza Enea Silvio si riconciliò colla corte di Roma, e
venne ammesso nel numero dei segretari d'Eugenio, prima di avere
abdicato lo stesso impiego presso Felice V[97]. Impiegato
alternativamente nelle negoziazioni del concilio, dell'imperatore e del
papa, corse più volte l'Europa, e si fece vantaggiosamente conoscere per
la sua eloquenza, la sua erudizione, la sua destrezza nel trattare gli
affari. Eugenio IV lo aveva fatto vescovo di Trieste, Niccolò V gli
diede il vescovado di Siena, e Calisto III il cappello cardinalizio[98].

  [96] _Vita Pii II per Jo. Anton. Campanum, t. III, p. II, p. 969,
  970._

  [97] _Ivi, p. 971._

  [98] Pio II, nel commentario della propria vita, _l. I, p. 30, 31_,
  dà curiose notizie intorno al conclave in cui fu eletto.

Nel momento della sua coronazione Pio II si trovò senza soldati e senza
danaro. Calisto aveva tutto dato ai nipoti, i quali cominciavano di già
a vendere le fortezze della Chiesa a Giacomo Piccinino, mentre questi
abbandonava la guerra di cui era incaricato contro Sigismondo Malatesta,
per approfittare delle rivoluzioni della corte romana. Pio in tale stato
di cose sentì la necessità di attaccarsi a Francesco Sforza, che gli
accordò i suoi soccorsi a condizione che il papa si riconciliasse col re
Ferdinando[99]. Altronde Pio II salendo sul trono pontificio,
abbracciava caldamente il progetto di spedire una crociata contro i
Turchi, la quale mai non aveva cessato di predicare come vescovo e come
legato. Il primo atto del suo pontificato fu quello di convocare pel
primo giugno del susseguente anno una dieta dei principi italiani in
Mantova, onde occuparsi della guerra sacra; e perchè rendevasi
necessaria per tale unione la pace interna, Pio II non ricusò di
confermare i diritti di successione di Ferdinando, di già riconosciuti
dai suoi predecessori[100]. In ottobre mandò a Napoli il cardinale
Latino Orsini a recargli la corona del regno[101], ed approfittò di
questa circostanza per fare con Ferdinando un trattato egualmente
vantaggioso a lui ed alla Chiesa. Fissò il tributo che i re della
Sicilia anteriore dovevano a san Pietro, tributo che da lungo tempo non
era stato pagato, e fece rendere alla Chiesa Benevento, Pontecorvo e
Terracina[102]. Ammogliò suo nipote, Antonio Piccolomini, con Maria,
figliuola naturale di Ferdinando, che gli diede per dote il ducato
d'Amalfi, il contado di Celano, e la carica di grande giustiziere del
regno[103]. Finalmente si riservò di stendere il trattato di pace tra
Sigismondo Malatesta ed il re di Napoli.

  [99] _Jo. Simonetae, t. XXVI, p. 687._

  [100] _Vita Pii II a Jo. Campano, t. III, p. II, p. 974. — Comment.
  Pii Papae II, l. II, p. 34-35._

  [101] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 688. — Cronico di Bologna, t.
  XVIII, p. 727._

  [102] _Giannone, l. XXVI, c. VI, p. 527. — Campanus vita Pii II, p.
  978. — Comment. Pii Papae II, l. II, p. 36._

  [103] _Giannone, l. XXVII, Introduzione, p. 550. — Jo. Simonetae, l.
  XXVI, p. 688. — Pii II, Comment., l. II, p. 36_. Omette le
  condizioni relative al suo personale vantaggio.

Ferdinando era di già tranquillo possessore del trono di Napoli, pure
don Carlo, conte di Viana aveva trovato tra i baroni Catalani e
Siciliani, che formavano la corte d'Alfonso, molti partigiani.
Sostenevano questi che il regno di Napoli, essendo stato conquistato
dagli Arragonesi, doveva correre la sorte del regno di Arragona.
Altronde il conte di Viana era altrettanto stimato per la nobiltà del
suo carattere, la sua generosità, e le gentili sue maniere, quanto
Ferdinando era odiato per la sua dissimulazione, la sua crudeltà, la sua
avarizia. Ma Ferdinando, appena morto il padre, corse la città di Napoli
a cavallo per prenderne possesso, e venne salutato dalle acclamazioni
del popolo; il conte di Viana non si attentò di lottare contro quello
che parvegli il voto nazionale; andò a bordo di un vascello, che
trovavasi in porto, insieme a tutti i Catalani che non volevano servire
Ferdinando, e ritirossi in Sicilia[104].

  [104] _Giannone, l. XXVII, Introd., p. 544. — Jov. Pontanus de Bello
  Neapolit., l. I, n.º 11. — Jo. Marianae de rebus Hispaniæ, t. XXII,
  c. 19, p. 56._ — Vedasi il bell'elogio del conte di Viana di Marineo
  Siculo, che pure lo scrisse per ordine di Ferdinando il Cattolico.
  _Lucii Marinei Siculi de Reb. Hisp., l. XIII, p. 417, in Hisp.
  illust., t. I._

Per altro le acclamazioni del popolo non esprimevano il voto nazionale:
i baroni napolitani conoscevano abbastanza il carattere di Ferdinando
per desiderare ardentemente di sottrarsi al suo dominio; e solo avevano
bisogno di tempo per apparecchiare la loro resistenza. Di questi il più
diffidente era quello stesso principe di Taranto, Giovanni Antonio
Orsini, di cui il nuovo re aveva sposata la nipote. L'Orsini non ardiva
di abbandonare la sua residenza di Lecce per venire alla corte; egli
stava sempre in guardia contro il ferro ed il veleno degli emissarj di
Ferdinando, e risguardava le grazie che da lui riceveva come esche
destinate a trarlo in pericolosi lacci. Fu dei primi a formare un
partito contro il nuovo re, associandosi in principio col principe di
Rossano, poi con Giosia Acquaviva, duca d'Atri, e col marchese di
Cotrone. Questi potenti feudatarj mandarono ad offrire a Giovanni di
Navarra di porlo in possesso del regno di Napoli, per lo stesso titolo
per cui riceveva quello d'Arragona ed il rimanente della fraterna
eredità. Fortunatamente per Ferdinando trovavasi in allora Giovanni
impegnato in civili guerre co' suoi sudditi di Catalogna e di Navarra.
Signoreggiato dalla seconda sua consorte, voleva diseredare il conte di
Viana, suo figlio del primo letto, per sostituirgli quel Ferdinando,
nato del secondo, ch'ebbe poi il nome di _Cattolico_. Troppo occupato
trovandoci degli affari della Spagna per cercarne altri in Italia,
Giovanni ricusò di turbare l'amministrazione di suo nipote, dichiarando
che non domandava di regnare in Napoli, purchè questo stato si
conservasse in un ramo della casa d'Arragona[105].

  [105] _Giannone Ist. civ., l. XXVII, c. I, p. 552._

I baroni napolitani respinti dal re di Navarra, si volsero a Giovanni,
figliuolo di Renato, duca di Calabria, che allora governava Genova, e
che non aveva accettato quel governo, che per cogliere le occasioni di
far rivivere le antiche pretese della casa d'Angiò sopra le due
Sicilie[106]. Persuasero facilmente questo duca ad approfittare delle
circostanze, che sembravano favorevoli; ma non pertanto siccome la
precedente guerra, e la malattia contagiosa che aveva travagliata
Genova, non gli permettevano di potere disporre di numerose forze, o di
molto danaro, volle, prima d'impegnarsi in questa spedizione,
guadagnare, se gli fosse possibile, l'amicizia del potente suo vicino,
il duca di Milano. Gli mandò in qualità di ambasciatori il vescovo di
Marsiglia e Giovanni Cossa, barone napolitano, che per attaccamento al
partito d'Angiò trovavasi omai da circa diciannove anni in esilio. Gli
fece ricordare l'antica alleanza tra le due famiglie: Sforza Attendolo,
padre del duca di Milano, era morto combattendo per la casa d'Angiò, ed
egli medesimo aveva perduto per questa causa tutti i suoi stati del
mezzogiorno dell'Italia. Il duca di Calabria lo supplicava in nome
dell'antica loro amicizia di appoggiare quelle stesse pretese, di cui
egli medesimo aveva sostenuta la giustizia colle armi alla mano, e di
preferire ad una nuova ed affatto impolitica alleanza, quella di un
mezzo secolo, che sarebbe suggellata da lunghe affezioni, e da doverosa
riconoscenza. Offriva di sposare egli medesimo Ippolita, figliuola del
duca di Milano, ch'era destinata al figlio di Ferdinando di lei molto
più giovane; e prometteva di restituire alla casa Sforza tutto ciò
ch'ella aveva già posseduto nel regno di Napoli, aggiugnendovi nuovi
stati, ed attenendosi in ogni cosa ai suoi consigli[107].

  [106] _Jovianus Pontanus de bello Neapol., l. I, n. 111. — Giornali
  Napoletani, t. XXI, p. 1132._

  [107] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 692._

Francesco non disaminò lungamente queste proposizioni: conosceva le
pretese della casa d'Orleans sul ducato di Milano; vedeva che questa
aveva posta in Asti una guarnigione francese; vedeva altri francesi
padroni di Genova; e se ancora il regno di Napoli cadeva nelle mani de'
Francesi, prevedeva distrutta la propria indipendenza e quella degli
altri principi d'Italia. Nella sua risposta al duca Giovanni di Calabria
frammischiò destramente alle proteste di amicizia, alcuni rimproveri,
perchè il duca gli avesse dissimulata l'impresa di Genova. Dichiarò
altronde, che qualunque si fossero i diritti dei pretendenti alla corona
di Napoli, egli non si permetterebbe di giudicarli, e che la sua
condotta non poteva essere diretta che dai trattati che aveva stipulati.
L'alleanza conchiusa nel 1455 fra tutti gli stati d'Italia non
lasciavagli, egli diceva, l'arbitrio della scelta. Che se la casa di
Arragona veniva attaccata nel regno di Napoli, egli si troverebbe
obbligato a difenderla, e che tutta l'Italia, vincolata dallo stesso
trattato, abbraccerebbe egualmente la causa di Ferdinando; onde invitava
il duca Giovanni a riflettervi maturamente, prima di tentare un'impresa,
che probabilmente sarebbe al di là delle sue forze. Per la stessa
ragione, soggiugneva, non era più in tempo d'accettare per sua figlia
l'onorevole parentado della casa d'Angiò, perchè ella era stata
solennemente promessa ad Alfonso, figlio di Ferdinando, e che, qualunque
si fossero gli avvenimenti, egli sarebbe fedele mantenitore delle sue
promesse[108].

  [108] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 693._

Francesco Sforza, che, ricusando la sua assistenza al duca Giovanni,
conservava nel suo discorso tanta lealtà e moderazione, stava per altro
contro di lui apparecchiando segrete pratiche, che prevennero l'attacco
del regno di Napoli. Pietro Fregoso, quello che nel precedente anno
aveva data Genova ai Francesi, lagnavasi di già amaramente che non
venivano osservate le condizioni stipulate a favor suo e della patria.
Lo Sforza l'accolse nello stato di Milano, gli permise di ragunare armi,
di soldarvi gente col danaro mandatogli da Ferdinando, di darne il
comando a Tiberto Brandolini, uno de' suoi luogotenenti, e d'invadere lo
stato di Genova, in febbrajo del 1459, con una ragguardevole armata.
Nello stesso tempo Villa Marina bloccava con dodici galere di Ferdinando
la città dal lato del mare; e Giovann'Antonio del Fiesco venne ad
ingrossare il campo del Fregoso co' suoi parenti ed amici. Pure entro le
mura di Genova non si fece verun movimento; tutto il popolo pareva
affezionato ai Francesi, ed i cittadini supplivano le parti de' soldati
che mancavano al duca di Calabria, schivando soltanto di venire a
battaglia fuori delle mura: ma il Fiesco per provocarli ad una sortita
s'avvicinò tanto alle mura, che fu ucciso con un colpo di colombrina.
Quest'accidente riuscì funesto al suo partito: credendo i suoi parenti
di avere tutti eguali diritti alla di lui eredità, partirono all'istante
alla volta dei varj castelli della sua famiglia, ad oggetto di
acquistarne il possesso colle armi. Il Fregoso, indebolito dalla loro
dispersione, s'allontanò da Genova, e dopo avere levate contribuzioni a
Sesto ed a Chiavari, tornò in Lombardia[109].

  [109] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 694. — Uberti Folietae Genuens.
  Hist., l. XI, p. 608. — P. Bizarro, l. XIII, p. 295. — Agost.
  Giustiniani, l. V, f. 212._

Il duca Giovanni erasi meritato l'affetto che i Genovesi gli mostravano;
aveva saputo adottare le loro costumanze, ed i sentimenti degl'Italiani;
sentiva di non essere in Genova che il magistrato di una libera città,
ed invece di comandare come padrone, faceva dipendere le proprie
decisioni dalle deliberazioni del senato e del popolo. Infatti fu al
senato di Genova ch'egli partecipò le proposizioni fattegli dal principe
di Taranto; dichiarò, che, sebbene credesse di avere di già soddisfatto
al proprio dovere, rispingendo lontano dalle mura d'una città da lui
amata, il nemico che minacciava di ridurla, dopo averla saccheggiata, in
servitù, non farebbe la spedizione cui era chiamato per riavere
l'eredità dei suoi maggiori, senza il consentimento de' Genovesi. Del
resto credeva vantaggioso alla loro repubblica ed a sè stesso di
rovesciare sopra la casa d'Arragona il peso di una guerra, colla quale
questa da tanto tempo opprimeva la Liguria, e di restituire al commercio
ed all'attività de' Genovesi le fertili province, rese quasi deserte da
Alfonso e da suo figlio Ferdinando. Questo discorso e la modestia del
duca di Calabria eccitarono un universale entusiasmo; il senato votò a
favore del principe d'Angiò, con un decreto che venne sanzionato dal
consiglio, l'armamento di dieci galere e di tre grandi vascelli da
trasporto, il pagamento degli equipaggi per tre mesi, e inoltre un
sussidio di sessanta mila fiorini da prendersi sulla banca di san
Giorgio[110]. Dal canto suo il re Renato aveva fatto armare a Marsiglia
una flotta di dodici galere, che mandò a raggiugnere quella di suo
figlio.

  [110] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 696. — Bern. Corio Ist. Milan., p.
  VI, p. 951. — Uberti Folietae Genuens. Hist., l. XI, p. 609. — P.
  Bizarro, S. P. Q. Genuens. Hist., l. XIII, p. 298. — Agust.
  Giustiniani Annal., l. V, f. 212. A._

Ferdinando, avuto avviso di questi apparecchi, si sforzò di ritenere a
Genova il duca di Calabria, suscitandogli in questa città nuovi
travagli. Mandò danaro a Pietro Fregoso, e lo pose in istato di
rimontare la sua armata, chiedendogli soltanto di rientrare nello stato
ligure, prima che Giovanni s'imbarcasse. Il Fregoso attraversò
effettivamente l'Appennino, scese nella valle della Polsevera, e
s'accampò a sole quattro miglia da Genova; ma gli fu opposto lo stesso
sistema di difesa adoperato contro di lui con sì buon effetto in
primavera. Veruna banda di soldati non uscì dalle mura; il Fregoso non
trovava chi combattere; non poteva lungo tempo mantenere la sua armata
in quelle sterili montagne, ed il danaro ricevuto dal re di Napoli era
omai consumato. Frattanto udì con piacere che la flotta provenzale,
unita a quella di Genova era uscita dal porto ed aveva fatto vela alla
volta di Livorno. Credendo di trovare la guarnigione della città molto
indebolita dalla lontananza di tanti soldati, osò nella notte del 13 di
settembre di tentare la scalata; questa gli riuscì, ed i suoi soldati
penetrarono fino a Pietra-Minuta, la prima delle colline poste entro il
circondario delle mura esteriori. Il duca Giovanni, sempre padrone del
ricinto interno, sortì con tutta la guarnigione addosso al nemico,
abbandonando la città alla buona fede de' cittadini; e ben poteva farlo,
perchè egli era così amato, e tanto temuto era Pietro Fregoso, che un
solo degli antichi partigiani di quest'ultimo non si mosse in suo
favore. Allo spuntare del giorno fu data una sanguinosa battaglia tra le
due mura. Ogni partito aveva per difendersi il vantaggio del terreno, e
quando tentava di attaccare provava egualmente crudeli perdite: ma il
Fregoso, avuto improvvisamente avviso che Paolo Adorno era in
quell'istante entrato in porto con una galera, e che gli Adorni
prendevano le armi, volle con un ardito colpo decidere la sua sorte
prima che giugnessero. Discese da Pietra-Minuta ed attaccò la porta di
san Tommaso, ove fu respinto; allora tenendo dietro alle mura
dell'antica città, s'avvide che la porta della Vaccheria era aperta, e
l'attraversò arditamente colla cavalleria che lo seguiva. Ma mentre
introducevasi in città fu chiusa questa porta, ed egli trovossi separato
dalla sua armata. In quel momento non aveva con sè che tre cavalieri,
onde, vedendosi perduto, ripose ogni speranza nella bontà del suo
cavallo, che spinse di galoppo verso le strade più lontane dalla zuffa
per uscire dalla porta orientale. Gli riuscì infatti di lasciarsi molto
a dietro il piccolo numero de' soldati che l'avevano conosciuto e lo
inseguivano; ma la porta orientale si trovò chiusa, e quando di là volle
recarsi alla porta di sant'Andrea, cominciò ad essere dall'alto delle
case assalito a colpi di pietre. Scorrendo sempre di galoppo le strade
deserte, ove non era preveduto il suo arrivo, ma sempre inseguito da
Giovanni Cossa, che due volte lo raggiunse con un colpo di mazza, egli
fu finalmente oppresso dai sassi e rovesciato da cavallo presso al
pretorio. Quando fu rialzato dal suolo, non rispose una sola parola a
coloro che lo interpellavano, e morì dopo poche ore[111].

  [111] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 698. — Cron. di Bol., t. XVIII, p.
  731. — Uberti Folietae, l. XI, p. 611. — P. Bizarro Hist., l. XIII,
  p. 300. — Agost. Giustiniani, l. V, f. 213. D. E._

Quando l'armata di Pietro Fregoso si trovò separata dal suo capo, e
quando seppe subito dopo la di lui morte, coloro che la componevano
perdettero il coraggio, e non pensarono che a salvarsi colla fuga, ma la
maggior parte non si sottrasse ai nemici che gl'inseguivano; e quasi
tutta la cavalleria e la metà dei pedoni rimasero prigionieri. Masino
Fregoso, fratello di Pietro e Rinaldo del Fiesco, essendo stati presi
colle armi in mano, furono condannati come capi di ribelli all'ultimo
supplicio. Sigismondo, figliuolo di Tiberio Brandolini, che fu preso
nello stesso tempo, venne posto in prigione, perchè serviva nell'armata
del duca di Milano, allora in pace collo stato di Genova, onde queste
ostilità vennero risguardate come una violazione del diritto delle
genti. Ma tutti gli altri soldati furono lasciati liberi, dopo avere
giurato di non più servire contro la casa d'Angiò[112].

  [112] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 699. — Uberti Folietae, l. XI, p.
  611. — P. Bizarro, l. XIII, p. 301. — Agost. Giustiniani, l. V, f.
  214._

Dopo tale vittoria, il duca di Calabria, risguardando Genova come
bastantemente sicura, apparecchiò tutto quanto occorreva pel suo
imbarco. Andò a bordo il 4 ottobre del 1459, e toccò in viaggio Luna,
indi Porto Pisano, ove la repubblica di Firenze gli offrì magnifici
doni, accompagnati da' suoi sinceri voti. Malgrado l'alleanza conchiusa
con Alfonso, ella non poteva dimenticare l'antica sua parzialità per la
casa d'Angiò: ella, in sull'esempio del duca di Milano, non assoggettava
ogni suo affetto alla politica; e giudicava il proprio carattere de'
combattenti, piuttosto che la convenienza d'impedire i progressi de'
Francesi in Italia. Francesco Sforza per lo contrario non lasciavasi
sgomentare dal cattivo successo delle due intraprese sopra Genova; non
perdeva di vista i mezzi di soccorrere Ferdinando, e dirigeva in
particolare verso questo scopo le conferenze di Mantova, alle quali Pio
II aveva invitati tutti i principi cristiani.

Pio II, che sperava di regolare in questa dieta gli sforzi combinati dei
Cristiani contro i Turchi e la politica dell'Italia, aveva presa la
strada di Mantova con una pompa religiosa, che di già disponeva gli
spiriti volgari ad ubbidirgli. Lo accompagnavano dieci cardinali e
sessanta vescovi, varj principi secolari eransi uniti al di lui seguito,
ed altri vi avevano mandati i loro ambasciatori. Perugia lo aveva
ricevuto come suo sovrano, Siena per compiacerlo aveva richiamata la sua
nobiltà, e rendutile i diritti di cittadinanza; a Firenze Galeazzo
Maria, figlio di Francesco Sforza, i Malatesta, i Manfredi e gli
Ordelaffi, ch'erano venuti ad incontrarlo, portarono la sua lettica, e
la repubblica lo accolse colle onorificenze riservate ai più gran
re[113]. Le feste destinate pel passatempo della sua corte sarebbero
state più confacenti a quella di un giovane conquistatore, che non a
quella del padre spirituale de' fedeli. Era stato apparecchiato un gran
torneo sulla piazza di santa Croce, un magnifico ballo nella piazza di
mercato nuovo, ed un combattimento di bestie feroci in quella della
signoria. Si videro con maraviglia scendere sull'arena dieci leoni, e lo
stupore de' forastieri crebbe a dismisura, quando videro comparire la
gigantesca giraffa, fino a quell'epoca quasi sconosciuta all'Europa. Ma
per quanti sforzi si facessero per provocare questi rarissimi animali
alla pugna, non si potè giammai eccitare la loro collera ed offrirne lo
spettacolo alla corte pontificia[114]. Continuando il suo viaggio Pio II
entrò in Mantova il 27 maggio del 1459, portato nella sua lettica dai
deputati dei re e dei principi, che lo stavano aspettando[115].

  [113] _Comment. Pii Papae II, l. II, p. 40._

  [114] _Ist. di Gio. Cambi Deliz. degli Erud. Tosc., t. XX, p. 369,
  370._

  [115] _Campanus vita Pii II, p. 975, 976. — Commentarii Pii Papae.
  II, p. 39._

Giammai non erasi dispiegata, dopo il rinnovamento delle lettere, tanta
eloquenza latina. Pio II con varj discorsi, pronunciati intorno
all'infelicità di Costantinopoli ed ai pericoli del cristianesimo cavò
le lagrime a tutti gli uditori. Fu ammirato Francesco Filelfo, allorchè
parlò pel duca di Milano, e più ancora Ippolita Sforza, figlia di
Francesco, e promessa sposa d'Alfonso, allorchè complimentò il papa con
un discorso latino. I deputati del Peloponneso fecero una profonda
impressione sopra quest'augusta assemblea col racconto dell'invasione
dei Turchi, e col quadro dell'orribile schiavitù in cui erano caduti i
Greci; e i deputati di Rodi, di Cipro, di Lesbo, d'Epiro, dell'Illiria,
fecero sentire che senza i pronti soccorsi dei Latini i loro stati non
potevano sottrarsi alla sorte che minacciava tutto il Levante. Quasi
tutti i principi d'Italia assistevano personalmente a questa dieta, ove
trovavansi pure gli ambasciatori di quasi tutti gli stati della
Cristianità. Da molti secoli non erasi veduta in Italia un'adunanza più
solenne e più imponente; nessun'altra era stata chiamata a discutere più
grandi, più immediati, più universali interessi. Il papa accordò la pace
a Sigismondo Malatesta, attaccato e quasi spogliato dal Piccinino e da
Federico di Montefeltro; fece accordare l'onore del comando di tutte le
forze della Cristianità a Filippo, duca di Borgogna, che si era
consacrato alla crociata; fece decidere dalla dieta, che l'armata che si
spedirebbe contro i Turchi sarebbe levata in Germania, e pagata dalla
Francia, dalla Spagna e dall'Italia. Le contribuzioni di quest'ultimo
paese vennero ripartite in proporzione della ricchezza degli stati, ed i
deputati di Firenze, di Siena, di Genova e di Bologna si obbligarono in
nome delle loro città al pagamento della tangente, che loro verrebbe
assegnata. Borso d'Este, duca di Modena e signore di Ferrara, forse di
già prevedendo che veruna di queste risoluzioni avrebbe effetto,
sorprese l'assemblea colla smisurata offerta di 300,000 fiorini. Tutto
pareva preventivamente regolato per la guerra che la Cristianità stava
per muovere di comune consentimento[116]; ma questi apparecchi della
crociata vennero tutt'ad un tratto sospesi dalla notizia delle ostilità
che scoppiavano dovunque tra i popoli latini. Le galere, che si erano
armate alle rive del Rodano, e che credevansi destinate contro i Turchi,
erano state cedute dal re di Francia a Renato per tentare la conquista
di Napoli; erano giunte alle foce del Garigliano, ed il duca Giovanni di
Calabria aveva invasa la Campania. Nella stessa Roma i Savelli, e nello
stato della Chiesa il Piccinino e Sigismondo Malatesta avevano
ricominciata la guerra. Le rivoluzioni d'Inghilterra, di Castiglia, di
Boemia, di Ungheria, distruggevano le speranze fondate su questi diversi
popoli; e la dieta di Mantova, che aveva avuto così imponenti principj,
e che pareva animata da tanto zelo, si divise senza veruna fondata
sicurezza di recare soccorso ai Cristiani del Levante[117].

  [116] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 752. — Comment. Pii Papae II,
  p. 52_, e tutto il libro III, 60, 93.

  [117] _Jo. Ant. Campanus vita Pii II. P. Max., t. III, p. II, p.
  977. — Comment. Pii Papae II, l. III, p. 93._

Pio II sentì vivamente questo totale sovvertimento delle sue speranze e
de' suoi progetti; ed il tentativo della casa d'Angiò contro il re di
Napoli sembrandogli la causa immediata dell'abbandono della crociata, il
di lui risentimento si confuse ai suoi occhi collo zelo per la
Cristianità. Altronde Francesco Sforza, nelle frequenti conferenze avute
con questo pontefice, accrebbe ancora la sua parzialità per la casa
d'Arragona. Per quanto sia grande lo zelo pel pubblico bene che nutre un
papa quando acquista la tiara, gl'immediati interessi della sua
sovranità di Roma vincono bentosto nella sua mente quelli della
repubblica cristiana. Francesco Sforza fece sentire a Pio II, che
l'ingrandimento de' Francesi in Italia lo ridurrebbe in un'assoluta
dipendenza. Dietro questa considerazione risguardò la difesa di
Ferdinando e la guerra di Napoli come un affare personale, e consacrò
alla difesa della casa d'Arragona i tesori e le armi che aveva raccolte
per la guerra contro i Turchi.

Il duca Giovanni di Calabria, giugnendo sulle coste del regno di Napoli
in ottobre del 1459, aveva contato sull'ajuto d'Antonio Centiglia, conte
di Catanzaro e marchese di Cotrone, ma seppe non senza inquietudine che
Ferdinando l'aveva fatto arrestare pochi dì avanti[118]. Fu per altro in
breve riconfortato dalla insurrezione degli altri feudatarj, suoi
alleati, che si manifestò in ogni lato. Marino Marzano, duca di Svessa,
fu il primo a spiegare l'insegna d'Angiò e ad accogliere il duca di
Calabria, a favore del quale si dichiarò tutta la Campania. Negli
Abruzzi, Antonio Candola o Caldora, figlio di Giacomo, diede un esempio
simile, e fu bentosto imitato da Pietro Gian Paolo Cantelmo, duca di
Sora, e da Niccolò, conte di Campo Basso[119]. Il principe d'Angiò,
allontanandosi dalla sua flotta, visitò tutti questi feudi, passando
prima all'Aquila, che gli aprì le porte. Dall'Abruzzo si recò nella
Puglia, ove venne ad unirsi a lui colle sue truppe Ercole d'Este.
Ercole, legittimo erede della signoria di Ferrara e del ducato di
Modena, era venuto a cercare servigio nel regno di Napoli, mentre che i
suoi due fratelli naturali regnavano successivamente in sua vece; egli
era stato da Ferdinando incaricato dì comandare nella Puglia di concerto
con Alfonso d'Avalos; ma si lasciò come gli altri strascinare
dall'entusiasmo generale per la casa d'Angiò. Luceria, Foggia, san
Severino, Troja e Manfredonia avevano a gara aperte le porte ai
Francesi; e la strada di Taranto più non essendo chiusa al duca di
Calabria, il principe Giovanni Antonio Orsini, che fin allora aveva
dissimulato con Ferdinando, abbracciò il partito d'Angiò. Avendo questi
adunati sotto i suoi ordini tre mila cavalli, attaccò contemporaneamente
in più luoghi le truppe di Ferdinando e costrinse i feudatarj, suoi
vicini, a dichiararsi pel partito ch'egli aveva abbracciato[120].

  [118] _Jo. Simonetae, l. XXVI, p. 699. — Cron. di Bologna, t. XVIII,
  p. 732._

  [119] _Jovianus Pontanus de Bello Neapol., l. I, p. 7. — In Thesaur.
  Antiqu. Ital. t. IX, p. III. — Giorn. Napolit. t. XXI, p. 1133. —
  Comment. Pii Papae II, l. IV, p. 94. — Pandolfo Collenuccio Compend.
  dell'Istoria di Napoli, l. VII, f. 211._

  [120] _ Jo. Simonetae, l XXVI, p. 701. — Jov. Pontanus, de bello
  Neapolit., l. I, p. 14._

Spargendosi per l'Italia le notizie dei prosperi avvenimenti del
principe d'Angiò, esse vi cagionarono un generale fermento. Renato e suo
figlio Giovanni erano conosciuti dagl'Italiani, e dovunque avevasi avuto
qualche relazione con loro, si conservava per le persone loro un
affettuoso rispetto. La bontà, la semplicità, la lealtà, la sincerità
formavano il fondo del loro carattere, e vantaggiosamente li
distinguevano da tutti gli altri principi. Alfonso d'Arragona non aveva
al certo risvegliato il medesimo interessamento a suo favore. Si era
temuta la di lui politica, il di lui orgoglio aveva dato luogo a
lagnanze, e tutte le potenze d'Italia, Venezia, Firenze, Genova, il duca
di Milano ed il papa, erano stati la volta loro in guerra con lui. Pure
sapevasi quanto questo principe era superiore a suo figliuolo; sapevasi
che questi era maligno e crudele, che aveva inspirata una insuperabile
avversione a tutta la nobiltà napolitana, e ch'era l'odio concepito
contro di lui, non già l'illegittimità de' suoi diritti, che rendeva la
ribellione universale. Altronde diversi stati d'Italia erano, in forza
d'antica alleanza, uniti alla casa d'Angiò. In particolare i Fiorentini
risguardavansi come i perpetui alleati della Francia in Italia. Da circa
dugent'anni e fino dai tempi di Carlo il vecchio avevano consacrati le
loro fortune ed il loro sangue per istabilire il suo dominio nel regno
di Napoli; ed udirono colla più viva gioja le vittorie di Giovanni, cui
credevano che dovesse in breve tener dietro la conquista di tutto il
regno.

Ferdinando, che coll'avviso dell'invasione del suo rivale, era subito
tornato dalla Calabria a Napoli, mandò, dietro i consiglj di Francesco
Sforza, ambasciatori a Firenze ed a Venezia per domandare i sussidj che
gli stati coalizzati si erano vicendevolmente promessi per venticinque
anni nella lega d'Italia del 1455. Il duca Giovanni, avuta notizia di
questa ambasceria, ne mandò ancor esso un'altra simile per chiedere gli
stessi soccorsi in virtù dell'antica alleanza della casa di Francia
colle due repubbliche. Il diritto dei trattati stava apertamente a
favore di Ferdinando, ma tutti i cuori inclinavano verso Giovanni.
Altronde siccome si suppone che tutti i governi vengono sempre trattati
a nome dei popoli, le due repubbliche si credevano obbligate verso il
regno di Napoli, non già verso la casa d'Arragona, e pretendevano che
l'alleanza loro col re e col regno di Napoli non poteva obbligarle a
dare per forza a questo regno un re detestato. I Veneziani, siccome i
Fiorentini, cercarono di più una scusa nella guerra che Alfonso aveva
fatto fare in Toscana dal Piccinino; pretesero che questo monarca avesse
in tal maniera derogato egli stesso alla lega d'Italia, e ch'egli aveva
perduto ogni diritto ai soccorsi stipulati, poichè lungi dal darne
allora alla repubblica egli erasi apertamente collegato col suo nemico.
I Fiorentini, più zelanti nel loro attaccamento alla casa d'Angiò,
risolsero di accordare al duca Giovanni un annuo sussidio di ottanta
mila fiorini, finchè avesse terminata la conquista del regno. Pure
avanti di prendere un pubblico impegno vollero concertarsi col duca di
Milano. Cosimo dei Medici gli scrisse caldamente, nulla dimenticando di
ciò che credeva utile per fargli sentire quanto egli stesso doveva alla
casa d'Angiò e quanto poteva sperarne, enumerandogli d'altra parte tutti
i torti che la casa d'Arragona aveva verso di lui e verso tutta
l'Italia. Gli rappresentò la fortuna di Ferdinando di già affatto in
fondo, e lo supplicò a non ostinarsi, se non altro per prudenza, nel
voler risuscitare un morto; gli offriva di trattare a nome del duca di
Milano col duca di Calabria, e prometteva d'ottenergli le più onorate e
vantaggiose condizioni. Ma Francesco nella sua risposta, dopo di avere
allegati i suoi obblighi, che dichiarò sacri, mostrò che Ferdinando,
tuttavia padrone della capitale e delle principali fortezze, trovavasi
in migliore situazione che non il duca Giovanni. Aggiunse che il primo,
non avendo altri stati che quello di Napoli, non potrebbe mai dipartirsi
dagl'interessi degli Italiani, e rendersi formidabile a tutta la
penisola, come lo era stato suo padre che governava nello stesso tempo
molti regni _barbari_[121]; o come lo diventerebbero Renato e suo
figlio, che terrebbero Napoli in dovere coi soccorsi dei Francesi. Se i
principi della casa d'Angiò erano di troppo superiori pel loro carattere
ai principi arragonesi, Cosimo non poteva d'altra parte negare che i
Francesi, loro sudditi, non fossero vicini assai più pericolosi. Lo
Sforza gli rammentava la loro petulanza, l'insolenza loro nella
prosperità, l'insaziabile loro ambizione, il disprezzo per le costumanze
e per le leggi straniere, e l'ingratitudine loro verso quelli che gli
avevano fatti grandi. Li mostrò di già avere bloccata l'Italia colle
loro guarnigioni d'Asti e di Genova; mostrò le loro alleanze in Romagna,
le conquiste in Calabria, e fece vivamente sentire a Cosimo tutto il
pericolo di renderli ancora più potenti. Pio II, al suo ritorno dalla
dieta di Mantova, ebbe una conferenza con questo illustre capo della
repubblica fiorentina, e insistette intorno agli stessi motivi di
politica, e le sue insinuazioni, unite a quelle dello Sforza, persuasero
Cosimo a far rivocare dalla repubblica il decreto de' sussidj a favore
del duca di Calabria. Allora i Fiorentini ed i Veneziani dichiararono di
comune consentimento, che osserverebbero una stretta neutralità fra i
due pretendenti, o che, per quanto potesse dipendere da loro,
accorderebbero all'uno ed all'altro la loro amicizia, ed i loro buoni
ufficj[122].

  [121] Gl'Italiani, come altravolta i Greci, non esitavano a dare il
  nome di _barbari_ a tutti i popoli che non parlavano il loro
  linguaggio.

  [122] Tutta questa negoziazione ci fu conservata da que' medesimi
  che la trattarono. Racconta Pio II ne' suoi commentarj la sua
  conferenza con Cosimo de' Medici, l. IV, p. 96, e Giovanni Simonetta
  scrisse sotto la dettatura dello Sforza la lettera di questi a
  Cosimo de' Medici. Egli riferisce questa lettera nel _l. XXVI, p.
  702-706. — Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 89._

Dietro domanda di Pio II e di Francesco Sforza, Ferdinando aveva
accordata la pace a Sigismondo Malatesta, e richiamato il Piccinino; ma
questi, che vedevasi preclusa la strada al compimento delle sue
vittorie, e strappate di mano le conquiste promessegli in feudo come
premio della sua attività, che di più vedeva il tesoro di Ferdinando
esausto nel cominciamento della guerra, e che non poteva avere da lui il
pagamento del suo soldo arretrato, si guardò come sagrificato da questo
trattato, ed entrò in trattato con Giovanni d'Angiò per passare al suo
servigio. Invano, per rimoverlo da questa risoluzione, Francesco Sforza
gli mandò il padre dello storico Corio coll'offerta di dargli in
matrimonio Drusiana, sua figlia naturale[123]. Quando, a fronte di
queste pratiche, il Piccinino si pose in movimento con un'armata di
sette mila uomini per passare nell'Abruzzo, il duca di Milano scrisse a
suo fratello, Alessandro Sforza, signore di Pesaro, ed al conte di
Montefeltro di chiudergli il passaggio; ma nè l'uno nè l'altro volle
esporsi a trattenere la guerra nei suoi stati, ed il Piccinino arrivò
senza combattere fino ai confini del regno[124].

  [123] _Bern. Corio Ist. Milan., p. VI, p. 953._

  [124] _Jo. Simonetae, l. XXVII, p. 707-709. — Jov. Pontanus, l. I,
  p. 27. — Guernieri Bernio Cron. d'Agobbio, t. XXI, p. 996. —
  Comment. Pii Papae II, l. IV, p. 100._

Tutte le forze dell'Italia radunavansi in queste province. Alessandro e
Bosio Sforza, fratelli di Francesco, vi condussero l'armata del duca di
Milano, il Simonetta quella di papa Pio II, e dall'altro canto la flotta
Genovese era nuovamente comparsa sulle coste della Campania, ed il duca
Giovanni erasi avvicinato a Nola per assediarla. Ferdinando gli si fece
incontro, dopo avere ingrossata la sua armata con quella che gli mandava
il sommo pontefice. All'avvicinarsi del re molti castelli, ch'eransi
dichiarati per gli Angiovini, rialzarono le insegne arragonesi. Il duca
Giovanni ed il principe di Taranto, sperimentando di già l'incostanza
attribuita ai popoli del mezzodì dell'Italia, sentirono il pericolo
della loro posizione; perciò ritiraronsi in una specie di penisola
formata da due fiumi che, sboccando da montagne impraticabili, dopo il
corso di due miglia in sul piano si uniscono per gettarsi nel mare.
Questa naturale posizione, appoggiata ancora dal castello di Sarno, era
formidabile; ma d'altra parte sarebbe stato facile a Ferdinando il
chiudere Giovanni in questo luogo con istretto assedio[125]. In fatti
aveva da principio presa tale risoluzione, e, se avesse continuato in
questo genere d'attacco, avrebbe forse terminata la guerra nella pianura
di Sarno; ma gli mancava il danaro per pagare le truppe, e di già
dugento fucilieri erano passati nel campo nemico, allorchè si erano
veduto ricusato il pagamento[126]. Altronde gli si era fatto credere che
il papa stava per richiamare le sue truppe e dichiararsi neutrale. Onde
pensò di venire a battaglia per incoraggiarlo con una vittoria, o per
risvegliare il suo risentimento con una disfatta. Un prigioniero,
rilasciato dagli Angioini, gl'indicò una strada a traverso le montagne,
per la quale potevasi penetrare nella penisola; vi entrò di fatti nella
notte del 7 luglio 1460, e sorprese i suoi nemici. I soldati di
Ferdinando, credendo di già il duca di Calabria affatto perduto, si
sbandarono per saccheggiare il campo; molte migliaja di contadini, che
avevano seguito il re per partecipare alla sua vittoria, diedero
l'esempio del disordine; e quando i capitani angioini, rinvenuti dalla
prima sorpresa, cominciarono ad attaccare gli assalitori, questa truppa
di saccomani terminò di spargere la confusione nelle truppe arragonesi.
La cavalleria, chiusa in angusto spazio, non poteva spiegarsi da verun
lato[127]; intanto era venuto il giorno, e bentosto il caldo crebbe a
dismisura. Gli Arragonesi, ammucchiati nello stesso ricinto dove
avrebbero potuto chiudere i loro nemici, rotti senza potersi riordinare,
signoreggiati dalle fortificazioni rimaste in potere degli Angioini,
furono tanto più compiutamente rotti, quanto più lunga era stata la loro
resistenza. Ferdinando si salvò a stento seguito da una ventina di
cavalli, e la maggior parte della sua armata fu fatta prigioniera. Si
trovò tra gli estinti Simonetta da Campo san Piero, generale della
Chiesa, sul cui corpo però non si rinvenne veruna ferita. Si suppose che
fosse stato rovesciato da cavallo e calpestato, e che per essere vecchio
ed assai pingue non avesse avuto forza di rialzarsi[128].

  [125] _Jov. Pontanus de bello Neapolit., l. I, p. 17._

  [126] _Comment. Pii Papae II, l. IV, p. 104._

  [127] _Jov. Pontanus, l. I, p. 20._

  [128] _Jo. Simonetae, l. XXVII, p. 711. — Cron. di Bologna, t.
  XVIII, p. 734._

Dopo la rotta di Ferdinando a Sarno, tutte le terre murate della
Campania e del principato si arresero agli Angioini; i Sanseverini e
tutti i gentiluomini, che si credevano i più affezionati agli
Arragonesi, abbandonarono il loro partito per quello del duca di
Calabria. Onorato Caietano, conte di Fondi, fu quasi il solo che si
conservasse in questa provincia fedele al re: Ferdinando si era
rifugiato a Napoli coi deboli avanzi della sua armata, e perchè non
aveva alcun mezzo di resistere, se Giovanni d'Angiò fosse venuto colla
sua armata sotto le mura della città subito dopo la sua vittoria, è
probabile che la guerra sarebbesi terminata in pochi giorni. Ma il
principe di Taranto, il di cui potere era cresciuto a dismisura in tempo
della guerra civile, non desiderava che avesse subito fine. Era zio
della regina Isabella, moglie di Ferdinando, e raccontasi come cosa
indubitata, che questa, travestita da frate francescano, penetrasse nel
di lui campo, e, gettataglisi ai piedi, lo supplicasse a non farla
scendere da un trono sul quale l'aveva egli medesimo innalzata. Giovanni
Antonio Orsini parve commosso, ed allora cominciò a spingere la guerra
con minor vigore[129]. Egli persuase il duca Giovanni di attaccare le
piccole città della Campania, piuttosto che Napoli, facendogli così
perdere la state senz'alcun frutto, indi mettere le sue truppe ai
quartieri d'inverno nella Puglia quando appena cominciava
l'inverno[130].

  [129] _Giornali Napolitani, t. XXI, p. 1153._

  [130] _Jo. Simonetae, l. XXVII, p. 712. — Jov. Pontanus, l. I, p.
  23._

Nello stesso tempo il Piccinino trovavasi negli Abruzzi a fronte
dell'armata milanese, comandata da Alessandro e da Bosio Sforza, ed a
fronte di Federico, conte di Montefeltro e d'Urbino. Il Piccinino
stabilì il suo campo sopra un poggio in faccia a san Fabbiano, un solo
miglio distante dai Milanesi. Una larga fossa terminava il pendio del
colle, e presso a questa i cavalieri delle due armate solevano
frequentemente scaramucciare. La scaramuccia, cominciata quattr'ore
avanti notte il 27 di luglio, diventò bentosto una battaglia generale. I
soldati dello Sforza volevano impedire a quelli del Piccinino il
passaggio della fossa, e questi per lo contrario vi si ostinarono in tal
maniera, che la battaglia si protrasse al lume delle fiaccole fino a tre
ore di notte. Veruna battaglia italiana non era per anco stata nè così
ostinata, nè così micidiale, e non eransi ancora veduti i soldati di due
armate mantenersi sette ore nello stesso luogo senza avanzare o
ritirarsi. Finalmente il Piccinino, disperando di superare la fossa,
fece suonare la ritirata; ma la perdita era stata assai maggiore
nell'armata dei fratelli Sforza, che in quella del Piccinino, avendo
soprattutto sofferto assai i cavalli, quasi non essendovi più un solo
corazziere che potesse valersi del suo. Grandissimo era il numero de'
feriti, ed i capi, quando videro la zuffa sospesa, invece di rientrare
nel loro campo, ad altro più non pensarono che alla ritirata. Quando fu
giorno fecero partire i feriti sui muli dell'equipaggio, che lasciarono
in balìa dei nemici, e nella seguente notte presero quietamente la
strada della Marca, e non si fermarono finchè non ebbero passato il
Tronto[131].

  [131] _Jo. Simonetae, l. XXVII, p. 715. — Jov. Pontanus, l. I, 29. —
  Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 734. — Comment. Pii Papae II, l. IV,
  p. 105. — Guernieri Bernio Cron. d'Agobbio, p. 997._

Il Piccinino per approfittare di questa vittoria inseguì i suoi nemici
nello stato della Chiesa, e sparse il terrore e la desolazione intorno a
Roma. Ma Francesco Sforza, che risguardava la guerra del regno come un
affare suo proprio, quand'ebbe notizia dei vantaggi degli Angioini,
mandò danaro, artiglieria e soldati ai suoi due fratelli, al papa, ed a
Ferdinando, e li pose in istato di rifare l'armata. I partigiani
arragonesi rinvennero dal loro terrore, il Piccinino tornò ai suoi
quartieri d'inverno in Puglia, i fratelli Sforza si accantonarono nelle
vicinanze di Roma, e terminò la campagna, senza che la sorte della
guerra fosse decisa[132].

  [132] _Jo. Simonetae, l. XXVII, p. 717. — Jov. Pontanus de bello
  Neapolit., l. I, p. 31, 33._

Durante l'inverno Ferdinando, trovandosi affatto privo di danaro, fu
forzato di ricorrere all'affetto de' suoi sudditi per rimontare
l'armata; nel che gli riuscì utilissima la popolarità e la naturale
eloquenza della regina, che a questi pregj aggiugneva quello di una
singolare bellezza. Isabella di Clermont, quarta figlia di Tristano,
conte di Copertino, e di Catarina, sorella del principe di Taranto,
univa il coraggio, la presenza di spirito e la costanza nelle avversità
alle più dolci virtù femminili, alla modestia, alla grazia, e ad una
divozione forse alquanto superstiziosa. Fece portar seco nelle chiese,
nelle strade, nelle pubbliche piazze i suoi figliuoli, il maggiore dei
quali non aveva più di dodici anni; e colà domandava con dignitosa
confidenza ai cittadini di contribuire alla difesa dei nipoti d'Alfonso,
il benefattore del regno, alla difesa di principi nati Italiani e loro
concittadini, la di cui signoria doveva loro esser cara, all'espulsione
di que' francesi rinomati per la loro arroganza, i quali vorrebbero
introdurre fra di loro lingua e costumanze straniere. Niuno poteva
resistere a così nobile interceditrice; e perchè rimaneva poco danaro
ne' forzieri de' privati, tutti affrettavansi di mandare ai regj
commissarj, cavalli, muli per le bagaglie, armature, abiti pei soldati,
cuoj per gli equipaggi, tele per le tende, infine tutto ciò che
adoperarsi poteva in un grande pubblico bisogno[133]. Isabella non visse
abbastanza per vedere Ferdinando rendersi indegno di quell'affetto del
popolo ch'ella cercava di riconciliargli. Gli aveva già dati sei figli,
quando morì in sul finire della guerra.

  [133] _Jov. Pontanus, l. I, p. 32._



CAPITOLO LXXVIII.

      _La repubblica di Genova, sollevata dalle pratiche
      dell'arcivescovo Paolo Fregoso, si sottrae al dominio de'
      Francesi, ed ottiene sopra il re Renato una luminosa vittoria. —
      Disastro del partito angioino nel regno di Napoli. — Tirannide
      di Paolo Fregoso a Genova. Questa repubblica si assoggetta al
      duca di Milano. — Ultimi anni e morte di Cosimo de' Medici_.

1460 = 1464.


Finchè la repubblica di Genova si tenne ferma nell'amore del partito
d'Angiò, questo poteva facilmente ricevere soccorsi dalla Francia; le
galere della repubblica erano sempre apparecchiate a trasportare soldati
e munizioni dalla Provenza in Calabria, ed i porti della Liguria
offrivano ai Provenzali un comodo scalo. Genova pareva soddisfatta del
dominio della Francia, e Luigi della Vallée, che vi era stato mandato
per governatore quando era partito il duca Giovanni, non aveva in verun
modo ecceduti i suoi diritti, od offesi gli spiriti tanto irritabili di
questa repubblica. Pure la lontananza di tanti cittadini aveva
considerabilmente scemate ne' precedenti anni le pubbliche entrate; i
flagelli della guerra e della peste avevano esausto il tesoro, e le
frequenti spedizioni nel regno di Napoli richiedevano nuove spese, cui
non sapevasi come supplire. Si ricorreva a prestiti forzati, a
contribuzioni arbitrariamente imposte sui più agiati cittadini; e tali
imposte, che mettevano il privato interesse in immediata opposizione
coll'autorità, erano cagione di grandissimo malcontento. I consiglj più
volte trattarono dei mezzi di rimettere l'ordine nelle finanze.
Proponevano i nobili di accrescere le gabelle sui generi di consumo; i
plebei all'opposto di assoggettare alle imposte generali tutti coloro
che avevano ottenuti privilegj d'esenzione. Queste contese tra i
privilegiati ed il popolo riaccesero bentosto gli antichi odj. Il
governatore francese piegava a favorire i nobili, e fu questo per i
plebei un motivo di far rivivere le parti degli Adorni e de' Fregosi, i
di cui capi erano stati esiliati. Il re di Francia aveva chiesto ai
Genovesi di armare alcune galere contro gli Inglesi, ed aveva con ciò
cagionato un nuovo malcontento. Molti ricchi mercanti genovesi erano
stabiliti in Londra, e la repubblica non voleva comprometterli[134].
Ogni giorno si adunavano nuovi consigli, ed interminabili erano le loro
dispute, quando in un'assemblea del 9 marzo del 1461 un uomo oscuro, di
cui non si seppe nemmeno il nome, gridò doversi colle armi e non con
vane discussioni sostenere i diritti del popolo; uscì nello stesso tempo
furibondo dal consiglio, e trascorrendo il sobborgo di santo Stefano
chiamava i cittadini alle armi[135].

  [134] _P. Bizarri S. P. Q. Genuens. Hist., l. XIII, p. 303. — Agost.
  Giustiniani, l. V, f. 214._

  [135] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 719. — Uberti Folietae Gen.
  Hist., l. XI, p. 612. — P. Bizarri, l. XIII, p. 304. — Giustiniani,
  l. V, f. 213._

Coloro che si adunarono a bella prima a queste sediziose grida non
furono molti; ma il comandante ed i magistrati credettero di poterli
ridurre colla dolcezza, e mentre negoziavano altri malcontenti si
unirono ai corpi di già formati. La notte incoraggiò i ribelli; tutta la
città fu in armi, e Luigi della Vallée ritirossi senza combattere nella
fortezza del Castelletto, incaricando i magistrati di continuare le
pratiche che parevano promettere felice esito. Ma intanto Paolo Fregoso,
arcivescovo di Genova, entrò in città con una truppa di contadini
addetti alla sua fazione. Paolo era fratello di quel Pietro Fregoso,
ch'era stato ucciso due anni prima; nè meno questi di lui violento, nè
meno ambizioso, nè meno sanguinario, non aveva potuto, essendo
ecclesiastico, compensare i suoi vizj con un'alta riputazione militare.
In pari tempo, ma per un'altra porta, entrò in città Prospero Adorno con
altri contadini devoti alla sua famiglia. I plebei avevano appena
ottenuta la vittoria, che già si dividevano tra le due antiche fazioni;
e lo stesso giorno in cui i Francesi eransi rifugiati nel Castelletto,
vi fu più d'una zuffa tra gli Adorni ed i Fregosi in diversi quartieri
della città[136].

  [136] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 720. — Uberti Folietae, l. XI,
  p. 613. — P. Bizarro, l. XIII, p. 504._

All'ultimo il partito degli Adorni pareva omai riconciliato coi Francesi
per l'intromissione degli Spinola e della nobiltà; ed omai vedevasi il
popolo generalmente disposto a cacciare fuori di città Paolo Fregoso,
che credevasi non respirare che il desiderio di vendicare suo fratello.
Ma i segreti agenti del duca di Milano, e quelli del Fregoso si sparsero
tra il popolo, esortandolo a diffidare delle pratiche della nobiltà, ed
a non perdere l'occasione di ricuperare la sovranità, scacciando gli
stranieri e ricostituendo la repubblica. Con questi loro maneggi la
sedizione si rinnovò con maggior furore che mai, ed il basso popolo
prese ad assediare il Castelletto. In pari tempo Paolo Fregoso
approfittò di questo rinascente favore per trattare coll'Adorno; gli
rappresentò che uguali erano i loro interessi, essendo capi l'uno e
l'altro del partito popolare, e perciò perpetuamente in guerra col
partito dei nobili, o con quello de' forestieri; che uguali essendo le
forze loro, sarebbe stato prudente consiglio l'avvicendare fra di loro
l'autorità ducale, anzichè disputarsela più lungamente colle armi alla
mano. Non solo propose di alternare in tal modo la magistratura, ma
poichè era pur forza che l'uno o l'altro cedesse al suo rivale l'onore
di regnare il primo, dichiarò di essere apparecchiato a dare l'esempio
della moderazione, portando Prospero Adorno sul trono ducale, ed a
contentarsi del credito che gli dava la sua dignità di arcivescovo di
Genova. Durante questo trattato, Prospero e Paolo erano stati forzati ad
uscire di città, dove otto capitani del popolo, nominati da un'assemblea
popolare, esercitavano temporariamente la sovranità. Ma da che la
convenzione proposta dal Fregoso fu da loro sottoscritta, i due rivali
rientrarono assieme in Genova, i capitani del popolo abdicarono la loro
magistratura, e Prospero Adorno, spalleggiato egualmente dalle due
fazioni, venne eletto con unanimità di suffragj; cosa in Genova assai
infrequente[137].

  [137] _Cron. di Bologna, p. 736. — Uberti Folietae, l. XI, p. 614. —
  P. Bizarro, l. XIII, p. 306. — A. Giustiniani, l. V, f. 215._

Ma rendevasi necessario lo scacciare i Francesi dal Castelletto; e
siccome mancavano per tale intrapresa l'artiglieria ed il danaro,
Prospero e Paolo s'addirizzarono a Francesco Sforza, che aveva fin
allora diretta la rivoluzione, e che più ardentemente ancora dei
Genovesi desiderava di scacciare i Francesi dalla Liguria. Il duca di
Milano poco allora temeva di eccitare in tale occasione la collera del
re di Francia, perchè si era guadagnata l'amicizia del Delfino, che fu
poi Lodovico XI, il quale faceva causa comune con tutti i nemici di suo
padre[138]. Il duca fece dunque passare a Genova artiglieria e danaro, e
fu dato vigorosamente principio all'assedio della fortezza. Vedendosi
bentosto rinascere l'antica diffidenza e nimicizia tra Prospero Adorno e
Paolo Fregoso, il duca chiamò il Fregoso a Milano, per lasciare che
Prospero d'altro non si occupasse che della guerra cogli stranieri[139].

  [138] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 721._

  [139] _Uberti Folietae, l. XI, p. 615. — Bernard. Corio Ist. Milan.,
  t. VI, p. 955._

Frattanto Carlo VII adunava un'armata nelle province meridionali della
Francia, per trasportare la quale furono apparecchiati dieci vascelli
lunghi, ed il vecchio re Renato s'incaricò di condurla. Era composta di
sei mila soldati quasi tutti gentiluomini, armati di caschetto e di
corazza come i cavalieri, ma disposti a combattere a piedi, perchè i
cavalli potevano essere poco utili nel paese montuoso in cui dovevano
operare. Renato venne in luglio a prendere lingua a Savona, la quale
erasi mantenuta fedele ai Francesi, e colà fu raggiunto da quasi tutta
la nobiltà genovese che aveva dal canto suo fatti armare i suoi
vassalli. L'avvicinamento di così formidabile armata atterrì Genova.
Francesco Sforza vi aveva di già mandato Marco Pio, signore di Carpi,
con un ragguardevole corpo di cavalleria, e vi fece subito tornare Paolo
Fregoso, che aveva saputo riconciliare coll'Adorno. Paolo colla truppa
dello Sforza ed il fiore della gioventù genovese, s'incaricò della
difesa delle montagne, e Prospero, della città. Questi faziosi
magistrati della difesa, per procurarsi danaro in così critica
circostanza, fecero imprigionare trenta dei più ricchi cittadini di
Genova, loro chiedendo per liberarsi un'arbitraria contribuzione. Ma tra
i furori della guerra civile, conservavasi in Genova un così vivo
sentimento del rispetto dovuto alle leggi, che fra que' trenta
prigionieri non se ne trovò un solo che non si dichiarasse apparecchiato
a soffrire ogni cosa, piuttosto che incoraggiare una tale violazione
della pubblica libertà, pagando vilmente una taglia[140].

  [140] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 723. — Uberti Folietae, l. XI,
  p. 616. — P. Bizarri, l. XIII, p. 308. — Agost. Giustiniani, l. V,
  f. 216._

Il re Renato aveva passata la notte a Varagine, di cui si erano
impadronite le sue truppe da sbarco; di là si erano avanzate, senza
incontrare resistenza, fino a san Pier d'Arena, e la flotta francese
stava pure in faccia a questo sobborgo. Se questa avesse forzato
l'ingresso del porto, e se l'armata avesse dato un assalto quando
arrivò, forse la città, spaventata e scoraggiata, sarebbe stata presa:
ma gli emigrati, che seguivano il campo francese, sperando di ricondurre
l'ordine nella loro patria per mezzo di negoziazioni, supplicarono il re
a non adoperare subito la forza, e questi, che nutriva pei Genovesi
affetto e riconoscenza, si lasciò facilmente piegare[141]. Però il terzo
giorno, 17 di luglio, quando s'avvide che i suoi nemici accrescevano i
loro apparecchi di difesa, ordinò di attaccare le alture. L'armata
francese, partendo dal convento di san Benigno, si mosse in tre colonne,
per occupare verso il levare del sole la montagna che signoreggia questo
convento. La prima eminenza fu dai Francesi forzata con poca perdita, e
respinta la prima divisione genovese; ma la disposizione del terreno
rendeva facile ai Genovesi la difesa nel ritirarsi, mentre che i
Francesi, di già oppressi dal caldo e dal peso delle loro armi, si
vedevano sempre innanzi scoscese balze che dovevano superare. Paolo
Fregoso aveva avuta la precauzione di far apparecchiare sulle alture
rinfreschi e viveri per i suoi soldati, mentre che i Francesi, esposti
ad un ardente sole, cominciavano a soffrire la sete. Non pertanto la
battaglia fino a mezzogiorno mantenevasi indecisa, quando tre soldati
dello Sforza, celebri pel loro valore, giunsero da Milano a Genova, e
corsero nel campo di battaglia annunciando l'imminente arrivo di Tiberto
Brandolini con un numeroso corpo di cavalleria. I combattenti credettero
questa cavalleria di già entro il recinto delle mura: il nome dello
Sforza venne ripetuto dai Genovesi con grandi acclamazioni; si credette
bentosto di ravvisare questo rinforzo in una truppa di contadini della
Polsevera, che si avvicinavano; i Francesi si scoraggiarono, e
cominciarono a voltare le spalle. Il loro corpo di riserva tentò invano
di sostenerli; perchè tutti i contadini ed i borghesi armati adunati
sulle alture, che fin allora non avevano osato di cimentarsi nella
battaglia, si precipitarono sui nemici fuggiaschi. I Francesi vennero
rovesciati dal pendìo delle colline e spinti fino alla riva del mare. Si
dice che Renato, il quale, stando sulla sua flotta, vedeva la loro
disfatta, non volle far avanzare i suoi vascelli per riceverli,
dichiarando che cavalieri che fuggivano non meritavano nè compassione nè
soccorso. La sconfitta fu compiuta, e questa battaglia fu forse la più
sanguinosa che siasi data in tutto il secolo in Italia. Si trovarono sul
campo di battaglia due mila cinquecento morti, oltre un ragguardevole
numero di fuggitivi che si erano annegati gettandosi in mare per
raggiugnere le loro navi. Il peso delle armi non permise che un solo si
salvasse a nuoto, onde tutti coloro che non perirono furono fatti
prigionieri[142].

  [141] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 723. — Uberti Folietae, l. XI,
  p. 617._

  [142] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 725. — Uberti Folietae, l. XI,
  p. 618. — P. Bizarri, l. XIII, p. 309. — Ag. Giustiniani, l. V, f.
  216. — Crist. da Soldo, t. XXI, p. 893. — Comment. Pii Papae II, l.
  V, p. 126. — Bernard. Corio p. VI, p. 956._

Ma appena dalle armi riunite di Prospero Adorno e di Paolo Fregoso erasi
ottenuta così luminosa vittoria, che la gelosia di questi due rivali
scoppiò con nuovo furore. Prospero ordinò alle porte di non lasciar
entrare il Fregoso, o i suoi partigiani; questi attraversarono il porto
colle barche, e quando furono in città ricusarono d'uscirne. Dalle
negoziazioni si venne alle armi, e lo stesso giorno, ch'era stato
illustrato da così micidiale battaglia contro i Francesi, i vincitori ne
attaccarono fra di loro un'altra entro le mura sotto gli occhi
dell'armata milanese, che non volle prendervi parte, dichiarando di
avere avuto ordine di soccorrere unitamente gli Adorni ed i Fregosi, e
di non sapere quale scegliere fra di loro. Finalmente Prospero Adorno
dovette uscire di città con tutti i suoi partigiani, e Paolo, credendo
la dignità ducale incompatibile con quella di arcivescovo, la fece dare
a suo cugino Spineta Fregoso. Il re Renato, più non potendo difendere il
Castelletto, sperò d'avere trovato all'arcivescovo un nemico nella sua
famiglia, dando in mano il Castelletto a quel Luigi Fregoso ch'era stato
doge dal 1448 al 1450. Ma Paolo, sicuro della sua superiorità, richiamò
anche Luigi nel suo partito, facendolo nominare doge invece di Spineta.
Renato lasciò il comando di Savona a quello stesso Luigi della Vallée
che aveva avuto il comando di Genova, e tornò in Francia, ove la morte
di Carlo VII, accaduta il 22 di luglio[143], gli aveva fatto perdere
quegli in cui principalmente confidava. Lodovico XI, che succedeva a
Carlo, era sempre stato come Delfino l'alleato dei nemici di suo padre;
non pertanto dichiarò agli ambasciatori di Francesco Sforza, che oramai,
come re di Francia, punirebbe le ostilità che aveva incoraggiate prima
di regnare[144].

  [143] _Enguerr. de Monstrelet. Chron. v. III, f. 87._

  [144] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 726. — Uberti Folietae, l. XI,
  p. 619-620. — P. Bizarri, l. XIII, p. 311. — Giustiniani, l. V, f.
  217._

La ribellione di Genova era sommamente dannosa al partito angioino che
combatteva a Napoli, perciocchè lo privava degli annui sussidj, d'una
ragguardevole flotta, ed inoltre della cooperazione dell'armata disfatta
sotto Genova, che Renato avrebbe condotta a suo figliuolo nel regno di
Napoli, se avesse ottenuto a Genova lo sperato successo. Intanto
continuavasi la guerra nel regno di Napoli, e Pio II, ausiliario
interessato di Ferdinando, prendeva possesso in proprio nome dei feudi
che il suo generale, Federico di Montefeltro, toglieva agli angioini.
Nello stesso tempo faceva dare a suo nipote, per compensarlo de' suoi
servigj, Castiglione della Pescaja in Toscana, tuttavia occupato da una
guarnigione napolitana[145].

  [145] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 727. — Aug. Dathi Fragm. Hist.
  Senensis. Rer. Ital., t. XX, p. 61. — Comment. Pii Papae II, l. IV,
  p. 107._

In tutta questa campagna la guerra si trattò quasi soltanto nella
Puglia. Ferdinando era venuto a gittarsi in Barletta; egli possedeva
anche Trani; ma tutto il rimanente era nelle mani del duca di Calabria.
Questi disponevasi ad assediare in Barletta il monarca arragonese, ma
l'arrivo di Alessandro Sforza interruppe i suoi disegni, oltrechè
bentosto vide con maraviglia armarsi contro di lui un altro nemico.
Giorgio Castriotto, detto Scanderbeg l'eroe della Cristianità, lasciando
le guerre dei Turchi in Epiro, sbarcò in Puglia con ottocento Albanesi
per soccorrere il figliuolo di quell'Alfonso d'Arragona da cui era stato
più volte soccorso. I soldati francesi del duca di Calabria volgevano
con rincrescimento le armi contro questo valoroso campione della fede, e
Ferdinando, avendo con questi diversi sussidj ricuperata la superiorità,
assediò e prese la città di Gesualdo, indi quella di Nola, sotto gli
occhi degli Angioini; poi prese i quartieri d'inverno[146].

  [146] _Jo. Simonetae, l. XXVIII, p. 729. — Jovian. Pontanus, de
  bello Neapol., l. II, p. 34-42. — Comment. Pii Papae II, l. VI, p.
  165._

Ma sebbene il duca di Calabria non avesse in questa campagna conservati
i vantaggi avuti nella precedente, non pertanto sembrava tuttavia in
migliore situazione di Ferdinando. Lodovico XI cercava colle promesse,
colle minacce, con tutto il credito della sua potente monarchia, di
staccare Francesco Sforza dalla alleanza del re di Napoli; nello stesso
tempo minacciava Pio II di far adunare un concilio in Francia, se questo
papa prodigava al bastardo d'Arragona i sussidj che la Cristianità aveva
somministrati per combattere i Turchi. Pio II non sapeva risolvere;
scriveva al duca di Milano che la guerra di Napoli era un'idra
rinascente; che i tesori della Chiesa erano esauriti dalle stesse
vittorie; che il suo dovere non meno che il suo interesse lo chiamavano
alla neutralità tra i principi cristiani. Francesco Sforza ch'era il
solo appoggio di Ferdinando, trovavasi egli stesso circondato soltanto
di partigiani della casa d'Angiò. I Fiorentini e Cosimo de' Medici, suoi
più antichi alleati, il senato di Milano e la stessa sua consorte,
Bianca Visconti, gli facevano calde istanze, perchè abbandonasse un
principe che non poteva sostenersi sul trono, ed assicurasse ai proprj
figli la potente protezione della casa di Francia. Queste istanze
raddoppiarono quando Francesco Sforza, in principio d'agosto, fu
assalito da violenti dolori articolari e da idropisia. Bianca Visconti,
che aveva quasi perduta ogni speranza della sua guarigione, lo
supplicava a non lasciare la di lui famiglia impegnata in così
pericolosa guerra, e di accordare piuttosto la mano di sua figlia
Ippolita al duca di Calabria, che nuovamente l'aveva richiesta. La voce
della morte dello Sforza divulgatasi ne' suoi stati cagionò un
ammutinamento in Piacenza, che potè fargli sentire quali rivoluzioni
scoppierebbero alla sua morte[147]. Suo figlio naturale, Sforzino,
cercava egli medesimo di sedurre un corpo di truppe per condurlo agli
Angioini[148]. Ma Francesco Sforza, irremovibile nel suo piano di
politica, e fedele ai suoi impegni, che risguardava come sacri, respinse
tutte le istanze de' suoi amici e della sua famiglia, e dichiarò che si
conserverebbe alleato di Ferdinando fino alla morte.

  [147] _Ant. de Ripalta Ann. Placent., t. XX, p. 907._

  [148] _Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 739-756._

Quando il duca di Milano entrò in convalescenza, fece arrestare, in
febbrajo del 1462, il conte Tiberio Brandolini, uno dei migliori suoi
generali, che sospettava essere stato partecipe della sollevazione di
Piacenza, ed avere in appresso trattato col Piccinino e col duca di
Calabria per passare ai servigj della casa d'Angiò. Già da sei mesi
teneva pure in prigione suo figliuolo Sforzino, cui non fece grazia
della vita che dietro le istanze della consorte[149]. Il Brandolini fu
condannato a perpetua detenzione; ma il 12 settembre del susseguente
anno si tagliò egli stesso la gola, siccome attestarono i suoi
carcerieri[150]. Così scomparivano a poco a poco que' famosi
condottieri, la di cui mala fede ne rendeva egualmente pericolosa
l'alleanza e l'inimicizia. La potenza loro, indipendente da quella dei
sovrani, aveva fatto tremare l'Italia, e la loro vita non era protetta
dalle leggi sociali, che essi medesimi conculcavano. Francesco Sforza,
il più bravo e più fortunato condottiere, ne fece perire molti in forza
di accuse che nel sistema di guerra allora in vigore non risguardavansi
come criminose nè disonoranti: pare che conoscendoli meglio degli altri
per avere lungo tempo vissuto tra di loro, egli fosse più diffidente e
geloso de' loro progetti e della loro grandezza.

  [149] _Guernieri Bernio Cron. d'Agobbio, p. 1002._

  [150] _Ann. Foroliviens., t. XXIII, p, 226. — Jo. Simonetae, l.
  XXVIII, p. 734._

I ragguardevoli sussidj, che Francesco Sforza mandava a Roma per
mantenere di concerto col papa l'armata di Federico di Montefeltro e
pagare solo quella di suo fratello Alessandro, non bastavano ancora per
procurare un deciso vantaggio al partito d'Arragona. Ferdinando,
occupando il 22 aprile la città di Sarno, aveva bensì assoggettata al
suo dominio tutta la terra di Lavoro tra il Sarno ed il Volturno[151];
ma la mancanza di danaro lo aveva forzato in appresso a rimanersi
inattivo, mentre il Piccinino ed il principe di Taranto occupavano in
principio della state Giovenazzo, Trani ed Andria, ed il principe
d'Angiò con un'altra armata invadeva tutta la vicina provincia di
Montegargano[152]. Non fu che in sul cominciare d'agosto, che Ferdinando
si unì ad Alessandro Sforza e passò colla sua armata dalla Campania
nella Puglia; dopo tale epoca vide cominciare una serie di prosperi
avvenimenti quasi mai turbati da disastri. Egli assediò il castello
d'Orsaria, poco lontano da Troja: il duca Giovanni ed il Piccinino,
volendo forzarlo a levare l'assedio, si accostarono in modo che il 18
agosto una scaramuccia, cominciata tra le due armate, diventò bentosto
una generale battaglia. L'armata degli Angioini, presa due volte alle
spalle da Alessandro Sforza, fu all'ultimo disfatta. Soltanto una parte
de' fuggitivi potè salvarsi in Troja, e gli altri, inseguiti nella
campagna e dispersi, furono fatti prigionieri. Pure il Piccinino,
osservando dall'alto delle mura di Troja il disordine dei vincitori
sparsi nel piano in traccia di prigionieri e di preda, piombò loro
addosso improvvisamente e liberò moltissimi prigionieri[153]. Questo
debol vantaggio non bastò a porlo in istato di potersi tenere a fronte
del nemico, onde dopo essersi ritirato col duca Giovanni a Luceria, andò
a raggiugnere il principe di Taranto, lasciando Troja e quasi tutta la
Puglia tra le mani di Ferdinando[154].

  [151] _Comm. Pii Papae II, l. X, p 245. — Jovian. Pontanus, l. II,
  p. 45._

  [152] _Jo. Simonetae, l. XXIX, p. 735. — Comm. Pii Papae II, l. X,
  p. 246. — Jovian. Pontanus, l. IV, p. 60._

  [153] _Jo. Simonetae, l. XXIX, p. 738. — Comment. Pii Papae II, l.
  X, p. 247-248. — Jovian. Pontanus, l. IV, p. 68-70._

  [154] _Jo. Simonetae, l. XXIX, p. 748. — Jovian. Pontanus, l. IV, p.
  71._

Appena questi due capi del partito angioino erano giunti presso al
principe di Taranto, quando un vascello vi recò pure Sigismondo
Malatesta, che veniva a chiedere i loro soccorsi. Il principe di Rimini,
incaricato dal duca di Calabria d'inquietare il papa ne' proprj stati,
era stato sorpreso egli stesso a Mondolfo da Federico di Montefeltro
nella notte del 13 al 14 agosto, quattro giorni prima della disfatta di
Troja, mentre tornava dall'avere occupata Sinigaglia. Il conte d'Urbino,
approfittando della sua vittoria aveva conquistate in settembre quasi
tutte le fortezze del Malatesta, non lasciandogli che la sola città di
Rimini. Sigismondo ignorava il disastro del duca di Calabria, ed il duca
di Calabria non era informato del suo; estremo fu il loro
scoraggiamento, quando si trovarono pressochè nel medesimo tempo
spogliati de' loro soldati[155].

  [155] _Jo. Simonetae, l. XXIX, p. 742. — Cron. di Bologn., t. XVIII,
  p. 745. — Guernieri Bernio Cron. di Agobbio, p. 1003. — Comment. Pii
  Papae II, l. X, p. 258._

Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, presso al quale trovavansi
adunati tutti questi generali, cominciò da quell'istante a risguardare
gli affari della casa d'Angiò come disperati, e si affrettò di
conchiudere con Ferdinando un trattato, che da lungo tempo aveva
segretamente intavolato. Dopo la battaglia di Sarno egli non aveva
spinta la guerra con molto vigore; aveva dati consiglj al duca di
Calabria che avevano ritardato i suoi progressi, e non avevalo ajutato
co' suoi immensi tesori tuttavia intatti. Vero è che non era da sperarsi
che un principe assai vecchio, e febbricitante la maggior parte
dell'anno, spiegasse l'attività propria della gioventù; e gli Angioini,
temendo d'inimicarselo, scusavano le sue infermità, e la sua
intempestiva avarizia. Intanto Ferdinando aveva incaricato il cardinale
di Ravenna, ed Antonio Trezzo, ambasciatore del duca di Milano, di
fargli le più vistose offerte: egli chiamavalo sempre suo zio, e
parlavagli sempre del rispetto e dell'amore che per lui conservava
sempre; e non solo gli prometteva la conservazione di tutti i feudi e
giurisdizioni possedute dall'Orsini sotto il regno di Alfonso, ma gli
rendeva inoltre la carica di capitano generale, cui andava congiunto il
pagamento di cento mila fiorini. E perchè il principe di Taranto potesse
onoratamente ritirarsi dall'antica sua alleanza, Ferdinando offriva un
salvacondotto al duca di Calabria, al Piccinino ed alla loro armata,
purchè nel termine di quaranta giorni evacuassero gli stati del principe
e s'incamminassero alla volta degli Abruzzi[156]. A tali condizioni fu
sottoscritta la pace a Biseglio in Puglia il 13 settembre del 1462, ed
il papa ed il duca di Milano si fecero garanti per il re.

  [156] _Jov. Pontanus Neap. belli, l. IV, p. 72. — Jo. Simonetae, l.
  XXIX, p. 743. — Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 747. — Crist. da Soldo
  Ist. Bresc., p. 894. — Comment. Pii Papae II, l. X, p. 250._

In fatti il principe d'Angiò ed il Piccinino presero i quartieri
d'inverno negli Abruzzi, che nella susseguente primavera (del 1463)
furono il teatro della guerra. Le spedizioni del Piccinino non avevano
oramai altro scopo che quello di trovare sussistenza alle sue truppe; ed
il duca di Calabria, caduto sotto la dipendenza del suo generale, era
obbligato di ruinare affatto i suoi sudditi pel di cui amore aveva
creduto di salire sul trono. Per tale motivo Celano fu abbandonato al
saccheggio, e Sulmona, presa dal Piccinino, non si sottrasse al sacco
che con una contribuzione[157]. Ma malgrado questi parziali vantaggi il
Piccinino risguardava come affatto prossima la ruina del suo padrone, e
non volendo trovarvisi avviluppato, sottoscrisse il 10 agosto una
separata convenzione con Alessandro Sforza, in conseguenza della quale
passò colla sua armata ai servigj di Ferdinando, che gli accordò la
città di Sulmona con molte castella, e novanta mila fiorini d'oro
all'anno[158]. La città dell'Aquila, minacciata dalle armi di Alessandro
Sforza, capitolò, ed il suo esempio fu seguito dalla maggior parte degli
Abruzzi: all'ultimo Marino Marzano, duca di Svessa e principe di
Rossano, ne' di cui feudi trovavasi in allora il duca di Calabria,
capitolò dopo gli altri; onde lo sventurato duca d'Angiò, dopo essere
stato accolto con entusiasmo da un grossissimo partito, e proclamato in
tutte le province, si vide abbandonato dalla fortuna, tradito dagli
amici, e forzato a cercarsi un asilo in vicinanza degli stati cui
pretendeva, nell'isola d'Ischia, che gli fu data per tradimento insieme
al castello dell'Ovo in faccia a Napoli da due Catalani malcontenti di
Ferdinando[159].

  [157] _Jov. Pontanus, l. IV, p. 77, 78._

  [158] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 747. — Cron. di Bolog., p. 752. —
  Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 897. — Comment. Pii Papae II, l.
  XII, p. 319._

  [159] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 748._

Intanto Sigismondo Malatesta, il solo alleato che restasse alla casa
d'Angiò in Italia, veniva caldamente inseguito da Federico da
Montefeltro: egli aveva di già perduti Fano e Sinigaglia e quasi tutti i
suoi castelli, ed aveva più volte invocata la clemenza del pontefice.
Gli ambasciatori veneziani peroravano a suo favore; quelli di Firenze lo
raccomandavano alla generosità di Pio II, e rappresentavano che
Sigismondo, spinto agli estremi, potrebbe dare in mano ai Turchi il suo
porto di Rimini[160]. Il papa finalmente risolvette d'accordargli la
pace in ottobre del 1463, ma riducendo il suo territorio a cinque miglia
di raggio intorno a Rimini, e quello di suo fratello, Domenico
Malatesta, ad un eguale raggio intorno a Cesena. Alla morte di questi
due principi, le due loro città dovevano ricadere sotto l'immediato
dominio della Chiesa romana[161].

  [160] _Comm. Pii Papae II, l. X, p. 266-272._

  [161] _Jo. Simonetæ, l. XXX, p. 749. — Cron. di Bologna, t. XVIII,
  p. 753. — Ist. Bresc., t. XXI, p. 897. — Guern. Bernio Cron.
  d'Agob., p. 1006. — Comm. Pii Papæ II, l. XI, p. 298. — Scip.
  Claramontii Hist. Cæsenæ, l. XVI, p. 424. — Thes. Burmani, v. VII,
  p. II._

Mentre ciò accadeva, Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, morì
il 16 novembre nel suo castello d'Alta-Mura; si ebbe grandissima cura di
dire ch'era morto di vecchiaja, ma pure si vociferò bentosto ch'era
stato strozzato da' suoi servitori, guadagnati da Ferdinando. Il re
diffidava tuttavia di questo principe, che manteneva sempre
corrispondenza col duca di Calabria. Quand'ebbe avviso della sua morte,
si affrettò di recarsi ne' suoi feudi per prendere possesso della sua
eredità come marito di sua nipote: vi trovò grandissimi tesori in
danaro, in mercanzie di ogni sorta, in superbe razze di cavalli, in
numerose greggie, oltre quattro mila uomini di buone truppe. Le
ricchezze mobiliari del principe di Taranto si valutarono un milione di
fiorini, ed i suoi feudi, che vennero riuniti alla corona, erano i più
ricchi ed i più vasti del regno di Napoli. Così Ferdinando, per la morte
d'un uomo, che egli temeva più d'ogni altro, diventò tutt'ad un tratto
il più ricco e potente sovrano dell'Italia[162].

  [162] _Giorn. Napolet., t. XXI, p. 1133. — Cron. di Bolog., t.
  XVIII, p. 753. — Jov. Pontanus, l. V, p. 84. — Jo. Simonetae, l.
  XXX, p. 750._

La morte del principe di Taranto terminò di rovesciare le speranze della
casa d'Angiò: il vecchio re Renato era partito da Marsiglia con dieci
galere in primavera del 1464 per soccorrere suo figliuolo; ma dopo
averlo raggiunto all'isola d'Ischia, ed aver seco deliberato intorno
allo stato dei loro affari, essi convennero che sarebbe cosa inutile lo
spargere altro sangue ed erogare altri tesori per una causa di già
perduta. Si rimbarcarono adunque e tornarono in Francia, abbandonando,
dopo una guerra di sei anni, un paese nel quale avevano fatto
risplendere il loro valore e la loro lealtà; ma dove nè il coraggio, nè
le più dolci virtù gli avevano preservati da una lunga serie di
calamità[163].

  [163] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 761. — Jov. Pontani, l. VI, p. 91.
  — Giannone Istor. Civ. del Regno, l. XXVII, c. I, p. 551-560._

Sarebbesi detto che i Francesi, disgustati delle guerre d'Italia,
volevano perfino privarsi della possibilità di tornare in questo paese.
Altro non restava in poter loro che Savona, ove Lodovico XI manteneva
una guarnigione che gli costava assai senza promettergli verun
vantaggio. Risolse di cederla allo Sforza per riacquistare in tal
maniera l'amicizia di questo principe, col quale aveva avute anteriori
relazioni. Si fece un trattato in forza del quale, non solo Corrado
Foliano, ufficiale del duca di Milano, fu posto in possesso di Savona in
principio di febbrajo del 1464, ma vennero inoltre trasfusi nel duca di
Milano tutti i diritti che il re di Francia aveva acquistati sopra
Genova col suo trattato coi Genovesi: e questo singolare trattato, che
chiamava Francesco Sforza a far valere diritti che aveva fin allora
combattuti, fu dagli ambasciatori francesi comunicato a tutte le corti
d'Italia[164].

  [164] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 752. — Cron. di Bolog., t. XVIII,
  p. 755._

Il duca di Milano, dopo essersi in tal modo posto al sicuro dai
risentimenti della Francia, non dubitò di conseguire in breve la
signoria di Genova. I quattro anni ch'erano decorsi dopo la cacciata dei
Francesi, erano stati per Genova una continua serie di sedizioni, di
violenze, di assassinj. Luigi Fregoso, ch'era stato riconosciuto per
doge, era un uomo dolce e giusto, ma debole, che, cercando di rimettere
in città la calma e l'impero delle leggi, trovavasi sempre contrariato
dal violento suo cugino Paolo Fregoso, arcivescovo di Genova. Questi
adunava intorno a sè tutti i faziosi, nudriti nelle guerre civili, tutti
gli assassini amnistiati, che avevano valorosamente combattuto per la
loro fazione, ma che in tempo di pace non avevano nè entrate, nè
industria alcuna per supplire ai loro bisogni o ai loro vizj.
L'arcivescovo andava loro sempre ricordando ch'erano essi che avevano
scacciati da Genova i Francesi, i nobili e gli Adorni; che questa
triplice vittoria erasi conseguita coi pericoli e col sangue loro; ma
che un'ingrata patria condannava, lui a timide funzioni ecclesiastiche
in mezzo ai suoi preti, essi al disprezzo ed alla miseria. Pure se
volevano dargli fede, non sarebbe per altri ma per loro che avrebbero
combattuto. Coloro che gli avevano offesi non oserebbero più alzare gli
occhi in faccia loro, e le ricchezze sarebbero proprietà de' più
valorosi. Avendo con simili ragionamenti infiammate le passioni di
questi formidabili partigiani, egli condusse il 14 maggio del 1462 ad
attaccare il palazzo pubblico; vi sorprese il doge, suo cugino, che di
lui non diffidava, e, scacciatolo, si fece proclamare doge. Ma questa
violenza eccitò un movimento generale d'indignazione; tutte le persone
dabbene, tutto il popolo si mostrarono così alieni da un prelato che
tanto bruttamente turbava la pubblica tranquillità ed oltraggiava le
leggi, ed il numero de' suoi partigiani fu così debole in confronto del
partito contrario, che Paolo Fregoso spaventato abdicò volontariamente,
prima che passasse un mese, l'usurpata autorità. Otto capitani del
popolo presero subito il suo luogo, e pochi giorni dopo, l'otto giugno
seguente, Luigi Fregoso venne per la terza volta decorato della corona
ducale[165].

  [165] _Uberti Folietae Gen. Hist., l. XI, p. 620. — P. Bizarri S. P.
  Q. Genuens. Hist., l. XIII, p. 313. — Ag. Giustiniani Ann., l. V, f.
  217._

Per altro Paolo Fregoso non aveva abdicato che per aver tempo di
ragunare nuove forze con nuove pratiche, ed avanti che terminasse l'anno
sorprese suo cugino con un branco di scellerati, lo fece condurre avanti
alla fortezza del Castelletto, e, fatta piantare una forca, minacciò di
far appiccare il doge, se non gli si aprivano le porte della fortezza.
Luigi non resistette, e la fortezza fu consegnata all'arcivescovo, il
quale ottenne bolle dal papa, in data del 31 gennajo del 1463, con cui
Pio II, dopo alcune ammonizioni, lo riconosceva doge di Genova e lo
scioglieva tanto dai proprj giuramenti che dalle censure ecclesiastiche,
che potevano impedire ad un prelato l'esercizio delle funzioni civili e
militari[166].

  [166] _Rayn. Ann. Eccl. 1462, § 51, t. XIX, p. 123. — Uberti
  Folietae Gen. Hist., l. XI, p. 621. — Comm. Pii Papae II, l. XI, p.
  292, 293. — P. Bizarri Hist. Gen., l. XIII, p. 315. — Ag.
  Giustiniani Ann., l. V, f. 218._

In questa seconda amministrazione Paolo Fregoso diede libero corso alle
sue passioni ed alla sua cupidigia. Aveva preso per suo aggiunto un uomo
nè meno di lui violento, nè meno ambizioso, e questi era Ibletto del
Fiesco, cui diede il comando di quella truppa di facinorosi, che lo
servivano come guardie e come soldati. L'autorità delle leggi e quella
de' magistrati furono in città sospese; i partigiani dell'arcivescovo
entravano di qualunque ora del giorno nelle case dei ricchi, per
prendere il danaro, le mercanzie, le donne che volevano rapire. Ogni
giorno veniva macchiato dalla morte di qualche cittadino, che aveva
osato di resistere a queste violenze, o che spirava vittima di qualche
antica nimicizia. Sarebbesi detto che la città era stata presa
d'assalto, se il saccheggio, autorizzato dal capo della religione e
della giustizia, invece di essere passaggero, non si fosse protratto per
molti mesi[167]. Tutta la nobiltà, tutti coloro che avevano di che
vivere, uscirono di città per sottrarsi a tanta tirannide. Le città
delle due Riviere più non riconoscendo in alcun modo l'autorità della
repubblica, e non sapendo come conservarsele fedeli, spiegarono le
insegne del duca di Milano. Questi sedusse Prospero Adorno, Spineta
Fregoso e Jacopo del Fiesco, e diede a questi potenti cittadini nuovi
feudi in Lombardia, per legarli più strettamente al suo partito;
all'ultimo guadagnò lo stesso Ibletto del Fiesco, ch'era stato fin
allora l'agente ed il ministro dei furori dell'arcivescovo. Fece in pari
tempo avanzare contro Genova Jacopo da Vimercato con una potente armata,
cui si unirono Paolo Doria e Girolamo Spinola con tutti i vassalli di
queste due nobili case[168].

  [167] _Uberti Folietae, l. XI, p. 621. — Jo. Simonetae, l. XXX, p.
  753. — P. Bizarri, l. XIV, p. 316. — Agost. Giustiniani Ann., l. V,
  f. 219._

  [168] _Uberti Folietae, l. XI, p. 622. — Jo. Simonetae, l. XXX, p.
  754. — Bern. Corio Stor. Milan., p. VI, p. 963. — P. Bizarri S. P.
  Q. Genuens. Hist., l. XIV, p. 317._

Paolo Fregoso si conobbe troppo debole per resistere a questo turbine;
pure non volle porgere orecchio ai negoziati che Francesco Sforza era
disposto ad aprire con lui, nè rinunciare al suo principato, nè esporsi
ad essere oppresso dal popolo, se aspettava il nemico in città. Era in
sua mano la fortezza del Castelletto, ch'egli risguardava come il pegno
del futuro suo ritorno in Genova. Ne affidò la custodia a Bartolommea,
vedova del doge Piero suo fratello, ed a Pandolfo, altro suo fratello.
Diede loro cinquecento de' suoi migliori soldati per difendersi; indi,
presi seco gli altri facinorosi più attaccati alla sua persona,
s'impadronì di quattro vascelli che si trovavano nel porto, li provvide
di armi e di munizioni, ed uscì di Genova per esercitare la pirateria,
finchè una più propizia sorte gli permettesse di venire a riprendere e
la mitra pontificale, e la corona ducale, ch'era forzato a deporre
momentaneamente[169]. Infatti lo vedremo ricuperare in appresso tutta la
sua grandezza, ed inoltre aggiugnervi nel 1480 la porpora cardinalizia,
sotto il titolo di sant'Atanasio.

  [169] _Uberti Folietae, l. XI, p. 622. — Jo. Simonetae, l. XXX, p.
  754. — P. Bizarri Hist. Gen., l. XIV, p. 317. — Agost. Giustin., l.
  V, f. 219._

Partito Paolo Fregoso, Ibletto del Fiesco occupò una delle porte, ed i
giardini di Carignano; e da quella banda il 13 aprile del 1464
introdusse in città Jacopo Vimercato. Questo generale assediò subito il
Castelletto, che per altro difficilmente avrebbe preso; ma dopo quaranta
giorni la vedova Fregoso glielo vendette per quattordici mila fiorini
d'oro, introducendovi i soldati milanesi di nascosto di suo cognato, che
doveva dividerne con lei la custodia[170]. Frattanto si spedirono a
Milano ventiquattro deputati dalla repubblica per deferire la signoria a
Francesco Sforza alle medesime condizioni convenute col re di Francia e
per prestare in sua mano il giuramento di fedeltà[171].

  [170] _Uberti Folietae Hist., l. XI, p. 623. — P. Bizarri Hist.
  Gen., l. XIV, p. 318. — Ag. Giustin., l. V, f. 219._

  [171] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 757._

Le rivoluzioni, che dopo avere ruinata la repubblica di Genova finirono
col precipitarla sotto un giogo straniero, avevano cominciato in tempo
delle guerre del regno di Napoli. Per iscacciare la casa d'Arragona la
repubblica aveva vuotati i suoi tesori, e versati torrenti di sangue, e
finalmente soggiacque essa medesima alle turbolenze che aveva voluto
eccitare nelle lontane provincie. Aveva in appresso abbandonata una
causa abbracciata con tanto ardore; aveva sperimentata tutta la violenza
del governo d'un capo di faziosi, ed era stata all'ultimo costretta per
trovar pace, di rinunciare alla libertà. Nello stesso tempo la
repubblica di Firenze si sottrasse alle stesse violenti convulsioni,
perchè cercò d'isolarsi dalla grande contesa che divideva tutta
l'Italia. Aveva da prima preso un interessamento, quasi così vivo come
la repubblica di Genova, per l'ingrandimento della casa d'Angiò, ed era
stata in sul punto di entrare nella medesima guerra; ma la prudenza di
uno de' suoi cittadini l'aveva ritenuta nella neutralità, evitando ad un
tempo gli esterni pericoli e le grandi commozioni interne. Per altro non
si sottrasse alle disgrazie attaccate all'impero delle fazioni, e se non
perdette la sua libertà, la vide per lo meno crudelmente compromessa da
quei medesimi ch'eransi sollevati nel suo seno come difensori e
protettori del popolo.

La forma legale del governo di Firenze si avvicinava assaissimo alla
democrazia; niun corpo nello stato aveva uno stabile potere, veruno
nominava i suoi proprj membri, veruno conservava spirito ed interessi
indipendenti da quelli del popolo. I consiglj, la magistratura, lo
stesso capo dello stato, tutto continuamente mutavasi, tutto si
rinnovava con somma rapidità, e tutti i cittadini dovevano la volta loro
comandare, ed essere comandati. E per impedire che lo spirito di corpo
non si perpetuasse ne' consiglj, per impedire che il favore, od i
maneggi restrignessero le elezioni ad una sola classe di cittadini, ad
un piccolo numero di persone, erasi preferita la sorte alla scelta, e la
repubblica riceveva il suo governo dall'estrazione d'una lotteria.

Questa esagerata ricerca dell'eguaglianza fra i cittadini fu
propriamente ciò che la distrusse. La repubblica non sarebbe stata mai
più chiamata a violare le proprie leggi, se si fosse accontentata di far
eleggere il proprio gonfaloniere, i priori, i consiglj dai suffragj del
popolo; e se, considerando alcuni di questi mandati del popolo come
irrevocabili, avesse, almeno ne' consiglj, conservati fino alla morte
coloro che vi fossero stati una volta collocati dal voto dei loro
concittadini. Sarebbesi in tale maniera data un'áncora che l'avrebbe
tenuta ferma nelle agitazioni popolari, ed avrebbe conservata nello
stesso corpo la tradizione de' suoi interessi e della sua politica. Ma
nella forma del governo adottato dalla repubblica era impossibile il
ripromettersi dai suoi magistrati, sempre nuovi, unione ne' sistemi,
costanza ne' progetti, e combinazioni politiche che richiedessero molti
anni per la loro esecuzione. Formavasi subito fuori del governo un
partito, una fazione che diventava il vero centro dell'autorità, il vero
governo della repubblica. Questo partito, per darsi un'esistenza legale,
ricorreva al parlamento di tutta la nazione. Con un atto della sua
sovranità il parlamento sospendeva la costituzione e creava una _balìa_,
come i Romani creavano un dittatore, per salvare la repubblica con
un'autorità superiore alle leggi. Formava questa _balìa_ o commissione
con un determinato numero di cittadini, i più distinti, i più attivi del
partito dominante, e talvolta il loro numero ammontava a parecchie
centinaja. In appressa il parlamento affidava a questi cittadini il
diritto di riempire a loro scelta le borse da cui si dovevano levare a
sorte i nomi de' magistrati, di scegliere ancora ogni due mesi in queste
borse i nomi di coloro che dovevano aver luogo nella signoria, lo che
dicevasi fare le elezioni a mano, d'esiliare senza forma di giudizio
coloro che si risguardavano come pericolosi pel partito dominante, e
finalmente di trovare con mezzi arbitrarj il danaro necessario ai
bisogni dello stato. La creazione d'una balìa era una tirannide
stabilita in una repubblica, ed era errore grossolano del legislatore
l'averla renduta necessaria. Tale era non pertanto l'incostanza del
governo costituzionale, che quando spirava la balìa (giacchè non era mai
creata che per un tempo limitato) la repubblica era sempre minacciata di
ricadere nella anarchia.

Dopo la rivoluzione del 1434 la repubblica di Firenze aveva avuto alla
sua testa due uomini d'un merito eguale, sebbene la loro riputazione non
siasi conservata eguale, Neri Capponi e Cosimo de' Medici. Il primo,
grande politico, destro negoziatore, in guerra generale vigilante e
felice, erasi fino dal 1420 renduto caro egualmente ai cittadini ed ai
soldati coi continui servigj prestati alla repubblica. Cosimo de'
Medici, non meno destro politico, invece della riputazione militare
godeva quella di generoso protettore delle lettere, delle arti e della
filosofia. Inoltre la sua immensa ricchezza gli somministrava il modo di
spargere dappertutto i beneficj, e l'estrema sua generosità lo portava a
prevenire tutte le domande di danaro che gli si potevano fare. Appena
eravi in tutto il suo partito un cittadino, che non si fosse
gratificato. Così, mentre Neri Capponi non aveva che ammiratori e
partigiani. Cosimo de' Medici aveva clienti che gli erano affatto
devoti[172].

  [172] _Machiavelli Ist. Fior., l. VII, p. 274._

Malgrado la rivalità loro e malgrado alcune vicendevoli offese, questi
due grandi cittadini conservaronsi tra di loro generalmente uniti, sia
per zelo per la repubblica, sia per timore dell'opposto partito degli
Albizzi, che, sebbene abbattuto, era ancora potente. Perciò, in ventun
anni che furono unitamente alla testa dello stato, fino alla morte di
Capponi, accaduta l'anno 1455, trovarono sempre il popolo propenso a
continuar loro l'autorità della balìa quando spirava. In questo spazio
di tempo fu rinnovata sei volte, e sempre in un modo legittimo dal
parlamento adunato dietro inchiesta dei consiglj.

Ma l'autorità dell'ultima balìa terminava il primo luglio del 1455. Non
esisteva plausibile ragione per rinnovarla, trovandosi lo stato in pace
co' suoi vicini, essendo internamente la fazione degli Albizzi abbattuta
affatto, e la rivoluzione da troppo lungo tempo ultimata, perchè si
osasse di conservare un regime rivoluzionario. Altronde essendo morto
Neri Capponi, Cosimo de' Medici, rimasto solo, eccitava maggiore
gelosia. I suoi amici, che mai non avevano avuto intenzione di farlo
principe, non erano meno de' suoi nemici diffidenti dell'ingrandimento
del suo potere: essi si opposero perciò ne' consiglj al rinnovamento
della balìa, e si tornò ad estrarre a sorte la signoria: pure ciò si
fece colle liste e colle borse ch'erano state fatte dalle precedenti
balìe, e che non contenevano che i nomi degli amici dei Medici. Pietro
Rucellai, che entrò in carica il primo luglio del 1455, fu il primo
gonfaloniere nominato dalla sorte[173]; la sua magistratura eccitò
trasporti di gioja nel popolo, che credette di rientrare soltanto allora
nel godimento de' suoi diritti e della sua libertà. Il cambiamento era
infatti per lui reale, perciocchè nella precedente amministrazione, i
giudizj dei tribunali, e la ripartizione delle imposte erano diventati
oggetti di favore e di brighe. I Fiorentini in tutti gli affari
contenziosi eransi trovati in necessità di sollecitare e spesso di
comperare coi doni il favore de' potenti cittadini che governavano lo
stato con Cosimo de' Medici. Ma dopo la cessazione della balìa, non solo
la nuova magistratura più non diede orecchio alle raccomandazioni del
favore, ma per lo contrario ebbe piacere di maltrattare coloro, innanzi
ai quali erasi fin allora tremato. Que' medesimi cittadini, le di cui
case pochi mesi prima erano affollate di clienti che recavano doni, si
videro abbandonati ed esposti ai sarcasmi della moltitudine. Cosimo de'
Medici aveva preveduto questo cambiamento, che a lui non fece torto,
perchè i suoi clienti avevano sempre di lui bisogno. Aveva sentito che i
suoi amici verrebbero puniti della loro gelosia, ed erasi compiaciuto di
vederli colle pratiche loro privarsi essi medesimi del loro credito
senza recare pregiudizio al suo[174].

  [173] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 82._

  [174] _Machiavelli, l. VII, p. 276. — Comm. di Filippo de' Nerli,
  de' fatti civili di Firenze, l. III, p. 47._

Il governo cercava di estinguere il debito pubblico, ch'era cresciuto
assai durante la precedente guerra; uno dei mezzi adottati per
accrescere le entrate fu il rinnovamento del catastro del 1427, in forza
del quale tutte le proprietà mobili ed immobili di ogni cittadino erano
state stimate, ed assoggettate ad un'imposta di un mezzo per cento del
capitale. Dopo tale epoca i ricchi avevano trovato modo di sottrarre
gran parte de' loro averi alle pubbliche imposte, valendosi del credito
che esercitavano sopra i magistrati; onde una legge che stabiliva
un'eguaglianza proporzionale nelle imposte, venne risguardata dal popolo
come un trionfo. Fu fatta in principio del 1458, e vennero incaricati
dieci commissarj di fare entro l'anno il riparto dell'imposta a seconda
delle sostanze[175].

  [175] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 85._

Bentosto i grandi ed antichi amici di Cosimo lagnaronsi del cambiamento
introdotto nello stato, lagnaronsi d'essere abbandonati al capriccio
della moltitudine. Le stesse persone, che per gelosia del Medici avevano
ostato al rinnovamento della balìa, lo supplicavano adesso di unirsi con
loro per ottenerne una. Non avendo voluto Cosimo cedere alle loro
istanze, Matteo Bartoli, che fu gonfaloniere ne' due susseguenti mesi,
si provò a chiedere la balìa senza di lui; ma non solo non vi riuscì, ma
diede luogo a portare una legge ne' consiglj, in forza della quale non
poteva adunarsi il parlamento senza essere domandato dagli unanimi
suffragj della signoria e del collegio, e senza che la proposizione
fosse approvata dai due consiglj[176]. Questo trionfo del partito
popolare, cui aveva contribuito lo stesso Cosimo, accrebbe l'avvilimento
di quegli amici che si erano da lui allontanati, e fece loro più
vivamente desiderare una riconciliazione.

  [176] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 85._

Frattanto, dopo aver data questa lezione al suo partito, Cosimo de'
Medici credette che fosse tempo di rendergli il primo vigore e
d'impedire che Firenze non si accostumasse al godimento della sua
libertà. Avendo la sorte dato per gonfaloniere di luglio e d'agosto del
1458 Luca Pitti, Cosimo lasciò a questo ricco, potente ed audace
cittadino la cura di adunare un parlamento, determinato di tenersi al
coperto da ogni avvenimento, non secondandolo apertamente e non
contrariandolo, onde poter approfittare del buon successo, e non essere
a parte delle sue perdite, ove la cosa non riuscisse. In fatti il Pitti
riempì il palazzo di gente armata, costrinse colle minacce i priori,
suoi colleghi, a domandare il parlamento; coprì tutte le uscite della
piazza di soldati e di contadini cui aveva distribuite le armi, e
l'undici d'agosto del 1458, avendo fatto suonare la maggior campana,
tenne un'adunanza del popolo tremante e sommesso, che approvò e sanzionò
tutti i regolamenti che a lui piacque di proporre, rinnovando la balìa
del 1434, ed aggiugnendovi dieci nuovi elettori e dieci segretarj. Si
pretestò pel rinnovamento di quest'autorità dittatoriale della
repubblica il pericolo che poteva farle correre la morte di papa Calisto
III, gli assassinj del conte Averso dell'Anguillara e l'anarchia di
Roma. Si resero depositarj di tutta l'autorità dello stato 352
cittadini, e loro si attribuirono le nomine dei magistrati, i giudizj
stragiudiziali e le imposte[177].

  [177] _Ist. di Gio. Cambi, t. XX, p. 358._

La balìa fece il più violente uso, che fare si potesse, dell'arbitraria
autorità che le era affidata: Girolamo, figliuolo d'Angelo Machiavelli,
aveva gagliardamente parlato intorno al pericolo inerente alla
convocazione dei parlamenti ed alla sovversione della libertà cagionata
dalle balìe. Venne arrestato ed assoggettato alla tortura per forzarlo
coi tormenti a palesare, come una trama, i motivi della sua legittima
opposizione ad intraprese contrarie alle leggi. In fatti strapparonsi di
bocca al Machiavelli i nomi d'Antonio Barbadori e di Carlo Benizi, che
dichiarò essere a parte delle sue opinioni; furono ambidue posti alla
tortura: dopo di che il Machiavelli e suo fratello, il Barbadori con suo
figlio, il Benizi e tre suoi parenti vennero condannati a grosse ammende
ed alla relegazione. I due primi non essendosi recati nel luogo del loro
esilio, Girolamo Machiavelli fu arrestato per tradimento di uno de'
signori della Lunigiana, e dato alla signoria di Firenze, che lo fece
morire[178].

  [178] _Ist. di Gio. Cambi, t. XX, p. 361. — Niccolò Machiavelli, l.
  VII, p. 278. — Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 87._

Luca Pitti fu fatto cavaliere in premio del vigore che aveva mostrato.
Cosimo de' Medici e tutti gli amici del governo si credettero obbligati
a fargli dei regali; egli ne ricevette da tutti coloro che desideravano
di guadagnare il suo favore, e dalla stessa repubblica; si dice che
ammontassero a ventimila fiorini. Peraltro Cosimo era vecchio e logoro,
frequentemente veniva tormentato dalla gotta, onde pareva disgustato
degli affari pubblici e trattenevasi in villa la maggior parte del
tempo. Luca Pitti, ambizioso ed orgoglioso, approfittava della ritirata
del suo amico per innalzarsi. Pareva egli il vero capo della repubblica,
e la fazione dominante omai più non chiamavasi il partito di Cosimo, ma
quello di Pitti. Per illustrare il suo trionfo, egli prese a fabbricare
due palazzi, uno alla distanza di un miglio fuori delle mura e l'altro
in città; ne gittò così estesi i fondamenti e con fasto tanto insolito,
che Firenze, accostumata ai prodigj dell'architettura, Firenze, che non
aveva trovato che Cosimo fosse uscito dai confini della modestia di un
cittadino innalzando il palazzo Medici (oggi palazzo Riccardi in via
larga), riguardò il palazzo Pitti come un'intrapresa reale. Per
terminare questo superbo edificio, diventato poscia la residenza dei
gran duchi, Luca Pitti ricevette regali da tutti coloro che avevano
bisogno della sua protezione o del suo favore. Non solo i particolari,
ma i comuni, che dovevano chiedere qualche cosa ai consiglj della
repubblica, s'addirizzavano a Pitti; e tutti sapevano che il suo
appoggio non si otteneva, che dandogli materiali pel suo edificio. Tutti
i banditi, tutti i malfattori, che avevano ragione di temere la pubblica
vendetta, si rifugiavano in quel ricinto, e finchè lavoravano a
fabbricare, non erano molestati dagli ufficiali della giustizia, che ivi
non osavano inseguirli[179].

  [179] _Machiavelli Ist., l. VII, p. 280._

Cosimo de' Medici, che aveva sempre cercato di non offendere gli occhi
dei suoi concittadini con verun fasto esteriore, e che, sebbene
considerato negli altri stati come principe, non aveva lasciato di
essere in patria un semplice cittadino, vedeva con dolore il partito
ch'egli aveva formato, e che ancora appoggiavasi al suo nome, dare un
tiranno alla repubblica. Egli tenevasi lontano dagli affari, e
fabbricava chiese in Firenze e nelle vicinanze; si circondava di
letterati, ed occupavasi con Marsilio Ficino del rinnovamento della
filosofia platonica, quando in principio di novembre del 1463 ebbe la
sventura di perdere il suo secondo figliuolo, Giovanni de' Medici, in
età di quarantadue anni. Sopra di questi fondava Cosimo le sue speranze
per la grandezza della sua famiglia, sembrandogli che i talenti ed il
carattere di Giovanni fossero d'una tempra abbastanza forte per
governare la repubblica, per guadagnarsi il cuore de' suoi concittadini,
mantenere al di fuori la riputazione de' Medici, e per proteggere
nell'interno e far fiorire le lettere e le arti. Il primogenito, Piero
de' Medici, allora in età di quarantasette anni era di così debole
salute, che non poteva credersi capace di portare il peso degli affari.
Il figlio di Giovanni, detto Cosimo, era morto prima di lui, ed i due
figli di Pietro erano ancora fanciulli. Il vecchio Cosimo de' Medici
facevasi portare pel suo vasto palazzo, pel quale più non poteva girare
a piedi, e diceva sospirando: «Questa è troppo gran casa per così
piccola famiglia[180]!»

  [180] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 91._

Cosimo de' Medici non sopravvisse lungamente al figliuolo di cui non
sapeva scordarsi: egli morì nella villa di Careggi il 1.º agosto del
1464 in età di settantacinque anni, egualmente compianto dagli amici e
dai nemici. I primi lo amavano per i suoi infiniti beneficj, i secondi
avevano di già imparato a temere coloro che dovevano succedergli nel
governo della repubblica. Sapevano che Cosimo li forzava ancora a
qualche moderazione pel solo credito del suo nome, e tremavano in vista
della tirannide, sotto la quale caderebbero, quando lo stato più non
avrebbe questo moderatore.

Cosimo, il più grande cittadino che siasi mai innalzato in un paese
libero, era stato trent'anni capo della più ricca, potente ed illuminata
repubblica che allora esistesse. Con una felicità più costante, ed un
più lungo potere di quello di Pericle, egli aveva, come il Greco,
arricchita la nuova Atene di tutti i prodigj delle arti. Aveva in
Firenze fabbricati il convento e la chiesa di san Marco, quello di san
Lorenzo ed il chiostro di santa Verdiana; sulla montagna di Fiesole, san
Girolamo e la Badìa; nel Mugello, la chiesa de' Frati minori. Aveva
ornati di cappelle, di statue, di quadri, di argenterie destinate al
culto, le chiese di santa Croce, dei Servi, degli Angeli e di san
Miniato. Aveva per se medesimo fabbricati quattro palazzi in campagna, a
Careggi, a Fiesole, a Caffaggiuolo ed a Trebbio: aveva innalzato in
città il magnifico palazzo, ora _Riccardi_; finalmente aveva in
Gerusalemme eretto uno spedale pei pellegrini. Ma invece d'impiegare,
come Pericle, le pubbliche entrate nell'innalzare questi monumenti, che
fissarono il gusto della bella architettura, aveva tutto fatto col
proprio danaro[181]; e mentre questi pubblici lavori annunciavano un
sovrano, e sorpassavano di lunga mano la magnificenza de' più gran re
dell'Europa, nè i suoi abiti, nè la sua mensa, nè i suoi servi, nè i
suoi equipaggi, superavano quelli della classe comune; egli trattava da
eguale e come semplice cittadino ogni Fiorentino; si era ammogliato ed
aveva dato marito ai suoi figliuoli ed alle sue nipoti non in famiglie
principesche, che avrebbero avidamente cercato il suo parentado, ma in
famiglie di Fiorentini, ch'egli risguardava sempre, ed ognuno
considerava come sue pari.

  [181] _Machiavelli Ist., l. VII, p. 282_. — Nei _Ricordi_ scritti di
  mano di Lorenzo de' Medici, trovasi ch'egli aveva fatto il conto,
  che dal 1434 al 1471 la loro casa aveva spesi in edificj, elemosine
  ed imposte 663,755 fiorini d'oro, equivalente peso per peso a
  7,965,060 franchi, e secondo la proporzione ch'esisteva a tale epoca
  tra il prezzo de' metalli preziosi e quello della mano d'opera, a
  circa 32,000,000 di franchi. _Ric. pres. Roscoe Life of Lorenzo, t.
  III, p. 45._

Senza dubbio la riputazione di Cosimo de' Medici si conservò più
luminosa, perchè la sua famiglia, dopo di lui, s'innalzò al supremo
potere nella sua patria. Quasi tutti gli storici, nati sotto i Medici,
vollero adularli nel ritratto del loro capo; coloro che avrebbero potuto
tenere un contrario linguaggio si videro forzati al silenzio. Pure un
secolo dopo la sua morte, gli amici della libertà accusavano ancora
Cosimo de' Medici, d'avere, avanti il suo esilio, eccitata la prima
guerra di Lucca per accrescere la propria importanza, e d'averla poi
fatta andare a male per perdere i suoi nemici; di essersi arricchito col
maneggio del pubblico danaro, da cui il suo credito teneva lontani tutti
gli altri cittadini; d'avere estese le sue vendette a tutto quanto eravi
nella repubblica di più illustre; e finalmente d'essersi alleato a
Francesco Sforza pel solo vantaggio della propria famiglia, e contro il
bene della patria[182].

  [182] _Jo. Michaelis Bruti Hist. Flor., l. I. in Thes. Antiqu.
  Ital., t. VIII, p. II, p. 1-24._ Gio. Michele Bruto scriveva in
  Lione dietro le memorie o sotto la dettatura degli emigrati
  fiorentini, scacciati dalla loro patria dal duca Cosimo I, e la sua
  parzialità è manifesta.

Durante l'amministrazione di Cosimo, Firenze fece alcuni acquisti di
poca importanza, cioè Borgo san Sepolcro, che comperò dal papa poco dopo
la battaglia di Anghiari, Montedoglio confiscato a danno della casa di
Pietra Mala, il Casentino a danno dei conti Guidi, e la Val di Bagno a
danno della casa Gambacorti. Ma Cosimo aveva sempre avuto l'ambizione di
fare per la repubblica un più ragguardevole acquisto, quello di Lucca.
Francesco Sforza gli aveva promesso che, tosto che sarebbe duca di
Milano, l'ajuterebbe ad occupare quella città, e Cosimo non gli perdonò
la sua mancanza di fede a questo riguardo[183]. Pure fu l'unico de' suoi
progetti non condotto a fine. In generale la sua amministrazione fu non
meno felice che gloriosa, e Firenze riconoscente gli rese la più nobile
testimonianza, ordinando che venisse scritto sul suo sepolcro il nome di
_Padre della patria_[184].

  [183] _Niccolò Machiavelli, l. VII, p. 285._

  [184] Sotto il gonfaloniere Niccolò Capponi, l'anno 1465. — _Scip.
  Ammirato, l. XXIII, p. 94._ — Pio II fa un nobile ritratto di Cosimo
  de' Medici che aveva molto conosciuto. _Comment. Pii Papae II, l.
  II, p. 50 ad an. 1459._



CAPITOLO LXXIX.

      _Spavento cagionato all'Italia dalle conquiste dei Turchi. —
      Prime vittorie di Giorgio Castriotto o Scanderbeg. — Guerra de'
      Veneziani nella Morea. — Pio II sopraggiunto dalla morte quando
      stava per condurre una crociata nell'Illirico. — Ultime vittorie
      e morte di Scanderbeg._

1443 = 1466.


L'Italia parve respirare in pace dopo le accanite guerre che avevano
accompagnato lo stabilimento delle due nuove dinastie ne' due suoi più
potenti stati, quella degli Sforza nel ducato di Milano, e quella del
ramo bastardo di Arragona nel regno di Napoli. Questa contrada più non
fu travagliata che da brevi e poco importanti guerre fino all'invasione
de' Francesi nel 1494. Allora il cambiamento della politica di tutta
l'Europa la rese il teatro di una nuova contesa tra le più formidabili
potenze, e la ridusse nel corso di un mezzo secolo al rango di
tributaria o di suddita degli oltremontani. I trent'anni di pace che
godette l'Italia avanti quest'ultima rivoluzione, che pose fine alla sua
esistenza politica, vennero consacrati allo studio delle antiche
lettere, rendute di meno difficile accesso dopo il ritrovamento della
stampa, al rinnovamento della filosofia peripatetica e platonica, della
poesia e dell'eloquenza latina, della poesia volgare, del teatro,
dell'architettura, della scultura e della pittura. Tutto il lusso dello
spirito e dell'immaginazione fu spiegato o preparato almeno in questo
luminoso periodo; lo splendore delle arti e delle lettere, favoreggiate
da tutte le corti, deve oramai nella storia prendere il luogo delle
antiche virtù, di cui più non rimangono tracce, e che eccitavano tanto
interesse. La sincerità, il disinteressamento, la grandezza d'animo
eransi dileguate colla libertà, la quale, sbandita dalle corti dei
signori, non conservavasi nè meno nelle repubbliche. Il sempre crescente
potere di un'ambiziosa famiglia ristringeva ogni giorno questa libertà a
Firenze ed a Bologna, Genova perdeva la sua nell'anarchia, e Venezia
sotto il giogo di una sospettosa oligarchia. Molte belle opere e poche
belle azioni illustravano l'Italia, e mentre trovavasi presso i dotti
tanto ardore e perseveranza nel lavoro, poco carattere trovavasi presso
i magistrati, poco coraggio ne' soldati, poco patriottismo ne'
cittadini.

Questa non curanza dei sentimenti e dei doveri pubblici si palesò
principalmente nella contesa in cui di quest'epoca l'Italia trovossi
impegnata coi Turchi. Diventata tutt'ad un tratto confinante dell'impero
musulmano, dal quale non la separava che un angusto braccio di mare,
sentì a più riprese lo spavento d'una imminente guerra; risuonò bensì di
prediche di crociate, ma non adottò veruna energica misura per sottrarre
al giogo degli Osmanli le isole e le colonie possedute dagl'Italiani ne'
mari della Grecia; lasciò conquistare le coste della Dalmazia,
dell'Epiro e del Peloponneso, che, conservate ai Cristiani, avrebbero
loro assicurato l'impero dell'Adriatico, e che, venute in mano ai
Turchi, esposero l'Italia in tutta la sua lunghezza al saccheggio ed
alle invasioni di un popolo che minacciava la sua religione, i suoi
costumi, la stessa sua esistenza. Vero è che quel primo impeto de'
Musulmani si allentò più presto che non poteva sperarsi; la loro
corruzione non fu meno rapida delle loro vittorie, ed il dispotismo
distrusse il loro vigore, prima che avessero terminato di opprimere i
loro vicini. Ma il paese in cui le arti e le lettere si rinnovavano con
tanto splendore, non si salvò per virtù sua dall'invasione dei barbari,
ma andò debitore della sua conservazione a cagioni che prevedere non
poteva, nè dirigere, ed alla quale l'infingardaggine del nostro spirito
dà il nome di _accidente_.

Finchè l'impero greco si mantenne in Costantinopoli, questa capitale
potè risguardarsi come il centro di stati addetti alla religione greca,
i di cui interessi, la di cui politica pochissime relazioni avevano con
quelli dell'Occidente. Le invasioni dei Turchi avevano separate le
antiche province dell'impero d'Oriente, e data loro un'indipendenza che
spesso non cercavano. Ma la violenza della tirannide musulmana faceva
fuggire gli abitanti dai paesi che occupava, ed accresceva con ciò la
popolazione di quelle dove non era ancora penetrata. Formavano questi
frammenti d'un grande stato nuovi regni che ancora avrebbero potuto
opporre una lunga resistenza, se le leggi, i costumi, il coraggio, non
fossero stati distrutti avanti la popolazione. Quando Costantinopoli
cadde in potere dei Turchi, il piccolo stato di Trebisonda, che assumeva
il pomposo titolo d'impero, sussisteva ancora all'estremità del mar
Nero, ed un altro stato cristiano sullo stesso mare aveva il titolo di
regno d'Iberia[185]. I Genovesi possedevano lungo le coste della
Tartaria la potente colonia di Caffa. Il continente, situato tra il mar
Nero ed il mare Adriatico, contava sette regni, dei quali la corona
d'Ungheria pretendeva di avere l'alta signoria ed erano la Croazia, la
Dalmazia, la Bosnia, la Servia, la Rascia, la Bulgaria e la
Transilvania[186]. Nello stesso continente trovavansi eziandio i
Valacchi, che pel loro idioma sembravano appartenere all'Italia, e gli
stati di Scanderbeg, il difensore, il vendicatore dell'Epiro, le di cui
vittorie avevano rialzata la gloria del nome Cristiano. La Grecia era
quasi tutta saccheggiata o dominata dai Turchi: pure conservavasi ancora
nell'Acaja il ducato di Atene, ed il Peloponneso era tuttavia diviso fra
Tomaso e Demetrio, i due fratelli dell'ultimo Costantino, che avevano il
titolo di despota. Delle isole, Rodi appartenea al valoroso ordine de'
cavalieri di san Giovanni, e Cipro ubbidiva alla casa di Lusignano sotto
la protezione del soldano d'Egitto; Candia, ossia Creta, il Negroponte o
l'Eubea, erano suddite della repubblica di Venezia con varie altre isole
di minore importanza, e Chio di Genova. Molti cittadini veneti e
genovesi possedevano in feudo altre isole dell'arcipelago; altre isole,
ridotte alle sole forze greche, mantenevansi indipendenti, e per ultimo
molte fortezze su tutta la costa del mare Adriatico erano sotto
l'immediata dipendenza de' Veneziani. Dopo la distruzione dell'impero
d'Oriente, tutti questi stati risguardavano l'Italia come centro delle
loro negoziazioni, e la corte del papa e la repubblica di Venezia come
le naturali loro protettrici. Tutte le città d'Italia ridondavano di
emigrati levantini, alcuni de' quali avevano seco portate le reliquie
dei santi del Cristianesimo, altri i più preziosi manoscritti
dell'antichità pagana, altri ancora i monumenti delle arti. Molti
sforzavansi con tali ricchezze di guadagnare soccorsi, non per sè, ma
per la loro patria; altri per lo contrario non pensavano che a formarsi
un pacifico domicilio in Italia, e, quando avevano trovata la mediocrità
e la sicurezza, rinunciavano ad ogni speranza di riavere il loro potere
ed il loro rango in Levante. Molti ancora non avevano potuto sottrarre
che le loro persone alla schiavitù dei Turchi, senza conservare verun
effetto prezioso; a costoro tornavano utili per vivere l'erudizione, la
memoria, la cognizione della lingua greca, oggetti dello studio di
tutti, ed il più alto oggetto dei loro voti era quello di farsi ricevere
in un monastero per trovarvi il nutrimento ed il riposo. L'Italia era
piena di Greci e di Cristiani orientali; s'incontravano in ogni luogo,
in ogni luogo si parlava del loro infortunio; e gli avanzamenti dei
Turchi, cui appena erasi data un'astratta attenzione finchè
Costantinopoli si era difesa, erano diventati, dopo la sua caduta, un
imminente flagello, un pericolo, che doveva occupare la mente di tutti.

  [185] _Phranzae Protovestiari, l. III, c. I, p. 80. Byzantin., t.
  XXIII._

  [186] _Comment. Pii Papae II, l. XII, p. 325._

La devastazione avanzavasi verso l'Occidente, ed ogni anno vedevasi
cadere un nuovo regno. Il primo a seguire la sorte di quello di
Costantinopoli fu quello della Servia. I due regni della Rascia e della
Servia, posti nel paese degli antichi Triballiani, erano stati
conquistati e governati dalla casa di Nemagna dal 1177 al 1354, e forse
ancora più tardi[187]. Era succeduta a quest'antica stirpe quella dei
Lazari, che portavano il titolo di _Cralli_ di Servia; riconoscevano il
loro regno, posto tra il Danubio, la Sava, la Morava, dalla generosità
di Stefano, re dei Bulgari, ed avevano la loro residenza a Senderova
poco distante da Belgrado. Fino dalla sua origine questa dinastia aveva
sperimentato il furore de' Turchi, perchè il suo fondatore, Lazaro
Bolco, fu, nel 1390, tagliato in pezzi sotto gli occhi di Bajazette per
vendicare la morte d'Amurat I. Stefano Bulkowitz, suo figlio, nel 1427,
venne spogliato de' suoi stati da Amurat II; i suoi figliuoli e duecento
mila de' suoi sudditi erano stati condotti in ischiavitù, ed il loro
paese era rimasto quasi deserto[188]. Giorgio Bulkowitz, figlio di
Stefano, educato presso i Turchi, ed indifferente tra le due religioni,
era stato nel 1442 rimesso ne' suoi stati da Amurat II, il quale aveva
sposata la di lui figlia Cantacuzena[189]. Questi, alleato a vicenda de'
Cristiani e de' Turchi, conservò finchè visse l'affetto degli ultimi, ma
morì nel 1457, e suo figlio Lazaro nel susseguente anno. Allora Maometto
II occupò la Servia, che Lazaro aveva col suo testamento lasciata alla
santa Sede, e che il Sultano riclamava come un'eredità della vedova
d'Amurat II[190].

  [187] _Table généalogique de Ducange, in seguito alla Histoire de
  Costantinople, t. XX, p. 169._

  [188] _Ann. Eccl. ad an. 1433, § 15, t. XVIII, p. 282. — Comment.
  Pii Papae II, l. XII, p. 326. — Leunclavius Pandectae Histor.
  Turcicae Byzant., t. XVI, p. 322._

  [189] _Marini Barletii Scodrensis, Histor. Scanderbegii, l. III, p.
  61._

  [190] _Philip. Callimachi de rebus Uladislai, l. II, R. Ung. Scrip.,
  t. I, p. 492. — Orat. Aen. Silvii in conventu Francofurtensi. Int.
  ejus epist., N.º 131. — Ray. Ann. Eccl. 1454, § 4, p. 420. — Bulla
  Calixti III, 15 mart. 1458. Rayn. ad Ann. § 18, p. 513. — Phranza
  Protovest., l. III, c. 22, Byzant., p. 115, t. XXIII._

Nello stesso anno 1458 si videro scomparire gli avanzi del ducato
d'Atene, che una lunga serie di rivoluzioni aveva fatto giugnere alla
casa fiorentina degli Acciajuoli. Dopo la conquista di Costantinopoli,
fatta dai Latini, le case francesi De la Roche, poscia di Brienne, e la
casa Catalana dei bastardi di Sicilia, avevano posseduto il ducato
d'Atene, che comprendeva, oltre il territorio di quell'antica
repubblica, quelli delle sue più illustri rivali, di Tebe, di Corinto,
di Megara e di Platea. La casa Acciajuoli, stabilitasi in Grecia nel
1364, aveva di già dati parecchi sovrani ad Atene ed a Tebe, quando
Antonio II morì nel 1435. Suo figlio Francesco rifugiossi alla corte di
Amurat II, di cui ne implorò la protezione, mentre che Renieri II,
fratello di Antonio, andò da Firenze in Atene, e fu installato nel
governo[191].

  [191] _Ducange, Tables genealog., t, XX, p. 161._

Renieri II, o Neri morì dopo la conquista di Costantinopoli: sua
consorte, che aveva di lui un figliuolo in tenera età, ricorse, per
mantenersi, alla protezione del sultano; distribuì ragguardevoli doni ai
favoriti di Maometto II, e si fece riconoscere duchessa. Poco dopo si
lasciò sedurre da una folle passione pel figliuolo di Pietro Priuli,
senatore veneziano, governatore di Nauplia, e gli offrì di farlo duca di
Atene se voleva sposarla, disfacendosi perciò della sua sposa. Il
giovane Priuli acconsentì al delitto che gli veniva consigliato, ma ne
colse poco frutto. Gli Ateniesi, sdegnati del vergognoso mercato che
aveva loro dato un nuovo sovrano, ricorsero a Maometto II, e gli
chiesero per duca quello stesso Francesco Acciajuoli, che si era
rifugiato alla corte di suo padre. Francesco occupò Atene senza
contrasto; fece arrestare la vedova di Neri, suo predecessore, e la
tenne qualche tempo in prigione a Megara. Tale era l'ordine che aveva
ricevuto da Maometto; bentosto però l'oltrepassò e fece morire questa
principessa; onde il sultano si affrettò di punire un rigore da lui non
ordinato. Omar, figliuolo di Turacano, pascià di Tessaglia, venne ad
assediare Atene: l'Acciajuoli si difese lungo tempo nella cittadella, e
non capitolò che in giugno del 1456, ricevendo in cambio di Atene la
signoria di Tebe ed il governo della Beozia. Due anni dopo perdette
l'una e l'altra colla vita, avendolo Maometto II fatto strozzare nel
1458 per sospetto di una trama ordita per ricuperare Atene[192].

  [192] _Laonicus Chalcocondyles de reb. Turcicis, l. VIII, p. 187,
  188, e l. IX, p. 200. — Byzant, t. XVI. — Ducange Hist. de Costant.
  sous les emp. françois, l. VIII, c. 44. p. 148, l. XX. Byzant. —
  Scip. Ammirato Stor. Fior., l. XXIII, p. 91._ — Conservansi in Atene
  diversi monumenti del dominio degli Acciajuoli: alcune famiglie
  pretendono discendere da loro; e nel moderno greco d'Atene si trova
  qualche mescolanza di vocaboli fiorentini.

I due fratelli, che si dividevano il Peloponneso, Tomaso e Demetrio
Paleologo, avevano provato essi pure la potenza del sultano. Per
acquistare da lui la pace gli avevano ceduto Corinto, in allora staccata
dal ducato di Atene, Patrasso ed alcune altre delle loro migliori città.
Frattanto furono abbastanza storditi per non sentire la necessità di
conservarsi uniti sotto il peso delle comuni calamità. Cercavano
alternativamente di sorprendersi le città: l'uno e l'altro assediava le
città del fratello invece di difendere le proprie, ed essi impiegavano
come soldati gli Albanesi sparsi nel Peloponneso, che saccheggiavano
egualmente tutti i Greci[193]. Demetrio si pose sotto la protezione di
Maometto II, promettendogli sua figlia in matrimonio. Maometto venne a
trovarlo a Sparta nell'inverno del 1460[194], e lo costrinse a
rinunciare ai suoi stati per andare a vivere in Adrianopoli colle
entrate che gli pagava il sultano: e colà morì Demetrio Paleologo nel
1471[195]. D'altra parte Tommaso, suo fratello, fuggendo innanzi a
Maometto, si ritirò prima a Corfù, di dove passò in Ancona il 16
novembre del 1461, per chiedere soccorsi a Pio II e al duca di Milano.
Seco portava, come titolo di raccomandazione presso ai principi
cristiani, la testa dell'apostolo sant'Andrea; ma nè le sue sacre
reliquie, nè i suoi ereditarj diritti all'impero di Costantinopoli,
punto non mossero i Latini, i quali non s'armavano nemmeno per la
propria difesa. Sua figlia, la regina di Servia, l'aveva seguito a Roma,
ma non fu più fortunata del padre. Egli tornò scoraggiato a Durazzo, ove
morì il 12 maggio del 1465, sua moglie era morta a Corfù tre anni prima.
Così si spense la famiglia imperiale, ed il Peloponneso passò in potere
de' Turchi, tranne poche fortezze, che Tommaso aveva cedute al papa o ai
Veneziani[196].

  [193] _Phranza Protovestiarius, l. III, c. 22, p. 116. — Laonicus
  Chalcocondyles de reb. Turcicis, l. VIII, p. 188. — Hist. polit.
  Turco Graeciae, l. I, p. 17._

  [194] _Leonicus Chalcocondyles, l. IX, p. 195._

  [195] _Hist. polit. Turco Graeciae, l. I, p. 20._

  [196] _Phranza Protovestiarius, l. III, c. 26, p. 122. — Laonicus
  Chalcocondyles de reb. Turcicis, l. VIII, p. 200. — Crusius Hist.
  polit. Turco Graeciae, l. I, p. 18._

Nel 1462 gli stati cristiani, posti sul Ponte Eussino, caddero sotto il
giogo de' Musulmani. Sinope, Ceraso e Trebisonda pare che si dassero a
Maometto II, senza avere opposta alcuna resistenza, allorchè si avvicinò
alle loro mura. Il sultano accordò poche entrate a Davide Comneno,
imperatore di Trebisonda, affinchè potesse vivere a Monte Mauro, luogo
del suo esilio; ma questa pensione non gli venne più corrisposta al
primo sospetto ch'ebbe di lui il sultano: e Davide Comneno, che si era
renduto odioso colla sua empietà contro il padre e contro suo nipote, di
cui era tutore e ch'egli aveva spogliato dello stato, morì poco dopo
assassinato. I principi di Sinope, di Ceraso e degli altri piccoli stati
delle coste del Ponte Eussino furono mandati ad Adrianopoli, ove vissero
nella mollezza, mercè le beneficenze del sultano[197].

  [197] _Phranza Protovestiarius, l. III, c. 27, p. 123. — Laonicus
  Chalcocondyles de reb. Turcicis, l. IX, t, XVI, p. 204-206. — Turco
  Graeciae Hist. polit., l. I, p. 20. — Demetrius Cantemir Hist.
  Othom., l. III, c. 1, § 15, p. 108._

Blado Dracula, ospodaro di Valacchia e di Moldavia, venne attaccato da
Maometto II immediatamente dopo l'impero di Trebisonda. Un'armata non
meno numerosa di quella che aveva conquistato Costantinopoli portò la
desolazione in tutte le province dell'antica Dacia; ma il sovrano di
questo barbaro paese aveva fatte ritirare tutte le donne e tutti i
fanciulli entro boschi inaccessibili, e tutti gli uomini erano con lui
montati a cavallo per inquietare l'armata turca; in mezzo a questi
deserti il vincitore ed il vinto trovavansi press'a poco alla stessa
condizione ridotti. Pure il feroce Maometto fremè d'orrore, quando
giunse colla sua armata presso di Praylab, campo destinato dal principe
cristiano alle sue esecuzioni. Un piano di diecissette stadj era tutto
sparso di pali, e ventimila persone vi erano state impalate per ordine
dell'atroce tiranno. Il più leggiere sospetto bastava per infligere
questa pena, che stendevasi sempre a tutta la famiglia del supposto
colpevole; e vedevansi nel campo di Praylab sopra quegli infami pali a
canto agli adulti, vecchi, donne e fanciulli, molti de' quali ancora
lattanti[198]. Verun mostro giammai non spinse la ferocia tanto avanti
quanto Dracula; niuno inventò più terribili supplicj. Egli cadde
all'ultimo vittima dell'orrore che aveva inspirato; i suoi sudditi lo
abbandonarono per suo fratello, che aveva vissuto nel serraglio di
Maometto II, come uno de' suoi favoriti; e Blado Dracula, rifugiato a
Belgrado, venne arrestato dagli Ungari, che lo fecero morire in
prigione[199].

  [198] _Laonic. Chalcocondyles de reb. Turc. l. IX, t. XVI, p. 212._
  — Pio II racconta varie altre particolarità intorno alle orribili
  crudeltà di Dracula; ma egli lo chiama Giovanni, mentre dà il nome
  di Ladislao (Wladislaus, Bladus) ad un capo che Giovanni Uniade avea
  dato ai Valacchi nel 1456. _Comment. Pii Papae II, l. XI, p. 296,
  297._ Il Vaivoda di Valacchia era feudatario del re di Polonia, ed è
  tra gli scrittori polacchi che devesi cercare qualche notizia
  intorno ai principi valacchi. Dlugoss, istorico pure polacco e
  contemporaneo, darebbe luogo a credere che Blado Dracula avesse
  usurpata la Valacchia, ma che era Vaivoda della Bessarabia; che suo
  figliuolo Radul gli fu successore in questa provincia, che abbandonò
  ai Turchi nel 1474 (_Hist. Polon., l. XIII, p. 516_), e che Blado
  Dracula, dopo tredici anni di prigionia presso gli Ungari, fu da
  loro rilasciato nel 1476, e perì lo stesso anno nella Bessarabia, di
  dove voleva scacciare i Turchi. _Hist. Polon., l. XIII, p. 551._

  I Turchi chiamano questo principe _Kazykluvoda_, o il _Vaivoda
  abbondante di pali_; _l'impalatore_. _Demetrius Cantemir Hist. de
  l'Empiro ottoman, l. III, c. I, § 16, p. 108._

  [199] _Laonic. Chalcocondyles, l. X, p. 215._

In mezzo a tanta desolazione della Cristianità nell'Oriente, lo spirito
si riposa alcun tempo per la nobile resistenza di Giorgio Castriotto,
detto _Scanderbeg_, ossia il Bey Alessandro. Suo padre Giovanni, signore
di Croja nell'Albania, di Sfetigrad e delle Valli di Dibra, era stato
vinto dai Turchi nel 1418, e costretto di dare in ostaggio tutti i suoi
figli, quattro maschi e cinque fanciulle. Giorgio di tutti il più
giovane era stato circonciso come i suoi fratelli, educato nella
religione musulmana, ed in appresso impiegato nell'armata. Non aveva più
di nove anni quando fu dato ai Turchi, e diciotto quando Amurat
l'innalzò alla dignità di _Sangiak_, dandogli cinque mila cavalli, ed
adoperandolo nelle guerre dell'Asia[200]. Il valore, la destrezza, e la
generosità di Scanderbeg, lo rendettero bentosto caro ai Turchi ed
illustre nell'esercito ottomano. Egli contribuì a' suoi prosperi
successi in Asia ed in Europa, combattè valorosamente contro Giorgio
Bulkowitz, despota della Servia, e quante volte fu mandato contro di
lui, altrettante tornò vincitore in Adrianopoli[201].

  [200] _Marinus Barletius Scodrensis, de vita et moribus, ac rebus
  gestis Scanderbegii, l. I, p. 7, Argent. in fol. 1537._

  [201] _Marinus Barletius, l. I, p. 13._

Il padre di Giorgio Castriotto era morto nel 1432. A quest'epoca Amurat
occupò Croja, fortezza quasi inespugnabile posta sulla sommità d'un
monte, ventun miglia al nord di Durazzo, e poco discosta dal mare. Vi fu
posta una grossa guarnigione musulmana, e tutto il restante del paese
venne in potere dei Turchi; Giorgio Castriotto, che da Amurat vedevasi
spogliare di tutta la paterna eredità, seppe dissimulare altri dieci
anni il suo malcontento, continuò a prestare al sultano segnalati
servigj, e dolcemente rifiutò le offerte de' signori Epiroti, che lo
invitavano a farsi loro capo. Finalmente gli si presentò la favorevole
occasione che stava aspettando, dopo la grande vittoria ottenuta nel
1442 in vicinanza di Sofia e della Morava da Giovanni Unniade, vaivoda
di Transilvania, e da Uladislao, re d'Ungheria[202]. Il pascià di
Romania era stato totalmente disfatto; Scanderbeg fermò nella sua fuga
il segretario di questo pascià, e lo sforzò a spedirgli un ordine
diretto al comandante di Croja, perchè gli consegnasse quella fortezza
come se ne fosse stato dal Sultano nominato governatore. Dopo ciò il
segretario e tutti i Turchi che servivano sotto di lui, e quanti
formavano la guarnigione di Croja, o trovavansi sparsi nell'Epiro e
nell'Albania vennero sagrificati ad una barbara politica, ed uccisi per
suo ordine[203]. Di già dodici mila cristiani si erano adunati sotto le
sue insegne, allorchè, se crediamo al suo storico, loro parlò in tal
modo: «In questa rivoluzione, o miei amici, io nulla vedo di nuovo,
nulla d'inaspettato. Io non aveva mai dubitato del vostro coraggio,
dell'antica vostra fedeltà verso mio padre, della vostra nobiltà,
siccome io non aveva mai dubitato di me stesso. Spesse volte, mentre
sembrava ch'io servissi il tiranno, mi avete invitato a prendere le
vostre difese, ed io vado orgoglioso di questa vostra confidenza. Quando
non vedendo alcuna fondata speranza, alcun progetto determinato, io vi
rimandavo colmi di tristezza alle vostre case, credeste senza dubbio che
avessi dimenticata la mia patria, il mio onore, la nostra libertà; pure
in allora sotto questo stesso silenzio servivo ai vostri ed ai miei
interessi. Trattavasi di cose che dovevano essere fatte prima di dirle,
ed apertamente vedevo che voi avevate bisogno di freno e non di sprone.
Vi tenni nascosti i miei disegni e le mie disposizioni, non perchè
diffidassi della vostra fede, ma perchè l'amore della libertà strascina
piuttosto che lasciarsi guidare; quando vi si fosse presentata la più
piccola occasione per ricuperarla, voi avreste sprezzate mille morti,
avreste congiurate contro di voi mille spade: pure se mancavamo un solo
tentativo, avevamo per sempre perduta l'occasione di scuotere il giogo,
noi perivamo in mezzo ai supplicj, e coloro che sarebbero stati
risparmiati sarebbero stati condannati ad una servitù cento volte più
dura di quella che adesso per noi finisce. Voi potevate scegliere in
mezzo alla vostra nazione altri ristauratori della vostra libertà; ma
per divina disposizione avete preferito di ripromettervi questa libertà
da me, piuttosto che cercarla voi medesimi. Uomini tanto coraggiosi,
educati nell'indipendenza, non isdegnarono di rimanere tra le vergognose
catene dei barbari, per aspettare che io mi unissi a loro. Ma come
poss'io usurpare il nome di vostro liberatore? No, certamente, non sono
io quello che vi ha recata la libertà; io la trovai presso di voi.
Appena ebbi posto il piede sul vostro suolo, appena udiste il mio nome
che accorreste, volaste, come se renduti vi fossero i vostri padri, i
vostri figli, i vostri fratelli dal seno dei morti, come se tutti gli
Dei fossero scesi sulla terra. Io non sono già quello che vi ha date le
armi, io vi trovai armati; non ho conquistata io questa città,
quest'impero, ma voi me gli avete dati. Dunque io trovai la libertà ne'
vostri cuori, sulle vostre fronti, sulle spade, sulle lance; voi vi
risguardaste quali fedeli tutori, e mi riponeste in possesso
dell'eredità de' miei antenati. Terminate adunque l'opera cominciata con
tanta gloria e felicità. Croja è ricuperata, le valli di Dibra sono
evacuate dai nemici, tutto il popolo dell'Epiro è liberato, ma rimangono
in mano del tiranno de' castelli e delle fortezze. A non considerare che
le loro forze ed il numero delle guarnigioni, senza dubbio che abbiamo
bisogno di grande arte e di somma costanza. Ma in presenza del nemico e
col ferro ardente nelle mani noi potremo meglio giudicarne. Spieghiamo
adunque i nostri stendardi, marciamo coll'entusiasmo dei vincitori, e la
fortuna ci sarà propizia»[204].

  [202] _Marinus Barletius, l. I, p. 15. — Philip. Callimachus
  Experiens. de reb. Uladislai, l. II, Rer. Hungar. Script., p. 492. —
  Demetrius Cantemir, l. II, c. IV, § 30, p. 91_ della trad. franc.

  [203] _Marinus Barletius, l. I, p. 20._

  [204] _Marinus Barletius, l. I, p. 22-23._

In fatti la fortuna assecondò gli Epiroti; sebbene il paese in cui
cominciarono la rivoluzione sia situato press'a poco sotto il paralello
di Roma tra il 42.º e 43.º grado di latitudine, le alte montagne ond'è
coperto lo rendono freddo quanto la Svizzera. Dense nevi coprivano il
suolo, tutte le acque erano gelate, e non pertanto Scanderbeg occupò in
un mese Petralla, Petralba e Stellusio, fortezze situate sopra la
sommità delle montagne; perciocchè in quel selvaggio paese, in cui
l'ordine e la pace erano da lungo tempo sconosciute, eransi scelti per
abitazione dell'uomo non luoghi proprj all'agricoltura ed al commercio,
ma inaccessibili ritiri sulla sommità di rupi scoscese, ove non
conduceva che un angusto e difficile sentiero con infiniti
avvolgimenti[205].

  [205] _Marinus Barletius, l. I, p. 22, 23._

Dopo aver ricuperato quanto apparteneva a suo padre, Scanderbeg adunò
un'assemblea de' principali Epiroti suoi eguali, non già ne' proprj, o
ne' loro stati, ma in Alessio (Lissa), città posta tra Croja e Scutari,
che apparteneva ai Veneziani[206]. I nomi di questi principi, che per
più secoli avevano conservato il diritto di proteggere e di condurre
alla guerra, piuttosto che di governare vassalli affezionati alle loro
famiglie, presentansi rare volte nella storia, e la guerra di Scanderbeg
è l'ultima fiamma che li rischiarò prima di consumarli. Vedevansi alla
dieta d'Alessio, Arianite Thopia, che governava il paese collocato
presso alle bocche di Cattaro, Andrea Thopia, signore dei monti della
Chimera, che mai non soggiacquero al giogo musulmano, i Musacchi alleati
dei Castriotti, i Ducagini che abitavano le rive del fiume Lodrino,
Lecca Zaccaria, signore di Dayna, Pietro Spano, signore di Drivast, la
di cui famiglia pretendeva essere discesa da Teodosio il grande, Leccas
Dusmano, Stefano Czernowitzch, signore di Montenegro, e varj altri
principi, che in questa assemblea trovavansi uniti ai comandanti di
Scutari, d'Alessio, e di altre città e fortezze veneziane[207].

  [206] Colonia fondata da Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa.

  [207] _Marinus Barletius, l. II, p. 37._

Quest'assemblea, a nome di tutta l'Albania, dichiarossi per la guerra
che Castriotto faceva prima ai Turchi colle sole forze delle sue
signorie: lo nominò generale di tutto l'Epiro; promise un sussidio, che,
unito alle saline che di già possedeva, portò le sue entrate a dugento
mila fiorini, e gli apparecchiò un'armata di otto mila cavalli e di
sette mila fanti[208].

  [208] _Marinus Barletius, l. II, p. 44, 45._

Con questa piccola armata Scanderbeg sostenne vent'anni tutti gli sforzi
della potenza de' Turchi, lo che parve cosa tanto più prodigiosa in
quanto che inauditi disastri affliggevano in questa stessa epoca la
cristianità in Levante. Dopo la rotta di Varna, in cui Uladislao re di
Polonia e d'Ungaria fu ucciso il 10 novembre del 1444, e dalla quale si
sottrasse a stento Giovanni Uniade per rifugiarsi nella
Transilvania[209], Scanderbeg, che nel precedente anno aveva ottenuta
una grande vittoria sopra Alì pascià[210], raccolse i dispersi avanzi
dell'armata unghera, li fece passar per mare a Ragusi, e di là in
Ungheria, e si vendicò, facendo delle scorrerie nella Servia, dei
soccorsi che il Cralo Giorgio Bulkowitz aveva dati agl'infedeli[211].
Feyrouz, ed in appresso Mustafà, due pascià, mandati contro Scanderbeg
da Amurat II, furono disfatti l'uno dopo l'altro. Amurat sospese qualche
tempo una guerra che gli costava troppi soldati, ma Scanderbeg,
insofferente di riposo, approfittò di questa tregua per attaccare i
Veneziani, perchè avevano accettata l'eredità di Lecca Zaccaria, signore
di Dayna, ed uno de' piccoli principi dell'Epiro, ch'era stato ucciso da
un suo vicino[212]. Ma era più facile a Castriotto il vincere i Turchi
in aperta campagna, o colle imboscate, che l'occupare una sola città
fortificata. Assediò invano Dayna, e dopo averne guastato il territorio,
fece la pace coi Veneziani. In tale occasione venne dal senato ammesso
nel corpo della nobiltà veneziana[213].

  [209] _Turco Graeciae Hist. polit., l. I, p. 6. — Philippi
  Callimachi de reb. Uladislai, l. III, p. 514-518, R. Ung., t. I. —
  Ann. Eccl. 1444, § 9, 10, p. 294._

  [210] _Marinus Barletius, l. II, p. 53._

  [211] _Marinus Barletius, l. III, p. 63._

  [212] _Ivi, p. 75._

  [213] _Ivi, l. IV, p. 100. — Sandi Stor. Civ. Venez., p. II, l.
  VIII, p. 779._

Amurat, irritato di vedere i suoi pascià successivamente disfatti da
Scanderbeg, risolse nel 1449 di condurre egli stesso la sua armata in
Albania. Il principe Epirota credeva di vedere assediata Croja, e ne
fece uscire tutte le donne ed i fanciulli, che mandò nelle città
marittime, o presso i Veneziani. Mandò in lontane parti tutti gli
armenti sparsi nelle campagne, e dispose pure Sfetigrade ad una ostinata
difesa[214]; ma invece di chiudersi egli stesso in una di queste città
si tenne a qualche distanza dai nemici per sorprendere i corpi staccati.
Amurat dopo un lungo assedio s'impadronì di Sfetigrade; ma si vuole che
questa campagna non gli costasse meno di trenta mila uomini. Di più andò
debitore di tale vittoria alla perfidia di un abitante che gettò un cane
morto nella sola cisterna che somministrasse acqua alla fortezza. I
Bulgari che facevano parte della guarnigione, avrebbero preferito di
morire di sete, piuttosto che toccare l'acqua resa impura da un
cadavere[215].

  [214] _Marinus Barletius, l. IV, p. 106._

  [215] _Ivi, l. V, p. 145. — Laonic. Chalcocondyles de reb. Turcicis,
  l. VII, p. 145._

Nel susseguente anno Amurat tornò nell'Epiro con quaranta mila uomini,
ed assediò Croja. Fece fondere nello stesso suo campo i cannoni che
adoperò nelle sue batterie, il di cui calibro superava di molto quello
de' più grossi pezzi che si usino al presente[216]; questa formidabile
artiglieria aprì qualche breccia, ma così difficile era l'accesso per
giugnervi, e tanto scoscesa la collina, che Tennero sempre respinti gli
assalti dei Musulmani con grande carnificina. Intanto Scanderbeg
sorprendeva dei corpi staccati, penetrava la notte fino nel campo di
Amurat, e lo riempiva di sangue e di terrore. Queste frequenti sorprese
costrinsero all'ultimo il sultano a levare l'assedio. L'avvicinamento di
Giovanni Uniade con un'armata ungara, ch'era di già entrata nel
territorio turco, affrettò ancora la ritirata del monarca ottomano[217].
Dopo quest'umiliante campagna, in cui Amurat aveva veduto oscurarsi
sotto un miserabile castello una gloria stabilita colla disfatta di
tanti re, questo vecchio sovrano ritirossi in Adrianopoli, ove dopo
trentun'anni di regno morì improvvisamente in un banchetto il decimo
mese dell'anno dell'Egira 855, ossia 1451 di Gesù Cristo[218].

  [216] _Marinus Barletius, l. VI, p. 165._

  [217] _Laonic. Chalcocondyles de reb. Turcicis, l. VII, p. 146._

  [218] _Ivi, p. 155. — An. Turcici Leunclavii, p. 257._ Il Barlezio
  racconta che Amurat infermò e morì sotto Croja il quinto mese
  dell'assedio, _l. VI, p. 192_. Nulla è più falso; eppure il Barlezio
  era contemporaneo e compatriotto.

Gl'Italiani avevano appena osato soccorrere Scanderbeg, mentre trovavasi
sulle braccia tutte le forze del sultano, ma lo felicitarono con
trasporto intorno alla sua vittoria. Alfonso, re di Napoli, gli mandò
trecento mila moggia di frumento e cento mila di orzo per indennizzarlo
del raccolto che aveva perduto[219]. Ma Scanderbeg, quasi sempre felice
nelle battaglie, era sempre sventurato negli assedj delle città. Volle
ricuperare Sfetigrade, e fu respinto; assediò Belgrado degli Arnauti, e
fu costretto a ritirarsi dopo avere perduta molta gente[220].

  [219] _Marinus Barletius, l. VI, p. 193. — Barthol. Facii Rer. Gest.
  Alphonsi Regis, l. IX, p. 154._

  [220] _Marinus Barletius, l. VIII, p. 231. — Leon. Chalcocondyles,
  l. VIII, p. 179._

I tesori di Maometto II, succeduto ad Amurat II, trovarono de' traditori
nel consiglio di Scanderbeg, tostocchè fu ricominciata la guerra
d'Albania; Mosè Golento, suo confidente, ed il migliore de' suoi
capitani, rivolse le proprie armi contro di lui. Per altro Golento non
potè sostenere lungo tempo la collera d'un eroe; egli tornò colla corda
al collo a gittarsi ai suoi piedi, gli chiese grazia, e l'ottenne[221].
Aveva questi appena espiato il suo delitto, quando un altro generale di
Scanderbeg, Amesa, suo nipote, ed in qualche modo suo collega, passò
dalla banda del nemico[222]. Questi tornò subito nell'Epiro con un
sangiacco che comandava l'armata turca: Maometto II l'aveva dichiarato
re d'Albania, ed aveva veduto Scanderbeg fuggire innanzi a lui. Ma fu
breve il suo trionfo, essendo stato sorpreso nel suo campo, fatto
prigioniero col sangiacco, e mandato nelle prigioni di Napoli[223].
Scanderbeg annunciò a tutti i sovrani d'Europa questa vittoria, nella
quale pretese che perissero trenta mila Turchi. Mandando ai principi
latini parte delle spoglie e de' prigionieri, chiedeva i loro soccorsi
per continuare la guerra[224].

  [221] _Marinus Barletius, l. VIII, p. 251._

  [222] _Ivi, l. IX, p. 253._

  [223] _Ivi, p. 275. — Ann. Eccl. Rayn., 1458, § 15 e 16, l. XVIII,
  p. 512._

  [224] _Marinus Barletius, l. IX, p. 281._

Pure i Latini non formarono una crociata per soccorrere Scanderbeg; anzi
quest'eroe medesimo fu chiamato in Italia da Pio II per difendere
Ferdinando, ed attestare in tal modo la sua riconoscenza al figlio di
quell'Alfonso, da cui aveva ricevuti de' beneficj. Omai da qualche tempo
i Turchi evitavano una guerra, in cui avevano tanto sofferto: Amur e
Sinan, due pascià vicini all'Epiro, erano stati incaricati di custodire
i confini, ma non di oltrepassarli. Pieni di rispetto pel valore
dell'eroe albanese, avevano chiesta la sua amicizia, e l'avevano
ottenuta. Le due nazioni non avevano fatta la pace, ma con una tacita
convenzione avevano sospese le ostilità, e gli Epiroti si abbandonavano
senza distrazione all'agricoltura ed alla pastorizia. Le sollecitazioni
del papa avevano in appresso determinato Scanderbeg a passare in Italia,
ed allora accettò le onorate condizioni che gli fece offrire Maometto
II; e la pace fu sottoscritta fra i due stati il 22 giugno del
1461[225]. Abbiamo osservato che infatti Scanderbeg venne a raggiugnere
Ferdinando a Barletta, e che partecipò alla vittoria di Troja ed alla
guerra di Puglia contro gli Angioini. Quando fu terminata questa guerra,
il re di Napoli gli diede in ricompensa Trani, Monte-Gargano e san
Giovanni Rotondo, tre città della Puglia, che poste essendo in faccia
alla Macedonia, potevano essere per lui un prezioso asilo, ove
finalmente soggiacesse nella lotta troppo disuguale contro i
Turchi[226]. Egli l'aveva di già sostenuta diciannove anni questa lotta,
e gl'Italiani, oziosi spettatori di questa grande contesa, applaudivano
l'eroe, senza somministrargli soccorsi, che lo ponessero in istato di
approfittare delle sue vittorie. Erano ancor essi distratti da
importanti guerre, ed ancora non pensavano al pericolo che li minacciava
in tanta vicinanza. Ma quando fu quasi terminata la guerra di Napoli, e
che Scanderbeg ritornò al suo paese, si dolsero che questo campione
della fede rientrasse nell'ozio. Era pel proprio loro vantaggio, non per
quello di Scanderbeg, ch'essi volevano decidere della pace o della
guerra in Albania. Pio II ripigliava con ardore il progetto della
crociata per la quale aveva, pochi anni prima, adunati a Mantova i
deputati della Cristianità; ed una recente conquista dei Turchi aveva
finalmente portate le formidabili loro insegne fino ai confini della
stessa Italia.

  [225] _Marinus Barletius, l. X, p. 285-306_, e _l. XI, p. 511_.
  Parla prima della tregua di un anno, ed in appresso di una pace; ma
  le date non possono permettere diversi trattati.

  [226] _Marinus Barletius, l. X, p. 306._

Sulla strada che i Turchi dovevano tenere per entrare in Italia pel
Friuli, o in Germania per la Carniola, trovavasi il regno di Bosnia, che
le aspre sue montagne, e gl'inespugnabili castelli che le coronavano,
potevano far risguardare come l'antemurale della Cristianità. Ma i
Bosniaci non erano ortodossi; si accusavano di manicheismo, lo che
probabilmente voleva soltanto dire, che, in sull'esempio dei Bulgari,
avevano abbracciata la riforma dei Pauliciani. Altronde l'ignoranza e la
barbarie del popolo avevano soffocati i lumi che potevano
originariamente distinguere questa setta. Quando i Bosniaci si conobbero
minacciati da imminente pericolo, cercarono di stringere alleanza coi
Cristiani occidentali, e nel 1445 il loro re, Stefano Tommaso, si
riconciliò colla Chiesa[227]. Ma perchè ricusò di castigare quelli de'
suoi sudditi, che continuavano ad essere attaccati all'antica credenza,
i Latini rimanevano dubbiosi intorno alla sua ortodossia, e
risguardarono come un castigo del cielo la disgrazia onde in seguito fu
oppresso quel paese.

  [227] _Raynal. Ann. Eccl., § 23, p. 316._

La conquista della Servia fatta nel 1458 aveva renduta la Bosnia
confinante coi Turchi; Maometto II aveva chiesto un tributo al suo re,
ed aveva fortificato il castello di Cziftin fabbricato al confluente
della Sava e della Bosna, per avere sempre libero l'ingresso del paese.
Il re Stefano, figlio e successore di Stefano Tommaso, prevedendo la
burrasca che si addensava sopra di lui, scrisse nel 1462 a Pio II per
fargli conoscere il proprio pericolo. I Turchi, gli diceva, trattano con
tanta dolcezza i contadini bosniaci che ne hanno sedotta la maggior
parte; i signori sono abbandonati ne' loro dominj dai vassalli, e se i
Veneziani, il papa, o alcuno de' popoli latini non soccorre questo
paese, esso troverassi in breve aperto, senza combattere, ai nemici
della Cristianità. Frattanto se la Bosnia colle sue aspre montagne, e le
sue fortezze è tutt'ora il baluardo dell'Occidente, diverrà, quando
trovisi in mano dei Turchi, un sicuro asilo, da cui piomberanno a voglia
loro sull'Italia o sulla Germania. Finchè sussiste ancora questo regno,
poco considerabili forze bastano per ritornare il coraggio a questi
popoli e per ridurre i bellicosi Bosniaci a sagrificarsi tutti per
difendere la loro patria e coprire la Cristianità; ma se si lascia
cadere, le più grandi armate potranno a stento chiudere ai Turchi
l'ingresso dell'Italia e della Germania. Stefano finalmente ricordava
che suo padre aveva pure annunciata a Niccolò V la caduta di
Costantinopoli, quando poche migliaja di soldati latini avrebbero potuto
salvarla, e supplicava Pio II di non permettere che i Latini cadessero
per la seconda volta nello stesso errore[228]. Ma Pio II non era per
anco disposto a somministrare ai Bosniaci i chiesti sussidj. Questi
popoli, indeboliti dalle precedenti guerre, e forse disuniti dall'odio
tra le due sette cristiane, non opposero quasi veruna resistenza, quando
Maometto II venne ad attaccarli in persona. Radace, comandante di
Bobazia, in allora capitale della Bosnia, cedette questa città
senz'averla difesa e si unì ai Turchi. Il duca Stefano, che comandava a
Jaickza, non si comportò diversamente. Ambidue sono accusati
dall'annalista della Chiesa di manicheismo, ambidue temettero forse le
persecuzioni che Roma chiedeva instantemente al re di Bosnia per prezzo
de' suoi soccorsi. Questo re fuggì a stento da Jaickza, e si chiuse nel
castello d'Eluth, ove non potè fare lunga resistenza. Dopo otto giorni
venne condotto prigioniere ai piedi di Maometto II. Il sultano gli
promise di ristabilirlo ne' suoi stati, come principe feudatario della
Porta, a condizione che il re gli darebbe le chiavi di settanta fortezze
della Bosnia. Il prigioniero, trovandosi in balìa del vincitore, si
sottomise a tutto; ma quando le insegne della luna furono spiegate su
tutte le fortezze della Bosnia, Maometto II fece decapitare il re suo
prigioniero, o, secondo altri, gli fece cavare la pelle. Mandò pure al
supplicio tutti i nobili nel campo di Blagai; mandò gli abitanti in
ischiavitù, e popolò di Musulmani questa provincia, nella quale più oggi
non trovasi un cristiano, e che è diventata l'antimurale dell'impero
turco. La regina di Bosnia fuggì a Roma, ove visse cogli assegni del
papa. Per riconoscenza lasciò alla santa sede tutti i diritti ch'ella
poteva avere sugli stati del marito[229].

  [228] Questa lettera piena di nobiltà e di buon senso è riportata
  tutt'intera da Pio II nel suo Commentario, _l. XI, p. 297_.
  Frattanto lo stesso Stefano viene accusato d'avere strozzato a letto
  suo padre Stefano Tommaso per sospetto che tornasse al manicheismo.
  _Familiae Sclavonicae, Bossinenses, Bani, ac Reges. Ducange, p. 257,
  t. XXI._

  [229] _Demet. Cantemir, l. III, c. I, § 19, p. 109. — Comment. Pii
  Papae II, l. XI, p. 311. — Laonic. Chalcocondyles, l. X, p. 225. —
  An. Turc. a Leunclavio editi, p. 257. — Raynal. Ann. Eccl. 1463, §
  14-17, t. XIX, p. 127. — Bossinenses Bani ac Reges in Ducang. Famil.
  Dalmat., p. 258. — Dlugossi, Hist. Polon., l. XIII, p. 322, t. II,
  Lipsiae, f. 1712._ I fratelli minori di Jaickza portarono seco,
  fuggendo a Venezia, il corpo dell'evangelista san Luca; un altro
  corpo dello stesso santo trovavasi a Padova, e la sua testa a Roma;
  e l'autenticità di queste tre reliquie era egualmente provata dai
  miracoli. La corte di Roma, eccitata a dare giudizio, vi si rifiutò.
  _Ann. Eccl. 1463, § 18, p. 128. — Comment. Pii Papae II, l. VIII, p.
  192. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1177._

I Turchi non eransi appena stabiliti nella nuova loro conquista che
cominciarono a portare più lontano i loro guasti. Lo stesso anno 1468 il
_Ban_ di Schiavonia fu da loro preso ne' suoi stati ed ucciso con
cinquecento suoi gentiluomini. La guerra si andava sempre più accostando
ai confini dell'Italia, e mentre che gli stati veneziani non erano più
separati dagli avanposti musulmani che da una o due giornate di cammino,
la guerra si rinnovava tra i Veneziani ed i Turchi anche in Grecia. I
Cristiani non credevansi obbligati verso i Musulmani ad alcuna legge
prescritta dal diritto delle genti. Uno schiavo del vicepascià d'Atene
aveva rubata la cassa pubblica, ed erasi rifugiato presso Girolamo
Valaresio, comandante veneto di Corone, col quale aveva divisi i cento
mila aspri levati dalla cassa. I Turchi chiesero lo schiavo ed il
danaro; ma loro fu risposto che lo schiavo, essendosi fatto cristiano,
non poteva darsi agl'infedeli, e non venne restituito il danaro. I
Turchi per rappresaglia s'impadronirono d'Argo, ove comandava Niccolò
Dandolo, e la guerra ricominciò in maggio del 1463[230].

  [230] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1171._

Luigi Loredano, procuratore e capitano generale de' Veneziani, temeva
che la sua repubblica non gli rimproverasse di avere per cupidigia
accesa una pericolosa guerra. Per prevenire tale accusa si sforzò di
persuadere alla signoria, essere questa una favorevole circostanza per
occupare la Morea; che venti mila Greci erano apparecchiati a prendere
le armi ed a porsi sotto le insegne di san Marco; che finalmente la
penisola, venendo una volta in mano d'una potenza marittima, più non
potrebbe esserle tolta. L'ambizione acciecò il senato, il quale decretò
la guerra e fece passare in Morea Bertoldo, figliuolo di Taddeo, di un
ramo cadetto della casa d'Este, con quindici contestabili, per comandare
le truppe che si assolderebbero in quel paese. Nello stesso tempo
ventitre vascelli e cinque galere dovevano trasportare e proteggere le
truppe italiane. Queste sbarcarono a Modone, e Bertoldo d'Este le
condusse a Napoli di Malvasia; attaccò Argos e la prese senza
difficoltà[231]; indi marciò verso l'Istmo che unisce il Peloponneso al
continente. La flotta veneziana, comandata dal Loredano, era nel golfo
di Corinto o di Lepanto; il golfo Saronico o d'Engia era occupato da sei
altri vascelli veneziani, di modo che i Cristiani, padroni nello stesso
tempo della terra e del mare, non durarono fatica a difendere
l'_Hexamiglion_. Questa lingua di terra, che come l'indica il suo nome
non ha che sei miglia di larghezza[232], unisce al continente una
penisola che presenta trecento sessanta miglia di coste. Trenta mila
operaj vennero adunati nella Morea, ed in quindici giorni innalzarono un
trinceramento murato a secco, alto dodici piedi, difeso da doppia fossa
e coperto da cento trentasei torri. I materiali erano stati molto tempo
prima apparecchiati in sul luogo per difendere il Peloponneso contro le
precedenti invasioni, ma i Greci indolenti non gli avevano poi messi in
opera.

  [231] _Comment. Pii Papae II, l. XII, p. 314. — Andrea Navagero
  Stor. Ven., t. XXIII, p. 1122. — Marin Sanuto, p. 1173. — M. A.
  Sabellico Dec. III, l. VIII, f. 202. — Laonic. Chalcocondyles de
  reb. Turc., l. X, p. 231._

  [232] L'_Hexamiglion_ ha meno di sei miglie di larghezza nel punto
  più stretto. Forse il suo nome indica la misura e l'estensione de'
  trinceramenti che vi si erano innalzati.

Per assicurarsi il possedimento della penisola non bastava difenderne
l'ingresso, ma era d'uopo scacciarne i pochi Turchi che vi stavano
accantonati. Quando arrivarono i Veneziani, un campo di quattro mila
cavalli copriva Corinto, e questi si ritirarono al di là dell'Istmo dopo
una breve zuffa. Benedetto Coleoni sottomise tutta la Laconia, tranne la
sola fortezza di Misitra, sotto le di cui mura fu ucciso: Giovanni Magro
occupò l'Arcadia; ma fu respinto innanzi al castello di Leontari lontano
due leghe dalle ruine dell'antica Megalopoli. Il restante della Morea
ubbidiva ai Veneziani, ad eccezione di Corinto la più forte e più
popolata città della penisola, per assediare la quale Bertoldo adunò
tutta la sua armata. Ne' primi due assalti furono prese alcune opere
esterne; ma nel terzo assalto il generale, ferito da un sasso in una
tempia, morì dopo dodici giorni[233]. L'armata, scoraggiata dalla
perdita del suo capo, e travagliata dal rigore dell'inverno ch'era di
già cominciato, abbandonò l'assedio. Gli abitanti, temendo le crudeli
vendette dei Musulmani, non ardivano dichiararsi a favore della
repubblica.

  [233] _M. A. Sabellico Dec. III, l. VIII, f. 203. — And. Navagero
  Stor. Venez., p. 1122._

Poco dopo si sparse voce che Maometto, pascià di Livadia, si avanzava
con una formidabile armata, che i più timidi facevano ammontare ad
ottanta mila cavalli. Bettino di Calcina, ch'era succeduto a Bertoldo
d'Este nel comando dell'armata veneziana, non osò aspettare il nemico,
ed abbandonò l'isola per chiudersi nelle fortezze, viltà che perdette la
Morea[234]. Il pascià di Livadia era così lontano dal tentare di farne
la conquista, che quando gli fu detto che due mila fucilieri custodivano
l'Hexamiglion, scrisse in prevenzione al sultano per iscusarsi de' non
molti avanzamenti che farebbe. E già si ritirava, quando un Albanese,
attraversando il golfo d'Engia, gli recò da Corinto la notizia della
ritirata degli Italiani. Maometto partì allora da Platea, e passando di
notte il Citerone, vide i vascelli veneziani che ancora occupavano i due
mari. Appena poteva credere ai proprj occhi, quando trovò le
fortificazioni dell'Istmo abbandonate. Le fortezze in cui erasi ritirata
la scoraggiata armata dei Veneziani non fecero che brevissima
resistenza; Argo fu ripresa per la terza volta, e l'armata turca,
avanzandosi divisa in due corpi sopra Leontari e Patrasso, spingevasi
innanzi i Latini e passava a filo di spada tutti i Greci che si erano
dichiarati per loro. Le sole fortezze che i Veneziani possedevano prima
della guerra, non fecero parte di così rapida conquista[235].

  [234] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1176. — Laon. Chalcocond., l.
  X, p. 232._

  [235] _Ivi, p. 233._ Questo greco storico ci manca alla fine di
  questa campagna. Coll'indipendenza della Grecia vedesi a quest'epoca
  finire ogni monumento storico.

La guerra de' Veneziani e dei Turchi, quella della Bosnia e quella della
Schiavonia, avevano ravvivato lo zelo di Pio II, il quale, liberato
dalle molestie che fin allora gli aveva dato la successione al regno di
Napoli, aveva adunato un concistoro, e rappresentato ai cardinali che
era omai tempo di dare principio a questa guerra sacra, cui erasi
obbligato quando era salito sul trono pontificio. «Ogni anno, disse
egli, i Turchi guastano qualche nuova provincia di Cristianità; in
questo gli abbiamo veduti conquistare la Bosnia ed ucciderne il re. Gli
Ungari sono atterriti, tutti i popoli vicini compresi da spavento; e noi
che faremo? Esorteremo noi i re ad accorrere in loro soccorso, a
respingere il nemico dai nostri confini? Ma noi l'abbiamo di già tentato
invano. Si ottiene poco credito quando si dice agli altri _andate_;
forse il vocabolo _venite_ farà migliore effetto; io voglio farne la
prova. Ho determinato di marciare io stesso alla guerra contro i Turchi,
ed in tal modo d'invitare coi fatti quanto colle parole i principi
cristiani a seguirmi. Forse quando vedranno il loro padre, il pontefice
romano, il vicario di Gesù Cristo, vecchio ed infermo, partire per la
guerra sacra, arrossiranno di rimanersi a casa loro, prenderanno le
armi, e finalmente abbraccieranno con tutto il loro coraggio la difesa
della nostra santa religione. Se per questa via eccitare non possiamo i
Cristiani alla guerra, non sapremmo quale altra additarne. Fuori di
dubbio la nostra vecchiaja rende quest'intrapresa difficile, noi
c'incamminiamo ad una quasi certa morte, ma noi non la rifiutiamo.
Dobbiamo una volta morire, ed il luogo della nostra morte è indifferente
alla Cristianità. Voi altresì che così frequentemente ci esortaste alla
guerra contro i Turchi, voi cardinali, membri della Chiesa, voi dovete
seguire il vostro capo.... Lo abbiamo promesso al duca di Borgogna ed ai
Veneziani; ed una potente flotta di questi ultimi ci accompagnerà e
signoreggerà il mare. Ci seguiranno le altre potenze d'Italia. Il duca
di Borgogna si trarrà dietro l'Occidente[236]; dalla parte del Nord il
Turco sarà stretto dagli Ungari e dai Sarmati; i Cristiani della Grecia
si solleveranno e verranno nei nostri campi. Gli Albanesi, i Serviani,
gli Epiroti si rallegreranno vedendo spuntare il giorno della libertà, e
ci accorderanno la loro assistenza; nell'Asia medesima saremo
assecondati dai nemici dei Turchi, il Caramano ed il re di Persia.
Finalmente il divino favore ci farà vittoriosi. Rispetto a me io non
vado alla battaglia, da cui me ne ritraggono la debolezza del mio corpo
ed il sacerdozio, cui si sconviene il maneggiare la spada. Imiterò
adunque il santo patriarca Mosè, che pregava sulla montagna mentre
Israello combatteva contro gli Amaleciti. Inginocchiato sopra un'alta
poppa, o sopra la sommità d'un monte, colla santa Eucaristia innanzi
agli occhi, voi mi circonderete e con un cuore contrito ed umiliato
chiederemo al signore la vittoria per i nostri soldati[237].»

  [236] Fu l'anno 1453, ed alla notizia della presa di Costantinopoli,
  che il duca Filippo di Borgogna giurò colla maggior parte della sua
  nobiltà, di marciare alla crociata. Quest'impegno fu preso in mezzo
  alle feste di questa corte brillante con tutte le cerimonie
  dell'antica cavalleria. _Chron. d'Enguerr. de Monstrelet, vol. III,
  p. 55._ Due anni dopo obbligò gli stati del suo regno a triplicare i
  sussidj per le spese della crociata. _Ivi, p. 64._

  [237] Veruna aringa è più di questa autentica, poichè quello stesso
  che la pronunciò la trascrisse ne' suoi commentarj. _Pii II, l. XII,
  p. 336 a 341. — Rayn. Ann. Eccl. 1463, § 26, p. 130._ Io ne ommisi
  una parte.

Non v'ebbero nel concistoro che due cardinali, quello di Spoleti e
quello di Artois, che non partecipassero all'entusiasmo del vecchio
pontefice. Un'eloquente bolla del 22 ottobre del 1463 chiamò tutti i
Cristiani alla guerra sacra, indicando per luogo dell'unione Ancona, e
minacciando i fulmini della Chiesa a coloro che turberebbero la pace con
ostilità tra Cristiani e Cristiani[238]. Nello stesso tempo il papa
scrisse al doge di Venezia, Cristoforo Moro, invitando il vecchio capo
d'una repubblica ad unirsi personalmente al vecchio principe del
cristianesimo. Il consiglio dei Pregadi non esitò a fargliene accettare
l'impegno. Ma il doge faceva qualche difficoltà di andare a bordo a
motivo della sua estrema vecchiaja, ed i consiglieri, avendo inutilmente
tentati altri mezzi di persuasione, Vettor Cappello gli disse:
«Serenissimo principe, se vostra serenità non vuole imbarcarsi di buon
grado, la faremo partire per forza, perchè dobbiamo prenderci maggior
cura del bene e dell'onore di questo paese, che della vostra persona.»
Pure, siccome il doge protestava di non avere conoscenza della guerra
marittima, gli fu promesso di dargli per ammiraglio il suo parente
Lorenzo Moro, duca di Candia[239].

  [238] _Ann. Eccl. 1463, § 29-40, p. 131._

  [239] _Marin Sanuto Vite dei Duchi di Venez., p. 1174._

Gli eccitamenti di Pio II non avevano per altro su tutti i principi
cristiani l'effetto ch'egli ne sperava. I Francesi, occupati dagli
intrighi di Lodovico XI, ed i Tedeschi, agitati nell'anarchia, e dal
debole Federico III renduti sempre più impotenti, non presero veruna
parte in ciò che doveva essere l'affare di tutti. Il duca di Borgogna,
che si era replicatamente obbligato con tanta solennità alla crociata,
se ne scusò: ma Pio II trovò maggiore zelo nell'eroico re d'Ungheria,
Mattia Corvino, figliuolo del grande vaivoda Giovanni Uniade. Mattia
conchiuse il 12 settembre del 1463 un trattato colla repubblica di
Venezia, col quale le parti contrattanti si obbligavano ad attaccare di
concerto i Musulmani con tutte le loro forze, ed a non deporre le armi
che di comune consenso[240]. Il papa non poteva trascurare di chiamare
altresì in suo soccorso quello Scanderbeg, il di cui solo nome
agghiacciava i Turchi di spavento, ed i di cui porti e fortezze, situati
in faccia all'Italia, erano opportunissimi allo sbarco dei Latini. Ma
Scanderbeg aveva accettata e giurata pace col sultano, ed i Musulmani
osservavano fedelmente il trattato. Alcune scorrerie fatte in Albania da
truppe irregolari erano state da Maometto II severissimamente punite,
facendo restituire al principe epirota l'intero valore di quanto gli era
stato tolto. Pio II incaricò Paolo Angelo, arcivescovo di Durazzo, di
eccitare il campione della fede a non mancare alla guerra che gli
Occidentali intraprendevano per sua cagione, offrendogli di scioglierlo
da ogni giuramento colla sovrana podestà della Chiesa. Gabriello
Trevisani, ambasciatore veneto, spalleggiò le sue istanze, onde
Scanderbeg, ritenuto alcun tempo da' suoi scrupoli, cedette all'ultimo
alle istanze del capo della religione[241]. Egli entrò in campagna senza
dichiarazione di guerra, e prese nelle province turche vicine ai suoi
stati sessanta mila buoi ed ottanta mila montoni, appoggiando queste
ostilità al pretesto di quegli stessi assassinj che Maometto aveva
ampiamente riparati. Questi avendo ancora cercato di ristabilire la
pace, Scanderbeg gli rispose il 26 maggio del 1463, ch'egli non si
ridurrebbe ad alcun trattato, se Maometto non rinunciava preliminarmente
al culto del suo falso profeta[242].

  [240] _Rayn. Ann. Eccl. 1463, § 50, 51, p. 156._

  [241] _Marinus Barletius, l. XI, p. 513. — Comment. Pii Papae II, l.
  XII, p. 330._

  [242] _Marinus Barletius, l. XI, p. 325._

Frattanto Pio II, dopo avere fatte le sue preghiere nella basilica dei
santi Apostoli, si pose in viaggio il 18 giugno del 1464: sentivasi di
già travagliato da una leggier febbre, e perchè non voleva trattenersi
per curarla, obbligò i suoi medici con giuramento a non palesare ad
alcuno la sua infermità[243]. Nel terzo giorno del suo viaggio era stato
detto a Pio II, che la folla de' crociati adunati in Ancona cominciava a
lagnarsi di non trovare apparecchiato quanto era necessario pel loro
tragitto. Il vecchio pontefice scelse un cardinale di pari età e suo
amico, per rappresentarlo presso la moltitudine, ed esortarla a
pazientare, provvedendo in pari tempo ai suoi bisogni. Era questi uno
spagnuolo, Giovanni Carvajale, cardinale di sant'Angelo. Avendolo a sè
chiamato, lo informò dell'oggetto della sua missione, e supplicando,
piuttosto che ordinando, gli chiese di partire. Non si riduceva senza
ripugnanza ad addossare un così grave peso ad un vecchio, le di cui
forze eransi estenuate in servigio della Chiesa. Ma considerando
l'importanza dell'intrapresa, e quanto era difficile il trovare persona
che fosse in istato di ben eseguirla, credette di non dovere risparmiare
il suo antico amico. «Mi trovava solo io presente a questo colloquio,
dice il cardinale di Pavia; il linguaggio di Carvajale fu sempre lo
stesso, umile e coraggioso. _Santo pontefice, se io sono quale tu mi
credi capace di così grandi cose, seguirò subito i tuoi ordini e più
ancora il tuo esempio. Colla tua debole salute non esponi tu forse la
tua vita per me e per le altre tue pecorelle? Tu mi scrivesti vieni,
eccomi; tu mi ordini di partire, io parto. Non è già quest'ultimo
residuo di vita, ch'io ricuserò di consacrare a Cristo_. Queste parole
toccarono il pontefice, il quale era tanto più commosso, quanto maggiore
era il coraggio che vedeva in questo vecchio: Giovanni Carvajale amava
unicamente Pio II, ed era stato uno de' più caldi consiglieri di questa
santa intrapresa[244].»

  [243] _Jo. An. Campanus Vita Pii II, t. III, p. II, Rer. It. —
  Jacobi Cardin. Papiensis Comment., l. I, p. 354, Ad calcem Comm. Pii
  II._

  [244] _Jacobi Papiens. Comment., l. I, p. 355._

Pio II, avvicinandosi all'Adriatico, scontrava ogni giorno bande di
crociati, che tornavano a dietro, rinunciando di già a questa sacra
spedizione. Tra coloro che si erano adunati in Ancona eranvi molti
soldati che altro non chiedevano che di prendere servigio; ma quando
videro che la corte pontificia non offriva altra paga che indulgenze,
partirono tutti con un misto di sdegno e di scherno[245]. Pio II,
pubblicando la crociata, aveva annunciato a tutta la Cristianità, che le
grandi indulgenze non sarebbero accordate che a coloro che servirebbero
a proprie spese almeno per sei mesi. I soldati non ne avevano tenuto
conto, ben sapendo che senza di loro radunarebbesi al certo molta gente,
ma non un'armata; il basso popolo era pure accorso senza armi e senza
danaro, pensando d'essere spesato e trasportato in Grecia per miracolo.
Siccome questa folla di gente, che aveva omai perduta ogni speranza,
imbarazzava, ritirandosi, la lettiga del papa che avanzava, si vedevano
sul volto di Pio dipinto lo scoraggiamento e il dolore di cominciare la
sua intrapresa con sì tristi auspicj[246]. Quando finalmente giunse in
Ancona, vi trovò moltissima gente della più infima classe, che senza
capi, senza danaro, senz'armi e senza viveri, aveva sperato che il
pontefice provvederebbe a' suoi bisogni. Pio II fu costretto di
rimandare tutti coloro che non potevano fare sei mesi la guerra a loro
spese, accordando per altro alla loro buona volontà le indulgenze della
crociata che avevano così poco meritate. Promise agli altri di procurar
loro il tragitto sopra due galere veneziane; ma perchè queste non
giungevano presto, i crociati si scoraggiarono e si dispersero quasi
tutti.

  [245] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 764, in vita Francisci Sfortiae._

  [246] _Jacobi Cardin. Papiens. Comment., l. I, p. 357._

Mentre che il papa vedeva così spegnersi l'entusiasmo e dissiparsi tanta
moltitudine, sulla quale fondava in parte le sue speranze, diede udienza
in Ancona agli ambasciatori di Ragusi che gli annunciavano che un'armata
turca, accampata a trenta miglia dalla loro città, la minacciava d'una
totale distruzione, se lasciava che partissero le navi che aveva
promesse alla flotta pontificia. Pio II gli esortò a persistere ancora,
loro promettendo pronti e potenti soccorsi; ma egli stesso più omai non
confidava nelle speranze che voleva dar loro[247]: fu alcun tempo
incerto di andare egli medesimo a chiudersi in Ragusi, sperando col suo
personale pericolo di risvegliare finalmente la sonnacchiosa
cristianità. Ebbe poco dopo avviso che i Turchi avevano presa un'altra
strada; e finalmente una flotta veneziana di dodici galere, condotta dal
doge Cristoforo Moro, giunse in faccia ad Ancona. Pio II si fece subito
portare sulla riva per vederla, e dopo averla misurata coll'occhio,
disse lamentandosi: «fino adesso mi mancava una flotta per mettermi in
mare, oggi sono io che mancherò alla flotta.» Infatti ai mali che
l'opprimevano vi si era aggiunta una dissenteria che lo sfiniva del
tutto; e malgrado le adulazioni de' suoi cortigiani, sentiva che omai
gli restavano poche ore di vita. Oppresso dal dolore di vedersi sorpreso
dalla morte nell'istante in cui voleva consacrare la sua vita in
servigio della Cristianità, pregò il cardinale di Pavia di continuare la
spedizione che egli aveva apparecchiata e di salire a bordo della
flotta; chiamò tutti i cardinali al bacio di pace; loro chiese di
condonargli i suoi errori e di pregare per lui, e morì tra le loro
braccia lo stesso giorno 14 agosto del 1464[248].

  [247] _Ann. Eccl. 1464, § 38, p. 161. — And. Navagero Stor. Venez.,
  p. 1124. — Comment. Jacobi Card. Papiens., l. I, p. 358._

  [248] Pio II scrisse egli stesso sotto il nome di _Gobellino_ i
  Commentarj della sua vita e del suo pontificato. Li termina
  coll'ultimo giorno del 1463, alla metà del sesto anno del suo regno,
  e prima d'intraprendere il viaggio d'Ancona, pel quale fa voti (_l.
  XII, p. 347_ ed ultima). Veruno storico di quest'epoca mostra
  maggiore aggiustatezza di spirito, una più universale conoscenza
  degli uomini, dei luoghi, delle rivoluzioni, dei governi, una più
  grand'arte di variare la sua storia, di riepilogare tutto ciò che
  appartiene ad ogni paese, di mano in mano che li va introducendo
  sulla scena. Si fa leggere con altrettanto interesse che piacere ed
  utilità. Si sente costantemente che il pontefice era l'uomo del suo
  secolo, che aveva le più liberali opinioni, ed era il più istrutto.
  Il cardinale di Pavia, suo intimo amico, suo confidente, spesso suo
  solo compagno, consacrò le prime pagine del suo Commentario a
  raccontare il viaggio e la morte di questo grand'uomo. È uno de' più
  commoventi tratti di storia ch'io conosca, e dei più degni di
  figurare in un'epopea. _Comment. Jacobi Card. Papiens., l' I, p.
  361._

La morte di Pio II distrusse tutte le speranze de' Cristiani del
Levante, e dissipò la spedizione pronta a partire. Quarantotto mila
fiorini, che si trovarono nella sua cassetta, furono, in conformità dei
suoi desiderj, mandati a Mattia Corvino, re d'Ungheria, per sostenere la
guerra, in cui lo aveva strascinato la corte di Roma[249]. Pare che
fosse questo il solo avanzo del tesoro raccolto dal pontefice per la
guerra sacra. Pio II aveva contato sulla potente cooperazione di tutti i
principi dell'Europa: egli credeva soltanto di dare l'esempio agli
altri; ma i suoi apparecchi non erano altrimenti proporzionati alla
grandezza della sua impresa. La sola guerra di Napoli, nella quale era
stato soltanto ausiliario, gli era costata più di un milione di fiorini,
ed appena si può concepire come questo savio pontefice abbia pensato ad
attaccare un nemico incomparabilmente più forte del duca di Calabria con
meno del ventesimo di quella somma. Indipendentemente dalle sue entrate
ecclesiastiche, che pure erano ragguardevoli, aveva levata in tutta
l'Europa una imposta del trentesimo denaro della rendita per sostenere
la guerra sacra, apoggiandola alla scomunica contro coloro che ne
ritardassero il pagamento. Aveva per lo stesso motivo autorizzato il
commercio delle indulgenze; ogni peccato aveva un determinato prezzo, e
l'indulgenza plenaria di tutti i peccati era tassata venti mila fiorini.
Questo trentesimo denaro ed il traffico delle indulgenze avevano contro
di lui eccitate grandi lagnanze[250]; ed ancora più grande sarebbe stato
il malcontento, se si fosse saputo che tutti i tesori percepiti dai
fedeli erano stati disposti per consolidare il trono di Ferdinando, d'un
principe così poco degno di stima. Si deve quindi opinare col cardinale
di Pavia, che Pio II non fu meno felice in morte che in vita, essendo
quella stata sublime in faccia agli uomini, pia agli occhi di Dio,
mentre opportunamente lo sottrasse alle difficoltà quando la sua gloria
trovavasi compromessa da imprudenti risoluzioni[251].

  [249] _Ann. Eccl. Rayn. 1464, § 50, p. 165. — Comment. Jacobi Card.
  Papiens. l. I, p. 362._

  [250] _Cristof. da Soldo Istor. Bresc., t. XXI, p. 898, 899._

  [251] _Card. Pap., Epist. 41 ap. Rayn. 1464, § 45, p. 163._ Simoneta
  non può credere che Pio II fosse realmente intenzionato
  d'imbarcarsi; e suppone che volesse soltanto mettere al coperto il
  suo onore, mostrando a tutta l'Europa che i principi che dovevano
  secondarlo lo avevano abbandonato. _Hist. Franc. Sfortiæ, l. XXX, p.
  744._

Per non mostrare d'abbandonare affatto il progetto di Pio II, i
cardinali, dopo avere colmato d'onori il doge Cristoforo Moro, ed averlo
fatto sedere in concistoro, gli offrirono di unire alla sua flotta
cinque galere armate, pagandole per quattro mesi, ove volesse continuare
la guerra santa; ma dopo poche ore ristrinsero la fatta offerta,
limitandosi a tre galere di già armate a Venezia, che promettevano di
pagare. Vedendo il doge che la cooperazione della Chiesa romana
ridurrebbesi a poca cosa, e non compenserebbe pure gl'intralci, che
quest'alleanza recherebbe alle operazioni della repubblica, credette più
conveniente di ricondurre la sua flotta a Venezia. Partì d'Ancona il 16
agosto alla volta dell'Istria, ove bentosto ebbe ordine dal senato di
rientrare nelle lagune e di disarmare[252].

  [252] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1180, 1181._

I cardinali, affrettandosi di tornare a Roma, si chiusero in conclave
nel palazzo del Vaticano. Prima di procedere all'elezione, per la buona
amministrazione e per la riforma della Chiesa, s'imposero molte leggi,
che ognuno giurò di osservare, ove fosse eletto papa. Il futuro
pontefice era tenuto a continuare la spedizione contro i Turchi con
tutte le forze della Chiesa romana, e di consacrarvi tutt'intero il
prodotto delle miniere d'allume recentemente scoperte. Si volle che
promettesse di non far viaggiare la corte romana senza il consenso de'
cardinali, di convocare entro tre anni un concilio ecumenico per
riformare la chiesa, di non portare mai al di là di ventiquattro il
numero de' cardinali, di non sceglierne che un solo tra i suoi parenti,
di non far entrare nel sacro collegio alcun uomo che non avesse studiato
il diritto o le sacre lettere, o che non avesse compiti i trent'anni. Si
volle ancora che il nuovo pontefice promettesse di non diminuire il
patrimonio della Chiesa, di non dichiarare la guerra senza l'assenso de'
cardinali, prendendo i loro suffragj ad alta voce e non all'orecchio,
onde non si vedesse più pronunciare come risultamento della
deliberazione una decisione contraria al voto di tutti i deliberanti. Si
volle che nelle sue bolle non adoperasse mai la formola: _dietro
deliberazione de' nostri fratelli_, quando non gli avesse consultati.
Per ultimo si ordinava che dovesse ogni mese farsi rileggere queste
condizioni in concistoro, e che i suoi cardinali esaminassero due volte
all'anno, non presente il papa, se fedelmente erano state eseguite[253].

  [253] _Jacobi Card. Papiens. Comment., l. II, p. 366. — Rayn. Ann.,
  Eccl. 1464, § 52, p. 165._

Dopo avere dato in qualche modo con questo concordato una nuova
costituzione alla repubblica della Chiesa, i cardinali passarono
all'elezione, che fu fatta con migliore accordo e più sollecitamente che
verun'altra delle precedenti. Pietro, cardinale di san Marco, della
famiglia de' Barbi di Venezia in età di quarant'otto anni fu eletto il
16 di settembre. Voleva da principio farsi chiamare Formoso; ma perchè
in fatti era assai bello, venne dissuaso dal prendere un nome che
avrebbe indicata una vanità affatto mondana, e fu chiamato Paolo
II[254]. È questi quel pontefice che si acquistò una triste celebrità
colla persecuzione esercitata contro i letterati. Ma assai prima smentì
le speranze che si erano di lui concepite. Il sacro collegio non erasi
accontentato del giuramento ch'egli aveva prestato insieme a tutti gli
altri cardinali intorno ai doveri del futuro papa, glielo fece ancora
rinnovare e sottoscrivere nell'atto della sua elezione. Non pertanto
appena fu egli coronato, che annullò questa costituzione; e volendo
avere per quest'atto di mala fede l'assenso di tutti i cardinali,
ottenne quello del maggior numero, metà colle preghiere, metà colle
minacce. Il cardinale di Pavia confessa con suo rossore, che si lasciò
vincere da tale seduzione; ma loda il Carvajale per avere
resistito[255].

  [254] _Comment. Jacobi Card. Papiens., l. II, p. 368. — Rayn. Ann.
  Eccl., § 53, 54, p. 166._

  [255] _Comment. Jacobi Card. Papiens., l. II, p. 371. — Rayn. Ann.
  Eccl., § 57-60, p. 167._

Paolo II adunò, nel principio del suo regno, un concistoro per
deliberare intorno ai mezzi di continuare la guerra sacra, e vi ammise
gli ambasciatori delle potenze venuti a felicitarlo intorno alla sua
elezione. La presenza loro dava a quest'assemblea l'apparenza di una
dieta di tutta l'Italia, ed il papa ne approfittò per ripartire tra i
suoi diversi stati l'annuo sussidio che doveva servire al mantenimento
dell'armata della cristianità[256]. Ma perchè gli ambasciatori non
avevano missione per quest'oggetto, si limitarono a promettere di
scriverne ai loro commettenti; ma non fu loro risposto, e la lega
d'Italia fu abbandonata come la crociata di Pio II[257].

  [256] Ecco come la somma venne ripartita: questa convenzione dà
  un'idea della ricchezza proporzionale degli stati d'Italia.

    Il papa dovette pagare     fiorini   100,000
    I Veneziani                   »      100,000
    Il re Ferdinando              »       80,000
    Il duca di Milano             »       70,000
    I Fiorentini                  »       50,000
    Il duca di Modena             »       20,000
    La repubblica di Siena        »       15,000
    Il marchese di Mantova        »       10,000
    La repubblica di Lucca        »        8,000
    Il marchese di Monferrato     »        5,000
                                         -------
                            Totale fior. 458,000.

  [257] _Rayn. Ann. Eccl. 1464, § 62, p. 168. — Card. Papiens., Epist.
  54._

I Veneziani soli tra le potenze d'Italia rimasero incaricati del peso
della guerra contro i Turchi; e non pertanto, quasi nella stessa epoca,
ne avevano intraprese due altre, che non gli permettevano di disporre
liberamente delle proprie forze. Vero è che ambedue ebbero breve durata,
essendosi la prima cominciata e terminata nel 1463, mentre ancora viveva
Pio II, la seconda due anni più tardi. Gli abitanti di Trieste, ch'erano
dipendenti dall'imperatore Federico III, arciduca d'Austria,
pretendevano di obbligare tutti i mercanti che passavano dal golfo
Adriatico in Germania a passare per la loro città. I Veneziani non
volevano assoggettarsi ad un privilegio così dannoso al loro commercio;
attaccarono Trieste malgrado la protezione imperiale, e costrinsero
questa città a rinunciare alla riclamata prerogativa. Il papa si
affrettò d'offrire la sua mediazione per terminare queste ostilità, che
potevano essere cagione di pericolosa guerra ai confini della stessa
Turchia. Il trattato, cui intervenne il papa, fu soscritto il 17
dicembre del 1463, e lo stesso papa, per mostrarsi grato alla
condiscendenza della repubblica, si rappattumò, dietro di lei istanza,
con Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, cui i Veneziani volevano
affidare la loro armata della Morea[258].

  [258] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1178. — M. A. Sabellico, Dec.
  III, l. VIII, f. 203. — Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 897._

L'altra guerra, che intrapresero nel 1465, poteva ancora di più
compromettere gl'interessi della cristianità in Levante. I Veneziani
attaccarono la religione di san Giovanni di Gerusalemme ed il gran
Maestro di Rodi, per punire i suoi cavalieri d'aver fermati due vascelli
mercantili della repubblica, a bordo dei quali si trovavano varj
mercanti mori ed egiziani. L'onore della bandiera di san Marco e
l'ospitalità accordata agli stranieri erano stati violati da una
pirateria invano nascosta sotto il manto della religione, e tutti i
passaggieri musulmani erano stati posti in catene. Il senato mandò
nell'isola di Rodi la stessa flotta ch'era stata armata per accompagnare
Pio II: questa si divise in due parti, ed eseguì nello stesso tempo due
sbarchi al levante ed al ponente dell'Isola. Per tre giorni i Veneziani
saccheggiarono e bruciarono tutti i contorni della capitale fino alla
distanza di quindici miglia, e non si ritirarono che quando il gran
maestro ebbe fatti restituire loro i prigionieri[259].

  [259] _Andrea Navag. Stor. Venez., p. 1124._

Nel Peloponneso la campagna del 1464 non era stata illustrata da alcuna
battaglia. I Veneziani avevano lasciato saccheggiare tutto il paese
vicino a Corone e Modone ov'eransi chiusi. Ancor essi a vicenda avevano
guastata l'Arcadia con tre mila uomini. Le due armate opprimevano
ugualmente e senza pietà gli sventurati Greci, sui quali vendicavansi
sempre della resistenza dei loro nemici. La flotta veneziana occupò
l'isola di Lenne ossia Stalimene, che fu loro ceduta da un corsaro della
Morea; in appresso si divise ne' porti di Modone, di Zonchio, di Corone
di Napoli, ove svernò[260].

  [260] _M. A. Sabellici, Dec. III, l. VIII, f. 204. — Marin Sanuto
  Vite dei Duchi, p. 1179._

In principio del 1465 Orsato Giustiniani successe a Luigi Loredano nel
comando della flotta veneziana. Egli la riunì a Corone, ove trovossi
avere trentadue galere sotto il suo comando. Questa flotta era superiore
a quella che potevano opporgli i Turchi; ma tale superiorità non gli
servì ad alcuna gloriosa impresa; egli fece piuttosto la guerra da
pirata che da soldato. Quando riuscì a predare vascelli mercantili ai
nemici, fece tagliare a pezzi, appiccare, o annegare tutti coloro che li
montavano. Attaccò di notte Metelino nell'isola di Lesbo, e nella prima
sorpresa vi fece prigionieri trecento Turchi. Fece impalare la maggior
parte di loro, altri annegare, ed i più favoriti vennero appiccati. In
seguito diede due assalti alla fortezza di Metelino; vi si combattè con
inaudito accanimento, ed i Turchi, prevenuti della sorte che gli
aspettava, si difesero disperatamente, finchè giugnendo loro un rinforzo
di due mila cavalli sulla opposta riva, il Giustiniani fu forzato a
levare l'assedio dopo avere perduti cinque mila uomini. Per questo
infelice avvenimento il Giustiniani si trovò da tanto dolore compreso,
che appena giunto a Modone, morì mezz'ora dopo essersi fatto sbarcare
sulla riva. Lo stesso Sabellico che racconta questi tratti di ferocia,
soggiugne: «Tale fu la fine d'Orsato Giustiniani, che l'elevazione della
sua anima, e la sua gentilezza avevano renduto illustre tra i suoi
pari.» La più atroce barbarie, usata contro gl'infedeli, credevasi in
allora che punto non iscemasse la stima dovuta ad un valente uomo[261].

  [261] _M. A. Sabellico, Dec. III, l. VIII, f. 205. — Ist. Bresc. di
  Cristof. da Soldo, p. 899._

Dall'altro canto l'armata di terra era caduta in un'imboscata nelle
campagne di Mantinea, dove aveva perduti mille cinquecento uomini,
tagliati a pezzi con Cecco Brandolini e Giovanni della Tela che li
comandavano. Di questa stessa epoca Sigismondo Malatesta sbarcò in
Morea, seco conducendo circa mille uomini d'armi; ma questo rinforzo non
bastava per riparare le perdite dell'armata veneziana. Il Malatesta,
sorpreso di vedere l'armata ridotta a così poca gente, ed abbandonata a
tanta miseria, espresse vivamente il suo rincrescimento d'averne
accettato il comando[262]. Non pertanto assediò Misitra fabbricata
presso alle ruine di Sparta, e facilmente occupò la città; ma il
castello, posto sopra alpestre rupi che appena permettevano ai soldati
di mettere un piede innanzi l'altro, gli oppose un'ostinata resistenza
finchè venne dai Turchi rinfrescato di munizioni e di vittovaglie. Il
Malatesta prima di ritirarsi bruciò Misitra. In tal modo si compiva la
ruina de' Greci dalle armate de' Latini, e la crociata, intrapresa per
liberare i Cristiani orientali, loro rovesciava addosso tutte le
calamità della guerra. Prima che terminasse l'anno il Malatesta ebbe
avviso che Paolo II apparecchiavasi a spogliarlo della signoria di
Rimini. A tale notizia abbandonò bruscamente la Morea, e tornò in
Romagna per difendersi[263].

  [262] _M. A. Sabellico, Dec. III, l. VIII, f. 205. — Marin Sanuto
  Vite dei Duchi, p. 1181._

  [263] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1182._

La flotta, di cui nel susseguente anno venne a prenderne il comando
Vittore Cappello, accrebbe ancora i disastri della guerra e la
desolazione de' Greci. L'isola di Negroponte, ossia l'Eubea, apparteneva
ai Veneziani; un braccio di mare, che li separava dal continente,
bastantemente provvedeva alla loro sicurezza, ma non riuscivano a
conservare alcun'altra conquista di terra ferma. Il Cappello passò lo
stretto dell'Euripo, sbarcò le sue truppe in Aulide, ove già si
adunarono i Greci per fare l'impresa di Troja, prese il Pireo, attaccò
Atene, le di cui deboli mura furono bentosto rovesciate, e ne bruciò le
porte; questa città, ch'era tuttavia una delle più ricche e più popolate
della Grecia, venne abbandonata al saccheggio. I soldati e perfino le
ciurme delle galere s'arricchirono colle spoglie di coloro che si
pretendeva di liberare: e terminata appena questa crudele esecuzione, i
Veneziani si ritirarono a precipizio senza essere inseguiti, portando il
loro bottino a Negroponte[264].

  [264] _M. A. Sabellici, Dec. III, l. VIII, f. 206. — Marin Sanuto
  Vite dei Duchi, p. 1183._

Un'eguale spedizione si tentò sopra Patrasso, città meno illustre, ma
quasi tanto ricca quanto Atene, perciocchè i fuggiaschi degli altri
paesi della Grecia vi si erano adunati portandovi le loro ricchezze. Il
Cappello aveva guadagnati alcuni traditori, che gli avevano promesso di
dargli in mano il castello. Giunse in faccia a Patrasso con ventitre
galere e trentasei minori vascelli; sbarcò Niccolò Ragio con dugento
cavalleggeri, ed il provveditore Giacomo Barbarigo con quattro mila
fanti. Questi, entrando nel sobborgo lontano un miglio dalla città, si
fecero subito a saccheggiare le case; onde così dispersi non furono in
istato di resistere a trecento Turchi che piombarono loro addosso
all'impensata, e li fecero a pezzi; salvaronsi appena mille uomini di
tutta la truppa sbarcata. Il Barbarigo rovesciato dal suo cavallo morì
calpestato dai combattenti; ma il generale turco fece impalare il di lui
cadavere, e condannò al medesimo supplicio Niccolò Ragio, comandante
della cavalleria, ch'era caduto vivo in sua mano. Non pertanto Vittore
Cappello non si scoraggiò, risguardando questo cattivo successo come una
conseguenza dell'indisciplina delle sue truppe, non della bravura de'
nemici. Sbarcò il rimanente della sua armata, e dopo otto giorni attaccò
di nuovo Patrasso. L'assalto durò quattro ore; ma all'ultimo i Veneziani
furono respinti dopo avere lasciati più di mille uomini sul campo di
battaglia. Vittore Cappello, indebolito da due disfatte, avvilito per
così cattivo successo, restò inattivo per otto mesi interi, dopo i quali
morì a Negroponte. Giacomo Veniero, che gli successe, nel corso di
sedici mesi che comandò in Grecia si ridusse a difendere le fortezze che
gli erano state affidate, senza nulla tentare contro il nemico[265].

  [265] _M. A. Sabellico, Dec. III, l. VIII, f. 206. — Marin Sanuto
  Vite dei Duchi, p. 1184. — And. Navagero Stor. Venez., p. 1125._

Mentre facevasi con tanta crudeltà e con così poco valore una guerra
disonorevole pel nome latino, ruinosa pei Greci, mentre che la barbarie
delle truppe venete forzava i loro naturali alleati a fare causa comune
coi Musulmani, se volevano salvare le città loro dal saccheggio, le
donne dal disonore, i fanciulli dalla schiavitù, la guerra trattavasi
pure nell'Albania con una ferocia forse eguale; ma colà non infieriva
che contro i nemici, ed era compensata da maggiore eroismo.

Ballabano Badera aveva invaso l'Epiro con quindici mila cavalli, quando
appena potevasi colà avere avuto avviso della morte di Pio II. Nato egli
medesimo di parenti albanesi e vassallo di Castriotto, ma educato nella
religione musulmana, conservava per l'eroe della sua patria un rispetto
di cui volle dargli una testimonianza in principio della guerra,
mandandogli alcuni doni. Scanderbeg non vi corrispose che con insultanti
scherni. Gli mandò in contraccambio una zappa, un aratro ed una falce,
invitandolo a riprendere il mestiere paterno ed a lasciare il comando
delle armate a uomini nati per comandarle, non dovendo confidarsi a
contadini suoi pari. Ballabano giurò di vendicarsi di questo gratuito
insulto, tanto più pungente perchè fatto in cambio d'un lusinghiero
omaggio[266].

  [266] _Marinus Barletius, l. XI, p. 334._

Ballabano non ottenne di vincere Scanderbeg, ma non gli diede battaglia
che non lasciasse agli Epiroti tristi memorie. Castriotto non aveva più
di quattro mila cavalli da opporre a quindici mila, e soltanto mille
cinquecento fanti da opporre a tre mila Musulmani. L'arte della guerra
non era per anco abbastanza perfezionata, perchè verun generale sapesse
fare buon uso d'una numerosa armata. Scanderbeg punto non le apprezzava,
ed era solito dire, che colui che non sapeva vincere il suo nemico con
otto, o al più con dodici mila uomini, non lo saprebbe meglio fare con
forze assai maggiori[267]. I due campi erano posti a non molta distanza
l'uno dall'altro nella ridente valle di Valchalia. Dietro ai Musulmani
trovavasi un angusto passaggio, dove Scanderbeg indovinò troppo
agevolmente che il nemico teneva un'imboscata; ne diede avviso ai suoi
soldati prima di dare cominciamento alla battaglia, consigliandoli a non
inseguire i nemici al di là dell'estremità della pianura, ed a fermarsi
da sè prima di giugnere alle forche della Valchalia. I Musulmani che
l'avevano attaccato, venendo respinti, si ritirarono disordinati verso
lo stretto. L'antiveggenza e le esortazioni di Scanderbeg non ritennero
otto dei suoi più valorosi ufficiali. Sordi alle preghiere ed agli
ordini del loro capo, penetrarono nell'angusto passaggio, e sebbene
subito attaccati di fianco, lo attraversarono tutto intero; ma, coperti
di ferite ed oppressi dal numero de' nemici, all'ultimo furono fatti
prigionieri. Mosè Golento, quello stesso che altra volta erasi dato ai
nemici, era il primo di loro; Giurisa Wladenio e Musacchio d'Angelina,
tutti e due parenti di Scanderbeg lo avevano accompagnato; gli altri
cinque non erano meno illustri per natali e per valore. Invano
Scanderbeg offrì di riscattarli ad ogni prezzo, o di cambiarli contro i
suoi più ragguardevoli prigionieri; Ballabano gli aveva mandati a
Maometto II, e questo barbaro gli aveva fatti scorticar vivi. A tale
notizia i soldati epiroti vestirono abiti di lutto, lasciandosi crescere
i capelli e la barba, poi gettaronsi furibondi nel territorio turco,
cercando opportunità di vendicare i loro valorosi commilitoni[268].

  [267] _Ivi, p. 334._

  [268] _Marinus Barletius, l. XI, p. 336._

Una seconda battaglia presso di Oronichio, nella Dibra superiore, non
soddisfece che imperfettamente al loro sdegno, e fu sanguinosa dall'una
parte e dall'altra. Finalmente Ballabano fu posto in fuga, ma non
distrutto; e Maometto II non trovando che verun altro de' suoi generali
avesse prima d'allora opposta una così felice resistenza all'eroe
dell'Epiro, rifece nuovamente la sua armata portandola a diciassette
mila cavalli ed a tre mila pedoni; e promise al pascià, che, ottenendo
egli di vincere Scanderbeg, gli succederebbe nell'impero dell'Albania.
Non pertanto Ballabano fu tuttavia perdente in una grande battaglia
presso di Sfetigrade, che per altro si era mantenuta lungamente
indecisa. Scanderbeg fu rovesciato dal suo cavallo sopra un tronco
d'albero, e vi rimase alquanto senza sentimento, stordito e ferito in un
braccio; finalmente rinvenne e riuscì a mettere i Musulmani in fuga,
perchè questi credettero di vedervi la fatalità che rendeva quell'eroe
invincibile. Ma la valorosa sua armata trovossi indebolita da una
vittoria comperata a troppo caro prezzo[269].

  [269] _Marinus Barletius, l. XI, p. 339._

Maometto II e Ballabano non si lasciarono avvilire da questa nuova
perdita, e dietro i consigli del generale due armate ugualmente forti
ebbero ordine di penetrare nello stesso tempo nell'Epiro da due diverse
parti; Jacub Arnautte fu il collega dato a Ballabano. Partendo dalla
Grecia e dalla Tessaglia doveva questi penetrare nell'Albania dalla
banda di mezzogiorno, e costeggiare il mare, mentre che Ballabano,
partendo dalla Tracia e dalla Macedonia, vi entrerebbe per le gole delle
montagne a ponente. Ma Scanderbeg aveva l'avvantaggio d'essere sempre
ben servito dalle sue spie, e di conoscere i piani di campagna del
nemico, quando questi appena cominciava ad eseguirli. Comprese che
soltanto colla sua prontezza potrebbe prevenire l'unione delle due
armate contro di lui dirette, e salvare la sua patria. Mentre che
Ballabano entrava nell'Epiro con venti mila cavalli e quattro mila fanti
per la valle di Valchalia, Scanderbeg aveva formato il suo campo in
distanza di cinque miglia innanzi al castello di Petralba. Non aveva con
lui che otto mila cavalli e quattro mila fanti; ma questi soldati erano
il fiore di tutta la gioventù Albanese[270].

  [270] _Marinus Barletius, l. XI, p. 343._

Per altro prima di entrare in battaglia poco mancò che Scanderbeg non
fosse vittima del tradimento di coloro ch'egli aveva incaricati di
riconoscere il campo nemico: essi lo avevano venduto. Mentre egli si
avanzava, da loro guidato, con cinque soli compagni, cadde
nell'imboscata che gli era stata tesa. La rapidità del suo cavallo lo
salvò; egli fuggì verso la foresta e saltando un albero rovesciato che
chiudeva la sola strada praticabile, lasciò a dietro questo riparo fra
sè ed i Turchi. Uno solo ebbe il cavallo abbastanza vigoroso per saltare
l'albero che impediva agli altri d'avanzarsi, ma Scanderbeg rivoltosi a
lui gli tagliò il capo con un colpo di scimitarra[271].

  [271] _Ivi._

Tornato a Petralba, egli condusse all'istante la sua armata contro
Ballabano, e sebbene avesse dovuto fare quindici miglia prima di
raggiugnere il nemico, gli offrì la battaglia senza dar riposo alla sua
truppa. Ma il pascià, che aspettava in questa stessa valle Jacub
Arnautte, non volle combattere finchè non vedesse comparire sulle alture
dietro Scanderbeg le insegne del compagno. Scanderbeg all'opposto, che
riponeva la speranza della vittoria nel dar subito battaglia, cercava
d'irritare Ballabano; mentre lo faceva inquietare dagli arcieri e dai
fucilieri, egli avanzava col grosso dell'armata, e gli Albanesi
insultavano i Maomettani perchè non ardivano di combattere. Questi
fremevano d'impazienza, digrignavano i denti, e minacciavano il capo che
osava mettere ostacolo al loro ardore. Finalmente Ballabano si avvide
che s'egli si ostinava, sarebbe forzato nel suo campo e perderebbe in
tal modo il vantaggio dell'ardore de' suoi soldati; onde uscì dai
trinceramenti alla testa dell'armata, divisa in quattro corpi, opponendo
quello da lui comandato alla divisione diretta da Scanderbeg, e tra
questi due corpi la zuffa fu più accanita. Però essendo l'Epirota
riuscito a prendere Ballabano alle spalle con un rapido movimento,
l'intera armata de' Musulmani fu posta in grandissimo disordine. Il loro
capo, dopo di aver lungo tempo incoraggiate, riordinate le sue truppe
con somma intelligenza e valore, s'aprì un passaggio per ritirarsi
seguito da pochi più valorosi, rimanendo tutti gli altri uccisi o
prigionieri[272].

  [272] _Marinus Barletius, l. XI, p. 345._

Ma l'armata di Scanderbeg, che aveva riportata così luminosa vittoria,
non era per anco uscita dalla valle di Valchalia, nè aveva divise le
spoglie de' vinti fra i soldati, nè sgombrato il terreno dagli estinti,
quando un messo di Mamiza, sorella di Scanderbeg, gli giunse da
Petrella, ove si era rinchiusa colla famiglia sotto la guardia di una
sola coorte. Gli dava avviso che Jacub Arnautte con sedicimila cavalli
era entrato nell'Epiro dalla banda di Belgrado, e che guastava tutto il
paese. Il soprannome di Jacub, _Arnautte_, che è il nome turco degli
Albanesi, indicava che questi era nato di parenti cristiani ed epiroti,
ma fatto schiavo da fanciullo, era stato allevato nella fede musulmana.
Arnautte erasi fatto nome in Asia ed in Europa nelle guerre di Maometto
II, e venne a morire sotto la spada di Scanderbeg; imperciocchè, avendo
questi immediatamente condotto il suo esercito nelle montagne della
Tiranna, ove si trovava il nemico, presso Cassar, fece gettare innanzi a
sè molte teste di Musulmani dell'armata di Ballabano, onde accertarlo
della disfatta del suo collega. Attaccò in appresso que' soldati,
spaventati assai più dalla fortuna che dal valore delle truppe di
Scanderbeg; raggiunse lo stesso Arnautte; e dopo averlo ferito con un
colpo di lancia, gli troncò il capo colla sua scimitarra. I Musulmani
atterriti quasi più non fecero resistenza; coloro che si sottraevano ai
vincitori colla velocità della fuga, cadevano tra le mani de' contadini
che gli scannavano o facevano prigionieri. Assicura lo storico di
Scanderbeg, che nelle due battaglie i Turchi perdettero trenta mila
uomini, ventiquattro mila uccisi e sei mila fatti prigionieri, e che si
liberarono quattro mila Epiroti prigionieri. La perdita di Scanderbeg
non fu che di mille soldati. L'immenso bottino dei due campi venne
diviso tra i vincitori e deposto in Croja; e questa città capitale,
renduta ricca dalla guerra, accolse con trasporti di gioja l'eroe che
l'avvezzava ai trionfi[273].

  [273] _Marinus Barletius, l. XI, p. 349._

Maometto II, coronato da tante vittorie, non poteva darsi pace di tali
rovesci, e parevagli che quest'angolo dell'Epiro, che sottraevasi al suo
impero, ed ogni castello del quale era illustrato da una sconfitta delle
sue armate minacciasse tutti i dominj musulmani. Infatti i suoi fanatici
soldati erano usciti vittoriosi dalle altre battaglie per la cieca loro
confidenza nel volere del cielo; tutto il loro vigore era distrutto, se
cominciavano una volta a persuadersi che il cielo favoriva i loro
nemici. La credenza del fatalismo, che rende tanto formidabili le armate
avvezze alla vittoria, le rende altresì più suscettibili delle altre di
terrore panico, quando la fortuna comincia ad abbandonarle. Da prima
Maometto cercò di disfarsi di Scanderbeg con un assassinio.
Presentaronsi due Musulmani al principe d'Epiro, mostrando caldo
desiderio di convertirsi, di ricevere subito il battesimo, ed in seguito
di combattere per la fede sotto le sue insegne. Furono infatti ricevuti
nella stessa guardia di Scanderbeg; ma una violenta contesa insorta fra
di loro manifestò la trama prima che potessero eseguirla: essi
accusaronsi reciprocamente di meditare un tradimento, e l'uno e l'altro,
arrestati ed esaminati, furono condannati al medesimo supplicio[274].

  [274] _Marinus Barletius, l. XII, p. 351._

Intanto Maometto II entrava egli stesso nell'Epiro alla testa de' suoi
eserciti: i Cristiani atterriti assicuravano che il sultano conduceva
dugento mila uomini. Scanderbeg non pensò pure di potere far fronte a
così grandi forze; lasciò in Croja una forte guarnigione sotto gli
ordini di un italiano, Baldassare Perducci, che conosceva assai meglio
che gli Epiroti l'arte del difendere e dell'attaccare le piazze, e
ritirossi in appresso nelle montagne per inquietare l'armata colla quale
non osava venire a battaglia, piombando solo sui corpi staccati.
Maometto non intraprese l'assedio di Croja, che presentava grandi
difficoltà, e che poteva compromettere l'onore del sultano; guastò
soltanto le campagne, e prese in seguito per capitolazione la città di
Chidna nella Caonia, di dove eransi ritirati tutti gli abitanti.
Ritornando da una spedizione comandata dallo stesso sultano, dovevano
essere ostentate in su gli occhi del popolo ed ornare le porte del
serraglio varie teste di nemici, onde non lanciare ai Musulmani alcun
dubbio intorno alla vittoria del loro sovrano. Maometto fece decapitare
otto mila abitanti di Chidna, e portò in tal modo a Costantinopoli un
trofeo di teste cristiane bastante per ornare il suo trionfo[275].

  [275] _Marinus Barletius, l. XII, p. 353._

Ma Ballabano, rimasto nell'Epiro con una forte divisione dell'armata
musulmana, intraprese l'assedio di Croja. Scanderbeg, i di cui paesi
erano stati saccheggiati, la di cui armata, indebolita dalle stesse
vittorie, appena bastava alle guarnigioni delle fortezze, attraversò
l'Adriatico in tempo dell'assedio di Croja, venne a Roma e si presentò a
Paolo II per chiedergli soccorsi in danaro ed in munizioni, di cui aveva
urgentissimo bisogno. Introdotto in concistoro, ed accolto dai cardinali
come l'eroe della Cristianità, loro fece la descrizione de' rapidi
avanzamenti dei Turchi, e dei pericoli che sempre più si avvicinavano
all'Italia. «Dopo la distruzione dell'Asia e della Grecia, disse loro,
dopo l'uccisione dei principi di Costantinopoli, di Trebisonda, della
Servia, della Bosnia, della Vallacchia e della Schiavonia, dopo la
sommissione del Peloponneso ed il devastamento della maggior parte della
Macedonia e dell'Epiro, io resto solo col mio debole e piccolo stato,
coi miei soldati spossati da tante zuffe, rotti da tante battaglie, in
modo che l'Epiro non ha più nel suo corpo una parte sana ove possa
ricevere nuove ferite, nè sangue da versare per la repubblica cristiana.
In questa Macedonia così ferace di soldati, di tanti principi, di tanti
capi, di tanti guerrieri, altro non rimane che la mia piccola armata, e
della nostra antica fortuna che il nostro coraggio, e spiriti
indomabili. Soccorreteci adunque finchè il tempo lo permette; forse
bentosto più non rimarranno campioni di Cristo sull'altra costa
dell'Adriatico[276].»

  [276] _Marinus Barletius, l. XII, p. 357. — Michael Canesius Vita
  Pauli II, Pont. Max., t. III, p. II, Rer. Ital., p. 1021._

Paolo II accordò a Scanderbeg onorifiche distinzioni; gli regalò un
cappello ed una spada benedetti da lui medesimo; vi aggiunse qualche
danaro, ma gli diede pochissimi o niun soldato. Gli è vero che scrisse a
tutti i principi della Cristianità per chieder loro sussidj, ma non vi
fu alcuno che si curasse di fare de' sagrificj, di cui questo papa non
dava loro l'esempio. Scanderbeg, tornato nell'Epiro, trovò Ballabano
accampato sotto Croja. Questa fortezza, che signoreggia i campi Emazj, è
posta sulla sommità del monte Cruino. A questa altezza la montagna non
presenta che inaccessibili balze, e su queste rupi tagliate a picco sono
innalzate le mura della città. Ma di là partendo la stessa giogaja della
montagna si va lentamente abbassando verso il piano, e termina da questo
lato in alcune colline. È sulla sommità di questa cresta, e seguendone
le sinuosità, che un sentiere unico dà comunicazione a Croja colla
campagna. Ballabano era accampato sulle falde della montagna, e sul
declivio del monte Cruino. Scanderbeg adunò la sua armata nella città
veneziana d'Alesio, o Lisso. Colà ebbe avviso che Jonima, fratello di
Ballabano, giugneva con un grosso corpo onde rinforzare l'armata turca.
Scanderbeg, preso con sè un corpo di truppa scelta, sorprese Jonima in
mezzo alle montagne, lo fece prigioniere con suo figlio Aydar, e li
condusse ambidue sotto le mura di Croja, ove fece in modo che fossero
veduti da Ballabano nell'istante medesimo, in cui si apparecchiava ad
attaccarlo. Quando il pascià conobbe il fratello ed il nipote, la
cattività loro parvegli un segno di quel fatalismo che perseguitava
tutti i nemici di Scanderbeg; onde più non prendendo consiglio che dalla
sua disperazione, attaccò furiosamente gli avamposti di Croja, e vi
restò ucciso da un colpo di fucile nella gola. Nella susseguente notte
la di lui armata ritirossi in buon ordine fino alla montagna della
Tiranna, distante otto miglia da Croja: era tuttavia molto più numerosa
di quella di Scanderbeg; ma non pertanto non potè uscire dall'Epiro che
dopo avere perduti i suoi equipaggi, e gran parte de' suoi soldati[277].

  [277] _Marinus Barletius, l. XII, p. 359._ — Questo storico parla di
  due spedizioni di Maometto II nell'Epiro in due consecutivi anni, di
  due assedj di Croja, di due ritirate del sultano dopo inutili
  tentativi. Siccome queste campagne non differiscono l'una
  dall'altra, e non essendovi che diciassette mesi di distanza tra la
  morte di Pio II e quella di Scanderbeg, ho sospettato che Barlezio
  abbia raccontato due volte di seguito gli stessi avvenimenti. La
  Cronologia di Barlezio non può rettificarsi che difficilissimamente,
  perchè nel racconto di una vita di 63 anni, e di un regno di
  ventiquattro, non nota mai altre date che quelle delle poche lettere
  da lui riportate. L'imitazione degli antichi ha formato, e talvolta
  ancora guastato questo storico, la di cui lettura offre tanti
  allettamenti: Nato a Scutari nell'Albania, educato nello stesso
  paese di cui scrisse la storia, conosce i luoghi e gli uomini, e li
  dipinge con una verità ancora più rara che l'eleganza del suo stile.
  Gli è vero che la parzialità pel suo eroe nuoce talvolta alla sua
  sincerità, e travisa gli avvenimenti ed i caratteri. Avvicina con
  arte l'antichità ai moderni tempi; ostenta molte cognizioni
  classiche a canto a quelle della politica e dell'arte militare dei
  Turchi e degli Albanesi; ed in particolare mostrasi animato d'un
  vivo entusiasmo per la religione, per la libertà e per la gloria del
  suo paese. Le arringhe, frequenti nella sua storia, sono spesso
  notabili per la loro eloquenza. Talvolta a dir vero sentesi troppo
  aperta l'imitazione dell'antico ne' suoi oratori e ne' suoi
  guerrieri, e non distinguesi che confusamente il senatore o il
  soldato epirota sotto la toga o la corazza romana ond'è vestito.

Morto Ballabano, il sultano incaricò Alì ed Haja, due confinanti pascià,
di frenare le scorrerie degli Albanesi, senza esporsi a nuove battaglie.
Questi pascià mandarono ricchissimi doni a Scanderbeg che corrispose a
questa militare gentilezza con eguale liberalità. Frattanto adunava la
sua armata per riprendere la Vallona, che Maometto aveva fortificata.
Assicurano i Veneziani che loro aveva preventivamente consegnata egli
stesso la città di Croja, e che fu Giovan Matteo Contarini, provveditore
nell'Albania, che ne prese possesso a nome della repubblica[278]. E
veramente in cambio di tornarvi a soggiornare, Scanderbeg percorse prima
tutta la provincia, e in appresso si trattenne nella città veneziana
d'Alesio, dove aveva convocato un congresso; ma vi fu sorpreso da
violenta febbre, che facendo rapidissimi progressi, in breve lo ridusse
fuori di speranza di vita[279].

  [278] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1183._

  [279] _Marinus Barletius, l. XIII, p. 367._

Scanderbeg, sul letto della morte, circondato dai suoi capitani, dai
suoi amici, dai suoi alleati, loro raccomandò la difesa di quella fede
cristiana per la quale aveva combattuto ventiquattro anni con tanta
felicità; la difesa di quel paese ch'egli aveva strappato di mano ai
barbari, ed accostumato alla gloria ed alla libertà; la difesa di suo
figlio Giovanni che aveva avuto dal suo tardo matrimonio con Donica,
figliuola d'Aaryanite Cominato[280]. «Io non vi ho mai risguardati, loro
disse, come soldati, satelliti, o ministri, ma quali miei compagni e
fratelli. Io non mi rammento, non solo di non aver mai insevito contro
alcuno di voi, ma nemmeno d'avere pronunciata una parola offensiva.
Nelle fatiche dei campi, negli ufficj militari, nelle vigilie, le parti
mie non furono minori delle vostre; tutto era comune fra me ed i miei
camerata, ed io chiedevo che si seguisse il mio esempio, non i miei
ordini. Le spoglie dei nemici, il bottino tolto ai barbari, io lo
divideva tra di voi senza serbar nulla per me. L'impero, il comando, le
ricchezze, tutto era fra di noi comune, nulla spettava a me solo. Ma
adesso, miei cari camerata, io muojo, e mi è forza di abbandonarvi;
quella fede, quella benevolenza, quella carità che voi trovaste in me,
ve la chiedo per mio figlio, per il suo regno, per la vostra patria.
Risguardatelo come la mia immagine; egli sia il mio rappresentante, il
mio luogotenente in mezzo a voi[281].»

  [280] _Ivi, l. VII, p. 199._

  [281] _Marinus Barletius, l. XIII, p. 367._

Scanderbeg era circondato dai suoi soldati che ricevevano l'ultimo suo
addio, quando la città tutta levossi subitamente in tumulto. Si disse
che i Turchi si avvicinavano, che guastavano le vicine campagne, e che
di già si vedeva il fumo dei loro incendi. L'eroe, sebbene sfinito della
malattia, credette, udendo tale notizia, di trovare le usate forze ed il
suo spirito guerriero. Sollevandosi sul suo letto, chiese le sue armi e
lo scudo, ed ordinò che si allestisse il suo cavallo; ma quando vide le
sue membra tremanti sotto quel peso, che più non potevano sostenere,
ricadendo sul letto, disse ai suoi soldati; «Andate, miei amici, andate
a combattere contro i barbari; voi non mi preverrete che di pochi passi;
avrò in breve bastanti forze per seguirvi.» Uno squadrone epirota sortì
infatti dalla città, e si diresse verso il torrente di Cliro, ove il
pascià Anamazio erasi fatto vedere con un corpo di cavalleria, guastando
il territorio di Scutari. I Turchi credettero che Scanderbeg fosse alla
testa dell'armata che vedevano venire contro di loro, e fuggirono a
precipizio a traverso alle montagne coperte di neve, abbandonando tutta
la preda, e perdendo molta gente nelle gole occupate dai contadini.
Quando la notizia di questo vantaggio fu portata a Scanderbeg, egli
spirò, dopo avere ricevuti tutti i sacramenti della chiesa, il 17 di
gennajo del 1466 in età di 63 anni e nell'anno vigesimoquarto del suo
regno. Il suo cavallo di battaglia più non volle, dopo la sua morte,
essere montato da chicchefosse; e diventato furibondo ed indomabile morì
dopo poche settimane[282].

  [282] _Marinus Barletius, l. XIII, p. 370._

Scanderbeg ebbe sepoltura nella gran chiesa di san Niccolò d'Alesio, ove
le di lui ossa riposarono in pace fino al 1478, nel quale anno i Turchi
terminarono la conquista dell'Albania, ed occuparono Scutari ed Alesio.
Accorsero in folla al suo sepolcro, impazienti di toccare tutto quanto
restava di così grande uomo: si divisero le sue ossa, e, legandole in
oro o in argento, le portarono appese al collo come preziosi giojelli, o
come talismani, che loro comunicherebbero il coraggio e l'invincibile
forza di colui ch'essi tanto ammiravano[283].

  [283] _Marinus Barletius, l. XIII, p. 371 ed ultima._

Nell'istante in cui morì Scanderbeg, Lecca Ducagino, uno de' piccoli
principi dell'Epiro, uscì nelle strade strappandosi i capelli e la
barba, e gridò: «Affrettatevi, cittadini, affrettatevi, nobili Albanesi,
difendetevi; perciocchè le mura dell'Epiro e della Macedonia sono oggi
cadute in polvere, abbattute sono le nostre fortezze, distrutte le
nostre forze, e la sede dell'impero è rovesciata dalla morte di
quest'uomo unico.» In fatti l'Epiro, ch'egli aveva renduto forte e
glorioso, doveva appena sopravvivere al suo eroe. Il figlio di
Scanderbeg si rifugiò ne' castelli che Ferdinando gli aveva dati nel
regno di Napoli[284]. Degli Albanesi che lo avevano così lungo tempo
seguito nelle battaglie, altri perirono sotto le spade turche, altri
furono condotti in una miserabile schiavitù. «Le città, che fino a
questo giorno avevano resistito al furore dei Turchi (scriveva papa
Paolo II al duca di Borgogna) sono oramai cadute in loro potere. Tutti i
popoli che abitano lungo le coste dell'Adriatico tremano all'aspetto di
quest'imminente pericolo. Non vedesi ovunque che spavento, dolore,
cattività e morte. Non si può senza versar lagrime contemplare questi
vascelli che, partiti dalla riva Albanese, si rifugiano nei porti
dell'Italia, e queste famiglie ignude, miserabili, che, scacciate dalle
loro abitazioni, stanno sedute sulle rive del mare, stendendo le mani al
cielo, e facendo risuonare l'aere di lamenti in un linguaggio
sconosciuto[285].»

  [284] Giovanni Castriotto ebbe varj figli, che nel regno di Napoli
  portarono i titoli di duchi di san Pietro in Galatina e di
  Ferrandina, di marchesi d'Atripalda e di Città di sant'Angelo.
  Questi diversi rami di Castriotti napolitani pare che tutti si
  spegnessero nel sedicesimo secolo. _Familiæ Dalmaticæ et Sclavonicæ
  Ducangii, p. 269._

  [285] _Epist. Pauli II ad Philippum Burgundiæ Ducem; apud Card. Pap.
  Epist., n.º 163. — Ann. Eccl. 1466, § 2, p. 178._

Un figlio, o un nipote di una sorella di Scanderbeg e di quell'Amesa, di
cui ne abbiamo notata la _defezione_ e la cattività, trovavasi nelle
mani del sultano, ed era allevato nella religione musulmana. A costui
Maometto II destinò l'eredità di Scanderbeg; e in fatti gli diede il
possedimento di una parte dell'Epiro. Varie fortezze restarono ai
Veneziani, ma le vedremo cadere una dopo l'altra in potere de' Turchi
fino alla pace del 1478, che tolse ai Cristiani gli estremi avanzi
dell'eredità di Giorgio Castriotto[286].

  [286] _Phranza Protovestiarius, l. III, c. 26, p. 126. — Leunclavius
  Ann. Turcici, p. 257. — Gio. Batt. Pigna Stor. de' Principi d'Este,
  l. VIII, p. 728. — Demetrius Cantemir Hist. Ottom., l. III, c. 1, §
  21, p. 109._



CAPITOLO LXXX.

      _Mal intesa politica de' Veneziani nella amministrazione delle
      loro province d'oltremare. Perfidia di Ferdinando di Napoli, il
      quale fa perire Jacopo Piccinino. — Ultimi anni e morte di
      Francesco Sforza. — Turbolenze di Firenze sotto
      l'amministrazione di Pietro de' Medici; progetti e debolezza di
      Luca Pitti_.

1464 = 1466.


I veri interessi dell'Italia si decidevano di quest'epoca sull'altra
riva del mare Adriatico. Colà guerreggiavasi non per sapere se ogni
stato aggiungerebbe ai suoi confini qualche città, qualche piccolo
distretto, se ogni corpo nel governo, ogni fazione tra i cittadini
conserverebbe le sue prerogative, ma per sapere se ancora vi sarebbe
un'Italia, dopo che più non eravi nè Grecia, nè Macedonia, nè Illiria,
se la religione, la nobiltà e l'onore nazionale non sarebbero distrutti,
se i mercati non sarebbero saccheggiati, bruciate le città, gli uomini
adulti presi come armenti, e venduti per una lontana schiavitù, i
fanciulli strappati dal seno delle loro madri per reclutare la milizia
de' giannizzeri, e diventare i nemici di quegli stessi che loro avevano
data la vita. Il pericolo s'avvicinava, la potenza dei Turchi andava
crescendo; inevitabile pareva la loro invasione, ed intanto l'Italia era
ancora dormigliosa. Non erasi stretta alcuna lega tra le potenze per
difenderla, non allestito un esercito, non apparecchiato un tesoro per
sostenere le spese di un'imminente guerra; e se le bandiere della mezza
luna avessero una volta varcato il mare Adriatico, tutti gli stati posti
dall'estremità della Calabria fino alle Alpi sarebbero stati più
rapidamente conquistati, e con molta maggiore facilità che i bellicosi
regni dell'Epiro, della Macedonia, della Servia, della Bosnia, della
Schiavonia, posti sull'opposta riva. Dobbiamo adesso esaminare quali
interessi distraevano allora gl'Italiani, quai diverse cagioni facevano
sì che non s'apparecchiassero a questa gran lotta. Ci resta a vedere il
ducato di Milano passare ad un principe voluttuoso e crudele, le di cui
viste non andavano più in là della sua vanità e de' suoi piaceri; il
regno di Napoli indebolito dalla perfida politica di Ferdinando, che non
ruinava i suoi domestici nemici che all'ombra dei trattati; la
repubblica di Firenze in preda a fazioni, i di cui capi avevano perdute
le virtù che illustravano i loro padri; papa Paolo II seminare la
discordia, intento ad accendere una guerra universale per unire al
dominio ecclesiastico alcuni piccoli feudi, che n'erano stati separati
per giusti titoli. Ci sorprenderanno tante misere cose preferite a così
alti interessi, ci sorprenderà questa dimenticanza così estrema della
prudenza e della politica presso persone tanto famose per la loro
saviezza, questa pazza sicurezza dei popoli che riposavano sull'orlo dei
precipizj, e non potremo omettere d'osservare, che nelle epoche segnate
da grandi rivoluzioni la cagione che le produsse deve meno ricercarsi
nella forza di coloro che le eseguiscono, che nella debolezza di coloro
che le soffrono, in quello spirito di stordimento e di vertigine che
infetta talvolta le nazioni ed i loro capi, come una fatale epidemia, e
che, accecandoli intorno al pericolo che li minaccia, li trae spesse
volte nel precipizio che più dovrebbero temere.

Tra gli stati d'Italia, che abbandonavano la causa della Cristianità,
forse i più colpevoli erano i Veneziani; pure di già si trovavano in
guerra coi Turchi, e già erano attaccati nelle loro colonie e minacciati
ai confini continentali: vero è che, abbandonati da tutti i Latini,
sostennero soli la guerra, e che posero in mare flotte degne della
potenza della loro repubblica; ma essi accrebbero il pericolo per sè
medesimi e per gli altri con una mal intesa politica, e con un fallace
sistema di guerra. Essi mai non risguardarono i loro possedimenti del
Levante come parti integranti dello stato; mai non li governarono in
modo di farli fiorire, mai non li difesero in modo di salvarli; nè mai
procurarono ai popoli quel grado di prosperità e di pace che avrebbe
attaccati i sudditi alla repubblica, e loro avrebbe conciliato l'affetto
degli stati vicini, e fattili risguardare come alleati e difensori
naturali di tutti i Cristiani soggetti ai Turchi.

La repubblica di Venezia era in certo qual modo composta di tre nazioni:
dei Veneziani, dei popoli di terra ferma, e dei Levantini. Gli abitanti
di Venezia stessa e delle lagune risguardavansi come il popolo re; e
sebbene le prerogative della sovranità non appartenessero che ad un
corpo di nobiltà, formato in seno a questa numerosa popolazione, pure
tutti i Veneziani sentivansi ancora membri della repubblica, e
dominatori de' paesi conquistati. Il governo gli adulava e gli
accarezzava, e presso questi soli trovava in caso di bisogno fedeli
marinaj, e cittadini pronti a sagrificarsi. La seconda classe de'
sudditi era formata dagli abitanti di terra ferma; questi per la maggior
parte soggetti alla repubblica da meno di un secolo, avevano conservate
alcune antiche prerogative ed un governo municipale; essi non
risguardavansi come Veneziani, ma Bresciani, Bergamaschi, Veronesi,
Padovani; non pensavano pure a chiedere di avere qualche parte alla
sovranità, ma diligentemente conservavano i loro privilegj, ed erano
tali che per loro fiorivano il commercio e l'agricoltura, e le ricchezze
e la popolazione andavano crescendo. Per ultimo gli abitanti delle
province poste oltremare formavano una terza classe, disprezzata,
oppressa e sempre sagrificata alle altre due. I loro porti erano mercati
esclusivi dei Veneziani, ove questi facevano senza rivali un odioso
monopolio; le loro fortezze dovevano perpetuare ne' sudditi il timore,
ed assicurare a Venezia il dominio dell'Adriatico, ma queste non
coprivano i confini, nè proteggevano l'agricoltura, nè mantenevano la
pace in un ricinto inviolabile; le loro milizie non erano regolarmente
armate, i soldati tolti in paesi così guerrieri non venivano incorporati
al rimanente dell'armata veneziana, ed erano cacciati nell'ultimo rango
dello stabilimento militare.

Pure ove si consideri l'estensione del dominio veneto al di là del golfo
Adriatico, nell'Istria, nella Dalmazia, in una ragguardevole parte
dell'Albania e della Grecia, ove si rifletta al felice clima di quasi
tutte queste province, alle ricche produzioni del loro suolo, allo
spirito industrioso di una parte degli abitanti, al carattere guerriero
degli altri, alla forza delle situazioni, al numero e grandezza dei
porti, si sente bentosto che la repubblica di Venezia avrebbe dovuto
andare superba di diventare una potenza illirica, piuttosto che
italiana; che avrebbe dovuto estendere a tutte le coste dell'Adriatico i
beneficj del commercio, dell'agricoltura, dell'opulenza e della
sicurezza, accogliervi sotto la protezione di savie e giuste leggi la
popolazione de' vicini stati sempre disposta a rifugiarvisi,
equipaggiare le sue flotte co' marinaj che avrebbe potuto formare nelle
infinite isole seminate nel golfo del Quarnero, inspirare un nuovo
ardore ai suoi eserciti, ammettendovi quella razza di uomini vigorosi ed
arditi che popolavano le montagne della Morlachia e dell'Albania, e per
ultimo associare alla sua gloria, alla sua ricchezza, al suo governo,
gl'Illirici, gli Albanesi ed i Greci.

Ma gli stati più prudenti sono essi medesimi spesse volte piuttosto
diretti dai loro pregiudizj che dal loro giudizio. Tutti gli agenti
dell'autorità dividevano le prevenzioni nazionali contro tutti i sudditi
levantini della repubblica. Tutti i Greci venivano riputati senza fede e
corrotti, barbari tutti gl'Illirici. I Veneziani si sarebbero sentiti
umiliati, se fossero stati confusi con questa gente. Essi non potevano
affezionarsi a que' lontani possedimenti, ove mai non si fissavano
stabilmente, volendo esservi sempre considerati come stranieri. Colà si
recavano per far fortuna, e quando questa era fatta, si affrettavano di
portarla altrove. Quest'avidità d'ammassare danaro diventava nelle
colonie il carattere nazionale; tutto ciò che poteva arricchire non era
vergognoso; la giustizia diventava venale, le finanze erano ruinate
dalle malversazioni, gli approvvigionamenti di guerra erano scarsi e di
cattiva qualità, le armate composte di assai minore numero di soldati di
quello che appariva ne' ruoli, in somma l'onore e la sicurezza dello
stato erano sempre sagrificati alla cupidigia de' suoi ministri.

I Veneziani nella guerra contro il duca di Milano avevano posti in
campagna diciotto mila cavalli di pesante armatura, e quasi altrettanta
buona fanteria. Lungi dall'opporre così forte armata ad un nemico assai
più pericoloso, non ebbero mai in Morea due mila uomini sotto le armi:
vero è che non erano comprese in questo numero le milizie del paese; ma
i Greci, ond'erano formate, così spesso vinti dai Turchi, tanto
atterriti dal vittorioso ascendente della mezzaluna, erano inoltre così
sprezzati e maltrattati dai comandanti veneziani, che non potevano
prendere a cuore i vantaggi della repubblica.

Mentre questa miserabile armata rappresentava sola al di là dei mari
tutta la potenza degl'Italiani, ed impediva l'avanzamento de' loro
nemici, i sovrani, godendo di una mal sicura pace, come se abbandonare
si potessero alla più inalterabile sicurezza, ad altro non pensavano che
a tirare vendetta delle loro antiche offese, a schiacciare i loro
segreti nemici, ed a far pagare con usura gli arretrati della passata
loro indulgenza a coloro che avevano dovuto risparmiare.

Ferdinando, re di Napoli, aveva trionfato del suo competitore, staccando
l'uno dopo l'altro dalla casa d'Angiò i grandi del suo regno, che
avevano fatto causa comune colla medesima. Loro aveva accordate
vantaggiosissime condizioni, rese sacre dai più solenni giuramenti. Ma
nè i trattati, nè le promesse lo legavano; perciò, sebbene fosse in pace
con tutto il mondo, ragunava la sua armata nella Campania in principio
del 1464 come aveva fatto ne' precedenti anni. Nello stesso tempo invitò
i signori, coi quali erasi riconciliato, a raggiugnerlo. Evidente era il
pericolo della disubbidienza, dubbioso quello di fidarsi a lui, e gli
uomini deboli preferiscono di accecarsi intorno alla propria situazione,
piuttosto che riconoscere preventivamente il pericolo. Venne pel primo
in giugno Marino Marzano, duca di Suessa, a rendergli omaggio nel suo
campo, dopo essersi fatta dare la guarenzia di Francesco e di Alessandro
Sforza. Era cognato del re, e suo figlio era promesso sposo alla
figliuola di Ferdinando. Questo doppio parentado davagli una sicurezza
che i soli trattati non gli avrebbero forse inspirata. Ma Ferdinando non
aveva dimenticato che Marzano era stato il primo a dichiararsi per
Giovanni d'Angiò; quindi lo fece arrestare e lo mandò prigioniere a
Napoli in onta ai proprj giuramenti ed alla parola data ai suoi più
fedeli alleati: fece nello stesso tempo imprigionare tutti i di lui
figliuoli, ed occupare tutti i di lui stati[287].

  [287] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 762._

Questa violazione della pubblica fede colmò di spavento tutti coloro che
avevano fatto guerra a Ferdinando, e che avevano creduto di potersi
riposare sui trattati con lui conchiusi. Il più inquieto di tutti era
Jacopo Piccinino, ch'era stato lungamente capo del partito d'Angiò, e
che si era trovato in sul punto di rovesciare Ferdinando dal trono. Il
Piccinino era in allora universalmente riconosciuto pel migliore
generale d'Italia: era rimasto solo alla testa di quell'antica scuola
militare di Braccio, ch'era in appresso passata a suo padre Niccolò, poi
a suo fratello Francesco, e che pel corso di settant'anni erasi
mantenuta rivale della scuola dello Sforza; essa distinguevasi per una
maniera più pronta di fare la guerra, più impetuosa e talvolta più
temeraria. Questa milizia erasi conservata indipendente, e continuava
indifferentemente a prendere soldo da coloro che volevano impiegarla,
mentre l'innalzamento dello Sforza al ducato di Milano aveva fatto
scendere i suoi antichi compagni d'armi al rango di suoi sudditi, ed
aveva loro tolta la facoltà d'offrirsi all'incanto a diverse potenze. Il
Piccinino, riconciliandosi con Ferdinando, aveva da lui ricevuto per
ricompensa il principato di Sulmona ed altri ragguardevoli feudi. Ma le
grazie accordate da un re spergiuro potevano essere da lui riprese, ed
il Piccinino credette che un vecchio guerriero non mancherebbe così
facilmente alla sua parola d'onore. Malgrado la lunga rivalità della sua
famiglia con quella dello Sforza, malgrado le vicendevoli offese, il
Piccinino fidavasi al duca di Milano, e risolse di mettersi tra le sue
mani. Da lungo tempo lo Sforza gli aveva offerta in matrimonio sua
figlia naturale Drusiana, come pegno di riconciliazione tra i
_Bracceschi_ e gli _Sforzeschi_. Il Piccinino l'accettò; disse che
andava egli medesimo a prenderla, e per dare nello stesso tempo al duca
di Milano un pegno della sua fede, diede nelle mani di Tomaso Tebaldi,
suo luogotenente, la stessa città di Sulmona, tutte le altre fortezze e
l'armata che serviva sotto di lui. Presi seco per suo corteggio soltanto
dugento cavalli, partì in tal modo alla volta della Lombardia[288].
Ferdinando, che con dispiacere lo vedeva allontanarsi, lo chiamò invano
colle più lusinghiere lettere, ma nello stesso tempo attaccava la
famiglia Caldora, alla quale non era dai trattati meno legato di quello
che lo fosse al Piccinino; costringeva il capo di questa casa, Antonio,
a stabilirsi in Napoli colle donne ed i fanciulli di sua famiglia;
obbligava tutta la gioventù dello stesso casato a vivere in esilio, e
quando gli aveva fatti passare ad un servizio straniero, loro toglieva
le fortezze e quasi tutti i beni[289].

  [288] _Jo. Simonetae, l. XXX, p. 762._

  [289] _Ivi, p. 763._

Frattanto il Piccinino, giunto a Milano, era stato accolto dal duca
colle più vive dimostrazioni di stima e di affetto. Tutta la nobiltà
milanese gli si mostrò ancora più propensa: questa aveva con lui avute
lunghe relazioni, quando sotto gli ordini di suo padre egli serviva
l'ultimo dei duchi della casa Visconti, e quando in appresso era stato
generale della repubblica milanese. Tutti i gentiluomini si recarono ad
incontrarlo fuori delle porte a non breve distanza, e vi accorse anche
il popolo. Egli attraversò Milano tra le acclamazioni d'infinito popolo,
ed il suo ingresso parve un trionfo[290]. Fu celebrato modestamente il
suo matrimonio con Drusiana, perchè la fresca morte di Cosimo de'
Medici, il vecchio amico di Francesco, avrebbe resa sconveniente una
maggior pompa. Lo Sforza s'incaricò di rendere meno sospetta l'amicizia
tra il re di Napoli ed il suo generale, e gli fece continuare per un
altro anno il comando delle armate del regno con un soldo di cento mila
fiorini. Fu mandato a Napoli Brocardo Persico, suo luogotenente, il
quale ebbe dal re onoratissimo accoglimento, e ricevette tutto il danaro
dovuto ai soldati. Per suo mezzo Ferdinando invitava il Piccinino a
tornare presso di lui, e Brocardo Persico, vinto dall'accoglimento che
aveva ricevuto, assicurava il suo padrone in tutti i suoi dispacci, che,
lungi dall'avere nulla a temere, sarebbe al suo ritorno colmato d'onori.

  [290] _Niccolò Machiavelli, l. VII, p. 293._

Ippolita Maria, figlia di Francesco Sforza, doveva sposare Alfonso,
figlio del re di Napoli. In primavera del 1465 Federico, secondo
figliuolo di Ferdinando, s'avvicinò a Milano con seicento cavalli per
chiederla e servirle di scorta. Il Piccinino preferì di non aspettarlo;
partì alla volta di Napoli con Pietro di Pusterla, suo parzialissimo
amico, sotto la di cui salvaguardia il duca aveva cercato di metterlo,
nominandolo suo ambasciatore. Il Piccinino, strada facendo, visitò Borso
d'Este a Ferrara, e Domenico Malatesta a Cesena, che disapprovarono il
suo viaggio, e cercarono di ritenerlo. Ferdinando erasi bastantemente
fatto conoscere per non inspirare veruna confidenza. Lo stesso Piccinino
era di quando in quando agitato da violenti inquietudini, ma una sorta
di fatalità lo strascinava a Napoli. Brocardo Persico lo aveva
raggiunto, e d'altro non gli parlava che de' ricevuti onori. Intanto il
Piccinino viaggiava, e quand'ebbe toccati i confini, gli omaggi che gli
vennero tributati dissiparono i concepiti timori. La principale nobiltà
di Napoli era venuta a riceverlo alla distanza di tre giornate dalla
città, in ogni borgata festeggiavasi il suo passaggio, e lo stesso re
venne con numeroso seguito ad incontrarlo fuori delle porte; l'abbracciò
affettuosamente e lo trattò come fratello. Per ventisette giorni si
celebrarono continue feste in suo onore, e le cortesie di Ferdinando non
si smentirono un solo istante. Finalmente il Piccinino chiese ed ottenne
la sua udienza di congedo per tornare a Sulmona; era il 24 giugno,
giorno della festa di san Giovanni Battista: venne introdotto presso il
re in Castelnovo; questi gli diede le stesse dimostrazioni d'affetto e
di confidenza, e si separò abbracciandolo. Ma erasi appena Ferdinando
ritirato, che alcuni arcieri si gettarono sopra il Piccinino, e lo
trassero in un carcere. Nello stesso tempo venne arrestato ancora suo
figlio Francesco, il suo luogotenente Brocardo ed alcuni altri. In tempo
delle feste celebrate in suo onore, erano stati mandati ordini su tutte
le strade a tutti i comandanti delle province d'arrestarlo, se mai
cercasse di fuggire, onde occupare i suoi beni e piombare sopra le di
lui truppe improvvisamente; queste vennero infatti svaligiate, e i suoi
soldati, senza capi, e spogliati dei loro equipaggi, si ritirarono a
stento presso Domenico Malatesta a Cesena[291].

  [291] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 765, 766. — Giornali Napoletani,
  t. XXI, p. 1134._

Tutta l'Italia accusava Francesco Sforza d'avere avuto parte in questo
tradimento; dicevasi che non si era vergognato di sagrificare sua
figliuola per trarre nella rete un rivale ch'egli temeva; che la sua
gelosia era cresciuta a dismisura per gli onori renduti dai Milanesi al
Piccinino; che finalmente egli aveva temuto, dopo la sua morte, per suo
figliuolo la concorrenza d'un capitano così accreditato, che avria
potuto disputargli il favore del popolo. Queste accuse vennero riportate
dalla maggior parte degli storici, e lo stesso Machiavelli, adottandole,
diede loro maggior peso[292]. Per altro il circostanziato racconto del
Simonetta, segretario del duca di Milano, e l'indignazione che questi
esprime contro tanta iniquità, contrabilanciano a' miei occhi le altrui
testimonianze. Se il suo padrone fosse stato complice del re, il
Simonetta non avrebbe trascurato di dar peso alla trama del Piccinino,
che Ferdinando pretese d'avere scoperta, e di cui scrisse lettere
circolari a tutti i principi dell'Europa. Per lo meno avrebbe simulato
di dar fede all'asserzione del re di Napoli intorno alla sorte del
prigioniere. Diceva questo re, che il Piccinino, tratto dalle grida del
popolo per l'ingresso della flotta reale, erasi attaccato ai cancelli
d'una finestra assai alta della prigione, per vedere ciò che accadeva, e
che cadendo erasi rotta una coscia, per cui era morto dopo dodici
giorni. In tal modo il Simonetta non trascurò di giustificare gli
arresti di Carlo Gonzaga, di Guglielmo di Monferrato, di Tiberio
Brandolini, e la morte dell'ultimo. Ma rispetto al Piccinino fa sentire
quanto assurda fosse la supposizione d'una cospirazione, quanto era
ridicola la favola del suo accidente, quanto il complesso della condotta
di Ferdinando, di cui ne mette in chiaro tutte le circostanze, era
perfida e vergognosa[293]. Altronde la macchinazione, che si ascrive al
duca di Milano, era troppo complicata e troppo azzardosa per lo scopo
che gli si vuole supporre. Mentre ch'egli ebbe in Milano il suo rivale
con soli dugento cavalieri, lontano dalla sua armata e dalle sue
fortezze, gli sarebbe stato troppo facile il farlo arrestare o perire;
l'entusiasmo del popolo per lui gli avrebbe somministrato un probabile
pretesto di supposte congiure, ed in ogni caso il pugnale d'un oscuro
assassino non avrebbe permesso di riconoscere il vero colpevole; ma dare
la propria figlia al Piccinino, lasciarlo in seguito attraversare libero
tutta l'Italia, abbandonarlo a' consiglj, che fino all'ultimo giorno del
suo viaggio potevano allontanarlo dal laccio, è questa una mescolanza
d'imprudenza e di scelleratezza, di cui parmi non potersi
ragionevolmente macchiare la memoria di Francesco Sforza.

  [292] _Machiavelli Ist., l. VII, p. 291-294. — Muratori An. d'Ital.
  1465, p. 308. — Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 903._

  [293] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 769. — Bern. Corio Hist. Milan.,
  p. VI. p. 965_. Questi nell'atto di confutare l'accusa di
  complicità, parla dell'inquietudine concepita da Francesco Sforza
  per gli onori tributati al Piccinino, in guisa di far nascere dei
  dubbj.

Quando il duca di Milano ricevette la notizia di questo tradimento fece
altamente conoscere quanto dolore e collera ne provasse[294]. Fece
subito partire un corriere, apportatore di un ordine a sua figlia
Ippolita di trattenersi dovunque quest'ordine le giungesse. Ove si
presti fede al Simonetta, il corriere l'incontrò a Siena verso la fine
di giugno, di dove Ippolita non partì che in sul declinare
d'agosto[295]. Quando il duca di Milano, riflettendo che non poteva
tornare in vita suo genero Piccinino, e che sarebbe imprudente consiglio
il rompere per un avvenimento irreparabile un'alleanza per cui aveva
fatti prodigiosi sagrificj in tempo della guerra di Napoli, permise alla
figliuola di proseguire il viaggio. Nell'intervallo aveva mandato suo
figlio Tristano a Napoli per domandare il Piccinino, ch'egli supponeva
ancora vivo. Tristano, cui fu risposto che suo cognato era morto,
dubitando che fosse rinchiuso in qualche prigione, chiese che si
diseppellisse il suo cadavere, e volle vederlo. Per tal modo si accertò
che il Piccinino era stato ucciso il secondo o il terzo giorno dopo il
suo arresto[296]. Il duca di Milano non protrasse ulteriormente il
progettato parentado: la figlia Drusiana tornò tristamente a Milano, ove
diede in luce poco tempo dopo un figlio del Piccinino[297]. Mentre
questa attraversava l'Italia con un corteggio dolente tornando da
Napoli, sua sorella vi si recava con magnifico e pomposo
accompagnamento. Aveva seco i fratelli Filippo e Sforza Maria, il primo
de' quali venne in tale occasione investito del ducato di Bari.

  [294] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 760._

  [295] Qui si presenta una circostanza sospetta. Stando ai giornali
  di Siena, Ippolita giunse in quella città il 29 di giugno, e partì
  il 4 luglio. _Cron. d'Allegretti, t. XXIII, Rer. Ital., p. 772._
  Forsecchè si trattenne infatti nella provincia sienese fino alla
  fine d'agosto.

  [296] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 768._

  [297] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 761. — Crist. da Soldo Ist.
  Bresc., p. 904._

Il duca di Milano, sicuro della sua alleanza con Napoli, non era meno
sollecito di rassodare quella che aveva conchiusa colla Francia. La
parte che aveva presa nelle guerre di Genova e di Napoli, e le pretese
della casa d'Orleans sullo stato di Milano, avrebbero potuto da quella
banda procurargli pericolosi nemici; ma Luigi XI, che allora regnava,
aveva una singolare predilezione per gli uomini innalzati da bassa
condizione. Il duca di Milano era a' suoi occhi un principe nuovo, e
sotto quest'aspetto tanto più degno della sua confidenza. Strettissima
era la loro unione, ed il re, che confondeva la falsità colla politica,
credeva di potere istruirsi in quest'arte seguendo i consiglj d'un
principe italiano. Era scoppiata in Francia la guerra che poi fu detta
_del ben pubblico_: Luigi XI invocò l'assistenza di Francesco Sforza, il
quale gli mandò subito suo figliuolo Galeazzo con mille cinquecento
uomini d'armi e tre mila fanti[298]. Galeazzo entrò pel Delfinato nel
Forez, che apparteneva al duca di Borbone, uno de' più deboli tra i
principi confederati. Egli lo pose a fuoco e a sangue, mostrò la
superiorità degl'Italiani nell'arte di attaccare le città, rincorò i
partigiani del re e gittò la discordia nell'armata dei principi[299].
Intanto Luigi XI negoziava con suo fratello e coi grandi del suo regno,
e, a seconda de' consiglj dello Sforza, loro prometteva ogni cosa per
isciogliere la loro lega, essendo internamente disposto a mancar loro di
parola. In tal modo si conchiuse e si pubblicò il trattato di Conflans
in sul finire del 1466. Galeazzo Sforza non era per anco uscito dalla
Francia, quand'ebbe avviso della morte di suo padre, accaduta l'8 marzo
del 1466. La disposizione all'idropisia che erasi manifestata in
Francesco Sforza alcuni anni prima, gli aveva lasciata una precaria
salute; ma l'ultima sua malattia non durò che due giorni. Bianca
Visconti, sua moglie, comprimendo il suo dolore, adunò il senato a mezza
notte, l'avvisò della vicina morte del marito, e fece prendere le
necessarie disposizioni per tenere la città tranquilla, nell'istante in
cui si pubblicherebbe la morte del sovrano. Nello stesso tempo mandò
ambasciatori al re di Napoli, ai Fiorentini, a Paolo II ed ai Veneziani,
per domandar loro di proteggere in caso di bisogno suo figlio, e di
conservarsi fedeli alla sua casa[300].

  [298] _Machiavelli Istor. Fior., l. VII, p. 291. — Memoires de
  Philip. de Comines, l. I, chap. VIII, p. 379._

  [299] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 773._

  [300] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 776. — Crist. da Soldo Ist.
  Bresc., p. 905._

Nobile e vivace volto aveva Francesco Sforza; era grande della persona e
ben proporzionato, ed aveva una singolare forza ed agilità in tutti gli
esercizj del corpo; pochissimi lo pareggiavano al salto, alla corsa,
alla lotta, o nel lanciare vigorosamente il giavellotto. Marciava col
capo scoperto alla testa della sua armata sia tra i ghiacci
dell'inverno, sia sotto il cocente sole della state. Sopportava
pazientemente la fame, la sete ed il dolore; pure non ebbe che poche
occasioni di porre la sua costanza a quest'ultima prova, perciocchè,
sebbene avesse passata la sua vita in mezzo alle battaglie, non fu quasi
mai ferito. Non aveva bisogno di lungo sonno per riposare; ma per quanto
fosse grande l'agitazione del suo spirito, o il tumulto da cui era
circondato, egli dormiva colla medesima calma. Nè le grida, nè i canti
de' soldati presso la sua tenda, nè il nitrire de' cavalli o il suono
delle chiarine e delle trombe, parevano turbarlo; perciò compiacevasi
del rumore che facevano i suoi compagni d'armi, anzi che ordinar loro di
tacere mentr'egli dormiva. Singolarmente sobrio alla sua mensa, non era
egualmente ritenuto per gli altri piaceri; amava appassionatamente le
donne, e non pertanto visse sempre in buona unione con Bianca Visconti,
che aveva la condiscendenza di condonargli le sue frequenti infedeltà.
Generoso e talvolta prodigo, divideva tutto ciò che aveva tra i poveri,
i soldati e i dotti, che chiamava alla sua corte. Rigettava fors'anco
con qualche alterigia i consiglj di prudenza e d'economia che gli dava
Cosimo de' Medici, dicendo che non sentivasi fatto per essere mercante.
Era affatto padrone di sè medesimo, e sapeva nascondere la sua
inquietudine, il dispiacere, la gioja o la collera. Premurosissimo di
conservarsi una buona opinione, s'informava con molta cura di ciò che
dicevasi di lui, e spiegava sollecitamente quelle sue azioni che credeva
sospette, o mal accette al pubblico[301].

  [301] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 778, 779._

Quando Galeazzo Sforza ricevette la notizia della morte del padre,
affidò il comando della sua armata a Giovanni Pallavicino, e facendosi
credere il compagno d'un mercante milanese stabilito in Lione, tornò con
lui privatamente e senza seguito. Non senza ragione egli cercava di non
essere conosciuto nelle province che doveva attraversare: i suoi vicini
aspettavano l'istante in cui si aprirebbe la successione dello Sforza
per rifarsi del timore e de' riguardi, cui questo grand'uomo gli aveva
ridotti. Luigi, duca di Savoja, figliuolo d'Amedeo VIII era morto in
Lione il 29 gennajo del 1465; suo figlio Amedeo IX, soprannominato il
Beato perchè d'altro non si occupò che di elemosine, di fondazioni di
conventi e di pratiche religiose, andava soggetto ad attacchi
d'epilessia, che avevano debilitata la sua testa, e rendutolo incapace
di governare. I suoi consiglieri vollero far arrestare Galeazzo in onta
del salvacondotto che gli avevano dato, sperando di approfittare della
sua prigionia in tempo delle turbolenze che credevano dover agitare lo
stato di Milano. Si credette di ravvisarlo nel suo passaggio per la
Novalese ed i contadini attruppati vollero arrestarlo. Galeazzo si
chiuse entro una chiesa, ove sostenne per due giorni una specie
d'assedio. Ne venne tratto da Antonio Romagnani giurisperito, che aveva
in Piemonte grandissima autorità, e che lo condusse sano e salvo a
Novara. In appresso Galeazzo fece il solenne suo ingresso in Milano il
20 marzo del 1466, e fu senza veruna difficoltà riconosciuto dal popolo
per legittimo sovrano[302].

  [302] _Jo. Simonetae, l. XXXI, p. 780-782. — Ant. de Ripalta An.
  Placent., t. XX, p. 916. — Bern. Corio Stor. Milan., p. VI, p. 967._
  Qui finisce la storia del Simonetta: quest'eccellente storico era
  segretario di Francesco Sforza, da cui quasi mai non fu disgiunto
  dal 1444 al 1466. Trovossi sempre a portata di conoscere a fondo la
  politica del proprio sovrano e quella degli altri stati d'Italia. La
  sua narrazione è chiara, elegante, circostanziata, e generalmente
  imparziale. Lascia dopo di sè nella storia un vuoto, che ne'
  susseguenti anni ci si farà spesso sentire.

La morte di Francesco Sforza influì altresì sul governo di Firenze, ove
fece debole il partito dei Medici, e rialzò i loro nemici. Una stretta
amicizia aveva uniti Cosimo e Francesco; i loro figliuoli nè avevano le
stesse relazioni, nè talenti uguali a quelli di que' sommi uomini. Non
pertanto Pietro de' Medici pretendeva essere capo della repubblica
fiorentina, come lo era stato suo padre: ma gli uomini di stato di
Firenze, che si conoscevano a lui superiori per età, per talenti, per la
memoria de' loro servigj, pel rango occupato dai loro antenati, erano
ben lontani dall'accordargli quella deferenza che non avevano voluto
disputare a suo padre. Pietro loro non si raccomandava per alcuna bella
azione; nè il suo ingegno, nè il suo carattere erano tali da prometterne
per l'avvenire; la stessa sua salute non gli acconsentiva di adoperarsi
utilmente per la repubblica. I cittadini fiorentini lo vedevano non
senza indignazione riclamare delle prerogative ereditarie, in uno stato
libero e fra uomini tutti uguali fra loro. In seno allo stesso partito
dei Medici erasene formato uno, che mostravasi contrario alla sua
famiglia, ed era diretto da Luca Pitti. Dopo che questi aveva adunato
l'ultimo parlamento, egli riguardava sè stesso quale capo dello stato, e
voleva richiamare a sè il potere esercitato da Cosimo. Distinguevasi la
fazione a lui attaccata dal luogo in cui aveva fabbricato il suo
palazzo, _il poggio_, mentre che quello de' Medici dicevasi il partito
_del piano_[303].

  [303] _Comment. del Nerli, l. III, p. 50. — Scip. Ammirato Stor.
  Fior., l. XXIII, p. 93._

Ma Luca Pitti non aveva talenti proporzionati alla sua ambizione. I suoi
aderenti approfittavano della sua riputazione e della sua ricchezza per
dare maggiore imponenza al loro partito, e si proponevano ad un tempo di
non acconsentirgli giammai di giugnere ad un alto potere. Distinguevansi
tra questi Diotisalvi Neroni, il più riputato degli antichi colleghi di
Cosimo de' Medici, e quegli che per la sua capacità era più in istato di
governare la repubblica, Niccolò Soderini, di tutti i cittadini il più
affezionato alla libertà, ed infine Angelo Acciajuoli, il di cui
malcontento veniva esacerbato da un'ingiustizia che gli aveva fatta
Cosimo de' Medici[304].

  [304] _Machiavelli Ist. Fior., l. VII, p. 298. — Jo. Michaelis
  Bruti, l. II, p. 26, apud Burmannum Thesaur. Rer. Ital., t. VIII, p.
  II, ibid. p. 33._ Egli espone diversamente che non fa il Machiavelli
  l'ingiustizia fatta all'Acciajuoli.

Pietro de' Medici sempre ammalato, e nemico d'ogni applicazione,
trascurava non solo i pubblici affari, ma ancora quelli del commercio,
che suo padre aveva esteso per tutta l'Europa. Di già alcune perdite,
che gli erano accadute, gli annunziavano la sorte che lo aspettava in
una mercatura ch'egli non poteva dirigere. Si consigliò con Diotisalvi
Neroni, nel quale sommamente fidava, e questi lo esortò a ritirare i
suoi fondi in circolazione, per impiegarli in acquisto di terreni. Era
questo veramente il solo rimedio col quale i Medici potessero porre in
sicuro le loro sostanze; ma era ad un tempo il più vantaggioso alla
repubblica. Le relazioni d'interesse che Cosimo aveva formate con tutti
gli ordini de' cittadini gli avevano attaccate numerose e pericolose
creature. Pietro, eseguendo troppo bruscamente il progetto suggeritogli,
scontentò tutti gli amici di suo padre. Levò tutt'ad un tratto e senza
avviso ragguardevoli somme alle case che i Medici sostenevano colle
commandite, e fu in tal modo cagione di numerosi fallimenti tra i suoi
concittadini, non solo a Firenze, ma ancora in Venezia ed in
Avignone[305]. I proprietarj di terre ed i capi manifatturieri, cui
Cosimo aveva fatte grosse prestanze, trovaronsi ancora in maggiore
imbarazzo, quando suo figlio ne domandò il rimborso. Ovunque egli faceva
esporre alla vendita per atti di giustizia dei beni affetti da ipoteche;
e mentre gettava i suoi debitori in una condizione assai peggiore che se
non gli avesse mai ajutati, mutava la passata riconoscenza nel più
violento odio[306].

  [305] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 761._

  [306] _Machiavelli, l. VII, p. 297. — Jo. Mich. Bruti Hist.
  Florent., l. II, p. 28._

Ne' primi due anni che corsero tra la morte di Cosimo de' Medici e
quella di Francesco Sforza, i due partiti sperimentarono più volte ne'
consiglj le forze loro senza però venire alle mani. In conseguenza di
questa lotta il potere della balìa, che terminava in settembre del 1465,
non venne rinnovato; ed i consiglj ordinarono, quasi all'unanimità, che
in cambio d'eleggere i magistrati si ricomincierebbe, secondo l'antica
costumanza, a tirarli a sorte dalle borse chiuse. Questa legge fu
cagione d'una gioja universale, come se rendesse alla repubblica la sua
libertà[307].

  [307] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 94._

Per altro queste borse della magistratura erano state composte dalla
stessa fazione dei Medici, e non contenevano che nomi di persone alla
medesima affezionate. I tribunali erano perciò sempre dipendenti da
loro, e le finanze stavano nelle loro mani; essi disponevano pei loro
privati interessi dell'entrate della repubblica; un sistema di
corruzione e di clientela erasi di già stabilito nello stato, e Firenze
ubbidiva sempre a Pietro in forza di una gratitudine che più non aveva
per fondamento nè la stima nè la gratitudine. Ma i capi di quelle
antiche famiglie, che avevano fondata la libertà, e che sdegnavano i
Medici quali nuovi ricchi, gli uomini di stato, che avevano coi loro
talenti e colla lunga abitudine degli affari acquistata la confidenza
dei loro concittadini, non potevano senza indignazione vedersi
soppiantati da un uomo debole di spirito e di corpo, giunto per
infermità ad immatura vecchiezza, ed il di cui credito non aveva verun
fondamento. Quando il primo novembre del 1465 la sorte fece toccare il
gonfalone di giustizia a Niccolò Soderini, tutta la città, confidando
nel di lui coraggio, nella sua vasta erudizione, nella sua eloquenza,
nel suo amore di libertà, sperò che approfitterebbe della sua
magistratura per distruggere inveterati abusi, per rendere il debito
vigore alle leggi, e mettere nuovamente d'accordo, le instituzioni coi
costumi. Il desiderio, che avevano i Fiorentini vivissimo di sottrarsi
alla tutela di Pietro, era tanto unanime, che la nomina di Niccolò
Soderini fu una festa nazionale. Tutto il popolo lo accompagnò al
palazzo pubblico ed applaudì con trasporto, quando, cammin facendo, gli
fu presentata una corona d'ulivo, simbolo della pacifica vittoria che da
lui si aspettava, e del riposo ch'egli doveva fondare sopra la
libertà[308].

  [308] _Machiavelli, l. VII, p. 305. — Scipione Ammirato, l. XXIII,
  p. 94. — Jo. Mich. Bruti, l. III, p. 51._

Il quarto giorno della sua magistratura il Soderini adunò un consiglio
di cinquecento cittadini per deliberare intorno allo stato della
repubblica. Lo aprì con un bellissimo discorso sui pericoli della
discordia, e sui mali ond'era minacciata una città divisa in partiti. Ma
si conobbe allora che mancavagli fermezza di volontà, senza la quale non
si governano gli stati. Egli non erasi formato nel suo capo un
determinato piano di riforma; diceva soltanto ciò che dovevasi schivare,
non quello che far si doveva; chiedeva consiglio, quando a lui si
apparteneva il darlo; e vana riusciva la sua eloquenza, poichè il suo
scopo non era quello di convincere e di persuadere. Il consiglio, dopo
un'inutile deliberazione e l'urto di opinioni affatto contrarie, si
sciolse senza avere niente conchiuso. Otto giorni dopo si adunò un nuovo
consiglio di trecento cittadini, ed il Soderini per la seconda volta
eccitò tutti gli amici della pace, dell'ordine e della libertà, a
proporre ciò che troverebbero più conveniente alla salvezza della
repubblica. Coloro che avevano sperato che il Soderini avrebbe fissate
le loro incerte opinioni, restavano sorpresi che il capo dello stato non
avesse maggiore stabilità di carattere, e ritirarono quella confidenza
che gli avevano da prima tanto liberalmente accordata. Dall'altro canto
i suoi associati, gelosi del favore con cui era stato accolto in
principio, amavano piuttosto che la repubblica venisse riformata da un
altro che da lui. Per ultimo suo fratello Tomaso era affezionato ai
Medici, ed adoperava tutta la sua destrezza ed il suo seducente ingegno
per impedirgli di operare. Finalmente, d'accordo con questo fratello,
Niccolò Soderini risolvette d'intraprendere egli stesso la riforma dello
stato. Da vero amico della libertà volle farlo nelle vie legali, e
perciò lentamente; onde la sua breve magistratura gli fuggì di mano,
prima che la cominciata opera avesse acquistata alcuna solidità. Egli
erasi limitato a due oggetti, a rivedere i conti della precedente
amministrazione, ed a cominciare un nuovo scrutinio. Nella prima
operazione, che doveva rimontare le finanze, venne contrariato da Luca
Pitti, arricchitosi per mezzo degli antichi abusi; nella seconda, che
doveva legalmente rinnovare tutte le autorità costituzionali, dovette
lottare con tutti i privati interessi di coloro che entravano nei vecchi
scrutinj, e cagionò un generale malcontento. E per tal modo quando uscì
di carica senza aver nulla eseguito, senza avere data stabilità
all'incominciata opera, aveva perduto il favore popolare, e quell'alta
riputazione di cui godeva due mesi prima[309].

  [309] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 94. — Machiavelli, l. VIII, p.
  306. — Comm. di Filippo de' Nerli, l. III, p. 51._

La repubblica trovavasi tuttavia agitata dai suoi progetti di riforma,
quando in Firenze si ebbe avviso della morte di Francesco Sforza. Nel
susseguente luglio gli ambasciatori di suo figliuolo vennero a domandare
la continuazione del trattato di alleanza fra i due stati, e quella
dell'annuo sussidio pagato dai Fiorentini. Pietro de' Medici favoreggiò
altamente l'inchiesta dello Sforza. La repubblica, egli disse, aveva
fatti infiniti sagrificj per innalzare e per mantenere la casa Sforza
sul trono ducale di Lombardia, perchè questa casa serviva di contrappeso
alla potenza veneziana, ed assicurava l'equilibrio d'Italia. Era d'uopo
guardarsi dal perdere per una meschina avarizia un amico, che tanto
aveva costato per istabilirlo; e se, come lo dicevano i suoi avversarj,
mancavano a Galeazzo Sforza i talenti e la riputazione del padre, aveva
tanto maggior bisogno dei soccorsi, che si voleva levargli. Rispondevano
gli amici della libertà, che Francesco Sforza non aveva ricevuti sussidj
che come generale d'armata, ed a condizione d'essere sempre
apparecchiato a servire i Fiorentini; che suo figlio Galeazzo, non
essendo altrimenti generale, non aveva diritto ad una paga totalmente
militare. Altronde era cosa affatto chiara, che i Medici volevano
continuargli i sussidj per opporre in appresso questo duca a coloro che
crederebbero di liberare la loro patria da vergognoso giogo. Così
Francesco Sforza erasi mostrato l'amico non di Firenze, ma dei Medici;
l'entrate della repubblica erano bensì state cagione della sua
grandezza, ma non per questo aveva alla medesima consacrata la sua
riconoscenza[310].

  [310] _Machiavelli, l. VII. p. 301, 302. — Scip. Ammirato, l. XXIII,
  p. 95. — Jo. Mich. Bruti Hist. Flor., l. II, p. 38._

Ma la mancanza di risoluzione nel Soderini, mentre era stato
gonfaloniere, aveva screditato il suo partito. Coloro che per timidità
eransi fin allora mantenuti neutrali, si unirono alla casa dei Medici,
perchè più non dubitarono che all'ultimo non riuscisse vittoriosa. La
plebe era guadagnata dalla liberalità di quei ricchi mercanti, ed era
sempre loro favorevole; e coloro che difendevano la causa pubblica
videro con sorpresa, che non formavano che la minorità ne' consiglj. Per
mantenere i diritti d'un popolo sovrano, e la legittima autorità, furono
forzati di tramare una congiura, come se si trattasse di scuotere il
giogo di un tiranno. Cercarono pure stranieri appoggi per opporli a
Galeazzo Sforza: si allearono col duca Borso di Modena, che promise di
mandare in loro ajuto suo fratello, Ercole d'Este, con mille trecento
cavalli. Niccolò Soderini aveva adunati trecento cavalli tedeschi, e
doveva con questi attaccare Pietro de' Medici, cacciarlo dal suo palazzo
e dalla città, e forse anche farlo morire, ricordandosi quanto gli
Albizzi si fossero pentiti di avere risparmiato Cosimo suo padre[311].

  [311] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 96. — Nicc. Machiavelli, l. VII,
  p. 307. — Jo. Mich. Bruti, l. II, p. 50. — Comment. Jacobi Card.
  Papiens., l. III, p. 381._

Sebbene Pietro de' Medici fosse inferiore a suo padre o a suo figliuolo
per talenti e per carattere, in questa circostanza si appigliò
prontamente al più savio e più vigoroso partito. Giovanni Bentivoglio,
che press'a poco esercitava sopra la repubblica di Bologna la stessa
autorità che il Medici in Firenze, lo avvisò che Guido Rangoni, Giovan
Francesco della Mirandola ed i signori di Carpi e di Coreggio
avanzavansi verso le montagne del Frignano con molte milizie, raccolte
negli stati di Modena e di Reggio, per passare a Firenze in soccorso de'
suoi avversarj. Dal canto suo Pietro de' Medici ottenne dal duca di
Milano la licenza di disporre di un'armata, che tenevano adunata in
Bologna Costanzo Sforza ed i Sanseverini, e nello stesso tempo levò più
di quattro mila uomini di milizie bolognesi[312]. Partì in appresso
dalla sua villa di Careggi con pochi uomini armati per recarsi a
Firenze: egli facevasi portare in lettica, preceduto da suo figliuolo
Lorenzo a cavallo. Il Valori, che scrisse la vita dell'ultimo, pretende,
che, avendo Lorenzo veduti molti armati e grandissimo movimento sulla
strada che teneva, temette di qualche intrapresa contro la vita di suo
padre, e che gli fece dire di prendere un'altra strada; mentre ad un
tempo calmò l'aspettazione di que' soldati, dicendo loro che suo padre
lo seguiva a breve distanza. Da ciò si volle dedurne che vi fosse una
trama per assassinare Pietro; ma ciò non è altrimenti provato[313].

  [312] _Cron. di Bologna, t. XVIII, p. 763._

  [313] _Valori in vita Laurentii, p. 10._ Fu copiato dall'Ammirato,
  _l. XXIII, p. 96_, e da _Roscoe, Life of Lorenzo, t. I, p. 80_; ma
  confutato da J. Michele Bruto, _l. III, p. 52._

Pietro aveva ottenuto con segrete pratiche, condotte a fine da Antonio
Pucci, di staccare Luca Pitti dal partito de' malcontenti, facendogli
sperare di unirlo con un parentado alla propria famiglia[314]. Dopo
avere disuniti i suoi nemici Pietro entrò in Firenze. Molti uomini
armati stavano aspettandolo in casa sua, e non pochi altri suoi
partigiani vennero a raggiugnerlo poichè fu arrivato. Allora mandò alla
signoria la lettera del Bentivoglio, per giustificarsi d'aver prese le
armi: i suoi avversarj, diceva egli, avevano cominciato prima di lui, e
lo avevano forzato a difendersi. Ma i suoi nemici non erano ancora
apparecchiati; ed il solo Niccolò Soderini, compensando in
quest'occasione colla sua attività e risolutezza ciò che gli era mancato
essendo gonfaloniere, aggiunse duecento suoi amici alle tre compagnie
tedesche, adunò tutto il popolo del quartiere di santo Spirito, dove
egli abitava, ed andò a casa di Luca Pitti a supplicarlo di prendere le
armi e attaccare i Medici, prima che si fossero fortificati cogli
esterni soccorsi che aspettavano. La vittoria sarebbe ancora stata per
loro, se avessero saputo coglierla; ma Luca Pitti pretestò il suo
rispetto per la memoria di Cosimo, suo amico, e dichiarò di voler
salvare la sua famiglia dal furor popolare[315]. In appresso si conobbe
che era stato ingannato dai trattati cominciati per suo privato
interesse. Diotisalvi Neroni andò al palazzo pubblico: il gonfaloniere e
quattro priori erano attaccati al suo partito; pure si comportavano da
buoni magistrati insieme ai loro colleghi, per terminare la lite
all'amichevole, e far deporre le armi. Colla loro mediazione si
conchiuse una specie di armistizio; le due parti si mantennero in armi
nel loro quartiere, mentre si stava negoziando; ma con tale negoziazione
Pietro ad altro non pensava che a guadagnar tempo. La signoria in allora
regnante stava per terminare i suoi due mesi, ed il gonfaloniere, capo
di quella che stava per subentrare pochi giorni dopo, doveva essere
preso nel quartiere di santa Croce, quasi tutto devoto a casa Medici. In
fatti il 28 del mese fu estratto a sorte Roberto Lioni, uno de' più
caldi partigiani di Pietro, e tutta la signoria gli era egualmente
favorevole. Gli amici della libertà s'accorsero allora, ma troppo tardi,
d'avere commesso un grandissimo errore perdendo tanto tempo. Diedero
orecchio a proposizioni d'accomodamento, fatte dalle due signorie
riunite, e furono soscritte da Luca Pitti, e da Lorenzo e da Giuliano
de' Medici[316].

  [314] _Jacopo Nardi, delle Ist. Fiorent., l. I, p. 10. — Comment. di
  Filippo Nerli, l. III, p. 52._

  [315] _Comment. Jacobi Card. Papiens., l. III, p. 381, 382._

  [316] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 98. — Machiavelli Istor., l.
  VII, p. 309. — Jo. Mich. Bruti Hist. Flor., l. III, p. 59._

Pietro era stato forzato ad accettare condizioni, perchè fin tanto che
la magistratura, mantenevasi imparziale, i movimenti del suo partito
potevano essere puniti come atti di ribellione; ma egli violò
sfrontatamente queste condizioni, tostocchè vide i suoi amici installati
nella signoria. Roberto Lioni, fingendo di credere che Niccolò Soderini
volesse riprendere le armi, adunò il parlamento il 2 settembre del 1466,
quattro giorni dopo la soscrizione degli articoli di pace, sebbene la
più essenziale condizione della medesima fosse la promessa dei Medici di
non adunare parlamento e di non domandare la balìa[317]. Egli aveva
occupata la piazza con soldati affezionati ai Medici, e per forza
ottenne dal popolo la creazione d'una balìa composta di otto creature di
Pietro. Questa balìa dichiarò subito che l'estrazione a sorte della
magistratura rimarrebbe sospesa per dieci anni, e vi sostituì elezioni
fatte dalla sola fazione dei Medici. A tale notizia gli amici della
libertà, prevedendo di già i rigori che si eserciterebbero contro di
loro, fuggirono a precipizio da tutte le bande; ma non si poterono però
sottrarre alle sentenze rivoluzionarie della balìa: l'Acciajuoli ed i
suoi figli vennero relegati per venti anni a Barletta; Neroni ed i suoi
fratelli in Sicilia, ed un altro dei suoi fratelli, ch'era arcivescovo
di Firenze, ritirossi a Roma; il Soderini ed i suoi figliuoli furono
relegati in Provenza; Gualtiero Panciatichi fu per dieci anni esiliato
dagli stati di Firenze. Molte altre meno illustri famiglie vennero nello
stesso tempo condannate a somiglianti pene[318]. In capo a pochi giorni
i rigori andarono crescendo a ridoppio; e mentre la signoria ordinava
processioni e rendimenti di grazie per una rivoluzione, che diceva
essere la salute dello stato, si arrestarono in mezzo a queste stesse
processioni molti cittadini, per gettarli nelle carceri, o per
abbandonarli ai carnefici[319]. Luca Pitti fu il solo eccettuato da
questa universale persecuzione; ma, caduto in sospetto d'avere venduti i
suoi amici, e di avere data a Pietro la nota di coloro ch'eransi
dichiarati contro di lui, disprezzato da tutti i repubblicani, mal visto
dalla parte vittoriosa, egli strascinò il rimanente della sua vita
nell'obbrobrio, fuggito da tutti, ruinato, inabilitato a terminare i
superbi palazzi che aveva cominciati con tanto fasto, ed uno de' quali,
comperato dopo un secolo dal primo gran duca, si conservò, quale
monumento del di lui orgoglio e della di lui imprudenza.

  [317] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 98._

  [318] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 99. — Guernieri Bernio Storia
  d'Agobbio, t. XXI, p. 1012._ Questi dà una lunga nota dei
  condannati. — _Jo. Mich. Bruti Hist. Flor., l. III, p. 67._

  [319] _Machiavelli Ist., l. VII, p. 313. — Jacopo Nardi Ist. Flor.,
  l. I., p. 10. — Comment. del Nerli, l. III, p. 52. — Scip. Ammirato,
  l. XXIII, p. 100. — Jo. Mich. Bruti, l. III, p. 72. — Comment.
  Jacobi Card. Papiens., l. III, p. 382._



CAPITOLO LXXXI.

      _Gli emigrati fiorentini si riuniscono sotto la protezione di
      Venezia ed attaccano con infelice successo i Medici: ingiustizie
      del governo fiorentino: morte di Pietro de' Medici. — Inquieta
      ambizione di Paolo II che vuole acquistare l'eredità del
      Malatesti; egli cerca invano alleati; muore detestato dai Romani
      e dai dotti._

1466 = 1471.


La libertà, anche non esente dal suoi abusi, faceva sentire a Firenze la
sua creatrice potenza, e in mezzo alle sventure, prodotte dall'impero
delle fazioni, consolava ancora i cittadini. La città veniva sconvolta
da burrascose passioni; i partiti si animavano, si provocavano, si
battevano, e nell'ebbrezza della vittoria il vincitore stendeva la sua
proscrizione su tutti i vinti, li privava della loro patria, e riempiva
tutta l'Italia di esiliati. Non si può senza dolore vedere così
detestabili vendette, e tanta dimenticanza dei diritti dei cittadini; ma
la pietà inspirata da queste violenti scene è mista di stupore. Ci
chiediamo come mai un così piccolo stato poteva sostenere così grandi
perdite; come potevano da una sola città uscire tanti potenti ed
illustri uomini; come Firenze avesse in allora più nomi storici che
tutta l'intera Francia; come ognuno de' suoi cittadini, che vedevasi
innalzato o atterrato, era più conosciuto nell'Europa, più ricco, più
realmente potente che un pari d'una grande monarchia, il di cui feudo
forse pareggiava in estensione tutto lo stato fiorentino. Ci domandiamo
che cosa faceva grandeggiar tanto gli uomini in alcune repubbliche
d'Italia, mentre sembravano tuttavia tanto piccoli nel restante del
cristianesimo, che cosa così profondamente imprime in noi la memoria
delle loro azioni, lega la loro vita alla storia dell'umano
incivilimento, e coprì la loro terra natale di que' maravigliosi
monumenti, ne' quali il gusto e la magnificenza di quegli illustri
borghesi superano tutto quanto hanno fatto i principi ed i re; e
conviene ben essere ciechi, per non ravvisare in questi prodigj l'opera
della libertà[320].

  [320] A ciò contribuì ancora potentemente quell'entusiasmo per le
  cose delle belle arti, che allora risorgeva, e che, senza far torto
  agli altri popoli d'Italia, fu al certo più vivamente sentito dai
  Fiorentini dal XIII.º a tutto il XVI.º secolo. _N. d. T._

Questa libertà era in allora gagliardamente lacerata; essa più non aveva
nelle leggi, nelle istituzioni una sufficiente garanzia; più non
assicurava ai cittadini i beneficj che dovevano da essa ripromettersi,
una imparziale giustizia, un'inviolabile sicurezza personale; e tante
scosse la minacciavano d'una prossima e totale ruina; pure le sue
abitudini si mantenevano tuttavia in tutti i cuori. I cittadini
fiorentini più non sapevano quali fossero i loro diritti, ma non avevano
dimenticato quale fosse la loro dignità; un nobile orgoglio serviva loro
di guarenzia, e quantunque nella lotta contro lo stabilimento della
tirannia dei Medici, siamo oramai per vederli quasi sempre soccombenti,
se non altro questa lotta fu lunga e si rinnovò per due in tre
generazioni, fino alla totale distruzione di tutti coloro ch'erano stati
allevati nelle generose massime; ed anche quando i patriotti fiorentini
soggiacquero per non più rialzarsi, caddero almeno nobilmente.

La rovina e la dispersione dei Soderini, degli Acciajuoli, di Luca
Pitti, e del loro partito lasciò in balìa di Pietro de' Medici il
dominio nella città di Firenze; ma l'Italia si riempì d'emigrati
fiorentini. Coloro ch'erano stati scacciati da Cosimo nel 1434 si
unirono agli espulsi da suo figlio Pietro nel 1466. Giovanni Francesco,
figlio di Palla Strozzi, poteva essere considerato come il capo de'
primi, perciocchè le ricchezze, ch'egli aveva colla mercatura acquisiate
grandissime, gli procacciavano quello stesso credito ch'era stato il
principio della grandezza de' Medici. Angelo Acciajuoli trovavasi capo
dei secondi; egli però non volle associarsi ai figliuoli di coloro
ch'egli aveva perseguitati, prima d'aver tentato di riconciliarsi co'
suoi antichi amici; ma Pietro gli rispose irrisoriamente, unendo alle
proteste di filiale rispetto il consiglio di sottomettersi pazientemente
all'esilio ed alla persecuzione[321]. Tutti i fuorusciti fiorentini si
recarono in allora a Venezia, e domandarono alla repubblica di
proteggere uomini proscritti per quella nobile causa della libertà,
nella quale essa medesima riponeva la sua gloria. Ebbero frequenti
conferenze col consiglio de' Pregadi, e con Bartolomeo Coleoni, generale
dei Veneziani. I Fiorentini, avuta di ciò notizia, condannarono tutti i
loro esiliati come ribelli, e taglieggiarono le loro teste[322]. Nello
stesso tempo si apparecchiarono alla guerra, e rinnovellarono la loro
alleanza col duca di Milano e col re di Napoli.

  [321] _Appendix to Roscoe's Life of Lorenzo n.º 10, p. 38. — Nic.
  Macchiavelli Ist., l. VII, p. 315. — J. Mich. Bruti, l. III, p. 78._

  [322] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 100._

Per altro gli emigrati non avevano potuto ottenere che Venezia
apertamente sposasse la loro causa. Quella repubblica erasi accontentata
di licenziare dal suo servigio Bartolommeo Coleoni, e di permettere loro
di assoldarlo. In allora questo generale soggiornava in Bergamo; sebbene
egli non si fosse mai acquistato gran nome con istrepitose azioni,
essendo sopravvissuto a tutti gli altri, risguardavasi come il più
rinomato generale d'Italia[323]. I Veneziani gli anticiparono
segretamente del danaro, e gli emigrati fiorentini, arricchiti dal
commercio, adunarono facilmente considerabili somme. Essi non si
accontentarono del Coleoni, che doveva essere il loro supremo generale e
che aveva di già adunati sotto le sue bandiere alcune migliaja di
soldati; ma trattarono con Ercole d'Este, legittimo fratello del duca di
Ferrara, e lo presero al loro soldo con mille quattrocento cavalli[324].
Arruolarono inoltre i signori di Carpi, della Mirandola e di Forlì,
Marco Pio, Galeotto Pico e Pino degli Ordelaffi, stendendo in tal modo
le loro alleanze intorno ai confini della Toscana. Astorre Manfredi,
signore di Faenza, si era obbligato ai servigj dei Medici e doveva
custodire le gole di Val di Lamone di concerto con Federico di
Montefeltro. Non pertanto, dopo avere ricevuto il loro danaro, mutò
bruscamente partito, dichiarossi a favore degli emigrati, e pose in
grandissimo pericolo l'armata fiorentina che aveva ricevuto nel suo
territorio[325]. Per ultimo la stessa famiglia Sforza non si mantenne
tutta intera attaccata ai Medici. Alessandro, signore di Pesaro,
fratello dell'ultimo duca di Milano, mandò suo figlio Costanzo
all'armata degli emigrati. Tutto sembrava piegare a seconda degli
ultimi; gli antichi amici della repubblica avevano abbracciata la loro
causa, e contavansi nella loro armata ottomila cavalli e sei mila pedoni
di buona e vecchia truppa, quando il Coleoni passò il Po il 10 maggio
del 1467, e si avanzò fino a Dovadola nel territorio d'Imola con
intenzione d'entrare in Toscana dalla banda della Romagna[326].

  [323] Antonio Cornazzano, uscito dalla medesima famiglia del feroce
  Ottone de' Terzi, tiranno di Parma, scrisse in sei libri i
  commentarj della vita di Bartolommeo Coleoni: aveva lungamente
  vissuto in sua compagnia nel castello di Malpaga, presso Brescia,
  ove questo vecchio capitano ai suoi antichi commilitoni univa i
  dotti e gli artisti. Egli lo dipinse qual uomo di elevato e colto
  ingegno, e versato assai nella filosofia, non dimenticando il
  racconto delle gloriose imprese del suo eroe, onde farlo risguardare
  come il migliore capitano del secolo. Talvolta la sua parzialità
  interessa; ma non va d'accordo colla storia. Il Cornazzano venne
  stampato nella VI parte del tomo IX del Burmanno: _Thesaur. Ant. et
  Hist. It., p. 1-40_. Il Coleoni morì in Venezia il 4 novembre 1475.
  Era nato del 1400.

  [324] _Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 908. — Gio. Battista Pigna
  Stor. de' principi d'Este, l. VIII, p. 730._

  [325] _Comm. Jac. Card. Papiens., l. III, p. 384. — Jo. Mich. Bruti,
  l. IV, p. 83._

  [326] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 101._

I Fiorentini avevano opposto al Coleoni Federico da Montefeltro, conte
d'Urbino, che formato nella scuola di Francesco Sforza, univa un'alta
riputazione militare a quella delle lettere. Non altrimenti che il suo
avversario più non trovavasi nel vigore dell'età, ed ambedue si
prendevano maggior cura di non pregiudicare l'antica loro riputazione,
per cui talvolta usavano un'esagerata prudenza, che di terminare
sollecitamente la guerra con ardite operazioni. Quanto i Medici da un
lato e gli emigrati dall'altro bramavano un'azione decisiva, onde
approfittare degli immensi armamenti che esaurivano i loro tesori,
altrettanto i due generali pareva che cercassero di evitarla. Frattanto
il giovane duca di Milano, Galeazzo Sforza, erasi affrettato di recarsi
al campo fiorentino per attestare nel più solenne modo che si
conserverebbe fedele alle alleanze di suo padre coi Medici e colla
repubblica. Il suo rango voleva che gli si dasse un comando non dovuto
alla sua inesperienza. Non meno impetuoso di quel che cauto fosse e
considerato il Montefeltro, era inoltre riscaldato dalle basse
adulazioni de' suoi cortigiani, sicchè, credendo tutto sapere, tutto
osava intraprendere; ma il vero coraggio non si accoppiava alla sua
audacia, e vile mostravasi poi nel pericolo in cui si era temerariamente
posto. Due volte trasse Federico di Montefeltro a presentare battaglia
al nemico, e due volte, preso da panico terrore, l'abbandonò
nell'istante dell'azione; sicchè due volte l'armata fiorentina sarebbe
stata distrutta, se il Coleoni fosse stato più giovane e più confidente,
ed avesse saputo approfittare de' suoi vantaggi[327].

  [327] _Jacobi Card. Papiens., l. III, p. 387._

I decemviri della guerra a Firenze sapevano che il Montefeltro non
rispondeva della sorte dell'armata affidatagli, finchè aveva un tale
collega. Altronde essi conoscevano la presunzione di Galeazzo Sforza, e
temevano di offenderlo. Presero adunque il partito d'invitarlo a Firenze
per assistere alle pubbliche feste, colle quali la repubblica voleva
attestargli la sua riconoscenza ed il suo rispetto[328]; e Federico di
Montefeltro ebbe ordine di approfittare della sua lontananza per venire
a battaglia. Infatti il 25 luglio del 1467, poco dopo il mezzogiorno,
attaccò il Coleoni alla Molinella. Ostinata fu la battaglia, e soltanto
l'oscurità potè separare i combattenti dopo una mischia di otto ore fino
a notte inoltrata. L'artiglieria leggiera adoperata in questa battaglia,
per quanto si racconta contribuì a renderla più sanguinosa;
appoggiandosi a questa circostanza si cercò di attribuire al Coleoni
l'invenzione de' cannoni di campagna; ma è certo che vennero adoperati
nelle due armate col nome di _spingarde_ senza dare un deciso vantaggio
all'uno o all'altro generale[329].

  [328] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 101. — Nicc. Machiavelli, l.
  VII, p. 320._

  [329] _Jac. Card. Papiens., l. III, p. 389. — Gio. Battista Pigna,
  l. VIII, p. 731._

Ritirandosi dal campo di battaglia della Molinella, i due generali si
scoraggiarono calcolando le proprie perdite, come se ambidue fossero
stati battuti. Per altro il Coleoni aveva perduti più uomini e più
cavalli: onde pochi giorni dopo sottoscrissero un armistizio ed
intavolarono negoziati[330].

  [330] _Cron. di Bolog., l. XVIII, p. 767. — Guernieri Bernio, t.
  XXI, p. 1013. — Ant. de Ripalta An. Placent., t. XX, p. 921. — Jo.
  Mich. Bruti, l. IV, p. 90._

Nello stesso tempo messer Filippo di Bressa, fratello del duca di
Savoja, era entrato negli stati del marchese di Monferrato, e minacciava
quelli di Milano. Galeazzo tornò sollecitamente in Lombardia con quattro
mila cavalli e cinque mila fanti per impedirgli di avanzarsi; ma le due
armate si osservarono e minacciarono senza venire a battaglia, mentre il
re di Francia trattava tra le parti il ristabilimento della pace, che in
fatti venne soscritta il 14 novembre del 1467 fra il duca di Savoja, il
duca di Milano ed il marchese di Monferrato[331].

  [331] _Benvenuto da san Giorgio Ist. del Monferrato, t. XXIII, p.
  739. — Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 910. — Marin Sanuto Vite dei
  Duchi, t. XXII, p. 1185._

Le due repubbliche di Firenze e di Venezia avevano ancora maggior
bisogno della pace, non avendo ritratto verun vantaggio da così
dispendiosi armamenti, nè fatto verun acquisto. Gli emigrati, che si
erano ruinati per mettere in campagna l'armata del Coleoni, avevano col
danaro perduta ogni considerazione. La guerra più non aveva uno scopo, e
non pertanto riuscì difficile la conchiusione della pace. Borso d'Este,
duca di Modena, e papa Paolo II si offrirono come mediatori. Il primo,
non deviando dalla politica della sua famiglia, che dopo il
cominciamento del secolo era stata la pacificatrice dell'Italia, cercava
di buona fede i mezzi di conciliazione; ma Paolo II per lo contrario
tentava segretamente di imbarazzarlo. Ora rappresentava al duca di
Modena, che la discordia delle grandi potenze d'Italia formava la
sicurezza delle piccole, e dava maggiore considerazione al
pontefice[332]; ora cercava di persuadere al Fiorentini d'essere
apparecchiato di unirsi a loro contro Venezia: onde Francesco Naselli,
ambasciatore di Ferrara, provò maggiore difficoltà nello sventare le
segrete pratiche del papa senza offenderlo, che a conciliare
gl'interessi delle potenze nemiche[333].

  [332] _Gio. Batt. Pigna, l. VIII, p. 733._

  [333] _Ivi, p. 734-739._ Sono le stesse espressioni del Naselli, che
  sotto le forme di rispetto e di timore religioso, disvela tutta
  l'immoralità del pontefice.

Finalmente il duca di Modena, dopo avere discussi tutti gli articoli
colle parti contraenti, lasciò al solo pontefice l'onore del trattato di
pace. Paolo II lo pubblicò il 2 febbrajo del 1468 sotto la forma d'una
sentenza pontificia, minacciando la scomunica a chiunque non vi si
assoggetterebbe. Gli articoli convenuti dalle due parti erano poco
complicati; non era stata fatta alcuna conquista e non eravi nulla da
restituire; rispetto agli emigrati fiorentini, pei quali erasi
cominciata la guerra, e che quasi soli ne avevano sostenute le spese,
nulla fu convenuto a loro favore, e furono vilmente abbandonati dai loro
alleati. I sovrani, la di cui morale pubblica non ha che la sanzione
della forza, non risguardano i loro impegni verso le private persone
come facenti parte del diritto politico. Ma agli articoli di pace
concordemente stipulati, Paolo II aggiunse l'inaspettata condizione di
nominare Bartolomeo Coleoni generale della Cristianità, per sostenere la
guerra contro i Turchi in Albania con una paga di cento mila fiorini a
carico di tutti gli stati d'Italia[334]. I sovrani, chiamati a
concorrere al mantenimento del Coleoni, erano persuasi che il papa non
aveva altrimenti intenzione di mandarlo in Albania, ma piuttosto di
valersene per opprimere l'Italia, dopo averlo fatto sua creatura. I
Fiorentini promisero di pagare il loro contingente, ma solo quando il
Coleoni avrebbe posto piede nel territorio dei Turchi. Il duca di Milano
ed il re di Napoli protestarono altamente contro una convenzione per la
quale non avevano dato alcun potere ai mediatori; minacciarono di farsi
ragione colle armi, appellandosi della scomunica del pontefice ad un
futuro concilio. Paolo II sconcertato modificò la sua sentenza del 25
aprile, togliendone tutto quando risguardava il Coleoni. Venne allora
accettata e pubblicata in tutta l'Italia[335].

  [334] La proporzione stabilita per questa contribuzione è uno dei
  dati per giudicare dello stato comparativo delle ricchezze e della
  potenza dei sovrani dell'Italia.

    La santa sede dovea contribuire,    fior. 19,000
    Il re di Napoli                       »   19,000
    I Veneziani                           »   19,000
    Il duca di Milano                     »   19,000
    I Fiorentini                          »   15,000
    I Sienesi                             »    4,000
    Il duca di Modena                     »    3,000
    Il marchese di Mantova                »    1,000
    La repubblica di Lucca                »    1,000
                                             -------
                                Totale fior. 100,000

  Il decreto trovasi tutto intero presso il _Rayn. Ann. Eccl. 1468, §
  15-21, p. 192. — Comm. Jacob. Card. Papiensis, l. IV, p. 392. —
  Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 103. — Navagero Stor. Venez., p. 1127._

  [335] _Crist. da Soldo Ist. Bresc., p. 911. — Scip. Ammirato, l.
  XXIII, p. 103. — Gio. Batt. Pigna Stor. de Principi d'Este, l. VIII,
  p. 743._

Non solo il governo dei Medici punto non restituì agli emigrati
fiorentini i loro beni ch'egli aveva presi, e non li richiamò in patria,
ma prese anzi occasione da questa guerra per farsi più tirannico ed
arbitrario, e per estendere le sue persecuzioni sopra una folla di
cittadini non compresi nelle prime sentenze. Le più ragguardevoli
famiglie di Firenze vennero trattate con eccessivo rigore. I Capponi,
gli Strozzi, i Pitti, gli Alessandri ed i Soderini, ch'eransi sottratti
alle prime condanne, furono compresi in quella del mese d'aprile del
1468[336]. Vere o pretese congiure per occupare ora Pescia, ora
Castiglionchio, vennero punite col supplicio di moltissimi imputati. La
giustizia erasi renduta totalmente venale; le magistrature, lungi dal
proteggere il popolo, omai non sembravano istituite che per soddisfare
le private passioni, opprimendo alternativamente tutti coloro che
avevano la sventura di eccitare la gelosia o la cupidigia degli uomini
potenti[337]. Pietro de' Medici, tenuto quasi continuamente nella sua
villa di Careggi dalla violenza della sua malattia, non conosceva che
imperfettamente i disordini che per sua autorità ed in suo nome si
andavano moltiplicando; ed altronde non sapeva come apporvi rimedio. La
gotta lo aveva renduto paralitico, non lasciandogli altro di sano che la
mente. I suoi figli, sebbene ancora fanciulli, annunciavano veramente
quei talenti, che poi li resero illustri, ma l'età loro non permetteva
loro di partecipare al governo dello stato, o di reprimere i tirannici
modi della loro fazione. Le brillanti feste, le giostre, i tornei, nei
quali si distinsero questi giovinetti[338], distrassero alcun tempo il
popolo dal pensiero della propria miseria; e siccome gli eruditi, che
soli in questo secolo erano i dispensieri della riputazione,
continuavano a ricevere piccoli doni e pensioni da Pietro, come ne
avevano ricevuto da Cosimo suo padre, non fecero difficoltà di
attribuirgli il nome di Mecenate, e di celebrarne il carattere, i
talenti, le cognizioni, facendolo risguardare come il primo cittadino
dell'Italia, perchè ne era il più ricco[339].

  [336] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 104._

  [337] _Machiavelli, l. VII, p. 322. — Cron. di Leonardo Morelli, t.
  XIX, Deliz. degli Erud. Tosc., p. 184._

  [338] Questi tornei hanno una celebrità comune colle lettere, avendo
  dato l'argomento a due poemi: la _Giostra di Lorenzo_ del Pulci, e
  la _Giostra di Giuliano_ di Poliziano. Stando al Giornale di
  Leonardo Morelli (_t. XIX, p. 185_), che probabilmente non fu veduto
  da Roscoe, il torneo di Lorenzo fu dato il 13 febbrajo del 1468 anno
  fiorentino, 1469 anno volgare.

  [339] Il signor Roscoe raccolse tutte queste adulazioni prodigate ai
  Medici, con una parzialità per tutta la famiglia del suo eroe,
  indegna della savia sua critica e del suo amore per la libertà.
  Esclude attentamente dalla sua storia tutto ciò che può nuocere alla
  memoria di Cosimo, di Pietro o di Lorenzo, e non vuole prestar fede
  in loro svantaggio nemmeno agli storici ligi a questa famiglia, ed
  obbligati ad adularla. _Life of Lorenzo, t. I, p. 88-106._

Diede motivo al rinnovamento di queste feste e di questi spettacoli il
matrimonio del primo figlio di Pietro, Lorenzo de' Medici, con Clarice,
figliuola di Jacopo Orsini, principe romano. I Fiorentini non videro
senza gelosia un loro concittadino ricercare questo esterno parentado
con un gran signore. Più prudente era stato il vecchio Cosimo, che non
aveva ammogliati i suoi figliuoli fuori della patria, per non esporsi
all'accusa di sdegnare l'eguaglianza repubblicana. Questo matrimonio si
celebrò con grandissima pompa il 4 giugno del 1469[340], quando già
Pietro sentiva venir meno le sue forze, e vedeva avvicinarsi il fine
della sua vita; egli non poteva non sentire che la cattiva condotta dei
capi del suo partito provocava sulla di lui famiglia l'odio pubblico, ed
esponeva alle passioni popolari que' giovanetti, ch'egli bentosto
lasciar doveva senza difensori. Assicura il Machiavelli che chiamò
presso di sè coloro che governavano la repubblica, per dar loro questi
ultimi avvisi. «Io non avrei mai creduto, disse loro, che e' potesse
venir tempo, che i modi e costumi degli amici mi avessero a far amare e
desiderare i nemici, e la vittoria la perdita, perchè io mi pensava
avere in compagnia uomini che nelle cupidità loro avessero qualche
termine o misura, e che bastasse loro vivere nella loro patria sicuri ed
onorati, e di più de' loro nemici vendicati. Ma io conosco ora come io
mi sono di gran lunga ingannato, come quello che conosceva poco la
naturale ambizione di tutti gli uomini, e meno la vostra; perchè non vi
basta essere in tanta città principi, ed avere voi pochi quegli onori,
dignità ed utili, de' quali già molti cittadini si solevano onorare; non
vi basta avere in tra voi divisi i beni dei nemici vostri; non vi basta
potere tutti gli altri affliggere con i pubblici carichi, e voi liberi
da quelli avere tutte le pubbliche utilità, mentre voi con ogni qualità
d'ingiuria ciascheduno affliggete. Voi spogliate de' suoi beni il
vicino, voi vendete la giustizia, voi fuggite i giudizj civili, voi
oppressate gli uomini pacifici, e gl'insolenti esaltate. Nè credo che
sia in tutta l'Italia tanti esempj di violenza e di avarizia, quanti
sono in questa città. Dunque questa nostra patria ci ha dato la vita,
perchè noi la togliamo a lei? Ci ha fatti vittoriosi, perchè noi la
distruggiamo? Ci onora, perchè noi la vituperiamo? Io vi prometto per
quella fede che si debbe dare e ricevere dagli uomini buoni, che se voi
seguiterete di portarvi in modo ch'io mi abbia a pentire d'avere vinto,
io ancora mi porterò in maniera, che voi vi pentirete d'aver male usata
la vittoria[341].» In fatti, queste ammonizioni riuscendo inefficaci,
Pietro fece venire celatamente Angelo Acciajuoli in Caffagiuolo per
trattare con lui del richiamo degli esiliati e dei mezzi di reprimere
l'insolenza del partito vincitore; ma la morte che lo sorprese in
principio di dicembre del 1469 prevenne l'esecuzione di tali suoi
onestissimi pensieri[342]. In tempo della sua amministrazione il
territorio della repubblica fiorentina erasi ingrandito con un solo
acquisto fatto in un modo totalmente pacifico. La signoria acquistò il
28 febbraio del 1467 da Luigi di Campo Fregoso Sarzana e la fortezza di
Sarzanello pel prezzo di trentasette mila fiorini. Questa piccola città
signoreggiava la Lunigiana e l'apertura dei due importanti passi che
conducono in Toscana, l'uno da Genova, l'altro da Parma per Pontremoli,
ed era stata data in feudo alla casa Fregoso il 2 novembre del 1421 da
un trattato tra la repubblica di Genova ed il duca di Milano[343].

  [340] _Cron. di Leon. Morelli. Deliz. degli Erud., t. XIX, p. 183. —
  Ricordi di Lorenzo de' Medici, Append. in Roscoe 12, t. III, p. 44._

  [341] _Machiavelli Ist., l. VII, p. 326. — Jo. Mich. Bruti Hist.
  Flor., l. IV, p. 94._

  [342] Il 2 dicembre, secondo Lorenzo, il 3 secondo Scipione
  Ammirato, il 13 secondo Morelli. _Ricordi di Leone Morelli, p. 185.
  — Ricordi di Lorenzo, N.º 12, p. 44. — Jo. Mich. Bruti, l. IV, p.
  98. — Scipione Ammirato, l. XXIII, p. 106._

  [343] _Cron. di Leon. Morelli, t. XIX, p. 184. — Ricordi di Lorenzo
  de' Medici, p. 43._

Di questi tempi i sovrani del mezzogiorno d'Italia aggravavano il giogo
dei loro sudditi. Ferdinando, dopo avere colpite le più illustri
vittime, aveva potuto facilmente sorprendere tutti coloro che nella
guerra civile gli avevano dato qualche momentanea inquietudine, ma che
egli aveva saputo addormentare con vane speranze e falsi giuramenti. Da
principio aveva tenuta questa tortuosa politica d'accordo con Paolo II.
Alcuni grandi feudatarj della santa sede erano caduti vittima della
perfidia del papa, mentre i baroni di Napoli soggiacevano a quella del
re. I conti dell'Anguillara avevano dato ombra agli immediati
predecessori di Paolo II. Dolce erasi distinto come condottiere, Averso,
sotto Eugenio IV aveva più volte portata la guerra civile fin presso
Roma; aveva poi lasciata l'alleanza degli Orsini per quella de' Colonna,
e tentato d'ottenere colle armi la successione di Tagliacozzo[344]. Uno
de' figliuoli d'Averso era stato levato al fonte battesimale da Paolo
II, il quale nel principio del suo regno approfittò di questa relazione
per intavolare con lui e con suo fratello amichevoli negoziazioni,
eccitandolo a passare al suo servigio piuttosto che impegnarsi col
Piccinino. Erano omai d'accordo rispetto al soldo, ma non erano per anco
convenuti intorno a tutti gli articoli: frattanto il papa faceva avanzar
truppe verso i confini del re di Napoli, e questi faceva lo stesso dal
canto suo: ed era appunto nella circostanza in cui il Piccinino giugneva
presso di Ferdinando, e veniva accolto con così splendide feste.
Credevasi che la guerra fosse per iscoppiare tra il re e la santa sede,
e che il Piccinino verrebbe posto a fronte del conte dell'Anguillara,
quando improvvisamente il Piccinino fu imprigionato ed ucciso; i figli
del conte d'Aversa colpiti nel tempo medesimo da sentenza di scomunica,
e le truppe del re, unitesi a quelle del papa, presero in undici giorni
ai loro legittimi padroni dodici fortezze credute inespugnabili.
Francesco Averso dell'Anguillara fu arrestato co' suoi figliuoli e
custodito nelle prigioni del papa; Deifobo, suo fratello, potè fuggire;
e Paolo II, che aveva combinato questo tradimento con quello di
Ferdinando contro il Piccinino, divulgò che la morte di quest'ultimo
aveva renduta la libertà all'Italia[345].

  [344] _Comm. Pii Papae II, l. II, p. 39._

  [345] _Mich. Cannesius Viterbiens. in Vita Pauli II, Rer. It., t.
  III, p. II, p. 1013-1018._

Frattanto il papa pretendeva un tributo dal regno di Napoli. Le antiche
investiture ne determinavano il valore in otto mila once d'oro, ossiano
sessanta mila fiorini per le due Sicilie; ma dopo la separazione
dell'isola dalla terra ferma il tributo di quest'ultimo regno era stato
ridotto a quaranta mila cinquecento fiorini[346]. Paolo II ne chiedeva
il pagamento, e Ferdinando per dispensarsene pretestava la miseria del
suo regno e le spese della sua spedizione contro i conti
dell'Anguillara, intrapresa per servigio del papa[347]. Altre
contestazioni intorno alla sovranità di Terracina, del ducato di Sora e
delle miniere d'allume di Tolfa inasprirono bentosto le due vicine
potenze, che cominciavano a non più aver bisogno de' mutui soccorsi.
Ferdinando non volle dichiarare la guerra al papa, ma sperava di
atterrirlo ostentando le proprie forze. Di suo ordine suo figlio Alfonso
occupò, armata mano, i territorj in lite, mentre Paolo II gli
rimproverava amaramente la sua ingratitudine verso la santa sede, cui
doveva la sua corona[348].

  [346] _Mich. Cannesius Viterbiens. in Vita Pauli II, Rer. It., t.
  III, p. II, p. 1022._

  [347] _Giannone Ist. Civ., l. XXVII, c. 2, p. 563._

  [348] _Comm. Jacob. Card. Papiensis, l. IV, p. 395. — Raynald. Ann.
  Eccl. 1468, § 29-31, p. 196._

La successione ai feudi dei Malatesti in Romagna, cui aspirava Paolo II
per essere estinta la legittima linea, sparse nuovi semi di discordia
tra questo impetuoso pontefice, il re di Napoli, e gli altri vicini. I
due fratelli Domenico e Sigismondo Malatesta avevano egualmente
incontrata la disgrazia dei pontefici. Questi avevano acconsentito a
stento a lasciarli godere parte de' loro stati finchè vivessero; ma
impazientemente aspettavano che morissero questi principi, per
richiamare le loro signorie sotto l'immediato dominio della chiesa, o
per assegnarle in retaggio ai loro nipoti. Paolo II aveva nel 1463 fatto
conoscere il suo malcontento per avere Domenico Malatesta, signore di
Cesena, venduta la piccola città di Cervia e le sue saline ai Veneziani.
Quando venne a morte questo Domenico, il 20 novembre del 1465, Paolo II
fece occupare la sua eredità, e non volle accordarne che una piccola
parte a Roberto, figliuolo di Sigismondo[349].

  [349] _Guernieri Bernio Stor. d'Agobbio, p. 1010. — Claramontii
  Hist. Caesenae, l. XVI, p. 434 in Thes. Rer. Ital. Burmanni, t. VII,
  p. II._

L'eredità di Sigismondo Pandolfo Malatesta era di molto maggiore
importanza. Questo principe morì il 13 ottobre del 1468 dopo un regno di
trentanove anni, ne' quali aveva spiegati più talenti militari che niun
altro capo di questa casa così feconda di grandi capitani[350]. Da prima
Sigismondo aveva guerreggiato per proprio conto presso Rimini, poscia
militato al soldo dei re di Napoli, de' Fiorentini e de' Veneziani. Ma
la sua perfidia era ancora più celebre che la sua abilità o il suo
valore; perciocchè veruna promessa aveva mai avuto forza di legarlo.
Genero di Francesco Sforza e zio del conte d'Urbino, gli aveva tutti e
due traditi; aveva meritato colla sua perfidia verso il papa
l'accanimento di Pio II per ispogliarlo del suo stato; e se la tortuosa
sua politica poteva pur trovare qualche apologia in quella di tutti i
principi suoi contemporanei, la sua politica nell'interno della sua
famiglia l'aveva mostrato uno scellerato. Ammogliatosi tre volte, aveva
crudelmente fatte perire le due prime mogli, ed Isotta, la terza, che
gli sopravvisse, aveva sortiti oscuri natali, ed era stata lungo tempo
la sua amica[351]. Niuna consorte gli aveva dati figliuoli, ma da due
altre amanti ne aveva avuti due, Roberto II e Sallustio, che Pio II
aveva legittimati nel 1450. Quest'uomo per altro sentiva quel gusto per
le lettere, le arti e la magnificenza, che tanto onorò i principi
Italiani del XV.º secolo. Aveva abbellita la sua città di Rimini di
palazzi e di chiese che tutta sentivano la purità della rinascente
architettura, e vi aveva fondata una biblioteca con enorme dispendio,
imperciocchè, sebbene a' suoi tempi si fosse inventata la stampa, non
erasi ancora tanto diminuito il prezzo dei libri, che, per raccogliere
le scritture degli antichi autori, non abbia dovuto impiegarvi una
considerabile parte del danaro guadagnato nelle battaglie e nel servizio
di stranieri principi[352]. Le corti d'Italia non s'accostavano di lunga
mano al lusso che vi si vede nell'età nostra; la casa del principe non
contava che un piccolo numero di guardie e di semplici servitori; non si
conoscevano i grandi ufficiali della corona, ed anche i più piccoli
stati non erano ruinati dal fasto de' sovrani. Invece di marescialli, di
ciambellani, di grandi cacciatori, il Malatesta aveva presso di sè
alcuni uomini distinti, cui non chiedeva verun servigio. Aveva egli
stesso composte alcune poesie italiane, e volentieri s'intratteneva coi
poeti e coi dotti. Trovava ne' loro discorsi quell'istruzione che sapeva
cercare ancora nei libri; entrava volentieri in dotte dispute, e
permetteva di contraddirlo; aveva un particolar gusto per le più oscure
quistioni della filosofia naturale, e queste vivaci conversazioni
formavano la delizia de' conviti del suo palazzo, o dei pranzi in casa
de' suoi sudditi, cui interveniva familiarmente[353].

  [350] _Annales Forolivienses, t. XXII, p. 227._

  [351] _Jacobi Card. Papiens., l. V, p. 403._

  [352] Il primo privilegio accordato ad uno stampatore è del mese di
  settembre del 1469. Fu il consiglio de' Pregadi di Venezia che
  concesse a Giovanni di Spira l'esclusivo diritto di stampare per
  cinque anni le lettere di Cicerone e di Plinio. _Vite dei Duchi di
  Marin Sanuto, p. 1189._ È cosa notabile che al più quindici anni
  soli dopo l'invenzione della stampa un librajo abbia avuto bisogno
  d'un privilegio.

  [353] _Robert Valturio de re militari. Orat. ad Sigismundum
  Malatestam, l. I, c. 3. — Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital., t.
  VI, l. I, c. II, § 23, p. 53._

Quando morì Sigismondo Malatesta, suo figlio Roberto, da lui chiamato
erede de' suoi stati, trovavasi ai servigj del papa e lontano da Rimini.
Ebbe un corriere da sua madrigna Isotta, che gli dava avviso della morte
del principe, e l'invitava a venire a prendere possesso della sua
successione. Isotta non amava Roberto, pure più confidava in lui che nel
papa, e preferiva di ubbidire a suo figliastro anzichè di vedere spenta
la sovranità in cui ella aveva regnato. Ma non era cosa facile a Roberto
l'uscire di mano al pontefice; egli cercò di sedurlo con una falsa
confidenza; gli fece vedere la lettera d'Isotta, promettendogli di
tradire la matrigna, e di darla in sei giorni con tutte le fortezze agli
ufficiali del papa. Gli furono promesse in ricompensa le signorie di
Sinigaglia e di Mondovì; gli si diedero mille fiorini per le spese di
questa spedizione, ed il papa credette essersi di lui assicurato con
trattati suggellati dai giuramenti. Ma questa garanzia è troppo debole,
quando l'oggetto stesso del trattato è una perfidia ed uno spergiuro.
Roberto, che giurava al papa di tradire la sua matrigna, prometteva a sè
medesimo di tradire anche il papa. Giunto a Rimini vi fu accolto con
entusiasmo e proclamato signore dal popolo. Ai talenti di suo padre
aggiugneva le più amabili maniere; altronde gli abitanti di Rimini
temevano di essere incorporati alla Chiesa, e con ciò di vedere la città
loro ridotta al rango di città di provincia. Tutti i vicini stati
s'interessavano alla conservazione della casa Malatesta. Federico da
Montefeltro, ch'era stato tanto tempo nemico di Sigismondo, aveva
maritata sua figlia a Roberto; i Fiorentini ed il re di Napoli volevano
che la Romagna restasse divisa tra piccoli principi, e sarebbe loro
spiaciuto che fosse caduta sotto l'immediato potere del papa. Roberto,
assicuratosi di questi alleati, ricusò di dare la città ai commissarj
del papa, ed anzi ne domandò l'investitura alle medesime condizioni cui
era stata accordata a suo padre[354].

  [354] _Comment. Jacobi Card. Papiens., l. V, p. 205-206._

Paolo II, rimasto vittima de' proprj intrighi, non proruppe in
rimproveri; mostrò di riconoscere Roberto, e non volle minacciarlo,
prima d'avere tutto apparecchiato per privarlo dello stato. Il 28 maggio
del 1469 conchiuse un'alleanza coi Veneziani che doveva durare
venticinque anni[355], in forza della quale gli furono dati quattro mila
cavalli e tre mila fanti, che entrarono nella Romagna. Fece nello stesso
tempo offrire ad Alessandro Sforza, signore di Pesaro, parte delle
spoglie del suo vicino, e fece marciare verso Rimini Napoleone Orsini e
molti altri capitani della Chiesa. Quando tante forze furono da ogni
banda in movimento, fece in giugno sorprendere il sobborgo di Rimini
dall'arcivescovo di Spalatro, governatore della Marca. A questo segno
l'armata pontificia si raccolse sotto le mura della città, per
cominciarne l'assedio[356].

  [355] Il trattato viene riferito dal _Rayn. Ann. Eccl. 1469, § 24,
  25, p. 205._

  [356] _Guern. Bernio Cron. d'Agobbio, p. 1017. — Ann. Forolivienses,
  t. XXII, p. 228._

Di già il re di Napoli ed i Fiorentini mandavano truppe a Federico di
Montefeltro per soccorrere il Malatesta. Il papa lo aveva preveduto, e
le sue pratiche non tendevano a niente meno che ad accendere una guerra
generale per questa piccola eredità. Pensava di dividere la Romagna coi
Veneziani, accordando loro ancora Bologna, ch'essi dovevano strappar di
mano ai Bentivoglio, e possedere alle medesime condizioni. Paolo II
prometteva il trono di Ferdinando a Renato d'Angiò ed a suo figlio
Giovanni, ch'egli richiamava in Italia. Ferdinando, diceva il papa nel
suo concistoro, aveva meritato colla sua ingratitudine di perdere la
corona; e che, bastardo ancor esso, erasi affrettato di armarsi a favore
d'un altro[357]: ma gli alleati cui appoggiavasi il papa erano più
lontani che quelli dei suoi avversarj. Da una parte il duca Alfonso di
Calabria, dall'altra Tristano Sforza, fratello del duca di Milano,
vennero personalmente ad unirsi all'armata di Federico da Montefeltro,
il quale, sentendosi il più forte, attaccò il 29 agosto l'esercito
pontificio, e lo ruppe compiutamente. I principi di Romagna, che ne
facevano parte, combattevano con dispiacere contro un loro fratello,
temendo di essere come lui spogliati uno dopo l'altro. Costoro opposero
una così debole resistenza, che non rimasero uccisi nella battaglia che
circa cento uomini, sebbene il Montefeltro facesse tre mila prigionieri,
tra i quali si trovavano i più distinti ufficiali dell'armata. Furono
abbandonati al saccheggio gli equipaggi ed il campo, e l'artiglieria,
ch'era assai bella, venne in mano de' vincitori[358]. Federico di
Montefeltro avrebbe potuto approfittare assaissimo di questa vittoria;
ma, rispingendo l'armata pontificia non volle attaccare la Chiesa. Si
accontentò di forzare una trentina di castelli dei territorj di Rimini e
di Fano a riconoscere per loro signore Roberto Malatesta; poi licenziò
in novembre la sua armata[359].

  [357] _Scip. Ammirato, l. XXIII, p. 105._

  [358] _Comm. Jac. Card. Papiens., l. V, p. 416. — Rayn. Ann. Eccl.
  1469, § 26, p. 206._

  [359] _Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 777._

La mala riuscita di questa spedizione contro Rimini calmò alquanto
l'ardore guerriero di Paolo II; egli sentì che in Italia non aveva
superiorità, e cominciò a concepire alcuni timori intorno alle
negoziazioni d'oltremonti ancora vaghe e mal combinate, nelle quali si
andava impegnando. Prima d'avere posti in movimento gli alleati che
cercava al di là dei monti, potev'essere oppresso dai suoi più prossimi
vicini. Altronde lo stato dell'Europa prometteva poco buon esito alle
nuove leghe che Paolo II aveva voluto formare. Borso d'Este, duca di
Modena, versato molto più di lui ne' sistemi, negl'interessi e nelle
alleanze della grande repubblica europea, approfittava delle proprie
cognizioni per illuminare il papa intorno ai veri suoi interessi,
facendogli sentire che aveva molto a temere e nulla a sperare dagli
oltremontani, onde così ricondurlo a quelle pacifiche disposizioni, che
ugualmente convenivano al suo rango di sovrano ed alla sua qualità di
padre dei fedeli[360].

  [360] _Gio. Batt. Pigna Stor. dei Principi d'Este, l. VIII, p.
  755-764._

L'imperatore era il primo de' sovrani, cui il papa poteva proporre la
sua alleanza. Ma Paolo appunto allora era stato da lui visitato, e la
personale conoscenza di Federico III non era tale da ispirargli troppa
confidenza. Federico era precipitosamente partito dai suoi stati alla
volta d'Italia in sul declinare del 1468; era passato il 10 dicembre per
Ferrara con ristretto corteggio, ed era giunto a Roma per la vigilia del
natale, senz'altro scopo che quello di soddisfare ad un suo voto. Il
papa, che non poteva darsi a credere che la sola divozione dirigesse le
azioni dei re, era persuaso che questo viaggio nascondesse qualche
grande progetto politico, ed aveva concepito un'estrema diffidenza;
aveva ingombrata Roma di soldati, ed erasi messo in guardia contro ogni
sorpresa, come se il successore degli Enrici dovesse essere non meno di
loro nemico della tiara. Aveva peraltro potuto presto riconoscere che
l'indolente monarca di Vienna veniva alla di lui corte per adorare e per
ricevere leggi, non per dettarle. Federico erasi affrettato di baciare i
piedi non altrimenti che le mani ed il volto del papa[361]. Erasi
mostrato più geloso dell'onore di leggere innanzi a lui il vangelo in
abito da diacono, che della sua imperiale corona[362]; aveva tenuta la
staffa del papa, quando questi montava a cavallo; e tutte le piccole
umiliazioni della sua alta dignità furono diligentemente raccolte e
descritte nella storia della corte di Roma[363]. Del resto sino dalle
prime sue conferenze con Paolo II egli aveva mostrata la debolezza e la
versatilità del suo carattere. In breve erasi renduto in Roma tanto
spregevole quanto già lo era da lungo tempo agli occhi de' Tedeschi, de'
Boemi, degli Ungari. Federico non aveva saputo conservare, nè le
prerogative della sua corona, nè i confini del suo impero. Tutti i suoi
diritti erano stati invasi dagli stati della Germania: di trent'anni,
ch'egli regnava, la Cristianità vedevasi sempre esposta a crescenti
calamità; i Turchi erano finalmente giunti ai confini de' suoi stati
ereditarj, e niente aveva egli ancora fatto per difenderli. In così
manifesta impotenza aveva per altro l'ambizione di far valere le antiche
pretese dell'impero sullo stato di Milano; onde non aveva voluto
riconoscere Francesco Sforza, nè adesso suo figlio Galeazzo. Aveva
rimandati bruscamente gli ambasciatori di Galeazzo, dichiarando ch'egli
solo era il duca di Milano e non altri. «Colla spada, rispose uno di
loro, il duca Francesco acquistò questo ducato, e suo figlio aspetterà
per perderlo che gli sia tolto colla spada[364].» Ma Federico era ben
lontano dal tentare un'impresa di tanta importanza. Vero è che
desiderava di entrare in lega colla santa sede, che contava Galeazzo tra
i suoi nemici; ma, lungi dal riuscirvi, inspirò a Paolo II tanta
diffidenza della sua debolezza, che questi avrebbe piuttosto accettata
l'alleanza dello stesso Galeazzo, se a tale prezzo avesse potuto farsi
guarentire le conquiste che meditava di fare in Romagna[365].

  [361] _Jac. Card. Papiens., l. VIII, p. 439. — Ann. Eccl. 1468, §
  48, p. 199._

  [362] _Ann. Eccl. 1468, § 45, p. 199._

  [363] _Diario di Stef. Infessura, t. III, p. II, p. 1141. —
  Augustini Patritii Senensis de Adventu Friderici III, t. XXIII, p.
  205-216. — Ann. Eccl. 1469, § 3, p. 201._

  [364] _Cron. d'Agobbio di Guern. Bernio, p. 1017._

  [365] _Gio. Batt. Pigna, l. VIII, p. 762._

Galeazzo Sforza poco temeva l'imperatore e non pensava pure ad amicarsi
il papa. Erasi attaccato alla Francia. Luigi XI aveva saputo solleticare
la sua vanità, mostrando di valutare assai la di lui alleanza, che
rendeva più intima con un matrimonio. Il 6 luglio del 1468 Galeazzo
Sforza sposò Bonna di Savoja, sorella di Carlotta moglie di Luigi XI.
Per fare questo matrimonio mancò di fede al marchese Gonzaga, che da
lungo tempo gli aveva promessa sua figlia. Bonna era stata educata nella
corte di Francia, e Luigi XI ne disponeva come se dipendesse da lui
solo. Non interpellò pure il di lei fratello, Amedeo IX, duca di Savoja,
o piuttosto la reggenza che governava a nome di questo principe, reso
quasi affatto imbecille da frequenti insulti epilettici. Luigi XI
assegnò per dote a Bonna di Savoja la città di Vercelli, autorizzando
Galeazzo Sforza ad acquistarla colle armi; ma questi vide tornar vani i
suoi tentativi in ottobre del 1468[366].

  [366] _Cristof. da Soldo Ist. Bresc., t. XXI, p. 912._ Qui termina
  la storia bresciana di Cristoforo da Soldo. L'autore era stato
  magistrato nella sua patria, e riferisce colle più minute
  particolarità le cose accadute sotto i di lui occhi; ma il suo
  linguaggio, i pregiudizj e l'importanza che dà alle voci popolari,
  lo dimostrano affatto mancante di educazione. La sua storia è
  stampata nel tom. XXI, _Rer. Ital., p. 789-914._

Il duca di Milano, altero del parentado che lo faceva cognato del re di
Francia, si rese intollerante di qualunque freno, e più non volle
ascoltare i consigli di sua madre Bianca Visconti, che si era sempre
mostrata tenera e generosa verso di lui. La maltrattò indegnamente
sforzandola ad abbandonare la corte ed a ritirarsi a Cremona. Colà morì
bentosto il 19 ottobre del 1468, e si aveva di già una tale opinione
della scelleratezza di Galeazzo, che venne accusato d'averla avvelenata,
per impedire il progetto che supponevasi avere Bianca di dare Cremona ai
Veneziani[367].

  [367] _Ant. Galli Comment. Rer. Gen., t. XXIII, p. 264. — Bernard.
  Corio Hist. Mil., p. VI, p. 970._ «Si disse ch'era morta più di
  veleno che di mal naturale;» ma il Corio, paggio di Galeazzo, non
  osa indicare su chi cadessero i sospetti. È più aperto il Galli.

Paolo II, respinto dal duca di Milano, nulla poteva sperare da Luigi XI
dopo l'intima sua alleanza col duca. Per altro era propriamente alla
corte di Francia che il papa aveva sperato di trovare un difensore, un
vindice, e colà aveva intavolati i suoi primi trattati. Ma Giovanni
d'Angiò, duca di Calabria, cui erasi rivolto per armarlo contro il re di
Napoli, trovavasi in allora occupato in un'altra guerra con quegli
stessi Arragonesi, cui aveva precedentemente contrastata la corona di
Napoli, e questa guerra più non permetteva al papa di sperare nè i
soccorsi de' Francesi nè quelli degli Spagnuoli. Il fratello del grande
Alfonso, Giovanni re di Navarra, gli era succeduto sul trono d'Arragona
senza voler rinunciare lo stato di Navarra, ereditato dalla prima sua
moglie, a suo figlio Carlo, conte di Viana, come aveva promesso di fare.
La sola domanda fattagliene aveva in lui risvegliato un violento
risentimento verso i figli del primo letto, e la seconda sua consorte,
Giovanna Enriquez, che gli aveva dato per figlio il troppo famoso
Ferdinando il Cattolico, non aveva mancato d'inasprire questo
risentimento, cambiandolo in un implacabile odio. A Ferdinando pensava
Giovanni di trasmettere le corone ereditate da Alfonso. Aveva fatta la
guerra al conte di Viana, la di cui causa era stata abbracciata dal re
di Castiglia. I Catalani eransi sollevati a favore del loro principe
ereditario, ed il re per disfarsi di lui si era valso del tradimento.
Aveva sotto la fede pubblica chiamato suo figlio alle _Cortes_ d'Ilerda,
dove lo aveva poi fatto arrestare con aperto disprezzo del suo
salvacondotto, e quando universali insurrezioni lo forzarono a
rilasciarlo, egli non gli diede la libertà che dopo avergli dato un
veleno, che lo condusse a morte il 24 agosto del 1461[368]. Due sorelle
legittime, eredi del conte di Viana, imbarazzavano ancora il cammino di
Ferdinando. Il re Giovanni sagrificò la maggiore, Bianca, sposa separata
del re di Castiglia, alla cadetta, Eleonora, che fu poi regina di
Navarra, la quale aveva sposato il conte di Foix. Bianca fu data in mano
ad Eleonora, e perì avvelenata nel castello d'Orthès nel 1464[369].
Tanti delitti non fecero che accrescere la ripugnanza dei popoli per
tali sovrani. I Catalani, piuttosto che riconoscere Giovanni o suo
figliuolo, chiamarono al trono don Pedro, infante di Portogallo, e morto
questi nel 1466[370], si volsero finalmente al vecchio re Renato
d'Angiò, che per sua madre Yolanda d'Arragona veniva ad essere nipote di
Giovanni I d'Arragona, morto nel 1395. Renato, troppo vecchio per
prendere parte a nuove guerre, cedette l'eventualità di questa
spedizione a suo figliuolo Giovanni, duca di Calabria: Giovanni fu
infatti proclamato re di Barcellona; e colà aveva ricevute le prime
proposizioni di Paolo II; siccome l'intrapresa guerra non procedeva
troppo prosperamente, forse non sarebbe stato lontano dal pensiero di
sperimentare un'altra volta la sua fortuna nel regno di Napoli; ma,
sorpreso da una malattia epidemica in Barcellona, vi morì il 16 dicembre
del 1470, in età di 45 anni[371], e pose con ciò fine alla resistenza
dei Catalani, alle negoziazioni del papa, ed alle ultime speranze del
partito d'Angiò[372].

  [368] _Ann. Eccl. Raynaldi, 1461, § 130, p. 116. — Ant. Galli
  Comment. Rer. Genuens., t. XXIII, Rer. Ital., p. 247._ Ferdinando il
  Cattolico, cui era stato sagrificato il conte di Viana, volle
  purgare i suoi genitori dalla infame taccia di tanti delitti, ed
  incaricò Lucio Marinco Siciliano di scrivere la storia di
  quest'avvenimento (_l. XIII, p. 415_). Per altro trapela ancora la
  verità nella narrazione di questo mercenario storico. Carlo di Viana
  fu arrestato alle Cortes d'Ilerda il 2 dicembre 1460 (_Marin.
  Siculus, l. XIII, p. 418. — Mariana de Reb. Hisp., l. XXIII, c. 2,
  p. 61_). Venne rilasciato il 1.º marzo del 1461 a Barcellona (_Mar.
  Siculus, l. XIII, p. 422. — Mariana, p. 62_); e morì, secondo il
  Mariana, il 24 settembre dello stesso anno; secondo Gallo il 24
  agosto (_Mariana, l. XXIII, c. 3, p. 62. — Marin. Sicul., l. XIII,
  p. 424_). — Marinco Siciliano attribuisce le vociferazioni di veleno
  alla superstizione di coloro che credettero di udire nelle strade di
  Barcellona l'ombra del conte di Viana accusare sua matrigna. Il
  Mariana annunzia con maggiore franchezza il sospetto, almeno di
  tutto un partito; sospetto che fu cagione di spaventose guerre
  civili.

  [369] _Mariana, l. XXIII, c. IV, p. 63._

  [370] _Ivi, c. VI, p. 65. — Marin. Siculus, l. XVI, p. 451._

  [371] _Mariana, l. XXIII, c. XVI, p. 80. — Marin. Siculus, l. XVII,
  p. 455._

  [372] _Ant. Galli Comm. Rer. Genuens., t. XXIII, Rer. It., p.
  245-262. — Gior. Napol., p. 1135. — Gaillard, Hist. de la rivalité
  de la France et de l'Espagne, l. III, chap. III. — Marin. Siculus,
  l. XV, p. 439, l. XVI, p. 452 e l. XVII, p. 455._

Anche prima della morte del duca di Calabria i progressi dei Turchi,
ch'empirono l'Italia di spavento, l'invasione della Croazia nel 1469, la
conquista di Negroponte nel 1470, fecero all'ultimo sentire a Paolo II
quanto imprudente cosa sarebbe l'accendere una nuova guerra alle porte
di Roma, impiegando contro un feudatario della santa sede quei soldati e
quelle ricchezze, di cui potrebbe tra poco aver bisogno per difendere la
propria esistenza. Acconsentì adunque di lasciare a Roberto Malatesta i
feudi che aveva posseduti suo padre, e coll'intervento di Borso, duca
d'Este, propose a tutti gli stati d'Italia una lega per la difesa
generale, ed il mantenimento d'ognuno nella propria indipendenza; lega
che venne finalmente da tutti accettata, e pubblicata il 22 dicembre del
1470[373].

  [373] _Cron. di Bolog., t. XVIII, p. 783. — Guern. Bernio Cron.
  d'Agobbio, l. XXI, p. 1020. — Gio. Batt. Pigna, l. VIII, p. 769._

Paolo II aveva compiutamente tradite le speranze de' cardinali e di
tutta la Chiesa; l'unanimità de' suffragi in suo favore nell'istante in
cui cercavasi un uomo degno di succedere a Pio II, uno de' più grandi
pontefici che abbia avuto la Chiesa, faceva da Paolo sperare sommi
talenti e grandi virtù; ed egli per lo contrario facevasi conoscere
ambizioso, collerico, perfido nelle sue negoziazioni, ingrato verso la
sua patria, imprudente nella sua politica, poco curante dei veri
interessi della Cristianità. Nell'istante in cui suo malgrado ridonava
la pace all'Italia, abbandonossi a nuovi progetti di vendetta contro
altri nemici, che credeva d'avere scoperti. Erano questi i letterati di
Roma, che, in sull'esempio di altre città d'Italia, avevano di fresco
fondata un'accademia. Una feroce diffidenza fece da Paolo II risguardare
la loro associazione come una trama contro la sicurezza del papa e
contro la pace della Chiesa. Assoggettò alla tortura uomini il di cui
nome in allora pronunciavasi con venerazione; volle essere presente egli
medesimo ai loro tormenti per incalzare ii loro interrogatorio, e lasciò
che i carnefici eccedessero in modo i limiti prescritti in questa
orribile processura, che Agostino Campano, uno de' dotti, ch'egli aveva
fatti imprigionare, morì tra le loro mani. Pure tante crudeltà non gli
svelarono alcuna trama, che potesse giustificare la sua collera, alcuna
eresia contro la Chiesa, alcuna cospirazione contro lo stato[374].
Provocarono soltanto sopra di lui l'odio de' suoi contemporanei e quello
dei letterati, ed avrebbero tolto ogni difensore alla sua memoria, ad
eccezione di quelli che difendono per professione tutti gli atti della
santa sede, se un beneficio da lui accordato alla casa d'Este, o
piuttosto un titolo d'onore, onde lusingò la di lei vanità, non gli
avesse acquistati degli apologisti tra i beneficati di questa casa.

  [374] _Platina in Vita Pauli II, p. 449. — Ginguené Hist. Litter.
  d'Italie, t. III, chap. XXI, p. 411._

Borso d'Este era stato dall'imperatore creato duca di Modena e di
Reggio; ma in Ferrara non aveva ancora altro titolo che quello di
vicario pontificio. Le prime due città dipendevano dall'impero, l'altra
dalla santa sede. Spiaceva a Borso di non prendere il suo più onorevole
titolo dalla città in cui abitualmente dimorava, e che da più lungo
tempo ubbidiva alla sua famiglia. Borso aveva meritata la riconoscenza
del pontefice pel suo zelo come mediatore dell'ultima pace. Egli aveva
tratto Paolo II dall'imbarazzo ov'erasi imprudentemente posto
coll'aggressione di Rimini e colle negoziazioni col duca di Calabria. Il
papa per attestargli la sua gratitudine acconsentì d'innalzare Ferrara
al rango di ducato _dipendente_ dalla santa sede. Chiamò Borso a Roma
pel giorno di Pasqua, 14 aprile del 1471 per investirlo di questa nuova
dignità con una straordinaria pompa. In principio della cerimonia il
papa lo armò cavaliere di san Pietro, gli diede a tenere la spada
sguainata in tempo della messa per difendere la Chiesa e per confondere
gl'infedeli. Gliela fece in appresso cingere da Tommaso, despota della
Morea, fratello dell'ultimo imperatore d'Oriente. Gli si fecero porre
gli speroni da Napoleone Orsini, generale della Chiesa, e da Costanzo
Sforza, figlio del signore di Pesaro. Fin allora Borso aveva avuto posto
cogli arcivescovi; ma quando il papa gli ebbe in appresso dato il
mantello ducale, lo fece sedere tra i cardinali, quasi lo avesse renduto
loro eguale; finalmente Paolo II gli presentò la rosa d'oro, che il
pontefice costuma di dare il dì di Pasqua ad alcuno de' più grandi
signori della Cristianità[375]. Pare che veruna bolla autenticasse
questa nomina, o almeno niuna ne viene riferita dall'annalista della
Chiesa, o da quello della casa d'Este[376]. Non pertanto fu per cagione
di tal nuovo titolo, che questa casa venne in appresso spogliata d'uno
stato, cui aveva posseduto più di quattro secoli. Il vicariato perpetuo
della santa sede, estinguendosi la legittima linea, doveva ricadere al
supremo signore. Originariamente i signori di Ferrara avevano
riconosciuto l'alto dominio della Chiesa per sottrarsi a quello
dell'imperatore: ma i signori di Ferrara non avevano ricevuta da costoro
l'autorità sopra Ferrara, ma da un antico contratto col popolo. La vana
pompa, che diede un titolo alla casa d'Este, la cinse di catene fin
allora non vedute. La sovranità di Ferrara e la dignità ducale vennero
risguardate come beneficj della santa sede, i quali essa aveva potuto
limitare con condizioni, e poteva ritirare a di lei beneplacito. Don
Cesare d'Este perdette il ducato di Ferrara, il 13 gennajo del 1598,
perchè Borso ebbe la debolezza di ricevere la corona ducale il 14 aprile
del 1471.

  [375] _Gio. Batt. Pigna Stor. de' Principi d'Este, l. VIII, p. 775._

  [376] _Ann. Eccl. Rayn. 1471, § 56, p. 231. — Diario Romano di Stef.
  Infessura, t. III, p. II, p. 1142. — Diario Ferrarese, t. XXIV, p.
  228._

Del resto questa pompa teatrale fu press'a poco l'ultimo atto dell'uno e
dell'altro. Paolo II morì di subita morte il 26 luglio di quest'anno,
lasciando un ragguardevole tesoro in danaro, e sopra tutto una grande
quantità di pietre preziose, per le quali nutriva un gusto puerile.
L'estrema sua avarizia lo aveva renduto odioso alla sua corte ed a tutti
i signori d'Italia. Riteneva giacenti tutti i ricchi beneficj de'
prelati che morivano, pel solo desiderio di ammassare; perciocchè non
arricchì altrimenti i suoi congiunti, nè impiegò i suoi tesori per
ostentazione di lusso, o pel vantaggio della Chiesa, o pel compimento
de' suoi progetti[377]. Borso primo, duca di Ferrara, che aveva seco
portata da Roma una continua febbre, che si ascrisse ad un lento veleno,
morì ancor esso il 20 agosto del 1471[378]. E così la scena del mondo
erasi totalmente rinnovata. Alfonso di Napoli, Cosimo dei Medici e suo
figlio Pietro, Francesco Sforza e sua moglie Bianca, Giovanni Unniade e
Scanderbeg, Giovanni d'Angiò, Sigismondo Malatesta, infine tutti coloro
che avevano avuta una parte importante nelle rivoluzioni accadute circa
la metà del quindicesimo secolo, mancarono quasi nello stesso tempo; e
ritirandosi fecero piazza a nuovi personaggi, animati da nuovi interessi
e da nuove passioni[379].

  [377] _Rayn. Ann. Eccl. 1471, § 61-65, p. 282. — Cron. di Bologna,
  t. XVIII, Rer. It., p. 788._

  [378] In fatto di cronologia io non mi scosto da Muratori che con
  estrema diffidenza, ed in particolare quando trattasi della casa
  d'Este, di cui era lo storiografo in titolo. Per altro egli dice che
  Borso giunse a Ferrara, di ritorno da Roma, il 18 maggio, e vi morì
  il 27 dello stesso mese (_Annali ad annum_). Per lo contrario la
  cronaca di Bologna, che di que' tempi scrivevasi giorno per giorno,
  parla sotto il 3 luglio d'un'ambasciata che gli fu mandata mentre
  era infermo (_t. XVIII, p. 787_), e il diario Ferrarese fissa
  egualmente la morte di Borso al 20 agosto, _t. XXIV, p. 229._

  [379] Nello stesso tempo che ci fugge la precedente generazione,
  siamo altresì abbandonati dagli storici che ci hanno fin qui
  condotti. La Cronica di Bologna, che abbraccia circa quattrocento
  anni, e che fu continuata da una serie di scrittori quasi sempre
  contemporanei, finisce col 1471 (_t. XVIII, Rer. Ital., p.
  240-792_). È questa un'istoria popolare, in cui le vociferazioni
  della città, il prezzo delle derrate, infine tutte le novelle del
  volgo vi hanno luogo come i più importanti avvenimenti. Pure quando
  una maggior coltura degli spiriti fece abbandonare questa grossolana
  maniera di scrivere la storia, si perdette nello stesso tempo uno
  dei punti di vista sotto il quale presentavansi gli avvenimenti, e
  si cessò di avere la naturale espressione dei sentimenti del popolo.



CAPITOLO LXXXII.

      _Continuazione della guerra de' Turchi; loro guasti nella
      Carniola e nel Friuli; quelli de' Veneziani nella Grecia e
      nell'Asia minore. — Rivoluzioni di Cipro, che riducono questo
      regno sotto la dipendenza della repubblica di Venezia._

1469 = 1473.


Paolo II non aveva voluto in tempo del suo pontificato conservare la
pace d'Italia, procurata dal suo predecessore; ma pensò ancora meno a
difendere la Cristianità contro le invasioni sempreppiù minaccianti dei
Turchi. Uno de' principali motivi che aveva avuto il conclave per
riunire su di lui tutti i suffragi era la sua nascita veneziana. Si era
creduto che la carità verso la sua patria, che l'influenza de' suoi
congiunti, de' suoi amici, avrebbero secondate le intenzioni della
Chiesa, che voleva riunire tutta la Cristianità alla repubblica di
Venezia contro gli Ottomani. Erasi veduto Pio II apparecchiato a salire
sulla flotta del vecchio doge, e si sperava che il di lui successore
anderebbe ancora più d'accordo col primo magistrato della repubblica, in
cui era nato. Ma Paolo II, incerto nelle sue relazioni colla sua patria,
fu in tempo della spedizione del Coleoni in procinto di dichiararsi
contro di lei; e quando poi strinse un'intima alleanza coi Veneziani, lo
fece per soddisfare alla propria ambizione, volgendo ad altri usi le
armi ch'essi impiegavano contro i Turchi. E non arrecò minor danno alla
loro causa, dirigendo contro gli eretici di Boemia le forze di Mattia
Corvino, loro unico alleato.

Mattia Corvino era figliuolo del gran Giovanni Unniade, ch'era stato
vent'anni lo scudo dell'Ungheria. Ladislao di Polonia, ch'egli aveva
fatto re, gli aveva per gratitudine data la dignità di Wayvoda di
Transilvania. Durante la minorità di Ladislao il Postumo, o l'Austriaco,
che Federico III teneva prigioniero nella sua corte, Giovanni Unniade
aveva governato dodici anni il regno in qualità di reggente e di
capitano generale. Un mese prima, che morisse aveva ancora, nel 1456,
respinto Maometto II da Belgrado[380]. Ladislao il Postumo, figlio
d'Alberto d'Austria, lungi dal mostrarsi riconoscente verso la famiglia
di così grand'uomo, gettò, appena salito sul trono, Mattia Corvino in
una prigione a Praga, e fece uccidere suo fratello[381]. Corvino fu
cavato di prigione dopo due anni da Giorgio Podiebrad, nell'istante
dell'improvvisa morte di Ladislao, accaduta a Praga il 23 novembre del
1457; ed aveva tuttavia i ferri ai piedi ed alle mani, quando venne
proclamato re d'Ungheria in luogo di Ladislao, nello stesso tempo che
Giorgio Podiebrad era proclamato re di Boemia. Sposò la figlia di
quest'ultimo, e questi due sovrani, nominati dalle due nazioni
riconoscenti, mostraronsi ambidue degni del trono[382]. Bentosto il
regno di Mattia Corvino fu illustrato da vittorie non meno brillanti di
quelle di suo padre. Nel 1462 ricuperò Jaicza, capitale della Bosnia, e
la difese l'anno susseguente contro Maometto II[383]. Essendosi a tale
epoca accesa la guerra tra i Veneziani ed i Turchi, Corvino strinse
un'intima alleanza colla repubblica, la quale gli pagò ogni anno cento
mila ducati, per supplire in parte alle spese de' suoi armamenti[384].
Il re d'Ungheria portò alternativamente le sue armi nella Rascia, nella
Valacchia, nella Croazia, nella Transilvania, vi ottenne luminose
vittorie sui Maomettani, e più ancora sui principi cristiani loro
vassalli.

  [380] _Spiegel der Ehren. B. V., c. X, p. 626. — Thomae Ebendorfferi
  de Haselbach. Chron. Aust., l. IV, p. 880._

  [381] _Spiegel der Ehren B. V., c. XI, p. 633._

  [382] _Ivi, c. XII, p. 644. — Thomae Ebendorfferi de Haselbach
  Chron. Austr., l. IV, p. 889._

  [383] _Spiegel der Ehren B. V., c. XVIII, p. 734._

  [384] _Bonfinius Ber. Ungar., dec. III, l. IX, p. 533._

La fama di tali vittorie diede al papa un'alta idea della potenza di
Mattia Corvino, e la corte di Roma lo eccitò a rivolgere le sue armi
contro un nemico meno temuto, ma più odiato dei Turchi, Giorgio
Podiebrad re di Boemia. La setta di Giovanni Huss mantenevasi sempre nel
suo regno assai numerosa; e Podiebrad, portato sul trono dai suffragj
della sua nazione, era forzato di tollerare i settarj che formavano il
più fermo suo appoggio. La corte di Roma non lo rimproverava di sentire
come loro, ma soltanto di non volere perseguitarli. Per allontanare ogni
sospetto d'eresia egli aveva offerto di dichiarare solennemente che non
credeva necessario ai fedeli di ricevere il sacramento sotto le due
specie; ma il papa gli aveva risposto, che la sua dichiarazione non
bastava, s'egli non autorizzava l'arcivescovo a punire severamente
coloro che darebbero o riceverebbero la comunione sotto le due specie.
«Ch'egli espressamente dichiari, soggiugneva il papa, se il braccio
secolare eseguirà le sentenze dell'arcivescovo per punire i preti che
favorissero gli errori, se gli si darà tutta l'assistenza reale ed
attuale per ridurre all'ubbidienza della sede apostolica tutti i
traviati, e per estirpare tutte le eresie[385].» Giammai il re di Boemia
non volle abbandonare ai tribunali Rochizane, arcivescovo scismatico di
Praga, e questo rifiuto di unirsi ai persecutori, risguardato da Paolo
II come una ribellione odiosa contro la Chiesa, gli procurò finalmente
dalla corte di Roma una sentenza di deposizione. Giorgio Podiebrad fu
condannato il 20 dicembre del 1466, come colpevole d'eresia e dichiarato
decaduto dal trono di Boemia[386]. Questo trono fu offerto a Casimiro,
re di Polonia, che non volle accettarlo[387]. Pochi mesi dopo, una
seconda scomunica colpì tutti i sudditi conservatisi fedeli a Podiebrad,
e tutti coloro che gli prestassero ajuto o favore. Nello stesso tempo
tutti i principi cristiani vennero sciolti da tutti i giuramenti che
potessero avere emessi a di lui favore, e da tutti i trattati con lui
stipulati; finalmente Rodolfo, vescovo di Lavenza, fu incaricato di
predicare una crociata contro la Boemia[388]. Era questo l'anno
posteriore alla morte di Scanderbeg; la Macedonia era stata posta a
fuoco ed a sangue, ed invasa la Bosnia; e non pertanto il papa accendeva
agli stessi confini della cristianità un'insensata guerra civile, che
giovava agli avanzamenti dei Turchi. Mattia Corvino lasciossi sedurre
dalla speranza d'una nuova corona; nel 1468 dichiarò la guerra a Giorgio
Podiebrad, suo alleato, suo suocero e suo liberatore; sguarnì i confini
dell'Ungheria per guastare e conquistare la Boemia, ed abbandonò i
Veneziani nella lotta intrapresa di comune accordo. Pel corso di sette
anni continuò i suoi attacchi impolitici, non più contro Podiebrad,
morto nel 1470, ma contro Uladislao, figliuolo del re di Polonia, che i
Boemi gli avevano sostituito, e mentre consumava inutilmente le sue
forze in questa guerra, Maometto II dava ruinosi colpi alla
Cristianità[389].

  [385] _Articuli et modus super reductionem Regni Bohemiae in veram
  Apostolicae Sedis obedientiam, Responsio ed tertium paragraph. Pauli
  II Liber Brevium. Ann. 7.º, p. 130. — Rayn. Ann. Eccl. 1471, §
  17-26, p. 224._

  [386] _Spiegel der Ehren V. Buch., XIX capitel, p. 744._

  [387] _Rayn. Ann. Eccl., 1466, § 26-30, p. 185. — Jacobi Card.
  Papiens., l. VI, et ejusdem epistola 282._

  [388] _Rayn. Ann. Eccl. 1467, § 8, p. 186._

  [389] _Bonfinius Rer. Hung. Dec. IV, l. II, p. 574. — Rayn. Ann.
  Eccl. 1468, § 9, p. 185. — Dugloss. Hist. Polon., l. XIII, p. 465._

Quello che più atterrì gl'Italiani fu una spedizione diretta da Hassan
Bey, cristiano rinegato e pascià della Bosnia. Era stato chiamato in
Croazia da un gentiluomo di quella provincia, che voleva vendicarsi di
suo fratello; egli vi entrò in luglio del 1469 con venti mila cavalli,
prima che fosse stato fatto alcun apparecchio di difesa: otto mila
Cristiani, ch'eransi rifugiati in una città della Croazia furono passati
a fil di spada, e tre mila fatti schiavi. L'armata turca, continuando i
suoi progressi, attraversò e guastò la Carniola: erasi di già avanzata
cento sessanta miglia nell'interno delle terre, e più non aveva che una
breve giornata di cammino per giugnere a Trieste o ai confini del Friuli
e per entrare in Italia. Ma i vincitori, trovandosi bastantemente
carichi di bottino, ed imbarazzati dai prigionieri, diedero a dietro
senza aver presa alcuna fortezza. Erano stati uccisi diciotto mila
Cristiani, e quindici mila condotti in Turchia per essere venduti come
schiavi; non eransi risparmiati nè vecchi, nè fanciulli, erano state
bruciate tutte le messi e scannati tutti gli armenti che i Turchi non
avevano potuto esportare; onde sarebbesi detto che non nemici, ma furie
avevano guastato il paese[390]. I Turchi per rientrare nella Bosnia
avevano passato un fiume che il cardinale di Pavia chiama
_Lupratia_[391]. Erasi in modo gonfiato questo fiume per le continue
pioggie, che l'esercito turco dovette trattenersi otto giorni presso le
sue rive prima di poterlo passare. In questo tempo sarebbesi potuto fare
una giusta vendetta della loro barbarie, e riavere i prigionieri ed il
bottino; ma era questa appunto la stagione in cui gli Ungari lasciando
il proprio paese scoperto, saccheggiavano la Boemia. Mattia Corvino
faceva allora prigioniere Vittorino, suo cognato, figliuolo di Giorgio
Podiebrad, e riceveva in Olmutz le corone del regno di Boemia e del
marchesato di Moravia, che supponeva d'avere conquistato[392].

  [390] _Comm. Jacobi Card. Papiens., l. VII, p. 449. — Ejusdem ep.
  394. — Ann. Eccl. 1469, § 14, p. 203. — Spiegel der Ehren des
  Erzhauses Oesterreich. Buch. V, cap. XIX, p. 752._

  [391] Fugger lo chiama _Cavacane_. Separa la Bosnia dalla Croazia.
  _Spiegel der Ehren, p. 753._

  [392] _Bonfinius Rer. Hung. Dec. IV, l. II, p. 587. — Ann. Eccl.
  1469, § 10, p. 202._

La repubblica di Venezia, che tremante aveva veduto l'armata turca
avvicinarsi ai suoi confini di terra ferma, non volle attaccare da
questo lato i Musulmani, temendo d'insegnar loro in tal maniera la
strada per la quale penetrar potevano nel cuore dell'Italia. Essa non
voleva guerreggiare cogl'infedeli che per mare. Niccolò Canale, ch'era
succeduto nel comando delle truppe veneziane in Grecia a Jacopo
Loredano, adunò a Negroponte una flotta di ventisei galere, colla quale,
dopo avere minacciate molte isole dell'Egeo, sorprese la città d'Eno nel
golfo Saronico, cui prese d'assalto. Non sembra che i Turchi avessero
guarnigione in Eno, città commerciante assai ricca, ed abitata solamente
da Greci. Venne abbandonata a tutti gli orrori del saccheggio, ed
all'ultimo ridotta in cenere; e non furono rispettati i luoghi sacri, nè
le religiose chiuse ne' conventi, che gli stessi Turchi avevano
rispettate. Furono condotti schiavi a Negroponte due mila prigionieri,
tra i quali vedevansi molte rispettabili matrone greche, ed i soldati si
divisero un ricchissimo bottino[393]. La notizia del sacco d'Eno fu
portata a Roma nello stesso tempo dell'altra d'un vantaggio ottenuto
sugli eretici boemi; per i quali prosperi avvenimenti il papa ordinò in
tutte le chiese rendimenti di grazie[394].

  [393] _Comm. Jacobi Card. Papiens., l. VII, p. 452. — Ejusd. Epist.
  N.º 227, p. 637. — M. A. Sabellici Hist. Venetae Dec. III, l. VIII,
  f. 207. — And. Navag., p. 1127._

  [394] _Ann. Eccl. Rayn. 1469, § 12, p. 203._ I Comment. del card. di
  Pavia finiscono alla morte del cardinale Carvajale, l'anno 1469,
  pochi mesi dopo la presa d'Eno. Formano in VII libri la
  continuazione di quelli di Pio II. Il racconto della spedizione e
  della morte di questo pontefice è molto interessante; in appresso
  trovansi pure alcuni fatti ben osservati, ed interessanti
  particolarità; ma il cardinale di Pavia non aveva i talenti di Pio
  II per la redazione e la disposizione del soggetto, e per l'arte di
  dipingere gli uomini ed i luoghi. _Nell'ediz. in fol. di Francoforte
  del 1614 dalla pag. 353 alla 454._

Sebbene le piraterie de' Veneziani non recassero ordinariamente danno
che ai sudditi cristiani di Maometto II, questo terribile monarca era
disposto a non più soffrire somiglianti insulti. Il 2 agosto del 1469
egli pronunciò a Costantinopoli e fece ripetere in tutte le moschee del
suo impero il seguente giuramento: «Io Maometto, figlio d'Amurat,
sultano e governatore di Baram e di Rachmaele, elevato dal Dio supremo,
collocato nel circolo del sole, coperto di gloria più di tutti
gl'imperatori, felice in ogni cosa, temuto dai mortali, potente nelle
armi, per le preghiere dei santi che sono in cielo e del gran profeta
Maometto, imperatore degl'imperatori e principe de' principi che
esistono dal Levante al Ponente; io prometto a Dio unico, creatore
d'ogni cosa, col mio voto e col mio giuramento, che non accorderò sonno
ai miei occhi, che non mangerò cose delicate, che non cercherò ciò che è
aggradevole, che non toccherò ciò che è bello, che non volgerò la mia
fronte dall'Occidente all'Oriente, se io non rovescio e non calpesto coi
piedi de' miei cavalli gli Dei delle nazioni, quegli Dei di legno, di
rame, d'argento, d'oro o di pittura, che i discepoli di Cristo sonosi
fatti colle loro mani; giuro che sterminerò tutta la loro iniquità dalla
faccia della terra, da Levante a Ponente, per la gloria del Dio di
Sabaoth e del gran profeta Maometto. E perciò faccio sapere a tutti i
popoli circoncisi, miei sudditi, che credono in Maometto, ai loro capi
ed ai loro ausiliarj, s'essi hanno il timore del Dio fondatore del cielo
e della terra, ed il timore dell'invincibile mia potenza, che tutti
debbano recarsi presso di me, il settimo della luna di Ramadan, di
quest'anno 874 dell'Egira (11 marzo 1470), ubbidendo al precetto di Dio
e di Maometto, il primo dei quali colla sua provvidenza, il secondo
colle preghiere, ci assistono senza dubbio[395].»

  [395] _Card. Papiens. Epist. 380, p. 723. — Rayn. Ann. Eccl. 1470, §
  11, p. 210._

Dietro tale invito un esercito ed una formidabile flotta, quali mai non
avevano avuti i Musulmani, adunossi a Costantinopoli. I Latini
esageravano sempre a dismisura la forza delle armate musulmane,
apparecchiandosi per tal modo una scusa delle loro sconfitte, e maggior
gloria nelle vittorie. In quest'occasione non parlano niente meno che di
quattrocento navi uscite dall'Ellesponto, il 31 maggio del 1470, e di
trecento mila uomini che dalla Tracia si avanzavano nella Grecia[396].
Minorandosi ancora molto questo numero, è sempre certo che l'armata di
Maometto superava di molto tutto quanto potevano opporgli i Veneziani.
Niccolò Canale, loro ammiraglio, trovavasi a Negroponte con trentacinque
galere. Quando gli fu detto che la flotta turca era comparsa presso
Tenedo, s'avanzò pel canale che separa Lenno ed Imbro, e mandò avanti
Lorenzo Loredano con dieci galere per riconoscere i nemici. Gli ordinava
di non evitare la battaglia quando i Turchi non avessero più di sessanta
vele, perciocchè non tarderebbe egli medesimo a soccorrere la sua
vanguardia, ed aveva fiducia di battere gl'infedeli, purchè questi non
fossero più di due contro uno. Ma se i Turchi avevano più di sessanta
vascelli, gli ordinava di far forza di vele e di remi per evitarli[397].
Bentosto il Loredano e lo stesso Canale scoprirono la flotta musulmana,
che copriva tutto il mare. I Turchi, che per la prima volta
sperimentavano la loro marina, sentendo la loro inferiorità nelle
evoluzioni e nella grandezza delle navi, avevano compensati questi
svantaggi alla maniera de' barbari, duplicando il loro numero. I
Veneziani credettero che altro partito loro non restasse a prendere che
quello della fuga, e, approfittando dell'oscurità della notte, si posero
al coperto dietro l'isola di Sciro, mentre che i Turchi vi eseguivano
una discesa per saccheggiarla e bruciarla. Allora previde il Canale che
quest'armamento era destinato contro di Negroponte; e mandò tre galere,
con quanti viveri potè ragunare a Calcide, capitale dell'isola; pochi
giorni dopo ne mandò altre due; ma in allora più non era possibile
d'entrare nello stretto, avendone i Turchi fortificati tutti i passaggi.

  [396] _Francisci Philelphi, l. 32, Epist. ad Bern. Justinianum._ —
  Antonio di Ripalta negli Annali di Piacenza, assicura che i Turchi,
  tra la flotta e l'armata, contavano 500,000 combattenti. _Ann.
  Placent., t. XX, p. 929._ Ma gli Annali dei Turchi non indicano
  un'armata formidabilissima. «Maometto, vi si dice, non potendo
  sopportare un lungo ozio, incamminossi per terra verso l'Eurypo,
  mentre mandava Mahmud pascià con una flotta, che portava 12,000
  uomini.» _An. Turcici Leunclavii, t. XVI, p. 258. — Demet. Cantemir
  Hist. Oth., l. III, c. I, § 23, p. 110. Coriolano Cepione gli dà
  120,000 uomini. De reb. Venet., l. I, p. 341._

  [397] _M. A. Sabellici Dec. III, l. VIII, f. 207._

L'isola d'Eubea o di Negroponte stendesi lungo le coste della Tessaglia,
della Beozia e dell'Attica cento quaranta miglia; in niun luogo conta
più di venti miglia di larghezza, ed il suo circuito, allungato molto
dalle sinuosità, è di 365 miglia. Le molte città ond'era in altri tempi
tutta coperta, erano state presso che tutte distrutte. Conservavasi sola
in piedi quella di Negroponte o Calcide in riva allo stretto
dell'Eurypo, dov'è più angusto. Luigi Calvo comandava in questa città
come capitano, Giovanni Bondumieri come provveditore, e Paolo Erizzo
come podestà, i quali avevano sotto i loro ordini una debole guarnigione
con alcuni nobili veneziani. Frattanto Maometto II giunse nella Beozia,
in faccia a Negroponte colla sua armata di terra, che il Sabellico, il
più moderato degli scrittori latini, porta a 120,000 uomini. La flotta
turca era di già signora del canale, ed aveva cercato di chiuderne
l'ingresso con catene, attaccate a vascelli colati a fondo di tratto in
tratto[398]. Allorchè il sultano si trovò in faccia all'isola, i Turchi
cercarono di unire con un ponte di battelli l'Eubea alla Beozia; e dopo
alcuni attacchi valorosamente sostenuti dagli abitanti, questo ponte fu
stabilito avanti alla chiesa di san Marco, discosta un miglio dalla
città[399]. L'assedio fu subito cominciato; scoprironsi molte batterie;
ed in allora risguardavasi come prodigiosa l'attività dell'artiglieria
turca, perchè ogni bocca tirava contro ai muri cinquantacinque colpi per
giorno.

  [398] _Philelphi epist. ad Feider. Urbinati Comitem, l. 32._

  [399] _M. A. Sabellici Dec. III, l. VIII, f. 208. — And. Navagero
  Stor. Venez., p. 1128._

Intanto erasi avuto avviso a Venezia che Negroponte era assediato, e
conoscevasi il pericolo di quest'isola, risguardata come il principale
luogo di tutte le colonie militari de' Veneziani nell'Arcipelago. Il
senato fece armare a precipizio tutte le galere che aveva, e di mano in
mano che furono pronte, le spedì a raggiugnere Niccolò Canale,
ordinandogli di tutto avventurare per liberare Negroponte. Dal canto suo
Girolamo Molini, che col titolo di duca governava Candia per la
repubblica, aveva mandate alla flotta sette grosse galere cariche di
viveri. Dopo avere ricevuti tali rinforzi, l'ammiraglio veneziano poteva
credersi a portata di misurarsi coi Turchi. Più non eravi tempo a
perdere per liberare gli assediati, cui erano già stati dati tre assalti
successivi, il 25 e 30 giugno, ed il 5 luglio[400]; e sebbene i
Veneziani cercassero di prendere coraggio, affermando che ne' due primi
assalti erano stati uccisi 16,000 turchi, e 5,000 nel terzo; le perdite
degli assediati, meglio avverate, erano spaventosissime. Niccolò Canale,
spinto da favorevole vento, e secondato dalle correnti, ruppe finalmente
le catene che chiudevano l'ingresso dell'Eurypo, e presentossi l'11
luglio in faccia alla città, alla flotta turca e a ponte, dal quale non
era lontano più di un miglio. Gli assediati nel colmo della gioja si
credettero liberati: Maometto, temendo di vedere tagliato il ponte e di
trovarsi chiuso nell'isola, fu, per quanto dicesi, in procinto di
fuggire. Ma il Canale non era stato seguito che da quattordici galere e
da due vascelli, avendo la paura o qualche altro motivo trattenuto il
rimanente della flotta al di fuori dell'Eurypo. Non pertanto il suo
pilota, Candiano, e due capitani di vascello, i fratelli Pizzamani, lo
consigliavano ad urtare nel ponte, credendosi sicuri di romperlo
coll'ajuto della corrente e del vento, che li favoriva; e poco temevano
la flotta turca, posta dietro al ponte in luogo troppo angusto per
muoversi. Ma il Canale mancò di risoluzione; vietò al suo pilota di
andar più oltre, finchè non giugnesse il rimanente della flotta, cui
mandava per affrettarla messi sopra messi. Mentre l'aspettava
inutilmente, Maometto II diede un quarto assalto, e nello stesso tempo
fece avvicinare la sua flotta alle mura dalla parte di Borgo alla
Zuecca. Gli assediati tenevano gli occhi immobili sul luogo in cui
avevano veduto apparire le vele veneziane, la di cui immobilità formava
l'oggetto della loro disperazione. Pure si difesero con estremo valore,
finchè la notte divise i combattenti. Allo spuntare del giorno 12
ricominciò l'assalto, cui gli assediati opposero sempre la stessa
resistenza. Di già le brecce erano praticabili; soldati sempre nuovi si
presentavano all'attacco; ed i Calcidiesi trovavansi oppressi dalla
fatica. Verso la seconda ora del giorno furono respinti dalle mura; ma
perchè tutte le strade erano barricate, continuarono a difendersi in
città fino alla morte dell'ultimo di loro. Tutti perirono, perciocchè il
feroce Maometto aveva fatto pubblicare nel suo campo, che manderebbe al
supplicio chiunque risparmiasse un solo prigioniero di oltre
vent'anni[401]. I cadaveri, ammucchiati sulla piazza di san Francesco, e
sopra quella del Patriarca, furono in appresso gettati in mare.

  [400] _Marin Sanuto Vite del Duchi di Venez., p. 1190._

  [401] _M. A. Sabellici Dec. III, l. VIII, f. 209. — Andrea Navagero
  Stor. Venez., p. 1128. — Crusii Turco Graeciae Hist. polit., l. I,
  p. 25. — Sansovino dell'Origine e Impero de' Turchi, l. II, f. 167._

Mentre ancora durava così spaventosa carnificina, il rimanente della
flotta venne a raggiugnere l'ammiraglio, ma era troppo tardi; le
bandiere di san Marco erano staccate dalle mura; la città era perduta,
ed i soldati delle galere affatto scoraggiati. I Veneziani ritiraronsi a
precipizio dal canale dell'Eurypo, fremendo di dolore e di rabbia per
avere lasciata distruggere sotto i loro occhi una così importante
colonia. Due dei comandanti veneziani, che si trovavano in Calcide,
erano morti combattendo; il terzo, Paolo Erizzo, stava chiuso nella
cittadella, e si arrese a condizione d'avere la testa sicura. Maometto
ordinò che fosse segato a mezzo il corpo, aggiugnendo l'atroce facezia,
di non avergli garantita che la testa, e che perciò gliela
lasciava[402].

  [402] _Ann. Eccl. 1470, § 12-36, p. 210. — M. A. Sabellici Hist.
  Venet. Dec. III, l. VIII, f. 208-209. — Marin Sanuto Vite dei Duchi
  di Venezia, p. 1190._

Il dolore cagionato a Venezia dalla perdita di Negroponte fu
accompagnato dalla più violenta indignazione verso Niccolò Canale.
Invece d'incoraggiare i soldati alla battaglia, aveva ritenuti dei
guerrieri di lui più animosi, ed aveva rifiutato di tentare di rompere
il ponte de' vascelli turchi, nel momento in cui avrebbe così potuto
salvare la città. Fin allora il di lui coraggio non era mai venuto meno
nelle battaglie; ma si pretese che in quest'occasione la presenza di suo
figlio sulla flotta gli avesse inspirato un insolito timore. Dopo la
caduta di Calcide niente egli fece per riparare l'insulto fatto alla
bandiera di san Marco. Frattanto Giacomo Veniero ed altri gli avevano
condotti tali rinforzi, che finalmente aveva raccolte cento galere sotto
i suoi ordini. Questa flotta era più formidabile che quella de' Turchi,
quand'ancora la musulmana fosse stata effettivamente composta di
quattrocento vascelli, come affermano diversi storici. Il sultano aveva
riuniti tutti quelli del commercio, tutti quelli che potevano servirgli
pei trasporti, e la sua flotta, male agguerrita, nè sapeva agire nelle
battaglie, nè ubbidire ai segnali, mentre che i Veneziani erano i più
arditi marinaj del mediterraneo, perchè i più esperti.

Dopo la conquista di Negroponte la flotta ottomana si ritirò verso i
Dardanelli, e Niccolò Canale l'inseguì fin presso a Scio; colà adunò un
consiglio di guerra, e dietro il parere de' suoi capitani si astenne
dall'attaccare i Turchi, che di già credevansi perduti. Tornò in
appresso a Negroponte, che tentò di riprendere; ma non essendo stato
combinato l'attacco delle truppe da sbarco con quello delle galere, egli
venne respinto con perdita. Mentre ancora durava quest'azione, Pietro
Mocenigo giunse presso a Canale, e disse, che per non isconcertare col
suo arrivo piani anticipatamente combinati egli era apparecchiato a
combattere sotto gli ordini di Canale se questi voleva rinnovare
l'attacco. Il Canale vi si rifiutò, dichiarando che se Mocenigo voleva
combattere era disposto a servire sotto di lui. Pareva che l'uno e
l'altro temesse la responsabilità d'un'impresa troppo pericolosa; e
l'uno e l'altro ricusarono di tentare la fortuna: ma il Mocenigo, avendo
invano offerto al suo predecessore un'occasione di reabilitarsi, prese
il comando della flotta, fece conoscere la commissione, ond'era
incaricato dal consiglio dei dieci, e fatto arrestare il Canale, lo
mandò incatenato a Venezia; dopo di che ricondusse i suoi vascelli ne'
porti della Morea, per isvernarvi[403].

  [403] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 209-210. — Andrea
  Navagero Stor. Venez., p. 1129. — Coriolanus Cepio de rebus Venetis,
  l. I, p. 341._

Niccolò Canale non restò senza apologista: papa Paolo II scrisse al doge
di Venezia per giustificarlo; Francesco Filelfo, cui un'alta riputazione
letteraria dava in politica un credito quasi uguale a quella che il
Petrarca aveva esercitato nel precedente secolo, compose pure
un'apologia di questo generale; ma il Canale venne relegato a vita a
Porto Gruaro.

La perdita di Negroponte cagionò uno spavento universale in tutta la
Cristianità. Fin allora i Veneziani si erano risguardati come i padroni
del mare. Per qualsifosse superiorità che dal numero o da una forza
brutale avessero potuto trarre i Turchi, eransi trovati impediti dal
continuare le loro imprese dal più piccolo canale; un braccio di mare
pareva un insuperabile baluardo alle insegne della mezzaluna. Sebbene la
conquista dell'Illirico gli avesse avvicinati al centro de' paesi
inciviliti, supponevasi sempre che sarebbero trattenuti dalla doppia
linea di montagne, che loro si affaccerebbero prima d'entrare in Italia,
e nè pure si pensava al pericolo di quella lunga estensione di coste da
Reggio di Calabria fino a Venezia, di dove si aveva ovunque a vista
d'occhio paesi musulmani. Siccome queste coste non erano state mai
insultate dopo il decimo secolo, credevansi al coperto di ogni sorpresa.
La subita creazione d'una formidabile marina musulmana fece sentire a
tutti i paesi bagnati dal mare, che i loro porti erano aperti ad un
conquistatore, determinato di distruggere la sede della religione
cristiana[404]. Ferdinando, i di cui stati non erano separati dalla
Turchia che da un canale di dodici leghe di larghezza, fu a ragione il
più atterrito: Maometto gli aveva comunicato con insultante arroganza la
sua vittoria di Negroponte, pregandolo a rallegrarsene con lui. Rispose
il re di Napoli, che una vittoria ottenuta sopra Cristiani suoi alleati
non potev'essere per lui occasione di gioja; ch'egli non poteva
conservare amicizia per sua altezza; mentre la sua fede era in pericolo;
ch'egli non verrebbe meno ai bisogni della sua religione, e che
ordinerebbe alla sua flotta di unirsi ai Veneziani, per combattere gli
Ottomani[405].

  [404] _Ant. de Ripalta An. Placent., t. XX, p. 929._

  [405] Le due lettere vengono riportate nella Cronica d'Agobbio di
  Guernieri Bernio, _t. XXI, p. 1019._

Bessarione, cardinale di Nizza, uno de' più illustri tra i Greci che
avevano assistito ai concilj di Ferrara e di Firenze, invitava di già
gli altri Greci, suoi compatriotti, a fuggire lontano da quell'Italia,
ove più non potevano sperare sicurezza[406]. Pure aveva altresì dirette
eloquenti esortazioni ai principi italiani per aprire loro gli occhi
sullo spaventoso pericolo che li minacciava[407]. Papa Paolo II, che
sapeva che Maometto la prendeva in particolar modo contro di lui e
contro della sua sede, si rivolgeva a tutti gli stati cristiani,
cercando di riunirli. Galeazzo Sforza aveva attaccato i signori di
Coreggio e loro aveva tolto Brescello: Paolo lo supplicò di deporre le
armi, di non perseguitare più oltre i piccoli principi, i di cui feudi
erano sotto la protezione del duca di Modena[408]. I Veneziani facevano
fare certi lavori in sul Mincio, che inquietavano il marchese di
Mantova, e lo avevano costretto a ricorrere alla garanzia del duca di
Milano: Paolo II scrisse loro per farli desistere da un'intrapresa, che
poteva turbare la pace d'Italia[409]. Abbiamo veduto che rinunciò egli
stesso ai suoi progetti d'invasione nel territorio di Rimini, ed alla
sua vendetta contro Ferdinando. Non trascurò nè meno i piccolissimi
potentati; Luigi, marchese di Mantova, Guglielmo di Monferrato, Amedeo
IX di Savoja, i Sienesi, i Lucchesi, e Giovanni, re d'Arragona, padrone
della Sicilia. Ottenne all'ultimo di ridurre i loro ambasciatori a
rinnovare la lega d'Italia, alle stesse condizioni sotto le quali era
stata conchiusa a Venezia nel 1454, e confermata a Napoli il 26 gennajo
seguente. Quest'alleanza di tutti gli stati d'Italia per la vicendevole
loro difesa si pubblicò a Roma, il 22 dicembre del 1470, e fu
festeggiata in ogni luogo dal popolo[410].

  [406] _Lettera del card. Bessarione ad un abate Bessarione. Ap.
  Rayn. Ann. Eccl. 1470._

  [407] _Ivi, § 24, p. 213, e § 29, p. 214._

  [408] _Bulla Pauli II., 17 septemb. 1470, in libro Brevium anno VII,
  p. 3. — Rayn. Ann., § 39, p. 216._

  [409] _In lib. Brevium et apud Rayn., § 40, p. 217._

  [410] _Rayn. Ann. Eccl. 1470, § 42, p. 217._

Paolo II aveva pure rivolte le sue mire alla Germania; approvò il 14
gennajo del 1471 la pace conchiusa tra Mattia Corvino e l'imperatore
Federico III, che tutti e due, dietro i suoi eccitamenti, avevano
pretesa la corona di Boemia, e contrastatala colle armi[411]. Mandò
Francesco, cardinale di Siena, che fu poi Pio III, alla dieta convocata
a Ratisbona pel 25 aprile del 1471[412]. Lo incaricò d'una doppia
missione; di affrettare per una parte i necessarj soccorsi per
preservare la Germania da invasioni simili a quelle che avevano di
fresco guastate la Carniola e la Carinzia, ed impedire dall'altra che i
principi dell'impero non prendessero qualche favorevole risoluzione per
Giorgio Podiebrad. La morte di questo re di Boemia rese inutile questa
parte della missione del legato[413].

  [411] _Pauli II lib. Brevium an. VII, p. 75. — Rayn. Ann. Eccl.
  1471, § 1, p. 221._

  [412] _Spiegel der Ehren B. V., c. XX, p. 757._

  [413] _Rayn. Ann. Eccl., § 3, p. 221._

La prima assemblea di questa dieta, da cui si speravano così poderosi
soccorsi, non si tenne che il 24 giugno. Il vescovo di Trento fu il
primo a parlare, esponendo ai principi i guasti commessi dai Turchi ai
confini della Germania ne' due precedenti anni[414]. Il cardinale di
Siena, ch'era stato in Germania con suo zio Pio II, e conosceva tutti
gl'interessi di quel paese, parlò ancor esso con molta forza per
persuadere i Tedeschi a difendere la comune loro patria[415].
All'indomani Paolo Morosini, ambasciatore dei Veneziani, così parlò alla
nazione germanica: «Da più di dugent'anni i Veneziani hanno cominciato a
fare la guerra ai Turchi; essi sostennero soli, e segnatamente negli
ultimi otto anni, i continui loro attacchi nella Tracia e nell'Illiria.
Essi sonosi presentati soli come difensori della Cristianità, e pure, in
un pericolo a tutti comune, trovansi abbandonati dal rimanente de'
Cristiani. Il sonno dell'Europa ha cresciuta la potenza del nemico: e
piaccia a Dio che l'Europa, risvegliandosi, sia tuttavia abbastanza
forte per resistergli. Questo nemico si avanza egualmente per
l'Illirico, per la Pannonia e per il golfo Adriatico, e non lascia
sperare sicurezza nè sulla terra, nè sul mare. Finalmente i Tedeschi
aprano gli occhi, ed osservino da quale specie di guerra sono
minacciati. I vecchi sono uccisi, strozzati i fanciulli, e tutti coloro,
che, fatti prigionieri, possono essere venduti, vengono strascinati dai
barbari in fondo all'Asia; i templi sono bruciati coi sacerdoti che vi
si trovano; tutti i prodotti dell'agricoltura e delle arti distrutti dal
ferro e dal fuoco.... Pure, soggiunse, non dobbiamo ancora disperare,
purchè i Tedeschi dispieghino in guerra quel valore con cui devesi
difendere la propria vita e la libertà de' suoi congiunti. I Veneziani
hanno ancora una numerosa flotta, e guarnigioni sparse su tutte le coste
dell'Illirico e della Grecia, e venticinque mila uomini servono sotto le
loro insegne. Il re Ferdinando aggiugnerà 23 galere alle nostre
sessanta; il resto dell'Italia porterà facilmente la flotta veneziana a
cento venti vascelli: se i Tedeschi li secondano per terra con eguale
vigore, in breve saranno fuori di pericolo, e sicuro tutto il rimanente
della Cristianità[416].»

  [414] _Spiegel der Ehren B. V., c. XX, p. 758._

  [415] _Ivi._

  [416] Relazione di Campano, vescovo di Teramo, ch'era mandato alla
  dieta col card. di Siena. _Epist., l. VI, N.º 12. Rayn. Ann. 1471, §
  9, p. 222._

In un'altra sessione si lessero lettere indirizzate alla dieta dalla
Carniola. In tutto il paese aperto, vi si diceva, più non rimane alcuna
chiesa, nè casa di coltivatori. I cadaveri de' fanciulli e dei vecchi,
scannati dai Turchi, perchè non isperavano di trovare compratori, non
erano ancora stati sepolti e guastavano l'aria col loro fetore; non
pertanto erano stati condotti via da questa sola provincia più di venti
mila schiavi. I Turchi avevano fortificate alcune piazze, ove riponevano
in sicuro il loro bottino, dopo avere ruinato tutto il vicinato. Poscia
furono lette le lettere ricevute da Strigonia e dai magnati d'Ungaria:
annunciavano queste, che l'armata dei Turchi, divisa in due corpi,
minacciava i paesi cristiani; uno aveva presa la strada della Carniola,
ed entrava nella Germania per gli stati di Federico III; si era l'altra
fermato alla Sava, ove pareva che volesse formare un ponte ed una
fortezza per dilatare da quella banda i suoi guasti in Ungaria.
Aggiugnevano gli Ungari, che da cent'anni combattevano contro i Turchi,
che il loro regno trovavasi esausto di uomini e di danaro, e che, se non
ricevevano esteri soccorsi, non potrebbero lungamente sostenere gli
attacchi di così potente ed ostinato nemico; ch'essi combattevano tanto
per sè che per la causa comune; e che, sebbene fossero i primi esposti
al pericolo, non perirebbero soli; che si volgevano all'imperatore ed ai
principi della Germania, come coloro che trovavansi i primi allo
scoperto, se essi rimanevano perdenti; e che inoltre spettava a colui,
che il titolo d'imperatore faceva capo della repubblica cristiana, a
porsi il primo tra i difensori della Cristianità[417].

  [417] _Jo. Ant. Campani Epist., l. VI, N.º 13. — Jacobi Card.
  Papiens. epist. 375, p. 718. — Rayn. Ann. 1471, § 11, p. 223._

Ma quest'imperatore era ben lontano dal corrispondere col suo zelo a ciò
che da lui si chiedeva. Mentre si stava deliberando, i Turchi guastavano
la Carniola, ed egli nulla faceva per difenderla o per vendicarla[418];
non pensava a dar soccorso nè agli alleati, nè ai vicini, ma soltanto
chiedeva alla dieta di accordargli dieci mila uomini, di cui un quarto
fosse di cavalleria, per difendere i suoi confini[419]; poco dopo non ne
voleva più di quattro mila, forse atterrito dall'obbligazione, che
gl'imporrebbe una più numerosa armata, di fare una guerra più attiva, e
di dovere spesare quest'armata, mentre attraverserebbe i suoi stati.
Dopo lunghissime deliberazioni la dieta decise nella seduta del 19
luglio, che tutto l'impero contribuirebbe in proporzione delle sue
entrate; di modo che ogni migliajo di fiorini di capitale
somministrerebbe e manterrebbe un cavaliere. Venne partecipato ai legati
ed all'ambasciatore veneziano, che questa leva potrebbe produrre dugento
mila uomini equipaggiati e mantenuti. Risposero con diffidenza a così
esagerato calcolo, che, ove potessero aversi, basterebbero ottanta mila
uomini[420]. Ma era troppo difficile il dare esecuzione a così generico
decreto, e di fare eseguire tale riparto in tutti gli stati dell'impero;
ed appena sarebbe bastata l'attività del più ambizioso e più riputato
imperatore. Federico III nemmeno ci pensò, non d'altro occupandosi in
allora che della sua rivalità coll'elettore palatino[421]. La dieta
venne trasportata a Norimberga; niuna delle sue ordinanze ebbe
esecuzione, e la Germania, l'Ungheria e l'Italia furono abbandonate
senza difesa al furore de' Turchi[422].

  [418] _Dugloss. Histor. Polon., t. XIII, p. 476._

  [419] _Spiegel der Ehren B. V., c. XX, v. 750._

  [420] _Rayn. Ann. Eccl. 1471, § 12, p. 223._

  [421] _Spiegel der Ehren B. V., c. XX, p. 761._

  [422] _Campanus, l. VI, epist. 22. — Rayn., § 13-14, p. 223._

Paolo II aveva incaricato il cardinale di Siena di sollecitare la dieta
di Ratisbona, perchè facesse la guerra ai Boemi non meno che ai
Turchi[423]. Confutò come calunniosa la supposizione ch'egli avesse mai
acconsentito a qualsifosse accordo con Podiebrad, se questo monarca
fosse vissuto[424]. Le deliberazioni de' Tedeschi non ebbero verun
effetto; ma Mattia Corvino, cui il papa aveva accordata la corona di
Boemia, spingeva i suoi progetti di conquista su questo regno. I Boemi,
piuttosto che sottomettersi a lui, avevano offerta la corona ad
Uladislao, figlio del re di Polonia, che venne a porsi alla loro testa.
Nello stesso tempo Casimiro, suo padre, chiamato dai malcontenti
d'Ungheria, venne ad attaccare Corvino ne' suoi proprj stati, e si
avanzò fino a Nitria, ove in appresso sostenne un assedio[425]. E per
tal modo, lungi che l'Ungheria fosse assistita dal rimanente della
Cristianità, il papa l'indeboliva con una potente diversione, mentre
opprimeva i Polacchi con una formidabile invasione. Ma la campagna
contro i Turchi riuscì meno infelice di quello che temevasi. Essi
avevano terminato sui confini della Sirmia, al passo della Sava, le
fortificazioni d'una cittadella, cui diedero il nome di _Sabatz_, ossia
l'_Ammirabile_[426]. Ma Maometto nel presente anno non fu alla testa de'
suoi eserciti, e le spedizioni de' suoi pascià erano molto meno
formidabili che le sue. Parve inoltre che covasse qualche pensiero di
pace coi Veneziani. La vedova d'Amurat II, figlia di Giorgio Bulkowitz,
ultimo despota della Servia, si offrì mediatrice; e due ambasciatori
veneziani, Niccolò Cocco e Francesco Cappello, furono spediti presso
questa principessa, indi alla corte di Maometto. Questo monarca avea
avuto avviso degli armamenti della lega, e pensava d'intiepidirli con
una negoziazione: a questo solo oggetto aveva chiamati i deputati
veneziani alla Porta, e li rinviò senza aver nulla convenuto[427].

  [423] _Lettera di Paolo II dell'8 aprile. Lib. Brev. an. VII, p.
  128. — Rayn., § 26, p. 225._

  [424] _Breve di Paolo II del 25 giugno. Rayn. § 28, p. 226._

  [425] _Bonfinius Rer. Ung. Dec. IV, l. III, p. 690. — Dlugossi Hist.
  Polon., l. XIII, p. 471._

  [426] _Bonfinius Rer. Ung. Dec. IV, l. II, p. 583. — Spiegel der
  Ehren B, V., c. XX, p. 763._

  [427] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 210. — And. Navagero, t.
  XXIII, p. 1130. — Coriol. Cepio, l. I, p. 342._

Ma Paolo II ed i Veneziani non avevano cercati ausiliarj contro i Turchi
solamente tra gli Europei ed i Cristiani; avevano intavolata una più
straordinaria negoziazione con Hassan Beg, o Ussun Cassan, che aveva
conquistata la Persia nel 1468, scacciandone i discendenti di Timour, e
fondandovi la dinastia del Monton Bianco[428]. Un frate francescano,
Luigi di Bologna, si portò per la via di Caffa presso il conquistatore
della Persia per eccitarlo a far valere i diritti di quell'impero,
ch'egli ristaurava, sopra la Colchide e Trebisonda, e per promettergli
ad un tempo i soccorsi degli Occidentali in una guerra contro i Turchi.
Ussun Cassan prese infatti parte a questa confederazione; scrisse a
Paolo II una lettera enfatica, tutta di stile orientale, per
promettergli la sua cooperazione. Dopo avere per sè presi i più pomposi
titoli, ne accordò pure d'assai magnifici al papa, ne' quali l'annalista
della Chiesa vide una confessione della grandezza de' pontefici,
strappata di bocca ad un infedele dalla forza della verità[429]. La
sfida che Ussun Cassan mandò poco dopo a Maometto II era tutta
simbolica. L'ambasciatore persiano versò innanzi al trono del sultano un
sacco di miglio, ch'egli in appresso scopò, per significare che la scopa
di Ussun doveva facilmente portar via tutta la moltitudine dell'armata
ottomana. Maometto rispose nello stesso stile; dopo avere di nuovo fatto
stendere il miglio, fece portare alcuni polli, che lo mangiarono. «Dì al
tuo padrone, o ambasciatore, aggiunse egli, che come i miei polli hanno
mangiato il suo miglio, così i miei giannizzeri mangeranno i suoi
pastori della Tartaria, di cui ha creduto poterne fare dei
soldati[430].»

  [428] Herbelot _Bibliothèque orient. al vocabolo Uzun Hassan Beg_.
  L'_H_ aspirata dagli Orientali confondesi col _C_. Il nome turco
  d'_Uzun_, come quello di _Al Thaui_, che gli danno gli Arabi, vuol
  dire _lungo_.

  [429] Riportata negli _Ann. Eccl. 1471, § 48. p. 229._

  [430] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1197._

Il papa, che aveva cominciate queste negoziazioni non potè vedere le
conseguenze delle vicendevoli minacce, essendo morto, come si disse nel
precedente Capitolo, il 26 luglio del 1471[431]. Francesco della Rovere
di Savona, che Paolo II aveva levato dall'ordine di san Francesco, di
cui era generale, e fatto cardinale di san Pietro _ad vincula_, gli fu
dato per successore il 9 agosto del 1471, sotto il nome di Sisto
IV[432]. La Rovere trovavasi in allora nell'età di 57 anni; era nato
bassamente; ma dopo la sua esaltazione, cercò di confondere la sua
origine con quella della nobile casa della Rovere di Torino. Questa
casa, avendo aggradite le sue proposizioni, egli ne ricompensò la
condiscendenza con due cappelli di cardinale[433]. Questo papa, che in
seguito sagrificò scandalosamente gl'interessi della Chiesa alla
grandezza di sua famiglia, che, come osserva il Machiavelli, «mostrò il
primo tutto ciò che poteva un sovrano pontefice, e come molte cose, che
prima dicevansi errori, potevano celarsi sotto l'autorità
pontificia[434],» si fece vedere ne' primi mesi del suo regno tutto
inteso ai pubblici affari ed alla difesa della Cristianità. Parve pure
disposto d'accordare alla Boemia una pacificazione, o tregua, per poter
disporre di più grandi forze contro i Turchi[435]. Ma mentre stava
intento a calmare queste lontane turbolenze, poco mancò che una guerra
civile, accesa nel ducato di Ferrara, non isforzasse la repubblica di
Venezia a dividere le sue forze per far rispettare i suoi confini.

  [431] La subita morte di Paolo II, che parve cagionata dall'avere
  mangiati troppi meloni, fu dai molti suoi nemici risguardata come un
  giudizio del cielo. Guernieri Bernio, lo storico d'Agobbio, che
  termina la sua cronaca nel susseguente anno, racconta come un fatto
  avverato, che questo papa fu strozzato dal diavolo. Si trovò il suo
  corpo tutto nero e steso per terra, e la porta della sua camera
  chiusa al di dentro. _Cron. d'Agob., t. XXI, p. 1021._

  [432] _Diario di Stef. Infessura, t. III, p. II, p. 1143._

  [433] _Ann. Eccl. 1471, § 66-70, p. 233._

  [434] _Machiavelli, Ist. l. VII, p. 324._

  [435] _Diploma ap. Rayn. 1471, § 77, p. 235._

Borso d'Este era morto il 20 agosto, nemmeno un mese dopo il papa, che
lo aveva fatto duca di Ferrara. Questo amabile principe non lasciava
figliuoli, ed aveva mostrata la medesima predilezione verso suo nipote e
verso suo fratello. Il primo, Niccolò d'Este, era figlio legittimo di
Lionello, predecessore di Borso e bastardo come lui; il secondo, Ercole
d'Este, era figlio legittimo di Niccolò III, padre di Borso. Il diritto
di successione, male stabilito nella casa d'Este, pareva chiamare
soltanto alla corona ducale quello tra i principi ch'era in istato di
governare. Tra i figliuoli di Niccolò III i due bastardi erano andati
innanzi ai due legittimi soltanto perchè questi, nati da Ricciarda di
Saluzzo, erano ancora in tenera età, quando morì il loro padre. Il
figlio di Lionello, nato di legittimo matrimonio con una principessa
Gonzaga, aveva per la medesima ragione fatto luogo al suo zio Borso. Ma
alla morte di questi Niccolò ed Ercole erano ambidue in età di poter
governare, ed eguali sembravano i loro diritti. Nè l'istituzione dei
ducati di Modena e di Reggio, fatta dall'imperatore, nè quella di
Ferrara, fatta dal papa, avevano deciso tra di loro, e lo stesso Borso
non erasi meglio dichiarato. Quando la sua malattia fece prevedere la
prossima apertura della successione, i due pretendenti cercarono di
occupare le fortezze, per essere in istato di dare la legge, e nello
stesso tempo si procurarono esterne alleanze. Ercole, il primo,
s'impadronì di Castelnovo sul Po, e vi pose molla infanteria; inoltre
domandò l'assistenza de' Veneziani, nelle di cui armate aveva servito.
La signoria di Venezia fece di fatti avvicinare a Ferrara tre galere,
due fuste e settanta barche, mentre che adunava quindici mila uomini nel
Polesine di Rovigo. Dal canto suo Niccolò si era fortificato nello
stesso palazzo del duca, ove lo raggiunsero i suoi amici. Intanto aveva
sollecitati i soccorsi di Luigi Gonzaga, suo cognato, e di Galeazzo
Sforza, duca di Milano. L'ultimo aveva raccolti quindici mila uomini nel
Parmigiano, per favorire il figlio di Lionello; ma la morte di Paolo II
guastò i progetti di Galeazzo. Egli non voleva arrischiarsi d'entrare in
guerra, prima di conoscere la politica del nuovo pontefice. Niccolò,
costernato da questa immobilità e dalla vicinanza de' Veneziani, andò a
Mantova presso suo cognato, onde ravvivare lo zelo de' suoi alleati.
Intanto Borso morì; Ercole entrò nella capitale, accompagnato da più di
due mila uomini armati, e fu proclamato duca di Ferrara e di Modena;
molti partigiani di Niccolò furono uccisi nelle strade, e questi altro
più non fu agli occhi del vincitore che un esiliato ed un ribelle[436].

  [436] _Diario Ferrarese, t. XXIV, Rer. Ital., p. 230. — Gio. Batt.
  Pigna Stor. de' Principi d'Este, l. VIII, p. 783. — Cron. di
  Bologna, t. XVIII, p. 788-789._

Il 24 di novembre susseguente più di ottanta tra gentiluomini e borghesi
di Ferrara, che si erano attaccati a Niccolò, e che lo avevano seguito
nel suo esilio, furono in contumacia condannati a morte; ed alcuni di
loro caduti in potere di Ercole furono appiccati[437].

  [437] _Diario Ferrarese, l. XXIV, p. 236-238._

Frattanto la successione di Ferrara non fu che un passaggiero movimento,
che procurò alla repubblica un vicino a lei affezionatissimo. D'altra
parte un nuovo doge, Niccolò Tron, venne dato per successore a
Cristoforo Moro, morto il 9 di novembre[438]. Tranquilla nell'interno,
Venezia cercò di approfittare delle diverse negoziazioni del precedente
anno, e di attaccare Maometto II con ragguardevoli forze da più parti
simultaneamente. Catarino Zeno era stato nell'inverno mandato ad Ussun
Cassan per avvisarlo degli apparecchi de' Veneziani, e domandare la sua
cooperazione[439]. Il re di Persia era nello stesso tempo eccitato da
sua moglie, la quale era cristiana, e figlia dell'ultimo imperatore di
Trebisonda. Entrò nella Georgia con trenta mila cavalli, uccise
moltissimi Turchi, e fece un ricco bottino; ma, tranne Tocat, da lui
presa nella provincia di Siwas, nell'Armenia, non assediò verun'altra
fortezza, e ripatriò senza aver fatto un'importante conquista[440].

  [438] _Marin Sanuto, p. 1195. — And. Navagero, p. 1130._

  [439] Catarino Zeno aveva una qualche parentela con Ussun Cassan, o
  almeno con sua moglie Despina, figlia di Davide Comneno, imperatore
  di Trebisonda. Despina aveva una sorella maritata a Niccolò Crespo,
  duca del mare Egeo. Le cinque figlie di costei avevano tutte sposati
  nobili veneziani: la maggiore, moglie d'un Cornaro, fu madre di
  Catarina, regina di Cipro, e la terza, Violante, moglie di Catarino
  Zeno. Ussun Cassan, che aveva quasi settant'anni, aveva vissuto in
  una rara unione con sua moglie, sempre rimasta cristiana, e
  testificò a Catarino Zeno tutto l'affetto d'uno zio e d'un amico.
  _Petri Bizarri Histor. Rer. Persicarum, l. X, p. 261._ Questo stesso
  Catarino Zeno fu poi rimandato da Ussun Cassan al re di Polonia,
  indi a tutti i principi cristiani per riunirli contro Maometto II.
  Egli visitò la corte di Casimiro, re di Polonia, l'an. 1474.
  _Dlugoss, Hist. Polon., l. XIII, p. 509._ Queste negoziazioni sono
  l'oggetto d'un trattato di Callimaco Experiens: _de his quæ a
  Venetis tentata sunt, pro Persis ac Tartaris contra Turcos
  movendis_: trattato stampato in Francoforte, 1461 _in fol._, con la
  _Storia della Persia di Bizarro_. Callimaco Experiens, attaccato
  come storico al re di Polonia, ebbe egli stesso non piccola parte in
  questi negoziati. Egli descrive pure la strada tenuta da Catarino
  Zeno, p. 408.

  [440] _And. Navagero, l. XXIII, p. 1131. — Dlugoss. Hist. Polonicae,
  l. XIII, p. 481._ Secondo Cantemir non fu già Ussun Cassan, ma il
  suo generale Ynsuftche, che prese Tocat, e fu in appresso battuto.
  _Dem. Cantem., l. III, c. 1, § 25._

Dall'altra banda Pietro Mocenigo, sapendo che il gran signore
sguarnirebbe l'Arcipelago per opporsi ad una invasione e difendere le
sue province dell'Asia, partì da Modone dove aveva svernato; imbarcò
molti Stradioti o soldati greci a Napoli di Romania, ed andò a
saccheggiare Militene e Delo[441]. Gli Stradioti cominciavano allora a
formare una parte essenziale delle armate veneziane; perciocchè
vent'anni di disgrazie e di oppressione avevano costretti i Greci a
riprendere le abitudini militari. Essi avevano imparato a formare una
cavalleria leggiera, armata di scudi, di lance e di spada; in vece di
corazze guarnivano le loro vesti con una grande quantità di bambagia per
ammorzare i colpi; velocissimi erano i loro cavalli, e sostenevano
lunghe corse; ed il vigore di que' cavalli fece presto conoscere il
merito della nuova milizia. Quelli della Morea, ed in particolare del
circondario di Napoli, furono i più stimati, e la parola greca che
significa soldato, diventò il nome proprio di questa cavalleria
leggiera[442].

  [441] _And. Navagero, p. 1132. — Coriol. Cepio, l. I, p. 343._

  [442] Στρατιώτης. _M. A. Sabellici, Dec. III, l. IX, f. 211._

Il Mocenigo volle quest'anno portare le sue armi verso l'Asia, quasi
abitata soltanto dai Musulmani, piuttosto che verso le isole ed il
continente di Romania, ove il grosso della popolazione era Cristiana. La
guerra marittima, quando si fa tra due flotte, è di tutte la più nobile,
perchè non compromette che la vita e le ricchezze di coloro che
guerreggiano; ma i guasti d'una flotta lungo le coste, sempre macchiati
da una vergognosa pirateria, non recano danno al sovrano nemico, ma al
popolo, non al soldato, ma al borghese. Lo scopo delle spedizioni
marittime è la distruzione, non la conquista; i marinaj antepongono la
sorpresa alla battaglia, attaccano coloro che non si trovano in su le
difese e fuggono all'avvicinarsi de' nemici; e si avvezzano in tale
maniera ad un'odiosa mescolanza di timore e di crudeltà. Per quanto
spaventosi fossero i guasti, pei quali i Turchi eransi meritati delle
rappresaglie, non possiamo affezionarci all'ammiraglio cristiano che
promette un ducato per premio d'ogni testa di Musulmano che gli viene
portata; la quale ricompensa fece massacrare molti Greci, le cui teste
erano poi vendute come appartenenti a Musulmani. Non possiamo prendere
interesse a favore della flotta del Mocenigo, quando eseguisce uno
sbarco presso Pergamo per ispogliare sventurati contadini, e per
innalzare vergognosi trofei di teste innocenti; o quando in appresso
saccheggia la Caria, ne' contorni di Cnido, poi le opposte rive
dell'isola di Coo[443]. In queste spedizioni di pirateria la sola cosa
che tuttavia interessa sono que' nomi un tempo tanto famosi, che non si
pronunciano mai senza risvegliare la memoria del trionfo delle arti,
della poesia, dell'eleganza del gusto; ma quando questi nomi non si
presentano nella storia che per dirci che queste antiche città vennero
rapite dai barbari ad altri barbari; quando soprattutto è il popolo
ridotto a maggior civiltà che cerca di distruggerle, ed il popolo più
feroce che ancora difende quegli antichi monumenti dell'incivilimento;
una profonda tristezza si associa ai fasti di quest'orribile guerra.

  [443] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 211. — Corol. Cepio, de
  reb. Venet., l. I, p. 343._

Pietro Mocenigo aveva di già estese le sue stragi alle coste d'una gran
parte dell'Asia Minore, ed aveva fatto acquisto di molte teste
musulmane, quando il 15 giugno del 1472, si unì a lui, presso a Capo
Mallio, Requesens con diciassette galere napolitane. Poco dopo il
cardinale Oliviero Caraffa gli condusse pure diciannove galere del papa.
L'uno e l'altro generale dichiarò, che null'ostante il superiore rango
dei loro sovrani avevano ordine di ubbidire ai generalissimo veneziano,
e di attestare in tal modo la riconoscenza de' Cristiani verso la
repubblica, che sosteneva sola la causa comune[444].

  [444] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 212. — Rayn. Ann. Eccl.
  1472, § 42, p. 244. — Vita Sixti IV Platinae tributa, t. III, p. II,
  Rer. Ital., p. 1057. — Jac. Volaterrani Diarium Rom., t. XXIII, Rer.
  Ital., p. 90. — Coriol. Cepio, l. I, p. 346._

I varj storici di questa guerra non vanno d'accordo intorno alla forza
della flotta cristiana, ma i più moderati calcoli la portano ad
ottantacinque galere. I Turchi però non uscirono dai Dardanelli ad
incontrarla; onde un così formidabile armamento, che al solo papa
costava più di cento mila fiorini, non ebbe altro risultamento che la
ruina d'alcune città dell'Asia Minore. La prima ad essere attaccata dai
Latini fu Attalea, o Satalia, ricca città della Pamfilia, posta in
faccia a Cipro, che serviva di mercato agli Egizj ed ai Sirj. Soranzo
superò con dieci galere la catena che chiudeva il porto, e se ne
impadronì. Le truppe da sbarco, comandate da Malipiero, occuparono la
prima linea delle mura che circondavano i sobborghi, i quali furono
saccheggiati egualmente che il porto, essendosi trasportata sulle galere
una grandissima quantità di pepe, cannella e garofani. Ma le interne
mura della città si difesero vigorosamente, e perchè la flotta cristiana
non portava artiglieria di assedio, non furono attaccate. Il Mocenigo
fece guastare la Pamfilia fin dove le sue truppe potevano giugnere, poi
fece appiccare il fuoco ai sobborghi di Satalia, e ricondusse la flotta
a Rodi[445], ove trovò l'ambasciatore che Ussun Cassan mandava al papa
ed ai Veneziani[446]. Questo Persiano informò i generali cristiani delle
vittorie del suo signore, il quale aveva preso agli Ottomani Tocat,
città del Ponto, ai confini dell'Armenia, e faceva chiedere agli Europei
artiglieria, senza la quale il Sofì non poteva assediare altre
città[447].

  [445] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 212. — Coriol. Cepio, l.
  I, p. 347._

  [446] _Callimachi Hist. de Venet. contra Turcos, p. 409._

  [447] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 213. — And. Navagero
  Stor. Ven., p. 1132. — An. Turcici Leunclavii, t. XVI, p. 258. —
  Coriol. Cepio, l. I, p. 348._

Avendo la flotta veneziana spiegate di nuovo le vele, andò a
saccheggiare l'antica Jonia in faccia alle coste di Chio. Non si
trovarono nemici da combattere, ma i Cristiani svelsero le viti e
bruciarono gli ulivi di quelle ridenti campagne; ed il legato pagò cento
trentasette ducati per altrettante teste, che gli furono portate sulla
sua galera. Gli altri sventurati, che furono rapiti dalle loro capanne,
o trovati nascosti nelle foreste, furono venduti come schiavi[448]. Dopo
tale spedizione, Requesens abbandonò, presso Nasso, la flotta veneziana,
e ricondusse le galere di Ferdinando a Napoli per passarvi l'inverno. Ma
il Mocenigo ed il legato vollero approfittare degli ultimi giorni della
bella stagione, per portare ancora più lontano la desolazione.
S'informarono dello stato di Smirne, e seppero che questa città, la più
ricca e la più mercantile dell'Jonia, siccome quella ch'era posta in
fondo ad un golfo, ove da lungo tempo non aveva veduti nemici, non si
era presa cura di rifare le sue mura o di farle custodire. Il 13
settembre del 1472 presentaronsi in sul fare del giorno avanti Smirne;
le truppe celeramente sbarcate, appoggiarono le loro scale alle
muraglie, e le attaccarono bruscamente. I borghesi, spaventati, salirono
sulle loro mura per difenderle, ma erano così poco accostumati alle
armi, ed erano rimaste aperte tante brecce, che non ritardarono che
pochi istanti l'invasione de' soldati e de' marinaj. Gli abitanti,
vedendo la città presa, fuggirono con lamentevoli grida; le donne,
recandosi i loro fanciulli in braccio, si rifugiavano nelle chiese e
nelle moschee; alcuni uomini difendevano ancora i tetti ed i terrassi
delle loro case, onde moltissimi furono uccisi, altri presi come
schiavi. Le donne specialmente vennero inseguite, svelte dai luoghi
sacri, disonorate, indi vendute. I vincitori non vollero far distinzione
dalle chiese cristiane alle moschee; finsero di credere tutti gli
abitanti musulmani, per trattarli tutti collo stesso rigore; e pure
anche al presente quasi la metà degli abitanti professa ancora il
Cristianesimo, sebbene si trovino da tanto tempo sotto il giogo de'
Turchi. Balaban, pascià della provincia, quand'ebbe avviso dello sbarco
de' Veneziani, accorse per respingerli colle poche truppe che potè
adunare, ma venne ancor esso disfatto. I vincitori, rientrando in città,
vi appicarono il fuoco, e la patria d'Omero fu in poco tempo incenerita.
Non furono portate sulle galere che duecento quindici teste, perchè i
soldati avevano trovato in così ricca città come caricarsi di più utile
preda, che fu venduta all'incanto, dividendone il prezzo tra i soldati
ed i marinaj[449].

  [448] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 214._

  [449] Le particolarità che di questa campagna ci dà il Sabellico
  (_Dec. III, l. IX, f. 214_) sono tolte da una relazione,
  elegantemente scritta in latino e divisa in tre libri, di Coriolano
  Cepio, dalmatino, che comandava una delle galere del Mocenigo, e che
  accompagnò questa spedizione. È stampata nel 1556 a Basilea in
  foglio in seguito a _Laonico Chalcocondyles, p. 341-368. — Rayn.
  Ann. Eccl. 1472, § 42, p. 244._

Di ritorno dal sacco di questa città, i Veneziani sbarcarono ancora a
Clazomene sull'istmo della penisola che chiude il golfo di Smirne; ma
gli abitanti atterriti si erano ritirati nelle montagne, e non vi si
trovarono che camelli e pochi altri animali da esportare. Allora le
galere, approfittando d'un favorevole vento, fecero vela verso Modone:
l'ammiraglio veneziano svernò nella Morea; il legato del papa, Oliviero
Caraffa, tornò in Italia, e fece il suo ingresso in Roma il 23 gennajo
del 1473. Si condussero innanzi a lui quindici camelli montati da
venticinque Turchi, che egli aveva tenuti in vita per ornare il suo
trionfo; oltre di che fece appendere avanti alle porte del Vaticano
alcuni pezzi della catena che chiudeva il porto di Attalea[450].

  [450] _Stef. Infessura Diario Rom., p. 1143._

Le stragi de' Veneziani nell'Asia Minore erano vendicate da quelle dei
Turchi ne' possedimenti veneti, ed in questo cambio di ferocia e di
assassinio, non è facile il riconoscere qual era il popolo più barbaro,
qual era quello che fu dai primi oltraggi provocato ad usare dell'infame
diritto di rappresaglia. Le città dell'Albania, ch'erano rimaste ai
Veneziani come parte dell'eredità del grande Scanderbeg, vedevano il
loro territorio periodicamente guastato due volte all'anno,
all'avvicinarsi della messe e della vendemmia, fino alle mura di
Scutari, d'Alessio e di Croja: ma queste rapide corse di cavalleria non
erano mai seguite da regolare attacco[451].

  [451] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 213._

L'apparizione del pascià di Bosnia nello stato veneto fu ben cagione di
maggior terrore. Dopo avere rapidamente attraversata la Carniola, o
l'Istria, questo pascià entrò a mezzo autunno nel Friuli. La cavalleria
turca arrivò in sul fare della notte alle rive dell'Isonzo, e si fece
subito a passarlo a guado. La cavalleria veneziana, accantonata
sull'opposta riva, si riunì bentosto e respinse vivamente al di là del
fiume i primi Musulmani che lo avevano attraversato; ma, sebbene rimasta
in possesso delle rive, cedette poco dopo ad un terrore panico, e si
ritirò prima che facesse giorno nell'isola di Cervia, formata da due
rami del fiume avanti Aquilea. Al levare del sole i Turchi passarono
l'Isonzo senza incontrare resistenza, e si sparsero per le ricche
campagne del Friuli. L'incendio delle case e delle capanne, che andavano
scontrando, avvisò da lontano gli altri abitanti di ritirarsi ne' luoghi
murati. Le porte di Udine, capitale della provincia, erano ingombrate
dalle famiglie de' contadini fuggitivi, dai loro carri, dai loro
bestiami. Le chiese erano piene di donne supplicanti, le mura coperte di
mal armati cittadini, e se i Turchi avessero spinta più in là la loro
cavalleria, questa città poteva essere presa in quel primo terrore. Ma
si fermarono in distanza di tre miglia, dando a dietro carichi di preda,
e cacciandosi avanti truppe di schiavi[452].

  [452] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 214._ Questo medesimo
  storico era rinserrato in Udine, quando comparvero i Turchi. —
  _Guern. Bernio Stor. d'Agobbio, p. 1022._

Mentre che Pietro Mocenigo, ritiratosi durante l'inverno a Napoli di
Romania, attendeva a porre la flotta in istato di cominciare
vigorosamente la prossima campagna, un giovane siciliano, chiamato
Antonio, che i Turchi avevano fatto prigioniero nell'isola d'Eubea e
condotto a Costantinopoli, trovò modo di fuggire, e venne a presentarsi
all'ammiraglio veneziano. Gli chiese un battello ed alcuni compagni
coraggiosi, impegnandosi col loro ajuto d'appiccare il fuoco alla flotta
turca, a traverso della quale era passato a Gallipoli. Dichiarò d'avere
vedute su quella rada cento galere, che, non essendo guardate in tempo
di notte, potevansi facilmente incendiare. Il Mocenigo, lodato assai il
coraggioso giovane, gli promise le più magnifiche ricompense. Gli fece
dare una barca carica di frutta, con alcuni de' più coraggiosi marinai
della sua flotta. Antonio si annunciò ai Turchi come un mercante di
frutti, e rimontò senza difficoltà i Dardanelli. Giunto a Gallipoli,
cominciò a vendere le sue frutta ai soldati, e perchè non diffidavasi in
alcun modo di lui, gli si permise di starsi la notte presso la flotta.
Ne approfittò per appiccare il fuoco ai vascelli a lui più vicini; ma le
persone accorse per ispegnerlo non gli permisero di continuare, e lo
forzarono a fuggire sulla sua barca, cui erasi pure comunicato
l'incendio. Il fuoco lo costrinse ad abbandonarla, per fuggire co' suoi
compagni nel primo bosco che trovò lungo lo stretto. Avendo lasciata la
barca mezzo consunta dal fuoco nel luogo in cui era sbarcato, questa
fece scoprire il suo ritiro ed egli fu arrestato co' suoi compagni. Il
sultano volle vederlo e gli domandò se aveva ricevuta qualche ingiuria,
che lo avesse consigliato a così forsennata vendetta: «Niuna, rispose
francamente Antonio, ma io ti ho conosciuto pel comune nemico de'
Cristiani; il mio attentato è abbastanza glorioso, e lo sarebbe assai
più, se avessi potuto bruciare il tuo capo, come bruciai le tue navi.»
Il Turco, poco scosso dal coraggio del suo nemico, lo fece segare per
mezzo il corpo co' suoi compagni. Il senato veneto non permise che tale
coraggiosa intrapresa si restasse senza ricompensa, e non potendo
beneficare Antonio personalmente, dotò sua sorella, ed assegnò una
pensione a suo fratello[453].

  [453] _Coriolanus Cepio, l. II, p. 350. — M. A. Sabellici Dec. III,
  l. IX, f. 215. — Rayn. Ann. Eccl. 1473, § 2, p. 248._

Frattanto Pietro Mocenigo ebbe ordine da Venezia di mettersi in mare, e
di seguire nell'entrante campagna le indicazioni che gli sarebbero date
da Ussun Cassan, il di cui ambasciatore aveva stretta alleanza coi
Veneziani; Giosafat Barbaro, uomo attempato assai, che parlava bene la
lingua persiana, era stato incaricato di ricondurlo al suo padrone, e di
presentare al Sofì a nome del senato veneto ricchi doni di vasi d'oro e
di stoffe di Verona. Seco conduceva tre galere cariche di molta
artiglieria, e cento ufficiali comandati da Tommaso d'Imola, che la
repubblica mandava ai servigj del sovrano della Persia. Essi contavano
di recarvisi, costeggiando la Cicilia e la Siria, ove dovevano trovare
due fratelli, principi della Caramania, di già in parte spogliati da
Maometto, ma che ancora si difendevano nel restante de' loro stati[454].

  [454] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 215. — Coriol. Cepio, l.
  II, p. 361._

  Le prime comunicazioni diplomatiche de' Veneziani colla Persia sono
  un notabile avvenimento nella storia de' viaggi, e per conseguenza
  in quello dello spirito umano; queste aprirono alle osservazioni
  degli Occidentali sconosciuti paesi; sparsero i primi lumi sulla
  geografia fin allora tanto confusa, e diedero in certa maniera
  principio al periodo in cui noi viviamo: periodo il di cui più
  manifesto carattere è la comunicazione stabilita fra tutti i popoli
  della terra.

  Le avventure di quei primi viaggiatori in Oriente furono descritte
  in relazioni originali conservate fino a' nostri tempi. Furono
  traslatate in latino e stampate in calce alla _Historia Rerum
  Persicarum_ del P. Bizarro. La prima è quella di Giosafatto Barbaro,
  che può risguardarsi come un modello dell'ingegno, dell'osservazione
  e dell'aggiustatezza di spirito (_p. 458_ e seguenti). Il Barbaro,
  dopo la presa di Seleucia fatta dal Mocenigo, conobbe
  l'impossibilità di giugnere in Persia con tutto il suo corteggio.
  Lasciò in Creta i doni che la repubblica mandava per mezzo suo ad
  Ussun Cassan; si congedò a Seleucia da' suoi compatriotti, e
  malgrado la sua avanzata età, si pose coll'ambasciatore di Persia e
  pochissima gente ad attraversare paesi barbari. Da Tarso seguì la
  strada della piccola Armenia, poi del paese dei Curdi. Il suo
  piccolo corteggio fu attaccato in mezzo a questi popoli di
  assassini; il suo compagno, l'ambasciatore di Persia, fu ucciso,
  come pure il suo segretario e due persone del suo corteggio. Il
  Barbaro rimase gravemente ferito ed interamente spogliato; ma egli
  non si smarrì di coraggio, proseguì il suo viaggio, ed all'ultimo
  trovò a Tauride Ussun Cassan. Questo monarca gli fece un magnifico
  accoglimento, e non cessò mai di mostrargli i più grandi riguardi
  ne' cinque anni che lo tenne alla sua corte. Quando morì Ussun nel
  1488, Giosafatto Barbaro tornò a Venezia per la strada d'Aleppo
  colle carovane che attraversavano gli stati soggetti ai Mamelucchi
  ed al Soldano di Egitto.

  Nello stesso tempo la repubblica aveva pure mandati due altri
  ambasciatori al Sofì per due diverse strade: uno di questi, Leopoldo
  Bettoni, recossi alla sua corte per la strada di Trebisonda, ma non
  iscrisse il suo viaggio: l'altro, Ambrogio Contarini, tenne la
  strada del nord dell'Europa, per evitare più sicuramente le
  imboscate dei Turchi, ed abbiamo ancora la sua relazione. Il
  Contarini partì da Venezia il 25 febbrajo del 1473; andò prima a
  Francoforte sull'Oder, ove giunse il 29 di marzo; attraversò in
  appresso la Polonia per Posna, Lublino e Kiovia; trovavasi il primo
  di maggio in quest'ultima città, ed il 16 era a Caffa, di dove
  s'imbarcò per la Colchide e per le rive del Faso. Nella Georgia e
  nella Mingrelia dovette soffrire assai della tirannide dei principi
  e del malvagio carattere dei popoli: finalmente, attraversando
  l'Armenia, entrò negli stati d'Ussun Cassan; ma non potè raggiugnere
  questo sovrano che ad Ispaan in novembre dello stesso anno. Si
  trattenne tutto l'inverno alla sua corte, prese giuste nozioni
  intorno alla potenza del sovrano della Persia, che tutti gli
  scrittori latini esageravano oltre ogni credere; conobbe che la sua
  patria non potrebbe altrimenti ritrarne i vantaggi che ne sperava, e
  che nella battaglia di Cara-Issar Ussun Cassan aveva tutt'al più
  sotto i suoi ordini quaranta mila uomini, quasi tutta cavalleria.
  Dopo avere raccolte queste notizie, che potevano avere una grande
  influenza sulla repubblica di Venezia, partì in principio di giugno
  del 1474 per tornare in Europa. Tenne la strada praticata
  nell'andata, in mezzo a fatiche ed a rischj grandissimi, fino alle
  sponde del Faso. Ma colà ebbe il profondo rammarico di sentire che i
  Turchi, avendo concepito qualche sospetto intorno alle relazioni
  degli Occidentali coi Persiani, guardavano tutte le strade, e che,
  essendosi fatti padroni di Caffa, non gli permettevano di tenere la
  via che aveva progettata. Il Contarini conobbe allora che altro
  partito non gli restava che quello di rientrare in Europa,
  attraversando la Moscovia. Tornando a dietro nella Media, arrivò a
  Derbent sul mar Caspio; vi si trattenne tutto l'inverno in mezzo a
  poveri pescatori, e ripartì il 6 aprile del 1475 per Astracan, città
  in allora soggetta ai Tartari: attraversò i loro deserti e quelli
  della Moscovia, travagliato incessantemente dalla miseria e dalla
  fame. Il 26 di settembre giunse finalmente in Mosca, ove il gran
  duca gli somministrò danaro per conto della repubblica di Venezia.
  Ma il Contarini non potè partire da quella capitale avanti il 21
  gennajo del 1476. Passando per Smolensko e Troki, ove trovò il re
  Casimiro; per Varsavia, Francoforte sull'Oder e Norimberga, giunse
  finalmente a Venezia il 10 aprile del 1476 dopo avere fatto uno de'
  più arditi viaggi, di cui si abbia memoria.

Onde aprirsi per questa strada una comunicazione con Ussun Cassan,
Pietro Mocenigo si diresse da principio verso l'isola di Cipro. Aveva in
allora quarantacinque galere veneziane, due galere del cavalieri di Rodi
e quattro del re di Cipro. Con questa flotta veleggiò alla volta di
Seleucia, assediata da uno dei principi caramani. Piramet, il più
attempato di questi due fratelli, era nel campo d'Ussun Cassan, ed il
più giovane, Cassan Bet, aveva indicato per trovarsi coi Veneziani un
luogo ad un miglio di distanza da Seleucia presso ad un tempio ruinato.
Egli disse a Vittore Soranzo, mandato verso di lui, che la Caramania,
devota alla sua famiglia, era adesso nel timore e nella dipendenza di
Maometto II per mezzo di tre fortezze, poste lungo il mare in faccia
alle coste di Cipro; cioè Sichesio, Seleucia e Corico (Sikin, Selefki,
Curko), ove i Turchi tenevano guarnigione, e di cui i Caramani non
potevano impadronirsi senza artiglieria. Il Mocenigo assediò
successivamente queste tre fortezze, e le consegnò a Cassan Bet dopo
avere forzate le guarnigioni turche a capitolare; pareva che questa
prima operazione dovesse aprire una facile comunicazione con Ussun
Cassan[455].

  [455] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, l. 216. — Callim. Experiens
  de Venet. contra Turcas, p. 409. — Coriol. Cepio, l. II, p. 352._

Frattanto questo monarca erasi avanzato nell'Armenia, fino a poca
distanza da Trebisonda e dal regno del Ponto, con un'armata, che
malgrado gli stravaganti calcoli dei Latini non era forse che di
quaranta mila uomini, ma che certo non eccedeva i sessanta mila.
Maometto II gli marciava all'incontro con dieci mila giannizzeri, dieci
mila guardie della corte, venti mila fanti e trenta mila ausiliarj. Con
queste forze Maometto occupò Carachizara, ossia Cara-Issar sul fiume
Lico[456]. Chaz Murath Beglierbey di Romania aveva il comando
dell'avanguardia; egli si trovò in mezzo ai Persiani senz'avvedersene.
Le sue truppe, impetuosamente attaccate, furono disfatte, ed egli rimase
sul campo di battaglia ucciso nel primo urto. Ma mentre i Persiani
inseguivano i fuggiaschi si scontrarono nel corpo ove trovavasi Maometto
co' suoi tre figliuoli, Bajazette, Mustafà e Gem. Il sultano approfittò
del disordine de' vincitori per attaccare. Ussun Cassan si difese
vigorosamente, e la mischia fu lunga e crudele. Frattanto Daut pascià,
Beglierbey di Natólia, che comandava una delle ale, avendo fatta
avanzare la sua artiglieria, sparse il disordine tra i Persiani poco
accostumati alle armi da fuoco. Uno dei figli d'Ussun Cassan fu ucciso,
e la di lui testa venne presentata a Maometto. Ussun prese la fuga, e si
ritirò con una parte della sua armata nelle montagne dell'Armenia. Il
suo campo fu saccheggiato, i prigionieri, che aveva fatti, vennero
liberati, e Maometto, dopo questa luminosa vittoria che guarentiva da
ogni insulto i confini del suo impero da questo lato, rientrò trionfante
in Costantinopoli[457].

  [456] _Ann. Sultanor. Osmanidarum, ab ipsis Turcis memoriæ proditi,
  et a Leunclavio editi Byzant., t. XVI, ed Ven., p. 258, Paris.,
  330._ I Latini danno a Maometto 320,000 uomini, e 350,000 ad Ussun
  Cassan. _Dem. Cantemir, l. III, c. 1, § 27._

  [457] _Ann. Turcici, Byzant. Ven., p. 258. — M. A. Sabellici Dec.
  III, l. IX, f. 217. — Ann. Eccl. Rayn. 1473, § 8, p. 249._ Questa
  disfatta d'Ussun Cassan fu rappresentata come una vittoria ai
  Polacchi, che Catarino Zeno voleva persuadere ad entrare in una lega
  contro i Turchi. _Dlugoss. Hist. Polon., l. XIII, p. 498._

Il Mocenigo, avanti d'essere informato della sorte dell'alleato della
repubblica, aveva investite varie piazze dell'Asia Minore. Assediò prima
Myra nella Licia, per liberare la quale essendosi avanzato Aiasa-Beg,
comandante della provincia, con alcune truppe musulmane, fu battuto ed
ucciso in battaglia. Allora Myra s'arrese agli assedianti, che permisero
alla guarnigione ed agli abitanti di ritirarsi, ma che saccheggiarono e
bruciarono la città. In appresso il Mocenigo sbarcò avanti Fisso nella
Caria, e ne guastò i contorni. Colà ebbe un messo di Catarino Zeno,
ambasciatore presso di Ussun Cassan, che lo invitava ad accostarsi alla
Cilicia per potere, ove abbisognasse, secondare il monarca persiano.
Egli era tornato a Corico, quando fu raggiunto da un nuovo corriere, che
gli dava avviso della disfatta del Sofì, e della di lui ritirata
nell'Armenia[458].

  [458] _M. A. Sabellici Dec. III, l. IX, f. 216. — Coriol. Cepio, l.
  II, p. 357._

Durante tutta questa campagna il Mocenigo aveva agito solo. Mentre stava
in Cilicia l'arcivescovo di Spalatro, nuovo legato del papa, gli aveva
ben fatto sapere che verrebbe a raggiugnerlo con dieci galere, qualora
fosse certo che l'ammiraglio veneziano volesse intraprendere qualche
cosa per beneficio della Cristianità. Ma il Mocenigo, che credeva avere
di già fatto assai per la causa comune, fu offeso da questo messaggio, e
ricusò soccorsi offerti di così mala grazia. Altronde la sua attenzione
cominciava ad essere di già distratta dagli affari di Cipro; il credito,
ch'egli di già si arrogava in quest'isola, era d'una maggiore importanza
per la repubblica, che tutte le conquiste che aveva fin allora tentate;
ed egli non volle, trattando cogli ultimi Lusignani, essere osservato da
un legato del papa, che gli rimprovererebbe ogni impresa estranea alla
guerra dei Turchi.

L'isola di Cipro, che nel 1191 era stata così generosamente data da
Riccardo cuor di Lione a Gui di Lusignano come indennizzamento del regno
di Gerusalemme, erasi conservata fino al 1458 sotto il dominio della
legittima discendenza di quest'illustre famiglia. Giano III[459], il XIV
re di Cipro di questa famiglia, era un principe effeminato, che non
aveva vissuto che per il piacere. La sua prima consorte, della casa di
Monferrato, era morta non senza sospetto di veleno; e la seconda, Elena
Paleologo, era una greca del Peloponneso, che dispoticamente governava
il marito. Essa l'aveva persuaso a ristabilire il culto greco
nell'Isola, atto di giustizia e di clemenza, che non pertanto dai Latini
gli venne rinfacciato come un delitto. Ma com'ella signoreggiava Giano,
così lasciavasi governare dalla nudrice, la quale dipendeva interamente
da un suo figliuolo. Il re aveva avuta dalla prima moglie una figlia
chiamata Carlotta, e non aveva figli dalla seconda, ma da una sua amante
gli restava un figlio detto Giacomo. Carlotta, presuntiva erede del
regno, fu maritata a Giovanni di Portogallo, figlio del duca di Coimbra,
e nipote di Giovanni I. Il principe portoghese risvegliò la gelosia del
figliuolo della nudrice; e dopo violenti contese tra di loro, Giovanni
perì nel 1457[460], e si credette avvelenato. L'insultante trionfo del
figlio della nudrice non ebbe lunga durata. Giacomo, il bastardo di
Giano, lo uccise di propria mano, non tanto per liberare Carlotta dalla
sua insolenza, quanto per aprirsi la via del trono colla perdita di un
pericoloso favorito[461].

  [459] Il nome di Giano (Janus) nella casa di Lusignano veniva
  dall'essere uno di que' principi nato a Genova (Janna), dopo la
  brillante spedizione di Cattaneo e di Fregoso.

  [460] _Enguerrand de Monstrelet, v. III, f. 74._

  [461] _Comm. Pii Papae II, l. VIII, p. 175-176._

Giano destinava in appresso sua figlia a Luigi di Savoja, secondo figlio
del duca Luigi, che aveva egli medesimo sposata una principessa
cipriota; ma Giano morì prima d'avere potuto effettuare queste nozze.
Per altro Luigi giunse a Nicosia, capitale del regno, sposò Carlotta il
7 ottobre del 1459, e fu coronato col titolo di re di Cipro, di
Gerusalemme e d'Armenia[462].

  [462] _Ivi, p. 177. — Guichenon Hist. Généal. de la maison de
  Savoie, t. II, p. 113._

Sua intenzione era stata quella di far entrare il bastardo negli ordini
sacri, destinandogli l'arcivescovado di Nicosia, prima prelatura del
regno. Ma per una imprudente politica, Carlotta prevenne la corte di
Roma contro suo fratello, e gl'impedì d'avere quest'eminente sede[463].
Giacomo irritato passò alla corte del soldano d'Egitto, di cui i re di
Cipro riconoscevansi feudatarj, e gli chiese per sè l'eredità paterna.
Il vantaggio del sesso è agli occhi de' Musulmani, più importante assai
che quello della legittimità de' natali, per la successione. Altronde il
sultano vedeva quasi con altrettanta diffidenza che Maometto II un
principe d'Occidente e del sangue francese stabilirsi nel centro dei
mari della Siria. I Cipriotti dal canto loro preferivano un Lusignano,
nato nel loro paese, ad un sovrano straniero. Melec Ella diede dunque a
Giacomo colla corona reale un'armata di Mamelucchi per sottomettere
l'isola di Cipro. Giacomo fu accolto in Nicosia senza difficoltà; egli
prese in poco tempo le fortezze di Sigur, Pafo e Limisso mal difese dai
gentiluomini savojardi, assediò poi Luigi e Carlotta in Cerina, e,
tranne questa fortezza, si rese padrone di tutto il regno[464].

  [463] _Ann. Eccl. Rayn. 1459, § 85, p. 39._

  [464] _Guichenon Hist. généalog., p. 116. — Comment. Pii Papae II,
  l. VII, p. 177._

Era Luigi di Savoja un principe indolente e sensuale, ma Carlotta era di
una singolare attività. Ella lasciò Cerina per andare a chiedere
soccorso a tutti i principi dell'Occidente. Nel 1460 si presentò a Pio
II. «Questa donna, egli dice nelle sue memorie, sembra dell'età di
ventiquattr'anni, ed è di mediocre statura; ha il viso giallo e pallido,
il suo linguaggio è armonioso, e scorre come un fiume coll'abbondanza
propria dei Greci. Veste alla francese, e le sue maniere sono degne del
real sangue[465].» Questo papa, mosso dalle istanze di Carlotta e
persuaso della giustizia della sua causa, le promise la sua protezione.
Dichiarossi a lei favorevole anche l'ordine de' cavalieri di san
Giovanni, ed accordò a lei ed a suo marito un asilo a Rodi; da
quest'isola ella fece partire convoglj di viveri e di munizioni per
Cerina, e rinnovò le sue corrispondenze coi malcontenti del regno.
Finalmente i Genovesi, che ancora possedevano alcune fortezze in Cipro,
e tra le altre Famagosta, abbracciarono ancor essi i di lei interessi:
ciò fu agli occhi de' Veneziani una bastante ragione per dichiararsi per
la contraria parte.

  [465] _Comment. Pii Papae II, l. VII, p. 179._

Marco Cornaro, gentiluomo veneziano, esiliato dalla sua patria e
stabilito in Cipro, aveva stretta domestichezza con Giacomo, bastardo di
Lusignano. Gli aveva somministrato il danaro necessario per fare la
guerra, prima co' proprj fondi, in appresso con quelli de' suoi
compatriotti; lo ajutò pure costantemente co' suoi consiglj, lo diresse
soprattutto nell'assedio di Cerina, che si arrese a Giacomo verso la
fine del 1464, ed in quello di Famagosta, che gli aprì le porte lo
stesso anno, dopo aver tenuto tre anni[466]. Giacomo, trovandosi allora
padrone di tutta l'isola di Cipro, tentò nuovamente di farsi riconoscere
dal papa, ma non potè riuscirvi. Respinto da tutti i principi cristiani,
si volse a Marco Cornaro, per contrarre colla di lui mediazione
un'alleanza colla repubblica di Venezia. Aveva Marco una bellissima
giovanetta sua nipote per nome Catarina, figlia di Andrea Cornaro;
l'offri in matrimonio a Giacomo di Lusignano con cento mila ducati di
dote, a condizione che Catarina sarebbe prima adottata per propria
figlia dalla repubblica di Venezia. Questo trattato s'intavolò circa il
1468, e dopo lunghe dilazioni questo parentado si accettò dalle due
parti. Catarina Cornaro venne solennemente dichiarata figlia di san
Marco, fu maritata per procura nel 1471 alla presenza del doge e della
signoria, fu accompagnata come regina fino alla sua flotta dal doge nel
Bucintoro, vascello dello stato destinato alle grandi cerimonie, e parti
in seguito alla volta di Cipro con quattro galere comandate da Girolamo
Diedo[467].

  [466] _Rayn. Ann. Eccl. 1464, § 71, p. 169._

  [467] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1185. — And. Navagero Stor.
  Ven., p. 1127-1131. — Ann. Eccl. 1471, § 47, p. 229._

Con questa parentela Giacomo di Lusignano avendo contratta la singolare
relazione di genero della repubblica, si mostrò sempre affettuoso
parente ed amico fedele. I suoi porti furono costantemente aperti alla
flotta de' Veneziani, e le sue alleanze e le sue nimicizie vennero
determinate dai loro consiglj; e nella guerra contro i Turchi
somministrò loro rinforzi proporzionati alla ricchezza ed alla
popolazione de' suoi stati. Ma non erano appena passati due anni da che
si era ammoglialo, quando morì il 6 giugno del 1473. Lasciò la consorte
gravida, e col suo testamento instituì suo crede, prima la prole che da
lei nascerebbe, ed in suo difetto, Giano, Giovanna e Carlotta, tre suoi
bastardi[468]. I Cipriotti, che avevano combattuto con accanimento
contro Carlotta, onde non portasse la corona ad un principe straniero,
videro con profondo dolore che il loro affetto per Giacomo gli aveva
ridotti a sottomettersi alla sua vedova, ancora più straniera al sangue
dei Lusignani che non il principe di Savoja, ch'essi avevano scacciato.
Il malcontento risvegliò la diffidenza, e sospettarono il Cornaro e
Marco Bembo, zio il primo, l'altro cugino della regina, d'avere
avvelenato suo marito[469].

  [468] Il testamento è del 4 giugno 1473. _Guichenon Hist. généal.,
  p. 119. — Coriol. Cepio, l. II, p. 357._

  [469] _Ann. Eccl. Rayn. 1473, § 3, p. 248._

L'arcivescovo di Nicosia, i conti di Zaplana e di Zaffo, suoi fratelli,
il signore di Tripoli e Rizzo de' Marini erano capi del partito, che
ricusava il giogo di una regina veneziana e de' suoi consiglieri
veneziani[470]. Si volsero segretamente a Ferdinando, re di Napoli, e
gli offrirono di far isposare Carlotta, figlia naturale di Giacomo, a
don Alonso, figlio naturale di Ferdinando, di destinare la corona a
questi due fanciulli che trovavansi ancora in tenera età, e di
conservare fino alla loro maggiorità l'indipendenza del regno sotto la
protezione del re di Napoli[471]. Frattanto le voci di avvelenamento,
ch'essi avevano sparse, eccitarono una sollevazione, nella quale
furono dal popolo furibondo uccisi Andrea Cornaro, Marco Bembo, ed
il medico del re. I capi del partito, che non erano ancora apparecchiati
a difendere la loro indipendenza, e che sapevano trovarsi la
flotta veneziana nelle acque di Cipro, sforzaronsi di calmare
quest'insurrezione, che li comprometteva, e di scusarla agli occhi de'
Veneziani. Un giudice di Venezia risiedeva in Nicosia per giudicare le
cause che accadevano tra i suoi compatriotti; essi recaronsi presso di
lui per rinnovare le loro promesse di conservarsi fedeli alla regina
Catarina, alla prole che di lei nascerebbe, ed alla repubblica di
Venezia. Mandarono una somigliante dichiarazione all'ammiraglio Pietro
Mocenigo, e lo supplicarono di non punire tutto il regno per un
assassinio dipendente da personali animosità; accusarono Bembo e Cornaro
di concussioni, che gli avevano resi odiosi, e dissimularono i loro
sospetti di veleno, che parevano compromettere la medesima
repubblica[472].

  [470] _Marin Sanuto Vite dei Duchi, p. 1199._

  [471] Don Alonso, che i Cipriotti volevano riconoscere per erede
  presuntivo della corona, aveva il titolo di principe di Galilea, e,
  secondo Navagero, non aveva che sei anni. Il Giannone non ne parla,
  non indicando che due figli naturali di Ferdinando, don Enrico e don
  Cesare. _Ist. Civ., l. XXVII, c. III, p. 565._

  [472] _ M. A. Sabellici Dec. III, l. X, f. 218. — Coriol. Cepio, l.
  III, p. 360._

Pietro Mocenigo s'infinse di prestar fede a tali proteste; non pertanto
trovò conveniente d'assicurare il credito della giovine regina, facendo
mostra agli occhi de' Cipriotti di tutta la potenza de' Veneziani. Si
avvicinò all'isola colla sua flotta, e trovossi in Nicosia, quando la
regina diede alla luce il figlio di Giacomo. Questo fanciullo fu tenuto
al sacro fonte dal generalissimo e dai provveditori veneziani, e
ricevette il nome di suo padre. Dopo avere passati alcuni giorni in
Cipro, il Mocenigo continuò le sue stragi sulle coste della Licia, della
Caria e della Cilicia. Ricevette sulla sua flotta gli ambasciatori della
regina Carlotta, ch'erasi stabilita a Rodi, mentre che suo marito, Luigi
di Savoja, viveva nella mollezza, a Ripaglea, in mezzo alle sue amanti.
Carlotta, in nome dell'antica alleanza di suo padre coi Veneziani, in
nome dell'amicizia che regnava tra il duca di Savoja, suo cognato e la
repubblica, in nome sopra tutto della giustizia, ridomandava una corona
che a lei sola poteva appartenere. Se l'usurpazione del bastardo, suo
fratello, era colorita dal vantaggio del sesso, la morte di Giacomo
doveva, secondo lei, riporla in tutti i suoi diritti. Il Mocenigo gli
rispose, ch'egli avea riconosciuto Giacomo di Lusignano, confederato
della repubblica di Venezia, come legittimo possessore del regno di
Cipro, che i regni non si trasmettevano secondo le formole legali, e
dietro le leggi seguite nelle processure, ma colla virtù e colle armi;
che con tali mezzi Giacomo aveva conquistata l'isola di Cipro su di lei
e sui Genovesi, che la vedova ed il figlio di questo monarca erano
oramai i soli sovrani di quest'isola, e che, avendoli la repubblica
adottati come suoi figliuoli, ella saprebbe difenderli[473].

  [473] _And. Navagero Stor. Ven., p. 1138. — M. A. Sabellici Dec.
  III, l. IX, f. 216. — Coriol. Cepio, l. II, p. 357._

Intanto il Mocenigo ebbe avviso di essere scoppiati a Nicosia nuovi
movimenti, egli spedì subito alla regina Catarina, per prometterle una
potente assistenza, quello stesso Coriolano Cepio che scrisse la storia
di questa campagna. Pochi giorni dopo, gli fece tener dietro Vittore
Soranzo, provveditore, con otto galere, e finalmente arrivò egli
medesimo con tutta la flotta. Trovò la regina spogliata di ogni
autorità, separata da suo figlio che i Cipriotti volevano educare essi
medesimi, privata della guardia delle fortezze e della disposizione del
tesoro, e non pertanto costretta da' suoi nemici, in particolare dai
Catalani, che Giacomo aveva chiamati nel regno, a dichiarare che era
contenta, e che tutto erasi fatto di sua volontà[474].

  [474] _And. Navag., p. 1139. — Coriol. Cepio, l. III, p. 360._

Dopo la Sicilia e la Sardegna, Cipro è l'isola più vasta del
Mediterraneo: ha circa cento ottanta miglia nella sua maggiore
lunghezza, sessanta di larghezza, e più di quattrocento di
circonferenza. Posta tra il 35 ed il 36 grado di latitudine, gode d'un
clima delizioso, e produce in abbondanza, vino, olio, frumento, ed il
rame che ha da lei ricevuto il nome. La sua posizione, tra la Siria,
l'Egitto e l'Asia Minore, sembra invitarla ad aggiugnere il più attivo
commercio ai ricchi prodotti del suolo. Nei tempi della sua libertà, vi
si contarono quindici fiorenti repubbliche; ma sotto il governo
degl'imperatori, poi sotto quello dei re Lusignani erano infinitamente
diminuite le sue ricchezze e la sua popolazione. La tirannia feudale dei
baroni, la sovranità riclamata dai soldani d'Egitto, e gli esclusivi
privilegj dei Genovesi e de' Veneziani, che volevano a sè soli riservato
il commercio, impedivano lo stabilimento d'una buona legislazione, della
pace, della sicurezza. Pure la conquista dell'isola di Cipro era
tuttavia un'intrapresa, che richiedeva considerabili forze; e Pietro
Mocenigo, non avendo che poche truppe da sbarco, volle, prima di tentar
nulla, procurarsene in maggior numero. Mandò de' trasporti in Candia ed
in Morea per raccogliere tutte le truppe disponibili de' Veneziani. Sei
vascelli, che portavano molti Stradioti e fanti, gli sbarcarono per suo
ordine a Famagosta. All'avvicinarsi di questa nuova armata,
l'arcivescovo di Nicosia ed i conti di Tripoli fuggirono. Il Mocenigo, a
nome della regina, cambiò i comandanti di tutte le fortezze,
v'introdusse in appresso capitani e soldati veneziani con molti arcieri
di Creta; punì capitalmente tutti coloro che avevano preso parte
nell'ultima sollevazione, perseguitò i fuggiti, esiliò coloro ch'erano
soltanto sospetti, e sotto pretesto di ristabilire ed assicurare
l'autorità della regina, ridusse tutta l'isola nell'assoluta dipendenza
dei Veneziani, e spaventò tutti i loro nemici col terrore de'
supplicj[475].

  [475] _And. Navagero Stor. Venez., p. 1140. — M. A. Sabellici Dec.
  III, l. X, f. 219. — Coriol. Cepio, l. III, p. 362._

Frattanto la regina perdette suo figlio in età di un anno, lo che resela
ancora più straniera al regno. Il 24 marzo del 1474, il senato di
Venezia le diede per consiglieri, o piuttosto per tutori due nobili
veneziani, Luigi Gabrielli e Francesco Minio; ed il comando di tutte le
truppe venne affidato a Giovanni Soranzo col titolo di provveditore
generale. Il senato di Venezia nominò pure i particolari comandanti di
Famagosta e di Cerina; ed alla regina, protetta da quell'ambiziosa
repubblica, altro non rimase che la vana pompa della dignità reale[476].

  [476] _And. Navagero Stor. Venez., p. 1141. — Gio. Batt. Pigna Stor.
  de' Princ. d'Este, l. VIII, p. 784. — Vite Roman. Pontif., t. III,
  p. II, p. 1063._ — Stefano di Lusignano, che scrisse la storia di
  Cipro, circa un secolo dopo tali avvenimenti, attribuisce a veleno
  la morte di Giacomo il Postumo, come pure quella di suo padre. Se
  dobbiamo credergli, la repubblica di Venezia si disfece degli ultimi
  Lusignani, ed occupò il regno, con una lunga serie di delitti.
  Queste accuse vennero ripetute dai Savojardi, i di cui duchi, dopo
  la morte di Luigi e di Carlotta, presero il titolo di re di Cipro
  (_Guichenon Hist. Généal. de la maison de Savoie_) e l'annalista
  della Chiesa sembra ammettere tali imputazioni. _Rayn. ad an. 1473,
  § 31, p. 263._


FINE DEL TOMO X.



TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO X.


  CAPITOLO LXXV. _Pontificato di Niccolò V;
  congiura di Stefano Porcari. — Campagna di
  Giacomo Piccinino nello stato di Siena. — Disgrazia
  e deposizione di Francesco Foscari a
  Venezia._ 1447-1457                                    _Pag._ 3

            Progressi della letteratura, decadenza
              dello spirito pubblico nel quindicesimo
              secolo                                            3
            I letterati di quest'epoca non hanno
              originalità per esercitare piena
              influenza sui loro concittadini                   4
            Pedanteria di coloro ch'erano incaricati
              di qualche pubblica funzione                      5
            Falsa idea che si formavano dell'eloquenza          7
            Carriera percorsa da uno de' più illustri
              e più felici filologi di questo secolo,
              Tommaso di Sarzana, ossia Niccolò V               9
  1398-1434 Natali e prima educazione di Tommaso di Sarzana     9
  1434-1446 Suoi avanzamenti nelle lettere, e sue dignità
              ecclesiastiche                                   10
       1447 23 febbrajo. Morte d'Eugenio IV.
              Stefano Porcari vuole persuadere i
              Romani a far valere i loro privilegi             12
            6 marzo. Elezione di Tommaso di Sarzana che
              prende il nome di Niccolò V                      15
       1449 Aprile. Felice V rinuncia al pontificato; e
              termina lo scisma                                16
  1447-1455 Incoraggiamenti dati alle lettere antiche
              da Niccolò V                                     16
            Suo gusto per l'architettura e suoi monumenti      18
            Sua famigliarità coi letterati                     19
            Educato nella servitù domestica non vuole
              riconoscere nè privilegi, nè libertà             20
       1450 Nuovi tentativi del Porcari in favore de'
              privilegi di Roma                                22
            Opinioni del Porcari e de' Romani intorno
              al governo de' Preti                             23
       1453 Gennajo. Congiura di Stefano Porcari               24
            Viene scoperta e condannati alla morte tutti
              i complici                                       27
            Niccolò V diventa sospettoso e crudele             28
       1454 Malattia di Niccolò V, e suoi rimorsi              30
       1455 24 marzo. Morte di Niccolò V                       31
            8 aprile. Gli succede Alfonso Borgia col
              nome di Calisto III                              32
       1456 Alleanza tra Alfonso d'Arragona e la casa Sforza   33
       1455 Giacomo Piccinino conduce nello stato di
              Siena una compagnia di soldati avventurieri      35
            Tutte le truppe italiane si adunano nelle
              Maremme di Siena per resistere al Piccinino      37
            Battaglia della valle d'Inferno                    37
            Mortalità nelle armate, e ruina del Piccinino      38
  1453-1456 Progetti di crociate contro i Turchi subito
              dimenticati                                      40
       1454 18 aprile. Trattato di pace tra i Veneziani
              ed i Turchi                                      42
  1423-1457 Glorioso regno di Francesco Foscari doge
              di Venezia                                       43
  1445-1456 Accanimento del consiglio dei dieci contro
              suo figlio Giacomo Foscari                       45
       1450 novembre. Nuove persecuzioni contro
              Giacomo Foscari                                  46
  1433-1451 Il vecchio doge Foscari offre l'abdicazione,
              e non è accettata                                47
       1456 Luglio. Ultime sventure e morte di
              Giacomo Foscari                                  51
       1457 Ottobre. Il consiglio dei dieci chiede a
              Francesco Foscari l'abdicazione                  51
            23 ottobre. Deposizione di Francesco Foscari
              che muore otto giorni dopo                       52

  CAPITOLO LXXVI. _Guerra d'Alfonso re di Napoli
  contro Malatesta di Rimini e contro i
  Genovesi. — Rivoluzioni di Genova; accanimento di
  Alfonso contro il doge Pietro di Campo
  Fregoso. — Morte di questo monarca: suo
  carattere._ 1455-1458                                        54

       1433 Il re di Napoli si era riservato di fare
              la guerra al Malatesta, a Manfredi
              ed ai Genovesi                                   54
            Rivalità di Sigismondo Malatesta e di
              Federico di Montefeltro                          55
            Novembre. Federico ajutato da Alfonso
              di Napoli e dal Piccinino attacca il
              Malatesta e lo stato di Rimini                   57
            Collera d'Alfonso, re di Napoli, contro
              la repubblica di Genova                          57
  1435-1455 Vent'anni di turbolenze in Genova duranti
              i quali questa repubblica aveva preso
              poca parte negli affari d'Italia                 58
            Potenza de' grandi uomini e delle
              ricordanze istoriche negli stati liberi          59
            Una mescolanza d'aristocrazia rendesi
              necessaria all'equilibrio che produce
              la libertà                                       60
            Le illustri famiglie di Genova non avevano
              nello stato una potenza proporzionata
              al loro credito presso il popolo                 62
            Questa sproporzione è cagione di tutte
              le rivoluzioni di Genova                         62
       1436 Tommaso Fregoso scaccia di nuovo il doge
              Isnardo di Guarco, e si fa riconoscere
              in suo luogo                                     64
       1437 Battista Fregoso scaccia di nuovo il doge
              Isnardo di Guarco, e si fa riconoscere
              in suo luogo                                     65
            Battista Fregoso, sedotto dagli intrighi
              del duca di Milano, si rivolta contro
              suo fratello è vinto ed ottiene perdono          66
       1441 Rivoluzione di Giovanni Battista del Fiesco
              e degli antichi nobili contro il Fregoso         67
  1435-1442 I Genovesi consacrano tutte le loro forze
              nella difesa Renato d'Angiò contro Alfonso       68
       1442 15 dicembre. Tommaso Fregoso vinto e
              scacciato da Genova da Giovanni Antonio
              del Fiesco                                       70
       1443 Gennajo. Rafaello Adorno nuovo doge di Genova      70
       1444 Adorno rende la repubblica di Genova
              tributaria d'Alfonso                             72
       1447 4 gennajo. Rafaele Adorno abdica la sua
              dignità e gli viene sostituito suo
              cugino Barnabò                                   74
       1447 30 gennajo. Barnabò Adorno scacciato da
              Giano Fregoso che gli succede                    75
            Conquista del marchesato di Finale fatta
              dal Fregoso                                      76
       1450 8 dicembre. Pietro Fregoso succede a Luigi,
              ch'era succeduto a Giano, morto di malattia      76
       1452 Soccorsi mandati dalla repubblica di Genova
              a Costantinopoli                                 77
       1453 I Genovesi perdono la loro colonia di Pera         78
            Essi cedono le loro colonie del mar Nero,
              e di Corsica alla banca di san Giorgio           79
       1454 Essi domandano la pace ad Alfonso per
              volgere di conserva le loro armi contro
              i Turchi                                         80
       1455 28 luglio. Pietro Fregoso sottomette i
              suoi nemici ribellatisi contro di lui            81
  1455-1456 Si difende contro la flotta d'Alfonso              82
            Corrispondenza d'Alfonso e del doge Fregoso        82
            Soccorsi mandati dai Genovesi ai greci
              del Levante                                      85
       1457 Pietro Fregoso ricorre a Carlo VII, re
              di Francia, ed a Giovanni d'Angiò duca
              di Calabria                                      86
  1454-1455 Dimora di Giovanni d'Angiò in Toscana al
              soldo de' Fiorentini                             86
       1458 Febbrajo. La repubblica di Genova si
              sottomette alla signoria del re di Francia       87
            11 maggio. Giovanni d'Angiò viene a prendere
              il comando di Genova                             88
            Fa tutti i suoi apparecchi di difesa               89
            1 luglio. La morte d'Alfonso disperde
              l'armata napolitana e quella dei malcontenti     90
  1416-1458 Regno d'Alfonso in Arragona                        91
       1458 27 giugno. Morte d'Alfonso nel castello dell'Uovo  92
            Protezione accordata da Alfonso alle lettere       93
            Suo primo amore per Margarita de Hyer              95
            Sua ultima passione per Lugrezia d'Alagna          96
            Eccessiva sua liberalità                           97
            Vizj della sua amministrazione                     97

  CAPITOLO LXXVII. _Pratiche di Calisto III
  e de' Baroni Napolitani perchè Ferdinando
  d'Arragona non succedesse a suo padre.
  S'addirizzano a Giovanni d'Angiò signore di
  Genova. Pietro Fregoso viene ucciso in un
  attacco contro Genova. Giovanni d'Angiò
  lascia Genova per il regno di Napoli. Guerra
  civile, battaglie di Sarno e di San Fabbiano
  tra gli Angiovini e gli Arragonesi._ 1458-1460               99

            Sforzi d'Alfonso per assicurare la
              successione di suo figlio Ferdinando             99
       1443 Il parlamento di Napoli aveva domandato
              che Ferdinando fosse designato per
              successore alla corona                          101
  1443-1455 Suo diritto confermato dalle bolle di molti papi  102
       1444 E col suo matrimonio con Isabella di
              Clermont, nipote dei principe di Taranto        105
       1458 12 luglio. Calisto III dichiara il regno
              di Napoli devoluto alla S. Sede per
              l'estinzione della legittima linea              105
            Vuole tirare ne' suoi progetti Francesco Sforza   107
            6 agosto. Muore senza poter dare esecuzione
              ai suoi disegni                                 108
            19 agosto. Elezione d'Enea Silvio Piccolomini,
              che si fa nominare Pio II                       108
            Povertà di Pio II nell'atto della sua elezione    109
            Ottobre. Pio II riconosce Ferdinando come
              re di Napoli, e fa con lui un trattato
              vantaggioso alla Chiesa                         110
            Il conte di Viane, competitore di Sigismondo
              si ritira in Sicilia                            112
       1459 Malcontento de' baroni napolitani, loro
              proposizioni al re di Navarra                   113
            Respinti da lui s'addirizzano a Renato
              d'Angiò ed a suo figlio                         114
            Il duca di Calabria, figlio di Renato,
              cerca l'alleanza di Francesco Sforza            114
            Gli viene rifiutata                               116
            Lo Sforza cerca di eccitare delle turbolenze
              in Genova governata dal duca di Calabria        117
            Febbrajo. Prima spedizione di Pietro
              Fregoso, morte di G. A. del Fiesco              118
            Il duca di Calabria chiede ed ottiene
              soccorsi dai Genovesi per la guerra di Napoli   119
            Settembre. Seconda spedizione di Fregoso
              contro Genova                                   120
            13 settembre. Penetra nello stesso
              circondario di Genova                           122
            Vi è ucciso                                       122
            Disfatta della sua armata                         123
            4 ottobre. Il duca di Calabria spiega
              le vele da Genova per terra di Lavoro           124
            27 maggio. Pio II fa l'apertura della
              dieta adunata in Mantova                        124
            Calde preghiere dei deputati del Levante
              a questa dieta                                  126
            La dieta riparte tra i popoli le spese
              della futura crociata                           127
       1460 13 gennajo. Si scioglie senza assicurare
              soccorsi ai popoli del Levante                  128
            Pio II risolve di soccorrere Ferdinando
              contro la casa d'Angiò                          129
       1459 Ottobre. 1460 gennajo. Sollevazione di tutto
              il regno di Napoli a favore della
              casa d'Angiò                                    130
       1460 Quasi tutta l'Italia s'interessa a favore
              degli Angiovini                                 132
            Ferdinando riclama dai Veneziani e dai
              Fiorentini i sussidj stipulati per l'alleanza   133
            I Fiorentini, sul punto di decidersi per
              il duca di Calabria vengono ritenuti
              da Francesco Sforza                             135
            Le due repubbliche si obbligano alla neutralità   136
            Il Piccinino e Malatesta si pongono ai
              servigi del principe d'Angiò                    137
            Primi vantaggi di Ferdinando nella Campania       138
            17 luglio. Disfatta a Sarno dal duca Giovanni     140
            La regina Isabella implora la compassione
              del principe di Taranto, che respinge
              il duca Giovanni da Napoli                      141
            27 luglio. Sconfitta de' Fratelli Sforza e
              del Montefeltro a San Fabbiano loro data
              da Giacomo Piccinino                            143
            La regina Isabella fa la questua in Napoli
              per rimontare l'armata di suo marito            144

  CAPITOLO LXXVIII. _La repubblica di Genova
  sollevata dalle pratiche dell'arcivescovo
  Paolo Fregoso, si sottrae al dominio dei
  Francesi ed ottiene sopra il re Renato
  una luminosa vittoria. — Disastro del partito
  Angioino nel regno di Napoli. — Tirannide
  di Paolo Fregoso a Genova. Questa repubblica
  si assoggetta al duca di Milano. — Ultimi anni
  e morte di Cosimo dei Medici._ 1460-1464                    146

       1460 Importanza del possedimento di Genova per
              la guerra de' Francesi a Napoli                 146
            Prime dissensioni in Genova sotto il
              governo francese                                147
       1461 9 marzo. Sollevazione che sforza Tommaso
              della Vallée a ritirarsi nel forte              148
            Riconciliazione degli Adorni e de' Fregosi,
              proposta da Paolo Fregoso arcivescovo
              di Genova                                       150
            Prospero Adorno eletto doge dai due partiti       150
            La guarnigione francese viene assediata
              nel castelletto                                 152
            Luglio. Il re Renato si presenta a Genova
              con una flotta                                  154
            17 luglio. La sua armata è battuta e quasi
              distrutta dai Genovesi                          155
            Lo stesso giorno della battaglia Prospero
              Adorno è scacciato da Genova da Paolo Fregoso   157
            Luigi Fregoso entrato in possesso del
              Castelletto è nominato doge di Genova           157
            La sconfitta del re Renato a Genova fa
              grave danno alla parte Angiovina nel
              regno di Napoli                                 158
            Giorgio Scanderbeg conduce degli Albanesi
              in soccorso di Ferdinando a Barletta            159
            Diverse pratiche per istaccare Francesco
              Sforza dall'alleanza di Ferdinando              160
       1462 Febbrajo. Il duca di Milano fa arrestare
              Tiberio Brandolini come partigiano della
              casa d'Angiò                                    162
            Vantaggi degli Angiovini in principio dell'anno   163
            In agosto la fortuna si dichiara per
              Ferdinando, e più non lo abbandona              164
            18 agosto. Il duca d'Angiò e Piccinino
              sconfitti sotto Troja                           164
       1462 Agosto. Sigismondo Malatesta disfatto
              dal Montefeltro                                 165
            13 settembre. Il principe di Taranto
              abbandona il partito d'Angiò                    166
       1463 10 agosto. Giacomo Piccinino abbandona
              il partito d'Angiò                              167
            Ottobre. Sigismondo Malatesta ottiene
              la pace dal papa a durissime condizioni         170
            16 novembre. Il principe di Taranto muore
              ad Alta-Mura, probabilmente assassinato
              per ordine di Ferdinando                        171
       1464 Il principe d'Angiò abbandona il regno di Napoli  171
            Febbrajo. Luigi XI cede a Francesco Sforza
              tutti i suoi diritti sopra Genova               172
  1460-1462 L'arcivescovo di Genova si fa capo dei faziosi    173
            Sorprende replicatamente il doge Luigi suo
              cugino, e si fa eleggere in suo luogo           175
  1462-1464 Violenta amministrazione di Paolo Fregoso         176
            Aprile. L'arcivescovo Fregoso lascia Genova
              per fare il pirata                              178
            13 Aprile. Genova si assoggetta al duca
              di Milano                                       179
            Firenze si sottrae alle violenti
              rivoluzioni di Genova                           180
  1455-1464 Governo democratico di Firenze                    180
            Autorità dittatoriale delle balìe
              renduta necessaria                              182
            Grandezza di Neri Capponi e di Cosimo de' Medici  183
       1455 1 Luglio. I Fiorentini, dopo la morte di
              Neri Capponi, non vogliono rinnovare la balìa   184
  1455-1458 Umiliazione dei grandi dopo abolita la balìa      186
            Contestazioni intorno allo stabilimento
              delle imposte                                   187
            Il gonfaloniere Matteo Bartoli domanda
              invano una balìa                                187
            11 Agosto. Luca Pitti fa ristabilire la
              balìa per forza                                 188
            La balìa fa un uso tirannico del suo potere       189
            Orgoglio di Luca Pitti che fa fabbricare
              un palazzo reale                                190
       1463 Novembre. Cosimo de' Medici perde il suo
              secondo figliuolo                               192
       1464 1 Agosto. Cosimo muore nel suo 75º anno           193
            Monumenti innalzati di Cosimo nella sua patria    194
            Sua amministrazione pubblica e sue conquiste      196
       1465 Dopo morto viene dichiarato padre della patria    197

  CAPITOLO LXXIX. _Spavento cagionato all'Italia
  dalle conquiste dei Turchi. — Prime vittorie
  di Giorgio Castriotto o Scanderbeg. — Guerra
  de' Veneziani nella Morea. — Pio II
  sopraggiunto dalla morte quando stava
  per condurre una crociata nell'Illirico. — Ultime
  vittorie e morte di Scanderbeg._ 1443-1466                  198

  1464-1494 Periodo di pace e di prosperità per l'Italia      198
            Progressi delle lettere e delle arti, e
              decadimento del carattere nazionale
              in questo periodo                               199
  1443-1464 Abbandono degl'Illirici ai Turchi, onde
              rimangono scoperte le coste d'Italia            200
            Numerosi stati nati dalla ruina dell'impero
              d'Oriente                                       201
            Tutti questi stati cercano in Italia un
              centro alle loro negoziazioni ed ai loro
              interessi                                       203
            L'Italia si riempie di Greci e di Cristiani
              orientali fuggiaschi                            203
  1354-1458 Dominio in Servia dei Crali della casa di Lazaro  205
            Maometto II soggioga la Rascia e la Servia
              dopo la morte di Giorgio Bulkowitz              206
  1364-1458 Regno della casa Acciajuoli nel ducato d'Atene    206
            Francesco Acciajuoli ultimo duca d'Atene
              strozzato da Maometto II                        208
  1450-1460 I fratelli dell'ultimo governatore governano
              il Peloponneso col titolo di despoti            209
            Vengono spogliati de' loro stati muojono
              nel 1465, e 1471                                209
       1462 Sinope, Ceraso, e Trebisonda sottomesse
              da Maometto II                                  210
       1463 Maometto II attacca Blado Dracula, ospodaro
              di Valacchia e di Moldavia                      211
            Dopo spaventose crudeltà Blado si rifugia
              presso gli Ungari, che lo ritengono
              prigioniere                                     213
  1404-1432 Nascita di Giorgio Castriotto, e sua
              educazione tra i Turchi                         213
            Alla morte di Giovanni, padre di Giorgio
             Castriotto, Amurat II occupa la sua
             eredità nell'Epiro                               214
       1442 Questi, soprannominato _Scanderbeg_
              solleva l'Epiro dopo avere disfatti i
              Turchi alla Morava                              215
       1442 Occupa in un mese tutte le fortezze che
              appartennero in addietro a suo padre            217
            Convoca una dieta dei principi dell'Epiro
              e d'Albania ad Alessio                          217
  1442-1445 Forze ed entrate di Scanderbeg                    217
            Sue vittorie sopra Feyrouz e Mustafà              221
       1449 Amurat II guasta l'Epiro e s'impadronisce
              di Sfetigrade                                   222
       1450 Amurat assedia inutilmente Croja, capitale
              di Scanderbeg                                   223
            Morte d'Amurat dopo l'assedio di Croja            224
  1452-1458 Mosè Golento ed Amesa generale di
              Scanderbeg sedotti da Maometto II, ed
              in appresso sottomessi                          225
       1461 22 giugno. Pace tra Scanderbeg e Maometto II      227
  1461-1465 Campagne di Scanderbeg in Italia come
              ausiliario di Ferdinando                        227
       1462 Stefano Tommaso, re di Bosnia, domanda
              ajuto a Pio II                                  229
       1465 La Bosnia conquistata da Maometto II, ed
              il suo re mandato al supplicio                  230
            La Schiavonia saccheggiata, ed il suo ban,
              ossia sovrano, ucciso con cinquecento
              suoi gentiluomini                               233
            Maggio. La guerra accesa in Morea tra
              i Veneziani ed i Turchi                         234
            Avendo i Veneziani occupato il Peloponneso,
              fortificano l'istmo ossia _hescamiglion_   235
            Assediano invano Corinto                          237
       1464 Abbandonano vilmente l'istmo all'avvicinarsi
              di un'armata turca                              237
       1463 Pio II risolve di condurre egli stesso
              una crociata in difesa de' Cristiani
              del Levante                                     239
            22 ottobre. Con una bolla aduna i Crociati
              in Ancona                                       242
            Il doge di Venezia sforzato dai Pregadi
              a promettere di marciare in persona col papa    243
            12 settembre. Trattato d'alleanza di Mattia
              Corvino con Venezia contro i Turchi             243
            26 maggio. Pio II persuade Scanderbeg a
              ricominciare la guerra                          244
       1464 18 giugno. Pio II parte da Roma per la crociata   245
       1464 Strada facendo incontra i Crociati che
              tornano alle loro case                          247
            Agosto. Il doge Cristoforo Moro viene a
              raggiugnere il papa ad Ancona                   249
            14 agosto. Morte di Pio II                        250
            Insufficienti apparecchi da lui fatti per
              la sua spedizione                               251
            Alla sua morte sono abbandonati i suoi
              progetti, e tutta l'armata si disperde          253
            Convenzione dei Cardinali prima di
              procedere ad una nuova elezione                 254
            16 settembre. Paolo II eletto da loro
              annulla la convenzione che aveva
              sottoscritta e giurata                          255
            Mostra di volere soccorrere i Cristiani
              del Levante                                     256
       1463 Guerra de' Veneziani contro Trieste e
              l'imperator Federico III                        258
       1465 Loro spedizione contro il gran maestro di Rodi    259
            Guasti che fanno in Grecia                        260
            Orsato Giustiniani attacca Metelina, e vi
              commette orribili crudeltà sui
              prigionieri turchi                              261
            Sigismondo Malatesta brucia Ministra, o
              nuova Sparta                                    262
       1466 Vittore Cappello saccheggia Atene                 263
            È perdente sotto Patrasso                         264
       1464 Ballabano Badera incaricato da Maometto II
              della guerra contro Scanderbeg                  266
            Otto capitani di Scanderbeg cadono in
              un'imboscata nella valle di Valcalia            268
       1464 Battaglie d'Oronichio e di Sfetigrade             269
            Giacomo Arnauta e Ballabano entrano
              nell'Epiro per due diverse parti                270
            Scanderbeg caduto in un'imboscata si
              salva a stento                                  271
            Battaglia di Valcalia ov'è sconfitto Ballabano    272
            Battaglia di Petrella ove Giacomo Arnauta
              è vinto ed ucciso                               273
       1465 Nuovi sforzi di Maometto II per sottomettere
              l'Epiro                                         274
            Entra con una potente armata e prende Chidna      275
            Scanderbeg va a Roma ad implorare i
              soccorsi di Paolo II                            277
            Ballabano assedia Croja                           277
            Ballabano è rotto ed ucciso, alle falde
              del monte Cruino, da Scanderbeg                 279
            Scanderbeg vuole adunare una nuova armata
              in Alessio                                      281
       1466 Gennajo. È colà sorpreso da mortale malattia,
              discorso ai suoi soldati                        282
            Il suo solo nome disperde i Turchi che si
              avanzavano contro Alessio                       284
            17 gennajo. Muore ed è seppellito in Alessio      284
            Disperazione degli Epiroti                        285
            L'Albania cade sollo il giogo de' Turchi          286

  CAPITOLO LXXX. _Falsa politica de' Veneziani
  nell'amministrazione delle loro province
  d'oltremare. Perfidia di Ferdinando di
  Napoli, che fa perire Giacomo
  Piccinino. — Ultimi anni e morte di
  Francesco Sforza. Turbolenze di Firenze
  sotto l'amministrazione di Pietro de' Medici;
  progetti e debolezze di Luca Pitti._ 1464-1466              288

            Esistenza dell'Italia dipendente dalla
              guerra dei Turchi                               288
            Non pertanto tutti gli stati trascurano
              la propria difesa per occuparsi di
              piccoli interessi                               289
            I Veneziani che soli difendevano l'Italia
              la compromettono essi medesimi con una
              fallace politica                                290
            I sudditi di Venezia divisi in tre classi         291
            Quelli delle provincie Illiriche affatto
              sagrificati alle altre due                      292
            Una più savia politica avrebbe fatto di
              Venezia una potenza illirica                    293
            Rapacità e venalità de' Veneziani nelle
              loro colonie                                    294
            Debolezza de' loro sforzi contro i Turchi,
              risultamenti di tale venalità                   295
            Ferdinando, re di Napoli, non pensa che a
              vendicarsi de' suoi sudditi ribelli, coi
              quali aveva fatta la pace                       296
       1464 Giugno. Fa arrestare Marino Marzano duca
              di Svessa                                       297
            Giacomo Piccinino, temendo la stessa sorte,
              cerca la protezione di Francesco Sforza         298
            Viene a Milano a sposare Drusiana, figlia
              naturale dello Sforza                           299
       1465 Torna a Napoli sotto la guarenzia di suo
              suocero                                         301
            24 giugno. Viene arrestato e fatto morire
              per ordine di Ferdinando                        302
            Si accusa, forse senza fondamento, lo Sforza
              d'avere avuto parte a questo tradimento         302
            Ippolita, legittima figlia dello Sforza,
              sposa Alfonso figlio di Ferdinando              306
            Galeazzo Sforza mandato dal padre in soccorso
              di Lodovico XI, in occasione della guerra
              del ben pubblico                                307
       1466 8 Marzo. Morte di Francesco Sforza                308
            20 Marzo. Galeazzo suo figlio coronato
              a Milano, dopo essere fuggito di Francia
              travestito                                      311
  1464-1466 I principali cittadini di Firenze gelosi
              di Piero de' Medici                             313
       1464 Piero de' Medici, ritirando precipitosamente
              i suoi capitali dal commercio, offende
              e ruina tutti i clienti di suo padre            315
       1465 Settembre. I consigli ricusano di rinnovare
              la balìa                                        316
            1 novembre. Gioja del popolo vedendo
              Niccolò Soderini gonfaloniere                   316
            Il Soderini non sa operare la riforma
              durante la sua magistratura                     318
       1466 Pietro de' Medici domanda che la repubblica
              paghi a Galeazzo Sforza, nuovo duca di
              Milano, il sussidio che dava a suo padre        321
       1466 Gli amici della libertà fiorentina costretti
              a cercar soccorsi stranieri                     322
            Agosto. Pietro de' Medici torna a Firenze
              con persone armate                              324
            Guadagna Luca Pitti che impedisce una
              battaglia tra le due parti                      324
            28 agosto. Pace tra i Medici il Soderini
              e suo partito                                   326
            2 settembre. Viene subito violata dai Medici      327
            Proscrizione di tutti gli amici della
              libertà fatta da una nuova balìa                328

  CAPITOLO LXXXI. _Gli emigrati fiorentini
  si riuniscono sotto la protezione di
  Venezia, ed attaccano con infelice riuscita
  i Medici; ingiustizia del governo fiorentino;
  morte di Pietro de' Medici. — Inquieta
  ambizione di Paolo II. Vuole impadronirsi
  dell'eredità dei Malatesta. Invano cerca
  alleati; muore detestato dai Romani e
  dai letterati._ 1466-1471                                   330

            La sola libertà poteva rendere Firenze
              abbastanza forte per sopportare le gravi
              perdite da lei fatte                            330
            Questa libertà influiva sempre sul carattere
              sebbene fossero annullate tutte le sue
              istituzioni                                     331
       1466 Gli emigrati del 1446 si uniscono a quelli
              dei 1434, ed implorano la protezione
              de' Veneziani                                   333
            Si assicurano di Bartolomeo Coleoni, e
              de' piccoli principi della Romagna              334
       1467 10 maggio. Bartolomeo Coleoni passa il Po
              con una numerosa armata pagata dagli
              emigrati Fiorentini                             336
            Galeazzo Sforza passa all'armata Fiorentina
              comandata dal Montefeltro e la compromette      337
            25 luglio. Battaglia della Molinella data
              in assenza di Galeazzo                          338
            14 novembre. Galeazzo, tornato a Milano,
              fa la pace col duca di Savoja                   340
            Borso d'Este e papa Paolo II offrono la
              loro mediazione ai Fiorentini ed a Venezia      340
       1468 2 febbrajo. Sentenza arbitramentale del
              papa per dettare la pace                        341
            25 aprile. È costretto a riformarla               343
            Aprile. Nuove persecuzioni esercitate
              in Firenze dal partito dei Medici               344
       1469 12 febbrajo. Torneo in onore di Lorenzo
              de' Medici                                      345
            4 giugno. Matrimonio di Lorenzo con
              Clarice Orsini                                  346
            Malattie ed ultime ammonizioni di
              Pietro de' Medici                               347
            2 dicembre. Morte di Pietro de' Medici            349
       1467 28 febbrajo. Pietro de' Medici compera
              Sarzana e Sarzanella                            349
       1465 Giugno. Paolo II fa arrestare e spogliare
              i conti dell'Anguillara                         350
            Dissensioni tra Paolo II e Ferdinando
              rispetto al tributo dovuto a S. Pietro          351
       1464 20 novembre. Morte di Domenico Malatesta,
              di cui Paolo II occupa l'eredità                353
       1468 13 ottobre. Morte di Sigismondo Pandolfo
              Malatesta e suo carattere                       354
            Convenzione di Paolo II con Roberto
              Malatesta, figlio naturale di Sigismondo,
              per riunire Rimini al dominio della Chiesa      356
            Roberto installato nel principato di Rimini,
              ricusa di renderlo                              357
       1469 Giugno. Paolo II lo fa attaccare per sorpresa     358
            29 agosto. L'armata di Paolo II battuta
              da Federico di Montefeltro                      360
            Negoziazioni di Paolo II per accendere
              una guerra generale in Italia                   361
       1468 Dicembre. 1469 gennajo. Viaggio di Federico
              III imp. in Italia                              362
            Il papa conosce di non potere fidarsi di lui      362
            6 luglio. Galeazzo Sforza sposa Bona di
              Savoja cognata di Lodovico XI                   365
            19 ottobre. Sua madre muore, e cade in
              sospetto d'averla avvelenata                    366
            Il papa non può fare alleanza col duca di
              Milano, nè colla Francia, nè colla Spagna       366
            Giovanni re d'Arragona fa perire i suoi
              figli del primo letto, ed eccita così
              i suoi popoli alla ribellione                   367
       1466 Giovanni d'Angiò chiamato al trono
              d'Arragona dai Catalani ribellati               369
       1470 16 dicembre. Muore a Barcellona                   370
            22 dicembre. Il papa non potendo trovare
              alleati accetta la pace                         371
            Perseguita in Roma i letterati                    372
       1471 14 aprile. Accorda a Borso d'Este il
              titolo di duca di Ferrara                       373
            26 luglio. Morte di Paolo II                      375
            20 agosto. Morte di Borso d'Este duca
              di Ferrara e di Modena                          376

  CAPITOLO LXXXII. _Continuazione della guerra
  dei Turchi; loro guasti nella Carniola
  e nel Friuli; quelli de' Veneziani
  nella Grecia e nell'Asia minore. — Rivoluzioni
  di Cipro, che fanno cadere questo regno
  sotto la repubblica di Venezia._ 1469-1473                  378

            Cattiva politica di Paolo II per la difesa
              della Cristianità                               378
  1458-1468 Mattia Corvino, figlio di Giovanni Unniade,
              difende l'Ungheria contro i Turchi              379
            Paolo II lo eccita a volgere le sue armi
              contro Giorgio Podiebrad, re di Boemia          381
       1468 Mattia Corvino abbandona la difesa
              dell'Ungheria per attaccare i Boemi
              dichiarati eretici                              383
       1469 Invasione della Croazia fatta da Assan
              Bey, ed uccisione degli abitanti                384
            Niccolò Canale, generale Veneziano,
              sorprende e saccheggia Eno                      386
            2 agosto. Voto di Maometto II di distruggere
              l'idolatria de' Cristiani                       388
       1470 31 maggio. Una potente flotta turca
              esce per la prima volta dai Dardanelli          389
            La flotta Veneziana ricusa la battaglia           391
            I Turchi dispongonsi ad attaccare il
              Negroponte, o Eubea                             392
            Legano la Tessaglia all'Eubea con un ponte        393
            25 giugno, 30 giugno, 5 luglio. Danno
              tre sanguinosi assalti alla città               394
            Niccolò Canale manca di risoluzione per
              rompere il ponte ed attaccare la flotta turca   395
            12 luglio. I Turchi prendono d'assalto
              Negroponte, ed uccidono tutti gli abitanti      396
            Il Canale accusato di mancanza di coraggio        397
            Viene arrestato e caricato di catene; e gli
              succede P. Mocenigo                             399
            Spavento cagionato ai Cristiani dalla
              presa di Negroponte, e dalla nuova
              Marina dei Turchi                               400
            Paolo II si sforza di riconciliare gl'Italiani    402
       1470 22 dicembre. Lega d'Italia per la difesa comune   403
       1471 24 giugno. Dieta di Ratisbona per provvedere
              alla difesa della Cristianità                   403
            Discorso di Paolo Morosini, ambasciatore
              veneziano, per chiedere soccorsi alle
              potenze tedesche                                405
            Gli stati della Carniola ed i magnati
              d'Ungheria chiedono pure ajuti                  406
            19 luglio. Possente armamento ordinato
              dalla dieta, che l'indolente Federico III
              non cerca di effettuare                         408
            Il papa invita la dieta a far attaccare
              i Boemi contemporaneamente ai Turchi            409
            Inutile negoziazione di Maometto II colla
              repubblica di Venezia                           411
            Negoziazione di Paolo II e de' Veneziani
              con Ussun Cassan conquistatore della Persia     412
            Reciproca sfida d'Ussun Cassan e di Maometto II   413
            9 agosto. Francesco della Rovere sotto
              il nome di Sisto IV succede a Paolo II          414
            20 agosto. Ercole d'Este succede a Borso,
              duca di Ferrara, di preferenza a Niccolò,
              figlio di Lionello                              416
            Negoziazioni di Catarino Zeno con Ussun Cassan    418
            Spedizione di Pietro Mocenigo per guastare
              l'Asia minore                                   420
            Rinforza la sua armata cogli Stradioti
              di Romania                                      420
            Saccheggia la Caria e l'Isola di Coo              422
            15 giugno. Requesens colle galere di Napoli,
              ed Oliviero Caraffa con quelle del
              pontefice, si uniscono al Mocenigo              423
            Sacco ed incendio dei sobborghi d'Attalea,
              o Satalia nella Panfilia                        424
            Guasto dell'Jonia                                 425
            13 settembre. I Veneziani saccheggiano
              ed incendiano Smirne                            426
       1473 Ingresso trionfale d'Oliviero Caraffa
              in Roma dopo la sua spedizione
              nell'Asia minore                                428
       1472 Guasti dei Turchi nell'Albania                    428
            Il pascià di Bosnia si avanza nel Friuli
              fino a tre miglia da Udine                      429
       1473 Attentato del Siciliano Antonio, per
              bruciare la flotta turca a Gallipoli            430
       1475 Corrispondenza del Mocenigo con Ussun
              Cassan, ed i principi Caramani                  432
  1473-1488 Ambasciata in Persia del Barbaro e del Contarini  434
       1473 Il Mocenigo prende ai Turchi e rende ai
              Caramani Seleucia, ed altre due fortezze        437
            Ussun Cassan battuto da Maometto II ai
              confini dell'Armenia e dell'Impero
              di Trebisonda                                   438
            Il Mocenigo saccheggia e brucia Mira
              nella Licia, e guasta le campagne di
              Fisso nella Caria                               439
            Rifiuta l'assistenza del legato e volge
              la sua attenzione verso gli affari di Cipro     440
       1458 Debolezza di Giovanni III di Lusignano;
              turbolenze del suo regno                        441
       1459 Giacomo bastardo di Lusignano toglie la
              corona a Carlotta, figlia di questo re,
              ed a Luigi di Savoja suo marito                 443
       1460 Carlotta chiede ajuto al papa, ed a
              tutti i principi Cristiani                      444
  1460-1468 Marco Cornaro procura a Giacomo di Lusignano,
              l'alleanza della repubblica di Venezia,
              e gli assoggetta tutto Cipro                    445
       1471 Giacomo di Lusignano sposa Catarina Cornaro,
              adottata dalla repubblica di Venezia
              come figlia di S. Marco                         446
       1473 6 giugno. Morte di Giacomo di Lusignano,
              lasciando gravida la moglie                     446
            Gelosia de' Cipriotti contro i Veneziani;
              uccisione de' parenti della regina              447
            Il Mocenigo ed i provveditori Veneziani
              presentano al battesimo Giacomo il postumo,
              figlio di Catarina Cornaro                      449
            Ricchezza dell'isola di Cipro                     451
            Il Mocenigo sbarca truppe in Cipro                452
            Gastiga severamente tutti i nemici della
              regina Catarina                                 453
            A nome di questa regina riduce l'isola
              di Cipro sotto l'assoluta dipendenza
              de' Veneziani                                   453

FINE DELLA TAVOLA.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Uniade/Unniade e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 10" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home