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Title: Della illustrazione delle lingue antiche e moderne e principalmente dell'italiana - procurata nel secolo XVIII. dagli Italiani - Parte I Author: Lucchesini, Cesare Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Della illustrazione delle lingue antiche e moderne e principalmente dell'italiana - procurata nel secolo XVIII. dagli Italiani - Parte I" *** NOTE DEL TRASCRITTORE: Sono state adottate le seguenti convenzioni: -testo corsivo (italic): _testo_ -testo grassetto (bold): =testo= -testo spaziato (gesperrt): ~testo~ _DELLA ILLUSTRAZIONE_ DELLE LINGUE ANTICHE, E MODERNE E PRINCIPALMENTE DELLʼITALIANA PROCURATA NEL SECOLO XVIII. ~DAGLʼITALIANI~ ~_RAGIONAMENTO_ STORICO, E CRITICO~ =DI CESARE LUCCHESINI= _CONSIGLIERO DI STATO_ DI S. M. LʼINFANTA DUCHESSA DI LUCCA DELLA LINGUA ITALIANA E DELLE ALTRE LINGUE MODERNE ~DʼEUROPA~ _PARTE I._ ~LUCCA~ PRESSO FRANCESCO BARONI STAMPATORE REALE _MDCCCXIX._ _Ut in magna silva boni venatoris est, indagantem feras quam plurima capere, nec cuiquam culpae fuit non omnes cepisse, ita nobis satis abundeque est tam diffusae materiae, quam suscepimus, maximam partem tradidisse._ Column. de Re Rust. Lib. V. Cap. I. ~PARTE~ I. _Della lingua Italiana, e dellʼaltre lingue moderne dʼEuropa._ _INTRODUZIONE_. LʼItalia, che allʼaltre nazioni dette lʼesempio, ed aprì la strada a scuotere il giogo della barbarie, e dellʼignoranza, non cessò mai dopo quellʼepoca di somministrare uomini chiarissimi in ogni scienza in ogni arte in ogni disciplina. Le parti tutte deʼ sacri studj, e deʼ filosofici, le scienze naturali e le matematiche, la giurisprudenza, la storia con tutto ciò che da lei dipende o serve a rischiararla, lʼeloquenza, la poesia, le lingue straniere, e la nativa, tutto in somma ebbe fra noi coltivatori diligenti, e felici, che a se procacciarono, non meno che alla Patria, gloria immortale. Divisa in piccoli stati fra lor discordi fu debole, e quindi rimase preda dellʼarmi straniere; ma gli stessi suoi vincitori mentre ne esaltavano la dolcezza del clima, e la fecondità del suolo, o ne involavano le ricchezze, ammiravano la dottrina, e lʼingegno deʼ suoi abitatori. Laonde aʼ nostri maggiori neʼ secoli XV. e XVI. si può applicare ciò che della Grecia disse Orazio in quei notissimi versi _Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio._ Nè dallʼetà precedenti fu degenere quella a noi più vicina, voglio dire il Secolo XVIII. La memoria di tanti uomini insigni, che esso ha prodotti, e di tante opere classiche, che in esso han veduta la luce, è tuttora così recente e viva, che questʼasserzione mia non abbisogna di prove. Pure ad onor dellʼItalia, sarebbe a desiderarsi, che non so bene se dica modestia o timore non avesse distolto lʼegregio storico dellʼItaliana letteratura dallʼestendere ancora a questo le sue fatiche. Il supplire al silenzio del Tiraboschi appartiene agli uomini eruditi, deʼ quali abbonda IʼItalia, ed io sarò lietissimo, se le mie parole ad alcuno di loro serviranno dʼeccitamento per farlo. Prendendo però a descrivere ciò che daglʼItaliani si è operato nel Secolo XVIII. intorno al coltivamento delle lingue antiche e moderne e della natìa principalmente non intendo di percorrere sì fatto arringo, nè pure in parte. Ho voluto piuttosto adoperarmi di rendere allʼItalia una gloria, che da alcuni pure si vorrebbe torle. Si concede, che essa abbia poeti famosi, e buoni storici e chiari oratori: non le si nega molta lode nelle scienze sacre e nelle profane; e molto plauso si fa aʼ suoi antiquarj. Ma per ciò che spetta alle lingue, che chiamano dotte, par che da alcuni si accusino i nostri dʼaverne alquanto trascurato lo studio. Quindi ho reputato, che debba riuscir non inutile lʼesaminar alquanto, se questa accusa sia giusta, o almeno fino a qual segno possa apparir tale. Ma più grave rimprovero meriterebbono, se avendo pur coltivate le lingue straniere avesser poi trascurata la propria. E sebbene di ciò niuno ci accagioni, pure mi è grato il ricordare coloro, che al coltivamento della propria lingua hanno data opera diligente, e coi precetti o collʼesempio hanno porto altrui eccitamento per farlo. Il quale eccitamento io credo, che rendersi debba vie maggiore, richiamando appunto alla memoria le utili fatiche da tanti Scrittori chiarissimi sostenute per lʼillustrazione della stessa lingua. Io confesso, che a trattar degnamente il mio argomento mancano a me parecchi ajuti necessarj, e quelli principalmente dellʼerudizione e dellʼingegno per richiamarmi alla mente le cose fatte daglʼItaliani, e darne retto giudizio. Mi mancano altresì molti libri, senza il soccorso deʼ quali mal si possono intraprendere sì fatte trattazioni. Il piacere però, che tutti provano in rammentare le glorie della patria mi ha fatto dimenticare la debolezza delle mie forze, e mi sono accinto alla impresa. Comincerò dal parlare della Lingua Italiana chʼesser deve lo scopo principale del mio ragionamento, e a questa succederanno, come appendice, le altre moderne lingue dʼEuropa. Passerò poi alle antiche ed a quelle che chiamano _esotiche_, sì antiche, che moderne. Non pretendo però di noverare tutti coloro, che in questo genere scrivendo sono degni di qualche lode, ma ne tralascerò molti per non diffondermi troppo, e stringerò il mio discorso agli uomini più illustri, ricordandomi di quel detto di Columella, che ho scelto per epigrafe: _ut in magna silva boni venatoris est, indagantem feras quam plurimas capere, nec cuiquam culpae fuit non omnes cepisse, ita nobis satis abundeque est tam diffusae materiae, quam suscepimus, maximam partem tradidisse_.[1] Potrei forse passare sotto silenzio ancora più, e diversi Scrittori, le opinioni e le opere deʼ quali condanno. Siccome però essi hanno ottenuto qualche plauso e forse tuttora lʼottengono da alcuni, perciò ho creduto non doverli dimenticare. Debbo finalmente avvertire, che fra glʼItaliani porrò ancora quegli stranieri, che in Italia menarono una gran parte della loro vita, e molto più se di quì trassero i mezzi per coltivare i loro studj, e scrivere le opere loro. Così fecero i dotti Maurini autori della storia letteraria della Francia; così il dottissimo Tiraboschi nella storia della letteratura Italiana. _Dellʼorigine e dei caratteri delle moderne lingue dʼEuropa._ ~CAPO~ I. Il chiarissimo Sig. Ab. Denina autor fecondo di molti libri ha scritto alcune dissertazioni su lʼorigine, le differenze, e i caratteri delle moderne lingue dʼEuropa, che si leggono negli Atti dellʼAccademia delle scienze e belle lettere di Berlino, e in parte ancora stampate separatamente.[2] A me rincresce di non avere questʼopera e di non aver lette che sole tre delle sue molte dissertazioni, e sono quelle, che discorrono le cause della differenza delle lingue, e dellʼorigine della lingua Tedesca. A tre classi egli riduce le cause delle differenze, che si osservano tra le lingue figlie di una stessa madre; cioè fisiche, morali, e miste. Causa fisica è per lui la diversità della pronunzia. I popoli barbari, che invaser lʼItalia furon costretti dʼavvezzarsi alla lingua latina; ma per quella difficoltà, che si prova da prima nellʼintender bene o bene esprimer qualche voce straniera, ora cambiarono qualche vocale o qualche consonante, ora tolsero, o aggiunsero qualche lettera o sillaba in principio in mezzo o in fine. Ora lʼalterazione in questa guisa fatta a una lingua si chiama fisica dal Signor Denina, perchè egli derivata la crede dal clima o dalla organizzazione deʼ nuovi abitanti. Ma io dubito, che volendo questo scrittore comparir filosofo sottile e profondo abbia traviato dal retto sentiero della verità. In fatti io non so bene qual sia il clima che ama una vocale piuttosto che un altra e fa accorciar le parole di qualche sillaba. Nè vedo pure come una certa conformazione di muscoli o di nervi o di non so che altro possa produr questo. E son dʼavviso che se nel cuore della Svezia o della Danimarca o della Germania si trasferisse una colonia toscana o lombarda, e a questa si consegnasse qualche fanciullo appena nato di si avvezzerebbe alla lingua di queʼ coloni nè la difformerebbe con accorciamenti o mutazioni, e pure il clima sarebbe diverso dal Toscano e dal Lombardo, e tal sarebbe la sua organizzazione qual lʼavrebbe sortita nascendo. Il solo uso lunghissimo e costante forma la pronunzia e quei barbari giunti in Italia alterarono la lingua latina non pel clima, in cui eran nati, non per la naturale organizzazion loro, ma per la lingua alla quale eran avvezzi. Non giudico necessario dʼillustrare la mia obiezione con maggiori argomenti, e senza più passo alle cause, che lʼautore chiama morali, e sono le seguenti. 1. Alcuni nomi imposti alle cose hanno origine dai paesi, daʼ quali queste si traevano, come _Arazzi_ dalla città dʼAras, _guanti_ in Francese _gands_ da Gand nella Fiandra[3]. 2. Altre voci provengono da una specie dʼironia, per cui significano lʼopposto di ciò che dovrebbero significare, onde in Francese _phoebus_ e _galimathias_ indicano un cattivo stile. 3. Le cose stesse sono chiamate diversamente in diversi luoghi secondo gli aspetti diversi, sotto i quali esse possono esser considerate: così la cosa stessa si chiama in Italiano _posata da porre, o posare_ e _couvert_ in Francese da _couvrir_. 4. La stessa voce, o almeno simile, in diverse lingue significa diverse cose, perchè queste si possono considerare sotto il medesimo aspetto, e reca per esempio la voce _brod_ la quale[4] significava nutrimento in generale, e _brodo_ in Italiano vuoi dire una certa bevanda, e in Tedesco _pane_. Alcune però di queste son tenui mutazioni delle lingue già formate, non di quelle che nascono; laonde non tendono al vero scopo della dissertazione cui lʼautore non sempre ha avuto in mira. Egli ha dimenticato altresì una parte di quello che aveva promesso. Perchè in principio oltre alle cause da lui chiamate fisiche e morali avendo indicate ancor le miste, di queste poi non ha fatto parola. Alla dissertazione aggiunse un supplimento, che non rimedia a questo difetto, e solamente rischiara alquanto le cose già dette, recando lʼetimologia di parecchie voci. Ma se alcune di queste etimologie sono commendabili per una certa spontanea naturalezza, che si concilia la persuasione altrui, o per acutezza dʼingegno, con cui son derivate non senza molta verisimiglianza, altre ve nʼha troppo forzate. Tali a cagion dʼesempio sono quelle di _Kein_ (che in Tedesco significa nessuno) da οὺχ ἕν; di _von_ (_da proposizione nella stessa Lingua_) da ἀφʼ ὤν; e più altre. Lʼaccusa medesima vuolsi dare alle due dissertazioni _sullʼorigine della lingua Alemanna, e sullʼorigine comune delle lingue Alemanna, Schiavona, o Polacca, e Latina, e su quella dellʼItaliana_. Il Signor Denina è sollecito di mostrare la somiglianza, che queste lingue hanno colla Greca, nella qual cosa più altri Scrittori lʼhanno preceduto, e seguitato. La trova egli 1. in alcune voci per mezzo dellʼetimologia, di che ho già detto abbastanza: 2. nella terminazione dellʼinfinito, che in Tedesco è in _en_ e in Greco in ειν; e in alcuni dialetti in ην o in μεν. 3. in quellʼaumento della sillaba _ge_, che in Tedesco prende il tempo preterito. E giudica questo aumento simile alla reduplicazione deʼ Greci, e dice: _il est vrai que les Allemands sʼeloignent un peu de la pratique des Orientaux: car au lieu de redoubler les consonnes initiales des verbes ils leur ont substituè le g peut être parceque cela étoit plus facile, mais il nʼest pas douteux que cela ne soit venu des langages de lʼAsie mineure dʼou est sortie la grecque, et que ce redoublement ne se soit affoibli ou perdu en sʼavançant vers le Nord et en sʼeloignant de sa source_. Il _ge_ aggiunto nella lingua Tedesca al tempo preterito è una particela inseparabile, di cui sʼignora adesso il significato, ma certamente nellʼantico Teutonico, significava qualche cosa. Si vede anche ora, che in alcune voci composte indica moltiplicità, unione di cose, onde per esempio da _mein_ mio, si fa _gemein_ comune, da _balken_ trave si fa _gebalke_ le travi del tetto. Io non so, se ancora in altro senso si usasse, e come o perchè si adoperasse per indicare il tempo preterito; ma nellʼignoranza stessa in cui siamo intorno a ciò parmi, che si possa asserir con certezza, che niuna somiglianza ha quella particola colla _reduplicazione_ deʼ Greci. Questa non è una particola o preposizione inseparabile, ma un aumento, di cui non è nota lʼorigine e il motivo; laonde è diversa essenzialmente, lʼaggiunta adoperata dai Tedeschi da quella dei Greci. Arroge a ciò, che la _reduplicazione_ deʼ secondi forse non era usata nei tempi più remoti, come dubitano alcuni solenni Grammatici, osservandosi, che nel dialetto Jonico non rare volte si tralascia.[5] Or supponendo, che una colonia Greca, passasse a popolare il paese, che poi si chiamò Germania, questo avvenimento esser deve antichissimo, giacchè niuna storia ne fa menzione; quindi non poteva essa recare in quelle terre lʼuso della reduplicazione, e recarvelo in modo, che sempre si adoperi, ove il verbo non sia composto con una particella inseparabile, mentre nella Grecia essa non era anche introdotta, e in tempi assai posteriori lʼuso non ne era così costante e universale. Checchè sia di questo non si può dubitare, che qualche somiglianza non si scorga fra la lingua Tedesca, e la Greca: ma questa somiglianza non conduce il Sig. Denina a credere, che la prima sia figlia della seconda, e piuttosto vorrebbe, che amendue provenissero da una madre comune. Questa dirsi potrebbe la Scitica, ove si prestasse fede alle ingegnose ipotesi del Bailly del Court de Gebelin, del Wachter, dellʼIhre, ed altri. LʼAccademico di Berlino però rigettando quellʼopinione arbitraria ama meglio di ricorrere alla lingua deʼ Traci o dei Frigi, ma a me non pare, che il suo avviso sia più fondato del primo. Altre osservazioni domanderebbero le altre dissertazioni, non giudico però necessario di trattenermi più a lungo intorno ad un autore, dotto certamente e rispettabile, ma che in questo argomento, se non erro, troppo ha seguito congetture non sempre felici. NOTE: [1] Colum. de R. R. Lib. 5. Cap. 1. [2] Ecco i titoli delle sue dissertazioni giunte a mia notizia, delle quali però ho potuto leggere le prime tre solamente. Nelle memorie dellʼAccademia di Berlino pel 1783. _Sur les causes de la différence des langues_. _Sur lʼorigine de la langue Allemande_. _Nel_ 1785. _Supplement aux mémoires sur les causes ec. Sur le caractère des langues, et particulièrement des modernes_. _Nel_ 1788. _Sur la langue celtique, et celles quʼon pretend en autre sorties. Suite des observations sur la différence des langues et leur origine_. _Nel_ 1794. _e_ 1795. _Sur lʼorigine grecque esclavonne et teutonique de la langue latine_. _Sur lʼorigine véritable de la langue Italienne, sur lʼorigine de la langue Françoise et Espagnole_. _Sur lʼorigine de la langue Angloise_. Il Denina poi stampò _la Clef des langues, ou Considerations sur lʼorigine et la formations des langues, à Berlin, chez Quien_, 1803. T. 3. in cui si vedono ripetute le cose dette in quelle dissertazioni collʼaggiunta di nuove considerazioni. [3] Tutti sanno che in Francese si scrive _gants_ non _gands_. Se il Signor Denina avesse guardato il Du Cange alle voci _Wantus_, _Wanto_, _Gvvantus_, _Guantus_ avrebbe veduto che queste voci erano usate neʼ Secoli barbari almeno fino dal principio del Secolo nono, e perciò molto prima della vantata fabbrica di Gand. In Francia si chiamavano _Wans_ come si ha da una carta del 1172. citata ivi, e alla v. _chirothecæ_. Questa voce proviene forse dallʼantica lingua Teutonica. [4] Non so donde egli tragga questa notizia. Forse perchè βρώσκω in Greco significa _comedo_? Ma bisognava prima provare che le lingue Settentrionali vengano dalla Greca, il che non si può provare, quantunque si abbiano in quello non poche voci simili alle corrispondenti voci di questa. Cominciando da Sigismondo Gelenio, che nel 1543. stampò in Basilea il suo _Lexicon Symphonum_ delle lingue Latina, Tedesca, Greca, e Schiavona molti hanno scritto della somiglianza di quelle lingue colla Greca, ma niuna reale e ben fondata conseguenza sulla origine loro si è fino ad ora a mio giudizio ricavata da tanta erudite fatiche. [5] V. _Lennep. Prel. de Anal. Ling. Gr. Cap._ 5. ed ivi lo Scheid. _Dellʼorigine della lingua Italiana._ ~CAPO~ II. Fu già questione lungo tempo agitata fino dai secoli trapassati qual sia lʼorigine della lingua Italiana. Leonardo Aretino, il Cardinal Bembo, Celso Cittadini, ed altri autori trattarono questo argomento, ma non lo fecero in modo, che togliessero ai posteri lʼadito a disputare novellamente. Ne scrissero nel Secolo decimottavo il P. D. Angelo della Noce,[6] Uberto Benvoglienti,[7] e il Quadrio,[8] ma lo fecero sì scarsamente, che io contento dʼaverli sol nominati passerò tosto a far parola del Marchese Maffei, del Muratori, del Fontanini, e del Tiraboschi, i quali con maggior copia dʼerudizione, ed accuratezza esaminarono sì fatta questione. Il Maffei dopo aver detto nella _scienza cavalleresca_,[9] che lʼItalia per lʼinvasione dei Barbari cambiò la lingua, e i nomi degli uomini e dei paesi, nella _Verona illustrata_[10] mutò opinione, e sostenne, che la lingua Italiana provenne _dallʼabbandonar del tutto nel favellare la Latina nobile, gramaticale, e corretta, e dal porre in uso la plebea, scorretta, e mal pronunziata_. Confermò egli la sua asserzione pretendendo, che deʼ conquistatori dellʼItalia pochi ne rimanessero, nè potessero perciò alterare la lingua del Paese. La confermò osservando, che la lingua deʼ Longobardi e degli altri popoli, che inondaron lʼItalia e la soggiogarono era aspra per molte consonanti e dal mischiamento di queste non poteva derivarne una nuova, in cui le vocali avessero tanta parte, come è la nostra. La confermò adducendo parecchie voci Latine, come _testa per caput_, _caballus, e caballinus per equus, ed equinus_, _laetamen per fimus_, _nanus per pumilio_, _tonus per tonitru_, _bramosus per cupidus_, e simili, che ora sono Italiane. La confermò ricordando le aferesi, le sincopi, e le apocopi, o vogliam dire gli accorciamenti di lettere, e di sillabe in principio, in mezzo, e in fine usati dai Latini assai volte e i cambiamenti delle lettere affini. E finalmente per tacere dʼaltri argomenti la confermò dicendo che anche lʼuso del verbo ausiliare _avere_, il quale si crede passato a noi dalla Germania, fu prima presso i Latini, e ne reca alcuni esempj, ed assai più ne accenna il Signor Abate Denina in due luoghi delle sue dissertazioni testè citate. Ma è falso, che pochi avanzi dei Longobardi, e degli altri invasori rimanessero quì, come dimostra il Muratori, che anzi furono moltissimi, e questi avendo in mano le redini del governo, e le dignità tutte occupando ecclesiastiche, e civili recarono necessariamente una mutazion grande alla lingua. Falso è che dalle lingue di questi popoli aspre per molte consonanti, e dalla Latina nascere non potesse la nostra dolcissima. La lingua latina non ha maggior copia di consonanti dellʼItaliana se non nelle terminazioni. Ora queste essendo diverse secondo le modificazioni deʼ nomi, e deʼ verbi chi ignora la lingua tralascia facilmente quelle desinenze varie secondo i diversi casi, e perciò appunto difficili a ricordarsi. Bisognerebbe svolgere maggiormente questʼasserzione, ma io non posso arrestarmi a lungo ad ogni passo, e debbo continuare lʼintrapreso cammino. Non giova poi lʼaddurre le parole e gli accorciamenti, che il Maffei adduce, perchè volendosi che la nuova lingua sia un alterazione della Latina debbono in quella esser rimaste tracce moltissime di questa. Quindi ammettere si potrebbe ancora, che lʼuso del verbo ausiliare _avere_ venga dal Latino, nè per ciò lʼopinion sua avrebbe maggior forza. Vuolsi però riflettere, che i Latini rarissime volte lʼadoperarono, e noi siamo costretti dʼusarlo continuamente avendo i nostri verbi più e diversi tempi neʼ quali esso è necessario, siccome appunto avviene nella lingua Tedesca, la quale lʼadopera neʼ tempi medesimi, in cui noi pur lʼadoperiamo. Ma il Muratori raccogliendo maggior copia dʼantichi monumenti, e più minutamente esaminandoli sostenne unʼopinione diversa, e più probabile. Lʼignoranza, nella quale cadde miseramente lʼItalia per la venuta deʼ popoli barbari, fece dimenticar le regole della lingua Latina, di modo che nè la sintassi, nè le desinenze deʼ varj casi neʼ nomi, o delle persone nei varj tempi e modi deʼ verbi più si osservarono. Si aggiunse gran numero di voci nuove tratte daglʼidiomi deʼ conquistatori, e certe proprietà di questi, come lʼuso del verbo ausiliare avere, e dellʼarticolo. Del primo ho parlato pur ora; e del secondo parlerò adesso brevemente. Lʼarticolo forse derivò a noi dallʼantica lingua Teutonica, e fu da prima un accorciamento del Latino pronome _ille_. Si disse prima _illo Caballo_, _illa hasta_, _illae foeminae_, e poi _il, o lo Caballo_, _la asta_, _le femine_. Nelle Litanie del 790. pubblicate dal Mabillon in _Analect._ si legge _Adriano Summo Pontefice, et universale Papa. Redemptor Mundi, tu lo_ (_illo_ cioè _illum_) _juva_, e appresso, tu _los_ (_illos_) _juva_. In un diploma di Carlo Magno dellʼ808.[11] si legge: _inde percurrente in la Vegiola, ex alia vero parte_ de la _Vegiola_ ec. E nelle formole di Marcolfo Lib. 1. Cap. 17. _Sicut constat antedicta Villa ab ipso Principe_ lui _fuisse concessa_, dove _lui_ secondo alcuni viene da _illui_ che nel lor Latino avranno detto per _illi_, o secondo il Menagio da _illius_.[12] Aggiunge finalmente il Muratori a confermazione della sua opinione una lunga serie di voci, che provengono dalla Germania, la quale si accrescerebbe di molto, se le antiche lingue deglʼinvasori dʼItalia fossero più conosciute. Il commercio poi, e le crociate trassero a noi dagli Arabi alcune parole, ed appartengono ad arti, come _Alchimia_, _caraffa_, _lambicco_, ec. o a mercatura come _canfora_, _cremesi_, _lacca_ ec. o a milizia come _Alfiere_, _Tamburo_ ec. Molte ne dette la Provenza per lo studio, che in Italia si fece della Poesia Provenzale, ed alcune la Spagna.[13] Lʼavviso del Muratori riguarda lʼorigin prima della lingua, e in ciò fu seguitato dal Fontanini[14] dal Bettinelli[15] dal Tiraboschi.[16] Ma vuolsi passare innanzi, ed indagare donde a lei derivò altra ricca messe di parole, e di modi di dire. Ciò avvenne per la poesia; onde dellʼorigine della nostra poesia vuolsi tenere ragionamento, e di coloro che nel passato secolo questa parte della storia dellʼItaliana letteratura presero ad esaminare. La poesia Italiana diversa è dalla Greca e dalla Latina, perchè queste fanno consistere i versi in un certo numero di piedi composti di sillabe lunghe, e brevi secondo certe leggi, e la nostra li fa consistere solamente in un certo numero di sillabe con certi accenti posti in luoghi determinati secondo la diversa qualità deʼ versi, e nella rima. Dico anche la _rima_, perchè neʼ primi tempi non vʼera fra noi poesia che ne mancasse. Dellʼuso della rima presso i Latini neʼ tempi antichi, e neʼ secoli barbari, e dei versi regolati non dai piedi ma dal numero delle sillabe, parla a lungo il Muratori;[17] ma le sue erudite osservazioni tralascerò io di ricordare, come quelle che aliene sono dal mio argomento. I primi a poetare fra glʼItaliani furono i Siciliani secondo il Petrarca. _Ecco i due Guidi che già furo in prezzo Onesto Bolognese, e i Siciliani Che fur già primi, e quivi eran da sezzo_[18] Ma i Siciliani imitarono i Provenzali secondo il Crescimbeni,[19] il Fontanini[20], ed altri. Il Muratori però non mostrò dʼesser persuaso abbastanza da questa opinione, ed oppose le parole citate dellʼepistole familiari del Petrarca, dalle quali a lui parve potersi dedurre, che i Siciliani fossero stati i primi a prendere questa maniera di far versi daʼ Latini, e dai Greci. Il Tiraboschi riconobbe anteriorità neʼ Poeti Provenzali, ma dellʼobiezione del Muratori non fece parola. A me sembra però, che il Petrarca voglia in quel luogo indicare lʼorigine più remota della rima, (che è il Lazio, e la Grecia certamente), e la nazione che in Italia precedette lʼaltre nel far versi, la quale è la Siciliana, senza volere poi indagare, se i Siciliani in ciò abbiano imitati i Provenzali. Diciamo dunque coʼ mentovati scrittori essere probabilmente lʼItaliana Poesia derivata dalla Provenzale, ed avere avuto il suo nascimento in Sicilia alla metà del secolo XII. o poco dopo. Se poi la Provenzale provenga dallʼAraba, come sospetta il dottissimo Padre Andres[21] non è di questo luogo lʼesaminarlo. Quindi venne un aumento non piccolo di voci, e di modi di dire alla nostra lingua. Lo negò il Muratori[22] secondando troppo il desiderio di contradire il Fontanini, ma per assicurarsi di questa verità basta volgere uno sguardo al Vocabolario della Crusca, alla Crusca Provenzale del Bastero, alle Lettere di Fra Guittone, ed agli altri Poeti del Secolo decimoterzo. NOTE: [6] Nelle note alla Cronica Cassinense di Leone Vescovo dʼOstia. [7] _Storia della Lingua Italiana_ ricavata dalle Miscellanee, e Lettere M. SS. nelle _Delizie degli Erud. Tosc._ del P. Ildefonso T. 2. p. 226. [8] _Storia della Poesia_ T. 1. p. 41. [9] Lib. 2. Cap. 1. T. 13. p. 143. La stessa opinione tennero il Gravina, _della Rag. Poet._ Lib. 2. e il Quadrio _Stor. e Rag. dʼogni Poes._ Lib. 1. Dist. 1. Cap. 2. [10] P. 1. Lib. 11. Op. T. 5. p. 214. [11] _Campi Stor. Eccl. di Piac._ T. 1. [12] Quindi si vede, che lʼArticolo Italiano in origine non è che il pronome _ille_ alterato per corruzione di lingua, a cui si aggiunge una proposizione neʼ casi obliqui, cioè _del_, o _dello_ viene da _de ille_; _al, o allo_ da _ad illo_ in Latino barbaro per _ad illum_; _dal, o allo_ da _de illo_. Or lʼarticolo Germanico viene anchʼesso dal pronome _quello_ Articolo. Pronome. N. der der G. des dessen D. dem dem A. den den ec. [13] Non parlo di quelle, che il dominio degli Spagnoli introdusse fra noi alla fine del Secolo XVI. e nel XVII. le quali appartengono allʼaccrescimento non allʼorigine della lingua, della quale si tratta quì. Alcune antiche voci Italiane derivate dallo Spagnolo sono accennate dal Gigli nel Vocab. Cateriniano. [14] Elog. Ital. [15] Risorg. dʼItal. [16] Stor. della Lett. Ital. [17] Antiq. Med. Ev. Diss. 40. [18] Trionf. dʼAm. C. 4. e più chiaramente in _Præf. ad Ep. fam. Quod genus apud Siculos_ (_ut fama est_) _non multis ante sæculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius manavit, apud Græcorum olim ac Latinorum vetustissimos celebratum; siquidem et Romanos vulgares rythmico tantum carmine uti solitos accepimus._ [19] _Coment. intorno alla Storia della Volg. Poes._ T. 1. Cap. 2. [20] _Elog. Ital. Cap._ 7. _e segg._ Si veda anche il Quadrio, _Stor. e Rag. dʼogni Poes._ il Tiraboschi _Stor. della Lett. Ital._ il Bettinelli _Risorgim. dʼItal._ [21] _Orig. ec. dʼogni Lett._ T. 1. _Cap._ 11. p. 297. e segg. [22] Luog. cit. _Dei pregj della Lingua Italiana._ ~CAPO~ III. Ma tempo è ormai che lasciamo la nostra lingua nascente, e la osserviamo adulta considerandone i pregj. Di questi ha scritto il Signore Napione[23] e lo ha fatto in modo, che ogni leggitore dee rimaner dubbioso, se debba in lui commendar più la dottrina, che è grandissima, o le belle qualità del cuore, che alla sua dottrina non sono inferiori. Certo è che mentre egli si mostra amantissimo della patria, e dellʼItalia, e cerca di promuoverne la gloria, espone i pregj di nostra lingua, e accenna come si possa e convenga diffonderne lʼuso fra le gentili e colte persone di tutta Italia. Colla ragione adunque, e colla testimonianza deʼ più celebrati scrittori delle straniere nazioni ne mostra i pregj, e ribatte le meschine obiezioni, che fece già il P. Bouhours, e pochi altri prima, e dopo di lui. E siccome uno deʼ principali suoi pregj a confessione di tutti è lʼarmonìa, da che ne viene, che essa abbia una facilità grandissima per esprimere ciò, che si chiama armonìa imitativa, non debbo quì tacere, che il Signor Cesarotti avendo asserito nel suo _saggio_, che tutte le lingue si prestano ad unʼarmonìa imitativa, neʼ rischiaramenti apologetici poi disse, che lʼarmonìa imitativa si trova in una lingua, quando essa sia tanto armonica _quanto il comporta la sua struttura e il rapporto tra gli oggetti e i suoni della detta lingua_[24]. Queste parole però ristringono tanto la proposizione, che non le lasciano più luogo di comparire. Io dubito molto, che scrivendo il _saggio_ egli non avesse nellʼanimo tanta restrizione, che se lʼavesse avuta par probabile, che avrebbe giudicato inutile dʼesporla. Segue poi dicendo non esser cosa agevole nè sicura di giudicar dellʼarmonìa di una lingua straniera; il che ognuno gli concederà generalmente parlando. Egli però dovrà concedere altresì, che talvolta vi sono almeno due mezzi per rendere agevole e sicuro questo giudizio. Il primo è quando più e diverse nazioni antepongono lʼarmonìa di una lingua straniera a quella della propria: il secondo quando più e diverse nazioni, mentre lodano lʼarmonìa della propria lingua, fra quelle poi che ad essa sono straniere si uniscono tutte o quasi tutte a dar la preferenza ad una. E tale è il caso della lingua Italiana. Finalmente contro coloro i quali opinano le lingue deʼ paesi freddi dover essere più aspre oppone il Sig. Cesarotti lʼopinione dellʼAb. Denina, il quale disse la Svezzese esser più dolce della Tedesca, e tanto esser più dolce quanto più si estende verso il settentrione, la Polacca esser piacevole ad udirsi, e la Russa accostarsi più dʼogni altra alla soavità della Greca. Io non credo, che lʼopinione intorno allʼasprezza delle lingue settentrionali sia vera, ma certo non è lʼautorità dellʼAb. Denina, che mi muove punto a crederla falsa. Egli non ha dato prove di saper molto la lingua Tedesca, benchè abbia dimorato qualche anno in Germania, ed è permesso di dubitare che non sia più dotto nella Svezzese, Polacca, e Russa. Sentii un giorno cantare una canzonetta Polacca dal Principe Poniatovvski, e quando egli si fu rimasto dal cantare gli dissi, che la sua lingua mi pareva molto dolce. Egli però mi rispose, che quella dolcezza era solo apparente, e che la lingua è molto aspra, ma qualche artifizio usato cantando, e lʼaccompagnamento del suono copriva gran parte di quellʼasprezza. Così mi è pure avvenuto assai volte di non sentire eccessivamente lʼasprezza della lingua Tedesca nelle opere in musica, ma sentirla però moltissimo nei familiari colloquj. Ma torniamo al Sig. Napione. Mostra egli, che vuolsi usare della nostra lingua piuttosto, che della Latina scrivendo dʼogni scienza e dʼogni facoltà, ed espone i vantaggi, che da ciò debbono derivare. Indi esamina quali siano le cause, per cui la lingua Italiana, che fu già un tempo Lingua universale abbia or cessato dʼesser tale, indica le sue vicende, e lʼattual suo stato, e propone i mezzi, che reputa più acconci a far sì che popolare, e comune divenga la colta lingua Italiana. Altri prima di lui avea tentato di ricordare i pregi della lingua Italiana, come Castruccio Bonamici in una orazione accademica, il Salvini in alcuni discorsi, e simili; ma in niuno si trova quella copia di ragioni e dʼutili osservazioni, quella giudiziosa critica, quellʼampia erudizione, quellʼamor di patria, che quì si vedono ad ogni pagina. Di questi perciò non dirò più lungamente. Dovrei bensì far parola del ragionamento del Sig. Ab. Velo.[25] Se vogliamo prestar fede agli editori delle opere del Cesarotti, in poca o niuna stima lo dovremo tenere. Ma se ascoltiamo il Signor Napione[26] ne giudicheremo altrimenti. In questa disparità di giudizj crederò di non errare preferendo quello del secondo, il quale non solamente colla celebrità del suo nome, ma ancora colla minuta analisi, che ne fa, persuade il leggitore. Ma non mʼè riuscito di vedere quel ragionamento, onde non posso dirne più oltre. Prima di questi scrittori avea trattato lʼargomento medesimo il P. Girolamo Rosasco.[27] Egli però con moltissime parole non dice molte cose, e per ogni riguardo nella sua trattazione deve ceder la palma al Sig. Napione. Ricerca in prima lʼorigine della lingua e condannando lʼopinion di coloro, che il volgo di Roma lʼusasse anticamente, la reputa nata dal corrompimento del latino per lʼinondazione deʼ Barbari in modo però, che le lingue di costoro poco influissero su la Toscana Romana e Veneziana, molto su la Bergamasca, Bresciana Lombarda Piemontese e Genovese. Parla poi dellʼabbondanza sua, della dolcezza, brevità, ed armonìa paragonandola colla Greca e colla Latina. Parla altresì del modo, che si dee tenere scrivendo nella nostra lingua, ma di ciò ragionerò altrove. Prima ancor del Rosasco, anzi al cominciamento del secolo scrisse Anton Maria Salvini una lezione su questo argomento:[28] ne scrisse però brevemente in modo, che la sua celebrità, non lʼutilità dellʼopera mi ha indotto a nominarlo. NOTE: [23] _Dellʼuso, e dei pregj della lingua Italiana libri_ 3. _con un discorso intorno alla Storia del Piemonte, Torino, Balbino, e Prato_ 1791. T. 2. in 8. e di nuovo Pisa 1813. Oltre a ciò che il titolo promette, vi è un discorso intorno al modo di ordinare una Biblioteca scelta Italiana dello stesso Autore, una Lettera del Tiraboschi contenente alcune osservazioni sul primo volume, e la risposta, in cui si dileguano le poche obiezioni di quella lettera, ed una lunga, e dotta sua lettera allʼAb. Bettinelli, nella quale di più e diverse cose appartenenti allʼargomento dellʼopera si ragiona, e specialmente di un libro dellʼAb. Velo, del quale parlerò fra poco. [24] _Ces. Op._ T. 1. _p._ 249. [25] _Sulla preminenza dʼalcune lingue, e sullʼautorità degli scrittori approvati, e dei Grammatici, ragionamento dellʼAb. Giambattista Velo. Vicenza._ Esso non era da prima che una prefazione alla dissertazione _suʼ caratteri del gusto Italiano presente, stampata in Vicenza, il_ 1786. sotto il nome dellʼAb. Garducci. [26] Nella lettera citata allʼAb. Bettinelli. [27] _Della lingua Toscana Dialoghi sette._ Torino, 1777. T. 2. in 8. [28] Salvini. Pros. Tosc. p. 297. _Se nelle cose letterarie si debba scrivendo usare la lingua Italiana più tosto che la Latina._ ~CAPO~ IV. Ho detto, che il Signor Napione vuole, che in ogni scienza, e in ogni facoltà si usi scrivendo la lingua Italiana, piuttosto che la Latina. Fu già un tempo, in cui si credeva, che la nostra lingua atta fosse solamente a trattar dʼamore, ed altrettali soggetti di lieve momento, e nulla di grande dir si potesse con essa. E furon parecchi uomini dotti nel secolo decimosesto, che acremente inveirono contro di lei sostenendo, che le scienze tutte, e la storia, e le opere di eloquenza, e di poesia scrivere si dovessero in Latino. Fu gran ventura però, che molti in quella, e nellʼetà seguenti le vane loro declamazioni e i loro sofismi rigettassero coi fatti più ancora che cogli argomenti, onde lʼItalia di tanti libri eccellenti si può gloriare scritti nel volgar nostro in ogni maniera di letteratura. Non mancarono però nel secolo di cui parliamo scrittori, che ancora colle ragioni abbiano validamente sostenuta la contraria sentenza. Non parlerò del Bonamici[29] e del Bettinelli[30], che ne parlarono solo per incidenza. LʼAlgarotti ne trattò più direttamente:[31] ma a me pare, che adoperando argomenti non buoni egli abbia indebolita unʼottima causa. Ricorda le espressioni gentilesche mal a proposito posta dal Bembo nelle lettere pontificie, di che già da tanti si è parlato; ricorda la sconvenevolezza dʼadattare a piccoli oggetti espressioni grandiose, e magnifiche usate già dai Romani, e degne solamente di loro, e di pochi altri: il che prova solamente lʼirragionevole superstizione dirò così e il difetto di giudizio in coloro, che cadono in sì fatti errori. Ma lasciando più altre cose, che in quel saggio si vedono meritevoli di censura una sola ne voglio aggiungere, ed è la riprensione, che fa lʼAlgarotti aʼ moderni scrittori latini chiamandoli centonisti rivestiti delle spoglie, e delle divise altrui. Or a me fa maraviglia, che un uom dotato di gusto squisito e intendente della lingua latina, come egli era, possa chiamar centonisti il Fracastoro il Vida il Sannazaro il Molza il Flaminio, il Navagero il Bembo il Bonfadio il Manuzio il Sadoleto e tanti altri che egregiamente in versi o in prosa scrissero nella lingua del Lazio nel secolo decimosesto, giacchè di quelli, che onorarono il decimottavo, farò parola altrove. Assai meglio sostengono la causa della lingua Italiana il Vallisnieri[32], il Gravina in un dialogo _de lingua latina_, e meglio forse la sostenne altresì il Buganza,[33] di che mi assicura assai la celebrità dellʼautore, quantunque lʼopera sua non mi sia venuta alle mani. Ma certamente nulla ha lasciato a desiderare su questʼargomento il signor Napione nellʼopera testè citata, dove, colle più giudiziose riflessioni dimostra lʼutilità, che allʼItalia ne verrebbe ed alle scienze, insegnandole nella nostra lingua. NOTE: [29] NellʼOrazione cit. [30] _Lettere di Virg. e Risorg. dʼItal._ [31] _Saggio sulla necessità di scrivere nella propria lingua_ Op. T. 4. [32] Opere T. 3. [33] _Discorso intorno alla lingua di cui servir ci dobbiamo. Mantova_ 1771. _In qual modo si debba far uso della lingua Italiana scrivendo._ ~CAPO~ V. Ma unʼaltra quistione agitata già prima neʼ secoli decimosesto, e decimosettimo, e rinnovata aspramente nel decimottavo devesi ora da me accennare. Questa lingua, nella quale dobbiamo scrivere, e molti parlano è ella lingua viva, o morta col cadere del secolo decimoquarto, dimodochè non sia più lecito dʼaggiugnere nuove voci dopo quellʼepoca? È propria solo di Firenze, o della Toscana, o di tutta lʼItalia? Dobbiamo noi sottoporci docilmente al freno dellʼAccademia della Crusca, nè recedere daʼ suoi giudizj, o spregiarli, come arbitrarj? Se ascoltiamo il Becelli nel quinto deʼ suoi dialoghi[34] noi dobbiamo usare scrivendo la lingua del trecento; ed egli vuole, che dopo quellʼepoca fortunata la nostra lingua sia lingua morta. Pochi però per buona sorte sono di questo avviso, i quali chiamar si possono, come altri già li chiamò, Giansenisti della Crusca. Parecchi con più ragione si contentano di chiamar buon secolo quello del trecento, perchè comunemente in Toscana si scriveva allora con purità. Nelle età seguenti vennero altri scrittori prestantissimi in molto numero, che si procacciarono somma lode, ma lo scrivere puramente non fu una gloria così comune, come a quei giorni. Oltre a ciò vʼha in quegli antichi una certa grazia, che incanta, la quale pochi deʼ loro successori hanno voluto ritrarre nei loro scritti: o se han voluto imitarli anche in questo, pochissimi (se non mʼinganno) hanno saputo farlo con quella naturalezza. Si condannano gli scrittori del trecento di avere usati certi modi antiquati, e periodi lunghi, che stancano il leggitore, con una trasposizione spesso forzata, ed incomoda. Ma il primo non è difetto per essi, e il secondo appartiene piuttosto allʼeloquenza, di che non parlo in questo luogo. Ma poi domando io, questo secondo difetto è forse negli ammaestramenti degli antichi, nelle vite deʼ Santi Padri, nel Cavalca, in Fra Giordano, nel Passavanti, e in altri parecchi, che potrei nominare? No certamente, e quegli scrittori, che li accusano convien dire, che non li abbiano letti. Strana cosa è poi il chiamar morta una lingua, che tuttora si parla, e si scrive; nè meno è strano il togliere agli scrittori la facoltà dʼaccrescere di nuove voci e di nuove maniere una lingua viva, purchè si faccia con certe regole, ed ove il bisogno lo richieda. Così fecero quei valenti scrittori, che più sono pregiati in Italia, e fuori. Ma di questo tornerà in acconcio tenere altrove discorso, dopo che avrò parlato di coloro, che hanno trattato della seconda questione. Siena usa dʼun grazioso dialetto, e alcuni suoi chiarissimi scrittori, come Claudio Tolomei, Celso Cittadini, Scipione Bargagli neʼ loro libri lʼhanno tenacemente seguitato, ed han preteso di seguitarlo a ragione. Si rinnovò nel passato secolo la contesa per opera di Girolamo Gigli, il quale voleva che le voci da S. Caterina da Siena adoperate, e da parecchi altri scrittori Senesi, fossero dallʼAccademia della Crusca accolte nel suo Vocabolario. Già ne avea adunate forse cinquecento, delle quali gran parte (se a lui dobbiamo prestar fede) era stata approvata da Anton Maria Salvini.[35] Per meglio riuscir nel suo intento meditava di stampare i principali scrittori Senesi in 37. volumi, di che dette il prospetto fino dal 1707. e poi fece stampare in Lucca lʼopere di S. Caterina, che furono con erudite annotazioni illustrate dal P. Federigo Burlamacchi della Compagnia di Gesù. Quindi compose un vocabolario delle parole, e modi di dire usati dalla Santa e degni di speciale osservazione. Sopra alcune di queste voci bramò egli di conferire col Cav. Anton Francesco Marmi dottissimo Fiorentino, collʼArciconsolo della Crusca, e con Anton Maria Salvini, di che scrisse al Marmi, pregandolo altresì, che gli procacciasse una lettera dellʼAccademia della Crusca o dellʼArciconsolo, o almeno di qualche erudito Accademico in commendazione delle opere della Santa. Ma non ottenne il suo intento. Forse quellʼAccademia, che volea cogliere il più bel fiore della lingua da quelle opere temette non forse lodandole essa con una lettera, paresse a molti, che per lei si approvasse tutto ciò che vi si conteneva. Ma quello che ricusò la Crusca, gli concedettero facilmente molte altre Accademie Italiane[36]. Eʼ da credere, che di quì nascesse il suo mal talento verso la Crusca, che ridondò poi tutto in suo danno. Era il Gigli uomo non di molta dottrina, ma soverchiamente mordace,[37] e di motti pungenti contro lʼAccademia, contro qualche Personaggio illustre, e contro la Nazione Fiorentina riempì il Vocabolario Cateriniano, il che fu a lui cagione di lunghe e gravi sciagure. Io tralasciando la storia di questo, che può vedersi nella sua vita, considererò brevemente il Vocabolario Cateriniano. Ove da questo si tolga tutto ciò che vʼha di satirico, e dʼinutile, quel volume si ridurrebbe a piccola mole, e allora sarebbe esso stato pregevole, e più gradito. Parecchie voci usate dalla Santa sono veri idiotismi difettosi, che doveano avervi luogo per erudizion solamente. Ma altre ve ne sono degne di lode, delle quali alcune dai compilatori del Vocabolario della Crusca furono collocate nellʼultima edizione, e qualche altra ancora avrebbero forse potuto collocarvi. Errava il Gigli pretendendo, che gli Scrittori tutti più celebri della sua patria riputar si dovessero come legislatori, ed esemplari di nostra lingua, quantunque per loro instituto seguendo il dialetto Senese recedano dalle regole della lingua medesima. Egli osserva che Ennio Plauto Catone Terenzio Pacuvio Cicerone Virgilio Orazio Catullo Properzio Livio Ovidio Vitruvio Sallustio nel secol dʼoro, Fedro Patercolo i due Senechi Lucano Marziale Quintiliano Persio Giovenale Stazio i due Plinii Columella nel secol dʼargento erano forestieri, e pure non furono esclusi dal numero deʼ legislatori della lingua Latina. Così per suo avviso non si debbono escludere i buoni scrittori delle diverse provincie della Toscana. Io non nego, che i buoni scrittori debbano essere adottati, e molti in fatti ne adottò lʼAccademia della Crusca non solo da quelle provincie, ma da tutta lʼItalia. Il che essa fece, perchè vuolsi prendere ciò che è buono, ovunque si trova, non per lʼesempio dei Latini addotto dal Gigli. Il Gigli dovea provare, che quei forestieri del secol dʼoro scrivessero secondo il natìo dialetto, non secondo il dialetto di Roma. Nè bastava che asserisse, ma dovea provare eziandio, che la lingua latina si arricchisse a quella età delle voci, e modi di dire delle straniere nazioni. Si sa bensì, che Lucilio biasimava in Vectio lʼuso di qualche voce Etrusca.[38] Pollione rimproverava a Tito Livio non so quale sua Patavinità, (se pure non fu questa una vana, e maligna accusa di quel critico) e Vitruvio certamente non aveva speranza dʼesser reputato legislatore di lingua; ma anzi in principio della sua opera domandò perdono, se in alcuna cosa fosse caduto, che alle regole della Grammatica fosse contraria.[39] Cicerone era _in filio recta loquendi usquequaque asper exactor_;[40] onde non è da credersi, che non si guardasse daglʼidiotismi dʼArpino. Io non dirò, che taluno di questi ottimi scrittori non adoperasse talvolta qualche voce straniera; dico solamente, che allora non erano giudicati legislatori della lingua Latina, ma venivano ripresi. Quintiliano chiama ciò _barbarismum gente_, e mostra, che vi caddero Catullo, Persio, Labieno, e Cornelio Gallo;[41] e Cicerone rinfacciò ad Antonio la parola _piissimus_, che non era della lingua Latina. _Tu porro ne pios quidem, sed piissimos quaeris, ut quod verbum omnino nullum in lingua Latina est, id propter tuam divinam pietatem novum inducis._[42] Cap. 19. Così Quintiliano condanna la parola _gladiola_ usata da Messala quantunque si dicesse _gladium_ ugualmente che _gladius_. È falso dunque, che i forestieri scrittori fossero riguardati, come legislatori della lingua anche allora, che modi nuovi adoperavano, e voci nuove. Si dirà forse da taluno, se gli scrittori Senesi, Lucchesi ec. del secol decimoquarto furono adottati, perchè non si adottarono ancora il Tolomei, il Cittadini, ed altri del sestodecimo? A questa domanda risponderà per me un dotto Senese, cioè Uberto Benvoglienti. _Nel buon secolo pochissima differenza passava fra lo dialetto Senese, e Fiorentino. Decadde la lingua nel secol decimoquinto; nel seguente però si volle richiamare al suo splendore, ma per la moltitudine deʼ forestieri, che erano nella Città_ (di Siena) _e forse anche per altra cagione non potè il dialetto Senese rialzarsi allʼantico suo splendore—a differenza dei dialetti era piccola da principio, e poi certi idiotismi non erano così universali, che non si scrivesse in Siena ancora alla maniera Fiorentina, onde neʼ loro scritti si trova_ povero, e povaro, essere, ed essare, leggere, e leggiare ec. ec.[43] Ma lʼopinione del Gigli non bastò ad altri, i quali aspiravano ad una libertà di gran lunga maggiore. Fra quanti furono patrocinatori della libertà ricorderò solamente il Cesarotti, il quale per sottigliezza dʼingegno, e per apparato di filosofiche ricerche tutti superò gli scrittori, che lo precedettero in questo arringo. Egli dichiaratosi campione della libertà nel fatto della lingua sgrida coloro, che sono di contraria opinione, e acceso di sdegno, che non è però senza grazia, esclama colle parole del Marmontel, _O Subligny tu pretendevi di saper la grammatica meglio di Racine_! prosiegue poi egli, _O Infarinati, o Inferrigni voi pretendeste di saper grammatica, e poesia meglio del Tasso! O Castelvetro, tu pretendevi di sequestrare in bocca al Caro tutte le voci, che non erano del Petrarca! O..... O..... O..... O razza eterna deʼ Subligny, tu siei pur propagata in Italia_?[44] Ma se il Signor Cesarotti ha reputata cosa lodevole il mordere aspramente Omero, e criticare Orazio, e parecchi deʼ Greci Oratori, se egli ha creduto di ravvisare tanti errori gravissimi in quegli uomini sommi,[45] perchè non potrà altri ravvisare qualche errore nel Tasso, e nel Racine, sommi uomini anchʼessi, e nel Caro inferiore a quei due, ma scrittore illustre egli pure? Ma essi furono accusati dʼerrori grammaticali, _come se lʼuomo di genio non avesse mai diritto di parlare senza lʼuso, nè innanzi allʼuso_, dice il Signor Cesarotti colle parole del Marmontel. E non sono uomini anchʼessi, e perciò sottoposti ad errare? E quanti sono gli errori, che nelle più insigni opere dʼogni età e dʼogni nazione si trovano, e che i Grammatici onestano col nome dʼenallage, e con altri simili? Certo è che nellʼottima edizione delle opere di Racine procurata dal Signor Geoffroy, e da lui corredata di belle annotazioni, si vede talvolta in queste indicato qualche errore grammaticale di quellʼegregio poeta. Nè intendo con ciò di condannare il Tasso, ed approvare le dicerìe degli Infarinati e deglʼInferrigni. Dio mi guardi da ciò. Leggo, e rileggo la Gerusalemme, e poche pagine ho letto di quelle critiche. Dico solamente, che si debbono riprendere queʼ critici, quando le loro censure sono irragionevoli, ma non si debbono riprendere, perchè hanno criticato il Tasso, e meno degli altri lo deve fare chi ha creduto di poter condannare Omero, Demostene, ed Orazio. Ma lasciamo star ciò, e vediamo almeno in parte il sistema di questo chiarissimo Autore. _Una lingua_ (egli dice) _nella sua primitiva origine non si forma che dallʼaccozzamento di varj idiomi..... Poichè dunque molti idiomi confluirono a formare ciascheduna Lingua, è visibile che non sono tra loro insociabili, che maneggiati con giudizio possono tuttavia scambievolmente arricchirsi; e che questo cieco aborrimento per qualunque peregrinità è un pregiudizio del pari insussistente, e dannoso al vantaggio delle lingue stesse._ Dubito che in questo discorso la conseguenza non sia giusta. La lingua nostra nata è dalla Latina, e da quella deʼ popoli settentrionali, che invasero lʼItalia. Dunque la lingua degli Unni, deʼ Goti deʼ Vandali deʼ Longobardi non è insociabile colla nostra? E qual vincolo di società può essere fra idiomi dʼindole così diversa? Assai son quelli per molte consonanti insieme unite, e la nostra è dolcissima, e grave nel tempo stesso per una conveniente temperatura di quelle, e delle vocali, talchè se or si volesse togliere dallʼantico Teutonico alcuna voce, e farla nostra uopo sarebbe alterarla in modo che non fosse più dessa. Anche i diversi dialetti delle parti diverse dʼItalia debbono a suo giudizio contribuire ad arricchir la lingua. Egli vorrebbe, che siccome facevasi in Grecia, si scrivesse in tutti i principali dialetti, con che si renderebbero tutti più regolari, e più colti, e da questi approssimati e paragonati fra loro avrebbesi potuto formare, come appunto formossi fra i Greci, una lingua comune, che sarebbe stata la vera lingua nazionale, la lingua nobile per eccellenza composta di una scelta giudiziosa deʼ termini e delle maniere più ragguardevoli, lingua che sarebbe riuscita ricca, varia, feconda, pieghevole, atta forse colle sole derivazioni sue proprie, senza lʼajuto di linguaggi stranieri, alla modificazione delle idee antiche, o alla succession delle nuove, che si introducono dal ragionamento, e dal tempo.[46] Aggiunge poi in una nota lʼopinione di Gebelin, il quale alla libertà di far uso di tutti i dialetti, e di mescolarli fra loro attribuisce la ricchezza, la forza, e lʼarmonìa della lingua Greca, e in gran parte il genio originale deʼ suoi Scrittori. I Greci non reputarono ugualmente nobili tutti i dialetti nè li mescolarono in modo, che quindi si formasse la lingua comune. Il dialetto Attico fu per essi il più pregiato, come di fatto era il più gentile, e a poco a poco abbandonarono lʼuso degli altri, e si accostarono a questo quegli scrittori ancora, che per la loro patria avrebbero dovuto scrivere in altro dialetto. Non parlo quì deʼ poeti, i quali più luogo tempo fecero uso di terminazioni Joniche e dʼaltre simili; ma essi aveano sempre rivolti gli occhi ad Omero loro duce, e maestro, e quelle terminazioni erano considerate come poetiche, e perciò proprie dʼogni dialetto. Quindi i tragici nei cori fanno uso di qualche maniera reputata Jonica, e dʼaltri dialetti, perchè i cori erano pezzi lirici, e perciò ad essi erano adattate le forme poetiche. Non parlo nè pur di Plutarco, e dʼaltri scrittori, i libri deʼ quali sono il risultamento dʼuna immensa lettura dʼopere diverse scritte in diversi dialetti, donde essi toglievano parecchi tratti talora senza citarli, da che ha origine quella disuguaglianza di stile, che nelle opere morali di Plutarco si osserva. Dallʼaltra parte non sappiamo abbastanza le proprietà deʼ dialetti, e noi le attribuiamo allʼuno o allʼaltro, perchè le vediamo usate da qualche Autore, che in quello scriveva.[47] Supposta però ancora quella mescolanza di dialetti il Gebelin dopo avere spacciati altri sogni nel suo _Monde primitif_ poteva spacciare ancor questo, che quindi derivasse in gran parte il genio originale deʼ Greci scrittori; ma il Sig. Cesarotti fornito di molta dottrina, e dʼacuto criterio certamente non lo credeva. Lasciamo però il Gebelin, e torniamo al Cesarotti. Vuole egli, che _dai dialetti dʼItalia si prendano voci, ed acconciandole alla foggia della lingua comune si adottino. Tutti i dialetti non sono forse fratelli? non sono figli della stessa madre? non hanno la stessa origine? non portano lʼimpronta comune della famiglia? Non contribuirono tutti neʼ primi tempi alla formazion della lingua? Perchè ora non avranno il dritto e la facoltà dʼarricchirla? I dialetti di Grecia non mandavano vocaboli alla lingua comune, come le diverse Città i loro Deputati al Collegio degli Anfizioni_?[48] Ma se a tutte queste interrogazioni altri avesse risposto negativamente, io non so bene in qual modo avrebbe egli potuto confermarle. Anticamente in una parte grande dʼItalia si parlava la lingua Greca, e altrove lʼEtrusca lʼUmbra lʼOsca la Sannita ec. La Latina racchiusa era fra limiti angusti anche a tempo di Cicerone, non che prima di lui. _Graeca leguntur in omnibus fere gentibus, Latina suis finibus exiguis sane continentur._[49] Roma obbligò i popoli soggiogati a imparare la lingua Latina; ma non per questo si estinsero affatto le altre lingue. In Grecia si parlò sempre la Greca, come tutti sanno; in Affrica la Punica, come attesta S. Agostino in più luoghi; e nelle Gallie la Gallica, o Celtica, come dice S. Ireneo.[50] Dominò assai più il Latino in una parte dellʼItalia, ciò non ostante nelle regioni più lontane da Roma, come la Magna Grecia, la Liguria, la Gallia Cisalpina, deve necessariamente esser rimasta, ove più ove meno gran parte deʼ loro idiomi. NellʼUmbria, nellʼEtruria, e nellʼaltre parti meno lontane da Roma si parlò a poco a poco il Latino, quantunque alquanto alterato principalmente fra il popolo, e nel contado; e di queste provincie si può dire, che la loro lingua ebbe per origine e madre la Latina. Vennero poi i popoli barbari i quali si sparsero in diverse parti, ed alterarono le lingue, o vogliam dire i dialetti, che vi trovarono. Quindi a mio giudizio hanno origine le diverse maniere di parlare, che ora si osservano nel Piemonte, nel Genovesato, nella Lombardia, nel Veneziano, nella Toscana, nella Romagna, nel Napoletano, nella Sicilia. Non da una sola origine dunque vennero i dialetti dʼItalia, nè si trova in essi pure lʼimpronta comune della famiglia. Basta scorrer per poco lʼItalia per conoscere una lingua nel Genovesato, un altra nel Piemonte, una nella Lombardia, unʼaltra nel Veneziano, una nel Napoletano, e nella Sicilia, e tutte diverse da quella, che si parla in Toscana, e in una parte dello Stato Romano. Diversità nelle declinazioni, nelle conjugazioni, nelle parole, nelle frasi; talchè un Toscano o un Napoletano non intende il linguaggio Genovese, o il Piemontese. E dovʼè dunque lʼimpronta comune della famiglia? In una cosa tanto manifesta credo inutile di trattenermi, confermando questa mia proposizione, e già sono rese di pubblica ragione colle stampe parecchie poesie Napoletane, Bolognesi, Milanesi, onde ogni uno può agevolmente di per se stesso vedere la disparità immensa, che passa fra ciascuna di queste lingue, e la Toscana o Italiana. E giacchè si ricordano sempre i dialetti della Grecia non debbo tacere, che i Greci oltre ai dialetti principali Eolico, Jonico, Attico, Dorico, oltre al Poetico, che era comune a tutti ne avevano ancora altri minori, e nobili meno, che propri erano di Città, e Nazioni diverse. Esichio, Suida, lʼEtimologico, e gli altri Lessicografi Greci ci hanno tramandate molte voci deʼ Laconi, deʼ Cretesi, deʼ Tessali, deʼ Macedoni, e dʼaltri popoli. Ma in questi dialetti non si scrivevano cose letterarie, e solamente si usavano in oggetti familiari, neʼ decreti dei governi, e in altre simili cose. Quando Filippo scrisse agli Ateniesi le lettere, che abbiamo fra le opere di Demostene, non le scrisse già egli nella sua lingua nativa, ma sì nel dialetto Attico. E pure quei dialetti non erano tanto lontani dalla lingua comune, quanto le diverse lingue dʼItalia sono lontane dalla comune lingua degli scrittori Italiani. Ma se tanto sovente si ricorre alla Grecia a me sarà concesso di ricorrere a Roma, e ad un uomo, che era nel tempo stesso oratore filosofo e poeta eloquentissimo e dottissimo, voglio dir Cicerone. Egli voleva, che si scrivesse non già nel dialetto dʼArpino, ma latinamente. _Quinam igitur dicendi est modus melior..... quam ut latine, ut plane, ut ornate_ ec. _dicamus?_[51] E poco dopo: _nec sperare_ (o come altri legge _speramus_), _qui latine non possit, hunc ornate esse dicturum_. Ed alla sua età era cosa comune tanto il parlar puramente, che non destava maraviglia il farlo, ma veniva deriso chi no ʼl faceva. _Nemo enim unquam est oratorem, quod latine loqueretur, admiratus: si est aliter irrident; ne eum oratorem tantummodo, sed hominem non putant._[52] Ma per parlare puramente richiedeva, che le parole fossero pure: _verba efferamus ea, quae nemo jure reprehendat_.[53] Ma qual vʼha mezzo più acconcio per iscrivere puramente? Il leggere gli antichi autori. Essi erano disadorni, ciò non ostante voleva, che si leggessero, e chi si fosse avvezzato al loro stile avrebbe parlato latinamente, anche senza avvedersene. Nè si debbono però adoperare voci disusate, se non parcamente, e per adornamento: ma chi lungamente e con molto studio avrà letti i libri degli antichi adoprerà sì le parole usitate, ma le più scelte e le migliori. _Sunt enim illi veteres, qui ornare nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope praeclare locuti: quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes quidem poterunt loqui, nisi latine. Neque tamen erit utendum verbis iis, quibus jam consuetudo nostra non utitur, nisi quando ornandi causa, parce, quod ostendam: sed usitatis ita poterit uti, lectissimis ut utatur is, qui in veteribus erit scriptis studiose multumque volutatus._[54] Nè gli bastava, che le voci fosser latine, ma la pronunzia altresì voleva che fosse Romana. _Quare cum sit quaedam certa vox Romani generis, urbisque propria..... hanc sequamur; neque solum rusticam asperitatem, sed etiam peregrinam insolentiam fugere discamus._[55] E questa pronunzia Romana vuol, che sʼimpari dagli antichi; e perciò loda Lelia moglie di Q. Scevola, e suocera di L. Licinio Crasso appunto perchè parlava così. _Equidem cum audio socrum meam Laeliam_ (_facilius enim mulieres incorruptam antiquitatem conservant, quod multorum sermonis expertes ea tenent semper, quae prima didicerunt_), _sed eam sic audio, ut Plautum mihi aut Naevium videar audire...... sic locutum esse ejus patrem judico, sic majores._[56] Ora se Cicerone richiedeva, che gli antichi, benchè rozzi e disadorni, ad esempio si prendessero ed a modello di purità in una lingua, che solo posteriormente si ingentilì e perfezionò col mutar forme e desinenze moltissime, quanto più dovrem noi farlo nella nostra già nel quattordicesimo secolo perfezionata? So che alcuni negano aver la lingua Italiana avuta in quellʼetà la sua perfezione, e vantano lʼeleganza deʼ moderni scrittori, e le molte voci di che lʼhanno arricchita. Ma per non fare dispute vane osservo in prima, che in quel secolo restarono determinate le proprietà della lingua, la sua indole, il vero significato delle parole, la conjugazione deʼ verbi, e le altre parti tutte quante della lingua medesima; e ciò io credo che sia perfezionare la lingua. Lʼaggiugnere voci nuove la rende più ricca, non più perfetta: e lo scrivere con eleganza mostra il valor di chi scrive, il quale merita lode per averla bene adoperata. In questo senso dunque io dico, che i moderni non le hanno data perfezione collʼeleganza deʼ loro scritti. Confesso, che molti ve nʼha dʼelegantissimi; e sono quelli, che, lungo studio avendo fatto sugli ottimi scrittori Greci, Latini, nostri, e se a Dio piace ancor dellʼaltre nazioni, hanno saputo ritrarne molte bellezze, o col proprio ingegno crearne di nuove. Dico però, che lʼeleganza consiste nella purità della lingua, e nellʼaltre parti dello stile. Ora quanto alla prima nulla hanno aggiunto, nè potevano i moderni aggiugnere a quello, che avevan fatto gli antichi; e le seconde non appartengono alla presente disquisizione. Ma torniamo ai dialetti dʼItalia. A favore di questi si ricorda il giudizio di Dante, il quale nel libro della volgare eloquenza dopo la lingua, che a lui piacque di chiamare illustre, cardinale, aulica, e cortigiana, preferisce il dialetto Bolognese agli altri tutti. Ed altri osserva, che fra gli scrittori approvati dalla Crusca il maggior numero di quelli, che non sono Toscani, son Bolognesi. Qual sarà la ragione di ciò? Un celebre scrittore[57] lʼattribuisce a quella Università famosa sopra ogni altra, alla quale accorrevano da ogni parte scolari in numero grande, e professori insigni, che per intendersi scambievolmente avranno fatto uso di una lingua comune. Ma, se mi è lecito di oppormi in parte alla opinione dʼun uomo così grande, dirò in primo luogo, che Dante non poteva chiamar dialetto Bolognese quella lingua, la quale si suppone, che gli scolari e i maestri parlassero fra loro: e che il dialetto Bolognese esser doveva quello usato dai Bolognesi, non dai forestieri. Dico in secondo luogo, che qualunque sia il motivo, perchè egli lo preferisse, ciò è indifferente per la quistione, che sʼagita intorno alla lingua da usarsi comunemente in Italia scrivendo. Dante parla del dialetto, che egli poneva innanzi agli altri, ma lo posponeva a quella sua lingua illustre, cardinale, aulica, e cortigiana: ed io cerco qual sia la lingua, nella quale si dee scrivere, ed è quella appunto indicata da lui. E già intorno allʼopinione di Dante hanno egregiamente ragionato i signori Rosini e Nicolini,[58] talchè reputo inutile lʼaggiugner nuove parole alle cose dette da questi valentuomini. Gli stessi dotti scrittori hanno altresì risparmiata a me la fatica dʼesaminare unʼaltra sentenza da altri valentissimi sostenuta. Vuolsi da alcuno, che sia in Italia una lingua scritta diversa dalla lingua parlata come dicono, cioè una lingua, che adoperano i savj ed eleganti scrittori diversa da tutti i dialetti, che nelle diverse parti dʼItalia si parlano. Io reputo inutile il ripeter quì ciò che acutamente si è disputato nei libri testè allegati. Ricorderò solamente, che la pura lingua, nella quale si scrive, è quella stessa, che favellando si usa in Toscana dalle colte persone. Qualche non grave differenza in poche cose della conjugazione deʼ verbi, non è ciò che forma la diversità dʼuna lingua, come è stato detto, ed io ripeto. Oltre a ciò io domando, quando si formò questa lingua che dicono scritta? Quali sono gli antichi documenti, che facciano testimonianza di questo fatto? Come avvenne ciò? Forse molti uomini dotti si unirono in un congresso? Ma niuna cronica o storia ce ne parla. Forse gli Italiani dispersi determinarono questa lingua? Ma questo parmi impossibile: nè veruna nazione antica o moderna ci offre un esempio di così singolare avvenimento. E se gli uomini dispersi per lʼItalia crearono questa lingua tanto diversa dalle natìe par che dovessero esser solleciti di scriverne le regole, cioè una grammatica: ma le prime grammatiche Italiane sono del cinquecento come ognun sa, per opera del Fortunio e del Bembo. E questi primi grammatici non sepper nulla di quel primo accordo, ma i precetti ne cercarono negli antichi autori Toscani. E per qual motivo fu creata questa lingua? Gli uomini dotti sdegnavano di scrivere intorno alle scienze, fuorchè in latino. Il volgare era destinato a cose, che riputavansi di poco momento, versi dʼamore, croniche, libri spirituali, qualche laude spirituale, romanzi, novelle, libri di mascalcia, ed altrettali cose per glʼinletterati. I frammenti di storia impressi dal Muratori nelle Antichità Italiane sono scritti nel dialetto Napoletano, o molto simile al Napoletano. I Veneziani autori di croniche citati dal Foscarini hanno usato il lor volgare: e fecero così i lor viaggiatori. A me parrebbe, che questi scrittori avrebbero adoperato altrimenti se stata vi fosse una lingua comune a tutta lʼItalia, per universale consentimento destinata per le produzioni letterarie. La Toscana incomparabilmente più dʼogni altra parte di Italia somministra autori delle cose testè indicate, e questi scrissero nel lor volgare, il qual volgare presto si condusse a quella perfezione, che vediamo nel trecento per opera dʼalcuni, che seppero scegliere le forme migliori fra quelle usate dal volgo. I forestieri invaghiti di quello stile lo imitarono, e più felicemente forse i Bolognesi. Ciò può ripetersi forse da due ragioni. La prima è lʼuniversità, che richiamando colà alcuni Professori, e parecchi scolari Toscani essi avranno parlato la loro lingua, ed avranno portato con loro le rime di fra Guittone, di Guido Cavalcanti, e degli altri poeti di quellʼetà, e storie, e volgarizzamenti dal Latino, e libri ascetici. La seconda è la vicinanza, e il commercio con Firenze, che dovea produrre lo stesso effetto. Si aggiunga a questo, che _gli antichi rimatori Bolognesi si veggono quasi tutti usciti di riguardevoli parentadi_, come osserva il Dottor Gaetano Monti parlando dʼOnesto degli Onesti,[59] e le loro ricchezze forse, agevolarono ad essi il modo di conversare cogli uomini dotti, e di comprar le opere deʼ nuovi Autori Toscani. La lingua, che alcuni chiamano comune altro non è, che la lingua Toscana spogliata, come ragion vuole dalle irregolarità del volgo, e dai riboboli. Le sue regole sono esposte nella Grammatica, e il Vocabolario della Crusca comprende una parte grandissima delle sue voci unita ad altre molte, che son poste là per giovar alla storia della lingua, e allʼintelligenza degli antichi scrittori; altrimenti sarebbe già avvenuto delle opere loro ciò che deʼ versi saliari avvenne in Roma, i quali col volger deʼ secoli più non si intendevano. Lo stesso dotto scrittore testè citato per quellʼamore della gloria dʼItalia, che lo anima, vorrebbe, che i Principi tutti dʼItalia adoperassero favellando questa lingua da lui chiamata comune, e mostrassero desiderio, che tutti quelli, che li attorniano facessero lo stesso, ed ordinassero, che in questa lingua sʼinsegnasse ogni scienza nelle università, e nelle accademie, ed egli ha speranza, che le gentili persone non terrebbero altro linguaggio familiarmente, ed i dialetti rimarrebbero solamente alla Plebe. Ma io dubito forte che, ove ancora ciò si eseguisse, non per questo si avrebbe una lingua comune, regolata, stabile, e per tutta lʼItalia diffusa. Fin da principio quel linguaggio usato alla Corte non potrebbe essere scevro affatto da ogni tinta del dialetto nazionale, e il linguaggio della Corte di Torino non sarebbe lo stesso, che quello praticato alle Corti di Milano, e di Firenze, e di Napoli; e questa diversità anderebbe sempre crescendo, talchè dopo forse cinquantʼanni ogni paese avrebbe due dialetti diversi, uno cioè delle gentili persone, lʼaltro della plebe.[60] Nè mai vi sarà la necessaria uniformità di lingua, se non si ha un canone uniforme per tutti, di cui sia custode unʼaccademia residente in quella parte, il dialetto della quale sia appunto quella lingua comune, o più dʼogni altro vi si accosti, cioè in Toscana. Non nega il Sig. Cesarotti, che quellʼaccademia risieda in Toscana, anzi in Firenze: ma vuol che abbia altri accademici dʼogni nazione con parecchi cooperatori, i quali colgano il meglio di ogni dialetto per arricchirne la lingua comune. Ma ciascuno di questi accademici mandando parole, e modi di dire della sua patria vorrebbe poi, che i suoi scelti fossero a preferenza di quelli di altre nazioni; e quindi nascerebbono letterarie discordie interminabili, che farebbono perire la nuova accademia sul primo suo nascere. In fatti non so comprendere, come non volendo egli, che altri ubbidisca allʼaccademia della Crusca, speri poi che ognuno sia per esser ligio di questa sua, e che i Toscani, i Lombardi, i Piemontesi debbano accogliere facilmente le voci tolte dalla lingua Napoletana, Siciliana, e Genovese, mentre parecchie delle loro ne vedrebbono rigettate. Ogni lingua aver deve certe regole altrimenti ne nascerebbe una confusione intollerabile, e presto se ne altererebbe lʼindole e la natura. La Toscana ebbe nel secolo decimoquarto tre scrittori prestantissimi, cioè Dante, Petrarca, e Boccaccio, che destarono lʼammirazione universale colle opere loro, le quali andavano per le mani di tutti. Essi furono padri della lingua, perchè seppero scegliere le forme migliori energiche delicate piacevoli. Ma non furono i soli. Il B. Giovanni da Ripalta, Fra Bartolomeo da S. Concordio, Fr. Domenico Cavalca, Fr. Jacopo Passavanti, i tre Villani, Francesco Sacchetti, S. Caterina da Siena, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoja, e parecchi altri, oltre agli anonimi autori delle novelle antiche, del volgarizzamento delle vite deʼ SS. Padri, e più altri ebbero forza, grazia, e vaghezza. Da questi scrittori principalmente si trassero le regole di nostra lingua per opera del Fortunio e del Bembo, come ho detto. Nè si pretende con ciò, che tutto sia perfetto ciò che procede da quelle fonti, nè che ora sia disdetto dʼaggiunger nulla alla nostra lingua. Il Salviati, contro al quale si fa da alcuni tanta guerra, reca alcune scorrezioni, che negli scritti degli antichi si trovano,[61] nè certamente le approva; e il Corticelli parlando di certa maniera irregolare usata da Fr. Giordano dice così. _Non si vogliono imitare, essendo anzi errori che no. Lasciò scritto un valentuomo_,(lo Scioppio) _che queste figure sono pretesti inventati daʼ Grammatici per iscusare i fatti, neʼ quali sono talvolta incorsi per umana fiacchezza anche i più celebri Autori._[62] Non si vogliono però condannare nè pure tutte le irregolarità, le quali quando sono adottate da parecchi sono veri vezzi di lingua. Non ammette i vezzi di lingua il Sig. Cesarotti;[63] ma ogni lingua li ha, e quelle principalmente, che vantano maggior numero dʼeleganti scrittori: e se questi si tolgono dalle opere loro se ne torrà una gran parte della bellezza. Non è vietato, come ho detto pur ora, dʼaggiunger nulla alla lingua. _Chi può negare_, dice il Sig. Cesarotti, _che il Firenzuola, il Gelli, il Caro, il Castiglioni, e varj altri non avessero e castigatezza, e grazia? Ma i loro vocaboli, i loro modi erano gli unici? La lingua, lo stile eran fissati in perpetuo? Quì sta il torto della Crusca._[64] Qual torto? Quando è che la Crusca abbia detto, che quegli scrittori fossero gli unici, e la lingua, e lo stile fossero determinati in perpetuo? La Crusca ad ogni nuova edizione del Vocabolario ha fatto lo spoglio di nuovi autori, ed ha adottate nuove parole, e nuovi modi di dire. Nè mi si opponga la guerra ingiustamente mossa al Tasso; perchè quella non fu guerra della Crusca, ma dellʼInfarinato, e dellʼInferrigno. Ma ormai troppo a lungo mi sono trattenuto su ciò, e molto mi rimarrebbe a dire su questʼopera. Vorrei almeno parlare del Vocabolario Italiano da lui progettato; ma lʼesporlo, ed esaminarlo accuratamente richiederebbe troppo lungo discorso. Dirò solo esser questo un lavoro immenso necessariamente difettoso per la stessa sua vastità, nè tale da poter mai conciliare le discordi opinioni dei Letterati. Anche il Muratori nella perfetta poesia Lib. 3. Cap. 8. prese a sostenere, un solo essere il vero ed eccellente linguaggio dʼItalia, che è proprio di tutti glʼItaliani, il quale per lui non è il Toscano, ma bensì comune a tutti, e da tutti usato scrivendo. Il Salvini, però gli si oppose con molta forza nelle annotazioni, e difese la causa della lingua Toscana. Più ampiamente la difese il P. Rosasco nellʼopera testè citata,[65] e nel tempo medesimo combattè il Salvini, il quale nel calor della disputa lodando molto gli Scrittor del trecento deprime forse soverchiamente i moderni. Concede a quellʼaureo secolo maggior purità ed una certa grazia, che altri poi nellʼetà posteriori non ha mai potuto perfettamente ritrarre, ma loda altresì gli scrittor più recenti, che di molte voci, e di molti modi lʼhanno arricchita. Quindi parla appunto della facoltà dʼaggiugnere voci nuove, e mostra quali sieno gli avvertimenti che debbonsi avere facendolo. Questa facoltà però egli concede ai Toscani, ed ai Fiorentini massimamente. Io confesso, che amerei dʼessere alquanto meno severo. I termini, che appartengono alle arti, ed alle scienze, non solamente si possono, ma si devono adoperare: e sarebbe ridicolo quel Geometra, che ricusasse di dire _coseno_ e _cotangente_, e quel Chimico che non volesse nominare lʼ_idrogeno_ e lʼ_ossigeno_, perchè non sono nel vocabolario queste parole. Riguardo alle altre voci, se queste mancano per esprimere qualche concetto (il che avviene rade volte a quelli che sanno ben maneggiare la nostra lingua) credo, che ognuno possa usar nuove voci; lʼadottarle però spetta allʼAccademia della Crusca. Parecchi oppositori scrivono ciò che cade loro giù dalla penna senza riflessione riguardo alla lingua, e poi vorrebbero, che le cose per essi scritte fossero in ogni parte perfette, e chiaman pedanti chi ardisce trovarvi alcun difetto. Non sarebbe però difficile il dimostrare, come essendo più castigati sarebbero stati più eleganti. Ma chi ha data a quellʼAccademia la facoltà di seder giudice nel fatto della lingua? Gliele han data la necessità dʼavere un giudice per conservarne la purità, la convenienza, che questo giudice sia in Firenze, il possesso dʼoltre a due secoli, il consenso di molti ottimi scrittori, le gloriose fatiche da essa sostenute a pro della medesima. NOTE: [34] Verona, 1737. [35] Gigli Reg. per la Tosc. Fav. nella pref. [36] Cinquantasei sono le Accademie, delle quali si hanno lettere dʼapprovazione unite al Vocabolario Cateriniano stampato per la seconda volta colla falsa data di Manilla, ed alla sua vita. [37] _Girolamo Gigli neʼ suoi scritti ebbe solo per fine di satirizzare, il qual mestiere egli appieno non intendeva per voler troppo caricare, non già per istruire perchè di simili materie egli non era capace, e il suo studio non era altro che nel Vocabolario, o in qualche Gramatica. Benvoglienti presso il P. Ildefonso Del. degli erud. Tosc._ T. 2. p. 192. Egli non la perdonò nè pure alle Accademie della sua patria come si raccoglie da una lettera inedita del Marmi, che fra poco sarà pubblicata, nè ad alcuno deʼ più insigni letterati, come Nicolò Amenta, e il Canonico Crescimbeni. [38] _Quint. Inst. Orat. Lib._ 1. _Cap._ 9. [39] _Peto, Cæsar, et a te, et ab his, qui mea volumina sunt lecturi, ut si quid parum ad artis grammaticæ regulam fuerit explicatum ignoscatur. Vitr. lib._ 1. _Cap._ 1. in fin. [40] _Quint. Inst. Orat. Lib. 7. Cap. 1._ in fin. [41] Quint. Lib. 1. Cap. 5. [42] Phil. 13. Cap. 19. e nella Filippica 3. Cap. 9. riprende lo stessa Antonio per quelle parole da lui dette, _nulla contumelia est, quam facit dignus_. [43] Benvoglienti presso il P. Ildefonso _Deliz. degli erud. Tosc._ T. 2. _p._ 239. _e_ 241. [44] _Cesarotti Rischiar. Apol._ fra le sue Opere T. p. 261. [45] Anzi a lui non è bastato ciò, ma ha creduto dʼaver fatto assai meglio di loro. Riguardo ad Omero non ne recherò esempj, perchè ad ogni tratto si posson vedere nelle sue annotazioni allʼIliade. Dirò perciò solamente dʼOrazio. A quelle parole _post certas hiemes uret Achaicus ignis_. Lib. 1. Od. 16. (che per altri è la 15.) v. 35. egli fa questʼannotazione. «Questa chiusa è languida; dopo un tuono tutto profetico si termina con una frase istorica, e si abbandona Paride nel punto più importante. Meglio, _per te fellon fia cenere_.» [46] Op. T. 1. p. 23. 25. [47] Vedi Werheyx excurs. in dial. Antonin. in calc. Anton. lib. ed. 1774. [48] _Ivi_ p. 137. 138. [49] Cic. Pro Archia. [50] Contr. Hær. in Proem. § 3. [51] _Cic. de Orat. Lib._ 5. _Cap._ 10. [52] Ivi Cap. 14. [53] Ivi Cap. 11. Tiberio dovendo usare la parola _monopolium_ ne domandò perdono: e in un decreto essendosi adoprato _emblema_ volle, che se ne sostituisse unʼaltra, che fosse latina, e non trovandosi si esprimesse _pluribus et per ambitum_, con più lungo giro di parole. Non sarebbe difficile lʼaggiugnere più altre autorità somiglianti. [54] Ivi Cap. 10. [55] Ivi Cap. 12. [56] Ivi [57] Conte Napione luog. cit. T. 2. [58] Rosini _risposta ad una lettera del Cav. Vincenzo Monti Pisa_. 1818. _Risposta_ del medesimo _ad una lettera del Sig. Conte Galeani Napione di Cocconato._ Ivi 1818. Nicolini _Discorso_. [59] _Fantuzzi Scritt. Bol._ T. 6. p. 181. [60] Sarebbe però desiderabile, che almeno le leggi, gli editti, e in una parola tutto ciò che si stampa a nome di chi governa fosse purgatamente scritto. Ma per grande sventura sì fatte cose si vedono sovente in modo al tutto barbaro. Vuolsi però dar molta lode al Signor Conte Vaccari, il quale mentre era in Milano Ministro degli affari interni volle porre qualche riparo a questo obbrobrio, ed esortò il Signor Giuseppe Bernardoni a compilare un _elenco dʼalcune parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono neʼ vocabolarj Italiani_. Questo elenco fu stampato a Milano il 1812. [61] Avv. T. 1. lib. 2. Cap. 10. [62] _Cort. Reg. ed Oss. della ling. Tosc. lib._ 2. _Cap._ 17. [63] Luogo citato p. 23. e 101. [64] Luogo citato p. 209. [65] Della ling. Tosc. dialog. 5. 6. e 7. _Delle Grammatiche della Lingua Italiana._ ~CAPO~ VI. Ma passiamo ormai a vedere gli studj deglʼItaliani più direttamente relativi alla nostra lingua, e cominciamo dalle grammatiche. Francesco Maria Zanotti scrisse elementi di grammatica aʼ quali aggiunse un ragionamento sopra la volgar lingua,[66] che intitolò ad una prestantissima Dama Bolognese. È questa unʼoperetta elementare, come lo stesso titolo avverte, che offre solamente le regole principali, e più necessarie a sapersi intorno alle diverse parti dellʼOrazione. Non dirò scevra la sua grammatica da ogni difetto: e per esempio non sa piacermi, che egli tolga dai verbi il modo ottativo, e ponga nel congiuntivo i suoi tempi. Ma forse egli ebbe in animo di sacrificare in parte lʼesattezza in grazia della brevità, che dirigendo i suoi insegnamenti ad una giovinetta era necessaria, e perciò pure lasciò di aggiungere tutti queʼ tempi nei quali entrano i verbi ausiliari. Certo è che con quel suo metodo la conjugazione deʼ verbi è brevissima, e tutta la sua grammatica occupa poche facciate. Più a lungo scrisse la sua grammatica il P. Benedetto Rogacci della Compagnia di Gesù.[67] Le sue regole sono esatte, e bastevolmente diffuse. Avrei però voluto, che non avesse fatti egli stesso gli esempi, ma si gli avesse tratti dagli autori approvati. Assai lungamente altresì scrisse Girolamo Gigli le sue lezioni[68] e le _Regole per la Toscana favella_.[69] Ha però qualche errore, come là dove ammette, che dicasi poeticamente _dee_, e _stea_ in luogo di _dava_, e _stava_ prima, e terza persona singolare dellʼimperfetto dellʼindicativo, e nel plurale _deano_, _steano_, in vece di _davano_, e _stavano_. Nelle lezioni altresì appoggiandosi ad un esempio di Dante vorrebbe, che _lui_ usar si potesse in caso retto. Ma il Manni nelle lezioni (Lez. 5) mostra che quellʼesempio ed altri parecchi citati dal Cinonio, e dal P. Daniello Bartoli sono errati e tratti da ree stampe. Fra le Grammatiche si possono annoverare le _lezioni di lingua Toscana_ di Dom. Maria Manni[70] da me citate testè, nelle quali egli, quantunque non prenda ad esaminare tutte quelle minute cose, che nelle Grammatiche si richiedono, pure di tutte la parti dellʼOrazione tenendo ragionamento moltissime belle avvertenze ricorda ed utilissime. Ed io vorrei, che questo libro avessero frequentemente tra mano principalmente i giovani dopo di aver bene appreso in altri libri le prime regole della lingua intorno alle declinazioni, ad alle conjugazioni. La megliore e sopra ogni altra pregiata grammatica è quella del P. Salvatore Corticelli Barnabita Bolognese. Precisione di metodo, esattezza di regole, chiarezza nellʼesporle, abbondanza di ottimi esempj sono i suoi pregi. Niuno errore credo che vi si trovi, quantunque vi si possa far di leggieri qualche aggiunta; poche però, e non di molto momento. Ne darò quì pochi esempi. Nel Libro 1. Cap. 36. dove trattando deʼ verbi anomali della seconda conjugazione parla del verbo _cadere_ nel preterito indeterminato dellʼindicativo leggiamo _caddi_, _cadesti_, _caddero_, _caddono_, _e caderono_. Ma nella prima persona del singolare vi ha ancora _cadei_. Tasso _Ger. Lib. C._ 8. _St._ 25. e nella terza _cadè_, come dice il Cinonio, che cita il Villani. Nelle osservazioni sopra la terza conjugazione parlando deʼ verbi _chiedere_, e _mettere_ si vuol aggiungere al preterito del primo _chiedei chiedè_, e poeticamente _chiedeo_, onde il Casa disse: _di quella, che sua morte in don chiedeo, Son._ 35. e al preterito del secondo _messe_, di che ha il Cimonio (Deʼ ver. Cap. 17.) tre esempi, e uno se ne ha nelle annotazioni. Se ne può aggiungere un quinto del Berni, cioè: _Onde al fin lʼArgalia messe di sotto. Orl. Inn. Lib._ 1. _Cant._ 2. _St._ 68. Ma queste, e poche altre simili mancanze non detraggono punto di lode a questa Grammatica, che certamente è la migliore di quante ne abbiamo. Parla prima delle parti dellʼOrazione, poi della costruzione, e finalmente del modo di pronunziare, e dellʼortografia. Gli esempj sono tutti presi dagli Autori, che fanno testo in lingua. A questi ne ha il Corticelli aggiunti tre, cioè i discorsi di notomia del Bellini, le prose del P. Alfonso Nicolai Gesuita Lucchese, e la vita di S. Ignazio del P. Antonfrancesco Mariani Gesuita Bolognese, oltre agli autori di cose grammaticali come lʼAmenta, il P. Bartoli, ec. che non entrano in questo novero. Or questa scelta è contrassegno del fine giudizio del Corticelli, perchè quegli scrittori sono purissimi, e i primi due con più altri furono poi dallʼAccademia Fiorentina scelti per esser citati nella nuova edizione del Vocabolario secondo il partito preso nel 1786. ed il terzo non era indegno dʼessere in quel numero collocato. Parecchie altre Grammatiche di nostra lingua hanno veduta la pubblica luce nel Secolo decimottavo[71]. Ma io contento di aver quì ricordate quelle, che o peʼ loro pregj, o per la celebrità deʼ loro autori richiedevano special menzione tralascerò le altre, e passerò ad indicare altre opere, che a questo genere si posson riferire. Tali sono le annotazioni del Baruffaldi e del Cavalier Baldraccani al Cinonio,[72] le quali però non si vogliono avere in molto pregio. Tali sono le osservazioni di Nicolò Amenta sul _Torto, e diritto del non si può_ del P. Bartoli[73] nelle quali egli rileva ogni error commesso da questo Scrittore. Ma lʼAmenta altresì non fu esente da qualche errore, onde ebbe poi il suo censore in Giuseppe Cito. Degli avvertimenti grammaticali stampati in Padova, e poi altrove più volte, non dovrei far parola, perchè sono opera del Card. Sforza Pallavicini, e perciò appartengono al secolo decimo settimo. Ma non debbo tacere, che in nuova forma, e dʼalquante aggiunte arricchiti vider la luce per opera dʼignoto editore, che si celò sotto il nome Arcadico di Alcindo Menonio[74]. Finalmente alcune piccole operette polemiche di Lucchesi Scrittori domandano dʼesser per me ricordate. Alcuni uomini letterati si radunavano nella bottega del librajo Frediani di Lucca, e solevano per loro studio far critiche osservazioni su componimenti, che uscivano in luce, notando ciò che in essi trovavano degno di lode o di biasimo. E siccome stavano con unʼanca sopra lʼaltra per criticare, perciò essi per ischerzo chiamarono quella loro adunanza, Accademia dellʼAnca. Ciò fu nel millesettecento dieci o in quel torno[75]. Erano di questo numero Angelo Paolino Balestrieri valoroso Poeta, Matteo Regali Medico, e buon Poeta, e delle cose di nostra lingua intendentissimo, il P. Sebastiano Paoli, e il P. Alessandro Pompeo Berti uomini di gran dottrina ed erudizione, come tutti sanno, e forse altri. Avvenne un giorno che in questʼAccademia fu criticato in qualche cosa di ortografia un poetico componimento di Donato Antonio Leonardi, che era anchʼegli pregevol Poeta. Lʼira neʼ poeti si desta facilmente, e il Leonardi mal sofferendo quella critica volle difendersi, e pubblicò il _Dialogo dellʼArno e del Serchio, sopra la maniera moderna di scrivere e di pronunziare nella lingua Toscana dellʼAccademico Oscuro. Perugia presso il Costantini_ 1710. in 12. Da Matteo Regali celato sotto il nome di Accademico dellʼAnca, gli fu risposto col _Dialogo del Fosso di Lucca, e del Serchio di un Accademico dellʼAnca in risposta al Dialogo dellʼArno. ec. Lucca presso Pellegrino Frediani_ 1710. in. 8. Punto il Leonardi da questo libro vi oppose la _Dieta dei Fiumi tenuta lʼAnno_ 1711. _per fare il processo al Fosso di Lucca per aver pubblicata una critica derisoria, e mordace contro il Serchio suo padre. DellʼAccademico Oscuro. Macerata per Michele Angelo Silvestri_ 1711. in 8. E a questa nuova sua produzione replicò il Regali con _il Filofilo dialogo di un Accademico dellʼAnca in risposta alla Dieta deʼ Fiumi dellʼAccademico Oscuro. Lucca pel Frediani_ 1712. in 8. Nè la disputa andò più oltre, perchè mentre si stampava questo libro, il Leonardi morì. La questione a dir vero era di poco momento nella sua origine, non trattandosi che dʼun raddoppiamento di consonanti in una parola, ma volendo favellarne con qualche generalità offerse al Regali lʼoccasione di far conoscere il suo molto sapere, e lʼerudizion sua nelle cose della lingua, e quanta pratica avesse deʼ buoni Autori. Deboli al contrario, e insussistenti erano le opposizioni del suo avversario, il quale non sentiva molto avanti in questa parte dʼerudizione. Più altre dispute si destarono nel secolo decimottavo intorno a cose grammaticali, onde abbiamo parecchie opere polemiche, come del Biscioni, e del Bracci sullʼedizione deʼ Canti Carnascialeschi da questo procurata in Lucca con falsa data di Cosmopoli,[76] il parere sulla voce _occorrenza_,[77] la Giampaolagine del Tocci,[78] ed altri simili. Anzi fino i Tribunali furon talvolta costretti a decidere intorno a somiglianti controversie, e della voce _majorasco_, se significhi _primogenitura_, come vuol la Crusca, o _primogenito_ come usano i Senesi, decise la Rota Romana a favore di Siena[79]. Il Gigli dice, che con ciò quel Tribunale venne a dichiarare, che la _Crusca non ha la potestà di Adamo di dare i nomi alle cose_[80]. Il che è vero; è però altrettanto vero, che i Tribunali hanno forza nel Foro e in ciò che dal Foro dipende, ma nelle cose della lingua non ne hanno alcuna. Queste ed altre quistioni lascierò da parte, perchè sarei infinito se di tutte parlar dovessi, benchè brevemente. E già aspettano il mio discorso cose maggiori, e più ardue, e di maggior celebrità: voglio dire i Dizionarj. Prima però che io passi a far parola di questi debbo far menzione dʼun libro, che può ugualmente fra le Grammatiche annoverarsi e fra i Dizionarj: voglio dire le cento osservazioni del Canonico Paolo Gagliardi.[81] Più e diversi oggetti a Grammatica appartenenti egli vi prese a trattare, come per avventura gli si presentavano alla mente; ora dʼalcune voci, ora dellʼarticolo, ora di certe irregolarità nella costruzione, e via dicendo. Intorno alle quali cose dà sottili ed utili avvertimenti, e spesso emenda i più solenni Grammatici, ed anche il Vocabolario della Crusca. Il che fa sempre collʼautorità deʼ buoni scrittori, essendo amantissimo della purità della lingua, come ragion vuole. Laonde io reputo commendabile lʼopera sua molto: e solo mi rincresce, che non abbia vie maggiormente accresciuto il numero delle sue osservazioni. NOTE: [66] Zanotti Op. T. 7. [67] _Pratica e compendiosa istruzione aʼ principianti circa lʼuso emendato ed elegante della lingua Italiana, Roma_ 1711., _e di nuovo Roma_ 1765. in 12. [68] Lezioni di ling. Tosc. Venezia 1722. in 8. [69] Roma 1721. in 8. [70] _Lezioni di lingua Toscana dette nel Seminario Arcivescovale di Firenze. Firenze_. 1737. in 8. [71] Il P. Zaccaria nella _Storia Letteraria_ T. 3. p. 377. sullʼautorità del Vincioli attribuisce al Muratori una Grammatica intitolata: _Nuovo metodo per imparare la lingua Italiana in poco tempo_. Ma siccome non se ne fa menzione nella sua vita scritta dal nepote, nè dal Tiraboschi nella Biblioteca Modenese credo che ciò sia errore. Lasciando questa, che almeno è incerta, altre grammatiche si posson citare, e fra lʼaltre le seguenti. _Trattato sopra le regole per parlare e scriver Toscano di Gio. Battista Pucci. Siena_ 1767. _in_ 8. _Nuovo metodo per la lingua Italiana estensivo a tutte le lingue di Girolamo Andrea Martignoni. Milano_ 1755. T. 2. in 4. Non mʼè riuscito di vedere questʼopera, nè so se propriamente essa debba essere annoverata fra le Grammatiche. _Corso Teorico di lingua Italiana, e Logica dellʼAb. Idelfonso Valdastri. Guastalla_ 1783. in 4. Lʼautore ragiona filosoficamente intorno alla lingua, il che succede quasi sempre con vantaggio più apparente che reale. _Prospetto deʼ Verbi Toscani regolari, e irregolari di Gio. Battista Pistolesi. Roma_ 1761. in 4. Lʼopera del Signor Pistolesi è lodevole, ma dee cedere il primato a quella del Signor Abate Mastrofini. Di questa io non parlo, perchè è pubblicata nel secolo presente, che io non ho preso a considerare. [72] _Osservazioni della lingua Italiana raccolte dal Cinonio in questa nuova edizione accresciute dallʼAccademico Intrepido_ (Girolamo Baruffaldi) _Ferrara_ 1709. in 4. e di nuovo colle annotazioni del Cavalier Baldraccani. Venezia 1722. in 4. Il Baruffaldi avea preparate altre aggiunte al Cinonio e per questo motivo fece un trattato del nome, che è rimasto inedito. _Zacc. Stor. Lett._ T. 14. p. 355. Era riserbata al chiarissimo Sig. Cavaliere Luigi Lamberti la gloria di dare allʼopera la desiderata perfezione, il che egli ha fatto nellʼedizione di Milano del 1809. in 4. vol. 8. [73] Napoli 1717. T. 2. in 8. [74] _Idea Generale del Vocabolario della Crusca, ed osservazioni intorno alla moderna ortografia Italiana con un piccolo trattato della Poes. Ital. agli studiosi scolari della Città di Foligno, Ozio dʼAlcindo Menonio. Foligno_ 1756. _in_ 4. [75] _Quadrio Stor. e Rag. dʼogni Poesia_ T. 1. p. 75. e _Mazzucch. Scritt. Ital._ T. 2. p. 673. il quale corregge I. Iarchio _Specim. Hist. Ac. Ital._ il quale fa fiorire questa Accademia nel secolo decimosettimo. [76] _Parere_ (del Canonico Biscioni) _sopra la seconda edizione deʼ Canti Carnascialeschi. Firenze. Moucke_ 1750. _in_ 8.—_I primi due dialoghi di Decio Laberio_ (Ab. Rinaldo Bracci) _in riposta, e confutazione del parere del Sig. Dottore Antommaria Biscioni sopra la nuova edizione deʼ Cantici Carnascialeschi, e in difesa dellʼAccademia Fiorentina. In Culicutidonia per Maestro Ponziano di Castel Sambucco_ (Lugano per lʼAgnelli) 1750. _in_ 8. [77] _Firenze pel Martini._ 1707. _in_ 4. [78] _Colonia_ (Firenze) _nella Stamperia Arcivescovile_ 1708. _in_ 4. [79] _Coram Reverendis. Molines in Romana Primogeniturae de Salviatis super localibus et Tabulis pictis_ 28. _Iunii_ 1706. [80] Voc. Cater. alla v. _Maggiorente_. [81] _Cento osservazioni di lingua, nelle quali si spiegan diversi modi particolari, usati dalla lingua Toscana. Bologna_ 1740. _in_ 12. _Del Vocabolario della Crusca._ ~CAPO~ VII. A me rincresce dʼessere a quella parte dellʼopera mia pervenuto, che parmi più dʼogni altra piena di pericoli e difficoltà. Gravi guerre si mossero contro il Vocabolario della Crusca fin dal primo suo nascere, e queste guerre, anzi che spegnersi o diminuirsi, vanno sempre crescendo. Ma lʼordine delle cose da me prese a trattare domanda, che io parli deʼ Vocabolarj della nostra lingua, e perciò di quello della Crusca; nè io posso ritrarmene. Dovrò in alcune cose contraddire ad uomini chiarissimi per dottrina e per ingegno, coi quali non posso in verun modo essere paragonato. Combatterò dunque con armi molto disuguali: ma se in ciò che sono per dire si potrà desiderare maggior dottrina, spero che non si potrà desiderare maggiore urbanità. Queʼ valentuomini, che nel 1691. procurarono la terza impressione di questo Vocabolario presto si avvidero, che molto rimaneva da fare, e che altri avrebbe dovuto procacciarne una quarta con molti accrescimenti e correzioni. E così avvenne appunto, perchè dopo non breve fatica si vide uscire alla luce nel 1729. colle stampe del Manni il primo volume del Vocabolario tanto accresciuto ed emendato, che questo solo contiene seimila nuove voci, o nuovi significati di voci. Ma voglionsi commendare quegli Accademici per essersi adoperati di correggere o accrescere quel libro seguendo lʼorme segnate dai lor predecessori, o pure doveano seguendo una via diversa lʼopera tutta riformare? Il Signor Conte dʼAyala vuole, che si sbandiscano gli esempj tratti dagli Scrittori approvati, e dice, che lʼAccademia _è giudice supremo ed inappellabile in materia di lingua, ed ogni individuo è ragionevolmente tenuto di sottomettersi alle decisioni di essa_.[82] Così mentre molti gridano contro un giogo, che lʼAccademia però non si è mai argomentata dʼimporre altrui, questo scrittore le rimprovera di non essersi tolta unʼassoluta autorità. Egli cita lʼAccademia delle scienze e belle lettere, e doveva citare lʼAccademia Francese. Ma non sʼavvide, che i Francesi per certo loro abito sono avvezzi a tener gli occhi intenti a Parigi, ed a riverire e seguire ciò che fassi colà; onde ricevono come giudizj senza appello quelli dellʼAccademia. Ma in Italia non è così; ed ognuno di per se stesso può le cagioni vederne agevolmente. Oltre a ciò egli non seppe, che nel tempo medesimo, in cui scriveva sì fatte parole, quellʼAccademia si dipartiva dal primo divisamento, ed imitando la Crusca si adoperava di raccogliere esempj dagli autori più purgati per una nuova impressione del suo Vocabolario. La Crusca dunque fino dal suo cominciamento fece senno, fornendo di buoni esempj le voci tutte, e le significanze diverse di tutte le voci, quanto era possibile, ed ove mancavan gli esempj ricorrendo allʼuso. Ma niuno forse si vorrà far seguace dellʼavviso di questo scrittore, e più presto si biasima la scelta degli esempj. Quel vedere ad ogni tratto citate tante vecchie leggende, e capitoli di compagnie, e quaderni di conti, e lʼoscurissimo Pataffio, e le rime non meno oscure del barbiere Burchiello, ed altrettali libri, e vederli preferiti a Filosofi gravissimi e ad altri scrittori di gran rinomanza, desta non pochi lamenti. Se le lingue tutte sono a grandissime mutazioni sottoposte, siccome tutti confessano, gli Accademici, che a lor potere volevano allontanare sì fatte mutazioni saviamente adoperarono, determinando alcuni scrittori, che reputar si dovessero maestri e modelli di lingua purgata: affinchè, tenendo sempre in quelli rivolti gli occhj, ognun potesse più agevolmente ritornare sul diritto cammino, se traviava. Questo, a mio giudizio, è il solo rimedio, che può riparare a quel corrompimento, che a poco a poco in tutte le lingue sʼintroduce dalla incuria degli uomini, e dallʼamor della novità. Questo è forse il solo rimedio, che può se non al tutto impedire, almeno scemare quella ruina, che reca alla lingua dʼuna nazione lʼinondamento di stranieri conquistatori. Ma quali son gli scrittori, che scegliere si dovevano allʼuopo? Quelli son del trecento primieramente, e poi gli altri che seguendo le lor vestigie più vi si accostano; il che reputo si possa assai bene dedurre dalle cose dette nel capo quinto. Fra più altre cose abbiam veduto, che Cicerone altresì raccomandava la frequente lettura degli antichi, benchè rozzi ed incolti. _Sunt enim illi veteres_ (giova quì ripetere le sue parole), _qui ornate nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope praeclare locuti: quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes quidem poterunt loqui, nisi latine._ Lo stesso dicasi per noi, e con più ragione; perchè Pacuvio e quegli altri non erano a gran pezza così eleganti, come parecchi deʼ trecentisti. Quì si tratta della purità della lingua, e quanto a ciò quegli antichi, quantunque disadorni se vuolsi, hanno più autorità, che i maggior bacalari della filosofia, della storia, dellʼeloquenza, e della poesia. Ma (dicono alcuni) dovevasi almeno far grazia a parecchi scrittori di cose scientifiche, e di quelle che alle arti appartengono: e tanto più si doveva, perchè troppo è scarso nel Vocabolario il numero deʼ vocaboli delle scienze, e delle arti. Io non negherò che alcuni se ne debbano aggiugnere a quelli, che fanno testo in lingua; parmi però che sia opportuno andare a rilente. Avviene assai volte, che i più solenni maestri di queste facoltà intesi tutti alle dotte loro speculazioni non abbiano posto abbastanza studio nelle cose della lingua, o che scrivendo ne trascurino la purità. Ed il chiarissimo signor Cavaliere Monti nella sua _Proposta_ ricorda un dotto Mattematico, il quale con bel modo fu fatto accorto di parecchi errori, in cui era caduto nelle sue opere. I termini delle scienze e delle arti dipendono dallʼarbitrio deglʼinventori, e sono proprj di tutte le lingue. Vorrei pertanto, che si prendessero dagli scrittori approvati, se vi si trovano: altramente si registrassero senza avvalorarli con esempj. Ma la sorgente principale del Vocabolario debbono essere a mio giudizio i libri di belle lettere e di storia, perchè contengono voci e modi di dire adattabili a tutto, e acconci a rappresentar quasi tutto. Rimprovera il Sig. Cesarotti,[83] che sieno marcati indistintamente colla lettera del disuso tanto quei termini antichi, che sono andati in disuso per qualche difetto intrinseco, quanto quelli, di cui è ciò accaduto per semplice capriccio di novità. La stessa lagnanza fece il Magalotti al Canonico Bassetti,[84] perchè allʼAccademia la comunicasse. Questa però a mio giudizio adoperò saviamente non secondando il suo desiderio. Egli non vide, ed ora non ha veduto il Cesarotti, che ove gli Accademici avessero indicate quelle voci, che meritano dʼesser novellamente poste in uso si sarebbero fatti giudici in ciò che spetta al gusto, il che essi a gran ragione non volean fare. Ed ove lʼavessero fatto quali rimproveri, quante critiche, quante accuse non si sarebbono scagliate contro lʼAccademia! Diciassette di queste voci accenna il Sig. Cesarotti, e le reputa meritevoli di quellʼonore. Or quanti saranno per avventura, che opineranno altramente! Quanti giudicheranno lodevoli parecchie voci, che egli non approverebbe! Il Cavalcanti nella sua Rettorica condanna, come disusata, la voce _misfatto_, nè vuol che si adoperi: e pure niuno crederà ora, che questa voce non sia buona, ed avvedutamente si astenga dal farne uso. Gli autori dei Dizionarj non debbono giudicare di proprio arbitrio, ma secondo lʼautorità degli scrittori approvati, e se daʼ buoni scrittori sarà adoperata alcuna di quelle parole, che or sono disusate, in una nuova impressione lʼAccademia torrà quella marca contro cui si mena tanto romore. Il secondo rimprovero è, che molte parole francesi sieno state poste nel Vocabolario, come giojelli. Non però come giojelli vi sono state poste, nè _perchè le adoperino i moderni, ma perchè sʼintendano gli antichi_,[85] e sono utili per la storia della lingua. Più altre accuse egli oppone al Vocabolario, che tralascio perchè non tutto posso dire, e perchè se non mʼinganno non sono poi tanto gravi, che richiedano molto studio per dileguarle, e se non erro si dileguano abbastanza colle cose, che fino ad ora per me si son dette, o che sono per dire. Nè intendo con ciò di tenere in poco conto quellʼuomo prestantissimo; ma dubito, che lʼamore di libertà lʼabbia forse talvolta ingannato. Parecchi altri rimproveri si fanno da altri deʼ quali ricorderò prima quelli, che a me sembrano ingiusti, e poi darò luogo a quelli, che anche per mio avviso sono ben fondati. Si dolgono alcuni che gli Accademici sieno stati solleciti di registrare certe voci che hanno due sensi fra lor contrarj, altre che dicono stroppiate, alcune turpi, quelle che diconsi di stil furbesco, moltissime tolte dalla plebe, talune nate da errore dʼortografia, e parecchi proverbj Toscani oscurissimi. Ma cominciando dalle voci di doppio senso io domando, qual vʼha lingua che macchiata non sia di questo difetto? Molto lo ha quella principalmente, cui vuolsi concedere il primato sullʼaltre, cioè la Greca. Ora perchè vorremo noi sgridar gli Accademici, se trovandolo pur nella nostra non lʼhanno tolto, essi che non si credono arbitri della medesima, ma costodi? Lo stesso dicasi delle voci, che chiamano stroppiate. I Greci ne ebbero tante che le distribuirono in certe classi, cui dettero il nome di figure grammaticali, che sono lʼaferesi, la sincope, lʼapocope, ed altre. Si rimprovera a cagion dʼesempio la voce _notomia_, che secondo la sua greca origine dovrebbe dirsi _anatomia_. E per far grazia a questa parola non è bastato lʼesempio del Redi, che era medico grande, ed elegantissimo scrittore. Nè basterà forse lʼautorità di Francesco Maria Zanotti, che lʼadoperò, non quella di tanti altri, che pur lʼusarono, non quella del dotto medico Andrea Pasta, che le diede luogo nel suo vocabolario.[86] E vuolsi osservare, che il Pasta compilò quel suo vocabolario perchè fosse di giovamento ai medici non solo nel curare glʼinfermi, ma eziandio nello scrivere i consulti. Lo stesso dicasi di queʼ vocaboli, che derivano da errore dʼortografia, come _anotomia_, _appostolo_, _munistero_, e simili altre molte. Sì fatti corrompimenti si vedono pure nelle altre lingue, e giova conservarli neʼ vocabolarj, perchè mostrano in parte lʼindole delle medesime, e lʼaffinità, che hanno fra loro le diverse lettere, come si mutino, si aggiungano o si tolgano. Le quali cose sono da apprezzarsi per la storia delle lingue medesime. È poi ufficio del diligente scrittore lo sceglier quelle, che son migliori. Con maggior timore parlerò delle parole turpi, contro le quali si grida a gran voce, chiamando svergognato chi difende il Vocabolario. Io lodo quelli che amano la modestia delle parole, ma supplico, che mi sia concesso di dire, che tanta modestia non vuolsi usare in un vocabolario. S. Isidoro era modello dʼogni virtù, ma non si astenne dal ricordare e spiegare neʼ suoi libri dellʼetimologie quelle voci, che il suo argomento richiedeva. E il Forcellini esemplar sacerdote, e confessore nel Seminario di Padova scrisse nellʼinsigne suo Lessico quelle parole, che nel sacro tribunale della penitenza avrebbe condannate. Sì fatte parole sono malvagie, o innocenti secondo le circostanze. Consiglierei però gli Accademici a togliere dalla quinta impressione alcune di sì fatte voci, che furono inventate reamente per biasimevole scherzo, le quali non debbono aver luogo nel tesoro della lingua. Non toglierei però le parole, che diconsi furbesche, perchè servono allʼintelligenza dei libri, e delle persone. Ancor più ingiusto parmi il lamento peʼ Toscani proverbj, che vi si vedono in buon dato, e per le voci del volgo, o, come dicono, di mercato vecchio. Al qual lamento rispondono abbastanza le cose dette dai Signori Rosini e Nicolini, nè fa di mestieri, che io stemperi con più parole le loro osservazioni. Io dunque non vorrei, che si togliessero queste cose, nè vorrei, che si aggiugnessero le etimologie, tranne forse alcune pochissime più manifeste, e scevre dʼogni incertezza. Lo studio delle etimologie, ingiustamente spregiato da alcuni, è utile, ma è soggetto a molti pericoli. Leggiamo il Vossio, il Menagio, ed altrettali indagatori dʼetimologie, e vedremo in quali traviamenti sono caduti. Nè è necessario, che vi si accennino quali parole ci son venute dallʼultimo settentrione per lʼinvasione deʼ popoli barbari, quali ci ha date lʼArabia o direttamente per le crociate o pel commercio, o indirettamente passando per mezzo dʼaltre nazioni, alterate però secondo lʼindole delle diverse lingue. Altri rimproveri si fanno al Vocabolario, cioè che molte voci e molti significati vi mancano, che le definizioni non sempre sono esatte, che gli esempj allegati hanno talvolta un significato diverso da quello, che reca il Vocabolario: e già parecchi esempj di questi difetti[87] sono stati da scrittori chiarissimi indicati. Questi rimproveri sono veri, e niuno è che non li debba riconoscer tali. Ma qual vʼha al Mondo opera perfetta? Il P. Bergantini pubblicò un volume dʼaggiunte al Vocabolario. Egli perciò oltre agli autori approvati esaminò il Vocabolario stesso, e la sua prefazione, e ne trasse molte parole, che gli Accademici dimenticarono di registrare. Quella prefazione non è lunga, ed era da credersi, che niuna aggiunta potesse omai cavarsene dopo di lui, e pure vi rimase allʼAlberti di che spigolare, ed egli vi trovò la voce Grecità. Almeno dopo lʼAlberti nulla vi sarà restato. No. Vʼè la parola _appropiare_ in senso dʼ_assomigliare_, _paragonare_. E dovʼè questa parola? In principio, cioè là dove lʼattenzione di queʼ diligentissimi compilatori non poteva essersi stancata pel lungo leggere. _Chiunque vorrà considerare_ (così comincia quella prefazione) _lʼumile cominciamento, che hanno avuto, e come poi col tratto del tempo si sono andati accrescendo i Vocabolarj delle lingue già spente, vedrà, che eʼ si possono a buona equità ai grandi fiumi appropriare ec. Ma non così va la bisogna nel fatto deʼ Vocabolarj di quelle lingue, che tuttavia sono vive, e che da una intera nazione si parlano; imperciocchè questi si possono vie meglio assomigliare allʼOceano ec._ E poco dopo, parlando deʼ vocaboli moderni e introdotti dallʼuso, gli Accademici dicono dʼaverne posti alcuni nel Vocabolario, ma aggiungono che sono stati in ciò alquanto parchi aspettando, che da tersi e regolati scrittori sieno _nelle loro composizioni adottati_. Ora la voce _adottare_ in questo senso non trovasi nel Vocabolario, nè nellʼimpressione di Verona, nè nel Dizionario dellʼAlberti, ma vʼè solamente nel senso di _prendere alcuno per figlio_. Questi esempj a mio giudizio fan chiaramente conoscere, che non vʼè diligenza, che basti in simili cose, e che il tempo solo può render perfetto, e compiuto il Vocabolario, o piuttosto che esso non potrà mai esser perfetto. Guari non andò, che lʼAccademia rivolse di nuovo le sue cure a questo oggetto. Ai nove di Marzo del 1741. lʼAccademico Rosso Martini lesse un ragionamento per norma di una nuova edizione del Vocabolario Toscano, che ora si è consegnato alle stampe.[88] Egli vuole che si cominci dal procacciare i materiali più importanti per sì fatto lavoro, i quali sono una ricca, e abbondante conserva di voci tratte daʼ buoni libri, ed una regolata, e ordinata disposizione accompagnata da un accurato esame di tutto quello, che si trova nella precedente impressione. I Libri, daʼ quali si debbono trarre le buone voci e forme di dire o sono antichi, cioè del Secolo del 1300. e in quel torno, o moderni. Dà quindi il catalogo di queʼ libri, che i compilatori della quinta impressione o non videro, o esaminarono scarsamente; e gli antichi sono 162., e 37. i moderni. Dai primi massimamente vuol che si prendan gli esempj, e allora solo si ricorra ai secondi, ove non se ne abbiano degli antichi. Vuol che gli esempj si aggiungano della formazione dei tempi dei verbi irregolari. Fra le voci moderne altre son quelle sdrucciolate (comʼegli dice) nel volgar nostro, o dalla frequente pratica coʼ forestieri, o dalla introduzione delle mode e deʼ costumi stranieri, come _rimarcare_, _rango_, _dettaglio_, e queste si debbono escludere. Altre son quelle, che da un uso più regolato, e corretto, e da accreditati e moderati scrittori vengono comprovate, adottate, ed oramai comunemente ricevute, e di queste si vuol fare diligente ricerca, ed aggiungerle. Crede, che si debbano aggiungere altresì i superlativi, diminutivi, vezzeggiativi, ed altrettali derivati, ove se ne abbiano esempj. Esclude poi i nomi proprj, i termini dellʼarti, ed i latinismi, benchè usati dagli antichi, quando per lʼuso comune dei più regolati scrittori non sieno concordemente e costantemente approvati. Parecchi altri avvisi egli dà per accrescere il Vocabolario, e per lʼemendazione dellʼedizion precedente, che stimo inutile indicare. Voleva dunque il Martini, che la fonte principal delle voci fossero gli scrittori del secolo decimoquarto, cioè quello appunto di che si lagnano i favoreggiatori della libertà. Ma alle lagnanze parmi dʼavere abbastanza risposto superiormente. A gran ragione dunque voleva il Martini, che nella impression nuova del Vocabolario da queʼ vecchi padri e maestri si traessero gli esempj prima che dagli altri. Non così posso commendarlo dellʼavere escluso i nomi proprj, e i termini delle arti, e delle scienze. I primi si posson raccogliere dallʼuso e da molti libri di storia, di novelle, e simili, e di molti era necessario determinare lʼortografia, e spiegare altri che sono accorciativi, vezzeggiativi, o in qualunque modo alterati daʼ loro primitivi. Non dirò poi quanto fosse inopportuno lʼescludere i secondi, perchè lo dice abbastanza lʼuniversal desiderio, che da gran tempo li richiede. So quanto è malagevole questa parte del Vocabolario, di che darò un breve cenno in seguito. Pure era uopo, che questa difficoltà si vincesse, e vi si accinse con coraggio lʼAlberti, come dirò altrove. Sarebbe quì luogo di narrar le vicende dellʼAccademia della Crusca, che fu dal Gran Duca Leopoldo unita allʼAccademia Fiorentina. Ma per una parte questo racconto domanderebbe lungo discorso, e per lʼaltra parte io non potrei tesserne la narrazione e indagarne le cagioni più copiosamente o meglio di quello, che il chiarissimo Sig. Cavalier Baldelli ha già fatto in una sua lettera diretta al Signor Ab. Denina.[89] Prima di quellʼunione alcuni degli Accademici si erano adoperati di raccogliere emendazioni, ed aggiunte al Vocabolario, e fra questi si nominano il Casaregi, e Francesco Martini, le fatiche deʼ quali è fama, che servissero ad arricchire lʼedizioni del Vocabolario Napoletana e Veneta.[90] La nuova Accademia Fiorentina poi non rimase oziosa. Il P. Ildefonso Frediani le presentò lʼidea, e lʼapparato pel nuovo Vocabolario Toscano,[91] di cui debbo ora far parola. Molte cose tralascio da lui proposte, che opportunissime sono al suo intendimento, ma sarebbe quì inutile di ricordarle, e quelle accennerò solamente, che sono più meritevoli di riflessione. Vuol che si aggiungano _le voci tecniche, e queste si prendano tutte dal fondo della nostra lingua Toscana finchè si può. In mancanza della voce Toscana, si prenda da quella lingua, che lʼabbia in proprio, avvertendo di preferire sempre traʼ varj idiomi quello che nel suono e nellʼorigine è più analogo e simile al nostro, e molto più lʼuso già adottato daʼ respettivi professori in Toscana o in Italia di tali voci, e procurando guanto è possibile di toscanizzarle nellʼinflessione, e nel suono_. p. 9. Stabilisce inoltre, che si pongano le voci di tanti _e sì continui ritrovamenti forestieri attenenti agli agj, alle mode, ed al regno insaziabile del lusso, e della delicatezza del vestire, delle mense, e dʼogni genere di delizia_, le quali voci si prendano daglʼidiomi di queʼ paesi donde tali ritrovamenti sono venuti, procurando di renderle allʼorecchio più Toscane che sia possibile. A me pare, che troppo pretenda il P. Ildefonso. Egli avvezzo fra le anguste pareti della sua cella non sapeva quanto era vasto il campo delle mode, e quanto esse sieno variabili, nè credeva, che il Vocabolario di queste sole domanderebbe parecchi ponderosi volumi. Io son di avviso, che registrar si debbano le voci di questo genere, le quali daʼ buoni Scrittori sono state adoperate, ed i nomi di quei ritrovamenti, che o per lʼutilità loro, o per qualsivoglia altro motivo sono durevoli, e lascerei perir gli altri senza timore, che la lingua ne avesse danno. Riguardo poi alle altre voci delle arti vuole, che si raccolgano dagli scrittori purgati, e dai libri di matricole e di ragione di tali arti, dalle leggi, e finalmente dagli scrittori meno purgati, e dagli artigiani, che le esercitano. Confessa però, che una difficoltà grande si incontra in ciò, e grandissima la provò lʼAlberti mentre compilava il suo Dizionario enciclopedico. Riguardo alle arti molte cose non solamente in diverse parti dellʼItalia, o della Toscana, come dice il P. Ildefonso, ma nelle diverse contrade della stessa Città come diceva lʼAlberti, e tutti posson provare, hanno diverso nome. Ma se io considero, che anche i Vocabolarj delle altre lingue sono moltissimo mancanti riguardo alle voci delle scienze, e delle arti, se riguardo il numero immenso di queste voci, e il continuo variare dellʼune e dellʼaltre, dubito che più utile sarebbe il compilare un Vocabolario separato per queste; del quale potrebbe addossarsi lʼincarico alcuna delle più insigni Accademie scientifiche dellʼItalia. Ma son dʼavviso, che dopo la fatica di parecchi anni pubblicandosi vi si dovranno fare aggiunte ed emende; e così necessariamente accaderà sempre, fintantochè i Vocabolarj saranno opera degli uomini. Il P. Ildefonso vuol pure che si aggiungano le voci composte, e _quelle che comporsi possono sullʼesempio di ottimi nostri Scrittori, e colle regole di un fino criterio e del buon orecchio_. p. 11. Molte se ne trovano nelle poesie del Chiabrera, dʼAnton Maria Salvini, e di altri autori, che fanno testo in lingua, e vuolsi dare a queste la cittadinanza Toscana. Altre ne hanno adoperate il Frugoni, ed altri poeti, che non fanno testo, e lʼAccademia potrà scerne quelle, che reputerà convenienti, ma non credo, chʼessa debba crearne di nuove. Essa fino ad ora ha registrate nel Vocabolario quelle voci, che vedeva adoperate daʼ buoni scrittori e dal popolo, e niuna ne ha creata di suo capriccio, ed il fare altramente sarebbe per mia opinione un dipartirsi dal suo istituto. Ne formino pure a lor talento gli autori viventi, e quelli che verranno, ed ove le formino lodevolmente otterranno grazia presso lʼAccademia in altra età. Finalmente di tante voci forestiere, che alcuni adoperano vuol, che si adottino quelle, che la necessità esige, o _lʼuso sufficientemente prescritto non tanto dal tempo, quanto dallʼautorità dei più purgati scrittori o parlatori moderni_. p. 12. _Altre non poche, che non hanno ancora tanto possesso nellʼuso, ma che vanno verso quello inoltrandosi, e perciò voci di mezzano uso possono appellarsi_, si potranno mettere in una tavola a parte in fine del Vocabolario. _Ivi._ Ma vediamo quali sieno le tavole da lui proposte. La prima è peʼ dialetti Senese, Pisano, Pistojese, Lucchese, Aretino, e Cortonese. La seconda è deglʼidiotismi. Questi si dividon da lui in quattro classi, idiotismi delle persone nobili, e culte, del popolo, del contado, e dellʼultima plebaglia. Esclusa lʼultima concede alle tre altre luogo nella tavola. La terza è dei barbarismi dei sollecismi e di quelle voci forestiere, che ha chiamate di mezzano uso. La quarta è dei nomi proprj di persone o di luoghi, o troncati, o alterati, o trasformati in guisa che appena dai più esperti sʼintendono. La quinta è delle conjugazioni ed inflessioni deʼ verbi regolari ed irregolari un poco più abbondante di quella del Pistolesi, ma collo stesso metodo.[92] La sesta è deʼ Latinismi. Utili sono queste tavole, e la terza massimamente potrà giovare per togliere una gran parte dʼerrori troppo comuni. Se non che converrà farla così grande, chʼessa sola formerà un ampio Vocabolario. Meno opportuna forse parrà la prima in un Vocabolario, che aver dee per suo primo scopo la propagazione di quella sola lingua che dai buoni Scrittori si deve adoperare. E già la tavola di queʼ dialetti sarebbe lunga impresa, e difficile, e tarderebbe con poco profitto lʼimpressione del Vocabolario. Una Grammatica finalmente propone il P. Ildefonso, la quale desidera breve, e che vinca le altre per facilità e chiarezza. Ma una grammatica, che vuolsi mandare in luce per opera dellʼAccademia, anzi che breve, credo, che debba esser ampia, e comprendere tuttociò che altri può desiderare. Io però sarei dʼavviso, che bastasse imprimere di nuovo quella ottima del Corticelli, emendandola in pochi luoghi, ed accrescendola in altri, principalmente nella conjugazione deʼ Verbi irregolari, nelle appendici da lui aggiunte nel secondo libro ad ogni ordine deʼ Verbi, nel trattato delle proposizioni, degli avverbj, e in altri luoghi. LʼAccademia Fiorentina però non giudicò di dover seguitare le tracce segnate dal P. Ildefonso. Per riparare ai difetti ed alle mancanze dellʼultima edizione del Vocabolario deliberò di farne unʼaltra, e se ne pubblicò colle stampe lʼavviso. Se nellʼedizione del 1729. di tre o quattro autori soli si fece lo spoglio, che nelle precedenti non avevano avuto luogo, in questa se ne approvarono cinquantacinque, ondʼera a sperarsi, che di grandissimi accrescimenti si vedrebbe arricchito il nuovo Vocabolario. Ma le speranze si dileguarono sul primo loro apparire, e la promessa edizione non si eseguì. Essa fu annunziata con un avviso pubblicato in Livorno per le stampe del Masi ai 30. Genn. del 1794. e forse così lodevole impresa dalla difficoltà deʼ tempi restò impedita. Può dubitarsi ancora, che lo stesso avviso testè citato abbia distolto alcuni dal porre il proprio nome nel novero deʼ compratori. Perchè, vedendovi molte parole, o maniere di dire non pure, avranno in esso (quantunque ingiustamente) ravvisato un sinistro preludio dellʼopera. In fatti lasciando stare le voci _manifesto_, _sesto_ cioè la forma dʼun libro, _associati_, che se lʼAccademia lo giudica opportuno, potrà forse approvare, come voci dellʼuso, vi si trova _piano_ per metodo o disegno di unʼopera, _limitarsi_, _riprodurre_ per ristampare, _prevenuto_ per preoccupato, _si faranno un dovere_, _privativa_, _per anche_,[93] _va del pari colla importanza delle materie_,[94] _copia_ per esemplare o corpo dʼunʼopera, stampata,[95] le quali espressioni non sono ancora approvate, e alcune forse non si approveranno. Ma quel foglio deve essere opera dello stampatore, come lo fa credere la data di Livorno, o se è dʼaltri non è dellʼAccademia, la quale lo avrebbe pubblicato in suo nome. A questa erano ascritti più e diversi uomini chiarissimi, e nello studio della nostra lingua esercitatissimi, fra i quali (per tacere deʼ viventi) basti di ricordare il P. Ildefonso da S. Luigi Carmelitano Scalzo; e la loro celebrità doveva fare sperare unʼopera utile, e gloriosa allʼItalia. Erano stati fatti copiosi spogli da parecchi testi a penna del buon secolo non veduti dai loro predecessori, e dalle opere citate nellʼedizione del 1729. A queste ne avevano aggiunte altre molte dʼautori moderni, delle quali si può vedere il novero nel Vocabolario dellʼAlberti, e nella serie del Signor Gamba. Quindi molte aggiunte si promettevano, e correzioni, lʼindicazione del genere dei nomi, i plurali di doppia terminazione, i perfetti, e i passati deʼ verbi irregolari, lʼetimologie quando sono ben chiare, e possono contribuire a far conoscere la proprietà dellʼespressione. Finalmente volevano notare con diligenza grande le voci latine, che sono manco in uso, le familiari, le basse, le figurate, le più generalmente poetiche, e le antiche, fra le quali sarebbono state distinte le non più usabili da quelle dismesse senza loro demerito, e che possono talvolta impunemente rimettersi in corso dai valenti, e giudiziosi scrittori. Io però dubito forte, che questa estrema promessa, quantunque utile molto, fosse per riuscire pericolosa, nè richiesta dallʼistituto dellʼAccademia. Ciò che lʼAccademia non potè fare ha poi fatto il Signor Antonio Cesari per le stampe del Veronese Ramanzini nel 1806. Non è del mio argomento il tenere discorso di questa edizione: ma non debbo tacere delle molte, ed egregie aggiunte di Clementino Vannetti di Roveredo, e del P. Girolamo Lombardi Gesuita Veronese, che in compagnia di molte altre ivi si vedono. Il Vannetti, e il Lombardi erano di nostra lingua amantissimi, ed intendentissimi; dagli autori classici raccolsero moltissime voci, e maniere di dire, animati a ciò fare, e a sostenere tanta fatica, il primo dalle preghiere degli Accademici Fiorentini, il secondo dallʼamore di nostra lingua. Ma le aggiunte loro sarebbono miseramente rimaste inutili, se lʼottimo Signor Cesari non le avesse a comune vantaggio nella sua edizione inserite.[96] Sono nelle aggiunte di queʼ valentuomini alcuni errori, non può negarsi. Ma quanti errori si troverebbono nelle carte degli uomini più grandi se altri le pubblicasse quali da prima furono scritte? Qualche scrittore dottissimo li rimprovera non dʼalcuni falli solamente, ma eziandio dʼaver registrate parecchie voci antichissime e stranissime. Io però non so rimproverarli di questo. Parmi che anche da quelle voci si possa trarre qualche utile, perchè servono alla storia della nostra lingua e della Francese o Provenzale da cui provengono, mostrano quali mutazioni talvolta si facciano alle parole, e così posson giovare allʼetimologia dʼaltre voci. Benemerito del Vocabolario fu il P. Bergantini colle sue aggiunte,[97] che poi il Dottor Pasquale Tommasi ristampò nellʼedizione Napoletana dello stesso Vocabolario del 1740. quasi colle sue stesse parole, ma senza nominarlo.[98] Errò però il Bergantini allegando molti scrittori commendabili per dottrina, ma non per la purità della lingua. Tali sono il Ficino, il Landino, lʼAtanagi, Pietro Badoaro, Daniello Barbaro, lʼAretino, il Bascapè, Gio. Battista Lalli, Vittorio Siri, Gio. Battista de Vico, ed altri parecchi. Errò ancora col porre nelle sue opere molte voci, che a mio giudizio non meritavano questo onore. Apro a caso la sua opera intitolata _voci Italiane_ ec. stampata a Venezia il 1745. e trovo le seguenti parole: _Frizione_, che egli spiega _crepito e insistenza che fanno i liquidi al fuoco_: _disarmo_ per _disarmamento_: _conquestione_ per _querela_, _lamento_: _conquisitore_ per _investigatore_: _conquisizione_ per _investigazione_, ed altre non poche, le quali non pajono degne dʼessere registrate nel Vocabolario della nostra lingua. Molte altre però ve ne sono ottime e pure, per le quali la fatica di questo Scrittore merita dʼessere commendata. NOTE: [82] _Dei difetti dellʼantico vocabolario della Crusca che dovrebbero correggersi nella nuova edizione dimostrati dal Conte dʼAyala. Vienna nella Stamp. di Antonio Strauss_. 1811. in 4. Ivi p 10. Questo libretto non appartiene al mio instituto, essendo scritto nel secolo decimonono. Io però ho creduto non dovere trascurare lʼesame di questo suo avviso, esaminando la quarta impressione del Vocabolario. [83] Op. T. 1. p. 125. [84] Lettere Fam. T. 2. p. 66. ed. del 1769. [85] Crusca Pref. §. 1. [86] Pasta _Voci e maniere di dire e osservazioni di Toscani scrittori_ ec. [87] Molti ne ha portati il chiarissimo Signor Cav. Vincenzo Monti nella notissima sua _Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca_. Non tutte però le sue correzioni sono giuste. Il Sig. Nicolini nellʼopera citata ne ha accennate alcune, e dicesi che altri voglia accrescerne il novero. Io ne noterò una sola, perchè è fondata sopra una sua opinione, che non giudico vera. Egli condanna la voce _birracchiuolo_, o _sbirracchiuolo_, e dice che niun diminutivo ha la lingua Italiana, che termini in _acchiuolo_. E il Vocabolario non ne offre alcuno. Lʼuso però ha _ladracchiuolo_, _birbacchiuola_, che sono nel tempo stesso diminutivi e peggiorativi, ed hanno certa energia da non disprezzarsi. Ma a me rincresce di trattenermi più a lungo in così cattiva compagnia. [88] _Ragionamento presentato allʼAccademia della Crusca il dì IX. Marzo 1741. da Rosso Martini per norma dʼuna nuova edizione del Vocabolario Toscano. Firenze nella Stamperia di Guglielmo Piatti._ 1813. in 4. [89] Nella Collezione dʼopuscoli T. 15. p. 90. e seguenti. [90] Luigi Targioni _Discorso sulle riflessioni relative al Vocabolario della Crusca_. p. 16. [91] Fu stampato prima nel volume 95. del Giornale letterario di Napoli, ed ora di nuovo in Firenze dal Piatti, 1813. in 4. Questa è lʼedizione di cui mi servo. [92] Quando il P. Ildefonso scriveva non era anche venuta in luce la _Teoria e prospetto, ossia Dizionario critico deʼ Verbi Italiani conjugati dal Signor Abate Marco Mastrofini_. [93] Nel Vocabolario però vʼè _per ancora_ alla v. _Per_ §. XXXVII. Eʼ da avvertirsi, che il passo in cui si legge questa espressione è dellʼAccademico della Crusca Rosso Martini. [94] _Andare di pari, o al pari con alcuno_ vuol dire andare con alcuno in modo, che uno non vada avanti lʼaltro. Quando significa _uguagliare_ vuole il dativo secondo lʼesempio portato dalla Crusca: _Chʼandar la fece altera oggi di pari al Tebro, al Xanto_. [95] Nel Vocabolario della Crusca non si trovano le voci _esemplare_ e _corpo_ nel senso in cui le adopero quì. Le usò però il Redi nelle lettere. _Subito, che si darà fuori io gnene manderò unʼesemplare. Il S. G. D. ne vuol mandare una mano di corpi a molti letterati suoi amici._ LʼAlberti porta questo passo alla v. _Corpo_ §. ma si scordò poi dʼaggiungere questo significato alla voce _Esemplare_. [96] Il Vannetti morì ai 13. Marzo 1795. e il Lombardi ai 9. Marzo del 1792. [97] Il P. Gio. Pietro Bergantini Teatino Veneziano si è dato (dice il Mazzucchelli Scritt. It. V. 2. P. 2. p. 944.) principalmente ad una vasta lettura dei nostri migliori scrittori colla mira dʼaccrescere ed illustrare la nostra lingua volgare, non solamente estraendo da essi quelle voci, che o non si trovano riferite nellʼinsigne Vocabolario della Crusca, o vi sono riferite e spiegate in significati diversi dagli usati talvolta dai detti scrittori, ma facendo infinite osservazioni appartenenti allʼeloquenza della lingua Italiana. Frutto di questa fatica sono le seguenti opere. 1. _Della volgare elocuzione, illustrata, ampliata, e facilitata. Volume_ 1. _contenente_ A. B. _Venezia presso Giammaria Lazzaroni_ in foglio. Lo Stampatore non potendo soffrire la spesa dellʼedizione che doveva comprendere dodici Tomi lʼopera rimase imperfetta. 2. _Idea dʼopera del tutto eseguita, e divisa in sei Tomi, che ha per titolo Dizionario Italiano, ovvero voci di scrittori Italiani separatamente da quelle, che sono sul Vocabolario comune raccolto da Avido Mantineo P. A._ (nome Arcadico del P. Bergantini.) _In Venezia presso Pietro Bassaglia_. 1753. in 4. Eʼ questo un avviso della meditata edizione dellʼopera precedente, ma accresciuta tanto, che dirsi può unʼopera nuova. 3. _Dizionario di Eloquente Italiana M. S._ Forse è lʼopera annunziata al N. precedente. Sospesa la stampa della prima opera il Bergantini trasse dal suo M. S. le voci, e i significati che mancano al Vocabolario della Crusca, e gli stampò col titolo: _Voci Italiane dʼAutori approvati dalla Crusca nel Vocabolario di essa non registrate con altre molte appartenenti per lo più ad arti, e scienze, che ci sono somministrate similmente da buoni Autori_. _In Venezia presso Pietro Bassaglia_ 1745. in 4. e molto accresciuto. _Ivi_ 1760. [98] Mazzucchelli luog. cit. p. 947. e Gamba Serie ec. _Del Dizionario enciclopedico dellʼAbate Alberti._ ~CAPO~ VIII. Benchè molto si debba al P. Bergantini per le sue opere, molto più si debbe allʼAbate Alberti di Villanova pel suo Dizionario enciclopedico, che pubblicò in sette volumi in quarto colle stampe Lucchesi del Marescandoli nel 1797. e negli anni seguenti. LʼAccademia della Crusca nel suo Vocabolario poche parole aveva registrate spettanti alle scienze ed alle arti; quelle cioè solamente, che o sono più comuni, o si trovano negli autori approvati; dicendo, che di queste far si doveva un Vocabolario separato. Conosceva essa certamente la difficoltà, che nel raccogliere queste voci si doveva incontrare. Le difficoltà però non isgomentarono lʼAlberti. Egli esaminò i libri megliori, che trattano di queste facoltà, viaggiò per le città della Toscana, visitò le officine degli artefici, ed ogni altro luogo, da cui trar potesse sì fatte voci, le quali avendo con diligenza raccolte, ne arricchì il suo Dizionario. Nè trascurò pure le altre parole, che a scienze o ad arti non appartengono, ma un numero grandissimo ne radunò traendole dagli autori citati nel Vocabolario del 1729. e dallo stesso Vocabolario nella prefazione, o nelle spiegazioni delle voci, che dagli Accademici non furono registrate. A queste aggiunse egli altre fonti di nuovi accrescimenti. Ciò furono. 1. Gli autori approvati col partito preso dallʼAccademia Fiorentina nel 1786.[99] 2. La derivazione delle voci adottate, cioè i superlativi diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi, diminutivi di diminutivi, peggiorativi, avvilitivi, participj verbali, ed altri somiglianti, seguendo in ciò lʼautorità della Crusca medesima nella prefazione al Vocabolario del 1691. e del Varchi. 3. Altri Autori non mai citati dalla Crusca, che furono però per la maggior parte Toscani, o annoverati fra gli Accademici, e a suo giudizio scrissero in purgata favella. Niuno vorrà non commendarlo per gli accrescimenti, che egli derivò dalla prima fonte, alla quale tutti possono attingere, purchè lo facciano con giudizio. Riguardo ai derivati ve ne sono alcuni, che spontaneamente provengono dalle primitive loro voci, nè vi ha bisogno dʼautorevoli esempj, perchè altri senza timore li possa usare. Tali sono a cagion di esempio _animatore, e animatrice, avvivatore,[100] e avvivatrice da animare, e da avvivare_, che mancano al Vocabolario, ma dallʼAlberti vengono registrati. Riguardo a quelle tante modificazioni di accrescitivi, peggiorativi, diminutivi, vezzeggiativi, ed altrettali, di che abonda la nostra lingua sopra ogni altra è andato a rilente, anzi che no quando gli mancavan gli esempj. LʼAccademia nella prefazione premessa al suo Vocabolario del 1691. lascia agli Scrittori una certa libertà di formare simili derivati, con giudizio però, e con savio avvedimento; ma Monsignor Bottari asseriva, che _non si può lasciar fare a suo modo ad ognuno, perchè senza un poco dʼesempio avanti si potrebbe errare per poco_.[101] E lʼAccademia stessa nella edizione del 1729. supplì molto anche in questa parte al difetto dellʼedizion precedente. LʼAlberti ha seguiti questi esempj, ed in ciò è da lodarsi. Nè vorrò pur biasimarlo quando prende alcune voci spettanti a scienze dallʼAlghisi, dal Dottore Bastiani, dal Biringucci, dal P. Bonanni, dal Ceracchini, dal Mattioli, dal Vallisnieri, e da altri, ed eziandio dalla raccolta di bandi, editti ec. pubblicati in Toscana nel secolo decimosesto, e dalla Tariffa delle Gabelle della Toscana certe voci spettanti a manifatture, commercio, e simili, perchè le prime uopo era trarle dai più solenni Maestri, e per le seconde i bandi, gli editti ec. del Governo, quantunque non sieno puramente scritti, usano però in questo quelle voci, che universalmente si usano dal popolo. Nè pure lo biasimerò se a conferma di qualche sua opinione cita le origini del Menagio, le opere grammaticali del Gigli, ed altrettali opere, che sebbene scevre non sieno da difetti, posson però aver trattato di quelle opinioni lodevolmente, e molte in fatti egregie cose contengono, dalle quali è lecito a chiunque di trar profitto. Non così potrei commendarlo, quando cita certi altri scrittori, come lʼAretino, il Ruscelli, il Dolce, e simili. DellʼAretino dice, che alcune delle sue rime sono comprese nella Raccolta del Berni, che fa testo in lingua. Vuolsi però avvertire, che alcuni Poeti soltanto di quella Raccolta sono citati dallʼAccademia nè fra questi è lʼAretino, autore scorretto quanto altro mai. Scorretto altresì è il Ruscelli, e dir si dee lo stesso di parecchi altri non sempre puri scrittori, benchè pregevoli per altre doti. Ma qualunque essi siano gli autori per lui allegati, non può non riprendersi per soverchia scarsità dʼesempj, e per negligenza. Lʼangustia somma, a cui negli anni estremi del viver suo lʼavean condotto le vicende della sua patria caduta miseramente sotto il giogo della _rivoluzione_ fu forse la cagion principale, che lo consigliò a diminuire il numero degli esempj per diminuire il numero dei volumi. Il che serve a rendere scusabile lʼintenzion sua, ma non appaga nel leggitore il desiderio di vedere con maggiore abbondevolezza indicato lʼuso dʼogni voce. Se diminuiti avesse gli esempj per quelle parole, che sono registrate dalla Crusca il danno sarebbe stato molto minore, perchè ognuno poteva, quando gli fosse a grado, vederli nel Vocabolario dellʼAccademia, ma faceva di mestieri, che almeno per le voci, e peʼ significati aggiunti lʼAutor fosse stato più liberale. Il diligente editore, che dopo la sua morte continuò lʼedizion cominciata, sʼaccorse di questo difetto, e volle porvi rimedio, come potè. Accrebbe perciò gli esempj alle prime voci, il che eseguì facilmente, perchè la Crusca glie le somministrava, ma per lʼaggiunte dellʼAlberti non era ormai più possibile di farlo. Quantunque però in questo lʼAlberti debba esser ripreso, vuolsi riprenderlo vie maggiormente per la negligenza da lui usata nelle citazioni. Lascio stare qualche errore, che in queste sʼincontra. Per esempio alla voce _abbacinato_ egli aggiunge un significato, che lʼAccademia non avea notato espressamente, cioè che _Famiglia abbacinata_ vale _privata deʼ suoi più illustri soggetti_, e cita Giovanni Villani senza addurne le parole. Ma forse doveva allegare Luca da Ponzano citato nel Vocabolario della Crusca a questa voce § _Per Metafora_. Lascio star questo, perchè non è meraviglia che in una intrapresa tanto lunga, e faticosa scappi qualche raro, e piccolo errore. Intendo bensì di quella trascuratezza per cui le citazioni non sono bastevolmente espresse, e si allega per esempio _Tasso Gerusalemme_, _Segneri Quaresimale_, _Vite deʼ SS. Padri_, senza indicare della Gerusalemme il canto e la stanza, del Quaresimale la predica e ʼl paragrafo, delle Vite il Tomo e la facciata. Peggio è quando nomina lʼautore senza indicar lʼopera, come Vallisnieri, Salvini, Magalotti ec. o se accenna lʼopera lo fa in modo, che, ove ancor si volesse legger tutta lʼopera indicata nella citazione, non si troverebbe mai il passo allegato. Alla v. _sfregacciolata_ che non è nella Crusca, aggiunge la spiegazione _leggiero sfregamento_, e pone questo esempio del Redi: _al Ditirambo dellʼacqua do di quando in quando qualche sfregacciolata di pennello, ma non concludo il lavoro_. _Red. lett._ Lascio stare, che _sfregacciolata_ ivi non è _leggiero sfregamento_, ma _frego_, o piuttosto _colpo di pennello_, _pennellata_; lascio star questo, e dico, che niuno potrà mai trovare quel passo fra le opere del Redi. Esso è veramente in una sua Lettera; questa però non è fra le sue opere, ma fra le lettere familiari del Magalotti pubblicate per opera di Monsig. Fabbroni il 1769. T. 1. p. 270. Ancor peggio è allora che porta gli esempj, senza indicare nè pur lʼautore. Altre volte nomina lʼautore, e lʼopera, e nè lʼuno nè lʼaltra si vedono nel suo indice degli scrittori posto al principio del Tomo. Per esempio alla voce _Capello_, § _a Capello_, a _Fuggire_ § _fuggi, fuggi_, a _Roba_ § _roba_ per _veste_ si leggono esempj di _Panc. lett._ ora qual nuovo Autore sarà questo, che non è registrato nellʼindice? Egli è Lorenzo Panciatici di cui si ha qualche lettera fra le familiari del Magalotti stampate il 1769., e quegli esempj sono ivi appunto nel T. 2. p 23. Fra questi esempj è da notarsi il terzo, dove si legge _roba di camera_; il che non vorrei dire sullʼautorità del Panciatici, il quale in quella facciata medesima dice altresì _delle mie reverie_, che lʼAlberti non ha osato di porre nel suo Vocabolario. Alla v. _Invadere_ cita i _Viaggi del Targioni_, che non è da annoverarsi fra gli scrittori purgati, e al più si potrebbe allegare per qualche voce, o modo di dire spettante alle arti ed alle scienze. Or queste mancanze sono di non lieve momento, perchè si toglie altrui il comodo di riscontrar negli Autori le citazioni, potendosi pur dubitare talvolta, non forse una voce abbia un senso diverso da quello, che lʼAlberti le attribuisce, e per togliere o confermar questo dubbio gioverebbe molto lʼosservare il contesto dellʼesempio allegato. Un esempio me ne somministra la parola _acquacchiato_ dove si legge _abbattuto, infiacchito, spossato, fu detto dal Redi deʼ Lombrici indeboliti, e quasi semivivi_. Questa citazione del Redi fa credere, che si tratti di un grandissimo abbattimento di un totale spossamento. Ma il Redi non dice, che queglʼinsetti fossero quasi semivivi. Ecco le sue parole nelle _Osservazioni intorno agli Animali, che si trovano negli animali viventi_ p. 103. edizione del 1684. _Vi dimorarono_ (due Lombrici) _senza morirvi quantunque paressero molto acquacchiati._ Le quali parole non ispiegano abbastanza il senso di quella voce, ma mostrano, che per darle qualche forza è stato necessario lʼunirla allʼavverbio _molto_. Il Magalotti al contrario lo spiega bene dicendo, _acquacchiato_ (vuol dire) _lʼistesso che confuso, mortificato_. _Lett. fam._ T. 2. p. 68. edizion del 1769. Finalmente alcune parole da lui registrate nel Dizionario, da altri forse si potranno creder men degne di questʼonore. Tali per esempio sono a mio giudizio: _Abbonamento_, e _Abbonare_, che ivi si dicono termini Mercantili, e dʼuso; _Toletta_ che si dice «francesismo dellʼuso, assortimento, e apparato di varj arnesi ed abbigliamenti per cui si adorna la Dama nel gabinetto servita dalla sua damigella» e si cita lʼAlgarotti; _sangria_ con esempio del Magalotti per cavata, o emissione di sangue, chʼè voce Spagnuola; _altarizzare_ per onorare alcuno ergendoli altari con esempio di Fulvio Testi cioè di un Autore non posto nel suo catalogo: _regretto_ e _regrettare_, che si chiamano francesismi usati dai Lucchesi fino dal secolo decimosettimo. Queste sono parole forestiere, che lʼuso degli accurati scrittori non ha fino ad ora autorizzati, nè doveva esser sollecito di autorizzarle lʼautore del Dizionario. Altri forse creder potrebbe, che le parole _regretto_, e _regrettare_ fossero da adottarsi come quelle, che proprie sono dʼuno dei dialetti della Toscana ormai da qualche tempo. LʼAlberti trasse quella notizia dal Gigli[102] che lʼannovera fra più altre parole dello stesso dialetto e il Gigli lʼebbe dagli Accademici dellʼAnca. E se il Gigli, e quegli Accademici riconoscevano queste voci non come poco dianzi introdotte in Lucca, dovevano certamente esser proprie di quel dialetto da qualche tempo, e non anderebbe lungi dal vero chi le stimasse introdotte ivi cento, o dugentʼanni prima. Ma questʼantichità non giova per aggiungere autorità a quelle voci, le quali probabilmente recaron di Francia i mercatanti Lucchesi, che là si recavano, e lungo tempo si trattenevano peʼ loro traffichi. Certo è, che nelle opere di Giovanni Guidiccioni, del Daniello, del Vellutello, o in altri buoni Scrittori Lucchesi del Secolo decimosesto, o dei Secoli susseguenti non si trovano sì fatte voci,[103] il che è contrassegno, che essi non le credettero di buona lega. Un altro pregio, e al tempo medesimo un altro difetto ci somministrano le sue definizioni. Gli Accademici nel vocabolario talvolta non dettero buone definizioni delle cose, e lʼAlberti ebbe in animo di supplire alla mancanza loro, ponendone altre migliori; ma anche le sue non sempre sono scevre da difetto. Alla voce _Grecità_ definisce _tutta La nazione Greca, e spezialmente gli Scrittori di quella lingua_, ed a _Latinità_ leggiamo _qualità del Latino_. Ognun vede, che se è giusta la prima definizione esser dee riprensibile la seconda. Anche la prima però non è in tutto degna di lode, mentre _Grecità_ non vuol dire la _nazione Greca_ ma bensì gli scrittori Greci, intendendo con queste parole le opere loro non gli Autori stessi, come si vede dallʼesempio ivi allegato. Onde ancora quella definizione è malvagia, perchè in parte è falsa, e in parte equivoca. Dalle quali cose tutte deduco, che dobbiamo saper molto grado allʼAlberti di tanta fatica, di molte voci e significati da lui aggiunti al Vocabolario, di aver cogli accenti mostrato quali voci si debbano proferir lunghe, e quali brevi, di aver date parecchie buone definizioni, e ad un uomo che per solo amore del comodo altrui, e della nostra lingua ha tollerata per molti anni tanta fatica viaggiando, interrogando, leggendo, e scrivendo dobbiamo perdonar qualche difetto, che lʼumana natura non può mai in tutto evitare. Per altro il suo Dizionario è pregevolissimo, e necessario a chiunque vuole studiare la lingua Italiana: e il signor Cesari di molte voci, e maniere di dire avrebbe arricchita la sua edizione del Vocabolario della Crusca se lʼavesse veduto. Prendo a caso la Lettera B, e in questa prendo le prime sei facciate dellʼAlberti, e trovo che al Cesari manca _babbalà_ (alla), _bacamento_, _bacchettata_, _bacchiatore_, _baggea_, _pigliarsela in baja_, le quali voci sono usate nel Malmantile, dal Redi, dal Segneri, neʼ Canti Carnascialeschi, dal Varchi, e dal Buonarroti. E pure non ho notati, i derivati dei nomi proprj, i termini di scienze, e di arti, e quelli di cui si portano esempi dʼautori moderni, perchè a questi non si estendono le sue aggiunte. NOTE: [99] Accademia Fiorentina sʼintitolò lʼAccademia instituita dopo la soppressione della Crusca. [100] Di _avvivatore_ vʼha un esempio del Menzini, che lʼAlberti non ha notato. _E ʼl guardo avvivator lieta rivolse. Opere_ T. 3. _p._ 15. [101] Annotaz. a Fr. Guitt. p. 119. [102] _Gigli Regole per la Toscana favellap._ 591. ediz. di Lucca del 1734. [103] Lo stesso si dica della parola _deserta per messo, o servito delle frutte_ che ivi pur si ricorda dal Gigli. Le altre voci Lucchesi registrate da questo scrittore nel luogo stesso non sono di questo genere, ed hanno origine diversa. _Altri Vocabolarj, regole per la Pronunzia Sinonimi, ed Epiteti, Rimarj, ed Etimologie._ ~CAPO~ IX. Se il P. Bergantini e lʼAlberti meritaron lode accrescendo il Vocabolario, Apostolo Zeno, e Jacopo Facciolati la meritarono con accorciarlo. Al primo si attribuisce il compendio di questʼopera, che egli fece prima sullʼedizione del 1691, e poi su quella del 1729, e che essendo stato tante volte impresso offre con ciò solo un manifesto indizio del plauso universale. E meritamente lʼottenne o si riguardi la brevità a cui è ridotto quel compendio a comodo altrui, o lʼemendazioni quantunque rare, che quellʼuomo grande vi ha fatte. Dobbiamo al secondo lʼOrtografia Italiana stampata in Padova molte volte, e che può dirsi anchʼessa in qualche modo un compendio del Vocabolario Fiorentino, quantunque quà, e là vi si trovi qualche aggiunta tratta da scrittori approvati. Nè di questo genere di libri farò più a lungo ragionamento,[104] dovendo omai parlare di alcuni Dizionarj particolari. Tra questi per la sua celebrità domanda il primo luogo il _Vocabolario Cateriniano_ del Gigli. Questo bizzarro, e mordace scrittore si pose nellʼanimo dʼonorare il dialetto di Siena sua patria, e poteva in ciò procacciarsi lode, ma lo fece in modo che si attirò sventure e biasimo. Ma di lui ho già detto abbastanza di sopra. Parecchi altri pure divulgando le opere degli antichi Autori Toscani ne raccolsero le parole e maniere di dire meritevoli dʼosservazione, e quelle massimamente che non si incontrano nel Vocabolario, come il Salvini, il Biscioni, Giuseppe Bianchini, il Bottari, il Cavaliere Jacopo Morelli, e finalmente il P. Ildefonso nelle Delizie degli Eruditi Toscani, dai quali altresì ove ancora si tolga ciò che è scorrezione popolaresca rimane sempre alquanto, e in taluni anche molto, da aumentare il tesoro di nostra lingua. Fra i Dizionari particolari si debbon porre quelli delle arti, e delle scienze deʼ quali uno solo ne abbiamo in questo secolo. Tale è quello per la Medicina dʼAndrea Pasta[105] Medico prestantissimo, che avrebbe voluto sbandire quegli oscuri, e tenebrosi vocaboli, che sì volentieri, e sì spesso soglionsi usare daʼ medici triviali nei loro parlari, e nelle loro scritture. Aʼ questo fine dagli scrittori approvati egli trasse le voci, e maniere di dire che appartengono a medicina, e vi aggiunse parecchie osservazioni, con che provvide non solo allo scrivere e parlar bene, ma ancora a bene operare. I libri da lui allegati, o deʼ quali fece uso, sono il Decamerone del Boccaccio, le opere del Galilei, i saggi dellʼAccademia del Cimento, il trattato dellʼAgricoltura di Piero deʼ Crescenzi, il Ricettario Fiorentino, il Vocabolario della Crusca, le opere del Cocchi, e sopra tutto quelle del Redi. Io non sono punto istruito neʼ precetti delle mediche discipline, pure credo di non errare dicendo, che i medici ed i giovani principalmente dovrebbono avere frequentemente tra mano il libro del Pasta, che consiglierebbe loro dʼusar favellando, o scrivendo un linguaggio più acconcio a procacciarsi la confidenza del malato, ed a confortarlo, e forse anche li persuaderebbe di diffidare alquanto di certi nuovi sistemi, troppo sovente incerti, e variabili. Un Vocabolario deʼ nomi proprj tanto delle persone, che deʼ luoghi sarebbe utile molto, e lʼArciprete Baruffaldi lo aveva non solamente intrapreso, ma quasi compiuto, ma è rimasto inedito.[106] E aggiungerò quì ancora il suo Dizionario Ditirambico, e Baccanalesco, cui non saprei qual miglior luogo assegnare.[107] A questa classe medesima si può riferire il breve ragionamento dellʼAlgarotti _sopra la ricchezza della lingua Italiana neʼ termini militari_.[108] Alle maniere di dire deʼ Francesi scrittori intorno a cose militari egli mostra quali, e quante maniere Italiane corrispondano, ed anche in ciò solo altri può vedere di quì, come la nostra lingua sia abbondante, e ricca più della Francese. Nè su questo mi tratterrò più lungamente. Aggiungerò bensì, che di non mediocre utilità sarebbe, se ciò che lʼAlgarotti fece per lʼarte militare, altri lo facesse riguardo alle altre facoltà; affinchè ove alcuno debba scrivere intorno alle medesime avesse pronte al bisogno le espressioni che sono più acconce, onde non si dovesse attribuire a difetto della lingua ciò che spesso è difetto di memoria dello scrittore.[109] Gli Autori quì ricordati insegnano quali siano le voci, e le espressioni, che voglionsi adoperare scrivendo; ma della pronunzia non fanno parola, tranne lʼAlberti, che nel suo Dizionario è stato sollecito dʼindicare le voci, che lunghe si profferiscono o brevi. Ma noi abbiamo qualche altra cosa nella pronunzia, che domanda dʼesser regolata. Le vocali E ed O ora si pronunziano strette, ed ora larghe; le consonanti S Z ora hanno un suono più dolce, ed ora più aspro, come tutti sanno. A questo volle provvedere il Gigli adoperando le Greche lettere _epsilon_, ed _omega_ per le vocali larghe, e la S, e lo Z corsivo per le consonanti aspre, e in questa guisa nelle sue regole per la Toscana favella dette un lungo catalogo[110] di quelle parole, che usar si sogliono più comunemente. Dopo lui il Salvini nel volgarizzamento dʼOppiano[111] volle anchʼegli introdur qualche segno, che giovasse alla pronunzia, ma solamente per le due vocali E, ed O, alle quali sovrappose un accento circonflesso, quando si doveano profferir larghe. Lʼuso delle Greche lettere, come non piacque nel secolo decimosesto, quando col fine medesimo le introdusse il Trissino, e dopo lui Adriano Franci, così nè pur piacque nel decimottavo, siccome quelle che troppo sono difformi dalle nostre: e in questa parte fu più saggio lʼavvedimento del Salvini, che un contrassegno adoperò più acconcio, e meno strano. Tal novità, quantunque utile, non fu da veruno imitata, e il Salvini medesimo negli altri suoi libri non lʼusò. A uno scopo più alto diressero le mire loro il P. Carlo Costanzo Rabbi Agostiniano, e il P. Giovambattista Bisso Gesuita procurando dʼagevolare lo scriver puramente, ed elegantemente il primo in prosa, il secondo in versi. Con questo intendimento il Rabbi raccolse i sinonimi, ed aggiunti Italiani, cui pose in fine un trattatello intorno alle regole per ben valersi sì degli uni che degli altri, e delle similitudini,[112] al che poi fece parecchi accrescimenti il P. Alessandro Bandiera deʼ Servi di Maria. Gli approvati scrittori di purgata favella sono le fonti, dalle quali lʼopera è tratta, e poco vʼha (se non mʼinganno) che non le sia uniforme.[113] Ma questo genere di libri è pericoloso peʼ giovani, i quali sʼavvezzano a prendere senza discernimento non ciò che è più acconcio, ma quello che prima cade sotto gli occhi, ed a riempiere dʼinutili aggiunti le loro dicerìe. E tanto più facilmente essi potrebbono risentirne danno, che si vedono quì talvolta voci, e maniere di dire ora triviali, ed ora strane, ed antiche, che potevano forse esser tollerabili, ed anche lodevoli nel luogo dove furon poste da quegli autori, e altrove desterebbono riso, e meriterebbono riprensione. Con miglior consiglio il P. Bisso raccolse le voci, e locuzioni poetiche di Dante, Petrarca, Ariosto, e Tasso, e dʼaltri autori del cinquecento[114] aggiungendo ancora talvolta lunghi squarci di queʼ Poeti, e intieri componimenti. E giacchè il mio argomento mi ha condotto a far parola deʼ sussidj prestati alla poesia ed ai poeti non voglio lasciar di ricordare i rimarj, libri pericolosi anchʼessi, ma comodi. Universale è quello del Rosasco[115] per ogni genere di rime piane, tronche, e sdrucciole ed è ampio tanto, che la stessa sua copia può talvolta imbarazzare il Poeta. Quì poi si trovano tutte le parole e nobili, e mediocri, ed umili, onde chi vuol farne uso debbe essere di fino discernimento fornito per iscegliere quelle che sono più adatte al suo bisogno. Alle sole rime sdrucciole limitò il suo Rimario il Baruffaldi[116]. Questi due Rimarj offrono le sole parole, che fanno rima; ma, con utile avvedimento altri facendo il rimario particolare di qualche poeta vi ha posto glʼintieri versi, il che quanto comodo apporti, coloro tutti lo sanno, aʼ quali è avvenuto alcuna volta di fame uso. Tali sono quelli del Dante[117] del Tasso[118] del Petrarca Bembo Casa Guidiccioni e Molza[119] e altri. Anche i proverbj ebbero un dotto illustratore nel P. Sebastiano Paoli Lucchese deʼ Chierici Regolari della Madre di Dio[120], che una materia così arida, ed ingrata seppe render piacevole con molta, ma sempre amena erudizione. A lui vuolsi aggiungere il Biscioni nelle annotazioni al Malmantile, il qual poema essendo da cima a fondo pieno di proverbj, questi principalmente han dovuto spiegare i suoi Comentatori. Finalmente a questa classe medesima appartengono altresì i Dizionari etimologici, i quali però richiedono breve discorso, e questo lo vuol quasi tutto il Muratori. Sono alcuni i quali avendo per costume di biasimar ciò, che non sanno, sorrideranno al nome dʼetimologie, nè crederanno che reputar si possano illustratori dʼuna lingua coloro, che i loro studj hanno rivolti a questo genere di considerazioni, che essi chiamano vano ed inutile. Ma se si considera quanti uomini preclarissimi a sì fatte indagini hanno consacrate le loro cure, se si considera, che fra questi è il Leibnitz, che molto ne scrisse, e con molta, diligenza, ed il Cesarotti, che di questo studio fece una breve, ma giudiziosa difesa ed opportuna,[121] e desiderò che un Vocabolario etimologico avesse la nostra lingua disposto secondo lʼordine alfabetico delle radici[122]: se a tutto ciò si ponga mente non dovremo noi esser molto solleciti della disapprovazione di costoro. Potrebbe forse piuttosto dubitarsi, se far si dovesse un rimprovero aglʼItaliani di non aver già prima dʼora adempiuto, o prevenuto il desiderio del Cesarotti, lasciando che la palma cogliesse in ciò un Francese, cioè il Menagio colle sue _Origini Italiche_. Ma la difficoltà dellʼimpresa probabilmente fu quella, che fino ad ora distolse i nostri dal correre pienamente questo arringo. E per ciò che spetta al Menagio, quanto è degna di lode lʼintenzion dellʼautore dottissimo, che coraggiosamente prese ad illustrare una lingua non sua, altrettanto era da desiderarsi un più felice riuscimento alle sue cure, ed alle sue fatiche. Imperciocchè se da quel suo libro si tolga ciò che egli prese daglʼItaliani Redi, Dati, Chimentelli, Canini, Monosini, Ferrari, Varchi, Castelvetro, e dal Vocabolario della Crusca, poco resta di suo e quel poco generalmente parlando non è molto lodevole. Ma venghiamo a noi. Il Muratori dunque parlando dellʼorigine di nostra lingua due lunghe serie di parole ci dette, la prima di quelle voci Italiane, lʼorigine delle quali è tuttavia sconosciuta, o dubbiosa, e la seconda di molte voci, delle quali cerca donde provengano.[123] Nella prima molte son le parole delle quali non reca lʼorigine, come per lo stesso titolo suo era da aspettarsi; pure dʼalcune lʼaccenna, e di qualche altra non è difficile lʼassegnarla. Fra queste sono _basto_ che viene da _bast_, _basta_:[124] _cangiare_, dal Latino _cambiare_; di cui si veda il Du Cange; _cascare_ da _cascus_, che nellʼantico Latino significava _vecchio_, e forse voleva dire _debole_, _cadente_; _caprone_ non comprendo come il Muratori non si sia accorto, che viene da _caper_; _zanzara_ dal suono che fa, ed altre di quel catalogo, che si potrebbero aggiungere. La seconda serie è un copioso catalogo di voci, delle quali egli va indagando lʼorigine ora dal Latino antico, ed or dal barbaro, ora dalle lingue deʼ popoli invasori dʼItalia, e dal Provenzale, dallo Spagnolo, dallʼArabo, con molta erudizione. Parecchie etimologie si possono aggiungere ancora quì fra le quali accennerò le seguenti tratte dal Tedesco. _Bara_, cioè cataletto viene da _bahre_: _Becco_ per maschio della capra da _bok_: _bosco_ da _busk_ (il Muratori alla v. _abbozzare_ avea bensì detto, che bosco derivava dalla lingua Tedesca, ma non ne aveva indicata la radice nè lʼaveva registrata al suo luogo): _daga_ spezie di spada da _dagen_ spada: _stanga_ da _stange_: _tasca_ da _tasche_: _tasso_ animale da _dachs_.[125] Non tutti poi adotteranno tutte le sue etimologie. Per esempio _astio_ probabilmente viene dal Tedesco _hass_ come altri già ha detto: ed egli lo fa venire dal Latino, la qual lingua non aveva questa voce, erronee essendo le due citazioni di Plauto, che presso di lui si leggono, e che egli prese dal Du Cange. _Randello_ viene dal Tedesco _randell_, e il Muratori troppo forzatamente lo fa derivare da _rand_, che significa _giro_, _cerchio_, _margine_. Ma in cose oscure tanto, e difficili, e ravvolte in tante incertezze chi può pretendere, che mai non si devii? Anche Anton Maria Salvini spiegò lʼetimologia di alcune voci Italiane neʼ suoi discorsi accademici[126] e il Baruffaldi, molte ne aveva esaminate di quelle, che dal Ferrari, e dal Menagio, erano state trascurate.[127] NOTE: [104] Girolamo Andrea Martignoni fece con nuovo metodo un Vocabolario Toscano, nel quale tutte le voci sono ridotte a tre classi, di cose fisiche, morali, e scientifiche, e ciascuna è suddivisa in più altre classi. Ne stampò la prima parte a Milano il 1743. e il P. Daniele Trinchineta Minor Conventuale ne pubblicò ivi la seconda il 1750. Il Cesarotti Op. T. 1. p. 217. ricorda un Dizionario Padovano, e Toscano dellʼAb. Gaetano Patriarchi, in cui a fronte dʼogni vocabolo e idiotismo Padovano sta lʼequivalente Toscano, e il P. Zaccaria _Stor. Lett._ T. 11. p. 5. parla del Dizionario Siciliano, Italiano, e Latino del P. Michele del Bono della Compagnia di Gesù. [105] _Voci maniere di dire, e osservazioni di Toscani scrittori, e per la maggior parte del Redi, raccolte, e corredate di note da Andrea Pasta, che possono servire dʼistruzione ai giovani nellʼarte del medicare, e di materiali per comporre con proprietà, e pulizia di Lingua Italiana i Consulti di Medicina, e di Cirusia. Brescia per Gio. Maria Rizzardi_ 1769. E di nuovo in Verona nella Stamperia di Dionigi Ramanzini, 1806. nellʼultimo volume dellʼedizione Veronese del Vocabolario della Crusca. [106] Zaccar. Stor. Lett. dʼItal. T. 14. p. 357. [107] Ivi p. 356. [108] Opere T. 5. p. 181. Ed. di Venez. del Palese. [109] Un egregio Vocabolario militare ha poi fatto il chiarissimo Signor Giuseppe Grassi, il quale però essendo impresso recentemente, non è del mio instituto il parlarne. [110] Dalla p. 260. fino a 576. [111] Stampato in Firenze il 1728. [112] Bologna pel Pisani 1732. in 4. e di nuovo Bergamo 1744. Colle aggiunte del Bandiera si stamparono per la prima volta in Venezia il 1756. e poi molte, altre volte. [113] Alla v. _strage_ si vede fra i sinonimi _massacro_ che egli chiama voce dellʼuso; ma un buono scrittore non vorrà adoperarla. [114] Palermo pel Feuer. 1756. T. 2. in 8. [115] Padova nella Stamp. del Seminario 1763. in 4. [116] _Venezia_ 1755. in 4. Egli fece anche il Rimario delle voci Italiane rimate licenziosamente e delle parole tronche, e quello della Commedia e Canzoniero di Dante, che sono inediti. _Zaccaria Stor. Lett. dʼItal._ T. 14. _p._ 357. Ivi gli si attribuisce ancora il rimario della Gerusalemme, che si dice pure inedito. Ma questo rimario fu compilato dallo Sgargi, e il Baruffaldi ne fu lʼeditore. Questi ne cominciò uno, ma non lo compiè, come dice egli stesso nellʼedizione Veneta delle opere del Tasso T. 1. p. 374. [117] _Padova pel Comino 1727._ [118] Eʼ opera di Giambattista Sgargi di Gubbio, e il Baruffaldi lo stampò nel primo volume delle opere del Tasso dellʼedizione di Venezia, aggiungendovi sei ragionamenti. [119] _Bergamo pel Lancellotti 1760._ in 12. Baldassar Prosperi fece il rimario del Filicaja, come dice il Baruffaldi nellʼedizione citata delle opere del Tasso T. 1. p. 374. [120] Modi di dire Toscani ricercati nella loro origine. Venezia, appresso Simon Occhi. 1740. in 4. [121] Opere T. 1. p. 129. [122] Opere T. 1. p. 221. [123] _Antiq. Ital. med. ævi. Diss. 33._ [124] _Bast._, e poi _Basta_, _Bastum_, _Clitellæ_..... _Basturæ asinorum_ ec. Du Cange. [125] _Antiq. It. Med. Aevi. Diss. 33._ [126] _Disc. Acc._ T. 2. _D._ 24. 25. 26. [127] _Zaccaria Stor. Lett._ T. 14. _p_. 356. _Edizioni ed illustrazioni degli Autori classici._ ~CAPO~ X. Un altro modo dʼillustrar la lingua adoperarono altri or pubblicando lʼopere deʼ buoni scrittori, ed or rischiarandole con annotazioni, e con ogni maniera di spiegazioni. I Salvini, i Manni, i Biscioni, i Bottari, ed altri con nuove, e più corrette edizioni delle opere, che fanno testo in lingua, e già dianzi erano pubblicate, e con ritogliere dalla polvere delle librerie gli antichi manoscritti, e darli in luce molto hanno giovato alla nostra lingua. E molto più le hanno giovato coloro, che sì fatte opere coʼ loro comenti hanno rischiarate. Le fatiche deʼ comentatori di Dante non soddisfacevano abbastanza al comun desiderio, siccome quelle, che spesso non erano esatte, e sempre soverchiamente diffuse. Ripararono a questo difetto Gio. Antonio Volpi coʼ suoi indici nellʼedizion del Comino[128] poi il P. Pompeo Venturi,[129] e finalmente il P. Baldassare Lombardi Minor Conventuale[130] colle loro annotazioni. Molto si affaticò pure intorno a Dante il Canonico Dionisi di Verona esaminando codici, e raccogliendo varianti per procurare unʼedizione esatta della Divina Commedia. Frutto di tanto suo studio sono alcuni suoi opuscoli neʼ quali molte cose si vedono utilissime alla illustrazione di questʼopera, quantunque talvolta vi sʼincontrino ancora giudizj fallaci, e congetture prive di fondamento.[131] Benemerito del Petrarca, o piuttosto di quelli, che lo leggono volle essere il Muratori corredando le rime di quel gran Lirico colle sue annotazioni, e con quelle dʼAlessandro Tassoni, che egli dette in luce per la prima volta, quantunque non tutti siano per approvare le critiche di quel sommo scrittore, che nelle cose spettanti al gusto non era così grande, quanto in ciò che spetta allʼantichità. E benemeriti ne furono veramente il Tiraboschi, che nella sua storia esponendo la vita di lui alcune parti delle sue rime andò illustrando, e il chiarissimo Signor Conte Gio. Battista Baldelli nella bella vita, che ne scrisse,[132] e che tutta è piena di scelta erudizione, e di giusta critica. Così piaccia a lui di darci pure la vita di Dante, come questa ci ha data, e quella del Boccaccio, della quale a me rincresce solamente di non poter quì ragionare, perchè non appartiene allʼepoca, nella quale star deve racchiuso questo mio ragionamento[133]. Ricorderò bensì la storia del Decamerone di Domenico Maria Manni,[134] a qualche difetto della quale supplì poi il Lami nelle Novelle Letterarie di Firenze del 1754. 1755. 1756. Anche il Bottari illustrò e difese il Decamerone con trentadue lezioni, che hanno poi veduta la luce per opera del signor Francesco Grazzini egregio giovine deʼ buoni studj amantissimo.[135] Ma quanto debbono gli approvati scrittori alle cure indefesse deʼ due testè mentovati Manni, e Bottari! Quanto ad Anton Maria Salvini, al Canonico Biscioni, al Seghezzi, al Serassi! Se io volessi quì noverare le opere per essi, o per altri più correttamente pubblicate, o daʼ testi a penna tratte per la prima volta in luce, o di utili prefazioni, e annotazioni arricchite ampia materia avrei di ragionare. Ma troppo increscevole sarebbe un lungo catalogo di nomi e di titoli, e al tutto inutile, da che il Signor Gamba nella sua serie delle edizioni deʼ testi di lingua Italiana[136] sì accuratamente ha soddisfatto al pubblico desiderio. NOTE: [128] _Padova pel Comino_ 1727. [129] _Lucca pel Cappuri_ 1737. senza il suo nome, e poi più altre volte con molte aggiunte, e correzioni. [130] Roma, Fulgoni 1791. in 4. e di nuovo Roma, de Romanis 1815. T. 4. in 4. ottima edizione. [131] _Serie dʼAneddoti_ N. II. _Verona per lʼerede Merlo_ 1786. in 4. Contiene una dissertazione sopra Pietro comunemente detto figlio di Dante, e sul suo comento. In fine vi è unito il _piano_ per una nuova edizione di Dante. _Serie dʼAneddoti_ N. IV. Ivi per lo stesso 1788. in 4. Contiene due componimenti in versi esametri Latini di Dante a Giovanni di Virgilio, ed altrettanti di Giovanni a Dante, aʼ quali succede un saggio di critica sopra Dante. _Serie dʼAneddoti_ N. V. _deʼ Codici Fiorentini di Dante_. _Ivi per gli_ Eredi Carattoni 1790. in 4. _Dialogo Apologetico per appendice alla serie degli Aneddoti Dionisiani_. _Verona per gli eredi di Marco Moroni_ 1791., in 8. Il ch. Signor Proposto Lastri avendo nelle Novelle Letterarie di Firenze deʼ 17. e 29. Aprile 1791. censurato il N. 5. di questi Aneddoti il Dionisi si difese con questo Libretto. Non ho registrato il N. 1. degli Aneddoti, perchè non riguarda Dante. Non so se altri numeri sieno usciti dopo questi, che mi furono donati dallʼAutore nel 1792. Ma siccome egli aveva sempre in mira Dante, perciò anche in altra opera intitolata _deʼ Blandimenti funebri, ossia delle Acclamazioni Sepolcrali Cristiane_, _Padova nella Stamperia del Seminario_ 1794. in 4. trova modo di parlar di lui e di illustrarlo. [132] _Del Petrarca, e delle sue Opere Lib._ 4. _Firenze presso Gaetano Cambiagi._ 1797. in 4. LʼAb. Sebastiano Pagello pubblicò le _rime di Messer Francesco Petrarca con note date la prima volta in luce ad utilità deʼ giovani, che amano la poesia_. Senza indicazione di luogo e di stampatore, 1754. in 4. Non ho veduta questa edizione, ma so che le note sono lodate. [133] _Vita di Giov. Boccacci Firenze presso Carli._ 1806. in 8. gr. [134] _Firenze pel Ristori_ 1742. _in_ 4. [135] _Lezioni di Monsig. Giovanni Bottari sopra il Decamerone. Firenze presso Gaspero Ricci_ 1818. T. 2. _in_ 8. [136] Si veda principalmente la nuova edizione fatta in Milano dalla stamperia Reale il 1812. in due volumi in 18., la quale oltre ai testi di lingua citati nel Vocabolario, e quelli che furono approvati dallʼAccademia nel 1786. comprende ancora quelli che furono allegati dallʼAlberti, e parecchi altri, che il Sig. Gamba propone come Autori di purgata favella, e di tutti accenna le migliori edizioni, come dico nel capo seguente. _Di quegli Scrittori, che hanno illustrata la lingua Italiana scrivendo purgatamente._ ~CAPO~ XI. Ma la più nobil maniera di illustrar una lingua consiste nello scriver bene. Io non pretendo decidere quali sieno gli scrittori, che debbono far testo in lingua. Questo è ufficio dellʼAccademia della Crusca, ed ha voluto almeno in parte soddisfarvi lʼAccademia Fiorentina nel partito preso il 1786. di cui ho parlato più volte.[137] Io prendo ad annoverare non solamente coloro, ai quali è stato questʼonor conceduto, o che ottener lo potrebbono, perchè scrissero purissimamente, ma quelli ancora, che meritano lode di molta purità, quantunque alcuna volta, o per trascuratezza, o per debolezza di umana natura sieno caduti in qualche errore, od abbiano usata qualche voce non approvata. Niuno scrittor vivente porrò fra questi, deʼ quali troppo è pericoloso il dar giudizio: nè intendo di noverare tutti i trapassati, che ne son meritevoli, perchè troppo lunga impresa sarebbe, e difficile. Altri però mi ha diminuita alquanto la fatica. Oltre allʼAlberti, di cui ho già fatta parola, il Signor Gamba nuovamente stampando la sua _serie dellʼedizione deʼ testi di lingua_[138] agli scrittori scelti dallʼAccademia, e dallʼAlberti parecchi altri ne aggiunse di purgata favella. E poco fa un anonimo scrittore coltissimo, giudizioso, e della nostra lingua amantissimo ha pubblicato un eccellente _catalogo dʼalcune opere attenenti alle scienze alle arti e ad altri bisogni dellʼuomo; le quali quantunque non citate nel Vocabolario della Crusca meritano per conto della lingua qualche considerazione_.[139] Finalmente il Signor Poggiali alla sua _serie deʼ testi di lingua_ ha aggiunto un catalogo di _opere non citate nel Vocabolario di autori però in esso allegati, e un altro di opere scritte in buona favella di autori non citati nel Vocabolario_.[140] Molto prenderò da questi scrittori, aggiungendo però non poco, e talvolta allontanandomi dallʼopinion loro, e piuttosto agli autori per essi approvati aggiungendone alcuni altri. Comincio dagli Scrittori di Grammatica, e fra questi vuolsi dare il primo luogo al Corticelli. Di lui ho già detto di sopra, dove ho lodato i suoi precetti; e quì devo nominarlo di nuovo perchè i suoi precetti sono esposti purissimamente. Lʼopera sua è annoverata fra quelle approvate dallʼAccademia Fiorentina. Al Corticelli unisco Francesco Maria Zanotti per gli _Elementi di grammatica volgare_ deʼ quali altresì ho già parlato, e pel _Ragionamento sopra la volgar Lingua_.[141] E poichè in questa parte del mio ragionamento ho nominato per la prima volta questo immortale scrittore, non so trattenermi dal mostrare qualche maraviglia, che lʼAccademia Fiorentina in quel partito da me ricordato ponendolo fra gli scrittori approvati di tante sue opere abbia scelte le lettere solamente, e le opere mattematiche, filosofiche, oratorie, e poetiche abbia trascurate. Le sue lettere sono bellissime; ma non sono men belle le altre cose; e in tutte si vede una grazia di stile, che innamora. Io non dico, che egli sia scrittore purissimo nel fatto della lingua, nè volle esser tale. Ma, come il Castiglione, seguì una certa libertà, la qual pure non è senza grazia. Che se i Deputati reputarono opportuno di perdonargli questa libertà nelle lettere senza approvarla, parrebbe che sì fatta indulgenza usar gli si dovesse ancora per le altre opere tanto maggiori, o lʼimportanza si consideri della materia, o la cura da lui posta nello scriverle. Finalmente ricordo i dialoghi del P. Rosasco, deʼ quali pure ho già fatta menzione. Avrei desiderato, che questo purgato scrittore non facesse uso di certe voci antiquate che non sono rare in quel suo Libro. Checchè però sia di questo, egli in questʼopera scrive purgatamente, e si deve dargliene lode. Ma progrediamo più innanzi e dai maestri di grammatica passiamo a quelli, che ci hanno dati i precetti dellʼeloquenza e della poesia. Quì pure ci si presentano il P. Corticelli e Francesco Maria Zanotti. I cento discorsi del primo su lʼeloquenza meritarono dʼessere approvati dallʼAccademia Fiorentina.[142] Parrà forse ad alcuno, che i suoi insegnamenti sieno comuni troppo; ma non è comune in essi la purità della lingua, e il savio avvedimento di prendere gli esempj tutti da ottimi scrittori approvati dalla Crusca. Il secondo scrisse cinque ragionamenti _dellʼarte poetica_,[143] parlando della poesia in generale poi della tragedia della commedia dellʼepopeja e della lirica. Nella qual trattazione egli condisce tutto con quella grazia, che era a lui naturale e che non lo abbandonava anche neʼ famigliari discorsi. I precetti poetici dette pure il Gravina, e la sua opera è annoverata fra quelle scelte dallʼAccademia Fiorentina, il qual autorevol giudizio mi fa sicuro, che non mʼinganno commendando ancora le altre opere sue scritte in Italiano[144]. Con purgato stile procurò di scrivere il Quadrio la sua faticosa, e troppo lunga opera _della storia e della ragione dʼogni poesia_,[145] il Bisso nellʼelementare _introduzione alla volgar poesia_,[146] il Baruffaldi neʼ ragionamenti poetici, dove parla della rima, dei rimarj, deʼ centoni, e delle varie edizioni della Gerusalemme liberata,[147] il Parini nei _principj delle belle Lettere_,[148] e il Borsa nella dissertazione _sul Gusto presente in Letteratura Italiana_ onorata di premio dallʼAccademia Mantovana.[149] Ma parecchi fra questi vince dʼassai, ed a niuno è secondo il Sibiliato a giudizio dʼuomini intelligenti (giacchè non mi è riuscito di vedere le cose sue). Due dissertazioni di questo scrittor purissimo appartengono a questa classe, e furono da lui destinate a due Accademie diverse. Commenda nella prima lʼarte poetica, mostrando quanto alla civil società sia vantaggiosa ed alla politica, e fu premiata dallʼAccademia Mantovana: colla seconda corregge e reprime quella pedanteria scientifica, (come la chiama il Cesarotti) che agli anni passati col titolo di spirito filosofico invase e guastò lʼamena letteratura.[150] Aggiungo a questi Anton Maria Salvini ed il Marchese Gio. Giuseppe Orsi. Il primo per le annotazioni da lui fatte alla _perfetta Poesia_ del Muratori, ed il secondo per le _considerazioni sopra il libro francese intitolato de la maniere de bien penser dans les ouvrages dʼesprit_,[151] e pel ragionamento sopra il dialogo di Cicerone _de senectute_.[152] Ambedue fanno testo in lingua, il Salvini per antico diritto, lʼOrsi per decreto dellʼAccademia Fiorentina. A questa classe appartengono i dialoghi del Regali di cui ho parlato al Capo VI, ed alcune opere di Giuseppe Bianchini, cioè la difesa di Dante, le tre lezioni sopra il primo terzetto del Paradiso di Dante, sopra un sonetto del Petrarca, e sopra uno del Varchi, il Trattato della satira Italiana, e il Dialogo intitolato la villeggiatura,[153] e la difesa del Petrarca per opera del Casaregi, del Canevari, e del Tomasi.[154] A questa classe si possono aggiungere altresì lʼacre censura, che il Biscioni fece allʼedizione deʼ Canti carnascialeschi procurata dal Bracci,[155] e la più acre risposta dello stesso Bracci[156]. Commendo neʼ due feroci rivali la purgatezza della lingua, ma biasimo solennemente la mordacità loro, e principalmente del secondo, che ebbe poi a dolersi di averla usata. Molti più sono gli Oratori, ed i Poeti, che domandano dʼesser quì nominati. Ne sceglierò alcuni, non potendo parlar di tutti. Fra gli Oratori vuolsi concedere il primo luogo al Gesuita Lucchese Alfonso Nicolai[157] per ciò che spetta alla lingua; nè a questo mʼinduce lʼamor della Patria, ma sì lʼAccademia Fiorentina, che lʼannoverò fra i suoi scrittori approvati. I Gesuiti Tornielli[158] Bassani, Sanseverino, Dolera, Rossi, Venini, Trento, Pellegrini, Granelli, Muzani, Masotti, Vettori, e il Domenicano Valsecchi, furon lodati da chi li ascoltò predicare dal pergamo e sono lodati da chi legge le loro prediche. Anche fra gli Autori di lezioni sulla Santa Scrittura ve ne ha parecchi di purgata favella. Tali io giudico il Nicolai, il Granelli, il Rossi, il Pellegrini, già mentovati, e il Barotti, il Martinelli, e lo Scotti. Si aggiungano a questi Gio. Maria Luchini, ed Angelo Maria Ricci, peʼ loro volgarizzamenti dʼalcune Omelìe di S. Basilio, di S. Giovanni Grisostomo e di S. Gregorio Nazianzeno, deʼ quali parlerò altrove, Giuliano Sabbatini Scolopio e Vescovo di Modena, Lodovico Preti, Giuseppe Tozzi, Antonio Monti. Fra gli Oratori profani, si debbono ricordare Benedetto, e Giuseppe Averani, e Anton Maria Salvini. Nomino quì Benedetto, perchè lʼAccademia Fiorentina che lʼannoverò fra gli Scrittori da lei destinati a far testo in lingua gli attribuisce non so quali orazioni. Queste però non sono note al Mazzucchelli, nè al Signor Gamba, nè a me. Note sono bensì le sue _dieci Lezioni sopra il quarto Sonetto del Petrarca_ stampate in Ravenna il 1707. cioè lʼanno stesso della sua morte. Dieci lezioni per un sonetto a dir vero sono troppe; ma tale era lʼuso del tempo suo che ora è cessato, nè è da dolersene. Altre undici lezioni egli scrisse, le quali abbiamo fra le prose Fiorentine. Molte lezioni altresì scrisse il fratello suo Giuseppe, che il Proposto Gori fece poi stampare.[159] I Salvini si dee collocare fra gli oratori sacri per le prose sacre,[160] e fraʼ profani peʼ discorsi Accademici, per le prose toscane, ed altre opere.[161] Altri oratori abbiamo nelle Prose Fiorentine, e nellʼaggiunta che a questa si fece in Venezia il 1754. Purgatamente scrissero orazioni ancora Francesco Maria Zanotti, Alessandro, e Domenico Fabri, il P. Curzio Boni Chierico Regolare della Madre di Dio, Flaminio Scarselli, ed altri.[162] Agli Oratori succedano gli scrittori di lettere. Sono alcuni, ai quali niente aggrada, che non sia forestiero, e dʼoltre monti non venga o dʼoltre mare. Essi magnificando le glorie dellʼaltre Nazioni in questa parte della letteratura non cessano di rinfacciare allʼItalia, che le mancano buoni scrittori di tal genere. Se il mio argomento mel permettesse non sarebbe a me difficile di mostrar pienamente la falsità di questa accusa, indicando molti egregi epistolarj del passato secolo, o dei precedenti. Ma contenendo ancora il mio discorso fra gli angusti confini, che mi sono prescritti, e continuando la mia trattazione mi avverrà di rispondere almeno in parte a quel rimprovero, quasi senza avvedermene. Il Metastasio è autore approvato dallʼAccademia Fiorentina per le opere drammatiche solamente, nelle quali era sommo. Le altre opere sue, benchè sieno di minor pregio, sono però lodevoli. Le lettere[163] sono scritte con molta grazia, e con qualche purità. Dotte ed erudite son quelle dʼApostolo Zeno,[164] il quale altresì è approvato da quellʼAccademia per alcune delle sue opere drammatiche. Elegantissime sono quelle deʼ Bolognesi, e leggiadramente scritte[165]. Eustachio Manfredi, i due Zanotti Francesco Maria e Giampietro, il Ghedini, Alessandro e Domenico Fabri, e Flaminio Scarselli ne sono gli autori; e i loro nomi sono così noti, che farei cosa inutile se quì prendessi a commendarli. Molte lettere abbiamo dellʼAlgarotti fra le sue opere.[166] Sanno tutti, che lʼAlgarotti alla scuola Bolognese attinse il buon gusto delle lettere, e fu scrittore elegante, e da prima anche puro. Ma poi viaggiando in Francia, in Inghilterra, in Germania, ed ivi dimorando lungo tempo il suo stile prese una certa straniera tintura, per cui le maniere deʼ nostri antichi si vedono talvolta unite a quelle deʼ moderni oltramontani, il che se non mʼinganno fa un contrasto spiacevole da non imitarsi. LʼAlberti citò le sue opere, nè lo condanno per questo, perchè molte voci vi si trovano spettanti alla fisica e alle arti del disegno, che secondo il suo instituto egli dovea raccogliere: ed io cito quì le sue lettere, e citerò altre cose sue, ove mi cadrà in acconcio, perchè molto vʼha in esse scritto toscanamente. Anche al Magalotti nocquero i lunghi viaggi in ciò che spetta alla purità di lingua. Purgatamente scrisse _i saggi di naturali sperienze_, che fanno testo in lingua. LʼAccademia Fiorentina concedette questʼonore anche alle sue lettere sì familiari, che erudite.[167] Il Cesarotti si doleva[168] che riconoscendosi questo scrittore per fortissimo nei saggi dellʼAccademia del Cimento, si accusi _dʼesser poi nelle sue lettere familiari scritte in età più matura_ (_si noti la circonstanza_) _caduto in neologismi, gallicismi, e barbarismi evidenti_. Non è strano però, che un giovine scrittore di felice indole ben indirizzato nelle lettere, e conversando con uomini dotti scriva da prima lodevolmente, e col volger degli anni, sedotto poi dallʼaltrui plauso, o dalla soverchia stima di se medesimo, o da qualsivoglia altro motivo travii dal retto sentiero, e cada in errori anche gravi: e di leggieri se ne potrebbe recar qualche esempio. Il Cesarotti rammenta il giudizio di Monsignor Fabroni, il quale dice che lʼorazion del Magalotti è piena di maestà, splendida, e luminosa, ed ha in se una somma bellezza, e dignità, e porta sempre in fronte (ciò che fu lodato in Messala) la nobiltà dellʼautore, il che tutti gli concederanno. Ma il Fabroni non lo difende da quellʼaccusa, nè credo che altri lo vorrà difendere, e lʼAccademia Fiorentina, che approvò le opere del Magalotti non avrebbe forse voluto tutte approvar le parole, e i modi di dire, che sono in quellʼopere. Purità grande al contrario, scevra da ogni scoria straniera ci offrono le lettere di Lodovico Preti, e di Natale dalle Laste, o Lastesio. Meno pure di queste sono le lettere di Lodovico Bianconi sulla Baviera, e su Cornelio Celso; ma tanta è la grazia con cui sono scritte, che volentieri gli si perdona qualche scorrezione. Il Signor Gamba pone nel suo Catalogo le lettere di Giuseppe Baretti aʼ suoi fratelli stampate a Venezia il 1762. e tre altre del medesimo contro Biagio Schiavo uscite in luce il 1747. coʼ torchj di Lugano. Ma siccome egli confessa, che _questo capriccioso autore va al di là nel coniar vocaboli strani_, non credo dovergli dar luogo nel mio. Per la cagion medesima escluderò la troppo celebre _frusta letteraria_, colla quale sotto il nome dʼAristarco Scannabue malmenò molti scrittori anche insigni del suo tempo. Un altro lamento sogliono fare alcuni, che in parte ripete il Signor Cesarotti. _Il Boccaccio_, egli dice, _ricco delle locuzioni del comico familiare, manca dei tornj dellʼurbanità delicata, e da lui forse è addivenuto, che lʼItalia in questo genere è tanto inferiore alla Francia._ E ciò non basta. Altri fra le opere deglʼItaliani non ne trovano quasi veruna, che serva a piacevole trattenimento, e fanno querele, perchè quasi tutte dalle scienze, o dalle facoltà, che insegnano, prendono un certo aspetto severo troppo, e contente dʼinsegnare, non si curano di dilettare. Ma questi lamenti mi sembrano ingiusti. Il Boccaccio prendeva stile diverso secondo la diversità delle materie. Nelle novelle di Calandrino, Bruno, e Buffalmacco ed in altre simili fece uso del _comico familiare_; lʼurbanità delicata adoperò in quelle della Marchesana di Monferrato, di Bergamino, del Re di Cipri, e in altre molte; e sono per avventura più le seconde, che non le prime. Potrei citare altresì il Castiglione nel Cortegiano, il Bembo negli Asolani, il Caro, e il Bonfadio nelle lettere, e parecchi altri scrittori del secolo decimosesto. Ma io debbo ristringere il mio discorso fra quelli del decimottavo. Or chi non ravvisa lʼurbanità, ed anche la piacevolezza negli autori di lettere poco fa mentovati? E chi potrà indicarmi non dirò unʼopera, ma direi quasi una sola facciata di Francesco Maria Zanotti, in cui si desiderino questi pregi? Sino le cose mattematiche neʼ dialoghi sulla forza, che chiamano viva, e la morale filosofia sono da lui appiacevolite con tanta leggiadria di stile, che non temono veruna benchè illustre comparazione. Urbanità, e piacevolezza io trovo ancora nellʼopere dellʼAlgarotti, del Gesuita Roberti, di Gasparo Gozzi, del Conte Robbio di S. Raffaele, del Conte Giambattista Giovio, del Bianconi, e nelle Donne della Santa Nazione del Gesuita Giuliari. Non finirei così presto, se tutti volessi noverare coloro, che meritano dʼesser citati. Tralascio perciò il lungo ed inutil catalogo deʼ loro nomi, e proseguo lʼintrapresa carriera. Il secolo decimottavo si può dir per lʼItalia il secolo deʼ poeti. Non vʼha quasi città, che non vanti qualche buon poeta, o mediocre. Non è mio ufficio lʼesaminare, se quellʼimmenso torrente di versi, che agli anni passati ha inondate le nostre contrade, fosse affatto inutile o anche dannoso, o se per avventura ne sia provenuta qualche maggiore e più universale, coltura deglʼingegni Italiani. Io cerco solamente fra tanto numero di poeti quali sieno coloro, che agli altri pregj di buon poeta seppero unire la purità della lingua. E cominciando dagli autori di certi poemi, che epici in qualche modo si possono chiamare nominerò in primo luogo la Genesi di Monsignor Cerati Vescovo di Piacenza, poi il Tobia di Cammillo Zampieri, gli occhi di Gesù del Martelli, lʼApocalisse di S. Giovanni, e il Telemaco di Flaminio Scarselli, e il Giobbe del Rezzano, e quello dello stesso Zampieri. Tranne i tre primi gli altri si considerano come traduzioni, alle quali non do quì luogo;[169] ma se rettamente si osserva si debbono piuttosto chiamar imitazioni, che traduzioni. Fra i poemi didascalici nominerò prima lʼAntilucrezio del Ricci approvato dallʼAccademia Fiorentina, e poi la Fisica, lʼorigine delle Fontane, e il Caffè del Barotti felice imitator dellʼAriosto, la felicità del Bondi, i Cieli del Pellegrini, tutti tre Gesuiti. Si uniscano a questi i poemi di cose agrarie, come la coltivazione del riso dello Spolverini, il Baco da seta del Betti, il Canapajo del Baruffaldi, la coltivazion deʼ monti del Lorenzi, le fragole del Roberti.[170] Maggior sarebbe il numero dei poemetti di vario argomento se quì volessi noverarli. Fra questi non debbo tacere la Bucchereide del Bellini, che fa testo in lingua: ma degli altri non farò menzione perchè troppo lungo discorso si richiederebbe. Laonde senza più farò passaggio alla poesia teatrale. Questa si può dividere in tragica, drammatica, e comica. Il primo ristoratore della Tragedia Italiana nel secolo, di cui parliamo fu Pier Jacopo Martelli, ed egli avrebbe riscosso plausi più durevoli, se non avesse adoperato i nojosi versi, che da lui hanno il nome di Martelliani. Il Gravina scrisse con molta purità cinque Tragedie, che sono altrettanti efficacissimi sonniferi, quantunque non sieno prive di qualche pregio. Lodevoli sono quelle dellʼAb. Antonio Conti. LʼAccademia Fiorentina approvò le prose e le rime di questʼautore, colla quale denominazione pare, che abbia voluto indicar solamente le sue opere stampate in Venezia il 1739. e 1756. in due volumi. Ma ivi non sono nè il volgarizzamento della lettera dʼElisa ad Abelardo, nè le sue quattro Tragedie. Dovremo dunque dire, che queste cose sieno escluse? Io non lo credo, e penso piuttosto, che in quelle parole sieno comprese le opere sue tutte quante. Quasi nel tempo medesimo il Marchese Maffei compose la Merope tante volte stampata, e rappresentata sul teatro. Il Voltaire lʼimitò in parte, e poi la criticò amaramente, celandosi sotto il finto nome di M. de la Lindelle. Inferiore di pregio alla Merope è la Didone di Giampietro Zanotti, e vie più inferiori sono lʼEzzelino e la Giocasta del Baruffaldi, quantunque sieno scritte purgamente. Intorno allo stesso tempo Domenico Lazzarini dette in luce lʼUlisse, il quale non ha altro merito, che dʼesser puramente scritto, e dʼaver fatta nascere la celebre satira intitolata il Ruzvanscad. Degno di sedere accanto allʼautor della Merope è Alfonso Varano pel Demetrio, Giovanni di Giscala, e Agnese, e ne è degno altresì il P. Giovanni Granelli Gesuita pel Sedecia, Manasse, Dione, e Seila figlia di Iefte. Nè molto inferiori a queste ottime io stimo il Gionata, il Demetrio Poliorcete, e il Serse del Bettinelli Gesuita egli pure. Questo celebre Scrittore non cercò molto la purità della lingua; ma fu maggiore la libertà da lui usata dopo la soppressione della Compagnia di Gesù; nelle tragedie però principalmente e in qualche altra opera, che indicherò a suo luogo, fu assai moderato. Fu il Pompei amante della nostra lingua, e tale si mostrò in due tragedie intitolate Ipermestra e Calliroe. In queste merita molta lode per regolarità di condotta e per altri pregj; non è però mio officio e lascio ad altri lʼesaminare se quelle sue tragedie tanti ne abbiano e tali, che debbano ottener molto plauso rappresentate sul teatro. Parecchi altri Poeti Tragici del passato secolo sono con onor nominati dal chiarissimo Signor Napoli Signorelli nel sesto volume della sua storia critica deʼ Teatri, deʼ quali non farò quì parola, perchè o sono viventi, o non si sono abbastanza curati di scrivere puramente, o non ho lette le loro produzioni. Ma fra le Tragedie non vedute da me credo di potere assicurare, che lʼAgamennone e Clitemnestra pubblicata nel 1786. dal Signor Matteo Borsa abbia quella purità di lingua, che io quì ricerco, perchè egli era colto e purgato scrittore, talchè il Signor Gamba avrebbe potuto concedergli un luogo onorevole nella sua appendice. Il novero deʼ Poeti Tragici, che debbono esser da me nominati terminerà col Conte Vittorio Alfieri. Le sue tragedie al primo loro apparire sulle scene ottennero molto plauso, il quale pel corso di ben ventisei anni non si è punto scemato. Alcuni critici di molto ingegno, e di non mediocre dottrina si sono adoperati di trovare in esse parecchi difetti: ma niuno accusa lʼautore di non essere scrittore purgato. A me basta questa lode, che lʼuniversal consentimento, gli accorda, nè a me appartiene dʼindicare gli altri suoi pregj, o assottigliarmi dʼindagarne i difetti, nè di esaminare se i migliori dei tragici nostri sieno da lui uguagliati, o superati. Lascio questo esame agli spettatori frequenti, che non si stancano di accorrere alle sue tragedie tante volte ripetute. La tragedia ci è stata trasmessa dai Greci, e dai Latini, ma il dramma musicale è opera nostra. Niun poeta teatrale è mai pervenuto alla celebrità del Metastasio, i drammi del quale si son cantati su i Teatri tutti dellʼEuropa. Questi furono approvati dallʼAccademia Fiorentina, come pur lo furono quelli dʼApostolo Zeno, che è al Metastasio _longo proximus intervallo_. Degli altri poeti drammatici non credo dover far parola.[171] Anche i poeti comici non mi tratterranno lungamente. Le commedie del Fagiuoli fra le opere scelte dallʼAccademia Fiorentina per la nuova edizione del Vocabolario. Ma se meritano lode, perchè sono scritte toscanamente, non la meritano molto per gli altri pregj, che alla commedia son necessarj per essere applaudite nel Teatro. Anche le poche commedie, che abbiamo del Lazzarini, del Maffei, e dellʼAlfieri sono commendabili per la purità della lingua, ma contente di questa lode non debbono esigerne altra maggiore. Al contrario il Goldoni, cui niuno vorrà negare il primato nella poesia comica italiana per gli altri pregj, che essa richiede, ha trascurato alquanto la purità della lingua. Se scarso è il numero di quelli, che questa parte della poesia hanno coltivata felicemente, grande è quello deʼ poeti lirici. Le poesie del Filicaja e del Menzini furono citate dalla Crusca. Quelle di Giovan Bartolommeo Casaregi, del Crudeli, di Monsignor Ercolani, del Guidi, del Lorenzini, del Mozzi, e dʼAnton Maria Salvini furono approvate dallʼAccademia Fiorentina. LʼAlberti cita le rime del Gigli seguace del dialetto Senese, e quelle dʼAngelo Maria Ricci, che mi sono ignote, giacchè la guerra deʼ ranocchi, e deʼ topi attribuita ad Omero, e da lui volgarizzata in versi anacreontici non può annoverarsi fra le _rime_, quantunque sia in versi rimati. A questi il signor Gamba aggiunge il Lazzarini, il Maffei, il Magalotti, il Manfredi, Alessandro Marchetti, il Martelli, il Mascheroni, il Pompei, e il Varano. Io finalmente ne aggiungerò più altri. Fra questi porrei il Frugoni, se gli editori suoi fossero stati men liberali. Vi porrò bensì lʼAlgarotti, di cui lʼAlberti cita parecchie opere di prosa, non però le poetiche, che sono più toscanamente scritte dellʼaltre. Vi porrò Francesco Maria e Giampietro Zanotti, Giovan Battista Zappi, il Ghedini, il Salandri, il Conte Agostino Paradisi, il Pozzi, il Vannetti, il Tagliazucchi, il Duranti, i Gesuiti Bassani, Rossi, e Berlendis, il Vittorelli, il Bondi, il Parini, il P. Fusconi, il Baruffaldi, lo Scarselli, Alessandro Fabri, il Bettinelli peʼ versi sciolti principalmente, il Dio del Cotta, le canzonette marinaresche del Gesuita Tornielli. Anche nella poesia piacevole molti meritarono plauso. Il Ricciardetto del Forteguerra, la Svinatura del Carli, le rime piacevoli del Fagiuoli, e le poesie del Saccenti, sono fra le opere scelte dallʼAccademia Fiorentina. LʼAlberti citò la Celidora ovvero il Governo di Malmantile del Conte Ardano Ascetti cioè del P. Lodovico Agostino Casotti Domenicano, e del Gigli la Scivolata e la Culeide, e il Signor Gamba ha notate nel suo catalogo le poesie piacevoli di Giuseppe Baretti,[172] e quelle di eccellenti Autori Toscani per far ridere le brigate, stampate in Gelopoli cioè in Firenze il 1760. fra le quali ve nʼha alcune del Gigli, del Bellini, e dʼaltri poeti del secolo decimottavo. Io aggiungerò il Grillo dʼEnante Vignajuolo, cioè del Baruffaldi, la Cuccagna del P. Rossi, le nozze di Pulcinella del Vittorelli, le rime piacevoli del Dottor Vettore Vettori, qualche capitolo di Francesco, e Giampietro Zanotti, del Manfredi, e pochi altri. Il Bettinelli voleva, che il ditirambo del Redi fosse lʼunico ditirambo Italiano, e che delle poesie satiriche si faccia meno conto, che di ogni altra. _La lingua Italiana_ (egli dice) _non sembra atta a questa poesia, e glʼItaliani dan troppo presto allʼarmi._[173] Il ditirambo del Redi è veramente cosa unica, e niuna altra nazione può gloriarsi dʼaverne una simile. Nel secolo di cui parlo si è tentato dʼimitarlo, ma glʼimitatori sono sempre inferiori aʼ loro modelli. Fra questi si può accordare qualche lode al Baccanale in Gioveca del Baruffaldi, almeno per ciò che appartiene alla lingua. Riguardo poi alla satira io non so che cosa avesse in animo il Bettinelli, quando disse, _che la lingua Italiana non sembra atta a questa poesia_. So che lʼAriosto, Salvator Rosa, lʼAdimari, il Menzini, ed altri hanno scritte Satire; e se in esse si trova alcun difetto, questo non proviene dalla lingua. Lʼultimo di questi appartiene in parte al secolo decimottavo, ed è annoverato fra gli scrittori citati dalla Crusca. Ma un nuovo genere di satira sconosciuto ai Latini e ad ogni altra nazione usò il Parini neʼ suoi poemetti intitolati il Mattino, il Mezzogiorno, e la Sera, i quali come prima uscirono in luce riscossero molto plauso in Italia, e fuori. Egli non _dà_ punto _allʼarmi_, ma con una delicata e leggiadra ironia punge il vizio, e non lo flagella, nè reca mai noja in tanta somiglianza di cose, che da lui si debbon descrivere. Nè dʼindole molto diversa è il poema _dellʼuso_[174] del Conte Duranti da me nominato con lode fra i poeti lirici. Questi fra molti sono i poeti, deʼ quali ho creduto dover quì far menzione, lasciandone parecchi altri pregevolissimi per le altre qualità, che dallʼarte poetica sono richieste. Lo stesso è da dirsi degli storici, di cui farò adesso parola. Ma per procedere con chiarezza dividerò la storia nelle diverse sue parti, e comincerò da quella, che più propriamente si chiama con questo nome. LʼAlberti cita gli annali del Sacerdozio e dellʼImpero del Battaglini, e lo lodo se ne ha presa qualche voce ecclesiastica, che non si trovi in altro scrittor più pregevole. Non vuolsi però prenderli a modello di buono stile, e purgato. Comincerò dunque il novero delle opere storiche dalla _Verona illustrata_ del Maffei registrata dal Signor Gamba nel suo catalogo. A questa aggiungerò i ragionamenti istorici su i Gran Duchi di Toscana della Reale Casa deʼ Medici protettori delle lettere e delle belle arti di Giuseppe Bianchini, la storia di Ferrara del Baruffaldi, e la traduzione con ammirabile purità di lingua fatta dal P. Pietro Savi Gesuita delle due opere latine del P. Ferrari, delle geste del Principe Eugenio di Savoja nelle guerre dʼItalia e dʼUngheria. Dellʼaltre sue traduzioni parlerò altrove. Porrò eziandio in questa classe il ragionamento intorno allʼorigine della Città di Prato di Giovan Battista Casotti, che si legge negli _opuscoli filologici_ del Calogerà, e fu poi approvato dallʼAccademia Fiorentina. Vi porrò finalmente le memorie storiche Modenesi del Tiraboschi, opera dʼargomento non grande, e che non somministra strepitose vicende, o luminosi avvenimenti atti ad eccitare la curiosità di molti; tale però che al suo autore conferma quella fama di critico giusto, e di scrittor accurato elegante ed assai puro, che le altre cose sue gli avevano procacciata. Unirò a queste storie le illustrazioni, che il P. Ildefonso da S. Luigi ha poste nelle sue _delizie degli Eruditi Toscani_, e le descrizioni di feste ed esequie fatte da Giambattista Casotti, Leonardo del Riccio, Rosso Antonio Martini, e MarcʼAntonio Mozzi,[175] deʼ quali scrittori ho già fatta menzione, e la farò di nuovo. Cinque opere spettanti alla storia Ecclesiastica dallʼAccademia Fiorentina furono approvate. Prima, fra queste o lʼampiezza si riguardi della materia, o la sua importanza è la Storia Ecclesiastica del Cardinal Orsi, che impedito dalla morte non potè condurre a fine. Io non so bene, se lʼAccademia adottandola tutte volesse adottare le sue maniere di dire, fra le quali ve nʼha alcuna, benchè di rado, tolta dalla lingua Francese, cui si potrebbe dubitare se convenga dar la cittadinanza Toscana.[176] Dellʼaltre opere da me indicate pur ora due sono di Gio. Battista Casotti, cioè le _Memorie Storiche di Maria Vergine dellʼImpruneta_, e _la Storia della fondazione del regio Monastero degli Scarioni di Napoli_, e due sono del Canonico Mozzi, cioè la _Storia di S. Cresci, e deʼ Santi suoi compagni Martiri, e della Chiesa di S. Cresci in Valcava di Mugello, e la lettera ad un Cavalier Fiorentino divoto di S. Cresci_. LʼAccademia forse volle ancora concedere lo stesso onore allʼIstoria degli anni Santi, e ad altre opere di Domenico Maria Manni, quantunque non lʼindicasse espressamente.[177] Infatti qual cosa vʼha di questo purissimo scrittore, che non meriti di far testo in lingua? A queste opere poi aggiungerò io la vita di S. Ignazio, la leggenda di S. Anna, e quella di S. Margherita da Cortona del P. Antonfrancesco Mariani Gesuita, il quale scrittore in ciò che spetta alla lingua è sempre così purgato, che a niun altro lo reputo secondo, ed i più tenui suoi libretti ascetici proporre si possono a modelli di stile purissimo, e immacolato. Aggiungerò altresì la _Storia ragionata delle eresie_ del Canonico Pietro Paletta, nella quale e gli avvenimenti dellʼeretiche sette si descrivono con eleganza, e le cagioni se ne espongono con critica diligente e sottile. Aggiungerò finalmente lʼinsigne Storia della Badia di Nonantola del Tiraboschi, di cui dirò solamente, che è degnissima del suo autore. Ma la parte, in cui più che in ogni altra il Tiraboschi si è renduto celebre è la storia letteraria. Egli, Apostolo Zeno, il Mazzucchelli sono in Italia i padri di questa classe, e tutti tre furono purgati scrittori. Niuno è così solennemente inerudito, che non conosca le Dissertazioni Vossiane e le Annotazioni alla Biblioteca del Fontanini dʼApostolo Zeno, gli Scrittori Italiani del Mazzucchelli, la Storia della letteratura Italiana, e la Biblioteca Modenese del Tiraboschi. Se io prendessi a lodar queste opere, e le altre cose minori di questi scrittori nulla potrei dire, che non sia già stato detto da molti, e nulla aggiungerei alla loro celebrità. Dirò solamente, che vasto è lʼargomento, che ciascheduno ha scelto, grande è in essi lʼerudizione, ma opportuna, esatta la critica, elegante lo stile, e (ciò che appartiene al mio scopo) non mediocre la purità della lingua; talchè non vʼha officio di buono scrittore, che essi abbiano trascurato. Da Apostolo Zeno non deve andar disgiunto il suo feroce, ma disuguale antagonista Monsignor Giusto Fontanini. La sua opera dellʼeloquenza Italiana, e la Biblioteca, che vʼè unita, si attiraron le critiche dello Zeno, di cui ho già parlato, del Muratori, del Maffei, di Gio. Andrea Barotti, e del P. Costadoni, e la più parte di quelle critiche è giusta. Il Fontanini era quanto altri mai litigioso, tenace della sua opinione, e non esatto abbastanza nellʼerudizione. Era però erudito, e assai puro di lingua. Questa lode gli si deve ancora per la Storia arcana della vita di F. Paolo Sarpi, che ha pure il merito grande dʼaver rappresentato costui quale era veramente, e aver ciò fatto con irrefragabili monumenti. Grato mi sarebbe dʼonorare questo mio catalogo colla bellʼopera di Marco Foscarini sulla letteratura Veneziana tanto commendata a gran ragione. Ma se le altre parti tutte egli adempie dʼottimo scrittore, in quella solamente, che la purità riguarda della lingua, lascia alquanto a desiderare. Devo bensì collocarvi il Marchese Maffei per quella parte della sua Verona illustrata, dove degli scrittori Veronesi tenne lungo discorso, Gio. Andrea Barotti per le Memorie storiche deʼ letterati Ferraresi, ed il Bianconi per lʼauree lettere sopra Celso. LʼAlberti ha citato alcuna volta la Storia, e i Commentarj della volgar poesia del Crescimbeni, ma a me non pare questʼopera purgata tanto, che le si debba dar quì luogo. Per lo stesso motivo fra i libri di sacra eloquenza non ho collocato il suo volgarizzamento delle Omelìe di Clemente undecimo, cui il signor Poggiali dà luogo nel suo Catalogo, nè altrove le altre sue opere, che per molti riguardi meritan lode. Aggiungerò più tosto lʼoperetta del Manni dellʼinvenzione degli occhiali, che fu approvata dallʼAccademia Fiorentina, lʼistoria del Decamerone del Boccaccio[178] la vita di Niccolò Stenone, e le veglie piacevoli del medesimo scrittore, dove fra più altre vite, che a questa classe non appartengono, parecchie ne sono dʼuomini chiari nellʼamene lettere. Molte altre cose abbiamo di lui a storia letteraria appartenenti, le quali tralascio, perchè troppo lungo ne sarebbe il novero, ed altri le potrà vedere indicate nellʼopera testè citata del chiarissimo signor Canonico Moreni. Non debbono poi esser da me dimenticati il Casotti, e il Mozzi, il primo per la vita del Buommattei, che sta innanzi alla sua opera della lingua Toscana, e per alcune lettere sulla vita, e le opere del Casa,[179] e il secondo per la vita di Lorenzo Bellini, che è fra quelle degli Arcadi. E giacchè queste vite dʼuomini letterati ho nominate ragion vuole, che tre altri purgati scrittori di questo genere io ricordi, cioè il P. Pier Caterino Zeno, che la vita ci dette di Giovanni Rucellai, e degli storici Veneti Battista Nani e Michele Foscarini,[180] Antonfederigo Seghezzi, che quelle descrisse del Caro, di Bernardo Tasso, del Castiglione, e dʼaltri,[181] Pier Antonio Serassi, da cui abbiamo quelle copiosissime di Torquato Tasso e di Jacopo Mazzoni, una dissertazione sopra lʼepitaffio di Pudente Grammatico, ed un ragionamento sopra la controversia del Tasso e dellʼAriosto, Anton Maria Salvini, che fra le vite degli Arcadi inserì quella di Benedetto Averani, ed il fratello suo Salvino, che ci diede i Fasti Consolari dellʼAccademia Fiorentina oltre a cinquantacinque vite le quali tutte con incredibile diligenza ha accennate lʼeruditissimo Signor Canonico Moreni nellʼopera più volte citata. Alle vite succedano gli elogj, intorno aʼ quali necessariamente sarò breve, perchè niuno scrittore mi è noto, che lungamente si sia esercitato in questo genere dʼeloquenza, ed io non intendo nominar tutti quelli, che poche, e piccole cose hanno pubblicate. Questo mio intendimento però non mʼimpedirà di nominare il Bolognese Luigi Palcani. Egli educato in quella beata scuola della sua patria, fra tanti uomini chiarissimi, che là fiorirono alla metà del secolo passato o in quel torno, fu non solamente dotto, ma ancora elegante, e purgato scrittore. Abbiam di lui gli elogj di due mattematici, cioè dellʼAb. Leonardo Ximenes e del Colonello Anton Maria Lorgna, neʼ quali la severità della materia è per lui temperata mirabilmente colle grazie dellʼeloquenza e ingentilita per modo, che queglʼistessi cui non piacciono le mattematiche discipline sono invitati ad amarle in quei due libretti elegantissimi. Alla Storia è con vincoli strettissimi unita lʼAntiquaria, la quale perciò richiama ora a se il mio discorso. Essa mi ricorda in primo luogo il Gori, ed il Lami. Ambedue per decreto dellʼAccademia Fiorentina sono approvati, il primo per la _risposta al Marchese Maffei intorno al Tomo IV. delle osservazioni letterarie, e per la difesa dellʼAlfabeto degli antichi Toscani_,[182] il secondo _per le Lezioni Toscane, e peʼ dialoghi dʼAniceto Nemesio in difesa delle lettere di Atromo Traseomaco_.[183] LʼAccademia non concedette lo stesso onore alle _Lettere Gualfondiane_, che il Lami stampò sotto il finto nome di Clemente Bini, e non senza ragione: perchè questʼautore, che nelle lezioni Toscane e neʼ dialoghi non volle molto soggettarsi ad una grande severità nellʼusar voci di Crusca, nelle lettere usò dʼuna libertà anche maggiore. Al Gori e al Lami aggiungerò il Manni scrittor purgatissimo, come ho già detto. Di lui abbiamo più e diverse opere dʼantiquaria cioè delle _antiche terme di Firenze, notizie istoriche intorno al Parlagio ovvero Anfiteatro di Firenze_, _istorica notizia dellʼorigine e significato delle Befane_, e principalmente _le osservazioni istoriche sopra i Sigilli antichi deʼ secoli bassi_.[184] Della Verona illustrata del Maffei ho già parlato due volte, e debbo parlarne ora di nuovo perchè vi sono unite lʼopera su gli Anfiteatri, e quella molto minore sullʼantica condizione di Verona. Della seconda dice graziosamente il Signor Abate Rubbi, che in essa lʼingegno dellʼautore è in ragion del suo cuore,[185] con che egli dette un giusto e profondo giudizio. Ma io non esamino, che cosa possano dir gli antiquarj dellʼuna, e dellʼaltra, e mi basta, che ambedue sien pregevoli, benchè possano meritar qualche critica, e che scritte sieno purgatamente. Per lo stesso motivo nominerò pure lʼopera dei circhi del Bianconi, quantunque abbia incontrato qualche oppugnatore. Debbonsi poi con molta lode nominare le _Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro_ di Filippo Buonarroti,[186] le quali gli confermarono quel nome di grande antiquario che le precedenti sue opere gli avevano procacciato. Nè minor plauso vuolsi fare allʼAb. Luigi Lanzi, e a mio giudizio anche maggiore, perchè nuove strade aprì nellʼantiquaria, ed usò una esattissima critica, cui non erano molto inclinevoli molti di quelli scrittori di sì fatto genere, che più erano celebri poco innanzi a lui.[187] Non parlerò poi di quelli antiquarj, che poche e brevi cose hanno scritte, per non esser soverchio: e passerò piuttosto a noverare i principali scrittori, che di materie scientifiche hanno trattato. Cominciamo dalla Psicologia, e dalla naturale Teologia. LʼAccademia Fiorentina scelse la dissertazione del P. Tommaso Vincenzo Moniglia contro i Materialisti ed altri increduli.[188] A me sarà concesso dʼunire a questa le altre opere sue di non dissimile argomento, e di merito uguale, cioè la dissertazione contro i Fatalisti,[189] le osservazioni critico-filosofiche contro i Materialisti divise in due trattati,[190] _e la mente umana spirito immortale, non materia pensante_.[191] Alle opere del Moniglia debbono unirsi le celebri lettere familiari del Magalotti contro gli Atei approvate dallʼAccademia Fiorentina. Di queste io dirò solamente quello, che il Tocci ne disse nella vita del Viviani, cioè che _esse sono ciò che più di portentoso ha veduto da un secolo in quà la nostra lingua in quel genere_. Di Dio, dellʼanima spirituale immortale e libera, e della legge di natura verso Dio, verso lʼuomo, e verso se trattò il P. Nicolai in sette ragionamenti che sono nel volume secondo delle sue Prose. Ma più dʼogni altro trattò profondamente di sì fatte materie il P. Antonio Valsecchi colla sua opera _dei fondamenti della Religione, e dei fonti dellʼempietà_.[192] Parla egli dellʼesistenza di Dio, della spiritualità, ed immortalità dellʼanima, e della legge di natura, mostra la necessità della rivelazione, la possibilità della rivelazion deʼ Misteri, e che veramente la Cristiana Religione è rivelata da Dio, esamina finalmente quali i fonti sieno dellʼempietà. _La Religion vincitrice_[193] è quasi un appendice alla prima opera, perchè avendo in quella provati ad evidenza gli assunti suoi, e risposto alle principali objezioni degli avversarj dʼogni maniera, in questa prese a combattere il _sistema della natura, il sistema sociale, ovvero principj della morale, e della politica_, e ne trionfò. Finalmente per dar compimento alla sua impresa pubblicò _la verità della Chiesa Cattolica Romana_,[194] in cui fa conoscere, che in questa, ed in essa sola, la divina rivelazion si conserva. Con minor apparato di dottrina, ma in un modo per dir così più accostevole, scrisse il Roberti alcuni aurei suoi libretti, che se non affrontano apertamente lʼincredulità, pure le fanno gagliarda guerra. Tali sono i trattati _del leggere libri di Metafisica e di divertimento_, _della probità naturale_, _e le annotazioni sopra la umanità del secolo decimottavo_. La Psicologia e la Teologia Naturale aprono la strada alle scienze sacre, alle quali ora farò passaggio. E quì pure ragion vuole, che il primo luogo a quelle opere si conceda, le quali dallʼAccademia sono citate. Fra queste sono le prose del P. Gio. Lorenzo Berti, la Dimostrazion Teologica del Cardinal Orsi,[195] lo spirito del Sacerdozio del Cavalier Giraldi. LʼAlberti citò il volgarizzamento, che Francesco Giuseppe Morelli fece del _Gentiluomo istruito nella condotta di una virtuosa, e felice vita_ dellʼInglese Dorell, e avrebbe potuto aggiungere quello, che egli pur fece della _Guida degli uomini alla loro eterna salute_ del Gesuita Giuseppe Personio.[196] Ma altri ancor vi sono che purgatamente hanno scritto di sì fatte materie. LʼAccademia Fiorentina, che adottò le Prose del P. Nicolai, poteva eziandio adottare le sue Lezioni. Io dubito che di lui volesse parlare il Roberti, quando a un giovine ecclesiastico scriveva così. _Tuttavia dellʼerudizione profana, interpetrando la parola dello Spirito Santo, servitevene per bisogno, non per vanto. Non siate un intemperante, come lo è nelle sue lezioni stampate un dottissimo uomo ad amendue assai noto. Tanta intemperanza a me sembra un principio di vanità._[197] E veramente se quelle Lezioni fossero state dal Nicolai dette così dal Pergamo, come poi furono stampate, dovrebbesi in esse condannare quella erudizione soverchia, e quella dottrina profonda, di che son piene. Ma se, come egli il dice nel prospetto dellʼopera, dopo essere stato parco leggendole, le arricchì poi per la stampa a vantaggio deʼ leggitori scienziati si dee sapergliene grado, e commendarlo. Per la qual cosa egli lascia in dubbio, se dobbiamo intitolarle Lezioni, o più presto Dissertazioni, e altrove le chiama senza più col secondo nome.[198] Or chi sarà che voglia accusarlo dʼessersi mostrato erudito, e dotto, quando peʼ dotti scriveva e per gli eruditi? Molta poi è la purità della lingua, principalmente dove a foggia di parafrasi spiega il Sacro Testo, nella qual parafrasi lʼautore si adopera dʼimitare il Boccaccio. E lʼimitazione di questo gran modello della narrazione si manifesta ancora in unʼaltrʼopera sua, di cui per grande sventura non abbiamo che il primo volume di quattro, che se ne promettevano col titolo, _Dichiarazione letterale del Sacro Testo deʼ quattro Libri deʼ Re_. Avrei creduto, che lʼAlberti citar dovesse queste opere, o avendole egli trascurate dovessero il Gamba e il Poggiali ricordarle. Avrei creduto lo stesso delle opere teologiche di Monsignor Incontri, e di quelle del Marchese Maffei, delle quali il solo Poggiali ha citate le prime, e niuno le seconde. Io certo non dubito, che non debbano aver quì luogo il _Trattato delle azioni umane, le lettere pastorali e la spiegazione delle feste_ di quel Prelato.[199] _La storia teologica della Grazia, il libro deʼ Teatri antichi e moderni, lʼarte magica dileguata, lʼarte magica annichilata, i tre libri dellʼimpiego del denaro_, in cui mentre si ammira la profondità della Teologica dottrina, si commenda eziandio la nobiltà e lʼeleganza dello stile, e la purità della lingua. Queste lodi medesime si debbono attribuire alle Dissertazioni Teologiche del Conte Canonico Cristoforo Muzani, ed anche maggiori in ciò che appartiene alla lingua ed allo stile, se non che forse parrà ad alcuno, che sieno talvolta troppo oratorie. Non manca la purità, ed abbonda lʼeleganza in certe operette del Roberti, che a questa classe appartengono. Tali sono _lʼesortazione sopra i danni che reca il tempo alle Comunità religiose, la lettera sopra la felicità, la lettera di un Ex-Gesuita vecchio, ad un Ex-Gesuita giovine, gli opuscoli sopra il lusso, il trattato dellʼamore verso la patria, e lʼistruzione Cristiana ad un giovinetto Cavaliere e a due giovinette Dame sue sorelle_. Nè dico già che tutto sia oro nel fatto della lingua ciò che egli scrive. Lasciando stare la voce _ex-gesuita_, che abbiam veduta testè da lui adoperata, vuolsi confessare, che andando innanzi nellʼetà per la frequente lettura deʼ libri francesi cominciò senza avvedersene ad usare qualche modo di dire straniero; il che più spesso gli avvenne nellʼ_amor della patria_, che prevenuto dalla morte non potè emendare. Ma dove sono molte cose pregevolissime non dobbiamo essere difficili troppo per qualche difettuzzo, che sfugga la attenzione dʼuno scrittore. Le opere spirituali dellʼAbate Lanzi meritano altresì onorata menzione, perchè qualunque cosa egli prendesse a trattare, vi trasparivano i lampi di quel suo ingegno felice, e della sua eleganza di stile.[200] Ed ancor più debbono ricordarsi quelle del P. Anton Francesco Mariani della Compagnia di Gesù, le quali sono immacolate.[201] Saranno forse alcuni, i quali prenderanno a sdegno, che fra le opere deʼ Filosofi, degli Storici, degli Oratori, e deʼ Poeti si pongano le sacre leggende e le novene di questi scrittori: molti però con maggior senno le ameranno e per ciò che dicono, e pel modo con che lo dicono. Ed è fama che lʼAb. Lanzi dicesse dʼessere più contento di quelle sue operette spirituali, che dellʼaltre erudite. Finalmente voglionsi quì ricordare due volgarizzamenti. Sarà il primo _il libro di Dionisio Certosino contro lʼambizione, con altri due opuscoli sul medesimo argomento_ tradotti da Monsignor Bottari,[202] e lʼaltro _lʼopere di Tertulliano tradotte in Toscano da Selvaggia Borghini nobile Pisana_, che lo stesso Bottari fece stampare ornandole di note e dʼuna erudita prefazione.[203] Dalle sacre scienze non deve andar disgiunta la moral Filosofia, glʼinsegnamenti della quale saranno sempre uniformi a quelle, ove il corrompimento del cuore non faccia traviare lo scrittor, che ne tratta. Niuna opera di questo genere è nel catalogo dellʼAccademia Fiorentina fuor solamente i caratteri di Teofrasto tradotti da un Accademico Fiorentino, cioè da Leonardo del Riccio, di cui farò parola in altro luogo. Ma il Gamba, e lʼAnonimo Milanese ne citano due. Il secondo ricorda la morale Filosofia di Francesco Maria Zanotti, che è una delle migliori di questʼuomo immortale e per lʼimportanza della materia, e pel modo con cui è trattata, e per la gravità dello stile. Il celebre Cardinal Quirini lʼebbe in tanto pregio, che avendola letta con somma avidità la volle poi sempre sul suo tavolino, e spesso la rileggeva con indicibil piacere. Poteva lʼAnonimo aggiungere altresì il suo ragionamento sopra il saggio di morale di M. Maupertuis, e gli opuscoli, che lʼaccompagnano, cioè i discorsi e le lettere contro le _Vindiciae Maupertuisianae_ del P. Ansaldi, la risposta alle lettere di Clemente Baroni deʼ Marchesi di Cavalcabò, e _la lettera ad un amico, che può servire dʼintroduzione alla novella letteraria dellʼapparizione dʼalcune ombre_. Io non parlerò quì della bellezza di questi opuscoli, perchè quando si è nominato il loro autore è inutile ogni lode. Citerò finalmente col Gamba la _scienza chiamata cavalleresca_ del Marchese Maffei, utilissima opera, che ha contribuito a scemare alquanto lʼuso empio barbaro e stolto deʼ duelli. Ma passiamo ormai a quella scienza, che forse sopra ogni altra ha nel passato secolo fatto progresso grande, voglio dire la scienza della natura. Carlo Taglini aprirà questa classe colla _lettera filosofica_ al Marchese Riccardi, in cui dette la norma di studiare con profitto la Filosofia. Essa è fra le opere scelte dallʼAccademia Fiorentina, onde non abbisogna dellʼaltrui approvazione nel fatto della lingua. Ma per procedere con ordine cominciamo dalla Fisica. Il dialogo di Zaccaria Scolastico intorno alla fabbrica del Mondo volgarizzato dal Volpi, le opere dellʼAb. Conti, in cui è pur qualche cosa di Fisica, le lezioni di Monsignor Bottari sopra il tremoto furono approvate dallʼAccademia Fiorentina. Se non hanno ottenuto lo stesso onore, meritano però lode di purgati scrittori Francesco Maria Zanotti pel suo Trattato di Filosofia, lʼAlgarotti pel Neutonianismo, il Marchese Maffei per le sue lettere sopra la formazione deʼ fulmini. I primi due erano buoni Fisici; ma il terzo non era molto esercitato nella scienza della natura, e scriveva sopra un argomento difficile, prima che il Franklin, e il P. Beccaria lʼavessero illustrato. Del Magalotti posso rammentar solamente le lettere, nelle quali alcuna cosa sʼincontra intorno alla Fisica, giacchè i saggi di naturali esperienze dellʼAccademia del Cimento appartengono al secolo precedente. Poco finalmente ci offrono le opere del Bianconi, ma non vuolsi dimenticare quel poco, perchè egli era elegante scrittore; benchè, siccome ho già detto, alquanto libero nel fatto della lingua. Anche il Roberti volle esser fisico, e il fu con quella grazia, che era a lui naturale, scrivendo due lettere dʼun bambino di sedici mesi colle annotazioni di un Filosofo, e sul prendere, come dicono, lʼaria ed il Sole. Due brevi ragionamenti abbiamo del Palcani, uno sul fuoco di Vesta[204] e lʼaltro sul natro orientale,[205] ed è a dolersi, che non se ne abbia un numero maggiore, tanto son pieni di dottrina, e dʼeleganza. Cosa maggiori ci somministra la Storia naturale. La piccola terra di Scandiano nel Modenese ha la gloria dʼaver dati allʼItalia nel secolo decimottavo due sommi naturalisti, che furono nel tempo stesso scrittori purgati ed eleganti, cioè il Vallisnieri, e lo Spallanzani. Del primo basterà indicare lʼedizione delle sue opere fatta in Venezia il 1733. nè sarà necessario tutte annoverarle minutamente. _Del secondo il saggio dʼosservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione_, _le memorie sopra i muli_, _le osservazioni sullʼazione del cuore nei vasi sanguigni_, _il prodromo dʼunʼopera da imprimersi sopra le riproduzioni animali_, _la contemplazione della natura del Signor Carlo Bonnet tradotta in Italiano, e corredata di note_, _le dissertazioni su i fenomeni della circolazione osservata nel giro universale deʼ vasi_, _gli opuscoli di Fisica animale, e vegetabile_, _il viaggio alle due Sicilie_ sono opere lodatissime per novità di scoperte, per acutezza dʼingegno, per esattezza dʼesperienze, e per eleganza di stile. Come una terra sola ha dati due insigni naturalisti, così una sola famiglia ne ha somministrati altrettanti, cioè i Conti Giuseppe e Francesco Ginanni di Ravenna. Il primo scrisse _delle uova, e deʼ nidi degli uccelli con unʼappendice dʼosservazioni sulle cavallette_,[206] e una lettera allʼInstituto di Bologna _intorno al modo di pascersi, ed alla respirazione e generazione delle telline e dʼaltre marine conchiglie_.[207] Altre sue opere sulle piante marine del mare Adriatico, e sopra alcuni testacei ed insetti furono stampate dopo la sua morte[208] dal suo nepote Francesco, che fu pure buon Naturalista. Questi poi scrisse dottamente delle malattie del grano in erba[209] e delle pinete Ravennati.[210] E già quasi senza avvedermene sono passato a far parola della scienza agraria, che forma un utile e nobil parte della Storia naturale. Lʼanonimo Milanese pone nel suo catalogo la relazione istorica, e filosofica del Matani delle produzioni naturali del territorio Pistojese,[211] che può esser utile per prenderne qualche voce di storia naturale: ma io non posso collocarla fra le opere puramente scritte. Fa poi maraviglia, che niuna cosa egli abbia citata del Manni. Questʼuomo instancabile, di cui ho già parlato più volte, ha scritto ancora di cose agrarie. Il suo ragionamento _della piantagione, e coltivazione deʼ gelsi cagione di ricchezza_[212] è stato dimenticato dal Lastri nella _Biblioteca Georgica_. Ivi si registrano di lui tre sole opere, che hanno per titolo _Introduzione deʼ gelsi in Toscana_,[213] _Nuova proposizione per trarre dallʼAgricoltura un maggior frutto_,[214] e _Del fare i lavori alla campagna in tempo_[215]. Lʼultima merita da me special ricordanza peʼ proverbj usati nel contado, che egli ha raccolti accompagnandoli dʼutili avvertimenti. Di sì fatti proverbj utili allo studio della lingua, e molto più allʼarte agraria ne avea raccolti in buon dato il Proposto Lastri, e sparsi quà e là nel suo _Lunario peʼ Contadini_, donde poi altri li trasse, e riuniti gli stampò di nuovo.[216] Alla scienza della natura appartengono lʼAnatomia, la Medicina, e la Chirurgia, delle quali vuolsi ora tener discorso. Lorenzo Bellini leggiadro poeta fu eziandio anatomico grande, e le sue opere furono spiegate dal Pitcarne nellʼuniversità dʼEdimburgo. Antonio Cocchi ne stampò i discorsi anatomici, che lʼAccademia Fiorentina meritamente reputò degni di far testo in lingua. Essa accordò lʼonor medesimo allʼeditore pel _trattato deʼ Bagni di Pisa_, _peʼ discorsi Toscani_, _per la prefazione alla vita di Benvenuto Cellini_, _e peʼ regolamenti dello spedale di S. Maria Novella_, che non sono stampati. Poteva forse accordarglielo ancora pel _discorso sopra Asclepiade_, _e peʼ consulti medici_. Non aggiungo il _discorso sul matrimonio_ perchè non è opportuno, che facciano testo in lingua quei libri, che la retta morale condanna. Il figlio suo Raimondo lo stampò dopo la sua morte, e poteva rimanersene. Doveva più presto pubblicare i consulti medici, che il padre aveva lasciati in gran numero, ed egli inopportunamente li vendè a non so quale straniero; talchè lʼedizion che ne abbiamo, fu poi tardi fatta dal Pasta, raccogliendoli con diligenza, e in quella maggior copia, che potè. LʼAccademia approvò ancora le sue _lezioni anatomiche_; il Signor Gamba però dottissimo nella Storia letteraria ha osservato, che queste non son dʼAntonio, ma di Raimondo. Essa ha pure approvate le opere di Giuseppe del Papa, e già lui vivente citate le avrebbe la Crusca nellʼultima edizione del Vocabolario, se egli non vi si opponeva. La maggior parte di queste appartengono al secolo precedente, e solamente i _Consulti medici_, e i _Trattati varj_ dati in luce nel decimottavo possono aver quì luogo. Approvò finalmente le _Lettere scientifiche_ di Carlo Taglini, e il libro critico di Pier Francesco Tocci intitolato la _Giampaolagine_. Andrea Pasta altresì fu egregio medico, e purgato scrittore, e il suo _discorso medico-chirurgico intorno al flusso di sangue dallʼutero delle donne gravide_ meritò dʼesser registrato neʼ lor cataloghi dal Gamba e dallʼAnonimo. Il Poggiali concede questʼonore alle opere mediche dʼAntonfrancesco Bertini, che io non ho vedute.[217] Niun poi di loro lo concede ai Consulti medici di Giacomo Bartolommeo Beccari, i quali però ne erano degnissimi, essendo egli stato, secondo la scuola di Bologna sua patria, elegante scrittore in Italiano e in Latino dʼunʼeleganza nitida, e semplice. In quei due aurei volumetti di lettere familiari dei Bolognesi si vorrebbe, che fossero state poste ancor le sue, che dovevano esser bellissime, se lo possiamo congetturare da una diretta al Pontefice Benedetto decimoquarto, che il Conte Fantuzzi ha inserita neʼ suoi _Scrittori Bolognesi_ T. 2. p. 57. Terminerò poi questa classe con due Lucchesi, Matteo Regali, e Pietro Tabarrani. Del primo ho già fatta menzione altrove. Egli era medico, ma a dir vero era miglior grammatico. Scrisse una _Lezione intorno allʼuso dellʼacqua della Villa_ (cioè dei Bagni di Lucca) col cibo,[218] la quale, se non è approvata dai professori dellʼarte medica, è almeno scritta con purità. Il secondo al contrario era buon medico ed eccellente anatomico, e se non uguagliava il Regali nella purità della lingua, non era però illodevole. Le sue _lettere mediche ed anatomiche_[219] sono ricordate dallʼanonimo, e sono lodate dai professori di queste scienze, nè saranno molto riprese da quelli, che amano la nostra lingua. Nè diverso è il giudizio, che si dee portare dellʼaltre cose sue, che si vedono impresse negli atti degli Accademici Fisiocritici di Siena. In niuna facoltà è più agevole lo scrivere purgatamente quanto nelle mattematiche. Esse hanno un certo linguaggio loro proprio e semplice tanto, che quasi non concede luogo ad errare, principalmente ove si tratti di quelle, che chiamano mattematiche pure, come lʼaritmetica, la geometria, e lʼalgebra. In questa parte pertanto sarò più severo. Fra i Mattematici Italiani del secolo diciottesimo potrei collocare Vincenzio Viviani grande e diletto scolaro del grandissimo Galileo. Egli giunse cogli estremi anni suoi a toccare quel secolo, essendo morto il 1703. ma le opere sue Italiane appartengono tutte al secolo precedente, ed io non voglio oltrepassare quei limiti, che mi sono prescritti. Il nome però del Viviani ricorda quello di Guido Grandi, che segnando le prime orme nella carriera geometrica potè destar maraviglia in quel geometra veterano, il quale pareva pure, che di niuna cosa dovesse più maravigliare. Egli unì lo studio dellʼantiquaria a quello delle mattematiche, ma lʼAccademia Fiorentina approvò solamente due opere del secondo genere, cioè gli _elementi di geometria_, e le _istituzioni delle sezioni coniche_. La seconda però di queste opere in ciò, che spetta alla lingua si dee piuttosto attribuire a Tommaso Perelli, giacchè essa è un volgarizzamento da lui fatto delle sezioni coniche, che il Grandi aveva pubblicate in latino a Napoli il 1737. A queste opere lʼAlberti, il Gamba, e lʼAnonimo aggiunsero le _istituzioni Geometriche_, quelle dʼ_Aritmetica_, le _Meccaniche_, il _trattato delle resistenze_ unito alle opere del Galileo, ed alcune scritture dʼIdrostatica, che abbiamo nella _raccolta degli autori, che trattano del moto dellʼacque_. Il Poggiali ben a ragione vi aggiunse la _Risposta apologetica alle opposizioni fattegli dal Dott. A. M._ (Alessandro Marchetti,) _i Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro dal Dottore Alessandro Marchetti_,[220] oltre alla Vita di S. Pietro Orseolo. Egli ha poste nel suo catalogo ancora le _Instituzioni Analitiche_ della Agnesi, le quali tranne qualche difetto nel fatto della lingua possono esser utili per una nuova impressione del Vocabolario. Ma parlando di Mattematica, e di purità di lingua chi può dimenticare Eustachio Manfredi? Egli fu buon Geometra, e sommo Astronomo ed Idrostatico. Gli _elementi della Geometria, e della Trigonometria_, quelli _della Cronologia_, le _instituzioni astronomiche_, _la descrizione dʼalcune macchie scoperte nel Sole_, e le _annotazioni al Trattato della natura deʼ fiumi del Guglielmini_ mostrano abbastanza, che si può scrivere profondamente delle materie più difficili senza oltraggiare le leggi della lingua. Lo stesso dimostrano le altre opere sue, che tralascio per non diffondermi soverchiamente, ma si possono veder registrate dal Fantuzzi.[221] LʼAccademia Fiorentina nulla ha approvato di lui, fuorchè le lettere, di che forse molti si maraviglieranno. Ma si può credere, che lʼAccademia della Crusca vorrà esser meno difficile; giacchè riguardo a un uom così grande può esser tale senza pericolo. Al Manfredi succeda lʼamico suo, il suo lodatore Francesco Maria Zanotti. Celebre è la questione agitata un tempo fra i Mattematici sulla forza viva, la quale i Cartesiani dicono proporzionale alla massa del corpo moltiplicata nella velocità, mentre i Leibniziani la vogliono proporzionale alla massa moltiplicata pel quadrato della velocità. Dopo un disputar lungo M. dʼAlembert mostrò, che quella questione era inutile, e tutti si acquietarono alla sua sentenza.[222] Io non la chiamerò inutile, solamente perchè produsse due bei libri, una del P. Vincenzio Riccati, e lʼaltro dello Zanotti. Il Riccati prese a difender lʼopinion Leibniziana in un suo dialogo,[223] nel quale ampiamente trattò di sì fatta questione, combattendo certa proposizione, che il secondo avea detta neʼ Commentarj dellʼInstituto di Bologna. Lo Zanotti, che avea in animo di scrivere alcun dialogo colse lʼoccasione di rispondere al suo oppositore, e compose quello sopra la _forza che chiamano viva_,[224] il quale io non dubito di chiamare maraviglioso, e ardisco contrapporlo a quelli bellissimi di Tullio e di Platone. Nobiltà e gravità di stile, quando la materia il richiede, chiarezza nelle cose scientifiche, ordine nelle dispute, urbanità, e grazia somma sono pregj, che abbondano in questʼopera, peʼ quali basterebbe essa sola a render lʼautore immortale. Niunʼaltra cosa di Mattematica abbiamo da lui scritta in Italiano, fuorchè una lettera a Monsignor Vitaliano Borromeo, in cui prova due elegantissimi Teoremi Geometrici, cioè che ogni poligono circoscritto a un circolo sta al circolo stesso, come il perimetro del primo alla circonferenza del secondo, e che ogni solido chiuso da ogni parte da superficie piane e circoscritto ad una sfera sta alla sfera, come la superficie del primo sta a quella della seconda.[225] Anche il suo nepote Eustachio fu elegante, e purgato scrittore. Il Fantuzzi[226] ha dato il catalogo delle sue opere spettanti alla Astronomia, alla Fisica, allʼIdrostatica, ed alla Prospettiva, che giudico inutile di ripetere in questo luogo. Aggiungerò solamente, perchè egli lʼha dimenticato, lʼesame del nuovo Ozzeri,[227] cioè dʼun canale di scolo, che era stato proposto nello Stato Lucchese. Il P. Riccati, che ho nominato dianzi, fu uno deʼ primi Mattematici Italiani del secolo decimottavo. La maggior parte delle molte sue opere sono scritte in latino; parecchie però ne fece ancora in italiano con molta purità di lingua. Di queste pure tralascerò il catalogo, che altri potrà vedere nel nono volume del Giornale di Modena. LʼAnonimo Milanese ed il Gamba ricordano anche il padre suo Jacopo Riccati, perchè le sue opere sono scritte con molta proprietà, e chiarezza. Io non gli nego questa lode, che ben merita; ma sì fatti pregi non bastano al mio presente intendimento. Essi debbono essere uniti a una sufficiente purità di lingua, e questa manca a Jacopo non rare volte. Cita lʼanonimo anche Tommaso Narducci pel _paragone deʼ canali, e pel trattato della quantità del moto, o sia della forza dellʼacque correnti_. Ma se vorremo dar quì luogo a questo scrittore non si debbono dimenticare due brevi suoi opuscoli _sulla misura della velocità e del tempo, in cui una data quantità dʼacqua non perenne di un lago, o altro ricettacolo esce dallʼincile del medesimo, e sopra la figura della terra_.[228] Ma quantunque egli sia purgato più di Jacopo Riccati, pure non è scevro da qualche idiotismo del dialetto Lucchese. Al contrario lʼanonimo non annovera il Conte Giordano Riccati fratello di Vincenzio, che io col Gamba porrò fra gli altri purgati scrittori. Molte dissertazioni di Mattematica egli stampò nelle Raccolte dʼopuscoli Calogeriana, Lucchese, Fiorentina, e Ferrarese, nella Minerva, nel Prodromo della nuova Enciclopedia del Giorgi, e nel Giornale di Modena, ed inoltre il _saggio sopra le leggi del contrapunto_,[229] gli _schediasmi sulle corde o fibre elastiche_,[230] e le _dissertazioni sulla tensione delle funi_.[231] Vi porrò pure con lui Lorenzo Mascheroni, che fu ugualmente leggiadro poeta ed ingegnoso Mattematico, e lasciando ora a parte stare i suoi versi rammenterò la sua _maniera di misurare lʼinclinazione dellʼago calamitato_, _le nuove ricerche sullʼequilibrio delle volte_, _il metodo di misurare i poligoni piani, e la geometria del compasso_. Un altro Mattematico insigne non si vuoi dimenticare, cioè il Cavalier Giulio Mozzi. Un solo rimprovero a lui si può fare, ed è che potendo egli arricchire la Repubblica delle lettere di molte opere pregevolissime non abbia voluto pubblicare che un solo opuscolo. Esso porta per titolo: _Discorso Matematico sopra il Rotamento momentaneo deʼ corpi_,[232] e fa conoscere ad evidenza quanto egli valesse nelle mattematiche discipline. Molti sono i purgati scrittori, deʼ quali ho parlato fino ad ora, ed altri molti ne avrei aggiunti, se non avessi creduto dovermi alquanto temperare. Nelle facoltà diverse però, che formano la scienza del Dritto, quantunque un gran numero dʼuomini illustri possa vantare lʼItalia, che le hanno felicemente illustrate, pure è scarso il numero di coloro, che illustrandole hanno scritto purgatamente. Non inutil sarebbe il cercarne la ragione; ma per una parte sì fatta indagine troppo mi farebbe deviare dal sentiero, che debbo scorrere, e per lʼaltra trattar dovrei materie troppo a mio credere pericolose. Per la qual cosa mi rimarrò da sì fatta considerazione, e senza più nominando quegli scrittori, che a me sembrano più purgati porrò in primo luogo Giuseppe Maria Buondelmonti, di cui lʼAccademia Fiorentina approvò il _ragionamento sul diritto della guerra giusta_.[233] Purissime altresì sono le dissertazioni di Giuseppe Alaleona,[234] delle quali la maggior parte appartengono a questa classe, e trattano delle Romane leggi delle dodici tavole, del paterno imperio, delle leggi civili, delle leggi Romane e Venete. Anche due ragionamenti di Girolamo Baruffaldi spettanti a ragion canonica vogliono aver quì luogo, cioè un _voto sulla retta intelligenza della clausula_ seu alias _inserita nel Canone di P. Bonifacio_ VIII. _e nellʼaltro di Clemente_ V. _intorno alla libera elezione della sepoltura_, che egli stampò il 1751. e una dissertazione _sopra il significato delle parole_ fide constitutus inserita nella Raccolta del P. Calogerà T. 37. Il Lampredi altresì celebre Professore dellʼUniversità di Pisa può aver quì luogo pel suo trattato _del commercio deʼ popoli neutrali in tempo di guerra_,[235] pel discorso _del governo civile degli antichi Toscani, e delle cause della lor decadenza_.[236] Altre opere ancora dʼaltri scrittori si potrebbono unire a queste, ma stimo savio consiglio di trascurarle, e piuttosto passerò a far parola di coloro, che delle arti del disegno hanno scritto, coi quali darò fine a questo capitolo forse increscevole, e lungo soverchiamente. Monsignor Bottari, che tanto fu benemerito della letteratura e della nostra lingua per molte opere pubblicate, tale si rese eziandio peʼ dialoghi _sopra le tre arti del disegno_, per le annotazioni alle vite dei Vasari, e per lʼimpressione delle _lettere sopra la pittura, scultura, e architettura deʼ più celebri professori_. Queste opere sue furono adottate dallʼAccademia Fiorentina; talchè altri può trarne in molto numero forme di dire spettanti alle arti belle. Trar se ne possono ancora parecchie dal terzo e dallʼottavo volume delle opere del Conte Algarotti nellʼultima edizion Venata, che tutti si aggirano su questo argomento. Niuno ignora, come egli era dotato di fino gusto nelle arti del disegno, e come trattava la matita lodevolmente. Egli ora instruisce i giovani pittori con ottimi precetti e consigli, ora dà giudizio savio e maturo delle opere deʼ pittori degli scultori degli architetti, ed or ricorda piacevoli erudizioni, che la storia riguardan dellʼarte e deʼ maestri migliori. AllʼAlgarotti non cedeva nel buon gusto Gian Lodovico Bianconi, e lo vinceva nella grazia dello stile. Le sue lettere sopra la Baviera sono la più cara cosa, che si possa desiderare; nè credo che altra descrizion di paesi si trovi così piacevole, siccome è questa. In essa parla delle arti del disegno, e più ne parla nella vita del Mengs nelle _due lettere al Principe Enrico di Prussia sopra Pisa_, e nelle _otto lettere riguardanti il così detto terzo tomo della Felsina pittrice_. Anche il P. Roberti volle trattar di questo argomento. Scrisse in prima una splendida orazione, con che difese le scuole Italiane contro certa diceria del Marchese dʼArgens,[237] e poi una lettera sopra Jacopo da Ponte detto il Bassano: e pare che in ambedue le occasioni lʼamore del nome Italiano, e di Bassano sua patria, mentre lʼanimò a prender la penna, aggiugnessero nuove grazie, nuovi fiori alla sua eloquenza. Più parco negli ornamenti dello stile, ma castigatissimo nella lingua il Cavaliere Clementino Vannetti pubblicò le _notizie intorno al pittore Gasparantonio Baroni Cavalcabò di Sacco_,[238] le quali, come le altre opere sue potrebbono, se non mʼinganno, far testo in lingua. Anche Giampietro Zanotti volle esser puro ed imitare gli antichi scrivendo la _Storia dellʼAccademia Clementina_, se non che raccontando talvolta avvenimenti troppo minuti, e di niun conto, e volendo troppo imitar gli antichi annoja il leggitore. Nulla posso dire deʼ suoi _avvertimenti per lʼincamminamento dʼun giovine alla pittura, e della descrizione ed illustrazione delle pitture di Pellegrino Ribaldi e Niccolò Abati esistenti nellʼIstituto di Bologna_, che non mi è riuscito di vedere. A Giampietro unirò il fratello suo Francesco per le tre sue orazioni sopra la pittura degnissime di lui, e del Romano Campidoglio, dove la prima fu recitata. Ma sopra quante opere di questo genere ho fin quì nominate si dee collocare la _Storia pittorica dellʼItalia_ dellʼAb. Luigi Lanzi. Essa ebbe il suo cominciamento nellʼanno 1792. in cui venne alla luce il primo volume e nel 1796. fu compiuta quantunque poi solo nella seconda impressione del 1809. ricevesse la sua perfezione. Divide egli tutta la trattazione secondo le diverse scuole, ed in ogni scuola distingue le epoche. Accenna i principali pittori di ciascuna, e ne descrive lo stile, nè tace i mediocri, deʼ quali pure si desidera avere qualche contezza. Ora egli fa ciò con fina critica ed avvedutezza, con abbondanza non soverchia di notizie, e con uno stile vivace, spesso conciso, ed ove la materia il richieda anche eloquente. Non dirò che il Lanzi sia severo nel fatto della lingua; ma qualche libertà da lui usata moderatamente e con giudizio non dispiace, e fra tante cose belle, che allettano e incantano, non sa il lettore fargliene un rimprovero. Anzi io gli so grado di alquante novelle voci e forme di dire da lui adoperate parlando delle arti del disegno e dellʼantiquaria, che molti poi non hanno ricusato dʼadoperare. Ma i meriti del Lanzi in questa parte della Letteratura sono stati egregiamente esposti da scrittori troppo migliori di me, cioè dal Signor Conte Giambattista Baldelli, e dal Signor Cavaliere Onofrio Boni, ai quali altri potrà ricorrere.[239] Or dopo la noja per me sofferta nel tessere questa lunga serie di nomi e di titoli di libri, se rivolgo lo sguardo a tanti uomini illustri fin quì nominati, ed a quegli altri molti, che di leggieri aggiunger potrei, mentre per una parte mi conforta e ricrea il pensier della gloria, chʼessi hanno recata al nome Italiano, parmi per lʼaltra, che si possa quindi trarre un motivo per dileguare un timore insorto nellʼanimo del Signor Cesarotti. _Un uomo scienziato_, egli dice, _ragionativo, eloquente, ma di coscienza timorata in fatto di lingua, col capo gravido del suo soggetto si mette a scrivere: gli si presenta unʼidea nuova che sembra domandar un termine_, che non è nel Vocabolario. _Che farà egli? Mandi con Dio la sua idea o la storpi con un altro termine il meglio che sa._[240] Or io dico, tanti scrittori insigni da me nominati le scienze e le discipline quasi tutte hanno illustrate con nuovi scoprimenti, con pensieri nuovi, con riflessioni non prima fatte, o le cose già dette da altri hanno esposte in nuova foggia scrivendo purgatamente; nè pare che sia loro avvenuto di stroppiare unʼidea per mancanza dʼun termine; e forse non avranno voluto sopprimere qualche nuova idea venuta loro in mente. Essi avranno trovato nella ricchezza grande della nostra lingua il modo di supplire alla mancanza dʼuna voce, o pure hanno usata una voce, che non è nel Vocabolario, la quale se è, non dirò necessaria, ma opportuna, _bella, ben derivata, acconcia che nulla più_[241] lʼAccademia non trascurerà dʼapprovarla. Si potrebbe ancora dileguar il timore del Signor Cesarotti, negando poter mai accadere, che una parola sia così necessaria per esprimere una idea, che senza quella convenga assolutamente stroppiarla, come egli dice. Ma ove ancora ciò fosse, ove lo scrittor non volesse oltrepassar i confini del Vocabolario, crederei, che nè la sua gloria nè la Repubblica delle lettere patirebbono un danno intollerabile, se lʼuso dʼunʼaltra voce o una forma di dire alquanto più lunga venisse a scemar alcun poco la forza o la bellezza di quellʼidea. Dallʼaltro canto se lo studio posto negli antichi dagli scrittor Fiorentini gli preservò nel secolo decimo settimo dal reo gusto in cui tanti caddero miseramente, siccome confessa il Signor Cesarotti, è da credersi, che lo studio medesimo continuerà a produrre un non dissimile giovamento. Ed è da credere ancora, che la diligenza la quale taluno usa per emendare i proprj scritti, onde toglier loro ogni macchia contraria ai canoni della lingua, rileggendoli più volte, e consultando i periti prima di consegnarli alle stampe, produca il vantaggio, che per nuova e replicata riflessione lʼautor sʼaccorga dʼaltri falli, neʼ quali per difetto dʼumana natura era caduto. Onde il vantaggio sarà di gran lunga maggiore del supposto danno. NOTE: [137] LʼAccademia Fiorentina ha commesso qualche errore di fatto, come vedremo. Si potrebbe dubitar forse, che alcuno ne avesse commesso pure scegliendo qualche opera, che non fosse degna di questo onore? Io non esaminerò questo dubbio, la decisione del quale appartiene allʼAccademia della Crusca. Anzi registrerò quì tutte le opere notate nel citato partito, giacchè io prendo a ricordar solamente quelle opere, che sono scritte con sufficiente purità. Ma riguardo al citato partito del 1786. sono da notarsi le seguenti parole, che si leggono nellʼIndice manuale dellʼopere allegate nel Vocabolario stampato a Firenze il 1807. «Niun luogo ho creduto dover dare in questo compendio ai nomi indicati nella nota di autori scelti nel 1794. dallʼAccademia Fiorentina come meritevoli di essere adottati per testo in una nuova edizione del Vocabolario, essendomi noto, che mancò quella scelta della più esatta ponderazione dei Deputati a formarla, e fu contro il voto degli altri comunicata arbitrariamente da uno di essi allʼAbate Alberti.» [138] Milano 1812. T. 2. in 12. [139] Milano 1812. in 8. Vi sono aggiunte _tre lezioni sulle doti di una culta favella_, che sono ottime, ma non appartenendo allʼepoca da me presa in considerazione in questo ragionamento non ne ho fatta parola. Io lo chiamerò Anonimo Milanese perchè in Milano è stampato il suo libro. [140] Livorno per Tommaso Masi e Comp. 1815. T. 2. in 8. [141] Eʼ nel Tomo 7. delle sue opere cogli elementi. [142] _Della Toscana eloquenza discorsi cento detti in dieci giornate da dieci nobili giovani in una villereccia adunanza_. _Bologna_ 1752. in 4. e poi più altra volte. [143] _Bologna_, 1768. in 4. [144] _Napoli_ 1756. 1758. T. 1. in 4. [145] _Della Storia e della ragione dʼogni poesia_. _Bologna Venezia e Milano_ 1736. 1752. T. 6. in 4. _Della poesia Italiana_ (sotto il nome) _di Giuseppe Andrucci_. _Venezia_ 1734. in 4. Si potrebbero aggiungere anche le altre sua opere sopra altri argomenti. [146] _Palermo_ 1749. in 8. [147] Nel tomo primo delle opere di Torquato Tasso dellʼedizion veneta. [148] Nel Tomo 6. delle sue Opere. [149] Venezia 1785. in 8.; colle annotazioni dellʼArteaga. [150] Eʼ inserita negli Atti dellʼAccademia di Padova. Si veda il Fabbroni Vit. T. 18. p. 311. e seg. e Cesarotti Op. T. 17. p. 44. 45. [151] _Bologna_ 1703. e di nuovo _Modena_ 1735. T. 2. in 4. [152] _Racc. Calog._ T. 31. [153] _Difesa di Dante Alighieri Lezione ec. Firenze_ 1718. _in_ 12. _Tre lezioni dette nellʼAccademia Fiorentina. Ivi_ 1710. _Della satira italiana, edizione seconda con una dissertazione dellʼIpocrisia degli uomini letterati. Ivi_ 1729. _in_ 4. _La Villeggiatura, dialogo, nel quale si discorre sopra un giudizio dato da Pier Iacopo Martelli intorno al poetare del Guidi e del Menzini. Ivi_ 1732. _in_ 4. [154] _Difesa delle tre Canzoni degli occhi ec. composta da G. B. Casaregi, Gio. Tommaso Canevari, e Antonio Tomasi. Lucca_ 1709. _in_ 8. [155] _Parere sopra la seconda edizione deʼ Canti carnascialeschi. Firenze_ 1750. _in_ 8. [156] _I primi due dialoghi di Decio Laberio in risposta e confutazione del Parere ec. In Culicutidonia per maestro Ponziano da Castel Sambuco_ 1750. in 8. [157] _Prose Toscane. Firenze_ 1772. 1773. T. 3. in 4. [158] _In Firenze quei famosi Signori Accademici della Crusca ne hanno chieste a lui vivente le prediche per istamparle a lor carico con offerirgli eziandio di ascriverlo al ruolo della lor fiorita adunanza._ Così si legge nella prefazione delle prediche del Tornielli posta innanzi alle medesime. [159] _Firenze_ 1744. e segg. T. 3. in 4. [160] _Ivi_ 1716. in 4. [161] _Discorsi Accademici Firenze_ 1693. 1712. 1735. T. 3. in 4. La prima parte fu ristampata ivi il 1725. in 4. _Prose Toscane_, ivi 1715. 1735. T. 2. in 4. Alcune sue cicalate e lettere sono nelle prose Fiorentine. Lʼorazione in morte di Francesco Redi è nellʼedizione Veneta del 1712. delle opere di questo scrittore. Quella in morte del Magliabechi fu stampata in Firenze il 1715. in foglio e nella Raccolta di Prose Fiorentine non più stampate, parte quinta, volume primo. Venezia 1754. in 4. [162] Si possono aggiugnere alcune Orazioni di Andrea Alamanni, del P. Lorenzo Berti, di Monsignor Bottari, di Giuseppe Buondelmonti, di Monsig. Giacomelli, di Giuseppe Martelli, di Antonio Nicolini, di Giulio Rucellai, e del Canonico Vincenzo Scopetani, che io non ho vedute, e sono registrate nel Catalogo del Poggiali. [163] Vienna 1795. T. 3. in 12. [164] Venezia 1785. T. 6. in 8. Lʼ editore è il Sig. Cavaliere Iacopo Morelli. [165] Delle lettere familiari di alcuni Bolognesi del nostro Secolo. Bologna 1744. T. 2. in 8. [166] Venezia 1791. 1794. T. 17. in 8. [167] _Magalotti lettere familiari_ (contro gli Atei) _Venezia_ 1719. _in_ 4. _Lettere scientifiche ed erudite. Firenze_ 1721. _in_ 4. _Lettere. Ivi_ 1736. _in_ 4. _Lettere familiari e di altri insigni uomini_ (raccolte da Monsig. Angelo Fabroni.) Ivi 1769. T. 2. in 8. [168] _Opere_ T. 1. p. 207. [169] Si potrebbe aggiugnere, _il Falconiere di Iacopo Augusto Tuano, collʼuccellatura a vischio di Pietro Angelio Bargeo poemetti tradotti e commentati da G. B. Bergantini C. R. Venezia per Giambattista Albrizzi_ 1735. _in_ 4. [170] Il Poggiali annovera fra i libri di lingua purgata, _delle meteore libri tre Poema filosofico di Gio. Lorenzo Stecchi colle annotazioni del Dottor Girolamo Giuntini. Firenze nella stamperia di Bernardo Puperini_, 1726. in 4. Egli ricorda ancora due altre opere dello Stecchi, cioè _Lezione sopra alcuni passi di M. Lodovico Ariosto. Pisa per Francesco Bindi_ 1712. _ed orazione in lode dʼAlessandro Marchetti nellʼanniversario della sua morte. Roma_ 1717. in 4. Ma niuna di queste opere ho veduta. [171] Il Poggiali ricorda, _il vero onore di Gio. Battista Casotti, festa teatrale ec. Firenze per Michele Nestenus e Anton Maria Borghigiani_, 1713. in 4. e _le Muse Fisiche di Mattia Damiani, Firenze per Gio. Paolo Giovannelli_, 1754. in 4. [172] Torino 1750. in 8. e di nuovo con aggiunte 1764. in 8. Di sopra ho escluse le Lettere, e la Frusta Letteraria di questo Scrittore peʼ nuovi, e talvolta anche strani vocaboli, che vi si vedono. Ma non credo dover escludere le poesie piacevoli, perchè in queste è stato assai più moderato. [173] _Lett. di Virg. lett._ 9. _in fin._ [174] _Lʼuso parte prima e seconda._ Bergamo 1778. e di nuovo nellʼanno stesso in Venezia. _Il vedovo parte terza dellʼuso._ _Brescia_ 1780. [175] Se ne vedono i titoli presso il Signor Gamba. _Serie_ ec. p. 520. 521. A queste si aggiungano quelle registrate dal Signor Poggiali a _Buonaventuri Tommaso_, ed a _Rucellai Luigi_. [176] Si può aggiungere il _Ristretto delle vite dei primi discepoli di S. Domenico scritto in lingua Francese dal P. Antonio Touron e tradotto nellʼItaliana favella da un Religioso del medesimo ordine_ (il P. Orsi) Roma 1744. [177] Il Sig. Canonico Domenico Moreni celebre, e infaticabile scrittore di molte ed eruditissime opere nella sua _Bibliografia Storico-Ragionata della Toscana_ T. 2. p. 22. 30. ha registrate le opere del Manni, che appartengono al suo argomento. Fra queste molte ne sono di Storia Ecclesiastica, che tralascio per non esser soverchio. [178] Anche Monsignor Bottari fu benemerito del Decamerone, che illustrò con trentadue lezioni da lui dette con molto plauso nellʼAccademia della Crusca. Due ne pubblicò il Manni nellʼopera quì citata, una il Poggiali nel volume di Novelle dʼalcuni autori Fiorentini, unʼaltra il chiarissimo signor Francesco Grazzini nella _Collezione dʼopuscoli_, che si stampa in Firenze dal Daddi in Borgo Ognissanti, e finalmente tutte furono date in luce dallo stesso signor Grazzini colle stampe del Ricci il 1818. in due volumi in ottavo. Questʼopera altresì, come le altre tutte del Bottari, vuolsi annoverare fra quello purgate di lingua. [179] Sono unite allʼopere del Casa nellʼedizion Fiorentina del 1707. e poi accresciute in quella di Venezia del 1728. [180] Il P. Zeno, che era molto intendente della nostra lingua, scrisse ancora una parte delle annotazioni alla Storia del Crescimbeni, e colle sue annotazioni illustrò pure alcune delle opere del Casa nellʼedizione Veneta del 1728. Egli tradusse lʼarte di ben pensare dʼArnaud, e parte del quaresimale del P. Bourdaloue. [181] Del Seghezzi abbiamo altresì un _Dialogo dʼincerto_ (ma è di lui come avverte il Gamba) intitolato il _Tasso_ intorno allo stile del Casa, e al modo dʼimitarlo nellʼedizion citata del 1728., alcune annotazioni alle rime del Bembo nellʼedizion di Bergamo del 1745. e alla storia citata del Crescimbeni. Altre sue opere colle rime del fratello Niccolò furono stampate in Venezia il 1745. [182] LʼAccademia approvò ancora la vita di Giuseppe Averani di cui ho già parlato, e la traduzione di Longino, la quale registro in altro luogo. [183] LʼAccademia citò di lui ancora le _Menipee_. Ma il chiarissimo Signor Ab. Fontani nellʼelogio del Lami stampato in Firenze il 1789. nomina bensì le Menipee stampate in latino a Londra il 1738. e 1742. sotto il nome di Timoleonte. Ma niuna opera del Lami scritta in italiano con questo titolo è riuscito di trovare a lui, nè al Signor Gamba. Ora se questʼopera è ignota a due uomini così eruditi, non sarà maraviglia, che sia ignota a me pure. [184] Altra sue opere dʼantiquaria si vedano presso il Sig. Canonico Moreni luog. cit. [185] Maff. Opere T. 3. [186] Firenze 1716. in f. [187] Le opere del Lanzi intorno allʼantiquaria sono la _descrizione della Galleria di Firenze_, _il saggio sopra la lingua Etrusca_, di cui parlerò altrove, _deʼ vasi antichi dipinti volgarmente chiamati Etruschi dissertazioni tre_, dissertazione sopra unʼurnetta toscanica, della condizione e del sito di Pausula città antica. [188] _Padova dalla Stamp. del Sem._ 1750. T. 2. in 8. [189] _Lucca_ 1744. T. 2. in 8. [190] Ivi 1760. in 8. [191] _Padova dalla stamp. del Sem._ 1766. in 8. [192] _Padova_, 1765. T. 3. in 8. e poi molte altre volte. [193] _Padova_ 1776. T. 2. in 4. e di nuovo 1803. [194] _Padova_. 1787. in 4. [195] Nel 1727, lʼOrsi stampò in Roma la _Dissertazione dogmatica, e morale contro lʼuso materiale delle parole, in cui dimostrasi colla tradizione deʼ Padri, e dʼaltri antichi scrittori, che le parole neʼ casi eziandio di grave o estrema necessità, non perdono per legge dalla Repubblica il valore del loro significato_: Egli la scrisse contro alcuni Teologi, che a suo giudizio troppo si erano mostrati favorevoli alle restrizioni mentali. A lui si oppose unʼ_allegazione in difesa del P. Carlo Ambrogio Cattaneo_, ed egli replicò con un libro intitolato: _la causa della verità sostenuta contro lʼanonimo apologista del P. Carlo Ambrogio Cattaneo_. _Firenze_ (Milano) 1729. Risposero gli avversarj con più e diversi scritti, e specialmente con certa dissertazione teologica, alla quale lʼOrsi contrappose la _Dimostrazione Teologica, colla quale si prova, che ad effetto di conciliare i dritti della veracità con le obbligazioni del segreto, nè si può nè si dee ricorrere ad alcuna di quelle leggi, che alcuni moderni Teologi alla umana Repubblica attribuiscono, ma che deesi stare alle regole deʼ SS. Padri, e specialmente daʼ SS. Agostino, e Tommaso per un tal fine prescritte_. _Milano_ 1729. Anche Pier Francesco Tocci entrò in questa teologica guerra, scrivendo alcune _Lettere critiche contro la dissertazione dommatico-morale sopra la bugia del Cardinale Orsi Domenicano_, che dopo la sua morte furono impresse dal Pecchioni in Firenze il 1779. in 4. Queste lettere e le tre opere citate dellʼOrsi possono annoverarsi fra quelle purgatamente scritte, e vi si possono aggiungere il libro _dellʼinfabilità e dellʼautorità del Romano Pontefice sopra i Concilj ecumenici_, la Dissertazione _della origine del Dominio e della Sovranità deʼ Romani Pontefici, sopra gli Stati a loro temporalmente soggetti_. Le quali due opere furono stampate in Roma il 1741. 1742. [196] LʼAlberti citò ancora i _Dubbj sopra le rubriche della Messa_ del Ceracchini per trarne _alcune voci proprie dellʼEcclesiastica liturgia_, come ben dice il Sig. Gamba. [197] _Lettera dʼun Ex-Gesuita vecchio ad un Ex-Gesuita giovine fra le sue opere._ T. 6. p. 27. [198] _Una nuova opera in queste o Lezioni, o Dissertazioni di Sacra Scrittura, come più piaccia di nominarle ec._ Prospetto premesso alle Lezioni. _Due sono le mie opere di Sacra Scrittura..... Lʼuna ha per titolo_ Dissertazioni di Sacra Scrittura. Proemio premesso alla Dichiarazione letterale di cui parlerò tosto. [199] _Trattato delle Azioni umane, con annotazioni per lo schiarimento della materia. Quarta edizione. Firenze per Francesco Moucke_ 1783. in 4. Le annotazioni si attribuiscono allʼAb. Antonio Martini, che fu poi successore dellʼIncontri nellʼArcivescovato di Firenze. _Lettere Pastorali_. _Ivi pel medesimo_ 1771. _in_ 4. _Spiegazione Teologica, Liturgica, e Morale sopra la celebrazione delle Feste, diretta aʼ Chierici della Città e Diocesi Fiorentina_. _Ivi pel medesimo_ 1762. _in_ 4. Queste sono le migliori impressioni. Per le opere del Maffei basterà ricordare lʼedizione Veneta fatta da Antonio Curti nel 1790. che tutte le comprende. [200] Eccone i titoli. 1. _Della divozione al Sacro Cuor di Gesù, secondo lo spirito della Chiesa ragionamenti due. Bassano, e Napoli._ 1803. Nel titolo sono attribuiti al P. Carlo di Porzia allora Prete dellʼOratorio, ed ora Gesuita. Ma questi non ne fu che lʼeditore, di che dà un cenno anche il P. Raimondo Diosdado Caballeros _Biblioth. Script. Soc. Jesu Supplem._ I. p. 230.—2. _Il divoto del SS. Sagramento istruito nelle pratiche di tal divozione. Firenze_ 1805.—3. _Ragionamento sulla divozione al S. Cuor di Maria ec. con lʼaggiunta di dieci considerazioni ec._ Ivi 1809.—4. _Novena al glorioso Patriarca S. Giuseppe._ Ivi 1809. [201] Il lungo catalogo delle sue opere si veda presso il Fantuzzi _Scritt. Bol._ T. 5. p. 265. e segg. [202] Roma 1757. in 8. [203] Ivi 1756. in 4. Le opere quì tradotte sono diciotto. Tre dellʼaltre erano state volgarizzate dalla stessa Borghini, e le rimanenti dal Bottari di che forse egli voleva fare un secondo volume. Il chiarissimo Monsignor Domenico Pacchi ha poi tradotta lʼopera _de pallio_, e la sua traduzione colle molte altre sue opere dovrebbe quì aver luogo, se in questo capo parlassi dʼautori viventi. [204] Bologna 1795. in 8. Seconda edizione. Non mi è nota la prima edizione di questʼopuscolo, e del seguente. [205] Ivi 1800. in 8. Seconda edizione. [206] Venezia 1737. in 4. [207] Nel tomo quinto della _Miscellanea di varie operette_, che si stampava in Venezia dal Lazzaroni. [208] Venezia 1755. 1757. T. 2. in f. [209] Pesaro 1759. in 4. [210] Roma 1774. in 4. [211] Pistoja 1762. in 4. Il Matani, oltre a più, e diverse opere latine, scrisse ancora una _Memoria sulla cultura delle viti in Spagna, e la maniera, come si fa il vino; si aggiunge un discorso sulla conservazione dei vini. Venezia_ 1779. in 8. Alcuni suoi trattati sono uniti alla traduzione della dissertazione di M. Tissot sul pane stampata a Napoli il 1781. e a Venezia il 1782. [212] Firenze. 1767. in 4. [213] Senza data in 4. Credo, che sia opera diversa dalla precedente. [214] Ivi 1775. in 8. [215] Ivi 1770. in 4. e nel _Magazz. Tosc._ Vol. 3. P. 3 [216] _Proverbj Toscani peʼ Contadini, in quattro classi divisi, i quali possono servir di precetti per lʼAgricoltura. Perugia_ 1786. in 16. [217] Ecco il titolo di quelle, che appartengono a questa epoca. _Lo specchio che non adula presentato a Girolamo Manfredi Massese. Leida per Giord. Luchtmans_ 1707. _in_ 4. _Risposta di Anton Giuseppe Bianchi_ (cioè del Bertini) _a quanto oppone Giovan Paolo Lucardesi al libro di Antonfrancesco Bertini intitolato lo specchio che non adula. Colonia_ (Lucca). 1708. in 4. _La falsità scoperta nel libro intitolato: la Verità senza maschera dal Gobbo di Sancasciano ec. Francfort._ 1711. in 4. [218] Lucca 1713. in 8. [219] Lucca 1765. in 4. [220] Questo libro non contiene, che un solo dialogo dei quattro, che lʼautore aveva composti. [221] _Scritt. Bol._ T. 5. p. 190. e seg. Riguardo alle scritture sopra le acque di Bologna egli cita la _Raccolta degli Autori, che trattano del moto dellʼacque_ dellʼedizione del 1723. ma doveva citare quella del 1765. e seg. dove sono in maggior numero. [222] _Pref. au Traité de Dynam._ de la seconde edition. [223] _Dialogo, dove neʼ congressi di più giornate delle forza vive, e dellʼazion delle forze morte si tien discorso, del P. Vincenzo Riccati della Compagnia di Gesù._ Bologna 1749. in 4. [224] Bologna 1752. in 4. Il Riccati preparò una replica, che poi non diede in luce, ma si conserva manoscritta presso la sua famiglia col titolo: _lettere sei, nelle quali si difende il dialogo sopra le forze dalle opposizioni del Signor Francesco Maria Zanotti. Giorn. di Mod._ T. 9. _p._ 190. [225] Eʼ nelle Simbole Fiorentine del Gori T. 10. p. 1. Lʼautore tolto il proemio la tradusse in Francese, e la mandò allʼAccademia di Montpellier, la quale avendola inviata a quella delle Scienze di Parigi, questa lʼinserì neʼ suoi atti del 1748. [226] Luog. cit. p. 268. e seguenti. [227] Eʼ unito al _Piano dʼoperazioni idrauliche per ottenere la massima depressione del Lago di Sesto, o sia di Bientina. Lucca_ 1782. _in_ 4. [228] _Memorie sopra la Fisica e Istoria naturale di diversi Valentuomini. Lucca_ 1743. e anni seguenti. T. 1. e 3. [229] Castelfranco 1763. in 8. Il Gamba cita anche _le leggi del contrapunto dedotte daʼ fenomeni, e confermate col raziocinio libri quattro_ T. 2. in 4. Io non ho altra notizia di questʼopera. [230] Bologna 1767. in 4. [231] Bassano 1784. [232] Napoli 1763. in 8. Oltre pochissimi nei relativi alla lingua, che probabilmente sono errori tipografici, un difetto vi trovo, ed è un certo sistema non lodevole nella punteggiatura per cui sette o otto volte nella lettera dedicatoria e nellʼintroduzione si adopera il punto e virgola, o i due punti in vece del punto in fine di periodo. La tenuità dellʼosservazione mostra la stima, in cui io tengo il libro anche per la purità della lingua. [233] Oltre a questʼopera, che fu stampata a Firenze il 1756. in 8. lʼAccademia approva la lettera posta in fronte al Riccio rapito del Pope tradotto dallʼAb. Bonducci, e la descrizione manoscritta delle esequie di Cosimo terzo. [234] Padova appresso Giuseppe Comino 1741. in 4. [235] Firenze 1788. in 8. [236] Lucca 1760. in 4. [237] Più ampiamente poi difese la nostra causa il Marchese Ridolfino Venuti nella sua _risposta alle riflessioni critiche sopra le differenti scuole di pittura di M. dʼArgens. Lucca_ 1755. _in_ 8. [238] _Verona_ 1781. in 8. [239] _Baldelli Lettera al Denina nella Collez. dʼOpusc._ T. 16. p. 90. Boni _Elogio dellʼAb. D. Luigi Lanzi. Firenze_ 1814. in 4. Eʼ da desiderarsi, che le opere tutte del Cavalier Boni sieno unite, e stampate. Egli era molto intelligente delle arti del disegno, e nelle sue cose è una certa grazia Lucianesca, che innamora. [240] Ces. Op. T. 1. p. 202. [241] Ivi. _Dellʼaltre moderne lingua dʼEuropa._ ~CAPO~ XII. Egli è ormai tempo, che il mio discordo rivolga, benchè brevemente alle altre moderne lingue Europee. E quì dovrei far parola dellʼintroduzione alle più utili fra queste del Baretti, ma non essendo a me riuscito di vederla nulla ne posso dire.[242] Non parlerò adesso della Turca e della Greca, delle quali più opportuno sarà il tener discorso in altro luogo. Cominciando dunque dalla Francia dirò quel poco che abbiamo meritevole di ricordanza. LʼAlgarotti in un saggio su questa lingua ci ha data in breve la sua storia,[243] e il signor conte Napione nellʼopera già citata, esaminandone lʼindole, ha combattuto con evidenza glʼirragionevoli elogj, che ne fa il P. Bonhours, ha ricordato il giudizio, che ne danno gli scrittori più celebri della Francia, ed ha mostrato quale essa fosse prima della riforma introdotta da quellʼAccademia.[244] Altri non creda dover collocare fra le opere deglʼItaliani il Dizionario non molto pregevole del Veneroni. Egli era di casato _Vigneron_ nativo di Verdun, e per amore della nostra lingua dette forma Italiana al nome di sua famiglia,[245] come altri crede di rendersi più stimabile, prendendo nome Francese. Compatiamo le debolezze degli uomini, e queste massimamente, che sono innocenti. Italiano era lʼAntonini, di cui pure abbiamo un dizionario non migliore di quello del Veneroni. Mal può fare il dizionario di una lingua chi non la possiede perfettamente, e lʼAntonini non sapeva abbastanza la Francese, come mostrò traducendo in questa non lodevolmente un opuscoletto del Rolli.[246] Il libro, di cui possiamo gloriarci, è il dizionario dellʼAlberti a tutti noto, cioè dellʼautore del dizionario enciclopedico rammentato di sopra. Sono circa quaranta anni passati, da che esso venne in luce la prima volta, e in tante edizioni, che ne sono uscite in Italia, e in Francia, non si è mai dovuto farvi considerevoli emendazioni o accrescimenti. Esso ha fatti dimenticare gli altri dizionarj, ed a chi volesse succedergli non ha lasciata molta speranza di far cosa migliore. Nato nel contado di Nizza erano a lui naturali le due lingue Italiana e Francese, nelle quali inoltre pose molto studio finchè visse; quindi colle acquistate cognizioni, e coʼ dizionarj della Crusca e dellʼAccademia Francese potè fare unʼopera utile, e degna di vivere lungamente. Il Martinelli ne fece poi un compendio comodo per la sua brevità, in cui le voci tutte del dizionario sono comprese. Per le altre lingue non abbiamo opere, che a questa si possano paragonare. Per lʼInglese oltre al dizionario del Bottarelli, piccolo in principio, ma poi molto accresciuto,[247] abbiamo la grammatica e il Dizionario dellʼAltieri. Questo però è mancante, e quella è non ben sicura nelle sue regole, e di gran lunga inferiore a quella del Barker. Più pregevole assai è la Grammatica e il Dizionario Inglese e Italiano del Baretti, e lʼultimo principalmente dopo che egli vi fece grandi accrescimenti[248]. Nè a lui bastò di provveder con questʼopera a coloro, che apprender volessero una di queste due lingue, ma con unʼaltro Dizionario si adoperò ancora di giovare aglʼInglesi o agli Spagnoli, che studiano la lingua Spagnuola o Inglese.[249] La lingua Tedesca mi offre ancora minor numero di cose meritevoli di ricordanza, e il poco che mi offre consiste nella Grammatica e neʼ Dialoghi del Borroni, e in un Dizionario del medesimo peʼ principianti.[250] La Spagnuola nulla mi somministra fuorchè il Dizionario testè citato del Baretti, giacchè la Grammatica e il Dizionario del Franciosini appartengono al secolo decimosettimo. Nulla pure ho da dire dellʼaltre moderne lingue del continente Europeo. Due però dellʼIsole adjacenti allʼItalia richiedono da me qualche parola. In primo luogo la lingua della Sardegna fu illustrata dal Sig. Madao con due opere da me non vedute.[251] Nè pure mi è riuscito di vedere la Grammatica e il Dizionario della lingua Maltese, che il Signor Vassalli stampò in Roma nel 1791. e 1796. Egli afferma, che essa è un dialetto dellʼAraba. Al contrario il Canonico Agius de Soldanis dopo il Majo, lʼErpenio, il Teinesio e altri aveva preteso che fosse Punica, e fino dal 1750. si era accinto a provarlo, ma se non erro con poco felice riuscimento. Stampò egli una breve grammatica e un saggio di Dizionario della lingua Maltese, cui fece precedere due dissertazioni.[252] Nella prima prende appunto a provare, che la lingua Maltese è lʼantica lingua Punica rimasta sempre in quellʼisola ad onta deʼ popoli diversi, che lʼhanno soggiogata, e nella seconda parla dellʼutilità sua. Ma da una parte nè lʼuno nè lʼaltro argomento vien da lui confermato validamente, e dallʼaltra parte quantunque io non sappia lʼArabo, e solamente ne conosca lʼAlfabeto o pochissimo più, ciò non ostante nelle voci Maltesi da lui registrate in questo libro io scorgo voci Arabe, principalmente della lingua volgare, or più or meno alterate. Arroge a ciò, che il Bjoernstahel neʼ suoi viaggi racconta dʼaver udito Maltesi ed Arabi parlar fra loro, ciascuno nella propria lingua, e intendersi ottimamente. Da che egli deduce con gran ragione, che la lingua deʼ primi altro non è che un corrompimento, o se si vuole un dialetto della seconda. Il Canonico Agius promise ancora un ampio dizionario della sua lingua, e la interpretazione di queʼ versi di Plauto nel Penulo, che furono da lui composti in lingua Punica, ed egli voleva spiegarli colla Maltese; nè so se poi abbia eseguite queste promesse. Utile sarebbe stato il dizionario; ma riguardo ai versi Plautini dubito forte, che egli non sarebbe stato più fortunato degli altri, che prima o dopo di lui si sono posti a questa impresa. La lingua Punica è perduta, tranne poche voci, che S. Agostino ed altri antichi scrittori ci hanno tramandate; e queʼ versi di Plauto passando per le mani di tanti copisti, che non glʼintendevano, debbono in tal guisa esser guasti e corrotti, che niuna speranza vʼha di spiegarli. Mentre questi scrittori illustravano queste lingue colle grammatiche, e coʼ dizionarj, altri le illustravano colle traduzioni. Non è mia intenzione di tessere quì il novero di tutto ciò, che daglʼItaliani sʼè fatto in questo genere nel passato secolo, il che sarebbe impresa da non venirne mai a fine. Le traduzioni in prosa, dal Francese massimamente, sono innumerabili, ed ove si tolgano ancora tutte quelle, che _invita Minerva_ si son fatte per traffico,[253] ove ancora si limiti il discorso a quelle, che hanno meritata lode per esattezza, e per lo stile, il numero sarebbe tuttavia immenso. Si aggiunga a ciò, che facile essendo la lingua Francese e comune, pare che in questa mal si possa dar nome dʼillustrazioni alle traduzioni. Le traduzioni poetiche dal Francese sono in piccol numero, nè di molto momento, se si eccettuino il poema sulla religione di M. Racine tradotto dallʼAb. Filippo Venuti, quello del Re di Prussia sullʼarte della guerra tradotto dal Sanseverino, alcune tragedie volgarizzate dal Cesarotti, dal Paradisi, dal Frugoni; e poche altre. Riguardo alle traduzioni dalle altre lingue mancano in gran parte tali ragioni, e però non terrò per esse il medesimo silenzio, pure non mi vi tratterrò lungamente, ma con brevi parole rammenterò solo le principali. Prime sieno quelle dallʼInglese che sono in maggior numero. Milton, lʼOmero dellʼInghilterra a se richiama innanzi ad ogni altro il mio discorso. Il grande argomento di quel poema esigeva una mente ardimentosa per ben trattarlo, ed esigeva pure una penna robusta per ben tradurlo. Paolo Rolli si accinse a questa impresa;[254] quantunque però fosse valoroso poeta non aveva forze bastevoli per far tanto. Egli tradusse letteralmente, ed esattamente; ma il poema di Milton restò spogliato di tutta la sua forza, e diventò un perfetto sonnifero. Dopo molti anni il Mariottini stampò in Londra il primo libro dʼun nuovo suo volgarizzamento[255] corredato di molte annotazioni sue in parte, e in parte deʼ precedenti commentatori Inglesi. Non so se poi egli abbia condotto a fine questo suo lavoro. Il verso generalmente è nobile ed armonioso; ma (se mi è lecito esporre la mia opinione, quantunque sia poco istruito della lingua Inglese) a me non sembra abbastanza fedele, e spesso merita il nome di parafrasi. Pure al chiarissimo traduttore si dee non piccola lode, e son pregevoli le annotazioni che vʼha aggiunte. Altri hanno tentato questa difficile impresa nel secolo presente, deʼ quali non dovrei quì ragionare. Pure non posso temperarmi dal dire, che il miglior traduttore di Milton è un mio concittadino, cioè il Signor Lazzaro Papi, ed il suo volgarizzamento è così in tutte le sue parti perfetto, che niente lascia a desiderare. Non vuolsi divider da Milton il suo grande encomiatore Addisson, del quale Anton Maria Salvini volgarizzò il Catone. Nè di ciò dirò più oltre, perchè del modo Salviniano di tradurre parlerò altrove più opportunamente. Parlerò piuttosto della bella versione, che del Poema dʼAkenside deʼ piaceri dellʼimmaginazione fece il celebre Signor Mazza[256] nel primo suo ingresso nella carriera letteraria. Egli seppe maravigliosamente vestire della copia e della grandiosità Frugoniana (giacchè nella prima sua giovinezza questo sommo poeta, seguiva in parte lo stil del Frugoni, che poi se ne è fatto uno bellissimo, e tutto suo proprio) la poesia filosofica dellʼoriginale; seppe esser fedele senza esser servile, emendando anzi queʼ modi Inglesi, che a noi parrebbono strani: ed essendo allor giovinissimo fece unʼopera, che nulla ha di giovanile, fuorchè il calore dellʼestro e la vivacità dellʼespressioni. In età poi più matura tradusse alcuni lirici componimenti di Parnell[257] e di Thomson egregiamente come si doveva aspettare da un poeta sì grande. Poco innanzi allʼAkenside del Signor Mazza si pubblicò in parte lʼOssian del Signor Cesarotti[258]. Questa dotta fatica di così illustre poeta fu una nuova luce, che improvvisamente apparve sul Parnasso Italiano, ed attirò a se gli occhi di tutti. Un certo calor nuovo di stile, diverso da quello, di che i Greci, i Latini ed i nostri ci offerivano esempj, certe idee nuove, una semplicità congiunta non rade volte a pensieri giganteschi, una straordinaria energia dʼespressioni riscosse lʼammirazione di molti, ed eccitò alcuni allʼimitazione. Glʼimitatori però cessarono a poco a poco, e rimase la lode; lode che è a lui dovuta per avere arricchita la nostra lingua poetica di molte maniere energiche, grandi, maravigliose, ora terribili, ora delicate, le quali in parte egli prese dal testo, e in parte creò con una fantasia inesausta. Ma fra i pregj di questo volgarizzamento ardirò io cercar difetti? Meriterò forse la taccia di temerità, se espongo qualche mio dubbio contro il lavoro prediletto dʼun Cesarotti? Lʼimpresa da me abbracciata lo richiede, nè posso trascurarne una parte. Nulla dirò della condotta deʼ poemi attribuiti ad Ossian, degli affetti, delle similitudini, ed altrettali oggetti, che non sono del mio instituto. Io debbo parlare della illustrazione delle lingue, onde considererò soltanto alcune cose, che in qualche modo a queste appartengono. Descrive il poeta la lotta fra Fingal, e Varano, e dice _.........Ai forti crolli, Allʼalta impronta dei tallon robusti Scoppian le pietre e dalle nicchie alpestri Sferransi i duri massi e van sossopra Rovesciati i cespugli_.[259] In unʼannotazione a questi versi il chiarissimo traduttore osserva, che questo forse è lʼunico luogo in tutto il poema di Fingal, che si possa chiamar gonfio, e quindi procura di difenderlo. Ma egli aveva allora dimenticati queʼ versi, neʼ quali parlandosi del combattimento tra lo stesso Fingal, e Cucullino si dice: _.........i nostri passi Crollaro il bosco, e traballar le rupi Smosse dalle ferrigne ime radici._[260] A me parrebbe questo luogo più gonfio ancora dei primo, nè a difenderlo basta il dire, che a quellʼetà erano gli uomini, più forti molto che noi non siamo; il che è la difesa dal signor Cesarotti addotta pel passo precedente. Ma più altre cose ancora vi sʼincontrano, le quali a me appariscono gonfie. Tali a cagion dʼesempio sono Cucullino, che _sgorga rivi di valore_ T. 2. p. 150. _e tu sgorgasti valore_, ivi p. 275. _Morna, che rotola nella morte_ p. 148._ la vasta azzurra stellata conca del Cielo_ p. 241. _il sangue del monte Gormallo_, cioè il sangue delle fiere di quel monte p. 203. _al suo cospetto sfuma la pugna_ p. 51. ed altre simili maniere di dire. Nè mi dispiace meno la troppo frequente ripetizione di certe espressioni favorite, e specialmente della voce _figlio_ usata metaforicamente.[261] Queste ed altre cose di tal genere non sanno piacermi, e temerei che imitandosi le poesie in molte parti bellissime dʼOssian taluno potesse forse esser trascinato in un gusto non lodevole. Altri pure tradussero altre simili poesie, e fra questi mi piace ricordar quì il signor conte Prospero Balbo. La morte dʼArto, un breve squarcio dʼaltro poema, e la battaglia di Lava volgarizzò egli dalla prosa Inglese di Giovanni Smith in bei versi Italiani, neʼ quali nulla si trova che non si debba molto commendare.[262] Nè quì si arrestarono le cure deglʼItaliani per la poesia Inglese. Celebre è il Sidro del Conte Magalotti, che molto dopo la sua morte vide la luce.[263] Il saggio sopra lʼuomo del Pope fu tradotto dal Cavaliere Anton Filippo Adami,[264] il Messia dello stesso Pope dal Conte Agostino Paradisi, e dal Conte Benvenuto di S. Raffaele, che tradusse anche il Vindsor. Il Bonducci volgarizzò il Riccio rapito dello stesso. Il Torelli lʼelegia di Gray sopra un Cimitero campestre. Le notti di Young furono tradotte dal Bottoni, e i tre canti sul Giudizio universale da D. Clemente Filomarino.[265] Ma a me rincresce di trattenermi più lungamente tessendo unʼarido catalogo di nomi che si potrebbe anche accrescer volendo, e vie più mi rincresce perchè fra tanti traduttori, che in questo paragrafo ho registrati, se si eccettua il Magalotti, il Paradisi, il Conte di S. Raffaele, il Torelli, e il Filomarino, non trovo oggetto meritevole dʼosservazione. Nè pure il Parnasso Tedesco fu trascurato. Il P. Bertola nellʼidea della bella letteratura Alemanna[266] volgarizzò diverse cose di varj, e di Gessner singolarmente, la Signora Caminer Turra molti Idillj dello stesso Gessner,[267] il Signor Abate Belli le quattro parti del giorno di Zaccaria[268] e il Signor Rigno il Messia di Klopstok.[269] Ignorando la lingua Tedesca non posso dar compiuto giudizio di queste versioni: e per la stessa ragione non ardisco farmi giudice di quella, che della Lusiade del Portoghese Camoens ha fatta un anonimo Piemontese.[270] Dirò solamente, che tranne alcune versioni del Bertola non vedo nellʼaltre quelle dignità di stile, che la poesia richiede, e che per ciò sono da desiderarsi nuovi e più felici volgarizzamenti. Finalmente la lingua Polacca non fu trascurata dai nostri. Ne fece una grammatica non impressa fino ad ora il P. Francesco Angelini Gesuita[271], del quale parlerò altrove con lode. Sulla seconda scrisse il Madao due opere, che non ho vedute.[272] _Fine della Prima Parte_. NOTE: [242] _Baretti Introduction to the most useful European language. London._ 1772. in 8. [243] Algar. Op. T. 3. [244] Nap. deʼ preg. ec. della Ling. It. Lib. 2. Cap. 1. [245] _Feller. Dict. Hist. a Veneroni._ [246] _Examen de l essai de M. de Voltaire sur la poésie epique par M. Paul Rolli, traduit de lʼAnglois par M. L. A. à Paris, Rollin fils_ 1728. in 12. LʼAntonini scrisse ancora un _trattato sulla pronunzia Francese_, che non ho veduto. [247] Bottarelli Dizionario Italiano-Inglese e Francese Londra 1789. vol. 3. in 8. Nizza 1792. Vol. 3. in 12. Venezia 1803. 3. Vol. in 8. [248] La seconda edizione che è del 1796. si dice aumentata di diecimila Vocaboli. Lʼultima impressione è di Firenze, 1816. [249] _Baretti English and Spanish Dictionary. Lyon_ 1786. T. 2. in 4. e di nuovo _London_ 1792. Vʼha pure una grammatica Inglese del Palermo impressa a Londra dopo il 1780, che non ho veduta e unʼopera dello stesso sopra i sinonimi Inglesi. [250] _Borroni novissima grammatica della lingua Tedesca ad uso deglʼItaliani, sesta edizione accresciuta. Venezia_ 1805. in 8. Non conosco, che questa edizione, ma so che altre ve ne sono, fatte nel secolo decimottavo. Dello stesso _Dialoghista Italiano-Tedesc. Milano_ 1794. in 8. Dello stesso _nuovo Vocabolario Italiano-Tedesco, e Tedesco-Italiano. Milano_ 1799. T. 2. in 8. Abbiamo ancora una grammatica Italiana e Tedesca del Tarmini stampata a Francfort nel 1735. in 8. [251] _Saggio dʼun opera: il ripulimento della lingua Sarda, e sua analogia con la Greca e la Latina. Cagliari_ 1782. _in_ 4. _Le armonie deʼ Sardi. Ivi_ 1787. _in_ 4. _Catal. Garampi_ 7349. 7350. Di una dissertazione sullʼorigine di questa lingua, che io credo essere stata composta dallʼAb. Denina, ho dato un cenno nel capo primo. [252] _Della lingua punica presentemente usata daʼ Maltesi, ovvero nuovi documenti li quali possono servire di lume allʼantica lingua Etrusca stesi in due dissertazioni, e Nuova Scuola di Grammatica per agevolmente apprendere la lingua Punica-Maltese. Roma_ 1750. _in_ 8. [253] Ben a ragione il dottissimo signor Napione le chiama infedeli, barbare, e prezzolate traduzioni, che sfigurano gli originali, e servono soltanto a guastar la lingua nostra, senza agevolare lo studio nè lʼintelligenza della Francese. _Dellʼuso, e deʼ pregj della lingua Ital_. T. 1. p. 275. [254] Londra 1736. in f. e poi altrove più volte. [255] _Il Paradiso perduto di Giovanni Milton tradotto in verso Italiano da Felice Mariottini con varie annotazioni deʼ comentatori Inglesi, e del Traduttore. Londra_ 1794. T. 1. in 8. [256] _Parigi_ 1764. in 4. [257] Anche il Gesuita Barotti tradusse lʼegloga di Tommaso Parnell intitolata la sanità, che è fra lʼaltre sue opere stampata in Venezia dal Coleti il 1773. in 8. [258] La prima edizione è di Padova pel Comino del 1763. La seconda di Padova, e quelle di Nizza, e di Bassano sono più complete. Ma la migliore di tutte è quella di Pisa del 1801. in 4. volumi in 8. che è unita allʼintiera collezione delle sue opere. Essa fu dallʼinsigne traduttore riveduta tutta, emendata, e corredata di pregevolissimi accrescimenti. [259] _Cesarotti Op_. T. 2. p. 251 [260] Ivi p. 135. [261] Figli del mare T. 2. p. 134. e 211. figlio dellʼonda p. 157. 253. figlio dʼanguste valli 139. figli di guerra 139. 219. 227. 238. figlio di codardìa 153. figli del canto 155. 160. 220. 265. figli della valle 156. figli dellʼOceano 158. 211. figlio della spada 171. figlio del vento 173. figlio della battaglia 175. schiatta deʼ tempestosi colli 176. navi figlie di molti boschi 179. figlia dei stellati Cieli 185. figlio del carro 190. figlia di segreta stanza 200. figli della morte 201. 203. schiatta dellʼacciaro 206. figlio dellʼacciaro 226. figlio del vento 226. aereo figlio (uno spirito) 206. 219. progenie delle verdi valli 207. figlia di beltà 216. figlio della fama 227. 234. 256. figlio della tempesta 233. figlio delle spade 240. figli del deserto 232. 239. figli della rupe 260. figli detta grotta 274. i veltri rapidi figli della caccia 281. figli della mia forza 282. figlio rovente della fornace 236. Tutto ciò è preso dal solo Fingal, dove son pure altre ripetizioni che credo inutile di notare. Io non condanno lʼuso metaforico di questa parola, o dʼaltre parole equivalenti, ma la soverchia frequenza, e talvolta se ne potrebbe condannare ancora lʼapplicazione non opportuna. [262] _Ozj Letterarj._ Torino 1787. T. 1. p. 251. T. 2. p. 319. [263] _Firenze_ 1744. in 8. seconda ediz. [264] _Parma Bodoni_ in 4. Venezia 1790. in 8. [265] Siena 1775. in 12. Venezia 1791. T. 2. in 12. Le notti furono ancora tradotte in prosa dal Loschi Venezia 1776. T. 3. in 8. e dallʼAlberti ivi 1783. T. 2. in 8. Il Bjoernstahel nelle Lettere deʼ suoi viaggi T. 3. p. 274. dice che il Boccardi traduceva in Torino le stagioni di Thomson, e nel 1773. mentre egli scriveva era già compiuta la primavera. Non è però a mia notizia, che lʼopera sia stata pubblicata. Il chiarissimo Signor De Coureil aveva cominciato a pubblicare una serie di poesie Inglesi ottimamente da lui tradotte, ma questa non appartiene allʼepoca della quale io debbo parlare essendosi cominciata a stampare nel secolo presente. [266] Lucca 1784. T. 2. in 8. [267] _Vicenza_ 1781. T. 2. in 12. [268] _Bassano_ 1778. in f. [269] Vicenza 1771. T. 3. in 8. Altre traduzioni vi sono dʼaltri Poeti, che tralascio per non diffondermi troppo. [270] Torino 1772. in 12. Essa è in 8.va rima. Molto più felice sarebbe stata quella del Signor Conte Benvenuto di s. Raffaele, se congetturarlo possiamo dal principio, che se ne ha neʼ suoi versi sciolti stampati in Torino dal Mairesse il 1772. in 8. [271] Caballeros op. cit. suppl. II. p. 6. [272] _Saggio dʼun opera il ripulimento della lingua sarda e sua analogia con la greca e la latina. Cagliari_ 1782. _in_ 4. _Le armonie deʼ Sardi, Ivi_ 1787. _in_ 4. _Catal. della Libr. Garampi_. 7349. 7350. ~INDICE~ DEʼ CAPI DELLA PRIMA PARTE _Introduzione_ Pag. 3 _Dellʼorigine, e dei caratteri delle moderne lingue dʼEuropa. Cap. I._ » 6 _Dellʼorigine della lingua Italiana. Capo II._ » 11 _Dei pregi della lingua Italiana. Capo III._ » 18 _Se nelle cose letterarie si debba, scrivendo, usare la lingua Italiana più tosto che la Latina. Capo IV._ » 22 _In qual modo si debba far uso della lingua Italiana scrivendo. Capo V._ » 24 _Dalle grammatiche della lingua Italiana. Capo VI._» 47 _Del vocabolario della Crusca. Capo VII._ » 55 _Del dizionario enciclopedico dellʼAbate Alberti. Capo VIII._ » 75 _Altri vocabolarj, regole per la pronunzia, sinonimi ed epiteti, rimarj, ed etimologie. Capo IX._ » 83 _Edizioni ed illustrazioni degli autori classici. Cap. X._ » 92 _Di quegli scrittori, che hanno illustrato la lingua Italiana scrivendo purgatamente. Capo XI._ » 95 _Delle altre moderne lingue dʼEuropa. Cap. XII._ » 148 NOTE DEL TRASCRITTORE -Viene mantenuta la punteggiatura originale anche quando appare incongrua con lʼitaliano moderno. Sono stati aggiunti solamente, dove mancanti, i punti alla fine dei periodi. -I numeri compresi nei paragrafi in corsivo vengono resi in carattere normale per aderire il più possibile allo stile ed alla grafica dellʼepoca. -Lo stile dellʼepoca utilizzato dallo stampatore prevedeva che i numeri fossero sempre seguiti da un punto; questo viene mantenuto uniformando lʼopera con lʼaggiungere il punto laddove questo manchi per refuso o più spesso per difetto delle immagini. -Vengono corretti gli ovvii errori tipografici. -Viene mantenuta la convenzione di usare nei caratteri minuscoli due lettere v in luogo della doppia v (vv anziché w). -Talvolta i termini sono scritti con due o più varianti. Quando è stato possibile risalire alla grafia usata allʼepoca sono stati uniformati, mentre in caso di dubbia valutazione sono state mantenute le doppie grafie originali. In particolare viene conservata la doppia grafia aggiungere/aggiugnere (con le relative coniugazioni) perché entrambe le forme erano largamente usate allʼepoca. -Alcuni corsivi sono chiaramente sviste del tipografo e se lasciati aderenti allʼoriginale rendono il testo di difficile lettura; dove possibile senza alterare in maniera eccessiva lʼopera sono stati modificati. -Lʼultimo periodo e la relativa nota a piè di pagina appaiono una svista dello stampatore, essendo completamente fuori di contesto; si riferiscono alla trattazione della lingua sarda trattata in precedenza, e la nota è la stessa della nota n. 251. Vengono comunque mantenute per aderenza allʼopera originale. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Della illustrazione delle lingue antiche e moderne e principalmente dell'italiana - procurata nel secolo XVIII. dagli Italiani - Parte I" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.