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Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 13
Author: Sismondi, J.C.L. Simondo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 13" ***


                           STORIA DELLE
                        REPUBBLICHE ITALIANE
                                DEI
                          SECOLI DI MEZZO


                                DI
                      J. C. L. SIMONDO SISMONDI

           DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
                   DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

                     _Traduzione dal francese._


                           _TOMO XIII._



                              ITALIA
                               1819.



STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE



CAPITOLO XCIX.

      _Negoziazioni di Lodovico XII in Italia. — Continuazione della
      guerra di Pisa; questa città, abbandonata dai Veneziani,
      continua a difendersi. — I Francesi conquistano il ducato di
      Milano. — Lodovico Sforza vi rientra dopo cinque mesi, ma per
      tradimento degli Svizzeri è fatto prigioniere a Novara._

1498 = 1500.


Nell'istante in cui il Savonarola, abbandonato dal favore popolare,
vedeva cambiarsi in accuse contro di lui quelle rivelazioni con cui
aveva in Firenze pasciuti i suoi seguaci, pareva che la più importante
sua profezia avesse adesso compimento. Aveva predetto a Carlo VIII che
Dio lo aveva scelto per liberare l'Italia dai suoi tiranni e per
riformare la Chiesa; dopo ciò mai non aveva lasciato di rimproverargli a
nome del cielo irritato la lentezza sua nell'esecuzione di questa
grand'opera, e di minacciargli un esemplare gastigo. Il Savonarola aveva
cercato di far risguardare come principio di tale gastigo la successiva
morte di due delfini, che Carlo VIII perdette in tenera età; ma un nuovo
gastigo, diceva egli, minacciava tuttavia il monarca abbandonato in
preda ai piaceri, e nello stesso giorno in cui doveva fare sulla piazza
di Firenze la terribile prova della sua dottrina, mandando il suo
discepolo, Domenico Buonvicini, in mezzo alle fiamme, il 7 aprile del
1498, vigilia della domenica delle Palme, Carlo VIII fu colpito da
apoplessia nel suo palazzo d'Amboise, e non si potendo trasportare fuori
della galleria in cui allora si trovava, passaggio lordo d'immondezze ed
il più _indecente luogo di quel palazzo_, dice il Comines, fu steso
sopra un letto di paglia, ove morì entro nove ore[1].

  [1] _Mém. de Comines, l. VIII, c. XXV, p. 431. — Fr. Belcarii Com.
  Rer. Gall., l. VII, p. 213. — Fr. Guicciardini, l. III, p. 187. —
  Arn. Ferronii Burd., l. II, p. 32._

Carlo VIII non lasciava figli, e la sua corona passava al duca d'Orleans
il più vicino principe del sangue. Era questi nato a Blois, il 27 di
giugno del 1462; era figlio di Carlo, nipote di Lodovico, lo sposo di
Valentina Visconti e pronipote di Carlo V. Questo principe quantunque
genero di Lodovico XI, ed il più prossimo erede del trono aveva passati
i suoi giorni fra le sciagure; si era più volte fatto capo dei partiti
malcontenti della Francia, aveva a vicenda sofferti i mali della
prigionia e dell'esilio, ed aveva dalla fortuna avuta la sola
educazione, che possa far conoscere ai re la condizione degli altri
uomini. Era giunto ai trentasei anni quando salì sul trono sotto il nome
di Lodovico XII, e sebbene non fosse provveduto di una mente assai vasta
e capace di lunga applicazione, sebbene avesse manifestata la propria
debolezza col continuato bisogno di un favorito; non pertanto ispirava
agli stati limitrofi maggiore considerazione e timore assai che non
Carlo VIII, di cui ne avevano conosciuta l'instabilità e
l'inapplicazione[2].

  [2] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 191._

Ma più che a tutt'altri, salendo sul trono Lodovico XII, poteva incutere
timore agl'Italiani. Egli aveva sempre cercato di far valere i diritti
sul ducato di Miliano di sua ava, Valentina Visconti. Affinchè questi
pretesi diritti fossero valutabili sarebbe stato necessario che la
sovranità di Milano stata fosse uno stato necessariamente ereditario di
padre in figli, e non già una signoria italiana, nella quale il diritto
del principe non aveva verun altro fondamento fuorchè il presunto
assenso del popolo; sarebbe stato inoltre necessario che questa eredità
potesse cadere in una femmina, lo che non era meno contrario al diritto
pubblico francese che all'italiano. Carlo, duca d'Orleans, padre di
Lodovico XII, ora prigioniero de' francesi, ora capo di parte nelle
guerre civili della Francia, non aveva potuto fare colle armi esperienza
de' suoi diritti, ed era morto lasciando suo figliuolo in età di tre
anni. Intanto Lodovico XI si era collegato cogli Sforza; Carlo VIII
aveva conservata la medesima alleanza, e lungi dall'appoggiare le
pretese di suo cugino sul ducato di Milano, allorchè fece l'impresa
d'Italia, aveva più che in tutt'altro riposte le sue speranze nell'ajuto
di Lodovico il Moro, figliuolo di Francesco Sforza. Dopo avere
sperimentata la mala fede di questo principe, non aveva pure valuto
privarlo d'ogni speranza di riconciliazione, mentre nello stesso tempo
si era invece dato a conoscere diffidente e geloso del duca d'Orleans,
allorchè questi, dimorando in Asti, aveva minacciato d'invadere il
Milanese. Ma montando sul trono Lodovico XII, non tardò a manifestare
l'intenzione di far valere le pretese che non gli si era permesso per
tanto tempo di mandare ad effetto. Al titolo di re di Francia aggiunse
quelli di duca di Milano e di re delle due Sicilie e di Gerusalemme, e
non dissimulò le sue intenzioni di sostenere questi titoli con tutte le
forze d'una potente monarchia[3].

  [3] _Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. VIII, p. 216._

Era di que' tempi l'Italia da tante passioni agitata, che questa seconda
invasione de' Francesi, la quale, dopo i mali prodotti dalla prima,
doveva essere da tutti temuta, nutriva per lo contrario le speranze di
molti potenti stati; di modo che prima d'intraprenderla Lodovico XII
trovò il mezzo di variare il sistema delle alleanze del suo
predecessore, e di guadagnarsi utili cooperatori per le meditate
conquiste.

La guerra di Pisa rimasta accesa, come una fiaccola destinata ad
eccitare un nuovo incendio, aveva più che ogni altra circostanza
contribuito a cambiare le inclinazioni de' diversi partiti. Aveva questa
guerra ruinati i Fiorentini, facendo loro provare tutta la mala fede di
Carlo VIII e de' suoi luogotenenti, e lasciando nel cuor loro vivissimo
rincrescimento di avere data fede alle promesse della Francia. La stessa
guerra, dopo di avere solleticate le speranze di Lodovico il Moro, più
non prometteva che ai suoi rivali il prezzo cui egli stesso aspirava.
Trovavasi per la seconda volta deluso dai propri calcoli, seguendo
quell'astuta politica di cui tanto si gloriava; ed omai cominciava a
desiderare un ravvicinamento coi Fiorentini per iscacciare di Pisa i
Veneziani, dopo avere in qualche modo posta egli medesimo questa città
nelle loro mani. Dall'altro canto i Veneziani, che si davano il vanto di
avere due volte salvato il Moro, erano così sdegnati di quella che
dicevano sua ingratitudine, che per vendicarsi di lui erano disposti a
commettere lo stesso errore ch'era stato così aspramente rimproverato al
Moro, ed a provocargli contro un antagonista di loro e di lui più
potente[4].

  [4] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 193. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII,
  p. 217._

Infatti non ebbero appena avviso della morte di Carlo VIII, che
ordinarono al segretario della loro repubblica, residente in Torino, di
recarsi alla corte del suo successore, il quale fu bentosto seguito da
tre ambasciatori, incaricati di scusarsi delle precedenti ostilità, e di
fargliele risguardare come una conseguenza di una contesa terminata
colla morte dell'ultimo re. Il papa, che circa lo stesso tempo aveva
determinato di sciogliere suo figlio, Cesare Borgia, dagli ordini sacri,
e di farlo passare dal grado di cardinale a quello di principe
temporale, colse dal canto suo con premura quest'occasione di eccitare
nuove guerre, e di vendere ad un possente alleato tutto l'appoggio della
sua temporale sovranità e tutte le grazie spirituali ch'erano in suo
arbitrio. Sapeva che il re di Francia aveva di lui bisogno per
soddisfare alle sue passioni ed alla sua politica; che, trovandosi da
vent'anni ammogliato con una figlia di Lodovico XI, che mai non aveva
amata, desiderava di fare da lei divorzio; che, da gran tempo avendo
concepita una calda passione per la vedova del suo predecessore,
desiderava di sposarla e di conservare con tal mezzo la Bretagna alla
Francia. Alessandro VI era il solo che potesse sanzionare questo
divorzio, e questa nuova unione; incaricò i suoi ambasciatori di farne
l'offerta al re di Francia, contando di vendere a caro prezzo lo
scandalo che con tale atto darebbe alla Cristianità. Dal canto loro i
Fiorentini mandarono ambasciatori a Lodovico XII per rinnovare l'antica
loro alleanza, e ricordargli tuttociò che avevano di fresco sofferto per
essersi conservati fedeli alla causa della Francia. Tutti questi
ambasciatori furono dal nuovo re egualmente ben accolti, e con tutti
aprì negoziazioni, ma con fermo proposito di non fare l'impresa d'Italia
senza avere preventivamente posti in sicuro i confini della Francia con
nuove convenzioni con tutti i suoi vicini[5].

  [5] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 194. — Cron. Ven., t. XXIV, Rer.
  Ital. p. 49. — Arn. Ferroni l. III, p. 36._

Infatti consacrò il primo anno del suo regno alle cure dell'interna
amministrazione de' suoi stati, ed alle negoziazioni esterne che
rimasero sepolte nel silenzio del gabinetto. Soltanto si potè conoscere
che quelle che manteneva col papa avevano avuto il felice risultamento
di ravvicinare strettamente le due corti, quando si vide Giorgio
d'Amboise, favorito di Lodovico XII ed arcivescovo di Roven, ricevere il
17 di settembre il cappello cardinalizio. Nel susseguente mese Cesare
Borgia rinunciò in pieno concistoro la romana porpora, protestando la
violenza fattagli da suo padre per farlo entrare negli ordini
ecclesiastici; partì in appresso alla volta della Francia per trattare a
nome di Alessandro intorno al divorzio del re. Poco mancò per altro che
per avere adoperata soverchia accortezza non perdesse il prezzo cui
sperava di vendere questa grazia. Pretese di non avere seco portata la
bolla del papa che annullava il precedente matrimonio di Lodovico, il
quale, avvisato dal vescovo di Cettes che la bolla era stata spedita,
invece di fare istanza perchè fosse a lui consegnata, il 12 dicembre del
1498 fece pronunciare dai giudici ecclesiastici da lui dipendenti la
sentenza di divorzio, e l'8 marzo del 1499 passò a seconde nozze con
Anna di Bretagna. Allora Cesare Borgia cercò di riconciliarsi col re, di
sottoscrivere il trattato che si andava tra di loro discutendo, e di
rimettergli la bolla di suo padre, ricevendo in ricompensa da Lodovico
il ducato di Valenza nel Delfinato, onde prese il titolo di duca
Valentino, invece di quello di cardinale vescovo di Valenza in Ispagna
che aveva fin allora portato. Ma egli più non perdonò al vescovo di
Cettes lo aver rivelato al re il suo segreto, e l'avergli fatto in pari
tempo conoscere, che quand'era spedita la bolla, sebbene a lui non
consegnata, la sua coscienza doveva essere pienamente tranquilla. Il
vescovo di Cettes morì poco dopo avvelenato dal Borgia[6].

  [6] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 207. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  III, p. 95. — Machiavelli frammenti stor., p. 127._ — Gli annali
  ecclesiastici del Rainaldo, rispetto a questo divorzio ed in
  particolare rispetto alle relative scandalose transazioni, sono
  brevissimi; l'autore si ristringe a riferire il testo dello storico
  francese Ferronio _ad an. 1498, § 4 e 5, t. XIX, p. 471_. Brevissimo
  è pure il vescovo di Belcario. _Comm, Ber. Gall. l. VIII, p. 222. —
  Fr. Ferroni Rer. Gall., l. III, p. 37._

Mentre che Lodovico XII formava in Italia nuove alleanze, e si
apparecchiava a portarvi le sue armi, in Toscana si continuava la
guerra. Questa aveva ricominciato intorno a Pisa in ottobre del 1497,
all'epoca in cui cessava l'armistizio stipulato dai re di Francia e di
Spagna, senza che per altro fino al maggio del 1498 producesse
avvenimenti di qualche importanza. In tale epoca i Pisani spedirono
Giacomo Savorgnano, capitano veneziano al loro soldo, nello stato di
Volterra per saccheggiarlo. Desso ritornava da questa spedizione alla
volta di Pisa, carico di bottino, con settecento cavalli e mille pedoni,
quando presso san Regolo fu attaccato dal conte Rinuccio da Marciano e
da Guglielmo de' Pazzi, generali dei Fiorentini. Il Savorgnano fu
sconfitto, ma, nel mentre che i vincitori stavano saccheggiando i suoi
equipaggi, furono attaccati da Tommaso Zeno, che giugneva allora da Pisa
con soli cento cinquanta cavalli, e che, trovandoli disordinati, liberò
i prigionieri, ricuperò il bottino, e fece grande uccisione dei
nemici[7]. In questo fatto i Fiorentini perdettero molta gente, e perchè
i loro generali reciprocamente s'incolpavano di questa disgrazia, il sei
di giugno la repubblica diede il comando delle sue forze ad un capo più
rinomato, ma la cui ambizione poteva inspirar loro maggiori timori: fu
questi Paolo Vitelli di città di Castello, il quale aveva opinione di
avere imparato nell'armata francese tuttociò che gli oltremontani
sapevano nell'arte della guerra[8]. La stessa disfatta consigliò
Lodovico il Moro a soccorrere efficacemente i Fiorentini, per impedire
che facessero la pace, acconsentendo che i Veneziani si stabilissero in
Pisa. Spedì loro tre cento alabardieri; prese al suo soldo in comune con
loro Gian Paolo Baglione, signore di Perugia, ed il signore di Piombino,
e loro sovvenne in diverse volte tre cento mila ducati[9].

  [7] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 194. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  248. — Machiavelli Fram. Stor., p. 71. — P. Bembi Ist. Ven., l. IV,
  p. 73._

  [8] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 87. — Cron. di Pisa di Jac.
  Arrosti in Arch. Pis. MS. I vol. f. 206. — Machiavelli il principe,
  c. XII, p. 285._

  [9] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 195. — P. Bembi Stor. Ven., l. IV,
  p. 75. — Cron. Ven., t. XXIV, p. 52._

I Veneziani tenevano in allora in Pisa sotto gli ordini di Marco
Martinengo quattrocento uomini d'armi, ottocento Stradioti e due mila
fanti. Non avevano fin allora incontrata difficoltà veruna nel far
giugnere rinforzi a quest'armata; ma il duca di Milano, scopertamente
abbracciando l'alleanza de' Fiorentini, chiuse il passo alle truppe
destinate contro di loro: inoltre persuase Giovanni Bentivoglio, signore
di Bologna, a fare lo stesso, ed il suo esempio fu seguito da Catarina
Sforza, madre di Ottaviano Riario, signore d'Imola e di Forlì, e dalla
repubblica di Lucca; così fu chiusa alle truppe veneziane la più diretta
strada a Pisa pel Ferrarese pel Modonese e per lo stato di Lucca: oltre
di che il duca di Milano si era incaricato di ridurre i Genovesi a non
accordare il passaggio ai nemici de' suoi alleati[10]; la strada di
Romagna sembrava egualmente chiusa dal Bentivoglio e dal Riario; ma
siccome questi piccoli principi potevano temere di compromettersi colla
potente repubblica di Venezia, i Fiorentini, per impedire che si
prendessero a ritroso i loro confini, vollero pure guadagnarsi la
neutralità di Siena, onde non avere verun vicino nemico. Sottoscrissero
una tregua di cinque anni con Pandolfo Petrucci, che col solo favore
della guarnigione di Siena, di cui era capitano, si usurpava la tirannia
di quella repubblica[11].

  [10] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 179. — P. Bembi Ist. Ven., l. IV,
  p. 74._

  [11] _Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 104._

I Fiorentini, dopo di avere tolta ai Pisani ogni comunicazione coi loro
alleati, spedirono contro di loro Paolo Vitelli con forze superiori a
quelle comandate dal Martinengo, il quale fu malmenato assai in
un'imboscata presso Cascina; egli perciò abbandonò la campagna, ed il
Vitelli, avanzandosi lungo la destra riva dell'Arno, prese i castelli di
Buti, di Calcinaja, di Vico Pisano e la Vallata di Calci, che di tutto
il territorio Pisano è la più ricca contrada e la più facile a
difendersi, perchè fortificata dagli scoscendimenti dei monti di san
Giuliano e dalle acque del lago di Bientina[12].

  [12] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 249. — Guicciardini, l. IV, p.
  198. — Jac. Nardi, l. III, p. 88. — Cron. di Pisa di Jac. Arrosti,
  f. 207._

I Veneziani, che avevano accolti i Pisani sotto la loro protezione,
avevano ad ogni modo determinato di non lasciarli privi de' loro
soccorsi. Vero è che non restava loro aperta veruna strada fino al
territorio pisano, ma quella non era chiusa che metteva ai confini di
Firenze. Il signore di Faenza aveva riconosciuta la loro protezione, e
non poteva loro ricusare il passaggio per Valle di Lamone da lui
dipendente. Carlo Orsini e Bartolommeo d'Alviano, partendo dalla Romagna
veneziana, giunsero per tale strada fino a Marradi, rocca assai forte
che loro chiudeva l'ingresso della Romagna toscana. Pietro e Giuliano
dei Medici, sempre apparecchiati ad unirsi a tutti i nemici della loro
patria, perchè speravano di rientrarvi col favore delle armate
straniere, erano passati nel campo de' Veneziani, ed avevano promesso ai
loro capi che troverebbero traditori fra i comandanti fiorentini de'
castelli dell'Appennino, non potendo essere che non si abbattessero in
qualche antico partigiano della loro famiglia. Infatti la terra di
Marradi, sotto la quale si presentarono in settembre, aprì loro le porte
senza resistenza; ma la rocca, chiamata Castiglione, che signoreggia e
chiude la via della Toscana, fu ostinatamente difesa da Dionigi Naldo,
con che si diede tempo ai Fiorentini di adunare su quel punto le truppe
destinate a proteggerli[13].

  [13] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 202. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 251. — Jac. Nardi, l. III, p. 89._

Mentre che l'armata veneziana era trattenuta negli Appennini, quella de'
Fiorentini, comandata da Paolo Vitelli, proseguiva prosperamente le sue
operazioni contro Pisa, ed in sul cominciare d'ottobre conquistò
Librafratta[14]. I generali veneziani cercavano di penetrare
sollecitamente in Toscana per soccorrere i Pisani: tentavano tutte le
vie, ma tutte le trovavano chiuse da gagliarde rocche. All'ultimo un
piccolo signore feudatario, Ramberto di Sogliano, di un ramo cadetto
della casa Malatesta, aprì loro il castello da lui posseduto ai confini
tra lo stato d'Urbino ed il Casentino[15]; Bartolommeo d'Alviano
approfittò colla celerità sua propria del passaggio accordatogli. In una
sola notte, per la via di Sogliano, si recò da Cesena all'Abbazia di
Camaldoli, dove arrivò mentre i monaci cantavano il mattutino senza
credersi esposti a verun pericolo. Assicurano i monaci che san Romualdo,
fondatore del loro convento, li difese, e che fu veduto, finchè durò
l'assalto, lanciare con vigorosa mano mattoni contro gli assalitori. Per
lo contrario i Veneziani sostengono di essersi impadroniti del convento,
e certo è almeno che non trattenne l'Alviano[16]. Questi mandò
immediatamente, come venisse dai dieci della guerra, un falso avviso a
Bibbiena di apparecchiare l'alloggio per cinquanta cavalieri dell'armata
del Vitelli, e tenendo dietro immediatamente al messo, entrò in Bibbiena
il 15 di ottobre con cento uomini d'armi, prima che il paese sapesse
ch'egli aveva passati i confini, e fu ricevuto in quella terra murata
come capitano fiorentino. Lo seguiva da vicino il grosso dell'armata
veneziana, e Carlo Orsini assicurò con ottocento cavalli una conquista,
che l'Alviano doveva non meno all'inganno che alla sua intrepidezza[17].

  [14] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 252. — Fr. Guicciardini, l. IV,
  p. 203. — Machiavelli Frammenti Ist., p. 82. — P. Bembi Ist. Ven.,
  l. IV, p. 77._

  [15] _Ivi, p. 79._

  [16] Lo stesso generale dei Camaldolesi, Pietro Delfino, attesta
  questo miracolo, _Epis. 83, l. V, ap. Raynald. Ann. Eccl. 1498, § 9,
  p. 471_. Vero è che egli non era presente, e che inoltre osserva a
  _maggior conferma del fatto_, che la fede di questo miracolo era più
  divulgata tra il popolo in ragione che più allontanavasi dalla
  Toscana. — _P. Bembo, l. IV, p. 79. — An. Navagero, t. XXIII, p.
  1216. — Mach. Framm. Stor., t. III, p. 124_, i quali riferiscono
  questo avvenimento diversamente l'uno dall'altro.

  [17] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 252. — Jac. Nardi, l. III, p. 90.
  — Machiavelli Fram. Stor. p. 119. — Fr. Guicciardini, l. IV, p.
  204._

Bartolommeo d'Alviano aveva sperato di spingere più oltre questi suoi
primi vantaggi, e di occupare senza grande difficoltà il castello di
Poppi, che in sua mano sarebbe diventato la chiave di Val d'Arno e
dell'Aretino, e gli avrebbe dato modo di scendere finalmente nelle
pianure della Toscana; ma Antonio Giacomini, uno de' più valorosi e
risoluti cittadini fiorentini, trovavasi in allora commissario a Poppi,
e fece andare a vuoto l'ardita intrapresa dell'Alviano[18].

  [18] _Machiavelli Nature d'uomini fiorentini, t. III, p. 139, e
  Fram. Stor., t. III, p. 121. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 253. —
  Jac. Nardi, l. III, p. 91. — Marin Sanuto Ist. Ven., t. XXIV, p.
  63._

L'autunno era di già innoltrato, e la guerra trovavasi trasportata nella
più aspra e più montuosa provincia della Toscana; paese sterile, chiuso
da strette gole, e le di cui montagne erano coperte di alte nevi. Paolo
Vitelli, premurosamente chiamatovi dai Fiorentini, e che non aveva
lasciato nella campagna di Pisa che le guarnigioni delle conquistate
fortezze, era altrettanto cauto e metodico, quanto l'Alviano impetuoso.
Aveva sotto di lui Fracassa Sanseverino, mandato dal duca di Milano, e
Rinuccio di Marciano. La sua armata, cui i Fiorentini spedivano continui
rinforzi, si trovò bentosto più numerosa di quella de' Veneziani, che
pure contava, sotto Carlo Orsini, Bartolommeo d'Alviano ed il duca
d'Urbino, settecento uomini d'armi e sei mila fanti, tra i quali si
trovavano alcune compagnie di Tedeschi. Ma il Vitelli aveva fissato di
non venire a battaglia, potendo più facilmente trionfare de' nemici col
chiuderli nello sterile paese che in allora abitavano. Con tale vista
occupò i passi dell'Avernia, di Chiusi e di Montalone, pei quali
l'armata veneziana poteva avere comunicazione colla Romagna, ed afforzò
Arezzo e tutte le gole del Casentino. Dalla banda della Toscana, eccitò
i contadini ad armarsi, e a porsi ovunque in su le difese contro i
nemici: per tal modo, sempre più rinserrandoli entro augusti confini,
gli espose bentosto a mancare di vittovaglie e di foraggi[19].

  [19] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 205. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 253. — Jac. Nardi, l. III, p. 91. — Pet. Bembi Ist. Ven., l. IV,
  p. 82. — P. Giovio Vita di Leon X, l. I, p. 68._ — Il Navagero
  termina a quest'epoca tutt'ad un tratto la sua storia di Venezia.
  Potrebbe supporsi che questa non fosse per lui che uno schizzo della
  storia in dieci libri che stava scrivendo in latino, e che è noto
  ch'egli ha fatta abbruciare in punto di morte. Infatti il
  manoscritto che fece stampare il Muratori, _Scr. Rer. Ital., t.
  XXIII, p. 921-1216_, ci offre un lavoro imperfetto ed affatto
  indegno della riputazione del Navagero. Fu questi uno de'
  ristauratori delle lettere in Italia, amico del Bembo, ed uno de'
  più illustri uomini di stato di Venezia. Morì a Blois l'8 maggio del
  1529, ambasciatore della repubblica presso Francesco I. Pure la
  parte di questa storia che risguarda il fine del XX.º secolo ha il
  merito della veracità e l'interesse della ingenuità.

Con ciò l'armata che i Veneziani avevano spedita in Toscana, per far
levare l'assedio di Pisa, trovavasi assediata; ed il duca d'Urbino lungi
dal poter liberare Marco Martinengo, siccome portavano le sue
commissioni, aveva invece bisogno di essere liberato egli medesimo. La
repubblica non perdette tempo ad occuparsene, e mandò a Ravenna, in
principio del 1499, il conte Niccola di Pitigliano per ragunarvi
un'altra armata. Tosto che questi ebbe sotto i suoi ordini quattro mila
fanti si avanzò ad Elci, rocca situata ai confini del ducato d'Urbino,
con intenzione di penetrare da quella banda nel Casentino e liberare
l'armata assediata. Ma il Vitelli venne ad accamparsi in faccia al
Pitigliano, a Pieve di santo Stefano, per chiudergli il passo. Le due
repubbliche, egualmente stancheggiate dalle enormi spese di una ruinosa
guerra, affrettavano i loro generali di venire ad una decisiva
battaglia; ma i due capitani, Pitigliano e Vitelli, educati secondo il
cauto sistema della scuola militare italiana, chiusero le orecchie a
tutte le istanze che loro si facevano, e non vollero affidare la propria
riputazione all'incerto esperimento di una battaglia[20].

  [20] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 253. — Jac. Nardi, l. III, p. 93.
  — Machiavelli Framm. storici, p. 128._

E a dir vero le due repubbliche avevano le più gagliarde ragioni di
allontanarsi nella presente circostanza dalla consueta loro prudenza, e
di porre in balìa di una dubbiosa battaglia la sorte loro. Ognuna
sperava, ottenendo la vittoria, di fare la pace a più vantaggiose
condizioni, ed ognuna sentiva che, anche soffrendo una sconfitta, a
tanta distanza dalla capitale ed in paese così facile a difendersi, la
sua esistenza non sarebbe altrimenti compromessa. Forse ambedue
avrebbero piuttosto desiderato che una sconfitta le forzasse a
rinunciare alle loro pretese, anzi che continuare con poca speranza una
ruinosa interminabile contesa. I Veneziani erano impazienti di liberare
le loro tre armate ridotte all'immobilità in Pisa, a Bibbiena e ad Elci;
i Fiorentini non desideravano meno di licenziare il loro generale Paolo
Vitelli, contro del quale avevano concepiti gagliardi sospetti. Aveva
questi di fresco accordato un salvacondotto al duca di Urbino, che era
ammalato, e Giuliano dei Medici aveva approfittato di tale salvacondotto
per uscire di Bibbiena col duca, onde i Fiorentini si erano amaramente
lagnati che un ribelle della loro repubblica, assediato dalla loro
armata, fosse stato sottratto dal proprio loro generale al gastigo
comminatogli dalle leggi[21].

  [21] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 254. — Fr. Guicciardini, l. IV,
  p. 216. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 93. — P. Giovio vita di
  Leon X, l. I, p. 69._

Le due repubbliche erano ancora più bramose della pace che della
battaglia, e due potenti mediatori si offrirono contemporaneamente per
trattare fra di loro. Da un canto Lodovico XII cercava di avere
l'alleanza sì dell'una che dell'altra repubblica; e per riconciliarle
chiedeva che Pisa si depositasse nelle sue mani, promettendo
segretamente ai Fiorentini di rendere loro quella città, ed ai Veneziani
di procurar loro larghi compensi nello stato di Milano[22]. Dall'altro
canto Lodovico il Moro, affrettando i Fiorentini a riconciliarsi coi
Veneziani, sperava con tal mezzo di rappacificarsi egli medesimo cogli
ultimi. Vedeva il re di Francia tener dietro ai progetti manifestati ne'
primi giorni del suo regno d'invadere la Lombardia, era informato delle
negoziazioni di quel monarca col papa, della sua nuova alleanza col re
d'Inghilterra e della tregua convenuta per più mesi con Massimiliano,
senza che questi, in conformità della sua promessa, vi avesse fatto
comprendere il ducato di Milano; nello stato di guerra tutto doveva il
Moro temere dal risentimento de' suoi vicini; ma se giugneva a
ristabilire la pace in Italia, poteva sperare che la repubblica di
Venezia, tornando a più prudenti consiglj, abbandonerebbe i progetti di
vendetta troppo per lei medesima pericolosi[23].

  [22] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 208._

  [23] _Barth. Senaregae de reb. Gen., t. XXIV, p. 565._

Avendo Lodovico XII rinunciato alle parti di mediatore per unirsi più
strettamente alla repubblica di Venezia, i Fiorentini, che vivamente
desideravano la pace, diedero perciò più facile orecchio ai consiglj di
Lodovico il Moro. Dal canto loro i Veneziani, che secretamente si
apparecchiavano ad una guerra contro il duca di Milano, che sapevano che
i Turchi armavano per attaccare i loro possedimenti nella Grecia, che
per ultimo erano inquietati dalle strane pretese e dalle minacce di
Massimiliano, sebbene accostumati a vederle sfumare, non vollero essere
distratti dalla guerra di Pisa in circostanze che potevano diventare più
difficili. Gli affari di Pisa si passarono dal consiglio de' pregadi a
quello de' dieci, risguardato siccome meno accessibile alle generose
passioni, ed assai più dominato dalla sola politica. Questo consiglio,
accettando la proposizione fatta da Lodovico il Moro, sottoscrisse un
compromesso, in forza del quale riponeva tutti i diritti della
repubblica in mano d'Ercole d'Este, duca di Ferrara, suocero del duca di
Milano, il quale obbligò pure i Fiorentini ad accettare lo stesso
arbitro: e furono accordati otto giorni per proferire la sentenza tra le
due repubbliche, che si obbligarono ad assoggettarvisi[24].

  [24] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 219. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  III, p. 96. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 139. — P. Bembo Ist.
  Ven., l. IV, p. 85. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 69._

Il 16 aprile del 1499 il duca di Ferrara pronunciò la sentenza tra le
due repubbliche che l'avevano scelto per arbitro. Obbligò i Veneziani a
ritirare prima della prossima festa di san Marco tutte le loro truppe
dal territorio pisano, da Bibbiena e dal Casentino; ed ingiunse ai
Fiorentini di pagare per dodici anni ai Veneziani, a titolo delle spese
della guerra, quindici mila ducati all'anno. Volle ancora che i
Fiorentini accordassero un'illimitata amnistia agli abitanti di Bibbiena
e di Pisa, e che agli ultimi accordassero inoltre la licenza
d'esercitare, siccome i Fiorentini, ogni specie di mercatura tanto per
mare quanto per terra; che lasciassero ai Pisani le loro fortezze, a
condizione d'ottenere l'assenso della signoria fiorentina per tutti i
capitani che prenderebbero al loro servigio, e di ridurre le guarnigioni
al numero de' soldati che vi tenevano i Fiorentini prima della
ribellione. Il duca di Ferrara ordinò pure che i giudizj civili si
pronuncierebbero in Pisa da un podestà forestiere scelto dagli stessi
Pisani in un paese alleato di Firenze, e che le sentenze criminali si
farebbero dal capitano di giustizia fiorentino, ma sotto l'ispezione
d'un assessore nominato dal duca di Ferrara[25].

  [25] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 219. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 254. — Diar. Ferrar. anon., t. XXIV, p. 363. — Ist. di Gio.
  Cambi, t. XXI, p. 140. — Chron. Ven., p. 70._

Potrebbe risguardarsi come prova dell'imparzialità del duca di Ferrara
il generale malcontento eccitato da questo arbitramento. Altra sentenza
mai non venne accolta tanto sfavorevolmente da tutte le parti. I
Veneziani, vergognandosi di mancare apertamente a tutti gli obblighi
contratti coi Pisani, non vollero che un atto pubblico potesse far prova
della loro mala fede, e sebbene eseguissero la sentenza, e richiamassero
dalla Toscana nel fissato termine le loro truppe, non acconsentirono
giammai ad assoggettarvisi formalmente. Dolevansi i Fiorentini, che loro
non venisse restituita Pisa, finchè lasciavansi le fortezze in mano ai
loro sudditi ribelli, e che fossero ingiustamente condannati a pagare le
spese d'una guerra, nella quale erano stati attaccati senza avere
provocati i nemici. Pure accettarono espressamente la sentenza
arbitramentale; ma la loro accettazione rimase senza effetto; perchè i
Pisani, risguardando tutte le guarenzie loro offerte dal duca di Ferrara
come facili ad eludersi, e preferendo la morte alla servitù, ricusarono
di sottomettersi, e quantunque da tutti abbandonati, protestarono di
volere difendersi, affrettandosi a far uscire dalla loro città e
fortezze le truppe veneziane per paura che non le consegnassero ai loro
nemici[26].

  [26] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 220. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 255. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 97._

Quando i Fiorentini ebbero avviso della risoluzione presa dai Pisani di
continuare a difendersi, richiamarono dal Casentino Paolo Vitelli colla
sua armata, e lo mandarono contro Pisa, che a loro credere non poteva
fare lunga resistenza. Lodovico il Moro, sempre più atterrito dagli
apparecchj di guerra che facevano i Francesi, come aveva eccitati i
Fiorentini ad accettare l'arbitramento del duca di Ferrara, eccitava non
meno i Pisani ad accomodarvisi, e faceva ogni sforzo per ristabilire la
pace in Toscana, ed assicurarsi i soccorsi di quella provincia; ma non
trovava chi gli credesse. Rammentavansi i Pisani, che sotto colore di
proteggere la loro libertà egli aveva tentato d'insignorirsi della loro
città; ed i Fiorentini lo avevano sospetto di covare tuttavia questi
progetti, e d'incoraggiare segretamente i loro nemici a fare resistenza.
Perciò gli uni e gli altri, chiudendo le orecchie a' suoi consiglj, ed
abbandonando la Lombardia alle rivoluzioni che dovea destarvi una nuova
invasione, ricominciarono le ostilità fra di loro con maggiore
accanimento di prima.

Il 25 di giugno Paolo Vitelli si unì al conte Rinuccio di Marciano sotto
Cascina, che fu subito attaccata con tanto vigore, che dopo 26 ore
questa ragguardevole terra dovette capitolare[27]. Le deboli guarnigioni
pisane che tuttavia occupavano la torre di Foce d'Arno ed il ridotto
dello Stagno si ritirarono alla prima intima che venne loro fatta, onde
più non restavano ai Pisani in tutto il loro territorio che la fortezza
della Verrucola, e la piccola torre d'Ascagno. Invece d'attaccarle,
Paolo Vitelli credette opportuno l'istante di cominciare l'assedio della
stessa città. Il primo di agosto si avanzò a tracciare il suo campo
sotto le mura di Pisa, seco conducendo tanta cavalleria che bastava
anche sola a tenere la campagna, una formidabile artiglieria e diecimila
pedoni. Fece sapere alla signoria di Firenze, che dietro i suoi calcoli
l'assedio non poteva durare più di quindici giorni. Le mura di Pisa non
erano circondate da fosse, nè sostenute da terrapieni, ma tanta era la
grossezza loro e la tenacità del cemento, che ben potevano più d'ogni
altra muraglia resistere ai guasti dell'artiglieria. I Pisani non
avevano al loro soldo verun altro capitano forastiere che Gurlino
Tombasi, valoroso ufficiale ravennate, che aveva abbandonato per loro il
servigio de' Veneziani. Ma tutti gli abitanti della città, tutti i
contadini, che vi si erano rifugiati, agguerriti da cinque anni di
continue battaglie, potevano risguardarsi come non inferiori alle
migliori truppe di linea[28].

  [27] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 222. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 255. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 97._

  [28] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 233. — Jac. Arrosti Chron. di Pisa
  in Archiv. Pisano, f. 207 v._

Il Vitelli aveva collocato il suo campo alla sinistra dell'Arno, e
piantate le batterie contro il muro attiguo alla torre o rocca di
Stampace. Accampandosi sull'altra riva avrebbe più efficacemente
prevenuto l'arrivo di ogni rinforzo; ma nella posizione in cui trovavasi
in allora l'Italia, non credeva che veruna potenza pensasse a soccorrere
i Pisani, e sapeva inoltre che questi dal lato di Lucca avevano
internamente afforzate le loro mura, lo che non avevano creduto
necessario di fare dal lato che guarda Livorno.

Si continuarono nello stesso tempo due attacchi, uno fra sant'Antonio e
Stampace, l'altro fra Stampace e la porta a Mare, con venti pezzi
d'artiglieria. Il Vitelli, fedele all'antica tattica italiana, nè
volendo combattere senza essere sicuro di vincere, aveva determinato di
non venire all'assalto finchè le brecce aperte dalla sua artiglieria non
offrissero un libero passaggio alle sue squadre. Di già erano caduti
larghi pezzi di muro, ma egli credeva che la breccia non fosse ancora
praticabile; ed intanto i suoi indugj davano agio ai Pisani d'innalzare
dietro la muraglia ch'egli batteva in breccia un gagliardo parapetto
difeso da una fossa. L'ardore de' Pisani non era vinto da verun
pericolo; l'artiglieria scopava i loro lavori, senza che le donne o i
fanciulli lasciassero il badile. Due sorelle lavoravano assieme; una fu
uccisa da una palla da cannone; l'altra, raccogliendo all'istante le
sparse sue membra, le seppellì entro lo stesso gabbione che stava
riempiendo, e nell'atto che le dava colle lagrime e coi singhiozzi
l'estremo addio, proseguiva il suo lavoro, esposta al fuoco della stessa
batteria che le aveva tolta la sua compagna[29].

  [29] _Jac. Nardi, l. III, p. 98. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f.
  210._

Finalmente le mura che univano Stampace alle fortificazioni della città
erano state abbattute dall'una banda e dall'altra di quella gran torre.
Il conte Rinuccio era stato ferito in una scaramuccia; e Paolo Vitelli,
rimasto solo al comando dell'armata, risolse il decimo giorno
dell'assedio di dare l'assalto alla torre. Questa era già stata in più
luoghi ruinata, e sebbene i Pisani opponessero un'ostinata resistenza, i
Fiorentini inalberarono la loro bandiera sulla sommità della Stampace.
Nel primo terrore cagionato da questo avvenimento credettero i Pisani
che anche la città loro più non avesse riparo. Pietro Gambacorti fuggì
per l'opposta porta verso Lucca con quaranta arcieri a cavallo che
militavano sotto di lui, e la guardia del parapetto, che oramai formava
la sola difesa della città, era atterrita ed in sul punto di fuggire: ma
il Vitelli aveva ordinato soltanto di dare l'assalto alla rocca e non
alla città. Era troppo contrario al suo carattere ed alla sua pratica
militare il porre in pericolo un vantaggio di già ottenuto volendolo
spingere più in là, e coglierne frutti che non si fosse prima proposto
di conseguire. Temeva d'essere avviluppato in una città difesa da una
valorosa popolazione, e fece ritirare i suoi soldati che aspiravano a
dare un secondo assalto. Bentosto perdette per sempre la propizia
occasione di cui non volle prevalersi. Moltissimi Pisani, che avevano
cercato di nascondersi nelle proprie case, furono dalle loro mogli
confortati a tornare contro al nemico, e rioccuparono la breccia
coraggiosamente. La loro artiglieria fu diretta dalle vicine mura contro
gli assalitori, e dopo la presa di Stampace si trovò che la città poteva
ancora difendersi[30].

  [30] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 234. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  III, p. 98. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f. 215._

Il Vitelli aveva pensato di collocare una batteria sopra la stessa torre
di Stampace, onde signoreggiare le opere degli assediati; ma la torre,
di già ruinata dalle brecce fattevi da lui medesimo ed in appresso dai
Pisani, non fu creduta abbastanza forte per sostenere i cannoni che di
già vi aveva fatti portare. Intanto continuava a far battere in breccia
le mura della città: vi era di già stata fatta un'apertura di cinquanta
braccia, e non era ancora soddisfatto. Egli non voleva che i suoi
soldati fossero esposti a verun pericolo, o piuttosto, come apertamente
e concordemente lo dicevano i Fiorentini, egli non voleva prendere la
città, ma desiderava di conservare il più che poteva gli onori e gli
emolumenti del comando, di restare alla testa di potente armata per
offrire il suo ajuto al miglior offerente tosto che le rivoluzioni di
Lombardia determinassero una delle potenze in guerra a chiamare un nuovo
condottiere, e forse a farsi pagare da' Pisani il prezzo della sua
moderazione o della sua lentezza. Ma tali ambiziosi progetti vennero
distrutti dalla natura. Nell'umido suolo del piano di Pisa le fosse sono
d'ordinario piene d'acqua nella maggior parte della state; ma verso la
metà d'agosto sono asciugate dal sole, i di cui raggi, percuotendo sulla
putrefatta melma ne sollevano pestilenziali esalazioni. In due soli
giorni la metà dell'armata si trovò assalita dalla febbre maremmana.
Paolo Vitelli aveva dato avviso che il giorno 23 d'agosto darebbe
l'assalto: la breccia era praticabile, ed il successo sarebbe stato
sicuro, s'egli avesse potuto mettere in movimento un sufficiente numero
di soldati per dare esecuzione a' suoi progetti; ma i suoi ufficiali, i
commissarj fiorentini presso l'armata, ed egli medesimo, erano tutti
presi dalla stessa malattia. Frattanto si diede ordine di spedire al
campo nuovi rinforzi per abilitare il generale a dare nello stabilito
giorno un assalto che doveva essere decisivo. Ma ogni loro diligenza
tornò vana; il numero degli ammalati superava sempre quello de' nuovi
venuti onde il Vitelli trovavasi sempre più inabile a fare uno sforzo
vigoroso. Dietro alla siccità vennero le piogge calde, che invece di
purgare l'aria accrebbero la mortalità. All'ultimo, perduta ogni
speranza di buon successo, il Vitelli abbandonò l'assedio, e traslocò la
sua armata a Cascina. Fece imbarcare sull'Arno la sua grossa artiglieria
per mandarla a Livorno, e parte di questo convoglio cadde in potere de'
Pisani. Malgrado le calde istanze de' commissarj fiorentini egli
abbandonò la torre di Stampace, dichiarando che trovandosi così
maltrattata dalle proprie batterie, non poteva difendersi, e che la
guarnigione che vi lascerebbe sarebbe tosto fatta prigioniera di
guerra[31].

  [31] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 235. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 257. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 100. — Jac. Arrosti
  Cron. di Pisa MS., f. 219._

Quanta era stata grande l'opinione de' Fiorentini ne' talenti militari
di Paolo Vitelli, tanto maggiore fu il loro sdegno nel vedere il cattivo
esito dell'impresa. Credettero che gli esagerati indugj e le precauzioni
del generale non potessero essere che l'effetto della sua perfidia. Di
già gli rimproveravano il salvacondotto dato al duca d'Urbino ed a
Giuliano de' Medici per uscire da Bibbiena; avevano pure palesata molta
diffidenza per le conferenze avute dal Vitelli collo stesso Giuliano e
con Pietro de' Medici, sebbene fossero state pubbliche alla presenza di
due armate, e stando gli uni sopra la destra, gli altri sulla sinistra
riva dell'Arno. Ma dopo il colloquio il Vitelli aveva regalati i Medici;
aveva tenuta una corrispondenza quasi egualmente sospetta con Pandolfo
Petrucci, tiranno di Siena; era entrato in negoziazioni con Lodovico XII
per prendere servigio sotto di lui, e tutto il complesso della sua
condotta era oggetto de' pubblici sospetti e delle più gravi accuse.
Altronde mantenevasi più che mai viva la gelosia tra il Vitelli ed il
conte Rinuccio di Marciano, che aveva con lui divisi gli onori del
comando. Il Vitelli si era strettamente legato colla fazione degli
arrabbiati e coll'aristocrazia, che segretamente si ravvicinava ai
Medici. Rinuccio per lo contrario aveva tutto il favore de' piagnoni e
de' discepoli del Savonarola, i quali, avendo perduto il loro maestro,
condannato a crudele supplicio, colsero avidamente l'occasione di
vendicarsi contro la creatura e lo strumento del contrario partito[32].

  [32] _Comm. di Fil. de' Nerli, l. IV, p. 84._

Avendo il Vitelli condotta la sua armata a Cascina, chiedeva alla
signoria di spedirgli sufficienti rinforzi onde ricominciare l'assedio
tosto che cessassero le piogge. Infatti i Fiorentini gli mandarono altri
soldati, di cui potevano fidarsi, sotto gli ordini di due commissarj,
Antonio Canigiani e Braccio Martelli, ai quali i decemviri della guerra
avevano dati segreti ordini. I commissarj recaronsi nella rocca di
Cascina, posta dieci miglia al levante di Pisa sulla sinistra dell'Arno,
dalla qual rocca il campo del Vitelli era lontano un miglio. Ma questo
capitano, dietro invito de' commissarj fiorentini, si portò presso di
loro a Cascina, e pranzò con loro. Vitellozzo Vitelli, fratello di
Paolo, che pure era stato invitato allo stesso abboccamento, era rimasto
ammalato al campo. Perciò i commissarj spedirono alcuni uomini fidati
per arrestarlo. Di già Vitellozzo era stato senza rumore posto a
cavallo, e veniva condotto alla volta di Cascina, quando, scontratosi in
alcuni de' suoi uomini d'armi, uno di loro gli porse la lancia che
portava, esortandolo a non si lasciar condurre come una pecora al
macello. Vitellozzo la prese, e l'adoperò vigorosamente per liberarsi.
Gli arcieri che lo conducevano, vedendo i soldati disposti a difenderlo,
non osarono di provocare una più aperta resistenza, e lasciarono fuggire
Vitellozzo, che salvossi in Pisa, dove fu ricevuto con trasporti di
gioja. I commissarj fiorentini, cui era male riuscito il loro attentato
contro di lui, fecero arrestare Paolo Vitelli e lo spedirono subito a
Firenze, ove fu immediatamente posto alla tortura per cavargli di bocca
la confessione de' tradimenti che gli venivano imputati. Non eravi
contro di lui veruna prova autentica, veruna carta da lui scritta, ed i
tormenti ch'egli sostenne con maschia costanza non gli estorsero alcun
nuovo argomento di reità, alcuna confessione. Non pertanto fu condannato
a morte, e questa crudele sentenza si eseguì la mattina del susseguente
giorno, primo ottobre, in una delle sale del palazzo[33].

  [33] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 235. — Scip. Ammirato, l. XXVII,
  p. 257. — Jac. Nardi, l. III, p. 100. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI,
  p. 44. — Jac. Arrosti Cron. di Pisa, f. 219-221._

La barbara giurisprudenza che ammetteva l'uso della tortura avrebbe pure
dovuto salvare la vita di Paolo Vitelli, perchè quest'odiosa procedura
non era stata inventata che dal credersi necessaria la confessione del
prevenuto al di lui convincimento. La condotta tenuta dal Vitelli era
stata sospetta; le sue secrete relazioni cogli Orsini, amici e parenti
dei Medici, dovevano far pensare che mirasse come loro a ristabilire i
Medici in Firenze. La corrispondenza de' suoi segretarj, trovata tra le
sue carte, non lasciava verun dubbio che non avesse parte in una segreta
trama, di cui non si arrivò a conoscere l'oggetto. La prudenza voleva
che gli si levasse un comando che gli si era incautamente affidato, ma
la giustizia richiedeva di rispettare la di lui vita, poichè non era
convinto di verun delitto. Il di lui supplicio fu altrettanto impolitico
quanto crudele, lasciò ne' signori di Città di Castello un violento
desiderio di vendetta contro Firenze, del quale Firenze ebbe a soffrire
finchè si mantenne nello stato di repubblica; irritò egualmente tutti i
generali francesi che avevano militato coi fratelli Vitelli nella guerra
di Napoli, e che gli stimavano assai. Ma mentre ciò succedeva in
Toscana, in Lombardia avevano avuto luogo tali avvenimenti che
consigliavano potentemente i piccoli stati d'Italia ad accarezzare il re
e l'armata francese.

Precisamente nell'epoca in cui la repubblica di Venezia accettava il
duca di Ferrara come arbitro delle sue contese con Firenze, e ritirava
le sue armate dalla Toscana, conchiudeva con Lodovico XII un assai più
importante trattato, e prendeva parte ad un'alleanza che sembrava
smentire l'antica sua riputazione di prudenza e di moderazione. Il
trattato tra la repubblica di Venezia e Lodovico XII fu sottoscritto il
9 di febbrajo del 1499, ma per tre mesi si mantenne nascosto ai sospetti
di Lodovico il Moro e di tutta l'Italia: e quando fu pubblicato portava
la data di Blois del 15 di aprile[34]. Con questo trattato i Veneziani
riconoscevano i diritti di Lodovico XII sul ducato di Milano, e si
obbligavano a concorrere colle loro forze a dargliene il possedimento.
Dovevano perciò somministrargli mille cinquecento cavalli e quattro mila
pedoni, che sarebbero spesati dal re; nello stesso tempo promettevano
d'attaccare il ducato di Milano ai confini verso levante, nello stesso
tempo in cui l'armata francese l'attaccherebbe dalla banda d'occidente.
In ricompensa di questo servigio Lodovico XII loro cedeva Cremona e la
Ghiara d'Adda fino alla distanza di ottanta piedi dal fiume di tal nome;
ed i due stati sì promettevano la vicendevole garanzia di tali
possedimenti, divisi prima di conquistarli[35].

  [34] _P. Bembo Ist. Ven., l. IV,. 85. — Léonard, Traités de paix, t.
  I, p. 419 e seg._

  [35] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 213._

Senza avere avuta diretta notizia di questo trattato Lodovico il Moro
non ignorava quanto i Veneziani l'odiassero, e con quanta attività
Lodovico XII apparecchiavasi a muovergli guerra; onde dal canto suo
cercava di fortificarsi con nuove alleanze. Aveva particolarmente
riposta la sua fiducia in quella di Massimiliano, che aveva sposata la
di lui nipote, e che in ricompensa delle sue proteste di attaccamento e
di protezione si faceva continuamente prestare danaro. Massimiliano
nudriva contro i Francesi un'animosità sempre pronta a scoppiare; egli
voleva far rivivere sulle province venete e su tutta l'Italia i diritti
dell'impero, da più secoli dimenticati. Pareva dunque che i suoi
interessi e le sue passioni dovessero portarlo a difendere Lodovico il
Moro; ma non poteva farsi maggior conto de' suoi progetti che delle sue
promesse: conciossiacchè, non prendendo consiglio che dalle presenti
circostanze, egli si riduceva quasi sempre a fare ciò che non aveva
preveduto e ciò che non aveva voluto. Erasi obbligato verso Lodovico il
Moro a non fare convenzioni colla Francia senza comprendervelo, e ciò
non gli aveva impedito di prolungare fino alla fine d'agosto la tregua
che aveva fatta con Lodovico XII, senza far parola del duca di
Milano[36]. Intanto egli faceva la guerra nella Gueldria; ma essendo
scoppiata in sul finire di febbrajo qualche ostilità fra i suoi sudditi
e gli Svizzeri ne' paesi posti alle sorgenti del Reno, la lega di Svevia
prese a difendere i possedimenti austriaci, e Massimiliano vi si recò
immediatamente per porsi alla testa delle sue armate. Fece dichiarare
l'impero contro gli Svizzeri; entrò nel loro paese con forze di lunga
mano maggiori, e non pertanto venne sempre respinto: senza poter venire
ad una generale battaglia, vide le sue truppe consumarsi in sanguinose
scaramucce. Assicurasi che perirono ventimila uomini in così breve
guerra, e che un numero ancor maggiore perì vittima della fame e della
miseria. Massimiliano, che aveva presa parte in questa lite piuttosto
per collera e per orgoglio che per politica, faceva bruciare le case, le
capanne, i granai, i villaggi, lusingandosi di far perire di fame, in
mezzo ai loro ghiacci ed alle loro rupi, i contadini, che non aveva
potuto raggiugnere. Ma cotali atti di ferocia producevano orribili
rappresaglie, e Lodovico Sforza, vedendolo consumare tutte le sue forze
contro gli Svizzeri, nulla poteva da lui sperare[37].

  [36] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 222. — Barth. Senaregae de reb.
  Gen., t. XXIV, p. 565._

  [37] Bilibaldo Pyrckeimer di Norimberga, che militava nell'esercito
  dell'imperatore, vide ai confini della Valtellina, durante questa
  guerra, un branco di quaranta fanciulli d'ambo i sessi, condotti ne'
  campi da due donne attempate per cogliervi erbe crude onde
  cibarsene. Erano stati uccisi i loro parenti, bruciate le loro case,
  distrutti i loro approviggionamenti, sicchè non avevano che questo
  miserabile cibo; essi perivano gli uni dopo gli altri, e di ottanta
  ch'erano da principio, erano ridotti a soli quaranta; ai quali, se
  dovevasi giudicarne dalla loro magrezza e pallidezza, non restava
  che un soffio di vita. _Apud Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 14, p. 481._

Lodovico il Moro aveva pure chiesto ajuto a Bajazette II, imperatore de'
Turchi, al quale oggetto gli spedì due segretarj per rappresentargli che
Lodovico XII rinnovava i progetti di conquiste del suo predecessore, e
minacciava l'impero di Oriente; che essendosi collegato coi Veneziani,
aveva maggiori mezzi di nuocere alla Porta ottomana che non aveva avuto
Carlo VIII; che perciò era d'uopo prevenirlo col fare una diversione
contro i Veneziani, e che i Turchi salverebbero la Grecia attaccando
l'Italia. Federico di Napoli appoggiò con tutta la sua influenza i
deputati di Lodovico Sforza, onde Bajazette, cedendo alle loro istanze,
ordinò d'attaccare i Veneziani nel Peloponneso, nella Macedonia e
nell'Istria[38].

  [38] _Ann. Eccl. 1499, § 5, p. 480. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII,
  p. 231._

Diffatti in ottobre del 1499 Scander Bassà, governatore della Bosnia,
penetrò nel Friuli colla sua cavalleria, e tutta la saccheggiò fino alla
Livenza, distruggendo e bruciando tutte le ricchezze del paese che
scorreva. Vi aveva fatto un grandissimo numero di schiavi, ma quando
ritirandosi giunse in sulle rive del Tagliamento non volle imbarazzare
la sua armata con tanta gente, e dopo avere scelti coloro che potevano
essere più utili, fece uccidere tutti gli altri[39].

  [39] _Ann. Eccl. 1499, § 7 e 8, p. 480. — Chron. Ven., p. 116. —
  Jos. Ripamontii Hist Urb. Mediol., l. VII, p. 662. — P. Jovii de
  Vita magni Consalvi, l. I, p. 188._

Sebbene i re di Spagna non avessero quasi preso parte nella guerra
contro Carlo VIII, erano non pertanto entrati nella precedente lega
d'Italia: ma il duca di Milano più non poteva avere in loro veruna
fidanza avendo essi rinunciato ai precedenti loro obblighi, ed avendo
col trattato sottoscritto da Ferdinando e da Isabella con Lodovico XII a
Marcussi il 5 agosto del 1498, nominato, tra gli alleati che si
riservavano di poter difendere contro la Francia, soltanto l'imperatore,
l'arciduca suo figlio, il duca di Lorena ed il re d'Inghilterra, senza
aver fatto un'eguale riserva a favore di verun sovrano d'Italia[40].

  [40] _Garnier Hist. de France, t. XI, p. 53. — Dumont, Corps
  Diplom., t. III._

Il papa aveva dato qualche speranza a Lodovico il Moro: tutta la sua
ambizione aveva per iscopo di fare sposare a suo figlio, Cesare Borgia,
una principessa di sangue reale, ed aveva fissate le sue viste sopra
Carlotta, figliuola di Federico, re di Napoli. Incaricò Lodovico il Moro
di trattare per lui questo matrimonio, che doveva essere seguito da
un'intima alleanza tra il papa, il re di Napoli ed il duca di Milano. Ma
e Federico, e sua figlia Carlotta sentivano pel prete apostata, bastardo
e figlio d'un prete, per l'assassino del proprio fratello, per l'amante
della propria sorella, una così invincibile ripugnanza, che non vollero
a tale prezzo comperare la loro sicurezza. A cagione del loro rifiuto
Cesare Borgia sposò Carlotta, figlia d'Alano d'Albretto, e sorella del
re di Navarra. Il quale parentado lo univa alla reale famiglia di
Francia e lo attaccava al partito francese[41].

  [41] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 223. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall. l. VIII, p. 232._

Il re Federico di Napoli aveva promesso a Lodovico il Moro di mandargli
Prospero Colonna con quattrocento cavalieri e mille cinquecento fanti;
ma, spossato com'egli era dalla precedente guerra, non tenne la
promessa, sebbene l'avesse fatta non meno pel vantaggio del suo alleato
che pel proprio. I Fiorentini, implicati trovandosi nella guerra di
Pisa, non potevano ajutare il duca di Milano, ed il duca di Ferrara,
quantunque suo suocero, non volle promettergli il più leggiere ajuto per
timore di compromettere la sua neutralità in faccia al re di Francia.

Lodovico Sforza, da tutti abbandonato, non perciò perdette il coraggio;
fortificò diligentemente il castello d'Annone, posto a breve distanza da
Asti, come pure Alessandria e Novara; incaricò Galeazzo di Sanseverino
d'opporsi ai Francesi che volessero dal Piemonte o dal Monferrato
penetrare in Lombardia; gli diede seicento uomini d'armi, mille
cinquecento cavalleggieri, diecimila fanti italiani e cinquecento
tedeschi, perciocchè la guerra tra la lega sveva e gli Svizzeri non gli
avea accordato d'assoldare presso gli ultimi maggiore quantità di gente.
Contava d'opporre ai Veneziani il marchese di Mantova con un'altra
armata, ma scontentò il marchese per fare cosa grata a Galeazzo
Sanseverino, la cui vanità non poteva soffrire che un altro generale
avesse un più elevato grado del suo: onde dietro il rifiuto del Gonzaga
diede quest'armata al conte di Cajazzo. Dicesi per cosa certa che un
servitore fedele avvisò Lodovico il Moro, che quel Galeazzo di
Sanseverino, cui aveva affidato col comando di tutte le sue forze una
quasi assoluta autorità, lo tradiva. Lodovico, dopo avere alcun tempo
ponderati gl'indizj che gli si davano di tale perfidia, rispose
sospirando che non poteva figurarsi tanta ingratitudine, e che
quand'anche fosse vera non saprebbe come rimediarvi; che niuno poteva
avere maggiori diritti alla sua confidenza quanto coloro ch'egli aveva
colmati di beneficj, e che tornava lo stesso l'arrischiare di essere
tradito dagli amici, quanto l'esporsi a perdere i loro ajuti per mal
fondati sospetti[42].

  [42] _Fr. Guicciardini, l. IV, p, 255. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall., l. VIII, p. 234._

Lodovico Sforza aveva raccomandato a' suoi generali di schivare ogni
decisiva battaglia, di chiudersi nelle fortezze, e di condurre la guerra
in lungo, per dar tempo a Galeazzo Visconti, che aveva mandato tra gli
Svizzeri, di negoziare un trattato di pace tra Massimiliano ed i
cantoni, e di condurre a' suoi servigi quelle armate che si andavano
consumando in una guerra impolitica. Infatti il Sanseverino non si mosse
contro i Francesi che si andavano adunando in Piemonte, ed aspettò
d'essere attaccato. Questi valicavano le Alpi sotto gli ordini di Gian
Giacomo Trivulzio, di Lodovico di Lussemburgo, conte di Lignì, e di
Everardo Stuardo, signore d'Aubignì, i quali tenevano sotto i loro
ordini 1,600 lance, ossia 9,600 cavalli, cinque mila Svizzeri, quattro
mila Guasconi, e quattro mila avventurieri levati nelle altre province
della Francia. Lodovico XII era rimasto a Lione, di dove dirigeva i
movimenti de' suoi generali ed i rinforzi che loro abbisognavano[43].

  [43] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 226. — P. Bembi Hist. Ven., l. IV,
  p. 86._ Quest'ultimo vuole che l'armata francese fosse più grossa.

L'armata francese, essendosi finalmente adunata, attaccò il 13 agosto
del 1499 la rocca d'Arazzo posta in riva al Taro in faccia d'Annone.
Sebbene difesa da cinquecento pedoni questa fortezza fu vilmente ceduta
ai primi colpi di cannone, e subito dopo venne attaccato Annone. Questa
grossa terra era stata diligentemente fortificata da Lodovico Sforza, ma
i settecento uomini di guarnigione erano fresche reclute, e quando il
Sanseverino volle mandarvi qualche rinforzo, più non potè farlo. La
breccia fu aperta il secondo giorno; Annone presa d'assalto, e passata a
fil di spada tutta la guarnigione. Allora i Francesi si allargarono per
tutto il paese d'Oltrepò. Il Trivulzio faceva ai popoli in loro nome le
più lusinghiere promesse; i soldati italiani non ardivano di venire alle
mani con quelle barbare armate, ed i borghesi temevano la sorte degli
abitanti d'Annone; perciò Valenza, Bassignana, Voghera, Castel Nuovo,
Ponte Corone, ed all'ultimo Tortona colla sua rocca affrettaronsi
d'aprire ai Francesi le loro porte[44].

  [44] _Arn. Ferroni, l. III, p. 38. — Fr Guicciardini, l. IV, p. 226.
  — Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 103. — P. Bembo Ist. Ven., l.
  IV, p. 87._ Ma per errore di stampa fu sostituito il nome di Novi a
  quello di Non o Annone. — _Cron. Ven., t. XXIV, p. 92. — Barth.
  Senaregæ de Reb. Gen., t. XXIV, p. 566. — Fr. Belcarii Comm., l.
  VIII, p. 233._

Il popolo di Milano soffriva di mal animo la signoria di Lodovico
Sforza; lagnavasi delle eccessive contribuzioni ond'era aggravato;
trovava ridicolo l'orgoglio del sovrano, la sua politica imprudente e
macchiata di mala fede; ed inoltre non gli perdonava l'usurpato dominio,
cui aggiugneva il sospetto dell'avvelenamento di suo nipote. Frattanto
quando Lodovico il Moro conobbe la sua potenza vacillante per le rapide
conquiste de' Francesi, tentò di riacquistare la popolarità, onde avere
i sudditi in sua difesa. Adunò un consiglio, al quale chiamò tutte le
più distinte persone di Milano per nobiltà, per ricchezze o per
riputazione. Spiegò loro la sua condotta e la necessità in cui erasi
trovato di mantenere molte truppe, di pagare sussidj a straniere
potenze, e perciò di dover levare considerabili imposte per allontanare
la guerra dai confini dello stato. Ricordò che durante la sua lunga
amministrazione i Milanesi mai non avevano veduti soldati forastieri,
che se il suo governo aveva costato al popolo molto danaro, era però
stato sempre giusto ed eguale; ch'egli stesso erasi sempre fatto
accessibile ai suoi sudditi, che mai non aveva trascurate le cure ed i
lavori amministrativi per darsi in braccio ai piaceri, che non gli si
poteva rimproverare veruna crudeltà, e che non eravi sovrano in Italia
che avesse al pari di lui risparmiati i supplicj ed il sangue. Invitò i
Milanesi a confrontare la sua liberale amministrazione con quella che
dovevano aspettarsi dai Francesi, stranieri di costumanze e di lingua,
orgogliosi e sempre disposti a sprezzare e ad opprimere la nazione
italiana. Non trattavasi, loro diceva egli, che di opporre un poco di
fermezza e di costanza al primo urto del nemico, perchè i soccorsi del
re di Napoli, dell'imperatore e degli Svizzeri non tarderebbero[45].

  [45] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 227. — Jos. Ripamontii Hist. Urb.
  Mediol., l. VII, f. 658._

Ma questi ragionamenti facevano pochissimo effetto sullo spirito di un
popolo scosso ed intimidito, che cercava scuse al suo terrore affettando
il malcontento. Lo Sforza aveva fatto fare in Milano le liste di tutti
gli uomini in istato di portare le armi; aveva in pari tempo abolite
alcune delle più odiose imposte, ma non altro si ravvisava in queste
troppo tarde misure che il suo terrore e la sua debolezza. Quantunque i
Veneziani, attaccandolo contemporaneamente ai Francesi, si fossero di
già impadroniti di Caravaggio[46], egli richiamò il conte di Cajazzo
destinato a far loro testa, per farlo passare a Pavia, onde unirsi poi a
suo fratello presso Alessandria. Ma questo fratello, favorito e genero
di Lodovico il Moro, questo Galeazzo di Sanseverino, che aveva opinione
d'essere un gran militare, perchè trattava con grazia la lancia ne'
tornei, e vinceva in simulate battaglie, era di già stato segretamente
guadagnato dai Francesi. Tre giorni dopo l'arrivo di questi presso
Alessandria, egli fuggì vilmente nella notte del 25 di agosto dalla sua
armata che tuttavia contava mille dugento uomini d'armi, altrettanti
cavalleggeri e tremila fanti. Lo accompagnò Giulio Malvezzi, ed in
breve, essendosi in Alessandria sparsa la voce della sua fuga, più ad
altro i soldati non pensarono che a fuggire, o a nascondersi, e tutta
l'armata si disperse[47].

  [46] _P. Bembi Hist. Ven., l. IV, p. 87. — Chron. Ven., t. XXIV, p.
  98. — Fr. Belcarii, Comm. l. VIII, p. 234._

  [47] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 228. — P. Bembo Ist. Ven., l. IV,
  p. 87. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 99._

I Francesi entrarono in Alessandria nella susseguente mattina,
svaligiarono i soldati italiani che non erano fuggiti, ed abbandonarono
la città al saccheggio. Frattanto il Sanseverino per coprire il suo
fallo spargeva voce d'avere avuti pressanti ordini da Lodovico il Moro
di tornare a Milano. Credettero alcuni che le lettere da lui citate
fossero state falsificate da suo fratello, il conte di Cajazzo, e
nell'universale disordine non fu possibile di riconoscere se fu perfido
o ingannato, onde Lodovico il Moro non lo privò della sua confidenza.
Intanto i Francesi, avendo passato il Po, attaccarono Mortara e
ricevettero la capitolazione di Pavia prima di giugnere alle sue porte.
In pari tempo i Veneziani s'erano impadroniti della fortezza di
Caravaggio, ed i loro avamposti arrivavano fino a Lodi. Tutte le città
della Lombardia erano in grandissimo fermento, e nella stessa Milano il
popolo già sollevato uccise di bel mezzogiorno Antonio Landriano,
tesoriere del duca, nell'atto che usciva dal castello[48]. Conoscendo lo
Sforza l'impossibilità di sostenersi più oltre, fece partire i figli
alla volta della Germania sotto la custodia di suo fratello, il
cardinale Ascanio, con il residuo del suo tesoro in allora ridotto a
240,000 ducati. Pose in libertà Francesco Sforza, figliuolo di Giovan
Galeazzo, suo nipote e suo predecessore, e lo consegnò a sua madre,
Isabella d'Arragona, eccitandola per altro a sottrarlo alla gelosa
diffidenza di Lodovico XII. Isabella, cui egli mostrava un troppo tardo
affetto, lo temeva assai più che i suoi nemici. Invece di ritirarsi in
Germania volle aspettare i Francesi per porre nelle loro mani il suo
figliuolo; ma questi vindici da lei invocati non tardarono a mostrarsi
ancora verso di lei più crudeli che non lo era l'usurpatore cui
felicitavasi d'essersi sottratta[49].

  [48] _Jos. Ripamontii Hist Urb. Med., l. VII, p. 659._

  [49] _Ivi._

Lodovico il Moro fece entrare nel castello di Milano, che in allora
veniva risguardato come inespugnabile, approviggionamenti e munizioni di
guerra bastanti per sostenere un lungo assedio. Portò la guarnigione a
tre mila fanti, diretti da ufficiali da lui scelti con estrema
diligenza, e ne affidò il comando a Bernardino Corte nativo di Pavia, e
da lui educato, e nel quale aveva tanta confidenza che lo preferì a suo
fratello Ascanio, che volontariamente si offriva di chiudersi nel
castello. Lasciò il comando di Genova ad Agostino ed a Giovanni Adorno;
accordò grazie ai principali gentiluomini di Milano, ed il 2 di
settembre uscì dal suo castello protetto da un piccolo corpo di truppe,
comandato da Galeazzo di Sanseverino e da Giulio Malvezzi, e si avviò
per la Valtellina in Germania[50]. Ma non era appena uscito di Milano
che gli si accostò il conte di Cajazzo per dirgli che, abbandonando egli
i suoi stati, veniva con ciò a sciogliere i suoi soldati dal giuramento
di fedeltà, e li lasciava in libertà di provvedere come meglio loro
piaceva alla propria sicurezza. Nello stesso tempo alzò le insegne della
Francia, e colla truppa formata a spese del duca di Milano tenne dietro
al principe come nemico, finchè questi si trovò fuori de' suoi stati. Lo
Sforza, giunto a Como, s'imbarcò sul lago alla volta di Bellagio di dove
passò a Bormio ed in appresso ad Inspruck[51].

  [50] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. III, p. 104 — Jos. Ripamontii, l.
  VII, p. 659. — Arn. Ferroni, l. III, p. 38._

  [51] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 230. — Burchardi Diar. t. V, p.
  580. — Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 17, P. 582. — P. Bembo Ist. Ven., l.
  IV, p. 88. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 100. — Barth. Senaregæ de Reb.
  Gen., t. XXIV, p. 566. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 235._

I Francesi avanzarono rapidamente per approfittare della sollevazione
della Lombardia e del terrore della famiglia Sforza. In distanza di sei
miglia da Milano incontrarono i deputati di quella città che venivano ad
offrire le chiavi delle sue porte, colla riserva per altro di capitolare
collo stesso re, quando verrebbe a prendere il possesso de' suoi nuovi
stati. Cremona, di già assediata da' Veneziani, chiese di arrendersi ai
Francesi; ma questi addirizzarono i deputati della città ai generali
della repubblica. Genova si arrese colla medesima facilità; e gli Adorni
e Giovan Luigi del Fiesco facevano a gara nel mostrarsi più affezionati
alla Francia. All'ultimo il comandante del castello di Milano, che lo
Sforza aveva scelto fra tutti i suoi più affezionati per affidargli una
fortezza di tanta importanza, non aspettò pure il primo colpo di
cannone, e la cedette al nemici per una grossa somma di danaro dodici
giorni dopo il loro arrivo: ma in appresso que' medesimi che lo avevano
corrotto, gli mostrarono tanto disprezzo, che, sostenere non potendo
tanta infamia, morì disperato dopo pochi giorni[52].

  [52] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 231. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  III, p. 105. — P. Bembo Ist. Ven. l. IV, p. 88. — Agost. Giustiniani
  Cron. di Gen., l. V, f. 255._

La conquista del ducato di Milano erasi dai Francesi effettuata in venti
giorni. Il popolo, oppressato dal governo cui era stato fin allora
subordinato, erasi volontariamente posto sotto il giogo degli stranieri.
Lodovico XII appena ebbe avviso dell'accoglimento fatto a' suoi
capitani, che si affrettò di scendere in Italia per prendere possesso
de' suoi nuovi acquisti. Quando seppesi il suo imminente arrivo tutti
gli ordini de' cittadini si portarono per riceverlo tre miglia fuori di
Milano: lo precedevano nel suo ingresso quaranta fanciulli vestiti di
stoffe di seta e d'oro, cantando inni in onor suo, e chiamandolo il gran
re, il liberatore della patria. I senatori, i giudici, il clero, la
nobiltà, i mercanti, tutti s'affrettavano di fargli corona come se
Lodovico XII recasse alla loro patria la pace e la libertà[53].

  [53] _Naurclerus, l. II apud Rayn. Ann. Eccl. 1499, § 20, p. 483._

Il primo pensiero di Lodovico fu quello di rassodarsi ne' suoi nuovi
possedimenti, facendo trattati cogli stati d'Italia suoi vicini. Trovò
nella sua capitale gli ambasciatori di tutti i sovrani d'Italia, a
riserva di quello del re di Napoli, don Federico. Accolse con
dimostrazioni di singolare favore il marchese di Mantova, cui tenevasi
obbligato per non avere preso servigio sotto Lodovico Sforza; ma non
volle ricevere sotto la sua protezione nè il duca di Ferrara, nè
Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, che mediante l'esborso di
ragguardevoli somme, come compenso del favore che mostrato avevano verso
il Moro. Accolse ancora più ostilmente gli ambasciatori di Firenze.
Tutti i capitani del suo esercito accusavano quella repubblica d'avere
fatto ingiustamente perire Paolo Vitelli, che aveva con loro militato
nel regno di Napoli e guadagnata la loro stima ed affetto. Altronde non
avevano dimenticata l'antica loro parzialità per i Pisani, che trovarono
meritevoli di maggiore stima dopo la generosa loro resistenza.
Dimenticavano invece i lunghi servigj e l'antica alleanza de' Fiorentini
per non ricordarsi che della fresca loro alleanza con Lodovico Sforza.
All'ultimo, dopo infinite difficoltà, il re acconsentì a rinnovare
l'alleanza fra i due stati. Prometteva che, venendo attaccati i
Fiorentini, li difenderebbe con seicento lance e con quattro mila fanti;
ed i Fiorentini si obbligavano a guarentire gli stati del re in Italia
con quattrocento lance e tre mila fanti; inoltre si obbligavano a
somministrargli cinquecento lance e cinquanta mila ducati per l'impresa
di Napoli; ma ciò soltanto dopo che avrebbero ricuperata Pisa. A tali
condizioni il re prometteva d'ajutarli a riacquistare Pisa e
Montepulciano[54].

  [54] _Fr. Guicciardini_, che per attestato del Nardi era uno degli
  ambasciatori, l. IV, p. — _Jac. Nardi, l. III, p. 106. — Scip.
  Ammirato, l. XXVII, p. 258._

Lodovico XII non si trattenne in Milano che poche settimane, ma in quel
breve spazio di tempo tutto perdette quel favore popolare che gli aveva
procurato il dominio della Lombardia. I partigiani della Francia, per
prevenire il popolo in suo favore, avevano sparsa voce che il re era
bastantemente ricco per abolire tutte le imposte, o almeno per ridurle
nello stato in cui si trovavano ai tempi de' Visconti. Infatti Lodovico
XII accordò alcune grazie pecuniarie ai nuovi suoi sudditi, ma minori di
lunga mano delle imprudenti speranze che si erano loro date, di modo che
il malcontento fu così generale, quanto fallace era stata la speranza.
Altronde Gian Giacopo Trivulzio, che il re, partendo, aveva nominato suo
luogotenente nel ducato di Milano, era piuttosto fatto per acquistare un
nuovo stato che per conservarlo. Era costui capo del partito guelfo, e
non sapeva dimenticare questa parzialità nell'istante in cui soltanto
avrebbe dovuto pensare a governare con eguale giustizia le due fazioni,
ed a ravvicinare l'una all'altra. I nobili ghibellini altro in lui non
vedevano che un capo di faziosi, ed i cittadini un soldato che portava
in una grande città la rozzezza e la ferocia degli accampamenti. Era
stato veduto uccidere colle proprie mani alcuni macellaj sulla piazza
del mercato, perchè si rifiutavano al pagamento della gabella, e co'
suoi modi arbitrarj ed arroganti aveva eccitato l'odio universale contro
di sè medesimo e contro il sovrano da lui rappresentato[55].

  [55] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  III, p. 107. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 122. — Diar. Ferrar. anon.,
  t. XXIV, p. 375. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, p.
  671. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 238._

Intanto Lodovico il Moro ed il cardinale Ascanio, giunti alla corte di
Massimiliano, l'avevano trovato rappacificato cogli Svizzeri. Erano da
lui stati accolti con quel vivo interesse che doveva eccitare il loro
infortunio, ed avevano ottenute larghe promesse di soccorsi, delle quali
Massimiliano era così prodigo. Ma questo principe mai non aveva saputo
condurre a compimento una sola delle grandi cose da lui annunciate:
diceva uno de' suoi consiglieri, ch'egli non volle giammai gli altrui
consigli, nè mai fece ciò ch'egli voleva, perchè, nascondendo nel più
profondo segreto i suoi disegni, non ammetteva veruno a disaminarli con
lui profondamente; e quando li faceva conoscere, allorchè cominciava ad
eseguirli, lasciavasi scoraggiare dalle prime opposizioni che gli
venivano fatte[56]. Massimiliano, dopo avere promessi i più potenti
ajuti al duca di Milano, di cui aveva sposata la nipote, non si vergognò
di chiedergli, per levare la sua armata, quel danaro che lo Sforza
aveva, e che era il solo avanzo della passata sua potenza. Non ignorava
il Moro che tutto il danaro che presterebbe al re de' Romani sarebbe
immediatamente dissipato tra i suoi favoriti; onde preferì d'impiegare
questo residuo de' suoi tesori nell'assoldare egli medesimo un'armata.
La guerra della Svizzera, poc'anzi terminata, aveva lasciato nello
stesso paese in cui egli si trovava molti soldati senza impiego. Gli fu
dunque facile d'adunare e prendere al suo soldo cinquecento uomini
d'armi borgognoni ed ottomila fanti svizzeri; e senza aspettare che
tutta questa gente fosse interamente ragunata sotto le sue insegne,
s'incamminò verso i confini della Lombardia[57].

  [56] _Machiavelli il Principe, c. 23, p. 347._

  [57] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — P. Bembo Ist. Ven., l. V,
  p. 99. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 136. — Diar. Ferrar. anon., t.
  XXIV, p. 378. — Jos. Ripamontii Hist. Urb. Mediol., l. VII, p. 672.
  — Arn. Ferroni, l. III, p. 39._

Quando Gian Giacopo Trivulzio ebbe avviso che si avvicinava lo Sforza,
domandò al senato di Venezia di far avanzare le sue truppe sull'Adda, e
richiamò Ivone d'Allegre, che si era recato in Romagna per ispalleggiare
i progetti di Cesare Borgia. Ma la rapidità dello Sforza non lasciò
tempo di riunirsi ai Francesi e ai loro alleati. In sul cominciare di
febbrajo del 1500 egli valicò le Alpi, ed attraversò il lago di Como
colle barche che trovò alle sue rive. Gli abitanti di Como, quand'ebbero
avviso della sua venuta, manifestarono così vivamente la loro parzialità
per lo Sforza, che i Francesi si videro costretti a ritirarsi,
abbandonandogli quella città. I cittadini di Milano, ed in particolare
coloro che appartenevano alla fazione ghibellina, sentendo che trovavasi
in Como Lodovico il Moro, ne festeggiarono il ritorno con un entusiasmo
che incuteva terrore agli attuali loro ospiti. Il Trivulzio, credendo
vicina a scoppiare una sollevazione, si chiuse precipitosamente in
castello, e dopo avervi posta una sufficiente guarnigione, ne uscì il
susseguente giorno e si ritirò verso Novara, inseguito dal popolo
sollevato fino alle rive del Ticino. Il Trivulzio lasciò pure
quattrocento lance in Novara, indi condusse il rimanente della sua
armata a Mortara, per ricevere colà gli ajuti che aveva caldamente
chiesto al re di mandargli dalla Francia[58].

  [58] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 248. — Chron. Ven., t. XXIV, p.
  138. — Fr. Belcarii Comm., l. VIII, p. 239. — Agost. Giustiniani
  Cron. di Genova, l. V, f. 255._

Appena si erano i Francesi ritirati da Milano, quando vi rientrò il
cardinale Ascanio, e poco dopo suo fratello. Era questi uscito dalla sua
capitale il 2 di settembre del 1499, accompagnato dalle maledizioni del
popolo che affrettava la sua fuga, vi rientrò cinque mesi dopo, il 5
febbrajo del 1500, ed i Milanesi sembravano inebbriati di gioja nel
rivedere l'antico loro sovrano. Questi rapidi cambiamenti non devono
risguardarsi come indizj dell'incostanza del popolo: questo popolo
abborriva sempre egualmente le vessazioni arbitrarie, le estorsioni de'
finanzieri, le perfidie della corte ed il despotismo: soltanto porgeva
troppo facile orecchio alle promesse de' principi; inconsideratamente
rigettava con troppo favorevole prevenzione tutti i vizj de' sovrani sui
loro ministri, attribuendo ai primi tutti i nobili e generosi
sentimenti; troppo facilmente davasi a credere che la disgrazia avrebbe
emendati coloro che vedeva esposti a' suoi colpi; ed il sovrano
presente, non iscordando giammai di scioglierlo dalla data fede colla
violazione delle sue promesse, il popolo non aveva altro torto che
quello di conservare una troppo tenera memoria del precedente sovrano;
era troppo più sedotto dalla costanza delle sue affezioni che dalla sua
leggierezza.

Tutta la Lombardia era animata dai medesimi sentimenti verso lo Sforza.
Parma e Pavia proclamarono immediatamente l'antico loro duca, Lodi e
Piacenza erano sul punto di fare lo stesso; ma l'armata veneziana,
rapidamente marciando verso quelle città, riuscì a tenerle in dovere.
Alessandria e tutto il paese d'oltre Po, trovandosi più esposti agli
attacchi de' Francesi, aspettavano gl'avvenimenti per decidersi; Genova
non volle prendere parte nella rivoluzione. Frattanto lo Sforza non
perdeva tempo, e niente trascurava di tutto quanto poteva contribuire a
dare maggiore consistenza a' suoi nuovi successi; mandò il cardinale di
Sanseverino a Massimiliano per informarlo de' primi avvenimenti e
chiedergli soccorso, ed il vescovo di Cremona a Venezia per offrire a
quella repubblica d'accettare qualunque condizione piacesse al senato
d'imporgli: fece chiedere ai Fiorentini qualche pagamento in conto
d'alcune somme loro sovvenute, ciò che questi ricusarono di fare con
maggior lode di prudenza che di buona fede. I piccoli principi colsero
avidamente quest'occasione di riprendere un servigio attivo: il fratello
del marchese di Mantova, i signori della Mirandola, di Carpi e di
Correggio, Filippo de' Rossi ed i conti del Verme, ricuperarono i feudi
ch'erano stati confiscati a loro pregiudizio da' Francesi o dallo stesso
Sforza, ed in appresso raggiunsero il duca di Milano colle compagnie
d'uomini d'armi che ognuno di loro aveva formate. Coll'ajuto di costoro
lo Sforza riunì mille cinquecento uomini d'armi e molti fanti italiani:
incaricò suo fratello Ascanio dell'assedio del castello di Milano,
mentre ch'egli, passato il Ticino, prese Vigevano ed assediò Novara.
Frattanto Ivone d'Allegre, tornando di Romagna coll'armata francese, e
con tutti gli Svizzeri rimasti in Italia al soldo della Francia,
attraversò il territorio di Parma e di Piacenza dopo avere con questi
due popoli patteggiata una sospensione delle ostilità durante il
passaggio della sua armata. Giunto presso Tortona ricevette una
deputazione dei Guelfi di quella città che gli chiedevano vendetta
contro i Ghibellini, i quali, secondo essi dicevano, avevano segrete
intelligenze con quelli di Milano, e si rallegravano per la ritirata de'
Francesi. Ivone d'Allegre s'incaricò volentieri di questa vendetta; si
fece aprire le porte della città, e l'abbandonò tutta al saccheggio
senza fare distinzione tra Guelfi e Ghibellini. Dopo ciò continuò il suo
cammino alla volta d'Alessandria[59].

  [59] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 249. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 109. — Chron. Ven., t. XXIV, p. 141._

Gli Svizzeri, che in addietro dimoravano chiusi nelle loro montagne, e
non guerreggiavano che per difesa della propria libertà, erano da sei
anni in poi diventati quasi i soli soldati dell'Europa. Non eravi altra
fanteria che potesse fargli fronte, onde tutte le potenze mettevano
all'incanto i loro servigj. Permettendo loro tutti gli eccessi
dell'indisciplina, esse li cuoprivano di oro, e conducendoli ne' più
ricchi e più voluttuosi paesi dell'Europa, gli avvezzavano a tutte le
delizie dell'opulenza. Una spaventosa corruzione era stato il frutto di
così subita mutazione in tutte le abitudini di un popolo in addietro
tanto riputato per la purità de' suoi costumi e per la sua buona fede.
Tutta la nazione era diventata avventuriera e mercenaria; la Svizzera
aveva somministrato alle varie armate delle potenze belligeranti assai
maggior numero di uomini, di quello che un saggio governo non armerebbe
nemmeno per difendere la patria nel più grave pericolo. L'abitudine di
non vedere altro nella guerra che il danaro da guadagnare, ed i piaceri
di una vita indipendente, erasi sparsa in tutta la popolazione; l'antico
punto d'onore veniva sagrificato alla cupidigia ed al gusto de' piaceri,
e finchè si mantenne l'incantesimo di questa nuova bevanda, la nazione
non fu più riconoscibile. In allora fu perfino in procinto di macchiare
la sua gloria con odiosi tradimenti.

I Francesi furono i primi a soffrire i danni della mala fede degli
Svizzeri. Quattrocento di loro, che con Ivone d'Allegre si erano chiusi
in Novara per rinforzare la guarnigione, non tardarono ad avere
comunicazione coi loro compatriotti che gli assediavano; e sentendo da
questi che nel campo nemico si viveva meglio e si aveva più grosso
soldo, e che, per quanto potevano essi giudicarne, si avevano più
fondate speranze di buon successo, passarono tutti sotto le bandiere
dello Sforza. Il loro arrivo agevolò la presa di Novara, che si arrese
per capitolazione. Lo Sforza fece religiosamente condurre a Vercelli la
guarnigione francese rimasta in Novara, ed intraprese l'assedio della
rocca, che forse era miglior senno di abbandonare per andare ad
attaccare l'armata francese a Mortara, prima che ricevesse nuovi
rinforzi[60].

  [60] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 249. — Barth. Senaregæ de reb.
  Gen., t. XXIV, p. 571. — Chr. Ven., t. XXIV, p. 148. — Diar. Fer.
  anon., t. XXIV, p. 382._

Infatti Lodovico XII opponeva alla diligenza dello Sforza un'eguale
diligenza: dopo avuta notizia della rivoluzione di Milano aveva
affrettata la partenza di tutti i suoi uomini d'armi; aveva mandato il
balivo di Digione ad assoldare nuovi Svizzeri, e lo stesso suo ministro,
il cardinale d'Amboise, aveva passate le Alpi e si era fissato in Asti
per affrettare l'unione dell'armata, che in poco tempo s'ingrossò a
dismisura: perciocchè la Tremouille vi condusse mille cinquecento lance
e sei mila fanti francesi, ed il balivo di Digione dieci mila Svizzeri.
Quest'armata ne' primi giorni di aprile, trovandosi più numerosa di
quella dello Sforza, andò ad accamparsi tra Novara e Milano. In ambedue
le armate gli Svizzeri formavano essi soli quasi tutta l'infanteria, e,
trovandosi in procinto di venire alle mani gli uni contro gli altri,
ricominciarono ad unirsi agli avamposti, ad abboccarsi fra di loro, ed a
ristringere le relazioni d'amicizia o di parentela che gli univa gli uni
agli altri. Coloro che militavano nell'armata francese erano stati
levati con espressa licenza della federazione, ed avevano alla loro
testa le bandiere de' rispettivi cantoni: per lo contrario quelli del
duca erano individualmente entrati al suo soldo, senza l'assenso dei
loro governi. Sì gli uni che gli altri ricevettero nello stesso tempo un
ordine della dieta, che li richiamava in patria, e loro vietava di
spargere reciprocamente il sangue de' proprj fratelli. Gli Svizzeri del
duca, sedotti dalle pratiche de' loro compatriotti, e probabilmente
dall'oro francese, si tennero come più particolarmente obbligati ad
ubbidire. Essi dichiararono che, combattendo contro le bandiere de' loro
cantoni, rendevansi colpevoli di ribellione e si esponevano a capitale
castigo. Frattanto andavano cercando qualche pretesto per abbandonare il
principe cui servivano, e chiesero allo Sforza con minacciose e
tumultuarie grida di pagar loro il soldo arretrato. Il duca corse subito
tra le loro linee, e raccomandandosi alla loro generosità, distribuì
tutta l'argenteria e tutti gli effetti preziosi che aveva con sè:
inoltre attestava con giuramento di avere fatto chiedere danaro a
Milano, e li supplicava a pazientare tanto solamente che giugnesse
questo danaro. Ottenne in tal modo di calmarli per brevi istanti; indi
scrisse a suo fratello per affrettarlo a condurgli quattrocento cavalli
ed otto mila fanti italiani ch'egli aveva adunati, onde servirgli di
difesa in mezzo a così barbara soldatesca[61].

  [61] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 250. — Jos. Ripamonti Hist. Urb.
  Med., l. VII, p. 672. — Barth. Senaregae de reb. Genuens., p. 572._

Intanto i Francesi si andavano avanzando fra il Ticino e Novara, sicchè,
volendo Lodovico Sforza mantenersi libera la comunicazione con Milano,
era costretto di venire a battaglia; e così risolse di fare: il 10
d'aprile fece uscire dalle mura la sua armata, e cominciò la battaglia
colla sua cavalleria leggiera e co' suoi uomini d'armi borgognoni. Ma
gli Svizzeri, di già disposti in ordine di battaglia, dichiararono di
non volere combattere contro i loro compatriotti, e di volere
immediatamente prendere la strada della loro patria. Nello stesso tempo
rientrarono disordinatamente in città, e tutti gli altri soldati,
vedendosi da loro abbandonati, furono costretti a seguirli. Lo Sforza,
disperando di poterli ricondurre sul campo di battaglia, o di essere
vittorioso con truppe così mal disposte, domandò almeno nella più
commovente maniera, che le truppe che volevano ritirarsi provvedessero
prima alla sua sicurezza, e lo conducessero con loro. Era questo il
preciso dovere degli Svizzeri, e l'onore della nazione vi era talmente
interessato, che l'avrebbero sentito gli stessi loro compatriotti che
militavano nell'armata nemica, e non sarebbe stata difficil cosa che la
ritirata dello Sforza fosse stata per espressa condizione convenuta
nella loro capitolazione. Ma gli Svizzeri lo ricusarono aspramente, e
solo offrirono al duca ed a quelli dei suoi generali che potevano avere
ragioni di essere personalmente maltrattati, di nascondersi travestiti
tra i loro squadroni. Lo Sforza, di già vecchio, di colore oscuro, e di
scarna corporatura, non poteva passare per uno di que' robusti
montanari. Prese un abito di frate francescano, e, postosi sopra un
cattivo cavallo, tentò di passare pel loro cappellano. Galeazzo di
Sanseverino, il Fracassa ed Anton Maria, suoi fratelli, vestirono gli
abiti di soldati Svizzeri, e sfilarono così tra le linee dell'armata
francese, ma furono tutti quattro riconosciuti e fatti prigionieri senza
che i pretesi loro fratelli d'armi si movessero in loro difesa. Alcuni
traditori accrebbero in tal modo l'infamia degli Svizzeri, additando
queste quattro vittime ai loro nemici[62].

  [62] Memorie di Lodovico della Tremouille, _t. XIV, c. X, p. 162_.
  L'autore dichiara d'avere egli stesso conosciuto ed arrestato
  Lodovico il Moro in abito di francescano. Gli altri lo dicono
  travestito da svizzero. — _Giovanni d'Auton Storia di Lodovico XII,
  p. 110. — Mém. pour l'histoire de France, t. XIV, p. 292. — Saint
  Gelais hist. de Louis XII, publ. par Téod. Godefroi, Paris 1622,
  4.º, p. 159. — Garnier, hist. de France, t. XXI, p. 125, 4.º. —
  Chron. Ven., t. XXIV, p. 151._ — Rodolfo di Salis, detto il Lungo,
  Grigione, e Gasparo Silen d'Uri, che servivano nell'armata di
  Lodovico il Moro, sono da Giovio e dopo di lui da Belcario accusati
  d'averli additati ai Francesi. _Comm. Rer. Gallic., l. VIII, p.
  240._

Gli Svizzeri, dopo essersi infamati con questo tradimento, ripigliarono
la via delle loro montagne. Pure, passando per Bellinzona, quelli di
loro ch'erano usciti dai quattro cantoni posti in sulle rive del lago di
Lucerna, occuparono quella piccola città, che diventava per loro la
chiave della Lombardia, ed approfittarono della circostanza in cui
Lodovico XII trovavasi implicato in mille affari per assicurarsi una
conquista fatta in tempo d'intera pace[63].

  [63] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 250. — Jac_. _Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 110. — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 100. — Barth. Senaregae
  de Reb. Gen., t. XXIV, p. 572. — Josephi Ripamontii Hist. Urb.
  Mediol., l. VII, p. 673._

Le truppe italiane, abbandonate in Novara dagli Svizzeri, vennero
svaligiate. Il cardinale Ascanio non potendo in Milano difendersi colle
poche truppe che gli restavano, fuggì coi principali capi della nobiltà
ghibellina. Prese la strada dello stato di Piacenza per recarsi nel
regno di Napoli; ma giunto essendo a Rivolta presso Corrado Lando,
gentiluomo suo parente e suo antico amico, gli chiese ospitalità per
riposarsi una notte, trovandosi stanco all'estremo. Corrado gli promise
piena sicurezza, ed intanto fece avvisati dell'emergente alcuni capitani
veneziani, che si trovavano in Piacenza, i quali durante la notte
circondarono la sua casa e fecero prigioniere Ascanio con tutti i
gentiluomini che lo accompagnavano. Lodovico XII, sapendo in appresso
che questi prigionieri erano stati tradotti a Venezia, li domandò al
senato. Egli non voleva lasciare in mano di un popolo vicino pretendenti
allo stato che aveva allora conquistato, ed accompagnò le sue inchieste
con tanta alterigia e tante minacce, che non solo il cardinale Ascanio e
tutti gli arrestati con lui furono consegnati alla Francia, ma le furono
inoltre ceduti altri gentiluomini Milanesi, ai quali aveva accordata una
formale salvaguardia[64].

  [64] _F. Guicciardini, l. IV, p. 251. — Chr. Ven., t. XXIV, p.
  153-155-157. — Jos. Ripamontii Hist. Med., l. VII, p. 673. — Mém. de
  Mess. Louis de la Tremouille, t. XIV, p. 165._

Francesco Sforza aveva fondata la sua sovranità co' suoi talenti
militari, ed aveva dovuto credere la propria dinastia solidamente
stabilita; per lo contrario Lodovico XII, che risguardavasi quale
legittimo erede del ducato di Milano, era animato da non minore invidia
che odio contro colui ch'egli chiamava l'usurpatore. Egli fece conoscere
questi suoi sentimenti dopo la vittoria, e trattò tutti i membri della
famiglia di Francesco Sforza caduti in suo potere con quella implacabile
durezza con cui la mediocrità suole vendicarsi quando la fortuna le fa
buon viso. Tra i prigionieri del re trovavansi due figliuoli del grande
Francesco Sforza, Lodovico il Moro ed Ascanio, un nipote legittimo,
Ermes, e due bastardi, Alessandro e Contino, tutti e tre figliuoli di
Galeazzo, e finalmente un pronipote, Francesco, figlio di Gian Galeazzo
e d'Isabella d'Arragona, la quale aveva avuto l'imprudenza di porlo essa
medesima in mano di Lodovico XII. Il re forzò quest'ultimo a vestire in
Francia l'abito monastico[65]. Fece chiudere il cardinale Ascanio in
quella medesima torre di Bourges in cui era stato egli stesso da due
anni prigioniere. Fece gettare i tre figli di Galeazzo in un oscuro
carcere. Lodovico il Moro, di tutti il più pericoloso per i suoi
straordinari talenti, per la sua eloquenza, pel suo spirito insinuante,
per la memoria di suo padre, e per la compassione che ispiravano la sua
fortuna e le sue disgrazie, fu condotto a Lione ove in allora trovavasi
il re. Venne introdotto in quella città di pieno mezzo giorno tra un
affollato popolo che rallegravasi della sua miseria; fece calda istanza
per vedere il re, ma gli fu rifiutata questa grazia, e dopo essere stato
traslocato da Pietro in Scisa al Lis San Giorgio, venne chiuso nella
rocca di Loches, dove terminò i suoi giorni, dopo dieci anni di
prigionia, di assoluta solitudine, di rigorosi trattamenti e di
dolori[66].

  [65] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 247. — Rayn. Ann. Eccl. 1499, §
  24, p. 483. — Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 384._

  [66] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 252. — Chron. Veneta, t. XXIV, p.
  161. — Uberti Folietae Gen. Hist., l. XII, p. 675. — P. Bizzaro Sen.
  Pop. que Gen. Hist., l. XVI, p. 378. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall., l. VIII, p. 241. — Orl. Malavolti stor. di Siena, p. III, l.
  VI, f. 106, v. — Mémoires de chev. Bayard, c. XVI, t. XV, des. Mém.
  pour servir à l'Hist. de France, p. 1. — Ag. Giustiniani An. di
  Gen., l. V, f. 256. — Ar. Ferronii, l. III, p. 41._



CAPITOLO C.

      _Conquista della Romagna fatta da Cesare Borgia e sua invasione
      della Toscana. — Alleanza di Lodovico XII con Ferdinando il
      Cattolico contro Federico d'Arragona. — Si dividono tra di loro
      il regno di Napoli_.

1499 = 1501.


In sul finire del quindicesimo secolo la Chiesa aveva per capo l'uomo
più immorale della cristianità, un uomo che il pudore più non frenava
nelle sue dissolutezze, la buona fede non legava ne' suoi trattati, la
giustizia non tratteneva nella sua politica, non moderava nelle vendette
la compassione. Questo prete, che non pertanto mostrava di voler essere
il difensore della fede, ed il vindice delle eresie, non aveva maggior
rispetto per le cose della religione di cui era sommo pontefice, di quel
che avesse riguardi per le umane cose, e scandalizzava i fedeli non meno
con decisioni contrarie alle leggi della sua Chiesa, che colla sua
condotta. I divorzj dei principi, i voti dei prelati, i tesori destinati
dai cristiani per la guerra sacra, tutto a' suoi occhi era subordinato
alla politica, tutto sagrificato al più leggiere vantaggio temporale di
sè medesimo o di suo figlio.

Ma se alcuna cosa può giustificare o spiegare in parte la profonda
immoralità del sovrano di Roma, è la deplorabile corruzione del paese
soggetto al di lui governo. Forse in allora lo stato della Chiesa era di
tutti i paesi della terra il più male amministrato: ogni giorno si
avevano sotto gli occhi tanti esempi di assassinj, di perfidia e di
ferocia, e l'abitudine di vederli rinnovati ad ogni istante aveva
talmente diminuito l'orrore che devono naturalmente inspirare, che la
pubblica morale aveva perduta la sua maggiore guarenzia, che consiste
nella maraviglia e nello spavento che dovrebbe sempre produrre l'aperta
violazione delle sue leggi fondamentali.

La parte del territorio ecclesiastico più vicina a Roma era quasi tutta
caduta sotto il dominio di due potenti famiglie, Orsini e Colonna. Gli
Orsini in particolare avevano vasti dominj nel patrimonio di san Pietro
dalla banda occidentale del Tevere, i Colonna nella Sabina e nella
Campagna di Roma dalla banda di levante e di mezzodì dello stesso fiume.
I primi venivano risguardati come capi dei Guelfi, gli altri de'
Ghibellini; e questi nomi di fazioni, che omai più non indicavano
opposte opinioni, ma soltanto la memoria d'antichi odj, davano non
pertanto maggiore accanimento a tutte le contese che lordavano di sangue
Roma ed il suo territorio. Tutta la nobiltà seguiva queste due insegne;
i Savelli ed i Conti stavano d'ordinario pel partito Ghibellino, i
Vitelli per quello de' Guelfi.

Queste famiglie avevano fondata la loro potenza nella professione delle
armi e nell'amore de' soldati, mentre che i governi avevano
imprudentemente abbandonata a gente mercenaria la difesa dello stato.
Tutti gli Orsini e tutti i Colonna, i Savelli, i Conti, i Santacroce, e,
per dirlo in una parola, tutti i nobili feudatari romani erano
condottieri: ognuno di loro comandava ad una compagnia di uomini d'armi
più o meno numerosa, ma loro sommamente affezionata; ognuno
separatamente trattava coi re, colle repubbliche, coi papi, per porsi al
loro servigio; ognuno negl'intervalli di riposo, che loro lasciavano
l'esterne guerre, riparavasi in uno de' suoi castelli, lo afforzava
diligentemente, e cercava di addestrare nell'arte della guerra i suoi
vassalli, per trovare fra di loro onde mettere a numero la compagnia; e
per tal modo quanti più giovani capi contava una famiglia, e più
riputavasi potente.

Le frequenti accanite guerre dei Colonna cogli Orsini avevano affatto
spogliate le campagne di agricoltori. Tutti gli abitanti dimoravano
entro le terre murate, perchè ne' villaggi aperti non potevano trovare
sicurezza per i loro ricolti, pei bestiami e per le stesse loro persone.
Tutto ciò che avessero lasciato in una casa isolata sarebbe stato preda
de' soldati; non potevano nè pure sperar profitto da verun genere di
coltivazione che occupasse lungamente il suolo. Ne' crudeli guasti cui
andavano così frequentemente esposti, erano state svelte tutte le viti e
bruciati gli ulivi, onde più non ritraevano dai loro fondi che gli
uniformi prodotti annuali del pascolo e delle messi. Così andavasi
allargando la desolazione delle campagne romane, che, prive di abitanti
e di alberi, senz'ornamenti, senza siepi, non distinguevansi dai deserti
che a cagione di un lavoro fuggitivo, che dopo un anno non lasciava
veruna traccia. Pure i villaggi murati, la di cui vicina campagna veniva
tuttavia ravvivata da un annuale lavoro, non potevano essere ruinati
dalla guerra senza che l'intero distretto cessasse di essere coltivato.
Spesse volte dopo che un villaggio era stato bruciato e trucidati i suoi
abitanti, i loro eredi si trovavano tuttavia a portata di rialzare le
mura, e di porvisi in istato di difesa; ma se non avevano forza o danaro
per farlo, se le loro brecce restavano aperte, e se non erano in istato
di resistere ad un colpo di mano, invano si sarebbero lusingati di
godere essi medesimi i frutti de' loro sudori; perivano di miseria,
oppure, abbandonando quelle proprietà che non erano di veruna utilità,
portavano il loro lavoro in paesi ove potesse procurar loro un sicuro
sostentamento. Bentosto il cattivo aere del deserto occupava gli
abbondanti campi, e se in più tranquilli tempi i loro antichi abitatori
ardivano di ritornarvi, soggiacevano alle febbri maremmane. Vero è per
altro che, finchè i gentiluomini abitarono le loro rocche in mezzo ai
proprj vassalli, si fecero un essenziale dovere di riparare i disastri
della guerra, e finchè non mancarono loro affatto i mezzi, ripararono
sempre le ruinate fortificazioni, e mantennero ancora ne' loro feudi
qualche ramo d'industria, qualche popolazione, qualche ricchezza. Ma
quando in tempi più tranquilli stabilirono la loro dimora nella
capitale, gli estremi effetti delle funeste guerre de' loro antenati si
fecero sentire alla posterità, e gli ultimi avanzi della popolazione
scomparvero dalle campagne di Roma.

Alessandro VI non erasi conservato neutrale tra i Colonna e gli Orsini,
e ne' primi tempi del suo pontificato si era dichiarato contro i primi,
che aveva trovati partigiani della Francia, mentre egli stava per gli
Arragonesi di Napoli. Vero è che nel susseguente anno i Colonna
passarono sotto le insegne di Ferdinando II, e con ciò si riconciliarono
per qualche tempo col papa; ma questi si dichiarò bentosto per l'opposto
partito, ed essendosi unito alla Francia, si fece di nuovo a
perseguitare i Colonna. Armava sempre una di quelle famiglie contro
l'altra, e qualunque delle due rimanesse perdente o ruinata, egli
credevasi egualmente avvantaggiato. Cesare Borgia, duca del Valentinese,
e di lui figliuolo, s'appigliava per maggiormente abbassarli ad un altro
mezzo: erasi fatto egli medesimo condottiere; aveva raccolti sotto le
sue bandiere tutti i gentiluomini che prima servivano sotto i Colonna e
gli Orsini, e largamente pagandoli e loro dando soldati e castella,
aveva sostituito l'attaccamento per la sua persona all'antico spirito di
parte, che favoriva i Colonna e gli Orsini[67].

  [67] _Machiavelli il Principe, c. VII, p. 54._

Se l'autorità del pontefice era pochissimo conosciuta nella stessa
campagna di Roma, e s'egli era forzato a guerreggiare perfino nelle
strade della sua capitale ora contro i Colonna ora contro gli Orsini,
era cosa naturale che le più lontane province avessero scossa ancora più
compiutamente la sua autorità. Alcune città avevano sempre mantenuta se
non altro la forma di un'amministrazione repubblicana; Ancona, Assisi,
Spoleto, Terni, Narni, eransi sottratte al giogo de' domestici tiranni,
o l'avevano scosso; ma le proprie loro fazioni e le continue guerre de'
loro vicini, le avevano sempre tenute in uno stato di debolezza e di
oscurità. Le altre città erano venute in balìa de' vicarj pontificj, i
quali, mercè la promessa di un annuo censo che mai non pagavano, avevano
ottenuta una intera indipendenza. Quasi tutta la Marca era divisa tra le
due case di Varano e di Fogliano, e la prima si era sollevata alla
sovranità di Camerino. Giulio di Varano regnava allora in quel piccolo
principato: Giovanni di Fogliano, che non molto dopo fu barbaramente
assassinato da suo nipote Oliverotto, regnava in Fermo[68]. Sinigaglia
nel 1471 era stata data in feudo da Sisto IV a suo nipote, Giovanni
della Rovere, col titolo di prefetto di Roma, e questo principe era
nello stesso tempo genero e presuntivo erede del duca d'Urbino.
L'alpestre provincia posta tra le Marche e la Toscana era governata da
Guid'Ubaldo, illustre ed ultimo erede dell'antica casa di Montefeltro:
questa provincia comprendeva il ducato d'Urbino da cui s'intitolava, il
contado di Montefeltro e la signoria d'Agobbio. L'Italia non aveva nè
più bellicosa gente, nè altra corte più letterata e più gentile. A
ponente il ducato d'Urbino confinava colle due sovranità che si erano
formate nella Vallata del Tevere Gian Paolo Baglioni a Perugia, e
Vitellozzo Vitelli a Città di Castello. Avevano ambidue abbracciata la
professione delle armi, ed il Vitelli aveva renduto importante il suo
piccolo stato coi rari talenti militari da lui spiegati e da' suoi
quattro fratelli, e coll'eccellente disciplina introdotta tra i suoi
vassalli.

  [68] _Machiavelli il Principe, c. VIII, p. 264._

Dalla banda della Romagna trovavasi successivamente Pesaro, piccolo
principato staccato nel 1445 da quello dei Malatesta da Francesco
Sforza, a favore del ramo cadetto della sua famiglia; n'era sovrano in
allora Giovanni Sforza, che nel 1497 aveva fatto divorzio con Lucrezia
Borgia, figliuola del papa. Il principato di Rimini che veniva in
seguito più non conservava la potenza cui era stato innalzato da
Pandolfo III e da suo fratello Carlo nel quattordicesimo secolo; era in
quel tempo governato da Pandolfo IV, che aveva cominciato a regnare nel
1482. Questo principe, figliuolo naturale di Roberto Malatesta e genero
di Giovanni Bentivoglio, non si era per anco dato a conoscere che colle
sue dissolutezze e colle crudeltà; ma trovavasi sotto la protezione
della repubblica di Venezia, che per dilatare più sicuramente la sua
influenza su tutte le coste dell'Adriatico, offriva soldo a tutti i
principi di quella provincia. Coloro che volevano accettarlo non erano
tenuti a condurre essi medesimi le compagnie degli uomini d'armi che si
obbligavano a mantenere, altro ciò non essendo che un pretesto per avere
un'onorevole pensione. Cesena, posta a ponente di Rimini, trovavasi in
allora sotto l'immediato dominio della Chiesa, che l'aveva tolta ad un
ramo della casa Malatesta[69]. Ma Forlì, antica signoria degli
Ordelaffi, era del 1480 passata in Girolamo Riario, nipote di Sisto IV,
che nel 1473 era pure stato investito da suo zio della signoria d'Imola.
Questi due principati, separati l'uno dall'altro da quello di Faenza,
fino dal 1488 erano soggetti al giovane Ottaviano Riario, sotto la
tutela di sua madre, la coraggiosa Catarina Sforza, figlia naturale di
Galeazzo, duca di Milano. Aveva costei sposato in seconde nozze Giovanni
de' Medici appartenente al ramo cadetto di quella casa, da cui ebbe un
figliuolo, che acquistò poi tanta celebrità nelle guerre d'Italia. Suo
marito era morto nel 1498, ma Catarina non aveva perciò conservato
minore attaccamento verso la repubblica fiorentina, la quale per arra
della sua protezione pagava un soldo al giovane Ottaviano Riario. Tra i
principati di Forlì e d'Imola trovavasi chiuso quello di Faenza, che per
la valle del Lamone si stendeva fino ai confini della Toscana. I
Veneziani avevano data somma importanza all'apertura di questo passaggio
per attaccare la repubblica fiorentina; si erano procurata la tutela del
giovane Astorre III di Manfredi, che aveva soltanto sedici anni; avevano
compresse le guerre civili tra Astorre e suo fratello naturale
Ottaviano, ed erano quasi assoluti padroni di Faenza e di Val di
Lamone[70]. Gli stessi Veneziani si erano impadroniti di Ravenna e di
Cervia, togliendo la prima alla casa di Pollenta, l'altra ad un ramo
cadetto della casa Malatesta. Giovanni Bentivoglio fino dal 1462 regnava
con assoluto potere sulla ricca e potente città di Bologna. Per ultimo
il duca Ercole d'Este era il più lontano ed il più indipendente de'
feudatarj della Chiesa. Egli riconosceva da questa il Ferrarese, che da
più secoli era governato dalla sua famiglia; lo univa ai feudi imperiali
di Modena e di Reggio, ed appena pensava che la sua causa potesse aver
nulla di comune con quella degli altri vicarj pontificj.

  [69] _Fr. Guicciardini, Stor. Fior., l. IV, p. 245._

  [70] _And. Navagero Stor. Ven., p. 106. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  III, p. 51._

Le numerose corti di tanti piccoli signori davano alla Romagna
un'apparenza d'eleganza e di ricchezza: ogni capitale era ornata di
templi e di palazzi vagamente fabbricati, ognuna aveva la sua
biblioteca, ed ogni corte cercava in tal maniera di abbellirsi col lusso
dell'ingegno: alcuni poeti, alcuni eruditi, alcuni filosofi si trovavano
sempre tra i cortigiani d'ogni principe, e la rivalità di tutti questi
piccoli stati giovava indubitatamente ai progressi delle lettere,
sebbene il più delle volte avvilisse il carattere de' letterati. Ma
l'assoluta potenza suole generare dispendiosi vizj; tutti gli adulatori
del più piccolo sovrano ripongono la munificenza nel novero delle sue
virtù, ed egli stesso non sa porre maggior limite ai suoi desiderj che
se fosse sovrano del più vasto impero. Perciò ogni principe della
Romagna trovava sempre le sue entrate sproporzionate ai bisogni della
sua difesa, della sua vanità, dei suoi piaceri. Era sempre attento ad
approfittare di ogni occasione per istrappare a' suoi sudditi qualche
parte delle loro sostanze; e siccome le imposte non bastavano di lunga
mano, vi aggiugneva il prodotto delle ammende e delle confische. «Uno
de' loro disonesti modi di far danaro, era, dice Machiavelli, quello di
pubblicare leggi proibitive di qualche azione; erano poi i primi a dar
motivo di violarle, e si astenevano dal punire i delinquenti, finchè un
grandissimo numero di cittadini fossero caduti nello stesso fallo.
Allora gli attaccavano tutti ad un tratto, non per amore dell'osservanza
delle leggi, ma per guadagnare le ammende. Così i popoli diventavano
poveri senza correggersi; e quand'erano ridotti in miseria, cercavano di
riavere quello che avevano perduto a danno di coloro che non potevano
difendersi»[71].

  [71] _Machiavelli dei Discorsi sopra Tito Livio, l. III, c. 29, p.
  145._

V'hanno certi delitti che sembrano di esclusiva pertinenza di quelle
famiglie, che, separate da tutte le altre, sciolte da ogni legame
sociale, non appresero a sentire come la comune degli uomini, e non si
credono soggette alla stessa morale. In fatti le case sovrane della
Romagna avevano dati al popolo frequenti esempi d'assassinj fra i
congiunti, d'avvelenamenti e di tradimenti d'ogni genere. Le nobili
famiglie credevano inoltre di comprovare l'indipendenza di cui godevano
colla crudeltà delle loro vendette. Numerose bande di sicarj venivano
continuamente adoperate per attaccare o per difendersi: i nemici non
erano soddisfatti, finchè conservavasi un solo individuo, di qualunque
sesso egli si fosse, nella casa che volevano distruggere. Quando
Arcimboldo, arcivescovo di Milano, fu nominato cardinale di santa
Prassede e legato di Perugia e dell'Ombria, trovò in quella provincia un
gentiluomo, che aveva schiacciato contro le pareti il capo de' figliuoli
del suo nemico e strozzata la consorte di lui gravida; dopo di che,
avendo scoperto un altro figlio dello stesso uomo ch'era rimasto vivo,
l'aveva inchiodato alla porta della propria casa quale trionfo della sua
vendetta, come talvolta i cacciatori vi appiccano le aquile e i gufi da
loro uccisi. E ciò che più importa, tanta atrocità non era sembrata ai
suoi compatriotti una cosa straordinaria[72].

  [72] _Jos. Ripamontii Hist. Urb. Med., l VII, p. 667._

Siccome la desolazione della campagna di Roma è ancora ai nostri giorni
un testimonio delle antiche guerre dei Colonna e degli Orsini, così
l'attuale carattere dei Romagnoli ricorda tuttavia l'educazione che
diede loro il governo dei piccoli loro principi, e l'esempio troppo
frequente di tante famiglie sovrane. Dante fino nel 1300 li denunciava
all'Italia come crudeli e perfidi, ed i loro vicini hanno di loro anche
nell'età presente la stessa opinione[73].

  [73] _Inferno Cant._ XXVII, XXVIII, ed altrove.

Un così fatto governo non potev'essere amato dal popolo; la forza lo
aveva stabilito, e la forza lo manteneva: se poteva altresì essere
rovesciato dalla forza, non doveva riuscire assai difficile lo
stabilirne un altro, che gettasse nel cuore dei sudditi più profonde
radici. Avendo Alessandro VI presa la risoluzione d'ingrandire suo
figlio a spese del patrimonio della Chiesa, Cesare Borgia non s'ingannò,
giudicando, che, ove potesse occupare i piccoli stati di Romagna, que'
popoli gli condonerebbero tutti i delitti, tutte le crudeltà, tutti i
tradimenti diretti soltanto contro i loro antichi signori, purchè lo
stato loro diventasse più tranquillo. e vi si mantenesse la giustizia e
la pace[74].

  [74] _Machiavelli il principe, c. VII._

La segreta condizione in forza della quale Lodovico XII aveva ottenuta
l'alleanza del papa e la bolla pel suo divorzio, era stata la promessa
del re di Francia di assecondare Cesare Borgia nella sua impresa della
Romagna. Infatti non appena fu per la prima volta conquistato il ducato
di Milano dai Francesi, che il duca Valentino, il quale era con loro
tornato dalla Francia, ottenne che si staccassero dalla loro armata
trecento lance pagate dal re, sotto gli ordini d'Ivone d'Allegre, e
quattro mila Svizzeri, comandati dal balivo di Digione, e pagati dalla
Chiesa[75]. Con queste truppe il Borgia si presentò sotto Imola in sul
finire di novembre del 1499. La città, ch'era mal fortificata, capitolò
immediatamente, ma la rocca oppose qualche resistenza, e negli ultimi
tre giorni di novembre il suo fuoco recò molto danno ai Francesi.
All'ultimo dovette capitolare il 9 di dicembre[76]. Il Valentino si
presentò subito dopo a Forlì. Catarina Sforza aveva prudentemente
mandato a Firenze suo figlio e tutti i suoi più preziosi effetti; e
perchè non giudicò la guarnigione sotto i suoi ordini sufficiente a
tenere la città, si chiuse nella rocca, e la difese con un coraggio
degno di quello col quale aveva salvata la medesima rocca nel 1488 dalle
mani degli assassini di suo marito. Intanto l'artiglieria francese fece
una larga breccia nelle mura, che cadendo strascinarono seco il
terrapieno che sostenevano, e colmarono parte della fossa. Catarina ed i
suoi soldati, abbandonando allora il restante della fortezza, vollero
difendere ancora la torre maestra, ma i Francesi, che montavano
all'assalto, vi penetrarono coi fuggiaschi, uccisero la maggior parte
della guarnigione, e mandarono Catarina prigioniera a Roma. Il papa la
tenne per alcun tempo chiusa in Castel sant'Angelo, ma Ivone d'Allegre,
vergognandosi del male che fatto aveva ad una donna così illustre, fece
per lei così calde istanze, che venne posta in libertà[77].

  [75] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 245. — Jac. Nardi, l. III, p.
  106._

  [76] _Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 373_. — Udivasi, stando a Ferrara,
  il cannonamento della rocca. — _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 245. —
  Jo. Burchardi Diar. Curiae Rom. apud Jo. Georg. Eccardum, script.
  Med. Aevi, t. II, p. 2109. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259._

  [77] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 246. — Diar. Ferr., p. 375, 377. —
  Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2111. — J. Nardi, l. III, p. 106.
  — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 98._

Di quest'epoca le conquiste di Cesare Borgia vennero interrotte dalla
rivoluzione di Milano. Ivone d'Allegre fu dal Trivulzio richiamato in
Lombardia, allorchè il duca Valentino era in procinto d'attaccare
Pesaro[78]. La rivoluzione di Milano fu inoltre cagione di qualche
raffreddamento tra il papa ed il re, perchè Alessandro ricusava di
prestare veruna assistenza ai Francesi. Ma Giorgio d'Amboise, cardinale
di Rovano, e favorito di Lodovico, credeva cosa di troppo grande
importanza l'alleanza colla corte di Roma, perchè non riuscisse ad
Alessandro di riconciliarsi facilmente colla Francia. Il prezzo di tale
riconciliazione fu la missione di legato _a latere_ in Francia, che il
papa accordò al cardinale per diciotto mesi, obbligandosi in pari tempo
ad ajutare il re con tutte le sue forze, allorchè questi farebbe
l'impresa del regno di Napoli; in contraccambio Lodovico rimandò
d'Allegre in Romagna con trecento lance e due mila fanti, facendo
inoltre partecipare a tutti i potentati d'Italia che risguarderebbe come
un'ingiuria fatta a lui medesimo ogni opposizione alle conquiste di
Cesare Borgia[79].

  [78] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 246. — J. Nardi, l. IV, p. 109. —
  P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 99._

  [79] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 258. — Fr. Belcarii Com., l. VIII,
  p. 244._

Le minacce di Lodovico XII riuscivano a Cesare Borgia assai più
vantaggiose che non lo sarebbero state le sue armate. La seconda
vittoria de' Francesi nel Milanese aveva incusso un terrore universale,
ed i loro alleati non tremavano meno de' loro nemici. Giovanni
Bentivoglio, che a stento aveva ottenuto il perdono dei soccorsi dati
allo Sforza, mediante una contribuzione di quaranta mila ducati[80], si
astenne dal prestare ajuto ad Astorre III di Manfredi, sebbene fosse
figlio d'una sua figliuola. Il duca di Ferrara ed i Fiorentini si
mostrarono egualmente paurosi di offendere la Francia, e ricusarono ogni
soccorso; per ultimo i Veneziani, che si erano obbligati a proteggere
gli stati di Manfredi e di Malatesta, quando avevano fatto con loro un
trattato d'alleanza e di _condotta_, fecero sapere ad Astorre III,
signore di Faenza, ed a Pandolfo IV, signore di Rimini, che ritiravano
la loro protezione e rinunciavano alla loro alleanza. In pari tempo
fecero inscrivere il duca Valentino nel loro libro d'oro, ammettendolo
in tal modo nel numero de' loro gentiluomini sovrani della
repubblica[81].

  [80] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 255. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  259._

  [81] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 258. — P. Bembi Ist. Ven., l. V, p.
  109. — Diar. Ferrar., p. 389._

Avendo Cesare Borgia uniti alle truppe francesi settecento uomini d'armi
di sua spettanza e sei mila fanti, entrò in Romagna. Al suo avvicinarsi
i signori di Rimini e di Pesaro fuggirono e gli abbandonarono senza fare
veruna resistenza le capitali e stati loro; ma per lo contrario il
giovane Astorre di Manfredi si apparecchiò a difendersi in Faenza,
sebbene altro appoggio non avesse che lo zelo e l'amore de' suoi
concittadini. Per altro la metà del suo piccolo stato non aveva seguite
le disposizioni della capitale; e Valle di Lamone colla rocca di
Bersighella, che n'era la chiave, era stata ceduta al duca Valentino da
Dionigi Naldo, il più riputato personaggio di quella valle, che da gran
tempo trovavasi ai servigj del duca. In appresso il Borgia andò ad
accamparsi sotto Faenza tra i fiumi Lamone e Marzano, e scoprì le sue
batterie il 20 di novembre dal lato che guarda Forlì e chiamasi il
Borgo, sebbene chiuso entro il ricinto delle mura. Il quinto giorno
diede un assalto che fu valorosamente sostenuto dagli assediati; onde,
incoraggiati da quello avvenimento, i Faentini attaccarono gli
assalitori con frequenti sortite, e quasi sempre felicemente. Avevano
essi bruciate tutte le case poste intorno alle mura, e tagliati tutti
gli alberi fino ad una considerabile distanza dalla città; e perchè di
già cominciava a farsi sentire un rigoroso inverno, e perchè le truppe
degli assedianti trovavansi sepolte in profonde nevi, il duca Valentino
dovette nel decimo giorno levare il campo per ritirarsi ai quartieri
d'inverno. Per altro giurò che nella vegnente primavera si vendicherebbe
della inaspettata resistenza che gli aveva opposta un fanciullo[82].

  [82] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 259. — Jac. Nardi, l. IV, p. 115. —
  Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 261. — Diario di Ferrar. p. 390. — Fr.
  Belcarii Com. Rer. Gall., l. VIII, p. 244._

In principio di gennajo del 1501 il Borgia tentò di sorprendere Faenza,
dandole la scalata, ma venne respinto; riaprì la campagna in sul
cominciare di primavera, prese diverse rocche dipendenti da quel piccolo
principato, ed il 12 di aprile fece giuocare le sue batterie contro la
città dalla banda della rocca; il 18 di aprile fece dare un primo
assalto che fu respinto; il 21 Vitellozzo, Paolo e Giulio Orsini ne
diedero un altro; essi superarono la muraglia, ma furono trattenuti da
una fossa che avevano a fronte, mentre l'artiglieria della piazza li
batteva di fianco. Dopo avere sofferto una perdita considerabile furono
costretti a ritirarsi. Per altro i Faentini avevano dal canto loro
perduta molta gente nei diversi fatti; non eravi alleato che si muovesse
a soccorrerli, e le fortificazioni della città erano ruinate. Offrirono
perciò di capitolare, a condizione che il loro giovane signore, Astorre
Manfredi, sarebbe libero di ritirarsi dove gli piacesse, conservando le
sue entrate patrimoniali. L'accordo fu sottoscritto, e le porte di
Faenza si aprirono al Valentino il 22 di aprile del 1501. Il duca
accolse con apparente benevolenza il giovane Manfredi, che non aveva
allora più di diciotto anni; dichiarò di volerlo ritenere alla propria
corte, onde addestrarlo nel mestiere delle armi. Con tale pretesto di là
a pochi giorni lo mandò a Roma, dove il giovane principe di Faenza, dopo
essere stato vittima delle lubricità del papa o di suo figlio, fu
strozzato con suo fratello naturale, e tutti e due gittati di notte nel
Tevere[83].

  [83] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 262. — Burchardi Diar. Cur. Rom. p.
  2128. — Jac. Nardi, l. IV, p. 118. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  263. — Diar. Ferrar., p. 394, 395. — P. Giovio Vita di Leon. X, l.
  I, p. 72. — Ann. Eccl. 1501, § 15, p. 507._

La conquista della Romagna era compiuta colla sommissione di Faenza, ma
tuttavia mancava un atto che potesse chiamarsi legittimo, il quale
servisse di fondamento al nuovo potere del duca Valentino. Il papa non
poteva alienare i dominj della Chiesa senza l'assenso dei cardinali;
perciò Alessandro VI con una nuova promozione volle assicurarsi la
maggiorità del concistoro. Dodici nuovi cardinali, comperando a danaro
contante i loro cappelli, rifecero il tesoro del pontefice, oltre
l'avere anticipatamente obbligati i loro voti[84]. Il sacro concistoro
acconsentì all'alienazione della Romagna, la quale si eresse in ducato a
favore di Cesare Borgia, che, dopo averne ricevuta l'investitura,
aggiunse questo nuovo titolo a quello di duca dei Valenziani[85].

  [84] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 259._

  [85] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 262. — Orl. Malavolti, p. III, l.
  IV, f. 107, v._

Cesare Borgia non aveva risparmiato verun tradimento per rendersi
padrone della Romagna, e non lasciava ancora di tendere lacci ai piccoli
principi che egli aveva spogliati per farli perire, conoscendo, che fin
a tanto che rimarrebbero le antiche famiglie sovrane in istranieri
paesi, cercherebbero sempre di eccitare contro di lui sollevazioni, ed
il suo trono sarebbe sempre vacillante. Ma voleva nello stesso tempo
adonestare agli occhi del popolo tali atti di crudeltà con
un'amministrazione che facesse nei suoi stati fiorire la giustizia e la
sicurezza. Erano quelle province da tanti malfattori infestate, erano in
preda a così crudele anarchia, che trovò necessario di reprimere in sul
principio tanti delitti con estrema severità. Creò governatore di quello
stato messer Bamiro d'Orco, uomo attivo ed inesorabile, più severo per
carattere che per principj, e che sembrava trovar diletto nell'ordinare
supplicj. Valendosi dell'illimitata autorità accordatagli da Cesare
Borgia questo supremo giudice sparse il terrore in tutte le città con
sanguinose esecuzioni; perseguitò i malfattori fino negli ultimi loro
nascondigli, moltissimi ne fece perire, forzò gli altri a fuggire dalla
provincia, nella quale fece rivivere quella regolarità di polizia, e
quella piena sicurezza nelle strade e nelle campagne, che da gran tempo
più non si conoscevano. Ad ogni modo il Valentino non voleva che gli si
attribuissero le crudeltà dell'amministrazione del suo luogotenente:
l'ordine era ristabilito, la crudeltà più non era necessaria, e gli
abitanti di Cesena furono una mattina compresi da profondo orrore e da
maraviglia, trovando sulla pubblica piazza innalzato un palco sul quale
stava diviso in due parti l'uomo terribile innanzi al quale avevano fin
allora tremato. Il ceppo, la scure insanguinata e le due metà del
cadavere rimasero esposti agli occhi di tutti senz'altra
spiegazione[86].

  [86] Quest'esecuzione ebbe luogo il 23 dicembre del 1502. _Machiav.
  Legaz. I, lett. 19, p. 63. — Idem il Principe, cap. VII._

La conquista della Romagna, ben lungi dal soddisfare l'ambizione di
Cesare Borgia, non servì che ad invogliarlo di più alte intraprese. Il
Bolognese, la Toscana, le Marche ed il ducato d'Urbino stuzzicavano a
vicenda la sua cupidigia, e sembravangli premj promessi ad ulteriori
imprese. La Toscana contava nuovamente quattro repubbliche, Firenze,
Pisa, Siena e Lucca, oltre il piccolo principato di Piombino. Ma questo
paese non era mai stato ridotto a tanta debolezza come al presente da
imprudenti guerre, nè meno atto a resistere ad un esterno nemico. Una di
queste repubbliche, quella di Siena, pareva inoltre che avesse
rinunciato a quella libertà, che l'aveva renduta gloriosa. Si era data
un padrone, che aveva bisogno di tutta la propria accortezza e di tutta
la sua possanza per istare in sulle difese contro i suoi proprj
concittadini, e per conseguenza più non poteva valersi al di fuori di
una forza che consumavasi in seno allo stato.

Nel 1495, temendo i Sienesi la vendetta de' Fiorentini, cui avevano
tolto Montepulciano, introdussero nella loro città un corpo permanente
di truppe di linea, cui avevano dati per capi due loro concittadini
Lucio Bellanti e Pandolfo Petrucci. Avevano in pari tempo accordato a
questi due capitani un'illimitata autorità giudiziaria per castigare le
cospirazioni da cui si credessero minacciati. Le funzioni di questi due
giudici militari non dovevano durare che pochi mesi[87]; ma Pandolfo
Petrucci era troppo ambizioso per rinunciare ad un potere di cui era
stato una volta rivestito, e troppo accorto per lasciarselo rapire. A
lui solo essendo affezionati i soldati da lui dipendenti, fece accusare
Lucio Bellanti, suo collega, di segrete pratiche coi Fiorentini e con
ciò lo costrinse a fuggire. E perchè suo suocero, Niccolò Borghese, capo
d'una fazione opposta alla sua, cercava ancora di limitare la di lui
autorità, Pandolfo lo fece tagliare a pezzi sulla pubblica piazza il
giorno 19 di luglio del 1500[88]. Fu questa, a dir vero, la sola
circostanza in cui versò sangue; ma con ciò atterrì gli altri suoi
avversarj, che presero volontario esilio. Egli palliò la sua autorità
sotto quella dell'ordine dei Nove cui apparteneva e cui mostrava di
servire; nè mai prese verun titolo, nè mai si allontanò dalle costumanze
di semplice cittadino: nè col proprio matrimonio, nè con quello dei suoi
figliuoli cercò d'imparentarsi con famiglie principesche, ma soltanto
coi suoi concittadini, fin allora suoi eguali. Conservò sempre le
semplicità delle vesti, il mantello nero che portavano tutti i Sienesi;
e ne' suoi pranzi si contenne costantemente entro i limiti di modesto ed
economo cittadino; non edificò che una privata comoda abitazione, senza
darle la sontuosa eleganza de' palazzi; e per dirlo in una parola, in
tutto il corso del viver suo cercò di coprire e di far dimenticare
l'assoluta sua autorità[89].

  [87] _Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 102, v._

  [88] _Id., f. 105._

  [89] _P. Giovio Elogi d'Uomini illustri, l. V, p. 299._

Non pertanto il duca Valentino risguardava il nuovo principato di
Pandolfo Petrucci e la piccola signoria di Piombino, appartenente a
Giacomo IV d'Appiano, come le due parti della Toscana che potrebbe
attaccare con migliore speranza di felice successo, e quelle che
dovevano fargli strada ai suoi vasti disegni di conquiste; nello stesso
tempo gli altri stati della provincia gl'inspiravano poco timore;
perciocchè la repubblica di Firenze, che ne' precedenti tempi era sempre
stata la gelosa custode dell'indipendenza italiana, trovavasi talmente
spossata dalla guerra di Pisa, dallo spirito rivoluzionario de' suoi
sudditi, e dai disordini dell'interna sua amministrazione, che tutto
aveva a temere dall'ambizioso vicino che attaccava un dopo l'altro e si
assoggettava tutti i confinanti stati, prima di venire con essa
all'esperimento delle armi.

Mentre che Cesare Borgia terminava colle truppe francesi la conquista
della Romagna, i Fiorentini avevano cercato di sottomettere Pisa,
valendosi ancor essi delle truppe francesi, ma non avevano provati che
rovesci. Lodovico XII, dopo la conquista di Milano e mentre si
apparecchiava a fare l'impresa di Napoli, aveva cercato di tenere in
Italia esercitati i suoi soldati e di mantenerveli a spese de' suoi
alleati, ed aveva con tali viste prestato orecchio alle contrarie
negoziazioni dei Fiorentini e de' Pisani. I primi chiedevano al re
l'adempimento de' trattati tante volte rinnovati con Carlo VIII, e la
restituzione di Pisa e delle sue fortezze; domandavano gli altri che
sostenuta fosse una indipendenza loro data dalla Francia, e di concerto
coi Sienesi, coi Genovesi, coi Lucchesi, offrivano cento mila ducati per
prezzo della libertà di Pisa, di Montepulciano e di Pietra Santa;
inoltre promettevano l'annuo tributo di cinquanta mila ducati, se il re
obbligava i Fiorentini a rendere a Pisa il porto di Livorno, che in
addietro apparteneva a quella repubblica. Gian Giacopo Trivulzio e Gian
Luigi del Fiesco caldamente appoggiavano i Pisani, ma in quest'occasione
il cardinale d'Amboise preferì l'onore e la parola del re all'esca del
danaro che venivagli offerto. Con tutti i suoi trattati la Francia aveva
guarentita la restituzione di Pisa ai Fiorentini, e pareva che questi
avessero acquistati ulteriori diritti alla riconoscenza del re collo
zelo con cui avevano somministrati sussidj in danaro per ricuperare lo
stato di Milano dopo l'invasione di Lodovico il Moro. Perciò Giorgio
d'Amboise stipulò con loro un nuovo trattato, in forza del quale loro
prometteva di ajutarli a ricuperare Pisa e Pietra Santa, ed obbligavasi
a mandar loro a tal fine pel primo di maggio del 1500 seicento lance e
cinque mila Svizzeri, coll'artiglieria e munizioni necessarie. Durante
questa spedizione gli uomini d'armi dovevano essere al soldo del re; ma
gli Svizzeri dovevano essere pagati dalla repubblica fiorentina[90].

  [90] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 254. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  259. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 110. — Ist. di Gio. Cambi,
  t. XXI, p. 150._

Il re aveva determinato di dare il comando di quest'armata ad Ivone
d'Allegre, uno de' suoi migliori ufficiali; ma i Fiorentini, che più
volte avevano avuto cagione di non essere contenti de' generali
francesi, un solo ne conoscevano nel quale avessero intera confidenza, e
questi era Ugone di Belmonte, il quale, essendo stato nella precedente
guerra incaricato del comando di Livorno, avea loro consegnata quella
piazza nel convenuto termine, senza cercare pagamento per aver fatto il
suo dovere, e senza pensare come i suoi colleghi a vendere a' nemici del
suo padrone l'ingresso della sua fortezza. Perciò chiesero
premurosamente a Lodovico XII il Belmonte per comandare la loro armata,
e l'ottennero, sebbene il re trovasse questo gentiluomo di meno elevato
grado che non si conveniva per tenersi ubbidiente e rispettosa una così
ragguardevole armata[91].

  [91] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 254 — Jac. Nardi, l. IV, p. 110. —
  Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 259._

Intanto il Belmonte si pose in cammino; ma prima che giugnesse ai
confini della Toscana, i Fiorentini ebbero nuove occasioni di lagnarsi
della mala fede de' Francesi. Fin dal primo di maggio i pedoni erano al
soldo della repubblica; si era calcolato che costerebbero ventiquattro
mila ducati al mese, lo che corrisponde ad una lira e 92 centesimi
dell'attuale moneta al giorno per ogni pedone svizzero. Non pertanto
tutto il primo mese si consumò nel porre a contribuzione i piccoli
signori di Carpi, di Correggio e della Mirandola, che si erano
dichiarati a favore di Lodovico Sforza. Dopo avere estorti a questi
piccioli principi di Lombardia venti mila ducati ed altri quaranta mila
a Giovanni Bentivoglio[92], l'armata francese entrò finalmente in
Toscana per la strada di Pontremoli; ma le prime ostilità furono dirette
contro Alberico Malaspina, alleato della repubblica, che i Francesi
spogliarono della signoria di Massa per darla a suo fratello Gabriele.
Colà i commissarj fiorentini, Giovan Battista Ridolfi e Luca Antonio
Albizzi, trovarono l'armata del Belmonte e la passarono in revista.
Avevano seguite le bandiere due mila Svizzeri di più di quelli ch'erano
stati domandati; e fu d'uopo cominciare dal pagar loro due mesi di soldo
senza che avessero prestato verun servigio. Per altro l'armata si avanzò
e si fece aprire le porte di Pietra Santa; ma invece di consegnare
quella fortezza ai Fiorentini, in conformità del trattato, la ritenne in
deposito, finchè il re potesse decidere, dopo la sommissione di Pisa,
intorno alle ragioni di coloro che la pretendevano[93].

  [92] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 255._

  [93] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 255. — Jac. Nardi, l. IV, p. 111.
  — Scipione Ammirato, l. XXVII, p. 259._

Finalmente l'armata arrivò sotto Pisa, e il 29 di giugno aprì la trincea
tra la porta a Mare e la porta di Calci: durante la notte furono posti i
cannoni in batteria, ed all'indomani, tre ore prima di notte, erano di
già state atterrate quaranta braccia di mura. I Francesi e gli Svizzeri
corsero subito all'assalto senza voler altro aspettare e senza aver
fatta riconoscere la breccia. Ma quand'ebbero appena passata la
muraglia, furono trattenuti da una larga fossa, che non credevano di
trovare, e che non potevano superare. Dopo avere fatto qualche inutile
sforzo per attraversarla ed avere perduta molta gente, furono
dall'oscurità della notte costretti a ritirarsi nel loro accampamento; e
dopo questo sperimento più non vollero tentare verun vigoroso
attacco[94].

  [94] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 255. — Jac. Nardi, l. IV, p. 112. —
  Scipione Ammirato, l. XXVII, p. 260._

Non è già che alle truppe francesi mancasse il coraggio, ma sibbene la
volontà di nuocere ai Pisani. Appena avevano questi veduto avvicinarsi
l'armata destinata ad espugnarli, che avevano trovato il modo di
risvegliare nella medesima col loro affetto, colla loro confidenza, e
nello stesso tempo col loro valore l'antica parzialità tanto chiaramente
dichiarata ai tempi di Carlo VIII. L'armata francese trovavasi ancora
nel territorio di Lucca, allorchè due ambasciatori pisani eransi
presentati al Belmonte per dichiarargli che ponevano la loro città sotto
la protezione del re di Francia. Altri nello stesso tempo erano stati a
portare una simile dichiarazione a Filippo di Rabenstein, governatore di
Genova a nome del re, e questo capitano l'aveva imprudentemente
accettata a nome di Lodovico XII. Allorchè il Belmonte spedì un araldo
d'armi ad intimare ai Pisani d'aprirgli le porte della città, risposero
di non aver altro desiderio che quello d'ubbidire al re di Francia, e di
ricevere la sua armata entro le loro mura; al che non mettevano che una
sola condizione: che il re non gli assoggetterebbe giammai ai
Fiorentini[95].

  [95] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 256._

Dal canto suo il Belmonte aveva mandato ai Pisani due gentiluomini,
Giovanni d'Arbouville ed Ettore di Montenart, per invitarli a darsi
volontariamente agli antichi loro padroni. Questi cavalieri, condotti in
cerimonia al palazzo del comune, vi trovarono il ritratto di Carlo VIII
esposto alla venerazione del popolo col titolo di liberatore di Pisa:
furono supplicati a non distruggere l'opera di questo re, protettore
della libertà pisana, ma piuttosto ad invitare il loro capo a ricevere
sotto il dominio francese i liberti di Carlo, o almeno ad accordar loro
un asilo in Francia, poichè i Pisani erano apparecchiati ad abbandonare
le case e la patria loro, piuttosto che tornare sotto il comando de'
Fiorentini. Cinquecento fanciulle, vestite di bianco, si fecero loro
intorno, e stringendo le loro ginocchia, e piangendo gli andavano
scongiurando a mostrarsi, secondo il loro giuramento di cavalleria, i
difensori delle matrone e delle vergini contro la brutale insolenza de'
loro nemici: «Se voi non potete, soggiunse una di loro, accordarci
l'ajuto delle vostre spade, non ci rifiuterete quello delle vostre
preghiere;» ed all'istante li trassero innanzi all'immagine della Beata
Vergine, dove cominciarono a cantare in così pietosi modi e con tali
lamentevoli voci, che cavavano le lagrime a tutte le persone[96].

  [96] _Garnier Hist. de France, règne de Louis XII, t. XI, p. 130._

Il Belmonte aveva ottenuto di spingere le sue truppe al primo assalto,
perchè il sentimento dell'onore e della militare disciplina avevano
fatto tacere gli affetti del cuore. Ma dopo essere stati perdenti in
questo primo attacco, i Francesi cercarono avidamente qualche pretesto
per non tentarne altri. I Pisani mai non ricusavano, fosse di giorno o
di notte, di aprire le porte ai soldati francesi che desideravano di
entrare in città. Sempre gli accoglievano colla medesima ospitalità e
collo stesso affetto; li colmavano di doni, e loro mostravano pure le
batterie coperte, affinchè i loro amici, che stavano al campo, non vi si
esponessero. I Francesi non erano meno attenti a gratificare i Pisani,
lasciando entrare i rinforzi che loro giugnevano dalle altre città della
Toscana, e lasciando tra gli altri passare Tarlatino di Città di
Castello, luogotenente di Vitellozzo, che tanto si rese illustre in
questa guerra coll'intelligenza somma e colla costanza con cui diresse
dopo tale epoca la difesa dei Pisani. Dall'altro canto i Francesi
saccheggiarono i convoglj di vittovaglie, che venivano condotti al
proprio accampamento, per avere poi occasione di lagnarsi dei Fiorentini
che loro mancar lasciassero i viveri. Ogni giorno manifestavasi sempre
più contro di questi la loro animosità. Non potendo il Belmonte
rimettere la disciplina nel suo campo, all'ultimo disse a Luca degli
Albizzi, commissario rimasto presso di lui, ch'egli era determinato di
levare l'assedio; e perchè l'Albizzi si opponeva con vivacità per
l'onore medesimo del re di Francia e delle sue armi, gli Svizzeri lo
fecero prigioniero, dichiarando di volerlo custodire come pegno di certi
soldi dovuti ad alcuni loro compatriotti fin dal tempo della guerra di
Livorno. Convenne assoggettarsi a questa nuova violenza; Luca degli
Albizzi venne redento con mille trecento ducati, e l'armata, che aveva
fatta una così vergognosa campagna, ripigliò il 18 di luglio la strada
della Lombardia[97].

  [97] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 256. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  260. — Jac. Nardi Ist., l. IV, p. 112. — Istor. di Gio. Cambi, t.
  XXI, p. 151._

La ritirata delle truppe francesi ridusse i Fiorentini alla
disperazione. Contando essi sulla potente loro assistenza, e non potendo
nel medesimo tempo sostenere una duplicata spesa, avevano licenziati i
proprj soldati, di modo che si trovavano quasi del tutto disarmati, onde
i Pisani non durarono fatica a riprendere Librafratta ed il bastione
della Ventura. Inoltre Lodovico XII, siccome usano di fare le potenze
alleate a più deboli stati, imputava ai Fiorentini la cagione del mal
esito, dovuto all'indisciplina delle sue proprie truppe. Estremo era il
suo sdegno contro la repubblica, ch'egli accusava d'avere lasciato il
campo senza vittovaglie, d'avere male assecondati i suoi generali, ed in
particolare di essersi ostinata a scegliere il Belmonte piuttosto che
Ivone d'Allegre. Convenne che i Fiorentini pensassero a giustificarsi
innanzi a quegli di cui avevano ragione di dolersi, e convenne addolcire
il rifiuto, che la repubblica credette di dover fare, di condurre nel
susseguente anno una nuova armata francese sotto Pisa per attaccare
quella città con maggiore vantaggio[98].

  [98] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 257. — Jac. Nardi, l. IV, p. 113. —
  Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 261._

Dopo così sgraziata campagna, Firenze rimase debole e circondata di
nemici: le rivali città di Genova, di Lucca e di Siena si rallegravano
della sua umiliazione, ed apertamente soccorrevano i Pisani. Nello
stesso territorio fiorentino, in proporzione delle sventure della
metropoli, si accrescevano il malcontento e le disposizioni alla
ribellione. A Pistoja le due fazioni dei Cancellieri e dei Panciatichi
ricominciarono una guerra civile di cui credevasi spenta ogni ricordanza
dopo un intero secolo di un più fermo governo. In sul cominciare del
1501 tutti i Panciatichi furono cacciati di città; il 25 di febbrajo
furono condannati come ribelli, e si bruciarono le loro case,
abbandonando ai soldati i loro effetti. In appresso i Cancellieri li
perseguitarono anche fuori di città fino a san Michele e gli assediarono
nella chiesa di tal nome; ma vennero colà sorpresi dai partigiani de'
Panciatichi, che si erano adunati in gran numero per liberare i loro
capi, e gli assedianti perdettero più di dugento persone[99]. La
repubblica fiorentina, che non aveva quasi più soldati sotto i suoi
ordini, ed il di cui tesoro era stato affatto smunto dalle incessanti
domande del re di Francia, nè poteva tenere la campagna contro Pisa, nè
frenare i Pistojesi, nè gastigare i capi delle nuove sedizioni.

  [99] _Guicciardini, l. V, p. 258. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p.
  262. — Jac. Nardi, l. IV, p. 117. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p.
  152. — Michel Ang. Salvi delle Istor. di Pist., t. III, l. XVIII, p.
  15-28._

La libertà toscana pareva minacciata dal più triste avvenire;
un'invincibile gelosia acciecava tutti i vicini di Firenze e li faceva
cospirare alla ruina di lei; un generale fermento faceva temere nuove
rivoluzioni tra i sudditi di lei; l'instabilità di un governo che
rifacevasi ogni due mesi, e che non conservava per verun rispetto la
tradizione dell'antica sua politica, inspirava uguale diffidenza agli
stranieri ed ai cittadini. Venezia aveva preso a proteggere la famiglia
usurpatrice, che voleva risalire sul trono; il duca di Milano ed il re
di Napoli più non tenevano alternativamente la bilancia dell'Italia, ed
il re di Francia, ch'era succeduto al primo e stava per rovesciare
l'altro, più non proteggeva la repubblica. Il papa di lei più prossimo
vicino era pure il di lei più pericoloso nemico, perciocchè,
sagrificando ogni sentimento di dovere, ogni cura dell'indipendenza
della Chiesa, e la buona fede ed il pudore all'ingrandimento di suo
figlio, aggiugneva le perfidie ed i falsi giuramenti alle armi
spirituali e temporali per assoggettare la Toscana a Cesare Borgia.

La repubblica, costretta dalla sua povertà a deporre le armi, pareva
comprovare ai suoi vicini le pacifiche sue disposizioni, ed invece
somministrò precisamente con tale atto a Cesare Borgia il pretesto che
desiderava per cominciare le ostilità. Questi, dopo avere occupata
Faenza il 22 aprile del 1501, disponevasi ad attaccare Giovanni
Bentivoglio, signore di Bologna, quando il condottiere Rinuccio di
Marciano, licenziato dai Fiorentini, passò al soldo di questo signore
colla sua compagnia; il papa e suo figliuolo si dolsero subito altamente
che la repubblica spedisse soccorsi ai loro nemici, cercando soltanto di
travisarli con una troppo comune astuzia[100].

  [100] _Jac. Nardi Ist., l. IV, p. 117._

Cesare Borgia si era innoltrato verso i confini del Bolognese fino a
castel san Piero sulla strada d'Imola. Colà ebbe ordine da Lodovico XII
di non passar oltre, perchè il Bentivoglio si era posto sotto la
speciale protezione della Francia[101]. Infatti si astenne
dall'attaccarlo, ma si valse dello spavento che gli faceva per dettargli
nuove condizioni. Da lui ottenne la cessione di Castel Bolognese posto
tra Imola a Faenza, la promessa di un tributo di nove mila ducati, e
quella di cento uomini d'armi e di due mila fanti, che il Borgia contava
di adoperare contro Firenze. Per prezzo di questa nuova alleanza il
perfido Borgia rivelò al Bentivoglio le intelligenze che aveva coi
Marescotti, potente e ricca famiglia e seguìta da numerosi clienti, la
quale fin allora erasi mostrata interamente attaccata al principe. Il
Bentivoglio ordinò a suo figliuolo Ercole di assassinare Agamennone
Marescotti, capo di quella famiglia, ed in seguito fece uccidere altre
trentaquattro persone tra fratelli, figli, figlie o nipoti, e altre
dugento parte parenti e parte amici. Finchè tanta carnificina non fu
terminata, le porte di Bologna si tennero chiuse. Il Bentivoglio
costrinse tutti i figli delle più nobili famiglie a prendervi parte, per
renderli odiosi al partito contro cui voleva inferocire, e per
attaccarli alla propria fortuna col timore della rappresaglia[102].

  [101] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 263. — Raynaldi An. Eccl. 1501, §
  16, p. 507._

  [102] _Diar. Ferrar., t. XXIV, Rer. It., p. 395. — Gio. Cambi, t.
  XXI, p. 156. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 263. — Jac. Nardi, l. IV,
  p. 118. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 263._

Il duca Valentino non aveva mai calcolato di trattenersi lungamente per
soggiogare Bologna. Firenze era l'oggetto de' suoi apparecchi; egli
aveva chiamato alla sua armata Vitellozzo Vitelli, signore di Città di
Castello, che ardentemente desiderava di vendicare la morte di suo
fratello, e gli Orsini, parenti ed alleati dei Medici. Fino dal mese di
gennajo aveva mandati a Pisa alcuni rinforzi sotto gli ordini di Ranieri
della Sassetta, e di Pietro Gambacorti[103]. Poi ch'ebbe terminata la
conquista della Romagna, mandò a Pisa altri distaccamenti comandati da
Oliverotto di Fermo, favorito ed uno de' più riputati luogotenenti del
Vitelli[104]. Aveva avuti alcuni abboccamenti con Giuliano de' Medici,
che si era portato fino a Bologna, e sperava col di lui mezzo di armare
contro la sua patria tutti i partigiani della sua esiliata famiglia.
Egli ben sapeva che i Medici sarebbero sempre disposti ad accettare alle
più vergognose condizioni qualunque si fosse parte della sovranità della
Toscana che offrisse loro; ed infatti Giuliano de' Medici, dopo avere
tutto convenuto con Cesare Borgia, partì in posta alla volta della
Francia, onde persuadere Lodovico XII a rifiutare ogni soccorso ai
Fiorentini[105].

  [103] _Jac. Nardi, l. IV, p. 116._

  [104] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 263._

  [105] _Jac. Nardi, l. IV, p. 116._

Pure tutte le operazioni del Valentino dovevano rimanere subordinate ai
vasti progetti che Lodovico XII aveva formati contro Napoli. E di già
l'esercito destinato a tale impresa cominciava a porsi in cammino. La
più forte colonna, condotta dal d'Aubignì, doveva attraversare la
Romagna, e raccogliervi le truppe francesi, che sotto il comando d'Ivone
d'Allegre avevano fin allora secondato il duca Valentino; un'altra
colonna, sotto gli ordini del balivo d'Occan, doveva tenere la strada
della Lunigiana, attraversare Pisa ed unirsi nello stato di Piombino con
Cesare Borgia, ch'erasi obbligato a seguire i generali francesi nel
regno di Napoli. E precisamente in occasione di questa sua andata alla
volta di Piombino, egli pensava di dare compimento alle rivoluzioni di
cui minacciava la Toscana.

Cesare Borgia entrò in quella provincia dalla banda di Bologna con
settecento uomini d'armi e cinque mila fanti, partecipando alla
repubblica fiorentina di volere attraversare il suo territorio come
amico, per passare a Roma, e altro non chiedendo che vittovaglie contro
pagamento a danaro. Ma quando ebbe passate le gole delle montagne, e fu
arrivato a Barberino, mutò linguaggio. Allora dichiarò di non potere
mostrarsi l'amico della repubblica, fintanto che non la vedesse
sottomessa ad un governo del quale potesse fidarsi; che la chiamata dei
Medici poteva sola rispondere a' suoi occhi di una stabile
amministrazione; che in conseguenza chiedeva il ristabilimento di Piero
de' Medici in tutta l'autorità che aveva avuta in addietro; e questi
stava aspettando a Lojano, villaggio posto al confine del Bolognese, il
risultamento di tali minacce. Inoltre il Borgia chiedeva, che sei
cittadini, indicati da Vitellozzo, fossero posti in suo potere, onde
portare la pena dell'ingiusta sentenza pronunciata contro Paolo Vitelli;
che la signoria si obbligasse a non soccorrere il signore di Piombino; e
finalmente che prendesse lui medesimo al suo soldo con una condotta
conveniente all'elevata sua dignità[106].

  [106] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 120.
  — Comm. di Filippo de' Nerli, l. V, p. 88._

I Fiorentini avevano in allora alla testa della loro repubblica una
signoria che non inspirava nè rispetto nè confidenza, molti suoi membri
si avevano sospetti di essere segretamente d'accordo coi Medici o col
Borgia per sopprimere il gran consiglio, e per ritirare la sovranità
dalle mani del popolo. Verun uomo di straordinario ingegno, veruno di
grande riputazione si era acquistata una decisiva influenza sulle
risoluzioni del governo; e perchè le circostanze erano realmente
difficili, niuno osava prendere ardite misure per uscire d'imbarazzo.
Vero è che la signoria armò una parte della milizia delle campagne, che
pose alla loggia de' Pazzi, a Fiesole ed a Bello Sguardo per difendere
Firenze; ma nello stesso tempo vietò qualunque ostilità, minacciò di
punire severamente i contadini che opporrebbero qualche resistenza ai
soldati del Borgia, ed accordò a costui di attraversare a piccole
giornate il territorio fiorentino, saccheggiando e guastando tutto ciò
che incontrava, sebbene pretendesse sempre di essere l'amico ed il
confederato della repubblica.

Tra i capitani di Cesare Borgia eranvene due, che non parevano fatti per
inspirare diffidenza ai Fiorentini. Raffaele dei Pazzi e Marco Salviati
discendevano da due famiglie, rendute illustri dalla congiura del 1478,
e poco doveva temersi che facessero causa comune coi Medici. Tuttavolta
la vanità offesa delle grandi famiglie suole piuttosto riconciliarsi con
ogni specie di tirannide che col governo popolare. I due figli di coloro
che avevano congiurato a favore della libertà, congiurarono per
l'assoluto potere; concertarono coi loro amici di Firenze, che i
partigiani dei Medici si renderebbero padroni del palazzo, mentre
ch'essi medesimi coi soldati dei Vitelli si presenterebbero alle porte
della città[107]. Questa cospirazione era in sul punto di scoppiare,
quando Cesare Borgia, che non aveva che pochi giorni da trattenersi in
Toscana, e che, nell'istante in cui dovrebbe partire alla volta di
Napoli, non potrebbe cavarne tutto quel partito che poteva sperarne in
migliore congiuntura, preferì di protrarre i suoi progetti, e di
approfittare del timore che aveva inspirato ai capi della repubblica per
estorcere una grossa somma di danaro. Infatti si fece promettere per tre
anni l'annuo soldo di 36,000 ducati, promettendo di tenere trecento
uomini d'armi pronti a soccorrere la repubblica in ogni suo bisogno.
Costrinse la signoria a rinunciare alla protezione del signore di
Piombino, ma non si ostinò rispetto al domandato cambiamento della
costituzione, o riguardo alla soddisfazione da darsi a Vitellozzo[108].

  [107] _Vita di Leone X, di P. Giovio, trad. da Mes. Lod. Domenichi.
  Firenze 1551, in 12.º l. I, p. 74._

  [108] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 122.
  — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 263. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p.
  161._

Non fu che il 4 luglio del 1501, che Cesare Borgia entrò finalmente nel
territorio di Piombino. Il signore di quel piccolo stato, Giacomo IV di
Appiano, aveva preventivamente guastato il proprio paese, bruciati i
foraggi, tagliati gli alberi e le viti, e distrutte le poche fonti che
somministravano acque salubri. Erasi in appresso chiuso nel castello di
Piombino co' suoi più affezionati vassalli, e con alcuni Corsi che aveva
preso al suo soldo. In pochi giorni Suvereto, Scarlino, l'isola d'Elba e
quella di Pianosa si arresero al duca Valentino; ma il castello di
Piombino richiedeva un regolare assedio; ed esso aveva di già resistito
più giorni, quando il Borgia si vide forzato ad allontanarsi il 28 di
giugno per seguire l'armata francese[109]. Nulladimeno lasciò ai suoi
luogotenenti, Vitellozzo Vitelli e Gian Paolo Baglioni, l'ordine di
stringere l'assedio. Giacomo d'Appiano, che vedevasi vicino a doversi
arrendere, e che temeva di cadere in mano del crudele Borgia, passò il
17 di agosto a Livorno, ed in appresso a Genova, sperando di persuadere
i Genovesi a comperare il suo piccolo feudo, e porlo così sotto la
protezione della Francia; ma la guarnigione, che più non veniva
incoraggiata dalla presenza del capo, si arrese il giorno 3 di
settembre, ed il Borgia pose allora il primo fondamento della sua
potenza in Toscana[110].

  [109] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 265. — Jac. Nardi, l. IV, p. 123.
  — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 264. — Or. Malavolti Stor. di Siena,
  p. III, l. VI, f. 107, v._

  [110] _Bart. Senaregae de reb. Gen., p. 574. — Scip. Ammirato, l.
  XXVII, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 126. — Burchardi Diar. Curiae
  Rom., p. 2133. — Orl. Malavolti, p. III, l. VI, f. 108. — Agost.
  Giustiniani Ann., l. VI, f. 257._

Il compimento degli ambiziosi disegni del Borgia veniva sospeso dal
passaggio dell'armata francese a traverso all'Italia, e la politica di
tutti i potentati della penisola era subordinata a quella della corte di
Francia, la quale omai non risguardava la conquista del Milanese che
come un passo necessario per far quella del regno di Napoli;
l'imprudente intrapresa di Carlo VIII pareva diventata pel di lui
successore di facile ed indubitata esecuzione. Le truppe francesi,
quando avevano valicate le Alpi, trovavano in Lombardia abbondanti
granai e fortissime città, di cui liberamente disponevano, e che loro
assicuravano il cammino fino nel centro dell'Italia. La repubblica di
Venezia, che aveva contrariati i progetti di Carlo VIII, era alleata di
Lodovico XII; e trovavasi inoltre implicata in una pericolosa guerra
coll'impero turco, onde non poteva temersi che volesse provocare
ostilità sugli opposti confini. La Toscana divisa e debole dipendeva
dagli ordini della Francia, e non erano meno ubbidienti i principi
confinanti coi Veneziani. Il papa, non prendendo consiglio che
dall'ambizione di suo figliuolo, era diventato egli stesso un
affezionato servitore del re. Don Federico, riposto sul trono
dall'affetto dei popoli, non aveva nè tesoro nè armate; il suo regno
guastato, le fortezze atterrate, gli arsenali vuoti, non gli lasciavano
quasi verun mezzo di resistenza; ed i suoi sudditi, ruinati da una
guerra crudele, non potevano pagare le imposte necessarie per ristaurare
tutto ciò ch'era stato distrutto.

Ma se Lodovico XII risguardava facile la conquista del regno di Napoli,
non vedeva la stessa facilità di conservarlo; aveva timore dei re di
Spagna, i quali dai porti della Catalogna e della Sicilia potevano con
estrema facilità spedire rinforzi al re di Napoli, e nello stesso tempo
fare una diversione dalla banda dei Pirenei; temeva Massimiliano, che,
pubblicando in ogni dieta il proprio risentimento, poteva finalmente
armare contro di lui la Germania; non si fidava degli Svizzeri, che,
fatti più inquieti ed intrattabili dopo avere tradito Lodovico Sforza,
mostravano di voler cancellare con qualche luminoso fatto la vergogna di
cui si erano coperti, e che da Bellinzona, in cui si afforzavano,
minacciavano tutta la Lombardia. All'ultimo Lodovico XII temeva che le
proprie truppe cadessero vittime di quel clima meridionale, di cui
avevano di già sperimentata la funesta influenza.

Dal canto suo don Federico tutta conosceva la propria debolezza, e non
aveva risparmiate nè le preghiere, nè le più rispettose pratiche per
ottenere la pace. Aveva offerto di riconoscersi feudatario del re di
Francia, di pagargli un tributo, di dargli in mano le più forti sue
piazze e di ricevervi guarnigione francese. Si era insomma fatto
conoscere apparecchiato di cedere al re tutti i vantaggi di una
conquista, senza esporre i soldati alle vicende della guerra, nè i paesi
contestati ai loro guasti[111]. Per uno strano accecamento Lodovico XII
rifiutò tutte queste offerte, e preferì di trattare a meno vantaggiose
condizioni con un uomo, che doveva inspirargli maggiore diffidenza, e
che, non potendo secondarlo senza commettere una perfidia, avrebbe
dovuto farlo arrossire di così fatta alleanza.

  [111] _Summonte dell'Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 534._

Lodovico XII riaprì adunque con Ferdinando il cattolico le negoziazioni
cominciate sotto Carlo VIII, e ch'egli aveva rotte, smentendo le facoltà
de' suoi agenti, quando aveva creduto di non aver che temere da quel
monarca. Pretendeva Ferdinando che Alfonso I non avesse avuto il diritto
di disporre del regno di Napoli, da lui conquistato, a favore di suo
figlio naturale; e, dichiarandosi egli medesimo erede di quel monarca,
offriva a Lodovico XII di dividere quel regno, sul quale la casa di
Francia pretendeva di avere legittimi diritti quale erede della casa
d'Angiò, e la casa di Arragona quale erede di quella di Durazzo, senza
venire nuovamente all'esperimento delle armi per cotali diritti
controversi che avevano tanto tempo lordato di sangue l'Italia.
Ferdinando facevasi garante verso Lodovico XII del buon successo
dell'impresa; conciossiachè Federico aprirebbe egli medesimo le migliori
sue piazze alle truppe spagnuole, che vi sarebbero ricevute per
difenderle, ma che invece non vi entrerebbero che per darle alla
Francia. L'undici di novembre del 1500 venne sottoscritto in Granata
questo trattato d'Alleanza tra Lodovico XII e Ferdinando ed Isabella, ma
si tenne gelosissimamente segreto. Le parti contraenti convennero di
attaccare contemporaneamente il regno di Napoli, e di dividerselo in
maniera, che a Lodovico restasse Napoli, la Terra di Lavoro e gli
Abbruzzi coi titoli di re di Gerusalemme e di Napoli, ed al re
Ferdinando toccasse la Puglia e la Calabria col titolo di duca di quelle
due province. I due re non si obbligavano ad ajutarsi reciprocamente
nell'acquisto delle province rispettive, ma soltanto a non nuocersi. In
seguito dovevano ambidue ricevere l'investitura dal papa, riconoscendosi
immediatamente dipendenti dalla Chiesa[112].

  [112] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 260. — Hist. de Louis XII par Jean
  de Saint Gelais, p. 162. Paris 1622, 4.º — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gal., l. IX, p. 248. — P. Jovii vita Magni Consalvi, l. I, p. 193. —
  Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. VI, t. III, p. 535. — Arn.
  Ferroni, l. III, p. 43._

Nello stesso tempo in cui Ferdinando sottoscriveva questo trattato,
prendeva le opportune misure per eseguirlo, senza nè risvegliare i
sospetti di don Federico, nè di verun principe dell'Europa, ma per lo
contrario affettando, secondo la consueta sua politica, di essere
soltanto inteso ai vantaggi della Chiesa ed alla difesa della
Cristianità. Erasi mostrato vivamente commosso dalle vittorie ottenute
dai Turchi sopra i Veneziani nel Peloponneso e nell'Adriatico, ed aveva
mandato in ajuto della repubblica il suo migliore generale, Gonsalvo di
Cordova, con una flotta di quasi sessanta vascelli armati a Malaga, e
montati da mille dugento cavalli e da otto mila fanti della miglior
milizia. Quest'armata, di cui dovremo parlare in appresso, secondò
valorosamente i Veneziani, poi svernò in Sicilia, per essere pronta ad
eseguire i segreti disegni di Ferdinando il Cattolico[113].

  [113] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. I, p. 191, 192._

Lodovico XII più svelatamente apparecchiavasi alla guerra per eseguire
un trattato non meno imprudente che vergognoso, in forza del quale
introduceva in quell'Italia, di cui era arbitro, un rivale che un giorno
potrebbe scacciarnelo. Il suo esercito, comandato dal d'Aubignì, contava
mille lance, quattro mila Svizzeri e sei mila tra Guasconi ed
avventurieri. In pari tempo Filippo di Rabenstein, fratello del duca di
Cleves, governatore di Genova, conduceva sulle coste del regno di Napoli
sedici vascelli brettoni e provenzali, sei caracche genovesi e sei mila
cinquecento uomini da sbarco[114].

  [114] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 265._

Dal canto suo don Federico, il quale aveva preso al suo soldo i Colonna,
teneva sotto i suoi ordini settecento uomini d'armi, seicento
cavalleggeri e sei mila fanti; ma riponeva ogni sua speranza in Gonsalvo
di Cordova, che sapeva trovarsi in Sicilia con un'armata composta di
eccellenti truppe, e che gli era annunciato da suo cugino Ferdinando
come apparecchiato a difenderlo. Federico affrettava Gonsalvo a
raggiungerlo a Gaeta, e gli faceva aprire tutte le città della Calabria,
nelle quali diceva il generale esservi bisogno di porre guarnigioni per
guarentire le posizioni della sua armata. Nello stesso tempo Federico
faceva istanza all'imperatore dei Turchi di difendere un regno che
poteva risguardare come antimurale del suo impero. Mandò a Taranto, la
più forte città de' suoi stati, il suo figliuolo primogenito Ferdinando,
sebbene ancora fanciullo; ed egli andò ad accamparsi a san Germano, dove
dovevano raggiugnerlo tutte le truppe che gli conducevano i Colonna e
quelle di Gonsalvo di Cordova[115].

  [115] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 265._

Ma il 6 di giugno del 1501, essendo l'armata francese, divisa in due
colonne, entrata già nello stato della Chiesa, gli ambasciatori francesi
e spagnuoli presentaronsi insieme al papa ed al sacro collegio per
partecipar loro il trattato di divisione del regno di Napoli,
sottoscritto già da sei mesi dai proprj sovrani. Nello stesso tempo
dichiararono che i loro padroni non miravano ad altro, mettendosi in
possesso del regno di Napoli, che ad acquistare nuovi mezzi per
attaccare di concerto l'impero ottomano. Chiesero al papa di appoggiare
così pia intenzione, accordando ai loro sovrani l'investitura delle
province toccate nella divisione all'uno ed all'altro. Alessandro VI non
poteva che applaudire ad un accomodamento che veniva a farlo arbitro fra
i suoi due potenti feudatarj. Pure non pubblicò la sentenza che
spogliava Federico del trono di Napoli che quando l'esito della guerra
era già deciso, sebbene cotale sentenza fosse già stata pronunciata in
un segreto concistoro tenuto il 25 di giugno[116].

  [116] _Raynald. Ann. Eccl. t. XIX, 1501, § 50 a 72, p. 519-527. —
  Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2129-2131. — Fr. Guicciardini, l. V,
  p. 266. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. IX, p. 249. — Scip.
  Ammirato, t. XXVII, p. 264._

Ferdinando era il più prossimo parente di don Federico, ed il suo più
intimo alleato; gli aveva inspirato una illimitata confidenza; aveva di
fresco impetrato ed ottenuto il soprannome di Cattolico, e sempre
ostentava in faccia alla Cristianità l'ipocrita suo zelo pel dilatamento
della fede e per la difesa della Chiesa; onde l'insigne suo tradimento
eccitò quasi tanta indignazione negli stranieri che nello stesso don
Federico. Gonsalvo di Cordova, volendo fino alla fine ingannare questo
sventurato principe, gli scrisse per ismentire ciò che l'ambasciatore
spagnuolo aveva pubblicato in Roma, e per dichiarare d'essere sempre
disposto a difendere colla sua armata il nipote ed il più caro alleato
del suo padrone. Queste proteste gli servirono a calmare le province
ch'egli voleva attraversare, ed a facilitargliene l'occupazione: e
soltanto dopo che l'armata francese toccò i confini del regno, Gonsalvo,
confessando la vergognosa sua commissione, spedì sei galere a Napoli per
levare le due vecchie regine, una sorella, l'altra nipote dei suo
re[117].

  [117] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 267._

I mezzi di resistenza che Federico aveva apparecchiati più non bastavano
contro questa doppia aggressione. I suoi soli alleati, i Colonna, erano
dal canto loro attaccati ad Alessandro VI, ed avevano preso il
necessario partito di abbandonare tutte le loro terre, ad eccezione di
Amelia e di Rocca di Papa, nelle quali avevano poste guarnigioni[118].
La ribellione era di già scoppiata in san Germano e ne' vicini luoghi,
non perchè Federico non fosse amato più che i Francesi, ma perchè i suoi
sudditi non volevano prender parte in una guerra che loro non lasciava
veruna speranza. Federico, tuttavia incerto sul partito cui doveva
appigliarsi, e non potendo mantenersi in campagna, chiuse le sue truppe
nelle migliori piazze, per darsi tempo di prendere più maturi consiglj.
Fabrizio Colonna, cui fu dato per compagno il conte Rinuccio di
Marciano, entrato recentemente al servizio di Napoli, fu incaricato
della difesa di Capoa con trecento uomini d'armi, alcuni cavalleggeri e
tre mila fanti; don Federico occupò Aversa con un'altra parte della sua
armata, e Prospero Colonna prese sopra di sè la difesa di Napoli[119].

  [118] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 267. — Burchardi Diar. Cur. Rom.,
  p. 2129._

  [119] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 268._

Frattanto il d'Aubignì aveva, avanzandosi, bruciato Marino, Cavi ed
altri castelli dei Colonna, per vendicare alcuni baroni, partigiani
della Francia, che questi avevano fatto uccidere in Roma. Giulio
Colonna, che doveva difendere Montefortino, abbandonò quella piazza in
un modo poco onorevole, e l'armata francese si trovò padrona di tutto il
paese di confine fino al Volturno. Questo fiume sarebbesi difficilmente
passato in faccia a Capoa, ma il d'Aubignì, avvicinandosi alle montagne,
lo attraversò a minore distanza dalla sua sorgente, ed occupò Aversa, da
cui Federico dovette ritirarsi, indi sottomise Nola e tutto il paese
fino a Napoli. In seguito ripiegò verso Capoa e la investì
contemporaneamente dalle due bande del fiume. La guarnigione rispinse
valorosamente il primo assalto dato dai Francesi, ma si trovò molto
danneggiata: aveva veduto da vicino il pericolo, e temeva di soggiacere
in un altro attacco; di modo che il 24 di luglio del 1501 domandò di
capitolare. Il conte di Cajazzo venne ricevuto sul bastione ad un
abboccamento con Fabrizio Colonna, per trattare intorno alle condizioni
della resa. La guarnigione, che già da otto giorni veniva chiamata alla
custodia delle mura, credette non essere più necessaria tanta vigilanza,
quando erano omai convenute le condizioni della resa; e mentre si stava
trattando, i Francesi penetrarono in città. Assicurasi che un borghese
ne aprì loro le porte, ma che fu all'istante ucciso dai vincitori.
Capoa, sorpresa mentre credeva di arrendersi, venne trattata con tutta
la crudeltà in allora propria delle guerre degli oltremontani in Italia:
furono uccisi sette mila abitanti nelle strade[120], tutte le proprietà
saccheggiate, e tutte le donne abbandonate alla brutale libidine de'
soldati; ma tanto grande era l'orrore che inspiravano, che non poche
matrone si precipitarono nei pozzi per sottrarsi colla morte al
disonore. Nè più degli altri luoghi furono rispettate le chiese ed i
conventi, e finchè agli sventurati Capoani rimase qualche cosa da
perdere, i generali francesi, che in faccia a que' nuovi sudditi
pretendevano di rappresentare il legittimo sovrano, non li coprirono
colla loro protezione. Finalmente il saccheggio era cessato, il soldato
era calmato e ristabilita la disciplina, quando si seppe che una torre
della città aveva servito di rifugio a molte donne. Cesare Borgia le
fece tutte condurre presso di sè, e dopo averle diligentemente
esaminate, scelse le quaranta più belle e le mandò nel suo palazzo di
Roma per formare il suo serraglio[121].

  [120] _Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2132. — Fer. Belcarii Comm. l.
  IX, p. 250. — Summonte Stor. di Napoli l. VI, c. IV, p. 535._

  [121] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 268. — Jac. Nardi l. IV, p. 124. —
  Orl. Malavolti Stor. di Siena p. III, l. VI, f. 103._

Fabrizio Colonna, don Ugo di Cardone, e più altri distinti capitani
rimasero tra i prigionieri. Il conte Rinuccio di Marciano, ferito da una
freccia, era pure rimasto in mano de' soldati del Valentino, ma morì il
secondo giorno; e fu creduto che Vitellozzo Vitelli avesse fatte
avvelenare le sue ferite, sovvenendosi che la rivalità di questo
capitano con suo fratello Paolo era stata una delle cagioni del di lui
supplicio[122].

  [122] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 269._

La perdita di Capoa portò l'ultimo colpo alla di già vacillante fortuna
di Federico. Egli abbandonò la sua capitale, che più non poteva
difendere, si chiuse in Castel Nuovo, e permise alle città di Napoli e
di Gaeta di aprire, senza essere attaccate, le porte ai Francesi. La
prima si riscattò dal sacco con una contribuzione di sessanta mila
ducati; ed il 25 di agosto, sei giorni dopo l'ingresso dei Francesi in
Napoli, don Federico consegnò loro anche Castel Nuovo. Egli convenne col
d'Aubignì di porlo pacificamente in possesso di tutto ciò che ancora
possedeva in quella parte del regno di Napoli, che dava ai Francesi il
trattato fatto con Ferdinando il Cattolico, riservandosi soltanto
l'isola d'Ischia che per lo spazio di sei mesi non potrebbe essere
attaccata. Nello stesso tempo stipulò un'amnistia per tutti coloro che
si erano dichiarati contro la Francia dopo la conquista di Carlo VIII, e
riservò ai cardinali Colonna e di Arragona il godimento delle rendite
ecclesiastiche che avevano nel regno[123].

  [123] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 269. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 125. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2132._

Giammai non si erano vedute più illustri vittime delle politiche
rivoluzioni, di quelle che allora si trovavano nell'isola d'Ischia.
Eravi in quel castello Beatrice d'Arragona, sorella di don Federico, da
prima consorte del gran Mattia Corvino, re d'Ungheria, poi di Uladislao,
re di Boemia. Costei aveva col suo favore procurata ad Uladislao la
corona d'Ungheria; e questi in contraccambio l'aveva ripudiata per
isposare un'altra donna. Eravi pure Isabella, duchessa di Milano, nipote
di don Federico, che aveva tutt'ad un tratto perduta la sua sovranità,
quella di suo padre, il consorte e il figlio; finalmente lo stesso
Federico, che trovavasi in quella rocca con sua moglie e quattro
figliuoli in tenera età. Vero è che non istette lungamente in questo
ritiro, dove avrebbe più prudentemente adoperato, aspettandovi qualche
cambiamento di fortuna. Così violenta era la sua indignazione contro suo
cugino, Ferdinando d'Arragona, che preferì di darsi in braccio ad un
nemico che lo aveva sempre combattuto a forza aperta. Egli si attenne al
consiglio di Filippo di Rabenstein ch'era giunto presso Ischia colla sua
flotta: da quest'ammiraglio ebbe un salvacondotto per passare in Francia
con cinque galere leggeri, mentre spedì la maggior parte de' suoi uomini
d'armi a Taranto che si difendeva ancora a nome di suo figlio
primogenito. Affidò il comando d'Ischia al marchese del Guasto ed alla
contessa di Francavilla. Lasciò pure in quell'isola Fabrizio e Prospero
Colonna, il primo de' quali era stato forzato a riscattarsi dai Francesi
dopo la presa di Capoa. Lodovico XII, commosso dalla confidenza di don
Federico, gli accordò infatti il ducato d'Angiò e trenta mila scudi di
rendita, invece del regno che aveva perduto; ma a condizione che mai non
uscirebbe dalla Francia: e sebbene non fosse suo prigioniere, e fosse
venuto sotto la fede di un salvacondotto, Lodovico XII lo pose sotto la
sopravveglianza del marchese di Rothelin, che con trecento uomini ebbe
ordine di fare onorevole guardia alla sua persona, ma in fatto per
tenerlo ubbidiente[124].

  [124] _Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 537. — Fr.
  Guicciardini, l. V, p. 269. — Jean de Saint Gelais Hist. de Louis
  XII, p. 163. — Barth. Senaregae de reb. Gen. p. 573. — Ist. di Gio.
  Cambi, t. XXI, p. 166. — Rayn. An. Eccl. 1501, § 74, p. 528. —
  Arnoldi Ferroni, l. III, p. 43._

La conquista dell'altra metà del regno di Napoli che faceva Gonsalvo di
Cordova non fu così rapida; l'aveva cominciata più tardi e con più
deboli forze, ed inoltre aveva incontrato maggior resistenza negli
abitanti. Vedevano questi con estremo dolore la loro patria divisa, e
poichè dovevano cessare d'avere il proprio re, avrebbero almeno
preferito di passare sotto il dominio francese. Pure, perchè il loro
sovrano gli aveva abbandonati, e niun altro principe prendeva a
difenderli, si andarono assoggettando di mano in mano che gli Spagnuoli
intimavano loro di arrendersi. Le sole città di Manfredonia e di Taranto
sostennero un assedio: breve fu quello di Manfredonia, ma quello di
Taranto lunghissimo, sebbene diretto dallo stesso Gonsalvo. La città,
posta in un'isola unita da due ponti al continente e abbondantemente
provveduta di vittovaglie, era abbastanza forte per rendere lungamente
vani tutti gli sforzi degli assedianti; e Giovanni di Guevara, conte di
Potenza, governatore del giovanetto Ferdinando, che vi comandava,
affidato alla naturale forza della piazza, evitava le sortite, le
scaramucce ed ogni piccola zuffa che ad altro non avrebbero servito che
ad indebolire la guarnigione. All'ultimo avendo Gonsalvo trasportato una
ventina di navi armate entro al seno di diciotto miglia di circuito,
detto dai Tarentini mare interno, il conte di Potenza, che non credeva
di essere attaccato da quella banda, e non vi aveva fatte nuove opere di
difesa, si mostrò disposto a capitolare, tanto più che il Gonsalvo gli
aveva fatte offrire onoratissime e vantaggiose condizioni. Il generale
del re cattolico giurò sull'ostia nella più solenne forma, che
accorderebbe al giovane Ferdinando, duca di Calabria, la libertà di
ritirarsi ove più gli piacesse. La città fu ceduta a tal patto, ed il
giovane principe si affrettò, in conformità agli ordini avuti da suo
padre, di prendere la strada di Bitonto per passare nella parte del
regno occupata dai Francesi. Ma non era appena giunto in quella città,
che fu arrestato per ordine di Gonsalvo, ricondotto a Taranto, e di là
imbarcato e mandato prigioniero in Ispagna, malgrado le rimostranze sue
e del governatore, che amaramente rimproveravasi d'averlo precipitato
nella rete. Gonsalvo di Cordova era un uomo religioso fino alla
superstizione ed al fanatismo; e non pertanto si rendeva per politica
colpevole del più insigne spergiuro; ma non volendo illuminare la
propria coscienza, rimettevasi in tutto al suo direttore, e trovò
teologi che gli dissero e pubblicarono per sua difesa, che aveva giurato
non per sè medesimo, ma pel suo padrone, onde non era personalmente
vincolato, come non lo era pure il suo sovrano, poichè il Gonsalvo erasi
per lui obbligato senza sua saputa[125].

  [125] P. Giovio, che riferisce questo sofisma, sembra risguardarlo
  come un argomento senza replica. _Vita Magni Consalvi, l. I, p.
  195-199. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 270. — Fr. Belcarii Comm., l.
  IX, p. 251._

Così cadde per non rialzarsi più questo ramo della casa d'Arragona, che
aveva regnato a Napoli con tanto splendore per lo spazio di
sessantacinque anni, e avuto tanta influenza nell'incremento delle
lettere italiane. Federico colla troppo precipitosa sua ritirata si
privò dei mezzi che poteva presentargli la mala intelligenza dei
monarchi che si erano diviso il suo regno. Egli morì in Angiò il 9 di
settembre del 1504. Suo figlio Ferdinando, duca di Calabria, morì in
Ispagna soltanto nel 1550, dopo essersi ammogliato due volte, ma sempre,
secondo le viste della politica spagnuola, con donne conosciute sterili.
Alfonso, il secondogenito, che aveva seguito il padre in Francia, morì a
Grenoble nel 1515 non senza sospetto di veleno, e l'ultimo, Cesare, morì
a Ferrara in età di diciott'anni. Tra le figlie del re Federico, la sola
Carlotta, maritata col conte di Laval, lasciò prole[126].

  [126] _Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 537. — Murat. Ann.
  d'Italia an. 1501, t. X, p. 7._ — Nicolò, conte di Laval,
  governatore ed ammiraglio di Bretagna, che sposò Carlotta, non
  lasciò che una figlia, Anna di Laval, maritata a Francesco de la
  Tremoille. Per questa la casa de la Tremoille rivendicò alcuni
  diritti sul regno di Napoli.



CAPITOLO CI.

      _Guerra nel regno di Napoli tra Lodovico XII e Ferdinando il
      cattolico; rivoluzione d'Arezzo; conquiste di Cesare Borgia;
      carnificina di Sinigaglia; battaglia di Cerignole; i Francesi
      scacciati dal regno di Napoli_.

1501 = 1503.


Gli oltremontani, che in principio del sedicesimo secolo guerreggiavano
in Italia, non dissimulavano in verun modo i sentimenti di diffidenza,
di disprezzo, o di odio che nudrivano verso la nazione che venivano a
combattere. Questi sentimenti mostravansi scopertamente nelle scritture
de' contemporanei, e perchè i successivi avvenimenti più d'una volta li
giustificarono, contribuirono a fondare in tutta l'Europa un pregiudizio
svantaggioso alla nazione che all'ultimo soggiacque. Pure, almeno a
quell'epoca, l'avversione degli oltremontani per gli Italiani altro non
era che l'odio che nutrono tutti i barbari contro le nazioni ridotte a
maggiore civiltà. Sentivano la superiorità dello spirito, del senno,
delle cognizioni dei loro nemici, ma si esasperavano perciò contro la
nazione. Essi rappresentavano questi vantaggi come necessariamente
legati alla dissimulazione ed alla perfidia; si appropriavano invece la
palma del valore e della lealtà, ed abbandonavano con dispregio agli
Italiani il merito dell'astuzia e dell'avvedutezza. Ogni nazione,
paragonandosi agli Italiani, si attribuiva qualità incompatibili con
que' meschini artificj che sono proprj di un popolo giunto all'estrema
civiltà; vantavano a vicenda la buona fede teutonica, la rozza
franchezza elvetica, l'onore francese, la lealtà castigliana. Per altro
ognuna di queste nazioni parve farsi carico di dare nel periodo di pochi
mesi, in seno alla stessa Italia, tali prove di mala fede, che i più
diffamati politici italiani non avrebbero mai pareggiate.

Massimiliano d'Austria, che ambiva di essere ancora più cavaliere che
re, non aveva fino a tale epoca presa veruna importante parte negli
affari d'Italia; soltanto più tardi ed in occasione delle sue contese
con Venezia mostrò in particolar modo il suo disprezzo per le proprie
promesse. Pure la sua inconseguenza aveva di già renduta la di lui
alleanza fatale a coloro che l'avevano comperata: questa aveva ingannati
i Pisani, cagionata la ruina di Lodovico Sforza, e contribuito a quella
di Federico d'Arragona. Questo re di Napoli aveva prestati a
Massimiliano quaranta mila fiorini, a condizione che non farebbe accordi
colla Francia senza comprendervelo. Ma Massimiliano, che dalla sua
insensata prodigalità veniva reso dipendente da tutti gli avvenimenti, e
che durante tutto il suo regno altro non fece che dare parole a prezzo
di danaro, e che mancare di fede per ricevere altre somme, acconsentì
per un sussidio pagatogli dalla Francia a fare con questa una tregua di
più mesi senza comprendervi don Federico, dando così tempo a Lodovico
XII d'attaccare il re di Napoli e di precipitarlo dal trono[127].

  [127] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 260._

Il tradimento degli Svizzeri a Novara, di cui fu vittima Lodovico
Sforza, lasciava a quella nazione pochi titoli per vantare la sua
lealtà; tanto più che quella transazione fu preceduta e seguita da molte
altre, che, sebbene meno strepitose per l'importanza degli avvenimenti,
e meno funeste nelle loro conseguenze, non perciò riuscivano meno
contrarie alla fedeltà ed all'onore militare.

La condotta del governo francese era quasi sempre stata macchiata da
un'eguale mala fede: aveva trafficate le sue alleanze coi Pisani, coi
Fiorentini, col duca Valentino; aveva per una somma di danaro
abbandonati ai suoi nemici coloro cui avevano più solennemente accordata
protezione; e la costante sua alleanza con Cesare Borgia l'aveva fatto
partecipe di tutti i delitti di quell'uomo perfido. Ad ogni modo la
Spagna superava tutte le altre potenze per la impudenza della sua mala
fede. Pareva che Ferdinando il Cattolico si recasse a merito di non
promettere che per mancare, si facesse un trastullo de' giuramenti, come
i fanciulli de' fantocci, e pigliasse diletto a moltiplicare gl'inganni
anche più che non richiedeva il buon esito de' suoi disegni. I due
spagnuoli, Alessandro VI e Cesare Borgia suo figlio, fondarono in certo
qual modo col loro esempio la terribile scuola machiavellica; e lo
stesso eroe della Spagna, Gonsalvo di Cordova, si espose più volte al
rimprovero di perfidia.

Ma veruna transazione del secolo non portava l'impronta d'una violazione
più perfida di tutti i diritti, di tutti i doveri, quanto il trattato di
Granata per la divisione della monarchia di Napoli: verun'altra
transazione disvelava in coloro che sottoscrissero un più alto disprezzo
per le obbligazioni morali e per le leggi dell'onore. Bisognava essere
accecati dalla cupidigia per isperare che l'una parte o l'altra
eseguirebbe di buona fede una convenzione fondata sopra la sovversione
di ogni fede, di ogni principio. Una tale convenzione non poteva
produrre che la guerra e non la pace; ed infatti appena fu terminata la
conquista del regno di Napoli dai due principi che avevano concertato
tale tradimento, che cominciarono a contendersene le province.

Il trattato di divisione di Granata aveva avuto per base l'antica
divisione del regno di Napoli in quattro province, attribuendosene due
ogni potenza. La Campania comprendeva ciò che oggi chiamasi Terra di
Lavoro ed i due principati; l'Abbruzzo comprendeva i due moderni
Abbruzzi e la contea di Molise. Queste erano le province assegnate alla
Francia. La Puglia comprendeva la Capitanata, la terra di Bari e quella
di Otranto; la Calabria comprendeva la Basilicata e le due moderne
Calabrie. Per altro quest'antica divisione di province era stata
cambiata dal re Alfonso I. Le province della Capitanata e della
Basilicata, staccate una dalla Puglia l'altra dalla Calabria, non erano
state chiaramente indicate nel trattato di Granata siccome devolute al
re di Spagna. Alcune città della prima erano state occupate, senza
rimostranze in contrario, a nome del conte di Lignì, cui erano state
accordate in feudo da Carlo VIII: altronde pareva che la Capitanata non
si potesse separare dagli Abbruzzi; il quasi intero prodotto delle quali
due province consisteva nelle gabelle delle mandre che in tempo d'estate
pascolavano le erbe delle alte montagne dell'Abbruzzo e nell'inverno
quelle delle aduste campagne della Puglia[128].

  [128] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. I, p. 199. — Alf. de Ulloa Vita
  di Carlo V, l. I, f. 18. Venezia 1574 in 4.º — Fr. Guicciardini, l.
  V, p. 274. — Fr. Belcarii Comm., l IX, p. 253._

Le ostilità cominciarono ad Atripalda nella Basilicata; i Francesi vi si
erano stabiliti, e gli Spagnuoli li sorpresero e li discacciarono. Pure
nè gli uni, nè gli altri erano apparecchiati ad una nuova guerra. Luigi
d'Armagnacco, duca di Nemours, vicerè di Napoli a nome di Lodovico XII,
acconsentì di scontrarsi con Gonsalvo di Cordova nella chiesa di
sant'Antonio tra Atella e Melfi, per regolare i punti intorno ai quali
non andavano d'accordo. Convennero che in pendenza della decisione dei
loro monarchi per la dilucidazione del trattato, le città controverse
sarebbero governate in comune dai due vicerè, che vi spiegherebbero le
insegne delle due nazioni, e che le gabelle pel pedaggio delle mandre,
che davano cento mila ducati all'anno, e che formavano il reddito più
depurato del regno, ma che sarebbe stato totalmente perduto pei Francesi
se avessero rinunciata la Capitanata, verrebbe in eguali porzioni diviso
fra loro e gli Spagnuoli[129].

  [129] _Pauli Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 201. — Al. de
  Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 18. — Fr. Guicciardini, l. V, p.
  275._

Quest'accomodamento favorevole ai Francesi non era stato dal Gonsalvo
accettato che per conoscersi più debole; egli diede il tempo di scrivere
alle corti. Confessarono i due re di non conoscere il paese e di non
avere prevedute le difficoltà che si affacciavano; ma sentendo ambidue
l'impossibilità di conservare la pace, invece di commettere al
rispettivo luogotenente di ultimare la controversia all'amichevole,
l'invitarono ad approfittare il più che potesse delle presenti
circostanze, ed a spiegare a suo vantaggio tutto ciò che fosse oscuro.
L'uno e l'altro volevano la guerra, ma i Francesi trovaronsi
apparecchiati a sostenerla prima degli altri. Perciò il 19 di giugno del
1502 il Nemours fece dichiarare al Gonsalvo, che se non gli veniva
restituita la Capitanata, i Francesi si farebbero da sè giustizia colle
armi; e subito dopo attaccò Atripalda, l'occupò di nuovo, e nello stesso
tempo fece cominciare le ostilità su tutta la linea. Il Gonsalvo,
sentendo che i principi di Salerno e di Bisignano eransi dichiarati a
favore dei Francesi, e che tutto il paese era in fermentazione, fuggì di
notte da Atella, e si ritirò successivamente verso Andria, Bitonto e
Barletta, distribuendo tutte le truppe che gli restavano nelle fortezze,
ed abbandonando la campagna alle incursioni de' Francesi[130].

  [130] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 275. — P. Jovi Vita M. Consalvi,
  l. II, p. 202. — Al. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 18._

Gonsalvo di Cordova aveva scelta Barletta per riunirvi la sua armata,
aspettarvi i soccorsi della Spagna, e lasciar tempo ai Francesi di
snervarsi in una guerra di avamposti. Questa città, fabbricata
dall'imperatore Eraclio al sud-est della foce dell'Ofanto, era stata
spesse volte la sede degli antichi re di Napoli: angusto era il suo
porto e non sicuro per tutti i venti, e le vecchie sue mura non avevano
terrapieni. Ma il Gonsalvo vi adunava i suoi più valorosi soldati, ed i
baroni del regno che si erano dichiarati a favore della Spagna. Le era
rimasto fedele l'antico partito arragonese, il quale non aveva preso
parte al vivissimo sdegno di Federico, e mentre che questo re aveva
preferito di porsi in mano della Francia, piuttosto che commettersi a
suo cugino, quasi tutti coloro che l'avevano seguito nel suo esilio, e
particolarmente Prospero Colonna trovavansi in allora presso Gonsalvo.
Per lo contrario l'antica fazione d'Angiò si era ovunque dichiarata
favorevole ai Francesi, ed era appunto più potente nelle province cedute
alla Spagna.

Nel consiglio di guerra tenuto dal duca di Nemours intorno al suo piano
di campagna, Andrea Matteo d'Acquaviva, duca d'Adria, il più riputato
tra i baroni angiovini e come letterato e come guerriero, propose di
assediare Bari, la più florida città ed il miglior porto che gli
Spagnuoli avessero sull'Adriatico. Diceva che la sua conquista trarrebbe
seco quella di Giovenazzo e di Bitonto, e la rivoluzione di tutta la
provincia. Ma Isabella di Arragona, figlia di Alfonso II e vedova di
Giovan Galeazzo Sforza, aveva il comando di Bari assegnatale per suo
appannaggio; ed i generali francesi non sapevano senza ripugnanza
risolversi ad attaccare una donna, il di cui padre e marito erano stati
da loro privati del trono, e di cui ne tenevano in prigione il
figliuolo; una donna fatta da loro tanto infelice, e di cui rispettavano
il carattere. Ivone d'Allegre e la Palice dissero ch'essi credevano più
conveniente al carattere de' cavalieri francesi ed in pari tempo alle
regole dell'arte militare di attaccare lo stesso Gonsalvo nella città in
cui si era chiuso, di non dargli tempo di accrescere le fortificazioni,
e di approfittare dell'impeto francese per terminare la guerra sulle
medesime brecce di Barletta[131].

  [131] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 203. — Alf. de Ulloa
  vita di Carlo V, l. II, f. 18._

Il duca di Nemours, che non aveva nè talenti distinti nè carattere,
appigliossi, come il più delle volte sogliono fare gli uomini mediocri,
ad un partito di mezzo tra i due che gli venivano proposti, e con una
fallace prudenza rinunciò ai vantaggi dell'uno e dell'altro. Attaccando
Bari, temeva di lasciare il Gonsalvo in libertà; temeva, assediando
Barletta, di avere a lottare coi talenti di un grande generale e col
vigore di una grossa armata, e risolse di bloccare soltanto Barletta.
Luigi d'Ars, Chatillon de Formant, e Chandieu o Chandenier, comandante
degli Svizzeri, furono dello stesso parere. Il d'Aubignì fu staccato con
un terzo dell'armata francese per fare un'invasione nella Calabria. Egli
si era fatto amare e rispettare in quella provincia in tempo della
precedente guerra colla giustizia e colla dolcezza del suo governo; ed
infatti non vi fu appena rientrato, che i principi di Salerno e di
Bisignano, della casa di Sanseverino, ed il conte di Mileto, si posero
sotto le sue bandiere; tutte le città, e la stessa Cosenza, capitale
della provincia, aprirono le loro porte ai Francesi; e le guarnigioni ed
i magistrati spagnuoli si ritirarono in Sicilia, lasciando che il
d'Aubignì stendesse il suo dominio fino allo stretto di Messina[132].

  [132] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 204. — Al. de Ulloa vita
  di Carlo V, l. I, p. 19._

Intanto il duca di Nemours andava prendendo varie posizioni intorno a
Barletta, ed occupando tutti i vicini castelli; tentava di togliere al
Gonsalvo i viveri e le comunicazioni colle altre parti del regno: egli
non entrava colle sue truppe che in iscaramucce di poca importanza; e
rinnovava l'errore in cui caddero diversi generali francesi, di lasciar
languire il soldato, di annojarlo ed impazientarlo, dissipando in tal
modo quell'ardore e quell'impeto nazionale, che gli avrebbero data la
vittoria.

Mentre che i due generali scansavano le regolari battaglie e le azioni
sanguinose, uno per prudenza l'altro per imperizia, le due armate, la di
cui cavalleria era tutta formata di coraggiosa nobiltà, cambiava la
guerra in tornei ed in duelli nelle forme. Gli uomini d'armi francesi,
confessando il valore della fanteria spagnuola, sprezzavano la
cavalleria, che risguardavano come formata nella scuola dei Mori, e più
fatta per caracollare che per combattere. Loro rispondevano gli
Spagnuoli, che con armi eguali ed in egual numero, non temevano i
Francesi. Si convenne perciò che si proverebbero undici cavalieri contro
undici. Erano i più distinti tra i campioni francesi, Bajardo, il
cavaliere senza paura e senza macchia, e Francesco d'Urfè, signore
d'Orose; tra gli Spagnuoli Diego de Vera e Diego Garcia de Paredes. I
Veneziani, che comandavano a Trani, e che osservavano una perfetta
neutralità fra le due armate, accordarono lo steccato e nominarono i
giudici della zuffa. Doveva terminare al tramontare del sole, e coloro
che verrebbero scavalcati, o cacciati fuori dell'aringo più non dovevano
prendervi parte. Al primo urto furono rovesciati sette francesi o uccisi
i loro cavalli; ma i quattro che rimanevano, cioè Bajardo, Orose, Torci,
luogotenente de la Palice, e Montdragon, chiudendosi come in un baluardo
dietro i cavalli de' loro compagni, stesi sul campo di battaglia, vi si
difesero tanto valorosamente e con tanta costanza, che dopo sei ore
d'inutili sforzi, essendo caduto il sole, i giudici della battaglia
divisero i combattenti, e dichiararono la gloria fra di loro
eguale[133].

  [133] _P. Jovi vita M. Consalvi, l. II. p. 205. — Mém. du chev.
  Bayard, t. XV, c. 13, p. 36. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I,
  f. 19._

Le due nazioni avevano fatto un accordo pei prigionieri, e si facevano
un punto d'onore di trattarli con umanità. Don Alonzo de Sotomajor, il
quale era stato prigioniere del cavaliere Bajardo, lagnavasi di essere
stato trattato con soverchia severità. Protestava il Bajardo di non
averlo ristretto che dopo che il Sotomajor aveva tentato di fuggire
malgrado la data parola. I due cavalieri terminarono la loro lite in uno
steccato, ove il Sotomajor fu ucciso; e gli stessi Spagnuoli fecero
plauso alla vittoria del guerriero che rispettavano, risguardandola come
un giudizio di Dio contro il loro compatriotta[134].

  [134] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 206. — Ar. Ferroni, l.
  III, p. 45. — Mém. du chev. Bayard, c. 19-22, p. 15 e segu. — Alf.
  de Ulloa, l. I, f. 19._

Queste battaglie in isteccato chiuso, questi cavallereschi riguardi tra
i soldati delle due armate non avevano luogo che tra i gentiluomini; i
pedoni ignobili non erano trattati con minore crudeltà che in addietro,
nè i contadini spogliati meno barbaramente. Intanto il Gonsalvo andava
ogni giorno afforzando Barletta con nuove opere, ed il Nemours, che
aveva trascurato di attaccarlo vivamente nel primo istante, non avrebbe
oramai potuto farlo con isperanza di riuscita. Si limitò quindi ad
occupare le fortezze del vicinato, Cerignole, l'antica rocca di Gerione,
che aveva resistito ad Annibale, e dove Zarate e d'Acunha comandavano
agli Spagnuoli, e Canosa difesa da Pietro Navarro. Questi due assedj
furono valorosamente sostenuti; ma conoscendo il Gonsalvo che finalmente
quelle guarnigioni avrebbero dovuto cedere, e non volendo esporsi a
perdere così buoni ufficiali e tanti valorosi soldati, ordinò loro di
evacuare quelle due città e di ritirarsi a Barletta[135].

  [135] _Pauli Jovii vita M. Gonsalvi, l. II, p. 207. — Alf. de Ulloa
  vita di Carlo V, l. I, f. 20._

Erano di già più mesi passati da che Gonsalvo di Cordova teneva chiusa
la sua armata entro le mura di una povera città, che gli offriva così
pochi mezzi. La corte di Spagna colla consueta sua lentezza nulla aveva
fatto per soccorrerlo. Egli più non aveva nè danaro, nè vesti; ed ai
suoi soldati cominciavano pure a mancare le vittovaglie e le armi, ma
loro aveva saputo inspirare tanto amore, aveva così profondamente
penetrato il carattere spagnuolo, e approfittato così destramente
dell'orgoglio, della costanza e della sobrietà nazionali, che in mezzo a
tante privazioni i suoi soldati non diedero verun indizio d'impazienza,
d'indisciplina, o di scoraggiamento. Finalmente una nave siciliana portò
a Gonsalvo il frumento di cui aveva urgentissimo bisogno; un'altra gli
recò da Venezia armi, vesti, scarpe, che affatto mancavano alla sua
truppa; comperò tutti questi oggetti sul credito di Isabella di Arragona
e de' più ricchi mercanti di Bari, e mentre trovavasi affatto senza
danaro, fece credere ai suoi soldati che un forziere, che loro mostrava,
fosse tuttavia pieno d'oro, e che lo teneva in serbo per pagare il loro
soldo il giorno dopo la battaglia[136].

  [136] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 209. — Alf. de Ulloa
  vita di Carlo V, l. I, f. 20. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295._

In tal modo si consumò tutta la campagna del 1502. Frattanto il duca di
Nemours, avanti di distribuire le sue truppe ne' quartieri d'inverno, le
condusse sotto le mura di Barletta, ed invitò il Gonsalvo per mezzo di
un araldo d'armi a misurarsi con lui in aperta campagna. Il Gonsalvo lo
ringraziò della sua offerta, ma gli fece dire che gli sarebbe ancora più
tenuto, se da lui otteneva di aspettare la propria convenienza, tanto
più ch'egli non aveva costume di ricevere consiglio dal suo nemico circa
al tempo di combattere o no. Il Nemours, contento di avere terminata la
campagna con questa braveria, si ritirò verso Canosa, e senza temere un
nemico che ricusava di venire a battaglia, non camminava ordinatamente,
lasciando che i suoi battaglioni si sbandassero a molta distanza gli uni
dagli altri. Tutt'ad un tratto Diego di Mendoza, che gli teneva dietro
con Prospero Colonna, piombò sulla retroguardia, l'avviluppò cogli
uomini d'armi italiani, e gli fece moltissimi prigionieri[137].

  [137] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 210. — Alf. de Ulloa
  vita di Carlo V, l. I, f. 20, v._

Trovavasi tra costoro Carlo Hennuyer de la Mothe, illustre ufficiale
francese, che co' suoi compagni di sventura, fu il giorno susseguente
invitato ad un banchetto in casa del Mendosa, di cui era prigioniero. Il
capitano spagnuolo, rendendo giustizia al valore francese, attribuì
tutta la riuscita della vigilia all'intrepidezza ed alla precisione dei
movimenti della cavalleria italiana comandata da Prospero Colonna. I
Francesi erano ben contenti di dividere la palma del valore cogli
Spagnuoli, ma risguardavano come un insoffribile affronto il paragone
cogl'Italiani. Il La Mothe sostenne caldamente che gl'Italiani, tante
volte vinti, non potevano con verun'arme, in veruna sorta di zuffa
essere eguali ai Francesi. Non si astenne nel susseguente giorno di
ripetere a sangue freddo le stesse ingiuriose parole in faccia a
Prospero Colonna, che lo aveva interpellato appostatamente, e che in
risposta gli diede una mentita. L'onore delle due nazioni parve
interessato in questa privata contesa; e i due generali furono contenti
che si venisse solennemente all'esperimento delle armi. Tredici Italiani
e tredici Francesi armati di tutto punto dovettero trovarsi in campo
chiuso per battersi fino all'ultimo sangue. Il campo venne scelto ad
eguale distanza tra Barletta, Quadrata e Andria; gli fu dato
l'estensione di un ottavo di miglio quadrato, e segnato con semplice
solco d'aratro: e fu convenuto che chiunque verrebbe spinto fuori di
questo recinto, si riconoscerebbe per vinto, nè più potrebbe rientrare
nella pugna. I due generali in capo, che avevano acconsentito ad una
tregua, eransi avanzati colle loro armate in ordine di battaglia per la
guardia del campo. I campioni erano stati diligentemente scelti, ed in
particolare dal lato degl'Italiani, il di cui onore sembrava più
gagliardamente compromesso. In conformità della disfida di La Mothe ogni
parte doveva armarsi a piacere, e come troverebbe più vantaggioso di
fare; sicchè le armi non erano eguali. Gl'Italiani usavano lance più
lunghe di un piede, ed avevano inoltre piantato sul campo di battaglia
due spiedi di riserva per uso de' cavalieri che si troverebbero
scavalcati. I vinti dovevano restar prigionieri dei vincitori, a meno
che non si riscattassero con cento scudi d'oro per cadauno.

Questo conflitto, cui gl'Italiani diedero maggiore importanza che ad una
formale battaglia, ebbe luogo il 13 di febbrajo del 1503. I loro
campioni erano stati scelti tra gli uomini d'armi di Prospero Colonna,
il quale per altro aveva avuto l'avvedutezza di prenderne qualcuno di
ogni provincia d'Italia. I voti dei generali, dell'armata, del popolo,
gli accompagnarono; e non dobbiamo maravigliarci, che una nazione
oppressa, assai più divisa che vinta, e che versava il proprio sangue
per gli stranieri, senza trovare occasione di spargerlo per la propria
indipendenza, cogliesse avidamente l'occasione di salvare il proprio
onore, quando aveva perduta ogni altra cosa, e che accogliesse poi con
trasporti di gioja e con entusiasmo i campioni che lo difesero. Questi
campioni furono vittoriosi. Invece di mettere in piena corsa i loro
cavalli, come fecero i loro avversarj, gli aspettarono di piè fermo, ed
ingannandoli rispetto allo spazio che dovevano percorrere, li
disordinarono. Alcuni cavalli francesi oltrepassarono il solco, ed i
loro cavalieri rimasero esclusi dalla pugna. Altri cavalieri furono
rovesciati dalle più lunghe lance degl'Italiani, senza che potessero
raggiugnerli colle loro. Due cavalieri italiani, caduti nel primo urto,
diedero di mano agli spiedi posti in serbo, ed atterrarono varj cavalli
francesi. Un solo francese fu ucciso; i suoi camerata, scavalcati gli
uni dopo gli altri, s'arresero successivamente agl'Italiani che li
fecero prigionieri, e dopo un'ostinata lotta si diedero per vinti e
furono condotti in trionfo a Barletta: niuno di loro aveva portati i
cento scudi pel suo riscatto, perchè niuno aveva creduta possibile la
loro sconfitta[138][139].

  [138] Tutti gli storici Italiani parlarono con manifesta compiacenza
  di questa zuffa ed assai circostanziatamente. _Fr. Guicciardini, l.
  V, p. 296-298. — P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 211-214. —
  Ejusdem vita di Pompeo Colonna, p. 354. — Summonte istor. di Napoli,
  l. VI, c. IV, p. 542, e 552. — Alfonso de Ulloa vita di Carlo V, l.
  I, f. 21. — Arn. Ferroni, l. III, p. 47._

  [139] Il nostro autore, che d'ordinario si mostra parziale per
  gl'Italiani, pare che in questa circostanza accordi la vittoria
  piuttosto all'accortezza che al vero valore de' campioni italiani.
  Oltre i citati autori e molti altri che non importa ricordare, non
  dobbiamo ommettere il frammento di un poema latino del Vida,
  pubblicato in Milano nel 1818, e probabilmente dall'autore non
  veduto. Io mi limiterò a riferire, secondo lo stesso Vida, i nomi
  de' guerrieri italiani:

    Fieramosca Capuano
    Miale o Aminale Toscano
    Mariano da Sarni Napolitano
    Pachis   }   Siciliani
    Salamene }
    Braccaleone Romano
    Capoccio Romano
    Carellario Napolitano
    Fanfulla Cremonese
    Riccio Parmigiano
    Lod. d'Abenavolo Napolitano
    Practius } Siciliani
    Gelenus  }

Mentre che i generali francesi conservavano la loro superiorità nel
regno di Napoli, piuttosto pel vantaggio del numero, che per quello de'
talenti, i loro commilitoni non erano senza qualche inquietudine nel
ducato di Milano. I figli di Lodovico il Moro si erano rifugiati alla
corte di Massimiliano, re de' Romani. Questo principe, che aveva sposata
una loro cugina, ed era vincolato col loro genitore non meno
dall'amicizia che dai trattati, nudriva da gran tempo tanta gelosia
contro la Francia, che non aspettava che l'istante propizio di
manifestarsi. Egli non aveva riconosciuti i pretesi diritti della casa
d'Orleans; rifiutava a Lodovico XII l'investitura del ducato di Milano,
e con tale rifiuto annullava, secondo il diritto feudale, la di lui
conquista. Il ministero francese mai non aveva potuto ottenere da
Massimiliano che tregue di pochi mesi, e le aveva tutte comperate col
danaro. Temeva ad ogni istante che l'imperatore invadesse la Lombardia,
e con ciò mettesse in pericolo il regno di Napoli. Il cardinale
d'Amboise, primo ministro di Lodovico XII, risoluto di non risparmiare
alcuna cosa per conservare la pace con Massimiliano, recossi a Trento
per avere con lui un abboccamento. Lodovico XII non aveva figli maschi,
ed il cardinale offrì la figlia del suo re, madama Claudia di Francia,
in matrimonio al nipote di Massimiliano, Carlo, figliuolo di Filippo e
di Giovanna di Castiglia, il quale trovavasi ancora in fasce. Questi due
sposi fanciulli dovevano avere per loro appannaggio il ducato di Milano,
di cui Massimiliano darebbe loro l'investitura. Filippo, sovrano de'
Paesi Bassi, era stato illuminato dall'interesse de' suoi industri
sudditi; desiderava conservare la pace colla Francia, ed incaricavasi
con zelo delle parti di mediatore tra Massimiliano, suo padre, e
Lodovico XII, suo formidabile vicino. Perciò la negoziazione, cominciata
molto prima dell'abboccamento di Trento, pareva portata a buon termine:
il cardinale d'Amboise vi aveva aggiunto il progetto della riforma della
Chiesa nel suo capo e nelle sue membra, credendo con ciò di farsi strada
al papato. Si mostrò quindi facile rispetto alle condizioni accessorie,
e tra le altre cose promise di porre in libertà Lodovico Sforza, il
cardinale Ascanio e gli altri prigionieri milanesi. Ma non era facile a
regolarsi la quistione principale. Lodovico XII poteva ancora avere un
figlio, e non voleva preventivamente diseredarlo a favore di sua figlia:
e l'imperatore non volle mai acconsentire alla riserva che Lodovico
avrebbe voluto fare di questo diritto contingente, onde si ruppe la
conferenza di Trento, senz'altro risultamento che quello di aver
prolungata di pochi mesi la tregua[140].

  [140] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 271._

Intanto Massimiliano, che credevasi chiamato a far rivivere tutti i
diritti della casa di Sassonia o di Hohenstauffen sopra l'Italia, vi
spedì due ambasciatori, il marchese Ermes Sforza ed il proposto di
Brixen, per rivendicare le prerogative de' suoi predecessori. Costoro
entrarono solennemente in Firenze il 21 di febbrajo del 1502. Esposero
alla signoria che il loro padrone, apparecchiandosi a venire a prendere
la corona imperiale a Roma, per andare in appresso ad attaccare i
Turchi, domandava alla loro repubblica, quale parte dell'impero, ed in
conformità delle antiche sue obbligazioni il pagamento di cento mila
fiorini per le spese della spedizione, metà subito, e l'altra metà nel
passaggio del monarca, che a questo prezzo dichiaravasi disposto a porre
in obblio la predilezione che i Fiorentini avevano sempre mostrato per
la casa di Francia[141].

  [141] _Fr. Guicciardini, p. 273. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p.
  127. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 265._

I Fiorentini non avevano altrimenti vaghezza di trattare con
Massimiliano, particolarmente a così onerose condizioni; ma la sola
apparenza di questa negoziazione riuscì loro vantaggiosa. Lodovico XII,
dopo la sgraziata spedizione del signore di Belmonte, non aveva loro
perdonati i torti suoi proprj, gli aveva privati della sua protezione,
ed abbandonati alle malvage pratiche del duca Valentino. Ebbe finalmente
paura che i Fiorentini stancheggiati cercassero in Massimiliano un altro
protettore, ed il 16 di aprile acconsentì a sottoscrivere con loro un
trattato, col quale, mercè un annuale sussidio di quaranta mila fiorini,
assicurava per tre anni i loro attuali possedimenti, e lasciava che
colle forze loro tentassero di ricuperare ciò che avevano
precedentemente perduto[142].

  [142] _Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 266. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  128. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 270._

Il solo nome della protezione di Francia era per la repubblica una
potente salvaguardia, che la guarentiva dagli aperti attacchi di Cesare
Borgia, il quale, circondando di già i di lei confini, ed avendo in sul
piede di guerra un formidabile corpo d'uomini d'armi, minacciava ad ogni
istante la stessa di lei esistenza. Il Borgia, padrone della Romagna,
arbitro supremo di tutto lo stato della Chiesa, aveva di fresco
afforzata la sua casa con una potente alleanza. Il 4 di settembre del
1501 aveva fatta sposare sua sorella Lucrezia ad Alfonso, figliuolo
primogenito del duca di Ferrara; ed il 5 di gennajo del 1502 Lucrezia
era partita da Roma per recarsi alla corte degli Estensi[143].

  [143] _Diar. Ferrar., t. XXIV, p. 397-405. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VI, p. 128. — Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2133 e 2136._

Il duca di Ferrara aveva veduto Cesare Borgia attaccare successivamente
tutti i vicarj pontifici; l'aveva veduto ajutato dalla Francia,
accarezzato dai Veneziani, non trovare chi si opponesse a' suoi disegni.
Onde non sapeva qual sorte si riservasse a lui medesimo, e si pose
premurosamente al coperto degli attacchi di così potente ad un tempo e
perfido vicino con un parentado, che a dir vero la casa d'Este doveva
trovare alquanto vergognoso. Lucrezia Borgia, sebbene ancora giovane
assai, aveva di già avuto tre mariti. Suo padre prima di giugnere al
pontificato l'aveva data ad un gentiluomo napolitano mentre ella non era
ancora nubile. Ma poichè fu fatto papa, pronunciò il suo divorzio per
maritarla a Giovanni Sforza, signore di Pesaro. Tra poco parve ai Borgia
che il parentado di così piccolo principe non fosse corrispondente al
grado loro, ed il papa nel 1497 pronunciò un secondo divorzio per
maritare sua figlia nel susseguente anno ad Alfonso d'Arragona, duca di
Biseglia, principe di Salerno, e figliuolo naturale di Alfonso II re di
Napoli[144]. Mentre ciò si trattava, il regno di Napoli fu conquistato
dai Francesi; il principe di Biseglia, che non aveva che diciassette
anni nel momento del matrimonio, invece di essere il nipote di un gran
re, più non fu che quello di un proscritto. I Borgia non avevano mai
avuta l'ambizione di mantenersi fedeli a coloro che la fortuna
abbandonava. Il 15 di luglio del 1501 il terzo sposo di Lucrezia venne
assassinato sulla scala della basilica di san Pietro. Si vietò qualunque
processura contro gli uccisori; e perchè non moriva abbastanza
sollecitamente per le riportate ferite, il 18 di agosto fu strozzato nel
suo letto[145]. I disordini della privata vita di Lucrezia superavano
ancora lo scandalo de' suoi matrimoni e dei suoi divorzj: perciocchè il
pubblico l'accusava di essere stata l'amante di suo padre e de' suoi
fratelli: era stata veduta presiedere ai banchetti delle cortigiane ed
alle scandalose feste con cui Alessandro infamava il Vaticano: invece di
tornei Lucrezia instituiva lotte di libertinaggio; giudicava co' suoi
occhi il valore de' combattenti, e distribuiva premj ai
vincitori[146][147].

  [144] _Burchardi Diar. Cur. Rom., p, 2096._

  [145] _Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2122, 2123. — Jac. Nardi Ist.
  Fior., l. IV, p. 126. — Raynal. An. Eccl. 1501, § 21, p. 511._

  [146] _Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2134._

  [147] Il signor Roscoe nella vita di Leon X, _t. 1_, si sforza di
  voler difendere da così gravi imputazioni la duchessa di Ferrara,
  Lucrezia Borgia, ma trattò l'argomento piuttosto da retore che da
  storico imparziale. Avrebbe fatto miglior senno ad abbandonare le
  difese della Borgia prima del suo matrimonio con Alfonso d'Este, per
  dimostrarla savia principessa dopo quest'epoca, ai quale oggetto non
  doveva che distruggere qualche sospetto di soverchia domestichezza
  con Pietro Bembo e con qualche altro illustre personaggio; potendosi
  in generale asserire che alla corte di Ferrara si contenne come si
  conviene a saggia e colta principessa. _N. d. T._

Lucrezia portò al suo sposo cento mila ducati di dote, la cessione di
alcuni feudi ecclesiastici in Romagna, e la protezione del papa per la
casa d'Este, che valeva più di tutt'altra cosa. L'alleanza poi del duca
di Ferrara copriva il nuovo ducato di Romagna dalla banda de' confini
più esposti, e lasciava a Cesare Borgia la facoltà di volgere tutte le
sue forze e tutta la sua attenzione verso la Toscana e verso l'Ombria.
In fatti partì da Roma il 13 giugno del 1502 per avvicinarsi a quelle
province[148].

  [148] _Burchardi Diar. Curiae Rom., p. 2138._

Il giorno 1.º di maggio del precedente anno il papa aveva pronunciato in
concistoro una sentenza contro Giulio Cesare da Varano, signore di
Camerino, colla quale, per castigo dell'assassinio di suo fratello
Rodolfo, e dell'asilo che aveva accordato ai banditi ed ai ribelli dello
stato della Chiesa, il Varano era spogliato del suo feudo, ed il piccolo
principato di Camerino riunito alla camera apostolica[149]. Il duca
Valentino, poichè fu arrivato ai confini del territorio perugino, diede
voce che stava per dare esecuzione a tale sentenza. Mandò il duca di
Gravina Orsini ed Oliverotto di Fermo, suoi luogotenenti, a guastare la
Marca di Camerino; e nello stesso tempo domandò a Guid'Ubaldo di
Montefeltro, duca d'Urbino, di prestargli tutti gli uomini d'armi e
tutta l'artiglieria che aveva; e perchè Guid'Ubaldo non aveva veruna
contesa col pontefice e niun motivo di diffidenza, si affrettò di
ubbidire, onde non compromettersi con un così formidabile vicino. Ma
quando il Borgia ebbe in sua mano tutti i mezzi di difesa del duca,
condusse improvvisamente le sue truppe nel suo ducato, ed occupò lo
stesso giorno Cagli, una delle quattro città di quello stato.
Guid'Ubaldo spaventato fuggì senza far resistenza, si ritirò a Ravenna
in abito di contadino e di là passò a Mantova; suo nipote, Francesco
Maria della Rovere, prefetto di Roma e signore di Sinigaglia, fuggì
nello stesso tempo, e Cesare Borgia non incontrò verun ostacolo a
ridurre in suo potere tutto il ducato d'Urbino, tranne le fortezze di
san Leo e di Majolo[150].

  [149] _Rayn. Ann. 1501, § 17, p. 508._

  [150] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 278. — Burchardi Diar. Cur. Rom.,
  p. 2138 — P. Bembi Ist. Ven., l. VI, p. 130. — Jac. Nardi Ist.
  Fior., l. IV, p. 132, — Ist. di Gio. Cambi, p. 179._

Questa è una delle occasioni assai rare in cui viene dagli storici
accennata la repubblica di san Marino. Due villaggi presso la sommità
del monte Titano formano tutt'intero quel piccolo stato, che si era fin
allora conservato libero, ma sotto la protezione del duca d'Urbino. Gli
abitanti, spaventati dalla ruina del loro protettore, offrirono ai
Veneziani di darsi a loro, se volevano difenderli contro Cesare Borgia;
ma i Veneziani non ardirono di accettarli. Dall'altra banda il Borgia
loro domandò soltanto di ricevere un podestà dalle sue mani; i cittadini
di san Marino vi acconsentirono, ed approfittarono delle prime
rivoluzioni della Romagna per riporsi in libertà[151].

  [151] _P. Bembi, Ist. Ven., l. VI, p. 130. — Melch. Delfico Mem.
  Stor. di san Marino cap. VI, p. 175._

Mentre il Valentino conquistava il ducato d'Urbino, e teneva aperti gli
occhi sulle rivoluzioni che scoppiavano in Toscana, il suo luogotenente,
Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello aveva intavolata una
cospirazione con alcuni cittadini d'Arezzo per farsi dare in mano la
città. Guglielmo de' Pazzi, ch'era colà commissario della repubblica
fiorentina, la scuoprì, e fece arrestare due de' più colpevoli; ma il
partito de' ribelli, ch'era più numeroso ch'egli non credeva, fece che
prendesse le armi tutta la città per liberarli, ed avendo imprigionato
il commissario stesso con tutti i suoi ufficiali, gli Aretini
proclamarono nello stesso giorno, il 4 giugno del 1502, il
ristabilimento dell'antica loro repubblica, e cinsero d'assedio la
rocca[152].

  [152] _Jac. Nardi, Ist. Fior., l. IV, p. 129. — Ist. di Gio. Cambi,
  t. XXI, p. 177 — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267._

Cosimo de' Pazzi, vescovo d'Arezzo e figlio del commissario, essendosi
chiuso nella rocca, fece frettolosamente chiedere soccorsi a Firenze: ma
quelli de' ribelli erano più vicini, e Vitellozzo Vitelli entrò quasi
subito in Arezzo cogli uomini d'armi di Città di Castello. Gian Paolo
Baglioni, signore di Perugia lo seguì immediatamente, seco conducendo
Fabio, figliuolo di Paolo Orsini, ed i due Medici, Pietro e suo fratello
cardinale, sempre apparecchiati ad unirsi a tutti i nemici della loro
patria. Pandolfo Petrucci loro mandò da Siena danaro ed artiglieria, ed
il 18 di giugno la rocca d'Arezzo, che i Fiorentini non avevano potuto
soccorrere, dovette arrendersi[153].

  [153] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 276. — Burchardi Diar., p. 2138. —
  Jac. Nardi, l. IV, p. 130. — Orlando Malavolti Stor. di Siena, p.
  III, l. VI, f. 108, v._

Tutti i capitani che avevano preso parte nella rivoluzione d'Arezzo,
Vitellozzo, gli Orsini, Baglioni e Petrucci erano al soldo del duca
Valentino; e se questi non erasi immischiato nella trama, almeno
sembrava tenersi pronto a coglierne i frutti; ma quando era in sul punto
di entrare in Toscana, ebbe comunicazione del trattato di protezione
soscritto il 16 di aprile tra il re di Francia e la repubblica
fiorentina, ed un formale divieto di Lodovico XII di molestare i
Fiorentini. Egli si vide costretto ad ubbidire, almeno in apparenza, e
si accontentò di far passare segretamente a Vitellozzo tutti gli uomini
d'armi di cui poteva disporre[154]. Nello stesso tempo rivolse le sue
forze dalla banda di Camerino, entrò in quella città per sorpresa, si
assicurò della persona di Giulio Cesare di Varano e di due de' suoi
figliuoli, e li fece subito strozzare[155].

  [154] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 277. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 132. — Orl. Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 109.
  — P. Giovio Vita di Leon X, l. I, p. 79. — Fr. Belcarii Comm., l.
  IX, p. 254._

  [155] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 279. — Burchardi Diar., p. 2141. —
  Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 268. — Jac. Nardi, l. IV, p. 134._

Intanto Vitellozzo teneva sotto i suoi ordini ottocento uomini d'armi e
tre mila fanti; assumeva il titolo di generale dell'armata della Chiesa,
e continuava la guerra contro Firenze. E perchè tutto il raccolto era
ancora ne' campi, i contadini, temendo di esporli ad essere bruciati,
non osavano fare resistenza; onde Vitellozzo non incontrò difficoltà
alcuna ad impadronirsi di Monte Sansovino, di Castiglione Aretino, di
Cortona e di tutte le terre murate di Val di Chiana[156]. Se si fosse
immediatamente avanzato nel Casentino sarebbe giunto fino alle mura di
Firenze, non vi essendo armata apparecchiata a resistergli; perchè la
fanteria adunata a Quarata nell'istante della ribellione d'Arezzo, era
stata compresa da tale terrore per l'occupazione de' Castelli di Val di
Chiana, che si era tutta dispersa. Ma Vitellozzo non si prendeva verun
pensiero di rimettere i Medici in Firenze, finchè poteva sperare di
tenere in suo dominio le conquiste che farebbe ne' contorni del suo
piccolo stato di Città di Castello. Invece adunque di passare avanti,
piantò le sue batterie da principio contro Anghiari, in appresso sotto
Borgo san Sepolcro, e prese quelle due terre. D'altra parte i Fiorentini
avevano ricorso in principio di questa guerra a Chaumont d'Amboise,
governatore del Milanese, per avere i soccorsi cui Lodovico XII si era
obbligato. Di già dugento lance francesi, comandate dal capitano
Imbault, erano giunte a Firenze, ed altre dugento si avvicinavano.
Vitellozzo, che aveva fatto intimare la resa al castello di Poppi,
quand'ebbe avviso della loro venuta, si ritirò immediatamente e si
chiuse in Arezzo[157].

  [156] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 131. — Ist. di Gio. Cambi,
  t. XXI, p. 178. — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267._

  [157] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 279. — Jac. Nardi, l. IV, p. 131.
  — Scip. Ammirato, l. XXVII, p. 267. — P. Giovio vita di Leone X, l.
  I, p. 80. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 255._

Il Vitellozzo non era entrato in quest'intrapresa senza l'assenso del
duca Valentino; ma tosto che il duca vide che realmente eccitava la
collera del re di Francia, che le lagnanze di tutta l'Italia contro di
lui avevano scosso Lodovico XII al suo arrivo in Asti, e l'avevano
finalmente persuaso a tarpare le ali alla di lui ambizione; che il re
aveva mandato a Parma Lodovico della Tremouille con dugento lance e con
grosso treno d'artiglieria; che vi faceva andare tre mila Svizzeri, e
che si apparecchiava a frenare i troppo turbolenti capitani dello stato
della Chiesa, si affrettò di negare le commissioni date al suo
luogotenente; anzi minacciò di attaccarlo a forza aperta, e Vitellozzo,
che ben sapeva che dal suo padrone non aveva a sperare nè pietà nè buona
fede, che ne' freschi esempi del duca d'Urbino e del signore di Camerino
vedeva fin dove poteva giugnere la sua crudeltà e la sua perfidia,
temeva di essere da lui sagrificato. Per tirarsi con qualche onore dalla
sua spedizione si affrettò di trattare col capitano Imbault; il 1º di
agosto gli consegnò Arezzo, e tutto ciò che aveva conquistato in
Toscana, assoggettandosi al giudizio del re di Francia intorno alla
sorte di quella provincia[158].

  [158] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 280. — Machiavelli Disc. sopra
  Tito Liv., l. I, c. 38, p. 167. — Jac. Nardi, Ist. Fior., l. IV, p.
  135. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 180. — Scip. Ammirato, l
  XXVII, p. 268._

La collera di Lodovico XII contro Cesare Borgia pareva essere foriera di
una rapida rivoluzione nello stato della Chiesa: tutti i nemici di
quest'uomo crudele e perfido, tutte le vittime che si erano sottratte ai
precedenti suoi tradimenti, tutti coloro che temevano di esserne in
breve le vittime, eransi riuniti in Asti presso il re di Francia per
affrettarlo a liberare dal padre e dal figlio la Chiesa e l'umanità. Ma
dal canto loro Alessandro e Cesare Borgia non si tenevano inattivi, ed
avevano spediti presso Lodovico e presso il cardinale; d'Amboise i loro
più destri negoziatori. Sapevano che quel cardinale aspirava alla tiara,
e che per giugnervi aveva bisogno di far entrare alcune sue creature nel
sacro collegio; perciò Alessandro VI gli promise di fare una promozione
di sua scelta, gli riconfermò per diciotto mesi il titolo di legato a
latere in Francia, e lusingò la sua vanità facendolo figurare quale
protettore della Chiesa. Il cardinale d'Amboise, guadagnato dai Borgia,
rappresentò allora a Lodovico XII che non poteva riporre veruna
confidenza nelle sue negoziazioni con Massimiliano; che le pretese dei
quattro cantoni sopra Bellinzona potevano essere cagione di dissapori
con tutto il corpo elvetico; che la guerra di Napoli coi re di Spagna
poteva riuscire molesta; che i Veneziani, sempre occupati nella guerra
coi Turchi, vedevano con occhio geloso i progressi della Francia; che il
papa e suo figlio erano alla fine le sole potenze d'Italia che avessero
un'armata, un tesoro ed una posizione degna di essere comperata. Tosto
che fu noto a Cesare Borgia che Lodovico XII erasi lasciato calmare da
tali considerazioni politiche, partì in posta da Roma il 3 agosto del
1502 e recossi a Milano alla corte del re[159]. Lodovico XII lo accolse
con tali onorificenze e testimonianze di affetto, che ridussero alla
disperazione coloro che avevano contro di lui implorata giustizia. Si
confermò l'alleanza tra la Francia e la casa Borgia; le truppe francesi
mandate in Toscana furono richiamate; la repubblica di Siena e Pandolfo
Petrucci, pagando quaranta mila ducati, vennero nuovamente ricevuti
sotto la protezione della Francia; due mila Svizzeri e due mila Guasconi
ebbero ordine di passare nel regno di Napoli per raggiugnervi il duca di
Nemours; e Lodovico XII, contento di avere così regolati gli affari
d'Italia, ripartì in settembre per tornare in Francia[160].

  [159] _Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2142. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  136. — Fr. Belcarii, Comm. Rer. Gal., l. IX, p. 256._

  [160] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 282. — Jac. Nardi, l. IV, p. 138.
  — Agost. Giustin., l. VI, p. 258._

Le condizioni della nuova alleanza del Valentino col re non si conobbero
che dopo la partenza di questi, ed eccitarono l'universale indignazione.
Lodovico XII, associandosi alle sue perfidie, gli prestava trecento
lance francesi per continuarle impunemente. Egli non avea riclamato a
favore del principe di Piombino e del duca d'Urbino, ambidue suoi
alleati, e che avevano somministrati i piccoli loro contingenti alle sue
armate. Era pure alleato di Giovanni Bentivoglio, ed aveva ricevuto in
danaro il prezzo della protezione che gli aveva promessa, pure lo
sagrificava egualmente al Valentino. Le trecento lance che prestava a
costui dovevano impiegarsi contro Bologna, Perugia e Città di Castello,
per cacciarne il Bentivoglio, Gian Paolo Baglioni e Vitellozzo
Vitelli[161].

  [161] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 283._

Non sapevasi se la repubblica fiorentina fosse stata egualmente
abbandonata dal re alla cupidigia di Cesare Borgia, ma il trattato che
la univa a Lodovico XII, e ch'essa aveva fin allora risguardato come la
sua guarenzia, non era nè più chiaro, nè più sacro che quelli del
principe di Piombino, del duca d'Urbino, del Bentivoglio, che vedevansi
posti in non cale. Altronde sapevasi che Alessandro VI e suo figlio si
erano accusati di pusillanimità per non avere spinti più vivamente i
vantaggi che ottenuti avevano contro i Fiorentini, resi sicuri dalla
conoscenza che fatta avevano della corte di Francia, che questa
perdonerebbe sempre le cose fatte, e che se avessero aspettato a
trattare colla medesima dopo essersi impadroniti di Firenze, non
avrebbero trovate maggiori difficoltà a fare la loro pace, di quello che
ne avessero incontrate rispettando quella città[162].

  [162] _Fr. Guicciardini, l. I, p. 284. — Machiavelli della Natura
  dei Francesi, t. III, p. 195._

Ai Fiorentini erano state restituite in agosto tutte le città e castelli
che Vitellozzo loro aveva tolti; ma essi non andavano debitori di tale
restituzione che ad una protezione straniera, mentre che le loro perdite
facevano conoscere la loro debolezza. Spossati da otto anni di guerra
con Pisa, questa interna piaga rodeva continuamente le loro finanze,
mentre che con tutto il restante dell'Italia erano partecipi de' mali
dell'invasione straniera e di tutte le pubbliche calamità. Avendo il re
fatto conoscere che gl'increscerebbe che prendessero al loro soldo il
duca di Mantova, ch'egli risguardava come suo nemico, essi nè avevano
preso questo capitano, nè verun altro per rispettare tale insinuazione,
e si trovavano quasi disarmati[163].

  [163] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 284._

A questi esterni pericoli aggiugnevansi pei Fiorentini quelli che
dipendevano dall'instabilità del proprio governo. Dopo che non avevano
più la balìa, non più elezioni fatte alla mano, non più fazioni estranee
all'amministrazione, che segretamente governassero i magistrati; dopo
che questi venivano scelti ogni due mesi dai suffragi del gran
consiglio, si sentiva più gagliardamente l'inconvenienza di non avere
nello stato una stabile autorità. La politica esterna aveva tutt'affatto
mutata natura: trovavasi presentemente concentrata nel gabinetto di
pochi principi assoluti; richiedeva segreto, accortezza, ed una
personale conoscenza degli uomini e de' ministri; richiedeva l'impiego
non de' buoni cittadini, ma de' diplomatici. Le potenze straniere non
cessavano mai di rinfacciare ai Fiorentini quel continuo rinnovamento
della loro amministrazione, che non permetteva di penetrare per entro ai
misterj della politica. Il duca Borgia ed il re di Francia, nelle loro
negoziazioni colla signoria, avevano più volte osservato, che il
confidarle i loro segreti era lo stesso che pubblicarli. I partigiani
dei Medici non avevano verun altro pretesto da mettere in campo pel
ristabilimento della tirannide, e dal canto loro gli amici della libertà
sentirono che in una così pericolosa crisi dovevano dare alquanto più di
stabilità al loro governo. Alamanno Salviati, uno de' priori, propose
alla signoria di porre alla testa della repubblica un gonfaloniere a
vita, quale era il doge di Venezia; d'alloggiare questo gonfaloniere in
palazzo, assegnandogli pel suo mantenimento dugento ducati al mese;
d'accordargli il diritto d'intervenire a tutti i consiglj e tribunali, e
metà dell'iniziativa col _proposto_ giornaliero della signoria; ma in
pari tempo di dichiarare che queste eminenti incumbenze non lo
assolvevano da un giudizio capitale se venisse contro di lui pronunciato
dal supremo tribunale degli otto di balìa. Questa proposizione,
approvata da principio dalla signoria e dai collegi, venne sanzionata il
16 agosto del 1502 dal gran consiglio[164].

  [164] _Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 181. — Jac. Nardi Ist. Fior.,
  l. IV, p. 138. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 269._

Nell'istante in cui si portò questa legge, i voti del popolo non si
erano per anco riuniti a favore di verun individuo; ma il gran consiglio
in cui si adunarono più di due mila cittadini, consultato da uno
scrutinio segreto, presentò per questa sublime dignità tre candidati, il
giudice Antonio Malegonnelle, Giovachino Guascone e Piero Soderini.
L'ultimo in un secondo giro di scrutinio riunì la pluralità assoluta, e
fu proclamato il 22 di settembre, sebbene non dovesse entrare in carica
che il primo di novembre. Era questi un uomo di matura età, d'una
indipendente fortuna, d'una illustre famiglia, d'una riputazione
intangibile. E perchè non aveva figli, non si aveva ragione di temere
che l'ambizione di famiglia nuocesse ai suoi sforzi pel bene di
tutti[165]. Poco tempo prima era stato in Firenze riformato anche
l'ordine giudiziario. Una legge del 15 aprile del 1502 aveva soppressi
gli uffici di podestà e di capitano di giustizia, e fondata la ruota
fiorentina, composta di cinque giudici, quattro dei quali dovevano
essere d'accordo per portare una sentenza. Si era per altro conservato
pel presidente del tribunale il titolo di podestà. Ogni membro
esercitava per turno quest'incumbenza sei mesi; e fu appunto questa
rotazione, che in Italia fece dare ai tribunali il titolo di
_ruota_[166].

  [165] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 281. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI,
  p. 183. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 269._

  [166] _Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 172. — Scip. Ammirato, l.
  XXVIII, p. 270._

Dopo di avere con queste interne riforme consolidata la stabilità del
loro governo, i Fiorentini si posero in istato di difendersi: ottennero
da Lodovico XII cento cinquanta lance francesi, cui pagavano essi il
soldo, e nello stesso tempo spedirono Gio. Vittore Soderini ambasciatore
a Roma, e Niccolò Machiavelli, lo storico, ad Imola presso al duca
Valentino per sapere fino a qual punto potevano contare sulla durata
della pace[167].

  [167] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 138._

I vicarj pontificj ed i condottieri, contro i quali il duca Valentino
aveva dichiarato di voler condurre la sua armata e le genti sovvenutegli
dalla Francia, erano tutti segreti o dichiarati nemici della repubblica
fiorentina: tutti dall'altro canto si trovavano ancora in principio di
quest'anno medesimo al soldo dei Borgia, ed avevano lungo tempo servito
d'istrumenti alla sua politica. I Fiorentini potevano adunque temere, o
che l'apparente loro discordia non fosse che una astuzia destinata ad
ingannare i loro vicini, o che la loro riconciliazione non si facesse a
spese della repubblica. Ma que' capitani conoscevano essi meglio degli
altri il pericolo che loro sovrastava. Il Borgia aveva dichiarato di
volere ricondurre all'ubbidienza della Chiesa Bologna, Perugia e Città
di Castello: con ciò veniva a dire ch'egli voleva occupare quelle città,
e far perire le famiglie de' loro signori come aveva fatto rispetto a
quelle dei Varani e dei Manfredi. Gli Orsini, strettamente uniti ai
Vitelli, ben sentivano che verrebbe presto la volta loro. Pandolfo
Petrucci vedevasi stretto da ogni banda dalle conquiste del Valentino,
il quale, padrone della Romagna, dell'Ombria e del Patrimonio, afforzava
ancora Piombino. Tutti e due avevano, siccome Vitellozzo, i medesimi
diritti alla riconoscenza di Borgia, e tutti due più non potevano
dubitare che la sua riconoscenza non avesse alcuna influenza sulla sua
anima. Questi capitani, che vedevano il turbine vicino a cadere sopra di
loro, si riunirono segretamente alla Magione, nello stato di Perugia,
per concertare i comuni mezzi di difesa. I più di loro trovavansi
tuttavia al soldo di Cesare Borgia, ma avevano avuta la precauzione di
far ritirare in luogo sicuro i loro uomini d'armi; e, secondo i calcoli
loro, trovarono di potere adunare all'istante settecento uomini d'armi,
quattrocento alabardieri a cavallo e nove mila fanti. Altronde
occupavano tutto il paese posto tra la Romagna e Roma, e speravano di
potere impedire ogni comunicazione tra Cesare Borgia e suo padre[168].

  [168] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 284._

Trovavansi alla dieta della Magione il cardinale Orsini, che aveva
sprezzato il divieto del papa di passare a Milano presso Lodovico XII, e
che più non ardiva di tornare a Roma; Paolo Orsini suo fratello, il
quale era padrone di molta parte del Patrimonio di san Pietro;
Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello; Giovan Paolo Baglioni,
signore di Perugia; Ermes Bentivoglio, che rappresentava suo padre
Giovanni, signore di Bologna; Antonio di Venafro, ministro e confidente
di Pandolfo Petrucci, signore di Siena; e per ultimo Oliverotto, che con
esecrabile perfidia si era fatto padrone della signoria di Fermo e della
sua Marca[169]. Rimasto questi orfano in tenera età, era stato allevato
da Giovanni Fogliano, suo zio materno, e trattato con tutta la tenerezza
di un padre verso un prediletto figlio. Volendo il Fogliani farlo
entrare nella carriera militare, l'aveva posto presso Paolo Vitelli,
sotto il quale Oliverotto si distinse. Dopo la morte di Paolo venne
annoverato tra i più bravi ed intraprendenti luogotenenti di Vitellozzo,
e finalmente la spedizione del Borgia contro Camerino lo ricondusse ai
confini della sua patria. Scrisse in allora al Fogliani, che desiderava
di rivedere la casa paterna, e mostrarvisi cogli onori acquistati in
guerra, facendosi accompagnare da cento de' suoi cavalieri. Il Fogliani
ottenne per lui la licenza d'introdurli in città; gli procurò il più
lusinghiero accoglimento; lo alloggiò in sua casa con tutta la truppa, e
pochi giorni dopo, per onorarlo, diede un banchetto a tutta la
magistratura di Fermo. A mezzo il pranzo Oliverotto fece entrare i
soldati che l'avevano seguito, fece assassinare il Fogliani e tutti i
commensali, indi, assediata la signoria ch'era rimasta in palazzo, la
costrinse a riconoscerlo per principe di Fermo e del suo
territorio[170].

  [169] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 286._

  [170] _Machiavelli il Principe, c. VIII, p. 264. — Fr. Guicciardini
  l. V, p. 290._

I nemici di Cesare Borgia non erano quindi nè meno perfidi, nè meno di
lui macchiati di delitti; e non potevano avere confidenza gli uni negli
altri, nè ispirarne ai loro vicini. Invano cercarono che i Fiorentini
prendessero parte nella loro associazione; questi vi si rifiutarono
costantemente[171]. I Veneziani, sia per lo stesso motivo, sia a motivo
dell'imbarazzo e dell'inquietudine che loro dava continuamente la guerra
coi Turchi, ricusarono egualmente di entrare nella loro lega; ma
scrissero a Lodovico XII per dissuaderlo dall'assecondare per lo innanzi
le intraprese del duca Valentino. Gli rappresentavano quanto torto
facesse alla sua riputazione ed al nome di Cristianissimo ch'egli
portava, spalleggiando un mostro, la di cui ambizione non era frenata da
verun pudore, da verun sentimento d'umanità; un tiranno che non
risparmiava nè donne, nè fanciulli, nè i proprj fratelli; che faceva
perire i prigionieri ricevuti sotto la fede del giuramento; che
raggiugneva col ferro o col veleno coloro che cercavano di sottrarsi
alla sua potenza, e che aveva dati al mondo esempj di ferocia fin allora
sconosciuti: Lodovico XII rispose alle rimostranze de' Veneziani, come
sogliono fare i potenti il di cui orgoglio si offende trovandosi colto
in fallo: dichiarò che niuno poteva vietare al pontefice di disporre
come più gli piaceva delle terre della Chiesa, che niuno poteva dargli
colpa ch'egli ajutasse il papa in così legittima impresa, e che, se i
Veneziani tentassero di porvi ostacolo, li tratterebbe come nemici. Non
contento di avere così risposto, mandò copia della sua lettera al duca
Valentino, che la fece leggere al Machiavelli[172].

  [171] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 139._

  [172] _Machiavelli Legaz. al duca Valentino, Lett. I. — Fr.
  Guicciardini, l. V, p. 285. — Fr. Belcarii Comment. Rer. Gal., l.
  IX, p. 258._

I confederati della Magione invitarono pure il duca d'Urbino, allora
rifugiato in Venezia, ad entrare nella loro lega. Questi, che, tutto
avendo già perduto, non correva verun rischio, accettò avidamente
l'offerta. Sbarcò a Sinigaglia, dove una congiura gli diede in mano il
forte san Leo, e tutti i popoli del ducato di Urbino che lo amavano,
prendendo subito le armi in favor suo, gli diedero modo di ricuperare i
proprj stati colla stessa rapidità con cui gli aveva perduti[173]. In
tal guisa scoppiò in principio di ottobre la sommossa de' capitani di
Cesare Borgia contro di lui: a ciò egli non era apparecchiato; molti di
loro facevano ancora parte della sua armata, ed egli aveva calcolato di
assicurarsi de' soldati di tutti gli altri prima di attaccare il
Bentivoglio, il solo ch'egli avesse scopertamente minacciato. Nel
momento in cui ebbe notizia della rivoluzione del ducato d'Urbino,
trovavasi in Imola con poche truppe; ed il Bentivoglio, che aveva alcune
compagnie a Castel san Pietro, ordinò loro di battere il paese fino a
Doccia a breve distanza da Imola. Il Valentino scrisse frettolosamente a
don Ugo di Cardone ed a don Michele, due de' suoi capitani ch'erano nel
ducato d'Urbino, di schivare ogni zuffa, di piegare in faccia al nemico,
e di condurgli a Rimini cento uomini d'armi, dugento cavaleggieri e
cinquecento fanti da loro comandati. Ma i due luogotenenti non
ubbidirono ai suoi ordini: tentati da un'occasione che si presentò loro
d'impadronirsi della Pergola e di Fossombrone, rientrarono nel ducato
d'Urbino, e si lasciarono sorprendere presso Cagli da Paolo Orsini e dal
duca di Gravina, suo cugino, che avevano con loro seicento fanti di
Vitellozzo. Le truppe del Borgia furono battute, Ugo di Cardone fatto
prigioniere, ucciso il suo luogotenente, e don Michele, rifugiatosi a
Fano, si ritirò poscia a Pesaro[174].

  [173] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 140. — Burchardi Diar.
  Curiae Rom., p. 2142._

  [174] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 287._

Il Valentino trovavasi in Imola in grandissimo pericolo, e vi ragunava
quanti più soldati poteva; ma quelli che gli erano stati promessi dal re
di Francia non erano ancora arrivati, e gl'Italiani che prendeva al suo
soldo non avevano meno ragione di diffidare di lui che quelli che
avevano allora prese contro di lui le armi. Un subito impetuoso attacco
de' confederati l'avrebbe probabilmente sgominato; ma questi temevano
particolarmente di provocare lo sdegno del re di Francia, cui avevano
fatto dichiarare che ben lungi dal voler combattere contro i suoi
soldati, erano apparecchiati ad eseguire i suoi ordini. Avevano pure
ricusato di ricevere i Colonna nella loro lega pel solo motivo che erano
aperti nemici della Francia. Questi vani riguardi diedero tempo a Cesare
Borgia ed a suo padre di negoziare, tanto per riconciliarsi coi capi
nemici, quanto per seminare tra loro la discordia. In particolare
Alessandro VI cercava di riacquistare la confidenza del cardinale Orsini
per mezzo di suo fratello, Giulio Orsini, che si era trattenuto in
Roma[175].

  [175] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 286._

Cesare Borgia era dotato di singolari talenti per le negoziazioni, e di
una straordinaria facilità di guadagnarsi l'affetto di coloro che lo
avvicinavano. Questo così falso e perfido tiranno sapeva sopra tutto
prendere a voglia sua il linguaggio della franchezza e della confidenza.
Trovasi nelle lettere che il Machiavelli scriveva alla signoria in tempo
della sua legazione presso il Valentino l'impronta di quel tuono di
bonomia che prendeva nelle sue negoziazioni. Spesso il segretario
fiorentino riferisce le precise parole dell'abboccamento avuto col duca.
«Quando tu sei venuto per la prima volta, gli diceva il Borgia, il 23 di
ottobre, io non ti ho parlato così apertamente (del mio intero
soddisfacimento della condotta tenuta dalla repubblica, e del mio
desiderio di servirla), perchè io mi trovava allora in difficilissima
situazione; Urbino si era ribellato, e non sapevo su quale appoggio
contasse presso di me tutto era disordine, e nulla poteva parere stabile
con quei nuovi stati; perciò io non voleva che i tuoi signori si dessero
a credere che la paura che io aveva mi facesse abbondare in promesse.
Presentemente che ho meno da temere, ti prometto assai più; e quando non
temerò più nulla, i fatti, ove fia d'uopo, terranno dietro alle
promesse». Il Machiavelli dopo di avere nella sua lettera dello stesso
giorno riferita circostanziatamente questa conversazione soggiugne: «Voi
vedete, o signori, di quali parole si serve questo signore, sebbene io
non ne scriva che la metà; le loro signorie considereranno d'altra parte
la persona che parla, e giudicheranno secondo la consueta loro
prudenza»[176].

  [176] _Machiavelli Legaz. I, lett. I, p. 5 e 6._

L'immobilità del Borgia, che dopo il cominciamento della guerra si tenne
dieci settimane in Imola senza nè avanzare, nè retrocedere, fece credere
ai confederati che sentisse la propria debolezza, e che a qualunque
patto si riconcilierebbe; entrarono perciò di buon animo in negoziazioni
con lui, tanto più che nello stesso tempo le loro truppe andavano
facendo nuovi acquisti. Il popolo di Camerino si era ribellato ed aveva
richiamato dal suo esilio all'Aquila Giovan Maria di Varano, figlio
dell'ultimo signore; Vitellozzo aveva presa la fortezza di Fossombrone,
poscia le rocche di Urbino, Cagli ed Agobbio; di modo che nel ducato
d'Urbino agli ufficiali di Borgia non restava che sant'Agata; Fano e
tutta la provincia erano stati egualmente occupati dai confederati.
Intanto il Valentino chiamava da ogni banda al suo soldo _lance
spezzate_; che così si chiamavano que' piccoli gentiluomini, che non
avendo sotto i loro ordini che cinque o sei cavalli, pure prendevano
soldo separatamente. Siccome non si presentavano per compagnie da sè, e
che non erano comandati da un riputato capitano, pareva che non
formassero corpo[177].

  [177] _Machiavelli Legaz. I, lett. IV, p. 16 e passim._

Il Valentino voleva ridurre Paolo Orsini a venire a trattare con lui
personalmente in Imola, e per averlo acconsentì di mandare ai
confederati in ostaggio il cardinale Borgia. In fatti Paolo Orsini
giunse ad Imola il 25 di ottobre[178]. Il Valentino lo accolse
amichevolmente; convenne che non doveva accusare che la propria
imprudenza, se que' capitani che lo avevano fin allora servito con tanta
fedeltà, si erano tutt'ad un tratto da lui alienati; che era tutta sua
colpa il non avere con loro agito in maniera da liberarli da così mal
fondati sospetti; ma che poichè questa mal intelligenza non avea avuto
verun reale motivo, sperava che ben lungi da lasciare tra di loro semi
d'inimicizia, servirebbe per lo contrario a formare tra di loro una
perpetua indissolubile unione; perciocchè da una banda vedendo i suoi
capitani che il re di Francia lo ajutava con tutta la sua potenza, si
convincerebbero di non lo potere opprimere; e dall'altra egli stesso
aveva per questa esperienza aperti gli occhi, e confessava ingenuamente
che dai loro consiglj e dal loro valore doveva riconoscere tutta la sua
felicità e la sua riputazione[179].

  [178] _Machiavelli Legaz. I, lett. II, p. 8. — Jac. Nardi Ist.
  Fior., l. IV, p. 141._

  [179] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 287._

Le proteste di Cesare Borgia venivano accolte con tanta maggiore
confidenza da Paolo Orsini, in quanto ch'egli era persuaso non potersi
un papa mantenere, quando aveva nello stesso tempo contro di sè la sua
famiglia e quella dei Colonna. E tale fu la sua cocciutagine, che, non
credendosi per parte del duca esposto a verun pericolo, poichè questi
non dava segno di veruno risentimento, sottoscrisse con lui il 28 di
ottobre una convenzione in forza della quale tutte le ricevute
vicendevoli ingiurie dovevano essere dimenticate. Il soldo che i
condottieri confederati avevano inaddietro avuto dal duca doveva essere
loro conservato; essi obbligavansi ad ajutarlo a ricuperare con tutte le
loro forze gli stati d'Urbino e di Camerino, senza per altro essere
obbligati a venire in persona nelle sue armate, od a porsi in poter suo.
Finalmente le vertenze del papa con Giovanni Bentivoglio, rispetto alla
sovranità di Bologna, dovevano decidersi dal cardinale Orsini, dal duca
Valentino e da Pandolfo Petrucci[180].

  [180] Il Machiavelli in una sua lettera del 10 novembre manda alla
  signoria l'intera convenzione. _Legaz. I, l. VIII, p. 30. — Jac.
  Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 141._

Ma questa convenzione, che fu comunicata al Machiavelli da un segretario
del duca con un sorriso ironico[181], perchè avesse effetto era
necessario che venisse ratificata dal papa e dai singoli confederati.
Non fu difficile il portare in lungo tale formalità, e di accrescere in
tal maniera la diffidenza del Bentivoglio, che con estremo
rincrescimento vedeva tenersi in sospeso i suoi interessi, mentre che
regolati erano quelli di tutti gli altri. Il Valentino seppe
approfittarne per conchiudere con lui, per mezzo di suo figlio il
protonotajo, un parziale trattato di pace che fu sottoscritto in Imola
il giorno 2 di dicembre. Il Bentivoglio si obbligò a staccarsi
assolutamente dai Vitelli e dagli Orsini; promise di servire il duca a
proprie spese nelle sue guerre con cento uomini d'armi e con cento
alabardieri a cavallo; ed a tale prezzo fu dalla Chiesa riconosciuta la
sua sovranità sopra Bologna: inoltre doveva pagare a Cesare Borgia sotto
il titolo di condotta, per cento lance, dodici mila ducati all'anno. Suo
figliuolo Annibale doveva sposare la sorella del vescovo d'Enna, nipote
del duca Valentino. Finalmente il re di Francia, che non vedeva
volentieri l'incorporazione di Bologna allo stato della Chiesa, il duca
di Ferrara ed i Fiorentini, dovevano essere garanti di questo
trattato[182].

  [181] _Machiavelli Legaz. I, l. IV, p. 20._

  [182] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 288. — Machiavelli Legaz. I, lett.
  XIV, p. 48._

Intanto essendo giunta la ratifica del trattato degli Orsini, ed essendo
sottoscritto il trattato del Bentivoglio, il duca d'Urbino sentiva che,
per quanto fosse grande l'affetto che gli mostravano i suoi sudditi, non
potrebbe in verun modo difendere il suo principato. Si affrettò dunque a
demolire tutte le sue fortezze, onde non avere bisogno di assediarle in
più felici tempi, e ritirossi a Città di Castello. Il Valentino fece
pubblicare un perdono universale pei popoli sollevati del ducato
d'Urbino, i quali rientrarono sotto la sua ubbidienza l'otto di
dicembre[183].

  [183] _Machiavelli Legaz. I, lett, XVI, p. 51. — Jac. Nardi, l. IV,
  p. 142. — P. Bembi Hist. Ven., l. VI, p. 131. — Jo. Burchardi Diar.
  Cur. Rom., p. 2143._

Lo stato di Camerino seguì l'esempio di quello d'Urbino, ed il signore
fuggì di nuovo nel regno di Napoli. Vitellozzo ritirò le sue truppe da
Fano, e la guerra pareva terminata. E questo fu l'istante scelto dal
Valentino per muoversi colla sua armata. Partì da Imola il dieci di
dicembre[184].

  [184] _Machiavelli Legaz. I, lett. XVII, p. 54. — Jac. Nardi, l. IV,
  p. 142._

La marcia del Borgia con una così potente armata, che pareva essergli
diventata inutile sparse l'inquietudine e lo spavento ne' vicini stati.
I Veneziani facevano così attenta guardia alle loro terre di Romagna,
come se il nemico fosse accampato sotto le loro mura; i Fiorentini
temevano che la riconciliazione di tanti capitani, da loro egualmente
temuti, non si fosse fatta a danno loro; ma più d'ogni altro i
condottieri rientrati di fresco in grazia col duca cominciavano a
credere che potrebbero essere vittime della sua doppiezza[185]. Ma,
tutto ad un tratto, il 22 dicembre, le quattrocento cinquanta lance
francesi, che accompagnavano il duca, lo abbandonarono a Cesena e
ripigliarono la strada di Bologna, senza che si potesse sapere se ciò
fosse l'effetto di qualche subito disgusto colla Francia, o se fossero
chiamate a Milano da qualche impreveduto bisogno[186]. Comunque la cosa
fosse, il Borgia, perduta la metà delle sue forze, e disgustato, almeno
in apparenza, dall'alleato che aveva inspirato tanto terrore, continuò
ad avanzare colla sua armata con meno minaccioso apparato. Oliverotto di
Fermo fu il primo de' confederati della Magione che ardisse
raggiugnerlo. Consultarono assieme se attaccherebbero la Toscana o
Sinigaglia, ed il Borgia si decise per Sinigaglia. Questo piccolo
principato veniva governato da una figlia del precedente duca d'Urbino,
Federica, che chiamavasi prefettessa. Papa Sisto IV l'aveva fatta
sposare a suo nipote Giovanni della Rovere, ch'egli aveva nominato
prefetto di Roma. Rimasta vedova, ella aveva mandato in Francia suo
figlio, Francesco Maria della Rovere, per sottrarlo alle trame del
Valentino; quegli era il presuntivo erede del ducato d'Urbino, poichè il
duca regnante, Guidubaldo, suo zio, non aveva figliuoli. La prefettessa
era rimasta in Sinigaglia sotto la protezione dei confederati della
Magione, e conoscendo che non poteva difendersi senza di loro si ritirò
per mare a Venezia; ma coloro cui aveva affidato il comando della rocca,
dichiararono di non volerla cedere che allo stesso duca Valentino, onde
Oliverotto e gli Orsini lo invitarono ad avvicinarsi per prenderne
possesso[187].

  [185] _Machiavelli Legaz. I, lett. XVII e XVIII, p. 54 e 55._

  [186] _Machiavelli Legaz. I, lett. XIX, p. 60._

  [187] _Machiavelli, del Modo tenuto dal duca Valentino ec., t. III,
  p. 148. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 289. — Jac. Nardi Ist. Fior.,
  l. IV, p. 142. — Jo. Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2147._

Il Borgia, che aveva di già rinviate le truppe francesi per dissipare i
sospetti dei capitani confederati, conobbe quanto poteva ripromettersi
dalla loro confidenza quando si vide chiamato da loro medesimi. Li fece
avvisare di distribuire i loro soldati ne' villaggi del territorio di
Sinigaglia, per lasciare ai suoi il quartiere nella stessa città, ed il
31 di dicembre partì da Fano per giungere lo stesso giorno in quella
città, avendo con lui almeno due mila cavalli e due mila fanti.
Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini e Francesco Orsini, duca di Gravina, si
avanzarono disarmati per incontrare il duca Valentino e fargli onore.
Prima di giugnere a lui dovettero attraversare tutta la sua cavalleria
ch'era distribuita in due file ai due lati della strada. Il duca li
salutò amorevolmente, e li consegnò a due gentiluomini destinati a
corteggiarli, ed a non abbandonarli finchè non fossero giunti al
palazzo. Mancava tuttavia Oliverotto, il quale comandava la parata della
sua compagnia, che sola era rimasta in Sinigaglia per onorare la venuta
del Valentino. Uno de' confidenti del duca andò ad avvisarlo, che se non
faceva prendere ai suoi soldati i loro quartieri, non potrebbesi
impedire alle truppe che giugnevano di occuparli. Oliverotto in allora
licenziò i suoi uomini d'armi, e si portò presso al duca, che lo accolse
non meno gentilmente degli altri tre; ma che sotto lo stesso pretesto di
fargli onore, lo fece come gli altri guardare a vista. Scesero tutti
assieme da cavallo all'alloggio destinato al duca; ma non appena i
quattro capitani vi furono entrati che trovaronsi arrestati. Allora il
Valentino rimontò subito a cavallo, e conducendo i suoi uomini d'armi ad
attaccare i quartieri di Oliverotto, fece svaligiare i di lui soldati.
Nello stesso tempo ordinò di attaccare quelli degli Orsini e del Vitelli
che trovavansi a cinque in sei miglia di distanza; ma questi, essendo
stati a tempo avvisati di ciò che accadeva, si ritirarono in buon
ordine. La stessa sera il Borgia fece strozzare Vitellozzo ed
Oliverotto, e protrasse fino al giorno 18 la morte di Paolo Orsini e del
duca di Gravina, perchè voleva prima sapere se suo padre aveva eseguito
quanto aveva seco concertato contro gli altri membri della casa
Orsini[188].

  [188] _Machiavelli Legaz. I, lett. XXI del primo gennajo 1503, p.
  67. — Idem, Del modo tenuto ec., l. III, p. 153. — Jac. Nardi, l.
  IV, p. 143. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 290. — Burchardi Dia. Cur.
  Rom., p. 2148. — Ist. di Gio. Cambi, p. 184. — Fr. Belcarii, l. IX,
  p. 260._

  Il signor Roscoe ammette come cosa probabilissima che il Machiavelli
  fosse a parte del complotto di Sinigaglia (_Vita e Pont. di Leon X,
  t. l, c. VI, p. 336 della trad. francese nota I_). Questo sospetto,
  così leggermente promosso contro un uomo che finora non venne
  accusato di verun delitto, non avrebbe nemmeno potuto venire in
  mente all'autore, se avesse lette le lettere del segretario
  fiorentino alla signoria scritte in tempo di questa prima legazione.
  I naturali progressi de' suoi dubbj, de' suoi timori, delle sue
  conghietture di mano in mano che gli avvenimenti avanzano, le
  difficoltà che incontra per parlare al Valentino, perchè egli era un
  uomo troppo poco importante, le sue replicate inchieste perchè si
  mandi un ambasciatore in sua vece, per ultimo ogni linea delle 29
  sue lettere distrugge vittoriosamente così ingiuriosi sospetti. Il
  più grande argomento del signor Roscoe è che il Machiavelli, nella
  separata sua relazione di questo avvenimento, non arricchisce la sua
  narrazione di veruna considerazione: parmi che non fossero
  altrimenti necessarie, e che i fatti parlino da sè. Vero è che il
  Machiavelli non aveva nè stima, nè compassione per questi nemici del
  suo paese, ed erano in fatti poco degni di stima. Rispetto al
  Valentino, egli ne ammirava l'accortezza; e vedeva in lui un gran
  principe. Ma di quell'epoca i vocaboli di _principe_, di
  _usurpatore_, di _tiranno_ erano tutti sinonimi. Il Machiavelli mai
  non fa distinzione alcuna fra di loro, e non credeva possibile di
  potervi associare veruna virtù morale, fuorchè grandezza di
  coraggio, carattere fermo ed accortezza.

La perfidia colla quale Cesare Borgia trattò i capi delle bande adunate
a Sinigaglia non indisponeva i popoli contro di lui. Questi capitani
erano quasi tutti amati dai loro soldati e detestati dai loro sudditi;
il solo timore poteva tenere i popoli ubbidienti verso un governo
puramente militare, e che non conosceva nè giustizia, nè moderazione; e
Cesare Borgia era troppo accorto per non rendere il proprio giogo meno
pesante ai nuovi suoi sudditi. Volle subito approfittare dello spavento
de' suoi nemici, persuaso che i popoli si dichiarerebbero a suo favore;
ed il primo di gennajo del 1503 partì alla volta di Conrinaldo,
Sassoferrato e Gualdo per avvicinarsi ad Agobbio e di là minacciare
nello stesso tempo Perugia e Città di Castello[189]. Il 4 dello stesso
mese ricevette gli ambasciatori di Città di Castello, che gli
annunciavano che il vescovo di quella città e tutti i Vitelli erano
fuggiti, e che gli abitanti si affrettavano di manifestargli la loro
ubbidienza. Giulio Vitelli, rimasto il capo della sua famiglia dopo che
i suoi quattro fratelli maggiori, tutti rinomati guerrieri, erano
successivamente periti di morte violenta, era partito alla volta di
Venezia col duca d'Urbino, dopo di avere mandati i suoi nipoti a
Pitigliano[190]. Gian Paolo Baglioni era fuggito da Perugia, tostocchè
gli era giunta la notizia della carnificina di Sinigaglia; e gli
abitanti di quella città avevano fatto chiedere alla repubblica di
Firenze di ajutarli a mantenere la loro libertà; ma i Fiorentini
risposero, che in ogni altra occasione avevano potuto fare sì poco conto
dell'amicizia e dei buoni ufficj di Perugia che non volevano per salvare
così fatti vicini correre rischio di romperla con un papa tanto potente.
I Perugini spedirono in allora ambasciatori al duca Valentino, i quali
gli si presentarono il 5 di gennajo per dichiarargli che le truppe degli
Orsini, dei Vitelli e dei Baglioni avendo evacuata la loro città per
ritirarsi a Siena, essi lo avevano proclamato loro sovrano. Pure il
Borgia, o perchè così gli avesse ordinato suo padre, o perchè gli
convenisse di tenere celati i suoi ulteriori disegni, non ricevette
l'omaggio di Perugia e di Castello che come gonfaloniere della Chiesa, e
non in proprio nome. Dichiarò di avere determinato di scacciare tutti i
tiranni dai paesi ereditarj de' romani pontefici, e di spegnervi le
fazioni; ma che non voleva dilatare la propria signoria al di là del suo
ducato di Romagna, e che perciò lusingavasi che qualunque si fosse il
papa che occuperebbe dopo Alessandro VI la cattedra di san Pietro, desso
papa gli saprebbe buon grado dell'avere distrutti i nemici dell'autorità
pontificia. Egli non volle pure entrare nelle due sottomesse città, ne
ricondurre gli esiliati a Perugia, ma si apparecchiò subito a scacciare
da Siena Pandolfo Petrucci. Egli risguardava quest'uomo, distintissimo
per la sua accortezza, siccome l'anima del partito. Lo vedeva chiuso in
una fortissima città, provveduto di danaro, e circondato da numerosa
armata a lui affezionatissima; perciò chiese al Machiavelli di
persuadere la sua repubblica ad unirsi a lui per iscacciare quest'ultimo
nemico, che i Fiorentini non dovevano temere meno di quello ch'egli lo
temeva. Desiderava che questi mandassero gente ai confini, mentre
ch'egli si avanzerebbe colle sue truppe; e nello stesso tempo Alessandro
VI intavolava negoziazioni con Pandolfo Petrucci per ingannarlo, se
possibile fosse, e trovar modo di averlo nelle sue mani[191].

  [189] _Machiavelli Legaz. I, lett. XXI, XXII, p. 72. — Jac. Nardi,
  l. IV, p. 145._

  [190] _Machiavelli Legaz. I, lett. XXV, p. 76. — Jac. Nardi, l. IV,
  p. 145._

  [191] _Machiavell. Legaz. I, lett. XXVII del 10 gennajo, p. 82. —
  Fr. Guicciardini, l. V, p. 291. — Orl. Malavolti, Stor. di Siena, p.
  II, l. VII, p. 109, f. v._

I Sienesi non erano disposti ad esporsi ai pericoli di un assedio al
solo oggetto di salvare il Petrucci; ma nello stesso tempo diffidavano
del papa e del suo figliuolo, ed erano determinati a difendersi fino
all'ultimo sangue, se sotto pretesto di scacciare un tiranno Cesare
Borgia voleva entrare nella loro città, o faceva qualche tentativo per
rendersene padrone. Pandolfo Petrucci approfittò di questa disposizione
per negoziare e non cedere alla burrasca che a seconda del bisogno.
Acconsentì di uscire da Siena, purchè il duca Valentino, che si era
avanzato fino a Pienza, uscisse in pari tempo dal territorio della
repubblica. Questa convenzione si eseguì il 28 di gennajo: Pandolfo
Petrucci si ritirò a Lucca con Gian Paolo Baglioni, e gli avanzi delle
truppe dei Vitelli; ma i suoi partigiani continuarono ad esercitare in
Siena la suprema autorità, mentre che il Valentino ricondusse la sua
armata alla volta di Roma, per approfittare della carnificina di
Sinigaglia, e terminare l'abbassamento degli Orsini[192].

  [192] _Machiavelli ultima lettera della prima Legazione, N.º XXIX,
  p. 93. — Jac. Nardi, l. IV, p. 146. — Orl. Malavolti Stor. di Siena
  p. III, l. VI, f. 110._

Il papa si era dato tutto l'impegno di assecondare i delitti di suo
figlio; dietro i suoi avvisi dell'accaduto in Sinigaglia fece invitare
il cardinale Orsini a portarsi al Vaticano per un abboccamento. Il
cardinale aveva avuta l'imprudenza di tornare a Roma; viveva senza
sospetti, e niente sapeva dell'arresto de' suoi due parenti; onde
recossi a palazzo, ove fu subito imprigionato. Nello stesso tempo
Alessandro VI fece prendere nelle loro case Rinaldo Orsini, arcivescovo
di Firenze, il protonotajo Orsini, l'abbate d'Alviano, fratello di
Bartolommeo e Giacomo di Santa Croce. Questi prigionieri, spaventati
dalle minacce del papa, acconsentirono di dargli tutte le loro fortezze,
ed a tale prezzo riebbero la libertà, ad eccezione del cardinale; perchè
Alessandro voleva obbligare questi a consegnargli tutti i suoi beni. Il
papa aveva di già fatta occupare la di lui casa a Monte Giordano, e
trasportarne gli effetti ed i mobili tutti al palazzo pontificio.
Esaminando i libri delle ragioni del cardinale, trovò che questi aveva
un credito di due mila ducati verso qualcuno il di cui nome non era
stato scritto; vide inoltre che aveva acquistata pel prezzo di due mila
ducati una perla che non si trovava. Perciò il primo di febbrajo fece
vietare l'ingresso della prigione del cardinale a coloro che gli
portavano da mangiare per parte di sua madre, dichiarando che questo
sciagurato prelato più non mangerebbe finchè non si rinvenissero que'
due effetti. La madre del cardinale pagò subito col proprio danaro i due
mila ducati, e l'amica di lui, vestita da uomo, andò in persona a
consegnare al pontefice la perla che aveva ricevuta dal prelato.
Alessandro acconsentì allora che si portassero al cardinale i cibi che
gli venivano mandati, ma prima gli fece dare una bevanda avvelenata che
lo trasse a morte il 22 di febbrajo[193].

  [193] _Burchardi Diar. Cur. Rom., p. 2149. — Raphael Volater. apud
  Raynald. Ann. 1503, $ 8, p. 540. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 291. —
  Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 146._

Ma non tutti gli Orsini erano caduti nelle mani del pontefice o di suo
figliuolo; la loro famiglia era assai numerosa, perchè tutti i figli
cadetti, appigliandosi al mestiere delle armi, trovavano sempre una
carriera aperta: Giulio Orsini con molti suoi parenti si afforzava a
Pitigliano; Fabio, figliuolo di Paolo Orsini, strozzato a Sinigaglia, ed
Organtino Orsini adunavano la loro cavalleria a Cervetri. Muzio Colonna
era tornato dal regno di Napoli, ed era entrato in Palombara che aveva
tolta al papa. I Savelli si erano rappattumati cogli Orsini, di modo che
tutta l'alta nobiltà di Roma faceva causa comune contro i Borgia. Gian
Girolamo Orsini era in allora ai servigj del re di Francia, nel regno di
Napoli; Niccolò, conte di Pitigliano, al servigio dei Veneziani; e
questi due capitani interessavano alla loro difesa i potenti padroni per
cui guerreggiavano. Il Borgia volle tentare di opprimerli prima che
potessero ottenere assistenza, persuaso che gli riuscirebbe più facile
la giustificazione, quando non vi fosse più rimedio per coloro che
voleva distruggere. Ma sebbene riuscisse ad impadronirsi di Palombara e
di Ceri, le altre fortezze degli Orsini gli opposero una resistenza
abbastanza lunga da dare tempo ai Veneziani ed al re di Francia di
dichiarare altamente, che prendevano Gian Giacomo Orsini ed il conte di
Pitigliano sotto la loro protezione[194].

  [194] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 293._

Le minacce del re determinarono Cesare Borgia a levare l'assedio di
Bracciano, ma non senza lagnarsi amaramente della Francia; mentre che
Alessandro VI faceva condannare dai tribunali ecclesiastici tutti gli
Orsini come ribelli. Lodovico XII, vedendo che i Borgia cominciavano a
mancare di rispetto alla sua autorità, e perchè nello stesso tempo era
di già inquieto rispetto agli affari di Napoli, risolse di mettere fine
al rapido ingrandimento della potenza del duca Valentino; prevedendo
che, quando sentirebbe la propria indipendenza, si farebbe pagare a
troppo caro prezzo la sua amicizia. Parvegli più di tutto importante di
porre in salvo la Toscana da nuovi attentati; a tale oggetto trovò
opportuno di formare un'alleanza tra Firenze, Siena, Lucca e Bologna, ed
incaricò di negoziarla Francesco Cardulo di Narni, protonotajo
apostolico. Questi presentossi il giorno 14 di marzo alla balìa di
Siena, ed offrì ai partigiani di Pandolfo Petrucci di ricondurre nella
città loro questo capo di parte coll'assenso de' Fiorentini, ai quali si
prometteva la restituzione di Montepulciano. L'alleanza venne
sottoscritta, e Pandolfo tornò a Siena il 29 di marzo del 1503, senza
che la rivoluzione che l'aveva scacciato, o quella che lo richiamava,
fossero accompagnate da verun disordine[195].

  [195] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 149. — Fr. Guicciardini, l.
  V, p. 294. — Fr. Belcarii t. IX, p, 262. — Orl. Malavolti, p. III,
  l. VI, f. 111._

Ma non sì tosto trovossi Pandolfo in Siena, che chiese dilazione alla
restituzione di Montepulciano. Pretese che i Sienesi fossero in modo
attaccati a questo possedimento da non voler comperare a sì alto prezzo
l'amicizia de' Fiorentini; questi dal canto loro, malgrado le istanze
del ministro francese, non volevano entrare nella lega che a tale
condizione; onde non potevasi avere la ratifica del trattato, senza del
quale sembrava che la Toscana rimanesse in balìa del duca
Valentino[196].

  [196] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 309._

Altronde gli affari di Pisa, che da quasi dieci anni avevano sempre
riaccese guerre vicine a spegnersi, eccitavano nuovamente la diffidenza
e l'animosità dei popoli toscani. I Fiorentini avevano fatto capitano
delle loro armate il balivo d'Occan, capitano francese, il quale
coll'assenso del re aveva condotte cinquanta lance; eransi lusingati che
le bandiere francesi sarebbero per loro una salvaguardia contro le
intraprese del papa e di suo figlio, dalle quali non li guarentiva la
santità dei trattati. Avevano mandata la loro armata nello stato di Pisa
per guastare le messi, sperando che quella città si ridurrebbe colla
fame, se perdeva per più anni consecutivi i suoi raccolti: e di già nel
precedente anno avevano distrutto prima che maturasse tutto il frumento
dei Pisani. Questa volta ruinarono soltanto le campagne del Val d'Arno,
non avendo potuto penetrare nella vallata del Serchio meglio
difesa[197].

  [197] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 309. — Jac Nardi Ist. Fior., l.
  VI, p. 151, 152. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 175 e 187. — Scip.
  Ammirato, l. XXVIII, p. 271._

Intanto il balivo d'Occan, poi che ebbe guastato il paese, condusse la
sua armata sotto Vico Pisano, difeso da cento fanti svizzeri al soldo
dei Pisani. Il balivo li minacciò di farli appiccare se portavano le
armi contro un re alleato della loro nazione; nello stesso tempo i
Fiorentini loro offrirono del danaro, onde gli Svizzeri, atterriti o
corrotti, il 16 di giugno aprirono le porte della fortezza che dovevano
difendere. Il loro tradimento spianò ai Fiorentini la strada della
fortezza assai più importante della Verrucola, che, attaccata dal lato
fin allora inaccessibile di Vico Pisano, si arrese il 18 di giugno.
Questa signoreggiava il piano di Pisa, e così bene lo scopriva tutto
intero, che nulla entrar poteva o sortire dalle porte della città
senz'essere veduto dalla Verrucola. E quanto questa posizione era stata
utile ai Pisani per prevenire gli attacchi dei loro nemici, altrettanto
poteva riuscirle fatale dopo ch'era venuta in mano de' Fiorentini[198].

  [198] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 310. — Jac. Nardi, l. IV, p. 152,
  153. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 271. — Ist. di Gio. Cambi, t.
  XXI, p. 193._

Questa perdita risvegliò l'interesse de' Sienesi e de' Lucchesi a favore
de' loro vicini. Scordarono gli uni e gli altri la lega toscana, sebbene
Pandolfo Petrucci andasse debitore ai Fiorentini del fresco suo
ristabilimento in patria, e spedirono ajuti ai Pisani, i quali dal canto
loro fecero fare l'offerta al duca Valentino di darsi a lui. Veruna
città era da questo principe più ardentemente desiderata, risguardandola
egli come quella che gli darebbe modo di conquistare tutta la Toscana.
Ma finchè il re di Francia trovavasi in Italia onnipotente, il Valentino
per non esporsi alla sua collera non aveva osato di accettare una così
seducente offerta. Ma da qualche tempo pareva che la fortuna
abbandonasse le armi francesi, ed il Valentino, che mai non era l'ultimo
ad allontanarsi da coloro cui la fortuna volgeva le spalle, cominciava a
prendere coi generali di Lodovico XII un più audace contegno; trattava
segretamente con Gonsalvo di Cordova e colla Spagna, temporeggiava coi
Pisani, si armava, metteva la sua alleanza a più alto prezzo, e non
pertanto aspettava per prendere una definitiva decisione un ultimo
esperimento delle forze dei due re, che pareva dover essere
imminente[199].

  [199] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 311._

Ferdinando il cattolico aveva lasciato, in tutto il primo anno della
guerra, il suo generale, Gonsalvo di Cordova, senza soccorsi. I rinforzi
che aveva per lui apparecchiati non lo raggiunsero che quando era già
cominciata la campagna del 1503. Anche prima che questi giugnessero, il
generale Spagnuolo ricevette a Barletta un sollievo dovuto soltanto
all'imprudente avarizia de' generali francesi. Ivone d'Allegre aveva
presa la città di Foggia, dove aveva trovati grandissimi magazzini di
grani, formati coi raccolti di quella ubertosa provincia. Invece di
acconsentire che si vendessero a credenza ai Napolitani, che ne avevano
urgente bisogno, o di tenerli custoditi per l'armata, la mancanza di
danaro lo consigliò a venderlo ad alcuni mercanti veneziani che lo
trasportarono a Barletta[200]. Subito dopo l'ammiraglio spagnuolo,
Liscano, ottenne presso alla punta della terra di Otranto, ossia
l'antico promontorio Japiga, una vittoria sopra il signore di Prejan,
che aveva il comando della flotta francese, la quale sarebbe stata
interamente distrutta, se non avesse trovato un rifugio nel porto
d'Otranto che apparteneva ai Veneziani, ed era egualmente rispettato
dalle due nazioni belligeranti. Dopo questa vittoria il mare rimase
libero ai vascelli spagnuoli e siciliani, che poterono trasportare senza
pericolo soldati, vittovaglie e danaro a Barletta. Le quali cose si
facevano senza che i Francesi potessero impedirle, anzi senza che niente
sapessero di ciò che accadeva in mare[201].

  [200] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 214. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 23, v._

  [201] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 214. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 24._

Non pertanto l'armata francese continuava ad acquistar terre
nell'interno del regno. Da una parte il Nemours aveva ridotte alla sua
ubbidienza tutte le città della Puglia, che formavano un circolo intorno
a Barletta; cioè Canosa, Altamura, Cerignole, Quadrata, Robio, Foggia e
Siponto: dall'altra erasi avanzato fino all'estremità della terra
d'Otranto, ed aveva costretto Lecce, san Piero, Nardo, Rodea, Oria e
Matula ad arrendersi. Vero è che non aveva potuto occupare Gallipoli, nè
Taranto, ma bensì costretto aveva il conte di Conversano a passare al
suo partito, ed aveva lasciata guarnigione in Castellaneta, onde
reprimere le incursioni delle truppe spagnuole che Pietro Navarra
comandava a Taranto[202].

  [202] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 215. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 24._

Il Nemours era di già tornato sotto Barletta, quando seppe che gli
abitanti di Castellaneta, più soffrire non potendo l'insolenza de'
soldati francesi alloggiati nella loro città, aveano aperte le loro
porte agli Spagnuoli di Taranto, e dati prigionieri i loro ospiti.
Accecato dalla sua collera, il Nemours non volle dare orecchio alle
rimostranze dell'Acquaviva, che gli dava avviso che il Gonsalvo
uscirebbe presto in campagna. Partì coll'armata alla volta di
Castellaneta, e, non ascoltando che il caldo suo desiderio di vendetta,
non volle ricevere gli abitanti alle condizioni da loro offerte. Ma
Gonsalvo di Cordova, approfittando della sua lontananza, uscì di notte
da Barletta con tutte le sue genti, e lasciò pure quella città così
sguarnita, che per essere sicuro della sua fedeltà trovò necessario di
condurre con sè i magistrati in ostaggio, e passò a sorprendere Rubio,
dove comandava La Palice. Colle prime scariche la sua artiglieria aprì
varie brecce nelle mura; i suoi soldati volarono intrepidamente
all'assalto, e sebbene i Francesi si difendessero per sette ore con non
minor valore, fu fatto prigioniere La Palice ferito, e la città di Rubio
presa e saccheggiata. Il Gonsalvo non cercò pure di conservarla;
trasportò frettolosamente tutto il bottino a Barletta, dov'era rientrato
avanti che il Nemours, che per opporsi al Gonsalvo aveva abbandonato
l'assedio di Castellaneta, fosse tornato a Rubio colla sua armata[203].

  [203] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 216. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 24, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 296. —
  Arn. Ferroni, l. III, p. 48._

Intanto Ugone di Cardone aveva ragunati in Sicilia tre mila fanti e tre
mila cavalli che trasportò a Reggio. Incontrò prima Giacomo di
Sanseverino, conte di Mileto, che sconfisse, poi liberò Diego Ramirez
assediato nella fortezza di Terranuova, saccheggiò e bruciò quella
città, fugò il principe di Rossano e fece prigioniere il signor
d'Humbercourt. In quest'ultima zuffa Antonio di Leyva, che era di fresco
giunto dalla Spagna, e che serviva ancora in qualità di semplice
soldato, fece le sue prime prove in Italia; egli doveva in appresso
passare per tutti i gradi della milizia prima di comandare in capo le
armate, e di essere annoverato tra i primi generali di Carlo V[204].

  [204] _Fr. Guicciardini, l. V, p. 294. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gall., l. IX, p. 263. — Mém. de Fleuranges, t. XVI, p. 24._

Mentre il Cardone sbarcava le sue genti, il d'Aubignì trovavasi occupato
in un'altra parte della Calabria; ma si affrettò di accorrere per
attraversare i di lui disegni; ed i principi di Salerno e di Bisignano,
della casa Sanseverino, si unirono a lui a Cosenza con molti baroni
angioini. Don Ugone di Cardone, avvisato della loro marcia, ebbe prima
pensiero di ritirarsi verso le montagne, ma fu ritenuto dall'arrivo di
don Emmanuele di Benavides, che gli conduceva quattrocento cavalli e
quattro battaglioni d'infanteria siciliana; altronde le sue spie gli
avevano dato motivo di credere che al d'Aubignì abbisognavano ancora due
giorni per raggiugnerlo, allorchè lo vide sboccare nel piano dalla banda
di mezzodì di Terranuova. I cavalieri siciliani e spagnuoli non
sostennero l'impeto degli uomini d'armi del d'Aubignì, ed in particolare
degli Scozzesi; la fanteria venne egualmente maltrattata dagli Svizzeri
e dai Guasconi; l'armata di Ugone di Cardone fu sgominata e dispersa, ed
egli medesimo si salvò a piedi tra le montagne, dopo avere tagliata la
corda magna al suo cavallo. Il signore di Grignan, luogotenente del
d'Aubignì, che aveva più d'ogni altro contribuito a questa vittoria, fu
ucciso mentre inseguiva il nemico[205].

  [205] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 218. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 25. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295. —
  Arnoldi Ferroni, l. III, p. 49._

La battaglia di Terranuova non bastava a consolidare il dominio de'
Francesi nella Calabria, tanto più che in quel tempo la nuova flotta che
Ferdinando aveva armata a Cartagena era giunta in Sicilia e poco dopo a
Reggio. Eranvi su questa seicento cavalli, comandati da Alfonso
Carvajale, e cinque mila fanti di Galizia, di Biscaglia e delle Asturie,
sotto gli ordini di Ferdinando d'Andrades. Il re di Spagna aveva dato il
generale comando di questa spedizione a Porto Carrero, della casa
Boccanegra di Genova, scelto dal re, perchè egli ed il Gonsalvo avevano
sposate due sorelle, e che perciò doveva sperarsi che agirebbero di
perfetto accordo. Ma passò lungo tempo avanti che quest'armata fosse in
istato di combattere; prima perchè la flotta fu contrariata dai venti
nel suo tragitto, poi perchè Porto Carrero, appena giunto in Reggio, fu
preso da grave malattia in conseguenza della quale morì, dopo d'avere
nominato d'Andrades suo successore[206].

  [206] _P. Jovii Vita M. Gonsalvi, l. II, p. 219. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, p. 26. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 295._

Inquietanti notizie intorno agli affari di Napoli circolavano di già in
tutte le altre province d'Italia, quando i tre piccoli cantoni svizzeri
che si erano fatti padroni di Bellinzona, non potendo soffrire che la
Francia loro contrastasse il possedimento di quella città, attaccarono
impetuosamente Locarno sul lago maggiore, e la Murata. Dopo parecchj
assalti s'impadronirono dell'ultima, che altro non era che una lunga
muraglia fatta per frenare le loro incursioni; ma non poterono
conquistare Locarno, e bentosto trovaronsi bloccati dai Francesi ed
esposti a crudeli privazioni. Frattanto Lodovico XII, che sentiva quanto
gl'importasse di evitare una guerra nel Milanese, mentre che aveva così
gravi affari nel regno di Napoli, e che aveva più di tutto bisogno di
mettere a numero le sue armate colla fanteria svizzera per opporla a
quella dei Tedeschi e degli Spagnuoli, ordinò ai suoi commissarj di
contentare gli Svizzeri a qualunque condizione. Dietro ciò l'undici
aprile del 1503 fu sottoscritto un nuovo trattato di pace fra la Francia
e la lega elvetica nel campo sotto Locarno, e Lodovico XII accordò ai
tre piccoli cantoni la contea di Bellinzona in piena sovranità[207].

  [207] _Leonard., t. IV. — Hist. de la Diplomat. Française, t. I, p.
  457. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 299. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gal., l. IX, p. 264. — Jac. Nardi, l. IV, p. 149._

Mentre la guerra tra la Francia e la Spagna si faceva nel regno di
Napoli con maggior vigore, l'arciduca Filippo d'Austria, figlio di
Massimiliano e genero di Ferdinando e d'Isabella, attraversava la
Francia per tornare nella sua sovranità de' Paesi Bassi. Pochi mesi
prima aveva accompagnata sua moglie per la prima volta alla corte di
Spagna, e l'aveva colà abbandonata bruscamente il 22 dicembre del 1502,
lasciando Ferdinando di lui geloso, Isabella scontenta de' pochi
riguardi che aveva per sua figlia, e Giovanna, la di cui seconda
gravidanza era avanzata, in uno stato di disperazione che turbò la sua
mente. Filippo venne in Francia ricevuto con quel rispetto ond'era stato
onorato in occasione del suo primo passaggio. Egli desiderava la pace
pel vantaggio de' suoi stati de' Paesi Bassi, la desiderava ancora per
accrescere il suo credito alla corte di Castiglia, e se ne fece con
premura il mediatore. L'accompagnavano due ambasciatori del re
d'Arragona e di Castiglia, i quali intervennero alle conferenze che
Filippo tenne con Lodovico XII, ed il 5 d'aprile sottoscrissero con loro
a Lione un trattato di pace fra le due monarchie. Tutti i diritti della
Francia sul regno di Napoli dovevano darsi per dote a madama Claudia di
Francia, figlia di Lodovico XII, che Carlo, figlio di Filippo, poi Carlo
V, doveva sposare. I due sposi fanciulli dovevano essere dichiarati re e
regina di Napoli; ma fino alla consumazione di questo matrimonio, il
trattato di divisione di Granata doveva avere piena esecuzione[208].

  [208] _P. Martiris Anglerii Epist. 255. — Saint Gelais Hist. de
  Louis XII, p. 170. — Raynald. Ann. Eccl. 1503, § 3, p. 539. — Fr.
  Guicciardini, l. V, p. 299. — Jac. Nardi, l. IV, p. 150. — Orl.
  Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VI, f. 111, v. — Ist. di Gio.
  Cambi, p. 192. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 265._

Pareva che questa convenzione terminasse la guerra a condizioni
d'equità, sebbene tutto il vantaggio fosse per la Spagna, poichè
l'oggetto in disputa era ceduto interamente all'erede di quella
monarchia. Perciò Filippo aveva mostrata molta premura di conchiuderla;
e perchè erano illimitate le facoltà da lui prodotte, Lodovico XII non
dubitò punto che il trattato di Lione non venisse ratificato; onde più
non si prese cura di spedire soccorsi ai suoi luogotenenti in Italia, ai
quali solamente raccomandò di schivare ogni fatto d'armi, finchè il
cambio delle ratifiche facesse interamente cessare le ostilità. Ma
Gonsalvo di Cordova, dopo essere stato lungamente confinato in un angolo
del regno di Napoli, cominciava a travedere la possibilità di
conquistarlo interamente. Egli non volle andare debitore ad un trattato
di ciò che poteva ottenere a forza aperta; ed i suoi padroni, quando
meglio conobbero lo stato degli affari, ebbero la stessa ambizione, e
ricusarono di ratificare il trattato di Lione.

Ferdinando d'Andrades prese il comando dell'armata di Calabria; egli
avea riunito alle sue truppe, condotte da Porto Carrero, gli avanzi di
quelle di Ugone di Cardone, e, dopo aver loro pagati i soldi arretrati,
le condusse attraverso alla Calabria fino presso a Seminara. In questo
stesso luogo sette anni prima Ferdinando II e Gonsalvo erano stati
battuti dal d'Aubignì, e Terranuova, dove lo stesso d'Aubignì aveva
ottenuta una più fresca vittoria sugli Spagnuoli, trovatasi pure a breve
distanza; perciò questo generale francese avanzavasi pieno di
confidenza, punto non dubitando di liberare la Calabria dai nemici con
una terza vittoria. Sebbene le sue forze fossero alquanto inferiori a
quelle d'Andrades, egli lo sfidò a battaglia. Le due armate
s'incontrarono il 21 d'aprile al passo di Fiume Secco tra Gioja e
Seminara. Emmanuele Benavides, che aveva il comando della vanguardia
spagnuola, si trattenne sopra una delle rive del fiume per parlamentare
col d'Aubignì, che trovavasi sulla riva opposta. Mentre che l'ultimo era
distratto da tale conferenza, il Carvajale, che comandava la
retroguardia spagnuola, passò il fiume un miglio al di sopra, e venne a
piombare alle spalle dell'armata francese nello stesso tempo che veniva
attaccata di fronte. Un istante di confusione e di disordine bastò a
perderla; gli uomini d'armi sgominati dovettero fuggire, ed il d'Aubignì
con loro: Onorato ed Alfonso di Sanseverino, che comandavano il secondo
ed il terzo corpo d'armata, composti di Calabresi, non opposero lunga
resistenza; ambidue furono fatti prigionieri; ed in mezz'ora di tempo
quasi tutta la fanteria francese fu passata a fil di spada. Il d'Aubignì
era fuggito a Gioja, dove trovò il capitano della sua fanteria Mallerbe;
essi continuarono a ritirarsi assieme, ma, giunti al forte d'Angitula,
furono costretti a chiudervisi, perchè gli Spagnuoli stavano loro alla
coda; e questi, non volendo lasciarsi fuggire di mano il più temuto di
tutti i generali francesi, lo assediarono appena entrato in
Angitula[209].

  [209] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 220. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 26. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 301. —
  Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 150. — Zurita Annales de Aragon.,
  t. V, l. V, c. 15. — Ann. Eccl. Raynald. 1503, § 5, p. 539. — Fr.
  Belcarii, l. IX, p. 266. — Arn. Ferroni, l. III, p. 51._

Press'a poco nel tempo in cui d'Andrades sbaragliava l'armata di
d'Aubignì a Seminara, Gonsalvo di Cordova vide giugnere a Barletta un
corpo di due mila Tedeschi che gli conduceva Ottaviano Colonna, e che
dopo essere uscito dalle montagne della Carniola si era imbarcato a
Trieste. Erano sette mesi che il Gonsalvo si trovava chiuso in Barletta,
ed aveva ottenuto colla forza del suo carattere e colla sua accortezza
nel guidare a voglia sua gli animi di sostenervi la costanza de' soldati
in mezzo a tutte le privazioni. Tutte le città di quel vicinato erano in
potere de' Francesi, ad eccezione di quella di Andria, ma non ebbe
appena ricevute le truppe tedesche che aveva così lungamente aspettate;
che risolse di porsi in campagna, e fece passare a Pietro Navarra ed a
don Lodovico di Errera l'ordine di condurgli da Taranto tutti que'
soldati che potrebbero. Dal canto suo il Nemours, avvisato dei movimenti
che si facevano in Barletta, volle pure adunare in un solo corpo i suoi
migliori ufficiali. Scrisse ad Andrea Matteo d'Acquaviva che stava a
Conversano di recarsi ad Altamura, per incontrarvi Lodovico d'Ars, e
ritornare con lui. Questi due ufficiali ebbero qualche corrispondenza
insieme per concertare il loro cammino; ma una delle lettere dell'Ars
essendo caduta in mano di Pietro Navarra, questi venne a conoscere la
strada dell'Acquaviva, e gli tese una imboscata. L'Acquaviva, attaccato
all'impensata, fu gravemente ferito e fatto prigioniere, ucciso suo
fratello Giovanni, e tutta la sua cavalleria presa o dispersa[210].

  [210] _P. Jovii V. Magni Consalvi, l. II, p. 221. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 26, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 301. —
  Fr. Belcarii, Comm. Rer. Gall., l. IX, p. 266._

L'arrivo a Barletta di Navarra e di Errera, che conducevano prigioniere
il più savio e più rispettato barone angiovino e varj capitani
dell'armata nemica, parve a Gonsalvo ed a' suoi soldati di buon augurio.
Onde non vollero frapporre ulteriore ritardo a rompere il blocco nel
quale erano stati così lungamente chiusi. Il 28 di aprile l'armata
spagnuola uscì di Barletta, passò l'Ofanto, e dirigendosi verso ponente
giunse nello stesso giorno sotto Cerignole. Il calore era di già estremo
nelle pianure della Puglia; il soldato non trovava acqua in quelle arse
campagne, e soffriva crudelmente la sete, sebbene Gonsalvo, nel
passaggio dell'Ofanto, avesse fatte riempire d'acqua molte otri che
faceva portare dietro l'armata. Per sollevare i pedoni oppressi dal
caldo ordinò ancora ad ogni cavaliere di prenderne uno in groppa, ed
egli stesso ne diede agli altri l'esempio facendo dietro di sè montare
sul suo cavallo un porta insegne tedesco. Cerignole, lontana soltanto
dieci miglia da Barletta, è un castello posto sulla sommità di un colle,
i di cui fianchi sono tutti coperti di viti. Il fondo di queste vigne è
separato dalla pianura da una fossa. Prospero e Fabricio Colonna, che vi
erano giunti prima degli altri, disegnarono di accampare l'armata dietro
questa fossa; la allargarono, e colla terra che avevano levata
innalzarono sulla sponda interna un piccolo parapetto. Il Gonsalvo
diresse in persona questi lavori, e vi fece immediatamente collocare i
cannoni in batteria[211].

  [211] _P. Jovii V. M. Consalvi, l. II, p. 221. — Alf. de Ulloa Vita
  di Carlo V, l. I, f. 27._

Il Nemours, partito da Canosa, era giunto presso Cerignole, quasi nello
stesso tempo che il Gonsalvo. Nel consiglio di guerra da lui tenuto il
Chatillon e Lodovico d'Ars insistevano perchè si differisse la battaglia
fino al susseguente giorno, onde meglio conoscere la posizione del
nemico, e dar tempo ai soldati di riposarsi. Per lo contrario il
Chandieu, che aveva il comando degli Svizzeri, ed Ivone d'Allegre
volevano che si approfittasse dell'ardore francese per attaccare in
quell'istante. La disputa tra i capitani si protrasse oltre il dovere e
fece perdere un tempo prezioso. Per inconsiderata vivacità d'Allegre
disse che la lentezza del generale gli rendeva sospetto o il suo
coraggio o la sua abilità. Il Nemours, ferito nell'onore, ebbe la
debolezza di risolversi contro la propria opinione a venire a battaglia
per purgarsi da questo rimprovero: ma prese questa risoluzione così
tardi, che nell'istante in cui cominciò la battaglia non restava che
mezza ora di giorno. Nell'armata francese eranvi cinquecento lance,
mille cinquecento cavaleggeri e quattro mila pedoni[212]. L'armata
spagnuola contava mille ottocento uomini di cavalleria pesante,
cinquecento cavaleggeri, due mila fanti spagnuoli ed altrettanti
Tedeschi[213]. Il Nemours condusse le sue truppe contro il nemico
nell'ordine obbliquo, nascondendo la sua sinistra. Egli era con Lodovico
d'Ars alla testa dell'ala destra che doveva cominciare la pugna; il
Chandieu cogli Svizzeri stava nel centro alquanto a dietro, ed il
d'Allegre col resto della cavalleria era alla sinistra ed ancora più a
dietro[214].

  [212] _Sabellicus Aeneadum XI, l. II ap. Rayn. Ann. Eccl. 1503, § 6,
  p. 540._

  [213] _Bart. Senaregae de Reb. Gen., t. XXIV, Rer. Ital., p. 578._

  [214] _P. Jovii V. M. Consalvi, l. III, p. 222. — Alf. de Ulloa Vita
  di Carlo V, l. I, f. 27, v._

Il Gonsalvo, che aveva divisa la sua armata in sei battaglioni, aveva
mandata avanti tutta la sua cavalleria leggiera sotto gli ordini di
Fabrizio Colonna e di don Diego di Mendoza per ritardare il nemico.
Nelle arse campagne della Puglia i piedi de' cavalli sollevavano un così
denso polverìo, che ai Francesi impedì totalmente di vedere le posizioni
degli Spagnuoli. I finocchj, che in que' campi sono d'una smisurata
grandezza, occultavano affatto la fossa ed il parapetto che chiudevano
il campo; e l'artiglieria col suo fumo accrebbe maggiormente l'oscurità.
Una delle prime scariche appiccò il fuoco al magazzino della polvere
degli Spagnuoli. Il Gonsalvo, lungi dal mostrarsene spaventato, gridò:
«Gli è questo un felice presagio; noi non abbiamo bisogno di polvere
perchè nostra è la vittoria.» Frattanto il Nemours, che si avanzava
contro i Tedeschi e contro la cavalleria della loro sinistra, fu
improvvisamente trattenuto dalla fossa, di cui non sospettava
l'esistenza, e mentre cercava un passaggio rivolgendosi di fianco, fu
colpito da una palla e cadde morto alla testa delle sue truppe. In
quell'istante il Chandieu giugneva in riva al fosso cogli Svizzeri. Ma i
Tedeschi, che tenevano l'opposta riva li rispingevano colle loro
alabarde, mentre che gli archibugeri spagnuoli li prendevano di fianco,
ond'essi si disordinarono e perdettero molta gente. Il Chandieu, che si
faceva conoscere in mezzo a loro a motivo delle penne bianche che
ornavano il suo caschetto, e che si batteva a piedi alla loro testa, fu
ucciso mentre era sceso nella fossa per attraversarla. Vedendo il d'Ars
ed il d'Allegre rotti i loro compagni, si posero in fuga; ed il
Chatillon, che fuggiva dietro di loro, fu preso e ricondotto prigioniero
dalla cavalleria spagnuola. Nello spazio di mezz'ora l'armata francese
era stata dispersa, ed aveva perduti tre in quattro mila uomini. Tutti i
suoi equipaggi e tutti i viveri vennero in potere del nemico[215].

  [215] _P. Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 223. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 28. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 303. —
  Saint Gelais Hist. de Louis XII, p. 171. — Mém. de Fleuranges, t.
  XVI, p. 15. — Mém. de Louis de la Tremouille, t. XIV, c. XI, p. 166.
  — Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. IV, p. 552. — P. Giovio Vita
  del Card. Pompeo Colonna, p. 355. — Fr. Belcarii Comm., l. IX, p.
  267. — Arn. Ferroni, l. III, p. 52._

Il Gonsalvo fece conoscere i suoi singolari talenti col profitto che
seppe trarre da questa vittoria. L'oscurità della notte, che era
sopraggiunta quando appena cominciava ad essere decisa la sconfitta de'
Francesi, aveva salvati i fuggiaschi; ma Lodovico d'Ars ed Ivone
d'Allegre non avevano presa la medesima strada; il primo si era posto su
quella di Venosa, l'altro su quella che conduce al ducato di Benevento.
Il Gonsalvo li fece rapidamente inseguire per impedirne la riunione.
Garzia de Paredes inseguì Lodovico d'Ars, e don Fedro de Paz il
d'Allegre. Questi nella sua fuga si era riunito a Trajano Caraccioli,
conte di Melfi; ma per quanto cercassero di affrettare la loro fuga,
erano sempre preceduti dalla notizia del loro disastro; onde tutte le
città, tutte le fortezze chiudevano loro le porte in faccia; ed appena a
forza di preghiere e di danaro potevan essi ottenere che loro si
calassero giù dalle mura colle corde pochi viveri entro le ceste. Ivone
d'Allegre, dopo essersi trattenuto un solo giorno ad Atripalda, prese la
strada di Napoli; ma nell'avvicinarsi a quella città seppe bentosto che
il popolo si era sollevato, e che la guarnigione lasciatavi erasi chiusa
ne' castelli coi tesori del re, coi magistrati francesi e coi più
dichiarati partigiani della Francia. Piegò a tale notizia verso Capoa e
Suessa, e senza trattenersi in quelle città andò fino a Gaeta, dove
ragunò gli avanzi dell'armata francese tra quella fortezza e
Tragitto[216].

  [216] _P. Jovii vita M. Consalvi, l. II, p. 224. — Al. de Ulloa vita
  di Carlo V, l. I, f. 28, v. — Fr. Guicciardini, l. V, p. 304._

Gli Spagnuoli vincitori si avanzavano da tutte le bande dietro i
fuggiaschi, ed occupavano tutte le province del regno. Fabrizio Colonna
si portò verso l'Aquila, e soggiogò gli Abbruzzi; Prospero Colonna si
fece aprire le porte di Capoa e di Suessa, ed occupò tutta la _Campagna
Felice_, cacciando i Francesi al di là del Garigliano. Tutte le città
della Puglia e della Capitanata, informate prima delle altre della
vittoria, si erano ancora per le prime sottomesse al vincitore. Le
Calabrie aveano preso lo stesso partito, quando aveano avuta notizia
della battaglia di Seminara. Il d'Aubignì difendevasi tuttavia nella
rocca d'Angitula; ma quando fu pienamente infirmato del rovescio de'
suoi commilitoni, capitolò, sagrificandosi solo ad essere prigioniere,
mentre che tutti i soldati che servivano sotto di lui ebbero la libertà
di tornare in Francia[217].

  [217] _Pauli Jovii de Vita M. Consalvi, l. II, p. 224. — Raynald.
  Ann. Eccl. 1503, § 6, p. 540._

Gonsalvo di Cordova accolse ad Acerra i deputati di Napoli, che gli
portavano le chiavi della città, e gli chiedevano la conferma de'
privilegj della capitale; egli lo promise a nome de' suoi padroni, e
fecevi il suo solenne ingresso il 14 di maggio. Nel susseguente giorno
ricevette a nome di Ferdinando il giuramento de' sei seggi, che
rappresentavano la nobiltà ed il popolo di Napoli. I due castelli, in
cui si erano ritirati i Francesi, e che d'ordinario opponevano alle
armate che gli assediavano una lunga resistenza, soggiacquero in pochi
giorni agli attacchi di Pietro Navarra, il quale aveva il primo
introdotto nella guerra l'arte di far giuocare le mine colla polvere, e
che colle sue inaspettate esplosioni aveva inspirato ai soldati nemici
tanto terrore, che i loro capi non avevano ancora potuto vincere. Quando
il giorno 11 di giugno le mine del Navarra rovesciarono una metà delle
mura di Castel Nuovo sopra i difensori, ed aprirono agli Spagnuoli una
spaventosa breccia per la quale montarono all'assalto, Gonsalvo di
Cordova cedette a' suoi soldati tutto il saccheggio de' ricchi magazzini
che vi erano stati adunati, e de' tesori che vi si erano posti colla
fede di metterli in luogo sicurissimo. Pure non era appena terminato
questo saccheggio che molti soldati vennero al Gonsalvo, lagnandosi di
non avere avuta la parte loro. «Per indennizzarvi andate a saccheggiare
il mio palazzo, disse loro ridendo il generale;» ed infatti quello in
cui era stato alloggiato, ed apparteneva al principe di Salerno, fu
dagli Spagnuoli immediatamente svaligiato[218].

  [218] _Pauli Jovii vita M. Gonsalvi, l. II p. 225. — Alf. de Ulloa
  vita di Carlo V, l. I, f. 29. — Jac. Nardi, l. IV, p. 150. — Fr.
  Guicciardini, l. VI, p. 507. — Fr. Belcarii, l. IX, p. 269._

Il Castello dell'Ovo, posto sopra uno scoglio isolato, ai piedi del
promontorio di Sant'Elmo, ed in mezzo alle acque, fu preso ventun giorni
dopo Castel Nuovo, e cogli stessi mezzi. L'esplosione rovesciò parte
della rupe sulla Cappella, dove in quell'istante il comandante della
fortezza aveva adunato un consiglio di guerra: quasi tutti coloro che vi
assistevano furono schiacciati sotto i rottami della montagna. Ed in tal
modo tutto il regno si trovò in potere degli Spagnuoli, ad eccezione di
Gaeta, dove tutti si erano uniti gli avanzi dell'armata francese; di
Santa Severina, in cui il principe di Rossano era assediato, e di
Venosa, dove Lodovico d'Ars con una lunga e valorosa resistenza si coprì
di gloria[219].

  [219] _P. Jovii Vita M. Consalvi, l. II, p. 228. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 30. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 308. —
  Summonte Ist. di Napoli, l. VI, c. 14, p. 553._



CAPITOLO CII.

      _Guerra dei Veneziani coi Turchi. Morte di Alessandro VI.
      Elezione di Pio III e di Giulio II. Disastri del Valentino;
      sconfitta dei Francesi al Garigliano. Tregua tra la Francia e la
      Spagna._

1499 = 1504.


Le due più importanti rivoluzioni che potesse provare l'Italia,
l'espulsione della dinastia degli Sforza e quella della linea bastarda
di Arragona, la conquista del Milanese fatta dai Francesi e quella del
regno di Napoli fatta dagli Spagnuoli, si erano condotte a fine senza
che il più saggio e più potente stato d'Italia, senza che la repubblica
di Venezia potesse aver parte nell'una o nell'altra. Vero è che Venezia
trovavasi impegnata in un'alleanza nominale con Lodovico XII contro la
casa Sforza, ma senza per altro associarsi attivamente nella guerra. Non
era intervenuta al trattato di divisione del regno di Napoli a Granata;
non aveva difesa la casa d'Arragona, nè contribuito a balzarla dal
trono; e non aveva preso parte nella guerra, che quasi subito dopo era
scoppiata fra gli spogliatori. Fin dalla prima ritirata dei Francesi,
dopo la spedizione di Carlo VIII, la repubblica possedeva molte fortezze
nella Puglia, sulle coste dell'Adriatico; ma dalle mura di Trani, di
Monopoli, di Brindisi e di Otranto, i comandanti veneziani guardavano le
battaglie de' Francesi cogli Spagnuoli senza prendervi parte, osservando
una rigorosa neutralità. Certo non avevano veduto senza una viva
inquietudine gli oltramontani acquistare le due più ricche e più
popolate regioni dell'Italia; ma le pretese di Massimiliano sopra quelle
province, e le continue sue minacce, gli avevano costretti ad
acconsentire alla ruina di Lodovico Sforza, ed anche a concorrervi,
sperando che i Francesi, loro nuovi vicini, li difenderebbero, in caso
di bisogno, contro i Tedeschi. La pericolosa guerra, che di quest'epoca
dovettero sostenere coll'impero ottomano, fu cagione che non prendessero
parte negli affari di Napoli, e che lasciassero in quel regno balzar dal
trono un monarca italiano per sostituirvi un vicerè spagnuolo: tanto è
vero che l'Italia non soggiacque agli attacchi degli oltramontani che
per essersi questi tutti riuniti contro di lei sola; e che i Turchi,
sebbene nemici degli Spagnuoli, e che i Tedeschi, sebbene nemici dei
Francesi, contribuirono alle conquiste de' loro avversarj, perchè con
incessanti attacchi esaurirono quella nazione italiana, che sola avrebbe
dovuto far testa a tutti.

La guerra dei Turchi con Venezia aveva cominciato nello stesso tempo che
quella di Lodovico XII colla casa Sforza. Ella occupò dunque la
repubblica in tutto quello spazio di tempo la di cui storia è compresa
nei tre ultimi capitoli, e per tutto questo tempo impedì al più potente
degli stati italiani di potere opporsi all'ambizione de' Francesi, a
quella degli Spagnuoli, ed a quella di papa Alessandro VI e di suo
figliuolo. Bajazette secondo, il nono sultano ottomano, non era nè tanto
inquieto, nè tanto crudele quanto suo padre Maometto II, o quanto suo
figlio Selim. Il suo gusto per gli studj, per la filosofia e pel riposo
lo fece perfino tenere, in confronto degl'illustri guerrieri della sua
stirpe, per un principe neghittoso. Pure Bajazette II aveva sostenuto
una gloriosa guerra contro Cait-Bey, soldano dei Mamelucchi d'Egitto, e
contro i Croati ed i Valacchi. Egli aveva, siccome il suo predecessore,
allontanati i confini dell'impero ottomano, ed il terrore che aveva
inspirato questa costante successione di conquiste, non si era per anco
dissipato sotto il suo regno. La repubblica di Venezia, che confinava
colla Turchia per una lunga estensione di paesi, e che sola custodiva
contro di lei l'Italia e tutto l'Occidente, non entrava senza spavento
in una guerra col gran signore; e quando aveva un così potente nemico da
combattere, metteva da canto ogni altra rivalità; implorava i soccorsi,
e cercava di conciliarsi l'affetto di tutti i principi cristiani. Invece
di pensare ancora a tenere la bilancia in bilico tra di loro, il suo
primo oggetto era per lo contrario quello di tutti riunirli per la
comune difesa.

Varj motivi vengono da varj storici assegnati alla guerra che scoppiò in
sul finire del quindicesimo secolo tra Bajazette II e la repubblica di
Venezia. Forse tutti contribuirono ad accenderla o come cagione o come
pretesto. Bajazette, in seno alla pace, cercava d'indebolire i suoi
vicini, incoraggiando l'assassinio ai confini. La Dalmazia veneziana era
sempre infestata da bande armate di ladri che uscivano dall'Albania: nè
solo assalivano i mercanti ed i viaggiatori, ma saccheggiavano le
borgate, bruciavano i villaggi, conducevano gli abitanti in ischiavitù,
e gli sforzavano a riscattarsi con ricche taglie; e da tutti i porti
dell'impero turco uscivano nello stesso tempo pirati, che saccheggiavano
le coste ed interrompevano il commercio. Quando i mercanti veneziani
portavano le loro lagnanze a Bajazette, il sultano, invece di prendere
le difese di que' malfattori, dichiarava che li vedrebbe volentieri
castigati, e ch'egli confortava i suoi vicini a trattarli con estrema
severità. Frattanto le province, contro le quali era intenzionato di
portare in appresso le armi, venivano da prima così ruinate; la
popolazione fuggiva, ed all'ultimo riusciva impossibile il
difenderle[220].

  [220] _Teodoro Spandugino Cantacuzeno dell'origine dai Turchi.
  Presso Fran. Sansovino, l. II, f. 210, v. Ven. in 4.º 1568. — Alf.
  de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 9, v._

Nello stesso tempo il sultano era sempre apparecchiato a porgere
orecchio ai traditori che offrivano di dargli in mano qualche fortezza
de' suoi vicini posta presso le frontiere. Una trama di tale natura fu
formata a Corfù, e Bajazette allestì un potente armamento per occupare
quell'isola così importante; ma fortunatamente il capitano della flotta
veneziana, che tornava di Candia, sia che segretamente avesse avuto
contezza dei traditori, o che il solo accidente lo abbia favorito, fece
imbarcare, passando a Corfù, tutti coloro che avevano trattato cogli
Ottomani, e rifece la guarnigione dell'isola. Bajazette non volle
lasciar sospettare che fosse stato prevenuto; condusse nella Bulgheria e
nella Valacchia l'armata che aveva adunata; nello stesso tempo spedì i
suoi luogotenenti a saccheggiare i monti della Chimera, i di cui
abitanti si mantenevano indipendenti, e conquistò il piccolo stato di
Giorgio Czernowitsch, in vicinanza di Cattaro. Ma sospettando che i suoi
disegni sopra Corfù fossero stati scoperti dal balivo di Venezia,
dichiarò di non voler più soffrire spie presso di sè, e scacciò il
balivo da Costantinopoli con tutti gli altri ambasciatori o residenti
de' principi cristiani[221].

  [221] _And. Cambini Fiorentino, Dell'origine dei Turchi, presso il
  Sansovino, l. II, f. 175. — Teod. Spandugino, ivi, f. 208._

Verso lo stesso tempo Niccolò Pesaro, ammiraglio della flotta veneziana,
incontrò una galera turca che ricusò d'ammainare le vele secondo la
cerimonia di pratica. Il Pesaro la colò a fondo. Il senato, inquieto per
questo atto di severità e pel rinvio del suo balivo, mandò a
Costantinopoli Andrea Zancani per regolare tutte queste differenze colla
Porta, e per ottenere dal sultano un nuovo trattato. Pareva che le
negoziazioni non incontrassero difficoltà. Bajazette non mostrossi
adirato e sottoscrisse il trattato che gli fu presentato
dall'ambasciatore. Ma questo trattato era scritto in latino, ed il
sultano riservavasi di protestare contro tutto ciò che potev'essere
espresso nella lingua degl'infedeli, ch'egli non intendeva. Lodovico
Sforza, che ancora aveva la signoria di Milano, e che sperava di
salvarsi con una potente diversione, gli aveva di quei tempi spediti
accorti negoziatori che lo esortavano ad attaccare la repubblica di
Venezia[222]. Bajazette II promise di farlo, e tenne la cosa
segretissima. E cominciò a fare grandiosi apparecchj, senza che si
sapesse contro quale provincia dell'Asia o dell'Europa erano destinati.
Credevano molti che volesse attaccare l'isola di Rodi, posseduta dai
cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme. Quando i suoi apparecchj
furono terminati, l'irruzione di due mila cavalli turchi nel territorio
di Zara fu il principio delle ostilità; e nello stesso tempo tutti i
mercanti veneziani, stabiliti in Costantinopoli, furono posti in catene
e confiscate le loro proprietà. Trovavasi tra costoro Andrea Gritti, che
doveva uscire di prigione per terminare questa guerra e per salire dopo
alcun tempo sul trono ducale[223].

  [222] _P. Bembi Hist. Ven., l. IV, p. 82. — Vettor Sandi Stor. civ.
  Veneta, l. IX, c. VII, t. IV, p. 203. — Ann. Eccl. Rayn. 1499, § 5,
  p. 480._

  [223] _P. Bembi Ist. Ven., l. V, p. 91. — Vettor Sandi Stor. civile,
  l. IX, c. VII, t. IV, p. 204. — Teod. Spandugino presso Sansovino,
  l. II, f. 208, v._

La flotta ottomana, di cui Bajazette aveva dato il comando al sangiacco
di Gallipoli, e che gli storici veneziani pretendono che fosse composta
di dugento settanta vele, si avanzò in traccia de' Cristiani verso le
coste della Morea, nelle acque della Sapienza e di Modone. Dal canto suo
il senato di Venezia diede il comando di una flotta di cento quaranta
vele, con cui sperava di difendere i suoi possedimenti del Levante, ad
Antonio Grimani, gentiluomo che, fino all'età di sessantaquattro anni
cui era allora pervenuto, aveva goduta una costante felicità. La sua
famiglia, sebbene nobile, era assai povera; ma egli aveva in poco tempo
ammassate immense ricchezze. Sapevasi che possedeva più di cento mila
ducati in capitali o in numerario, oltre i poderi ch'erano
considerabili. Aveva costui esercitato il commercio con tanta
prosperità, che tutti gli altri mercadanti prendevano il di lui esempio
per norma delle loro speculazioni, comperando quando lo vedevano
comperare e vendendo quando lo vedevano vendere. Era stato ammesso in
senato, e dopo tale epoca aveva occupate le più luminose cariche della
repubblica, ed erasene mostrato degno colla sua eloquenza, colla sua
prudenza, col suo coraggio. Aveva maritate le sue figlie nelle
principali case di Venezia; aveva ottenuto da Alessandro VI, pel prezzo
di trenta mila ducati il cappello cardinalizio pel suo figliuolo
primogenito, ed in appresso dal senato il patriarcato d'Aquilea. Gli
altri suoi figli avevano ottenuto dalla repubblica onoratissimi
impieghi, ed egli stesso era rivestito della dignità di procuratore di
S. Marco; la prima dello stato dopo quella del doge. Aveva comandate non
senza gloria le flotte della repubblica nella guerra di Carlo VIII, e
conquistato Monopoli; e il suo ritorno da quella spedizione era stato un
trionfo. Pure aveva ricusato con non so quale spavento il comando che
gli veniva affidato contro i Turchi, quasi prevedesse che la lunga sua
prosperità stava per abbandonarlo; ma quando era stato forzato ad
addossarsi tanta responsabilità aveva mandato al tesoro pubblico, come
un dono patriottico, venti mila ducati per concorrere alle spese
dell'armamento della flotta ch'egli doveva comandare[224].

  [224] _Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 125-130 e seg._

La flotta veneziana incontrò in agosto presso Modone la flotta turca. La
prima aveva poco più che la metà meno delle vele dell'altra; anzi tra le
sue cento quaranta navi non vi erano che quarantasei galere; e tutti gli
altri bastimenti erano poco proprj ai movimenti militari. Dalla banda
dei Turchi non vedevasi che un prodigioso numero di navi male armate,
male governate, ed i di cui equipaggi, ignoranti e tolti di fresco
all'aratro, non sentivano veruna disciplina; e perciò i musulmani
temevano la battaglia non meno di quello che i cristiani la
desiderassero, nella ferma fiducia di uscirne vittoriosi.

Le due flotte manovrarono parecchi giorni l'una in faccia all'altra, ma
qualunque volta pareva che il Grimani si disponesse all'attacco, i
Turchi si ritiravano in Porto Longo. Nella loro flotta trovavasi un
vascello di enorme grandezza, della portata di quattro mila tonnellate,
il quale pareva sollevarsi in mezzo agli altri come una rocca. Era
comandato da Barach Raiz. Il 22 di agosto del 1599 questo vascello si
trovava in faccia a Chiarenta, alquanto lontano dagli altri, e fu subito
investito dalle due galere d'Andrea Loredano, e dell'Albanese d'Armier,
che attaccatesi a lui coi ramponi, vennero all'abordaggio. La zuffa fu
accanita, e senza che gli altri equipaggi vi prendessero parte, o perchè
tenuti distanti da una subita perfetta calma, come dicono alcuni, o
perchè il Grimani, invidiando la gloria del Loredano, come fu creduto
dai più, fosse contento di vederlo perire. Più di mille soldati
difendevano il vascello turco, e la battaglia pendeva ancora indecisa,
quando il fuoco s'appiccò ad uno de' tre bastimenti, e rapidamente
comunicossi agli altri due senza che potessero separarsi; così perirono
tutti e tre in mezzo alle acque. Quando il Loredano vide affatto perduto
il suo, taluno gli propose di salvarsi a nuoto; egli prese per tutta
risposta lo stendardo di San Marco che volteggiava sul ponte; _È sotto
quest'insegna, egli disse, che io sono nato, che ho vissuto e che voglio
morire_; e dicendo queste parole entrò tra le fiamme. Varie lance turche
circondavano i combattenti e raccoglievano le loro genti che si
gittavano in mare; ma i Veneziani, abbandonati dai loro compatriotti,
perirono quasi tutti[225].

  [225] _Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 104. — Sabellius Gunead.
  X, l. IX, apud Rayn. 1499, § 9, p. 480. — Theod. Spandugino, f. 208,
  presso Sansovino l. II, Imperio de' Turchi._

Finchè durò questa zuffa le due flotte si erano cannonate senza troppo
accostarsi; ma l'incendio delle navi del Loredano e del Darmier
scoraggiò tutti i Veneziani, i quali invece di desiderare la battaglia
come avevano fatto fin allora, cominciarono a temerla, ed il Grimani,
cedendo alle circostanze, si ritirò sulla Costa del Peloponneso. Colà
ebbe avviso che una flotta francese di ventidue galere, che Lodovico XII
aveva fatta armare a Genova per soccorrere i cavalieri di Rodi, e che in
appresso aveva offerta al senato quando seppe che Rodi non era
minacciata, stava ancorata a Zante. Il Grimani andò subito a
raggiugnerla e tornò colla medesima in cerca de' Musulmani. Pure
allorchè fu a vista della loro flotta, la stessa irrisoluzione, o la
stessa pusillanimità, ond'era stato incolpato precedentemente, lo
dissuase dall'attaccarli. Le due flotte si limitarono a ricambiarsi
alcune cannonate, ed i Francesi, soffrire non potendo questa timida
maniera di combattere, si congedarono dall'ammiraglio veneziano, e si
ritirarono[226].

  [226] _P. Bembi Ist. Ven, l. V, p. 93. — Chron. Ven. t. XXIV, p.
  103, 110. — And. Cambini, presso Sansovino l. II, f. 176._

Nello stesso tempo i Turchi avevano assediato Lepanto; ed il Grimani non
osò soccorrere quella città che si arrese quando vide allontanarsi la
flotta veneziana[227]. Il Grimani per ristabilire il suo nome fece dal
canto suo un tentativo sopra Cefalonia, ma senza successo. Allora
ricondusse la sua flotta a Corfù, e vi trovò Melchiorre Trevisani, che
il consiglio dei Dieci gli aveva mandato per successore, e che aveva
ordine di spedirlo a Venezia carico di catene per dare conto della sua
condotta. La bella flotta da lui comandata pareva ai Veneziani bastante
per distruggere quella dei Turchi, e fare in appresso la conquista del
Peloponneso e dell'Eubea; ed in ragione delle alte speranze che avevano
concepite, erano più inclinati a dare colpa della cattiva riuscita a
viltà, o a tradimento. Forse peraltro non calcolavano abbastanza i
progressi fatti dai Turchi nell'arte della guerra marittima, ed il
Grimani accostandosi ad una flotta di lunga mano superiore alla sua di
navi e di equipaggi, aveva conosciuto che più non trattavasi di una
moltitudine disordinata come supponevasi a Venezia. I pochi vantaggi
ottenuti dagli ammiragli che succedettero al Grimani, ed il trionfo
ch'era a lui riservato, quando nell'estrema sua vecchiezza di
ottantasette anni fu eletto doge di quella medesima repubblica che lo
aveva condannato, sono indizj della sua innocenza. Ma quando arrivò a
Venezia, troppo gagliarda era la prevenzione contro di lui perchè
potesse resistervi. Invano suo figliuolo, il cardinale Grimani, accorse
da Roma per riceverlo, e vestito pontificalmente portò le catene di suo
padre, e quando questi attraversò il ponte, e quando fu tradotto innanzi
al gran consiglio; la severità di quell'assemblea non si lasciò
addolcire. Ella aveva a sè richiamato questo giudizio, temendo che il
prevenuto non adoperasse un'illecita influenza sul consiglio dei Dieci,
sia colle sue ricchezze che colle aderenze della sua famiglia. Il
Grimani venne condannato alla relegazione nelle isole di Cherso e di
Ozero nel golfo del Quarnero: dopo alcun tempo fuggì da questo luogo di
esilio, e rifugiossi a Roma presso suo figlio cardinale[228].

  [227] _Rayn. An. eccl. 1499, § 9 e 10, p. 480. — Theod. Spandugino,
  presso il Sansovino l. II, f. 209._

  [228] _P. Bembi Ist. Ven, l. V, p. 98. — Vettor Sandi l. IX, c. VII,
  t. IV, p. 207. — Chron. Ven. t. XXIV, Rer. Ital. p. 124. — Rayn.
  Ann. eccl. 1499, § 10, e 11, p. 481. — P. Giovio Vita di Antonio
  Grimani. Ritratti l. V, p. 290._

Le truppe di terra non si comportarono meglio di quelle di mare. Il
Zancagno aveva avuto ordine di adunare le milizie dei confini della
Carniola, di porre in istato di difesa le rive dell'Isonzo, e di
stabilire il suo campo a Gradisca. Ma Scander bassà, sangiacco di
Bosnia, avendo condotti sull'Isonzo sette mila cavalli, il 29 di
settembre ne mandò due mila al di là del fiume. Il Zancagno non oppose
loro veruna resistenza, e tenne i suoi soldati chiusi in Gradisca. I
contadini, che vivevano in piena sicurezza dietro l'armata della
repubblica, furono presi da estremo terrore quando videro vicine quelle
barbare truppe; le rive della Piave e del Tagliamento furono
abbandonate, sebbene capaci di difesa. Numerose bande di fuggiaschi
lasciarono il Friuli; Treviso e la stessa Padova si salvarono in
Venezia, e la campagna fu ruinata fin presso alle Lagune. I Turchi, dopo
aver fatto un grosso numero di prigionieri, parte de' quali furono
uccisi prima di ripassare il Tagliamento, rientrarono ne' loro paesi,
senza aver trovato occasione di combattere[229].

  [229] _P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 97. — Chron. Ven. t. XXIV, p.
  116. — Vettor Sandi l. IX, c. VII, t. IV, p. 205, 206. — Ann. eccl.
  Rayn. 1499, § 7 e 8, p. 480. — Theod. Spandugino l. II, f. 208._

In principio del 1500 i Veneziani, scoraggiati dalla cattiva riuscita
dell'ultima campagna, e desiderando di poter volgere tutta la loro
attenzione agli affari dell'Italia, le di cui rivoluzioni facevansi ogni
di sempre più importanti, spedirono a Costantinopoli per lagnarsi col
gran signore di essere stati attaccati senza precedente provocazione, e
per ripetere i loro mercanti fatti prigionieri in tutta l'estensione
dell'impero turco, e la restituzione di Lepanto; ma Bajazette rispose
loro che non accorderebbe la pace alla repubblica che a condizione che
questa gli cedesse Modone, Corone e Napoli di Malvasia, e si obbligasse
a pagargli l'annuo tributo di dieci mila ducati[230].

  [230] _P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 100. — Chron. Ven. t. XXIV, p.
  148. — Vett. Sandi Stor. civ. Veneta l. IX, c. VII, t. IV, p. 207._

Durante l'inverno la flotta turca si era divisa ne' due golfi d'Ambracia
e di Lepanto. Melchiorre Trevisani, che aveva preso il comando della
flotta veneziana, voleva impedire ai Turchi di riunirsi, ed a tal fine
occupava le acque di Corfù e di Cefalonia; ma i nemici ingannarono la
sua vigilanza e si riunirono presso al promontorio di Leucade; dopo di
che trovandosi più forti fecero dar a dietro i Veneziani. Daüth pascià
entrava nel Peloponneso con una formidabile armata, mentre che la flotta
turca attaccava dalla banda del mare le città di cui Bajazette aveva
chiesta la cessione. I Turchi furono respinti sotto Napoli di Malvasia e
sotto Zonchio, l'antico Pilos di Nestore; ma occuparono il sobborgo di
Modone, ed all'istante cominciarono l'assedio di quella città di tanta
importanza[231].

  [231] _P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 102. — Chron. Ven. t. XXIV, Rer.
  Ital. p. 122._

Girolamo Contarini fu sostituito nel comando della flotta veneziana a
Melchiorre Trevisani morto di malattia naturale sotto Cefalonia. Il
nuovo ammiraglio volle soccorrere Modone, ma avendo incontrata la flotta
turca presso Pilos l'attaccò con isvantaggio, perdette alcune galere, e
fu forzato a rifugiarsi a Zanto[232]. Pure perchè non sapeva risolversi
ad abbandonare gli assediati, si presentò per la seconda volta il nove
di agosto sotto Modone, non con intenzione di venir a battaglia, ma per
distrarre l'attenzione de' nemici, mentre che cinque galere, le più
leggieri al corso, entrerebbero in porto coi rinforzi e colle munizioni
destinate agli assediati. Parve che il suo disegno riuscisse, perciocchè
quattro delle cinque galere, attraversando la flotta turca, arrivarono
fino allo steccato che chiudeva il porto. Tutti gli abitanti di Modone
si affollavano verso le galere per iscaricarle più presto, e la stessa
guardia scese dalle mura in riva al mare. Del che avvedutisi i Turchi,
dierono in quell'istante l'assalto e superarono le mura. Invano gli
abitanti vollero fare resistenza; ma troppo tardi, essendo i musulmani
già scesi nelle strade. Pure nè i Greci nè i Veneziani, sebbene perduta
avessero ogni speranza, tentarono di fuggire, e, continuando a
combattere, furono quasi tutti uccisi sulla piazza, mentre che il fuoco,
appiccato dagli assalitori alle prime case, andava rapidamente
dilatandosi per tutta la città; ed in breve tempo l'incendio si fece
universale come la carnificina. Modone cadde in potere degli Ottomani;
ma omai più non vi erano nè edificj, nè abitanti[233].

  [232] _P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 103._

  [233] _P. Bembi hist. Ven. l. V, p. 103. — Rayn. Ann. eccl. 1500, §
  11 e 12, p. 490, ex Sabellino Ennead X, l. IX. — Andrea Cambini
  origine dei Turchi f. 176, e Theod. Spandugino f. 209, in Sansovino
  l. II. — Alfonso de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 7. v._

Il terrore, che questa catastrofe sparse in tutta la Morea, consigliò
gli abitanti di Pilos e di Corone ad arrendersi senza fare resistenza.
Il generale turco attaccò in appresso Napoli di Malvasia: fece condurre
sotto le mura di quella città Paolo Contarini da lui fatto prigioniere a
Modone, e lo minacciò di condannarlo al più crudele supplicio se non
eccitava gli assediati ad arrendersi. Il Contarini cercò di parlare a
quegli abitanti, ma mentre gli arringava, vedendo che le sue guardie
distratte non lo tenevano d'occhio, spronò il suo cavallo, e
sottraendosi a loro, varcò con un salto la prima fossa delle
fortificazioni e giunse in città senz'essere colpito dai dardi o dalle
palle che i Turchi facevano piovere sopra di lui; e contribuì
potentemente alla difesa di Napoli dove si era rifugiato[234].

  [234] _P. Bembi hist. Ven. l. V, p. 104. — Theod. Spandugino in
  Sansovino l. II, f. 309, v. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I,
  f. 8._

Il consiglio dei Dieci aveva incaricato Benedetto Pesaro del comando
della flotta veneziana. Questo nuovo capitano la trovò scoraggiata,
indebolita e dispersa da una burrasca che aveva sofferta. La riunì a
Corfù ed a Zante, vi ristabilì la disciplina, severamente gastigando gli
ufficiali che avevano mal fatto il loro dovere, ed in appresso la
condusse in traccia di quella dei Turchi; ma era in tempo che questi,
soddisfatti degli ottenuti vantaggi, si ritiravano a Costantinopoli. Il
Pesaro, rimasto padrone del mare, occupò Egina, saccheggiò Mitilene e
Tenedo, prese molte navi da trasporto della flotta turca, e condannò a
morte tutti i loro equipaggi, lasciandoli appesi alle forche piantate
sulle due rive dell'Europa e dell'Asia, affinchè tutte le navi che
attraversavano i Dardanelli vedessero gli effetti della sua crudeltà,
ch'egli credeva di giustificare col nome di rappresaglie. Prima di
lasciare quelle acque ridusse l'isola di Samotracia sotto il dominio
della repubblica[235].

  [235] _P. Bembi Ist. Ven. l. V, p. 105. — Sabellicus Cunead X, l.
  IX, apud Rayn. 1500, § 17, p. 492 — Theod. Spandugino f. 209._

La flotta che Ferdinando ed Isabella avevano armata a Malaga sotto gli
ordini di Gonsalvo di Cordova, e che destinavano a fare la conquista del
regno di Napoli, sebbene volessero ancora per qualche tempo nascondere i
loro disegni, era arrivata a Messina, indi passata a Zante, ove dietro
l'invito di Gonsalvo doveva trovarsi Benedetto Pesaro. Colà i due
generali furono di parere di attaccare l'isola di Cefalonia, ed
approfittando di un vento favorevole entrarono a forza ne' due porti di
quell'isola, sbarcarono le loro truppe e strinsero d'assedio la
capitale. Era questa difesa dall'epirota Gisdar, che sostenne il loro
attacco con valorosa costanza. Gli Spagnuoli soffrirono e fame e
malattie crudeli; ma diedero in quest'assedio una prima prova di quella
costanza e di quella confidenza nel loro capo che due anni più tardi
doveva a Barletta farli trionfare de' loro nemici. Finalmente Pietro
Navarra fece una larga breccia nelle mura di Cefalonia con una mina
caricata; la città fu presa d'assalto il 1.º di novembre del 1500, e la
guarnigione fu passata a fil di spada. Zonchio o Pilos si ricuperò
parimenti per sorpresa; ed il Pesaro avrebbe voluto attaccare anche
Modone, quando si seppe che i Turchi vi avevano mandati gagliardi
rinforzi; onde il Cordova dichiarò di essere costretto a ricondurre la
sua flotta ne' porti della Sicilia. Non pertanto, volendo la repubblica
mostrarsi grata ai di lui servigj, lo fece inscrivere nel libro d'oro
tra i nobili veneziani[236].

  [236] _P. Jovii Vita M Consalvi l. I, p. 191, 192. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 8._

Il Pesaro continuò tutto l'inverno la guerra contro i Turchi. Prese o
distrusse molti loro vascelli che si stavano fabbricando alla Prevezza,
nel golfo d'Ambracia[237]; tentò di bruciare una parte della loro flotta
nel fiume di Loüs, ma venne respinto con molta perdita di gente[238];
finalmente accettò la sommissione d'Alessio che si arrese alla
repubblica. Dall'altra banda la città di Zonchio e di Durazzo furono di
nuovo prese dai Turchi: e tutti questi prosperi avvenimenti o perdite
venivano accompagnati da atroci crudeltà tanto per parte de' Cristiani
che dei Turchi. Si rendevano responsabili della sorte della guerra gli
sventurati abitanti, ai quali, benchè mal difesi dalle guarnigioni,
facevasi rendere conto, riprendendoli, dell'infortunio, cui davasi il
nome di ribellione; e rispetto ai soldati prigionieri perivano quasi
tutti in mezzo ai supplicj[239].

  [237] _P. Bembi hist. Ven, l. V, p. 108._

  [238] _Idem, l. V, p. 110._

  [239] _P. Bembi l. V, p. 114. — Vettor Sandi l. IX, c. VII, t. IV,
  p. 213. — Rayn. An. eccl. 1501, § 77, p. 528. — Theod. Spandugino f.
  210._

I Veneziani, minacciati di perdere quasi tutti i loro possedimenti
d'oltremare, avevano chiesti soccorsi a tutti i principi della
Cristianità; tutti risguardavano tuttavia come un dovere la guerra
contro gl'infedeli; tutti convenivano intorno alla necessità di
soccorrere Venezia nella lotta disuguale in cui si era posta; pure
sembravano più disposti a salvare l'onor loro con un momentaneo
servigio, che a somministrare ai loro alleati una reale assistenza.
Alessandro VI fece armare venti vascelli, de' quali diede il comando a
Giacomo Pesaro, vescovo di Pafo, che li condusse in rinforzo della
flotta veneziana; ma il più efficace soccorso proveniente dal papa fu la
cessione del prodotto delle indulgenze vendute nello stato veneto, che
ammontò ad 80,000 ducati[240]. Il Ravenstein, governatore di Genova a
nome della Francia, condusse a Zante una flotta francese destinata a
secondare quella della repubblica; ma non era stata pagata che per tre
mesi, due e mezzo de' quali erano di già scorsi prima che giugnesse ne'
mari di Grecia, onde si ritirò senza rendere ai Veneziani verun
servigio. Anche una flotta portoghese comparve nello stesso luogo, ma il
suo comandante non volle prendere parte negli assedj, dichiarando di
avere soltanto ordine di porsi nella linea di battaglia de' Veneziani, e
si ritirò ancor essa quando vide che nel presente anno i musulmani non
sembravano intenzionati di venire a battaglia[241].

  [240] _P. Bembi l. V, p. III. — Rayn. Ann. eccl. 1500, § 22, p.
  494._

  [241] _P. Bembi hist. Ven. l. VI, p. 121. — Theod. Spandugino f.
  210._

Prima che terminasse l'anno, Filippo di Ravenstein ricondusse la flotta
francese in ajuto de' Veneziani; attaccò di concerto con loro l'isola di
Mitilene, ma l'indisciplina de' suoi soldati lo costrinse ad abbandonare
l'intrapresa quando era quasi sicura la vittoria[242]. Tutti questi
efimeri ausiliarj avevano probabilmente impedito alla Porta di far
uscire in quest'anno dai Dardanelli la sua flotta, ma non avevano
procurato veruno stabile vantaggio ai Veneziani. Lo stesso non deve
dirsi dell'attacco di Uladislao, re d'Ungheria e di Boemia, ai confini
de' Turchi; perciocchè le scorrerie degli Ungheri costrinsero Bajazette
II a mandare le sue armate verso il Danubio. Dal canto loro i Polacchi
cominciavano a porsi in movimento, ed il loro re aveva promesso alla
repubblica di Venezia di fare una diversione in di lei favore. La morte
di questo re impedì, a dir vero, la guerra della Polonia, ma la sola
voce de' suoi apparecchi era stata utile ai Veneziani[243].

  [242] _P. Bembi hist. Ven. l. VI, p. 122. — Rayn. Ann. eccl. 1501, §
  81, p. 530. — F. Jovii Epitome Hist. l. VIII, p. 156._

  [243] _Ann. eccl. Rayn. 1501, § 84, p. 530._

Nel susseguente anno 1502 un nuovo, e più dei precedenti inaspettato,
ausiliario recò pure qualche sollievo alla repubblica. Fu questi Ismaele
Sofì, che armò la Persia contro Bajazette II, invase la parte
dell'Armenia soggetta ai Turchi, e richiamò in Asia le armi del
Sultano[244]. Il Pesaro, che aveva ricevuti alcuni soccorsi dai
cavalieri di Rodi, dal re di Francia e da Alessandro VI, volle
approfittarne per attaccare l'isola di Leucade o di Santa Maura, che fu
da lui conquistata[245]. Questa fu press'a poco la sua sola intrapresa
in quest'anno. I Turchi, distratti da due potenti diversioni in Europa
ed in Asia, più non diressero i principali loro sforzi contro la
repubblica. Ma questa, ancora atterrita dai passati pericoli, e temendo
di vedere ogni anno invaso il Friuli, e consumata la conquista del
Peloponneso, evitava di provocare maggiormente la collera del Sultano.
In sul finire di quest'anno la repubblica ricevette da Achmet, uno de'
Pascià di Bajazette II, alcune aperture di pace, che partecipò al re
d'Ungheria; e siccome questi non volle acconsentirvi, non ricusò di
trattare sola. Andrea Gritti, uno de' mercanti che i Turchi avevano
arrestati in principio della guerra, e che in allora trovavasi nelle
prigioni di Costantinopoli, trattò a nome della sua patria; avendo la
fortuna destinato questo uomo, che non era meno distinto per nobiltà,
per la bellezza della persona, e per la forza del suo corpo, che per i
militari e politici talenti, a conchiudere in tempo della sua prigionia
due de' più importanti trattati che facesse la repubblica. Il Gritti,
che alquanto più tardi acquistò tanta gloria nella guerra della lega di
Cambray, e che dopo riconciliò la sua patria colla Francia; che
all'ultimo, salito sul trono ducale, l'occupò quindici anni, e
sottoscrisse il trattato di pace che in principio del 1503 riconciliò la
repubblica di Venezia coll'impero turco, e che non fu rotto prima del
1537. I Veneziani restituirono Santa Maura o Leucade ai Turchi,
rinunciarono ai loro diritti sopra Lepanto, Modone e Corone, che avevano
perdute nel corso della guerra, ed ottennero invece soltanto la
restituzione delle private proprietà che dal sultano erano state
confiscate in principio della guerra[246].

  [244] _An. eccl. Rayn. 1502, § 17, p. 536. — Bart. Senaregæ de reb.
  Genuen. t. XXIV, p. 577._

  [245] _P. Bembi hist. ven. l. VI, p. 129. — Rayn. An. eccl. 1502, §
  21, p. 537._

  [246] _P. Bembi hist. ven. l. VI, p. 132. — Vett. Sandi Stor. civ.
  di Ven, l. IX, c. VII, t. IV, p. 214. — An. eccl. Rayn. 1503, § 2,
  p. 539. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 333. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall. l. X, p. 281. — Theod. Spandugini Cantacuzeni: presso
  Sansovino l. II, Imp. Turco, f. 211. — P. Giovio ritratti d'uomini
  illustri l. VI, p. 368._

Questo trattato, che Andrea Gritti non portò a Venezia che in novembre
del 1503, fu ricevuto con esultanza dalla repubblica, sebbene
sanzionasse la perdita di alcune delle sue migliori fortezze possedute
in Levante. Ma finchè era durata la guerra, i Veneziani eransi trovati
in faccia ai principi cristiani loro vicini in uno stato di costante
umiliazione e d'inquietudine. Ora erano stati forzati ad assecondare gli
ambiziosi progetti di Lodovico XII, spesso a soffrire l'insolenza de'
suoi luogotenenti, talvolta a chiudere gli occhi sulle pratiche del duca
Valentino. Essi nè avevano potuto dar peso alle loro raccomandazioni, nè
far rispettare i proprj interessi; e lo stato di crisi in cui erasi
trovata l'Italia ne' precedenti anni, non pareva vicino a terminare. La
guerra di Napoli aveva accesa l'ambizione di tutti gli oltremontani, ed
i sovrani della Francia, della Spagna, della Germania, manifestavano più
apertamente che mai le loro pretese sulle province della penisola.

Il re di Francia non poteva darsi pace della perdita del regno, che così
rapidamente gli era stato rapito dalla mala fede del re cattolico. Egli
si doleva all'arciduca Filippo, che gli avesse legate le mani con una
ingannevole negoziazione di pace. Questi, che aveva lealmente trattato,
e che trovavasi investito de' più estesi poteri di suo suocero,
lagnavasi che il suo onore fosse stato crudelmente compromesso.
Ferdinando ed Isabella avevano da prima cercati pretesti per ritardare
la ratifica del trattato conchiuso dal loro genero; ma quando ebbero
sicuri avvisi de' vantaggi ottenuti da Gonsalvo di Cordova, ricusarono
assolutamente di sottoscrivere il trattato, accusando Filippo di avere
ecceduti i suoi poteri. Pure proponevano ancora altre negoziazioni per
ingannare di nuovo Lodovico XII[247]. Ma questo monarca, conoscendo
finalmente che con principi senza fede la sola forza può dare qualche
valore ai trattati, risolse di attaccare nello stesso tempo la Spagna
dalla banda di Bajona e di Fontarabia, e dalla banda del contado di
Rossiglione; di far guastare le coste della Catalogna e di Valenza da
una flotta francese, finalmente di mandare nel regno di Napoli un'armata
tale da restituirgli la perduta superiorità[248].

  [247] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 306._

  [248] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 312. — Jac. Nardi l. IV, p. 153. —
  Fr. Belcarii Comm. l. IX, p. 271._

Il comando di quest'armata fu dato a Lodovico della Tremouille; e sotto
di lui doveva servire Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, quello
stesso che si era opposto ai Francesi a Fornovo, e che aveva comandata
l'armata veneziana spedita contro di loro nella Puglia. Il Balivo di
Bissì aveva avuta la commissione di levare e condurre gli Svizzeri. I
Fiorentini, i Sienesi, i principi di Ferrara, di Mantova e di Bologna
avevano promessi i loro contingenti; l'armata di La Tremouille doveva
contare mille ottocento lance, e circa diciotto mila fanti; doveva
secondarla una potente flotta, e non si erano mai veduti in Francia più
formidabili apparecchi[249]. Pure La Tremouille, prima d'ingolfarsi nel
regno di Napoli, voleva essere sicuro della condotta del papa e di suo
figliuolo. Ai timori renduti tanto legittimi dal loro carattere
aggiugnevasi da qualche tempo la diffidenza che ispirar dovevano le loro
contraddittorie negoziazioni; le insolenti pretese del papa, che voleva
perseguitare e spogliare de' suoi feudi Gian Giordano Orsini, sebbene
fosse sotto l'immediata protezione del re[250]; la licenza data agli
Spagnuoli di reclutare in Roma, e le non ignote pratiche del Valentino
con Gonsalvo di Cordova. Il Valentino, che aveva sotto i suoi ordini
cinquecento uomini d'armi, offriva di unirli all'armata francese, purchè
Lodovico XII gli sagrificasse non solo Gian Giordano Orsini, ma ancora
lo stato di Siena; ed i Francesi erano in procinto di sottoscrivere così
vergognoso trattato allorchè il Borgia ne propose uno meno ignominioso,
ma più pericoloso. Egli offriva il passo per lo stato della Chiesa,
conservando egli stesso una neutralità armata. Facilmente si
comprendeva, che sua intenzione era quella di dichiararsi a seconda
delle circostanze per opprimere i vinti; o pure che, malgrado le sue
promesse, mentre i Francesi sarebbero nel regno di Napoli, attaccherebbe
la Toscana da loro lasciata senza truppe[251]. Ma in mezzo a tali
progetti ed a tali speranze, il 18 di agosto, papa Alessandro VI fu
colpito da quasi improvvisa morte: il duca Cesare Borgia, suo figlio, ed
il cardinale di Corneto furono nello stesso tempo portati a Roma quasi
moribondi da una vigna in cui dovevano cenare con lui, ed il corpo di
Alessandro VI, copertosi di subito da negra spaventosa gangrena, diede
motivo a tutto il pubblico di sospettare, che il papa, il figliuolo ed
il commensale fossero vittime di un veleno apparecchiato dallo stesso
papa per un altro[252].

  [249] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 313. — Jac. Nardi l. IV, p. 153. —
  Mém. de la Tremouille t. XIV, ch. XI, p. 167. — P. Giovii V. M.
  Consalvi l. II, p. 229._

  [250] _Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 151, 154._

  [251] _Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 155._

  [252] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 314. — Raphael Volaterranus l.
  XXII, apud Rayn. An. eccl. 1503, § 10, p. 540._

L'intera vita d'Alessandro Borgia era stata contraddistinta da tanti
delitti, ed egli si era per tanti titoli meritato l'odio di Roma,
dell'Italia e di tutta la Cristianità, che non è maraviglia che la di
lui morte si attribuisse a quegli stessi delitti cui aveva accostumata
la sua corte, e che si cercasse di trovare nel rapidissimo rovesciamento
della sua famiglia, e nel giusto gastigo della sua malvagità, una
conseguenza degli scellerati mezzi da lui praticati per accrescere la
sua fortuna. In tutto il corso del suo pontificato erasi veduto
Alessandro VI ricavare molto danaro dalle promozioni al sacro collegio,
che in forza delle costituzioni ecclesiastiche aveva il diritto di fare.
In undici promozioni aveva creati quarantatrè cardinali[253], e quasi
niuna di tali promozioni era stata gratuita. Da ognuna aveva ricavato
almeno dieci mila fiorini; quella di Francesco Soderini, fratello del
gonfaloniere di Firenze, era stata pagata ventimila: trentamila quella
di Domenico Grimani, figliuolo del procuratore di san Marco; ed altre
probabilmente un prezzo ancora maggiore. Ma pel papa non era gran cosa
la vendita di questa principalissima dignità ecclesiastica. I cardinali
da lui adoperati nell'amministrazione si arricchivano rapidamente; ed il
papa fu accusato di averne fatti perire moltissimi per usurpare le loro
eredità, e disporre nuovamente de' loro beneficj, che ricadevano alla
santa Sede. Questi erano, si diceva, i criminosi mezzi con cui il papa
suppliva alle enormi spese che richiedevano il mantenimento delle armate
del duca Valentino, il lusso della corte pontificia, le prodigalità di
Lugrezia Borgia, e il collocamento degli altri figli e nipoti di
Alessandro. Fu raccontato e creduto in tutta l'Italia, che il papa aveva
invitato il cardinale Adriano di Corneto ad un convito nella sua vigna
di Belvedere presso al Vaticano con intenzione di avvelenarlo, come
aveva altra volta avvelenati i cardinali di sant'Angelo, di Capoa e di
Modena, prima suoi zelantissimi ministri, poi vittime della sua
cupidigia; che il duca Valentino aveva mandato una bottiglia di vino
avvelenato al coppiere del papa, senza palesargli il mistero, facendogli
soltanto dire di non mandarla in tavola senza suo espresso ordine; che
nella momentanea assenza di questo coppiere, il suo sostituto avea dato
per errore di questo vino al papa, a Cesare Borgia ed al cardinale di
Corneto. Quest'ultimo disse egli medesimo molto tempo dopo a Paolo
Giovio, che, appena inghiottita tale bevanda, avea sentito nelle sue
viscere un ardente fuoco, che subito avea perduta la vista, ed in
appresso l'uso di tutti i sensi, e che dopo una lunga malattia, la sua
guarigione era stata preceduta dalla totale escoriazione della sua
pelle[254].

  [253] _Onofrio Panvino Vita di Alessandro VI, p. 479._

  [254] _P. Giovio Vita di Leon X, l. II, p. 82. — Vita del card.
  Pompeo Colonna, p. 358. — Ejusdem Vita M. Consalvi, l. II, p. 229. —
  Fr. Guicciardini l. VI, p. 314. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l.
  I, f. 31._

Gli scrittori contemporanei meglio informati e che più minutamente
parlarono di tale avvenimento, convengono rispetto alle circostanze.
Pure un giornale della corte di Roma e le lettere dell'ambasciatore
della casa d'Este sembrano provare che la malattia del papa durasse otto
giorni, che fosse giudicata febbre perniciosa e come tale medicata[255].
Inoltre non sappiamo con precisione l'epoca del banchetto nella vigna di
Belvedere: è probabile che avesse luogo il 10 di agosto; che la
malattia, prodotta dal veleno diviso in tre invece di essere preso da un
solo, abbia durato otto giorni, e che in tale tempo non gli si desse il
suo vero nome, per non accusare il papa e suo figlio ancora vivi ed
onnipotenti[256].

  [255] _Muratori An. d'Ital. t. X, p. 15. — Rayn. An. eccl. 1503, §
  11, p. 541._

  [256] _P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 133. — Jac. Nardi Ist. Fior. l.
  IV, p. 157. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 272. — Ist. di Gio.
  Cambi, p. 194. — Orlando Malavolti Stor. di Siena p. III, l. VI, f.
  112. — Fr. Belcarii l. IX, p. 272. — Onof. Panvino Vita di
  Alessandro VI, p. 478. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. t. XXIV, Rer.
  Ital. p. 578._

Alessandro VI, il di cui solo nome ricorda tanti delitti e tante
infamie, dovette in tempo del suo pontificato pronunciare a nome della
Chiesa Romana molte decisioni che hanno ancora presentemente forza di
leggi. Perciò gli scrittori ecclesiastici cercano di provare, che a
fronte degli enormi suoi vizj egli non si slontanò mai un solo istante
dalla purità della fede[257]. Alessandro VI fu uno degl'istitutori
dell'ordine de' Minimi di san Francesco di Paola, ch'egli ratificò colla
sua bolla del 1.º di maggio del 1501, e di quello delle sorelle di Maria
Vergine, fondato da Giovanna di Valois, moglie divorziata di Lodovico
XII[258]. La Chiesa romana gli deve inoltre un'istituzione, che forse
più d'ogni altra contribuì a conservare la sua autorità contro gli
assalti della filosofia ed i progressi dello spirito, quella della
censura ecclesiastica dei libri. Alessandro VI, con suo breve del nove
di giugno del 1501, ordinò agli stampatori sotto pena di scomunica di
non istampare verun libro senza l'assenso degli arcivescovi o de' loro
vicarj ed ufficiali, ed ordinò a questi di far sequestrare e bruciare
ogni libro contenente dottrine eretiche, contrarie alla fede cattolica,
empie e malsonanti[259].

  [257] _Raynaldi Ann. eccl. 1501, § 22, p. 511._

  [258] _Idem, § 24, p. 511._

  [259] _Idem, § 36, p. 514._

Il duca Valentino diceva al Machiavelli, che credeva di avere pensato a
tuttociò che potrebbe accadere nella circostanza della morte di suo
padre, e che a tutto aveva trovato rimedio; ma che mai non aveva pensato
che nella circostanza di tale avvenimento potrebbe egli medesimo
trovarsi mortalmente infermo[260]. Aveva contato che l'elezione del
nuovo pontefice sarebbe in gran parte del voler suo, dovendo, a suo
credere, conservarsi da lui dipendenti i cardinali nominati da suo
padre, ed in particolare gli otto Spagnuoli ch'egli aveva fatti entrare
nel sacro collegio. Aveva ridotta sotto la sua clientela quasi tutta la
piccola nobiltà degli stati romani, ed aveva in modo oppressata l'altra
nobiltà, che credeva di non aver che temere dalla medesima. Tutte le
fortezze tanto in Roma che nel suo territorio erano guardate dai suoi
soldati, e l'armata con cui faceva la guerra agli Orsini trovavasi
acquartierata ne' contorni di Roma. Ma d'altra parte egli si trovava
colpito appunto nell'istante in cui, incerto di decidersi per la corte
di Francia o per quella di Spagna, non poteva far capitale del favore
dell'una o dell'altra; anzi sentivasi nello stesso tempo stretto dalle
due armate nemiche: pure per quanto travagliato fosse dalla malattia,
non si lasciò scoraggiare. Mentre che il popolo affollavasi a San Pietro
con indicibile gioja per saziare la sua vista sul cadavere di Alessandro
VI, ed esprimere tutto l'orrore ond'era verso di lui compreso, Cesare
Borgia si tenne nel palazzo del Vaticano; entrò in trattato coi Colonna
che suo padre aveva spogliati de' loro feudi; loro restituì Chiazzano,
Capo d'Anzo, Frascati, Rocca di Papa e Nettuno, che Alessandro VI aveva
notabilmente fortificato, ed a tal prezzo comperò la loro
neutralità[261].

  [260] _Macchiavelli del Principe c. VII, p. 259._

  [261] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 315. — P. Giovio Vita del card.
  Pompeo Colonna, p. 360. — Ist. di Gio. Cambi, t. XXI, p. 197. — Fr.
  Belcarii Comm. Rer. Gall. l. IX, p. 273. — P. Jovii V. M. Consalvi
  l. II, p. 229._

Il duca Valentino non aveva abbastanza soldati per potere vietare ai
suoi nemici l'ingresso in Roma, e contenere nello stesso tempo il popolo
che lo detestava. Era tornato in patria Prospero Colonna alla testa di
tutto il suo partito. Dal canto suo Fabio Orsini era rientrato in
possesso dei palazzi della sua famiglia a Monte Giordano; aveva fatte
saccheggiare le case e le botteghe de' cortigiani e de' mercanti
spagnuoli, così favoreggiati sotto il regno dell'ultimo papa, ed
altamente domandava la testa dello stesso Cesare Borgia in espiazione
del sangue di suo padre e de' suoi parenti che questo tiranno avea
versato. Le truppe del Valentino erano tutte acquartierate in Borgo e
ne' contorni del Vaticano; di modo che i cardinali, per non cadere nelle
loro mani, si adunarono nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva; ma
non si affrettarono di cominciare l'esequie del papa, che dovevano
durare nove giorni, e terminarsi prima del conclave[262].

  [262] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 316. — Rayn. Ann. eccl. 1503, §
  12, p. 541. — P. Bembi Ist. Venez. l. IV, p. 133. — Alf. de Ulloa
  Vita di Carlo V, l. I, f. 31, v. — Jac. Nardi l. IV, p. 156._

Fuori delle porte di Roma, e negli stati fin allora occupati dal
Valentino, le convulsioni politiche erano ancora più rapide. Gian Paolo
Baglioni si era associato a Bartolommeo d'Alviano, capitano della casa
Orsini, al servigio de' Veneziani. Col di lui ajuto era rientrato in
Perugia, aveva cacciata da Viterbo la fazione dei Gatti; da Todi quella
di Chiaravalle; ed aveva uccisi o svaligiati tutti que' cittadini
addetti ai due partiti, che gli erano venuti in mano. Fabio Orsini,
perseguitando in compagnia de' Savelli nel patrimonio di San Pietro
tutti i partigiani del Valentino, ed avendo ucciso un individuo della
famiglia Borgia, si lavò le mani e la bocca col di lui sangue[263].
Tutti i baroni romani avevano ricuperate le rocche loro tolte dal papa;
i Vitelli erano tornati in Città di Castello, Giacomo d'Appiano in
Piombino, il duca d'Urbino, ed i signori di Pesaro, di Camerino e di
Sinigaglia negli stati che avevano perduti[264]. Soltanto la Romagna non
si mosse, e si mantenne ubbidiente al duca Valentino. Le altre sue
conquiste erano più fresche; in quella di Romagna aveva avuto tempo di
far gustare i vantaggi del suo governo. Quest'uomo, tanto crudele e di
così perversi principj politici, ottimamente conosceva ciò che poteva
formare la felicità de' suoi sudditi; egli faceva fare tra di loro
rigorosa giustizia, e manteneva inviolabile la pubblica sicurezza. Tutte
le fazioni erano compresse; tutti i furti de' magistrati e de' principi
erano cessati; tutti gli uomini più distinti avevano nel Borgia un
illuminato protettore; i militari trovavano avanzamento nelle armate, o
nel comando delle rocche del duca; i letterati venivano riccamente
provveduti di benefici ecclesiastici: finalmente lo stato prosperava, e
verun Romagnuolo poteva senza timore figurarsi il ritorno de' piccoli
antichi signori[265].

  [263] _Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32._

  [264] _Jac. Nardi l. IV, p. 156._

  [265] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 316. — Macchiavelli il Principe,
  c. VII, p. 259._

Lodovico de La Tremouille, che doveva avere il comando dell'armata
francese, era trattenuto in Parma da una malattia che più non gli
acconsentì di aver parte nell'impresa di Napoli. Gli era succeduto nel
comando il Marchese di Mantova come luogotenente del re; ma in fatto
quasi tutta l'autorità era nelle mani del balivo d'Occan e di
Sandricourt, perchè i Francesi sdegnavano di ubbidire ad un principe
straniero. Era quest'armata entrata in Toscana per la via di Pontremoli,
avanzando lentamente a motivo degli Svizzeri, che di mal animo
prendevano parte nelle disastrose spedizioni del regno di Napoli.
Finalmente attraversò lo stato di Siena, ed arrivò tra Nepi e l'Isola
nell'istante in cui i cardinali stavano per entrare in conclave. Il
primo ministro della Francia ed il favorito del re, il cardinale
d'Amboise, giugneva nello stesso tempo frettolosamente col cardinale
d'Arragona e col cardinale Ascanio Sforza, ai quali aveva renduta la
libertà, nella ferma fiducia che i loro suffragj sarebbero regolati dal
suo. Appoggiato da tutta la protezione del suo padrone, dalla libertà di
valersi a voglia sua de' tesori del re, e di una potente armata, giunta
presso le mura di Roma, credeva d'avere in pugno la tiara pontificia, e
subordinò alle sue personali viste le negoziazioni del gabinetto, ed i
movimenti dell'esercito francese. In particolar modo cercò il duca
Valentino, che dicevasi arbitro di tutti i voti de' cardinali spagnuoli;
e per guadagnarlo al suo partito non temette di scontentare gli Orsini
fin allora affezionati alla Francia. Il Borgia dal canto suo sentì che
l'armata francese era a lui più vicina che non quella di Spagna, e che
poteva fargli più bene e più male; onde troncò le negoziazioni
intavolate con Gonsalvo di Cordova per mezzo dei Colonna, ed il primo di
settembre sottoscrisse cogli ambasciatori francesi un nuovo trattato, in
forza del quale si obbligava a servire Lodovico XII con tutte le sue
forze nella guerra di Napoli; a condizione che quel monarca si rendesse
garante degli stati che ancora possedeva, e gli promettesse il suo ajuto
per riconquistare i perduti[266]. Gonsalvo di Cordova, quand'ebbe avviso
di questo trattato, ordinò a tutti i capitani spagnuoli che militavano
nell'armata del Borgia, di abbandonarlo per servire sotto le insegne
della Spagna, se non volevano farsi colpevoli di alto tradimento.
Quest'ordine privò il duca di Ugo di Moncade, di Girolamo Olorico, di
Pietro de Castro, di Diego Chignones, e di altri riputatissimi
ufficiali[267].

  [266] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 317. — Jac. Nardi Ist. Fior. l.
  IV, p. 157._

  [267] _P. Jovii V. M. Consalvi l. II, p. 230. — Alf. de Ulloa Vita
  di Carlo V, l. I, f. 32._

La cessione dei suffragj de' cardinali dipendenti dalla casa Borgia, non
formava un'esplicita condizione del trattato del Valentino, sebbene
fosse questo il principale motivo che aveva consigliato il cardinale
d'Amboise a sottoscriverlo. Ma questi cardinali, di cui si credevano
disponibili i voti, miravano assai più ai futuri loro vantaggi che a
mostrarsi riconoscenti de' passati beneficj. Desideravano in particolar
modo la propria libertà e quella della loro elezione; perciò non
acconsentirono di chiudersi in conclave finchè il cardinale d'Amboise
non ebbe promesso che l'armata francese non si avanzerebbe oltre Nepi, e
finchè Cesare Borgia non fu partito da Roma con dugento uomini d'armi e
trecento cavaleggieri per raggiugnere l'armata[268].

  [268] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 318._

I cardinali non avevano ancora presi fra di loro gli opportuni concerti
per procedere ad una definitiva elezione. Giorgio d'Amboise non aveva
presso il conclave tutta l'influenza che si era ripromessa, ma sperava
di guadagnare col tempo nuovi partigiani; invece i suoi avversarj non
dubitavano che non perdesse qualche suffragio tosto che l'armata
francese sarebbesi allontanata da Roma: d'altra parte tutti i partiti
conoscevano egualmente quanto sarebbe pericolosa cosa per la libertà
loro e per l'indipendenza della Chiesa il protrarre il conclave in mezzo
a tanti militari movimenti. Tutti adunque convennero di scegliere per
papa un cardinale, di cui l'estenuate forze, e la conosciuta infermità
facevano prevedere vicina la morte. Fu questi Francesco Piccolomini,
nipote di papa Pio II, dal quale era stato fatto arcivescovo di Siena ed
in appresso cardinale. Questo decano del sacro collegio, che veniva da
tutti risguardato come uomo assai virtuoso, riunì i suffragj di
trentasette de' suoi fratelli, su trent'otto che si trovavano in
conclave. Fu proclamato il 22 di settembre, e coronato l'8 di ottobre
sotto il nome di Pio III[269].

  [269] _Onof. Panvino Vita di Pio III, 219, Pontefice p. 481. — Fr.
  Guicciardini l. VI, p. 318. — Rayn. Ann. eccl. 1503, § 13, p. 541. —
  P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 134. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p.
  158. — Fr. Belcarii l. IX, p. 274. — Arn. Ferroni l. III, p. 54._

Dopo quest'elezione, l'armata francese, che non aveva più motivo di
trattenersi, passò il Tevere e proseguì il suo cammino verso il regno di
Napoli: ed il duca Valentino, che sempre era ammalato, e che si era
fatto portare in lettica a Nepi, si fece nello stesso modo riportare a
Roma, dove si afforzò nel Borgo con dugento cinquanta uomini d'armi,
altrettanti cavaleggeri, ed ottocento fanti. Gli Orsini, che sospiravano
l'istante di potersi vendicare di lui erano essi pure tornati in città
colle loro truppe, e si afforzavano in un altro quartiere. Avevano essi
chiamati Gian Paolo Baglioni e Bartolommeo d'Alviano, ed ogni giorno
venivano alle mani colla gente del Valentino. Nel momento in cui la
guerra andava a ricominciare, trattavano come condottieri per mettersi
al soldo dell'una o dell'altra potenza. La loro inclinazione li piegava
verso la Francia, e quest'inclinazione veniva accresciuta dalla loro
rivalità coi Colonna, che servivano nell'esercito spagnuolo. Ma il
cardinale d'Amboise gli aveva vivamente offesi col favore accordato al
Valentino: aveva in appresso mercanteggiati i loro servigj, come se non
facesse gran conto della loro assistenza, o credesse che per difendersi
dai Colonna gli Orsini sarebbero sempre obbligati a porsi anche senza
soldo sotto le insegne francesi. Bartolommeo d'Alviano, che aveva
lasciato il servigio della repubblica di Venezia per venire a Roma a
riunirsi alla sua famiglia, si sentì offeso da questa mancanza di
riguardi, e trattò con Gonsalvo di Cordova a nome di tutti gli Orsini,
promettendo di condurre ai servigj della Spagna cinquecento uomini
d'armi per sessanta mila ducati all'anno. Ma volle in contraccambio che
il Gonsalvo promettesse di rimettere i Medici in Firenze dopo finita la
guerra[270].

  [270] _F. Guicciardini l. VI, p. 319. — P. Giovio Vita di Leon X, l.
  II, p. 84. — P. Jovii V. M. Consalvi, l. II, p. 230._

L'ambasciatore di Venezia in Roma si adoperava per questa
riconciliazione degli Orsini cogli Spagnuoli, ed aveva prestato agli
ultimi il danaro necessario per fare il primo pagamento: in appresso gli
ajutò ancora a rappattumarsi coi Colonna, che militavano nella medesima
armata. Il Valentino, spaventato da questa coalizione, che suppose
diretta contro di lui, volle in allora uscire da Roma. Gian Giordano
Orsini non aveva fatto causa comune co' suoi parenti, ed aveva promesso
al cardinale di Roano che condurrebbe il Borgia sicuro fino all'armata
francese; onde il Borgia si mosse per andare a trovarlo a Bracciano; ma
nello stesso tempo Fabio Orsini e Gian Paolo Baglioni avevano attaccata
la porta del Torrione e l'avevano bruciata, indi erano entrati nel
quartiere del Valentino ed aveano caricati i di lui soldati con forze
molto superiori. Quando Cesare Borgia vide che la sua cavalleria
cominciava a fuggire, si riparò col principe di Squillace suo fratello
ed alcuni cardinali spagnuoli nel palazzo del Vaticano, di dove
coll'assenso del papa passò in castel Sant'Angelo. Il comandante del
castello era una creatura d'Alessandro VI, e non solo promise di
difendere il Borgia contro i suoi nemici, ma ancora di lasciare che si
ritirasse qualunque volta lo vorrebbe. Intanto l'armata del duca,
inseguita dagli Orsini e dal Baglioni, si dissipò interamente, ed i
brillanti sogni dell'ambizioso Borgia si dissiparono coll'armata[271].

  [271] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 320. — Rayn. Ann. eccl. 1503, §
  15, p. 542._

Pio III non ingannò l'aspettazione de' cardinali, che avevano calcolato
sopra un brevissimo papato; dopo ventisei soli giorni di regno, morì il
18 di ottobre in età di sessantaquattro anni e cinque mesi. Fin da
quando era stato eletto aveva in una gamba una piaga che poteva farsi
pericolosa; non pertanto si sospettò che fosse stata avvelenata per
commissione di Pandolfo Petrucci, tiranno di Siena, che temeva di
trovare in lui i risentimenti di un gentiluomo sienese, e quindi nemico
dell'ordine dei Nove, col di cui appoggio regnava Pandolfo[272].

  [272] _Onof. Panvino Vite de' Pont. p. 482. — Or. Malavolti Stor. di
  Siena, p. III, l. VII, f. 112, v. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V,
  l. I, f. 32, v._ — Il Rainaldo non parla di questo sospetto di
  veleno. _Ann. eccl. 1503, § 16-19, p. 542._

Durante il breve regno di Pio III i cardinali avevano prese migliori
misure; le diverse fazioni avevano conosciute le proprie forze; e quelle
che non isperavano di trionfare, avevano se non altro ottenuto di
vendere a più alto prezzo la loro adesione. Giorgio d'Amboise pel primo
era stato forzato di conoscere ch'egli non otterrebbe mai più la tiara,
ed in conseguenza impiegò i suffragj di cui poteva disporre a favore di
quel cardinale che al tempo della spedizione di Carlo VIII si era
totalmente dedicato agl'interessi della Francia. Era costui il cardinale
di San Pietro _ad vincula_, Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV,
il quale, per vendicarsi di Alessandro VI, suo personale nemico, aveva
chiamate le armi de' Francesi in Italia, ed, esigliato da Roma, era
quasi sempre vissuto alla corte di Francia. Possedeva questo cardinale
immense ricchezze e molti beneficj ecclesiastici de' quali poteva
disporre a favore de' suoi partigiani.

Alessandro VI, che lo detestava, aveva contribuito a procacciargli
riputazione di sincerità, replicatamente dichiarando di conoscere in lui
questa sola virtù in mezzo a vizj senza numero; e Giuliano approfittò
dell'universale confidenza che ispirava la sua sincerità per meglio
ingannare. Ognuno credeva così implicitamente alla sua parola ed alle
sue promesse, che moltissimi amici gli affidarono ogni loro sostanza e
tutti i loro beneficj ecclesiastici, ond'egli se ne valesse per
comperare partigiani. Il cardinale Ascanio Sforza, conoscendo assai
meglio che Giorgio d'Amboise lo spirito ambizioso ed inquieto del La
Rovere, vide che questo preteso partigiano della Francia era di tutto il
sacro collegio l'uomo più disposto a strappare il ducato di Milano dalle
mani de' Francesi per restituirlo alla sua famiglia. Finalmente il
Valentino, ridotto in così pericolosa situazione da non poter più
seguire le regole della consueta sua politica, prestò facile orecchio
alle promesse che aveva costume di sprezzare: suppose o volle supporre
che freschi beneficj potrebbero far dimenticare le vecchie ingiurie, e
il 29 di ottobre sottoscrisse col La Rovere un compromesso confermato
con giuramento, in forza del quale assicurò al cardinale i suffragj di
tutti i cardinali spagnuoli, mediante la promessa del gonfalone della
Chiesa, della conservazione di tutti i suoi stati, e del matrimonio di
sua figlia con Francesco Maria della Rovere, nipote del futuro papa. Con
questi varj trattati e con tutte queste pratiche l'elezione di San
Pietro _ad vincula_ era così bene concertata, che lo stesso giorno 31 di
ottobre in cui i cardinali entrarono in conclave, senza che si avesse
avuto il tempo di rinchiuderveli, proclamarono Giuliano della Rovere,
che prese il nome di Giulio II[273].

  [273] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 321. — Jo. Burchardi Diar. Cur.
  Rom. 2159. — Barth. Senaregæ de reb. Gen. t. XXIV, p. 578. — Jac.
  Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 158. — Scip. Am. l. XXVIII, p. 272. — Fr.
  Belcarii Com. l. IX, p. 275._

Ben furono necessarie grandi sventure per determinare il Valentino a
dare le voci di cui disponeva al suo più antico nemico. Ma in fatti dopo
la sconfitta della sua piccola armata intorno al Vaticano, la sua
potenza era quasi venuta al nulla. Le città della Romagna, che si erano
lusingate del suo ritorno, vedendo caduta la sua fortuna, avevano voluto
acquistarsi merito presso gli antichi loro padroni, dandosi
spontaneamente nelle loro mani. Cesena era tornata sotto l'immediato
dominio della Chiesa: a Imola era stato ucciso il comandante della
rocca, e la città era divisa tra i partigiani dei Riarj e quelli della
Chiesa. Forlì aveva aperte le porte ad Antonio Ordelaffi, erede della
famiglia che aveva regnato in quel piccolo stato prima che se ne
impadronisse Girolamo Riario. Giovanni Sforza era rientrato in Pesaro,
Pandolfo Malatesta in Rimini, di dove fu ben tosto scacciato da Dionigi
Naldo, soldato di Cesare Borgia. Faenza aspettò più lungamente il
Valentino che niun'altra città di Romagna; ma all'ultimo, perdendo la
speranza di vederlo ricuperare l'antica potenza, si diede a Francesco,
figliuolo naturale di Galeotto di Manfredi, il solo erede di una
famiglia, della quale tutti i legittimi discendenti erano stati uccisi
dal Borgia. Le rocche di tutte queste città non presero parte a queste
rivoluzioni e furono fedelmente custodite dai loro capitani a nome del
duca Valentino[274].

  [274] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 322. — Scip. Ammirato l. XXVIII,
  p. 272. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 157._

Ma ormai sembrava che la sorte della Romagna dovesse assai meno
dipendere dai voti del popolo, dai mezzi del duca Valentino, o dai
maneggi dello stesso papa, che dalle armi della potente repubblica, la
quale aveva sempre risguardata questa provincia come più particolarmente
sommessa alla sua influenza; la quale già da gran tempo dava pensioni ai
suoi piccoli principi, ed aveva pure conquistata qualche città. In
primavera di questo stesso anno Venezia aveva sottoscritto il suo
trattato di pace coi Turchi; Andrea Gritti, che lo aveva negoziato non
era peranco tornato da Costantinopoli, e di già la repubblica faceva
sentire a' suoi vicini, che le di lei forze più non erano compresse dal
terrore degli Ottomani; che i suoi consiglj più non erano esclusivamente
occupati intorno ai costanti progressi degl'infedeli, e che trovavasi
nuovamente in istato di farsi rispettare e temere. Giacomo Venieri, che
comandava a Ravenna, vi adunava ragguardevoli forze; si procurava
intelligenze in Cesena, ed all'ultimo tentò di sorprenderla; ma ne fu
respinto. Poco dopo Dionigi Naldo, più non isperando di vedere il duca
Valentino, e non si volendo assoggettare ai Manfredi, contro i quali si
era precedentemente ribellato, consegnò ai Veneziani le fortezze di Val
di Lamone, e persuase il comandante della rocca di Faenza a venderla ai
medesimi a prezzo d'oro. Queste due vendite non si trassero però dietro
la sommissione della capitale, perchè i suoi abitanti, irritati di
vedere che il comandante della rocca ed i contadini di Val di Lamone
pretendevano di disporre della sorte loro, si difesero ostinatamente, e
fecero in pari tempo domandare ajuto a Giulio II ed ai Fiorentini[275].

  [275] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 322. — P. Bembi Ist. Ven. l. II,
  p. 134._

Tutti gli altri piccoli principati di Romagna erano simultaneamente
attaccati dai Veneziani, ai quali aprirono le porte Forlimpopoli ed
altre diverse fortezze. Fano, che volevano sorprendere, si difese;
Rimini venne loro volontariamente abbandonato da Pandolfo Malatesta, che
loro chiese soltanto in cambio la signoria di Cittadella nello stato di
Padova, ed il grado di gentiluomo veneziano[276].

  [276] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 323. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI,
  p. 135. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 32, v._

Giulio II, di fresco salito sulla cattedra di san Pietro, non ancora
abbastanza conosceva quali erano le sue forze, e non voleva affrettarsi
a dispiegarle. Pure non poteva vedere senza sdegno occuparsi dai
Veneziani le città dipendenti dalla Chiesa. I vicarj, che le possedevano
in addietro, ed il duca Valentino stesso, erano dalla loro debolezza e
dai giornalieri loro bisogni ricondotti alla dipendenza della santa
sede; ma la repubblica di Venezia, sempre potente e sempre ugualmente
formidabile, più non restituiva ciò che una volta aveva preso. Giulio II
che ancora non ardiva romperla con lei tentò le vie della persuasione.
Spedì il vescovo di Tivoli a Venezia, per lagnarsi degli affronti che il
senato gli faceva sul bel principio del suo pontificato, attaccando una
città della Chiesa, quando egli aveva sperato di potere far capitale
dell'amicizia della repubblica, che d'altronde credeva essersi meritata
col suo attaccamento ai di lei interessi quand'era ancora
cardinale[277].

  [277] _Machiavelli Legaz. II (a Roma) t. VI, p. 400. — Leg. Lett.
  XIII, p. 133. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p. 136._

I Veneziani erano allora traviati da quella medesima ambizione, che loro
aveva fatta accettare la protezione di Pisa, la divisione del ducato di
Milano ed i porti del regno di Napoli: cercavano di dilatare il loro
dominio in Toscana, in Lombardia, e lungo le coste dell'Adriatico, senza
pensare che ogni conquista provocava contro di loro un nuovo nemico; e
non li trattenne il timore di aggiugnere agli altri anche il papa.
Perciò risposero con vaghe proteste d'amicizia, e coll'offerta di pagare
per Faenza lo stesso tributo che pagavano i precedenti vicarj;
rappresentavano nello stesso tempo, che da più secoli quella città più
non era sotto l'immediato dominio della Chiesa, e promettevano di essere
così fedeli vassalli quanto lo erano stato i Manfredi o il duca
Valentino. Mentre che in apparenza tenevano questo moderato linguaggio
le loro truppe andavano gagliardamente stringendo l'assedio di Faenza:
si erano accampate presso la Chiesa dell'osservanza, e cominciavano a
battere in breccia le mura della città. I Fiorentini, che in sulle prime
avevano mandato a Faenza un piccolo soccorro di dugento uomini, quando
non si videro assecondati dal papa non vollero entrar soli in così
pericolosa guerra; onde gli assediati abitanti, più non isperando di
potersi difendere, capitolarono il 19 di novembre a condizione che i
Veneziani corrisponderebbero al giovane Francesco Manfredi una pensione
annua di trecento ducati[278].

  [278] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 324_, il quale dà per abbaglio al
  giovane Manfredi il nome di Astorre. — _Jac. Nardi Ist. fior, l. IV,
  p. 157. — Macchiavelli Legaz. II, lett. VII, VIII. IX, X e seg. p.
  117. — Opera t. VI, p. 389 e seg. — P. Bembi Ist. Ven. l. VI, p.
  136._

  Dopo quest'epoca più non avendo la casa Manfredi ricuperata la sua
  sovranità di Faenza, riputiamo conveniente cosa di riportare in
  questo luogo una tavola cronologica del regno di questi piccoli
  principi.

  _an. C._

  1334. Riccardo Manfredi, proclamato dal popolo
        signore di Faenza e d'Imola.

        {            {  figli di Riccardo, si difendono
        {  Giovanni  {  contro Clemente VI
  1350. {            {
        {  Renieri   {  fino al 1358, nel quale sono
        {            {  scacciati dalla loro signoria.

  1377. Astorre I di Manfredi rientra il 25 di luglio
        per un acquedotto in Faenza, spalleggiato
        dai Fiorentini, ed è riconosciuto
        come Vicario di Faenza e d'Imola.

        È costretto di vendere queste città a Baldassarre
        Cossa, che lo fa decapitare il 28
        di novembre.

  1410. Giovanni Galeazzo Manfredi, figlio d'Astorre
        I, rientra in Faenza il 18 di giugno.
        Morto nel 1416.

  1416. Guid'Antonio Manfredi, figlio del precedente,
        signore di Faenza e d'Imola. Morto
        il 18 giugno 1448.

        { Astorre II  }            { signore di Faenza.
        {             } figli di   { Morto il 2 maggio
        {             }  Guid'     { del 1468.
  1448. { Taddeo      } Antonio    { signore d'Imola, vende
        {             } Manfredi   { questa città a Girolamo
        {             }            { Riario 1473.

  1468. Galeotto, figlio d'Astorre II, signore di
        Faenza, ucciso da sua moglie il 31 maggio
        del 1488.

  1480. Astorre III, figlio di Galeotto, prigioniere
        di Cesare Borgia il 22 aprile del 1501;
        strozzato a Roma il nove luglio del 1501.

  1503. Francesco di Manfredi, figlio naturale di
        Galeotto, proclamato dagli abitanti signore
        di Faenza in ottobre del 1503, si arrende
        ai Veneziani il 19 novembre del 1503.

In allora i Veneziani avevano acquistato in Romagna, oltre i due
principati di Faenza e di Rimini, Monte fiore, sant'Arcangelo,
Verucchio, Porto Cesenatico e sei altre terre murate. Loro non sarebbe
stato difficile di occupare ancora Imola e Forlì, ma si rattennero per
non irritare soverchiamente il papa. Il duca Valentino altro omai non
possedeva che le rocche di Forlì, Cesena, Forlimpopoli e Bertinoro. Le
offrì al papa in deposito, affinchè non venissero in mano dei Veneziani;
ma questi, dice il Guicciardini, la di cui sincerità non era peranco
affatto corrotta dall'abitudine del potere, le ricusò per non esporsi in
appresso alla tentazione di mancare di parola[279].

  [279] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 324._

Giulio II aveva fatte al Valentino onorate accoglienze, mostrando
esternamente una sincera riconciliazione; il 3 di novembre gli aveva
dato alloggio nel Vaticano, dove il duca era circondato da una
quarantina de' suoi ufficiali, e gli andava promettendo che nel primo
concistoro lo dichiarerebbe Gonfaloniere della Chiesa[280]. Cesare
Borgia, avvezzo alla prosperità, non aveva trovato nel suo spirito le
necessarie forze per giudicare le circostanze del suo presente stato.
Quest'uomo, che mai non aveva con chicchessia mantenute le sue promesse,
dava piena fede alla parola del suo più antico nemico, ed aspettava con
intera confidenza il gonfalone della Chiesa, che Giulio II aveva
promesso di dargli, protraendo fin dopo tale nomina la sua partenza alla
volta della Romagna. Pensava in allora di ragunare alcuni uomini d'armi
che lo aspettavano, di attraversare la Toscana, o forse di passare per
mare a Genova, di là in Lombardia, indi coll'ajuto de' suoi partigiani
soccorrere i castellani che avevano fedelmente custodite le fortezze.
Quando il Machiavelli, che in allora trovavasi in legazione a Roma, andò
il 5 di novembre a partecipargli l'intrapresa de' Veneziani contro
Faenza, il Borgia si alterò contro i Fiorentini, i quali con soli cento
uomini d'armi avrebbero potuto, volendolo, salvare tutti i di lui
possedimenti. Giurò che non dissiperebbe tra le mani de' banchieri di
Genova i danari che gli restavano, i quali ammontavano a più di dugento
mila fiorini, per difendere invano una città che stava per perdere; che
piuttosto darebbe egli stesso le sue fortezze ai Veneziani per avere la
soddisfazione di vederli in appresso attaccare Firenze e ruinarla. Pochi
mesi prima tali minacce avrebbero potuto fare una profonda impressione;
ma più non si conveniva al Borgia questo modo di parlare; e lo stesso
cardinale d'Amboise, che sempre lo proteggeva, e che lo risguardava come
un utile alleato della Francia, quando il Machiavelli gli riferì questo
discorso, si fece a dire: «Dio mai non lasciò verun peccato impunito, e
nemmeno perdonerà quelli di quest'uomo[281]».

  [280] _Burchardus Diar. Cur. Rom. p. 2159._

  [281] _Macchiavelli Leg. II, lett. IV del 6 di novembre, p. 110. Op.
  lett. IX, t. VI, p. 390._

Il papa ancora non voleva mancare di parola al Valentino, pure
desiderava di sbarazzarsi presto di lui; e sebbene cercasse di
approfittare di quell'avanzo di credito che ancora gli restava per
difendere la Romagna contro i Veneziani, si rallegrava di vederlo
abbandonato da tutti i suoi amici. Egli, non meno che il cardinale
d'Amboise, lo aveva incoraggiato a chiedere un salvacondotto ai
Fiorentini per mandare la sua piccola armata ai confini della
Romagna[282]; ma non ebbe dispiacere che questo salvacondotto gli fosse
rifiutato; cercò soltanto di trattenere il duca con fallaci speranze di
un accomodamento coi Fiorentini per ridurlo a partire[283].

  [282] _Macchiavelli ivi p. 397, lett. 10 novembre._

  [283] _Ivi, p. 418, lett. del 18 novembre._

Finalmente il Valentino si pose in viaggio il 19 di novembre circa la
mezza notte con intenzione d'imbarcarsi ad Ostia e di farsi trasportare
con quattrocento o cinquecento uomini alla Spezia. Aveva ordinato di
trovarsi colà a settecento cavalli, che vi mandava per la strada della
Toscana[284]. Era questo precisamente l'istante in cui Faenza, stretta
dai Veneziani, stava in procinto di capitolare. Giulio II, spaventato
dai loro progressi, si persuase che il solo mezzo di farvi argine fosse
quello di farsi rilasciare le fortezze che tuttavia il Valentino
possedeva in Romagna. Il duca partendo aveva lasciata la corte di Roma
in potere de' suoi nemici, i quali tutti incoraggiavano Giulio II a
mancargli di fede, ed anticipatamente facevano plauso al gastigo d'un
uomo perfido dal papa detestato. Questi non oppose lunga resistenza alle
loro insinuazioni. Fece partire alla volta di Ostia il cardinale di
Volterra, fratello del gonfaloniere Pietro Soderini, per domandare al
Valentino la consegna di tutte le sue fortezze. I venti contrarj
ritardavano la partenza del duca, ed il Volterra lo trovò tuttavia in
Ostia il 22 di novembre; ma il Borgia, nell'istante medesimo in cui
intraprendeva un viaggio per tentare di riconquistare la Romagna, non
poteva rinunciare al suo titolo su quella sovranità, nè alle rocche che
ancora vi possedeva, e ricusò di prestarsi all'inchiesta del pontefice.
Giulio II, troppo orgoglioso e troppo irascibile per sopportare un
rifiuto, fece subito arrestare il Valentino, che rimase prigioniero in
faccia ad Ostia sopra una galera francese[285]. Si sparse ben tosto voce
che il papa l'aveva fatto gettare nel Tevere. Tutti applaudirono
anticipatamente a quest'atto di perfidia, e mostraronsi in seguito
dolenti, sentendo che non erasi eseguito[286]. Nello stesso tempo la
piccola armata del Valentino, comandata da Michele di Coreglia, era
giunta ai confini di Perugia e di Firenze, dove fu attaccata dalla gente
di Giovanni Paolo Baglioni, e svaligiata. Don Michele restò prigioniere
dei Fiorentini, che cedendo alle calde preghiere del papa glielo
consegnarono; e Giulio II si mostrò soddisfattissimo, che gli ultimi
mezzi che restavano a colui, al quale aveva promesso di perdonare,
fossero finalmente distrutti[287].

  [284] _Macchiavelli Leg. II, p. 424, lett. del 19 di novembre._

  [285] _Macchiavelli Legaz. a Roma, 23 e 24 novembre t. VI, p. 440._

  [286] _Ivi lett. del 16 di novembre t. VI, p. 448. — Fr. Belcarii l.
  IX, p. 276._

  [287] _Macchiavelli Legaz. a Roma. Lett. del 1.º dicembre, p. 462. —
  Fr. Guicciardini l. VI, p. 325. — Jac. Nardi l. IV, p. 158._

Per grande che fosse l'odio che Giulio II nutriva in fondo al cuore
contro il Valentino, mai del tutto non dimenticò che gli andava debitore
della tiara, e che gli aveva promessa la sua riconoscenza. Lo fece
condurre al palazzo del Vaticano, e sempre insistendo per avere un
ordine diretto ai suoi castellani, di consegnargli le loro rocche, gli
mostrò tali riguardi, che da lui non si aspettavano. E con tali mezzi
almeno apparentemente vi riuscì. Il 2 di dicembre il Valentino
sottoscrisse l'ordine che gli si chiedeva, e Pietro d'Oviedo, uno de'
suoi luogotenenti, incaricato di recarlo, partì alla volta della
Romagna, onde farlo eseguire. Dopo ciò il Borgia ebbe maggiore libertà,
ed il papa promise di lasciarlo partire per la Francia, tostocchè avesse
notizia dell'ingresso delle truppe pontificie nelle rocche della
Romagna[288].

  [288] _Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma lett. del 2 di
  dicembre, p. 468._

Nelli stesso tempo, e quasi in su le porte di Roma una più importante
lite decideva del destini dell'Italia ed in qualche modo di quelli
dell'Europa. Le due potenti armate dei Francesi e di Gonsalvo di Cordova
trovavansi in faccia l'una all'altra su le rive del Garigliano; si
aspettava ad ogni istante una battaglia generale, che le continue piogge
facevano di giorno in giorno differire; la fortuna tenevasi in bilico,
ed in tale stato di ansiosa incertezza, nè il papa, nè i Fiorentini
osavano di fare novità. Su gli altri punti la guerra tra le due
monarchie non aveva prodotto verun grande avvenimento. L'armata francese
che si avanzava a traverso della Guascogna si era tosto dispersa per
mancanza di danaro e per l'imprudenza di colui che ne aveva il comando;
la flotta, dopo avere minacciate senz'effetto le coste della Catalogna,
erasi chiusa nel porto di Marsiglia; l'armata del Rossiglione erasi
trattenuta all'assedio di Salses, posto alle falde de' Pirenei, e dopo
di avere consumati quaranta giorni sotto quella piazza, che
valorosamente si difese, erasi ritirata all'avvicinarsi dell'armata di
Spagna comandata dallo stesso re. Frattanto Federico, titolare re di
Napoli, cui Lodovico XII e Ferdinando promettevano egualmente di riporre
in trono, aveva tra di loro negoziata una tregua di cinque mesi, nella
quale non era compresa l'Italia intera; egli dava fede alle loro parole,
e non si accorgeva che ambidue i re cercavano di cancellare la vergogna
del precedente tradimento, senza rinunciare ai frutti che ne avevano
raccolti[289].

  [289] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 326. — Macchiavelli Legaz. a Roma,
  t. VI, p. 447, lett. del 24 novembre._

Ma l'armata francese, che il cardinale d'Amboise aveva così lungamente
tenuta presso di Roma per esercitare maggiore influenza sul sacro
collegio, aveva in appresso presa la via di Napoli, sotto gli ordini del
marchese di Mantova. Quest'armata, in numero superiore d'assai a quella
che poteva opporle il Gonsalvo, era stata abbondantemente provveduta di
danaro e di vittovaglie dalla antiveggenza del re; e soltanto la
fanteria svizzera, che ne formava una parte essenziale, non era stata
scelta con tanta cura come nelle precedenti spedizioni, e perciò era più
debole assai di quella che aveva servito nelle precedenti armate. Gli
uomini d'armi francesi più non volevano assoggettarsi a verun ordine o
disciplina dopo che più non erano comandati da La Tremouille; il loro
orgoglio si trovava offeso dell'averla il re assoggettata ad un generale
italiano; ed il marchese di Saluzzo, il balivo d'Occan, e Sandricourt,
suoi luogotenenti generali, erano poco d'accordo tanto tra di loro
quanto col loro capo[290].

  [290] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 328. — Jac. Nardi Ist. Fior. l.
  IV, p. 157. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 231. — Alf. de
  Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 33._

In tempo delle affrettate marcie e nel caldo delle battaglie,
l'indisciplina francese era difficilmente osservabile; ma diventava
particolarmente pericolosa nelle zuffe degli avamposti, e qualunque
volta le operazioni si traevano in lungo. Perciò la lenta marcia
dell'armata francese a traverso all'Italia, ed il suo lungo soggiorno
presso Roma, avevano avuta la più fatale influenza sulle disposizioni
de' combattenti. Pure non fu che quando si videro cominciare le piogge
dell'autunno, che in quest'anno furono assai più lunghe e più ostinate
che all'ordinario, che si potè conoscere quanto la personale ambizione
del cardinale d'Amboise, e le sue pratiche per salire sul trono
pontificio fossero riuscite pregiudicevoli alla Francia. La campagna
aveva cominciato con abbastanza felici auspicj. Il marchese di Saluzzo,
dopo avere valorosamente difesa Gaeta cogli avanzi dell'armata che in
primavera era stata sconfitta a Cerignole, aveva riconquistato il ducato
di Trajetto, e la Contea di Fondi fino alle rive del Garigliano, ed indi
aveva raggiunta l'armata del marchese di Mantova tra Pontecorvo e
Cepperano.

Gonsalvo di Cordova aveva stabilito il suo quartier generale a san
Germano con intenzione di difenderne il passaggio, protetto dalle due
fortezze di Rocca-Secca e di Monte Casino. Un capitano spagnuolo,
chiamato Vitalba, erasi chiuso in Rocca-Secca, ed avendo valorosamente
respinti due assalti dati dall'armata francese, tenne a cagione della
sua resistenza sette giorni i Francesi nelle vicinanze di Pontecorvo. Il
paese era ruinato, nè bastava a provvederli di vittovaglie, e le
continue piogge inondavano i loro quartieri. All'ultimo, dopo avere
sofferta la fame e l'umidità, abbandonarono l'assedio di Rocca-Secca, ed
il progetto di forzare il passo di san Germano, e ripiegando sulla loro
destra a scirocco delle montagne di Fondi, tentarono d'entrare nel regno
per la strada che costeggia il mare; e s'inoltrarono così fino alla
torre posta al passo del Garigliano, dove credesi che anticamente fosse
fabbricata la città di Minturno. La sponda del fiume, più alta dal canto
loro che dall'opposta parte, riusciva vantaggiosa per gettare un ponte;
e mentre stavano costruendolo si trovavano in un paese amico. Essi
possedevano le città di Gaeta, Itri, Fondi e Trajetto, e la loro flotta,
padrona del mare, poteva tenerli provveduti di vittovaglie fino alla
foce del fiume. Gonsalvo di Cordova, a dir vero, senza lasciarsi
scoraggiare da queste sfavorevoli circostanze, venne immediatamente ad
occupare l'opposta sponda del Garigliano, ed a contrastare il terreno ai
lavoratori francesi; ma questi, coperti dalle loro batterie, il 5 di
novembre terminarono il ponte a fronte dell'opposizione del
Gonsalvo[291].

  [291] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 327. — Macchiavelli Legaz. a Roma,
  lett. del 10 di novembre, p. 394. — Sabellicus Ennead. XI, apud
  Rayn. Ann. 1505, § 15, t. XX, p. 4. — P. Jovii Vita M. Consalvi l.
  II, p. 233. — Alf. de Ulloa l. II, f. 34._

Quando ebbero stabilito il loro ponte, i Francesi attraversarono il
Garigliano senza incontrare gagliardi ostacoli, e s'impadronirono di
alcuni pezzi d'artiglieria abbandonati dagli Spagnuoli sull'opposta
riva. Ma il Cordova non si era ritirato che un miglio a dietro, e,
tagliando il basso piano alla sinistra del fiume con una profonda fossa,
che ben tosto si trovò piena di acqua, aveva innalzato in riva alla
medesima assai migliori fortificazioni che non erano quelle che aveva
dovute abbandonare al Garigliano. Non potendo i Francesi passare oltre,
lasciarono soltanto una guardia avanzata sulla sinistra del Garigliano e
tornarono al consueto loro quartiere. Don Pietro de Paz, il più
fortunato cavaliere dell'armata spagnuola, sebbene la sua piccola e
contraffatta presenza non annunciasse verun vigore nè di animo nè di
corpo, tentò di sorprendere il barone di Sandricourt, che aveva il
comando della guardia avanzata: egli è senza dubbio a questo attacco che
devesi riferire l'impresa alquanto romanzesca che il _leale servitore_
racconta del suo padrone Bajardo, allorchè dice, che questi tutto solo
fece testa a dugento cavalli spagnuoli, e difese contro di loro il ponte
del Garigliano[292]. Comunque andasse la bisogna, in questa
sanguinosissima scaramuccia, Fabio figlio di Paolo Orsini, giovane
capitano che degnamente si avanzava sulle orme di suo padre, fu ucciso;
i Francesi rimasero padroni del ponte, ma conobbero la necessità di
afforzarvisi, onde porsi al coperto dagli attacchi del nemico[293].

  [292] _Mém. du chev. Bayard t. XV, ch. XXV, p. 45._

  [293] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 327._

Il paese che stendesi al sud-est del Garigliano è pantanoso e quasi
deserto; i soldati del Cordova erano perciò ridotti a starvi quasi allo
scoperto in mezzo al fango mentre che le continue piogge inondavano il
paese. L'opposta riva era più coperta assai di abitazioni e per
conseguenza il quartiere de' Francesi assai migliore; ma in cambio i
loro corpi sembravano meno proprj a soffrire le intemperie del clima e i
loro animi meno tolleranti. Mentre il Gonsalvo riteneva tutte le sue
truppe con inalterabile costanza entro un miglio di raggio intorno alla
testa del ponte de' Francesi, questi, che avevano le loro truppe sparse
fino a Fondi ed Itri ad otto miglia di distanza, sostenevano con pena la
pioggia, le privazioni, e le cattive stazioni[294].

  [294] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 327. — Macchiavelli Legaz. alla
  Corte di Roma, lett. del 10 di novembre e seguenti giorni, p. 400
  ec. — Fr. Belcarii Com. l. X, p. 278. — P. Jovii Vita M. Consalvi l.
  II, p. 234. — Alf. de Ulloa l. I f. 34, v._

Forse un più rischioso e più ubbidito generale, che non era il marchese
di Mantova, avrebbe attaccati gli Spagnuoli per uscire da così difficile
situazione; forse avrebbe cercato di cambiare il teatro della guerra, e
di uscire da que' pantani renduti dalle piogge impraticabili. Ma la sua
superiorità stava tutta negli uomini d'armi francesi e nell'artiglieria,
mentre che la sua fanteria era di lunga mano inferiore a quella degli
Spagnuoli; la sua cavalleria non avrebbe potuto liberamente muoversi
nelle inondate pianure al di là del Garigliano, ed i suoi cavalli
d'attiraglio non avrebbero potuto trarre dal fango l'artiglieria;
altronde se il tempo tornava sereno, questo stesso piano gli offriva il
più vantaggioso campo di battaglia per agire contro gli Spagnuoli; ed
aveva pochi giorni prima sperimentati gl'inconvenienti della guerra tra
le montagne. Quanto più le piogge avevano continuato, tanto più
lusingavasi il marchese di Mantova di vederle bentosto terminare. I suoi
quartieri erano migliori, le sue truppe meglio alimentate, ricco il suo
tesoro, mentre che al Gonsalvo mancava ogni cosa; credeva perciò di
poter aspettare più pazientemente che gli Spagnuoli; e pareva
dimostrato, che colui che più lungamente sosterrebbe gl'inconvenienti di
questa situazione sarebbe vittorioso[295].

  [295] _Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma, lett. XIII a XXVIII,
  p. 398 a 470. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 235._

Ma i Francesi, tormentati dall'umidità da cui non si potevano salvare,
dal deperimento de' loro cavalli, dalle malattie e più di tutto dalla
noja, attribuivano ai loro generali tutte le intemperie del clima.
Sandricourt accusava il marchese di Mantova di timidità e di lentezza;
ed in una numerosa adunanza aveva detto, ch'era ben cosa strana che in
tutta la nobiltà francese il re non avesse trovato un solo uomo che
sapesse guidarla, invece di assoggettarla ad uno di quegli Italiani,
ch'egli additò coll'ingiurioso epiteto dato abitualmente dai soldati a
tutta la nazione. Questo motto così offensivo pel Gonzaga venne
applaudito da tutti i Francesi. Il marchese di Mantova più non otteneva
ubbidienza nè regolarità di servizio; i commissarj dei viveri,
credendosi tutto permesso sotto un capo così poco rispettato, rubavano
al soldato con impudenza e lo lasciavano esposto a tutti i bisogni. Il
marchese di Mantova, più nulla sperando da un'armata da cui non poteva
farsi temere, sentendo offeso l'onor suo, e non volendo addossarsi la
responsabilità de' funesti avvenimenti che prevedeva, colse il pretesto
di una leggiera febbre quartana, che lo travagliava, per abbandonare il
1.º di dicembre il comando dell'armata e ritirarsi ne' suoi stati[296].

  [296] _P. Jovii Vita M. Consalvi l. II, p. 235. — Macchiavelli
  Legaz. alla Corte di Roma, lett. del 2 di dicembre, p. 470. —
  Belcarius Comm. Rer. Gal. l. X, p. 278. — Arn. Ferroni l. III, p.
  55._

Le piogge, le nevi, i perversi tempi continuavano sempre con una
costanza che non pareva doversi supporre nel clima della Campania
felice. L'armata francese si andava indebolendo per le malattie e per le
diserzioni; molti cavalieri, molti soldati, che tollerare non sapevano
tanti patimenti e tanto ozio, si allontanavano dal campo con congedo, o
senza; ed i ladronecci dei commissarj de' viveri andavano raddoppiando
le privazioni di coloro che restavano al campo. Gonsalvo di Cordova,
sebbene la sua situazione sembrasse ancora peggiore, aveva saputo farla
dimenticare ai suoi soldati colla confidenza che loro aveva inspirata;
altronde egli aveva ricevuti i rinforzi condottigli da Bartolommeo
d'Alviano con tutti gli Orsini, mentre che Giampaolo Baglioni, che nella
stessa epoca si era posto al soldo de' Francesi, mai non aveva loro
condotta la sua compagnia. Il Gonsalvo contava nel suo esercito
novecento uomini d'armi, mille cavaleggeri e novemila fanti spagnuoli.
Con queste forze si dispose finalmente ad offrire la battaglia invece di
aspettare che i Francesi lo attaccassero; e dopo essere rimasto
cinquanta giorni nello stesso luogo in faccia al nemico, incaricò
Bartolommeo d'Alviano di gettare durante la notte un ponte di barche a
Sugio quattro miglia al di sopra del campo francese.

Il ponte degli Spagnuoli si fece senza incontrare opposizione nella
notte del 27 di dicembre, e Bartolommeo d'Alviano occupò il villaggio di
Sugio. Ne fu però subito portato l'avviso al quartier generale de'
Francesi; ed Ivone d'Allegre tentò invano con un impetuoso attacco di
cacciare l'Alviano al di là del fiume, mentre che la cavalleria
francese, sparsa in tutto il vicino paese, adunavasi tumultuariamente
intorno al marchese di Saluzzo. Questi non tardò ad avvedersi che il
Gonsalvo aveva passato il fiume sul ponte dell'Alviano col suo corpo di
battaglia, e che una retroguardia, lasciata in faccia ai Francesi,
attaccava la testa del loro ponte. Vedendo di non potersi mantenere
nella sua posizione, nè difendere lungamente il passaggio del fiume
colla poca gente che aveva ragunata, abbandonò prima che facesse giorno
la torre del Garigliano per ripiegare sopra Gaeta dopo di avere rotto il
ponte, lasciando nel suo campo nove grossi pezzi d'artiglieria, la
maggior parte delle munizioni e moltissimi soldati ammalati o
feriti[297].

  [297] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 330. — Sabellicus Ennead. XI, l.
  II, apud Rayn. Ann. eccl. 1503, § 16, t. XX, p. 4. — Belcarius Rer.
  Gall. Comm. l. X, p. 279. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p.
  238._

Il Gonsalvo, avvisato della ritirata dei Francesi, mandò loro dietro
Prospero Colonna, per ritardare la loro marcia. I Francesi camminavano
in buon ordine, avevano mandata innanzi l'artiglieria, cui teneva dietro
la fanteria, ed in coda stava la cavalleria, che quasi sempre era alle
mani col nemico che la inseguiva. Tenevano con quest'ordine la strada
lungo la riva del mare, facendo alto a tutti i ponti, a tutti i passi
angusti per dar tempo all'armata di sfilare. Ma la retroguardia di
Gonsalvo, lasciata alla torre del Garigliano, avendo raggiunte le barche
che i Francesi avevano abbandonate alla corrente dopo tagliato il ponte
di battelli, rifece ben tosto questo ponte; passò immediatamente il
fiume, prendendo via più retta verso il Molo di Gaeta, e trovossi ben
tosto in sul fianco ed ancora più avanzata dei Francesi. L'armata degli
ultimi, giunta al ponte che trovasi a poca distanza di Molo, si fermò di
nuovo per dar tempo di sfilare all'artiglieria, che cominciava a
cagionare del disordine sulla strada. La zuffa fu ostinata; ma vedendo i
Francesi che alcuni corpi spagnuoli li soverchiavano di fianco, essi
abbandonarono la loro posizione con qualche disordine, e quando giunsero
al bivio delle due strade, una delle quali conduce ad Itri l'altra a
Gaeta, si posero apertamente in fuga. La loro artiglieria e tutti gli
equipaggi vennero in potere dei vincitori; molti Francesi rimasero sul
campo di battaglia, altri in assai maggior numero, coloro cioè che si
erano dispersi per le campagne, o che, alloggiati a qualche distanza
dall'armata, non avevano potuto raggiugnerla, furono spogliati dai
contadini e fatti prigionieri; i più fortunati si salvarono in Gaeta, e
furono inseguiti fino ai piedi delle mura[298].

  [298] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 330. — P. Jovii Vita M. Consalvi
  l. IX, p. 239. — Fr. Belcarii Comm. l. X, p. 279. — Saint Gelais,
  Hist. de Louis XII, f. 173. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I,
  f. 35. — Arn. Ferroni l. III, p. 56._

Pietro de' Medici, che seguiva il campo francese, erasi imbarcato sul
Garigliano con quattro pezzi d'artiglieria che sperava di condurre a
Gaeta; ma una folla di fuggiaschi gettandosi nella sua barca la
travolsero, ed il Medici si annegò con tutti quelli che si trovavano a
bordo[299].

  [299] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 331. — Barth. Senaregæ de reb.
  Gen. t. XXIV, p. 579. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. V, p. 159. — Scip.
  Ammirato l. XXVIII, p. 273. — Ist. di Gio. Cambi t. XXI, p. 199. —
  P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 240._

Gonsalvo di Cordova si acquartierò quella notte a Castellone ed a Molo;
ed all'indomani, avvicinandosi a Gaeta, occupò senza difficoltà i borghi
e la Montagna d'Orlando, che i Francesi nella confusione cagionata dalla
loro sconfitta non avevano pensato a porre in istato di difesa. Essi
avevano in città assai più gente che non abbisognava per sostenere un
lungo assedio, ed essendo libero il mare, non potevano temere che loro
mancassero le vittovaglie. Ma la loro costanza era venuta meno; ad altro
non pensavano che a tornare subito in Francia e domandarono
immediatamente di capitolare. Convennero che il d'Aubignì e tutti gli
altri loro prigionieri sarebbero posti in libertà senza taglia, e
potrebbero ritirarsi in Francia con tutti i loro effetti; ed il primo
giorno di gennajo del 1504 consegnarono la fortezza di Gaeta a Gonsalvo
di Cordova. La loro capitolazione era stata fatta con così poca
precisione, oppure l'uomo con cui trattavano aveva così poca buona fede,
che gli Spagnuoli non vollero comprendere i baroni napolitani tra i
prigionieri che si era convenuto di porre in libertà; e Andrea Matteo
Acquaviva, Alfonso ed Onorato di Sanseverino, furono gettati in un fondo
di torre in Castel nuovo di Napoli. Del resto i Francesi, ai quali il
Gonsalvo diede la libertà non furono quasi più fortunati. La maggior
parte di coloro che partirono da Gaeta perirono per istrada di freddo,
di miseria, e delle malattie che contratte avevano ne' cinquanta giorni
di accampamento in mezzo al fango. Alcuni giunsero in Francia, tra i
quali il marchese di Saluzzo, Sandricourt ed il balivo di Bissì; ma la
morte gli aspettava al loro arrivo. Di tutta quella fiorente armata, che
la Tremouille aveva condotta in Italia, e che sembrava bastante a
condurre a fine in pochi mesi la conquista del regno di Napoli, quasi
non sopravanzò alcun uomo in istato di servire ancora la patria, sebbene
pochissimi fossero periti sotto il ferro de' nemici[300].

  [300] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 332. — Barth. Senaregæ de reb.
  Gen. p. 579. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 240. — Fr.
  Belcarii Comm. Rer. Gall. l. X., p. 280. — Alf. de Ulloa Vita di
  Carlo V, l. I, f. 36. — Arn. Ferroni l. III, p. 56._

La sconfitta del Garigliano coprì la Francia di lutto; immerse Lodovico
XII nel più profondo dolore; decise la sorte del regno di Napoli, e fece
temere che il restante dell'Italia non cadesse in pochi giorni in mano
agli Spagnuoli. I Francesi più non avevano forze in Lombardia; i loro
soldati, disgustati delle guerre d'Italia, ricusavano di passare le
Alpi; ed i Fiorentini, i soli alleati che avesse il re, non erano in
istato di far testa a tutti i suoi nemici. Pure contro l'universale
aspettazione questa sconfitta fu seguita da un riposo generale. Gonsalvo
di Cordova, che il re Cattolico aveva lasciato senza danaro, doveva alle
sue truppe più di un anno di soldi arretrati; non poteva senza pagarle
tentare di condurle nell'alta Italia; e per soddisfarle, fu ridotto ad
alloggiarle a discrezione nelle provincie del regno di Napoli, ove le
loro ruberie ed i loro oltraggi terminarono di ruinare gl'infelici
abitanti.

Lodovico d'Ars, capitano francese, mantenevasi solo nel regno di Napoli:
dopo la sconfitta di Cerignole occupava sempre Venosa, Troja e
Sanseverino. Il Cordova ristrinse le sue imprese a cacciarlo da quelle
città; e Lodovico d'Ars, dopo di averle valorosamente difese, sdegnò di
capitolare, e si aprì la strada colla lancia sulla coscia per ricondurre
i suoi uomini d'armi in Francia[301].

  [301] _Mém. du chev. Bayard ch. XXV, p. 53, et notes p. 437. — Fr.
  Guicciardini l. VI, p. 338. — P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p.
  241. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall. l. X, p. 282. — Jac. Nardi Ist.
  Fior. l. IV, p. 159._

Giulio II, allegando per pretesto gl'imbarazzi della sua situazione
mentre saliva sul trono, seppe mantenersi neutrale tra la Francia e la
Spagna, sebbene tutti i suoi voti fossero per i Francesi; di modo che la
disfatta del Garigliano non lo compromise personalmente col vincitore.
La sua condotta verso i Francesi non cambiò a seconda de' rovesci che
avevano provati; egli soccorse generosamente tutti gli sventurati che
attraversarono lo stato della Chiesa. La sua politica limitavasi
interamente a difendere la Romagna contro i Veneziani, e sebbene più non
potesse per quest'oggetto valersi dell'appoggio della Francia, non si
ostinava perciò meno a stringere il Valentino perchè gli cedesse le sue
fortezze. Pietro d'Oviedo era stato mandato con un ordine del Borgia per
consegnarle al papa; ma quando era entrato nella rocca di Cesena, Diego
di Chignones, che ne teneva il comando, lo aveva fatto appiccare,
dichiarando di risguardare come un traditore colui che assumevasi il
carico di eseguire ordini così pregiudicevoli al suo padrone, quando ben
sapeva che gli erano stati estorti a forza, e mentre stava in
prigione[302].

  [302] _Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2159. — P. Jovii Vita M.
  Consalvi l. III, f. 246. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f.
  37._

Quest'atto di rigore riuscì vantaggioso a Cesare Borgia, il quale
l'aveva forse segretamente ordinato. Vedendo Giulio II che la violenza
riusciva inutile, acconsentì a consegnare il suo prigioniero nella
fortezza d'Ostia a Bernardino Carvajale cardinale spagnuolo. Questi si
obbligò a porlo in libertà all'istante che le rocche di Cesena,
Bertinoro e Forlì sarebbero consegnate al pontefice, ed inoltre
sottoscrisse una polizza di quindici mila ducati per guarenzia della sua
promessa. In allora Cesare Borgia diede ai suoi luogotenenti ordini
senza restrizioni, e colla ferma volontà che si eseguissero. Frattanto
sospirava l'istante di uscire dalle mani del papa, e fece segretamente
chiedere a Gonsalvo di Cordova un asilo, che questi gli promise
mandandogli un salvacondotto. Poco dopo il cardinale Carvajale ebbe
avviso che le rocche della Romagna erano state consegnate alle genti del
papa, e senza aspettare gli ordini di Giulio II, di cui egli diffidava
non senza ragione, il 19 di aprile del 1504, pose il duca Valentino in
libertà[303].

  [303] _Burchardi Diar. Cur. Rom. p. 2160. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gal. l. X, p. 283. — Epist. Papæ ad Regem et Reginam Hispan. 11
  maii. — Rayn. Ann. eccl. 1504, § 12, p. 10. — Alf. de Ulloa Vita di
  Carlo V, l. I, f. 37._

Cesare Borgia, caduto da così alte speranze, ed altro non conservando
della passata sua fortuna che il danaro che aveva deposto presso i
banchieri di Genova, si riputava ancora felice d'avere ricuperata la
libertà; s'imbarcò a Nettuno sopra una felucca, che lo trasportò a
Mondragone, di dove passò per terra a Napoli. Il Cordova lo accolse con
tutte le dimostrazioni di affetto e di rispetto, che avrebbe potuto
prodigare ai più grandi personaggi. Cominciò subito a trattare con lui
intorno agli affari d'Italia, ed in particolare rispetto al progetto del
Valentino di gettarsi in Pisa. Gli promise per quest'impresa sei galere
e gli diede licenza di assoldar gente nel regno. Non pertanto scrisse a
Ferdinando il cattolico per sapere quale condotta doveva tenere col
Borgia, e quand'ebbe ricevuti i suoi ordini lo fece arrestare il giorno
26 o 27 di maggio nell'atto che usciva da una conferenza, nella quale
gli aveva rinnovate le proteste della più perfetta confidenza, e del più
vivo affetto, e dopo averlo più volte abbracciato. Le fece trasportare
sopra una galera, dove non gli lasciò che un solo paggio per servirlo, e
lo fece immediatamente partire per la Spagna. Quest'uomo, colpevole di
tanti tradimenti, e vittima a vicenda di non meno neri tradimenti, fu
gettato al suo arrivo nella fortezza di Medina del Campo, che Ferdinando
il Cattolico, dal Valentino non offeso giammai, destinava a servirgli di
sepolcro[304].

  [304] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 389. — Burchardi Diar. Cur. Rom.
  die 29 maii p. 2160. — P. Giovio Vita M. Consalvi l. III, p. 247. —
  Lo stesso, Vita di Leone X, l. II, p. 83. — Rayn. Ann. eccl. 1504, §
  13, t. XX, p. 11. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 37, v._

Alcun tempo prima della caduta di questo principe, che aveva così
lungamente turbata l'Italia colla sua ambizione e co' suoi delitti, si
seppe che le negoziazioni tra il re di Francia e di Spagna, che si erano
sempre continuate anche nel tempo in cui la guerra pareva più viva,
avevano prodotta una tregua sottoscritta il 31 di marzo del 1504, nella
quale era compresa l'Italia come tutti gli altri loro stati. Questa
tregua doveva durare tre anni, e ciascuno contraente aveva tempo tre
mesi a nominare i suoi confederati ed a farveli comprendere. Soltanto le
fortezze che Lodovico d'Ars teneva ancora a nome della Francia nel regno
di Napoli, non furono comprese; ma questo capitano, avendo perduta ogni
speranza di difenderle, non tardò ad evacuarle. Il restante dell'Italia
si riposò con timore, non potendo darsi a credere che la tregua, segnata
all'abbazia di nostra signora della Misericordia, ponesse fine a così
violenti nimicizie, e non vedendo nella divisione degli stati, che aveva
stabilita la forza, una bilancia di potere che lungamente mantenere
potesse la tranquillità[305].

  [305] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 341. — N. Macchiavelli Legaz. II
  alla corte di Francia, lett. I e seg., p. 501 e seg. — Jac. Nardi
  Ist. Fior. l. IV, p. 160. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p.
  283._ — Si rileva da una lettera di Niccolò Valori alla signoria,
  che la ratifica della tregua era seguita alla corte di Francia in
  Lione, l'11 febbrajo; pure il Leonardi, _t. II_, la riferisce al 31
  di marzo. — _Legaz. di Niccolò Macchiavelli alla corte di Francia
  lett. IX e X, p. 533._



CAPITOLO CIII.

      _Riposo e servitù dell'Italia; piccole guerre in Romagna ed in
      Toscana; Giulio II sottomette alla Chiesa le città di Perugia e
      di Bologna._

1504 = 1506.


La tregua, conchiusa tra i re di Francia e di Spagna in febbrajo del
1504, aveva restituito il riposo all'Italia, poichè que' due potenti
monarchi potevano dopo tale epoca decidere a posta loro della sorte
della penisola, ed i piccoli stati italiani, oramai subordinati alla
politica oltremontana, aspettavano la licenza dai loro alleati per
prendere o per deporre le armi. Per quanto umiliante, triste e precaria
fosse cotal pace, fu dai popoli ricevuta con gioja, perchè renduta
necessaria dal loro spossamento e dalla stanchezza dei sovrani. Per
ragunare nuove forze di cui valersi in altre guerre, essi abbisognavano
di tempo, e bisognava inoltre alcun tempo perchè si potessero
dimenticare i funesti mali della guerra, e perchè si osasse ricorrere a
questo terribile ma passaggero rimedio de' mali permanenti. I primi mesi
di pace ritornano alle forze vitali di una nazione l'azione loro
lungamente sospesa: l'agricoltura, le manifatture, il commercio
rigermogliano spontaneamente, il potere passa dai comandanti militari ai
magistrati ed ai tribunali civili, il di cui giogo sembra più leggiero.
Se tuttavia soffresi ancora qualche vessazione, si risguarda come
necessaria conseguenza dello stato di guerra di cui si esce, e non di
quello in cui si entra; il ritorno delle abitudini lungamente sospese
rammenta ad ogni uomo la sua infanzia, la sua gioventù o più felici
tempi. Si crede di entrare in una nuova epoca di prosperità; e,
l'immaginazione oltrepassando gli stessi confini del possibile, il
popolo chiede alla pace la restituzione di tuttociò che gli rapì la
guerra; vuole che si realizzino tutti i suoi sogni e tutte le sue non
meno fantastiche rimembranze. Intanto scorrono i mesi, e l'età matura
più non trova i piaceri della giovinezza; le ricchezze, dissipate dalla
guerra, non rinascono all'istante; le imposte, che la guerra rendette
più pesanti, non vengono soppresse, mentre che gli abusi della pace
risorgono assai più rapidamente che le utili istituzioni. I potenti
lasciano trapelare i loro disegni d'usurpazione, e la cabala va
acquistando favore ed importanza; la forza, che dovrebb'essere
protettrice, diventa ostile per la società, ed il popolo finalmente,
sentendo diventare le sue catene sempre più pesanti, desidera nuovamente
di romperle col mezzo della guerra, per quanto ella sia terribile e
dolorosa.

Veruno stato d'Italia aveva ottenuto colla tregua, nè poteva sperare che
si negoziasse in tempo di pace, ciò che senza dubbio era stato lo scopo
de' suoi desiderj prima che si cominciassero le ostilità: ciò era un
governo conforme agl'interessi del popolo. Il regno di Napoli, perduta
la sua indipendenza, era suddito di straniera nazione e governato da un
vicerè; il ducato di Milano aveva parimenti perduta l'indipendenza ed i
suoi antichi sovrani. Gli Spagnuoli non erano più amati nel mezzodì
dell'Italia, che i Francesi nella parte settentrionale della medesima.
Gli uni e gli altri offendevano egualmente la nazione sommessa co' loro
barbari costumi, coll'insolenza, col disprezzo. I malcontenti, che nel
1494 avevano ardentemente desiderata una rivoluzione, ed ajutate le armi
che dovevano eseguirla, in verun luogo non avevano ottenuta una riforma
che li compensasse di tutti i loro patimenti. Intanto le loro forze
erano esauste, cadute in fondo le loro speranze, ed essi si accomodavano
sotto una tirannia peggiore di quella che avevano cercato di
distruggere, onde acquistare a così caro prezzo qualche intervallo di
riposo.

La repubblica di Venezia non si era immischiata quasi niente in una
guerra che pel corso di dieci anni aveva guastata tutta l'Italia; erasi
sottratta alle calamità, e la prosperità del suo territorio eccitava
l'invidia de' vicini popoli, che avevano veduto saccheggiare le loro
città, e guastare le loro campagne. In questi dieci anni aveva Venezia
acquistato il Cremonese nel ducato di Milano, tre o quattro fortezze
della Puglia, e due piccoli stati in Romagna, ma le sue perdite nella
Morea e nella Dalmazia non erano forse minori degli acquisti fatti in
Italia. In mezzo alle importanti rivoluzioni che si erano operate in
questi dieci anni, pareva che così piccole conquiste non avessero tanto
valore da eccitare vivamente la gelosia degli altri stati; ma i
Veneziani erano soli felici in mezzo ad una nazione afflitta, e gli
altri Italiani non sapevano perdonar loro di non essere stati partecipi
de' mali comuni. Il papa non pensava che ad eccitare contro di loro gli
oltremontani, dai quali avrebbe piuttosto dovuto cercare di liberare
l'Italia; i Fiorentini, che avevano avuto motivo di dolersi dei
Veneziani, desideravano la loro ruina, ed il Machiavelli, lo stesso
accorto Machiavelli, trovandosi in legazione presso la corte di Francia,
soffiava il fuoco della vendetta, e si rallegrava, vedendo Massimiliano,
Lodovico XII e Ferdinando, proporre di già la divisione degli stati di
quella repubblica, che sola poteva conservare l'indipendenza
d'Italia[306].

  [306] _Seconda Legaz. di Niccolò Machiavelli alla corte di Francia,
  passim e special. Lett. di Nicolò Valori di Lione, 11 febbrajo, t.
  VI, p. 534._

Giulio II erasi proposto di richiamare, in tempo del suo pontificato,
sotto il diretto dominio della santa sede tutti i feudi da lei
dipendenti; egli attaccava il suo onore alla felice riuscita di questo
disegno, e la impazienza e l'irascibilità del suo carattere gli facevano
risguardare come una imperdonabile offesa l'opposizione che vi avevano
fatta i Veneziani. Ad ogni modo, perchè non aveva ancora avuto il tempo
di ammassare un tesoro, di adunare truppe e di fortificarsi con
alleanze, non adoperava per sottomettere la Romagna che il timore che
incuteva il conosciuto suo impetuoso carattere. Le rocche di Cesena e di
Bertinoro gli erano state consegnate dai luogotenenti di Cesare Borgia,
mentre questi stava ancora in Ostia; quella di Forlì non gli era stata
data che dopo il ritorno de' messaggi che quel castellano aveva spediti
al Borgia a Napoli. Siccome questi riferirono che il duca era stato
mandato prigioniero in Ispagna, il castellano vendette per quindici mila
ducati una rocca, che non aveva più motivo di difendere[307]. Raffaello
Riario di Savona, cardinale del titolo di san Giorgio, persuase gli
abitanti d'Imola a dare la loro città al papa, sperando poi che questi
ne cederebbe la sovranità ad Ottaviano Riario, spogliatone da Cesare
Borgia. Ma, sebbene Ottaviano fosse parente di Giulio Il, il papa non
volle arricchirlo a spese della Chiesa. Desso fu però meno scrupoloso
rispetto ad un suo parente, Francesco Maria della Rovere, figlio di suo
fratello; poichè non solo ristabilì questi nelle signorie di Mondovì e
di Sinigaglia, e nell'ereditario ufficio di prefetto di Roma, ma
persuase ancora Guid'Ubaldo di Montefeltro, che non aveva figliuoli, ad
adottarlo come figlio di sua sorella ed a chiamarlo alla successione del
ducato di Urbino. Giulio II ratificò quest'adozione colla sua bolla del
10 di maggio 1504, nella quale determinò l'annuo censo del ducato
d'Urbino a favore della camera apostolica in 1340 fiorini, come gli
avevano di già annualmente pagati i conti di Montefeltro[308].

  [307] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 341. — P. Bembi Ist. Ven. l. VII,
  p. 140. — Rayn. An. Eccl. 1504, § 9, 10 e 11, t. XX, p. 10._

  [308] _Raynaldi An. Eccl. 1504, § 36 e 37, t. XX, p. 17._

Verso lo stesso tempo Antonio degli Ordelaffi morì a Forlì. Lodovico,
suo fratello naturale, che gli successe, sentendosi troppo debole per
sostenere quel piccolo principato, volle venderlo ai Veneziani; ma la
repubblica non ardì esporsi alla collera del pontefice, e rifiutò di
farne l'acquisto. Lodovico fu allora costretto a fuggire, e Forlì aprì
le sue porte alle truppe pontificie[309].

  [309] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 341. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gallic., l. X, p. 284._ — Lodovico, che fuggì a Venezia, essendo
  colà morto senza prole, fu l'ultimo della casa degli Ordelaffi. Ecco
  una tavola cronologica della successione di questi principi.

  Mainardo di Susinana, primo signore di Forlì.

  1276 Sinibaldo, figlio di Mainardo, ucciso nel
                  suo letto dal popolo.

  1310 Scarpetta, Pino e Bartolommeo degli Ordelaffi,
                  posti in prigione da Roberto
                  re di Napoli.

  1317 Cecco degli Ordelaffi, capitano perpetuo
                  del popolo di Forlì, morto
                  nel 1331.

  1331 Francesco degli Ordelaffi, fratello di
                  Cecco, signore di Forlì, Forlimpopoli
                  e Cesena. Sua moglie,
                  Marzia di Susinana, è forzata
                  di cedere Cesena al papa
                  il 21 giugno del 1357; e
                  Forlì il 4 luglio del 1359.
                  Francesco fa la guerra da condottiere
                  e muore a Venezia
                  nel 1374.

  1373 Sinibaldo, figlio di Francesco, rientra in
                  Forlì spalleggiato dai Fiorentini.
                  Viene riconosciuto come
                  vicario della santa sede nel
                  1379. Tradito da' suoi nipoti,
                  viene posto in prigione il 13
                  dicembre del 1385.

       { Cecco II { nipoti e    { morto il 19 luglio del 1401.
  1385 {          { successori  {
       { Pino,    {di Sinibaldo { morto l'8 settembre del 1405.

  1405 Antonio, figlio in tenera età di Cecco II,
                  ridotto allo stato di cittadino
                  della repubblica di Forlì; esiliato
                  dal legato B. Cossa; arrestato
                  in agosto del 1411 da
                  suo cugino Giorgio; richiamato
                  alla signoria in luglio del 1425;
                  morto il 4 agosto del 1448.

  1410 Giorgio Ordelaffi, signore di Forlimpopoli;
                  1411 signore di Forlì;
                  fa arrestare suo cugino Antonio
                  in agosto del 1411;
                  viene riconosciuto dalla santa
                  sede il 26 dicembre del 1418;
                  muore il 25 di gennajo del
                  1422.

  1422 Teobaldo, figlio di Giorgio, di nove anni,
                  sotto la tutela di Lucrezia degli
                  Alidosi, sua madre, viene scacciato
                  da sua zia Catarina, che
                  stabilisce Antonio; muore in
                  luglio del 1425.

       { Cecco III { figli di Antonio e      { morto il 22 aprile
  1448 {           { suoi successori         { del 1466.
       { Pino II   { nella signoria di Forlì { morto nel 1480.

  1480 Sinibaldo II, figlio naturale di Pino II, è
                 riconosciuto per signore, malgrado
                 l'opposizione de' legittimi
                 figli di Cecco III; scacciato
                 lo stesso anno da Girolamo
                 Riario.

  1480 Girolamo Riario, nipote di Sisto IV,
                 acquista nel 1473 la signoria
                 d'Imola, occupa nel 1480 quella
                 di Forlì: è ucciso il 15
                 aprile del 1488.

  1488 Ottaviano Riario, figlio del precedente, sotto
                 la tutela di sua madre Catarina
                 Sforza; spogliato da Cesare
                 Borgia, in dicembre del
                 1499 di Imola, ed in gennajo
                 del 1500 di Forlì.

  1503 Antonio degli Ordelaffi, figlio di Cecco III,
                 rientra in Forlì in tempo della
                 prigionia del Borgia: muore
                 nel 1504.

  1504 Lodovico, suo fratello naturale, vuole
                 dare Forlì ai Veneziani ed è
                 scacciato da Giulio II; vi ritorna,
                 ed è di nuovo scacciato
                 nel 1505. Muore in Venezia.

  Da Sansovino, nelle sue _Famiglie illustri d'Italia_, è riportata al
  f.º 17 una tavola genealogica degli Ordelaffi; ma molto inesatta.
  Non diede quella dei Riarj, che non ricuperarono meglio degli
  Ordelaffi la sovranità di Forlì.

Giovanni Sforza, signore di Pesaro, sposò in sul finire dello stesso
anno la figlia di Matteo Tiepolo, uno dei più potenti cittadini di
Venezia, sperando con tal mezzo di guadagnarsi la protezione della
repubblica, mentre che l'influenza del cardinale Ascanio Sforza, suo
parente, ritraeva Giulio II dal pensiero di attaccarlo[310]. Il papa
riclamava sempre dai Veneziani la restituzione dei piccoli principati
che avevano acquistati in Romagna; li faceva alternativamente minacciare
dal re di Francia e dall'imperatore Massimiliano; Giulio inspirava a
questi principi il suo odio contro i Veneziani, e gettava di già con
loro i fondamenti di quella lega che poco dopo si vide formata contro la
repubblica. I Veneziani tentarono di placare il papa, offrendogli la
restituzione di tuttociò che avevano acquistato in Romagna, ad eccezione
di Faenza e del suo territorio, purchè la santa sede li riconoscesse
come suoi vicarj in quel piccolo principato, ricevendo da loro lo stesso
tributo che pagavano i Manfredi: ma Giulio II sdegnosamente rispose che
non voleva lasciar loro una sola torre di tuttociò che avevano usurpato,
e che aveva ferma speranza di ritor loro ancora Ravenna e Cervia, sulle
quali non avevano più fondati titoli che sul rimanente, sebbene le
possedessero da più gran tempo[311]. Aveva fin allora rifiutato di
ricevere i loro ambasciatori, che poi accolse in principio del
susseguente anno; ma i Veneziani per ottenere questa grazia, che non fu
accompagnata da veruna promessa, gli restituirono una decina di fortezze
ne' territorj di Cesena, d'Imola e di Forlì; dopo di che le due parti
rimasero in pace per alcuni anni, senza che i rispettivi diritti
venissero meglio discussi[312].

  [310] _P. Bembi Ist. Ven,, l. VII, p. 141._

  [311] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 347._

  [312] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 348. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VII, p. 141. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 169. — Rayn. An.
  Eccl. 1505, § 1, t. XX, p. 20._

La Toscana non aveva ricuperata la pace in forza della tregua tra i re
di Francia e di Spagna; e le contese delle sue repubbliche erano state
risguardate come indipendenti dalle grandi contese che avevano fin
allora travagliata l'Italia. Da che i Pisani avevano scosso il giogo de'
Fiorentini, mai non avevano cessato di combattere per difesa della loro
libertà. Firenze aveva provate diverse violenti rivoluzioni, si era più
volte veduta esposta ai più grandi pericoli, ed aveva potuto temere per
la propria indipendenza, senza avere mai pensato a fare la pace con
coloro ch'ella risguardava come sudditi ribelli, e non liberi cittadini.
Dall'altro canto Pisa, doppiamente esausta da ottantasette anni di
schiavitù, e da dieci anni di sanguinosa distruggitrice guerra, Pisa,
che aveva perduto il commercio e la maggior parte della sua popolazione,
e che vedeva ogni anno guastati i suoi campi, si assoggettava a tutte le
privazioni, offriva di darsi a vicenda a tutti i principi stranieri,
piuttosto che tornare sotto l'abborrito giogo de' Fiorentini. In tempo
delle grandi spedizioni de' Francesi e degli Spagnuoli la guerra di Pisa
non era mai stata interrotta, e solo trattavasi alquanto più lentamente;
ma tosto che si posavano le armi nelle altre parti d'Italia, trovavasi
sempre nello stesso stato, e sempre minacciava di riaccendere l'incendio
generale che con tanta fatica si era potuto spegnere.

Il re di Francia aveva nominati i Fiorentini tra i suoi alleati nel
trattato di tregua col re di Spagna, il quale non aveva nominati i
Pisani; ma si sapeva che Gonsalvo di Cordova li favoreggiava, e che
aveva determinato di valersi di loro per assoggettare la Toscana al suo
padrone. I Fiorentini, avendo determinato di spingere vigorosamente i
loro attacchi, spedirono un ambasciatore al Cordova per accertarsi della
sua neutralità[313]. In pari tempo assoldarono Gian Paolo Baglioni,
Marc'Antonio Colonna, i Savelli, ed alcuni altri condottieri; e dando il
comando della piccola loro armata ad Ercole Bentivoglio, aprirono la
campagna il giorno 25 di maggio[314]. Le forze loro non bastavano ad
assediare così vasta città com'era Pisa, e perchè i Pisani non osavano
di tenersi in campagna, non vi fu tra di loro verun fatto d'importanza:
ma il Bentivoglio guastò tutto il territorio fin sotto alle mura della
città e costrinse il castellano di Librafratta ad arrendersi a
discrezione[315].

  [313] _Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 273._

  [314] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 161. — Scip. Ammirato, l.
  XXVIII, p. 273. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 341._

  [315] _Jac. Nardi, l. IV, p. 163. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  274._

Antonio Giacomini Tebalducci, commissario de' Fiorentini presso
l'armata, irritato dal vedere che i Lucchesi mai non cessavano di
mandare soccorsi ai Pisani, fece pure due scorrerie nel loro territorio,
esportandone molto bestiame e diversi prigionieri. Gli sventurati
contadini di Pisa, dopo avere perdute le loro messi, avevano seminato
grano turco e miglio ne' loro campi; ma l'armata fiorentina tornò in
agosto nello stato pisano per distruggere anche questa estrema speranza
della tarda stagione. Nello stesso tempo i Fiorentini presero al loro
soldo don Dimas di Requesens, partigiano del re Federigo di Napoli, che
lo aveva seguito in Francia, e che, avendo alle vicende della sua
passata fortuna sottratte tre galere, serviva con queste chiunque voleva
adoperarlo. Requesens in tutto il corso dell'estate diede la caccia alle
piccole navi pisane che uscivano dall'Arno; ma il 5 di novembre fu
sorpreso nel golfo di Rapallo da un colpo di vento così gagliardo che lo
fece perire colle sue tre galere[316].

  [316] _Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 275. — Jac. Nardi Ist., l. IV,
  p. 165. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 342._

Alcuni ingegneri fiorentini proposero alla signoria di deviare il corso
dell'Arno cinque miglia sopra Pisa, onde privare in tal modo la città
delle acque che formavano la sua salubrità, e lasciarla aperta ne'
luoghi in cui entra ed esce il fiume. Era già fatta la livellazione, e
gl'ingegneri assicuravano che tutta l'opera non richiedeva che
trentacinque in quaranta mila giornate di operaj. Infatti cominciarono
ad innalzare una diga alla Fagiana, che doveva tagliare il vecchio letto
del fiume, mentre che si aprivano due nuovi canali di venti e di trenta
braccia di larghezza e sette braccia profondi per condurre le acque al
mare[317]. Ma la forza e l'impeto dei fiumi quasi mai non rispetta i
calcoli degl'ingegneri: eransi di già impiegate ottanta mila giornate
d'operai, ed il lavoro non era ancora fatto per metà, quando una di
quelle violenti piogge che gonfiano tutt'ad un tratto i fiumi
d'Italia[318], rovesciò la diga, colmò i lavori, e fece rinunciare per
sempre a così ardito progetto. Per altro le acque già deviate dal loro
alveo eransi sparse nel piano di Pisa, riducendo que' campi, prima così
fertili, in pantani, ed accrescendo l'insalubrità dell'aria[319].

  [317] Il braccio di Firenze è di circa 22 pollici.

  [318] Ciò deve intendersi dei fiumi che hanno le loro sorgenti negli
  Appennini, e dei torrenti; ma non de' principali fiumi che
  discendono dalle Alpi, rispetto ai quali l'effetto delle piogge non
  è sensibile che dopo alcuni giorni. _N. d. T._

  [319] _Jac. Nardi, Ist., l. IV, p. 164. — Scip. Ammirato, l. XXVIII,
  p. 274. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 342. — Jac. Arrosti Chron. di
  Pisa, f. 224._

I Pisani, che vedevano ogni giorno diminuire i loro mezzi, offrirono ai
Genovesi di porsi sotto il loro dominio, per avere in tal modo anche la
protezione del re di Francia. Lodovico XII partecipò queste offerte a
Nicolò Valori ed al Machiavelli, ch'erano inviati della repubblica
fiorentina presso di lui, dicendo loro che, s'egli acquistava la
signoria di Pisa, non tarderebbe a darne loro il possesso. Ma i
Fiorentini cercarono di sconsigliarlo da questo trattato; ed egli
stesso, dopo avere maturato l'affare, ordinò ai Genovesi di rompere le
negoziazioni, temendo che, autorizzandoli a fare delle conquiste, e
rendendo loro le abitudini repubblicane, non venisse ad accrescere in
loro il desiderio di tornare in libertà[320].

  [320] _Legazione del Machiavelli alla corte di Francia. Lettera di
  Niccolò Valori del 2 di febbrajo, p. 521 e seguenti passim. — Fr.
  Guicciardini, l. VI, p. 343. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, 275. —
  Jac. Nardi, l. IV, p. 169. — Agost. Giustiniani, l. VI, f. 258._

Il primario oggetto della tregua stipulata tra Lodovico XII ed i re di
Spagna era quello di agevolare fra di loro un trattato di pace.
Effettivamente le due corti mai non avevano cessato di negoziare, e
Ferdinando il cattolico, vergognandosi della parte che aveva
rappresentato nello spogliare suo cugino del regno di Napoli, o
piuttosto spaventato dal giudizio che tutta l'Europa aveva pronunciato
intorno a tanta perfidia, proponeva in queste negoziazioni di rimettere
in trono Federico. Aveva pure ottenuto di far credere a questo principe
ch'egli pensava di buona fede a rendergli ciò che gli aveva tolto; e
Lodovico XII, che aveva perduta la speranza di ricuperare il regno di
Napoli, avrebbe di buon grado acconsentito a questo accomodamento;
voleva soltanto ottenere una perfetta amnistia ai baroni napolitani che
si erano per lui dichiarati. Ma nello stesso tempo aveva preso parte in
un'altra negoziazione con Massimiliano e il di lui figliuolo l'arciduca
Filippo, sovrano delle Fiandre. Trattavasi con loro di far rivivere il
trattato di Lione, di effettuare il matrimonio di Carlo, figlio
dell'arciduca, con madama Claudia di Francia e di dare per dote a questa
principessa i diritti che suo padre pretendeva di avere sopra Napoli.
Credeva Lodovico XII di ravvisare nella lentezza di Ferdinando e
d'Isabella a sottoscrivere il loro trattato una segreta intenzione di
attraversare quello del loro genero Filippo, di cui erano gelosi; e che
quando fosse abbandonata questa negoziazione, essi ancora romperebbero
la loro. Perciò in una pubblica udienza congedò gli ambasciatori della
Spagna, aspramente loro rinfacciando la mala fede de' loro padroni. In
appresso, il 22 settembre del 1504, sottoscrisse a Blois tre diversi
trattati con Massimiliano e Filippo, che in allora per anticipazione
prese il titolo di re di Castiglia: col primo Massimiliano accordava a
Lodovico l'investitura del ducato di Milano, per lui e i di lui eredi
maschi, ed in mancanza loro a Claudia di lui figlia, colla riserva, di
un pagamento di cento venti mila fiorini, metà da sborsarsi all'atto e
metà nel termine di sei mesi, e dell'annua presentazione, nel giorno di
Natale, di un pajo di speroni d'oro a titolo di omaggio. Col secondo
Claudia di Francia veniva promessa a Carlo d'Austria, e se Carlo moriva
prima del matrimonio, al di lui fratello Ferdinando col ducato di Milano
per dote. Col terzo la Francia ed il re de' Romani si collegavano contro
Venezia con obbligo di attaccare di comune accordo quella repubblica e
di dividere i suoi stati di terra ferma. Si accordavano quattro mesi al
re di Spagna per accedere a questo trattato[321].

  [321] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 344. — Fr. Belcarii Comm., l. X,
  p. 285. — Jac. Nardi, l. IV, p. 165. — Flassan Hist. de la diplom.
  française, t. I, p. 457._

Federigo d'Arragona, che fin allora si era lusingato di rimontare sul
paterno trono in conseguenza della concordia dei due re, morì a Tours il
9 di settembre del 1504 pochi dì prima che fossero sottoscritti questi
trattati[322], ed il 26 di novembre dello stesso anno morì pure, dopo
una lunga e penosa malattia, Isabella di Castiglia, che col suo
matrimonio con Ferdinando aveva riunite le due corone di Spagna e fatta
così potente quella nuova monarchia. L'unica sua figlia Giovanna e suo
genero, l'arciduca Filippo, avrebbero dovuto alla di lei morte succedere
immediatamente alla corona di Castiglia; ma Isabella aveva adottata la
diffidenza concepita da suo marito verso suo genero, e conservandola
fino alla morte aveva nominato con suo testamento Ferdinando d'Arragona
governatore del regno di Castiglia, ed aveva voluto che suo genero
Filippo gli fosse subordinato[323].

  [322] _Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 275. — Ist. di Gio. Cambi, t.
  XXI, p. 205._

  [323] _P. Jovii v. M. Consalvi, l. III, p. 248. — Fr. Guicciardini,
  l. VI, p. 345. — Fr. Belcarii Comm., l. X, p. 286. — Jac. Nardi Ist.
  Fior., l. IV, p. 167. — Raynal. Ann. Eccl. 1504, § 40, t. XX, p.
  18._

Finalmente il 25 di gennajo del susseguente anno 1505 anche l'Italia
perdette un principe che in mezzo alle violenti rivoluzioni che
l'avevano squarciata aveva conservata l'opinione di accorto negoziatore
e di buon amministratore. Ercole d'Este, che fino dal 20 agosto del 1471
regnava sopra Ferrara, Modena e Reggio, morì in matura vecchiaja,
lasciando tre figli legittimi. Gli successe Alfonso, sposo di Lugrezia
Borgia, il quale, mandato da suo padre nelle corti d'Europa per imparare
a conoscerle, trovavasi allora in Inghilterra; suo fratello Ferdinando
era rimasto in Ferrara, ed Ippolito era stato nominato cardinale da
Alessandro VI nel 1493. Ercole lasciava inoltre un figlio naturale,
chiamato Giulio. Avendo dovuto suo malgrado prendere parte nelle guerre
di Sisto IV, aveva in quell'epoca veduti i suoi ducati guastati da
potenti nemici; ma dopo tale epoca aveva trovato il modo di conservarsi
in pace, anche ne' tempi in cui veruna parte d'Italia aveva potuto
sottrarsi alle disgrazie della guerra. Le sue relazioni con Lodovico il
Moro, di cui era suocero, coi Veneziani che conservavano contro di lui
molto odio, coi Francesi diventati suoi vicini in forza delle loro
conquiste, non gli fecero mai vestire verun altro carattere che quello
di mediatore e di pacificatore. La sua corte diventò l'asilo dei
letterati, e Ferrara, da lui arricchita di magnifici edificj, fu quasi
nuovamente rifatta sotto il di lui regno[324].

  [324] _Muratori An. d'Ital. An. 1505, t. X, p. 29. — Tiraboschi
  Stor. delle Lett., t. VI, l. I, c. II, § 11, p. 30. — Jac. Nardi
  Ist. fior. l. VI, p. 168. — Scip. Ammir. l. XXVIII, p. 276. — Ist.
  di Gio. Cambi, t. XXI, p. 206. — Vita di Alf. d'Este di P. Giovio,
  ad init._

Se il re Ferdinando d'Arragona aveva cercata la pace colla Francia ne'
tempi in cui la sua unione con Isabella metteva a sua disposizione tutte
le forze della Spagna, aveva ancora maggior ragione di desiderarla dopo
la morte di quella regina, onde conservare il regno di Napoli, sua
conquista, e potere, senz'essere distratto da altre cure, pensare come
mantenere sopra la Castiglia un'autorità, che cominciava a vedere
contrastata. Dal canto suo Lodovico XII vedeva di mal animo che
Massimiliano non avesse per anco ratificato il trattato di Blois e
temeva che la naturale versatilità di quel monarca, non rovesciasse di
bel nuovo i fondamenti sui quali aveva creduto di stabilire la pace.
Finalmente Massimiliano e Filippo si recarono ad Haguenau, che avevano
di fresco tolto al conte Palatino cui facevano guerra; non tardò a
raggiugnerli il cardinale di Amboise, ed il 4 di aprile ottenne da loro
la ratifica dei trattati di Blois: nel susseguente giorno in nome di
Lodovico XII prestò fede ed omaggio pel milanese a Massimiliano, ottenne
l'investitura di quel ducato, e pagò i primi sessanta mila fiorini
promessi al re de' Romani. Il secondo pagamento doveva farsi quando il
monarca entrerebbe in Italia per cominciare la guerra contro i
Veneziani: ma Massimiliano dichiarò subito che non era apparecchiato a
cominciare in quell'anno le ostilità[325].

  [325] _Raxis de Flassan, Hist. de la Diplom. française, t. I, p.
  285, 458. — Fr. Guicciardini l. VI, p. 346. — Fr. Belcarii Rer. Gal.
  Comm., l. X, p. 287._

Lodovico XII, che non aveva verun giusto motivo di odio contro i
Veneziani e veruna ragione di attaccare quella repubblica, fuorchè
l'opinione, abbastanza radicata tra i re, che un paese non soggetto a
verun monarca rimane a discrezione del primo occupante, poteva senza
alcuno inconveniente differire l'esecuzione de' suoi ambiziosi progetti.
Egli non voleva cominciare la guerra senza il concorso di Massimiliano,
e non vedeva senza gelosia la crescente grandezza di quel monarca e di
suo figliuolo Filippo; perciò affrettossi di rinnovare le negoziazioni
proposte da Ferdinando il cattolico, ed il 12 di ottobre sottoscrisse
con lui a Blois un nuovo trattato di pace e di alleanza. Perdendo ogni
speranza di mai più ricuperare il regno di Napoli, cedeva in dote alla
figlia di sua sorella, Germana di Foix, che Ferdinando doveva sposare, i
diritti che gli dava sopra una porzione del regno di Napoli il trattato
di Granata del 1500. Egli non si riservava il diritto di rientrarvi se
non nel caso che Ferdinando premorisse senza prole alla nuova sua sposa,
e rinunciava ai titoli di re di Napoli e di Gerusalemme. Dal canto suo
Ferdinando si obbligava a rimborsare entro dieci anni settecento mila
fiorini al re di Francia per le spese della guerra, a riconoscere
trecento mila fiorini di dote a Germana di Foix, ad ajutare Gastone di
Foix, suo fratello, nella conquista del regno di Navarra sul quale
voleva far valere i suoi diritti, e ad accordare una generale amnistia a
tutti i baroni napolitani che avevano seguito il partito francese. Fu
pure convenuto in questo trattato che Isabella di Baux, vedova di
Federico re di Napoli, sarebbe rimandata dalla Francia, e che
soggiornerebbe presso di suo figlio in Ispagna; ma Isabella non seppe
risolversi a porsi tra le mani di un monarca, che aveva imparato a
conoscere da una serie di tradimenti; e, costretta a lasciare la
Francia, preferì di ritirarsi a Ferrara, dove antiche parentele gli
davano diritto alla compassione ed all'assistenza[326].

  [326] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 356. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gal., l. X, p. 291. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. VI, p. 185. — P.
  Bembi Rer. Ven., l. VII, p. 142._

Per tal modo essendosi con nuovi trattati raffermata la pace tra le
esterne potenze che disponevano dell'Italia, più non restava nella
penisola che la guerra de' Fiorentini e de' Pisani, che si andava
protraendo d'anno in anno. Pareva che i primi desiderare non potessero
più favorevoli circostanze per trionfare finalmente del loro avversarj;
ma da dieci anni in poi avevano sempre sofferto qualche rovescio ogni
volta che i loro nemici sembravano privi di qualunque soccorso. Luca
Savelli, loro generale, dopo di avere guastato il piano di Pisa con
quattrocento cavalli e cinquecento fanti, volle vittovagliare
Librafratta. Veniva da Cascina, ed avendo di già passato il ponte
Capellese sull'Osori, teneva con molte bestie da soma cariche la strada
alquanto angusta tra quel fiume e la montagna di Pisa, allorchè il 25 di
marzo venne così bruscamente attaccato da Tarlatino, generale dei
Pisani, che, sebbene questi non avesse che quindici uomini d'armi,
quaranta cavalleggeri e sessanta pedoni, tutta la colonna del Savelli fu
sgominata. Dessa non potendosi ordinare alla difesa a cagione delle
bestie da soma con cui trovavasi frammischiata, prese vergognosamente la
fuga ed abbandonò cento venti cavalli di guerra, cento bestie da soma
cariche, ed un numero di prigionieri che superava quello de'
vincitori[327].

  [327] _Fr. Guicciardini l. VI, p. 348. — Jac. Nardi Ist. Fior, l.
  IV, p. 169. — Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 277. — Fr. Belcarii Com.
  Rer. Gal., l. X, p. 287. — Jacopo Arrosti Cron. di Pisa, in Arch.
  Pisano, f. 225, v._

Questa scaramuccia rialzò il coraggio de' Pisani, e rendette i
Fiorentini non meno diffidenti de' loro soldati che dei loro generali;
ma questo fatto non decideva della sorte della campagna. I Fiorentini
non lasciarono di distruggere le messi nel piano di Pisa siccome avevano
fatto nel precedente anno; pagarono il suo soldo a Gian Paolo Baglioni,
che aveva con loro una convenzione, pregandolo di venire a raggiugnere
la loro armata. Ma il Baglioni dichiarò di non potere in quell'anno
abbandonare Perugia dove pretendeva di dover temere le pratiche di
segreti nemici. Il Machiavelli, spedito dalla signoria presso di lui l'8
di aprile onde dicifrare i motivi del suo rifiuto, pensò che fosse
d'accordo cogli Orsini, con Pandolfo Petrucci e coi Lucchesi, tutti
nemici di Firenze, per privare all'improvviso la repubblica di una
ragguardevole parte della sua cavalleria, ponendola in tal modo
nell'impossibilità di distruggere quest'anno i raccolti dei Pisani[328].

  [328] _Legaz. di Mach. a Gian Paolo Baglioni, t. VII, p. 1-12. —
  Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 170. — Fr. Guicciardini, l. VI, p.
  350. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 277._

Infatti gli Orsini, sempre alleati dei Medici, non avevano rinunciato al
progetto di ricondurre quella famiglia colla forza delle armi a Firenze,
e di riporla nell'antico suo dominio. Pandolfo Petrucci senz'essere
alleato dei Medici desiderava che ricuperassero la loro sovranità,
affinchè la repubblica di Siena, da lui dispoticamente governata, non
avesse alle sue porte l'esempio della libertà; lo stesso motivo moveva
pure Gian Paolo Baglioni, che aveva usurpati i diritti della repubblica
di Perugia; erano ambidue segretamente spalleggiati ed incoraggiati da
Gonsalvo di Cordova. Questo generale aspettava l'istante di poter
cacciare i Francesi dall'Italia; e con ragione risguardava i Fiorentini
come i loro più fedeli partigiani. Aveva creduto di trovare opportuna
occasione di tentare una rivoluzione, facendo uso del nome del cardinale
Ascanio Sforza sempre caro ai popoli di Lombardia. Lodovico XII,
gravemente infermo di pleuritide, era stato da' suoi medici posto fuori
di speranza di guarigione, ed in Italia si era pure sparsa la voce della
di lui morte. Tutto sembrava presagire generali convulsioni, e gli
Spagnuoli non aspettavano che la sicura notizia della morte del re per
rompere la tregua e proclamare Ascanio duca di Milano. Ma contro
l'universale aspettazione non si tardò a sapere la guarigione di
Lodovico XII, e la quasi subita morte del cardinale Ascanio accaduta in
Roma il 18 di maggio, dove era stato attaccato dalla peste[329].

  [329] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 350. — Jac. Nardi, l. IV, p. 172.
  — Fr. Belcarii Com. Rer. Gall., l. X, p. 288._

Trovandosi così rovesciati i progetti degli Spagnuoli sopra la
Lombardia, parte delle truppe destinate ad eseguirli cominciarono a
minacciare la Toscana. Bartolommeo d'Alviano, che le aveva ragunate
nello stato di Roma, s'infingeva corucciato con il Cordova; e ne aveva
approfittato per giovare al livore degli Orsini che continuavano a
vantarsi capi di parte guelfa contro i Colonna e contro tutti coloro cui
davano il nome di Ghibellini. In Orvieto, in Rieti, in Città di
Castello, avevano avuto luogo odiose carnificine sotto la protezione di
quella piccola armata, che contava trecento uomini d'armi e cinquecento
fanti di ventura. Ma dessa entrava in un paese in cui tutti i piccoli
principi facevano il mestiere di condottieri ed erano uniti per la
stessa causa; onde in pochi giorni potev'essere ingrossata dai soldati
di coloro cui era stata utile nell'esecuzione delle loro vendette[330].

  [330] _Jac. Nardi, l. IV, p. 167. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  276._

Bartolommeo d'Alviano, che conduceva quest'armata d'avventurieri, senza
riconoscere le insegne di verun sovrano, non cercava pure di nascondere
la sua intenzione di attaccare Firenze per rimettervi i Medici. Contava
di trovare Firenze sprovveduta, abbandonata da Gian Paolo Baglioni,
ingannata dal marchese di Mantova, che l'aveva lungo tempo nudrita di
vane speranze di porsi al di lei soldo, ed aombrata dai movimenti di
Gonsalvo di Cordova che aveva posta guarnigione spagnuola in
Piombino[331]. Pandolfo Petrucci, signore di Siena, aveva voluto
approfittare dell'imbarazzo de' Fiorentini, ed aveva offerto al
Machiavelli, inviato presso di lui, di disperdere l'armata dell'Alviano,
purchè la repubblica rinunciasse in suo favore ai diritti che aveva
sopra Montepulciano[332]. Ma i Fiorentini non vollero accordare tanta
confidenza ad un tiranno, loro segreto nemico. Preferirono di
approfittare dell'amorevolezza di Prospero Colonna, che in allora
serviva la Spagna, e che per la nimicizia che portava agli Orsini
desiderava che andasse a male l'intrapresa dell'Alviano: rinunciarono al
guasto delle messi dei Pisani; fecero inoltre verbalmente dire a
Gonsalvo di Cordova che per quell'anno non avrebbero molestata Pisa, ed
in cambio ottennero dal vicerè spagnuolo la promessa di non ajutare
Bartolommeo d'Alviano[333].

  [331] _Jac. Nardi, l. IV, p. 174. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  275._

  [332] _Legaz. II di Nic. Machiavelli a Siena, dal 16 al 24 di luglio
  del 1505, l. VII, Op. p. 16-47._

  [333] _Jac. Nardi, l. IV, p. 175. — Fr. Guicciardini, l. VI, p.
  351._

L'Alviano si andava sempre avanzando, e dopo d'avere minacciati i
Fiorentini ora dalla banda del littorale, ora da quella di Val di
Chiana, il 1.º di luglio del 1505 entrò nella Maremma di Volterra, nel
luogo detto le Macchie, in vicinanza di Campiglia, con intenzione di
prendere la strada di Pisa[334]. Ma l'Alviano, il di cui coraggio
confinava colla temerità, trovavasi associato a persone troppo caute, la
di cui astuzia e riguardi spesso si accostavano alla perfidia. Pandolfo
Petrucci gli aveva prestato danaro per assoldare pedoni nello stesso
tempo che negoziava contro di lui coi Fiorentini. Gian Paolo Baglioni
gli aveva promesso di raggiugnerlo colla sua compagnia d'uomini d'armi.
Chiappino Vitelli doveva condurgli le truppe di Città di Castello, ed
essere posti dovevano sotto i suoi ordini gli Spagnuoli sbarcati a
Piombino. Tenendosi sicuro di questi ajuti l'Alviano si era avanzato
solo fino ai confini di Campiglia; ma colà ricevette ordine da Gonsalvo
di lasciare la sua intrapresa; i Pisani gli fecero dire che in forza di
un ordine del Gonsalvo non potevano riceverlo nella loro città; le
truppe del Petrucci e del Baglioni, adunate a Grosseto rifiutarono di
raggiugnerlo, finchè con qualche primo fatto non avesse loro fatto
conoscere ciò che potevano sperare dalla sua intrapresa. E per tal modo
l'irrisoluzione o la dissimulazione de' suoi alleati gli fecero
consumare molte settimane nelle Maremme, e diedero tempo alla repubblica
fiorentina di ragunare cinquecento cinquanta uomini d'armi e trecento
cavaleggeri. Il comando di tali forze fu dato ad Ercole Bentivoglio ed
al commissario Antonio Giacomini Tebalducci, il solo Fiorentino che
conoscesse l'arte della guerra[335].

  [334] _Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 279._

  [335] _Jac. Nardi, l. IV, p. 178. — Fr. Guicciardini, l. VI, p. 353.
  — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 279. — Diario del Bonaccorsi, f. 107
  e 115._

L'armata della repubblica era di già superiore a quella dell'Alviano; ma
il governo, siccome voleva la sua timida politica, aveva ordinato ai
suoi capitani di non attaccare, nè di porsi in posizione in cui poter
essere attaccati. Pure l'impetuosità dell'Alviano offrì loro
quell'occasione di combattere che i magistrati loro ricusavano. Questo
generale vedeva ogni giorno andar crescendo le difficoltà della sua
situazione in un paese malsano e spopolato, onde pensò di aprirsi una
strada per arrivare a Pisa. Il Bentivoglio si era accampato sulle alture
in distanza di mezzo miglio da Campiglia, e l'Alviano doveva passare
costeggiando il mare di fianco a quelle colline. Il terreno era tutto
coperto di piante, che agevolavano ai Fiorentini il modo di nascondere i
loro movimenti ai nemici in luoghi di cui conoscevano tutte le
sinuosità. Quando l'Alviano la mattina dei 27 agosto si fu innoltrato
fino alla torre di san Vincenzo, posta in riva al mare al di sopra di
Castagneto, si trovò tutt'ad un tratto attaccato alla testa ed alla
coda; e malgrado la più vigorosa resistenza, malgrado gli sforzi di
valore coronati momentaneamente da felici risultamenti, fu all'ultimo
compiutamente sconfitto. Egli si salvò con altri nove nello stato di
Siena; Chiappino Vitelli, press'a poco con altrettanti cavalieri, arrivò
a Pisa; tutti gli altri furono uccisi o fatti prigionieri. Mille cavalli
di guerra ed un maggior numero ancora di cavalli di equipaggio vennero
in potere dei vincitori con un grandissimo bottino, che quell'armata
aveva raccolto col saccheggio de' paesi attraversati[336].

  [336] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 181. — Fr. Guicciardini, l.
  VI, p. 353. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 280. — Fr. Belcarii Rer.
  Gall. Comm., l. X, p. 289._

I generali fiorentini, che avevano ottenuta questa vittoria, scrissero
subito al governo per ottenere la licenza di approfittarne attaccando
Pisa. Rappresentavano che questa città era atterrita, che i Sienesi ed i
Lucchesi, che l'avevano in addietro difesa, erano scoraggiati,
finalmente che Pandolfo Petrucci offriva di prendere parte in questa
spedizione per avere pace colla repubblica. Per lo contrario altri
volevano che l'armata vittoriosa, che di già si trovava ai confini di
Siena, ne approfittasse per vendicarsi dello stesso Petrucci, per
iscacciarlo, se possibile fosse, dalla signoria, e per impadronirsi
almeno di alcune terre del Sienese, che in appresso si potrebbero cedere
in cambio di Monte Pulciano. Opponevano all'attacco di Pisa quella
specie di convenzione fatta con Gonsalvo di Cordova per l'intromissione
di Prospero Colonna; trovavano pericoloso il chiamare truppe spagnuole
in Toscana, e pericoloso egualmente l'esporre l'armata alle malattie che
producevano sempre le piogge e l'infetto aere del piano di Pisa. Il
gonfaloniere perpetuo, Pietro Soderini, spalleggiava gagliardamente il
primo progetto, ed approfittando dell'entusiasmo eccitato dalla vittoria
portò al gran consiglio la proposizione di porre alle voci cento mila
fiorini per la guerra. Quest'adunanza del popolo avendo il 19 di agosto
data la sua sanzione alla proposizione del gonfaloniere, l'attacco di
Pisa fu deciso.[337]

  [337] _Jac. Nardi, l. IV, p. 182. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  281._

L'armata vittoriosa si acquartierò a san Casciano, cinque miglia
distante da Pisa, finchè le giugnesse l'artiglieria d'assedio. I dieci
della guerra avevano da principio avuto intenzione di farle guastare lo
stato di Lucca per punire i Lucchesi de' continui soccorsi mandati a
Pisa in danno de' Fiorentini[338]. Ma i generali temevano che si
perdesse troppo tempo, ed essendo loro arrivati undici cannoni d'assedio
e sei mila fanti di nuove leve, andarono a porre le loro batterie verso
san Francesco presso alla porta a Calci, nello stesso luogo in cui
nell'ultimo attacco avevano anche i Francesi poste le loro. Il fuoco
cominciò il 7 di settembre alle undici della mattina. All'indomani alle
tre circa dopo mezzodì era di già aperta una breccia di circa sessanta
piedi di larghezza, onde i generali fiorentini disposero le loro truppe
all'assalto. Ma mentre che le milizie pisane si schierarono
intrepidamente sulla breccia, quelle de' fiorentini, formate di
contadini che mai non avevano veduto il fuoco, mostravansi irrisolute e
vili. Tre colonnelli cercarono uno dopo l'altro di fare scendere i loro
soldati nella fossa, e sempre inutilmente. Ognuno di loro conduceva
mille fanti; e altri sette mila restavano ancora nel campo; pure non si
volle venire alla prova anche di questi per non compromettere la
riputazione di tutta l'armata; e fu invece determinato di fare un'altra
breccia tale che la grandezza dell'apertura non lasciasse veruna
speranza ai difensori, nè verun pretesto alla viltà degli
assalitori[339].

  [338] _Spediz. del Machiavelli al campo contro Pisa. Lettera dei X
  ad Antonio Giacomini, 19 augusti 1505, t. VII, opere, p. 48._

  [339] _Jac. Nardi, l. IV, p. 183. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  281._

Infatti, avendo il fuoco continuato altri tre giorni, furono dalle
artiglierie atterrate cento trentasei braccia di mura a breve distanza
dalla precedente breccia. La mattina del 13 i generali fiorentini
vollero dare l'assalto; ma tanta era la viltà della fanteria che doveva
adoperarsi in questo genere di attacco, che il colonnello eletto dalla
sorte per dare l'assalto ricusò di farlo, senza che nè le preghiere, nè
le minacce di Ercole Bentivoglio e di Antonio Giacomini valessero a
risvegliare nel suo cuore il sentimento dell'onore. Si fecero istanze
agli altri nove di sottentrare nel posto di quel vile, e tutti
egualmente rifiutarono. I loro soldati protestarono pure più apertamente
di non voler salire sulla breccia, ed alcuni si lasciarono uccidere dai
loro ufficiali piuttosto che andare avanti. All'ultimo l'armata coperta
d'indelebile vergogna, tornò ai suoi alloggiamenti senza avere tentato
un attacco. Intanto si ebbe avviso, che i trecento spagnuoli della
guarnigione di Piombino erano entrati in Pisa; ed i generali fiorentini,
temendo che ne giugnessero degli altri, sentirono la necessità di levare
l'assedio. Il 14 di settembre a mezzodì ritirarono l'artiglieria,
trasportando il campo a Ripoli, lontano undici miglia da Pisa, dove fu
licenziata la fanteria, e la cavalleria mandata ai quartieri
d'inverno[340]. I Pisani, riprendendo coraggio, verso la metà di ottobre
spinsero le loro scorrerie fino nella Lunigiana, mentre entrarono in
Pisa mille cinquecento soldati spagnuoli. Ma siccome più non
abbisognavano per difendere la piazza, si rimbarcarono dopo pochi
giorni, e continuarono il loro cammino per passare da Napoli in
Ispagna[341].

  [340] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 184. — Fr. Guicciardini, l.
  VI, p. 355. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 282. — Fr. Belcarii
  Comm. Rer. Gall., l. X, p. 289._

  [341] _Fr. Guicciardini, l. IV, p. 356. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  184._

Oltre la guerra di Pisa la storia particolare d'Italia non offre
quest'anno che un solo tragico avvenimento, cui servì di teatro la corte
di Ferrara. Il cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca regnante
Alfonso, era perdutamente innamorato di una donna, sua parente, che
nello stesso tempo veniva corteggiata da don Giulio d'Este, fratello
naturale d'Ippolito. Rinfacciata la signora dal cardinale della
preferenza che accordava al di lui rivale, se ne scusò col linguaggio
degli amanti, incolpandone il potere de' begli occhi di don Giulio. Il
cardinale furibondo, avendo saputo che suo fratello si trovava alla
caccia, andò a sorprenderlo in campagna, lo fece smontare da cavallo, e
gli fece dai suoi scudieri strappare quegli occhi che avevano in lui
risvegliata tanta gelosia. Ma sebbene il cardinale fosse presente a così
atroce fatto, pare che si eseguisse incompletamente, e che don Giulio
non perdesse interamente la vista[342].

  [342] _Fr. Guicciardini, l. VI, p. 357. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gal., l. X, p. 295._

Questo delitto non procacciò al di lui autore nè gastigo, nè veruna
pubblica dimostrazione di malcontento per parte del principe. Alfonso
abbandonavasi alternativamente ai suoi piaceri ed alla sua inclinazione
per le cose della meccanica. Consumava molta parte del giorno in una
officina di tornitore dove faceva con sufficiente intelligenza varj
lavori in legno; poscia talvolta con un gusto più degno di un principe
fondeva cannoni di bronzo. Ammetteva nell'intima sua confidenza i
buffoni, le persone facete, ed ancora qualche poeta; ma pareva che poco
si occupasse delle cose del governo, onde dai suoi sudditi veniva
riputato poco degno del trono. Una smisurata ambizione ingrandiva questi
difetti agli occhi del suo secondo fratello, don Ferdinando, ed un
ardente desiderio di vendetta animava l'infelice don Giulio; ed ambidue
cercavano compagni per rovesciare il governo. Il conte Albertino
Boschetti di Modena e Gherardo Roberti, cittadino Ferrarese, si unirono
a loro, allettati dalla promessa d'avere le prime magistrature sotto un
nuovo governo. Cercavano insieme i mezzi di disfarsi del principe; don
Giulio voleva assalire Alfonso ed Ippolito col ferro e col veleno, ma
Ferdinando, che non covava lo stesso odio, avrebbe voluto farsi principe
senza sagrificare i fratelli. Altronde era difficile l'attaccarli
ambidue ad un tratto, non usando essi di trovarsi assieme che in
occasione di grandi cerimonie, ed in allora erano circondati da grossa
guardia. Mal non mangiavano alla stessa mensa. Alfonso colla piacevole
sua compagnia pranzava di buon'ora; Ippolito per lo contrario colla
pompa e colla squisitezza di un prelato protraeva i suoi banchetti fin
oltre la mezza notte.

I congiurati, aspettando di cogliere una favorevole occasione, non
avevano ancora fatto verun tentativo, sebbene il cantante Gianni,
complice della congiura, fosse stato più volte ricevuto nella
conversazione del principe, e trattato con tanta famigliarità che lo
aveva legato colle proprie mani nei giuochi che facevano assieme. Ma
Ippolito più diffidente, e non dimentico della passata sua crudeltà,
teneva sempre aperti gli occhi sopra don Giulio; all'ultimo in luglio
del 1506 sorprese il segreto della congiura. Don Giulio ebbe tempo di
fuggire a Mantova, ma dal marchese Giovan Francesco II Gonzaga fu
consegnato ad Alfonso. Il cantante Gianni era pure fuggito, ma fa
consegnato dal papa. Col mezzo della tortura si ebbero dai prevenuti
nuovi lumi intorno alla congiura di cui erano accusati. Il Boschetti,
Roberti e Gianni furono condannati a pena capitale; Ferdinando e don
Giulio, condannati allo stesso supplicio, ottennero grazia quand'erano
di già condotti sul patibolo, e fu commutata la loro pena in una
perpetua prigionia. Ferdinando morì in carcere nel 1540, Giulio ottenne
la libertà nel 1559 dopo cinquantatre anni di prigionia[343].

  [343] _P. Giovio vita d'Alf. d'Este, p. 17. — Muratori An. d'Italia
  an. 1506, p. 34. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 369. — Fr. Belcarii
  Com., l. X, p. 295._

La casa d'Este era in allora la principale protettrice dei letterati; la
maggior parte dei dotti, degli storici, dei poeti cercavano di piacere
ad Alfonso, e questi crudeli avvenimenti furono travisati ne' loro
racconti, o quasi affatto soppressi. Il Giovio schiva di dare verun
biasimo al cardinale Ippolito, che colla sua barbarie era stato cagione
de' traviamenti de' suoi fratelli. Giovan Battista Giraldi ne' suoi
commentarj della storia di Ferrara dissimula gli avvenimenti, e
l'Ariosto introducendo i due sventurati fratelli tra le ombre presentate
a Bradamante non volle in loro ravvisare che una luminosa prova della
clemenza di Alfonso[344]. Siamo giunti ad un'età in cui gli stessi
incoraggiamenti dati ai letterati chiamarono i principi ad occuparsi
assai più della storia, e gli storici ad essere molto più adulatori; la
veracità ne sentì detrimento, e le loro narrazioni non meritano sempre
intera fede.

  [344] _Orlando Furioso, cant. III, st. 60-62._

L'Italia, perdendo la direzione de' proprj affari, trovavasi sempre più
dipendente dalla politica degli estranei, e dopo che il re di Spagna fu
nello stesso tempo re di Napoli, e quello di Francia duca di Milano, le
negoziazioni che trattavansi oltre l'Alpi decidevano frequentemente dei
destini di una nazione, che più non si governava da sè medesima. Perciò
di quest'epoca tutti gli occhi in Italia erano volti verso la Spagna,
ove l'arciduca Filippo, diventato re di Castiglia per la morte
d'Isabella, si era recato per mare colla consorte, col secondo suo
figlio Ferdinando e con una grossa armata. Egli non aveva voluto
accomodarsi al testamento d'Isabella, che conoscendo il debole spirito
di sua figliuola Giovanna l'aveva assoggettata alla tutela del padre,
piuttosto che a quella del marito. Questi aveva intimato a Ferdinando di
cedergli l'amministrazione del suo regno di Castiglia; e vedendolo
inclinato a nuocergli a segno di voler privare dell'eredità la propria
figlia, pel qual motivo principalmente si era determinato a sposare
Germana di Foix, Filippo ordinò ai suoi ambasciatori di sottoscrivere a
Salamanca il 24 di novembre del 1505 con Ferdinando un trattato che
altro scopo non aveva che quello di addormentarlo in una fallace
sicurezza; indi salpò in gennajo dai porti delle Fiandre[345].

  [345] _Robertson's History of the reign of Charles the V. B. I, t.
  II, p. 12 ed 18. London 1792._

Una burrasca aveva gettato Filippo sulle coste dell'Inghilterra, ed
Enrico VII per fare cosa grata al vecchio Ferdinando avea ritenuto tre
mesi il giovane principe nella sua Isola, prima di permettergli che
s'imbarcasse. Finalmente egli arrivò a Biscaglia, e vi fu ricevuto con
eguale entusiasmo dalla nobiltà e dal popolo, cui Ferdinando non era
caro. Abbandonato da' suoi medesimi cortigiani, e non si sentendo
abbastanza forte per misurarsi con suo genero, il vecchio re acconsentì
il 27 giugno del 1506 ad un nuovo trattato, col quale rinunciò
all'amministrazione della Castiglia, riservandosi soltanto finchè
vivesse la metà delle entrate dei nuovi acquisti d'America, la carica di
gran maestro dei tre ordini di san Giacomo di Compostella, di Alcantara
e di Calatrava, venticinque mila ducati di rendita, e l'esclusivo
possesso del regno di Napoli. A tali condizioni abbandonò la Castiglia,
e promise di non più tornarvi[346].

  [346] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 360. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 187. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal., l. X, p. 291. —
  Robertson's hist. of Charles the fifth, B. I, p. 16._

Ferdinando, umiliato di trovarsi ingannato da un politico assai più
giovane e meno destro di lui, e di essere stato abbandonato dai suoi
cortigiani e dai sudditi, preferiva di non vedere il trionfo di suo
genero in Ispagna. S'imbarco dunque a Barcellona il 4 di settembre con
intenzione di visitare i suoi nuovi sudditi del regno di Napoli, e di
sistemare l'amministrazione de' paesi da lui conquistati. La sua gelosia
verso Gonsalvo di Cordova era pure uno de' motivi che lo chiamavano in
Italia. Gonsalvo, onnipotente a Napoli, amato dal soldato, e riverito
dagl'Italiani, poteva a voglia sua o riservare questo regno pel re di
Castiglia di cui era suddito naturale, o farsene padrone egli stesso. Di
già richiamato da Ferdinando, erasi scusato sotto varj pretesti
dall'ubbidire, onde sembrava che la sola presenza del monarca potesse
sospendere l'autorità del suo orgoglioso vicerè[347].

  [347] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 361. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  189. — P. Jovi v. M. Consalvi, l. III, p. 248. — Alfonso de Ulloa,
  l. I, f. 52, v._

I più potenti sovrani dell'Europa parevano apparecchiati a visitare
tutti nello stesso tempo l'Italia: Massimiliano, che non aveva che il
titolo d'imperatore eletto, perchè non aveva dalle mani del papa
ricevuta la corona imperiale, mostravasi oltre modo voglioso di venire a
prenderla a Roma, onde potere in appresso ridurre gli elettori a
nominare suo figliuolo re de' Romani; aveva di già spediti ambasciatori
in Italia per annunciare la vicina sua venuta, e chiedere alle terre
dell'Impero la sovvenzione di pratica per la coronazione
degl'imperatori; ne aveva altri mandati a Lodovico XII per invitarlo a
mettere in cammino le cinquecento lance, che il re aveva promesse per
tale occasione, per chiedere che gli emigrati milanesi venissero rimessi
nel possedimento de' loro beni, e che fossegli anticipato il pagamento
dei sessanta mila ducati dovutigli dalla Francia. Lodovico XII non
mostrossi renitente che rispetto a questa anticipazione: rispose colle
espressioni della più sincera amicizia, attestando il suo vivo desiderio
di conservare la buona armonia fra i due stati. Per altro non poteva
vedere senza una estrema diffidenza la crescente grandezza della casa
d'Austria; temeva la nomina di un re de' Romani per le stesse ragioni
che la facevano desiderare a Massimiliano; e per impedire che questi
scendesse in Italia, si adoperava celatamente presso gli Svizzeri e
presso i Veneziani, ed in segreto soccorreva il duca di Gueldria, allora
in guerra con Filippo[348].

  [348] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 361. — Fr. Belcarii l. X, p.
  291._

Omai Lodovico XII erasi sciolto dalla clausola principale del trattato
di Blois, quella che risguardava il matrimonio di sua figlia con Carlo
d'Austria. Si fece presentare delle rimostranze contro l'unione di
questa principessa con uno straniero da tutti gli stati e da tutte le
corti sovrane del suo regno, e mostrando in appresso di cedere alla
violenza che si faceva fare, la promise in isposa al duca d'Angoleme,
suo presuntivo erede[349]. Dall'altro canto Massimiliano, informato
della malattia di Uladislao, re di Polonia e di Ungheria, ed aspirando
alla corona di quest'ultimo regno, che gli era stata guarentita da una
convenzione con tutti i magnati ungari, non voleva trovarsi lontano da'
suoi stati, qualora Uladislao morisse, e rinviò ad un altro anno i suoi
disegni sull'Italia[350].

  [349] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 362. — Jac. Nardi l. IV, p. 188.
  — Fr. Belcarii l. X, p. 292._

  [350] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 362. — Jac. Nardi l. IV, p. 188._

Di quest'epoca Giulio II, di cui si erano più volte notati i vasti
progetti e l'impetuoso e turbolente carattere quando non era che
cardinale, nulla peranco aveva fatto dopo avere conseguito il papato che
giustificasse l'universale aspettazione. Si era più volte lasciato
uscire di bocca di voler purgare lo stato della Chiesa da tutti i
tiranni, che se lo erano diviso; di voler ritirare dalle mani de'
Veneziani anche la più piccola torre che possedessero nella Romagna;
pure nè i tiranni dello stato della Chiesa, nè i Veneziani venivano da
lui molestati. Ma Giulio voleva che i suoi disegni avessero intera
esecuzione, e perciò gli andava cautamente maturando. Egli accumulava
danaro con una economia che non erasi fin allora osservata nel suo
carattere; voleva nello stesso tempo combinare gli sforzi di tutte le
potenze d'Europa contro Venezia, prima di rompere apertamente con quella
repubblica. Aveva da principio trovati grandemente inclinati Lodovico
XII, Massimiliano e Ferdinando alla divisione loro proposta, e di già in
uno de' trattati di Blois eransi gettate le basi dell'alleanza che venne
in appresso stipulata a Cambrai. Ma Lodovico XII, ammaestrato intorno ai
suoi veri interessi dalla gelosia che gli dava Massimiliano, sentiva
allora quanto imprudente cosa fosse il distruggere la sola potenza che
chiudeva alla casa d'Austria la porta d'Italia; perciò erasi ravvicinato
ai Veneziani, e col mezzo loro sperava d'impedire che Massimiliano
andasse a prendere a Roma la corona dell'impero. Si accontentava adunque
di dare buone parole a Giulio II; era liberale promettitore, perchè
sperava che mai non giugnerebbe il momento di dare esecuzione alle sue
promesse; e per la nomina dei due cardinali d'Aix e di Bayeux, che aveva
ottenuto dal papa, assumeva con lui obbligazioni contrarie ai suoi
trattati con altre potenze, ed ai suoi proprj progetti[351].

  [351] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 359. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gal. l. X, p. 293. — Seconda legaz. di Nic. Macchiavelli alla Corte
  di Roma, lett. I, t. VII, op. p. 69._

Giulio II sentiva la necessità di sospendere il suo attacco contro
Venezia; ma perchè non voleva più oltre languire nell'inazione, a mezza
estate risolse di ricondurre sotto il diretto dominio della Santa Sede
le due più potenti sue città, Bologna e Perugia, che da gran tempo
ubbidivano a principi indipendenti. Invece di accertare la riuscita di
quest'intrapresa con negoziati che avrebbero potuto ritardarne
l'esecuzione, troncò le difficoltà col tuono autorevole con cui parlò e
coll'impeto proprio del suo carattere. Per riuscire contro Bologna aveva
bisogno de' soccorsi della Francia e della neutralità de' Veneziani;
intimò a Lodovico XII di mandargli soldati, ed ai Veneziani di non
muoversi. Nè il re, nè la repubblica, presi all'impensata, vollero
romperla con un papa di cui temevano la collera, e si prestarono
forzatamente a' suoi voleri, contro la propria persuasione[352].

  [352] _Macchiavelli Discorsi sopra Tito Livio l. III, c. 44, p.
  199._

Lodovico XII aveva solennemente preso sotto la sua protezione Giovanni
Bentivoglio, signore di Bologna, ed aveva quello stesso interesse a
mantenerlo nella sua sovranità che avevano avuto tutti i suoi
predecessori i duchi di Milano. Altronde l'istante sembravagli
particolarmente pericoloso per acconsentire che si facessero movimenti
di veruna sorte in Italia: imperciocchè aveva saputo che Massimiliano
erasi procurata una nuova convenzione col re d'Ungheria in conferma
della precedente, e che, trovandosi nuovamente in libertà di passare in
Italia, aveva indirettamente fatta offrire la sua alleanza ai Veneziani,
loro proponendo di attaccare simultaneamente la Francia, e di dividere
tra di loro il ducato di Milano.[353]. Vero è che il cardinale d'Aix
aveva portata al papa una commissione sottoscritta dal re, e comunicata
all'ambasciatore fiorentino, colla quale Lodovico esortava Giulio II ad
attaccare il Bentivoglio, promettendogli perciò potenti soccorsi[354].
Ma questa altro non era che una di quelle astuzie con cui i capi del
governo hanno così frequentemente compromesso l'onore e la buona fede
della nazione francese. Lodovico XII, per dissuadere il papa da ciò che
temeva, gli consigliava ciò che non lo credeva disposto di fare; e
quando seppe che Giulio II, determinato di attaccare Bologna, erasi dato
vanto in pieno concistoro di essere sicuro degli ajuti della Francia,
de' Fiorentini e delle altre potenze d'Italia, soggiunse con amara
ironia, che per certo in quel giorno il santo padre aveva meglio
pranzato che gli altri giorni, alludendo all'ubbriachezza di cui davasi
generalmente colpa a Giulio II[355].

  [353] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 364. — Fr. Belcarii l. X, p.
  293._

  [354] _Macchiavelli Legaz. II alla Corte di Roma let. I, p. 69, 70,
  t. VII._

  [355] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 365._

Ad ogni modo Giulio II era partito da Roma il 27 di agosto del 1506,
accompagnato da ventiquattro cardinali, ed alla testa di quattrocento
uomini d'armi[356]. Prese lentamente la strada di Perugia, per dar tempo
ai Francesi di prestarsi ai suoi inviti. Gian Paolo Baglioni viveva in
allora pubblicamente in una incestuosa relazione con sua sorella, dalla
quale aveva avuti dei figli; aveva usurpato la sovrana autorità di
Perugia, facendo uccidere molti suoi cugini e nipoti. Egli aveva
confiscati i beni di coloro ch'erano fuggiti per sottrarsi alla sua
tirannide, e quasi tutti i proscritti si trovavano presso l'armata
pontificia. La maniera con cui aveva ingannati i Francesi, prendendo il
loro denaro prima della battaglia del Garigliano per entrare al loro
servigio, ed in appresso mancando a' suoi obblighi, aveva eccitato il
risentimento di Lodovico XII; ed anche i Fiorentini, da lui ingannati
nel precedente anno, vedevano con piacere la sua ruina. Ma il Baglioni,
che teneva a' suoi ordini cento uomini d'armi e cento cinquanta
cavaleggeri, e ch'era padrone della più forte città degli stati della
Chiesa, di una città i di cui abitanti erano i più bellicosi, poteva per
qualche tempo resistere colle proprie forze[357].

  [356] _Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma l. III, da Viterbo 31
  aprile, p. 76. — Jac. Nardi, l. IV, p. 189._

  [357] _Macchiavelli Legaz. lett. VIII, p. 84._

Pure preferì di ricorrere alla protezione de' potenti amici ch'egli
aveva nel sacro collegio ed alla corte del papa. Il duca d'Urbino e
tutti coloro che avevano qualche feudo della Chiesa erano inquieti e
sconfortati vedendo che il papa si faceva a spogliare i più potenti
della loro classe; onde cercavano di calmare Giulio II, e nello stesso
tempo incoraggiavano Giampaolo Baglioni a placarlo con un'apparente
sommissione, acciò guadagnar tempo. All'ultimo essi si costituirono
garanti della sua sicurezza, ed il Baglioni, cedendo ai loro conforti,
andò l'8 di settembre a trovare il papa ad Orvieto, ed a porsi nelle sue
mani[358]. Giulio II, sensibile a tanta confidenza, gli promise che
potrebbe continuare a soggiornare in Perugia, godendovi di tutti i suoi
beni. Inoltre lo prese al suo soldo con tutti gli uomini d'armi che
aveva, per fare la spedizione di Bologna; ma richiese che gli si
consegnassero le porte e le rocche di Perugia, onde poter riformare il
governo di quella città e renderle l'antiche libertà[359].

  [358] _Macchiavelli Legaz. alla Corte di Roma lett. dell'8 e del 9
  settembre p. 87 e 88. — Jac. Nardi l. IV, p. 189._

  [359] _Macchiavelli Legaz. lett. X, p. 88._

Quand'ebbe sottoscritta questa convenzione, il Baglioni ripartì subito
alla volta di Perugia, onde apparecchiarsi ad accogliervi il papa, che
viaggiava più lentamente e visitava i castelli delle rive del lago.
Infatti Giulio II, il cui ardente carattere non conosceva pericoli,
entrò il 13 di dicembre in Perugia con tutta la sua corte senza avere
avuta la custodia di una sola porta della città, ponendosi in tal modo
in balìa di un uomo da lui offeso, ed alle di cui promesse nè egli nè
altri in Italia davano fede. Vero è che il Baglioni non si assicurò
degli ostaggi che si erano da sè medesimi imprudentemente rimessi fra le
sue mani; ma fu piuttosto per mancanza di coraggio o di presenza di
spirito, che per uno scrupolo ch'egli non conosceva[360]. La città, dopo
partiti il Baglioni ed il papa, il quale lentamente prendeva la strada
della Romagna, rimase ancora qualche tempo sotto l'influenza dei
partigiani del Baglioni; ma all'ultimo i cittadini lungamente oppressi
cominciarono a riprendere confidenza nelle leggi; la magistratura dei
Dieci della Balìa instituita dal tiranno, per mezzo della quale egli
manteneva la sua autorità, venne solennemente abolita, e Perugia
ricominciò a godere sotto la protezione della Chiesa i privilegj di
città libera[361].

  [360] _Macchiavelli de' discorsi l. I, p. 27, 125. — Idem, Legazione
  alla corte di Roma, lett. del 13 settembre da Perugia p. 95. — Fr.
  Guicciardini l. VII, p. 366._

  [361] _Macchiavelli Legaz. lett. XXVII, Cesena 4 ottobre, p. 122._

Giulio II riponeva ancora maggior zelo nella riforma di Bologna.
Giovanni Bentivoglio non aveva usurpato l'assoluto potere, che ruinando
tutte le potenti famiglie che fin allora godevano qualche opinione nella
sua patria. Egli aveva quattro figli, la di cui insolenza era diventata
insopportabile ai loro concittadini, ed il di cui lusso e largo spendere
aggravavano la pubblica miseria. Egli più non cercava di guadagnarsi gli
animi colla clemenza e colla dolcezza ma per lo contrario a contenerli
colle armi, ad atterrirli coi supplicj[362]. Credevasi assicurato in sul
trono dalle alleanze strette co' suoi vicini; ma egli stesso aveva loro
insegnato a sacrificarle senza scrupolo ad un presente vantaggio. I
Fiorentini, malgrado il loro trattato col Bentivoglio, avevano mandato
il Macchiavelli al papa nell'atto che questi era uscito di Roma
promettendogli di unire i loro uomini d'armi alla sua armata. Il
marchese di Mantova, dopo avere ottenuto l'assenso della Francia, aveva
pure poste le sue truppe sotto le bandiere pontificie; i Veneziani
avevano offerto a Giulio II di cacciare essi medesimi il Bentivoglio da
Bologna, purchè a tale condizione Giulio ratificasse il loro possesso di
Faenza e di Rimini. La sola cosa che potesse sembrare dubbiosa era la
cooperazione della Francia, perchè se il re l'aveva promessa al papa,
aveva ancora solennemente promesso al Bentivoglio di difenderlo, e
gliene aveva riconfermata la promessa dopo che Giulio trovavasi in
cammino colla sua armata[363].

  [362] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 363. — Fr. Belcarii l. X, p.
  292._

  [363] _Macchiavelli seconda Legaz. alla corte di Roma, lett. I alla
  XX, fino al 25 di settembre p. 64-109._

Ma l'impeto di Giulio spaventava coloro che dovevano trattare con lui.
Il cardinale d'Amboise rappresentò al re: che non cedendo egli in questa
occasione, renderebbe il papa suo accanito nemico; onde Lodovico si
svincolò dalla protezione promessa al Bentivoglio con un indegno
sotterfugio: dichiarò di essersi obbligato a difenderlo nel possesso de'
suoi stati, ma non già in quello degli stati della Chiesa, ed ordinò al
signore di Chaumont, governatore del milanese, di avanzarsi contro
Bologna con seicento lance, tre mila fanti svizzeri e ventiquattro pezzi
d'artiglieria[364].

  [364] _Macchiavelli Legaz. lett. XXVI, Cesena 3 ottobre p. 119 e
  seg._

Tosto che Giulio II ebbe avviso dell'avvicinamento de' Francesi, entrò
in Romagna pel ducato di Urbino, rimettendo la pace nelle città che
attraversava, richiamandole all'ubbidienza della Chiesa, e non pertanto
schivando di mettere piede nel territorio di Rimini, o di Faenza, per
non sanzionare nemmeno con una sola occhiata l'occupazione di que'
principati fatta dai Veneziani[365]. Giunto a Forlì, sei ambasciatori
bolognesi gli presentarono le condizioni colle quali il Bentivoglio era
apparecchiato a sottomettersi; voleva tra le altre cose che il papa non
potesse entrare in Bologna che colla sua guardia di dugento cinquanta in
trecento svizzeri, obbligandosi a non soggiornarvi oltre un determinato
tempo. Ma questo non era il modo che doveva adoperarsi trattando con un
vecchio orgoglioso ed irascibile: invece di rispondere a tali
proposizioni, Giulio II il 10 di ottobre pubblicò in Cesena una bolla
contro Giovanni Bentivoglio ed i suoi partigiani, dichiarandoli ribelli
alla santa Chiesa; abbandonava le loro sostanze al saccheggio e le
persone loro alla schiavitù di chi le prenderebbe; accordava indulgenza
plenaria a chiunque combatterebbe o ucciderebbe i fautori del
Bentivoglio; indi ordinò immediatamente al particolare deputato del
Bentivoglio di sortire subito dagli stati della Chiesa, minacciandolo
dell'ultimo supplicio, se giammai ricadeva nelle sue mani[366].

  [365] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 366. — Macchiavelli Legaz. lett.
  XXXV, XXXVI, XXXVII, del 16 al 21 ottobre p. 135._

  [366] _Macchiavelli Legaz. lett. XXXI, ex Forlì 10 oct., p. 128. —
  Bulla apud Rayn. Ann. eccl. 1506, § 25-27, p. 41._

Il papa giunse ad Imola il 20 di ottobre alla testa di un'assai
ragguardevole armata, di cui diede il comando al marchese di Mantova.
Oltre ai quattrocento uomini d'armi coi quali Giulio era partito da
Roma, Giovan Paolo Baglioni ne conduceva cento cinquanta; Marc'Antonio
Colonna, condottiere de' Fiorentini, ne aveva cento; cento il duca di
Ferrara; il marchese di Mantova dugento cavaleggeri; e v'erano di più
cento Stradioti venuti dal regno di Napoli, e parecchie migliaja di
fanti levati nel ducato di Urbino, nella Toscana e nella Romagna.
Dall'altra parte lo stesso giorno in cui il marchese di Mantova
attaccava san Pietro, primo castello de' Bolognesi dalla banda d'Imola,
il signore di Chaumont con seicento lance francesi e tre mila Svizzeri
entrava in Castel-Franco, primo castello del Bolognese dalla parte di
Modena. Per tal modo il papa aveva ottenuto di far sì che quello tra i
suoi feudatarj, la di cui indipendenza contrariava più d'ogni altra i
suoi ambiziosi progetti, fosse da que' medesimi attaccato che avrebbero
avuto maggiore interesse a difenderlo[367].

  [367] _Macchiavelli Legaz. l. XXXVIII, ex Imola 22 oct. p. 140. —
  Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Fr. Belcarii l. X, p. 294. —
  Scip. Ammirato l. XXVIII, p. 283._

In tutti i suoi discorsi, in tutte le sue dichiarazioni, Giovanni
Bentivoglio aveva fin allora affettato molto coraggio ed una ferma
risoluzione di respingere la forza colla forza. Infatti aveva armate le
milizie ed afforzata la sua capitale; ma non sapeva risolversi a
spendere per la sua difesa quel danaro che risguardava come l'estremo
suo appoggio se perdeva la sovranità. Non aveva perciò fatte sufficienti
leve; altronde comunicava a' suoi sudditi la propria diffidenza,
lasciandola travedere, ed inimicavasi tutti coloro ai quali chiedeva
que' sacrificj cui dubitava di fare egli stesso. Pure perchè i suoi
vicini, che lo volevano salvare, non cessavano di lusingarlo
d'interporsi a di lui favore; e perchè il signore di Chaumont gli fece
sapere ch'egli non lo attaccherebbe, il Bentivoglio faceva ancora buon
contegno. Ma il 15 di ottobre il signore di Chaumont gli fece intimare
che dovesse entro due giorni assoggettarsi a tutti gli ordini del papa,
se non voleva perdere la protezione della Francia ed essere
immediatamente da lui attaccato. Nello stesso tempo, purchè ubbidisse
subito, il Chaumont gli assicurava il godimento di tutte le proprie
sostanze patrimoniali, e la libertà di vivere in Bologna come semplice
privato co' suoi figliuoli[368].

  [368] _Legaz. di N. Macchiavelli l. XL, ex Imola 26 oct., p. 145. —
  Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Fr. Belcarii l. X, p. 294._

Quand'ebbe questa intimazione, il Bentivoglio perdette ogni speranza,
dimenticò le sue proteste d'irremovibile costanza, ed i sarcasmi coi
quali aveva accolto Pietro de' Medici, allorchè questi senza combattere
aveva abbandonato la città in cui regnava. Questo principe, di già in
età di settant'anni, si recò il 2 di novembre al campo francese colla
sua sposa, Ginevra Sforza, e tutti i suoi figliuoli, per implorare dal
signore di Chaumont migliori condizioni. Ebbe costui tanta viltà di
farsi pagare dodici mila ducati dal principe fuggitivo per patrocinare i
di lui interessi. In appresso convenne col papa che il Bentivoglio
conserverebbe a Bologna il godimento di quegl'immobili di cui proverebbe
il legittimo acquisto, che liberamente esporterebbe il danaro ed i
mobili, e che potrebbe vivere in perfetta sicurezza colla sua famiglia
nel ducato di Milano[369].

  [369] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 367. — Diar. Parisii de Grassis
  ap. Rayn. 1506, § 29, p. 42. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 190._

Appena partito il Bentivoglio, i Bolognesi spedirono altri ambasciatori
al papa, per chiedergli soltanto l'assoluzione dalle pene
ecclesiastiche, e la guarenzia che l'armata francese non entrerebbe
nella loro città. Giulio II non aveva al certo intenzione di ricevere
que' pericolosi alleati; perciocchè temeva egualmente e l'indisciplina
de' soldati, e l'ambizione del governo, che potrebbe voler conservare
alcuni diritti nella sua conquista. Di già l'armata del Chaumont si era
innoltrata sin presso le mura tra le porte di Saragossa e di san Felice,
e ad alte grida chiedeva il sacco di quella così ricca e commerciante
città. Trovandosi l'armata schierata lungo il canale che conduce le
acque del Reno a Bologna, il papa diede licenza ai Bolognesi di chiudere
la porta di ferro che attraversa il canale a' piè delle mura, e di far
così rifluire le acque sulla campagna in cui stavano i Francesi. Questi,
scacciati dall'inondazione, si ritirarono disordinatamente al ponte del
Reno, lasciando nel fango una parte della loro artiglieria e dei loro
equipaggi. In appresso il papa congedò il signore di Chaumont,
facendogli un dono di otto mila ducati per lui e di dieci mila da
distribuirsi all'armata, e aggiungendovi la promessa di accordare un
cappello cardinalizio al di lui fratello. Il vescovo d'Alby. Poscia
l'undici di novembre, giorno di san Martino, fece con gran pompa il suo
solenne ingresso in Bologna; conservò alla città i suoi privilegi e la
sua amministrazione repubblicana, ma ne mutò la costituzione. Fin allora
Bologna era stata governata da sedici magistrati; Giulio ne escluse tre
dalla signoria, cioè Giovanni Bentivoglio e due de' suoi più zelanti
partigiani; incorporò gli altri tredici in un nuovo senato, composto di
quaranta membri, al quale affidò tutta l'autorità. Dopo tale epoca e
fino a questi ultimi tempi l'oligarchia de' quaranta di Bologna
amministrò quella provincia con varie prerogative, che ricordavano la
sua libertà e l'antica indipendenza. La loro situazione, in opposizione
a quella della corte di Roma, li rendeva, a dispetto di una stretta
oligarchia ereditaria, i veri rappresentanti del popolo, ed i costanti
propugnatori de' suoi privilegj. Con ciò ottennero di far rifiorire
nella loro città le arti ed il commercio sbandeggiati dagli altri stati
della Chiesa; ma dopo quest'epoca Bologna più non venne annoverata tra
gli stati indipendenti d'Italia, e più non iscosse che una sola volta e
per breve intervallo il giogo impostole da Giulio II[370].

  [370] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 368. — Jac. Nardi Ist. Fior. l.
  IV, p. 191. — Ist. di Gio. Cambi t. XXI, p. 214. — P. Bembi Ist.
  Ven. l. VII, p. 144._

L'Italia non fu quest'anno turbata da verun altro movimento militare; i
Fiorentini, spossati dalla guerra di Pisa, soffrivano un'estrema carezza
di frumento in primavera del 1506. Vi avevano provveduto colla consueta
loro generosità, senza nemmeno scacciare i poveri forastieri che da ogni
banda si affollavano nella loro città per partecipare alle pubbliche
carità[371]; ma in questa campagna non fecero veruna spedizione contro
Pisa, neppure per guastarne il territorio. Avevano pure in aprile del
1506 rinnovata per tre anni la loro tregua con Pandolfo Petrucci e coi
Sienesi, rinunciando per tutto questo tempo a far valere i loro diritti
sopra Montepulciano, ed obbligandosi ancora a non accettare questa
borgata quand'anche offrisse di darsi spontaneamente. Avevano preferito
di fare quest'accordo con un vicino di cui non si fidavano, ma che non
temevano, al pericolo di chiamare in Toscana un alleato, che sarebbesi
portato da padrone; ed avevano rifiutate le offerte del re di Francia,
che loro proponeva di mandare contro Pandolfo Petrucci cinquecento lance
e due mila svizzeri da mantenersi a spese comuni[372].

  [371] _Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 173. — Scip. Ammirato l.
  XXVIII, p. 276. — Gio. Cambi t. XXI, p. 209._

  [372] _Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 186. — Scip. Ammirato l.
  XXVIII, p. 282._

La tranquillità di cui godeva l'Italia raddoppiava la sua attenzione ai
movimenti di Ferdinando il Cattolico, diventato uno de' suoi più potenti
sovrani. Questo monarca si era imbarcato a Barcellona il 4 di settembre
ed aveva dato fondo con una flotta di cinquanta galere prima in
Provenza, indi a Genova, ove fu ricevuto con infinite onorificenze: poco
dopo, trattenuto dai venti a Porto Fino nella riviera di Levante, vi
ricevette l'inaspettata notizia della morte di suo genero, Filippo I,
accaduta in Burgos il 25 di settembre del 1506 dopo una breve malattia.
Questo principe, che aveva mostrata tanta premura di regnare e che aveva
per così dire spinto in esiglio il suo suocero per occupare il di lui
trono, non aveva potuto goderlo più di tre mesi. Alcuni attribuivano la
sua morte ad uno smoderato esercizio, altri ad una malattia epidemica,
altri all'intemperanza propria di un Fiammingo, diventata assai più
pericolosa in un clima tanto diverso dal suo. Molti finalmente, i quali
sapevano con quanto rincrescimento avesse Ferdinando ceduta la
Castiglia, lo sospettavano vittima di lento veleno[373]. Pure invece di
tornare addietro per riprendere le redini di un governo che aveva
abbandonato con tanto dispiacere, Ferdinando continuò il suo viaggio
alla volta di Napoli. Arrivò il giorno 18 ottobre a Gaeta, ma si
trattenne in quella città o a Portici fino al primo di novembre, giorno
da lui destinato al suo solenne ingresso in Napoli. Gonsalvo di Cordova,
che sapevasi avere così vivamente eccitata la gelosia di Ferdinando, e
che aveva avuto amichevoli avvisi di non porsi tra le di lui mani, non
fece difficoltà di andare a bordo della di lui galera, e di affidarsi a
lui interamente[374]. Ferdinando, accolto con entusiasmo dai Napolitani,
che gli diedero magnifiche feste, volle partecipe di tutti questi onori
il gran capitano che gli aveva conquistato il regno. Volle che il solo
Gonsalvo gli presentasse tutta la nobiltà di Napoli e tutti coloro che
meritavano i suoi favori; lo colmò di distinzioni e di gloria; gli
confermò il possesso del ducato di sant'Angelo, de' suoi beni nel regno
di Napoli, che gli fruttavano ventimila ducati, e vi aggiunse l'ufficio
di grande contestabile del regno; ma era al tutto determinato di non
lasciarlo dietro di sè a Napoli, e facevagli sperare la carica di gran
maestro dell'ordine di san Giacomo di Compostella per compensarlo degli
onori e dell'autorità cui Gonsalvo doveva rinunciare lasciando l'Italia
per la Spagna[375]. L'Europa, che conosceva la fede di Ferdinando il
Cattolico, non vide senza una certa sensazione di duolo il grand'uomo
che l'aveva tanto tempo intrattenuta colle sue imprese, ripartire di là
a cinque mesi col suo padrone per rientrare nell'oscurità.

  [373] _Macchiavelli Legaz. a Roma lett. XXIX, ex Cesena 6 oct., t.
  VII, p. 125. — Jo. Mariana Hist. de las Españas, t. II, p. 225. — P.
  Jov. Epit. Hist. l. IX, p. 156. — Ejusd. Vita M. Consalvi l. III, p.
  251. — Alf. de Ulloa Vita di Carlo V, l. I, f. 53._

  [374] Il Guicciardini dice che il Gonsalvo andò incontro a
  Ferdinando fino a Genova. Il Giovio nella Vita del Gonsalvo, indica
  che lo aspettava al capo di Miseno.

  [375] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 368. — P. Jovii Vita M. Consalvi
  l. III, p. 251. — Belcarii Com. l. X, p. 294. — Macchiavelli Legaz.
  lett. XXIII, ex Urbino 28 sett. p. 113. — Summonte Ist. di Napoli l.
  VI, c. V, t. IV, p. 4. — Jac. Nardi l. IV, p. 190. — Ist. di Gio.
  Cambi t. XXI, p. 213. — P. Bembi Ist. Ven. l. VII, p. 143._



CAPITOLO CIV.

      _Sollevazione di Genova, e sua punizione per parte di Lodovico
      XII; abboccamento di questo monarca con Ferdinando il cattolico;
      Massimiliano minaccia la Francia, attacca i Veneziani, poi fa
      con loro la pace; miseria di Pisa e sua sommissione ai
      Fiorentini._

1506 = 1509.


Non eravi stato verun periodo nella storia d'Italia, in cui Genova
avesse meno richiamato l'attenzione degli altri popoli, e provato minor
numero di quelle intestine convulsioni di cui abbiamo parlato. Vero è
che la repubblica più non era libera, più non aveva volontà propria, nè
più dipendeva dalle sue deliberazioni il partito cui s'appiglierebbe;
Genova, che la violenza delle sue rivoluzioni aveva gettata sotto il
dominio degli Sforza, era in appresso passata sotto l'autorità del re di
Francia, quasi facesse parte del ducato di Milano. Pure in forza di una
volontaria capitolazione ella aveva accordate al sovrano di Lombardia
press'a poco le stesse prerogative che prima esercitava il suo proprio
doge. Questa capitolazione sussisteva sempre tra Genova e la Francia, e
sebbene la libertà più non fosse intera, sebbene la pubblica energia
fosse scemata nella stessa proporzione che i diritti dei cittadini,
sebbene non avessero più flotte dominatrici del Mediterraneo, non armate
che disputassero l'impero dell'Italia, non tesori con cui assoldare le
potenze straniere, non commercio finalmente che potesse rivalizzare con
quello di Venezia, o soltanto di Firenze, pure la sua amministrazione
era tuttavia repubblicana, la costituzione rimasta press'a poco conforme
all'antica, e passabilmente guarantita la sicurezza delle persone e
delle proprietà.

Le fazioni che non molti anni prima avevano dato a Genova una così
formidabile potenza, sentivansi contenute dal timore del monarca, nè più
versavano sangue, nè più si disputavano la suprema autorità colle armi
alla mano. La legge aveva divise le magistrature in eguali porzioni tra
la nobiltà e la plebe, e tutti erano rimasti lungo tempo soddisfatti di
questa divisione. Ma dopo che un governatore francese occupava in Genova
la carica di doge, questo governatore, vanaglorioso de' suoi natali,
aveva data una decisa preferenza alla nobiltà del paese da lui
amministrato. Egli più non ammetteva che nobili nella sua società, loro
accordava il vantaggio in tutte le contestazioni, e quando ancora faceva
eseguire tra di loro ed il popolo la disposizione delle capitolazioni,
si maravigliava che _uomini da nulla_ avessero osato di dettare leggi _a
persone di qualità_.

La nobiltà genovese, approfittando del favore del governatore, aveva
preso verso le classi inferiori un contegno insolente, che non si era
mai permesso di mostrare, finchè, secondo le antiche leggi dello stato,
il doge erasi scelto esclusivamente nell'ordine plebeo. Nello stesso
tempo, sagrificando ogni altra considerazione ai suoi personali
vantaggi, la nobiltà più non prendevasi pensiero dell'indipendenza della
patria, e ad ogni contesa abbracciava sempre l'interesse del padrone
straniero che signoreggiava la repubblica[376].

  [376] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 370._

L'opposizione tra il pubblico interesse de' cittadini, e l'interesse del
cortigiano, che animava i nobili, si manifestò quando i Pisani nel 1504
vollero darsi ai Genovesi, impetrando colle più calde istanze ciò che in
altro tempo i Genovesi avrebbero risguardato come il più luminoso
vantaggio. Tutto il partito popolare si mostrò desideroso di accettare
tale proposizione; per lo contrario la nobiltà, conoscendo le intenzioni
della corte, vi si oppose con estrema ostinazione[377]. Colui che fra
gli altri nobili si adoperò con maggior zelo per rendere vano il comune
voto de' suoi concittadini, fu Gio. Lodovico del Fiesco, di quest'epoca
il più ricco di tutti i membri della nobiltà, e quello che contar poteva
sopra un maggior numero di clienti; perciocchè da un canto possedeva
nella riviera di Levante ragguardevoli feudi, dall'altra aveva ricevuto
dalla bontà del re importanti governi nella riviera di Ponente. Giovan
Lodovico del Fiesco opponevasi all'acquisto di Pisa, perchè voleva
tenere la repubblica genovese in uno stato di debolezza tale da potervi
con minori ostacoli fondare il credito di sua famiglia; perchè voleva
piacere a Lodovico XII, che vedeva con gelosia accrescersi la potenza
dei Genovesi; finalmente perchè accarezzava i Fiorentini, dall'oro dei
quali la pubblica opinione accusavalo in Genova d'essere stato
guadagnato[378]. Ma il ragionamento con cui cercò di far prevalere la
propria opinione manifesta lo strano indebolimento della repubblica;
invece di marinai e di soldati la popolazione di Genova più non contava
che tessitori e manifatturieri; di modo che difficilmente trovavasi
gente da armare due o tre galere per la guardia del porto, mentre non
v'era tesoro, e non si voleva, o non si poteva sopportare straordinarie
imposte[379].

  [377] _P. Bizarri Sen. Pop. Gen. Hist. l. XVII, p. 412._

  [378] _Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 681._

  [379] _Ivi l. XII, p. 682._

L'irritamento del popolo contro la nobiltà andò sempre crescendo dopo
questa contestazione intorno all'acquisto di Pisa. Il popolo cominciò ad
accusare la nobiltà di avere sagrificato l'onore della patria ai
personali vantaggi che si riprometteva dalla corte. Altronde di
quest'epoca il nome di nobiltà ristringevasi in Genova ai soli
discendenti delle quattro potenti famiglie che avevano pel corso di un
secolo esercitata la sovranità in quella repubblica; mentre che i
discendenti di coloro che prima del tredicesimo secolo avevano divisa
l'amministrazione coi Doria e cogli Spinola, coi Fieschi e coi Grimaldi,
o di coloro che si erano innalzati dopo il 1339, erano egualmente
confusi sotto il nome di popolo. Quest'ultimo ordine pareggiava quello
dei nobili in ricchezze ed in talenti, e non credevasi pure per conto
dei natali da meno di loro. Sì gli uni che gli altri si consacravano al
commercio, che suole inspirare sentimenti di eguaglianza; e quando i
nobili cominciarono ad armarsi di pugnale, sul di cui manico avevano
fatto incidere castiga villano, i plebei, che si sentivano ad un tempo
minacciati ed oltraggiati da tanta insolenza, giurarono di vendicarsi di
un disprezzo così poco meritato[380].

  [380] _Jean d'Anton Hist. de Louis XII, an. 1506, p. 47. —
  Observations sur les Mém. de Fleuranges t. XVI, p. 329. — Uberti
  Folietæ l. XII, p. 687. — Ag. Giustiniani An. di Genova l. VI, f.
  258._

Ogni giorno qualche gentiluomo insultava qualche cittadino dell'ordine
del popolo; ma questi non poteva sperare soddisfacimento, perchè la metà
di tutti i tribunali e di tutti i consiglj era composta di nobili,
determinati a sottrarre i loro compagni ad ogni castigo, e perchè il
governatore reale era sempre disposto ad assecondarli. Perciò dopo
qualunque oltraggio, dopo qualsiasi atto violento, il popolo si adunava
sempre per domandare, che, postocchè le famiglie dell'ordine popolare,
illustri, ricche e da gran tempo in possesso del governo, erano il
doppio più numerose di quelle dei nobili, ottennessero altresì i due
terzi de' pubblici impieghi. Questa domanda, presentata più volte, era
dai nobili sdegnosamente respinta e dal governatore delusa. Ma questi
cominciava a concepire qualche inquietudine dell'universale fermento,
per calmare il quale si adottò la norma, qualunque volta un nobile
faceva ingiuria ad un popolano di bandire l'offensore e l'offeso; onde
sottrarli così ambidue agli occhi de' faziosi che potevano inasprirsi.

Quest'artificio ritardò per qualche tempo una esplosione che sembrava
inevitabile, ma non potè impedirla. Una contesa, accaduta in un mercato
per leggierissimo motivo tra Visconti Doria, gentiluomo altronde
universalmente stimato, ma orgoglioso ed irascibile come i suoi pari, ed
un popolano[381], fece immediatamente prendere a tutti le armi. Paolo
Battista Giustiniani ed Emmanuello Canali, ambidue dell'ordine del
popolo, sebbene appartenenti ad illustri famiglie, si posero alla testa
de' sollevati. Visconti Doria fu ucciso, un altro Doria ed alcuni altri
nobili feriti, e Roccabertino, luogotenente del re, non ottenne di
calmare il popolo che col promettere che d'ora innanzi l'ordine del
popolo avrebbe due parti nelle elezioni, e la nobiltà la terza. La
proposizione fu portata nel susseguente giorno al supremo consiglio;
approvata; ed ebbe forza di legge[382].

  [381] «Fu un certo Guillon, della classe del popolo, dice Giovanni
  d'Anton, storico francese contemporaneo, il quale contrattava con
  taluno che colà si trovava dei funghi, e li voleva portar via; così
  li voleva pure Visconti Doria, gentiluomo, il quale diede di piglio
  al paniere dov'erano detti funghi. Il Guillon, che ancora non gli
  aveva pagati, li volle per sè, dicendo ch'era stato il primo a
  contrattarli, e che gli avrebbe; ciò vedendo il detto gentiluomo
  diede un gran pugno sul volto al Guillon, dicendo: Porta via
  cotesto, ed io i funghi. Ed infatti sguainò una daga e volle ferire
  il detto Guillon che subito si trasse a dietro, e come oltraggiato
  d'essere stato battuto, tutto pieno d'ira e di livore cominciò a
  gridare: _Popolo! popolo! addosso ai gentiluomini!_ onde tutt'ad un
  tratto il popolo si mosse.... Sicchè in meno di un'ora più di dieci
  mila villani furono armati per le strade.» _Giovanni d'Anton Ist. di
  Lodovico XII, p. 47. — Observ. sur les Mémoires de Fleuranges t.
  XVI, p. 330. — Ag. Giust. VI, f. 259._

  [382] _Ub. Folietæ l. XII, p. 690. — P. Bizarro Hist. Gen. l. XVIII,
  p. 414. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 371. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall. l. X, p. 296. — Ag. Giustiniani Ann. l. VI, f. 260._

Ma la vittoria dovevasi ad una sollevazione di tutto il popolo, mentre
che le illustri famiglie dell'ordine popolare sembravano aver voluto
riservarne a sè sole tutti i frutti; ben tosto più non furono padrone
delle classi inferiori da loro poste in movimento. Tre giorni dopo
ch'era stata portata la legge che cambiava la divisione de' pubblici
onori; la plebaglia sollevossi di nuovo, andò ad attaccare le case dei
nobili, ed a saccheggiarle. I capi dell'ordine popolare si opposero con
tutte le forze che avevano a questo anarchico tumulto; i nobili
fuggirono ed implorarono contro la loro patria l'assistenza degli
stranieri[383].

  [383] _Ub. Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 691. — Jac. Nardi Ist.
  Fior. l. IV, p. 192._

I nobili genovesi fuggiaschi avevano convenuto di trovarsi in Asti, ove
si adunarono presso Filippo di Ravenstein, che Lodovico XII aveva
nominato governatore di Genova, affinchè l'alto rango di questo signore,
e la memoria del potere da lui in altri tempi esercitato in quella
città, rendesse più facilmente i cittadini ubbidienti. Ma mentre che
Giovan Lodovico dei Fieschi e tutti i gentiluomini fuggitivi eransi
ragunati intorno al Ravenstein, giunsero presso di lui gli ambasciatori
della repubblica per giustificare la condotta de' loro concittadini, ed
assicurare il governo dell'intera loro sommissione. Il Ravenstein entrò
in Genova il 15 di agosto, circondato dalle truppe e preceduto dai
magistrati a piedi. Egli cercava d'inspirar terrore, ed invece eccitò la
diffidenza ed il risentimento. L'aristocrazia plebea, che aveva
cominciata la rivoluzione, temeva di compromettersi in faccia al
governatore, ed altronde temeva la rivalità delle classi inferiori: ma
queste fecero col loro vigore comprendere al Ravenstein il pericolo di
provocare una potente città, che il più leggiere abuso d'autorità
potrebbe spingere alla ribellione. Egli costrinse Giovan Lodovico del
Fiesco ad uscire da Genova; acconsentì che si nominassero i magistrati
in conformità del decreto che faceva una nuova divisione de' pubblici
onori; e non si oppose alla creazione di otto tribuni scelti dal popolo
per essere i loro protettori[384].

  [384] _Ub. Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 692. — P. Bizarri S. P.
  Hist. Gen. l XVIII, p. 415 — Fr. Guicciardini l. VII, p. 371. — Ag.
  Giustiniani l. VI, f. 260, v._

La stessa causa che si agitava innanzi al Ravenstein, trattavasi ancora
innanzi a Lodovico XII, cui dalla repubblica era stato spedito il
giureconsulto Nicolò Oderici, in qualità di ambasciatore, per difendere
le pretese del popolo. Il motivo col quale i nobili avevano
principalmente cercato d'irritare il re, fu appunto quello che gli fece
sentire il bisogno di procedere con moderazione, avendo essi
rappresentati i loro avversarj in atto di deliberare se dovessero
assoggettare la repubblica ad un altro principe estero.

Di quest'epoca Filippo I, re di Castiglia, viveva ancora; e Lodovico
XII, che lo vedeva camminare rapidamente a quella potenza cui giunse in
seguito Carlo V, aveva di lui concepita un'estrema diffidenza. Per non
dargli occasione di prendere piede a Genova, Lodovico acconsentì a
sanzionare egli medesimo il decreto che riduceva i nobili al terzo de'
pubblici onori; ma vi aggiunse una condizione: che tutti i feudi che
Giovan Lodovico del Fiesco possedeva nella Riviera di levante gli
sarebbero restituiti. In tempo delle turbolenze il partito popolare gli
aveva attaccati, e conquistatone il maggior numero. Michele Rizio,
giurisconsulto ed emigrato napolitano, venne incaricato di recare a
Genova il decreto, e di dargli esecuzione[385].

  [385] _Uberti Folietæ Hist. Gen. l. XII, p. 693. — P. Bizarri Hist.
  Gen. l. XVIII, p. 416. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 372. — Fr.
  Belcarii Com. Rer. Gall. l. X, p. 296._

Gli uomini più distinti del partito popolare erano contenti, e non
chiedevano di più. Ma il popolo ed i tribuni da lui scelti non erano di
ciò soddisfatti; essi dicevano, che richiamando in Genova un gentiluomo
orgoglioso, vendicativo, e che aveva abjurata la patria per vendersi
alla corte, che restituendogli que' feudi che gli davano il modo di
avere a sua disposizione alcune migliaja di vassalli e le migliori
rocche della Liguria, non potevasi trovare veruna guarenzia nelle leggi
ch'egli aveva così frequentemente violate. Erano ben contenti di
ricevere entro la loro città Giovan Lodovico del Fiesco, ma a condizione
che i suoi feudi fossero governati dalle leggi comuni, e subordinati ai
magistrati della repubblica. Si è più volte rinfacciato ai riformatori
di non aver saputo contenersi entro un limite nelle loro riforme: in
fatti il rimprovero è fondato; volendo sempre avanzare, compromettono
ciò che hanno di già acquistato, ed arrivano frequentemente a perdere un
vantaggio certo per avere voluto ottenerne un altro di cui avrebbero
potuto far senza. Ma non dobbiamo dimenticare quale sia lo stato della
legislazione, quale sia l'ordine pubblico ne' paesi in cui
s'intraprendono tali riforme; ovunque non s'incontrano che abusi,
usurpazioni e patimenti. I riformatori hanno quasi sempre giustissimi
motivi per distruggere ciò che attaccano, sebbene avrebbero mostrato
maggiore prudenza e moderazione conservando una parte dell'edificio ed
approfittandone mentre che rifacevano l'altra parte. In appresso vengono
severamente giudicati dietro le istituzioni con cui rimpiazzarono le
abolite; ma quelle non hanno a favor loro nè l'appoggio dell'esperienza
che supplisce al raziocinio, nè la sanzione del pregiudizio, che
dispensa dalla disamina. La forza d'inerzia conserva ancora lungamente
il movimento acquistato di una cattiva macchina; la stessa forza si
oppone altresì lungamente al movimento, che si vuole dare ad una
macchina migliore d'assai, ma che non fu peranco adoperata.

Era indubitatamente dannoso alla repubblica il lasciare in mano di
Giovan Luigi del Fiesco, dichiarato nemico dell'ordine popolare, la metà
delle terre murate nelle due riviere, e quelle in particolare da cui la
città traeva le sue vittovaglie; di modo che questo cittadino poteva
all'ombra della pace tenere la sua patria come assediata. Per altro le
persone prudenti avrebbero desiderato di assoggettarsi a
quest'inconveniente, piuttosto che esporsi al pericolo assai più grave
di ricusare l'aggiustamento proposto dal re: per lo contrario il popolo,
invece di voler rendere al suo nemico de' feudi, che non possedeva con
altro titolo che con quello di un'antica usurpazione, risolse di
riconquistare un altro feudo egualmente tolto alla repubblica da una
famiglia nobile, quello di Monaco, di cui erasi impadronito Luciano
Grimaldi, e di cui, sotto la protezione di una fortissima rocca, aveva
formato un asilo pei pirati armati a danno del commercio di Genova. I
tribuni del popolo chiamarono da Pisa Tarlatino, che aveva con tanto
valore difesa quella città, e che nel presente anno vi si credeva
inutile, perchè i Fiorentini avevano sospesi i loro attacchi. I Tribuni
gli diedero due mila uomini con due galere ed alcuni piccoli vascelli, e
gli ordinarono in sul finire di settembre di attaccare Monaco[386].

  [386] _Ub. Folietæ l. XII, p. 694. — P. Bizarro l. XVIII, p. 416. —
  Fr. Guicciardini l. VII, p. 373. — Jacopo Arrosti Cron. di Pisa in
  Arch. Pisano f. 228, v. — Ag. Giustiniani l. VI, p. 261._

Il Ravenstein, irritato da questa mancanza di riguardi, il 25 di ottobre
abbandonò una città dove l'autorità reale più non era rispettata.
Altronde la gelosia del signore di Chaumont, nipote del cardinale
d'Amboise e governatore di Milano, e quella del luogotenente del re,
Roccabertino, che aveva comandato in tempo di sua assenza, rendevano la
sua situazione critica e spiacevole. Altri emigrati della nobiltà
avevano invocata la protezione di Lodovico XII, il quale, liberato per
la morte di Filippo, re di Castiglia, dai timori che aveva concepiti per
conto dell'Italia, risolse di ristabilire con aperta forza la sua
autorità in Genova, di condurvi egli medesimo la sua armata, onde non
esporsi ai danni che la divisione dell'autorità aveva in addietro
cagionato ai suoi luogotenenti, e di approfittare di questa spedizione
per avere in Bologna col papa un abboccamento intorno agli affari di
Venezia, che Giulio II chiedeva caldamente già da qualche tempo[387].

  [387] _P. Bizarro Hist. l. XVIII, p. 417. — Ub. Folietæ l. XII, p.
  696. — Fr. Belcarii Comm. l. X, p. 296. — Ag. Giustiniani l. VI, f.
  262._

Mentre che Lodovico XII adunava le sue truppe per la spedizione
d'Italia, ordinò al comandante del Castelletto di Genova, ed al signore
di Chaumont, di trattare i Genovesi come nemici. Il primo, uomo crudele
ed avido, colse con piacere quest'occasione che gli si offriva di far
del male. Una festa aveva chiamata alla chiesa di san Francesco, attigua
al Castelletto, una numerosa congregazione: il comandante, senza prima
avere denunciato il cominciamento delle ostilità, occupò le porte di
quella chiesa, e dopo averne fatti uscire i gentiluomini e le donne,
fece porre in carcere tutti i cittadini che vi si trovarono, ai quali
non diede la libertà che pel prezzo di dieci mila fiorini. Subito dopo
cominciò a bombardare la città ed il porto; calò a fondo molti vascelli
e distrusse parecchie case, ove gli abitanti erano affatto fuori di
sospetto dall'aspettarsi una tale violenza. Nello stesso tempo
Roccabertino lasciò una città che risguardava come ribelle, sebbene lo
stendardo reale continuasse ancora lungo tempo a sventolare sul
pretorio. Il signore di Chaumont vietò ai Genovesi ogni commercio colla
Lombardia, e loro ricusò il frumento che solevano esportarne. Intanto
Ivone d'Allegre s'incamminò verso Monaco per costringere il Tarlatino a
levarne l'assedio[388].

  [388] _P. Bizarro l. XVIII, p. 417. — Ub. Folietæ l. XII, p. 698. —
  Fr. Guicciardini l. VII, p. 374. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 262,
  v._

Carlo Domenico del Carretto, cardinale di Finale, esortava i Genovesi,
suoi compatriotti, a pacificarsi col re, onde non provocare contro di
loro tutte le di lui forze, in un tempo in cui si vedevano senz'alleati;
offrì loro la sua mediazione, promettendo di conservare tutti i
privilegi alla città ed al partito popolare. Ma i Genovesi non si
credevano così privi di mezzi come effettivamente lo erano. Avevano essi
implorata l'assistenza del papa, il quale, nato a Savona, era loro
compatriotto, e che per conto di sua famiglia apparteneva al partito
popolare. Giulio II aveva infatti scritto al re assai caldamente in
favore della sua patria, e perchè le sue rimostranze erano rimaste
infruttuose, aveva dispettosamente abbandonata Bologna il 22 di febbrajo
per tornare a Roma, rendendo in tal modo impossibile l'abboccamento che
il re si era proposto di avere con lui in Italia, e tanto più
mostrandosi sollecito di partire, quanto maggiori erano le istanze del
cardinale d'Amboise per trattenerlo[389].

  [389] _Ub. Folietæ l. XII, p. 697. — P. Bizarro l. XVIII, p. 417. —
  Fr. Guicciardini l. VII, p. 374. — Jac. Nardi l. IV, p. 192. —
  Parisius a Grassis in Itinere Julii II apud Rayn. An. eccl. 1507, §
  1, t. XX, p. 48._

I Genovesi avevano pure trovato favorevole accoglimento presso
l'imperatore Massimiliano, di cui avevano invocata la protezione. Questo
monarca, sempre apparecchiato a tutto intraprendere, sempre incapace di
condurre a fine verun suo disegno, sempre compromettendo la sua dignità
imperiale col suo ardore di voler far rivivere certi diritti dell'impero
andati in desuetudine e colla debolezza e coll'instabilità con cui poco
dopo gli abbandonava, scrisse caldamente a Lodovico XII per
raccomandargli i Genovesi; gli rammentò che dipendevano dalla camera
imperiale, e che avevano diritto alla sua protezione; e perciò offriva
la sua mediazione pel ristabilimento della pace. Questa lettera
vivamente eccitò la gelosia di Lodovico XII, poichè questi risguardolla
come una prova della _defezione_ dei Genovesi, i quali scuotevano il
giogo della sua autorità per porsi sotto quella dell'imperatore.
Peraltro egli conosceva bastantemente per lunga esperienza il carattere
di Massimiliano, onde essere sicuro che le sue parole non sarebbero
seguite dai fatti; e questa lettera non produsse altro effetto che
quello di affrettare la sua spedizione[390].

  [390] _Ub. Folietæ Hist. l. XII, p. 699. — P. Bizarri Gen. Hist. l.
  XVIII, p. 418._

Le vane speranze con cui Massimiliano aveva nudriti i Genovesi, gli
spinsero finalmente ad iscuotere del tutto il giogo dell'autorità
francese, che avevano fin allora rispettata. Nominarono un doge, lo che
tornava lo stesso che proclamare la loro indipendenza; e perchè le
illustri famiglie dell'ordine popolare si tenevano lontane, sia per
timore del risentimento del re, sia per gelosia delle classi inferiori
che si erano poste in movimento, il 15 di marzo conferirono questa
sublime dignità a Paolo di Novi, direttore d'una tintoria di seta, uomo
di non distinti natali, e probabilmente povero; ma che aggiungeva a
molta forza di carattere, ed a somma integrità, un'attitudine agli
affari ed un coraggio degni di più felici circostanze[391].

  [391] _Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 699. — P. Bizarri l. XVIII,
  p. 417. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 375. — Ag. Giustiniani l. VI,
  f. 263._

I primi atti della sua amministrazione sembravano presagire prosperi
risultamenti. Tre mila fanti ed uno squadrone di cavalleria, comandati
da Girolamo, figlio di Giovan Lodovico dei Fiesco, e da suo cugino
Emmanuele, si avanzavano verso Rapallo e Recco, per riacquistare il
possesso di quelle due terre del dominio dei Fieschi; Paolo di Novi fece
attaccare questa gente in su la strada e la sconfisse. Orlandino dei
Fieschi, che cercava di penetrare nello stesso feudo per un'altra
strada, fu egualmente respinto e fugato. Il Castellaccio, vecchia rocca
nella più alta parte delle mura, ove i Francesi non avevano che una
piccolissima guarnigione, fu forzato ad arrendersi; un nuovo riparo
venne innalzato sul promontorio della lanterna, per tagliare la strada
agli assalitori; e si cominciò l'assedio del Castelletto, mentre che si
ebbe l'antiveggenza di levare tutti i viveri e tutti i foraggi dalla
valle della Polsevera, affinchè l'armata francese non vi si potesse
mantenere[392].

  [392] _Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 700. — Fr. Belcarii Com.
  Rer. Gal. l. X, p. 297._

Ma veruna combinazione militare può avere un felice risultamento,
allorchè ne viene affidata l'esecuzione a milizie di nuova leva. Il loro
coraggio è sostenuto momentaneamente dall'entusiasmo; ma poi tutto ad un
tratto si lascia vincere da panici terrori, che niuna cosa poteva far
prevedere. L'immaginazione, che nel soldato è una facoltà in parte
soggiogata dalla disciplina, rimane sempre il più possente mobile della
moltitudine. Lodovico XII, che aveva ragunata in Asti la sua armata,
innoltravasi, a metà d'aprile all'incirca, per la via di Borgo de'
Fornari e di Sarravalle. Perchè il paese in cui andava a portare la
guerra non era fatto per la cavalleria, non conduceva che ottocento
cavalieri di pesante armatura, e mille cinquecento cavaleggeri; ma loro
faceva tener dietro sei mila svizzeri e sei mila fanti francesi. Paolo
di Novi non aveva trascurato di fermarli alle prime gole delle montagne;
aveva fatti occupare i più importanti passi da seicento fanti genovesi,
perchè un maggior numero di gente sarebbe stato inutile in quegli
angusti passi, e la più piccola resistenza pareva sufficiente per
fermarvi il nemico. Ad ogni modo il 26 di aprile, i Genovesi, alla vista
della grossa armata francese che stava per attaccarli, furono compresi
da subito terrore; si posero tutti ad un tratto vergognosamente in fuga
senza nè pure aver tentato di combattere; abbandonarono senza fare la
menoma resistenza tutti i passi delle montagne ai Francesi, e si
ripararono in Genova ove furono accompagnati da tutta la moltitudine
degli abitanti della Polsevera, che cercavano di sottrarsi al saccheggio
coi loro effetti e bestiami[393].

  [393] _Ub. Folietæ l. XII, p. 701. — P. Bizarri S. P. Gen. Histor.
  l. XVIII, p. 418. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 376. — Fr. Belcarii
  Com. l. X, p. 298. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 263._

Un eguale terrore colpì gli abitanti di Genova all'arrivo di questa
fuggitiva truppa. L'armata del re era di già penetrata nella Polsevera;
le formidabili montagne, veri propugnacoli di Genova, erano state
forzate, ed il recinto delle sue mura più non ispirava confidenza agli
abitanti. Tutti si apparecchiavano ad essere saccheggiati, e d'altro
omai non si occupavano che di nascondere le cose più preziose; spesso,
diffidando della propria nemica fortuna, credevano più sicura della
propria la casa di un altro, ed affidavano le proprie ricchezze al
vicino egualmente atterrito. Per altro i cittadini facevano sui loro
tetti approvvigionamenti di pietre, di dardi e di projettili, come
fossero le loro case che dovevansi difendere, e non le mura della città.
Queste mura erano abbandonate, e Paolo di Novi vedevasi ridotto a far
barricate alle strade dopo aver alloggiati i fuggitivi della Polsevera
nelle case de' nobili assenti, e ad apparecchiare la resistenza entro la
città medesima, poichè non poteva persuadere i suoi concittadini a
difenderne valorosamente il recinto[394].

  [394] _Ub. Folietæ l. XII, p. 701. — Ag. Giustiniani l. VI, f. 263,
  v._

Ad ogni modo si ristabilì in Genova qualche ordine, prima che i Francesi
potessero arrivare in faccia alle porte. Tarlatino, ch'era stato
richiamato dall'assedio di Monaco, non aveva potuto entrare in città,
perciocchè un corpo nemico gli tagliava la strada per terra, ed i venti
contrarj gli chiudevano la via del mare; ma il suo luogotenente, Giacomo
Corso, venne incaricato della difesa del promontorio che cuopre il
porto: otto mila uomini di milizia sortirono con lui dalla città il 27
di aprile ed occuparono l'altura di Belvedere sotto al castello. I
Francesi, ch'erano schierati in battaglia a Rivarolo, gli attaccarono e
furono respinti con grave perdita fino all'istante in cui il Chaumont,
avendo potuto far avvicinare due pezzi di cannone, prese di fianco i
Genovesi e li costrinse a ritirarsi. Mentre riguadagnavano le montagne
dietro di loro, la guarnigione, che doveva difendere il nuovo forte
della Lanterna ed il suo promontorio, temette di trovarsi tagliata
fuori, e fuggì vilmente senza aspettare il nemico. La truppa che
ritiravasi dalla battaglia più non potendo entrare in città per
Belvedere e per la Lanterna, fu costretta a tentare gli scoscesi
sentieri delle alture, ove perdette molta gente[395].

  [395] _Ub. Folietæ Gen. Hist. l. XII, p. 701. — P. Bizarri Genuens.
  Hist. l. XVIII, p. 419. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 377. — Fr.
  Belcarii Com. l. X, p. 298. — Mém. du chev. Bayard, t. XV, ch.
  XXVII, p. 60. — Agost. Giustiniani l. VI, f. 263, v._

I Genovesi, costernati da questo secondo disastro, spedirono al re
Stefano Giustiniani e Battista Rapallo per offrire di capitolare. Il
cardinale d'Amboise loro dichiarò che Lodovico era determinato di non
riceverli che a discrezione; che peraltro voleva promettere di
rispettare le private proprietà. Mentre che si stava negoziando, una
numerosa truppa che vedeva con dolore la vergogna che questa
capitolazione apparecchiava alla sua patria, scese dalle alture di
Castellaccio verso di Belvedere, per tentare di riconquistare quel
ridotto; ma dopo una zuffa di tre ore, sostenuta con grande valore, fu
costretta a rinunciare alla sua intrapresa. Andato a vuoto questo
tentativo, i magistrati spedirono altri deputati a Lodovico, con facoltà
di accettare tutte le condizioni, che vorrebbe imporre; mentre che il
doge Paolo di Novi e tutti coloro che avevano troppo figurato nelle
passate turbolenze per isperare perdono, si ritirarono a Pisa[396].

  [396] _Ub. Folietae Gen. Hist. l. XII, p. 702. — P. Bizarri S. P. q.
  Gen. Hist. l. XVIII, p. 420. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 377._

Il re voleva domare i Genovesi e loro inspirare un durevole timore; ma
non ruinarli. Quando gli furono consegnate le porte, ne affidò la
guardia ad uomini d'armi francesi, e non voleva che gli Svizzeri, cui
non avrebbe potuto impedir di rubare, entrassero in città. Egli stesso
fissò di farvi il suo ingresso il 29 di aprile[397], e lo fece a
cavallo, armato di tutto punto, tenendo la spada sguainata in mano. I
magistrati, che si erano avanzati ad incontrarlo, lo ricevettero in
ginocchioni, supplicandolo di condonare alla loro città una ribellione
che non era contro di lui diretta. Le loro preghiere e quelle delle
donne e de' fanciulli, che chiedevano grazia portando in mano tralci
d'ulivo, parve che lo commovessero: dichiarò ai Genovesi che loro
perdonava; ma era un perdono di re. S'innalzarono patiboli in molte
parti della città, e molti cittadini furono appiccati dopo una
processura sommaria: un falso amico, cui Paolo di Novi erasi confidato a
Pisa per gire a Roma, lo vendette ai Francesi; questo rispettato doge fu
ricondotto a Genova per esservi giustiziato; la sua testa fu posta in
cima ad una picca sulla torre del Pretorio, e le sue membra divise in
quarti vennero esposte sulle porte della città. La massa de' cittadini
fu condannata ad una contribuzione militare di trecento mila fiorini,
che il re poscia ridusse a dugento mila. Si edificò alla Lanterna una
rocca inespugnabile, e tale da signoreggiare nello stesso tempo
l'ingresso del porto e la città; finalmente tutti i privilegi di Genova,
ed il suo trattato col re di Francia si bruciarono pubblicamente. Per
altro Lodovico rendette alla comune un governo municipale, ma come una
concessione fatta di suo beneplacito e non come un diritto, e vi
ristabilì i nobili nella metà degli onori pubblici. Questa sentenza fu
da tutti i cortigiani celebrata come un monumento della clemenza del re,
e trovasi registrata da tutti gli storici come un testimonio della
maravigliosa sua bontà[398].

  [397] _P. Bizarro l. XVIII, p. 420. — Fr. Belcarii, Com. l. X, p.
  299. — Fr. Guicciardini l. VII, p. 378._ — Ma Giacomo Nardi che
  s'attiene sempre al giornale del Buonaccorsi protrae tutti questi
  avvenimenti tre settimane, e fissa l'ingresso del re al 17 di
  maggio. _Hist. Fior. t. IV, p. 193. Ag. Giustiniani l. VI, f. 264_,
  dice il 28 di aprile.

  [398] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 379. — P. Bizarro l. XVIII, p.
  422. — Jac. Nardi l. IV, p. 194. — Fr. Belcarii l. X, p. 300. — P.
  Giovio vita di Alfonso d'Este p. 19. — Muratori An. d'Italia 1507,
  t. X, p. 35. — Agost. Giustiniani l. VI, f. 264. — Arnol. Ferroni l.
  IV, p. 66._

Lodovico XII trovavasi solo in Italia alla testa di una formidabile
armata, mentre che tutti gli altri potentati erano disarmati; ma egli
ben sapeva quanto così eccitasse la loro gelosia, ed in particolare
quella di Massimiliano e de' principi tedeschi; onde per calmare i loro
timori si affrettò di licenziare le sue truppe, ed il 14 di maggio passò
a Milano, aspettando avviso che Ferdinando il Cattolico, con cui doveva
avere un abboccamento in Savona, si fosse imbarcato a Napoli.

Ferdinando era stato accolto nel regno di Napoli colle più vive
speranze; non erasi dubitato che non ritornasse la pace alle province, e
non ponesse fine ai disordini ed alle intollerabili estorsioni sotto cui
gemevano. Ma Ferdinando era povero, ed inoltre era avaro; si era
obbligato di restituire ai baroni angiovini i poderi confiscati da lui e
da' suoi predecessori; e siccome in appresso erano stati cotesti poderi
donati o renduti ad altri gentiluomini del partito arragonese, che
Ferdinando non osava spogliare, era costretto a ricomprarli; perciò
talvolta non li pagava che per metà, o non li rendeva che
incompletamente; e per farlo era pure forzato di raddoppiare tutte le
imposte, e di opprimere il popolo con insolite estorsioni; di modo che
scontentava egualmente le due classi dei gentiluomini, e tutti i
contribuenti[399].

  [399] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 384. — Jo. Marianae de reb.
  Hisp., l. XXIX, c. 4, p. 262. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p.
  195. — Fr. Belcarii Com. Rer. Gal. l. X, p. 302._

Ferdinando non aveva meglio saputo cattivarsi l'amore dell'unico suo
vicino, Giulio II, che de' suoi proprj sudditi. Gli aveva chiesta
un'investitura piena ed intera di tutto il regno in suo proprio nome,
sebbene a seconda del suo trattato colla Francia, l'Abbruzzo e la
Campania, ch'erano stati ceduti a Lodovico XII col trattato di Granata,
dovessero risguardarsi come formanti la dote di Germana di Foix, sua
consorte. Inoltre chiedeva Ferdinando che il censo annuale, che il regno
doveva alla Chiesa, fosse per lui ridotto come lo era stato per i suoi
predecessori: per lo contrario Giulio insisteva per l'intero pagamento
del tributo com'era regolato dalle antiche investiture. Questi punti
controversi non erano ancora stati definiti, quando Ferdinando risolse
di partire dal regno di Napoli per tornare a Barcellona. Salpò dalla sua
capitale il 4 di giugno, e non volle approdare ad Ostia, sebbene sapesse
che il papa lo stava colà aspettando per avere con lui un
abboccamento[400].

  [400] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 384. — Jo. Marianae de reb.
  Hisp., l. XXIX, c. VIII, p. 269. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall. l.
  X, p. 302._

Ferdinando era sollecitamente richiamato in Ispagna dal bisogno di
provvedere al governo del regno di Castiglia. La di lui figlia,
Giovanna, dopo la morte di Filippo, suo sposo, era oppressa dal dolore;
e pareva che non comprendesse se non ciò che risguardava il perduto suo
sposo, e non si poteva intorno a qualsiasi altro argomento ottenere da
lei risposta. Sebbene la sua condotta sembrasse frequentemente
straordinaria, ed eccessivo il suo dolore, non perciò erasi ancora
conosciuto che aveva perduta la ragione. Un tale sospetto presentasi
sempre tardi ai cortigiani, ed è lungamente respinto malgrado
l'evidenza. Pure la regina non voleva dare verun ordine, non voleva
sottoscrivere decreti, e l'inalterabile attaccamento de' Castigliani
alle loro forme legali gettava il regno in una assoluta anarchia. La
nobiltà di ogni paese era divisa in fazioni, che cominciavano a farsi
giustizia da loro colle armi alla mano; la nazione non era per anco
accostumata all'orrore delle procedure dell'inquisizione stabilita da
Isabella, e Cordova erasi sollevata per iscuotere il giogo
degl'inquisitori[401]. Ferdinando era da tutti i partiti richiamato in
un regno, da cui era stato espulso pochi mesi prima; pareva che la sola
sua mano potesse mettere fine all'anarchia.

  [401] _Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. III e V, p. 261,
  264._

Ferdinando più non doveva trovare in Ispagna il celebre avventuriere che
vi aveva fatto condurre prigioniero. La libertà del duca Valentino,
Cesare Borgia, era stata da Ferdinando rifiutata al re di Navarra, di
cui egli aveva sposata la sorella, al duca di Ferrara che aveva sposata
la sua, e che si faceva garante pel Valentino, finalmente ai cardinali
spagnuoli debitori della loro elezione ad Alessandro VI[402]. Ma il
Borgia aveva potuto salvarsi colla fuga, valendosi di una scala di corda
per iscendere dalle mura della fortezza di Medina del Campo dov'era
stato chiuso, ed erasi rifugiato presso suo cognato Giovanni d'Albret,
re di Navarra. Questi, che in allora trovavasi in guerra col conte di
Lerin, credette di non poter confidare a miglior capitano il comando
della sua armata. Pure Cesare Borgia il 10 di marzo fu tratto da un
corpo di cavalleria, che fuggiva innanzi a lui, in un'imboscata che gli
si era apparecchiata in vicinanza di Viane; rovesciato da un colpo di
lancia dal suo cavallo, continuò ancora a difendersi valorosamente a
piedi, finchè, oppresso dal numero, fu ucciso. Quest'uomo, renduto
celebre da tanti delitti, non era privo di virtù; valoroso, eloquente,
accorto, prodigo de' suoi beneficj senza mai sbilanciare le sue finanze,
zelante per la conservazione della giustizia ne' suoi stati, abbastanza
illuminato per dar loro un'amministrazione che li fece in poco tempo
prosperare, egli seppe rendersi caro ai suoi sudditi ed a' suoi soldati,
mentre era l'orrore e lo spavento de' principi suoi vicini e di coloro
che non erano a lui soggetti[403].

  [402] _Ivi, l. XXVIII, c. XII, p. 240._

  [403] _Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. VI, p. 266. — Jac.
  Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 199._

Ferdinando arrivò a Savona il 28 di giugno, e vi trovò Lodovico XII, che
lo stava attendendo, e colà i due sovrani si trattennero quattro giorni
in segrete famigliarissime conferenze. Lodovico XII era stato il primo a
visitare Ferdinando sulla sua galera; lo ricevette in appresso a vicenda
in casa sua; e l'Italia non poteva concepire come questi due monarchi,
tanto tempo nemici, e di così poco dilicata parola, si fidassero
alternativamente l'uno dell'altro. Gonsalvo di Cordova accompagnava il
re cattolico, che non aveva voluto lasciarlo solo a Napoli; Lodovico
XII, pieno di ammirazione pel generale che gli aveva fatto tanto male,
volle che solo degli uomini privati fosse ammesso alla mensa a cui
mangiavano i due re e la regina. Tutta la corte di Francia mostrava lo
stesso rispetto per Gonsalvo; ma fu questo l'ultimo giorno di trionfo di
quel gran capitano: tanti onori non servirono che ad accrescere la
diffidenza di Ferdinando, il quale, ricusandogli la carica di gran
maestro di Compostella, cercando di scemare la sua ricchezza, di
abbassare la sua famiglia, di perderlo nell'opinione de' suoi amici, lo
ritenne a Loxa, lontano 10 miglia da Granata, in una specie d'esilio
fino al 2 di dicembre del 1515, in cui Gonsalvo morì di doppia febbre
quartana nell'età di sessantatre anni[404].

  [404] _P. Jovii Vita M. Consalvi l. III, p. 252 usque ad finem, p.
  268. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 385. — Jo. Marianae de reb.
  Hisp. l. XXIX, c. IX, p. 270. — P. Bizarri Gen., l. XVIII, p. 425. —
  Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 198. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall. l. X, p. 303._

Le risoluzioni prese dai due re nella loro conferenza di Savona, e che
seppersi in seguito avere avuto per principale oggetto gli affari di
Venezia e quelli di Pisa, rimasero alcun tempo ancora avviluppate in
profondo segreto; mentre che l'ingresso di Lodovico XII in Italia con
una potente armata, che la sommissione di Genova, che il suo soggiorno
in Milano ed il suo abboccamento in Savona con Ferdinando, sorprendevano
tutti i popoli, e spaventavano tutte le corti. Lo scioglimento
dell'armata francese, ed il ritorno di Lodovico in Francia, non
calmarono questi timori che dopo di aver loro lasciato il tempo di
produrre importanti effetti. Tanti stati si trovavano in allora in una
precaria situazione; tanti malcontenti e segrete gelosie dividevano i
governi, che verun di loro non vedeva senza un estremo terrore un
monarca straniero comandare in Italia un'armata, che sola bastare poteva
a regolare i destini di tutto il paese.

In particolare Giulio II, sebbene avesse più volte eccitato Lodovico XII
ad unirsi a lui contro i Veneziani, presentemente accoglieva contro di
lui i più ingiuriosi sospetti. La subita collera e la diffidenza
succedevansi nell'animo di questo papa con una strana rapidità; ed il
suo carattere bollente ed impetuoso manifestava maggior debolezza che
verace magnanimità. Annibale Bentivoglio aveva cercato di rientrare in
Bologna con seicento fanti assoldati nel Milanese; il papa non si
accontentò di prendere motivo da questo tentativo per fare spianare dal
popolo ammutinato il palazzo del Bentivoglio a Bologna, monumento della
più bella architettura[405], ma domandò ancora che tutti i Bentivogli
gli fossero consegnati, o per lo meno scacciati dallo stato di Milano.
Per costringere il re ad assoggettarsi a così indegna condizione, ricusò
il cappello di cardinale al vescovo d'Albi, fratello di Chaumont, cui lo
aveva promesso, e nello stesso tempo addirizzò un breve all'imperatore,
nel quale gli annunziava che il re di Francia non aveva avuto altro
scopo, entrando in Italia con una così potente armata, che quello
d'innalzare alla santa sede il suo favorito, il cardinale Giorgio
d'Amboise, dopo di avere invasi gli stati della Chiesa; che
quest'ambizione di Lodovico XII e del suo favorito più non si potevano
dissimulare al mondo; che quegli aveva di già cercato di dominare il
conclave col terrore delle sue armi, nelle due precedenti elezioni, e
che l'altro suo segreto pensiero di farsi all'ultimo conferire la corona
dell'impero dal papa ch'egli avrebbe creato, e che gli sarebbe
interamente ligio, più non poteva richiamarsi in dubbio[406].

  [405] _Jac. Nardi, l. IV, p. 191. — P. Jovii Epit. Hist., l. IX, p.
  156._

  [406] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 380. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gall., l. X, p. 300._

Massimiliano, che di quest'epoca aveva fatto un viaggio in Fiandra per
domandare agli stati di quelle province l'amministrazione e la tutela
dell'eredità di suo nipote, e che non aveva potuto ottenerla, tornò a
Costanza, dove aveva adunata una dieta dell'impero. Espose in
quell'assemblea con molto calore ed eloquenza le lagnanze del papa, ed i
disegni de' Francesi: Massimiliano era coraggiosissimo, aveva eleganti
maniere, ed un'affettazione cavalleresca, che seduceva la sua corte, e
che presso di quella lo faceva passare per un grand'uomo, sebbene la sua
prodigalità e la sua instabilità avessero da molto tempo fatto conoscere
il poco conto che poteva farsi di lui. Egli parlò ai Tedeschi della loro
gloria militare, di cui i Francesi tentavano di rapir loro il premio,
usurpando la corona imperiale; dei pericoli che avevano sprezzati; de'
sagrificj che avevano di buon animo sostenuti, per salvare l'onore della
nazione; della lunga discordia del corpo germanico, sola cagione della
sua debolezza; e per ultimo di quella potenza con cui potrebbe dettare
leggi alla Francia e riconquistare l'Italia, quando volesse soltanto
spiegarla. Veruna dieta dell'impero era stata da lungo tempo così
numerosa, veruna aveva manifestato un così vivo entusiasmo, veruna erasi
mostrata così disposta ad adottare le più vigorose determinazioni.
Massimiliano aveva domandato che fosse posto sotto i suoi ordini un
esercito, non al solo oggetto di prendere la corona imperiale in Italia,
ma ancora di ricuperare il Milanese, la di cui investitura a favore del
re di Francia, condizionata al matrimonio di Claudia di Francia con
Carlo, era stata annullata dopo la rottura di detto matrimonio. La dieta
dell'impero accolse avidamente questa proposizione, e parve determinata
a mettere sotto il comando del suo capo assai maggiori forze di quelle
che mai non avesse avute veruno de' suoi predecessori[407].

  [407] _Fr. Guicciardini l. VII, p. 380. — Jac. Nardi Ist. Fior., l.
  IV, p. 199. — Fr. Belcarii, l. X, p. 301._

Intanto i principi tedeschi non tardarono ad avere notizia che Lodovico
XII aveva licenziato il suo esercito dopo la conquista di Genova, di
modo che non poteva avere più vasti progetti di quelli che aveva
annunciati. Altronde i segreti agenti del re di Francia si erano
separatamente diretti a ciascheduno de' principi tedeschi e protestando
che il loro padrone non covava ostili intenzioni nè contro la Chiesa nè
contro l'impero, avevano risvegliata l'antica loro diffidenza verso
l'imperatore: lo avevano essi rappresentato siccome colui che cercava
sotto vani pretesti di disporre di tutte le loro forze per ridurli in
ischiavitù, ed avevano avvalorate queste insinuazioni col danaro sparso
tra i principi e tra i loro ministri. Volendo la dieta regolare i
sussidj che aveva promessi, domandò che la spedizione d'Italia si
facesse in di lei nome, che dalla dieta si nominassero i generali, e che
le conquiste appartenessero a tutto il corpo germanico. Massimiliano
rifiutò tali condizioni, e con ciò accrebbe la diffidenza de' Tedeschi.
Dichiarò che preferiva di ricevere piccoli sussidj, e restare solo capo
dell'intrapresa; in conseguenza la dieta gli accordò un'armata di otto
mila cavalli e di ventidue mila fanti, pagati per sei mesi, a datare
dalla metà di ottobre, ed inoltre un sussidio di 120,000 fiorini per
l'artiglieria e per le spese straordinarie. Dopo di ciò si sciolse il 20
di agosto, senza avere meglio provveduto delle precedenti diete
all'esecuzione di così magnifiche promesse[408].

  [408] _Fr. Guicciardini, l. VII, p, 386. — Fr. Belcarii, l. X, p.
  304._

Massimiliano, il quale credeva che tutta l'arte del regnare consistesse
nel celare a tutti i proprj segreti, assegnò tre luoghi molto distanti
per l'unione delle tre armate dell'impero. Una doveva raccogliersi in
Trento per minacciare il Veronese, l'altra a Besanzone per minacciare la
Borgogna, l'ultima nella Carniola per minacciare il Friuli[409]. Non
permetteva che i ministri esteri si trattenessero presso di lui,
tenendoli in certo qual modo relegati in qualche piccola città, a
Trento, a Bolzano, a Morano, lontani dalla corte e dall'armata; e con
ciò li poneva nell'impossibilità di penetrare i suoi disegni, o di
valutare le sue forze[410].

  [409] _Machiavelli Legaz. all'imp. lett. di Bolzano del 17 gennajo
  1508, t. VII, p. 161._

  [410] _Lettere del Macchiavelli e Fran. Vettori nella Legaz.
  all'imp., t. VII, passim._

Prima di scendere in Italia come nemico, Massimiliano negoziava colla
repubblica di Venezia. Le aveva spediti tre ambasciatori, non pel solo
oggetto di chiederle il passo a traverso ai suoi stati, ma ancora per
proporle un'alleanza, i di cui risultamenti dovevano essere la divisione
dello stato di Milano. Affinchè i Veneziani rinunciassero alla fedeltà
loro verso Lodovico XII, che il monarca francese non meritava, aveva
loro comunicato il trattato di Blois, il di cui oggetto era la divisione
di tutti gli stati della repubblica, facendo loro sentire che Lodovico
ne sollecitava ancora l'esecuzione. Dall'altra parte Lodovico aveva
saputo che Massimiliano cercava l'alleanza degli Svizzeri, e che si era
guadagnato fra loro un potente partito. Quest'alleanza avrebbe privato
il re di Francia della sola buona fanteria che serviva nelle sue armate;
onde procurava di riconciliarsi pienamente coi Veneziani, dissipando
ogni loro sospetto, e loro facendo le più vantaggiose offerte per
indurli a difendere d'accordo con lui l'Italia minacciata
dall'imperatore; e perchè la repubblica ricusasse il passaggio ai
Tedeschi, le prometteva la perpetua guarenzia de' di lei stati di terra
ferma[411].

  [411] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 387. — Fr. Belcarii, Comm. Rer.
  Gall., l. X, p. 305._

I Veneziani tutto sentivano il pericolo della loro situazione; non si
fidavano nè delle promesse di Massimiliano, nè di quelle di Lodovico
XII, e temevano ad ogn'istante di vedere questi due rivali contro di lei
riuniti; ma se per impedire questa coalizione essi dichiaravansi per
l'uno o per l'altro sovrano, non perciò temevano meno di vedersi un
giorno abbandonati da colui che sarebbesi valso della loro alleanza, e
di dovere poi sostenere soli tutto il peso di una guerra in cui non
avrebbero che un interesse secondario. Dopo lunghe deliberazioni,
finalmente determinarono di non abbandonare il partito della Francia, e
l'alleanza, colla quale essi garantivano a Lodovico XII lo stato di
Milano in compenso di una somigliante garanzia, che la Francia aveva
promessa per le loro province di terra ferma. In conseguenza
parteciparono a Massimiliano, che in forza de' loro trattati non
potevano acconsentire al passaggio del suo esercito pel loro territorio;
che, quand'anche l'imperatore attaccasse il Milanese sopra altri punti,
si troverebbero in dovere di somministrare alla Francia un certo numero
di truppe per sua difesa; che soddisfarebbero scrupolosamente agli
obblighi loro, ma che non anderebbero più in là; poichè nel tempo stesso
che volevano fare il debito loro verso il re di Francia, loro alleato,
desideravano altresì di conservare la buona armonia e la buona vicinanza
coll'impero e coll'imperatore. Finalmente dichiararono a Massimiliano,
che, se voleva pacificamente entrare in Italia per ricevere a Roma la
corona d'oro, verrebbe accolto in tutti i loro stati con tutte le
onorificenze che avevano sempre rendute al capo dell'Impero[412].

  [412] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 387-398. — Fr. Belcarii Com.
  Rer. Gallic., l. X, p. 305. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 145._

Per quanto i Veneziani avessero cercato in questa risposta di non
offendere Massimiliano, questi però si sentì tanto più vivamente ferito
quanto si teneva più sicuro di loro. Quest'imperatore non fondava mai
sui proprj mezzi il buon successo delle sue intraprese, e sempre sperava
negli altrui soccorsi, che poi si maravigliava di non ricevere. Aveva
cominciato a trattare coi Cantoni per levare dodici mila Svizzeri, e la
dieta elvetica, non dando troppo orecchio alle rimostranze della
Francia, non si era mostrata aliena dal somministrargli i soldati: ma il
danaro promesso dalla dieta germanica di Costanza non bastava per fare
così grosse leve, e Massimiliano l'aveva di già quasi tutto consumato in
dispendiosi trasporti d'artiglieria. Egli aveva inoltre fatto fondamento
sui sussidj degli stati d'Italia; ma aveva loro fatte così esorbitanti
domande, che tutti si erano da lui alienati. Il vescovo di Brixen non
aveva domandato ai Fiorentini meno di cinquecento mila ducati[413]: e
questo fu il motivo che li consigliò, quando ancora durava il loro
terrore, a far raggiugnere dal Macchiavelli, loro ambasciatore, in
Inspruck Francesco Valori, per avere migliori condizioni. Ma non avendo
l'imperatore voluto scendere ad alcuno ragionevole termine, cercarono
dal canto loro dilazioni alla conclusione dell'affare, finchè fosse
chiaro quale sarebbe il risultato di tante minacce e degli apparecchi
annunciati con tanta enfasi a tutta l'Europa[414].

  [413] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 398._

  [414] _Niccolò Macchiavelli Legaz., t. VII, p. 156-258._

Massimiliano faceva pure domandare non meno esorbitanti somme a tutti
gli altri stati d'Italia, siccome prestazioni dovute in occasione della
sua coronazione: ma inoltre domandava ad Alfonso, duca di Ferrara e di
Modena, la restituzione della dote di Anna Sforza, prima moglie di quel
duca, di cui pretendeva essere erede l'imperatrice Beatrice Sforza. Di
già Massimiliano credeva di poter disporre delle immense somme che
ricercava, come se in fatto le avesse ricevute: pure di tutto questo
danaro non ebbe che sei mila ducati, di cui i Sienesi si confessarono
debitori verso la camera imperiale[415].

  [415] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 399. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall., l. X, p. 306. — Lett. di Franc. Vettori del 24 di Gennajo
  1507, p. 172._

Intanto sopraggiunse il mese di ottobre, e le truppe ordinate dalla
dieta germanica cominciavano ad adunarsi; ma non si vedevano comparire
che pochi battaglioni; mentre che Massimiliano passava rapidamente dai
confini della Borgogna a quelli dell'Italia, e che, facendo marciare i
contingenti su tutte le direzioni, e non facendo parlare l'Europa che
dei movimenti delle sue truppe, lasciava tutti incerti se attaccherebbe
la Francia, lo stato di Milano, o i Veneziani[416].

  [416] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400._

Lodovico XII non trascurò di apparecchiarsi a respingere quest'attacco.
Ottenne licenza dal re cattolico di assoldare 2500 fanti spagnuoli;
mandò soccorsi al duca di Gueldria per tenere occupato l'imperatore in
Germania; levò il castello d'Arona, posto sul lago maggiore, alla
famiglia Borromei, di cui non fidavasi, e vi pose guarnigione; mandò
Gian Giacopo Trivulzio ai Veneziani con quattrocento lance francesi e
quattro mila fanti, e considerabilmente accrebbe il numero delle sue
truppe nello stato di Milano. I Veneziani dal canto loro avevano
richiamati al loro soldo il conte di Pitigliano e Bartolommeo d'Alviano:
il primo aveva il comando di quattrocento uomini d'armi nelle parti di
Verona e di Roveredo; il secondo di ottocento verso il Friuli. Per altro
queste truppe non impedirono una rapida scorreria di Giovan Battista
Giustiniani e di Fregosino, emigrati Genovesi, che con mille fanti
tedeschi si erano lusingati di attraversare lo stato veneziano, poi
quello di Parma, per entrare nella Liguria, ma che furono poi dai
Francesi trattenuti alle falde delle montagne di Parma. Tornarono a
dietro, ed i Veneziani acconsentirono che rientrassero negli stati
dell'impero, a condizione di deporre le armi nell'entrare nel territorio
della repubblica per riceverle poi all'opposto confine[417].

  [417] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400. — Fr. Belcarii, l. X, p.
  306. — P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 146. — Lett. di Fran. Vettori.
  Bolzano, 17 gennajo 1507. In Macchiavelli, l. VII, p. 168._

Questa breve spedizione non erasi tampoco risguardata come un
cominciamento d'ostilità: i Veneziani, che non erano personalmente
attaccati, invece di attribuirla a Massimiliano, non avevano voluto
ravvisarvi che la conseguenza di qualche pratica di Giulio II. Sapevano
che questo pontefice permetteva nello stesso tempo un adunamento di
emigrati genovesi in Bologna; che accusava il Bentivoglio d'avere
tentato di farlo avvelenare da un prete, e che aveva spedito il
cardinale di santa Croce a Massimiliano per muoverlo contro i
Francesi[418]: Ma Giovanni Bentivoglio, che teneva Giulio II in tanti
sospetti, morì a Milano in febbrajo del 1508, in età di settant'anni.
Aveva goduta quarant'anni nel suo principato una inalterabile
prosperità, di cui andava più debitore alla fortuna che ai suoi talenti
o alle sue virtù, e non seppe poi sostenere le traversie che vennero in
appresso. Poco dopo la di lui morte, Annibale il primogenito, ed Enrico
l'ultimo de' suoi figliuoli, sorpresero a Bologna la porta di san Momolo
coll'ajuto dei Pepoli e di alcuni altri gentiluomini: ma bentosto furono
scacciati dal popolo, che preferiva il dominio della Chiesa a quello de'
suoi antichi signori; ed il re di Francia, irritato per questo
intempestivo attacco dei Bentivogli, li fece uscire dalla Lombardia,
ordinando al signore di Chaumont di difendere Bologna contro chiunque
volesse turbare la Chiesa nel possesso di quella città. Il papa,
soddisfatto della protezione offertagli da Lodovico XII, impose silenzio
al suo odio contro la Francia, e non volle avere parte nella guerra che
andava a scoppiare[419].

  [418] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 400._

  [419] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 401. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  307. — Sansovino Famiglie illustri d'Italia, f. 187._

Massimiliano era giunto a Trento in principio dell'anno, per mettersi
alla testa della spedizione da tanto tempo annunciata. Il giorno 3 di
febbrajo recossi processionalmente alla Chiesa, preceduto dagli araldi
d'armi dell'Impero e portando la spada sguainata in mano. Il suo
cancelliere, Matteo Langen, vescovo di Gurck, salì sopra un'alta tribuna
per annunziare al popolo, che Massimiliano entrava in Italia alla testa
del suo esercito, e che recavasi a Roma a prendere la corona imperiale.
Infatti l'imperatore eletto partì da Trento nella seguente notte con
mille cinquecento cavalli e quattro mila fanti tirolesi, mentre che il
marchese di Brandeburgo con cinquecento cavalli e due mila fanti
avanzavasi per un'altra strada sopra Roveredo. Ma il marchese, non
avendo potuto entrare in questa città, tornò subito a dietro; e
Massimiliano, dopo aver guastato il territorio dei sette comuni, dove
alcuni montanari quasi indipendenti vivevano sotto la protezione della
repubblica di Venezia, il quarto giorno si allontanò bruscamente dai
confini, e tornò a Bolzano, senza che si potesse spiegare la bizzarria
di questo movimento retrogrado[420].

  [420] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 401. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  307. — Lett. di Fr. Vettori da Trieste, 8 febbrajo 1508. In Mach.
  Legazione, t. VII, p. 183._

Dalla banda del Friuli quattrocento cavalli e cinque mila fanti
austriaci entrarono nel territorio di Cadore, i di cui abitanti erano
affezionatissimi ai Veneziani. Mentre che i Tedeschi assediavano in quel
paese alcune rocche, Massimiliano andò a raggiugnerli con sei mila
fanti: scorse circa quaranta miglia di paese al di là dei confini
veneti, commettendovi grandissimi guasti; ma tutt'ad un tratto tornò con
celerità ad Inspruck in sul finire di febbrajo per impegnarvi tutti i
suoi giojelli; giacchè il danaro, che avea creduto bastante per tutta la
campagna, era di già consunto. Quando giunse in quella città, seppe che
gli Svizzeri, non ricevendo da lui danaro, avevano dato licenza al re di
Francia di levare soldati nel loro paese, e che infatti cinque mila
Svizzeri al soldo di Lodovico XII e tre mila al soldo della repubblica
veneziana erano di già entrati in Italia. Massimiliano irritato volò ad
Ulma per addirizzarsi alla lega delle città imperiali della Svevia, e
persuaderla ad attaccare gli Svizzeri; nello stesso tempo esortava gli
elettori a continuargli per altri sei mesi il servigio delle truppe
dell'impero, perciocchè i sei primi mesi che gli erano stati accordati
erano quasi terminati[421].

  [421] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 402. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gall, l. XI, p. 308. — Lett. di Fr. Vettori del dì 8 di febbrajo da
  Trento, p. 184._

Intanto i Tedeschi, ch'egli aveva lasciati a Trento, erano rientrati
nella valle del Cadore in numero di circa nove mila, ed avevano colà
prese diverse fortezze; ma in appresso si lasciarono chiudere
dall'Alviano, il quale, prevenendoli colla consueta sua rapidità, occupò
i passaggi per i quali pensavano di ritirarsi, e fece custodire tutti i
sentieri delle montagne da contadini affezionati ai Veneziani.

I Tedeschi, formando un battaglione quadrato, nel di cui centro posero
le loro donne ed equipaggi, tentarono di aprirsi un passaggio il 2 di
marzo: accanita fu la battaglia e d'infelice riuscita; essendo più di
mille di loro rimasti sul campo, e gli altri tutti fatti prigionieri.
Dopo questa vittoria l'Alviano attaccò la fortezza di Pieve di Cadore e
la riconquistò. Carlo Malatesta, uno de' signori di Rimini spogliati dal
papa, fu ucciso in questa battaglia[422].

  [422] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 403. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  308. — P. Bembi, l. VII, p. 148. — Lett. di Fr. Vettori, d'Inspruk,
  22 di marzo. Presso Machiav. Legazioni, t. VII, p. 206._

Essendosi in tal guisa dissipata l'armata austriaca, ed allontanatosi
l'imperatore per cercare nuovi soccorsi, Bartolommeo d'Alviano entrò
negli stati di Massimiliano con intenzione di spogliarlo di tuttociò che
possedeva sul golfo di Venezia. Infatti in pochi giorni prese Gorizia,
che fortificò per servire di difesa all'Italia contro i Turchi; Trieste,
cui impose una grossa contribuzione, onde punirla dei contrabbandi co'
quali si era arricchita; Pordenone, che poi la repubblica diede in feudo
allo stesso generale per ricompensarlo de' suoi servigj; ed all'ultimo
Fiume ai confini della Schiavonia[423].

  [423] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 404. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  308. — P. Bembi, l. VII, p. 150-152. — Lett. di Fr. Vettori, da
  Trento, 30 maggio, p. 224._

I Tedeschi, che non davano unione alle loro operazioni, tentarono nello
stesso tempo di avanzarsi dalla banda di Trento e del lago di Garda, ed
ottennero qualche vantaggio a Calliano. Ma due mila Grigioni, che si
trovavano nella loro armata, essendosi ritirati, perchè mal pagati,
anche gli altri dovettero allontanarsi. Le due armate, veneziana ed
austriaca, separate dalla muraglia che taglia la valle dell'Adige tra
Pietra e Calliano, si limitarono per qualche tempo ad osservarsi, non
facendo che qualche leggiera scaramuccia; in appresso la veneziana
ritirossi a Roveredo, e l'altra a Trento, ove si disperse. Massimiliano
non aveva mai potuto avere nello stesso tempo nella sua armata più di
quattro mila uomini di truppe dell'impero: quando giugneva un
contingente per cominciare il suo servigio, l'altro aveva di già
terminati i suoi sei mesi e si ritirava. La dieta convocata in Ulma era
stata prorogata; e Massimiliano, invece di tornare alla sua armata,
erasi recato a Colonia. Per alcune settimane non si seppe nemmeno dove
fosse; ed a ragione indispettito per tanti disastri, egli sarebbesi
volentieri sottratto agli sguardi di tutto il mondo. Se i Francesi, che
si erano uniti a Roveredo all'armata veneziana, avessero voluto
attaccare Trento, potevano facilmente spingere molto avanti le loro
conquiste; ma il Trivulzio dichiarò che aveva ricevuto ordine dal re di
difendere i passaggi dell'Italia, e non di attaccare la Germania[424].

  [424] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 404. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall., l. XI, p. 309. — Lett. del Vettori. Trento, 16 aprile e 30
  maggio. Machiav. Leg., t. VII, p. 218-232._

Finalmente il prete Luca Renaldi, comunemente chiamato il prete Luca,
che aveva la confidenza di Massimiliano, recossi a Venezia per fare
alcune proposizioni di pace. Offriva ai Veneziani una tregua di tre
mesi, che venne altamente da questi rifiutata, quando seppero che
l'imperatore non voleva comprendervi la Francia. Troppo ruinati erano
gli affari di Massimiliano, perchè egli potesse star fermo in tale
pretesa; acconsentì ad una tregua di tre anni per l'Italia. Ma Lodovico
XII vi si rifiutò perchè voleva farvi comprendere il duca di Gueldria.
Il senato di Venezia non aveva veruna alleanza con questo duca, e
risguardava la sua contesa come cosa affatto estranea alla politica
d'Italia, e ad una guerra trattata soltanto ai confini della penisola.
Dopo di avere fatto calde istanze agli ambasciatori di Francia di
accettare la tregua tal quale veniva offerta, alfine l'accettò egli
stesso semplicemente, e senza nemmeno aspettare la risposta di Lodovico
XII, cui era stato spedito un corriere. Questa tregua si pubblicò il 7
di giugno ne' due campi: doveva essere comune a tutti gli alleati, che
dall'una o dall'altra parte sarebbero nominati entro tre mesi, e non
comprendere che l'Italia. Massimiliano nominò subito il papa, i re di
Spagna, d'Inghilterra e d'Ungheria, e tutti gli stati dell'impero; i
Veneziani nominarono i re di Francia e di Spagna, e tutti gli stati
italiani loro alleati. Tutte le conquiste fatte nella presente guerra
dovevano essere conservate da chi le aveva fatte; e l'una e l'altra
potenza riservavasi il diritto d'innalzare entro la linea dei suoi
confini tutte le fortificazioni che troverebbe convenienti[425].

  [425] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 405. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  309. — P. Bembi, l. VII, p. 153. — Jac. Nardi, l. IV, p. 200. —
  Lett. del Vettori. Trento, 8 giugno 1508; e del Mac. Bologna, 14
  giugno, p. 237-257._

Una guerra che pareva minacciasse tutta l'Italia di una nuova invasione
degli oltremontani, era così terminata in pochi mesi; ma per altro
lasciava dietro di sè molti semi di malcontento. Massimiliano sentivasi
profondamente umiliato d'avere annunciate così grandi cose, di averne
eseguite di così piccole, e di avere in due mesi perduti tutti i porti
di mare ch'egli possedeva sul golfo Adriatico, porti così preziosi pel
commercio de' suoi stati. I Veneziani avevano fatto esperimento della
gelosia de' Francesi, ed erano irritati per l'abbandono del Trivulzio,
che non aveva voluto ajutarli a proseguire le loro conquiste. Finalmente
Lodovico XII affettava di essere vivamente offeso perchè i Veneziani
avessero sottoscritta la tregua contro il parer suo, e senza pure
aspettare l'ultima sua risposta.

Per altro niuno aveva meno ragione di Lodovico XII di lagnarsi in questa
occasione. Non solo i Veneziani avevano usato dei loro diritti,
consultando piuttosto i proprj che i di lui interessi, e ricusando di
continuare una guerra senza scopo, per fare una diversione a favore del
duca di Gueldria con cui non avevano che fare; essi conoscevano
abbastanza la perfida condotta del re di Francia per non credersi
obbligati ad avere troppi riguardi alle sue raccomandazioni.

Lodovico XII era legato coi Veneziani da molti trattati, quando avea
conchiuso con Massimiliano il trattato di Blois, in forza del quale egli
e l'imperatore stipulavano la divisione degli stati di quella
repubblica; e non aveva verun motivo di lagnarsi della medesima. Di
nuovo le si era legato colle più strette relazioni, nello stesso tempo
in cui nel precedente anno aveva avuto con Ferdinando l'abboccamento di
Savona, ed aveva cercato d'interessare nella stessa divisione questo
secondo potentato. In mezzo alle più amichevoli negoziazioni, in seno
alle più intime alleanze Lodovico XII non cessava di aguzzare la spada
con cui ferì la repubblica nell'istante della lega di Cambrai. Verun
altro motivo non potrebbe darsi a questa perfida condotta, se non che i
governi assoluti risguardano sempre le repubbliche come fuori del
diritto delle genti, e cercano ogni occasione di distruggerle.

Infatti nello stesso tempo la condotta di Lodovico XII verso la seconda,
in potenza, delle repubbliche d'Italia, non era quasi meno falsa nè meno
ingiusta. Malgrado la sua alleanza coi Fiorentini, malgrado lo zelo che
questo stato aveva sempre mostrato per il partito francese, egli
protraeva la conquista di Pisa, che i Fiorentini erano in sul punto di
effettuare; contrariava tutte le loro operazioni militari, ed all'ultimo
metteva sfacciatamente a prezzo il suo assenso alla riduzione di una
città, ch'egli medesimo risguardava come ribellata, e che più volte
erasi obbligato a far rientrare nell'ubbidienza.

Dopo la conferenza del precedente anno col re Ferdinando, Lodovico XII
aveva cominciato a riguardare come oggetto di speculazione finanziera la
sommissione di Pisa. I Pisani, indeboliti da così lunga guerra, più non
potevano ricevere soccorsi da Genova dopo la scossa provata da quella
città, e pochissimi e nascostamente ne ricevevano da Lucca e da Siena.
Sentivano avvicinarsi la loro ultima ora; i contadini rifugiati in
città, e che in allora formavano più della metà della sua popolazione,
cominciavano a sospirare l'istante di tornare ai loro campi, e la loro
ostinazione più non era quella di prima. Pisa sarebbe probabilmente
caduta fino dal 1507 in potere dei Fiorentini, se i due potenti
monarchi, che in allora dettavano alternativamente le leggi all'Italia,
non avessero voluto farsi pagare un avvenimento che non doveva dipendere
da loro. Il re d'Arragona dichiarò agli ambasciatori fiorentini, che gli
furono mandati per complimentarlo, che Lodovico XII aveva in lui rimessi
gli affari di Pisa, e ch'egli prenderebbe quella città sotto la sua
protezione, e non ne permetterebbe la conquista, se prima la repubblica
non prometteva ai due re un onesto compenso pel loro assenso. Lodovico
XII confermò questo discorso; ed all'ultimo i due re convennero di
domandare ognuno cinquanta mila ducati. Promettevano a tale prezzo di
mandare in Pisa una guarnigione, che i Pisani avrebbero ricevuta senza
diffidenza, che dopo otto mesi avrebbe aperta la città ai Fiorentini.
Questa proposizione non fu accettata, ma impedì ai Fiorentini di fare in
quell'anno guastare il territorio di Pisa[426].

  [426] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 195. — Scip. Ammirato, l.
  XXVIII, p. 283. — Jac. Arrosti Chron. di Pisa in Arch. Pisano, f.
  230. — Fr. Guicciardini, l. VII, p. 388._

Dopo la partenza dei due re, i Fiorentini ricominciarono le loro
spedizioni nel piano di Pisa: anzi fu questa la prima impresa della
milizia ch'essi avevano ordinata in battaglioni dietro proposta del
Macchiavelli, secondo i principj da lui esposti nel suo Trattato
_dell'Arte della guerra_. La legge ch'egli medesimo aveva redatta
intorno all'_Ordinanza Fiorentina_ fu approvata nel gran consiglio il 6
dicembre del 1506. Un corpo di dieci mila contadini venne scelto in
tutto il territorio della repubblica, vestito per la prima volta
dell'assisa fiorentina, con abito bianco, con calzoni per metà bianchi e
rossi, ed armato come le truppe svizzere e tedesche, e come quelle
esercitato tutti i giorni di festa. Questa milizia, che fu detta
l'_Ordinanza_ costò alla repubblica molto meno che non costavano le
truppe straniere, e si mostrò molto più disciplinata ed ubbidiente ai
suoi ufficiali[427].

  [427] _Macchiavelli opere, t. IV, p. 331, 356. — Jac. Nardi, l. IV,
  p. 200. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 284._

Tostocchè Lodovico XII si trovò liberato dall'inquietudine che gli aveva
cagionato l'attacco di Massimiliano, spedì ai Fiorentini Michele Rizio
per rimproverar loro le negoziazioni avute coll'imperatore. Essi avevano
mostrato, diceva egli, soverchia premura di pagare un tributo alla
camera imperiale, quando il loro danaro doveva essere adoperato contro
il re di Francia o suoi alleati. A tale oggetto essi avevano spedito
fino in Germania i loro deputati, e nello stesso tempo con un imprudente
attacco contro di Pisa avevano arrischiato di accendere la guerra nel
centro dell'Italia, e di fare in tal guisa una pericolosa diversione
alle armi del re[428].

  [428] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 407._

I Fiorentini sentirono ciò che voleva dire un tale messaggio, e tali
lagnanze che non avevano verun fondamento. Pisa trovavasi ridotta alle
ultime estremità; il partito de' campagnuoli, che desiderava la pace, si
faceva ogni giorno più numeroso; i nobili ed i cittadini, che avevano
difesa l'indipendenza della loro patria con una irremovibile costanza,
in gran parte distrutti dal ferro nemico, ruinati, invecchiati,
scoraggiati, più non opponevano la medesima resistenza. Avvicinavasi
l'istante in cui Pisa doveva volontariamente arrendersi ai Fiorentini;
ma Lodovico voleva approfittare della miseria di quella città per vender
loro la sua sommissione; e perciò cercava contro di loro una lagnanza
priva di fondamento, per mettere in seguito a più alto prezzo la sua
condiscendenza. La signoria rispose, che nel suo trattato col re di
Francia aveva espressamente riservati i diritti dell'impero; che lo
stesso Lodovico XII aveva così ben riconosciuti questi diritti, che non
si era in verun modo obbligato a proteggere i Fiorentini contro
Massimiliano; che dunque era stato necessario di cercar di regolare la
legittima prestazione dovuta dalla repubblica all'imperatore quando
riceveva la corona imperiale; che per altro i loro ambasciatori avevano
schivato di nulla conchiudere con Massimiliano; che non gli avevano dato
danaro, e che soprattutto non avrebbero mai sottoscritta con lui una
convenzione, che potesse riuscire pregiudicievole alla Francia; che
rispetto alla loro spedizione contro di Pisa, doveva tanto meno
inquietare i loro vicini, in quanto che erasi fatta senza artiglieria, e
che si era ristretta al guasto delle messi; che nel loro trattato colla
Francia, nel 1502, si erano espressamente riservati il diritto di
continuare la guerra contro di Pisa, e che altronde non sapevano
comprendere per qual cagione volesse il re più particolarmente
interessarsi per quella città dopo che aveva somministrati soccorsi ai
Genovesi contro di lui, e staccarsi dai Fiorentini che gli erano sempre
stati fedeli[429].

  [429] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 407. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  201. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 285. — Fr. Belcarii Com. Rer.
  Gal., l. XI, p. 310._

A tali rimproveri, come i Fiorentini lo avevano presagito, tennero
subito dietro le proposizioni. Michele Rizio offrì di dar loro il
possesso di Pisa per un determinato prezzo da convenirsi; ma Ferdinando
il cattolico si ostinava a volere intervenire nel contratto e ritrarne
profitto. Per tale motivo mandò un ambasciatore in Toscana, che prima
recossi a Pisa per esortare quegli abitanti a difendersi, facendo loro
sperare i soccorsi del re. In appresso quest'ambasciatore passò a
Firenze, e cominciò a trattare colla signoria in concorso
dell'ambasciatore francese. Così questa lunga guerra, che poteva essere
terminata dalle sole armi toscane, diventava un oggetto di negoziati tra
la Francia e la Spagna. Bentosto tali negoziazioni, invece di
continuarsi in Toscana, si portarono a Parigi; ed i popoli d'Italia
ebbero un'altra occasione di accorgersi che i proprj destini più non
dipendevano da loro, poichè le proprie loro liti, sostenute colle sole
loro armi e coi soli loro mezzi, dovevano decidersi dagli
stranieri[430].

  [430] _Fr. Guicciardini, l. VII, p. 408._

Frattanto, siccome la miseria di Pisa andava crescendo, i re di Spagna e
di Francia, temendo di perdere l'oggetto del loro traffico, gettarono
più scopertamente la maschera. I Fiorentini avevano il 25 di agosto
preso al loro soldo Bardella, corsaro di Porto Venere, che pel pagamento
di sei cento fiorini al mese, obbligavasi a chiudere la foce dell'Arno
con tre piccoli vascelli[431]. Questi fece così bene il dover suo, che
Chaumont, governatore del Milanese, scrisse in Francia di apporvi
rimedio, altrimenti Pisa caderebbe da sè in mano ai Fiorentini. Il re
gli ordinò subito di mandarvi Giovan Giacopo Trivulzio con trecento
lance, ond'essere sicuro che la città non si arrenderebbe prima che la
Francia non si fosse fatta pagare il suo assenso[432]. I Fiorentini,
confusi nel vedere che Lodovico XII, senza avere riguardo all'espresso
tenore dei trattati, spediva soccorsi contro di loro, suoi alleati, a
que' medesimi che di fresco si erano mostrati non meno suoi nemici che
nemici loro, si rassegnarono finalmente a ricomprare le proprie
conquiste dalle mani di coloro che si arrogavano il diritto di venderle.
Offrirono cento mila ducati divisibili tra le due corti, purchè l'una
corte e l'altra si obbligasse a non attraversare la loro intrapresa.
Lodovico XII non volle vendere il suo assenso a meno di cento mila
ducati per la sola sua parte, e non pertanto insistette perchè
Ferdinando avesse dal canto suo una somma di danaro. All'ultimo i
Fiorentini promisero cento mila ducati al re cristianissimo, e cinquanta
mila al re cattolico; e perchè l'ultimo non si offendesse di questa
diversità posta tra di loro, la fecero oggetto di un trattato segreto,
col quale si riconobbero debitori di questi altri cinquanta mila ducati
sotto mentito pretesto. Questa convenzione fu sottoscritta il 13 marzo
del 1509: e perchè in quell'istante tutte le potenze d'Italia erano
occupate da troppo più gravi interessi in occasione della lega di
Cambrai, lasciarono ai Fiorentini la libertà di proseguire la guerra
contro Pisa[433].

  [431] _Jac. Nardi, l. IV, p. 201. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  285._

  [432] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 417. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  202. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 314. — Jac. Arrosti
  Cron. di Pisa in Arch., f. 232._

  [433] _Fr. Guicciardini, l. XIII, p. 417. — Jac. Nardi Ist. Fior.,
  l. IV, p. 203. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 286. — Gio. Cambi
  Ist. Fior., t. XXI, p. 223._

In novembre del 1508 Bardella era stato richiamato dal servizio
fiorentino per espresso ordine della signoria di Genova. Lodovico XII
aveva fatto dare quest'ordine per procurare un breve respiro ai Pisani,
finchè fosse terminata la sua negoziazione; ma quando ebbe venduto il
suo assenso, Bardella tornò al servigio della repubblica fiorentina, e
la debole sua scorta bastò per chiudere la foce dell'Arno. Dal canto
loro i Lucchesi non avevan cessato di soccorrere i Pisani con armi e con
vittovaglie. Il commissario della repubblica presso l'armata fiorentina
ebbe ordine dalla signoria di farne vendetta. Egli entrò sul territorio
lucchese, e tutto lo guastò, recando con questa spedizione alla
repubblica di Lucca il danno di oltre dieci mila fiorini[434], e giovò
pure a farle sentire la sua debolezza ed il pericolo di provocare ancora
il risentimento dei suoi potenti vicini, e la determinò a cercare
finalmente di buona fede l'alleanza di Firenze. Il trattato tra queste
due repubbliche fu sottoscritto l'undici di gennajo del 1509. I Lucchesi
si obbligarono d'impedire ai Pisani ogni comunicazione col loro
territorio, e di impedire essi medesimi ai loro contadini, troppo
parziali per Pisa, di portare soccorsi a quella città. Se questa guerra
doveva prolungarsi, il trattato tra Firenze e Lucca non doveva durare
che tre anni; ma se Pisa cadeva entro l'anno, l'alleanza tra i
Fiorentini ed i Lucchesi doveva tenersi rinnovata per dodici anni[435].

  [434] _Jac. Nardi, l. IV, p. 203. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  285._

  [435] _Jac. Nardi, l. IV, p. 205. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p.
  286. — Gio. Cambi, t. XXI, p. 222. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p.
  417._

In febbrajo i Genovesi tentarono ancora di spedire a Pisa un sufficiente
carico di grani per alimentare quella sgraziata popolazione fino al
prossimo raccolto: si presentarono all'imboccatura dell'Arno un grande
vascello, quattro gallioni, quindici brigantini e trenta barche; ma
questa piccola flottiglia trovò così ben chiuse le foci del Serchio e
del fiume Morto, come lo era quella dell'Arno. Tre campi trincerati
erano stati stabiliti dai Fiorentini a san Piero in Grado, a Bocca di
Serchio ed a Mezzana; un ponte sull'Arno e delle palafitte negli altri
fiumi, con bastioni coperti d'artiglieria, chiudevano assolutamente il
passo. Il corsaro Bardella dava la caccia ai più piccoli battelli che
tentavano di avvicinarsi alla riva: furono presi tre brigantini genovesi
carichi di frumento, e gli altri tornarono a Lerici affatto convinti che
più non potevansi soccorrere i Pisani[436].

  [436] _Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p. 204. — Scip. Ammirato, l.
  XXVIII, p. 287. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 417. — Niccolò
  Macchiavelli commissione al campo contro Pisa, t. VII, p. 240._

I magistrati di Pisa e coloro che mai non si erano smossi dalla
risoluzione di difendere fino alla morte l'indipendenza della loro
patria, più non sapevano come resistere alle grida del popolo ed in
particolare de' contadini, che perivano di fame e domandavano di
trattare. Per soddisfarli furono in marzo costretti di rivolgersi al
signore di Piombino, implorando la sua mediazione. Giacomo d'Appiano,
signore di Piombino, invitò diffatti i Fiorentini a mandargli
negoziatori; ed il Macchiavelli, che di già trovavasi all'armata passò a
Piombino il 14 di marzo, per trovarvi i deputati pisani; ma non tardò ad
avvedersi che questi non volevano che guadagnar tempo e non avevano
intenzione di conchiudere. Avevano essi chieste guarenzie pel
mantenimento dell'assoluta amnistia, che loro prometteva Firenze; e
quando il Macchiavelli gli strinse a spiegarsi, dichiararono che altra
non ne conoscevano che quella di custodire essi medesimi la loro città,
abbandonando ai Fiorentini tuttociò che era fuori delle mura. A tale
inchiesta fu rotta la conferenza ed il Macchiavelli tornò al campo per
affrettare gli attacchi[437].

  [437] _Commis. data al Macchiavelli 10 marzo e sua lett. da Piombino
  15 marzo, t. VIII, p. 246-249. — Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 288.
  — Gio. Cambi, t. XXI, p. 229._

A Pisa mancavano affatto il vino, l'olio, l'aceto ed il sale; il
frumento vi si vendeva due scudi d'oro ogni stajo, o circa sessanta
franchi al quintale. Più non v'era cuojo per fare scarpe, ed i soldati
ed i cittadini camminavano a piedi nudi[438]. L'ora di Pisa era
finalmente giunta. Dopo quattordici anni e sette mesi di guerra,
sostenuta con maraviglioso coraggio, con una costanza e con una
rassegnazione di cui forse non trovasi esempio in altri popoli, convenne
cedere alla necessità. Le minute circostanze di questa lunga lotta non
ci furono trasmesse che dai nemici dei Pisani; niuna cronaca
contemporanea di quella città non fu scritta nè conservata; veruno
storico ci lasciò un quadro degli sforzi interni, delle deliberazioni,
de' consigli, de' sacrificj dei cittadini. Appena ci fu conservato il
nome di tre o quattro Pisani in un'epoca in cui tanti uomini meritarono
per il loro attaccamento, pel loro valore, per l'eloquenza, per la
destrezza delle loro negoziazioni, un'eterna fama; pure a traverso alle
prevenzioni nemiche di coloro che soli ci trasmisero la memoria di
questi avvenimenti, si scuopre una grandezza ed un eroismo che non
trovansi presso verun'altra città d'Italia.

  [438] _Scip. Ammirato, l. XXVIII, p. 286. — Gio. Cambi, p. 225._

Tarlatino, che con tanto valore comandò la guarnigione di Pisa, avendo
il venti di maggio fatto chiedere salvacondotti al campo fiorentino,
quattro deputati di Pisa si recarono presso i tre commissari della
repubblica, domandando loro passaporti per dodici ambasciatori, che la
loro patria aveva finalmente determinato di spedire a Firenze per
capitolare. Questi deputati non lasciarono dubbiezze intorno alla
sincerità delle loro intenzioni; ed i tre commissarj, Antonio Filicaja,
Alamanno Salviati e Nicola Capponi, che colla instancabile loro attività
avevano ridotta Pisa a tali estremi, furono altresì i primi a far
conoscere ai Pisani che il loro ardore per la riuscita poteva combinarsi
coll'umanità e colla più nobile generosità. Le negoziazioni, trattate
ora in Firenze ora nel campo, durarono diciotto giorni, nei quali i
Pisani sotto mille pretesti visitavano il campo fiorentino, onde
ottenere alimenti dall'ospitalità dei soldati e portarli alle loro
famiglie[439].

  [439] _Lettere de' Commissarj generali del 20 di maggio 1509, al 6
  giugno. In Macchiavelli Legazioni, t. VII, p. 267-288._

Finalmente il trattato sottoscritto a Firenze il 4 di giugno e
ratificato a Pisa da tutto il popolo, il 7, ebbe esecuzione nel
susseguente giorno. L'armata fiorentina entrò in Pisa l'8 di giugno del
1509 e restituì l'abbondanza agli assediati estenuati. Non solo furono
perdonate tutte le offese e restituiti ai Pisani tutti i loro poderi; ma
la signoria fece ancora pagare ad ogni cittadino le rendite, i frutti ed
il prezzo degli annui affitti, che erano stati percetti sul territorio
pisano. Lo storico Giacomo Nardi, che fu egli stesso incaricato di
regolare questi conti, ci accerta che la signoria fiorentina lo fece con
tanta liberalità, che pareva piuttosto ricevere che dare la legge[440].
La capitolazione fu egualmente liberale per ogni rispetto; confermò
tutti gli antichi privilegj e tutte le magistrature indipendenti del
comune di Pisa; restituì ai Pisani la franchigia del commercio e delle
manifatture di cui erano stati in addietro privati; loro aprì un appello
per le cause criminali avanti ai medesimi tribunali che giudicavano i
Fiorentini, ed alleviò, per quanto poteva farlo una capitolazione, il
dolore di perdere la loro indipendenza[441].

  [440] _Jac. Nardi, l. IV, p. 207-208. — Scip. Ammirato, l. XXVIII,
  p. 288. — Gio. Cambi t. XXI, p. 251. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 323.
  — Jac. Arrosti Chron., f. 233. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 437._

  [441] _Capitolazione per la resa della città di Pisa, sotto al
  dominio della repubblica fiorentina. Presso Flaminio del Borgo
  Raccolta di diplomi Pisani 4.º 1765, p. 406-408._

Ma nè l'orgoglio de' Pisani, nè il loro patriottismo potevano
accomodarsi alla servitù. Tutti coloro che pel loro nome godevano di
qualche considerazione all'estero, che colle loro ricchezze potevano
conservare qualche indipendenza, o che coi loro talenti militari e col
loro valore potevano acquistare la ricchezza che loro mancava,
abbandonarono una patria fatta serva. I Torti, gli Alliati e molti altri
rifugiati passarono a Palermo, ove dopo tale epoca trovaronsi quasi
tutti i nomi della nobiltà pisana; i Buzzacarini, ramo della casa
Sismondi, passarono a Lucca con molti loro concittadini; altri cercarono
un asilo in Sardegna; e finalmente un numero ancor maggiore andò a
raggiugnere l'armata francese, che aveva di già invaso il territorio
veneziano. Rinieri della Sassetta e Pietro Gambacorti avevano adunati
cento cinquanta fanti pisani in Lombardia[442]. Una folla di altri, tra
i quali un ramo di Sismondi, si posero sotto le medesime insegne.
Rinnovando coi capitani francesi quei legami d'ospitalità, che con
tacito studio avevano essi cercato di stringere in occasione del
passaggio di Carlo VIII, e che avevano più volte rendute inutili le
negoziazioni del gabinetto e salvata Pisa per opera delle armate
medesime che l'assediavano, si fecero una patria del campo francese,
rimpiazzarono la libertà civile coll'indipendenza delle armi, trovarono
nella gloria qualche conforto al loro esilio, e senza avere un sicuro
domicilio continuarono a sentirsi come a casa loro in tutta l'Italia,
fino all'epoca in cui l'armate francesi ne furono scacciate, ed in cui
queste proscritte famiglie andarono a cercare nelle province meridionali
della Francia una immagine del bel clima della Toscana cui esse avevano
rinunciato[443].

  [442] _Lettera di N. Capponi ed Alamanni Salviati, ex castris apud
  Mezzanam, die 1 junii 1509. Machiavelli, t. VII, p. 276._

  [443] È un notabilissimo monumento dell'orrore che inspirava ai
  Pisani questo giogo straniero, e dell'emigrazione che seguì dopo il
  suo stabilimento, il registro aperto nel 1566, d'ordine del gran
  duca Cosimo I, per inscrivervi tutti gl'individui rimasti in Pisa,
  che potrebbero provare che i loro antenati partecipavano prima del
  1494 alla magistratura ed agli onori della città. Comprende tutti i
  maschi di ogni famiglia, anche i preti, che pure non potevano
  lasciare discendenza, nè esercitare magistrature; si estende fino
  alle più basse professioni, e non pertanto non comprende che
  settecento ventisette nomi; tanto l'emigrazione nel corso di un
  mezzo secolo aveva scemata la popolazione di una città, capace di
  tener testa a tutta la Toscana, di una città la di cui lunga e
  valorosa resistenza aveva richiamata l'attenzione di tutta l'Europa.
  Trovasi stampato ne' _Diplomi Pisani di Flaminio del Borgo in 4.º
  1765, p. 433._



CAPITOLO CV.

      _Lega di Cambrai, battaglia di Vailate o di Agnadello, conquista
      di tutto lo stato di terra ferma dei Veneziani._

1508 = 1509.


La lega conclusa a Cambrai tra le grandi potenze dell'Europa per
attaccare e spogliare i Veneziani, fu, dopo le crociate, la prima
intrapresa eseguita di concerto, con uno scopo comune da tutti gli stati
inciviliti. Per la prima volta i padroni delle nazioni convennero di
dividere fra di loro uno stato indipendente; per la prima volta fecero
essi rivivere col sussidio d'una pedantesca erudizione inveterate
pretese; finalmente per la prima volta riclamarono gl'imprescrittibili
diritti della loro legittimità. Le crociate avevano mostrato un'unione
europea fondata sullo zelo e sull'entusiasmo religioso; nella lega di
Cambrai si vide un nuovo accordo europeo, che altro principio non aveva
fuorchè il personale momentaneo interesse dei forti che spogliavano il
debole, non altra sanzione che le pretese da gran tempo abbandonate di
coloro che risguardavano i loro titoli come non caduchi. Pure gli è a
questo avvenimento che può attribuirsi l'origine del diritto pubblico,
che da tre secoli e fino ai nostri giorni ha governata l'Europa. Questo
diritto cominciò colla più clamorosa ingiustizia; e la scienza
diplomatica, che in qualche modo si vide nascere nel sedicesimo secolo,
fu dopo tal epoca adoperata il più delle volte a somministrare pretesti
alla rapacità ed alla mala fede.

Non è questa l'idea che abbiamo costume di formarci del diritto pubblico
o internazionale: l'umana società avrebbe bisogno di un'altra guarenzia;
avrebbe bisogno di una legislazione che regolasse le nazioni nelle
relazioni fra di loro, in quel modo che il diritto civile regge i
cittadini in una stessa nazione. I nostri desiderj ci persuadono
agevolmente che abbia esistito ciò che noi desideriamo. Qualunque volta
proviamo grandi abusi di potere, confrontiamo avidamente i presenti
tempi, in cui trionfa l'ingiustizia, con quel passato, che ci dipinge
l'immaginazione, in cui non si ricorreva alla guerra che per dare
esecuzione a diritti di già stabiliti dai trattati e in cui la conquista
medesima non somministrava pretese al possesso ove non fosse sanzionata
da legittimi titoli. Ma noi cerchiamo invano nella storia quell'epoca in
cui la giustizia prendeva il luogo della forza, ed in cui la potenza dei
trattati o degli imprescrittibili diritti incatenava la stessa violenza.

Tre basi assolutamente diverse sono date al diritto pubblico; i loro
principj sono direttamente contraddittorj, e fino a tanto che la scelta
fra questi principj venga fissata di concerto da tutte le nazioni,
ciaschedun sovrano troverà sempre il modo d'accomodar la propria causa
all'uno o all'altro sistema, ed egli sarà ancor sempre impossibile,
com'è stato finora, d'intendersi sopra alcun fatto o sopra alcuna
conseguenza. Queste tre basi sono la legittimità imprescrittibile, il
diritto dei trattati, e le convenienze nazionali. Per la prima volta,
all'occasione della lega di Cambrai, questi tre principj furono messi in
opposizione. L'imperatore ed il re di Francia annunziarono che
prendevano le armi per ricuperare i loro diritti imprescrittibili, l'uno
sulle terre dell'impero della Venezia, e l'altro sul ducato di Milano. I
Veneziani difendendosi invocavano il diritto pubblico dei trattati che
loro guarentivano tutti i loro possedimenti di terra ferma. Il papa,
dopo avere egli medesimo ricuperato ciò che pretendeva essere di suo
imprescrittibile diritto, più non fece valere nel secondo anno della
guerra che le convenienze nazionali, l'indipendenza dell'Italia, dalla
quale voleva scacciare i Barbari; la sovranità di un popolo sul proprio
territorio, ed il vantaggio di una nazione che non può essere vincolata
dal primitivo contratto forse favoloso co' suoi sovrani, nè dai trattati
impostile dalla forza.

Ciascheduno di questi sistemi politici è in sè stesso difettoso, e nella
sua applicazione soggetto a grandi difficoltà: ma quanto non lo
diventano ancora di più, allorchè confondonsi l'uno coll'altro;
allorchè, dopo avere riclamato a favor suo diritti imprescrittibili, si
pretende poi di limitare quelli degli altri coi trattati, o di spiegarli
dietro l'interesse dei popoli. Pure niuna potenza non si è mai
fedelmente attenuta all'una o all'altra di queste ruinose basi, e non ha
confessate tutte le conseguenze che discendevano dal primo principio:
perciò la scienza del diritto pubblico altro mai non è stata che un vano
studio di sofismi; col suo ajuto sonosi risvegliate le passioni dei
popoli onde secondassero l'ambizione dei loro governi, e col mezzo di
questi si è dissimulata agli occhi dei primi l'ingiustizia dei pretesi
diritti.

Lodovico XII, quando aveva voluto togliere a Lodovico Sforza il ducato
di Milano, aveva egli medesimo cercato l'assistenza dei Veneziani, ai
quali per ricompensa aveva anticipatamente accordato Cremona e la Ghiara
d'Adda, che effettivamente rimasero in potere della repubblica allorchè
i Francesi furono padroni del Milanese. Pure Lodovico XII, oramai
riconosciuto quale legittimo successore di Valentina Visconti,
desiderava quelle province che pretendeva inalienabili, credendo di
conservare imprescrittibili diritti sopra possedimenti da lui medesimo
ceduti. Ma ciò non basta, i Visconti, de' quali egli aveva raccolta
l'eredità, avevano essi medesimi, in occasione delle loro guerre coi
Veneziani, perdute Brescia e Bergamo, che prima si risguardavano come
parte del ducato di Milano; e sebbene queste città colle loro province
fossero incorporate alla repubblica di Venezia fino dal 1426, e che gli
stessi Visconti non le avessero possedute così lungamente quanto i
Veneziani, Lodovico XII le risguardava come comprese nella sua
inalienabile eredità, pretendendo conservare sopra di loro tali diritti,
che niun tempo, niun trattato, niuni prestati servigj, potevano
distruggere.

Dal canto suo Massimiliano si risguardava come il legittimo successore
non solo de' più potenti monarchi germanici, ma ancora degli imperatori
romani: perciò credevasi autorizzato ad attivare tutti i diritti che
avevano esercitati Federico Barbarossa ed Ottone il Grande, e lo stesso
Trajano ed Augusto. Parevagli che la repubblica di Venezia si fosse
innalzata sulle ruine dell'impero, e credevasi chiamato a spogliarla di
queste antiche usurpazioni. A' suoi occhi, Treviso, Padova, Verona e
Vicenza erano sempre terre dell'impero, e questa opinione, spalleggiata
dall'autorità degli antiquarj, era in allora generalmente ricevuta, e
niuno storico del tempo dubitò de' diritti di Massimiliano. Pure questi
diritti non erano fondati che sopra un'antica conquista. I monarchi
tedeschi non avevano potuto mantenere più di cento cinquant'anni un
dominio dubbioso e spesso interrotto: in appresso, pel corso di tre
secoli, alcune repubbliche ed i principi di Carrara e della Scala
avevano colle armi difesa la loro sovranità; loro era finalmente
succeduta da circa un secolo la repubblica di Venezia; ma in questo
sistema i potenti non possono mai perdere i loro diritti, ed i deboli
mai non possono acquistarne.

Tuttavolta è difficile il farsi illusione sull'assurdità di questo
sistema d'imprescrittibile legittimità, che verun trattato, veruna
convenzione tra gl'interessati, veruna umana autorità non può cambiare.
Fermando ogni movimento nelle cose di questo mondo, respingendo tutti i
progressi, tutte le innovazioni, cotale sistema riconduce gli uomini ad
uno stato primitivo, e perciò sconosciuto; ad uno stato, che avendo
preceduto lo sviluppo delle società ed i loro nuovi interessi, non
potrebbe essere mantenuto senza rendere stazionarj, l'incivilimento, la
popolazione, le cognizioni e lo stesso ordine politico. I diritti che
Massimiliano e Lodovico XII pretendevano di attivare contro i Veneziani,
erano stati prescritti da un tranquillo possesso, che rispetto ad alcune
province contava due e tre secoli. Ma se niuna durata di possesso, nè
veruna specie di trattati potevano fondare i diritti de' Veneziani, gli
antichi sovrani rappresentati da Massimiliano e da Lodovico XII non
avevano potuto acquistarne di più cogli stessi mezzi. Converrebbe
provare che la legittimità non abbia mai cominciato, onde concluderne
che non deve giammai aver fine; altrimenti le medesime cause che avevano
dato origine ai diritti degli imperatori e dei re di Francia, potevano
altresì dare origine ai diritti dei loro successori. D'uopo è inoltre
convenire che il principio della legittimità o non esiste per
chicchessia, o esiste egualmente in tutte le linee della sovranità.
L'espropriazione del più piccolo principe non ferisce meno questo
principio che quella del più grande monarca. Venezia, che si presentava
come il più antico stato della cristianità, come la sola legittima
figlia della repubblica romana, poteva allegare diritti anteriori a
quelli di tutti i sovrani. Le famiglie de' principi di Padova e Verona,
cui era succeduta, non erano meno legittime che quelle dei re di Francia
e di Germania. O tutti dovevano essere ristabiliti ne' loro antichi
diritti, o niuno poteva pretenderlo.

Il sistema del diritto dei trattati è certamente assai meno assurdo che
quello della legittimità. Non avendo le nazioni giudici al disopra di
loro, nè altra autorità che decida tra di loro, tranne la forza, le loro
reciproche convenzioni possono soltanto mettere fine alle loro contese.
Esse medesime devono avere la facoltà di obbligarsi, o di rinunciare ai
loro diritti; che se non fosse niuno l'avrebbe per loro, e le guerre
sarebbero eterne. La violenza loro fatta non potrebbe annullare i loro
contratti senza annullare nello stesso tempo tutti i possibili trattati;
imperciocchè ogni trattato è opera della forza o della minaccia, ogni
trattato è stato fatto per terminare la guerra o per evitarla, ogni
trattato è una concessione che il più debole fa al più forte,
sagrificando una parte de' suoi diritti per salvare il rimanente, ogni
trattato è una concessione di questo rimanente che il più forte fa al
più debole in ragione de' suoi mezzi di resistenza.

Ma se il diritto de' trattati non è che una conseguenza del diritto del
più forte, è difficile che lungamente si conservi obbligatorio dopo che
la bilancia delle forze avrà cambiato. Una nuova lotta, il di cui
risultamento sarà diverso, darà luogo ad un nuovo trattato non meno
legittimo del precedente: e per tal modo si distruggerebbe ogni idea del
giusto e dell'ingiusto, e diventerebbe impolitica ogni moderazione del
vincitore, poichè tutte le forze che col favore di un trattato
lascerebbe al suo nemico, potrebbero in breve rivolgersi contro di lui.

La terza base del pubblico diritto, l'interesse dei popoli, è la sola
che sostener possa una profonda disamina, e che possa nello stesso tempo
ammettere alcune parti degli altri due sistemi. Richiede l'interesse de'
popoli la conservazione del loro riposo; e per guarentire questo riposo
ammette la legittimità non come un diritto, ma come una presunzione
della volontà nazionale. Ammette ancora la prescrizione non come un
diritto, ma come una presunzione della vicendevole soddisfazione delle
parti. Ammette i trattati, siccome l'unico mezzo di disarmare gli odj
popolari, e di salvare il vinto dalla rabbia del vincitore. Ammette
ancora la violazione di questi medesimi trattati, come unico e
necessario rimedio, quando condizioni crudeli o disonoranti furono
imposte dall'abuso della forza. Questa violazione può allora diventare
giusta, perciocchè nè il governo che ha stipulato aveva il diritto di
legare la nazione ad una cosa vergognosa o ruinosa, nè l'attuale
generazione aveva il diritto, pel suo proprio vantaggio, di legare la
posterità. L'interesse nazionale, che lascia una speranza ai vinti cui
viene imposto un disonorevole trattato, insegna ai vincitori pel loro
proprio vantaggio a non abusare della vittoria.

Fu in nome di questo nazionale interesse che Giulio II pretese nel corso
della presente guerra, che veruna linea legittima, veruna successione,
nè verun trattato avesse potuto trasferire una parte della sovranità
dell'Italia ai barbari; che ogni convenzione era nulla, quando così
essenzialmente derogava all'interesse ed all'onore dei popoli; che
qualunque linea di legittimità doveva essere riguardata come interrotta,
quando dava per capi alle nazioni dei re, che avevano interesse non già
alla loro grandezza ma all'abbassamento ed alla ruina loro. Pure i
governi che abbracciarono questo sistema ne temettero sempre le
applicazioni contro di loro medesimi, e sono caduti in contraddizioni
inestricabili, perchè non si potesse loro domandar conto poscia
dell'interesse e dell'onore dei proprj loro popoli.

Del resto per quanto fallaci fossero gli argomenti con cui i potentati
colorivano le loro pretese, la cupidigia, la gelosia, ed il timore di
umilianti paragoni, erano i veri motivi che loro ponevano le armi in
mano. Le grandi potenze non potevano vedere senza invidia la ricchezza,
la prudenza ed i prosperi costanti successi della repubblica di Venezia.
Con meno di tre milioni di sudditi sopra un'estensione di territorio
minore della decima parte della Francia, della Spagna o della Germania,
Venezia si era innalzata al livello de' più grandi imperj; aveva
sostenuti a vicenda gli attacchi de' Musulmani, de' Francesi, degli
Spagnuoli e de' Tedeschi, senza dar segni di debolezza; il più vivo
commercio animava la capitale, numerose manifatture fiorivano in tutte
le città suddite, le campagne prosperavano mercè un'industre
agricoltura, vaste opere erano state terminate per l'irrigazione di un
suolo che coprivasi di ricche messi, ed i contadini erano felici. I
sudditi de' vicini monarchi, paragonando la loro miseria con tanta
forza, tanta opulenza e sicurezza, potevano essere tentati di chiedere
da che procedesse tale diversità, e rispondere a sè medesimi: che non
vedevansi in Venezia, nè lo stolido lusso di una corte voluttuosa, nè le
ruberie dei ministri e de' loro subalterni, nè la petulante ignoranza e
i ruinosi intrighi di giovani favoriti. Senza voler dare ammaestramenti,
senza avvicinarsi alla perfezione, Venezia era una viva satira degli
altri governi, i quali per istinto e senza rendersi conto de' loro
motivi, da gran tempo desideravano di distruggerla.

Fino dall'anno 1504, Lodovico XII, Massimiliano e Giulio II, avevano
progettata la divisione degli stati di Venezia, piantandone i fondamenti
nel trattato di Blois del 22 di settembre; ma la versatilità di
Massimiliano, la diffidenza di Giulio II, la gelosia di Ferdinando,
avevano a quell'epoca sottratta la repubblica alla congiura contro di
lei formata. Il violento risentimento di Massimiliano, dopo le sconfitte
avute in principio del 1508, lo persuase a rinnovare le stesse
negoziazioni, ed a ricercare l'alleanza de' Francesi, da lui detestati,
per vendicarsi coll'ajuto loro della repubblica che lo aveva
umiliato[444].

  [444] _Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 311._

La tregua di tre anni, che il re de' Romani aveva di fresco conchiusa
colla repubblica di Venezia e co' suoi alleati, non comprendeva il duca
di Gueldria allora in guerra con lui e con suo nipote. Era questo duca
protetto dalla Francia, e sotto pretesto di fare la sua pace
particolare, si aprirono delle conferenze a Cambrai tra il cardinale
d'Amboise, ministro e confidente di Lodovico XII, e Margarita d'Austria,
figlia dell'imperatore Massimiliano e vedova del duca di Savoja. Il
cardinale e la principessa avevano l'intera confidenza de' loro
committenti. L'una aggiugneva tutta la forza di spirito di un uomo a
tutta l'accortezza di femmina; l'altro conservava odio contro Venezia,
fin dall'epoca dei due conclavi in tempo de' quali erasi trovato in
Roma, e nel consiglio del re non aveva voluto ascoltare Stefano Poucher,
vescovo di Sens, il quale rappresentava quanto la conservazione di
Venezia fosse necessaria alla difesa del Milanese; quanto la Francia si
era pochi anni prima pentita di aver chiamato un potentato straniero a
dividere il regno di Napoli, e quanto doveva temersi che la progettata
divisione della Lombardia la precipitasse tutta intera sotto il dominio
della casa d'Austria[445].

  [445] _Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 310. — Arn. Ferroni,
  l. IV, p. 67._

Il cardinale d'Amboise e Margarita d'Austria, essendosi uniti a Cambrai
sotto colore di trattarvi gli affari di Gueldria, non ammisero alle loro
conferenze gli ambasciatori di Ferdinando il cattolico, sebbene Lodovico
XII avesse comunicati a questo monarca i suoi disegni sopra Venezia
nell'abboccamento di Savona, e gli avesse offerto come prezzo della sua
cooperazione le città marittime della Puglia, che i Veneziani tenevano
in pegno del danaro somministrato alla casa d'Arragona: non ammisero
nemmeno il nunzio del papa, sebbene Giulio II, per ricuperare le sue
città di romagna, fosse stato il primo a suggerire l'idea di questa
associazione. Il cardinale e la principessa deliberarono soli e senza
assistenti, e le loro negoziazioni diedero luogo a così vivi alterchi,
che Margarita scriveva, _poco mancò che il signor legato ed io non ci
prendessimo pei capelli_; ma queste negoziazioni furono tosto terminate
da due trattati sottoscritti il 10 di dicembre del 1508. Col primo le
vertenze del duca di Gueldria coll'arciduca Carlo vennero conciliate,
siccome ancora quelle intorno all'eredità dei feudi dei Paesi Bassi
dipendenti dalla corona di Francia; ed in conseguenza Massimiliano si
obbligò di dare a Lodovico XII una nuova investitura del ducato di
Milano[446]. Col secondo fu stipulata la lega dell'Europa contro
Venezia, tenendosi per certi i due plenipotenziarj di ottenere la
ratifica degli altri sovrani, sebbene il nunzio del papa, interpellato,
rifiutasse la sua per mancanza di formale istruzione.

  [446] _De Flassan, Hist. de la Diplom. Française t. I, l. II, p.
  286. — Léonard Corps Diplom., t. II._

Questo secondo trattato, che viene propriamente indicato dal nome di
Lega di Cambrai, portava: che, avendo l'imperatore ed il re di Francia
determinato, dietro le istanze di Giulio II, di fare un'alleanza per
portare la guerra contro i Turchi, avevano essi preventivamente
convenuto: «di far cessare le perdite, le ingiurie, le rapine, i danni,
che i Veneziani hanno apportato non solo alla santa sede apostolica, ma
al santo romano impero, alla casa d'Austria, ai duchi di Milano, ai re
di Napoli ed a molti altri principi, occupando e tirannicamente
usurpando i loro beni, i loro possedimenti, le loro città e castella,
come se cospirato avessero per il male di tutti.» Per tutte queste
ragioni, aggiungono i monarchi: «noi abbiamo trovato non solo utile ed
onorevole, ma ancora necessario, di chiamar tutti ad una giusta vendetta
per ispegnere, come un incendio comune, la insaziabile cupidigia dei
Veneziani e la loro sete di dominare[447].»

  [447] _Manifesto di Massimiliano in data del 5 di gennajo del 1509,
  che serve di preambolo al trattato di Cambrai. Ann. Eccles. Rayn.
  An. 1509, § 2, 3, 4, t. XX, p. 64._

Dopo questo preambolo, il trattato porta: che i confederati agiranno di
comune accordo per costringere i Veneziani a rendere alla santa sede,
Ravenna, Cervia, Faenza, Rimini, Imola e Cesena. I plenipotenziarj
negoziarono con tanta inavvertenza o ignoranza, che non rimarcarono
neppure che Imola e Cesena erano già da lungo tempo state cedute al
papa. Il trattato aggiugne: che i Veneziani renderebbero all'impero,
Padova, Vicenza e Verona, ed alla casa d'Austria, Roveredo, Treviso ed
il Friuli; che i Veneziani verrebbero obbligati di cedere al re di
Francia, Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda e tutte le
dipendenze del ducato di Milano; al re di Spagna e di Napoli, Trani,
Brindisi, Otranto, Gallipoli, Mola e Polignano con tutte le città che
avevano ricevute in pegno da Ferdinando II; al re d'Ungheria, se
entrasse in quest'alleanza, tutte le città della Dalmazia e della
Schiavonia, che avevano già un tempo appartenuto alla di lui corona; al
duca di Savoja, il regno di Cipro; alle case d'Este e di Gonzaga, i
possessi che la repubblica aveva conquistati sui loro antenati; e
rispetto alle potenze che non avevano niente a pretendere sulle spoglie
di Venezia, come l'Inghilterra, potrebbero ancora quelle essere ammesse
a questa alleanza, se lo domandassero avanti che fosse spirato il
termine di tre mesi[448].

  [448] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 412. — Jac. Nardi, l. IV, p.
  204. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 311. — Hist. de la diplom. française,
  t. I, l. II, p. 288. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 53._

Quanto ai modi d'esecuzione, era convenuto con questo trattato: che il
re di Francia attaccherebbe in persona i Veneziani, il primo giorno
d'aprile; che nello stesso tempo il papa fulminerebbe contro loro tutte
le censure ecclesiastiche, e che dimanderebbe l'assistenza
dell'imperatore come avvocato della chiesa. Questa domanda doveva
sciogliere Massimiliano dagli impegni che aveva contratti pochi mesi
avanti, e dargli motivo per attaccare i Veneziani, ciò ch'egli
prometteva di fare in persona entro quaranta giorni dopo l'attacco del
re di Francia. Nello stesso tempo Ferdinando e gli altri alleati
dovevano, ciascuno per parte sua, impadronirsi delle province loro
assegnate. Ognuno de' confederati doveva agire per conto proprio, e
tener dietro alle proprie conquiste senz'obbligo di assecondare i suoi
associati.

I coalizzati non si limitavano a promettersi la divisione di uno stato
col quale erano legati da solenni trattati; per compiere con maggior
sicurezza quest'atto d'iniquità bisognava sorprendere i Veneziani, e
togliere loro la notizia del trattato che avevano sottoscritto.
Contribuì a coprire lo scopo de' confederati la convenzione fatta nello
stesso tempo col duca di Gueldria: i plenipotenziarj si affrettarono di
partire da Cambrai, per non richiamar troppo sopra di loro l'attenzione
dell'Europa; e l'ambasciatore veneziano, avendo avuto qualche sospetto
del turbine che lo minacciava, Lodovico XII gli protestò che nulla erasi
conchiuso a Cambrai che potesse riuscire svantaggioso alla sua
repubblica, e che egli non prenderebbe mai parte in tuttociò che potesse
nuocere a così antichi alleati[449].

  [449] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 412. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  312. — Alf. de Ulloa vita di Carlo V, l. I, f. 54._

Lodovico XII aveva senza esitanza ratificato il trattato di Cambrai.
Alberto Pio, signore di Carpi, ed il vescovo di Parigi, deputati di
Massimiliano, ottennero altresì immediatamente la sua ratifica; nè più
lungo tempo si fece desiderare quella di Ferdinando il cattolico, che,
sebbene temesse la potenza degli stranieri in Italia, e diffidasse
egualmente di Massimiliano e de' Francesi, non sentendosi però
abbastanza forte per difendere i Veneziani, preferì di cominciare ad
ingrandirsi a spese loro[450].

  [450] _Jo. Marianae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XV, p. 280._

L'odio che Giulio II aveva concepito contro i Veneziani veniva
accresciuto da due nuove offese: essi avevano accordato ai Bentivoglio
un asilo negli stati della repubblica dopo la loro espulsione dal
Milanese, e il loro senato aveva rifiutato di ammettere al vescovado di
Vicenza il nuovo cardinale di san Pietro _ad Vincula_, nipote del papa,
e da lui recentemente nominato[451]. Pure Giulio II esitava più che gli
altri confederati a ratificare il trattato di Cambrai. Sentiva che
questa lega accrescerebbe la potenza degli oltremontani in Italia,
mentre che l'oggetto de' suoi più ardenti desiderj tendeva a purgarla da
coloro ch'egli chiamava barbari. La sua diffidenza verso i Francesi
veniva inoltre accresciuta dal suo odio contro il cardinale d'Amboise,
ch'egli risguardava come colui che aspirava a succedergli, e di cui
temeva le trame contro la propria sua vita. Aveva di fresco provato, in
occasione del tumulto di Genova, quanto poco lo rispettassero i
Francesi, e non poteva senza timore accrescere ancora la loro
preponderanza. Massimiliano non era meno formidabile alla santa sede,
sia per le pretese che l'impero aveva sempre avute sopra l'Italia, sia
perchè il di lui erede essendo nello stesso tempo quello di Ferdinando,
poteva di già temersi di vedere il nipote di questi due sovrani riunire
le due monarchie in allora rivali; e se desso aggiugneva il regno di
Napoli e la Marca veronese a tanti altri estesissimi stati, la santa
sede, chiusa da ogni banda, più sperar non poteva di conservare la
propria indipendenza, ed inutili diventavano tutti gli sforzi fatti da
Giulio II per riunire le province staccate della Chiesa.

  [451] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 410._

L'Epirota, Costantino Cominates, trovavasi in allora in Roma,
ambasciatore di Massimiliano, che lo aveva in grandissimo favore. Era
questi colui che in altri tempi ebbe la tutela dei giovani marchesi di
Monferrato, e che in appresso, cacciato dai Francesi da quel principato,
aveva contro di loro concepito grandissimo odio. Dopo di aver conferito
con Giulio II, fu da lui incaricato di parlare segretamente al ministro
della repubblica in Roma, Giovanni Badoero. Andò a trovarlo di notte;
gli comunicò il trattato di Cambrai, di cui la repubblica non aveva
ancora avuta contezza; e nello stesso tempo gli dichiarò che, se il
senato voleva restituire al papa Faenza e Rimini, questi si staccherebbe
dalla lega; che il senato potrebbe ancora disgustare Massimiliano colla
Francia, assecondando i progetti dell'imperatore sul Milanese. Queste
aperture furono immediatamente comunicate al consiglio dei dieci, che
verso lo stesso tempo aveva da Milano avuto sentore del trattato[452].

  [452] _P. Bembi Hist. Ven., l. VII, p. 158._

Il consiglio dei dieci, prima di trattare col papa, volle tentare se
infatti potrebbe staccarsi l'imperatore dall'alleanza della Francia. Gli
mandò Giovan Pietro Stella, segretario del senato, colle più vantaggiose
proposizioni. Ma quest'inviato non seppe conservare un impenetrabile
segreto; l'ambasciatore francese, informato della sua venuta, impedì che
fosse ricevuto: fu egualmente rimandato un altro negoziatore. Una
conciliatrice proposizione che lo stesso Giulio II fece a Giorgio
Pisani, secondo ambasciatore della repubblica a Roma, fu sdegnata da
quest'uomo acre e di un carattere contraddicente, che neppure la
comunicò ai suoi capi[453]. Finalmente la signoria, dopo avere
deliberato intorno ai mezzi di staccare il papa dalla lega contro di lei
formata, trovò, dietro il consiglio di Domenico Trevisani, che col
cedere alla Chiesa, senza combattere, ciò che questa a stento potrebbe
ottenere colle armi, si veniva ad acquistare a carissimo prezzo la
neutralità di così debole nemico, e si dava in principio della guerra
una troppo pericolosa prova di pusillanimità. Il papa, che aveva
protratta fino all'ultimo giorno la ratifica del trattato, finalmente vi
acconsentì; ma sotto l'espressa condizione ch'egli non agirebbe
scopertamente contro i Veneziani, che quando i Francesi avrebbero di già
cominciate le ostilità[454].

  [453] _Ivi._

  [454] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 414. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  312._

Vero è che il loro attacco non doveva più lungamente differirsi;
Lodovico XII si era recato a Lione per affrettare la marcia delle sue
truppe verso l'Italia; ii cardinale d'Amboise, che avidamente cercava un
pretesto per rompere l'antica alleanza, aveva, in presenza di tutto il
consiglio, fatti sanguinosi rimproveri all'ambasciatore veneziano,
perchè i di lui padroni facevano afforzare l'abbadia di Cerreto, nello
stato di Crema, contro il tenore di un trattato conchiuso dalla
repubblica con Francesco Sforza il 29 aprile del 1454[455]. Lodovico XII
nello stesso tempo si faceva dare, per questa guerra, vascelli dai
Genovesi, danaro dai Fiorentini, danaro e soldati dai Milanesi, ai quali
stavano sul cuore le province del loro stato cedute dalla Francia alla
repubblica di Venezia. Finalmente in sul cadere di gennajo la corte di
Francia si cavò la maschera; richiamò da Venezia il suo ambasciatore,
rimandò quello de' Veneziani, come pure il segretario della repubblica
residente in Milano, e pubblicò il suo manifesto. Per lo contrario
Ferdinando il cattolico, seguendo la sua astuta politica, fece
dichiarare alla repubblica: ch'egli era entrato nella lega sottoscritta
a Cambrai contro i Turchi, ma non in quella contro Venezia; che gli
erano ignoti i motivi di Lodovico XII per attaccare la signoria, ma che
le offriva tutti i buoni ufficj ch'ella aveva diritto di ripromettersi
dal suo affetto e dalla sua ricchezza[456].

  [455] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 418. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  314._

  [456] _P. Bembi Hist. Ven. l. VII, p. 159._

Le ostilità erano già cominciate in riva all'Adda tra alcune truppe
leggeri francesi e veneziane, allorchè l'araldo d'armi di Francia,
introdotto in senato, denunciò la guerra a Leonardo Loredano, doge di
Venezia, ed a tutti i cittadini di quella città, qualificandoli come
uomini infedeli, che ingiustamente ritenevano le città del sommo
pontefice e dei re dopo averle occupate colla violenza. Rispose il
Loredano: che la repubblica non aveva mancato di fede a chicchessia, e
che se ella non avesse troppo scrupolosamente osservati i suoi impegni
verso la Francia medesima, Lodovico XII non avrebbe in Italia tanto
terreno da poter riporre il piede. Dopo queste solenni proteste da
ambedue le parti, ad altro non si pensò che alla guerra[457].

  [457] _P. Bembi, l. VII, p. 162. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p.
  421._

I Veneziani, sebbene abbandonati agli attacchi di quasi tutta l'Europa,
e senza alleati, non disperavano della salute pubblica. Purchè non
soggiacessero alla prima aggressione, essi non dubitavano che la lega
non si sciogliesse entro pochi mesi: gli alleati erano posti in
movimento da troppo discordi interessi, ed il carattere del papa e di
Massimiliano promettevano troppo poca costanza per poter credere che
lungo tempo persistessero in un'intrapresa tanto contraria ad ogni sana
politica. I Veneziani pensarono adunque a porsi in sulle difese; le loro
ricchezze, che ancora erano intatte, e la prosperità del commercio, non
ancora scemato dai progressi de' Portoghesi nelle Indie, mettevano a
loro disposizione tutti i condottieri, e loro permettevano di ragunare
sotto lo stendardo di san Marco la più bell'armata che avesse fino
allora combattuto nelle guerre d'Italia. Ma queste ricchezze, che
formavano tutta la loro forza, furono successivamente disperse da
fortuiti accidenti, come se il cielo medesimo si fosse unito alla lega
di tanti nemici della repubblica. Il magazzino della polvere
dell'arsenale di Venezia scoppiò con orribile fracasso, mentre che il
consiglio stava adunato, e quest'incendio coprì l'intera città di ceneri
e di brage. La fortezza di Brescia fu colpita da un fulmine, che spaccò
le sue mura; una barca, che portava a Ravenna dieci mila ducati per
pagare le truppe, affondò. Finalmente gli archivj della repubblica, che
contenevano tutte le più preziose carte, furono preda del fuoco: e
queste replicate disgrazie non erano tanto dannose per sè medesime,
quanto per la funesta influenza che avevano sul coraggio del popolo, il
quale le risguardava come altrettanti funesti presagj[458].

  [458] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 419. — Fr. Belcarii Comm. Rer.
  Gall., l. XI, p. 315._

I Veneziani avevano preso al loro soldo molti condottieri nati negli
stati della chiesa, fra gli altri Giulio e Renzo Orsini, signori di
Ceri, di cui portavano il nome, e Troilo Savelli. Questi dovevano condur
loro cinquecento uomini d'arme e tre mila fanti, ed essi avevano già
ricevuto a conto quindici mila ducati. Ma il papa ordinò loro sotto le
più severe pene ecclesiastiche e temporali di rompere il contratto, e
nello stesso tempo di non restituire il danaro. I condottieri ubbidirono
a quest'ordine del loro sovrano abituale[459]. Malgrado la loro assenza
i Veneziani avevano non pertanto presso di Ponte Vico sull'Olio due mila
cento lance intere, locchè suppone per ogni lancia quattro ed anche sei
cavalli, mille cinquecento cavaleggieri italiani, mille ottocento
Stradioti, diciotto mila fanti di linea, e dodici mila uomini di
milizie[460]. Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, aveva il titolo di
capitano generale di quest'armata, e Bartolommeo d'Alviano, della
medesima famiglia, quello di governatore. Stavano presso all'armata a
nome della signoria i due provveditori, Giorgio Cornaro ed Andrea
Gritti, i quali si erano acquistata grandissima riputazione nelle
negoziazioni e nelle armate. Uno era stato nel precedente anno contro
Massimiliano nel Friuli, l'altro a Roveredo; ed in quella campagna si
erano coperti di gloria[461].

  [459] _Fr. Guicciardini l. VIII, p. 419. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VII, p. 165._

  [460] _Muratori Ann. d'Italia, l. X, p. 41, secondo una cronaca
  manoscritta. — Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — P. Bembi, l.
  VII, p. 167. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 317._

  [461] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 416._

Il re di Francia era in sul punto di attaccare la repubblica, mentre che
gli altri confederati erano determinati a non muoversi che dopo aver
giudicato dai primi avvenimenti della sorte della guerra. Perciò i
Veneziani, destinando tutte le loro forze contro i Francesi, le avevano
adunate sull'Olio. Colà due piani di guerra affatto contrarj vennero
proposti dai due capi dell'armata. L'Alviano, che si era sempre distinto
coll'ardimento de' suoi disegni, e colla prontezza della loro
esecuzione, voleva portare la guerra nel paese nemico prima che Lodovico
XII avesse potuto ragunare tutte le sue forze; faceva conto di giovarsi
del malcontento, che il governo francese aveva destato in tutta
l'Italia, per ribellar il ducato di Milano, appropriarsi tutti i mezzi
di uomini e di danaro, che aveva la Lombardia, invece di lasciarli a
disposizione del nemico; indi attaccare i diversi corpi francesi, di
mano in mano che scenderebbero dalle Alpi, prima che potessero mettersi
in linea. Per lo contrario il Pitigliano, prudente generale, che niente
lasciava alla sorte, ma che l'Alviano accusava d'aggiugnere la timidità
di un'età avanzata a quella del suo proprio carattere, avrebbe voluto
che non si pensasse pure a difendere le terre della Ghiara d'Adda, che
non erano di grande importanza; che si lasciasse che l'impeto francese
si smorzasse negli assedj, facendo che l'armata si tenesse nel campo
trincerato degli Orci, di cui Francesco Carmagnola e Giacomo Piccinino
avevano conosciuta l'importanza nelle precedenti guerre: l'armata colà
difesa dall'Olio e dal Serchio, minaccerebbe le truppe che volessero
assediare Cremona o Crema, Bergamo o Brescia, travagliandole colla
cavalleria leggiere, e avvicinandosi ancora alle medesime per toglier
loro le vettovaglie, ma senza giammai abbandonare i luoghi
fortificati[462].

  [462] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 416. — P. Bembi, l. VII, p.
  165. — Fr. Belcarii l. XI, p. 315._

Questi due piani di campagna potevano presentare grandi vantaggi; ma,
come quasi sempre accade quando le operazioni militari dipendono dalle
decisioni de' consiglj civili, i due partiti estremi, che potevano
essere egualmente buoni, furono rigettati per prenderne uno di mezzo
necessariamente cattivo. Coloro che consigliano intorno a materie che
non conoscono, credono, secondo il detto di Necker, _di porre il loro
consiglio in sicuro_, quando si tengono ad eguale distanza dalle
opinioni estreme di due uomini dell'arte; e questo calcolo d'amor
proprio riuscì fatale a molti stati. Il senato rigettò il consiglio
dell'Alviano, come troppo audace, e quello del Pitigliano, come troppo
timido; ma ordinò ai generali di condurre l'armata presso l'Adda per
difendere la Ghiara d'Adda, loro prescrivendo nello stesso tempo di non
venire a battaglia, quando non vi fossero forzati da urgente necessità,
o che loro non si presentasse una favorevolissima occasione[463].

  [463] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 420._

Il re di Francia avvicinavasi con più bellicose disposizioni; egli
voleva venire a battaglia il più presto che fosse possibile, e sebbene
tutte le sue truppe non fossero ancora in sulla linea, si affrettò di
cominciare le ostilità, perchè il termine dei quaranta giorni, dopo il
quale il papa e l'imperatore dovevano secondarlo, cominciasse a
decorrere. Di suo ordine il signore di Chaumont passò l'Adda presso
Cassano, il 15 aprile del 1509, con tre mila cavalli, sei mila fanti e
poca artiglieria, dirigendosi sopra Treviglio distante tre miglia.
L'armata veneziana non aveva ancora lasciato Pontevico; ma Giustiniano
Morosini, provveditore degli Stradioti, trovavasi a Treviglio con
Vitelli di città di Castello e Vincenzo Naldi, che comandava la buona
infanteria dei Brisighella, assoldata in Romagna nel castello di questo
nome[464]. Questi capi, credendo di non aver a fare che con un piccolo
corpo di cavalleria leggiere, mandarono dugento fanti ed alcuni
Stradioti per respingerli. Ma questi furono bentosto incalzati fino alle
porte di Treviglio, ed i Francesi, che li caricavano con ardore,
impostarono subito alcuni pezzi d'artiglieria contro le mura. Lo
spavento sottentrò bentosto ad una imprudente confidenza, e gli abitanti
di Treviglio forzarono la guarnigione ad arrendersi. Il provveditore
Giustiniano, Vitelli e Naldi, furono fatti prigionieri con circa cento
cavaleggieri e mille fanti. Solamente dugento Stradioti si salvarono
colla fuga. Lo stesso giorno i Francesi attaccarono ancora i confini
veneziani su quattro diversi punti, dai monti di Brianza fino alle
vicinanze di Piacenza; ma dopo di avere in tal modo cominciata la
guerra, tutti questi corpi si ritirarono, e lo stesso Chaumont tornò a
Milano per aspettarvi il re[465].

  [464] _Mém. du chev. Bayard., c. XXIX, p. 70._

  [465] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 421. — Jac. Nardi Ist. Fior.,
  l. IV, p. 205. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 316._

Non giunse appena a Roma la notizia di queste prime ostilità che il papa
pubblicò il 27 di aprile la bolla di scomunica, che aveva tenuta in
serbo, contro il doge, i pregadi, il consiglio generale ed i cittadini
di Venezia. Rinfacciava in questa alla repubblica di avere usurpate
tutte le terre che possedeva in Romagna, e dichiarava, che, fino
dall'epoca dell'acquisto di Cervia, l'anno 1468, si trovava colpita
dalle scomuniche annuali della bolla _in coena domini_. Inoltre la
repubblica aveva ne' suoi stati turbata l'ecclesiastica giurisdizione,
vietando e perfino castigando gli appelli alla santa sede, assoggettando
le persone ecclesiastiche ad un foro laico, ed attribuendosi contro la
disposizione de' canoni la collazione de' beneficj. In disprezzo delle
scomuniche pronunciate contro i Bentivoglio la repubblica aveva dato
asilo ne' suoi stati a que' nemici della santa sede, e loro aveva
inoltre permesso di stare nelle città più vicine ai confini per
favoreggiare le loro pratiche in Bologna. Per tutte queste cagioni,
conchiudeva Giulio II, la santa sede avrebbe potuto immediatamente
trattare i Veneziani come infedeli, come pagani, come membra infette
della chiesa, che conviene distruggere prima che corrompano le altre.
Pure il pontefice per un effetto della sua estrema indulgenza voleva
ancora denunciar loro le pene nelle quali erano caduti, accordando un
termine perentorio di ventiquattro giorni per ravvedersi e restituire
alla chiesa tuttociò che possedevano nel suo territorio, purchè gli
rimettessero ancora tutti i frutti che avevano percetti in tutti gli
anni della loro usurpazione[466].

  [466] _Rayn. Ann. Eccl. 1509, § 6-9, t. XX, p. 65._ Ma non riporta
  testualmente che questa prima parte della bolla, e sopprime le
  minacce con cui si chiude.

Se poi i Veneziani differivano oltre il prescritto termine a ravvedersi
e a dar prove del loro pentimento, il papa colla stessa bolla
assoggettava agli interdetti non solo Venezia, ma tutte le terre del suo
dominio, e tutte quelle che darebbero asilo a qualunque veneziano.
Dichiarava i cittadini di Venezia colpevoli di lesa divina maestà e
perpetui nemici del nome cristiano, permettendo a chiunque di
attaccarli, d'impadronirsi de' loro beni e delle loro persone e di
venderli come schiavi: tanto è vero che la chiesa romana ha poco
meritato l'encomio spesso accordatole d'avere abolita la schiavitù[467].

  [467] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 422. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VII, p. 165. — Fr. Belcarii l. XI, p. 316._

Frattanto l'armata veneziana trovandosi adunata, si avanzò da Ponte Vico
a Fontanella, grossa terra lontana sei miglia da Lodi, dal qual luogo
poteva facilmente soccorrere Cremona, Crema, Caravaggio e Bergamo. Colà
seppero i suoi generali che il signore di Chaumont aveva ripassata
l'Adda, ed in conseguenza credettero venuta l'opportunità di ricuperare
Treviglio. Il solo Alviano si oppose a questa risoluzione,
rappresentando che non conveniva avvicinarsi al nemico che quando si
volesse attaccare, e che era un seguire contemporaneamente due progetti
contraddittorj lo avanzarsi contro di lui e il volere stare in sulla
difensiva. Ma non essendosi dato orecchio a queste obbiezioni, l'armata
veneziana occupò prima Rivolta sulle sponde dell'Adda, ed in appresso
attaccò Treviglio, ove il signore di Chaumont aveva lasciate cinquanta
lance e mille fanti sotto gli ordini dei capitani Imbauld e Fontrailles.
Avendo subito l'artiglieria aperta una breccia dalla banda di Cassano,
la guarnigione capitolò; gli ufficiali rimasero prigionieri, ed i
soldati si ritirarono disarmati. Per disgrazia i Francesi non
capitolarono l'amnistia per gli abitanti, i quali sollevandosi avevano
fatto cedere la piazza; onde i generali veneziani per gastigare questa
insubordinazione, abbandonarono Treviglio al saccheggio[468].

  [468] _P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 166. — Fr. Belcarii Com., l.
  XI, p. 317. — Mém. du chev. Bayard., c. XXIX, t. XV, p. 70._

Ma lo stesso giorno 8 di maggio in cui Treviglio aveva capitolato,
Lodovico XII giunse sull'opposta sponda dell'Adda, e nel susseguente
giorno fece gettare tre ponti su questo fiume al dissotto di Cassano,
senza che i Veneziani, che n'erano lontani alcune miglia, ed intenti al
sacco di Treviglio si opponessero alla loro costruzione. La sponda di
Cassano è più alta che non la sponda opposta, e la difesa del fiume
sarebbe sempre riuscita difficile; pure i Francesi non avevano mai
potuto aspettarsi che non si tentasse di farlo; e quando Gian Giacopo
Trivulzio vide Lodovico XII con tutta la sua armata sulla riva sinistra
dell'Adda, gli disse, «Sire, oggi voi avete vinti i Veneziani[469].»
L'Alviano, senza essere informato del passaggio dei Francesi, sentiva la
necessità di condurre la sua armata sulle rive del fiume, e non potendo
in altro modo strappare i suoi soldati dal saccheggio, fece appiccare il
fuoco a Treviglio per iscacciarli; ma a malgrado di questa crudele
esecuzione, arrivò troppo tardi; e le due armate più non essendo
separate da verun ostacolo, i Veneziani rientrarono nel loro campo
intorno a Treviglio, che era situato vantaggiosissimamente, ed i
Francesi si accamparono in distanza di un miglio.

  [469] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 424. — Jac. Nardi Ist. Fior.,
  l. IV, p. 205._

Avendo Lodovico XII riconosciuta la posizione de' Veneziani, e
giudicando troppo pericolosa cosa l'attaccarli, dopo essere rimasto un
giorno in loro presenza, nel susseguente piegò dalla banda di
mezzogiorno e discese lungo il fiume fino a Rivolta, di cui s'impadronì.
Dopo esservi rimasto un giorno, bruciò quel villaggio, e continuò ad
avanzarsi per quella strada onde giugnere a Pandino o a Vailate, e
separare in tal modo l'armata veneziana dai magazzini che aveva a Crema
ed a Cremona. Mentre che il re camminava lungo le tortuose rive
dell'Adda, i Veneziani avrebbero potuto, seguendo la corda dell'arco che
descriveva Lodovico XII, giugnere per più breve via ad una seconda
posizione più vicina a Crema e non meno buona di quella che occupavano.
Il Pitigliano voleva eseguire questo viaggio soltanto all'indomani, e
l'Alviano insisteva di porsi subito in cammino onde sopravanzare il
nemico. Infatti fu dato l'ordine di partire. Gli alti cespugli, ond'è
coperto il paese, nascondevano affatto l'armata veneziana, che teneva la
strada a destra, alla vista de' Francesi, che seguivano la manca; e la
linea di quella essendo più diretta, essa si trovò bentosto
avvantaggiata. Ma precisamente in questo luogo le due strade si
ravvicinavano, e l'Alviano, che aveva il comando della retroguardia,
ebbe contezza che Carlo d'Amboise e Gian Giacopo Trivulzio, che
comandavano l'avanguardia francese, si trovavano a lui vicinissimi[470].

  [470] _Fr. Guicciardini l. VIII, p. 425. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VII, p. 168. — Fr. Belcarii Comm. Rer. Gall., l. XI, p. 318._

Contavansi nell'armata di Lodovico XII due mila lance, mille
svizzeri e dodici mila fanti guasconi o italiani con un bel parco
d'artiglieria[471]. L'avanguardia d'Amboise aveva cinquecento lance ed
alcuni svizzeri; nella retroguardia dell'Alviano trovavansi ottocento
uomini d'armi ed il fiore della fanteria italiana. La battaglia tra
queste due divisioni non era disuguale; ma la marcia degli altri corpi
allontanava sempre più il Pitigliano dall'Alviano, e per l'opposto
ravvicinava sempre più Lodovico XII a Carlo d'Amboise. Non potendo
l'Alviano schivar la battaglia mandò subito a dire al suo collega
ch'egli era alle mani, e lo invitava nello stesso tempo a fermare la sua
colonna ed a soccorrerlo. Il Pitigliano fin dal principio della campagna
aveva dovuto lottare contro l'impetuosità dell'Alviano; l'aveva sempre
veduto cercare que' pericoli ch'egli credevasi in dovere di evitare,
onde, supponendo che in questa occasione l'Alviano volesse costringerlo
suo malgrado a combattere, gli fece dire di continuare la sua ritirata
in buon ordine, poichè era volontà del senato di non venire a
battaglia[472].

  [471] _Mém. du chev. Bayard., ch. XXIX, t. XV, p. 69._

  [472] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  318._

Frattanto l'Alviano si era apparecchiato a combattere: aveva collocati i
suoi fanti con sei pezzi d'artiglieria sopra un argine destinato a tener
a freno le acque di un torrente che in quel momento era secco, ed aveva
vigorosamente attaccata la cavalleria francese in un suolo imbarazzato
da vigne, ove non poteva liberamente muoversi. L'Alviano approfittò di
questo vantaggio, la respinse e la inseguì fino ad un luogo più aperto.
Nello stesso tempo giugneva il re col corpo di battaglia e la
retroguardia dell'Alviano, che aveva di già ottenuto un notabile
vantaggio, trovavasi addosso tutta l'armata nemica. Il valore del
generale si era comunicato ai soldati e l'ottenuto vantaggio sosteneva
il loro ardore, di modo che continuarono la battaglia tre ore colla più
grande intrepidezza. Una dirotta pioggia sopraggiunta in tempo della
battaglia faceva pei pedoni sdrucciolevole il terreno; la speranza di
veder giugnere il Pitigliano, nei di cui soccorsi era riposta ogni
fiducia, cominciava a mancare; ma la fanteria italiana di Brisighella,
che era distinta dalle sue casacche mezzo bianche e mezzo rosse, si rese
degna della sua nuova riputazione; perciocchè, sebbene costretta a
ripiegare fino in un aperto piano, ed ivi esposta agli attacchi della
cavalleria, mai non ruppe le sue linee. Circondati, serrati, oppressi,
questi fanti romagnoli si fecero quasi tutti uccidere, dopo avere a caro
prezzo venduta la loro vita. Avevano costoro ricevuto da Naldo di
Brisighella in valle di Lamone il loro nome e la loro organizzazione, e
tutta la fanteria di linea dei Veneziani aveva in appresso adottati i
loro colori e la loro ordinanza. Questa fanteria lasciò sei mila morti
sul campo di battaglia, il doppio press'a poco di ciò che perduto
avevano i Francesi. Gli uomini d'armi veneziani non soffrirono molto; ma
Bartolommeo d'Alviano, ferito in volto, fu fatto prigioniero, e condotto
al padiglione del re. Caddero in potere de' Francesi venti pezzi
d'artiglieria: il restante dell'armata veneziana continuò a ritirarsi
senza essere inseguito[473].

  [473] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 425. — P. Bembi Hist. Ven., l.
  VII, p. 170. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IX, p. 206. — Fr. Belcarii,
  l. XI, p. 318. — Jo. Mariannae de reb. Hisp., l. XXIX, c. XIX, p.
  287. — P. Bizzarri Hist. Gen., l. XVIII, p. 426. — Mém. du chev.
  Bayard., t. XV, c. XXIX, p. 71. — Arn. Ferronii, t. IV, p. 68._

Questa battaglia, chiamata di Vailate o di Agnadello, nella Ghiara
d'Adda, si diede il 14 maggio del 1509. Con questa cominciò un nuovo
sistema di guerra distinto da maggior ferocia nella mischia e da
sconfitte più sanguinose. Da quindici anni gli oltramontani avevano
portate le loro armi in Italia; pure non si era ancora veduto un campo
di battaglia coperto da tanti morti, nè l'infanteria avere una parte
così importante nell'azione. Ma quanto più le guerre si prolungano,
tanto più diventano nazionali; quanto più i patimenti de' vinti rendonsi
intollerabili, tanto più ognuno sente essere meglio il difendersi fino
all'estremo, che il lasciarsi opprimere senza combattere. Finalmente
giugne l'istante in cui i popoli pongono nella lotta la totalità delle
loro forze ed in cui la vittoria più non sembra potersi ottenere che
coll'esterminio de' vinti: e quanto più gli agressori hanno accresciuto
il loro numero ed i loro mezzi di attacco, tanto più ruinosa diventa la
loro consumazione ed insoffribile il loro giogo. La resistenza si
accresce coll'oppressione. Dopo sanguinose battaglie la medesima ferocia
vien portata nell'assedio delle città e nel trattamento de' paesi
conquistati. Dall'epoca di questa prima battaglia, ogni anno fu
insignito da maggior furore e da più grande effusione di sangue, fino
all'istante in cui un generale spossamento costrinse finalmente alla
pace le nazioni ed i loro capi, perchè la generazione atta alle armi era
quasi affatto distrutta, e perchè non potevansi mettere a numero le
armate coi vecchi e coi fanciulli.

Lodovico XII approfittò della sua vittoria con una rapidità, che fece
più onore ai suoi militari talenti, che non l'esito medesimo della
battaglia. Nel susseguente giorno si presentò sotto Caravaggio, che aprì
subito le sue porte; e la rocca, attaccata dall'artiglieria, capitolò il
giorno dopo. Bergamo gli mandò le chiavi il giorno 17, ed il re la fece
occupare da cinquanta lance e da mille fanti: la rocca non si sostenne
che due o tre giorni. In ogni capitolazione Lodovico XII richiedeva
sempre che i gentiluomini veneziani che si trovavano nelle città
restassero suoi prigionieri. Egli voleva costringerli a pagargli così
grosse taglie da rovinare le loro famiglie e porli nell'assoluta
impossibilità di soccorrere colle private loro sostanze il pubblico
erario. Intanto egli si avvicinava a Brescia, tenendo dietro all'armata
veneziana che si era ritirata verso quella città, ed era assai diminuita
dalla diserzione. I due provveditori, Giorgio Cornaro ed Andrea Gritti,
avevano in vano pregati i Bresciani di riceverli entro le loro mura; il
conte Giovan Francesco Gambara, capo della fazione Ghibellina, nel
momento in cui aveva avuto avviso della sconfitta di Vailate si era co'
suoi partigiani impadronito delle porte, ricusò d'aprire alle truppe
venete, ed il ventiquattro di maggio le diede ai Francesi. Il
Pitigliano, non si trovando sicuro in vicinanza di una città ribellata,
si ritirò a Peschiera coi resti della sua armata[474].

  [474] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 427. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VIII, p. 173. — Jac. Nardi Ist. Fior. l. IV, p. 207. — Fr. Belcarii
  Comm., l. XI, p. 319._

Le calamità si succedevano a danno dei Veneziani con una così spaventosa
rapidità, che nè il senato di cui si era tanto vantata la costanza e la
fermezza, nè il popolo da cui speravansi atti di patriottismo, non
trovavano in loro medesimi abbastanza di forza per resistere. Prodigiosi
sforzi erano stati fatti per raccogliere danaro prima dell'apertura
della campagna. A tal fine la repubblica aveva adottati espedienti
contrarj a tutte le sue costumanze; aveva preso a prestito da qualunque
persona; ottenuti doni patriottici da tutti i nobili e da tutte le città
suddite; aveva levata la metà dei soldi a tutti i pubblici
funzionarj[475], e di già tutti questi tesori erano consumati; e
l'armata raccolta a sì gran prezzo era distrutta o dispersa. Omai non
trattavasi soltanto di rimontarla, conveniva pensare ancora alla flotta,
poichè i Francesi ne armavano una in Genova la quale non avrebbe tardato
ad infestare le rive dell'Adriatico. Infatti il senato ordinò di
equipaggiare cinquanta galere sotto gli ordini di Angelo Trevisani, ed
in pari tempo mandò ordine in tutti i suoi possedimenti marittimi di
trasportare a Venezia tutti i grani disponibili, onde mettere almeno la
capitale in istato di sostenere un lungo assedio[476].

  [475] _P. Bembi Ist. Ven., l. VII, p. 162._

  [476] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 418. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VIII, p. 175. — F. Belcarii, l. XI, p. 320._

Subito dopo la sommissione di Brescia, Crema aprì le sue porte al re ad
istigazione di Soncino Benzoni, discendente dagli antichi tiranni di
quella città; Cremona e la fortezza di Pizzighettone avevano pure
capitolato. La sola fortezza di Cremona continuava a difendersi, perchè
Lodovico XII aveva preteso che tutti i gentiluomini veneziani che vi si
trovavano fossero suoi prigionieri; e Zaccaria Contarini, di cui erano
note le grandi ricchezze, vi si era chiuso con molti altri signori, che
i Francesi volevano ruinare con esorbitanti taglie. Il conte di
Pitigliano aveva abbandonata anche Peschiera per ripiegarsi sopra
Verona; ma aveva lasciato in guardia di questa fortezza Andrea di Riva e
suo figlio, gentiluomini veneziani, con quattrocento fanti; essendosi
lusingato che questi, approfittando della forza della piazza e dei
vantaggi della sua situazione, ritarderebbero i Francesi tanto tempo
quanto gliene abbisognava per rifare la sua armata.

Il successo non corrispose alle speranze del Pitigliano: non appena
l'artiglieria ebbe fatta una stretta breccia nelle mura di Peschiera,
che gli Svizzeri ed i Guasconi corsero all'assalto e presero la
fortezza. La guarnigione fu tutta passata a fil di spada, e Lodovico XII
fece appiccare Andrea di Riva e suo figlio, non per altro motivo che per
incutere terrore a coloro che tenterebbero di difendersi. Nello stesso
modo aveva fatto pochi giorni prima appiccare quei valorosi che
difendevano Caravaggio. Gli uomini deboli sono quasi sempre crudeli; ed
i re, che seguono le armate senza essere generali, sono più che gli
altri inclinati a crudeltà, perchè risguardano ogni resistenza alla loro
volontà, come una personale offesa, che gli assolve dalle leggi della
guerra[477].

  [477] _Mém. du chev. Bayard., c. XXX, t. XV, p. 73. — Mém. de
  Fleuranges, t. XVI, p. 49. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 319. — Fr.
  Guicciardini, l. VIII, p. 429. — Jac. Nardi Ist. Fior., l. IV, p.
  207._

Erano appena passati quindici giorni dopo la vittoria di Vailate, che
Lodovico XII aveva di già conquistata tutta quella parte del territorio
veneziano che gli dava il trattato di Cambrai; e la sola cittadella di
Cremona, che ancora resisteva, non tenne più di quindici giorni. Le
province che aveva occupate accrescevano di più di dugento mila ducati
le reali entrate del ducato di Milano. Gli altri alleati, che appena
avevano lasciato conoscere la loro nimicizia, finchè Venezia conservava
tutta la sua potenza, attaccarono su tutti i punti i confini veneziani
quand'ebbero avviso della sconfitta di Vailate. Il papa aveva dato il
comando della sua armata a suo nipote, Francesco Maria della Rovere, che
nel precedente anno era succeduto nel ducato di Urbino a Guid'Ubaldo da
Montefeltro, suo padre adottivo. Contava quest'armata quattrocento
uomini d'armi, quattrocento cavaleggieri, e pochi giorni dopo venne pure
ingrossata da tre mila Svizzeri assoldati dal pontefice. Dopo aver
guastato il territorio di Cervia prese Solarolo, tra Faenza ed Imola, e
andò ad attaccare Brisighella, principal luogo della bellicosa provincia
di val di Lamone. Giovan Paolo Manfrone era incaricato di difendere
questa terra con ottocento fanti ed alcuni cavalli; aveva tentata una
sortita senza ben conoscere la forza degli assalitori; ma venne così
vigorosamente respinto, che i nemici entrarono coi fuggitivi nella
terra. La loro ferocia non era minore di quella degli oltremontani, e
tutti gli sgraziati abitanti di Brisighella caddero sotto le loro
spade[478].

  [478] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 429. — P. Bembi Ist. Ven., l.
  VII, p. 164. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320._

L'armata pontificia si accostò a Ravenna, ma fu dieci giorni trattenuta
dalla fortezza di Russi, posta tra Faenza e Ravenna: Giovanni Greco,
comandante degli Stradioti veneziani, fu fatto prigioniero da Giovanni
Vitelli; Russi capitolò, e sebbene i generali pontificj non avessero
talenti, e non agissero d'accordo, pure tanto scarso era il numero delle
truppe veneziane in Romagna, e così grande lo scoraggiamento ed il
terrore, che Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia capitolarono, promettendo
di aprire le loro porte se non venivano soccorse entro un determinato
tempo[479].

  [479] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 429. — P. Bembi, l. VIII, p.
  176. — Jac. Nardi, l. IV, p. 207. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320._

Anche Alfonso d'Este, duca di Ferrara, era entrato nella lega di
Cambrai, ed il diecinove d'aprile fu dal papa nominato gonfaloniere
della chiesa romana. Pure egli aveva aspettata la rotta di Vailate per
cominciare le ostilità. Allora congedò il Vismodino, che in Ferrara
teneva ragione pei Veneziani; richiamò il suo ambasciatore, ed il
diecinove di maggio mandò trentadue pezzi di cannone al campo della
Chiesa che attaccava la rocca di Ravenna. Il trenta di maggio entrò in
campagna, occupando senza trovar resistenza il Polesine di Rovigo, Este,
Montagnana e Monselice, antico patrimonio della sua casa[480].

  [480] _Muratori An. d'Italia, l. X, p. 47. — Fr. Guicciardini, l.
  VIII, p. 430. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 320._

Il marchese di Mantova non fu meno sollecito ad approfittare della
sconfitta de' suoi antichi vicini: s'impadronì d'Asola e di Lunato, che
Filippo Maria Visconti aveva conquistati ai tempi del suo bisavo, e che
in appresso erano stati ceduti alla repubblica. Avrebbe dovuto avere
anche Peschiera; ma questa fortezza conveniva troppo al re di Francia,
perchè il marchese ardisse di rifiutargliela; e si accontentò della
promessa di essere altrove indennizzato[481].

  [481] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 434._

L'ambasciatore di Spagna, che si era trattenuto in Venezia fin dopo la
rotta di Vailate, senza cessar mai di protestare l'attaccamento del suo
padrone a Venezia, colse altresì questo istante per domandare la sua
udienza di congedo. Ferdinando aveva mandati due mila fanti spagnuoli a
Napoli, che, uniti a tre mila fanti napolitani, si erano in sul finire
di maggio avvicinati a Trani per formarne l'assedio. Una flotta
francese, unita alla siciliana, si era presentata in faccia al porto
della stessa città; pure, così persuaso da Fabrizio Colonna, il vicerè
di Napoli aveva proceduto a questa spedizione con molta lentezza. I
Veneziani, che di già pensavano a staccare Ferdinando dalla lega formata
contro di loro, colsero quest'occasione per offrirgli la restituzione di
tuttociò che possedevano nel regno di Napoli; richiamarono tutti i
comandanti, ordinando loro di consegnare agli Spagnuoli le città che
abbandonavano[482].

  [482] _Jo. Marianae de Reb. Hisp., l. XXIX, c. XIX, p. 287. — Fr.
  Guicciardini, l. VIII, p. 433. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p.
  175._

L'armata di Massimiliano non compariva ancora in verun luogo; ma i suoi
vassalli e governatori delle limitrofe province, approfittavano del
terrore in cui tutto era immerso lo stato di Venezia per attaccarlo
contemporaneamente sopra varj punti. Nell'Istria, Cristoforo Frangipani
s'impadronì di Pisino e di Duino; il duca di Brunswik entrò nel Friuli
con due mila uomini e prese Feltre e Belluno. Nello stesso tempo
Trieste, Fiume e le altre città conquistate in principio del precedente
anno rialzarono le insegne di Casa d'Austria; il conte di Lodrone
soggiogò alcuni castelli in vicinanza del Lago di Garda; per ultimo il
vescovo di Trento occupò Riva di Trento ed Agresto[483]. L'intera
repubblica pareva cadere in dissoluzione, ed anche nell'interno di
Venezia il senato più non tenevasi sicuro, nè di quella infinita
moltitudine di forastieri che vi aveva raccolti il commercio, nè di que'
plebei che la costituzione escludeva dalle funzioni governative, e che
riclamavano contro un'usurpazione che più non era legittimata dalla
prosperità, esterno segno della saviezza de' consiglj[484].

  [483] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 430. — F. Belcarii, l. XI, p.
  321._

  [484] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 430._

La diserzione aveva ridotta l'armata veneziana in uno stato deplorabile.
Abbandonando tutta la terra ferma, allontanandosi da tutte le città che
successivamente avevano ricusato di riceverla, si era rifugiata a Mestre
in riva alla Laguna, ove più non conservava nè disciplina nè ubbidienza
verso i suoi superiori. Il senato non risparmiò nè attività, nè tesori
per formare una nuova armata; fece offrire a Prospero Colonna, che
allora trovavasi ai confini del regno di Napoli, il comando di tutte le
sue truppe, ed un annuo soldo di sessanta mila ducati, purchè il Colonna
conducesse subito alla repubblica mille e due cento cavalli[485]. Le
guarnigioni ritirate dalle città di Romagna e dell'Adriatico, e le
truppe leggeri, che stavano nella Grecia e nell'Illiria, avrebbero
potuto riparare le perdite dell'armata; ma la più funesta conseguenza di
una sconfitta non è già la morte di alcune migliaia d'uomini, bensì la
distruzione della confidenza e della fedeltà del soldato.

  [485] _P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 175._

In questa universale sciagura i Veneziani non pensarono nemmeno a
placare il re di Francia: la mala fede con cui aveva dissimulato il suo
odio, la perfidia delle sue trame contro di loro mentre combattevano per
lui medesimo, l'accanimento con cui approfittava de' presenti vantaggi,
e la sua crudeltà verso i prigionieri ed i vinti, inspiravano per lui un
invincibile allontanamento. Non eravi verun altro nemico con cui i
Veneziani non desiderassero di riconciliarsi piuttosto che con lui; non
eravene alcuno cui non preferissero di cedere quelle piazze che più non
isperavano di poter difendere. Avevano di già consegnate a Ferdinando
tutte le città della Puglia da questo monarca pretese; cercarono di
appagare cogli stessi mezzi l'ambizione del papa e dell'imperatore, onde
staccarli dalla Francia. Avevano più volte cercato di mandare deputati
in Germania; ma il vescovo di Trento non aveva voluto permetter loro di
entrare nel suo paese, perchè erano scomunicati. Finalmente Antonio
Giustiniani, nominato ambasciatore presso Massimiliano, potè giugnere
alla sua corte; gli chiese grazia con tanta umiltà, con tanto
avvilimento della repubblica che avrebbe dovuto ispirare piuttosto il
disprezzo, che la compassione, se la stessa pedanteria della sua arringa
latina, che ci fu conservata, non avesse fatto conoscere che, secondo il
costume dei retori, il Giustiniani esagerava i sentimenti che era
incaricato di esprimere e loro dare non sapeva alcuna misura[486].

  [486] Il Guicciardini dice espressamente di avere traslatata
  quest'arringa parola per parola dal testo latino, che fu poi
  originalmente pubblicato nel 1613 da Goldast, _Politica imperialis,
  p. 977_. Pure i Veneziani pretesero che fosse opera del
  Guicciardini. Se ne lagnarono amaramente, e questa controversia
  letterario-politica venne sostenuta da ambedue le parti con maggiore
  asprezza che non si conveniva all'importanza dell'argomento. Veggasi
  _Histoire de la Ligue de Cambrai, l. I, p. 138-160. — Fr.
  Guicciardini, l. VIII, p. 431._

Ma l'istruzione che aveva quest'oratore era ancora più esplicita che la
sua arringa. Egli dichiarò all'imperatore essere la repubblica
apparecchiata a consegnargli tutti i suoi stati di terra ferma, ed avere
richiamate le sue guarnigioni da tutte le terre dell'impero, che
consegnerebbe agli ufficiali di Massimiliano, tosto che si presentassero
per riceverle. Tanta sommissione ed umiltà non sortirono verun effetto:
il re de' Romani non volle ascoltare verun trattato senza partecipazione
del re di Francia. Nello stesso tempo il senato aveva pure spedito in
Romagna un segretario di stato con ordine di consegnare al papa la rocca
di Ravenna e tutto ciò che ancora restava in quella provincia sotto gli
ordini di Venezia, altro non si riservando che l'artiglieria delle
piazze di guerra, e la libertà di tutti i prigionieri fatti dall'armata
pontificia. In appresso i cardinali veneziani supplicarono il papa
d'accordare l'assoluzione alla loro patria a motivo che conformemente al
suo monitorio Venezia aveva ubbidito prima che spirassero i ventiquattro
giorni che egli le aveva assegnati. Ma il papa dichiarò che questa
ubbidienza invece d'essere intera era stata condizionale, che inoltre la
repubblica non aveva restituiti i frutti percetti durante la sua
usurpazione, e che perciò non poteva assolverla[487]. Per altro il
pontefice sospettoso cominciava ad essere spaventato dalla preponderanza
che gli oltramontani acquistavano in Italia; il suo orgoglio era
lusingato dalla sommissione di una repubblica temuta da' suoi
predecessori, e quando gli fu annunziato che un'ambasceria composta di
sei dei più distinti membri del senato offriva di venire a Roma a
chiedere grazia, non oppose ulteriori ostacoli; ed a dispetto delle
rimostranze di Lodovico e di Massimiliano, promise che all'arrivo di
questi ambasciadori leverebbe la scomunica e l'interdetto[488].

  [487] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 433. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  321._

  [488] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 434. — P. Bembi Hist. Ven., l.
  VIII, p. 178-181. — Fr. Belcarii, l. XI, p. 322. — Ann. Eccl.
  Raynaldi, 1509 § 14, p. 68._

Intanto le città veneziane di terra ferma non erano più difese da veruna
guarnigione, e, vedendo al loro confini la formidabile armata de'
Francesi, si disponevano ad aprirle le porte. Quando i Veronesi ebbero
notizia della presa di Peschiera, spedirono deputati a Lodovico XII per
consegnargli le chiavi della loro città; ma il re di Francia le rifiutò,
indirizzandoli agli ambasciatori di Massimiliano che si trovavano nel
suo campo. Egli non era intenzionato di spingere più in là le sue
conquiste; le sue finanze erano di già probabilmente esauste, ed egli
era impaziente di licenziare l'armata e di tornare in Francia. La rocca
di Cremona aveva finalmente capitolato; la guerra rispetto a lui era
terminata: egli non aveva più che pretendere, ed i Veneziani non
sembravano la istato di resistere a coloro che volevano terminare la
divisione delle loro province.

Prima di abbandonare l'Italia, Lodovico XII desiderava di vedere
Massimiliano. Il cardinal d'Amboise andò a trovarlo a Trento il 13 di
giugno, e concertò, che i due monarchi avrebbero un abboccamento a
Garda, in sui confini dei due territorj che avevano allora conquistati.
Lodovico XII partì per trovarsi colà nel determinato giorno, e
Massimiliano si avanzò ancor esso fino a Riva di Garda; ma ossia che si
trovasse troppo male accompagnato per la sua sicurezza o per la sua
dignità, o pure che abbia avuto qualche altra ragione di cui faceva un
segreto, come di tutti i motivi della sua condotta, ripartì dopo due ore
da Riva, dichiarando di essere chiamato altrove dalle notizie ricevute
dal Friuli. Mandò al re il nuovo vescovo di Gurck, Matteo Langen, suo
segretario, per pregarlo di aspettarlo a Cremona. Lodovico XII, offeso
senza dubbio da questa mancanza di riguardi, e sapendo quanto si dovesse
dar poca fede alle promesse di Massimiliano, prese la strada di Milano,
e pochi giorni dopo tornò in Francia[489].

  [489] _Fr. Guicciardini, l. VIII, p. 436. — Fr. Belcarii, l. XI, p.
  322. — Mém. du chev. Bayard, c. XXX, p. 75. — Mémoires de
  Fleuranges, t. XVI, p. 50._

In questa guerra Massimiliano si era condotto come in tutte le altre.
Dopo la sottoscrizione del trattato di Cambrai, erasi trattenuto alcun
tempo in Fiandra per ottenere i sussidj di que' popoli; ma non appena li
ricevette che tutti li dissipò. Il papa desiderava di affrettare la sua
spedizione, affinchè l'armata dei Francesi non si trovasse sola in
Italia e padrona di tutto il paese; a tale oggetto gli aveva accordato
di prendere cento mila ducati sui fondi di riserva della crociata che si
era levata in Germania, ma che non poteva convertirsi in usi profani
senza l'autorità pontificia. Poco dopo gli aveva ancora mandato
Costantino Cominates con cinquanta mila ducati; Lodovico XII gli aveva
pagati cento mila ducati per la seconda investitura del ducato di
Milano, che aveva ricevuta recentemente: gli stati ereditarj
dell'Austria e quelli dell'impero gli avevano accordati dei sussidj. Ma
tanti fondi ammassati per la guerra erano di già consumati senza che
avesse in verun luogo adunato un'armata imperiale[490]. Massimiliano
protestava che la sua riconciliazione con Lodovico XII era senza
riserva. Nel suo passaggio da Spira aveva bruciato un libro nel quale
erano notate tutte le ingiurie che l'impero aveva ricevuto dai Francesi,
dichiarando di non volerne più conservare memoria. Aveva scritto da
Trento a Lodovico XII, ringraziandolo d'avergli fatto ricuperare tutte
le terre che i Veneziani avevano usurpate sopra di lui e de' suoi
antenati. Il tredici di giugno aveva convenuto col cardinale d'Amboise
che il re gli presterebbe cinquecento lance francesi per terminare la
guerra[491], e non pertanto niente ancora si effettuava. Massimiliano
non trovavasi nemmeno a portata di accettare le capitolazioni delle
città dello stato veneto che chiedevano di arrendersi.

  [490] _Fr. Guicciardini l. VIII, p. 436. — Fr. Belcarii l. XI, p.
  322._

  [491] _Fr. Guicciardini l. VIII, p. 436._

Finalmente il vescovo di Trento scese in Lombardia con un piccolo corpo
di truppe tedesche, e ricevette la sommissione di Verona e di Vicenza.
Il 4 di giugno Leonardo Trissino, emigrato vicentino, si presentò a
Padova con soli trecento fanti tedeschi ed un araldo d'armi
dell'imperatore. Le porte della città gli furono subito aperte.

Treviso aveva ancor essa mandati deputati per sottomettersi a
Massimiliano, ma quando il popolo di quella città vide lo stesso
Trissino alle sue porte, senza forze, senza armi e senza veruna
decorazione, che potesse servire di guarenzia della protezione
imperiale, non dissimulò il suo rincrescimento di cambiare il dominio di
un senato italiano contro quello dei Tedeschi. Un calzolajo, chiamato
Marco Caligaro[492], riprodusse agli occhi del popolaccio lo stendardo
della repubblica e riunì i suoi concittadini, gridando _viva san Marco_!
I nobili, che per salvare i loro beni si erano affrettati di arrendersi,
videro i loro palazzi abbandonati al saccheggio. Leonardo Trissino e la
sua piccola scorta tedesca furono scacciati; si chiamarono dal campo di
Mestre settecento fanti italiani, che vennero introdotti in città; e
questo primo felice avvenimento, dopo tanti disastri, rincorò i
Veneziani siccome presagio di migliore avvenire. La prima città degli
stati di terra ferma che si attaccava alla sorte della repubblica quando
il senato risguardava il continente come affatto perduto, fu di nuovo
accolta con trasporti di riconoscenza. La signoria accordò agli abitanti
di Treviso l'esenzione delle imposte per quindici anni. I ruoli de'
contribuenti furono bruciati sulla pubblica piazza, ed il campo
veneziano che fino allora non aveva fatto che rinculare, si avanzò
nuovamente per prendere una forte posizione tra Marghera e Mestre[493].

  [492] Caligaro, in dialetto veneziano, significa calzolajo.

  [493] _Fr. Guicciardini l. VIII, p. 435. — Fr. Belcarii l. XI, p.
  322. — P. Bembi Ist. Ven., l. VIII, p. 180. — Muratori An. d'Italia,
  l. X, p. 46._


FINE DEL TOMO XIII.



TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO XIII.

  CAPITOLO XCIX. _Negoziazioni di Lodovico XII
  in Italia. — Continuazione della guerra di Pisa;
  questa città abbandonata dai Veneziani continua a
  difendersi. — I Francesi conquistano il ducato di
  Milano. — Lodovico Sforza vi rientra dopo cinque mesi,
  ma per tradimento degli Svizzeri è fatto prigioniere
  a Novara._ 1498-1500                                   _pag._ 3

       1498 7 aprile. Morte di Carlo VIII nello stesso
              giorno destinato alla prova del fuoco del
              Savonarola                                        3
            Successione di Lodovico d'Orleans sotto il
              nome di Lodovico XII                              4
            Pretese di Lodovico XII sul ducato di Milano        6
            Cerca e facilmente trova in Italia alleati per
              farle valere                                      7
            I Veneziani irritati contro Lodovico il Moro
              per la guerra di Pisa                             8
            Il papa vuole ingrandire suo figlio, Cesare
              Borgia, coll'ajuto della Francia                  9
            Lodovico XII consuma il primo anno in
              apparecchi e negoziazioni                        10
            Ottiene la sanzione del papa pel suo divorzio,
              e ricompensa Cesare Borgia col ducato del
              Valentinese                                      11
            Maggio. Varj vantaggi ottenuti dai Pisani sui
              Fiorentini                                       11
       1498 6 giugno. I Fiorentini affidano il comando
              della loro armata a Paolo Vitelli di Città
              di Castello                                      14
            Il duca di Milano chiude il passaggio ai
              soccorsi mandati dai Veneziani a Pisa            15
            I Veneziani tentano di penetrare in Toscana
              dalla banda della Romagna                        15
            I Medici si uniscono all'armata veneziana
              comandata da Carlo Orsini e da Bartolommeo
              d'Alviano                                        17
            Ottobre. Bartolommeo d'Alviano si apre la
              strada nel Casentino, ed occupa Bibbiena         18
            Viene trattenuto sotto Poppi da Antonio Giacomini  20
            Paolo Vitelli mandato nel Casentino per fargli
              testa                                            21
            L'armata veneziana è assediata in Bibbiena         22
       1499 Niccolò, conte di Pitigliano, conduce fino
              ad Elci un'altr'armata veneta                    23
            Le due repubbliche affrettano invano i loro
              generali a venire a battaglia                    24
            Lodovico XII ed il duca di Milano cercano
              ambidue di riconciliarli                         25
            Chiamano arbitro il duca Ercole di Ferrara         27
            6 aprile. Sentenza del duca tra i Veneziani
              ed i Fiorentini sul conto di Pisa                27
            I Veneziani ritirano le loro truppe senza
              accettare l'arbitramento; ed i Pisani
              ricusano di assoggettarvisi                      29
            I Fiorentini mandano di nuovo sotto Pisa
              Paolo Vitelli                                    31
       1499 25 giugno. Il Vitelli attacca e prende Cascina     31
            1.º agosto. Si accampa sotto le mura di Pisa
              alla sinistra dell'Arno                          31
            Apre larghe brecce nelle mura che i Pisani
              valorosamente difendono                          32
            10 agosto. Prende d'assalto la torre di
              Stampace, ma non approfitta del suo vantaggio
              quando poteva prendere la città                  34
            I Fiorentini sospettano il Vitelli di protrarre
              la guerra per i suoi fini                        36
            23 agosto. Un assalto ordinato viene differito
              a cagione delle malattie dell'armata fiorentina  37
            15 settembre. Il Vitelli abbandona l'assedio
              di Pisa e si ritira a Cascina                    37
            Cade in sospetto di tradimento e d'intelligenza
              coi Medici                                       38
            Fine di settembre. È arrestato a Cascina e
              condotto a Firenze                               40
            1.º ottobre. È condannato alla morte e viene
              decapitato                                       41
            Risentimento de' suoi fratelli e del re di
              Francia per la morte di Paolo Vitelli            42
            15 aprile. Trattato di Blois tra Lodovico XII
              e la repubblica Veneta per dividere il
              Milanese                                         42
            Lodovico il Moro cerca di assicurarsi i
              soccorsi di Massimiliano re de' Romani           44
            Massimiliano, entrato in guerra cogli Svizzeri,
              abbandona il Moro                                45
            Negoziazioni del Moro con Bajazette II perchè
              faccia una diversione attaccando i Veneziani     46
       1499 Ottobre. Scander Bassà di Bosnia saccheggia
              il Friuli                                        47
            I re di Spagna abbandonano Lodovico il Moro        47
            Negoziazione di Lodovico il Moro col papa che
              non ha verun effetto                             48
            Lodovico il Moro non può ottenere soccorso da
              Federico di Napoli e dal duca di Ferrara         49
            Dà il comando delle sue armate ai Fratelli
              Sanseverino                                      49
            Agosto. L'armata francese passa le Alpi            51
            13 agosto. Attacca Arezzo poscia Annone            52
            Tutto il paese d'oltre Po si assoggetta
              ai Francesi                                      52
            Il popolo di Milano fermenta. Lodovico il Moro
              aduna i principali cittadini per giustificare
              la sua condotta                                  53
            Agosto. I Veneziani attaccano il Milanese
              nello stesso tempo che i Francesi, ed
              occupano Caravaggio                              55
            20 agosto. Galeazzo di San Severino abbandona
              la sua armata che si disperde                    55
            Lo Sforza fa partire i suoi figli ed i suoi
              tesori per la Germania                           57
            2 settembre. Parte egli stesso da Milano
              lasciando guarnigione nel Castello               58
            I Francesi sono ricevuti a Milano ed in tutte
              le città del Milanese                            59
            Lodovico XII fa il suo ingresso in Milano, e
              viene ricevuto con grande entusiasmo             60
       1499 Trattato di Lodovico XII col marchese di
              Mantova, col duca di Ferrara, col signore
              di Bologna                                       61
            Trattato di alleanza e di protezione
              coi Fiorentini                                   62
            Lodovico XII sceglie Gian Giacomo Trivulzio
              per suo luogotenente nel ducato di Milano        63
            I Milanesi sono scontenti di lui e della Francia   64
            Lodovico il Moro chiede soccorsi a Massimiliano
              re de' Romani                                    65
            Leva a proprie spese un'armata per rientrare
              ne' suoi stati                                   65
       1500 Febbrajo. Lodovico il Moro è ricevuto a Como
              con trasporti di giubilo                         66
            5 febbrajo. I Francesi evacuano Milano e vi
              rientra il Moro                                  67
            Gli si sottomettono Parma e Pavia                  68
            Aduna un'armata colla quale prende Vigevano
              ed assedia Novara                                70
            I soli Svizzeri formano l'infanteria della
              sua armata e di quella de' Francesi              71
            Un corpo di Svizzeri abbandona l'armata francese
              e passa a quella dello Sforza                    72
            Aprile. La Tremouille conduce l'armata
              francese tra Novara e Milano                     73
            Gli Svizzeri di Lodovico il Moro si sollevano
              sotto pretesto di chiedere il loro soldo         74
            10 aprile. Gli Svizzeri schierati in battaglia
              ricusano di combattere, e rimangono in Novara    75
       1500 Danno in mano ai Francesi il Moro, che si era
              nascosto nelle loro file                         76
            Occupano Bellinzona                                76
            Il cardinale Ascanio Sforza arrestato
              dai Veneziani                                    77
            Viene consegnato a Lodovico XII, che condanna
              a perpetua prigionia il duca di Milano, e
              tutti i discendenti del grande Sforza che
              tiene in suo potere                              78

  CAPITOLO C. _Conquista della Romagna ed
  invasione della Toscana fatta da Cesare
  Borgia. — Alleanza di Lodovico XII con Ferdinando
  il Cattolico contro don Federico di Arragona.
  Si dividono il regno di Napoli._ 1499-1501                   82

       1499 Profonda immoralità di Papa Alessandro VI          82
            Depravazione dei popoli subordinati alla
              sede di Roma                                     83
            Anarchia cagionata nel patrimonio di san Pietro
              e nella campagna di Roma dalla discordia
              degli Orsini e dei Colonna                       84
            Tutti i signori delle rocche erano condottieri     84
            Desolazione del territorio da loro dipendente      85
            La mina di una terra murata forzava ad
              abbandonare la coltura del suo distretto         85
            Alessandro VI perseguita a vicenda ora i
              Colonna ora gli Orsini                           87
            Ancona, Assisi, Spoleto ed alcune altre città
              conservavano un'amministrazione repubblicana     88
       1499 Vicarj pontificj; i Varani a Camerino, Fogliani
              a Fermo, Rovere a Sinigaglia e Montefeltro ad
              Urbino                                           89
            In Toscana; i Baglioni a Perugia, ed i Vitelli
              a Città di Castello                              89
            In Romagna; gli Sforza a Pesaro, i Malatesta
              a Rimini, i Riario a Forlì ed Imola, i
              Manfredi a Faenza                                90
            Ravenna e Cervia ai Veneziani; i Bentivoglio
              signoreggiano Bologna, i duchi d'Este Ferrara    91
            Oppressivo governo di tutti questi piccoli
              principi                                         93
            Frequenti esempi di atroci delitti dati dalle
              famiglie sovrane                                 94
            Carattere comunicato al popolo da un tale governo  95
            Cesare Borgia progetta di occupare tutti gli
              stati de' vicarj pontificj                       96
            Lodovico XII gli accorda Ivone d'Allegre per
              servirlo in tale intrapresa                      97
            9 dicembre. Presa d'Imola                          97
            Presa di Forlì. Cattarina Sforza rimane
              prigioniera                                      98
       1500 Si rende più intima l'alleanza tra Cesare
              Borgia e Lodovico XII                            99
            I Veneziani, il duca di Ferrara ed i Fiorentini
              abbandonano i principi della Romagna            100
            I Malatesta e Sforza fuggono. Astorre III
              Manfredi resiste in Faenza                      101
       1501 22 aprile. Faenza si arrende per capitolazione    103
            Cesare Borgia viola la capitolazione e fa
              perire Astorre Manfredi                         104
       1501 Il papa accorda l'investitura del ducato di
              Romagna a suo figlio Cesare Borgia              105
            Crudele governo in Romagna di Ramiro d'Orco,
              luogotenente dei Borgia                         105
       1502 23 dicembre. Supplicio di Ramiro d'Orco           106
            Cesare Borgia rivolge gli ambiziosi suoi
              pensieri verso la Toscana; stato di quella
              provincia                                       107
       1500 19 luglio. Pandolfo Petrucci fa uccidere suo
              suocero per innalzarsi alla tirannide           108
            Apparente moderazione di Petrucci giunto al
              supremo potere                                  109
            Spossamento delle due repubbliche di Firenze
              e di Pisa                                       110
            Trattato di sussidj di Firenze colla Francia,
              che promette di ajutarla a ricuperare Pisa      111
            I Fiorentini domandano che Ugo di Belmonte
              comandi l'armata ausiliaria francese            112
            I Francesi al soldo de' Fiorentini fanno la
              guerra per conto loro in Lombardia              113
            29 giugno. L'armata francese giugne sotto Pisa,
              ed apre la trincea                              114
            Si abbandona all'antica sua parzialità pei Pisani 115
            I Pisani invocano la generosità de' cavalieri
              francesi                                        116
            Indisciplina nel campo de' Francesi che più
              non vogliono combattere                         118
            18 di luglio. Ugo di Belmonte leva l'assedio
              di Pisa e si ritira in Lombardia                119
            Debolezza de' Fiorentini dopo la ritirata
              dell'armata francese                            119
       1501 25 febbrajo. Sollevazione e guerra civile
              a Pistoja                                       121
            Deplorabile stato in cui si trova la repubblica
              fiorentina                                      121
            Cesare Borgia cerca di farle carico a cagione
              di un condottiere dalla medesima rimandato      123
            Il Borgia sforza Giovanni Bentivoglio ad
              essergli tributario                             123
            Cesare Borgia si concerta con Giuliano de'
              Medici per attaccare Firenze                    125
            Maggio. Entra in Toscana, e vuole dettar leggi
              alla repubblica fiorentina                      126
            Guasta le campagne, sempre protestando di
              volersi conservare amico della repubblica       128
            Fomenta una congiura in favore de' Medici         129
            Tratta coi Fiorentini e da loro ottiene un
              sussidio                                        129
            4 giugno. Entra colla sua armata nel
              territorio di Piombino                          130
            28 giugno. Lascia che i suoi luogotenenti
              continuino l'assedio di Piombino                131
            5 settembre. Piombino si arrende ai suoi
              luogotenenti, mentre ch'egli segue la
              spedizione di Napoli                            131
            Ambizione di Lodovico XII, e suoi progetti
              sopra Napoli                                    132
            Lodovico teme di essere attraversato dal re
              di Spagna                                       133
       1501 Rifiuta le offerte di Federico, ed accetta
              quelle di Ferdinando                            134
            Progetto di divisione della monarchia di
              Napoli tra Lodovico XII e Ferdinando            135
       1500 11 di novembre. Trattato di Granata che regola
              questa divisione                                135
            Ferdinando aduna un'armata in Sicilia sotto
              pretesto di muovere guerra ai Turchi            136
       1501 Giugno. Lodovico XII fa innoltrare la sua
              armata sotto gli ordini di d'Aubignì            137
            Apparecchi di difesa di don Federico, e sua
              fiducia in Gonsalvo di Cordova                  138
            6 giugno. Gli ambasciatori di Francia e di
              Spagna annunciano al papa il trattato di
              divisione                                       139
            26 giugno. Alessandro VI pronuncia una
              sentenza contro don Federico per privarlo
              del regno di Napoli                             139
            Gonsalvo di Cordova, durante il suo cammino,
              continua ad ingannare Federico                  140
            Cattivo stato di Federico ridotto a chiudere
              ne' forti le sue truppe                         141
            24 luglio. Presa e sacco di Capoa fatto
              dall'armata di d'Aubignì                        142
            Crudeltà de' Francesi e di Cesare Borgia
              a Capoa                                         143
            19 agosto. I Francesi entrano in Napoli e
              Gaeta senza trovare opposizione                 144
            25 agosto. Don Ferdinando consegna le fortezze
              di Napoli al d'Aubignì, e si ritira ad Ischia   145
       1501 Passa in Francia e riceve dal re il ducato
              d'Angiò                                         146
            Gonsalvo di Cordova s'impadronisce lentamente
              della Puglia e della Calabria                   147
            Assedio e lunga resistenza di Taranto,
              dov'erasi ritirato don Ferdinando, duca di
              Calabria, primogenito di Federico               148
            Il duca di Calabria, ingannato da falsi
              giuramenti, viene mandato prigioniere
              in Ispagna                                      149
       1504 9 settembre. Morte di don Federico in Angiò
              ed estinzione della casa arragonese di Napoli   150

  CAPITOLO CI. _Guerra nel regno di Napoli
  tra Lodovico XII e Ferdinando il cattolico;
  rivoluzione d'Arezzo; conquiste di Cesare Borgia;
  carnificina di Sinigaglia; battaglia di Cerignole;
  i Francesi scacciati dal regno di Napoli._ 1501-1503        152

       1501 Pregiudizj degli oltramontani sul conto della
              finezza e della furberia italiana               152
            Mala fede di Massimiliano                         153
            Degli Svizzeri, de' Francesi, dei Borgia
              Spagnuoli, di Ferdinando, e di Gonsalvo
              di Cordova                                      154
            Perfidia del trattato di Granata, e guerra
              che ne risulta                                  156
            La Capitanata e la Basilicata rivendicate
              dalle due potenze condividenti                  157
            Cominciamento delle ostilità ad Atripalda         157
            Sono sospese, e la controversia viene rimessa
              ai due re                                       158
       1502 19 giugno. Il duca di Nemours intima la guerra
              a Gonsalvo di Cordova, che si ritira a
              Barletta                                        159
            Rinnovazione dei partiti d'Angiò e d'Arragona     159
            I Francesi pendono dubbiosi tra l'assedio di
              Bari e di Barletta                              160
            Il duca di Nemours si ristringe a bloccare
              Barletta                                        162
            Il d'Aubignì con un terzo dell'armata scaccia
              gli Spagnuoli dalla Calabria                    162
            Il Nemours attacca le città vicine a Barletta     163
            Duello in campo chiuso tra undici Francesi ed
              undici Spagnuoli                                163
            Duello in campo chiuso di Bajardo e di Sotomayor  165
            Miseria di Gonsalvo e della sua armata in
              Barletta                                        166
            I Francesi offrono battaglia a Gonsalvo, che
              non l'accetta; ma mentre si ritirano, la loro
              retroguardia viene da lui disfatta              168
            Disprezzo manifestato da un prigioniere
              francese per gli uomini d'armi italiani         169
            Duello in campo chiuso, presso Barletta,
              fra tredici Francesi ed altrettanti Italiani    170
       1503 13 febbrajo. Vittoria dei 13 Italiani             170
       1501 Negoziazioni di Lodovico XII con Massimiliano
              per l'investitura del ducato di Milano          173
            30 ottobre. Conferenza di Trento tra il card.
              d'Amboise e Massimiliano                        174
       1501 Non possono sottoscrivere un trattato di pace,
              ma la tregua viene prolungata                   175
       1502 21 febbrajo. Due ambasciatori, spediti da
              Massimiliano agli stati d'Italia, giungono
              a Firenze                                       175
            16 aprile. Nuovo trattato di protezione de'
              Fiorentini con Lodovico XII                     176
       1501 4 settembre. Matrimonio di Lucrezia Borgia
              con Alfonso, figlio primogenito del duca
              di Ferrara                                      177
            Sorte dei tre precedenti sposi di Lucrezia
              Borgia; uccisione dell'ultimo, ordinata
              da Cesare Borgia                                178
       1502 13 giugno. Cesare Borgia parte da Roma,
              minacciando la Toscana e le Marche              180
            Occupa per tradimento il ducato di Urbino         181
            La repubblica di S. Marino si pone sotto la
              sua protezione                                  182
            4 giugno. Vitellozzo Vitelli fa ribellare
              Arezzo contro i Fiorentini                      183
            18 giugno. La rocca d'Arezzo si arrende ai
              Vitelli, Orsini e Medici                        184
            Il re di Francia vieta a Cesare Borgia di
              attaccare Firenze                               184
            Cesare Borgia prende Camerino, e fa strozzare
              il principe e due suoi figliuoli                185
            Conquiste di Vitellozzo in Val di Chiana e
              nel Casentino prima che gli giungano i
              soccorsi di Francia                             185
            1 agosto. Vitellozzo, vedendosi abbandonato
              da Cesare Borgia, rende le sue conquiste al
              generale francese mandato da Lodovico XII
              ai Fiorentini                                   187
       1502 Querele di tutti i nemici del Borgia presso
              Lodovico XII, venuto ad Asti per regolare
              le cose d'Italia                                188
            Il cardinale d'Amboise favorisce i Borgia         189
            3 agosto. Cesare Borgia parte da Roma per
              recarsi a Milano presso Lodovico XII, che
              lo accoglie favorevolmente                      190
            Agosto. Lodovico XII sovviene trecento lance
              a Cesare Borgia per proseguire le conquiste
              a danno degli amici della Francia               190
            Terrore de' Fiorentini, vedendo Cesare Borgia
              apertamente secondato dal re                    191
            Inquietudine che loro cagiona l'instabilità
              del proprio governo a cagione del troppo
              frequente rinnovamento della magistratura       193
            16 agosto. Legge che dà un gonfaloniere a vita
              alla repubblica                                 194
            22 settembre. Piero Soderini nominato
              gonfaloniere a vita                             195
            Tutti i vicarj pontificj, che avevano servito
              nelle armate di Cesare Borgia, si credono da
              lui minacciati                                  197
            Dieta alla Magione, e confederazione degli
              Orsini, Vitelli, Baglioni, Petrucci e
              Bentivoglio per muovere guerra a Cesare Borgia  198
            Perfidia d'Oliverotto da Fermo, uno de'
              confederati della Magione                       199
            I confederati non possono persuadere i
              Fiorentini ad entrare nella loro lega           200
       1502 I Veneziani affrettano Lodovico XII ad
              abbandonare il Borgia, e questo re loro
              risponde colle minacce                          200
            Ottobre. Il duca d'Urbino ristabilito ne'
              suoi stati dai confederati                      201
            Cesare Borgia richiama ad Imola i suoi
              capitani che sono battuti                       202
            Pericolo cui trovasi esposto in Imola Cesare
              Borgia. Tratta per guadagnare tempo             203
            Apparente lealtà di Cesare Borgia, sue
              negoziazioni col Macchiavelli, segretario
              della Repubblica fiorentina                     204
            Cospirazioni negli stati del Borgia, che
              intanto va sordamente ragunando un'armata       206
            Conferenze del Borgia con Paolo Orsini            207
            28 ottobre. Trattato di pace coll'Orsini,
              Vitelli ed Oliverotto                           208
            2 dicembre. Altro trattato di pace del
              Borgia col Bentivoglio                          210
            8 dicembre. Il duca d'Urbino si ritira dai
              suoi stati, che di nuovo si assoggettono
              al Borgia                                       210
            19 dicembre. Il Borgia attraversa la Romagna
              colla sua armata                                211
            22 dicembre. Licenzia le truppe francesi che
              aveva seco condotte                             213
            Cesare Borgia, volendo attaccare Sinigaglia,
              il comandante dichiara di non voler
              consegnare che a lui solo la rocca              213
            31 dicembre. Il Borgia entra in Sinigaglia dove
              i confederati della Magione lo stavano
              aspettando                                      214
       1502 Fa arrestare e strozzare Vitellozzo Vitelli,
              Oliverotto di Fermo, Paolo Orsini ed il
              duca di Gravina                                 214
       1503 4 gennajo. Accoglie la sommissione di Città
              di Castello                                     217
            5 gennajo. Riceve la sommissione di Perugia
              evacuata da G. P. Baglioni                      218
            Vuole egualmente scacciare Pandolfo Petrucci
              da Siena                                        219
            28 gennajo. Pandolfo Petrucci consente di
              evacuare Siena, ma senza che si faccia
              mutazione di governo                            220
            1.º febbraio. Il papa fa arrestare il
              cardinale e tutti i prelati della casa Orsini   221
            22 febbrajo. Fa perire di veleno il cardinale
              Orsini                                          222
            Il re di Francia ed i Veneziani si fanno a
              proteggere Gian Girolamo Orsini ed il conte
              di Pitigliano                                   223
            29 marzo. Il re di Francia ristabilisce a
              Siena Pandolfo Petrucci                         224
            Continuazione della guerra tra Firenze e Pisa,
              che impedisce la proposta lega dei comuni
              di Toscana                                      225
            16 e 18 giugno. I Fiorentini occupano Vico
              Pisano e Verrucola                              226
            Il Valentino cessa di deferire agli ordini
              della Francia dopo le sconfitte avute da
              questa nel regno di Napoli                      228
            Gonsalvo di Cordova rifattosi a Barletta per
              effetto dell'avarizia de' generali francesi     228
       1505 Conquiste del duca di Nemours nella terra di
              Bari ed in quella d'Otranto                     230
            Ribellione di Castellaneta, sorpresa e
              prigionia di La Palisse a Robio                 231
            Arrivo e primi successi di Ugo di Cardona
              in Calabria                                     232
            Ugo di Cardona battuto a Terranuova dal
              d'Aubignì                                       233
            Arrivo in Calabria di una nuova armata
              spagnuola sotto gli ordini di Porto Carrero     234
            11 aprile. Trattato di Locarno tra Lodovico
              XII ed i cantoni Svizzeri, col quale loro
              cede Bellinzona in piena sovranità              235
            5 aprile. Trattato di Lione negoziato
              dall'arciduca Filippo d'Austria per
              assicurare il regno di Napoli a suo
              figlio Carlo                                    236
            Ferdinando e Gonsalvo ricusano di ratificarlo     238
            21 aprile. Seconda battaglia di Seminara;
              il d'Aubignì totalmente disfatto da
              Ferdinando d'Andrades                           239
            Gonsalvo di Cordova riceve un rinforzo di
              due mila tedeschi, e risolve di entrare
              in campagna                                     240
            Andrea Matteo Acquaviva fatto prigioniero
              da Pietro Navarro                               241
            28 aprile. Gonsalvo di Cordova si reca da
              Barletta alla Cerignole                         242
            Il duca di Nemours giugne ancor egli alla
              Cerignole                                       243
            28 aprile. Il Nemours contro il proprio
              parere attacca gli Spagnuoli a Cerignole
              mezz'ora prima di sera                          243
       1503 Il Nemours è ucciso, sconfitta dell'armata
              francese                                        245
            Ivone d'Allegre inseguito da don Pietro de
              Paz fin dietro il Garigliano                    246
            Gli Abruzzi, la Puglia e la Calabria si
              assoggettano agli Spagnuoli, ed il d'Aubignì
              loro si dà prigioniere ad Angitula              248
            14 maggio. Gonsalvo di Cordova entra in Napoli    249
            11 giugno. Castel Nuovo preso da don Pietro
              di Navarra dopo lo scoppio di una mina          249
            2 luglio. Castel dell'Uovo preso nella stessa
              maniera, ed i Francesi scacciati da tutto
              il regno di Napoli                              250

  CAPITOLO CII. _Guerra dei Veneziani coi
  Turchi. — Morte di Alessandro VI. — Elezione di
  Pio III e di Giulio II. — Disastri del Valentino,
  sconfitta dei Francesi al Garigliano. — Tregua
  tra la Francia e la Spagna._ 1499-1504                      252

            La repubblica di Venezia non aveva preso
              parte nelle guerre di Lombardia e di
              Napoli                                          252
  1499-1505 Trovavasi in allora in guerra coi Turchi          253
            Pacifico regno di Bajazette II, che per altro
              non dissipa il terrore impresso all'Europa
              dalle armi dei Turchi                           254
       1449 Motivi della guerra, incursioni de' Turchi
              ai confini                                      255
            Trama dei Turchi per sorprendere Corfù            257
       1499 Niccolò Pesaro cola a fondo una galera turca      258
            Bajazette sottoscrive un trattato in latino
              con intenzione di violarlo                      258
            Attacca improvvisamente Zara, e così comincia
              la guerra                                       259
            Il comando della flotta veneziana dato ad
              Antonio Grimani; inaudita prosperità di
              quest'uomo                                      259
            Agosto. La flotta del Grimani incontra quella
              dei Turchi presso Modone                        261
            12 agosto. Battaglia di due galere veneziane
              con un vascello turco; tutti e tre periscono
              incendiati                                      262
            Il Grimani schiva la battaglia, e disgusta
              colla sua timidità i Francesi che si erano
              a lui uniti                                     264
            Il Grimani arrestato e tradotto in giudizio
              a Venezia                                       265
            Viene relegato nelle Isole del Quarnero           266
            29 settembre. I Turchi passano l'Isonzo e
              guastano il Friuli                              267
       1500 Gennajo. Proposizioni di pace dei Veneziani
              rigettate dai Turchi                            268
            I Turchi assediano Modone                         269
            9 agosto. Girolamo Contarini tenta di
              soccorrere Modone                               269
            Modone viene preso e bruciato dai Turchi          270
            Pilos e Corone si arrendono ai Turchi; Napoli
              di Malvasia fa resistenza                       271
            Prosperi successi di Benedetto Pesaro nuovo
              ammiraglio Veneziano                            273
            1.º novembre. Presa di Cefalonia fatta da
              Pesaro e da Gonsalvo di Cordova                 273
       1501 Vantaggi ottenuti dal Pesaro alla Prevesa e
              ad Alessio                                      274
            Soccorsi mandati ai Veneziani dal Papa, dai
              Francesi e dai Portoghesi                       275
            Diversione fatta da Uladislao re d'Ungheria
              e di Boemia                                     276
       1502 Bajazette II attaccato da Ismaele Sofì, re
              di Persia                                       277
            Proposizioni di pace fatte ai Veneziani           278
       1503 Trattato di pace tra la Porta e Venezia
              sottoscritto da Andrea Gritti                   279
            Il trattato di pace permette ai Veneziani
              di riprendere una parte attiva negli
              affari d'Italia                                 279
            Lodovico XII si apparecchia ad attaccare
              Ferdinando il Cattolico in Ispagna ed in
              Italia                                          280
            Potente armata condotta in Italia da
              La Tremouille                                   281
            Negoziazioni di La Tremouille con Alessandro
              VI e con Cesare Borgia                          282
            18 agosto. Subita morte di Alessandro VI
              e malattia di Cesare                            283
            Vantaggi pecuniarj che trovava il papa in
              occasione della morte dei cardinali             284
            Comune opinione intorno alla morte di
              Alessandro VI, cagionata dal veleno
              ch'egli aveva apparecchiato per il
              cardinale di Corneto                            285
            Dubbj insorti intorno a tale diceria, e
              mezzo di conciliare le due narrazioni           286
            Le disposizioni di Alessandro VI in materia
              ecclesiastica sono sempre in vigore             287
       1503 La censura de' libri fu da lui istituita          288
            La malattia di Cesare Borgia, nel momento
              in cui morì suo padre, guastò tutti i
              suoi divisamenti                                288
            Si mantiene in Vaticano e tratta coi Colonna      290
            I nemici del Borgia rientrano armati in Roma      290
            Rivoluzioni contro il Borgia negli stati
              della Chiesa                                    291
            La Romagna soddisfatta del suo governo si
              conserva fedele                                 292
            Il marchese di Mantova succede a La Tremouille
              nel comando dell'armata francese                293
            Quest'armata è ritenuta vicino a Roma per
              favoreggiare le pretensioni del cardinale
              d'Amboise al papato                             294
            1.º settembre. Nuovo trattato tra il Borgia
              e la Francia                                    294
            I cardinali vogliono essere indipendenti da
              Borgia e dai Francesi                           295
            22 settembre. Elezione di Francesco
              Piccolomini, che prende il nome di Pio III      297
            Dopo l'elezione del papa i soldati di ogni
              partito rientrano in Roma                       297
            Gli Orsini, lasciando il servigio della
              Francia, passano a quello della Spagna          298
            Riconciliazione degli Orsini coi Colonna          299
            Mettono in fuga l'armata del Borgia, e
              costringono lui medesimo a salvarsi in
              Castel sant'Angelo                              299
            18 ottobre. Morte di Pio III                      300
       1503 I suffragj si riuniscono in favore di
              Giuliano della Rovere. Amboise gli dà
              quelli del partito francese                     301
            Ascanio Sforza gli dà quelli degl'Italiani,
              e Cesare Borgia quelli degli Spagnuoli          302
            31 ottobre. Egli viene eletto sotto nome
              di Giulio II                                    303
            Insurrezione delle città di Romagna contro
              il Valentino                                    303
            Le rocche di quelle città si mantengono
              fedeli al Borgia                                304
            I Veneziani portano la loro ambizione sulla
              Romagna                                         305
            Essi attaccano Cesena e Faenza, e si fanno
              cedere Forlimpopoli e Rimini                    305
            Giulio II tenta colle rimostranze di stornare
              i Veneziani dalla loro intrapresa sulla
              Romagna                                         307
            I Veneziani offrono per le città di Romagna
              lo stesso censo che avevano pagato i
              precedenti vicarj alla camera apostolica        308
            19 novembre. Faenza loro si arrende per
              capitolazione. Quadro del regno di Manfredi     309
            3 novembre. Cesare Borgia viene dal papa
              alloggiato in Vaticano                          311
            Vasti progetti di Cesare Borgia sproporzionati
              alla sua fortuna                                311
            Dopo aver date tante prove di mala fede, non
              insospettisce della fede degli altri            312
            Giulio II vede con piacere il Borgia
              abbandonato dagli antichi suoi amici            313
       1503 19 novembre. Il Borgia parte alla volta di
         Ostia con intenzione d'imbarcarsi per la Spezia      313
            22 novembre. Giulio II gli fa domandare le
              rocche della Romagna, e perchè le rifiuta
              lo fa arrestare                                 314
            L'armata del Valentino viene attaccata e
              dispersa dai Perugini e dai Fiorentini          315
            2 dicembre. Il Valentino, ricondotto al
              Vaticano, sottoscrive un ordine per
              consegnare al papa le sue fortezze              316
            La guerra tra la Francia e la Spagna, fuori
              d'Italia, viene illustrata da pochi
              avvenimenti                                     317
            Dopo l'elezione di Giulio II, l'armata
              francese, sotto gli ordini del marchese
              di Mantova, si avanza verso Napoli              318
            Indisciplina dell'armata, e fatali conseguenze
              della sua lunga dimora presso Roma              319
            I Francesi, avanzandosi dalla banda di Ponte
              Corvo, non possono forzare il passaggio
              di S. Germano                                   320
            Prendono la via di Fondi, e si trattengono al
              passaggio del Garigliano                        320
            5 novembre. Gettano un ponte sul Garigliano
              in onta a Gonsalvo di Cordova                   321
            6 novembre. Gli Spagnuoli attaccano il ponte
              de' Francesi, e gli forzano a coprirsi con
              una testa di ponte                              322
            Patimenti delle due armate in tempo delle
              continue piogge                                 323
       1503 Motivi ch'ebbe il marchese di Mantova di
              aspettare senza fare verun movimento il
              fine delle piogge                               324
            I Francesi incolpano il loro generale di
              tutti i mali che soffrono                       325
            1.º dicembre. Il marchese di Mantova lascia
              il comando dell'armata e si ritira ne'
              suoi stati                                      326
            Scemano le forze dei Francesi mentre
              ingrossano quelle di Gonsalvo                   326
            27 dicembre. Gonsalvo fa passare il Garigliano
              alla sua armata, ed attacca il campo francese   327
            Il marchese di Saluzzo taglia il ponte del
              Garigliano ed abbandona i suoi quartieri
              per ritirarsi a Gaeta                           328
            I Francesi si ritirano in buon ordine fino
              a Molo di Gaeta                                 329
            Si danno poi alla fuga e vengono rotti del
              tutto                                           329
            Piero de' Medici si annega nel Garigliano         330
       1504 1.º gennajo. I Francesi chiusi in Gaeta
              capitolano e consegnano quella città
              al Gonsalvo                                     331
            Prodigiosa mortalità tra coloro che si erano
              salvati dalla sconfitta del Garigliano          332
            Il Gonsalvo, trattenuto dalla mancanza del
              danaro, si accontenta di forzare Lodovico
              d'Ars ad uscire dal regno                       333
            Giulio II schiva di compromettersi cogli
              Spagnuoli                                       334
            Affida Cesare Borgia al cardinale Carvajale
              con ordine di lasciarlo libero, fatta la
              consegna delle fortezze della Romagna           335
       1504 19 aprile. Cesare Borgia, posto in libertà,
              passa a Napoli, dov'è ben accolto               336
            26 maggio. Gonsalvo lo fa arrestare, lo manda
              prigioniero in spagna nella fortezza di
              Medina del Campo                                337
            11 febbrajo, 31 marzo. Tregua di tre anni
              tra la Spagna e la Francia                      337

  CAPITOLO CIII. _Riposo e servitù dell'Italia;
  piccole guerre in Romagna ed in Toscana.
  Giulio II sottomette alla Chiesa Perugia
  e Bologna._ 1504-1506                                       339

       1504 La pace, sebbene umiliante, accolta con
              gioja in Italia                                 339
            Rinascono lentamente gli abusi che fanno
              nuovamente desiderare la guerra                 340
            Malcontento che eccitano in Milano ed in
              Napoli il giogo francese e spagnuolo            341
            Gelosia degli altri stati d'Italia contro
              la repubblica di Venezia, che non avea
              partecipato alle comuni calamità                342
            Progressi di Giulio II nel suo disegno di
              sottomettere la Romagna                         343
            10 di maggio. Obbliga l'ultimo dei Montefeltro
              ad adottare Guidubaldo della Rovere, cui
              assicura il ducato d'Urbino                     344
            Sommissione di Forlì al papa. Si spegne la
              famiglia degli Ordelaffi di Forlì: prospetto
              cronologico del loro regno                      345
            Il papa minaccia i Veneziani per forzarli a
              rendergli Faenza e Rimini                       349
       1504 Si continua la guerra tra Firenze e Pisa, non
              avvi guerra fuori d'Italia                      350
            I Fiorentini cercano d'assicurarsi la
              neutralità di Gonsalvo di Cordova               351
            25 maggio. Essi saccheggiano la pianura di
              Pisa, e prendono Librafratta                    352
            Agosto. Ricominciano i loro guasti col
              distruggere il grano turco                      352
            Vogliono divertire l'Arno di Pisa, ma non
              possono riuscirvi                               353
            I Pisani vogliono darsi ai Genovesi ed a
              Lodovico XII, che non gli accettano             354
            Negoziazioni per la pace tra Lodovico XII
              e Ferdinando                                    355
            Esse vengono interrotte d'altre negoziazioni
              con Massimiliano                                357
            22 settembre. Tre trattati, sottoscritti a
              Blois, tra Lodovico XII, Massimiliano e
              Filippo                                         357
            9 settembre. Morte di Federico d'Arragona,
              re destituito di Napoli                         358
            26 novembre. Morte d'Elisabetta di Castiglia      358
       1505 25 gennajo. Morte d'Ercole d'Este, duca di
              Ferrara; successione d'Alfonso I                359
            Riavvicinamento di Ferdinando il Cattolico
              e di Luigi XII                                  360
            4 aprile. Ratifica de' trattati di Blois
              a Haguenau                                      361
            12 ottobre. Trattato di Blois tra Lodovico
              XII e Ferdinando                                362
            25 marzo. Continuazione della guerra di Pisa;
              sconfitta di Lucca Savelli al ponte Capellese   363
       1505 8 aprile. I Fiorentini nel momento di bisogno
              abbandonati da Giovan Paolo Baglioni            365
            Congiura de' piccoli tiranni vicini di Firenze,
              per ristabilire i Medici in questa città        366
            Progetti di Gonsalvo di Cordova d'approfittare
              d'una malattia di Lodovico XII per iscacciare
              i Francesi dalla Lombardia                      366
            Le truppe, riunite per quest'oggetto da
              Gonsalvo, e condotte da Bartolomeo d'Alviano,
              attaccano il partito ghibellino negli stati
              della Chiesa                                    367
            Dopo la guarigione di Lodovico XII, Bartolomeo
              d'Alviano le conduce in Toscana                 368
            L'Alviano perde i suoi vantaggi per
              l'irrisoluzione o la dissimulazione de'
              suoi alleati                                    369
            17 agosto. Egli viene attaccato alla torre
              di san Vincenzo dall'armata fiorentina          371
            Egli è completamente battuto                      372
            I Fiorentini esitano fra l'attacco di Siena
              e quello di Pisa                                373
            La loro armata vittoriosa si determina
              d'attaccar Pisa                                 373
            8 settembre. Le milizie fiorentine non osano
              dar l'assalto a breccia aperta                  374
            13 settembre. Esse rifiutano di nuovo di
              montare all'assalto, quantunque la breccia
              sia molto più allargata                         375
            14 settembre. Alcune truppe spagnuole entrano
              in Pisa, ed i Fiorentini levano l'assedio       376
       1505 Il cardinal Ippolito d'Este fa cavar gli occhi
              a suo fratello naturale don Giulio              377
            Congiura di don Giulio e don Ferdinando d'Este
              contro i loro fratelli, il duca Alfonso ed
              il cardinal Ippolito                            378
       1506 Luglio. La congiura è scoperta, i due principi
              rinchiusi per sempre, ed i loro complici
              condannati a morte                              379
            Questi avvenimenti, dissimulati dagli storici
              e dai poeti cortigiani                          380
            Tutta l'attenzione dell'Italia era diretta
              sopra i principi forestieri che se la
              dividevano                                      381
            27 giugno. Trattato di Filippo, re di Castiglia,
              arrivato nella Spagna, con Ferdinando, che
              gli rimette l'amministrazione del suo regno     383
            4 settembre. Ferdinando s'imbarca a Barcellona
              per passare a Napoli, dov'egli paventava
              forte il nome di Gonsalvo di Cordova            383
            Massimiliano annunzia agli stati d'Italia il
              suo viaggio a Roma, per prendervi la corona
              imperiale                                       384
            Lodovico XII cerca di sventare questo progetto,
              a cui Massimiliano rinunzia per quest'anno      385
            Giulio II si prepara coll'economia
              all'esecuzione de' progetti ch'egli aveva
              annunziati                                      386
            Egli cerca di riunire i sovrani di Francia,
              di Germania e della Spagna contro Venezia       387
            Egli progetta un attacco contro Perugia e
              Bologna ed obbliga la Francia e Venezia a
              darvi mano                                      388
       1506 Lodovico XII aveva preso l'impegno di
              proteggere Giovanni Bentivoglio, e vedeva
              di mal occhio la spedizione contro Bologna      389
            Non pertanto egli aveva promesso al papa
              d'assisterlo contro Bentivoglio                 390
            27 agosto. Giulio II parte per la sua
              spedizione contro Perugia                       390
            8 settembre. Gio. Paolo Baglioni viene ad
              Orvieto per sottomettersi al papa che
              l'accoglie graziosamente                        392
            13 settembre. Il papa entra con tutta la sua
              corte in Perugia, e si confida a Baglioni,
              che non lo tradisce                             393
            Egli ristabilisce a Perugia un'amministrazione
              repubblicana                                    394
            La sua irritazione contro Bentivoglio, e
              tirannia di questo                              395
            Bentivoglio abbandonato da tutti i suoi
              vicini e suoi alleati                           396
            M. de Chaumont è spedito da Lodovico XII
              contro Bentivoglio                              396
            10 ottobre. Giulio II pubblica una bolla di
              scomunica contro Bentivoglio e suoi aderenti    397
            20 ottobre. Giulio II si trova ad Imola alla
              testa d'una considerabile armata                397
            25 ottobre. M. de Chaumont fa intimare a
              Bentivoglio d'abbandonare il supremo potere     398
            2 novembre. Bentivoglio si rifugge al campo
              francese per implorare la protezione di
              M. de Chaumont                                  400
            I Bolognesi obbligano i Francesi ad
              allontanarsi, inondando il loro accampamento    401
            11 novembre. Giulio II fa la sua entrata in
              Bologna, e ne riforma il governo. Egli fonda
              l'oligarchia de' Quaranta                       402
            I Fiorentini schivano qualunque ostilità coi
              Pisani, e fanno una tregua di tre anni coi
              Sanesi                                          403
            Settembre. Arrivo di Ferdinando il Cattolico
              in Italia                                       404
            25 settembre. Morte di Filippo I a Burgos         404
            1.º novembre. Entrata di Ferdinando il
              Cattolico in Napoli                             405
            Egli ricolma d'onori Gonsalvo di Cordova,
              ma gli fa lasciar Napoli per la Spagna          406

  CAPITOLO CIV. _Sollevazione di Genova, ed
  il suo gastigo da Lodovico XII; abboccamento
  di questo monarca con Ferdinando il Cattolico;
  Massimiliano minaccia la Francia; egli attacca
  i Veneziani, quindi fa la pace con loro;
  miseria di Pisa, e la sua sommissione ai
  Fiorentini._ 1506-1509                                      408

       1506 Tranquillità di Genova durante l'ultimo periodo   408
            Favore accordato dal governo francese alla
              nobiltà di Genova contro il popolo              409
            Insolenza de' nobili genovesi contro il popolo    410
       1504 I nobili genovesi rifiutano Pisa che si rende
              a loro, mentre che i cittadini volevano
              accettarla                                      411
       1504 Potenza di Giovanni Luigi de' Fieschi, capo
              del partito de' nobili                          411
       1506 Gelosia e risentimento delle prime famiglie
              dell'ordine popolare, che si credevano
              eguali ai nobili per nascita                    412
            Il popolo domanda i due terzi degli onori
              pubblici, lasciandone il terzo ai nobili        414
            Visconti Doria ucciso in una contesa con un
              uomo del popolo                                 414
            Legge, emanata in seguito ad una sollevazione,
              per accordare all'ordine del popolo i due
              terzi degli onori pubblici                      415
            Nuova sommossa popolare, e fuga dei nobili
              in Asti                                         416
            Filippo de Ravenstein fa la sua entrata in
              Genova; e vi permette la creazione de'
              tribuni del popolo                              417
            Lodovico XII approva il decreto che riserva
              al popolo i due terzi degli onori pubblici      418
            Ma egli esige per condizione che G. L. de'
              Fieschi sia ristabilito nella sua patria e
              ne' suoi feudi                                  418
            I tribuni non vogliono consentire alla
              restituzione dei feudi di G. L. de' Fieschi     418
            Settembre. Essi attaccano Monaco, fortezza de'
              Grimaldi, che serviva d'asilo ai pirati         419
       1506 25 ottobre. Ravenstein lascia Genova, che
              riguarda come in istato di ribellione           422
       1507 Il comandante del castello di Genova attacca
              la città, ed abbrucia alcuni vascelli nel
              porto senza dichiarazione di guerra             423
            Intercessione di Giulio II a favore de'
              Genovesi, e la sua irritazione contro
              la Francia                                      424
            Massimiliano dichiara ch'egli accorderà la
              sua protezione ai Genovesi; ed offre la
              sua mediazione                                  425
            I Genovesi nominano Paolo de Novi per Doge        426
            Primi successi de' Genovesi contro i Fieschi,
              nella riviera di Levante                        427
            Aprile. Lodovico XII s'avanza verso Genova
              con una fortissima armata                       428
            Le milizie genovesi, colpite da un panico
              terrore, abbandonano le gole delle montagne     429
            Terrore in Genova; vani sforzi di Paolo di
              Novi, affin di provvedere alla sua difesa       429
            I Genovesi scacciati dai Francesi da Belvedere    431
            I Genovesi s'arrendono a Lodovico, a discrezione  432
            29 aprile. Lodovico XII entra in Genova a
              spada tratta                                    433
            Punizione de' Genovesi, celebrata come una
              prova della clemenza del re                     434
            14 maggio. Lodovico XII licenzia le sue truppe,
              per calmare i timori delle altre potenze, e
              viene a Milano                                  435
            4 giugno. Ferdinando il cattolico abbandona
              Napoli, che lascia disgustata                   437
       1507 Egli non può andar d'accordo con Giulio II
              sopra le investiture                            436
            Ferdinando richiamato in Ispagna per la follia
              della sua figlia Giovanna                       437
            Cesare Borgia era fuggito dalle prigioni di
              Ferdinando                                      438
            10 marzo. Cesare Borgia ucciso in una imboscata
              presso Viana                                    439
            28 giugno. Conferenza di Ferdinando e di
              Lodovico XII a Savona                           440
            Onori compartiti a Gonsalvo di Cordova; suo
              esiglio e sua disgrazia fino alla sua morte,
              sopravvenuta il 2 dicembre 1515                 440
            Spavento che aveva cagionato a tutti gli stati
              la spedizione di Lodovico XII in Italia         441
            Odio di Giulio II contro Lodovico XII,
              all'occasione d'un tentativo di Bentivoglio
              sopra Bologna                                   442
            Massimiliano viene a presedere una dieta
              dell'Impero a Costanza                          443
            Egli domanda all'Impero un'armata per
              vendicarsi della Francia, e per assicurare
              le sue ragioni sopra l'Italia                   444
            Gli agenti francesi calmano l'irritazione de'
              principi tedeschi                               445
            20 agosto. La dieta si separa senza aver prese
              le misure bastanti per il successo della
              guerra                                          446
            Massimiliano forma tre armate dell'Impero,
              lontane l'una dall'altra, perchè non si
              possa indovinare il suo disegno                 447
       1507 Massimiliano domanda il passaggio ai Veneziani    448
            Lodovico XII cerca d'assicurarsi l'alleanza
              de' Veneziani                                   448
            I Veneziani si decidono in favore della
              Francia, ed offrono all'imperatore di
              riceverlo senza armata                          449
            Sdegno di Massimiliano contro i Veneziani         450
            Egli fa delle domande esorbitanti a tutti gli
              stati d'Italia                                  451
            Preparativi di difesa di Lodovico XII             452
            Prime ostilità, senza risultato, di due
              emigrati genovesi                               453
       1508 Severità di Lodovico XII verso i Bentivoglio,
              che decide Giulio II a restar neutrale          455
            5 febbrajo. Massimiliano denuncia il
              cominciamento della guerra nella chiesa
              di Trento                                       455
            Inconseguenze, e movimenti retrogradi di
              Massimiliano                                    456
            2 marzo. Vittoria di Bartolomeo d'Alviano
              sopra i Tedeschi nella Valle di Cadoro          458
            Conquiste dell'Alviano sul golfo adriatico        459
            L'armata dell'impero si dissipa interamente,
              mentre che l'imperatore viaggia al nord della
              Germania                                        460
            7 giugno. Tregua di tre anni tra l'imperatore
              e Venezia                                       461
            Germi di malcontento lasciati da questa corta
              guerra                                          462
       1508 Perfidia del re di Francia ne' suoi rapporti
              coi Veneziani                                   463
            Cattiva fede del re di Francia ne' suoi
              rapporti co' Fiorentini                         463
       1507 Miseria di Pisa, pronta a sottomettersi ai
              Fiorentini                                      464
            Lodovico XII e Ferdinando il Cattolico
              convengono di farsi pagare la sommissione
              di Pisa                                         465
            Impiego della nuova milizia, ossia ordinanza
              fiorentina contro Pisa                          466
       1508 Rimproveri che manda Lodovico XII ai Fiorentini
              e loro giustificazione                          467
            Lodovico XII e Ferdinando offrono di nuovo
              di vendere Pisa ai Fiorentini                   469
            Lodovico spedisce soccorsi a Pisa per difendere
              la città fin che l'ebbe venduta                 471
       1509 13 marzo. Trattato di Lodovico e Ferdinando
              coi Fiorentini per vender loro Pisa             472
            11 gennajo. Trattato dei Lucchesi coi
              Fiorentini, col quale s'impegnano ad
              abbandonar Pisa                                 473
            Febbrajo. Convoglio di grano, spedito da
              Genova, che non può entrare in Pisa             474
            Marzo. I Pisani domandano la mediazione del
              signor di Piombino                              475
            14 marzo. Conferenza di Macchiavelli a
              Piombino coi Pisani                             476
            Spaventevole miseria de' Pisani                   476
            20 maggio. Nuove proposizioni de' Pisani per
              capitolare                                      477
       1509 8 giugno. Le truppe fiorentine entrano
              in Pisa                                         478
            I Pisani trattati dai Fiorentini con una
              grande generosità                               479
            Emigrazione della maggior parte delle
              famiglie pisane                                 480
            Il campo francese serve di ritirata a molte
              di loro, che dopo la fine delle guerre
              d'Italia si stabilirono in Francia              480

  CAPITOLO CV. _Lega di Cambrai; battaglia
  di Vailate o d'Agnadello, conquista di tutto
  lo stato della terra ferma de' Veneziani._ 1508-1509        482

       1508 La lega di Cambrai è la prima transazione
              diplomatica dove tutta l'Europa sia
              intervenuta                                     482
            Con quella ebbe principio la scienza del
              diritto pubblico                                483
            Tre basi differenti date al diritto pubblico,
              e riclamate dai re, dai Veneziani e dal papa    484
            Confusione del diritto pubblico, fondata sopra
              principi contraddittorj                         485
            Pretensioni di Lodovico XII ad alcuni diritti
              legittimi ed imperscrittibili su tutte le
              Provincie del Milanese                          486
            Pretensioni di Massimiliano a diritti della
              stessa natura sulle terre dell'Impero nel
              veneziano                                       487
            Falsità di questo sistema; qualunque diritto
              ch'ebbe un principio può aver una fine          488
       1508 La legittimità esiste per tutti i sovrani, o
              non esiste per nessuno                          489
            Seconda base del diritto pubblico; i trattati,
              sempre valevoli, ancorchè accettati per forza   490
            Questo principio, spinto al rigore, distrugge
              ogni nozione del giusto e dell'ingiusto         490
            Terza base del diritto pubblico, l'interesse
              nazionale                                       491
            Giulio II, in nome dell'interesse nazionale
              d'Italia, riclama contro una legittimità o
              de' trattati che distruggerebbero la sua
              indipendenza                                    492
            Veri motivi dell'odio delle grandi potenze
              contro Venezia                                  493
            Risentimento di Massimiliano contro Venezia,
              che gli fa desiderare di rinnovare il
              trattato di Blois                               494
            Dicembre. Conferenze di Cambrai, sotto
              pretesto di trattar la pace del duca di
              Gueldria                                        495
            Il cardinal d'Amboise e Margherita di Savoja
              deliberano soli e senza assistenti              495
            10 dicembre. Trattato pubblico di Cambrai per
              riconciliare il duca di Gueldria, ed
              assicurare una nuova investitura del Milanese   496
            Trattato secreto, per conchiudere la lega di
              tutte le potenze contro la repubblica
              di Venezia                                      497
            Divisione di tutti gli stati di Venezia fra
              coloro che vi avevano qualche pretensione       498
       1508 Il re di Francia s'impegna d'attaccare per il
              primo giorno d'aprile, l'imperatore ed il
              papa quaranta giorni dopo                       499
            Dissimulazione degli alleati, per sorprendere
              la repubblica                                   500
            Lodovico XII, Massimiliano e Ferdinando
              ratificano il trattato di Cambrai               501
            Esitazione di Giulio II nel ratificare questo
              trattato                                        502
       1509 Proposizioni fatte al senato da Giulio II per
              una riconciliazione                             503
            Tentativi de' Veneziani per negoziare
              coll'imperatore                                 504
            Essi rifiutano le proposizioni del papa           504
            I Francesi cercano de' motivi di contesa coi
              Veneziani                                       505
            Gennajo. Ambasciatori licenziati; dichiarazione
              di guerra tra la Francia e Venezia              506
            Sforzi de' Veneziani per mettere in piedi
              una poderosa armata                             507
            Incendio dell'arsenale, degli archivj, della
              fortezza di Brescia                             508
            I Veneziani abbandonati da alcuni condottieri,
              feudatarj della Chiesa                          509
            Forza dell'armata veneziana riunita a Pontevico
              sull'Olio                                       509
            Il conte di Pitigliano e Bartolomeo d'Alviano
              ne ricevono il comando                          509
            Piano di guerra offensivo dell'Alviano,
              sollevando il milanese                          510
            Piano di guerra difensivo di Pitigliano,
              dietro l'Olio                                   511
       1509 Il senato sceglie un piano di mezzo, più
              pericoloso dei due estremi                      512
            15 aprile. M. de Chaumont passa l'Adda, e
              prende Treviglio                                513
            Egli ritorna a Milano per aspettar il re          514
            27 aprile. Bolla di scomunica contro il doge
              e la repubblica                                 514
            Severità delle pene fulminate dalla bolla
              contro i Veneziani, s'essi non si
              sottomettono avanti ventiquattro giorni         516
            8 maggio. I Veneziani riprendono Treviglio        517
            9 maggio. Lodovico XII passa l'Adda a Cassano
              senz'opposizione                                518
            Lodovico XII, marciando lungo il fiume, vuol
              far sortire i Veneziani dalla loro posizione    519
            I Veneziani, cambiando di posizione, si trovano
              ravvicinati ai Francesi                         520
            14 maggio. L'Alviano attaccato fa domandar
              soccorso al Pitigliano, che glielo nega         521
            Disposizioni dell'Alviano presso la diga di
              Vailate o d'Agnadello                           521
            Valore dell'Alviano e delle sue truppe, e la
              loro disfatta                                   522
            Le guerre cominciano a divenire più feroci e
              più micidiali                                   523
            Rapidità con cui Lodovico XII profitta della
              sua vittoria                                    524
            24 maggio. Brescia si dà volontariamente nelle
              mani dei Francesi                               526
            Miseria de' Veneziani per rifare di nuovo il
              tesoro, e formare una nuova armata              526
       1509 Sommissione di Crema, Cremona, e Pizzighettone    527
            Crudeltà di Lodovico XII verso i suoi
              prigionieri                                     528
            Tutti gli alleati, dopo la sconfina di Vailate,
              attaccano le frontiere de' Veneziani            529
            Entrata dell'armata pontificia in Romagna;
              massacro di Brisighella                         530
            Tutte le città della Romagna capitolano per
              sottomettersi al papa                           531
            19 maggio. Il duca di Ferrara comincia le
              ostilità contro Venezia                         531
            Il marchese di Mantova attacca ancor egli
              i Veneziani                                     532
            Le truppe di Ferdinando attaccano i Veneziani
              a Trani nella Puglia                            532
            Aggressione de' piccoli feudatarj imperiali
              sulle frontiere veneziane                       533
            Stato deplorabile dell'armata veneziana a Mestre  535
            I Veneziani offrono di consegnare le loro piazze
              a Ferdinando, Giulio II, e Massimiliano, per
              tentare di disarmarli                           536
            Massimiliano ricusa di trattare senza il re
              di Francia                                      537
            Il papa comincia a raddolcirsi con Venezia        538
            I Veronesi vogliono arrendersi a Lodovico XII,
              che non gli accetta                             539
            15 giugno. Conferenze del card. d'Amboise
              con Massimiliano a Trento                       539
            Lodovico XII ritorna in Francia senza aver
              potuto vedere Massimiliano                      540
       1509 Massimiliano dissipa tutti i suoi mezzi di
              finanza, e si trova fuori di stato di
              mettere in piedi un'armata                      540
            Egli non è più a portata di ricevere le
              capitolazioni delle città che vogliono
              arrendersi                                      542
            4 giugno. Padova s'arrende a Leonardo Trissino,
              emigrato vicentino, che ne prende possesso
              in nome dell'imperatore                         542
            Treviso, dopo d'essersi sottomesso allo stesso
              Trissino, lo scaccia dalle sue mura, e
              s'abbandona alla sorte della repubblica         545

FINE DELLA TAVOLA.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (Machiavelli/Macchiavelli e simili), correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 13" ***

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