Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Il re dei re, vol. 4 (di 4) - Convoglio diretto nell'XI secolo
Author: Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 1816-1890
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il re dei re, vol. 4 (di 4) - Convoglio diretto nell'XI secolo" ***


(This file was produced from images generously made


                 BIBLIOTECA NUOVA

             PUBBLICATA DA G. DAELLI



                   IL RE DEI RE



  Stabil. tip. già Bonlotti, diretto da F. Gareffi.



                        IL

                    RE DEI RE

                CONVOGLIO DIRETTO
                  NELL'XI SECOLO

                       PER

           F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA


                     VOL. IV.



                      MILANO
             G. Daelli e C. Editori.

                      1864.



LIBRO SETTIMO

IL MESSAGGIO.



I.

  Alla nostra città non fe' paura
    Arrigo già con tutta la sua possa
    Quando i confini avea presso alle mura.

                          MACHIAVELLI--_L'asino d'oro_.


Sicuro Enrico di lasciar ben curate le sue cose di Germania a
Federico di Staufen, senza mettere indugi prese le mosse per alla
volta d'Italia. Il considerevole esercito seguivano assai tra
vescovi, principi, duchi e signori di ogni grado, e per dovunque
passava con le voci di plauso raccoglieva attestati di divozione
e di omaggio. Segnatamente gl'Italiani, ahi pur troppo! che dalla
venuta del re speravano messe di gloria e concessioni di libertà. Le
schiere dei combattenti correvano a folla sotto le sue bandiere. Ogni
Comune mandava le sue milizie cittadine. Ogni barone conduceva i suoi
uomini d'armi e cavalcava al campo. Sicchè Enrico, giunto a Verona
ove celebrò la Pasqua, si trovò a capo di esercito poderoso, il
quale niente meglio desiderava che pugna, che vendetta dell'astioso
pontefice. Dall'altro lato la contessa Matilde aveva messe insieme
le sue bande e comandato ai suoi vassalli che, chiunque possedesse
una spada ed un cavallo fosse atto a servirsene, la seguissero
nella spedizione contra il re. Ed ella stessa, lasciate da banda le
mollezze femminili, che veramente non conobbe mai troppo, lasciate
da banda le discettazioni teologiche e le pratiche beate della
divozione, vestì lorica e celata ed al campo di Mantova trasse.

Le sue genti sovra i giachi di maglia e le corazze portavano corta
tonica bianca divisata di croce nera, ed a foggia di croce l'elsa
degli stocchi. Nei loro accampamenti non gironzavano cantoniere,
giullari, istrioni, buffoni d'ogni maniera, e merciaiuoli. Invece,
frati d'ogni colore a tutti i crocicchi alzavano panche, e fatto un
po' di crocchio predicavano irate parole contro Enrico il Madianita,
che veniva a contristare Israele, e seminare le discordie nelle terre
di Canaan. E quei soldati severi nelle fisonomie e nella condotta,
lungi dal rompersi a crapole su per bische e lupanari, e ad orgie
ubbriache nelle osterie, nelle parole parchi, negli atti misurati,
raccolti, a capo giuso, rassegnati, si ragunavano la mattina nel
grande spianato del campo, dove il vescovo Anselmo di Lucca, uomo
sulla taglia di Gregorio, celebrava la messa e trinciava loro
benedizioni a iosa. Ed al tramonto cantavano in uno l'angelus prima
di dispensarsi alle guardie dei valli e delle trincee. Matilde si
teneva sempre in mezzo di loro, ne parlava il linguaggio, la più
assidua nei lavori del campo, la più sagace nelle deliberazioni
dei capitani, dei disagi improvvida, delle fatiche non schiva. Al
conspetto di altrui, nelle assemblee, percorrendo a cavallo le tende,
il suo volto era sereno perchè aveva posto confidenza in Dio. Ma la
notte, ma nel silenzio ella non sapeva siffattamente imporre al suo
cuore di posare tranquillo sul pensiero, che le sue truppe erano
pochissime e mal proprie contro l'esercito di Enrico, precaria la sua
posizione, pericolosa quella del papa, terribile quella del paese a
lei soggetto, e che era odiatissima. E quell'odio, cosa strana, ha
sopravvissuto al tempo. Anche oggidì, il contado la crede tristissima
donna; inesorabile coi vassalli; imbertonnata dal papa con cui ebbe
tresche lubriche nel tempo del suo marito Goffredo il gobbo; in
commercio con i diavoli che le fabbricarono in una notte quaranta
castelli; che facesse costruire torri e campanili per ordine del
confessore, onde purgarsi di sue peccata; e che, infine, scoppiasse
a Bianello, sull'altare, nel momento proprio in cui celebrava la
messa, di cui papa Gregorio le aveva impartita facoltà. Le leggende
su _Donna Matilde_ brulicano nell'Emilia, gremita dai ruderi dei suoi
castelli--e non una carezzevole, per questa donna sì carezzata dai
papi, per questa donna che segnava, _Mathilda gratia Dei, si quid
est!_ Alle conseguenze di quest'odio vivissimo allora, si arrogeva
che l'imperatore non le avrebbe punto perdonato la resistenza, ed
il ritardo alla sua corsa vittoriosa sopra Roma. Nondimanco niuna
debolezza tradì mai nè la condotta nè il carattere di lei. E forse
non la si vide giammai più tranquilla che quando seppe Enrico in
Italia, ed acquartierato a poche miglia dal suo Campo. Ella doveva
resistere al primo urto del nemico.

Matilde non era più nel fior della sua giovinezza. Ma l'età non aveva
avuto che leggera presa sulla sua persona, perchè in lei, se i sensi
favellarono talvolta, il cuore aveva sempre assolutamente taciuto.
Ora ogni ruga sulla fronte, ogni lampo ottenebrato nello splendore
degli occhi, ogni pallor sull'incarnato delle labbra, non sono che
una fotografia degli spasimi del cuore. L'amore è una demolizione in
permanenza. Laonde, al vederla, Matilde sembrava ancor una vergine a
venti anni, come quelle madonne della scuola di Giotto che non hanno
età perchè non hanno anima. Una serenità sovrumana splendeva sul suo
sembiante, ma fissa, ma monotona come l'azzurro del cielo di oriente,
ove un'aura non mormora, ove la vita sembra cristallizzata. Solamente
quella serenità non era la purezza, non era l'innocenza, non era
l'incoscienza del dramma della esistenza, era la fatalità rassegnata.
La sua grande persona portava lo stigmata dell'inflessibilità dello
spirito. Era rigida, era quasi petrificata.

Nulla parlava in lei. Quella bocca, supremamente bella, che avrebbe
attirati i baci degli angioli se fosse stata soave, viva, se il
sangue vi avesse palpitato, non sembrava propria ad altro che a
biascicare un _ave maris stella_ o una condanna di morte, con eguale
indifferenza. Quegli occhi che avrebbero avuto la profondità infinita
dei cobalti del cielo d'Italia se la fiamma divina dell'amore li
avesse fatti corruscare, erano ora stupidamente inespressivi, quasi
fossero stati di cristallo. Quella fronte che sarebbe sembrata
l'olimpo del pensiero e degli affetti, se Matilde fosse stata una
donna, era levigata e pura come una lamina di ghiaccio, era muta come
una sfinge. L'insieme di quella donna, che sarebbe stata la demenza
della voluttà per l'armonia delle forme, era una maschera, era una
larva, era un prodigio d'insensibilità, era un miracolo d'amore
mancato. Iddio aveva obliato di mettervi una scintilla. Nulla in lei
rivelava l'innocenza, quella che unicamente rende sì seducenti le
madonne di Raffaello. La sua purezza significava ad ogni analisi che
la era una negazione di sensibilità e di sentimento. L'aria beata che
la circondava della sua aureola non era luminosa, non era come quelle
brezze della sera delle coste della baia napoletana, che vi seducono,
vi commuovono, vi elevano a Dio di cui sembrano il respiro. Tutto
in Matilde tradiva la divota, l'ascetismo spinto al fanatismo. Però
non il disprezzo della terra per elevarsi alla compenetrazione con
Dio--con l'infinito--ma l'oblio della creatura--cioè l'oblio di tutto
quanto soffre, pensa, ama, piange.

Matilde teneva alla terra per la punta d'una spada, di cui aveva
messa l'elsa in mano al pontefice--cioè per l'ambizione, per il
dominio, per servirsi della creatura come il villano si serve
dell'ingrasso per far germogliare le spighe nei campi, i fiori nel
colto.

Lenta a pensare, a muoversi; flemmatica nelle risoluzioni, quasi le
scolpisse in un blocco di bronzo e perciò irremovibili; fisa con
uno sguardo catalettico nello scopo, non comprendendo lo spasimo
della carne e dell'anima; contando le miserie dell'esistenza come
una elevazione verso Dio, e perciò, quando anco le comprendeva,
rinculava dall'addolcirle; dando a tutti i sintomi del rigoglio della
vita un significato di colpa e di degradazione--un eco del peccato
o un peccato--considerando l'autorità come un'emanazione da Dio, e
perciò incarnata nel papa, e perciò imperdonabile ribellione contro
Dio quella contro il papa; Matilde fu nel suo secolo, fu pel suo
popolo, era per i suoi vassalli in quell'ora come una lama di Toledo,
che non brilla, non si spezza, non si riscalda onde percuotere, non
resta mai curva, che è sottile, fina, fredda, elegante, graziosa,
aristocratica, inesorabile, anche un vezzo od un ornamento se
occorre, che non ha che la punta, e che dovunque tocca lascia uno
stigmata, spicca il sangue, porta la morte--strumento sempre di
castigo e di dolore.

Matilde si era gittata innanzi ai passi di Enrico. Questi non si fece
attendere e le mosse contro. Ella copriva Mantova e si preparava a
resistere. I cittadini di Mantova le fecero dire dal loro vescovo
ch'e' non volevano sottoporsi agli stenti dell'assedio, ma meglio
sussidiarla di un corpo di truppa; altrimenti avrebbero mandate
le chiavi della città al re, ed aperte le porte. Matilde si sentì
costretta, sotto i baluardi della piazza, attaccare la battaglia.

Allo spuntare dell'alba dunque ella uscì dalle mura alla testa del
suo esercito. I Mantovani sorpresero il presidio, chiusero le porte,
ed alzarono i ponti. Per lo che, la gente della contessa si vide nel
partito di riscattare la vita con la vittoria o morire.

Sull'ora di nona, con un tempo bellissimo, apparvero gli sfolgoranti
stendardi del re, e la sua cavalleria coperta di ricche vesti.
I soldati di Matilde rassegnati come un drappello di vittime,
immobile, taciturno, col pensiero raccolto in Dio, stretti fra loro,
li aspettarono. I cittadini di Mantova dall'alto delle torri e dai
merli delle mura, assistevano all'affronto come da un anfiteatro ad
una giostra. Il nemico arriva. Ma Enrico, sia che avesse pietà di
quella mano di prodi con tanta tranquillità devoluti alla morte,
sia che avesse paventato la loro disperazione, manda Baccelardo a
parlamentare. Matilde, udito il messaggio del re che l'invitava alla
piena dedizione, facendo lor salva la persona, la vita e la libertà,
risponde:

--Dite al nostro bel cugino che noi ringraziamo la sua cortesia
di proporci la pace a queste condizioni. Noi non abbiamo di modo
alcuno forfatto all'impero, prendendo la spada contro chi viene ad
opprimere il pontefice nostro signore, e la nostra libera religione.
Se poi davvero gli prende pietà di noi e vuole esserci amico, che
sgomberi tosto dai nostri Stati, che deponga gli sdegni ingiusti
contro del papa, che ci offra una pace onorevole ed una guarentigia
di mantenerla, e sa Iddio se noi desideriamo meglio, e se in segno di
sudditanza non gli verremo perfino a far da mozzo al cavallo.

--Madonna, soggiunge Baccelardo, vostra bellezza mi perdoni se oso
rammentarvi che non istà a voi proporre patti al vostro sovrano.

--E voi perdonatemi, ser cavaliere, se vi ricordo che non istà a
chicchesia proporre condizioni da vinti, prima di aver guadagnata la
vittoria.

--Ella è dunque la pugna che voi desiderate, madonna?

--Sa la regina degli angioli, ser cavaliere, se noi daremmo tutto per
evitarla, meno che l'onore.

--Il ciel vi aiuti dunque, bella contessa, perchè dagli uomini poco
vi resta a sperare.

--Amen, ser cavaliere.

E si dicendo Baccelardo le baciava la mano e partiva.

La pugna si attaccò. Non fu lunga. Fu sanguinosa, fu disperata, fu
feroce come guerra di religione; la vita fu disputata accanitamente.
Ma il numero prevalse. Enrico vinse. I pochissimi che avanzarono
delle truppe di Matilde, fuggirono con lei.

Allora i cittadini di Mantova mandano il loro vescovo ad Enrico onde
proporgli la scelta, o di togliere la città per assedio, ovvero
entrarvi con consentimento loro dopo aver giurato rispettare gli
edifici e le fortificazioni alla città, gli averi, la libertà, la
vita ai cittadini. Enrico accetta questi patti, e trionfante entra
dentro Mantova in un nembo di fiori. Due giorni dopo, il re si recava
a Padova ed a Cremona, città che non si volevano arrendere che a
lui, ed a lui solo aprir le porte. Ed entrato Enrico da trionfatore,
accolto con lo medesimo entusiasmo, concedeva loro privilegi e
franchigie ed il favore del carroccio, che, in onor dell'imperatrice,
i Padovani chiamarono _Berta_, i Cremonesi _Bertacciola_. Indi mosse
per Firenze, distaccando dalle sue truppe dei manipoli onde andare
ad occupare or questo or quello dei castelli e delle terre della
contessa. Ma questa gli disputava l'invasione del suo territorio
palmo per palmo, e ad ogni mutar di passo gli presentava contro
ora una borgata cinta di mura, ora una rocca, ora un villaggio,
costringendo il re a combattere ad ogni fermata. L'animosa donna
vendeva poscia tutti i suoi gioielli, prendeva gran parte delle sue
rendite e le mandava a Roma a papa Gregorio onde munir la città,
assoldar gente, comprare i faziosi.

Ella era restata povera--ella, l'erede di quel marchese Bonifazio
che, avendo Enrico III lamentato di non trovare buon aceto a
Piacenza, gliene aveva mandato in venti barili e su carretto di
argento. Le sue possessioni devastate, rase le fortezze, smantellate
le mura delle sue città, bruciati o presi i castelli, i suoi vassalli
deserti. Del suo florido dominio insomma, così bello, così vasto,
non restava che cadente scheltro. La fame minacciava il suo popolo;
la moria lo decimava. E con tante sciagure, con un nemico ostinato
di faccia, con tanto maligno volger di cose, la sua costanza non
crollava, non mutava nei propositi, non tradiva neppure con un
fastidio o una velleità la generosa causa che aveva sposata--avvilire
l'imperatore, esaltare il pontefice! Chi le negherebbe il distintivo
d'eroina dei tempi di mezzo?

Quando seppe però che Firenze, dopo un mese di assedio, affamata e
rovinata si rendeva; quando Lucca discacciava il suo vescovo, ne
creava un novello ed invitava nella città Enrico; quando Montebello,
Carpinete, Bibianello--Bibianello sì forte, sì popolato allora, oggi
spelonca abitata solo da pulci--quando queste formidabili castella
cedevano al vigore dell'oste avversa, essa raccolse i residui delle
sue truppe e delle sue ricchezze, e trasse a Roma, risoluta difendere
fino all'estremo la città eterna o morirvi.

E la vigilia di Pentecoste Enrico, con l'arcivescovo di Ravenna,
compariva sotto le mura di Roma ed accampava nei prati di Nerone,
dirimpetto a Castel San Pietro.



II.

     Il senato vi chiama. Un tremendo esercito, condotto da Gaio
     Marzio, alleato con Aufidio, manomette il nostro territorio.
     Tutto è ormai consumato: schiava è fatta omai una metà della
     popolazione.

                              SHAKESPEARE--_Coriolano_.


Come Ildebrando udì del concilio di Brixen, che lui aveva deposto
ed esaltato Guiberto, e della morte di Rodolfo, e del disegno di
Enrico di volgere in Italia, si spaventò. Sono quei movimenti
involontarii che sfuggono alla natura umana a dispetto della
violenza che si adopera con essa. Ma quando lo seppe già in Italia,
e che gl'Italiani, del suo giogo intolleranti, accorrevano a torme
alle bandiere di lui; quando sentì i rovesci della sua fazione,
e le miserie in che i sopravvissuti esulanti languivano; quando,
trionfatore di tante vittorie, dall'alto delle rocche lo vide sotto
i baluardi di Roma, e' dominò ogni debolezza, bandì ogni paura, e
tranquillo provvide ai mezzi di resistere. Perchè, se come cristiano
aveva piegato la testa innanzi agli arcani voleri di Dio, come
principe avea debito proteggere i suoi vassalli, tutelare la sua
città. Però il suo carattere era cangiato.

Non che e' si fosse rammollito su ciò ch'egli chiamava suoi
principii; non che avesse perdonati Enrico e Guiberto, no! Ma egli
aveva spogliata ogni alterigia di maniere, ogni intolleranza. Non era
più aspro coi caduti, non più severo coi colpevoli, non inesorabile
con chi si arrendeva, non iracondo e corrivo, non petulante nel
pretendere e violento nel togliere per forza. I suoi modi si erano
addolciti. Aveva cominciato a sentire la fralezza della carne e
compatire, la sventura gli andava insinuando nel cuore quel gran
motore del cristianesimo, la carità! E più blando, più docile, più
famigliare, quegli che nel 1077 era un vecchio terribile, oggi poteva
addimandarsi un rispettabile vecchio. L'istesso suo volto, per lo
innanzi sempre accigliato ed aggrinzito dalle rughe cui un'interna
irritazione solcava indefessamente, ora sembrava calmo e sereno.
Compreso che l'ora della sua gloria e del suo potere era scorsa, che
doveva discendere dagli alti pinacoli toccati, che l'Europa, da lui
contristata di guerre e di dissenzioni, l'odiava, dalla coscienza
infine avvisato del male per lui seminato sulla terra, avea tolta
questa sventura come un richiamo di Dio, e non ne avea mormorato.
Fino allora insomma egli era stato più principe che pontefice, più
uomo che cristiano; oggi che le cose si erano mutate, si era mutato
ancor esso. Però non avea cambiato d'indole, nè appresa ancora,
come abbiam detto, la virtù del perdonare. Ei provocava in Lamagna
l'elezione del conte Ermanno di Lussemburgo ad imperatore.

Enrico, dall'altra parte, trincerava il suo campo di profondo vallo,
lo ricingeva di torri di legno, metteva all'opera soldati ed artefici
a construire arieti, gatti, battifredi e torri per dar la scalata.
Indi tentava l'assalto. I Romani da su le mura gli opponevano
gagliarda resistenza con mangani e baliste.

Egli però aveva fermo di espugnare la città e punire il pontefice.
Prese i forti vicini, donde le sue guarnigioni molestavano i Romani,
si fece ascrivere all'ordine del loro convento dai monaci della
badia di Farfa, secondo antica consuetudine. Poi venute le caldure
dell'estate, e cominciata a viziarsi l'aria per le maligne esalazioni
delle paludi pontine, ritornò coi Tedeschi in Lombardia. Le truppe di
cerna italiana restarono su pei poggi, circonstanti a Roma, dove le
acque correnti rompevano l'aria e la tornavano men greve. Guiberto
capitan generale dei regi rimase a Tivoli. Egli bloccava sempre Roma,
catturando carriaggi di viveri che fornivano la città, predava e
guastava il paese.

Intanto venne il gennaio del 1083. Enrico di armati e di macchine
meglio fornito tornò all'assedio. Prima però di dar l'assalto volle
fare tentativo di pace e mandò Baccelardo e Goffredo di Buglione
parlamentari ai Romani.

Questi raccolsero il popolo nel Foro e, dirigendosi al prefetto della
città ed al vescovo di Porto, mandato da Gregorio, dissero esser
mente del re perdonare la fellonia ad un popolo che aveva chiuse le
porte in faccia al suo signore, risparmiare la città, la vita, gli
averi dei cittadini, dove si arrendessero a discrezione. Il vescovo
di Porto interrompendo gli oratori rispose brutalmente:

--Ringraziate la vostra qualità di parlamentari se non vi facciamo
tagliare a pezzi e vi gittiamo nella fossa della città. Ritornate
all'eretico Enrico di Germania e ditegli, che egli non metterà
giammai il piede in questa Roma santa, dove non ci venisse col volto
strisciando nel fango, come a Canossa.

Ma il prefetto, che meglio conosceva lo stato a cui i cittadini eran
ridotti, e la disposizione dell'animo loro, diede sulla voce al fiero
prelato, e parlò:

--Tacetevi, uomo di sangue! I padroni della città siamo noi, ed a
noi è diretta la nobile ambasceria. Sicchè, signori, noi rispondiamo
all'imperatore Enrico, che noi non siamo mica rei di fellonia, perchè
egli non è stato ancora unto imperadore dei Romani; che egli non
si è presentato alle porte come patrizio di Roma, ma alla testa di
un esercito come nemico; che egli, prima d'ora, non aveva palesata
alcuna disposizione di pace. Per lo che manderemo adesso l'abate di
Cluny ad intercedere Gregorio di togliere al re l'interdetto, e noi
consulteremo come si debba riceverlo.

Inviarono infatti l'abate al pontefice. Gregorio però, udito come i
Romani lo scongiurassero, rispose con modo freddo e secco, sì che
impedì all'abate di replicare le instanze.

--Che Enrico si sottometta e l'assolverò.

Udita la risposta, i Romani si levarono a tumulto e molti sclamarono:

--Bruciamo dunque vivo questo brutale pontefice, e facciamo entrare
il re.

Ma i nobili romani, che volevano innanzi patteggiare con Enrico,
gli rimandarono i parlamentari, dichiarando, voler guarentigia che
avrebbe salvo il pontefice, i privilegi della città, la vita e le
possidenze ai nobili, le chiese dal sacco, e non sarebbe penetrato
dentro ch'egli solo.

Alle quali parole, irritato Enrico, allora stesso fa dar nelle
chiarine e dirige l'assalto. La città è investita da tutto il lato
che guarda Toscana, chiamato _città leonina_. Le truppe della
contessa Matilde, che l'occupavano, sono cacciate dalle mura, scalate
malgrado la loro resistenza, volte in fuga ed uccise. Impadronitosi
così dell'intiero sobborgo, Enrico vi rizza doppia trincea,
construisce su monte Palazzo un torrione dal quale danneggiava
grandemente i Romani, e si appresta a rinnovare l'attacco.

Spaventato allora Gregorio dal vedere che il nemico aveva già un
piede dentro Roma, e che i cittadini tumultuavano, maledicendo il suo
nome, attribuendogli la penuria, il guasto de' campi e della città,
si ritira nel Castel Sant'Angelo, ed abbandona il popolo alle sue
difese.



III.

     Piegarono al primo assalto. Entra egli tra l'armi, para chi
     fugge: sgrida gli alfieri che i soldati romani voltino le spalle
     a canaglia. Pien di ferite, perduto un occhio, a viso innanzi si
     avventa tra le punte.

                                     TACITO--_Ann._, 9.


Una mattina il capitano di castel Sant'Angelo si presenta a papa
Gregorio, che dall'alto d'una torre guardava Roma. Il conte Oddo da
Nemoli era stato allogato a quel posto dall'imperatore Enrico III,
allorchè nel 1046 era sceso in Italia per cavar di scisma Roma e
da Clemente II fu coronato. Oddo era un uomo sulla gloriosa taglia
di Catone; semplice e libero nei modi e nella favella, severo ed
incolpato nei costumi, di probità senza pari. Caldo della libera
causa di Roma, avvegnachè qualche pontefice, Gregorio non escluso,
lo avessero avuto in uggia, il municipal reggimento della città lo
sostenne sempre alla custodia del castello. Gregorio mal lo soffriva
perchè lo aveva scorto recarsi di pessima voglia ai suoi partiti.
Non l'odiava però, nè lo disprezzava; perocchè infine Gregorio
comprendeva assai bene ì nobili e generosi sentimenti. Anzi, ne'
parecchi mesi che a Castel Sant'Angelo dimorò, gli pose affetto,
considerando quanto quel povero conte si facesse violenza onde
dimostrargli veneranza, in barba del suo carattere soldatesco, che
pure soventi volte in lui riappariva. Oddo venne dunque a trovarlo
in cima alla torre, ed avvicinandosi a lui, prima si fregò le mani
alquanto, indi soffiando un cotal poco nella palma sinistra, se la
fece strisciare lungo la faccia per d'innanzi il naso e la bocca, e
levandola in aria, sclamò:

--Signor papa, _consummatum est!_ Questa mattina ci batteremo il
ventre come un tamburo di Saraceni.

--Vale a dire, ser castellano?

--Ah! parmi che io non parli latino! Ebbene, signor papa, in tutto il
castello non ci è manco una chicca da dare a mangiare ad un bambino.
Avete capito adesso?

--Questo è tutto, messere? E sia pure: staremo digiuni.

--Neh! fa il castellano facendo vivo sforzo per contenersi. Sappiate
dunque, signor pontefice, che se voi ieri vi avete beccato quel
residuo di ben di Dio che si trovava dentro, la guarnigione, i
prigionieri ed io ci abbiamo rosicchiate le unghie al sole.

--Avete fatto malissimo, ser castellano, di mettere eccezione per me,
lo riprende di voce seria Gregorio corrugando la fronte, rilevando
altero lo sguardo e la testa. Avete fatto malissimo. L'ultimo pane
che si rinveniva nella rocca dovevano mangiarlo i suoi difensori.

--E così pensava pur io, messer pontefice; ma poi... ma poi...
Via! noi siamo più usi a queste carezze del nemico; ma voi, bravo
vecchio...

--E quando mai mi avete saputo permaloso, ser castellano?

--Gli è vero, per la messa! ma che volete? ci è un bel tratto al
postutto tra un pontefice ed un mariuolo di soldato, che quando fa
orgia mangia per quattro dì, e sa ancora per quattro dì stare a
stecchetto negli assedii. Non se ne parli più dunque. Consultiamo
invece il _quid agendum_ adesso.

--Non vi è d'uopo di consulte, risponde Gregorio riprendendo la sua
grande calma. Quanti uomini di guarnigione sono nel castello?

--Cento cinquanta, oltre i cinquanta del presidio consueto. E posso
accertarvi che valgono dugento demonii. Sono avanzo dei soldati di
Leone IX.

--Quanti prigionieri?

--Due vescovi, tre diaconi ed una donna. Ildebrando gitta un sospiro.
Poi dimanda:

--E niun'altro fuor di noi due?

--Niuno, compreso il carceriere.

--Sta bene. In sul meriggio dunque, mi farete trovar sotto le armi,
giù nella corte, codesto manipolo di soldati con il loro capitano e
voi con essi, messer conte, a capo del presidio.

--Ma che! intendereste forse di fare una sortita, beato padre?

--Saprete le mie intenzioni laggiù: contentatevi adesso d'obbedirmi.

--Uhm! d'obbedirvi? vedremo.

--Inoltre, mi farete trovare ancora colà i prigionieri, ed il custode.

--Per costoro la bisogna è più facile, perchè non dipendono che da
noi. Pei soldati però v'è quello stizzoso di capitano....

--Il quale non oserà disobbedirmi, l'interruppe Gregorio componendo
il volto a piglio severo, intendete, messer conte?

--Va bene, risponde Oddo, questo non è affar mio. Ma non vorrebbe
la vostra beatitudine dirmi alcuna cosa intorno alla faccenda delle
provigioni?

--Vi dirò tutto laggiù, messer conte. Per ora lasciatemi solo. Ho
d'uopo raccogliermi in Dio. Andate: vi benedico.

Oddo si stringe nelle spalle e parte. Nella sala trovò il capitano
della guarnigione, che consultava tra gli altri capi, e gli comunicò
gli ordini di Gregorio. E quegli, che ad instanza di lui era stato
quivi messo dal senato e dal console romano per rinforzo, e che
egualmente teneva il castello pel popolo, fastidito risponde:

--Ma pel santo battesimo, state dunque a vedere un po' che questo
birbo di prete si avrà ficcato anche in mente che noi fossimo ai suoi
comandi! Ci siamo ingabbiati qui come barbagianni, e per guardargli
salda la pelle abbiam danzato un bel tratto alla musica delle
baliste: adesso, per Dio! parmi che fosse ora di metter fine allo
scherzo.

--Non prendete il galoppo, ser Ugoccione. Stiamo a vedere cosa
intenda fare da sezzo; poi vi consiglierete dalle circostanze.

--Staremo a vedere sì, messer conte: ma il mio partito è già preso.
Invece di morirci qui di fame, come lebbrosi all'ospedale, intendo
meglio che andiamo a menare le mani là fuori con l'aiuto di Dio, e
morire, come a soldati si addice, dove ora soldati sono e soldati si
battono. Gli abbiamo finalmente cavato il ruzzo di fare il bravo a
codesto garbato messere. Ma quando siamo giunti all'articolo penuria,
io non trovo scritto in nessuna cronaca, dall'assedio di Troia in
poi, che alcun capitano abbia fatto lo schifiltoso a non dimandare
accordi e cedere alla fortuna della guerra.

--Io non sono del vostro avviso, messer Ugoccione. Del resto ciascuno
ha un cervello per regolare il fatto suo: io me ne spicco di mezzo.
Vi pregherei solo a non esser corrivo ai partiti estremi ed attendere
anche un giorno. Chi sa, per me bisogna proprio dire che questo
caparbio vecchio mi abbia stregato.

E sì dicendo, lasciava il capitano e si dirigeva alle prigioni.

Cercò da prima il carceriere, il quale, come ebbe udito l'ordine suo,
gli presentò il mazzo delle chiavi. Oddo col pugnale ruppe il cordone
che le univa, e sceltane una, dette le altre a Gano, conchiudendo:

--Sicchè hai capito? Mi stai così minchione minchione a guardare
quasi io fossi piovuto dal terzo cielo come s. Paolo. Farai uscire i
cattivi allo scoccare della campana di mezzodì, e li condurrai nella
corte.

Gano si gratta il naso con un fare stufo e balordo, poi risponde:

--Ho capito sì, messer castellano: ma vi tengo per avvertito, che
se si tratta di mangiarli, io mi protesto che non intendo aver la
mia parte di quel tisicuzzo del vescovo di Biella, perchè certamente
mi farebbe venir la lebbra. Se l'udiste a bestemmiare, messer
castellano....

--Il diavolo ti porti! ma chi ti ha detto che ce li dovessimo
mangiare perchè fai di codeste proteste?

--Mille perdoni allora, messer conte. Si tratta dunque di appenderli
ai merli onde riparare le torri dalle tratte dei mangani; ed in
questo caso io protesto che andrò a tagliare le corde del vescovo di
Potenza--dovessi pure andarlo a sostituire io medesimo. Se lo vedeste
a far miracoli, ser castellano....

--Ma che ti afferri il gavocciolo, bestione! chi ti ha detto dunque
che quei poveri disgraziati si dovessero appendere alle mura?

--Allora, mille perdoni un'altra volta, messer Oddo. Si tratterà di
farne una comoda appiccagione per risicare alimenti. Ed in questo
caso, mi protesto che voglio essere io proprio colui che ha da
rendere tanto pietoso officio al diacono Sizzo; perchè l'altro ieri
mi applicò alle mascelle un tal sorgozzone, per un vezzo innocente
che volli fargli, da mandarmi al diavolo l'ultimo dente che mi
restava.

--Mai che domine vai tu dunque almanaccando, baciocio! Tu non devi
che menarli nella corte e lì finisce il tuo debito. Hai capito?

--Mille perdoni un'altra volta, ser castellano. Allora sarà... ma
protesto...

Oddo non l'udiva più, perchè scompariva sotto un androne, nel cui
fondo oscuro metteva capo una scala. Gano resta fiso e ritto ad
ascoltare il debole rumore delle pedate, e guardare nel punto dove
si era dileguato il conte, poi scuote la testa corrucciato e fra sè
stesso brontola:

--Cane di un vecchio! vah! ed eccolo che se la guizza da lei. Gano
solo non può, nè deve neppure protestare per cosa che gli dia
fastidio. Ma avrà un bel dire, anche quell'altro arabico vecchio di
pontefice: il diacono Corrado se l'ha da filar netto--non dovessi
che farlo scappare pel buco della toppa. E' mi ha promesso sposare
quella mia figlioccia di Guaidalmira... se già quel tristo impiccato
di Laidulfo non l'ha messa in bocca al diavolo. E la sposerà veh!
perchè mi protesto contro queste nuove diavolerie che va mettendo su
mastro Gregorio. Sissignore! un povero figliuolo che serve a tutto
il mondo; che dei sette benedetti giorni della settimana ne passa
cinque digiuno; che riceve batoste da questi perchè gli è padrone,
da quegli perchè è più forte, da quell'altro perchè è milite, da
quell'altro ancora perchè coi suoi soldi può cavarsi la voglia di
bastonare ed uccidere chi meglio gli garba... sissignore! un povero
figliuolo non deve condur moglie, perchè mastro Ildebrando ha detto
_diaconorum sposarum non prendebuntur_. La vedremo oh! la vedremo,
mastro Ildebrando! Tu pensi a cinque, io miro ad asso. Mastro Corrado
sposerà Guaidalmira, e mi protesto veh! messer castellano, che vi
andate così bel bello a rifocillare da quella sguaiata madonna.
L'affogherei per quella sua rassegnata verecondia che mi puzza di
santo le cento miglia!

Però, malgrado le proteste di Gano, il castellano era sceso nella
prigione.

Un raggio di fievole luce, che filtrava da alto abbaino graticciato
di ferro, illuminava quella topaia. La quale, mantenuta netta ed
accomodata da un po' di ordinato mobile, sembrava più orrida ancora,
come grinza e laida vecchia che si affusola dei panni da sposa. Ad
uno sgabellaccio presso al letto sedeva una donna sui quarant'anni,
pallidissima in viso ed abbandonata, come l'infermo che si leva da
lunga e mortal malattia. Un avanzo di antica bellezza si scorgeva
ancora in lei, ed era il testimonio innanzi a Dio che non la mano
del tempo ma quella dell'uomo l'aveva cancellata a metà. Lo sguardo
però scintillava ancora di una forza vitale potente, quasi che quivi
tutta l'energia dell'anima si fosse accumulata. Il destino dell'uomo
sta nello sguardo: esso compendia le pulsazioni dell'anima, le rivela
altrui, inspira interesse, impone. E la prigioniera aveva di quegli
occhi indiani profondi e vellutati che appena si muovono ed esprimono
ciò che si agita nel fondo del cuore. La spigliata persona avvolgeva
in tunica nera, sulla quale vestiva un gamurrino con cappuccio ed
ampie maniche, anch'esso di drappo oscuro. Al dito portava preziosa
gemma. Come sentì dischiuder la porta, ella si volge, e conoscendo
Oddo, sclama:

--Dio vi prosperi, messer castellano; credeva vi fosse venuto male,
perchè da otto giorni non vi vedeva più, e Gano sapete se è prodigo a
dare schiarimenti ai prigionieri.

--Che? madonna, vi avrebbe egli forse usate scortesie?

--Mai no, messer castellano. Povero Gano, fa quel che può a dominare
la sua antipatia per me; e non fosse che a vostro riguardo, mi
profonde amorevolezze. Ma se per avventura gli muovo parola di questi
o di quegli, Gano mi anguilla, e non mi cava mai di smania.

--Quel disutilaccio è un fantastico uomo: però ha buono il cuore,
bisogna convenirne.

--Propriamente. E poi con voi, messer Oddo, si potrebbe egli esser
cattivo?

--Ah! voi mi lusingate, madonna. Ma l'uomo non può esser nè più buono
nè più tristo di ciò che Iddio lo ha fatto; ecco tutto.

--Ditemi dunque, se il ciel vi aiuta, messere, ond'è che per otto
giorni non vi ho veduto? Ho patita una smania ed uno stringer di
cuore!... Già sapete che voi siete l'ultimo angelo della mia vita.

--Gli è, madonna, perchè ne sono accadute delle grosse, ma delle
grosse assai, veh!

--Non m'ingannava io dunque! Perciò quella specie d'indistinto rumore
che penetrava fino quaggiù, e che per su la corrente del Tevere mi
giungeva! Han dovuto fare dei ben grandi gridori questi pazienti
Romani.

--Gridori? peste! dite diavolerie, madonna, dite baldorie matte. Chè
dalli e poi dalli, è sgrillato alfine questo disgraziato popolo, e si
è scorrucciato il buono ed il meglio.

--Han fatto dunque sommosse?

--Sommosse no, ma presso a poco. Perchè quel galuppo del re Enrico,
domenica mo, il dì delle palme, perdette la pazienza, e senza
brigarsi che fosse o no quel giorno solenne, schiera i suoi soldati
sotto le mura... A vederlo pareva s. Giorgio! Ebbene si lancia a
percorrere le file e dice: neh, figliuoli, a che giuoco giuochiamo
dunque? Credete, pel santo sepolcro! che non avessimo altro a fare
che starci qui, fuori le porte, come mendicanti a dimandar la
limosina e morirci di peste come villani che han mangiato il loglio?
Andiamo su, sacramento! mano alle scale ed alle piccozze; e se oggi
non entriamo ancora noi in Roma, come Cristo entrò in Gerusalemme,
impiccherò alle porte il primo che dà indietro. Venite appresso a
me. Voi, messer Baccelardo, fate giuocare gli arieti: voi, sire di
Cosheim, tempestate coi mangani: voi, monsignor di Ravenna, accostate
i battifredi e spazzate le mura dai difensori: e voi, sire di
Buglione, venite con me alla porta Toscana. Perchè fo voto di quattro
candelabri d'oro a Nostradonna di Goslar, e di due calici preziosi
a Nostradonna di Edessa, se oggi penetreremo in questa matta città,
che vuol fare con noi la curiosa. Andiamo, suonate le trombe ed
all'assalto.

--Anche Guiberto da Ravenna v'era dunque?

--Se v'era! ve lo avrei voluto fare un po' vedere da su le torri come
quel fistolo menava le mani! Dava busse da scantonare il Coliseo.

--E sì?

--E sì, detto fatto, quei demonii, incoraggiati dalle parole del re
e meglio dall'esempio, perchè al primo piuolo delle scale vedevano
sempre lui o quel di Buglione, si rovesciano sulle mura con tanta
rabbia che ne rintronò tutta la città.

--E quei di dentro?

--Peggio che peggio. Accolto il popolo, ed il senato, ed i vescovi,
ed il console, e tutto il mondo, là nel Foro, strepitavano a
sganghera gole, e chi proponeva un matto di partito, chi un altro:
ma partiti da far venir la pelle d'oca! Si trattava quanto meno di
bruciare il papa, cacciare i signori, metter fuoco ai castelli,
aprire le mura... Cane di popolo! anche con me l'avevano, che
custodiva Gregorio qui dentro, sicuro come in un guscio di ferro.

--Povero messer Oddo! sclama la cattiva stendendogli la mano, cui il
castellano baciava. E continuava:

--Sissignora, anche contro di me grugnavano quei cialtroni. Ma il
senato ed i signori consultavano; ed i capitani della contessa
Matilde a gridare: state sodi per Dio! fate animo; la benedizione di
Gregorio ci difende; Gesù Cristo combatte per noi! E que' scomunicati
a fischiare, a strepitare: che benedizioni e benedizioni, un
bischero! siamo digiuni, siamo affamati, le pietre ci rovinano le
case; che Gesù Cristo, e Gesù Cristo! se codesto combatte per noi, si
dia dunque il fastidio di mutar quei macigni in berlingozzi; aprite
le porte; bruciate il papa. Ed ecco che in mezzo a questo parapiglia
si sente gridare di verso porta Toscana che gl'imperiali sono dentro,
e che la bandiera di Enrico sventola sui baluardi.

--Ed era vero?

--Altro! credete che Enrico avesse fatto da burla quando votò
alle sue Madonne non so quante libbre d'oro, purchè avesse potuto
penetrare penetrare là dentro? Il principe Baccelardo da un lato
apre la breccia; dall'altro quel demonio dell'arcivescovo di Ravenna
sfonda i barbacani, spinge il battifredo alle mura, e saltato su con
i suoi bravi Lombardi... ira di Dio! spazzava gente come si spazza la
polvere con la granata, e la rotolava a colmare i fossi. Infine si
fissa sulle mura, e corre verso il punto dove il re dava la scalata:
e che vede?

--Che vede dunque?

--Per la messa! prima di lui, prima di tutti, Goffredo di Buglione
aveva afferrati i merli ed aveva piantato lo stendardo di Lamagna
sui baluardi della porta Toscana. Ma il vescovo Giovanni di Porto,
che ha in corpo più legioni di diavoli lui solo che non ne ebbero
tutti gli ossessi del leggendario, coglie il duca in quell'atto e
lo ferisce con la spada alla testa. Goffredo non rotola giù, perchè
immediatamente dopo di lui saliva il re. Questi afferra il vescovo
alla gola, e strozzatolo, lo precipita nella città sulla testa dei
soldati fuggitivi. Allora giunge anche l'arcivescovo di Ravenna...

--Non era stato ferito Guiberto, non è vero?

--No, che io mi sappia! Ma chi imbecille gli si voleva accostare con
la tempesta con cui faceva correre le percosse? Da sulle mura, il re
da un lato comandava ai suoi di avanzar dentro per la breccia aperta
da Baccelardo, e dall'altro, coperto di ampio pavese, ingiungeva ai
Romani di arrendersi. Questi però fuggivano a collo rotto verso il
Foro onde recare la spaventevole notizia ai primati che consultavano.
Il popolo, il quale non si augurava di meglio, alza un prolungato
grido di giubilo, dicendo: Viva il re! muoia Gregorio! E corre per
essere primo a profferire obbedienza ad Enrico. Ma il console Cencio,
che mutolo aveva lasciato fino allora accapigliarsi il senato, i
patrizi ed i prelati, scoppia e dice: Vi affoghi la peste, poltroni,
giacchè non valete altro che a dir minchionerie, lasciate fare a
chi sa fare. Il nemico è dentro. Si è fatto quanto si è potuto per
difendere, con tanti guai e tanto danno, questo testardo papa, se lo
porti il diavolo! Volete che siamo sgozzati per lui tutti, la città
sia data al sacco ed al fuoco dai Tedeschi? Restate pure ad eruttar
sciocchezze costì, che io so bene quel che debbasi fare in questo
momento. Voi monsignor di Arezzo, e voi monsignor di Modena, venite
meco.

--E che fecero? Io comincio a tremare.

--Eccolo. Fecer da sezzo ciò che avrebber dovuto fare da principio.
Si presentarono al re, il quale aveva fatta sfondare porta Toscana,
e si avanzava nella città alla testa delle truppe schierate in
ordinanza. Sopra un bacino di argento egli, Cencio, portava le
chiavi d'oro di Roma. Lo precedevano due araldi ed un bandieraio
con bianco pennone. Come Enrico li vide, fermò il cavallo; ed essi,
piegando a terra il ginocchio, mormorarono: Piacciavi, o sire, di
accettare le chiavi di Roma, e come i nostri forti antenati entrarvi
da signore e da trionfatore. Il re sorride e risponde: Bel sere,
voi ci offrite cosa che non è più in vostro potere; non pertanto,
mercè. Sire di Cosheim, risparmiate la città. E sì dicendo dava di
sprone al cavallo, ed avendo alla destra l'arcivescovo di Ravenna,
ed alla sinistra Baccelardo, per la via sacra, come Cesare, si reca
al Vaticano. Le sue truppe intanto, giusta l'ordine del re al sire
di Cosheim, senza rompersi a niuna maniera di libidine, come fra i
soldati si suole con le città vinte, condotte dai capitani occupano
in bello ordine dal Laterano al Vaticano, e tutti gli altri castelli
più forti, e vi si mettono a presidio...

--Il duca di Buglione era dunque morto?

--Mai no. Gravemente ferito alla testa dall'azza del vescovo,
riscuotendosi fe' voto di andar a combattere in Terrasanta. E non
passò guari che per miracolo si sentì quasi sano.

--Sicchè dunque il padrone di Roma è adesso l'imperatore?

--Proprio lui. Perocchè, il giorno di poi, l'arcivescovo di Ravenna
fu esaltato alla sede romana dai cardinali. E se aveste veduto che
funzioni, madonna! Egli si presentò ad essere adorato a San Giovanni
a Laterano sopra un cavallo morello che pareva volesse inghiottire
il Campidoglio, con il suo bravo giaco di maglia addosso, cosciali e
schinieri e bracciali e manopole, quasi si presentasse alla pugna, ed
in testa l'elmo d'oro massiccio con l'aquila al cimiero, dono del re,
coprendo la spada ed il pugnale che cingeva del manto ponteficio, il
quale era proprio uno spanto a guardare. Che sì, che egli lo aveva
conquistato il ponteficato! Il dì 24 marzo infine fu consacrato nella
chiesa di San Pietro dagli arcivescovi di Arezzo e di Modena.

--Guiberto è dunque vero papa, sclama la cattiva, arroventando nel
volto che levava verso il cielo.

--Papa, arci-papa, continua il castellano, ma noi fummo qui bloccati
a non lasciarci passare neppure l'aria pel respiro. E bisogna dire
che questi birboni di Romani non intendano mica affatto saperne di
noi; perchè se li aveste veduti a far baldoria il dì di Pasqua,
quando il re Enrico con Berta sua sposa entrò solennemente in San
Pietro, vi avreste fatta la croce. Io credo che nemmanco i cani ne
vogliano più di questo povero vecchio pontefice, che in altri tempi
adoravano della faccia nella polvere.

--La sventura è la stessa per tutti, dice la donna sospirando.

--Deve essere infatti così, continua Oddo, poichè tutti insieme, col
senato e col console Cencio, accompagnarono il re, che da San Pietro
si recò trionfante al Vaticano onde aver cinta la corona imperiale
da Clemente III--tal nome si è imposto a Guiberto--ed allora tutti
a gridare: Evviva l'imperatore! evviva l'imperatore! _alleluia!
alleluia!_ Poi si recarono al Campidoglio, donde i fanti tedeschi
sbrattarono un residuo di gente papale, e quivi il senato ed il
console confirmarono Enrico patrizio di Roma, tra l'entusiasmo del
popolo che non aveva freno. Plebe sgualdrina! Non avrebbe ribrezzo
domani di lapidare quest'altro suo idolo!

--Sicchè dunque a papa Gregorio non resta più alcuno di tanti fedeli?

--Eh! madonna, quando la fedeltà non viene dal cuore e non si
accompagna con l'amore, non dura mai troppo. L'ultimo baluardo di
questo povero vecchio era la contessa Matilde, che si cacciò tra i
guai di lui fino al collo. Ma dalli e dalli, poteva essa sola far
fronte a tutta Europa, con cui mastro Ildebrando aveva attaccate
brighe, e che gli gridava il _crucifige_? È stata rotta in parecchie
avvisaglie la fedele castellana dai trecento castelli; le han portati
via tutti i forti dei suoi Stati; ha sprecate le sue ricchezze in
queste sterili lutte; ed ora anch'essa, la sventurata! va profuga e
raminga pei suoi deserti dominii onde non cadere in mano dei nemici,
invisa agl'Italiani, abborrita dai Tedeschi, proclamata santa ed
eroina solamente da un branco di fanatici faziosi. Sia come si vuole
però, bisogna dire che come Matilde, con la vostra sopportazione,
madonna, nascano ben poche donne.

--Ed i miei Normanni di Puglia, messer Oddo?

--Ma! Il principe di Capua, Giordano, fa lo gnorri: il conte Ruggiero
pettina i Saraceni di Sicilia: Roberto Guiscardo bada ai suoi malanni
domestici in Grecia: e perchè i Tedeschi non gli avessero a far
trovare occupato il proprio focolaio, come nell'anno passato, ha
novellamente mandato qui a patteggiare alleanza col re quel capestro
del vescovo di Bovino, e quel bravo figliuolo di Boemondo.

--Boemondo è dunque in Roma, messere? grida la donna in un tremito di
gioia.

--Almeno vi era, madonna, il dì della coronazione--salvo poi non sia
tornato di bel nuovo da suo padre.

--Ah! messer Oddo, sclama Alberada cadendogli ai piedi, che Iddio vi
consoli di tutte le gioie, che la pace degli angioli vi renda serena
la morte, ed il compenso del paradiso...! Messer Oddo, ve ne supplico
con la faccia per terra, fate che io veda questo giovane, fate che
abbracci mio figlio.

Il castellano si stringe nelle spalle e gratta il capo, poi dice:

--Uhm! uhm! Ciò è più facile a domandare ed a promettere che a
tenere. Ad ogni modo, vi prometto, madonna, che se Boemondo si trova
ancora in Roma voi lo vedrete, e dovessi precipitarmi dall'alto
delle torri per uscire dal castello. Ora venite meco. Dovete aver
fame, povera figliuola! perchè ieri ancor voi siete stata digiuna.
Già non avrò che darvi neppure lassù. Ma una determinazione bisogna
bene che papa Gregorio la prenda, non fosse che a cavarsela con una
burla o con un miracolo. Vedremo: questo stato di cose non può durar
lungamente.

--Non badate a me, messer Oddo. Che mi giovano alcuni giorni di
vita di più? Curate la vostra persona, curate gli anni vostri, che
spendete a bene degl'infelici.

--Andiamo, andiamo, madonna. Ve l'ho già detto le mille volte che io
non voglio di codesti vezzi che mi farebbero saltare in boria, se io
avessi conosciuta mai questa bestial passione. Gran chè che io faccia
un tantino di bene a creature buone come voi, quando lo possa. Ma
come si fa a strapazzarle, io dimando? Che cosa è? Sento un suono
quasi di campane; sarà mezzo dì. Andiamo, figliuola mia, non facciamo
noi aspettare mastro Gregorio che per nulla salta in bestia come una
cavalla viziata.

E sì dicendo dava il braccio ad Alberada che lo seguiva a passo mal
fermo, e si trovavano nella corte, al punto stesso che il capitano
della guarnigione si metteva alla testa dei suoi. Gano spuntava da
una parte con gli altri cinque prigionieri, e Gregorio da un'altra,
con le braccia conserte sul petto, sereno nel viso, sodo nell'andare.

Egli si trasse avanti le linee dei soldati, e dopo alquanto di
silenzio, durante il quale quella gente rozza e niente affatto doppia
pendeva dal tranquillo suo volto, come da quello di un santo da cui
si aspetta miracolo, parlò:

--Figliuoli, voi vi siete condotti da uomini valorosi e fedeli. Io
rendo testimonianza dell'opere vostre innanzi al mondo ed innanzi a
Dio, e ve ne ringrazio; e vi ricolmo di tutti i tesori celesti che
con la santità del mio ministero posso prodigare. Il cielo vi avrebbe
destinati per le sante corone dei martiri; ma io non sarò quel
temerario che affretterà i decreti della provvidenza. Avete fatto
il vostro dovere; avete combattuto da bravi; tenuta la rocca salda
a fronte di migliaia di nemici. Gloria a voi, gloria all'Eterno che
per mezzo vostro volle confondere i Madianiti! Ora però siamo giunti
ad un punto in faccia a cui gli è mestieri recedere. Il nemico ci ha
affamati. Si è servito dell'arma dei codardi perchè l'arma dei forti
gli fu spezzata in pugno da Dio. Io resterò qui.

--Voi? sclamano ad una voce Oddo ed Uguccione.

--Io resto qui, continua Gregorio. Quando il Signore mi elesse a
custode dei suoi figliuoli mi diede a divisa: _Persevera, e sii
saldo come le fondamenta del Libano_. Debbo compiere il mandato sino
alla morte. Voi uscirete ed andrete nella pace del Signore; perchè
mi piace lusingarmi che i Filistei non vorranno essere vigliacchi
al segno di farvi vitupero. Voi rivedrete le vostre spose, i vostri
figliuoli, e recherete loro le mie benedizioni. Io avrò memoria
dei travagli che patiste per me. E se deserto da tutti, e ridotto
a morirmi di stento, nulla posso concedervi ora, fidate in quel
Dio che provvede di penne gli augelli, il prato di fiori. Andate:
spiegate bianco pennone in segno di resa. Ma prima, se qualcuno ha
nulla da dolersi di me, che mi perdoni come vorrà esser perdonato
nell'ultim'ora sua: la carne è inferma.

--Benediteci, santo padre, benediteci, sclamano tutti ad una voce,
cadendo in ginocchio. E Gregorio alza la sua terribile mano e
continua:

--Capitano, a voi ancora le mie grazie per la vostra prode difesa, a
voi ancora le mie benedizioni. Precedete i vostri. A voi poi, messer
castellano, nulla dico, perchè ogni parola malamente vi esprimerebbe
l'ammirazione, e la riconoscenza che vi debbo. Siete uno di quei
pochi uomini che nella mia difficile carriera ho trovati più probi e
di sentimenti più nobili. Con vero dolore mi accommiato da voi. Fate
aprire le porte del castello ed uscite alla testa della guarnigione;
perchè non istà bene che la fame abbia a privare la terra di così
eletto modello di uomini. Io penserò a richiudervi dietro le porte.

Oddo fa un movimento di dispetto, alza le spalle e volge altrove la
testa. Gregorio continua:

--E voi ancora, sacerdoti di Dio, dice volgendosi ai prigionieri,
andate in pace. Se mi chiamaste severo perchè volli ritrarvi, anche
vostro malgrado, dalla via dell'iniquità, e rammentarvi l'augusto
vostro dovere, verrà il dì che mi renderete giustizia; e guai a voi
se fino a quell'ora non vi sarete ravveduti. Andate, andate tutti. In
nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

E sì parlando, alzava di nuovo quella destra tremenda che avea scossi
i sogli d'Europa, e benediceva quella gente, che, sciolta in lagrime
e caduta in ginocchio, protestava altamente voler morire con lui.
Ma Gregorio non accetta il generoso sacrifizio, e per quei suoi
modi incisivi e quella parola autorevole a cui niuno aveva forza
resistere, reitera l'ordine al castellano di aprire le porte.

Il conte Oddo non replica verbo. Si avanza ad una porta di soccorso
e, fattesi recare le chiavi, comanda si togliessero le spranghe ed
alzassero le cataratte, ed apre. Allora quei soldati, mesti in viso
e nel cuore addolorati, preceduti dalla bandiera e dal capitano,
sgomberano la piazza e si costituiscono prigioni del re. Oddo rimane
immobile presso la porta che avea fatta schiudere. E come ebbe veduti
uscire l'un dopo l'altro tutti queglino della guarnigione di rinforzo
e con essi i prigionieri, onde il nemico non avesse profittato del
caso e si fosse cacciato dentro, richiude subitamente e dà le catene,
ordinando al suo vecchio presidio, che era restato fermo al suo posto:

--Ritornate alle mura, voi. Mi porti il diavolo se dovrete voi
correre sorte diversa da quella del vostro vecchio capitano.

E quei soldati voltano le spalle e partono. Gregorio li guarda fare
senza dir motto. Appena però che si furono trovati soli, fissa gli
occhi fatti lucidi dalla commozione addosso a quell'uomo, e dimanda:

--E voi, ser castellano?

--Io? borbotta Oddo. Beatissimo padre, io non ho risposta parola
agli elogi che vi siete brigato di farmi, perchè andava considerando
che un uomo come voi, un vecchio prete ridotto a questi estremi,
non dovesse avere gran fatto la frega di andar burlando la gente.
Ma a questo novello insulto, per la messa, non so starmi dal dirvi
che siete veramente curioso d'umore. Io? dimandate: avreste dunque
voluto che avessi accettato il vostro bel partito d'andar via così,
come un ladro dal verziere, ed abbandonare il mio posto da codardo?
Per la croce! qui mi ha collocato l'immortale memoria di Enrico
III, col consentimento ed elezione del senato e del popolo romano.
E sapete voi quel che mi disse colui quando del castello m'investì?
«Bada bene, messer conte, che questa rocca, in tempi migliori, era
un sepolcro, e che una volta penetrato qui dentro, niuno ne andò
mai fuori se non cadavere. Tu dunque allora cederai questa piazza
a chiunque si presenterà alle sue porte da nemico, e fossimo noi
medesimi, quando cenere te ne verranno a cavare.» Avete udito? Io lo
giurai. Ed il conte Oddo da Nemoli non ha mancato mai nè alle sue
parole, nè ai suoi giuramenti. Sappiatelo.

Gregorio non risponde, ma facendogli un passo incontro, se lo stringe
nelle braccia come fratello, e con voce commossa, sclama:

--Morremo insieme.

Allora la donna, ch'era restata in dietro durante tutta quella scena,
si tragge avanti e dice:

--Santo padre, non favellate di morte: vi è ancora una speranza.

--Alberada, grida Ildebrando retrocedendo di un passo, e perchè con
gli altri non siete uscita ancor voi?

--Perchè, santo padre, io, sventurata in tutta la mia vita, non so
separarmi dagli sventurati. Nei giorni della vostra fortuna, forse
beneficata da voi, vi avrei abbandonato. Ma nell'ora delle vostre
miserie, da voi cotanto aspramente trattata, non ho saputo dipartirmi
prima di avervi detto che vi perdonava, onde, andando a render conto
a Dio delle opere vostre, possiate ripararvi di questo scudo.

Gregorio, con la fronte annuvolata e bassi gli occhi, medita lungo
tratto pria di rispondere, poi soggiunge:

--E veramente tu mi perdoni, Alberada?

--Di poca fede! lo rimprovera colei. Cristo non perdonò egli forse
i suoi nemici? In altri tempi mi sarei mostrata inesorabile. Ora
che conosco le triste vicende della sorte e le amaritudini della
vita, ora che sento avvicinarsi il periodo del rendiconto, voglio
inebriarmi del soave diletto del perdonare. E l'Eterno possa usare
misericordia ancora alle mie peccata.

--Pia donna, che Iddio ti esaudisca e ti prepari giorni migliori!
Sento che io non posso per te far altro che ammirarti, ed impetrare
dal cielo le gioie che, per inesorabile destino, ti ho tolte.

--No, santo padre, voi potete ancora qualche altra cosa. Promettetemi
di non arrendervi se prima non mi rivedrete venire in questo castello
a correre una sorte con voi. Io andrò fuori, ed Iddio forse benedirà
i miei passi, come benedisse quelli di Giacobbe e di Giuseppe.
Cercate accordi all'imperatore, procrastinate la resa fino a che io
non ritorni. Ho un presentimento.... Basta, non mi rifiutate questo
grazia.

--Ma che mediteresti tu di fare, Alberada?

--Ciò che io solamente posso, se Iddio vorrà secondare le mie
speranze, come secondò quelle di Giuditta.

Ildebrando la fissa in volto attentamente, poi dimanda:

--Tenteresti forse anche tu, Alberada, l'opera santa della Betuliese?

--Io non sono destinata ad opere di sangue, Ildebrando, quella
risponde, la mia missione è di pace e di carità. Astenetevi, ve ne
supplico, dall'interrogarmi. Le inspirazioni celesti non sottoponete
allo squittinio degli umani giudizi. I vostri dubbii mi potrebbero
sconfortar dall'impresa: ed io avrei un giorno a rimproverarmi del
male che vi potrebbe avvenire. Mi promettete voi di non cedere, se
pria non avrete novella di me?

--Te lo prometto, Alberada. Acconsentirò a tutti i patti del
Filisteo: ma di qui non uscirò se pria o tu non verrai a cavarmi
d'ogni speranza, colui, nell'ebbrezza dei suoi trionfi, come a
Canossa, non si umilia ai piedi miei. Va, l'angelo di Tobia ti sia
per compagno.

E sì dicendo, Alberada s'inginocchia e Gregorio la benedice. Il
castellano, che senza muover ciglio e tutto commosso nel cuore aveva
udito il colloquio, l'abbraccia e la bacia sulla fronte; poi apre la
postierla e fa uscirla. Indi rinchiude ed a passo lento, unitamente
al pontefice, ambedue taciturni, rientrano nel castello.

Dopo un'ora, dall'alto delle torri, un verrettone con una pergamena
tra le penne cadeva in mezzo ai soldati di Enrico che assediavano il
castello.



IV.

  Irons-nous de l'histoire arrachant les trophées?

                                     CASIMIR DELAVIGNE.


Ci giova sperare che il lettore non abbia dimenticato un personaggio
di questa cronaca che abbiamo dovuto necessariamente lasciare
indietro. Per colpa nostra avrebbe obliato uno dei più interessanti
uomini dei tempi di mezzo. Parliamo di Roberto Guiscardo. E perchè
questi deve di nuovo così gloriosamente ricomparire sulla scena,
accenneremo volando volando delle sue cose dopo la presa di Salerno.

Ravvicinatosi con Riccardo di Capua, invasero le Marche d'Ancona e vi
fecero gran conquisto di paese. Gregorio irritato dell'affronto, e
volendo arrestare l'audacia dei conquistatori, nel concilio di Roma
pronunziò contro di loro scomunica e li privò degli Stati. Ma perchè
gli anatemi non affettavano uomini di ferro, i quali non conoscevano
altra legge che la spada, altro dominio che la forza, mandò loro
contro le truppe del marchese di Toscana e li strinse ad abbandonare
le terre occupate. Roberto, che aveva invasa la campagna di Roma
solamente per far sentire l'energia del suo potere all'arrogante
pontefice, si ritirò decorosamente, ed il principe di Capua mandò
all'assedio di Napoli. Egli accampò sotto le mura di Benevento.

Questa città, dopo la morte di Landolfo VI, era ricaduta alla
Chiesa. Roberto voleva impadronirsene. Ma papa Gregorio, con le
solite scomuniche, mandò tali rinforzi di scorte e di truppe che
Roberto, fastidito dalle lungherie dell'assedio, lascia un manipolo
di soldati al blocco e si reca in Calabria. Morto Riccardo, suo
figlio Giordano libera dall'assedio Benevento. Roberto riviene in
Puglia, prende Ascoli, Montevico, Ariano, e sul fiume Sarno va a
presentare battaglia a Giordano. Desiderio, abate di Montecassino,
si interpone, li rappacia. Roberto sottomette ancora Monticulo,
Carbonara, Pietrapalumbo, Monteverde, Genzano e Spinazzola, e nulla
curando più Benevento, lascia che restasse in potere del pontefice e
si contenta di signoreggiare quanto oggi forma il reame di Napoli,
meno il piccolo ducato di Napoli, il principato di Capua ed il ducato
di Gaeta, dominati da Giordano. E' sarebbe stato lieto, e fortunati
i suoi popoli, perchè gran mente aveva nel reggimento civile, ma
domestiche sciagure lo chiamarono altrove.

Egli aveva sposata la sua figliuola Elena a Costantino figlio
dell'imperatore di Costantinopoli Michele Ducas. Niceforo Botoniate,
avendo discacciato Michele dall'impero d'Oriente, lo aveva fatto
tosare, confinare in un monistero e castrare Costantino. La miseria
della sua figliuola e l'oltraggio penetrano il cuore di Roberto che
giura pigliarne terribile vendetta.

Provvede al governo dei suoi Stati d'Italia, poi con la duchessa
Sigelgaita, Boemondo, e bell'esercito s'imbarca ad Otranto. Giunti
nel 1081 a Corfù, l'invade. Alessio Comneno, succeduto a Botoniate,
gli manda tosto incontro formidabile armata; ma in più battaglie
rotta, non giunge ad ostacolare il duca, sì che non espugnasse
Durazzo, padroneggiasse l'isola, e spingesse le truppe vittoriose
fino in Bulgaria. Ridottosi infine a svernare a Durazzo, nel novembre
del 1083, ed instruito che Alessio con molti ricchi donativi e larghe
promesse andava proponendo all'imperatore Enrico perchè invadesse
Puglia e Calabria, mandò a costui in Roma il vescovo di Bovino e
l'astuto Boemondo. E questi, facondo dicitore, abbindola Enrico e lo
fa chiaro, che dopo lui non eravi chi più travagliasse il cuore di
Gregorio fuor di Roberto, e Roberto niun peggio tollerar di Gregorio.
Enrico gli pone fede, e si pattuiscono onorevoli convenzioni il dì 30
marzo 1084, il giorno avanti della Pasqua in che Enrico fu coronato.

Ed una sera Roberto, che nulla ancora degli accordi sapeva e di
saperli smaniava, dai veroni del castello di Durazzo vede spuntare in
alto mare una galea, cui forte vento gonfiava le vele latine ed alla
città dirigeva; e dopo non molto ne scorge una seconda che studiava
tenerle dietro. Egli manda subitamente al porto per ricever novelle
de' suoi Stati, se pur di colà quei vascelli fosser partiti.



V.

  Perzho non dei amor ocaisonar
  Tam cum los oilliz et cor ama parvenza,
  Car li oill sin dragoman del cor,
  E ill oill van vezer
  Zo col cor plaz retener.

                                     EMBLANCHACET.


Roberto non s'ingannava. La sua bandiera sventolava su la galea
che a vele gonfie entrava nel porto di Durazzo, ed era su quella
il suo flgliuol Boemondo. Nell'altra un legato dell'arcivescovo di
Ravenna con seguito brillante di cavalieri e di ecclesiastici, e
misto a staffieri, paggi e chierici un romeo, che a forza di prieghi
aveva ottenuto esser quivi traghettato per poscia condursi in Terra
Santa. Quella gente tirò dritto all'albergo del duca, il quale,
udito del messo, nobilmente lo accolse. Questi era Rolando da Siena,
quell'ardito chierico che in mezzo al concilio di Roma aveva osato
intimare a papa Gregorio gli ordini dell'imperatore Enrico. Roberto
lo festeggiò di ogni onorevole e lieto accoglimento, imperciocchè,
oltre della divisa di oratore, altamente aveva Rolando lasciato dire
di sè e nelle guerre di Germania ed in quelle d'Italia, e da sezzo
nello assedio di Roma, ove tra i più distinti e valorosi cavalieri si
era allogato.

La sera si trascorse a novellare di guerre e di prodi fatti di
parecchi cavalieri, che Rolando aveva conosciuti, e di cui Roberto
onorevolmente aveva udito favellare. Alla dimane però, come questi si
recava nella gran sala per dargli udienza, ed ascoltare del messaggio
di papa Clemente, l'araldo d'armi gli annunzia ancora un legato di
papa Gregorio che dimandava medesimamente essere a lui presentato.
Roberto maravigliato e nel tempo stesso lusingato del doppio
messaggio, comanda che, esaminati i brevi di credenza dell'oratore di
Gregorio, lo si facesse entrare.

In effetti, perchè tutto a punto si trovò, nel mentre di un uscio
spuntava Rolando con seguito numeroso, di un altro, solo e modesto
appariva il romeo. Rolando si ferma a due passi dal soglio,
coperto da baldacchino, sul quale sedea Roberto involuto nel ducal
paludamento, in testa la corona. Ma il romeo procede fino ai gradini
di quel soglio, e presa la mano di Roberto per baciargliela, solleva
di alcun poco il capperuccio, e con voce sommessa e commossa sclama:

--Messer duca, in nome di Dio! arrendetevi alle parole che sto per
dirvi.

A quell'aspetto, a quell'accento, Roberto trasalisce. Mutato di
colore, per isfuggire lo sguardo penetrante di Sigelgaita che attenta
lo fissava, stringe la mano del romeo, e quasi del troppo ossequio di
lui peritasse, risponde:

--Mercè, santo pellegrino! tocca a noi poveri peccatori tributarvi
questi segni di veneranza.

Il romeo si alza e trattosi indietro attende che giungesse il suo
momento di favellare. Rolando intanto per uno sguardo che aveva
qualcosa di schernevole e di curioso lo sta a considerare un tratto,
poi voltosi al duca favella:

--Monsignore, il santo padre Clemente v'invia salute ed apostolica
benedizione. Penetrato della divozione che avete dimostrato alla
Chiesa, malgrado gli oltraggi dell'antipapa Gregorio, non ha
voluto soffrire che più lungamente sì nobile guerriero giacesse
nell'interdetto. Mastro Ildebrando vi fece gravi torti. Papa
Clemente, che da lunga stagione vi conosce ed ammira, mi manda a voi
per togliervi la scomunica indebitamente fulminata.

--Gran mercè, ser. Rolando, al papa ed a voi che ci gratificate di
questi attestati di amore. Gli è ben vero che Gregorio agì con noi
ostilmente. Ei credette poter aggravare la mano, postaci sul collo
da Niccolò II, e si allucinò. Doveva rammentare che i tempi non eran
più quelli, e che noi non eravamo davvero vassalli della Chiesa,
conciossiacchè tali ci fossimo profferiti un dì che la fede dei
popoli, da noi conquistati, ci parve vacillare. Spero in Dio però che
a quest'ora e' si sia ricreduto; dappoichè, ad onta delle reiterate
scomuniche, ci ha sempre secondato sorte avventurosa. Pace dunque
allo sventurato; ed abbiate la cortesia, messer Rolando, di esporci
cosa mai la santità di Clemente III righiegga, in compenso della
benedizione che ci manda.

--Nulla di più, monsignore, di quello che per gli altri pontefici
avete fatto. Egli vi accorda investitura degli Stati finora da voi
conquistati in Italia, e di quelli che in Grecia saprete conquistare:
egli vi richiama nel grembo della Chiesa, e, come figliuolo della
Chiesa, vi benedice. Non richiede perciò da voi, monsignore, se non
che, come cristiano e come vassallo della sede di Roma, gli giuriate
fedeltà e prestiate omaggio.

--Se il mio nobile padre volesse degnarsi di concedermi la parola,
sorse a dire Boemondo, io risponderei....

--Cosa risponderesti? domanda Roberto un po' accigliato.

--Io risponderei a costoro, che noi non abbiam conquistato le terre
d'Italia per servire ad alcuno: che quelle terre noi affrancammo
dal dispotico giogo dei Greci, o sottraemmo all'insolente dominio
degl'imperadori di Occidente: che questi soli dovrebbero domandar
segno di ossequio da noi, ove noi volessimo accordarne a gente che
ben sapremmo ridurre a ragione con la spada. Ma al vescovo di Roma
che briga poteri per niuna maniera dovutigli, e ricorre alle armi
spirituali da Dio non concesse per profanarle in usi sacrileghi,
risponderei....

--Figliuolo, Roberto lo rampogna, il vostro senno si farà maturo
cogli anni, ed allora vi chiameremo a darci consigli. Per ora
piacciavi di ascoltarci e di apprendere con quale temperanza si
governino i popoli.

Sigelgaita, che odiava Boemondo perchè figlio di Alberada, approva
della testa. Roberto continua:

--Voi dunque, messer Rolando, risponderete all'arcivescovo di
Ravenna, o, se meglio vi piace, a Clemente III, che noi non siamo
per verun modo alieni dal profferirgli quei segni di veneranza che
ci piacque profferire ai suoi antecessori. Però papa Gregorio vive
ancora, nè ancora è decaduto dalla sedia di Pietro. Che perciò noi,
fedeli alla Chiesa ed addolorati del suo scisma, ci asterremo dal dar
prove di rispetto al novello pontefice per tema che il nostro esempio
non seduca altrui. Ma faccia che il consentimento di tutti i prelati
d'Europa lo proclami vero pontefice, ed allora noi gli giureremo
obbedienza, e torremo qualunque fede ad Ildebrando.

--No, monsignore, lo interrompe il romeo, questo voi non farete,
perchè vi condurreste da disleal cavaliere. Lasciate da banda il
debito di fedeltà che vi stringe a Gregorio. Rammentatevi solo
che, innanzi di esser vassallo della Chiesa, foste cavaliere; e
come cavaliere vi urge il dovere di proteggere l'innocente e di
soccorrere il caduto. Gregorio VII è assediato nella mole di Adriano.
A quest'uomo, monsignore, che, giorni sono, camminava sulle teste
dei re, manca il pane per alimento. E voi che siete il più grande di
questo secolo, vi stareste come una femminuccia dal soccorrerlo, sol
perchè alcuni anni indietro corse briga fra di voi? No, monsignore,
voi imiterete il suo esempio e lo gioverete, perchè egli si è volto a
voi come al più generoso de' suoi nemici.

--Ah! ah! si ricorda di noi adesso, perchè l'incendio che ha
destato in tutta la cristianità è per divorarlo? sclama Roberto. Ma
quando favellava di noi in tutti i concilii come di un corsaro, ci
scomunicava, con suggestione ci ribellava i vassalli, e ci osteggiava
con le armi della contessa Matilde, allora noi non eravamo generosi,
nè si parlava di quei fratelli Maccabei tanto predicati. Allora
noi eravamo Madianiti, scellerati, schiuma d'inferno; allora non
sognava neppure che questo giorno avrebbe potuto venire, che la spada
tentata spezzare avrebbe potuto armargli il braccio. Non lo avrebbe
pensato allora? Ebbene, che sorba adesso fino all'imo la tazza della
sventura, perchè non saremo già noi che gliela verremo ad addolcire.

--Con la vostra licenza, monsignore, il vostro consiglio non è nè
cristiano nè nobile, riprende il romeo. Se Gregorio VII vi avesse
ricolmo di favori, e voi lo aveste soccorso nelle disgrazie, non
avreste che compiuto un dovere. Or vi dimando io, monsignore, che
diranno i popoli di voi, se vilipeso, perseguitato indebitamente e
messo a bersaglio di ogni maniera di danni da Gregorio, vi levate
contro i suoi nemici e dite: ritraetevi, per Dio, quest'uomo difendo
io!

--Dicano ciò che lor piace, risponde Roberto alzando le spalle. Noi
non corriamo più dietro alla nominanza. E se pure questo solletico ci
stimolasse ancora, crediamo aver fatto qualcosa per esserne paghi.

--Certamente, monsignore, continua il romeo, certamente l'avvenire
vi ammirerà perchè, disceso in Italia solo e povero, la schiavina di
pellegrino addosso, il bordone nelle mani, vi siete levato a tanto
alto potere e fatto padrone di sì vasto e bel paese, resistendo in
cento battaglie a due imperatori, molti pontefici, e tutti vincendo.
Vi ammirerà perchè con tanta sapienza governate e prosperate i
vostri popoli, vi rendete loro caro, e temuto ai nemici. Ma i tempi
antichi vantano altresì uomini che vi somigliano. Però se violentate
il vostro cuore, soffocate la vendetta, e prestate aita al vostro
nemico, una voce si leverà allora per li due imperi che vi proclamerà
unico e generoso.

--Queste le son vampe da mandare in succhio un guerrier nuovo, ser
romeo; me non solleticano.

--Sibbene, monsignore: ma riflettete che l'Italia, la Germania, la
Francia, Europa tutta, ha fornito il suo contingente di truppa contro
questo ardito pontefice per abbassarlo, e che se voi solo sorgete
contro tanta massa di popoli e li sconfiggerete, la vostra gloria non
avrà limiti. Il vostro nome suonerà prodigioso dovunque è venerato il
nome di prode. In guisa che, se anche per disavventura la vittoria
vi fallisse, oltre le benedizioni del cielo e del pontefice ed il
soddisfacimento della propria coscienza, ognuno sarebbe sforzato a
confessare avervi oppresso il numero, non il valore.

--E questo è quello che noi non vogliamo, ser romeo. Ci darebbero
dello stolto, dell'improvvido; ed un fatto solo distruggerebbe
l'opera di tanti anni. Noi non siam tali, quel sere, da mettere sui
dadi la nostra fortuna. Gregorio suscitò il vespaio: il malanno se
l'abbia lui.

--Con la vostra permissione, mio nobile padre, sclama Boemendo,
vorrei manifestare il mio avviso.

Roberto lo riguarda fittamente quasi volesse scandagliarlo
nell'anima, poi dice:

--Favella pure.

Boemondo riprende:

--Vi dimando perdono, signore, se la mia poca sperienza mi allontana
dal vostro consiglio. Il guerriero non numera i nemici che deve
combattere, come l'ebreo i pezzi d'oro che presta. L'opera del
calcolo non è più l'opera del valore. Il valore sta dove il periglio
è maggiore, dove si frappongono gli ostacoli; e fatto di cavaliere
non è sicuro coi cento rompere i dieci. Ma se noi soli, noi, figli di
una nazione che ha soggiogata l'Europa, andremo in piccolo e risoluto
drappello ad urtare l'enorme massa di combattenti accalcata su papa
Gregorio, allora il nostro nome sarà distinto nei volumi delle
cronache, ed i trecento delle Termopili non saranno più soli.

--Nobile giovane! sclama il romeo di voce commossa e diversa affatto
da quella con cui aveva favellato sino allora.

E faceva già un passo verso di lui per abbracciarlo, allorchè vede
Sigelgaita, la quale fino a quel momento lo aveva considerato
con un'attenzione come se avesse voluto divorarlo, la vide quasi
all'insaputa sua sollevarsi dal seggio. E' si arresta. E Sigelgaita,
dopo alquanto di silenzio, osserva ghignando:

--Chi direbbe che tanto entusiasmo si annicchiasse in un romeo che mi
ha l'aspetto e la voce di una femmina?

--Perdono, madonna, la voce e l'aspetto lo dà Iddio: che può fare
l'uomo se ha la disgrazia di altrui dispiacere?

--Proprio così, bel santo! E non è già Iddio che s'incolpa se l'uomo,
per ostentare venustà femminile, si taglia i peli del volto, e la
donna, per correr libere venture, assume abito virile.

Il romeo resta colpito dalle parole di Sigelgaita, e fisando il
suo occhio sereno sovra di lei, che torva ed irata lo contemplava,
soggiunge:

--Mi avveggo, madonna, che ho avuta la sfortuna di esserle
malgradito. Mi lusinga però la persuasione che ciò non sia per
effetto del mio messaggio; perchè chi non sa quanto la duchessa
Sigelgaita agogni perigli di guerra ed azioni generose, in cui
raccoglie sempre la corona dei forti? Ardisco perciò supplicare ancor
lei, che voglia persuadere il suo nobile sposo recarsi a soccorso del
pontefice.

--Che ti affoghi la peste, mariuolo di pellegrino! scoppia Rolando
che or rosso, or verde nel sembiante si era a mala pena contenuto
fino a quel punto. Che domine affastelli tu, con codesti guaiti da
sgualdrina, di pontefice e di Gregorio? Per la santa luce di Dio! il
pontefice è Clemente, e mi sento prurito di strozzare chiunque voglia
venirmi a cantare altra solfa. M'intendi? Ed a dire che ho raccolto
con me nella galea quel bel mobile di un tisico!

--Messer legato, voi mi fate ingiuria indebitamente, ed io affido a
Dio la cura di dimandarvene conto. Voi avete esposto il messaggio
del vostro padrone, ed io mi sono taciuto, perchè ciò mi conveniva.
Non so perchè però voi sorgiate ad insultarmi quando io prego di
porgere ascolto alle instanze dello sventurato Gregorio. Se non
il riguardo di me, messere, perchè pei vinti non v'han riguardi,
dovevate rattenervi per quella nobile dama, e per questo giovane, che
è nell'età di apprendere azioni civili e generose.

Rolando stava lì per rispondere, ma Roberto gli taglia la parola,
tanto più che ferocemente vedeva accigliare il suo figliuol Boemondo,
e soggiunge:

--Signori, abbiamo udito le proposte di ambo i pontefici, ed in
che modo essi intendano valersi dell'opera nostra. Prima di darvi
risposta e' ci è d'uopo riflettere alle condizioni in cui ci
troviamo, e ciò che a noi convenga di fare. Udremo ancora i nostri
fedeli, e domani sì voi, ser romeo, che voi, messer Rolando, saprete
il partito a cui saremo per appigliarci.

--Voi farete il vostro piacimento, monsignore, risponde Rolando, e
vi atterrete a quel consiglio che stimerete il migliore. Però gli
è bene che abbiate presente, la parte di Clemente esser quella di
tutta Europa, e che i scarsi e mal sofferti proseliti di Gregorio
tornano esosi ad ognuno come il loro capo. Vi rammenterete inoltre
che l'obbedienza cui giurerete a Clemente è garante delle grazie che
troverete presso di Enrico, e delle quali, se mal non mi avviso,
avete pur d'uopo; imperciocchè questi è in Italia ed alla testa
di armata potente, e voi, mentre battagliate in paesi stranieri,
lasciaste sguarniti e poco difesi gli stati di Puglia e di Calabria.
Voi siete prudente ed avveduto, monsignore; le troppe parole tornano
inutili.

--Mercè dunque della pena che vi prendete di dirle, messer legato,
risponde Roberto crollando il capo bruscamente. Le considerazioni
che dovremo fare ben sappiamo. Voi tentate d'intimidirci con codesto
prospetto, ma perciò appunto c'indurreste a correre dal lato
opposto, perocchè noi amiamo andar mai sempre contro l'opinione e
l'aspettativa d'altrui. Nondimeno, a domani, messer legato.

--Ed io, monsignore, soggiunge il romeo, mi rassegno innanzi al
voto che sarete per profferire. Alla perfine, se tutti gli uomini
abbandoneranno lo sventurato sacerdote, lo proteggerà Iddio che suol
farsi compagno degli oppressi. Tra le sue disgrazie avrà sofferta
ancora l'onta del rifiuto, ed il disinganno di aver pensato generoso
il nemico. Temistocle non avrà trovato il suo Serse.

--Ser pellegrino, lo rabbuffa Roberto, Gregorio VII, creatura
orgogliosa che giammai avventurò nè parole nè opere, sapeva meglio di
voi a qual uomo si dirigeva. Andate, ed a domani.

E sì dicendo si alzava, ed i messi, inchinandolo, uscivano.

Dopo un poco di silenzio, Sigelgaita fissa gli sguardi su Roberto e
dimanda:

--Messer duca, non conoscereste voi per avventura quel romeo?

Roberto resta sorpreso della dimanda, ed a sua volta considera la
faccia di sua moglie fatta pallida. Poi, freddo freddo, risponde:

--No.

Sigelgaita piega gli occhi, e senza dir motto, esce.



VI.

  Ben ai omais qeu sospir, e qeu plaigna
    Qab parc lo cor non part, qan me recort
    Del bel solaz, del ioi e del deport.

                                PERIOL D'ALVERNIA.


La notte era inoltrata, tutti nel castello dormivano. Solo il romeo
percorreva a lento passo la sua camera, soffermandosi di tratto in
tratto avanti la finestra per contemplare il tacito corso della luna,
ed il luccicare della marina. Egli aveva gittato il capperuccio
dietro le spalle e piegate le braccia sul petto. La luna gli
rischiarava il sembiante che, contornato dal nero abito, appariva
più pallido ancora. Gli occhi scintillavano, avvegnachè in quel
placido meditare della notte languidi e velati dovessero mostrarsi.
Egli attendeva qualcuno perchè ogni più tenue susurro la scuoteva
di un sussulto, perchè non distoglieva gli sguardi dal cielo se non
per guardare all'uscio che si aprisse. In effetti non passò guari
ed udì lieve rumore, e la porta si schiuse. Egli corre verso l'uomo
ravviluppato nella bianca cappa, il quale lento alla sua volta
andava, e tendendogli le braccia al collo sdama:

--Boemondo!

Colui si svolge dal manto, e gittandoselo dietro ai reni in una col
berretto, risponde:

--Non è desso, Alberada.

--Monsignore! grida questa, perchè il romeo era appunto Alberada: e
tirandosi un passo dietro soggiunge: Monsignore, che cercate qui, a
quest'ora? Io aspettava mio figlio.

--Egli verrà pure, Alberada, risponde Roberto lentamente, ma deh! non
ti rincresca che anch'io goda un'altra volta la delizia di parlarti
liberamente, e dimandarti perdono dell'onta che ti feci.

--Voi non avete bisogno di dimandar perdono, sclama Alberada commossa
nella voce, io non vi ho mai odiato, nè mai chiesi vendetta. Iddio mi
aveva destinata a percorrere una via di triboli; la sua volontà si è
compiuta. Cessate dunque dal dimandarmi mercè. La colpa non è vostra.

--Io fui un forsennato, Alberada, prosegue Roberto, la gelosia mi
tolse la ragione. Io ti aveva amata come niuna donna ho saputo di poi
amare di più. Andava sicuro che il tuo cuore non avesse mai palpitato
per altr'uomo che per tuo padre e per me, che il tuo pensiero non
si fosse rivolto che a Dio ed allo sposo. Sapere invece che diverso
affetto ti riscaldava, udirlo d'altrui quasi per celia, così, come
si racconta di Ginevra e di Lancillotto nelle veglie d'inverno, udir
che invita ti recasti al mio talamo, e che era passione per incognito
abbietto che ti stendeva nel sembiante quel velo di mestizia e ti
faceva trascorrere lugubri giorni! Ah! Alberada, se mai non ti
avessi amata, o debolmente, avrei allora posto a scrutinio il fatale
racconto dell'abate di Cluny, meditato sulla tua condotta, e non ti
avrei vituperata di un ripudio. Ma io bruciava del tuo amore; io
faceva eco a tutti i baroni che si dicevano: niuno è lieto di più
bella e virtuosa consorte come il Guiscardo! Mi credetti tradito,
e preso da impeto insano, nel punto stesso mandai per altra sposa,
seguii il messo, aggiustai le nozze, e travagliato da disperazione,
da ansietà infernale, da amore, da gelosia, da tutte le passioni che
possono far misero un uomo, escogitai la vendetta, ti feci preparare
le feste per la novella sposa, e nell'ebrietà del convito ti gittai
sul volto il ripudio.... Dio mi ha punito, Alberada, Dio mi ha
severamente punito. Perdonami e compiangimi tu pure, o se nol puoi,
almeno non disprezzarmi.

--Disprezzarti, Roberto, prorompe Alberada, e due lagrime lucide
e lente le solcano le gote, ed hai potuto pensarlo mai! Io non ti
ho apposto a colpa che tu m'abbi allontanata da te, perchè vado
convinta, in terra non muoversi stelo che a Dio non piaccia. Compresi
fin da prima che un'allucinazione ti aveva turbata la mente, e
desiderai questo momento di colloquio per giustificarmi teco. Ora tu
mi dici che sei sicuro di mia innocenza; ed io ti ringrazio che mi
abbi così tornati tranquilli i poveri e vedovi dì che mi restano a
vivere. La mia missione quaggiù fu di abnegazione. Mi sono rassegnata
da lungo tempo alla parte che Iddio mi ha destinata. Solo che ti
sappi felice appieno nel tuo domestico focolaio...! Ma a pochi,
o Roberto, è stata concessa la santa facoltà di amare; e questi
predestinati sono infelici.

--Sì, Alberada, a pochi fu concessa la virtù di amare con quella
pienezza che mi hai amato tu. Ma quei giorni sono svaniti coi sogni
della giovinezza. Se sapessi però che cosa ti potrebbe rendere
contenta la vita per l'avvenire....

--Il mio avvenire, Roberto, è scritto da lungo tempo. Quando mi
discacciasti da te a Melfi io mi ricovrai in un monistero di
benedettine a Grotta Minarda, e di là mi sottrasse con violenza
Guiberto, sì che fui costretta a tormelo sposo. Egli mi amò
sinceramente, ed anche io per riconoscenza l'amai; ma di quell'amore
che sfiora il cuore, come fa la brezza della sera passando sugli
aranceti da cui lambisce uno sprazzo di odori; di quella passione
calma e rassegnata che sa di stanchezza, che cerca tranquillità e
riposo. E lo confesso ben essermi violentata a riamarlo meglio per
corrispondere a quella specie di frenesia con che egli mi amava. Ma
nol potei, perchè una volta sola si ama nella vita, ed un uomo--e
fuori di quello ogni nuovo affetto è languido falso. A lui mi tolse
il fratel suo Ildebrando, che mi tenne chiusa tanti anni nel fondo
della mole di Adriano per divellermi da ogni tenerezza di questa
terra, e rivolgermi interamente a Dio.

--Scellerato! sclama Roberto.

--No, allucinato, risponde Alberada. Ho consumata dunque tutta
l'ostica tazza che aveva avuta a sorbire! Ora la mia posizione è
terribile. Quegli che adesso è mio marito si arma contro il fratel
suo che è l'inimico mio, colui che Iddio ci comanda di perdonare e
di amare. Io ho perdonato a Gregorio VII. Io mi sono intenerita alla
sua sorte da tanta altezza precipitato. Ho veduto il fiero vecchio
deciso a morire di stento, ma saldo e altieramente nobile, con
quella grandezza di convinzione che Iddio suol concedere solamente
ai suoi eletti. Gli ho promesso che sarei venuta ad implorare il
tuo aiuto, Roberto. Io non voglio che tu opprima l'uno per l'altro,
che ti dichiari contro uno dei due fratelli; mai no. Sarei ingrata,
sarei vituperevole. Voglio che ti rechi a Roma ad udire le ragioni
di entrambi, e metta pace fra loro. È opera di carità che chieggo
da te più che opera di valore. Mi appello in te più al cristiano ed
al cavaliere che al guerriero. Non negarmi la grazia di questa tua
temuta mediazione. Tu solo puoi stabilire l'equilibrio nelle cose
dell'Impero e della Chiesa, e portare la pace in questa desolata
Italia. Indi cercherò un chiostro dove morire dimenticata, e spero
nella misericordia di Nostradonna dei sette dolori che lungamente non
mi voglia lasciare allo spasimo di questa vita. Mi sento stanca, ho
bisogno di riposo.

--Alberada! e non speri tu dunque giorni migliori?

--No, Roberto, perchè io non potrei più godere senza far misero
altrui; perchè i giorni dell'illusione sono sepolti con quelli della
giovinezza. Sol che sappia avventurosi te e Guiberto; sol che sappia
felice il mio figliuolo Boemondo, la gemma dei miei pensieri! io non
desidero di più. Il mondo mi ha maltrattata; perchè ambire rimanerci
più lungamente? E poi, o Roberto, col lungo soffrire tutto acquista
una tinta squallida, come l'itterico vede giallo ogni oggetto.
Consolami dunque di quest'ultima gioia; fa che ritorni la pace tra i
due fratelli, tra i quali mi ha gittato fatale destino a cui presento
dover soggiacere; e poi che io muoia, perchè sento di restare inutile
ed arida sulla terra.

--Io verrò a Roma, Alberada, ed il tuo volere sarà pago. Tu però non
andrai incontro alla sconfortata solitudine che ti minacci. Vi è
ancora sulla terra qualcuno che ti ama col delirio dei venti anni,
che non trascorre giorno senza consacrarti un pensiero, talvolta una
lagrima, cui Iddio accetterà in iscomputo della sua colpa. Tu hai
ancora un figlio, un generoso e prode giovane cui sovente ho veduto
lagrimare di furto dove occorse favellare di te. Tu hai amici ancora,
hai il novello tuo sposo Clemente III, che perciò solamente mi
sentirei inclinato a favorire. E costui, e noi tutti che non faremmo
per te? Tu devi essere assolutamente una santa, Alberada, che non
covi odio contro Ildebrando, e vuoi a lui tornare angelo di conforto
e di speranza! Iddio non ti lascerà sconsolata. Tu non andrai a
seppellirti in un chiostro a finirvi oscura e solitaria una vita sì
nobilmente spesa!

--La mia sorte è decisa, Roberto. Se io fossi stata destinata alla
gioia, Iddio non me l'avrebbe interrotta nel più bel punto che
la teneva. Le mie condizioni peggiorano ogni giorno; mettiamoci
un ostacolo. Soffrirò un supplizio di cuore, ma i fatti crudeli
di coloro che per vincoli santi di amore a me si attengono non
giungeranno fino alla mia solitudine. Tiriamo quindi un velo sul
passato, e diamoci addio qui.

--Alberada, non distruggermi ogni illusione dell'avvenire, sclama
Roberto con entusiasmo, prendendole le mani. Io gemo sotto terribile
giogo: io non conosco più un'ora di sonno tranquillo: la mia vita
è un martirio di cui tu non puoi avere idea. Iddio creò la donna
perchè fosse all'uomo angelo di conforto e di pace; ed io.... ah!
no, Alberada, non rompermi il fascino incantato che mi fa vivere e
palpitare nel futuro.

E sì favellando Roberto si stringerà sul cuore le mani di Alberada,
allorchè questa, ad un rumore verso l'uscio, vi volge gli occhi, e
sotto l'arco di quello, al debole chiarore della luna, vede come una
fantasima nera, che, alta, ritta, immobile contemplava, e da lungo
tempo forse! quel gruppo che inconsiderato discorreva di altri tempi,
immemore del presente e delle rispettive loro condizioni. Alberada
gitta un grido, e Roberto, drizzato anch'egli lo sguardo a quella
parte e scorta la fredda figura che non faceva atto di muoversi o di
parlare, le va incontro e dimanda:

--Chi sei tu dunque, che osi ribaldamente avvicinarti a queste
stanze, a quest'ora?

La fantasima si svolge lentamente dal manto che la circondava, si
alza la tocca che le calava sulla fronte, e senza dir parola si fa
conoscere. Roberto si ritrae in dietro di un passo, e, non sapendo
che si facesse, porta la mano al fianco per cercarvi il pugnale, e
pieno di stizza grida:

--Alla croce di Cristo, madonna! chi ti ha dunque fatta tanto ardita
di spiare i passi del tuo consorte?

La duchessa Sigelgaita, che ella stessa era il fantasima, non
risponde, e raccogliendosi lentamente il mantello attorno la persona,
e tirandosi di nuovo la tocca sulla fronte, sta un istante a
considerare di occhio freddo ed immobile come quello dell'estatico la
coppia infelice, poi piega a terra lo sguardo, volge loro le spalle e
parte.

Lungo silenzio successe alla sparizione della duchessa. Alberada
tremava tutta di spavento, Roberto di rabbia. Infine Alberada
balbetta:

--Guai, Roberto, ella ha udito tutto! Quale terribile donna abbiamo
offesa.

E sì dicendo mezzo svenuta si lascia cadere sur una sedia. Roberto
non risponde, ed affidatala a Boemondo, che entrava in quel punto,
esce dalla stanza.

Lungo, tenero, straziante fu il colloquio della madre e del figlio.
Si dissero cento cose, si fecero cento promesse; e d'allora forse il
carattere di Boemondo acquistò quell'aria di fredda durezza e quella
sterilità di cuore che dimostrò di poi, come condottiero nella prima
crociata e come principe di Antiochia. L'alba li divise.... per
sempre; che due strade opposte dovevano percorrere gli sventurati.

Al domani, i due legati si presentarono a Roberto nel salone dove
soleva tener corte, e quivi fu loro fatto sapere che ei si sarebbe
recato a Roma per decidere la questione dei due pontefici. Rolando
comprese subito, dall'aria contegnosa del duca, che questi pendeva
per Gregorio e che verso Roma muoveva a danno di Clemente. Onde,
assumendo modi e parole che al suo carattere di soldato, di legato e
di uomo franco ed ardimentoso addicevansi, intíma la guerra a Roberto
e parte. Nell'uscire, la duchessa Sigelgaita, che la sua ardita
intimazione aveva udita, gli si fa incontro e gli susurra:

--Messer legato, raccomandatemi alle benedizioni di papa Clemente.

Rolando la stette a guardare attento per comprender netto il
significato di quelle parole, poi si accosta alla duchessa e le
mormora all'orecchio alcune frasi. La duchessa l'ode, poi risponde:

--A Roma dunque, messer Rolando.

Alberada, imbarcata sopra una galea del Guiscardo, partì anch'essa,
confortata di speranze per Gregorio, per Roberto trepidante. Vedremo.



VII.

  Ya sabeis, vasallos mios
    que habrá dos meses y medio
    que el Turco puso à Viena
    con sus tropas el asedio,
    y que para resistirle
    unimos nuestros denuedos.
    Ben conozco que la falta
    del necesario alimento
    ha sido tal que rendido
    de la hambre à los esfuerzos,
    hemos comido ratones,
    sapos, y sucios insectos.

                               MORATIN--_El cafè_.


L'arcivescovo di Ravenna, perchè noi seguiremo a chiamarlo così
malgrado la sua sacra pontificia, l'arcivescovo ebbe a darsi a tutti
i diavoli quando udì che Roberto Guiscardo, lungi dal giurargli
divozione, mandava pel suo legato Rolando ad intimargli la guerra.
L'imperatore Enrico era in Lombardia, ma il nerbo dell'esercito
stanziava a Roma e nel paese circonstante. Con tutta fretta dunque
Guiberto fortifica la città, ripara il guasto delle mura e delle
torri, e di blocco più fitto stringe castel Sant'Angelo. Egli
imbizzarriva, come ridotta allo stremo di tutto, non per anco
quella rocca si fosse resa. Ed in vero il senato ed il console,
per aderirgli, avevano fatto intimare al loro castellano Oddo
che sgombrasse la fortezza e si constituisse prigione. Però, in
segreto, ei lo sollecitavano a mantenersi fedele, a tenersi fermo di
dentro, perchè le cose non ancora essendosi ben consolidate, Castel
Sant'Angelo e' consideravano quale estremo rifugio pel patriziato e
per coloro che rappresentavano il reggimento civile di Roma--vale a
dire console, tribuni e capitani della milizia cittadina. Oddo li
ubbidì.

Non appena uscita Alberada dal castello, Oddo aveva fatto cadere
un verrettone con pergamena tra le penne in mezzo ai soldati
dell'imperatore. In quella pergamena e' scriveva, che un mese ancora
il pontefice dimandava fosse rispettato il castello, e fornito
ciascun giorno di scorte; il qual termine elasso, prometteva uscirne,
rinunziare alla sede di Pietro, Enrico assolvere dalle censure,
Clemente III riconoscere, perdonar tutti, ed andare a rinserrarsi nel
suo prediletto soggiorno del monistero di Cluny. Veramente non gli
si prestò ampia fiducia. Però vedendo l'impossibilità di togliere
così presto d'assedio la piazza, e volendo sempre più giustificare la
nobiltà di sua condotta innanzi al popolo romano, cui ambiva tornarsi
divoto affatto, firmò i patti posti dal pontefice e partì.

Il suo luogotenente Guiberto non seguì a puntino gli articoli del
trattato. Scarsamente ogni tre dì faceva, col ministero di una corda,
arrivar provigioni agli assediati, e, quasi per burla, due volte fece
simulacro di scalar la fortezza. Ma quei di dentro, sempre all'erta,
precipitarono dalle scale gli assalitori. Infrattanto lo spirare del
mese approssimava e di Alberada nulla si sapeva.

Terminò infine, e novella alcuna non se ne ebbe. Allora Guiberto
mandò parlamentario alla rocca perchè mantenessero il trattato.
Erano stretti dalla parola e dalle circostanze; ma Oddo sperava
ancora. Rispose perciò: il pontefice infermare gravemente; nulla
ei per sè poter decidere; quegli non trovarsi in istato di essere
consultato; dimandare ancora dieci giorni di tempo, compiuti i quali
immancabilmente avrebbero sgombrato il castello. L'arcivescovo
strabiliò. Concesse però gli altri dieci giorni, e significò loro
che, non avendo gl'infermi d'uopo di cibo, si sarebbe astenuto
fornirne. Bloccò intanto più strettamente il forte; nè restò dal
tentar mezzi per sorprenderlo.

I governatori di Roma, e meglio ch'essi Gisulfo, il quale,
riconciliato col papa, dentro Roma incognito e povero aveva vissuto
un resto di anni vituperati, subornarono le sentinelle, e provvidero
il castello per alquanti dì. Ma in fine una notte Gisulfo fu
sorpreso da Rolando, e trascinato nel fondo di cieca muda disfatto
miseramente. Per alcune sere si vide ancora un lume di segnale sui
baluardi; poi una mattina bianco vessillo vi sventolò.

Si rendevano.

Ildebrando, Oddo, il presidio erano restati due giorni digiuni
compiutamente, ma nè l'uno nè l'altro aveva proferito verbo; i
soldati non avean mosso lamento. Il conte nel suo cuore impietosiva
del vecchio pontefice, questi del fedel castellano. Nullameno niuno
dei due parlava di arrendersi. Gregorio, perchè sapeva di qual tempra
fosse Oddo, il quale cento volte si sarebbe prima lasciato morir di
fame anzi che cedere la piazza; Oddo, perchè immaginava qual crudele
sorte avrebbe incontrato il pontefice se si rendesse. Con terrore
però ciascuno mirava sul volto dell'altro i segni spaventevoli
della fame. Non erano uomini da lagrimare, ma visibile si leggevano
scambievolmente sul sembiante la commozione, pensando a qual fine di
gran passo tutti procedessero. Nessuno dei due si sovveniva neppure
del presidio! Eran vassalli: dunque, carne a dolore, carne a morte.
Una mattina infine Oddo tolse dal suo scudo le guigge di cuoio, e
dopo averle fatte bollire lungamente, sopra un tagliere di legno andò
a presentarle con una divina semplicità a Gregorio. Egli non proferì
parola: Gregorio gli fissò sul volto gli occhi lucidi per una lagrima
che vi si stese, e dopo averlo un tratto contemplato, si alza da
sedere e gli stringe la mano tremante. Tutti e due stettero un pezzo
avvinti così, poi Oddo, ritirando la sua ed asciugandosi una lagrima
che placida gli solcava lo smunto volto:

--Mi porti il diavolo! proruppe, se aveva mai pianto in vita mia dal
dì che andarono a seppellire quella povera vecchia di mia madre, che
il cielo abbia in gloria!

Gregorio si torna a sedere lentamente, poi mormora:

--Ella non torna più!

--Che il diavolo si porti ancor lei, scoppia il ruvido castellano.
Già è una femmina; e noi fummo ben due pazzi che le prestammo tanta
fiducia. E quel gramo di Gisulfo?

--Ma! l'avranno scoperto nell'ufficio pietoso di soccorrerci, e
l'avran fatto freddo. Iddio abbia pietà dell'anima sua!

--Amen, risponde il castellano. Sarebbe però meglio se avesse pietà
di noi, perchè già.... ma mangiatevi almeno codesti correggiuoli.
Non è un lauto desinare, lo comprendo ancor io; però il diavolo mi
soffochi...! perdono, santo padre, sa! è la cattiva abitudine. Sicchè
io vi diceva che con queste liste di cuoio potrete almeno sostenervi
qualche altro dì: poi si vedrà.

--Mangiateli voi, Oddo, se codesta roba è ancora buona a qualche
cosa, insiste Gregorio; fateli mangiare a questi poveri disgraziati
di soldati. Io mi sento tuttavia in forze. Ed infine, gli è meglio
che vi sosteniate voi per difender la rocca, perchè già per me non
giova più.

--Noi, noi...! che dobbiamo fare della vita noi? Abbiam pure da
pensare ad un mondo noi? Abbiam pure una cristianità sulle spalle
noi, una cristianità a cui bisogna conservarsi, e mostrarsi saldo
onde non farvi penetrar l'eresia, l'ateismo, l'arianismo e che so io?
Andiamo, mangiate in nome del diavolo! chè per noi siamo avvezzi a
codeste carezze del nemico. E poi, se la fame ci tira pei capelli,
daremo di mano ai sandali, ci tranguggeremo un pezzo del giacco di
bufalo; rosicchieremo un pezzo di teniere di balestra o un pezzo di
mattone.... pensate a voi. Credete che domani vi riuscirà poi facile
mandar giù questa diavoleria! Lo stomaco si chiude, e buon viaggio a
chi parte. Io so come vanno queste faccende.

--Ma no, vi dico, mangiateli voi. Io medito sopra un passo del
Vangelo: _l'uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che
procede dalla bocca di Dio_.

Oddo si gratta il capo, e dopo un momento di silenzio, soggiunge:

--Sentite a me, pontefice, farete poi il commento a codesto bel
passo; ma per ora contentatevi di mangiare queste guigge di cuoio
comunque esse siano. Vi ripeto che domani nol potreste più. Se vi
vedeste nel volto!... Io non voglio con ciò farvi paura, nè voi siete
quel tale che ne avrete mai. Ma udite un mio consiglio. Voi avete
bisogno di sostentamento perchè siete più vecchio di noi, e meno uso
a questi regali delle guerre. Mi ricordo che al blocco di Pavia quei
cani di Milanesi ci fecero stare... non so più quanti giorni digiuni.
Figuratevi! Io aveva allora venti anni, ed era ridotto che il peso
del pugnale mi gravava. Sa Dio poi cosa ebbero a fare per ristorare
quei che sopravanzarono alla resa, chè già parecchi se l'erano colta
per l'altro mondo. Dunque...

--Ma infine, Oddo, l'affare non può durare così, sclama Gregorio
crollando la testa. Io son deciso: domani mi arrenderò.

--Avete detto, beato padre?...

--Che domani mi arrenderò. Già io non parlo di voi, che anzi metterò
per patto alla mia dedizione che voi veniate rispettati e provveduti
di viveri, finchè il pieno volere del popolo e del senato romano
non vi ordini davvero di sbrattare il castello. Son sicuro che non
vorranno fare difficoltà, perchè una volta che mi abbiano avuto nelle
mani tutto cangia. Sa Iddio se non mi sarei volentieri lasciato
morire di fame qui... Ma trascinarvi alla perdizione con me!... Qual
colpa avete voi, uomini generosi, che dobbiate soffrir tanto? Eppure
se avessimo potuto reggere ancora una settimana o due, chi sa? Io
spero ancora in Alberada. Forse avrò torto, ma...

--Uhm! santo padre, voi non conoscete mica l'umor delle femmine.
Sono come quel famoso corvo dell'arca di monsignor Noè. Figuratevi
mo che ella voglia pensar più a due poveri vecchi papari, dei quali
alla fin dei conti non ha poi tanto a lodarsi, e pensarvi quando,
dopo non so quanti anni di prigionia, si trova libera, vicino ad un
figlio e ad una mezza dozzina di mariti, con la volontà e la potenza
di vendicarsi, senza forse saper che fare o poter nulla fare per
giovarci... Bah! Il mondo dovrebbe esser cambiato d'assai, ed il
diavolo dovrebbe fare ogni mattina la comunione, perchè colei si
curasse ancora di noi. Ed io che le aveva posto amore come a figlia!
Ma alla fin fine, ella ha altri doveri che la stringono più da
presso, e non può tradir l'antipapa, che l'è marito, per noi che le
siamo prossimo, e cattivo prossimo.

--È vero, mormora Gregorio dopo avere alquanto riflettuto. Perciò
appunto domani mi arrenderò. D'altronde, io non so poi da chi possa
aspettar sussidii. D'oltremonti no; perchè i Lombardi e gl'imperiali
guardano le chiuse: d'oltremare potrebbe soccorrermi Guglielmo il
_Conquistatore_ dall'Inghilterra; ma colui si è spiegato chiaro
che non vuol saperne delle cose della Chiesa, perchè ama meglio
consolidare il fatto suo. Vi sarebbe il Guiscardo da Grecia; ma
anch'egli ha colà i suoi guai--e poi col Guiscardo siamo a tali
termini che, a quest'ora, già contro di noi avrà patteggiato con
Enrico, e forse verrà sopra Roma a danno nostro. Sicchè non saprei
come Alberada possa fare per porgerci aiuti--a meno che non volesse
ricordare l'esempio di Stefania, la moglie di quello sventurato
Crescenzio che ha lasciato il suo immortale nome a questa fortezza.
Convinciamoci dunque, messer conte, che noi siamo ben folli a
sperare, come tutti coloro che sperano altrove fuori di Dio; e
rassegniamoci al nostro destino. Domani alzeremo bandiera bianca.

--Siete un famoso uomo se in questo stato di cose, beato padre,
conservate ancora la voglia di scherzare, dice Oddo incrociando le
mani sul petto e componendo la ciera ad alcun che di ironico.. Resa!
resa? Se voi favellate da senno, bisogna dire che la fame vi abbia
indebolito il giudizio. Voi lo avete detto che io non posso rendermi,
perchè tengo il forte pel popolo e pel senato romano, ed ancora da
costoro non mi è venuto ordine di dedizione. Voi poi, quanto a voi
non dovreste neppure sognarlo per ombra, perchè, mi porti il diavolo!
se quei bravi figliuoli di laggiù non vi taglieranno a ghiado appena
vi terranno nelle mani. Così che parmi che valga meglio morire
nobilmente qui, e morire martiri, anzi che andarsi a ficcare in mano
a quei demonii come un becco che s'incammina al macello.

--Ho resistito quanto ho potuto, Oddo, risponde Gregorio gittando
un sospiro: sono giustificato innanzi al mondo. Ora debbo pensare a
Dio, e Dio proibisce l'omicidio--cosa che io farei se, restando più
lungamente qui, rimorchiassi anche voi altri nella mia ruina. Dio
proibisce il suicidio. Mi uccidano essi.

--Ed avete dunque deciso?

--Domani di darmi a discrezione.

Oddo si siede con un moto di disgusto e mirando in volto Gregorio, e
tentennando il capo, brontola:

--Udite me, pontefice, perchè la ragione non mi vacilla ancora. Il
partito a cui volete appigliarvi è estremo, e comprendo anch'io che
un giorno l'altro io stesso debba fare questa pazzia; non già per me,
vedete, perchè per me non curo la vita meglio di un'asta spezzata. Ma
vedervi languire così... A buoni conti forse dovremo venire al punto
di tentare la fortuna della resa. Ma fino allora ci vuole ancora
alcun che.

--E di che si vive? l'interrompe Gregorio.

--Di che? sclama Oddo. Abbiamo qui alcune cuoia da rosicchiare, ed
io so per esperienza che con questi negozii, se non si fa stravizzo,
si campa la vita. Atteniamoci dunque a questo pasto per quanti
altri dì potremo, e vediamo come si mettono le cose. Abbiamo sempre
tempo di arrenderci, e non giungerà mai tardi. Ma ora... per tutti
i diavoli! non fosse che per decoro! Dovranno dire quei poltroni di
laggiù: trista canaglia, ghiotti marrani, avevano ancora i sandali da
ingoiarsi e non so quanti vecchi giacchi di bufalo; ed hanno alzata
bandiera bianca? Vigliacchi del diavolo! precipitiamoli giù nelle
fosse. E questo e' direbbero quei furfanti d'imperiali, mio bel papa,
se noi cedessimo adesso. E qual frutto ne caveremmo poi? Saremmo
svillaneggiati per avere alquanti dì più presto un capestro alla
gola, e penzolare ai merli delle torri. Mai no.

--Credete voi dunque ch'essi oserebbero?... dimanda Gregorio.

--D'impiccarvi e d'impiccarci? Magari! l'interrompe Oddo. Due volte
piuttosto che una. Or bene; udite me: mangiate questi correggiuoli, e
figuratevi proprio ch'e' fossero asparagi. Già tutto è immaginazione.
Son sicuro che quel benedetto abate di Cluny si astrarrebbe nelle
nuvole di Aristotile e mangerebbe un pezzo di calcinaccio per
formaggio. Fate dunque altrettanto voi. Poi si penserà alla resa.
Comprendo che voi lo vorreste solo per me. Ma mi porti il diavolo! se
io non lo farò per nuda considerazione di voi, quando il tempo a ciò
sarà giunto. Che preme al vecchio Oddo se muore anzi di fame, come
un lupo caduto in una fossa, che per un ferro di lancia nel petto, o
appeso a queste nere mura come un nibbio alla porta di un castello!
L'è tutt'uno: si muore sempre. Andiamo dunque, vediamo se codesti
bianchi denti sanno fare ancora il loro ufficio.

--Ma a che pro? dimando io; in chi speri tu dunque, messere?

--In chi? mai nel diavolo, in Dio, nella forza degli eventi, nella
gocciola d'acqua che fa straboccare il vaso, nel caso; insomma io
spero in tutto, in tutti, e non spero più in alcuno. Solo per onor
del mestiere non credo giunta ancora l'ora della resa. Ecco tutto. E
poi davvero dunque gli uomini sono affatto birbi! E chi sa, quella
povera figliuola di Alberada!... Mi dice il pensiero che poco fa
noi la calunniavamo. Era così buona, così rassegnata.. no: non si
dimenticherà così senza rincrescimento del suo vecchio Oddo, non
fosse altro! Partì piena di una fiducia che sembrava inspirata da
Dio. Mi si stringe proprio il cuore quando vi penso. Se non mi
danzassero sessant'anni sul capo, direi che ne sono innamorato
fradicio. Oh! sentite a me; mangiate: ella tornerà.

--Il mio partito è preso, Oddo. Domani mi vado a dare in braccio
all'arcivescovo di Ravenna. Non sai tu che colui mi è fratello,
messer conte?

--Lo so: me lo ha detto più di una volta Alberada.

--Ebbene, Guiberto è generoso--almeno lo era. Mi getterò in braccio
a lui, ed onta sia a questo infame popolo romano che abbandona il
suo padrone, onta a tutti i codardi re della terra, che sopportano
l'umiliazione di colui che rappresenta il re dei re; e che è loro
signor suzzerrino.

--Ma davvero dunque voi volete commettere questa minchioneria?

--Chiamala come vuoi, Oddo, sono in dovere di farla. Dovrei dar conto
a Dio se altrimenti mi conducessi. Hai capito? dovrei darne conto a
Dio che ha detto: _Conserva te stesso--e cadrà sul vostro capo tutto
il sangue del giusto che sarà versato sulla terra_.

--Giacchè dunque in questo affare vi è entrato di mezzo Iddio,
bisogna pensare come cavarcene. Per tutti i diavoli! Chi avrebbe
pensato che Dio potesse venire a ficcare il naso in una scodella di
cuoio bollito, ed in una rocca assediata! Ma giacchè la cosa sta
così, si farà come voi dite. Però dovete lasciarvi regolare da me
che m'intendo meglio di queste cose, e mi prometto di non farvi fare
bestialità e codardie. La faccenda si condurrà con decoro e prudenza.
Restiamo dunque fermi su ciò, e ci penseremo domani.

Ed in effetti, avendo Oddo il domani trovato risoluto Gregorio nel
proposito di uscir dal castello, alza pennone bianco, e salito sulle
mura dei baluardi dimanda a parlamentare. Ben presto si presenta
un araldo dell'arcivescovo. Al quale fatto intendere che e' voleva
andare ad abboccarsi con lui onde rendere la fortezza, l'araldo si
reca al palazzo di Laterano, e torna subito con la risposta, che papa
Clemente III dava sicurtà sulla sua parola per la vita e la libertà
del parlamentario, ed al palazzo lo aspettava.

Oddo dimanda che queste promesse Guiberto mettesse in iscritto, e
che per lui guarantissero, con la propria firma, anche Ulrico da
Cosheim, Baccelardo e Goffredo di Buglione. Al che avendo assentito
tutti, l'araldo riviene con la pergamena così foggiata, cui Oddo, da
star dalle torri; tira su per una cordicella, e porge a leggere a
Gregorio. E perchè ogni cosa andava in regola, il castellano esce,
facendogli chiudere alle spalle la postierla, ed al palazzo di
Laterano si conduce.

Una folla immensa di popolo e di soldati si strinse a far ressa
intorno al castellano, curiosi di vedere da vicino un sì famoso
uomo, che solo, con una mano di vecchi balestrieri, aveva saputo
tener fronte a tanta truppa, e solo non cedere, mentre tutta Roma
soggiaceva all'oste tedesca. E davvero che ognuno maravigliava,
segnatamente la marmaglia, perocchè corto, smilzo e laido era il
castellano. Così che gliene dicevano attorno delle belle e delle
curiose. Ma Oddo non curava nè punto nè assai il cincischiare che
gli facevano addosso, perchè in quel momento tutt'altro gli girava
pel capo. La folla però cresceva anche peggio presso la dimora
dell'arcivescovo. E non vale il dire se i soldati usassero i poderosi
argomenti dei calci delle lance per tenerla addietro. Ma la serra
aumentava, volendo ognuno guardarlo in viso e dir la sua; chè tra
le plebaglie curiose per sè, le più curiose e facete son quelle di
Napoli e di Roma. E più di tutti nella calca si addentrava un romeo,
il quale, malgrado le punzonate ed i gomiti ne' fianchi che più
di una volta gli mandarono manco il respiro, giunse fin presso al
castellano, sì che potè zufolargli all'orecchio: Resistete!

E gli cacciò in mano una cartuccia ripiegata.

À quella voce il castellano si volge incontanente, facendo un salto:
ma perchè stava per metter piede nella corte, una mano di soldati
respinge il popolo a furia di percosse, ed ei si trova divelto dalla
persona cui voleva riconoscere. La voce però era la sua; la carta
chiudeva già in grembo; ed il consiglio di mantenersi fermo giungeva
opportuno e gradito. Oddo cangia di un tratto il suo _ultimatum_.

Non è a dirsi se l'arcivescovo di Ravenna ed i caporioni
dell'esercito di Enrico lo stessero ad attendere. Fu ricevuto per
ogni attestato d'onore e di riverenza, come a tant'uomo convenivasi,
e come coloro, prodi e generosi anch'essi, solevano verso chi la loro
stima meritava. Oddo non si perdette in molte parole. Li ringraziò
delle accoglienze cortesi e disse come egli non venisse già per
cedere il castello, che avea avuto in consegna pel senato e pel
popolo romano e che a costoro soli dovea rendere quando a lui, conte
Oddo da Nemoli, sarebbe sembrata ora convenevole; ma per patteggiare
la dedizione di papa Gregorio. Un lampo di gioia sfolgora nel volto
a Guiberto. Di ogni passata ingiuria e di ogni durezza di Ildebrando
e' si sentiva di già soddisfare. Risponde quindi che cedeva a tutte
le condizioni onorevoli, col suo grado e con le rispettive posizioni
conciliabili, e che ne rimetteva la proposta a lui stesso, conte Oddo
da Nemoli, come colui che meglio d'ogni altro sapeva quali fossero
i debiti di cavaliere e di soldato. Questo tratto di cortesia e di
confidenza imbarazza Oddo. Uomo d'onore, egli conosceva fin dove le
sue pretensioni potevansi estendere senza aver taccia di impudente o
di sciocco. Dimanda perciò, prima di tutto, che, quanto si sarebbe
convenuto rimetteva all'approvazione di Gregorio stesso--anche per
aver modo di far leggere quel benedetto scritto datogli da Alberada.
Poi chiese: 1.º al papa risparmiata vita e libertà egualmente
che a tutti i suoi proseliti; 2.º la causa dei due pontefici è
dell'imperatore discussa da venti vescovi e da venti baroni, scelti
quindici dall'imperatore Enrico, quindici da lui, Gregorio, e dieci
da Guglielmo il _conquistatore_ d'Inghilterra, come re neutrale; 3.º
infine, la città di Roma, fino alla decisione finale del giudizio dei
commissari, stabilito a Torino pel dì dell'assunzione della Vergine
di quell'anno, sgombrata da ambo i partiti e lasciata al governo
libero del senato e dei patrizii romani.

I due primi patti furono accettati incontanente; l'ultimo, siccome
riguardava ancora l'imperatore che avea occupato la città, e
l'imperatore non vi era, ributtato. Del che, essendosi contentato
Oddo, che già bruciava leggere la scritta di Alberada, e che sentiva
ancora risonarsi l'orecchio di quel _resistete_, si stese protocollo,
firmato dall'arcivescovo e dai capitani di Enrico, ed Oddo al
castello ritorna per ottenere l'assenso di Gregorio.



VIII.

  Tal fean de' Persi strage: e via maggiore
    La fea dei Franchi il re di Sarmacante,
    Ch'ove il ferro volgeva o il corridore
    Uccidea, abbattea cavallo o fante.

                                        _Gerus. Liber._


«Beatissimo padre, diversi pericoli del viaggio mi hanno ostato
giungere molti giorni prima, e confortare il vostro coraggio. Roberto
Guiscardo assedia Aversa con esercito, di trentamila fantaccini e
settemila cavalli, perchè il principe di Capua, Giordano, gli ha
messi ostacoli al passaggio. E' sarebbe capitato qui otto giorni più
presto, se non avesse dovuto ridurre a soggezione Oria, e distruggere
Canne, ribellate. Arriverà sicuro domani o diman l'altro, perchè
lascerà manipolo di truppa per l'assedio di Aversa, se innanzi non
si renda. Tenetevi saldo. Molte altre cose vi dirò a voce, dove che
al conte Oddo riesca questa notte aprirmi la postierla del castello,
e la vigilanza delle scolte non me lo impacci. Mi presenterò alla
porta sulla mezzanotte varcata, e farò segnale di tre colpi: indi
darò voce. Dio mi faciliti il modo di farvi pervenire questi avvisi.
Benedite Alberada».

Non appena Oddo ebbe udita leggere questa scritta che cominciò a
saltare come ragazzo per la gioia. Gregorio restò mutolo, nè segno
alcuno di commozione dal suo volto trasparì.

--Lo diceva io, gridava il castellano fregandosi le mani gaudioso,
lo diceva io che quella brava figliuola non poteva mancare? Mi porti
il diavolo se non è dessa la più santa delle figlie d'Eva! Recarsi
fino in Grecia! Andare a supplicare quel birbone che la ripudiò come
la donna di un bovaro! Rinunziare a tutto! Affrontare Dio sa quanti
guai per due... vale a dire, il tristo siete stato voi, padre beato,
che le ne avete date a sorbir delle belle. Io ho fatto quanto ho
potuto per addolcirne il destino. Ebbene, mi affoghi l'inferno, se da
ora innanzi non la tratterò come una regina. Povera creatura! povera
creatura! Ecco, maestro mio, se non è vero che il mondo è storpio per
due terzi, e che le cose camminano a sproposito.

--Non lo avrei mai creduto! sclama infine Gregorio già fuori di sè da
un pezzo. Due che ebbero più ingiustamente mali da me? Non lo avrei
mai creduto.

--Mi porti il diavolo, se non penso anch'io così. Ma la cosa è
proprio come ella la dice... però se non avete dimenticato di
leggere. Per me già non mi è potuto mai entrar nella memoria
quell'affare di sillabe e di lettere. Che affare, dannato! Ho domati
cavalli, ho addestrati falconi, ho difese piazze e castella, ho
affrontati nemici, Dio sa quanti! e quattro birbe di lettere ebbero
a farmi perdere il cervello e la pazienza. Mai più, mai più. Andiamo
adesso: che dobbiamo rispondere a quei bell'imbusti di laggiù?
Perchè qualche cosa di sicuro dobbiamo rispondere--non fosse che per
mostrarci venerati cavalieri.

--Ecco, riprese Gregorio, con tuon fermo, rilevando la testa,
componendo il sembiante ad aria severa ed altera: farete loro sapere
che sbrattino la città; che l'infame antipapa si constituisca nostro
prigioniero nel palazzo di Vaticano; che ci diano ostaggi di sicurtà;
e che gl'invasori di Roma si obblighino di aspettare il nostro _lodo_
sulla penitenza che vorremo dare loro per aver osato avvicinarsi a
mano armata alla sede di Pietro. A questi, e non altri patti, noi
usciremo di qui. Andate, e fate saper loro i nostri voleri.

Oddo lo guarda in volto di una maniera significativa e curiosa, poi,
crollando il capo e mettendosi le mani alla cintura, soggiunge:

--Sentite, messer papa, siamo stati alcuni mesi insieme e mi dispiace
che non mi abbiate ancora conosciuto. Codesta è risposta di un
poltrone e di un traditore... non corrugate il ciglio, perchè con
me già non caverete nulla, e bisogna che la cosa io ve la spippoli
come la mi frulla pel capo. Quella risposta dunque io non posso dare,
perchè io sono onorato cavaliere, e non mi piace pescarmi giusto alla
vecchiaia il caro epiteto di vituperato e di folle. Uditemi bene
dunque: o cangiate proposito, ed io recherò a quei valenti baroni la
ragionevole vostra intenzione, ovvero, e farete meglio, salite voi
lassù dei merli e dite loro scomuniche, perchè io me ne lavo le mani
come il conte Pilato.

Gregorio fulmina di terribile occhiata l'ardito castellano, e senza
aggiunger altro sale sulla torre, strappa il bianco vessillo, ed
avvicinatosi al merlato lo precipita giù nella fossa lacerandolo, a
vista degli araldi dell'oste che aspettavano risposta dal conte Oddo.
Un grido di furore scoppia fra tutta la gente, che, guardando al
castello, intorno adunavasi, ansiosa vedere una volta terminata una
lite che di sì aspro governo travagliava la città. Gli araldi corrono
al palazzo Laterano onde tenerne conto papa Clemente ed il consiglio
dei baroni. Ma quivi e' trovano le cose già mutate. Imperciocchè
un corriere del principe di Capua, giunto in quel punto, veniva a
prevenire dell'imminente arrivo del Guiscardo. Quindi nulla più si
badava alle spavalderie del cattivo Ildebrando.

Roberto era aspettato, e dal dì che giunse Rolando già considerevoli
apparecchi per debitamente riceverlo approntavansi. Non si pensava
però ch'e' sarebbe venuto così tosto, nè che il principe Giordano
gli avesse opposta così corta resistenza. Roberto calcolò meglio le
sue mosse, e marciò sopra Roma anche più presto di quel che Alberada
aveva promesso al pontefice.

I baroni, partigiani dell'imperatore e dell'arcivescovo di Ravenna,
tennero consiglio. Si riassunse la somma delle cose, si fe' censo
delle truppe, e si stabilì un piano di difesa, giusta i consigli del
Buglione, non per anco in istato di vestire le armi. La città si pose
in punto d'armi, chiuse le porte, guarnite le mura ed i forti, e si
attese l'oste del Guiscardo.

Il senato ed il popolo romano dall'altro lato, imbestialiti contro
Gregorio che chiamava loro addosso novello guaio, dopo averli
involuti in quattordici anni di sventure e di mine, risolsero ad
ogni modo non volerne più di lui, e difendersi contro il duca di
Puglia. Così aggiustate le cose, con minor tumulto di quel si sarebbe
paventato in simile caso, si distribuirono pei rioni e sui baluardi.

In tutta la giornata non comparve alcuno, nè alcuna cosa si seppe
dell'inimico. Sul far della sera però capitarono spie a spron battuto
ed annunziarono, il Guiscardo avere alzati i padiglioni verso
Velletri, sicchè non prima del meriggio del domani avrebbe potuto
presentarsi sotto Roma. Malgrado la notizia, Guiberto ordinò alle
truppe veglia d'armi sulle mura, dove accesero moltiplici fuochi,
sia per iscorgere se novità accadesse laggiù nel piano, sia per
dissipare la virulenta mofeta che con le tenebre si stendeva qual
fitto nebbione sulla città. Sano consiglio ed accorto. Imperciocchè
Roberto aveva solamente simulato di passare la notte a Velletri, ma,
come le tenebre occuparono intiero il paese, egli aveva comandato
togliersi il campo e cavalcar sopra Roma. Ed in effetti vi voleva
ancora un tantino per l'alba, quando quei che vigilavano sugli spaldi
s'avvidero di lui, e chiamarono alle armi.

Allo spuntare del sole già il Guiscardo spiegava la sua truppa verso
porta Latina.

Noi non descriveremo per minuto i fatti di questo vigoroso assalto ed
ostinata resistenza, per tema di fastidir quelli dei nostri lettori
che non troppo bene se la dicono con la storia, e perchè ne abbiamo
abbozzate veramente a sufficienza di battaglie e di opere di guerra.
Basti dire, che Roberto Guiscardo, Sigelgaita coi Saraceni di Lucera
cui aveva tolti a condurre, e Ruggiero, e Ben Hamed da un lato; e
dall'altro Rolando, Ulrico di Cosheim, Guiberto, Baccelardo, e quanti
abbiam veduti caldeggiare per Enrico, fecero miracoli di valore. Anzi
Baccelardo e Guiberto, non paghi del travaglio che davano al nemico
da star sulle mura, apersero porta Asinaria, oggi Lateranense, ed
uscirono, per forte caricare i Saraceni ed i cavalli condotti da
Ruggiero, altro figliuolo di Guiscardo. Quel fatto pose la gioia nel
cuore di Roberto, che ormai vedeva i suoi vacillare; il Buglione
sgomentò.

Roberto ordinò ai baroni calabresi ed ai cavalieri normanni serrarsi
ad ordini spessi, perchè allora la cavalleria non formava mai più di
una fila sola e rarissimamente due, non volendo, come signori, alcun
combattere dietro l'altro; e si avanzò per pigliare la pugna. Il
Buglione mandò più volte a scongiurare Baccelardo e l'arcivescovo che
con lenta e combattuta ritirata rientrassero nella città. Ma questi,
impegnati in caldo attacco, non potettero secondarlo. Goffredo
cangiò piano di combattimento. E' spiccò Rolando coi cavalieri
romani a rinforzarli; ma previde già che il nemico sarebbe penetrato
nella piazza. Questo squadrone testeggiò i cavalieri di Roberto,
ed impedì per allora che si girassero negli ordini dei soldati di
Guiberto e di Baccelardo e sussidiassero i mezzo rotti Saraceni.
Ulrico di Cosheim intanto coi mangani e con le frecce spazzava i
Pugliesi che, accalcati a porta San Lorenzo, tentavano sfondarla; e
sì maledettamente li trattò, che sbrancati corsero a cercare asilo
dove più calda ferveva la mischia. All'arrivo di costoro, la cosa
non bilicò più. Roberto caricò di più vigore. I soldati di Rolando
piegarono, e rinculando sempre, cercarono ricovero nella città. Il
duca vi si cacciò con essi.

Dall'altra banda, Ruggiero fu tratto da cavallo mezzo morto per mano
dell'arcivescovo. Questi, fatto segno di Ben Hamed e di Sigelgaita,
indietreggiò, opponendo sempre la fronte e tempestando colpi, sino
a che dai suoi non fu trascinato dentro. Baccelardo, costretto a
retrocedere, perchè gli avevan spaccato l'elmo sulla testa, spezzata
la spada, morto il cavallo, e portato via lo scudo, rottesene le
guigge dando col punteruolo di mezzo sul capo ad un Saraceno che lo
travagliava col pugnale. Per lo che, entrati dentro Roma, confusi
assalitori ed assaliti, più feroci badalucchi principiarono. Non
crocicchio, non strada, non piazza mancava di zuffa. Nelle corti
stesse, nei chiostri, nelle chiese, e duelli a corpo a corpo e
mischie in molti inferocivano. E nè i Romani cedevano, nè quei del
duca stancavansi, avvegnachè considerevolmente menomati; tal che
forse in Roma avrebbero trovata la tomba se più a lungo fosse durato
il giorno.

Ben Hamed però, vedendo che non si sarebbe venuto mai a capo di
domare gli ostinati Romani, immaginò distoglierli dalla difesa, e
comandò ai Saraceni d'incendiar la città. Non appena l'emiro aveva
profferito l'ordine, che questi distribuironsi a piccoli gruppi,
inondarono i quartieri, e coadiuvati dai Calabresi e dai Pugliesi,
già rotti al saccheggio, appiccarono fuoco a più punti di Roma, e
segnatamente a San Giovanni a Laterano. Il vento, mosso da poco,
aumentò le fiamme e le propagò. Sicchè, in brev'ora, quanto ergevasi
dal Laterano al Coliseo è tutto ridotto in cenere. I Romani allora,
per salvarsi dal fuoco e spegnerlo, lasciano di osteggiare la truppa
del Guiscardo, e quei soldati, non avendo più a difendersi, si
sciolgono ad ogni maniera di rapine e di sacrilegii, non rispettando
tempii, non chiostri, non l'onore delle donne, non l'innocenza dei
fanciulli, non la canizie dei vecchi. Roma mutasi in sentina di ogni
delitto e di ogni oltraggio al pudore ed alla religione.

Gregorio intanto, come Nerone, dall'alto delle torri di Castel
Sant'Angelo contemplava l'esizio e la mina della sua città.

Ritto fra due merli di una torre, immobile come fosse pietrificato,
l'occhio fisso, le braccia tese ed irrigidite, il capo scoverto,
perchè un buffo di vento gli aveva portato via il berretto, i capelli
delle tempie rizzati come fili di argento, la lunga barba arruffata
ed inturbinata dalla brezza, e' sembrava quivi non un uomo ma il
ministro di quelle divinità egizie ed indiane il di cui sguardo è
incendio, il di cui alito è peste, il di cui gesto è sterminio.
La sua potenza visuale era ampliata. Egli vedeva tutti i singoli
particolari di quel terribile dramma; vedeva dove l'aquila non
avrebbe più nulla distinto. L'anima esuberava. La sua tonica bianca
si gonfiava e s'agitava sotto il soffio della tramontana, che aveva
cominciato auretta e si era ingagliardita a turbina. Dorato, e
calmo all'alba, il cielo si era andato a poco a, poco; caricando di
rosso, si che sarebbesi detto un'aurora boreale. Tutti i comignoli
di Roma, a quel riverbero, sembrano fiaccole immense che illuminano
una città involta in un bianco sudario di nebbia come uno spettro
che vien fuori da una tomba. Quella nebbia però si era a poco a poco
anch'essa sminuzzolata a fiocchi, a sprazzi, a lembi che assumevano
sotto l'azione del vento mille forme fantastiche, che grondavano
sangue, così indorati come erano dal sole, e che cozzavano in cielo
come gli uomini cozzavano sulla terra. L'aere rimbombava di un rumore
indistinto, incalzante, vertiginoso come l'ululato di un mostro che
agonizza.

Però Gregorio non badava al cielo, non badava alla natura. La terra
lo attirava magneticamente, E' non diceva parola. La sua fronte si
alzava serena; il suo volto per niuna commozione turbavasi, Oddo
intanto correva su e giù lo spianato gridando: Miseri cittadini!
Quale giorno doveva io vedere prima di morire! Nè meno costernata
di costui mostravasi Alberada, la notte precedente ammessa dentro.
Ella neppure parlava, solo si torceva le mani, genuflessa, gli
occhi ora rivolti al cielo, ora alla desolata città. Un rivolo di
lacrime tacite le solcavano le guance. E così questi miravano, al
riverbero delle fiamme, Roma struggentesi in un nuvolo nero fumo che
l'avvolgeva a volta a volta, e che più spesso, spazzato dal vento
il torbido velo, si mostrava nel suo pieno squallore col sole che
infine, verso sera, placido e bello tramontava, indorando le cupole
delle chiese. Quand'ecco che Alberada gitta un grido da spezzare il
cuore, si alza sollecita, seco trascina Oddo malgrado di lui, e viene
giù alla porta del castello.



IX.

  Piacemi, cavalier, che Dio temendo
    Porta lo nobil suo ordine bello,
    E piacemi dibonare donzello
    Lo cui destino è sol pugnar servendo.

                                GUITTONE D'AREZZO.


Due cavalieri, Roberto e Sigelgaita, cavalcavano verso il ponte
San Pietro per isboccare alla porta di castel Sant'Angelo. Tutto
ad un tratto odono alle spalle uno scalpito di due altri guerrieri
che, a briglia sciolta, galoppavano. Immantinente Roberto, che
andava dietro, volge la testa, per guardare chi fossero, e vedendo
che l'altro gli accennava della mano di sostare, gira il cavallo e
subitamente si trovano di fronte.

--Io sono Baccelardo, grida il cavaliero alzandosi con una mano
la visiera dell'elmo. Roberto Guiscardo, fanciullo, nelle sale di
Melfi, ti detti un guanto e ti consigliai a conservarlo perchè sarei
venuto a ridomandartelo uomo. Ora tel ridomando; e qui, perchè il
tempo è venuto, perchè lungamente ho ritardato, mi renderai ragione
dell'infame vitupero che facesti alla tua donna Alberada.

Baccelardo, dopo essere stato così pesto e disarmato, rigettato
dentro dall'onda dei suoi che vi cercavano tardo scampo, aveva fatti
novelli sforzi, e con cento opere di valore tentato cacciarne l'oste
normanna. Ma avendo infine compreso che vanamente si arrabattava a
tal uopo, che irreparabilmente Roma era perduta, risolse attaccare
il suo destino a quello della signora del mondo, e fare scoccare
l'ora della sua vendetta. Rientrò quindi nel suo alloggiamento onde
provvedersi di armi e di destriero.

Non appena egli vi pose piede, che il suo paggio Corrado, dominato
fino allora da mortale ansietà percorrendo la stanza a lunghi passi,
gli si gitta addosso e mille domande gli volge se fosse ferito.
Baccelardo risponde alle amorevoli carezze di questo bel giovanetto
per un tristo bacio sulla fronte. Poi muta il suo giaco, squarciato
in più luoghi, prende nuova rotella, nuova spada e lancia, e si fa
allacciare le correggie dell'elmo. E tutto senza dir parola, con una
solennità ed una freddezza, che agghiacciava il cuore del sollecito
damigello. Però come il suo armamento fu compiuto, Baccelardo ordina
ad uno scudiero d'andargli a preparare il suo destriere _Licht_,
il quale, perchè troppo vecchio, aveva risparmiato la mattina,
ben prevedendo avrebbe avuto bisogno di cavallo più leggero e più
vigoroso. In quel momento decisivo della sua sorte, e' non volse
scompagnarsi dal più fedele amico che unicamente lo aveva amato e
tanto... prima che il cielo gli avesse messo a fianco il tenero
damigello. Questi, durante quegli apparecchi, divorato da ineffabile
smania, non aveva profferita parola. Ma come vide che Baccelardo,
dopo avergli gittato uno sguardo--uno sguardo che racchiudeva tutta
una storia di passione--si allontanava senza neppure confortarlo del
consueto bacio sulla fronte, gli corre dietro frettoloso e cadendogli
ai piedi grida:

--Vuoi farmi dunque morire?

Baccelardo lo solleva dal suolo, e stringendoselo al petto con
una ineffabile tenerezza, con una voluttà disperata e baciandogli
replicate volte il sembiante, suo malgrado una lagrima gli cade, ed
il pallido volto del contristato giovane bagna.

--Dove vai dunque? questi dimanda. Ti ho veduto tante e tante volte
andare a combattere e mai il cuore mi si è stretto così aspramente;
mai tu mi hai lasciato con quell'aria mesta e funerea. Di',
Baccelardo, in nome di Dio! dove dunque vai tu?

--Vado incontro al mio destino, Guaidalmira. Non mi hai veduto mai
correre alla pugna di questa ciera abbattuta, perchè mai a simili
pugne sono andato. Ora si deve decidere. Egli è qui, egli mi deve un
conto; vado a trovarlo, vado a cercarglielo.

Guaidalmira, perchè dessa era il paggio Corrado il quale aveva
seguito Baccelardo fra tante sventure e pericoli; Guaidalmira, che
conosceva tutta la storia di lui, non fa più motto. Solo dopo un
minuto di silenzio risponde:

--Ebbene, va pure. Però non puoi negarmi ch'io t'accompagni.

--A che pro, Guaidalmira?

--Noi so io stessa. A nessun pro per certo. Ma voglio accompagnarti;
e tu non puoi rifiutarmelo.

--Ma sai che s'io ti vedessi, se io ti vedessi impallidire e tremare,
perderei ogni equilibrio di mente, e forse...

--Tu non mi vedrai. Mi metterò un morione con la buffa inchiodata. Ma
voglio accompagnarti; voglio essere presente allo scontro terribile;
il tuo destino ti porta... alla vittoria. Voglio, debbo perciò
esserci anch'io. Ricordati che a Canossa accomunammo il nostro
avvenire; accomunammo la nostra sorte. Non possiamo più, o almeno non
è questo il tempo di separarci.

--E impossibile, dopo alquanto di silenzio soggiunge Baccelardo.
Tu devi restare qui, per te, per me lo devi. In qualunque altro
instante, non avrei esitato a condurti meco; ma in questo...

--Ebbene, giacchè vuoi che io resti qui, va pure... va. Ma diamoci
almeno un addio. Dà un addio alla tua Guaidalmira che tanto, che te
solo ha amato. Non la vedrai più. Essa morrà qui, te lo giuro.

Baccelardo la guarda attentamente, e vedendo che ella era risoluta a
non so qual partito estremo, con un sospiro balbetta:

--Vieni dunque: era deciso così! Se vi è un Dio però, se vi è un Dio
che pesa e guarda i fatti degli uomini, sa a cui dare la vittoria in
questo momento.

Guaidalmira sorride amaramente. Poi, presagli la mano come per
ringraziarlo dell'accordatole favore e baciatagliela, l'esamina
attentamente, e una lagrima vi lascia sopra cadere. Baccelardo
l'abbraccia un'altra volta, ed in un baleno, messi a termine gli
apparecchi della partenza, escono per Roma onde imbattersi nel
Guiscardo.

Ed eccoli l'uno a fronte dell'altro, vicino al ponte San Pietro, di
rincontro a Castel Sant'Angelo, sotto gli occhi di quell'Alberada per
cui Baccelardo dimanda l'abbattimento.

All'aspetto di quest'uomo, a quella protesta, Guiscardo si scuote.
Sigelgaita ritorce anch'essa il cavallo, e come se non fosse più cosa
animata, immobile resta a guardare, vicino ad un pilastro del ponte.
Il turbamento di Roberto non dura molto. Egli porta la mano al suo
fianco, e dal cinturino della spada spicca un guanto che a Baccelardo
presenta.

--Baccelardo, ecco il tuo guanto, egli dice. Gli è però mestieri che
sappi io non battermi più per una causa di cui Iddio mi ha fatto
conoscere l'ingiustizia. Va dunque in nome dei santi, perchè mi
dorrebbe farti male.

--Ti credo, risponde Baccelardo; ebbene, giacchè confessi che
indegnamente facesti vitupero alla contessa Alberada, io ti apprezzo
per quel nobile cavaliero che sei. Battiti quindi meco per gli Stati
del padre mio, che infamemente usurpasti ed infamemente ritieni.

E così favellando gli toglieva dalle mani il guanto, cui dava a
custodire a Guaidalmira, si calava la visiera, e ritraendosi metteva
in resta la lancia per dar principio al combattimento.

Fu allora che Alberada, dall'alto della torre li vide, e
riconosciutili dalle divise, trascinandosi furiosa il conte Oddo alla
porta, lo costrinse ad aprire, e si fece metter fuori.

Sventurata! quale fatalità la trascinava!

Non appena ella fu alla testa del ponte, all'altra banda del quale
quei due furibondi battagliavano, che di voce affannata si pose a
gridare:

--Arrestatevi, arrestatevi, in nome di Gesù Cristo!

A quella voce Sigelgaita si volge, Sigelgaita che fredda,
impassibile, taciturna come le statue che si mettono sopra i
sepolcri, vedeva affrontare suo marito e suo nipote, ed impegnare
una pugna dalla quale uno solo o nessuno doveva tirarsi vivo. In un
baleno Sigelgaita si gitta allora da cavallo come una furia. Corre ad
Abelarda, l'abbraccia per un amplesso da soffocarla, da cacciarle nei
reni le dita delle manopole di ferro, la trascina, la gualcisce, la
contorce, la difforma, le fa scricchiolare tutte le membra, l'arruffa
come un cencio--e tutto in un attimo, di un solo moto--si accosta
ai balaustri del ponte, appoggia sul petto di lei il suo mento, la
spezza in due nella spina, e la precipita nel Tevere. E tutto ciò,
in meno di tempo che non mettiamo a narrarlo. Alberada gitta un
grido di morte, e sotto le acque dispare. Sigelgaita l'aveva veduta
a mano a mano coprirsi nel volto di pallore mortale, l'aveva udita
mettere quel gemito terribile, l'aveva veduta precipitare dall'alto,
la vide tuffare nell'onde, e non si era scomposta nel viso, e dai
parapetti del ponte non si era allontanata. Tutto ad un tratto quella
sfortunata ricompare a galla ed un palo della diga l'accrocca della
tunica e di faccia verso il cielo la capovolge.

--Non sei ancor morta? grida a quella vista Sigelgaita come una
tigre; e cercando attorno, non scorge anima viva, non vede oggetto
da poterle lanciare sul capo, non trova pietre, non trova nulla,
null'altro che un cadavere innanti ai piedi di un cavallo, un
cadavere coperto di ferro e di sangue che fumava ancora. Ella lo
trascina fino al ponte; poi, piegandosi sopra di lui, lo afferra di
ambo le mani, lo solleva, e pigliata la misura, lo lascia cadere sul
capo d'Alberada, ritenuta sempre dal lembo delle vesti ad un pinolo
di palizzata. Il cadavere non era giunto ancora giù, che di sopra il
suo capo Sigelgaita sente passare un cavallo di slancio, il quale
egualmente nel fiume si precipita.

Quel cadavere era Baccelardo: quel cavallo _Licht_.

Un altro cavaliere, cui ella non aveva scorto dapprima perchè caduto
brancoloni sotto una scala del ponte, vi si appressa allora per
avventarsi ancor egli al medesimo salto. Sigelgaita lo rattiene. Era
Guaidalmira.

E Gregorio tutto contemplava dall'alto delle torri, e sul suo volto
segno di commozione non appariva. Ritornava il padrone di Roma!

Disgraziato! Godi pure, le tue gioie son numerate.

La notte intanto era compiutamente caduta. La notte di Roma, di
allora in poi, divenne più tenebrosa. Saccheggiata e spogliata
di tutte le sue ricchezze, vituperata nell'onore, bruciata negli
edifizii, decimata dal ferro di cittadini, desolata di tempii,
vedovata dal bando dei migliori suoi uomini, dopo quel giorno,
l'antica città restò pressochè deserta, e la popolazione si trasferì
tutta intiera al di là del Campidoglio--in quello spazio che altra
volta formava il Campo di Marte.

Quella sera stessa la duchessa Sigelgaita riceveva a segreto
colloquio, nella sua camera da letto, Rolando da Siena.



LIBRO OTTAVO

TRAMONTO



I.

  Sedea quel superbissimo signore
    Sovra un trofeo di strali, e l'empia morte
    Gli stava al fianco, e la contraria sorte
    E 'l sospiro e 'l lamento appo il dolore.

  Io mesto vi fui tratto e prigioniero;
    Ma quegli allor, che in me le luci affisse,
    Mise uno strido di dispetto, e fiero,

  E poscia aprì l'enfiate labbra e disse:
   Provi il rigor costui del nostro impero.

                                             REDI.


Appena l'arcivescovo di Ravenna comprese che Roma era
irrevocabilmente perduta per gl'imperiali, si raccolse intorno
quel residuo di Alemanni e di Italiani che nel badalucco potè
raggranellare, e stretti ed armati, a stendardo sventolante, uscirono
per porta Toscana. Una parte dei senatori e dei patrizii romani col
favor della notte si rifugiò in Castel Sant'Angelo. Ne cacciarono
via Gregorio. Provvidero, per quanto potè tornar loro, scorte ed
armi. Ed aspettarono sicuri che il furor prima degl'invasori fosse
ammansito. Questo furore però e questa libidine d'oro e di sangue
nella truppa del duca non si spense così tosto; nè desso per due
dì fu veduto. Colpito nel cuore dalla doppia morte della contessa
Alberada e di Baccelardo, dal rimorso travagliato, da incognito,
segregato e romito visse nel monistero di San Paolo. Però al terzo
giorno comparve, e recatosi al Vaticano trovò Gregorio, nel mezzo
dei suoi capitani, intento a proscrizioni ed a scomuniche. Vanamente
Gregorio aveva provato destare il suo partito. Non cardinale, non
vescovo, non prete, non nobile, non cittadino attorno a lui volle
recarsi. Tutti lo accagionavano di tanto danno; tutti lui incolpavano
se all'ebbrietà del vincitore non si metteva freno. Sicchè più del
Guiscardo, più del saraceno stesso, lui abborrivano e come traditore
del suo paese dannavano a morte.

Al terzo giorno di quell'orgia di sangue però il popolo si scosse.
Cencio, il duca di Cosheim, che dentro Roma con un manipolo di
soldati tedeschi si era fortificato nel _septifolium_, alcuni
patrizii ed Oddo s'accorsero dell'ammutinamento, ed uscirono dalla
mole di Adriano. Indi stuzzicando i più timidi, infiammando i più
audaci, allestirono conventicole, raccolsero, aizzarono, armarono il
popolo, ed uniti in grossi drappelli piombarono addosso alla truppa
del duca di Puglia.

La colsero alla spicciolata, avvinazzata, stanca, scarsamente
armata, indebolita dalle veglie e dalle libidini su per lupanari
e per chiese. E ne fecero così grave macello, che Roberto dal
suo torpore si destò. Il conte Oddo infrattanto con un pugno di
arditi transteverini, ed il duca Ulrico di Cosheim con i Tedeschi,
avevano sbrattato palazzo Vaticano della guarnigione calabrese, e
vi assediavano il papa. Guiberto, avvisato, con rinforzi era per
rientrare nella città. Voci altissime per chiassi e per piazze
levavansi.--Morte a Ildebrando, morte a Guiscardo! I Saraceni ed i
Normanni, venuti alle prese nel Foro con certe bande comandate da
Cencio, fuggivano. Un subbuglio, un imprecare, un romor d'armi, un
sonar di campane a martello, un assassinio continuato, senza riguardi
di luoghi, di sesso e di età.

Guiscardo comprende di un lampo a qual pericolo si trovasse, ed a
qual repentaglio stesse per mettere vittoria, vita ed esercito.
Ordina quindi a quei capitani suoi, che gli venne fatto poter
accozzare di subitamente richiamare i soldati alle bandiere e di
suonare a raccolta. Ed ei si reca dal pontefice alla testa dei fedeli
Normanni, meno degli altri sbrancati alla rotta. Essi non ebbero a
far poco per aprirsi il cammino. Spazzano Vaticano dagli ordini fitti
che lo assediano e già ammaniscono tormenti da breccia e scale per
penetrar dentro ed impossessarsi del pontefice. Combattono contro i
soldati dei Cosheim e di Oddo; penetrano nel palazzo.

Gregorio non si era per nulla turbato, forse non si era neppure di
nulla avveduto, e scriveva lettere a tutti i legati suoi, sparsi
per l'orbe cristiano, onde annunziare il trionfo del Signore. E'
non curava l'insurrezione del popolo, non il pericolo che correva
l'esercito liberatore, non il massacro di tante vite. Godeva del
trionfo; godeva dello sterminio dei nemici suoi. E non era sazio, non
stanco di additare novelle vittime al supplizio ed alla proscrizione.
La vittoria lo aveva ubbriacato. Viveva in un'atmosfera che tutto,
umanità, religione, carattere gli faceva obbliare. Giunge a tempo
Roberto per destarlo da quel sogno, o meglio da quel deliramento di
sangue.

--Santo padre, prende a dire il Guiscardo, è ora finalmente di far
desistere da tanto eccidio, e partire.

--Così presto! sclama Gregorio sorpreso e scontento.

--Non è già presto, santo padre, risponde Roberto, gli è anzi tardi,
forse troppo tardi perchè ci resti ancora scampo a fuggire. Non è
momento di lusinghe adesso.

--Fuggire, mormora Gregorio rizzandosi ed aggrottando le ciglia.
Temereste voi forse questa sgualdrina di plebe codarda e venale,
messer duca? Egli è impossibile!

--Io non sono un testardo che ha perduta la ragione, santo padre, per
dire che non temo nè gli uomini, nè Iddio, continua Guiscardo senza
occuparsi dell'atteggiamento del pontefice. Io ho senso abbastanza
per comprendere che, se resto a Roma solamente alcune altre ore, mi
sarà tagliata la ritirata, ed il mio esercito ed io corriamo pericolo
di essere passati a fil di spada. Ecco tutto. Il popolo è ammutinato;
è corso alle armi. La disperazione muta in eroi anche i poltroni. È
ora di partire.

--Voi pensereste dunque?...

--L'ho detto, di uscire di Roma senza indugio. Ho comandato ai miei
capitani di raggranellare la truppa sparpagliata. Ridotta agli
ordini, voglio andar via da me, con volontaria e decorosa ritirata,
prima che sia costretto a fuggire come cacciato e come vinto.

--E così poco doveva dunque durare il trionfo d'Israello? mormora
Gregorio alzando gli occhi al cielo.

E Guiscardo:

--Io non so, santo padre, se Israello abbia trionfato per poco; so
che del trionfo ha abusato. E da lunga sperienza conosco, come la
vada sempre così, dove menomamente si rallenti la briglia al soldato.
Noi non ci riconcilieremo mai più questo popolo.

--Vorreste dunque lasciarmi in mano ad una plebe rivoltata, corriva
al sangue ed alla vendetta, messer duca?

--Io no. Io penso invece che vi condurreste saviamente, santo padre,
a venir meco, e dare eterno addio a questa città: perchè voi, anche
per lo innanti non ben gradito, ve ne avete distolto l'amore per
sempre.

--È impossibile!

--Udite per poco come essi gridano, morte a voi ed a me, santo padre.
Qui comincia a far caldo seriamente. Voi siete uomo di giudizio per
comprendere ciò che vi convenga di fare. Io vi protesto chiaro che,
fra due ore, sarò fuori le mura di Roma; perocchè io ho ancora da dar
conto della vita dei miei soldati, ed essi riposano sul mio senno e
sul mio onore. Partirò.

--E dovrei dunque esiliarmi, o meglio, mi esilieranno da Roma i miei
vassalli, nel punto proprio che io li aveva sottomessi?

--Questo è l'errore, beato padre. Essi non sono sottomessi di
niuna maniera; e ne sia prova i battaglioni che si vanno armando e
rinforzando per pagarci a misura di picche e di pugnale del gastigo
che abbiamo loro inflitto a misura d'azze e di lancie. Io doveva,
li aveva anzi promesso ai miei valorosi soldati, questi giorni di
stravizzo e di libero dominio sopra un popolo conquistato. L'ora è
passata. Questo bestial popolo, che non sa nè comandare nè servire,
si è riscosso. Andiamo in nome di Dio, se non vogliamo lasciarci la
vita. Udite a me, beato padre; non vi restate in bocca ad un lupo
affamato, irritato, con le mascelle armate di denti, e di niente
meglio avido che stritolar la sua preda. Dell'esizio di Roma più che
i Saraceni, i soldati e me, incolpano voi. Che sperate di più? chi vi
difende?

--Andiamo dunque, risponde Gregorio, ed in nome del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito Santo, io maledico questo scellerato
popolo, che insorge contro il giusto e contro l'unto del Signore, che
oltraggia il suo donno, e si ribella contro il padrone. Andiamo, io
scuoto la polvere dai miei sandali, e lo lascio a bersaglio dell'ira
di Dio.

E sì imprecando, Gregorio usciva col Guiscardo. Il quale nelle sale
del palazzo trova Roberto di Loritello, venuto a farlo conto di aver
raccozzato buon terzo della truppa nelle vicinanze del Foro, che
Ben Hamed si studiava raccogliere i suoi, e che egli con una mano
di cinquecento cavalli poteva guidarlo sicuro al Foro, d'onde, alla
testa dell'esercito, uscire.

In effetti, quattro giorni dopo il suo ingresso a Roma, Roberto, a
suono di trombe ed a bandiera spiegata, ne partiva, recandosi nel
centro il pontefice Gregorio VII, tra le contumelie ed il corruccio
del popolo che lo tagliava alle spalle, lo grandinava di frecce, e
gli scagliava dalle finestre rottami di tegole ed altri corpi da
ferire ed uccidere. Per modo che, soventi volte la retroguardia fu
costretta far alto, tanto da tener testa alla plebe petulante che si
avventava loro addosso furiosa e burliera.

E così Ildebrando esulava da Roma, cui per trentacinque anni aveva
contristata di sue innovazioni, di sue pretensioni, col dispotismo,
col renderla scopo dello sdegno di tanti nemici, coll'istrapparle
il residuo di libero governo che ancora le rimaneva, con farla
devastare e bruciare da eserciti stranieri, e spogliarla di
ricchezze, di onore, di virtù, di brio e di valore, con imporle
infine il teocratico giogo, cui da lui in poi, per sforzi che avesse
fatti e molti e generosi, non ha saputo mai più togliersi. Egli ne
usci corrucciato, fiero nel volto e nei pensieri, disprezzandola,
maledicendola, disegnando in sua mente tornarvi, quando che fosse,
come il Guiscardo vi era venuto, e punirla della ribalda fellonia. Ne
usciva esecrato, schernito, vilipeso per porta Lateranense--nel punto
stesso che il fratel suo, tanto perseguitato ed odiato, l'antipapa
Clemente, festeggiato e tra le ovazioni del popolo vi entrava per
porta Toscana.

Roberto, alla testa del suo esercito, precedeva il pontefice. Al suo
fianco cavalcava la duchessa Sigelgaita, cui teneva dietro il suo
novello scudiere e favorito, Rolando da Siena.



II.

  Queste colte sull'Emo,
    Queste colte in Tessaglia erbe omicide
    Pieghin colui che del mio mal si ride.

                                             REDI.


Sigelgaita procedeva a fianco del suo consorte cupa e distratta.
Rispondeva a monosillabi, o non rispondeva niente affatto alle
domande che questi le indirizzava--e molto meno a quelle del
pontefice che, dopo aversi lasciata Roma alle spalle, dal corpo
dell'esercito era passato alla fronte. Solamente di tanto in tanto
Sigelgaita si volgeva al suo scudiero per dirgli ora una cosa, ora
un'altra, e chiedergli conto di alcun oggetto o di alcuna persona. Il
pontefice guardò in cagnesco Rolando, da lui fulminato di scomunica,
ma non fece mostra conoscerlo nè rammentarsi di lui. Egli lo scorgeva
in tanto favore della duchessa, altera e dispotica e comprendeva
che vanamente avrebbe porte rimostranze. Nè Roberto se ne incaricò
di vantaggio; consapevole dei modi di Sigelgaita. Che anzi, fino ad
un certo segno si piacque aver tirato dalla sua uomo tanto ardito
e tanto prode. Così che, mossero da prima per Montecassino, dove
l'abate Desiderio di ogni bello accoglimento li festeggiò, e subito
dopo per Salerno--allora la padrona dei mari.

Una sera il medico Guarimponto venne introdotto dalla duchessa
Sigelgaita.

Da due giorni ella infermava; nè i consigli, nè la dottrina del
celebre Costantino d'Africa, cancelliere del duca e dotto medico,
avevano potuto convincerla che di assai poco momento quel suo
malessere fosse.

Guarimponto era anch'esso uomo di grande fama e bell'ornamento
della scuola salernitana, allora e poi sì rinomata. Poteva contare
settant'anni. Alto della persona, cui nemmeno l'età e l'abitudine
allo studio avevano incurvata, portava capelli corti e barba assai
lunga, avendo conservato il costume longobardo, longobardo esso
stesso e fiero da non aver voluto mai piegarsi nè agli usi, nè
al dispotismo normanno, nuovi padroni di Salerno. La sua bianca
barba gli scendeva profusa sul petto e con assai maestà spiccava
sulla di lui tunica chermisina. Egli ostentava gravità, o meglio
malinconia. Perocchè si compiaceva assicurare di non aver giammai
riso, dal dì che il suo allievo Gisulfo fu costretto esulare dalla
dimora e dagli Stati del padre suo. Un paio di occhi grigi però,
vivaci ed irrequieti, che scintillavano nelle orbite incavernate,
sopra le quali irte, folte, e nere tuttavia, sporgevano le ciglia,
indicavano, egualmente che il naso volto della punta all'insù, che
assai lungi della tristezza e più vicino alla tristizia egli fosse.
La sciatica--ed e' vantava le più brillanti guarigioni di questa
malattia, ed i più sicuri lattovari--la sciatica gli aveva rattratta
una gamba; così che la strascicava dritta ed inflessibile come
stecco, e, camminando, sembrava ad ogni passo fare una riverenza.
Cosa che assai gli toglieva di serietà, maggiormente perchè, fingendo
il divagato, lasciava strisciar nella polvere il lungo suo manto
scarlatto, sopra del quale i monelli delle piazze, quando ei passava,
sedevano e si compiacevano farsi da lui saporitamente rimorchiare.

Guarimponto si presentò alla duchessa, cui aveva conosciuta fanciulla
ed addestrata alla musica ed alla gramatica. Giunto sotto l'arco
della porta, si ferma per contemplarla. Poi, dopo essere stato alcuni
instanti in quella postura, tira innanzi così angaione, e giunto al
letto dell'inferma gitta un sospiro e sclama:

--_Fugit irreparabile tempus!_ Gli antichi simularono il tempo sotto
la figura di Saturno che divorava i suoi figli, e furono sciocchi.
Conciofossecosachè ciò che si divora si smaltisce; ciò che si
smaltisce muta di forma, ciò che muta di forma non si riconosce più,
ciò che non si riconosce più si obblia, e noi--noi mastro Guarimponto
ricordiamo di voi, vi abbiamo ricordata sempre, leggiadra duchessa
Sigelgaita, degna di migliore ventura!

--Mastro Guarimponto, l'interrompe Sigelgaita, abbiamo bisogno di te
e della tua dottrina, non del tuo compatimento. Noi stiamo male.

--La dottrina è una grazia che Iddio concede ai suoi eletti come
il sole, perchè illumini tutti e tutti se ne possano giovare. Per
la qual cosa, nostra bella duchessa, noi non ci rifiuteremo mai
ai vostri bisogni; ed eccoci qui per iscacciare, con la spada di
Azzaele, l'angelo della malattia che vorrebbe stendere la mano
sulla vostra persona. Dite dunque, dov'è che avete male, duchessa?
Datemi qui il vostro polso, perchè la sfigmica è come la vôlta
cristallina dell'empireo, sopra la quale si chiodano le stelle, ed
in essa il medico, che ha l'occhio della scienza, legge il principio
di malignità che s'insinua nella fibra della macchina umana. Dite
dunque, bella duchessa, dov'è che avete male?

Sigelgaita provava irresistibile tentazione di far gittare dalle
finestre mastro Guarimponto; non pertanto si contenne ancora e
rispose:

--Male al cuore.

--In fatti, bella duchessa, deve esser così! E se la luce di
quella finestra non fosse stata attenuata tanto, e le tenebre non
cominciassero ad involvere la terra ed il mare, io ve lo avrei
detto dal bel principio, perchè si legge già dal _palloris vultus,
anxietatis, membrorum tremoris, difficilis respirationis, oculorum
languoris_, ed altro che Avicenna soggiunge, trattarsi _de cordis
affectione_. Ed Aetio, nel secondo de' Tetrabibli, ha giudicato che
_celerrima pernicie instat corde affecto_.

Sigelgaita sentiva scoppiarsi. Si solleva dunque sul letto ed ordina
alle sue damigelle:

--Uscite.

Poi voltasi a Rolando, che dall'altro lato del letto, con le braccia
conserte, guardava il famoso Guarimponto, gli ordina:

--Chiudete l'uscio. Quindi rizzatasi affatto sulla metà della
persona, grida:

--Che la peste ti soffochi, pezzo di birbo, tocco d'asino. Dove vedi
tu dunque tutte codeste corbellerie che ci hai spacciate, e codesta
pernicie nel nostro male, se noi stiamo meglio di te, meglio di una
sposa che va a nozze, meglio del diavolo che ti porti?

--_Euge serve bone et fidelis!_ sclama Guarimponto senza scomporsi,
dopo aver udita fino alla fine la collerica diatriba della
duchessa. Sempre la stessa, sempre quel brio, sempre quella vita e
quell'ardimento! Noi credevamo che vi foste mutata, e perciò appunto
abbiamo voluto stuzzicare la vostra pazienza, come l'alcali stuzzica
lo starnuto--che, se nol sapete, è _diaphragmatis contractio_ come lo
ha definito Egineta. Ma no, bella duchessa, _summa cum animi lætitia_
noi vi troviamo sempre la stessa, sempre la Semiramide del nostro
secolo.

--Per le sante ossa di Caino quest'uomo ci farà perdere la pazienza,
mormora Sigelgaita rivolta a Rolando.

Rolando non le risponde. Ma girando dall'altro lato del letto, si
appressa al medico, e mettendogli una mano sulla spalla, con una
grazia che il povero medico si senti quasi slogar la clavicola e si
piegò, gli dice:

--Senti, compare. Che abbi voluto celiare fin qui, chè anche noi
abbiamo fatto da burla, te lo perdono. Ma adesso, poni mente a ciò
che madonna sarà per dirti, e ponci mente veh! perchè se niente
niente mi avveggo che ti torna la frega delle parole latine e di
dir cose che noi non comprendiamo, netto e sollecito ti gitto dalla
finestra. Mi hai capito?

--Voi vi spiegate con una facondia che incanta, messere! balbetta
Guarimponto, grattandosi la spalla intormentita. Andiamo dunque in
nome di Dio! Giacchè nulla vi bisogna dalla nostra scienza, e badate
bene che la medicina è scienza, avvegnachè quel guastamestieri
d'Ippocrate la dica _ars longa_... perdono! avete detto che non
volete latino. Dunque cosa ci avete a richiedere, se nulla dalla
nostra sapienza vi occorre?

--Ecco qui, mastro Guarimponto. Noi sappiamo da lungo tempo come tu
sii famoso nel cavar dall'altro mondo i morti e mandarci i vivi di
questo...

--Voi dite la verità, bella duchessa.

--Non c'interrompere. Sappiamo pure che niuno meglio di te conosce le
virtù secrete delle piante e delle pietre, non che degli animali...

--Che vivono nei quattro elementi; dappoichè noi siamo di avviso che
anche nel fuoco vi debbano essere bestie...

--Ma pel vero Iddio, Guarimponto, abbiam detto che non vogliamo
essere interrotta, comprendi?

--_Parce mihi_... scusate, dimentichiamo sempre che quel galantuomo
abborre dal latino, come _natura haborret a vacuo_... scusate,
scusate. Questo maledetto latino ci piove in bocca come la manna nel
deserto. Sicchè non v'interromperemo più. Favellate, bella duchessa.

--Ebbene, maestro Guarimponto, saresti tu al caso di distillarci un
qualche succo, o darci qualche polvere che sapesse insinuare nelle
vene di un uomo morte lenta ed inevitabile?

--Non altro che questo?

--Saresti tu dunque capace?

--Ih!! Ma volete voi avvelenare mezzo il genere umano? Maestro
Guarimponto vi darà tal filtro da non farlo vivere due ore.

S. Pier Damiano chiamava quest'uomo _vir videlicet honestissimus_.
Ah! come i santi s'ingannano sovente!

--Noi non chiediamo più di quel che ti abbiam detto, Guarimponto,
riprende la duchessa. In questa borsa son cento monete d'oro per
comprare il tuo veleno ed il tuo silenzio. Quell'uomo ha un pugnale
per guarirti della malattia di rivelare i segreti.

--Lasciamo stare i pugnali, bella duchessa. Noi non conosciamo
ancora, benchè tutto noi conoscessimo, un contraveleno per la pianta
pugnale. Non vogliamo perciò assoggettarci a quell'esperimento,
perchè la nostra grande opera il _Passionarius_ non è compiuta
ancora. E voi vedete qual grave danno verrebbe alla scienza ed al
mondo se questo lavoro restasse non finito! Sicchè dunque, bella
duchessa, accettiamo invece gli _schifati_, che graziosamente
ci offrite, onde potessimo continuare le nostre sperienze, e
dimonstrare, come per un dente cavato ad un filosofo dell'_isola_
di Delfo e' fosse morto, essendo che _la midolla del dente, avendo
nel cerebro principato, al crepare del dente discese nel pulmone e
l'uccise_ (_lib. 1, c. 17, p. 44._).

--Un momento. Quanto tempo per operare vorreste dare a codesto vostro
specifico?

--Quanto ve ne piace, bella duchessa, risponde il dottore.
L'ordinaria sua incubazione è di un anno... Se vorreste che gliene
accordassimo meno...

--Sì: qualche mese ancora di meno.

--Ebbene il vostro piacimento sarà fatto.

--Bada però ch'e' non possa essere neutralizzato da altro antidoto.

--Questo è difficile, madonna, sclama Guarimponto sospirando. Perchè
vi ha un uomo, un demonio dovremmo dire, Costantino d'Africa,
il quale, al pari di noi, conosce i segreti della natura. Egli
potrebbe... ma all'uopo, se ciò accadesse, noi vi provvederemo di
altro lattovaro che accelerarebbe la catastrofe e che neppure il
prezioso sangue della fenice avrebbe virtù di annullare--e sì che
tutte le potenze malefiche il sangue della fenice annulla! come ha
detto Averroe.

--Va dunque, Guarimponto, e ricordati che hai promesso al mondo ed
alla scienza di terminare la tua famosa opera del _Passionarius_.

Alcuni giorni dopo, Roberto Guiscardo era sorpreso da indefinibile
malessere, sì che il suo cancelliero, Costantino d'Africa, vanamente
ogni sapienza adoperò. Perocchè al bravo uomo non andava mai la testa
ai lavori del suo degno collega Guarimponto, e si ostinava a credere
quell'infermità prodotto dell'aria infetta di Roma. Roberto ritornò
in Grecia, dove aveva lasciato il figliuolo Boemondo a proseguire
i suoi conquisti. E questo valoroso principe, nel tempo stesso che
il padre sbaragliava a Roma l'esercito dell'imperatore d'Occidente,
fugava in Bulgaria l'imperatore d'Oriente. Roberto pose in armi
grosse flottiglie, ed incontrato il navile greco unito al veneziano,
fra l'isola di Corfù e di Cefalonia, lo ruppe, mandò a fondo molte
galee, fece 2500 prigionieri, ed i rimanenti fugò. L'eroe di questa
vittoria fu Boemondo. Guiscardo disegnava lasciargli il ducato di
Puglia e di Calabria, in luogo di Ruggiero.

Sigelgaita comprese il pensiero di lui. Ella amava a dismisura questo
suo figliuolo. Eppure non disse motto. Solamente alcuni dì dopo,
Boemondo infermava gravemente, a tal che fu obbligato passare in
Italia, dove, ch'il crederebbe? per forte somma di oro Guarimponto lo
guarì, ed assai facilmente, ed in molto poco tempo.

Roberto intanto di sua infermità non riavevasi--e bene tutte le
mattine sorbiva disgustosa cervogia che a quest'uopo gli preparava la
dotta ed amorosa duchessa! Infine, mentre intendeva tutto a ridurre
Cefalonia ribellata, e ne conduceva l'assedio col suo figliuolo
Ruggiero, una mattina fu sorpreso da più grave malore. Per curarsene,
si fece trasportare a Casopoli, piccolo castello sul promontorio di
Corfù, e la duchessa andò con lui per assisterlo. Il male non cedè
punto. Ed il dì 6 di luglio il suo medico lo aveva abbandonato,
il suo confessore gli aveva resi gli ultimi uffici di cristiano.
Vestito dell'abito di frate, i capelli e la barba coperti di cenere,
Guiscardo agonizzava. Vicino al suo letto non erano che due persone.
Uscì in fine da lungo accesso di letargia, e dimandò da bere. Una di
quelle persone gliene porge.

--È fuoco che mi avete apprestato! egli sclama.

Uno scroscio di riso è la risposta che gli si dà. Allora Roberto apre
gli occhi, e vede Sigelgaita innanzi al suo letto. Questa lo sta a
considerare un instante cogli occhi divaricati, poi si accosta più da
presso e gli mormora:

--Monsignore, adesso che andate gloriosamente all'inferno, ricordate
di salutarci la vostra bella e virtuosa Alberada.

Roberto le fissa addosso gli occhi incristalliti, poi gitta un
sospiro e si volge dall'altro lato. Dall'altro lato gli si presenta
Rolando da Siena che ghignava diabolicamente. Allora terribile
pensiero gli corre alla mente, e forse tutto il nefando ed il laido
di quella storia comprende. Fa uno sforzo onde sollevarsi sui
guanciali un momento; le pupille acquistano un baleno di fulgore
vitale, e la mano alza, quasi avesse voluto fulminarli di una
maledizione. Poi cambia d'aspetto incontanente. Le guance tornano
pallide, le braccia accoglie a croce sul petto, gli sguardi dirige
al cielo, dice con voce chiara: Dio vi perdoni! Chiude gli occhi e
ricade supino sul letto.

Quei due gli si accostano per contemplarlo ancora. Era morto! Si
dettero un bacio ed uscirono.

Questo fu il compianto che l'ultimo sospiro di Roberto Guiscardo,
duca di Puglia e di Calabria, accompagnava. Questa la fine di un uomo
che aveva vissuti settant'anni di gloria, fondato un regno ed una
dinastia, non mai conosciuta la sconfitta, e che il più grande, il
più prode, il più generoso dei tempi suoi fu pure, malgrado le sue
colpe, malgrado i suoi difetti.

Le ossa attendono il finale giudizio del Signore nella cattedrale di
Venosa; abbiano requie, se vistosa tomba non hanno.

       *       *       *       *       *

Gregorio VII lo aveva anteceduto di qualche mese.



III.

              Vi lascia, e mesto e solo,
  Senza più speme e con la morte in faccia
  Va in altra parte di un sepolcro in traccia

                                               CRONECK.


Appena Gregorio toccò la terra dell'esilio sembrò avesse perduta
tutta quella sua potente energia. Mandò suo legato in Lamagna Ottone
vescovo di Ostia, in cui trasfuse i suoi principii ed i suoi poteri,
e stette. Stette come torre sublime che sfida i secoli, e sfida
gli uragani. Era stanco. Aveva fatto troppo sciupo delle sue forze
morali; voleva riposarsi. Nè il desiderio gli mancò di riposarsi in
Dio! Non già che intieramente non guardasse il presente. Novelle
spiacevoli gli giungevano sempre da ogni verso, ed ei rifuggiva
ormai da dolori, a cui non sapeva prestar rimedio--nemmeno quello
della pazienza e della rassegnazione. Le cose attuali andavano male.
I suoi grandi sforzi erano stati inutili; i suoi principii non
prevalsi, e le sue parole non aveano fruttificato. Si compiaceva
perciò contemplar meglio il passato; il passato che sì forte e sì
glorioso era stato per lui! I due suoi più odiati nemici trionfavano.
Enrico trionfava in Lamagna, Guiberto in Roma; nè alcuno rammentava
più di lui, se non come un oggetto di spavento e di abbominio, che,
dopo aver prodotti tanti mali, codardamente si era ritirato senza
aver compiuta l'opera, senza aver combattuto sino alla fine. Ciò lo
contristava; ciò aumentava quella cascaggine di membra che i dolori
dello spirito avevano destata in lui e l'infievolivano ogni dì
peggio. Ma egli comprendeva, per quella vasta mente che avea sì vasto
disegno concepito, egli comprendeva che i tempi non lo propiziavano
più, e che bastava aver ardito di seminare le sue dottrine, perchè
altri secoli ed altri uomini le avrebbero maturate, avrebbero mietuti
i frutti.

Inoltre chi non sa che il vigore dell'anima si accompagna sempre col
vigore del corpo? E la fibra d'Ildebrando era usata con le pratiche
di penitenza, a cui fin da fanciullo nei rigori del chiostro aveva
dovuto piegarsi; usata dal lungo viaggiare per tutte le contrade di
Europa; usata da quella malvagia passione che chiamasi studio--e
lunghe e penose veglie egli aveva sopportate per addottrinarsi nella
difficile scienza dei padri--e lenta una tisi o corporale o mentale
con le notturne lucubrazioni nella macchina si insinua! Usata infine
per le protratte tensioni dello spirito, per i dissapori che senza
conto aveva sorbiti, per le gioie inaspettate, per gigantescamente
concepire e vegliare che il disegno s'incarni, per le passioni
indomite, selvaggie, ferrigne che si disputavano il suo cuore, per
l'amara necessità di reprimere gl'impeti di un temperamento di
bronzo, sì che Pietro Damiano lo chiamava il _clavigero apostolo_,
per il tarlo inesorabile della coscienza che alcune sue azioni non
sante gli riproduceva incessante, per il martirio infine dell'esilio
che è il più crudele dei martirii. Ond'è che in sul finire di
aprile del 1085 la lassezza era giunta a tale che non gli permise
più levarsi da letto. Ebbe bene Costantino Africano, mandatogli da
Roberto, a mettere in uso tutta la sua perizia. Il languore camminava
a gran passi, e col languore la morte. Il suo principio vitale era
consunto: la sua lampada brillava di luce vacillante.

Intorno a lui, senza mai darsi tregua nè mai per giorno o per notte
pigliar riposo, si affaccendava un giovane paggio lasciatogli da
Sigelgaita, che cure di figlio gli profondeva. Questo paggio, innanzi
al mondo si chiamava Corrado ed era quegli appunto di Baccelardo, ma
innanzi ad Ildebrando quel paggio era Guaidalmira--e tutta la misera
storia di lei egli già conosceva! Ma che può fare l'amore quando il
dito di Dio ha l'ora fatale designata, che può fare se non addolcirla
e spargerla di fiori e di speranze!

Sul cominciare di maggio, Gregorio si sentiva ancora più male. Si
convocò intorno quei pochi vescovi che ancora gli rimanevano fedeli,
e che con lui dividevano il pane dell'esilio. E come costernati ed
afflitti li vedeva a fargli corona, dal suo paggio e dal cardinale
Ugo Candido, il quale aveva cercato riconciliarsi con lui sapendolo
non lontano dal morire, si fe' sollevare alquanto sui guanciali, e
per voce indebolita e lenta, col volto estenuato e cadaverico, con
gli occhi incavernati, ma sempre lucidi e fieri, parlò:

--Diletti fratelli! L'ora mia è arrivata. Poco bene ho fatto quaggiù;
ma in questo momento di morte mi consola il testimonio della
coscienza, giammai avere agito contro il dettame di essa, ed il poter
dire: Ho amata la giustizia, ho odiata l'iniquità.

--Ah! santo padre, in quali tempi difficili ed in quali triboli ci
lasciate, dando in un dirotto pianto l'arcivescovo di Salerno sclamò.

--Confortatevi, fratelli, risponde Gregorio, fra breve sarò d'innanzi
all'Eterno, e raccomanderò a lui i miei figli e la mia Chiesa.
Confortatevi come i discepoli di Gesù si confortarono della sua
morte. Avete detto che i tempi son difficili, e ben diceste. Perciò
appunto rivestitevi della costanza degli apostoli, e brandendo la
spada di Paolo, con la carità e con la forza spargete sulla terra
le mie parole: perocchè, in vero vi dico, che le saranno messe di
grandezza per la Chiesa e per i suoi sacerdoti, e di gloria sì per
loro che pel Dio d'Israello.

--Oh! santo padre, chi ci reggerà dei suoi consigli, chi ci
illuminerà con la sua sapienza dopo che voi sarete ritornato nelle
gioie del Signore?

--Figliuoli miei, il mio testamento è di coraggio e di pazienza,
continua Gregorio. Io ho dato cominciamento ad un'opera che richiede
costanza, santità di costume, fiducia in Dio, vigore di mente e di
braccio, e l'inflessibilità di non ismarrirsi per rovescio, non
istancarsi per lavoro. Chi si sente forte e santo abbastanza pel
cimento, concorra alla terribile dignità dell'apostolato. Io credo
idonei già e maturi a tanto ministero, Ugo vescovo di Lione, Ottone
vescovo di Ostia, e Desiderio abate di Montecassino.

--E noi no? l'interruppe Ugo Candido.

Gregorio finge non udirlo e prosegue:

--Iddio illuminerà coloro che tal capo dovranno eleggersi. Ora,
figliuoli miei, andate. Io vi ho chiamati per darvi la mia estrema
benedizione, e per chiedervi perdono se mai opera o parola mia vi
avesse offesi e scandalizzati. Non occorre che voi perdiate maggior
tempo intorno ad un vecchio, che nulla più può fare alla vigna del
Signore e che picchia dei piedi la fossa. Andate, spargetevi per
la terra, e soccorrete il debole, rialzate il caduto, ristorate il
vacillante, edificate l'incredulo, e punite gli ostinati. Ma sopra
tutto, i figli d'Italia persuadete che si leghino fra loro, e giogo
di despoti e vituperio straniero non sopportino. Voi non avete più
che farmi. Vi ringrazio delle cure che mi prodigaste; ma più che me,
ora la Chiesa ha bisogno di voi. Andate, figliuoli, ed in nome del
Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo vi benedico.

Tutti quei circostanti, caduti in ginocchio, gli baciano la mano, e
bagnati da molte lagrime, ed oppressi da sincero dolore partono.

Non partì già Ugo Candido, non Guaidalmira.

Era il dì 25 maggio. Il languore di Gregorio toccava gli estremi, ed
uno stravaso di linfa al petto ne rendeva difficile la respirazione,
gli impossibilitava restare nel letto. Lo avevano perciò adagiato
sovra gran seggiolone e collocato presso ad una finestra, perchè
desiderava vedere l'ultima volta il sole che tramontava nella placida
ed azzurra marina. La finestra gli gittava un'onda di luce dal
petto alle gambe, ed imporporava la bianca tunica che lo covriva.
Ma un rosone a vetri colorati, praticato sulla finestra stessa,
dando passaggio ai raggi del sole, gli circondava la testa e la
bianca barba di luce così viva e così varia, che, al contemplarlo
da lontano, sembrava nuotasse in una conca d'iride, e scintillasse
del fulgore celeste dei cherubini. Ai suoi piedi era genuflessa
Guaidalmira, che, la fronte piegata nelle mani ed appoggiata allo
sgabello dei piedi di lui, pregava, straziata da dolor muto. Da un
lato del seggiolone, delle braccia conserte sul petto, in piedi
ed immobile si vedeva il cardinale Ugo. Dall'altro lato un frate
benedettino, cui, come e' disse, gli aveva mandato l'abate Desiderio
per confessarlo. Questi teneva il cappuccio abbassato, sicchè la
fronte e metà del volto covrivagli e stava del pari in piedi.
Gregorio con una mano cercava la testa di Guaidalmira, con l'altra
stringeva quella del frate. Già più non ci vedeva.

--Santo padre, voi dunque togliete la scomunica al re di Francia?
dimandava il frate per voce soffocata forse dal dolore.

--Gliela tolgo, rispondeva Gregorio.

--Santo padre, togliete la scomunica al re di Dalmazia? proseguiva il
frate.

--Gliela tolgo, diceva Gregorio.

--Ed al re di Polonia, santo padre?

--È morto, ma gliela tolgo.

--Ed al re d'Ungheria.

--Gliela tolgo pure.

--Ed ai vescovi e baroni che vi deposero nei concilii di Worms e di
Pavia?

--L'avevo tolta ad alcuni; la tolgo a tutti.

--Ed a Cencio, che tentò assassinarvi nella notte di Natale?

--Gli sia pur tolta.

Qui la voce del frate si arresta di un istante, poi, più cupa,
dimanda:

--Ed a vostro fratello Guiberto?

A questa parola il moribondo gli sottrae la mano, e, facendo atto di
volersi sollevare, sclama, di lieve rossore animando le gote:

--No, no, lo maledico. Escluso lui che usurpa la mia sede di Roma,
escluso Enrico che dicono re, esclusi i maligni che per consigli e
per opere favoriscono l'empietà d'ambedue, io stendo il perdono e
la benedizione di Dio su tutti gli uomini che credono fermamente e
confessano che io sono vero erede e vicario degli apostoli s. Pietro
e s. Paolo.

Il frate serba il silenzio alcun poco e cerca riprendere la mano
del moribondo vecchio, il quale tremava tutto come una foglia, poi
mormora:

--Ma, santo padre, egli vi è fratello! egli ha tentato tante volte di
riconciliarsi con voi, dimandarvi perdono...

--Ed io lo maledico, risponde Ildebrando convulso sempre.

--Egli è pentito delle offese che vi ha fatte; egli vi dimanda
perdono dei dolori che vi ha dati...

--Ed io lo maledico.

--Ma, santo padre, Gesù Cristo ha perdonato, morendo, i suoi nemici;
Gesù Cristo vi comanda di assolverlo, perchè Guiberto nell'errore
vi fece onta, ma poi ha pianto la sua colpa, e non vuol vivere, non
vuole morire prima di essersi riconciliato con voi, ed essere stato
da voi perdonato.

--Ed io lo maledico, lo maledico, lo condanno al fuoco eterno
nell'altra vita, ed al supplizio ed alla miseria in questa--e meno
lui e l'imperatore Enrico che scomunico, benedico tutto il genere
umano.

A tali austere parole, il frate ritira la mano con che aveva presa
quella del pontefice, si gitta alle spalle il capperuccio e furibondo
grida:

--Ed io maledico te, inesorabile vecchio, io, Clemente III, sovrano
pontefice, e tuo fratello, io ti maledico come Adamo maledisse Caino,
e come Cristo maledisse Giuda. Io ti maledico come parricida, come
stregone, come adultero; io ti maledico, ed il Padre, il Figliuolo e
lo Spirito Santo ti maledicano con me.

Gregorio alza gli occhi al cielo, poi mormora le dolenti parole di
Cristo:

--_Domine, transeat a me calix iste!_

Il cardinale Ugo Candido, che mutolo era restato fino allora al
fianco dell'agonizzante, gli si accosta più d'appresso, e ridendo
sorriso terribile:

--Non uditelo, santo padre, diceva: alla sua maledizione, avanti
all'Eterno voi potete opporre... oh! tutte le opere della vostra
vita...

--Per esempio, soggiungeva Guiberto, chè il frate era egli stesso,
per esempio, lo scandalo destato nella cristianità e la guerra civile
in Lamagna?

--Dio mi ha perdonato, rispondeva il moribondo.

--La corruttela che ha messa nel clero col proibire lecite nozze,
ripigliava il cardinale; l'eccidio di Roma; la disperazione e la
dannazione di tante migliaia di uomini morti nelle scomuniche da lui
profuse per appagare intenti mondani; lo sdegno civile fomentato in
Italia, e le guerre di che l'ha desolata?

--Dio mi ha perdonato, borbottava ancora il pontefice.

--Gli amori impudici con la contessa Matilde, per lui vituperata
avanti al mondo, e gli amori della contessa Alberada, che ha condotta
a morire misera e disperata? soggiungeva Guiberto.

Ed il pontefice:

--Dio mi ha perdonato.

--I sudditi ribellati contro i sovrani, proseguiva il cardinale,
il suo orgoglio che ha fatto infellonire contro la Chiesa milioni
di cristiani; i tradimenti comandati; gli omicidii fatti eseguire;
gli avvelenamenti dei suoi nemici onde buccinarli puniti da Dio
per subita morte; i regni tolti e donati a ribaldi che gli si
giuravano ligi; la Spagna preferita restasse in mano de' Mori, anzi
che in dominio di cristiani, i quali non volevano fargli omaggio;
la Sassonia desolata, perchè rifiutò conoscersi vassalla di San
Pietro; la Francia levata a tumulto per esigere tributo che giammai
Carlomagno sognò di promettergli; la Sardegna minacciata dare a
conquistatori feroci se non pagava il danaro di San Pietro; il regno
d'Ungheria messo ad incanto fra due re a chi più gli offerisse
maggior donazione e sudditanza; la Dalmazia gittata nella guerra
civile per averle voluto dare un re di suo capriccio, mentre un altro
già vi regnava; la scomunica infine, per non dir più, del re Boleslao
II di Polonia, che ridusse al bando dei suoi Stati e fece morire
miserabile e disperato? Ecco, santo padre, ciò che potrete dire a
Dio, perchè non ascolti la maledizione di vostro fratello!

--Iddio mi ha perdonato, mi ha assoluto, con voce che appena
s'intendeva, sclama il pontefice; e perchè amai la giustizia ed odiai
l'iniquità, muoio in esilio.

--In esilio! prorompe il cardinale Ugo Candido, ridendo
satanicamente; ma non sei tu il vicario di Cristo che ti diede in
retaggio i suoi popoli, ed alla sua giurisdizione segnò per termine i
confini del mondo?

Ildebrando a quest'ironia non risponde: piega la testa sul petto e ve
la lascia cadere abbattuta. Guiberto ed il cardinale si accostano,
Guaidalmira alza gli occhi per guardarlo: era morto!

Guaidalmira gitta un grido acuto e straziante e stramazza distesa sul
suolo.

Così ai 25 di maggio 1085, dopo dodici anni, un mese e tre giorni di
regno, moriva Gregorio VII, il più ardito dei pontefici.

Grandi vizii, grandi virtù lo distinsero. Ed a gloria del vero i
vizii furono del secolo, le virtù dell'uomo. Imperciocchè, in un
secolo di dubbiezze, che ondeggiava ancora fra la barbarie del X
secolo e la luce incipiente del XII; in un secolo in cui la passione
di municipio ed il parteggiare destavasi per dar vita ai Comuni; in
un secolo di scisma, dove la feudalità tendeva al dispotismo ed il
popolo ad affrancarsi; in un secolo in cui non vi era ragione fuor
di quella delle armi, non virtù fuori del valore e del coraggio,
non religione perchè la più corrotta parte di quella società
rappresentavano gli ecclesiastici, e la superstizione dei secoli
passati infiacchiva senza meglio stabilirsi lo spirito del Vangelo;
in un secolo in cui la bellezza non aveva culto, la verecondia non
era merito, non avea ostracismo l'oltraggio ai diritti delle nazioni,
degl'individui, della pietà; in un secolo infine nel quale tutto era
disquilibrio, dubbio, decadimento, i vincoli di una società usata
cadevano per vetustà nè ancora la novella società si aggruppava; io
dimando, se uomo, a tanta altezza collocato, poteva mostrarsi più
forte e più santo di che Gregorio si mostrò? Egli vedeva che tutti i
pinacoli sociali del suo tempo tendevano alla monarchia, ed avvisando
che l'Evangelo fosse esso stesso codice monarchico, dispotismo
teocratico bandì, e non lasciò mezzo intentato, buono o malvagio che
fosse, impuro o santo, per rassodarlo.

Uno fu il principio che informò la sua vita e le sue opere:
_l'indipendenza dell'Italia e della Chiesa cattolica_! L'idea
era magnanima, era giusta; ma i tempi per promuoverla e mandarla
ad effetto non ancora maturi. La società fermentava, e niente si
era consolidato, nè il principato nè la repubblica, nè l'ateismo,
nè la religione: e libertà individuale ed ostinazione feudale
battagliavano nel caldo. Per intrudere quindi le sue dottrine vi fu
d'uopo di violenza. E perchè queste interessavano più i principi
che i popoli, la quistione si prolungò, e, lentamente cangiando di
forma, ne rivestì impure e sacrileghe; perchè ai venerandi diritti
delle nazioni col velame divino si attentò. L'idea di Gregorio fu
generosa, perchè in quel collegarsi di potenti per tutto ridurre a
pura e forte monarchia, il popolo restava escluso, indifeso, vittima,
nè aveva a cui lamentarsi dei torti; perocchè patto di sangue sulla
totale schiavitù si era stretto. Egli, il pontificato volle elevare
a giudice supremo tra il popolo ed il re. Reagirono perchè brusco ed
inconsiderato fu l'urto, nuova la legge. La reazione lo indispettì.
E perchè aveva sortita fibra robusta ed altera, trasandò il pudore,
ed addivenne violento, ostinato, incompassionevole, nulla rispettò
di quanto culto si era per lo avanti. Rispose delle armi con cui lo
provocavano. Ciò gli alienò i principi, gli alienò il clero ed il
popolo, e fu addimandato inesorato e tiranno. Nonostante sembrò un
momento di trionfare. Nel trionfo mostrossi intemperante, e le tre
giornate di Canossa prepararono la presa di Roma.

Ora egli muore! Dopo tanti anni di lutta muore senza aver vinto,
senza esser compianto da altri che da oscura donzella, senza essere
amato da alcuno, lasciando al mondo tre legati funesti--la quistione
delle investiture, la rivalità dei papi e dei re, e la folle e fatale
impresa delle crociate! Egli però, allucinato come fosse, agì sempre
sotto l'ispirazione della convinzione e di una lucida e decisa
coscienza. E ciò basti per lavarlo d'ogni peccato, mondarlo da tutti
i mali che originò.

Egli muore! Dopo una vita di combattimento sperava morire tranquillo
e sereno come il giorno che vedeva declinare sull'immensa marina; ma
l'ultima sua ora fu travagliata dalle idee del passato, dallo sdegno
inesorato degli uomini. Muore, e l'ultima idea ad abbandonare quel
capo che si era levato il più alto su tutta la terra, l'ultima idea
che funestò quell'anima, la quale aveva abbracciato la rigenerazione
dell'universo, è che i suoi nemici trionfano, che Guiberto ed Enrico
sopravvivono padroni del campo, ed egli non si è vendicato.

Il _re dei re_ è un'attestazione, non un fatto.

Requie, o grand'uomo, i tuoi nemici non saranno meglio avventurati di
te!

Alcune settimane dopo, una giovane faceva chiamarsi la badessa
delle benedettine di Roma, e dopo lungo colloquire, era ammessa a
vestir l'abito in quel chiostro. Vi visse due anni di penitenza e di
rassegnazione, poi vi morì di languore, per sfinimento d'animo, in
concetto di santa. Era Guaidalmira.

Guiberto ritornò a Roma donde or cacciato, ora ammesso, da molte
città e popoli riconosciuto vero pontefice, da molti altri
scismatico, sempre tribolando i papi, per grossa somma di danaro
vendè ad Urbano II la libertà di castel Sant'Angelo e palazzo
Laterano, che ancora per lui tenevansi con forte presidio, e nel
1100, assediato dalle truppe di Pasquale II in un castello vicino
Alba, dove erasi rifugiato, morì repentinamente, non senza sospetto
di veleno; sempre fermo, sempre generoso e più soldato e brillante
principe che sacerdote.

La sua condotta, la sua vita, i suoi gusti oggi rattristano e
sgomentano ogni cuore virtuoso e delicato. Allora, come cosa fra
gli ecclesiastici consueta, avevansi per temperati ed allo Stato
principesco non sconvenevoli. Quel che però nè i contemporanei,
nè noi avremmo saputo mai perdonargli, se dell'indole degli
uomini volubili e delle passioni entusiaste ed ardenti troppo non
conoscessimo, gli è l'aver arso di sì forte e subita fiamma per
Alberada, e poscia averla dimenticata compiutamente, malgrado le
spavalde proteste fatte a Guiscardo a Salerno di vendicarla, malgrado
che la riconoscenza di averne avuta protetta la vita glielo avessero
imposto. La potenza di altri guai e di altre panie che lo avvolsero,
la sua natura mutabile, gli valgano per iscusa; se scusa pure la sua
spensieratezza appo le donne potrà trovare. Fu mandato a seppellire a
Ravenna. Ma sei anni più tardi, il feroce Pasquale II--questa iena di
cadaveri--lo fece dissotterrare, e le sue ossa e le sue ceneri furono
gittate nel fiume.

Enrico IV gli sopravvisse di poco.



IV.

  Je t'ai fait voir tes camarades
    Ou mort, ou mourants, ou malades;
    Allons, víeillard, et sans replique,
    Il n'importe à la republique
    Que tu fasses ton testament.

                                      LA FONTAINE.


Non racconteremo per minuto il rimanente dei fatti di questo gran
principe. Dopo aver veduto perire il suo nemico Gregorio, altri non
men terribili ed ostinati ne ebbe a combattere in Vittore III, Urbano
II e Pasquale II, favoriti al solito dalla contessa Matilde, la quale
la causa della Chiesa aveva sposata a spada tratta; in Ermanno di
Luxembourg, che, dopo la morte di Rodolfo, i ribelli Sassoni avevano
eletto a re; nei figli di Ottone di Nordheim, morto nel 1083; nel
marchese Ecbert, e per ultimo nel suo figlio Corrado, che Urbano
II aveva prevaricato ed indotto a ribellione contro suo padre.
Questo scellerato principe, applaudito con gioia feroce dalla corte
di Roma, pubblicò infami calunnie contro suo padre, pensando così
oltraggiare la gloria di lui, sè difendere. Riconosciuto dai papi per
re d'Italia, cinse la corona di ferro a Monza. Ma, dopo otto anni
di guerra civile morì disprezzato da coloro stessi che alla rivolta
lo avevano spinto e che ne avevano profittato. Enrico si ritirò in
Germania.

Diremo le ultime cose di lui con le parole del Sismondi, il quale le
ha tolte al Sigonio e questi ad Ottone frisingense, ed a Sigeberto
gemblacense.

Dopo la sua ritirata, Enrico non ebbe altra cura che restituire
la pace alla Chiesa ed all'impero. Quantunque perseguitato dalle
scomuniche dei papi, e' non sembrò punto occuparsi a farne cessare
gli oltraggi. Aveva anzi pensato di abdicare la corona in favore
dell'altro suo figlio Enrico V, con la speranza che il ravvicinamento
tornerebbe più facile fra due antagonisti, l'amor proprio dei quali
non fosse stato inasprito ancora da lunga discordia. Questo progetto,
che Enrico non mandò a termine, infiammò l'ambizione del giovane
principe. Il papa Pasquale II, il di cui odio religioso mai si
placava, per mezzo dei suoi emissarii infervorò un figlio, cui sete
colpevole di regno allucinava già. Gli rappresentò il delitto che
meditava come azione santa e gloriosa, ed alla rivolta lo determinò.

Una dieta erasi convocata a Magonza pel giorno di Natale. I
partigiani del giovane Enrico eranvi convenuti in folla: niuna
assemblea nazionale da lungo tempo non erasi mostrata così numerosa.
Il giovane Enrico consigliò al re suo padre di punto non avventurarsi
fra gente, la di cui fedeltà si appalesava, se non altro, dubbiosa.
L'imperatore si tenne all'avviso di suo figlio, di cui non sospettava
ancora tutta la fellonia, e si ritirò al castello di Ingelheim. Come
egli quivi faceva dimora, gli arcivescovi di Magonza, di Colonia e
di Worms, inviati della dieta, si presentarono a lui, e gl'imposero
a nome di quella rimettere loro gli ornamenti imperiali--vale a dire
corona, anello e porpora, perchè e' ne rivestissero suo figlio.

--Ma perchè dunque i principi ed i vescovi della dieta ci hanno
eglino deposto? domanda Enrico.

--Perchè? risponde l'arcivescovo di Magonza, perchè da lunghi anni
tu hai straziata la Chiesa di Dio per cause odievoli, perchè tu
hai venduti i vescovadi, le abbazie e le dignità ecclesiastiche,
perchè tu non hai giammai osservati i canoni nell'elezione dei
vescovi, e fieramente al papa ti sei ribellato. Per tutti questi
motivi è piaciuto al sovrano pontefice ed ai principi di Lamagna di
respingerti non solamente dalla comunione dei fedeli, ma cavarti
ancora dal possedimento del trono.

--Ma voi, riprende l'imperatore, voi arcivescovi di Magonza
e di Colonia, voi che ci accusate di aver vendute le dignità
ecclesiastiche, voi, vescovo di Worms, diteci almeno quale è stato il
prezzo che abbiamo ricavato da voi, quando v'investimmo delle chiese
più opulenti e più possenti del nostro impero? Dite, parlate dunque,
ripetete qui al nostro cospetto, al cospetto del vostro sovrano e
del vostro benefattore, ripetete le calunnie che avete vomitate
nella dieta, fateci arrossire, per Dio; e noi diremo che giusto è
il decreto dei principi, dovuta la deposizione. Ebbene, voi tacete?
ecco, ecco che cosa sono le vostre accuse, vituperati! Ma se vi è
forza convenire e confessare che da voi nulla abbiamo dimandato,
dite, per Dio, dite perchè voi vi siete accoppiati ai nostri
detrattori, mentre la vostra coscienza vi rammentava che, verso di
voi almeno, noi ci eravamo conformati ai nostri doveri? Perchè vi
siete voi congiunti a coloro che hanno forfatto alla loro fede, ed al
giuramento al loro principe? Perchè vi mettete voi alla loro testa?

Alcuno di quei prelati, non rispondendo, e vedendoli Enrico col capo
chino, arrossire e confondersi, continuò:

--Fate bene a tacere, vi salverete almeno così dall'onta
dell'impudenza. Ma pazientate ancora qualche giorno, attendete il
termine naturale della nostra vita, perchè la nostra età e le nostre
pene indicano troppo non dover esser lontano. Ovvero, se vi piace e
vi torna levarci il regno, fissate almeno il giorno nel quale, con le
nostre proprie mani, caveremo della nostra testa canuta la corona e
ne orneremo quella di nostro figlio.

--Enrico, scoppia infine l'arcivescovo di Magonza, noi non siamo
venuti qui per teco garrir di parole, nè altra ne diremo con uno
scomunicato, con un principe che ha desolato il paese da Dio
commessogli a governare. Se di tuo piacimento non ti presti a darci
gli ornamenti imperiali, noi te li strapperemo per forza, dovessimo
con essi strapparti la pelle e la vita; perchè di quest'ordine siamo
stati incaricati.

A questo duro favellare, Enrico guarda in fronte con un misto di
sdegno e di disprezzo l'altero prelato, poi sclama:

--Codardo!

E senza aggiunger altro, esce dalla sala. Avendo però preso consiglio
dal piccolo numero d'amici che gli rimanevano ancora vicino, e
vedendo che lo circondavano uomini d'armi molti e risoluti, e che
per allora ogni atto di resistenza riusciva impossibile, si fece
apportare gli ornamenti ed il mantello reale, poi salì sul trono, e
comandò si chiamassero i prelati.

--Eccole, egli disse, queste divise di dignità reale che la volontà
unanime dei principi dello Stato e la bontà del re dei secoli ci
avevano concesse. Noi non impiegheremo la forza per difenderle:
perocchè non avevamo mai preveduto tradimento domestico, nè contro
di esso ci eravamo messi in guardia. Mercè al cielo che ci accordò
il favore di non mai sospettare tanto furore presso i nostri amici,
tanta empietà nei nostri figli! Nondimeno, con l'aiuto di Dio, il
vostro pudore difenderà forse ancora la nostra corona. Ma se voi, al
contrario, siete insensibili al timore di Dio che protegge i re, ed
alla perdita del vostro onore, noi sopporteremo dalle vostre mani una
violenza che punto non abbiamo mezzi di respingere.

A questo discorso i deputati esitano. Ma l'arcivescovo di Magonza,
vedendo che i suoi colleghi s'infievolivano, e davano adito a più
nobili sentimenti e forse a pietà, grida come forsennato:

--Perchè bilanciate voi? Non siamo noi forse coloro a cui si
appartiene consacrare i re ed onorarli della porpora? Ebbene, se per
cattiva scelta un dì ne abbiamo rivestito costui, oggi, ravveduti, a
noi si conviene spogliarnelo.

E sì dicendo si gitta addosso al vecchio monarca, gli svelle dalla
testa la corona, lo forza a discender dal trono, e lo spoglia del
mantello di porpora e degli ornamenti reali. Enrico frattanto,
alzando terribile la voce, grida:

--Dio! vedi la condotta di costoro. Tu ci fai sopportare la pena
dei peccati della giovinezza; tu ci sottometti ad ignominia che
giammai re non patì innanti di noi. Ma costoro che hanno violato il
sacramento che a noi li legava, costoro non isfuggiranno all'ira tua,
tu li punirai--tu li punirai come punisti l'apostolo che tradì il suo
maestro.

Gli arcivescovi disprezzarono le minaccie, e ritornarono al figlio
di lui per consacrarlo. Il vecchio Enrico frattanto si rinchiuse in
Lovanio. Bentosto i suoi amici in folla gli si raccolsero intorno,
e gli promisero il loro aiuto per ricuperare la svillaneggiata
autorità. Formarono ancora poderoso esercito; il padre ed il figlio
marciarono l'uno contro l'altro, e nel primo scontro il figlio
fu battuto e volto in fuga. Ma avendo questi, il giovane Enrico,
raccozzate le sue truppe, le riconduce al combattimento. In questa
seconda puntaglia il vecchio è vinto. Caduto in potere dei suoi
nemici, egli è tradotto al cospetto di suo figlio.

In una lettera ch'egli dirige a Filippo, re di Francia, intorno a
quell'epoca 1106, si esprime così:

«Appena lo vidi, toccato fino al fondo del cuore di dolore
altrettanto che di paterna affezione, io mi gittai ai piedi di lui,
lo supplicai, lo scongiurai in nome di Dio, della sua fede, della
salute della sua anima, che anche quando i miei peccati avessero
meritato che io fossi punito dalla mano di Dio, si astenesse egli
almeno di macchiare, facendomi vilipendio, la sua anima, il suo onore
ed il suo nome: imperciocchè giammai alcuna sanzione, alcuna legge
divina eresse i figli vendicatori delle colpe dei padri!»

Nondimanco Enrico fu tenuto prigione e gli furono fatti oltraggi e
contumelie da destare orrore. In quella lettera a Filippo egli ne
annovera alcuni e soggiunge:

«Per non dir niente degli obbrobrii, delle ingiurie, delle minacce,
dei pugnali drizzati sulla mia testa dove io non facessi quanto mi
veniva imposto, della fame e della sete che io soffriva pel ministero
di gente che mi tornava ingiurioso vedere ed intendere; per non dire,
ciò che era più doloroso ancora, che io altra volta era stato felice!»

Pure, ridotto qual si vedeva a tale grado di miserie, gli venne fatto
fuggire. Si rifugiò a Spira--nel tempio che egli sontuoso aveva
fatto fabbricare alla Vergine, e dimandò al vescovo della città di
accordargli di che vivere. Il vescovo si ricusò. Enrico soggiunse,
che era ancor proprio a riempire l'officio di chierico, perchè sapeva
leggere e servire il coro. Ma come anche quest'umile domanda gli
respinsero, egli allora si volge agli assistenti e parla:

--Ma voi almeno, miei amici, abbiate pietà di me. Vedete che la mano
del Signore mi ha colpito.

Nessuno risponde da prima, poi si ode un murmure sordo che egli era
evaso di prigione e che bisognava rifarlo cattivo. A tale minaccia,
malato, estenuato di fame e di sete, il misero monarca fugge e va a
procurarsi rifugio a Liegi. Ma neppur quivi rimane tranquillo. Allora
scrive a suo figlio:

«Ma lasciatemi, per amore di Dio, vivere a Liegi, se non da
imperatore almeno da uomo che vi ha cercato ricovero. Che non sia
giammai detto, ad onta mia o piuttosto ad onta comune, che il figlio
dei Cesari sia stato obbligato ad errar senza asilo nel tempo di
Pasqua!»

Suo figlio si rifiutò. Ed il sovrano che aveva dato sessantasei
battaglie, creati due antipapa, ai sette degli idi di agosto 1106
muore col cuore straziato di afflizione profonda, coverto di laceri
panni, tribolato dalla fame, senza tetto per ricovrarlo, senza mano
amica per soccorrerlo, di notte, avanti la porta di un vescovo da lui
beneficato.

Per cinque anni, il suo corpo restò senza sepoltura in una cellula
della chiesa di Liegi, perchè il papa aveva vietato fosse deposto
in terra santa. Ma infine, il terribile Pasquale II, tradito,
perseguitato, fatto prigione, rinchiuso nella fortezza di Tribucco
da quel principe stesso di cui aveva eccitata la rivolta, dal figlio
snaturato del vecchio imperatore, umiliato dalla Chiesa a pro della
quale aveva combattuto il re defunto, fu costretto, per ricoverare la
libertà, consentire che fosse seppellito da cristiano. E così fecero
i fedeli alla memoria di lui lagrimando un principe che fu il più
grande della razza di Franconia, ed uno dei più generosi, magnanimi e
prodi degli imperadori di Lamagna.

Ed ecco come miseramente finiva la prosapia di quei forti uomini, che
sì terribile e sì combattuto fecero il secolo XI!!!


FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME.



INDICE


  LIBRO SETTIMO--Il Messaggio    _Pag._   5
  LIBRO OTTAVO--Il Tramonto             115



NOTA DI TRASCRIZIONE:

Sono state effettuate le seguenti correzioni:

  se {vilippeso|vilipeso], perseguitato
  Dio {mi|mi mi} ha severamente punito
  vigoroso assalto ed ostinata {resitenza|resistenza}
  dando col {puteruolo|punteruolo} di mezzo sul capo
  dove l'aquila non {avebbe|avrebbe} più nulla distinto.
  Nè meno {consternata|costernata} di costui
  summa cum {onimi|animi} lætitia





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il re dei re, vol. 4 (di 4) - Convoglio diretto nell'XI secolo" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home