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Title: Della illustrazione delle lingue antiche e moderne e principalmente dell'italiana - procurata nel secolo XVIII. dagli Italiani - Parte I
Author: Lucchesini, Cesare
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Della illustrazione delle lingue antiche e moderne e principalmente dell'italiana - procurata nel secolo XVIII. dagli Italiani - Parte I" ***


                        NOTE DEL TRASCRITTORE:

 Sono state adottate le seguenti convenzioni:
 -testo corsivo (italic): _testo_
 -testo grassetto (bold): =testo=
 -testo spaziato (gesperrt): ~testo~



                         _DELLA ILLUSTRAZIONE_
                    DELLE LINGUE ANTICHE, E MODERNE
                    E PRINCIPALMENTE DELLʼITALIANA
                      PROCURATA NEL SECOLO XVIII.
                            ~DAGLʼITALIANI~

                            ~_RAGIONAMENTO_
                          STORICO, E CRITICO~

                        =DI CESARE LUCCHESINI=

                        _CONSIGLIERO DI STATO_
                 DI S. M. LʼINFANTA DUCHESSA DI LUCCA

                         DELLA LINGUA ITALIANA
                     E DELLE ALTRE LINGUE MODERNE
                              ~DʼEUROPA~

                              _PARTE I._

                                ~LUCCA~

                                PRESSO
                   FRANCESCO BARONI STAMPATORE REALE

                              _MDCCCXIX._

  _Ut in magna silva boni venatoris est, indagantem feras quam plurima
  capere, nec cuiquam culpae fuit non omnes cepisse, ita nobis satis
  abundeque est tam diffusae materiae, quam suscepimus, maximam partem
  tradidisse._

          Column. de Re Rust. Lib. V. Cap. I.



                              ~PARTE~ I.

                 _Della lingua Italiana, e dellʼaltre
                       lingue moderne dʼEuropa._



                            _INTRODUZIONE_.


LʼItalia, che allʼaltre nazioni dette lʼesempio, ed aprì la strada a
scuotere il giogo della barbarie, e dellʼignoranza, non cessò mai dopo
quellʼepoca di somministrare uomini chiarissimi in ogni scienza in
ogni arte in ogni disciplina. Le parti tutte deʼ sacri studj, e deʼ
filosofici, le scienze naturali e le matematiche, la giurisprudenza,
la storia con tutto ciò che da lei dipende o serve a rischiararla,
lʼeloquenza, la poesia, le lingue straniere, e la nativa, tutto
in somma ebbe fra noi coltivatori diligenti, e felici, che a se
procacciarono, non meno che alla Patria, gloria immortale. Divisa
in piccoli stati fra lor discordi fu debole, e quindi rimase preda
dellʼarmi straniere; ma gli stessi suoi vincitori mentre ne esaltavano
la dolcezza del clima, e la fecondità del suolo, o ne involavano le
ricchezze, ammiravano la dottrina, e lʼingegno deʼ suoi abitatori.
Laonde aʼ nostri maggiori neʼ secoli XV. e XVI. si può applicare ciò
che della Grecia disse Orazio in quei notissimi versi _Graecia capta
ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio._

Nè dallʼetà precedenti fu degenere quella a noi più vicina, voglio
dire il Secolo XVIII. La memoria di tanti uomini insigni, che esso ha
prodotti, e di tante opere classiche, che in esso han veduta la luce,
è tuttora così recente e viva, che questʼasserzione mia non abbisogna
di prove. Pure ad onor dellʼItalia, sarebbe a desiderarsi, che non so
bene se dica modestia o timore non avesse distolto lʼegregio storico
dellʼItaliana letteratura dallʼestendere ancora a questo le sue fatiche.

Il supplire al silenzio del Tiraboschi appartiene agli uomini eruditi,
deʼ quali abbonda IʼItalia, ed io sarò lietissimo, se le mie parole
ad alcuno di loro serviranno dʼeccitamento per farlo. Prendendo però
a descrivere ciò che daglʼItaliani si è operato nel Secolo XVIII.
intorno al coltivamento delle lingue antiche e moderne e della natìa
principalmente non intendo di percorrere sì fatto arringo, nè pure in
parte. Ho voluto piuttosto adoperarmi di rendere allʼItalia una gloria,
che da alcuni pure si vorrebbe torle. Si concede, che essa abbia poeti
famosi, e buoni storici e chiari oratori: non le si nega molta lode
nelle scienze sacre e nelle profane; e molto plauso si fa aʼ suoi
antiquarj. Ma per ciò che spetta alle lingue, che chiamano dotte, par
che da alcuni si accusino i nostri dʼaverne alquanto trascurato lo
studio. Quindi ho reputato, che debba riuscir non inutile lʼesaminar
alquanto, se questa accusa sia giusta, o almeno fino a qual segno
possa apparir tale. Ma più grave rimprovero meriterebbono, se avendo
pur coltivate le lingue straniere avesser poi trascurata la propria. E
sebbene di ciò niuno ci accagioni, pure mi è grato il ricordare coloro,
che al coltivamento della propria lingua hanno data opera diligente,
e coi precetti o collʼesempio hanno porto altrui eccitamento per
farlo. Il quale eccitamento io credo, che rendersi debba vie maggiore,
richiamando appunto alla memoria le utili fatiche da tanti Scrittori
chiarissimi sostenute per lʼillustrazione della stessa lingua.

Io confesso, che a trattar degnamente il mio argomento mancano a me
parecchi ajuti necessarj, e quelli principalmente dellʼerudizione e
dellʼingegno per richiamarmi alla mente le cose fatte daglʼItaliani,
e darne retto giudizio. Mi mancano altresì molti libri, senza il
soccorso deʼ quali mal si possono intraprendere sì fatte trattazioni.
Il piacere però, che tutti provano in rammentare le glorie della
patria mi ha fatto dimenticare la debolezza delle mie forze, e mi sono
accinto alla impresa. Comincerò dal parlare della Lingua Italiana
chʼesser deve lo scopo principale del mio ragionamento, e a questa
succederanno, come appendice, le altre moderne lingue dʼEuropa. Passerò
poi alle antiche ed a quelle che chiamano _esotiche_, sì antiche, che
moderne. Non pretendo però di noverare tutti coloro, che in questo
genere scrivendo sono degni di qualche lode, ma ne tralascerò molti per
non diffondermi troppo, e stringerò il mio discorso agli uomini più
illustri, ricordandomi di quel detto di Columella, che ho scelto per
epigrafe: _ut in magna silva boni venatoris est, indagantem feras quam
plurimas capere, nec cuiquam culpae fuit non omnes cepisse, ita nobis
satis abundeque est tam diffusae materiae, quam suscepimus, maximam
partem tradidisse_.[1] Potrei forse passare sotto silenzio ancora più,
e diversi Scrittori, le opinioni e le opere deʼ quali condanno. Siccome
però essi hanno ottenuto qualche plauso e forse tuttora lʼottengono da
alcuni, perciò ho creduto non doverli dimenticare.

Debbo finalmente avvertire, che fra glʼItaliani porrò ancora quegli
stranieri, che in Italia menarono una gran parte della loro vita, e
molto più se di quì trassero i mezzi per coltivare i loro studj, e
scrivere le opere loro. Così fecero i dotti Maurini autori della storia
letteraria della Francia; così il dottissimo Tiraboschi nella storia
della letteratura Italiana.



                     _Dellʼorigine e dei caratteri
                    delle moderne lingue dʼEuropa._

                               ~CAPO~ I.


Il chiarissimo Sig. Ab. Denina autor fecondo di molti libri ha scritto
alcune dissertazioni su lʼorigine, le differenze, e i caratteri delle
moderne lingue dʼEuropa, che si leggono negli Atti dellʼAccademia
delle scienze e belle lettere di Berlino, e in parte ancora stampate
separatamente.[2] A me rincresce di non avere questʼopera e di non aver
lette che sole tre delle sue molte dissertazioni, e sono quelle, che
discorrono le cause della differenza delle lingue, e dellʼorigine della
lingua Tedesca.

A tre classi egli riduce le cause delle differenze, che si osservano
tra le lingue figlie di una stessa madre; cioè fisiche, morali, e
miste. Causa fisica è per lui la diversità della pronunzia. I popoli
barbari, che invaser lʼItalia furon costretti dʼavvezzarsi alla lingua
latina; ma per quella difficoltà, che si prova da prima nellʼintender
bene o bene esprimer qualche voce straniera, ora cambiarono qualche
vocale o qualche consonante, ora tolsero, o aggiunsero qualche lettera
o sillaba in principio in mezzo o in fine. Ora lʼalterazione in questa
guisa fatta a una lingua si chiama fisica dal Signor Denina, perchè
egli derivata la crede dal clima o dalla organizzazione deʼ nuovi
abitanti. Ma io dubito, che volendo questo scrittore comparir filosofo
sottile e profondo abbia traviato dal retto sentiero della verità. In
fatti io non so bene qual sia il clima che ama una vocale piuttosto che
un altra e fa accorciar le parole di qualche sillaba. Nè vedo pure come
una certa conformazione di muscoli o di nervi o di non so che altro
possa produr questo. E son dʼavviso che se nel cuore della Svezia o
della Danimarca o della Germania si trasferisse una colonia toscana o
lombarda, e a questa si consegnasse qualche fanciullo appena nato di
si avvezzerebbe alla lingua di queʼ coloni nè la difformerebbe con
accorciamenti o mutazioni, e pure il clima sarebbe diverso dal Toscano
e dal Lombardo, e tal sarebbe la sua organizzazione qual lʼavrebbe
sortita nascendo. Il solo uso lunghissimo e costante forma la pronunzia
e quei barbari giunti in Italia alterarono la lingua latina non pel
clima, in cui eran nati, non per la naturale organizzazion loro, ma per
la lingua alla quale eran avvezzi. Non giudico necessario dʼillustrare
la mia obiezione con maggiori argomenti, e senza più passo alle cause,
che lʼautore chiama morali, e sono le seguenti. 1. Alcuni nomi imposti
alle cose hanno origine dai paesi, daʼ quali queste si traevano, come
_Arazzi_ dalla città dʼAras, _guanti_ in Francese _gands_ da Gand
nella Fiandra[3]. 2. Altre voci provengono da una specie dʼironia, per
cui significano lʼopposto di ciò che dovrebbero significare, onde in
Francese _phoebus_ e _galimathias_ indicano un cattivo stile. 3. Le
cose stesse sono chiamate diversamente in diversi luoghi secondo gli
aspetti diversi, sotto i quali esse possono esser considerate: così
la cosa stessa si chiama in Italiano _posata da porre, o posare_ e
_couvert_ in Francese da _couvrir_. 4. La stessa voce, o almeno simile,
in diverse lingue significa diverse cose, perchè queste si possono
considerare sotto il medesimo aspetto, e reca per esempio la voce
_brod_ la quale[4] significava nutrimento in generale, e _brodo_ in
Italiano vuoi dire una certa bevanda, e in Tedesco _pane_. Alcune però
di queste son tenui mutazioni delle lingue già formate, non di quelle
che nascono; laonde non tendono al vero scopo della dissertazione cui
lʼautore non sempre ha avuto in mira. Egli ha dimenticato altresì
una parte di quello che aveva promesso. Perchè in principio oltre
alle cause da lui chiamate fisiche e morali avendo indicate ancor
le miste, di queste poi non ha fatto parola. Alla dissertazione
aggiunse un supplimento, che non rimedia a questo difetto, e solamente
rischiara alquanto le cose già dette, recando lʼetimologia di parecchie
voci. Ma se alcune di queste etimologie sono commendabili per una
certa spontanea naturalezza, che si concilia la persuasione altrui,
o per acutezza dʼingegno, con cui son derivate non senza molta
verisimiglianza, altre ve nʼha troppo forzate. Tali a cagion dʼesempio
sono quelle di _Kein_ (che in Tedesco significa nessuno) da οὺχ ἕν;
di _von_ (_da proposizione nella stessa Lingua_) da ἀφʼ ὤν; e più
altre.

Lʼaccusa medesima vuolsi dare alle due dissertazioni _sullʼorigine
della lingua Alemanna, e sullʼorigine comune delle lingue Alemanna,
Schiavona, o Polacca, e Latina, e su quella dellʼItaliana_. Il Signor
Denina è sollecito di mostrare la somiglianza, che queste lingue hanno
colla Greca, nella qual cosa più altri Scrittori lʼhanno preceduto, e
seguitato. La trova egli 1. in alcune voci per mezzo dellʼetimologia,
di che ho già detto abbastanza: 2. nella terminazione dellʼinfinito,
che in Tedesco è in _en_ e in Greco in ειν; e in alcuni dialetti
in ην o in μεν. 3. in quellʼaumento della sillaba _ge_, che in
Tedesco prende il tempo preterito. E giudica questo aumento simile
alla reduplicazione deʼ Greci, e dice: _il est vrai que les Allemands
sʼeloignent un peu de la pratique des Orientaux: car au lieu de
redoubler les consonnes initiales des verbes ils leur ont substituè
le g peut être parceque cela étoit plus facile, mais il nʼest pas
douteux que cela ne soit venu des langages de lʼAsie mineure dʼou
est sortie la grecque, et que ce redoublement ne se soit affoibli ou
perdu en sʼavançant vers le Nord et en sʼeloignant de sa source_. Il
_ge_ aggiunto nella lingua Tedesca al tempo preterito è una particela
inseparabile, di cui sʼignora adesso il significato, ma certamente
nellʼantico Teutonico, significava qualche cosa. Si vede anche ora,
che in alcune voci composte indica moltiplicità, unione di cose, onde
per esempio da _mein_ mio, si fa _gemein_ comune, da _balken_ trave
si fa _gebalke_ le travi del tetto. Io non so, se ancora in altro
senso si usasse, e come o perchè si adoperasse per indicare il tempo
preterito; ma nellʼignoranza stessa in cui siamo intorno a ciò parmi,
che si possa asserir con certezza, che niuna somiglianza ha quella
particola colla _reduplicazione_ deʼ Greci. Questa non è una particola
o preposizione inseparabile, ma un aumento, di cui non è nota lʼorigine
e il motivo; laonde è diversa essenzialmente, lʼaggiunta adoperata dai
Tedeschi da quella dei Greci. Arroge a ciò, che la _reduplicazione_ deʼ
secondi forse non era usata nei tempi più remoti, come dubitano alcuni
solenni Grammatici, osservandosi, che nel dialetto Jonico non rare
volte si tralascia.[5] Or supponendo, che una colonia Greca, passasse
a popolare il paese, che poi si chiamò Germania, questo avvenimento
esser deve antichissimo, giacchè niuna storia ne fa menzione; quindi
non poteva essa recare in quelle terre lʼuso della reduplicazione, e
recarvelo in modo, che sempre si adoperi, ove il verbo non sia composto
con una particella inseparabile, mentre nella Grecia essa non era anche
introdotta, e in tempi assai posteriori lʼuso non ne era così costante
e universale.

Checchè sia di questo non si può dubitare, che qualche somiglianza non
si scorga fra la lingua Tedesca, e la Greca: ma questa somiglianza
non conduce il Sig. Denina a credere, che la prima sia figlia della
seconda, e piuttosto vorrebbe, che amendue provenissero da una
madre comune. Questa dirsi potrebbe la Scitica, ove si prestasse
fede alle ingegnose ipotesi del Bailly del Court de Gebelin, del
Wachter, dellʼIhre, ed altri. LʼAccademico di Berlino però rigettando
quellʼopinione arbitraria ama meglio di ricorrere alla lingua deʼ
Traci o dei Frigi, ma a me non pare, che il suo avviso sia più fondato
del primo. Altre osservazioni domanderebbero le altre dissertazioni,
non giudico però necessario di trattenermi più a lungo intorno ad un
autore, dotto certamente e rispettabile, ma che in questo argomento, se
non erro, troppo ha seguito congetture non sempre felici.

NOTE:

[1] Colum. de R. R. Lib. 5. Cap. 1.

[2] Ecco i titoli delle sue dissertazioni giunte a mia notizia, delle
quali però ho potuto leggere le prime tre solamente. Nelle memorie
dellʼAccademia di Berlino pel 1783. _Sur les causes de la différence
des langues_. _Sur lʼorigine de la langue Allemande_. _Nel_ 1785.
_Supplement aux mémoires sur les causes ec. Sur le caractère des
langues, et particulièrement des modernes_. _Nel_ 1788. _Sur la
langue celtique, et celles quʼon pretend en autre sorties. Suite des
observations sur la différence des langues et leur origine_. _Nel_
1794. _e_ 1795. _Sur lʼorigine grecque esclavonne et teutonique de
la langue latine_. _Sur lʼorigine véritable de la langue Italienne,
sur lʼorigine de la langue Françoise et Espagnole_. _Sur lʼorigine de
la langue Angloise_. Il Denina poi stampò _la Clef des langues, ou
Considerations sur lʼorigine et la formations des langues, à Berlin,
chez Quien_, 1803. T. 3. in cui si vedono ripetute le cose dette in
quelle dissertazioni collʼaggiunta di nuove considerazioni.

[3] Tutti sanno che in Francese si scrive _gants_ non _gands_. Se il
Signor Denina avesse guardato il Du Cange alle voci _Wantus_, _Wanto_,
_Gvvantus_, _Guantus_ avrebbe veduto che queste voci erano usate neʼ
Secoli barbari almeno fino dal principio del Secolo nono, e perciò
molto prima della vantata fabbrica di Gand. In Francia si chiamavano
_Wans_ come si ha da una carta del 1172. citata ivi, e alla v.
_chirothecæ_. Questa voce proviene forse dallʼantica lingua Teutonica.

[4] Non so donde egli tragga questa notizia. Forse perchè βρώσκω
in Greco significa _comedo_? Ma bisognava prima provare che le
lingue Settentrionali vengano dalla Greca, il che non si può
provare, quantunque si abbiano in quello non poche voci simili alle
corrispondenti voci di questa. Cominciando da Sigismondo Gelenio,
che nel 1543. stampò in Basilea il suo _Lexicon Symphonum_ delle
lingue Latina, Tedesca, Greca, e Schiavona molti hanno scritto della
somiglianza di quelle lingue colla Greca, ma niuna reale e ben fondata
conseguenza sulla origine loro si è fino ad ora a mio giudizio ricavata
da tanta erudite fatiche.

[5] V. _Lennep. Prel. de Anal. Ling. Gr. Cap._ 5. ed ivi lo Scheid.



                      _Dellʼorigine della lingua
                              Italiana._

                              ~CAPO~ II.


Fu già questione lungo tempo agitata fino dai secoli trapassati qual
sia lʼorigine della lingua Italiana. Leonardo Aretino, il Cardinal
Bembo, Celso Cittadini, ed altri autori trattarono questo argomento,
ma non lo fecero in modo, che togliessero ai posteri lʼadito a
disputare novellamente. Ne scrissero nel Secolo decimottavo il P. D.
Angelo della Noce,[6] Uberto Benvoglienti,[7] e il Quadrio,[8] ma lo
fecero sì scarsamente, che io contento dʼaverli sol nominati passerò
tosto a far parola del Marchese Maffei, del Muratori, del Fontanini, e
del Tiraboschi, i quali con maggior copia dʼerudizione, ed accuratezza
esaminarono sì fatta questione.

Il Maffei dopo aver detto nella _scienza cavalleresca_,[9] che
lʼItalia per lʼinvasione dei Barbari cambiò la lingua, e i nomi degli
uomini e dei paesi, nella _Verona illustrata_[10] mutò opinione, e
sostenne, che la lingua Italiana provenne _dallʼabbandonar del tutto
nel favellare la Latina nobile, gramaticale, e corretta, e dal porre
in uso la plebea, scorretta, e mal pronunziata_. Confermò egli la
sua asserzione pretendendo, che deʼ conquistatori dellʼItalia pochi
ne rimanessero, nè potessero perciò alterare la lingua del Paese. La
confermò osservando, che la lingua deʼ Longobardi e degli altri popoli,
che inondaron lʼItalia e la soggiogarono era aspra per molte consonanti
e dal mischiamento di queste non poteva derivarne una nuova, in cui le
vocali avessero tanta parte, come è la nostra. La confermò adducendo
parecchie voci Latine, come _testa per caput_, _caballus, e caballinus
per equus, ed equinus_, _laetamen per fimus_, _nanus per pumilio_,
_tonus per tonitru_, _bramosus per cupidus_, e simili, che ora sono
Italiane. La confermò ricordando le aferesi, le sincopi, e le apocopi,
o vogliam dire gli accorciamenti di lettere, e di sillabe in principio,
in mezzo, e in fine usati dai Latini assai volte e i cambiamenti delle
lettere affini. E finalmente per tacere dʼaltri argomenti la confermò
dicendo che anche lʼuso del verbo ausiliare _avere_, il quale si
crede passato a noi dalla Germania, fu prima presso i Latini, e ne
reca alcuni esempj, ed assai più ne accenna il Signor Abate Denina
in due luoghi delle sue dissertazioni testè citate. Ma è falso, che
pochi avanzi dei Longobardi, e degli altri invasori rimanessero quì,
come dimostra il Muratori, che anzi furono moltissimi, e questi
avendo in mano le redini del governo, e le dignità tutte occupando
ecclesiastiche, e civili recarono necessariamente una mutazion grande
alla lingua. Falso è che dalle lingue di questi popoli aspre per molte
consonanti, e dalla Latina nascere non potesse la nostra dolcissima.
La lingua latina non ha maggior copia di consonanti dellʼItaliana
se non nelle terminazioni. Ora queste essendo diverse secondo le
modificazioni deʼ nomi, e deʼ verbi chi ignora la lingua tralascia
facilmente quelle desinenze varie secondo i diversi casi, e perciò
appunto difficili a ricordarsi. Bisognerebbe svolgere maggiormente
questʼasserzione, ma io non posso arrestarmi a lungo ad ogni passo,
e debbo continuare lʼintrapreso cammino. Non giova poi lʼaddurre le
parole e gli accorciamenti, che il Maffei adduce, perchè volendosi che
la nuova lingua sia un alterazione della Latina debbono in quella esser
rimaste tracce moltissime di questa. Quindi ammettere si potrebbe
ancora, che lʼuso del verbo ausiliare _avere_ venga dal Latino, nè per
ciò lʼopinion sua avrebbe maggior forza. Vuolsi però riflettere, che i
Latini rarissime volte lʼadoperarono, e noi siamo costretti dʼusarlo
continuamente avendo i nostri verbi più e diversi tempi neʼ quali esso
è necessario, siccome appunto avviene nella lingua Tedesca, la quale
lʼadopera neʼ tempi medesimi, in cui noi pur lʼadoperiamo.

Ma il Muratori raccogliendo maggior copia dʼantichi monumenti, e più
minutamente esaminandoli sostenne unʼopinione diversa, e più probabile.
Lʼignoranza, nella quale cadde miseramente lʼItalia per la venuta deʼ
popoli barbari, fece dimenticar le regole della lingua Latina, di modo
che nè la sintassi, nè le desinenze deʼ varj casi neʼ nomi, o delle
persone nei varj tempi e modi deʼ verbi più si osservarono. Si aggiunse
gran numero di voci nuove tratte daglʼidiomi deʼ conquistatori, e
certe proprietà di questi, come lʼuso del verbo ausiliare avere, e
dellʼarticolo. Del primo ho parlato pur ora; e del secondo parlerò
adesso brevemente. Lʼarticolo forse derivò a noi dallʼantica lingua
Teutonica, e fu da prima un accorciamento del Latino pronome _ille_. Si
disse prima _illo Caballo_, _illa hasta_, _illae foeminae_, e poi _il,
o lo Caballo_, _la asta_, _le femine_.

Nelle Litanie del 790. pubblicate dal Mabillon in _Analect._ si legge
_Adriano Summo Pontefice, et universale Papa. Redemptor Mundi, tu
lo_ (_illo_ cioè _illum_) _juva_, e appresso, tu _los_ (_illos_)
_juva_. In un diploma di Carlo Magno dellʼ808.[11] si legge: _inde
percurrente in la Vegiola, ex alia vero parte_ de la _Vegiola_ ec. E
nelle formole di Marcolfo Lib. 1. Cap. 17. _Sicut constat antedicta
Villa ab ipso Principe_ lui _fuisse concessa_, dove _lui_ secondo
alcuni viene da _illui_ che nel lor Latino avranno detto per _illi_,
o secondo il Menagio da _illius_.[12] Aggiunge finalmente il Muratori
a confermazione della sua opinione una lunga serie di voci, che
provengono dalla Germania, la quale si accrescerebbe di molto, se
le antiche lingue deglʼinvasori dʼItalia fossero più conosciute. Il
commercio poi, e le crociate trassero a noi dagli Arabi alcune parole,
ed appartengono ad arti, come _Alchimia_, _caraffa_, _lambicco_, ec.
o a mercatura come _canfora_, _cremesi_, _lacca_ ec. o a milizia come
_Alfiere_, _Tamburo_ ec. Molte ne dette la Provenza per lo studio, che
in Italia si fece della Poesia Provenzale, ed alcune la Spagna.[13]

Lʼavviso del Muratori riguarda lʼorigin prima della lingua, e in ciò
fu seguitato dal Fontanini[14] dal Bettinelli[15] dal Tiraboschi.[16]
Ma vuolsi passare innanzi, ed indagare donde a lei derivò altra ricca
messe di parole, e di modi di dire. Ciò avvenne per la poesia; onde
dellʼorigine della nostra poesia vuolsi tenere ragionamento, e di
coloro che nel passato secolo questa parte della storia dellʼItaliana
letteratura presero ad esaminare. La poesia Italiana diversa è dalla
Greca e dalla Latina, perchè queste fanno consistere i versi in un
certo numero di piedi composti di sillabe lunghe, e brevi secondo
certe leggi, e la nostra li fa consistere solamente in un certo numero
di sillabe con certi accenti posti in luoghi determinati secondo la
diversa qualità deʼ versi, e nella rima. Dico anche la _rima_, perchè
neʼ primi tempi non vʼera fra noi poesia che ne mancasse. Dellʼuso
della rima presso i Latini neʼ tempi antichi, e neʼ secoli barbari, e
dei versi regolati non dai piedi ma dal numero delle sillabe, parla a
lungo il Muratori;[17] ma le sue erudite osservazioni tralascerò io di
ricordare, come quelle che aliene sono dal mio argomento. I primi a
poetare fra glʼItaliani furono i Siciliani secondo il Petrarca.

_Ecco i due Guidi che già furo in prezzo Onesto Bolognese, e i
Siciliani Che fur già primi, e quivi eran da sezzo_[18]

Ma i Siciliani imitarono i Provenzali secondo il Crescimbeni,[19] il
Fontanini[20], ed altri. Il Muratori però non mostrò dʼesser persuaso
abbastanza da questa opinione, ed oppose le parole citate dellʼepistole
familiari del Petrarca, dalle quali a lui parve potersi dedurre, che
i Siciliani fossero stati i primi a prendere questa maniera di far
versi daʼ Latini, e dai Greci. Il Tiraboschi riconobbe anteriorità neʼ
Poeti Provenzali, ma dellʼobiezione del Muratori non fece parola. A me
sembra però, che il Petrarca voglia in quel luogo indicare lʼorigine
più remota della rima, (che è il Lazio, e la Grecia certamente), e
la nazione che in Italia precedette lʼaltre nel far versi, la quale
è la Siciliana, senza volere poi indagare, se i Siciliani in ciò
abbiano imitati i Provenzali. Diciamo dunque coʼ mentovati scrittori
essere probabilmente lʼItaliana Poesia derivata dalla Provenzale, ed
avere avuto il suo nascimento in Sicilia alla metà del secolo XII. o
poco dopo. Se poi la Provenzale provenga dallʼAraba, come sospetta
il dottissimo Padre Andres[21] non è di questo luogo lʼesaminarlo.
Quindi venne un aumento non piccolo di voci, e di modi di dire alla
nostra lingua. Lo negò il Muratori[22] secondando troppo il desiderio
di contradire il Fontanini, ma per assicurarsi di questa verità basta
volgere uno sguardo al Vocabolario della Crusca, alla Crusca Provenzale
del Bastero, alle Lettere di Fra Guittone, ed agli altri Poeti del
Secolo decimoterzo.

NOTE:

[6] Nelle note alla Cronica Cassinense di Leone Vescovo dʼOstia.

[7] _Storia della Lingua Italiana_ ricavata dalle Miscellanee, e
Lettere M. SS. nelle _Delizie degli Erud. Tosc._ del P. Ildefonso T. 2.
p. 226.

[8] _Storia della Poesia_ T. 1. p. 41.

[9] Lib. 2. Cap. 1. T. 13. p. 143. La stessa opinione tennero il
Gravina, _della Rag. Poet._ Lib. 2. e il Quadrio _Stor. e Rag. dʼogni
Poes._ Lib. 1. Dist. 1. Cap. 2.

[10] P. 1. Lib. 11. Op. T. 5. p. 214.

[11] _Campi Stor. Eccl. di Piac._ T. 1.

[12] Quindi si vede, che lʼArticolo Italiano in origine non è che il
pronome _ille_ alterato per corruzione di lingua, a cui si aggiunge
una proposizione neʼ casi obliqui, cioè _del_, o _dello_ viene da _de
ille_; _al, o allo_ da _ad illo_ in Latino barbaro per _ad illum_;
_dal, o allo_ da _de illo_. Or lʼarticolo Germanico viene anchʼesso dal
pronome _quello_

     Articolo.                      Pronome.
     N. der                           der
     G. des                           dessen
     D. dem                           dem
     A. den                           den ec.

[13] Non parlo di quelle, che il dominio degli Spagnoli introdusse
fra noi alla fine del Secolo XVI. e nel XVII. le quali appartengono
allʼaccrescimento non allʼorigine della lingua, della quale si tratta
quì. Alcune antiche voci Italiane derivate dallo Spagnolo sono
accennate dal Gigli nel Vocab. Cateriniano.

[14] Elog. Ital.

[15] Risorg. dʼItal.

[16] Stor. della Lett. Ital.

[17] Antiq. Med. Ev. Diss. 40.

[18] Trionf. dʼAm. C. 4. e più chiaramente in _Præf. ad Ep. fam. Quod
genus apud Siculos_ (_ut fama est_) _non multis ante sæculis renatum,
brevi per omnem Italiam ac longius manavit, apud Græcorum olim ac
Latinorum vetustissimos celebratum; siquidem et Romanos vulgares
rythmico tantum carmine uti solitos accepimus._

[19] _Coment. intorno alla Storia della Volg. Poes._ T. 1. Cap. 2.

[20] _Elog. Ital. Cap._ 7. _e segg._ Si veda anche il Quadrio, _Stor.
e Rag. dʼogni Poes._ il Tiraboschi _Stor. della Lett. Ital._ il
Bettinelli _Risorgim. dʼItal._

[21] _Orig. ec. dʼogni Lett._ T. 1. _Cap._ 11. p. 297. e segg.

[22] Luog. cit.



                  _Dei pregj della Lingua
                              Italiana._

                              ~CAPO~ III.


Ma tempo è ormai che lasciamo la nostra lingua nascente, e la
osserviamo adulta considerandone i pregj. Di questi ha scritto il
Signore Napione[23] e lo ha fatto in modo, che ogni leggitore dee
rimaner dubbioso, se debba in lui commendar più la dottrina, che è
grandissima, o le belle qualità del cuore, che alla sua dottrina non
sono inferiori. Certo è che mentre egli si mostra amantissimo della
patria, e dellʼItalia, e cerca di promuoverne la gloria, espone i pregj
di nostra lingua, e accenna come si possa e convenga diffonderne lʼuso
fra le gentili e colte persone di tutta Italia. Colla ragione adunque,
e colla testimonianza deʼ più celebrati scrittori delle straniere
nazioni ne mostra i pregj, e ribatte le meschine obiezioni, che fece
già il P. Bouhours, e pochi altri prima, e dopo di lui. E siccome uno
deʼ principali suoi pregj a confessione di tutti è lʼarmonìa, da che
ne viene, che essa abbia una facilità grandissima per esprimere ciò,
che si chiama armonìa imitativa, non debbo quì tacere, che il Signor
Cesarotti avendo asserito nel suo _saggio_, che tutte le lingue si
prestano ad unʼarmonìa imitativa, neʼ rischiaramenti apologetici poi
disse, che lʼarmonìa imitativa si trova in una lingua, quando essa
sia tanto armonica _quanto il comporta la sua struttura e il rapporto
tra gli oggetti e i suoni della detta lingua_[24]. Queste parole però
ristringono tanto la proposizione, che non le lasciano più luogo di
comparire. Io dubito molto, che scrivendo il _saggio_ egli non avesse
nellʼanimo tanta restrizione, che se lʼavesse avuta par probabile,
che avrebbe giudicato inutile dʼesporla. Segue poi dicendo non
esser cosa agevole nè sicura di giudicar dellʼarmonìa di una lingua
straniera; il che ognuno gli concederà generalmente parlando. Egli
però dovrà concedere altresì, che talvolta vi sono almeno due mezzi
per rendere agevole e sicuro questo giudizio. Il primo è quando più
e diverse nazioni antepongono lʼarmonìa di una lingua straniera a
quella della propria: il secondo quando più e diverse nazioni, mentre
lodano lʼarmonìa della propria lingua, fra quelle poi che ad essa
sono straniere si uniscono tutte o quasi tutte a dar la preferenza ad
una. E tale è il caso della lingua Italiana. Finalmente contro coloro
i quali opinano le lingue deʼ paesi freddi dover essere più aspre
oppone il Sig. Cesarotti lʼopinione dellʼAb. Denina, il quale disse
la Svezzese esser più dolce della Tedesca, e tanto esser più dolce
quanto più si estende verso il settentrione, la Polacca esser piacevole
ad udirsi, e la Russa accostarsi più dʼogni altra alla soavità della
Greca. Io non credo, che lʼopinione intorno allʼasprezza delle lingue
settentrionali sia vera, ma certo non è lʼautorità dellʼAb. Denina, che
mi muove punto a crederla falsa. Egli non ha dato prove di saper molto
la lingua Tedesca, benchè abbia dimorato qualche anno in Germania, ed
è permesso di dubitare che non sia più dotto nella Svezzese, Polacca,
e Russa. Sentii un giorno cantare una canzonetta Polacca dal Principe
Poniatovvski, e quando egli si fu rimasto dal cantare gli dissi, che
la sua lingua mi pareva molto dolce. Egli però mi rispose, che quella
dolcezza era solo apparente, e che la lingua è molto aspra, ma qualche
artifizio usato cantando, e lʼaccompagnamento del suono copriva gran
parte di quellʼasprezza. Così mi è pure avvenuto assai volte di non
sentire eccessivamente lʼasprezza della lingua Tedesca nelle opere in
musica, ma sentirla però moltissimo nei familiari colloquj. Ma torniamo
al Sig. Napione.

Mostra egli, che vuolsi usare della nostra lingua piuttosto, che della
Latina scrivendo dʼogni scienza e dʼogni facoltà, ed espone i vantaggi,
che da ciò debbono derivare. Indi esamina quali siano le cause, per
cui la lingua Italiana, che fu già un tempo Lingua universale abbia or
cessato dʼesser tale, indica le sue vicende, e lʼattual suo stato, e
propone i mezzi, che reputa più acconci a far sì che popolare, e comune
divenga la colta lingua Italiana.

Altri prima di lui avea tentato di ricordare i pregi della lingua
Italiana, come Castruccio Bonamici in una orazione accademica, il
Salvini in alcuni discorsi, e simili; ma in niuno si trova quella
copia di ragioni e dʼutili osservazioni, quella giudiziosa critica,
quellʼampia erudizione, quellʼamor di patria, che quì si vedono ad ogni
pagina. Di questi perciò non dirò più lungamente. Dovrei bensì far
parola del ragionamento del Sig. Ab. Velo.[25] Se vogliamo prestar
fede agli editori delle opere del Cesarotti, in poca o niuna stima lo
dovremo tenere. Ma se ascoltiamo il Signor Napione[26] ne giudicheremo
altrimenti.

In questa disparità di giudizj crederò di non errare preferendo quello
del secondo, il quale non solamente colla celebrità del suo nome, ma
ancora colla minuta analisi, che ne fa, persuade il leggitore. Ma non
mʼè riuscito di vedere quel ragionamento, onde non posso dirne più
oltre.

Prima di questi scrittori avea trattato lʼargomento medesimo il P.
Girolamo Rosasco.[27] Egli però con moltissime parole non dice molte
cose, e per ogni riguardo nella sua trattazione deve ceder la palma al
Sig. Napione. Ricerca in prima lʼorigine della lingua e condannando
lʼopinion di coloro, che il volgo di Roma lʼusasse anticamente,
la reputa nata dal corrompimento del latino per lʼinondazione deʼ
Barbari in modo però, che le lingue di costoro poco influissero su
la Toscana Romana e Veneziana, molto su la Bergamasca, Bresciana
Lombarda Piemontese e Genovese. Parla poi dellʼabbondanza sua, della
dolcezza, brevità, ed armonìa paragonandola colla Greca e colla Latina.
Parla altresì del modo, che si dee tenere scrivendo nella nostra
lingua, ma di ciò ragionerò altrove. Prima ancor del Rosasco, anzi al
cominciamento del secolo scrisse Anton Maria Salvini una lezione su
questo argomento:[28] ne scrisse però brevemente in modo, che la sua
celebrità, non lʼutilità dellʼopera mi ha indotto a nominarlo.

NOTE:

[23] _Dellʼuso, e dei pregj della lingua Italiana libri_ 3. _con un
discorso intorno alla Storia del Piemonte, Torino, Balbino, e Prato_
1791. T. 2. in 8. e di nuovo Pisa 1813. Oltre a ciò che il titolo
promette, vi è un discorso intorno al modo di ordinare una Biblioteca
scelta Italiana dello stesso Autore, una Lettera del Tiraboschi
contenente alcune osservazioni sul primo volume, e la risposta, in cui
si dileguano le poche obiezioni di quella lettera, ed una lunga, e
dotta sua lettera allʼAb. Bettinelli, nella quale di più e diverse cose
appartenenti allʼargomento dellʼopera si ragiona, e specialmente di un
libro dellʼAb. Velo, del quale parlerò fra poco.

[24] _Ces. Op._ T. 1. _p._ 249.

[25] _Sulla preminenza dʼalcune lingue, e sullʼautorità degli scrittori
approvati, e dei Grammatici, ragionamento dellʼAb. Giambattista Velo.
Vicenza._ Esso non era da prima che una prefazione alla dissertazione
_suʼ caratteri del gusto Italiano presente, stampata in Vicenza, il_
1786. sotto il nome dellʼAb. Garducci.

[26] Nella lettera citata allʼAb. Bettinelli.

[27] _Della lingua Toscana Dialoghi sette._ Torino, 1777. T. 2. in 8.

[28] Salvini. Pros. Tosc. p. 297.



          _Se nelle cose letterarie si debba scrivendo usare
             la lingua Italiana più tosto che la Latina._

                              ~CAPO~ IV.


Ho detto, che il Signor Napione vuole, che in ogni scienza, e in ogni
facoltà si usi scrivendo la lingua Italiana, piuttosto che la Latina.
Fu già un tempo, in cui si credeva, che la nostra lingua atta fosse
solamente a trattar dʼamore, ed altrettali soggetti di lieve momento,
e nulla di grande dir si potesse con essa. E furon parecchi uomini
dotti nel secolo decimosesto, che acremente inveirono contro di lei
sostenendo, che le scienze tutte, e la storia, e le opere di eloquenza,
e di poesia scrivere si dovessero in Latino. Fu gran ventura però, che
molti in quella, e nellʼetà seguenti le vane loro declamazioni e i loro
sofismi rigettassero coi fatti più ancora che cogli argomenti, onde
lʼItalia di tanti libri eccellenti si può gloriare scritti nel volgar
nostro in ogni maniera di letteratura. Non mancarono però nel secolo di
cui parliamo scrittori, che ancora colle ragioni abbiano validamente
sostenuta la contraria sentenza. Non parlerò del Bonamici[29] e del
Bettinelli[30], che ne parlarono solo per incidenza. LʼAlgarotti ne
trattò più direttamente:[31] ma a me pare, che adoperando argomenti
non buoni egli abbia indebolita unʼottima causa. Ricorda le espressioni
gentilesche mal a proposito posta dal Bembo nelle lettere pontificie,
di che già da tanti si è parlato; ricorda la sconvenevolezza dʼadattare
a piccoli oggetti espressioni grandiose, e magnifiche usate già dai
Romani, e degne solamente di loro, e di pochi altri: il che prova
solamente lʼirragionevole superstizione dirò così e il difetto di
giudizio in coloro, che cadono in sì fatti errori. Ma lasciando più
altre cose, che in quel saggio si vedono meritevoli di censura una
sola ne voglio aggiungere, ed è la riprensione, che fa lʼAlgarotti
aʼ moderni scrittori latini chiamandoli centonisti rivestiti delle
spoglie, e delle divise altrui. Or a me fa maraviglia, che un uom
dotato di gusto squisito e intendente della lingua latina, come egli
era, possa chiamar centonisti il Fracastoro il Vida il Sannazaro il
Molza il Flaminio, il Navagero il Bembo il Bonfadio il Manuzio il
Sadoleto e tanti altri che egregiamente in versi o in prosa scrissero
nella lingua del Lazio nel secolo decimosesto, giacchè di quelli, che
onorarono il decimottavo, farò parola altrove.

Assai meglio sostengono la causa della lingua Italiana il
Vallisnieri[32], il Gravina in un dialogo _de lingua latina_, e meglio
forse la sostenne altresì il Buganza,[33] di che mi assicura assai la
celebrità dellʼautore, quantunque lʼopera sua non mi sia venuta alle
mani. Ma certamente nulla ha lasciato a desiderare su questʼargomento
il signor Napione nellʼopera testè citata, dove, colle più giudiziose
riflessioni dimostra lʼutilità, che allʼItalia ne verrebbe ed alle
scienze, insegnandole nella nostra lingua.

NOTE:

[29] NellʼOrazione cit.

[30] _Lettere di Virg. e Risorg. dʼItal._

[31] _Saggio sulla necessità di scrivere nella propria lingua_ Op. T. 4.

[32] Opere T. 3.

[33] _Discorso intorno alla lingua di cui servir ci dobbiamo. Mantova_
1771.



              _In qual modo si debba far uso della lingua
                         Italiana scrivendo._

                               ~CAPO~ V.


Ma unʼaltra quistione agitata già prima neʼ secoli decimosesto, e
decimosettimo, e rinnovata aspramente nel decimottavo devesi ora da
me accennare. Questa lingua, nella quale dobbiamo scrivere, e molti
parlano è ella lingua viva, o morta col cadere del secolo decimoquarto,
dimodochè non sia più lecito dʼaggiugnere nuove voci dopo quellʼepoca?
È propria solo di Firenze, o della Toscana, o di tutta lʼItalia?
Dobbiamo noi sottoporci docilmente al freno dellʼAccademia della
Crusca, nè recedere daʼ suoi giudizj, o spregiarli, come arbitrarj? Se
ascoltiamo il Becelli nel quinto deʼ suoi dialoghi[34] noi dobbiamo
usare scrivendo la lingua del trecento; ed egli vuole, che dopo
quellʼepoca fortunata la nostra lingua sia lingua morta. Pochi però
per buona sorte sono di questo avviso, i quali chiamar si possono,
come altri già li chiamò, Giansenisti della Crusca. Parecchi con più
ragione si contentano di chiamar buon secolo quello del trecento,
perchè comunemente in Toscana si scriveva allora con purità. Nelle età
seguenti vennero altri scrittori prestantissimi in molto numero, che si
procacciarono somma lode, ma lo scrivere puramente non fu una gloria
così comune, come a quei giorni. Oltre a ciò vʼha in quegli antichi una
certa grazia, che incanta, la quale pochi deʼ loro successori hanno
voluto ritrarre nei loro scritti: o se han voluto imitarli anche in
questo, pochissimi (se non mʼinganno) hanno saputo farlo con quella
naturalezza. Si condannano gli scrittori del trecento di avere usati
certi modi antiquati, e periodi lunghi, che stancano il leggitore,
con una trasposizione spesso forzata, ed incomoda. Ma il primo non è
difetto per essi, e il secondo appartiene piuttosto allʼeloquenza,
di che non parlo in questo luogo. Ma poi domando io, questo secondo
difetto è forse negli ammaestramenti degli antichi, nelle vite deʼ
Santi Padri, nel Cavalca, in Fra Giordano, nel Passavanti, e in altri
parecchi, che potrei nominare? No certamente, e quegli scrittori, che
li accusano convien dire, che non li abbiano letti. Strana cosa è poi
il chiamar morta una lingua, che tuttora si parla, e si scrive; nè
meno è strano il togliere agli scrittori la facoltà dʼaccrescere di
nuove voci e di nuove maniere una lingua viva, purchè si faccia con
certe regole, ed ove il bisogno lo richieda. Così fecero quei valenti
scrittori, che più sono pregiati in Italia, e fuori. Ma di questo
tornerà in acconcio tenere altrove discorso, dopo che avrò parlato di
coloro, che hanno trattato della seconda questione.

Siena usa dʼun grazioso dialetto, e alcuni suoi chiarissimi scrittori,
come Claudio Tolomei, Celso Cittadini, Scipione Bargagli neʼ loro libri
lʼhanno tenacemente seguitato, ed han preteso di seguitarlo a ragione.
Si rinnovò nel passato secolo la contesa per opera di Girolamo Gigli,
il quale voleva che le voci da S. Caterina da Siena adoperate, e da
parecchi altri scrittori Senesi, fossero dallʼAccademia della Crusca
accolte nel suo Vocabolario. Già ne avea adunate forse cinquecento,
delle quali gran parte (se a lui dobbiamo prestar fede) era stata
approvata da Anton Maria Salvini.[35] Per meglio riuscir nel suo
intento meditava di stampare i principali scrittori Senesi in 37.
volumi, di che dette il prospetto fino dal 1707. e poi fece stampare
in Lucca lʼopere di S. Caterina, che furono con erudite annotazioni
illustrate dal P. Federigo Burlamacchi della Compagnia di Gesù. Quindi
compose un vocabolario delle parole, e modi di dire usati dalla Santa
e degni di speciale osservazione. Sopra alcune di queste voci bramò
egli di conferire col Cav. Anton Francesco Marmi dottissimo Fiorentino,
collʼArciconsolo della Crusca, e con Anton Maria Salvini, di che
scrisse al Marmi, pregandolo altresì, che gli procacciasse una lettera
dellʼAccademia della Crusca o dellʼArciconsolo, o almeno di qualche
erudito Accademico in commendazione delle opere della Santa. Ma non
ottenne il suo intento. Forse quellʼAccademia, che volea cogliere il
più bel fiore della lingua da quelle opere temette non forse lodandole
essa con una lettera, paresse a molti, che per lei si approvasse
tutto ciò che vi si conteneva. Ma quello che ricusò la Crusca, gli
concedettero facilmente molte altre Accademie Italiane[36]. Eʼ da
credere, che di quì nascesse il suo mal talento verso la Crusca,
che ridondò poi tutto in suo danno. Era il Gigli uomo non di molta
dottrina, ma soverchiamente mordace,[37] e di motti pungenti contro
lʼAccademia, contro qualche Personaggio illustre, e contro la Nazione
Fiorentina riempì il Vocabolario Cateriniano, il che fu a lui cagione
di lunghe e gravi sciagure. Io tralasciando la storia di questo, che
può vedersi nella sua vita, considererò brevemente il Vocabolario
Cateriniano. Ove da questo si tolga tutto ciò che vʼha di satirico, e
dʼinutile, quel volume si ridurrebbe a piccola mole, e allora sarebbe
esso stato pregevole, e più gradito. Parecchie voci usate dalla Santa
sono veri idiotismi difettosi, che doveano avervi luogo per erudizion
solamente. Ma altre ve ne sono degne di lode, delle quali alcune dai
compilatori del Vocabolario della Crusca furono collocate nellʼultima
edizione, e qualche altra ancora avrebbero forse potuto collocarvi.
Errava il Gigli pretendendo, che gli Scrittori tutti più celebri
della sua patria riputar si dovessero come legislatori, ed esemplari
di nostra lingua, quantunque per loro instituto seguendo il dialetto
Senese recedano dalle regole della lingua medesima. Egli osserva che
Ennio Plauto Catone Terenzio Pacuvio Cicerone Virgilio Orazio Catullo
Properzio Livio Ovidio Vitruvio Sallustio nel secol dʼoro, Fedro
Patercolo i due Senechi Lucano Marziale Quintiliano Persio Giovenale
Stazio i due Plinii Columella nel secol dʼargento erano forestieri, e
pure non furono esclusi dal numero deʼ legislatori della lingua Latina.
Così per suo avviso non si debbono escludere i buoni scrittori delle
diverse provincie della Toscana. Io non nego, che i buoni scrittori
debbano essere adottati, e molti in fatti ne adottò lʼAccademia della
Crusca non solo da quelle provincie, ma da tutta lʼItalia. Il che essa
fece, perchè vuolsi prendere ciò che è buono, ovunque si trova, non per
lʼesempio dei Latini addotto dal Gigli. Il Gigli dovea provare, che
quei forestieri del secol dʼoro scrivessero secondo il natìo dialetto,
non secondo il dialetto di Roma. Nè bastava che asserisse, ma dovea
provare eziandio, che la lingua latina si arricchisse a quella età
delle voci, e modi di dire delle straniere nazioni. Si sa bensì, che
Lucilio biasimava in Vectio lʼuso di qualche voce Etrusca.[38] Pollione
rimproverava a Tito Livio non so quale sua Patavinità, (se pure non
fu questa una vana, e maligna accusa di quel critico) e Vitruvio
certamente non aveva speranza dʼesser reputato legislatore di lingua;
ma anzi in principio della sua opera domandò perdono, se in alcuna cosa
fosse caduto, che alle regole della Grammatica fosse contraria.[39]
Cicerone era _in filio recta loquendi usquequaque asper exactor_;[40]
onde non è da credersi, che non si guardasse daglʼidiotismi dʼArpino.
Io non dirò, che taluno di questi ottimi scrittori non adoperasse
talvolta qualche voce straniera; dico solamente, che allora non erano
giudicati legislatori della lingua Latina, ma venivano ripresi.
Quintiliano chiama ciò _barbarismum gente_, e mostra, che vi caddero
Catullo, Persio, Labieno, e Cornelio Gallo;[41] e Cicerone rinfacciò
ad Antonio la parola _piissimus_, che non era della lingua Latina.
_Tu porro ne pios quidem, sed piissimos quaeris, ut quod verbum
omnino nullum in lingua Latina est, id propter tuam divinam pietatem
novum inducis._[42] Cap. 19. Così Quintiliano condanna la parola
_gladiola_ usata da Messala quantunque si dicesse _gladium_ ugualmente
che _gladius_. È falso dunque, che i forestieri scrittori fossero
riguardati, come legislatori della lingua anche allora, che modi nuovi
adoperavano, e voci nuove. Si dirà forse da taluno, se gli scrittori
Senesi, Lucchesi ec. del secol decimoquarto furono adottati, perchè
non si adottarono ancora il Tolomei, il Cittadini, ed altri del
sestodecimo? A questa domanda risponderà per me un dotto Senese, cioè
Uberto Benvoglienti. _Nel buon secolo pochissima differenza passava
fra lo dialetto Senese, e Fiorentino. Decadde la lingua nel secol
decimoquinto; nel seguente però si volle richiamare al suo splendore,
ma per la moltitudine deʼ forestieri, che erano nella Città_ (di Siena)
_e forse anche per altra cagione non potè il dialetto Senese rialzarsi
allʼantico suo splendore—a differenza dei dialetti era piccola da
principio, e poi certi idiotismi non erano così universali, che non
si scrivesse in Siena ancora alla maniera Fiorentina, onde neʼ loro
scritti si trova_ povero, e povaro, essere, ed essare, leggere, e
leggiare ec. ec.[43]

Ma lʼopinione del Gigli non bastò ad altri, i quali aspiravano ad una
libertà di gran lunga maggiore. Fra quanti furono patrocinatori della
libertà ricorderò solamente il Cesarotti, il quale per sottigliezza
dʼingegno, e per apparato di filosofiche ricerche tutti superò gli
scrittori, che lo precedettero in questo arringo. Egli dichiaratosi
campione della libertà nel fatto della lingua sgrida coloro, che sono
di contraria opinione, e acceso di sdegno, che non è però senza grazia,
esclama colle parole del Marmontel, _O Subligny tu pretendevi di saper
la grammatica meglio di Racine_! prosiegue poi egli, _O Infarinati, o
Inferrigni voi pretendeste di saper grammatica, e poesia meglio del
Tasso! O Castelvetro, tu pretendevi di sequestrare in bocca al Caro
tutte le voci, che non erano del Petrarca! O..... O..... O..... O razza
eterna deʼ Subligny, tu siei pur propagata in Italia_?[44] Ma se il
Signor Cesarotti ha reputata cosa lodevole il mordere aspramente Omero,
e criticare Orazio, e parecchi deʼ Greci Oratori, se egli ha creduto di
ravvisare tanti errori gravissimi in quegli uomini sommi,[45] perchè
non potrà altri ravvisare qualche errore nel Tasso, e nel Racine,
sommi uomini anchʼessi, e nel Caro inferiore a quei due, ma scrittore
illustre egli pure? Ma essi furono accusati dʼerrori grammaticali,
_come se lʼuomo di genio non avesse mai diritto di parlare senza
lʼuso, nè innanzi allʼuso_, dice il Signor Cesarotti colle parole
del Marmontel. E non sono uomini anchʼessi, e perciò sottoposti ad
errare? E quanti sono gli errori, che nelle più insigni opere dʼogni
età e dʼogni nazione si trovano, e che i Grammatici onestano col nome
dʼenallage, e con altri simili? Certo è che nellʼottima edizione delle
opere di Racine procurata dal Signor Geoffroy, e da lui corredata di
belle annotazioni, si vede talvolta in queste indicato qualche errore
grammaticale di quellʼegregio poeta. Nè intendo con ciò di condannare
il Tasso, ed approvare le dicerìe degli Infarinati e deglʼInferrigni.
Dio mi guardi da ciò. Leggo, e rileggo la Gerusalemme, e poche pagine
ho letto di quelle critiche. Dico solamente, che si debbono riprendere
queʼ critici, quando le loro censure sono irragionevoli, ma non si
debbono riprendere, perchè hanno criticato il Tasso, e meno degli altri
lo deve fare chi ha creduto di poter condannare Omero, Demostene, ed
Orazio.

Ma lasciamo star ciò, e vediamo almeno in parte il sistema di questo
chiarissimo Autore. _Una lingua_ (egli dice) _nella sua primitiva
origine non si forma che dallʼaccozzamento di varj idiomi.....
Poichè dunque molti idiomi confluirono a formare ciascheduna Lingua,
è visibile che non sono tra loro insociabili, che maneggiati con
giudizio possono tuttavia scambievolmente arricchirsi; e che questo
cieco aborrimento per qualunque peregrinità è un pregiudizio del pari
insussistente, e dannoso al vantaggio delle lingue stesse._ Dubito che
in questo discorso la conseguenza non sia giusta. La lingua nostra nata
è dalla Latina, e da quella deʼ popoli settentrionali, che invasero
lʼItalia. Dunque la lingua degli Unni, deʼ Goti deʼ Vandali deʼ
Longobardi non è insociabile colla nostra? E qual vincolo di società
può essere fra idiomi dʼindole così diversa? Assai son quelli per molte
consonanti insieme unite, e la nostra è dolcissima, e grave nel tempo
stesso per una conveniente temperatura di quelle, e delle vocali,
talchè se or si volesse togliere dallʼantico Teutonico alcuna voce, e
farla nostra uopo sarebbe alterarla in modo che non fosse più dessa.

Anche i diversi dialetti delle parti diverse dʼItalia debbono a suo
giudizio contribuire ad arricchir la lingua. Egli vorrebbe, che siccome
facevasi in Grecia, si scrivesse in tutti i principali dialetti, con
che si renderebbero tutti più regolari, e più colti, e da questi
approssimati e paragonati fra loro avrebbesi potuto formare, come
appunto formossi fra i Greci, una lingua comune, che sarebbe stata la
vera lingua nazionale, la lingua nobile per eccellenza composta di
una scelta giudiziosa deʼ termini e delle maniere più ragguardevoli,
lingua che sarebbe riuscita ricca, varia, feconda, pieghevole, atta
forse colle sole derivazioni sue proprie, senza lʼajuto di linguaggi
stranieri, alla modificazione delle idee antiche, o alla succession
delle nuove, che si introducono dal ragionamento, e dal tempo.[46]
Aggiunge poi in una nota lʼopinione di Gebelin, il quale alla libertà
di far uso di tutti i dialetti, e di mescolarli fra loro attribuisce
la ricchezza, la forza, e lʼarmonìa della lingua Greca, e in gran
parte il genio originale deʼ suoi Scrittori. I Greci non reputarono
ugualmente nobili tutti i dialetti nè li mescolarono in modo, che
quindi si formasse la lingua comune. Il dialetto Attico fu per essi
il più pregiato, come di fatto era il più gentile, e a poco a poco
abbandonarono lʼuso degli altri, e si accostarono a questo quegli
scrittori ancora, che per la loro patria avrebbero dovuto scrivere in
altro dialetto. Non parlo quì deʼ poeti, i quali più luogo tempo fecero
uso di terminazioni Joniche e dʼaltre simili; ma essi aveano sempre
rivolti gli occhi ad Omero loro duce, e maestro, e quelle terminazioni
erano considerate come poetiche, e perciò proprie dʼogni dialetto.
Quindi i tragici nei cori fanno uso di qualche maniera reputata Jonica,
e dʼaltri dialetti, perchè i cori erano pezzi lirici, e perciò ad
essi erano adattate le forme poetiche. Non parlo nè pur di Plutarco,
e dʼaltri scrittori, i libri deʼ quali sono il risultamento dʼuna
immensa lettura dʼopere diverse scritte in diversi dialetti, donde essi
toglievano parecchi tratti talora senza citarli, da che ha origine
quella disuguaglianza di stile, che nelle opere morali di Plutarco si
osserva. Dallʼaltra parte non sappiamo abbastanza le proprietà deʼ
dialetti, e noi le attribuiamo allʼuno o allʼaltro, perchè le vediamo
usate da qualche Autore, che in quello scriveva.[47] Supposta però
ancora quella mescolanza di dialetti il Gebelin dopo avere spacciati
altri sogni nel suo _Monde primitif_ poteva spacciare ancor questo, che
quindi derivasse in gran parte il genio originale deʼ Greci scrittori;
ma il Sig. Cesarotti fornito di molta dottrina, e dʼacuto criterio
certamente non lo credeva. Lasciamo però il Gebelin, e torniamo al
Cesarotti. Vuole egli, che _dai dialetti dʼItalia si prendano voci,
ed acconciandole alla foggia della lingua comune si adottino. Tutti i
dialetti non sono forse fratelli? non sono figli della stessa madre?
non hanno la stessa origine? non portano lʼimpronta comune della
famiglia? Non contribuirono tutti neʼ primi tempi alla formazion della
lingua? Perchè ora non avranno il dritto e la facoltà dʼarricchirla? I
dialetti di Grecia non mandavano vocaboli alla lingua comune, come le
diverse Città i loro Deputati al Collegio degli Anfizioni_?[48] Ma se
a tutte queste interrogazioni altri avesse risposto negativamente, io
non so bene in qual modo avrebbe egli potuto confermarle. Anticamente
in una parte grande dʼItalia si parlava la lingua Greca, e altrove
lʼEtrusca lʼUmbra lʼOsca la Sannita ec. La Latina racchiusa era fra
limiti angusti anche a tempo di Cicerone, non che prima di lui. _Graeca
leguntur in omnibus fere gentibus, Latina suis finibus exiguis sane
continentur._[49] Roma obbligò i popoli soggiogati a imparare la
lingua Latina; ma non per questo si estinsero affatto le altre lingue.
In Grecia si parlò sempre la Greca, come tutti sanno; in Affrica la
Punica, come attesta S. Agostino in più luoghi; e nelle Gallie la
Gallica, o Celtica, come dice S. Ireneo.[50] Dominò assai più il Latino
in una parte dellʼItalia, ciò non ostante nelle regioni più lontane
da Roma, come la Magna Grecia, la Liguria, la Gallia Cisalpina, deve
necessariamente esser rimasta, ove più ove meno gran parte deʼ loro
idiomi. NellʼUmbria, nellʼEtruria, e nellʼaltre parti meno lontane da
Roma si parlò a poco a poco il Latino, quantunque alquanto alterato
principalmente fra il popolo, e nel contado; e di queste provincie
si può dire, che la loro lingua ebbe per origine e madre la Latina.
Vennero poi i popoli barbari i quali si sparsero in diverse parti, ed
alterarono le lingue, o vogliam dire i dialetti, che vi trovarono.
Quindi a mio giudizio hanno origine le diverse maniere di parlare,
che ora si osservano nel Piemonte, nel Genovesato, nella Lombardia,
nel Veneziano, nella Toscana, nella Romagna, nel Napoletano, nella
Sicilia. Non da una sola origine dunque vennero i dialetti dʼItalia,
nè si trova in essi pure lʼimpronta comune della famiglia. Basta
scorrer per poco lʼItalia per conoscere una lingua nel Genovesato, un
altra nel Piemonte, una nella Lombardia, unʼaltra nel Veneziano, una
nel Napoletano, e nella Sicilia, e tutte diverse da quella, che si
parla in Toscana, e in una parte dello Stato Romano. Diversità nelle
declinazioni, nelle conjugazioni, nelle parole, nelle frasi; talchè
un Toscano o un Napoletano non intende il linguaggio Genovese, o il
Piemontese. E dovʼè dunque lʼimpronta comune della famiglia? In una
cosa tanto manifesta credo inutile di trattenermi, confermando questa
mia proposizione, e già sono rese di pubblica ragione colle stampe
parecchie poesie Napoletane, Bolognesi, Milanesi, onde ogni uno può
agevolmente di per se stesso vedere la disparità immensa, che passa
fra ciascuna di queste lingue, e la Toscana o Italiana. E giacchè
si ricordano sempre i dialetti della Grecia non debbo tacere, che i
Greci oltre ai dialetti principali Eolico, Jonico, Attico, Dorico,
oltre al Poetico, che era comune a tutti ne avevano ancora altri
minori, e nobili meno, che propri erano di Città, e Nazioni diverse.
Esichio, Suida, lʼEtimologico, e gli altri Lessicografi Greci ci
hanno tramandate molte voci deʼ Laconi, deʼ Cretesi, deʼ Tessali, deʼ
Macedoni, e dʼaltri popoli. Ma in questi dialetti non si scrivevano
cose letterarie, e solamente si usavano in oggetti familiari, neʼ
decreti dei governi, e in altre simili cose. Quando Filippo scrisse
agli Ateniesi le lettere, che abbiamo fra le opere di Demostene, non le
scrisse già egli nella sua lingua nativa, ma sì nel dialetto Attico. E
pure quei dialetti non erano tanto lontani dalla lingua comune, quanto
le diverse lingue dʼItalia sono lontane dalla comune lingua degli
scrittori Italiani.

Ma se tanto sovente si ricorre alla Grecia a me sarà concesso di
ricorrere a Roma, e ad un uomo, che era nel tempo stesso oratore
filosofo e poeta eloquentissimo e dottissimo, voglio dir Cicerone. Egli
voleva, che si scrivesse non già nel dialetto dʼArpino, ma latinamente.
_Quinam igitur dicendi est modus melior..... quam ut latine, ut plane,
ut ornate_ ec. _dicamus?_[51] E poco dopo: _nec sperare_ (o come
altri legge _speramus_), _qui latine non possit, hunc ornate esse
dicturum_. Ed alla sua età era cosa comune tanto il parlar puramente,
che non destava maraviglia il farlo, ma veniva deriso chi no ʼl faceva.
_Nemo enim unquam est oratorem, quod latine loqueretur, admiratus:
si est aliter irrident; ne eum oratorem tantummodo, sed hominem non
putant._[52] Ma per parlare puramente richiedeva, che le parole
fossero pure: _verba efferamus ea, quae nemo jure reprehendat_.[53]
Ma qual vʼha mezzo più acconcio per iscrivere puramente? Il leggere
gli antichi autori. Essi erano disadorni, ciò non ostante voleva, che
si leggessero, e chi si fosse avvezzato al loro stile avrebbe parlato
latinamente, anche senza avvedersene. Nè si debbono però adoperare voci
disusate, se non parcamente, e per adornamento: ma chi lungamente e
con molto studio avrà letti i libri degli antichi adoprerà sì le parole
usitate, ma le più scelte e le migliori. _Sunt enim illi veteres, qui
ornare nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope praeclare locuti:
quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes quidem poterunt
loqui, nisi latine. Neque tamen erit utendum verbis iis, quibus jam
consuetudo nostra non utitur, nisi quando ornandi causa, parce, quod
ostendam: sed usitatis ita poterit uti, lectissimis ut utatur is, qui
in veteribus erit scriptis studiose multumque volutatus._[54] Nè gli
bastava, che le voci fosser latine, ma la pronunzia altresì voleva che
fosse Romana. _Quare cum sit quaedam certa vox Romani generis, urbisque
propria..... hanc sequamur; neque solum rusticam asperitatem, sed
etiam peregrinam insolentiam fugere discamus._[55] E questa pronunzia
Romana vuol, che sʼimpari dagli antichi; e perciò loda Lelia moglie
di Q. Scevola, e suocera di L. Licinio Crasso appunto perchè parlava
così. _Equidem cum audio socrum meam Laeliam_ (_facilius enim mulieres
incorruptam antiquitatem conservant, quod multorum sermonis expertes ea
tenent semper, quae prima didicerunt_), _sed eam sic audio, ut Plautum
mihi aut Naevium videar audire...... sic locutum esse ejus patrem
judico, sic majores._[56]

Ora se Cicerone richiedeva, che gli antichi, benchè rozzi e disadorni,
ad esempio si prendessero ed a modello di purità in una lingua, che
solo posteriormente si ingentilì e perfezionò col mutar forme e
desinenze moltissime, quanto più dovrem noi farlo nella nostra già
nel quattordicesimo secolo perfezionata? So che alcuni negano aver
la lingua Italiana avuta in quellʼetà la sua perfezione, e vantano
lʼeleganza deʼ moderni scrittori, e le molte voci di che lʼhanno
arricchita. Ma per non fare dispute vane osservo in prima, che in quel
secolo restarono determinate le proprietà della lingua, la sua indole,
il vero significato delle parole, la conjugazione deʼ verbi, e le
altre parti tutte quante della lingua medesima; e ciò io credo che sia
perfezionare la lingua. Lʼaggiugnere voci nuove la rende più ricca, non
più perfetta: e lo scrivere con eleganza mostra il valor di chi scrive,
il quale merita lode per averla bene adoperata. In questo senso dunque
io dico, che i moderni non le hanno data perfezione collʼeleganza deʼ
loro scritti. Confesso, che molti ve nʼha dʼelegantissimi; e sono
quelli, che, lungo studio avendo fatto sugli ottimi scrittori Greci,
Latini, nostri, e se a Dio piace ancor dellʼaltre nazioni, hanno saputo
ritrarne molte bellezze, o col proprio ingegno crearne di nuove. Dico
però, che lʼeleganza consiste nella purità della lingua, e nellʼaltre
parti dello stile. Ora quanto alla prima nulla hanno aggiunto, nè
potevano i moderni aggiugnere a quello, che avevan fatto gli antichi; e
le seconde non appartengono alla presente disquisizione.

Ma torniamo ai dialetti dʼItalia. A favore di questi si ricorda il
giudizio di Dante, il quale nel libro della volgare eloquenza dopo la
lingua, che a lui piacque di chiamare illustre, cardinale, aulica, e
cortigiana, preferisce il dialetto Bolognese agli altri tutti. Ed altri
osserva, che fra gli scrittori approvati dalla Crusca il maggior numero
di quelli, che non sono Toscani, son Bolognesi. Qual sarà la ragione di
ciò? Un celebre scrittore[57] lʼattribuisce a quella Università famosa
sopra ogni altra, alla quale accorrevano da ogni parte scolari in
numero grande, e professori insigni, che per intendersi scambievolmente
avranno fatto uso di una lingua comune. Ma, se mi è lecito di oppormi
in parte alla opinione dʼun uomo così grande, dirò in primo luogo, che
Dante non poteva chiamar dialetto Bolognese quella lingua, la quale
si suppone, che gli scolari e i maestri parlassero fra loro: e che il
dialetto Bolognese esser doveva quello usato dai Bolognesi, non dai
forestieri. Dico in secondo luogo, che qualunque sia il motivo, perchè
egli lo preferisse, ciò è indifferente per la quistione, che sʼagita
intorno alla lingua da usarsi comunemente in Italia scrivendo. Dante
parla del dialetto, che egli poneva innanzi agli altri, ma lo posponeva
a quella sua lingua illustre, cardinale, aulica, e cortigiana: ed io
cerco qual sia la lingua, nella quale si dee scrivere, ed è quella
appunto indicata da lui. E già intorno allʼopinione di Dante hanno
egregiamente ragionato i signori Rosini e Nicolini,[58] talchè reputo
inutile lʼaggiugner nuove parole alle cose dette da questi valentuomini.

Gli stessi dotti scrittori hanno altresì risparmiata a me la fatica
dʼesaminare unʼaltra sentenza da altri valentissimi sostenuta. Vuolsi
da alcuno, che sia in Italia una lingua scritta diversa dalla lingua
parlata come dicono, cioè una lingua, che adoperano i savj ed eleganti
scrittori diversa da tutti i dialetti, che nelle diverse parti dʼItalia
si parlano. Io reputo inutile il ripeter quì ciò che acutamente si
è disputato nei libri testè allegati. Ricorderò solamente, che la
pura lingua, nella quale si scrive, è quella stessa, che favellando
si usa in Toscana dalle colte persone. Qualche non grave differenza
in poche cose della conjugazione deʼ verbi, non è ciò che forma la
diversità dʼuna lingua, come è stato detto, ed io ripeto. Oltre a ciò
io domando, quando si formò questa lingua che dicono scritta? Quali
sono gli antichi documenti, che facciano testimonianza di questo
fatto? Come avvenne ciò? Forse molti uomini dotti si unirono in un
congresso? Ma niuna cronica o storia ce ne parla. Forse gli Italiani
dispersi determinarono questa lingua? Ma questo parmi impossibile: nè
veruna nazione antica o moderna ci offre un esempio di così singolare
avvenimento. E se gli uomini dispersi per lʼItalia crearono questa
lingua tanto diversa dalle natìe par che dovessero esser solleciti
di scriverne le regole, cioè una grammatica: ma le prime grammatiche
Italiane sono del cinquecento come ognun sa, per opera del Fortunio e
del Bembo. E questi primi grammatici non sepper nulla di quel primo
accordo, ma i precetti ne cercarono negli antichi autori Toscani. E
per qual motivo fu creata questa lingua? Gli uomini dotti sdegnavano
di scrivere intorno alle scienze, fuorchè in latino. Il volgare era
destinato a cose, che riputavansi di poco momento, versi dʼamore,
croniche, libri spirituali, qualche laude spirituale, romanzi,
novelle, libri di mascalcia, ed altrettali cose per glʼinletterati.
I frammenti di storia impressi dal Muratori nelle Antichità Italiane
sono scritti nel dialetto Napoletano, o molto simile al Napoletano. I
Veneziani autori di croniche citati dal Foscarini hanno usato il lor
volgare: e fecero così i lor viaggiatori. A me parrebbe, che questi
scrittori avrebbero adoperato altrimenti se stata vi fosse una lingua
comune a tutta lʼItalia, per universale consentimento destinata per
le produzioni letterarie. La Toscana incomparabilmente più dʼogni
altra parte di Italia somministra autori delle cose testè indicate, e
questi scrissero nel lor volgare, il qual volgare presto si condusse
a quella perfezione, che vediamo nel trecento per opera dʼalcuni, che
seppero scegliere le forme migliori fra quelle usate dal volgo. I
forestieri invaghiti di quello stile lo imitarono, e più felicemente
forse i Bolognesi. Ciò può ripetersi forse da due ragioni. La prima
è lʼuniversità, che richiamando colà alcuni Professori, e parecchi
scolari Toscani essi avranno parlato la loro lingua, ed avranno
portato con loro le rime di fra Guittone, di Guido Cavalcanti, e degli
altri poeti di quellʼetà, e storie, e volgarizzamenti dal Latino,
e libri ascetici. La seconda è la vicinanza, e il commercio con
Firenze, che dovea produrre lo stesso effetto. Si aggiunga a questo,
che _gli antichi rimatori Bolognesi si veggono quasi tutti usciti di
riguardevoli parentadi_, come osserva il Dottor Gaetano Monti parlando
dʼOnesto degli Onesti,[59] e le loro ricchezze forse, agevolarono
ad essi il modo di conversare cogli uomini dotti, e di comprar le
opere deʼ nuovi Autori Toscani. La lingua, che alcuni chiamano comune
altro non è, che la lingua Toscana spogliata, come ragion vuole dalle
irregolarità del volgo, e dai riboboli. Le sue regole sono esposte
nella Grammatica, e il Vocabolario della Crusca comprende una parte
grandissima delle sue voci unita ad altre molte, che son poste là per
giovar alla storia della lingua, e allʼintelligenza degli antichi
scrittori; altrimenti sarebbe già avvenuto delle opere loro ciò che deʼ
versi saliari avvenne in Roma, i quali col volger deʼ secoli più non
si intendevano. Lo stesso dotto scrittore testè citato per quellʼamore
della gloria dʼItalia, che lo anima, vorrebbe, che i Principi tutti
dʼItalia adoperassero favellando questa lingua da lui chiamata comune,
e mostrassero desiderio, che tutti quelli, che li attorniano facessero
lo stesso, ed ordinassero, che in questa lingua sʼinsegnasse ogni
scienza nelle università, e nelle accademie, ed egli ha speranza, che
le gentili persone non terrebbero altro linguaggio familiarmente, ed i
dialetti rimarrebbero solamente alla Plebe. Ma io dubito forte che, ove
ancora ciò si eseguisse, non per questo si avrebbe una lingua comune,
regolata, stabile, e per tutta lʼItalia diffusa. Fin da principio quel
linguaggio usato alla Corte non potrebbe essere scevro affatto da ogni
tinta del dialetto nazionale, e il linguaggio della Corte di Torino
non sarebbe lo stesso, che quello praticato alle Corti di Milano, e di
Firenze, e di Napoli; e questa diversità anderebbe sempre crescendo,
talchè dopo forse cinquantʼanni ogni paese avrebbe due dialetti
diversi, uno cioè delle gentili persone, lʼaltro della plebe.[60] Nè
mai vi sarà la necessaria uniformità di lingua, se non si ha un canone
uniforme per tutti, di cui sia custode unʼaccademia residente in
quella parte, il dialetto della quale sia appunto quella lingua comune,
o più dʼogni altro vi si accosti, cioè in Toscana.

Non nega il Sig. Cesarotti, che quellʼaccademia risieda in Toscana,
anzi in Firenze: ma vuol che abbia altri accademici dʼogni nazione con
parecchi cooperatori, i quali colgano il meglio di ogni dialetto per
arricchirne la lingua comune. Ma ciascuno di questi accademici mandando
parole, e modi di dire della sua patria vorrebbe poi, che i suoi scelti
fossero a preferenza di quelli di altre nazioni; e quindi nascerebbono
letterarie discordie interminabili, che farebbono perire la nuova
accademia sul primo suo nascere. In fatti non so comprendere, come non
volendo egli, che altri ubbidisca allʼaccademia della Crusca, speri
poi che ognuno sia per esser ligio di questa sua, e che i Toscani, i
Lombardi, i Piemontesi debbano accogliere facilmente le voci tolte
dalla lingua Napoletana, Siciliana, e Genovese, mentre parecchie delle
loro ne vedrebbono rigettate.

Ogni lingua aver deve certe regole altrimenti ne nascerebbe una
confusione intollerabile, e presto se ne altererebbe lʼindole e
la natura. La Toscana ebbe nel secolo decimoquarto tre scrittori
prestantissimi, cioè Dante, Petrarca, e Boccaccio, che destarono
lʼammirazione universale colle opere loro, le quali andavano per le
mani di tutti. Essi furono padri della lingua, perchè seppero scegliere
le forme migliori energiche delicate piacevoli. Ma non furono i
soli. Il B. Giovanni da Ripalta, Fra Bartolomeo da S. Concordio, Fr.
Domenico Cavalca, Fr. Jacopo Passavanti, i tre Villani, Francesco
Sacchetti, S. Caterina da Siena, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoja, e
parecchi altri, oltre agli anonimi autori delle novelle antiche, del
volgarizzamento delle vite deʼ SS. Padri, e più altri ebbero forza,
grazia, e vaghezza. Da questi scrittori principalmente si trassero le
regole di nostra lingua per opera del Fortunio e del Bembo, come ho
detto. Nè si pretende con ciò, che tutto sia perfetto ciò che procede
da quelle fonti, nè che ora sia disdetto dʼaggiunger nulla alla nostra
lingua. Il Salviati, contro al quale si fa da alcuni tanta guerra, reca
alcune scorrezioni, che negli scritti degli antichi si trovano,[61]
nè certamente le approva; e il Corticelli parlando di certa maniera
irregolare usata da Fr. Giordano dice così. _Non si vogliono imitare,
essendo anzi errori che no. Lasciò scritto un valentuomo_,(lo Scioppio)
_che queste figure sono pretesti inventati daʼ Grammatici per iscusare
i fatti, neʼ quali sono talvolta incorsi per umana fiacchezza anche i
più celebri Autori._[62] Non si vogliono però condannare nè pure tutte
le irregolarità, le quali quando sono adottate da parecchi sono veri
vezzi di lingua. Non ammette i vezzi di lingua il Sig. Cesarotti;[63]
ma ogni lingua li ha, e quelle principalmente, che vantano maggior
numero dʼeleganti scrittori: e se questi si tolgono dalle opere loro se
ne torrà una gran parte della bellezza. Non è vietato, come ho detto
pur ora, dʼaggiunger nulla alla lingua. _Chi può negare_, dice il Sig.
Cesarotti, _che il Firenzuola, il Gelli, il Caro, il Castiglioni, e
varj altri non avessero e castigatezza, e grazia? Ma i loro vocaboli,
i loro modi erano gli unici? La lingua, lo stile eran fissati in
perpetuo? Quì sta il torto della Crusca._[64] Qual torto? Quando è che
la Crusca abbia detto, che quegli scrittori fossero gli unici, e la
lingua, e lo stile fossero determinati in perpetuo? La Crusca ad ogni
nuova edizione del Vocabolario ha fatto lo spoglio di nuovi autori, ed
ha adottate nuove parole, e nuovi modi di dire. Nè mi si opponga la
guerra ingiustamente mossa al Tasso; perchè quella non fu guerra della
Crusca, ma dellʼInfarinato, e dellʼInferrigno.

Ma ormai troppo a lungo mi sono trattenuto su ciò, e molto mi
rimarrebbe a dire su questʼopera. Vorrei almeno parlare del Vocabolario
Italiano da lui progettato; ma lʼesporlo, ed esaminarlo accuratamente
richiederebbe troppo lungo discorso. Dirò solo esser questo un lavoro
immenso necessariamente difettoso per la stessa sua vastità, nè tale da
poter mai conciliare le discordi opinioni dei Letterati.

Anche il Muratori nella perfetta poesia Lib. 3. Cap. 8. prese a
sostenere, un solo essere il vero ed eccellente linguaggio dʼItalia,
che è proprio di tutti glʼItaliani, il quale per lui non è il Toscano,
ma bensì comune a tutti, e da tutti usato scrivendo. Il Salvini, però
gli si oppose con molta forza nelle annotazioni, e difese la causa
della lingua Toscana. Più ampiamente la difese il P. Rosasco nellʼopera
testè citata,[65] e nel tempo medesimo combattè il Salvini, il quale
nel calor della disputa lodando molto gli Scrittor del trecento deprime
forse soverchiamente i moderni. Concede a quellʼaureo secolo maggior
purità ed una certa grazia, che altri poi nellʼetà posteriori non
ha mai potuto perfettamente ritrarre, ma loda altresì gli scrittor
più recenti, che di molte voci, e di molti modi lʼhanno arricchita.
Quindi parla appunto della facoltà dʼaggiugnere voci nuove, e mostra
quali sieno gli avvertimenti che debbonsi avere facendolo. Questa
facoltà però egli concede ai Toscani, ed ai Fiorentini massimamente.
Io confesso, che amerei dʼessere alquanto meno severo. I termini, che
appartengono alle arti, ed alle scienze, non solamente si possono, ma
si devono adoperare: e sarebbe ridicolo quel Geometra, che ricusasse di
dire _coseno_ e _cotangente_, e quel Chimico che non volesse nominare
lʼ_idrogeno_ e lʼ_ossigeno_, perchè non sono nel vocabolario queste
parole. Riguardo alle altre voci, se queste mancano per esprimere
qualche concetto (il che avviene rade volte a quelli che sanno ben
maneggiare la nostra lingua) credo, che ognuno possa usar nuove
voci; lʼadottarle però spetta allʼAccademia della Crusca. Parecchi
oppositori scrivono ciò che cade loro giù dalla penna senza riflessione
riguardo alla lingua, e poi vorrebbero, che le cose per essi scritte
fossero in ogni parte perfette, e chiaman pedanti chi ardisce trovarvi
alcun difetto. Non sarebbe però difficile il dimostrare, come
essendo più castigati sarebbero stati più eleganti. Ma chi ha data a
quellʼAccademia la facoltà di seder giudice nel fatto della lingua?
Gliele han data la necessità dʼavere un giudice per conservarne la
purità, la convenienza, che questo giudice sia in Firenze, il possesso
dʼoltre a due secoli, il consenso di molti ottimi scrittori, le
gloriose fatiche da essa sostenute a pro della medesima.

NOTE:

[34] Verona, 1737.

[35] Gigli Reg. per la Tosc. Fav. nella pref.

[36] Cinquantasei sono le Accademie, delle quali si hanno lettere
dʼapprovazione unite al Vocabolario Cateriniano stampato per la seconda
volta colla falsa data di Manilla, ed alla sua vita.

[37] _Girolamo Gigli neʼ suoi scritti ebbe solo per fine di
satirizzare, il qual mestiere egli appieno non intendeva per voler
troppo caricare, non già per istruire perchè di simili materie egli non
era capace, e il suo studio non era altro che nel Vocabolario, o in
qualche Gramatica. Benvoglienti presso il P. Ildefonso Del. degli erud.
Tosc._ T. 2. p. 192. Egli non la perdonò nè pure alle Accademie della
sua patria come si raccoglie da una lettera inedita del Marmi, che fra
poco sarà pubblicata, nè ad alcuno deʼ più insigni letterati, come
Nicolò Amenta, e il Canonico Crescimbeni.

[38] _Quint. Inst. Orat. Lib._ 1. _Cap._ 9.

[39] _Peto, Cæsar, et a te, et ab his, qui mea volumina sunt lecturi,
ut si quid parum ad artis grammaticæ regulam fuerit explicatum
ignoscatur. Vitr. lib._ 1. _Cap._ 1. in fin.

[40] _Quint. Inst. Orat. Lib. 7. Cap. 1._ in fin.

[41] Quint. Lib. 1. Cap. 5.

[42] Phil. 13. Cap. 19. e nella Filippica 3. Cap. 9. riprende lo stessa
Antonio per quelle parole da lui dette, _nulla contumelia est, quam
facit dignus_.

[43] Benvoglienti presso il P. Ildefonso _Deliz. degli erud. Tosc._ T.
2. _p._ 239. _e_ 241.

[44] _Cesarotti Rischiar. Apol._ fra le sue Opere T. p. 261.

[45] Anzi a lui non è bastato ciò, ma ha creduto dʼaver fatto assai
meglio di loro. Riguardo ad Omero non ne recherò esempj, perchè ad
ogni tratto si posson vedere nelle sue annotazioni allʼIliade. Dirò
perciò solamente dʼOrazio. A quelle parole _post certas hiemes uret
Achaicus ignis_. Lib. 1. Od. 16. (che per altri è la 15.) v. 35. egli
fa questʼannotazione. «Questa chiusa è languida; dopo un tuono tutto
profetico si termina con una frase istorica, e si abbandona Paride nel
punto più importante. Meglio, _per te fellon fia cenere_.»

[46] Op. T. 1. p. 23. 25.

[47] Vedi Werheyx excurs. in dial. Antonin. in calc. Anton. lib. ed.
1774.

[48] _Ivi_ p. 137. 138.

[49] Cic. Pro Archia.

[50] Contr. Hær. in Proem. § 3.

[51] _Cic. de Orat. Lib._ 5. _Cap._ 10.

[52] Ivi Cap. 14.

[53] Ivi Cap. 11. Tiberio dovendo usare la parola _monopolium_ ne
domandò perdono: e in un decreto essendosi adoprato _emblema_ volle,
che se ne sostituisse unʼaltra, che fosse latina, e non trovandosi si
esprimesse _pluribus et per ambitum_, con più lungo giro di parole. Non
sarebbe difficile lʼaggiugnere più altre autorità somiglianti.

[54] Ivi Cap. 10.

[55] Ivi Cap. 12.

[56] Ivi

[57] Conte Napione luog. cit. T. 2.

[58] Rosini _risposta ad una lettera del Cav. Vincenzo Monti Pisa_.
1818. _Risposta_ del medesimo _ad una lettera del Sig. Conte Galeani
Napione di Cocconato._ Ivi 1818. Nicolini _Discorso_.

[59] _Fantuzzi Scritt. Bol._ T. 6. p. 181.

[60] Sarebbe però desiderabile, che almeno le leggi, gli editti, e
in una parola tutto ciò che si stampa a nome di chi governa fosse
purgatamente scritto. Ma per grande sventura sì fatte cose si vedono
sovente in modo al tutto barbaro. Vuolsi però dar molta lode al
Signor Conte Vaccari, il quale mentre era in Milano Ministro degli
affari interni volle porre qualche riparo a questo obbrobrio, ed
esortò il Signor Giuseppe Bernardoni a compilare un _elenco dʼalcune
parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono neʼ vocabolarj
Italiani_. Questo elenco fu stampato a Milano il 1812.

[61] Avv. T. 1. lib. 2. Cap. 10.

[62] _Cort. Reg. ed Oss. della ling. Tosc. lib._ 2. _Cap._ 17.

[63] Luogo citato p. 23. e 101.

[64] Luogo citato p. 209.

[65] Della ling. Tosc. dialog. 5. 6. e 7.



              _Delle Grammatiche della Lingua Italiana._

                              ~CAPO~ VI.


Ma passiamo ormai a vedere gli studj deglʼItaliani più direttamente
relativi alla nostra lingua, e cominciamo dalle grammatiche. Francesco
Maria Zanotti scrisse elementi di grammatica aʼ quali aggiunse
un ragionamento sopra la volgar lingua,[66] che intitolò ad una
prestantissima Dama Bolognese. È questa unʼoperetta elementare, come
lo stesso titolo avverte, che offre solamente le regole principali,
e più necessarie a sapersi intorno alle diverse parti dellʼOrazione.
Non dirò scevra la sua grammatica da ogni difetto: e per esempio non
sa piacermi, che egli tolga dai verbi il modo ottativo, e ponga nel
congiuntivo i suoi tempi. Ma forse egli ebbe in animo di sacrificare
in parte lʼesattezza in grazia della brevità, che dirigendo i suoi
insegnamenti ad una giovinetta era necessaria, e perciò pure lasciò di
aggiungere tutti queʼ tempi nei quali entrano i verbi ausiliari. Certo
è che con quel suo metodo la conjugazione deʼ verbi è brevissima, e
tutta la sua grammatica occupa poche facciate. Più a lungo scrisse la
sua grammatica il P. Benedetto Rogacci della Compagnia di Gesù.[67] Le
sue regole sono esatte, e bastevolmente diffuse. Avrei però voluto, che
non avesse fatti egli stesso gli esempi, ma si gli avesse tratti dagli
autori approvati. Assai lungamente altresì scrisse Girolamo Gigli
le sue lezioni[68] e le _Regole per la Toscana favella_.[69] Ha però
qualche errore, come là dove ammette, che dicasi poeticamente _dee_, e
_stea_ in luogo di _dava_, e _stava_ prima, e terza persona singolare
dellʼimperfetto dellʼindicativo, e nel plurale _deano_, _steano_, in
vece di _davano_, e _stavano_. Nelle lezioni altresì appoggiandosi ad
un esempio di Dante vorrebbe, che _lui_ usar si potesse in caso retto.
Ma il Manni nelle lezioni (Lez. 5) mostra che quellʼesempio ed altri
parecchi citati dal Cinonio, e dal P. Daniello Bartoli sono errati e
tratti da ree stampe.

Fra le Grammatiche si possono annoverare le _lezioni di lingua
Toscana_ di Dom. Maria Manni[70] da me citate testè, nelle quali egli,
quantunque non prenda ad esaminare tutte quelle minute cose, che
nelle Grammatiche si richiedono, pure di tutte la parti dellʼOrazione
tenendo ragionamento moltissime belle avvertenze ricorda ed utilissime.
Ed io vorrei, che questo libro avessero frequentemente tra mano
principalmente i giovani dopo di aver bene appreso in altri libri
le prime regole della lingua intorno alle declinazioni, ad alle
conjugazioni.

La megliore e sopra ogni altra pregiata grammatica è quella del P.
Salvatore Corticelli Barnabita Bolognese. Precisione di metodo,
esattezza di regole, chiarezza nellʼesporle, abbondanza di ottimi
esempj sono i suoi pregi. Niuno errore credo che vi si trovi,
quantunque vi si possa far di leggieri qualche aggiunta; poche però, e
non di molto momento. Ne darò quì pochi esempi. Nel Libro 1. Cap. 36.
dove trattando deʼ verbi anomali della seconda conjugazione parla del
verbo _cadere_ nel preterito indeterminato dellʼindicativo leggiamo
_caddi_, _cadesti_, _caddero_, _caddono_, _e caderono_. Ma nella prima
persona del singolare vi ha ancora _cadei_. Tasso _Ger. Lib. C._ 8.
_St._ 25. e nella terza _cadè_, come dice il Cinonio, che cita il
Villani. Nelle osservazioni sopra la terza conjugazione parlando deʼ
verbi _chiedere_, e _mettere_ si vuol aggiungere al preterito del primo
_chiedei chiedè_, e poeticamente _chiedeo_, onde il Casa disse: _di
quella, che sua morte in don chiedeo, Son._ 35. e al preterito del
secondo _messe_, di che ha il Cimonio (Deʼ ver. Cap. 17.) tre esempi,
e uno se ne ha nelle annotazioni. Se ne può aggiungere un quinto del
Berni, cioè: _Onde al fin lʼArgalia messe di sotto. Orl. Inn. Lib._
1. _Cant._ 2. _St._ 68. Ma queste, e poche altre simili mancanze non
detraggono punto di lode a questa Grammatica, che certamente è la
migliore di quante ne abbiamo.

Parla prima delle parti dellʼOrazione, poi della costruzione, e
finalmente del modo di pronunziare, e dellʼortografia. Gli esempj sono
tutti presi dagli Autori, che fanno testo in lingua. A questi ne ha il
Corticelli aggiunti tre, cioè i discorsi di notomia del Bellini, le
prose del P. Alfonso Nicolai Gesuita Lucchese, e la vita di S. Ignazio
del P. Antonfrancesco Mariani Gesuita Bolognese, oltre agli autori di
cose grammaticali come lʼAmenta, il P. Bartoli, ec. che non entrano in
questo novero. Or questa scelta è contrassegno del fine giudizio del
Corticelli, perchè quegli scrittori sono purissimi, e i primi due con
più altri furono poi dallʼAccademia Fiorentina scelti per esser citati
nella nuova edizione del Vocabolario secondo il partito preso nel 1786.
ed il terzo non era indegno dʼessere in quel numero collocato.

Parecchie altre Grammatiche di nostra lingua hanno veduta la pubblica
luce nel Secolo decimottavo[71]. Ma io contento di aver quì ricordate
quelle, che o peʼ loro pregj, o per la celebrità deʼ loro autori
richiedevano special menzione tralascerò le altre, e passerò ad
indicare altre opere, che a questo genere si posson riferire. Tali
sono le annotazioni del Baruffaldi e del Cavalier Baldraccani al
Cinonio,[72] le quali però non si vogliono avere in molto pregio.
Tali sono le osservazioni di Nicolò Amenta sul _Torto, e diritto del
non si può_ del P. Bartoli[73] nelle quali egli rileva ogni error
commesso da questo Scrittore. Ma lʼAmenta altresì non fu esente da
qualche errore, onde ebbe poi il suo censore in Giuseppe Cito. Degli
avvertimenti grammaticali stampati in Padova, e poi altrove più volte,
non dovrei far parola, perchè sono opera del Card. Sforza Pallavicini,
e perciò appartengono al secolo decimo settimo. Ma non debbo tacere,
che in nuova forma, e dʼalquante aggiunte arricchiti vider la luce per
opera dʼignoto editore, che si celò sotto il nome Arcadico di Alcindo
Menonio[74]. Finalmente alcune piccole operette polemiche di Lucchesi
Scrittori domandano dʼesser per me ricordate. Alcuni uomini letterati
si radunavano nella bottega del librajo Frediani di Lucca, e solevano
per loro studio far critiche osservazioni su componimenti, che uscivano
in luce, notando ciò che in essi trovavano degno di lode o di biasimo.
E siccome stavano con unʼanca sopra lʼaltra per criticare, perciò essi
per ischerzo chiamarono quella loro adunanza, Accademia dellʼAnca. Ciò
fu nel millesettecento dieci o in quel torno[75]. Erano di questo
numero Angelo Paolino Balestrieri valoroso Poeta, Matteo Regali
Medico, e buon Poeta, e delle cose di nostra lingua intendentissimo,
il P. Sebastiano Paoli, e il P. Alessandro Pompeo Berti uomini di
gran dottrina ed erudizione, come tutti sanno, e forse altri. Avvenne
un giorno che in questʼAccademia fu criticato in qualche cosa di
ortografia un poetico componimento di Donato Antonio Leonardi, che era
anchʼegli pregevol Poeta. Lʼira neʼ poeti si desta facilmente, e il
Leonardi mal sofferendo quella critica volle difendersi, e pubblicò il
_Dialogo dellʼArno e del Serchio, sopra la maniera moderna di scrivere
e di pronunziare nella lingua Toscana dellʼAccademico Oscuro. Perugia
presso il Costantini_ 1710. in 12. Da Matteo Regali celato sotto il
nome di Accademico dellʼAnca, gli fu risposto col _Dialogo del Fosso
di Lucca, e del Serchio di un Accademico dellʼAnca in risposta al
Dialogo dellʼArno. ec. Lucca presso Pellegrino Frediani_ 1710. in.
8. Punto il Leonardi da questo libro vi oppose la _Dieta dei Fiumi
tenuta lʼAnno_ 1711. _per fare il processo al Fosso di Lucca per aver
pubblicata una critica derisoria, e mordace contro il Serchio suo
padre. DellʼAccademico Oscuro. Macerata per Michele Angelo Silvestri_
1711. in 8. E a questa nuova sua produzione replicò il Regali con _il
Filofilo dialogo di un Accademico dellʼAnca in risposta alla Dieta
deʼ Fiumi dellʼAccademico Oscuro. Lucca pel Frediani_ 1712. in 8. Nè
la disputa andò più oltre, perchè mentre si stampava questo libro,
il Leonardi morì. La questione a dir vero era di poco momento nella
sua origine, non trattandosi che dʼun raddoppiamento di consonanti in
una parola, ma volendo favellarne con qualche generalità offerse al
Regali lʼoccasione di far conoscere il suo molto sapere, e lʼerudizion
sua nelle cose della lingua, e quanta pratica avesse deʼ buoni
Autori. Deboli al contrario, e insussistenti erano le opposizioni del
suo avversario, il quale non sentiva molto avanti in questa parte
dʼerudizione. Più altre dispute si destarono nel secolo decimottavo
intorno a cose grammaticali, onde abbiamo parecchie opere polemiche,
come del Biscioni, e del Bracci sullʼedizione deʼ Canti Carnascialeschi
da questo procurata in Lucca con falsa data di Cosmopoli,[76] il
parere sulla voce _occorrenza_,[77] la Giampaolagine del Tocci,[78]
ed altri simili. Anzi fino i Tribunali furon talvolta costretti a
decidere intorno a somiglianti controversie, e della voce _majorasco_,
se significhi _primogenitura_, come vuol la Crusca, o _primogenito_
come usano i Senesi, decise la Rota Romana a favore di Siena[79]. Il
Gigli dice, che con ciò quel Tribunale venne a dichiarare, che la
_Crusca non ha la potestà di Adamo di dare i nomi alle cose_[80]. Il
che è vero; è però altrettanto vero, che i Tribunali hanno forza nel
Foro e in ciò che dal Foro dipende, ma nelle cose della lingua non ne
hanno alcuna. Queste ed altre quistioni lascierò da parte, perchè sarei
infinito se di tutte parlar dovessi, benchè brevemente. E già aspettano
il mio discorso cose maggiori, e più ardue, e di maggior celebrità:
voglio dire i Dizionarj.

Prima però che io passi a far parola di questi debbo far menzione
dʼun libro, che può ugualmente fra le Grammatiche annoverarsi e fra
i Dizionarj: voglio dire le cento osservazioni del Canonico Paolo
Gagliardi.[81] Più e diversi oggetti a Grammatica appartenenti egli vi
prese a trattare, come per avventura gli si presentavano alla mente;
ora dʼalcune voci, ora dellʼarticolo, ora di certe irregolarità nella
costruzione, e via dicendo. Intorno alle quali cose dà sottili ed utili
avvertimenti, e spesso emenda i più solenni Grammatici, ed anche il
Vocabolario della Crusca. Il che fa sempre collʼautorità deʼ buoni
scrittori, essendo amantissimo della purità della lingua, come ragion
vuole. Laonde io reputo commendabile lʼopera sua molto: e solo mi
rincresce, che non abbia vie maggiormente accresciuto il numero delle
sue osservazioni.

NOTE:

[66] Zanotti Op. T. 7.

[67] _Pratica e compendiosa istruzione aʼ principianti circa lʼuso
emendato ed elegante della lingua Italiana, Roma_ 1711., _e di nuovo
Roma_ 1765. in 12.

[68] Lezioni di ling. Tosc. Venezia 1722. in 8.

[69] Roma 1721. in 8.

[70] _Lezioni di lingua Toscana dette nel Seminario Arcivescovale di
Firenze. Firenze_. 1737. in 8.

[71] Il P. Zaccaria nella _Storia Letteraria_ T. 3. p. 377.
sullʼautorità del Vincioli attribuisce al Muratori una Grammatica
intitolata: _Nuovo metodo per imparare la lingua Italiana in poco
tempo_. Ma siccome non se ne fa menzione nella sua vita scritta dal
nepote, nè dal Tiraboschi nella Biblioteca Modenese credo che ciò sia
errore. Lasciando questa, che almeno è incerta, altre grammatiche si
posson citare, e fra lʼaltre le seguenti. _Trattato sopra le regole
per parlare e scriver Toscano di Gio. Battista Pucci. Siena_ 1767.
_in_ 8. _Nuovo metodo per la lingua Italiana estensivo a tutte le
lingue di Girolamo Andrea Martignoni. Milano_ 1755. T. 2. in 4. Non mʼè
riuscito di vedere questʼopera, nè so se propriamente essa debba essere
annoverata fra le Grammatiche. _Corso Teorico di lingua Italiana, e
Logica dellʼAb. Idelfonso Valdastri. Guastalla_ 1783. in 4. Lʼautore
ragiona filosoficamente intorno alla lingua, il che succede quasi
sempre con vantaggio più apparente che reale. _Prospetto deʼ Verbi
Toscani regolari, e irregolari di Gio. Battista Pistolesi. Roma_ 1761.
in 4. Lʼopera del Signor Pistolesi è lodevole, ma dee cedere il primato
a quella del Signor Abate Mastrofini. Di questa io non parlo, perchè è
pubblicata nel secolo presente, che io non ho preso a considerare.

[72] _Osservazioni della lingua Italiana raccolte dal Cinonio in
questa nuova edizione accresciute dallʼAccademico Intrepido_ (Girolamo
Baruffaldi) _Ferrara_ 1709. in 4. e di nuovo colle annotazioni del
Cavalier Baldraccani. Venezia 1722. in 4. Il Baruffaldi avea preparate
altre aggiunte al Cinonio e per questo motivo fece un trattato del
nome, che è rimasto inedito. _Zacc. Stor. Lett._ T. 14. p. 355. Era
riserbata al chiarissimo Sig. Cavaliere Luigi Lamberti la gloria
di dare allʼopera la desiderata perfezione, il che egli ha fatto
nellʼedizione di Milano del 1809. in 4. vol. 8.

[73] Napoli 1717. T. 2. in 8.

[74] _Idea Generale del Vocabolario della Crusca, ed osservazioni
intorno alla moderna ortografia Italiana con un piccolo trattato
della Poes. Ital. agli studiosi scolari della Città di Foligno, Ozio
dʼAlcindo Menonio. Foligno_ 1756. _in_ 4.

[75] _Quadrio Stor. e Rag. dʼogni Poesia_ T. 1. p. 75. e _Mazzucch.
Scritt. Ital._ T. 2. p. 673. il quale corregge I. Iarchio _Specim.
Hist. Ac. Ital._ il quale fa fiorire questa Accademia nel secolo
decimosettimo.

[76] _Parere_ (del Canonico Biscioni) _sopra la seconda edizione
deʼ Canti Carnascialeschi. Firenze. Moucke_ 1750. _in_ 8.—_I primi
due dialoghi di Decio Laberio_ (Ab. Rinaldo Bracci) _in riposta, e
confutazione del parere del Sig. Dottore Antommaria Biscioni sopra la
nuova edizione deʼ Cantici Carnascialeschi, e in difesa dellʼAccademia
Fiorentina. In Culicutidonia per Maestro Ponziano di Castel Sambucco_
(Lugano per lʼAgnelli) 1750. _in_ 8.

[77] _Firenze pel Martini._ 1707. _in_ 4.

[78] _Colonia_ (Firenze) _nella Stamperia Arcivescovile_ 1708. _in_ 4.

[79] _Coram Reverendis. Molines in Romana Primogeniturae de Salviatis
super localibus et Tabulis pictis_ 28. _Iunii_ 1706.

[80] Voc. Cater. alla v. _Maggiorente_.

[81] _Cento osservazioni di lingua, nelle quali si spiegan diversi modi
particolari, usati dalla lingua Toscana. Bologna_ 1740. _in_ 12.



                    _Del Vocabolario della Crusca._

                              ~CAPO~ VII.


A me rincresce dʼessere a quella parte dellʼopera mia pervenuto, che
parmi più dʼogni altra piena di pericoli e difficoltà. Gravi guerre si
mossero contro il Vocabolario della Crusca fin dal primo suo nascere, e
queste guerre, anzi che spegnersi o diminuirsi, vanno sempre crescendo.
Ma lʼordine delle cose da me prese a trattare domanda, che io parli
deʼ Vocabolarj della nostra lingua, e perciò di quello della Crusca;
nè io posso ritrarmene. Dovrò in alcune cose contraddire ad uomini
chiarissimi per dottrina e per ingegno, coi quali non posso in verun
modo essere paragonato. Combatterò dunque con armi molto disuguali: ma
se in ciò che sono per dire si potrà desiderare maggior dottrina, spero
che non si potrà desiderare maggiore urbanità.

Queʼ valentuomini, che nel 1691. procurarono la terza impressione
di questo Vocabolario presto si avvidero, che molto rimaneva da
fare, e che altri avrebbe dovuto procacciarne una quarta con molti
accrescimenti e correzioni. E così avvenne appunto, perchè dopo non
breve fatica si vide uscire alla luce nel 1729. colle stampe del Manni
il primo volume del Vocabolario tanto accresciuto ed emendato, che
questo solo contiene seimila nuove voci, o nuovi significati di voci.
Ma voglionsi commendare quegli Accademici per essersi adoperati di
correggere o accrescere quel libro seguendo lʼorme segnate dai lor
predecessori, o pure doveano seguendo una via diversa lʼopera tutta
riformare? Il Signor Conte dʼAyala vuole, che si sbandiscano gli esempj
tratti dagli Scrittori approvati, e dice, che lʼAccademia _è giudice
supremo ed inappellabile in materia di lingua, ed ogni individuo è
ragionevolmente tenuto di sottomettersi alle decisioni di essa_.[82]
Così mentre molti gridano contro un giogo, che lʼAccademia però non si
è mai argomentata dʼimporre altrui, questo scrittore le rimprovera di
non essersi tolta unʼassoluta autorità. Egli cita lʼAccademia delle
scienze e belle lettere, e doveva citare lʼAccademia Francese. Ma non
sʼavvide, che i Francesi per certo loro abito sono avvezzi a tener gli
occhi intenti a Parigi, ed a riverire e seguire ciò che fassi colà;
onde ricevono come giudizj senza appello quelli dellʼAccademia. Ma in
Italia non è così; ed ognuno di per se stesso può le cagioni vederne
agevolmente. Oltre a ciò egli non seppe, che nel tempo medesimo, in
cui scriveva sì fatte parole, quellʼAccademia si dipartiva dal primo
divisamento, ed imitando la Crusca si adoperava di raccogliere esempj
dagli autori più purgati per una nuova impressione del suo Vocabolario.
La Crusca dunque fino dal suo cominciamento fece senno, fornendo di
buoni esempj le voci tutte, e le significanze diverse di tutte le voci,
quanto era possibile, ed ove mancavan gli esempj ricorrendo allʼuso.

Ma niuno forse si vorrà far seguace dellʼavviso di questo scrittore,
e più presto si biasima la scelta degli esempj. Quel vedere ad ogni
tratto citate tante vecchie leggende, e capitoli di compagnie, e
quaderni di conti, e lʼoscurissimo Pataffio, e le rime non meno oscure
del barbiere Burchiello, ed altrettali libri, e vederli preferiti a
Filosofi gravissimi e ad altri scrittori di gran rinomanza, desta
non pochi lamenti. Se le lingue tutte sono a grandissime mutazioni
sottoposte, siccome tutti confessano, gli Accademici, che a lor potere
volevano allontanare sì fatte mutazioni saviamente adoperarono,
determinando alcuni scrittori, che reputar si dovessero maestri e
modelli di lingua purgata: affinchè, tenendo sempre in quelli rivolti
gli occhj, ognun potesse più agevolmente ritornare sul diritto
cammino, se traviava. Questo, a mio giudizio, è il solo rimedio,
che può riparare a quel corrompimento, che a poco a poco in tutte
le lingue sʼintroduce dalla incuria degli uomini, e dallʼamor della
novità. Questo è forse il solo rimedio, che può se non al tutto
impedire, almeno scemare quella ruina, che reca alla lingua dʼuna
nazione lʼinondamento di stranieri conquistatori. Ma quali son gli
scrittori, che scegliere si dovevano allʼuopo? Quelli son del trecento
primieramente, e poi gli altri che seguendo le lor vestigie più vi
si accostano; il che reputo si possa assai bene dedurre dalle cose
dette nel capo quinto. Fra più altre cose abbiam veduto, che Cicerone
altresì raccomandava la frequente lettura degli antichi, benchè rozzi
ed incolti. _Sunt enim illi veteres_ (giova quì ripetere le sue
parole), _qui ornate nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope
praeclare locuti: quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes
quidem poterunt loqui, nisi latine._ Lo stesso dicasi per noi, e con
più ragione; perchè Pacuvio e quegli altri non erano a gran pezza così
eleganti, come parecchi deʼ trecentisti. Quì si tratta della purità
della lingua, e quanto a ciò quegli antichi, quantunque disadorni se
vuolsi, hanno più autorità, che i maggior bacalari della filosofia,
della storia, dellʼeloquenza, e della poesia. Ma (dicono alcuni)
dovevasi almeno far grazia a parecchi scrittori di cose scientifiche,
e di quelle che alle arti appartengono: e tanto più si doveva, perchè
troppo è scarso nel Vocabolario il numero deʼ vocaboli delle scienze,
e delle arti. Io non negherò che alcuni se ne debbano aggiugnere
a quelli, che fanno testo in lingua; parmi però che sia opportuno
andare a rilente. Avviene assai volte, che i più solenni maestri di
queste facoltà intesi tutti alle dotte loro speculazioni non abbiano
posto abbastanza studio nelle cose della lingua, o che scrivendo ne
trascurino la purità. Ed il chiarissimo signor Cavaliere Monti nella
sua _Proposta_ ricorda un dotto Mattematico, il quale con bel modo
fu fatto accorto di parecchi errori, in cui era caduto nelle sue
opere. I termini delle scienze e delle arti dipendono dallʼarbitrio
deglʼinventori, e sono proprj di tutte le lingue. Vorrei pertanto, che
si prendessero dagli scrittori approvati, se vi si trovano: altramente
si registrassero senza avvalorarli con esempj. Ma la sorgente
principale del Vocabolario debbono essere a mio giudizio i libri di
belle lettere e di storia, perchè contengono voci e modi di dire
adattabili a tutto, e acconci a rappresentar quasi tutto.

Rimprovera il Sig. Cesarotti,[83] che sieno marcati indistintamente
colla lettera del disuso tanto quei termini antichi, che sono andati
in disuso per qualche difetto intrinseco, quanto quelli, di cui è
ciò accaduto per semplice capriccio di novità. La stessa lagnanza
fece il Magalotti al Canonico Bassetti,[84] perchè allʼAccademia
la comunicasse. Questa però a mio giudizio adoperò saviamente non
secondando il suo desiderio. Egli non vide, ed ora non ha veduto il
Cesarotti, che ove gli Accademici avessero indicate quelle voci, che
meritano dʼesser novellamente poste in uso si sarebbero fatti giudici
in ciò che spetta al gusto, il che essi a gran ragione non volean fare.
Ed ove lʼavessero fatto quali rimproveri, quante critiche, quante
accuse non si sarebbono scagliate contro lʼAccademia! Diciassette
di queste voci accenna il Sig. Cesarotti, e le reputa meritevoli
di quellʼonore. Or quanti saranno per avventura, che opineranno
altramente! Quanti giudicheranno lodevoli parecchie voci, che egli
non approverebbe! Il Cavalcanti nella sua Rettorica condanna, come
disusata, la voce _misfatto_, nè vuol che si adoperi: e pure niuno
crederà ora, che questa voce non sia buona, ed avvedutamente si
astenga dal farne uso. Gli autori dei Dizionarj non debbono giudicare
di proprio arbitrio, ma secondo lʼautorità degli scrittori approvati,
e se daʼ buoni scrittori sarà adoperata alcuna di quelle parole, che
or sono disusate, in una nuova impressione lʼAccademia torrà quella
marca contro cui si mena tanto romore. Il secondo rimprovero è, che
molte parole francesi sieno state poste nel Vocabolario, come giojelli.
Non però come giojelli vi sono state poste, nè _perchè le adoperino i
moderni, ma perchè sʼintendano gli antichi_,[85] e sono utili per la
storia della lingua. Più altre accuse egli oppone al Vocabolario, che
tralascio perchè non tutto posso dire, e perchè se non mʼinganno non
sono poi tanto gravi, che richiedano molto studio per dileguarle, e
se non erro si dileguano abbastanza colle cose, che fino ad ora per
me si son dette, o che sono per dire. Nè intendo con ciò di tenere in
poco conto quellʼuomo prestantissimo; ma dubito, che lʼamore di libertà
lʼabbia forse talvolta ingannato.

Parecchi altri rimproveri si fanno da altri deʼ quali ricorderò prima
quelli, che a me sembrano ingiusti, e poi darò luogo a quelli, che
anche per mio avviso sono ben fondati. Si dolgono alcuni che gli
Accademici sieno stati solleciti di registrare certe voci che hanno
due sensi fra lor contrarj, altre che dicono stroppiate, alcune turpi,
quelle che diconsi di stil furbesco, moltissime tolte dalla plebe,
talune nate da errore dʼortografia, e parecchi proverbj Toscani
oscurissimi. Ma cominciando dalle voci di doppio senso io domando,
qual vʼha lingua che macchiata non sia di questo difetto? Molto lo ha
quella principalmente, cui vuolsi concedere il primato sullʼaltre, cioè
la Greca. Ora perchè vorremo noi sgridar gli Accademici, se trovandolo
pur nella nostra non lʼhanno tolto, essi che non si credono arbitri
della medesima, ma costodi? Lo stesso dicasi delle voci, che chiamano
stroppiate. I Greci ne ebbero tante che le distribuirono in certe
classi, cui dettero il nome di figure grammaticali, che sono lʼaferesi,
la sincope, lʼapocope, ed altre. Si rimprovera a cagion dʼesempio
la voce _notomia_, che secondo la sua greca origine dovrebbe dirsi
_anatomia_. E per far grazia a questa parola non è bastato lʼesempio
del Redi, che era medico grande, ed elegantissimo scrittore. Nè basterà
forse lʼautorità di Francesco Maria Zanotti, che lʼadoperò, non quella
di tanti altri, che pur lʼusarono, non quella del dotto medico Andrea
Pasta, che le diede luogo nel suo vocabolario.[86] E vuolsi osservare,
che il Pasta compilò quel suo vocabolario perchè fosse di giovamento
ai medici non solo nel curare glʼinfermi, ma eziandio nello scrivere
i consulti. Lo stesso dicasi di queʼ vocaboli, che derivano da errore
dʼortografia, come _anotomia_, _appostolo_, _munistero_, e simili altre
molte. Sì fatti corrompimenti si vedono pure nelle altre lingue, e
giova conservarli neʼ vocabolarj, perchè mostrano in parte lʼindole
delle medesime, e lʼaffinità, che hanno fra loro le diverse lettere,
come si mutino, si aggiungano o si tolgano. Le quali cose sono da
apprezzarsi per la storia delle lingue medesime. È poi ufficio del
diligente scrittore lo sceglier quelle, che son migliori. Con maggior
timore parlerò delle parole turpi, contro le quali si grida a gran
voce, chiamando svergognato chi difende il Vocabolario. Io lodo quelli
che amano la modestia delle parole, ma supplico, che mi sia concesso di
dire, che tanta modestia non vuolsi usare in un vocabolario. S. Isidoro
era modello dʼogni virtù, ma non si astenne dal ricordare e spiegare
neʼ suoi libri dellʼetimologie quelle voci, che il suo argomento
richiedeva. E il Forcellini esemplar sacerdote, e confessore nel
Seminario di Padova scrisse nellʼinsigne suo Lessico quelle parole, che
nel sacro tribunale della penitenza avrebbe condannate. Sì fatte parole
sono malvagie, o innocenti secondo le circostanze. Consiglierei però
gli Accademici a togliere dalla quinta impressione alcune di sì fatte
voci, che furono inventate reamente per biasimevole scherzo, le quali
non debbono aver luogo nel tesoro della lingua. Non toglierei però
le parole, che diconsi furbesche, perchè servono allʼintelligenza dei
libri, e delle persone. Ancor più ingiusto parmi il lamento peʼ Toscani
proverbj, che vi si vedono in buon dato, e per le voci del volgo, o,
come dicono, di mercato vecchio. Al qual lamento rispondono abbastanza
le cose dette dai Signori Rosini e Nicolini, nè fa di mestieri, che io
stemperi con più parole le loro osservazioni. Io dunque non vorrei,
che si togliessero queste cose, nè vorrei, che si aggiugnessero le
etimologie, tranne forse alcune pochissime più manifeste, e scevre
dʼogni incertezza. Lo studio delle etimologie, ingiustamente spregiato
da alcuni, è utile, ma è soggetto a molti pericoli. Leggiamo il
Vossio, il Menagio, ed altrettali indagatori dʼetimologie, e vedremo
in quali traviamenti sono caduti. Nè è necessario, che vi si accennino
quali parole ci son venute dallʼultimo settentrione per lʼinvasione
deʼ popoli barbari, quali ci ha date lʼArabia o direttamente per le
crociate o pel commercio, o indirettamente passando per mezzo dʼaltre
nazioni, alterate però secondo lʼindole delle diverse lingue.

Altri rimproveri si fanno al Vocabolario, cioè che molte voci e molti
significati vi mancano, che le definizioni non sempre sono esatte, che
gli esempj allegati hanno talvolta un significato diverso da quello,
che reca il Vocabolario: e già parecchi esempj di questi difetti[87]
sono stati da scrittori chiarissimi indicati. Questi rimproveri sono
veri, e niuno è che non li debba riconoscer tali. Ma qual vʼha al
Mondo opera perfetta? Il P. Bergantini pubblicò un volume dʼaggiunte
al Vocabolario. Egli perciò oltre agli autori approvati esaminò il
Vocabolario stesso, e la sua prefazione, e ne trasse molte parole, che
gli Accademici dimenticarono di registrare. Quella prefazione non è
lunga, ed era da credersi, che niuna aggiunta potesse omai cavarsene
dopo di lui, e pure vi rimase allʼAlberti di che spigolare, ed egli vi
trovò la voce Grecità. Almeno dopo lʼAlberti nulla vi sarà restato. No.
Vʼè la parola _appropiare_ in senso dʼ_assomigliare_, _paragonare_.
E dovʼè questa parola? In principio, cioè là dove lʼattenzione di
queʼ diligentissimi compilatori non poteva essersi stancata pel
lungo leggere. _Chiunque vorrà considerare_ (così comincia quella
prefazione) _lʼumile cominciamento, che hanno avuto, e come poi col
tratto del tempo si sono andati accrescendo i Vocabolarj delle lingue
già spente, vedrà, che eʼ si possono a buona equità ai grandi fiumi
appropriare ec. Ma non così va la bisogna nel fatto deʼ Vocabolarj di
quelle lingue, che tuttavia sono vive, e che da una intera nazione
si parlano; imperciocchè questi si possono vie meglio assomigliare
allʼOceano ec._ E poco dopo, parlando deʼ vocaboli moderni e introdotti
dallʼuso, gli Accademici dicono dʼaverne posti alcuni nel Vocabolario,
ma aggiungono che sono stati in ciò alquanto parchi aspettando, che da
tersi e regolati scrittori sieno _nelle loro composizioni adottati_.
Ora la voce _adottare_ in questo senso non trovasi nel Vocabolario,
nè nellʼimpressione di Verona, nè nel Dizionario dellʼAlberti, ma vʼè
solamente nel senso di _prendere alcuno per figlio_. Questi esempj
a mio giudizio fan chiaramente conoscere, che non vʼè diligenza,
che basti in simili cose, e che il tempo solo può render perfetto,
e compiuto il Vocabolario, o piuttosto che esso non potrà mai esser
perfetto.

Guari non andò, che lʼAccademia rivolse di nuovo le sue cure a questo
oggetto. Ai nove di Marzo del 1741. lʼAccademico Rosso Martini lesse un
ragionamento per norma di una nuova edizione del Vocabolario Toscano,
che ora si è consegnato alle stampe.[88] Egli vuole che si cominci dal
procacciare i materiali più importanti per sì fatto lavoro, i quali
sono una ricca, e abbondante conserva di voci tratte daʼ buoni libri,
ed una regolata, e ordinata disposizione accompagnata da un accurato
esame di tutto quello, che si trova nella precedente impressione. I
Libri, daʼ quali si debbono trarre le buone voci e forme di dire o
sono antichi, cioè del Secolo del 1300. e in quel torno, o moderni.
Dà quindi il catalogo di queʼ libri, che i compilatori della quinta
impressione o non videro, o esaminarono scarsamente; e gli antichi
sono 162., e 37. i moderni. Dai primi massimamente vuol che si prendan
gli esempj, e allora solo si ricorra ai secondi, ove non se ne abbiano
degli antichi. Vuol che gli esempj si aggiungano della formazione
dei tempi dei verbi irregolari. Fra le voci moderne altre son quelle
sdrucciolate (comʼegli dice) nel volgar nostro, o dalla frequente
pratica coʼ forestieri, o dalla introduzione delle mode e deʼ costumi
stranieri, come _rimarcare_, _rango_, _dettaglio_, e queste si debbono
escludere. Altre son quelle, che da un uso più regolato, e corretto,
e da accreditati e moderati scrittori vengono comprovate, adottate,
ed oramai comunemente ricevute, e di queste si vuol fare diligente
ricerca, ed aggiungerle. Crede, che si debbano aggiungere altresì i
superlativi, diminutivi, vezzeggiativi, ed altrettali derivati, ove se
ne abbiano esempj. Esclude poi i nomi proprj, i termini dellʼarti, ed i
latinismi, benchè usati dagli antichi, quando per lʼuso comune dei più
regolati scrittori non sieno concordemente e costantemente approvati.
Parecchi altri avvisi egli dà per accrescere il Vocabolario, e per
lʼemendazione dellʼedizion precedente, che stimo inutile indicare.
Voleva dunque il Martini, che la fonte principal delle voci fossero
gli scrittori del secolo decimoquarto, cioè quello appunto di che si
lagnano i favoreggiatori della libertà. Ma alle lagnanze parmi dʼavere
abbastanza risposto superiormente. A gran ragione dunque voleva il
Martini, che nella impression nuova del Vocabolario da queʼ vecchi
padri e maestri si traessero gli esempj prima che dagli altri.


Non così posso commendarlo dellʼavere escluso i nomi proprj, e i
termini delle arti, e delle scienze. I primi si posson raccogliere
dallʼuso e da molti libri di storia, di novelle, e simili, e di molti
era necessario determinare lʼortografia, e spiegare altri che sono
accorciativi, vezzeggiativi, o in qualunque modo alterati daʼ loro
primitivi. Non dirò poi quanto fosse inopportuno lʼescludere i secondi,
perchè lo dice abbastanza lʼuniversal desiderio, che da gran tempo li
richiede. So quanto è malagevole questa parte del Vocabolario, di che
darò un breve cenno in seguito. Pure era uopo, che questa difficoltà si
vincesse, e vi si accinse con coraggio lʼAlberti, come dirò altrove.

Sarebbe quì luogo di narrar le vicende dellʼAccademia della Crusca,
che fu dal Gran Duca Leopoldo unita allʼAccademia Fiorentina. Ma
per una parte questo racconto domanderebbe lungo discorso, e per
lʼaltra parte io non potrei tesserne la narrazione e indagarne le
cagioni più copiosamente o meglio di quello, che il chiarissimo Sig.
Cavalier Baldelli ha già fatto in una sua lettera diretta al Signor
Ab. Denina.[89] Prima di quellʼunione alcuni degli Accademici si erano
adoperati di raccogliere emendazioni, ed aggiunte al Vocabolario, e fra
questi si nominano il Casaregi, e Francesco Martini, le fatiche deʼ
quali è fama, che servissero ad arricchire lʼedizioni del Vocabolario
Napoletana e Veneta.[90]

La nuova Accademia Fiorentina poi non rimase oziosa. Il P. Ildefonso
Frediani le presentò lʼidea, e lʼapparato pel nuovo Vocabolario
Toscano,[91] di cui debbo ora far parola. Molte cose tralascio da lui
proposte, che opportunissime sono al suo intendimento, ma sarebbe quì
inutile di ricordarle, e quelle accennerò solamente, che sono più
meritevoli di riflessione. Vuol che si aggiungano _le voci tecniche,
e queste si prendano tutte dal fondo della nostra lingua Toscana
finchè si può. In mancanza della voce Toscana, si prenda da quella
lingua, che lʼabbia in proprio, avvertendo di preferire sempre traʼ
varj idiomi quello che nel suono e nellʼorigine è più analogo e simile
al nostro, e molto più lʼuso già adottato daʼ respettivi professori
in Toscana o in Italia di tali voci, e procurando guanto è possibile
di toscanizzarle nellʼinflessione, e nel suono_. p. 9. Stabilisce
inoltre, che si pongano le voci di tanti _e sì continui ritrovamenti
forestieri attenenti agli agj, alle mode, ed al regno insaziabile del
lusso, e della delicatezza del vestire, delle mense, e dʼogni genere
di delizia_, le quali voci si prendano daglʼidiomi di queʼ paesi donde
tali ritrovamenti sono venuti, procurando di renderle allʼorecchio
più Toscane che sia possibile. A me pare, che troppo pretenda il P.
Ildefonso. Egli avvezzo fra le anguste pareti della sua cella non
sapeva quanto era vasto il campo delle mode, e quanto esse sieno
variabili, nè credeva, che il Vocabolario di queste sole domanderebbe
parecchi ponderosi volumi. Io son di avviso, che registrar si debbano
le voci di questo genere, le quali daʼ buoni Scrittori sono state
adoperate, ed i nomi di quei ritrovamenti, che o per lʼutilità loro, o
per qualsivoglia altro motivo sono durevoli, e lascerei perir gli altri
senza timore, che la lingua ne avesse danno. Riguardo poi alle altre
voci delle arti vuole, che si raccolgano dagli scrittori purgati, e dai
libri di matricole e di ragione di tali arti, dalle leggi, e finalmente
dagli scrittori meno purgati, e dagli artigiani, che le esercitano.
Confessa però, che una difficoltà grande si incontra in ciò, e
grandissima la provò lʼAlberti mentre compilava il suo Dizionario
enciclopedico. Riguardo alle arti molte cose non solamente in diverse
parti dellʼItalia, o della Toscana, come dice il P. Ildefonso, ma nelle
diverse contrade della stessa Città come diceva lʼAlberti, e tutti
posson provare, hanno diverso nome. Ma se io considero, che anche i
Vocabolarj delle altre lingue sono moltissimo mancanti riguardo alle
voci delle scienze, e delle arti, se riguardo il numero immenso di
queste voci, e il continuo variare dellʼune e dellʼaltre, dubito che
più utile sarebbe il compilare un Vocabolario separato per queste; del
quale potrebbe addossarsi lʼincarico alcuna delle più insigni Accademie
scientifiche dellʼItalia. Ma son dʼavviso, che dopo la fatica di
parecchi anni pubblicandosi vi si dovranno fare aggiunte ed emende; e
così necessariamente accaderà sempre, fintantochè i Vocabolarj saranno
opera degli uomini.

Il P. Ildefonso vuol pure che si aggiungano le voci composte, e
_quelle che comporsi possono sullʼesempio di ottimi nostri Scrittori,
e colle regole di un fino criterio e del buon orecchio_. p. 11. Molte
se ne trovano nelle poesie del Chiabrera, dʼAnton Maria Salvini, e di
altri autori, che fanno testo in lingua, e vuolsi dare a queste la
cittadinanza Toscana. Altre ne hanno adoperate il Frugoni, ed altri
poeti, che non fanno testo, e lʼAccademia potrà scerne quelle, che
reputerà convenienti, ma non credo, chʼessa debba crearne di nuove.
Essa fino ad ora ha registrate nel Vocabolario quelle voci, che vedeva
adoperate daʼ buoni scrittori e dal popolo, e niuna ne ha creata di suo
capriccio, ed il fare altramente sarebbe per mia opinione un dipartirsi
dal suo istituto. Ne formino pure a lor talento gli autori viventi, e
quelli che verranno, ed ove le formino lodevolmente otterranno grazia
presso lʼAccademia in altra età.

Finalmente di tante voci forestiere, che alcuni adoperano vuol, che
si adottino quelle, che la necessità esige, o _lʼuso sufficientemente
prescritto non tanto dal tempo, quanto dallʼautorità dei più purgati
scrittori o parlatori moderni_. p. 12. _Altre non poche, che non hanno
ancora tanto possesso nellʼuso, ma che vanno verso quello inoltrandosi,
e perciò voci di mezzano uso possono appellarsi_, si potranno mettere
in una tavola a parte in fine del Vocabolario. _Ivi._ Ma vediamo quali
sieno le tavole da lui proposte. La prima è peʼ dialetti Senese,
Pisano, Pistojese, Lucchese, Aretino, e Cortonese. La seconda è
deglʼidiotismi. Questi si dividon da lui in quattro classi, idiotismi
delle persone nobili, e culte, del popolo, del contado, e dellʼultima
plebaglia. Esclusa lʼultima concede alle tre altre luogo nella tavola.
La terza è dei barbarismi dei sollecismi e di quelle voci forestiere,
che ha chiamate di mezzano uso. La quarta è dei nomi proprj di persone
o di luoghi, o troncati, o alterati, o trasformati in guisa che
appena dai più esperti sʼintendono. La quinta è delle conjugazioni ed
inflessioni deʼ verbi regolari ed irregolari un poco più abbondante
di quella del Pistolesi, ma collo stesso metodo.[92] La sesta è deʼ
Latinismi. Utili sono queste tavole, e la terza massimamente potrà
giovare per togliere una gran parte dʼerrori troppo comuni. Se non che
converrà farla così grande, chʼessa sola formerà un ampio Vocabolario.
Meno opportuna forse parrà la prima in un Vocabolario, che aver dee
per suo primo scopo la propagazione di quella sola lingua che dai
buoni Scrittori si deve adoperare. E già la tavola di queʼ dialetti
sarebbe lunga impresa, e difficile, e tarderebbe con poco profitto
lʼimpressione del Vocabolario.

Una Grammatica finalmente propone il P. Ildefonso, la quale desidera
breve, e che vinca le altre per facilità e chiarezza. Ma una
grammatica, che vuolsi mandare in luce per opera dellʼAccademia, anzi
che breve, credo, che debba esser ampia, e comprendere tuttociò che
altri può desiderare. Io però sarei dʼavviso, che bastasse imprimere
di nuovo quella ottima del Corticelli, emendandola in pochi luoghi, ed
accrescendola in altri, principalmente nella conjugazione deʼ Verbi
irregolari, nelle appendici da lui aggiunte nel secondo libro ad ogni
ordine deʼ Verbi, nel trattato delle proposizioni, degli avverbj, e in
altri luoghi.

LʼAccademia Fiorentina però non giudicò di dover seguitare le tracce
segnate dal P. Ildefonso. Per riparare ai difetti ed alle mancanze
dellʼultima edizione del Vocabolario deliberò di farne unʼaltra, e
se ne pubblicò colle stampe lʼavviso. Se nellʼedizione del 1729. di
tre o quattro autori soli si fece lo spoglio, che nelle precedenti
non avevano avuto luogo, in questa se ne approvarono cinquantacinque,
ondʼera a sperarsi, che di grandissimi accrescimenti si vedrebbe
arricchito il nuovo Vocabolario. Ma le speranze si dileguarono sul
primo loro apparire, e la promessa edizione non si eseguì. Essa fu
annunziata con un avviso pubblicato in Livorno per le stampe del Masi
ai 30. Genn. del 1794. e forse così lodevole impresa dalla difficoltà
deʼ tempi restò impedita. Può dubitarsi ancora, che lo stesso avviso
testè citato abbia distolto alcuni dal porre il proprio nome nel novero
deʼ compratori. Perchè, vedendovi molte parole, o maniere di dire non
pure, avranno in esso (quantunque ingiustamente) ravvisato un sinistro
preludio dellʼopera. In fatti lasciando stare le voci _manifesto_,
_sesto_ cioè la forma dʼun libro, _associati_, che se lʼAccademia
lo giudica opportuno, potrà forse approvare, come voci dellʼuso,
vi si trova _piano_ per metodo o disegno di unʼopera, _limitarsi_,
_riprodurre_ per ristampare, _prevenuto_ per preoccupato, _si faranno
un dovere_, _privativa_, _per anche_,[93] _va del pari colla importanza
delle materie_,[94] _copia_ per esemplare o corpo dʼunʼopera,
stampata,[95] le quali espressioni non sono ancora approvate, e alcune
forse non si approveranno. Ma quel foglio deve essere opera dello
stampatore, come lo fa credere la data di Livorno, o se è dʼaltri non
è dellʼAccademia, la quale lo avrebbe pubblicato in suo nome. A questa
erano ascritti più e diversi uomini chiarissimi, e nello studio della
nostra lingua esercitatissimi, fra i quali (per tacere deʼ viventi)
basti di ricordare il P. Ildefonso da S. Luigi Carmelitano Scalzo;
e la loro celebrità doveva fare sperare unʼopera utile, e gloriosa
allʼItalia. Erano stati fatti copiosi spogli da parecchi testi a penna
del buon secolo non veduti dai loro predecessori, e dalle opere citate
nellʼedizione del 1729. A queste ne avevano aggiunte altre molte
dʼautori moderni, delle quali si può vedere il novero nel Vocabolario
dellʼAlberti, e nella serie del Signor Gamba. Quindi molte aggiunte
si promettevano, e correzioni, lʼindicazione del genere dei nomi, i
plurali di doppia terminazione, i perfetti, e i passati deʼ verbi
irregolari, lʼetimologie quando sono ben chiare, e possono contribuire
a far conoscere la proprietà dellʼespressione. Finalmente volevano
notare con diligenza grande le voci latine, che sono manco in uso, le
familiari, le basse, le figurate, le più generalmente poetiche, e le
antiche, fra le quali sarebbono state distinte le non più usabili da
quelle dismesse senza loro demerito, e che possono talvolta impunemente
rimettersi in corso dai valenti, e giudiziosi scrittori. Io però dubito
forte, che questa estrema promessa, quantunque utile molto, fosse per
riuscire pericolosa, nè richiesta dallʼistituto dellʼAccademia.

Ciò che lʼAccademia non potè fare ha poi fatto il Signor Antonio
Cesari per le stampe del Veronese Ramanzini nel 1806. Non è del mio
argomento il tenere discorso di questa edizione: ma non debbo tacere
delle molte, ed egregie aggiunte di Clementino Vannetti di Roveredo, e
del P. Girolamo Lombardi Gesuita Veronese, che in compagnia di molte
altre ivi si vedono. Il Vannetti, e il Lombardi erano di nostra lingua
amantissimi, ed intendentissimi; dagli autori classici raccolsero
moltissime voci, e maniere di dire, animati a ciò fare, e a sostenere
tanta fatica, il primo dalle preghiere degli Accademici Fiorentini,
il secondo dallʼamore di nostra lingua. Ma le aggiunte loro sarebbono
miseramente rimaste inutili, se lʼottimo Signor Cesari non le avesse
a comune vantaggio nella sua edizione inserite.[96] Sono nelle
aggiunte di queʼ valentuomini alcuni errori, non può negarsi. Ma
quanti errori si troverebbono nelle carte degli uomini più grandi se
altri le pubblicasse quali da prima furono scritte? Qualche scrittore
dottissimo li rimprovera non dʼalcuni falli solamente, ma eziandio
dʼaver registrate parecchie voci antichissime e stranissime. Io però
non so rimproverarli di questo. Parmi che anche da quelle voci si possa
trarre qualche utile, perchè servono alla storia della nostra lingua e
della Francese o Provenzale da cui provengono, mostrano quali mutazioni
talvolta si facciano alle parole, e così posson giovare allʼetimologia
dʼaltre voci.

Benemerito del Vocabolario fu il P. Bergantini colle sue aggiunte,[97]
che poi il Dottor Pasquale Tommasi ristampò nellʼedizione Napoletana
dello stesso Vocabolario del 1740. quasi colle sue stesse parole, ma
senza nominarlo.[98] Errò però il Bergantini allegando molti scrittori
commendabili per dottrina, ma non per la purità della lingua. Tali sono
il Ficino, il Landino, lʼAtanagi, Pietro Badoaro, Daniello Barbaro,
lʼAretino, il Bascapè, Gio. Battista Lalli, Vittorio Siri, Gio.
Battista de Vico, ed altri parecchi. Errò ancora col porre nelle sue
opere molte voci, che a mio giudizio non meritavano questo onore. Apro
a caso la sua opera intitolata _voci Italiane_ ec. stampata a Venezia
il 1745. e trovo le seguenti parole: _Frizione_, che egli spiega
_crepito e insistenza che fanno i liquidi al fuoco_: _disarmo_ per
_disarmamento_: _conquestione_ per _querela_, _lamento_: _conquisitore_
per _investigatore_: _conquisizione_ per _investigazione_, ed altre non
poche, le quali non pajono degne dʼessere registrate nel Vocabolario
della nostra lingua. Molte altre però ve ne sono ottime e pure, per le
quali la fatica di questo Scrittore merita dʼessere commendata.

NOTE:

[82] _Dei difetti dellʼantico vocabolario della Crusca che dovrebbero
correggersi nella nuova edizione dimostrati dal Conte dʼAyala. Vienna
nella Stamp. di Antonio Strauss_. 1811. in 4. Ivi p 10. Questo libretto
non appartiene al mio instituto, essendo scritto nel secolo decimonono.
Io però ho creduto non dovere trascurare lʼesame di questo suo avviso,
esaminando la quarta impressione del Vocabolario.

[83] Op. T. 1. p. 125.

[84] Lettere Fam. T. 2. p. 66. ed. del 1769.

[85] Crusca Pref. §. 1.

[86] Pasta _Voci e maniere di dire e osservazioni di Toscani scrittori_
ec.

[87] Molti ne ha portati il chiarissimo Signor Cav. Vincenzo Monti
nella notissima sua _Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al
Vocabolario della Crusca_. Non tutte però le sue correzioni sono
giuste. Il Sig. Nicolini nellʼopera citata ne ha accennate alcune,
e dicesi che altri voglia accrescerne il novero. Io ne noterò una
sola, perchè è fondata sopra una sua opinione, che non giudico vera.
Egli condanna la voce _birracchiuolo_, o _sbirracchiuolo_, e dice che
niun diminutivo ha la lingua Italiana, che termini in _acchiuolo_. E
il Vocabolario non ne offre alcuno. Lʼuso però ha _ladracchiuolo_,
_birbacchiuola_, che sono nel tempo stesso diminutivi e peggiorativi,
ed hanno certa energia da non disprezzarsi. Ma a me rincresce di
trattenermi più a lungo in così cattiva compagnia.

[88] _Ragionamento presentato allʼAccademia della Crusca il dì IX.
Marzo 1741. da Rosso Martini per norma dʼuna nuova edizione del
Vocabolario Toscano. Firenze nella Stamperia di Guglielmo Piatti._
1813. in 4.

[89] Nella Collezione dʼopuscoli T. 15. p. 90. e seguenti.

[90] Luigi Targioni _Discorso sulle riflessioni relative al Vocabolario
della Crusca_. p. 16.

[91] Fu stampato prima nel volume 95. del Giornale letterario di
Napoli, ed ora di nuovo in Firenze dal Piatti, 1813. in 4. Questa è
lʼedizione di cui mi servo.

[92] Quando il P. Ildefonso scriveva non era anche venuta in luce
la _Teoria e prospetto, ossia Dizionario critico deʼ Verbi Italiani
conjugati dal Signor Abate Marco Mastrofini_.

[93] Nel Vocabolario però vʼè _per ancora_ alla v. _Per_ §. XXXVII.
Eʼ da avvertirsi, che il passo in cui si legge questa espressione è
dellʼAccademico della Crusca Rosso Martini.

[94] _Andare di pari, o al pari con alcuno_ vuol dire andare con alcuno
in modo, che uno non vada avanti lʼaltro. Quando significa _uguagliare_
vuole il dativo secondo lʼesempio portato dalla Crusca: _Chʼandar la
fece altera oggi di pari al Tebro, al Xanto_.

[95] Nel Vocabolario della Crusca non si trovano le voci _esemplare_
e _corpo_ nel senso in cui le adopero quì. Le usò però il Redi nelle
lettere. _Subito, che si darà fuori io gnene manderò unʼesemplare.
Il S. G. D. ne vuol mandare una mano di corpi a molti letterati suoi
amici._ LʼAlberti porta questo passo alla v. _Corpo_ §. ma si scordò
poi dʼaggiungere questo significato alla voce _Esemplare_.

[96] Il Vannetti morì ai 13. Marzo 1795. e il Lombardi ai 9. Marzo del
1792.

[97] Il P. Gio. Pietro Bergantini Teatino Veneziano si è dato (dice il
Mazzucchelli Scritt. It. V. 2. P. 2. p. 944.) principalmente ad una
vasta lettura dei nostri migliori scrittori colla mira dʼaccrescere
ed illustrare la nostra lingua volgare, non solamente estraendo
da essi quelle voci, che o non si trovano riferite nellʼinsigne
Vocabolario della Crusca, o vi sono riferite e spiegate in significati
diversi dagli usati talvolta dai detti scrittori, ma facendo infinite
osservazioni appartenenti allʼeloquenza della lingua Italiana. Frutto
di questa fatica sono le seguenti opere. 1. _Della volgare elocuzione,
illustrata, ampliata, e facilitata. Volume_ 1. _contenente_ A. B.
_Venezia presso Giammaria Lazzaroni_ in foglio. Lo Stampatore non
potendo soffrire la spesa dellʼedizione che doveva comprendere dodici
Tomi lʼopera rimase imperfetta. 2. _Idea dʼopera del tutto eseguita,
e divisa in sei Tomi, che ha per titolo Dizionario Italiano, ovvero
voci di scrittori Italiani separatamente da quelle, che sono sul
Vocabolario comune raccolto da Avido Mantineo P. A._ (nome Arcadico
del P. Bergantini.) _In Venezia presso Pietro Bassaglia_. 1753. in 4.
Eʼ questo un avviso della meditata edizione dellʼopera precedente, ma
accresciuta tanto, che dirsi può unʼopera nuova. 3. _Dizionario di
Eloquente Italiana M. S._ Forse è lʼopera annunziata al N. precedente.
Sospesa la stampa della prima opera il Bergantini trasse dal suo M. S.
le voci, e i significati che mancano al Vocabolario della Crusca, e
gli stampò col titolo: _Voci Italiane dʼAutori approvati dalla Crusca
nel Vocabolario di essa non registrate con altre molte appartenenti
per lo più ad arti, e scienze, che ci sono somministrate similmente da
buoni Autori_. _In Venezia presso Pietro Bassaglia_ 1745. in 4. e molto
accresciuto. _Ivi_ 1760.

[98] Mazzucchelli luog. cit. p. 947. e Gamba Serie ec.



                     _Del Dizionario enciclopedico
                         dellʼAbate Alberti._

                             ~CAPO~ VIII.


Benchè molto si debba al P. Bergantini per le sue opere, molto più si
debbe allʼAbate Alberti di Villanova pel suo Dizionario enciclopedico,
che pubblicò in sette volumi in quarto colle stampe Lucchesi del
Marescandoli nel 1797. e negli anni seguenti. LʼAccademia della Crusca
nel suo Vocabolario poche parole aveva registrate spettanti alle
scienze ed alle arti; quelle cioè solamente, che o sono più comuni, o
si trovano negli autori approvati; dicendo, che di queste far si doveva
un Vocabolario separato. Conosceva essa certamente la difficoltà,
che nel raccogliere queste voci si doveva incontrare. Le difficoltà
però non isgomentarono lʼAlberti. Egli esaminò i libri megliori, che
trattano di queste facoltà, viaggiò per le città della Toscana, visitò
le officine degli artefici, ed ogni altro luogo, da cui trar potesse sì
fatte voci, le quali avendo con diligenza raccolte, ne arricchì il suo
Dizionario. Nè trascurò pure le altre parole, che a scienze o ad arti
non appartengono, ma un numero grandissimo ne radunò traendole dagli
autori citati nel Vocabolario del 1729. e dallo stesso Vocabolario
nella prefazione, o nelle spiegazioni delle voci, che dagli Accademici
non furono registrate. A queste aggiunse egli altre fonti di nuovi
accrescimenti. Ciò furono. 1. Gli autori approvati col partito preso
dallʼAccademia Fiorentina nel 1786.[99] 2. La derivazione delle voci
adottate, cioè i superlativi diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi,
diminutivi di diminutivi, peggiorativi, avvilitivi, participj verbali,
ed altri somiglianti, seguendo in ciò lʼautorità della Crusca medesima
nella prefazione al Vocabolario del 1691. e del Varchi. 3. Altri Autori
non mai citati dalla Crusca, che furono però per la maggior parte
Toscani, o annoverati fra gli Accademici, e a suo giudizio scrissero
in purgata favella. Niuno vorrà non commendarlo per gli accrescimenti,
che egli derivò dalla prima fonte, alla quale tutti possono attingere,
purchè lo facciano con giudizio. Riguardo ai derivati ve ne sono
alcuni, che spontaneamente provengono dalle primitive loro voci,
nè vi ha bisogno dʼautorevoli esempj, perchè altri senza timore li
possa usare. Tali sono a cagion di esempio _animatore, e animatrice,
avvivatore,[100] e avvivatrice da animare, e da avvivare_, che mancano
al Vocabolario, ma dallʼAlberti vengono registrati. Riguardo a quelle
tante modificazioni di accrescitivi, peggiorativi, diminutivi,
vezzeggiativi, ed altrettali, di che abonda la nostra lingua sopra ogni
altra è andato a rilente, anzi che no quando gli mancavan gli esempj.
LʼAccademia nella prefazione premessa al suo Vocabolario del 1691.
lascia agli Scrittori una certa libertà di formare simili derivati, con
giudizio però, e con savio avvedimento; ma Monsignor Bottari asseriva,
che _non si può lasciar fare a suo modo ad ognuno, perchè senza un
poco dʼesempio avanti si potrebbe errare per poco_.[101] E lʼAccademia
stessa nella edizione del 1729. supplì molto anche in questa parte
al difetto dellʼedizion precedente. LʼAlberti ha seguiti questi
esempj, ed in ciò è da lodarsi. Nè vorrò pur biasimarlo quando prende
alcune voci spettanti a scienze dallʼAlghisi, dal Dottore Bastiani,
dal Biringucci, dal P. Bonanni, dal Ceracchini, dal Mattioli, dal
Vallisnieri, e da altri, ed eziandio dalla raccolta di bandi, editti
ec. pubblicati in Toscana nel secolo decimosesto, e dalla Tariffa delle
Gabelle della Toscana certe voci spettanti a manifatture, commercio, e
simili, perchè le prime uopo era trarle dai più solenni Maestri, e per
le seconde i bandi, gli editti ec. del Governo, quantunque non sieno
puramente scritti, usano però in questo quelle voci, che universalmente
si usano dal popolo. Nè pure lo biasimerò se a conferma di qualche
sua opinione cita le origini del Menagio, le opere grammaticali del
Gigli, ed altrettali opere, che sebbene scevre non sieno da difetti,
posson però aver trattato di quelle opinioni lodevolmente, e molte
in fatti egregie cose contengono, dalle quali è lecito a chiunque
di trar profitto. Non così potrei commendarlo, quando cita certi
altri scrittori, come lʼAretino, il Ruscelli, il Dolce, e simili.
DellʼAretino dice, che alcune delle sue rime sono comprese nella
Raccolta del Berni, che fa testo in lingua. Vuolsi però avvertire, che
alcuni Poeti soltanto di quella Raccolta sono citati dallʼAccademia nè
fra questi è lʼAretino, autore scorretto quanto altro mai. Scorretto
altresì è il Ruscelli, e dir si dee lo stesso di parecchi altri non
sempre puri scrittori, benchè pregevoli per altre doti.

Ma qualunque essi siano gli autori per lui allegati, non può non
riprendersi per soverchia scarsità dʼesempj, e per negligenza.
Lʼangustia somma, a cui negli anni estremi del viver suo lʼavean
condotto le vicende della sua patria caduta miseramente sotto il giogo
della _rivoluzione_ fu forse la cagion principale, che lo consigliò a
diminuire il numero degli esempj per diminuire il numero dei volumi.
Il che serve a rendere scusabile lʼintenzion sua, ma non appaga nel
leggitore il desiderio di vedere con maggiore abbondevolezza indicato
lʼuso dʼogni voce. Se diminuiti avesse gli esempj per quelle parole,
che sono registrate dalla Crusca il danno sarebbe stato molto minore,
perchè ognuno poteva, quando gli fosse a grado, vederli nel Vocabolario
dellʼAccademia, ma faceva di mestieri, che almeno per le voci, e peʼ
significati aggiunti lʼAutor fosse stato più liberale. Il diligente
editore, che dopo la sua morte continuò lʼedizion cominciata, sʼaccorse
di questo difetto, e volle porvi rimedio, come potè. Accrebbe perciò
gli esempj alle prime voci, il che eseguì facilmente, perchè la Crusca
glie le somministrava, ma per lʼaggiunte dellʼAlberti non era ormai
più possibile di farlo. Quantunque però in questo lʼAlberti debba
esser ripreso, vuolsi riprenderlo vie maggiormente per la negligenza
da lui usata nelle citazioni. Lascio stare qualche errore, che in
queste sʼincontra. Per esempio alla voce _abbacinato_ egli aggiunge un
significato, che lʼAccademia non avea notato espressamente, cioè che
_Famiglia abbacinata_ vale _privata deʼ suoi più illustri soggetti_,
e cita Giovanni Villani senza addurne le parole. Ma forse doveva
allegare Luca da Ponzano citato nel Vocabolario della Crusca a questa
voce § _Per Metafora_. Lascio star questo, perchè non è meraviglia
che in una intrapresa tanto lunga, e faticosa scappi qualche raro,
e piccolo errore. Intendo bensì di quella trascuratezza per cui le
citazioni non sono bastevolmente espresse, e si allega per esempio
_Tasso Gerusalemme_, _Segneri Quaresimale_, _Vite deʼ SS. Padri_,
senza indicare della Gerusalemme il canto e la stanza, del Quaresimale
la predica e ʼl paragrafo, delle Vite il Tomo e la facciata. Peggio
è quando nomina lʼautore senza indicar lʼopera, come Vallisnieri,
Salvini, Magalotti ec. o se accenna lʼopera lo fa in modo, che, ove
ancor si volesse legger tutta lʼopera indicata nella citazione, non
si troverebbe mai il passo allegato. Alla v. _sfregacciolata_ che non
è nella Crusca, aggiunge la spiegazione _leggiero sfregamento_, e
pone questo esempio del Redi: _al Ditirambo dellʼacqua do di quando
in quando qualche sfregacciolata di pennello, ma non concludo il
lavoro_. _Red. lett._ Lascio stare, che _sfregacciolata_ ivi non è
_leggiero sfregamento_, ma _frego_, o piuttosto _colpo di pennello_,
_pennellata_; lascio star questo, e dico, che niuno potrà mai trovare
quel passo fra le opere del Redi. Esso è veramente in una sua Lettera;
questa però non è fra le sue opere, ma fra le lettere familiari del
Magalotti pubblicate per opera di Monsig. Fabbroni il 1769. T. 1. p.
270. Ancor peggio è allora che porta gli esempj, senza indicare nè
pur lʼautore. Altre volte nomina lʼautore, e lʼopera, e nè lʼuno nè
lʼaltra si vedono nel suo indice degli scrittori posto al principio
del Tomo. Per esempio alla voce _Capello_, § _a Capello_, a _Fuggire_
§ _fuggi, fuggi_, a _Roba_ § _roba_ per _veste_ si leggono esempj di
_Panc. lett._ ora qual nuovo Autore sarà questo, che non è registrato
nellʼindice? Egli è Lorenzo Panciatici di cui si ha qualche lettera
fra le familiari del Magalotti stampate il 1769., e quegli esempj sono
ivi appunto nel T. 2. p 23. Fra questi esempj è da notarsi il terzo,
dove si legge _roba di camera_; il che non vorrei dire sullʼautorità
del Panciatici, il quale in quella facciata medesima dice altresì
_delle mie reverie_, che lʼAlberti non ha osato di porre nel suo
Vocabolario. Alla v. _Invadere_ cita i _Viaggi del Targioni_, che
non è da annoverarsi fra gli scrittori purgati, e al più si potrebbe
allegare per qualche voce, o modo di dire spettante alle arti ed alle
scienze. Or queste mancanze sono di non lieve momento, perchè si toglie
altrui il comodo di riscontrar negli Autori le citazioni, potendosi
pur dubitare talvolta, non forse una voce abbia un senso diverso da
quello, che lʼAlberti le attribuisce, e per togliere o confermar questo
dubbio gioverebbe molto lʼosservare il contesto dellʼesempio allegato.
Un esempio me ne somministra la parola _acquacchiato_ dove si legge
_abbattuto, infiacchito, spossato, fu detto dal Redi deʼ Lombrici
indeboliti, e quasi semivivi_. Questa citazione del Redi fa credere,
che si tratti di un grandissimo abbattimento di un totale spossamento.
Ma il Redi non dice, che queglʼinsetti fossero quasi semivivi. Ecco le
sue parole nelle _Osservazioni intorno agli Animali, che si trovano
negli animali viventi_ p. 103. edizione del 1684. _Vi dimorarono_ (due
Lombrici) _senza morirvi quantunque paressero molto acquacchiati._
Le quali parole non ispiegano abbastanza il senso di quella voce, ma
mostrano, che per darle qualche forza è stato necessario lʼunirla
allʼavverbio _molto_. Il Magalotti al contrario lo spiega bene dicendo,
_acquacchiato_ (vuol dire) _lʼistesso che confuso, mortificato_. _Lett.
fam._ T. 2. p. 68. edizion del 1769.

Finalmente alcune parole da lui registrate nel Dizionario, da altri
forse si potranno creder men degne di questʼonore. Tali per esempio
sono a mio giudizio: _Abbonamento_, e _Abbonare_, che ivi si dicono
termini Mercantili, e dʼuso; _Toletta_ che si dice «francesismo
dellʼuso, assortimento, e apparato di varj arnesi ed abbigliamenti per
cui si adorna la Dama nel gabinetto servita dalla sua damigella» e si
cita lʼAlgarotti; _sangria_ con esempio del Magalotti per cavata, o
emissione di sangue, chʼè voce Spagnuola; _altarizzare_ per onorare
alcuno ergendoli altari con esempio di Fulvio Testi cioè di un Autore
non posto nel suo catalogo: _regretto_ e _regrettare_, che si chiamano
francesismi usati dai Lucchesi fino dal secolo decimosettimo. Queste
sono parole forestiere, che lʼuso degli accurati scrittori non ha fino
ad ora autorizzati, nè doveva esser sollecito di autorizzarle lʼautore
del Dizionario.

Altri forse creder potrebbe, che le parole _regretto_, e _regrettare_
fossero da adottarsi come quelle, che proprie sono dʼuno dei dialetti
della Toscana ormai da qualche tempo. LʼAlberti trasse quella notizia
dal Gigli[102] che lʼannovera fra più altre parole dello stesso
dialetto e il Gigli lʼebbe dagli Accademici dellʼAnca. E se il Gigli,
e quegli Accademici riconoscevano queste voci non come poco dianzi
introdotte in Lucca, dovevano certamente esser proprie di quel dialetto
da qualche tempo, e non anderebbe lungi dal vero chi le stimasse
introdotte ivi cento, o dugentʼanni prima. Ma questʼantichità non
giova per aggiungere autorità a quelle voci, le quali probabilmente
recaron di Francia i mercatanti Lucchesi, che là si recavano, e lungo
tempo si trattenevano peʼ loro traffichi. Certo è, che nelle opere di
Giovanni Guidiccioni, del Daniello, del Vellutello, o in altri buoni
Scrittori Lucchesi del Secolo decimosesto, o dei Secoli susseguenti non
si trovano sì fatte voci,[103] il che è contrassegno, che essi non le
credettero di buona lega.

Un altro pregio, e al tempo medesimo un altro difetto ci somministrano
le sue definizioni. Gli Accademici nel vocabolario talvolta non dettero
buone definizioni delle cose, e lʼAlberti ebbe in animo di supplire
alla mancanza loro, ponendone altre migliori; ma anche le sue non
sempre sono scevre da difetto. Alla voce _Grecità_ definisce _tutta
La nazione Greca, e spezialmente gli Scrittori di quella lingua_, ed a
_Latinità_ leggiamo _qualità del Latino_. Ognun vede, che se è giusta
la prima definizione esser dee riprensibile la seconda. Anche la prima
però non è in tutto degna di lode, mentre _Grecità_ non vuol dire la
_nazione Greca_ ma bensì gli scrittori Greci, intendendo con queste
parole le opere loro non gli Autori stessi, come si vede dallʼesempio
ivi allegato. Onde ancora quella definizione è malvagia, perchè in
parte è falsa, e in parte equivoca.

Dalle quali cose tutte deduco, che dobbiamo saper molto grado
allʼAlberti di tanta fatica, di molte voci e significati da lui
aggiunti al Vocabolario, di aver cogli accenti mostrato quali voci si
debbano proferir lunghe, e quali brevi, di aver date parecchie buone
definizioni, e ad un uomo che per solo amore del comodo altrui, e della
nostra lingua ha tollerata per molti anni tanta fatica viaggiando,
interrogando, leggendo, e scrivendo dobbiamo perdonar qualche difetto,
che lʼumana natura non può mai in tutto evitare. Per altro il suo
Dizionario è pregevolissimo, e necessario a chiunque vuole studiare
la lingua Italiana: e il signor Cesari di molte voci, e maniere di
dire avrebbe arricchita la sua edizione del Vocabolario della Crusca
se lʼavesse veduto. Prendo a caso la Lettera B, e in questa prendo
le prime sei facciate dellʼAlberti, e trovo che al Cesari manca
_babbalà_ (alla), _bacamento_, _bacchettata_, _bacchiatore_, _baggea_,
_pigliarsela in baja_, le quali voci sono usate nel Malmantile, dal
Redi, dal Segneri, neʼ Canti Carnascialeschi, dal Varchi, e dal
Buonarroti. E pure non ho notati, i derivati dei nomi proprj, i termini
di scienze, e di arti, e quelli di cui si portano esempi dʼautori
moderni, perchè a questi non si estendono le sue aggiunte.

NOTE:

[99] Accademia Fiorentina sʼintitolò lʼAccademia instituita dopo la
soppressione della Crusca.

[100] Di _avvivatore_ vʼha un esempio del Menzini, che lʼAlberti non ha
notato. _E ʼl guardo avvivator lieta rivolse. Opere_ T. 3. _p._ 15.

[101] Annotaz. a Fr. Guitt. p. 119.

[102] _Gigli Regole per la Toscana favellap._ 591. ediz. di Lucca del
1734.

[103] Lo stesso si dica della parola _deserta per messo, o servito
delle frutte_ che ivi pur si ricorda dal Gigli. Le altre voci Lucchesi
registrate da questo scrittore nel luogo stesso non sono di questo
genere, ed hanno origine diversa.



              _Altri Vocabolarj, regole per la Pronunzia
             Sinonimi, ed Epiteti, Rimarj, ed Etimologie._

                              ~CAPO~ IX.


Se il P. Bergantini e lʼAlberti meritaron lode accrescendo il
Vocabolario, Apostolo Zeno, e Jacopo Facciolati la meritarono con
accorciarlo. Al primo si attribuisce il compendio di questʼopera, che
egli fece prima sullʼedizione del 1691, e poi su quella del 1729, e
che essendo stato tante volte impresso offre con ciò solo un manifesto
indizio del plauso universale. E meritamente lʼottenne o si riguardi la
brevità a cui è ridotto quel compendio a comodo altrui, o lʼemendazioni
quantunque rare, che quellʼuomo grande vi ha fatte. Dobbiamo al
secondo lʼOrtografia Italiana stampata in Padova molte volte, e che
può dirsi anchʼessa in qualche modo un compendio del Vocabolario
Fiorentino, quantunque quà, e là vi si trovi qualche aggiunta tratta
da scrittori approvati. Nè di questo genere di libri farò più a
lungo ragionamento,[104] dovendo omai parlare di alcuni Dizionarj
particolari. Tra questi per la sua celebrità domanda il primo luogo
il _Vocabolario Cateriniano_ del Gigli. Questo bizzarro, e mordace
scrittore si pose nellʼanimo dʼonorare il dialetto di Siena sua patria,
e poteva in ciò procacciarsi lode, ma lo fece in modo che si attirò
sventure e biasimo. Ma di lui ho già detto abbastanza di sopra.

Parecchi altri pure divulgando le opere degli antichi Autori Toscani
ne raccolsero le parole e maniere di dire meritevoli dʼosservazione,
e quelle massimamente che non si incontrano nel Vocabolario, come il
Salvini, il Biscioni, Giuseppe Bianchini, il Bottari, il Cavaliere
Jacopo Morelli, e finalmente il P. Ildefonso nelle Delizie degli
Eruditi Toscani, dai quali altresì ove ancora si tolga ciò che è
scorrezione popolaresca rimane sempre alquanto, e in taluni anche
molto, da aumentare il tesoro di nostra lingua.

Fra i Dizionari particolari si debbon porre quelli delle arti, e
delle scienze deʼ quali uno solo ne abbiamo in questo secolo. Tale
è quello per la Medicina dʼAndrea Pasta[105] Medico prestantissimo,
che avrebbe voluto sbandire quegli oscuri, e tenebrosi vocaboli, che
sì volentieri, e sì spesso soglionsi usare daʼ medici triviali nei
loro parlari, e nelle loro scritture. Aʼ questo fine dagli scrittori
approvati egli trasse le voci, e maniere di dire che appartengono
a medicina, e vi aggiunse parecchie osservazioni, con che provvide
non solo allo scrivere e parlar bene, ma ancora a bene operare. I
libri da lui allegati, o deʼ quali fece uso, sono il Decamerone del
Boccaccio, le opere del Galilei, i saggi dellʼAccademia del Cimento,
il trattato dellʼAgricoltura di Piero deʼ Crescenzi, il Ricettario
Fiorentino, il Vocabolario della Crusca, le opere del Cocchi, e sopra
tutto quelle del Redi. Io non sono punto istruito neʼ precetti delle
mediche discipline, pure credo di non errare dicendo, che i medici
ed i giovani principalmente dovrebbono avere frequentemente tra mano
il libro del Pasta, che consiglierebbe loro dʼusar favellando, o
scrivendo un linguaggio più acconcio a procacciarsi la confidenza del
malato, ed a confortarlo, e forse anche li persuaderebbe di diffidare
alquanto di certi nuovi sistemi, troppo sovente incerti, e variabili.
Un Vocabolario deʼ nomi proprj tanto delle persone, che deʼ luoghi
sarebbe utile molto, e lʼArciprete Baruffaldi lo aveva non solamente
intrapreso, ma quasi compiuto, ma è rimasto inedito.[106] E aggiungerò
quì ancora il suo Dizionario Ditirambico, e Baccanalesco, cui non
saprei qual miglior luogo assegnare.[107]

A questa classe medesima si può riferire il breve ragionamento
dellʼAlgarotti _sopra la ricchezza della lingua Italiana neʼ termini
militari_.[108] Alle maniere di dire deʼ Francesi scrittori intorno
a cose militari egli mostra quali, e quante maniere Italiane
corrispondano, ed anche in ciò solo altri può vedere di quì, come la
nostra lingua sia abbondante, e ricca più della Francese. Nè su questo
mi tratterrò più lungamente. Aggiungerò bensì, che di non mediocre
utilità sarebbe, se ciò che lʼAlgarotti fece per lʼarte militare, altri
lo facesse riguardo alle altre facoltà; affinchè ove alcuno debba
scrivere intorno alle medesime avesse pronte al bisogno le espressioni
che sono più acconce, onde non si dovesse attribuire a difetto della
lingua ciò che spesso è difetto di memoria dello scrittore.[109]

Gli Autori quì ricordati insegnano quali siano le voci, e le
espressioni, che voglionsi adoperare scrivendo; ma della pronunzia
non fanno parola, tranne lʼAlberti, che nel suo Dizionario è stato
sollecito dʼindicare le voci, che lunghe si profferiscono o brevi. Ma
noi abbiamo qualche altra cosa nella pronunzia, che domanda dʼesser
regolata. Le vocali E ed O ora si pronunziano strette, ed ora larghe;
le consonanti S Z ora hanno un suono più dolce, ed ora più aspro,
come tutti sanno. A questo volle provvedere il Gigli adoperando le
Greche lettere _epsilon_, ed _omega_ per le vocali larghe, e la S,
e lo Z corsivo per le consonanti aspre, e in questa guisa nelle sue
regole per la Toscana favella dette un lungo catalogo[110] di quelle
parole, che usar si sogliono più comunemente. Dopo lui il Salvini nel
volgarizzamento dʼOppiano[111] volle anchʼegli introdur qualche segno,
che giovasse alla pronunzia, ma solamente per le due vocali E, ed O,
alle quali sovrappose un accento circonflesso, quando si doveano
profferir larghe. Lʼuso delle Greche lettere, come non piacque nel
secolo decimosesto, quando col fine medesimo le introdusse il Trissino,
e dopo lui Adriano Franci, così nè pur piacque nel decimottavo, siccome
quelle che troppo sono difformi dalle nostre: e in questa parte fu
più saggio lʼavvedimento del Salvini, che un contrassegno adoperò più
acconcio, e meno strano. Tal novità, quantunque utile, non fu da veruno
imitata, e il Salvini medesimo negli altri suoi libri non lʼusò.

A uno scopo più alto diressero le mire loro il P. Carlo Costanzo
Rabbi Agostiniano, e il P. Giovambattista Bisso Gesuita procurando
dʼagevolare lo scriver puramente, ed elegantemente il primo in prosa,
il secondo in versi. Con questo intendimento il Rabbi raccolse i
sinonimi, ed aggiunti Italiani, cui pose in fine un trattatello
intorno alle regole per ben valersi sì degli uni che degli altri, e
delle similitudini,[112] al che poi fece parecchi accrescimenti il P.
Alessandro Bandiera deʼ Servi di Maria. Gli approvati scrittori di
purgata favella sono le fonti, dalle quali lʼopera è tratta, e poco
vʼha (se non mʼinganno) che non le sia uniforme.[113] Ma questo genere
di libri è pericoloso peʼ giovani, i quali sʼavvezzano a prendere senza
discernimento non ciò che è più acconcio, ma quello che prima cade
sotto gli occhi, ed a riempiere dʼinutili aggiunti le loro dicerìe. E
tanto più facilmente essi potrebbono risentirne danno, che si vedono
quì talvolta voci, e maniere di dire ora triviali, ed ora strane, ed
antiche, che potevano forse esser tollerabili, ed anche lodevoli nel
luogo dove furon poste da quegli autori, e altrove desterebbono riso, e
meriterebbono riprensione. Con miglior consiglio il P. Bisso raccolse
le voci, e locuzioni poetiche di Dante, Petrarca, Ariosto, e Tasso,
e dʼaltri autori del cinquecento[114] aggiungendo ancora talvolta
lunghi squarci di queʼ Poeti, e intieri componimenti. E giacchè il
mio argomento mi ha condotto a far parola deʼ sussidj prestati alla
poesia ed ai poeti non voglio lasciar di ricordare i rimarj, libri
pericolosi anchʼessi, ma comodi. Universale è quello del Rosasco[115]
per ogni genere di rime piane, tronche, e sdrucciole ed è ampio tanto,
che la stessa sua copia può talvolta imbarazzare il Poeta. Quì poi si
trovano tutte le parole e nobili, e mediocri, ed umili, onde chi vuol
farne uso debbe essere di fino discernimento fornito per iscegliere
quelle che sono più adatte al suo bisogno. Alle sole rime sdrucciole
limitò il suo Rimario il Baruffaldi[116]. Questi due Rimarj offrono
le sole parole, che fanno rima; ma, con utile avvedimento altri
facendo il rimario particolare di qualche poeta vi ha posto glʼintieri
versi, il che quanto comodo apporti, coloro tutti lo sanno, aʼ quali è
avvenuto alcuna volta di fame uso. Tali sono quelli del Dante[117] del
Tasso[118] del Petrarca Bembo Casa Guidiccioni e Molza[119] e altri.

Anche i proverbj ebbero un dotto illustratore nel P. Sebastiano Paoli
Lucchese deʼ Chierici Regolari della Madre di Dio[120], che una materia
così arida, ed ingrata seppe render piacevole con molta, ma sempre
amena erudizione. A lui vuolsi aggiungere il Biscioni nelle annotazioni
al Malmantile, il qual poema essendo da cima a fondo pieno di proverbj,
questi principalmente han dovuto spiegare i suoi Comentatori.

Finalmente a questa classe medesima appartengono altresì i Dizionari
etimologici, i quali però richiedono breve discorso, e questo lo vuol
quasi tutto il Muratori. Sono alcuni i quali avendo per costume di
biasimar ciò, che non sanno, sorrideranno al nome dʼetimologie, nè
crederanno che reputar si possano illustratori dʼuna lingua coloro,
che i loro studj hanno rivolti a questo genere di considerazioni,
che essi chiamano vano ed inutile. Ma se si considera quanti uomini
preclarissimi a sì fatte indagini hanno consacrate le loro cure, se si
considera, che fra questi è il Leibnitz, che molto ne scrisse, e con
molta, diligenza, ed il Cesarotti, che di questo studio fece una breve,
ma giudiziosa difesa ed opportuna,[121] e desiderò che un Vocabolario
etimologico avesse la nostra lingua disposto secondo lʼordine
alfabetico delle radici[122]: se a tutto ciò si ponga mente non dovremo
noi esser molto solleciti della disapprovazione di costoro. Potrebbe
forse piuttosto dubitarsi, se far si dovesse un rimprovero aglʼItaliani
di non aver già prima dʼora adempiuto, o prevenuto il desiderio del
Cesarotti, lasciando che la palma cogliesse in ciò un Francese, cioè
il Menagio colle sue _Origini Italiche_. Ma la difficoltà dellʼimpresa
probabilmente fu quella, che fino ad ora distolse i nostri dal
correre pienamente questo arringo. E per ciò che spetta al Menagio,
quanto è degna di lode lʼintenzion dellʼautore dottissimo, che
coraggiosamente prese ad illustrare una lingua non sua, altrettanto
era da desiderarsi un più felice riuscimento alle sue cure, ed alle
sue fatiche. Imperciocchè se da quel suo libro si tolga ciò che egli
prese daglʼItaliani Redi, Dati, Chimentelli, Canini, Monosini, Ferrari,
Varchi, Castelvetro, e dal Vocabolario della Crusca, poco resta di suo
e quel poco generalmente parlando non è molto lodevole. Ma venghiamo a
noi.

Il Muratori dunque parlando dellʼorigine di nostra lingua due lunghe
serie di parole ci dette, la prima di quelle voci Italiane, lʼorigine
delle quali è tuttavia sconosciuta, o dubbiosa, e la seconda di molte
voci, delle quali cerca donde provengano.[123] Nella prima molte
son le parole delle quali non reca lʼorigine, come per lo stesso
titolo suo era da aspettarsi; pure dʼalcune lʼaccenna, e di qualche
altra non è difficile lʼassegnarla. Fra queste sono _basto_ che viene
da _bast_, _basta_:[124] _cangiare_, dal Latino _cambiare_; di cui
si veda il Du Cange; _cascare_ da _cascus_, che nellʼantico Latino
significava _vecchio_, e forse voleva dire _debole_, _cadente_;
_caprone_ non comprendo come il Muratori non si sia accorto, che viene
da _caper_; _zanzara_ dal suono che fa, ed altre di quel catalogo, che
si potrebbero aggiungere. La seconda serie è un copioso catalogo di
voci, delle quali egli va indagando lʼorigine ora dal Latino antico,
ed or dal barbaro, ora dalle lingue deʼ popoli invasori dʼItalia, e
dal Provenzale, dallo Spagnolo, dallʼArabo, con molta erudizione.
Parecchie etimologie si possono aggiungere ancora quì fra le quali
accennerò le seguenti tratte dal Tedesco. _Bara_, cioè cataletto viene
da _bahre_: _Becco_ per maschio della capra da _bok_: _bosco_ da
_busk_ (il Muratori alla v. _abbozzare_ avea bensì detto, che bosco
derivava dalla lingua Tedesca, ma non ne aveva indicata la radice nè
lʼaveva registrata al suo luogo): _daga_ spezie di spada da _dagen_
spada: _stanga_ da _stange_: _tasca_ da _tasche_: _tasso_ animale da
_dachs_.[125]

Non tutti poi adotteranno tutte le sue etimologie. Per esempio _astio_
probabilmente viene dal Tedesco _hass_ come altri già ha detto: ed egli
lo fa venire dal Latino, la qual lingua non aveva questa voce, erronee
essendo le due citazioni di Plauto, che presso di lui si leggono, e
che egli prese dal Du Cange. _Randello_ viene dal Tedesco _randell_, e
il Muratori troppo forzatamente lo fa derivare da _rand_, che significa
_giro_, _cerchio_, _margine_. Ma in cose oscure tanto, e difficili,
e ravvolte in tante incertezze chi può pretendere, che mai non si
devii? Anche Anton Maria Salvini spiegò lʼetimologia di alcune voci
Italiane neʼ suoi discorsi accademici[126] e il Baruffaldi, molte ne
aveva esaminate di quelle, che dal Ferrari, e dal Menagio, erano state
trascurate.[127]

NOTE:

[104] Girolamo Andrea Martignoni fece con nuovo metodo un Vocabolario
Toscano, nel quale tutte le voci sono ridotte a tre classi, di cose
fisiche, morali, e scientifiche, e ciascuna è suddivisa in più altre
classi. Ne stampò la prima parte a Milano il 1743. e il P. Daniele
Trinchineta Minor Conventuale ne pubblicò ivi la seconda il 1750.
Il Cesarotti Op. T. 1. p. 217. ricorda un Dizionario Padovano, e
Toscano dellʼAb. Gaetano Patriarchi, in cui a fronte dʼogni vocabolo e
idiotismo Padovano sta lʼequivalente Toscano, e il P. Zaccaria _Stor.
Lett._ T. 11. p. 5. parla del Dizionario Siciliano, Italiano, e Latino
del P. Michele del Bono della Compagnia di Gesù.

[105] _Voci maniere di dire, e osservazioni di Toscani scrittori,
e per la maggior parte del Redi, raccolte, e corredate di note da
Andrea Pasta, che possono servire dʼistruzione ai giovani nellʼarte
del medicare, e di materiali per comporre con proprietà, e pulizia
di Lingua Italiana i Consulti di Medicina, e di Cirusia. Brescia per
Gio. Maria Rizzardi_ 1769. E di nuovo in Verona nella Stamperia di
Dionigi Ramanzini, 1806. nellʼultimo volume dellʼedizione Veronese del
Vocabolario della Crusca.

[106] Zaccar. Stor. Lett. dʼItal. T. 14. p. 357.

[107] Ivi p. 356.

[108] Opere T. 5. p. 181. Ed. di Venez. del Palese.

[109] Un egregio Vocabolario militare ha poi fatto il chiarissimo
Signor Giuseppe Grassi, il quale però essendo impresso recentemente,
non è del mio instituto il parlarne.

[110] Dalla p. 260. fino a 576.

[111] Stampato in Firenze il 1728.

[112] Bologna pel Pisani 1732. in 4. e di nuovo Bergamo 1744. Colle
aggiunte del Bandiera si stamparono per la prima volta in Venezia il
1756. e poi molte, altre volte.

[113] Alla v. _strage_ si vede fra i sinonimi _massacro_ che egli
chiama voce dellʼuso; ma un buono scrittore non vorrà adoperarla.

[114] Palermo pel Feuer. 1756. T. 2. in 8.

[115] Padova nella Stamp. del Seminario 1763. in 4.

[116] _Venezia_ 1755. in 4. Egli fece anche il Rimario delle voci
Italiane rimate licenziosamente e delle parole tronche, e quello della
Commedia e Canzoniero di Dante, che sono inediti. _Zaccaria Stor. Lett.
dʼItal._ T. 14. _p._ 357. Ivi gli si attribuisce ancora il rimario
della Gerusalemme, che si dice pure inedito. Ma questo rimario fu
compilato dallo Sgargi, e il Baruffaldi ne fu lʼeditore. Questi ne
cominciò uno, ma non lo compiè, come dice egli stesso nellʼedizione
Veneta delle opere del Tasso T. 1. p. 374.

[117] _Padova pel Comino 1727._

[118] Eʼ opera di Giambattista Sgargi di Gubbio, e il Baruffaldi lo
stampò nel primo volume delle opere del Tasso dellʼedizione di Venezia,
aggiungendovi sei ragionamenti.

[119] _Bergamo pel Lancellotti 1760._ in 12. Baldassar Prosperi fece
il rimario del Filicaja, come dice il Baruffaldi nellʼedizione citata
delle opere del Tasso T. 1. p. 374.

[120] Modi di dire Toscani ricercati nella loro origine. Venezia,
appresso Simon Occhi. 1740. in 4.

[121] Opere T. 1. p. 129.

[122] Opere T. 1. p. 221.

[123] _Antiq. Ital. med. ævi. Diss. 33._

[124] _Bast._, e poi _Basta_, _Bastum_, _Clitellæ_..... _Basturæ
asinorum_ ec. Du Cange.

[125] _Antiq. It. Med. Aevi. Diss. 33._

[126] _Disc. Acc._ T. 2. _D._ 24. 25. 26.

[127] _Zaccaria Stor. Lett._ T. 14. _p_. 356.



          _Edizioni ed illustrazioni degli Autori classici._

                               ~CAPO~ X.


Un altro modo dʼillustrar la lingua adoperarono altri or pubblicando
lʼopere deʼ buoni scrittori, ed or rischiarandole con annotazioni,
e con ogni maniera di spiegazioni. I Salvini, i Manni, i Biscioni,
i Bottari, ed altri con nuove, e più corrette edizioni delle opere,
che fanno testo in lingua, e già dianzi erano pubblicate, e con
ritogliere dalla polvere delle librerie gli antichi manoscritti, e
darli in luce molto hanno giovato alla nostra lingua. E molto più
le hanno giovato coloro, che sì fatte opere coʼ loro comenti hanno
rischiarate. Le fatiche deʼ comentatori di Dante non soddisfacevano
abbastanza al comun desiderio, siccome quelle, che spesso non erano
esatte, e sempre soverchiamente diffuse. Ripararono a questo difetto
Gio. Antonio Volpi coʼ suoi indici nellʼedizion del Comino[128] poi il
P. Pompeo Venturi,[129] e finalmente il P. Baldassare Lombardi Minor
Conventuale[130] colle loro annotazioni. Molto si affaticò pure intorno
a Dante il Canonico Dionisi di Verona esaminando codici, e raccogliendo
varianti per procurare unʼedizione esatta della Divina Commedia. Frutto
di tanto suo studio sono alcuni suoi opuscoli neʼ quali molte cose
si vedono utilissime alla illustrazione di questʼopera, quantunque
talvolta vi sʼincontrino ancora giudizj fallaci, e congetture prive di
fondamento.[131] Benemerito del Petrarca, o piuttosto di quelli, che
lo leggono volle essere il Muratori corredando le rime di quel gran
Lirico colle sue annotazioni, e con quelle dʼAlessandro Tassoni, che
egli dette in luce per la prima volta, quantunque non tutti siano per
approvare le critiche di quel sommo scrittore, che nelle cose spettanti
al gusto non era così grande, quanto in ciò che spetta allʼantichità.
E benemeriti ne furono veramente il Tiraboschi, che nella sua storia
esponendo la vita di lui alcune parti delle sue rime andò illustrando,
e il chiarissimo Signor Conte Gio. Battista Baldelli nella bella vita,
che ne scrisse,[132] e che tutta è piena di scelta erudizione, e di
giusta critica. Così piaccia a lui di darci pure la vita di Dante, come
questa ci ha data, e quella del Boccaccio, della quale a me rincresce
solamente di non poter quì ragionare, perchè non appartiene allʼepoca,
nella quale star deve racchiuso questo mio ragionamento[133]. Ricorderò
bensì la storia del Decamerone di Domenico Maria Manni,[134] a qualche
difetto della quale supplì poi il Lami nelle Novelle Letterarie di
Firenze del 1754. 1755. 1756. Anche il Bottari illustrò e difese il
Decamerone con trentadue lezioni, che hanno poi veduta la luce per
opera del signor Francesco Grazzini egregio giovine deʼ buoni studj
amantissimo.[135] Ma quanto debbono gli approvati scrittori alle cure
indefesse deʼ due testè mentovati Manni, e Bottari! Quanto ad Anton
Maria Salvini, al Canonico Biscioni, al Seghezzi, al Serassi! Se io
volessi quì noverare le opere per essi, o per altri più correttamente
pubblicate, o daʼ testi a penna tratte per la prima volta in luce, o
di utili prefazioni, e annotazioni arricchite ampia materia avrei di
ragionare. Ma troppo increscevole sarebbe un lungo catalogo di nomi e
di titoli, e al tutto inutile, da che il Signor Gamba nella sua serie
delle edizioni deʼ testi di lingua Italiana[136] sì accuratamente ha
soddisfatto al pubblico desiderio.

NOTE:

[128] _Padova pel Comino_ 1727.

[129] _Lucca pel Cappuri_ 1737. senza il suo nome, e poi più altre
volte con molte aggiunte, e correzioni.

[130] Roma, Fulgoni 1791. in 4. e di nuovo Roma, de Romanis 1815. T. 4.
in 4. ottima edizione.

[131] _Serie dʼAneddoti_ N. II. _Verona per lʼerede Merlo_ 1786. in 4.
Contiene una dissertazione sopra Pietro comunemente detto figlio di
Dante, e sul suo comento. In fine vi è unito il _piano_ per una nuova
edizione di Dante.

_Serie dʼAneddoti_ N. IV. Ivi per lo stesso 1788. in 4. Contiene due
componimenti in versi esametri Latini di Dante a Giovanni di Virgilio,
ed altrettanti di Giovanni a Dante, aʼ quali succede un saggio di
critica sopra Dante. _Serie dʼAneddoti_ N. V. _deʼ Codici Fiorentini di
Dante_. _Ivi per gli_ Eredi Carattoni 1790. in 4. _Dialogo Apologetico
per appendice alla serie degli Aneddoti Dionisiani_. _Verona per gli
eredi di Marco Moroni_ 1791., in 8. Il ch. Signor Proposto Lastri
avendo nelle Novelle Letterarie di Firenze deʼ 17. e 29. Aprile 1791.
censurato il N. 5. di questi Aneddoti il Dionisi si difese con questo
Libretto. Non ho registrato il N. 1. degli Aneddoti, perchè non
riguarda Dante. Non so se altri numeri sieno usciti dopo questi, che
mi furono donati dallʼAutore nel 1792. Ma siccome egli aveva sempre in
mira Dante, perciò anche in altra opera intitolata _deʼ Blandimenti
funebri, ossia delle Acclamazioni Sepolcrali Cristiane_, _Padova nella
Stamperia del Seminario_ 1794. in 4. trova modo di parlar di lui e di
illustrarlo.

[132] _Del Petrarca, e delle sue Opere Lib._ 4. _Firenze presso Gaetano
Cambiagi._ 1797. in 4. LʼAb. Sebastiano Pagello pubblicò le _rime di
Messer Francesco Petrarca con note date la prima volta in luce ad
utilità deʼ giovani, che amano la poesia_. Senza indicazione di luogo e
di stampatore, 1754. in 4. Non ho veduta questa edizione, ma so che le
note sono lodate.

[133] _Vita di Giov. Boccacci Firenze presso Carli._ 1806. in 8. gr.

[134] _Firenze pel Ristori_ 1742. _in_ 4.

[135] _Lezioni di Monsig. Giovanni Bottari sopra il Decamerone. Firenze
presso Gaspero Ricci_ 1818. T. 2. _in_ 8.

[136] Si veda principalmente la nuova edizione fatta in Milano dalla
stamperia Reale il 1812. in due volumi in 18., la quale oltre ai
testi di lingua citati nel Vocabolario, e quelli che furono approvati
dallʼAccademia nel 1786. comprende ancora quelli che furono allegati
dallʼAlberti, e parecchi altri, che il Sig. Gamba propone come Autori
di purgata favella, e di tutti accenna le migliori edizioni, come dico
nel capo seguente.



             _Di quegli Scrittori, che hanno illustrata la
               lingua Italiana scrivendo purgatamente._

                              ~CAPO~ XI.


Ma la più nobil maniera di illustrar una lingua consiste nello scriver
bene. Io non pretendo decidere quali sieno gli scrittori, che debbono
far testo in lingua. Questo è ufficio dellʼAccademia della Crusca,
ed ha voluto almeno in parte soddisfarvi lʼAccademia Fiorentina nel
partito preso il 1786. di cui ho parlato più volte.[137] Io prendo ad
annoverare non solamente coloro, ai quali è stato questʼonor conceduto,
o che ottener lo potrebbono, perchè scrissero purissimamente, ma quelli
ancora, che meritano lode di molta purità, quantunque alcuna volta,
o per trascuratezza, o per debolezza di umana natura sieno caduti in
qualche errore, od abbiano usata qualche voce non approvata. Niuno
scrittor vivente porrò fra questi, deʼ quali troppo è pericoloso il
dar giudizio: nè intendo di noverare tutti i trapassati, che ne son
meritevoli, perchè troppo lunga impresa sarebbe, e difficile. Altri
però mi ha diminuita alquanto la fatica. Oltre allʼAlberti, di cui
ho già fatta parola, il Signor Gamba nuovamente stampando la sua
_serie dellʼedizione deʼ testi di lingua_[138] agli scrittori scelti
dallʼAccademia, e dallʼAlberti parecchi altri ne aggiunse di purgata
favella. E poco fa un anonimo scrittore coltissimo, giudizioso, e
della nostra lingua amantissimo ha pubblicato un eccellente _catalogo
dʼalcune opere attenenti alle scienze alle arti e ad altri bisogni
dellʼuomo; le quali quantunque non citate nel Vocabolario della
Crusca meritano per conto della lingua qualche considerazione_.[139]
Finalmente il Signor Poggiali alla sua _serie deʼ testi di lingua_ ha
aggiunto un catalogo di _opere non citate nel Vocabolario di autori
però in esso allegati, e un altro di opere scritte in buona favella
di autori non citati nel Vocabolario_.[140] Molto prenderò da questi
scrittori, aggiungendo però non poco, e talvolta allontanandomi
dallʼopinion loro, e piuttosto agli autori per essi approvati
aggiungendone alcuni altri.

Comincio dagli Scrittori di Grammatica, e fra questi vuolsi dare il
primo luogo al Corticelli. Di lui ho già detto di sopra, dove ho
lodato i suoi precetti; e quì devo nominarlo di nuovo perchè i suoi
precetti sono esposti purissimamente. Lʼopera sua è annoverata fra
quelle approvate dallʼAccademia Fiorentina. Al Corticelli unisco
Francesco Maria Zanotti per gli _Elementi di grammatica volgare_ deʼ
quali altresì ho già parlato, e pel _Ragionamento sopra la volgar
Lingua_.[141] E poichè in questa parte del mio ragionamento ho nominato
per la prima volta questo immortale scrittore, non so trattenermi
dal mostrare qualche maraviglia, che lʼAccademia Fiorentina in quel
partito da me ricordato ponendolo fra gli scrittori approvati di tante
sue opere abbia scelte le lettere solamente, e le opere mattematiche,
filosofiche, oratorie, e poetiche abbia trascurate. Le sue lettere sono
bellissime; ma non sono men belle le altre cose; e in tutte si vede
una grazia di stile, che innamora. Io non dico, che egli sia scrittore
purissimo nel fatto della lingua, nè volle esser tale. Ma, come il
Castiglione, seguì una certa libertà, la qual pure non è senza grazia.
Che se i Deputati reputarono opportuno di perdonargli questa libertà
nelle lettere senza approvarla, parrebbe che sì fatta indulgenza usar
gli si dovesse ancora per le altre opere tanto maggiori, o lʼimportanza
si consideri della materia, o la cura da lui posta nello scriverle.
Finalmente ricordo i dialoghi del P. Rosasco, deʼ quali pure ho
già fatta menzione. Avrei desiderato, che questo purgato scrittore
non facesse uso di certe voci antiquate che non sono rare in quel
suo Libro. Checchè però sia di questo, egli in questʼopera scrive
purgatamente, e si deve dargliene lode. Ma progrediamo più innanzi
e dai maestri di grammatica passiamo a quelli, che ci hanno dati i
precetti dellʼeloquenza e della poesia.

Quì pure ci si presentano il P. Corticelli e Francesco Maria Zanotti.
I cento discorsi del primo su lʼeloquenza meritarono dʼessere
approvati dallʼAccademia Fiorentina.[142] Parrà forse ad alcuno, che
i suoi insegnamenti sieno comuni troppo; ma non è comune in essi la
purità della lingua, e il savio avvedimento di prendere gli esempj
tutti da ottimi scrittori approvati dalla Crusca. Il secondo scrisse
cinque ragionamenti _dellʼarte poetica_,[143] parlando della poesia
in generale poi della tragedia della commedia dellʼepopeja e della
lirica. Nella qual trattazione egli condisce tutto con quella grazia,
che era a lui naturale e che non lo abbandonava anche neʼ famigliari
discorsi. I precetti poetici dette pure il Gravina, e la sua opera
è annoverata fra quelle scelte dallʼAccademia Fiorentina, il qual
autorevol giudizio mi fa sicuro, che non mʼinganno commendando ancora
le altre opere sue scritte in Italiano[144]. Con purgato stile procurò
di scrivere il Quadrio la sua faticosa, e troppo lunga opera _della
storia e della ragione dʼogni poesia_,[145] il Bisso nellʼelementare
_introduzione alla volgar poesia_,[146] il Baruffaldi neʼ ragionamenti
poetici, dove parla della rima, dei rimarj, deʼ centoni, e delle varie
edizioni della Gerusalemme liberata,[147] il Parini nei _principj
delle belle Lettere_,[148] e il Borsa nella dissertazione _sul Gusto
presente in Letteratura Italiana_ onorata di premio dallʼAccademia
Mantovana.[149] Ma parecchi fra questi vince dʼassai, ed a niuno è
secondo il Sibiliato a giudizio dʼuomini intelligenti (giacchè non mi è
riuscito di vedere le cose sue). Due dissertazioni di questo scrittor
purissimo appartengono a questa classe, e furono da lui destinate a
due Accademie diverse. Commenda nella prima lʼarte poetica, mostrando
quanto alla civil società sia vantaggiosa ed alla politica, e fu
premiata dallʼAccademia Mantovana: colla seconda corregge e reprime
quella pedanteria scientifica, (come la chiama il Cesarotti) che agli
anni passati col titolo di spirito filosofico invase e guastò lʼamena
letteratura.[150] Aggiungo a questi Anton Maria Salvini ed il Marchese
Gio. Giuseppe Orsi. Il primo per le annotazioni da lui fatte alla
_perfetta Poesia_ del Muratori, ed il secondo per le _considerazioni
sopra il libro francese intitolato de la maniere de bien penser dans
les ouvrages dʼesprit_,[151] e pel ragionamento sopra il dialogo di
Cicerone _de senectute_.[152] Ambedue fanno testo in lingua, il Salvini
per antico diritto, lʼOrsi per decreto dellʼAccademia Fiorentina. A
questa classe appartengono i dialoghi del Regali di cui ho parlato
al Capo VI, ed alcune opere di Giuseppe Bianchini, cioè la difesa di
Dante, le tre lezioni sopra il primo terzetto del Paradiso di Dante,
sopra un sonetto del Petrarca, e sopra uno del Varchi, il Trattato
della satira Italiana, e il Dialogo intitolato la villeggiatura,[153]
e la difesa del Petrarca per opera del Casaregi, del Canevari, e del
Tomasi.[154] A questa classe si possono aggiungere altresì lʼacre
censura, che il Biscioni fece allʼedizione deʼ Canti carnascialeschi
procurata dal Bracci,[155] e la più acre risposta dello stesso
Bracci[156]. Commendo neʼ due feroci rivali la purgatezza della lingua,
ma biasimo solennemente la mordacità loro, e principalmente del
secondo, che ebbe poi a dolersi di averla usata.

Molti più sono gli Oratori, ed i Poeti, che domandano dʼesser quì
nominati. Ne sceglierò alcuni, non potendo parlar di tutti. Fra gli
Oratori vuolsi concedere il primo luogo al Gesuita Lucchese Alfonso
Nicolai[157] per ciò che spetta alla lingua; nè a questo mʼinduce
lʼamor della Patria, ma sì lʼAccademia Fiorentina, che lʼannoverò
fra i suoi scrittori approvati. I Gesuiti Tornielli[158] Bassani,
Sanseverino, Dolera, Rossi, Venini, Trento, Pellegrini, Granelli,
Muzani, Masotti, Vettori, e il Domenicano Valsecchi, furon lodati da
chi li ascoltò predicare dal pergamo e sono lodati da chi legge le
loro prediche. Anche fra gli Autori di lezioni sulla Santa Scrittura
ve ne ha parecchi di purgata favella. Tali io giudico il Nicolai, il
Granelli, il Rossi, il Pellegrini, già mentovati, e il Barotti, il
Martinelli, e lo Scotti. Si aggiungano a questi Gio. Maria Luchini,
ed Angelo Maria Ricci, peʼ loro volgarizzamenti dʼalcune Omelìe di
S. Basilio, di S. Giovanni Grisostomo e di S. Gregorio Nazianzeno,
deʼ quali parlerò altrove, Giuliano Sabbatini Scolopio e Vescovo di
Modena, Lodovico Preti, Giuseppe Tozzi, Antonio Monti. Fra gli Oratori
profani, si debbono ricordare Benedetto, e Giuseppe Averani, e Anton
Maria Salvini. Nomino quì Benedetto, perchè lʼAccademia Fiorentina
che lʼannoverò fra gli Scrittori da lei destinati a far testo in
lingua gli attribuisce non so quali orazioni. Queste però non sono
note al Mazzucchelli, nè al Signor Gamba, nè a me. Note sono bensì le
sue _dieci Lezioni sopra il quarto Sonetto del Petrarca_ stampate in
Ravenna il 1707. cioè lʼanno stesso della sua morte. Dieci lezioni
per un sonetto a dir vero sono troppe; ma tale era lʼuso del tempo
suo che ora è cessato, nè è da dolersene. Altre undici lezioni egli
scrisse, le quali abbiamo fra le prose Fiorentine. Molte lezioni
altresì scrisse il fratello suo Giuseppe, che il Proposto Gori fece
poi stampare.[159] I Salvini si dee collocare fra gli oratori sacri
per le prose sacre,[160] e fraʼ profani peʼ discorsi Accademici, per
le prose toscane, ed altre opere.[161] Altri oratori abbiamo nelle
Prose Fiorentine, e nellʼaggiunta che a questa si fece in Venezia il
1754. Purgatamente scrissero orazioni ancora Francesco Maria Zanotti,
Alessandro, e Domenico Fabri, il P. Curzio Boni Chierico Regolare della
Madre di Dio, Flaminio Scarselli, ed altri.[162]

Agli Oratori succedano gli scrittori di lettere. Sono alcuni, ai quali
niente aggrada, che non sia forestiero, e dʼoltre monti non venga
o dʼoltre mare. Essi magnificando le glorie dellʼaltre Nazioni in
questa parte della letteratura non cessano di rinfacciare allʼItalia,
che le mancano buoni scrittori di tal genere. Se il mio argomento
mel permettesse non sarebbe a me difficile di mostrar pienamente
la falsità di questa accusa, indicando molti egregi epistolarj del
passato secolo, o dei precedenti. Ma contenendo ancora il mio discorso
fra gli angusti confini, che mi sono prescritti, e continuando la
mia trattazione mi avverrà di rispondere almeno in parte a quel
rimprovero, quasi senza avvedermene. Il Metastasio è autore approvato
dallʼAccademia Fiorentina per le opere drammatiche solamente, nelle
quali era sommo. Le altre opere sue, benchè sieno di minor pregio, sono
però lodevoli. Le lettere[163] sono scritte con molta grazia, e con
qualche purità. Dotte ed erudite son quelle dʼApostolo Zeno,[164] il
quale altresì è approvato da quellʼAccademia per alcune delle sue opere
drammatiche. Elegantissime sono quelle deʼ Bolognesi, e leggiadramente
scritte[165]. Eustachio Manfredi, i due Zanotti Francesco Maria e
Giampietro, il Ghedini, Alessandro e Domenico Fabri, e Flaminio
Scarselli ne sono gli autori; e i loro nomi sono così noti, che farei
cosa inutile se quì prendessi a commendarli. Molte lettere abbiamo
dellʼAlgarotti fra le sue opere.[166] Sanno tutti, che lʼAlgarotti alla
scuola Bolognese attinse il buon gusto delle lettere, e fu scrittore
elegante, e da prima anche puro. Ma poi viaggiando in Francia, in
Inghilterra, in Germania, ed ivi dimorando lungo tempo il suo stile
prese una certa straniera tintura, per cui le maniere deʼ nostri
antichi si vedono talvolta unite a quelle deʼ moderni oltramontani,
il che se non mʼinganno fa un contrasto spiacevole da non imitarsi.
LʼAlberti citò le sue opere, nè lo condanno per questo, perchè molte
voci vi si trovano spettanti alla fisica e alle arti del disegno, che
secondo il suo instituto egli dovea raccogliere: ed io cito quì le sue
lettere, e citerò altre cose sue, ove mi cadrà in acconcio, perchè
molto vʼha in esse scritto toscanamente.

Anche al Magalotti nocquero i lunghi viaggi in ciò che spetta alla
purità di lingua. Purgatamente scrisse _i saggi di naturali sperienze_,
che fanno testo in lingua. LʼAccademia Fiorentina concedette
questʼonore anche alle sue lettere sì familiari, che erudite.[167]
Il Cesarotti si doleva[168] che riconoscendosi questo scrittore per
fortissimo nei saggi dellʼAccademia del Cimento, si accusi _dʼesser
poi nelle sue lettere familiari scritte in età più matura_ (_si noti
la circonstanza_) _caduto in neologismi, gallicismi, e barbarismi
evidenti_. Non è strano però, che un giovine scrittore di felice indole
ben indirizzato nelle lettere, e conversando con uomini dotti scriva da
prima lodevolmente, e col volger degli anni, sedotto poi dallʼaltrui
plauso, o dalla soverchia stima di se medesimo, o da qualsivoglia altro
motivo travii dal retto sentiero, e cada in errori anche gravi: e di
leggieri se ne potrebbe recar qualche esempio. Il Cesarotti rammenta
il giudizio di Monsignor Fabroni, il quale dice che lʼorazion del
Magalotti è piena di maestà, splendida, e luminosa, ed ha in se una
somma bellezza, e dignità, e porta sempre in fronte (ciò che fu lodato
in Messala) la nobiltà dellʼautore, il che tutti gli concederanno.
Ma il Fabroni non lo difende da quellʼaccusa, nè credo che altri lo
vorrà difendere, e lʼAccademia Fiorentina, che approvò le opere del
Magalotti non avrebbe forse voluto tutte approvar le parole, e i modi
di dire, che sono in quellʼopere. Purità grande al contrario, scevra
da ogni scoria straniera ci offrono le lettere di Lodovico Preti, e di
Natale dalle Laste, o Lastesio. Meno pure di queste sono le lettere
di Lodovico Bianconi sulla Baviera, e su Cornelio Celso; ma tanta è
la grazia con cui sono scritte, che volentieri gli si perdona qualche
scorrezione. Il Signor Gamba pone nel suo Catalogo le lettere di
Giuseppe Baretti aʼ suoi fratelli stampate a Venezia il 1762. e tre
altre del medesimo contro Biagio Schiavo uscite in luce il 1747. coʼ
torchj di Lugano. Ma siccome egli confessa, che _questo capriccioso
autore va al di là nel coniar vocaboli strani_, non credo dovergli
dar luogo nel mio. Per la cagion medesima escluderò la troppo celebre
_frusta letteraria_, colla quale sotto il nome dʼAristarco Scannabue
malmenò molti scrittori anche insigni del suo tempo.

Un altro lamento sogliono fare alcuni, che in parte ripete il Signor
Cesarotti. _Il Boccaccio_, egli dice, _ricco delle locuzioni del
comico familiare, manca dei tornj dellʼurbanità delicata, e da lui
forse è addivenuto, che lʼItalia in questo genere è tanto inferiore
alla Francia._ E ciò non basta. Altri fra le opere deglʼItaliani
non ne trovano quasi veruna, che serva a piacevole trattenimento, e
fanno querele, perchè quasi tutte dalle scienze, o dalle facoltà,
che insegnano, prendono un certo aspetto severo troppo, e contente
dʼinsegnare, non si curano di dilettare. Ma questi lamenti mi sembrano
ingiusti. Il Boccaccio prendeva stile diverso secondo la diversità
delle materie. Nelle novelle di Calandrino, Bruno, e Buffalmacco ed
in altre simili fece uso del _comico familiare_; lʼurbanità delicata
adoperò in quelle della Marchesana di Monferrato, di Bergamino, del Re
di Cipri, e in altre molte; e sono per avventura più le seconde, che
non le prime. Potrei citare altresì il Castiglione nel Cortegiano, il
Bembo negli Asolani, il Caro, e il Bonfadio nelle lettere, e parecchi
altri scrittori del secolo decimosesto. Ma io debbo ristringere il mio
discorso fra quelli del decimottavo. Or chi non ravvisa lʼurbanità, ed
anche la piacevolezza negli autori di lettere poco fa mentovati? E chi
potrà indicarmi non dirò unʼopera, ma direi quasi una sola facciata
di Francesco Maria Zanotti, in cui si desiderino questi pregi? Sino
le cose mattematiche neʼ dialoghi sulla forza, che chiamano viva, e
la morale filosofia sono da lui appiacevolite con tanta leggiadria di
stile, che non temono veruna benchè illustre comparazione. Urbanità,
e piacevolezza io trovo ancora nellʼopere dellʼAlgarotti, del Gesuita
Roberti, di Gasparo Gozzi, del Conte Robbio di S. Raffaele, del Conte
Giambattista Giovio, del Bianconi, e nelle Donne della Santa Nazione
del Gesuita Giuliari. Non finirei così presto, se tutti volessi
noverare coloro, che meritano dʼesser citati. Tralascio perciò il lungo
ed inutil catalogo deʼ loro nomi, e proseguo lʼintrapresa carriera.

Il secolo decimottavo si può dir per lʼItalia il secolo deʼ poeti. Non
vʼha quasi città, che non vanti qualche buon poeta, o mediocre. Non è
mio ufficio lʼesaminare, se quellʼimmenso torrente di versi, che agli
anni passati ha inondate le nostre contrade, fosse affatto inutile o
anche dannoso, o se per avventura ne sia provenuta qualche maggiore e
più universale, coltura deglʼingegni Italiani. Io cerco solamente fra
tanto numero di poeti quali sieno coloro, che agli altri pregj di buon
poeta seppero unire la purità della lingua. E cominciando dagli autori
di certi poemi, che epici in qualche modo si possono chiamare nominerò
in primo luogo la Genesi di Monsignor Cerati Vescovo di Piacenza,
poi il Tobia di Cammillo Zampieri, gli occhi di Gesù del Martelli,
lʼApocalisse di S. Giovanni, e il Telemaco di Flaminio Scarselli, e
il Giobbe del Rezzano, e quello dello stesso Zampieri. Tranne i tre
primi gli altri si considerano come traduzioni, alle quali non do quì
luogo;[169] ma se rettamente si osserva si debbono piuttosto chiamar
imitazioni, che traduzioni. Fra i poemi didascalici nominerò prima
lʼAntilucrezio del Ricci approvato dallʼAccademia Fiorentina, e poi
la Fisica, lʼorigine delle Fontane, e il Caffè del Barotti felice
imitator dellʼAriosto, la felicità del Bondi, i Cieli del Pellegrini,
tutti tre Gesuiti. Si uniscano a questi i poemi di cose agrarie, come
la coltivazione del riso dello Spolverini, il Baco da seta del Betti,
il Canapajo del Baruffaldi, la coltivazion deʼ monti del Lorenzi, le
fragole del Roberti.[170] Maggior sarebbe il numero dei poemetti di
vario argomento se quì volessi noverarli. Fra questi non debbo tacere
la Bucchereide del Bellini, che fa testo in lingua: ma degli altri non
farò menzione perchè troppo lungo discorso si richiederebbe. Laonde
senza più farò passaggio alla poesia teatrale.

Questa si può dividere in tragica, drammatica, e comica. Il primo
ristoratore della Tragedia Italiana nel secolo, di cui parliamo fu
Pier Jacopo Martelli, ed egli avrebbe riscosso plausi più durevoli,
se non avesse adoperato i nojosi versi, che da lui hanno il nome di
Martelliani. Il Gravina scrisse con molta purità cinque Tragedie,
che sono altrettanti efficacissimi sonniferi, quantunque non sieno
prive di qualche pregio. Lodevoli sono quelle dellʼAb. Antonio Conti.
LʼAccademia Fiorentina approvò le prose e le rime di questʼautore,
colla quale denominazione pare, che abbia voluto indicar solamente le
sue opere stampate in Venezia il 1739. e 1756. in due volumi. Ma ivi
non sono nè il volgarizzamento della lettera dʼElisa ad Abelardo, nè
le sue quattro Tragedie. Dovremo dunque dire, che queste cose sieno
escluse? Io non lo credo, e penso piuttosto, che in quelle parole
sieno comprese le opere sue tutte quante. Quasi nel tempo medesimo il
Marchese Maffei compose la Merope tante volte stampata, e rappresentata
sul teatro. Il Voltaire lʼimitò in parte, e poi la criticò amaramente,
celandosi sotto il finto nome di M. de la Lindelle. Inferiore di pregio
alla Merope è la Didone di Giampietro Zanotti, e vie più inferiori sono
lʼEzzelino e la Giocasta del Baruffaldi, quantunque sieno scritte
purgamente. Intorno allo stesso tempo Domenico Lazzarini dette in luce
lʼUlisse, il quale non ha altro merito, che dʼesser puramente scritto,
e dʼaver fatta nascere la celebre satira intitolata il Ruzvanscad.
Degno di sedere accanto allʼautor della Merope è Alfonso Varano pel
Demetrio, Giovanni di Giscala, e Agnese, e ne è degno altresì il P.
Giovanni Granelli Gesuita pel Sedecia, Manasse, Dione, e Seila figlia
di Iefte. Nè molto inferiori a queste ottime io stimo il Gionata, il
Demetrio Poliorcete, e il Serse del Bettinelli Gesuita egli pure.
Questo celebre Scrittore non cercò molto la purità della lingua; ma fu
maggiore la libertà da lui usata dopo la soppressione della Compagnia
di Gesù; nelle tragedie però principalmente e in qualche altra opera,
che indicherò a suo luogo, fu assai moderato. Fu il Pompei amante
della nostra lingua, e tale si mostrò in due tragedie intitolate
Ipermestra e Calliroe. In queste merita molta lode per regolarità di
condotta e per altri pregj; non è però mio officio e lascio ad altri
lʼesaminare se quelle sue tragedie tanti ne abbiano e tali, che debbano
ottener molto plauso rappresentate sul teatro. Parecchi altri Poeti
Tragici del passato secolo sono con onor nominati dal chiarissimo
Signor Napoli Signorelli nel sesto volume della sua storia critica deʼ
Teatri, deʼ quali non farò quì parola, perchè o sono viventi, o non
si sono abbastanza curati di scrivere puramente, o non ho lette le
loro produzioni. Ma fra le Tragedie non vedute da me credo di potere
assicurare, che lʼAgamennone e Clitemnestra pubblicata nel 1786. dal
Signor Matteo Borsa abbia quella purità di lingua, che io quì ricerco,
perchè egli era colto e purgato scrittore, talchè il Signor Gamba
avrebbe potuto concedergli un luogo onorevole nella sua appendice.

Il novero deʼ Poeti Tragici, che debbono esser da me nominati terminerà
col Conte Vittorio Alfieri. Le sue tragedie al primo loro apparire
sulle scene ottennero molto plauso, il quale pel corso di ben ventisei
anni non si è punto scemato. Alcuni critici di molto ingegno, e di
non mediocre dottrina si sono adoperati di trovare in esse parecchi
difetti: ma niuno accusa lʼautore di non essere scrittore purgato.
A me basta questa lode, che lʼuniversal consentimento, gli accorda,
nè a me appartiene dʼindicare gli altri suoi pregj, o assottigliarmi
dʼindagarne i difetti, nè di esaminare se i migliori dei tragici
nostri sieno da lui uguagliati, o superati. Lascio questo esame agli
spettatori frequenti, che non si stancano di accorrere alle sue
tragedie tante volte ripetute.

La tragedia ci è stata trasmessa dai Greci, e dai Latini, ma il dramma
musicale è opera nostra. Niun poeta teatrale è mai pervenuto alla
celebrità del Metastasio, i drammi del quale si son cantati su i Teatri
tutti dellʼEuropa. Questi furono approvati dallʼAccademia Fiorentina,
come pur lo furono quelli dʼApostolo Zeno, che è al Metastasio _longo
proximus intervallo_. Degli altri poeti drammatici non credo dover far
parola.[171] Anche i poeti comici non mi tratterranno lungamente. Le
commedie del Fagiuoli fra le opere scelte dallʼAccademia Fiorentina per
la nuova edizione del Vocabolario. Ma se meritano lode, perchè sono
scritte toscanamente, non la meritano molto per gli altri pregj, che
alla commedia son necessarj per essere applaudite nel Teatro. Anche le
poche commedie, che abbiamo del Lazzarini, del Maffei, e dellʼAlfieri
sono commendabili per la purità della lingua, ma contente di questa
lode non debbono esigerne altra maggiore. Al contrario il Goldoni, cui
niuno vorrà negare il primato nella poesia comica italiana per gli
altri pregj, che essa richiede, ha trascurato alquanto la purità della
lingua.

Se scarso è il numero di quelli, che questa parte della poesia hanno
coltivata felicemente, grande è quello deʼ poeti lirici. Le poesie
del Filicaja e del Menzini furono citate dalla Crusca. Quelle di
Giovan Bartolommeo Casaregi, del Crudeli, di Monsignor Ercolani,
del Guidi, del Lorenzini, del Mozzi, e dʼAnton Maria Salvini furono
approvate dallʼAccademia Fiorentina. LʼAlberti cita le rime del Gigli
seguace del dialetto Senese, e quelle dʼAngelo Maria Ricci, che mi
sono ignote, giacchè la guerra deʼ ranocchi, e deʼ topi attribuita ad
Omero, e da lui volgarizzata in versi anacreontici non può annoverarsi
fra le _rime_, quantunque sia in versi rimati. A questi il signor
Gamba aggiunge il Lazzarini, il Maffei, il Magalotti, il Manfredi,
Alessandro Marchetti, il Martelli, il Mascheroni, il Pompei, e il
Varano. Io finalmente ne aggiungerò più altri. Fra questi porrei il
Frugoni, se gli editori suoi fossero stati men liberali. Vi porrò
bensì lʼAlgarotti, di cui lʼAlberti cita parecchie opere di prosa,
non però le poetiche, che sono più toscanamente scritte dellʼaltre.
Vi porrò Francesco Maria e Giampietro Zanotti, Giovan Battista Zappi,
il Ghedini, il Salandri, il Conte Agostino Paradisi, il Pozzi, il
Vannetti, il Tagliazucchi, il Duranti, i Gesuiti Bassani, Rossi,
e Berlendis, il Vittorelli, il Bondi, il Parini, il P. Fusconi, il
Baruffaldi, lo Scarselli, Alessandro Fabri, il Bettinelli peʼ versi
sciolti principalmente, il Dio del Cotta, le canzonette marinaresche
del Gesuita Tornielli.

Anche nella poesia piacevole molti meritarono plauso. Il Ricciardetto
del Forteguerra, la Svinatura del Carli, le rime piacevoli del
Fagiuoli, e le poesie del Saccenti, sono fra le opere scelte
dallʼAccademia Fiorentina. LʼAlberti citò la Celidora ovvero il
Governo di Malmantile del Conte Ardano Ascetti cioè del P. Lodovico
Agostino Casotti Domenicano, e del Gigli la Scivolata e la Culeide,
e il Signor Gamba ha notate nel suo catalogo le poesie piacevoli di
Giuseppe Baretti,[172] e quelle di eccellenti Autori Toscani per far
ridere le brigate, stampate in Gelopoli cioè in Firenze il 1760. fra
le quali ve nʼha alcune del Gigli, del Bellini, e dʼaltri poeti del
secolo decimottavo. Io aggiungerò il Grillo dʼEnante Vignajuolo, cioè
del Baruffaldi, la Cuccagna del P. Rossi, le nozze di Pulcinella del
Vittorelli, le rime piacevoli del Dottor Vettore Vettori, qualche
capitolo di Francesco, e Giampietro Zanotti, del Manfredi, e pochi
altri.

Il Bettinelli voleva, che il ditirambo del Redi fosse lʼunico ditirambo
Italiano, e che delle poesie satiriche si faccia meno conto, che di
ogni altra. _La lingua Italiana_ (egli dice) _non sembra atta a questa
poesia, e glʼItaliani dan troppo presto allʼarmi._[173] Il ditirambo
del Redi è veramente cosa unica, e niuna altra nazione può gloriarsi
dʼaverne una simile. Nel secolo di cui parlo si è tentato dʼimitarlo,
ma glʼimitatori sono sempre inferiori aʼ loro modelli. Fra questi si
può accordare qualche lode al Baccanale in Gioveca del Baruffaldi,
almeno per ciò che appartiene alla lingua. Riguardo poi alla satira io
non so che cosa avesse in animo il Bettinelli, quando disse, _che la
lingua Italiana non sembra atta a questa poesia_. So che lʼAriosto,
Salvator Rosa, lʼAdimari, il Menzini, ed altri hanno scritte Satire; e
se in esse si trova alcun difetto, questo non proviene dalla lingua.
Lʼultimo di questi appartiene in parte al secolo decimottavo, ed è
annoverato fra gli scrittori citati dalla Crusca. Ma un nuovo genere
di satira sconosciuto ai Latini e ad ogni altra nazione usò il Parini
neʼ suoi poemetti intitolati il Mattino, il Mezzogiorno, e la Sera, i
quali come prima uscirono in luce riscossero molto plauso in Italia, e
fuori. Egli non _dà_ punto _allʼarmi_, ma con una delicata e leggiadra
ironia punge il vizio, e non lo flagella, nè reca mai noja in tanta
somiglianza di cose, che da lui si debbon descrivere. Nè dʼindole molto
diversa è il poema _dellʼuso_[174] del Conte Duranti da me nominato con
lode fra i poeti lirici.

Questi fra molti sono i poeti, deʼ quali ho creduto dover quì far
menzione, lasciandone parecchi altri pregevolissimi per le altre
qualità, che dallʼarte poetica sono richieste. Lo stesso è da dirsi
degli storici, di cui farò adesso parola. Ma per procedere con
chiarezza dividerò la storia nelle diverse sue parti, e comincerò da
quella, che più propriamente si chiama con questo nome. LʼAlberti cita
gli annali del Sacerdozio e dellʼImpero del Battaglini, e lo lodo se
ne ha presa qualche voce ecclesiastica, che non si trovi in altro
scrittor più pregevole. Non vuolsi però prenderli a modello di buono
stile, e purgato. Comincerò dunque il novero delle opere storiche
dalla _Verona illustrata_ del Maffei registrata dal Signor Gamba nel
suo catalogo. A questa aggiungerò i ragionamenti istorici su i Gran
Duchi di Toscana della Reale Casa deʼ Medici protettori delle lettere
e delle belle arti di Giuseppe Bianchini, la storia di Ferrara del
Baruffaldi, e la traduzione con ammirabile purità di lingua fatta
dal P. Pietro Savi Gesuita delle due opere latine del P. Ferrari,
delle geste del Principe Eugenio di Savoja nelle guerre dʼItalia e
dʼUngheria. Dellʼaltre sue traduzioni parlerò altrove. Porrò eziandio
in questa classe il ragionamento intorno allʼorigine della Città
di Prato di Giovan Battista Casotti, che si legge negli _opuscoli
filologici_ del Calogerà, e fu poi approvato dallʼAccademia Fiorentina.
Vi porrò finalmente le memorie storiche Modenesi del Tiraboschi, opera
dʼargomento non grande, e che non somministra strepitose vicende, o
luminosi avvenimenti atti ad eccitare la curiosità di molti; tale
però che al suo autore conferma quella fama di critico giusto, e di
scrittor accurato elegante ed assai puro, che le altre cose sue gli
avevano procacciata. Unirò a queste storie le illustrazioni, che il
P. Ildefonso da S. Luigi ha poste nelle sue _delizie degli Eruditi
Toscani_, e le descrizioni di feste ed esequie fatte da Giambattista
Casotti, Leonardo del Riccio, Rosso Antonio Martini, e MarcʼAntonio
Mozzi,[175] deʼ quali scrittori ho già fatta menzione, e la farò di
nuovo.

Cinque opere spettanti alla storia Ecclesiastica dallʼAccademia
Fiorentina furono approvate. Prima, fra queste o lʼampiezza si riguardi
della materia, o la sua importanza è la Storia Ecclesiastica del
Cardinal Orsi, che impedito dalla morte non potè condurre a fine. Io
non so bene, se lʼAccademia adottandola tutte volesse adottare le sue
maniere di dire, fra le quali ve nʼha alcuna, benchè di rado, tolta
dalla lingua Francese, cui si potrebbe dubitare se convenga dar la
cittadinanza Toscana.[176] Dellʼaltre opere da me indicate pur ora
due sono di Gio. Battista Casotti, cioè le _Memorie Storiche di Maria
Vergine dellʼImpruneta_, e _la Storia della fondazione del regio
Monastero degli Scarioni di Napoli_, e due sono del Canonico Mozzi,
cioè la _Storia di S. Cresci, e deʼ Santi suoi compagni Martiri, e
della Chiesa di S. Cresci in Valcava di Mugello, e la lettera ad un
Cavalier Fiorentino divoto di S. Cresci_. LʼAccademia forse volle
ancora concedere lo stesso onore allʼIstoria degli anni Santi, e
ad altre opere di Domenico Maria Manni, quantunque non lʼindicasse
espressamente.[177] Infatti qual cosa vʼha di questo purissimo
scrittore, che non meriti di far testo in lingua? A queste opere
poi aggiungerò io la vita di S. Ignazio, la leggenda di S. Anna, e
quella di S. Margherita da Cortona del P. Antonfrancesco Mariani
Gesuita, il quale scrittore in ciò che spetta alla lingua è sempre
così purgato, che a niun altro lo reputo secondo, ed i più tenui suoi
libretti ascetici proporre si possono a modelli di stile purissimo, e
immacolato. Aggiungerò altresì la _Storia ragionata delle eresie_ del
Canonico Pietro Paletta, nella quale e gli avvenimenti dellʼeretiche
sette si descrivono con eleganza, e le cagioni se ne espongono con
critica diligente e sottile. Aggiungerò finalmente lʼinsigne Storia
della Badia di Nonantola del Tiraboschi, di cui dirò solamente, che è
degnissima del suo autore.

Ma la parte, in cui più che in ogni altra il Tiraboschi si è renduto
celebre è la storia letteraria. Egli, Apostolo Zeno, il Mazzucchelli
sono in Italia i padri di questa classe, e tutti tre furono purgati
scrittori. Niuno è così solennemente inerudito, che non conosca le
Dissertazioni Vossiane e le Annotazioni alla Biblioteca del Fontanini
dʼApostolo Zeno, gli Scrittori Italiani del Mazzucchelli, la Storia
della letteratura Italiana, e la Biblioteca Modenese del Tiraboschi.
Se io prendessi a lodar queste opere, e le altre cose minori di questi
scrittori nulla potrei dire, che non sia già stato detto da molti, e
nulla aggiungerei alla loro celebrità. Dirò solamente, che vasto è
lʼargomento, che ciascheduno ha scelto, grande è in essi lʼerudizione,
ma opportuna, esatta la critica, elegante lo stile, e (ciò che
appartiene al mio scopo) non mediocre la purità della lingua; talchè
non vʼha officio di buono scrittore, che essi abbiano trascurato. Da
Apostolo Zeno non deve andar disgiunto il suo feroce, ma disuguale
antagonista Monsignor Giusto Fontanini. La sua opera dellʼeloquenza
Italiana, e la Biblioteca, che vʼè unita, si attiraron le critiche
dello Zeno, di cui ho già parlato, del Muratori, del Maffei, di Gio.
Andrea Barotti, e del P. Costadoni, e la più parte di quelle critiche è
giusta. Il Fontanini era quanto altri mai litigioso, tenace della sua
opinione, e non esatto abbastanza nellʼerudizione. Era però erudito,
e assai puro di lingua. Questa lode gli si deve ancora per la Storia
arcana della vita di F. Paolo Sarpi, che ha pure il merito grande
dʼaver rappresentato costui quale era veramente, e aver ciò fatto con
irrefragabili monumenti. Grato mi sarebbe dʼonorare questo mio catalogo
colla bellʼopera di Marco Foscarini sulla letteratura Veneziana tanto
commendata a gran ragione. Ma se le altre parti tutte egli adempie
dʼottimo scrittore, in quella solamente, che la purità riguarda
della lingua, lascia alquanto a desiderare. Devo bensì collocarvi il
Marchese Maffei per quella parte della sua Verona illustrata, dove
degli scrittori Veronesi tenne lungo discorso, Gio. Andrea Barotti
per le Memorie storiche deʼ letterati Ferraresi, ed il Bianconi per
lʼauree lettere sopra Celso. LʼAlberti ha citato alcuna volta la
Storia, e i Commentarj della volgar poesia del Crescimbeni, ma a me
non pare questʼopera purgata tanto, che le si debba dar quì luogo. Per
lo stesso motivo fra i libri di sacra eloquenza non ho collocato il
suo volgarizzamento delle Omelìe di Clemente undecimo, cui il signor
Poggiali dà luogo nel suo Catalogo, nè altrove le altre sue opere, che
per molti riguardi meritan lode. Aggiungerò più tosto lʼoperetta del
Manni dellʼinvenzione degli occhiali, che fu approvata dallʼAccademia
Fiorentina, lʼistoria del Decamerone del Boccaccio[178] la vita di
Niccolò Stenone, e le veglie piacevoli del medesimo scrittore, dove fra
più altre vite, che a questa classe non appartengono, parecchie ne sono
dʼuomini chiari nellʼamene lettere. Molte altre cose abbiamo di lui a
storia letteraria appartenenti, le quali tralascio, perchè troppo lungo
ne sarebbe il novero, ed altri le potrà vedere indicate nellʼopera
testè citata del chiarissimo signor Canonico Moreni. Non debbono poi
esser da me dimenticati il Casotti, e il Mozzi, il primo per la vita
del Buommattei, che sta innanzi alla sua opera della lingua Toscana,
e per alcune lettere sulla vita, e le opere del Casa,[179] e il
secondo per la vita di Lorenzo Bellini, che è fra quelle degli Arcadi.
E giacchè queste vite dʼuomini letterati ho nominate ragion vuole,
che tre altri purgati scrittori di questo genere io ricordi, cioè il
P. Pier Caterino Zeno, che la vita ci dette di Giovanni Rucellai,
e degli storici Veneti Battista Nani e Michele Foscarini,[180]
Antonfederigo Seghezzi, che quelle descrisse del Caro, di Bernardo
Tasso, del Castiglione, e dʼaltri,[181] Pier Antonio Serassi, da cui
abbiamo quelle copiosissime di Torquato Tasso e di Jacopo Mazzoni,
una dissertazione sopra lʼepitaffio di Pudente Grammatico, ed un
ragionamento sopra la controversia del Tasso e dellʼAriosto, Anton
Maria Salvini, che fra le vite degli Arcadi inserì quella di Benedetto
Averani, ed il fratello suo Salvino, che ci diede i Fasti Consolari
dellʼAccademia Fiorentina oltre a cinquantacinque vite le quali tutte
con incredibile diligenza ha accennate lʼeruditissimo Signor Canonico
Moreni nellʼopera più volte citata. Alle vite succedano gli elogj,
intorno aʼ quali necessariamente sarò breve, perchè niuno scrittore mi
è noto, che lungamente si sia esercitato in questo genere dʼeloquenza,
ed io non intendo nominar tutti quelli, che poche, e piccole cose hanno
pubblicate. Questo mio intendimento però non mʼimpedirà di nominare
il Bolognese Luigi Palcani. Egli educato in quella beata scuola della
sua patria, fra tanti uomini chiarissimi, che là fiorirono alla metà
del secolo passato o in quel torno, fu non solamente dotto, ma
ancora elegante, e purgato scrittore. Abbiam di lui gli elogj di due
mattematici, cioè dellʼAb. Leonardo Ximenes e del Colonello Anton
Maria Lorgna, neʼ quali la severità della materia è per lui temperata
mirabilmente colle grazie dellʼeloquenza e ingentilita per modo,
che queglʼistessi cui non piacciono le mattematiche discipline sono
invitati ad amarle in quei due libretti elegantissimi.

Alla Storia è con vincoli strettissimi unita lʼAntiquaria, la quale
perciò richiama ora a se il mio discorso. Essa mi ricorda in primo
luogo il Gori, ed il Lami. Ambedue per decreto dellʼAccademia
Fiorentina sono approvati, il primo per la _risposta al Marchese Maffei
intorno al Tomo IV. delle osservazioni letterarie, e per la difesa
dellʼAlfabeto degli antichi Toscani_,[182] il secondo _per le Lezioni
Toscane, e peʼ dialoghi dʼAniceto Nemesio in difesa delle lettere di
Atromo Traseomaco_.[183] LʼAccademia non concedette lo stesso onore
alle _Lettere Gualfondiane_, che il Lami stampò sotto il finto nome
di Clemente Bini, e non senza ragione: perchè questʼautore, che nelle
lezioni Toscane e neʼ dialoghi non volle molto soggettarsi ad una
grande severità nellʼusar voci di Crusca, nelle lettere usò dʼuna
libertà anche maggiore. Al Gori e al Lami aggiungerò il Manni scrittor
purgatissimo, come ho già detto. Di lui abbiamo più e diverse opere
dʼantiquaria cioè delle _antiche terme di Firenze, notizie istoriche
intorno al Parlagio ovvero Anfiteatro di Firenze_, _istorica notizia
dellʼorigine e significato delle Befane_, e principalmente _le
osservazioni istoriche sopra i Sigilli antichi deʼ secoli bassi_.[184]
Della Verona illustrata del Maffei ho già parlato due volte, e debbo
parlarne ora di nuovo perchè vi sono unite lʼopera su gli Anfiteatri,
e quella molto minore sullʼantica condizione di Verona. Della seconda
dice graziosamente il Signor Abate Rubbi, che in essa lʼingegno
dellʼautore è in ragion del suo cuore,[185] con che egli dette un
giusto e profondo giudizio. Ma io non esamino, che cosa possano dir
gli antiquarj dellʼuna, e dellʼaltra, e mi basta, che ambedue sien
pregevoli, benchè possano meritar qualche critica, e che scritte sieno
purgatamente. Per lo stesso motivo nominerò pure lʼopera dei circhi del
Bianconi, quantunque abbia incontrato qualche oppugnatore. Debbonsi poi
con molta lode nominare le _Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi
antichi di vetro_ di Filippo Buonarroti,[186] le quali gli confermarono
quel nome di grande antiquario che le precedenti sue opere gli avevano
procacciato. Nè minor plauso vuolsi fare allʼAb. Luigi Lanzi, e a mio
giudizio anche maggiore, perchè nuove strade aprì nellʼantiquaria, ed
usò una esattissima critica, cui non erano molto inclinevoli molti di
quelli scrittori di sì fatto genere, che più erano celebri poco innanzi
a lui.[187] Non parlerò poi di quelli antiquarj, che poche e brevi cose
hanno scritte, per non esser soverchio: e passerò piuttosto a noverare
i principali scrittori, che di materie scientifiche hanno trattato.

Cominciamo dalla Psicologia, e dalla naturale Teologia. LʼAccademia
Fiorentina scelse la dissertazione del P. Tommaso Vincenzo Moniglia
contro i Materialisti ed altri increduli.[188] A me sarà concesso
dʼunire a questa le altre opere sue di non dissimile argomento, e
di merito uguale, cioè la dissertazione contro i Fatalisti,[189]
le osservazioni critico-filosofiche contro i Materialisti divise
in due trattati,[190] _e la mente umana spirito immortale, non
materia pensante_.[191] Alle opere del Moniglia debbono unirsi le
celebri lettere familiari del Magalotti contro gli Atei approvate
dallʼAccademia Fiorentina. Di queste io dirò solamente quello, che
il Tocci ne disse nella vita del Viviani, cioè che _esse sono ciò
che più di portentoso ha veduto da un secolo in quà la nostra lingua
in quel genere_. Di Dio, dellʼanima spirituale immortale e libera, e
della legge di natura verso Dio, verso lʼuomo, e verso se trattò il P.
Nicolai in sette ragionamenti che sono nel volume secondo delle sue
Prose. Ma più dʼogni altro trattò profondamente di sì fatte materie il
P. Antonio Valsecchi colla sua opera _dei fondamenti della Religione, e
dei fonti dellʼempietà_.[192] Parla egli dellʼesistenza di Dio, della
spiritualità, ed immortalità dellʼanima, e della legge di natura,
mostra la necessità della rivelazione, la possibilità della rivelazion
deʼ Misteri, e che veramente la Cristiana Religione è rivelata da Dio,
esamina finalmente quali i fonti sieno dellʼempietà. _La Religion
vincitrice_[193] è quasi un appendice alla prima opera, perchè avendo
in quella provati ad evidenza gli assunti suoi, e risposto alle
principali objezioni degli avversarj dʼogni maniera, in questa prese
a combattere il _sistema della natura, il sistema sociale, ovvero
principj della morale, e della politica_, e ne trionfò. Finalmente
per dar compimento alla sua impresa pubblicò _la verità della Chiesa
Cattolica Romana_,[194] in cui fa conoscere, che in questa, ed in essa
sola, la divina rivelazion si conserva. Con minor apparato di dottrina,
ma in un modo per dir così più accostevole, scrisse il Roberti alcuni
aurei suoi libretti, che se non affrontano apertamente lʼincredulità,
pure le fanno gagliarda guerra. Tali sono i trattati _del leggere libri
di Metafisica e di divertimento_, _della probità naturale_, _e le
annotazioni sopra la umanità del secolo decimottavo_.

La Psicologia e la Teologia Naturale aprono la strada alle scienze
sacre, alle quali ora farò passaggio. E quì pure ragion vuole, che
il primo luogo a quelle opere si conceda, le quali dallʼAccademia
sono citate. Fra queste sono le prose del P. Gio. Lorenzo Berti,
la Dimostrazion Teologica del Cardinal Orsi,[195] lo spirito del
Sacerdozio del Cavalier Giraldi. LʼAlberti citò il volgarizzamento,
che Francesco Giuseppe Morelli fece del _Gentiluomo istruito nella
condotta di una virtuosa, e felice vita_ dellʼInglese Dorell, e avrebbe
potuto aggiungere quello, che egli pur fece della _Guida degli uomini
alla loro eterna salute_ del Gesuita Giuseppe Personio.[196] Ma altri
ancor vi sono che purgatamente hanno scritto di sì fatte materie.
LʼAccademia Fiorentina, che adottò le Prose del P. Nicolai, poteva
eziandio adottare le sue Lezioni. Io dubito che di lui volesse parlare
il Roberti, quando a un giovine ecclesiastico scriveva così. _Tuttavia
dellʼerudizione profana, interpetrando la parola dello Spirito Santo,
servitevene per bisogno, non per vanto. Non siate un intemperante, come
lo è nelle sue lezioni stampate un dottissimo uomo ad amendue assai
noto. Tanta intemperanza a me sembra un principio di vanità._[197] E
veramente se quelle Lezioni fossero state dal Nicolai dette così dal
Pergamo, come poi furono stampate, dovrebbesi in esse condannare quella
erudizione soverchia, e quella dottrina profonda, di che son piene. Ma
se, come egli il dice nel prospetto dellʼopera, dopo essere stato parco
leggendole, le arricchì poi per la stampa a vantaggio deʼ leggitori
scienziati si dee sapergliene grado, e commendarlo. Per la qual cosa
egli lascia in dubbio, se dobbiamo intitolarle Lezioni, o più presto
Dissertazioni, e altrove le chiama senza più col secondo nome.[198] Or
chi sarà che voglia accusarlo dʼessersi mostrato erudito, e dotto,
quando peʼ dotti scriveva e per gli eruditi? Molta poi è la purità
della lingua, principalmente dove a foggia di parafrasi spiega il Sacro
Testo, nella qual parafrasi lʼautore si adopera dʼimitare il Boccaccio.
E lʼimitazione di questo gran modello della narrazione si manifesta
ancora in unʼaltrʼopera sua, di cui per grande sventura non abbiamo
che il primo volume di quattro, che se ne promettevano col titolo,
_Dichiarazione letterale del Sacro Testo deʼ quattro Libri deʼ Re_.
Avrei creduto, che lʼAlberti citar dovesse queste opere, o avendole
egli trascurate dovessero il Gamba e il Poggiali ricordarle. Avrei
creduto lo stesso delle opere teologiche di Monsignor Incontri, e di
quelle del Marchese Maffei, delle quali il solo Poggiali ha citate le
prime, e niuno le seconde. Io certo non dubito, che non debbano aver
quì luogo il _Trattato delle azioni umane, le lettere pastorali e la
spiegazione delle feste_ di quel Prelato.[199] _La storia teologica
della Grazia, il libro deʼ Teatri antichi e moderni, lʼarte magica
dileguata, lʼarte magica annichilata, i tre libri dellʼimpiego del
denaro_, in cui mentre si ammira la profondità della Teologica
dottrina, si commenda eziandio la nobiltà e lʼeleganza dello stile, e
la purità della lingua. Queste lodi medesime si debbono attribuire alle
Dissertazioni Teologiche del Conte Canonico Cristoforo Muzani, ed anche
maggiori in ciò che appartiene alla lingua ed allo stile, se non che
forse parrà ad alcuno, che sieno talvolta troppo oratorie. Non manca
la purità, ed abbonda lʼeleganza in certe operette del Roberti, che a
questa classe appartengono. Tali sono _lʼesortazione sopra i danni che
reca il tempo alle Comunità religiose, la lettera sopra la felicità,
la lettera di un Ex-Gesuita vecchio, ad un Ex-Gesuita giovine, gli
opuscoli sopra il lusso, il trattato dellʼamore verso la patria, e
lʼistruzione Cristiana ad un giovinetto Cavaliere e a due giovinette
Dame sue sorelle_. Nè dico già che tutto sia oro nel fatto della
lingua ciò che egli scrive. Lasciando stare la voce _ex-gesuita_, che
abbiam veduta testè da lui adoperata, vuolsi confessare, che andando
innanzi nellʼetà per la frequente lettura deʼ libri francesi cominciò
senza avvedersene ad usare qualche modo di dire straniero; il che
più spesso gli avvenne nellʼ_amor della patria_, che prevenuto dalla
morte non potè emendare. Ma dove sono molte cose pregevolissime non
dobbiamo essere difficili troppo per qualche difettuzzo, che sfugga la
attenzione dʼuno scrittore.

Le opere spirituali dellʼAbate Lanzi meritano altresì onorata menzione,
perchè qualunque cosa egli prendesse a trattare, vi trasparivano i
lampi di quel suo ingegno felice, e della sua eleganza di stile.[200]
Ed ancor più debbono ricordarsi quelle del P. Anton Francesco Mariani
della Compagnia di Gesù, le quali sono immacolate.[201] Saranno forse
alcuni, i quali prenderanno a sdegno, che fra le opere deʼ Filosofi,
degli Storici, degli Oratori, e deʼ Poeti si pongano le sacre leggende
e le novene di questi scrittori: molti però con maggior senno le
ameranno e per ciò che dicono, e pel modo con che lo dicono. Ed è fama
che lʼAb. Lanzi dicesse dʼessere più contento di quelle sue operette
spirituali, che dellʼaltre erudite. Finalmente voglionsi quì ricordare
due volgarizzamenti. Sarà il primo _il libro di Dionisio Certosino
contro lʼambizione, con altri due opuscoli sul medesimo argomento_
tradotti da Monsignor Bottari,[202] e lʼaltro _lʼopere di Tertulliano
tradotte in Toscano da Selvaggia Borghini nobile Pisana_, che lo stesso
Bottari fece stampare ornandole di note e dʼuna erudita prefazione.[203]

Dalle sacre scienze non deve andar disgiunta la moral Filosofia,
glʼinsegnamenti della quale saranno sempre uniformi a quelle, ove
il corrompimento del cuore non faccia traviare lo scrittor, che ne
tratta. Niuna opera di questo genere è nel catalogo dellʼAccademia
Fiorentina fuor solamente i caratteri di Teofrasto tradotti da un
Accademico Fiorentino, cioè da Leonardo del Riccio, di cui farò parola
in altro luogo. Ma il Gamba, e lʼAnonimo Milanese ne citano due. Il
secondo ricorda la morale Filosofia di Francesco Maria Zanotti, che è
una delle migliori di questʼuomo immortale e per lʼimportanza della
materia, e pel modo con cui è trattata, e per la gravità dello stile.
Il celebre Cardinal Quirini lʼebbe in tanto pregio, che avendola letta
con somma avidità la volle poi sempre sul suo tavolino, e spesso la
rileggeva con indicibil piacere. Poteva lʼAnonimo aggiungere altresì
il suo ragionamento sopra il saggio di morale di M. Maupertuis, e gli
opuscoli, che lʼaccompagnano, cioè i discorsi e le lettere contro le
_Vindiciae Maupertuisianae_ del P. Ansaldi, la risposta alle lettere di
Clemente Baroni deʼ Marchesi di Cavalcabò, e _la lettera ad un amico,
che può servire dʼintroduzione alla novella letteraria dellʼapparizione
dʼalcune ombre_. Io non parlerò quì della bellezza di questi opuscoli,
perchè quando si è nominato il loro autore è inutile ogni lode. Citerò
finalmente col Gamba la _scienza chiamata cavalleresca_ del Marchese
Maffei, utilissima opera, che ha contribuito a scemare alquanto lʼuso
empio barbaro e stolto deʼ duelli.

Ma passiamo ormai a quella scienza, che forse sopra ogni altra ha nel
passato secolo fatto progresso grande, voglio dire la scienza della
natura. Carlo Taglini aprirà questa classe colla _lettera filosofica_
al Marchese Riccardi, in cui dette la norma di studiare con profitto la
Filosofia. Essa è fra le opere scelte dallʼAccademia Fiorentina, onde
non abbisogna dellʼaltrui approvazione nel fatto della lingua. Ma per
procedere con ordine cominciamo dalla Fisica. Il dialogo di Zaccaria
Scolastico intorno alla fabbrica del Mondo volgarizzato dal Volpi, le
opere dellʼAb. Conti, in cui è pur qualche cosa di Fisica, le lezioni
di Monsignor Bottari sopra il tremoto furono approvate dallʼAccademia
Fiorentina. Se non hanno ottenuto lo stesso onore, meritano però lode
di purgati scrittori Francesco Maria Zanotti pel suo Trattato di
Filosofia, lʼAlgarotti pel Neutonianismo, il Marchese Maffei per le
sue lettere sopra la formazione deʼ fulmini. I primi due erano buoni
Fisici; ma il terzo non era molto esercitato nella scienza della
natura, e scriveva sopra un argomento difficile, prima che il Franklin,
e il P. Beccaria lʼavessero illustrato. Del Magalotti posso rammentar
solamente le lettere, nelle quali alcuna cosa sʼincontra intorno alla
Fisica, giacchè i saggi di naturali esperienze dellʼAccademia del
Cimento appartengono al secolo precedente. Poco finalmente ci offrono
le opere del Bianconi, ma non vuolsi dimenticare quel poco, perchè
egli era elegante scrittore; benchè, siccome ho già detto, alquanto
libero nel fatto della lingua. Anche il Roberti volle esser fisico, e
il fu con quella grazia, che era a lui naturale, scrivendo due lettere
dʼun bambino di sedici mesi colle annotazioni di un Filosofo, e sul
prendere, come dicono, lʼaria ed il Sole. Due brevi ragionamenti
abbiamo del Palcani, uno sul fuoco di Vesta[204] e lʼaltro sul natro
orientale,[205] ed è a dolersi, che non se ne abbia un numero maggiore,
tanto son pieni di dottrina, e dʼeleganza.

Cosa maggiori ci somministra la Storia naturale. La piccola terra
di Scandiano nel Modenese ha la gloria dʼaver dati allʼItalia nel
secolo decimottavo due sommi naturalisti, che furono nel tempo stesso
scrittori purgati ed eleganti, cioè il Vallisnieri, e lo Spallanzani.
Del primo basterà indicare lʼedizione delle sue opere fatta in Venezia
il 1733. nè sarà necessario tutte annoverarle minutamente. _Del secondo
il saggio dʼosservazioni microscopiche concernenti il sistema della
generazione_, _le memorie sopra i muli_, _le osservazioni sullʼazione
del cuore nei vasi sanguigni_, _il prodromo dʼunʼopera da imprimersi
sopra le riproduzioni animali_, _la contemplazione della natura del
Signor Carlo Bonnet tradotta in Italiano, e corredata di note_, _le
dissertazioni su i fenomeni della circolazione osservata nel giro
universale deʼ vasi_, _gli opuscoli di Fisica animale, e vegetabile_,
_il viaggio alle due Sicilie_ sono opere lodatissime per novità di
scoperte, per acutezza dʼingegno, per esattezza dʼesperienze, e per
eleganza di stile. Come una terra sola ha dati due insigni naturalisti,
così una sola famiglia ne ha somministrati altrettanti, cioè i Conti
Giuseppe e Francesco Ginanni di Ravenna. Il primo scrisse _delle
uova, e deʼ nidi degli uccelli con unʼappendice dʼosservazioni sulle
cavallette_,[206] e una lettera allʼInstituto di Bologna _intorno al
modo di pascersi, ed alla respirazione e generazione delle telline e
dʼaltre marine conchiglie_.[207] Altre sue opere sulle piante marine
del mare Adriatico, e sopra alcuni testacei ed insetti furono stampate
dopo la sua morte[208] dal suo nepote Francesco, che fu pure buon
Naturalista. Questi poi scrisse dottamente delle malattie del grano in
erba[209] e delle pinete Ravennati.[210]

E già quasi senza avvedermene sono passato a far parola della scienza
agraria, che forma un utile e nobil parte della Storia naturale.
Lʼanonimo Milanese pone nel suo catalogo la relazione istorica,
e filosofica del Matani delle produzioni naturali del territorio
Pistojese,[211] che può esser utile per prenderne qualche voce di
storia naturale: ma io non posso collocarla fra le opere puramente
scritte. Fa poi maraviglia, che niuna cosa egli abbia citata del Manni.
Questʼuomo instancabile, di cui ho già parlato più volte, ha scritto
ancora di cose agrarie. Il suo ragionamento _della piantagione, e
coltivazione deʼ gelsi cagione di ricchezza_[212] è stato dimenticato
dal Lastri nella _Biblioteca Georgica_. Ivi si registrano di lui
tre sole opere, che hanno per titolo _Introduzione deʼ gelsi in
Toscana_,[213] _Nuova proposizione per trarre dallʼAgricoltura
un maggior frutto_,[214] e _Del fare i lavori alla campagna in
tempo_[215]. Lʼultima merita da me special ricordanza peʼ proverbj
usati nel contado, che egli ha raccolti accompagnandoli dʼutili
avvertimenti. Di sì fatti proverbj utili allo studio della lingua, e
molto più allʼarte agraria ne avea raccolti in buon dato il Proposto
Lastri, e sparsi quà e là nel suo _Lunario peʼ Contadini_, donde poi
altri li trasse, e riuniti gli stampò di nuovo.[216]

Alla scienza della natura appartengono lʼAnatomia, la Medicina, e la
Chirurgia, delle quali vuolsi ora tener discorso. Lorenzo Bellini
leggiadro poeta fu eziandio anatomico grande, e le sue opere furono
spiegate dal Pitcarne nellʼuniversità dʼEdimburgo. Antonio Cocchi ne
stampò i discorsi anatomici, che lʼAccademia Fiorentina meritamente
reputò degni di far testo in lingua. Essa accordò lʼonor medesimo
allʼeditore pel _trattato deʼ Bagni di Pisa_, _peʼ discorsi Toscani_,
_per la prefazione alla vita di Benvenuto Cellini_, _e peʼ regolamenti
dello spedale di S. Maria Novella_, che non sono stampati. Poteva
forse accordarglielo ancora pel _discorso sopra Asclepiade_, _e peʼ
consulti medici_. Non aggiungo il _discorso sul matrimonio_ perchè non
è opportuno, che facciano testo in lingua quei libri, che la retta
morale condanna. Il figlio suo Raimondo lo stampò dopo la sua morte,
e poteva rimanersene. Doveva più presto pubblicare i consulti medici,
che il padre aveva lasciati in gran numero, ed egli inopportunamente
li vendè a non so quale straniero; talchè lʼedizion che ne abbiamo, fu
poi tardi fatta dal Pasta, raccogliendoli con diligenza, e in quella
maggior copia, che potè. LʼAccademia approvò ancora le sue _lezioni
anatomiche_; il Signor Gamba però dottissimo nella Storia letteraria
ha osservato, che queste non son dʼAntonio, ma di Raimondo. Essa ha
pure approvate le opere di Giuseppe del Papa, e già lui vivente citate
le avrebbe la Crusca nellʼultima edizione del Vocabolario, se egli
non vi si opponeva. La maggior parte di queste appartengono al secolo
precedente, e solamente i _Consulti medici_, e i _Trattati varj_ dati
in luce nel decimottavo possono aver quì luogo. Approvò finalmente
le _Lettere scientifiche_ di Carlo Taglini, e il libro critico di
Pier Francesco Tocci intitolato la _Giampaolagine_. Andrea Pasta
altresì fu egregio medico, e purgato scrittore, e il suo _discorso
medico-chirurgico intorno al flusso di sangue dallʼutero delle donne
gravide_ meritò dʼesser registrato neʼ lor cataloghi dal Gamba e
dallʼAnonimo. Il Poggiali concede questʼonore alle opere mediche
dʼAntonfrancesco Bertini, che io non ho vedute.[217] Niun poi di
loro lo concede ai Consulti medici di Giacomo Bartolommeo Beccari,
i quali però ne erano degnissimi, essendo egli stato, secondo la
scuola di Bologna sua patria, elegante scrittore in Italiano e in
Latino dʼunʼeleganza nitida, e semplice. In quei due aurei volumetti
di lettere familiari dei Bolognesi si vorrebbe, che fossero state
poste ancor le sue, che dovevano esser bellissime, se lo possiamo
congetturare da una diretta al Pontefice Benedetto decimoquarto, che
il Conte Fantuzzi ha inserita neʼ suoi _Scrittori Bolognesi_ T. 2. p.
57. Terminerò poi questa classe con due Lucchesi, Matteo Regali, e
Pietro Tabarrani. Del primo ho già fatta menzione altrove. Egli era
medico, ma a dir vero era miglior grammatico. Scrisse una _Lezione
intorno allʼuso dellʼacqua della Villa_ (cioè dei Bagni di Lucca)
col cibo,[218] la quale, se non è approvata dai professori dellʼarte
medica, è almeno scritta con purità. Il secondo al contrario era buon
medico ed eccellente anatomico, e se non uguagliava il Regali nella
purità della lingua, non era però illodevole. Le sue _lettere mediche
ed anatomiche_[219] sono ricordate dallʼanonimo, e sono lodate dai
professori di queste scienze, nè saranno molto riprese da quelli, che
amano la nostra lingua. Nè diverso è il giudizio, che si dee portare
dellʼaltre cose sue, che si vedono impresse negli atti degli Accademici
Fisiocritici di Siena.

In niuna facoltà è più agevole lo scrivere purgatamente quanto nelle
mattematiche. Esse hanno un certo linguaggio loro proprio e semplice
tanto, che quasi non concede luogo ad errare, principalmente ove si
tratti di quelle, che chiamano mattematiche pure, come lʼaritmetica, la
geometria, e lʼalgebra. In questa parte pertanto sarò più severo. Fra i
Mattematici Italiani del secolo diciottesimo potrei collocare Vincenzio
Viviani grande e diletto scolaro del grandissimo Galileo. Egli giunse
cogli estremi anni suoi a toccare quel secolo, essendo morto il 1703.
ma le opere sue Italiane appartengono tutte al secolo precedente, ed
io non voglio oltrepassare quei limiti, che mi sono prescritti. Il
nome però del Viviani ricorda quello di Guido Grandi, che segnando le
prime orme nella carriera geometrica potè destar maraviglia in quel
geometra veterano, il quale pareva pure, che di niuna cosa dovesse
più maravigliare. Egli unì lo studio dellʼantiquaria a quello delle
mattematiche, ma lʼAccademia Fiorentina approvò solamente due opere del
secondo genere, cioè gli _elementi di geometria_, e le _istituzioni
delle sezioni coniche_. La seconda però di queste opere in ciò, che
spetta alla lingua si dee piuttosto attribuire a Tommaso Perelli,
giacchè essa è un volgarizzamento da lui fatto delle sezioni coniche,
che il Grandi aveva pubblicate in latino a Napoli il 1737. A queste
opere lʼAlberti, il Gamba, e lʼAnonimo aggiunsero le _istituzioni
Geometriche_, quelle dʼ_Aritmetica_, le _Meccaniche_, il _trattato
delle resistenze_ unito alle opere del Galileo, ed alcune scritture
dʼIdrostatica, che abbiamo nella _raccolta degli autori, che trattano
del moto dellʼacque_. Il Poggiali ben a ragione vi aggiunse la
_Risposta apologetica alle opposizioni fattegli dal Dott. A. M._
(Alessandro Marchetti,) _i Dialoghi circa la controversia eccitatagli
contro dal Dottore Alessandro Marchetti_,[220] oltre alla Vita di S.
Pietro Orseolo. Egli ha poste nel suo catalogo ancora le _Instituzioni
Analitiche_ della Agnesi, le quali tranne qualche difetto nel fatto
della lingua possono esser utili per una nuova impressione del
Vocabolario.

Ma parlando di Mattematica, e di purità di lingua chi può dimenticare
Eustachio Manfredi? Egli fu buon Geometra, e sommo Astronomo ed
Idrostatico. Gli _elementi della Geometria, e della Trigonometria_,
quelli _della Cronologia_, le _instituzioni astronomiche_, _la
descrizione dʼalcune macchie scoperte nel Sole_, e le _annotazioni al
Trattato della natura deʼ fiumi del Guglielmini_ mostrano abbastanza,
che si può scrivere profondamente delle materie più difficili senza
oltraggiare le leggi della lingua. Lo stesso dimostrano le altre
opere sue, che tralascio per non diffondermi soverchiamente, ma si
possono veder registrate dal Fantuzzi.[221] LʼAccademia Fiorentina
nulla ha approvato di lui, fuorchè le lettere, di che forse molti si
maraviglieranno. Ma si può credere, che lʼAccademia della Crusca vorrà
esser meno difficile; giacchè riguardo a un uom così grande può esser
tale senza pericolo.

Al Manfredi succeda lʼamico suo, il suo lodatore Francesco Maria
Zanotti. Celebre è la questione agitata un tempo fra i Mattematici
sulla forza viva, la quale i Cartesiani dicono proporzionale alla massa
del corpo moltiplicata nella velocità, mentre i Leibniziani la vogliono
proporzionale alla massa moltiplicata pel quadrato della velocità.
Dopo un disputar lungo M. dʼAlembert mostrò, che quella questione era
inutile, e tutti si acquietarono alla sua sentenza.[222] Io non la
chiamerò inutile, solamente perchè produsse due bei libri, una del P.
Vincenzio Riccati, e lʼaltro dello Zanotti. Il Riccati prese a difender
lʼopinion Leibniziana in un suo dialogo,[223] nel quale ampiamente
trattò di sì fatta questione, combattendo certa proposizione, che
il secondo avea detta neʼ Commentarj dellʼInstituto di Bologna. Lo
Zanotti, che avea in animo di scrivere alcun dialogo colse lʼoccasione
di rispondere al suo oppositore, e compose quello sopra la _forza che
chiamano viva_,[224] il quale io non dubito di chiamare maraviglioso,
e ardisco contrapporlo a quelli bellissimi di Tullio e di Platone.
Nobiltà e gravità di stile, quando la materia il richiede, chiarezza
nelle cose scientifiche, ordine nelle dispute, urbanità, e grazia
somma sono pregj, che abbondano in questʼopera, peʼ quali basterebbe
essa sola a render lʼautore immortale. Niunʼaltra cosa di Mattematica
abbiamo da lui scritta in Italiano, fuorchè una lettera a Monsignor
Vitaliano Borromeo, in cui prova due elegantissimi Teoremi Geometrici,
cioè che ogni poligono circoscritto a un circolo sta al circolo stesso,
come il perimetro del primo alla circonferenza del secondo, e che ogni
solido chiuso da ogni parte da superficie piane e circoscritto ad
una sfera sta alla sfera, come la superficie del primo sta a quella
della seconda.[225] Anche il suo nepote Eustachio fu elegante, e
purgato scrittore. Il Fantuzzi[226] ha dato il catalogo delle sue
opere spettanti alla Astronomia, alla Fisica, allʼIdrostatica, ed
alla Prospettiva, che giudico inutile di ripetere in questo luogo.
Aggiungerò solamente, perchè egli lʼha dimenticato, lʼesame del nuovo
Ozzeri,[227] cioè dʼun canale di scolo, che era stato proposto nello
Stato Lucchese.

Il P. Riccati, che ho nominato dianzi, fu uno deʼ primi Mattematici
Italiani del secolo decimottavo. La maggior parte delle molte sue opere
sono scritte in latino; parecchie però ne fece ancora in italiano con
molta purità di lingua. Di queste pure tralascerò il catalogo, che
altri potrà vedere nel nono volume del Giornale di Modena. LʼAnonimo
Milanese ed il Gamba ricordano anche il padre suo Jacopo Riccati,
perchè le sue opere sono scritte con molta proprietà, e chiarezza.
Io non gli nego questa lode, che ben merita; ma sì fatti pregi non
bastano al mio presente intendimento. Essi debbono essere uniti a una
sufficiente purità di lingua, e questa manca a Jacopo non rare volte.
Cita lʼanonimo anche Tommaso Narducci pel _paragone deʼ canali, e
pel trattato della quantità del moto, o sia della forza dellʼacque
correnti_. Ma se vorremo dar quì luogo a questo scrittore non si
debbono dimenticare due brevi suoi opuscoli _sulla misura della
velocità e del tempo, in cui una data quantità dʼacqua non perenne di
un lago, o altro ricettacolo esce dallʼincile del medesimo, e sopra
la figura della terra_.[228] Ma quantunque egli sia purgato più di
Jacopo Riccati, pure non è scevro da qualche idiotismo del dialetto
Lucchese. Al contrario lʼanonimo non annovera il Conte Giordano Riccati
fratello di Vincenzio, che io col Gamba porrò fra gli altri purgati
scrittori. Molte dissertazioni di Mattematica egli stampò nelle
Raccolte dʼopuscoli Calogeriana, Lucchese, Fiorentina, e Ferrarese,
nella Minerva, nel Prodromo della nuova Enciclopedia del Giorgi, e
nel Giornale di Modena, ed inoltre il _saggio sopra le leggi del
contrapunto_,[229] gli _schediasmi sulle corde o fibre elastiche_,[230]
e le _dissertazioni sulla tensione delle funi_.[231] Vi porrò pure con
lui Lorenzo Mascheroni, che fu ugualmente leggiadro poeta ed ingegnoso
Mattematico, e lasciando ora a parte stare i suoi versi rammenterò
la sua _maniera di misurare lʼinclinazione dellʼago calamitato_, _le
nuove ricerche sullʼequilibrio delle volte_, _il metodo di misurare
i poligoni piani, e la geometria del compasso_. Un altro Mattematico
insigne non si vuoi dimenticare, cioè il Cavalier Giulio Mozzi. Un
solo rimprovero a lui si può fare, ed è che potendo egli arricchire la
Repubblica delle lettere di molte opere pregevolissime non abbia voluto
pubblicare che un solo opuscolo. Esso porta per titolo: _Discorso
Matematico sopra il Rotamento momentaneo deʼ corpi_,[232] e fa
conoscere ad evidenza quanto egli valesse nelle mattematiche discipline.

Molti sono i purgati scrittori, deʼ quali ho parlato fino ad ora, ed
altri molti ne avrei aggiunti, se non avessi creduto dovermi alquanto
temperare. Nelle facoltà diverse però, che formano la scienza del
Dritto, quantunque un gran numero dʼuomini illustri possa vantare
lʼItalia, che le hanno felicemente illustrate, pure è scarso il numero
di coloro, che illustrandole hanno scritto purgatamente. Non inutil
sarebbe il cercarne la ragione; ma per una parte sì fatta indagine
troppo mi farebbe deviare dal sentiero, che debbo scorrere, e per
lʼaltra trattar dovrei materie troppo a mio credere pericolose. Per la
qual cosa mi rimarrò da sì fatta considerazione, e senza più nominando
quegli scrittori, che a me sembrano più purgati porrò in primo luogo
Giuseppe Maria Buondelmonti, di cui lʼAccademia Fiorentina approvò il
_ragionamento sul diritto della guerra giusta_.[233] Purissime altresì
sono le dissertazioni di Giuseppe Alaleona,[234] delle quali la maggior
parte appartengono a questa classe, e trattano delle Romane leggi
delle dodici tavole, del paterno imperio, delle leggi civili, delle
leggi Romane e Venete. Anche due ragionamenti di Girolamo Baruffaldi
spettanti a ragion canonica vogliono aver quì luogo, cioè un _voto
sulla retta intelligenza della clausula_ seu alias _inserita nel
Canone di P. Bonifacio_ VIII. _e nellʼaltro di Clemente_ V. _intorno
alla libera elezione della sepoltura_, che egli stampò il 1751. e una
dissertazione _sopra il significato delle parole_ fide constitutus
inserita nella Raccolta del P. Calogerà T. 37. Il Lampredi altresì
celebre Professore dellʼUniversità di Pisa può aver quì luogo pel suo
trattato _del commercio deʼ popoli neutrali in tempo di guerra_,[235]
pel discorso _del governo civile degli antichi Toscani, e delle cause
della lor decadenza_.[236] Altre opere ancora dʼaltri scrittori si
potrebbono unire a queste, ma stimo savio consiglio di trascurarle,
e piuttosto passerò a far parola di coloro, che delle arti del
disegno hanno scritto, coi quali darò fine a questo capitolo forse
increscevole, e lungo soverchiamente. Monsignor Bottari, che tanto fu
benemerito della letteratura e della nostra lingua per molte opere
pubblicate, tale si rese eziandio peʼ dialoghi _sopra le tre arti del
disegno_, per le annotazioni alle vite dei Vasari, e per lʼimpressione
delle _lettere sopra la pittura, scultura, e architettura deʼ più
celebri professori_. Queste opere sue furono adottate dallʼAccademia
Fiorentina; talchè altri può trarne in molto numero forme di dire
spettanti alle arti belle. Trar se ne possono ancora parecchie dal
terzo e dallʼottavo volume delle opere del Conte Algarotti nellʼultima
edizion Venata, che tutti si aggirano su questo argomento. Niuno
ignora, come egli era dotato di fino gusto nelle arti del disegno, e
come trattava la matita lodevolmente. Egli ora instruisce i giovani
pittori con ottimi precetti e consigli, ora dà giudizio savio e maturo
delle opere deʼ pittori degli scultori degli architetti, ed or ricorda
piacevoli erudizioni, che la storia riguardan dellʼarte e deʼ maestri
migliori. AllʼAlgarotti non cedeva nel buon gusto Gian Lodovico
Bianconi, e lo vinceva nella grazia dello stile. Le sue lettere sopra
la Baviera sono la più cara cosa, che si possa desiderare; nè credo
che altra descrizion di paesi si trovi così piacevole, siccome è
questa. In essa parla delle arti del disegno, e più ne parla nella
vita del Mengs nelle _due lettere al Principe Enrico di Prussia sopra
Pisa_, e nelle _otto lettere riguardanti il così detto terzo tomo
della Felsina pittrice_. Anche il P. Roberti volle trattar di questo
argomento. Scrisse in prima una splendida orazione, con che difese
le scuole Italiane contro certa diceria del Marchese dʼArgens,[237]
e poi una lettera sopra Jacopo da Ponte detto il Bassano: e pare
che in ambedue le occasioni lʼamore del nome Italiano, e di Bassano
sua patria, mentre lʼanimò a prender la penna, aggiugnessero nuove
grazie, nuovi fiori alla sua eloquenza. Più parco negli ornamenti
dello stile, ma castigatissimo nella lingua il Cavaliere Clementino
Vannetti pubblicò le _notizie intorno al pittore Gasparantonio Baroni
Cavalcabò di Sacco_,[238] le quali, come le altre opere sue potrebbono,
se non mʼinganno, far testo in lingua. Anche Giampietro Zanotti volle
esser puro ed imitare gli antichi scrivendo la _Storia dellʼAccademia
Clementina_, se non che raccontando talvolta avvenimenti troppo
minuti, e di niun conto, e volendo troppo imitar gli antichi annoja il
leggitore. Nulla posso dire deʼ suoi _avvertimenti per lʼincamminamento
dʼun giovine alla pittura, e della descrizione ed illustrazione delle
pitture di Pellegrino Ribaldi e Niccolò Abati esistenti nellʼIstituto
di Bologna_, che non mi è riuscito di vedere. A Giampietro unirò
il fratello suo Francesco per le tre sue orazioni sopra la pittura
degnissime di lui, e del Romano Campidoglio, dove la prima fu recitata.

Ma sopra quante opere di questo genere ho fin quì nominate si dee
collocare la _Storia pittorica dellʼItalia_ dellʼAb. Luigi Lanzi.
Essa ebbe il suo cominciamento nellʼanno 1792. in cui venne alla luce
il primo volume e nel 1796. fu compiuta quantunque poi solo nella
seconda impressione del 1809. ricevesse la sua perfezione. Divide egli
tutta la trattazione secondo le diverse scuole, ed in ogni scuola
distingue le epoche. Accenna i principali pittori di ciascuna, e ne
descrive lo stile, nè tace i mediocri, deʼ quali pure si desidera avere
qualche contezza. Ora egli fa ciò con fina critica ed avvedutezza,
con abbondanza non soverchia di notizie, e con uno stile vivace,
spesso conciso, ed ove la materia il richieda anche eloquente. Non
dirò che il Lanzi sia severo nel fatto della lingua; ma qualche
libertà da lui usata moderatamente e con giudizio non dispiace, e
fra tante cose belle, che allettano e incantano, non sa il lettore
fargliene un rimprovero. Anzi io gli so grado di alquante novelle
voci e forme di dire da lui adoperate parlando delle arti del disegno
e dellʼantiquaria, che molti poi non hanno ricusato dʼadoperare.
Ma i meriti del Lanzi in questa parte della Letteratura sono stati
egregiamente esposti da scrittori troppo migliori di me, cioè dal
Signor Conte Giambattista Baldelli, e dal Signor Cavaliere Onofrio
Boni, ai quali altri potrà ricorrere.[239]

Or dopo la noja per me sofferta nel tessere questa lunga serie di
nomi e di titoli di libri, se rivolgo lo sguardo a tanti uomini
illustri fin quì nominati, ed a quegli altri molti, che di leggieri
aggiunger potrei, mentre per una parte mi conforta e ricrea il
pensier della gloria, chʼessi hanno recata al nome Italiano, parmi
per lʼaltra, che si possa quindi trarre un motivo per dileguare un
timore insorto nellʼanimo del Signor Cesarotti. _Un uomo scienziato_,
egli dice, _ragionativo, eloquente, ma di coscienza timorata in fatto
di lingua, col capo gravido del suo soggetto si mette a scrivere:
gli si presenta unʼidea nuova che sembra domandar un termine_, che
non è nel Vocabolario. _Che farà egli? Mandi con Dio la sua idea o
la storpi con un altro termine il meglio che sa._[240] Or io dico,
tanti scrittori insigni da me nominati le scienze e le discipline
quasi tutte hanno illustrate con nuovi scoprimenti, con pensieri
nuovi, con riflessioni non prima fatte, o le cose già dette da altri
hanno esposte in nuova foggia scrivendo purgatamente; nè pare che
sia loro avvenuto di stroppiare unʼidea per mancanza dʼun termine; e
forse non avranno voluto sopprimere qualche nuova idea venuta loro
in mente. Essi avranno trovato nella ricchezza grande della nostra
lingua il modo di supplire alla mancanza dʼuna voce, o pure hanno
usata una voce, che non è nel Vocabolario, la quale se è, non dirò
necessaria, ma opportuna, _bella, ben derivata, acconcia che nulla
più_[241] lʼAccademia non trascurerà dʼapprovarla. Si potrebbe ancora
dileguar il timore del Signor Cesarotti, negando poter mai accadere,
che una parola sia così necessaria per esprimere una idea, che senza
quella convenga assolutamente stroppiarla, come egli dice. Ma ove
ancora ciò fosse, ove lo scrittor non volesse oltrepassar i confini
del Vocabolario, crederei, che nè la sua gloria nè la Repubblica
delle lettere patirebbono un danno intollerabile, se lʼuso dʼunʼaltra
voce o una forma di dire alquanto più lunga venisse a scemar alcun
poco la forza o la bellezza di quellʼidea. Dallʼaltro canto se lo
studio posto negli antichi dagli scrittor Fiorentini gli preservò nel
secolo decimo settimo dal reo gusto in cui tanti caddero miseramente,
siccome confessa il Signor Cesarotti, è da credersi, che lo studio
medesimo continuerà a produrre un non dissimile giovamento. Ed è da
credere ancora, che la diligenza la quale taluno usa per emendare i
proprj scritti, onde toglier loro ogni macchia contraria ai canoni
della lingua, rileggendoli più volte, e consultando i periti prima
di consegnarli alle stampe, produca il vantaggio, che per nuova e
replicata riflessione lʼautor sʼaccorga dʼaltri falli, neʼ quali per
difetto dʼumana natura era caduto. Onde il vantaggio sarà di gran lunga
maggiore del supposto danno.

NOTE:

[137] LʼAccademia Fiorentina ha commesso qualche errore di fatto, come
vedremo. Si potrebbe dubitar forse, che alcuno ne avesse commesso
pure scegliendo qualche opera, che non fosse degna di questo onore?
Io non esaminerò questo dubbio, la decisione del quale appartiene
allʼAccademia della Crusca. Anzi registrerò quì tutte le opere notate
nel citato partito, giacchè io prendo a ricordar solamente quelle
opere, che sono scritte con sufficiente purità. Ma riguardo al citato
partito del 1786. sono da notarsi le seguenti parole, che si leggono
nellʼIndice manuale dellʼopere allegate nel Vocabolario stampato a
Firenze il 1807. «Niun luogo ho creduto dover dare in questo compendio
ai nomi indicati nella nota di autori scelti nel 1794. dallʼAccademia
Fiorentina come meritevoli di essere adottati per testo in una nuova
edizione del Vocabolario, essendomi noto, che mancò quella scelta
della più esatta ponderazione dei Deputati a formarla, e fu contro il
voto degli altri comunicata arbitrariamente da uno di essi allʼAbate
Alberti.»

[138] Milano 1812. T. 2. in 12.

[139] Milano 1812. in 8. Vi sono aggiunte _tre lezioni sulle doti di
una culta favella_, che sono ottime, ma non appartenendo allʼepoca
da me presa in considerazione in questo ragionamento non ne ho fatta
parola. Io lo chiamerò Anonimo Milanese perchè in Milano è stampato il
suo libro.

[140] Livorno per Tommaso Masi e Comp. 1815. T. 2. in 8.

[141] Eʼ nel Tomo 7. delle sue opere cogli elementi.

[142] _Della Toscana eloquenza discorsi cento detti in dieci giornate
da dieci nobili giovani in una villereccia adunanza_. _Bologna_ 1752.
in 4. e poi più altra volte.

[143] _Bologna_, 1768. in 4.

[144] _Napoli_ 1756. 1758. T. 1. in 4.

[145] _Della Storia e della ragione dʼogni poesia_. _Bologna Venezia e
Milano_ 1736. 1752. T. 6. in 4. _Della poesia Italiana_ (sotto il nome)
_di Giuseppe Andrucci_. _Venezia_ 1734. in 4. Si potrebbero aggiungere
anche le altre sua opere sopra altri argomenti.

[146] _Palermo_ 1749. in 8.

[147] Nel tomo primo delle opere di Torquato Tasso dellʼedizion veneta.

[148] Nel Tomo 6. delle sue Opere.

[149] Venezia 1785. in 8.; colle annotazioni dellʼArteaga.

[150] Eʼ inserita negli Atti dellʼAccademia di Padova. Si veda il
Fabbroni Vit. T. 18. p. 311. e seg. e Cesarotti Op. T. 17. p. 44. 45.

[151] _Bologna_ 1703. e di nuovo _Modena_ 1735. T. 2. in 4.

[152] _Racc. Calog._ T. 31.

[153] _Difesa di Dante Alighieri Lezione ec. Firenze_ 1718. _in_ 12.
_Tre lezioni dette nellʼAccademia Fiorentina. Ivi_ 1710. _Della satira
italiana, edizione seconda con una dissertazione dellʼIpocrisia degli
uomini letterati. Ivi_ 1729. _in_ 4. _La Villeggiatura, dialogo, nel
quale si discorre sopra un giudizio dato da Pier Iacopo Martelli
intorno al poetare del Guidi e del Menzini. Ivi_ 1732. _in_ 4.

[154] _Difesa delle tre Canzoni degli occhi ec. composta da G. B.
Casaregi, Gio. Tommaso Canevari, e Antonio Tomasi. Lucca_ 1709. _in_ 8.

[155] _Parere sopra la seconda edizione deʼ Canti carnascialeschi.
Firenze_ 1750. _in_ 8.

[156] _I primi due dialoghi di Decio Laberio in risposta e confutazione
del Parere ec. In Culicutidonia per maestro Ponziano da Castel Sambuco_
1750. in 8.

[157] _Prose Toscane. Firenze_ 1772. 1773. T. 3. in 4.

[158] _In Firenze quei famosi Signori Accademici della Crusca ne hanno
chieste a lui vivente le prediche per istamparle a lor carico con
offerirgli eziandio di ascriverlo al ruolo della lor fiorita adunanza._
Così si legge nella prefazione delle prediche del Tornielli posta
innanzi alle medesime.

[159] _Firenze_ 1744. e segg. T. 3. in 4.

[160] _Ivi_ 1716. in 4.

[161] _Discorsi Accademici Firenze_ 1693. 1712. 1735. T. 3. in 4. La
prima parte fu ristampata ivi il 1725. in 4. _Prose Toscane_, ivi
1715. 1735. T. 2. in 4. Alcune sue cicalate e lettere sono nelle prose
Fiorentine. Lʼorazione in morte di Francesco Redi è nellʼedizione
Veneta del 1712. delle opere di questo scrittore. Quella in morte del
Magliabechi fu stampata in Firenze il 1715. in foglio e nella Raccolta
di Prose Fiorentine non più stampate, parte quinta, volume primo.
Venezia 1754. in 4.

[162] Si possono aggiugnere alcune Orazioni di Andrea Alamanni, del
P. Lorenzo Berti, di Monsignor Bottari, di Giuseppe Buondelmonti, di
Monsig. Giacomelli, di Giuseppe Martelli, di Antonio Nicolini, di
Giulio Rucellai, e del Canonico Vincenzo Scopetani, che io non ho
vedute, e sono registrate nel Catalogo del Poggiali.

[163] Vienna 1795. T. 3. in 12.

[164] Venezia 1785. T. 6. in 8. Lʼ editore è il Sig. Cavaliere Iacopo
Morelli.

[165] Delle lettere familiari di alcuni Bolognesi del nostro Secolo.
Bologna 1744. T. 2. in 8.

[166] Venezia 1791. 1794. T. 17. in 8.

[167] _Magalotti lettere familiari_ (contro gli Atei) _Venezia_ 1719.
_in_ 4. _Lettere scientifiche ed erudite. Firenze_ 1721. _in_ 4.
_Lettere. Ivi_ 1736. _in_ 4. _Lettere familiari e di altri insigni
uomini_ (raccolte da Monsig. Angelo Fabroni.) Ivi 1769. T. 2. in 8.

[168] _Opere_ T. 1. p. 207.

[169] Si potrebbe aggiugnere, _il Falconiere di Iacopo Augusto Tuano,
collʼuccellatura a vischio di Pietro Angelio Bargeo poemetti tradotti e
commentati da G. B. Bergantini C. R. Venezia per Giambattista Albrizzi_
1735. _in_ 4.

[170] Il Poggiali annovera fra i libri di lingua purgata, _delle
meteore libri tre Poema filosofico di Gio. Lorenzo Stecchi colle
annotazioni del Dottor Girolamo Giuntini. Firenze nella stamperia di
Bernardo Puperini_, 1726. in 4. Egli ricorda ancora due altre opere
dello Stecchi, cioè _Lezione sopra alcuni passi di M. Lodovico Ariosto.
Pisa per Francesco Bindi_ 1712. _ed orazione in lode dʼAlessandro
Marchetti nellʼanniversario della sua morte. Roma_ 1717. in 4. Ma niuna
di queste opere ho veduta.

[171] Il Poggiali ricorda, _il vero onore di Gio. Battista Casotti,
festa teatrale ec. Firenze per Michele Nestenus e Anton Maria
Borghigiani_, 1713. in 4. e _le Muse Fisiche di Mattia Damiani, Firenze
per Gio. Paolo Giovannelli_, 1754. in 4.

[172] Torino 1750. in 8. e di nuovo con aggiunte 1764. in 8. Di sopra
ho escluse le Lettere, e la Frusta Letteraria di questo Scrittore peʼ
nuovi, e talvolta anche strani vocaboli, che vi si vedono. Ma non credo
dover escludere le poesie piacevoli, perchè in queste è stato assai più
moderato.

[173] _Lett. di Virg. lett._ 9. _in fin._

[174] _Lʼuso parte prima e seconda._ Bergamo 1778. e di nuovo nellʼanno
stesso in Venezia. _Il vedovo parte terza dellʼuso._ _Brescia_ 1780.

[175] Se ne vedono i titoli presso il Signor Gamba. _Serie_ ec. p. 520.
521. A queste si aggiungano quelle registrate dal Signor Poggiali a
_Buonaventuri Tommaso_, ed a _Rucellai Luigi_.

[176] Si può aggiungere il _Ristretto delle vite dei primi discepoli di
S. Domenico scritto in lingua Francese dal P. Antonio Touron e tradotto
nellʼItaliana favella da un Religioso del medesimo ordine_ (il P. Orsi)
Roma 1744.

[177] Il Sig. Canonico Domenico Moreni celebre, e infaticabile
scrittore di molte ed eruditissime opere nella sua _Bibliografia
Storico-Ragionata della Toscana_ T. 2. p. 22. 30. ha registrate le
opere del Manni, che appartengono al suo argomento. Fra queste molte ne
sono di Storia Ecclesiastica, che tralascio per non esser soverchio.

[178] Anche Monsignor Bottari fu benemerito del Decamerone, che
illustrò con trentadue lezioni da lui dette con molto plauso
nellʼAccademia della Crusca. Due ne pubblicò il Manni nellʼopera
quì citata, una il Poggiali nel volume di Novelle dʼalcuni autori
Fiorentini, unʼaltra il chiarissimo signor Francesco Grazzini nella
_Collezione dʼopuscoli_, che si stampa in Firenze dal Daddi in Borgo
Ognissanti, e finalmente tutte furono date in luce dallo stesso signor
Grazzini colle stampe del Ricci il 1818. in due volumi in ottavo.
Questʼopera altresì, come le altre tutte del Bottari, vuolsi annoverare
fra quello purgate di lingua.

[179] Sono unite allʼopere del Casa nellʼedizion Fiorentina del 1707. e
poi accresciute in quella di Venezia del 1728.

[180] Il P. Zeno, che era molto intendente della nostra lingua, scrisse
ancora una parte delle annotazioni alla Storia del Crescimbeni, e colle
sue annotazioni illustrò pure alcune delle opere del Casa nellʼedizione
Veneta del 1728. Egli tradusse lʼarte di ben pensare dʼArnaud, e parte
del quaresimale del P. Bourdaloue.

[181] Del Seghezzi abbiamo altresì un _Dialogo dʼincerto_ (ma è di
lui come avverte il Gamba) intitolato il _Tasso_ intorno allo stile
del Casa, e al modo dʼimitarlo nellʼedizion citata del 1728., alcune
annotazioni alle rime del Bembo nellʼedizion di Bergamo del 1745. e
alla storia citata del Crescimbeni. Altre sue opere colle rime del
fratello Niccolò furono stampate in Venezia il 1745.

[182] LʼAccademia approvò ancora la vita di Giuseppe Averani di cui ho
già parlato, e la traduzione di Longino, la quale registro in altro
luogo.

[183] LʼAccademia citò di lui ancora le _Menipee_. Ma il chiarissimo
Signor Ab. Fontani nellʼelogio del Lami stampato in Firenze il 1789.
nomina bensì le Menipee stampate in latino a Londra il 1738. e 1742.
sotto il nome di Timoleonte. Ma niuna opera del Lami scritta in
italiano con questo titolo è riuscito di trovare a lui, nè al Signor
Gamba. Ora se questʼopera è ignota a due uomini così eruditi, non sarà
maraviglia, che sia ignota a me pure.

[184] Altra sue opere dʼantiquaria si vedano presso il Sig. Canonico
Moreni luog. cit.

[185] Maff. Opere T. 3.

[186] Firenze 1716. in f.

[187] Le opere del Lanzi intorno allʼantiquaria sono la _descrizione
della Galleria di Firenze_, _il saggio sopra la lingua Etrusca_, di
cui parlerò altrove, _deʼ vasi antichi dipinti volgarmente chiamati
Etruschi dissertazioni tre_, dissertazione sopra unʼurnetta toscanica,
della condizione e del sito di Pausula città antica.

[188] _Padova dalla Stamp. del Sem._ 1750. T. 2. in 8.

[189] _Lucca_ 1744. T. 2. in 8.

[190] Ivi 1760. in 8.

[191] _Padova dalla stamp. del Sem._ 1766. in 8.

[192] _Padova_, 1765. T. 3. in 8. e poi molte altre volte.

[193] _Padova_ 1776. T. 2. in 4. e di nuovo 1803.

[194] _Padova_. 1787. in 4.

[195] Nel 1727, lʼOrsi stampò in Roma la _Dissertazione dogmatica, e
morale contro lʼuso materiale delle parole, in cui dimostrasi colla
tradizione deʼ Padri, e dʼaltri antichi scrittori, che le parole neʼ
casi eziandio di grave o estrema necessità, non perdono per legge
dalla Repubblica il valore del loro significato_: Egli la scrisse
contro alcuni Teologi, che a suo giudizio troppo si erano mostrati
favorevoli alle restrizioni mentali. A lui si oppose unʼ_allegazione
in difesa del P. Carlo Ambrogio Cattaneo_, ed egli replicò con un
libro intitolato: _la causa della verità sostenuta contro lʼanonimo
apologista del P. Carlo Ambrogio Cattaneo_. _Firenze_ (Milano) 1729.
Risposero gli avversarj con più e diversi scritti, e specialmente
con certa dissertazione teologica, alla quale lʼOrsi contrappose la
_Dimostrazione Teologica, colla quale si prova, che ad effetto di
conciliare i dritti della veracità con le obbligazioni del segreto,
nè si può nè si dee ricorrere ad alcuna di quelle leggi, che alcuni
moderni Teologi alla umana Repubblica attribuiscono, ma che deesi stare
alle regole deʼ SS. Padri, e specialmente daʼ SS. Agostino, e Tommaso
per un tal fine prescritte_. _Milano_ 1729. Anche Pier Francesco Tocci
entrò in questa teologica guerra, scrivendo alcune _Lettere critiche
contro la dissertazione dommatico-morale sopra la bugia del Cardinale
Orsi Domenicano_, che dopo la sua morte furono impresse dal Pecchioni
in Firenze il 1779. in 4. Queste lettere e le tre opere citate
dellʼOrsi possono annoverarsi fra quelle purgatamente scritte, e vi si
possono aggiungere il libro _dellʼinfabilità e dellʼautorità del Romano
Pontefice sopra i Concilj ecumenici_, la Dissertazione _della origine
del Dominio e della Sovranità deʼ Romani Pontefici, sopra gli Stati a
loro temporalmente soggetti_. Le quali due opere furono stampate in
Roma il 1741. 1742.

[196] LʼAlberti citò ancora i _Dubbj sopra le rubriche della Messa_
del Ceracchini per trarne _alcune voci proprie dellʼEcclesiastica
liturgia_, come ben dice il Sig. Gamba.

[197] _Lettera dʼun Ex-Gesuita vecchio ad un Ex-Gesuita giovine fra le
sue opere._ T. 6. p. 27.

[198] _Una nuova opera in queste o Lezioni, o Dissertazioni di Sacra
Scrittura, come più piaccia di nominarle ec._ Prospetto premesso alle
Lezioni. _Due sono le mie opere di Sacra Scrittura..... Lʼuna ha
per titolo_ Dissertazioni di Sacra Scrittura. Proemio premesso alla
Dichiarazione letterale di cui parlerò tosto.

[199] _Trattato delle Azioni umane, con annotazioni per lo schiarimento
della materia. Quarta edizione. Firenze per Francesco Moucke_ 1783.
in 4. Le annotazioni si attribuiscono allʼAb. Antonio Martini, che fu
poi successore dellʼIncontri nellʼArcivescovato di Firenze. _Lettere
Pastorali_. _Ivi pel medesimo_ 1771. _in_ 4. _Spiegazione Teologica,
Liturgica, e Morale sopra la celebrazione delle Feste, diretta aʼ
Chierici della Città e Diocesi Fiorentina_. _Ivi pel medesimo_ 1762.
_in_ 4. Queste sono le migliori impressioni. Per le opere del Maffei
basterà ricordare lʼedizione Veneta fatta da Antonio Curti nel 1790.
che tutte le comprende.

[200] Eccone i titoli. 1. _Della divozione al Sacro Cuor di Gesù,
secondo lo spirito della Chiesa ragionamenti due. Bassano, e Napoli._
1803. Nel titolo sono attribuiti al P. Carlo di Porzia allora Prete
dellʼOratorio, ed ora Gesuita. Ma questi non ne fu che lʼeditore, di
che dà un cenno anche il P. Raimondo Diosdado Caballeros _Biblioth.
Script. Soc. Jesu Supplem._ I. p. 230.—2. _Il divoto del SS.
Sagramento istruito nelle pratiche di tal divozione. Firenze_ 1805.—3.
_Ragionamento sulla divozione al S. Cuor di Maria ec. con lʼaggiunta di
dieci considerazioni ec._ Ivi 1809.—4. _Novena al glorioso Patriarca
S. Giuseppe._ Ivi 1809.

[201] Il lungo catalogo delle sue opere si veda presso il Fantuzzi
_Scritt. Bol._ T. 5. p. 265. e segg.

[202] Roma 1757. in 8.

[203] Ivi 1756. in 4. Le opere quì tradotte sono diciotto. Tre
dellʼaltre erano state volgarizzate dalla stessa Borghini, e le
rimanenti dal Bottari di che forse egli voleva fare un secondo volume.
Il chiarissimo Monsignor Domenico Pacchi ha poi tradotta lʼopera _de
pallio_, e la sua traduzione colle molte altre sue opere dovrebbe quì
aver luogo, se in questo capo parlassi dʼautori viventi.

[204] Bologna 1795. in 8. Seconda edizione. Non mi è nota la prima
edizione di questʼopuscolo, e del seguente.

[205] Ivi 1800. in 8. Seconda edizione.

[206] Venezia 1737. in 4.

[207] Nel tomo quinto della _Miscellanea di varie operette_, che si
stampava in Venezia dal Lazzaroni.

[208] Venezia 1755. 1757. T. 2. in f.

[209] Pesaro 1759. in 4.

[210] Roma 1774. in 4.

[211] Pistoja 1762. in 4. Il Matani, oltre a più, e diverse opere
latine, scrisse ancora una _Memoria sulla cultura delle viti in Spagna,
e la maniera, come si fa il vino; si aggiunge un discorso sulla
conservazione dei vini. Venezia_ 1779. in 8. Alcuni suoi trattati
sono uniti alla traduzione della dissertazione di M. Tissot sul pane
stampata a Napoli il 1781. e a Venezia il 1782.

[212] Firenze. 1767. in 4.

[213] Senza data in 4. Credo, che sia opera diversa dalla precedente.

[214] Ivi 1775. in 8.

[215] Ivi 1770. in 4. e nel _Magazz. Tosc._ Vol. 3. P. 3

[216] _Proverbj Toscani peʼ Contadini, in quattro classi divisi, i
quali possono servir di precetti per lʼAgricoltura. Perugia_ 1786. in
16.

[217] Ecco il titolo di quelle, che appartengono a questa epoca.
_Lo specchio che non adula presentato a Girolamo Manfredi Massese.
Leida per Giord. Luchtmans_ 1707. _in_ 4. _Risposta di Anton Giuseppe
Bianchi_ (cioè del Bertini) _a quanto oppone Giovan Paolo Lucardesi
al libro di Antonfrancesco Bertini intitolato lo specchio che non
adula. Colonia_ (Lucca). 1708. in 4. _La falsità scoperta nel libro
intitolato: la Verità senza maschera dal Gobbo di Sancasciano ec.
Francfort._ 1711. in 4.

[218] Lucca 1713. in 8.

[219] Lucca 1765. in 4.

[220] Questo libro non contiene, che un solo dialogo dei quattro, che
lʼautore aveva composti.

[221] _Scritt. Bol._ T. 5. p. 190. e seg. Riguardo alle scritture sopra
le acque di Bologna egli cita la _Raccolta degli Autori, che trattano
del moto dellʼacque_ dellʼedizione del 1723. ma doveva citare quella
del 1765. e seg. dove sono in maggior numero.

[222] _Pref. au Traité de Dynam._ de la seconde edition.

[223] _Dialogo, dove neʼ congressi di più giornate delle forza vive, e
dellʼazion delle forze morte si tien discorso, del P. Vincenzo Riccati
della Compagnia di Gesù._ Bologna 1749. in 4.

[224] Bologna 1752. in 4. Il Riccati preparò una replica, che poi non
diede in luce, ma si conserva manoscritta presso la sua famiglia col
titolo: _lettere sei, nelle quali si difende il dialogo sopra le forze
dalle opposizioni del Signor Francesco Maria Zanotti. Giorn. di Mod._
T. 9. _p._ 190.

[225] Eʼ nelle Simbole Fiorentine del Gori T. 10. p. 1. Lʼautore
tolto il proemio la tradusse in Francese, e la mandò allʼAccademia
di Montpellier, la quale avendola inviata a quella delle Scienze di
Parigi, questa lʼinserì neʼ suoi atti del 1748.

[226] Luog. cit. p. 268. e seguenti.

[227] Eʼ unito al _Piano dʼoperazioni idrauliche per ottenere la
massima depressione del Lago di Sesto, o sia di Bientina. Lucca_ 1782.
_in_ 4.

[228] _Memorie sopra la Fisica e Istoria naturale di diversi
Valentuomini. Lucca_ 1743. e anni seguenti. T. 1. e 3.

[229] Castelfranco 1763. in 8. Il Gamba cita anche _le leggi del
contrapunto dedotte daʼ fenomeni, e confermate col raziocinio libri
quattro_ T. 2. in 4. Io non ho altra notizia di questʼopera.

[230] Bologna 1767. in 4.

[231] Bassano 1784.

[232] Napoli 1763. in 8. Oltre pochissimi nei relativi alla lingua,
che probabilmente sono errori tipografici, un difetto vi trovo, ed
è un certo sistema non lodevole nella punteggiatura per cui sette o
otto volte nella lettera dedicatoria e nellʼintroduzione si adopera il
punto e virgola, o i due punti in vece del punto in fine di periodo.
La tenuità dellʼosservazione mostra la stima, in cui io tengo il libro
anche per la purità della lingua.

[233] Oltre a questʼopera, che fu stampata a Firenze il 1756. in 8.
lʼAccademia approva la lettera posta in fronte al Riccio rapito del
Pope tradotto dallʼAb. Bonducci, e la descrizione manoscritta delle
esequie di Cosimo terzo.

[234] Padova appresso Giuseppe Comino 1741. in 4.

[235] Firenze 1788. in 8.

[236] Lucca 1760. in 4.

[237] Più ampiamente poi difese la nostra causa il Marchese Ridolfino
Venuti nella sua _risposta alle riflessioni critiche sopra le
differenti scuole di pittura di M. dʼArgens. Lucca_ 1755. _in_ 8.

[238] _Verona_ 1781. in 8.

[239] _Baldelli Lettera al Denina nella Collez. dʼOpusc._ T. 16. p.
90. Boni _Elogio dellʼAb. D. Luigi Lanzi. Firenze_ 1814. in 4. Eʼ
da desiderarsi, che le opere tutte del Cavalier Boni sieno unite, e
stampate. Egli era molto intelligente delle arti del disegno, e nelle
sue cose è una certa grazia Lucianesca, che innamora.

[240] Ces. Op. T. 1. p. 202.

[241] Ivi.



                 _Dellʼaltre moderne lingua dʼEuropa._

                              ~CAPO~ XII.


Egli è ormai tempo, che il mio discordo rivolga, benchè brevemente alle
altre moderne lingue Europee. E quì dovrei far parola dellʼintroduzione
alle più utili fra queste del Baretti, ma non essendo a me riuscito
di vederla nulla ne posso dire.[242] Non parlerò adesso della Turca
e della Greca, delle quali più opportuno sarà il tener discorso in
altro luogo. Cominciando dunque dalla Francia dirò quel poco che
abbiamo meritevole di ricordanza. LʼAlgarotti in un saggio su questa
lingua ci ha data in breve la sua storia,[243] e il signor conte
Napione nellʼopera già citata, esaminandone lʼindole, ha combattuto
con evidenza glʼirragionevoli elogj, che ne fa il P. Bonhours, ha
ricordato il giudizio, che ne danno gli scrittori più celebri della
Francia, ed ha mostrato quale essa fosse prima della riforma introdotta
da quellʼAccademia.[244] Altri non creda dover collocare fra le opere
deglʼItaliani il Dizionario non molto pregevole del Veneroni. Egli
era di casato _Vigneron_ nativo di Verdun, e per amore della nostra
lingua dette forma Italiana al nome di sua famiglia,[245] come altri
crede di rendersi più stimabile, prendendo nome Francese. Compatiamo
le debolezze degli uomini, e queste massimamente, che sono innocenti.
Italiano era lʼAntonini, di cui pure abbiamo un dizionario non migliore
di quello del Veneroni. Mal può fare il dizionario di una lingua chi
non la possiede perfettamente, e lʼAntonini non sapeva abbastanza
la Francese, come mostrò traducendo in questa non lodevolmente un
opuscoletto del Rolli.[246] Il libro, di cui possiamo gloriarci, è il
dizionario dellʼAlberti a tutti noto, cioè dellʼautore del dizionario
enciclopedico rammentato di sopra. Sono circa quaranta anni passati, da
che esso venne in luce la prima volta, e in tante edizioni, che ne sono
uscite in Italia, e in Francia, non si è mai dovuto farvi considerevoli
emendazioni o accrescimenti. Esso ha fatti dimenticare gli altri
dizionarj, ed a chi volesse succedergli non ha lasciata molta speranza
di far cosa migliore. Nato nel contado di Nizza erano a lui naturali le
due lingue Italiana e Francese, nelle quali inoltre pose molto studio
finchè visse; quindi colle acquistate cognizioni, e coʼ dizionarj della
Crusca e dellʼAccademia Francese potè fare unʼopera utile, e degna di
vivere lungamente. Il Martinelli ne fece poi un compendio comodo per la
sua brevità, in cui le voci tutte del dizionario sono comprese.

Per le altre lingue non abbiamo opere, che a questa si possano
paragonare. Per lʼInglese oltre al dizionario del Bottarelli, piccolo
in principio, ma poi molto accresciuto,[247] abbiamo la grammatica
e il Dizionario dellʼAltieri. Questo però è mancante, e quella è non
ben sicura nelle sue regole, e di gran lunga inferiore a quella del
Barker. Più pregevole assai è la Grammatica e il Dizionario Inglese e
Italiano del Baretti, e lʼultimo principalmente dopo che egli vi fece
grandi accrescimenti[248]. Nè a lui bastò di provveder con questʼopera
a coloro, che apprender volessero una di queste due lingue, ma con
unʼaltro Dizionario si adoperò ancora di giovare aglʼInglesi o agli
Spagnoli, che studiano la lingua Spagnuola o Inglese.[249]

La lingua Tedesca mi offre ancora minor numero di cose meritevoli
di ricordanza, e il poco che mi offre consiste nella Grammatica
e neʼ Dialoghi del Borroni, e in un Dizionario del medesimo peʼ
principianti.[250] La Spagnuola nulla mi somministra fuorchè il
Dizionario testè citato del Baretti, giacchè la Grammatica e il
Dizionario del Franciosini appartengono al secolo decimosettimo.

Nulla pure ho da dire dellʼaltre moderne lingue del continente Europeo.
Due però dellʼIsole adjacenti allʼItalia richiedono da me qualche
parola. In primo luogo la lingua della Sardegna fu illustrata dal
Sig. Madao con due opere da me non vedute.[251] Nè pure mi è riuscito
di vedere la Grammatica e il Dizionario della lingua Maltese, che
il Signor Vassalli stampò in Roma nel 1791. e 1796. Egli afferma,
che essa è un dialetto dellʼAraba. Al contrario il Canonico Agius de
Soldanis dopo il Majo, lʼErpenio, il Teinesio e altri aveva preteso
che fosse Punica, e fino dal 1750. si era accinto a provarlo, ma se
non erro con poco felice riuscimento. Stampò egli una breve grammatica
e un saggio di Dizionario della lingua Maltese, cui fece precedere
due dissertazioni.[252] Nella prima prende appunto a provare, che la
lingua Maltese è lʼantica lingua Punica rimasta sempre in quellʼisola
ad onta deʼ popoli diversi, che lʼhanno soggiogata, e nella seconda
parla dellʼutilità sua. Ma da una parte nè lʼuno nè lʼaltro argomento
vien da lui confermato validamente, e dallʼaltra parte quantunque io
non sappia lʼArabo, e solamente ne conosca lʼAlfabeto o pochissimo
più, ciò non ostante nelle voci Maltesi da lui registrate in questo
libro io scorgo voci Arabe, principalmente della lingua volgare, or più
or meno alterate. Arroge a ciò, che il Bjoernstahel neʼ suoi viaggi
racconta dʼaver udito Maltesi ed Arabi parlar fra loro, ciascuno nella
propria lingua, e intendersi ottimamente. Da che egli deduce con gran
ragione, che la lingua deʼ primi altro non è che un corrompimento, o se
si vuole un dialetto della seconda. Il Canonico Agius promise ancora un
ampio dizionario della sua lingua, e la interpretazione di queʼ versi
di Plauto nel Penulo, che furono da lui composti in lingua Punica,
ed egli voleva spiegarli colla Maltese; nè so se poi abbia eseguite
queste promesse. Utile sarebbe stato il dizionario; ma riguardo ai
versi Plautini dubito forte, che egli non sarebbe stato più fortunato
degli altri, che prima o dopo di lui si sono posti a questa impresa. La
lingua Punica è perduta, tranne poche voci, che S. Agostino ed altri
antichi scrittori ci hanno tramandate; e queʼ versi di Plauto passando
per le mani di tanti copisti, che non glʼintendevano, debbono in tal
guisa esser guasti e corrotti, che niuna speranza vʼha di spiegarli.

Mentre questi scrittori illustravano queste lingue colle grammatiche,
e coʼ dizionarj, altri le illustravano colle traduzioni. Non è mia
intenzione di tessere quì il novero di tutto ciò, che daglʼItaliani
sʼè fatto in questo genere nel passato secolo, il che sarebbe impresa
da non venirne mai a fine. Le traduzioni in prosa, dal Francese
massimamente, sono innumerabili, ed ove si tolgano ancora tutte quelle,
che _invita Minerva_ si son fatte per traffico,[253] ove ancora si
limiti il discorso a quelle, che hanno meritata lode per esattezza, e
per lo stile, il numero sarebbe tuttavia immenso. Si aggiunga a ciò,
che facile essendo la lingua Francese e comune, pare che in questa
mal si possa dar nome dʼillustrazioni alle traduzioni. Le traduzioni
poetiche dal Francese sono in piccol numero, nè di molto momento, se
si eccettuino il poema sulla religione di M. Racine tradotto dallʼAb.
Filippo Venuti, quello del Re di Prussia sullʼarte della guerra
tradotto dal Sanseverino, alcune tragedie volgarizzate dal Cesarotti,
dal Paradisi, dal Frugoni; e poche altre. Riguardo alle traduzioni
dalle altre lingue mancano in gran parte tali ragioni, e però non terrò
per esse il medesimo silenzio, pure non mi vi tratterrò lungamente, ma
con brevi parole rammenterò solo le principali.

Prime sieno quelle dallʼInglese che sono in maggior numero. Milton,
lʼOmero dellʼInghilterra a se richiama innanzi ad ogni altro il
mio discorso. Il grande argomento di quel poema esigeva una mente
ardimentosa per ben trattarlo, ed esigeva pure una penna robusta per
ben tradurlo. Paolo Rolli si accinse a questa impresa;[254] quantunque
però fosse valoroso poeta non aveva forze bastevoli per far tanto. Egli
tradusse letteralmente, ed esattamente; ma il poema di Milton restò
spogliato di tutta la sua forza, e diventò un perfetto sonnifero. Dopo
molti anni il Mariottini stampò in Londra il primo libro dʼun nuovo suo
volgarizzamento[255] corredato di molte annotazioni sue in parte, e in
parte deʼ precedenti commentatori Inglesi. Non so se poi egli abbia
condotto a fine questo suo lavoro. Il verso generalmente è nobile ed
armonioso; ma (se mi è lecito esporre la mia opinione, quantunque sia
poco istruito della lingua Inglese) a me non sembra abbastanza fedele,
e spesso merita il nome di parafrasi. Pure al chiarissimo traduttore si
dee non piccola lode, e son pregevoli le annotazioni che vʼha aggiunte.
Altri hanno tentato questa difficile impresa nel secolo presente, deʼ
quali non dovrei quì ragionare. Pure non posso temperarmi dal dire, che
il miglior traduttore di Milton è un mio concittadino, cioè il Signor
Lazzaro Papi, ed il suo volgarizzamento è così in tutte le sue parti
perfetto, che niente lascia a desiderare.

Non vuolsi divider da Milton il suo grande encomiatore Addisson, del
quale Anton Maria Salvini volgarizzò il Catone. Nè di ciò dirò più
oltre, perchè del modo Salviniano di tradurre parlerò altrove più
opportunamente. Parlerò piuttosto della bella versione, che del Poema
dʼAkenside deʼ piaceri dellʼimmaginazione fece il celebre Signor
Mazza[256] nel primo suo ingresso nella carriera letteraria. Egli seppe
maravigliosamente vestire della copia e della grandiosità Frugoniana
(giacchè nella prima sua giovinezza questo sommo poeta, seguiva in
parte lo stil del Frugoni, che poi se ne è fatto uno bellissimo, e
tutto suo proprio) la poesia filosofica dellʼoriginale; seppe esser
fedele senza esser servile, emendando anzi queʼ modi Inglesi, che a
noi parrebbono strani: ed essendo allor giovinissimo fece unʼopera,
che nulla ha di giovanile, fuorchè il calore dellʼestro e la vivacità
dellʼespressioni. In età poi più matura tradusse alcuni lirici
componimenti di Parnell[257] e di Thomson egregiamente come si doveva
aspettare da un poeta sì grande.

Poco innanzi allʼAkenside del Signor Mazza si pubblicò in parte
lʼOssian del Signor Cesarotti[258]. Questa dotta fatica di così
illustre poeta fu una nuova luce, che improvvisamente apparve sul
Parnasso Italiano, ed attirò a se gli occhi di tutti. Un certo
calor nuovo di stile, diverso da quello, di che i Greci, i Latini
ed i nostri ci offerivano esempj, certe idee nuove, una semplicità
congiunta non rade volte a pensieri giganteschi, una straordinaria
energia dʼespressioni riscosse lʼammirazione di molti, ed eccitò
alcuni allʼimitazione. Glʼimitatori però cessarono a poco a poco, e
rimase la lode; lode che è a lui dovuta per avere arricchita la nostra
lingua poetica di molte maniere energiche, grandi, maravigliose, ora
terribili, ora delicate, le quali in parte egli prese dal testo, e
in parte creò con una fantasia inesausta. Ma fra i pregj di questo
volgarizzamento ardirò io cercar difetti? Meriterò forse la taccia di
temerità, se espongo qualche mio dubbio contro il lavoro prediletto
dʼun Cesarotti? Lʼimpresa da me abbracciata lo richiede, nè posso
trascurarne una parte. Nulla dirò della condotta deʼ poemi attribuiti
ad Ossian, degli affetti, delle similitudini, ed altrettali oggetti,
che non sono del mio instituto. Io debbo parlare della illustrazione
delle lingue, onde considererò soltanto alcune cose, che in qualche
modo a queste appartengono.

Descrive il poeta la lotta fra Fingal, e Varano, e dice

  _.........Ai forti crolli,
  Allʼalta impronta dei tallon robusti
  Scoppian le pietre e dalle nicchie alpestri
  Sferransi i duri massi e van sossopra
  Rovesciati i cespugli_.[259]

In unʼannotazione a questi versi il chiarissimo traduttore osserva, che
questo forse è lʼunico luogo in tutto il poema di Fingal, che si possa
chiamar gonfio, e quindi procura di difenderlo. Ma egli aveva allora
dimenticati queʼ versi, neʼ quali parlandosi del combattimento tra lo
stesso Fingal, e Cucullino si dice:

  _.........i nostri passi
  Crollaro il bosco, e traballar le rupi
  Smosse dalle ferrigne ime radici._[260]

A me parrebbe questo luogo più gonfio ancora dei primo, nè a difenderlo
basta il dire, che a quellʼetà erano gli uomini, più forti molto che
noi non siamo; il che è la difesa dal signor Cesarotti addotta pel
passo precedente. Ma più altre cose ancora vi sʼincontrano, le quali
a me appariscono gonfie. Tali a cagion dʼesempio sono Cucullino, che
_sgorga rivi di valore_ T. 2. p. 150. _e tu sgorgasti valore_, ivi p.
275. _Morna, che rotola nella morte_ p. 148._ la vasta azzurra stellata
conca del Cielo_ p. 241. _il sangue del monte Gormallo_, cioè il sangue
delle fiere di quel monte p. 203. _al suo cospetto sfuma la pugna_ p.
51. ed altre simili maniere di dire. Nè mi dispiace meno la troppo
frequente ripetizione di certe espressioni favorite, e specialmente
della voce _figlio_ usata metaforicamente.[261] Queste ed altre cose di
tal genere non sanno piacermi, e temerei che imitandosi le poesie in
molte parti bellissime dʼOssian taluno potesse forse esser trascinato
in un gusto non lodevole. Altri pure tradussero altre simili poesie,
e fra questi mi piace ricordar quì il signor conte Prospero Balbo.
La morte dʼArto, un breve squarcio dʼaltro poema, e la battaglia
di Lava volgarizzò egli dalla prosa Inglese di Giovanni Smith in
bei versi Italiani, neʼ quali nulla si trova che non si debba molto
commendare.[262]

Nè quì si arrestarono le cure deglʼItaliani per la poesia Inglese.
Celebre è il Sidro del Conte Magalotti, che molto dopo la sua morte
vide la luce.[263] Il saggio sopra lʼuomo del Pope fu tradotto dal
Cavaliere Anton Filippo Adami,[264] il Messia dello stesso Pope dal
Conte Agostino Paradisi, e dal Conte Benvenuto di S. Raffaele, che
tradusse anche il Vindsor. Il Bonducci volgarizzò il Riccio rapito
dello stesso. Il Torelli lʼelegia di Gray sopra un Cimitero campestre.
Le notti di Young furono tradotte dal Bottoni, e i tre canti sul
Giudizio universale da D. Clemente Filomarino.[265] Ma a me rincresce
di trattenermi più lungamente tessendo unʼarido catalogo di nomi che
si potrebbe anche accrescer volendo, e vie più mi rincresce perchè fra
tanti traduttori, che in questo paragrafo ho registrati, se si eccettua
il Magalotti, il Paradisi, il Conte di S. Raffaele, il Torelli, e il
Filomarino, non trovo oggetto meritevole dʼosservazione.

Nè pure il Parnasso Tedesco fu trascurato. Il P. Bertola nellʼidea
della bella letteratura Alemanna[266] volgarizzò diverse cose di varj,
e di Gessner singolarmente, la Signora Caminer Turra molti Idillj
dello stesso Gessner,[267] il Signor Abate Belli le quattro parti del
giorno di Zaccaria[268] e il Signor Rigno il Messia di Klopstok.[269]
Ignorando la lingua Tedesca non posso dar compiuto giudizio di queste
versioni: e per la stessa ragione non ardisco farmi giudice di
quella, che della Lusiade del Portoghese Camoens ha fatta un anonimo
Piemontese.[270] Dirò solamente, che tranne alcune versioni del Bertola
non vedo nellʼaltre quelle dignità di stile, che la poesia richiede, e
che per ciò sono da desiderarsi nuovi e più felici volgarizzamenti.

Finalmente la lingua Polacca non fu trascurata dai nostri. Ne fece
una grammatica non impressa fino ad ora il P. Francesco Angelini
Gesuita[271], del quale parlerò altrove con lode. Sulla seconda scrisse
il Madao due opere, che non ho vedute.[272]

                       _Fine della Prima Parte_.

NOTE:

[242] _Baretti Introduction to the most useful European language.
London._ 1772. in 8.

[243] Algar. Op. T. 3.

[244] Nap. deʼ preg. ec. della Ling. It. Lib. 2. Cap. 1.

[245] _Feller. Dict. Hist. a Veneroni._

[246] _Examen de l essai de M. de Voltaire sur la poésie epique par M.
Paul Rolli, traduit de lʼAnglois par M. L. A. à Paris, Rollin fils_
1728. in 12. LʼAntonini scrisse ancora un _trattato sulla pronunzia
Francese_, che non ho veduto.

[247] Bottarelli Dizionario Italiano-Inglese e Francese Londra 1789.
vol. 3. in 8. Nizza 1792. Vol. 3. in 12. Venezia 1803. 3. Vol. in 8.

[248] La seconda edizione che è del 1796. si dice aumentata di
diecimila Vocaboli. Lʼultima impressione è di Firenze, 1816.

[249] _Baretti English and Spanish Dictionary. Lyon_ 1786. T. 2. in 4.
e di nuovo _London_ 1792. Vʼha pure una grammatica Inglese del Palermo
impressa a Londra dopo il 1780, che non ho veduta e unʼopera dello
stesso sopra i sinonimi Inglesi.

[250] _Borroni novissima grammatica della lingua Tedesca ad uso
deglʼItaliani, sesta edizione accresciuta. Venezia_ 1805. in 8. Non
conosco, che questa edizione, ma so che altre ve ne sono, fatte
nel secolo decimottavo. Dello stesso _Dialoghista Italiano-Tedesc.
Milano_ 1794. in 8. Dello stesso _nuovo Vocabolario Italiano-Tedesco,
e Tedesco-Italiano. Milano_ 1799. T. 2. in 8. Abbiamo ancora una
grammatica Italiana e Tedesca del Tarmini stampata a Francfort nel
1735. in 8.

[251] _Saggio dʼun opera: il ripulimento della lingua Sarda, e sua
analogia con la Greca e la Latina. Cagliari_ 1782. _in_ 4. _Le armonie
deʼ Sardi. Ivi_ 1787. _in_ 4. _Catal. Garampi_ 7349. 7350. Di una
dissertazione sullʼorigine di questa lingua, che io credo essere stata
composta dallʼAb. Denina, ho dato un cenno nel capo primo.

[252] _Della lingua punica presentemente usata daʼ Maltesi, ovvero
nuovi documenti li quali possono servire di lume allʼantica lingua
Etrusca stesi in due dissertazioni, e Nuova Scuola di Grammatica per
agevolmente apprendere la lingua Punica-Maltese. Roma_ 1750. _in_ 8.

[253] Ben a ragione il dottissimo signor Napione le chiama infedeli,
barbare, e prezzolate traduzioni, che sfigurano gli originali, e
servono soltanto a guastar la lingua nostra, senza agevolare lo studio
nè lʼintelligenza della Francese. _Dellʼuso, e deʼ pregj della lingua
Ital_. T. 1. p. 275.

[254] Londra 1736. in f. e poi altrove più volte.

[255] _Il Paradiso perduto di Giovanni Milton tradotto in verso
Italiano da Felice Mariottini con varie annotazioni deʼ comentatori
Inglesi, e del Traduttore. Londra_ 1794. T. 1. in 8.

[256] _Parigi_ 1764. in 4.

[257] Anche il Gesuita Barotti tradusse lʼegloga di Tommaso Parnell
intitolata la sanità, che è fra lʼaltre sue opere stampata in Venezia
dal Coleti il 1773. in 8.

[258] La prima edizione è di Padova pel Comino del 1763. La seconda
di Padova, e quelle di Nizza, e di Bassano sono più complete. Ma la
migliore di tutte è quella di Pisa del 1801. in 4. volumi in 8. che
è unita allʼintiera collezione delle sue opere. Essa fu dallʼinsigne
traduttore riveduta tutta, emendata, e corredata di pregevolissimi
accrescimenti.

[259] _Cesarotti Op_. T. 2. p. 251

[260] Ivi p. 135.

[261] Figli del mare T. 2. p. 134. e 211. figlio dellʼonda p. 157.
253. figlio dʼanguste valli 139. figli di guerra 139. 219. 227. 238.
figlio di codardìa 153. figli del canto 155. 160. 220. 265. figli della
valle 156. figli dellʼOceano 158. 211. figlio della spada 171. figlio
del vento 173. figlio della battaglia 175. schiatta deʼ tempestosi
colli 176. navi figlie di molti boschi 179. figlia dei stellati Cieli
185. figlio del carro 190. figlia di segreta stanza 200. figli della
morte 201. 203. schiatta dellʼacciaro 206. figlio dellʼacciaro 226.
figlio del vento 226. aereo figlio (uno spirito) 206. 219. progenie
delle verdi valli 207. figlia di beltà 216. figlio della fama 227.
234. 256. figlio della tempesta 233. figlio delle spade 240. figli
del deserto 232. 239. figli della rupe 260. figli detta grotta 274. i
veltri rapidi figli della caccia 281. figli della mia forza 282. figlio
rovente della fornace 236. Tutto ciò è preso dal solo Fingal, dove son
pure altre ripetizioni che credo inutile di notare. Io non condanno
lʼuso metaforico di questa parola, o dʼaltre parole equivalenti, ma
la soverchia frequenza, e talvolta se ne potrebbe condannare ancora
lʼapplicazione non opportuna.

[262] _Ozj Letterarj._ Torino 1787. T. 1. p. 251. T. 2. p. 319.

[263] _Firenze_ 1744. in 8. seconda ediz.

[264] _Parma Bodoni_ in 4. Venezia 1790. in 8.

[265] Siena 1775. in 12. Venezia 1791. T. 2. in 12. Le notti furono
ancora tradotte in prosa dal Loschi Venezia 1776. T. 3. in 8. e
dallʼAlberti ivi 1783. T. 2. in 8. Il Bjoernstahel nelle Lettere deʼ
suoi viaggi T. 3. p. 274. dice che il Boccardi traduceva in Torino
le stagioni di Thomson, e nel 1773. mentre egli scriveva era già
compiuta la primavera. Non è però a mia notizia, che lʼopera sia
stata pubblicata. Il chiarissimo Signor De Coureil aveva cominciato a
pubblicare una serie di poesie Inglesi ottimamente da lui tradotte, ma
questa non appartiene allʼepoca della quale io debbo parlare essendosi
cominciata a stampare nel secolo presente.

[266] Lucca 1784. T. 2. in 8.

[267] _Vicenza_ 1781. T. 2. in 12.

[268] _Bassano_ 1778. in f.

[269] Vicenza 1771. T. 3. in 8. Altre traduzioni vi sono dʼaltri Poeti,
che tralascio per non diffondermi troppo.

[270] Torino 1772. in 12. Essa è in 8.va rima. Molto più felice
sarebbe stata quella del Signor Conte Benvenuto di s. Raffaele, se
congetturarlo possiamo dal principio, che se ne ha neʼ suoi versi
sciolti stampati in Torino dal Mairesse il 1772. in 8.

[271] Caballeros op. cit. suppl. II. p. 6.

[272] _Saggio dʼun opera il ripulimento della lingua sarda e sua
analogia con la greca e la latina. Cagliari_ 1782. _in_ 4. _Le armonie
deʼ Sardi, Ivi_ 1787. _in_ 4. _Catal. della Libr. Garampi_. 7349. 7350.



                               ~INDICE~
                      DEʼ CAPI DELLA PRIMA PARTE


    _Introduzione_                                    Pag.   3

    _Dellʼorigine, e dei caratteri delle moderne
    lingue dʼEuropa. Cap. I._                          »     6

    _Dellʼorigine della lingua Italiana. Capo II._     »    11

    _Dei pregi della lingua Italiana. Capo III._       »    18

    _Se nelle cose letterarie si debba, scrivendo,
    usare la lingua Italiana più tosto che
    la Latina. Capo IV._                               »    22

    _In qual modo si debba far uso della lingua
    Italiana scrivendo. Capo V._                       »    24

    _Dalle grammatiche della lingua Italiana.
    Capo VI._» 47

    _Del vocabolario della Crusca. Capo VII._          »    55

    _Del dizionario enciclopedico dellʼAbate
    Alberti. Capo VIII._                               »    75

    _Altri vocabolarj, regole per la pronunzia,
    sinonimi ed epiteti, rimarj, ed etimologie.
    Capo IX._                                          »    83

    _Edizioni ed illustrazioni degli autori classici.
    Cap. X._                                           »    92

    _Di quegli scrittori, che hanno illustrato la
    lingua Italiana scrivendo purgatamente.
    Capo XI._                                          »    95

    _Delle altre moderne lingue dʼEuropa.
    Cap. XII._                                         »   148



                         NOTE DEL TRASCRITTORE

 -Viene mantenuta la punteggiatura originale anche quando appare
  incongrua con lʼitaliano moderno. Sono stati aggiunti solamente, dove
  mancanti, i punti alla fine dei periodi.

 -I numeri compresi nei paragrafi in corsivo vengono resi in carattere
  normale per aderire il più possibile allo stile ed alla grafica
  dellʼepoca.

 -Lo stile dellʼepoca utilizzato dallo stampatore prevedeva che i numeri
  fossero sempre seguiti da un punto; questo viene mantenuto uniformando
  lʼopera con lʼaggiungere il punto laddove questo manchi per refuso o
  più spesso per difetto delle immagini.

 -Vengono corretti gli ovvii errori tipografici.

 -Viene mantenuta la convenzione di usare nei caratteri minuscoli due
  lettere v in luogo della doppia v (vv anziché w).

 -Talvolta i termini sono scritti con due o più varianti. Quando è stato
  possibile risalire alla grafia usata allʼepoca sono stati uniformati,
  mentre in caso di dubbia valutazione sono state mantenute le doppie
  grafie originali. In particolare viene conservata la doppia grafia
  aggiungere/aggiugnere (con le relative coniugazioni) perché entrambe le
  forme erano largamente usate allʼepoca.

 -Alcuni corsivi sono chiaramente sviste del tipografo e se lasciati
  aderenti allʼoriginale rendono il testo di difficile lettura; dove
  possibile senza alterare in maniera eccessiva lʼopera sono stati
  modificati.

 -Lʼultimo periodo e la relativa nota a piè di pagina appaiono una
  svista dello stampatore, essendo completamente fuori di contesto; si
  riferiscono alla trattazione della lingua sarda trattata in precedenza,
  e la nota è la stessa della nota n. 251. Vengono comunque mantenute per
  aderenza allʼopera originale.





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