Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: La Seconda e Terza Guerra Punica - Tratto da un codice dell'Ambrosiana
Author: Ceruti, Antonio
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La Seconda e Terza Guerra Punica - Tratto da un codice dell'Ambrosiana" ***


produced from images generously made available by The
Internet Archive)



                                SCELTA
                                  DI
                        =CURIOSITÀ LETTERARIE=
                            INEDITE O RARE
                      =DAL SECOLO XIII AL XVII.=

        =In Appendice alla Collezione di Opere inedite o rare.=

                           Dispensa CXLVIII.

                            PREZZO LIRE 5.

 =Di questa SCELTA usciranno dieci o dodici volumetti all'anno: la
 tiratura di essi verrà eseguita in numero non maggiore di esemplari
 202: il prezzo sarà uniformato al num. dei fogli di ciascheduna
 dispensa, e alla quantità degli esemplari tirati: sesto, carta e
 caratteri, uguali al presente fascicolo.=

                                      =Gaetano Romagnoli.=



                          LA SECONDA E TERZA
                             GUERRA PUNICA

                        TESTO DI LINGUA INEDITO


                  TRATTO DA UN CODICE DELL'AMBROSIANA
                                  PER
                           =ANTONIO CERUTI=

                        Dottore della medesima


                                BOLOGNA
                       PRESSO GAETANO ROMAGNOLI

                                 1875.


                    Edizione di soli 202 esemplari

                                N. 193


                           Regia Tipografia.


                             AL NOBIL UOMO
                       MARCHESE GEROLAMO D'ADDA
                          ERUDITO BIBLIOGRAFO
                    INTELLIGENTE CULTORE DEL BELLO
                   IN SEGNO DI RIVERENTE ESTIMAZIONE
                            ANTONIO CERUTI

                               D. D. D.



                              PREFAZIONE


Un Codice dell'Ambrosiana diligentemente scritto nel mezzo del sec. XV,
cartaceo in foglio, ed appartenente un tempo a Battista Cozzarelli,
indi a Muciatto Cerretani, ambedue fiorentini, porta il titolo: «_La
prima, seconda e terza guerra punica_ di Leonardo Aretino.» Consta esso
di due parti distinte: la prima contiene la versione volgare, d'ignoto
autore, dell'opera attribuita a Leonardo Bruni _De Bello Punico_, in
cui narra le guerre de' Romani co' Cartaginesi[1]. Alcune edizioni
di quest'opera recano in fronte il nome di Polibio come autore, come
quelle di Brescia del 1498 e di Badio Ascensio fatta nel 1512 a Parigi,
e quantunque l'Aretino dichiari nel suo Prologo di avere scritto la
storia di quella guerra sulle tracce di Polibio e di altri scrittori
greci e latini[2], tuttavia ei fece poco più che volgere in latino la
storia dello scrittore megalopolitano, discepolo di Panezio, secondo
il Suida. Secondo un Codice Mediceo Laurenziano[3], egli eseguì la
sua versione verso il 1421, trovandovisi scritto in calce: «Leonardus
Arretinus edidit Florentiae XVIII kalendas januarias MCCCCXXI,» come
nota il Mehus nel Sillabo delle opere di quell'autore, del quale tessè
la vita nel vol. I delle di lui lettere[4]. Più edizioni vennero fatte
di quest'opera: il Fabrizio dice che la prima apparve nel 1498 a
Brescia[5], ma è certo che ve n'ha una anteriore, cioè del 1490; altra
è di Parigi del 1512 dell'Ascensio già menzionata[6], poi quella di
Augsbourg nel 1537[7].

Anche la versione volgare di questa Storia, di cui pure esistono più
codici mss. nelle Biblioteche, fu sovente stampata, ma ne è controverso
l'autore e l'epoca in cui fu eseguita. Il Paitoni[8] l'attribuisce
a Donato Acciaioli, ma sembra che questi non abbia volgarizzato
dell'Aretino che la Storia Fiorentina; altri a Lodovico Domenichi,
ma questi pure caddero in errore, poichè anzitutto egli visse nel
sec. XVI, e il volgarizzamento fu lavoro anteriore d'un buon secolo;
d'altronde sebbene il Domenichi nell'edizione di Venezia del 1545 per
G. Giolito de' Ferrari, da lui dedicata al conte Clemente Pietra,
nella dedica stessa asserisca d'aver compito pochi mesi innanzi la
traduzione di Polibio, e sul frontispizio asserisca _nuova_[9] la
versione da lui pubblicata delle Guerre Cartaginesi, pure il testo è
affatto identico a quello stampato nel sec. XV. Gli antichi codici e le
stampe attribuiscono la versione italiana chi, come quella del 1544,
ad un amico, chi ad uno scolare di Leonardo, ma senza accennare mai ad
alcuno scrittore speciale, ed è fuor d'ogni dubbio ch'essa è anteriore
al 1449, data d'un codice Riccardiano. Checchè sia del volgarizzatore,
del primo libro si ha una traduzione volgare stampata in Venezia per
Bartolommeo d'Alessandria e Andrea de Asula compagni nel 1485[10] in
f.º, unita alla storia di Tito Livio della medesima edizione. Il
Prologo di Leonardo sopra lo stesso libro primo uscì di nuovo pochi
anni dopo in Venezia ancor in seguito alla versione delle Deche dello
storico padovano[11], ed ebbe in seguito molte ristampe nello spazio di
pochi anni, specialmente in Venezia.

Ora il Codice Ambrosiano sopra accennato contiene nella sua prima
parte il volgarizzamento, come già dissi, della storia dell'Aretino
o meglio di Polibio, col titolo di _Prima e seconda guerra punica_,
e corrisponde esattamente tanto alla traduzione latina, quanto al
volgarizzamento stampato; manca solo il titolo dell'opera, ommesso
dall'amanuense, che tuttavia ne lasciava nel Codice lo spazio, e che
pure leggesi nelle più antiche edizioni, forse perchè vi fosse scritto
da qualche calligrafo e abbellito da ornato; si chiude esso colla
frase: «Finito il Libro di messere Lionardo d'Arezzo, detto primo bello
punicho. Deo gratias.»

Dopo questa chiusa ha principio nel Codice stesso, come seconda
parte[12], un racconto che è la continuazione della storia precedente,
e s'intitola: «_Della seconda e terza guerra punica_.» Non appare
ch'anch'essa sia una versione di istoriografo anteriore, che abbia
scritto quella narrazione in altro idioma, bensì un lavoro originale
di autore quattrocentista certamente toscano, rimastoci ignoto[13],
non essendovi indizio alcuno del di lui nome; solo ci rimase quello
del copista, Giacomo di Buccio di Ghinucci da Siena, che a sua volta
non fa cenno del ms., da cui trasse la sua copia scritta nel 1454, nè
fornisce alcuna notizia bibliografica in proposito; egli è però assai
commendevole per la diligente accuratezza con cui eseguì il suo lavoro;
solo i nomi di persone e di città sono sovente falsati e scorretti,
colpa forse del ms. da lui copiato. Il testo, rimasto finora inedito,
cred'io, ed ignoto agli storici della nostra letteratura[14], distinto
in brevi capitoli, come viene fedelmente riprodotto in questa stampa,
ritrae non poco qua e là di alcune forme del parlare senese, linguaggio
del trascrittore, ma è mirabile per ischiettezza di frasi, purità di
lingua, semplicità e vigore d'espressione, e per tutti que' pregi, che
splendono negli aurei scritti dei primi secoli della lingua italiana;
pel che mi lusingo d'aver fatto cosa non ingrata agli amatori di
simili scritture nè inutile alle lettere nostre il rendere di pubblica
ragione questo nuovo Racconto.

                      Milano, nel dicembre 1874.

                                           A. C.

NOTE:

[1] Nell'edizione d'Augsbourg del 1537 ha per titolo: «De Bello Punico
libri II, quorum prior bellum inter Romanos et Carthaginienses primum
continet, hactenus apud Livium desideratum, alter seditionem militis
conductitii et populorum Africae a Carthaginiensibus defectionem.
Bellum item Illiricum et Gallicum, quae et ipsa apud Livium
desiderantur.»

[2] Parlando di quelli che scrissero sopra questa materia, dice:

«La guerra Punica che fu tra i Cartaginesi e i Romani da molti de'
nostri latini e da molti greci fu trattata e scritta; ma e primi e
più antichi scrittori di quella furono dalla parte de' Romani Marco
Fabio Pittore, e dalla parte de' Cartaginesi fu uno che ebbe nome
Filino. Questi furono quasi in questo medesimo tempo che fu la guerra,
e per affezione della patria sua ciascuno di loro tirato, benchè
nelli eventi e fatti della guerra scrivessero il vero, nientedimeno
nelle giustificazioni e nelle cagioni l'uno e l'altro sanza passione
si truova avere scritto. Filino Cartaginese molti greci dottori e
scrittori seguitavano, intra i quali fu quasi come principale Polibio
Megalopolitano greco scrittore e di grande alturità, e Fabio Pictore
ancora de' nostri latini andarono dietro, et massime Tito Livio
patavino padre delle storie Romane, e libri del quale se fussero in
piè, non sarebbe bisognio di prendare nuova fatiga; ma perchè questa
parte dell'opere sue insieme con molte altre è perduta, noi a ciò che
la fama di così gran fatti non perisse, da Polibio e da altri greci
ricogliendo, abbiamo composto e di nuovo scritto questa guerra, ecc.»

[3] Cod. XIV, Pl. LXV. L'Aretino nato nel 1369 morì 75 anni dappoi; il
Poggio e Giannozzo Manetti gli dedicarono orazioni funebri.

[4] Pag. LVI. Mittarelli, _Bibliot. di S. Michele_, p. 659.

[5] Brixiae apud Iacobum Britannicum, 1498 in fol.; Parisiis apud
Badium Ascensium, 1512; Augustae Vindelicorum apud Philippum Ulhardum,
1537 in 4.

[6] Quell'edizione finisce con questa chiusa: «Polybii historici
Megalopolitani liber tertius et ultimus finitur.» Il Negri nella
_Storia de' Fiorentini Scrittori_, p. 352, dice anch'egli che Badio
Ascensio nell'edizione parigina di quest'opera v'ha posto in fronte il
nome di Polibio, persuaso con altri che l'Aretino non abbia fatto in
essa altra fatica, che dal greco tradurre quello scrittore in latino,
abbenchè egli prevenendo questa censura, nella sua Prefazione lo neghi.

[7] _Biblioth. lat. mediae et inf. latinit._, T. 1 pag 293: «De Bello
Punico lib. III prodierunt primo Brixiae anno 1498 sub hoc titulo:
Polybius historicus de primo Bello Punico latino Leonardo Aretino
interprete.

[8] _Bibliot. degli Aut. Greci e Lat. volgarizz._, nel T. 34 della
Collez. Calogerà, p. 267.

[9] _La prima guerra di Cartaginesi con Romani di M. Lionardo Aretino
nuovamente tradotta e stampata ecc._ Il Fabrizio (_Biblioth. Graeca_,
T. IV, p. 331) nota le edizioni venete nel 1546 e 1564 dell'intera
Storia di Polibio nella versione di Lodovico Domenichi, e alla pag. 329
nota la versione latina dell'Aretino dal greco di Polibio del libro _de
Bello Punico_, della quale ricorda due Codd. mss. della Biblioteca di
S. Michele di Venezia e nella Laurenziana.

[10] Argelati, _Bibliot. de' Volgarizz._, T. I, p. 188.

[11] Per Bartholomaeum de Zanis, 1490 et 1511 in f. Quella del 1493
conclude così: «Finite le Deche de Tito Livio padovano historiographo
vulgare historiate con uno certo tractato de bello punico stampate
nella inclita cittade de Venetia per Zovane Vercellese ad instancia del
nobile Ser Luca Antonio Zonta fiorentino nell'anno M.CCCC.LXXXXIII, adì
XI del mese di febbraio.»

[12] Di questa l'Argelati (op. cit.), additando pure il Codice
Ambrosiano, non fa alcun cenno, e probabilmente essa gli passò
inosservata, credendola parte della precedente _prima e seconda guerra_.

[13] Appare dalla sua narrazione ch'egli si giovò dell'autorità e degli
scritti di Eutropio, a cui sovente si riferisce. Sarebbe egli mai lo
stesso Leonardo, che compito da altri il volgarizzamento delle guerre
precedenti, siasi accinto a continuare il racconto come suo lavoro
originale? Ai dotti la sentenza.

[14] Nelle Biblioteche di Firenze esistono molti Codici, taluni
membranacei e pregevolissimi per calligrafia e per belle miniature, che
contengono il testo, quale fu già impresso, delle guerre cartaginesi,
recate in volgare, dicono essi, da un amico o da uno scolaro
dell'Aretino; ma nessuno ha la presente continuazione. In alcuni di
essi leggesi nel primo foglio questo distico:

  Tu che con questo libro ti trastulli,
  Guardal dalla lucerna e da' fanciulli.



                  DELLA SECONDA E TERZA GUERRA PUNICA



                                 I.


Erano le porti del tempio di Giano in Roma serrate dopo la malvagia
e lunga guerra suta infra 'l popolo di Roma e quello di Cartagine,
che ventiquattro anni era durata con molto grieve danno e perdita di
ciascuna delle parti, e riposavansi in quieta pace li Romani; quando
poco di tempo interposto, Amilcar imperadore di Cartagine con sua gente
passato in Ispagna, cominciò e mosse nuova guerra, per la quale Anibale
figliuolo d'Amilcar vi fu sconfitto e lui morto; e l'anno appresso
li Ilciani ammazzaro li messaggi de' Romani, che andavano per lo
trebuto; per la quale cosa lo tempio di Giano fu aperto, e fu mandato
per vendicare l'ontia Fulvio Postumio consolo contra di loro, il quale
fatta battaglia con loro, rimase vincitore, e tornò in Roma triunfando.
Ed in questo si levò nuova guerra fra li Gallici e li Romani, della
quale li Romani molto sbigottiro; ed assembrata oste quanto potero,
vennero contra li Gallici, essendo consoli Emilio Lucio ed Attilio
Livio, con ottocento migliaia d'uomini, ed a Trento trovati li Gallici,
fecero battaglia molto crudele e mortale, nella quale fu morto Attilio
lo consolo, e molto malmenati li Romani in due battaglie che fecero
insieme. Alla fine li Romani furo vincitori e ottennero la vittoria, e
tornati a Roma, fu Emilio da' Romani onorato.



                                  II.


Un'altra battaglia fecero li Romani co' Gallici, nella quale Flamineo
consolo fu mandato contra di loro, e dopo molta dura battaglia tornò
vittorioso; per la quale cosa i Gallici turbati assembraro gente, e
vennero contra li Romani novellamente con grande gente e molto bene
guernita. Rincontra a quelli furono mandati due consoli, ciò furo
Claudio Marcello e Cornello Scipio[15] e fatta battaglia con loro,
tornaro a Roma vittoriosi. Altre battaglie fecero i Romani con quegli
d'Osterich, delle quali furo vittoriosi.

NOTE:

[15] C. Flaminio Nepote fu console nell'a. 531 di Roma e 223 a. C., e
Claudio Marcello nell'a. seguente con Gn. Cornelio Scipione Calvino;
nel 223 infatti i Romani trionfarono dei Galli.



                                 III.


In quello tempo medesimo avvenne che Aniballo, che sire e imperadore
era di Cartagine, assembrò grande gente, tanta quanta più ne potè
avere, per vendicare lo re Amilcar suo padre di coloro che l'avevano
sconfitto e morto in Ispagna; e lo re Aniballo aveva bene udito ed
inteso, ch'e Romani avevano malmenati quelli di Cartagine e tutti
quelli d'Affrica, e tutti coloro che li erano stati in aiuto. Per
questa crudeltà vendicare ragunò gente a maraviglia di tutto lo regno
d'Affrica e di Grecia, e d'onde potè avere soccorso; da ogni parte
ragunò gente per amore e per preghiere e per doni, però ch'egli era
molto ricco, sì che aveva assai che donare, e per questo modo ragunò
tanta gente lo re Aniballo, che mai dinanzi a Tebe o a Troia, che furo
(così come voi avete udito dire) due de' più maravigliosi assedii
che mai fussero, non ebbero tanta gente come Anibal assembrò a quella
fiata per sua preghiera e per suo potere; e sappiate che tutta quella
gente assembrò tutta sotto Cartagine lungo la marina. Anibal domandò
consiglio a' re e a' baroni, cui elli potesse lassare in sua contrada
per guardia del paese. Li nobili uomini tutti s'accordaro insieme
che vi lassasse Margone suo fratello, che re e sire era di Poonia, e
così fu fatto, e tantosto comandò che le navi fussero apparecchiate e
cariche quelle che al porto erano, che bene sappiate che uno solo porto
non bastava a tutto il naviglio. L'avereste veduto molto ricco avere
portare nelle navi, e molti ricchi destrieri ed olifanti di strania
fattura menare nelle navi, e di ciò che faceva mestiero a fare guerra,
ed ogni e ciascuna cosa missero nelle navi.



                                  IV.


Quando tutte le navi furono cariche di bestie e di vivande e di vino
e d'acqua e d'armadure, e di ciò che faceva mestiero a portare in
oste a sì ricco uomo, li re e duchi e prencipi entraro in loro navi,
e li arditi cavalieri e sergenti, ch'erano più di cento milia, erano
in altre navi. Là averebbe altri potuto vedere molte ricche navi di
diverse fatture e molti ricchi arboli alti e dritti, ove l'antenne
che portavano le vele della seta erano; là erano molte ricche galee e
barche e molte ricche navi, ove li arditi cavalieri erano e li savi
marinari per andare dinanzi al navilio, quando fusse mosso per prendare
porto, quando bisognasse. Così come voi udite, entrò Anibal in mare e
con lui Astrubal suo fratello e molti altri prencipi; e quando furo
entrati in mare, li mastri marinari, che del mare sapevano la natura
e l'usanza, comandarono che l'àncore fussero gittate nelle barche, che
le navi seguitavano a pieno corso, e le vele fussero sviluppate in
sulli arboli per tosto dilungarsi da terra; e sì tosto come le vele
furono spiegate, uno vento ferì entro sì buono, che 'l mare ne gonfiò
in più parti. E bene sappiate che molto fu maravigliosa cosa a vedere
tante ricche vele partire da terra, ma molto fu più maravigliosa cosa,
quando le navi ebbero tal vento, che corsero e passaro senza avere
nulla tempesta, tanto che furo arrivati nel porto di Spagna, e allora
ebbero molto gran gioia all'uscire delle navi, ed a trare fuore le
grandi ricchezze. Allora quelli della contrada, quando li viddero a
maravigliane, furo sbigottiti di sì grande popolo, che sopra loro era
venuto, d'onde non si prendevano guardia in nulla maniera, che venire
vi dovessero, e della gran paura ch'egli ebbero, tutti si ritrassero
e fuggiro alle castella e fortezze e città per più sicuramente loro
difendare contra loro nemici; e tosto fu la novella saputa e sparta la
boce infino alli monti di Pitaneos, in Gaule ed in Italia e a' senatori
e consoli in Roma; ma di tutto ciò non curò lo re Anibal, che suoi
corridori fece corrare per mezzo la contrada per le prede raccogliare
e prendare, e per combattare le fortezze, che molte ve n'erano, acciò
che a sua gente non facessero noia e gravezza, e sì comandò a' suoi
marinari che tornassero colle navi in Affrica per vivanda, acciò che
l'oste non patisse bisogno di nulla cosa.



                                  V.


Quando ciò fu fatto e divisato, e l'oste fu riposata otto dì interi
in sulla marina verso Sibilla, lo re comandò e fece sua gente tutta
muovare, e suoi stormenti tutti sonare. Allora si partì lo re Anibal
con sua grande oste dal porto, e sì andò tanto, che venne dinanzi alla
città di Serragoza, che allora era ricca e possente e bene fornita di
buoni sergenti e di fina cavalleria, e sì era allora dell'amistà de'
Romani e di loro aiuto. Quando quelli di Serragoza viddero che Anibal
gl'incalciava sì duramente per loro distruggiare, ellino il fecero
sapere a' senatori di Roma il più tosto che potero. Quando li senatori
e li consoli intesero queste novelle, ellino fecero loro aito[16]
ordinare tostamente per andare contra a Anibal; ma innanzi che quelli
di Serragoza fussero assediati dentro a loro ricca città, fecero fare
fossi e mura grosse e alte con torri di buone pietre. Ma poco valea a
quelli della città l'uscire fuore a combattare contra lo re Anibal,
chè poca aveano gente e cavallaria per tenere battaglia contra agli
Affricani, o sofferire stormo, che contra loro venivano sì sforzati;
ma non pertanto innanzi che si traessero addietro dentro a' primi
steccati, fecero ellino molto bene e molte belle prodezze, siccome
gente che non erano sbigottiti; ma nella fine quando videro che gli
Affricani gl'incalciavano per sì gran forza, ellino si credettero
ritrarre verso loro fortezza con meno perdita che non fecero, imperò
che una gran gente di Poonia s'erano messi tra loro e la città in
aguatio[17], e là fu sì grande battaglia forte e dura; quelli della
città si difendevano maravigliosamente, ma tutti sarebbero stati morti
e presi, s'e pedoni della città no gli avessero soccorsi con archi
e con saette, per li quali li Pooni si trassero addietro; e quando
quelli che scamparo, furo dentro alla città, ellino serraro le porti,
e cavalieri montarono su per le mura per la città difendare. Allora
assediò Anibal la città, la quale non prese sì tosto come volea, chè
vi stette sette mesi tutti interi, come la storia conta, e' nella fine
di sette mesi la prese per fame, che più non potevano durare.

NOTE:

[16] _Aito_ non evvi nei dizionarii.

[17] _Aguatio_ e _aguaito_, _contiare_, _guatiare_, _ontia_, _ontioso_,
ecc. son forme usate sovente dagli antichi.



                                  VI.


Allora quando Anibal stava all'assedio di Serragoza con cento
cinquanta migliaia d'uomini d'arme, siccome Eutropio racconta, vennero
a lui messaggi da Roma, e sì li dissero da parte de' senatori e
de' consoli, ch'elli lassasse Serragoza e sì se n'andasse, ma non
ne volse fare nulla per cosa ch'elli dicessero, anzi minacciò li
messaggi e villanamente li accomiatò. Li messaggi che tornarono a'
senatori, dissero la risposta di Anibal e la villania ch'elli aveva
detta. Allora ebbero li senatori e consoli consiglio, che mandassero
a Cartaggine, siccome fecero, e mandaro a' Cartagginesi sopra alla
pace, ch'ell'avevano promessa, che mandassero a Anibal loro re, che
contra quelli di Serragoza, che loro amici erano, non combattessero nè
non tenessero assedio dinanzi a loro città. Li Cartagginesi risposero
alli messaggi di Roma, che già non se ne tramettarebbero, nè niente
per li Romani farebbero, ma tornassero tosto addietro, altrimenti
perdarebbero la vita. Con tali parole e con più altre villaneggiaro
molto li messaggi de' Romani, e quali si partiro da loro il più tosto
che potero, e contiaro bene a' senatori ed a' consoli ciò che l'era
stato detto e fatto. Intanto fu Serragoza presa non per forza ma per
fame, chè quelli della città avevano sì grande caro, che mangiaro tutte
le bestie della città, e tutto ciò che potevano avere senza nulla
dimoranza; ed appresso si tennero tanto, ch'egli erano tutti infiati
innanzi che si volessero arrendare; ma nella fine non potero più
sofferire, che si convenne che si arrendessero allo re Anibal.



                                 VII.


Ahi! Dio, come la morte è dottata[18]! Quando ella è presso a uno dì
altrui, altri per rispetto di quello dì darebbe tutto lo mondo se
fusse suo, e ciò sanno e medici, che n'ânno auti di gran doni e di
gran ricchezze e d'avere e d'onore; ma molto poco vale medicina o
lattovare o niuno onguento, che altri possa fare per sanità avere; poi
che la morte viene, non ci â neuno rimedio nè niente d'indugio. Signori
ricchi, se fate bene, farete come savi ed acquistarete grande onore,
chè ben sappiate che la morte vi spia e guatia forte, che sempre tiene
la spada innuda per voi ferire; chi corpo e avere perde, nolli vale
niente a rispetto dell'anima, quando ella è santificata e pura e netta
e piena di tutte virtù, ed ella è prugata[19] della sozzura e viltà del
peccato, il quale ci dilonga da Dio, tanta è la sua gravezza.

NOTE:

[18] _Temuta_; il Compagni, parlando di Firenze: «Ricca di proibiti
guadagni, dottata e temuta per sua grandezza dalle vicine».



                                 VIII.


Sì fatta gente debbono la morte dottare, che in questo mondo ânno il
molto avere, e poco n'ânno dato per l'amore di Dio, che tanto ne l'â
dato e prestato; e quando cotali si partano di questo secolo[20], sì
sono molto duramente sbigottiti, sì che non sanno che si fare, e se
potessero tornare a misericordia uno solo dì in loro ricchezze, ellino
darebbero molto volentieri cento milia tanto più che non ânno, per
avere l'amistà di nostro Signore Dio. Per lo ben fare ch'altri lassa
in questo mondo, non si fa dottanza della morte, e così fecero molti e
fanno, che grandi ricchezze ânno ed avevano aute. Similemente fecero
coloro di Serragoza, che le grandi ricchezze avevano aute; quando
sentirono la gran distretta della morte per la gran fame ch'egli
avevano, ciascuno si pensò che meglio lo 'veniva la morte schifare e
fuggire che morire, e sì non sapevano ove si dovessero andare morendo,
e se vivessero anco, potrebbero avere onore per avventura, e per tali
ragioni s'arrenderono; e bene sappiate che non è sì gran distretta
come la fame, imperciò che si conviene o morire o arrendare, e perciò
s'arrenderono, che non volsero morire.

NOTE:

[19] Per metatesi in luogo di _purgata_.

[20] Il Barberino nel _Reggim._ ecc., P. VI:

  Vidi quel viso, che suol luce dare
  Colli suoi raggi per tutto il paese,
  Bagnato ed irrigato
  Di quelle lagrime che escan dagli occhi.
  Ver è che molte si partan dal vero.



                                  IX.


Quando la città si fu arrenduta, Anibal fece prendare l'oro e
l'argento, e drappi della seta e l'altre ricchezze, e poi vi fece
mettare lo fuoco per tutta la città, e così fu distrutta Serragoza per
Anibal re di Cartaggine; e questa fu la vendetta e lo cominciamento
della distruzione che Anibal fece per lo re Amilcar suo padre, il quale
era stato sconfitto, ond'elli odiava li Romani sopra tutte creature, e
perciò si vendicò in questa maniera. Allora comandò Anibal, che molto
era fiero e crudele, ad Astrubal suo fratello, che rimanesse in Ispagna
per conquistare tutto lo reame tanto come si stendeva infino al mare,
che molto era grande e maraviglioso, e quando elli avesse ciò fatto,
elli disse che mettesse in sua signoria tutte l'isole del mare; poi
venisse dopo lui per Gaule e per Italia tosto e prestamente, che sì
voleva combattare colli Romani, ch'elli odiava mortalmente, e sì voleva
avere la potestà e la signoria di Roma. E quando ciò fu divisato infra
due frategli, Anibal venne con sua gente verso Italia, ed Astrubal
rimase in Ispagna, ove prese molti forti castelli, e conquise molte
fortezze innanzi che la mettesse sotto sua volontà. Di Astrubal vi
lassarò ora stare, il quale rimase in Ispagna per acquistare lo reame,
e non ne udirete parlare più al presente, ma innanzi che la fine venga,
vi dirò che ne fu; ed ora al presente vi dirò di Anibal, che verso e
monti di Meos prese sua via il più dritto che potè con sua grande oste,
se ciò non fusse cosa ch'eglino uscissero del camino per ponare campo
sopra fontane o sopra riviere, chè bene potete sapere senza dottanza,
che sì grande gente, com'elli aveva assembrata, non poteva passare
senza acqua, perciò ch'elli aveva grande gente appiè e a cavallo.



                                  X.


E così andava Anibal, che tutto confondeva ciò che trovava dinanzi da
lui, ed a gran pena passò li monti di Spagna per le strette vie che
non erano battute nè usate, ma elli fece la via acconciare e dilargare
con picconi di ferro e d'acciaio, acciò che sua gente che lo seguiva,
passasse più sicuramente, se bisogno fusse d'essare assaliti. Quando lo
re Anibal fu oltre passato e sua gente a gran pena, eglino andaro poi
due mesi interi, e presero loro via il più tosto che potero verso lo
Rodano; ma innanzi che vi giugnessero, assembrarono li Gallici da tutte
parti, e quali combatterono con Anibal e con sua gente con ciò che
poterono, ma e' nollo vensero niente nè sconfissero, chè troppo avea
con lui grande gente e grande cavallaria, di che furono molto dolenti
e molto ontiosi[21] che non ne vennero a fine, ma s'accordaro con lui.

NOTE:

[21] Anche _ointoso_ disse Bacciarone di messer Baccone: «Assai più è
ointoso».



                                  XI.


Non vi maravigliate niente, se tutte queste genti di quelle parti
vennero contra Anibal, chè ben sappiate che Guascogna, Navarra e Anio,
Ponto e Franca e tutta Borgogna infra monti, e la città Sainna la
vecchia, erano tutte queste terre, ch'io v'ô qui dette, chiamate Gaule,
e le genti Gallici di stranie nazioni nominate. In quello tempo Anibal
se ne veniva verso i monti di Italia per passare. Allora erano consoli
di Roma Cornellio Scipio e Publio Sempronio, che per lo comandamento
de' senatori di Roma, che la terra avevano a guardare, si mossero
questi due consoli, ch'io v'ô nomati, per andare contra loro nemici
in qualunque luogo li sapessero, per essar lo' alla rincontra, acciò
che non venissero tanto innanzi, che lo' facessero troppo danno, e per
combattare con loro. Publio Sempronio andò con sua gente in Cicilia,
la quale era allora molto buono paese e piena di tutti beni e guarnita
di buone vivande; e Cornello Scipio dall'altra parte se n'andò verso e
monti di Mongieu[22] con tutta sua gente per sapere e per intendare se
Anibal si volesse trarre verso quella parte; e così si partiro quelli
due consoli in due parti e tutta loro gente.

Questo Scipio Cornello, del quale io vi parlo, non fu niente lo savio
Scipio Cornellio, ma sì vi dico certamente che fu molto buono cavaliere
e pro e ardito e pieno di grande prodezza, e perciò lo ricordo qui
ora, acciò che voi non crediate che in Roma non fusse solo uno Scipio
Cornellio, anzi ne furo due, siccome io vi contio, consoli di Roma,
e quali sostennero assai pene e dolore per Roma mantenere dal tempo
di Bruto fino al tempo di Iulio Cesare, che per lui solamente la
signoria e la potestà di Roma fu molto dottata e temuta, e di ciò vi
lassarò ora stare per seguire mia materia. E sì vi dirò di Anibal,
che molto aveva impresa grande cosa a fare, e sappiate che tornava
addietro con sua grande oste, ma innanzi assembrato li Gallici appiei
li monti di Mongeu ne' gran diserti che allora v'erano, per difendare
e per guardare l'entrata, sicchè per le valli non passassero niente; e
sappiate che là sì combattè Anibal contra a' Gallici, e sì vi fu molto
grande danno d'una parte e dall'altra, ma nella fine andò tanto la
cosa, che s'accordaro e fecero pace, però che Anibal per conseglio de'
savii uomini che là erano, lo conseglionno che s'accordasse con loro se
volesse passare contra a' Romani, e così fece, sicchè in pace lassare
passare lei e sua compagnia per li salvatichi diserti. Quando ciò fu
fatto, sì avvenne che molta gran gente d'oltre lo Rodano e de' monti
s'assembraro colla gente di Anibal, e sì li furo in aiuto di ciò che
potero.

NOTE:

[22] Il Mongiove o Gran S. Bernardo.



                                 XII.


A quello tempo non v'era mai passata nulla umana creatura. Lo re
Anibal, che vidde le grandi montagne che si stendevano fino al cielo,
molto dottò di passare, e sì domandò quelli della contrada, se vi
si potesse trovare nulla via per nullo ingegnio ch'altri sapesse
fare o dire. Eglino risposero che le montagne erano sì orribili e
sì pericolose d'acqua e di nieve e di ghiaccio e d'altezza, che non
v'avevano mai veduto passare nulla creatura che fusse nel mondo, se ciò
non fusse o orsi o lioni e altre bestie salvatiche di diverse maniere.
Quando Anibal udì così contiare a quelli della contrada, ne fu molto
sbigottito, e tuttavolta diceva che voleva passare li monti. Allora
fece assembrare tutti suoi maestri, ch'egli aveva nell'oste, come fabri
e maestri di pietra e di legname, per conseglio avere come potesse
passare le montagne; là furo divisati picconi e martelli per rompare e
gran sassi e fare la via; e sì tosto come furo trovati, incominciaro
a fare la via appiei la montagna con gran travaglio e con gran pena,
e sì tosto come avevano rotto e sassi, sì vi gittavano suso sangue di
bestie[23], acciò che la nieve non vi ghiacciasse suso, e tenessele
calde contra la nieve e la freddura, che v'era grande ed aspra.

NOTE:

[23] T. Livio, lib. XII, narra che quel passaggio fu aperto aspergendo
d'aceto la rupe infuocata, impiegandovi quattro giorni; racconto
abbastanza inverosimile.



                                 XIII.


Così come voi udite, fece lo re Anibal di Cartagine primamente tagliare
li monti di Mongeu per fare la via con gran costo e con gran pena, e
ciò possono sapere coloro che l'ânno veduto e che vi sono passati; e
quando ciò ebbero fatto, Anibal passò oltre con tutta sua gente, e al
sesto giorno giunse dall'altra parte al piano; e quando ebbero tanto
aspettato che giunsero tutti, e tutti furono passati, cavalieri e
pedoni e ogni bestiame, elli fece sua gente annoverare per sapere lo
numaro di sua gente, e sì trovò ch'egli aveva con seco cento migliaia
d'uomini appiei, e sessanta migliaia di cavalieri tutti armati; e sì
dice Eutropio e contia ch'elli aveva cento olifanti senza e camelli ed
altri animali, de' quali aveva sì grande abbondanzia, ch'appena se ne
potrebbe fare il numaro.



                                  XIV.


E tuttavolta crescevano e multipricavano le genti ad Anibal molto
grandemente delle contrade che si ragunavano con loro. Allora cavalcò
Cornello Scipio molto forte, e con lui suo figliuolo, che fu poi
chiamato Scipio Affricano (e la ragione perchè vi contiarò innanzi che
sia la fine di questo libro) con gran popolo di Roma per combattare
contra Anibal, che per suo grande orgoglio voleva combattare la
terra d'Italia, che ora è Lombardia chiamata. Quando furo tanto
approssimati[24] l'osti d'una parte e d'altra, che non v'era altro che
abbassare le lancie, ellino broccaro[25] li cavalli delli speroni, e
sì si corsero a ferire sì duramente, che più di due milia cavalieri
tra l'una parte e l'altra si gittarono a terra de' cavalli, de' quali
vi furono molti feriti villanamente. E sappiate che ine si cominciò
lo stormo fiero e mortale, che non si risparmiavano niente, anzi vi
dico bene di verità che si faceano il peggio che poteano; lo padre non
avarebbe riguardato lo figliuolo, e lo figliuolo lo padre. Li Romani
credeano per forza sconfiggiare li Affricani per loro grande forza
e per loro grande orgoglio, onde erano sì pieni, che non dottavano
persona del mondo, ma nollo valse niente, chè troppo avevano gran gente
e gran cavallaria quelli di Affrica; e là fu lo consolo Scipio ferito
molto duramente, e sì fu abbattuto a terra, ed ucciso l'avarebbero, se
non fusse Scipio suo figliuolo, che vigorosamente lo soccorse, d'onde
sofferse molta gran pena; e sappiate che là furono morti de' Taliani e
de' Romani tanti, che pochi ne camparono col consolo e col figliuolo,
e quali si partirono dolenti e tristi; e in questa maniera ebbero
dolore li Romani a quella prima fiata, per la sciagura ch'eglino ebbero
contra Anibal, che di quella prima vittoria ebbe molto gran gioia.
Allora ebbe Scipio Cornellio molto gran dolore quando fu ferito, e
più per sua gente che morta era, la quale aveva di Roma menata; e per
quella ontia vendicare assembrò gente, e richiese quanto potè il più
tosto che potè, e ritornò contra lo re Anibal, il quale odiava dentro a
suo cuore, perciò che tal dannaggio gli aveva fatto, come di sua gente
uccidare e tagliare, e assembrare al fiume di Trema.

Sappiate che la battaglia fu ine grande e pericolosa, ed allora furo
ine li Romani sconfitti e tutti morti e messi a perdizione. Publio
Semplonio lo consolo, ch'era in Cicilia, seppe ed intese che Scipio suo
compagno aveva auto sì gran dannaggio di sua gente e di sua cavallaria.
Allora si mosse con tutta la sua gente e con quanto aiuto elli potè
avere con lui per venire centra Anibal, e per vendicare li Romani del
gran dannaggio e della gran perdita ch'egli avevano fatta; e tanto andò
Sempronio consolo con tutta sua oste, che venne ove li Romani erano
stati sconfitti l'altra fiata, e là trovò ancora lo re Anibal e sua
gente, che veniva incontra al consolo a battaglia; e sappiate che là
furo fatte grandi prodezze per l'una parte e per l'altra per difendare
loro corpi e loro vita e loro avere. In quella battaglia fu lo re
Anibal ferito d'una saetta molto duramente, ma sappiate che non morì a
quella fiata, anzi lo' vendè molto cara l'ira e lo corruccio ch'egli
ebbe di sua piaga e del dolore e dell'angoscia ch'egli ebbe; fu elli sì
ripreso di mal talento, che fece tanta di prodezza e d'ardimento, poi
che fu ferito, che più di mille Romani ne perdero la vita. E sappiate
che Publio Sempronio fu sconfitto in quello stormo, ch'era consolo e
molto buono guerriere e valente cavaliere, e sì vi fu sì villanamente
menato, ch'a pena ne scampò, e così ebbero li Romani gran perdita e
gran dannaggio dallo re Anibal a quella fiata.

NOTE:

[24] Il Cavalcanti nella _Medicina del cuore_, 235: «Come s'appressima
la salute, così s'appressima la tentazione».

[25] _Punsero_; nel _Ciriffo Calvaneo_, 3: «Ed in un tratto poi il
destrier brocca».



                                  XV.


Anibal inforzò e crebbe molto contra li Romani per queste vittorie in
tal modo, che la maggiore parte di quelli di Italia vennero a sua mercè
per paura ch'egli avevano di lui e di sua gente, e sì si sottomissero
a sua signoria, e lassaro li Romani con chinche eglino erano, e là
soggiornò Anibal tutto verno, e quando venne la primavera, elli si
misse in via per venire in Toscana. Ma sì tosto come venne al monte
Apennino, venne una sì gran tempesta di nieve e di gragnuola mescolata
insieme, e con ciò folgori sì aspre e sì maravigliose, che ciò era
terribile cosa a vedere, per la quale cosa due mesi tutti interi non
si potero mutare; anzi furo caricati li olifanti e camelli e cavagli e
altre bestie e tutta l'oste di nieve e di freddura e di gragnuola in
tal modo, che appena si potevano tenere in piei nè muovare, ed erano
sì coperti di nieve l'armadure e le bestie, che non si cognoscevano di
che pelo si fussero. E sappiate che lo re Anibal perdè molti de' suoi
cavalieri e delle sue bestie per la gran freddura che non potevano
sofferire, e di poco si fallì, che tutti li olifanti non perdero la
vita. E quando Anibal vidde ciò, elli si partì il più tosto che potè
della montagna; e sappiate che ciò non fu niente grande maraviglia,
se si partiro d'onde eglino avevano auto tanta pena e travaglio, e
per questa pistolenzia e per questa disavventura ricevette lo re
Anibal molta grande perdita e molto grande dannaggio maggiore che none
aveva fatto in tutta l'altra via. Allora se n'andò Scipio figliuolo
dell'altro Scipio, ch'era stato sconfitto per lo re Anibal nelle terre
di Spagna.



                                 XVI.


Allora e in quello tempo avvenne a Roma uno maraviglioso segno e per
tutta la contrada, sicchè i Romani ne furono sì sbigottiti, che non
sapevano che si fare di loro medesimi, imperò che 'l sole scurossi
a tutto e menovò sì che quello che se ne vedeva, non era quanto una
stella delle più picciole, e quelli d'Arpos viddero nel cielo scudi
veramente, per quello che lo' paresse, sì ordinati, come se dovessero
combattare, e sì viddero venire a battaglia il sole e la luna l'uno
contra l'altro, e l'uno percuotare l'altro, e quelli di Campagna
viddero due lune insieme nel cielo, e in Sardegna viddero due scudi che
gocciolavano sangue, e molti altri viddero cadere da cielo gocciole di
sangue.



                                 XVII.


Queste novelle ch'io v'ô qui dette, spaventaro molto li Romani,
che credevano che ciò fusse segno della distruzione di Roma per lo
re Anibal, che molto avea perduta della sua gente per la smisurata
freddura, siccome voi avete udito; ma perciò non lassò niente
Anibal, che elli assembrò tutta sua gente quanta ne potè avere e
concogliare[26], e sì si posaro e presero agio e scaldaronsi, come
coloro che grande bisogno n'avevano; e quando furo posati e invigoriti,
ed ebbero passato quello grande disagio e quello grande dolore
ch'eglino avevano auto dinanzi, lo re Anibal li fece muovare d'inde,
e sì se n'andò in quella parte di Italia, ove Saramma[27] corre, il
quale traboccava ed era uscito del suo letto per le gran piove del
forte verno ch'era stato, e per le grandi nievi delle montagne, che giù
erano discese. E sappiate che lo re Anibal si misse per queste vie,
perciò che li senatori di Roma avevano mandato lo consolo Flammineo
con molta buona cavallaria per combattare con lui, e sì era già tanto
andato questo consolo, che s'era attendato sopra al lago Trasimeno con
sua cavallaria.

NOTE:

[26] _Concogliare_ per _raccogliere_ non trovasi nei dizionarii.

[27] Il Sarno?



                                XVIII.


Lo re Anibal, che molto era sottile e malizioso e savio di guerra,
si misse per le campagne, ove l'acque erano state, ch'erano ristate
e tornate addietro, ma innanzi che n'escisse, ricevette molto grande
dannaggio di sua gente e di sue bestie, chè l'acque ch'escivano de'
fiumi e de' paludi e delle valli grandi, li molestavano sì duramente,
che non sapevano che si fare e dove andare o tornare. Allora là venne
molto gran dannaggio e mala ventura, che si imbattero ne' paludi, che
la riviera aveva ripieni, e sopra tutto ciò gli assalse la freddura,
e perdeano spesso l'uno l'altro, che per la nebbia non si potevano
vedere, e per ciò perde molta di sua gente lo re Anibal, e ciò non fu
niente maraviglia, tanto dolore avevano e tanta mala ventura, ed elli
medesimo appena scampò vivo in sur uno olifante, che gli era rimasto di
tutti quegli ch'egli aveva menati con lui di lontane contrade.



                                 XIX.


Sopra questo olifante era lo re Anibal, quando elli uscì fuore di
questo palude e di queste gravose vie. Allora perdè lo re Anibal uno
occhio, il quale di prima avea molto infermo, che per lo grande
travaglio e per la grande freddura l'iscì fuore della testa; ma non di
meno per tutte queste sciagure non lassò che non cavalcasse là ov'elli
sapea che Flammineo lo consolo era con sua gente, la quale era in loro
tende, e sì tosto com'elli s'appressimò, elli fece sonare suoi corni
e sue trombette e sue genti armare e ordinare per schiere; e così
fece Flammineo lo consolo, che molto avea con lui gran gente appiè e
a cavallo. Questa battaglia cominciò sopra 'l lago di Trasimeno, e
sappiate che tutto ciò fece fare lo re Anibal a pensato, per mettare
più tosto li Romani in isconfitta e a perdizione. Là cominciò tra
queste genti gran battaglia e orribile e maravigliosa e piena di grievi
affanni e dolore. Lo re Anibal, che molto sapea d'ingegno e di malizia,
fece sue schiere ritrare verso le tende, perciò che volea li Romani
mettare verso il lago, sicchè non potessero in nulla maniera da nulla
parte tornare a fortezza nè a sussidio veruno, se non si mettessero
in forti poggi, ove fussero certi che perdarebbero la vita tosto, nè
scampare non potrebbero in nulla maniera. Allora s'appressaro sì che
delle lancie e delle spade si potevano ferire e danneggiare l'uno
l'altro.



                                  XX.


Allora vi dico che non lassaro per niente che non s'andassero a ferire
l'uno l'altro e uccidare senza nissuno risparmio; là volavano dardi
e saette, che l'uni e l'altri traevano sì spessamente più che la
piova che cade da cielo; e bene sappiate che là lo' fece molto bene
lo consolo Flammineo e li altri Romani che là erano, che difendevano
loro e loro terre valentemente, ma poco lo' valse alla fine, chè vi
fu morto lo consolo Flammineo, buono cavaliere e savio e pieno di
gran prodezza e di grande ardimento. E bene sappiate che poi che fu
morto, si difendero sì duramente li Romani come ardita gente e forte,
sì che tolsero la vita a più di mille di quelli dello re Anibal. Là
fu la battaglia sì orribile e sì grande, che le storie raccontiano,
che quella contrada in quello tempo tremò sì forte, che molte case e
difizii caddero per terra, e più montagne avallare giuso; e sappiate
ch'e fiumi lassaro loro corso e tornarono addietro tanto quanto lo
tremuoto bastò, ma di tutto ciò non sentivano niente coloro che
combattevano, tanto attendevano l'uno l'altro a uccidare; e là furo
tutti sconfitti li Romani, senza che, siccome io v'ô detto, lo consolo
Flammineo, che tanto era pro' e ardito e pieno di grande virtù, vi fu
morto, e con lui vinticinque migliaia di sua gente, e se' miglia presi,
e quagli non perdero allora la vita, anzi li fece lo re Anibal mettare
in prigioni, e mandonne in Cartaggine tutto l'avere e la gran preda,
ch'avevano guadagnata della battaglia.



                                 XXI.


Così fu lo consolo Flammineo morto e sua gente altresì tutta vinta, ma
li Romani che gran dolore facevano, mandarono lo consolo Fabio Manlio
incontra lo re Anibal, sì che poco lo' valse, fuor ch'elli stroppiò
allo re Anibal l'andare di Puglia, lo quale paese li Romani avevano
pressochè tutto preso, come gente piena di forza e d'ardimento, ed
Anibal li volea rimettare nella signoria di Cartaggine, la quale cosa
molto desiderava. Ma sappiate che nella fine fu Fabio Manlio sconfitto,
e sua gente venta e messa a destruzione. Allora se n'andò Anibal in
Puglia per la contrada prendare e mettare in sua signoria, e tanto
cavalcò che vi giunse. Ine avea molte terre piene di molti beni,
siccome appare ancora, e sappiate che là fu molto lo re Anibal ad
agio e tutta sua gente, e molto erano lieti per le grandi strette che
avevano aute.



                                 XXII.


Allora avvenne nell'anno DXLI, che Roma era stata primamente fondata,
ch'e senatori e consoli e tutti li altri uomini di Roma erano tutti
sbigottiti delle gran perdite e de' grandi dolori, ch'egli avevano
riceuti, e dello re Anibal, che sì l'incalciava e sì li distruggeva
per sua buona cavallaria, ch'elli aveva menata con lui, la quale e
Romani dottavano molto duramente. Allora s'assembrare li savi uomini
e possenti di Roma, per conseglio prendare e domandare che potessero
fare sopra lo re Anibal, il quale non intendeva se none a prendare
e distruggiare Roma, e per queste cose vendicare fu eletto Emilio
Publio; e bene sappiate che questo consolo era molto buono cavaliere
e valente e ardito, e sì era nato di grande lignaggio. Costui fu
mandato contra lo re Anibal, che molto aveva fatto grande danno a'
Romani, e perciò andò questo consolo contra lui con grande gente per
lui sconfiggiare se potesse; ogiomai appresso costui non averebbero
conforto nè speranza di lui vinciare, che tanti ve n'avevano mandati,
che poco era rilevato, che ciò era maraviglia, e perciò erano li Romani
sbigottiti e smagati.



                                XXIII.


Allora e in quella battaglia andaro li senatori e consoli e li alti
uomini di Roma, ch'erano chiamati pretori, e molta gente appiè e a
cavallo in sì gran quantità, che ciò era una maraviglia; e sappiate
certamente che questa fu la più gran parte della forza di Roma. Così
come voi udite, si mossero li Romani con grande apparecchio e con
molta grande forza per andare contra lo re Anibal, che molto era
altresì bene apparecchiato dall'altra parte con sì gran gente appiè
e a cavallo, che ciò era una maraviglia. Emilio, a cui li Romani
erano ubidienti, cavalcò tanto per sue giornate elli e Romani appiè
e a cavallo, che vennero in Puglia e albergano dinanzi alla città di
Cannes presso d'una foresta in una bella prataria sopra una riviera,
che corriva verso il mare bella e chiara, e là si riposaro li Romani,
perciò che viddero il luogo bello e chiaro e netto, e la prataria
grande e bella, e loro cavalli si riposaro altresì, e sì apparecchiaro
loro armi, e ciò che apparecchiare si debba a battaglia. E sappiate
ch'e Romani erano sicuri d'avere una grande battaglia, imperò che
lo re Anibal l'era assai presso, il quale non finò e non cessò di
venire contra loro con tutta sua gente; e sappiate che sì tosto come
li Romani e li Affricani si viddero, elli si armaro tantosto sanza
indugiare, ed assembraro allora per tale forza, che pareva certamente
che 'l cielo s'inabissasse sotto loro piei; e sappiate che là non aveva
mestiere nullo giuoco nè nulla gabbarìa, chè non v'era sì ardito che
non fusse in gran dottanza e in gran paura di non per dare la vita.
E bene sappiate che cuore codardo non v'aveva mestiere, che vedevano
bene che lo' conveniva passare per mezzo de' ferri, chè la cosa era
così divisata per l'una parte e per l'altra, imperò che diliberato
avieno l'una parte e l'altra o d'essare tutti morti o presi, od egli
averebbero sopra di loro nemici la vittoria; e quando le schiere furono
tutte venute insieme, bene potete certamente credare, che molti vi
cadevano, che poi non si rilevavano, imperò che morivano. Là furo teste
e braccia tagliate, e sì v'ebbe assai cavalieri pro' e arditi feriti,
che non ne scamparo di quello dì; onde fu molto grande dannaggio e
molta grande tribulazione; e sappiate che mai dinanzi a Troia non fu sì
grande battaglia nè sì crudele, come fu quella.



                                 XXIV.


Della battaglia che fu in Puglia collo re Anibal, la quale io vi conto,
vi dico io ch'ella non fu tosto finita, imperò ch'e Romani volevano
prima morire ch'essare venti o cacciati del campo, e le genti dello
re Anibal, che molto erano usati d'avere vittoria sopra loro nemici,
non volevano perdare uno piè di loro terreno per paura di loro nemici;
e per questo grande orgoglio, ch'era nell'una parte e nell'altra,
e per lo grande ardimento che avevano, che mostravano che avessero
maggiore voglia di morire che di vivare, e così durò la battaglia tre
dì interi, e sì vi furo morti vinti miglia uomini o più, che non vi
sarebbero morti, se la battaglia fusse per alcuna delle parti lassata.
Ma sappiate che ciò non poteva essare, anzi incresceva molto a tali
che v'aveva, che la notte veniva sì tosto, che li faceva dipartire e
ritrarre addietro, e tali v'aveva che disideravano la morte, per ciò
che lassi erano e duramente difendevano loro riposo; e sappiate ch'ello
durava poco, come infine alla mattina e all'ora erano montati li buoni
cavalieri a cavallo e armati, e li buoni pedoni apparecchiati, che loro
schiere ordinavano per assembrare alle mortali battaglie.



                                 XXV.


Infra la gente dello re Anibal e li Romani che là erano, era la
battaglia sì intrapresa, che tutti erano alla battaglia per avere
vittoria tale, come ciascuno aspettava d'avere; e sappiate che di
quella battaglia avvenne peggio a' Romani che mai avvenisse in nulla
battaglia, e sappiate bene che gran dolore e gran gravezza averebbe
altri di contiare e di dire sì fatta perdita, come e Romani fecero, se
fussero stati Cristiani, ed avessero adorato il nostro Signore Iddio,
imperò che in questa battaglia che io v'ô detta, vi fu morto lo consolo
Emilio e vinti altri tra consoli e pretori di Roma, e quali menavano e
conducevano Roma, e anco vi furo morti trenta senatori, onde la città
di Roma fu duramente sconsigliata, e fuvi morti bene cento dieci altri
uomini nobili e di grande lignaggio, e tre milia cavalieri e bene
quaranta migliaia di pedoni tutti provati e pieni d'ardimento e di
gran prodezza[28]; e sappiate bene certamente, che innanzi che quelli
che io v'ô detti, morissero o fussero presi, n'uccisero molti di loro
nemici e molto duramente li menovaro, e allora fu la forza dello re
Anibal molto menovata.

Uno consolo che aveva nome Varro, si fuggì con cinquanta cavalieri
verso Morinde, quando vidde che tutta sua cavallaria fu venta e morta,
e di ciò non siate in dottanza, che quello dì non fu l'ultimo della
battaglia, chè sappiate che se lo re Anibal n'avesse auto o uno o
due più, l'onore e la podestà di Roma era al tutto perduta senza
potere ricoverare; e sappiate che se lo re Anibal, ch'era molto buono
cavaliere e pro', fusse andato dritto a Roma quando ebbe la battaglia
venta, l'arebbe presa senza contradizione nissuna; ma elli non fece
niente così, perciò che non se ne accorse, e altri non può essere
d'ogni cosa appensato, ma sappiate che lui fece ine dimoro molto gran
prezzo e molto longo tempo. Poi fece un'altra cosa, che fece tutto
il campo cercare per sua gente cognosciare da' Romani, imperò che li
voleva fare sotterrare e onorare secondo l'usanza del paese; e quando
ebbe ciò fatto, elli fece prendare tutti li corpi de' suoi uomini
ch'erano morti, e sì li fece ardare e mettare in cenare, chè cotale
era il costume del paese a quel tempo. E quando tutto ciò fu fatto, lo
re Anibal fece trarre tutte l'anella del dito a' Romani, e sappiate
che quelli che portavano anello in dito, erano e più alti uomini di
Roma, e quali uomini erano stati morti nella battaglia; e sì li fece
tutti ragunare insieme, e poi li fece misurare con dritta misura, e
mandonne in Cartaggine tre mine e più in testimonio della gran vittoria
ch'avevano auta contra a' Romani, e in tale maniera vi furo portati
per buoni messaggi che Anibal vi mandò; e quando quelli di Cartaggine
viddero queste cose e questo bel presento[29], ne furo sì lieti e sì
gioiosi, che ciò fu maraviglia, imperò che non potevano credare di
potere avere vittoria contra sì forte gente, come erano li Romani.

NOTE:

[28] Eutropio dice che in quel combattimento «periit Æmilius Paulus
consul, consulares et praetorii XX, senatores capti aut occisi XXX,
nobiliores viri CCC, militum XL millia, equitum tria millia et
quingenti.»

[29] Il Boccaccio nelle _Rime_:

  E allora ch'Annibal ebbe 'l presento
  Del capo del fratel.



                                 XXVI.


Ora sappiate ch'e Romani ch'erano a Roma a quel tempo, caddero allora
in sì grande disperazione, che nullo il potrebbe dire, perciò ch'egli
erano così sconfitti e vinti da Anibal, e furo in sì gran confusione,
ch'e senatori ebbero gran volontà di lassare la città di Roma e tutta
la terra di Italia, e d'andare a trovare altre terre e altre contrade
stranie, ove potessero abitare più comodamente, imperò ch'egli erano
in sì gran sospezione, che credevano tutti essere morti e distrutti
in picciolo tempo, e none aspettavano aiuto nè soccorso da persona
del mondo. Queste cose e parlamento disse primamente Cecilio Metello,
uno de' maggiori consoli di Roma, e così tutti li altri l'avarebbero
volentieri fatto e consentito, e sì avarebbero la città tutta vota, se
non fusse uno savio uomo che là era, che aveva nome Cornellio Scipio,
ed era allora conestabile della cavallaria, il quale fu poi chiamato
Scipio Affricano. Costui trasse la spada fuore tutta innuda dinanzi a
coloro ch'erano al conseglio, e disse una parola di molta fierezza e
di gran prodezza, che disse che innanzi che lassasse la città di Roma,
elli tutto solo combattarebbe con tutti suoi nemici e la difendarebbe
da tutti, malgrado dello re Anibal e de' suoi, nè ellino non fussero
sì arditi che lassassero la signoria di Roma, ma fussero tutti
prod'uomini e leali; e sì difendarebbero molto bene a loro podere
loro paese e loro contrada, e non facessero sì che di loro andasse
mala fama in altrui paese, che troppo grande ontia e troppo grande
malvagità sarebbe, ma fussero di buono cuore tanto come vivessero, e
sì guardassero bene loro onore e loro franchigia e loro drittura, chè
ciò dovevano bene fare; e tutti li valenti uomini e quelli che savi
erano, non dovevano niente tanto dottare la morte, che n'avessero
ontia e disonore, imperò che non avevano a morire più ch'una volta, e
meglio lo' veniva di morire a onore che di vivare in viltà. Per queste
parole e per più altre che Scipio disse, e per lo grande tremore di
lui tornaro li Romani in buona speranza, e furo tutti rassicurati come
coloro ch'erano tutti sbigottiti, e poi presero cuore e ardimento per
le parole dì Scipio.



                                XXVII.


Allora e in quello tempo ch'e Romani erano sì intrapresi, li principi
e tutti li maggiori della città furono insieme; infra loro era uno
giovano uomo, che Junio era chiamato, il quale era molto alto uomo
e pro e ardito e di molto grande scienza. Questo Junio ragunò tanti
giovani insieme d'età di diciesette anni e di meno, infra li quali non
era nissuno che passasse diciesette anni per quello ch'altri sapesse,
e di questi giovani ne ragunò tanti quanti ne potè avere, e quando gli
ebbe, tutti ragunati, egli gli fece tutti cavalieri per lo bisogno che
allora era in Roma; e quando ebbe ciò fatto, elli fece contiare tutta
sua gente e cavalleria, e si trovarono quattro legioni tutti armati.
Erano ciascuna legione sei milia sei cento sessantasei cavalieri,
siccome io v'ô detto altra fiata; tanti cavalieri erano allora a Roma
di rimanente, e sì erano tutti giovanotti, che none dovevano essere
cavalieri da inde a buon tempo. Allora pensò Junio un'altra cosa, che
tutti e servi ch'erano grossi e membruti e di bella forma, fussero
franchi e tutti cavalieri, e così fu fatto, come elli divisò.



                                XXVIII.


Allora era Roma in grande stretta, quando lo' conveniva fare cavalieri
de' servi e de' giovani per loro difendare, e molti ve ne furo, a
cui falliro e l'armi per armarsi nel tempio di Jano, che tutto ne
soleva essare pieno; ma allora lo' convenne andare agli altri tempii
per lo bisogno, per gli scudi e per l'arme, che gli alti uomini
v'avevano messe per loro Iddii onorare, in cui avevano fidanza, e col
mancamento dell'arme, che nella città era sì grande, fallivano l'altre
ricchezze e l'avere, del quale solevano tanto avere in comune, che
tutto loro bisogno ne facevano; ma ora erano tutte spese e andate a
niente, onde era molto grande dannaggio, che tutto era speso per le
crudeli battaglie ch'eglino avevano auto; ma allora ragunaro insieme
tutto l'avere che avevano e ricchi uomini e povari, per difendare la
città da' loro nemici. Junio, che di tutta la città aveva la cura e
la signoria per lo senno e per la bontà che in lui era, comandò per
accresciare sua forza e suo aiuto, che tutti li sbanditi della città o
contado, per qualunche cosa si fusse, tornassero sicuramente in Roma,
sapendo che tutti sarebbero fatti cavalieri dal comune di Roma. Quando
queste novelle furono sparte per lo paese, e coloro ch'erano sbanditi
l'udirò dire, ellino si ragunaro insieme e vennero tutti a Roma,
che furono bene otto milia, e furono fatti cavalieri per la città
difendare e guardare.



                                 XXIX.


Intanto tutta Campagnia e tutta Italia si rendè allo re Anibal, imperò
che disperati erano ch'e Romani mai potessero avere onore o signoria, e
rendersegli città e castella e ville, e sottomissersi alla sua signoria
del tutto, e anco in quello tempo li Gallici assembrarono gente per
andare contra a' Romani. Contra a costoro fu mandato Lucio Ponponio,
che consolo era allora, ma male ne li avvenne allora, perciò che lui e
sua gente furono sconfitti e morti, e pochi ne tornarono addietro. Così
avvenia allora a' Romani e cresceva loro male di dì in dì, e sì erano
sbigottiti, che non sapevano che si fare; ed allora erano consoli di
Roma Sempronio Gaio e Quinto Fabio[30]. Per lo conseglio di costoro fu
mandato Marcello contra lo re Anibal, chè tutto lo regno di Puglia e di
Calavria e di Italia e di Campagnia ubbidivano a lui, e facevano sue
comandamenta. Questo Marcello Claudio ch'era consolo, andò tanto lui e
sua gente, ch'elli assalse lo re Anibal e sua oste a uno stretto d'una
riviera, dov'elli doveva passare l'altro dì, ed ine l'assalse Marcello,
e da più parti fece gridare _Roma_ e sonare trombe e corni, d'ond'elli
sbigottì molto lui e sua gente duramente per lo grande romore e per
lo grande grido; e sappiate che là fu gran parte della gente dello re
Anibal sconfitta e distrutta, imperò che di niuna persona dubitavano,
nè di questo incontro non prendevano guardia; e sì tosto come lo
consolo si potè partire, elli si trasse addietro col grande guadagno
ch'elli aveva fatto, e lo re Anibal, che passati avevano l'acqua,
s'attendaro dolenti e corrucciosi di questa sconfitta; e queste
novelle furo tosto sapute a Roma, d'onde gran gioia fu fatta, chè non
potevano credare che nullo potesse danneggiare lo re Anibal; ma Claudio
Marcello lo danneggiò molto duramente e gravò. Ma infra li mali, grandi
avventure e grandi pericoli, ove li Romani erano, fu Claudio Marcello
lo primo che lo' donasse speranza di potere lo re Anibal sormontare e
vinciare.

NOTE:

[30] Sembra che fossero allora (anno 538 circa di Roma) consoli Quinto
Fabio Massimo e Tito Sempronio Gracco II. L'amanuense nel trascrivere i
nomi incespica quasi sempre.



                                 XXX.


Allora mandò lo re Filippo di Macedonia suoi messaggi allo re Anibal,
e sì li mandò a dire ch'elli mandarebbe aiuto di buoni cavalieri e
d'altra gente incontro a' Romani per tale condizione, che quando elli
avesse Roma distrutta, che lui l'aitarebbe contra i Greci, che molto
il guerreggiavano. Li messaggi di Macedonia cavalcaro tanto per loro
giornate, che per avventura incontraro li Romani per la via, e allora
furono presi e menati a Roma, e sì li menaro dinanzi a' senatori ed a'
consoli per sapere e domandare la verità del fatto di ciò che cercavano
collo re Anibal, e che novelle e' portavano, e sì tosto come li
messaggi furono dinanzi a' senatori, sì lo' convenne dire, volessero o
no, tutta la certezza del fatto; e sì tosto come li senatori e consoli
ne seppero la verità, ellino mandarono in Macedonia Valerio Nimio[31]
consolo per combattere co' Macedoni, sì che fussero ingombrati in tale
maniera, che allo re Anibal non potessero dare aiuto nè soccorso.

NOTE:

[31] Valerio Levino (an. 541 di Roma.)



                                 XXXI.


In quello tempo li senatori e popolo di Roma elessero li due Scipioni,
che andassero in Ispagna contra Astrubal fratello dello re Anibal, che
là era. Questi due Scipioni andaro tanto, che condussero loro genti
in Ispagna contro allo re Astrubal, che là era rimaso, per acquistare
lo reame. Là furo molto grandi battaglie infra li Romani e li Poonii,
de' quali Astrubal era signore; e sappiate ch'e Romani fecero molto
bene in quella battaglia, ch'ellino sconfissero lo re Astrubal e tutta
sua gente, de' quali fecero molto grande dannaggio e molta grande
perdizione, che sì come Eutropio conta e Orosio lo testimonia, ch'egli
uccisero e presero bene vinticinque milia d'uomini; e sì lo danneggiaro
ancora in altra maniera, ch'io vi dirò, ch'e Cartaginesi avevano
soldati li Tiberieni, una gente molto ardita e molto cavallerosa[32].
Costoro soldaro li Romani e tolserli a' loro nemici; ma quelli di
Cartagine mandarono ad Astrubal dodici milia di pedoni e quattro milia
cavalieri, e sì li mandaro venti olifanti per accresciare sua forza,
e ancora mandaro molta di loro gente nell'isola di Sardegna. Contra
costoro mandaro li Romani Manlio Torquato consolo per combattare contra
a loro, imperò ch'e Romani avevano lassati per lo re Anibal, a cui
s'erano dati.

NOTE:

[32] _Cavalleresca_; è voce nuova ai dizionarii; forse dinota anche
dovizia di cavalleria.



                                XXXII.


Così come voi avete udito, erano li Romani caricati in quattro parti
di gravi e crudeli battaglie: l'una contra lo re Anibal in Italia,
che troppo l'era presso, l'altra in Macedonia contra lo re Filippo,
l'altra in Ispagna contra Astrubal, la quarta in nella terra di
Sardegna; e bene sappiate che tutte queste genti, che in queste
quattro parti erano, se fossero tutte insieme contra lo re Anibal, si
credarebbero avere poca gente per loro soccorrare ed aitare, e ciò era
grande maraviglia come potevano tanto durare; ma sappiate che troppo
andò la cosa peggio che non credevano, che Manlio Torquato, che fu
mandato in Sardegna, sconfisse li Cartagginesi, ed uccise di loro genti
dodici migliaia d'uomini, e sì ne prese bene due milia, e mandolli a
Roma colla preda e collo acquisto ch'egli aveva fatto, e così vinse lo
consolo Junio li Macedoni, ch'erano molto forte gente e molto ardita,
e sì conquistò molta preda e molto avere; e Claudio Marcello, che
molto era nobile cavaliere e pro, sì prese a molta gran pena la città
di Serragozza e la terra di Sicilia, che molto era diviziosa terra e
piena di tutti beni, la quale aveva per altre volte assediata, ed alla
prima fiata che l'assediò, nolla potè prendare in nulla maniera, nè
per ingegno che sapesse fare o pensare, sì vigorosamente la difendeva
Archimede, ch'era cittadino della città, che per suo senno e per sua
forza distruggea tutti l'ingegni, ch'e Romani facevano per la città
prendare. Ma altri non die sua matera tralassare se non il meno che
può; perciò vi dirò dello re Anibal, per seguitare la storia che io v'ô
cominciata, e sappiate che mai in vita vostra non udirete parlare di
più vera storia, nè ove abbia meno falsità e bugie; e per meglio dire
la verità, ve la contio senza nulla rima, onde è più da credare e da
pregiare.



                                XXXIII.


Il decimo anno che lo re Anibal era venuto in Italia, allora erano
consoli di Roma Gaio Fulvio e Pubblio Supplizio[33], grandi signori
e molto valenti, e bene sappiate ch'e' dottavano poco lo re Anibal
e tutto suo potere; ed in quello tempo mosse lo re Anibal tutta sua
oste di Campagnia, ov'elli avea molto soggiornato, e venne presso a
Roma ad una lega e mezzo, e là s'attendò con tutta sua gente, che
molto era grande e bella, e alloggioro in sulla riviera del Tevare,
e allora corsero li scorridori infino alla città, ove le genti erano
molto spaventate, che alla fine credevano essere tutti morti o presi.
Li senatori e li alti baroni di Roma e tutto l'altro popolo, che là
entro erano, stavano in molta gran sospezione della città guardare e
difendare, e di procacciare dardi e saette e altre armi difendevoli;
e spezialmente l'alte donne di Roma erano duramente spaventate e
sbigottite, che per la gran paura ch'aveano, parea che fussero fuore
di loro sentimento; ed appresso sì corrivano suso per le mura e per
le bertesche di Roma, ch'erano cariche di pietre e di lancie e di
balestre, d'onde primamente volevano difendare la città, s'ella fusse
assalita.

NOTE:

[33] Caio Fulvio Centumalo e Publio Galba Massimo.



                                XXXIV.


Mentre ch'e Romani erano sì duramente sbigottiti, lo re Anibal fece
tutta sua gente armare e sua cavallaria, e sì cavalcò primamente nella
fronte dinanzi Anibal con molta gran parte di sua eletta cavallaria, e
non finò per infine tanto che venne presso alla città orgogliosamente
e fieramente, imperò ch'elli credette avere senza indugio la città,
e non credette niente che si potessero longamente tenere contra a
lui; ma quando giunse là, e vidde che le porti non gli erano aperte,
e vidde che coloro delle mura li gittavano pietre e dardi e saette,
sappiate che n'ebbe grande ira, e perciò fece sua gente ordinare e
schierare a battaglia, ed appresso fece fare ingegni per le mura
assalire; ma quando li senatori e li alti uomini viddero ciò, ellino
parlarono insieme, e dissero che meglio lo' venia d'uscire della città
e combattare collo re Anibal, che stare dentro alla difesa della città,
e meglio lo' venia di morire ad onore in difensione di loro paese e di
loro contrada, che essare presi per forza dentro alle mura e menati in
servaggio.



                                 XXXV.


Sì tosto come ciò fu divisato e detto, ellino assembrarono allora tutta
loro gente e loro forza e loro potere, e tutti coloro che arme potevano
portare, furo tutti ragunati in Campidoglio, ed allora furo pregati
che arditamente e vigorosamente combattessero, siccome per loro
difendare e loro donne e loro figliuogli, ch'e loro nemici desideravano
di menare in loro contrada per fare loro volontà. A queste parole furo
le schiere ordinate, e le nobili donne e le pulzelle saliro su per
le mura della città, tutte spogliate di loro migliori robbe, per la
città difendare, se loro gente fusse sconfitta. Intanto furo li Romani
usciti della città, e nullo pensiero avevano, se non o essare tutti
morti o tutti presi innanzi che tornare per forza dentro alla città.
Quando lo re Anibal vidde che li Romani erano usciti tutti fuore di
Roma contra di lui nella campagna, e tutti ordinare e apparecchiare
per combattare, elli si pensò bene ch'ellino non volevano tornare
addietro, che loro si vendicarebbero del duolo e del dannaggio ch'elli
l'aveva fatto; e perciò comandò che sue genti fussero bene ordinate e
schierate per combattare, e pensò che se potesse tanto fare, che si
mettesse tra loro e la città, giammai uno solo non avarebbe potere di
ritornarvi nella città; e tantosto furo d'una parte e dell'altra le
schiere ordinate assai tostamente, ma sì tosto come quelli da cavallo
si volevano muovare per combattare, e quelli da piei s'erano già tanto
appressimati, che già gli archi tiravano per trarre l'uno all'altro;
e intanto venne una sì gran piova ed uno sì gran vento mescolato con
gragniuola, e dè lo' adosso per sì fatto modo, che mai sì grande piova
e grandine non avevano veduta, e ciò fu una delle maggiori maraviglie,
che altri udisse mai parlare.



                                XXXVI.


Quella piova fu sì grande, che appena potevano vedere l'uno l'altro, e
non si potevano cognosciare l'uno l'altro, e non si potevano tenere
ritti, nè tenere suo scudo nè sue armi, sì duramente l'oppressava la
piova, che li mollava[34] troppo forte. Per questa avventura tutti
li cavalieri ch'erano armati, e tutti e pedoni e cavalli poco si
falliva che non venivano meno del tutto, e sì non sapevano partire
loro schiere, che assembrare dovevano; e medesimamente quelli della
città appena tornarono dentro, e quelli del campo tornarono a' loro
padiglioni, e così rimase la battaglia il dì per la piova che fu
così smisurata; ma la mattina sì tosto come apparve il giorno, e 'l
sole rendea suoi raggi sopra la terra, s'apparecchiaro nell'oste per
combattare, e dall'altra parte quelli della città s'apparecchiavano di
loro armi, e sì le fecero rischiarare, che erano tutte scure per lo
forte tempo che avevano auto, imperò che le volevano belle e chiare
mostrare a' loro nemici, e dall'altra parte volevano tosto andare alla
mortal battaglia; e sì tosto come furo nella campagna tutti assembrati
e apparecchiati per ferire l'uno l'altro, ed eccoti siccome lo dì
dinanzi una sì gran tempesta e più forte assai che quella dinanzi, e
con sì grande tempesta lo' venne adosso, sicchè era una maraviglia,
sicchè lo' tolse l'ardimento e 'l coraggio, che l'uno avea di tollare
la vita a l'altro. E così come avevano fatto l'altro dì, sì si
tornarono addietro a' loro alberghi; e per così maravigliose venture
sì si trasse lo re Anibal addietro nella campagna, che li fu veramente
avviso alle disavventure che aveva aute, che lui li sottomettarebbe e
signoreggiarebbe, e farebbe di loro e di tutta la contrada tutta sua
volontà, fuore solamente della città di Roma; e di ciò era bene sicuro,
per ciò che sapeva bene che ella era di troppo grande forza.

NOTE:

[34] _Macerava_ o _allentava_.



                                XXXVII.


Ora sguardate come ciò può essare, che Roma non fusse presa a quella
fiata, e ciò non fu per la forza ch'e Romani avevano, anco fu per la
volontà del nostro Signore Jesù Cristo, da cui ebbero buono aiuto e
buono soccorso; e sappiate che per la loro forza non fu niente, imperò
che s'eglino avessero auta altrettanta gente, quanta eglino avevano,
non avarebbero potuto contra lo re Anibal nè forza nè vertù, tanto avea
lo re Anibal gran gente e forte, e insieme con tutto ciò erano pieni
di sì grande ardimento e di sì grande prodezza, ed erano sì duri per
male sofferire, che ciò era una grande maraviglia. Or sappiate dunque,
e di ciò non siate in dottanza, che ciò fu per volontà del nostro
Signore Iddio, che Roma fu a quella fiata difesa, imperò che non volse
per sua pietà e misericordia che allora la città fusse distrutta del
tutto, la quale avea eletta ad essare donna e capo del mondo e di tutta
Cristianità, avvenga ch'allora fusse maestra degl'idoli e della legge
pagana; e ciò possono bene sapere quegli, che la grande potenzia di Dio
ânno cognosciuta, e perciò fu Roma difesa, ch'ella non fu presa dallo
re Anibal, ch'aveva la forza grande, e Dio la difese in tale maniera,
come voi avete udito, che lo' mandò le gran piove da cielo.



                               XXXVIII.


Di ciò vi lassarò ora stare, che ciascuno che â senno e discrezione,
può bene sapere e cognoscere che assai sono più grandi l'opere del
nostro Signore Dio e suoi provedimenti, che non si possono dire nè
pensare. Io v'ô detto come li Romani sconfissero Asdrubali in Ispagna;
ora dirò del re Anibal, che per tutta Italia, sì grande com'ella è,
tenea sua signoria, chè chi â il principio d'una cosa inteso e non la
fine, non sa che se n'è avvenuto, e avviene che ne perdono loro buono
intendimento, ch'ânno auto al principio; e perciò è buona cosa di
seguire in ordine ciò che altri comincia, e perciò mi conviene tornare
a ciò quando luogo e tempo sarà, e seguire la materia sì che altri la
possa bene intendare.

Astrubal, il quale era sconfitto in Ispagna, siccome voi avete udito
addietro, assembrò sua gente con quella ch'e Cartagginesi li avevano
mandata, e sì cavalcò e tornò verso e Romani, ov'era Cornello Scipio e
l'altro Scipio, amenduni consoli di Roma, e quali sconfitto l'avevano
l'altra fiata, ed erano mastri e capitani; e sì tosto come seppero la
venuta di Astrubal, eglino vennero incontra a lui con molta gran gente,
che con loro erano assembrati; ma innanzi che l'osti d'una parte e
d'altra s'appressimassero, vennero li due consoli, ch'io v'ô nomati,
a loro schiere per assembrare primamente alla gente dello re Astrubal,
che tutti erano armati ed apparecchiati longo una foresta presso ad una
montagna. Li Romani, che poco dottavano li Cartagginesi, avvenga che
non credessero che fussero tanti come egli erano, che già entravano
nella valle tutti ordinati per combattare con loro nemici; e sappiate
che là fu molto fiera e dura battaglia; li Romani che orgogliosi erano,
lassaro corrare loro cavalli contra agli Affricani, e quali avevano più
gente di loro.



                                XXXIX.


Che v'andarò io contando o dicendo li colpi della battaglia? Io non
vi dirò chi ferì l'uno l'altro, chè assai tosto vi potrei mentire di
cotali cose, se io me ne tramettesse; ma bene sappiate certamente, che
dopo molta grande punta[35] li Romani furono sì villanamente sconfitti,
che perdero li due consoli, che molto erano arditi e valenti cavalieri,
d'onde Roma fu molto duramente abbassata, e così furo li due Scipioni
danneggiati, che furo morti per Astrubal in Ispagna; ma non furo li
Romani tutti morti, anzi ne scamparo assai il meglio che potero, e poi
si assembraro il meglio che potero, siccome voi udirete.

NOTE:

[35] _Pugna_, _battaglia_: nel _Morgante_, 22, 244:

  La scala combattè di mano in mano,
  E come Orazio gran punta sostenne.



                                  XL.


Allora s'era lo re Anibal tratto verso la marina per soggiornare e per
mettare tutte le terre a sua signoria, e il mare propiamente altresì,
imperò ch'elli voleva avere la signoria della terra e del mare. Li
Romani che tanto fortemente erano spaventati, sì che non sapevano
che si fare, mandarono verso Capova gran gente e gran cavallaria per
prendare la città se potessero, nella quale lo re Anibal aveva lassate
sue guardie per li Romani prendare, quando uscissero fuore di Roma, e
là fu mandato Quinto Fulvio con gran gente, che assediaro la città; e
sappiate che molte battaglie vi dero con lancie e quadrelli e altri
ingegni che fecero, e fecero tanto infine che la presero per forza; e
sì tosto com'ella fu presa, fece Quinto Fulvio assembrare gran gente
per cercare la città, e sì fece ragunare l'avere e le ricchezze della
città e le grandi prede ch'eglino avevano conquistate, e sì fece
ogni cosa portare a Roma, che v'è assai presso; e poi fece prendare
li uomini della città, per cui la città era stata governata e tenuta
contra lui, e sì li fece tutti uccidare e angosciosamente morire, e sì
gli avevano mandato a dire li senatori di Roma per loro lettere, che
non facesse uccidare li uomini di Capova; ma per cosa ch'e senatori li
mandassero a dire, non lassò che non ne facesse giustizia, e disse che
male a loro uopo s'erano dati ad Anibal, e sì tosto lassato l'onore
e la signoria di Roma. Quando ciò seppero li altri baroni d'intorno
delle città, che le terre di Campagnia tenevano, ellino ebbero tale
paura dall'una parte de' Romani e dall'altra parte dello re Anibal di
Cartaggine, di cui udiro dire che tornava in Italia, che non sapevano
che si fare; per la quale cosa si raunaro insieme e presero consiglio,
ed insieme s'accordaro tutti gli alti uomini della contrada, e presero
per partito che meglio lo' metteva[36] di morire, che vedere lo grande
dolore che l'oppressava a loro gente e a loro cavallaria.

NOTE:

[36] _Meglio conveniva_; nella _Retorica_ di Aristotile: «Sopra ogni
altra cosa mette lor meglio di fermarsi, che saper quella di cui si
parla.»



                                 XLI.


Per questa paura bebbero veleno mortale, per la quale cosa tutti
perdero la vita, e così fu Campagnia e la città di Capova racquistata
per la forza di Roma, e tratta della signoria dello re Anibal, ove
ell'era sottomessa. Allora fu a' Romani la ventura alquanto tornata, e
a quello Scipio Cornellio, che poi fu chiamato Scipio Affricano, che
molto ebbe grande dolore di suo padre e di suo zio, che Astrubal lo
fratello d'Anibal aveva morti in Ispagna. Questo Scipio non aveva più
di vintiquattro anni, giovano era di tempo e bello e grande, e sappiate
ch'egli era molto savio e pro e ardito, e più valente di lui non era in
tutta Roma, siccome si mostrò ne' suoi fatti, ed era di grande nobiltà
di sangue. De' due Scipioni, ch'erano stati morti, l'uno era stato suo
padre, e l'altro suo zio. Per questo grande dolore vendicare sì si
proferse a' senatori ed a' consoli di Roma d'andare in Ispagna contra
Astrubal, che gran parte della terra avea conquistata, e di ciò furo
molto lieti li senatori e consoli; ma quando ebbero ragunata la gente,
ellino avevano sì poco avere, che non sapevano come nè in che maniera
e' potessero tenere sì gran gente a soldo in istranie terre. Adunque
era Roma molto impovarita, che solea essare donna di gran ricchezze e
di gran signoria. Per quella povertà che allora avevano molto grande,
sì raunò Claudio Marcello e Valerio Levino[37], che allora erano
consoli e molto ricchi, d'oro e d'argento e di drappi di seta, e sì
arrecaro dinanzi a' senatori tutto loro tesoro e loro ricchezze che
avevano conquistate, e sappiate che non ritennero per loro nè per
loro figliuoli, se non uno anello d'oro ed uno fermaglio, con che
acconciavano loro capelli, e a loro figliuole e a loro donne a ciascuna
una libra d'oro ed una d'argento, che tanto n'avevano di prima, che
appena se ne sapeva il numaro; e per l'assemplo di questi ch'io v'ô
detti, fecero il simigliante tutti li alti uomini di Roma, e missero
tutto loro tesoro in comune per guardare e difendare la città, e per
queste cose spezialmente inforzò molto la città di Roma.

NOTE:

[37] M. Valerio Levino II e M. Claudio Marcello IV, verso l'anno di
Roma 544.



                                 XLII.


Quando ciò fu fatto, Scipio con sua grande oste andò tanto per sue
giornate, poi che si partì di Roma, che passò i monti di Pineos, e
tanto fece che venne in Ispagna; e quando fu entrato nella contrada,
egli domandò dove fossero ragunate le più grandi ricchezze degli
Affricani, e quale era la terra, ov'ellino avessero mandata maggiore
forza di loro gente, e fu lo' detto di Cartaggine novella, la quale
avevano fatta in Ispagna. Di questa Cartaggine novella, siccome
Orosio contia, e dice la maggiore parte della gente, che questa è
quella città, che ora è chiamata Marot, e tali dicono ch'è chiamata
Tolletta[38], che tanto è oggi nominata e pregiata, ch'è posta su
lo rivaggio, ove altri truova tale fiata granella d'oro mescolate
coll'arena, chi bene la vuole cercare, ma non vi so bene dire quale fu
di queste due città l'una, che fu quella Cartagine ch'io v'ô parlato;
ma tanto sappiate certamente di vero, che questa non fu la gran
Cartaggine, ch'è in Libia nelle parti d'Affrica, d'onde lo re Astrubal
aveva sì grande gente ragunata in Ispagna per navilio; Cartaggine,
ond'io vi parlo, fu la città di Marte, siccome a me pare, e sappiate
che Astrubal era nell'ultime parti di Spagna, là ove avea fatte molte
battaglie a prendare le città e le castella, e conquistare le stranie
nazioni. Ma sì tosto come seppe e intese che Scipio avea passati e
monti di Pineos, d'onde io v'ô dinanzi parlato, e ch'egli era già
entrato in Ispagna, elli si partì il più tosto che potè per venire
contra a lui, ma intanto assediò Scipio Cartaggine novella, là ove era
tutto l'oro e tutto l'argento, che gli Affricani avevano conquistato.

NOTE:

[38] Parlasi qui di Cartagena costrutta da Asdrubale, secondo Polibio
e Pomponio Mela. Dopo la distruzione fattane dai Vandali, la sua
grandezza e dignità passò a Toledo, che contava Cartagena tra le molte
sue città suffraganee. Sotto i Romani la sua giurisdizione estendevasi
su sessantacinque città, e della sua ricchezza fa ampia testimonianza
Tito Livio.



                                XLIII.


All'assediare della città di Cartaggine fu molto gran romore di gente,
ma tutta la gran forza della cavallaria della contrada erano andati
con Astrubal, sicchè quelli della città non potevano avere aiuto se
non di loro medesimi e di coloro che lassati v'erano. Dentro v'era
Margon fratello di Astrubal, che v'era venuto novellamente, il quale
molto si penò e travagliò con grande gente ch'egli aveva, per tenere
la città, ma forza nè potere nollo potea cresciare, siccome io v'ô
detto. Ma Scipio che dinanzi alla città era attendato, a costui crescea
molto la sua forza, imperò che tutti li Romani, ch'erano scampati della
sconfitta di suo padre e di suo zio, erano assembrati e tornati a lui,
per la quale cosa sua forza era molto cresciuta e crescea di giorno in
giorno. Onde avvenne molte maraviglie, siccome voi udirete appresso
tutte per ordine nella storia, che molto è buona e dilettevole a udire;
e chi lo cuore e lo 'ntendimento vi pone, vi può imprendare molte cose
che possono essare utili, che non sono nelli altri libri nè in altre
storie.



                                 XLIV.


Così e in tale maniera assembrò Scipio molta gente, che tanto fece e
procacciò per suo gran senno e per sua gran prodezza, che prese la
città, che allora era piena di molto avere e bene popolata di gente.
Questo acquisto che Scipio fece allora, rimbaldì tutta Roma, che mandò
in prigione Margon lo fratello dello re Anibal e molti altri uomini
di nome d'Affrica; là fu molta gran letizia fatta, e per tale maniera
diliberò Scipio tutti li staggi ch'erano in prigione delle città di
Spagna, che Astrubal v'aveva messi per sicurtà che gli aiutassero, e
che per persona non lassarebbero, nè per doni, nè per promesse, nè
per neuna altra cosa che avvenisse, e d'altra parte che non terrebbero
co' Romani, nè loro comandamenta non farebbero, s'egli avvenisse cosa,
ch'eglino nella contrada tornassero. Ancora perciò che Scipio rendè
agli alti baroni di Spagna loro figliuoli e loro frategli e loro
nipoti, ch'erano in prigione, questi tornaro tutti a lui ed a sua
gente, onde accrebbe molto sua forza e sua compagnia.



                                 XLV.


Intanto gionse Astrubal con sua gran gente contra Scipio lo consolo,
che la battaglia non rifiutò niente, anzi ordinò sua gente e sue
schiere come valente cavaliere e cortese e savio, e sì gli amaestrò
molto di ben fare e di vendicare l'onta e 'l danneggio che gli
Affricani gli avevano fatto, e allora venne tutte le schiere senza
dimoranza. Lo re Astrubal, che attendato era, non avea dormito tutta la
notte per lo gran disio della battaglia, e la mattina per tempo fece
sue schiere armare, chè non credeva che li Romani si potessero tenere
contra lui in nulla maniera, e similemente li Romani desideravano di
combattare con lui, e non credevano già vedere l'ora che le schiere
fussero ordinate; e per questa volontà che l'uni e l'altri avevano sì
grande di combattare, furo tosto assembrati. Poi che s'accostaro, là
fu molto grande battaglia e pericolosa e crudele senza misericordia e
senza pietà; là fecero molto bene li arditi e li valenti cavalieri,
che per paura di morte none sbigottiro; e bene sappiate che neuno che
troppo dubiti, non può essere nè pro nè ardito, e coloro che vogliono
avere il pregio e l'ardimento di loro grande forza acquistare fama, sì
si metteno in avventura di morte. Là lo' fece molto bene lo consolo
Scipio, chè per sua grande prodezza furo li Affricani sconfitti lo dì,
e Astrubal loro signore cacciato dello stormo, e sua gente cacciata
per forza infino alla notte. Là fu molto grande acquisto fatto, chè
quando li Romani tornaro di loro incalcio, ellino trovarono le tende e
padiglioni degli Affricani sì guarniti d'oro e d'argento e di drappi
di seta e d'avere e di prigioni e di preda, sì che appena ne potrebbe
altri dire il numaro; e così crebbe in molto grande avere Scipio e
in grande nome pel primo anno per la terra di Spagna e per tutte le
contrade del paese d'intorno.



                                 XLVI.


Eutropio conta che intanto Fabio Massimo uscì di Roma con grande
gente appiè e a cavallo per volontà de' senatori, e sì andò tanto che
gionse alla città di Taranto, ove era tutto il fornimento di Anibal, e
le grandi ricchezze ch'egli avevano conquistate per molte contrade.
Quando Abran, uno duca dello re Anibal, che molto era valente e di
grande potenzia, che con lui avea molta gran gente menata e ragunata
dentro alla città di Taranto, sì tosto come Fabio Massimo venne
dinanzi alla città, sì uscì lo duca contra a lui a battaglia ordinata,
e senza fare menzione o parola nulla di fare o pace o concordia, ma
tostamente s'incontrarono con loro, però che si odiavano mortalmente,
e sì si feriro molto duramente li Romani e li Affricani, imperò che
molto desideravano di sconfiggiare l'uno l'altro e cacciarsi di campo.
Coloro che là assembraro primamente, non curavano di belle giostre per
mostrare loro cavallare, anzi assembraro sì tosto come si viddero,
e cominciaro a trarre e a lanciare l'uno l'altro, e quelli appiei
e quelli a cavallo tutti insieme, e sì si ferivano di lancie e di
quadrella e di spade e d'accette taglienti, che allora e in quello
tempo erano molto in usanza di portare in battaglia, colle quali si
fendevano e tagliavano teste e costati e petti in sì grande quantità,
che tutta la terra n'era coperta. In quella battaglia uccise Fabio
Massimo Abran, per la cui morte quelli della città di Taranto e li
Affricani medesimi che con lui erano, furono sconfitti. Là fu molta
grande distruzione di cavalieri e di sergenti allo 'ncalciare verso
la città, imperò che li Romani li seguivano molto vigorosamente,
sicchè insieme con loro entraro dentro alla città, e sì furo sì
duramente sbigottiti e spaventati quelli che sopra le mura della
città erano, e le donne e le damigelle per lo grande dolore e per
la grande distruzione, ch'elle vedevano fare di loro gente, che ciò
era maraviglia; e già neuno faceva difesa per li Romani ritenere o
per difendare loro vita. Così e in tale maniera fu presa la città di
Taranto.

Allora lo consolo Fabio Massimo fece ragunare l'avere e le grandi prede
che là furono trovate e guadagnate, e sì le partì tutte e donò a sua
gente e a sua cavallaria, e poi fece vendare bene vinti milia prigioni
ch'elli aveva presi, e sì ne fece portare l'avere a Roma e mettare
in comune tesoro della città. Allora tornaro alla forza e all'aiuto
de' Romani molta gente che s'era partita da loro per paura di Anibal,
imperò che Fabio Massimo lo' diceva e sicurava, che mai più lo re
Anibal non arebbe sopra loro signoria.



                                XLVII.


Allora tornò lo consolo Valerio, il quale aveva fatto pace collo re
Filippo di Macedonia e con quello di Grecia e collo re Quatenio d'Asia,
ch'era allora di gran possanza. Quando tutte queste cose furono fatte,
lo consolo Valerio tornò a Roma con molta gente in navilio, e arrivò
e prese porto in Sicilia; e sì tosto come fu nella contrada, li venne
novelle che uno duca d'Affrica, il quale era chiamato Anno, era nella
città d'Agrigento, onde Valerio vi mandò uno consolo chiamato Junio,
e venne dinanzi alla città con suoi Romani, e sì la prese per forza,
e lo duca Anno altresì con molta della sua gente, e quali menò a Roma
in servaggio. Allora cercò Junio la contrada, e renderseli quaranta
castella, e sedici ne prese per forza; d'onde Junio fece tantosto le
mura abbattare e confondare, e mandò li prigioni e tutto l'avere a
Roma, ove grande gioia ne fu fatta.



                                XLVIII.


Allora tornò lo re Anibal e combattè con Gaio, che contra a lui aveva
molta gran gente della signoria di Roma. Questa battaglia fece a'
Romani grande danneggio, chè Gaio Fulvio vi fu morto, e con lui dieci
principi di Roma, che le schiere guidavano, e diecisette cavalieri
che di grande nome erano e di grande cavallaria, e per questo grande
dolore vendicare venne lo consolo Marcello contra lo re Anibal con
tutta la forza che potè avere, e sì combattè con lui tre dì, ciascuno
dì infino alla notte; ma il quarto dì innanzi che venisse il vesparo,
furo sì menati li Romani e 'l consolo Marcello, che per forza furo
cacciati del campo, e troppo avarebbe perduto, se la notte non fosse sì
tosto venuta. Ma come lo re Anibal e sue genti furono tornati a loro
tende, sì rassembrò Marcello tutta sua gente, e sì lo' disse e pregò
che non fussero sbigottiti per cosa che avvenuta lo' fusse, imperò che
Anibal aveva perduta due tanta più gente di loro; e bene fussero certi
che s'ellino volessero assalirlo vigorosamente la mattina, ellino si
potrebbero molto bene vendicare del dannaggio e dell'ontia, ch'egli
avevano ricevuta da' loro nemici.



                                 XLIX.


E per queste parole rimenò Marcello sue genti alla battaglia, che sì
bene lo' fecero quel dì, ch'ellino uccisero sette milia uomini della
gente dello re Anibal, e lui e sua gente fecero fuggire per forza a
loro tende, e così rimase quella battaglia, che più non ne fu fatto
a quella fiata, chè tanta gente avevano perduta e Romani, che non
potevano più sofferire nè più assalire lo re Anibal, se non avessero
gente che lo' fusse in aiuto. Ma quando ciò venne al capo dell'anno,
Marcello consolo ebbe gran gente assembrata, imperò che molto
desiderava di cacciare lo re Anibal fuore di Italia, e perciò rassembrò
colui il più tosto che potè a battaglia; ma malamente ne gli avvenne,
chè lui vi fu morto, e sua gente tutta presa e morta sì al tutto, che
uno solo non ne scampò, che tutti non fussero morti o presi.



                                  L.


In quello tempo medesimo era Scipio consolo nella terra di Spagna che
aveva sconfitto e vento lo re Astrubal, siccome io v'ô detto, e già
era il terzo anno di sua venuta in Ispagna, nella quale avea ottanta
città conquistate e messe sotto la signoria di Roma per gran battaglie,
le quali lassò tutte franche senza rendare tributo, e così tornò
alla città di Roma. Ma innanzi che se ne partisse, se n'era partito
lo re Astrubal, siccome già potrete udire e contiare innanzi. Lo re
Anibal, ch'era in Sicilia, e avea morto lo consolo Marcello, udì dire
di verità, che lo consolo Scipio tornava di Spagna, e ch'elli avea
sconfitto Astrubal suo fratello, sicchè non l'osava di aspettare in
campo; e perciò mandò a dire a Astrubal suo fratello, che lassasse
la terra di Spagna, e fusse certo che contra a Scipio nulla potrebbe
tenere, e che se ne venisse il più tosto che potesse in Italia a
lui, e che quando fussero insieme, distruggiarebbero tutta Roma, chè
bene n'avarebbero la potenzia, e sì mettarebbero tutta la terra nel
podere e nella signoria di Cartaggine. Quando lo re Astrubal, ch'era
in Ispagna, udì lo comandamento di suo fratello Anibal, elli si misse
alla via senza indugio, e menò con lui molto grande sforzo di Gallici
e di Spagnuoli e di quelli di Affrica e di grandi ricchezze d'oro e
d'argento e d'altre ricchezze; e avea con lui molti olifanti e altre
bestie da portare carriaggio, le quali bestie li erano state mandate
d'Affrica.



                                  LI.


In questo modo, come voi udite, si partì lo re Astrubal di Spagna, e
passò poggi, valli e fiumi e riviere e montagne nella terra di Gaule,
tanto che venne a' monti di Mongeu, e quali passò a molta gran pena.
Allora si partiro di Roma Claudio e Marzio Luccio, amenduni consoli,
con molta grande gente per venire contra Astrubal, del quale la novella
era già venuta a Roma, e questi due consoli vennero contra a lui,
siccome io vi dico, con tutta loro gente.

Intanto che le genti di Astrubal discendevano li monti di Mongeu, e li
consoli gionsero colle loro genti dall'altro lato segretamente, che
lo re Astrubal non sapeva niente di loro venuta; e siccome la gente
dello re Astrubal discendea delle montagne pieni di freddo, così erano
assaliti da' Romani, de' quali innanzi che discendessero tutti, ne
fecero grande uccisione, imperò che gli trovarono venuti mezzi meno
per lo grande freddo. Ma come Astrubal con tutta sua gente fu disceso,
allora s'incominciò una crudele battaglia e pericolosa, e durò uno
grande pezzo, che non si sarebbe potuto cognosciare chi n'avesse auto
il meglio, e la gran quantità degli olifanti che lo re Astrubal aveva
menati, e quali facevano grande danno a' Romani, e tenevano si strette,
le genti sue, che li Romani non li potevano offendare. Ma li Romani
ordinaro due grandi schiere di cavalieri, a' quali posero a ogniuno in
groppa uno sergente, e tutti erano coverti di ferro con buone accette
in mano; e poi si missero in mezzo degli olifanti, e quelli ch'erano
in groppa, scesero appiei in terra, e a niuna altra cosa attendevano,
se non a uccidare gli olifanti, e non potevano essare offesi, perchè
quelli cavalieri che gli avevano portati, tenevano sì stretti quelli
delle castella, che avevano briga di loro difendare, sicchè ne
facevano grande uccidare. Quel modo d'uccidare gli olifanti aveva
primamente trovato lo re Astrubal, e non perciò si stavano li altri,
imperò che in più di mille luogora si combatteva, ed era la battaglia
pessima e pericolosa.



                                 LII.


Mentre che la battaglia era sì pessima e pericolosa, andò tanto la
cosa d'una parte e d'altra, che lo re Astrubal vi fa morto sopra uno
fiume, che a nome Menarco[39], e fu tutta sua gente venta e sconfitta;
là fu fatta grande distruzione di gente, però che della gente dello
re Astrubal ne furo morti cinquantotto milia e presine sei milia, che
tutti furo menati in servaggio a Roma, e si ricoverarono quattro milia
pregioni, che aveva Astrubal, tutti Romani, de' quali li due consoli
che avevano la battaglia venta, ebbero grande gioia e grande letizia,
e de' Romani furo morti in questa battaglia ben otto milia, de' quagli
poco curavano, perchè avevano vinta la battaglia. In quella battaglia
conquistoro li Romani molto onore e molte grandi ricchezze, che lo re
Astrubal e sua gente avevano recate, come oro e argento e ricchi drappi
di seta, tanto che nullo ne potrebbe dire la quantità; e poi appresso
fecero prendare la testa dello re Astrubal e fecerla portare allo re
Anibal suo fratello, là ove egli era attendato con tutta sua gente.

NOTE:

[39] Asdrubale morì presso il Metauro nell'anno 207 avanti Cristo sotto
i consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore.



                                 LIII.


Quando lo re Anibal vidde la testa di suo fratello Astrubal, e seppe
il dannaggio e la grande sconfitta di sue genti, elli si trasse versa
Sicilia per temenzia d'alcuna sciagura e per lo dolore di suo fratello
e di sua gente, della quale lo re Anibal facea grande dimostranza;
poi passò uno anno, che tra e Romani e lo re Anibal non fu battaglia,
non perchè fusse nè pace nè triegua infra loro, ma perchè avevano
auto l'uno e l'altro tanta pistolenzia, oltre alle crudeli battaglie,
che non potevano arme prendare per andare a battaglia. Intanto Scipio
ebbesi la contrada conquistata da' monti di Pineos infino al mare
Oceano, cioè al mare che intornia tutto il mondo, nel quale tutte le
nazioni stranie di diverse maniere abitano, e tutti bracci di mare,
città e castella e ville e piani e montagne tutte sottomisse alla
signoria di Roma; e ciò che si metteva a fare, li veniva fatto in modo
che il più della gente credeva ch'egli operasse per volontà delli Dii,
e che in lui fusse alcuna cosa divina, perciò che in lui erano tutte le
bontà d'onore e di larghezza è di prodezza, come più potevano essare
in nullo uomo, che mai fusse nel mondo. Quando Scipio ebbe tutta Spagna
conquistata, come voi udite dire e contiare, elli tornò a Roma con sì
grande onore e gloria e con sì grandi ricchezze, che Roma fu tutta di
gioia piena.



                                 LIV.


Io non v'andarò contando nè divisando l'onore della vittoria che
fu fatto a Scipio, e la festa e la letizia che per sua tornata fu
mostrata; s'io ciò volessi contiare, troppo avarei a fare, e però mi
tacerò a questa fiata. Ma appresso a tutta la gioia che li fu fatta a
Roma, sì deliberaro di nuovo e senatori e consoli di Roma, che Scipio
passasse in Affrica per conquistare Cartaggine e distruggiarla; e
mentre che lo re Anibal era ancora in Sicilia e in Calavria, Scipio
s'apparecchiò molto riccamente, e sì si partì di Roma con sì grande
gente e con sì gran ricchezza come per acquistare Cartaggine e tutto
lo regno d'Affrica; e quando ebbe preso commiato da' senatori di Roma
e da' prossimani amici e parenti, elli andò tanto che gionse al mare,
ove il navilio era bello e ricco. Lenio e Manlio, che l'oste guidavano,
amendue valenti principi di Roma, fecero le navi caricare di farina e
di biscotto e di vino e d'acqua dolce e di carne salata, e quando e
ricchi destrieri furo dentro entrati e prencipi e sergenti, li marinari
trassero le vele alte sugli arbori, e staccaro l'àncora da terra per
fare le navi partire di porto; e tosto si partiro e dilongaro da terra,
però che un gran vento si levò e ferì nelle vele di diversi colori, che
tosto li cacciò nel pelago di mare e dilongolli dalla terra d'Italia.



                                  LV.


Tanto andò Scipio con sua gente che avea con lui, ch'elli arrivò in
Affrica, e sì tosto come fu gionto, lo seppe Anno duca di Poonia, che
contra a lui venne con sì grande gente, come potè assembrare; ma in
questa battaglia che gli Affricani assembraro, primamente furo venti e
sconfitti, e lo duca Anno vi fu morto, il quale perdè tutto suo onore e
ricchezza e vita. Questa fu la prima battaglia che Scipio fece poi che
gionse in Affrica. Intanto sì combattè lo consolo Sempronio con Anibal
in Puglia, ma malamente avvenne a' Romani in quella battaglia, chè lo
consolo Sempronio vi fu sconfitto, ed elli il più tosto che potè si
partì dello stormo, e tornò fuggendo a Roma molto lieto e gioioso non
della perdita di sua gente, ma dello scampo di sua vita.



                                 LVI.


Allora si ragunaro li Cartagginesi e li Mirmidieni, e quali erano
nell'aiuto e nel soccorso de' Poonii, li quali erano venuti contra
Scipio che duramente assaliva e distruggeva Affrica; e sappiate che
queste due genti erano due osti belle e grandi, e sì avvenne che una
notte s'attendaro l'uni presso all'altri. Scipio, che bene avea fatto
cercare di loro affare per sue spie, andò tanto con sua gente verso la
mezza notte, che s'appressò al loro campo, e tantosto comandò che fusse
messo fuoco nelle tende e ne' padiglioni, senza ciò che le guardie
se n'avvedessero, perciò che non avevano dottanza niuna; e sì tosto
come il fuoco fu appreso nell'oste, sì si levaro suso tutti storditi
come gente ch'erano addormentate, gridando: «al fuoco, al fuoco», come
coloro che credevano che 'l fuoco fusse appreso per alcuno accidente.



                                 LVII.


A quello remore e a quello grido venne Scipio lo consolo con grande
cavallaria, che tanti n'uccise de' Poonii e de' Mirmidieni, che
disarmati erano, colle spade taglienti, che tutta la terra n'era
ingombrata de' morti e de' feriti, che tutti furono morti e menati a
martiro. Foilse re de' Mirmidieni, che parente era dello re Anibal, si
fuggì con molta poca gente, che poco si fallì che non arse dentro a sue
tende. In questa battaglia ch'io v'ô detta, furo morti degli Africani
tra per fuoco e per arme in quella notte quaranta milia d'uomini
e presine cinque miglia. Non si dee neuno maravigliare di questa
sconfitta, imperò che leggiera cosa era di loro prendare e uccidare,
quando ellino entravano nel fuoco tutti disarmati per spegniarlo.
Lo duca de' Poonii e lo re Foilse de' Mirmidieni, che di quella
battaglia scamparo, rassembraro loro gente il più tosto che potero
per combattare co' Romani e per vendicare loro ontia e loro grande
dannaggio.



                                LVIII.


Quando tutte le genti d'Affrica furo tutte assembrate, ellino
cavalcaro tanto, che vennero in quella parte, ove Scipio li aveva
dinanzi sconfitti di notte, e tantosto furo le battaglie ordinate e
divisate d'una parte e d'altra; e sì tosto come s'aggionsero insieme,
missero mano alle spade, e cominciarono la battaglia, traendosi sangue
da tutte parti, e tagliandosi braccia, teste e tutte altre membra,
tanto che de' morti era tutta la terra ingioncata e coverta. Alla fine
li Romani ebbero la vittoria, però che lo consolo Scipio s'abbandonava
in quella parte e in qualunque pressa vedeva maggiore per loro
confondare e rempare, e Lenio[40] e Massimo e li altri consoli Romani
pregiati d'arme e buoni pedoni e la buona cavallaria li menaro tanto
alle spade taglienti, che li cacciaro del campo sconfitti e venti senza
nulla speranza di tornare addietro. Là fu preso lo re de' Mirmidieni,
e sì lo prese Lenio, che 'l gionse quando fuggiva sopra uno destriere
d'Affrica, e li altri che camparo, fuggiro tanto che entraro nella
ricca città d'Aguarento[41]; e come furo dentro, chiusero le porti e
fornirono le mura e le difese d'armadure per difendare la città, e
Lenio l'incalciò e tanto menò gran forza di gente, che gli assediò,
e tanto assaliro le mura e le porti, che le ruppero. E quando quelli
della città viddero che non si potevano più tenere, si arrendero salve
le persone.

NOTE:

[40] M. Valerio Levino, creato console nell'anno 544 di Roma.

[41] Agrigento, per la cui espugnazione la Sicilia rimase per intero
sottomessa ai Romani.



                                 LIX.


Sì tosto come la città fa arrenduta, Massimo fece prendare li alti
baroni della città e lo re de' Mirmidieni tutto incatenato, e si lo
menò a Scipio che la battaglia aveva venta, e sì aveva morto lo duca
de' Poonii e presi molti altri uomini. Sì tosto come Scipio vidde lo
re dinanzi da lui, egli il dè in guardia a Lenio, e tutti li altri
prigioni altresì, e tutto il guadagno che aveva fatto nella città ed in
Affrica, fe menare a Roma per dimostranza della vittoria. Lenio andò
tanto per mare e per terra con tanti prigioni ed avere, che appena si
potrebbe contiare, che venne a Roma e presentò a' sanatori e popolo di
Roma da parte di Scipio e prigioni e le grandi ricchezze.



                                  LX.


Per questa novella, che tosto fu saputa e sparta per tutta Italia,
lassò Anibal tutte le città e castella della contrada, e trassene fuore
sue guardie e suoi uomini. In questo tanto ebbero quelli di Cartaggine
sì grande paura di Scipio, che conquistava il regno d'Affrica per
forza, che mandaro allo re Anibal imbasciata che tornasse il più presto
che potesse in Cartaggine per soccorrire la città e tutto lo reame,
ch'e Romani distruggevano per loro potenzia. Quando lo re Anibal udì
così parlare li messaggi, e seppe certamente che li conveniva tornare
addietro, elli cominciò a piangiare, perciò che lassava il regno di
Italia e Roma, innanzi che l'avesse conquistato, e tantosto fece suo
navilio apparecchiare; e quando fu tempo d'entrare in mare, elli fece
torre suo avere e mettarlo nelle navi, e tutti li cavalieri della
contrada rimasero, che di loro grado nol volevano seguitare; e sì
tosto come sua gente fu entrata in mare, fece l'àncora levare e andò
via. E così fu deliberata Italia dallo re Anibal, che v'era stato
dieciotto anni, e alle genti d'Italia aveva fatto sofferire molta pena
e molto travaglio, siccome voi avete udito e inteso; e sì tosto come
quelli delle fortezze viddero e intesero che Anibal s'era partito, sì
si ritornare alla divozione del popolo romano.



                                 LXI.


Lo re Anibal navicò tanto tra dì e notte, che si appressimò al regno
d'Affrica; e sì tosto come lo re Anibal seppe che si appressimava alla
terra, elli comandò a' maestri marinari che salissero sulli arboli
delle navi, che molto erano alti, e sì lo' comandò che guardassero
qual città l'era più pressimana. Coloro a cui lo re comandò, furono
tosto saliti nelli arboli, che cento sessanta piei erano longhi, e sì
riguardaro verso la terra, che anco l'era alquanto lontana; e quando
ebbero gran pezzo guardato per cognosciare il paese là ove ellino
andavano, lo re Anibal li domandò che ellino vedevano, ed eglino
risposero che non vedevano se non sepolture in più parti, siccome a
loro pareva.



                                 LXII.


Di queste parole si maravigliò molto lo re Anibal in sè medesimo,
e pensò che questo significasse qualche ingombro, e perciò comandò
che arrivassero ad altro porto che a quello ove eglino andavano; e
così come elli comandò, così fu fatto, e non si dimoronno niente
grandemente, che essi arriverò nel porto d'uno castello che molto era
ricco e bello della signoria di Cartaggine, che aveva nome Lepino. Là
discese lo re Anibal a terra e tutta sua gente, che del mare e della
pena ch'eglino avevano auta erano molto travagliati, e sì si riposaro
ine longamente, e lo re Anibal fece trarre fuore delle navi suo avere
e sue prede, delle quali avevano grande abbondanza. Mentre che lo re
Anibal e sua gente si riposavano sotto al castello di Lepino, mandò
suoi messaggi a' prencipi della città di Cartaggine, come elli era
tornato in Affrica ed era arrivato con sua gente al castello di Lepino,
che molto era grande e forte; e allora fu fatta in Cartaggine grande
gioia e grande allegrezza per la venuta dello re Anibal, che molto
era desiderato e amato da tutti quelli della città e da' ricchi e da'
povari, perciò che avevano in lui sicurtà e fidanza per lo suo senno e
per la sua prodezza, della quale avevano udito molto parlare appresso e
a longa.



                                LXIII.


Quando lo re Anibal si fu riposato a sua volontà, elli fece levare lo
campo, e tanto andare, che si attendaro sotto a Cartaggine in uno bello
piano; e quando si furo attendati, li alti baroni di Cartaggine vennero
allo re Anibal, e salutare lui e tutti suoi baroni, e sì lo volevano
menare dentro in Cartaggine per gioia e festa fare, come era ragione
e drittura; ma lo re Anibal lo' rispose e sì lo' disse ch'elli e sua
gente non entrarebbero dentro alle mura di Cartaggine, infino a tanto
ch'elli avarà veduto lo consolo Scipio e parlato con lui, e sapere se
potesse fare pace e concordia con lui, e se non combattarebbe con lui,
perciò che non è bene fatto di lassare stare lo suo nemico in suo paese
chi trarre nel può o per ragione o per forza.



                                 LXIV.


A questo s'accordaro bene tutti e Cartaginesi, e incontanente
procacciaro forza ed aiuto, mentre lo re Anibal mandò suoi messaggi
allo consolo Scipio, che presso a lui era a meno di due giornate, e sì
gli mandò a dire che gli vorrebbe parlare, e se intendeva di volere
pace con lui e co' Cartagginesi. Li messaggi andaro tanto che gionsero
ove li Romani erano attendati, e sì domandaro lo consolo Scipio, in cui
erano tutte le bontà. Il nobile cavaliere e cortese sì si accordò di
parlare allo re Anibal, e ciò promisse per la volontà de' savii uomini
di sua oste, e li messaggi altresì da parte dello re Anibal; e poi
presero commiato il più presto che poterono, e tornarono allo re Anibal
ed a' Cartaginesi, e sì lo' contiaro la risposta de' Romani e' belli
sembianti ch'ell'avevano fatto.



                                 LXV.


Intanto venne il termine del dì del parlamento, ch'era ordinato in
capo di quindici dì. Li principi e li baroni di Cartaggine furo in una
piazza, ove lo parlamento doveva essare, assai presso dalla città di
Bredum, ch'e Cartagginesi tenevano. Là venne lo consolo Scipio tutto
disarmato molto nobilemente con sua cavallaria, che appena si potrebbe
dire loro grande fierezza, e la maniera de' drappi della seta di che
erano vestiti, nè le fatture nè e ricchi sembianti de' ricchi destrieri
d'Affrica e di Spagna che cavalcavano; e dall'altra parte non vennero
meno fieri la gente dello re Anibal n'e Cartagginesi, che di ricchi
palii di seta erano vestiti. Li due principi, lo re Anibal e lo consolo
Scipio, che tanto erano valorosi, erano troppo riccamente vestiti ed
apparecchiati, siccome a loro si conveniva; e sì tosto come si viddero,
si miroro molto l'uno l'altro per lo grande nome che l'uno aveva udito
contiare dell'altro e dire, e molto si maravigliò l'uno dell'altro,
e sì erano così come sbigottiti per la maraviglia; ed allora parlò
primamente lo re Anibal a Scipio, e sì li disse per belle ragioni in
lenguaggio romano, che molto duramente si maravigliava, perchè elli
era passato in Affrica per combattare, quando elli assai presso a
Roma l'arebbe potuto trovare per tutta Italia. Scipio lo consolo, che
tanto era bello di corpo e di forza, che a grande pena si potrebbe
scrivare, rispose allo re Anibal, ch'elli avea passato il mare e venuto
in Affrica per vendicare l'ontia e 'l danneggio, ch'e Cartagginesi
l'aveano fatto in Italia e in altre contrade.



                                 LXVI.


E così cominciare le parole tra' nobili principi, e quali erano da
tutti li altri guardati a gran maraviglia, e scoltavano le parole de'
due principi. Quando ebbero parlato assai di ciò e d'altre cose, si
parlò lo re Anibal, che più fiate era stato sconfitto in battaglia, sì
pensò le sciagure che possono intervenire, e perciò parlò primamente
di pace a Scipio, siccome Eutropio dice; ma lo consolo Scipio non ne
volse niente fare, se non per tale condizione, che Cartaggine rendesse
a' Romani ora al presente cinque milia pesi d'argento e mille libre
d'oro per la pace e per la triegua che fra loro era, la quale l'avevano
rotta e spezzata. Questi patti spiacquero molto allo re Anibal ed a'
Cartagginesi, e dissero che innanzi si combattarebbero co' Romani, che
questi patti facessero; ed allora si partiro e Romani e Cartagginesi,
e quali molto s'odiavano, e procacciaro di combattare senza dimoranza.
E poi ch'e prencipi furo tornati a' loro alberghi, non fu poi nessuno
dì che none assembrassero loro gente, e che none ammaestrassero di ben
fare, siccome per tutto guadagnare o per tutto perdare e vita e avere
e donne e figliuoli e onore.



                                LXVII.


Quando tutte loro genti furo assembrate, ellino s'attendaro più presso
che potero l'uno all'altro, e li due prencipi, e quali erano coraggiosi
e fieri, avevano messo tutto loro ingegno e avere in gente ragunare
per avere la vittoria; e sì tosto com'ebbero ciò fatto, ellino non si
indugiaro più che non si assembrassero, che molto lo' parea all'uno
e all'altro che si tardasse la battaglia, tanto erano desiderosi
di combattare. Quelli due che prima s'assembrassero in su ricchi
destrieri dinanzi a tutte le schiere bene una balestrata, si fu Scipio
ed Anibal, che duramente si feriro in sulli scudi dorati, e quali
spezzare, e ruppero le lancio sugli sberghi doppi che non ne smagaro
niente, nè niuno de' due baroni cadde del destriere, anzi passare
oltre e misserò mano alle spade per combattare con coloro che lo'
venivano alla rincontra a grande ardire. Per questa giostra furo molti
cavalieri morti ed abbattuti, de' quali e cavalli fuggivano per lo
campo; e quando le genti appiei assembraro a quelli da cavallo, allora
fu grande dolore di sbudellare cavagli ed abbattere de' cavalieri, e
quelli che non si potevano levare, giacevano a terra; e sì avareste
da mille parti udito sgridare l'uno Cartaggine e l'altro Roma con
sì alte voci, che tutta la contrada ne rinsonava. Tre volte avvenne
che Anibal e Scipio combattero a corpo a corpo colle spade nude, e
tagliarsi li scudi innorati onde si coprivano, e tre volte li partì la
pressa de' loro cavalieri che si mettevano tra loro, e poco si poteva
sapere chi n'avesse il meglio; e quando le prime schiere di Scipio si
missero infra li alifanti, che quelli di Cartaggine avevano menati, in
quella parte Scipio si trasse colla forza de' Romani, chè coloro delle
castella che gli olifanti portavano, facevano di loro uomini molto
crudele dannaggio; ma poi che gli cominciaro a uccidare, eglino gli
fecero tutti tornare addietro, sicchè nullo ne potevano fare ritornare
alla battaglia di quelli che feriti erano e che fuggire potevano.



                                LXVIII.


Alla fine furo sconfitti li Cartagginesi ed Anibal altresì, che
tanto si tenne nello stormo, che non v'erano più che venti cavalieri
di rimanente, e non fuggiva, però che ontia li pareva di fuggire. E
vinti difendevano loro signore, che non volevano fare dislealtà nè
fellonia; e tanto dimorò Anibal, che nolli rimasero più che quattro
cavalieri, e con questi quattro cavalieri si partì Anibal tristo
e corruccioso, perciò che non vi poteva più dimorare; e sì se ne
venne fuggendo ad Adrumento sua città per campare sua vita, e d'inde
n'andò in Cartaggine, ove elli non era mai entrato in ventisei anni
ch'erano passati, che se ne partì la prima volta collo re Amilcar suo
padre. Intanto li Romani che la vittoria avevano auta, si trassero a'
padiglioni dello re Anibal, ove trovarono duecento miglia di grossi
d'argento e grande quantità d'oro e tante altre ricchezze, che non si
potrebbe dire nè contiare. In quella battaglia furono morti quaranta
migliaia di Cartagginesi e cinque milia presi, e ottanta olifanti tra
presi e morti.

Intanto ch'e Romani ragunavano loro guadagno e loro prede, che
seppellivano loro uomini morti secondo loro costume e loro usanza,
Anibal ch'era in Cartaggine, ove grande dolore era fatto, parlò co'
baroni e colli alti uomini di Cartaggine, e disse che neuno altro
rimedio era, che di fare pace co' Romani, acciò che la città non fusse
distratta nè confusa. E baroni e altri uomini di Cartaggine, che
viddero e cognobbero che altrimenti non poteva essare, richiesero pace
a Scipio, siccome avevano dinanzi divisato, e Scipio il consentì di
volontà de' consoli e de' senatori, a cui mandò suoi messaggi, e ferma
triegua fu fatta per cinquanta dì, tanto ch'e messaggi potessero andare
e tornare.



                                 LXIX.


Allora eran consoli a Roma Cornello Lentulo ed Elio Peto, per cui
conseglio la pace fu fatta intra Cartagginesi e Romani. Quando la
novella fu saputa e detta in Cartaggine, allora fecero grande gioia con
tutte le sciagure che avevano aute, perciò che avevano pace con Scipio
e con Romani, onde sapevano che Cartaggine non sarebbe distrutta.
Questa pace non potè lo re Anibal vedere nè udire, anzi si partì della
città dolente e corruccioso, e sì se n'andò facendo grande dolore allo
re Antioco di Siria, che lo ricevette allegramente, e molto l'onorò
per la grande prodezza e per lo ardimento che era in lui, e sì lo fece
capitano di tutti suoi cavalieri e pedoni per mare e per terra.

Intanto venne Scipio dinanzi a Cartaggine con tutta sua oste per
ricevare e conventi de' Cartagginesi, siccome voi avete udito dire e
parlare adietro. Allora fece prendare le navi, delle quali v'aveva più
di cinquecento, molto riccamente apparecchiate, e sì le fece venire
dinanzi alla città, e sì lo' comandò sopra tutti e patti che erano
tra loro e Romani, che non mettessero più che trenta navi in mare
insieme, sapendo che se passassero suo comandamento, elli li farebbe
distruggiare; ed allora entrò Scipio in Cartaggine, e furonli le
chiavi della città date e presentate.



                                 LXX.


Allora vennero a lui tutti li cittadini delle città d'Affrica, e
sottomissersi a fare sua volontà e sue comandamenta. Allora conquistò
Scipio molto avere e molto tesoro, e sì donò franchigia a cui volse,
e a cui volse la tolse, e sì abbattè tutte le fortezze d'Affrica; e
quando elli ebbe ciò fatto, elli si tornò a Roma con grande vittoria e
con grande onore riceuto da' consoli e da tutto l'altro popolo, e da
quello dì innanzi fu chiamato Scipio Affricano, perciò ch'elli aveva
tutta l'Affrica conquistata, siccome voi avete inteso. Ed era durata
la detta guerra ventun anno, però che Anibal, siccome io v'ô detto,
stette in Italia diciotto anni, e Scipio stette tre anni in Affrica,
innanzi che sottomettesse Affrica a sua signoria; e sappiate che in sì
breve tempo non avarebbe acquistata sì grande signoria, se non fusse
le battaglie che fece con Anibal e vente, che aveva tutta la forza
d'Affrica insieme ragunata.

       *       *       *       *       *

Finite le siconde guerre che ebbero e Romani co' Cartagginesi, quando
conquistaro Cartaggine e tutta Affrica.



                                 LXXI.


Dopo due anni solamente infra sei cento anni che Roma era stata
primamente fondata, nel tempo che Lucio Censorino e Marco Manio erano
consoli di Roma, levonnosi contra a' Romani quelli d'Affrica la terza
guerra; ma non si sa perchè la guerra si rincominciò, che molto fu
grande e maravigliosa, onde la città di Cartaggine fu distrutta e
confusa, siccome voi potrete udire e intendare.



                                LXXII.


Nel tempo che io v'ô detto, providdero li senatori e consoli e la
comunità di Roma di distruggiare Cartaggine, e sì tosto come quello
conseglio fu preso, lo consolo Lucio Censorino e Marco Manio e Publio
Scipio furono eletti per passare il mare e per andare in Affrica.
Costoro s'apparecchiaro molto riccamente di buoni cavalli e di ricche
armadure, e molto assembraro grande gente appiè e a cavallo e molto
avere. Quando esciro di Roma, costoro andaro tanto ch'ellino entraro
in mare con grande navilio, e sì tosto come furo in mare, il vento si
levò, il quale ferì nelle vele di diversi colori, e sì andaro tanto
senza tempesta, che giunsero in Affrica assai presso a Cartaggine; e
sì tosto come ebbero preso porto e l'àncore gittate in terra, ellino
trassero delle navi cavalli e armadure, e sì si attendaro longo il
porto alla marina, e là si riposaro li Romani tre dì, e intanto mandaro
loro messaggi a' baroni della terra di Cartaggine, che lo' venissero
a parlare, ed ellino così fecero; e sì tosto come e consoli di Roma
li viddero, sì lo' comandaro che lo' dessero tutte loro navi e loro
armadure per fare loro bisogno, perciò che none avevano recate tante
armadure, quante a loro genti bisognava. A questo comandamento non
si ristettero niente e Cartagginesi, anzi dierono a' Romani tutto
loro navilio e galee altresì. Appresso lo' fecero arrecare fuore di
Cartaggine sì grande quantità d'armadure, che tutte le genti d'Affrica
se ne sarebbero potuti armare per difendare loro corpi in battaglia.



                                LXXIII.


Sappiate che mai sì grande quantità d'armadure non furono vedute, come
ebbe allora dinanzi a Cartaggine. Quando e Cartagginesi ebbero date
a' Romani loro armadure, così come voi avete udito, li Romani lo'
comandaro che abbandonassero loro città e abbattessero loro fortezze,
e sì si dilongassero dal mare dieci milia passi per fare loro magioni
e loro casamente. Quando ciò intesero li Cartagginesi, ellino furono
tutti corrucciati comunemente più per loro armadure, d'onde s'erano
sforniti, che per nissuna altra cosa, però che non sapevano che si
potere fare; ma nella fine s'accordaro a ciò che prima volevano morire
nella città ed essare là entro sepolti, che nolla difendessero tanto
quanto potessero; e tantosto elessero dentro a la città due alti uomini
forti e possenti di grande signoria, de' quali l'uno aveva nome
Famenca, e l'altro Asdrubal, che fussero duca e conducitori della
città, e sopra a tutti li altri fu data la balia a Asdrubal. E sì tosto
come ebbero ciò fatto e divisato, ellino fecero le porti della città
serrare, acciò che neuno potesse nè entrare, nè uscire; poi fecero
ragunare tutti li maestri della città, e fecero fare armadure di rame e
di cuoio e d'oro e d'ariento e di metallo per loro bisogno e necessità
del ferro. Là furo fatti li sberghi d'oro e d'argento, sicchè non vi
fu risparmiata ricchezza, e di quello tanto di ferro e d'acciaio che
eglino avevano, fecero fare spade e saette e dardi e ferri da lancie, e
del rame e del cuoio fecero l'altre armadure.



                                LXXIV.


Quando li consoli romani viddero che li Cartagginesi non rispondevano a
quello che l'avevano comandato, ellino ordinaro d'assalire la città, e
che se prendare la potessero per forza, sì l'abbattarebbero infino a'
fondamenti. Allora incominciaro a fare grandi torri di legname e altri
ingegni sopra le navi medesime de' Cartagginesi, delle quali giognevano
insieme sei e sette e legavanle insieme, perchè potessero portare
maggiore peso e fussero più forti, secondo le grandi mura alte e grosse
di pietra murate con fina calcina; e d'altra parte verso terra ferma
fecero molti trabocchi e manganelli e altri edifizii per abbattare le
mura. Molto s'apparecchiaro bene li Romani per distruggiare la ricca
città di Cartaggine, che la reina Dido, che Elisa fu chiamata, aveva
primamente per suo grande senno e per sua grande ricchezza cominciata e
fondata.



                                 LXXV.


Non vi lassarò ora al presente, che io non vi divisi Cartaggine come
ella era posta e fondata. La città era tutta intorniata di mura, ed era
dieci miglia passi di longhezza; le mura erano alte quaranta gomita,
tutte di pietra murate a fina calcina, ch'era altresì forte come la
pietra, ed erano grosse le mura trenta piei. Tutta la città poca ne
falliva ch'era cinta di queste mura, e sì aveva due braccia di terreno
che si stendevano infino al mare, e là entro veniva il mare, il quale
era largo tre milia passi dall'uno braccio della terra a l'altro; e
quello mare ch'era inentro, chiamavano li Cartagginesi stagno, perciò
ch'e venti non vi potevano, perchè le mura erano alte e grosse, e la
torre dall'una parte e dall'altra sì lo difendeva dal vento. Sopra
quello stagno infra li due bracci della terra, ch'io v'ô detto, era
la ricca torre, la quale Bisse era chiamata; questa torre era più di
mille passi larga, e tanto era forte e grossa e di grande altezza, che
pareva che giognesse alle nuvile. A quella nobile torre, che sopra al
mare era posta, giognevano li forti muri della città alti e grossi,
e molte più altre torri v'erano alte e grosse dalla parte dov'era il
terreno; e aveva intorno fossi larghi e profondi, e all'entrata della
città sopra le porti erano due torri per difendare l'entrata.



                                LXXVI.


Molto era la città di Cartaggine forte in quello tempo e fornita
di buona gente provata e molto vigorosa, ma d'armadure per loro
difendare avevano la maggiore parte grande mancamento. Li consoli
di Roma, che grande numaro di gente avevano appiè e a cavallo,
fecero la città assalire per mare e per terra, e tanto fecero che
per forza gittaro co' loro ingegni alle mura di verso terra ferma,
delle quali mura abbattero una grande parte, e quelli della città si
difendevano vigorosamente con archi e con saette e con altri ingegni,
ch'elli avevano fatti per loro difendare; ma tanto gli assalsero e
Romani in diverse parti, che Lucio Censorino e gran parte di sua
gente si missero per la città per le rotture ch'eglino avevano fatte
nelle mura; ma li Cartagginesi se lo' fecero alla rincontra, che li
ricevettero arditamente coll'aiuto di coloro ch'erano in sulle mura,
che lo' gittavano grandi pietre, sicchè li rimissero per forza fuore
della città; e molto v'arebbero allora li Romani riceuto danno, se
non fusse Publio Scipio, che suo corpo solamente ritenne la forza de'
Cartagginesi, e sì li rimisse a malgrado loro dentro alle mura per sua
grande prodezza.



                                LXXVII.


E così rimase allora il primo assalto di Cartaggine, e li Cartagginesi
racconciaro le mura il meglio che potero per loro difendare. Intanto li
Romani abbandonaro Cartaggine, però che Masinieno lo re de' Mirmidoni,
e quali erano stati loro amici per più di quaranta anni, esso passò
di questa vita; e sì lassò nelle mani di Scipio tutto il suo reame e
tre suoi figliuogli, chè non voleva che appresso sua morte fusse infra
loro discordia e mala voglienza, però ch'elli cognosceva lo consolo
Scipio tanto prudente e leale, che ciascuno de' suoi figliuogli farebbe
stare contento; e tutto fece Masimieno per l'amore che Scipio li aveva
portato e per sua grande gentilezza.



                               LXXVIII.


Intanto Marco Manio e Lucio Censorino assediaro la città di Tezagao
in Affrica, la quale presero per forza, e uccisero dodici migliaia
d'Affricani e sei milia ne presero, e in quella città conquistaro
molto grande avere, della quale città fecero le mura abbattare. In
quello tempo si ribellò contra a' Romani Sicondo Filippo di Macedonia,
che da loro medesimi teneva la signoria. Incontra a costui fu mandato
uno alto principe di Roma, che Juvasio era chiamato, con molta grande
gente e cavallaria; ma sì tosto come gionsero in Macedonia, eglino
s'assembrarono a battaglia contra a Sicondo Filippo. In quella
battaglia fu morto e sconfitto Juvasio con tutta sua gente, della quale
cosa ebbero e senatori e tutti e Romani grande dolore ed ira.



                                LXXIX.


Allora tornò Scipio lo consolo a Cartaggine con sua gente, poi ch'egli
ebbe tutto lo reame de' Mirmidoni partito e dato a' tre frategli,
che tenere dovevano la signoria, e quando furo tornati a Cartaggine,
Scipio che consolo era per li Romani, a gran pena assentì che la terra
fusse guasta e diserta; ma li Cartagginesi l'avevano rifornita e sì
acconcia in tutte parti, che non dottavano persona, se non fussero e
Romani, contra a cui non potevano avere nè soccorso nè aiuto, e allora
li Romani s'armarono per assalire la città per mare e per terra. Là fu
molto crudo assalto e molta pericolosa battaglia, però che sei dì e sei
notti li Romani non finaro d'assalire e di combattare la città in più
parti; là fu molta grande distruzione fatta di pedoni e di cavalieri di
quelli d'entro e di quelli di fuore.



                                 LXXX.


Molte fiate gittaro li Cartagginesi lo fuoco ardente sopra alli
ingegni de' Romani, ma i Romani erano apparecchiati, che tostamente lo
spegnevano; e quando venne il settimo dì, che l'assalto e la battaglia
era durata senza riposo prendare, quelli della città, che bene vedevano
che la città non si poteva più difendare, perciò che Scipio l'aveva
già prese le prime difese di loro fortezze, e tutti coloro che le
mura difendevano, aveva fatti fuggire, e niuno non si osava più di
difendarla, allora cominciarono li Cartagginesi molto fortemente a
gridare che Scipio li ricevesse, salve le persone, rimanendo suoi
servi.



                                LXXXI.


Così s'arrendero e Cartagginesi a Scipio, che più non si potevano
difendare contra alla forza de' Romani che l'avevano assediata; e
allora vennero le donne e le donzelle della città, che grande dolore
facevano dinanzi a Scipio, a cui erano menate dinanzi. Appresso
vennero le compagne de' cavalieri e de' pedoni e d'altri uomini della
città, de' quali v'erano più di trenta milia, tutti sanguinosi per lo
combattare ch'avevano fatto per loro difendare, e delle femmine ve
n'erano più di venticinque milia, molto triste e molto dolorose, però
che Asdrubal loro signore si rendè a Scipio di sua volontà; e tantosto
Scipio fece mettare fuoco per tutta la città nelle torri e nelle case e
nelle magioni. Coloro che s'erano fuggiti ne' templi, si gittavano ne'
fuochi di loro volontà per ardarsi. Quando la città fu tutta arsa, la
donna d'Asdrubal con due suoi figliuogli ch'ell'aveva, si lassò cadere
per disperata nella maggiore fiamma del fuoco ch'ella vidde, e subito
arse.



                                LXXXII.


Così morì l'ultima reina di Cartaggine, che s'uccise per sua grande
follìa così come la primaia. Là guadagnaro li Romani grande tesoro,
ch'e Cartagginesi avevano assembrato di più contrade di Italia, di
Cicilia e di Spagna e di molte altre contrade e città, ch'egli avevano
robbate e distrutte; e quando tutto l'avere fu tratto fuore della
città, Scipio lo fece rendare a coloro, a cui era stato tolto delle
contrade e città, ch'io v'ô nominate. Intanto arse la città, che
bene diecisette dì pugnò ad ardare, e allora fu Cartaggine al tutto
distrutta e tutte le mura abbattute infino alle fondamenta, e non vi
rimase nè torre, nè casa, nè magione, che non fusse a terra abbattuta
e in cénare e in polvare tornata; e tutti i prigioni che vi furo presi,
venderono e missero in servaggio, fuori che Asdrubal e certi alti
prencipi di Cartaggine, e quagli furono menati a Roma. E sappiate che
in capo di settecento anni che Cartaggine era stata primamente fondata,
sì fu ella distrutta e disfatta, siccome Macrobio e più altri savi
dicono. Quattro anni stettero e sopradetti consoli in Affrica innanzi
che la distruggessero. Scipio per sua prodezza e per suo senno e per
sua larghezza acquistò il sopranome di suo zio, e sì fu poi chiamato
Scipio Affricano tutti e dì di sua vita.



                               LXXXIII.


Quando e Romani ebbero fatto di Affrica tutta la loro volontà, eglino
sì si missero in mare con sì grande avere, che non si potrebbe
contiare; e sì navicoro tanto a vele stese, che vennero in Italia, e
poi se n'andaro a Roma. Della allegrezza e onore che lo' fu fatta da'
senatori e dall'altro popolo di Roma non vi voglio lunghe parole fare,
che troppo arei a dire, se raccontare ve le volessi al presente; e così
fu Cartaggine distrutta e tutta Affrica sottomessa per li Romani.

       *       *       *       *       *

Finita la prima e la siconda guerra e la terza, ch'e Romani ebbero co'
Cartagginesi, le quagli guerre duroro circa a cinquanta anni, e in fine
fu distrutta la città di Cartaggine dal popolo romano.

       *       *       *       *       *

Questo libro scrisse Jacomo di Buccio di Ghinucci da Siena; finissi di
scrivare a dì XVII di ferraio anni M.CCCC.LIIII Deo gratias. Amen.

       *       *       *       *       *

Nota che questo libro è di Muciatto Cierretani, il quale â comprato
oggi questo dì 22 d'aprile 1491 da Battista Cozaregli orafo.



                     INDICE


  PREFAZIONE                            pag.   5
  DELLA SECONDA E TERZA GUERRA PUNICA    »    17
        I.                               »    17
       II.                               »    19
      III.                               »    20
       IV.                               »    22
        V.                               »    24
       VI.                               »    27
      VII.                               »    29
     VIII.                               »    30
       IX.                               »    32
        X.                               »    34
       XI.                               »    35
      XII.                               »    38
     XIII.                               »    40
      XIV.                               »    41
       XV.                               »    45
      XVI.                               »    47
     XVII.                               »    48
    XVIII.                               »    49
      XIX.                               »    50
       XX.                               »    52
      XXI.                               »    54
     XXII.                               »    55
    XXIII.                               »    56
     XXIV.                               »    59
      XXV.                               »    60
     XXVI.                               »    64
    XXVII.                               »    67
   XXVIII.                               »    68
     XXIX.                               »    70
      XXX.                               »    72
     XXXI.                               »    74
    XXXII.                               »    75
   XXXIII.                               »    77
    XXXIV.                               »    79
     XXXV.                               »    80
    XXXVI.                               »    82
   XXXVII.                               »    85
  XXXVIII.                               »    86
    XXXIX.                               »    88
       XL.                               »    89
      XLI.                               »    92
     XLII.                               »    94
    XLIII.                               »    97
     XLIV.                               »    98
      XLV.                               »    99
     XLVI.                               »   101
    XLVII.                               »   104
   XLVIII.                               »   105
     XLIX.                               »   107
        L.                               »   108
       LI.                               »   110
      LII.                               »   112
     LIII.                               »   113
      LIV.                               »   115
       LV.                               »   117
      LVI.                               »   118
     LVII.                               »   119
    LVIII.                               »   120
      LIX.                               »   122
       LX.                               »   123
      LXI.                               »   124
     LXII.                               »   125
    LXIII.                               »   127
     LXIV.                               »   128
      LXV.                               »   129
     LXVI.                               »   130
    LXVII.                               »   132
   LXVIII.                               »   134
     LXIX.                               »   136
      LXX.                               »   138
     LXXI.                               »   139
    LXXII.                               »   140
   LXXIII.                               »   142
    LXXIV.                               »   143
     LXXV.                               »   145
    LXXVI.                               »   146
   LXXVII.                               »   148
  LXXVIII.                               »   149
    LXXIX.                               »   150
     LXXX.                               »   151
    LXXXI.                               »   152
   LXXXII.                               »   153
  LXXXIII.                               »   154


VOLUMI GIÀ PUBBLICATI

    1. Novelle d'incerti autori                                    L.  3.--
    2. Lezione o vero Cicalamento di M. Bartolino                  »   5.--
    3. Martirio d'una Fanciulla Faentina                           »   1.25
    4. Due novelle morali                                          »   1.50
    5. Vita di messer Francesco Petrarca                           »   1.25
    6. Storia d'una Fanciulla tradita da un suo amante             »   1.75
    7. Commento di ser Agresto Ficaruolo                           »   5.--
    8. La Mula, la Chiave e Madrigali                              »   1.50
    9. Dodici Conti Morali                                         »   4.--
   10. La Lusignacca                                               »   2.--
   11. Dottrina dello Schiavo di Bari                              »   1.50
   12. Il Passio o Vangelo di Nicodemo                             »   2.50
   13. Sermone di S. Bernardino da Siena                           »   1.50
   14. Storia d'una crudel matrigna                                »   2.50
   15. Il Lamento della B. V. Maria e le Allegrezze in rima        »   1.50
   16. Il Libro della vita contemplativa                           »   1.50
   17. Brieve Meditazione sui beneficii di Dio                     »   2.--
   18. La Vita di Romolo                                           »   2.--
   19. Il Marchese di Saluzzo e la Griselda                        »   2.--
   20. Novella di Pier Geronimo Gentile Savonese. Vi è unito:
       Un'avventura amorosa di Ferdinando D'Aragona.
            Vi è pure unito:
       Le Compagnie de' Battuti in Roma                            »   2.50
   21. Due Epistole d'Ovidio                                       »   2.--
   22. Novelle di Marco Mantova scrittore del Secolo XVI.          »   5.--
   23. Dell'Illustra et famosa historia di Lancillotto dal Lago    »   2.--
   24. Saggio del Volgarizzamento antico                           »   2.50
   25. Novella del Cerbino in ottava rima                          »   2.--
   26. Trattatello delle virtù.                                    »   2.--
   27. Negoziazione di Giulio Ottonelli alla Corte di Spagna       »   2.--
   28. Tancredi Principe di Salerno                                »   2.--
   29. Le Vite di Numa e T. Ostilio                                »   2.--
   30. La Epistola di S. Iacopo e i capitoli terzo e quarto del
       Vangelo di S. Giovanni                                      »   2.--
   31. Storia di S. Clemente Papa                                  »   3.--
   32. Il Libro delle Lamentazioni di Ieremia                      »   2.--
   33. Epistola di Alberto degli Albizzi a Martino V               »   2.--
   34. I Saltarelli del Bronzina Pittore                           »   2.--
   35. Gibello. Novella inedita in ottava rima                     »   3.--
   36. Commento a una Canzone di Francesco Petrarca                »   2.50
   37. Vita e frammenti di Saffo da Mitilene                       »   3.--
   38. Rime di Stefano Vai rimatore pratese                        »   2.--
   39. Capitoli delle monache di Pontetetto presso Lucca           »   2.50
   40. Il libro della Cucina del Secolo XIV                        »   6.--
   41. Historia della Reina D'Oriente.                             »   3.--
   42. La Fisiognomia. Trattatello                                 »   2.50
   43. Storia della Reina Ester                                    »   1.50
   44. Sei Odi inedite di Francesco Redi                           »   2.--
   45. La Istoria di Maria per Ravenna                             »   2.--
   46. Trattatello della verginità                                 »   2.--
   47. Lamento di Fiorenza                                         »   2.--
   48. Un Viaggio a Perugia                                        »   2.50
   49. Il Tesoro. Canto carnascialesco                             »   1.50
   50. Storia di Fra Michele Minorita                              »   6.--
   51. Dell'Arte del vetro per musaico                             »   6.--
   52-53. Leggende di alcuni Santi e Beati                         »  10.50
   54. Regola dei Frati di S. Iacopo                               »   5.--
   55. Lettera de' Fraticelli a tutti i cristiani                  »   1.50
   56. Giacoppo novella e la Ginevra novella incominciata          »   3.--
   57. La leggenda di Sant'Albano                                  »   4.--
   58. Sonetti giocosi                                             »   2.50
   59. Fiori di Medicina                                           »   3.--
   60. Cronachetta di S. Germignano                                »   2.--
   61. Trattato di Virtù morali                                    »   6.50
   62. Proverbi di messer Antonio Cornazano                        »   8.--
   63. Fiore di Filosofi e di molti savi                           »   3.--
   64. Il libro dei Sette Savi di Roma                             »   3.60
   65. Del libero arbitrio. Trattato di S. Bernardo                »   4.--
   66. Delle Azioni e sentenze di Alessandro De' Medici            »   6.--
   67. Pronostici d'Ipocrate. _Vi è unito._
       Della scelta di curiosità letterarie                        »   3.50
   68. Lo stimolo d'Amore attribuito a S. Bernardo. _Vi è unito:_
       La Epistola di S. Bernardo e Raimondo                       »   3.--
   69. Ricordi sulla vita di F. Petrarca e di M. Laura             »   1.50
   70. Tractato del Diavolo co' Monaci                             »   2.50
   71. Due Novelle                                                 »   3.50
   72. Vbbie, Cancioni e Ciarpe                                    »   3.--
   73. Specchio dei peccatori attribuito a S. Agostino             »   2.50
   74. Consiglio contro la pistolenza                              »   2.--
   75-76. Il volgarizzamento delle favole di Galfredo              »  14.50
   77. Poesie minori del Secolo XIV                                »   4.--
   78. Due Sermoni di Santo Efrem e la Laudazione di Iosef         »   2.50
   79. Cantare del Bel Gherardino                                  »   2.--
   80. Fioretti dell'una e dell'altra fortuna di F. Petrarca       »   8.--
   81. Cecchi Gio. Maria. Compendio di più ritratti                »   3.--
   82. Rime di Bindo Bonichi da Siena edite ed inedite             »   7.50
   83. La Istoria di Ottinello e Giulia                            »   2.50
   84. Pistola di S. Bernardo a' Frati del monte di Dio            »   7.--
   85. Tre Novelle Rarissime del Secolo XIV                        »   5.--
   86¹ 86² 87-88. Il Paradiso degli Alberti                        »  40.--
   89. Madonna Lionessa. Cantare inedito del Secolo XIV aggiuntovi
       una Novella del Pecorone. _Vi è unito:_
       Libro degli ordinamenti de la compagnia di S. M. del
       Carmino                                                     »   4.--
   90. Alcune Lettere famigliari del Secolo XIV                    »   2.50
   91. Profezia dalla Guerra di Siena. _Vi è unito:_
       Delle Favole di Galfredo. _Vi è pure unito:_
       Due Opuscoli rarissimi del Secolo XVI                       »   5.50
   92. Lettere di Diomede Borghesi. _Vi è unito:_
       Quattro Lettere inedite di Daniello Bartoli                 »   3.50
   93. Libro di Novelle Antiche                                    »   7.50
   94. Poesie Musicali dei Secoli XIV, XV e XVI                    »   3.--
   95. L'Orlandino. Canti due     »     1.50
   96. La Contenzione di Mona Costanza e Biagio                    »   1.50
   97. Novellette morali Apologhi di S. Bernardino                 »   5.50
   98. Un Viaggio di Clarice Orsini                                »   1.--
   99. La Leggenda di Vergogna                                     »   7.50
  100. Femia (Il) Sentenziato                                      »   7.--
  101. Lettere inedite di B. Cavalcanti                            »   8.50
  102. Libro Segreto di G. Dati                                    »   3.80
  103. Lettere di Bernardo Tasso                                   »   7.--
  104. Del Tesoro volgarizzato di B. Latini. Libro I               »   7.--
  105. Gidino. Trattato dei Ritmi Volgari                          »  10.50
  106. Leggenda di Adamo ed Eva                                    »   1.50
  107. Novellino Provenzale                                        »   8.--
  108. Lettere di Bernardo Cappello                                »   4.--
  109. Petrarca. Parma Liberata. Canzone                           »   6.50
  110. Epistola di S. Girolamo ad Eustochio                        »   7.--
  111. Novellette di Curzio Marignolli                             »   3.50
  112. Il Libro di Theodolo o vero la visione di Tantolo           »   4.--
  113-114. Mandavilla Giovanni. Viaggi. Vol. 2.                    »  14.--
  115. Lettere di Pietro Vettori                                   »   2.50
  116. Lettere volgari del Secolo XIII                             »   6.50
  117. Salviati Leonardo. Rime                                     »   4.--
  118. La Seconda Spagna e l'Acquisto di Ponente                   »  12.--
  119. Novelle di Giovanni Sercambi                                »  12.--
  120. Bianchini. Carte da Giuoco in servigio dell'Istoria         »   3.50
  121. Scritti vari di G. B. Adriani e di Marcello suo figliuolo   »   9.50
  122 Batecchio. Commedia di Maggio                                »   4.--
  123-124. Viaggio di Carlo Magno in Ispagna                       »  16.--
  125. Del Governo dei Regni                                       »   7.--
  126. Il Saltero della B. V. Maria                                »   7.--
  127. Il Tractato dei mesi di Bonvisin da Riva                    »   4.--
  128. La Visione di Tugdalo, secondo un testo del sec. XIII       »   7.--
  129. Prose inedite del Cav. Leonardo Salviati                    »   6.--
  130. Volgarizzamento del Trattato della Cura degli Occhi         »   4.--
  131. Trattato dell'Arte del Ballo                                »   4.--
  132-132.³ Lettere scritte all'Aretino parti 3.                   »  34.50
  133. Rime di Poeti del Sec. XVI                                  »   5.--
  134. Novelle di Ser Andrea Lancia                                »   2.50
  135. I Cantari di Carduino, Tristano e Lancielotto               »   5.50
  136. Dati Giuliano, poemetto in ottava rima                      »   5.50
  137. Zenone da Pistoia. La Pietosa Fonte                         »   7.50
  138. Facezie e Motti de' sec. XV e XVI                           »   5.--
  139. Rime di Pietro De Faytinelli                                »   3.50
  140. Libro della natura degli Uccelli, con figure                »   2.--
  141. Buonacorso da Montemagno, prose                             »   4.--
  142. Eredia Luigi, rime                                          »   3.--
  143. La terza deca di Tito Livio (Lib. I.)                       »   8.--
  144. La Navigatione del Colombo                                  »   8.--
  145-146. Lettere inedite d'Illustri Bolognesi                    »  18.--
  147. La Defensione delle Donne                                   »   7.50


                       DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

  Sonetti editi ed inediti di F. Ruspoli.
  Lettere di Laura Battiferri.
  Lettere scritte all'Aretino (Vol. II. Part. II.).
  Belincioni B. Sonetti, Canzoni ecc.
  Livio Tito, terza Deca volgarizzata. (Lib. II.).


                        =NOTE DEL TRASCRITTORE=

Il testo è una trascrizione letterale di un manoscritto della metà del
XV. secolo. Pertanto, la forma è piuttosto bizzarra e molto antiquata,
ma è stata ovviamente mantenuta esattamente come nell'originale.

Sono stati corretti gli ovvii errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "La Seconda e Terza Guerra Punica - Tratto da un codice dell'Ambrosiana" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home